Annali d'Italia, vol. 1

By Lodovico Antonio Muratori

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Title: Annali d'Italia, vol. 1
       dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750

Author: Lodovico Antonio Muratori

Commentator: Gian Francesco Galeani Napione

Release Date: May 15, 2012 [EBook #39704]

Language: Italian


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    [Illustrazione: LODOV. ANTONIO MURATORI]


                ANNALI D'ITALIA 1


                 ANNALI D'ITALIA

        DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
              SINO ALL'ANNO 1750


                  _COMPILATI_

            DA L. ANTONIO MURATORI

      E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI


           _Quinta Edizione Veneta_

                 VOLUME PRIMO


                   VENEZIA
    DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.
                    1843




VITA DI LODOVICO ANTONIO MURATORI

_scritta da_

GIAN-FRANC. GALEANI NAPIONE


Che un uomo d'ingegno, il quale sappia far capitale del tempo, non
abbia cagion di lagnarsi della brevità della vita, potendo ad infinite
cose attendere, il Varrone dell'Italia moderna, LODOVICO ANTONIO
MURATORI, palesemente il dimostrò; tuttochè non sia giunto a vivere,
come dell'antico Varrone ci narra Plinio, ed a scrivere oltre
all'ottantesimo ottavo anno, nè a poetare, come il Bettinelli, al
nonagesimo. Non oltrepassò egli guari i termini di un corso ordinario
di vita, e di una vita impiegata in massima parte negli esercizii
religiosi, cioè come cherico attento a' doveri del suo stato ne' primi
suoi anni, quindi come parroco zelantissimo sino oltre al sessagesimo,
e sempre come sacerdote esemplare sino al fine de' suoi giorni; ma
seppe, ciò non ostante, non meno colle azioni sue virtuose che coi
dotti suoi libri, giovare agli uomini, instruirli ed eziandio
dilettarli; e le opere da lui dettate formano una biblioteca.

Nato in umile fortuna il giorno vigesimo primo di ottobre dell'anno
1672 in Vignola, terra del Modenese, patria del celebre architetto
Barozzi, che da quella prese il nome, non potè avere nella età sua
fanciullesca altri per institutore che un maestro assai comunale di
grammatica latina, che lungamente in quelle spine lo avvolse, per cui
tanti vivaci ingegni prendono il più delle volte in abbominio ogni
specie di lettere. Essendogli però capitati alle mani i romanzi di
madama di Scuderì, ben s'avvide che esistevano libri più dilettevoli
che le triviali grammatiche non sieno. Servirono questi in certo modo
di correttivo, gli aprirono la mente e l'invogliarono sempre più della
lettura. Chi si sarebbe dato a credere giammai che l'autor degli
Annali e delle Antichità italiane, e di tante altre opere di storia e
di critica la più dotta e severa, abbia incominciata, s'egli stesso
non l'avesse asserito, la sua carriera letteraria dal gran Cairo,
dall'illustre Bassà e da altre simili fole, leggendole avidamente? Ma
il punto sustanzialissimo si è, che curiosa brama, qualunque siasi, di
leggere e di imparare sorga nelle anime nuove, non riesce poi arduo
gran fatto l'alimentare e meglio dirigere questa nobile fiamma; ma
guai! se in principio inavvedutamente altri la spegne, in vece di
nutrirla.

Migliori maestri trovò poscia in Modena il Muratori, di grammatica non
tanto quanto di umane lettere, ed eziandio di filosofia; anzi
quest'ultimo (cosa singolare allora in persona di chiostro), oltre al
sistema peripatetico, gli spiegò i sistemi moderni; e se la filosofia
neutoniana non era ancora a que' tempi uscita dall'isola natìa, già
avea avuto molto prima l'Italia il Galilei ed il Torricelli, e del
loro modo di filosofare (che sistema veruno non volle inventare
saviamente il Galilei) convien dire che avesse avuta una idea da
giovane il Muratori, da che dettò una dissertazione intorno allo
innalzamento e depression del barometro, oltrepassando di poco il
vigesimo anno. Vestito avea egli l'abito chericale, quando giovanetto
per gli studii a Modena si portò. Suoi studii principali doveano
essere le leggi civili e canoniche e la moral teologia; così pensava
il padre di lui, costretto dalle angustie domestiche, come tanti
altri, a riguardar la dottrina come un capo di entrata. La pratica
perfino della giurisprudenza intraprese il Muratori; ma da quella
professione, al pari di tanti altri uomini insigni nella letteratura,
il genio suo dominante il ritrasse. La poesia da prima e l'eloquenza
riempivano di delizia gl'istanti che poteva aver liberi; ma essendo a
que' tempi in Lombardia comunemente corrotto il gusto delle lettere
più amene, di quelle ampollosità che aveano voga, e di quelle
argutezze egli s'invaghì tanto, che il nostro ampolloso e concettoso
Tesauro era il suo maestro, il suo autore. Corresse però ben tosto il
suo gusto, dopochè venne ammesso ad una letteraria conversazione, dove
il marchese Giovanni Rangoni ed altri svegliati ingegni modenesi
seguivano guide migliori. Ciò non ostante, se si riguarda bene, nel
fraseggiare, anche più trascurato, del Muratori, restò un non so che
dello stile del Tesauro, segnatamente ne' traslati.

Dalla lettura de' poeti e degli oratori passò a quella dei filosofi.
Molto si compiacque di Seneca e di Epitteto, e la filosofia degli
Stoici pigliò in concetto grande, sebben presto si avvedesse, come,
senza la religione rivelata, quella orgogliosa dottrina è un albero
pomposo, ma privo di solida radice, e che non produce frutti di vera
sapienza. Lo studio delle massime degli Stoici il condusse alla
lettura di Giusto Lipsio, gran partigiano di quella setta, e delle
sentenze stoiche zelante promulgatore. E siccome è cosa consueta, che
tutto si apprezza in quelle persone che si hanno per qualche rispetto
in grande estimazione, passò il Muratori a studiare i libri, assai più
pregevoli del Lipsio, riguardanti le antichità romane, e cominciò a
dar opera indefessamente alla erudizione profana. Per inoltrarsi in
essa vide però che gli mancavano e la copia di libri e il presidio
della lingua greca. In una libreria di poveri claustrali trovò il
giovane Muratori ciò che di rado o non mai si trova ne' palagi de'
facoltosi, voglio dir libri in numero sufficiente e piena facoltà di
valersene. Della greca lingua da sè stesso in breve tempo con ostinata
fatica s'impadronì. Seguì questo in principio dell'anno 1693, ed a
quei giorni maggior ventura gli toccò in sorte, cioè di rinvenire un
direttore per gli studii suoi, di cui non potea desiderarne uno
migliore, che lo iniziò alla diplomatica ed alle antichità del medio
evo, e che a coltivare la sacra erudizione, propria al suo stato,
principalmente lo animò. Fu questi l'abate cassinese Benedetto
Bacchini, dottissimo personaggio, capitato allora in Modena, il
Mabillon dell'Italia, che salito sarebbe ad egual fama, se avesse
avuto, come il Mabillon, un più vasto teatro ed i favori di un
potentissimo monarca; ma che però ebbe il vanto, che non potè avere il
Mabillon, di esser padre, a dir così, nelle cose appartenenti alla
soda erudizione, di due uomini sommi, il Muratori ed il Maffei. La
storia ecclesiastica e gli ecclesiastici scrittori e i concilii ed i
santi padri furono il nuovo pascolo che aprì il Bacchini alla mente
avida del Muratori, che non lasciava passar giorno in cui lungamente
non si trattenesse con lui, studiandosi di far tesoro di quanto ne'
famigliari ragionamenti (la miglior disciplina di tutte) usciva dalla
bocca di quell'uomo raro.

Già abbandonato avea egli gli studii delle leggi e della teologia
scolastica, punto non curando, purchè soddisfar potesse al genio suo
prepotente, que' premii che da chi le professa si ottengono, da'
letterati non mai. Ma in questo mezzo avendo il Muratori fatto
conoscenza col marchese Gian Gioseffo Orsi, coltissimo patrizio
bolognese, e con monsignor Marsigli, poscia vescovo di Perugia, col
mezzo loro ottenne di essere invitato dal conte Carlo Borromeo alla
famosa biblioteca Ambrosiana di Milano. Singolare ventura fu questa
per lui di venir collocato in età giovanile nella piena luce del
giorno, aprendosegli in tal modo la strada di far quella luminosa
comparsa che ognun sa nella letteraria repubblica; e que' gentiluomini
fecero dono del Muratori all'Italia. Novella prova fu questa che per
far fiorire le lettere assai più giova la coltura ed il buon giudicio
ai privati, che non la potenza ed i tesori stessi de' principi.
Laureato prima in leggi in fine dell'anno 1694, si recò adunque il
Muratori in Milano in principio del susseguente, dottore
dell'Ambrosiana, e prima che terminasse quell'anno medesimo fu
ordinato sacerdote.

Gli aneddoti latini, colà due anni dopo pubblicati, (gli aneddoti
greci videro la luce poscia in Padova) furono il primo saggio ch'ei
diede del suo sapere, molti argomenti trattando di antichità
cristiane, di disciplina e di erudizione ecclesiastica, in parecchie
dissertazioni, con cui gli aneddoti suoi illustrò. Prima di venirsene
a Milano, non poche cognizioni avea già acquistato egli appartenenti
alla paleografia, facendone studio colla scorta del p. Bacchini sulle
pergamene dell'archivio di Modena: e nell'Ambrosiana, ricca di rari e
copiosi codici, vi si perfezionò. Grande fu la fama in cui salì il
Muratori, giunto appena a toccare il vigesimo quinto anno, per questa
prima opera sua; e si procacciò la benevolenza e la stima de' primi
letterati, e principalmente di un Noris, di un Bianchini, di un
Ciampini, di un Magliabechi in Italia; di un Mabillon, di un Ruinart,
di un Montfaucon, di un Papebrochio oltremonti. Cinque anni interi si
passarono da lui nell'Ambrosiana, quasi in proprio elemento, in mezzo
a que' codici, facendo studio indefesso di erudizione sacra e profana,
d'iscrizioni, di antichità, ed esercitandosi nel tradurre dal greco.
Nè lasciava di attendere per sollievo agli studii delle lettere più
gentili. Interveniva ad un'accademia, detta de' Faticosi, e ad
un'altra di filosofia e di belle lettere, apertasi a suo suggerimento
nella casa Borromeo; ed essendo passato ad altra vita in quella città
nell'anno 1699 il Maggi, poeta di grido per que' tempi e suo grande
amico, intraprese tosto il pietoso letterario ufficio di dettarne la
vita, che nell'anno seguente 1700 si pubblicò, e con un idillio e con
altri versi (chè poeta pur era allora il Muratori) ne celebrò la
memoria.

Le ricerche genealogiche, che per parte dell'elettore di Annover si
facevano, onde chiarire l'origine italica della Casa di Brunsvico,
derivata dal comun ceppo della Estense, furono quelle che richiamarono
il Muratori da Milano alla contrada sua natía. In somma confusione era
l'archivio estense. Per riordinarlo, e per compiacere quel principe
che avea spedito un letterato tedesco a visitarlo, il duca di Modena,
Rinaldo I, nominò suo archivista e bibliotecario il Muratori. Lasciò
egli tosto Milano e l'Ambrosiana, non senza però qualche
rincrescimento; e si restituì, nel fine della state dell'anno 1700, in
Modena ai servigii del suo amato principe: e rinunciando ad ogni più
splendida fortuna, mai più abbandonar non volle, durante un intero
mezzo secolo, che ancor visse, l'estense biblioteca, pago, come
Plutarco, di essere l'ornamento della sua patria, mentre per tutta
Italia chiaro suonava il suo nome.

La genealogia de' principi estensi occupò da prima i suoi pensieri; e
le Antichità estensi, dotta opera e laboriosa, in cui, d'accordo col
famoso tedesco Leibnizio, fissò l'origine di quella, prima in Italia,
quindi in Germania ed Inghilterra, nobilissima famiglia, furono il
frutto delle sue fatiche. Ma come i chimici valenti, che attenti sono
oltremodo a prevalersi delle scoperte ed invenzioni che si presentano
nel corso degli esperimenti loro, sebben non formassero l'oggetto
principale, lo scopo delle loro ricerche, così il Muratori, dovendo
rivoltare tanti diplomi e cronache e monumenti de' bassi-tempi,
concepì il vasto disegno dell'unica e dottissima opera delle Antichità
italiane del medio-evo, che rese il nome suo immortale, e che, secondo
le prime idee, altro non avea ad essere se non una continuazione delle
Antichità estensi, cui servir dovea di commento e quasi far loro
corteggio.

Dallo studio incessante, a norma delle più sane regole di critica,
posto intorno alla storia di que' principi, nacquero non solo quelle
tante scritture in favor di essi per lo dominio di Ferrara e di
Comacchio, nelle quali superiore di tanto si dimostrò al focoso suo
avversario monsignor Fontanini, e mediante le quali si fece conoscere
per uno de' più scienziati gius-pubblicisti; ma inoltre la gran
raccolta da lui ordinata ed illustrata di tutti gli scrittori
originali delle cose d'Italia per lo corso di mille anni; e finalmente
gli Annali d'Italia, l'unico ed il miglior corpo che sinora si abbia
della storia della nazion nostra, stesi da lui nella età di
sessantasette anni nel breve spazio di un anno solo; cosa incredibile,
se da testimoni oculari degni della maggior fede non venisse
asseverata. Che se dettati sono in istile umile, pedestre, inelegante,
come le altre opere sue italiane, non mancano però mai di chiarezza,
di precisione, di naturalezza, e talvolta di vivacità, non senza una
certa efficacia e festività, direi così, lombarda. Del resto, e chi
mai esigere potrà in un colosso la squisitezza del lavoro di un
cammeo?

Mentre per altro incominciava il Muratori a gittar i fondamenti
dell'edificio immenso di cognizioni storiche che innalzar intendea,
compose, quasi per sollievo e diporto, il suo trattato della Perfetta
Poesia, in cui spiegò un sistema conforme ai pensamenti dell'oracolo
dell'Inghilterra, Bacone da Verulamio, sistema più filosofico di
quello che prima di lui da' sottili grammatici, e dopo di lui da
Francesco Maria Zanotti e da altri, che han grido di filosofanti,
vennero esposti alla luce del giorno. Se filosofico fu il trattato
della Poetica del Muratori, poetico, a dir così, fu il disegno della
Repubblica Letteraria, che pubblicò in fronte all'opera sua del Buon
Gusto, o sia riflessioni sopra le scienze tutte; disegno concertato
col dotto Bernardo Trevisano, che reggeva in Venezia quella cattedra
di filosofia morale, che sempre occupata era da un veneto patrizio; e
disegno con cui tenne lungamente e piacevolmente in sospeso la
curiosità degli scienziati. Agli studi suoi di amene lettere riferir
si debbono pure le Vite del Petrarca, del Castelvetro, del Sigonio,
del Tassoni, del marchese Orsi, da lui in diversi tempi dettate. Ma
qui non è il luogo di annoverar distintamente le opere tutte del
modenese bibliotecario. Il solo catalogo, colle necessarie notizie
bibliografiche, eccederebbe i confini a questa vita prescritti.
Basterà il dire che la sua fecondità era tale, che due opere ad un
tratto stava scrivendo per l'ordinario; e che temendo ancora non gli
mancasse materia, chiedeva agli amici argomenti per comporne delle
nuove. Alla erudizione sacra e profana, alle antichità romane e
barbariche, alla critica, alla teologia, all'ascetica, alla
giurisprudenza, alla filosofia, alla politica e perfino alla medicina,
come il trattato del Governo della peste e la dissertazione _De potu
vini calidi_ ne fanno fede, a tutto rivolse le sue speculazioni e le
sue fatiche.

L'erudizione sacra formò il primo oggetto de' suoi pensieri, e sempre,
sino al termine de' suoi giorni, gli studii delle materie
ecclesiastiche coltivò, congiungendoli coll'adempimento il più esatto
ai doveri tutti del suo stato. Giovane sacerdote in Milano, in mezzo
agli studii suoi più fervidi e più graditi, esemplarmente vi attendea.
Fatto quindi in Modena preposto della Pomposa, con cura di anime, con
vivo zelo e con amor grande le funzioni tutte del sacro suo ministero
indefessamente esercitò, trovando ancora tempo, come già il celebre
Pignoria, per le letterarie fatiche. Ma non contento di edificar
coll'esempio e d'instruire colla voce il popolo suo, le virtù
praticando che insegnava, s'ingegnò eziandio di giovare coi libri alla
religione ed ai costumi. Non una persona sola, ma più persone e più
anime, e tutte attivissime, operose, infiammate dell'amor de' suoi
simili, pare che fossero nel Muratori concentrate. Se la vera
filosofia consiste nel far del bene agli uomini, qual filosofo antico
può venire in paragone con lui? Chè non parlo di coloro che negli
ultimi tempi ne usurparono il nome, di tante sciagure infausta e mai
sempre deplorabile cagione. Ascetico savio ed illuminato si mostrò
egli (per toccar soltanto di alcuno di tali libri) negli esercizii
spirituali; espertissimo conoscitore de' santi Padri, compreso del
vero spirito della religione nel trattato della Carità cristiana,
virtù che tutte perfeziona le cristiane virtù; maestro in divinità
profondo nella dotta opera latina _De ingeniorum moderatione in
religionis negotio_, opera in Italia non solo, ma in Germania ed in
Francia eziandio riputatissima.

Ma il Muratori, avanzando in età, e già sessagenario, non potea più
reggere alle parrocchiali fatiche, e specialmente alla predicazione.
Rinunciata dunque la prepositura, attese a scrivere negli anni che
ancora gli restarono. In lui si verificò il detto di Cicerone, nulla
esservi di più dolce e giocondo di una vecchiaia munita degli studii
della gioventù; e non solo gli Annali d'Italia sopraccennati, ma
parecchie altre opere di genere disparatissimo furono il frutto degli
anni suoi senili; che anzi in quel periodo di tempo videro la luce le
opere sue maggiori, già preparate prima, come, per tacer degli ultimi
volumi della gran raccolta delle Cose d'Italia, furono le
dissertazioni famose delle Antichità italiane del medio-evo (negli
ultimi suoi anni poi in lingua italiana compendiate), la seconda parte
delle Antichità estensi, il nuovo Tesoro delle Iscrizioni, per non
parlar di tante altre opere di minor mole, ma non meno rilevanti,
parte filosofiche, come i trattati della morale Filosofia, delle Forze
dell'intendimento umano e della Fantasia; le altre riguardanti le
antichità profane, come la Dissertazione de' servi e liberti, dei
fanciulli alimentari di Trajano, dell'obelisco di Campo Marzio, e
parecchie appartenenti alla erudizione sacra e alle materie
ecclesiastiche, studii, da' quali avea prese le mosse nella letteraria
carriera, da lui mai intermessi, e con lui la terminò. Tali furono
l'opera contro l'inglese Burnet, le Missioni del Paraguay, l'antica
Liturgia romana, e l'aureo trattato della regolata Divozione. Nè
straniero alle, sebben da lui abbandonate, legali dottrine, scrisse
dei difetti della Giurisprudenza, opuscolo sensatissimo, il quale se
riscontrò obbiezioni, trovò eziandio difensori presso i giurisprudenti
medesimi; e col trattato della pubblica Felicità, vale a dire, della
vera scienza di governo, che le scienze e le arti tutte dirige al vero
bene degli uomini, opera che vide la luce nell'anno antecedente alla
sua morte, pose degno ed onorato fastigio a tutte le letterarie sue
fatiche.

Fu quel trattato, come disse il dottissimo cardinale Gerdil, la voce
del cigno; ed aureo chiamandolo, giusti e meritati trova segnatamente
gli encomii in quel sensato libro dal Muratori tributati ad un savio
monarca, per avere nella università della capitale de' suoi stati
aperto una cattedra di morale filosofia. Nè questo fu il solo
provvedimento di quel principe lodato dal Muratori, che in quel
medesimo libro per altri rispetti eziandio il celebra, e singolarmente
per avere instituito peculiare carica in ciascuna provincia, che al
pubblico vantaggio soprantendesse.

Riguardano la maggior parte degli uomini il Muratori semplicemente
come critico, come istorico, come antiquario, come filologo ed
erudito, e non credono che al vanto di filosofo aspirar possa. Ma se
la vera, la utile filosofia consiste nel giudicar delle cose
rettamente e nel buon senso (più raro che altri non creda), e nel
difendere antiche ed importanti verità piuttosto che sostenere nuovi,
ingegnosi, ma inutili e dannosi paradossi, pochi furono al certo più
filosofi del Muratori. Combattè come teologo contro l'irragionevole
voto sanguinario, contro le pratiche esteriori di religione vane od
anche superstiziose, contro l'indiscreto zelo e la ignoranza e le
stravaganze divote; ed il dotto suo libro _De ingeniorum moderatione_,
ec. se piacque a' savii tutti, spiacque (il che ascriversi dee a
distinto pregio) a quelli del pari che troppo poco, come a quelli che
troppo al Capo visibile della Chiesa concedono. Che se ne' libri suoi
filosofici _ex professo_ avverso si mostrò al Loke ed all'Uezio, se
gliene vuol dar lode piuttosto che biasimo. Al primo si mostrarono
pure contrari il celebre Paolo Mattia Doria, ed altri chiari ingegni
italiani: nè ebbe seguaci in Italia prima del fiorentino medico
Antonio Cocchi, non sempre religiosissimo. Di fatto, la filosofia
lokiana, come dimostrò poscia dottamente il prefato cardinal Gerdil,
troppo al materialismo inchina, come allo scetticismo quella postuma
dell'Uezio. Persino nelle materie mediche, se vi fu chi la opinion sua
sulla origine delle pestilenze disapprovò, l'insigne professore di
medicina in Torino, Carlo Richa, ne prese la difesa. Le matematiche
discipline soltanto furono quelle, a cui, come que' due lumi primari
della letteratura francese, il Bossuet ed il Fenelon, non volle mai
applicare il Muratori, sia che temesse d'insuperbire, quando alle
altre vaste sue cognizioni aggiunto avesse la parte più astrusa e
recondita dell'umano sapere, sia che stimasse essere quegli studii
incompatibili collo studio di altre facoltà da lui riputate più
vantaggiose.

Compiuto egli avea intanto il settuagesimo settimo anno del viver suo,
quando un fiero colpo di paralisia gli tolse prima la luce degli
occhi, e quindi la vita nel giorno vigesimoterzo di gennaio dell'anno
1750. Placidamente riposò nel Signore tra le braccia del nipote
ecclesiastico, dopo compiti tutti gli uffizi e ricevuti tutti i
soccorsi della cristiana pietà. Fu il Muratori di statura ordinaria,
ma quadrata, e che inclinava al pingue, di faccia colorita, di aspetto
misto di gravità e di dolcezza; nel conversare affabile, cortese ed
anche gioviale; a lui piaceva la gioventù onestamente lieta. Del
rimanente candido, sincero, modesto, frugale, di singolare prudenza
dotato, alle morali congiungea le cristiane virtù. Invitato a Padova
in modo onorevolissimo, ed a Torino con offerta di pingue stipendio e
con tutti gli agi dal marchese di Ormea, mai non volle abbandonar la
sua patria ed il servizio del principe suo signore, a cui sagrificò
sempre ogni privato suo vantaggio. Di fatto amico di quell'anima
ingenua e generosa di papa Benedetto XIV sin prima del pontificato,
credesi che per gl'insigni meriti suoi verso la religione cattolica e
per l'esemplarità de' costumi lo avrebbe fregiato della sacra porpora,
se non avesse temuto di recar dispiacere alla corte per le cose dal
Muratori scritte nelle controversie di Ferrara e Comacchio. Non mancò
di coraggio, dote non sempre famigliare agli uomini di lettere.
Minacciato della vita con lettera anonima, se non ritrattava certe
espressioni che credette di dover adoperare parlando di una contrada
armigera, consegnò senza turbarsene il foglio alle fiamme, nè se ne
pigliò il menomo pensiero. Da Modena manteneva corrispondenza il
Muratori con tutti i primi letterati d'Italia, e ne coltivò
l'amicizia, e tra gli altri amico fu infino agli estremi della vita
del celebre marchese Scipione Maffei, non ostante alcuni dispareri in
punto di erudizione. Bello si è negli ultimi giorni in cui visse il
Muratori, vedere il Maffei, quasi eguale di età, protestargli di
averlo sempre riputato il primo onore d'Italia; ed il Muratori
vicendevolmente pregare il cielo che conservasse il Maffei, come il
campione più vigoroso e più coraggioso della italiana letteratura.




PREFAZIONE

DI LODOVICO ANTONIO MURATORI


Allorchè io stesi la prefazione al tomo 1 delle mie _Antichità
Italiane_, stampato in Milano nell'anno 1738; accennai il bisogno che
avea la Storia d'Italia d'esser compilata da qualche persona ben
conoscente delle antiche memorie, ed amante della verità. Giacchè
l'avanzata mia età e varie mie occupazioni non permettevano a me
d'imprendere allora tal fatica, animai alla stessa gl'ingegni
italiani, dopo averne loro agevolata la via colla gran raccolta degli
_Scrittori delle cose d'Italia_, e colle suddette _Antichità
Italiane_. Pure tanto di vita e di forze a me ha lasciato la divina
Provvidenza, che accintomi io stesso alla medesima impresa, ho potuto
se non con perfezione, certo con buona volontà, trarla a fine. Parlo
io qui non già della Storia che riguarda gli avvenimenti della Chiesa
di Dio, perchè di questa ci ha forniti per tempo la penna immortale
del cardinal Baronio colla principal parte di essa, accresciuta poi e
migliorata dal p. Antonio Pagi seniore, continuata dallo Spondano, dal
Bzovio e dal Rinaldi. Abbiamo anche illustrati non poco i primi secoli
del Cristianesimo dall'accuratissimo Tillemont, e l'intera Storia di
essa Chiesa felicemente maneggiata dal Fleury: talchè per questo conto
al comune bisogno pare sufficientemente provveduto; se non che la
lingua italiana può tuttavia dirsi priva di quest'ornamento, non
bastando certamente l'aver noi qualche compendio degli Annali del
Baronio in volgare.

La sola Storia civile d'Italia quella è che dimanda e può ricevere
aiuto ed accrescimento dai giorni nostri. Certamente obbligo grande
abbiamo a Carlo Sigonio, insigne scrittor modenese, per aver egli
assunta questa fatica, e trattata la storia suddetta ne' suoi libri
_de Occidentali Imperio, et de Regno Italiae_, che tuttavia sono in
onore, e meritano bene di esserlo. Ma oltre all'aver egli solamente
cominciata la sua carriera dall'imperio di Diocleziano e Massimiano, e
terminatala nell'imperio di Ridolfo I austriaco; tali e tante notizie
si son dissotterrate dipoi per cura di molti valentuomini, tanto
dell'Italia che d'altri paesi, gloriosi per avere aumentato l'erario
della repubblica letteraria, che oggidì si può ampiamente supplire ciò
che mancò al secolo del Sigonio, e rendere più copiosa e corretta la
storia Italiana. Aggiungasi, avere il Sigonio tessuto le storie sue
senza allegare di mano in mano gli scrittori onde prendeva i fatti:
silenzio praticato da altri suoi pari, ma o mal veduto o biasimato
oggidì da chi esige di sapere i fondamenti su cui i moderni fabbricano
i racconti delle cose antiche. Tralascio di rammentare qualche altro
scrittore della Storia universale d'Italia, perchè niuno ne conosco
che sia da paragonar col Sigonio, e niun certamente vi ha che abbia
soddisfatto al bisogno. Ai nostri tempi poi prese il sig. di Tillemont
a compilar le Vite degl'imperadori romani, cominciando dal principio
dell'Era cristiana con tale esattezza, che se egli avesse potuto
continuare il viaggio, dalle mani sue sarebbe a noi venuta una
compiuta storia, ed avrebbe forse risparmiato a tutt'altri il pensiero
di tentar da qui innanzi una tal navigazione. Ma egli passò poco più
oltre all'imperio di Teodosio Minore e di Valentiniano III Augusti,
con esporre gli avvenimenti d'Italia per soli quattro secoli e mezzo,
lasciando i lettori colla sete del rimanente. Pertanto ho io preso a
trattar la _Storia Civile_ o sia gli _Annali d'Italia_ dal medesimo
principio dell'Era di Cristo, conducendoli sino all'anno 1500; nel
quale ho deposta la penna, perchè da lì innanzi potrà facilmente il
lettore consultare gli storici contemporanei, che non mancano, anzi
son molti, se pure non verrà voglia ad alcuno di proseguire la
medesima mia impresa sino ai dì nostri. E chi sa che non nasca, o non
sia nato alcun altro, che prenda anche a trattar la storia dell'Italia
dal principio del mondo sino a quell'anno dove io comincio la mia?
Quanto a me, tanto più ho creduto di dover far punto fermo nel
suddetto anno 1500, perchè nella Parte II delle mie _Antichità
Estensi_, avendo io stesso in qualche guisa abbozzate le avventure
universali d'Italia sino all'anno 1738, mi sarebbe incresciuto di aver
da ridire lo stesso.

Ma prima di mettere in viaggio i lettori, mi convien qui istruire i
men periti di quel che debbono promettersi dalla mia fatica. Che non
si ha già alcun di essi da aspettare, che la Storia d'Italia proceda
per tanti secoli sempre con bella chiarezza, e con bastevol cognizione
degli avvenimenti e delle azioni de' principi e de' popoli, che
successivamente comparvero nel teatro del mondo, e colla tassa dei
tempi precisi, ne' quali succederono i fatti a noi conservati dagli
storici delle passate età. Un così bell'apparato di cose si può ben
desiderare, ma non già sperare. Pur troppo si scorgerà, non essere più
felice la Storia d'Italia di quel che sia quella delle altre nazioni.
Di assaissime antiche storie ci ha privati l'ingiuria dei tempi, la
frequenza delle guerre, e la serie d'altri non pochi pubblici e
privati disastri. Nello stesso secolo terzo dell'Era cristiana,
ancorchè le lettere tuttavia si mantenessero in gran credito, pure si
comincia a provare gran penuria di luce per apprendere le avventure
d'allora, e per ben regolare la cronologia di que' tempi. Pur questo è
un nulla rispetto al secolo quinto, e incomparabilmente più ne'
seguenti, cioè dacchè le nazioni barbare impossessatesi dell'Italia,
fra gli altri gravissimi mali v'introdussero una somma e deplorabile
ignoranza. Non solamente sono venute meno le storie di quei tempi, ma
possiamo anche sospettare, se non credere, che pochissime ne fossero
allora composte; e se la nostra buona fortuna non ci avesse salvata la
Storia longobardica di Paolo Diacono sino all'anno 744, resterebbe in
un gran buio allora la Storia d'Italia. Continua nulladimeno la
medesima ad essere anche da lì innanzi sì povera di lumi sin dopo il
1000, che qualora fosse perita la cronica di Luitprando, e non ci
recassero aiuto quelle de' Franchi e dei Tedeschi, noi ci troveremmo
ora, per così dire, in un deserto per conto di quasi tre secoli dopo
il suddetto Paolo. Oltre poi all'essersi perduta la memoria di
moltissimi avvenimenti d'allora, quegli ancora che restano, sì mal
disposti bene spesso ci si presentano davanti, che di poterne
assegnare gli anni via non resta, stante la negligenza o discordia
degli scrittori, ed è forzata non di rado la cronologia a camminare a
tentoni. A questi malanni si vuol aggiugnerne un altro, comune alla
storia di tutti i tempi, cioè la difficoltà, meglio è dire,
l'impossibilità di raggiugnere la verità di molte cose che a noi
somministra la storia. Lo spirito della parzialità o dell'avversione
troppo sovente guida la mano degli storici. Quello che osserviamo
nella dipintura delle battaglie accadute a' tempi nostri, fatta da
differenti pennelli, con accrescere o sminuire il numero de' morti e
prigioni, e talvolta con attribuirsi ognuna delle parti la vittoria:
lo stesso si praticava negli antichi tempi. E secondochè l'adulazione
o l'odio prevalevano nella penna degli scrittori, il medesimo
personaggio veniva innalzato o depresso. C'è di più. Allorchè gli
storici prendevano a descrivere quanto era accaduto ne' tempi lontani
da sè, per mancanza di documenti o per semplicità e poca attenzione,
talvolta ancora per malizia, vi mischiavano favole e dicerie, o
tradizioni ridicole dell'ignorante volgo. Di queste false merci
appunto abbonda la storia de' secoli barbarici dell'Italia, e più di
gran lunga l'ecclesiastica che la secolare.

Ora come mai potere in quell'ampio fondaco di verità e bugie,
mischiate insieme, sbrogliare il vero dal falso? In tale stato ognuno
ritrova la storia della sua nazione; ma chi vuole oggidì scrivere
onoratamente le antiche cose, si studia, per quanto può, di depurarle,
di dare schiettamente ad ognuno il suo secondo l'ordine della
giustizia, cioè di lodare il merito, di biasimare il demerito altrui;
e quando pur non fia possibile di raggiugnere il certo, di almeno
accennare ciò che sembra più probabile e verisimile tanto dei fatti
che delle persone. Questo medesimo mi son io ingegnato di eseguire
nella presente mia Opera, per soddisfare al debito di sincero
scrittore. Così avessi io potuto rendere dilettevole tal mia fatica,
siccome ho procurato di formarla veritiera. Ma sappiano per tempo
coloro, che nuovi si accostano alla antica storia, che io son per
condurli talvolta per ameni giardini, ma più spesso per selve e dirupi
orridi a vedere: e ciò secondo la diversità dei principi buoni o
cattivi, delle felici o infelici influenze delle stagioni, della pace
o delle guerre, o d'altre pubbliche prosperità o disgrazie. Anche
allorquando era in fiore l'imperio romano, s'incontrano dominanti,
obbrobrii del genere umano, mostri di crudeltà, e nati solamente per
la rovina altrui, e in fine ancor per la propria. Scatenossi poi il
Settentrione contro l'italiche contrade, con introdurvi la barbarie
de' costumi, l'ignoranza ed altri malanni. Finalmente cominciarono le
guerre a divenire il pane d'ogni giorno nell'Italia, e le pazze e
furiose fazioni dei Guelfi e Ghibellini per parecchi secoli
sconvolsero le più delle città: di maniera che nella Storia d'Italia
assai maggior copia troviamo di quel che può rattristarci, che di
quello che è possente a dilettarci. Ma questo non è male della sola
Italia. Anche nell'altre nazioni si fan vedere queste medesime brutte
scene, così avendo Iddio formato il mondo presente, con volere che più
in esso abiti il pianto che il riso, acciocchè ognuno si rivolga a
cercarne un migliore, di cui dà una dolce speranza la Fede santa che
professiamo. Intanto fra le altre utilità che reca la storia, da noi
riconosciuta per una delle efficaci maestre della vita umana, non è
picciolo quello che io andrò talvolta ricordando ai lettori. Cioè, che
nel mirare sì rozza e sconvolta, sì malmenata ed afflitta in tanti
diversi passati tempi l'Italia, possente motivo abbiamo di
riconoscersi anche per questo obbligati a Dio, cioè per averci
riserbati a questi giorni, non esenti certamente da mali, ma pure di
lunga mano men cattivi e dolorosi de' vecchi secoli.




ANNALI D'ITALIA

DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE FINO ALL'ANNO 1500




    Anno di CRISTO I. Indizione IV.

    CESARE AUGUSTO imper. 45.

_Consoli_

CAJO GIULIO CESARE figlio d'Agrippa, MARCO EMILIO PAOLO.


Già avea la libertà della repubblica romana ricevuto un gran tracollo
sotto il prepotente governo di Giulio Cesare, primo ad introdurre in
Roma il principato sotto il modesto titolo d'imperadore, non altro
significante in addietro che generale d'armata. Non so s'io dica
ch'egli pagò le pene della sua ambizione con restar vittima de'
congiurati; so bene che fu principe odiato dai più in vita, ma dopo
morte scusato ed amato, massimamente da chi avea cominciato ad
accomodarsi al comando di un solo; e so del pari che questo principe
certamente abbondò di molti pregi, e che pochi pari di credito avrebbe
avuto nell'antichità, se non avesse offuscata la sua gloria
coll'oppression della patria. Caio Ottavio, o sia Ottaviano, da lui
adottato per figliuolo, e da noi più conosciuto col nome di Cesare
Augusto, ancorchè giovane, seppe ben deludere l'espettazione del
senato. Adoperato per rimettere in piedi la repubblica, si servì egli
della fortuna delle a lui confidate milizie, per assoggettar Roma di
nuovo, e stabilir quella monarchia che, durata per qualche secolo,
cedette in fine al concorso e alla possanza delle barbare nazioni. Di
gran politica abbisognò Augusto per avvezzar il senato e popolo romano
alla novità del governo cominciato da Giulio Cesare, e per ischivar
nello stesso tempo quel funesto fine a cui egli soggiacque. I due suoi
favoriti, cioè Marco Vipsanio Agrippa, marito prima di Marcella di lui
nipote, e poi di Giulia di lui figliuola, e Mecenate, personaggi di
gran senno e onoratezza, non gli furono scarsi di consiglio per fargli
ottenere il suo intento. L'arte dunque sua fu quella di saper fare da
padrone, senza mostrare di esser tale; e di conservare il nome e il
decoro della repubblica, come era in addietro, ma con ritenere per sè
il meglio dell'autorità e del comando. Perchè non solamente
lontanissimo si diede a conoscere dall'ammettere il nome di _Re_ o
_Signore_, a cui non erano avvezzi i Romani, essendogli anche
esibito[1] dal popolo (forse per segreta sua insinuazione)
l'usitatissimo di _Dittatore_, grado portante seco una gran balìa,
fece la bella scena di pregar tutti con un ginocchio a terra, che lo
esentassero da questo onore, parendogli assai d'essere riguardato e
nominato principe, titolo non altro significante allora che primo fra
i cittadini. Compariva[2] dappertutto la stima ch'egli professava al
senato; e per maggiormente cattivarselo, non volle già egli sottoporre
alla propria direzione tutte le provincie, ma la maggior parte lasciò
alla disposizion del medesimo e de' proconsoli, e d'altri uffiziali
scelti e spediti dal medesimo senato. Ad esso parimente lasciò
l'erario pubblico, la facoltà di metter imposte, di far nuove leggi,
di amministrar la giustizia; con che pareva alla nobiltà di conservar
tuttavia l'antico onore e dominio. Nè minor fu il suo studio per
guadagnarsi l'amore del popolo, col volere ch'egli continuasse a
godere della facoltà di dare i suoi suffragi nelle pubbliche elezioni,
col mantener sempre l'abbondanza de' viveri in Roma e la quiete della
città, e con tenerlo allegro e divertito mediante la frequente
rappresentazione di varii giuochi e spettacoli, e con magnifici
congiarii o vogliam dir donativi. Finalmente si conciliò l'affetto dei
pretoriani, cioè delle guardie del palazzo, con far loro dar doppia
paga, e con usar altri atti di liberalità verso le legioni, cioè verso
il resto della milizia. Che meraviglia è dunque, se Roma, che ne'
tempi della libertà avea tante traversie patito per la disunion de'
cittadini, cominciò a gustare i vantaggi d'esser governata dipendente
da un solo?

Ma intanto Ottavio riservò per sè le provincie dove occorreva tener
delle soldatesche, o per buona guardia contro dei Barbari confinanti,
o per imbrigliar i popoli facili alle sedizioni, con che il nerbo
maggiore della repubblica, cioè tutta la milizia, restò in suo potere.
A questo fine egli prese o volentieri accettò il titolo di imperadore,
conceduto in addietro ai generali d'armate, dappoichè aveano riportata
qualche vittoria; ma titolo accordato a lui a perpetuità, e con
autorità sopra l'armi, di maniera che niun cittadino da lì innanzi fu
onorato del trionfo, ancorchè vincesse, perchè la vittoria non
s'attribuiva se non a chi era capo delle armate; e questo capo era il
solo imperadore. Gran possanza, insigni privilegi aveano goduto fin
qui i tribuni del popolo. Erano sacrosante ed inviolabili le loro
persone, di maniera che il mancar loro di rispetto, non che
l'offenderli co' fatti, si riputava sacrilegio e misfatto degno di
morte. Questo potere volle a sè conferito, ed agevolmente ottenne
Ottaviano, per poter cassare, occorrendo, le leggi e le determinazioni
che non gli piacessero, come far solevano talvolta i tribuni; e questa
fu appellata _Tribunizia Podestà_; titolo ben caro agli imperadori
romani, e mai non obbliato nel loro titolario; perchè, al dire di
Cornelio Tacito[3], vocabolo indicante _sommo dominio_. Inoltre
l'autorità primaria sopra le cose sacre era riserbata ai _Pontefici
Massimi_ in Roma pagana. Giudicò Augusto, che tal grado stesse meglio
nelle sue mani che nelle altrui; e però tanto egli quanto i successori
l'unirono con gli altri titoli della loro possanza. Finalmente il
senato, già divenuto adulatore, perchè composto di gente che cercava i
proprii vantaggi col promuovere quelli del principe, cercò di onorar
questo imperadore colla giunta di un titolo glorioso, che facesse
intendere la di lui possanza ed autorità quasi sovrana; e fu quello
d'Augusto, indicante un non so che di divinità. Questo, che fu poi
congiunto coll'altro di Cesare, che era a lui pervenuto per l'adozione
di Giulio Cesare, continuò poscia in tutti i suoi successori, come il
più luminoso dell'altra lor dignità. Veggonsi rapportati da Dione
Cassio varii altri privilegi accordati dal senato a Cesare Augusto,
coronati finalmente dal nobilissimo titolo di _Padre della Patria_,
voluto o pure usato dipoi anche da quegli stessi mostruosi imperadori,
che sembrarono nati solamente in danno e rovina della medesima. Salì
in tal guisa ad un'ampia podestà Augusto, per cui senza nome di re
potea tutto quanto poteano i più dispotici dei re, perchè il senato
con tutta l'autorità a lui lasciata, nulla d'importante facea, che non
fosse conforme all'intenzione e ai desiderii di lui. Tuttavia per un
tratto di fina politica (che è ben lecito il pensare così) andava
l'accorto imperadore di tanto in tanto dolendosi del grave peso
imposto sulle sue spalle, e facea intendere l'ansietà di scaricarsene,
per morir da privato. Arrivò sino a proporlo in senato; ma egli dovea
ben sapere, che non correa rischio d'essere esaudito. Ed in fatti così
fu. S'unirono le voci de' senatori a pregarlo, per non dire a
costringerlo, che continuasse nella fatica del comando finchè vivesse.
Allora s'indusse ben egli con tutta modestia ad accettar questo
carico, ma con impetrare che solamente per dieci anni avvenire durasse
un tale aggravio. Finiti questi, e chiesta di nuovo licenza, s'accordò
in cinque altri, e poscia in dieci, tanto che senza mai cessare
d'essere signore del mondo romano, e con apparenza di comandare, solo
perchè così volevano il senato ed il popolo, terminò poi
felicemente nel comando i suoi giorni. Nè mancò chi gli succedesse
nell'incominciato onore e in quella signoria, la quale a poco a poco
nel proseguimento pervenne all'intero despotismo e talvolta alla
tirannia.

In tale stato si trovava nell'anno presente Roma sotto Augusto
imperadore, nè la di lei potenza si stendeva già sopra tutto il mondo,
come l'adulazione talvolta sognò; ma bensì nella miglior parte di
Europa, e in moltissime provincie non meno dell'Asia che dell'Africa.
Era nato Augusto sotto il consolato di Cicerone e di Cajo Antonio,
cioè l'anno sessantatre prima dell'Era cristiana; e però nel presente,
in cui essa Era ebbe principio, correva l'anno sessantesimoquarto
dell'età sua, e l'anno XXIII della sua tribunizia podestà, e il XLV
del suo principato. Giacchè niun figlio maschio avea a lui prodotto
Livia sua moglie, era già egli ricorso al ripiego dell'adozione, per
desiderio di perpetuar la sua famiglia, e di trasmettere in un figlio
anche la dignità imperiale. Avea egli due nipoti, figliuoli di Marco
Agrippa e di Giulia sua figliuola, donna famosa per la sua
impudicizia, e in questi tempi a cagion di tale infamia relegata
nell'isola Pandataria. L'uno _Cajo_ e l'altro _Lucio_ nominati, aveano
già talmente conseguito l'amore d'Augusto sì in riguardo al sangue che
scorrea lor nelle vene, che per le loro belle qualità, che gli aveva
adottati amendue per figliuoli, innestandoli nella famiglia Giulia, e
dando loro il cognome di _Cesare_. L'uno d'essi, cioè _Cajo_, fu[4]
nell'anno presente alzato alla dignità più eminente, che dopo
l'imperiale dar potesse allora la repubblica romana, cioè al
consolato. L'altro console fu _Lucio Emilio Paolo_, cognato d'esso
Cajo, perchè marito di Giulia sua sorella, donna, che per aver imitata
la madre Giulia nella disonestà, soffrì anch'essa un eguale castigo.
Militava in questi tempi Cajo Cesare console per ordine d'Augusto suo
padre, nella Siria, ossia nella Soria, contro de' Parti. Questa era
allora la sola guerra che tenesse in esercizio l'armi romane;
perciocchè Augusto, tra perchè vecchio, e perchè signore di gran
senno, il più che potea s'andava studiando di mantener la pace
nell'imperio, senza curar molto l'ambiziosa gloria de' conquistatori.
Assai vasto era il dominio de' Romani per appagar ogni sua voglia.

Ora in quest'anno si dee fissare il principio dell'Era cristiana
volgare, di cui comunemente ci serviamo oggidì. Non fu già essa
affatto ignota ai primi secoli della Chiesa; ma il merito d'averla
messa in qualche credito in Occidente, è dovuto a Dionigi Esiguo,
ossia il Picciolo, monaco assai dotto, che morì circa l'anno 540 nella
Chiesa romana, e poscia a Beda, celebre scrittore d'Inghilterra, che
nel secolo ottavo usandola, coll'esempio suo la rendè poi familiare
fra i Latini. S'ingannarono amendue; ma non c'inganniamo noi in
mettere sotto i consoli suddetti il principio di questa. Il cardinal
Baronio, che stabilì senza fallo l'immortalità del suo nome colla gran
fabbrica degli Annali ecclesiastici, due anni prima del presente, cioè
nell'anno XXI della tribunizia podestà di Augusto, ossia nel XLIII del
suo principato, pose il principio della medesima; ma con errore
manifesto, siccome han dipoi dimostrato uomini sommamente eruditi.
Opinione fu di quell'insigne porporato, che nell'anno XLII di Augusto,
cioè tre anni prima dell'anno presente, s'incarnasse e nascesse il
Figliuolo di Dio nel di 25 di dicembre; e che nel principio del
susseguente egli fosse circonciso, dalla qual circoncisione, collocata
nelle calende di gennaio, si avesse da cominciare l'anno primo
dell'Era cristiana. Ciò non sussiste. Quanto alla nascita del Signor
nostro Gesù Cristo ne è tuttavia incerto l'anno. Solamente sappiamo
essere la medesima avvenuta molto innanzi all'anno presente, fra
l'altre ragioni, perchè Erode figliuolo d'Antipatro (re vivente
allorchè nacque il Signore), cessò di vivere[5] nel marzo dell'anno
750 di Roma, e XLI di Augusto; e per conseguente[6] dovette nascere il
Signore almeno nell'anno precedente al preteso dal Baronio, o in alcun
altro più addietro. È ben sembrato agli eruditi più verisimile il
riferire il suo natale al dicembre dell'anno 749 di Roma, e XL di
Augusto; ma questa opinione nondimeno vien contrastata da quella di
diversi altri, non mancando chi alcuni anni prima con buone ragioni
colloca questo memorabil fatto, senza che finora si sia potuto
pienamente accertare un punto di storia di tanta importanza. Ma se ciò
è tuttavia oscuro, non è già per l'Era cristiana, il cui principio
ormai resta deciso che si ha da fissare nell'anno presente, benchè non
manchi taluno che lo riferisce nell'anno seguente. Per le ragioni
suddette è un comune errore, ma errore condonabile, e di cui niun s'ha
da formalizzare, il chiamar questa Era della Natività del divino
Salvatore, oppur della Incarnazione, ovvero della Circoncisione.
Questa varietà di parlare, da gran tempo introdotta, non è per anche
terminata in Italia, dove abbiamo la maggior parte delle città, che
chiamano l'anno della Natività, benchè l'incomincino dalla
Circoncisione; ed alcune, che nella Pasqua, o nel dì 25 di marzo
precedente, o susseguente all'anno comune, cominciato alla
Circoncisione, danno principio al loro anno, le une coll'anteciparlo
di quasi nove mesi, e le altre col posticiparlo di quasi quattro.
Anticamente molti usarono di dar principio all'anno nuovo nel Natale
del Signore, e di là poi venne il chiamar l'Era nostra a _Nativitate
Domini_, il qual nome dura presso i più, contuttochè oggidì il primo
giorno di gennaio sia anche il principio dell'anno nuovo. Intanto
contando noi sotto questi consoli l'anno primo d'essa Era, seguiteremo
da qui innanzi col medesimo ordine ad accennare i fatti principali
della Storia d'Italia.

NOTE:

[1] Sueton., Vita August., cap. LII.

[2] Dio. Cass., Histor.

[3] Tacit., Annal., t. III, cap. 56.

[4] Noris, Cenotaph. Pisan. Diss. 2, cap. 13.

[5] Joseph., Antiq. Judaicar., lib. 7, cap. 8. Pagius, in Critica
Baron.

[6] Vaillant, Idem. Pagius, Usserius, Noris, ec.




    Anno di CRISTO II. Indizione V.

    AUGUSTO imperadore 46.

_Consoli_

P. VINICIO e P. ALFENIO VARO.


Il primo di questi consoli è chiamato dal padre Pagi _Publio Vicinio_,
dal padre Stampa _Publio Vinucio_. Sono errori di stampa. Nè la
famiglia _Vicinia_, nè la _Vinucia_ son cognite fra le nobili romane.
Bensì la _Vinicia_, di cui l'Orsino e il Palatino rapportano varie
medaglie. Vellejo Patercolo[7] chiaramente scrisse _P. Vinicio
Consule_, e parla in più d'un luogo di questa famiglia. Il secondo de'
consoli è _Publio Alfeno_ presso il Pagi. Altri hanno scritto
_Alfinio_; ma con diversità di poca importanza. Continuò _Cajo
Cesare_, figliuolo adottivo di Augusto, e principe della gioventù, la
sua spedizion militare in Soria. Seco era lo stesso _Vellejo
Patercolo_, autore de' pezzi di un'amena storia, che si son salvati
dalle ingiurie del tempo. Racconta egli, che inclinando Augusto a far
pace coi Parti, perciò seguì un abboccamento di Cajo con _Fraate_ re
di que' popoli, sopra un'isola dell'Eufrate, fiume che allora divideva
i due imperi. Cajo dipoi sulla riva romana diede un convito a Fraate,
ed appresso ricevette anch'egli sull'opposta il medesimo trattamento.
Allora fu che Fraate scoprì a Cajo l'infedeltà e venalità di Marco
Lollio, a lui dato per aio da Augusto. Però da lì a poco tempo[8]
venne meno la vita d'esso Lollio per veleno, non si sa se preso per
elezione di lui, o pure per comando altrui. In questi tempi[9] _Lucio
Cesare_ fratello d'esso Cajo, acciocchè non marcisse nell'ozio della
Corte, fu mandato da Augusto in Ispagna. Dovea servir questo viaggio
per guadagnargli l'amor delle legioni che soggiornavano in quelle
parti. Ma secondo le umane vicende non tardarono ad abortire in breve
tante belle speranze di lui e del padre. Giunto egli a Marsilia,
s'infermò, e in età di diciotto anni terminò la carriera del suo
vivere nell'agosto dell'anno presente. Dione e Tacito non tacquero il
sospetto che corse allora di aver Livia moglie d'Augusto procurata con
arti indegne la morte di questo giovane principe. Chi fosse questa
principessa, convien ora vederlo.

Livia, figliuola di Livio Druso, era in prime nozze stata moglie di
Tiberio Claudio Nerone, uno de' più cospicui nobili di Roma[10]. Seppe
ella così ben tirar le sue reti, che invaghitosi di lei Augusto, già
principe di Roma, ottenne da Nerone che la ripudiasse, per prenderla
egli in moglie. Bisogna ben credere che fosse grande in questo
principe il caldo, perchè gravida (fu preteso del primo marito) la
condusse al talamo suo. Avea già essa partorito Tiberio, che vedremo a
suo tempo imperadore. Sgravossi dipoi d'un altro figliuolo, che portò
il nome di _Nerone Claudio Druso_, e fu consegnato al padre, perchè,
secondo le leggi, tenuto per figliuolo di lui. Questi poi creato
console nell'anno IX, prima dell'Era cristiana, finì quello stesso
anno di vivere. Che superba, che scaltra donna fosse Livia, non si può
abbastanza dire. Ancorchè Augusto fosse principe di mente svegliata e
di raro intendimento, pure possedeva ella il gran secreto di saperlo
governare, di condurlo alle voglie sue. L'unico figliuolo a lei
restato, cioè _Tiberio_, era il principale oggetto dell'amor suo, e
tutte le sue mire tendevano ad esaltarlo. Essendo morto dodici anni
prima dell'Era nostra Agrippa gran confidente di Augusto, e marito di
Giulia figliuola del medesimo imperadore, e di Scribonia sua prima
moglie, procurò Livia che questa passasse a seconde nozze con Tiberio
suo figliuolo[11], tuttochè a lui dispiacesse assaissimo un tal
matrimonio, parte perchè gli convenne ripudiar Agrippina amata sua
consorte, e parte ancora perchè non gli era ignota la trabocchevole
inclinazione e vita sregolata d'essa Giulia. Suoi figliastri in questa
maniera divennero _Cajo_ e _Lucio_, che già dicemmo nominati _Cesari_,
figliuoli della medesima Giulia e d'Agrippa; ma da lui e da Livia sua
madre internamente odiati, perchè adottati per figliuoli da Augusto, e
destinati, per quanto si poteva congetturare, ad essere suoi
successori nell'imperio. Nacquero in fatti delle gare fra questi due
giovanetti fratelli e Tiberio lor padrigno. Sentivano già essi la
superiorità della lor fortuna, ed aveano cominciato ad insolentire, e
nello stesso tempo miravano di mal occhio il possesso che tenea nel
cuore di Augusto la madre di Tiberio, Livia. Per ischivar tutti i
pericoli, avea preso Tiberio il partito di ritirarsi: al che
s'aggiunse ancora il non poter più egli sopportare i vizii della
moglie sua Giulia, castigati in fine colla relegazione da Augusto suo
padre. Senza che il potessero ritener le preghiere della madre e del
medesimo Augusto, ritirossi Tiberio nell'isola di Rodi, e qui per
sette anni in vita privata si fermò. Sazio finalmente di questo
volontario esilio, che avea dato occasione di molte dicerie agli
sfaccendati politici, fece istanza di ritornarsene a Roma in
quest'anno per mezzo della madre. Volle Augusto prima intendere, se a
Cajo Cesare fosse rincresciuto il di lui ritorno, perchè i dissapori
seguiti fra loro non erano cose ignote. Per buona ventura essendosi
allora scoperto, che Lollio, poco fa mentovato, quegli era che
seminava zizzanie fra Tiberio ed i figliastri, Caio si mostrò contento
che il padrigno rivedesse Roma. Venuto Tiberio, attese da lì innanzi
coll'aiuto della madre a promuovere i proprii interessi. E questi
presero tosto buona piega per la sopr'accennata morte di _Lucio
Cesare_, non restando più fra i vivi se non il solo _Cajo Cesare_,
cioè quel solo che impediva a Tiberio il poter succedere nello imperio
ad Augusto suo padrigno. Cominciò[12] in quest'anno, se pur non fu nel
seguente, anche in Germania una guerra, di cui parleremo all'anno V
dell'Era cristiana.

NOTE:

[7] Vellejus Paterculus, lib. 2.

[8] Plinius, lib. 9, cap. 35.

[9] Noris, Cenotaph. Pisan. Diss. 2, cap. 14.

[10] Dio, Suetonius, Tacitus.

[11] Sueton., in Tiber., cap. 7.

[12] Vellejus, Historiar. lib. 2.




    Anno di CRISTO III. Indizione VI.

    AUGUSTO imperadore 47.

_Consoli_

L. ELIO LAMIA e M. SERVILIO.


Perchè son perite le storie antiche in questi tempi, mancano a noi le
memorie di quanto allora avvenne in Roma e in Italia. Forse anche la
mirabil quiete che per opera d'Augusto si godea in queste parti, niun
avvenimento produsse assai riguardevole per comparir nella Storia
romana. Rimasto senza aio in Soria Cajo Cesare per la morte di
Lollio[13], Augusto non volendo lasciare la di lui giovanile età senza
direzione e briglia, mandò per governatore di lui Publio Sulpicio
Quirinio. Questi è quel medesimo che nel Vangelo di s. Luca è
appellato _Cirino_, e che negli anni addietro avea fatta la
descrizione degli abitanti della Giudea: nel qual tempo venne alla
luce del mondo il nostro Signor Gesù Cristo, senza sapersene finora
con certezza l'anno preciso. Ora Cajo Cesare, che nell'anno prossimo
passato[14] avea conchiusa la pace coi Parti, ed era penetrato sino
nell'Arabia, si diede in quest'anno a regolare gli affari
dell'Armenia. Di là si erano ritirate le milizie ausiliarie de' Parti,
in vigor della pace suddetta; ma non per questo volentieri ritornarono
all'ubbedienza de' Romani quei popoli: e però sul principio fecero
qualche resistenza; ma entrato con tutte le forze nel loro territorio
Cajo Cesare, gli astrinse a deporre le armi. E poichè non si
arrischiavano i Romani di ridurre in provincia un paese tanto lontano,
ed avvezzo al governo de' proprii re, fu scelto da Cajo per quella
corona Ariobarzane, medo di nazione, e ben veduto dai medesimi Armeni,
il quale dovette promettere una buona alleanza col popolo romano. A
così felice successo, per cui Cajo acquistato s'era non poco di
gloria, ne tenne dietro un funesto. Mal soddisfatto un certo Addo de'
Romani e del re novello, mosse a ribellione Artagera, una delle
primarie città dell'Armenia[15]. Corso con tutta la sua armata Cajo ad
assediar quella città, troppo credendo al ribello Addo, si lasciò
condurre ad abboccarsi con lui. Nel mentre ch'egli leggeva un
memoriale, datogli dallo stesso Addo, proditoriamente fu ferito da
lui, o da chi era con lui, e con pericolosa ferita. Per tale iniquità
irritate al maggior segno le legioni romane, più vigorosamente che mai
strinsero la città, l'espugnarono, la ridussero in un mucchio di
pietre. Il traditore Addo ebbe anch'egli la meritata pena.

NOTE:

[13] Tacitus, lib. 3 Annal.

[14] Vellejus, lib. 2. Florus, lib. 4, c. 4. Tacitus, lib. 22. Ann.

[15] Dio, in Hist. Strabo, lib. 2. Vellejus, ut supra. Ruffus, Festus,
in Breviar.




    Anno di CRISTO IV. Indizione VII.

    CESARE AUGUSTO imper. 48.

_Consoli_

SESTO ELIO CATO e GAJO SENTIO SATURNINO.


Celebre nella storia di Roma per varie sue dignità ed azioni fu questo
Saturnino, creato console nell'anno presente. Fra gli altri suoi
impieghi[16] avea avuto quello di legato, o sia di vice-governatore, o
presidente della Soria, circa l'anno 36 d'Augusto, e undicesimo prima
dell'Era volgare. Tertulliano[17] scrivendo contra Marcione asserì,
che _Census constat actos sub Augusto tunc in Judaea per Sentium
Saturninum_. La nascita di Cristo Signor nostro, secondo questo conto,
verrebbe a cadere nell'anno suddetto 36 d'Augusto, o pure nel
seguente. Ma opponendosi all'asserzione di Tertulliano la canonica di
s. Luca, da cui abbiamo che il censo fu fatto da _Cirino_ o sia
_Quirinio_, presidente della Siria o sia della Soria: e sapendosi che
a Saturnino nell'anno 38 di Augusto succedette nel governo della Siria
Quintilio Varo: altra via non s'è saputa fin qui trovare, che la
plausibile e molto ben fondata, di dire che _Quirinio_, siccome era
succeduto altre volte, fosse stato inviato colà con istraordinaria
podestà a far la descrizione dell'anime, nel tempo stesso che
Saturnino, o pur Varo con ordinaria podestà governava quella
provincia. O sì maligna o sì mal curata fu la ferita, da _Cajo Cesare_
riportata sotto Artagera, ch'egli non più si riebbe, e andò
peggiorando la sua sanità. Perchè egli[18] non poteva accudire agli
affari, gli uffiziali e cortigiani suoi, prevalendosi del tempo
propizio, sotto nome di lui vendevano la giustizia, e faceano continue
estorsioni ai popoli di quelle contrade. Ed acciocchè non finisse sì
presto una sì utile mercatura, indussero l'infelice principe, allorchè
Augusto il richiamava in Italia, a rispondere di non voler venire,
perchè l'intenzion sua era di passare quel che gli restava di vita, in
un ozio privato. Replicò Augusto, che il desiderava e voleva in
Italia, dove potrebbe egualmente, ma colla vicinanza ed assistenza de'
suoi, se pur così gli piacea, menar vita privata. Convenne ubbidire.
Ma mentre egli, benchè suo mal grado, se ne ritornava, giunto a Limira
città della Licia, quivi nel dì 24 febbraio dell'anno presente cessò
di vivere. Sicchè Augusto, a cui la morte avea rapito Marcello,
figliuolo di Ottavia sua sorella, nipote amatissimo, venne ancora
nello spazio di diciotto mesi a perdere questi due altri giovanetti
_Lucio_ e _Cajo_, nati nipoti suoi, e poscia adottati per figliuoli;
motivo a lui d'inesplicabil dolore. Tuttavia sofferì egli con più di
fortezza e pazienza queste perdite, che il disonore cagionatogli
dall'impudicizia di Giulia sua figliuola madre dei suddetti due
principi, e da lì a pochi anni dall'altra di Giulia sorella de'
medesimi. Tante disgrazie faceano ch'egli si augurasse di non essere
mai stato padre.

Per lo contrario ne fu ben lieto in suo cuore _Tiberio_, figliastro di
lui, al vedere tolti di mezzo questi due possenti ostacoli al corso
della sua fortuna. Livia Augusta sua madre[19], per l'estrema sua
ambizione da molti sospettata di aver avuta parte nella morte di que'
due principi, non tardò molto ad assalire ed espugnare il cuore del
marito Augusto in pro del figliuolo, proponendoglielo qual solo ormai
capace e meritevole di succedere a lui nella dignità imperiale. Gli
effetti della di lei eloquenza comparvero da lì a pochi mesi. Avea
Augusto negli anni addietro conferita ad esso Tiberio la podestà
tribunizia per cinque anni che già erano passati. Tornò nel presente
ad associarlo seco nel godimento della medesima podestà, nel dì 27
luglio; laonde nelle sue medaglie[20] si cominciò a notare la TRIB.
POT. VI. Quel che più importa, l'adottò ancora per suo figliuolo,
aprendogli la strada alla succession dei suoi beni, e insieme
dell'imperio. Però chi prima era _Tiberio Claudio Nerone_, cominciò ad
intitolarsi e ad essere intitolato _Tiberio Cesare figliuolo
d'Augusto_. Vellejo Patercolo, storico[21] suo grande amico, si stende
qui in immensi elogi di Tiberio, il qual forse allora sotto molte sue
virtù sapea nascondere i moltissimi suoi vizii. Nello stesso giorno fu
obbligato Tiberio ad adottare per suo figliuolo _Marco Agrippa_, nato
da Giulia figlia d'Augusto dopo la morte di M. Vipsanio Agrippa di lei
primo consorte. Ma questi tra per essersi scoperto giovanetto
stolidamente feroce, e per le spinte che gli diede Livia Augusta,
unicamente intenta ad esaltare i proprii figli, fu dipoi relegato
nell'isola della Pianosa, dove, appena morto Augusto, per ordine di
Tiberio tolta gli fu la vita. Inoltre nel medesimo giorno 27 di luglio
(così volendo Augusto), Tiberio adottò in figliuolo il suo nipote
_Germanico_, nato da _Claudio Druso_, suo fratello, cioè da chi al
pari di lui avea avuto per madre Livia Augusta. Nè pur questa adozione
internamente venne approvata da Tiberio; perchè egli avea un proprio
figliuolo per nome _Nerone Druso_, a lui partorito da Agrippina sua
prima moglie, verso il quale più si sentiva portato. Non erano mai
mancati ad Augusto dei nobili suoi secreti nemici, sì perchè la
memoria dell'antica libertà troppo spesso risvegliava lo sdegno contro
chi ora facea da signore in Roma, e sì perchè sui principii del suo
governo e potere, Augusto, con levare dal mondo non i soli avversari,
ma chiunque ancora veniva creduto atto ad interrompere la carriera de'
suoi ambiziosi disegni, s'era tirato addosso l'odio dei lor figliuoli
e parenti. Traspirò nel presente anno una congiura ordita contra di
lui da molti nobili. Capo di essa era _Gneo Cornelio Cinna Magno_, che
per essere nato da una figliuola di Pompeo il Grande, portava nelle
vene l'avversione ad Augusto; sì perchè Augusto era successore di chi
tanta guerra avea fatto all'avolo suo materno; e sì ancora per essere
stato persecutore anch'esso della medesima famiglia. In grande ansietà
per questo si trovava Augusto, giacchè il timore o sentore delle
congiure quello era spesso che non gli lasciava godere in pace il suo
felicissimo stato. Conferito con sua moglie l'affanno, gli diede ella
un saggio consiglio, cioè di ricorrere non già alla severità che potea
solo accrescere i nemici, ma sì bene ad una magnanima clemenza;
predicendogli che in tal maniera vincerebbe il cuore di Cinna, uomo
generoso, ed insieme quello di tutta la nobiltà. Così fece Augusto.
Dopo aver convinti i rei del meditato misfatto, perdonò a tutti; nè di
ciò contento, disegnò console per l'anno prossimo avvenire lo stesso
Cinna, benchè primario nell'attentato contra la di lui vita. Un atto
di sì bella generosità gli guadagnò non solamente l'affetto di Cinna e
degli altri, ma anche una tal gloria e stima presso d'ognuno, che nel
resto di sua vita niuno pensò mai più a macchinare contra di lui. Ed
ecco i frutti nobili della clemenza; ma ben diversi noi andremo
trovando quei della crudeltà e fierezza.

NOTE:

[16] Usserius, Annal. Noris, Cenotaph. Pisan.

[17] Tertullian., lib. 4, cap. 19, contra Marcionem.

[18] Vellejus, lib. 2. Zonaras, Hist. Svetonius in Aug., c. 68.

[19] Tacitus, lib. 1 Annal.

[20] Mediobarb., in Numismat.

[21] Vellejus, lib. 2. Dio, Histor., lib. 55.




    Anno di CRISTO V. Indizione VIII.

    CESARE AUGUSTO imper. 49.

_Consoli_

GNEO CORNELIO CINNA MAGNO, LUCIO VALERIO MESSALLA VOLUSO.


Di _Cinna_, console nell'anno presente, abbiam favellato nel
precedente. L'altro _Voluso_ taluno ha creduto che fosse piuttosto
cognominato _Voleso_, perchè una iscrizione rapportata dal
Fabretti[22] fu posta L. VALERIO VOLESO, CN. CINNA MAGNO COSS. Il
Grutero, riferendo la stessa iscrizione, lesse VOLSEO, ma con errore.
Certamente un marmo, veduto co' suoi occhi dal Fabretti, bastar
dovrebbe a stabilire il cognome di _Voleso_. Ma mi ritiene una
medaglia pubblicata da Fulvio Orsino e dal Patino[23], dove è la
figura d'Augusto, e nel rovescio VOLVSUS VALER. MESSAL. III. VIR. A.
A. A. F. F. Questi par certamente lo stesso che fu poi console o
almeno della stessa casa. Abbiamo da Vellejo[24], che nell'anno
secondo oppure terzo dell'Era nostra, s'era suscitata in Germania una
gran guerra, la qual durava tuttavia. Dappoichè nell'anno precedente
Augusto ebbe adottato Tiberio, e volendo accreditarlo maggiormente nel
mestiere delle armi e nel comando delle armate, nel quale si era egli
anche molti anni prima esercitato con mollo onore, poco stette a
spedirlo in Germania. Andò Tiberio, e con esso lui era Vellejo
Patercolo generale della cavalleria. Soggiogò i Caninefati, gli
Attuari e i Brutteri, e fece ritornare all'ubbidienza i Cherusci.
Terminata poi con reputazione la campagna, nel dicembre se ne ritornò
a Roma per visitare i genitori. Quindi nella primavera di quest'anno
di nuovo si portò in Germania. Le prodezze ivi fate da Tiberio si
veggono descritte ed esaltate da esso Vellejo istorico. Per attestato
di lui sottomise gran parte di quei feroci popoli, de' quali nè pur
dianzi si sapeva il nome. Fra gli altri domò i _Longobardi_, gente la
più fiera e valorosa dell'altre: il che è ben da avvertire: perchè
dopo alcuni secoli vedremo questa medesima nazione dominante in
Italia. Le conquiste di Tiberio arrivarono sino al fiume Elba; cosa
non mai tentata in addietro nè allora sperata da alcuno. Venuta poi la
stagion de' quartieri, volò Tiberio a Roma a ricevere i complimenti
de' genitori e il plauso del popolo, per così vantaggiosa e gloriosa
campagna.

Circa questi tempi, o pur nell'anno precedente, vennero a Roma gli
ambasciadori de' Parti, padroni allora della Persia, per chiedere un
re ad Augusto[25]. Volle egli che andassero anche in Germania ad
esporre la stessa dimanda a Tiberio Cesare, per avvezzar la gente al
rispetto e alla stima di questo suo figliuolo. Era stato ucciso
_Fraate re dei Parti_ da uno scellerato suo figlio, per iniqua voglia
di regnare, benchè egli poi non solo non conseguì il regno, ma vi
perdè la vita. Gli altri figliuoli di Fraate stavano in Roma da
qualche tempo, mandati colà per ostaggi della sua fede dal padre.
Aveano chiesto i Parti per loro re ad Augusto _Orode_, uno de'
figliuoli di Fraate; ma ottenutolo, fra poco l'uccisero. Richiesero
poscia un altro d'essi figliuoli, cioè _Venone_; e questi andò a
prendere il possesso di quella corona, per restare anche egli dopo
alcuni anni vittima del furore di quella barbara nazione. Ma non è
certo, se all'anno presente appartenga l'andata di esso _Venone_ colà.
Abbiamo varii regolamenti fatti da Augusto in questo anno[26].
Difficilmente s'inducevano allora i nobili a lasciar entrare nel
collegio delle vergini Vestali le lor figliuole, perchè presso i
Gentili non era in pregio, anzi era in dispregio il celibato; nè
mancavano disordini succeduti fra le stesse Vestali. Necessario fu un
decreto, per cui fosse lecito alle fanciulle discendenti da liberti di
entrarvi. Molte di queste si presentarono e furono elette a sorte; ma
niuna d'esse vi entrò. Lamentavasi anche la milizia romana della
tenuità della paga. Augusto, per animare i soldati a sostenere il peso
della guerra, e molto più per conciliarsi l'affetto loro, siccome
preventivamente accennai, volle che si accrescesse lo stipendio tanto
alle legioni mantenute in varii siti dell'imperio, quanto ai
pretoriani destinati a far la guardia dell'imperadore e del palazzo
pubblico. Colla sua propria borsa supplì egli per ora, e nell'anno
prossimo vi provvide con un altro ripiego. Dione ci dà il registro di
tutta la fanteria e cavalleria che allora continuamente era mantenuta
in piedi dalla repubblica romana; e questa andò poi crescendo e
calando, secondo la diversità de' bisogni, o pur della pubblica
felicità. Il pagamento allora de' soldati era ben superiore a quel
d'oggidì.

NOTE:

[22] Fabrettus, Inscription., pag. 703.

[23] Patinus, Famil. Roman.

[24] Vellejus, lib. 2.

[25] Sveton., in Tiber., cap. 16. Joseph., Antiq. Judaic., lib. 18.

[26] Dio, Histor. lib. 15.




    Anno di CRISTO VI. Indizione IX.

    CESARE AUGUSTO imper. 50.

_Consoli_

MARCO EMILIO LEPIDO e LUCIO ARRUNTIO.


Il Panvinio ed altri hanno scritto, che a questi consoli ne furono
sostituiti nel dì primo di luglio due altri cioè _Cajo Ateio Capitone_
e _Cajo Vibio Capitone_. Ma non è certo il fatto. Essendo mancante la
iscrizione rapportata da esso Panvinio, può restar sospetto che tai
consoli appartengano ad un altro anno. Vedemmo accresciute da Augusto
le paghe ai soldati[27]. Per soddisfare a tali spese, per le quali non
era bastante il privato erario d'Augusto, e nè pure il pubblico, si
pensò a mettere un nuovo aggravio. Fu dato ordine a tutti i senatori
di esporre il loro parere in iscritto. In ultimo col fingerne uno già
meditato da Giulio Cesare, si decretò che da lì innanzi si pagasse la
vigesima parte delle eredità e dei legali, eccettuate quelle che
pervenivano a' figliuoli ed altri stretti parenti, e quelle de'
poveri. Sebbene può dubitarsi, se tale eccezione venisse dipoi
mantenuta da lutti i susseguenti imperadori: certo è, che questo
pesante aggravio rincrebbe assaissimo al popolo romano, e, secondo
l'uso delle cose umane, se fu facile l'introdurlo, riuscì poi
difficilissimo il levarlo. E però nelle antiche iscrizioni s'incontra
talvolta l'uffizio di chi era impiegato in raccogliere questo tributo.
Ai lamenti del popolo se ne aggiunsero dei più gravi nell'anno
presente per cagione d'una fiera carestia che afflisse la città di
Roma[28]. Oltre ad altre provvisioni e spese fatte da Augusto in aiuto
de' cittadini poveri, fu preso lo spediente di cacciar fuori di città
i gladiatori e gli schiavi condotti per esser venduti, e la maggior
parte de' forestieri: la qual somma di persone ascese a più di
ottantamila. Finita poi quella angustia, cadde in pensiero ad Augusto
di abolir l'uso introdotto del frumento, che dai granai del pubblico
si donava alla plebe, e di cui talvolta erano partecipi dugento e più
mila persone, parendo a lui, che per cagione di questa liberalità si
trascurasse l'agricoltura. Non mutò poi questo uso, perchè pericoloso
sarebbe stato anche il solo tentarlo; ma attese ben da lì innanzi a
far più coltivar le campagne, e volea nota di tutti gli aratori, non
meno che di tutti i negozianti e del popolo. Più frequenti divennero
in questi tempi gli incendii in Roma, originati forse da chi cercava
coi rubamenti di sovvenire alla fame. Stabilì pertanto il provvido
Augusto sette corpi di guardia, chiamati i Vigili, che la notte
battessero la pattuglia: impiego, che egli pensava di abolire in
breve; ma ritrovato utile, anzi necessario, fu dipoi continuato anche
sotto gli altri imperadori.

Diversi guai parimente si provarono nelle provincie del romano imperio
in quest'anno per le sedizioni e ribellioni dei popoli[29]. In
Sardegna, nell'Isauria e nella Getulia dell'Africa, ebbero delle
faccende i soldati romani, per tenere in freno quelle barbare genti.
Seguitò la guerra in Germania. Tiberio Cesare era ivi generale
dell'armata romana. Ma per attestato di Dione niuna rilevante impresa
vi fece, quantunque sì Augusto ch'egli prendessero, il primo, il
titolo d'imperadore per la quindicesima volta, ed il secondo per la
quarta volta: il che solo succedea, dappoichè s'era riportata qualche
vittoria. Potrebbe essere che i prosperosi successi delle armi romane
in Germania nell'anno precedente guadagnassero loro questo
accrescimento di lustro nel presente. Secondo Vellejo[30], s'era messo
Tiberio in procinto di procedere contro de' Marcomanni, gente per
numero e per bravura fin qui formidabile, e non mai vinta. Meroboduo,
re loro, alla potenza sapea unire la disciplina militare, e mandando
ambasciatori ai Romani, talora parlava da supplicante, talora da
eguale. Stendevasi il suo dominio non solamente per la Boemia, ma
molto più in là fino ai confini della Pannonia e del Norico, provincie
romane, di modo che poco più di dugento miglia era egli lungi
dall'Italia. Ma sul più bello de' suoi preparamenti contra di
Meroboduo, Tiberio intese che la Pannonia (oggidì Ungheria) e la
Dalmazia, per cagion dei tribuni ribellate, tal copia d'armati avevano
messo in piedi, che il terrore ne giunse a Roma stessa; giacchè que'
popoli, essendo in concordia coi Triestini, minacciavano di voler in
breve calare in Italia. Allora fu che Tiberio trattò e conchiuse, come
potè il meglio, la pace coi Germani, per accudire a questo incendio,
più importante di gran lunga dell'altro a cagione della maggior
vicinanza al cuore dell'imperio. Velleio fa conto, che fossero in armi
dugentomila fanti, e novemila cavalli di que' ribelli. Aveano
trucidato o carcerati i soldati, i cittadini e i mercatanti romani, e
già messa a ferro e fuoco la Macedonia. Gran commozione per questo fu
in Roma. I paurosi si figuravano che in dieci giornate veder si
potesse intorno a Roma il campo di quei sollevati. Perciò a furia si
arrolarono nuovi soldati, e Vellejo Patercolo fu incaricato di
condurre a Tiberio questi rinforzi. Una sì grossa armata di fanteria e
cavalleria si unì, che Tiberio fu costretto a licenziarne una parte.
Marciò egli contro i ribelli della Pannonia; presi i passi, li
ristrinse ed affamò. In somma li ridusse a tale, che molti di essi,
presso il fiume Batino, vennero a deporre l'armi, e a sottomettersi.
Dicono che il lor generale Batone o fu preso, o venne anch'egli
spontaneamente all'ubbidienza; e pure nell'anno seguente egli si trova
coll'altro Batone dalmatino in armi contro i Romani. Voltossi dipoi
Tiberio contro i ribelli dalmatini, alla testa dei quali era l'altro
Batone. Valerio Messalino, governatore di quella provincia, più di una
volta si azzuffò con loro, ora vincitore ed ora vinto. Tutto il
guadagno dei Romani si ridusse a frastornar i disegni fatti dai nemici
per passare in Italia, ma senza poter impedire ch'essi non dessero il
guasto ad un gran tratto di paese finchè arrivò il verno, che mise
fine alle azioni militari.

Dacchè mancò di vita nell'anno 41 d'Augusto _Erode il grande_, re
della Giudea[31], _Archelao_ suo figliuolo s'affrettò pel suo viaggio
a Roma, affin di succedere nel regno del padre in competenza di
_Antipa_ e degli altri suoi fratelli e parenti. Ottenne egli da
Augusto, non già il titolo di re, ma il solo di etnarca col dominio
della metà degli Stati del padre, consistente nella Giudea, Idumea e
Samaria. Per conseguente egli cominciò a dominare in Gerusalemme. Gli
avea promesso Augusto il titolo di re, qualora colle sue virtuose
azioni se ne facesse conoscere degno. Contrario all'espettazione, anzi
tirannico fu il di lui governo, di maniera che nell'anno presente i
primati della Giudea e di Samaria spedirono gravissime accuse contra
di lui ad Augusto[32]. Citato a Roma Archelao, e convinto de' suoi
reati, n'ebbe per gastigo la relegazione in Vienna del Delfinato, e la
perdita de' suoi patrimoni e tesori, che furono presi dal fisco. Ed
allora fu che la Giudea, l'Idumea e la Samaria furono ridotte alla
forma delle provincie del romano imperio, ed unite alla Siria o sia
alla Soria, e cominciarono ad essere governate dagli ufiziali
dell'imperadore: cosa dianzi desiderata dagli stessi Giudei, perchè
troppo aggravati dai propri re, speravano essi miglior trattamento dai
ministri imperiali. Così cessò lo scettro di Giuda, siccome avea
predetto Giacobbe[33], nella venuta del divino Salvatore del mondo. Il
padre Pagi mette all'anno seguente la caduta di Archelao. Dione ne
parla sotto il presente.

NOTE:

[27] Dio, lib. 55.

[28] Sveton., in August., cap. 42.

[29] Dio, Histor., lib. 55.

[30] Vellejus, lib. 2.

[31] Joseph., Antiq. Judaic., lib. 17.

[32] Dio, lib. 55. Strabo, lib. 16.

[33] Genes., cap. 49, v. 10.




    Anno di CRISTO VII. Indizione X.

    CESARE AUGUSTO imper. 51.

_Consoli_

AULIO LICINIO NERVA SILIANO e QUINTO CECILIO METELLO CRETICO SILANO.


Che il secondo di questi consoli usasse il cognome di _Silano_,
l'hanno dedotto gli eruditi dal trovarsi _Cretico Silano_ proconsole
della Siria nell'anno di Cristo 16. Se ciò sussista, nol so. Da un
antico marmo ancora ricavarono il Sigonio e il Panvinio che nelle
calende di luglio ai suddetti consoli ne furono sostituiti due altri,
cioè _Publio Cornelio Lentulo Scipione e Tito Quinzio Crispino
Valeriano_. Procedeva assai lentamente la guerra nella Dalmazia e
Pannonia, ed andavano a terminar tutte le prodezze dell'una e
dell'altra parte in saccheggi ed incendii[34]. Niuna cosa stava più a
cuore di Tiberio che il non esporre a rischio i suoi soldati,
parendogli troppo cara anche una vittoria, quando si avesse a comperar
colla vita di molti de' suoi. Ma non piaceva ad Augusto una sì melensa
maniera di guerreggiare; e dubitando egli che Tiberio non si curasse
di finir que' romori, per poter più lungamente godere del comando
dell'armi: mandò colà con un copioso rinforzo di genti _Germanico
Cesare_, nipote d'esso Tiberio, e figliuolo di lui per adozione,
giovane amatissimo dai soldati per la memoria del valoroso suo padre
Claudio Druso. Non vi spedì _Agrippa Cesare_, figliuolo di Giulia sua
figlia, perchè, siccome accennai, trovatolo di sregolati costumi, in
quest'anno il relegò nell'isola Pianosa vicina alla Corsica. Le
imprese fatte da Tiberio e Germanico in questa campagna furono di poca
conseguenza. Vero è che i due Batoni, iti ad assalire gli
alloggiamenti romani, furono con loro perdita respinti, e che
Germanico recò dei gravi danni ai Mazei e ad altri popoli della
Dalmazia; ma altro ci volea che questa, per ridurre al dovere quelle
feroci nazioni. Anche Marco Lepido, tenente generale di Tiberio,
s'acquistò grande onore, e meritò gli ornamenti trionfali, per essere
venuto ad unirsi con lui, aver tagliati a pezzi molti dei nemici che
se gli opposero nel viaggio, ed aver dato il sacco ad un gran tratto
del loro paese.

Era stato inviato da Augusto per governatore nella Siria nell'anno
precedente _Publio Sulpicio Quirinio_, personaggio illustre, e stato
console nell'anno dodicesimo prima dell'Era volgare. Perchè la Giudea
ridotta in provincia romana, per la caduta di Archelao di sopra
accennata, dipendeva allora dalla Siria, Quirinio ebbe ordine di
portarsi colà, per confiscare i beni d'esso Archelao, e per fare il
censo, o sia la descrizion delle persone abitanti nella Giudea, e
l'estimo delle facoltà d'ognuno[35]. V'andò egli nell'anno presente,
ed eseguì puntualmente il suo impiego, ma non senza assaissimi lamenti
de' Giudei, a' quali parea una specie di schiavitù una tal novità. Nè
mancarono sedizioni in quel popolo, e copiosi ammazzamenti e saccheggi
per questo. Il suddetto Quirinio altri non fu che quel medesimo che in
san Luca[36] vien appellato _Cirino_, ed ebbe l'incumbenza di fare il
censo nella Giudea allorchè venne alla luce del mondo Cristo Signor
nostro. Indubitata cosa è che non può parlare il santo Evangelista del
censo fatto in quest'anno da Quirinio, essendo nato il Signore, quando
anche era vivente Erode il grande; ed avendo noi già accennato ch'esso
Erode diede fine alla sua vita nell'anno 41 d'Augusto, cioè quattro
anni prima dell'Era cristiana, per conseguente si dee ammettere un
altro censo anteriormente fatto nella Giudea dal medesimo Quirinio. Ed
ancorchè niun vestigio di ciò si trovi presso gli antichi storici
profani, pure è bastante l'autorità dell'Evangelista per istabilirne
la verità. E tanto più dicendo egli che: _Haec descriptio prima facta
est a praeside Cyrino_. Imperciocchè quel _prima_ acconciamente fa
dedurre, chiamarsi così quella descrizione, per distinguerla
dall'altra, fatta nell'anno presente. In qual anno poi precisamente
seguisse la prima delle suddette descrizioni, cioè se cinque, o sei, o
sette, o più anni prima dell'Era cristiana, non s'è potuto chiarire
finora.

NOTE:

[34] Dio, lib. 55. Vellejus, lib. 3.

[35] Joseph., Antiq., lib. 17.

[36] S. Lucas, in Evang., cap. 2.




    Anno di CRISTO VIII. Indizione XI.

    CESARE AUGUSTO imper. 52.

_Consoli_

MARCO FURIO CAMILLO e SESTO NONIO QUINTILIANO.


A questi consoli ordinari, nelle calende di luglio furono surrogati
_Lucio Apronio_ ed _Aulo Vibio Habito_. Trovavansi[37] già i ribellati
popoli della Pannonia e Dalmazia in grandi strettezze, perchè
penuriavano cotanto di viveri, che si erano ridotti a mangiar
dell'erbe. Sopravvenne ancora un'epidemia che, mietendo le vite di
molti, li ridusse ad un infelicissimo stato, in guisa che già erano i
più determinati di chiedere la pace; ma perchè s'opponevano a tal
risoluzione coloro che mostravano di credere inesorabili i Romani,
niuno osava di mandare ambasciatori al campo nemico. Assediò in questi
tempi Germanico una forte città, e la costrinse alla resa. Questo
colpo fu cagione che, senza più stare in bilancio, Batone, capo dei
Dalmatini ribelli, munito di salvocondotto, venne ad abboccarsi con
Tiberio per trattar di pace. Gli dimandò Tiberio i motivi della già
fatta e tanto sostenuta ribellione. «Ne siete in colpa voi altri
Romani, animosamente allora rispose Batone, perchè a custodir le
vostre gregge avete inviato non dei pastori e dei cani, ma sì bene dei
lupi:» chè non erano già allora cose pellegrine le violenze ed
ingiustizie degli uffiziali romani, per le quali anche altri popoli
cercarono di scuotere il giogo. Augusto intanto trovandosi inquieto
per questa guerra, la quale, per attestato di Svetonio[38], fu creduta
la più grave e pericolosa che, dopo quelle de' Cartaginesi, avesse
patito il popolo romano; e volendo egli essere più alla portata di
udirne le nuove, e di provvedere ai bisogni, era venuto nell'anno
precedente, o pure nel corrente, a Rimini. Approvò egli le
proposizioni della pace; e, in questa maniera, parte colla forza,
parte coll'uso della clemenza, que' popoli tornarono all'ubbidienza
primiera. Niun altro rilevante avvenimento ci porge sotto quest'anno
la Storia romana.

NOTE:

[37] Dio, lib. 55.

[38] Sueton., in Tiber., cap. 16.




    Anno di CRISTO IX. Indizione XII.

    CESARE AUGUSTO imper. 53.

_Consoli_

CAJO POMPEO SABINO e QUINTO SULPICIO CAMERINO.


Furono sostituiti ai suddetti consoli nelle calende di luglio _Marco
Papio Mutilo_ e _Quinto Popeo Secondo_, chiamato da alcuni
_Secondino_; ma più sicuro è il primo cognome. Dopo aver pacificata la
Pannonia e la Dalmazia, glorioso se ne tornò a Roma Tiberio
Cesare[39]. Augusto gli venne incontro fuori della città; il fece
entrare in Roma con corona d'alloro in capo; e in un palco, dove
amendue si misero a sedere in mezzo ai consoli, coi senatori in piedi,
mostrò al popolo questo suo vittorioso figliuolo. Furono in onor suo
celebrati alcuni spettacoli. In questi tempi Augusto, raunati i
cavalieri romani e trovato che in minor numero erano gli ammogliati
che gli altri, pubblicamente lodò i primi, biasimò i secondi. Dione
rapporta la di lui allocuzione, in cui egli mostrò appartenere non
meno al privato che al pubblico bene che tutti avessero moglie, e si
studiassero di mettere figliuoli al mondo, per mantenere le nobili
famiglie romane, e sostenere il decoro della repubblica, massimamente
ne' bisogni delle guerre, con inveire gagliardamente contra di tanti,
i quali non già per amore del celibato, ma per avere più libertà allo
sfogo della lor libidine, fuggivano il prender moglie. Pertanto in
vigore della legge Papia Poppea concedette varii privilegi a chi
avesse o prendesse moglie, e pene a chi dentro un convenevol termine
non si ammogliasse. Ed affinchè niuno si prevalesse dell'esempio delle
Vestali, le quali pure nel loro stato erano sì accreditate, disse, che
quando volessero imitarle, bisognava ancora che si contentassero
d'essere puniti al pari di quelle vergini, qualora contravvenissero
alle leggi della continenza. Fu poi sotto Tiberio mitigata questa
legge.

Poca durata ebbe la pace della Dalmazia[40]. Quel Batone, capo de'
Pannonii, che dianzi avea mossi alla ribellione anche i Dalmatini,
dopo aver preso ed ucciso l'altro Batone, tornò a cozzar coi Romani.
Vollero questi prendere la città di Retino, ma per uno stratagemma dei
sollevati ne riportarono una mala percossa. S'impadronirono bensì i
Romani di alcuni luoghi; ma perchè apparenza non v'era di poter così
presto terminar quella guerra, e Roma per quest'imbroglio scarseggiava
di viveri, Augusto tornò di bel nuovo ad inviar colà Tiberio con un
possente esercito. Nulla più bramavano i soldati, che di venire ad una
giornata campale. Tiberio, che non voleva espor le genti all'azzardo,
e temeva di qualche sollevazione, divise in tre corpi l'armata,
dandone l'uno a Silano (o sia Siliano), l'altro a Lepido, e ritenendo
il terzo per sè e per Germanico suo nipote. I due primi fecero
valorosamente tornare al suo dovere il paese loro assegnato. Tiberio
marciò contro Batone, ed essendosi costui salvato in un castello
inespugnabile per la sua situazione, perchè fabbricato sopra alto
sasso, e circondato da precipizii, non si scorgeva maniera di poter
espugnare quella fortezza. Anderio era il suo nome. Furono sì arditi i
Romani, che cominciarono ad arrampicarsi per que' dirupi, e al
dispetto de' sassi rotolati all'ingiù, giunsero a mettere in fuga
parte dei difensori ch'erano usciti fuori a battaglia. Per questo
successo atterriti i restati nella rocca, dimandarono ed ottennero
capitolazione. Britannico anche egli forzò Arduba ed altre castella
alla resa. Disperato perciò Batone il Pannonico, altro scampo non
ebbe, che ricorrere alla misericordia di Tiberio. Gli fu permesso di
venire al campo, e concessogli il perdono, si rinnovò ed assodò meglio
che prima la pace. Volò Germanico a Roma, a portarne la lieta nuova.
Tiberio gli tenne dietro, ed incontrato da Augusto ne' borghi di Roma,
fece la sua entrata nella città con molta magnificenza. A Germanico
furono accordate le insegne trionfali nella Pannonia; a Tiberio il
trionfo e due archi trionfali nella Pannonia, con altri privilegii ed
onori; ma del trionfo non potè egli godere, perchè poco stette Roma a
trovarsi in gran lutto per una sempre memoranda sventura accaduta
all'armi romane in Germania, di cui furono portate le funeste nuove
cinque soli giorni dopo l'arrivo di Tiberio.

Siccome accennai di sopra, al governo della Siria, o vogliam dire
della Soria, era stato inviato Quintilio Varo; di là poi venne in
Germania per generale delle legioni che quivi continuamente
dimoravano, per tener in dovere i popoli sudditi, ed in freno i non
sudditi[41]. Tacito scrive essere state otto le legioni che si
mantenevano dai Romani al Reno. Pare che Vellejo[42] ne nomini
solamente cinque. Solevano in que' tempi essere composte le legioni di
seimila fanti l'una, ed alcune d'esse avevano la giunta di qualche
poco di cavalleria. Il nerbo principale delle armate romane era allora
la fanteria. Varo, che povero entrò già nella Siria ricca, e nel
partirsene ricco, lasciò lei povera, si credette di poter fare il
medesimo giuoco in Germania. Cominciò a trattar que' popoli, come se
fossero una specie di schiavi, con abolir le loro consuetudini,
esigerne a diritto e a rovescio danari, e volere ridurli a quella
total sommessione e maniera di vivere, che si usava fra i Romani.
Diede motivo questo suo governo a molti di tramare una congiura.
_Arminio_, figliuolo o pur fratello di Segimero, giovane prode e de'
principali di quelle contrade, già ammesso alla cittadinanza di Roma e
all'ordine equestre, quegli era che più degli altri animava i suoi
nazionali a ricuperar l'antica libertà. Quanto più crescevano i loro
odii, e si preparavano a far vendetta, tanto più fingevano sommessione
ai comandanti, amore e confidenza alla persona di Varo, in guisa tale,
che l'avviso dato da più di uno che si macchinava una congiura contra
de' Romani, da lui fu creduto una baia, nè precauzione alcuna si
prese. Ora essendosi per concerto fatto fra loro mossi all'armi alcuni
de' lontani Tedeschi, Quintilio Varo, messa insieme un'armata di tre
legioni, d'altrettante ale di cavalleria, e di sei coorti ausiliarie,
che forse ascendevano alla somma almeno di ventiduemila combattenti,
la più brava ed agguerrita gente che avesse allora l'imperio romano,
si mise in viaggio con grossissimo bagaglio, per opporsi ai tentativi
de' nemici. Arminio e Segimero suo padre, restati indietro col
pretesto di raunar le lor genti in aiuto di Varo, allorchè i Romani si
trovarono sfilati e disordinati per selve e strade disastrose,
all'improvviso dalla parte superiore furono loro addosso, e
cominciarono a farne macello. Per tre giorni durò il conflitto
miserabile per i Romani, che non trovando mai sito in quelle montagne
da potersi unire, schierare e difendere, rimasero quasi tutti vittima
del furore germanico. _Varo_, e i principali dell'esercito, dopo aver
riportate molte ferite, per non venire in mano dei nemici, da sè
stessi si diedero la morte. Tutto il carriaggio, e le insegne romane
restarono in poter de' Germani. Per attestato di Tacito, il luogo di
questa tragedia fu il bosco di Teutoburgo, oggidì creduto Dietmelle
nel contado di Lippa, vicino a Paderbona ed al fiume Wessen, nella
Westfalia.

Portata questa lagrimevol nuova a Roma, incredibile fu il cordoglio
d'ognuno, non minore il terrore per paura[43] che i Germani
meditassero imprese più grandi, e pensassero a passare il Reno, o a
volgersi ancora coi Galli verso l'Italia. Più degli altri se ne
afflisse Augusto per la morte di sì valorose truppe, per la perdita
delle aquile romane e per la cattiva condotta di Varo, uomo male
adoperato negli affari di pace, e peggio in quei della guerra. Perciò
per più mesi non si fece tosare il capo, nè tagliare la barba; e andò
sì innanzi il suo affanno, che dava della testa per le porte, e
gridava da forsennato, che Varo gli restituisse le sue legioni. A sì
fatti colpi non erano avvezzi i Romani, e dopo la sconfitta di Publio
Crasso in Asia non aveano provata una calamità simile a questa. Si
rincorò poscia Augusto al sopraggiugnere susseguenti avvisi d'essere
la Gallia quieta, e di non avere i Germani osato di passare il Reno,
per l'esatta guardia delle altre legioni ch'erano salve in quelle
parti, e per la buona cura di Publio Asprenate, generale di due
legioni al Reno, il quale seppe anche approfittarsi non poco delle
eredità de' soldati uccisi. Perchè in Roma la gioventù atta all'armi
non si voleva arrolare, adoperò Augusto la forza, tanto che tra essi e
i veterani, che premiati tornarono all'armi e i libertini, compose un
bel corpo d'armata, per inviarlo in Germania. L'anno fu questo, in cui
il poeta _Ovidio_ in età di cinquanta anni, per ordine d'Augusto andò
a far penitenza de' suoi falli, relegato in Tomi città della Scizia,
oggidì Tartaria, nel Ponto. Perchè egli si tirasse addosso questo
gastigo, non ben si seppe, ed ora almeno non si sa. Dall'aver detto
Apollinare Sidonio, ch'egli amoreggiava una fanciulla cesarea, hanno
alcuni creduto qualche suo imbroglio con Giulia figliuola d'Augusto:
il che non è probabile, perchè molti anni prima questa impudica
principessa era stata relegata dal padre, e gastigati i suoi drudi.
Potrebbe piuttosto cadere il sospetto in Giulia figliuola della
suddetta Giulia, che non la cedette alla madre nella cattiva fama.
Altri ha tenuto che il suo libro dell'Arte di amare, siccome opera
scandalosa, fosse cagion delle sue sciagure. La sua relegazione è
certa; il perchè, difficil è l'accertarlo.

NOTE:

[39] Idem, ibid., cap. 17. Dio, lib. 56.

[40] Vellejus, lib. 2.

[41] Tacitus, Annal., lib. 1.

[42] Vellejus, lib. 2. Dio, lib. 56.

[43] Sueton., in August., cap. 23.




    Anno di CRISTO X. Indizione XIII.

    CESARE AUGUSTO imper. 54.

_Consoli_

PUBLIO CORNELIO DOLABELLA e CAJO GIUNIO SILANO.


Si trova sostituito all'uno di questi consoli nelle calende di luglio
_Servio Cornelio Lentulo Maluginense_. Credono i padri Petavio e
Pagio, che Tiberio Cesare, in quest'anno, dedicasse il tempio della
Concordia in Roma, ricavando tal notizia da Dione[44]. Ne parla
veramente questo istorico, ma dopo aver detto che Tiberio fu inviato
in Germania; e però tal dedicazione appartiene piuttosto ad un altro
anno. È mancante, a mio credere, in questi tempi, come in tanti altri,
la storia d'esso Dione. Vellejo anch'egli, perchè prometteva una
storia a parte dei fatti di Tiberio, con due pennellate qui si sbriga:
laonde poco si sa in questo e nel seguente anno della Storia romana.
Quel che è certo, unito ch'ebbe Augusto quanto potè levar di gente in
Roma, spedì con tali milizie, nella Gallia _Tiberio Cesare_. Ciò
avvenne, secondo Svetonio[45], nell'anno presente. Seco probabilmente
andò anche il nipote _Germanico_, perchè Dione sotto il seguente anno
scrive che unitamente fecero guerra alla Germania. Le imprese di
Tiberio in essa guerra o non son giunte a noi, o piuttosto non
meritarono d'essere scritte, perchè di poco momento. Vellejo
unicamente ci fa sapere[46] che Tiberio, ben disposte le guarnigioni
della Gallia, passò il Reno coll'esercito romano. Non altro si
aspettava Augusto e Roma da lui, se non che impedisse ad Arminio i
progressi, sul timore che costui pensasse a molestare l'Italia. Ma
Tiberio fece di più. Entrò nella parte nemica della Germania, mettendo
a sacco e fuoco il paese, e in fuga chiunque ebbe ardire di
contrastargli il passo: il che gran terrore diede ad Arminio. Così
quello storico, gran panegirista, anzi adulator di Tiberio. Con queste
poche parole Vellejo manda ai quartieri il romano esercito nell'anno
presente. Potrebbono nondimeno appartenere all'anno seguente questi
pochi fatti, confrontati colla narrativa di Dione. Secondo
l'Usserio[47], a questo anno si dee riferire la morte di Salome
sorella del fu re Erode. Essa era padrona del principato di Jamnia, in
cui esistevano due bellissime ville, abbondanti di palme, che
producevano frutti squisiti. Di tutto lasciò erede Livia moglie
d'Augusto, donna che mieteva da per tutto, e con facilità, perchè
essendo conosciuta di gran possanza presso il marito, ognun si
procacciava la grazia di lei.

NOTE:

[44] Dio, lib. 56.

[45] Sueton., in Tib., c. 18.

[46] Vellejus, lib. 2.

[47] Usserius, in Annalib.




    Anno di CRISTO XI. Indizione XIV.

    CESARE AUGUSTO imper. 55.

_Consoli_

MANIO EMILIO LEPIDO e TITO STATILIO TAURO.


Ad alcuni non par certo il prenome di _Manio_ nel primo di questi
consoli. _Numio_ è da essi creduto piuttosto. _Marco_ fu appellato da
altri. Un'iscrizione legittima potrebbe decidere questa poco
importante quistione. Ad Emilio Lepido fu sostituito nelle calende di
luglio _Lucio Cassio Longino_. Sotto questi consoli, narra Dione, che
_Tiberio_ e _Germanico_ con autorità proconsolare fecero un'irruzione
nella Germania, misero a sacco un tratto di quel paese; ma niuna
battaglia diedero, perchè niuno si opponeva; nè sottomisero alcun di
que' popoli, perchè, ammaestrati dalle disgrazie di Varo, non volevano
esporsi a pericolosi cimenti. Svetonio, benchè poco d'accordo con
Dione, anch'egli attesta[48] che Tiberio (avvezzo per altro a far di
sua testa le risoluzioni) nulla intraprese in questa spedizione senza
il parere de' suoi primari uffiziali. Aggiugne, aver egli osservata
una rigorosa disciplina nell'esercito; e che sebben egli non amava di
azzardar la fortuna ne' combattimenti, pure non avea difficoltà a
combattere, se nella precedente notte all'improvviso si fosse smorzata
da sè stessa la sua lucerna, benchè vi fosse dell'olio; perchè dicea
d'aver egli e i suoi maggiori trovato sempre questo un segno di buona
fortuna; tanto si lasciavano gli antichi pagani travolgere il capo da
tali inezie. Ma riportata vittoria un dì, poco mancò che un di que'
barbari non l'uccidesse, siccom'egli confessò di poi ne' tormenti di
aver meditato. Dovette ancora succedere in quest'anno ciò che narra
Vellejo Patercolo[49], cioè che essendo insorto un fiero tumulto e
dissensione della plebe in Vienna del Delfinato, città allora
floridissima, accorse colà Tiberio; e senza adoperar le scuri, quietò
quella pericolosa commozione. Sappiamo inoltre da Dione, che dopo
l'incursione fatta nella Germania, Tiberio e Germanico si ritirarono
al Reno, e quivi stettero sino all'autunno: nel qual tempo fecero
giuochi pubblici in onore del natale d'Augusto, e similmente un
combattimento di cavalleria. Poscia verso il fine dell'anno se ne
tornarono in Italia.

Intanto Augusto mise in Roma un po' di freno alla astrologia
giudiciaria, ch'era e fu anche da lì innanzi in gran voga in quella
città, proibendo di predire la morte d'alcuno, benchè egli per sè niun
pensiero si mettesse della vanità di quest'arte, ed avesse lasciato
correre in pubblico l'oroscopo suo. Vietò ancora per tutte le
provincie, che nulla più del consueto onore si facesse ai governatori
ed altri ministri pubblici, durante il loro impiego, nè per due mesi
dopo la loro partenza, imperciocchè per ottener simili dimostrazioni,
si commettevano molte iniquità. Ora qui insorge fra gli eruditi una
gran contesa, cioè in qual anno fosse Tiberio dichiarato _Collega
nell'Imperio_, cioè ornato di quella stessa podestà tribunizia e
proconsolare, che godeva lo stesso Augusto. In vigore dell'ultima era
conceduto il comando di tutte le armate fuori di Roma colla stessa
balìa che godevano i consoli. Da questo principio si pensano alcuni
letterati di poter dedurre l'anno quindicesimo di Tiberio, enunziato
da s. Luca. Non è facile la decision della quistione, perchè gli
stessi antichi istorici son fra loro discordi, non già nell'assegnare
il giorno, credendosi fatta tal dichiarazione dal senato nel dì 28 di
agosto, ma bensì quanto all'anno. Svetonio scrive[50] che, essendo
ritornato Tiberio dalla Germania _dopo due anni_ a Roma, per decreto
del senato gli fu conceduto di amministrar le provincie comunemente
con Angusto. Ma la autorità di Vellejo Patercolo merita ben di essere
preferita a quelle di Svetonio per aver egli scritto le avventure de'
suoi tempi; e militato allora sotto lo stesso Tiberio, laddove
Svetonio visse e scrisse cento anni dipoi. Ora abbiamo da Velleio[51]
che, a requisizione d'Augusto, il senato e popolo romano concedette a
Tiberio l'uguaglianza nella podestà pel governo delle provincie e
delle armate: _Ut aequum ei jus in omnibus provinciis, exercitibusque
esset_. Dopo di che Tiberio se ne tornò a Roma. Adunque piuttosto
all'anno presente si dee riferire l'esser egli divenuto collega
dell'imperio. Anche da Tacito[52] possiam raccogliere la stessa
verità, scrivendo egli, che Tiberio _Collega Imperii, consors
Tribuniciae Potestatis adsumitur, omnesque per exercitus ostentatur_.
Pare che Tacito anticipi di qualche anno questa dignità; ma certamente
fa intendere la medesima a lui conferita, mentr'esso era all'armata, e
non già allorchè fu giunto a Roma. Però assai fondamento abbiamo per
credere che dall'anno presente, a cagione di questo innalzamento di
Tiberio, alcuni cominciassero a numerare gli anni del suo imperio;
sentenza adottata dal padre Pagi e da altri.

NOTE:

[48] Sueton., in Tiber., cap 18.

[49] Vellejus, lib. 3.

[50] Sveton., in Tiber., c. 20 e 21.

[51] Vellejus, lib. 2.

[52] Tacitus, Annal., lib. 1.




    Anno di CRISTO XII. Indizione XV.

    CESARE AUGUSTO imper. 56.

_Consoli_

GERMANICO CESARE e CAIO FONTEJO CAPITONE.

_Tiberio Giulio Germanico Cesare_, nipote e figliuolo per adozione di
Tiberio Cesare, e nipote, a cagion d'essa adozione, di Augusto, pel
merito acquistato nelle guerre della Germania, Pannonia e Dalmazia,
ottenne quest'anno il consolato e inoltre gli ornamenti trionfali[53].
Nelle calende di luglio a _Capitone_ fu sostituito nel consolato _Cajo
Visellio Varrone_. Con esso Germanico venne anche Tiberio[54],
nell'anno presente a Roma. Le guerre sopravvenute gli aveano impedito
il trionfo destinatogli dal senato per le guerre da lui felicemente
terminate nella Pannonia e Dalmazia. Ricevette egli ora quest'onore,
con entrare trionfalmente in Roma. Prima di passare al Campidoglio,
scese dal carro trionfale, e andò ad inginocchiarsi ai piedi
d'Augusto, che con gran festa l'accolse. Seco era Batone, che già
vedemmo capo della sollevazion della Pannonia ed è chiamato re di
quella provincia da Rufo Festo, ma impropriamente. A costui professava
non poca obbligazione Tiberio, perchè nella guerra pannonica
trovandosi egli stretto in un brutto sito, e circondato dai ribelli,
Batone generosamente il lasciò ritirarsi in luogo sicuro. Per
gratitudine Tiberio gli fece de' grandissimi doni, e il mise di stanza
a Ravenna. Seguita a dire Svetonio, aver Tiberio dato un convito al
popolo con mille tavole apparecchiate, ed oltre a ciò un congiario,
cioè un regalo di trenta nummi per testa. Dedicò eziandio il tempio
della Concordia, mettendo nell'iscrizione, come asserisce Dione[55]
d'averlo rifatto egli con Druso suo fratello già defunto. V'ha chi
crede fatta cotal dedicazione nell'anno di Cristo X, e chi nel
precedente IX, tirando ciascuno[56] al suo sentimento le parole di
Dione. Ma dacchè lo stesso Dione confessa che prima di questa
dedicazione Tiberio era passato in Germania, da dove solamente
nell'anno presente ritornò, nè essendo verisimile che in lontananza
egli dedicasse quel tempio; sembra ben da anteporsi l'autorità di
Svetonio che mette quel fatto sotto l'anno presente, che è inoltre
autore più vicino a questi tempi, che non fu Dione. Dedicò parimente
lo stesso Tiberio il tempio di Polluce e di Castore sotto il nome suo
o del fratello Druso, mettendo ivi le spoglie de' popoli soggiogati.

Quantunque Augusto si trovasse in età molto avanzata, e con vacillante
sanità, pure non lasciava di pensare al pubblico bene[57]. Perciò in
quest'anno fece pubblicare una legge contro i Libelli famosi,
ordinando che fossero bruciati, e castigati i loro autori. E perchè
intese che gli esiliati da Roma con gran lusso viveano, e andando qua
e là si ridevano delle delizie di Roma, nè parea loro di essere
gastigati; ordinò che non potessero soggiornare se non nelle isole
distanti dalla terra ferma per cinquanta miglia, a riserva di Coo,
Rodi, Sardegna e Lesbo. Ristrinse ancora i lor comodi e la lor
servitù. Per cagione poi della poca sua sanità mandò a scusarsi coi
senatori, se da lì innanzi non poteva andar a convito con loro,
pregandoli nello stesso tempo di non portarsi più a salutarlo in casa,
come fin qui avevano usato di fare non tanto essi, ma eziandio i
cavalieri ed alcuni della plebe. Finalmente raccomandò Germanico al
senato, ed il senato a Tiberio con una polizza: segno ch'egli si
sentiva già fiacco di forze, e vicino ad abbandonar questa vita. Molti
pubblici giuochi furono fatti nell'anno presente dagl'istrioni e dai
cavalieri nella piazza d'Augusto; e Germanico diede una gran caccia
nel Circo, dove furono uccisi dugento lioni dai gladiatori. Fece
ancora la fabbrica e la dedicazione del portico di Livia, in onore di
Cajo e Lucio Cesari defunti. Abbiamo da Svetonio[58], che in
quest'anno, nel dì 31 di agosto, venne alla luce Caio Caligola, che fu
poi imperadore, figliuolo di esso Germanico Cesare, e di Giulia
Agrippina, nata da Marco Agrippa, e da Giulia figliuola di Augusto.
Chi il fa nato in Treveri, chi in Anzio in Italia. Di poca conseguenza
è questa disputa, perchè egli non diede motivo ad alcun luogo di
gloriarsi della di lui nascita.

NOTE:

[53] Vellejus, lib. 2.

[54] Sueton., in Tiber., c. 20.

[55] Dio, lib. 56.

[56] Petavius, Mediobarbus, Pagius et aliis.

[57] Dio, lib. 56.

[58] Sueton., in Caligul., cap. 8.




    Anno di CRISTO XIII. Indizione I.

    CESARE AUGUSTO imper. 57.

_Consoli_

CAJO SILIO e LUCIO MUNAZIO PLANCO.


Di dieci in dieci anni, o pure di cinque in dieci il saggio Augusto
soleva farsi confermare dal senato e popolo romano l'autorità ch'egli
avea di reggere la repubblica come suo capo, e di comandare le armate,
esercitando la podestà tribunizia e proconsolare. Con questo incenso e
con quest'atto di sommessione, quasi che il suo comandare fosse una
arbitraria concession de' Romani, egli continuava a far da padrone,
tutti a lui servendo, quando egli mostrava d'essere dipendente e servo
d'ognuno. Nè già egli dimandava la conferma di tali prerogative. Il
senato stesso quegli era, che pregava e quasi forzava lui ad accettar
il peso del comando. Non mancavano insinuazioni di così fare: ed anche
senza insinuazioni ciascun desiderava di farsi merito con lui. Si mutò
nel proseguimento dei tempi la sostanza delle cose: tuttavia l'esempio
d'Augusto servì a far continuare l'uso de' quinquennali, decennali,
vicennali e tricennali degl'imperadori romani, solennizzandosi con
gran festa, cioè con giuochi pubblici e sagrifizii, il quinto, il
decimo, vigesimo e trigesimo anno del loro imperio, con ringraziare
gl'iddii della vita loro conceduta, e pregar felicità e lunghezza al
resto del loro vivere, quand'anche erano cattivi. Nello anno
presente[59] fu prorogato da Augusto per altri dieci anni a venire il
governo della repubblica; e benchè egli si mostrasse renitente alla
loro amorevole offerta, pure si sottomise a tali istanze. Prorogò egli
la podestà tribunizia a Tiberio, e a Druso figliuolo d'esso Tiberio
concedette la licenza di chiedere fra tre anni il consolato, anche
senza avere esercitato la pretura. Intanto perchè la inoltrata sua età
e gl'incomodi della salute non gli permettevano più di andare al
senato, se non rarissime volte, dimandò di poter avere venti senatori
per suoi consiglieri (ne tenea quindici negli anni addietro), e fu
fatto un pubblico decreto, che qualunque determinazione ch'egli
facesse da lì innanzi insieme coi suddetti consiglieri e coi consoli
reggenti e disegnati, e coi suoi figliuoli e nipoti, fosse valida,
come se fosse emanata dall'intero senato. In vigore di questo decreto,
anche stando in letto per cagion delle sue indisposizioni, prese molte
risoluzioni opportune al pubblico governo. Sì malcontento era il
popolo romano del poco fa introdotto aggravio della vigesima parte
delle eredità che si pagava all'erario militare pel mantenimento de'
soldati, che si temeva di qualche sedizione in Roma. Scrisse Augusto
al senato che ognuno mettesse in iscritto il suo voto, per trovar
altra via più comoda da ricavar il necessario danaro, acciocchè, se
non si fosse trovata, facesse conoscere che da lui non veniva il male,
vietando a Germanico e a Druso di dire il loro parere, perchè non si
credesse quella essere la mente sua. Vi fu gran dibattimento; e
continuandosi pure a detestar la vigesima, egli mostrò di voler
compartire il peso di quella contribuzione sopra i beni stabili del
popolo. Inviò pertanto qua e là, senza perdere tempo, estimatori delle
case e terre: il che bastò a fare che cadauno, temendo di patir più
danno da questo che da quell'aggravio, si quietò, e restò, come prima,
in piedi la vigesima.

NOTE:

[59] Dio, lib. 56.




    Anno di CRISTO XIV. Indizione II.

    TIBERIO imperadore 1.

_Consoli_

SESTO POMPEO e SESTO APPULEO.


Fece in quest'anno Augusto insieme con Tiberio il censo, o sia la
descrizione de' cittadini romani, abitanti in Roma e per le provincie;
e per attestato della inscrizione ancirana, riferita dal Grutero[60],
se ne trovarono quattro milioni e cento settantasettemila. Eusebio
nella sua cronica[61] fa ascendere essi cittadini a nove milioni e
trecento settantamila persone, forse per error de' copisti, il quale
s'ha da correggere coll'autorità dell'iscrizione suddetta.
Svetonio[62] e Dione[63] attestano, avere Augusto sul fin di sua vita
fatto un compendio delle sue più memorabili azioni, con ordine
d'intagliarlo in varie tavole di bronzo. Se ne conservò in Ancira una
copia. Fu poi spedito Germanico in Germania, perchè non era per anche
cessata in quelle contrade la guerra. Prese Augusto anche la
risoluzion d'inviar Tiberio nell'Illirico, per assodar sempre più la
pace ivi stabilita; e però con esso lui da Roma si incamminò alla
volta di Napoli, invitatovi da quel popolo nell'occasione de' giuochi
insigni che qui ogni cinque anni in onor suo si facevano all'usanza
de' Greci. V'andò, ma portando seco una molesta diarrea, cominciata in
Roma. Dopo avere assistito a quella magnifica funzione, e licenziato
Tiberio, si rimise in viaggio per tornarsene a Roma. Aggravatosi il
suo male, fu forzato a fermarsi in Nola, dove poi placidamente morì
nel dì 19 agosto, cioè nel mese nominato prima sestile, e poscia dal
suo nome Augusto, che tuttavia dura, e in quella medesima stanza, dove
Ottavio suo padre era mancato di vita. Sospetto corse[64], che la
ambiziosa sua moglie Livia, appellata anche Giulia, perchè adottata
per figliuola da esso Augusto con istravaganza non lieve, gli avesse
procurata la morte con dei fichi avvelenati. Imperocchè dicono che in
questi ultimi tempi Augusto, o perchè già conoscesse il mal talento di
Tiberio figliastro suo, o perchè gli paresse più convenevole di
anteporre _Agrippa_, figliuolo di Giulia sua figlia, ad un figliuolo
di sua moglie Livia, avesse cangiata massima intorno alla successione
sua; e che segretamente coll'accompagnamento di pochi si fosse portato
a visitar esso Agrippa, che trovavasi allora relegato nell'isola della
Pianosa, con dargli buone speranze. Avendo Livia penetrato questo
segreto affare, s'affrettò, secondo i suddetti scrittori, ad accelerar
la morte del marito. Ma non par già verisimile, che Augusto sì vecchio
volesse prendersi lo incomodo di arrivar sino alla Pianosa, vicino
alla Corsica, nè potea ciò farsi senza che Livia ed altri nol
venissero a sapere. L'affetto poi dimostrato da Augusto sul fine di
sua vita alla medesima Livia e a Tiberio, il quale richiamato dal suo
viaggio[65] arrivò a tempo di vederlo vivo, e di tenere un lungo
ragionamento con lui, non lascia trasparire segno di affezione di esso
Augusto verso il nipote Agrippa, nè di mal animo contro il figliastro
Tiberio e di sua madre.

Comunque sia, terminò Augusto i suoi giorni in età di quasi
settantasei anni, e di cinquantasette anni e cinque mesi dopo la morte
di Giulio Cesare. Tanto anticamente, quanto ne' due ultimi secoli, si
vide posto sulle bilance de' politici e dei declamatori il merito di
questo imperadore, lacerando gli uni la di lui fama, per avere
oppressa la repubblica romana, e gli altri encomiandolo come uno dei
più gloriosi principi che s'abbia prodotto la terra. La verità si è,
che hanno ragione amendue queste fazioni, considerata la diversità de'
tempi. Non si può negare ne' principii il reato di tirannia e di
crudeltà in Augusto verso la sua patria; ma si dee ancora concedere,
che il proseguimento della sua vita fece scorgere in lui non un
tiranno, ma un principe degno di somma lode pel savio suo governo, per
l'insigne moderazione sua, e per la cura di mantenere ed accrescere la
pubblica felicità. Può anche meritar qualche perdono l'attentato suo.
Trovavasi da molto tempo vacillante e guasta la romana repubblica per
le fazioni e prepotenze, che non occorre qui rammentare[66]. Bisogno
v'era di un'autorità superiore, che rimediasse ai passati disordini, e
non lasciasse pullularne dei nuovi. Però la tranquillità di Roma è
dovuta al medesimo, se vogliamo dire, fallo suo. Nè egli a guisa de'
tiranni tirò a sè tutto quel governo, ma saggiamente seppe fare un
misto di monarchia e di repubblica, quale anche oggidì con lode si
pratica in qualche parte d'Europa. Felice Roma, s'egli avesse potuto
tramandare ai suoi successori, come l'imperio, così anche il suo senno
e il suo amore alla patria. Ma vennero tempi cattivi, ne' quali poi
s'ebbe a dire: _Che Augusto non dovea mai nascere, o non dovea mai
morire_. Il primo per mali da lui fatti a fine di rendersi padrone: il
secondo per l'amorevolezza e saviezza, con cui seppe dipoi governare
la repubblica, e di cui furono privi tanti de' suoi successori, non
principi, ma tiranni. Un gran saggio ancora del merito d'Augusto
furono gli onori a lui compartiti in vita, e più dopo morte. Vi avrà
avuta qualche parte, non vo' negarlo, l'adulazione; ma i più vennero
dalla stima, dall'amore e dalla gratitudine de' popoli che sotto di
lui goderono uno stato cotanto felice. E tali onori arrivarono sino al
sacrilegio[67]. Imperciocchè a lui anche vivente furono, come ad un
Dio, dedicati altari, templi e sacerdoti, e molto più dopo morte. Con
pubblici giuochi ancora e spettacoli si solennizzò dipoi il suo giorno
natalizio, e memoria onorevole si tenne de' benefizii da lui ricevuti.

Tennero Livia e Tiberio occulta per alcuni giorni la morte d'Augusto,
finchè avendo frettolosamente inviato ordine alla Pianosa che fosse
ucciso _Agrippa_, nipote d'esso Augusto, giunse loro la nuova di
essere stato eseguito il barbaro comandamento, mostrando poscia di non
averlo dato alcun d'essi; che questo fu il bel principio del loro
imperio. Allora si pubblicò essere Augusto mancato di vita. Fu portato
con gran solennità il di lui corpo a Roma dai principali magistrati
delle città, e poi da' cavalieri; furongli fatte solenni esequie,
descritte da Dione, con averlo portato al rogo Druso figliuolo di
Tiberio e i senatori. Saltò poi fuori Numerio Attico senatore, il
quale, mentre la pira ardeva, giurò di aver veduta l'anima d'Augusto
volare al cielo[68], come si finse una volta succeduto anche a Romolo,
facendosi credere con tali imposture alla buona gente ch'egli fosse
divenuto un dio o semideo: vana pretensione, continuata ne' tempi
seguenti per altri imperadori. Ciò fatto, si trattò nel senato di
confermare, o, per dir meglio, di concedere a Tiberio Cesare, lasciato
erede da Augusto suo padrigno, tutta l'autorità e gli onori goduti in
addietro dal medesimo Augusto. Era allora Tiberio in età di
cinquantasei anni, volpe fina e impastato di diffidenza, d'umor nero e
di crudeltà; ma che sapeva nascondere il suo cuore meglio d'ogni
altro, ed avea saputo coprire i suoi vizii agli occhi, non già di
tutti, ma forse della maggior parte dei grandi e de' piccoli. Nel
senato non v'era più alcuna di quelle teste forti che potessero
rimettere in piedi la libertà romana; tutto tendeva all'adulazione e
al privato, non al pubblico bene. V'entrava anche la paura, perchè
Tiberio continuò a comandare alle coorti del pretorio e alle armate
romane per le precedenti concessioni; e però niuno osava di alzar un
dito, anzi ognuno gareggiò a conferir la signoria a Tiberio.
All'incontro l'astuto Tiberio, quanto più essi insistevano per
esaltarlo, tanto più facea vista di abborrir quegli onori, e di
desiderare non superiorità, ma uguaglianza co' suoi cittadini,
esagerando la gran difficoltà a reggere sì vasto corpo, e i pericoli
di soccombere sotto il peso. Tutto affine di scandagliar bene gli
animi di ciascun particolare, e far poi vendetta a suo tempo di chi
poco inclinato comparisse verso di lui[69]. Temeva ancora che
_Germanico_ suo nipote, già adottato da lui per figliuolo, tra per
essere allora alla testa dell'armata romana in Germania, e perchè
sommamente amato dal popolo romano e dai soldati, potesse torgli la
mano. Lasciossi dunque pregare gran tempo anche dagl'inginocchiati
senatori, e finalmente senza chiaramente accettar l'impiego[70], o pur
facendo credere di prenderlo, ma per deporlo fra qualche tempo,
cominciò francamente ad esercitare l'autorità imperiale. Qui Vellejo
Patercolo[71] lascia la briglia all'eloquenza sua, per tessere un
panegirico delle azioni di Tiberio sui principii del suo governo. La
pace fiorì da per tutto; andò l'ingiustizia, la prepotenza, la frode a
nascondersi fra i Barbari; si stese la di lui liberalità per le
provincie e città che aveano patito disgrazie. E veramente gran
moderazione mostrò a tutta prima Tiberio, e seguitò a governar da
saggio, finchè visse Germanico, perchè temeva di lui. Nè qui si ferma
Vellejo. Entra ancora a vele gonfie nelle lodi di Elio Sejano, scelto
da Tiberio per suo consigliere e primo ministro. S'egli sel meritasse,
l'andremo osservando nel progresso degli anni.

Certo che in Roma niun tumulto o sedizione accadde per questo
cambiamento di governo; ma non fu così nelle provincie[72]. Le milizie
romane che soggiornavano nella Pannonia, appena udita la morte di
Augusto, si rivoltarono contra di Giulio Bleso lor comandante, che
corse pericolo della vita, facendo esse istanza della lor giubilazione
e d'essere premiate, col minacciar anche di ribellar quella provincia,
e di venirsene a Roma. Fu dunque spedito colà da Tiberio il suo
figliuolo _Druso_ con una man di soldati pretoriani, ed accompagnato
da Sejano, allora prefetto del pretorio. Durò Sejano non poca fatica a
mettere in dovere i sollevati che l'assediarono, e ferirono alcuni
della di lui scorta. Ma finalmente essendosi ritirati e divisi costoro
pe' quartieri; e chiamati sotto altro pretesto ad uno ad uno i più
feroci nella tenda di Druso, dove lasciarono la testa, si quietarono
gli altri, ed ebbe fine quel romore. Più strepitosa e di maggior
pericolo fu la sollevazion de' soldati romani nella Germania, perchè
quivi dimorava il miglior nerbo delle legioni sotto il comando di
_Germanico Cesare_, che si trovava allora nella Gallia a fare il censo
o sia la descrizione dell'anime. Si ammutinò parte di questo esercito
per le stesse cagioni che poco fa accennai. Corse perciò colà
Germanico; e siccome egli era sommamente amato, perchè dotato di
assaissime lodevoli qualità, e il conoscevano per migliore di gran
lunga che Tiberio, vollero crearlo imperadore. Costantissimo egli nel
non volere mancar di fede a Tiberio suo zio che l'avea anche adottato
per figliuolo, allorchè vide di non potere in altra guisa liberarsi
dalle lor furiose istanze, cavò la spada per uccidersi. Quest'atto li
fermò. Finse poi lettere di Tiberio, quasi ch'egli ordinasse in
donativo ad essi soldati il doppio dello stabilito da Augusto; la
promessa di sì fatta liberalità, e l'aver eziandio accordato il ben
servito ai veterani, li placò. Ma il danaro non concorreva, e intanto
giunsero gli ambasciatori di Tiberio, all'arrivo de' quali di nuovo si
sollevarono, e furono vicini a privarli di vita, per timore che
fossero spediti ad annullar quanto avea promesso Germanico. Presero
anche _Agrippina_ di lui moglie, gravida allora, e il piccolo
figliuolo _Cajo_, soprannominato _Caligola_. La costanza di Germanico,
giacchè non poteano conseguire di più, feceli dipoi tornare al loro
dovere. Ed acciocchè stando in ozio non macchinassero altre sedizioni,
Germanico li condusse addosso alle terre nemiche dove impiegarono i
pensieri e le mani per far buon bottino. Certo è, che Germanico se
avesse voluto, sarebbe stato imperatore Augusto; tanto egli avea in
pugno l'affetto di quel potente esercito, e il cuore eziandio del
popolo romano. Ma superior fu all'ambizione la sua virtù.
Cordialissime lettere perciò scrisse a lui e ad Agrippina sua moglie,
Tiberio per ringraziarli[73]: fece anche un bell'encomio di loro nel
senato ed ottenne a Germanico la podestà proconsolare, che forse dovea
essere terminata la dianzi a lui accordata. Tuttavia internamente
continuò più che mai ad odiarli, paventando sempre che in danno
proprio si potesse convertire un dì l'amore professato dalle milizie a
Germanico[74]. Non finì quest'anno, che Giulia, figliuola di Augusto e
moglie di Tiberio, già per gli eccessi della sua impudicizia relegata
in Reggio di Calabria, fu lasciata ovvero fatta morire di stento, se
pur non fu in altra più spedita maniera. Sempronio Gracco bandito
anch'egli, già passava il quattordicesimo anno, da Augusto nell'isola
di Cersina presso l'Africa, in castigo della sua disonesta amicizia
colla suddetta Giulia, fu anch'egli tolto di vita.

NOTE:

[60] Gruter., Thesaur. Inscription., pag. 230.

[61] Euseb., in Chron.

[62] Sueton., in August., cap. ult.

[63] Dio, lib. 56.

[64] Sueton., Tacitus, Dio.

[65] Vellejus, lib. 2.

[66] Tacitus, Annal., lib. 1.

[67] Tacitus, ibidem. Dio, lib. 51. Sueton., in August., c. 59. Philo,
in Legation. ad Cajum.

[68] Sueton., in August., cap. 101. Dio, lib. 56.

[69] Dio, lib. 57.

[70] Sueton., in Tiber., cap. 24.

[71] Vellejus, lib. 2.

[72] Dio, lib. 57. Tacit., lib. 1 Annal., cap. 16 et seq.

[73] Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, c. 56.

[74] Tacito, Annal., lib. 1, c. 57.




    Anno di CRISTO XV. Indizione III.

    TIBERIO imperadore 2.

_Consoli_

DRUSO CESARE figliuolo di TIBERIO e CAIO NORBANO FLACCO.


Fu massimamente in quest'anno un bel vedere, con che attenzione,
moderazione e modestia si applicasse Tiberio al governo[75]. Non volle
che si premettesse al suo nome il titolo d'imperadore. Si adirava con
chi osasse chiamarlo _signore_; e a' soldati permetteva il nominarlo
per _imperadore_: giacchè tal nome, siccome dissi, solamente allora
significava generale d'armata. Il glorioso nome di _Padre della
Patria_ non permise mai che il senato glielo desse, forse perchè
abborriva l'adulazione, ed egli in sua coscienza dovea forse sapere di
non poterlo meritare giammai. E certamente scrivendo una volta al
senato[76] che vilmente pregava di ricevere questo titolo, disse: «Se
per mia disavventura un qualche dì accadesse, che voi dubitaste della
mia buona intenzione e della sincerità dell'affetto che a voi professo
(il che se dovesse avvenire, desidero piuttosto che la morte mia
prevenga la mutazion della vostra opinione), questo titolo di Padre
della patria niente d'onore recherebbe a me, e servirebbe solo di
rimprovero a voi per aver fallato il giudicare di me, e per avere
spropositatamente dato a me un cognome che non mi conveniva.» Benchè
passasse in lui per eredità il titolo d'_Augusto_, pure non l'usava se
non talvolta in iscrivendo ai re; e solamente leggendolo o
ascoltandolo a sè dato, non l'avea a male; e però sovente si trova
nelle iscrizioni e medaglie d'allora. Il nome di _Cesare_ era a lui
famigliare; e talora usò il cognome di _Germanico_, per le vittorie
riportate in Germania, siccome ancor quello di _Principe del Senato_,
cioè di primo fra i senatori. Soleva perciò dire ch'egli era: «Signore
de' propri schiavi, imperadore (cioè generale) dei soldati, e primo
fra gli altri cittadini di Roma.» Per la stessa ragione vietò sulle
prime ad ognuno il fabbricargli dei templi come s'era fatto ad
Augusto; nè volle sacerdoti flamini. Col tempo permise ciò alle città
dell'Asia, ma nol volle permettere a quelle della Spagna e d'altri
paesi. Che se talun desiderava d'innalzargli statue, o di esporre
l'immagine sua, nol potea fare senza di lui licenza; e questa si
concedea, sempre colla condizione che non si mettessero fra i
simulacri degl'iddii, ma solamente per ornamento delle case. Altre
simili distinzioni d'onore rifiutò egli, e soprattutto amava di
comparire popolare; camminando per la città con poco seguito, e senza
voler corteggio servile di gente nobile; onorando non solo i grandi,
ma anche la bassa gente, e tenendo al suo servigio un discreto numero
di schiavi. Nel senato poi e nei giudizii del foro, non si piccava
punto di preminenza, dicendo e lasciando che ogni altro liberamente
dicesse il suo parere: nè si sdegnava se si risolveva in contrario al
suo. Niuna risoluzione prendeva egli mai senza sentire i senatori
consiglieri eletti da lui. Era sollecito in impedire gli aggravi de'
popoli e le estorsioni de' ministri; e ad alcuni governatori che
l'esortavano ad accrescere i tributi, o pure a quel dell'Egitto, che
mandò più danaro di quel che si solea ricavare, rispose: «Che le
pecore s'han da tosare, e non già da levar loro la pelle.» In somma
Tiberio avea testa per esser un ottimo principe e glorioso imperatore;
e pur pessimo riuscì, perchè all'intendimento prevalse di troppo,
siccome vedremo, la maligna sua inclinazione[77]. All'incontro _Livia
Augusta_ sua madre, donna gonfia più d'ogni altra di fasto e di
vanità, facea gran figura in Roma. Nulla avea omesso, fatte avea anche
delle enormità affinchè il figliuolo arrivasse a dominare per
isperanza di continuare a dominar come prima sotto l'ombra di lui. Ma
era ben diverso da quello d'Augusto l'amor di Tiberio. La tenne egli,
per quanto potè, sempre bassa, senza permettere che l'adulatore senato
le desse certi titoli d'onore che maggiormente l'avrebbono
insuperbita; talvolta diceva a lei stessa, «non esser conveniente alle
donne il mischiarsi negli affari di Stato.» Quantunque talvolta si
regolasse secondo i di lei consigli, pure il men che potea l'onorava
di sue visite; ed anche visitandola, poco vi si tratteneva, affinchè
non paresse ch'egli si lasciasse governare da lei. Fece anche di più
col tempo, siccome vedremo.

Comandava intanto le armate di Germania il giovane _Germanico Cesare_.
Ancorchè fosse lontano da Roma, per cura di Tiberio gli fu conceduto
il trionfo, celebrato poi nell'anno seguente, in ricompensa di quanto
egli avea finora operato in quella guerra[78]. Durava questa in
Germania, ed erano tuttavia in armi Arminio e Segeste, due primari
capitani di quelle contrade; ma fra loro discordi, perchè Arminio,
rapita una figliuola di esso Segeste, promessa ad un altro, la avea
presa per moglie a dispetto del padre. Con due corpi d'armata assai
poderosi, l'uno comandato da Germanico, l'altro da Aulo Cecina, legato
dello esercito, fu portata la guerra addosso ai popoli Catti (oggidì
creduti gli Assiani) e preso il loro paese. Mosse in questi tempi
Arminio una sedizione contra del suocero Segeste, il quale, trovandosi
assediato, spedì il figliuolo Segimondo a Germanico per aiuto.
Accorsero i Romani; furon messi in rotta gli assedianti, liberato
Segeste, e presa con altre nobili donne la di lui figliuola, gravida
allora del marito Arminio. Questo fatto e le tante grida d'Arminio
cagion furono che presero l'armi per lui i Cherusci ed Ingujomero di
lui zio paterno. Seguirono poi due combattimenti. Nel primo toccò la
peggio ad Arminio; nell'altro ebbe Cecina colle sue brigate non poca
fatica a ridursi in salvo, ma dopo averne riportate molte ferite. Fu
allora che _Agrippina_, moglie di Germanico, fece comparire l'animo
suo virile. Per la suddetta disgrazia era corsa voce che i Germani
venivano per passare ostilmente nella Gallia. Impedì la valorosa donna
che non si guastasse il ponte sul Reno, come volevano que' cittadini.
Messasi ella stessa alla testa del medesimo, graziosamente accolse le
legioni che malconce ritornavano dal suddetto fatto d'armi, con far
medicare i feriti, e donar vesti a chi avea perdute le sue. Riferita a
Tiberio questa gloriosa azione d'Agrippina, siccome egli odiava la
stirpe d'Agrippa, e il suo pascolo era la diffidenza, ne fece
doglianze nel senato, con esporre l'indecenza che una donna si
usurpasse lo ufficio de' generali e dei legati, ed accusandola di mire
più alte, per esaltare il marito e il figliuolo Caligola. Nè mancò il
favorito Sejano di maggiormente fomentar in Tiberio sì fatte gelosie.
Meno è da credere che non facesse Livia Augusta, solita a mirar di mal
occhio Germanico, e più la di lui moglie secondo lo stil delle
femmine. Corsero dipoi gran pericolo di restar affogate nell'acque due
legioni comandate da Publio Vitellio. Segimero, fratello di Segeste,
col figliuolo si rendè ai Romani; e con questi, poco per altro
fortunati avvenimenti, ebbe fine la campagna dell'anno presente. Pagò
appunto in quest'anno Tiberio il pingue legato lasciato da Augusto al
popolo romano. A ciò fare fu spinto da una pungente burla[79]. Nel
passare la piazza un cadavero, portato alla sepoltura, accostatosi
alle orecchie del morto un buffone, in bassa voce gli disse o pur
finse di dire alcune parole. Interrogato poi dagli amici, rispose di
avergli ordinato d'avvertire Augusto della non per anche eseguita
testamentaria volontà. Le spie ne rapportarono tosto l'avviso a
Tiberio, il quale non tardò a pagare il legato, con far poco appresso
morir l'autore della burla, dicendo ch'egli stesso porterebbe più
presto ad Augusto le nuove di questo mondo[80]. Prese Tiberio in
quest'anno nel dì 10 marzo il titolo di _Pontefice Massimo_.

NOTE:

[75] Dio, lib. 57. Suetonius, in Tiber., cap. 26.

[76] Sueton., ibid., cap. 67.

[77] Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 16. Sueton., in
Tiber., cap. 50.

[78] Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 9.

[79] Dio, lib. 56.

[80] Panvin., in Fast. Blanchin., in Anast.




    Anno di CRISTO XVI. Indizione IV.

    TIBERIO imperadore 3.

_Consoli_

TITO STATILIO SISENNA TAURO e LUCIO SCRIBONIO LIBONE.

Al primo d'essi consoli, cioè a _Statilio_, ho aggiunto il prenome di
_Tito_, ricavandosi ciò da un'iscrizione riferita dal Fabretti[81].
Così ancora avea scritto il Panvinio. Al secondo, cioè a _Libone_, fu
sostituito nelle calende di luglio _Publio Pomponio Grecino_, come
consta dalla iscrizione suddetta e dal poeta Ovidio[82]. In
Germania[83] al fiume Weser due fatti d'armi seguirono fra i Romani
sotto il comando di Germanico, e i Germani regolati da Arminio. In
amendue la vittoria si dichiarò per li Romani. Avea Germanico fatto
preparar mille legni tra grandi e piccoli nell'isola di Batavia
(oggidì Olanda) per assalire dalla parte dell'Oceano i nemici. Sul
fine della state, imbarcata che fu la copiosa fanteria, con alquanto
di cavalleria, a forza di remi e di vele si mosse la flotta per entrar
nel paese nemico. V'era in persona lo stesso Germanico. Per una
tempesta insorta ebbe a perir tutta quella gente, e gran perdita si
fece d'armi, cavalli e bagaglio. Ma quando i Germani per questo
sinistro caso de' Romani si credeano in istato di vincere, Germanico
spedì Cajo Silio con trentamila fanti e tremila cavalli contra di
loro; il che tal riputazione acquistò ai Romani, tal terrore diede ai
Germani che cominciarono ad inclinar alla pace. Avrebbe potuto
Germanico dar l'ultima mano a quella guerra, se Tiberio con replicate
lettere ed istanze non l'avesse richiamato a Roma con esibirgli il
consolato e il trionfo già a lui accordato. Al geloso e diffidente
Tiberio premeva forte di staccar Germanico da quelle legioni,
paventando egli sempre delle novità a sè pregiudiziali, pel sommo
amore che quei soldati professavano a sì grazioso generale. Ancorchè
Germanico s'accorgesse delle torte mire d'esso suo zio, pure si
accomodò ai di lui voleri, ed impreso il viaggio d'Italia, forse
arrivò in Roma sul fine dell'anno. Fece[84] Tiberio nel presente
accusare in senato Lucio Scribonio Libone, giovane, diverso dal
console, quasichè macchinasse delle novità. Prevenne questi la
sentenza della morte con uccidersi da sè stesso. Avea già cominciato
Tiberio a permettere i processi contra delle persone anche più
illustri per sole parole indicanti mal animo o sedizione contra del
governo e della sua persona: laddove prima di salire sul trono avea
sempre sostenuto[85], «che in una città libera dovea ciascuno goder la
libertà di dire e pensare ciò che gli piacesse.» Questa bella massima,
divenuto che fu principe, perdè presso lui di grazia. Siccome ancora
quell'altra ch'egli proferì un dì nel senato con dire, «che se si
cominciasse ad ammettere accuse di chi parlasse contra del principe o
del senato, andrebbe in eccesso il processar persone; perchè chiunque
ha dei nemici, correrebbe a denunziarli come rei di questo delitto.»
Questi disordini appunto accaddero da lì innanzi sotto il tirannico di
lui governo.

Era in gran voga per questi tempi in Roma la strologia giudiciaria ed
anche la magia[86]. Della prima si dilettava lo stesso Tiberio,
tenendo in sua casa uno di questi venditori di fumo, chiamato
Trasillo, e volendo ogni dì udire da lui quel che dovea succedere in
quella giornata. Trovandosi beffato da costui, se ne sbrigò col farlo
uccidere; poi perseguitò tutti gli altri fabbricatori di pronostici. E
perchè non erano eseguiti gli editti intorno a questi impostori,
chiunque de' cittadini romani fu per tal cagione denunziato dipoi,
n'ebbe per castigo lo esilio. Solennemente ancora fu vietato a
chicchessia il portar vesti di seta, perchè di spesa grave, non
facendosi allora seta in Europa; siccome fu parimente proibito il
tener vasi d'oro, se non per valersene ne' sagrifizii; e nè pur furono
permessi vasi d'argento con ornamenti d'oro. Affettava Tiberio la
purità della lingua latina, e soprattutto usava i vocaboli antichi
d'Ennio e di Plauto. Essendogli in un editto scappata una parola non
latina, n'ebbe scrupolo, e volle ascoltare il parere de' più dotti
grammatici, i quali quasi tutti la dichiararono buona, dacchè era
stata usata da sì gran dottore e principe, qual era Tiberio. Con tutto
ciò saltò su un certo Marcello, dicendo, «che potea ben Cesare dar la
cittadinanza di Roma agli uomini, ma non già alle parole;» bolzonata
che ferì non poco Tiberio, e nondimeno seppe egli, secondo il suo
costume, ben dissimularla. Proibì ancora ad un centurione il fare
testimonianza nel senato con parole greche, tuttochè egli in quello
stesso luogo avesse udito molte cause trattate in greco, ed egli
medesimo talvolta si fosse servito dello stesso linguaggio per
interrogare.

NOTE:

[81] Fabrettus, Inscript., pag. 701.

[82] Ovidius, lib. 4, Ep. 9 Trist.

[83] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 9 et seq.

[84] Dio, lib. 57.

[85] Sueton., in Tiber., cap. 27.

[86] Dio, ibidem.




    Anno di CRISTO XVII. Indizione V.

    TIBERIO imperadore 4.

_Consoli_

CAIO CECILIO RUFO e LUCIO POMPONIO FLACCO GRECINO.


Il primo de' consoli negli Annali stampati di Tacito è chiamato
_Celio_; _Cecilio_ in quei di Dione. E così appunto si dee appellare.
S'è disputato fra gli eruditi intorno a questo nome. Credo io decisa
la lite da un marmo da me dato alla luce[87], che si dice posto C.
CAECILIO RVFO, L. POMPONIO FLACCO COSS. Erano insorte nell'anno
precedente varie turbolenze fra i re d'Oriente, che dipendevano in
qualche guisa da Roma[88]. Avea Augusto, siccome accennammo, dato ai
Parti _Vonone_ per re. Col tempo cominciarono que' barbari a
sprezzarlo, poscia ad abborrirlo, e finalmente a congiurare per
detronizzarlo. Chiamato alla corona _Artabano_ del sangue degli
antichi Arsacidi, questi, sconfitto sulle prime, sconfisse in fine
Vonone. Si rifugiò il vinto nell'Armenia, e fatto re da que' popoli
non andò molto, che prevalendo presso gli Armeni il partito favorevole
ad Artabano, Vonone si ritirò ad Antiochia con un gran tesoro. Ivi
risedeva proconsole della Soria Cretico Silano, che adocchiato
quell'oro, l'accolse ben volentieri, e permise ch'egli si trattasse da
re, ma nel medesimo tempo il facea custodire sotto buona guardia.
Vonone intanto implorava con frequenti lettere aiuto da Tiberio; ma
non avea Tiberio voglia di romperla coi Parti, gente che non si
lasciava far paura dai Romani, e gli avea anche più volte fatti
sospirare. Oltre a ciò avvenne[89] che Tiberio fece citar a Roma
_Archelao re della Cappadocia_ tributario de' Romani, col pretesto
ch'egli meditasse delle rebellioni. L'odiava Tiberio, perchè, allorchè
egli dimorava a guisa di relegato in Rodi, Archelao passando per colà
non l'avea onorato di una visita, e grande onore all'incontro avea
fatto a Cajo Cesare emulo suo. Venne Archelao a Roma vecchio e
malconcio di sanità, dopo aver per cinquant'anni governato i suoi
popoli; e fu accusato innanzi al senato. Si mise egli in tal affanno
per questa persecuzione, che da lì a qualche tempo, non si sa se
naturalmente, o pure per aiuto altrui, terminò la sua vita. Allora la
Cappadocia fu ridotta in provincia, e spedito colà un governatore. In
que' medesimi tempi vennero a morte _Antioco re della Comagene_ e
_Filopatore re di Cilicia_ con gran turbazione di que' popoli, parte
dei quali volea un re, ed un'altra desiderava il governo de' Romani.
Anche la Soria e la Giudea, lagnandosi de' troppo gravi tributi, ne
dimandavano la diminuzione.

Fu questa una bella occasione a Tiberio per allontanar l'odiato nipote
_Germanico Cesare_ da Roma, e cacciarlo in paesi pericolosi sotto
specie d'onore. Propose dunque in senato, che non v'era persona più a
proposito di lui per dar sesto agl'imbrogli dell'Oriente. Già avea
esso Germanico conseguito il trionfo nel dì 26 di maggio; e a lui per
questa spedizione fu conceduta un'ampia autorità in tutte le provincie
di là del mare. Ma Tiberio, per mettere a lui un contrapposto in
quelle contrade, richiamato Cretico Silano dalla Soria[90], spedì a
quel governo Gneo Calpurnio Pisone, uomo violento e poco amico di
Germanico. Con costui andò anche Plancina sua moglie, addottrinata,
per quanto fu creduto, da Livia Augusta, acciocchè facesse testa ad
_Agrippina_ moglie di Germanico. Volle inoltre Tiberio, che _Druso
Cesare_ suo figliuolo, lasciato l'ozio e il lusso di Roma, andasse
nell'Illirico ad apprendere il mestiere della guerra. Andò egli; ma
giunto colà fu forzato a passare in Germania, per cagion delle guerre
civili nate fra i Germani non sudditi di Roma. Aspra lite quivi era
fra Arminio promotore della libertà, e Maroboduo, che avea preso il
titolo di re. Ad una campale battaglia vennero questi due emuli. Fu
creduto vincitore Arminio, perchè l'altro per la soverchia diserzione
dei suoi si ritirò fra i Marcomanni[91]. Druso colà si portò con
apparenza di voler trattar la pace fra essi. Devastò in quest'anno un
fiero tremuoto dodici città dell'Asia, alcune delle quali assai
celebri, come Efeso, Sardi, Filadelfia. Tiberio dedicò in Roma varii
templi, ma edificati da altri; perchè egli non si dilettò di
fabbriche, nè di lasciar magnifiche memorie, per non iscomodar la sua
borsa. In Africa si sollevarono i Numidi e i Mori per istigazione di
Tacfarinate. Furio Camillo, proconsole di quelle provincie, benchè non
avesse al suo comando se non una sola legione e poche truppe
ausiliarie, marciò contro quella gran moltitudine di gente, e le mise
in fuga. Per tal vittoria si meritò dal senato gli ornamenti
trionfali[92]. Negli ultimi sei mesi dell'anno presente diede fine
alla sua vita il poeta _Ovidio_ in Tomi, città posta alle rive del mar
Nero, dov'era stato relegato da Augusto. Credesi ancora, che questo
fosse l'ultimo anno di vita del celebre storico romano _Tito Livio_
padovano.

NOTE:

[87] Thesaur. Novus Inscription., pag. 301, n. 1.

[88] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 1. Joseph., Antiq. Judaic., lib.
16, cap. 3.

[89] Dio, lib. 57.

[90] Tacit., Annal., lib. 2, cap. 43.

[91] Dio, Strabo, Eusebius, in Chron.

[92] Hieron., in Chron.




    Anno di CRISTO XVIII. Indizione VI.

    TIBERIO imperadore 5.

_Consoli_

CLAUDIO TIBERIO NERONE imperatore per la terza volta, e GERMANICO
CESARE per la seconda.


Pochi giorni tenne Tiberio il consolato. A lui succedette _Lucio Sejo
Tuberone_; e poscia nelle calende di luglio in luogo di Germanico, fu
creato console _Cajo Rubellio Blando_. Ho aggiunto il prenome di
_Cajo_ a Rubellio, secondo la testimonianza di un marmo[93] da me dato
alla luce. Ma si può dubitare, se il consolato di lui appartenga
all'anno presente. _Germanico_ si trovava in Nicopoli, città
dell'Epiro, allorchè vestì la trabea consolare[94]. Visitò egli le
città greche, e massimamente Atene, ricevendo dappertutto distinti
onori. Passò a Bisanzio e al mar Nero; e finalmente entrato nell'Asia,
arrivò a Lesbo, dove _Agrippina_ sua moglie partorì _Giulia Livilla_.
Intanto Gneo Pisone, inviato da Tiberio per proconsole della Soria,
raggiunse Germanico a Rodi. Non era ignoto a Germanico il mal animo di
costui; pure avendo inteso ch'egli correa pericolo della vita per una
fiera tempesta insorta, spedì alcune galee per salvarlo. Neppur giovò
questo per ammansarlo. Appena Pisone fu dimorato un giorno in Rodi,
che passò in Soria, dove usando carezze e regali si procacciò
l'affetto di quelle legioni, lasciando a' soldati specialmente la
libertà di far tutto ciò che loro piacea. Meno non si adoperava
Plancina sua moglie, che intanto non si guardava di sparlar
dappertutto di Germanico e di Agrippina. Andossene in Armenia
Germanico, ed ivi pose per re _Zenone_ figliuolo di Polemone re di
Ponto, dopo aver deposto _Orode_ figliuolo di Artabano. Diede dei
governatori alle provincie della Cappadocia e della Comagene, con
isminuire i tributi di quelle provincie; e poscia continuò il viaggio
fino in Soria. Più che mai cresceva la boria e la petulanza di Pisone
proconsole; e sforzavasi bensì Germanico di pazientare gl'insulti e i
mancamenti di rispetto di costui; ma niuno v'era, che non conoscesse
l'aperta nimicizia che passava fra loro. Vennero a trovar Germanico
gli ambasciadori di _Artabano_ re de' Parti, per rinnovar l'amicizia e
lega, esibendosi quel re di venire alle rive dell'Eufrate per fargli
una visita. Una delle loro dimande fu che non permettesse al già
deposto re dei Parti Vonone di soggiornar nella Soria. Germanico il
mandò a Pompejopoli, città della Cilicia, non tanto per far cosa grata
ad Artabano, quanto per far dispetto a Pisone, che il proteggeva non
poco a cagion de' regali e della servitù che ne ricavava Plancina sua
moglie. Qui ci vien meno la storia di Dione, e però nulla di più
sappiamo de' fatti de' Romani nell'anno presente.

NOTE:

[93] Thes. Novus Inscript., pag. 301, num. 2.

[94] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 54.




    Anno di CRISTO XIX. Indizione VII.

    TIBERIO imperadore 6.

_Consoli_

MARCO GIUNIO SILANO e LUCIO NORBANO BALBO.


Fece in quest'anno Germanico Cesare un viaggio in Egitto[95], per
curiosità di veder quelle rinomate antichità, e si portò sino ai
confini della Nubia, informandosi di tutto. Per cattivarsi que' popoli
abbassò il prezzo de' grani, e in pubblico nella città d'Alessandria
andò vestito alla greca, perchè quivi predominava quella nazione e la
loro lingua[96]. Tiberio, risaputolo, disapprovò la mutazion
dell'abito, e più l'essere entrato in Alessandria, afflitta allora
dalla carestia, senza sua licenza. Tornossene dipoi in Soria, dove
trovò che tutto quanto egli avea ordinato per l'armata e per le città,
era stato disfatto da Pisone. Pertanto divampando forte la loro
discordia, prese Pisone la risoluzione d'andarsene lungi dalla Soria;
ma sopravvenuta una malattia a Germanico già pervenuto ad Antiochia,
si fermò, finchè parve che il di lui male prendesse ottima piega; ed
allora si ritirò a Seleucia. Ma l'infermità di Germanico andò poscia
crescendo. Sparsesi voce, che per malie d'esso Pisone e di Plancina
sua moglie l'infelice principe venisse condotto a poco a poco alla
morte; e a tal voce si prestò fede, per essersi trovati vari
creduti maleficii. In somma se ne morì Germanico nell'età di
trentaquattr'anni, lasciando in una grande incertezza, se la morte sua
fosse naturale, oppure a lui procurata da Pisone e da Plancina sua
moglie; o per segreti ordini di Tiberio. Universalmente fu creduto
quest'ultimo. Non si può esprimere il dolore, non solo del popolo
romano e delle provincie tutte del romano impero, ma degli stessi re
dell'Asia per la perdita di questo generoso principe. Era egli ornato
delle più belle doti di corpo e d'animo, valoroso coi nemici[97],
clementissimo coi sudditi. Posto in tanta dignità, e con tanta
autorità, pure mai non insuperbì, trattando tutti con onorevolezza, e
vivendo più da privato che da principe. Già vedemmo, ch'egli ricusò
l'imperio, per non mancar di fede e di onor a Tiberio. Non mai fu
veduto abusarsi della sua podestà, non mai si lasciò torcere dalla
fortuna ad azioni sconvenevoli a personaggio virtuoso. Quel ch'è più,
con tutti i torti a lui fatti da Tiberio, suo zio paterno, e padre per
adozione, e con tutto il suo ben conosciuto mal talento, non mai si
lasciò uscir parola di bocca, per riprovar le azioni di lui. Perciò
era amatissimo da tutti, fuorchè dallo stesso Tiberio, anzi
maggiormente amato, appunto perchè il conoscevano odiato da esso suo
zio. Mirabil cosa fu l'osservare, come lo stesso Druso, figliuolo
natural di Tiberio, ancorchè Germanico potesse ostargli alla
succession dell'imperio, pure l'amasse sempre con sincero amore e come
vero fratello. Gran perdita fece Roma in Germanico, ma specialmente
perchè Tiberio sciolto dal timore di lui, cominciò ad imperversare,
con giugnere in fine a costumi crudeli e tirannici. Restarono di
Germanico tre figliuoli maschi, cioè _Nerone_, _Druso_, e _Cajo
Caligola_, e tre figlie, cioè _Agrippina_, che poi fu madre di Nerone
augusto, _Drusilla_ e _Livilla_. _Agrippina_ lor madre, figliuola di
Agrippa, e di Giulia nata da Augusto, donna, che ben diversa dalla
madre, s'era già fatta conoscere per ispecchio di castità, ed avea
dati segni di un viril coraggio, molto più ora abbisognò della sua
costanza, rimasta senza il generoso consorte, con dei figliuoli
piccioli, e odiata da Livia e forse poco men da Tiberio. Fu
consigliata da molti di non tornarsene a Roma: differente ben era il
desiderio suo, perchè ardeva di voglia di cercar vendetta di Pisone e
di Plancina, tenuti per autori delle sue disavventure. Però sul fine
dell'anno colle ceneri del marito e co' figliuoli spiegò le vele alla
volta di Roma.

In luogo di Pisone era stato costituito progovernatore della Siria
Gneo Sentio Saturnino; ma Pisone, udita la morte di Germanico, dopo
averne fatta gran festa, si mise in viaggio con molti legni, e buona
copia di milizie, risoluto di ricuperare il suo governo, e di
adoperare, occorrendo, anche la forza. Si impadronì d'un castello; ma
avendolo Saturnino quivi assediato con forze maggiori, gli convenne
cedere, ed intanto fu chiamato a Roma. L'andata di _Druso Cesare_ in
Germania, secondo le apparenze, fu per pacificare i torbidi insorti
fra Arminio e Maroboduo. Altri documenti avendo ricevuto dall'astuto
suo padre, fece tutto il contrario, aggiungendo destramente olio a
quell'incendio, acciocchè i nemici si consumassero da sè stessi.
Abbandonato poi Maroboduo da' suoi, ricorse a Tiberio, che gli assegnò
per abitazione Ravenna, dove aspettando sempre qualche rivoluzione
nella Svevia, senza mai vederla, dopo diciotto anni, assai vecchio,
compiè la carriera de' suoi giorni. Fin qui Arminio in Germania avea
bravamente difesa la libertà della sua patria contro ai Romani; ma
avendola poi voluta egli stesso opprimere, fu in quest'anno ucciso dai
suoi, in età di soli trentasette anni di vita. Per un decreto
d'Augusto era già stato proibito in Roma l'esercizio della religione
egiziana con tutte le sue cerimonie; ma seppe essa mantenersi quivi ad
onta della legge sino al presente anno. Un'iniquità commessa da que'
falsi sacerdoti, collo ingannare Paolina, savia e nobilissima dama
romana, e darla per danari in preda a Decio Mondo, giovane perduto
dietro a lei, con farle credere che di lei fosse innamorato il falso
dio Anubi, siccome diffusamente narra Giuseppe storico[98], diede ansa
al senato di esiliar dall'Italia il culto d'Iside, di Osiride e degli
altri dii d'Egitto[99]. Comandò inoltre Tiberio, che si atterrasse il
tempio d'Iside, e si gittasse nel Tevere la sua statua. La medesima
disavventura toccò ai Giudei[100], che in gran numero abitavano allora
in Roma, a cagion di una baratteria usata da alcuni impostori di
quella nazione a Fulvia, nobile dama romana, che avea abbracciata la
lor religione; avendo essi convertito in uso proprio l'oro e le vesti
ricche, dalla medesima inviate a Gerusalemme, affinchè servissero in
onore del tempio. Scelsero i consoli quattromila giovani di essi
Giudei di razza libertina, e per forza arrolati li mandarono in
Sardegna a far guerra ai ladri ed assassini di quell'isola, senza
mettersi in pensiero, se quivi avessero da perire per l'aria che in
quei tempi veniva creduta maligna e mortifera. Il rimanente de' Giudei
fu cacciato di Roma, e disperso in varie provincie. _Vonone_, già re
de' Parti, volendo in questi tempi fuggir dalla Cilicia, preso da
Vibio Frontone, si trovò poi da un soldato privato di vita. Per
mettere freno all'impudicizia delle matrone romane[101], che ogni dì
più andava crescendo in Roma, città piena di lusso e di gente, a cui
poca paura faceano i falsi dii del Paganesimo, fu con pubblico editto
imposta la pena dell'esilio alle figliuole, nipoti e vedove de'
cavalieri Romani che cadessero in questo delitto.

NOTE:

[95] Tacitus, Ann., lib. 1, c. 59.

[96] Sueton., in Tiber., c. 52.

[97] Dio, in Excerptis, et lib. 57.

[98] Joseph., Antiq., lib. 18, cap. 4.

[99] Tacit., lib. 2, cap. 85.

[100] Sueton., in Tiber., cap. 36.

[101] Sueton., in Tiber., cap. 35.




    Anno di CRISTO XX. Indizione VIII.

    TIBERIO imperadore 7.

_Consoli_

MARCO VALERIO MESSALLA e MARCO AURELIO COTTA.


Di grandi onori avea ricevuto in Roma la memoria di _Germanico_, per
ordine di Tiberio e del senato[102]; ed anche il popolo in varie guise
ne avea attestato il suo dolore. Si rinnovò il lutto in quest'anno
all'arrivo di _Agrippina_ sua moglie. Dopo essersi per qualche giorno
fermata in Corfù, sbarcò dipoi a Brindisi. _Druso Cesare_, che era
tornato a Roma, co' maggiori figliuoli del defunto Germanico, andò ad
incontrarla sino a Terracina. Innumerabil gente, massime de' militari,
si portò sino a Brindisi. Caldi furono i sospiri, universale il pianto
al comparire dell'urna funebre. Per tutta la via i magistrati e popoli
fecero a gara per onorar le di lui ceneri. Gli stessi consoli col
senato, e gran parte del popolo si portarono a riceverle con dirotte
lagrime; e poi queste vennero riposte nel mausoleo d'Augusto[103].
Giunse dipoi Pisone con sua moglie a Roma, orgoglioso come in
addietro; ma non tardarono a presentarsi al senato accusatori,
imputando a lui e a Plancina sua moglie la morte di Germanico. Neppure
a questo mal uomo mancavano dei difensori; e difficile era il provar
le accuse, siccome avviene in somiglianti casi. Tiberio, che ben sapea
le mormorazioni del popolo, quasi che fosse passata buona intelligenza
tra lui e Pisone, per levar di vita Germanico, da uomo disinvolto si
regolava in questa pendenza, mostrando sempre un vivo affanno per la
perdita del figliuolo adottivo, e di voler buona giustizia; ma nello
stesso tempo di non volere, che sopercheria si facesse all'accusato.
Creduto fu che segretamente a Pisone fosse fatto animo e sicurezza di
protezion da Sejano, e che per questo egli si astenesse dal produrre
gli ordini a lui dati da Tiberio. Ma se non si provava il reato
suddetto, si faceano ben constare altri reati di sedizione, d'ingiurie
fatte e dette a Germanico: cosa che mise in fiera apprension Pisone, e
tanto più perchè il popolazzo vicino la curia gridava contra di lui,
minacciando di menar le mani, qualora egli la scappasse netta dal
giudizio de' senatori. Perciò vinto dall'affanno, tenendosi tradito,
da sè stesso si diede la morte, liberando in tal guisa Tiberio da un
bel molesto pensiero. Plancina sua moglie, che era tutta di Livia
Augusta, per le raccomandazioni di lei seguitò a vivere in pace. Al di
lei figliuolo Marco Pisone fu conceduto un capitale di cento
venticinquemila filippi; il rimanente confiscato, ed egli mandato in
esilio. Risvegliossi intanto di nuovo in Africa la guerra, essendo
risorto più di prima vigoroso Tacfarinate. Per aver egli messa in fuga
una coorte di Romani, sì fatta collera montò a Lucio Apronio
proconsole allora in quelle contrade, che infierì contra de'
fuggitivi. Ciò fu cagione, che cinquecento soli de' suoi veterani sì
valorosamente combatterono dipoi contro l'armata di Tacfarinate, che
la misero in rotta. Giunto era all'età capace di matrimonio _Nerone_,
figliuolo primogenito del defunto Germanico[104]. Tiberio a lui diede
in moglie _Giulia_ figliuola di _Druso_ suo figlio: cosa che recò non
poca allegrezza al popolo romano. Per lo contrario si mormorò non
poco, perchè Tiberio avesse fatto contrarre gli sponsali ad una
figliuola del suo favorito Elio Sejano con _Druso_ figliuolo di
_Claudio_, cioè di un fratello di Germanico, di Claudio, dico, il qual
poi fu imperadore. A tutti parve avvilita con questo atto la nobiltà
della famiglia principesca; perchè era bensì nato Sejano di padre
aggregato all'ordine de' cavalieri, ma niuna proporzione si trovava
fra lui e Druso, discendente non meno dalla casa d'Augusto, che da
quella di Livia. Maggiormente ciò dispiacque per la apparenza che
Sejano, comunemente odiato pel predominio suo nel cuor di Tiberio,
potesse aspirare a voli più alti, cioè all'imperio. Ma non si
effettuarono poi queste meditate nozze, perchè il giovinetto _Druso_
mentre da lì a pochi giorni era in Campania, avendo gittato in aria
per giuoco un pero[105], e presolo a bocca aperta nel cadere, ne
rimase soffocato, non sussistendo, come dice Svetonio, ch'egli morisse
per frode di Sejano.

NOTE:

[102] Tacitus, lib. 3, cap. 1.

[103] Ibidem, c. 9.

[104] Sueton., in Tiber., cap. 29.

[105] Sueton., in Claudio, cap 27.




    Anno di CRISTO XXI. Indizione IX.

    TIBERIO imperadore 8.

_Consoli_

CLAUDIO TIBERIO NERONE AUGUSTO per la quarta volta e DRUSO CESARE suo
figliuolo per la seconda.


Ci assicura Svetonio[106], che Tiberio, il quale avea preso il
consolato per far onor al figliuolo, da lì a tre mesi lo rinunziò,
senza sapersi finora se alcuno subentrasse console in luogo suo. Niuno
probabilmente, scrivendo Dione[107], che Tiberio, _finito il suo
Consolato_, ritornò a Roma nè egli vi ritornò, se non alla fine
dell'anno. In fatti venuta la primavera dell'anno presente, trovandosi
esso Tiberio, o pure fingendo d'essere con qualche incomodo di sanità,
volle mutar aria, e se n'andò a Campania. Chi credette ciò fatto per
lasciar al figliuolo tutto l'onore del consolato, ed altri, perchè gli
cominciasse a rincrescere il soggiorno di Roma, essendogli
specialmente molesta l'ambizione di Livia Augusta sua madre, che
faceva di mani e di piedi per comandare anch'ella, e per dividere il
governo con lui: cosa ch'egli non sapea sofferire. Parve perciò che
fin d'allora egli meditasse di volontariamente esiliarsi da Roma,
siccome vedremo che succedette dipoi. Turbata fu anche nell'anno
presente l'Africa da Tacfarinate[108]; laonde si vide spedito colà
Giunio Bleso, zio materno di Sejano, per regolar quegli affari. Tentò
in questo anno Severo Cecina nel Senato di far rinnovar l'antica
disciplina de' Romani, che non permetteva ai governatori delle
provincie di condur seco le loro mogli. Ma Druso console e la maggior
parte de' senatori furono di contrario sentimento. Pericoloso era
troppo allora il lasciar le dame romane lungi dai mariti, e in loro
balìa: tanta era la corruttela de' costumi. Fu anche proposto di
rimediare all'abuso introdotto e troppo cresciuto, che chiunque de'
malfattori e degli schiavi fuggitivi si ricoverava alle immagini o
statue degl'imperadori, era in salvo. Da tanti asili proveniva la
moltiplicità de' misfatti, e l'impunità de' delinquenti. Druso
cominciò a far provare ad alcuni nobili rifuggiti colà il gastigo
meritato dai lor delitti, e ciò con plauso universale. Nella Tracia si
sollevarono alcuni di que' popoli, ed impresero anche l'assedio di
Filippopoli. Convenne inviare colà a reprimerli Publio Vellejo, forse
il medesimo che ci lasciò un pezzo di storia scritta con leggiadria,
ed insieme con penna adulatrice. Poca fatica occorse a dissipar quella
gentaglia. Neppure andò in quest'anno esente da ribellioni la Gallia.
Giulio Floro in Treveri, Giulio Sacroviro negli Edui, furono i primari
a commovere la sedizione in varie città, malcontente de' Romani, a
cagion della gravezza de' tributi e dei debiti fatti per pagarli.
Restò in breve talmente incalzato Floro da Visellio Varrone e da Cajo
Silio legati, o, vogliam dire, tenenti generali de' Romani, che con
darsi la morte diede anche fine alla guerra in quelle parti. Più da
far s'ebbe a domar Sacroviro, che, occupata la città d'Autun, capitale
degli Edui, menava in campo circa quarantamila persone armate.
Nulladimeno una battaglia datagli da Silio, con fortunato successo,
ridusse ancor lui ad abbreviarsi di sua mano la vita. Fu in quest'anno
chiamato in giudizio Cajo Lutorio Prisco cavalier romano, e celebre
poeta di questi tempi, il quale avea composto un lodatissimo poema in
morte di Germanico, per cui fu superbamente regalato. Avvenne che
anche Druso Cesare caduto infermo fece dubitar di sua vita; laonde
egli preparò un altro poema sopra la morte di lui. Guarì Druso; ma
Prisco, mosso dalla vanagloria, non volendo perdere il plauso
dell'insigne sua fatica, lesse quel poema in una conversazione di dame
romane. Questo bastò al senato per fargliene un delitto, e delitto che
fu immediatamente punito colla morte di lui: a tanta viltà
d'adulazione e di schiavitù oramai era giunto quell'augusto
consesso[109]. S'ebbe a male Tiberio, non già perchè l'avessero
condannato a morte, ma perchè aveano eseguita la sentenza, senza
ch'egli ne fosse informato. E però fu fatta una legge che da lì
innanzi non si potesse pubblicar nè eseguire sentenza di morte data
dal senato, se non dieci giorni dappoi, acciocchè se l'imperadore
fosse assente dalla città, potesse averne notizia. Teodosio il Grande,
augusto, prolungò poi questo termine sino a trenta giorni per li
condannati dall'imperadore, e verisimilmente ancora per le sentenze
del senato.

NOTE:

[106] Sueton., in Tib., cap. 26.

[107] Dio, lib. 57.

[108] Tacit., lib. 3, cap. 35.

[109] Dio, lib. 57. Tacitus, lib. 3, cap. 50.




    Anno di CRISTO XXII. Indizione X.

    TIBERIO imperadore 9.

_Consoli_

QUINTO HATERIO AGRIPPA e CAJO SULPICIO GALBA.


Questo Galba console, non so dire se padre o pur fratello fosse di
Galba, che fu poi imperadore, asserendo Svetonio[110] essere stato
console il padre d'esso Augusto, e poi soggiugnendo che Cajo fratello
d'esso imperadore, per non aver potuto conseguire il proconsolato da
Tiberio, si uccise da sè stesso nell'anno 36 dell'Era nostra. Ai
suddetti consoli nelle calende di luglio furono sostituiti _Marco
Coccejo Nerva_, creduto avolo di Nerva, poscia imperadore, e _Cajo
Vibio Ruffino_. Era cresciuto in eccesso[111] il lusso delle nozze,
ne' conviti, e per altri capi nella città di Roma, senza far più caso
delle leggi e prammatiche pubblicate da Augusto, e prima d'Augusto: il
che s'era tirato dietro l'aumento dei prezzi delle robe e dei viveri.
Fu proposto in senato di rimediare al disordine col moderar le spese.
Ma una lettera di Tiberio, che ne accennava le difficoltà, distrusse
tutta la buona intenzion degli edili. Tacito nota, che si continuò in
sì fatto scialacquamento fino ai tempi di Vespasiano imperadore, sotto
cui cominciarono i Romani a darsi alla parsimonia, non già per qualche
legge o comandamento del principe, ma perchè così facea lo stesso
Augusto: tanto può a regolare e sregolare i costumi l'esempio de'
regnanti. In quest'anno ancora Tiberio scrisse al senato, chiedendo la
podestà tribunizia per _Druso Cesare_ suo figliuolo, affine di
costituirlo in tal maniera compagno suo nell'autorità e metterlo in
istato d'essere suo successore nell'imperio. Fu prontamente ubbidito,
e con giunte di novità all'onore: al che nondimeno Tiberio non
consentì. Veggonsi medaglie[112] di _Druso_, nelle quali è espressa
questa podestà. Motivo di lungo e tedioso esame diedero dipoi al
senato gli asili delle città greche, tanto in Europa che in Asia. Ogni
tempio era divenuto un sicuro rifugio d'impunità ad ogni schiavo
fuggitivo, ad ogni debitore e a chiunque era in sospetto di delitti
capitali. Furono citate quelle città a produrre i loro privilegii. Si
trovò per la maggior parte insussistente in esse il diritto
dell'asilo; e però fu moderato quell'eccesso. Infermatasi intanto
gravemente Livia Augusta, conobbe Tiberio suo figliuolo la necessità
di tornarsene per visitarla. Gareggiarono a più non posso i senatori,
per inventar cadauno pubbliche dimostrazioni del loro affanno per vita
sì cara e della comun premura per la di lei salute; studiandosi di
placare gl'insensati loro dii. Andò tanto innanzi la vilissima loro
adulazione, che stomacò lo stesso Tiberio in guisa ch'ebbe a dire più
volte in uscir dalla curia: _Oh che gente inclinata alla servitù!_ Nè
a lui piaceano tanti sfoggi di una stima verso la sua madre, siccome
maggiore incentivo alla di lei natìa superbia e voglia di dominare.
Continuavano tuttavia le turbolenze dell'Africa. Tacfarinate ribello
era giunto a tale alterigia, che, spediti suoi ambasciadori a Tiberio,
gli avea chiesto per sè e per l'esercito suo un determinato paese da
signoreggiare: minacciando, non esaudito, una fierissima guerra. Per
questa ardita dimanda fumò di collera Tiberio, e mandò ordine a Bleso
proconsole di tirar colle buone all'ubbidienza i sollevati, per far
poscia prigione, se mai poteva, quel temerario. Grande sforzo fece per
tale incitamento Bleso, e prese un di lui fratello, ma non fu già egli
stesso. Di poco rilievo furono le sue imprese; contuttociò Tiberio,
perchè egli era zio materno del favorito Sejano, gli fece accordare
gli ornamenti trionfali. Morì in quest'anno Asinio Salonino, figliuolo
d'Asinio Gallo e di Vipsania, ripudiata già da Tiberio Augusto, e però
fratello uterino di Druso Cesare.

NOTE:

[110] Sueton., in Galba, cap. 3.

[111] Tacitus, lib. 3, cap. 55.

[112] Mediobarb., in Num. Imperator.




    Anno di CRISTO XXIII. Indizione XI.

    TIBERIO imperadore 10.

_Consoli_

CAJO ASINIO POLLIONE e LUCIO ANTISTIO VETERE o sia VECCHIO.


Benchè gli autori de' fasti consolari comunemente dieno ad _Antistio
Vetere_ il prenome di _Cajo_, pure _Lucio_ vien da me nominato sul
fondamento d'una iscrizione della mia Raccolta[113], posta Q. IVNIO
BLASEO, L. ANTISTIO VETERE; dalla quale eziandio si può raccogliere
che nelle calende di luglio ad Asinio Pollione fu sostituito _Quinto
Giunio Bleso_, già da noi veduto governatore dell'Africa.
Probabilmente _Asinio Pollione_, fratello fu del poco fa defunto
Asinio Salonino. Mancò di vita sui primi mesi dell'anno presente, dopo
lunga malattia _Druso Cesare_[114], unico figliuolo di Tiberio
Augusto, giovane destinato a succedergli nell'imperio. Voce pubblica
fu che un lento veleno, fattogli dare da Elio Sejano, il conducesse a
morte. Tacito e Dione[115] danno questo fatto per certo. Druso,
giovane facilmente portato alla collera, non potendo digerir l'eccesso
del favore di cui godea Sejano presso il padre, un dì venne alle mani
con lui, e gli diede uno schiaffo, come vuol Tacito, parendo poco
verisimile che il percussore fosse lo stesso Sejano, come s'ha da
Dione. Questo affronto, ma più la segreta sete di Sejano di arrivare
all'imperio, a cui troppo ostava l'esser vivente Druso, gli fece
studiar le vie di levarlo dal mondo. Cominciò la tela, con adescar
_Giulia Livilla_, sorella del fu Germanico Cesare e moglie d'esso
Druso, traendola alle sue disoneste voglie. Dopo di che non gli riuscì
difficile colle promesse del matrimonio e dell'imperio a farla
precipitare in una congiura contro la vita del marito. Scelto Liddo,
uno degli eunuchi suoi più cari, un tal veleno gli diede che potesse
parer naturale la di lui malattia. Non si conobbe allora l'iniquo
manipolator di questo fatto; ma da lì ad otto anni nella caduta di
Sejano, ciò venne alla luce per confessione di Apicata sua moglie. Con
tal costanza nondimeno portò Tiberio la perdita del figliuolo, che i
maligni giunsero fino a sospettare lui stesso complice o autore del
veleno, quasichè Druso avesse prima pensato di avvelenare il padre.
Neppur Tacito, benchè inclinasse ad annerir tutte le azioni di
Tiberio, osò prestar fede a così inverisimil diceria. Del resto non
erano tali i costumi e le inclinazioni di Druso, che i Romani
internamente si affliggessero della di lui morte. Lasciò egli tre
figliuoli di tenera età, ma che l'un dietro all'altro furono rapiti
dalla morte, di modo che la succession dell'imperio cominciò a
destinarsi ai figliuoli di _Germanico_. In abbondanza furono fatti
onori alla memoria di Druso; ma Tiberio non ammise chi gareggiava per
passar seco atti di condoglianza, affinchè non gli si rinnovassero le
piaghe del dolore. E perchè da lì a non molto tempo gli ambasciadori
d'Ilio, o sia di Troja, venuti a Roma[116], gli spiegarono il lor
dispiacere a cagion della perdita del figliuolo, per deriderli
rispose: «Che anch'egli si condoleva con loro per la morte d'Ettore,»
ucciso mille e dugento anni prima.

Buone qualità avea Tiberio mostrato in addietro, e competente governo
avea fatto[117]. Già dicemmo che tolto di vita Germanico, cominciò
egli a declinar al male. Peggiorò anche dopo la morte di Druso.
Nondimeno a renderlo più cattivo contribuì non poco l'ambizioso e
perverso Sejano, le cui mire tendevano tutte a regnar solo col tempo.
Perchè gliene avrebbono impedito l'acquisto i figliuoli di Germanico,
nipoti per adozione di Tiberio, e raccomandati in quest'anno dallo
stesso Tiberio al senato, nè poteva Sejano sbrigarsi di loro col
veleno per la buona cura che avea di essi, e della propria pudicizia
Agrippina lor madre: si diede a fomentar ed accrescere l'odio di
Tiberio contro d'essi, e il mal animo di Livia Augusta contro
d'Agrippina. Chiunque ancora de' nobili sembrava a lui capace
d'interrompere i voli della sua fortuna, cominciò egli sotto vari
pretesti, e massimamente di aver essi sparlato di Tiberio, a
perseguitarli con accuse che in questi tempi ad alcuni, e col
progresso del tempo a moltissimi costarono la vita[118]. Succedeva
talvolta che gl'istrioni, o vogliam dire i commedianti, eccedevano
nell'oscenità, e tagliavano i panni addosso a determinate donne
romane, o pure porgevano occasioni a risse. Tiberio li cacciò di Roma,
e vietò l'arte loro in Italia. Alle persone di merito dopo morte erano
state alzate alcune statue da esso Tiberio. Videsi nel presente anno
questa deformità, cioè, ch'egli mise la statua di bronzo di Sejano nel
pubblico teatro. L'esempio del principe servì ad altri, per esporne
molte altre simili. E conoscendo già ognuno che costui era la ruota
maestra della fortuna e degli affari, risonavano dappertutto le sue
lodi ed anche nello stesso senato; piena sempre di nobili l'anticamera
di lui; i consoli stessi frequenti visite gli faceano; nulla in fine
si otteneva, se non passava per le mani di lui. Una bestialità di
Tiberio vien raccontata sotto quest'anno. Un insigne portico di Roma
minacciava rovina, essendosi molto inchinate le colonne che lo
sostenevano[119]. Seppe un bravo architetto con argani ed altri
ingegni ritornarlo al suo primiero sito. Maravigliatosene molto
Tiberio, il fece bensì pagare, ma il cacciò anche fuori di Roma.
Tornato un dì costui per supplicarlo di grazia, credendo di farsi del
merito, gittò un vaso di vetro in terra; poi raccoltolo fece vedere
che possedeva il secreto di racconciarlo. Gli fece Tiberio levar la
vita, senza sapersi il vero motivo di così pazza e crudele sentenza.
Scrive Plinio[120] lo stesso più chiaramente, dicendo che quel vetro
era molle e pieghevole, come lo stagno, con aggiugnere nulladimeno,
essere stata questa una voce di molti, ma poco creduta dai saggi.

NOTE:

[113] Thesaurus Novus Inscript., pag. 301, n. 4.

[114] Tacitus, lib. 4, c. 8.

[115] Dio, lib. 58.

[116] Sueton., in Tiber., cap. 52.

[117] Dio, lib. 57.

[118] Tacitus, lib. 4, cap. 14.

[119] Dio, lib. 57.

[120] Plinius, lib. 36, cap. 26.




    Anno di CRISTO XXIV. Indizione XII.

    TIBERIO imperadore 11.

_Consoli_

SERVIO CORNELIO CETEGO e LUCIO VISELIO VARRONE.


Ancorchè Tiberio non chiedesse al senato la confermazione della sua
suprema autorità[121], finito il decennio di essa, come usò Augusto,
perchè egli non l'avea dianzi ricevuta per un determinato tempo: pure
si solennizzarono i decennali del suo imperio con varii giuochi
pubblici e feste. E perciocchè[122] i pontefici e sacerdoti aveano
fatto dei voti per la conservazione della vita di Tiberio, unendo
anche con lui _Nerone_ e _Druso_, cioè i due maggiori figliuoli del
defunto _Germanico_, se l'ebbe a male il geloso Tiberio. Volle sapere,
se così avessero fatto per preghiere o per minacce d'Agrippina lor
madre; ed inteso che no, li rimandò, non senza qualche riprensione.
Poscia nel senato si lasciò meglio intendere, con dire che non si avea
con prematuri onori da eccitare od accrescere la superbia de' giovani
per lo più sconsigliati. Sejano anch'egli non lasciava di fargli
paura, ripetendo essere già divisa Roma in fazioni; una d'esse portare
il nome di Agrippina; e doversi perciò prevenire maggiori disordini.
Dato fu quest'anno fine alla guerra, già mossa da Tacfarinate in
Africa. Era proconsole di quelle provincie Publio Dolabella, e
tuttochè fosse stata richiamata in Italia la legione nona che era in
quelle parti, pure raccolti quanti soldati romani potè, all'improvviso
assalì i Numidi, mentre sotto il comando di esso Tacfarinate stavano
raccolti sotto un castello mezzo smantellato. Fatta fu strage di loro,
e fra gli uccisi vi restò il medesimo Tacfarinate, per la cui morte
ritornò la quiete fra que' popoli. Fu in quella azione aiutato
Dolabella da Tolomeo figliuolo di Giuba, re della Mauritania. Erano
dovuti al vincitore proconsole gli onori trionfali, ed egli ne fece
istanza; ma non gli ottenne, perchè a Sejano non piacque di vederlo
uguagliato nella lode a Bleso suo zio, predecessore di Dolabella nel
governo che pure avea ricevuto quel premio, con aver operato tanto
meno. A _Tolomeo_ re fu inviato da Tiberio in dono uno scettro
d'avorio, e una veste ricamata in segno del gradimento dello aiuto
prestato. Perseguitò Tiberio in quest'anno alcuni de' nobili, non
d'altro delitto rei che d'aver mostrato il loro amore a Germanico e a'
suoi figliuoli; e ad alcuni per questo gran misfatto, tolta fu la
vita, crescendo ogni dì più la crudeltà del principe, e per
conseguente il comune odio contro di lui. Abbondavano allora le spie;
orecchio si dava a tutti gli accusatori, e niuno era sicuro. Nelle
contrade di Brindisi un Tito Cortisio, soldato pretoriano ne' tempi
addietro, mosse a sedizione i servi o, vogliam dire, gli schiavi di
quelle parti; e vi fu paura d'una guerra servile. Ma per la
sollecitudine di Tiberio e di Curzio Lupo questore, che con un corpo
di armati volò contro di loro, restò in breve estinto il nascente
incendio. Hanno osservato gli eruditi[123] che nell'anno presente
avendo Valerio Grato dato fine al suo governo della Giudea, Tiberio
spedì colà per procuratore e governatore _Ponzio Pilato_, di cui è
fatta menzione nel Vangelo.

NOTE:

[121] Dio, lib. 57.

[122] Tacitus, lib. 4, cap. 16.

[123] Noris, Cenotaph. Pisan., Dissert. 2, cap. 16. Blanch., in
Anastas. Schelestratus et alii.




    Anno di CRISTO XXV. Indizione XIII.

    TIBERIO imperadore 12.

_Consoli_

MARCO ASINIO AGRIPPA e COSSO CORNELIO LENTOLO.


Vien creduto che _Cosso_ sia un prenome particolare della casa de'
Cornelii Lentoli. Nuovo esempio dell'infelicità dei Romani, regnando
il crudele Tiberio e il prepotente Sejano, si vide nel presente
anno[124]. Cremuzio Cordo, uno de' migliori ingegni de' Romani
d'allora, avea composta[125] una storia delle guerre civili di Cesare
e Pompeo, conducendola anche ai tempi d'Augusto. Lo stesso Augusto
l'avea letta, e, siccome principe saggio e discreto, non se n'era
punto formalizzato. Ma avendo Cremuzio dipoi, forse con qualche
parola, disgustato Sejano, si trovarono in quella storia dei delitti
gravissimi. Egli avea lodato Bruto e Cassio uccisori di Cesare, e
chiamato lo stesso Cassio _l'ultimo dei Romani_. Male non avea detto
di Giulio Cesare, nè di Augusto, ma neppure stato era prodigo di lodi
verso di loro. Fu accusato per questo nel senato, e Tiberio con occhio
arcigno gli diede assai a conoscere d'essere indispettito contro di
lui. Si difese egli coll'esempio di Tito Livio e d'altri scrittori e
storici precedenti; ma tornato a casa, ed increscendogli di vivere
sotto un sì tirannico governo, si lasciò morir di fame. Sentenziati
furono al fuoco i di lui scritti; contuttociò avendone Marcia sua
figliuola conservata una copia, vennero dopo la morte di Tiberio alla
luce, accolti allora con ansietà maggiore dal pubblico appunto per la
persecuzione sofferta dall'autor d'essi, ma a noi poscia rubati dalla
voracità de' tempi. Osserva Tacito la mellonaggine di que' potenti,
che mal operando non vorrebbono che la memoria de' lor perversi fatti
passasse ai posteri; e tutto fanno per abolirla. Ma Iddio permette
ch'ella vi passi per castigare anche nel nostro mondo chi s'è abusato
della potenza in danno de' popoli. Ai Ciziceni in quest'anno levato fu
il privilegio di regolarsi colle proprie leggi e co' propri
magistrati; e ciò perchè non avevano per anche terminato un tempio
eretto ad Augusto ed avevano imprigionati alcuni cittadini romani. Le
città di Spagna in questi tempi, inclinate anch'esse all'adulazione,
inviarono ambasciatori a Tiberio, pregandolo di permettere che
innalzassero dei templi a lui e a Livia Augusta sua madre, siccome
egli avea conceduto alle città dell'Asia. Tacito mette le più belle
sentenze in bocca di Tiberio[126], con riferire il ragionamento di lui
fatto nel senato per cui nol volle loro permettere, riconoscendo sè
stesso per uno de' mortali, e bastando a lui di avere un tempio nel
cuore de' senatori per l'amore e la stima che sperava da essi. Salì
poi tanto alto l'ambizion di Sejano, che nel presente anno arditamente
supplicò per ottenere in moglie _Giulia Livilla_, vedova del fu _Cajo
Cesare_, figliuolo adottivo di Augusto, e poi del defunto _Druso
Cesare_, e nuora del medesimo Tiberio. Quantunque fosse eccessivo il
favore di Tiberio verso di lui, pure non si lasciò indurre l'astuto
principe ad accordargli tal grazia: il che sconcertò forte le misure
di Sejano, e lo rendè malcontento della propria per altro smoderata
fortuna. Tuttavia mise in ordine altre macchine, siccome vedremo
nell'anno seguente. Credono alcuni letterati[127], che in quest'anno
corresse l'_anno XV dell'impero di Tiberio_, enunziato da san Luca, in
cui san Giovanni Batista diede principio alle sue prediche. Prendesi
tal anno dal fine d'agosto dell'anno undecimo dell'Era cristiana, in
cui Tiberio colla podestà tribunizia fu costituito suo collega
nell'imperio d'Augusto.

NOTE:

[124] Tacitus, lib. 4, cap. 34.

[125] Dio, lib. 57.

[126] Tacitus, loc. cit.

[127] Pagius, in Critic. Baron., Stampa et alii.




    Anno di CRISTO XXVI. Indizione XIV.

    TIBERIO imperadore 13.

_Consoli_

CAJO CALVISIO SABINO e GNEO CORNELIO LENTOLO GETULICO.


Ebbero questi consoli nelle calende di luglio per successori nella
dignità _Quinto Marcio Barea_ e _Tito Rustio Nummio Gallo_. V'ha chi
crede non doversi attribuire il nome di _Cornelio_ a _Lentolo
Getulico_. Ma certamente i Lentoli soleano essere della famiglia
_Cornelia_, come si può vedere nei Trattati dell'Orsino e Patino, e di
Antonio Agostino. S'erano messi in armi[128] alcuni popoli della
Tracia, perchè non voleano sofferir che si facesse dai Romani leva di
soldati nei lor paesi; negavano anche ubbidienza a _Remetalce_ re
loro. A Poppeo Sabino fu data l'incombenza di marciar contro di loro
con quelle forze che potè raccogliere; e questi sì fattamente gli
strinse, che per la fame e più per la sete, parte rimasero uccisi, e
il rimanente se n'andò disperso. Per tal vittoria accordati furono a
Sabino gli onori trionfali. Crebbero in questo anno le amarezze fra
Tiberio ed Agrippina, vedova di Germanico, perchè fu condannata
Claudia Pulcra, o sia Bella, cugina di lei. Parlò alto Agrippina a
Tiberio, il pregò ancora di darle marito; ma egli, che temeva
competenza nel governo, la lasciò senza risposta. Fu poi gran lite in
Roma fra gli ambasciadori delle città dell'Asia, gareggiando cadauna
per aver l'onore di alzare un tempio ad Augusto. La decision del
senato cadde in favore della città di Smirna. Ritirossi nell'anno
presente Tiberio nella Campania, col pretesto di andare a dedicare un
tempio a Giove in Capoa, e un altro in Nola ad Augusto, morto in
quella città. Suo pensiero era di non ritornar più a Roma, e così fu
in fatti. Si misero tutti allora a scandagliare i motivi di questa
ritirata. Chi pensò ciò avvenuto per arte e suggestione di Sejano, che
voleva restar solo alla testa degli affari in Roma, e seppe così ben
dipingere gl'incomodi, a' quali era sottoposto il principe per tante
visite, suppliche e giudizii, che l'indusse a cercar la quiete nella
solitudine. Furono altri di parere, ch'egli se ne andasse, per non
poter più sofferire l'ambizion di Livia sua madre, giacchè ella
credeva a sè competente il far da padrona al pari di lui: cosa ch'egli
non sapea digerire, ma neppure assolutamente vietare, considerando la
signoria sua un dono di lei. Credettero finalmente altri, che si
movesse Tiberio a tal risoluzione solamente per impulso proprio
originato dall'infame sua libidine, in cui da gran tempo ero immerso,
e continuava più che mai il sozzo vecchio, ma con istudiarsi di
soddisfarla in segreto al che era più proprio un luogo ritirato. Si
aggiungeva l'esser egli d'alta, ma gracile statura, col capo calvo e
colla faccia sparsa d'ulcere, e coperta per lo più da empiastri. Hanno
perciò creduto alcuni, che ciò fosse un frutto della sua sordida
impudicizia, e che il morbo gallico somministrasse ancora in que'
tempi un castigo, benchè raro, ai perduti dietro alle femmine
prostitute. Vergognandosi egli di comparire in pubblico con sì deforme
figura, parve ad alcuni di trovare in lui bastante motivo di fuggire
dal consorzio degli uomini. In fatti anche dopo la morte della madre e
di Sejano, si tenne egli lontano da Roma, benchè talvolta andasse
burlando la gente credula, con ispargere voce del suo imminente
ritorno. Pochi cortigiani volle seco Tiberio. Fra essi furono Sejano e
Coccejo Nerva, personaggio pratico della giurisprudenza e
probabilmente avolo di Nerva, che fu dipoi imperadore. Ad assaissimi
lunari e ciarle senza fine dei Romani diede motivo la risoluzion presa
da Tiberio, nè queste furono a lui ignote. Con levar la vita ad
alcuni, forse anche innocenti, egli insegnò agli altri ad esaminare e
censurar con più riguardo le azioni de' tiranni.

NOTE:

[128] Tacitus, lib. 6, cap. 46.




    Anno di CRISTO XXVII. Indizione XV.

    TIBERIO imperadore 14.

_Consoli_

MARCO LICINIO CRASSO e LUCIO CALPURNIO PISONE.


Il primo di questi consoli in due iscrizioni riferite dal
Reinesio[129], vien chiamato MARCVS CRASSVS FRVGI. Queste iscrizioni,
senz'avvedermi ch'erano già pubblicate, le ho inserite ancor io nella
mia raccolta; e sono ben più da attendere, che la rapportata dallo
Sponio, per conoscere il vero cognome d'esso console. Andò in
quest'anno Tiberio Augusto a fissar la sua abitazione nell'amena isola
di Capri, otto miglia distante da Surrento, tre dalla terra ferma,
sprovveduta di porto, e solo accessibile a piccole barche, dove
ritirato, con suo comodo continuò a sfogare la infame sua lussuria.
Non si sa quante guardie egli menasse seco. Molto strano era
nondimeno, che un imperadore soggiornasse in sì piccolo sito per dieci
anni senza aver paura de' corsari, o di chi gli volesse male.
Fors'egli si assicurò sulla difficoltà di approdare colà per cagion
degli scogli. Pochi giorni dopo il suo arrivo un pescatore per mezzo
di essi scogli penetrò nell'isola[130], e gli presentò un bel mullo o
triglia, pesce allora stimatissimo. Perchè s'ebbe non poco a male
Tiberio, che costui per quella difficile via fosse entrato, fece
fregargli e lacerargli il volto col medesimo pesce; e buon per lui che
non gli accadde di peggio. Sejano intanto non tralasciava diligenza
alcuna per accendere sempre più la diffidenza e l'odio di Tiberio
contro di _Agrippina_, vedova di Germanico, e contro di _Nerone_
primogenito d'essa, non quello che fu poi imperadore. Secondo le
apparenze dovea questo giovane principe, siccome nipote per adozione
di Tiberio, succedere a lui nell'imperio. Sejano, che v'aspirava
anch'egli il tenea forte di vista; segretamente ancora inviava
persone, che sotto specie d'amicizia il gonfiavano, esortandolo a
mostrar più spirito; tale esser il desiderio del popolo romano; tale
quel degli eserciti. All'incauto giovane scappavano talvolta parole,
che meglio sarebbe stato il tenerle fra i denti. Tutto era riferito a
Sejano, e tutto passava, forse anche con delle giunte, alle orecchie
di Tiberio, con aggiungere sospetti a sospetti. Però nell'anno
presente furono messi soldati alla guardia del palazzo d'Agrippina,
affin di risapere chi v'andava e che vi si parlava: tutti segni
funesti di maggiore strepito e della futura ruina. Accadde in
quest'anno un caso quasi incredibile e sommamente lamentevole, che ha
pochi pari nella storia[131]. In Fidene, città lontana da Roma cinque
sole miglia, cadde in pensiero ad un uomo di bassa sfera, e neppur
ricchissimo, per nome Atilio, di schiatta libertina, di fabbricare un
anfiteatro di legno di gran mole, per dar al popolo lo spettacolo de'
gladiatori. Siccome non v'era divertimento, di cui fossero sì ghiotti
i Romani, come di questo; venuto quel dì, a folla vi corse da Roma la
gente, uomini e donne d'ogni età. Ma quella macchina era mancante di
buoni fondamenti, e peggio legata; però ecco sul più bello dell'azione
precipitar tutto l'anfiteatro. Vi restarono soffocate o per la caduta
sfracellate ventimila persone e trenta altre mila ferite in varie
guise, con braccia e gambe rotte e simili altri mali, con urli e grida
che andavano al cielo. Fu almeno considerabile la carità de' cittadini
romani, che nelle loro case accolsero tutti que' miseri,
somministrando loro vitto, medici e medicamenti, con isvegliarsi
l'antico lodevol costume degli antichi, i quali così trattavano dopo
le battaglie i soldati feriti. La pena data ad Atilio per la somma sua
balordaggine, fu l'esilio; ed uscì un editto, che da lì innanzi non
potesse dare il giuoco de' gladiatori, se non chi possedeva
quattrocentomila sesterzi di valsente, e che fosse approvato
l'anfiteatro da intendenti architetti. A questa disavventura tenne
dietro in Roma un grave incendio, che consumò tutte le case poste nel
monte Celio. Tiberio all'avviso di un tal danno spontaneamente si
mosse alla liberalità, inviando gran soccorso di danaro a chi avea
patito: il che gli fece assai onore, e ne fu anche ringraziato dal
senato.

NOTE:

[129] Reinesius, Inscription. Class. VII, n. 10, 18.

[130] Sueton., in Tiber., cap. 60.

[131] Tacitus, lib. 2 Annal., c. 62. Sueton., in Tiber., c. 40.




    Anno di CRISTO XXVIII. Indizione I.

    TIBERIO imperadore 15.

_Consoli_

APPIO GIULIO SILANO e SILIO NERVA.


Gran romore e compassione cagionò in quest'anno in Roma la caduta di
Tizio Sabino, illustre cavaliere romano[132]. Era egli de' più
affezionati alla famiglia di Germanico, praticava in casa d'Agrippina,
l'accompagnava in pubblico. Sejano gli tese le reti. Latinio Laziare,
d'ordine suo, s'insinuò nella di lui amicizia cominciando con
amichevoli ragionamenti intorno alle afflizioni di Agrippina, e del
mal trattamento a lei fatto e a' suoi figliuoli da Tiberio: del che
andava mostrando gran compassione. Non potè Sabino ritenere le
lagrime, e sdrucciolò in lamenti contro la crudeltà e superbia di
Sejano, non la perdonando neppure a Tiberio. Con tali ragionamenti si
strinse fra loro una stretta confidenza. In un giorno determinato
Laziare trasse in sua casa il mal accorto Sabino, per avvertirlo di
disgrazie che soprastavano ai figliuoli di Germanico. Stavano ascosi
nella camera vicina tre detestabili senatori per udir tutto, ed
udirono in fatti Sabino sparlar di Tiberio e di Sejano. L'accusa tosto
andò al senato, ed egli imprigionato, fu nel primo dì solenne
dell'anno condotto al supplicio con terrore di ognuno che seppe la
frode usata. Ebbe da lì innanzi ognuno sommo riguardo nel parlare del
governo, nè pur attentandosi d'ascoltare, nè fidandosi d'amici, e
sospettando fin delle stesse mura. Gittato il corpo di Sabino nel
Tevere, un suo cane, che lo avea seguitato alla prigione, e s'era
trovato alla sua morte, andò anch'esso a precipitarsi e a morire nel
fiume: del che altri esempi si son più volte veduti. Plinio anch'egli
parla[133] della fedeltà di questo cane, ma con pretendere che fosse
di un liberto di Sabino, condannato con lui alla morte. Mancò di vita
in quest'anno _Giulia_ figliuola di _Giulia_, e nipote d'Augusto, la
quale non men della madre convinta già d'adulterio, e relegata in
un'isola da esso imperadore, e sostenuta ivi da Livia Augusta, per
venti anni, avea fatto penitenza de' suoi falli. Ribellaronsi in
questi tempi i popoli della Frisia, per non poter sofferire i tributi
loro imposti, leggeri sul principio, e poscia accresciuti
dagl'insaziabili ministri colà inviati. Contra di loro marciò Lucio
Apronio vicepretore della Germania inferiore con un buon corpo di
armati; ma volendo perseguitarli per quel paese inondato dall'acque e
pieno di fosse, vi lasciò morti circa mille e trecento de' suoi in più
incontri, con gloria de' Frisj e vergogna sua. Tiberio, ancorchè
dolente ne ricevesse la nuova, pure per li suoi fini e timori politici
niun generale volle inviare colà. Troppa apprensione gli facea il
mettere in mano altrui il comando di grossa armata. Faceva istanza il
senato, perchè Tiberio e Sejano ritornassero; e in fatti vennero essi
in terra ferma della Campania; e colà si portò non solamente il
senato, ma gran copia della nobiltà e della plebe con ritornarsene poi
quasi tutti malcontenti o dell'alterigia di Sejano, o del non aver
potuto ottenere udienza dal principe. Diede nell'anno presente Tiberio
in moglie a Gneo Domizio Enobarbo _Agrippina_, figliuola di Germanico
e di Agrippina, più volte da noi memorata. Da loro poi nacque Nerone,
mostro fra gl'imperadori. Era già parente della casa d'Augusto questo
Gneo Domizio, avendo avuto per avola sua Ottavia, sorella d'Augusto.
Svetonio[134], parlando di costui, ci assicura ch'egli fu una sentina
di vizii; e però da meravigliarsi non è, se il suo figliuolo, divenuto
imperadore, non volle essere da meno del padre. Diceva lo stesso
Domizio, che da lui e da Agrippina nulla potea prodursi, se non di
cattivo e di pernicioso al pubblico. Convien credere che questa
Agrippina juniore, ben dissomigliante dalla madre, fosse in sinistro
concetto anche in sua gioventù.

NOTE:

[132] Tacitus, lib. 4, c. 68. Dio, lib. 58.

[133] Plinius, lib. 8, c. 40.

[134] Suet., in Neron., c. 5. Dio, in Neron.




    Anno di CRISTO XXIX. Indizione II.

    PIETRO APOSTOLO papa 1.
    TIBERIO imperadore 16.

_Consoli_

LUCIO RUBELLIO GEMINO e CAJO RUFIO GEMINO.


Nelle calende di luglio furono sostituiti altri consoli. Ha creduto
taluno, che fossero _Quinto Pomponio Secondo_, e _Marco Sanquinio
Massimo_. Ma il cardinal Noris[135] con più fondamento mostrò essere
stati _Aulo Plauzio_ e _Lucio Nonio Asprenate_. Certamente egli è da
dubitare, che nell'assegnar i consoli sostituiti, si sieno talvolta
ingannati i fabbricatori de' fasti consolari. Più d'un esempio di ciò
si trova nel Panvinio. Ora sotto questi due consoli _Gemini_ han
tenuto e tengono tuttavia alcuni letterati, che seguisse la Passione
del divin nostro Salvatore: opinione fondatissima, perchè assistita da
una grande antichità, ed approvata da molti de' santi Padri. Se così
è, a noi sia lecito di metter qui l'anno primo del pontificato di san
Pietro Apostolo. Tertulliano[136], autore che fiorì nel secolo
seguente, chiaramente scrisse, che il Signore patì _sub Tiberio
Caesare, Consulibus Rubellio Gemino et Rufio Gemino_. Furono del
medesimo sentimento Lattanzio, Girolamo, Agostino, Severo Sulpizio ed
il Grisostomo. Altri poi han riferito ad alcuno degli anni seguenti un
fatto sì memorabile della santa nostra religione. All'istituto mio non
compete il dirne di più; e massimamente, perchè, con tutti gli sforzi
dell'ingegno e della erudizione, non s'è giunto fin qui, e
verisimilmente mai non si giugnerà a mettere in chiaro una così
tenebrosa quistione. A noi dee bastare la certezza del fatto, poco
importando l'incertezza del tempo. Sino a quest'anno era vissuta
_Livia_, già moglie d'Augusto, e madre di Tiberio[137], appellata
anche Giulia da Tacito e in varie iscrizioni, perchè dal medesimo
Augusto adottata. Morì essa in età assai avanzata, con lasciar dopo di
sè il concetto d'essere stata donna di somma ambizione, e non men
provveduta di sagacità per soddisfarla, con aver saputo, a forza di
carezze e di una allegra ubbidienza in tutto, guadagnarsi il cuore
d'Augusto. Con tali arti condusse al trono il figlio Tiberio, poco
amata, ma nondimeno rispettata da lui, e temuta da Sejano, finchè ella
visse, pochissimo poi compianta da loro in morte. Prima che Tiberio si
ritirasse a Capri[138], era insorto qualche nuvolo fra lui e la madre,
perchè facendo ella replicate istanze al figliuolo di aggregare ai
giudici una persona a lei raccomandata, le rispose Tiberio d'essere
pronto a farlo, purchè nella patente si mettesse, che la madre gli
avea estorta quella grazia. Se ne risentì forte Livia, e piena di
sdegno gli rinfacciò i suoi costumi scortesi ed insoffribili, i quali,
aggiunse, erano stati ben conosciuti da Augusto; e, in così dire, cavò
fuori una lettera conservata fin allora del medesimo Augusto, in cui
si lamentava dell'aspre maniere del di lei figliuolo. Ne restò sì
disgustato Tiberio, che alcuni attribuirono a questo accidente la sua
ritirata da Roma. In fatti nell'ultima di lei malattia neppur si mosse
per farle una visita; e dappoichè la seppe morta, andò tanto
differendo la sua venuta, ch'era putrefatto il di lei corpo allorchè
fu portato alla sepoltura. Avendo l'adulator senato decretato molti
onori alla di lei memoria, egli ne sminuì una parte, e sopra tutto
comandò che non la deificassero (benchè poi sotto l'imperio di Claudio
a lei fosse conceduto questo sacrilego onore) facendo credere che così
ell'avesse ordinato. Neppur volle eseguire il testamento da essa
fatto, e di poi perseguitò chiunque era stato a lei caro, e infin
quelli ch'essa avea destinati alla cura del suo funerale.

Soleva Tiberio ad ogni morte dei suoi diventar più cattivo. Ciò ancora
si verificò dopo la morte della madre, la cui autorità avea fin qui
servito di qualche freno alla maligna di lui natura, e agli arditi e
malvagi disegni di Sejano, con attribuirsi a lei la gloria di aver
salvata la vita a molti. Poco perciò stette a giugnere in senato
un'assai dura lettera di Tiberio contro _Agrippina_ vedova di
Germanico, e contro di _Nerone_ di lei primogenito. Erano tutti i
reati loro, non già di abbandonata pudicizia, non di congiure, non di
pensieri di novità, ma solamente di arroganza e di animo contumace
contro di Tiberio. All'avviso del pericolo, in cui si trovavano l'uno
e l'altra, la plebe, che sommamente gli amava, prese le loro immagini,
con esse andò alla curia, gridando essere falsa quella lettera, e che
si trattava di condannarli contro la volontà dell'imperadore. Faceano
istanza nel senato i senatori, venduti ad ogni voler di Tiberio, che
si venisse alla sentenza; ma gli altri tutti se ne stavano mutoli e
pieni di paura. Il solo Giunio Rustico, benchè uno de' più divoti di
Tiberio, consigliò che si differisse la risoluzione, per meglio
intendere le intenzioni del principe. Di questo ritardo, e
maggiormente per la commozione del popolo, si dichiarò offeso Tiberio;
ed insistendo più che mai nel suo proposito, fece relegar
_Agrippina_[139] nell'isola Pandataria, posta in faccia di Terracina e
di Gaeta. Dicono che non sapendosi ella contenere dal dir delle
ingiurie contro di Tiberio, un centurione la bastonò per comandamento
di lui sì sgarbatamente, che le cavò un occhio. I di lei figliuoli,
_Nerone_ e _Druso_, benchè nipoti per adozion di Tiberio, furono
anch'essi dichiarati nemici; il primo relegato nell'isola di Ponza, e
l'altro detenuto ne' sotterranei del palazzo imperiale. Qual fosse il
fine di questi infelici, lo vedremo andando innanzi.

NOTE:

[135] Norisius, in epistola Consulari.

[136] Tertull. contra Jud., c. 8.

[137] Tacitus, lib. 5, c. 1.

[138] Sueton., in Tiber., c. 51.

[139] Sueton., in Tiber., cap. 53.




    Anno di CRISTO XXX. Indizione III.

    PIETRO APOSTOLO papa 2.
    TIBERIO imperadore 17.

_Consoli_

LUCIO CASSIO LONGINO e MARCO VINICIO.


In luogo de' suddetti consoli nelle calende di luglio succederono
_Cajo Cassio Longino_ e _Lucio Nevio Sordino_. Qui vien meno la storia
romana, essendosi perduti molti pezzi di quella di Cornelio Tacito; e
l'altra di Dione si scuopre molto digiuna, perchè assassinata
anch'essa dalle ingiurie del tempo. Tuttavia è da dire essere stati sì
in grazia di Tiberio i due suddetti consoli ordinarii, cioè _Lucio
Cassio_ e _Marco Vinicio_, ch'egli da lì a tre anni diede loro in
moglie due figliuole di Germanico; a Cassio _Giulia Drusilla_, a
Vinicio _Giulia Livilla_. Appartiene poi a quest'anno il funesto caso
di Asinio Gallo, figliuolo di Asinio Pollione, celebre a' tempi
d'Augusto. Dacchè Tiberio dovette ripudiar _Vipsania_, figliuola
d'Agrippa, sua moglie primiera, che già gli avea partorito _Druso_,
per prendere _Giulia_ figliuola d'Augusto, questa Vipsania si maritò
col suddetto Asinio Gallo, e gli partorì dei figliuoli, i quali perciò
vennero ad essere fratelli uterini di Druso Cesare, ed uno d'essi era
stato promosso al consolato. Ma, per testimonianza di Tacito, Tiberio
mirò sempre di mal occhio Asinio Gallo per quel maritaggio. Tanto più
se la prese con lui[140], perchè osservò ch'egli facea una gran corte
a Sejano, e l'esaltava dappertutto, forse credendo che costui
arriverebbe un dì all'imperio, o pure cercando in lui un appoggio
contro le violenze di Tiberio. Dovendo il senato inviar degli
ambasciatori a Tiberio, fece egli negozio per essere un d'essi. Andò,
fu ricevuto con volto ben allegro da esso Tiberio, e tenuto alla sua
tavola, dove lietamente si votarono più bicchieri; ma nel medesimo
tempo ch'egli stava in gozzoviglia, il senato, che avea ricevuta una
lettera da Tiberio con alcune accuse immaginate dal suo maligno
capriccio, il condannò, con ispedir tosto un pretore a farlo prigione.
S'infinse Tiberio d'essere sorpreso all'avviso di quella sentenza, ed
esortato Asinio a star di buona voglia, e a non darsi la morte, come
egli desiderava, il lasciò condurre a Roma, con ordine di custodirlo
sino al suo ritorno in città. Ma non vi ritornò mai più Tiberio; ed
egli intanto senza servi, e senza poter parlare se non con chi gli
portava tanto di cibo, che bastasse a non lasciarlo morire, andò
languendo in una somma miseria, con finir poscia i suoi guai, non si
sa se per la fame o per altro verso, nell'anno 33 della nostra Era,
siccome attesta Tacito. Eusebio[141], che mette la sua morte nell'anno
primo di Tiberio, non è da ascoltare. Anche Siriaco, uomo insigne pel
suo sapere, tolto fu di vita non per altro delitto, che per quello
d'essere amico del suddetto Asinio. In quest'anno appunto scrisse la
sua storia, di cui buona parte s'è perduta, _Vellejo Patercolo_, con
indirizzarla a Marco Vinicio, uno dei due consoli di quest'anno; però
non merita scusa la prostituzione della sua penna in caricar di tante
lodi Tiberio e Sejano. Le loro iniquità davano negli occhi di tutti; e
quegl'incensi sì mal impiegati, sempre più ci convincono di che animi
servili fosse allor pieno il senato e la nobiltà romana. Abbiamo da
Dione, che sempre più crescendo l'autorità e l'orgoglio di Sejano,
tanto più per paura o per adulazione crescevano le pubbliche e le
private dimostrazioni di stima verso di lui. Già in ogni parte di Roma
si miravano statue alzate in suo onore[142]. Fu anche decretato in
senato, che si celebrasse il di lui giorno natalizio. E a lui
separatamente, e non più al solo Tiberio, si mandavano gli
ambasciatori dal senato, dai cavalieri, dai tribuni della plebe e
dagli edili. Cominciossi ancora ne' voti e sagrifizii che si facevano
agli dii del Paganesimo per la salute di Tiberio, ad unir seco Sejano;
si udivano grandi e piccioli giurare per la fortuna di amendue; il che
era riserbato in addietro per gli soli imperadori. Non lasciava
quell'astuta volpe di Tiberio, benchè si stesse nell'infame suo
postribolo di Capri, d'essere informato di tutto questo; e tutto anche
dissimulava, ma coll'andar intanto ruminando quel che convenisse di
fare.

NOTE:

[140] Dio, in Excerptis Vales.

[141] Euseb., in Chron.

[142] Dio, lib. 58.




    Anno di CRISTO XXXI. Indizione IV.

    PIETRO APOSTOLO papa 3.
    TIBERIO imperadore 18.

_Consoli_

Lo stesso TIBERIO AUGUSTO per la quinta volta, LUCIO ELIO SEJANO.


Non ritennero Tiberio e Sejano lungo tempo il consolato, perciocchè,
siccome avvertì il cardinale Noris[143], nel dì 9 di maggio
subentrarono in quella dignità _Fausto Cornelio Sulla_ e _Sestidio
Catullino_, ciò apparendo da un'iscrizione. Da un'altra ancora da me
rapportata[144] apparisce il loro nome, ma con qualche mio dubbio, che
SEXTEIDIVS possa essere _Sex. Teidius_. Il non trovar io vestigio
della famiglia _Sestidia_, ma bensì della _Tidia_, mi ha fatto nascere
un tal dubbio. All'uno di questi due consoli fu surrogato nelle
calende di luglio _Lucio Fulcinio Trione_, e all'altro nelle calende
di ottobre, _Publio Memmio Regolo_, che non era amico di Sejano, come
Fulcinio Trione. Con occhi aperti vegliava Tiberio sopra gli andamenti
del suo favorito Sejano, pentito ormai d'averlo tanto esaltato. Già
s'era accorto che costui avea serrati i passi ai ricorsi, nè gli
lasciava sapere, se non ciò ch'egli voleva. Molto più appariva che
costui a gran passi tendeva al trono col deprimere i suoi nemici, e
guadagnarsi ogni dì più amici e clienti. E giacchè il senato e il
popolo erano giunti ad eguagliarlo a lui in più occasioni, ed
all'incontro ben sapea Tiberio d'essere poco amato, anzi odiato dai
più dei Romani; preso fu da gagliardo timore, che potesse scoppiar
qualche gran fulmine sopra il suo capo. Abbiamo ancora da Giuseppe
Ebreo[145] che Antonia madre di Germanico e di Claudio, che fu poi
imperadore, spedito a Capri Pallante suo fidatissimo servo, diede
avviso a Tiberio della congiura tramata da esso Sejano coi pretoriani
e con molti senatori e liberti d'esso Tiberio, di maniera che egli
restò accertato del pericolo suo. Ma come atterrare un uomo sì ardito
e intraprendente, e giunto a tanta possanza? La via di prevenirlo
tenuta da quell'astuto vecchio, fu quella di sempre più comparir
contento ed amante di Sejano, e di colmarlo di nuovi onori, per più
facilmente ingannarlo. Il creò console per l'anno presente, e affine
di maggiormente onorarlo, prese seco il consolato. Scrisse anche al
senato con raccomandargli questo suo fedele ministro. Potrebbe
chiedersi, perchè nol facesse strozzare in Capri, e come mai per
abbatterlo il facesse salire al consolato, cioè ad una dignità che
aumentava non solo il di lui fasto, ma anche la di lui autorità e
potere. Quanto a me vo' credendo, ch'egli non s'attentasse nè in Capri
nè in Roma di fargli alcun danno, finchè costui era prefetto del
pretorio, cioè capitan delle guardie imperiali, il che vuol dire di un
corpo di gente consistente in dieci mila de' migliori soldati fra i
Romani, ed abitante unito in Roma. Allorchè Tiberio volea farsi ben
rispettare e temere dai consoli e senatori, alla lor presenza dava la
mostra ai pretoriani. Ma anche a lui faceano essi paura, perchè
comandati da Sejano, e ubbidienti a' di lui cenni; ed esso Augusto era
attorniato da sì fatte guardie anche in Capri. Adunque con crear
Sejano console, ed inviarlo a Roma, se lo staccò dai fianchi,
disegnando di torgli a suo tempo la carica di prefetto del pretorio,
per conferirla a Nevio Sertorio Macrone.

Dopo pochi mesi gli fece dimettere il consolato, allettandolo intanto
colla speranza d'impieghi e premii maggiori[146], cioè di associarlo
nella podestà tribunizia, grado sicuro alla succession dell'imperio, e
di dargli moglie di sangue cesareo, verisimilmente Giulia Livilla,
figliuola di Germanico. E perciocchè Sejano, dappoichè ebbe deposto la
trabea consolare, facea istanza di tornarsene in Capri, per seguitar
ivi a far da padrone; Tiberio il fermò con dar ad intendere a lui, e
spacciar dappertutto, che fra poco voleva anch'egli tornarsene a Roma.
Ne' mesi seguenti andò Tiberio fingendo ora esser malato, ora di star
bene, e sempre venivano nuove ch'egli si preparava pel viaggio. Talor
lodava Sejano, ed altre volte il biasimava. In considerazione di lui
facea delle grazie ad alcuni de' suoi amici, ed altri pure amici di
lui maltrattava con varii pretesti: tutto per raccogliere segretamente
col mezzo delle spie, quali fossero i sentimenti e le inclinazioni del
senato e del popolo. Non andò molto che al non vedersi ritornar Sejano
a Capri e all'osservar certi segni di rallentato amore di Tiberio
verso di lui, molti cominciarono a staccarsi con buona maniera da lui,
e calò non poco il suo credito anche presso del popolo. Ma Sejano, tra
perchè non gli parea di mirar l'animo di Tiberio alienato punto da sè,
e perchè Tiberio conferì a lui e a suo figliuolo in questo mentre
l'onore del pontificato, non pensò, siccome avrebbe potuto, a far
novità alcuna. Fu poi ben pentito di non l'aver fatto, allorchè era
console. Nulladimeno viveva egli con delle inquietudini e con dei
sospetti; e strano gli parve che avendo Tiberio con una lettera recato
avviso al senato della morte di _Nerone_, figliuolo primogenito di
Germanico e di Agrippina, e suo nipote per adozione, niuna lode, come
era usato di fare, avesse fatta del medesimo Sejano. Relegato, siccome
già dissi, questo infelice principe nell'isola di Ponza, finì quivi
nell'anno presente la sua vita: chi disse per la fame, e chi perchè
essendo in sua camera il boja per istrangolarlo, egli da sè stesso si
uccise. Certo fu anch'egli vittima della crudeltà di Tiberio.

Ora informato abbastanza Tiberio, che l'affezion del senato e popolo
verso Sejano non era quale si figurava egli in addietro, volle passar
all'ultimo colpo, ma tremando per l'incertezza dell'esito. Nella notte
precedente il dì 18 di ottobre comparve a Roma Macrone, segretamente
dichiarato prefetto del pretorio, e ben istruito di quel che s'avea da
fare, mostrando di venir per altro negozio; e fu a concertare gli
affari con Memmio Regolo, l'uno de' consoli, perchè l'altro, cioè
Fulcino Trione, era tutto di Sejano. La mattina per tempo andò al
tempio di Apollo, dove s'avea da unire il senato, ed incontratosi a
caso con Sejano, che non era per anche entrato, fu richiesto se avesse
lettere per lui. Si annuvolò non poco Sejano all'udire che no; ma
avendolo tratto in disparte Macrone, e dettogli che gli portava la
podestà tribunizia, tutto consolato ed allegro andò a seder nella
curia. Macrone intanto, chiamati a sè i soldati pretoriani, una buona
mano de' quali facea sempre corteggio e guardia a Sejano, mostrò loro
le sue patenti di prefetto del pretorio, e in luogo d'essi alla
guardia del tempio distribuì le compagnie dei vigili, comandate da
Gracino Lacone consapevole del segreto. Entrato egli poscia colà,
presentò una lettera molto lunga, ma ingarbugliata, di Tiberio. Non
parlava egli seguitatamente contro di Sejano, ma sul principio
trattava di un differente affare; andando innanzi, si lamentava di
lui; poi ritornava ad altro negozio; e quindi passava a dir male di
Sejano, conchiudendo in fine, che si facessero morir due senatori
molto confidenti di lui, e Sejano fosse ritenuto sotto buona guardia.
Non si attentò di dire che il facessero morire, perchè temeva che si
svegliasse qualche tumulto da' suoi parziali. Confusi ed estatici
rimasero i più de' senatori ad ordini tali, perchè già preparati a far
de' complimenti ed elogi a Sejano per la promessa a lui podestà
tribunizia. Sejano stesso avvilito senza muoversi dal suo luogo, senza
mettersi ad aringare (il che se avesse fatto, forse altrimenti passava
la faccenda) pareva insensato; e chiamato tre volte dal console Memmio
Regolo, non si movea, siccome usato a comandare, e non ad ubbidire.
Entrato intanto Lacone colle coorti de' vigili, l'attorniò di guardie
e il menò prigione. Niun movimento fecero i pretoriani, perchè Macrone
li tenne a freno, con ispiegar loro la mente del principe, e
promettere ad essi alcuni premii per ordine del senato. Si mosse bensì
la plebe al mirare quel sì dianzi orgoglioso ministro condotto alle
carceri, prorompendo in villanie e bestemmie senza fine, e poi corse
ad abbattere e strascinar tutte le statue a lui poste, giacchè non
poteano infierir contro la persona di lui[147]. Raunatosi poi nel
medesimo giorno 18 di ottobre il senato nel tempio della Concordia,
veggendo che i pretoriani se ne stavano quieti, e intendendo qual
fosse il volere del popolo, condannarono a morte Sejano; e la sentenza
fu immediatamente eseguita col taglio della testa. Accorsa la plebe
gittò giù per le scale gemonie il di lui cadavere, e dopo essersi per
tre dì sfogata contra d'esso, facendone grande scempio, lo buttò in
Tevere. Anche due suoi figliuoli, l'uno maschio e l'altro femmina, per
ordine del senato furono privati di vita; ma perchè insolita cosa era
il far morire una fanciulla, il carnefice, prima di strozzar
quell'infelice, le tolse l'onore in prigione. Apicata moglie di
Sejano, benchè non condannata, si diede la morte da sè stessa, dopo
aver messo in iscritto il tradimento fatto dal marito e da Livilla a
Druso Cesare.

Intanto batteva forte il cuore a Tiberio nell'isola di Capri per
sospetto che non riuscisse bene la meditata impresa; ed avea ordinato
che, per fargli sapere il più presto possibile la nuova, si dessero
segnali da' luoghi alti, frapposti tra Roma e Capri; salì egli in quel
dì sul più eminente scoglio dell'isola, aspettando quivi il lieto
avviso. Per altro aveva egli preparato delle barchette, affinchè, se
il bisogno l'avesse richiesto, potesse ritirarsi in sicuro con esse ad
alcuna delle sue armate. Scrivono eziandio, aver egli dato ordine a
Macrone, che qualora fosse insorta qualche fiera sedizione in Roma,
cavasse dalle carceri _Druso_ figliuolo di Germanico, e il presentasse
al senato ed al popolo, con dichiararlo anche imperadore a nome suo.
Il fine della tragedia di Sejano fu poi principio d'altre gravi
turbolenze, che sconcertarono non poco il senato e la nobiltà romana.
Il popolo già commosso, a qualunque dei favoriti di Sejano, che gli
cadesse nelle mani, levava la vita. Anche i pretoriani sdegnati si
misero a saccheggiare e bruciar delle case. Cominciarono poi dei duri
processi contro dei senatori e d'altri nobili, che più degli altri
s'erano fatti conoscere parziali di Sejano. Molti furono condannati, e
con ignominiosa morte puniti; altri relegati; ed altri da sè stessi si
abbreviarono la vita. Tutto era pieno di accusatori, e si rivangavano
i processi e le condanne, gastigando chi avea giudicato come per
istigazion di Sejano. Si tenne per certo, che le tante adulazioni del
senato verso il medesimo Sejano, e gli onori straordinari a lui
vilmente accordati, contribuissero non poco ad ubbriacarlo e farlo
precipitare. Però lo stesso senato decretò che in avvenire si
procedesse con gran moderazione in onorar altrui, nè si potesse
giurare se non pel nome dell'imperadore. Contuttociò nel medesimo
tempo volle esso senato concedere a Macrone il grado di pretore, e a
Lacone quel di questore, oltre ad un regalo in danari; ma essi,
addottrinati dal recente esempio, nulla vollero accettare. Incredibil
fu la gioja di Tiberio, allorchè si vide sbrigato da Sejano. Ciò non
ostante, la sua mirabil politica gl'insegnò di non ammettere
all'udienza sua alcuno de' tanti senatori e cavalieri che erano corsi
o erano stati spediti dal senato, per significargli la fortunata
riuscita dell'affare. E il console Regolo, che l'avea in ciò ben
servito, fu costretto a tornarsene indietro senza poterlo vedere. Si
figuravano molti, che liberato Tiberio dal giogo, dai mali ufizj e da'
sospetti di Sejano, avesse da lì innanzi da fare un governo dolce.
Troppo s'ingannarono: sempre più egli imperversò. E giacchè era venuto
in cognizione, per la deposizion sopraccennata della moglie di Sejano,
degli autori della morte di Druso suo figliuolo, contro d'essi ancora
con tutto rigore procedette; e la primo a provarne la pena, fu la
stessa _Livilla_ che lasciatasi sovvertir da Sejano, avea tradito il
consorte Druso. Scrive Dione[148] d'aver inteso da alcuni, che Tiberio
non la facesse morire in grazia di Antonia madre di lei, e di
_Claudio_ che fu poi imperadore; ma che la medesima sua madre quella
fosse, che la privò di vita con lasciarla morir di fame.

NOTE:

[143] Norisius, Epist. Cens.

[144] Thesaurus Novus Inscription., pag. 302, num. 4.

[145] Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.

[146] Dio, lib. 58.

[147] Tacitus, lib. 6, c. 25.

[148] Dio, lib. 58.




    Anno di CRISTO XXXII. Indizione V.

    PIETRO APOSTOLO papa 4.
    TIBERIO imperadore 19.

_Consoli_

GNEO DOMIZIO ENOBARBO e MARCO FURIO CAMILLO SCRIBONIANO.


Il primo di questi consoli, marito di _Agrippina_ figliuola di
Germanico, siccome già dissi, ebbe per figliuolo _Nerone_, che divenne
poi imperadore. Al secondo de' consoli, che mancò di vita nel
consolato, fu sostituito _Aulo Vitellio_. Non si sa intendere, perchè
Svetonio[149], allorchè scrisse, essere nato sotto questi consoli
_Marco Salvio Ottone_, uno de' susseguenti imperadori, chiamasse
_Camillo Arruntio_ il collega di _Domizio Enobarbo_: e che parimente
si trova ne' fasti d'Idacio e del Cuspiniano. Forse fu sostituito a
Vitellio, o Vitellio a lui. Parve bene[150], che Tiberio volesse por
fine ai processi e condanne degli amici di Sejano, con permettere
ancora ad alcuni il lutto per la di lui morte; ma poco durò questo
barlume d'indulgenza, ed egli più che mai continuò la persecuzione,
trovando allora altre accuse ancora d'incesti e di parricidii, per
levar la vita a chi non godea di sua grazia. Crebbe perciò cotanto
l'universal odio contro di lui, che il poter divorare le di lui carni,
sarebbe sembrato un gustoso cibo ad ognuno. Fece anche il timore di
lui crescere l'adulazion nel senato. Costume era in addietro che nelle
calende di gennaio, un solo leggesse gli ordini di Tiberio con giurar
d'osservarli: al che gli altri acconsentivano. Fu creduto maggior
ossequio e finezza che cadauno prestasse espressamente quel
giuramento. Inoltre per far conoscere a Tiberio, quanto cara lor fosse
la vita di lui, decretarono che egli scegliesse chi de' senatori fosse
a lui in grado, e che venti d'essi colle spade servissero a lui di
guardia quando egli entrava nel senato. Trovò Tiberio assai ridicolo
un tal decreto; e quantunque ne rendesse loro grazie, pure non
l'approvò, perchè non essendogli ignoto d'essere in odio al senato,
non era sì pazzo da voler permettere intorno alla sua persona di sì
fatte guardie armate. E da lì innanzi molto più attese a conciliarsi
l'amore de' soldati pretoriani, per valersene occorrendo contro il
senato. Avea proposto Giunio Gallione che esso senato accordasse un
privilegio a quei che avessero compiuto il termine della lor milizia.
Tiberio, perchè non gli piacea che le genti militari fossero obbligate
se non a lui solo, mandò in esilio lo stesso Gallione fuori d'Italia,
e poscia il richiamò per metterlo a penare sotto la guardia de'
magistrati, dacchè intese aver egli meditato di passare a Lesbo, dove
sarebbe troppo deliziosamente vivuto. Raccontano Tacito[151] e Dione
che in quest'anno furono processati altri nobili per l'amicizia di
Sejano; e fra gli altri fu punito Latinio Laziare che, siccome abbiam
veduto di sopra, coll'usare un tradimento a Tizio Sabino, fu cagion di
sua morte. Fra gli accusati nondimeno miracolosamente la scappò netta
Marco Terenzio. Il suo reato consisteva nel solo essere stato amico di
Sejano. Lo confessò egli francamente, e con egual coraggio difese il
fatto, mostrando ch'egli così operando avea onorato Tiberio nel suo
favorito; e se Tiberio, signor così saggio, s'era ingannato in
dispensar tante grazie a chi n'era indegno meritavano bene scusa
gl'inferiori, caduti nel medesimo inganno. Nè doversi aver l'occhio
all'ultimo giorno di Sejano, ma bensì ai sedici anni della di lui
potenza, durante il qual tempo chi non volea perire, dovea studiarsi
d'essere a lui caro. E però chiunque volesse condannar chi non avea
fallato in altro che in amare ed onorar Sejano, verrebbe nello stesso
punto a condannar Tiberio. Fu assoluto, nè Tiberio se l'ebbe a male.

Fu creduto daddovero in quest'anno ch'esso Tiberio tornasse a
Roma[152]; imperciocchè da Capri venne nella Campania, e poscia
continuato il viaggio sino al Tevere, quivi imbarcatosi, arrivò agli
orti della Naumachia presso Roma, dove oggidì si vede il monistero
delle moniche de' santi Cosma e Damiano. Erano disposti sulla ripa del
fiume corpi di guardia, acciocchè il popolo non se gli accostasse. Ma
non entrò in città, senza che se ne sapesse il motivo, e se ne tornò
poco dappoi a Capri. Altro non seppe immaginar Tacito, se non che
fosse tirato colà del suo mal genio, per poter nasconder entro quello
scoglio il fetore delle immense sue laidezze. Non è certamente
permesso ad onesta penna il rammentare ciò ch'esso Tacito e Svetonio
non ebbero difficoltà di propalare della detestabil libidine di
quell'infame vecchio. Basterà a me di dire che nel postribolo di Capri
si praticarono ed inventarono tutte le più sozze maniere della
sensualità[153] che faceano orrore allora ad orecchie pudiche. E a
tale stato giunse un principe di Roma pagana, ma senza che ce ne
abbiamo a stupire, perchè non conoscevano i Romani d'allora se non
degli dii compagni della medesima sensualità; e per altro Tiberio era
di coloro che poco conto facevano de' medesimi, ne punto li temevano.
Del solo tuono egli avea paura, e correva a mettersi in testa la
corona d'alloro, per la credenza che quelle foglie fossero rispettate
dai fulmini. Morì in quest'anno _Lucio Pisone, prefetto di Roma_, che
per venti anni con lode avea esercitata quella carica, e in ricompensa
del suo merito il senato gli decretò un pubblico funerale. In luogo
suo fu posto da Tiberio _Lucio Elio Lamia_, il quale, nell'anno
seguente, diede anch'egli fine a' suoi giorni. Morì parimente
quest'anno Cassio Severo, oratore di gran credito, ma portato sempre
alla satira, e a lacerar la riputazione delle persone illustri. Per
questo mal genio era stato relegato da Augusto nell'isola di Creta, e
poscia nella picciola di Serifo, dove in estrema povertà, senza avere
neppur uno straccio da coprir le parti vergognose, terminò il suo
vivere.

NOTE:

[149] Suetonius, in Vitellio, cap. 2.

[150] Dio, lib. 58.

[151] Tacitus, Annal., lib. 6, cap. 2. Dio, ibid.

[152] Tacitus, ibidem. Sueton., in Tib., c. 72.

[153] Sueton., cap. 43.




    Anno di CRISTO XXXIII. Indizione VI.

    PIETRO Apostolo papa 5.
    TIBERIO imperadore 20.

_Consoli_

LUCIO SULPICIO GALBA e LUCIO CORNELIO SULLA FELICE.


_Galba_, primo dei consoli porta il prenome di _Lucio_ in una
iscrizione riferita dal cardinal Noris, e da me inserita nella mia
raccolta[154]. In un'altra iscrizione che si legge nel Tesoro di
Grutero, il suo prenome è _Servio_: che così s'ha da intendere il SER.
abbreviato degli antichi, e non già _Sergio_, come ha creduto taluno.
Ma è lecito di sospettare, che nell'iscrizion gruteriana sia stato
mutato il prenome di _Lucio_ in _Servio_, perchè ben si sa che Galba
imperadore, cioè il medesimo che fu console in quest'anno, era
chiamato _Servio Galba_. Ma Svetonio[155] chiaramente scrive di lui:
_Lucium pro Servio usque ad tempus imperii usurpavit_: il che
giustifica quanto ha il marmo del Noris, e fa con fondamento temere
della corruttela nell'altro. Tacito e Dione diedero a Galba console
quel prenome ch'egli usò fatto imperadore; senz'avvertire ciò che
Svetonio avvertì. Nelle calende di luglio a Galba fu sostituito nel
consolato _Lucio Salvio Ottone_ creduto da alcuni figliuolo di Tiberio
Augusto, cotanto se gli rassomigliava nel volto. Da questo console
nell'anno precedente era nato _Ottone_, che fu poi imperadore di pochi
mesi. Volle far conoscere Tiberio in quest'anno ai senatori[156],
quanto egli poco si fidasse di loro, e che in breve era per venire a
Roma; cioè scrisse chiedendo che qualora egli entrava nel senato,
fosse permesso a Macrone capitan delle guardie del pretorio
d'accompagnarlo con alcuni tribuni e centurioni della milizia. Tosto
fu decretato che potesse menar seco quanta gente voleva. Erano
tuttavia serrati nelle carceri, _Druso_, figliuolo di Germanico e
nipote per adozion di Tiberio, ed _Agrippina_ di lui madre. Avea più
volte Tiberio fatto condurre questi infelici da un luogo ad un altro,
sempre incatenati e in una lettiga ben serrata[157], e con guardie che
faceano allontanar tutti i viandanti. Doveva egli paventar sempre
qualche risoluzione, e che avesse da correre il popolo a sprigionar
quell'infelice principe. Saziò poi il suo furore in quest'anno con far
morire di fame _Druso_. La savia _Agrippina_ diede anch'essa fine al
suo vivere, senza apparire, se mancasse per non volere il cibo, o pure
perchè il cibo le fosse negato[158]. Furono i lor corpi non già
portati nel mausoleo d'Augusto, ma sì segretamente seppelliti, che mai
non se ne seppe il sito. Tutta Roma si riempiè di dolore e lutto, ma
solamente nell'interno delle persone, per sì compassionevol fine della
famiglia di Germanico, principe tanto amato da ognuno. Eppur bisognò
che il senato rendesse grazie a Tiberio dell'avviso datogli della
morte di Agrippina, predicata da lui per sua nemica e adultera, quando
era notissima la di lei insigne onestà; ed inoltre convenne decretare
che essendo morta nel medesimo dì che Sejano fu ucciso, cioè nel di 18
d'ottobre, da lì innanzi in quel giorno si facesse un'offerta a Giove
in rendimento di grazie per la morte dell'uno e dell'altra.

Restava solo in vita dei figliuoli di Germanico _Cajo Caligola_[159],
giovinetto di costumi sommamente malvagi, ma provveduto di tanto senno
da farsi amare da Tiberio. Sapea coprir con finta modestia l'animo suo
inclinato alla crudeltà; non gli scappò mai una parola di dispiacere o
lamento per l'esilio e per la morte dei fratelli e della madre; ed
ottenne per grazia di poter accompagnare Tiberio a Capri, studiandosi
quivi di comparir sempre con vesti simili a quelle di lui, e d'imitare
per quanto poteva le di lui maniere di parlare; di modo che di lui,
divenuto poscia imperadore, ebbe a dire Passieno oratore: «Non esservi
stato mai nè miglior servo, nè peggior signore di lui.» Contrasse il
medesimo Cajo, di consenso di Tiberio in quest'anno gli sponsali con
_Claudia_ o _Claudilla_ figliuola di Marco Silano. Sotto il detestabil
governo di Tiberio, gran voga intanto aveano in Roma gli spioni e gli
accusatori, parte volontari, parte suscitati dal principe stesso.
Bastava per lo più l'accusare, perchè ne seguisse il condannare.
Fioccavano in senato i libelli contro delle persone, e moltissimi
inviati dal medesimo Tiberio che col braccio del senato andava facendo
vendette, e pascendo I' avarizia sua colla morte e col confisco dei
beni de' condannati. A parecchi nobili toccò ancor nell'anno presente
la disavventura stessa; e massimamente ai senatori, tanti de' quali a
poco a poco andò egli levando dal mondo, che non si poteano più
provvedere i governi delle provincie[160]. Fra l'altre più memorabili
ingiustizie commesse in quest'anno degna è di menzione l'usata da
Tiberio contro di Sesto Mario, da lungo tempo suo amico che, col
favore principesco, giunto era ad essere il più ricco gentiluomo della
Spagna. Avendo egli una figliuola di bellissimo aspetto, per timore
che Tiberio non gliela facesse rapire, come solito era con altri, la
trafugò in luogo dove fosse sicura. Avvertitone dalle sue spie
Tiberio, fece accusar amendue d'incesto, e gittar giù della rupe
tarpeja i lor corpi, con far sue le immense ricchezze dell'infelice
Mario. Tacito racconta molti altri spettacoli di somiglianti crudeltà
accadute in quest'anno, senza che mai si saziasse il genio sanguinario
di Tiberio. Strano bensì parve ai più del popolo, ch'egli in un certo
dì facesse morire tutti i principali spioni ed accusatori, e proibisse
a tutte le persone militari il far questo infame uffizio, benchè lo
permettesse ai senatori e cavalieri. Ma si può ben credere ciò fatto
per comparire disapprovatore di que' maligni stromenti, dei quali si
serviva la stessa di lui malignità per far tanto male al pubblico.
Erano eziandio cresciute a dismisura le usure in Roma; e contro dei
debitori furono in quest'anno portate istanze ed accuse assaissime al
senato; nè piccolo era il numero di coloro che, ascondendo la pecunia
d'oro e d'argento, ne faceano scarseggiare la città. Si vide allora un
prodigio di Tiberio. Mise egli nel banco della repubblica una gran
somma d'oro e d'argento, da prestarsi a chiunque ne abbisognasse, e
desse idonea sigurtà, senza che per tre anni ne pagassero frutto:
azione applaudita da ognuno, ma che non fece punto sminuire il comune
odio contro del tiranno. Ad _Elio Lamia_ prefetto di Roma defunto
succedette in quell'uffizio _Cosso_, per attestato di Tacito e
Seneca[161]. E Marco Coccejo Nerva, giurisconsulto insigne di questi
tempi, ed uno del consiglio di Tiberio, non potendo più, siccome uomo
giusto, tollerar le iniquità di quel mostro, se ne liberò con
lasciarsi morir di fame: nè per quante preghiere gli facesse Tiberio,
per saper la cagione di tal risoluzione, e per tenerlo in vita, volle
mutare il fatto proponimento.

NOTE:

[154] Thesaur. Nov. Inscription., p. 303, n. 1.

[155] Sueton., in Galba, cap. 4.

[156] Tacitus, Annal., lib. 6.

[157] Suetonius, in Tiber., cap. 64.

[158] Dio, lib. 58.

[159] Tacit., lib. 6, cap. 20.

[160] Tacitus, ibid., cap. 49. Dio, eod. lib. 58.

[161] Seneca, epist. 81.




    Anno di CRISTO XXXIV. Indizione VII.

    PIETRO Apostolo papa 6.
    TIBERIO imperadore 21.

_Consoli_

PAOLO FABIO PERSICO e LUCIO VITELLIO.


A questi consoli ordinari si crede che ne succedessero nelle calende
di luglio due altri[162], de' quali si è perduto il nome. E ciò perchè
avendo questi ultimi consoli celebrato l'anno ventesimo compiuto
dell'imperio di Tiberio, fecero anche dei voti agli dii pel decennio
venturo, come fu in uso a' tempi d'Augusto. Quella gelosa bestia di
Tiberio, che avea preso l'imperio non per dieci, nè per venti anni, ma
finchè a lui piacesse, parendogli che volessero far conoscere, che la
di lui potestà dipendea dall'arbitrio del senato, fece accusarli tutti
e due e condannarli, e pare che fosse anche abbreviata immediatamente
loro la vita. Questo Persico probabilmente è quello stesso che fu
mentovato da Seneca[163], per uomo di cattiva riputazione. Ma nulla di
un fatto tale, che avrebbe fatto più strepito di tant'altri, si ha
presso Tacito, il qual pure accenna le morti di molti altri di dignità
inferiore. Dione stesso attribuisce quei voti e quell'innocente fallo
ai consoli ordinari; e pure noi sappiam da Svetonio[164], che _Lucio
Vitellio_, console nel presente anno e padre di Aulo Vitellio che fu
poi imperadore, dopo il consolato ebbe il governo della Soria, e campò
molto dappoi. Parimente di _Fabio Persico_, sopravvissuto, s'ha
memoria presso Seneca[165]. Però la credenza dei consoli sostituiti, e
fors'anche il fatto narrato da Dione può patire dei dubbi. Non
mancarono all'anno presente le sue funeste scene, cioè molte condanne
e morti d'uomini illustri, avvenute per la crudeltà di Tiberio e per
la prepotenza di Macrone prefetto del pretorio; il quale imitando le
arti di Sejano ma più copertamente, si abusava anch'egli della sua
autorità e del favore del principe[166]. Pomponio Labeone, dopo essere
stato pretore di Mesia per otto anni, accusato d'essersi lasciato
corrompere con danari, tagliatosi le vene, si sbrigò da questa vita:
ed altrettanto fece sua moglie. Era anche stato in governo Marco,
ossia Mamerco Emilio Scauro, nè già era incolpato di cattiva
amministrazione, quantunque vergognosi fossero i suoi costumi.
Macrone, che l'odiava, trovò la maniera di precipitarlo, con
presentare a Tiberio una di lui tragedia intitolata _Atreo_, in cui
oltre al parlarsi di parricidio, uno era esortato a tollerar la pazzia
del regnante; è con fargli credere che sotto nome altrui si sparlasse
di lui. Di più non ci volle per far processare Scauro, il quale,
senz'aspettar la condanna, si privò da sè stesso di vita, nè da meno
di lui volle essere la moglie sua. Costumavasi allora dagli etnici
romani di darsi iniquamente la morte da sè medesimi, perchè i corpi
de' condannati non era lecito il seppellirli, e i lor beni andavano al
fisco; laddove prevenendo la sentenza, loro non si negava la
sepoltura: e sussistendo i testamenti, agli eredi pervenivano i loro
beni. Fra coloro eziandio che furono accusati si contò Lentulo
Getulico, stato già console nell'anno di Cristo 26. Altro a lui non
veniva imputato, se non che avesse trattato di dare una sua figliuola
in moglie a Sejano. Ma fu buon per questo personaggio ch'egli allora
si trovasse in Germania al comando di quelle legioni che l'amavano
forte per le sue dolci maniere. Dicono ch'egli scrivesse animosamente
una lettera a Tiberio, con ricordargli che non per elezione propria,
ma per consiglio di lui stesso, avea cercato di far parentela con
Sejano. Essersi ben egli ingannato nel procacciarsi l'amicizia di
quell'uomo indegno; ma che niuno più d'esso Tiberio avea amato Sejano:
nè essere perciò conforme alla ragione che il comun fallo fosse
innocente per lui, e peccaminoso per gli altri. Pertanto riflettendo
al pericolo di nuocere a chi aveva l'armi in mano, e poter rivoltarsi,
giudicò meglio il desistere dall'impresa; e per lo contrario fece
condannar e cacciare in esilio Abudio Rufo, cioè l'accusatore di
Lentulo Getulico. Videsi in questo anno in Grecia un giovane[167], che
spacciatosi per Druso figliuolo di Germanico, trovò di molti aderenti
in quelle contrade; e se gli riusciva di passare in Soria, a lui si
sarebbe verisimilmente unito quell'esercito. Ma preso da Pompeo Sabino
governator della Macedonia, fu inviato a Tiberio. Tacito scrive[168]
ciò avvenuto tre anni prima, quando era tuttavia vivente lo stesso
Druso in prigione: il che, se fosse vero, potrebbe questo avvenimento
aver dato impulso alla morte del medesimo Druso. Da esso Tacito fu
ancora scritto che nel presente anno si lasciò veder di nuovo dopo
alcuni secoli l'augello Fenice nell'Egitto, con rapportarne la mirabil
genealogia. A simili favole oggidì non si presta fede. Plinio e Dione
mettono due anni dappoi lo scoprimento di questo non mai più risorto
uccello.

NOTE:

[162] Dio, lib. 58.

[163] Seneca, de benefic., lib. 2, cap. 21.

[164] Sueton., in Vitellio, c. 2.

[165] Seneca, lib. 2 et 4 de Benefic.

[166] Dio, lib. 58. Tacit., lib. 4, cap. 19.

[167] Dio, lib. 58.

[168] Tacit., lib. 5, c. 10.




    Anno di CRISTO XXXV. Indizione VIII.

    PIETRO APOSTOLO papa 7.
    TIBERIO imperadore 22.

_Consoli_

CAJO CESTIO GALLO e MARCO SERVILIO MONIANO.


Si celebrarono in quest'anno[169] le nozze di _Cajo Caligola_, nipote
per adozione di Tiberio, con _Claudilla_, figliuola di Marco Silano,
in Anzo. V'intervenne lo stesso Tiberio, non avendo voluto neppure per
occasion sì propria lasciarsi vedere in Roma, perchè non gli piacea di
trovarsi presente alle sanguinarie esecuzioni, che ivi tuttavia si
continuavano d'ordine di lui, non mai sazio di perseguitare chiunque
fu stretto d'amicizia con Sejano. Fin qui aveva egli sofferto Fulcinio
Trione, che fu console nell'anno della caduta del medesimo Sejano,
anzi la buona gente il riputava molto favorito da lui. Ora solamente
era per iscoppiare il fulmine sopra di lui; ma ciò presentito da
Trione, si uccise colle proprie mani dopo aver fatto un testamento, in
cui vomitò quante ingiurie potè contra di Tiberio e di Macrone, e dei
liberti della corte. Non si attentavano gli eredi suoi di pubblicare
un sì obbrobrioso scritto. Avutane contezza Tiberio, volle che si
portasse e leggesse nel senato per guadagnarsi il plauso di principe
sofferente dell'altrui libertà, giacchè punto non si curava della
propria infamia, nè che si scoprissero le iniquità da lui commesse per
mezzo di Sejano, ben sapendo che non erano cose ignote al pubblico.
Uso certamente suo fu il non mai volere che si occultassero i libelli
infamatorii fatti contra di lui, parendo quasi che riputasse sue lodi
le sue vergogne. Altri senatori ed altri nobili, annoverati da
Tacito[170] e da Dione, o per mano propria o per quella del carnefice
terminarono in quest'anno la lor vita; ed uno fra gli altri merita
d'essere rammentato, cioè Poppeo Sabino, poco fa da noi veduto, che
dopo il consolato, per ventiquattro anni avea governato la Macedonia,
l'Acaia e le due Mesie, e col darsi la morte schivò il giudizio.
Soggiornava in questi tempi Tiberio in vicinanza di Roma, per poter
più speditamente aver il piacere d'intendere l'esecuzione de' suoi
tirannici comandamenti[171]. Fu allora, che vennero a Roma alcuni
nobili Parti, segretamente, cioè senza saputa del re loro _Artabano_,
per chiedere a Tiberio _Fraate_, figliuolo del fu _Fraate_ re. Era
montato Artabano in gran superbia, dacchè la vecchiaia di Tiberio, e
il suo abborrimento alla guerra, aveano scemata in molti la stima e
paura dell'armi romane. Essendo mancato di vita _Zenone_ o sia
_Artassia_, già creato dai Romani _re dell'Armenia_, Artabano avea
occupato quel regno, e messovi _Arsace_, uno dei suoi figliuoli, per
re, con assalir dipoi la Cappadocia, e minacciar anche di peggio i
Romani. Inimicossi oltre a ciò i suoi colla soverchia alterigia, e lor
diede ansa che ricorressero a Tiberio. Fu dunque mandato _Fraate_ in
Soria per isperanza che i Parti si moverebbero in favore di lui; ma
perchè v'andò con poca fretta, ebbe tempo Artabano di premunirsi, e
Fraate ammalatosi morì. Non lasciò Tiberio per questo di accudire agli
affari dell'Armenia, e costituito Lucio Vitellio, cioè il padre di
_Vitellio_, che fu col tempo imperadore, per generale dell'armata
romana in Levante, mosse anche i re d'Iberia e i Sarmati contra di
Artabano. Lasciatisi corrompere i ministri di Arsace, già divenuto re
dell'Armenia, tolsero a lui la vita; ed entrate in quel paese le
truppe dell'Iberia sotto il comando del re _Farasmane_, presero
Artasata capitale del regno. Allora Artabano spedì Orode altro suo
figliuolo contra di Farasmane con parte delle sue forze[172]. I Parti,
benchè inferiori di gente, vollero battaglia; ma o sia che Orode vi
fosse ucciso, o che la nuova ch'egli fosse ferito passasse in credenza
di morte, la vittoria si dichiarò per Farasmane, al cui fratello
_Mitridate re dell'Iberia_ fu conceduta l'Armenia. Diedesi dipoi una
seconda battaglia da Artabano, ma svantaggiosa anch'essa per lui; e
perchè nello stesso tempo seppe che Lucio Vitellio coll'armi romane si
accingeva a passar l'Eufrate per entrar nella Mesopotamia, abbandonato
ogni pensier dell'Armenia, si ritirò alla difesa del proprio paese.
Era allora l'Eufrate il confine tra l'imperio romano e il partico o
sia persiano.

NOTE:

[169] Dio, lib. 58.

[170] Tacitus, lib. 6, c. 38.

[171] Tacitus, l. 6, c. 31. Dio, lib. 58.

[172] Joseph., Antiq. Judaicarum, lib. 18, c. 6.




    Anno di CRISTO XXXVI. Indizione IX.

    PIETRO APOSTOLO papa 8.
    TIBERIO imperadore 23.

_Consoli_

SESTO PAPINIO ALLENIO e QUINTO PLAUTIO.


Non è ben chiaro, se Lucio Vitellio, fabbricato un ponte sull'Eufrate,
coll'esercito romano passasse in questo o nel precedente anno in
Mesopotamia. Certo è bensì che passò, e all'arrivo suo i primati de'
Parti si scoprirono allora alienati dall'ossequio verso del re
_Artabano_[173], e congiunsero le loro armi coi Romani. Trovavasi con
Vitellio anche _Tiridate_, parente del defunto re Fraate. Veduta così
bella disposizion dei Parti in suo favore, per consiglio di Vitellio,
prese il cammino alla volta di Seleucia, città potente, che gli aprì
con gran festa le porte, ed Artabano, veggendosi abbandonato de' suoi,
se ne fuggì. Intanto Vitellio, contento di aver fatta la sua sparata
con far conoscere a que' popoli la possanza romana, e credendo già
assicurato il regno a Tiridate, se ne tornò colle sue legioni in
Soria. Fu coronato Tiridate in Ctesifonte, capitale del regno dei
Parti. S'egli avesse proseguito il corso di sua fortuna con visitar
tutto il paese, e ridurre chiunque titubava alla sua fede, interamente
il regno sarebbe stato di lui. Ma essendosi egli impegnato
nell'assedio di un castello, dove Artabano avea ridotto il tesoro e le
concubine sue, alcuni di que' grandi, che non erano intervenuti alla
coronazione o per paura di Tiridate, o per invidia che portavano ad
Abdagese, ministro favorito di lui, andarono a trovar Artabano per
rimetterlo sul trono. S'era questi ritirato nell'Ircania, dove da
povero uomo vivea, guadagnandosi il vitto con la caccia. Credette egli
a tutta prima che fossero venuti costoro per assassinarlo. Rassicurato
da essi, e presa seco una mano di Sciti, si mise con loro in cammino,
e trovata la gente che senza difficoltà tornava alla sua divozione,
ingrossato di forze, s'indirizzò verso Seleucia. Stette in forse
Tiridate, se dovea andargli incontro per dargli battaglia. Prevalse
l'opinion dei dappoco, il primo de' quali era il medesimo Tiridate; e
però egli si ridusse in Soria, con isperanza che l'esercito romano
avesse da prestargli aiuto per ricuperare il perduto regno, di cui con
tutta facilità Artabano ripigliò il possesso. Vitellio non volle altro
impegno, ed all'incontro Artabano diventò più che mai orgoglioso, e
poco mancò che non portasse la guerra nel territorio romano. Non è
inverisimile, che questo fosse il tempo in cui egli scrisse una
lettera di fuoco a Tiberio[174], rinfacciandogli la sua crudeltà, la
vergognosa libidine e la poltroneria, ed esortandolo ad appagar
prontamente l'odio universale e giustissimo de' popoli con darsi la
morte da sè medesimo.

Due disavventure afflissero Roma nell'anno presente, cioè una fiera
inondazione del Tevere, per cagione di cui in molte parti della città
fu necessario l'andar colle barche, e un incendio che guastò gran
copia di case nel monte Aventino e la metà del Circo[175]. Tiberio in
questa occasione, dimenticata l'innata sua avarizia, sovvenne con
abbondanza d'oro al bisogno di chiunque avea patito. Che per altro
amava Tiberio di conservare e d'accrescere il suo tesoro, nè si sa che
egli lasciasse alcuna fabbrica insigne, fuorchè il tempio innalzato ad
Augusto, e la scena del teatro Pompeo. E neppur queste, se crediamo a
Svetonio, le perfezionò. Non passò l'anno presente, senza che si
vedessero le usate scene delle accuse e della crudeltà di Tiberio
contra de' nobili. Cajo Galba, già console e fratello di chi fu dipoi
imperadore, due Blesi ed Emilia Lepida prevennero, con darsi la morte,
i colpi del carnefice. Vibuleno Agrippa, cavalier romano, accusato,
prese in faccia del senato il veleno che portava in un anello. Caduto
a terra moribondo, e strascinato alle carceri, fu quivi
frettolosamente strozzato per occupargli i beni. _Tigrane_, già re
dell'Armenia[176], e nipote del fu Erode re della Giudea, detenuto
allora in Roma, ed accusato, lini anch'egli i suoi giorni per mano del
pubblico ministro. Trattenevasi in Roma allora anche suo fratello
_Agrippa_, ed avea contratta una famigliarità sì grande con Cajo
Caligola, nipote per adozion di Tiberio, che pareano due fratelli.
Racconta Giuseppe storico, che essendo un dì amendue a divertirsi
condotti in un cocchio, Agrippa per adular Cajo gli disse, essere ben
tempo che quel vecchio di Tiberio cedesse il luogo a lui, perchè
allora tornerebbe la felicità in Roma. Furono ascoltate queste parole
da Eutico liberto d'Agrippa, che gli serviva di carrozziere; e
perciocchè costui, per aver fatto un furto al padrone, fu
imprigionato, allora si lasciò intendere d'aver qualche cosa da
rivelare attinente alla conservazion della vita dell'imperatore. Fu
perciò inviato a Capri, dove era Tiberio, e tenuto un pezzo nelle
catene senza esaminarlo. Lo stesso Agrippa stoltamente tanto si
adoperò, che Tiberio trovandosi nel settembre di questo anno a
Tuscolo, oggidì Frascati, vicino a Roma, fece venir Eutico, il quale
alla presenza d'Agrippa rivelò quanto avea udito nel giorno suddetto.
Ordinò immantinente Tiberio a Macrone capitan delle guardie di far
incatenare Agrippa, a cui non valsero nè le negative, nè le suppliche
per esentarsi da quell'obbrobrio. Stette egli nelle carceri tanto che
Tiberio finì di vivere, ed allora ne uscì, siccome vedremo fra
poco[177]. Un augurio della morte d'esso Tiberio fu dai superstiziosi
Romani creduta quella di Trasullo, succeduta nell'anno presente[178].
Costui era il più favorito astrologo ed indovino che si avesse
Tiberio; imperciocchè oltre modo si dilettò questo imperadore della
strologia giudicaria, arte piena di vanità e d'imposture, che egli
stesso condannava in casa altrui. E quantunque scrivano Tacito,
Svetonio e Dione, che Tiberio, per mezzo di essa, predicesse a Galba
il suo corto imperio, e la morte del giovinetto Tiberio suo nipote per
ordine di Caligola, e ch'egli sapesse ciò che doveva avvenire a sè
stesso in cadauna giornata: simili racconti più sicuro è il crederli
dicerie del volgo. Allorchè Tiberio stette come esiliato in Rodi,
studiò forte quest'arte, che in que' tempi era spacciata dai Caldei
dappertutto. Quanti professori capitavano a Rodi, Tiberio,
accompagnato da un solo robusto liberto, li conduceva in un alto
scoglio, e metteali alla prova d'indovinargli il passato o l'avvenire.
Se non ci coglievano, dal liberto erano precipitati in mare, senza che
alcuno ne avesse contezza. Trasullo capitato colà, fu menato da
Tiberio in que' dirupi, e gli predisse l'imperio; ma soggiungendo
Tiberio che gli sapesse dire anche l'anno e il giorno della propria
natività, s'imbrogliò l'indovino, e confessò tremando di non saperlo,
ma che ben sapea d'essere imminente la propria morte. Tra per la buona
nuova dell'imperio, e la conoscenza del pericolo in cui si trovava
costui, Tiberio l'abbracciò, e il tenne dipoi sempre in sua corte.
Perchè la morte di costui facesse credere vicina quella di Tiberio,
qualche predizione di cui si dovea essere intesa.

NOTE:

[173] Tacitus, lib. 6, c. 42.

[174] Sueton., in Tiber. cap. 66.

[175] Tacitus, lib. 6, cap. 45. Dio, lib. 58.

[176] Tacitus, lib. 6, c. 40. Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.

[177] Dio, lib. 58.

[178] Tacit., lib. 6, cap. 21.




    Anno di CRISTO XXXVII. Indizione X.

    PIETRO APOSTOLO papa 9.
    CAJO CALIGOLA imperad. 1.

_Consoli_

GNEO ACERRONIO PROCOLO e CAJO PETRONIO PONTIO NEGRINO.

Ho aggiunto il nome di _Petronio_ al secondo di questi consoli, perchè
una iscrizione, riferita dal Fabretti[179], fu posta CN. ACERRONIO
PROCVLO, C. PETRONIO PONTIO NIGRINO COS. In vece di _Negrino_ egli è
appellato _Negro_ da Svetonio[180], siccome ancora una inscrizione da
me data alla luce[181]. Sino alle calende di luglio durò la dignità di
questi consoli. Appresso diremo a chi pervennero i fasci consolari.
Anche nei primi mesi dell'anno presente si continuarono in Roma le
accuse contra d'altre persone nobili; e perchè non erano accompagnate
da lettere di Tiberio, credute furono manipolazioni di Macrone
prefetto del pretorio, imitator di Sejano, e forse peggiore. Fra gli
altri Lucio Arruntio, personaggio illustre, già stato console, non si
potè impedir dagli amici, che, tagliatesi le vene, non si desse la
morte, allegando che un vecchio par suo non sapea più vivere, battuto
in addietro da Sejano ed ora da Macrone; e massimamente non essendo da
sperare miglior tempo sotto il successor di Tiberio, che anzi
prometteva peggio, e sarebbe governato dal medesimo Macrone; siccome
in fatti avvenne. Intanto, dopo essersi fermato Tiberio alcuni mesi
nei contorni di Roma senza mai volervi entrare, o perchè non si fidava
de' Romani, o perchè qualche impostore gli avea predette delle
disgrazie entrandovi, o pure perchè non voleva tanti occhi addosso
alla sua scandalosa vita, determinò di tornarsene alla sua cara isola
di Capri. Finora, benchè giunto all'età di settantotto anni, e benchè
perduto in una nefanda lascivia, avea conservata la rubustezza del
corpo, ed una competente sanità, camminava diritto come un palo, senza
volersi servire di medicine, e con fare il medico a sè stesso: giacchè
solea dire che l'uomo giunto all'età di trent'anni, non dee più aver
bisogno di medici per saper ciò che conferisca o sia nocivo alla
sanità. Ma egli si ritrovò infine sorpreso da una lenta malattia,
arrivato che fu ad Astura[182]. Potè nondimeno continuare il viaggio
sino a Miseno[183], celebre porto, dissimulando sempre il suo male, e
non men di prima banchettando con gli amici. Deluso dal suo poco prima
defunto strologo Trasullo, che gli avea predetto anche dieci altri
anni di vita, tenea per lontanissima tuttavia la morte. Fu creduto che
Trasullo con buon fine il burlasse con quella predizione, acciocchè
persuaso di vivere sì lungo tempo, non si affrettasse a far morire
tanti nobili ch'egli avea in lista. E certo non pochi si salvarono per
questo saggio ripiego, e fra essi alcuni già condannati, perchè ne'
dieci giorni di vita che si lasciavano loro dopo la sentenza, arrivò
la nuova della morte di Tiberio.

Fingeva dunque, secondo lo stile della sua dissimulazione, Tiberio di
sentirsi bene, tuttochè aggravato dal male, e ridotto a fermarsi nella
villa e nel palazzo che fu di Lucullo. Ma Caricle medico insigne, e da
lui amato, non già perchè volesse de' medicamenti da lui, ma per li
suoi consigli, destramente nel congedarsi da lui gli toccò il polso e
conobbe che s'avvicinava al suo fine. Ne avvisò Macrone, e questi
sollecitamente cominciò a disporre le cose per far succedere _Cajo
Caligola_ nell'imperio. Tre persone viveano discendenti in qualche
guisa da Augusto, e però capaci di succedere a Tiberio, cioè esso
_Caligola_ figliuolo di Germanico, nato[184] nell'anno 12 dell'Era
volgare, e però nel fiore di sua età. Questi, avendo Tiberio adottato
Germanico di lui padre, veniva perciò ad essere di lui nipote
legittimo. Ma egli era di pessima inclinazione, violento, e tendente
anche alla follia; e se n'era facilmente accorto Tiberio, di modo che
un dì ridendosi Cajo di Silla, celebre nella storia romana, Tiberio
gli disse: «A quel ch'io veggo, tu sei per avere tutti i vizii di
Silla, ma niuna delle sue virtù.» L'altro era _Tiberio Gemello_,
figliuolo di _Druso_, cioè del figlio naturale dello stesso Tiberio,
così appellato perchè nato con un altro fratello da _Livilla_ nel
medesimo parto. Ma non avea che diciassette anni, e però non per anche
capace di governare un sì vasto imperio. Il terzo era _Tiberio
Claudio_, fratello del suddetto Germanico, in età bensì virile, ma di
poca testa, e di niun concetto fra i Romani. Discordano gli autori in
dire chi fosse eletto da Tiberio per suo successore. Giuseppe storico
racconta un fatto, che ha ciera di favola[185]. Cioè che Tiberio,
incerto qual dei due de' suddetti suoi nipoti avesse egli da eleggere,
ne rimise la decisione al caso, con destinare di preferir quello che
la mattina seguente fosse il primo ad entrar in sua camera; e questi
fu Caligola, a cui poscia raccomandò il giovinetto Tiberio, quantunque
scrivano che per astrologia antivedesse che Cajo Caligola gli dovea
levare la vita. Altri[186] hanno detto che Tiberio non antepose il suo
natural nipote, perchè la scoperta amicizia di Livilla di lui madre
gli fece dubitare se fosse veramente figliuolo di Druso suo figlio.
Tuttavia pare che si accordino Filone Ebreo[187], Svetonio e Dione in
dire, che Tiberio in due suoi testamenti lasciò egualmente eredi
_Caligola_ e il giovane _Tiberio_.

Ora _Cajo Caligola_, per assicurarsi di prendere la fortuna pel
ciuffo, facea la corte a Macrone, potentissimo ufficiale, perchè
capitano delle guardie, cioè di diecimila soldati che erano il terrore
di Roma. Nè men sollecito era a farla ad Ennia Nevia di lui moglie;
anzi fu creduto che passasse tra loro un'infame corrispondenza, e di
ciò non si mettesse pena Macrone, giacchè anch'egli dal suo canto avea
dei motivi di guadagnarsi l'affetto di Cajo, perchè parea più facile
che in lui cadesse l'imperio. Però parlava sempre bene di lui a
Tiberio, scusandone i difetti, in guisa che un dì Tiberio gli
rimproverò questo grande attaccamento a Cajo con dirgli «d'essersi ben
avveduto ch'egli abbandonava il sole d'Occidente, per seguitare il
sole d'Oriente.» Era cresciuto il male di Tiberio[188], ed avea già
patito alcuni sfinimenti. Gliene arrivò uno specialmente nel dì 16 di
marzo così gagliardo, che fu creduto morto. Caligola uscì del palazzo;
a folla corsero i cortigiani a rallegrarsi con lui: quand'ecco esce
uno di corte, che riferisce essere tornato in sè Tiberio, e chiedere
da mangiare. Allora spaventati, chi qua, chi là, colla testa bassa
sfumarono. Cajo senza poter parlare, più morto che vivo ricorre a
Macrone. Ma questi, nulla atterrito, sa ben trovar tosto la maniera di
calmare l'altrui spavento. Non van d'accordo gli scrittori nel dirci,
come Tiberio si sbrigasse dal mondo. Seneca, citato da Svetonio,
scrisse che o sia che Tiberio si sentisse venir meno, o che la sua
famiglia l'avesse abbandonato, come è succeduto in tanti altri casi di
principi morti senza parenti, chiamò; e niuno rispondendo, si alzasse
dal letto, e poco lungi di là caduto, spirasse. Raccontano altri, che
Cajo Caligola gli avesse dato un lento veleno che l'uccise. Altri, che
sotto pretesto di riscaldarlo, Macrone gli facesse metter addosso di
molti panni che il soffocarono; ovvero che gli negasse da mangiare, e
il lasciasse morire per mancanza d'alimento. Finalmente scrissero
altri, che veggendo Caligola[189] come Tiberio non la volea finir da
sè stesso, lo strangolasse con le sue mani, o pure con uno origliere o
sia guanciale gli turasse la bocca, e il facesse ammutolire per
sempre. Comunque fosse, morì Tiberio nel suddetto giorno 16 di marzo.
Dione scrive nel dì 26. O dell'uno o dell'altro il testo è mancante.
Così cessò di vivere questo imperadore, dotato di grande ingegno, ma
per servirsene solamente in male; che finchè ebbe paura d'Augusto e di
Germanico, nipote e figliuolo suo adottivo, stette in dovere; che
simulatore e dissimulator sopraffino si mostrò delle false virtù, ma
poi si abbandonò in fine a tutti i vizii; che divenne abbominevole per
l'infame sua libidine, ma più per le sue crudeltà ed ingiustizie; che
niuno amava fuorchè sè stesso, che fu udito chiamar felice Priamo, per
essere morto dopo aver veduti morti tutti i suoi.

Non tardò _Cajo Caligola_ ad avvisare il senato dell'essere Tiberio
mancato di vita, con dimandare ancora che decretassero al medesimo gli
onori divini. Ma Tiberio era troppo odiato; e siccome il popolo romano
a questa nuova diede in risalti d'allegrezza, così commosso andava
lacerando la di lui memoria con tutte le maledizioni, e gridando _al
Tevere, al Tevere_, cioè il di lui corpo. Di questa commozione si
servì il senato per sospendere la risoluzion degli onori a Tiberio; e
Cajo venuto poi a Roma, più non ne parlò. Portato a Roma il cadavere
di Tiberio, fu bruciato secondo il costume d'allora; e con poca pompa
seppellito. Cajo fece l'orazione funebre; ma con poco encomio di lui,
impiegando le parole piuttosto in esaltare Augusto e Germanico suo
padre. Già si è detto, quanto fosse amato dai Romani esso Germanico
per le sue rare virtù, e Cajo appunto per essere di lui figliuolo,
comunemente era amato, giacchè non si erano per anche dati a conoscere
se non a pochi tutti i suoi vizii e difetti, che si trovarono poi
innumerabili. All'incontro, per l'odio d'ognuno contra di Tiberio, era
anche odiato _Tiberio Gemello_, natural nipote di lui. E però a Cajo
non fu difficile l'essere riconosciuto e confermato per imperadore, e
il fare che dal senato fosse cassato il testamento di Tiberio, per cui
egualmente lasciava ad esso Cajo e Tiberio Gemello l'amministrazion
dell'imperio. Così restò egli solo imperadore[190] colla podestà
tribunizia e coll'autorità ed arbitrio di far tutto, siccome attesta
Svetonio, benchè non usasse subito i titoli usati dai due precedenti
Augusti. Piena d'ammirazione e di giubilo rimase Roma tutta al vedere
con che mirabili e plausibili maniere Caligola desse principio al suo
governo; senza riflettere che diversa dal mattino suol essere la sera
di molti regnanti. _Caligola_, dissi, che così era volgarmente
chiamato con soprannome a lui dato, allorchè fanciullo trovandosi
all'armata in Germania, Germanico suo padre il facea vestir da
semplice soldato, e portare gli stivaletti, chiamati _Caligae_, e
usati allora nella milizia. Divenuto poi imperadore riputò egli come
ingiurioso e degno di gastigo un tal soprannome; e perciò dagli
storici vien mentovato per lo più col nome di _Cajo_. Affettò dunque
Cajo sulle prime di comparir popolare, siccome abbiamo da Svetonio e
da Dione; poichè, per conto di Tacito, periti seno i libri suoi, che
trattavano della vita di questo iniquissimo principe, e dei primi anni
del suo successore. Eseguì egli pontualmente tutti i legati lasciati
da Tiberio, e quegli ancora, che Livia Augusta nel suo testamento avea
ordinato; ma che l'ingrato suo figliuolo Tiberio non avea mai voluto
pagare. Diede subito la mostra alle compagnie de' soldati del
pretorio, con isborsar a tutti il danaro lasciato lor da Tiberio, ed
aggiugnerne altrettanto per ispontanea munificenza. Pagò parimente al
popolo romano l'insigne donativo di danaro ordinato da Tiberio colla
giunta di sessanta denari per testa, ch'egli non avea potuto pagare,
allorchè prese la toga virile, e inoltre quindici altri a titolo di
usura pel ritardo. Finalmente a tutti gli altri soldati di Roma, e
alle guardie notturne, cioè ai vigili, e alle legioni fuori d'Italia,
e ad altri soldati mantenuti nelle città minori, sborsò cinquecento
sesterzii ai primi, e trecento agli altri per testa.

Mellifluo fu in un certo giorno il suo ragionamento ai senatori con
dir loro, dopo aver toccati tutti i vizii del defunto Tiberio, di
volerli a parte nel comando e governo, e che farebbe tutto quanto
paresse loro il meglio, chiamandosi lor figliuolo ed allievo. Richiamò
gli esiliati, liberò tutti i prigioni, e fra gli altri Quinto
Pomponio, tenuto in quelle miserie per sette anni, dopo il suo
consolato. Annullò ogni processo criminale, con bruciar anche i
libelli lasciati da Tiberio. Queste prime azioni gli guadagnarono un
gran plauso, massimamente perchè fu creduto ch'egli fosse per mantener
la parola, che in quell'età il suo cuore andasse d'accordo con la
lingua. Volle tosto il senato far dimetter il consolato a Procolo e
Negrino per conferirlo a lui; ma egli ordinò che continuassero in
quella dignità, secondochè era dianzi stabilito, sino alle calende di
luglio, nel qual tempo poscia fu egli dichiarato console, ed amò di
aver per collega _Tiberio Claudio_ suo zio, che fin qui era stato
tenuto in basso stato e nell'ordine de' soli cavalieri, a cagion della
debolezza del suo capo. Nelle medaglie[191] Cajo si trova intitolato
CAJVS CAESAR AVGVSTVS GERMANICVS: ed in altre vi si aggiunge DIVI
AVGVSTI PRONEPOS. Fece ancora risplendere l'amor suo verso de' suoi,
con dare il titolo d'Augusta e di sacerdotessa d'Augusto ad _Antonia_
avola sua e madre di Germanico, e col concedere alle sue sorelle i
privilegi delle Vestali, e posto presso di sè negli spettacoli. A
_Tiberio Gemello_, nipote di Tiberio, diede il titolo di Principe
della Gioventù, e di più l'adottò per suo figliuolo. Andò in persona
alle isole Pandataria e Ponza a cercar le ceneri d'_Agrippina_ sua
madre, e di _Nerone_ suo fratello; e con funebre magnificenza
portatele a Roma, le collocò nel mausoleo d'Augusto, con determinare
in onore e memoria d'essi esequie e spettacoli annuali. Stava tuttavia
fra le catene[192] Agrippa, nipote di Erode il grande re della Giudea,
quando restò liberata Roma dal ferreo giogo di Tiberio. Cajo,
essendosene tosto ricordato, siccome amico suo caro, mandò ordine al
prefetto di Roma di trasferirlo dalla carcere alla casa dove abitava
prima; e da lì a pochi giorni fattoselo condurre davanti con abito
mutato, gli mise in capo un diadema, dichiarandolo re, e sottomettendo
a lui la Tetrarchia, già posseduta da Filippo suo zio, morto poco fa,
con aggiugnervi l'altra di Lisania, restando la Giudea come prima
sotto l'immediato governo dei Romani. Restituì ancora ad _Antioco_ il
regno della Comagene colla giunta della Cilicia marittima. Di gloria
medesimamente fu a Cajo l'aver cacciato fuori di Roma que' giovinetti
che faceano l'infame mercato de' lor corpi; e poco vi mancò che non li
mandasse a seppellir nel Tevere. Ordinò che si cercassero e
pubblicamente si potessero leggere le storie soppresse di _Tito
Labieno, Cordo Cremuzio e Cassio Severo_. Ai magistrati lasciò libera
la giurisdizione, senza che si potesse appellare a lui. Dalle
provincie d'Italia levò il dazio del centesimo denaro che si pagava
per tutte le cose vendute all'incanto. Sotto Tiberio, principe d'umor
tetro, le pubbliche allegrie, i giuochi, gli spettacoli erano divenuti
cose rare. Cajo non tardò a rimetter tutto in uso, e con grande
accrescimento: cose tutte stupendamente applaudite dal popolo[193].
Dopo aver tenuto il consolato per due mesi, lo rinunziò ai due consoli
destinati da Tiberio. Il nome loro non è noto. Stimò il Pighio, che
fossero _Tiberio Vinicio Quadrato_ e _Quinto Curzio Rufo_. Se di
queste maravigliose azioni di Cajo Caligola si rallegrasse Roma,
veggendo un aspetto sì bello con tanta differenza dal precedente
sanguinario governo, non è da chiederlo. Talmente si rallegrò quel
popolo a sì gran mutazione di scena, che, per testimonianza di
Svetonio, nei tre mesi seguenti dopo la morte di Tiberio, cento
sessantamila vittime furono svenate in rendimento di grazie ai loro
falsi dii. Ma durò ben poco questo ciel sì ridente, siccome nell'anno
seguente apparirà. _Artabano_ re de' Parti, che in addietro odiò forte
Tiberio, udita la di lui morte, se ne rallegrò e diede tosto adito ad
un trattato di pace. Scrive Dione ch'egli stesso ricercò l'amicizia di
Cajo. Ma Svetonio e Giuseppe Ebreo raccontano, che fu Vitellio
governator della Soria il promotore di quell'accordo per ordine di
Cajo. Seguì in fatti fra esso re e Vitellio un magnifico abboccamento
in un ponte fabbricato sull'Eufrate, e quivi fu conchiusa la pace con
condizioni onorevoli per gli Romani.

NOTE:

[179] Fabret., Inscript., p. 674.

[180] Suet., in Tiber., c. 73.

[181] Thesaurus Novus Inscription., p. 303, n. 2.

[182] Sueton., in Tiber., c. 72.

[183] Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50.

[184] Sueton., in Caligula, cap. 8.

[185] Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.

[186] Dio, lib. 58.

[187] Philo, de Legation. Sueton., in Tiber., c. 76.

[188] Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50. Sueton. in Tiber., c. 73.

[189] Sueton., in Cajo, cap. 12.

[190] Sueton., in Caj., cap. 14. Dio, lib. 59.

[191] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.

[192] Joseph., Antiq. Jud., lib. 18. Dio, lib 59.

[193] Sueton., in Cajo, cap. 17. Dio, lib. 59.




    Anno di CRISTO XXXVIII. Indizione XI.

    PIETRO APOSTOLO papa 40.
    CAJO CALIGOLA imperadore 2.

_Consoli_

MARCO AQUILIO GIULIANO e PUBLIO NONIO ASPRENATE.


Era già cominciato nel precedente anno un impensato cambiamento di
vita e di massime nel da noi osservato finora sì amorevole e grazioso
Cajo Caligola. Rapporterò io qui ciò che accadde allora e nel presente
anno ancora[194]. I conviti, le crapole ed altre dissolutezze di una
vita sensuale, a cui si abbandonò di buon'ora questo nuovo imperadore,
cagion furono ch'egli cadde nel mese d'ottobre sì gravemente malato,
che si dubitò di sua vita[195]. Appena si riebbe, che di volubile,
qual era dianzi, cominciò a comparir stranamente agitalo da vari e
fieri capricci, quasi che la mente sua per la sofferta malattia avesse
patito qualche detrimento, con peggiorar da lì innanzi di maniera, che
Roma, sì maltrattata sotto Tiberio cattivo, senza paragone sotto
questo pessimo maestro divenne teatro di calamità. Aveano fatto i
Romani delle pazzie pel tanto desiderio ch'egli superasse quel malore,
perchè dopo aver Cajo dato sì glorioso principio al suo governo, si
figurava ciascuno riposta tutta la pubblica felicità nella
conservazione della di lui vita. Due persone fra l'altre, cioè Publio
Afranio Potito, uomo popolare, ed Atanio Secondo, cavaliere, fecero
voto, l'uno di dar la propria vita, se egli ricuperava la salute,
l'altro di combattere fra i gladiatori, con esporsi al pericolo della
morte, purchè Caligola guarisse. Guarito ch'egli fu, d'inesplicabile
giubilo si riempiè tutta la città. Ma non tardò molto a cangiarsi
scena. La prima sua strepitosa iniquità quella fu di levar di vita
_Tiberio Gemello_, nipote legittimo e naturale di Tiberio Augusto, e
da lui adottato per figliuolo, con obbligarlo ad uccidersi da sè
stesso; perciocchè Cajo sì scrupoloso era, che non potea permettere a
chicchessia di torre la vita al nipote di un imperadore. Per iscusa di
questa crudeltà addusse l'essere egli stato accertato, che il
giovinetto Tiberio si era rallegrato della sua infermità, ed avea
desiderata la sua morte. Passò oltre il suo bestial capriccio con
esigere, che chi avea fatto voto della vita, per salvare la sua,
eseguisse la promessa, affinchè non rimanessero con lo spergiuro in
corpo.

Fece in quest'anno Cajo alcune azioni che piacquero al popolo[196],
perchè restituì alla plebe il suo diritto ne' comizii per l'elezione
de' magistrati che Tiberio avea ristretto nei senatori: il che ebbe
poco effetto. Ordinò che pubblicamente si rendessero i conti delle
rendite e spese della repubblica: regolamento dismesso sotto Tiberio.
Essendo sminuito forte l'ordine de' cavalieri, lo ristorò con
ascrivere ad esso molti scelti dalla nobilità delle città
dell'imperio, purchè ben imparentati, e sufficientemente ricchi,
concedendo loro anche de' privilegi. Con decreto del senato diede a
_Soemo_ il regno, o sia principato dell'Arabia Iturea; a _Cotys_
l'Armenia minore, e poscia alcune parti dell'Arabia. Concedette ancora
una parte della Tracia a _Rimetalce_, e il Ponto a _Polemone_,
figliuolo del re Polemone; esercitando in tal guisa la giurisdizione
romana sopra que' lontani paesi, ed affezionando quei re al romano
imperio. Non furono già di questo tenore altre sue azioni nell'anno
presente. Già dicemmo ch'egli per opera di Macrone prefetto del
pretorio avea ottenuto l'imperio. Perchè quest'uomo, per altro
cattivo, osava di parlargli con qualche franchezza[197], forse per
ritenerlo dall'esecuzione de' suoi malnati appetiti; Cajo, che non
voleva più aver sopra di sè dei maestri, dallo sprezzo passò alla
risoluzione di levarlo dal mondo, dopo avergli promesso il governo
dell'Egitto. Macrone prevenne il carnefice con darsi da sè stesso la
morte; e non meno di lui fece Ennia Nevia sua moglie, quella medesima,
con cui Caligola avea tenuta, per quanto fu creduto, una pratica
disonesta. Parve ad ognuno troppo nera l'ingratitudine di lui verso
persone tali; e più indegno si riputò il delitto apposto loro dal
medesimo imperadore, con chiamarli ruffiani, quando in lui ricadeva
questo reato. Suocero d'esso Cajo era Marco Giunio Silano, già stato
console, uomo di gran nobiltà, di gran senno, e primo nel senato a
dire il suo parere, allorchè regnava Tiberio. Sua figliuola _Giunia
Claudilla_ maritata con Caligola non per anche imperadore, era, per
attestato di Dione[198], stata ripudiata. Tacito[199] la dice morta in
breve, forse di parto. A questo illustre personaggio tali affronti
fece Cajo, che l'indusse, secondo l'empio stile d'allora, a darsi la
morte da sè stesso. Di ciò parla Dione all'anno precedente. Abbiamo
anche da Tacito[200] e da Seneca, che Caligola volle dar l'incombenza
d'accusar Silano a Giulio Grecino, senatore di rara probità, che
compose alcuni libri dell'Agricoltura, menzionati anche da Plinio, e
che fu padre di Giulio Agricola, la cui vita scritta da Tacito è
pervenuta ai nostri giorni. Generosamente se ne scusò egli, e per
questa bella azione meritò che il crudele Caligola il facesse morire.
Racconta Seneca[201] di questo Grecino, che mancandogli il denaro per
celebrar de' giuochi pubblici, Fabio Persico, probabilmente quello
stesso che fu console nell'anno 34 della nostra Era, ma uomo
screditato, gliene mandò ad esibire una buona somma. La rifiutò
Grecino, e agli amici che il biasimavano di questo, rispose: «Come
vorreste voi ch'io ricevessi dei danari da uno, con cui mi vergognerei
anche di stare a tavola?»

Quanta fosse la corruzion de' costumi in Roma pagana per questi tempi,
sarebbe facile il mostrarlo. Caligola anch'egli ne lasciò degl'infami
esempli[202]. Tre sorelle avea egli, cioè _Drusilla_, _Agrippina_ e
_Livilla_. Con tutte e tre, o vergini o maritate, disonestamente
conversò. Sopra l'altre amò Drusilla, a cui tolto avea l'onore
giovinetto. Era essa stata dipoi maritata con Lucio Cassio Longino,
che fu console. Caligola gliela tolse, e la tenne e trattò da
legittima consorte. Dione[203], non so come, la fa moglie (forse in
seconde nozze) di Marco Lepido, notando nondimeno anch'egli
l'obbrobrioso commercio del fratello con essa. Fu costei in quest'anno
rapita dalla morte, verisimilmente verso il fine di luglio. Caio
n'ebbe a impazzire, e cadde in istravaganze ridicole. Dopo un
solennissimo funerale e lutto pubblico, fece decretare ad essa gli
onori dati a Livia Augusta, e deificarla e alzarle dei templi; e si
trovò un senator sì vile, cioè Livio Geminio, che con giuramento
affermò di aver veduta Drusilla salire al cielo, e ne riportò un buon
regalo da Caio. Seneca anch'egli si rise di costui. Oltre a ciò come
forsennato all'improvviso si partì da Roma, fece un viaggio nella
Campania, arrivò sino a Siracusa, e poi frettolosamente ritornò a
Roma, senza essersi fatta radere la barba nè tosare i capelli. Andò
tanto innanzi la frenesia di Caio, che fece morir non so quante
persone per due opposti motivi o pretesti; cioè le une perchè si erano
rattristate per la morte di Drusilla, quasi che fosse un gran delitto
l'affliggersi per chi era divenuta partecipe della divinità; e
l'altre, perchè o avessero fatto conviti, o balli, o fossero ite al
bagno nel tempo del lutto per Drusilla, parendo ciò un rellegrarsi
della sua morte. Chi potea indovinarla con un sì furioso e pazzo
Augusto? Altri nondimeno han creduto ch'egli spigolasse sì fatti
pretesti, per ingoiar le ricchezze dei condannati a diritto o a torto;
imperciocchè il folle ne' primi mesi fece un tale scialacquamento di
denaro, che consumò colla sua prodigalità in doni e pubblici giuochi
gli immensi tesori che l'avaro Tiberio avea radunato; e, trovandosi
poi smunto, diede ad ogni sorta di violenza, o pubblica con imporre
gravezze, o privata con levar di vita i ricchi innocenti, per
soddisfare ai suoi capricciosi voleri colle loro sostanze. Quando
altra accusa mancava, sempre era in pronto quella che avessero avuta
parte nella morte dei di lui genitori e fratelli.

Un'altra ridicolosa comparsa avea fatto questo imperadore, forse
nell'anno precedente, come s'ha da Dione[204]. Invitato alle nozze di
Caio Calpurnio Pisone con _Livia_ (o sia _Cornelia_) _Orestilla_,
appena ebbe veduta quella giovinetta che se ne invaghì con dire a
Pisone: «Non ti venga talento di toccare mia moglie.» E tosto seco la
condusse in corte, poi fra pochi dì la ripudiò; e da li a due anni
ragguagliato ch'essa avea commercio col primo marito, relegò l'uno e
l'altra. Inoltre pochi giorni dopo la morte di Drusilla avendo esso
Caio udito parlare della straordinaria bellezza dell'avola di _Lollia
Paolina_, moglie di Caio Memmio Regolo, già stato console, e che era
allora governatore della Macedonia ed Acaia, stranamente avvisandosi
che non fosse minor la beltà della nipote, mandò a prendere essa
_Paolina_, e la sposò, con obbligar suo marito ad adottarla per
figliuola. Ma svaghitosene fra poco, la ripudiò, con precetto a lei
fatto di non avere carnal commercio con altr'uomo in avvenire. Sposò
dipoi _Cesonia Milonia_, che già avea avuto tre figliuole da un altro
marito; donna che sapea il mestiere di farsi amare. E la sposò nel dì
stesso che la medesima partorì una figliuola, ch'egli riconobbe per
sua, ed ebbe nome _Giulia Drusilla_. Dione la fa nata un mese dopo, e
riferisce all'anno seguente un tal matrimonio[205]. Intanto si diede
meglio a conoscere la sua furiosa passione di mirar con piacere le
morti degli uomini. I giuochi funesti de' gladiatori erano il suo
maggior sollazzo. Sollecitava anche i nobili, benchè fosse contro le
leggi, a combattere negli anfiteatri e a farsi scannare. Non contento
del duello d'uno con uno, ne voleva delle schiere; e un dì fece
combattere ventisei cavalieri romani, mostrando gran contento allo
spargimento del loro sangue. Talvolta ancora, mancando i gladiatori,
facea ghermire taluno della plebe; e colla lingua tagliata, affinchè
non potesse gridare, il forzava a combattere con le fiere. Così di
giorno in giorno andava egli crescendo nella crudeltà, sfoggiando
nelle pazzie, e gettando smoderata copia di danaro in vari spettacoli
e in demolir case per nuovi anfiteatri. In quest'anno[206], per quanto
si crede, la mano di Dio cominciò a farsi sentire in Levante contra
de' Giudei, fieri persecutori del già nato Cristianesimo. Ebbero
principio in Egitto le turbolenze mosse contra di tal nazione, che in
più centinaia di migliaia abitava in quella ricchissima provincia, con
essersi sollevato il popolo di Alessandria contra d'essi in occasione
che il re _Agrippa_ arrivò a quella città. Gran copia di loro fu
maltrattata, tormentata, uccisa; saccheggiate le lor case, spogliati i
magazzini, e ridotto quel gran popolo ad un'estrema miseria. La storia
distesamente si legge ne' libri di Filone contra Flacco, negli Annali
del Baronio all'anno 40, in quei dell'Usserio e d'altri. L'istituto
mio non soffre ch'io ne dica di più.

NOTE:

[194] Dio, lib. 59.

[195] Philo, in Legatione ad Cajum.

[196] Dio, lib. 59.

[197] Philo, in Legatione ad Cajum.

[198] Dio, lib. 59.

[199] Dio, lib. 59. Tacit., Annal., lib. 6, c. 46.

[200] Tacitus, in Vita Agricolae.

[201] Seneca, de Benefic., lib. 2, c. 21.

[202] Sueton., in Cajo, cap. 24.

[203] Dio, lib. 59.

[204] Dio, lib. 59. Sueton., in Cajo, cap. 25.

[205] Dio, lib. 59.

[206] Philo, in Flacc. Joseph., in Antiq. Judaic. Eusebius, et alii.




    Anno di CRISTO XXXIX. Indizione XII.

    PIETRO Apostolo papa 11.
    CAJO CALIGOLA imperadore 3.

_Consoli_

CAJO CESARE CALIGOLA AUGUSTO per la seconda volta, LUCIO APRONIO
CESIANO.


Solamente per tutto il gennaio tenne _Caligola_ il consolato[207], e
nelle calende di febbraio, per attestato di Dione[208], rinunziò la
dignità a _Marco Sanquinio Massimo_, che era stato console un'altra
volta. Continuò _Apronio Cesiano_ nell'uffizio sino alla fine di
giugno, per testimonianza del medesimo storico, e nelle susseguenti
calende dicono che gli fu sostituito _Gneo Domizio Corbulone_. Così il
padre Stampa[209] ed altri, negando la sostituzione d'altri consoli.
Ma Dione scrive, che incolpati da Caio i consoli, per non aver
intimate le ferie pel suo giorno natalizio, e per aver solennizzata la
vittoria d'Augusto contra di Marco Antonio, furono in quello stesso
dì, cioè del suo natale, degradati, con rompere i loro fasci:
ignominia tale, che l'un di essi consoli si uccise di poi da sè
stesso. Aggiugne che allora succedette nel consolato _Domizio
Africano_. Secondo Svetonio[210] Cajo Caligola nacque nel dì 31
d'agosto; e però in quel dì succedette la mutazion de' consoli, e
_Domizio Africano_ eletto console da Caligola, tenne il consolato sino
al fine dell'anno. _Domitium Afrum Collegam Cajus ipse sibi re, verbo
Populus elegit._ Certo è, essere stati due personaggi diversi _Domizio
Corbulone e Domizio Africano_, come si ricava da Tacito[211] che li
nomina amendue. Dione anch'egli parla di essi sotto l'anno presente,
con dire che _Domizio Corbulone_ si guadagnò il consolato con far dei
processi, e poscia aggiugne che anche _Domizio Africano_ fu creato
console. Quel solo che resta scuro, si è, qual dei due consoli deposti
si troncasse il filo della vita; perciocchè tanto Sanquinio Massimo,
quanto Corbulone sembra che vivessero alcuni anni ancora, se pur di
amendue parla Tacito negli Annali[212]. Cajo nell'anno presente levò
di nuovo al popolo il diritto dei Comizii, perchè ne seguiva
dell'imbroglio, e lo restituì al senato. Era per altre cagioni in
collera contro d'esso popolo, perchè sapea d'esserne odiato; vedea che
scarso era il loro concorso agli spettacoli; e più volte intese che
aveano levato rumore contro le spie e gli accusatori. Però molti di
quando in quando ne fece ammazzare, e si augurava che un solo collo
avesse tutto il popolo romano per poterlo tagliare con un sol colpo.
Nel medesimo tempo andava crescendo la di lui crudeltà anche verso i
nobili e i ricchi, trovandosi con facilità dei pretesti per farli
accusare e condannare a fine di mettere le griffe sopra le loro
ricchezze e beni. Di Calvisio Sabino senatore, di Prisco pretore e
d'altri parla Dione, con aggiungere che tutto il senato e popolo
all'udirlo un dì lodar Tiberio, e minacciar tutti, rimasero sbalorditi
e tremanti; e la conciarono per allora con delle adulazioni e lodi
eccessive. Domizio Africano, del cui consolato poco fa s'è ragionato,
seppe anch'egli con ripiego di fina accortezza schivar la mala
ventura. Credendo costui d'acquistarsi un gran merito, avea esposta
una statua di Caligola, con dire nell'iscrizione ch'esso Augusto in
età di ventisette anni era giunto ad essere console due volte. Prese
Caligola con quella sua testa sventata al rovescio l'espressione,
parendogli fatto un rimprovero a sè stesso per la sua età, e per le
leggi che non permetteano in sì poco tempo tali onori. Però
considerando che uomo accreditato nell'eloquenza del foro fosse
Domizio, composta un'orazione con molto studio volle egli stesso
accusarlo in senato. L'accorto Domizio, finita ch'egli ebbe la
diceria, senza mettersi a difendere sè stesso, si mostrò solamente
stupefatto per la forza e bellezza dell'orazione di Caio, con
rilevarne tutti i passi più luminosi e lodarli. Richiesto poi di
difendersi, se potea, rispose d'essere vinto da così forte eloquenza,
ed altro non restargli, se non di ricorrere alla clemenza di Cesare;
e, in così dire, se gli gittò supplichevole ai piedi, implorando
misericordia. Caio gonfio per aver superato un oratore di tanto nome,
gli perdonò il resto, ed in appresso il creò console.

Ma non meno della crudeltà cresceva in lui anche la frenesia o pazzia,
profondendo sempre più a sproposito immenso danaro negli
spettacoli[213]. Egli stesso sulla carretta talvolta andò nel circo a
gareggiar nella corsa coi plebei professori; e guai a quegli uomini e
cavalli che gli andavano innanzi. Fra gli altri ebbe un cavallo
prediletto, a cui avea posto il nome d'_Incitato_. Lo tenea seco a
tavola, dandogli biada in vasi d'oro, e in bicchieroni d'oro del vino.
Forse fu una burla il dirsi che egli avea anche promesso di crearlo
console un dì; e che l'avrebbe fatto, se fosse vivuto più tempo. Poca
gloria a questo forsennato regnante pareva il passeggiar per terra a
cavallo. Volle far vedere ai Romani, che gli dava l'animo di cavalcar
sopra il mare. Fece dunque fabbricar un ponte in un seno di esso mare
fra Baja e Pozzuolo, lungo da tre miglia e mezzo con due file di navi
da carico, fermate con ancore, e fatte venir anche da lontano[214]: il
che poi cagionò una gran carestia in Roma e nell'Italia. Sopra vi fu
fatto un piano di terra con varie case ben provvedute d'acqua dolce.
Per questo ponte fabbricato con immensa spesa, un dì montato sopra un
superbo cavallo, armato colla corazza riputata di Alessandro Magno, e
con sopravvesta ornata d'oro e di gemme, spada al fianco, e scudo
imbracciato e con corona di quercia in capo, marciò l'intrepido
imperadore con tutta la sua corte da Baja a Pozzuolo, quasichè andasse
ad assalire un'armata nemica; e come se fosse stanco per una data
battaglia, si riposò poi in quella città. Nel seguente giorno salito
sopra un carro tirato dai suoi più superbi destrieri, con Dario
avanti, uno degli ostaggi dei Parti, seguitato da essa sua corte tutta
in gala, e da alcune schiere di pretoriani, ripassò di nuovo sul
medesimo ponte; in mezzo al quale alzato un tribunale, arringò, come
se avesse conseguita qualche gran vittoria, lodando i soldati, quasi
che fossero usciti di pericolo, gloriandosi sopra tutto di aver
calpestato coi piedi il mare. Dato poscia un congiario o sia regalo al
popolo, egli coi cortigiani sul ponte, e gli altri in varie navi,
passarono il rimanente del giorno e la notte in gozzoviglie e in
ubbriacarsi, essendo tutto il ponte colla collina d'intorno illuminato
da fiaccole, fuochi ed altri lumi, talmente che la notte non invidiava
al giorno. Nel calore del vino e dell'allegria molti furono gittati
per divertimento in mare, e molti ve ne gittò lo stesso Caio, dei
quali perirono alcuni. Così terminò la gran funzione, con vantarsi il
prode Augusto di aver messo terrore al mare, e con ridersi di Dario e
di Serse, per aver egli domato il mare per un tratto più lungo. Le
immense spese fatte in quest'azion da teatro, incitarono dipoi lo
smunto Augusto a far danari per tutte le vie, e massimamente colle
condanne dei benestanti. Fra questi uno fu il celebre filosofo _Lucio
Anneo Seneca_, tenuto pel più saggio di Roma, che corse gran pericolo,
non già per qualche suo delitto, ma solamente per aver trattata con
vigore nel senato una causa alla presenza dello stesso Caligola, che
se l'ebbe a male, o perchè proteggesse co' desiderii quella causa, o
perchè gli spiacesse chi era più eloquente di lui. Il fece dunque
condannare; ma il lasciò poi vivere per avere inteso da una
donnicciuola di corte, che questo filosofo era tisico e poco potea
campare.

Prese susseguentemente Caligola all'improvviso la risoluzione di
passar nella Gallia, col pretesto della guerra non mai bene estinta
coi Germani; ma veramente per far bottino addosso alle provincie
romane, ed insieme per dar a conoscere l'insigne suo valore e potenza
ai Barbari, dopo averne data una sì bella lezione al mare stesso.
Dovette accadere la sua partenza negli ultimi mesi di questo anno. Fu
detto, che raunò dugentomila, ed altri anche scrissero dugento
cinquantamila armati. Direste ch'egli sicuramente subbissò con tante
forze la Germania. Andò a finire anche questo formidabil apparato in
una scena comica. Appena ebbe passato il Reno, che marciando in
carrozza in mezzo all'esercito per dei passi stretti, gli fu detto che
sorgerebbe ivi della confusione se i nemici venissero ad assalire i
Romani. Bastò questo, perchè egli salito a cavallo, con fretta se ne
tornasse al ponte del Reno, e trovatolo impedito dalle carrette dei
bagagli, si facesse portar di là sulle spalle dagli uomini, non
parendogli mai d'essere in sicuro dai Germani, finchè non ebbe la
barriera del Reno davanti. In quella ridicolosa spedizione fece un dì
nascondere alcuni Tedeschi della sua guardia di là da esso Reno,
acciocchè nel tempo del desinare gli fosse portata la nuova che il
nemico veniva. Allora saltato su da tavola, colle milizie corse contra
quelle sognate truppe, e giunto in un bosco vi spese il resto del
giorno a far tagliare degli alberi, per innalzarvi de' trofei
dell'oste nemica da lui messa in fuga, confortando intanto alla
tolleranza le legioni colla speranza di menar meglio le mani un'altra
volta. Ed intanto scrivea lettere di fuoco al senato, perchè in Roma
si faceano dei conviti ed altri divertimenti, mentre egli si trovava
in mezzo ai pericoli della guerra. Venne in questi tempi a mettersi
sotto la di lui protezione con pochi de' suoi Adminio figliuolo d'uno
dei re della gran Bretagna, cacciato dal padre. Come s'egli avesse
conquistata la Bretagna, spedì tosto corrieri a Roma con lettere
laureate, ed ordine ad essi di presentarsi sol quando il senato fosse
adunato nel tempio di Marte, e di consegnar le lettere in mano dei
consoli. Fecesi anco proclamar imperadore per la settima volta,
quasichè egli avesse riportata qualche vittoria, quando neppur uno dei
Germani provò se erano ben affilate le spade romane. Queste furono le
bravure e conquiste del buffonesco imperadore, che diedero da ridere a
tutti, e specialmente agli stessi Germani, i quali s'avvidero per
tempo della di lui vanità e paura, nè ebbero più apprensione alcuna di
lui. Il tempo preciso di queste sue ridicolose prodezze non è
assegnato dagli antichi scrittori.

Diedero per lo contrario da piagnere alla Gallia le inaudite sue
estorsioni per far danaro. Non contento dei regali che gli portavano i
deputati delle città, si applicò a far morire i più ricchi di quelle
contrade sotto diversi pretesti; occupando le lor terre, e vendendole
dipoi anche per forza a chi non ne avea voglia, ed era obbligato a
pagarle molto più che non valevano. Trovandosi un giorno al giuoco,
gli fu detto che mancava il danaro. Fecesi tosto portare i catasti dei
beni della Gallia, comandò che i meglio possidenti fossero privati di
vita; rivoltosi poi agli altri giocatori, disse: «Voi giuocate di
poco; ma io giuoco a guadagnar sei milioni.» Profuse bensì un gran
danaro in regalar le milizie, ma insieme cassò molti uffiziali; ad
altri assaissimi negò la promozione dovuta; e a gran copia di soldati
per capricciose ragioni fece levar la vita. Soprattutto risonò la
morte da lui data a due dei suoi principali magistrati. L'uno fu _Gneo
Lentolo Getulico_ della primaria nobiltà romana, che per dieci anni
avea tenuto il governo dell'armi della Germania. Perchè egli, secondo
il sentimento di Dione, s'era guadagnata la benevolenza de' soldati,
questo fu il gran delitto per cui Caligola il tolse dal mondo. Ma
probabilmente anch'egli fu incolpato, come mischiato in una congiura
tramata contra d'esso Augusto da _Marco Emilio Lepido_, non so se vera
o falsa. Svetonio la dà per vera. Aveva Cajo condotte seco nel viaggio
le sue sorelle _Agrippina_ e _Livilla_, disonestamente amate da lui, e
prostituite anche da altri. Lepido era loro parente, sì per essere
figliuolo di Giulia nipote d'Augusto e sorella d'Agrippina lor madre,
e sì per essere stato marito di _Drusilla_, loro sorella. La
confidenza che passava fra essi a cagion della parentela, degenerò
facilmente in un infame commercio, cosa non rara fra i Pagani, seguaci
di una falsa e sporca religione. Sapendo le sorelle, quanto fosse
odiato il fratello, ed aspirando spezialmente l'ambiziosa Agrippina a
divenir imperadrice, macchinarono tutti e tre contra di Caligola,
perchè Lepido si prometteva di succedergli. Scoperta la trama, Lepido
la pagò con la vita; ed Agrippina e Livilla furono relegate nell'isola
di Ponza, con aver anche Cajo obbligata Agrippina a portare a Roma le
ceneri del drudo in un'urna. Disse che oltre alle isole egli avea per
loro anche delle spade. Scrisse poscia al senato di avere scappato
quella pericolosa burrasca, e mandò a Roma i biglietti che attestavano
l'impudica lor vita, e la lor lega coi congiurati, e tre pugnali
inoltre destinali a torgli la vita, con ordine di consecrarli a Marte
vendicatore[215]. Fece da lì a poco venir nella Gallia tutti gli
ornamenti e le suppellettili, gli schiavi, ed anche i liberti delle
sorelle per ricavarne danaro (perchè spesso lo scialacquatore ne
scarseggiava), e trovato che li vendea ben cari, nella maniera
nondimeno che dissi da lui praticata: comandò tosto, che fossero
condotte da Roma anche tutte le più belle e preziose masserizie del
palazzo imperiale, prendendo per forza tutte le carrette e cavalli che
si trovavano per le pubbliche strade, affin di condurle, non senza
grave danno e lamento dei popoli. Tutto ancora vendè come all'incanto
nella Gallia, e carissimo, perchè volea che si pagasse anche il fumo,
con aver messo de' biglietti sopra cadaun di que' mobili; in uno
d'essi dicea: «Questo fu di mio padre; quest'altro di mio nonno e di
mia madre; quest'era di Marc'Antonio in Egitto; questo lo guadagnò
Augusto in una tal vittoria;» e così discorrendo. Tutto il danaro poi
si dissipò in breve tra le paghe e i regali dei soldati, ed alcuni
spettacoli ch'egli volle dar in Lione prima del suo ritorno, succeduto
nell'anno seguente.

NOTE:

[207] Sueton., in Cajo, cap. 17.

[208] Dio, lib. 59.

[209] Stampa, Continuat. Fastor. Sigonius et alii.

[210] Sueton., in Cajo, c. 8.

[211] Tacitus, Annal., lib. 3, cap. 33, et lib. 4, c. 52.

[212] Tacitus, Annal., lib. II, cap. 18.

[213] Sueton., in Cajo, cap. 54. Dio, lib. 59.

[214] Sueton., in Cajo, c. 19.

[215] Sueton., in Cajo, cap. 39.




    Anno di CRISTO XL. Indizione XIII.

    PIETRO APOSTOLO papa 12.
    CAJO CALIGOLA imperadore 4.

_Consoli_

CAJO CESARE CALIGOLA AUGUSTO per la terza volta.

Solo fu console ad aprir l'anno _Cajo Caligola_, non già perchè egli
non avesse nominato il collega; ma perchè, come abbiamo da Svetonio e
da Dione[216], il console disegnato morì nell'ultimo dì del precedente
anno, nè vi restò tempo da provvedere. Si ritrovarono imbrogliati i
senatori per non esservi in Roma capo alcuno del senato, nè si
attentavano i pretori a convocare esso senato, benchè loro
appartenesse tale officio nell'assenza e mancanza de' consoli.
Contuttociò da loro stessi salirono nelle calende di gennajo al
Campidoglio, e quivi fecero i sacrifizii; posta anche la sedia di
Caligola nel tempio, l'adorarono; e, come s'egli fosse stato presente,
gli fecero l'offerta dei doni che in testimonianza del loro amore avea
introdotto Augusto. Tiberio poi la dismise, e Caligola per avarizia la
rinnovò. Null'altro osarono di fare in quel dì i senatori, se non di
caricar di lodi l'imperadore, e di augurargli delle immense
prosperità. Si contennero anche nei dì seguenti, finchè arrivò
l'avviso, che Caligola giunto a Lione avea dimesso il consolato nel dì
12 di gennajo. Allora entrarono nella dignità i due consoli
sostituiti. Dione li lasciò nella penna. Secondo le conghietture
d'alcuni eruditi questi furono Lucio Gellio Poblicola e Marco Coccejo
Nerva; ma non è cosa esente da dubbii; e molto meno che nelle calende
di luglio fossero sostituiti Sesto Giulio Celere e Sesto Nonio
Quintiliano, come altri han creduto. In Lione, siccome accennai, si
ritrovò Caligola nelle calende di gennajo[217], e probabilmente allora
per onorare il suo consolato, celebrò quivi gli spettacoli mentovati
da Svetonio e da Dione. Furono vari, ma non vi mancò quella della gara
nell'eloquenza greca e latina, giuoco solito a farsi in quella città
alla statua d'Augusto. Chi era vinto pagava il premio ai vincitori, ed
era tenuto a fare un componimento in lor lode. Coloro poi, che in vece
di piacere dispiacevano, doveano colla lingua, o con una spugna
cancellare il loro scritto, se pur non eleggevano d'essere sferzati
dai discepoli, ovvero tuffati nel fiume vicino. Era tuttavia Cajo in
Lione, quando arrivò colà chiamato da lui _Tolomeo re_, figliuolo di
Giuba già re delle due Mauritanie, e suo cugino. Fu onorevolmente
ricevuto. Ma o sia ch'egli entrato nel teatro per ragione del grande
sfarzo recasse gelosia al luminare maggiore, o pure che Cajo,
informato delle molte di lui ricchezze, le volesse far sue: fuor di
dubbio è, che il mandò in esilio, e poscia (forse nel cammino) con
somma perfidia il fece ammazzare: iniquità, per cui i suoi sudditi si
ribellarono dipoi al romano imperio. Anche _Mitridate re dell'Armenia_
in altro tempo fu da lui mandato in esilio, ma non ucciso. Poscia,
prima di ritornare in Italia, volle Caligola coronar tante sue
gloriose imprese con un'azione magnifica[218]. Sul lido dell'Oceano
per ordine suo andò tutto il suo esercito ad accamparsi con gran copia
di macchine e d'attrezzi militari, ed egli imbarcatosi in una galea,
per mare arrivò colà. Ognun si aspettava che egli pensasse portar la
guerra nella Bretagna: e forse ne avea formato il disegno: quand'ecco
smontato egli di nave, salì sopra un alto trono, fece ordinare in
battaglia tutte le schiere, e sonar le trombe, dare il segno della
zuffa, come se fosse vicino un gran combattimento, senza vedersi
intanto nemico alcuno. Poscia tutto ad un punto ordinò ai soldati di
raccogliere sul lido quante conchiglie o nicchi potessero nelle celate
e nel seno, chiamandole spoglie dell'Oceano da portarsi a Roma, e da
mettersi nel Campidoglio. In memoria di questa sua segnalata vittoria
fece fabbricare ivi un'alta torre. Vennegli anche in testa prima di
partirsi dalla Gallia, di far tagliare a pezzi le legioni che si
rivoltarono molti anni addietro contra di Germanico suo padre, ed
assediarono anche lui stesso fanciullo. Tanto gli dissero i suoi
consiglieri, che depose così matta e crudel voglia; non poterono però
tanto, ch'egli non persistesse nel volere almen decimare que' soldati.
Feceli per tanto raunar tutti senz'armi e senza spada, ed attorniare
dalla cavalleria; ma accortosi che molti d'essi dubitando di qualche
insulto, correano a prendere l'armi, fu ben presto a levarsi di là, ed
affrettare il suo ritorno in Italia.

Venne egli, ma pieno di mal talento, contro al senato. Si trovavano
stranamente imbrogliati i senatori, per non sapere come regolarsi con
un sì fantastico e pazzo imperadore[219]. Se gli decretavano onori
straordinari per la sua pretesa vittoria de' Germani e Britanni,
temevano del male, quasi che il beffassero; e non decretandone alcuno,
o pochi a misura dei di lui desiderii, ne temevano altrettanto. Egli
inoltre avea scritto di non volere onori; e pur da lì a non molto
tornò a scrivere, lamentandosi che l'aveano defraudato del trionfo a
lui dovuto. Ed avendogli il senato inviato all'incontro un'ambasceria,
sollecitandolo a venire a Roma: _Verrò, verrò_, rispose, _e con
questa_, tenendo la mano sul pomo della spada. Fece anche
pubblicamente sapere a Roma, ch'egli ritornava, ma solamente per
coloro che desideravano il suo arrivo, cioè per l'ordine equestre e
popolo, perchè quanto a sè non si terrebbe più per cittadino nè per
principe del senato. Nè dipoi volle che alcun de' senatori venisse ad
incontrarlo. O rifiutato o differito il trionfo, si contentò
dell'ovazione: col qual onore entrò in Roma nel dì 31 d'agosto, giorno
suo natalizio, conducendo seco per pompa que' pochi prigionieri
disertori tedeschi che potè avere, a' quali unì una mano d'uomini
d'alta statura, raccolti nella Gallia, e fatti tosare e vestire alla
tedesca. Menò ancora, e buona parte per terra, le galee che l'aveano
servito nella ridicolosa spedizione contra della gran Bretagna[220].
Gittò poi in questa occasione dall'alto della basilica giulia gran
quantità d'oro e d'argento, e nella folla molti vi perirono. Dopo tal
solennità comandò che fosse ucciso Cassio Betulino, e volle che
Capitone di lui padre assistesse a sì funesto spettacolo; e perchè
questi osò di chiedergli, se permetteva a lui la vita, a lui ancora la
levò. Rappacificossi poi col senato per un accidente. Entrato nella
curia Protogene, corsero tutti i senatori a complimentarlo, e a
toccargli, secondo il costume, la mano. Fra gli altri essendosi a lui
presentato Scribonio Proculo uno d'essi, Protogene, ministro della
crudeltà di Cajo, guatandolo con occhio torvo: _E tu ancora_, disse,
_hai ardire di salutarmi; tu che cotanto odii l'imperatore?_ Allora i
senatori si scagliarono addosso all'infelice, come ad un mostro e
nemico pubblico; e con gli stiletti da scrivere, che ognuno portava
addosso, tante gliene diedero, che lo stesero morto a terra. Il suo
corpo fatto in brani fu poi strascinato per la città. Questo atto de'
senatori, e l'aver eglino decretato[221] che l'imperadore avesse da
sedere in un sì alto tribunale, che niuno potesse arrivarvi, e tener
ivi le guardie, e che si mettessero anche dei soldati alle di lui
statue; cagion fu, ch'egli si ammollì e perdonò a quell'augusto
ordine: e similmente mostrò piacere, che i senatori più che mai
l'adulassero, chi dandogli il titolo d'eroe, e chi di dio; il che
servì a maggiormente farlo impazzire. Gran tempo era, che questa
legger testa si riputava più che uomo, ed ambiva gli onori divini. Già
avea comandato che in Mileto, città dell'Asia, si fabbricasse un
tempio in onor suo. Un altro ancora se ne fece alzare in Roma; e si
trovarono intieri popoli, e massimamente gli Alessandrini, che a
questa ridicolosa divinità davano gl'incensi. Perchè i Giudei, divoti
del solo vero Dio, non vollero consentire a tanta empietà, patirono di
molti guai, e meraviglia fu che non gli sterminasse tutti. Le pazzie
che fece Cajo, per sostenere questa sua vana opinione di deità,
raccontate da Dione, sono innumerabili. Sulle prime si pareggiava ai
semidei, vestendosi talora, come Ercole, Bacco ed altri simili. Passò
ad uguagliarsi agli dii, e a gareggiar con Giove stesso. Al vederlo un
dì assiso sul trono in abito di Giove, un ciabattino nativo della
Gallia non potè contenere le risa. Avvedutosene Cajo, e chiamatolo,
gli domandò chi credeva egli che fosse: _Un gran pazzo_, con gran
sincerità rispose il buon uomo. E pur Cajo, che per tanto meno avrebbe
fatto morire un intero senato, male non fece a costui, perchè più
sopportava la libertà dei plebei che dei grandi. La via che tenne
_Lucio Vitellio_, padre dell'altro che fu imperadore, per salvare la
propria vita, fu la seguente. Richiamato egli in quest'anno dalla
Soria, nel cui governo come proconsole s'era acquistato non poco
onore, con ripulsare Artabano re de' Parti, venne a Roma. Cajo, parte
per invidia alla di lui gloria, parte per paura di un personaggio sì
generoso, avea già fissata la di lui morte. Subodorato questo suo
pericolo[222], Vitellio prese il ripiego dell'adulazione e d'impazzire
coi pazzi; e presentatosi davanti a lui con abito vile, e col capo
velato, come si faceva ai falsi dii, se gli prostrò a' piedi con
dirotte lagrime, dicendo, che _non v'era altri che un Dio par suo
capace di perdonargli_, promettendo di fargli de' sagrifizii se potea
conseguir la sua grazia. Non solamente Caligola gli perdonò, ma il
tenne da lì innanzi per uno de' suoi principali amici. E Vitellio
trovata così utile l'adulazione, continuò poi sotto Claudio Augusto a
valersene con perpetua infamia del suo nome. Intanto non mancarono a
Roma altri spettacoli della pazza crudeltà di Caligola, accennati da
Dione e da Svetonio, non potendosi abbastanza esprimere a quante
metamorfosi fosse suggetto quel cervello bisbetico, volendo oggi una
cosa, domani il contrario; ora amando ed ora odiando le medesime
persone; prodigo insieme ed avaro; sprezzator de' suoi dii, e un
coniglio, qualora udiva il tuono; talora perdonando i gran falli, ed
altre volte gastigando colla morte i minimi; e così discorrendo; tutti
caratteri d'uomo a cui s'era intorbidato più d'un poco il cervello. Fu
anche creduto, che _Cesonia_ sua moglie con dargli una bevanda
amatoria l'avesse conciato così. La qual poscia fra le carezze che le
faceva il consorte, ne sentiva anche ella delle belle: imperocchè
baciandole il collo, più volte Cajo le dicea: _Oh che bel collo, che
subito che me ne venga talento sarà tagliato!_ Ma sopra tutto tenne
egli saldo il costume di far morire chi de' grandi non gli mostrava
assai affetto: con avere sempre in bocca il detto di Azzio tragico
poeta: _Oderint, dum metuant. Mi odiino quanto vogliono, purchè mi
temano._ Un simile tirannico motto fu in uso a Tiberio[223].

NOTE:

[216] Sueton., in Cajo, cap. 17. Dio, lib. 59.

[217] Sueton., in Cajo, cap. 20.

[218] Dio, lib. 59. Sueton., cap. 46. Aurelius Victor de Caesarib.

[219] Sueton., in Caligula, cap. 49.

[220] Dio, lib. 59.

[221] Dio, in Excerptis Valesianis.

[222] Sueton., in Vitellio, cap. 2.

[223] Sueton., in Tiber., cap. 59.




    Anno di CRISTO XLI. Indizione XIV.

    PIETRO APOSTOLO papa 15.
    TIBERIO CLAUDIO, figliuolo di
    Druso imperadore 1.

_Consoli_

CAJO CESARE CALIGOLA AUGUSTO per la quarta volta e GNEO SENTIO
SATURNINO.


Che Caligola fosse in questo anno console per la quarta volta, e
deponesse tal dignità nel dì 7 di gennaio, l'abbiamo da Svetonio[224],
il quale ancora aggiugne, che egli unì _i due ultimi consolati_, per
essere stato console anche nell'anno antecedente. Secondo il Pagi[225]
ed altri, in vece di _due_ dovrebbe avere scritto Svetonio _tre_,
perchè egli entrò console anche nell'anno 39 della nostra Era. Che a
lui nel consolato fosse sostituito _Quinto Pomponio Secondo_ nello
stesso dì 7 gennaio, si raccoglie da Dione[226], che per tale il
nomina nel dì 24 del suddetto mese, in cui fu ucciso Caligola. E
Giuseppe Ebreo[227] attesta anche egli, che erano consoli _Sentio
Saturnino_ e _Pomponio Secondo_, allorchè Claudio salì all'imperio.
Nei Fasti di Cassiodoro consoli dell'anno presente son detti _Secondo_
e _Venusto_: e però il Panvinio ed altri han portata opinione, che
nelle calende di luglio questo _Venusto_ succedesse a Saturnino.
Monsignor Bianchini[228], che non trovò consoli in questo anno, e
lasciò scappar l'anno medesimo, per assettare la nuova sua cronologia,
difficilmente può sperar seguaci in tale opinione. Erano già pervenuti
i Romani alla disperazione, veggendosi governati da un Augusto, se non
tutto, almen mezzo pazzo e mezzo furioso, il quale specialmente
esercitava il suo furore contro la nobiltà; che angariava con
insopportabili imposte e gravezze i popoli, con inviare non i soliti
uffiziali, ma i soldati a riscuoterle; che avea[229] spogliato ogni
tempio della Grecia di tutte le lor più belle pitture e statue; che
permetteva agli schiavi di accusare in giudizio i lor padroni (cosa
inaudita), di modo che lo stesso Claudio, zio paterno dell'imperadore,
accusato da Polluce suo schiavo, corse pericolo della vita, e fu
obbligato a difendersi in senato; Augusto finalmente, che tutto dì si
vedea far delle nove pazzie, indegne d'ogni persona ragionevole, non
che di un imperadore. Perciò tutti sospiravano, chi per vendetta del
passato, chi per impazienza del mal presente, e chi per timore di
peggio nell'avvenire, che la terra fosse oramai liberata da questo
mostro. Ma niuno osava. I soldati pretoriani, cioè delle guardie,
grosso corpo di gente avvezza all'armi, ed affezionata a Caligola per
le frequenti sue liberalità, faceano venir meno il coraggio a chiunque
avesse voluto tentare contro la vita di lui. Contuttociò non mancarono
persone, che, per proprii riguardi e compassione del pubblico, il
quale andava di male in peggio, cominciarono a tramar delle congiure.
I principali e più coraggiosi furono _Cassio Cherea_ e _Marco Annio
Minuciano_. Era il primo uno dei tribuni, cioè dei primi uffiziali
delle compagnie pretoriane, uomo di petto e di probità tale, che
detestava le crudeltà e pazzie tutte di Cajo; dotato anche di molta
prudenza e cautela, e però alto ad ogni grande impresa. Caligola,
perchè egli avea poche parole, e parlava con voce languida, il teneva
per un effemminato, beffandolo anche bene spesso, come un dappoco, e
dato solo alla sensualità; di modo che qualor Cherea andava a prendere
il nome per la guardia, ora gli dava quel di Priapo o di Cupido, ora
quel di Venere ed altri simili: del che si offese molto Cherea. E buon
per lui, che sì vil concetto avea del suo merito Caligola; perciocchè
dicono, che gli era stato ultimamente predetto che sarebbe ammazzato
da un Cassio, come fu ancora Giulio Cesare: il che fu cagione che egli
richiamò a Roma Cassio Longino proconsole dell'Asia[230], discendente
da Cassio, uccisor di Cesare, con ordine ancora di ucciderlo, ma senza
che ne seguisse poi l'effetto. Trasse Cherea nelle sue massime
Cornelio Sabino, tribuno anche esso delle guardie; ed amendue si
aprirono con Annio Minuciano, uomo della primaria nobiltà, e pel suo
raro merito stimato da tutti; ma che stava male presso di Caligola,
per essere stato amico intimo di Marco Lepido. Scrive Giuseppe, che
questo Minuciano avea sposata una sorella di Caligola. Noi vedemmo che
_Giulia_ fu maritata con _Marco Vinicio_, uomo consolare; e Dione
parla di un _Viniciano_ che pretese all'imperio. Però potrebbe essere
che _Minuciano_ fosse il medesimo che _Viniciano_ o sia _Vinicio_, con
errore di alcuno de' testi. Si trovò Minuciano non solamente pronto
all'impresa, ma più ardente degli altri. A loro si aggiunse Callisto
liberto di Cajo, che secretamente coltivava la amicizia di Claudio zio
dell'imperadore, con altri non pochi. E Valerio Asiatico, personaggio
ricchissimo di beni nelle Gallie, vi tenea mano, ma con gran
secretezza e riguardo. Fu destinato al compimento del disegno il tempo
de' giuochi che si aveano da fare in onor di Augusto nel dì 21 di
gennaio, e nei tre seguenti: giacchè terminata quella festa, Caligola
avea fissata la sua partenza per l'Egitto, a far ivi meglio conoscere
un impazzito imperadore. Nei tre primi giorni de' giuochi non si trovò
apertura a compiere il disegno: laonde Cherea, che non potea più stare
alle mosse per paura che messo l'affare in petto di tante persone
traspirasse, determinò di sbrigarla nel dì 24 di gennaio.

Nella mattina di quel dì, Cajo più allegro ed affabile che mai fosse
stato, si assise nell'anfiteatro, fabbricato di nuovo per quella
funzione; fece gittar delle frutta agli spettatori; egli ancora
lietamente in pubblico mangiava e beveva, facendo parte di quei regali
a chi gli era vicino, e specialmente a Pomponio Secondo console, che
sedea ai suoi piedi, e facea la graziosa scena di andarglieli baciando
di tanto in tanto. Pericolo vi fu, che Cajo non si movesse di là nel
rimanente del giorno; perchè assai satollo ed abboracchiato per la
lauta colezione, bisogno non avea di desinare. Contuttociò riusci a
Minuciano, ad Asprenate e ad altri cortigiani congiurati di farlo
muovere un'ora o due dopo il mezzodì, per andare al bagno, e
ritornarsene, pranzato che avesse. Giunto al palazzo, in vece di andar
diritto verso dove l'aspettavano i destinati al fatto, voltò strada
per vedere alcuni giovanetti delle migliori famiglie dell'Asia e della
Grecia[231] fatti venire apposta per cantare e ballare ne' giuochi.
Allorchè fu in un luogo stretto, Cherea se gli presentò davanti, per
chiedergli il nome della guardia. L'ebbe, ma derisorio, secondo il
costume. Egli messa allora mano alla spada gli diede un tal fendente
sul capo, che a Cajo sbalordito neppure restò voce per chiamare aiuto.
Fecesi avanti anche Cornelio Sabino, che con un colpo gli tagliò una
mascella; ed altri con trenta altre ferite il finirono. Perchè senza
rumore non potè succedere quella scena, trassero colà primieramente i
portantini della lettiga imperiale colle loro stanghe, e poscia le
guardie tedesche, le quali cominciarono a menar le mani addosso a'
colpevoli ed innocenti. Fra gli altri vi perderono la vita Publio
Nonio Asprenate, che era stato console nell'anno 58, Norbano ed
Antejo, tutti e tre senatori. Il cadavere dell'estinto Augusto,
portato nella notte seguente nel giardino di Lamia, fu mezzo bruciato,
e frettolosamente seppellito in terra, per timore che il popolo lo
mettesse in brani. Mandato anche da Cherea un centurione o tribuno,
appellato Giulio Lupo, alle stanze di _Cesonia_ moglie di Cajo, la
trucidò insieme colla figliuola _Giulia_, per cui Cajo avea fatto
varie pazzie con dichiararla anche figliuola di Giove. E tale fu il
fine di _Cajo Caligola_, fine corrispondente ad un conculcatore di
tutte le leggi umane e divine, e che troppo tardi si accorse d'essere
non un Dio, ma un miserabil mortale. Abbattute poi furono le sue
statue, rasato il suo nome dalle iscrizioni, e trattata la sua memoria
come di un pubblico nemico.

Portata la nuova della morte di Caligola all'anfiteatro, dove buona
parte del popolo dimorava in allegria godendo il pubblico
divertimento, incredibil fu lo spavento di tutti; e tanto più perchè i
soldati pretoriani attorniarono colle spade nude quel luogo, e si durò
gran fatica a trattenerli che non cominciassero a far vendetta
dell'estinto principe sopra quegl'innocenti. Subito che poterono in
tanta confusione i consoli Sentio Saturnino e Pomponio Secondo, operar
qualche cosa, inviarono tre compagnie di essi pretoriani che si
trovarono ubbidienti per la città, affinchè impedissero i tumulti.
Raunato poscia il senato nel Campidoglio, corsero colà gli altri
soldati del pretorio, chiedendo con alte grida che si cercassero gli
uccisori. Ma affacciatosi Valerio Asiatico, uno dei primi senatori, ad
un balcone, gridò forte: «Piacesse a Dio, che l'avessi ammazzato io!»
Queste sole parole fecero impression tale ne' soldati che si
ritirarono. Fu poi dibattuto nel senato quel che fosse da fare in sì
pericolosa congiuntura. Il console Saturnino, secondo che scrive lo
storico Giuseppe, fece una bella aringa con rammentar tutti i mali
patiti sotto Tiberio e Caligola principi sanguinarii ed assassini del
pubblico, e conchiudendo che s'avea da ricuperare la libertà oppressa
dai precedenti imperadori; ma senza prendere ben le misure necessarie
per sì importante risoluzione. In fatti, non tardò molto a scoprirsi
la vanità di questo disegno. _Tiberio Claudio Druso Germanico_,
comunemente conosciuto col nome di _Claudio_ fra gl'imperadori de'
Romani, figliuolo fu di _Nerone Claudio Druso_, e fratello di
_Germanico Cesare_, per conseguenza zio paterno di Caligola. Uomo di
poco senno e sommamente timido, benchè avesse studiato le arti
liberali, era tenuto in concetto piuttosto di stolido, e perciò
sprezzato e deriso da tutti. Forse anche egli mostrava d'essere più di
quel che era. E questo fu la sua fortuna, perchè salvò la vita sotto
Tiberio e Caligola, i quali vedendolo addormentato e dappoco, nè
avendo apprensione alcuna di lui, si ritennero dal levarlo dal mondo.
Tiberio nondimeno il lasciò sempre nell'ordine de' cavalieri. Cajo suo
nipote, benchè fosse dipoi qualche volta tentato d'ucciderlo, pure
l'avea alzato al grado di senatore ed anche al consolato. Trovavasi
egli in compagnia o poco lungi da Caligola, allorchè i congiurati se
gli avventarono addosso. Tutto spaventato corse ad appiattarsi dietro
ad una tappezzeria, da dove ascoltava lo strepito di chi andava e
veniva, e co' suoi occhi vide le teste d'Asprenate e degli altri
uccisi staccate dai busti[232]. S'aspettava anch'egli la morte, quando
in passare uno de' soldati per nome Grato e scoperti i suoi piedi, il
tirò per forza fuori della tappezzeria. Cadde in ginocchioni Claudio e
gli dimandò la vita; ma il soldato riconosciutolo per quel che era,
non solamente l'animò, ma gli diede anche il titolo di _mio
imperadore_. E menatolo a' suoi compagni, che stavano disputando di
quel che s'avesse a fare in quel contingente, siccome per la memoria
di Germanico suo fratello l'amavano, tutti concorsero a riceverlo per
imperadore. Pertanto postolo in una lettiga, sulle loro spalle il
portarono al castello pretoriano, cioè al loro quartiere; tremando
egli intanto, e compassionandolo il popolo nel mirarlo così portato,
sulla credenza che il conducessero alla morte. Si fermò tutta quella
notte nel quartier de' soldati, nè andò al senato benchè chiamato,
scusandosi colla forza che gliel'impediva. Venuto poscia il dì 25 di
gennaio, giacchè i senatori erano discordi fra loro, nè mezzo appariva
da poter ripigliare e sostenere l'antica libertà, non si prendeva
risoluzione alcuna nel senato, in cui per altro non mancava il partito
di chi proponeva un nuovo principe.

Intanto la natia paura di Claudio l'avea tenuto lungamente sospeso
s'egli avesse sì o no da accettare l'esibito imperio, e fu più volte
in procinto di rifiutarlo, o di rimettersi totalmente alla volontà del
senato; quando, per testimonianza di Giuseppe Storico, _Agrippa_ re di
parte della Giudea, che si trovava allora in Roma, ed avea fatto dar
sepoltura all'ucciso Caligola, arrivò segretamente colà, ed incoraggiò
talmente il vacillante Claudio, che consentì al buon volere de'
soldati, da' quali fu universalmente proclamato imperadore, con
promettere egli a tutti un buon regalo di denari. Fu questi il primo
degl'imperadori, eletto dalle milizie, con esempio infinitamente
pregiudiziale allo imperio romano; perchè ne vedremo tanti altri per
questa via, e col comperare lo imperio dai soldati, salire al trono.
Ora il senato, a cui era già pervenuto lo avviso degli andamenti dei
pretoriani e di Claudio, trovandosi ben intricato fra il desiderio di
ricuperar la libertà, e il timore di non poterlo, mandò a chiamare il
re Agrippa, per valersi del suo mezzo. Questo uomo doppio, quanto
altri mai fosse, comparve in senato ben profumato, e fingendo di nulla
sapere, anzi dimandando dove fosse Claudio, fu informato del presente
sistema dei pubblici affari, ed interrogato del suo parere. Lodò egli
sommamente il lor disegno di rimettere in piedi la repubblica, e si
protestò pronto a dar la vita per la gloria del senato. Ma nello
stesso tempo sparse il terrore in tutti, mostrando la difficoltà di
resistere ai pretoriani, e lodando in fine, che si facesse una
deputazione a Claudio per esortarlo a desistere: al che egli si esibì.
Accettata la offerta, e deputati con lui anche i tribuni della plebe,
andò Agrippa a trovar Claudio, e fece pubblicamente la ambasciata.
Poscia in un ragionamento a parte espose a Claudio la debolezza ed
incertezza del senato, esortandolo a prendere le briglie con mano
forte. Perciò, per quanto dicessero dipoi i tribuni per rimuoverlo, e
per consentire almeno di ricevere lo imperio dalle mani del senato,
Claudio tenne saldo, con promettere solamente un buon governo. Dacchè
il senato ebbe ricevuta questa risposta, volle fare il bravo col
minacciargli la guerra, e Claudio ne mostrò paura. Passò fra questi
dubbi il dì 25 di gennajo. Ma intanto andarono cangiando faccia gli
affari. Molta parte del popolo cominciò a gridare di voler un
principe, e ne nominò ancora alcuni; e venuto il dì 26, non pochi dei
senatori stettero ritirati, senza entrare in senato. Il peggio fu, che
quattro compagnie fin qui ubbidienti a Cherea e a Sabino, voltarono
casacca, ed abbracciarono il partito di Claudio. Altrettanto fecero i
vigili, i gladiatori e gli altri soldati della città, in maniera che i
senatori rimasti come in isola nel senato, s'appigliarono in fine,
benchè forzati, alla risoluzion di conoscere Claudio per imperadore.
Andarono dunque tutti a gara al quartier de' soldati per salutarlo; ma
furono sì mal ricevuti da coloro, che ne restarono alcuni bastonati ed
altri feriti; e Pomponio Secondo, l'uno de' consoli, corse pericolo
della vita, Claudio ed Agrippa s'interposero, ed acquietarono quegli
animi turbolenti.

Allora Claudio accompagnato dal senato e dalle milizie, a guisa di
trionfante, si mosse, e dopo essersi portato al tempio, per
ringraziare gl'iddii della sua esaltazione, passò al palazzo; nè altro
di funesto per allora operò, se non che per politica condannò a morte
alcuni degli uccisori di Caligola, e massimamente il lor capo Cassio
Cherea, che coraggiosamente la sofferì. Volle perdonare a Cornelio
Sabino, e conservargli anche la sua carica; ma questi, non sapendo
sopravvivere all'amico Cherea, si diede poi la morte da sè stesso. Del
resto Claudio, dopo aver ricevuto i titoli di Cesare Augusto e di
pontefice massimo, e la tribunizia podestà, si trovò distinto da
Tiberio suo antecessore, coll'essere chiamato _figliuolo di Druso_ o
pur _di Tiberio_: laddove Tiberio s'intitolava _figliuolo di Augusto_.
E nelle medaglie[233] Tiberio è mentovato col solo prenome TIBERIVS
CAESAR; ma Claudio TIBERIVS CLAVDIVS CAESAR. Nè Claudio solea
anteporre il titolo d'_imperadore_ al suo nome, ma posporlo. Ora
anch'egli, non meno di quel che avessero fatto i precedenti due
cattivi imperadori, diede un bel principio al suo governo. La più
gloriosa delle azioni sue fu quella di accordare un general perdono a
chiunque avea trattato di ridurre di nuovo Roma allo stato di libertà
e di escludere lui dall'imperio. Nè egli rivangò mai più questi conti,
anzi promosse a gradi più illustri chi s'era mostrato più zelante in
quella occasione. Guai a loro, s'egli avesse avuto il cuor di Tiberio
o di Caligola! Anzi neppur fece vendetta di tanti e tanti, che in vita
privata o l'aveano oltraggiato, o vilipeso gastigandoli solamente se
si provavano rei d'altri delitti. Allorchè giunse in Germania la nuova
dell'ucciso Caligola, furonvi molti che sollecitarono Sulpicio Galba,
general di quelle legioni, ad assumere l'imperio. Mai non volle egli
acconsentire, perchè più poteva in lui l'onore che l'ambizione.
Claudio, di ciò informato, tenne sempre Galba per uno de' suoi
migliori amici; laddove Tiberio e Caligola furono soliti di levar di
vita chiunque credeano riputato degno dell'imperio. Un altro merito si
era acquistato Galba nell'anno precedente, perchè appena fu uscito
delle Gallie Caligola, che i Germani fecero un'irruzione nelle
provincie romane; ma Galba li ripulsò con tal vigore, che fu lodato
infin da Caligola, principe per altro invidioso della gloria de' suoi
generali. In quest'anno ancora egli sconfisse i popoli Catti nella
Germania: laonde Claudio, per tal vittoria e per altra rapportata da
Publio Gabinio contro i Cauci, fu nominato imperadore per la seconda
volta. Il timido natural di Claudio, avvalorato anche dal recente
esempio del nipote, cagion fu, ch'egli per un mese non osò d'entrar
nel senato; nè alcuno, ancorchè donna o fanciullo, da lì innanzi a lui
si accostò, se prima non era visitato, per vedere se portasse sotto
coltello od altre armi. Andando a qualche convito, tenea sempre le
guardie intorno alla tavola; e volendo far visita a qualche malato,
facea prima ben cercar per la camera e per li letti se armi vi
fossero. A fine poi di cattivarsi il pubblico amore, levò tosto, o
almeno ristrinse assaissimo, la licenza conceduta ad ognuno in
addietro di accusare chiunque si volea di lesa maestà[234]; e rimise
in libertà o richiamò dall'esilio le persone processate per questo,
con volerne nondimeno il consenso del senato. Abolì gli aggravi
imposti da Caligola, nè volle i regali annui comandati da esso suo
nipote. A chiunque indebitamente era stato spogliato de' suoi beni dal
medesimo e da Tiberio, li restituì. Fece anche rendere alle città le
statue e pitture che Caligola avea fatto condurre a Roma. Soprattutto
ebbe in abbominio gli schiavi e liberti, che sotto il disordinato
precedente regno si erano rivoltati contra de' lor padroni; e
similmente i falsi testimoni che in addietro aveano avuta gran voga.
Egli ne fece morir la maggior parte, obbligandoli a combattere negli
anfiteatri colle fiere. La sua modestia era grande. Abborrì l'alzare a
lui dei templi; per lo più ricusò anche le statue; altri onori
straordinari non volle nè per sè nè per gli figliuoli nè per la
moglie. Due erano le sue figliuole: _Antonia_, che fu maritata a Gneo
Pompeo in quest'anno, a lui nata da _Elia Petina_, sua seconda moglie
defunta; ed _Ottavia_, nata da _Valeria Messalina_, sua moglie
vivente, che fu promessa a Lucio Silano, e poi fu maritata a _Nerone_
crudelissimo imperadore. Gli partorì essa Messalina un figliuolo
nell'anno presente, conosciuto dipoi sotto nome di _Britannico
Cesare_. Trattava egli coi senatori con molta bontà e cortesia,
visitandogli anche malati, ed assistendo alle lor feste private.
Onorava specialmente i consoli, alzandosi anch'egli al pari del popolo
in piede, allorchè intervenivano agli spettacoli, e qualora andavano
al suo tribunale per parlargli. Parcamente ancora vivea, ed era
indefesso a far giustizia, ed attento perchè gli altri la facesse. La
sua liberalità verso i re sudditi fu riguardevole. Ad _Agrippa_, a cui
professava di grandi obbligazioni, concedette tutto il regno posseduto
da Erode il grande suo avolo, e ad _Erode_ suo fratello il paese di
Calcide, col diritto ad amendue di sedere in senato, ed altri onori.
Restituì ad _Antioco_ la provincia di Comagene. Mise in libertà
_Mitridate re d'Armenia_, e gli rendè i suoi stati. Richiamò ancora
dal loro esilio a Roma _Agrippina_ e _Giulia Livilla_, che Caligola
lor fratello avea relegate nell'isola di Ponza. In somma, sì fatte
lodevoli azioni sul principio acquistarono a Claudio l'amore d'ognuno,
stupendosi probabilmente tutti, come un uomo creduto da nulla e
stolido in addietro, comparisse ora con sì diversa divisa, e sapesse
correggere con sì buon garbo gl'innumerabili disordini introdotti dai
due precedenti Augusti, e con tanta amorevolezza e giustizia si fosse
accinto al pubblico governo.

NOTE:

[224] Suet., in Cajo, cap. 17.

[225] Pagius, Dissert. Hypatic.

[226] Dio, lib. 59.

[227] Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 19, c. 1.

[228] Blanchin., in Anast.

[229] Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 19, cap. 1.

[230] Dio, lib. 59. Suetonius, in Cajo, cap 57.

[231] Suet., in Cajo, c. 58. Dio, lib. 59. Joseph., Antiq., lib. 59.

[232] Suet., in Claudio, cap. 10. Dio, lib. 60. Joseph., Antiq., lib.
19.

[233] Mediobarbus, Numism. Imper. Goltzius, Patinus et alii.

[234] Sueton., in Claudio, cap. 3. Dio, lib. 60.




    Anno di CRISTO XLII. Indizione XV.

    PIETRO APOSTOLO papa 14.
    TIBERIO CLAUDIO figlio di
    Druso, imperadore 2.

_Consoli_

TIBERIO CLAUDIO GERMANICO AUGUSTO per la seconda volta, e CAJO CECINA
LARGO.


Nell'ultimo di febbraio _Claudio Augusto_ si spogliò della dignità
consolare, per ornarne non si sa bene chi. Ha creduto taluno, che gli
succedesse _Cajo Vibio Crispo_, ma giocando ad indovinare. Nelle
calende di gennaio[235] esso Claudio Augusto console fece ben giurare
dai senatori l'osservanza delle leggi d'Augusto, e la giurò egli
stesso; ma non pretese, nè permise un simile giuramento per quelle
ch'egli facesse. S'erano già ribellati i popoli della Mauritania per
la morte data da Caligola a Tolomeo re loro. In quest'anno rimasero
essi sconfitti da Svetonio Paolino, che s'inoltrò sino al monte
Atlante, e saccheggiò quelle contrade. Due altre rotte lor diede dipoi
Osidio Geta, di maniera che posate le armi, quel paese tornò tutto
all'ubbidienza di Roma. Claudio per tali vittorie prese il titolo
d'_imperadore_ per la terza volta: poichè il merito delle vittorie si
attribuiva sempre al generalissimo delle milizie romane (tali erano
allora gl'imperadori) e non già agli uffiziali subalterni. Patì in
quest'anno[236] Roma gran fame. Claudio Augusto non mancò al suo
dovere, per provvedere al bisogno. E perciocchè Roma si trovava senza
porto in sua vicinanza, nè le navi nel tempo di verno osavano portar
grani alla città, Claudio imprese a formarne uno di pianta: opera
degna della magnificenza romana; e tanto più gloriosa per Claudio,
perchè Giulio Cesare avea avuta la medesima idea, ma per la grave
spesa e difficoltà di eseguirla l'aveva abbandonata. Alla sboccatura
dunque del Tevere, e dal lato del fiume opposto all'altro dove era
Ostia, fece cavare un porto vastissimo nel continente, con due ale che
si sporgevano molto in mare; il tutto guernito di marmi, e con torre o
sia fanale ben alto. Si crederono gli architetti, chiamati per tal
fabbrica, di spaventarlo con dirgli la sterminata spesa che
costerebbe. Egli tanto più se n'invogliò, e volle farla, e la condusse
a fine con gloria grande del suo nome. Resta tuttavia il nome di
Porto, a quel sito, ma non già vestigio del porto medesimo. Racconta
Plinio[237], come testimonio di veduta, che mentre si facea
quell'insigne fabbrica, capitò colà un mostro marino, chiamato orca,
di smisurata grandezza. Per prenderlo bisognò inviarvi i soldati del
pretorio, e varie navi, una delle quali restò affondata dall'acqua
gittatavi dalle narici del pesce. Molte leggi utili e buone fece
Claudio in quest'anno, e fra le altre ordinò, che i governatori e
ministri delle provincie, eletti nel principio d'anno, e soliti a
fermarsi lungo tempo in Roma, per tutto il marzo dovessero trovarsi
alle loro provincie; e che gli eletti nol ringraziassero in senato,
come era il costume. Dicea, _che non essi a lui, ma egli ad essi dovea
rendere grazie, perchè l'aiutavano a portare il peso del principato, e
cooperavano al buon governo de' popoli_, con prometter anche loro
maggiori onori se con lode avessero esercitato il loro impiego.

Non sarebbe stato Claudio con tutta la sua poca testa un principe
cattivo, perchè non gli mancava una buona intenzione, e mostrava genio
alle cose ben fatte, privo, per altro, d'orgoglio e di fasto; e sulle
prime regolandosi col consiglio dei savi non metteva il piè in
fallo[238]. Ma per sua o per altrui disgrazia cominciò a comparir
cattivo, parte per li mali affetti del suo natural timoroso, e parte
perchè _Messalina_ sua moglie, la più impudica donna del mondo, e
Narciso suo liberto favorito, ed altri mali arnesi della corte,
abusandosi della di lui scempiaggine, il faceano precipitare in
risoluzioni indegne di lui, e sommamente pregiudiziali al pubblico.
Quel che parve strano, dall'un canto era un coniglio pien di paura, e
dall'altro uno de' suoi maggiori piaceri consisteva nell'assister agli
abbominevoli spettacoli dei gladiatori, e in vedere gli uomini
combattere con le fiere, e restarne assaissimi stracciati e divorati.
Diede anche da ridere, l'aver egli fatto levar l'insensata statua
d'Augusto dall'anfiteatro, acciocchè non vedesse tante stragi, e non
convenisse ogni volta coprirla, quando egli vivente non avea scrupolo
di guatarle sì spesso, e di prenderne tanto diletto. Certamente fu
creduto che avvezzatosi in questa maniera al sangue umano, divenisse
poi sì facile a spargerlo co' suoi ingiusti decreti, dacchè lo
spingevano al mal fare l'iniqua moglie e i suoi perversi servitori di
corte. La prima sua ingiustizia, che cominciò a far grande strepito,
fu la morte di _Appio_ o sia _Cajo Silano_, uno de' più illustri e
stimati senatori di Roma, e tenuto in gran conto, ed amato da Claudio
stesso, perchè[239] padrigno di Messalina sua moglie, avendo sposata
Domizia Lepida, madre d'essa Messalina. E perciocchè si sa che Claudio
avea già fatti seguire gli sponsali fra _Ottavia_ figliuola di
Messalina, e _Lucio Silano_, s'è creduto che questo Lucio Silano fosse
nato dal medesimo Appio Silano e da Giulia nipote d'Augusto, sua prima
moglie. Questi sì stretti legami di parentela non trattennero l'infame
Messalina del tentar Appio Silano d'adulterio. Il non aver egli voluto
consentire fu un grave delitto, a punir il quale Messalina e Narciso
si servirono della seguente furberia[240]. Entrò una mattina per tempo
Narciso nella camera di Claudio, che tuttavia dimorava in letto colla
moglie; e facendo lo spaventato e il tremante, gli raccontò di aver
veduto in sogno lo stesso imperadore ucciso per mano del sopraddetto
Appio. Saltò su allora Messalina, e calcò la mano con dire, aver
anch'ella le notti addietro più volte con orrore sognato un sì orrendo
spettacolo. Nello stesso tempo vien bussato all'uscio, ed è Appio
Silano che Messalina e Narciso d'accordo aveano fatto venire a
quell'ora. Non occorse di più. Claudio, a cui in materia di sospetti
le biche pareano montagne, diede tosto ordine che gli fosse levata la
vita, e l'ordine fu eseguito. Portò lo stesso Claudio al senato questa
bella nuova, come liberato da un gran pericolo, e molto ringraziò il
suo liberto Narciso che anche sognando vegliava così bene per la vita
del suo padrone. Somiglianti foghe di sospetti e timori fecero, che
Claudio in altre occasioni togliesse dal mondo altre persone innocenti
con subitaneo furore; ed accadde talvolta (cotanto era stupido) che
dopo aver fatto morir taluno, come tornato in sè, dimandava conto,
credendolo vivo. Dettogli, che per ordine suo non si contava più fra i
mortali, se ne rammaricava poi forte, ma senza profitto dei morti.

Credesi che l'ingiusta morte di Silano, e il mirar la stupidità di
Claudio capace d'altre simili false carriere, desse moto ad una
congiura contra di lui: tanto più perchè durava in molti l'idea di
rimettere in piedi la libertà della repubblica, nè parea ciò difficile
sotto un imperadore impastato di paura[241]. _Annio Viniciano_, o
_Minuciano_, fu delle prime ruote di tal cospirazione, siccome quegli
che non si tenea mai sicuro, dopo essere stato uno de' principali
nella congiura contro Caligola, e proposto anche in senato per
succedergli nell'imperio. Ma sì grande impresa non si potea compiere
senza l'armi; e Claudio intanto era ben assistito dai pretoriani e
dall'altre milizie, che stavano di quartiere in Roma, perchè, oltre
alla paga ordinaria, li rallegrava ogni anno con un buon regalo. Si
rivolsero dunque i congiurati a _Furio Camillo Scriboniano_, che
comandava ad alcune legioni nella Dalmazia, promettendogli aiuto se
armato veniva a Roma. Vi saltò egli dentro, e fattasi giurar fedeltà
da quell'esercito, col pretesto di restituire il popolo romano
nell'antica autorità, tutto andò disponendo, con iscrivere intanto una
lettera fulminante e piena d'ingiurie a Claudio, minacciandogli tutti
i malanni se non rinunziava l'imperio. Ricevuta questa imperiosa
intimazione, non era lontano Claudio dall'ubbidire; ma un accidente il
liberò dal pericolo. Dato da Furio Camillo il segno della marcia, per
caso fortuito si trovò difficoltà a sollevar le insegne che, secondo
il costume, stavano conficcate in terra. Erano i Romani d'allora la
più superstiziosa gente del mondo; badavano a tutto, interpretando
anche le menome bagattelle per presagi favorevoli o contrari
dell'avvenire. Bastò questo perchè i soldati credessero volontà degli
dii il non dar esecuzione al meditato viaggio. Furio Camillo
trovandosi deluso, se ne fuggì in un'isola della Dalmazia, dove[242]
fra le braccia di Giunia sua moglie fu ucciso da un semplice soldato,
appellato Volaginio, il quale premiato poi da Claudio ascese ai primi
gradi della milizia. Per questa sedizione terminata con tanta
felicità, Claudio fece far di molte perquisizioni in Roma, affin di
scoprire i complici. Alcuni furono giustiziati, altri si levarono la
vita da sè stessi, fra i quali specialmente si contò il sopr'accennato
Viniciano o Minuciano. Non pochi anche dei cittadini romani, de'
cavalieri e insin dei senatori furono messi ai tormenti, e data
licenza ai servi e liberti di accusare i loro padroni, benchè Claudio
nell'anno addietro avesse abolito quegli usi. In somma si riempiè
tutta Roma di sospiri e di terrore; e quei soli se n'andarono salvi
che seppero guadagnarsi la protezion di Messalina o dei liberti di
corte. Fu osservato il coraggio di un liberto di Furio Camillo, per
nome Galeso, che interrogato da Narciso nel senato, cosa egli avrebbe
fatto se il suo padrone fosse divenuto imperadore: _Gli avrei_,
rispose, _tenuto dietro secondo il mio solito, ed avrei taciuto_. In
questa occasione[243] _Cecina Peto_, già stato console, che avea
sposato il partito di Furio Camillo, fu preso e condotto a Roma in una
nave. _Arria_ sua moglie, donna di petto virile, rigettata da quella
nave, gli tenne dietro in una barchetta; ed arrivata a Roma, ricorse a
Messalina, per raccomandarsele. Avendo trovata con lei Giunia moglie
del suddetto Furio Camillo, la rimproverò, perchè tuttavia vivesse
dopo la morte del marito. Avrebbe potuto Arria, mercè del favore di
Messalina, non solamente vivere, ma anche sperar buon trattamento;
pure s'incapricciò tanto di non voler sopravvivere al marito, che dopo
aver veduta disperata la di lui causa, prese un pugnale, si trafisse,
e poi diede il ferro medesimo al marito, acciocchè facesse
altrettanto. Quest'atto d'Arria vien esaltato colle trombe da Plinio
il giovane in una delle sue epistole, e da Dione, secondo la falsa
idea che aveano i Romani di quel tempo della gloria; quasi che possa
essere conforme alla retta ragione l'uccidere un innocente, e non sia
più gloriosa quella fortezza che sa sofferir le maggiori calamità. Non
si può fallare, credendo che dopo la morte di Furio Camillo, fosse
inviato al governo della Dalmazia o sia dell'Illirico, _Lucio Ottone_
padre di _Ottone_ poscia imperadore, di cui parla Svetonio[244]. Fu
egli sì rigoroso, che fece tagliar la testa ad alcuni semplici
soldati, i quali pentiti d'aver aderito ad esso Camillo, di lor
propria autorità, e contro l'ordine, aveano ucciso i loro uffiziali
come autori di quella sedizione, senza far egli caso, se dispiaceva a
Claudio, da cui erano anche stati promossi alcuni di que' soldati a
posto maggiore. Ne acquistò gloria presso i Romani, ma perdè molto
della buona grazia di Claudio, con ricuperarla nondimeno da lì a poco,
per avere scoperto e rilevato il disegno formato da un cavaliere di
uccidere esso imperadore.

NOTE:

[235] Dio, lib. 60.

[236] Sueton., in Claudio, cap. 20.

[237] Plinius, lib. 9, c. 6.

[238] Dio, lib. 60.

[239] Sueton., in Claudio, cap. 29. Seneca, in Apocol.

[240] Suet., ibid., cap. 87. Dio, lib. 60.

[241] Sueton., in Claudio, cap. 13. Dio, lib. 60.

[242] Tacit., Historiar. lib. 2, cap. 75.

[243] Plinius junior, lib. 3, cap. 16.

[244] Sueton., in Othone, cap. 1.




    Anno di CRISTO XLIII. Indizione I.

    PIETRO APOSTOLO papa 15.
    TIBERIO CLAUDIO, figlio di
    Druso imperadore 3.

_Consoli_

TIBERIO CLAUDIO AUGUSTO per la terza volta e LUCIO VITELLIO per la
seconda.


Non più di due mesi tenne l'_Augusto Claudio_ il suo terzo
consolato[245]. V'ha chi crede a lui succeduto nel dì primo di marzo
_Publio Valerio Asiatico_, quel medesimo che avea tenuta mano ad
abbattere il crudele Caligola, ma è opinione incerta. _Vitellio_
console quel medesimo è che vedemmo proconsole della Siria, e che ebbe
per figliuolo _Vitellio_ poscia imperadore. Coll'adulazione si salvò
sotto Caligola, con questa ancora si fece largo presso di Claudio.
Nelle calende poscia di luglio giudicarono alcuni eruditi, che ai
suddetti consoli ne succedessero due altri, cioè _Quinto Curzio Rufo_
e _Vipsanio Lenate_. Plausibile è la lor congettura, ma non è più che
congettura. V'erano sì smisuratamente moltiplicate in Roma le
ferie[246], che la maggior parte dell'anno era feriata; ed allora non
si teneano i pubblici giudizii. Vi rimediò Claudio Augusto, riducendo
esse ferie ad un numero discreto. Tolse vari uffizi a chi
indebitamente gli avea ottenuti da Caligola, e li restituì o li
conferì a chi ne era degno. Al popolo della Licia, perchè avea fatto
un tumulto, con uccidere ancora non so quanti Romani, levò la libertà
e sottomise quella provincia alla Panfilia. Privò della cittadinanza
di Roma uno di quel paese, perchè non intendea la lingua latina; ed
altri spogliò del medesimo diritto per loro falli; ma conferillo poi a
moltissimi altri a capriccio, nè solo ai particolari, ma anche alle
università e città. Più nondimeno quelli erano, che ricorrendo con
danari a Messalina e ai liberti favoriti di corte, l'impetravano, di
modo che si dicea, che la cittadinanza romana, la quale una volta
siccome bel privilegio si pagava carissimo, era divenuta sì a buon
mercato, che con un pezzo di vetro rotto si acquistava. Nè sol questo
si vendea da Messalina e da' liberti palatini, ma ancora gli uffizi
militari e i governi, con entrar anche a far traffico e a cavar danaro
dalla grascia e dall'altre cose che si vendevano: il che fece incarire
i lor prezzi, e necessario fu che Claudio nel campo Marzio alla
presenza del popolo li tassasse. Ed intanto Messalina più che mai
datasi in preda alla libidine[247], e sfacciatamente adultera, senza
rispetto alcuno del marito, era l'oggetto delle dicerie della gente
accorta. Se vero è ciò che ne scrisse Giovenale, lasciato la notte in
letto l'addormentato buon consorte, travestita passava ai pubblici
lupanari; nè contenta dell'infame suo vivere, forzava anche altre
nobili donne, con chiamarle a palazzo a prostituire la lor pudicizia
ed anche alla presenza de' lor mariti. A chi d'essi si contentava, non
mancavano onori e posti, agli altri che non amavano questo vituperoso
giuoco fabbricava trappole per farli condannare e morire, trovando
maniere che non penetrasse agli orecchi del goffo marito l'enorme
sordidezza del viver suo. Perciò Claudio era quasi il solo che non
sapesse un'infamia sì mostruosa. Anzi scioccamente talvolta cooperava
alle pazze voglie di lei, siccome fra l'altre avvenne di Mnestore
famoso istrione o sia commediante. Era perduta nell'amore di costui la
bestial Messalina, nè mai con preghiere o minacce avea potuto trarlo
alle sue voglie, perchè egli dovea ben misurare il pericolo di quel
salto. Lamentossi ella con Claudio, che Mnestore la sprezzava, nè
volea ubbidirla in certo altro affare. Fattolo chiamare, l'Augusto
bufalo gli ordinò di far tutto quanto ella gli comandasse. Nell'anno
presente ancora riuscì a Messalina di levar dal mondo due principesse
della casa cesarea[248], cioè _Giulia_ figliuola di _Druso Cesare_
figliuol di _Tiberio_, e _Giulia Livilla_ sorella dell'ucciso
_Caligola_, e di _Agrippina_, poi moglie dello stesso Claudio. Perchè
esse voleano gareggiar con lei in bellezza e in possanza, nè usavanle
assai finezze, e Livilla inoltre da sola a solo parlava spesse volte
con Claudio, seppe così offuscare il cervello del marito Augusto, che
senza lasciar loro agio per difendersi, le inviò all'altro mondo,
l'una col ferro, l'altra colla fame. Il celebre filosofo _Seneca_,
perchè amico di Livilla, fu in tal congiuntura relegato nella Corsica,
e si vendicò poi di Claudio morto con una satira che si è conservata
sino ai dì nostri.

Finquì la grand'isola della Bretagna, oggidì appellata Inghilterra,
non avea piegato il collo sotto il giogo de' Romani. Perchè quantunque
Orazio[249] sembri indicare, che Augusto vincesse que' popoli, e
Servio[250] chiaramente l'insegni; pure Strabone[251] assai fa
conoscere che ciò non sussiste; ed è certo, che anche ai tempi di
Claudio que' popoli viveano sottoposti a' vari loro re, amici
solamente, ma non sudditi di Roma. Per cagione[252] d'alcuni desertori
non restituiti s'intorbidò la buona armonia fra i Britanni e i Romani;
e un certo Berico cacciato dalla Bretagna, tanto seppe dire ad _Aulo
Plauzio_ senator chiarissimo, pretore allora e governatore della
Germania inferiore, che gli fece credere facili le conquiste in
quell'isola. Claudio informato della proposizione, e voglioso di
guadagnare un trionfo, vi consentì. Trovò Plauzio una somma renitenza
nell'esercito, per uscire del continente e passare in paese incognito;
nè si voleano in fatti muovere. Arrivò colà Narciso spedito con ordini
pressanti da Claudio. Questo liberto, gonfio pel gran favore del
padrone, arditamente salì sul tribunale di Plauzio per fare un'aringa
ai soldati. Allora a tutti montata la collera, cominciarono a gridare:
_Ben venuti i Saturnali_; perchè in que' giuochi i servi si
travestivano con gli abiti de' padroni. E senza volerlo ascoltare,
alzate le bandiere, tennero dietro a Plauzio, il quale colle navi
preparate andò poi a fare uno sbarco nella Bretagna. Non si
aspettavano que' popoli una tal visita; e perchè non s'erano nè
preparati nè uniti, si diedero alla fuga, nascondendosi nelle selve e
nelle paludi. Con Plauzio andò anche _Vespasiano_, che fu poi
imperadore. S'impadronirono questi due valorosi uffiziali d'una parte
di quel paese sino al Tamigi; nè osando Plauzio di passar oltre,
significò con sue lettere la positura degli affari a Claudio, e quali
popoli egli avesse soggiogato, quali Vespasiano; e come Cajo Sidio
Geta inviluppato dai nemici con pericolo d'esser preso, gli avea poi
sbaragliati. Claudio o avea già fatta o fece allora la risoluzione di
passar colà in persona. Lasciato dunque il governo di Roma a _Lucio
Vitellio_, ch'era stato o pur tuttavia era console, probabilmente
nella state s'imbarcò, e da Ostia fece vela verso Marsiglia, con
patire per viaggio una pericolosa burrasca. Poscia parte per terra,
parte per mare arrivò all'Oceano: e finalmente raggiunse l'armata, che
stava tuttavia accampata presso al fiume Tamigi. Valicato quel fiume,
sconfisse i Britanni accorsi in gran copia per impedirgli il
passaggio, e prese Camaloduno reggia di Cinobellino. Così Dione[253]:
laddove Svetonio[254] scrive non aver egli data battaglia alcuna.
Certo è, che per quelle imprese due o tre volte conseguì di nuovo il
titolo di _imperadore_, titolo indicante qualche nuova vittoria. Anche
Tacito[255] afferma aver egli conquistato un buon tratto di paese
nella Bretagna, e domati ivi alcuni di quei re; e Svetonio[256] stesso
asserisce che Vespasiano in quella spedizione, ora sotto Plauzio ed
ora sotto lo stesso Claudio Augusto, si segnalò con essere ben trenta
volte venuto alle mani con que' popoli, ed aver sottomesse due di
quelle possenti nazioni, prese venti città e l'isola di Vicht. Non
molto tempo si fermò Claudio in quelle contrade, e dopo aver tolte
l'armi agli abitanti del paese conquistato, e lasciato Plauzio
coll'esercito al loro governo, si rimise in viaggio per tornarsene a
Roma. Sei mesi spese nell'andare e venire; ed abbiamo da Seneca[257] e
da Tacito[258], che nella Bretagna fu alzato un tempio a questo
imperadore, la cui impresa aprì l'adito all'armi romane di stendersi
maggiormente coll'andare degli anni in quella vasta isola. Giunti a
Roma molto prima di Claudio, Gneo Pompeo e Lucio Silano, generi d'esso
imperadore, coll'avviso del lieto avvenimento[259], il senato decretò
il trionfo a Claudio, e diede tanto a lui che al picciolo suo
figliuolo _Claudio Tiberio Germanico_, il titolo di _Britannico_, con
ordinar dei giuochi da farsi ogni anno in sua memoria e l'erezione di
due archi trionfali, l'uno in Roma e l'altro al lido della Gallia,
dove Claudio entrò in mare per passare in Bretagna. Accordò inoltre a
Messalina moglie di Claudio, ancorchè non avesse il titolo d'Augusta,
il primo luogo nelle pubbliche adunanze, (il che può parere strano) e
il poter andare nel carpento, cioè in carrozza singolare, di cui
godeano per privilegio le sole Vestali e i Sacerdoti, ed entrar con
essa ne' pubblici spettacoli. Nello stesso tempo pubblicarono un
editto, che chiunque avesse monete di rame coll'immagine dell'odiato
Caligola, le portasse alla zecca da essere disfatte. Sopra questo rame
o bronzo mise tosto le mani Messalina, e ne fece formar delle statue
al suo caro drudo Mnestore commediante.

NOTE:

[245] Sueton., in Claudio, cap. 14.

[246] Dio, lib. 60.

[247] Juvenalis, Satyra 6. Dio, lib. 60. Sueton. in Claud., cap. 26.

[248] Seneca, in Apocol. Suetonius, in Claudio, cap. 29.

[249] Horatius, Odar., lib. 3, I.

[250] Servius, in Virgil., Georg. 3.

[251] Strab., lib. 2.

[252] Sueton., in Claud., cap. 17. Dio, lib. 60.

[253] Dio, lib. 60.

[254] Sueton., in Claudio, cap. 17.

[255] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 13.

[256] Sueton., in Vesp., cap. 4.

[257] Seneca, in Apocol.

[258] Tacitus, Annal., lib. 14, c. 31.

[259] Dio, lib. 60.




    Anno di CRISTO XLIV. Indizione II.

    PIETRO APOSTOLO papa 16.
    TIBERIO CLAUDIO, figliuolo di
    Druso, imperadore 4.

_Consoli_

LUCIO QUINTIO CRISPINO per la seconda volta e MARCO STATILIO TAURO.

Da un'iscrizion del Grutero raccolse il cardinale Noris[260] che il
prenome di _Statilio Tauro_ fu _Marco_. Un'altra tuttavia esistente in
Roma nel museo del Campidoglio, e da me[261] pubblicata, fu posta
MANIO AEMILIO LEPIDO, T. STATILIO TAURO COS. Quando questa appartenga
all'anno presente, si può inferirne, che essendo mancato di vita,
ovvero avendo dimessa la dignità, il primo de' consoli _Crispino_, a
lui succedesse _Manio Emilio Lepido_. Similmente se ne ricaverebbe,
che il prenome di _Statilio Tauro_ era _Tito_ e non _Marco_. Ma di ciò
all'anno seguente. Arrivò l'imperador Claudio dalla Bretagna in
Italia, e, per testimonianza di Plinio[262], andò ad imbarcarsi ad una
delle bocche del Po, appellata Vatreno, in un grosso legno,
somigliante piuttosto ad un palazzo che ad una nave. Pervenuto a Roma,
trionfante v'entrò[263] colle solite formalità. Sommamente magnifico e
maestoso fu l'apparato, ed ottennero licenza i governatori delle
provincie, ed anche alcuni esiliati, d'intervenirvi. Osserva
Dione[264], che Claudio salì ginocchione al Campidoglio, sollevandolo
di qua e di là i due suoi generi; e che dispensò, ma con profusione,
gli ornamenti trionfali non solo alle persone consolari, che l'aveano
accompagnato in quella spedizione, ma anche ad alcuni senatori contro
il costume. Celebrò dipoi i giuochi trionfali in due teatri. Vi furono
più corse di cavalli, cacce di fiere, forze d'atleti, balli di giovani
armati. Le altre azioni lodevoli di Claudio in quest'anno si veggono
brevemente riferite da Dione. Avea Tiberio tolte al senato le
provincie della Grecia e Macedonia, con deputarne al governo i suoi
uffiziali. Claudio gliele restituì, e tornarono a reggerle i
proconsoli. Rimise in mano dei questori, come anticamente si usava, la
tesoreria del pubblico, togliendola ai pretori. Possedeva _Marco
Giulio Cozio_, il principato avito di un bel tratto di paese nell'Alpi
che separano l'Italia dalla Gallia, appellate perciò _Alpi Cozie_. Gli
accrebbe Claudio quel dominio, e, per attestato del medesimo Dione,
gli concedè il titolo di re: _cosa_, dice egli, _non praticata in
addietro_. Eppure nell'arco celebre di Susa, tuttavia esistente, la
cui iscrizione pubblicata dal marchese Maffei[265], ho ancor io[266]
data alla luce, si legge M. IVLIVS REGIS DONNI FILIVS COTTIVS. Quella
iscrizione fu posta ad Augusto. Però sembra che non ora cominciasse il
titolo di re in que' principi, e che Augusto, nel conquistar quelle
contrade, le lasciasse bensì in signoria a Giulio figliuolo del re
Donno, ma senza il titolo di re, il quale fu poi restituito da Claudio
a Marco Giulio Corio di lui figliuolo o nipote. Avevano i cittadini di
Rodi crocifissi alcuni Romani, che forse meritavano la morte; ma
perchè quel supplizio era ignominioso, e in riputazione grande si
tenea il privilegio della cittadinanza romana, Claudio levò loro la
libertà, cioè il governarsi colle lor leggi e co' propri ufiziali,
benchè poi loro la restituisse nell'anno di Cristo 53. Mancò di vita
in quest'anno _Erode Agrippa re della Giudea_, allorchè si trovava in
Cesarea[267]. Credevasi che Claudio Augusto lascerebbe succedere in
quel regno il di lui figliuolo _Agrippa_; ma prevalendo i consigli de'
suoi liberti, ne diede il governo a Cuspio Fado cavalier romano: con
che Gerusalemme restò di nuovo senza i suoi re, immediatamente
sottoposta ai governatori romani.

NOTE:

[260] Noris, Epistola Consulari.

[261] Thesaurus Novus Inscription., pag. 304, num. 3.

[262] Plin., lib. 3, cap. 16.

[263] Sueton., in Claudio, cap. 17.

[264] Dio, lib. 60.

[265] Scipio Maffei, Diplomat.

[266] Thesaurus Novus Inscription., pag. 1095.

[267] Joseph., Antiq. Judaic., lib. 19.




    Anno di CRISTO XLV. Indizione III.

    PIETRO APOSTOLO papa 17.
    TIBERIO CLAUDIO, figlio di
    Druso, imperadore 5.

_Consoli_

MARCO VINICIO per la seconda volta e TAURO STATILIO CORVINO.


Secondo le osservazioni del cardinal Noris, tali furono i consoli
dell'anno presente, e, secondo lui, _Tauro_ fu il prenome di
_Statilio_: del che certo si può dubitare, perchè in un passo di
Flegonte[268] si parla di un fatto avvenuto in Roma, essendo consoli
_Marco Vinicio_ e _Tito Statilio Tauro_, cognominato _Corvilio_: dove
apparisce _Tauro_ cognome. Abbiam veduto nell'anno precedente
rammentata un'iscrizione posta MANIO ÆMILIO LEPIDO ET T. STATILIO
TAURO COS. Non ho io saputo dire, e neppure lo so ora, a qual anno
precisamente appartenga questo pajo di consoli. Certamente questo
_Tito Statilio Tauro_ non sarà stato console tanto in questo che
nell'antecedente anno, perchè ciò sarebbe stato notato ne' Fasti; e
però lo _Statilio_ di quell'anno dee essere diverso dal presente.
Osservarono il Panvinio ed altri, che ai consoli suddetti dovettero
essere sostituiti _Marco Cluvio Rufo_ e _Pompeo Silvano_, ricavandosi
ciò da un rescritto di Claudio, riferito da Giuseppe Ebreo[269], e
fatto sul fine di giugno, correndo la quinta sua podestà tribunizia.
Per altro, ancorchè finora abbiano faticato vari valenti letterati,
non possiam dire superate per anche le tenebre sparse qua e là ne'
Fasti consolari, restandovi tuttavia molto di scuro e molte
imperfezioni. Piena era oramai Roma di statue[270] e d'immagini
pubbliche o di marmo, o di bronzo, perciocchè ad ognuno era permesso
il metterne: il che rendeva troppo familiare ed anche vile un onore
che dovea essere riserbato alle persone di merito distinto. Claudio ne
levò via la maggior parte, ordinando insieme, che da lì innanzi niun
potesse esporre l'immagine sua senza licenza del senato, a riserva di
chi facea qualche fabbrica nuova, o rifacea le vecchie, per animar
ciascuno ad accrescere gli effetti di Roma. Mandò in esilio il
governatore di una provincia, perchè fu convinto d'aver preso dei
regali, e gli confiscò tutto quello che avea dianzi guadagnato nel
governo. Fece ancora un editto, che a niuno dopo un ufizio esercitato
nelle province, se ne potesse immediatamente conferire un altro: legge
anche altre volte stabilita; acciocchè nel tempo frapposto potesse chi
avea delle querele contra di tali persone, proporle con franchezza.
Proibì ancora, finiti i loro governi, il pellegrinare in altri paesi,
volendo che tutti venissero a Roma, per essere pronti a quello che ora
noi chiamiamo sindacato. Nell'anno presente spese Claudio di molto in
dar sollazzo al popolo con altri pubblici giuochi; e alla plebe,
solita a ricevere _gratis_ il frumento del pubblico, donò trecento
sesterzi per cadauno; e vi fu di quelli che n'ebbero per testa fino
mille e dugento cinquanta. Nel giorno suo natalizio[271], cioè nel dì
primo di agosto, in cui dieci anni prima dell'Era nostra egli venne
alla luce in Lione, correva in quest'anno l'ecclissi del sole. Claudio
con pubblico monitorio ne fece alcuni dì prima avvertito il popolo,
acciocchè sapessero quello essere un effetto necessario del corso dei
pianeti, e non ne tirassero qualche mal augurio, per lui, come per
poco soleano fare in tanti altri affari i Romani, essendo troppo
quella gente nudrita dagl'impostori nella superstizione. Le
medaglie[272] ci fan vedere che, tanto nel precedente che nel presente
anno, Claudio prese più volte il titolo d'_imperadore_, trovandosi
nominato _imperadore per la decima volta_. Indizii son questi, che i
suoi generali nella Bretagna doveano aver fatti de' progressi
coll'armi; ma di ciò non resta vestigio nella storia.

NOTE:

[268] Phlegon., de Mirabilib., cap. 6.

[269] Joseph., lib. 19.

[270] Dio, lib. 60.

[271] Sueton., in Claudio, cap. 2.

[272] Mediobarbus, Numismat. Imperator.




    Anno di CRISTO XLVI. Indizione IV.

    PIETRO APOSTOLO papa 18.
    TIBERIO CLAUDIO, figliuolo di
    Druso, imperadore 6.

_Consoli_

PUBLIO VALERIO ASIATICO per la seconda volta, e MARCO GIUNIO SILANO.


Dal trovar noi _Valerio Asiatico_ nominato console per la seconda
volta, apparisce aver ottenuto l'eccelso grado di console un qualche
anno innanzi, sostituito ai consoli ordinari; ma in quale non si è
potuto finora esattamente sapere. Se crediamo al Panvinio[273] e ad
altri, nelle calende di luglio a questi consoli succederono _Publio
Suillo Rufo_ e _Publio Ostorio Scapula_. Che ancor questi veramente
arrivasse al consolato, ne abbiam delle prove; ma se veramente in
quest'anno, ciò non si può accertare. Era[274] _Marco Giunio Silano_
console fratello di Lucio, da noi veduto genero di Claudio Augusto.
Diede molto da dire a' Romani la risoluzion presa in quest'anno dal
suddetto _Asiatico_ console. Siccome era stato determinato da Claudio
per fargli onore, egli dovea ritener per tutto l'anno il consolato; ma
spontaneamente lo rinunziò. Aveano ben fatto lo stesso alcuni altri
consoli, per mancar loro le ricchezze sufficienti a sostener la spesa
enorme che occorreva in celebrar i giuochi circensi, addossata alla
borsa dei consoli, e cresciuta poi a dismisura. Era giusta la scusa e
ritirata per questi, ma non già per Asiatico, ch'era uno de' più
ricchi nobili del romano imperio, possedendo egli delle rendite
sterminate nella Gallia, patria sua. Il motivo da lui addotto fu
quello di schivare l'invidia altrui pel suo secondo consolato; ma
poteva meglio assicurarsene col non accettarlo neppure per i primi sei
mesi; e può credersi che non andò esente dalla taccia di avarizia
quella spontanea sua rinunzia. Vedremo all'anno seguente i frutti
amari di tante sue care ricchezze. Nel presente toccò la mala ventura
a _Marco Vinicio_, personaggio illustre, già marito di _Giulia
Livilla_, cioè d'una sorella di _Caligola_. Non l'avea nel suo libro
Messalina, dopo aver essa procurata la morte alla di lui consorte.
Crebbero anche i sospetti e gli odii contra la di lui persona, dacchè
(per quanto fu creduto) l'onestà di lui diede una negativa alle impure
voglie della medesima Messalina. Seppe ella fargli dare sì destramente
il veleno, che il mandò per le poste al paese di là, con permettere
dipoi, che dopo morte gli fosse fatto il funerale alle spese del
pubblico: onore molto familiare in questi tempi. Da _Agrippina_, prima
che divenisse moglie di Tiberio Augusto, era nato _Asinio Pollione_,
il quale perciò fu fratello uterino di _Druso Cesare_ figliolo di
_Tiberio_. Nel cervello d'esso Pollione entrarono in quest'anno grilli
di grandezze e desiderii di divenir imperadore; e cominciò egli per
questo alcune tele con sì poca avvertenza, che ne arrivò tosto la
contezza a Claudio. Teneva ognuno per certa la di lui morte; ma
Claudio si contentò di mandarlo solamente in esilio, o perchè non avea
fatta adunanza alcuna di gente o di danaro per sì grande impresa, o
perchè il trattò da pazzo, considerata anche la sua piccola statura e
deformità del volto, per cui era comunemente deriso, nè ciera avea da
far paura a chi sedeva sul trono. Di questa sua indulgenza riportò
Claudio non poca lode presso il pubblico, siccome ancora per altre
azioni di giustizia e di zelo pel buon governo, e massimamente per la
giustizia. All'incontro era universale la doglianza e mormorazione,
perchè egli si lasciasse menar pel naso da Messalina sua moglie e dai
suoi favoriti liberti; di modo che egli pareva non più il padrone, ma
bensì lo schiavo di essi. Condannato fu (che così si usava ancora) a
combattere nei giuochi de' gladiatori _Sabino_, stato governator nella
Gallia a' tempi di Caligola, per le sue molte rapine e iniquità.
Desiderava Claudio, e gli altri più di lui, che questo mal uomo
lasciasse ivi la vita, come solea per lo più succedere. Ma Messalina,
che anche di costui si valeva per la sua sfrenata sensualità, il
dimandò in grazia, nè Claudio gliel seppe negare. Ed intanto ogni dì
più si mormorava, perchè Mnestore, commediante allora famoso, non si
lasciava più vedere al teatro. Era egli in grazia grande presso il
popolo per la sua arte, e specialmente per la sua perizia nel danzare;
ma in grazia di Messalina era egli maggiormente per la sua avvenenza.
Dolevasi la gente d'essere priva di un sì valente attore, ma più
perchè ne sapeva la cagione, e la sapevano anche i più remoti da Roma.
Altri non v'era, che il buon Claudio, il quale ignorasse, quanta
vergogna albergasse nel proprio suo palazzo. Eusebio Cesariense[275]
solo è a scrivere, che circa questi tempi essendo stato ucciso
_Rematalce re della Tracia_ da sua moglie, Claudio Augusto ridusse
quel paese in provincia, e ne diede il governo ai suoi uffiziali.

NOTE:

[273] Panvinius, in Fast. Consularibus.

[274] Dio, lib. 60.

[275] Eusebius, in Chronico et in Excerptis.




    Anno di CRISTO XLVII. Indizione V.

    PIETRO APOSTOLO papa 19.
    TIBERIO CLAUDIO, figlio di
    Druso, imperadore 7.

_Consoli_

TIBERIO CLAUDIO AUGUSTO GERMANICO per la seconda volta, e LUCIO
VITELLIO per la terza.


Abbiamo da Svetonio[276], che _Claudio Augusto_ non fu già console
ordinario con _Lucio Vitellio_ in quest'anno. Un altro, il cui nome
non sappiamo, procedette console nel principio di gennaio; ma perchè
questi da lì a poco finì di vivere, Claudio non isdegnò di succedere
in suo luogo. _Vitellio_ qui mentovato, lo stesso è che fu proconsole
della Soria, e padre di _Vitellio imperadore_. Tanti onori a lui
compartiti erano i frutti della sua vile adulazione. Secondo la
supputazion di Varrone, questo era l'anno ottocentesimo della
fondazion di Roma[277]; e però Claudio diede al popolo il piacere de'
giuochi secolari, i quali propriamente si doveano fare ad ogni cento
anni. Ma a que' giuochi accadde ciò che si osservò nel giubileo romano
cominciato nel 1300, che dovea rinnovarsi solamente cento anni dipoi;
ma poi fu celebrato in anni diversi. Erano passati solamente
sessantaquattro anni, dacchè Augusto diede questi giuochi, e viveano
tuttavia delle persone che vi assisterono, e degl'istrioni che aveano
ballato in essi, fra' quali Stefanione, commemorato da Plinio[278].
Però essendo solito il banditore, nell'invitare a questi giuochi il
popolo, di dire che venissero ad uno spettacolo che non aveano mai più
veduto, nè sarebbono mai più per vedere, si fecero delle risate alle
spese di Claudio. Ancor qui notata fu l'adulazione del console
Vitellio, perchè fu udito dire a Claudio, che gli augurava di poter
dare altre volte questi medesimi giuochi. Comparve ne' giuochi
suddetti _Britannico_ figliuolo dell'imperadore insieme col giovinetto
_Lucio Domizio_, che fu poi _Nerone_ imperadore; e si osservò che
l'inclinazion del popolo correa più verso questo giovine, perchè era
figliuolo di _Agrippina_ principessa amata da essi, non tanto per
essere stata figlia dell'amato Germanico, quanto perchè la miravano
perseguitata da Messalina. Si contano ancora sotto quest'anno alcune
azioni lodevoli di Claudio[279]. Prodigiosa era la quantità degli
schiavi che ogni nobil romano teneva al suo servigio[280]. Allorchè i
miseri cadeano infermi, costumavano alcuni de' loro padroni, per non
soggiacere alla spesa, di cacciarli fuori di casa, mandandoli
nell'isola del Tevere, acciocchè Esculapio, a cui quivi era dedicato
un tempio, li guarisse, ed esponendogli in tal guisa al pericolo di
morir di fame. Fece Claudio pubblicar un editto, che gli schiavi
cacciati da' padroni, s'intendessero liberi, nè fossero obbligati a
tornar a servire. Che se, in vece di cacciarli, volessero levarli di
vita, si procedesse contra di loro come omicidi. Inoltre essendo
denunziati alcuni di bassa sfera, quasi che avessero insidiato alla di
lui vita, niun caso ne fece, con dire, «non essere nella stessa
maniera da far vendetta di una pulce, che d'una fiera.» Ordinò ancora,
che i liberti ingrati ai lor padroni tornassero ad essere loro
schiavi: legge sempre dipoi osservata. Rimosse dal senato alcuni
senatori, perchè, essendo poveri, non poteano con dignità calcare quel
posto: il che a molti di loro fu cosa grata. E perchè un Sordinio
nativo della Gallia, ed uomo ricco, poteva con decoro sostenere la
dignità senatoria, e Claudio intese ch'era partito per andarsene a
Cartagine, disse: «Bisogna ch'io fermi costui in Roma con i ceppi
d'oro;» e richiamatolo indietro, il creò senatore. Insorsero gravi
querele contro gli avvocati che esigevano somme immense dai lor
clienti. Fu in procinto il senato di proibire affatto ogni pagamento.
Claudio volle che si tassasse una molto leggiera somma.

Ma se Claudio da tali azioni riportò lode, maggior fu bene il biasimo
che a lui venne, per essersi lasciato condurre a dar la morte in
questo medesimo anno a varie illustri persone, per le maligne
insinuazioni di Messalina sua moglie. Aveva egli accasata con _Gneo
Pompeo Magno_, _Antonia_ sua figliuola. La matrigna Messalina, che
odiava l'uno e l'altra, seppe inventar tante calunnie, dipingendo il
genero Pompeo per insidiatore della vita di lui, che Claudio gli fece
tagliar la testa. Per altro costui offuscava la nobiltà de' suoi
natali con dei vizii nefandi. Nè qui si fermò la persecuzione. Fece
anche morire Crasso Frugi e Scribonia genitori d'esso Pompeo,
tuttochè, per attestato di Seneca[281], Crasso fosse così stolido, che
meritasse d'essere imperadore, come era Claudio. Antonia fu poi
maritata con _Cornelio Silla Fausto_ fratello di Messalina. A Valerio
Asiatico, da noi già veduto due volte console, le sue molte ricchezze
furono in fine cagione di totale rovina[282]. Con occhio ingordo le
mirava Messalina, e massimamente coi desiderii divorava gli orti di
Lucullo, da lui maggiormente abbelliti. S'inventarono vari sospetti e
delitti di lui, ed avendo egli determinato di passar nelle Gallie,
dove possedea dei gran beni, fu fatto credere a Claudio, che ciò fosse
per sollevar contra di lui le legioni della Germania. Condotto da Baja
incatenato, ed accusato, con forza si difese, allegando che non
conosceva alcuno de' testimoni prodotti contra di lui. Si fece venire
innanzi un soldato, che protestava d'essere intervenuto al trattato
della congiura. Dettogli, se conosceva Asiatico: senza fallo, rispose.
Che il mostrasse: data una girata d'occhi sopra gli astanti, sapendo
che Asiatico era calvo, indicò un calvo, ma che non era Asiatico.
Niuno dell'uditorio potè contenere le risa, e l'assemblea fu finita.
Già pensava Claudio ad assolverlo per innocente, quando entrò in sua
camera l'infame Vitellio il console, imboccato da Messalina, che colle
lagrime agli occhi mostrò gran compassione d'Asiatico, e poi finse
d'essere spedito da lui per impetrar la grazia di potere scegliere
quella maniera di morte che più a lui piacesse. Il bietolone Augusto,
senza cercar altro, credendo che per rimprovero della coscienza rea
egli non volesse più vivere, accordò la grazia richiesta. Asiatico si
tagliò dipoi le vene, e rendè contenta, ma non sazia l'avarizia e
crudeltà di Messalina, la quale per altre somiglianti vie condusse a
morte _Poppea_ moglie di Scipione, la più bella donna de' suoi tempi,
e madre di _Poppea_, maritata poi coll'Augusto Nerone. Nulla seppe di
sua morte Claudio. D'altri nella stessa guisa abbattuti parla Tacito,
la cui storia maltrattata dai tempi torna a narrarci gli avvenimenti
d'allora, quando quella di Dione per la maggior parte è venuta meno.
In quest'anno[283] ancora si credè Claudio d'immortalare il suo nome
anche fra i grammatici, con aggiugnere tre lettere all'alfabeto
latino. Una delle quali fu F scritto al rovescio per significare l'V
consonante. Ma dopo la sua morte morirono ancora le da lui inventate
lettere. Furono in quest'anno rivoluzioni in oriente. Essendo stato
ucciso _Artabano re dei Parti_, disputarono del regno coll'armi in
mano due suoi figliuoli. Prese Claudio questa occasione per inviar
_Mitridate_ fratello di _Farasmane re dell'Iberia_ a ricuperare il
regno dell'Armenia, già occupato dai Parti. Ed egli in fatti se ne
impadronì, e vi si sostenne col braccio de' Romani. Nè fu senza moti
di guerra la Germania. Essendo morto Sanquinio, che comandava l'armi
romane nella Germania bassa, in suo luogo fu inviato _Gneo Domizio
Corbulone_, che riuscì dipoi il più valente capitano che allora si
avesse Roma. Innanzi ch'egli arrivasse colà, i Cauci aveano fatte
delle scorrerie nei lidi della Gallia. Subito che Corbulone fu alla
testa delle legioni, soggiogò essi Cauci; fece tornare all'ubbidienza
i popoli della Frisia, che s'erano ribellati alcuni anni prima: rimise
fra le truppe romane con gran rigore l'antica disciplina. Era per far
maggiori imprese, se il pauroso Claudio Augusto non gli avesse scritto
di ripassare il Reno, e di lasciar in pace i Barbari. Ubbidì
Corbulone, ma con esclamare: _Felici gli antichi generali!_ Claudio a
lui concedè poi gli ornamenti trionfali. Venuto anche a Roma _Aulo
Plauzio_, il quale s'era segnalato nella guerra della Bretagna,
accordò a lui pure l'onore dell'ovazione, che così chiamavano il
picciolo trionfo. Già s'era cominciato a riserbare il vero trionfo ai
soli imperadori, perchè soli essi erano i generalissimi dell'armi
romane, e a loro si attribuiva l'onor di qualunque vittoria che fosse
riportata dai subalterni.

NOTE:

[276] Suetonius, in Claudio, cap. 4.

[277] Suetonius, in Claudio, cap. 21. Tacitus, lib. 11, cap. 11.

[278] Plinius, lib. 7, cap. 48. Zosimus lib. 1.

[279] Dio, lib. 60.

[280] Sueton., in Claudio, cap. 25.

[281] Seneca, in Apocol.

[282] Tacitus, Annal., lib. II, cap. 1.

[283] Tacitus, Annal., lib. II, cap. 14. Suetonius in Claud., cap. 41.




    Anno di CRISTO XLVIII. Indizione VI.

    PIETRO APOSTOLO papa 20.
    TIBERIO CLAUDIO, figlio di
    Druso imperadore 8.

_Consoli_

AULO VITELLIO e QUINTO VIPSANIO POBLICOLA.


Il primo di questi consoli fu poscia imperadore. Per attestato di
Svetonio[284] ad esso _Aulo Vitellio_ nelle calende di luglio venne
sostituito _Lucio Vitellio_ suo fratello: tanto poteva nella corte di
allora _Lucio Vitellio_ lor padre, il re degli adulatori. Trattossi
nell'anno presente in senato[285] di crear dei nuovi senatori in luogo
dei defunti, e seguì molta disputa, perchè i popoli della Gallia
Comata dimandavano di poter anch'essi concorrere a tutte le dignità e
agli onori della repubblica romana. Fu contraddetto da non pochi; ma
prevalse il parere di Claudio, che, addotto l'esempio de' maggiori,
sostenne non doversi negar la grazia, perchè ridondava in pubblico
bene, e in accrescimento di Roma. Come censore fece Claudio ancora
alcune buone ordinazioni, e fra l'altre spurgò il senato di alcune
persone di cattivo nome, e ciò con buona maniera: perciocchè sotto
mano lasciò intendere a que' tali, che se avessero chiesta licenza di
ritirarsi, l'avrebbono conseguita. Propose il console Vipsanio, che si
desse a Claudio il titolo di _Padre del senato_. Claudio, conosciuto
che questo era un trovato dell'adulazione, lo rifiutò. Fu fatto in
quest'anno da esso Augusto parimente, come censore, e dal vecchio
Lucio Vitellio suo collega, il lustro, cioè la descrizione di tutti i
cittadini romani: il che non vuol già dire degli abitanti in Roma,
perchè tanti forestieri venuti a quella gran città non erano tutti per
questo cittadini di Roma, e molto meno tante e tante migliaia di
servi, cioè schiavi che servivano allora in Roma ai benestanti. Niuno
degli antichi scrittori ci ha lasciato il conto di quante anime allora
vivessero in Roma; città, che in que' tempi forse di non poco superava
le moderne di Parigi e di Londra. Un'iscrizione che di ciò parla,
merita d'essere creduta falsissima, siccome osservò Giusto
Lipsio[286]. Per cittadini dunque romani si intendevano tutte quelle
persone libere, che godeano allora la cittadinanza romana sì in Roma,
che nelle provincie; giacchè non per anche questo privilegio s'era
dilatato a tutto l'imperio romano, come ne' tempi susseguenti avvenne.
Di tali cittadini si trovarono nella descrizion suddetta sei milioni e
novecento e quarantaquattromila.

Giunta era all'eccesso l'impudicizia e la baldanza di _Messalina_
moglie di Claudio Augusto. Volle ella nell'anno presente far un colpo,
a credere il quale gran fatica si dura, non sapendosi capire come
potesse arrivar tant'oltre la sfacciataggine di una donna e la
balordaggine di un marito, e marito imperadore. Lo stesso Tacito
confessa[287], che ciò parrà favoloso: tuttavia tanto egli, quanto
Svetonio[288] e Dione[289], ci dan per sicuro il fatto. Era impazzita
questa rea femmina dietro a _Cajo Silio_, giovane, non men per la
nobiltà che per la bellezza del corpo, riguardevole. Avea Claudio a
disegnarlo console per l'anno prossimo. Nè bastandole di mantenere un
indegno commercio con questo giovane, determinò in fine di contraere
matrimonio con lui, benchè vivente Claudio, nè ripudiata da lui.
Dicono, ch'essendo ito Claudio ad Ostia per affari della pubblica
annona, ella fingendo qualche incomodo di sanità, si fermò in Roma, e
con gran solennità fece stendere lo strumento del contratto, munito di
tutte le clausole consuete, donando a Silio tutti i più preziosi
arredi del palazzo imperiale, e compiendo la funzione coi sagrifizii e
con un magnifico convito. Fu poi esposto[290] a Claudio, che alla
presenza del senato, del popolo e de' soldati tutto ciò era seguito.
Ha dell'incredibile. Svetonio aggiugne, aver Messalina indotto lo
stesso imperadore a sottoscrivere quell'atto, con fargli credere che
fosse una burla, e ciò utile per allontanare un pericolo che a lui
sovrastava, predetto dagl'indovini, e per farlo ricadere sopra Silio,
finto imperadore. Sì lontana da ogni verisimile è questa partita, che
patisce l'intelletto a crederla vera. Sarà stata probabilmente una
diceria del volgo, solito ad aggiugnere ai fatti veri delle false
circostanze; nè Tacito ne parla. Comunque sia, un gran dire per questo
sì sfoggiato ardimento fu per Roma tutta. Il solo Claudio nulla ne
sapea, perchè attorniato dai liberti, tutti paurosi di disgustar
Messalina, l'incorrere nella disgrazia di cui, e il perdere la vita,
andavano bene spesso uniti. Tuttavia troppo facile era lo scorgere che
Messalina, dopo aver fatto Silio suo marito, era dietro a farlo anche
imperadore, con un totale sconvolgimento del pubblico e della corte, a
cui terrebbe dietro infallibilmente la rovina ancora d'essi liberti,
tanto favoriti da Claudio. Si aggiunse ancora, che avendo Messalina
fatto morir Polibio[291], uno de' più potenti fra essi nella corte,
impararono gli altri a temere un'egual disavventura. Perciò Callisto,
Pallante e Narciso, liberti i più poderosi degli altri nell'animo di
Claudio, presero la risoluzione di aprire gli occhi all'ingannato
Augusto. Ma non istettero saldi i due primi nel proposito, paventando,
che se Messalina giugneva a parlare una sola volta a Claudio, saprebbe
inorpellar sì bene il fatto, che sfumerebbe in lui tutto lo sdegno.
Narciso solo stette costante, nè attentandosi egli a muoverne il primo
parola, fece che alcune puttanelle di Claudio gli rivelassero non
solamente la presente infamia, ma ancora la storia di tutti i
precedenti scandali originati dalla trabbocchevol libidine e crudeltà
di Messalina. Attonito Claudio fa tosto chiamar Narciso, il quale
chiesto perdono in prima, e addotte le cagioni del silenzio finora
osservato, conferma il fallo, e rivela altri complici della disonestà
di Messalina. Turranio presidente dell'annona, e Lusio Geta prefetto
del pretorio chiamati anch'essi attestano il medesimo, con
rappresentare e caricare il pericolo di perdere vita ed imperio,
imminente a Claudio per gli ambiziosi disegni di Silio e di Messalina,
e il bisogno di provvedervi con mano forte, senz'ascoltar discolpe e
parole lusinghiere della traditrice consorte. Rimase sì sbalordito
Claudio, che andava di tanto in tanto dimandando, s'egli era più
imperadore, se Silio menava tuttavia vita privata.

Era il mese d'ottobre, e fu veduta Messalina più gaia del solito
divertirsi alle feste di Bacco[292], che si faceano per le vendemmie,
prendendo essa la figura di Baccante, e Silio quella di Bacco.
Quand'ecco di qua e di là giugnere a Roma l'avviso, essere Claudio
consapevole di tutte le sue vergogne, e venire a Roma per farne
vendetta. Il colpo di riserva, su cui riponeva le sue speranze
Messalina, era quello di poter parlare a Claudio, fidandosi, che, come
tant'altre volte era accaduto, ora ancora placherebbe l'insensato
marito. Ma questo appunto era quello, da cui l'accorto Narciso volea
tener lontano il padrone: al qual fine impetrò di avere per quel
giorno il comando delle guardie, rappresentando la dubbiosa fede di
Lusio Geta; ed insieme ottenne di venir anch'egli in carrozza
coll'imperadore a Roma. Nella stessa venivano ancora Lucio Vitellio e
Publio Cecina Largo, senza mai articolar parola nè in favore nè contra
di Messalina, perchè non si fidavano dell'animo troppo instabile e
debole di Claudio. Intanto _Messalina_, presi seco _Britannico_ ed
_Ottavia_ suoi figliuoli, e _Vibidia_, la più anziana delle Vestali,
ed accompagnata da tre persone, perchè gli altri se ne guardarono,
s'inviò a piedi fuor della porta d'Ostia, e salita poi in una
vilissima carretta, trovata ivi per avventura, andò incontro al
marito, non compatita da alcuno. Allorchè arrivò Claudio, cominciò a
gridare, che ascoltasse chi era madre di Britannico e d'Ottavia; e
Narciso intanto facea marciar la carrozza, strepitando anche egli con
esagerar l'insolenza di Silio e di Messalina, e con rimettere sotto
gli occhi di Claudio lo strumento nuziale. Nell'intrare in Roma si
vollero affacciare alla carrozza Britannico ed Ottavia; ordinò Narciso
alle guardie che li tenessero lontani; ma per la venerazione e per gli
privilegi che godeano le Vestali, non potè impedir Vibidia
dall'accostarsi, e dal far grande istanza, che contra di Messalina non
si procedesse a condanna senza prima ascoltarla. Così promise Claudio.
Accortamente Narciso condusse a dirittura l'imperadore alla casa di
Silio, e fecegli osservar le preziose masserizie della corte portate
colà: vista che svegliò pur del fuoco in quel freddo petto. Indi così
caldo il menò al quartiere de' pretoriani, istruiti prima di quel che
aveano a dire. Poche parole potè proferir Claudio, confuso tra il
timore e la vergogna; ed alzossi allora un grido dei soldati che
dimandavano il nome e il gastigo dei rei. Silio fu il primo che
sofferì con coraggio la morte, poi Vettio Valente, Pompeo Urbico, ed
altri nobili, tutti macchiati nelle impudicizie di Messalina. Mnestore
il commediante, con ricordare a Claudio d'aver ubbidito ai di lui
comandamenti, intenerì sì fattamente il buon Claudio, che fu vicino a
perdonargli; ma i liberti gli fecero mutar sentimento. Solamente
Suilio Cesonino e Plautio Laterano la scapparono netta, l'ultimo per
gli meriti di Aulo Plautio suo zio. Intanto Messalina, ritiratasi
negli orti di Lucullo, fra la speranza e l'ira, si pensava pure di
poter superare la burrasca; e non ne fu lontana. Claudio arrivato al
palazzo con gran quiete si mise a tavola, ed allorchè si sentì ben
riscaldato dal vino, diede ordine che s'avvisasse Messalina di venire
nel seguente dì, che l'avrebbe ascoltata. Si credette allora perduto
Narciso; però fatto coraggio, e levatosi da tavola, come per dar
l'ordine suddetto, da disperato ne diede un tutto diverso al
centurione e al tribuno di guardia, dicendo loro, che immediatamente
si portassero ad uccidere Messalina, perchè tale era la volontà
dell'imperadore. La trovarono eglino stesa in terra, ed assistita da
Lepida sua madre, che l'andava esortando a prevenir colle sue mani gli
esecutori della giustizia. All'arrivo di essi si diede ella in fatti
alcuni colpi, ma con mano tremante; più sicura fu quella del tribuno,
che la finì. Portata incontanente la nuova a Claudio, che Messalina
era morta, lo stupido senza informarsi, se per mano propria o
d'altrui, dimandò da bere, e con tranquillità compiè il convito. Ne'
seguenti giorni non si mirò in lui nè ira, nè odio, nè allegrezza, nè
tristezza, ancorchè osservasse l'ilarità di Narciso e degli altri
accusatori, e il volto afflitto de' figliuoli. A farlo maggiormente
dimenticar di Messalina, servì l'attenzione del senato; perchè per
ordine suo furono levate le di lei immagini tanto dai pubblici che dai
privati luoghi. Narciso, in ricompensa delle sue fatiche, da esso
senato fu promosso all'ordine de' questori.

NOTE:

[284] Sueton., in Vitellio, cap. 3.

[285] Tacitus, Annal., lib. II, cap 23.

[286] Lipsius, in Notis ad Tacit. lib. 40.

[287] Tacit., Annal., lib. 11, cap. 26.

[288] Sueton., in Claudio, cap. 26.

[289] Dio, lib. 60.

[290] Tacitus, Annal., lib. 11, cap. 30.

[291] Dio, in Excerptis Valesianis.

[292] Tacitus, lib. II, cap. 31.




    Anno di CRISTO XLIX. Indizione VII.

    PIETRO APOSTOLO papa 21.
    TIBERIO CLAUDIO, figlio di
    Druso, imperadore 9.

_Consoli_

AULO POMPEO LONGINO e GALLO QUINTO VERANIO.


S'è dubitato, se il primo de' consoli portasse il cognome di _Longino_
o _Longiniano_. In un frammento di marmo[293], esistente oggidì nel
museo del Campidoglio, si legge Q. VERANIO, A. POMPEIO GALLO COS. E
però non _Cajo_, come s'è creduto finquì, ma sarà stato _Aulo_ il di
lui prenome. A questi consoli ordinari circa le calende di maggio
fondatamente si credono succeduti _Lucio Memmio Pollione_ e _Quinto
Allio Massimo_. Rimasto vedovo Claudio Augusto, si credette che non
passerebbe ad altre nozze[294]; e tanto più perchè egli protestò ai
soldati del pretorio di non voler più moglie, dacchè tanta sfortuna
avea provato nei precedenti, matrimonii; e che se facesse altrimenti,
si contentava d'essere scannato dalle loro mani. Ma andò presto in
fumo questo suo proponimento. Tutte le più nobili dame romane si
misero in arnese, per espugnar questa debil rocca, mettendo in mostra
tutte le lor bellezze naturali ed artificiali, e adoperando quanti
lacci sa inventare la loro scuola, sapendo per altro come egli fosse
alieno dalla continenza[295]. Tenevano il primato tre fra le altre,
cioè _Lollia Paolina_, figliuola di Marco Lollio già stato console, e
per lei facea di caldi uffizii Callisto, uno dei liberti favoriti di
Claudio. La seconda era _Elia Petina_ della famiglia de' Tuberoni,
figliuola di Sesto Elio Peto già console, stata già moglie del
medesimo Claudio[296] prima dell'imperio, e da lui ripudiata per lieve
cagione. Perorava per questa Narciso, altro potente liberto di corte,
di cui già s'è parlato. La terza fu _Giulia Agrippina_, figliuola di
_Germanico_ suo fratello, già cacciata in esilio da Caligola per la
sua mala vita, e perseguitata in addietro da Messalina. A promuovere
gl'interessi di lei si sbracciò forte Pallante, liberto anch'esso di
gran possanza nel cuore di Claudio. E questa in fine vinse il pallio.
Benchè fosse stata maritata due volte; cioè più di vent'anni prima a
_Gneo Domizio Enobarbo_, a cui partorì Lucio Domizio Enobarbo, che
vedremo imperadore col nome di Nerone; e poscia a Crispo Passieno,
ch'ella fece morire, per non tardar a godere l'eredità da lui
lasciatale; e benchè ella avesse passati gli anni della gioventù, pure
era assai fresca, e sosteneva il credito d'esser bella, possedendo
anche a maraviglia l'arte degl'intrighi e delle lusinghe femminili. A
cagion della stretta parentela, essendo Claudio suo zio
paterno, godeva ella il privilegio di visitarlo spesso ed assai
confidentemente. Questo bastò per farlo cader nella pania, di maniera
che fino dall'anno precedente furono concertate fra loro le nozze ed
eseguite poi nel presente. In mani peggiori non potea capitar Claudio,
perchè in questa donna non si sa qual fosse maggiore o la fierezza o
la superbia o l'avarizia. Pure la sua passion dominante e superiore
all'altre era l'ambizione, per cui avrebbe sagrificato tutto. Scrive
Dione[297], esserle stato predetto un giorno da uno strologo, che suo
figliuolo Nerone sarebbe imperadore, ma ch'egli stesso l'ucciderebbe.
_Non importa_, rispose ella, _mi uccida, purchè regni_. In fatti, fin
d'allora si diede ella a cercar le vie di accasar Lucio Domizio
Enobarbo suo figliuolo (che fu poi _Nerone_), nato sul fine dell'anno
37 dell'Era nostra, con _Ottavia figliuola_ di esso Claudio Augusto.
Perchè tra questa principessa e Lucio Silano erano seguiti gli
sponsali alcuni anni prima[298], bisognò pensare alla maniera di levar
un tale ostacolo con ricorrere alla calunnia, giacchè Silano per
l'incorrotta sua vita era esente da veri delitti. Lucio Vitellio
console fu l'iniquo mezzano della di lui rovina, con far credere a
Claudio, che fra Silano e Giunia Calvina sua sorella passassero
intrinsichezze nefande. Perciò Silano, che nulla sapea di questo, vide
sè stesso tutto ad un tempo balzato dal grado di senatore, obbligato
inoltre a rinunziar la pretura, e rotto il suo maritaggio con Ottavia.
Questa fu la prima prodezza di Agrippina, e non era per anche moglie
di Claudio.

Ma Claudio, benchè ardente di voglia di effettuar questo matrimonio,
tuttavia non osava, perchè presso i Romani non era lecito, non che in
uso, che uno zio sposasse una nipote. Prese ancor qui l'assunto di
provvedere al bisogno quel gran faccendiere di Lucio Vitellio; ne
parlò egli con energia al senato; e i senatori, schiavi d'ogni volere
del principe, decretarono la validità di un tal contratto.
Celebraronsi dunque le nozze, e in quello stesso di Lucio Silano,
stato genero di Claudio, si diede la morte da sè stesso. Entrata
nell'imperial palazzo Agrippina, poca pena ebbe a rendersi padrona
dello scimunito consorte e de' pubblici affari, con voler anch'ella,
al pari di Claudio, essere ossequiata dal senato, dai principi
stranieri e dagli ambasciadori. Cominciò ad ammassar della roba, senza
perdonare a sordidezza alcuna, tirando colle lusinghe alcuni a
dichiararla erede, ed atterrando altri con calunnie, per occupare i
lor beni. Promosse gli sponsali del giovinetto _Lucio Domizio_ suo
figliuolo, già pervenuto all'età di dodici anni, colla suddetta
_Ottavia_ figliuola di Claudio, a cui questa alleanza fu il primo
gradino per salire al trono imperiale. Fece parimente richiamare a
Roma dall'esilio della Corsica _Lucio Anneo Seneca_, insigne filosofo
stoico, e il diede per precettore al figliuolo, sperando di farne una
cima d'uomo, e un mirabil imperadore, giacchè a questo bersaglio
tendevano le principali sue mire. Impetrò anche la pretura pel
medesimo Seneca. Appresso rivolse Agrippina lo spirito vendicativo
contro a _Lollia Paolina_, che seco avea gareggiato pel matrimonio di
Claudio. Fecesi comparire, che avesse interrogati strologhi e
l'oracolo di Apollo di Clario, in pregiudizio dell'imperadore; questi
perciò, senza lasciarle agio per le difese, la cacciò in esilio fuori
d'Italia, e confiscò la maggior parte del suo ricchissimo patrimonio.
Mandò Agrippina dipoi anche a levarle la vita; e fece appresso bandire
_Calpurnia_, illustre donna, solo perchè accidentalmente a Claudio era
scappato di bocca che era bella. Accrebbe Claudio in quest'anno il
pomerio, o sia il circondario delle mura di Roma: il che era riputato
di singolar gloria. Alle preghiere de' Parti mandò loro per re
_Meerdate_ di quella nazione, che poca fortuna provò per sè e
svergognò i Romani. Nella Tracia furono guerre tali nondimeno, che io
mi dispenso dal riferirle, perchè di niun momento per la storia
presente. Se crediamo ad Orosio[299], seguì in quest'anno l'editto di
Claudio, che tutti i Giudei uscissero di Roma, del che parla san Luca
negli Atti degli Apostoli[300]. Prodigiosa era la quantità d'essi in
quella gran città. Orosio cita Giuseppe ebreo per testimonio di tal
fatto all'anno presente; ma nei testi di Giuseppe ebreo oggidì non si
trova un tal passo. Per altro è certo il fatto, asserendolo ancora
Svetonio[301] con dire di Claudio: _Judaeos, impulsore Chresto_ (così
egli nomina il divino Salvator nostro) _assidue tumultuantes Roma
expulit_. Sotto nome de' Giudei erano allora compresi anche i
Cristiani; e forse i Giudei, perseguitando i Cristiani, svegliavano
que' tumulti.

NOTE:

[293] Thesaurus Novus Inscription., p. 304.

[294] Sueton., in Claudio, cap. 26.

[295] Sueton., in Claudio, cap. 33.

[296] Idem, cap. 26.

[297] Dio, lib. 60.

[298] Tacitus, lib. 12, cap. 4.

[299] Orosius, in Histor.

[300] Actus Apostolor., c. 18, vers. 2.

[301] Sueton., in Claudio, cap. 25.




    Anno di CRISTO L. Indizione VIII.

    PIETRO APOSTOLO papa 22.
    TIBERIO CLAUDIO, figlio di
    Druso, imperadore 10.

_Consoli_

CAJO ANTISTIO VETERE, o sia VECCHIO, e MARCO SUILLIO NERVILINO.


Ho scritto _Nervilino_, e non già _Nerviliano_, come hanno altri,
perchè il cognome di questo console si legge formato così in un
insigne marmo del museo Capitolino, da monsignor Bianchini[302], e da
me[303] ancora dato alla luce. Un altro gran passo fece in quest'anno
Agrippina per innalzar sempre più il suo figliuolo _Lucio Domizio
Enobarbo_[304]. Tuttochè Claudio Augusto avesse un figliuolo maschio,
cioè _Britannico_, che naturalmente avea da succedere a lui
nell'imperio, il semplicione si lasciò indurre ad addottar per
figliuolo anche il medesimo Lucio Domizio, il quale, passato nella
famiglia Claudia, cominciò ad intitolarsi _Nerone Claudio Cesare Druso
Germanico_, come apparisce dalle medaglie[305] battute allora in onor
suo. Il mezzano di questo affare, adoperato da Agrippina, fu Pallante,
il più confidente che s'avesse Claudio; ed avendo allora Nerone due
anni di più di Britannico, si vide la deformità d'aver egli adottivo
la mano dal figliuolo legittimo e naturale dell'imperadore, ornati
amendue del cognome cesareo. Nè già dimenticò sè stessa l'ambiziosa
Agrippina. Non avea mai Claudio conceduta a Messalina il titolo
d'_Augusta_. Lo volle ben ella, nè le fu difficile l'ottenerlo; sicome
ancora nell'anno seguente volle l'onore d'entrar col carpento, o sia
colla carrozza nei pubblici giuochi. Cresciuta ne' titoli Agrippina
crebbe anche nell'autorità, e peggior divenne di Messalina, non già
nell'impudicizia, perchè se questa non le mancò, fu almeno occulta, ma
nelle rapine della roba altrui, e in procurar la morte a chi si tirava
addosso il di lei sdegno, o lo meritava per essere ricco. Quanto ella
era diligente a far ben educare e a produrre il suo figliuolo Nerone,
altrettanto la scaltra donna si studiava di abbassare e di fare
scomparire il figliastro suo, cioè Britannico Cesare. Sotto vari
pretesti fece morire, e levare dal di lui fianco le persone che gli
poteano inspirare de' sentimenti contrarii ai suoi; e fra gli
altri[306] v'andò la vita di Sosibio di lui maestro. Altre persone
mise ella in lor luogo, tutte dipendenti dai suoi voleri, di modo che
l'infelice principe era in certa guisa assediato e tenuto quasi come
prigione, senza ch'egli potesse se non di rado vedere il padre
Augusto. Faceva anche correr voce, che egli patisse di mal caduco e
fosse scemo di cervello[307], quando si sapea che in quell'età di nove
o dieci anni era forte di corpo e di spirito molto vivace. Un
trattamento tale eccitava la compassione in tutti, ma senza alcun
profitto di lui. Nell'anno seguente Britannico, in salutar Nerone,
disavvedutamente gli diede il nome di _Domizio_ oppure di _Enobarbo_.
Non si può dir che fracasso e querele facesse per questo in corte
Agrippina. Volle essa inoltre la gloria di fondare una colonia che
portasse il suo nome. A questo fine mandò alcune migliaia di veterani
a piantarla nella città degli Ubii, che da lì innanzi prese il nome di
_Colonia Agrippina_, città tuttavia delle più illustri e floride della
Germania, che ritiene il nome di _Colonia_. Quivi era nata la medesima
Agrippina, allorchè Germanico suo padre guerreggiò in quelle parti coi
Germani. Riportò in quest'anno _Publio Ostorio Scapula_ molti vantaggi
contra de' popoli della Bretagna, e prese, non so se in questo o nel
seguente anno, _Carattaco_, uno dei re o duci loro, colla moglie e co'
figliuoli[308]: per le quali imprese conseguì dal senato romano gli
ornamenti trionfali, ma con goderne poco, perchè la morte il rapì da
lì a non molto. Condotto a Roma Carattaco prigioniero, senza smarrirsi
punto, parlò a Claudio da uomo forte: e Claudio restituì a lui e a
tutti i suoi la libertà. Ammirava dipoi Carattaco la magnificenza di
Roma, e dicea ai Romani, _che non sapea capire, come avendo essi
cotanti superbi palazzi ed agiate case, andassero poi a cercar le
povere capanne de' Britanni_. Camaloduno in quella grand'isola, città
così denominata dal dio Camalo, fu scelta per condurvi una colonia di
veterani, acciocchè servissero di baluardo contro i nemici e ribelli.
Anche nella Germania superiore i Catti furono in armi, e fecero delle
incursioni nel paese romano. Ma _Lucio Pomponio Secondo_, insigne
poeta tragico, e governatore dell'armi in quelle parti, li mise in
dovere, con aver anch'egli perciò meritati gli onori trionfali.

NOTE:

[302] Thesaur. Nov. veter. Inscript., T. 1.

[303] Thes. Nov. veter. Inscript., cap. 305.

[304] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 25. Dio, lib. 60.

[305] Mediobarbus, Numism. Imp.

[306] Dio, lib. 60.

[307] Tacit., Annal., lib. 12, cap. 41.

[308] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 32.




    Anno di CRISTO LI. Indizione IX.

    PIETRO APOSTOLO papa 23.
    TIBERIO CLAUDIO, figlio di
    Druso, imperadore 11.

_Consoli_

TIBERIO CLAUDIO AUGUSTO per la quinta volta e SERVIO CORNELIO ORFITO.


Nelle calende di luglio ebbero questi consoli per successori nella
dignità _Cajo Minicio Fondano_ e _Cajo Vettennio Severo_; e all'uno di
questi ultimi due nelle calende di novembre si crede che fosse
sostituito _Tito Flavio Vespasiano_, il quale a suo tempo vedremo
imperadore; ciò ricavandosi da Svetonio[309]. In questo medesimo anno
a dì 24 d'ottobre ad esso Vespasiano nacque da Flavia Domitilla sua
moglie _Domiziano_, che fu anch'egli imperadore. Benchè Nerone
Cesare[310] avesse solamente cominciato l'anno quattordicesimo di sua
età, senz'aspettare di compierlo, come portava la legge e l'uso, per
dispensa del senato adulatore, prese la toga virile, abilitato anche
al consolato, subito che toccasse l'anno ventesimo: con che potea aver
parte agli affari pubblici e agli onori. Venne anche dichiarato
_principe della gioventù_, e gli fu conceduta la podestà proconsolare
fuori di Roma: tutti gran passi all'imperio. All'importunità di
Agrippina nulla si sapea negare nè da Claudio nè dal senato. Per tanti
onori a lui conferiti volle la madre, che si desse alla plebe un
congiario, a' soldati un donativo, e che si celebrassero i giuochi
circensi, per procacciare con ciò l'amore del pubblico al figliuolo.
Intanto il povero Britannico si facea allevare come figlio di un
plebeo, e compariva nelle solennità delle funzioni tuttavia vestito da
putto; laddove il fratellastro Nerone sfoggiava con abiti da
imperadore: dal che ognuno argomentava, qual dovesse in fine essere il
destino di amendue. E perciocchè penetrò Agrippina, che alcuni
centurioni e tribuni de' soldati pretoriani teneano discorsi di
compassione per lo stato miserabile di Britannico, destramente li fece
allontanare o li trasse a dimettere i gradi militari con darne loro
dei civili più utili. Non si fidava ella di Lucio Geta, nè di Rufo
Crispino, ch'erano prefetti del pretorio, o, vogliam dire, capitani
delle guardie, perchè li credea parziali dell'estinta Messalina e dei
di lei figliuoli. Picchiò tanto in capo a Claudio, con rappresentargli
che in mano di due discordi uffiziali pativa non poco la disciplina
militare ed essere meglio un solo, che l'indusse a creare un solo
prefetto del pretorio; e questi fu _Burro Afranio_, uomo di molta
sperienza nel militare, e creatura d'essa Agrippina. Tal dignità,
massimamente conferita ad un solo, e durevole, era delle più cospicue
e temute in Roma, e sempre più andò crescendo, dacchè i pretoriani
cominciarono ad usurparsi colla forza il diritto d'eleggere
gl'imperadori. Carestia si provò nell'anno presente in Roma, e il
popolo affamato intronò di grida gli orecchi di Claudio[311], anzi,
mosso un tumulto, se gli serrarono addosso nella pubblica piazza,
gittandogli dei tozzi di pane, di modo ch'ebbe fatica a salvarsi per
una porta segreta in palazzo, e convenne adoperare i soldati per
isbandarli. Tuttavia non ne fece il freddo imperadore risentimento
alcuno, nè vendetta; e solamente si applicò con gran cura a far venir
grani da ogni parte, dando privilegi ai mercatanti e alle navi di
trasporto.

NOTE:

[309] Sueton., in Vesp., cap. 4.

[310] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 41.

[311] Sueton., in Claudio, cap. 18.




    Anno di CRISTO LII. Indizione X.

    PIETRO APOSTOLO papa 24.
    TIBERIO CLAUDIO, figliuolo di
    DRUSO, imperadore 12.

_Consoli_

PUBLIO CORNELIO SULLA FAUSTO e LUCIO SALVIO OTTONE TIZIANO.


Avendo _Ottone_ (poscia imperadore) un fratello per nome _Lucio
Tiziano_, vien perciò tenuto questo console pel medesimo di lui
fratello. Credono alcuni, che a questi consoli nelle calende di luglio
succedessero _Servilio Barca Serano_, chiamato _console disegnato_ da
Tacito sotto quest'anno, e _Marco Licinio Crasso Muciano_; e che,
cessando essi, nelle calende di novembre subentrassero in quella
dignità _Lucio Cornelio Sulla_ e _Tito Flavio Sabino Vespasiano_.
Questo per congettura. E quando essi vogliano che Flavio Sabino fosse
il fratello di Vespasiano (poscia imperadore) s'ha d'avvertire che
Tacito e Svetonio ci danno ben a conoscere Sabino per prefetto di
Roma, ma non già illustre per alcun consolato[312]. Fu in quest'anno
esiliato da Roma Furio Scriboniano, figliuolo di quel Camillo che si
sollevò in Dalmazia contro di Claudio Augusto. Per atto di clemenza
non avea Claudio nociuto al figlio; ma accusato egli ora di aver
consultati gli strologi intorno alla vita dell'imperadore, per questo
delitto si guadagnò il bando. Molto non campò di poi, rapito dir non
si sa se da morte naturale o pur da veleno. Diede ciò occasione ad un
rigoroso editto del senato contro gli strologi, con ordine di
cacciarli d'Italia, non che da Roma. Tutto nondimeno indarno: per una
porta uscivano, ritornavano per un'altra. Parimente fu pubblicata
legge contra le donne libere, che sposassero schiavi. Se ciò facea la
donna senza il consenso del padrone dello schiavo, diveniva anch'essa
schiava; se col consenso, era poi trattata come liberta. Videsi
nell'anno presente, fin dove arrivasse la prepotenza dei liberti di
corte, la melonaggine di Claudio e la viltà del senato. Perchè fu
attribuito a Pallante, liberto il più favorito dall'imperadore,
l'invenzione di questo ripiego, per frenar le donne, il senato a
suggestion di Claudio, o pure, come vuol Plinio il vecchio, di
Agrippina Augusta, il senato, dico, oltre a molte lodi del suo fedele
attaccamento al principe, e delle sue grandi applicazioni pel ben
pubblico, il pregò di accettare gli ornamenti della pretura, e la
facoltà di portare l'anello d'oro, come faceano i cavalieri, e per
giunta un regalo di trecento settantacinquemila scudi romani. Costui
accettò gli onori, ma sdegnò di prendere il danaro, con vantarsene
dipoi in un'iscrizione, e con dire ch'egli si contentava di vivere
nell'antica sua povertà, quando di schiavo ch'egli fu, era giunto a
posseder più milioni, ed è registrato dal vecchio Plinio fra gli
uomini più ricchi del suo tempo. Plinio il giovane[313] da lì a molti
anni, in leggendo quell'iscrizione e il vergognoso decreto fatto dal
senato per costui, non se ne potea dar pace. Callisto e Narciso erano
gli altri due liberti dominanti allora nella corte. Per le mani di
Agrippina e di costoro passava tutto e di tutto si facea danaro. Si
prendeano anche beffe del balordo loro padrone[314]. Un dì mentre
Claudio tenea ragione, comparvero alcuni della Bitinia ad accusar con
molte grida Giunio Cilone, stato lor governatore, che avea venduta la
giustizia per danari; nè intendendo ben Claudio, dimandò che volessero
quegli uomini. Rispose Narciso: _Rendono grazie per aver avuto Cilone
al lor governo_. Allora Claudio: _Ebbene, l'abbiano per lor
governatore anche due altri anni_.

Alcuni tempi prima era venuta in mente a Claudio un'impresa che, se
gli riusciva, sarebbe stata di gran gloria a lui, e di pari utile al
pubblico, cioè[315] di seccare il Lago Fucino, detto oggidì Lago di
Celano nell'Abbruzzo, per mettere quelle terre a coltura, e difendere
le circonvicine dalle inondazioni che andavano di dì in dì crescendo:
fattura, per cui quei popoli Marsi avevano fatte più istanze ad
Augusto, ma senza nulla ottenere. Vi si applicò con incredibil vigore
Claudio, pensando di fare scolar quell'acque non già nel Tevere, come
alcuno ha creduto, ma bensì nel fiume Liri o sia nel Garigliano.
Plinio il vecchio[316] per un'opera maravigliosa ci descrive questo
tentativo di Claudio, e di spesa infinita; imperciocchè per undici
anni vi aveva egli impiegato continuamente circa trentamila lavoratori
in far cavare e tagliare una montagna di tre miglia, di profondità
incredibile, e condurre un canale lunghissimo da esso lago al fiume.
Allorchè l'opera fu creduta compiuta, Claudio, acciocchè si conoscesse
da ognuno la magnificenza della medesima, ordinò che si facesse prima
un solennissimo combattimento navale sul medesimo lago. Raunati da
varie parti dell'imperio diciannovemila uomini (se pur non v'ha
difetto in quel numero) condannati a morte, li compartì in due squadre
di navi colle lor armi, avendo disposto all'intorno in barche i
pretoriani ed altre milizie, affinchè niuno scappasse. Tutte le ripe e
le colline d'intorno erano coperte di gente accorsa allo spettacolo o
per curiosità, o per corteggiare l'imperadore, che vi assistè con
Agrippina[317], amendue superbamente vestiti. Sperando i destinati a
combattere grazia, il salutarono, dicendo _che andavano a morire_, e
non altra risposta ricevendo, se non _che anch'egli salutava loro_,
non volevano più procedere alla battaglia. Tante esortazioni e minacce
si fecero, che finalmente le nemiche squadre l'una appellata la
siciliana, l'altra la rodiana, si azzuffarono e combatterono da
disperate. Molti furono i morti, più i feriti. Chi restò in vita
ottenne poi grazia. Quindi passò la corte ad un magnifico convito, nel
qual tempo si lasciò correre l'acqua del lago pel nuovo fabbricato
canale; ma essa con tal empito corse, che fracassò in più luoghi le
muraglie delle sponde, ed allagò talmente il territorio, che Claudio
andò a pericolo d'annegarsi. Egli è pur di pochi il prevedere tutte le
forze delle acque messe in moto. Altre simili burle da loro fatte ho
io letto, ed anche veduto. Agrippina fece allora una gran lavata di
capo a Narciso, imputandogli di non aver fatto assai forte il lavoro
per risparmiare la spesa, e mettersi in saccoccia il danaro; e Narciso
anch'egli rispose a lei per le rime con dei frizzi intorno alla di lei
superbia, alle idee della sua ambizione. Aggiugne Tacito[318], non
essere stato quel canale sì basso da potere scolar le acque del lago
troppo profondo nel mezzo. Ordinò nondimeno Claudio, che si rifacesse
meglio il lavoro; ma per quanto si può dedurre da Plinio il vecchio,
egli non campò tanto da vederlo compiuto. Nerone suo successore per
invidia alla di lui gloria non si curò di perfezionarlo; e per quanto
poi facessero Traiano e Adriano, il lago sussistè, e tuttavia
sussiste. Un'altra maravigliosa impresa di Claudio Augusto fu l'aver
egli condotto a fine l'acquidotto cominciato da Caligola, per cui
furono introdotte in Roma le acque curzia e cerulea per quaranta
miglia di viaggio[319]; e ad una tale altezza, che arrivavano alla
cima di tutti i colli di Roma, e in tanta abbondanza, che servivano ad
ogni casa, alle peschiere, ai bagni, agli orti e ad ogni altro uso.
Plinio il vecchio, descrivendo la grandiosità di quest'opera stupenda,
ci assicura, che al veder tagliate montagne, riempiute valli, e tanti
archi per condurre quella gran copia d'acque, si conchiudeva, nulla
esservi di sì mirabile in tutto il mondo, come quella fattura, la
quale costò parecchi milioni. Tacito nota in questi tempi la
prepotenza e l'arti cattive di _Antonio Felice_, chiamato _Claudio
Felice_ da Giuseppe Ebreo[320], liberto già d'Antonia e poi di Claudio
Augusto, a cui esso imperadore avea dato il governo della Giudea. Quel
medesimo egli è, che si legge negli Atti degli Apostoli aver tenuto
per due anni in prigione san Paolo apostolo. Costui, oltre al godere
un buon posto nel cuore di Claudio, avea anche per fratello Pallante,
il più favorito, il più potente, il più ricco dei liberti di corte; e
però a man salva commetteva in quel governo quante iniquità egli
voleva senza timore che gliene venisse un processo. S'empiè allora la
Giudea di ladri e di assassini, e tutto si andò disponendo alla
ribellione che accenneremo a suo tempo.

NOTE:

[312] Tacitus, Annal., cap. 52.

[313] Plinius, lib. 7, epistola 29.

[314] Dio, lib. 60.

[315] Dio, lib. 60. Suetonius, in Claudio, cap. 20. Tacitus, Annal.,
lib. 12, cap. 57.

[316] Plinius, lib. 36, cap. 15.

[317] Sueton., in Claudio, cap. 21.

[318] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 57.

[319] Plin., lib. 36, cap. 15.

[320] Joseph., Antiq. Judaic., lib. 2.




    Anno di CRISTO LIII. Indizione XI.

    PIETRO APOSTOLO papa 25.
    TIBERIO CLAUDIO, figliuolo di
    Druso imperadore 13.

_Consoli_

DECIMO GIUNIO SILANO e QUINTO HATERIO ANTONINO.


Era giunto _Nerone Cesare_ a quindici in sedici anni; anche _Ottavia_
figliuola di Claudio Augusto all'età capace di matrimonio; e però in
quest'anno si celebrarono le loro nozze. Così Tacito[321]. Ma
Svetonio[322] mette questo fatto due anni prima, allorchè Claudio era
console, cioè nell'anno 54 dell'Era nostra, con avere allora Nerone
celebrati i giuochi circensi, e la caccia delle fiere nell'anfiteatro
per la salute del suocero imperadore. Anche Dione mette il di lui
matrimonio prima del combattimento navale sul lago Fucino. Però non è
qui sicura la cronologia di Tacito. Affinchè questo giovine bestia
facesse per tempo una bella comparsa nell'eloquenza, Agrippina sua
madre, e Seneca il maestro, vollero ch'egli servisse da avvocato al
popolo d'Ilio o sia di Troja, i cui ambasciadori chiedeano allora in
senato l'esenzion dai tributi. Una bella orazione in greco, dettatagli
senza fallo dal precettore[323], recitò Nerone, in cui ebbero luogo
tutte le favole inventate dai Romani, cioè la loro origine da Troja e
da Enea, spacciato dagli adulatori per propagatore della famiglia
Giulia. Nulla si potè negare ad un sì facondo oratore, e a sì forti
ragioni; però Tiberio, dopo avere anch'egli tirata fuori una lettera
scritta in greco dal senato e popolo romano, in cui esibivano lega al
re Seleuco, purchè egli concedesse ogni esenzione al popolo di Troja,
parente de' Romani, conchiuse che non si dovea negar tal grazia ai
Trojani; nè vi fu chi non concorresse nella medesima sentenza. Perchè
i Romani, che componeano la colonia nella città di Bologna in Italia,
erano ricorsi all'imperadore e al senato per aiuto a cagion di un
incendio che avea devastato le lor case: parimente per loro fece da
avvocato con una orazione latina il giovinetto Nerone, ed ottenne in
lor soccorso la somma di dugento cinquanta mila scudi romani. Anche il
popolo di Rodi supplicava per ricuperare la libertà, che dianzi
dicemmo tolta loro dal medesimo Claudio. Per loro perorò Nerone in
greco, ed impetrò tutto quanto desideravano. Concedè similmente
Claudio per cinque anni l'esenzion dalle imposte a quei d'Apamea,
rovinati da un tremuoto, e al popolo di Bisanzio, che si trovò troppo
aggravato; e per tutti i tempi avvenire l'accordò dipoi al popolo di
Coo. _Statilio Tauro_ (non sappiamo se _Marco_ o _Tito_) possedeva de'
bei giardini. Agrippina gli amoreggiava[324] anch'essa; però dacchè fu
ritornato dall'Africa, dove era stato proconsole, il fece accusare in
senato da Tarquinio Prisco, con apporgli falsamente d'essersi
mischiato in superstizioni di magia forse contro la vita di Claudio.
S'impazientò egli cotanto per questa trappola, che datasi la morte
colle proprie mani, prevenne la sentenza del senato.

NOTE:

[321] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 58.

[322] Sueton., in Nerone, cap. 7.

[323] Sueton., in Nerone, cap. 8.

[324] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 64.




    Anno di CRISTO LIV. Indizione XII.

    PIETRO APOSTOLO papa 26.
    NERONE CLAUDIO imperad. 1.

_Consoli_

MARCO ASINIO MARCELLO e MANIO ACILIO AVIOLA.


Scrive Tacito[325], che l'uno di questi consoli, sicome ancora un
questore, un edile, un tribuno e un pretore, nello spazio di pochi
mesi terminarono i lor giorni: accidente interpretato dai
superstiziosi Romani per preludio di gravi disgrazie. Noi non
sappiamo, nè qual dei consoli morisse, nè chi succedesse al defunto.
All'ambiziosa Agrippina faceva ombra _Domizia Lepida_, donna
ricchissima e di gran fasto, sorella del suo primo marito, cioè di
_Gneo Domizio Enobarbo_, e parente d'Augusto, per via d'Antonia sua
madre. Mirava Agrippina di mal occhio, che Lepida, oltre ad altri
riguardi, si comperasse l'affetto del nipote Nerone con assai carezze
e frequenti regali. Ella volea comandare al figliuolo, e però non
istava bene in vita chi potea contrastarle un sì fatto imperio. Per
attestato di Tacito non era meno impudica Lepida che si fosse
Agrippina; tuttavia ella non fu per questo verso assalita. Le accuse
che contra di lei inventò la malizia, furono d'aver fatti de'
sortilegi per far morire essa Agrippina, oppure per diventar moglie
dell'imperadore; e ch'ella non avesse frenata l'insolenza de' suoi
servi, i quali, diceva ella, in Calabria turbavano la pace
dell'Italia. Fin lo stesso Nerone[326] fu sforzato dalla madre, donna
fiera, a far testimonianza contro l'amata sua zia. In una parola, per
sentenza del senato, Lepida perdè la vita, ancorchè Narciso, potente
liberto di Claudio, vi si opponesse con tutte le sue forze. E
probabilmente questo liberto, che osservando i disegni ambiziosi di
Agrippina, si teneva perduto, se il di lei figliuolo fosse pervenuto
all'imperio e perciò si dichiarava tutto in favor di Britannico, si
servì di tal occasione per rivelare, a Claudio l'amicizia infame che
passava tra Agrippina e Pallante, altro onnipotente liberto di corte.
Promosse inoltre a tutto potere gl'interessi di Britannico presso il
padre, con fargli insieme conoscere, quanto fosse indecente
l'anteporre al proprio figliuolo un figliastro, e quali fossero le
trame di Agrippina per questo[327]. In fatti cominciarono a comparire
alcuni segni ch'egli si fosse pentito[328] d'aver presa per moglie
Agrippina, e d'aver adottato il di lei figliuolo. Si faceva egli
condurre più del solito innanzi il proprio figlio Britannico;
l'abbracciava, e un dì fu udito dire, _che con quella mano con cui
l'avea ferito, il guarirebbe_. Narciso, anch'egli consapevole della
mutata inclinazion del padrone, animava Britannico, e gli facea gran
festa intorno. Ad occhi aperti stava Agrippina. Ma dacchè seppe essere
scappato detto un giorno a Claudio, _che per suo destino egli avea
dovuto avere solamente delle mogli impudiche, per poi punirle_: non
volle aspettar più, e si studiò di prevenirlo. Si sentiva poco bene di
sanità Claudio, e sperando aiuto dall'aria e dall'acque di Sinuessa,
colà si portò, per quanto scrive Tacito. Quivi fu che Agrippina, dopo
aver allontanato Narciso con bella maniera, mandandolo in Campania, si
fece preparar un potente veleno da una famosa fabbriciera d'essi,
nominata Locusta, che servì gran tempo a simili bisogni della corte. E
sapendo, quanto il marito fosse ghiotto di boleti, ne acconciò uno al
proposito, e gliel fece poi presentare dall'eunuco Haloto, solito a
fare il saggio de' cibi del principe. Mangiò di que' boleti anche
Agrippina, ma con lasciare il più bello al marito. Fu portato Claudio
come ubbriaco (che questo gli accadeva spesso) dalla tavola al
letto[329]. Perchè parve che sciolto il ventre potesse sovvenire al
rischio in cui egli si trovava, spaventata Agrippina ricorse a
Senofonte medico di sua confidenza, il quale già preparata, col
pretesto di svegliargli il vomito, una penna tinta d'altro fiero
veleno gliela immerse nella gola. La notte egli perdè i sentimenti, e
verso il far del giorno del dì 13 d'ottobre spirò. Abbiamo da
Svetonio[330], che in diverse maniere si contò questo fatto:
comunemente nondimeno essersi detto e creduto ch'egli morisse di
veleno. Incerto è anche il luogo, e sembra piuttosto ch'egli morisse
in Roma. Lo stesso storico quegli è che cel dà morto nel dì 13 del
suddetto mese, e con lui va d'accordo Dione. Ma pare che Tacito lo
supponga prima; perciocchè si tenne (e sembra non delle sole ore)
celata la di lui morte, e però potè succedere prima di quel giorno. In
Roma si faceano intanto preghiere agli dii per la di lui salute.
Agrippina chiamò i commedianti, quasi che li desiderasse Claudio per
divertirsi, e spesso facea spargere voce che il di lui incomodo andava
di bene in meglio. Tutto ciò per dar tempo a disporre le cose per far
succedere Nerone. Ella inoltre si mostrava spasimante di dolore pel
marito, e piena di tenerezza per _Britannico_ e per le sorelle di lui,
_Antonia_ ed _Ottavia_, e trattenevali tutti, affinchè non uscissero
della loro stanza, con aver anche messe guardie dappertutto.

Preparato ciò che occorreva, sul mezzogiorno del suddetto dì 13 di
ottobre si spalancarono[331] le porte del del palazzo, e ne uscì
Nerone, accompagnato da Burro prefetto del pretorio, che andava ben
d'accordo con Agrippina, siccome sua creatura. Fu presentato al corpo
di guardia e ricevuto con acclamazioni: indi entrato in lettiga, non
senza maraviglia di molti al non veder seco Britannico, fu condotto al
quartiere dei pretoriani in Roma, senza che apparisca da Tacito, il
quale fa morto Claudio a Sinuessa, alcun lungo viaggio, per venire da
quella alla gran città. Dappoichè Nerone ebbe parlato ai pretoriani, e
promesso loro un donativo, non inferiore al ricevuto da Claudio, fu
acclamato da tutti per imperadore. Non tardò molto a far lo stesso il
senato, perchè privo di maniere da resistere ai voleri e alla forza
della milizia, già entrata in possesso di far essa gl'imperadori.
Furono poi decretati a Claudio i medesimi onori che si praticarono
alla morte d'Augusto, con deificarlo, e fargli un solennissimo
funerale, in cui Agrippina gareggiò nella magnificenza con Livia
Augusta sua bisavola[332]. Aveva ella anche cominciato un sontuoso
tempio alla memoria del _Divo Claudio_; ma l'invidioso Nerone lo
lasciò poi andare a terra, o lo distrusse per la maggior parte. Fu poi
rifatto e compiuto da Vespasiano per gratitudine ad un imperadore che
l'avea beneficato. Ed ecco come finì sua vita Claudio, principe
annoverato fra i partecipanti del buono e del cattivo, di cuore
inclinato alla giustizia, alla clemenza e alla munificenza, e che fece
molte azioni da principe ottimo; ma di testa troppo debole, per cui
lasciandosi governare da mogli scellerate e da liberti iniquissimi,
per gli consigli ed inganni di essi tante altre azioni operò
obbrobriose o ridicole. Gallione fratello di Seneca il derise morto,
con dire, _ch'egli veramente era salito al cielo[333], ma tirato con
un uncino_, come si faceva ai giustiziati che venivano strascinati dal
boia al Tevere. Lodava anche _i boleti, perchè divenuti cibi degli
dii_. Lo stesso Lucio Anneo Seneca, siccome maltrattato da lui, se ne
vendicò anch'egli con una satira che tuttavia sussiste,
rappresentandolo portato al cielo, ma poi cacciato di là e mandato
all'inferno, con essere riconosciuto in entrambi que' luoghi per uno
scimunito e per una bestia. L'orazione funebre[334] composta dal
medesimo Seneca in onore di Claudio, fu recitata da Nerone. Era
elegantissima; ma allorchè si udì esaltare la provvidenza e sapienza
del defunto principe, niuno vi fu che potesse trattenersi dal
sogghignare, forse non prevedendo chi si ridea di Claudio, che avea
poi da piangere del suo successore, sentina di crudeltà e di vizii.
Non fu letto in senato il testamento di Claudio, perchè verisimilmente
non volle Agrippina che Britannico a Nerone in esso comparisse
anteposto. Comandano i principi quel che vogliono in vita; morti, quel
solo che piace al loro successore. Solamente sotto quest'anno il padre
Antonio Pagi[335] comincia l'anno primo del pontificato di san Pietro,
perchè sostiene ch'egli solamente ora venisse a Roma. Trattandosi di
punti assai tenebrosi e controversi di storia, si attenga ognuno a
quella opinione che più gli aggrada.

NOTE:

[325] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 64.

[326] Sueton., in Nerone, cap. 7.

[327] Idem, ibid., cap. 43.

[328] Dio, lib. 60.

[329] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 67.

[330] Sueton., in Claud., cap. 43.

[331] Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 69.

[332] Sueton., in Claud., c. 45, et in Vespas., c. 9.

[333] Dio, lib. 60.

[334] Tacit., Annal., lib. 13, c. 3.

[335] Pagius, in Critica Baroniana.




    Anno di CRISTO LV. Indizione XIII.

    PIETRO APOSTOLO papa 27.
    NERONE CLAUDIO imperad. 2.

_Consoli_

NERONE CLAUDIO AUGUSTO e LUCIO ANTISTIO VETERE o sia VECCHIO.


Benchè non fosse Nerone per anche pervenuto all'età stabilita dalle
leggi per esser console, non avendo più di diecisette anni, tuttavia
siccome superiore alle leggi, e per onorare i principii del suo
governo, prese il consolato. Per testimonianza di Svetonio[336] lo
tenne solamente due mesi. Chi succedesse a lui nelle calende di marzo,
non si sa. V'ha chi crede _Pompeo Paolino_, perchè da lì a due anni si
trova proconsole della Germania. Diede l'ambiziosa Agrippina principio
al governo del figliuolo Nerone con levar di vita _Giunio Silano_,
allora proconsole dell'Asia. Parte per gelosia, perchè fu detto dal
popolazzo, ch'egli per via di femmine discendente dalla casa di
Augusto potea aspirare all'imperio, e più proprio anche sarebbe stato
che il giovinetto Nerone; parte ancora per timore, ch'egli volesse
vendicar la morte ingiustamente data a _Lucio Silano_ suo fratello,
benchè pericolo non vi fosse, perchè egli era un dappoco, e Caligola
perciò il solea chiamare _la pecora ricca_. Si trovarono persone che
seppero dargli il veleno, ed egli se ne andò, senza che Nerone ne
penetrasse la trama. Da gran tempo era in disgrazia di essa Agrippina
Narciso, liberto e segretario di Claudio Augusto, perchè parzialissimo
di Britannico, e perchè a lei stato contrario in molte occorrenze.
Aveva egli ammassato delle immense ricchezze, e potendo tutto sopra il
padrone, le intere città e gli stessi re, chiunque avea bisogno del
principe, il corteggiavano e gli faceano de' regali. Era per altro
fedele a Claudio, e vegliava per la di lui conservazione. S'egli si
fosse trovato alla corte, non avrebbe osato Agrippina di tradir il
marito, o pur sarebbono seguiti differentemente gli affari; ma
Agrippina, siccome accennai, seppe bene staccarlo da lui; e
poscia[337] cacciatalo in dura prigione, il fece ammazzare, o il
ridusse ad ammazzarsi da sè medesimo, ed anche contro il voler di
Nerone, che l'amava per la somiglianza de' costumi, essendo egualmente
anch'egli più avaro che prodigo. Si metteva Agrippina in istato
d'altri simili prepotenze e crudeltà, se _Afranio_ _Burro, prefetto
del pretorio_, ed uomo di costumi saggi e severi, e _Seneca maestro di
Nerone_, non men dell'altro tendente al buono, divenuti amendue
principali ministri ed arbitri della corte, non l'avessero tenuta in
freno. Andavano d'accordo questi due ministri, e perchè desiderosi
erano del buon governo, abolirono sul principio varii abusi, e fecero
molti buoni regolamenti. Ad Agrippina accordarono in apparenza quante
distinzioni d'onore ella seppe richiedere. Dava ella le udienze ai
magistrati, agli ambasciatori, anche senza il figliuolo. Con esso
usciva in lettiga; più spesso sel facea tener dietro. Ella scriveva ai
popoli e ai re; ella dava il nome alle guardie. Ma a poco a poco i due
ministri andarono restringendo la di lei autorità, facendole conoscere
che chimerico era il di lei disegno di far da padrona assoluta.

Per conto di Nerone ognun d'essi si studiava di portarlo all'amore e
alla pratica delle virtù; ma perchè aveano che fare con un giovinastro
vivace, capriccioso, vago solamente di divertimenti e piaceri, e non
già di logorarsi il capo nell'applicazione al governo, gli permetteano
di sollazzarsi con altri giovani di suo genio in canti, suoni e
conviti, e in qualche altra pericolosa libertà di più, sperando
ch'egli crescendo in età, e sfogati que' primi bollori di gioventù,
prenderebbe miglior cammino. Ma, siccome osserva Dione, non badarono
che il lasciar così la briglia ad un giovane, era un aprirgli la
strada a divenire uno scapestrato, perchè un vizio chiama l'altro, e
formato il mal abito, andando innanzi, sempre più cresce e si
rinforza, massimamente in chi può ciò che vuole. Per altro sul
principio non nocevano punto al buon governo i suoi divertimenti,
lasciando egli operare ai due suoi saggi ministri, i quali finchè
ebbero possanza, sempre mantennero la giustizia e il buon ordine con
plauso del popolo. Portatosi Nerone ne' primi giorni in senato, parlò
così acconciamente della maniera ch'egli pensava di tener nel governo,
che innamorò tutti. Seneca gli avea messo in iscritto quegli
avvertimenti. Non voleva egli essere il giudice di tutti gli affari;
l'autorità del senato dovea esercitarsi liberamente, come ne' vecchi
tempi. Non più s'aveano da vendere gli uffizii. Tutto camminerebbe
sulle pedate di Augusto. E così ragionando d'altri buoni regolamenti,
piacque cotanto la sua orazione, che fu ordinato d'intagliarla in una
colonna d'argento, e di rinnovarne la lettura in ogni primo dì
dell'anno. In fatti, anche il senato animato da tali parole fece di
molti utili decreti in così bella aurora. Disobbligò fra l'altre cose
i questori dal fare ogni anno il troppo dispendioso giuoco de'
gladiatori, benchè non senza gravi richiami d'Agrippina, la quale
fatti venire i senatori al palazzo, dietro ad una portiera ascoltava
tutto, e disse che questo era un distruggere gli editti del defunto
Claudio. E perciocchè ella volea pur seguitare a comparir sul trono
col figliuolo, per dar le pubbliche udienze, Burro e Seneca la
finirono, in occasione che i legati dell'Armenia si presentarono al
senato. Era assiso Nerone sul trono ascoltando le loro dimande, quando
arriva Agrippina, per fare anch'ella la sua comparsa padronale su quel
medesimo trono. Allora Nerone, ammaestrato prima da Seneca, discende
come per andare incontro alla madre, e trovato un pretesto per
rimettere ad un altro dì l'ascoltare gli ambasciatori, diede fine al
concistoro, senza che quei forestieri s'accorgessero che Agrippina
voleva tuttavia menare il figliuolo grande per le maniche del sajo.
Così a poco a poco la disviarono dal far quelle ambiziose comparse con
vergogna del figlio. Diede[338] Nerone in quest'anno l'Armenia Minore
ad _Aristobolo_ di nazione giudaica, e a _Soemo_ la provincia di
Sofene, dichiarandoli re amendue. Spedì ordini pressanti ad _Agrippa
re_ di una parte della Giudea, e ad _Antioco re_ di Comagene, di
unirsi coi Romani per far guerra ai Parti, acciocchè battuti dalla
parte della Mesopotamia, uscissero dell'Armenia. Ne uscirono in fatti
per le discordie insorte fra _Vologeso re d'essi Parti_ e _Vardane_
suo figliuolo. Portate a Roma cotali nuove, ed ingrandite, mossero il
senato adulatore a decretar la veste trionfale a Nerone, ed anche
l'ovazione. A _Domizio Corbulone_ fu dato il governo, o pur la cura
degli affari dell'Armenia Maggiore: cosa applaudita dai Romani. Il
credito di questo generale, non meno che gli uffizii di Cajo Ummidio
Durmio Quadrato governatore della Siria, indussero Vologeso a dimandar
la pace e a dar degli ostaggi. Segni ancora di clemenza diede Nerone
nel non volere che fossero ammesse le accuse contra di un senatore e
di un cavaliere.

Tutto il finquì narrato appartiene in parte al precedente anno. Nel
presente si cominciarono ad imbrogliar le scritture fra _Agrippina_ e
il figliuolo. Erasi _Nerone_ già incapricciato di una giovine,
appellata Atte, di bassa sfera, perchè stata schiava, ed allora
liberta. Gli tenevano mano due de' suoi compagni negli spassi, cioè
_Marco Salvio Ottone_, che fu poi imperadore, e _Senecione_. L'amore
ch'egli dovea ad _Ottavia_ sua moglie, principessa per avvenenza e
saviezza meritevole di ogni lode, si era tutto rivolto verso questa
ignobil giovinetta, essendosi fin detto che gli corse più volte per
mente di sposarla. Mostravano di non saper questo suo sviluppo i due
primi ministri per paura, che se gli si contrastava questo
amoreggiamento, da cui non veniva ingiuria ad alcuno, egli si volgesse
alle case de' nobili. Ma Agrippina non sì tosto se n'avvide, che diede
nelle smanie, e gli fece più e più bravate. Tuttavia accorgendosi a
null'altro servire questa sua severità, che ad accendere maggiormente
le disoneste fiamme di Nerone, mutò batteria, e si studiò di
guadagnarlo colle buone, e con profusion di regali e fin con
esibizioni che non son da dire; e tuttochè raccontate da Tacito e da
Dione, han tutta la ciera di calunnie, facili, quando si vuol male
alle persone. Nerone all'incontro, scelte le più belle gioie e
masserizie del palazzo, le inviò in dono alla madre, la quale se ne
offese, per voler egli far seco da liberale con quella roba che tutta
egli dovea riconoscer da lei. Qui non si fermò Nerone. Levò il
maneggio delle rendite del pubblico a Pallante, liberto il più
confidente (e forse troppo) che s'avesse la madre, per abbassar sempre
più la di lei superbia. Per questo andò nelle furie Agrippina, nè potè
contenersi dal dire un dì al figliuolo, _che giacchè vivea Britannico,
ella ne saprebbe anche fare un imperadore_. Anzi, secondo Dione[339],
gli ricordò in tal maniera d'averlo fatto imperadore, che parve
volesse dire che era anche capace di disfarlo. Queste parole della
superba donna incautamente proferite, furono la sentenza di morte
dell'infelice _Britannico_, giovinetto di molta espettazione, amato da
ognuno, che già toccava il quindicesimo anno dell'età sua. Nerone il
fece avvelenare da Giunio Pollione tribuno di una coorte di
pretoriani. Mentre lo sfortunato principe pranzava coll'imperadore,
ma, secondo lo stile, ad una tavola a parte, gli fu portata una
bevanda troppo calda senza veleno, di cui fece il saggio lo scalco
suo. Dimandò Britannico dell'acqua fredda per temperare quel caldo, e
recatagli questa con un potentissimo veleno, bebbe; ed appena bevuto,
si sentì sconvolgere tutto, e da lì a poco cadde per terra tramortito.
Ognuno de' circostanti atterrito tremava; alcuno anche imprudente si
ritirò[340]; ma i più accorti fissarono il guardo in Nerone, il quale
senza punto muoversi da tavola, e senza punto scomporsi, disse che
quello era un colpo di mal caduco, a cui fin da fanciullo egli era
soggetto. Britannico morì nella seguente notte, e fu immediatamente
bruciato il suo corpo, acciocchè non apparissero i segni del veleno.
Dione all'incontro scrive, che per coprir que' segni apparenti nel
volto, Nerone lo fece imbiancare col gesso; ma sopraggiunta una
dirotta pioggia nel portarlo al rogo, si lavò l'imbiancatura, onde
ognuno potè scorgere l'iniquità del fatto. Anche Tacito parla di essa
pioggia, ma con dir solamente, averla interpretata i Romani per un
contrassegno dell'ira degli dii.

Questo colpo sbalordì fieramente Agrippina, sì per vedere di che fosse
capace il figliuolo, e sì per trovarsi priva di chi al bisogno avrebbe
potuto giovare ai suoi disegni. Ma fece forza a sè stessa, per coprire
l'interno affanno. Nè meno di lei seppe contenersi nel mirarsi tolto
da sì barbara mano il caro fratello _Ottavia_, siccome già avvezza a
non zittire per qualunque aggravio che le fosse fatto. Colle spoglie
di Britannico Nerone arricchì di poi Burro e Seneca: il che diede da
mormorare di essi a non pochi. Ne fece anche parte ad Agrippina; ma
questa non potea darsi pace al vedere un figlio agitato da sì violente
passioni, e al temere di peggio. Laonde per premunirsi cominciò a
farsi del partito coi tribuni centurioni della milizia, ed insieme ad
adescare i più accreditati della nobiltà, non più altera, come in
addietro, ma abbondante di cortesia anche all'eccesso. E soprattutto
raunava danaro, creduto il più potente amico nelle occorrenze. Seppelo
Nerone; le levò le due guardie de' pretoriani e Germani; la fece anche
passare dal palazzo imperiale ad abitare in quello di Antonia sua
avola, per tenerla lontana da sè. Portavasi talvolta a visitarla, ma
sempre attorniato da molti centurioni, e dopo un breve complimento, se
n'andava. Allora comparve a che vicende sia suggetta l'umana potenza,
e quanto fragile e vana sia la grandezza de' mortali. Quella dianzi
tanto venerata e temuta donna si trovò in isola; niun più andava a
visitarla, a riserva di poche femmine; ognun fuggiva d'incontrarla di
parlarle, di mostrarsene parziale. A questo arrivò la smoderata
ambizion di Agrippina; e pure non finì qui la sua depressione. _Giulia
Silana_, nobilissima dama, già amica sua, e poi gravemente disgustata
pel matrimonio di Sesto Africano, concertato da lei, e frastornato da
Agrippina, prese ad accusarla, e fece passare all'orecchio, di Nerone
per mezzo di Paride commediante, che la madre era dietro a volere
sposar Rubellio Plauto, per via di femmine discendente da Augusto, con
disegno di sconvolgere poi lo stato. Passata la mezza notte, corse
Paride a far questa relazione a Nerone, il quale si ritrovava allora,
secondo il solito, ubbriaco. Il primo ed unico pensiero dell'infuriato
Augusto fu quello di uccider la madre e Plauto, e di levar la carica
di prefetto del pretorio a Burro, sospettandolo d'accordo con
Agrippina, da cui egli riconosceva la sua fortuna. Seneca chiamato al
romore, il pacificò per conto di Burro, attestandone l'onoratezza.
Accorse anche Burro, e promise di torre la vita ad Agrippina, se si
recavano prove dell'accusa, mostrando poi la necessità d'ascoltar lei
ancora. Fatto giorno, i ministri andarono ad intimarle l'accusa e a
rivelarle gli accusatori. Agrippina rispose col non per anche deposto
orgoglio, e dimandò di poter parlare al figliuolo: il che non le fu
negato. Parlò in maniera, che il rasserenò, e poscia andò il gastigo a
cadere sopra Silana, che fu relegata, e sopra alcuni altri complici di
lei. Ottenne ella ancora dei posti per alcuni suoi favoriti. Un'altra
accusa in questi tempi venne in campo contra del suddetto Burro, e di
Pallante liberto da noi più volte nominato, imputati di voler portare
all'imperio _Cornelio Sulla_, uno de' primati romani. Si difesero in
maniera, che solamente Peto l'accusatore ne portò la pena con essere
relegato.

NOTE:

[336] Sueton., in Nerone.

[337] Dio, lib. 62.

[338] Tacitus, Annal., l. 13, cap. 7.

[339] Dio, lib. 6.

[340] Tacitus, lib. 13, cap. 7.




    Anno di CRISTO LVI. Indizione XIV.

    PIETRO APOSTOLO papa 28.
    NERONE CLAUDIO imper. 3.

_Consoli_

QUINTO VOLUSIO SATURNO e PUBLIO CORNELIO SCIPIONE.


Secondochè abbiam da Svetonio, soleva Nerone mutar nelle calende di
luglio i consoli. Per questo va congetturando Vinando Pighio, che ai
suddetti consoli fossero sostituiti _Curtilio Mancia e Dubio Avito_,
per trovarsi eglino da qui a due anni proconsoli. Cominciò in
quest'anno lo sbrigliato giovinastro Nerone a menar una vita più che
mai scandalosa[341]. La notte travestito da servo, accompagnato da
alcuni suoi fidi, scorreva per le strade per gli postriboli, per le
bettole a sfogare i bestiali suoi appetiti, divertendosi in rompere ed
isvaligiar botteghe, e in dar per ischerzo delle battiture a chi
s'incontrava per via, e far di peggio a chi resisteva. Essendo poi
trapelato venir da Nerone somiglianti insolenze, presero animo altri
giovani scapestrati per unirsi insieme, e far lo stesso sotto nome di
lui, ingiuriando uomini e donne illustri: con che pericoloso per tutti
divenne lo andar di notte per Roma. Perchè Nerone non era conosciuto,
toccavano anche a lui talvolta delle busse. Per attestato di
Plinio[342] fu sfregiato una notte in volto. Con tassia, incenso e
cera avendo unta la percossa, la mattina seguente comparve con la cute
sana. Uno di quelli che la notte gli diedero alcune bastonate o
ferite, o sia per cagion della moglie, come vuole Svetonio e Dione, o
pure per motivo di propria difesa, come s'ha da Tacito, fu Giulio
Montano, uomo nobile e già vicino a divenir senatore. Stette Nerone a
cagion di questo regalo più dì confinato in casa, nè già pensava a
vendetta, perchè si figurava di non essere stato conosciuto, e però
non ingiuriato. Ma il mal accorto Montano, saputo con chi egli avea sì
malamente trescato, andò ad infilzarsi da sè stesso con iscrivergli
una lettera lagrimevole e chiedergli perdono. «Come! gridò Nerone,
costui sa d'aver percosso l'imperadore, nè si è per anche data la
morte da sè stesso!» Gli fece egli dipoi insegnare come andava fatto.
Da lì innanzi usò Nerone di uscir di notte con una banda di soldati e
di gladiatori, che il seguitavano in disparte. Se per le insolenze
ch'egli commetteva, talun si rivoltava, allora costoro menavano le
mani. Dilettavasi parimente il forsennato Augusto di accendere e
fomentare le fazioni del popolazzo nelle pubbliche commedie, gustando
ora da luogo occulto, ed ora scoperto, di mirare se si davano de'
pugni, e tiravano dei sassi, essendo egli talora il primo a gittarne,
con avere anche una volta ferito in volto il pretore, presidente ai
giuochi. Andò tanto innanzi la confusione per questo, con pericolo di
peggio, che bisognò rimettere le guardie ne' teatri, e bandire
dall'Italia alcuni dei più sediziosi istrioni e pantomimi. Piena[343]
era l'antica Roma di schiavi e di liberti. Ancorchè i primi con
acquistar la libertà dai padroni, sembra che fossero sciolti da ogni
legame, pure o per la pratica, o per le riserve tacite od espresse che
si faceano, erano tenuti a servire essi padroni, ma in impieghi più
onorevoli. Se mancavano, erano gastigati; se arrivava il lor fallo
all'ingratitudine, tornavano schiavi. Grandi lamenti insorsero in
questi tempi de' padroni contra dei liberti; e in senato fu proposto
di fare una legge rigorosa, che gli abbracciasse tutti. Nerone
l'impedì con ordinare, che il gastigo andasse sopra i particolari, per
le ragioni che ne adduce Tacito. Fu anche modificata la soverchia
autorità de' pretori, degli edili e de' tribuni della plebe. Alcuni
altri regolamenti si fecero, tutti utili al pubblico.

NOTE:

[341] Tacit., Ann., lib. 13, cap. 25. Dio, lib. 61. Suet., in Nerone,
cap. 26.

[342] Plin., lib. 13, cap. 22.

[343] Tacitus, lib. 13, cap. 26.




    Anno di CRISTO LVII. Indizione XV.

    PIETRO APOSTOLO papa 29.
    NERONE CLAUDIO imper. 4.

_Consoli_

NERONE CLAUDIO AUGUSTO per la seconda volta e LUCIO CALPURNIO PISONE.


Si sa da Svetonio, che Nerone non tenne se non sei mesi il consolato.
Disputano gli eruditi, chi a lui ed al collega succedesse nelle
calende di luglio. Nulla s'è potuto accertare finora. Non ci
somministra l'antica storia alcun fatto rilevante sotto quest'anno.
Tacito[344] solamente racconta aver Nerone dato un congiario, o sia
regalo, al popolo, e levata l'imposta di venticinque danari sopra la
vendita che si faceva degli schiavi. Proibì ancora ai governatori
delle provincie il fare spettacoli di gladiatori o di fiere, e simili
altri giochi: perchè sotto questo pretesto molestavano forte le borse
de' popoli, o cercavano di coprire con tali magnificenze i lor
latrocini. Fu accusata _Pomponia Grecina_, moglie di Aulo Plauzio,
conquistator della Bretagna, perchè seguitava una _superstizion
forestiera_. Hanno creduto, e fondatamente i nostri, ch'ella avesse
abbracciata la religion cristiana, la quale in questi tempi s'andava
dilatando per la terra, e massimamente in Roma. Fu rimessa tal
giustizia, secondo l'antico costume, alla cognizion del marito, il
quale, esaminato l'affare coi di lei parenti, la giudicò innocente.
Potrebbe essere che appartenesse all'anno presente ciò che narra
Dione[345] con dire, che si fecero vari spettacoli in Roma. Uno di
tori, che furono uccisi da uomini a cavallo, correnti a briglia
sciolta contra di essi. Un altro, in cui quattrocento orsi e trecento
lioni caddero al suolo trafitti dalle lance delle guardie a cavallo di
Nerone. Anche trenta uomini dell'ordine de' cavalieri romani
combatterono nell'anfiteatro alla foggia de' gladiatori, cioè di gente
infame. Cresceva intanto lo sregolamento di Nerone ascoltando egli
unicamente i consigli di chi adulava le di lui passioni, tutte rivolte
ai piaceri anche più abbominevoli. Quei di _Burro_ e di _Seneca_
l'infastidivano, e in fine cominciò a metterseli sotto i piedi.
_Ottone_, che fu poi imperadore, e in tutto simile era a Nerone nelle
inclinazioni e nei vizii, siccome ancora gli altri collegati
negl'infami di lui divertimenti, gli andavano di tanto in tanto
dicendo: «Come mai soffrite che vi facciano i pedanti in questa età? E
voi ve ne mettete suggezione, senza ricordarvi che siete l'imperadore,
e che non essi, ma voi sopra d'essi avete potere!» Così imparò egli a
sprezzare i consigli de' buoni, e, voltata strada, si diede ad imitar
Caligola, anzi a superarlo; parendogli cosa degna di un imperadore il
non esser da meno d'alcuno neppur nelle cose mal fatte. Tuttavia in
questi primi anni si andò ritenendo. I suoi erano finora vizii
privati, e nocevano a lui solo, e a pochi altri, senza che ne patisse
la repubblica. Si videro anche in lui alcuni atti di clemenza, intorno
alla qual virtù gli avea Seneca composto e dedicato nell'anno
precedente un trattato che ci resta. Ma fin dove il portasse la sua
perversa natura, e questo abbandonamento di sè stesso, poco staremo a
vederlo.

NOTE:

[344] Tacit., lib. 13, cap.

[345] Dio, lib. 61.




    Anno di CRISTO LVIII. Indizione I.

    PIETRO APOSTOLO papa 30.
    NERONE CLAUDIO imper. 5.

_Consoli_

NERONE CLAUDIO AUGUSTO per la terza volta e VALERIO MESSALLA.


V'ha chi dà al secondo console il nome di _Marco Valerio Messalla
Corvino._ Ed abbiamo bensì da Svetonio che il terzo consolato di
_Nerone_ durò solamente quattro mesi; ma non sappiamo chi a lui
succedesse nelle calende di maggio. Potentissimo avvocato, ed insieme
terribile e venale accusatore sotto l'imperador Claudio era stato
Marco Suilio[346], odiato perciò da molti, i quali, mutato il governo,
si studiarono d'abbatterlo. Perchè egli credea suo nemico _Seneca_, ne
sparlava a tutto potere, tassandolo di aver avuto disonesto commercio
con _Giulia_ figliuola di Germanico Cesare, per cui giustamente avesse
patito l'esilio, e ch'egli fosse filosofo bensì di nome, ma ne' fatti
un solennissimo ipocrita, mentre scriveva sì dei precetti di
filosofia, ed altro poi non facea che ammassar de' milioni, e andar a
caccia di testamenti, e di far usure innumerabili per l'Italia e per
le provincie. Nel senato comparvero delle gravi accuse contro di
Suilio; ma Nerone si contentò di confiscargli una parte de' suoi beni
e di relegarlo in Majorica e Minorica. Anche _Cornelio Silla_,
verisimilmente quello stesso ch'era stato console nell'anno 52 ed
aveva avuta in moglie _Antonia_ figliuola di Claudio Augusto, fu
relegato a Marsilia. Benchè pel suo genio timido e vile non fosse
capace d'imprese grandi, pure gli emuli suoi fecero credere a Nerone,
ch'egli, sotto una finta stupidità, covasse dei veri disegni di
novità; e gli tesero anche tante trappole, che fu condannato, come
dissi, all'esilio ed anche nell'anno 62 tolto dal mondo. Fu parimente
accusato _Pomponio Silvano_ d'aver fatto delle estorsioni durante il
suo governo nell'Africa. Ebbe de' buoni protettori, perchè lor fece
sperar le molte sue ricchezze per eredità, giacchè privo era di
figliuoli ed inoltrato molto nell'età. In questa maniera si salvò, con
deludere poscia l'espettazione di chiunque facea i conti sulla sua
roba, per essere sopravvivuto a tutti. Potrebb'essere un d'essi
_Ottone_, che fu poi imperadore, e forse anche il buon _Seneca_, da
noi veduto in concetto d'attendere a simili prede. Era in questi tempi
andato all'eccesso l'orgoglio e l'insolenza dei pubblicani, cioè de'
gabellieri di Roma, e ne mormorava forte il popolo. Saltò in capo a
Nerone di levar via, tutt'i dazii e le gabelle, per aver la gloria di
fare un bellissimo regalo al genere umano; e se ne lasciò intendere in
senato. Lodarono i senatori assaissimo la grandezza dell'animo suo; ma
appresso gli fecero toccar con mano che senza il nerbo delle rendite
pubbliche non potea sussistere l'imperio romano, tanto ch'egli smontò.
Furono nondimeno fatti dei buonissimi regolamenti in questo proposito
per benefizio dei popoli con reprimere le avanie di quelle
sanguisughe: regolamenti nondimeno ch'ebbero corta durata, con
ripullulare gli abusi. Tuttavia confessa Tacito, che molti se ne
levarono, nè al suo tempo si pagavano più non so quante esazioni
introdotte al passaggio de' ponti, e per le navi.

Ebbe principio in quest'anno l'amoreggiamento di Nerone con _Poppea
Sabina_, donna di gran nobiltà, di pari bellezza e ricchezza. Graziosa
nel parlare, vivace d'ingegno, e modesta in apparenza, di rado si
lasciava vedere per Roma, e sempre col volto mezzo coperto, per non
saziare affatto la curiosità di chi la riguardava. Le mancava solo il
più bello, cioè l'onestà. Bastava essere liberale per guadagnarsi i di
lei favori. Era stata moglie di Rufo Crispino cavaliere romano, a cui
partorì un figliuolo; ma innamoratosene _Ottone_, che fu poscia
imperadore, non gli fu difficile colla bizzarria delle comparse,
colla gioventù e col credito d'essere uno dei più confidenti
dell'imperadore, di distorla dal marito, e di prenderla egli in
moglie: chè di questi bei tiri abbondava Roma pagana. Ma il
vanaglorioso scioccone non potea ritenersi presso Nerone dal far elogi
incessanti della nobiltà e dell'avvenenza della nuova moglie,
chiamando sè stesso il più felice degli uomini, per trovarsi in
possesso di tal donna. Tanto andò ripetendo questa canzone, che Nerone
invogliossi di vederla, e il vederla fu lo stesso che innamorarsene
perdutamente. Mostrossi anch'ella sul principio presa della di lui
bellezza; poi colla ritrosia, e col fingersi troppo contenta del
marito Ottone, e di non apprezzar molto chi era di spirito sì basso da
compiacersi dell'amore di una vil serva, cioè di Atte liberta, tal
corda gli diede, che sempre più andò crescendo la fiamma. Ne provò ben
presto gli effetti lo stesso Ottone con restar privo della confidenza
di Nerone, e col non essere ammesso alla di lui udienza, nè al
corteggio. Di peggio potevagli avvenire, se Seneca, amico suo, non
avesse impetrato, che Nerone l'inviasse per presidente della
Lusitania, parte di cui era il Portogallo d'oggidì, dove con buone
operazioni per dieci anni risarcì l'onore ch'egli avea perduto in
Roma. Da lì innanzi Poppea trionfò nel cuor di Nerone. Dione[347]
pretende, che per qualche tempo Ottone e Nerone andassero d'accordo
nel possedere costei; ma molto non sogliono durare sì fatte amicizie.
Risvegliossi in quest'anno[348] la guerra fra i Romani e i Parti, per
cagion dell'Armenia. _Vologeso re_ d'essi Parti pretendea di mettervi
per re _Tiridate_ suo fratello; i Romani voleano disporne a lor
piacimento, come s'era fatto in addietro. _Domizio Corbulone_, che già
dicemmo il più valente generale di Roma in questi tempi, comandava in
quelle parti l'armi romane. Ma, più che i Parti, recava a lui pena la
scaduta disciplina delle soldatesche sue, per lunga pace impigrite e
dimentiche degli ordini della vecchia milizia. La prima sua cura
adunque fu quella di cassare gl'inutili, di far nuove leve, e di ben
disciplinar la sua gente, usando del rigore ch'era a lui naturale.
S'impadronì egli poi di Artasata capitale dell'Armenia e di
Tigranocerta; ed avendo voluto Tiridate rientrare nell'Armenia, il
ripulsò, divenendo in fine padrone affatto di quella contrada.
Probabilmente non succederono tutte queste imprese nell'anno presente.
L'Occone e il Mezzabarba[349], che riferiscono a quest'anno la pace
universale, e il tempio di Giano chiuso in Roma, come apparisce da
molte medaglie, andarono a tastoni in questo punto di storia. Tacito
racconta in un fiato varii avvenimenti tanto dell'Armenia che della
Germania, ma non succeduti tutti in un sol anno.

NOTE:

[346] Tacitus, lib. 13, cap. 42.

[347] Dio, lib. 90.

[348] Tacitus, lib. 13, cap. 34.

[349] Mediobarbus, in Numism. Imperat.




    Anno di CRISTO LIX. Indizione II.

    PIETRO APOSTOLO papa 31.
    NERONE CLAUDIO imper. 6.

_Consoli_

LUCIO VIPSTANO APRONIANO e FONTEJO CAPITONE.


Comunemente da chi ha illustrato i Fasti consolari, il primo di questi
consoli è chiamato _Vipsanio._ Ma, secondo le osservazioni del
cardinal Noris[350], il suo vero nome fu _Vipstano_; e ciò può ancora
dedursi da un'iscrizione pubblicata anche da me[351]. In essa
s'incontra _Cajo Fontejo._ Se ivi è disegnato il console di questi
tempi, _Cajo_ e non _Lucio_ sarà stato il suo prenome. Giunse in
quest'anno ad un orrido eccesso la più che maligna natura di Nerone.
Erasi rimessa in qualche credito Agrippina sua madre, dappoichè le
riuscì di superar le calunnie di _Giunia Silana;_ ma dacchè entrò in
corte _Poppea Sabina_, cominciò una nuova e più fiera guerra contro di
lei. Aspirava questa ambiziosa ed adultera donna alle nozze del
regnante, al che, vivente Agrippina, le parea troppo difficile di
poter giungere, sì perchè Agrippina amava forte la saggia e paziente
sua nuora _Ottavia_, e sì perchè non avrebbe potuto soffrire presso il
figliuolo chi a lei fosse superiore negli onori e nel comando.
Cominciò dunque Poppea a stimolar Nerone con dei motti pungenti,
deridendolo, «perchè tuttavia fosse sotto la tutela; ed oh che bel
padrone del mondo, che nè pure è padrone di sè stesso!» Passò poi in
varie guise, e coll'aiuto dei cortigiani nemici di Agrippina, a fargli
credere che la madre nudrisse de' cattivi disegni contra di lui.
Ingegnavasi all'incontro anche Agrippina di guadagnarsi l'affetto del
figliuolo contra di questa rivale; e fanno orrore le dicerie che
corsero allora, delle quali Dione Cassio[352] e Tacito[353] fanno
menzione, contraddicendo quegli autori anche in parlar di _Seneca_,
che alcuni vogliono concorde coll'iniquo Nerone alla rovina della
madre, ed altri parziale della medesima, anzi macchiato di un infame
commercio con lei. La stessa battaglia fra quegli scrittori si
osserva, rappresentando alcuni[354], ch'ella con carezze nefande, ed
altri colla fierezza e colle minacce procurava di rompere
l'abbominevole attaccamento del figliuolo a Poppea. Se nulla è da
credersi, è l'ultimo. Perciò Nerone annoiato cominciò a sfuggirla, e
ad aver caro ch'ella se ne stesse ritirata nelle deliziose sue ville,
benchè quivi ancora l'inquietasse, con inviar persone, le quali, in
passando, le diceano delle villanie o delle parole irrisorie.
Finalmente si lasciò precipitar nella risoluzione di torle la vita.
Non si arrischiò al veleno, perchè non apparisse troppo sfacciato il
colpo, siccome era avvenuto in Britannico; e perchè ella andava ben
guernita di antidoti. Nulladimeno Svetonio scrive, che per tre volte
tentò questa via, ma indarno. Pensò anche a farle cadere addosso il
vôlto della camera, dov'ella dormiva, e vi si provò. Ne fu avvertita
per tempo Agrippina, e vi provvide.

Ora _Aniceto_ liberto di Nerone, presidente dell'armata navale, che si
tenea sempre allestita nel porto di Miseno, siccome nemico di
Agrippina, si esibì a Nerone di fare il colpo con una invenzione che
parrebbe fortuita; e risparmierebbe a lui l'odiosità del fatto.
Consisteva questa in fabbricare una galea congegnata in maniera, che
una parte si scioglierebbe, tirando seco in mare chi v'era disopra,
esempio preso da una simil nave già fabbricata nel teatro. Piacque la
proposizione; fu preparato nella Campania l'insidiatore legno; e
Nerone per celebrar i giuochi d'allegria in onor di Minerva, chiamati
Quinquatrui, si portò al palazzo di Bauli, situato fra Baia, e Miseno,
conducendo seco la madre sino ad Anzo, giacchè era qualche tempo che
le mostrava un finto affetto, ed usavale delle finezze. Quivi stando
Nerone si udiva dire: che toccava ai figliuoli il sopportare gli
sdegni di chi avea lor data la vita, e che a tutti i patti volea far
buona pace colla madre; acciocchè tutto le fosse riferito, ed ella,
secondo l'uso delle donne facili a credere ciò che bramano, si
lasciasse meglio attrappolare. Invitolla dipoi a venire ad un suo
convito ad Anzo; ed ella v'andò, accolta dal figliuolo sul lido con
cari abbracciamenti, e tenuta poi a tavola nel primo posto: il che
maggiormente la assicurò. O sia, come vuol Tacito, ch'ella quivi si
fermasse quella sola giornata, o che, al dire di Dione, si trattenesse
quivi per alcuni giorni, volle ella infine ritornarsene alla sua
villa. Nerone, dopo il lungo e magnifico convito, la tenne fino alla
notte in ragionamenti ora allegri, ora serii, baciandola di tanto in
tanto, ed animandola a chiedere tutto quel che voleva, con altre
parole le più dolci del mondo. Accompagnata da lui sino al lido,
s'imbarcò nella nave traditrice, superbamente addobbata, e andò
servendola Aniceto. Era quietissimo il mare, e parve quella calma
venuta apposta, per far conoscere ad ognuno, che non dalla forza de'
venti, ma dal tradimento procedea lo sfasciarsi della nave. Alla
divisata ora cadde, secondo Tacito[355], il tavolato di sopra, che
soffocò Creperio Gallo cortigiano d'Agrippina; ma essa con Acerronia
Polla sua dama d'onore si attaccò alle sponde, nè cadde. In quella
confusione i marinai credendo che Acerronia fosse Agrippina, coi remi
la uccisero. Ad Agrippina toccò solamente una ferita sulla spalla. Fu
voltata in un lato la nave, perchè si affondasse; ed Agrippina
cadutavi pian piano dentro, parte nuotando, e parte soccorsa dalle
barchette che venivano dietro, si salvò, e fu condotta al suo palazzo
nel lago Lucrino. Dione in poche parole dice, che, sfasciatasi la
nave, Agrippina cadde in mare, nè si annegò. Più minuta, ma
imbrogliata, è la descrizione che fa di questo fatto Tacito; ma,
comunque succedesse, per consenso di tutti, Agrippina scampò la vita.

Ridotta nel suo palazzo, e in letto, per farsi curare, ricorrendo col
pensiero tutta la serie di quel fatto, non durò fatica ad intendere
chi le avesse tramata la morte. Prese la saggia determinazione di
tutto dissimulare, ed immediatamente spedì Agerino suo liberto al
figliuolo, per dargli avviso d'avere per benignità degli dii sfuggito
un bravissimo pericolo, e per pregarlo di non farle visita per ora,
avendo ella bisogno di quiete per farsi medicare. Nerone ch'era stato
sulle spine la notte, aspettando nuova dell'esito degli esecrandi suoi
disegni, allorchè intese come era passata la cosa, ed esserne uscita
netta la madre, fu sorpreso da immensa paura, immaginandosi ch'ella
potesse spedirgli contro tutta la sua servitù in armi, o muovere i
pretoriani contra di lui, o comparire ad accusarlo in Roma al senato e
al popolo. Sbalordito non sapeva allora in qual mondo si fosse. Fece
svegliar Burro e Seneca, chiamandogli a consiglio, essendo ignoto
s'eglino sì o no fossero prima consapevoli del delitto. Restarono un
pezzo ambedue senza parlare, o perchè non osassero di dissuaderlo, o
perchè credessero ridotte le cose ad un punto che Nerone fosse
perduto, se non preveniva la madre. Nerone in fatti propose di levarla
dal mondo; e Seneca, imputato da Dione d'aver dianzi dato questo
medesimo consiglio, voltò gli occhi a Burro, come per domandargli che
ne comandasse ai suoi pretoriani l'esecuzione. Ma Burro, non
dimenticando che da Agrippina era proceduta la propria fortuna,
prontamente rispose, che essendo obbligate le guardie del corpo a
tutta la casa cesarea, e ricordandosi del nome di Germanico, non si
potea promettere in ciò della loro ubbidienza; e che toccava ad
Aniceto il compiere ciò ch'egli aveva incominciato. Chiamato Aniceto,
non vi pose alcuna difficoltà, cosicchè Nerone protestò che in quel
giorno egli riceveva dalle sue mani l'imperio; e quindi gli ordinò di
prendere quegli armati che occorressero dalla guarnigione delle sue
galee. Intanto arriva per parte di Agrippina Agerino. Sovvenne allora
a Nerone un ripiego degno del suo capo sventato. Allorchè l'ebbe
ammesso all'udienza, gli gittò a' piedi un pugnale, e chiamò tosto
aiuto, con fingere costui mandato dalla madre per ucciderlo, e il fece
tosto imprigionare, e poi spargere voce, ch'egli s'era ucciso da sè
stesso per la vergogna della scoperta sua mala intenzione. Intanto
Agrippina, ch'era negli spasimi per non veder venire Agerino, nè altra
persona per parte del figlio, in vece di essi mira entrar nella sua
camera Aniceto, accompagnato da due suoi uffiziali, senza sapere se in
bene o in male. Poco stette in avvedersene: un colpo di bastone la
colse nella testa; e vedendo sguainata la spada da un di essi,
saltando su gridò: «Ferisci questo,» mostrandogli il ventre. Fu di poi
morta con più ferite; e portatane la nuova a Nerone, non mancò chi
disse di averla voluta vedere estinta e nuda, non fidandosi di chi gli
riferì il fatto, e d'aver detto: «io non sapea d'avere una madre sì
bella.» Tacito lascia in forse questa circostanza. Fu in quella stessa
notte bruciato, secondo il costume d'allora, il suo corpo e vilmente
seppellito. Ed ecco dove andò a terminare la sbrigliata ambizione di
questa donna, figliuola di Germanico, nipote del grande Agrippa,
pronipote d'Augusto, moglie e madre d'imperadori. Le iniquità da lei
commesse per far salire il figlio al trono riportarono questa
ricompensa dallo stesso suo figlio, mostro d'ingratitudine e di
crudeltà.

Fece susseguentemente Nerone una bella scena, mostrandosi
inconsolabile per la morte della madre, e dolendosi d'aver salvata la
vita propria colla perdita della sua; giacchè voleva che si credesse
aver ella inviato Agerino per ucciderlo, e ch'ella dipoi si fosse
uccisa da sè stessa. Lo stesso ancora scrisse al senato con aggiungere
una filza d'altre accuse contro la madre per giustificar sè medesimo,
e con dire fra l'altre cose[356]: _Ch'io sia salvo, appena lo credo, e
non ne godo._ Perchè quella lettera o era scritta da Seneca, o si
riconobbe per sua dettatura, fu mormorato non poco di questo adulator
filosofo, il quale compariva approvatore di sì nero delitto. Mostrò il
senato[357] di credere tutto: decretò ringraziamenti agli dii, e
giuochi per la salvata vita del principe; e dichiarò il dì natalizio
di Agrippina per giorno abbominevole. Il solo _Publio Peto Trasea_,
senatore onoratissimo, dappoichè, fu letta quella lettera, uscì dal
senato, per non approvare nè disapprovare, il che poi gli costò caro.
Ma Nerone dopo il misfatto[358] si sentì gran tempo rodere il cuore
dalla coscienza; sempre avea davanti agli occhi l'immagine
dell'estinta madre e gli parea di veder le furie che il
perseguitassero colle fiaccole accese. Nè il mutar di luogo e l'andare
a Napoli ed altrove, servì a liberarlo dall'interno strazio. Neppure
s'attentava di ritornar più a Roma, temendo d'essere in orrore a
tutti. Ma gl'ispiravano del coraggio i bravi cortigiani, facendogli
anzi sperare cresciuto l'amore del popolo per aver liberata Roma dalla
più ambiziosa e odiata donna del mondo. In fatti, restituitosi alla
città, trovò anche più di quel che sperava, movendosi e grandi e
piccoli per paura di un sì spietato principe a fargli onore. Andò
dunque come trionfante al Campidoglio, persuaso ch'egli potea far
tutto a man salva, dacchè tutti, o perchè l'amavano, o perchè
avviliti, non sapeano se non adorare i di lui supremi voleri. Affettò
ancora la clemenza con richiamare a Roma _Giunia Calvina, Calpurnia,
Valerio Capitone_ e _Licinio Gabalo_, esiliati già dalla madre. Ma in
questo medesimo anno col veleno abbreviò la vita a _Domizia_ sua zia
paterna, con occupar tutti i suoi beni posti in quel di Baja e di
Ravenna, prima ancora ch'ella spirasse. Quivi alzò de' magnifici
trofei, che duravano anche ai tempi di Dione[359]. Mirabil cosa
nondimeno fu, che parlando molti liberamente di tali eccessi, ed
uscendo non poche pasquinate, pure, egli, benchè dalle sue spie
informato di quanto succedea, ebbe tal prudenza da dissimular tutto, e
da non gastigar alcuno per questo, paventando di accrescere,
altrimente facendo, il romore nel popolo.

NOTE:

[350] Noris, Ep. Consul.

[351] Thes. Nov. Veter. Inscr., p. 305, n. 3.

[352] Dio, lib. 90.

[353] Tac., lib. 14, cap. 2.

[354] Sueton., in Nerone.

[355] Tacitus, lib. 14, cap. 3.

[356] Quintilianus, lib. 8 Instit.

[357] Tacitus, lib. 14, c. 12.

[358] Sueton., in Neron., c. 34.

[359] Dio, lib. 61.




    Anno di CRISTO LX. Indizione III.

    PIETRO APOSTOLO papa 32.
    NERONE CLAUDIO imper. 7.

_Consoli_

NERONE CLAUDIO AUGUSTO e COSSO CORNELIO LENTULO.


Dicendo Svetonio, che Nerone tenne questo consolato per soli sei mesi
nelle calende di luglio dovettero succedere a lui e al collega due
altri consoli. Il nome loro ci è ignoto. Alcuni han sospettato che
fossero _Tito Ampio Flaviano_ e _Marco Aponio Saturnino_, perchè da
Tacito son chiamati uomini consolari, ed ebbero poscia de' governi.
Andossi poi sempre abbandonando Nerone[360] ai divertimenti e piaceri,
dappoichè non vivea più la madre, che il tenea pure in qualche
suggezione. Sin da fanciullo si dilettava egli di andare in carretta e
di condurre i cavalli. Avea anche imparato a sonar di cetra e a
cantare. Diedesi ora in preda a questi sollazzi, sì sconvenevoli ad un
imperadore. Seneca e Burro gli permisero il primo, per distorlo dagli
altri, purchè corresse co' cavalli nel circo vaticano chiuso per non
lasciarsi vedere dal popolo. Ma non si potè contenere il vanissimo
giovane; volle degli spettatori, e il lor plauso l'invogliò ad
invitarvi anche del popolo, il quale godendo di veder fare i principi
ciò ch'esso fa, e perciò gonfiandolo con alte lodi, maggiormente
l'incitò a quel plebeo mestiere[361]. Tuttavia ben conoscendo, che i
saggi erano d'altro sentimento, credette di schivar il disonore, con
cercare de' compagni nobili che imitasser lui ne' pubblici
divertimenti. Perciò venutogli in capo di far de' giuochi di somma
magnificenza in onor della madre, che durarono più giorni, si videro
nobili dell'uno e dell'altro sesso, non solo dell'ordine equestre, ma
anche del senatorio, comparir ne' teatri, ne' circhi e negli
anfiteatri, con esercitar pubblicamente le arti riserbate in addietro
alle sole persone vili e plebee, con sonar nelle orchestre,
rappresentar commedie e tragedie, ballar ne' teatri, far da gladiatori
e da carrettieri: alcuni di propria elezione, ed altri per non
disubbidir Nerone che gl'invitava. Mirava il popolo, ed anche i
forestieri riconoscevano, che quegli attori, dimentichi della lor
nascita, erano chi un Furio, chi un Fabio, chi un Valerio, un Porcio,
un Appio, ed altri simili della nobiltà primaria. Al veder cotali
novità e stravaganze, ne gemevano forte i saggi, sì pel disonor delle
famiglie, come ancora perchè veniva con ciò a crescere troppo
smisuratamente la corruttela de' costumi. Rammaricavansi inoltre
osservando le incredibili spese che facea Nerone, non solamente in
questi sì sfoggiati divertimenti, ma anche negl'immensi regali alla
plebe con gittar dei segni, ne' quali era scritto quella sorta di dono
che dovea darsi a chi avea la fortuna d'aggraffarli come cavalli,
schiavi, vesti, danari. Ben prevedevano che tanto scialacquamento
andrebbe a finire in nuovi aggravi ed estorsioni sopra il pubblico,
siccome in fatti avvenne. Instituì eziandio Nerone altri giuochi,
appellati Giovenali in onore della prima volta ch'egli si fece far la
barba: rito festivo presso i Romani. Que' preziosi peli in una scatola
d'oro furono consecrati a Giove. In que' giuochi danzarono i più
nobili fra i Romani, e bella figura fra l'altre dame fece Elia Catula,
giovinetta di ottanta anni, che ballò un minoetto. Chi de' nobili non
potea ballare, cantava; ed eranvi scuole apposta, dove concorrevano ad
imparare uomini e donne di prima sfera, fanciulle, giovanetti, vecchi,
per far poscia con leggiadria il loro mestiere ne' pubblici teatri.
Che se alcuno, non potendo di meno, per vergogna vi compariva
mascherato. Nerone gli cavava la maschera, e si venivano a conoscere
persone impiegate ne' più riguardevoli magistrati.

Nè lo stesso Nerone volle in fine essere da meno degli altri. Uscì
anche egli nella scena in abito da suonator di cetra, ed oltre al
suonare, fece sentir la sua da lui creduta melodiosa voce, la qual
nondimeno si trovò sì somigliante a quella de' capponi cantanti, che
niun potea ritener le risa, e molti piangeano per rabbia. Se crediamo
a Dione, Burro e Seneca assistenti servivano a lui di suggeritori, e
andavangli poi facendo plauso colle mani e coi panni, per invitare
allo stesso l'udienza. Tacito[362] anch'egli lo attesta di Burro, ma
con aggiungere che internamente se ne affliggeva. Nè già era
permesso[363], allorchè cantava questo insigne maestro, ad alcuno
l'uscir di teatro, per qualsivoglia bisogno che occorresse. Quella era
la voce d'Apollo; niun v'era che potesse uguagliarsi a lui nella
melodia del canto. Così gli adulatori. Volle egli ancora che si
tenesse una gara di poesia e d'eloquenza, e vi entrò anch'egli
coll'invito de' giovani nobili. Non è difficile l'immaginarsi a chi
toccasse la palma e il premio. Furono similmente richiamati a Roma i
pantomimi, perchè divertissero il popolo nei teatri, ma non già ne'
giuochi sacri. Apparve in quest'anno una cometa. Il volgo, imbevuto
dell'opinione, che questo predica la morte de' principi, cominciò a
fare i conti su la vita di Nerone, e a predire chi a lui succederebbe.
Concorrevano molti in _Rubellio Plauto_, discendente per via di donne
dalla famiglia di Giulio Cesare, personaggio ritirato e dabbene. Ne fu
avvertito Nerone. Si aggiunse, che trovandosi a desinare il medesimo
imperadore in Subbiaco, un fulmine gli rovesciò le vivande e la
tavola. Perchè quel luogo era vicino a Tivoli, patria dei maggiori
d'esso Plauto, la pazza gente perduta nelle superstizioni maggiormente
si confermò nella predizione suddetta. Fece dunque Nerone intendere a
Rubellio Plauto, che miglior aria sarebbe per lui l'Asia, dov'egli
possedeva dei beni. Gli convenne andar là colla sua famiglia, ma per
poco tempo, perchè da lì a due anni Nerone mandò ad ucciderlo. Venne
in questi tempi a morte _Quadrato_, governatore della Siria, e quel
governo fu dato a _Corbulone_, da cui dicemmo ch'era stata acquistata
l'Armenia. Trovavasi da gran tempo in Roma _Tigrane_, nipote
d'_Archelao_, che già fu re della Cappadocia, avvezzato ad una servile
pazienza. Ottenne egli da Nerone di poter governare l'Armenia con
titolo di re; e andato colà, fu assistito da Corbulone con un corpo di
soldatesche tali, che, al dispetto di molti, più inclinati al dominio
de' Parti, n'ebbe il pacifico possesso, benchè poi non vi potesse
lungo tempo sussistere[364]. Pozzuolo in questo anno acquistò il
diritto di colonia, e il cognome di Nerone; intorno a che disputano
gli eruditi, perchè da Livio e da Vellejo abbiamo, che tanti anni
prima Pozzuolo fu colonia, e Frontino fa autore Augusto di una nuova
colonia in quella città. In questi tempi Laodicea, illustre città
della Frigia restò rovinata da un tremuoto; ma quel popolo la rimise
in piedi colle proprie ricchezze senza aiuto de' Romani.

NOTE:

[360] Tacitus, Annal., lib. 14, cap. 14.

[361] Dio, lib. 61.

[362] Tacitus, lib. 14, cap. 15.

[363] Sueton., in Nerone, cap. 23.

[364] Tacitus, lib. 14, cap. 27.




    Anno di CRISTO LXI. Indizione IV.

    PIETRO APOSTOLO papa 33.
    NERONE CLAUDIO imper. 8.

_Consoli_

CAJO CESONIO PETO e CAJO PETRONIO TURPILIANO.


Non è certo il prenome di _Cajo_ pel secondo di questi consoli, nè
sappiamo chi nelle calende di luglio loro succedesse nella dignità.
Motivo[365] ai pubblici ragionamenti diedero in quest'anno due
iniquità, commesse in Roma, l'una da un nobile, l'altra da un servo.
Mancò di vita _Domizio Balbo_, ricco, e della prima nobiltà, senza
figliuoli. _Valerio Fabiano_, senatore, con un falso testamento, a cui
tennero mano altri nobili colle lor soscrizioni e sigilli, corse
all'eredità. Convinto di falsario, degradato con gli altri suoi
complici, riportò la pena statuita dalla legge Cornelia. Ucciso fu da
un suo servo, o vogliam dire schiavo, _Pedanio Secondo_, prefetto di
Roma. Ne aveva egli al suo servigio quattrocento, tra maschi e
femmine, grandi e piccoli, essendo soliti i ricchi Romani a tenerne
una prodigiosa quantità al loro servigio. Benchè fossero quasi tutti
innocenti di quel misfatto, doveano morire secondo il rigore delle
antiche leggi; ma fattasi grande adunanza di gente plebea per
difendere quegl'infelici, l'affare fu portato al senato; ed intorno a
ciò si fece lungo dibattimento, con prevalere in fine la sentenza del
supplicio di tutti. Nerone mandò un ordine alla plebe di attendere ai
fatti suoi, e somministrò quanti soldati occorressero per iscortare i
condannati. I mali portamenti degli uffiziali nella Bretagna cagion
furono di far perdere circa questi tempi quasi tutto quel paese che vi
aveano acquistato i Romani; e ciò perchè si volle rimetter ivi il
confisco dei beni de' delinquenti, da cui Claudio gli avea esentati.
Anche _Seneca_, se crediamo a Dione[366], avea dato ad usura un
milione a que' popoli, e con violenza ne esigeva non solo i frutti, ma
anche il capitale. Inoltre, _Boendicia_ o sia _Bunduica_ vedova[367]
di _Prasutago re_ di una parte di quella grand'isola, si protestava
anche essa troppo scontenta delle infinite prepotenze ed insolenze
fatte dai Romani a sè stessa, a due figlie e a tutto il suo popolo.
Questa regina, donna d'animo virile, quella fu che sonò in fine la
tromba col muovere i suoi e i circostanti popoli a sollevarsi contra
degl'indiscreti Romani con prevalersi della buona congiuntura che
_Svetonio Paolino_, governatore della parte della Bretagna romana, e
valoroso condottier d'armi, era ito a conquistare un'isola ben
popolata, adiacente alla Bretagna. Con un'armata dicono, di cento
ventimila persone vennero i sollevati addosso alla nuova colonia di
Camaloduno, e la presero di assalto. Dopo due dì ebbero anche il
tempio di Claudio, mettendo quanti Romani vennero alle lor mani, tutti
a fil di spada, senza voler far prigionieri. Petilio Cereale, venuto
per opporsi con una legione, fu rotto, messa in fuga la cavalleria, e
tutta la fanteria tagliata a pezzi. Portate queste funeste nuove a
Svetonio Paolino, frettolosamente si mosse, e venne a Londra, luogo di
una colonia scarsa, ma celebre città anche allora per la copia grande
dei mercatanti e del commercio. Benchè pregato con calde lagrime dagli
abitanti di fermarsi alla lor difesa, volle piuttosto attendere a
salvare il resto della provincia. S'impadronirono i ribelli di Londra
e di Verulamio, nè vi lasciarono persona in vita. Credesi che in que'
luoghi perissero circa settanta o ottantamila fra cittadini romani e
collegati. Si trovò poi forzato Svetonio, perchè mancava di viveri, ad
azzardare una battaglia, ancorchè non avesse potuto ammassare che
dieci mila combattenti; laddove i nemici da Dione si fanno ascendere a
dugento trentamila persone, numero probabilmente, secondo l'uso delle
guerre, o per disattenzion de' copisti, troppo amplificato. Boendicia
stessa comandava quella grande armata. Dopo fiero combattimento
prevalse la disciplina militare dei pochi allo sterminato numero dei
Britanni, che furono sconfitti, con essersi poi detto che restarono
sul campo estinti circa ottantamila di essi, numero anch'esso
eccessivo. Comunque, sia insigne e memoranda fu quella vittoria.
Boendicia morì poco dappoi, o per malattia o per veleno ch'essa
medesima prese, e colla sua morte tornò fra non molto all'ubbidienza
de' Romani il già rivoltato paese, con avervi Nerone inviato un buon
corpo di gente dalla Germania, il quale servì a Svetonio per compiere
quell'impresa.

NOTE:

[365] Tacitus, ibid.

[366] Dio, lib. 61.

[367] Tacitus, lib. 12, cap. 29.




    Anno di CRISTO LXII. Indizione V.

    PIETRO APOSTOLO papa 34.
    NERONE CLAUDIO imper. 9.

_Consoli_

PUBLIO MARIO CELSO e LUCIO ASINIO GALLO.


Perchè Tacito sul principio di questo anno nomina _Giunio Marullo,
console disegnato_, il quale poi non apparisce console, perciò possiam
credere ch'egli fosse sostituito ad alcun d'essi consoli ordinari,
oppure all'uno degli straordinari, succeduti nelle calende di luglio,
i quali si tiene che fossero _Lucio Anneo Seneca_ maestro di Nerone, e
_Trebellio Massimo_. Nel gennaio dell'anno presente[368] accusato fu e
convinto _Antistio Sostano_ pretore, d'aver composto dei versi contro
l'onor di Nerone. I senatori più vili, fra' quali _Aulo Vitellio_, che
fu poi imperadore, conchiusero dovuta la pena della morte a questo
reato. Non osavano aprir bocca gli altri. Il solo _Peto Trasea_ ruppe
il silenzio, sostenendo che bastava relegarlo in un'isola, e
confiscargli i beni, nel qual parere venne il resto dei senatori.
Nondimeno fu creduto meglio di udir prima il sentimento di Nerone, il
quale mostrò bensì molto risentimento contra d'Antistio, eppur si
rimise al senato, con facoltà ancora di assolverlo. Si eseguì la
sentenza del bando. In quest'anno ancora il suddetto Trasea, uomo di
petto, e rivolto sempre al pubblico bene, propose che si proibisse ai
popoli delle provincie il mandare i lor deputati a Roma, per far
l'elogio dei loro governatori; perchè questo onore sel procuravano i
magistrati colla troppa indulgenza, e col permettere ai popoli delle
indebite licenze, per non disgustarli. L'ultimo anno fu questo della
vita di _Burro prefetto del pretorio_, uomo d'onore e di petto, che
avea finquì trattenuto Nerone dall'abbandonarsi affatto ai suoi
capricci, e massimamente alla crudeltà. Restò in dubbio s'egli
morisse, di mal naturale, oppure di veleno, per quanto ne scrive
Tacito[369]; poichè, per conto di Svetonio[370] e di Dione[371],
amendue crederono che Nerone, rincrescendogli ormai d'aver un
soprastante che non si accordava con tutti i suoi voleri, il facesse
prima del tempo sloggiar dal mondo. Gran perdita fece in lui il
pubblico, e molto più, perchè Nerone in vece d'uno creò due altri
prefetti del pretorio, cioè _Fenio Rufo_, uomo dabbene, ma capace di
far poco bene per la sua pigrizia, e _Sofonio Tigellino_, uomo
screditato per tutt'i versi, ma carissimo per la somiglianza de'
depravati costumi a Nerone. Con questo iniquo favorito cominciò Nerone
ad andare a vele gonfie verso la tirannia e pazzia. Allora fu, che
_Seneca_ conobbe che non era più luogo per lui presso di un principe,
il quale si lascerebbe da lì innanzi condurre dai consigli de'
cattivi, e già cominciava a dimostrar poca confidenza a lui. Il pregò
dunque di buona licenza, per ritirarsi a finir quietamente i suoi
giorni, con offerirgli ancora tutto il capitale de' beni a lui finquì
pervenuti o per la munificenza del principe, o per industria
propria[372]. Nerone con bella grazia gliela negò, ed accompagnò la
negativa con tenere espressioni d'affetto e di gratitudine, giungendo
sino a dirgli di desiderar egli piuttosto la morte, che di far mai
alcun torto ad un uomo, a cui si professava cotanto obbligato. Quel
che potè dal suo canto Seneca; giacchè non si fidava di sì belle
parole; fu di ricusar da lì innanzi le visite, di non volere corteggio
nell'uscire di casa; il che era anche di rado, fingendosi mal concio
di salute, ed occupato da' suoi studi. Si ridusse ancora a cibarsi di
solo pane ed acqua e di poche frutta, o per sobrietà o per paura del
veleno.

Già dicemmo, che _Ottavia_ figliuola di Claudio Augusto, e moglie di
Nerone, era per la sua saviezza e pazienza un'adorabile principessa;
ma non già agli occhi di Nerone, troppo diverso da lei d'inclinazione
e di costumi. Certamente egli non ebbe mai buon cuore per lei, e
dacchè introdusse in corte _Poppea Sabina_, cominciò anche ad
odiarla[373] per le continue batterie di quell'impudica, che non potea
stabilire la sua fortuna se non sulle rovine d'Ottavia. Tanto disse,
tanto fece questa maga che in quest'anno, col pretesto della sterilità
di essa Ottavia, Nerone la ripudiò, e da lì a pochi dì arrivò Poppea
all'intento suo di essere sposata da lui. Nondimeno qui non finì la
guerra. Poppea, sovvertito uno de' familiari di Ottavia, la fece
accusar di un illecito commercio con un suonatore di flauto, nominato
Eucero. Furono perciò messe ai tormenti le di lei damigelle, ed
estorta da alcune con sì violento mezzo la confession del fallo; ma
altre sostennero con coraggio l'innocenza della padrona, e dissero
delle villanie a Tigellino, ministro non meno di questa crudeltà, che
della morte data poco innanzi a _Silla_ e a _Rubellio Plauto_ già
mandati da Nerone in esilio. Fu relegata _Ottavia_ nella Campania, e
messe guardie alla di lei casa, per tenerla ristretta. Ma perciocchè
il popolo, che amava forte questa buona principessa, apertamente
mormorava di sì aspro trattamento, la fece Nerone ritornare a Roma.
Pel suo ritorno andò all'eccesso la gioia del popolo, perchè, ruppe le
statue alzate in onor di Poppea, e coronò di fiori quelle di Ottavia,
con altre pazzie d'allegria sediziosa; di che diede motivo a Poppea di
caricar la mano contra dell'odiata principessa, persuadendo a Nerone
che il di lei credito era sufficiente a rovesciare il suo trono. Fu
perciò chiamato a corte l'indegno Aniceto, che già avea tolta di vita
Agrippina, acciocchè servisse ancora ad abbattere Ottavia, col fingere
d'aver tenuta disonesta pratica con lei. Perchè gli fu minacciata la
morte, se ricusava di farlo, ubbidì. Promossa l'infame accusa colla
giunta d'altre inventate dal maligno principe di aborto procurato, di
ribellioni macchinate, l'infelice principessa, in età di soli ventidue
anni, venne relegata nell'isola Pandalaria, dove passato poco tempo
Nerone le fece levar la vita, e portar anche il suo capo a Roma,
acciocchè l'indegna Poppea s'accertasse della verità del suo crudel
trionfo. Di tante iniquità commesse da Nerone, forse niuna riuscì
cotanto sensibile al popolo romano, come il miserabil fine d'una sì
saggia ed amata principessa, la quale portava anche il titolo di
Augusta, e massimamente al vederla condannata per così patenti ed
indegne calunnie. La ricompensa ch'ebbe Aniceto dell'indegna sua
ubbidienza, fu di essere relegato in Sardegna, dove ben trattato
terminò poscia con suo comodo la vita. Pallante, già potentissimo
liberto sotto Claudio, morì in quest'anno, e fu creduto per veleno
datogli da Nerone, affin di metter le griffe sopra le immense di lui
ricchezze.

NOTE:

[368] Tacitus, lib. 14, cap. 48.

[369] Tacitus, ibid., cap. 51.

[370] Sueton., in Nerone, cap. 35.

[371] Dio, lib. 61.

[372] Sueton., in Nerone, c. 35.

[373] Tacit., lib. 14, c. 60. Dio, lib. 61. Suetonius, c. 35.




    Anno di CRISTO LXIII. Indizione VI.

    PIETRO APOSTOLO papa 35.
    NERONE CLAUDIO imper. 10.

_Consoli_

PUBLIO MARIO CELSO e LUCIO ASINIO GALLO.


Erano tuttavia imbrogliati gli affari dell'Armenia, dacchè Nerone avea
colà inviato col titolo di re _Tigrane_[374]. _Vologeso_ re de' Parti
persisteva più che mai nella pretension di quel regno, per coronarne
_Tiridate_ suo fratello, che gliene faceva continue istanze. Ma andava
titubando, finchè Tigrane il fece risolvere a dar di piglio all'armi,
per aver egli fatta un'incursione nel paese degli Adiabeni o sudditi o
collegati de' Parti. Dopo aver dunque Vologeso coronato Tiridate come
re dell'Armenia, e somministratogli un possente esercito per
conquistar quel paese, si diede principio alla guerra. _Corbulone_,
governator della Siria, in aiuto di Tigrane spedì due legioni, e nello
stesso tempo scrisse a Nerone, rappresentandogli il bisogno d'un altro
generale, per accudire alla difesa dell'Armenia mentre egli dovea
difendere le frontiere della sua provincia. Nerone v'inviò _Lucio
Cesennio Peto_, uomo consolare, cioè ch'era stato console: il che ha
fatto ad alcuni crederlo lo stesso che _Caio Cesennio Peto_, da noi
veduto console nell'anno superiore 61 di Cristo, ma che da altri vien
tenuto per personaggio diverso. Intanto i Parti, entrati nell'Armenia,
posero l'assedio ad Artasata capital di quel regno, dove s'era
ritirato Tigrane, che non mancò di fare una valorosa difesa. Corbulone
allora inviò Casperio centurione a Vologeso, per dolersi dell'insulto
che si facea ad un regno dipendente dai Romani, minacciando dal suo
canto la guerra ai Parti, se non desistevano da quelle violenze. Servì
quest'ambasciata ad inchinar Vologeso a' pensieri di pace, ed avendo
chiesto di mandare a Nerone i suoi legati per trattarne, e pregarlo di
conferire lo scettro dell'Armenia a Tiridate suo fratello, accettata
fu la di lui proferta, con patto di far cessare l'assedio di Artasata:
il che ebbe esecuzione. Ma non è ben noto, che convenzione segreta
seguisse allora fra Corbulone e Vologeso, avendo alcuni creduto che
tanto i Parti quanto Tigrane avessero da abbandonar l'Armenia. Venuti
a Roma gli ambasciatori di Vologeso, nulla poterono ottenere; e però
il Parto ricominciò la guerra in tempo che Cesennio Peto giunse al
governo dell'Armenia, uomo di poca provvidenza e sapere in quel
mestiere, ma che si figurava di poter fare il maestro agli altri.
Prese Peto alcune castella, passò anche il monte Tauro, pensando a
maggiori conquiste; ma, all'avviso che Vologeso veniva con grandi
forze, fu ben presto a ritirarsi, ed a lasciar gente ne' passi del
monte suddetto, per impedir l'accesso de' nemici, con iscrivere
intanto più e più lettere a Corbulone, che venisse a soccorrerlo.
Forzò Vologeso i passi: a Peto cadde il cuore per terra, perchè avea
troppo divise le sue genti, e colto fu con due sole legioni. Però
spedì nuove lettere ad affrettar Corbulone, il quale intanto avendo
passato l'Eufrate, marciava a gran giornate verso la Comagene o la
Cappadocia, per entrar poi nell'Armenia, Nulladimeno poco giovarono
gli sforzi di Corbulone. In questo mentre Vologeso strinse il picciolo
esercito di Peto, molti ne uccise; e tal terrore mise al capitano de'
Romani, ch'egli solamente pensò a comperarsi la salvezza con qualunque
vergognosa condizione che gli fosse esibita. Dimandando dunque un
abboccamento con gli uffiziali di Vologeso, restò conchiuso, che
l'armi romane si levassero da tutta l'Armenia, e cedessero ai Parti
tutte le castella e munizioni da bocca e da guerra; e che poi Vologeso
se l'intenderebbe coll'imperador Nerone pel resto. Le insolenze dei
Parti furono poi molte; vollero entrar nelle fortezze prima che ne
fossero usciti i Romani; affollati per le strade, dove passavano i
Romani, toglievano loro schiavi, bestie e vesti; ed i Romani come
galline lasciavano far tutto per paura che menassero anche le mani.
Tanto marciarono le avvilite truppe, che piene di confusione
arrivarono finalmente ad unirsi con quelle di Corbulone, il quale,
deposto per ora ogni pensier dell'Armenia, se ne tornò alla difesa
della Siria sua provincia.

Secondochè abbiam da Tacito, tutto ciò avvenne nel precedente anno.
Dione ne parla più tardi. Nella primavera del presente comparvero gli
ambasciatori di _Vologeso_, che chiedevano il regno dell'Armenia per
_Tiridate;_ ma senza ch'egli volesse presentarsi a Roma. Seppe allora
Nerone da un centurione, venuto con loro, come stava la faccenda
dell'Armenia, perchè Cesennio Peto gliene avea mandata una relazion
ben diversa. Parve a Nerone ed al senato che Vologeso si prendesse
beffa di loro, e perciò rimandati gli ambasciatori di lui senza
risposta, ma non senza ricchi regali, fu presa la risoluzione di far
guerra viva ai Parti. Richiamato Peto, tremante fu all'udienza di
Nerone, il quale mise la cosa in facezia, dicendogli, senza lasciarlo
parlare, «che gli perdonava tosto, acciocchè essendo egli sì pauroso,
non gli saltasse la febbre addosso.» Andò ordine a Corbulone di
muovere l'armi contro de' Parti, e gli furono inviati rinforzi di
nuove truppe e reclute; laonde egli passò alla volta dell'Armenia.
Tuttavia non ebbe dispiacere che venissero a trovarlo gli ambasciatori
di Vologeso, per esortarli a rimettersi alla clemenza di Cesare.
S'impadronì poi di varie castella, e diede tale apprensione ai Parti,
che _Tiridate_ fece premura di abboccarsi con lui. Mandati innanzi gli
ostaggi romani, Tiridate comparve al luogo destinato; e veduto
Corbulone, fu il primo a scendere da cavallo, e seguirono amichevoli
accoglienze e ragionamenti, nei quali Tiridate restò di voler
riconoscere dall'imperador romano l'Armenia, e che verrebbe a Roma a
prenderne la corona, qualora piacesse a Nerone di dargliela: del che
Corbulone gli diede buone speranze. In segno poi della sua
sommessione andò Tiridate a deporre il diadema a piè dell'immagine
dell'imperadore, per ripigliarla poi dalle mani del medesimo Augusto
in Roma. Noi non sappiamo che divenisse di _Tigrane_, re precedente
dell'Armenia[375]. Nacque nell'anno presente a Nerone una figliuola da
Poppea, fatta andare apposta a partorire ad Anzo, perchè quivi ancora
venne alla luce lo stesso Nerone. Ad essa e alla madre fu dato il
cognome di Augusta; e il senato, pronto sempre alle adulazioni,
decretò altri onori ad amendue, ed ordinò varie feste. Ma non
passarono quattro mesi, che questo caro pegno sel rapì la morte.
Nerone, che per tale acquisto era dato in eccessi di gioia, cadde in
altri di dolore per la perdita che ne fece. Si fecero in quest'anno i
giuochi de' gladiatori, e si videro anche molti senatori e molte
illustri donne combattere: tanto innanzi era arrivata la follia de'
Romani.

NOTE:

[374] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 1.

[375] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 23.




    Anno di CRISTO LXIV. Indizione VII.

    PIETRO APOSTOLO papa 36.
    NERONE CLAUDIO imper. 11.

_Consoli_

CAIO LECANIO BASSO e MARCO LICINIO CRASSO.


Andò in quest'anno Nerone a Napoli[376] per vaghezza di far sentire a
quei popoli nel pubblico teatro la sua canora voce. Grande adunanza di
gente v'intervenne dalle vicine città, per udire un imperadore musico,
un usignolo Augusto. Ma occorse un terribile accidente, che nondimeno
a niun recò danno. Appena fu uscita tutta la gente ch'esso teatro
cadde a terra. Pensava quella vana testa di passar anche in Grecia, e
in altre parti di Levante, per raccogliere somiglianti plausi; ma poi
si fermò in Benevento, nè andò più oltre, senza che se ne sappia il
motivo. Fra questi divertimenti fece accusar _Torquato Silano_,
insigne personaggio, discendente da Augusto per via di donne. Il suo
reato era di far troppa spesa per un particolare; ciò indicar disegni
di perniciose novità. Prima di essere condannato, egli si tagliò le
vene. Tornato a Roma Nerone, volle dare una cena sontuosa nel lago di
Agrippa, come ha Tacito. Dione[377] scrive ciò fatto nell'anfiteatro,
dove, dopo una caccia di fiere, introdusse l'acqua per un
combattimento navale; e, dopo averne ritirata l'acqua, diede una
battaglia di gladiatori; e finalmente, rimessavi l'acqua, fece la
cena. N'ebbe l'incombenza Tigellino. V'erano superbe navi ornate d'oro
e d'avorio, con tavole coperte di preziosi tappeti, e all'intorno
taverne disposte in gran numero con delicati cibi preparati per
ognuno. Canti, suoni dappertutto, ed illuminata ogni parte. Concorso
grande di plebe e di nobiltà, tanto uomini che donne, e tutta la razza
delle prostitute. Che Babilonia d'infamità e di lascivie si vedesse
ivi, nol tacquero gli antichi, ma non è lecito alla mia penna il
ridirlo. A questa abbominevole scena ne tenne dietro un'altra, ma
sommamente terribile e funesta[378]. Attaccossi o fu attaccato nel dì
19 di luglio il fuoco alla parte di Roma, dov'era il Circo Massimo,
pieno di botteghe di venditori dell'olio. Spirava un vento gagliardo,
che dilatò l'incendio pel piano e per le colline con tal furore, che
di quattordici rioni di quella gran città dieci restarono orrida preda
delle fiamme, ed appena se ne salvarono quattro. Per così fiera strage
di case, di templi, di palazzi, colla perdita di tanti mobili, e
preziose rarità ed antichità, accompagnata ancora dalla morte
d'assaissime persone, che strida, che urli, che tumulto si provasse
allora, più facile è l'immaginarlo che il descriverlo. Per sei giorni
durò l'incendio (altri dissero di più), senza poter mai frenare il
corso a quel torrente di fuoco. Trovavasi Nerone ad Anzo, allorchè
ebbe nuova di sì gran malanno, nè si mosse per restituirsi a Roma, se
non quando seppe che le fiamme si accostavano al suo palazzo, e agli
orti di Mecenate, fabbriche anch'esse appresso involte nell'indicibil
eccidio.

Che quella bestia di Nerone fosse l'autore di sì orrida tragedia, a
cui non fu mai veduta una simile in Italia, lo scrivono risolutamente
Svetonio e Dione e chi poscia da loro trasse la storia romana.
Aggiungono, esser egli venuto a sì diabolica invenzione, perchè Roma
abbondante allora di vie strette e torte e di case disordinate, o
poveramente fabbricate, si rifacesse poi in miglior forma, e prendesse
il nome da lui; e che specialmente egli desiderava di veder per terra
molte case e granai pubblici, che gl'impedivano il fabbricare un gran
palazzo ideato da lui. Dicono di più, che fur veduti i suoi camerieri
con fiaccole e stoppia attaccarvi il fuoco; e che Nerone, in quel
mentre stava ad osservar lo scempio, con dire: «Che bella fiamma!»
Aggiungono finalmente, ch'egli vestito in abito da scena a suon di
cetra cantò la rovina di Troia. Ma fra le tante iniquità di Nerone
questa non è certa. Tacito la mette in dubbio; e l'altre suddette
particolarità sono bensì in parte toccate da lui, ma con aggiungere
che ne corse la voce. Trattandosi di un sì screditato imperadore,
conosciuto capace di qualsisia enormità, facil cosa allora fu
l'attribuire a lui l'invenzione di sì gran calamità, ed ora è a noi
impossibile il discernere se vero o falso ciò fosse. Si applicò tosto
Nerone a far alzare gran copia di case di legno, per ricoverarvi tutti
i poveri sbandati, facendo venir mobili da Ostia e da altri luoghi;
comandò ancora, che si vendesse il frumento a basso prezzo. Quindi
stese le sue premure, a far rifabbricare la rovinata città, la quale
(non può negarsi) da questa sventura riportò un incredibil vantaggio.
Imperciocchè con bel ordine fu a poco a poco rifatta, tirate le strade
diritte e larghe, aggiunti i portici alle case, e proibito l'alzar di
troppo le fabbriche. Tutta la trabocchevol copia dei rottami venne di
tanto in tanto condotta via dalle navi che conducevano grani a Roma, e
scaricata nelle paludi di Ostia. Vuole Svetonio che Nerone si
caricasse del trasporto di quelle demolizioni, per profittar delle
ricchezze che si trovavano in esse rovine; nè vi si potevano accostare
se non i deputati da lui. Determinò di sua borsa premii a chiunque
entro di un tal termine di tempo avesse alzata una casa o palagio: e
del suo edificò ancora i portici. Fece distribuire con più proporzione
l'acque condotte per gli acquidotti a Roma, e destinò i siti di esse,
per estinguere al bisogno gl'incendii, con altre provvisioni che
meritavano gran lode, ma non la conseguirono per la comune credenza
che da lui fosse venuto sì orribil malanno. Anch'egli imprese allora
la fabbrica del suo nuovo palazzo, che fu mirabil cosa, e nominato poi
_la Casa doro._ Svetonio[379] ce ne dà un piccolo abbozzo. Tutto il di
dentro era messo a oro, ornato di gemme, intarsiato di madreperle.
Sale e camere innumerabili incrostate di marmi fini; portici con tre
ordini di colonne che si stendevano un miglio; vigne, boschetti,
prati, bagni, peschiere, parchi con ogni sorta di fiere ed animali; un
lago di straordinaria grandezza, con corona di fabbriche all'intorno a
guisa di una città; davanti al palazzo un colosso alto centoventi
piedi, rappresentante Nerone. Allorchè egli vi andò poi ad alloggiare,
disse: «Ora sì che quasi comincio ad abitare in un alloggio
conveniente ad un uomo.» Ma questa sì sontuosa e stupenda mole, con
altri vastissimi disegni da lui fatti di sterminati canali, per condur
lontano sino a cento sessanta miglia per terra l'acqua del mare, costò
ben caro al popolo romano, perciocchè smunto e ridotto al bisogno il
prodigo Augusto, passò a mille estorsioni e rapine, confiscando, sotto
qualsivoglia pretesto, i beni altrui, imponendo non più uditi dazii e
gabelle, ed esigendo contribuzioni rigorose da tutte le città, ed
anche dalle libere e collegate; il che fu quasi la rovina delle
provincie. Nè ciò bastando, mise mano ai luoghi sacri; estraendone
tutti i vasi d'oro e d'argento, e le altre cose preziose. Mandò anche
per la Grecia e per l'Asia a spogliar tutti que' templi delle ricche
statue degli stessi dii, e di ogni lor più riguardevole ornamento.

Diede occasione lo spaventoso incendio di Roma alla prima persecuzione
degl'imperatori pagani[380] contra dei Cristiani. Si era già non solo
introdotta, ma largamente diffusa nel popolo romano, per le
insinuazioni di s. Pietro Apostolo e de' suoi discepoli, la religione
di Cristo; giacchè non duravano fatica i buoni a conservare la santità
ed eccellenza in confronto dell'empia e sozza dei Gentili. Nerone,
affin di scaricar sopra d'altri l'odiosità da lui contratta per la
comune voce di aver egli stesso incendiata quella gran città,
calunniosamente, secondo il suo solito, ne fece accusare i Cristiani,
siccome attestano Tertulliano, Eusebio, Lattanzio, Orosio ed altri
autori, e fin gli stessi storici pagani Tacito e Svetonio. Scrive esso
Tacito, ma non già Svetonio, che furono convinti di aver essi
attaccato il fuoco a Roma, quando egli stesso poco dianzi avea
attestato che la persuasion comune ne facea autore lo stesso Nerone; e
Svetonio e Dione ciò danno per certo. Non era capace di sì enorme
misfatto chi seguitava la legge purissima di Gesù Cristo, e
massimamente durante il fervore e l'illibatezza dei primi Cristiani. A
che fine mai, gente dabbene, e lasciata in pace, avea da cadere in sì
mostruoso eccesso? Perciò una _gran moltitudine_ di essi fu con aspri
ed inutili tormenti fatta morire sulle croci, o bruciata a lento
fuoco, o vestita da fiere, per essere sbranata dai cani. Vi si
aggiunse ancora l'inumana invenzione di coprirli di cera, pece e di
altre materie combustibili, e di farli servir di notte, come tanti
doppieri della crudeltà, negli orti stessi di Nerone. Così cominciò
Roma ad essere bagnata dal sacro sangue de' martiri. Confessa
nondimeno il medesimo Tacito, che gran compassione produsse un così
fiero macello di gente, tuttochè, secondo lui, colpevole per una
religione contraria al culto dei falsi dii. In questi tempi avendo
ordinato Nerone che l'armata navale tornasse al porto di Miseno, fu
essa sorpresa da così impetuosa burrasca, che la maggior parte delle
galee e di altre navi minori s'andò a fracassare nei lidi di Cuma.

NOTE:

[376] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 33.

[377] Dio, lib. 61.

[378] Tacit., Annal., lib. 15, c. 38. Dio, lib. 61. Suet., in Ner., c.
38.

[379] Sueton., in Nerone, c. 31 et 32. Tacitus, Annal., lib. 15, cap.
42 et seqq.

[380] Sueton., in Nerone, c. 16. Tacit., lib. 15, c. 42 et seqq.




    Anno di CRISTO LXV. Indizione VIII.

    LINO papa 1.
    NERONE CLAUDIO imper. 12.

_Consoli_

AULO LICINIO NERVA SILIANO e MARCO VESTINO ATTICO.


In una iscrizione, rapportata dal Doni e da me[381], si legge SILANO
ET ATTICO COS. Se questa sussiste, non _Siliano_, ma _Silano_ sarà
stato l'ultimo dei suoi cognomi. Il cardinal Noris ed altri sostentano
_Siliano._ Per attestato di Tacito, avea Nerone disegnati consoli per
le calende di luglio, _Plauzio Laterano_, dalla cui persona o casa
riconosce la sua origine la Basilica Lateranense, ed _Anicio Cereale._
Il primo, in vece del consolato, ebbe da Nerone la morte, siccome
dirò. Fece lo stesso fine _Vestino Attico_, cioè l'altro console
ordinario. Però si può tenere per fermo che _Cereale_ succedesse nel
consolato. Roma[382] in questo anno divenne teatro di morti violente
per la congiura di _Caio Calpurnio Pisone_, che fu scoperta. Era
questi di nobilissima famiglia, ben provveduto di beni di fortuna,
grande avvocato dei rei, e però comunemente amato e stimato, benchè
dato ai piaceri ed al lusso, e mancante di gravità di costumi. Sarebbe
volentieri salito sul trono, e per salirvi conveniva levar di mezzo
Nerone; il che non parea tanto difficile, stante l'odio comune. S'egli
fosse il primo ad intavolar la congiura, non si sa. Certo è bensì che
_Subrio_, o sia _Subio Flavio_, tribuno di una compagnia delle
guardie, e _Mario Anneo Lucano_ nipote di Seneca, e celebre autore del
poema della Farsalia, furono de' primi ad entrarvi, e de' più disposti
ad eseguirla. Per una giovanil vanità Lucano (era nato nell'anno 39
dell'Era nostra) non potea digerire che Nerone, per invidia, e pazza
credenza di saperne più di lui in poesia, gli avesse proibita la
pubblicazione del suddetto poema, ed anche di far da avvocato nelle
cause. Entrò in questo medesimo concerto anche _Plauzio Laterano_,
console disegnato, per l'amore che portava al pubblico. Molti altri, o
senatori, o cavalieri, o pretoriani, ed alcune dame ancora, chi per
odio e vendetta privata, e chi per liberar l'imperio da questo mostro,
tennero mano al trattato. Proposero alcuni di ammazzarlo, mentre
cantava in teatro, o pur di notte, quando usciva senza guardie per la
città. Altri giudicavano meglio di aspettare a far il colpo a
Pozzuolo, a Miseno o a Baja, avendo a tal fine guadagnato uno de'
principali uffiziali dell'armata navale. In fine fu stabilito di
ucciderlo nel dì 12 di aprile, in cui si celebravano i giuochi del
Circo a Cerere. Messo in petto di tanti il segreto, per poca
avvertenza di _Flavio Scevino_ traspirò. Fece egli testamento; diede
la libertà a molti servi; regalò gli altri; preparò fasce per legar
ferite: ed intanto, benchè desse agli amici un bel convito, e facesse
il disinvolto, pure comparve malinconico e pensoso. Milico suo liberto
osservava tutto, e perchè il padrone gli diede da far aguzzare un
pugnale rugginoso, s'avvisò che qualche grande affare fosse in volta.
Sul far del giorno questo infedele, animato dalla speranza di una gran
ricompensa, se n'andò agli orti Serviliani, dove allora soggiornava
Nerone, e tanto tempestò coi portinai, che potè parlare ad Epafrodito
liberto di corte, che l'introdusse all'udienza del padrone. Furono
tosto messe le mani addosso a Scevino, che coraggiosamente si difese,
e rivolse l'accusa contro del suo liberto. Ma perchè si seppe, avere
nel dì innanzi Scevino tenuto un segreto e lungo ragionamento con
Antonio Natale, ancor questo fu condotto dai soldati. Esaminati a
parte, si trovarono discordi, e poi alla vista de' tormenti
confessarono il disegno; e rivelarono i complici. Allo intendere si
numerosa frotta di congiurati, saltò tal paura addosso a Nerone, che
mise guardie dappertutto, e nè pur si teneva sicuro in qualunque luogo
ch'egli si trovasse.

Vien qui Tacito annoverando tutti i congiurati, e il loro fine. Molti
furono gli uccisi, e fra gli altri _Caio Pisone_, capo della congiura,
e _Lucano_ poeta; altri, con darsi la morte da sè stessi, prevennero
il carnefice; ed alcuni ancora la scamparono colla pena dell'esilio.
Fra gli altri denunziati v'entrò anche _Lucio Anneo Seneca_, insigne
maestro della stoica filosofia; ma che, se si avesse a credere a
Dione[383], macchiato fu di nefandi vizii d'avarizia di disonestà e di
adulazione. Di lui parla con istima maggiore Tacito, scrittore
alquanto più vicino a questi tempi. Consisteva tutto il suo reato
nell'essere stato a visitarlo nel suo ritiro _Antonio Natale_, e a
lamentarsi perchè non volesse ammettere _Pisone_ in sua casa, e
trattare con lui. Al che avea risposto Seneca, _non essere bene che
favellassero insieme; del resto dipendere la di lui salute da quella
di Pisone._ Trovavasi Seneca nella sua villa, quattro miglia lungi di
Roma, e mentre era a tavola con due amici, e con _Pompea Paolina_ sua
moglie cara, arrivò Silvano tribuno d'una coorte pretoriana ad
interrogarlo intorno alla suddetta accusa. Rispose con forti ragioni,
nulla mostrò di paura, e parlò senza punto turbarsi in volto. Portata
la risposta a Nerone, dimandò, il crudele, se Seneca pensava a levarsi
colle proprie mani la vita. Disse Silvano di non averne osservato
alcun segno. _Farà bene_, replicò allora Nerone, ed ordinò di
farglielo sapere. Intesa l'atroce intimazione, volle Seneca far
testamento, e gli fu proibito. Quindi scelto di morire collo svenarsi,
coraggiosamente si tagliò le vene, ed entrò nel bagno per accelerare
l'uscita del sangue. Dopo aver lasciati alcuni bei documenti agli
amici, morì. Anche la moglie _Paolina_ volle accompagnarlo collo
stesso genere di morte, e si svenò, ma per ordine di Nerone fu per
forza trattenuta in vita, ed alcuni pochi anni visse dipoi, ma pallida
sempre in volto. Le straordinarie ricchezze di Seneca si potrebbe
credere gl'inimicassero l'ingordo Nerone, se non che scrive Dione
ch'egli le avea dianzi cedute a lui, per impiegarle nelle sue
fabbriche. Ancorchè il console _Vestinio_ non fosse a parte della
congiura, pure si valse Nerone di questa occasione per levarlo di
vita, e lo stesso fece d'altri ch'egli mirava di mal occhio.

Andò poscia Nerone in senato, per informar quei padri del pericolo
fuggito e dei delinquenti[384]; e però furono decretati ringraziamenti
e doni agli dii, perchè avessero salvato un sì degno principe; ed egli
consecrò a Giove vendicatore nel Campidoglio il suo pugnale. Capitò in
questi tempi a Roma _Cesellio Basso_, di nascita Africano, uomo
visionario, che ammesso all'udienza di Nerone, gli narrò come cosa
certa, che nel territorio di Cartagine in una vasta spelonca stava
nascosa una massa immensa d'oro non coniato, quivi riposta o dalla
regina Didone, o da alcuno degli antichi re di Numidia. Vi saltò
dentro a piè pari l'avido Nerone, senza esaminar meglio l'affare,
senza prendere alcuna informazione, e subito fu spedita una grossa
nave, scelta come capace di sì sfoggiato tesoro, con varie galee di
scorta. Nè d'altro si parlava allora che di questo mirabil guadagno
fra il popolo. Per la speranza di un sì ricco aiuto di costa,
maggiormente s'impoverì il pazzo imperadore, perchè si fece animo in
ispendere e spandere in pubblici spettacoli e in profusion di regali.
Ma con tutto il gran cavamento fatto dal suddetto Basso, nè pure un
soldo si trovò; e però deluso il misero, altro scampo non ebbe per
sottrarsi alle pubbliche beffe, che di togliere colle sue mani a sè
stesso la vita. Ma se mancò a Nerone questa pioggia d'oro, si acquistò
egli almeno un'incomparabil gloria in quest'anno, coll'aver fatta una
pubblica comparsa nella scena del teatro, dove recitò alcuni suoi
versi. Fattagli istanza dal popolazzo di metter fuori la sua abilità
anche in altri studii, saltò fuori colla cetra in concorrenza d'altri
sonatori, e fece udir delle belle sonate. Strepitosi furono i viva del
popolo, la maggior parte per dileggiarlo, mentre i buoni si torcevano
tutti al mirar sì fatto obbrobrio della maestà imperiale. E guai a
que' nobili che non vi intervennero: erano tutti messi in nota. Fu in
pericolo della vita _Vespasiano_ (poscia imperadore), perchè osservato
dormire in occasione di tanta importanza. Conseguita la corona, passò
Nerone, secondo Svetonio e Dione[385], a far correre, stando in
carrozza, i cavalli. Ito poscia a casa[386], tutto contento di sì gran
plauso, trovò la sola _Poppea_ Augusta sua moglie, che gli disse
qualche disgustosa parola. Benchè l'amasse a dismisura, pure le
insegnò a tacere con un calcio nella pancia. Essa era gravida, e di
questo colpo morì. Donna sì delicata e vana, che tutto dì era davanti
allo specchio per abbellirsi; voleva le redini d'oro alle mule della
sua carrozza; e teneva cinquecento asine al suo servigio, per lavarsi
ogni dì in un bagno formato del loro latte. S'augurava anche piuttosto
la morte, che di arrivare ad esser vecchia, e a perdere la bellezza.
Opinione è d'insigni letterati[387] che nel dì 29 di giugno del
presente anno, per comandamento di Nerone, fosse crocifisso in Roma il
principe degli Apostoli _san Pietro_, e che nel medesimo giorno ed
anno venisse anche decollato l'Apostolo de' Gentili _san Paolo._
Certissima è la loro gloriosa morte e martirio in Roma; ma non sembra
egualmente certo il tempo; intorno a che potrà il lettore consultare
chi ha maneggiato _ex professo_ cotali materie. Nel pontificato romano
a lui succedette _s. Lino._ Dopo la morte di Poppea, Nerone, perchè
_Antonia_ figlia di Claudio Augusto, e sorella di _Ottavia_ sua prima
moglie, non volle consentir alle sue nozze, trovò de' pretesti per
farla morire. Quindi sposò _Statilia Messalina_, vedova di _Vestinio
Attico_ console, a cui egli avea dianzi tolta la vita. Certe altre sue
bestialità, raccontate da Dione, non si possono raccontar da me. E
Tacito aggiunge l'esilio o la morte da lui data ad altri primarii
romani, che mai non gli mancavano ragioni per far del male.

NOTE:

[381] Thesaurus Novus Inscription., pag. 305, num. 4.

[382] Tac., Annal., lib. 15, cap. 48 et seq. Dio, lib. 61. Sueton., in
Nerone, cap. 36.

[383] Dio, lib. 61.

[384] Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 1.

[385] Sueton., in Nerone, cap. 35. Dio, lib. 62.

[386] Tacitus, lib. 16, c. 6.

[387] Baron., in Annal. Blanchinius, ad Anastasium. Pagius, in Critica
Baroniana.




    Anno di CRISTO LXVI. Indizione IX.

    LINO papa 2.
    NERONE CLAUDIO imper. 13.

_Consoli_

CAIO LUCIO TELESINO e CAIO SVETONIO PAOLINO.


Funesto ancora fu l'anno presente a Roma per l'infelice fine di molti
illustri romani, che tutti perirono per la crudeltà di Nerone,
principe giunto a non saziarsi mai di sangue, perchè questo sangue gli
fruttava l'acquisto dei beni de' pretesi rei. Tacito empie molte
carte[388] di sì tristo argomento. Io me ne sbrigherò in poche parole,
per risparmiare la malinconia a chiunque, è per leggere queste carte.
Basterà solo rammentare che _Anneo Mella_, fratello di _Seneca_, e
padre di _Lucano_ poeta, accusato si svenò e terminò presto il
processo. _Caio Petronio_, che ha il prenome di _Tito_ appresso
Plinio, uomo di somma leggiadria, e tutto dato al bel tempo, era
divenuto uno dei più favoriti di Nerone. La gelosia di Tigellino,
prefetto del pretorio, gli tagliò le gambe, e il costrinse a darsi la
morte. Ma prima di darsela, fece credere a Nerone di lasciarlo suo
erede, e gli mandò il suo testamento. In questo non si leggevano se
non le infami impurità ed iniquità di esso Nerone. La descrizione de'
costumi lasciati da Tacito, ha dato motivo ad alcuni di crederlo il
medesimo, che _Petronio Arbitro_, di cui restano i frammenti di un
impurissimo libro. Ma dicendo esso Tacito, che questo Petronio fu
proconsole della Bitinia e console, egli sembra essere stato quel
_Cajo Petronio Turpiliano_, che abbiam veduto console nell'anno 61 di
Cristo, e però diverso da _Petronio Arbitro._ Più di ogni altro venne
onorato dalla compassione di tutti, e compianto il caso di _Peto
Trasea_, e di _Berea Sorano_, amendue senatori e personaggi della
prima nobiltà, perchè non solo abbondavano di ricchezze, ma più di
virtù, di amore del pubblico bene e di costanza per sostenere le
azioni giuste e riprovar le cattive. Per questi lor bei pregi non
potea di meno l'iniquo Nerone di non odiarli, e di non desiderar la
morte loro. Però il fargli accusare, benchè d'insussistenti reati, lo
stesso fu che farli condannare dal senato, avvezzo a non mai
contraddire ai temuti voleri di Nerone. Così restò priva Roma dei due
più riguardevoli senatori, ch'ella avesse in que' tempi, crescendo con
ciò il batticuore a ciascun'altra persona di vaglia, giacchè in tempi
tali l'essere virtuoso era delitto. Non parlo d'altri o condannati o
esiliati da Nerone nell'anno presente, mentovati da Tacito, la cui
storia qui ci torna a venir meno perchè l'argomento è tedioso.

Secondo il concerto fatto con _Corbulone_ governator della Soria,
_Tiridate_ fratello di Vologeso re dei Parti[389], si mosse in
quest'anno per venir a prendere la corona dell'Armenia dalle mani di
Nerone, conducendo seco la moglie, e non solo i figliuoli suoi, ma
quelli ancora di Vologeso, di Pacoro e di Monobazo, e una guardia di
tremila cavalli. L'accompagnava _Annio Viviano_, genero di Corbulone,
con gran copia d'altri Romani. Nerone, che forte si compiaceva di
veder venire a' suoi piedi questo re barbaro, non perdonò a diligenza
ed attenzione alcuna, affinchè egli nel medesimo tempo fosse trattato
da par suo, e comparisse agli occhi di lui la magnificenza
dell'imperio romano. Non volle Tiridate[390] venir per mare, perchè
dato alla magia, peccato riputava lo sputare o il gittar qualche
lordura in mare. Convenne dunque condurlo per terra con sommo aggravio
dei popoli romani; perchè dacchè entrò e si fermò nelle terre
dell'imperio, dappertutto sempre alle spese del pubblico ricevè un
grandioso trattamento (il che costò un immenso tesoro), e tutte le
città per dove passò, magnificamente ornate, l'accolsero con grandi
acclamazioni. Marciava Tiridate in tutto il viaggio a cavallo, con la
moglie accanto, coperta sempre con una celata d'oro per non essere
veduta, secondo il rito de' suoi paesi, che tuttavia con rigore si
osserva. Passato per Bitinia, Tracia ed Illirico, e giunto in Italia,
montò nelle carrozze che gli avea inviato Nerone, e con esse arrivò a
Napoli, dove l'imperadore volle trovarsi a riceverlo. Menato
all'udienza, per quanto dissero i mastri delle cerimonie, non volle
deporre la spada. Solamente si contentò che fosse serrata con chiodi
nella guaina. Per questa renitenza Nerone concepì più stima di lui; e
maggiormente se gli affezionò, allorchè sel vide davanti con un
ginocchio piegato a terra, e colle mani alzate al cielo sentì darsi il
titolo di _Signore_. Dopo avergli Nerone fatto godere in Pozzuolo un
divertimento con caccia di fiere e di tori, il condusse seco a Roma.
Si vide allora quella vastissima città tutta ornata di lumi, di
corone, di tappezzerie, con popolo senza numero accorso anche di
lontano, vestito di vaghe vesti, e coi soldati ben compartiti
coll'armi loro tutte rilucenti. Fu soprattutto mirabile nella mattina
del dì seguente il vedere la gran piazza e i tetti anch'essi coperti
tutti di gente. Miravasi nel mezzo di esse assiso Nerone in veste
trionfale sopra un alto trono, col senato e le guardie intorno. Per
mezzo di quel gran popolo condotti Tiridate e il suo nobil seguito,
s'inginocchiarono davanti a Nerone, ed allora proruppe il popolo in
altissime grida, che fecero paura a Tiridate, e il tennero sospeso per
qualche tempo. Fatto silenzio, parlò a Nerone con umiltà non
aspettata, chiamando se stesso schiavo, e dicendo di essere venuto ad
onorar Nerone come un suo dio, e al pari di Mitra, cioè del sole,
venerato dai Parti. Gli pose dipoi Nerone in capo il diadema,
dichiarandolo re dell'Armenia; e dopo la funzione passarono al teatro,
ch'era tutto messo a oro, per mirare i giuochi. Le tende tirate per
difendere la gente dal sole, furono di porpora, sparse di stelle
d'oro, e in mezzo di esse la figura di Nerone in cocchio, fatta di
ricamo. Succedette un sontuosissimo convito, dopo il quale si vide
quel bestion di Nerone pubblicamente cantare e suonar di cetra: e poi
montato in carretta colla canaglia de' cocchieri, vestito dell'abito
loro, gareggiar nel corso con loro.

Se ne scandalezzò forte Tiridate, e prese maggior concetto di
Corbulone, dacchè sapeva servire e sofferire un padrone sì fatto,
senza valersi dell'armi contra di lui. Anzi non potè contenersi da
toccar ciò in gergo allo stesso Nerone con dirgli: «Signore, voi avete
un ottimo servo in Corbulone;» ma Nerone non penetrò l'intenzion
segreta di queste parole. Fecesi conto, che i regali fatti da esso
Augusto a Tiridate ascendessero a due milioni. Ottenne egli ancora di
poter fortificar Artasata, e a questo fine menò da Roma gran quantità
di artefici, con dar poi a quella città il nome di Neronia. Da
Brindisi fu condotto a Durazzo, e passando per le grandi e ricche
città dell'Asia ebbe sempre più occasion di vedere la magnificenza e
possanza dell'imperio romano. Ma non ancor sazia la vanità di Nerone
per questa funzione che costò tanti milioni al popolo romano, avrebbe
pur voluto, che _Vologeso re de' Parti_ fosse venuto anch'egli a
visitarlo, e l'importunò su questo. Altra risposta non gli diede
Vologeso, se non che era più facile a Nerone passare il Mediterraneo:
il che facendo, avrebbono trattato di un abboccamento. Per questo
rifiuto a Nerone saltò in capo di fargli guerra; ma durarono poco
questi grilli, perchè egli pensò ad una maniera più facile di
acquistarsi gloria: del che parleremo all'anno seguente. Nacque[391]
bensì nell'anno presente la guerra in Giudea, essendosi rivoltato quel
popolo per le strane avanie de' Romani, mentre _Cestio Gallo_ era
governator della Siria, il quale durò fatica a salvarsi dalle loro
mani in una battaglia. Fu obbligato Nerone ad inviar un buon rinforzo
di gente colà, e scelse per comandante di quell'armata _Vespasiano_,
capitano di valore sperimentato. Io so che all'anno seguente è
comunemente riferita la morte di _Corbulone_, ricavandosi ciò da
Dione. Ma al trovar noi, per attestato di Giuseppe Storico, allora
vivente, il suddetto Cestio Gallo al governo della Siria, senzachè
parli punto di Corbulone, può dubitarsi che la morte di questo
eccellente uomo succedesse nell'anno presente. E per valore e per amor
della giustizia non era inferiore Corbulone ad alcuno de' più rinomati
antichi Romani. Nerone presso il quale passava per delitto l'essere
nobile, virtuoso e ricco, non potè lasciarlo più lungamente in vita.
Coll'apparenza di volerlo promuovere a maggiori onori, il richiamò
dalla Siria, ed allorchè fu arrivato a Cencre, vicino a Corinto, gli
mandò ad intimar la morte. Se la diede egli colle proprie mani, tardi
pentito di tanta sua fedeltà ad un principe sì indegno, e di essere
venuto disarmato a trovarlo. Perchè a noi qui manca la Storia di
Tacito, la cronologia non va con piede sicuro.

NOTE:

[388] Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 14 et seq.

[389] Dio, lib. 63.

[390] Plinius, lib. 30, cap. 2.

[391] Joseph., de Bello Judaico, lib. 2, cap. 40.




    Anno di CRISTO LXVII. Indizione X.

    CLEMENTE papa 1.
    NERONE CLAUDIO imper. 14.

_Consoli_

LUCIO FONTEJO CAPITONE e CAJO GIULIO RUFO.


Seguendo le congetture di vari letterati, a _s. Lino papa_, che
martire della Fede finì di vivere in quest'anno, succedette
_Clemente_, personaggio che illustrò dipoi non poco la Chiesa di Dio.
Ho riserbato io a parlar qui del viaggio fatto da Nerone in Grecia,
benchè cominciato nell'anno precedente, per unir insieme tutte le
scene di quella testa sventata. La natura, in mettere lui al mondo,
intese di fare un uomo di vilissima condizione, un sonator di cetra,
un vetturino, un beccaio, un gladiatore, un buffone. La fortuna deluse
le intenzioni della natura, con portare costui al trono imperiale; ma
sul trono ancora si vide poi prevalere l'inclinazion naturale[392].
Invanito egli delle tante adulatorie acclamazioni che venivano fatte
in Roma alla soavità della sua voce, alla sua maestria nel suono e
bravura nel maneggiar i cavalli stando in carretta: s'invogliò di
riscuotere un egual plauso dalle città della Grecia, le quali
portavano anche allora il vanto di fare i più magnifici e rinomati
giuochi della terra. Perciò si mosse da Roma a quella volta con un
esercito di gente, armata non già di lance e scudi, ma di cetre, di
maschere e di abiti da commedia e tragedia. Con questa corte degna di
un tal imperadore, comparve egli in quelle parti, astenendosi
nondimeno dal visitare Atene e Sparta per alcuni suoi particolari
riguardi. Fece nell'altre città in mezzo ai pubblici teatri,
anfiteatri e circhi, da commediante, da sonatore, da musico, da
guidator di carrette abbigliato, ora da servo, ora da donna, ed anche
da donna partoriente, da Ercole, da Edipo e da altri simili
personaggi. Le corone destinate per chi vinceva ne' suddetti giuochi,
tutte senza fallo toccavano a lui. Dicono che ne riportasse più di
mille ottocento. Sì gli erano care, che arrivando ambasciatori delle
città, per offerirgli i premii delle sue vittorie, questi erano i
primi alla sua udienza, questi tenuti alla sua stessa tavola. Pregato
da essi talvolta di cantar e sonare dopo il desinare, o dopo la cena,
senza lasciarsi molto importunare, dava di mano alla chitarra, e gli
esaudiva. Si mostrava ognuno incantato dalla sua divina voce: egli era
il dio della musica, egli un nuovo Apollo; laonde ebbe a dire, non
esservi nazione, che meglio della greca sapesse ascoltando giudicar
del merito delle persone, e di aver trovato essi soli degni di sè e
de' suoi studi. Le viltà, le oscenità commesse da Nerone in tal
occasione furono infinite; immensi i regali e le spese. Ma nello
stesso tempo, per supplire ai bisogni della borsa, impoverì i popoli
della Grecia, saccheggiò quei lor templi, a' quali non per anche avea
steso le griffe; confiscò i beni di assaissime persone, condannate a
diritto e a rovescio. Mandò anche a Roma e per l'Italia Elio, liberto
di Claudio, con podestà senza limite, per confiscare, esiliare ed
uccidere fino i senatori; e costui il seppe servire di tutto punto,
facendo da imperadore, senza essersi potuto conchiudere, chi fosse
peggiore, o egli o Nerone stesso.

Volle questo forsennato imperadore, che i giuochi olimpici d'Elide,
benchè si dovessero far prima, si differissero sino al suo arrivo in
Grecia, per poterne riportare il premio. Colla sua carretta anch'egli
entrò nel circo, ma cadutone ebbe ad accopparsi, e più giorni per tal
disgrazia stette in letto. Con tutto ciò il premio a lui fu assegnato.
Passava male per chi a lui non volea cedere[393]. Nei giuochi istmici
un tragico, miglior musico che politico, perchè non ebbe l'avvertenza
di desistere dal canto, per lasciar comparire quel di Nerone, che
dovea certamente essere più mirabile del suo, fu strangolato sul
teatro in faccia di tutta la Grecia. Vennegli poi in pensiero di far
un'opera stabile per cui s'immortalasse il suo nome: e fu quella di
tagliare lo stretto di Corinto, per unire i due mari Ionio ed
Egeo[394]: disegno concepito anche da Giulio Cesare e da molti altri;
ma per le molte difficoltà non mai eseguito. Nulla parea difficile
alla gran testa di Nerone. Fu egli nel destinato giorno il primo a
rompere la terra con un piccone d'oro, e a portar la terra in una
cesta, per animare gli altri all'impresa: il che fatto, si ritirò a
Corinto, tenendosi per più glorioso di Ercole a cagione di così gran
prodezza. Furono a quel lavoro impiegati i soldati, i condannati e
gran copia d'altra gente: e Vespasiano[395] gl'inviò apposta seimila
Giudei fatti prigioni. Non più di cinque miglia di terra è lo stretto
di Corinto; eppure con tante mani in due mesi e mezzo di lavoro non si
arrivò a cavar neppure un miglio di quel tratto. Non si andò poi più
innanzi, perchè affari premurosi richiamarono Nerone a Roma. Elio
liberto, mandato da lui con plenipotenza di far del male in Italia,
l'andava con frequenti lettere spronando a ritornarsene, inculcando la
necessità della sua presenza in queste parti. Ma Nerone, perduto in un
paese dove giorno non passava che non mietesse nuove palme, non
trovava la via di lasciar quel cielo sì caro: quand'ecco giugnere in
persona Elio stesso, venuto per le poste, che gli mise in corpo un
fastidioso sciroppo, avvertendolo che si tramava in Roma una
formidabil congiura contro di lui. Allora sì, che s'imbarcò, dopo
essersi quasi un anno intero fermato in Grecia, alla quale accordò il
governarsi coi propri magistrati, e l'esenzione da tutte le imposte; e
venne alla volta d'Italia. Sorpreso fu per viaggio da una tempesta,
per cui perdè i suoi tesori, laonde speranza insorse fra molti, che
anch'egli in quel furore del mare avesse a perire. Sano e salvo egli
compiè la navigazione, ma non già chi avea mostrata speranza o
desiderio di vederlo annegato, perchè ne pagò la pena col suo sangue.
Come trionfante entrò in Roma sullo stesso cocchio trionfale
d'Augusto, su cui veniva anche Diodoro citarista suo favorito,
corteggiato dai soldati, cavalieri e senatori. Era addobbata ed
illuminata tutta la città, incessanti le acclamazioni dettate
dall'adulazione: «Viva Nerone Ercole, Nerone Apollo, Nerone, vincitor
di tutti i giuochi. Beato chi può ascoltar la tua voce!» A questo
segno era ridotta la maestà del popolo romano. Mentre succedeano
queste vergognose commedie in Grecia e in Italia, avea dato principio
_Flavio Vespasiano_[396] alla guerra contro i sollevati Giudei. Già il
vedemmo inviato colà per generale da Nerone. La prima sua impresa fu
l'assedio di Jotapat, luogo fortissimo per la sua situazione. Vi spese
intorno quarantasette giorni, e costò la vita di molti de' suoi; ma
de' Giudei vi perirono circa quarantamila persone, e fra gli altri vi
restò prigione lo stesso _Giuseppe_, storico insigne della nazion
giudaica, il quale comandava a quelle milizie. Perchè predisse a
Vespasiano l'imperio, fu ben trattato. Di molte altre città e luoghi
della Galilea s'impadronì Vespasiano, e _Tito_ suo figliuolo riportò
qualche vittoria in vari combattimenti, con istrage di gran quantità
di Giudei.

NOTE:

[392] Dio, lib. 63. Sueton., in Nerone, cap. 22

[393] Lucian., in Nerone.

[394] Dio, lib. 63. Suetonius, in Nerone, c. 19.

[395] Joseph., de Bello Judaico, lib. 3

[396] Joseph., de Bello Judaico, lib. 3




    Anno di CRISTO LXVIII. Indizione XI.

    CLEMENTE papa 2.
    NERONE CLAUDIO imper. 15.
    SERVIO SULPICIO GALBA imper. 1.

_Consoli_

CAIO SILIO ITALICO e MARCO GALERIO TRACALO.


Il console _Silio Italico_ quel medesimo è che fu poeta, e lasciò dopo
di sè un poema pervenuto sino ai dì nostri. S'era egli meritata la
grazia di Nerone, e nello stesso tempo l'odio pubblico, col brutto
mestiere d'accusare e far condannare varie persone. Consisteva la
riputazion di _Tracalo_ nell'essere uomo di singolar eloquenza,
trattando le cause giudiciali. Non durò il loro consolato più del mese
d'aprile, a cagion delle rivoluzioni insorte, che liberarono
finalmente l'imperio romano da un imperador buffone, mostro insieme di
crudeltà[397]. Ne' primi mesi dell'anno presente _Caio Giulio
Vindice_, vicepretore e governator della Gallia Celtica, il primo fu
ad alzar bandiera contro di Nerone, col muovere a ribellione que'
popoli: al che non trovò difficoltà, sentendosi essi troppo aggravati
dalle estorsioni e tirannie del furioso imperadore, vivamente ancora
ricordate loro da Vindice in questa occasione. Non teneva egli al suo
comando legione alcuna, ma avea ben molto coraggio, e in breve tempo
mise in armi circa centomila persone di que' paesi. Con tutto ciò le
mire sue non erano già rivolte a farsi imperadore; anzi egli scrisse
tosto a _Servio Sulpicio Galba_, governatore della Spagna
Taraconense[398], e personaggio di gran credito per la sua saviezza,
giustizia e valore, esortandolo ad accettar l'imperio, con
promettergli anche la sua ubbidienza. Perciò circa il principio di
aprile, Galba, raunata una legione ch'egli avea in quella provincia,
con alquante squadre di cavalleria, ed esposte la crudeltà e pazzie di
Nerone, si vide proclamato imperadore da ognuno. Egli nondimeno prese
il titolo solamente di legato o sia di luogotenente della repubblica.
Dopo di che si diede a far leva di gente, e a formare una specie di
senato. Parve un felice augurio e preludio, l'essere arrivata in quel
punto a Tortosa in Catalogna una nave d'Alessandria carica di armi,
senzachè persona vivente vi fosse sopra. In questi tempi soggiornava
l'impazzito Nerone tutto dedito ai suoi vergognosi divertimenti in
Napoli quando nel giorno anniversario, in cui avea uccisa la madre,
cioè nel di 21 di marzo, gli arrivarono le nuove della ribellion della
Gallia e dell'attentato di Vindice. Parve che non se ne mettesse gran
pensiero e piuttosto ne mostrasse allegria, sulla speranza che il
gastigo di quelle ricche provincie gli frutterebbe degl'immensi
tesori. Seguitò dunque i suoi spassi, e per otto giorni non mandò nè
lettere nè ordini, quasichè volesse coprir col silenzio l'affare. Ma
sopraggiunta copia degli editti pubblicati da Vindice nella Gallia,
pieni d'ingiurie contra di lui, allora si risentì. Quel che più gli
trafisse il cuore, fu il vedere, che Vindice invece di Nerone il
nominava col suo primo cognome _Enobarbo_,[399] e diede poi nelle
smanie perchè il chiamava _cattivo sonator di cetra. Ne conoscete voi
un migliore di me?_ gridò allora rivolto ai suoi, i quali si può ben
credere che giurarono di no. Venendo poi un dopo l'altro nuovi
corrieri, con più funesti avvisi, tutto sbigottito corse a Roma,
consolato nondimeno per avere osservato nel viaggio, scolpito in marmo
un soldato gallico trascinato pe' capelli, da un romano: dal che prese
buon augurio. Non raunò in Roma nè il senato nè il popolo; solamente
chiamò una consulta de' principali al suo palagio, e spese poi il
resto della giornata intorno a certi strumenti musicali che sonavano a
forza d'acqua. Fu posta taglia sulla testa di Vindice, ed inviati
ordini, perchè le legioni dell'Illirico ed altre soldatesche
marciassero contra di lui.

Ma sopraggiunto l'avviso che anche Galba s'era sollevato in
Ispagna[400]; oh allora sì che gli cadde il cuore per terra. Dopo lo
sbalordimento tornato in sè, si stracciò la veste, e dandosi dei pugni
in testa, gridò che era spedito, parendogli troppo inaudita e strana
cosa di perdere, ancorchè fosse vivo, l'imperio. E pure da lì a non
molto, perchè vennero nuove migliori tornò alle sue ragazzerie,
lautamente cenando, cantando poscia versi contra de' capi della
ribellione, e accompagnandoli ancora con gesti da commediante. Andava
intanto crescendo il partito de' sollevati nelle Gallie, e tutti con
buon occhio ed animo miravano _Galba_. Fra gli altri che aderirono al
suo partito, uno de' primi fu _Marco Salvio Ottone_, governatore della
Lusitania, il quale gli mandò tutto il suo vasellamento d'oro e
d'argento, acciocchè ne facesse moneta, ed alcuni uffiziali ancora più
pratici de' Gallici per servire ad un imperadore. Ma nelle Gallie si
turbarono di poi non poco gli affari. _Lucio_ (chiamato _Publio_ da
altri) _Virginio_ o sia _Verginio Rufo_, governatore dell'alta
Germania, che comandava il miglior nerbo dell'armi romane, o da sè
stesso determinò, oppure ebbe ordine di marciar contra di Vindice. In
favor di Nerone stette salda quella parte della Gallia che s'accosta
al Reno, e sopra tutto Treveri, Langres, e in fin Lione si dichiarò
contra di Vindice. Pare eziandio, che l'armata della Bassa Germania,
cioè della Fiandra ed Olanda, si unisse con Virginio Rufo, il quale
marciò all'assedio di Besanzone. Corse colà anche Vindice con tutte le
forze per difendere quella città, e seguì un segreto abboccamento fra
questi due generali, anzi parve nel separarsi che fossero d'accordo
verisimilmente contra di Nerone. Ma accostatesi le soldatesche di
Vindice per entrar nella città (il che si suppone concertato con
Virginio) le legioni romane, non informate di quel concerto, senza che
lor fosse ordinato, si scagliarono addosso alle milizie galliche: e
non trovandole preparate per la battaglia e mal ordinate, ne fecero un
macello. Vuol Plutarco[401] che contro il voler de' generali quelle
due armate venissero alle mani. Vi perirono da ventimila Gallici; e
tutto il resto andò disperso, con tal affanno di Vindice, che da sè
stesso si diede poco appresso la morte. Se di questa non voluta
vittoria avesse voluto prevalersi Virginio Rufo, per farsi e
mantenersi imperadore, poca fatica avrebbe durato: cotanto era egli
amato ed ubbidito da tutta la sua possente armata. Gliene fecero anche
più istanze allora e dipoi i suoi soldati; ma egli da vero cittadin
romano, e con impareggiabil grandezza d'animo, ricusò sempre, dicendo
anche dopo la morte di Nerone, che quel solo dovea essere imperadore
che venisse eletto dal senato e popolo romano. Per questo magnanimo
rifiuto si rendè poi glorioso Virginio, e tenuto fu in somma
riputazione presso tutti i susseguenti Augusti[402], e carico d'onori
menò sua vita in pace sino all'anno ottantatrè di sua età, in cui
regnando Nerva, finì i suoi giorni. In non piccola costernazione si
trovò Galba, allorchè intese la disfatta di Vindice, e per vedersi
anche male ubbidito dai suoi, spedì a Virginio Rufo, per pregarlo di
volere operar seco di concerto affinchè si ricuperasse dai Romani la
libertà e l'imperio. Qual risposta ricevesse, non si sa. Solamente è
noto[403] che Galba perduto il coraggio si ritirò con gli amici a
Clunia, città della Spagna, meditando già di levarsi di vita se vedea
punto peggiorare gli affari.

Era intanto stranamente inviperito Nerone per questi disgustosi
movimenti. Nella sua barbara mente altro non passava che pensieri
d'inumanità indicibile. Quanti di nazione gallica che si trovavano o
per suoi affari o relegati in Roma, tutti li voleva far tagliare a
pezzi: permettere il saccheggio delle Gallie agli eserciti; levar dal
mondo l'intero senato col veleno; attaccar il fuoco a Roma, e nello
stesso tempo aprire i serragli delle fiere, acciocchè al popolo non
restasse luogo da difendersi. Nulla poi fece per le difficoltà che
s'incontravano. Quindi pensò che s'egli andasse in persona contro i
ribelli, vittoria si otterrebbe. Figuravasi egli, che al solo
presentarsi piangendo alla vista loro, tutti ritornerebbero alla sua
divozione. Credendo inoltre, che a vincere la Gallia fosse necessario
il grado di console, per attestato di Svetonio, deposti i consoli
ordinari circa le calende di maggio, prese egli solo il consolato per
la quinta volta. Trovasi nondimeno in Roma un frammento d'iscrizione,
da me dato alla luce[404], in cui si legge NERONE V. ET TRACHA......
parendo per conseguenza, che _Tracalo_ non dimettesse allora il
consolato. Ridicolo fu il preparamento suo per questa grande
spedizione. La principal sua attenzione andò a far caricare in
carrette scelte tutti gli strumenti musicali e gli abiti da scena con
armi e vesti da Amazzoni per le sue concubine. E certo, s'egli cantava
una delle sue canzonette a que' rivoltati, potevano eglino non darsi
per vinti? Ma occorreva danaro, e assaissimo, a questa impresa. Pose
una gravosissima colta al popolo romano, facendola rigorosamente
riscuotere. Servì ciò ad aumentar l'odio di ognuno contro di lui, e ad
affrettar la sua rovina, tanto più che in Roma era carestia, e quando
si credette che un vascello d'Alessandria portasse grani, si trovò che
conduceva solamente polve per servigio de' lottatori. Cominciarono
allora a fioccar le ingiurie e le pasquinate, e tutto era disposto
alla sedizione. Per buona fortuna avvenne[405], che anche _Ninfidio
Sabino_, eletto in luogo di _Fenio Rufo_, prefetto del pretorio, uomo
di bassa sfera, ma fiero, mosso a compassione di tante calamità di
Roma, tenne mano a liberarla dal furioso tiranno. Anche l'altro
prefetto, o sia capitan delle guardie, _Tigellino_ che tanto di male
avea fatto negli anni precedenti, giunse ora a tradire l'esoso
padrone. Essendo stato avvertito Nerone del mal animo del popolo, e
giuntogli nel medesimo tempo avviso, mentre desinava, che Virginio
Rufo col suo esercito si era dichiarato contra di lui, stracciò le
lettere, rovesciò la tavola, fracassò due bicchieri di mirabil
intaglio, e preparato il veleno si ritirò negli orti serviliani,
meditando o di fuggirsene fra i Parti o di andar supplichevole a
trovar Galba, o di presentarsi al senato e al popolo per domandar
perdono. Di questa occasione profittò Ninfidio[406] per far credere ai
pretoriani, che Nerone era fuggito, e per far acclamare _Galba_
imperadore, promettendo loro a nome di esso Galba un esorbitante
donativo. Verso la mezza notte svegliandosi Nerone, si trovò
abbandonato dalle guardie, e con pochi andò girando pel palazzo,
senzachè alcuno gli volesse aprire, e senza impetrar dai suoi, che
alcuno gli facesse il servigio di ucciderlo. Si esibì Faonte suo
liberto di ricoverarlo ed appiattarlo in un suo palazzo di villa,
quattro miglia lungi da Roma; ed in fatti colà con grave disagio per
luoghi spinosi arrivato si nascose. Fatto giorno, vennero nuove a
Faonte che il senato romano avea proclamato imperadore _Galba_, e
dichiarato _Nerone_ nemico pubblico, e fulminate contra di lui le pene
consuete. Dimandò Nerone, che pene fossero queste? Gli fu risposto di
essere trascinato nudo per le strade, fatto morire a colpi di
battiture, precipitato dal Campidoglio, e con un uncino gittato nel
Tevere. Allora fremendo mise mano a due pugnali che avea seco, ma
senza attentarsi di provare se sapeano ben forare. Udito poi, che
veniva un centurione con molti cavalli per prenderlo vivo, aiutato da
Epafrodito suo liberto, si diede del pugnale nella gola. Arrivò in
quel punto il centurione, fingendo di esser venuto per aiutarlo, e
corse col mantello da viaggio a turargli la ferita. Allora Nerone,
benchè mezzo morto, disse: «Oh adesso sì che è tempo! E questa è la
vostra fedeltà[407]?» Così dicendo spirò in età di anni trentuno, o
pure trentadue, nel dì 9 di giugno, restando i suoi occhi sì torvi e
fieri, che faceano orrore a chiunque il riguardava. Permise poi Icelo,
liberto di Galba, poco prima sprigionato, che il di lui corpo si
bruciasse. Le ceneri furono seppellite, per quanto s'ha da Svetonio
assai onorevolmente nel sepolcro dei Domizii. E tale fu il fine di
Nerone, degno appunto della sua vita, la quale è incerto se abbondasse
più di follie o di crudeltà. Manifesta cosa è bensì, ch'egli fu
considerato qual nemico del genere umano, qual furia, qual compiuto
modello de' principi più cattivi, anzi dei tiranni, non essendo mai da
chiamare legittimo principe chi per forza era salito sul trono, ed
avea carpita col terrore l'approvazione del senato e del popolo
romano, accrescendo di poi col crudel suo governo e colle tante sue
ingiustizie e rapine la macchia del violento ingresso. E tal possesso
prese allora nei popoli la fama di questo infame imperadore, che passò
anche ai secoli seguenti con tal concordia, che oggidì ancora il volgo
del nome di lui si serve per denotare un uomo crudele e spietato.
Nulladimeno fra il minuto popolo, vago solamente di spettacoli, e fra
i soldati delle guardie, avvezzi a profittare della disordinata di lui
liberalità, molti vi furono che amarono ed onorarono la di lui
memoria. Fu anche messa in dubbio la sua morte, e si vide uscir fuori
in vari tempi più di un impostore, che finse di essere Nerone vivo,
con gran commozione dei popoli, godendone gli uni, e temendone gli
altri.

Non si può esprimere l'allegrezza del popolo romano allorchè si vide
liberato da quel mostro. V'ha chi crede, che tolto di mezzo Nerone,
fossero creati consoli _Marco Plautio Silvano_ e _Marco Salvio
Ottone_, il quale fu poi imperadore. Ma di questo consolato d'_Ottone_
vestigio non apparisce presso gli antichi scrittori; e Plutarco[408]
osserva, ch'egli venne di Spagna con Galba: dal che si comprende, non
aver egli potuto ottenere si fatta dignità in questi tempi. Fuor di
dubbio è bensì, che consoli furono _Cajo Bellico Natale_ e _Publio
Cornelio Scipione Asiatico._ Ciò consta dalle iscrizioni ch'io ho
riferito[409]. In esse _Natale_ si vede nominato _Bellico_, e non
_Bellicio_, e gli vien dato anche il cognome di _Tebaniano_. Galba
intanto col cuor tremante se ne stava in Ispagna aspettando qual piega
prendessero gli affari; quando in sette dì di viaggio arrivò colà
Icelo suo liberto, ed entrato al dispetto de' camerieri nella stanza,
dov'egli dormiva, gli diede la nuova ch'era morto Nerone, e di
essersene egli stesso voluto chiarire colla visita del cadavero, ed
avere il senato dichiarato imperadore esso Galba. Racconta Svetonio,
ch'egli tutto allegro immediatamente prese il nome di Cesare. Più
probabile nondimeno è, che aspettasse a prenderlo due giorni dopo, nel
qual tempo arrivò Tito Vinio da Roma, che gli portò il decreto del
senato per la sua elezione in imperadore. _Servio_ (appellato
scorrettamente da alcuni _Sergio_) _Sulpicio Galba_, che prima avea
usato il prenome di _Lucio_, uscito da una delle più antiche famiglie
romane, dopo essere stato console nell'anno di Cristo 55, e dopo aver
con lode in vari onorevoli governi dato saggio della sua prudenza e
del suo valor militare, si trovava allora in età di settantadue
anni[410]. Ne sperò buon governo il senato romano, ed ancorchè si
venisse a sapere che egli era uom rigoroso ed inclinato alla avarizia,
male famigliare di non pochi vecchi; pure il merito di avere in
lontananza cooperato ad abbattere l'odiatissimo Nerone, fece che
comunemente fosse desiderato il suo arrivo a Roma. Partissi egli di
Spagna, e a piccole giornate in lettiga passò nelle Gallie, inquieto
tuttavia per non sapere se l'armate dell'alta e della bassa Germania,
comandate l'una da _Virginio Rufo_, e l'altra da _Fontejo Capitone;_
fossero per venire alla sua divozione. Soprattutto gli dava
dell'apprensione Virginio, siccome quello, a cui vedemmo fatte cotante
istanze acciocchè assumesse l'imperio. Ma questi con eroica
moderazione indusse l'armata, benchè non senza fatica, a giurar
fedeltà a Galba; ed altrettanto anche prima di lui fece Capitone. Poco
dipoi grato si mostrò Galba a Virginio, perchè chiamatolo alla corte
con belle parole, diede il comandò di quell'esercito ad _Ordeonio
Fiacco_, e da lì innanzi trattò assai freddamente esso Virginio, senza
fargli del male, ma neppur facendogli del bene.

I due maggiormente favoriti e potenti presso Galba cominciarono ad
essere _Tito Vinio_, dianzi da noi mentovato, che ci vien descritto da
Plutarco[411] per uomo perduto nelle disonestà, ed interessato al
maggior segno, e[412] _Cornelio Lacone_, uomo dappoco, e di parecchi
vizii macchiato, che Galba senza dimora dichiarò capitano delle
guardie, o sia prefetto del pretorio. Per mano di questi due passavano
tutti gli affari. Volle anco _Marco Salvio Ottone_, vicepretore della
Lusitania, accompagnar Galba a Roma. Era egli stato de' primi a
dichiararsi per lui, nè lasciava indietro ossequio e finezza alcuna
per cattivarsi il di lui affetto, e quello ancora di Vinio, avendo
conceputa speranza che il vecchio Galba, sprovveduto di figli,
adotterebbe lui per figliuolo. E qualora ciò non succedesse, già
macchinava di pervenire all'imperio per altre vie. Giunto Galba a
Narbona, quivi se gli presentarono i deputati del senato, accolti
benignamente da lui, ma senza che egli volesse mobili di Nerone,
inviati da Roma, e senza voler mutare i propri, benchè vecchi; il che
gli ridondò in molta stima, per darsi egli a conoscere in tal forma
signore moderato e lontano dal fasto. Non tardò poi a cangiar di stile
per gli cattivi consigli di Vinio. Intanto in Roma si alzò un brutto
temporale, che felicemente si sciolse per buona fortuna di Galba.
_Ninfidio Sabino_ prefetto del pretorio, che più degli altri avea
contribuito alla morte di Nerone, e all'esaltazione di Galba, si
credea di dover essere l'arbitro della corte, e far da padrone allo
stesso nuovo Augusto che tanto gli dovea. Perciò imperiosamente depose
_Tigellino_ suo collega, e sotto nome di Galba si diede a
signoreggiare in Roma[413]. Ma dappoichè gli fu riferito che _Cornelio
Lacone_ aveva anch'egli conseguita la dignità di prefetto del
pretorio, e ch'esso con _Tito Vinio_ comandava le feste, se ne alterò
forte, perchè non amava nè voleva compagno nell'uffizio suo. Mutate
dunque idee, meditò di farsi egli imperadore. Trasse dalla sua quanti
soldati delle guardie potè, ed anche alcuni senatori e qualche dama
delle più intriganti; e giacchè non si sapea chi fosse suo padre,
sparse voce di esser egli figliuolo di Caio Caligola. Gli
rassomigliava anche nella fierezza del volto e nell'infame sua
impudicizia. Voleva spedire ambasciatori a Galba, per rappresentargli
che s'egli si levasse dal fianco Vinio e Lacone, riuscirebbe più grata
la sua venuta a Roma. Poscia, in vece di questo, tentò d'intimidirlo
con fargli credere mal contente di lui le armate della Germania, Soria
e Giudea. E perciocchè Galba mostrava di non farne caso, determinò
Ninfidio di prevenirlo con farsi proclamar imperadore dai pretoriani.
E gli veniva fatto, se Antonio Onorato, uno de' principali tribuni di
quelle compagnie, non avesse con saggia esortazione tenuta in dovere
la maggior parte de' pretoriani. Anzi arrivò ad indurgli a tagliare a
pezzi Ninfidio: con che si quietò tutto quel romore.

Informato Galba di quest'affare, ed avuta nota d'alcuni complici di
Ninfidio, e specialmente di _Cingonio Varrone_, console disegnato, e
di _Mitridate_, quegli probabilmente ch'era stato re del Ponto, mandò
l'ordine della lor morte senz'altro processo, e senza accordar loro le
difese: dal che gli venne un gran biasimo. Nella stessa forma tolto fu
dal mondo _Caio Petronio Turpiliano_, stato già console nell'anno di
Cristo 61, non per altro delitto che per essere stato amico ed
uffiziale di Nerone. Giunto poi Galba a Ponte Molle colla legione
condotta seco dalle Spagne, e con altre milizie, se gli presentarono
senz'armi alcune migliaia di persone, che Svetonio[414] dice di
remiganti, alzati all'onore della milizia da Nerone: Dione[415]
pretende di soldati, che prima erano dall'armata navale passati al
grado di pretoriani. Galba avea comandato che tornassero al loro
esercizio nella flotta, ed eglino con alte grida faceano istanza di
riaver le loro bandiere. Rinforzavano essi le grida, e, secondo
Plutarco[416], che li suppone armati, alcuni misero mano alle spade,
Galba allora ordinò che la cavalleria di sua scorta facesse man bassa
contro di loro. Per quel che narra Svetonio, furono messi in fuga, e
poi decimati. Tacito scrive che ne furono uccise alcune migliaia; e
Dione giugne a dire che furono settemila: il che par poco credibile.
Quel che è certo, per azioni tali entrò Galba in Roma già screditato;
ed ancorchè facesse alcuni buoni regolamenti in benefizio del
pubblico, e rallegrasse il popolo colla morte di Elio, Policeto,
Petino, Patrobio e d'altri, che con calunnie aveano fatto perire molti
innocenti: pure tant'altre cose operò, che fecero parlare molto di lui
il popolo. Imperciocchè contro la espettazion di ognuno non punì
_Tigellino_, ministro primario della crudeltà di esso Nerone, perchè
costui seppe guadagnarsi la protezione di Tito Vinio, che tutto potea
nel palazzo imperiale. Chiedendogli i pretoriani le immense somme di
danaro promesse loro da Ninfidio, con fatica donò pochissimo. E
pervenutogli a notizia che se ne lagnavano forte, diede una risposta
da saggio Romano, con dire:[417] «Ch'egli era solito ad arrolare per
grazia, e non già a comperare i soldati.» Ma se n'ebbe ben presto a
pentire. Seguitava[418] in questi tempi la guerra de' Romani sotto il
comando di _Vespasiano_ contra de' Giudei. Si andò egli disponendo per
far l'assedio di Gerusalemme, con prendere tutte le fortezze
all'intorno; e quella città, che nel di fuori provava tutte le fiere
pensioni della guerra, maggiormente era afflitta nel di dentro per le
funeste e micidiali discordie degli stessi Giudei, che diffusamente si
veggono descritte da Giuseppe Ebreo. Ma perciocchè arrivarono le nuove
colà della ribellione delle Gallie e della Spagna, che facea temere di
una guerra civile, e poi della morte di Nerone, Vespasiano sospese
l'assedio suddetto, e spedì Tito suo figliuolo ad assicurar Galba
della sua divozione ed ubbidienza; ma da lì a non molto cangiarono
faccia gli affari, siccome vedremo andando innanzi.

NOTE:

[397] Dio, lib. 63. Sueton., in Nerone, cap. 40 et seqq.

[398] Sueton., in Galba, cap. 9 et seq.

[399] Philostratus, in Apoll.

[400] Plutarchus, in Galba. Suetonius, in Nerone, cap. 42.

[401] Plutarchus, in Galba.

[402] Plinius Junior, lib. 6, ep. 10. Tacitus, Histor., lib. 2, cap.
49.

[403] Dio, lib. 63. Sueton., in Galba, cap. 11.

[404] Thesaurus Novus Veter. Inscription., pag. 306, num. 2.

[405] Plutarc., in Galba.

[406] Ibid.

[407] Dio, lib. 63. Suet., in Ner., c. 57. Euseb., in Chr. Eutrop. et
alii.

[408] Plutar., in Galba.

[409] Thesaur. Novus Inscription., pag. 306, n. 3.

[410] Suet., in Galba, c. 12.

[411] Plutarc., in Galba.

[412] Tacitus, Histor., lib. 1, c. 6.

[413] Plutarc., in Galba.

[414] Suet., in Galba, cap. 12.

[415] Dio, lib. 64.

[416] Plutarc., in Galba.

[417] Sueton., in Galba, cap. 16.

[418] Joseph., de Bello Judaico, lib. 4.




    Anno di CRISTO LXIX. Indizione XII.

    CLEMENTE papa 3.
    SERVIO SULPICIO GALBA imper. 2.
    MARCO SALVIO OTTONE imper. 1.
    FLAVIO VESPASIANO imper. 1.

_Consoli_

SERVIO SULPICIO GALBA imperad. per la seconda volta, e TITO VINIO
RUFFINO.


Perchè _Clodio Macro_ vicepretore dell'Africa si era anch'egli
ribellato contra Nerone, e continuava a far delle estorsioni e
ruberie, Galba nell'anno precedente ebbe maniera di farlo levar dal
mondo[419]. Fu ancora accusato di meditar delle novità nella bassa
Germania _Fonteio Capitone_, il qual pure vedemmo che avea
riconosciuto Galba per imperadore. Vero o falso che fosse questo suo
disegno, anch'egli fu ucciso, senza aspettarne gli ordini da Roma. Al
comando di quell'armata[420] inviò Galba, a suggestione di Vinio,
_Aulo Vitellio_, uomo pieno di vizii, oppur creduto tale da non far
bene nè male, e che, purchè potesse appagar la sua ingordissima gola,
pareva incapace d'ogni grande impresa. Fu questa elezione il principio
della rovina di Galba. Costui, pieno di debiti per aver troppo
scialacquato sotto i precedenti Augusti, arrivò all'armata della
Germania inferiore, e niuna viltà o bassezza lasciò indietro per
conciliarsi l'amore di quelle milizie, senza gastigar alcuno, con
perdonare e far buona ciera a tutti, e donar loro quel poco che potea.
Avvenne che le legioni dimoranti nell'alta Germania, già irritate per
l'abbassamento di Virginio Rufo, udendo le relazioni, accresciute
molto nel viaggio, dell'avarizia e della crudeltà di Galba,
cominciarono ad inclinar tutte alla sedizione; nè _Ordeonio Flacco_
lor comandante, uomo vecchio, gottoso e sprezzato dai soldati, avea
forza di tenerle in dovere. In fatti, benchè nel primo giorno di
gennaio dell'anno presente, secondo il costume, giurassero, ma con
istento, fedeltà a Galba, nel dì seguente misero in pezzi le di lui
immagini, e giurarono di riconoscere qualunque altro imperadore che
fosse eletto dal senato e popolo romano[421]. Tacito scrive che la
ribellione ebbe principio nelle stesse calende di gennaio. Volò presto
l'avviso di tal novità a Colonia, dove dimorava _Vitellio, _ che ne
seppe profittare, con far destramente insinuare ai suoi soldati della
bassa Germania di elegger essi piuttosto un imperadore, che di
aspettarlo dalle mani altrui. Non vi fu bisogno di molte parole. Nel
dì seguente Fabio Valente, venuto colla cavalleria a Colonia, e tratto
fuori di casa _Vitellio_, benchè in vesta da camera, l'acclamò
imperadore. Poco stettero ad accettarlo per tale le legioni dell'alta
Germania. Le città di Colonia, Treveri e Langres, disgustate di Galba,
s'affrettarono ad esibir armi, cavalli e denaro a Vitellio. Accettò
egli con piacere il cognome di _Germanico:_ per allora non volle
quello _d'Augusto_; nè mai usò quello di _Cesare._ Formò poi la sua
corte; e gli uffizii, soliti a darsi dall'imperadore ai liberti,
furono da lui appoggiati a cavalieri romani. _Valerio Asiatico_ legato
della Fiandra, per essersi unito a lui, divenne fra poco suo genero. E
_Giunio Bleso_, governatore della Gallia lugdunense, perchè il popolo
di Lione era forte in collera contra di Galba, seguitò anch'egli il
partito di Vitellio con una legione e colla cavalleria di Torino.

Galba in questo mentre, il meglio che potea, attendeva in Roma al
governo[422], ma per la sua vecchiezza sprezzato da molti, avvezzi
alle allegrie del giovane Nerone, e da molti odiato per la sua
avarizia. Il potere nella sua corte era compartito fra Tito Vinio, che
già dicemmo console, e Cornelio Lacone prefetto del pretorio, e per
terzo entrò Icelo liberto di Galba, uomo di malvagità patente.
Costoro, emuli e discordi fra loro, abusando della debolezza del
vecchio Augusto, si studiavano cadauno di far roba, e di portar
innanzi chi potesse succedere a Galba. Ma eccoti corriere, che porta
la nuova della sollevazion delle legioni dell'alta Germania. Andava
già pensando Galba ad adottare in figliuolo e successor nell'imperio
qualche persona, in cui si unisse la gratitudine verso del padre, e
l'abilità in benefizio del pubblico. Più degli altri vi aspirava, e
confidato nell'appoggio di Tito Vinio sperava Marco Salvio Ottone, più
volte da me rammentato di sopra come uomo infame per molti suoi vizii,
e veterano negl'intrichi della corte. All'udir le novità della
Germania, non volle Galba maggiormente differir le sue risoluzioni per
procacciarsi in un giovane figliuolo un appoggio alla sua avanzata età
e alla mal sicura potenza. Fatto chiamare all'improvviso nel dì 10 di
gennaio, _Lucio Pisone Frugi Liciniano_, discendente da Crasso e dal
gran Pompeo, giovane di molta riputazione e gravità, in età allora di
trentun anni, alla presenza di Vinio, di Lacone, di Mario Celso
console disegnato e di _Ducennio Gemino_ prefetto di Roma, dichiarò
che il voleva suo figliuolo adottivo e successore. Pisone senza
comparir turbato, nè molto allegro, rispettosamente il ringraziò.
Andarono poi tutti al quartiere dei pretoriani, e quivi più
solennemente fece Galba questa dichiarazione per isperanza di
guadagnargli l'affetto di que' soldati. Ma perchè non si parlò punto
di regalo, quelle milizie mal avvezze ascoltarono con silenzio ed
anche con malinconia quel ragionamento. Per attestato di Tacito, la
promessa di un donativo poteva assicurar la corona in capo a Pisone;
ma Galba non sapea spendere, e volea vivere all'antica, senza
riflettere che erano di troppo mutati i costumi. Anche al senato fu
portata questa determinazione ed approvata.

Ottone, che di dì in dì aspettava questa medesima fortuna da Galba,
allorchè vide tradite tutte le sue speranze, tentò un colpo da
disperato. Coll'aver ottenuto un posto in corte ad un servo di Galba,
avea poco dianzi guadagnata una buona somma d'argento. Di questo
danaro si servì egli per condurre ad una sua trama due, oppur cinque
soldati del pretorio[423], a' quali, con tirar nel suo partito pochi
altri, prodigiosamente riuscì di fare una somma rivoluzion di cose.
Costoro, perchè furono cassati in questo tempo alcuni uffiziali delle
guardie, come parziali dell'estinto Ninfidio, sparsero voci di
maggiori mutazioni. Quel poltron di Lacone, tuttochè avvertito di
qualche pericolo di sedizione, a nulla provvide. Ora nel dì 15 di
gennaio, _Marco Salvio Ottone_, dopo essere stato a corteggiar Galba,
si portò alla colonna dorata, dove trovò, secondo il concerto,
ventitrè soldati: che così pochi erano i congiurati[424].
L'acclamarono essi imperadore, e messolo in una lettiga,
l'introdussero nel quartiere de' pretoriani, senza che a sì picciolo
numero di ammutinati alcun si opponesse. A poco a poco altri si
unirono ai precedenti, e non finì la faccenda, che tutto quel corpo di
milizie, colla giunta ancora dall'altra dell'armata navale, si
dichiarò per lui, mercè del buon accoglimento e delle promesse di un
gran donativo che Ottone andava di mano in mano facendo a chiunque
arrivava. Avvisati di questa novità Galba e Pisone, spedirono tosto
per soccorso alla legione condotta dalle Spagne, e ad alcune compagnie
di tedeschi. Uscì Galba di palazzo, per una falsa voce che Ottone
fosse stato ucciso, sperando che il suo presentarsi ai perfidi
pretoriani li farebbe cedere. Ma al comparir essi in armi con Ottone,
e al gridare che si facesse largo, il popolo si ritirò, e Galba, in
mezzo alla piazza rimasto abbandonato, fu steso con più colpi a terra,
ed anche barbaramente messo in brani. Il console _Vinio_ anch'egli
restò vittima delle spade. _Pisone_ malamente ferito tanto fu difeso
da Sempronio Denso centurione, che potè fuggire e salvarsi nel tempio
di Vesta; ma saputosi dov'egli era, due soldati inviati colà anche a
lui levarono la vita, e il medesimo fine toccò a _Lacone_ capitan
delle guardie. Avvicinandosi poi la sera, entrò Ottone in senato, dove
spacciando d'essere stato forzato a prendere l'imperio, ma che volea
dipendere dall'arbitrio de' senatori, trovò pronta la volontà e
l'adulazione d'ognuno per confermarlo, e per mostrar anche gioia della
di lui esaltazione. Gli furono accordati tutti i titoli e gli onori
de' precedenti Augusti; e il matto popolo gli diede il cognome di
_Nerone_, per cui non cessava in molti l'affetto. Giacchè non vi erano
più consoli, fu conferita questa dignità al medesimo _Marco Salvio
Ottone imperadore Augusto_ e a _Lucio Salvio Ottone Tiziano_ suo
fratello _per la seconda volta._ Nelle calende di marzo succederono ad
essi _Lucio Virginio Rufo_ e _Vopisco Pompeo Silvano:_ Cedendo questi
nelle calende di maggio, furono sostituiti _Tito Arrio Antonino_ e
_Publio Mario Celso per la seconda volta._ Continuarono questi in quel
decoroso grado sino alle calende di settembre; ed allora entrarono
consoli _Caio Fabio Valente_ ed _Aulo Alieno Cecina_. Ma essendo stato
degradato il secondo d'essi nel dì 31 di ottobre, fu creato console
_Roseto Regolo_, la cui dignità non oltrepassò quel giorno; perciocchè
nelle calende di novembre venne conferito il consolato a _Gneo Cecilio
Semplice_ e a _Caio Quinzio Attico._ Tutto ciò si ricava da
Tacito[425].

Sul principio si studiò Ottone di procacciarsi l'affetto e la stima
del popolo. Luminosa fu un'azione sua. _Mario Celso_ poco fu
mentovato, che comandava la compagnia delle milizie dell'Illirico, ed
era console disegnato, avea con fedeltà soddisfatto al suo dovere
nell'accorrere alla difesa di Galba. Dopo la di lui morte venne per
baciar la mano ad Ottone[426]. Gl'iniqui pretoriani alzarono allora le
voci, gridando: _Muoia._ Ottone, bramando di salvarlo dalla lor furia,
col pretesto di voler prima ricavare da lui varie notizie, il fece
caricar di catene, fingendosi pronto a toglierlo di vita. Ma nel dì
seguente il liberò, l'abbracciò, e scusò l'oltraggio fattogli
solamente per suo bene. Nè solamente il lasciò poi godere del
consolato, ma il volle ancora per uno de' suoi generali e dei più
intimi amici, con trovarlo non men fedele verso di sè che verso
l'infelice Galba. Alle istanze ancora del popolo indusse a darsi la
morte _Sofonio Tigellino_, da noi veduto infame ministro delle
scelleraggini di Nerone. Inoltre si applicò seriamente al maneggio de'
pubblici affari, e restituì a molti i lor beni tolti da Nerone: azioni
tutte che gli fecero del credito, non parendo egli più quel pigro e
quel perduto nel lusso e ne' piaceri che era stato in addietro. Ma i
più non se ne fidavano, conoscendolo abituato nei vizii, e simile nel
genio a Nerone, le cui statue, come ancor quelle di Poppea, permise
che si rialzassero. Osservavano parimente ch'egli mostrava poco
affetto al senato, moltissimo ai soldati: laonde temevano che se fosse
cessata la paura dell'emulo Vitellio, si sarebbe provato in lui un
novello Nerone. E certo egli era comunemente odiato più di Vitellio,
non tanto pel tradimento da lui fatto a Galba, quanto perchè il
riputavano persona data alla crudeltà, e capace di nuocere a tutti;
laddove Vitellio era in concetto di uomo dato ai piaceri, e però in
istato di solamente nuocere a sè stesso: benchè in fine amendue
fossero poco amati, anzi odiati dai Romani. Intanto era diviso il
romano imperio fra questi due competitori. _Ottone_ si trovava
riconosciuto imperadore in Roma e da tutta l'Italia. Cartagine con
tutta l'Africa era per lui. _Muciano_, governator della Siria, o sia
della Soria, gli fece prestar giuramento dai popoli di quelle
contrade[427]. Altrettanto fece _Vespasiano_ nella Palestina. Aveva
egli inviato già _Tito_ suo figliuolo, per attestare il suo ossequio a
Galba; ma dacchè, arrivato a Corinto, intese la di lui morte, se ne
tornò indietro a trovar il padre. Anche le legioni della Dalmazia,
Pannonia e Mesia aderirono ad Ottone. Così l'Egitto e le altre città
dell'Oriente e della Grecia. Ancorchè Ottone fosse un usurpatore, il
nome nondimeno di Roma e del senato romano, che l'avea accettato,
bastò perchè tanti altri paesi s'uniformassero al capo dell'imperio.

Ma in mano di _Vitellio_ erano le migliori e più accreditate milizie
de' Romani, raccolte dall'alta e bassa Germania, dalla Bretagna e da
una parte della Gallia[428]. Ne formò egli due eserciti, l'uno di
quarantamila combattenti sotto il comando di _Fabio Valente_, l'altro
di trentamila, comandato da _Alieno Cecina_, a' quali si unirono varii
rinforzi di Tedeschi. Ardevano tutti costoro di voglia, non ostante il
verno, di far dei fatti, per aver occasione di bottinare (fine
primario di chi esercita quel mestiere), mentre il grasso e pigro
Vitellio attendeva a darsi bel tempo, con far buona tavola, ubbriaco
per lo più. Anche vivente Galba si mossero tante forze sotto i due
generali per due diverse vie alla volta d'Italia; cioè _Valente_ per
le Gallie, e _Cecina_ per l'Elvezia. Vitellio facea conto di
seguitarli dipoi. Nel viaggio ebbero nuova della morte di Galba e
dell'innalzamento di Ottone. Dovunque passò Valente per la Gallia, il
terrore delle sue armi condusse i popoli all'ubbidienza di Vitellio.
Sopra tutto con allegria fu ricevuto in Lione. In altri luoghi non
mancarono saccheggi ed anche stragi. Non fece di meno Cecina nel
passare pel paese degli Svizzeri. All'avviso di queste armate, che si
avvicinavano all'Italia, un reggimento di cavalleria, accampato sul
Po, che avea servito una volta in Africa sotto Vitellio, l'acclamò
imperadore, e cagion fu che Milano, Ivrea, Novara e Vercelli
prendessero il suo partito. Perciò si affrettò Cecina verso la metà di
marzo per calare in Italia, ancorchè i monti fossero tuttavia carichi
di neve, e spedì innanzi un corpo di gente, per sostenere le suddette
città. Gran dire, gran costernazione fu in Roma, allorchè si udì la
mossa di tante armi, e l'inevitabil guerra civile[429]. Mosse _Ottone_
il senato a scrivere a Vitellio delle lettere amorevoli, per esortarlo
a desistere dalla ribellione, offrendogli danaro, comodi e una città.
Ne scrisse anch'egli, e dicono[430] che gli esibisse segretamente di
prenderlo per collega nell'imperio e per genero. Gli rispose Vitellio
in termini amichevoli; tali nondimeno che mostravano di burlarsi di
lui. Irritato Ottone gli rispose per le rime, cioè gliene scrisse
dell'altre piene di vituperii, e con ridicole sparate, ricordandogli
soprattutto l'infame sua vita passata. Non furono meno obbrobriose le
risposte di Vitellio. Nè alcun di loro diceva bugia. Amendue ancora
inviarono degli assassini, per liberarsi cadauno dall'emulo suo; ma
riuscì in fumo il loro disegno. Adunque chiaro si vide, non restar
altro che di decidere la contesa coll'armi. Unì _Ottone_ una possente
armata anch'egli, composta della maggior parte de' pretoriani e delle
legioni venute dalla Dalmazia e Pannonia. E lasciato al governo di
Roma _Tiziano_ suo fratello con _Flavio Svetonio_ prefetto d'essa
città, e fratello di Vespasiano, dato anche ordine che non fosse fatto
torto alcuno alla madre, alla moglie e a' figliuoli di Vitello, nel dì
14 di marzo si licenziò dal senato, e alla testa dell'esercito, non
parendo più quell'effeminato uomo di una volta, s'incamminò per venir
contro a' nemici. Suoi marescialli erano _Svetonio Paolino, Mario
Celso_ ed _Annio Gallo_, uffiziali non meno prudenti che bravi.
Mancavano ben questi pregi a' _Licinio Procolo_ prefetto del pretorio,
che pur faceva una delle prime figure in quell'armata. _Alieno
Cecina_, general di Vitellio, arrivato al Po, passò quel fiume a
Piacenza, ed assalì quella città, da cui _Annio Gallo_[431], dopo due
dì di valorosa difesa, il fece ritirare a Cremona, malcontento per la
perdita di molta gente. Fu in quella occasione bruciato l'anfiteatro
de' Piacentini, posto fuori della città, il più capace di gente che
fosse allora in Italia. Anche _Marzio Macro_, console disegnato, diede
a Cecina un'altra percossa coi gladiatori di Ottone. Eppur egli, ciò
non ostante, volle venire ad un terzo cimento: tanta era la voglia in
lui di vincere, affinchè l'altro general di Vitellio, cioè _Valente_,
non gli rapisse o dimezzasse la gloria. In un luogo detto i Castori,
dodici miglia lungi da Cremona, tese un'imboscata a _Svetonio Paolino_
e a _Mario Celso;_ ma questi, avutane notizia, presero così ben le
misure, che il misero in rotta, ed avrebbono anche rovinata affatto la
di lui gente, se Paolino per troppa cautela non avesse impedito ai
suoi l'inseguirli. Per questo fu egli in sospetto di tradimento, ed
Ottone chiamò da Roma _Tiziano_ suo fratello, acciocchè comandasse
l'armi, sebben con poco frutto, perchè Licinio Procolo, capitan delle
guardie, benchè uomo inesperto, la facea da superiore a tutti.

Venne poi Valente da Pavia colla sua armata più numerosa dell'altra ad
unirsi con Cecina, e tuttochè questi due generali di Vitellio fossero
gelosi l'uno dell'altro, si accordarono nondimeno pel buon regolamento
della guerra, e per isbrigarla il più presto possibile. Tenne
consiglio dall'altra parte Ottone; e il parere de' suoi più assennati
generali, cioè di Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, fu di
temporeggiare, tanto che venissero alcune legioni che si aspettavano
dall'Illirico. Ma prevalse quello di Ottone, Tiziano e Procolo, ai
quali parve meglio di venir senza dimora a battaglia, perchè i
pretoriani credendosi tanti Marti, si tenevano in pugno la vittoria, e
tutti ansavano di ritornarsene tosto alle delizie di Roma[432]. Lo
stesso Ottone impaziente per trovarsi in mezzo a tanti pericoli, fra
l'incertezza delle cose e il timore di qualche rivolta de' soldati,
era nelle spine; però si voleva levar d'affanno con un pronto fatto
d'armi. Ma da codardo si ritirò a Brescello, dove il fiume Enza sbocca
nel Po, per quivi aspettar l'esito delle cose; risoluzione che
accrebbe la sua rovina, perchè seco andarono molti bravi uffiziali e
molti soldati, con restare indebolita l'armata sua in mano di generali
discordi fra loro, e poco ubbidienti e senza quel coraggio di più che
loro avrebbe potuto dar la presenza del principe. Seguì qualche
piccolo fatto fra gli staccamenti delle due armate, ma finalmente
quella di Ottone, passato il Po, andò a postarsi a qualche miglio
lungi da Bedriaco, villa posta fra Verona e Cremona, più vicina
nondimeno all'ultimo, verso il fiume Oglio, dove si crede che oggidì
sia la terra di Caneto. Molte miglia separavano le due armate; ed
ancorchè Svetonio e Mario ripugnassero alla risoluzion conceputa da
Procolo di andare nel dì seguente (cioè circa il dì 15 di aprile) ad
assalire i nemici, perchè l'arrivar colà stanchi i soldati era un
principio d'esser vinti: Procolo persistè nella sua opinione, perchè
sollecitato da più lettere di Ottone, che voleva battaglia. Si venne
in fatti al combattimento[433], che fu sanguinosissimo, credendosi che
fra l'una e l'altra parte restassero sul campo estinte circa
quarantamila persone, perchè non si dava quartiere. Ma la vittoria
toccò all'armata di Vitellio. I generali di Ottone, chi qua chi là
fuggitivi, scamparono colle reliquie della lor gente il meglio che
poterono, valendosi del favor della notte[434]. Ma perchè nel dì
seguente si aspettavano di nuovo addosso il vittorioso esercito, con
pericolo d'essere tutti tagliati a pezzi, gli uffiziali, soldati e lo
stesso Tiziano, fratello di Ottone, che si trovarono insieme,
s'accordarono di fare una deputazione a Valente e Cecina, per
rendersi. Fu accettata l'offerta, ed unitesi le non più nemiche
armate, ognun corse ad abbracciare gli amici, a detestare gli odii
passati, e condolersi delle morti di tanti. Giurarono i vinti fedeltà
a Vitellio, e cessarono tutti i rancori. Portata questa lagrimevol
nuova ad Ottone, dimorante in Brescello, non mancarono già i suoi
cortigiani di animarlo, con fargli conoscere arrivate già ad Aquileia
tre legioni della Mesia, salvate altre buone milizie a lui fedeli, non
essere disperato il caso. Ma egli aveva già determinato di finirla,
chi credette per orrore di una guerra civile, come attesta
Svetonio[435], chi per poca fortezza d'animo, e chi per acquistarsi
una gloria vana con una risoluzion generosa. Pertanto attese
spiritosamente nel resto del giorno a distribuir danaro a' suoi
domestici ed amici, a bruciar le lettere scrittegli da varie persone
contra di Vitellio, affinchè non pregiudicassero a chi le avea
scritte, e a dar altri ordini per la sicurezza di molti nobili
ch'erano alla sua corte[436]. Prese anche nella notte seguente un po'
di sonno, ma fu disturbato da un rumor delle guardie, che minacciavano
la morte a que' senatori, i quali d'ordine suo erano per ritirarsi, e
sopra tutto aveano assediato _Virginio Rufo._ Uscì Ottone di camera, e
con buona maniera calmò quel tumulto. Poscia, sul far del giorno
svegliato, intrepidamente si diede un pugnale nel petto, e di quella
ferita fra poco morì in età di trentasette anni[437]. Al suo cadavero
bruciato fu data quella sepoltura che si potè, cioè in terra, colla
memoria del solo suo nome senza titolo alcuno. Una massa di monete
d'oro, trovate sui primi anni del secolo, in cui scrivo, sul
territorio di Brescello, fece credere ad alcuni che fossero ivi
seppellite in occasion delle disgrazie di Ottone. Benchè usurpator
dell'imperio, e screditato per varie sue ree qualità, cotanto era
amato dai soldati, che alcuni d'essi, non meno in Brescello, che in
Piacenza e in altri luoghi, pel dolore accompagnarono la di lui morte
colla propria, secondo la detestabil usanza e frenesia di quei tempi.
Dacchè i soldati, ch'erano in Brescello, non poterono indurre Virginio
Rufo ad accettar l'imperio, si diedero ai generali di Vitellio. In un
fiero imbroglio si trovò allora la maggior parte del senato che Ottone
avea lasciato in Modena, perchè dall'un canto temeva oltraggi
dall'armi di Vitellio, e dall'altro i soldati di Ottone tenendoli a
vista d'occhio, e riputandoli nemici dell'estinto principe, cercavano
pretesti per menar le mani contra di loro. Finalmente ebbero la
fortuna di salvarsi a Bologna, dove si mostrarono disposti a
riconoscere Vitellio; ma per qualche tempo se ne guardarono a cagion
di una falsa voce portata da Ceno, liberto già di Nerone, che i
vincitori erano poi stati vinti. Da queste paure non si riebbero se
non allorchè arrivarono lettere di Valente che riferirono la vera
positura degli affari. In Roma, subito che s'intese quanto era
succeduto di Ottone, _Flavio Sabino_, fratello di Vespasiano, fece
prestar giuramento dal senato e dai soldati che ivi restavano, a
Vitellio, e il senato gli accordò tutti gli onori consueti.

Intanto _Vitellio_, dopo aver lasciato ad _Ordeonio Fiacco_ un corpo
di milizie per la guardia del Reno germanico, col resto delle genti
che potè raccorre, si mise in viaggio verso l'Italia. Per istrada
intese la vittoria de' suoi e la morte di Ottone, e che _Cluvio Rufo_,
governator della Spagna, avea ricuperate le due Mauritanie. Arrivato a
Lione, quivi trovò non meno i vincitori che i vinti generali. Perdonò
a _Tiziano_ fratello di Ottone, perchè il conosceva per uomo dappoco.
Conservò il consolato a _Mario Celso. Svetonio_ e _Procolo_ si
acquistarono la di lui grazia con una viltà, asserendo di aver fatta
consigliatamente perdere la vittoria ad Ottone nella battaglia di
Bedriaco. Mandò Vitellio a Roma un editto, per cui proibiva ai
cavalieri il combattere da gladiatori fra loro e contro le fiere negli
anfiteatri. Un altro ancora, che tutti gli strologhi e indovini prima
delle calende di ottobre fossero fuori d'Italia. Si vide attaccato
nella stessa notte un cartello, in cui essi strologhi comandavano a
lui di uscire del mondo prima del suddetto medesimo giorno. Se ne
alterò talmente Vitellio, che qualunque d'essi che gli capitasse alle
mani, senza processo il condannava alla morte. Grande odiosità si tirò
egli addosso coll'aver inviato ordine che si levasse la vita a _Gneo
Cornelio Dolabella_ uno de' più illustri Romani, odiato da lui per
particolari riguardi, che, relegato ad Aquino, era dopo la morte di
Ottone ritornato a Roma. L'ordine fu barbaramente eseguito. Intanto a
poco a poco tutte le provincie si andarono sottomettendo a lui; ma
l'Italia era afflitta per le tante soldatesche del medesimo Vitellio e
dell'altre che furono di Ottone. Senza disciplina saccheggiavano,
uccidevano, e sotto l'ombra loro anche molti altri faceano ruberie e
vendette. Entrato che fu Vitellio in Italia, trovò modo di dividere le
milizie (e specialmente i pretoriani) che avevano servito ad Ottone,
perchè le conobbe malcontente ed inquiete, e a poco a poco le andò
cassando, con dar loro delle ricompense. Venne a Cremona, e volle coi
suoi occhi vedere il campo dove s'era data (già scorreano quaranta
giorni) la battaglia; ed avvegnachè fossero tuttavia insepolte quelle
migliaia di cadaveri, e menasse un insopportabil fetore, non lasciò
ordine che si seppellissero; anzi disse che _l'odore di un nemico
morto sapea di buono._ Menava seco circa sessantamila combattenti,
senza i famigli ed altre persone destinate al bagaglio, ch'erano più
del doppio. Dovunque passava questa gran ciurma, lasciava lagrimevoli
segni della sua rapacità e barbarie. Verso la metà di luglio arrivò a
Roma, e, se non era distornato da' suoi amici, volea farvi l'entrata
in abito da guerra, come in una città conquistata. L'accompagnavano
mandre di eunuchi e commedianti, secondo la usanza del suo maestro
Nerone, e questi ebbero poi parte agli affari. Trovata _Sestilia_ sua
madre nel Campidoglio, le diede il cognome di _Augusta_; ma ella non
se ne allegrò punto, anzi si vergognava di avere un sì indegno
imperadore per figlio. Morì ella dipoi in quest'anno, non si sa se per
iniquità del figliuolo, o per veleno da lei preso, prevedendo i mali
che doveano avvenire. Fece dipoi Vitellio una nuova leva di coorti
pretoriane sino a sedici, tutte di mille uomini per cadauna, e gente
scelta. Due furono i prefetti del pretorio, cioè _Publio Sabino_ e
_Giulio Prisco. Valente_ e _Cecina_ potevano tutto in corte, ma sempre
fra loro discordi. Diedesi poi questo ghiottone Augusto, com'era il
suo stile, a fare del suo ventre un dio, ma con eccessi maggiori, a
misura della dignità e del comodo accresciuto. Il suo mestiere
cotidiano era mangiare e bere e vomitare per far luogo ad altri cibi e
bevande. Consumava in ciò tesori; e molti si spiantarono per fargli
de' conviti. Non istimava nè lodava questo mostro se non le azioni di
Nerone, e le imitava bene spesso, inclinando anche alla crudeltà, di
cui rapporta Svetonio[438] varii esempli; e se fosse sopravvissuto
molto, forse sarebbe riuscito anche in ciò non inferiore a lui. La
maniera di guadagnarlo soleva essere l'adulazione; ma siccome egli era
timido e sospettoso, poco ci voleva a disgustarlo.

E fin qui abbiam veduto le due tragedie di _Galba_ e di _Ottone._ Ora
è tempo di passare alla terza. Di niuno più temeva Vitellio che di
_Flavio Vespasiano_, generale dell'armi romane nella Giudea, dove si
continuava la guerra con apparenza ch'egli fosse per assediar
Gerusalemme. Allorchè gli venne la nuova che esso Vespasiano e
_Licinio Muciano_, governator della Soria, il riconoscevano per
imperadore, ne fece gran festa. Ed, in vero, sulle prime niuno mai
s'avvisò che Vespasiano potesse arrivar all'imperio, nè egli vi
aspirava, perchè bassamente nato a Rieti e mancante di danaro. Si
raccontavano ancora molte viltà di lui nella vita privata; e
Tacito[439] ci assicura ch'egli si era tirato addosso l'odio e il
dispregio de' popoli; ma i fatti mostrarono poi tutto il contrario.
Comunque sia, Dio l'aveva destinato a liberar Roma dai mostri, e a
punire l'orgoglio de' Giudei implacabili persecutori del nato
Cristianesimo. Era egli per altro dotato di molte lodevoli qualità,
perchè senza fasto, temperante nel vitto, amorevole verso tutti, e
massimamente verso i soldati, che l'amavano non poco, ancorchè li
tenesse in disciplina; vigilante e prudente, buono soldato e migliore
capitano. Sopra tutto veniva considerato come amator della giustizia;
la sua età era allora d'anni sessanta. Si può giustamente credere che
dopo la morte di Galba i più saggi de' Romani, al vedere che i due
usurpatori Ottone e Vitellio, senza sapersi chi fosse il peggiore di
loro, disputavano dell'imperio, rivolgessero i lor occhi e desiderii a
Vespasiano, e segretamente ancora l'esortassero al trono. _Flavio
Sabino_ di lui fratello gran figura faceva anch'egli, coll'essere
prefetto di Roma, e le sue belle doti maggiormente accreditavano
quelle del fratello. O questo fosse, o pure che gli uffiziali e
soldati di Vespasiano mirando quel che aveano fatto gli altri in
Ispagna, Roma e Germania, non volessero essere da meno: certo è che si
cominciò da essi a proporre di far imperadore Vespasiano. Quegli che
diede l'ultima spinta all'irrisoluzione di esso Vespasiano,
personaggio guardingo e non temerario, fu il suddetto _Licinio
Muciano_ governator della Soria, il quale dopo la morte di Ottone gli
rappresentò, che non era sicura nè la comune lor dignità, nè la vita
sotto quell'infame imperador di Vitellio. Si lasciò vincere in fine
Vespasiano, ed essendo entrato nella medesima lega anche _Tiberio
Alessandro_ governator dell'Egitto, fu egli il primo a proclamarlo in
Alessandria imperadore nel dì primo di luglio[440]; e lo stesso fece
nel terzo giorno di esso mese anche la armata della Giudea, a cui
Vespasiano promise un donativo, simile a quel di Claudio e di Nerone.
La Soria, e tutte le altre provincie e i re sudditi di Roma in
Oriente, e la Grecia alzarono anche esse le bandiere del novello
Augusto. Furono scritte lettere a tutte le provincie dell'Occidente,
per esortar ciascuno ad abbandonar Vitellio, usurpatore indegno del
trono imperiale[441]. Si fece intendere ai pretoriani cassati da
Vitellio, che questo era il tempo di farlo pentire; e veramente
costoro arrolatisi in favor di Vespasiano, fecero di poi delle
meraviglie contra di Vitellio.

Essendo così ben disposte le cose, e procacciate quelle somme di
denaro che si poterono raccogliere per muovere le soldatesche, e in un
gran consiglio tenuto in Berito, fu conchiuso che _Muciano_ marcerebbe
con un competente esercito in Italia; _Tito_, figliuolo di Vespasiano,
già dichiarato _Cesare_, continuerebbe lentamente la guerra contro ai
Giudei: e _Vespasiano_ passerebbe nella doviziosa provincia
dell'Egitto, per raunar danaro, ed affamare o provveder di grani Roma,
secondochè portasse il bisogno. _Muciano_, uomo ambizioso, e che
mirava a divenire in certa maniera compagno di Vespasiano nel
principato, accettò volentieri quella incumbenza. Per timore delle
tempeste non si arrischiò al mare; ma imprese il viaggio per terra,
con disegno di passare lo stretto verso Bisanzio; al qual fine ordinò
che quivi fossero pronti i vascelli del mar Nero. Non era molto
copiosa e possente l'armata di Muciano, ma a guisa de' fiumi regali
andò crescendo per via: tanta era la riputazion di Vespasiano, e
l'abbominazion di Vitellio. Nella Mesia le tre legioni che stavano ivi
a' quartieri, si dichiararono per Vespasiano; e l'esempio d'esse seco
trasse due altre della Pannonia, e poi le milizie della Dalmazia,
senza neppur aspettare l'arrivo di Muciano. _Antonio Primo_ da Tolosa,
soprannominato _Becco di Gallo_, forse dal suo naso (dal che impariamo
l'antichità della parola _Becco_), uomo arditissimo[442], sedizioso ed
egualmente pronto alle lodevoli che alle malvage imprese, quegli fu
che colla sua vivace eloquenza commosse popoli e soldati contra di
Vitellio, nè aspettò gli ordini di Vespasiano o di Muciano, per farsi
generale di quelle legioni. Che più? Chiamati in soccorso i re degli
Svevi ed altri Barbari, e trovato che quelle milizie nulla più
sospiravano che di entrare in Italia, per arricchirsi nello spoglio di
queste belle provincie, di sua testa con poche truppe innanzi agli
altri calò in Italia, e fu con festa ricevuto in Aquileia, Padova,
Vicenza, Este, ed altri luoghi di quelle parti. Mise in rotta un corpo
di cavalleria, ch'era postata al Foro da Alieno, dove oggidì è
Ferrara. Rinforzato poi dalle due legioni della Pannonia (soleva
essere ogni legione composta di seimila soldati), s'impadronì di
Verona, e quivi si fortificò. Colà ancora giunse _Marco Aponio
Saturnino_ con una delle legioni della Mesia, e concorse ad arrolarsi
sotto di Primo gran copia dei pretoriani licenziati da Vitellio.
Ancorchè fosse sì grande il suscitato incendio, non s'era per anche
mosso l'impoltronito Vitellio. Svegliossi egli allora solamente, che
intese penetrato il fuoco fino in Italia. Perchè _Valente_ non era ben
rimesso da una sofferta malattia, diede il comando delle sue armi ad
_Alieno Cecina_, con ordine di marciare speditamente contra di
_Antonio Primo._ Venne Cecina con otto legioni almeno, cioè con tali
forze che avrebbe potuto opprimerlo. Mandò parte delle milizie a
Cremona, e col più della gente armata si portò ad Ostiglia sul Po.
Macchinando poi altre cose, perdè apposta il tempo in iscrivere
lettere di rimproveri e minacce ai soldati di Primo, ed intanto lasciò
che arrivassero a Verona le due altre legioni della Mesia. Finalmente,
dappoichè intese che _Luciano Basso_, governatore della flotta di
Ravenna, con cui teneva intelligenza, verso il di 20 d'ottobre s'era
rivoltato in favor di Vespasiano: allora, come se fosse disperato il
caso per Vitellio, si diede ad esortare i soldati ad abbracciare il
partito di Vespasiano, e molti ne indusse a prestar giuramento a lui,
e a rompere le immagini di Vitellio. Ma gli altri, che non poteano
sofferir tanta perfidia, e quegli stessi che poc'anzi aveano
giurato[443], presi dalla vergogna e pentiti, si scagliarono contra di
lui, senza alcun rispetto al carattere di console, incatenato
l'inviarono a Cremona, e cominciarono a caricar anch'essi il bagaglio,
per passare colà.

Ad _Antonio Primo_, ch'era in Verona, fu portata dalle spie
l'informazione di quanto era accaduto ad Ostiglia, e subito fu in
armi, per impedir l'unione di quell'esercito con quel di Cremona.
Inoltratosi sino a Bedriaco, luogo fatale per le battaglie, e circa
nove miglia lungi da quel sito, s'incontrò colle soldatesche di
Vitellio, che uscite di Cremona venivano per unirsi con quelle
d'Ostiglia. Ciò fu circa il dì 26 di ottobre. Dopo sanguinoso
conflitto le mise in rotta, obbligando chi scampò dalle sue spade a
rifugiarsi in Cremona. Ad alte voci allora dimandarono i vittoriosi
soldati di andar dirittamente a Cremona, per isperanza d'entrarvi e
per avidità di saccheggiarla. Nè gli avrebbe potuto ritenere Primo, se
non fosse giunto l'avviso che s'appressava l'altra armata partita da
Ostiglia, e in ordinanza di battaglia. Era già sopraggiunta la notte,
e pure i due eserciti vennero alle mani con ardore, con fierezza
inaudita, combattendo, per quanto comportavano le tenebre, senza
distinguere talvolta chi fosse amico o nemico. Levatasi poi la luna,
cominciò Primo a provarne del vantaggio, perchè essa dava nel volto ai
nemici. Durò il combattimento tutto il resto della notte, e fatto poi
giorno, avendo la terza legione, già venuta di Soria, secondo l'uso di
que' paesi, salutato il sole con alti ed allegri _Viva_, questo rumore
fece credere a que' di Vitellio che l'esercito di Muciano fosse
arrivato, e diede loro tal terrore, che riuscì poi facile a Primo lo
sconfiggerli ed obbligarli alla fuga. Giuseppe[444], narrando che dei
soldati di Vitellio in queste azioni perirono trentamila e dugento
persone, quattromila e cinquecento di quei di Vespasiano,
verisimilmente, secondo l'uso delle battaglie, ingrandì di troppo il
racconto, nè noi siam tenuti a prestargli fede. Bensì possiam credere
a Dione allorchè dice, che oscurandosi talvolta la luna per qualche
nuvola, cessava il combattimento; e che i soldati emuli vicini
parlavano l'uno all'altro, chi con villanie, chi con parole
amichevoli, e con detestar le guerre civili, e con invitar
l'avversario a seguitar Vitellio o pur Vespasiano. Ma non c'è già
ragion di credere che l'uno porgesse all'altro da mangiare e da bere,
finchè non si provi che i soldati di allora erano sì bravi od
industriosi da portar seco anche nel furor delle zuffe le loro bisacce
al collo, coll'occorrente cibo e bevanda. Tanto poi Dione quanto
Tacito ci assicurano che incomodando forte una grossa petriera, con
lanciar sassi, l'esercito di Vespasiano, due coraggiosi soldati, dato
di piglio a due scudi degli avversarii, si finsero Vitelliani; ed
arrivati alla macchina ne tagliarono le funi, con render essa inutile,
ma con restar anch'essi tagliati a pezzi senza che rimanesse memoria
alcuna del lor nome. Dopo lo spoglio del campo, _a Cremona, a
Cremona_, gridarono i vincitori soldati. Bisognò andarvi. Si credevano
di saltarvi dentro, ma trovarono un impensato ostacolo, cioè un alto e
mirabil trinceramento, fatto fuor della città nella precedente guerra
di Ottone, alla cui difesa era accorsa quasi tutta la milizia
esistente in Cremona. Fecero delle maraviglie i soldati di Vespasiano
per superar quel sito: tanta era la lor gola di arrivar al sacco di
quella ricca città, che Antonio Primo avea loro benignamente
accordato: il che fatto, assalirono la città. Con tutto che questa
fosse cinta di forti mura e torri e piena di popolo, invilirono sì
fattamente i soldati vitelliani, che non tardarono a trattare di
rendersi. Scatenarono per questo _Alieno Cecina_, acciocchè
s'interponesse nel perdono, ed esposero bandiera bianca. Uscì Cecina
vestito da console co' suoi littori, cioè colle sue guardie, e passò
al campo dei vincitori, ma accolto da tutti con ischerni e rimproveri,
perchè la perfidia suol essere pagata coll'odio d'ognuno. D'uopo fu
che _Antonio Primo_ il facesse scortare, tanto che fosse in luogo
sicuro, da potersi portare a trovar Vespasiano.; Fu perdonato ai
soldati di Vitellio, ma non già all'infelicissima città allora celebre
per bellissime fabbriche, per gran popolo, per molte ricchezze[445].
Quarantamila soldati, e un numero maggior di famigli e bagaglioni,
come cani v'entrarono. Stragi e stupri senza numero; non si perdonò
neppure ai templi: tutto andò a sacco; e in fine si attaccò il fuoco
alle case. Gli stessi soldati di Vitellio, che prima difendeano quella
città, gareggiarono in tanta barbarie con gli altri; anzi fecero di
peggio, perchè più pratici de' luoghi. Che vi perissero cinquantamila
di quegli innocenti e miseri cittadini, lo scrive Dione. A me par
troppo. Gli abitanti rimasti in vita furono tenuti per ischiavi, e poi
riscattati. Per cura di Vespasiano venne poi riedificata e popolata di
nuovo quella città.

Vitellio intanto se ne stava in Roma agitato, e con isfoggiata tavola,
niuna apprensione mostrando di tanti romori. Ma quando cominciarono
sul fine di ottobre ad arrivare l'un dietro l'altro i funesti avvisi
di quanto era succeduto, allora gli corse il freddo per l'ossa. E
poscia udendo che Antonio Primo s'era messo in cammino per venire a
Roma, buffava, non sapea più dove si fosse, ora pensando a far ogni
sforzo per resistere, ora a dimettere l'imperio, ed a ritirarsi a vita
privata, ora facendo il bravo con la spada al fianco, ed ora il
coniglio, con far ridere il senato, e con trovare ormai poca
ubbidienza ne' pretoriani. Tuttavia spedì _Giulio Prisco_ ed _Alfeno
Varo_ con quattordici coorti pretoriane, e tutti i reggimenti, di
cavalleria, a prendere i passi dell'Apennino[446], e vi aggiunse la
legione dell'armata navale: esercito sufficiente a sostener con vigore
la guerra, se avesse avuto capitani migliori. Si postò a Bevagna
quest'armata, e colà ancora si portò poi lo stesso Vitellio, benchè
solennissimo poltrone, per le istanze dei soldati. Attediossi ben
presto di quel soggiorno, e venutagli poi nuova che _Claudio Faentino_
e _Claudio Apollinare_ aveano indotta alla ribellione l'armata navale
del Miseno, e le città circonvicine, se ne tornò a Roma, ed inviò
_Lucio Vitellio_ suo fratello ad occupar Terracina per opporsi da
quella banda ai ribelli. Ma _Antonio Primo_ colle milizie fedeli a
Vespasiano, alle quali egli permetteva il far quante insolenze ed
iniquità volevano nel viaggio, passò l'Apennino. Pervenuto che fu a
Narni, se gli arrenderono la legione e le coorti inviate contra di lui
da Vitellio. E pur Vitellio in sì duro frangente seguitava a starsene
con tal torpedine in Roma, che la gente sapea bensì esser egli il
principe, ma parea di non saperlo egli stesso. Ogni dì nuove, l'una
più dell'altra cattive. A _Fabio Valente_ suo generale, ch'era stato
preso nell'andar nelle Gallie, e rimandato ad Urbino, tagliata fu la
testa, per far conoscere ai Vitelliani falsa una voce, ch'egli avesse
messa in armi la Germania e Gallia contra di Vespasiano. Vero
all'incontro era che anche le Spagne, le Gallie e la Bretagna
riconobbero Vespasiano per imperadore. Poc'altro che Roma ormai non
restava a Vitellio; e però _Flavio Sabino_, fratello di Vespasiano,
che fin qui era stato prefetto della città, con fedeltà e buona
intelligenza di Vitellio, desiderando di salvar Roma da più gravi
disordini, avea proposto dei temperamenti a Vitellio stesso, per
salvargli la vita. Altrettanto aveano fatto con lettere _Muciano_ e
_Primo_; e già s'era in concerto che Vitellio, deponendo l'impero, ne
riceverebbe in contraccambio un milione di sesterzii e terre nella
Campania. In fatti egli nel dì 18 di dicembre, uscito di palazzo in
abito nero co' suoi domestici, e col figliuolo tuttavia fanciullo,
piangendo dichiarò al popolo che per bene dello Stato egli deponeva il
comando; ma nel voler consegnare la spada al console _Cecilio
Semplice_, nè questi nè gli altri la vollero accettare. A tale
spettacolo commosso il popolo protestò di non volerlo sofferire; ma
scioccamente, perchè tutto si rivolse poscia in danno della città e
rovina maggior di Vitellio. Trovavasi in questo mentre un'assemblea
de' primi senatori, cavalieri ed uffiziali militari presso _Flavio
Sabino_,[447] trattando del buono stato di Roma, colla persuasione che
veramente fosse seguita, o che seguirebbe la rinunzia di Vitellio.
Alla nuova dell'abortito trattato, fu creduto bene che _Sabino_
andasse al palazzo per esortare o forzar Vitellio a cedere. Andò egli
accompagnato da una buona truppa di soldati; ma per via essendosi
incontrato colla guardia de' Tedeschi, si venne ad un picciolo
combattimento. Salvossi Sabino nella rocca del Campidoglio con alcuni
senatori e cavalieri, e co' due suoi figliuoli _Sabino_ e _Clemente_,
e con _Domiziano_ figlio minore di Vespasiano. Quivi assediato fece
una meschina difesa; v'entrarono i Germani, ed appiccato il fuoco al
Campidoglio (non si sa da chi), si vide ridotto in cenere
quell'insigne luogo, con perir tante belle memorie che ivi erano:
accidente sommamente compianto dal popolo romano. Fuggirono di là
_Domiziano_, i figli di _Sabino;_ non già l'infelice _Sabino_, che,
preso dai Germani insieme con _Quinzio Attico_ console, fu condotto
carico di catene davanti a Vitellio. Si salvò _Attico;_ ma _Sabino_,
uomo di gran credito e di raro merito, e fratello maggiore di
_Vespasiano_, sotto le furiose spade di que' soldati perdè la vita:
del che più che d'altro s'afflisse dipoi _Vespasiano_, ma non già
_Muciano_ che il riguardava come ostacolo all'ascendente della sua
fortuna.

Antonio _Primo_, informato di queste lagrimevoli scene, mosse allora
il suo campo alla volta di Roma, dove si trovò all'incontro la milizia
di Vitellio, e lo stesso popolo in armi. Giacchè egli e _Petilio
Cereale_ non vollero dar orecchio alle proposizioni di qualche
accordo, varii combattimenti seguirono, favorevoli ora all'una ed ora
all'altra parte; ma finalmente rimasero superiori quei di Vespasiano.
Furono presi varii luoghi di Roma, e il quartiere de' pretoriani,
commessi molti saccheggi colle consuete appendici, e strage di tanta
gente, che Giuseppe[448] e Dione la fanno ascendere a cinquantamila
persone[449]. Veggendosi allora a mal partito Vitellio, dal palazzo
fuggì nell'Aventino, con pensiero di andarsene nel dì seguente a
trovar _Lucio_ suo fratello a Terracina. Ma sul falso avviso che non
erano disperate le cose, tornò al palazzo, e trovato poi che ognun se
n'era fuggito, preso un vile abito, con una cintura piena d'oro, andò
a nascondersi nella cameretta del portinaio, oppur nella stalla de'
cani, da più di uno de' quali fu anche morsicato. A nulla gli servì
questo nascondiglio. Scoperto da un tribuno, per nome _Giulio Placido
_, ne fu estratto, e con una corda al collo, colle mani legate al di
dietro, fu menato per le strade, dileggiato, e con picciole punture
trafitto in varie forme dai soldati, ed ingiuriato dal popolo,
senzachè alcuno compassion ne mostrasse; anzi correndo ognuno a
rovesciar le sue statue sotto gli occhi di lui. Credette di fargli
servigio un soldato tedesco, per levarlo da tanti obbrobrii, e gli
lasciò sulla testa un buon colpo: il che fatto, si ammazzò da sè
stesso, ovvero, come si ha da Tacito, fu ucciso dagli altri. Terminò
la sua vita _Vitellio_, coll'essere gittato giù per le scale gemonie;
il cadavero suo fu coll'uncino strascinato al Tevere, e la sua testa
portata per tutta la città. Era in età di cinquantasette anni; e
questo frutto riportò egli dalla sconsigliata sua ambizione, alzato da
chi nol conosceva a sì sublime grado, ed abborrito da chi sapea di sua
vita, riguardandolo per troppo indegno dell'imperio, e certamente
incapace di sostenerlo con tanto perversi costumi e sì grande
poltroneria. Restò bensì libera Roma dall'usurpatore Vitellio, ma non
già dalle atroci pensioni della guerra civile. Per lungo tempo
durarono i saccheggi e gli omicidii. Maltrattato era chiunque fu amico
di Vitellio, e sotto questo pretesto si estendeva ad altri la feroce
avidità dei vittoriosi e licenziosi soldati: in una parola, tutto era
lutto, confusione e lamenti in Roma ed altrove. Ancorchè _Domiziano_,
figlio di Vespasiano, fosse ornato immediatamente col nome di
_Cesare_, pure niun rimedio apportava, intento solo a sfogar le
passioni proprie della scapestrata gioventù. _Lucio Vitellio_,
fratello dell'estinto Augusto, venne ad arrendersi colle sue
soldatesche, sperando pure miglior trattamento; ma restò anch'egli
barbaramente ucciso. Fece lo stesso fine _Germanico_, piccolo
figliuolo del medesimo imperadore. Subito che si potè raunare il
senato, furono decretati a _Flavio Vespasiano_ tutti gli onori soliti
a godersi dagl'imperadori romani. E bisogno ben grande v'era di un sì
fatto imperadore, sì per rimettere in calma la sconcertata Roma ed
Italia, come ancora per dar sesto alla Germania e Gallia dove _Claudio
Civile_ avea mosso dei gravi torbidi che accenneremo fra poco. Guerra
eziandio era nella Giudea, guerra nella Mesia e nel Ponto.
Sovrastavano perciò danni e pericoli non pochi alla romana repubblica,
se non arrivava a reggerla un Augusto, che per senno e per valore
gareggiasse coi migliori.

NOTE:

[419] Tacitus, Historiar., lib. 1, cap. 7. Dio, lib. 64.

[420] Sueton., in Vitellio, cap. 7.

[421] Plutarc., in Galba. Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 55.

[422] Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 13.

[423] Sveton., in Othone, cap. 5.

[424] Tacitus, Historiar., lib. 1, c. 27. Plutarchus, in Galba.

[425] Tacitus, lib. 1, cap. 77.

[426] Plutarc., in Othone.

[427] Tacitus, Hist., lib. 1, cap. 1.

[428] Idem, ibid., cap. 61 et seq.

[429] Plutarchus, in Othone.

[430] Suetonius, in Othone, cap. 8. Dio, lib. 64. Tacitus, Histor.,
lib. 1, cap. 74.

[431] Tacitus, Histor., lib. 2, cap. 21.

[432] Plutarc., in Othone.

[433] Dio, lib. 64.

[434] Plutarc., in Othone.

[435] Sueton., in Othone, cap. 10.

[436] Tacitus, Histor., lib. 2, c. 48.

[437] Plutarcus, in Othone.

[438] Sueton., in Vitellio, cap. 24. Dio, lib. 64

[439] Tacitus, Histor., lib. 2, c. 97. Suetonius, in Vespasiano, c. 4.

[440] Joseph., de Bello Judaic., lib. 4.

[441] Tacitus, Historiar., lib. 2, cap. 82.

[442] Sueton., in Vitellio, cap. 18.

[443] Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 13.

[444] Joseph., de Bello Judaico, lib. 5, cap. 13.

[445] Tacitus, Historiar., lib. 3, c. 33. Dio, lib. 65.

[446] Tacitus, Historiar., lib. 3, cap. 55.

[447] Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 69.

[448] Joseph., de Bel. Jud., lib. 4, cap. 42. Dio, lib. 65.

[449] Sueton., in Vitellio, cap. 16.




    Anno di CRISTO LXX. Indizione XIII.

    CLEMENTE papa 4.
    VESPASIANO imperadore 2.

_Consoli_

FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO imperad. per la seconda volta, e TITO FLAVIO
CESARE suo figliuolo.


Ancorchè fossero lontani da Roma _Vespasiano_ Augusto e _Tito_ suo
figlio, dichiarato anch'esso _Cesare_ dal senato, pure, per onorare i
principii di questo nuovo imperadore, furono amendue promossi al
consolato, in cui procederono per tutto giugno. In essa dignità ebbero
per successori nelle calende di luglio _Marco Licinio Muciano_ e
_Publio Valerio Asiatico:_ e poscia a questi nelle calende di novembre
succederono _Lucio Annio Basso_ e _Caio Cecina Peto._ Dacchè[450]
nell'anno precedente giunse a Roma _Muciano_, prese egli il governo,
facendo quel che gli parea sotto nome di Vespasiano. V'interveniva
anche _Domiziano Cesare_, figliolo dell'imperadore, per dar colore
agli affari; ma quantunque egli prendesse molte risoluzioni per le
istigazioni degli amici, pure l'autorità era principalmente presso
Muciano, uomo di smoderata ambizione, che s'andava vantando d'aver
donato l'imperio a Vespasiano, e di essere come fratello di lui, e
facendo perciò alto e basso, come s'egli stesso fosse l'imperadore.
Certo la sua prima cura fu quella di metter fine all'insolenza dei
soldati, e di ridurre la quiete primiera nella città. Ma un'altra
maggiormente n'ebbe per adunar danaro il più che si potea, per
rinforzare il pubblico fallito erario, dicendo sempre _che la pecunia
era il nerbo del Principato_; nè rincresceva di tirar sopra di sè
l'odiosità delle esazioni, e di risparmiarla a Vespasiano, perchè ne
profittava non poco anch'egli per sè stesso. Recavano a lui gelosia
_Antonio Primo_, divenuto in gran credito, per aver egli abbassato
Vitellio; ed _Arrio Varo_, perchè alzato alla potente carica di
prefetto del pretorio. Quanto a _Primo_, il caricò di lodi nel senato,
gli mostrò gran confidenza, gli fece sperare il governo della Spagna
Taraconense, promosse agli onori varii di lui amici; ma nello stesso
tempo mandò lungi da Roma le legioni che aveano dell'amore per lui, e
fece restar lui in secco. Andò Primo a trovar Vespasiano, che il
ricevè con molte carezze; ma Muciano, con rappresentarlo uomo
pericoloso a ragion della sua arditezza, e con rilevar gli
abbominevoli disordini da lui permessi in Cremona, Roma ed altrove,
per guadagnarsi l'affetto de' soldati, gli tagliò in fine le
gambe[451]. Per conto di _Varo_, gli tolse la prefettura del pretorio,
dandogli quella dell'annona, e sostituì nella prima carica _Clemente
Aretino_, parente di Vespasiano.

Allorchè si compiè la tragedia di Vitellio, si trovava _Vespasiano_ in
Egitto, _Tito_ suo figliuolo nella Giudea. Non sì tosto ebbe
Vespasiano avviso di quanto era avvenuto, che spedì da Alessandria a
Roma una copiosa flotta di navi cariche di grano, perchè le soprastava
una terribil carestia, e l'Egitto da gran tempo era il granaio de'
Romani, affinchè quel gran popolo abbondasse di vettovaglia. Se
vogliam credere a Filostrato[452], Vespasiano fece di gran bene
all'Egitto, con dare un saggio regolamento a quel paese, esausto in
addietro per le soverchie imposte, Dione[453] all'incontro attesta che
gli Alessandrini, i quali si aspettavano delle notabili ricompense,
per essere stati i primi ad acclamarlo imperadore, si trovarono
delusi, perchè egli volle da loro buone somme di danaro, esigendo gli
aggravii vecchi non pagati, senza esentarne nè meno i poveri, ed
imponendone di nuovi. Questo era il solo difetto o vizio (se pure,
come diremo, tal nome gli competeva) che s'avesse Vespasiano. Perciò
il popolo di Alessandria, popolo per altro avvezzo a dir quasi sempre
male de' suoi padroni, se ne vendicò con delle satire, e con caricarlo
d'ingiurie e di nomi molto oltraggiosi. Perciò vi mancò poco che
Vespasiano, quantunque principe savio ed amorevole, non li gastigasse
a dovere; e l'avrebbe fatto, se Tito suo figliuolo non si fosse
interposto, per ottener loro la grazia, con rappresentare al padre,
«che i saggi principi fanno quel che debbono, o credono ben fatto, e
poi lasciano dire.» Nella state venne Vespasiano Augusto alla volta di
Roma. Arrivato a Brindisi, vi trovò Muciano, ch'era ito ad incontrarlo
colla primaria nobiltà di Roma. Trovò a Benevento il figliuolo
_Domiziano_, che già aveva cominciato a dar pruove del perverso suo
naturale, con varie azioni ridicole, o con prepotenze. Perchè egli
nella lontananza del padre si era arrogata più autorità che non
conveniva, e trascorreva anche in ogni sorta di vizii: Vespasiano in
collera parea disposto a de' gravi risentimenti contra di questo
scapestrato figliuolo[454]. Il buon Tito suo fratello fu quegli che
perorò per lui, e disarmò l'ira del padre. Non lasciò per questo
Vespasiano di mortificar la superbia di esso Domiziano. Accolse poi
gli altri tutti con gravità condita di cordiale amorevolezza,
trattando non da imperadore, ma come persona privata con cadauno.
Aveva egli molto prima inviato ordine a Roma, che si rifabbricasse il
bruciato Campidoglio, dando tal incombenza a _Lucio Vestino_,
cavaliere di molto credito. Nel dì 21 di giugno s'era dato principio a
sì importante lavoro con tutto il superstizioso rituale e le cerimonie
di Roma pagana, con essersi gittate ne' fondamenti assai monete nuove
e non usate, perchè così aveano decretato gli aruspici. Giunto da lì a
non molto Vespasiano a Roma, per meglio autenticar la sua premura per
quella fabbrica, e per alzar quivi un sontuoso tempio[455], fu dei
primi a portar sulle sue spalle alquanti di que' rottami; e volle che
gli altri nobili facessero altrettanto, affinchè dal suo e loro
esempio si animasse maggiormente il popolo all'impresa. E perciocchè
nell'incendio d'esso Campidoglio erano perite circa tremila tavole di
rame, o sia di bronzo, cioè le più preziose antichità di Roma, perchè
in simili tavole erano intagliate le leggi, i decreti, le leghe, le
paci e gli altri atti più insigni del senato e del popolo romano fin
dalla fondazione di Roma, comandò che se ne ricercassero
diligentemente quelle copie che si potessero ritrovare, e di nuovo
s'incidessero in altre tavole. Parimente ordinò Vespasiano che fosse
restituita la buona fama a tutti i condannati al tempo di Nerone[456],
e sotto i tre susseguenti Augusti, e la libertà a tutti gli esiliati
che si trovassero vivi; e che si cassassero tutte le accuse de' tempi
addietro. Cacciò eziandio di Roma tutti gli strologhi, gente
perniciosa alle repubbliche, quantunque egli non disprezzasse
quest'arte vana, e tenesse in sua corte uno di tali pescatori
dell'avvenire, stimandolo il più perito degli altri. E si sa ch'egli,
a requisizione di un certo Barbillo strologo, concedette al popol di
Efeso di poter fare il combattimento appellato sacro: grazia da lui
non accordata ad altre città.

Due guerre di somma importanza ebbero in questi tempi i Romani, l'una
in Giudea, l'altra nella Gallia e Germania. Diffusamente è narrata la
prima da Giuseppe Ebreo; l'una e l'altra da Cornelio Tacito. Io me ne
sbrigherò in poche parole. Famosissima è la guerra. Avea quel popolo,
ingrato e cieco, ricompensato il Messia, cioè il divino Salvator
nostro, di tanti suoi benefizii, con dargli una morte ignominiosa;
avea perseguitata a tutto potere fin qui la nata santissima religione
di Cristo. Venne il tempo, in cui la giustizia di Dio volle lasciar
piombare sopra quella sconoscente nazione il gastigo, già a lei
predetto dallo stesso Signor nostro[457]. S'erano ribellati i Giudei
all'imperio romano, e per una vittoria da loro riportata contro
_Cestio_, parea che si ridessero delle forze romane[458]. Vespasiano,
irritato forte contra di loro, spedì _Tito_ suo figliuolo nella
primavera dell'anno presente per domarli. Gerusalemme era in quei
tempi una delle più belle; forti e ricche città dell'universo, perchè
i Giudei, sparsi in gran copia per l'Asia e per l'Europa, faceano gara
di divozione per mandar colà doni al tempio e limosine di danari. Per
dar anche a conoscere Iddio più visibilmente che dalla sua mano veniva
il gastigo, Tito andò ad assediarla in tempo che un'infinità di Giudei
era, secondo il costume, concorsa colà per celebrarvi la Pasqua: nel
qual tempo appunto aveano crocifisso l'umanato figliuol di Dio. Che
sterminato numero di essi per giusto giudizio di Dio si trovasse
ristretto in quella città, come in prigione, si può raccogliere dal
medesimo loro storico Giuseppe, il quale asserisce che, durante
quell'assedio, vi perì un milione e centomila Giudei, per fame e per
la peste. Sanguinosi combattimenti seguirono; ostinato quel popolo mai
non volle ascoltar proposizioni di pace e di arrendersi. Avvegnachè
riuscisse al copiosissimo esercito romano di superar le due prime
cinte di muro di quella città, la terza nondimeno, più forte
dell'altre, fu sì bravamente difesa dagli assediati, che Tito perdè la
speranza di espugnar la città colla forza, e si rivolse al partito di
vincerla con la fame. Un prodigioso muro con fosse e bastioni di
circonvallazione fatto intorno a Gerusalemme tolse ad ognuno la via a
fuggirsene. Però una orribil fame, e la peste sua compagna, entrate in
Gerusalemme, vi faceano un orrido macello di quegli abitanti; i quali
anche discordi fra loro e sediziosi, piuttosto amavano di vedere e
sofferire ogni più orribile scempio, che di suggettarsi di nuovo al
popolo romano. Non si può leggere senza orrore la descrizione che fa
Giuseppe di quella deplorabil miseria, a cui difficilmente si troverà
una simile nelle storie. Immense furono le ruberie e le crudeltà di
quei che più poteano in quella città; le centinaia di migliaia di
cadaveri accrescevano il fetore e le miserie di coloro che restavano
in vita; faceano i falsi profeti e i tiranni interni più male al
popolo che gli stessi Romani. Ma nel dì 22 di luglio il tempio di
Gerusalemme, fu preso, e con tutta la cura di Tito Cesare, perchè si
conservasse quell'insigne e ricchissimo edificio, Dio permise che gli
stessi Giudei vi attaccassero il fuoco, e si riducesse in un monte di
sassi e di cenere. S'impadronì poi Tito della città alta e bassa nel
mese di settembre colla strage e schiavitù di quanti si ritrovarono
vivi. Non solo il tempio, ma anche la città, parte dalle mani de'
vincitori, parte dal fuoco furono disfatti ed atterrati; e quella gran
città rimase per molto tempo un orrido testimonio dell'ira di Dio,
siccome la dispersion di quel popolo senza tempio, senza sacerdoti,
che noi tuttavia miriamo, fa fede, quello non essere più il popolo di
Dio, siccome aveano predetto i profeti.

L'altra guerra, che i Romani sostennero in questi tempi, ebbe
principio nella Batavia, oggidì Olanda, sotto Vitellio[459]. _Claudio
Civile_, persona di sangue reale, di gran coraggio, avendo prese
l'armi, stuzzicò quei popoli, e i circonvicini ancora, a rivoltarsi
contra de' Romani e di Vitellio, con apparenza nondimeno di sostenere
il partito di Vespasiano. Diede sul Reno una rotta ad _Aquilio_
generale de' Romani, e al suo fiacco esercito. Questa vittoria fece
voltar casacca a molte delle soldatesche, le quali ausiliarie
militavano per l'imperio, e commosse a ribellione altri popoli della
Germania e della Gallia; e però cresciute le forze a Claudio Civile,
non riuscì a lui difficile il riportare altri vantaggi. Ma dopo la
morte di Vitellio, i ministri di Vespasiano inviarono gran copia di
gente per ismorzar quell'incendio. _Annio Fallo_ e _Petilio Cereale_
furono scelti per capitani di tale impresa. Andò innanzi il terrore di
quest'armata, e cagion fu che la parte rivoltata della Gallia tornasse
all'ubbidienza. Furono ripigliate alcune città colla forza, date più
sconfitte a Civile e a' suoi seguaci, tanto che tutti a poco a poco si
ridussero a piegare il collo, e a ricorrere alla clemenza romana.
_Domiziano Cesare_ in questa occasione, bramoso di non essere da meno
di Tito suo fratello, volle andare alla guerra; e _Muciano_, per paura
che questo sfrenato ed impetuoso giovane non commettesse qualche
bestialità in danno dell'armi romane, giudicò meglio, di
accompagnarlo. Seppe poi con destrezza fermarlo a Lione sotto varii
pretesti, tanto che si mise fine a quella guerra, senzachè egli vi
avesse mano; e poscia; il ricondusse in Italia, acciocchè andasse ad
incontrar il padre Augusto, il quale; siccome già dicemmo, venne a
Roma nell'anno, presente, e fu ricevuto con gran magnificenza
dappertutto.

NOTE:

[450] Tacit., Histor., lib. 4. Dio, lib. 66.

[451] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 69.

[452] Philostratus, in Apollon. Tyan.

[453] Dio, lib. 66.

[454] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 52.

[455] Sueton., in Vespasiano, c. 8.

[456] Dio, in Excerptis Valesianis.

[457] Joseph., lib. 5 de bello Judaico.

[458] Tacitus, Histor., lib. 5.

[459] Tacitus, Histor., lib. 4.




    Anno di CRISTO LXXI. Indizione XIV.

    CLEMENTE papa 5.
    FLAVIO VESPASIANO imperadore 3.

_Consoli_

FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la terza volta, e MARCO COCCEIO NERVA.


Nerva, collega dell'imperadore nel consolato, divenne anch'egli col
tempo imperadore. Non tennero essi consoli se non per tutto febbraio
quella dignità, e ad essi succederono, nelle calende di marzo, _Flavio
Domiziano Cesare_, figliuolo di Vespasiano, e _Gneo Pedio Casto_.
Merito grande s'era acquistato _Tito Cesare_ presso il padre per la
guerra gloriosamente terminata nella Giudea. Maggior anche era il
merito de' suoi dolci costumi[460]. Cotanto si faceva egli amar dai
soldati, che, dopo la presa di Gerusalemme, l'armata romana, gli diede
il titolo militare d'imperadore; e volendo egli venire a Roma,
cominciarono tutti con preghiere, e poi con minacce, a gridare o che
restasse egli, o che tutti li conducesse seco. Per questo e per
qualche altro barlume insorse sospetto presso della gente maliziosa
ch'egli nudrisse dei disegni di rivoltarsi contra del padre: il che
giammai a lui non cadde in pensiero. Ne fu anche informato Vespasiano;
ma siccome egli avea troppe prove dell'onoratezza del figliuolo, così
non ne fece caso; anzi udito che già egli era in viaggio, il fece
dichiarar suo collega nell'imperio, e compagno anche nella podestà
tribunizia, ma senza conferirgli i titoli di _Augusto_ e _Padre della
Patria._ Questi onori equivalevano allora alla dignità dei re de'
Romani de' nostri giorni, ed erano un sicuro grado per succedere al
padre Augusto nella piena dignità ed autorità imperiale[461]. Passando
per la Città di Argos, volle Tito abboccarsi con _Apollonio Tianeo_,
filosofo di gran grido in questi tempi, e di cui molte favole hanno
spacciato i Gentili. Il pregò di dargli alcune regole per saper ben
governare. Altro non gli diss'egli, se non d'imitar Vespasiano suo
padre, e di ascoltar con pazienza Demetrio filosofo cinico, che facea
professione di dir liberamente, e senz'adulazione o rispetto di
alcuno, la verità; e che non s'inquietasse, se l'avesse ripreso di
qualche fallo. Tito promise di farlo. Sarebbe da desiderare un
filosofo sì fatto, e con tale autorità in ogni corte; e fors'anche in
ogni paese si troverebbe volendolo. Ma è da temere che non si
trovassero poi tanti Titi. Ebbe Tito sentore per istrada delle
relazioni maligne portate di lui al padre (e forse n'era stato sotto
mano autore l'invidioso Domiziano) con fargli anche sospettare che
Tito non verrebbe, perchè macchinava cose più grandi. Allora egli
s'affrettò, e in una nave da carico, quando men s'aspettava, arrivò in
corte; e quasi rimproverando il padre ch'era uscito in fretta ad
incontrarlo, un po' agramente gli disse: _Son venuto, Signor e Padre,
son venuto._

Fu decretato il trionfo dal senato tanto a Vespasiano, quanto al
figliuolo, e separatamente per la vittoria giudaica. Ma Vespasiano che
amava il risparmio in tutte le occorrenze, nè potea sofferir tanta
spesa, si contentò d'un solo che servisse ad amendue. Non s'era mai
veduto in addietro un padre trionfar con un figlio: si vide questa
volta. Memoria di questo trionfo tuttavia abbiamo nell'arco di Tito in
Roma, dato anche alle stampe dal Bellorio, e vi si mira portato
l'aureo candelabro del tempio di Gerusalemme. L'essersi felicemente
terminate le guerre della Giudea e Germania, diede campo a Vespasiano
di fabbricar il tempio della Pace, e di chiudere quello di Giano;
giacchè per tutto l'imperio romano si godeva un'invidiabil calma.
Questa specialmente tornò a fiorire in Roma insieme colla giustizia,
per tanti anni in addietro bandita da essa, e vi risorse la quiete
degli animi e l'allegria: tutti effetti del saggio e dolce governo di
Vespasiano. Buon concetto si avea nei tempi andati di questo
personaggio; ma, divenuto imperadore; superò di lunga mano
l'aspettazion di ognuno[462]. Imperocchè tosto si accinse egli con
vigore a ristabilire Roma e l'imperio, che tanto aveano patito sotto i
precedenti, o principi o tiranni; nè si diede mai posa, finchè visse,
per levare i disordini, e per abbellire quella gran città. Chiara cosa
essendo che i passati affanni principalmente erano proceduti
dall'avidità, insolenza e poca disciplina de' soldati, e soprattutto
de' pretoriani, vi rimediò col cassare la maggior parte di quei di
Vitellio, ed esigere rigorosamente la buona disciplina dai suoi
propri. Per assicurarsi meglio del pretorio, cioè delle guardie del
palazzo, con istupore di ognuno, creò lo stesso _Tito_, suo figliuolo
e collega, prefetto del pretorio: carica sempre innanzi esercitata dai
cavalieri, e che perciò divenne col tempo la più insigne ed apprezzata
dopo la dignità imperiale[463]. La vita di Vespasiano era senza fasto.
Il venerava ognuno come signore, ed egli amava all'incontro di
comparir verso tutti piuttosto concittadino, e come persona tuttavia
privata. Di rado abitava nel palazzo, più spesso negli orti
sallustiani, luogo delizioso. Dava quivi benignamente udienza non solo
ai senatori, ma agli altri ancora di qualsivoglia grado.
Vigilantissimo, soleva avanti giorno, stando in letto, leggere le
lettere e le memorie a lui presentate, ammettere i suoi familiari ed
amici, quando si vestiva, e favellar con loro delle cose occorrenti.
Uno di questi era _Plinio il Vecchio_[464]. Anche andando per istrada
non rifiutava di parlare con chi avea bisogno di lui. Fra il giorno
stavano aperte a tutti e senza guardia le porte della sua abitazione.
Sempre interveniva al senato, mostrando il convenevol rispetto a
quell'ordine insigne, nè v'era affare d'importanza che non comunicasse
con loro. Sovente ancora, andava in piazza a rendere giustizia al
popolo. E qualora per la sua avanzata età non potea portarsi al
senato, gli partecipava i suoi sentimenti in iscritto, e incaricava i
suoi figliuoli di leggerli. Nè solamente in ciò dava egli a conoscere
la stima che facea del senato, ma eziandio col voler sempre alla sua
tavola molti dei senatori, e coll'andar egli stesso non rade volte a
pranzare in casa degli amici e dei familiari suoi. Sapeva dir delle
burle, e pungere con grazia; nè s'avea a male, se altri facea lo
stesso verso di lui. Dilettavasi massimamente di praticar colle
persone savie, per le quali non vi era portiera, e fu udito dire[465]:
_Oh potess'io comandare a dei saggi, e che anche i saggi potessero
comandare a me!_ Non mancavano neppure in que' tempi pasquinate e
satire contro di lui; ma egli, benchè, ne fosse avvertito, non se ne
alterava punto, seguitando, ciò non ostante, a far ciò che riputava
utile alla repubblica. Allorchè Vespasiano era in Grecia col pazzo
Nerone[466], vedendolo un dì nel teatro prorompere in parole, e gesti
indecenti alla sua dignità, non seppe ritenersi dal fare un cenno di
stupore e disapprovazione. Febo, liberto di Nerone, osservato ciò, se
gli accostò, e dissegli che un par suo non istava bene in quel luogo.
_Dove, volete ch'io vada?_, disse allora Vespasiano. E il superbo ed
insolente liberto replicò, _che andasse alle forche._ Costui ebbe
tanto ardire di presentarsi, davanti a lui, già divenuto imperadore,
per addurre delle scuse. Altro male non gli fece Vespasiano, se non di
dirgli, _che se gli levasse davanti, e andasse alle forche_. Con rara
pazienza sofferiva egli che gli si dicesse la verità, e godeva quel
bel privilegio, tanto esaltato da Cicerone in Giulio Cesare, di
dimenticar le ingiurie. Maritò molto decorosamente tre figliuole di
Vitellio; e benchè si trovasse più d'uno che macchinò congiure contra
di un principe sì buono, contuttociò niuno mai gastigò se non
coll'esilio, solendo anche dire, _che compativa la pazzia di coloro, i
quali aspiravano all'imperio, perchè non sapevano che aggravio e spine
l'accompagnassero_. Però sua usanza fu di guadagnar coi benefizii, e
non di rimeritar coi gastighi, chi era stato ministro della crudeltà
de' tiranni, perchè volea credere che avessero così operato più per
paura che per malizia. E questo per ora basti de' costumi di
Vespasiano. Ne riparleremo andando innanzi, come potremo, giacchè si
son perdute le storie di Tacito, e con ciò a noi manca il filo
cronologico delle azioni di questo principe.

NOTE:

[460] Sveton., in Tito, cap. 5.

[461] Philostratus, in Apollon. Tyaneo.

[462] Sueton., in Vespasiano, cap. 8.

[463] Dio, lib. 66.

[464] Plinius Junior, lib. 4, epist. 5.

[465] Philostratus, in Vita Apollonii Tyan.

[466] Dio, lib. 66. Suetonius, in Vespasiano, cap. 14.




    Anno di CRISTO LXXII. Indizione XV.

    CLEMENTE papa 6.
    VESPASIANO imperadore 4.

_Consoli_

VESPASIANO AUGUSTO per la quarta volta, e TITO FLAVIO CESARE per la
seconda.


Dappoichè _Muciano_ venuto a Roma cominciò a godere de' primi onori,
il governo della Siria fu dato da Vespasiano a _Cesennio Peto._
Scriss'egli a Roma, che _Antioco re della Comagene_, il più ricco dei
re sudditi di Roma, con _Epifane_ suo figliuolo teneva dei trattati
secreti con _Vologeso_ re dei Parti, disegnando di rivoltarsi. Dubita
Giuseppe Ebreo[467], se Antioco fosse di ciò innocente, o reo, ed
inclina piuttosto al primo. Peto gli volea poco bene; e potè ordir
questa trama. Vespasiano, a cui troppo era difficile il chiarire la
verità, nè volea trascurar l'affare, essendo di somma importanza
quella provincia per le frontiere della Soria e dell'imperio romano:
mandò ordine a Peto di far ciò ch'egli credesse più convenevole, e
giusto in tal congiuntura. Pertanto unitosi quel governatore con
_Aristobolo re di Calcide_, e con _Soemo re di Emessa_, entrò
coll'esercito nella Comagene. A questa inaspettata mossa Antioco si
ritirò con tutta la sua famiglia, e senza voler far fronte all'armi
romane, lasciò che Peto entrasse in Samosata capitale dei suoi Stati.
Epifane e Callinico suoi figliuoli, prese le armi, fecero qualche
resistenza; ma tardarono poco i lor soldati a rendersi ai Romani. Si
rifuggirono essi alla corte di Vologeso, re dei Parti, che gli
accolse, non già come esiliati, ma come principi. Antioco lor padre
fuggì nella Cilicia. Peto inviò gente, a cercarlo, ed essendo stato
colto a Tarsi, fu caricato di catene, per essere condotto a Roma. Nol
permise Vespasiano, e spedì ordini che fosse rimesso in libertà, e che
potesse abitare a Sparta, dove gli facea somministrar tutto
l'occorrente, acciocchè vivesse da par suo. Per intercessione poi di
Vologeso, ai di lui figliuoli fu permesso di venire a Roma. Vi venne
anche Antioco, e tutti riceverono trattamento onorevole, senza più
riaver quegli Stati. Siamo assicurati da Svetonio[468] che la
Comagene, siccome ancora la Tracia, la Cilicia e la Giudea furono
ridotte in provincie sotto Vespasiano, cioè immediatamente governate
dagli uffiziali romani. Ma non tutto ciò avvenne sotto il presente
anno. Fece in questi tempi Vologeso re de' Parti istanza d'aiuti ai
Vespasiano, perchè gli Alani, feroce popolo della Tartaria, entrati
nella Media, obbligarono a fuggirne _Pacoro re_ di quel paese, e
_Tiridate re dell'Armenia_, minacciando anche il dominio di Vologeso.
Non si volle mischiar Vespasiano negli affari di que' Barbari; e forse
di qua venne qualche alterazion di animo fra di loro. Sappiamo da
Dione[469], aver quel superbo re scritta una lettera con questo
titolo: _Arsace re dei re a Vespasiano_, senza riconoscerlo per
imperador de' Romani. Vespasiano, lungi dal farne rimprovero o
doglianza alcuna, gli rispose nel medesimo tenore: _Ad Arsace re dei
re, Vespasiano_. Credesi[470] che in questi tempi avvenisse qualche
guerra nella Bretagna, dov'era andato per governatore _Petilio
Cereale_, con far quivi l'armi romane nuove conquiste.

Seguitava intanto Vespasiano a far dei saggi regolamenti[471] per
levare gli abusi, e rimettere il buon ordine in Roma. Osservate alcune
persone indegne ne' due nobili ordini senatorio ed equestre, le levò
via; e perchè era scemato di molto il numero dei medesimi senatori e
cavalieri, per la crudeltà de' regnanti precedenti, aggregò a quegli
ordini le famiglie e persone più riguardevoli e degne, non tanto di
Roma, quanto dell'Italia e dell'altre provincie. Trovò che le liti
civili erano cresciute a dismisura, andavano in lungo e si eternavano
anche talvolta: male non forestiere anche in altri tempi e in altri
luoghi. Cercò di rimediarvi con eleggere varii giudici, che le
sbrigassero senz'attendere le formalità e lunghezze ordinarie del
foro. Per mettere freno alla libidine delle donne libere che sposavano
gli schiavi, rinnovò il decreto che anch'esse, perduta la libertà,
divenissero schiave. Per frastornar coloro che prestavano danaro ad
usura ai figliuoli di famiglia, vietò il poterlo esigere dopo la morte
dei padri. Ma nulla più contribuì alla correzion de' costumi e a far
cessare il soverchio lusso de' Romani, che l'esempio dell'imperadore
stesso. Parca era la mensa sua; semplice e non mai pomposo il suo
vestire; sicura dal di lui potere l'altrui onestà. Il disapprovar egli
colle parole e coi fatti gli eccessi introdotti, più che le leggi e i
gastighi, ebbe forza d'introdurre la riforma dei costumi nella
nobiltà, e in chiunque desiderava d'acquistare o conservar la grazia
di lui. Aveva[472] egli conceduta una carica ad un giovane. Andò
costui per ringraziarlo tutto profumato. Questo bastò perchè
Vespasiano, guatandolo con disprezzo, gli dicesse: _Avrei avuto più
caro che tu puzzassi d'aglio;_ e gli levò la patente. Oltre a ciò, per
guarire l'altrui vanità e superbia col proprio esempio, parlava egli
stesso della bassezza della prima sua fortuna, e si rise di chi avea
compilata una genealogia piena di adulazione, per mostrare[473]
ch'egli discendeva dai primi fondatori della città di Rieti sua
patria, e da Ercole. Anzi talora nella state andava a passar qualche
giorno nella villa, dov'egli era nato, fuori di Rieti, senza voler mai
che a quel luogo si facesse mutazione alcuna, per ben ricordarsi di
quello ch'egli fu una volta. E in memoria di _Tertulla_ sua avola
paterna, che l'avea allevato, nei dì solenni e festivi solea bere in
una tazza d'argento da lei usata.

NOTE:

[467] Joseph., de Bello Judaico, lib. 7.

[468] Suet., in Vespasiano, c. 8.

[469] Dio, lib. 66.

[470] Tacitus, in Vita Agricolae, c. 17.

[471] Suet., in Vespasiano, c. 9.

[472] Suet., in Vespasiano, c. 8.

[473] Idem, cap. 12.




    Anno di CRISTO LXXIII. Indizione I.

    CLEMENTE papa 7.
    VESPASIANO imperadore 5.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO CESARE per la seconda volta, e MARCO VALERIO
MESSALINO.


Console ordinario fu in quest'anno _Domiziano_[474], non già per li
meriti suoi nè per elezione del saggio suo padre, ma perchè il buon
Tito suo fratello, disegnato per sostenere anche nell'anno presente sì
riguardevol dignità, la cedette a lui, e pregò il padre di
contentarsene. E si vuol qui appunto avvertire che esso Tito era in
tutti gli affari il braccio diritto del vecchio padre[475]. A nome di
lui dettava egli le lettere e gli editti, e per lui recitava in senato
le determinazioni occorrenti. Secondochè s'ha dalla cronaca
d'Eusebio[476], circa questi tempi (se pur ciò non fu più tardi)
l'Acaia, la Licia, Rodi, Bizanzio, Samo ed altri luoghi di Oriente
perderono la lor libertà, perchè se ne abusavano in danno lor proprio
per le sedizioni e nemicizie regnanti fra i cittadini. Non si mandava
colà proconsole o governatore romano in addietro, lasciando che si
governassero coi propri magistrati e colle lor leggi. Da qui innanzi
furono sottoposti al governo del presidente inviato da Roma, e a
pagare i tributi al pari dell'altre provincie. Per attestato ancora di
Filostrato[477], _Apollonio Tianeo_, filosofo rinomato di questi
tempi, grande strepito fece contra di Vespasiano, perchè avesse tolta
alla Grecia quella libertà che Nerone, tuttochè principe sì cattivo,
le avea restituita. Ma Vespasiano il lasciò gracchiare, dicendo _che i
Greci aveano disimparato il governarsi da gente libera_. Il Calvisio,
il Petavio, il Bianchini ed altri, non per certa cognizione del tempo,
ma per mera congettura, riferiscono a quest'anno la cacciata de'
_filosofi_ da Roma: risoluzione che par contraria alla saviezza di
Vespasiano, ma che fu fondata sopra giusti motivi. Le diede impulso
_Elvidio Prisco_ nobile senatore romano, e professore della più rigida
filosofia degli stoici, la qual era allora più dall'altre in voga
presso i Romani. A questo personaggio fa un grande elogio Cornelio
Tacito[478], con dire, aver egli studiata quella filosofia, non già
per vanità, come molti faceano, nè per darsi all'ozio, ma per
provvedersi di costanza ne' varii accidenti della vita, per sostenere
con equità e vigore i pubblici uffizii, e per operar sempre il bene, e
fuggire il male. Perciò s'era acquistato il concetto d'essere buon
cittadino, buon senatore, buon marito, buon genero, buon amico,
sprezzator delle ricchezze, inflessibile nella giustizia, ed intrepido
in qualsivoglia sua operazione. Anche Ariano[479], Plinio[480] il
giovane e Giovenale furono liberali di lodi verso di Prisco. Ma egli
era troppo invanito dell'amor della gloria, cercandola ancora per vie
mancanti di discrezione[481]. Gli esempli di _Trasea Peto_, suocero
suo, uomo da noi veduto lodatissimo ne' tempi addietro, gli stavano
sempre davanti agli occhi, per parlare francamente ove si trattava del
pubblico bene. Ma non sapea imitarlo nella prudenza. Trasea, ancorchè
avesse in orrore i vizii e le tirannie di Nerone, pure nulla dicea o
facea che potesse offenderlo. Solamente talvolta si ritirò dal senato,
per non approvare le di lui bestialità e crudeltà: il che poi gli
costò la vita.

Ma _Elvidio_ si facea gloria di parlar con vigore e libertà senza
riguardo alcuno. Così operò sotto Galba, sotto Vitellio; ma più usò di
farlo sotto Vespasiano, quasichè la bontà di questo principe dovesse
servire di passaporto alla soverchia licenza delle sue parole. Il
peggio fu ch'egli, scoprendosi nemico della monarchia, tenendo sempre
il partito del popolo, non si facea scrupolo di darsi in pubblico e in
privato a conoscere per persona che odiava Vespasiano. Allorchè questo
principe arrivò a Roma, ito a salutarlo, non gli diede altro nome che
quello di Vespasiano. Essendo pretore nell'anno 70, in niuno de' suoi
editti mai mise parola in onore di lui, anzi nè pure il nominò. Ma
questo era poco. Sparlava di lui dappertutto, lodava solamente il
governo popolare, e Bruto e Cassio; formava anche delle fazioni contra
del dominio cesareo. Andò così innanzi l'ostentazione di questo suo
libero parlare, che nel senato medesimo giunse a contrastare e garrire
insolentemente collo stesso Vespasiano, quasichè fosse un suo
eguale[482]; perlochè, d'ordine dei tribuni della plebe, fu preso e
consegnato ai littori, o sia ai sergenti della giustizia. Il buon
Vespasiano, a cui forte dispiaceva di perdere un sì fatt'uomo, eppur
non credea bene d'impedire il riparo alla di lui insolenza, uscì di
senato quel dì piangendo e con dire: _O mio figliuolo mi succederà, o
niun altro:_ volendo forse indicare che Elvidio con quelle sue
impertinenti maniere additava di pretendere all'imperio. Pure la
clemenza di Vespasiano non permise che si decretasse ad uomo sì
turbolento, che inquietava e screditava il presente governo, e
mostravasi tanto capace di sedizioni, se non la pena dell'esilio. Ma
perchè verisimilmente neppur si seppe contener da lì innanzi la lingua
di questo imprudente filosofo, fu (non si sa in qual anno) condannato
a morte dal senato, e mandata gente ad eseguire il decreto. Vespasiano
spedì ordini appresso per salvargli la vita; ma gli fu fatto
falsamente credere che non erano arrivati a tempo. Probabilmente
_Muciano_, che men di Vespasiano amava Elvidio, il volle tolto dal
mondo con questa frode. E fu appunto in tale occasione[483] ch'esso
Muciano persuase all'imperatore di cacciar via da Roma tutti i
filosofi, e massimamente coloro che professavano la filosofia stoica,
maestra della superbia. Imperciocchè, oltre al rendersi da questa gli
uomini grandi estimatori di sè stessi e sprezzatori degli altri, i
seguaci di essa altro non faceano allora che declamar nelle scuole, e
fors'anche in pubblico, contra dello stato monarchico, e in favore del
popolare, svergognando una scienza che dee inspirare l'ossequio e la
fedeltà verso qualsivoglia regnante. E tanto più dovea farlo allora
Elvidio, che ai precedenti tiranni era succeduto un buon principe,
quale ognun confessa che fu Vespasiano, e la sua vita il dimostra. Fra
gli altri andarono relegati nelle isole _Ostilio_ e _Demetrio_
filosofi anch'essi. Portata al primo la nuova del suo esilio, mentre
disputava contra dello stato monarchico, maggiormente s'infervorò a
dirne peggio, benchè dipoi mutasse parere. Ma Demetrio, siccome
professore della filosofia cinica, o sia canina, che si gloriava di
mordere tutti, e di non portare rispetto ai difetti e falli di
chicchessia[484], dopo la condanna vedendo venir per via Vespasiano,
nol salutò, e neppur si mosse da sedere, e fu anche udito borbottar
delle ingiurie contro di lui. Il paziente principe passò oltre,
solamente dicendo: _Ve' che cane!_ Nè mutò registro, ancorchè Demetrio
continuasse a tagliargli addosso i panni; perciocchè avvisato di tanta
tracotanza, pure non altro gli fece dire all'orecchio se non queste
poche parole: _Tu fai quanto puoi perch'io ti faccia ammazzare: ma io
non mi perdo ad uccidere can che abbaia._ Per attestato di Dione, il
solo _Caio Musonio Rufo_, cavaliere romano, eccellente filosofo
stoico, non fu cacciato di Roma: il che non s'accorda colla Cronica di
Eusebio, da cui abbiamo che Tito, dopo la morte del padre, il richiamò
dall'esilio.

NOTE:

[474] Suet., in Domiziano, cap. 2.

[475] Idem, in Tito, cap. 6.

[476] Euseb., in Chron.

[477] Philostratus, in Apollon. Tyan.

[478] Tacitus, Historiar., lib. 4, cap. 5.

[479] Arrian., in Epictet.

[480] Plinius junior., lib. 4, epist. 23.

[481] Dio, lib. 66.

[482] Sueton., in Vespasiano, cap. 15.

[483] Dio, lib. 66.

[484] Sueton., in Vespasiano, cap. 13.




    Anno di CRISTO LXXIV. Indizione II.

    CLEMENTE papa 8.
    VESPASIANO imperadore 6.

_Consoli_

FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la quinta volta, e TITO FLAVIO CESARE
per la terza.


A _Tito Cesare_, che dimise il consolato, succedette nelle calende di
luglio _Domiziano Cesare_ suo fratello. Terminarono in quest'anno
_Vespasiano_ e _Tito_ il censo, o sia la descrizione de' cittadini
romani ch'essi aveano già cominciato come censori negli anni addietro.
E questo fu l'ultimo de' censi fatti dagl'imperadori romani. Scrive
Plinio il vecchio[485], che in tale occasione si trovarono fra
l'Apennino e il Po molti vecchi di riguardevol età. Cioè tre in Parma
di cento venti, e due di cento trenta anni; in _Brescello_ uno di
cento venticinque; in _Piacenza_ uno di cento trentuno; in _Faenza_
una donna di cento trentadue; in _Bologna_ e _Rimini_ due di cento
cinquanta anni, se pure non è fallato, come possiam sospettare, il
testo. Aggiugne essersi trovati nella _Regione ottava dell'Italia_,
ch'egli determina da Rimini sino a Piacenza, cinquantaquattro persone
di cento anni; quattordici di cento dieci; due di cento venticinque;
quattro di cento trenta; altrettanti di cento trentacinque, o cento
trentasette, e tre di cento quaranta. Dal che probabilmente può
apparire qual fosse tenuta allora per la più salutevol aria d'Italia.
Se in altre parti d'Italia si fossero osservate somiglianti età, non
si sa vedere perchè Plinio l'avesse taciuto. Circa questi tempi[486]
mancò di vita Cenide, donna carissima a Vespasiano, liberta di
Antonia, madre di Claudio Augusto. Avea Vespasiano avuta per moglie
_Flavia Domitilla_, che gli partorì _Tito_ e _Domiziano_. Morta
costei, ebbe per sua amica questa Cenide, e creato anche imperatore la
tenne quasi per sua moglie, amandola non solamente per la sua fedeltà
e disinvoltura, e per molti benefizii da lei ricevuti quando era
privato, ma ancora perchè gli serviva di sensale per far danari. Era
l'avarizia forse l'unico vizio per cui universalmente veniva
proverbiato questo imperadore[487]. Mostravasi egli non mai contento
di danaro. A questo fine rimise in piedi alcune imposte e gabelle,
abolite già da Galba; ne aggiunse delle nuove e gravi; accrebbe i
tributi che si pagavano dalle provincie, ed alcune furono tassate il
doppio. Lasciavasi anche tirare a far un mercimonio vergognoso per un
par suo, col comperar cose a buon mercato, per venderle poi caro.
Cenide anch'essa l'aiutava ad empiere la borsa. A lei si accostava
chiunque ricercava sacerdozi e cariche civili e militari,
accompagnando le suppliche con esibizioni proporzionate al profitto
dei posti desiderati. Nè si badava, se questi concorrenti fossero o
non fossero uomini dabbene, purchè se ne spremesse del sugo. Si
vendevano in questa maniera anche l'altre grazie del principe; e le
pene, per chi potea, venivano riscattate col danaro. Di tutto si
credeva consapevole e partecipe Vespasiano. E tanto egli si lasciava
vincere da questa avidità, che cadeva in bassezze[488]. Avendo i
deputati di una città chiesta licenza di alzare in onor suo una
statua, la cui spesa ascenderebbe a venticinquemila dramme, per far
loro conoscere che amerebbe più il denaro in natura, stese la mano
aperta con dire: _Eccovi la base dove potete mettere la vostra
statua._ Era egli stesso il primo a porre in burla questa sua sete
d'oro per coprirne la vergogna, e si rideva di chi poco approvava le
sue vili maniere per adunarne. Uno di questi fu suo figliuolo Tito,
che non potendo sofferire una non so quale imposta, da lui messa sopra
l'orina, seriamente gliene parlò, con chiamar fetente quell'aggravio.
Aspettò Vespasiano che gli portassero i primi frutti di quell'imposta,
e fattili fiutare al figlio, dimandò _se quell'oro sapea di cattivo
odore_. Un giorno, ch'egli era per viaggio in lettiga, si fermò il
mulattiere con dire che bisognava ferrar le mule. Sospettò egli dipoi
inventato da costui un tal pretesto, per dar tempo ad un litigante di
parlargli, e di esporre le sue ragioni. E però gli domandò poi _quanto
avesse guadagnato a far ferrare le mule, perchè voleva esser a parte
del guadagno_. Questo forse disse per burla. Ma da vero operò egli con
uno de' suoi più cari cortigiani, che gli avea fatta istanza di un
posto per persona da lui tenuta in luogo di fratello. Chiamato a sè
quel tale, volle da lui il danaro pattuito con fargli la grazia.
Avendo poscia il cortigiano replicate le preghiere, siccome non
informato della beffa, Vespasiano gli disse: _Va a cercare un altro
fratello, perchè il proposto da te, non è tuo, ma mio fratello_.

Tale era l'industria e continua cura di Vespasiano per ammassar
danari, cura in lui biasimata, e non senza ragione dagli storici di
allora, e più dai sudditi. Credevano alcuni, che dal suo naturale
fosse egli portato a questa debolezza: ed altri, che Muciano
gliel'avesse inspirata, con rappresentargli che nell'erario ben
provveduto consisteva la forza e la salute della repubblica, sì pel
mantenimento delle milizie, come per ogni altro bisogno. Tuttavia il
brutto aspetto di questo vizio si sminuisce di molto al sapere, come
osservarono Svetonio[489] e Dione[490], che Vespasiano non fece mai
morire persona per prendergli la roba, nè mai per via d'ingiustizie
occupò l'altrui. Quel che è più, non amava, nè cercava egli le
ricchezze, per impiegarle ne' suoi piaceri, perchè sempre fu
moderatissimo in tutto, nè poteva spendere senza necessità, contento
di poco. Appariva eziandio chiaramente, quanto egli fosse lontano dal
covare con viltà il danaro, perciocchè lo dispensava allegramente e
con saviezza in tutti i bisogni del pubblico, e in benefizio de'
popoli. Sapeva regalare chi lo meritava[491], sovvenire a' nobili
caduti in povertà; anzi la sua liberalità si stendeva a tutti.
Promosse con somma attenzione le arti e le scienze, favorendo in varie
maniere chi le coltivava; e fu il primo che istituisse in Roma scuole
d'eloquenza greca e latina, con buon salario pagato dal suo erario.
Prendeva al suo servigio i migliori poeti ed artifici che si
trovassero, e tutti erano partecipi della sua munificenza. A lui
premeva specialmente che il minuto popolo potesse guadagnare. A questo
fine faceva di quando in quando de' magnifici conviti; e ad un valente
artefice, che gli si era esibito di trasportare con poca spesa molte
colonne, diede bensì un regalo, ma di lui non si volle servire, per
non defraudare di quel guadagno la plebe. In Roma edificò degli
acquidotti, alzò uno smisurato colosso, nè solamente fece di pianta
varie fabbriche insigni, ma eziandio rifece le già fatte dagli altri,
mettendovi non già il nome suo, ma quel de' primi fondatori. Erano per
cagion de' tremuoti cadute, o per gl'incendi molto sformate,
assaissime città dell'imperio romano. Egli alle sue spese le rifece, e
più belle di prima. La stessa attenzione ebbe per fondar delle colonie
in varie città, e per risarcir le pubbliche strade dell'imperio[492].
Restano tuttavia molte iscrizioni[493] per testimonianza di ciò. Gli
convenne per questo tagliar montagne e rompere vasti macigni; e per
tutto si lavorava senza salassar le borse de' popoli. Rallegrava
ancora il popolo colla caccia delle fiere negli anfiteatri, ma
abborriva i detestabili combattimenti de' gladiatori. Aggiungasi, per
testimonianza di Zonara[494], che Vespasiano mai non volle profittar
dei beni di coloro che aveano prese l'armi contra di lui, ma li lasciò
ai lor figliuoli o parenti. Ed ecco ciò che può servire, non già per
assolvere questo principe da ogni taccia in questo particolare, ma
bensì per iscusarlo, meritando bene il buon uso che egli facea del
denaro, che si accordi qualche perdono alle indecenti maniere da lui
tenute per raunarlo. Se non è scorretto il testo di Plinio il
vecchio[495], abbiamo da lui, che in questi tempi misurato il
circondario delle mura di Roma, si trovò esser di tredici miglia
dugento passi. Un gran campo occupavano poi i borghi suoi.

NOTE:

[485] Plinius, Histor. Natural., lib. 7, cap. 49.

[486] Dio, lib. 66. Sueton., in Vespasiano, cap. 3.

[487] Sueton., in Vespasiano, cap. 3.

[488] Sueton., in Vespasiano, cap. 23. Dio, lib. 66.

[489] Sueton., in Vespasiano, cap. 16.

[490] Dio, lib. 66.

[491] Sueton., in Vespasiano, cap. 16.

[492] Aurelius Victor, in Breviar.

[493] Gruterus, Thesaur. Inscription. Thesaurus Novus Veter.
Inscription. Muratorian.

[494] Zonaras, Annal.

[495] Plinius, Histor. Natur., lib. 3, c. 5.




    Anno di CRISTO LXXV. Indizione III.

    CLEMENTE papa 9.
    VESPASIANO imperadore 7.

_Consoli_

FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la sesta volta, e TITO CESARE per la
quarta.


Nelle calende di luglio furono sostituiti nel consolato _Flavio
Domiziano Cesare_ per la quarta volta, e _Marco Licinio Muciano_ per
la terza. In gran favore continuava Muciano ad essere presso di
Vespasiano[496]. Naturalmente superbo, e più perchè alzato ai primi
onori, sapea ben far valere la sua autorità[497]. Sopra gli altri
della corte pretendea d'essere ossequiato e rispettato. Verso chi gli
mostrava anche ogni menomo segno di distinzione in onorarlo, andava
all'eccesso in procurargli posti ed avanzamenti. Guai all'incontro a
chi, non dirò gli facea qualche affronto od ingiuria, ma solamente
lasciava di onorarlo; l'odio di Muciano contra di lui diveniva
implacabile. Costui pubblicamente era perduto nelle disonestà, e
vantava tuttodì i gran servigi da lui prestati a Vespasiano: suo dono
chiamava ancora quel diadema ch'egli portava in capo. A tanto giunse
talvolta questa sua boria, e la fiducia de' meriti propri, che nemmeno
portava rispetto allo stesso imperadore. E pure nulla più fece
risplendere, che magnanimo cuore fosse quel di Vespasiano, quanto la
pazienza sua in sopportare quest'uomo, temendo egli sempre di
contravvenire alla gratitudine se l'avesse disgustato, non che punito.
Anzi neppure osava di riprenderlo in faccia; ma solamente con qualche
comune amico talora sfogandosi, disapprovava la di lui maniera di
vivere, e diceva: _Son pur uomo anch'io:_ tutto acciocchè gli fosse
riferito, per desiderio che si emendasse[498]. Fu anche dagli amici
consigliato Vespasiano di guardarsi da _Melio Pomposiano_; perchè egli
fatto prendere il proprio oroscopo, si vantava che sarebbe un dì
imperadore. Lungi dal fargli male, Vespasiano il creò console (noi non
ne sappiamo l'anno) dicendo più probabilmente per burla che da senno;
_Costui si ricorderà un giorno del bene che gli ho fatto_. Dedicò esso
Augusto, cioè fece la solennità di aprire e consecrare il tempio della
Pace, da lui fabbricato in Roma in vicinanza della piazza pubblica,
per ringraziamento a Dio della tranquillità donata al romano imperio,
e particolarmente a Roma, dopo tanti torbidi tempi patiti sotto i
precedenti tiranni. Plinio[499] chiama questa tempio _una delle più
belle fabbriche che mai si fossero vedute_. Erodiano[500] anch'egli
scrive, ch'esso era _il più vasto, il più vago e il più ricco edifizio
che si avesse in Roma. Immensi erano ivi gli ornamenti d'oro e
d'argento;_ e fra gli altri vi furono messi il candelabro[501] insigne
e gli altri vasi portati da Gerusalemme dopo la distruzione di quel
ricchissimo tempio. Ma che? questa mirabil fabbrica circa cento anni
dipoi, regnante Commodo Augusto, per incendio, o casuale o sacrilego,
rimase affatto preda delle fiamme.

NOTE:

[496] Sueton., in Vespasiano, c. 23.

[497] Dio, in Excerptis Valesian.

[498] Sueton., in Vespasiano, c. 14. Dio, lib. 66.

[499] Plinius, lib. 36, cap. 15.

[500] Herodian., lib. 1, c. 14.

[501] Joseph., de Bello Judaic., lib. 7, c. 14.




    Anno di CRISTO LXXVI. Indizione IV.

    CLEMENTE papa 10.
    VESPASIANO imperadore 8.

_Consoli_

FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la settima volta e TITO CESARE per la
quinta.


Abbiamo sufficienti lumi per credere sostituito all'uno di questi
consoli nelle calende di luglio _Domiziano Cesare_, probabilmente per
la cessione di _Tito_ suo fratello. Secondo il Panvino[502],
succedette ancora all'altro console ordinario _Tito Plautio Silvano_
per la seconda volta. Ma non altro fondamento ebbe quel dotto uomo di
assegnare all'anno presente il secondo consolato di costui, se non il
sapere ch'egli due volte fu console. Che nel gennaio di quest'anno
nascesse _Adriano_, il qual poscia divenne imperadore, l'abbiamo da
Sparziano. Fiorì ancora in questi tempi, per attestato di
Eusebio[503], _Quinto Asconio Pediano_, storico di molto credito; di
cui restano tuttavia alcuni Commenti alle Orazioni di Cicerone. In età
di anni settantatrè divenne cieco questo letterato, e ne sopravvisse
dodici altri, tenuto sempre in grande stima da tutti. Era in questi
tempi governator della Bretagna _Giulio Frontino_, e gli riuscì di
sottomettere i popoli Siluri in quella grand'isola all'imperio romano.
Era venuto a _Roma Agrippa_[504] _re dell'Iturea_, figliuolo di
_Agrippa il grande_, stato già re della Giudea; avea condotto seco
_Berenice_ o sia _Beronice_ sua sorella, giovane di bellissimo
aspetto, già maritata con _Erode re di Calcide_ suo zio[505], e poscia
con _Polemone re di Cilicia_. Se n'invaghì Tito Cesare. Forse anche
era cominciata la tresca allorchè egli fu alla guerra contra de'
Giudei. Agrippa ottenne il grado di pretore. Berenice alloggiata nel
palazzo imperiale, dopo aver guadagnato Vespasiano a forza di regali,
sì fattamente s'insinuò nella grazia di Tito, che sperava ormai di
cangiar l'amicizia in matrimonio; e già godeva un tal trattamento e
autorità, come s'ella fosse stata vera moglie di lui. Ma perciocchè,
secondo le leggi romane, era vietato ai nobili romani di sposar donne
di nazion forestiera, o sia barbara (barbari erano allora appellati i
popoli tutti non sudditi al romano imperio) o pure perchè i re,
tuttochè sudditi di Roma, erano tenuti in concetto di tiranni; il
popolo romano altamente mormorava di questa sua amicizia, e molto più
della voce sparsa, che fosse per legarsi seco pienamente col vincolo
matrimoniale. Ebbe Tito cotal possesso sopra la sua passione, e sì a
cuore il proprio onore, che arrivò a liberarsene, con farla ritornare
al suo paese. Svetonio[506] attribuisce a Tito questa eroica azione,
dappoichè egli fu creato imperadore, laddove Dione[507] ne parla circa
questi tempi. Ma aggiugnendo esso Dione, che Berenice, dopo la morte
di Vespasiano, ritornò a Roma, sperando allora di fare il suo colpo, e
che, ciò non ostante, rimase delusa, si accorda facilmente
l'asserzione dell'uno e dell'altro storico.

NOTE:

[502] Panvin., in Fastis.

[503] Eusebius, in Chronic.

[504] Dio, lib. 66.

[505] Joseph., Antiq. Judaic., lib. 18.

[506] Sueton., in Tito, cap. 7.

[507] Dio, lib. 66.




    Anno di CRISTO LXXVII. Indizione V.

    CLETO papa 1.
    VESPASIANO imperadore 9.

_Consoli_

FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la ottava volta, e TITO FLAVIO CESARE
per la sesta.


Fu nelle calende di luglio conferito il consolato a DOMIZIANO CESARE
per la sesta volta ed a GNEO GIULIO AGRICOLA, cioè a quel medesimo, di
cui Cornelio Tacito suo genero ci ha lasciata la vita. Terminò in
quest'anno CAIO PLINIO SECONDO[508] veronese, i suoi libri della
Storia Naturale, e li dedicò a Tito Cesare, ch'egli nomina console per
la sesta volta, e dà a conoscere quanto amore quel buon principe
avesse per lui, e quanta stima per li suoi libri. S'è salvata dalle
ingiurie de' tempi quest'opera delle più insigni ed utili
dell'antichità, perchè tesoro di grande erudizione; ma è da dolersi
che sia pervenuta a noi alquanto difettosa, e che per la mancanza
d'antichi codici non sia possibile il renderne più sicuro ed emendato
il testo. Anche ai tempi di Simmaco camminava scorretta questa
istoria, siccome consta da una sua lettera ad Ausonio. Son periti
altri libri di Plinio, ma non di tanta importanza, come il suddetto.
Abbiamo dalla cronica di Eusebio[509], essere stata nell'anno
presente, o pure nel seguente, sommamente afflitta Roma da una
pestilenza così fiera, che per molti dì si contarono dieci mila
persone morte per giorno: se pur merita fede strage di tanto eccesso.
Ma questo flagello forse s'ha da riferire all'anno 80, regnando Tito.
Verso questi tempi[510] bensì capitarono a Roma segretamente due
filosofi cinici, che, secondo il loro costume, si faceano belli con
dir male d'ognuno. _Diogene_ si appellava l'un d'essi, nome
probabilmente da lui preso, per assomigliarsi in tutto all'altro
antico sì famoso che fu a' tempi di Alessandro Magno. Costui perchè
nel pubblico teatro, pieno di gran popolo, scaricò addosso ai Romani
una buona tempesta d'ingiurie e di motti satirici, ebbe per
ricompensa, d'ordine dei censori, un sonante regalo di sferzate.
L'altro fu _Eras_, che pensando di aggiustar la partita con sì
tollerabil pagamento, più sconciamente sfogò la sua rabbia ed
eloquenza canina contra de' Romani, fors'anche non la perdonando ai
principi. Gli fu mozzato il capo. Riferisce Dione[511] come un
prodigio, che in una osteria in una botte piena il vino tanto si
gonfiò, che uscendo fuori, scorreva per la strada. Erano ben facili
allora i Romani a spacciare de' fatti falsi per veri, o a credere
degli avvenimenti naturali per prodigiosi. Molti di tal fatta se ne
raccontano di Vespasiano, ch'io tralascio, perchè o imposture o
semplicità di quei tempi. E non ne mancano nella storia stessa di Tito
Livio. A san Clemente martire si crede che in quest'anno succedesse
Cleto nel pontificato romano.

NOTE:

[508] Plinius Senior, in Praefatione.

[509] Euseb., in Chron.

[510] Dio, lib. 66.

[511] Dio, lib. 66.




    Anno di CRISTO LXXVIII. Indizione VI.

    CLETO papa 2.
    VESPASIANO imperadore 10.

_Consoli_

LUCIO CEJONIO COMMODO e DECIMO NOVIO PRISCO.


Son di parere alcuni, che questo _Lucio Cejonio_ Console fosse avolo
(se pur non fu padre) di _Lucio Vero_, che noi vedremo a suo tempo
adottato da Adriano imperadore, ciò risultando da Giulio
Capitolino[512]. Abbiamo da Tacito[513], che _Gneo Giulio Agricola_,
stato console nell'anno precedente, fu inviato governatore della
Bretagna in luogo di Giulio Frontino. Era Agricola uomo di rara
prudenza ed onoratezza. Giunto che fu là, non lasciò indietro
diligenza veruna per rimettere la buona disciplina fra le milizie, e
per levare gli abusi dei tempi addietro, per gli quali erano
malcontenti que' popoli, moderando le imposte, e compartendole con
ordine: con che cessarono le avanie de' ministri del fisco, e tornò la
pace in quelle contrade. Eransi negli anni precedenti sottratti
all'ubbidienza de' Romani gli Ordovici nell'isola di Mona, creduta
oggidì l'Anglesei. Agricola v'andò colle armi, e guadagnata una
vittoria, ridusse quelle genti alla primiera divozione. Forse fu in
questi tempi[514], che si scoprì vivo _Giulio Sabino_, nobile della
Gallia, che nell'anno 70 dell'Era Cristiana avea nel suo paese di
Langres impugnate le armi contra de' Romani, e fatto ribellare quel
popolo[515]. Sconfitto egli in una battaglia, ancorchè potesse
ricoverarsi fra i Barbari, pure pel singolare amore ch'egli portava a
_Peponilla_ sua moglie, chiamala da Tacito[516] _Epponina_, e da
Plutarco _Empona_, determinò di nascondersi in certe camere
sotterranee di una sua casa in villa, con far correre voce di non
esser più vivo. Licenziati pertanto i suoi servi e liberti, con dire
di voler prendere il veleno, ne ritenne solamente due de' più fidati.
E perciocchè gli premeva forte, che fosse ben creduta da ognuno la
propria morte, mandò ad accertarne la moglie stessa, la quale a tal
nuova svenne, e stette tre dì senza voler prender cibo. Ma per timore,
che ella in fatti fosse dietro ad accompagnare colla vera sua morte la
finta del marito, fece poi avvisarla del nascondiglio in cui si
trovava, pregandola nondimeno a continuare a piagnerlo, come già
estinto. Andò ella dipoi a trovarlo la notte di tanto in tanto, e gli
partorì anche due figliuoli (l'uno dei quali Plutarco dice d'aver
conosciuto), coprendo sì saggiamente la sua gravidanza e il suo parto,
che niuno mai s'avvide del loro commercio. Portò la disgrazia, che
dopo vari anni fu scoperto l'infelice Sabino, e condotto con la moglie
a Roma. Per muovere Vespasiano a pietà, gli presentò Epponina i due
suoi piccioli figliuoli, dicendo, _che gli avea partoriti in un
sepolcro per aver molti che il supplicassero di grazia_, ed
aggiugnendo tali parole, che mossero le lagrime a tutti, e fino allo
stesso Vespasiano. Contuttociò Vespasiano li fece condannare amendue
alla morte. Allora Epponina, saltando nelle furie, gli parlò
arditamente, dicendogli fra l'altre cose, _che più volentieri avea
sofferto di vivere in un sepolcro, che di mirar lui imperadore_. Non
si sa perchè Vespasiano, che pur era la stessa bontà, e tanti esempli
avea dato finora di clemenza, procedesse qui con tanto rigore, se
forse non l'irritò sì fattamente l'indiscreto parlare dell'irata
donna, che dimenticò di essere quel ch'egli era. Attesta Plutarco, che
per questo rigor di giustizia, tuttochè l'unico di tutto l'imperio di
Vespasiano, venne un grande sfregio al di lui buon nome; ed egli
attribuisce a sì odioso fatto l'essersi dipoi in breve tempo estinta
tutta la di lui casa. Non saprei dire, se i poeti di questi ultimi
tempi abbiano condotta mai sul teatro questa tragica avventura: ben
so, che un tale argomento vi farebbe bella comparsa, siccome
stravagante e capace di muovere le lagrime oggidì, come pur fece
allora.

NOTE:

[512] Capitolinus, in Vita Lucii Veri.

[513] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 9.

[514] Dio, lib. 66.

[515] Plutarch., in Amatorio.

[516] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 67.




    Anno di CRISTO LXXIX. Indizione VII.

    CLETO papa 3.
    TITO FLAVIO imperadore 1.

_Consoli_

FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la nona volta, e TITO FLAVIO CESARE per
la settima.


Essendo in quest'anno, siccome dirò, mancato di vita Vespasiano
Augusto, potrebbe darsi, secondo le congetture da me recate
altrove[517], che nelle calende di luglio il consolato fosse conferito
a _Marco Tizio Frugi_ e a _Vito Vinio_ o _Vinicio Giuliano_.
Pacificamente avea fin qui Vespasiano amministrato l'imperio, e
meritava ben il saggio e dolce suo governo, ch'egli non trovasse de'
nemici in casa. Tuttavia, o sia perchè la morte sola di Sabino,
compianta da tutti, rendesse odioso questo principe, oppure perchè
Tito destinato suo successore fosse, per quanto vedremo, poco amato,
ovvero, come è più probabile, perchè non mancano, nè mancheranno mai
al mondo dei pazzi e degli scellerati: certo è che in quest'anno due
de' principali tramarono una congiura contra di Vespasiano[518].
Questi furono _Alieno Cecina_, già stato console, ed _Eprio Marcello_,
potenti in Roma, amati e beneficati da esso Augusto. Si credeva egli
d'aver in essi due buoni amici, e non avea che due ingrati: vizio
corrispondente ad altre loro pessime qualità. Venne scoperta la
congiura: si trovò avervi mano molti soldati, e Tito Cesare ne fu
assicurato da lettere scritte di lor pugno. Non volle esso Tito
perdere tempo, perchè temeva che nella notte stessa scoppiasse la
mina, e però fatto invitar _Cecina_ seco a cena, dopo essa il fece
trucidar dai pretoriani senza altro processo. _Marcello_, citato e
convinto, allorchè udì proferita contra di lui la sentenza di morte,
colle proprie mani si tagliò con un rasoio la gola. Non potea negarsi
che la risoluzion presa da Tito contra Cecina non fosse giusta, o
almeno scusabile: contuttociò per cagion d'essa egli incorse nell'odio
di molti. Dopo questa esecuzione sentendosi Vespasiano[519] alquanto
incomodato nella salute per alcune febbrette, si fece portare alla sua
villa paterna nel territorio di Rieti, siccome era solito nella state.
In quelle parti v'erano l'acque cutilie, sommamente fredde da Strabone
e da Plinio chiamate utili a curar varii mali. Riuscirono queste
perniciose non poco o per la lor natura, o pel troppo berne, a
Vespasiano, di maniera che gl'indebolirono forte lo stomaco, e gli
suscitarono una molesta diarrea. Era egli principe faceto, e dacchè
cominciò a sentir quelle febbri, ridendo e burlandosi del
superstizioso ed empio rito de' suoi tempi, nei quali si deificavano
dopo morte gl'imperadori, disse: _Pare ch'io incominci a diventar
dio_. Erasi anche veduta poco innanzi una cometa, e parlandone in sua
presenza alcuni: _Oh_, disse, _questa non parla per me. Quella sua
chioma minaccia il re de' Parti che porta la capigliatura. Quanto a me
son calvo_. E perciocchè, non ostante l'infermità sua egli seguitava
ad operar come prima, attendendo agli affari dell'imperio, e dando
udienza ai deputati delle città (del che era ripreso dai familiari)
rispose: _Un imperadore ha da morire stando in piedi_. Morì egli in
fatti, conservando sempre il medesimo coraggio, nel dì 23 o 24 di
giugno, in età di settant'anni, e non già per male di podagra, come
alcuni pensarono: molto meno per veleno, che taluno falsamente[520], e
fra gli altri Adriano imperadore, disse a lui dato in un convito da
Tito suo figliuolo, principe, in cui non potè mai cadere un sì nero
sospetto. Si fecero poscia i suoi funerali colla pompa consueta, e gli
fu dato il titolo di _Divo_. Da Svetonio[521] si raccoglie che a tali
esequie intervenivano anche i mimi, o sia i buffoni, ballando,
atteggiando ed imitando i gesti, la figura e il parlare del defunto
imperadore. Il capo de' mimi, che in questa occasione rappresentava la
persona di Vespasiano, probabilmente colla maschera simile al di lui
volto, volendo esprimere l'avarizia a lui attribuita, dimandò ai
ministri dell'erario, quanto costava quel funerale. Dissero: _Ducento
cinquantamila scudi_. Ed egli _Datemene solo dugento cinquanta, e
gittatemi nel fiume_. Gran disavventura si credeva allora il restar
senza sepoltura: ma per un poco di guadagno, secondo costui, si
sarebbe contentato Vespasiano di restarne privo.

Era già suo collega nell'imperio, cioè nel comando dell'armi, e nella
tribunizia podestà, _Tito Flavio Sabino Vespasiano Cesare_, suo
primogenito; e però bisogno non ebbe di maneggi per acquistare una
dignità, di cui egli già buona parte godeva, e di cui anche il padre
l'avea dichiarato erede nel suo testamento. Prese bensì il titolo
d'_Augusto_, indicante la suprema potestà, e quella di _Pontefice
Massimo_; e dal senato gli fu conferito il glorioso nome di _Padre
della Patria_, come apparisce dalle sue medaglie. Per testimonianza di
Svetonio[522], egli era nato in Roma nell'anno 41 dell'epoca nostra,
in cui Caligola imperadore fu ucciso. Siccome suo padre in quei tempi
si trovava in molto bassa fortuna, così Tito nacque vicino al
Settizionio vecchio entro una brutta casuccia in camera stretta e
scura, che si mostrava anche ai tempi del suddetto Svetonio, per una
rarità. Fanciullo fu messo alla corte, probabilmente per paggio, al
servigio di Britannico, figliuolo di Claudio imperatore, e con esso
lui allevato, studiando seco e sotto i medesimi maestri, le lettere e
le arti cavalleresche. Tanta era la famigliarità d'esso lui con
Britannico, che in occasion del veleno dato a quell'infelice principe,
ne toccò anche a lui non poco, per cui soffrì una grave malattia.
Divenuto poi imperadore, mostrò la sua riconoscenza ad esso
Britannico, con fargli ergere due statue, l'una dorata, e l'altra
equestre d'avorio. Giovanetto di alta statura, di gran robustezza, di
volto avvenente ed insieme maestoso, con facilità imparò l'arti della
guerra e della pace, peritissimo soprattutto in maneggiar armi e
cavalli. Egregiamente parlava il latino e il greco linguaggio, sapea
far delle belle orazioni, sapea di musica, e tal possesso avea in far
versi, che anche fra gl'improvvisatori facea bella figura. L'imitare
gli altrui caratteri gli era facilissimo, e scherzando dicea: _Ch'egli
avrebbe potuto essere un gran falsario_. Fece dipoi col padre varie
campagne nelle guerre della Germania, e Bretagna, e poscia nella
Giudea, siccome di sopra fu detto, lasciando segni di prudenza e di
valore in ogni occasione, e comperandosi dappertutto l'affetto delle
milizie. Mirabile specialmente era in lui l'arte di farsi amare, parte
a lui venuta dalla natura, e parte acquistata colla saggia sua
accortezza, perchè in lui si trovava unita un'aria dolce e una rara
bontà verso tutti, con affabilità popolare ed insieme con gravità, che
guadagnava i cuori, e nello stesso tempo esigeva il rispetto di
ognuno. Ebbe per prima sua moglie _Arricidia Tertulla_, figliuola d'un
prefetto del pretorio. Morta questa, sposò _Marcia Furnilla_ di
nobilissimo casato, ma dopo averne avuto una figliuola, nomata _Giulia
Sabina_, di cui parleremo a suo luogo, la ripudiò. In tale stato era
Tito, allorchè succedette al padre Augusto nel governo della
repubblica romana, ma non senza difetti, la menzion de' quali io
riserbo all'anno seguente. Nel presente si crede[523] che avvenisse la
morte di _Plinio il vecchio_, celebre scrittore di questi tempi,
intorno alla cui patria hanno disputato Verona e Como. Nel primo dì di
novembre cominciò spaventosamente il monte Vesuvio a fumare[524], a
gittar fiamme, pietre e ceneri, che empievano tutti i luoghi
circonvicini. Plinio seniore, che si trovava allora a Miseno,
comandante di quella flotta, portato dal suo incessante studio delle
cose naturali, sopra una galea si fece condurre sino a Castell'-a-mare
di Stabia, per essere più vicino a contemplare il terribile sfogo di
quel monte; ed ancorchè vedesse le genti scappare dalla parte del
mare, per non esser colte dal torrente del fuoco, o dai sassi, pure si
fermò quivi la notte. Allorchè volle anch'egli fuggire, non gli fu
permesso dal mare, ch'era in fortuna. Sicchè soffocato dall'odore
dello zolfo, e dall'aria ingrossata da quelle esalazioni, lasciò ivi
la vita. _Plinio secondo_, il giovane, comasco, suo nipote, e da lui
adottato per figliuolo, uomo non men dello zio dotato di meraviglioso
ingegno, che soggiornava allora a Miseno, corse anch'egli pericolo
della vita in quel brutto frangente, ma ebbe tempo da ridursi in
salvo.

NOTE:

[517] Thesaurus Novus. Inscript., pag. 111.

[518] Dio, lib. 66. Suetonius, in Tito, cap. 6.

[519] Idem, in Vespasiano, cap. 24.

[520] Dio, lib. 66.

[521] Sueton., in Vespasiano, cap. 19.

[522] Sveton., in Tito, cap. 1.

[523] Plinius Junior, lib. 6, epist. 16 e 20.

[524] Dio, lib. 66.




    Anno di CRISTO LXXX. Indizione XIII.

    CLETO papa 4.
    TITO FLAVIO imperadore 2.
    }

    _Consoli_

    TITO FLAVIO AUGUSTO per l'ottava volta,
    e DOMIZIANO CESARE per la settima.


    Con tutte le belle e plausibili prerogative,
    colle quali Tito arrivò al trono
    imperiale, non si vuol dissimulare ciò
    che scrive di lui Svetonio[525], cioè aver
    egli somministrata occasione a molti del
    popolo romano di credere ch'egli nel
    governo avesse da riuscire un cattivo
    principe, anzi un altro Nerone. Si perdeva
    egli talvolta nelle gozzoviglie coi
    suoi amici dal buon tempo, stando a tavola
    sino a mezza notte: dal che si guardavano
    allora i saggi Romani. Recava
    loro pena il parere, ch'egli fosse immerso
    nella libidine anche più abbominevole,
    stante le qualità delle persone
    della sua corte, e l'esser egli stato sì
    sconciamente invaghito della regina Berenice.
    Temevasi inoltre di trovare in
    lui un principe, a cui più del dovere
    piacesse la roba altrui, sapendosi che
    prendeva regali anche nell'amministrazion
    della giustizia. Ma dopo la morte
    del padre cessarono tutti questi sospetti.
    Tito con istupore e piacer d'ognuno
    comparve tutt'altro, scoprendosi esente
    da ogni vizio, e solamente fornito di eccellenti
    virtù, di maniera che si convertirono
    in lode sua tutt'i conceputi timori
    di lui. Licenziò tosto dalla sua corte
    qualunque persona che dar potesse scandalo,
    ed elesse amici di gran senno e
    proprietà, tali che anche i susseguenti
    principi se ne servirono, come di strumenti
    utili o necessari al buon governo.
    Tornò a Roma la _regina Berenice_, figurandosi,
    che potendo ora Tito far tutto,
    molto anch'ella potrebbe sopra di lui.
    Se ne sbrigò egli e rimandolla alle sue
    contrade. I conviti, ai quali invitava or
    l'uno or l'altro de' senatori e de' nobili,
    erano allegri, ma senza profusione od
    eccesso. Più non si osservò in lui ruggine
    d'avarizia; mai non tolse ad alcuno
    il suo e neppur ammetteva i regali soliti
    a darsi dalle provincie, città ed università
    agli Augusti. Eppur niuno d'essi imperadori
    gli andò innanzi nella munificenza
    e magnificenza. Imperciocchè in
    quest'anno egli dedicò l'anfiteatro[526],
    appellato oggi il Colosseo, stupenda mole,
    incominciata, per quanto si crede, da
    Vespasiano suo padre, e da lui perfezionata.
    Nulla più fa intendere qual fosse
    la potenza e splendidezza degli antichi
    Augusti, quanto i pezzi che restano tuttavia
    di quel superbo edifizio. Fabbricò
    eziandio le Terme, o sia i bagni pubblici,
    presso al medesimo anfiteatro, le cui
    vestigia pur ora si mirano circa la chiesa
    di san Pietro in Vincula, per attestato
    del Nardino, del Donato e d'altri. Ed
    allorchè si fece la dedicazion di tali fabbriche,
    cioè quando si misero all'uso
    pubblico, Tito solennizzò la funzione
    con maravigliosi e magnifici spettacoli,
    descritti da Dione[527]. Si fecero combattimenti
    navali, giuochi di gladiatori, caccie
    di fiere, cinquemila delle quali furono
    uccise nell'anfiteatro in un sol dì, e
    quattro altre migliaia ne' susseguenti
    giorni. Nè vi mancarono i giuochi circensi,
    e una gran profusione di doni al
    popolo. Durarono cento dì così allegre
    e dispendiose feste.

    L'incendio del Vesuvio, di sopra da
    me accennato, che fu de' più terribili
    che mai si sieno provati, avea portata la
    rovina o notabili danni alle città e terre
    della Campania. Tito inviò colà due senatori,
    già stati consoli con buone somme
    di danaro, acciocchè si rimettessero
    in piedi le fabbriche. Per tali spese assegnò
    ancora i beni di tutti coloro che
    erano morti senza eredi, benchè, secondo
    le leggi, que' beni appartenessero al suo
    fisco. Ed egli stesso colà si portò, non
    tanto per mirar la desolazion de' luoghi,
    quanto per affrettarne il sollievo. Ma a
    questa disgrazia ne tenne dietro un'altra
    non meno spaventosa e lagrimevole. Attaccatosi
    il fuoco in Roma, vi consumò
    il Campidoglio, il tempio di Giove Capitolino,
    il Pantheon, i templi di Serapide
    e d'Iside, siccome quel di Nettuno ed
    altri; il teatro di Balbo e di Pompeo,
    il palazzo d'Augusto colla biblioteca, e
    molti altri pubblici edifizii. Sì ampia fu
    la strage delle fabbriche, che fu creduto
    quell'incendio non operazion degli uomini,
    ma gastigo mandato da Dio. Se ne
    afflisse sommamente Tito, protestando
    nondimeno, che a lui come principe apparteneva
    il risarcimento di tante fabbriche
    del pubblico. In fatti a questo fine
    alienò tutt'i più preziosi mobili de' suoi
    palazzi; e quantunque molti particolari,
    e varie città, e alcuni dei re sudditi, gli
    offrissero o promettessero di molto danaro
    per quel bisogno, non volle che
    alcuno si scomodasse, riserbando tutte
    quelle spese alla propria borsa. Dopo sì
    fiero incendio succedette in Roma una
    atrocissima peste, di cui parlano Svetonio
    e Dione, e che, secondo[528] Aurelio
    Vittore, fu delle più micidiali che mai si
    provassero in quella città, e se ne diede
    la colpa alle esalazioni del Vesuvio. Dubito
    io, questa essere la medesima, che
    di sopra all'anno 77 fu riferita da Eusebio,
    e però collocata fuor di sito, cioè
    sotto l'imperio di Vespasiano. La fece
    Tito da padre in sì funeste circostanze,
    consolando il popolo con frequenti editti,
    ed aiutandolo in quante maniere gli
    fu mai possibile. Certo inesplicabile fu
    l'amore ch'egli portava ad ognuno, e la
    bontà sua e la premura di far del bene
    a tutti. Era lecito ad ognuno l'andare
    all'udienza sua, ed ognuno ne riportava
    o consolazione o speranza. E perchè i
    suoi dimestici non approvavano ch'egli
    promettesse sempre perchè non sempre
    poi poteva mantener la parola: rispondeva,
    _non doversi permettere che alcuno
    mai si parta malcontento dall'udienza
    del principe suo_. Tanta era in somma
    l'inclinazione sua a far dei benefizii, che
    sovvenendogli una notte, mentre cenava,
    di non averne fatto veruno in quel
    dì, sospirando disse quelle sì celebri e
    decantate parole[529]: _Amici io ho perduta
    questa giornata_. Giunse a tanto
    questa benignità e amorevolezza, che
    nel poco tempo ch'egli regnò, a niuno
    per impulso o per ordine suo tolta fu
    la vita.

    Diceva di amar piuttosto di perir egli,
    che di far perire altrui. In effetto,
    ancorchè si venisse a sapere che due
    de' principali romani faceano brighe e
    congiure per arrivar all'imperio, e ne
    fossero essi anche convinti, pure non
    altro egli fece, se non esortarli a desistere,
    dicendo che _il principato vien da
    Dio, nè si acquista colle scelleraggini; e
    che se desideravano qualche bene da lui,
    prometteva di farlo_[530]. Dopo di che, per
    timore che la madre d'uno di questi senatori
    si trovasse in grandi affanni, le
    spedì dei corrieri, acciocchè l'assicurassero
    che suo figliuolo era salvo. Inoltre
    la notte stessa tenne seco a cena questi
    due personaggi, e nel dì seguente li volle
    allo spettacolo de' gladiatori a' suoi fianchi.
    Allora fu che portate a lui le spade
    di que' combattenti, com'era il costume,
    le diede in mano ad amendue, acciocchè
    osservassero s'erano taglienti, per far
    loro tacitamente conoscere, che più non
    dubitava della loro fedeltà. Ma ciò che
    sopra ogni altra cosa gli conciliò l'amore
    d'ognuno, fu l'aver egli levato via
    l'insoffribile abuso introdotto sotto i precedenti
    cattivi imperadori; cioè che a
    qualsivoglia persona era permesso l'accusare
    altrui d'avere sparlato del principe,
    o d'avergli mancato di rispetto: il
    che era delitto di lesa maestà. Una licenza
    sì fatta teneva tutti sempre in una
    apprensione e schiavitù incredibile. Tito
    ordinò ai magistrati, che non ammettessero
    più sì fatte accuse, ed egli stesso
    perseguitò vivamente la mala razza di
    cotali accusatori, facendoli battere o
    mettere in ischiavitù, o pure esiliandoli.
    Soleva perciò dire: _Non credo che mi si
    possa fare ingiuria, perchè non opero cosa,
    di cui con giustizia io possa essere
    biasimato. Che se pur taluno ingiustamente
    mi biasima, egli fa ingiuria più a
    sè, che a me: ed io in vece d'adirarmi
    contro di lui, ho d'aver compassione della
    sua cecità. E se talun dice male dei
    miei predecessori con ingiustizia, quando
    sia vero che questi abbiano il potere che
    loro s'attribuisce nell'averli deificati,
    sapran ben essi vendicarsene senza di
    me_. Fece parimenti questo buon principe
    circa questi tempi selciar di nuovo la
    via Flaminia, che da Roma conduceva
    a Rimini. Ed Agricola[531] continuando
    la guerra in Bretagna, stese i contini
    romani sin verso la Scozia, fondando
    ivi castelli e fortezze, per mettervi delle
    guarnigioni.

    NOTE:

    [525] Sueton., in Tacito, cap. 7.

    [526] Sueton., in Tacit., cap. 8.

    [527] Dio, lib. 66.

    [528] Aurelius Victor, in Breviar.

    [529] Sueton., Dio, Eutropius, Eusebius.

    [530] Suetonius, in Tito, cap. 9. Dio, lib. 66.

    [531] Tacitus, in Vita Agricolae, c. 22.




    Anno di CRISTO LXXXI. Indizione IX.

    CLETO papa 5.
    DOMIZIANO imperadore 1.
    }

    _Consoli_

    LUCIO FLAVIO SILVA NONIO BASSO e ASINIO
    POLLIONE VERRUCOSO.


    Tali furono i nomi de' consoli di
    quest'anno, come apparisce dall'iscrizione
    rapportata da monsignor Bianchini,
    e da me[532]. Ma in un'altra iscrizione
    da me data alla luce, il primo console
    è appellato _Lucio Flavio Silvano_. Di lagrime
    e sospiri abbondò Roma in questo
    anno. Un ottimo principe oramai la governava,
    che amava tutti come figliuoli,
    comunemente ancora amato da ognuno,
    e che perciò avea conseguito un titolo,
    non prima nè poi dato ad alcun altro
    de' romani imperadori, cioè era chiamato[533]
    _la delizia del genere umano_. O sia
    ch'egli non si sentisse ben di salute, o
    che qualche cattivo presagio gli facesse
    apprendere vicina la morte; perciocchè
    non si può dire, quanto i Romani d'allora
    fossero superstiziosi, e dai vari accidenti
    vanamente deducessero i buoni
    o tristi successi dell'avvenire, o pur
    badassero agli strologhi: fuor di dubbio
    è, che Tito Augusto nulla operò in quest'anno
    di singolare. Si fecero degli spettacoli,
    e vi assistè; ma nel fin d'essi fu
    veduto piagnere. Comparve ancora in
    quest'anno nell'Asia un furbo appellato
    Terenzio Massimo, che si facea credere
    _Nerone Augusto_[534], già morto, e fu ben
    accolto da _Artabano re de' Parti_. Anzi
    parea, che quel barbaro re si preparasse
    per muovere guerra a Tito, con pretendere
    di rimettere sul trono un sì fatto
    impostore. Se Tito se ne mettesse pensiero,
    non è a noi noto. Volle egli, venuta
    la state, portarsi alla casa paterna
    nel territorio di Rieti, e melanconico più
    del solito uscì di Roma, perchè nel voler
    sagrificare, era fuggita la vittima di mano
    al sacerdote; ed essendo tempo sereno,
    s'è sentito il tuono. Alloggiato la sera
    in non so qual luogo, gli venne la febbre.
    Posto in lettiga, continuò il viaggio,
    e come già fosse certo che quell'era la
    ultima sua malattia, fu veduto tirar le
    cortine, e mirare il cielo, e dolersi, perchè
    in età sì immatura egli avesse da
    perdere la vita; giacchè egli non sapea
    di aver commessa azione alcuna, di cui
    si avesse a pentire, fuorchè una sola.
    Qual fosse questa, non si potè mai sapere
    di certo, quantunque molte dicerie
    ne fossero fatte. Dione[535] con più fondamento
    riferisce ciò al tempo in cui
    vide disperata la sua salute. Arrivato
    alla villa paterna, dove il padre avea
    terminata la sua vita, anch'egli, crescendo
    il male, vi trovò la morte. Siccome
    in casi tali avviene, ognun disse
    la sua. Per quanto scrive Plutarco[536],
    i suoi medici attribuirono la cagion di
    sua morte ai bagni, a' quali s'era talmente
    avvezzato che non potea prendere
    cibo la mattina, se prima non s'era
    portato al bagno. Forse l'acque fredde
    della Sabina gli nocquero. Anche un
    certo Regolo, che con esso lui si bagnò
    nello stesso giorno, fu sorpreso da
    un colpo di apoplessia, per cui morì.
    Altri pretesero[537], che _Domiziano_ suo
    fratello il levasse dal mondo col veleno,
    perchè più volte anche prima gli avea
    insidiata la vita; ed altri[538], che veramente
    egli mancasse di malattia naturale.
    Aggiugne Dione, che Domiziano, allorchè
    Tito era malato, e potea forse
    riaversi, il fece mettere in un cassone
    pieno di neve, non so, se col pretesto
    di rinfrescarlo, o di ottener quell'effetto,
    che oggidì alcuni medici pretendono,
    con dar acque agghiacciale nelle febbri
    acute, ma con vero disegno di farlo morire
    più presto. Quel ch'è certo, non
    era per anche morto _Tito_, che _Domiziano_
    corse a Roma, guadagnò i soldati
    del pretorio, e si fece proclamar imperadore
    colla promessa di quel donativo,
    che Tito avea loro dato nella sua assunzione
    all'imperio.

    Tale fu il fine di questo amabile imperadore,
    mancato di vita nel dì 13 di
    settembre[539], e nell'anno quarantesimo
    dell'età sua, dopo avere per poco più
    di due anni e due mesi tenuto l'imperio.
    Credettero alcuni politici d'allora, che
    fosse vantaggioso per lui l'essere tolto
    di vita giovane, siccome fu ad Augusto,
    l'essere morto vecchio. Perciocchè Augusto,
    sul principio del suo governo, fu
    costretto per la moltitudine de' suoi nemici
    e delle frequenti sedizioni, a commettere
    non poche azioni crudeli e odiose;
    ed ebbe poi bisogno di gran tempo,
    se volle guadagnarsi il pubblico amore
    a forza di benefizii, per li quali morì
    glorioso. All'incontro meglio fu per Tito
    il mancar di buon'ora, cioè in tempo che
    egli già era in possesso dell'amore di
    ognuno, perchè correa pericolo se fosse
    più lungamente vissuto, d'essere astretto
    a far cose che gliel facessero perdere.
    Volata a Roma la nuova di sua morte,
    fu per sì gran perdita inesplicabile il dolore
    di quel popolo, parendo ad ognuno
    di aver perduto un figliuolo o pure il
    padre. Altrettanto avvenne per le provincie
    romane. I senatori, senz'essere
    chiamati dai consoli o dal pretore, corsero
    alla curia, ed aperte le porte, diedero
    più lodi a lui morto, di quel che avessero
    fatto a lui vivo. Portato a Roma il
    suo cadavere, fecegli fare Domiziano il
    funerale, e registrarlo nel catalogo degli
    dii, ma senz'alcun altro degli onori, che
    Roma gentile soleva accordare agli altri
    imperadori, come giuochi annuali, templi
    e sacerdoti per eternare la loro memoria.
    Finquì _Flavio Domiziano_ altro titolo
    non avea goduto, che quello di _Cesare_[540],
    e di _Principe della gioventù_. Appena prese
    le redini del governo, che, siccome
    persona gonfia di vanità ed ambizione,
    volle dal senato tutt'i titoli ed onori, che
    altri imperadori partitamente aveano ricevuto,
    cioè quelli d'_Imperadore_, d'_Augusto_,
    di _Pontefice Massimo_, di _Censore_
    e di ornato della _tribunizia podestà_. Le
    medaglie ancora ci assicurano, che non
    tardò punto a voler anche il bel nome
    di _Padre della Patria_. Qual fosse il merito
    suo, quali i suoi pregi, lo vedremo
    all'anno seguente. Egli era nato nell'anno
    cinquantesimo dell'Era nostra; e
    però cominciò il suo reggimento in età
    giovanile; e diede il titolo d'_Augusta_ a
    _Domizia_ sua moglie.

    NOTE:

    [532] Thesaurus Novus Inscript., pag. 312 et pag. 318.

    [533] Suet., in Tito, cap. 10.

    [534] Zonara, in Chr.

    [535] Dio, lib. 66.

    [536] Plutar., de Sanit.

    [537] Aurelius, in Breviar.

    [538] Dio, lib. 66.

    [539] Sueton., in Tito, cap. 10.

    [540] Patin., Vaillant, Mediobarb. et alii.




    Anno di CRISTO LXXXII. Indizione X.

    CLETO papa 6.
    DOMIZIANO imperadore 2.
    }

    _Consoli_

    FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per l'ottava
    volta, e TITO FLAVIO SABINO.


    Era questo _Sabino_ console, cugino
    carnale di Domiziano, perchè figliuolo di
    _Tito Flavio Sabino_, fratello di Vespasiano,
    e prefetto di Roma, da noi veduto
    ucciso negli ultimi giorni di Vitellio Augusto.
    Avea già dato principio Domiziano
    imperadore al suo governo, non diversamente
    da alcuni suoi predecessori, buoni
    sulle prime, e nel progresso del tempo
    d'ogni crudeltà e scelleraggine macchiati[541].
    Salito sul tribunale, posto in piazza,
    bene spesso ascoltava e decideva giudiciosamente
    e giustamente le liti. Cassò
    molte sentenze date dai giudici con indebita
    parzialità, dichiarando infami quei
    d'essi che si scoprivano aver preso danaro
    per vendere la giustizia[542]. Tanta
    attenzione ebb'egli anche nel resto dei
    suoi anni all'amministrazione di essa
    giustizia, non solo in Roma, ma anche
    nelle provincie, che, per attestato di
    Svetonio, non si videro mai in tutto l'imperio
    romano i governatori e i magistrati
    sì modesti e giusti, come sotto
    di lui. E perchè questi dopo la sua
    morte lasciarono la briglia alla loro
    malnata avidità di far danaro, furono
    poi per la maggior parte condannati e
    puniti. Come censore perpetuo fece ancora
    alcune belle provvisioni. Volle nei
    teatri, distinti dalla plebe i sedili de' cavalieri.
    Abolì le pasquinate e i libelli famosi,
    pubblicati contro l'onore dei nobili
    dell'uno e dell'altro sesso, gastigandone
    gli autori, se venivano a scoprirsi.
    Cacciò dal senato _Cecilio Rufino_ questore,
    perchè si dilettava di far il buffone e
    il ballerino. Alle pubbliche meretrici vietò
    l'uso della lettiga, e il poter conseguire
    eredità e legati. Levò dal ruolo dei
    giudici un cavaliere romano, perchè dopo
    avere accusata di adulterio e ripudiata
    la moglie, l'avea dipoi ripigliata. Secondo
    la legge statinia condannò alcuni
    de' senatori e cavalieri per la lor impudicizia.
    Nè il padre nè il fratello di lui
    aveano presa cura degli adulterii delle
    vergini vestali, le quali, come ognun sa,
    venivano obbligate a conservar la verginità.
    Rigorosamente volle egli, siccome
    Pontefice massimo, che si eseguisse contra
    di loro la pena capitale, prescritta
    dalle leggi; nè risparmiò i dovuti gastighi
    o d'esilio o di morte ai complici dei
    lor falli. Parve[543] parimente ne' principii
    del suo governo, ch'egli abborrisse il
    levar la vita agli uomini, nè fosse punto
    avido della roba altrui. Anzi inclinava
    egli molto alla liberalità, e ne diede dei
    gran saggi verso tutti i suoi cortigiani,
    parenti ed amici, loro poscia severamente
    incaricando di guardarsi da ogni
    sordida azione per far danaro. Le eredità
    a lui lasciate da chi avea figliuoli, le
    ricusò. Molte terre decadute al fisco restituì
    ai padroni di esse. Decretò l'esilio a
    quegli accusatori che non provavano le
    lor denunzie ed accuse. Molto più aspramente
    trattò coloro che intentavano
    processi calunniosi di contrabbandi in
    favore del fisco; imperocchè egli diceva:
    _Chi non gastiga i falsi accusatori, anima
    essi ed altri a questo iniquo mestiere_.
    Non fu minore la sua magnificenza
    nel rifare il Campidoglio: che fu mirabil
    cosa, perchè, secondo la testimonianza
    di Plutarco[544], nelle sole dorature
    egli v'impiegò dodicimila talenti:
    il che era un nulla rispetto alle spese
    fatte nell'adornare il proprio palazzo.
    Rifabbricò eziandio varj templi bruciati
    sotto Tito Augusto, mettendovi il suo
    nome, e non già quello de' primieri. Fece
    di pianta il tempio della famiglia Flavia,
    lo stadio per gli atleti, l'Odeo per
    le gare de' musici, e la Naumachia per
    gli combattimenti navali. _Marziale_, poeta
    di questi tempi, sfacciato adulatore di
    Domiziano, esalta alle stelle tutte queste
    sue fabbriche, ed ogni altra sua azione.
    Ora quanto s'è detto fin qui potrà far
    credere ai lettori, che Domiziano comparisse
    figliuolo ben degno di un Vespasiano,
    e fratello d'un Tito, principi che
    aveano restituito il suo splendore a Roma,
    e all'imperio romano. Ma noi non
    tarderemo a vederlo indegno lor figlio
    e fratello, e tiranno non signore di Roma.
    Prese egli in quest'anno il titolo
    d'_imperadore_ per la terza volta, a cagione,
    per quanto si crede, di qualche
    vittoria riportata da _Giulio Agricola_ nella
    Bretagna. Colà s'inoltrò cotanto quel
    valente capitano coll'armi romane, che
    arrivò sino ai confini dell'Irlanda[545].

    NOTE:

    [541] Sueton., in Domitiano, cap. 8.

    [542] Aurelius Victor, in Epitome.

    [543] Sueton., in Domitiano, cap. 9.

    [544] Plutarc., in Vita Poplic.

    [545] Tacitus, in vita Agricolae, cap. 24.




    Anno di CRISTO LXXXIII. Indizione XI.

    ANACLETO papa 1.
    DOMIZIANO imperadore 3.
    }

    _Consoli_

    FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per la nona
    volta, e QUINTO PETILLIO RUFO per la seconda.


    A _Quinto Petilio_ fu sostituito nel
    consolato, per quanto si crede, _Cajo
    Valerio Messalino_. In quest'anno la Storia
    ecclesiastica riferisce la morte di san
    _Cleto_ papa, che col suo sangue illustrò
    la religione di Cristo. A lui succedette
    nella cattedra di s. Pietro, _Anacleto_. Durava
    tuttavia la guerra nella Bretagna.
    _Giulio Agricola_ comandante dell'armi
    romano in quelle parti[546], riportò un'insigne
    vittoria nella Scozia contra di quei
    popoli. Aveano i Romani trasportato in
    quelle grandi isole un reggimento di
    Tedeschi. Costoro non volendo più militare
    in quelle parti, fatta una congiura,
    uccisero il loro tribuno, i centurioni,
    ed alcuni soldati romani, ed imbarcatisi
    in tre brigantini si diedero alla fuga. Il
    piloto d'essi legni seppe far tanto, che
    ricondusse il suo all'armata romana.
    Gli altri due fecero il giro della Bretagna,
    e dopo una fiera fame patita, per
    cui mangiarono i più deboli, giacchè non
    poteano approdare ad alcun sito d'essa
    Bretagna, per essere considerati quai
    nemici, andarono poi a naufragar nelle
    coste della Germania bassa. Quivi dai
    corsari svevi e frisoni furono presi e
    venduti come schiavi. Perchè alcuni
    d'essi capitarono nelle terre del romano
    imperio, perciò allora solamente vennero
    a conoscere i Romani, che la Bretagna
    era un'isola e non già terra ferma, come
    per la poca pratica aveano fin allora
    molti creduto. Intanto Domiziano teneva
    allegro il popolo romano[547] con dei
    magnifici e dispendiosi spettacoli, non
    solamente nell'anfiteatro, ma anche nel
    circo, dove si videro corse di carrette,
    combattimenti a cavallo e a piedi, siccome
    ancora cacce di fiere, battaglie di
    gladiatori in tempo di notte a lume di
    fiaccole[548], dando nel medesimo spettacolo
    cena, o almen vino al popolo
    spettatore. Vidersi ancora zuffe d'uomini,
    ed anche combattere con le fiere, o
    fra loro. Mirabili altresì furono i combattimenti
    navali, fatti nell'anfiteatro,
    oppure in un lago, cavato a mano in vicinanza
    del Tevere. Probabilmente a
    vari anni son da attribuire sì fatti spettacoli,
    benchè da Svetonio e da me accennati
    tutti in un fiato.

    NOTE:

    [546] Tacitus, cap. 25 et seq.

    [547] Sueton., in Domitiano, c. 4.

    [548] Dio, lib. 67.




    Anno di CRISTO LXXXIV. Indizione XII.

    ANACLETO papa 2.
    DOMIZIANO imperadore 4.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per la decima volta e SABINO.


Non ho io dato alcun prenome e nome a questo _Sabino_ console, perchè
intorno a ciò nulla v'ha di certo. Da Giordano[549], che altri
sogliono chiamar Giornande, egli vien appellato _Poppeo Sabino_. Parve
probabile al cardinal Noris[550], che il suo nome fosse _Cajo Oppio
Sabino_. Ma in un'iscrizione riferita dal Cupero (non so di qual peso)
a _Domiziano_ per la decima volta console vien dato per collega _Tito
Aurelio Sabino_. Noi bensì vedremo un console dell'anno seguente
appellato _Tito Aurelio_. In tale incertezza ho io ritenuto solamente
il di lui cognome, di cui non ci lasciano dubitare i fasti antichi.
Quantunque non si sappia di certo l'anno in cui Domiziano andò alla
guerra in Germania, pure, seguendo la traccia delle medaglie[551],
reputo io più verisimile il parlarne nel presente. Erano confinanti i
Romani coi Catti, popolo, per attestato di Tacito[552], il più
prudente e meglio disciplinato che s'avesse la Germania, creduto
oggidì quel d'Hassia e Turingia. Domiziano, siccome sommamente vano ed
ambizioso di gloria, determinò di marciar egli in persona contra
d'essi[553], perchè aveano cacciato _Cariomero re dei Cherusci_ dal
suo dominio a cagion dell'amicizia ch'egli professava ai Romani. Andò
questo gran campione, assai persuaso che il suo solo nome avesse da
sbigottire que' popoli; e forse fu allora, che, per quanto abbiam da
Frontino[554], egli mostrò di portarsi nelle Gallie, ad oggetto
unicamente di fare il censo di quelle provincie. Ma giunto colà,
all'improvviso passò coll'esercito il Reno, e a bandiere spiegate andò
contro ai Catti. Se volessimo credere agli adulatori poeti, uno de'
quali era allora _Publio Stazio Papinio_[555], egli domò la fierezza
di quei barbari e mise in pace i vicini. Ma non si sa ch'egli desse
loro battaglia alcuna; e probabilmente altro non fece che ridurli ad
un trattato di pace, con rovinar intanto i popoli suoi sudditi di là
dal Reno. Contuttociò, come s'egli avesse compiuta una segnalata
impresa, sparse voce di vittorie riportate; e tutto gonfio del suo
mirabil valore se ne tornò a Roma per goder del trionfo, che il senato
sulla di lui parola gli accordò. Nelle medaglie di quest'anno si
truova più volte coniato il tipo della vittoria, segno di questi
pretesi vantaggi nella guerra germanica, per cui cominciò egli ad
usare il titolo di _Germanico_, e si fece proclamar _imperadore_ sino
alla nona volta. Può nondimeno essere, che contribuissero alla gloria
di Domiziano anche le prodezze di _Giulio Agricola_ nella Bretagna;
imperciocchè, per quanto si può conghietturare[556], nell'anno
presente quel saggio uffiziale sottopose al romano imperio le isole
Orcadi, ed altri paesi in quelle parti. Di questi felici successi
diede egli di mano in mano avviso a Domiziano. Qual ricompensa ne
ricavasse, lo diremo all'anno seguente.

NOTE:

[549] Jord., de Reb. Getic., c. 13.

[550] Noris, Ep. Consul.

[551] Mediobarbus, Goltzius et alii.

[552] Tacitus, de Morib. Germanorum, cap. 30.

[553] Dio, lib. 67.

[554] Frontin., in Stratagem., lib. 1, cap. 1.

[555] Stat., in Sylv., l. 1, c 1.

[556] Tac., in vita Agric., c. 38 et seq.




    Anno di CRISTO LXXXV. Indizione XIII.

    ANACLETO papa 3.
    DOMIZIANO imperadore 5.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per l'undecima volta, e TITO AURELIO FULVO, o
FULVIO.


Questo _Tito Aurelio_ console per attestato di Capitolino[557], fu
avolo paterno di Antonino Pio Augusto. Che solamente nell'anno
presente Domiziano solennizzasse il suo trionfo per aver ridotti a
dovere i popoli Catti, si può facilmente dedurlo dalle monete o
medaglie d'allora[558], nelle quali ancora con isfacciata adulazione
si legge GERMANIA CAPTA, quasichè a questo bravo imperadore, il qual
forse neppure fu a fronte de' nemici, riusciti fosse di conquistar
l'intera Germania. Però da lì innanzi egli costumò di andare al senato
in abito trionfale. Son di parere alcuni[559], ch'egli nello stesso
tempo trionfasse dei Quadi, Daci, Geli e Sarmati. Ma, per quanto
sembra indicare Svetonio[560], diverse furono quelle guerre, diversi i
trionfi. Egli spontaneamente fece la prima spedizione contro ai Catti;
e l'altre per necessità. Però ne parleremo andando innanzi. L'avviso
delle vittorie riportate da Agricola fu ricevuto da Domiziano con
singolare allegrezza in apparenza[561]; perchè internamente gli rodeva
il cuore, che vi fosse altra persona, che lui, creduta valorosa, e da
invidioso riputava perdita sua le glorie altrui. Perciò, quantunque,
per coprire lo scontento suo, gli facesse decretar dal senato gli
ornamenti trionfali, una statua e gli altri onori, de' quali fosse
capace una privata persona, dappoichè si riserbavano ai soli
imperadori i trionfi: pure determinò di richiamarlo a Roma, indorando
questa pillola, col far correr voce di volergli conferire il governo
riguardevole della Siria o sia della Soria, giacchè era mancato di
vita _Attilio Rufo_, governatore di quella provincia. Fu detto ancora,
che gliene inviasse la patente portata da un suo liberto, ma con
ordine di consegnargliela solamente allorchè Agricola non fosse
partito per anche dalla Bretagna; perchè dovea Domiziano temere,
ch'egli non volesse muoversi, se prima non riceveva la sicurezza di
qualche migliore impiego. Ma il liberto avendo trovato, che Agricola,
dopo aver consegnata la provincia tutta in pace al suo successore,
cioè a _Sallustio Lucullo_ era già venuto nella Gallia, senza neppur
lasciarsi vedere da lui, se ne ritornò a Roma, portando seco la non
presentata patente. Entrò in Roma Agricola in tempo di notte, per
ischivare lo strepito di molti suoi amici, che voleano uscire ad
incontrarlo; e si portò a salutar Domiziano, da cui fu accolto con
della freddezza. Da ciò intese egli ciò che potea sperare da un tale
imperadore; e rimasto senza impiego, si diede poscia ad una vita
ritirata e privata. Non mancò in corte chi animò Domiziano a fargli
del male, accusando e calunniando un sì degno personaggio, prima
ch'egli giugnesse a Roma; ma non avea per anche Domiziano dato luogo
in suo cuore alla crudeltà, di cui parlerò a suo tempo; e la
moderazione e prudenza d'Agricola ebbero tal fortuna, ch'egli giunse
naturalmente alla morte, senza riceverla dalle mani altrui. Abbiamo da
Tacito[562], che dopo l'arrivo di esso Agricola a Roma, gli eserciti
romani nella Mesia, nella Dacia, nella Germania e nella Pannonia, o
per la temerità, o per la codardia de' generali, furono sconfitti; e
che vi rimasero o trucidati o presi moltissimi uffiziali di credito
colle lor compagnie, di maniera che non solamente si perdè alquanto
de' confini del romano imperio, ma si dubitò infine di perdere i
luoghi forti, dove soleano star le milizie romane ai quartieri
d'inverno. Tali disavventure nondimeno si può credere che succedessero
in vari anni; a noi resta luogo di distribuirle con sicurezza secondo
i lor tempi, perchè son periti gli Annali antichi, e Svetonio e Dione,
secondo il loro uso, contenti di riferir le azioni degli antichi
Augusti, poca cura si presero della cronologia.

NOTE:

[557] Julius Capitolinus, in Antonino Pio.

[558] Mediobarb., in Numism. imperator.

[559] Blanchinius ad Anastas.

[560] Sueton., in Domitiano, cap. 6.

[561] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 39, et seq.

[562] Tacitus, in vita Agricolae.




    Anno di CRISTO LXXXVI. Indizione XIV.

    ANACLETO papa 4.
    DOMIZIANO imperadore 6.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per la dodicesima volta, e SERVIO CORNELIO
DOLABELLA METILIANO POMPEO MARCELLO.


Tutti questi cognomi ho io dato al secondo de' consoli, seguendo
un'iscrizione da me[563] pubblicata, e creduta spettante al medesimo
personaggio. Abbiamo da Giulio Capitolino[564], che in quest'anno
venne alla luce _Antonino Pio_, il quale vedremo andando innanzi
imperadore. E in questi tempi ancora, siccome scrive Censorino[565],
Domiziano istituì in Roma i _Giuochi Capitolini_, i quali continuarono
di poi a celebrarsi ad ogni quarto anno, a guisa dei giuochi olimpici
della Grecia. Si solennizzavano in onore di Giove Capitolino. Per
testimonianza di Svetonio[566], in que' giuochi varie erano le gare e
contese dei professori dell'arti. Chi più degli altri piaceva nel suo
mestiere, ne riportava in premio una corona. Faceano un giorno le lor
forze gli atleti; un altro dì i cantori e sonatori; un altro
gl'istrioni o commedianti. V'era anche il giorno destinato per li
poeti; e il suo per chi recitava prose in greco o latino. _Stazio
Papinio_ poeta[567] recitò allora al popolo una parte della sua
Tebaide, che non piacque; e in confronto di lui furono coronati altri
poeti. Vi si videro ancora non senza dispiacer de' buoni, fanciulle
pubblicamente gareggiare nel corso. Come pontefice massimo presiedeva
a questi giuochi Domiziano, vestito alla greca, portando in capo una
corona d'oro, perchè i sacerdoti costumavano nelle lor funzioni di
andar coronati. Abbiamo da Dione[568] e da Svetonio[569] che
Domiziano, oltre al suddetto spettacolo ed altri straordinari, usò
ogni anno di fare i giuochi quinquatri in onor di Minerva, mentre
villeggiava in Albano. In essi ancora si miravano cacce di fiere,
divertimenti teatrali, e gare d'oratori e di poeti. Non contento
Domiziano di profondere immense somme di danaro in tali spettacoli,
tre volte in vari tempi diede al popolo romano un congiario, cioè un
regalo di trecento nummi per testa. Così nella festa dei Sette monti,
mentre si facea uno spettacolo, diede una lauta merenda a tutto il
popolo spettatore, in maniera pulita di tavole apparecchiate ai
senatori e cavalieri, e alla plebe in certe sportelle. Nel giorno
seguente sparse sopra il medesimo popolo una quantità prodigiosa di
tessere, cioè di tavolette, nelle quali era un segno di qualche dono,
come di uccelli, carne, grano, ec., che si andava poi a prendere alla
dispensa del principe. E perchè erano quasi tutte cadute ne' gradini
del teatro o anfiteatro, dove sedea la plebe, ne fece gittar cinquanta
sopra cadaun ordine de' sedili de' senatori e cavalieri. Certo è che
gl'imperadori, per guadagnarsi l'affetto del popolo, coll'esempio
d'Augusto, il ricreavano di quando in quando colla varietà de' giuochi
pubblici, e più lo rallegravano con dei regali. Ma in fine queste
esorbitanti spese di Domiziano tornarono, siccome dirò, in danno dello
stesso pubblico, perchè l'erario si votava con sì fieri salassi, e per
ristorarlo egli si diede poi alle crudeltà e alle oppressioni de'
cittadini.

NOTE:

[563] Thesaur. Novus Inscript., pag. 113, n. 2.

[564] Capitolinus, in vita Antonini Pii.

[565] Censorinus, de Die Natali, cap. 18.

[566] Suetonius, in Domitiano, cap. 4.

[567] Statius, in Sylv.

[568] Dio, lib. 67.

[569] Sueton., in Domitiano, c. 4.




    Anno di CRISTO LXXXVII. Indizione XV.

    ANACLETO papa 5.
    DOMIZIANO imperadore 7.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per la tredicesima volta, e AULO VOLUSIO
SATURNINO.


Benchè Eusebio nella sua Cronica[570] non rechi un filo sicuro per la
cronologia di questi tempi, pure si può ben credergli, allorchè scrive
che nell'anno presente cominciò Domiziano a gustare che la gente gli
desse il titolo di _Signore_ e fin quello di _Dio_: empietà non
perdonabile a mortale alcuno. Secondo il suddetto istorico, assistito
dall'autorità di Svetonio[571], non solamente egli si compiacque, ma
comandò ancora d'essere così nominato: il che, dice Eusebio, non venne
in mente ad alcun precedente imperatore. Noi abbiam veduto, avere
Augusto veramente vietato con pubblico editto d'essere chiamato
_Signore_; ma anch'egli permise bene e gradì che in sua vita gli
fossero eretti dei templi e costituiti dei sacerdoti ad onore della
sua pretesa divinità. Per attestato ancora di Vittore[572], Caligola
forsennato Augusto volle essere chiamato _Signore_ e _Dio_. Di tutto
era vie più capace la smoderata ambizione o frenesia di Domiziano; e
pronta ad ubbidire era l'adulazione e la superstiziosa stoltezza dei
Pagani. Però fondatamente hanno creduto alcuni, che l'aver Domiziano
perseguitati i Cristiani, avesse origine di qui; perchè certo i
seguaci di Gesù Cristo, professando la credenza di un solo Dio
invisibile ed immortale, non poteano mai indursi a riconoscere per dio
un imperadore, vile e miserabil creatura in confronto del Creatore.
Abbiamo dallo stesso Eusebio, che in questi tempi i popoli Nasamoni e
Daci, avendo guerra coi Romani, furono vinti. Quanto ai Daci non ci
somministra l'antica storia assai lume per essere il tempo vero in cui
ebbe principio la guerra con essi, e quanto durò, e quando finì.
Tuttavia potrebbe darsi che a questi tempi appartenesse il primo
movimento di quella guerra, che continuò molto dipoi, e riuscì ben
pericolosa e funesta ai Romani. Credesi che l'antica Dacia
comprendesse quel paese che oggidì è diviso nella Transilvania,
Moldavia e Valachia. Erano popoli fieri e bellicosi quei di quelle
contrade, perchè credeano la morte fine della presente vita, e
principio di un'altra, secondo l'opinion di Pitagora, che spacciò la
trasmigrazion delle anime. Con tal persuasione sprezzavano ogni
pericolo, e si esponevano alla morte, sperando di risorgere con
miglior mercato in altri corpi. Alcuni Greci[573] diedero ai _Daci_ il
nome di _Geti_ e _Goti_; e veramente si truovano confusi presso gli
antichi scrittori i nomi delle barbare nazioni. Quel che è certo,
capitano di essi Daci era allora _Decebalo_, uomo di rara maestria ed
accortezza nel mestier della guerra. E questi, se crediamo a
Giordano[574] scrittore de' tempi di Giustiniano Augusto, mossi
dall'avarizia di Domiziano, rotta l'alleanza che aveano con Roma,
passarono il Danubio, e cacciarono da quelle ripe i presidii
romani[575]. _Appio Sabino_, che il cardinal Noris[576] crede più
tosto appellato _Cajo Oppio Sabino_, personaggio stato già console, e
governatore allora probabilmente della Mesia, marciò colle sue forze
contra di que' Barbari, ma ne rimase sconfitto, ed egli ebbe tagliata
la testa[577]. A questa vittoria tenne dietro il saccheggio del paese,
e la presa di molti villaggi e castella. Giunte a Roma queste dolorose
nuove, si vide Domiziano in certa guisa necessitato ad accorrere colà
per fermare questo rovinoso torrente. In qual anno egli la prima volta
v'andasse (perchè due volte v'andò) non si può decidere. Sarà permesso
a me di riserbarne a parlar nell'anno susseguente. Dei Nasamoni,
popoli dell'Africa di sopra nominati da Eusebio, noi sappiamo da
Zonara[578], che, a cagion delle eccessive imposte, si sollevarono
contro ai Romani e diedero una rotta a _Flacco_ governator della
Numidia. Ma essendosi coloro perduti dietro a votar molti barili di
vino, che trovarono nel campo dei vinti, Flacco fu loro addosso, e ne
fece un gran macello. Domiziano, gloriandosi delle imprese altrui, nel
senato espose d'aver annientati i Nasamoni.

NOTE:

[570] Euseb., in Chron.

[571] Sueton., in Domitiano, cap. 13.

[572] Aurelius Victor, in Epitome.

[573] Dio, lib. 67.

[574] Jordan., de Rebus Geticis, cap. 12.

[575] Sueton., in Domitiano, cap. 6.

[576] Noris, Epist. Consulari.

[577] Eutrop., Histor.

[578] Zonara, in Annal.




    Anno di CRISTO LXXXVIII. Indizione I.

    ANACLETO papa 6.
    DOMIZIANO imperadore 8.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per la quattordicesima volta, e LUCIO MINUCIO
RUFO.


_Minicio_ e non _Minucio_ è appellato questo console in una iscrizione
da me[579] data alla luce. Nobil famiglia era anche la _Minucia_.
Derisa fu l'avidità di Domiziano (l'avea preceduto coll'esempio
Vespasiano suo padre) da Ausonio[580] e da altri, nel continuare per
tanti anni il consolato nella sua persona, quasichè invidiasse agli
altri un tale onore. Arrivò egli ad essere console diecisette volte:
il che niuno de' suoi predecessori avea mai fatto, amando essi di
veder compartita anche ad altri questa onorevolezza. Osservò nondimeno
Svetonio[581], che Domiziano non esercitava poi la funzione di
console, lasciandone il peso al collega, o pure ai sostituiti. Bastava
alla sua boria, che il suo nome comparisse negli atti pubblici, l'anno
de' quali per lo più era segnato col nome de' consoli ordinari. Del
resto egli constumava di deporre il consolato alla più lunga nelle
calende di maggio; e i più d'essi rinunziò nel dì 13 di gennaio. Ma
quali persone fossero a lui sostituite in quella dignità, e in qual
anno, non si può ora accertare. Volle Domiziano, che si celebrassero
nell'anno presente i _giuochi secolari_, ancorchè, secondo l'istituto
di essi, si avessero a celebrare ad ogni cento anni[582], nè più che
quarantun anni fosse, che Claudio Augusto gli avea fatti. La prima
spedizion di Domiziano contro ai Daci, insuperbiti per la loro
vittoria, forse accadde nell'anno presente. Andò egli in persona
coll'esercito a quella volta. Racconta Pietro patrizio nel suo
trattato delle ambascerie[583], che _Decebalo_ veduto venire con sì
grande apparato di gente un imperador romano contro sè, gl'inviò degli
ambasciatori per trattar di pace. Se ne rise il superbo Domiziano, ed
avendoli rimandati senza risposta, ordinò che le milizie imprendessero
la guerra, con dare il comando di tutta l'armata a _Cornelio Fosco_,
prefetto allora del pretorio. Decebalo assai informato del valore di
questo generale, che avea studiata l'arte militare solamente fra le
delizie della corte e in mezzo ai divertimenti di Roma, se ne fece
beffe, e spedì altri deputati a Domiziano, offerendosi di terminar
quella guerra, purchè i Romani di quelle contrade gli pagassero
annualmente due oboli per testa; e ricusando essi tal condizione,
minacciava loro lo sterminio[584]. Contuttociò Domiziano, ch'era un
solennissimo poltrone, come se avesse pienamente assicurato l'imperio
da quella parte, se ne tornò da bravo a Roma, senza apparire se prima
che terminasse il presente anno, o pur nel seguente. Per quanto
scrivono Svetonio e Giordano[585], _Fosco_ avendo passato il Danubio,
fece guerra a' Daci, e probabilmente ebbe sopra di loro qualche
vantaggio; ma in fine restò sconfitto e ucciso, forse nell'anno
seguente. Circa questi tempi, per quanto s'ha da Eusebio[586], _Marco
Fabio Quintiliano_, eccellente maestro di eloquenza, nato a Calaorra
in Ispagna, venne a Roma salariato dal pubblico, per insegnar la
oratoria. Ma probabilmente ciò avvenne sotto Vespasiano, il quale
fondò quivi varie scuole, e vi chiamò degl'insigni maestri. Certo è
intanto, che Quintiliano fiorì sotto i di lui figliuoli, e fu anche
maestro dei nipoti di Domiziano.

NOTE:

[579] Thesaurus Novus Inscription., p. 314, n. 1.

[580] Ausonius, in Panegyr.

[581] Sueton., in Domitian., cap. 13.

[582] Censorinus, de Die Natal., cap. 17.

[583] Petrus Patric., de Legat. Hist. Byzant., T. 1.

[584] Sueton., in Domitiano, cap. 6.

[585] Jordan., de Reb. Geticis, cap. 13.

[586] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO LXXXIX. Indizione II.

    ANACLETO papa 7.
    DOMIZIANO imperadore 9.

_Consoli_

TITO AURELIO FULVO per la seconda volta, e AULO SEMPRONIO ATRATINO.


Siamo accertati da Giulio Capitolino[587], che _Vito Aurelio Fulvo_ o
sia _Fulvio_, avolo paterno di Antonino Pio Augusto, fu due volte
console. Giacchè Svetonio scrive che Domiziano volle un doppio trionfo
dei Catti e dei Daci, non è improbabile ch'egli nell'anno presente
affrettasse questo onore per far credere ai Romani, che felicemente
passavano gli affari nella guerra della Dacia. Attesta il medesimo
storico, ch'erano seguite alcune battaglie in quelle parti, e taluna
verisimilmente vantaggiosa ai Romani, il che bastò all'ambizioso
Augusto, per esigere l'onor del trionfo. Giacchè sopravvenne la
sconfitta e la morte di _Cornelio Fosco_ nella guerra che continuava
nella Dacia, potrebbe attribuirsi all'anno presente la seconda
spedizione del medesimo Domiziano contro ai Daci, essendo noi
accertati da Svetonio[588], che due volte egli andò in persona a
quella guerra. Ma se non è possibile il ben dilucidare i tempi delle
azioni di Domiziano, a noi bastar deve almeno la certezza delle
medesime. Tornò dunque Domiziano alla guerra[589], ma perchè facea più
conto della pelle che dell'onore, nè gli piacea la fatica, ma sì bene
il godersi tutti i comodi, siccome uomo poltrone, e perduto tra le
femmine e in ogni sorta di disonestà: non osò giammai di lasciarsi
vedere a fronte dei nemici. Fermatosi dunque in qualche città della
Mesia, spedì i suoi generali contra di Decebalo. Seguirono vari
combattimenti, ne' quali, per testimonianza di Dione, perì buona parte
delle sue armate. Tuttavia, perchè la fortuna delle guerre è volubile,
e i suoi riportarono talvolta de' vantaggi, e specialmente _Giuliano_
diede una considerabil rotta a Decebalo: Domiziano di continuo, ed
anche allorchè andavano poco bene gli affari, spediva l'un dietro
all'altro i corrieri a Roma, per avvisare il senato delle sue felici
vittorie. Pertanto, a cagione di questi creduti sì gloriosi successi,
il senato gli decretò quanti onori mai seppe immaginare, e per tutto
l'imperio romano gli furono alzate statue d'oro e d'argento, se pur
non erano dorate ed inargentate. Con tutto il suo valor nondimeno
Decebalo cominciò a sentirsi assai angustiato dalle forze de' Romani;
e però inviò degli ambasciatori a Domiziano per ottener la pace. Non
ne volle il poco saggio Augusto udir parola; ma in vece di
maggiormente incalzare il vacillante nemico, venuto nella Pannonia,
rivolse l'armi contro ai Quadi e Marcomanni, volendo gastigarli,
perchè non gli aveano dato soccorso contra dei Daci. Due volte que'
popoli gli fecero una deputazione, per placare il suo sdegno; non solo
nulla ottennero, ma Domiziano fece anche levar la vita ai secondi lor
deputati. Si venne dipoi ad una battaglia, in cui dai Marcomanni,
combattenti alla disperata, fu sconfitto l'esercito romano, ed
obbligato l'imperadore alla fuga. Allora fu, che egli diede orecchio
alle proposizioni di pace con Decebalo, il qual seppe ben profittare
della debolezza, in cui, dopo tante perdite, si trovavano i Romani.
Contentossi dunque egli di restituir molte armi e molti prigioni, e di
ricever anche dalle mani di Domiziano il diadema del regno; ma si
capitolò, che anche Domiziano pagasse a lui una gran somma di danaro,
e di mandargli molti artefici in ogni sorta d'arti di guerra e di
pace; e, quel che fu peggio, di pagargli in avvenire annualmente una
certa quantità di danaro a titolo di regalo. Durò questa vergognosa
contribuzione sino ai tempi di Trajano, il quale, siccome vedremo,
avendo altra testa e cuore che Domiziano, insegnò ai Daci il rispetto
dovuto all'aquile romane. Tutto boria Domiziano per questa pace,
quasichè egli l'avesse fatta da vincitore, e non da vinto, scrisse al
senato lettere piene di gloria, e fece in maniera ancora, che gli
ambasciatori di Decebalo andassero a Roma con una lettera di
sommessione, a lui scritta da Decebalo, se pur non fu finta, come
molti sospettarono, dallo stesso Domiziano. Per altro Decebalo non
fidandosi di lui, si guardò dal venire in persona a trovar Domiziano,
e in sua vece mandò il fratello Diegis a ricevere da lui il diadema.
Quanto durasse questa guerra sì perniciosa ai Romani, e quando
cessasse, non abbiamo assai lume per determinarlo; ma v'è
dell'apparenza, che si stabilisse la pace nell'anno presente, e che
Domiziano se ne tornasse a Roma nel dicembre per prendere il consolato
nell'anno seguente. Nè si dee tacere ciò che Plinio il giovane
osservò, cioè che Domiziano[590] andando a queste guerre, per dovunque
passava sulle terre dell'imperio, non pareva il principe ben venuto,
ma un nemico ed un assassino: tante erano le gravezze che imponeva ai
popoli, tante le rapine, gl'incendi, ed altri disordini che
commettevano le sue milizie, braccia cattive di un più cattivo capo.

NOTE:

[587] Capitol., in Antonino Pio.

[588] Sueton., in Domitiano, cap. 6.

[589] Dio, lib. 67.

[590] Plinius, in Panegyr.




    Anno di CRISTO XC. Indizione III.

    ANACLETO papa 8.
    DOMIZIANO imperadore 10.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per la quindicesima volta, e MARCO COCCEJO
NERVA per la seconda.


_Nerva_ console, quegli è che a suo tempo vedremo imperadore. Siccome
il cardinal Noris ed altri mettono la seconda guerra dacica prima di
quel ch'io abbia supposto, così credono che Domiziano celebrasse
nell'anno 88, o pure nel precedente, il secondo suo trionfo dei Daci,
e prendesse il titolo di _Dacico_. Eusebio[591] lo differisce sino
all'anno seguente. Io sto col padre Pagi[592], che riferisce quel
trionfo al presente anno. Su tal supposto adunque, fu in quest'anno,
per attestato di Dione[593], che Domiziano solennizzò in Roma le sue
glorie con magnifiche feste e spettacoli. Si fecero nel Circo vari
combattimenti a piedi e a cavallo, e in un lago fatto a posta una
battaglia navale, in cui quasi tutti i combattenti restarono morti.
Levossi inoltre durante quello spettacolo un fiero temporale con
pioggia, che quasi ebbe ad affogare gli spettatori. Domiziano si fece
dare il mantello di panno grosso, ma non volle che gli altri mutassero
veste, nè che alcuno uscisse, di maniera che tutti inzuppati d'acqua,
contrassero poi delle malattie, per cui molti morirono. A consolar poi
il popolo per tal disgrazia, trovò lo spediente di dargli una cena a
lume di fiaccole; e per lo più fu suo costume di eseguire i pubblici
divertimenti in tempo di notte. Ma specialmente fece egli comparire il
suo fantastico cervello in un convito notturno, al quale invitò i
principali dell'ordine senatorio ed equestre. Fece addobbar di nero
tutte le stanze del palazzo, mura, pavimento e soffitte, con sedie
nude. Invitati i commensali, cadaun vide collocata vicino a sè una
specie d'arca sepolcrale, col suo nome scritto in essa, e con una
lucerna pendente, come ne' sepolcri. Sopravvennero fanciulli tutti
nudi e tinti di nero, ballando intorno ad essi, e portando vasi,
simili agli usati nelle esequie dei morti. Cadauno de' convitati si
tenne allora spedito, e tanto più perchè tacendo ognuno, il solo
Domiziano d'altro non parlava che di morti e di stragi. Dopo sì gran
paura furono in fine licenziati; ma appena giunti alla loro
abitazione, ecco che parecchi di loro son richiamati alla corte. Oh
allora sì che crebbe in essi lo spavento; ma in vece d'alcun danno,
riceverono poi da Domiziano qualche dono in vasi d'argento, o in altri
preziosi mobili. Tali furono i sollazzi bizzarri dati da Domiziano
alla nobiltà in occasione del suo trionfo. Nondimeno il popolo
comunemente dicea, che questo era non già un trionfo, ma un funerale
de' Romani nella Dacia, ovvero in Roma estinti. Dopo questi trionfi la
vanità di Domiziano, che studiava ogni dì qualche novità, volle che il
mese di settembre da lì innanzi s'appellasse _Germanico_[594], e
l'ottobre _Domiziano_, per non essere da meno di Giulio Cesare e di
Augusto; e ciò perchè nel primo avea conseguito il principato, ed era
nato nel secondo. Ma non durò più della sua vita questo suo decreto.
Non si sa mai capire, come Eusebio[595] scrivesse, che molte fabbriche
furono terminate in Roma nell'anno presente, o pure nell'antecedente,
cioè _Capitolium, Forum transitorium, Divorum Porticus, Isium ac
Serapium, Stadium, Horrea piperataria, Vespasiani Templum, Minerva
Chalcidica, Odeum, Forum Trajani, Thermae Trajanae et Titianae,
Senatus, Ludus Matutinus, Mica aurea, Meta sudans et Pantheum_. Non si
pensasse alcuno, che tanti edifizii ricevessero il lor essere o
compimento in quest'anno. Forse furono risarciti. Il _Panteon_ era da
gran tempo fatto; e, per tacere il resto, la piazza e le terme di
Traiano non furono, siccome diremo, fabbricate, se non nei tempi del
suo imperio, cioè da qui a qualche anno.

NOTE:

[591] Euseb., in Chron.

[592] Pagius, in Critica Baron. ad hunc Ann.

[593] Dio, lib. 67.

[594] Sueton., in Domitiano, cap 13. Plutarchus in Num.

[595] Euseb., in Chron.




    Anno di CRISTO XCI. Indizione IV.

    ANACLETO papa 9.
    DOMIZIANO imperadore 11.

_Consoli_

MARCO ULPIO TRAJANO e MARCO ACINIO GLABRIONE.


_Trajano_, console in quest'anno, il medesimo è che fu poi imperadore
glorioso. Il prenome dell'altro console _Glabrione_, secondo alcuni,
fu non già _Marco_, ma _Manio_, siccome proprio della famiglia
_Acilia_. Noi abbiamo da Dione[596] esser avvenuti due prodigii, per
l'uno de' quali fu presagito l'imperio a _Trajano_, e per l'altro la
morte a _Glabrione_. Quali fossero, nol sappiamo, se non che per
attestato del medesimo storico, Glabrione, benchè console, fu
obbligato dal capriccioso ed iniquo Domiziano a combattere contra di
un grosso lione, che fu bravamente da lui ucciso, senza restarne egli
ferito. Questa azione, che dovea guadagnargli lode e stima presso di
Domiziano, altro non fece che incitarlo ad invidia, ed anche ad odio,
perchè non gli piaceano i nobili di raro valore. Però col tempo trovò
de' pretesti per mandarlo in esilio, e poi imputandogli volesse
turbare lo stato (forse nell'anno 95) il fece ammazzare. All'anno
presente vien riferita da Eusebio[597] la strepitosa morte di
_Cornelia_, capo delle Vergini Vestali. Era ella stata accusata dianzi
d'incontinenza e dichiarata innocente. Sotto Domiziano si risvegliò
questa accusa; e Domiziano affettando la gloria di custode della
religione, cioè della superstizione pagana, e volendo rimettere in uso
le antiche leggi, la fece condannare e seppellir viva. Svetonio[598]
dice, ch'ella fu convinta de' suoi falli; Plinio il giovane[599],
ch'essa nè pur fu chiamata in giudizio, non che ascoltata, ed essere
quella stata un'enorme crudeltà ed ingiustizia. Furono anche
processati alcuni nobili romani, come complici del delitto, frustati
sino a lasciar la vita sotto le battiture, benchè non confessassero
l'apposto reato. E perchè _Valerio Liciniano_, già senatore e pretore,
uno de' più eloquenti uomini del suo tempo, per avere nascosa in sua
casa una donna della famiglia di Cornelia, fu accusato, altra maniera
non ebbe, per sottrarsi a que' rigori, se non di confessare quanto gli
fu suggerito sotto mano per ordine di Domiziano. Tuttavia fu egli
cacciato in esilio, e i suoi beni assegnati al fisco. Questi poi sotto
Trajano ritornato a Roma si guadagnò il vitto, con fare il maestro di
rettorica. Così inorpellava Domiziano i suoi vizii, volendo comparire
zelantissimo dell'onore de' suoi falsi dii. Narrasi ancora, che
essendo morto uno dei suoi liberti, e seppellito, dappoichè Domiziano
intese che costui si era fatto fabbricare il sepolcro con dei marmi
presi dal tempio di Giove Capitolino, bruciato negli anni addietro,
fece smantellar dai soldati quel sepolcro, e gittar in mare le ossa e
le ceneri di colui; tanto si piccava egli di essere zelante dell'onore
delle cose sacre.

NOTE:

[596] Dio, lib. 67.

[597] Eusebius, in Chron.

[598] Sueton., in Domitiano, c. 2.

[599] Plinius, lib. 4, Ep. II.




    Anno di CRISTO XCII. Indizione V.

    ANACLETO papa 10.
    DOMIZIANO imperadore 12.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per la sedicesima volta, e QUINTO VOLUSIO
SATURNINO.


S'è disputato, e tuttavia si disputa, in qual anno succedesse la
ribellione di _Lucio Antonio_, e la breve guerra civile che in que'
tempi avvenne. Alcuni[600] la mettono nell'anno 88, altri nell'89, e
il Calvisio[601] la differisce sino al presente anno. A me sembra più
probabile l'ultima opinione, confrontando insieme quel poco che s'ha
di questo fatto da Tacito[602], e da Svetonio[603], e da Dione[604], o
sia da Sifilino; perchè da loro apparisce che dopo questa sollevazione
Domiziano lasciò la briglia alla sua crudeltà, e ciò avvenne, siccome
dirò, nell'anno seguente. _Lucio Antonio_, a cui Marziale[605] dà il
cognome di _Saturnino_, era governatore dell'alta o sia superiore
Germania. Perchè ben sapea, quanto per poco Domiziano perseguitasse le
persone di merito, e che specialmente sparlava di lui con ingiuriosi
nomi, mosse a ribellione le sue legioni, facendosi proclamare
imperadore. Portata a Roma questa nuova, se ne conturbò ognuno per
l'apprensione che ne succedesse una gran guerra, e si tornasse a
provar tutti i malanni compagni delle guerre civili. Domiziano stesso,
temendo che quest'incendio si potesse maggiormente dilatare, determinò
di portarsi in persona contra di lui, ed avea già in ordine l'armata.
Ciò che recava maggiore spavento, era il sapersi che Lucio Antonio
s'era collegato coi Germani, e questi doveano rinforzarlo con un
potente esercito. Ma che? _Lucio Massimo_, che il Tillemont
fondatamente congettura essere lo stesso che _Lucio Appio Norbano
Massimo_, il qual forse governava allora la bassa Germania, o pure una
parte della Gallia vicina, senza aspettare alcun de' soccorsi che gli
promettea Domiziano, diede battaglia improvvisamente ad esso Lucio
Antonio, prima che con lui si unissero i Tedeschi. Volle anche la
buona fortuna, che mentre erano alle mani, crescesse così forte il
Reno, che non poterono passare i Tedeschi. Rimase sconfitto ed ucciso
Antonio, e la sua testa fu inviata a Roma in testimonianza della
vittoria: il che risparmiò a Domiziano gl'incomodi di continuar quella
spedizione. Plutarco[606] e Svetonio[607] narrano, che nel giorno
stesso, in cui fu data quella battaglia, un'aquila posandosi in Roma
sopra una statua di Domiziano, fece delle grida di allegria; e
passando tal voce d'uno in altro, nel medesimo giorno si divulgò per
tutta Roma, che Lucio Antonio era stato interamente disfatto: ed
alcuni giunsero fino a dire di aver veduta la sua testa recisa dal
busto. Prese tal piede questa diceria, che gran parte dei magistrati
corsero a far de' sagrifizii in rendimento di grazie. Ma cominciandosi
a cercare chi avea portata questa nuova, niuno si trovò, ed ognuno
rimase confuso. Domiziano, che era in viaggio, ricevette dipoi i
corrieri della vittoria, e si verificò essere la medesima succeduta
nel giorno medesimo, in cui se ne sparse in Roma la falsa voce.
All'anno presente attribuisce Eusebio[608] l'editto di Domiziano
contro le vigne[609]. Trovatosi che v'era stata molta abbondanza di
vino, poca di grano, s'immaginò Domiziano, che la troppa quantità
delle viti cagion fosse che si trascurasse la coltura delle campagne.
Ma Filostrato[610] aggiugne, che non piaceva a Domiziano sì sterminata
copia di vino, perchè l'ubbriachezza cagionava delle sedizioni. Ora
egli vietò che in Italia non si potessero piantar viti nuove, e che
nelle provincie se ne schiantasse la metà, anzi tutte nell'Asia, per
quanto ne dice Filostrato. Ma non istette poi saldo in questo
proposito, per essere venuto a Roma _Scopeliano_ spedito da tutte le
città dell'Asia, il quale non solamente ottenne che si coltivassero le
vigne, ma ancora che si mettesse pena a chi non ne piantava. Forse
ancora più di ogni altra riflessione servì a fare smontar Domiziano da
questa pretensione, l'essersi sparsi de' biglietti[611], ne' quali era
scritto, _che facesse pur Domiziano quanto voleva, perchè vi
resterebbe tanto di vino per fare il sagrifizio in cui sarebbe la
vittima lo stesso imperadore_.

NOTE:

[600] Pagius, in Crit. Baron.

[601] Calvisius, Tillemont et alii.

[602] Tacitus, in Vita Agricolae.

[603] Sueton., in Domitiano, cap. 9.

[604] Dio, lib. 67.

[605] Martial., lib. 4, Epist. 9.

[606] Plutarchus, in P. Æmil.

[607] Sueton., in Domitiano, c. 6.

[608] Euseb., in Chron.

[609] Sueton., in Domitiano, cap. 7.

[610] Philostratus, in Vita Apollon., lib. 6.

[611] Aurelius Victor, in Epitome. Vopiscus, in Probo.




    Anno di CRISTO XCIII. Indizione VI.

    ANACLETO papa 11.
    DOMIZIANO imperadore 13.

_Consoli_

POMPEO COLLEGA e CORNELIO PRISCO.


Credesi che a questi consoli fossero sostituiti prima del dì 15 di
luglio, _Marco Lollio Paolino_ e _Valerio Asiatico Saturnino_; e che
all'un di essi succedesse nel consolato _Cajo Antistio Giulio
Quadrato_; e il padre Stampa[612] ha sospettato che _Cajo Antistio_ o
sia _Antio Giulio_ fosse personaggio diverso da _Quadrato_. Ma qui son
delle tenebre, come in tanti altri siti de' Fasti consolari,
trovandosi bensì de' consoli sostituiti e straordinari nelle antiche
storie e lapidi nominati, ma senza certezza dell'anno in cui
esercitarono quell'insigne uffizio. Poichè per altro quai fossero i
due poco fa menzionati consoli, l'abbiamo da un marmo riferito dal
Grutero[613], e compiutamente poi dato alle stampe dal canonico
Gori[614], che fu posto M. LOLLIO PAVLLINO VALERIO ASIATICO SATVRNINO.
C. ANTIO IVLIO QVADRATO COS. Se poi questi nell'anno presente fossero
sostituiti ai consoli ordinari, io nol so dire. Nell'agosto di
quest'anno in età di cinquantasei anni diede fine alla sua vita _Gneo
Giulio Agricola_, suocero di Cornelio Tacito[615], già stato console:
le cui imprese militari nella Bretagna di sopra accennai. Tornato
ch'egli fu di colà a Roma, arrivò l'anno in cui potea chiedere il
proconsolato, o sia il governo dell'Asia o dell'Africa. Ma non si
sentì egli voglia d'altri onori, perchè sotto un imperador cattivo
troppo era pericoloso il servire. Poco prima avea Domiziano fatto
levar di vita _Civica Cereale_ proconsole dell'Asia per meri sospetti
di ribellione. Questo esempio, e il sapere che l'imperadore non avea
caro di conferir sì riguardevoli posti a persone di sperimentato
valore, indussero Agricola a pregarlo che volesse esentarlo da quel
pesante fardello. Era questo appunto ciò che desiderava Domiziano, e
ben presto glie l'accordò; e permise, che Agricola il ringraziasse,
come se gli avesse fatta una grazia. Seppe di poi vivere questo saggio
uomo anche per qualche tempo, senza provar le persecuzioni del
bisbetico Augusto, facendo conoscere che gli uomini grandi provveduti
di prudenza possono stare anche sotto principi cattivi, e non fare
naufragio. Dione[616], ciò non ostante scrive che Domiziano l'uccise;
ma Tacito, che più ne seppe di lui, e scrisse la sua vita, dice bensì
esser corsa voce di veleno, nondimeno ne restò egli in dubbio.

Ma tempo è oramai di far vedere un principe appunto cattivo, anzi
pessimo, nella persona di Domiziano; cosa da me riserbata a
quest'anno, non già perchè egli cominciasse solamente ora a
riconoscersi tale, ma perchè il suo mal talento dopo la guerra civile
di Lucio Antonio andò agli eccessi. Certamente a Domiziano non mancava
ingegno ed intendimento: ma questa bella dote, se va unita con delle
sregolate passioni, ad altro non serve d'ordinario, che a rendere più
perniciosi e malefici i regnanti. Ora non si può assai esprimere
quanta fosse la vanità, la prosunzione, e la sete di dominare in lui.
Egli si credeva la maggior testa dell'universo, e ch'egli solo fosse
degno di comandare: perciò fiero, superbo e sprezzator d'ognuno,
astuto ed implacabile ne' suoi sdegni. Era sicuro dell'odio suo
chiunque compariva eccellente in alcuna bella dote: che questo è lo
stilo delle anime basse[617]. Vivente il padre, e creato Cesare fece
di mani e di piedi per non esser da meno del buon Tito suo fratello:
ottenne vari uffizi, che esercitò con gran boria ed eccesso di
autorità. E giacchè Vespasiano, ben conoscente del maligno suo
naturale, il teneva basso, non avendo potuto conseguire se non un
consolato ordinario, almeno si studiò sempre di essere sustituito come
console straordinario al fratello. Morto Vespasiano, fu in dubbio se
dovesse offerire ai soldati il doppio del donativo promosso loro da
Tito, per tentar di levare a lui l'imperio. Andava spacciando che il
padre l'avea lasciato collega del fratello nella signoria; ma che era
stato suppresso il testamento. Vantavasi ancora d'aver egli alzato al
trono non meno il padre che il fratello; e l'adulatore Marziale
approvò questo suo folle sentimento. Vivente esso Tito, non fece egli
mai fine a tendergli delle insidie, non solo segretamente, ma anche in
palese. Tuttavia tanta era la bontà di Tito, che quantunque
consigliato di liberar sè stesso e il pubblico da sì pericoloso
arnese, mai non volle ridursi a questo passo, contentandosi solamente
di fargli talvolta delle fraterne correzioni colle lagrime agli occhi,
benchè senza frutto. Forse quell'unica azione di cui Tito prima della
sua immatura morte disse d'esser pentito, fu d'aver lasciato in vita
questo fratello, ben conoscendo il gran male che ne avverrebbe alla
repubblica. Divenuto poscia imperadore[618] non lasciava occasione,
anche in senato[619], di sparlare copertamente ed ancora svelatamente
del padre e del fratello, biasimando le loro azioni; e per cadere in
disgrazia di lui, altro non occorreva che essere in grazia o dell'uno
o dell'altro, o dir parole alla presenza di lui in lode di Tito. Per
altro egli era un solennissimo poltrone: temeva i pericoli della
guerra; abborriva le fatiche del governo[620]. Il suo divertimento
principale consisteva in giocare ai dadi, anche ne' giorni destinati
agli affari. Soleva eziandio ne' principii del suo governo starsene
ritirato in certe ore del giorno: e la sua mirabil applicazione era in
prendere mosche[621], o ucciderle con uno stiletto. Celebre è intorno
a ciò il motto di Vibio Crispo, uomo faceto. Dimandando taluno, chi
fosse in camera con Domiziano, rispose Crispo: _Nè pur una mosca_. Ora
non aspettò egli, siccome dissi, a comparire quel crudele che era, a
questi tempi. Anche ne' precedenti anni diede varj saggi di questa sua
fierezza per varie e ben frivole cagioni. Fra gli altri (non se ne sa
l'anno) fece ammazzare _Tito Flavio Sabino_ suo cugino, perchè
avendolo disegnato console, secondo le apparenze, per la seconda
volta, il banditore inavvertentemente in vece del nome di _Console_
gli diede quello d'_imperadore_. Questo bastò per togliere a Sabino la
vita. La stessa mala sorte toccò ad alcuni altri, o pure l'esilio: che
questo era ne' primi suoi anni di più ordinario gastigo; ed
Eusebio[622] al di lui quarto anno scrive essere stati esiliati da lui
assaissimi senatori. Probabilmente ciò avvenne più tardi. Ora noi
sappiamo da Suetonio[623], che Domiziano prima di questi tempi avea
levato dal mondo _Salvio Coccejano_, solamente perchè avea
solennizzato il giorno natalizio di Ottone imperatore suo zio;
_Sallustio Lucullo_, non per altro, che per aver dato il nome di
lucullee ad alcune lance di nuova invenzione; _Materno Sofista_, cioè
professor di rettorica, per aver fatta una declamazione contra de'
tiranni; ed _Elio Lamia Emiliano_, per cagione di qualche motto
piccante, detto fin quando esso Domiziano era persona privata. Moglie
di questo Lamia fu _Domizia Longina_, figliuola di Corbulone. Gliela
tolse Domiziano, e dopo averla tenuta per amica un tempo, la sposò, e
diedele il titolo di _Augusta_. Ad accrescere la crudeltà di questo
imperadore, s'aggiunse la smoderata credenza che si dava in questi
tempi alle vane predizioni degli strologhi. Più degli altri loro
prestava fede Domiziano, uomo timidissimo; e perchè fin da giovane gli
avea predetto alcun d'essi che sarebbe un dì ucciso: perciò la
diffidenza fu sua compagna finchè visse, e massimamente negli ultimi
anni del suo imperio. Di qua venne la morte di vari principali signori
dell'imperio; perchè egli si procacciava l'oroscopo di tutti, e
trovandoli destinati a qualche cosa di grande, li faceva levare dal
mondo. _Metio Pomposiano_, di cui parlammo all'anno 75, preservato
sotto il buon Vespasiano, non la scappò sotto l'iniquo suo figliuolo.
Perchè fu creduto che avesse una genitura, che vanamente gli
pronosticava l'imperio, e perchè teneva in sua camera una carta
geografica del mondo, e studiava le orazioni dei re e dei capitani,
che son nelle storie di Livio, il mandò in Corsica in esilio[624], ed
appresso il fece ammazzare. Ma soprattutto s'accese, e giunse al colmo
l'inumanità di Domiziano, dappoichè se gli ribellò _Lucio Antonio
Saturnino_; del che s'è favellato all'anno precedente. S'accorse più
che mai allora questo maligno principe, che l'odio universale è un
pagamento inevitabile delle iniquità[625]. Trovò anche in Roma dei
complici di quella congiura, e molti altri, che almeno sospiravano di
vederla camminare ad un fine felice. Incrudelì dunque contra di
chiunque era stato, o si sospettava che fosse stato partecipe dei
disegni d'esso Lucio Antonio; nè perdonò se non a due uffiziali, che
con vergognosa scusa coprirono il loro fallo. D'altre illustri persone
da lui uccise parleremo all'anno seguente. Anche Tacito[626] attesta
avere bensì Domiziano commessa qualche crudeltà negli anni addietro,
ma un nulla essere in paragon di quelle ch'egli praticò dopo la morte
d'Agricola, avvenuta nell'anno presente, siccome dicemmo. O nel
precedente anno, come vuole il padre Pagi[627], o nel presente, come
credette il cardinal Noris[628] ed altri, ebbe principio la guerra de'
Romani coi Sarmati[629]. Aveano que' barbari tagliato a pezzi una o
più legioni romane coi loro uffiziali. Ciò diede impulso a Domiziano
di accorrere colà in persona con un buon esercito, per frenare
l'insolenza di que' popoli. Da Marziale e da Stazio poeti, due trombe
delle azioni di questo imperadore, noi impariamo ch'egli ebbe a
combattere anche contro ai Marcomanni. Se bene, o male, non si sa. Ben
sappiamo[630] che, secondo il suo costume di attribuirsi le vittorie,
anche quando egli era vinto, tornato a Roma nel gennaio di questo anno
o pur del seguente, fece credere che gli affari erano passati a
maraviglia bene. Tuttavia ricusò il trionfo, e si contentò di portare
al Campidoglio la sola corona d'alloro, e di offerirla a Giove
Capitolino.

NOTE:

[612] Stampa, ad Fastos Consular. Sigonii.

[613] Gruter., Thesaur. Inscript., pag. 189.

[614] Gorius, Inscription. Etrusc., p. 69.

[615] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 44.

[616] Dio, lib. 67.

[617] Sueton., in Domitiano, cap. 1.

[618] Dio, lib. 67.

[619] Sueton., in Domitiano, cap. 1.

[620] Aurelius Victor, in Epitome.

[621] Suet., in Domit., c. 3. Dio, l. 67. Aurel. Vict., in Epitome.

[622] Euseb., in Chron.

[623] Sueton., in Domit., cap. 10.

[624] Dio, lib. 67.

[625] Sueton., in Domitiano, cap. 10.

[626] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.

[627] Pagius, in Crit. Baron.

[628] Noris, Epist. Consulari, Tillemont et alii.

[629] Eutrop., in Breviar.

[630] Sueton., in Domitiano, c. 6.




    Anno di CRISTO XCIV. Indizione VII.

    ANACLETO papa 12.
    DOMIZIANO imperadore 14.

_Consoli_

LUCIO NONIO TORQUATO ASPRENATE e TITO SESTIO MAGIO LATERANO.


Fra gli eruditi è stata finora molta disputa intorno ai consoli
ordinari di quest'anno, nè si sapea il prenome e nome di _Laterano_.
Una iscrizione del museo kircheriano, da me[631] data alla luce, ha
messo tutto in chiaro. Da un altro marmo apparisce che, in luogo di
_Laterano_, era console nel settembre _Lucio Sergio Paolo_.
Moltiplicarono più che mai in questi tempi le calamità di Roma sotto
Domiziano, divenuto oramai formidabil tiranno, e non inferiore a
Nerone. Ne lasciò a noi un orrido ritratto Cornelio Tacito[632],
presente a tutte quelle scene, con dire che si vide il senato
circondato ed assediato da genti di armi; a molti che erano stati
consoli, tolta la vita; e le più illustri dame o fuggitive o cacciate
in esilio. Di persone nobili bandite, piene erano le isole, e
all'esilio tenea dietro bene spesso la spada del carnefice. Ma in Roma
si facea il maggior macello. Pareva un delitto l'aver avuto delle
dignità; pericoloso era il volerne; nè altro occorreva per istar tutto
dì esposto ai precipizii, che l'essere uomo dabbene. Le spie e gli
accusatori erano tornati alla moda; e fra questi mali arnesi si
distinguevano Metio Caro Messalino e Bebio Massa, assassini del
pubblico, non nelle strade, ma ne' tribunali stessi di Roma, con
essersi attribuita la maggior parte delle crudeltà d'allora più alla
lor malignità e prepotenza che a quella di Domiziano. Le spese
eccessive fatte da questo prodigo imperadore in tanti spettacoli non
necessari, e in accrescere fuor di misura lo stipendio ai soldati, per
maggiormente obbligarseli, l'aveano ridotto al verde[633]. Si avvisò
di cercare il risparmio col cassare una porzion delle milizie; e,
secondo Zonara[634], eseguì questo pensiero. Svetonio sembra dire, che
solamente lo tentò, ma che trovandosi tuttavia imbrogliato a dar le
paghe, rivolse il pensiero a far danaro in altre tiranniche maniere,
occupando a diritto e a torto i beni dei vivi e dei morti. Pronti
erano sempre gli accusatori, denunziando or questo, or quello, come
rei di lesa maestà per un cenno, per una parola contra del principe o
contra uno dei suoi gladiatori; delitti per lo più finti e non
provati. Si confiscavano a tutti i beni; e bastava che comparisse un
solo a dire di aver inteso che un tale prima di morire avea lasciata
la sua eredità a Cesare, perchè tosto si mettessero le griffe su
quella roba. Sopra gli altri furono angariati i Giudei, che da gran
tempo pagavano un rigoroso testatico, per esercitare liberamente il
culto della lor religione. Un'esatta perquisizion di essi fu fatta per
tutto l'imperio romano, e processati coloro che, dissimulando la lor
nazione, non aveano pagato.

Fra gli altri personaggi di distinzione che, per attestato di
Tacito[635], furono tolti di mira in questi tempi dal genio
sanguinario di Domiziano, si contarono _Elvidio_ il giovane, _Rustico_
e _Senecione_. Era il primo figliuolo di quell'_Elvidio Prisco_, che
a' tempi di Vespasiano, siccome fu detto di sopra all'anno 73, per la
sua stoica insolenza si tirò addosso l'esilio, e poi la morte[636].
Eccellenti qualità concorrevano ancora in questo suo figliuolo, per le
quali era in gran riputazione, oltre all'aver esercitato un consolato
straordinario. Quantunque egli se ne stesse ritirato per la malvagità
de' tempi che correano, pure si vide accusato davanti al senato, per
avere, secondochè diceano, in un suo poema sotto i nomi di Paride e di
Enone messo in burla il divorzio di Domiziano[637], il quale altrove
abbiam detto che prese in moglie Domizia Longina. Questa poi la
ripudiò, perchè perduta di amore verso Paride istrione, ch'egli fece
uccidere in mezzo ad una strada. Contuttociò non si potè contenere dal
ripigliarla poco dipoi: del che fu assai proverbiato. _Publicio
Certo_, dianzi pretore, ed ora uno de' giudici dati ed Elvidio, per
mostrare il suo zelo adulatorio verso Domiziano, commise la più
vergognosa azione che si possa mai dire; perchè mise le mani proprie
addosso ed Elvidio, e il trasse alle prigioni. Fu condannato Elvidio,
e l'infame Publicio per ricompensa destinato console, senza però
giugnere a godere di quella dignità, perchè Domiziano tolto di vita
non gli potè mantener la parola. Contra di costui si fece accusatore
_Plinio_ il giovine; e tal terrore gli mise in corpo, che disperato
finì i suoi giorni. _Errenio Senecione_, per avere scritta la vita di
_Elvidio Prisco_ seniore, somministrò assai ragione al crudel
Domiziano e al timido senato, per condannarlo a morte e far bruciare
pubblicamente l'opere composte da quel felice ingegno. Un altro
personaggio, tenuto in sommo credito per la professione della stoica
filosofia[638], fu _Lucio Giunio Aruleno Rustico_. Aveva egli in un
suo libro lodati _Peto Trasea_ ed _Elvidio Prisco_, uomini insigni,
dei quali si è parlato di sopra. Di più non occorse, perchè egli fosse
condannato e fatto morire. Plutarco attribuisce la di lui disgrazia
all'invidia portata da Domiziano alla gloria di quest'uomo illustre.
Sappiamo parimente, che _Fannia_, moglie di Elvidio Prisco, in tal
occasione fu mandata in esilio, e spogliata di tutti i suoi beni;
siccome ancora _Arria_ vedova di Peto Trasea; e _Pomponia Gratilia_,
moglie del suddetto Rustico. Fece anche Domiziano morire _Ermogene_ da
Tarso, perchè in una storia di lui scritta si figurò di essere stato
punto sotto certe maniere di dir figurate. I copisti di quella storia
furono anch'essi fatti morire in croce. Di questo passo camminava la
crudeltà di Domiziano, e Dione[639] ebbe a dire, che non si può sapere
a qual numero ascendesse la serie degli uccisi per ordine suo, perchè
non voleva che si scrivesse negli atti del senato memoria alcuna delle
persone da lui tolte di vita. E con questa barbarie congiungeva egli
un'abbominevole infedeltà, perchè servendosi di molti iniqui o per
accusare altrui di lesa maestà, o per rapire le altrui sostanze, dopo
averli premiati con dar loro onori e magistrati, da lì a poco faceva
ancor questi ammazzare, acciocchè sembrasse che da essi soli, e non da
lui fossero procedute quelle iniquità. Altrettanto facea coi servi e
liberti da lui segretamente mossi ad accusare il padrone, facendoli
poi morire anch'essi. Molte arti usò inoltre, per indurre alcuni ad
uccidersi da sè stessi, acciocchè si credesse spontanea e non forzata
la morte loro. Peggiore ancor di Nerone fu per un conto[640], perchè
assisteva in persona agli esami e ai tormenti delle persone accusate,
e si compiaceva di udire i loro sospiri, e di mirar quei mali che
facea lor sofferire, il maggior dei quali era il veder presente
l'autore iniquo de' medesimi lor tormenti. Aggiungeva inoltre la
dissimulazione all'inumanità, usando finezze e carezze a chi fra poche
ore dovea per suo comandamento perdere la vita. Lo provò tra gli
altri[641] _Marco Arricino Clemente_, già prefetto del pretorio sotto
Vespasiano, e poi console (non si sa in qual anno), che era anche suo
parente, ed amato non poco da lui, perchè l'aiutava nelle iniquità.
Convertito l'amore in odio, un dì fattagli gran festa, il prese anche
seco in seggetta, e veduto colui che era appostato per denunziarlo nel
dì seguente come reo di lesa maestà, disse a Clemente: _Vuoi tu, che
domani ascoltiamo in giudicio quel furfante di servo?_ Posti in così
duro torchio, se stessero male i cittadini romani, e particolarmente i
nobili, non ci vuol molto ad intenderlo.

NOTE:

[631] Thesaur. Novus Veter. Inscript., p. 314, num. 2.

[632] Tacitus, Hist., lib. 1, c. 2 et seq. Idem, in Vita Agricolæ, c.
46.

[633] Sueton., in Domitiano, cap. 12.

[634] Zonara, in Annalib.

[635] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.

[636] Sueton., in Domitiano, cap. 10. Plinius, lib. 9, Epist. 13.

[637] Sueton., in Domitiano, cap. 3.

[638] Dio, lib. 67. Plutarchus, de Curios.

[639] Dio, in Excerptis Valesian.

[640] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.

[641] Sueton., in Domitiano, cap. 11.




    Anno di CRISTO XCV. Indizione VIII.

    ANACLETO papa 13.
    DOMIZIANO imperadore 15.

_Consoli_

FLAVIO DOMIZIANO AUGUSTO per la diecisettesima volta, e TITO FLAVIO
CLEMENTE.


Non zio paterno, ma cugino di Domiziano fu questo _Clemente_ console,
perchè figliuolo di _Sabino_ fratello di Vespasiano. Mostravagli
Domiziano molto affetto, e per testimonianza di Svetonio[642],
meditava di voler suoi successori due piccioli figliuoli di lui, a'
quali avea anche fatto cangiare il nome, chiamando l'uno _Vespasiano_,
e l'altro _Domiziano_. Ma appena ebbe Clemente compiuto il tempo
dell'ordinario suo consolato, il quale in questi tempi solea durare
solamente i primi sei mesi, che Domiziano per leggerissimi sospetti
gli fece levar la vita. Il cardinal Baronio[643], il Tillemont[644] ed
altri dottissimi uomini, pretendono ch'egli morisse cristiano e
martire; e le lor ragioni mi paiono convincenti. Imperciocchè Eusebio,
Orosio ed altri scrittori cristiani mettono sotto quest'anno la
persecuzione mossa da Domiziano contro i professori della legge di
Cristo; e insin lo stesso Dione[645], scrittore pagano, scrive aver
Domiziano nell'anno presente fatto morir _Flavio Clemente Console_ per
delitto d'_empietà_, cioè per non credere nè venerare i falsi dii del
Paganesimo; e che furono molti altri condannati a morte, per avere
abbracciata la religion de' Giudei: che tali erano creduti e chiamati
allora i Cristiani. Svetonio[646], tacciando questo Clemente di una
_vilissima dappocaggine_ (_contemtissimae inertiae_), indica lo
stesso; perchè, per attestato di Tertulliano[647], i Cristiani,
siccome gente ritirata, che non compariva agli spettacoli, non cercava
dignità e gloria nel secolo, e attendeva alla mortificazion delle sue
passioni, pareano persone di poco spirito, e gente buona da nulla.
Moglie di questo Clemente console era _Flavia Domitilla_, nipote di
Domiziano, cristiana anch'essa, che fu relegata nell'Isola Pandataria.
Ebbe inoltre esso Clemente una nipote, appellata parimente _Flavia
Domitilla_. Credesi che amendue queste Domitille, morendo martiri,
illustrassero la fede di Gesù Cristo, e la lor memoria è onorata ne'
sacri martirologi. Ne parla anche Eusebio[648], citando in prova di
ciò la storia di Brutio Pagano. O sia perchè il Cristianesimo era
considerato come una setta di filosofia, o pure perchè Senecione e
Rustico, amendue filosofi, uccisi, come dicemmo, nell'anno precedente
(se pur non fu nel presente), irritassero non poco l'animo bestiale e
timido di Domiziano: certo è, ch'egli cacciò di Roma tutti i
professori della filosofia circa questi tempi, non potendo egli
probabilmente sofferir coloro, da' quali ben s'immaginava che erano
condannate le sue malvagie azioni. E che ciò succedesse nell'anno
presente, lo scrive il mentovato Eusebio[649]. Però Filostrato
notò[650], che molti d'essi filosofi se ne fuggirono nelle Gallie, ed
altri nei deserti della Scizia e della Libia. _Dione Crisostomo_, uomo
insigne, se ne andò nel paese de' Goti. Epitetto celebre Stoico, fu
anch'egli obbligato a ritirarsi fuori di Roma. Amaramente si duol
Tacito[651] di questo crudele editto di Domiziano, perchè fu un
bandire da Roma la sapienza ed ogni buono studio, acciocchè non vi
rimanesse studio delle virtù, e vi trionfasse solamente la disonestà
con gli altri vizii. Pare che a quest'anno appartenga, secondo
Dione[652], la morte di _Acilio Glabrione_, che fu console l'anno 91,
fatto uccidere da Domiziano. _Epafrodito_, già potente liberto di
Nerone, lungamente avea goduto gran fortuna anche nella corte di
Domiziano, servendolo per segretario de' memoriali[653]. Fu mandato in
esilio, e condannato ora solamente a morte, perchè avea aiutato Nerone
a darsi la morte, in vece d'impedirlo; il che fu fatto da Domiziano
per atterrire i suoi domestici liberti, acciocchè non ardissero mai di
far lo stesso con lui. Forse ancora è da riferire all'anno presente, o
piuttosto al seguente, quanto avvenne, per attestato di Dione[654], a
_Giuvenio Gelso_, creduto da alcuni _Publio Giuvenzio Celso_, che fu
poi pretore sotto Trajano, console sotto Adriano, e celebre
giurisconsulto di que' tempi. Fu egli accusato di aver cospirato
contra di Domiziano. Prima che si venisse nel senato alle prove, fece
istanza di parlare all'imperadore, perchè avea cose rilevanti da
dirgli. Ottenuta la permissione, questo accorto uomo se gli gittò
ginocchioni davanti come per adorarlo; gli diede cento volte il titolo
di Signore e di Dio; protestò di essere innocente; ma che se gli volea
dare un po' di tempo, saprebbe ben pescare, ed indicargli chiunque
avea mal animo contra di lui. Fu licenziato, ed egli dipoi andò tanto
tirando innanzi con vari sutterfugi senza rivelar alcuno, che arrivò
la morte di Domiziano, per cui sicuro poi se ne visse. Abbiamo dal
medesimo Dione, che in questi tempi Domiziano fece lastricar la via
che va da Sinuessa a Pozzuolo. Anche Stazio[655] parla d'una simil via
acconciata; ma questa forse andava da Roma a Baja.

NOTE:

[642] Sueton., in Domitiano, c. 15.

[643] Baron., Annal. Ecclesiast.

[644] Tillemont, Mém. Hist. Ecclés.

[645] Dio, lib. 67.

[646] Sueton., in Domitiano, c. 15.

[647] Tertull., in Apologetico, cap. 42.

[648] Eusebius, in Chron., et Hist. Ecclesiast. lib. 3.

[649] Eusebius, in Chron.

[650] Philostratus, in Apollon., lib. 8.

[651] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 2.

[652] Dio, lib. 67.

[653] Sueton., in Domitiano, cap. 14.

[654] Dio, lib. 67.

[655] Statius, Sylvar., lib. 4, cap. 3.




    Anno di CRISTO XCVI. Indizione IX.

    EVARISTO papa 1.
    NERVA imperadore 1.

_Consoli_

CATO ANTISTIO VETERE e CAIO MANLIO VALENTE.


Erasi ben ridotta Roma ad un compassionevole stato sotto il crudele e
tirannico governo di Domiziano. Non si sarebbe trovata persona nobile
e benestante, che continuamente non tremasse al vedere tanti senatori,
cavalieri ed altre persone, o private di vita o spinte in esilio o
spogliate di beni[656]. Si univa bensì il senato, ma solamente per
fulminar quelle sentenze che voleva il tiranno, o per autorizzar le
maggiori iniquità. Ad ognuno mancava la voce per dire il suo
sentimento; parlava quel solo che portava gli ordini dell'imperadore,
e gli altri colla testa bassa, col cuor pieno di affanno, approvavano
tacendo ciò che non osavano disapprovare parlando[657]. Esente non era
da un pari timore il resto del popolo, perchè dappertutto si trovavano
spioni, che raccoglievano, amplificavano, e bene spesso fingevano
parole dette in discredito del principe; e bastava essere accusato,
per essere condannato. Ma se Domiziano facea tremar tutto il mondo,
anche tutto il mondo facea tremar Domiziano, chè questa è una pensione
inevitabile dei tiranni, i quali col nuocere a tanti, e massimamente
ai migliori e agli innocenti, sanno di essere in odio a tutti, e che
da tutti, almeno coi desiderii, se non con altro, è affrettata la
morte loro. Però la diffidenza, gastigo che rode il cuore di ogni
principe crudele ed ingiusto, crebbe sì fattamente in Domiziano, che
cominciò a non fidarsi neppur di _Domizia_ Augusta sua moglie, nè di
alcuno de' suoi liberti, cioè de' suoi più intimi cortigiani[658]. Ad
accrescere i suoi terrori si aggiunsero le predizioni a lui fatte in
sua giuventù dai Caldei, cioè dagli strologi, che dovea perir di morte
violenta. Anche Vespasiano suo padre, che non poco badava alla
strologia, vedendolo ad una cena astenersi dal mangiar funghi, gli
diede pubblicamente la burla, dicendo, _che avea piuttosto da
guardarsi dal ferro_. Ma specialmente in quest'anno, che
verisimilmente gli era stato predetto come l'ultimo di sua vita, non
sapea dove stare: tanta era la sua inquietudine e paura, tanti i suoi
sospetti contra ancora dei suoi più cari e familiari. A tutti perciò
parlava brusco, tutti mirava con aria minaccevole. Avvenne inoltre,
che per otto continui mesi caddero di molti fulmini, uno sopra il
Campidoglio rifabbricato da lui, un altro nel palazzo imperiale, e
nella stessa sua camera, un altro sopra il tempio della famiglia
Flavia, e un altro guastò l'iscrizione posta ad una statua trionfale
di lui, rovesciandola in un monumento vicino. Il popolo superstizioso
di Roma, e più degli altri Domiziano, facea mente a tutti questi
naturali avvenimenti e ad altri ch'io tralascio, credendoli segni
d'imminente disavventura. Nulla nondimeno atterrì cotanto questo
indegno imperadore[659], quanto un certo strologo appellato
Ascletarone, che avea predetta la di lui morte. Preso costui e
condotto alla presenza di Domiziano, confessò di averlo detto. _Sai
tu_, disse allora Domiziano, _che cosa abbia da intervenire a te in
questo giorno?_--_Signor sì_, rispose lo strologo, _il mio corpo ha da
essere mangiato dai cani_. Ordinò tosto Domiziano che costui fosse
giustiziato, ed immantinente bruciato il corpo suo. Ma appena mezzo
abbrustolito, si svegliò una dirotta pioggia, che estinse il fuoco, e
costrinse la gente a ritirarsi, sicchè poterono i cani accorrerne, e
far buon convito di quel arrosto. Portatane poi la nuova a Domiziano,
oh allora sì che smaniò per la paura[660]. Più fortunato fu un certo
Largino Proclo, aruspice, che in Germania avea predetto dover seguire
nel dì 18 di settembre gran mutazione di cose; anzi chiaramente,
secondo Dione[661], avea accennata la morte di Domiziano. Mandato
perciò a Roma in catene negli ultimi tempi di esso imperadore, fu
condannato a perdere la testa dopo il suddetto giorno, supponendosi
che falsa avesse da riuscire la di lui predizione. Ma verificatasi
questa, egli restò salvo, e fu anche ben regalato da Nerva.

Vanissima arte è la strologia; ma Dio, pei suoi occulti giudizii, può
permettere che i suoi professori, per lo più fallacissimi, talvolta
arrivino a colpire nel segno. Ma intanto è da osservare, che
quest'arte ingannatrice, piuttosto che predire la morte di Domiziano,
fu essa la cagione della morte medesima, di maniera che fors'egli
sarebbe sopravvivuto molto, se non le avesse prestato fede.
Imperciocchè, siccome abbiamo detto, essendosi conficcata nel di lui
animo la credenza di dover esser ammazzato un dì, servì essa a lui di
stimolo per commettere buona parte delle sue crudeltà, e a divenire
odioso a tutti, con togliere dal mondo i migliori, e chiunque egli
riputava più capace e voglioso di nuocergli. Il rendè essa inoltre sì
diffidente e sospettoso, che temeva fin della moglie e de' suoi più
intimi famigliari; ed arrivò, per quanto fu creduto, sino alla
risoluzione di volerli privar tutti di vita. Ora, tanto _Domizia_ sua
moglie, quanto i suoi più confidenti liberti, _Norbano_, e _Petronio
Secondo_, allora prefetti del pretorio, dappoichè ebbero veduto, come
per sì lievi motivi egli avea ucciso _Clemente_ suo cugino, e
personaggio di tanta probità, e faceva troppo conoscere di non più
fidarsi di alcun di loro: assai intesero ch'erano anch'essi in
pericolo, e che, per salvar la propria vita, altra maniera non restava
che di levarla a Domiziano. Sicchè prendendo bene il filo, la
soverchia credenza che professò questo screditato Augusto alle ciarle
degli strologi, trasse lui ad esser crudele, e a non fidarsi di
alcuno: e questa sua crudeltà e diffidenza costò a lui la vita per
mano de' suoi più cari. Scrive dunque Dione di aver inteso da buona
parte[662], che Domiziano avesse veramente presa la determinazione di
uccider la moglie e gli altri più familiari suoi liberti, e i capitani
delle guardie stesse. Subodorata questa sua intenzione, si accinsero
essi a prevenirlo, ma non prima di aver pensato a chi potesse
succedergli nell'imperio. Segretamente ne fecero parola a varie nobili
persone, che tutte, dubitando di qualche trappola, non vollero
accettar quella esibizione. Finalmente si abbatterono in Marco Coccio
Nerva, personaggio degno dell'imperio, che abbracciò l'offerta. Un
accidente fece affrettare la di lui morte, se pur è vero ciò che
racconta Dione: perchè Svetonio, più vicino a questi tempi, non ne
parla, e lo stesso vedremo raccontato di Commodo Augusto, anch'esso
ucciso. Soleva Domiziano per suo solazzo tenere in camera un fanciullo
spiritoso di pochi anni. Questi, mentre il padrone dormiva, gli tolse
di sotto al capezzale una carta, con cui andava poi facendo dei
giuochi. Sopravvenuta _Domizia_ Augusta, gliela tolse, e con orrore
trovò quella essere una lista di persone che il marito volea levare
dal mondo, e di esservi scritta ella stessa, i due prefetti del
pretorio, _Partenio_ mastro di camera, ed altri della corte. Ad ognun
di essi comunicato l'affare, fu determinato di non perder tempo ad
eseguire il disegno.

Venne il dì 18 di settembre, in cui, secondo gli astrologi, temeva
Domiziano di essere ucciso. L'ora quinta della mattina, quella
specialmente, era di cui paventava. Però, dopo aver atteso nel
tribunale alla spedizione di alcuni processi, nel ritirarsi alle sue
stanze dimandò che ora era. Da taluno de' congiurati maliziosamente
gli fu detto, che era la sesta: perlochè tutto lieto, come se avesse
passato il pericolo, si ritirò nella sua camera per riposare.
_Partenio_, mastro di camera, entrò da lì a poco per dirgli, che
_Stefano_ liberto e mastro di casa dell'ucciso Flavio Clemente,
desiderava di parlargli per affare di somma importanza. Costui siccome
uomo forte di corpo, e che odiava sopra gli altri Domiziano per la
morte data al suo padrone, era scelto dai congiurati per fare il
colpo. Ne' giorni addietro aveva egli finto di aver male al braccio
sinistro, e lo portava con fascia pendente dal collo. Entrato egli in
tal positura, presentò a Domiziano una carta, contenente l'ordine di
una congiura che si fingeva tramata contra di lui, col nome di tutti i
congiurati. Mentre era l'imperadore attentissimo a leggerla, Stefano
gli diede di un coltello nella pancia. Gridò Domiziano aiuto: un suo
paggio corse al capezzale del letto, per prendere il pugnale, oppure
la spada, nè vi trovò che il fodero, e tutti gli uscii erano
chiusi[663]. Ma perchè la ferita non era mortale, Domiziano s'avventò
a Stefano, si ferì le dita nel volergli prendere il coltello, ed
abbrancolatisi insieme caddero a terra. _Partenio_, temendo che
Domiziano la scappasse, aperta la porta, mandò dentro Clodiano
Corniculario, Massimo suo liberto, e Saturio capo de' camerieri, ed
altri che con sette ferite il finirono. Ma entrati altri, che nulla
sapeano della congiura, e trovato Stefano in terra, l'uccisero. In
questa maniera, cioè col fine ordinario dei tiranni terminò sua vita
Domiziano, in età di anni quarantacinque. Del suo corpo niuno si prese
cura, fuorchè Filide sua nutrice, che segretamente in una bara plebea
lo fece portare ad una sua casa di campagna, e dopo averlo fatto
bruciare, secondo l'uso d'allora, seppe farne mettere le ceneri, senza
che alcuno se ne avvedesse, nel tempio della casa Flavia, mischiandole
con quelle di _Giulia Sabina Augusta_, figliuola di Tito imperadore
suo fratello[664]. Fu questa Giulia maritata da esso Tito a _Flavio
Sabino_ suo cugino germano; ma invaghitosene, Domiziano, vivente
ancora Tito, l'ebbe alle sue voglie. Divenuto poi imperadore, dopo
aver fatto uccidere il di lei marito, pubblicamente la tenne presso di
sè, con darle il titolo di Augusta, e farle un tal trattamento che
alcuni la credettero sposata da lui[665]. Ma, perchè gravida del
marito egli volle farla abortire, cagion fu di sua morte. Non ho detto
fin qui, ma dico ora che Domiziano nella libidine non la cedette ad
alcuno de' più viziosi. Nè occorre dire di più.

Quanto al basso popolo di Roma[666], non mostrò egli nè gioia nè
dolore per la morte di sì micidial regnante, perchè sfogavasi di
ordinario il di lui furore solamente sopra i grandi, nè toccava i
piccoli. I soldati sì ne furono in grande affanno e rabbia, perchè
sempre ben trattati, e smoderatamente arricchiti da lui; però voleano
tosto correre a farne vendetta: ma i lor capitani ne frenarono que'
primi furiosi movimenti, benchè non potessero dipoi impedire quanto
soggiugnerò appresso. All'incontro il senato, contra di cui
specialmente era infierito Domiziano, ne fece gran festa, il caricò di
tutti i titoli più obbrobriosi, ed ordinò che si abbattessero la sue
statue, e i suoi archi trionfali[667]; si cancellasse il di lui nome
in tutte le iscrizioni, cassando anche generalmente ogni suo decreto.
Ancorchè Domiziano non si dilettasse delle lettere e delle arti
liberali, a solamente si conti ch'egli gran cura ebbe di rimettere in
piedi le biblioteche bruciate di Roma, con raccogliere[668] libri da
ogni parte, e farne copiare assaissimi da quella di Alessandria: pure
fiorirono a' suoi tempi vari insigni filosofi, fra' quali massimamente
risplendè _Epitteto_, i cui utili insegnamenti restano tuttavia, ed
_Apollonio Tianeo_, la cui vita, scritta da _Filostrato_, è piena di
favole. Fiorirono anche in Roma l'eccellente maestro della eloquenza
_Marco Fabio Quintiliano_, e _Marco Valerio Marziale_, poeta rinomato
per l'ingegno, infame per gli suoi troppo licenziosi epigrammi. Erano
amendue nativi di Spagna. Vissero parimente in que' tempi _Cajo
Valerio Flacco, Cajo Silio Italico_, de' quali abbiamo tuttavia i
poemi, ma di gusto cattivo; e _Decimo Giunio Giuvenale_, autor delle
satire, poco certamente modeste, ma assai ingegnose e degne di stima.

Terminata dunque la tragedia di Domiziano, cominciò Roma, e seco
l'imperio romano, liberato da questo mostro, a respirare, e tornarono
i buoni giorni per l'assunzione al trono imperiale di _Marco Coccejo
Nerva_. Era nato Nerva, per quanto ne scrive Dione[669], nell'anno 32
dell'era nostra, di nobilissimo casato. L'onestà dei suoi costumi, la
sua aria dolce e pacifica, la sua rara saviezza, prudenza ed
inclinazione al ben del pubblico, il faceano amare e rispettar da
chicchessia. Queste sue belle doti gli ottennero due volte il
consolato, cioè nell'anno 71 e nel 90. Mancava a lui solamente un
corpo robusto, e una buona sanità, essendo stato debolissimo lo
stomaco. Non si accordano gli storici in certe particolarità della sua
vita negli ultimi anni di Domiziano. Filostrato[670] vuole che venuto
a Roma Apollonio Tianeo, gl'insinuasse di liberar la patria dalla
tirannia di Domiziano, ma ch'egli non ebbe tanto coraggio. Aggiugne
che Domiziano il mandò in esilio a Taranto; ed Aurelio Vittore[671]
scrive, che Nerva si trovava ne' Sequani, cioè nella Franca Contea,
allorchè trucidato fu Domiziano, e che per consentimento delle legioni
prese l'imperio. Ben più credibile a noi sembrerà ciò che lasciò
scritto Dione, cioè, che Domiziano, giù da noi veduto persecutore di
chiunque o per le sue buone qualità, o per relazion degli astrologi,
era creduto potergli succedere nell'imperio, meditò ancora di levar
Nerva dal mondo, e l'avrebbe fatto, se uno strologo amico di lui non
avesse detto a Domiziano, che Nerva attempato e mal sano era per
morire fra pochi giorni. Nè Dione parla punto di esilio; anzi suppone
ch'egli si trovasse in Roma nel tempo dell'uccision di Domiziano, e
che passasse di concerto coi congiurati, consentendo che si togliesse
la vita a lui, giacchè senza di questo egli più non istimava sicura la
propria. Estinto dunque il tiranno, fu alzato al trono cesareo _Marco
Coccejo Nerva_, che certo non era lungi da Roma, per opera[672]
specialmente di _Petronio Secondo_ prefetto del pretorio, e di
_Partenio_ principal autore della morte di Domiziano, con approvazione
di tutto il senato e plauso del popolo. Ma eccoti alzarsi un rumore e
una voce, che Domiziano era vivo, e fra poco comparirebbe[673]. Nerva
di natural timido allora mutò colore, perdè la favella, nè più sapea
in qual mondo si fosse. Ma Partenio, che coi suoi occhi avea veduto le
ferite e gli ultimi respiri dell'estinto Domiziano, lo incoraggiò, e
rimise in sella. Andò pertanto Nerva a parlare ai soldati per
quietarli, e promise loro il donativo solito nell'assunzion de' nuovi
imperadori. Di là poscia passò al senato, dove ricevette gli
abbracciamenti gioviali, e i complimenti cordiali di cadauno de'
senatori. Non vi fu se non _Arrio Antonino_, avolo materno di Tito
Antonino poscia imperadore, suo sviscerato amico, il quale
abbracciatolo gli disse, che ben si rallegrava col senato e popolo
romano, e colle provincie per sì degna elezione, ma non già con lui;
perchè meglio per lui sarebbe stato il vivere paziente sotto principi
cattivi, che assumere un peso sì grave, ed esporsi a tanti pericoli ed
inquietudini, col mettersi fra i nemici, che mai non mancano, e fra
amici, i quali credendo di meritar tutto, se non ottengono quel che
vogliono, diventano più implacabili degli stessi nemici. Contuttociò
Nerva fattosi coraggio, prese le ridini del governo, e si accinse a
sostener con decoro la sua dignità, siccome ancora a restituire al
senato il primier suo decoro, e la quiete e l'allegria ai popoli.
Vivente ancora Domiziano, e non per anche cessata la persecuzione da
lui mossa a' Cristiani, _sant'Anacleto_ papa coronò la sua vita col
martirio o nel precedente, o piuttosto nel presente anno; ed ebbe per
successore nel pontificato romano _Evaristo_.

NOTE:

[656] Plinius, in Panegyrico, et lib. 7, Epist. 14.

[657] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 2.

[658] Sueton., in Domitiano, cap. 15.

[659] Dio, lib. 67.

[660] Sueton., in Domitiano, cap. 16.

[661] Dio, lib. 67.

[662] Dio, lib. 67.

[663] Dio, lib. 67. Sueton., in Domitiano, c. 17.

[664] Sueton., in Domitiano, cap. 22.

[665] Philostratus, in Apollon. Tyan., lib. 7.

[666] Sueton., in Domitiano, c. 23.

[667] Dio, lib. 67.

[668] Sueton., in Domitiano, cap. 24.

[669] Dio, lib. 68.

[670] Philostrat., in Vita Apollonii, lib. 7.

[671] Aurel. Vict., in Epit.

[672] Eutrop., in Brev. Dio, lib. 68.

[673] Aurel. Vict., in Epit.




    Anno di CRISTO XCVII. Indiz. X.

    EVARISTO papa 2.
    NERVA imperadore 2.

_Consoli_

MARCO COCCEJO NERVA AUGUSTO per la terza volta, e LUCIO VIRGINIO RUFO
per la terza.


Vari altri consoli l'un dietro l'altro si credono dall'Almeloven
sostituiti in quest'anno, fra gli altri certo è che _Cornelio Tacito_
istorico, siccome osservò anche Giusto Lipsio, succedette a
_Virginio_, o sia _Verginio Rufo_. Tal notizia abbiamo da Plinio il
giovane[674]. Era Virginio Rufo quel medesimo che nell'anno 68 ricusò
più di una volta l'imperio, datogli in Germania dai soldati.
Gloriosamente avea egli menata fin qui la sua vita, senza incorrere in
alcuna disgrazia, rispettandolo ognuno, e fin quella bestia di
Domiziano, e serbando quell'animo grande, ch'era stato superiore
agl'imperi. Nerva anch'egli volle far conoscere a lui ed al pubblico,
quanta stima ne facesse con crearlo suo collega nel consolato. Abbiam
di certo da Plinio suddetto, che questo fu il _Terzo consolato_ di
esso Virginio: al che non fece riflessione il padre Stampa[675],
quantunque il cardinal Noris[676] ed altri lo avessero avvertito, e si
raccolga eziandio da Frontino e dai Fasti d'Idacio. Fu egli sotto
Nerone nell'anno 63 per la prima volta console ordinario. Credesi che
nell'anno 69 gli toccasse il secondo consolato, ma straordinario,
sotto Ottone Augusto. Intorno al prenome di Rufo s'è disputato. Chi
_Tito_, chi _Pubblio_ l'ha voluto. È più probabile _Lucio_. Ora per la
terza volta creato console nell'anno presente, siccome c'insegna
Plinio il giovane, mentre sul principio dell'anno si preparava a
recitare in senato il rendimento di grazie a Nerva per la dignità a
lui conferita, essendo in età di ottantatrè anni, colle mani tremanti,
e stando in piedi, gli cadde il libro di mano; e nel volerlo
raccogliere gli sdrucciolò il piede pel pavimento liscio e lubrico, in
maniera che si ruppe una coscia. Non essendosi questa ben ricomposta o
riunita, dopo qualche tempo se ne morì, e gli furono fatti solenni
funerali, mentre era console _Cornelio Tacito_, eloquentissimo oratore
e storico, il qual fece l'orazione funebre in sua lode. Scrive il
medesimo Plinio, che questo Virginio Rufo era nato in una città
confinante alla sua patria Como.

Dacchè l'Augusto Nerva si vide sufficientemente assodato sul trono,
fece tosto sentire il suo benefico genio a Roma e a tutto il romano
imperio[677]. Richiamò dall'esilio una copia grande di nobili, che
aveano patito naufragio sotto il precedente tirannico governo, ed
abolì tutti i processi di lesa maestà. E perciocchè questi erano
proceduti da mere calunnie, perseguitò i calunniatori, e fece morir
quanti servi e liberti si trovarono aver intentate accuse contra dei
loro padroni, proibendo con rigoroso editto a tal sorta di persone
l'accusare da lì innanzi i padroni. Vietò parimente l'accusar
chicchessia d'empietà, e di seguitare i riti giudaici: il che vuol
dire ch'egli estinse la persecuzione mossa de' Cristiani, che dai
Pagani venivano tuttavia confusi coi Giudei. Perciocchè per conto de'
Giudei era loro permesso l'osservar la lor legge. Quanti preziosi
mobili si trovarono nell'imperial palazzo, ingiustamente tolti da
Domiziano, furono da lui con tutta prontezza restituiti. Non volle
permettere che si facessero statue d'oro e d'argento (se pur non erano
dorate o inargentate) in onor suo, abuso dianzi assai gradito da
Domiziano. A que' cittadini romani che si trovavano in gran povertà,
assegnò terreni, ch'egli fece comperare, di valore di un milione e
mezzo di dramme, con deputare alcuni senatori che ne facessero la
divisione. Perchè trovò smunto affatto l'erario, vendè, a riserva
delle cose necessarie, tutti i vasi d'oro o d'argento ed altri mobili,
tanto suoi particolari, che della corte, e parecchi poderi e case, con
usar anche liberalità ai compratori. E ciò non per covare in cassa il
danaro, ma per dispensarlo al popolo romano, apparendo dalle
medaglie[678] che egli distribuì due volte nel breve corso del suo
governo danari e grano. Giurò che d'ordine suo non si farebbe mai
morire alcuno de' senatori; e quantunque un di essi fosse convinto di
aver congiurato contra di lui, pure altro mal non gli fece che di
cacciarlo in esilio. Fu da lui confermata la legge che non si
potessero far eunuchi; e proibito il prendere in moglie le nipoti.
Attese ancora al risparmio, dopo aver conosciuto il gran male
provenuto dallo scialacquamento esorbitante di Domiziano. Levò dunque
via molti sagrifizii, molti giuochi ed altri non pochi spettacoli, che
costavano somme immense[679]. Soppresse tutto ciò ch'era stato
aggiunto agli antichi tributi a titolo di pena contro quei ch'erano
morosi al pagamento; siccome ancora le vessazioni ed angarie
introdotte contro ai Giudei, nell'esigere le lor imposte. Le città
oppresse da troppe gravezze ebbero sollievo da lui; ed ordinò che per
tutte le città d'Italia si alimentassero alle spese del pubblico gli
orfani dell'uno e dell'altro sesso, nati da poveri genitori, ma
liberti: carità continuata anche dai susseguenti buoni imperadori,
anzi accresciuta, come apparisce dalle antiche iscrizioni. Ristrinse
ancora l'imposta della vigesima per le eredità e per gli legati,
introdotta da Augusto. Fra le lettere di Plinio il giovane[680] si
trova un editto di questo imperadore, che assai esprime quanta fosse
la di lui bontà, con dir egli _che ciascuno de' suoi concittadini
poteva assicurarsi, aver egli preferita la sicurezza di tutti alla
propria quiete, e non aver altro in animo che di far di buon cuore de'
nuovi benefizii, e di conservare i già fatti da altri. E però per
levar dal cuore d'ognuno la paura di perdere quel che aveano
conseguito sotto altri Augusti, o doverne cercar la conferma con delle
preghiere d'oro, dichiarava che senza bisogno di nuovi ricorsi,
chiunque godeva avesse da godere; perchè egli volea solamente
attendere a dispensar grazie e benefizii nuovi a chi non avea finora
goduto_.

E pure con un principe sì buono, il cui dolce e salutevol governo
tanto più dovea prezzarsi, quanto più si paragonava col barbarico
precedente, non mancarono nobili romani che tramarono una
congiura[681]. Capo di essi fu _Calpurnio_ senatore dell'illustre
famiglia de' _Crassi_: degli altri non si sa il nome. Con esorbitanti
promesse di danaro sollecitava egli alla rivolta i soldati. Scoperta
la mina, Nerva il fece sedere presso di sè assistendo ai giuochi de'
gladiatori, e nella stessa guisa che vedemmo operato da Tito, allorchè
gli furono presentate le spade di quei combattenti, le diede in mano a
Crasso, acciocchè osservasse, se erano ben affilate, mostrando in ciò
di non paventar la morte. Fu processato e convinto _Crasso_: tuttavia
Nerva per mantener la sua parola di non uccidere senatori, altro
gastigo non gli diede che di relegar lui e la moglie a Taranto. Fu
biasimata dal senato sì grande indulgenza in caso di tanta importanza,
e in altri ancora, perchè egli non sapea far male ai grandi, benchè
sel meritassero[682]. Trovavasi un dì alla sua tavola _Vejento_ o sia
_Vejentone_, già console, uomo scellerato, che sotto Domiziano era
stato la rovina di molti. Cadde il ragionamento sopra _Catullo
Messalino_, che nell'antecedente governo tutti avea assassinati colle
sue accuse e colla sua crudeltà, ed era già morto. _Se costui_, disse
allora Nerva, fosse _tuttavia vivo, che sarebbe di lui? Giunio
Maurico_, uomo di gran petto, di egual sincerità, e uno dei commensali
immantinente rispose: _Con esso noi sarebbe a questa tavola_. Ma
quello che maggiormente sconcertò Nerva, fu l'attentato d'_Eliano
Casperio_, creato non so se da lui, o pur da Domiziano, prefetto del
pretorio, cioè capitan delle guardie. O sia che costui movesse i
soldati, o che fosse incitato da loro, certo è, che un dì formata una
sollevazione andarono tutti al palazzo[683], chiedendo con alte grida
il capo di coloro che aveano ucciso Domiziano. A tal dimanda si trovò
in una somma costernazione Nerva; contuttociò parendogli che non fosse
mai da comportare il dar loro in mano chi avea liberata la patria da
un tiranno, ed era stato cagione del proprio suo innalzamento,
coraggiosamente negò loro tal soddisfazione, dicendo che se si voleano
sfogare, piuttosto colla sua testa cadesse il loro sdegno. Ma costoro
senza fermarsi per questo, e con disprezzo all'autorità imperiale,
corsero a prendere _Petronio Secondo_, già prefetto del pretorio, e lo
svenarono. Altrettanto fecero a _Partenio_ già maestro di camera di
Domiziano, trattandolo anche più ignominiosamente dell'altro. E
_Casperio_, divenuto più insolente, obbligò Nerva di lodar
quest'azione al popolo raunato, e di protestarsi obbligato ai soldati,
perchè avessero tolta la vita ai maggiori ribaldi che si avesse la
terra.

Una sì atroce insolenza de' pretoriani servì a far meglio conoscere a
Nerva, ch'egli, stante la sua vecchiaia e poca sanità, non potea
sperare l'ubbidienza ed il rispetto dovuto al suo grado, e piuttosto
dovea temerne degli altri oltraggi. Il perchè da uomo saggio pensò di
fortificar la sua autorità, con associare all'imperio una persona che
fosse non men forte d'animo, che vigorosa di corpo. E siccome egli non
avea la mira se non al pubblico bene, desiderava di scegliere il
migliore di tutti[684], così dopo maturo esame, e consigliato anche da
_Lucio Licino Sura_, senza punto badare ai molti parenti, che avea
(giacchè non si sa ch'egli avesse mai moglie) fermò i suoi pensieri
sopra Marco Ulpio Trajano, generale allora dell'armi romane nella
Germania. Era questi di nazione spagnuolo, perchè nato in Italica
città della Spagna, come si raccoglie da Dione[685] e da
Eutropio[686], benchè Aurelio Vittore[687] il dica venuto alla luce in
Todi; nè alcuno finora avea ottenuto l'imperio, che non fosse nato in
Roma o nel vicinato: contuttociò Nerva fu di sentimento, che per
iscegliere chi dovea governare un sì vasto imperio, si avea da
considerare più che la nazione, l'abilità e la virtù. Pertanto in
occasion di una vittoria riportata nella Pannonia, fatto raunare il
popolo nel Campidoglio nel dì 18 settembre, come alcuni vogliono[688],
o piuttosto nel dì 27 o 28 di ottobre, come pretendono altri, ad alta
voce dichiarò ch'egli adottava per suo figliuolo _Marco Ulpio Nerva
Trajano_, a cui il senato diede nel giorno stesso il titolo di
_Cesare_ e di _Germanico_, e scrisse di suo proprio pugno, avvisandolo
di tale elezione[689]. Fors'anche, secondo alcuni, non era pervenuta
questa nuova a Trajano, soggiornante allora in Colonia, che Nerva il
proclamò _Imperadore_[690], conferendogli la tribunizia podestà, ma
non già il titolo d'_Augusto_; cioè il creò suo collega nell'imperio.
Può essere che ciò avvenisse alquanto più tardi. Almen certo è che il
disegnò console per l'anno seguente. Il merito assai conosciuto di
Trajano, che era stato console nell'anno 94, ed avea avuto il padre,
stato anch'esso console (non si sa in qual anno) fece che ognuno
ricevesse con plauso una sì bella elezione, e cessasse ogni
sollevazione e tumulto in Roma. Si trovava allora Trajano nel maggior
vigore della virilità, perchè in età di circa quarantaquattro anni.

NOTE:

[674] Plinius, lib. 2, ep. 1.

[675] Stampa sul Fastos Consul. Sig.

[676] Noris, Epistol. Consul.

[677] Dio, lib. 68.

[678] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[679] Aurel. Vict., in Epit.

[680] Plinius, lib. 10, Epist. 66.

[681] Dio, lib. 68. Aurelius Victor, in Epitome.

[682] Plinius, lib. 4, Ep. 22. Aur. Vict., in Epit.

[683] Plinius, in Panegyr.

[684] Aurelius Victor, in Epitome.

[685] Dio, lib 68.

[686] Eutr., in Brev.

[687] Aurel. Vict., in Epitome.

[688] Panvin., Petav., Pagius, Dodwellus, Fabrett., Tillem.

[689] Plinius, in Panegyrico.

[690] Euseb., in Chron.




    Anno di CRISTO XCVIII. Indiz. XI.

    EVARISTO papa 3.
    TRAJANO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO COCCEJO NERVA AUGUSTO per la quarta volta, e MARCO ULPIO TRAJANO
per la seconda.


Credesi che a questi consoli ne fossero sostituiti degli altri nelle
calende di luglio, ma quali noi possiamo sapere di certo. Poco
sopravvisse il buon imperadore Nerva, nè già sussiste, come taluno ha
pensato, ch'egli deponesse l'imperio. Riscaldossi egli un giorno forte
in gridando contra di un certo Regolo[691], che doveva aver commessa
qualche iniquità, di modo che, quantunque fosse di verno, sudò; e
questo raffreddatosegli addosso, gli cagionò una tal febbre, che fu
bastante a levarlo di vita. Aurelio Vittore gli dà sessantatre anni
d'età[692], Dione sessantacinque[693] Eutropio settantuno[694], ed
Eusebio settantadue[695]. Comunque sia, lasciò egli anche dopo sì
corto governo un glorioso nome a cagion delle sue lodevoli azioni di
bontà e saviezza; azioni tali, ch'egli ebbe a dire di non sapere
d'aver operata cosa, per cui, quando anch'egli avesse deposto
l'imperio, non avesse da vivere quieto e sicuro nella vita privata. Ma
nulla certo gli acquistò più credito e gloria, che l'aver voluto per
successore nell'imperio un _Trajano_, che poi divenne il modello de'
principi ottimi. Con funerale magnifico fu portato il suo corpo, o
vogliam dire le ceneri ed ossa sue, dal senato, nel mausoleo
d'Augusto. Intorno al giorno di sua morte disputano gli eruditi.
Inclinano i più a credere che questa avvenisse nel gennaio dell'anno
presente, e nel dì 27; Aurelio Vittore scrive che quel giorno, in cui
egli mancò di vita, fu un ecclissi del sole. Secondo i conti del
Calvisio si eclissò il sole nel dì 21 di marzo di quest'anno; ma non
s'accorda ciò con chi[696] gli dà sedici mesi e nove o dieci giorni
d'imperio. Sappiamo bensì da Eusebio[697], dalle medaglie[698], e
dalle iscrizioni[699], che Nerva per decreto del senato fu alzato
all'onore degli dii, e che Trajano non mai stanco di mostrar la sua
gratitudine a questo buon principe e padre, che l'avea alzato al
trono, alzò anch'egli a lui dei templi, secondo la cieca superstizione
e temerità del gentilesimo. Allorchè terminò Nerva i suoi giorni,
_Publio Elio Adriano_, che fu poi imperadore, giovane allora ed
amicissimo, anzi parente di Trajano, lasciato già da suo padre sotto
la tutela di lui[700], si trovava nella Germania superiore. Arrivata
colà la nuova della morte di Nerva, Adriano volle essere il primo a
portarla a Trajano, dimorante allora in Colonia; e tuttochè _Serviano_
di lui cognato cercasse d'impedirglielo, con fare segretamente rompere
il di lui calesse, per aver egli l'onore di far penetrar con sua
lettera il lieto avviso a Trajano: nondimeno Adriano camminando a
piedi, prevenne il messagger di Serviano. Ricevute poi che ebbe
Trajano[701] le lettere del senato, gli rispose di suo pugno, co'
dovuti ringraziamenti, fra l'altre cose promettendo, che nulla mai
farebbe contro la vita e l'onore delle persone dabbene; il che poscia
confermò con suo giuramento. Mentr'egli tuttavia si trovava in quelle
parti, o certo prima di tornarsene a Roma, chiamò a sè _Eliano
Casperio_ prefetto del pretorio e i soldati da lui dipendenti, facendo
vista di volersi valere di lui in servigio della repubblica. Nerva in
ragguagliarlo della elezione sua, l'avea particolarmente incaricato di
far le sue vendette contra d'esso Casperio, e di quelle milizie che
ammutinate gli aveano fatto, siccome dicemmo, un sì grave affronto.
Trajano l'ubbidì. Tolta fu a Casperio la vita e a quanti pretoriani si
trovò che avevano avuta parte in quella sedizione. Comandava allora ad
una possente armata Trajano, nè v'è apparenza ch'egli nell'anno
presente venisse a Roma, ma bensì che egli si trattenesse in quelle ed
anche in altre parti per dare un buon sesto ai confini dell'imperio e
alla quiete delle provincie[702]. Sparsasi nelle nazioni germaniche la
fama che Trajano era divenuto imperadore ed Augusto, tale già correa
la rinomanza e la stima del di lui valore e senno anche fra quelle
barbare genti, che ognun fece a gara per ispedirgli dei deputati e
chiedergli supplichevolmente la continuazion della pace. Erano soliti
i Tedeschi nel verno, allorchè il Danubio gelato si potea passare a
piedi, di venir ai danni dei Romani. Nel verno di quest'anno non si
lasciarono punto vedere. Trovavasi in quelle contrade Trajano, e
tuttochè le sue legioni facessero istanza di valicar quel fiume, per
dare addosso ai Tedeschi, tuttavia egli nol permise. Una delle sue
principali applicazioni era stata, e maggiormente fu in questi tempi,
di ristabilire l'antica disciplina, l'amor della fatica, e
l'ubbidienza nella milizia romana; ed egli stesso, con trattar
civilmente tutti gli uffiziali e soldati, si conciliò più che prima
l'amore e il rispetto d'ognuno.

NOTE:

[691] Aurel. Vict., in Epit. Tillem., Mém. Hist. Pagius, Crit. Bar.

[692] Aurel. Victor, in Epitome.

[693] Dio, lib 68.

[694] Eutrop., in Breviar.

[695] Eusebius, in Chron.

[696] Dio, lib. 68. Eutropius, in Brev.

[697] Eusebius, in Chron.

[698] Mediobarb., in Numism. imperator.

[699] Gruter., Thesaur. Insc.

[700] Spartianus, in Hadriano.

[701] Dio, lib. 67.

[702] Plinius, in Panegyr.




    Anno di CRISTO XCIX. Indizione XII.

    EVARISTO papa 4.
    TRAJANO imperadore 2.

_Consoli_

AULO CORNELIO PALMA e CAJO SOSIO SENECIONE.


Erano questi consoli due de' migliori nobili che si avesse allora il
senato romano, e particolarmente godevano della stima ed amicizia di
Trajano. Aveano costumato alcuni de' precedenti Augusti di prender
essi il consolato nelle prime calende di gennaio, susseguenti alla
loro assunzione, cessando perciò i consoli disegnati[703]. Trajano,
tra perchè non si pasceva di fumo, e perchè gli affari non gli
permettevano di trovarsi all'apertura dell'anno nuovo in Roma, ricusò
nell'anno precedente l'onore del consolato offertogli dal senato,
secondo lo stile, e volle che entrassero i due consoli sopraddetti.
Verisimilmente venuta che fu la primavera, fu il tempo in cui egli
dalla Germania s'inviò a Roma. Ben diverso fu il suo passaggio da quel
di Domiziano. Quello era un saccheggio delle città, dovunque passava
egli colle sue truppe. Trajano, benchè scortato da più legioni, con
tal disciplina, con sì bel regolamento faceva marciare e riposar la
sua gente, che diventò lieve ai popoli quel militare aggravio. Abbiamo
ancora da Plinio l'entrata di Trajano in Roma. Fu ben lieto quel
giorno al veder venire un buon principe, non già orgoglioso sopra un
carro trionfale, o portato dagli uomini, come costumò alcuno de' suoi
antecessori, ma a piedi e in abito modesto; che non accoglieva con
fronte alta e superba, chi gli si presentava, per rallegrarsi con lui
e per ossequiarlo; ma bensì gli abbracciava e baciava tutti, come suoi
cari concittadini e fratelli. Andò al Campidoglio, e poscia al
palazzo. Seco era _Pompea Plotina_ sua moglie, donna d'alto affare, ed
emula delle virtù del marito[704]. Allorchè ella fu sulle scalinate
del palazzo imperiale, rivolta al popolo disse: _Quale io entro or
qua, tale desidero anche d'uscirne_, cioè ben voluta e senza
rimprovero di alcuna iniquità. In fatti con tal modestia e saviezza
visse ella sempre dipoi, che si meritò gli encomi di tutti, e
massimamente perchè cooperava anch'essa a promuovere il ben pubblico e
la gloria del marito[705]. Raccontasi, che informata delle avanie e
vessazioni che si praticavano per le provincie del romano imperio
dagli esattori de' tributi e delle gabelle, sanguisughe ordinarie de'
popoli, ne fece una calda doglianza al marito, come egli fosse sì
trascurato in affare di tanta premura, permettendo iniquità che
facevano troppo torto alla di lui riputazione. Seriamente vi si
applicò da lì innanzi Trajano, e rimediò ai disordini, riconoscendo
essere il fisco simile alla milza, la quale crescendo fa dimagrar
tutte le altre membra. A _Plotina_ fu probabilmente conferito, dopo il
suo arrivo a Roma il titolo di _Augusta_, siccome a Trajano quello di
_Padre della Patria_, che si trova enunziato nelle monete di
quest'anno, come pur anche quello di _Pontefice Massimo_. Avea Trajano
una sorella, appellata _Marciana_, con cui mirabilmente andò sempre
d'accordo la saggia imperatrice Plotina. La città di Marcianopoli,
capitale della Mesia, per attestato di Ammiano[706] e di
Giordano[707], prese il nome da lei. Ebbe anche Marciana il titolo
d'_Augusta_, che si trova in varie iscrizioni e monete. Da lei nacque
una _Matidia_, madre di _Giulia Sabina_, che fu moglie di _Adriano
Augusto_, e per quanto si crede, di un'altra _Matidia_.

Le prime applicazioni di Trajano, dacchè fu egli giunto a Roma, furono
a cattivarsi l'amore del pubblico colla liberalità[708]. Aveva egli
già pagato alle milizie la metà del regalo che loro solea darsi dai
novelli imperadori. Ai poveri cittadini romani diede egli l'intero
congiario, volendo che ne partecipassero anche gli assenti e i
fanciulli: spesa grande, ma senza arricchire gli uni colle sostanze
indebitamente rapite ad altri, come in addietro si facea da' principi
simili alle tigri, le quali nudriscono i lor figliuoli colla strage
d'altri animali. Da gran tempo si costumava in Roma, che la repubblica
distribuiva gratis di tanto in tanto una prodigiosa quantità di grano
e di altri viveri al basso popolo dei cittadini liberi, perchè
anch'esso riteneva qualche parte nel dominio e governo. Ma i fanciulli
che aveano meno di undici anni, non godevano di tal distribuzione.
Trajano volle ancor questi partecipi della pubblica liberalità. E
perciocchè, siccome dicemmo, Nerva avea ordinato, che anche per le
città dell'Italia a spese dei pubblici erari si alimentassero i
figliuoli orfani della povera gente libera: diede alle città danari e
rendite, affinchè fosse conservato ed accresciuto questo buon uso.
Rallegrò parimente il popolo romano con alcuni giuochi e spettacoli
pubblici, conoscendo troppo il genio di quella gente a sì fatti
divertimenti. Per altro non se ne dilettava egli; anzi cacciò di nuovo
da Roma i pantomimi, come indegni della gravità romana. Cura
particolare ebbe dell'annona, con levar via tutti gli abusi e
monopolii, con formare e privilegiare il collegio de' fornai: di modo
che non solo in Roma, ma per tutta l'Italia si vide fiorire
l'abbondanza del grano, talmente che l'Egitto, solito ad essere il
granaio dell'Italia, trovandosi carestioso in quest'anno, per avere il
Nilo inondato poco paese, potè ricevere soccorso di biade dall'Italia
stessa. Ma ciò che maggiormente si meritò plauso da ognuno, fu l'aver
anch'egli più rigorosamente di quel che avessero fatto Tito e Nerva,
ordinato processi e gastighi contra dei calunniosi accusatori, che
sotto Domiziano erano stati la rovina di tanti innocenti. Nella stessa
guisa ancora abolì l'azione di lesa maestà, ch'era in addietro
l'orrore del popolo romano. Ogni menoma parola contra del governo si
riputava un enorme delitto. Ma egregiamente intendeva Trajano, essere
proprio de' buoni principi l'operar bene, senza poi curarsi delle vane
dicerie dei sudditi: laddove i tiranni, male operando, esigerebbono
ancora, che i sudditi fossero senza occhi e senza lingua; nè badano
che coi gastighi maggiormente accendono la voglia di sparlare di loro
e l'odio universale contra di sè stessi. Assistè Trajano nell'anno
presente, come persona privata ai comizi, nei quali si dovea far
l'elezion de' consoli per l'anno seguente. Fu egli disegnato console
ordinario, ma si durò fatica a fargli accettare questa dignità; ed
accettata che l'ebbe, con istupore d'ognuno si vide il buon imperadore
andarsi ad inginocchiare davanti al console, per prestare il
giuramento come solevano i particolari: e il console, senza turbarsi,
lasciò farlo. Altri consoli da sostituire agli ordinari, furono anche
allora disegnati, siccome dirò nell'anno seguente.

NOTE:

[703] Plinius, in Panegyr.

[704] Dio, lib. 68.

[705] Aurel. Vict., in Epit.

[706] Ammianus, lib. 27.

[707] Jordan, de Reb. Geticis.

[708] In Panegyr.




    Anno di CRISTO C. Indizione XIII.

    EVARISTO papa 5.
    TRAJANO imperadore 3.

_Consoli_

MARCO ULPIO NERVA TRAJANO per la terza volta, e MARCO CORNELIO
FRONTONE per la terza.


Gran disputa fra gli eruditi illustratori de' Fasti consolari[709] è
stata e dura tuttavia, senza aver mezzo finora da deciderla, quale sia
stato il collega ordinario di Trajano nel presente consolato, cioè chi
con lui procedesse console nelle calende di gennaio. Parve al cardinal
Noris[710] più probabile che fosse _Sesto Giulio Frontino per la terza
volta_, scrittore rinomato per li suoi libri, conservati sino ai dì
nostri. Poscia inclinò piuttosto a crederlo _Marco Cornelio Frontone
per la terza volta_, come avea tenuto il Panvinio, e tenne dipoi anche
il Pagi. L'imbroglio è nato dalla vicinanza dei cognomi di _Frontone_
e _Frontino_. Certo è che Frontone fu console in quest'anno. E
perciocchè sappiamo da Plinio[711], essere stati disegnati per
quest'anno oltre all'Augusto Trajano due altri, che serebbono consoli
_per la terza volta_, perciò alcuni han creduto anche Frontino console
nell'anno presente; ma senza apparire in qual anno preciso, tanto egli
quanto _Frontone_, avessero conseguito gli altri due consolati.
Credesi ben comunemente, che nelle calende di settembre fossero
sostituiti in quella illustre dignità _Cajo Plinio Cecilio Secondo_
comasco, celebre scrittore di lettere, e del panegirico di Trajano,
ch'egli per ordine del senato compose e recitò in questa congiuntura,
e _Spurio Cornuto Tertullo_, personaggio anch'esso di gran merito.
Secondo il Panvinio e l'Almeloven, nelle calende di novembre
succederono _Giulio Feroce_ ed _Acutio Nerva_. Ma io[712] ho prodotta
un'iscrizione posta nel dì 29 di dicembre dell'anno presente, da cui
ricaviamo essere allora stati consoli _Lucio Roscio Eliano_ e _Tiberio
Claudio Sacerdote_. Benchè fosse assai conosciuto in Roma il mirabil
talento di Trajano Augusto, pure assunto ch'egli fu al trono,
maggiormente comparì qual era, con vedersi inoltre un avvenimento ben
raro, cioè ch'egli non mutò punto nella mutazion dello stato i buoni
suoi costumi, anzi li migliorò; e che l'altezza del suo grado e della
sua autorità servì solamente a far crescere le sue virtù. Fasto e
superbia sparivano le azioni di molti suoi predecessori[713]. Continuò
egli, come prima, la sua affabilità, la sua modestia, la sua cortesia.
Ammetteva alla sua udienza chiunque lo desiderava, trattando con tutti
civilmente, e massimamente onorando la nobiltà, ed abbracciando e
baciando i principali: laddove gli altri Augusti, stando a sedere,
appena porgeano la man da baciare. Gli stava fitta in mente questa
massima, _che un sovrano in vece d'avvilirsi coll'abbassarsi, tanto
più si fa rispettare e adorare_. Usciva egli con un corteggio modesto
e mediocre; nè andavano già innanzi lacchè o palafrenieri per fargli
largo colle bastonate, anzi egli talvolta si fermava nelle strade, per
lasciar che passasse qualche carro o carrozza altrui. Per un
imperadore era assai frugale la sua tavola, ma condita dall'allegria
di lui e da quella di varie persone savie e scelte, ch'erano or l'una,
or l'altra invitate[714]. Distinzione di posto non voleva alla sua
mensa, nè sdegnava di andare a desinare in casa degli amici, di
portarsi alle lor feste, di visitarli malati, di andar talvolta nelle
loro carrozze. In somma, per quanto poteva, si studiava di trattar con
tutti, non meno in Roma che per le provincie, con tanta civiltà e
moderazione, come se non fosse il sovrano, ma un loro eguale,
ricordando a sè stesso, che egli comandava bensì agli uomini, ma
ch'era uomo anch'egli. E perchè un dì gli amici suoi il riprendevano,
perchè eccedesse nella cortesia verso d'ognuno, rispose quelle
memorande parole: _Tale desidero d'essere imperadore verso i privati,
quale avrei caro che gl'imperadori fossero verso di me se fossi uomo
privato_. Lo stesso Giuliano Apostata[715], che andò cercando tutte le
macchie e i nei dei precedenti Augusti, non potè non confessare, che
Trajano superò tutti gli altri imperadori nella bontà e nella
dolcezza: il che punto non facea scemare in lui la maestà, e ne'
sudditi il rispetto verso di lui. Per questa via, e col mostrar amore
a tutti, egli era sommamente amato da tutti, odiato da niuno; e
dappertutto si godeva una somma pace e un'invidiabil tranquillità,
come si fa nelle ben regolate famiglie.

L'adulazione come in paese suo proprio suol abitar nelle corti; non
già in quella di Trajano, che l'abborriva[716]. E però neppur gradiva
che se gli alzassero tante statue, come in addietro si era praticato
con gli altri Augusti, e di rado permetteva che si gli facesse
quest'onore, nè altri che puzzassero di adulazione. Per altro mostrava
egli piacere, che il nome suo comparisse nelle fabbriche da lui fatte
o risarcite, e nelle iscrizioni de' particolari; laonde apparendo poi
esso in tanti luoghi, diede motivo ad alcuni di chiamarlo per
ischerzo[717] _Erba Parietaria_, erba che si attacca alle muraglie. Ma
conferendo le cariche, neppur voleva esserne ringraziato, quasi
ch'egli fosse più obbligato a chi le riceveva, che essi a lui. Le
ordinarie sue occupazioni consistevano in dar udienze a chi ricorrea
per giustizia, per bisogni, per grazie, con ispedir prontamente gli
affari, specialmente quelli che riguardavano il ben pubblico. Sapeva
unire la clemenza, la piacevolezza colla severità e costanza nel
punire i cattivi, nel rimediare alle ingiustizie de' magistrati, nel
pacificar fra loro le città discordi. Sotto di lui in materia
criminale non si proferiva sentenza contro di chi era assente; nè per
meri sospetti, come si usava in addietro, si condannava alcuno. Un
bellissimo suo rescritto vien riferito ne' Digesti[718], cioè: _Meglio
è in dubbio lasciar impunito un reo, che condannare un innocente_.
Sotto altri principi il fisco guadagnava sempre le cause. Non già
sotto Trajano, che anche contra di sè amava che fosse fatta giustizia.
Quanto era egli lontano dal rapire la roba altrui, altrettanto era
alieno dal nuocere o inferir la morte ad alcuno. A' suoi tempi un solo
de' senatori fu fatto morire, ma per sentenza del senato, e senza
notizia di lui, mentre era lungi da Roma: tanto era il rispetto
ch'egli professava a quel nobilissimo ordine[719]. Ed appunto in
quest'anno fu bel vedere, come creato console egli si contenesse nel
senato, in esercitando quest'eminente dignità. Nel primo giorno
dell'anno volle salito in palco nella pubblica piazza prestare il
giuramento di osservar le leggi, solito a prestarsi dagli altri
consoli, ma non dagl'imperatori, che se ne dispensavano. Portatosi al
senato, ordinò ad ognuno di dire con libertà e sincerità i lor
sentimenti, con sicurezza di non dispiacergli. Così diceano anche gli
altri Augusti, ma non di cuore, e i fatti poi lo mostravano. Ordinò
ancora, che ai voti, i quali non meno in Roma che per le provincie nel
dì 3 di gennaio si faceano per la salute dell'imperadore,
s'aggiugnesse questa condizione: _Purché egli governi a dovere la
Repubblica e procuri il bene di tutti._ Egli stesso in pregare gli dii
per sè medesimo, solea dire: _Se pure la meriterò, se continuerò ad
essere quale sono stato eletto, e se seguirò a meritar la stima e
l'affetto del Senato_. Con tal pazienza accudiva egli ai pubblici
affari, ascoltava i dibattimenti delle cause, e con tanta attenzione
distribuiva le cariche, promovendo sempre chi andava innanzi nel
merito, che il senato non potè contenersi dal palesar la sua gioia con
delle acclamazioni, che mossero le lagrime al medesimo Trajano,
coprendosi intanto il di lui volto di rossore, cioè di un contrassegno
vivo della sua modestia. E verisimilmente il senato circa questi tempi
conferì a Trajano il glorioso titolo di _Ottimo Principe_. Plinio
nelle sue epistole parla di molte cause agitate in questi tempi nel
senato, con aver Trajano ben disaminati i processi, e custodita
rigorosamente l'osservanza delle leggi. Il primo gran dono che fa Dio
agli uomini, quello è di dar loro un buon naturale, un intendimento
chiaro e un'indole portata solamente al bene. Convien ben dire, che
ottimo fosse il talento di Trajano, dacchè confessano gli storici,
ch'egli poco o nulla avea studiato di lettere, ed era mancante
d'eloquenza. Ma il suo ingegno e giudizio, e il pendìo a quel solo che
è bene, supplivano questo difetto. E però, benchè non fosse letterato,
sommamente amava e favoriva i letterati, e chiunque era eccellente in
qualsivoglia professione.

NOTE:

[709] Panvinus, Pagius, Tillemont, Stampa.

[710] Noris, Ep. Consul.

[711] Plinius, in Panegyr.

[712] Thesaurus Novus Inscript., pag. 305, n. 5.

[713] Plinius, in Panegyr.

[714] Eutropius, in Breviar.

[715] Julianus, de Caesaribus.

[716] Plinius, in Panegyrico.

[717] Ammianus, lib. 27. Aurelius Victor, in Epitome.

[718] Lege 5. Digestis de Poenis.

[719] Plinius, in Panegyr.




    Anno di CRISTO CI. Indizione XIV.

    EVARISTO papa 6.
    TRAJANO imperadore 4.

_Consoli_

MARCO ULPIO NERVA TRAJANO AUGUSTO per la quarta volta, e SESTO
ARTICOLAJO.


Credesi che l'uno di questi consoli avesse nelle calende di marzo per
successore nel consolato _Cornelio Scipione Orfito_, e che nelle
calende di marzo fossero sostituiti _Bebio Macro_ e _Marco Valerio
Paolino_; e poi nelle calende di luglio procedessero colla trabea
consolare _Rubrio Gallo_ e _Quinto Celio Ispone_. Trovasi
un'iscrizione, da me[720] riferita, posta a _Marco Epulejo_ (forse
_Apulejo_) _Procolo Cepione Ispone_, ch'era stato console. Sarebbe da
vedere se si tratti del suddetto _Ispone_. Per me ne son persuaso,
quantunque chiaro non apparisca in qual anno cada il di lui consolato.
Han creduto molti storici, che in quest'anno avvenisse la prima guerra
di Trajano contra dei Daci. Tali nondimeno son le ragioni addotte dal
giudiziosissimo cardinal Noris[721], che pare doversi la medesima
riferire all'anno seguente. Nulladimeno il Tillemont[722], scrittore
anch'esso accuratissimo, inclinò a giudicarla succeduta in questo
anno. Più sicuro a me sembra il differirla al seguente, quantunque si
possa credere cominciata la rottura nel presente. Già vedemmo fatta da
Domiziano una vergognosa pace con _Decebalo re dei Daci_, a cui egli
s'obbligò di pagare ogni anno certa somma di danaro a titolo di
regalo, che in fatti era un tributo. All'animo grande di Trajano parve
troppo ignominiosa una sì fatta concordia e condizione, nè egli si
sentì voglia di pagare[723]. Per questo rifiuto Decebalo cominciò a
formare un possente armamento, e a minacciar le terre dell'imperio con
delle sgarate. Forse anche le sue genti commisero qualche ostilità.
Portossi perciò nell'anno susseguente l'Augusto Trajano in persona a
que' confini, per dimandargliene conto; ed allora, come io vo'
credendo, ebbe principio la prima guerra dacica. Non istette
certamente in ozio in questi tempi Trajano. Stendevasi la di lui
provvidenza e liberalità a tutte le parti dell'imperio. Abbiamo da
Eutropio[724], ch'egli riparò le città della Germania, situate di là
dal Reno. Potrebbe ciò essere succeduto nell'anno presente. E senza
questo noi sappiamo ch'egli fece far infinite fabbriche per le città
romane, e porti, e strade, ed altre opere, o per utilità o per
ornamento; ed era facile a concedere ad esse città privilegi ed
esenzioni, e a sollevarle ne' lor bisogni. Tale ancora il provavano i
particolari. Bastava avere avuta con lui anche una mediocre
familiarità, e poi chiedere. A chi ricchezze, a chi compartiva onori,
rimandando consolati gli altri colla promessa di dar ciò che allora
non potea. Ma particolarmente premiava egli chi avea più merito; e
laddove sotto i precedenti Augusti chi era uomo di petto, e odiava la
servitù, e solea parlar franco, o dispiaceva, o correva pericolo
dell'esilio o della vita: questi da Trajano erano i più stimati, ben
voluti ed esaltati. E tuttochè la nobiltà sua propria si stendesse
poco indietro, pure gran cura avea egli di chi procedeva dagli antichi
nobili romani, e li preferiva agli altri negl'impieghi. Ne' tempi
addietro troppo spesso si vide, che i liberti degl'imperatori la
faceano da padroni del pubblico e della corte stessa[725]. Trajano,
scelti i migliori fra essi, se ne serviva bensì, e li trattava assai
bene; ma in maniera che si ricordassero sempre della lor condizione, e
d'essere stati schiavi; e che, per piacere, altra maniera non v'era,
che d'essere uomini dabbene e persone amanti dell'onore[726]. Proibì
alle città il far dei regali col danaro del pubblico, ma non volle che
si potessero ripetere i fatti prima di venti anni addietro, per non
rovinar molte persone, conchiudendo il suo rescritto a Plinio: _Perchè
a me appartiene di non aver men cura del bene de' particolari, che di
quello del pubblico_. Così procurava egli anche alle città il
risparmio delle spese. Però sapendo[727] questa sua buona intenzione
Trebonio Rufino, duumviro, cioè principal magistrato scelto dal popolo
di Vienna del Delfinato, proibì che si facessero in quella città i
giuochi ginnici, i quali, oltre alla spesa, riuscivano anche
scandalosi e contrari a' buoni costumi, perchè gli uomini nudi alla
presenza di tutto il popolo faceano la lotta. S'opposero i cittadini.
Fu portato l'affare a Trajano, che raccolse i voti de' senatori. Fra
gli altri _Giulio Maurino_ sostenne, che non si doveano permettere
que' giuochi a quelle città, e poi soggiunse: _Volesse Dio, che si
potessero anche levar via da Roma_, città perduta dietro a simili
sconci divertimenti.

NOTE:

[720] Thesaurus Novus Veter. Inscript., pag. 316, num. 2.

[721] Noris, Epistola Consulari.

[722] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[723] Dio, lib. 68.

[724] Eutropius, in Breviario.

[725] Plinius, in Panegyrico.

[726] Plinius, lib. 10, ep. 3.

[727] Idem, lib. 4, epist. 22.




    Anno di CRISTO CII. Indizione XV.

    EVARISTO papa 7.
    TRAJANO imperadore 5.

_Consoli_

GAJO SOSIO SENECIONE per la terza volta e LUCIO LICINIO SURA per la
seconda.


Certo è bensì che _Sura_ fu console ordinario nell'anno presente. Non
v'ha la medesima certezza di _Senecione_. Il solo Cassiodoro quegli è,
che cel mette davanti. Discordano gli altri fasti. Ho io seguitato in
ciò i più che han trattato de' consoli. Erano questi due i più cari e
favoriti che s'avesse Trajano, degni bene amendue della di lui
confidenza ed affetto, perchè ornati di tutte quelle virtù che si
ricercano in chi dee servire ad un buon principe. Ma specialmente[728]
amava egli _Licinio Sura_, per gratitudine, avendo questi cooperato
non poco, affinchè Nerva adottasse Trajano. Salì questo Sura a tal
ricchezza e potenza, che a sue proprie spese edificò un superbo
ginnasio, o sia la scuola de' lottatori al popolo romano. Non andò
egli esente dai soffi dell'invidia, compagna ordinariamente delle
grandi fortune, avendo più d'uno procurato d'insinuare in cuor di
Trajano dei sospetti della fedeltà di questo suo favorito,
calunniandolo come giunto a meditar delle novità contra di lui.
Trajano, la prima volta che Sura l'invitò seco a pranzo, v'andò senza
guardie. Volle per una flussione che aveva agli occhi, farseli ugnere
dal medico di Sura. Fatto anche venire il di lui barbiere, si fece
radere la barba: chè così allora usavano i Romani. Adriano fu quegli
che poi introdusse il portarla. Dopo aver anche preso il bagno,
Trajano si mise a tavola, e allegramente desinò. Nel dì seguente disse
agli amici, che gli mettevano in mal concetto Sura: _Se costui mi
avesse voluto ammazzare, n'ebbe jeri tutta la comodità_. Fu ammirato
un sì fatto coraggio in Trajano, ben diverso da que' principi deboli
che temono di tutto. Aggiugne Dione, che un altro saggio di questa sua
intrepidezza diede Trajano. Nel crear sulle prime un prefetto del
pretorio (si crede che fosse _Saburano_) dovea cingergli la spada al
fianco. Nuda gliela porse, dicendo: _Prendi questo ferro, per
valertene in mia difesa, se rettamente governo: contra di me, se farò
il contrario_. Forse fu lo stesso Saburano, come conghiettura Giusto
Lipsio, che gli dimandò licenza di ritirarsi, perchè Plinio[729]
attesta essere stato un prefetto del pretorio, che antepose il piacere
della vita e della quiete agli onori della corte. Trajano, perchè gli
dispiaceva di perdere un uffizial sì dabbene, fece quanto potè per
ritenerlo. Vedendolo costante, non volle rattristarlo col negargli la
grazia; ma l'accompagnò sino all'imbarco, il regalò da par suo, e
baciandolo, colle lagrime agli occhi il pregò di ritornarsene presto.

L'anno verisimilmente fu questo, in cui Trajano con poderosa armata
marciò contro a Decebalo re dei Daci. Poco sappiamo delle avventure di
quella guerra. Ecco quel poco che ne lasciò scritto Dione[730]. Giunto
che fu l'Augusto Trajano ai confini della Dacia, veggendo Decebalo
tante forze in ordine, e un sì rinomato imperadore in persona venuto
contra di lui, spedì tosto deputati per esibirsi pronto alla pace.
Trajano, oltre al non fidarsi di lui, un gran prurito nudriva di
acquistar gloria per sè e di ampliare il romano imperio: però, senza
voler prestare orecchio a proposizione alcuna, andò innanzi. Si venne
ad una terribil battaglia, che costò di gran sangue ai Romani, ma
colla sconfitta de' nemici. Raccontasi che in tal congiuntura girando
Trajano, per osservare se i soldati feriti erano ben curati, al
trovare che mancavano fasce per legar le ferite, fece mettere in pezzi
la veste propria, perchè servisse a quel bisogno. Con grande onore
data fu sepoltura agli estinti; ed alzato un altare, acciocchè ne'
tempi avvenire si celebrasse il loro anniversario. Col vittorioso
esercito s'andò poi di montagna in montagna inoltrando Trajano, finchè
pervenne alla capitale della Dacia, che si crede _Sarmigetusa_, città
posta in quella provincia che oggidì appelliamo Transilvania; che
divenne poi colonia de' Romani col nome di _Ulpia Trajana_[731]. Nel
medesimo tempo _Lucio Quieto_, Moro di nazione, uffizial valoroso, da
un'altra parte fece grande strage e molti prigioni dei Daci; e a
_Massimo_, uno de' generali, riuscì di prendere una buona fortezza;
entro la quale si trovò la sorella di Decebalo. Allora dovette
accadere ciò che narra Pietro Patrizio[732], cioè che Decebalo mandò a
Trajano prima alcuni de' suoi conti, poscia altri de' suoi principali
uffiziali a supplicarlo di pace, esibendosi di restituir l'armi e le
macchine da guerra, e gli artefici guadagnati nella guerra fatta a'
tempi di Domiziano[733]. Accettò Trajano le proposizioni, con
aggiugnervi che Decebalo smantellasse le fortezze, rendesse i
disertori, cedesse il paese occupato ai circonvicini, e tenesse per
amici e nemici quei del popolo romano. Decebalo, suo malgrado, venne a
prostrarsi a' piedi di Trajano, e ad implorar la sua grazia ed
amicizia. Non si sa, se in questa prima guerra e pace Trajano restasse
in possesso di Sarmigetusa, e di quanto egli avea conquistato in
quelle contrade. Certo è, che per questa impresa riportò egli il
titolo di Dacico, nè aspettò a conseguirlo nell'anno seguente, come
immaginò il Mezzabarba[734]; ma nel presente, siccome ancora apparisce
da due iscrizioni da me date alla luce[735], nelle quali è chiamato
_Dacico_, correndo la sua _tribunizia podestà_ V, che terminava circa
il fine di ottobre in quest'anno.

NOTE:

[728] Aurelius Victor, in Epitome. Dio, lib. 68.

[729] Plinius, in Panegyrico, §. 86.

[730] Dio, lib. 68.

[731] Thesaurus Novus Veter. Inscription., p. 1121, 7; 1127, 112.

[732] Petrus Patricius, de Legationib., Tom. 1, Hist. Byzantin.

[733] Dio, lib. 68.

[734] Mediobarbus, Numismat. Imperator.

[735] Thesaurus Novus Inscription., pag. 449, 2, 450, 1.




    Anno di CRISTO CIII. Indizione I.

    EVARISTO papa 8.
    TRAJANO imperadore 6.

_Consoli_

MARCO ULPIO NERVA TRAJANO AUGUSTO per la quinta volta e LUCIO APPIO
MASSIMO per la seconda.


Intorno ai consoli di quest'anno han disputato vari letterati,
pretendendo che il consolato quinto di _Trajano_, e il secondo di
_Massimo_ cadano nell'anno seguente[736]; e che ciò si deduca da due o
tre medaglie, nelle quali Trajano, correndo la sua _settima podestà
tribunizia_, è chiamato CO_nSul_ IIII. DE_Signatus_ V. Ma concorrendo
gli antichi fasti ne' consoli sopraccitati, si può forse dubitare
della legittimità di quelle monete, oppur di errore ne' monetari.
Finchè si scuoprano migliori lumi, io mi attengo qui al Panvinio, al
Pagi, al Tillemont e ad altri, che non ostante l'opposizione di quelle
medaglie, mettono in quest'anno il consolato quinto di Trajano.
_Massimo_, il secondo d'essi consoli, verisimilmente è quel medesimo
che nell'anno precedente s'era segnalato nella guerra dacica, e fu
premiato per la sua prodezza coll'insigne dignità del consolato.
Era[737] già tornato a Roma nel precedente anno il vittorioso Trajano.
Perchè egli da saggio e buon principe cercava il proprio onore, nè
dimenticava quello del senato romano, avea fra l'altre condizioni
obbligato Decebalo a spedire ambasciatori a Roma, per supplicare il
senato di accordargli la pace, e di ratificare il trattato. Vennero
essi verisimilmente in quest'anno, e introdotti nel senato, deposero
l'armi, e colle mani giunte a guisa degli schiavi, in poche parole
esposero la lor supplica. Furono benignamente ascoltati, e confermata
la pace: il che fatto, ripigliarono l'armi, e se ne tornarono al loro
paese. Trajano dipoi celebrò il suo trionfo per la vittoria riportata
dei Daci: e v'ha una medaglia[738], creduta indizio di questo suo
trionfo, dove comparisce la _Tribunizia Podestà_ VII; il che può far
credere differita questa funzion trionfale agli ultimi due mesi
dell'anno corrente. Ma quivi egli è intitolato CONSUL IIII; il che si
oppone alla credenza ch'egli nell'anno presente procedesse console
_per la quinta volta_. Un qualche dì potrebbe disotterrarsi alcuna
iscrizione o medaglia che dileguasse le tenebre, nelle quali resta
involto questo punto di storia e cronologia. Aveva Trajano trovato
nelle parti della Dacia _Dione Grisostomo_ eloquentissimo oratore e
filosofo greco, di cui restano tuttavia le orazioni. Seco il condusse
a Roma, e tale stima ne mostrò, che, se dice il vero Filostrato[739],
nel suo stesso carro trionfale il volle presso di sè, con volgersi di
tanto in tanto a lui per parlargli e far conoscere al pubblico quanto
l'apprezzasse. Al trionfo tenne dietro un combattimento pubblico di
gladiatori, e un divertimento di ballerini che Trajano, dopo averli
due anni prima cacciati di Roma, ripigliò, dilettandosi dei loro
giuochi, e sopra gli altri amando Pilade uno di essi. Ma s'egli
talvolta si ricreava con tali spettacoli, ciò non pregiudicava punto
agli affari; e massimamente s'applicava il vigilante imperadore
all'amministrazione della giustizia. Una bellissima villa era
posseduta da Trajano a Centocelle, oggidì Cività Vecchia, dove egli
andava talvolta a villeggiare, con attendere anche ivi alla spedizion
delle cause e liti più rilevanti. Plinio[740] scrive d'essere stato
chiamato a quel delizioso soggiorno (probabilmente in quest'anno) per
assistere ad alcuni giudizii ch'egli descrive. Fra gli altri era
accusato Euritmo, liberto e procurator di Trajano, di aver falsificati
in parte i codicilli di _Giulio Tirone_, i cui eredi alla presenza di
Trajano pareva che non si attentassero a proseguir la causa,
trattandosi di un uffizial di casa del principe. Fece lor animo il
giusto principe, con dire: _Eh che colui non è Policleto_ (liberto
favorito di Nerone) _nè io son Nerone_. Abbiamo dal medesimo Plinio,
che Trajano in questi tempi facea fabbricare un porto vastissimo a
foggia di un anfiteatro. Già era compiuto il braccio sinistro, si
lavorava al destro, e vi si andavano conducendo per mare grossissimi
sassi. Tolomeo[741] parla del porto di Trajano, lo stesso che oggidì
Cività Vecchia; e Rutilio nel suo Itinerario ne fece la
descrizione[742].

NOTE:

[736] Noris, Epistol. Consulari.

[737] Dio, lib. 68.

[738] Mediobarbus, in Numism. Imperat.

[739] Philostratos, in Sophist.

[740] Plinius, lib. 4, epist. 31.

[741] Ptolomaeus, Geograph.

[742] Rutilius, in Itinerar.




    Anno di CRISTO CIV. Indizione II.

    EVARISTO papa 9.
    TRAJANO imperadore 7.

_Consoli_

LUCIO LICINIO SURA per la terza volta, e PUBLIO ORAZIO MARCELLO.


Il cardinal Noris, il Fabretti e il Mezzabarba stimarono che questi
fossero i consoli dell'anno precedente, e che nel presente _Trajano
Augusto_ per la quinta volta, insieme, con _Appio Massimo_,
amministrassero il consolato. Finchè si possa meglio chiarir questo
punto, io seguito gli antichi Fasti, abbracciati in ciò anche dal
Panvinio, dal Pagi, dal Tillemont e da altri. Disputa ancora c'è
intorno al primo d'essi consoli, credendo alcuni ch'egli sia stato non
già _Sura_, ma Suburrano. Sarebbe da desiderare _qualche_ marmo che
decidesse la quistione. Uno dei più riguardevoli amici di Trajano fu
il suddetto _Orazio Marcello_. Le conghietture dei migliori letterati
concorrono[743] a persuaderci, che in quest'anno prendesse origine la
seconda guerra dacica. Non sapea digerir _Decebalo_ la pace fatta con
Trajano, perchè comperata con troppo dure condizioni; e però subito
che si vide rimesso in arnese, cominciò delle novità, e a chiedere un
nuovo accordo, lamentandosi specialmente, che molti dei suoi sudditi
passavano al servigio dei Romani. Perchè nulla potè ottenere,
determinò di venir di bel nuovo all'armi[744]. Diedesi dunque a far
gente, a fortificar i suoi luoghi, ad accogliere i disertori romani, e
a sollecitare i circonvicini popoli, acciocchè entrassero seco in
lega, per timore, diceva egli, che un dietro l'altro non rimanessero
oppressi dall'armi romane. Gli Sciti, cioè i Tartari, ed altre nazioni
si unirono con lui. A chi ricusò di sposare i di lui disegni, fece
aspra guerra, e tolse ancora ai Jazigi una parte del loro paese.
Queste furono le cagioni, per le quali il senato romano dichiarò
Decebalo nemico pubblico, e Trajano fece tutti gli opportuni
preparamenti per domarne la ferocia. Se sussiste ciò che racconta
Eusebio[745], in quest'anno Roma vide bruciata la casa d'oro, cioè,
per quanto si può credere, una parte di quella fabbricata da Nerone,
che si dovea essere salvata nell'incendio precedente. Furono di parere
il Loidio e il Tillemont, che circa questi tempi _Plinio_ il giovane,
già stato console, fosse inviato da Trajano al governo del Ponto e
della Bitinia, non come proconsole, ma come vicepretore colla podestà
consolare. Scabrosa è la quistione del tempo in cui ciò avvenne, e
mancano notizie per poterla decidere. A me perciò sarà lecito di
differir più tardi quest'impiego di Plinio, siccome han fatto il
Noris, il Pagi, il Bianchini ed altri.

NOTE:

[743] Loydius, Pagius, Tillemont et alii.

[744] Dio, lib. 68.

[745] Euseb., in Chron.




    Anno di CRISTO CV. Indizione III.

    EVARISTO papa 10.
    TRAJANO imperadore 8.

_Consoli_

TIBERIO GIULIO CANDIDO per la seconda volta e AULO GIULIO QUADRATO per
la seconda.


Tre iscrizioni spettanti a questi consoli ho io rapportate
altrove[746]. Credesi che l'anno presente quel fosse, in cui l'Augusto
Trajano imprese la seconda sua spedizione contra di _Decebalo re dei
Daci_, per aver egli creduta necessaria la sua presenza anche questa
volta contro ad un sì riguardevole avversario, e che non fosse impresa
da fidare ai soli suoi generali. _Adriano_, suo cugino, che fu poi
imperadore, ed era stato in quest'anno tribuno della plebe[747], andò
servendolo per comandante della legione minervia, e vi si portò così
bene, che Trajano il regalò di un diamante, a lui donato da
Nerva[748]. Non erano certamente le forze di Decebalo tali da poter
competere con quelle di Trajano, il quale seco menava un potentissimo
agguerrito esercito. Perciò tentò il Dacio altre vie per liberarsi, se
gli veniva fatto, dall'imminente tempesta, con inviar nella Mesia,
dov'era giunto l'imperadore, dei disertori bene instruiti per
ucciderlo. Poco mancò che non succedesse il nero attentato, perchè
Trajano, oltre alla sua facilità di dare in tutti i tempi udienza,
spezialmente la dava a tutti nell'occorrenze della guerra. Per buona
fortuna osservati alcuni cenni di un di costoro, fu preso, e messo a'
tormenti, confessò le tramate insidie: il che sconcertò anche le
misure degli altri. Un'altra vigliaccheria pur fece Decebalo. Dato ad
intendere a _Longino_ uno de' più sperimentati generali d'armi
che s'avessero i Romani, di volersi sottomettere ai voleri
dell'imperadore, l'indusse a venire ad una conferenza con lui; ma da
disleale il ritenne prigione, sforzandosi poi di ricavar da lui i
disegni e segreti di Trajano. La costanza di questo generale in tacere
fu qual si conveniva ad un uomo d'onore par suo. Decebalo il fece
bensì slegare, ma il mise sotto buone guardie, con iscrivere poscia a
Trajano d'essere pronto a rilasciar Longino, ogni volta che si volesse
trattar di pace: altrimenti minacciava di torgli la vita. Trajano,
benchè irritato forte dall'iniquo procedere di costui, gli rispose con
molto riguardo, cioè mostrando di non fare tal caso della persona e
salute di Longino, che volesse comperarla troppo caro; ma senza
trascurare la difesa della vita di quel suo uffiziale. Stette in forse
Decebalo, qual risoluzione ne avess'egli da prendere intorno a
Longino; e perchè forse si lasciò intendere di volerlo far morire
sotto i tormenti, Longino guadagnò un liberto d'esso Decebalo, che gli
procurò del veleno; e, per salvarlo dalle mani del padrone, ottenne di
poterlo spedire a Trajano, sotto pretesto di procurar un accordo. Il
che eseguito, prese Longino il veleno, e si sbrigò dal mondo. Allora
Decebalo inviò a Trajano un centurione già fatto prigione con Longino,
e seco dieci altri prigionieri, esibendogli il corpo di Longino,
perchè Trajano gli restituisse quel liberto. Ma l'imperadore che
trovava aliena dal decoro del romano imperio una tal proposizione, nè
gli volle consegnare il liberto, e neppur lasciò tornare a lui il
centurione, siccome preso contro il diritto delle genti.

Pare che fondatamente si possa dedurre da quanto narra Dione[749], che
nel presente anno nulla di rilevante fosse operato da Trajano per
conto della guerra contra di Decebalo. Le applicazioni sue prima di
esporsi a maggiori imprese, consisterono in far fabbricar un ponte di
pietra sul Danubio. Considerava il saggio condottiere d'armate, che
essendo egli passato di là da quel fiume, se venissero assaliti i
Romani dai Barbari, poteva esser loro impedito il ritirarsi di qua, ed
anche il ricevere nuovi rinforzi. Però volendo assicurarsi di simili
pericolosi avvenimenti, e mettere una stabile buona comunicazione fra
il paese signoreggiato di qua e di là dal Danubio, volle prima che si
edificasse un ponte su quel fiume, per quanto credono alcuni[750], tra
Belgrado e Widen: intorno a che è da vedere il Danubio del conte
Marsigli[751]. Altre opere di somma magnificenza fece Trajano, ma
questa andò innanzi alle altre, per sentimento di Dione, il quale non
sapea abbastanza ammirarla nè decidere qual fosse più grande, o la
spesa occorsa per sì gran lavoro, o l'arditezza del disegno. Ognun sa
che vastissimo fiume sia in quelle parti il Danubio, e tuttochè fosse
scelto pel ponte il più stretto che si potesse dell'alveo suo, ciò
nonostante occorreva un ponte di lunga estensione; e cresceva anche la
difficoltà, perchè le acque ristrette in quel sito tanto più veloci e
rapide correano, e il fondo del fiume, ricco sempre d'acque, era
profondissimo e pieno di gorghi di fango. Ma alla potenza e al voler
di un Trajano nulla era difficile. Senza poter divertire le acque del
fiume, quivi furono piantate venti smisurate pile tutte di grossissimi
marmi quadrati, alte cento cinquanta piedi senza i fondamenti, larghe
sessanta, distanti l'una dall'altra cento settanta, ed unite insieme
con archi e volte. L'architetto fu _Apollodoro Damasceno_:[752] e di
qua e di là da esso ponte furono fabbricati due forti castelli per
guardia del medesimo. Eppure questa mirabil fabbrica da lì a pochi
anni si vide in parte smantellata, non già dai barbari, ma da
_Adriano_ successor di Trajano, col pretesto, che per quel medesimo
ponte i Barbari potrebbono passare ai danni de' Romani. Ma da quando
in qua non potea la potenza romana difendere un ponte, difeso da due
castelli? Oltre di che, nel verno tutto il Danubio agghiacciato non
era forse un vasto ponte ai Barbari per passar di qua, se volevano?
Però fu creduto, e con più ragione, che Adriano, mosso da invidia per
non poter giugnere alla gloria di Trajano, così gloriosa memoria di
lui volesse piuttosto distrutta. Vi restarono in piedi solamente le
pile; e queste ancora a' tempi di Procopio non comparivano più. In
questo anno parimente, per quanto si raccoglie dalle medaglie[753], e
da Dione[754], l'Arabia Petrea, che avea in addietro avuti i propri
re, fu sottomessa con altri popoli all'imperio romano per valore di
_Auto Cornelio Palma_ governatore della Soria, e stato già console
nell'anno 99. Una nuova Era perciò cominciarono ad usar le città di
Samosata, Bostri, Petra ed altre di quelle contrade.

NOTE:

[746] Thesaurus Novus Inscription., pag. 316, n. 3 et seq.

[747] Spartianus, in Hadriano.

[748] Dio, lib. 68.

[749] Dio, lib. 68.

[750] Cellarius Georg., Tom. I.

[751] Marsilius, in Danubii descriptione.

[752] Procopius, lib. 4, de Ædific.

[753] Mediobarbus, Numism. Imperat.

[754] Dio, lib. 68.




    Anno di CRISTO CVI. Indizione IV.

    EVARISTO papa 11.
    TRAJANO imperadore 9.

_Consoli_

LUCIO CEIONIO COMODO VERO e LUCIO TUZIO CEREALE.


Il primo di questi consoli, cioè _Comodo Vero_, fu padre _di Lucio
Vero_, che noi vedremo a suo tempo adottato da Adriano Augusto. Il
secondo console nella cronica di Alessandria è chiamato _Ceretano_ in
vece di _Cereale_, e fu creduto dal Tillemont[755] diverso da _Tuzio
Cereale_. Ma sufficiente ragione non v'ha, per aderire alla di lui
opinione, siccome neppure di tener con lui, che nell'anno precedente
avesse fine la seconda guerra dacica. Chiaramente scrive Dione[756],
che Trajano, dopo aver fatto il meraviglioso ponte sul Danubio
(impresa che senza fallo costò gran tempo e danari), passò di là da
quel fiume, e fece la guerra piuttosto con sicurezza, che con
celerità; non volendo arrischiar combattimenti, e procedendo a poco a
poco nel paese nemico. Plinio[757] con poche parole riconosce, che
immense fatiche durò l'esercito romano, guerreggiando in que' montuosi
paesi, e gli convenne accamparsi in montagne scoscese, condurre fiumi
per nuovi alvei, e far altre azioni, che pareano da non credersi, come
simili alle fole. Dione[758] aggiugne, aver Trajano in tal congiuntura
dati segni di singolar valore e di savia condotta, e che l'esempio suo
servì ai soldati per gareggiare insieme in esporsi a molti pericoli, e
per giugnere al sommo della bravura. Fra gli altri un cavaliere che,
ferito in una zuffa, fu portato alle tende per farsi curare, dacchè
intese disperata la di lui guarigione, mentr'era ancor caldo, rimontò
a cavallo, e tornato alla mischia, vendè ben caro ai nemici il poco
che gli restava di vita. Le apparenze sono, che nè pure in quest'anno
con tutti i suoi progressi Trajano terminasse la guerra suddetta, come
altri han creduto. Tutte le medaglie[759] riferite dall'Occone e dal
Mezzabarba, per indizio che nel presente anno Decebalo fosse vinto, e
ridotta la Dacia in provincia dell'imperio romano, nulla concludono,
perchè possono appartenere anche nell'anno 107 e 108. Però chi dei
moderni scrive, che Trajano non solamente tornò in quest'anno a Roma,
e dopo avere ordinata una strada per le paludi pontine, partì tosto
alla volta dell'Oriente, con trovarsi in Antiochia ne' primi giorni
dell'anno seguente, probabilmente anticipò di troppo le di lui
imprese. E noi abbiamo bensì dalla cronica alessandrina[760] sotto
quest'anno, che mossa guerra dai Persiani, dai Goti, e da altri popoli
al romano impero, Trajano marciò contra di loro e sospese l'esazion
de' tributi sino al suo ritorno; ma questo ha ciera di favola. Più che
mai abbisognava egli allora di danaro; e senza dubbio avvenne molto
più tardi la guerra co' Persiani, o sia co' Parti. Può ben verificarsi
quella guerra dacica, perchè sotto nome di Goti venivano in que' tempi
anche i Daci, come attestano Dione e Giordano. Rapporta il
Panvinio[761] a quest'anno l'iscrizione posta a _Lucio Valerio
Pudente_, il quale, benchè in età di soli tredici anni, nel sesto
lustro de' giuochi capitolini fatti in Roma, fu vincitore, e riportò
la corona sopra gli altri poeti latini.

NOTE:

[755] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[756] Dio, lib. 68.

[757] Plinius, lib. 8, Epistol. 4.

[758] Dio, lib. 68.

[759] Mediobarb., in Numism. imperator.

[760] Cronicum Paschale, seu Alexandrinum.

[761] Panvinius, Fast. Consular.




    Anno di CRISTO CVII. Indizione V.

    EVARISTO papa 12.
    TRAJANO imperadore 10.

_Consoli_

LUCIO LICINIO SURA per la terza volta, e CAIO SOSIO SENECIONE per la
quarta.


Ma questo _Sura_ da Sparziano[762] vien detto _Consul bis_ nell'anno
presente insieme con _Serviano_. All'incontro il Panvinio[763] con
altri fu di parere, che i due suddetti ordinari consoli nelle calende
di luglio avessero per successori _Cajo Giulio Servilio Orso
Serviano_, che avea sposata _Paolina_ sorella di _Adriano_, e cugina
di _Trajano_, e fu molto amico di Plinio, e _Surano_ per la seconda
volta. Certo non mancano imbrogli ne' fasti consolari; ed è ben facile
il prendere degli abbagli nell'assegnare ai consoli sostituiti il
preciso anno del loro consolato. Nel presente si può ragionevolmente
credere che Trajano, con felicità bensì, ma dopo immense fatiche,
conducesse a fine la seconda guerra contro de' Daci. Per attestato di
Dione[764] s'impadronì egli della reggia di Decebalo, o sia della
capitale della Dacia, chiamata Sarmigetusa: il che reca indizio,
ch'egli non ne fosse restato in possesso nella pace stabilita dopo la
prima guerra. Pertanto Decebalo, veggendosi spogliato di tutto il suo
paese, ed in pericolo ancora di restar preso, piuttosto che venire in
man dei nemici, si diede la morte da sè stesso, e il capo suo fu
portato a Roma. Così pervenne tutta la Dacia in potere del popolo
romano, e Trajano ne formò una provincia, con fondare in Sarmigetusa
una colonia, nominata nelle iscrizioni della Transilvania, che il
Grutero ed io[765] abbiam dato alla luce. In oltre abbiam da Dione che
Decebalo, trovandosi in mal punto, affinchè i suoi tesori non
cadessero in mano de' Romani, distornò il corso del fiume Sargezia,
che passava vicino al suo palazzo, e fatta cavare una gran fossa in
mezzo al seccato lido di quel fiume, vi seppellì una gran copia d'oro,
d'argento e d'altre cose preziose, che si poteano conservare. Quindi
ricoperto il sito con terra e con grossi sassi, tornò a far correre
l'acqua pel solito alveo. I prigioni da lui adoperati per quella
fattura, acciocchè non rivelassero il segreto, furono tosto uccisi. Ma
essendo poi stato preso dai Romani Bicilis, uno de' familiari più
confidenti di Decebalo, questi scoprì tutto a Trajano, il quale ne
seppe ben profittare. Rimasto spolpato quel paese, ebbe cura Trajano
di mandarvi ad abitare un numero infinito di persone, e di fondarvi,
oltre alla suddetta, altre colonie, che si veggono menzionate da
Ulpiano[766]: con che divenne la Transilvania una fioritissima
provincia de' Romani, essendosi perciò in quelle parti trovate negli
ultimi due secoli molte iscrizioni romane, che si leggono presso il
suddetto Grutero, presso il Reinesio, e nel mio nuovo Tesoro.

NOTE:

[762] Spartianus, in Vita Hadriani.

[763] Panvinius, Fast. Consular.

[764] Dio, lib. 68.

[765] Gruterus, Thesaur. Inscription.

[766] Lege Sciendum ff. de Censibus.




    Anno di CRISTO CVIII. Indizione VI.

    ALESSANDRO papa 1.
    TRAJANO imperadore 11.

_Consoli_

APPIO ANNIO TREBONIO GALLO e MARCO ATILIO METILIO BRADUA.


V'ha chi dà il cognome di _Treboniano_ al primo di questi consoli; ma
in due iscrizioni, riferite dal Panvinio[767], si legge _Trebonio_. Se
crediamo al medesimo Panvinio, nelle calende di marzo succederono nel
consolato _Cajo Giulio Africano_ e _Clodio Crispino_. Ma
un'iscrizione, conservata in Verona, e riferita dal marchese Scipione
Maffei, e poscia anche da me[768], ci fa sufficientemente conoscere,
che nel dì 23 di agosto dell'anno presente erano consoli _Appio Annio
Gallo_ e _Lucio Verulano Severo_, o pur _Severiano_. O sul fine del
precedente anno, o nella primavera del presente, sbrigato dagli affari
della Dacia, se ne ritornò Trajano a Roma, ed ivi celebrò il secondo
suo trionfo dei Daci con magnifiche feste, e massimamente perchè
correvano i decennali del suo imperio, che solevano solennizzarsi con
gran pompa[769]. Attesta Dione che, arrivato Trajano a Roma, vennero
molte ambascerie di nazioni barbare, e fino dall'India a visitarlo,
chi per bisogni, chi per ossequio. Quattro mesi durarono in Roma i
pubblici spettacoli e divertimenti, consistenti per lo più in
combattimenti di lioni e di altre feroci bestie, oppur di gladiatori.
Giorni vi furono, nei quali si videro uccisi mille di questi fieri
animali, e in più altri arrivò la somma a diecimila. Si fece conto che
anche dieci migliaja di gladiatori diedero orrida mostra della lor
arte, combattendo fra loro negli anfiteatri. In questi tempi ancora
attese Trajano a formare e selciare una strada pubblica per le paludi
pontine, con fabbricar anche case e ponti di gran magnificenza lungo
di essa via, per comodo de' viandanti e del commercio. E perchè si
trovava molta moneta o di bassa lega, o strozzata, o falsa; ordinò il
saggio imperadore, che tutta fosse portata alla zecca, dove fu
disfatta per rifarne della buona e di giusto peso. A quest'anno si
crede che appartenga il terzo congiario o regalo, che Trajano diede al
popolo romano, espresso da una medaglia, riferita dal Mezzabarba[770].
Mette il Tillemont[771] con altri scrittori in questi tempi la
spedizion di Trajano contro de' Parti, o sia de' Persiani; ma
certamente è da anteporre la sentenza d'altri, che molto più tardi
parlano di quelle imprese. Succedette, secondo la cronica di
Damasco[772], nel presente anno il glorioso martirio di _santo
Evaristo papa_, in cui luogo fu posto _Alessandro_.

NOTE:

[767] Panvinius, Fast. Consul.

[768] Thesaur. Novus Veter. Inscription., p. 317, num. 4.

[769] Dio, lib. 68.

[770] Mediobarb., in Numism. Imperat.

[771] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[772] Anastas., Bibliothec.




    Anno di CRISTO CIX. Indizione VII.

    ALESSANDRO papa 2.
    TRAJANO imperadore 12.

_Consoli_

AULO CORNELIO PALMA per la seconda volta, e CAJO CALVISIO TULLO per la
seconda.


Si tien per certo, che a questi consoli ordinari fossero sostituiti
(forse nelle calende di luglio) _Publio Elio Adriano_, che poi divenne
imperadore, e _Lucio Publilio_, o piuttosto _Publicio Celso_. Era
stato _Adriano_ pretore in Roma nell'anno 107, per testimonianza di
Sparziano[773], e Trajano gli avea donato due milioni di sesterzi, che
si credono far la somma di cinquantamila scudi d'argento, acciocchè
potesse celebrare i giuochi soliti a darsi da chi entrava in quel
riguardevole uffizio. Pretende il Salmasio[774], che Sparziano
scrivesse il doppio. Fu nel precedente anno inviato con titolo di
legato pretorio, o sia di vicepretore esso Adriano nella bassa
Pannonia: mise in dovere i Sarmati, che aveano fatto qualche novità
ne' confini dell'imperio romano; restituì la disciplina fra le milizie
di quelle parti; e fece altre azioni, per le quali si meritò il
consolato nell'anno presente. Non avea figliuoli Trajano, e Adriano
suo cugino non ometteva diligenza ed arte alcuna per giungere a
succedergli nell'imperio, aiutandosi spezialmente con far la corte
alla imperadrice Plotina, e col tenersi amico _Lucio Licinio Sura_,
uno de' favoriti di Trajano. Fu appunto in quest'anno, che Sura gli
diede la buona nuova, qualmente Trajano pensava di adottarlo; e perchè
i cortigiani ed amici di esso imperadore scoprirono qualche barlume di
questa sua intenzione, laddove prima mostravano di poco stimare, anzi
di sprezzare Adriano, da lì innanzi cominciarono ad onorarlo, e a
procacciarsi la di lui amicizia. Mancò poi di vita, forse circa questi
tempi, il medesimo _Sura_. Trajano, che si serviva di lui per farsi
dettar le allocuzioni al senato e al popolo, perchè egli sapea poco di
lettere, non ignorando che Adriano, siccome persona letterata, era
capace di servirlo in quella funzione, il volle presso di sè, e si
valeva della di lui penna; il che gli accrebbe la familiarità e l'amor
di Trajano. Al defunto Sura fece fare Trajano un solenne funerale, ed
alzare una statua per gratitudine[775]. Lo stesso fece egli dipoi alla
memoria di _Sosio Senecione_ e di _Palma_ e di _Celso_, che abbiam
detto essere stati consoli nell'anno presente, come ad amici suoi
cari. Noi sappiamo che _Cajo Plinio Cecilio Secondo_, rinomatissimo
autore del panegirico di Trajano, dopo essere stato console nell'anno
100, fu poi mandato con titolo di vicepretore al governo della Bitinia
e del Ponto. Le sue lettere scritte di là a Trajano si leggono nel
libro decimo. Ma per quanto finora abbiano disputato fra loro gli
eruditi, non s'è potuto, nè si può decidere in qual anno egli fosse
spedito colà. Il Loidio e il Tillemont[776] attribuirono la di lui
andata al fine dell'anno 103; il cardinal Noris[777] al presente 109,
o pure al susseguente, come ancor fece[778] il padre Pagi.
Eusebio[779] mette all'anno decimo di Trajano, cioè al 107 dell'Era
nostra, la lettera celebre scrittagli da Plinio, esistente allora
nella Bitinia. Idacio[780] ne parla all'anno 112. In tale incertezza
di tempi sia lecito ai lettori l'attenersi a quella opinione che più
loro aggradirà, e a me di seguitar più tosto il Noris, il Pagi e il
Bianchini. A questi tempi, ma colla medesima incertezza, vien riferita
dal Mezzabarba[781] e dal suddetto Bianchini[782] la selciatura della
via Trajana, fatta per ordine di esso Trajano. Altro essa non fu, che
la via descritta da Dione, di cui si parlò al precedente anno, cioè la
via Appia, che da Roma va a Capua: la più magnifica di quante mai
facessero i Romani, ed opera di molti secoli avanti. Perchè la
rimodernò ed arricchì Trajano di vari ponti e di fabbriche a canto
alla medesima, perciò egli, o il pubblico le diede il nome di via
Trajana. Credesi parimente che in questo anno Trajano dedicasse il
Circo, cioè il Massimo, ristorato da lui co' marmi presi dalla
Naumachia[783] di Domiziano.

NOTE:

[773] Spartian., in Vita Hadriani.

[774] Salmas., in Notis ad Spartian.

[775] Dio, lib. 68.

[776] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[777] Noris, Epist. Consulari.

[778] Pagius, in Critic. Baron.

[779] Eusebius, in Chron.

[780] Idacius, in Fastis.

[781] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[782] Blanchinius ad Anastasium.

[783] Suetonius, in Domitiano, cap. 15.




    Anno di CRISTO CX. Indizione VIII.

    ALESSANDRO papa 3.
    TRAJANO imperadore 13.

_Consoli_

SERVIO SALVIDIENO ORFITO e MARCO PEDUCEO PRISCINIO.


Le iscrizioni pubblicate dal Fabretti, dal Bianchini e da me, ci
assicurano tali essere stati i nomi e cognomi di questi consoli, che
si trovavano ignorati o guasti presso i precedenti illustratori dei
Fasti. Non si sa intendere, perchè il Mezzabarba[784] e monsignor
Bianchini pretendano, che solamente in quest'anno il senato accordasse
a Trajano il glorioso titolo di _Ottimo_, quando questo titolo
comparisce in tante altre medaglie, che si rapportano agli anni
precedenti. Plinio anch'egli ne parla nel panegirico che dicemmo
composto nell'anno 100. Dione[785], per lo contrario, scrive che
solamente dopo le conquista dell'Armenia egli fu cognominato _Ottimo_.
Vogliono i suddetti scrittori, che Trajano l'accettasse solamente in
quest'anno. Ma non era tale la di lui umiltà, da far sì lunga
resistenza a quest'elogio, per altro ben meritato da lui. Augusto non
voleva esser chiamato _Signore_. Trajano all'incontro assai gradiva
che gli si desse questo nome. Abbiamo da Eusebio[786], che il famoso
tempio del Panteon di Roma, oggidì la Rotonda, fu bruciato da un
fulmine. Chi sa che in quella nobilissima fabbrica non entrava legno,
crederà bensì che un folgore cadesse colà, ma che lo incendiasse, non
saprà intenderlo. Sotto Nerone e sotto Domiziano, principi nemici
della virtù, maraviglia non è, se fu perseguitata la santa religione
di Cristo. Potrebbe ben taluno stupirsi, come essa trovasse un
persecutore in Trajano[787], principe amator delle virtù, delle quali
vera maestra è la sola religione de' Cristiani. Pure fuor di dubbio è,
che sotto di lui la Chiesa di Dio patì la terza persecuzione, non già,
come osservò il cardinal Baronio, ch'egli pubblicasse editto alcuno
particolare contro di essi Cristiani, ma perchè riferito a lui, come
si andava a gran passi dilatando la lor credenza con pregiudizio del
dominante culto degl'idoli, con gravi lamenti de' falsi sacerdoti del
Paganesimo, e con delle sollevazioni de' popoli contra chi professava
la fede di Cristo; Trajano ordinò, o permise che fossero osservate
rigorosamente le antiche leggi contra gl'introduttori di nuove
religioni. Però i governatori delle provincie, massimamente
dell'Oriente, cominciarono ad infierire, probabilmente circa questi
tempi, contra chiunque si scopriva seguace dei dogmi cristiani; laonde
si videro molti forti campioni attestar col loro sangue la verità di
questa religione. Ne han trattato ampiamente il cardinal Baronio[788],
il Tillemont[789], i Bollandisti[790] ed altri. Forse a questi tempi
appartiene la scoperta della congiura tramata da _Crasso_ contra del
buon imperador Trajano, che vien solo accennata da Dione[791], senza
dirne circostanza alcuna. Altro di più non abbiamo, se non che Trajano
ne lasciò la cognizione al senato, da cui gli fu dato il meritato
gastigo, senza apparire se pagasse il delitto col capo o coll'esilio.
Racconta Sparziano[792], che Adriano, successor di Trajano, ne' primi
giorni del suo imperio fu consigliato da Taziano di levar la vita a
_Laberio Massimo_ e a _Crasso Frugi_, relegati nelle isole per
sospetti di aver aspirato all'imperio; ma ch'egli, affettando sul
principio il buon concetto di essere principe clemente, niun male avea
lor fatto. Tuttavia, perchè Crasso dipoi senza licenza era uscito fuor
dell'isola, il procuratore di Adriano, senza aspettarne alcun ordine
dall'imperadore, l'avea ucciso, quasichè egli macchinasse delle
novità. Questi forse è il medesimo Crasso, di cui parla Dione.

NOTE:

[784] Mediobarbus, in Numism. Imper.

[785] Dio, lib. 68.

[786] Euseb., in Chron.

[787] Euseb., Histor., lib. 3, cap. 31.

[788] Baron., in Annal.

[789] Tillemont, Mém. de l'Église.

[790] Acta Sanctorum.

[791] Dio, lib. 68.

[792] Spartianus, in Hadriano.




    Anno di CRISTO CXI. Indizione IX.

    ALESSANDRO papa 4.
    TRAJANO imperadore 14.

_Consoli_

CAJO CALPURNIO PISONE e MARCO VETTIO BOLANO.


Un'iscrizione pubblicata dal Panvinio[793] ci fa vedere console nelle
calende di marzo, se pure è vero, correndo la tribunizia podestà XIV
di Trajano, cioè nell'anno presente, _Cajo Orso Serviano_ per la
seconda volta e _Lucio Fabio Giusto_. Quando sia vero che Plinio in
questi tempi governasse il Ponto e la Bitinia, probabil cosa sarebbe
che a quest'anno appartenesse la celebre lettera[794] da lui scritta a
Trajano intorno ai Cristiani. Era cresciuta a dismisura in quelle
parti, non meno che nell'altre dell'Oriente, la religione di Cristo; e
si scorge che Plinio avea ricevuto ordine da Trajano di processare e
punire i di lei seguaci. Plinio ne fece diligente ricerca; ma
ritrovato, più di quel che credea, esorbitante il numero de' Cristiani
di ogni sesso ed età; e, quel che più importa, dopo maturo esame
scoperto, ad altro non tendere questa religione, che a professar la
pratica delle virtù, e l'abborrimento ai vizi, volle prima informarne
Trajano, per sapere come s'avea da condurre in circostanze tali.
Abbiamo anche la risposta dell'imperadore, che gli comanda di non fare
ricerca de' Cristiani; ma se saranno denunziati, e trovati costanti
nella lor fede, sieno puniti, con perdonare a chi proverà di non esser
tale, sagrificando agli dii, e col non badare alle denunzie orbe, cioè
date contra di loro, senza il nome dell'accusatore. Tertulliano[795],
ben informato di queste lettere, fa conoscere l'ingiustizia di Trajano
in non volere che sieno ricercati come innocenti, e in volerli puniti,
se accusati. Però continuò la persecuzione come prima: e quantunque
non mancassero degli apostati, pure senza paragone maggior fu il
numero degli altri, che amarono piuttosto di sofferir coraggiosamente
la morte, che di sagrificare ai falsi dii del Gentilesimo. Crede il
padre Pagi[796], che sia piuttosto da riferire al seguente anno la
lettera di Plinio. Il vero è, che non si può accertar questo tempo.

NOTE:

[793] Panvin., Fast. Consular.

[794] Plinius, lib. 10, epist. 97 et 98.

[795] Tertullianus, in Apologetico, cap. 2.

[796] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CXII. Indizione X.

    ALESSANDRO papa 5.
    TRAJANO imperadore 13.

_Consoli_

MARCO ULPIO NERVA TRAJANO AUGUSTO per la sesta volta e TITO SESTIO
AFRICANO.


Possiam credere che a quest'anno appartengano due opere di Trajano,
fatte prima d'imprendere la spedizione verso l'Armenia, delle quali fa
menzione lo storico Dione[797]. Cioè l'erezione in Roma di alcune
biblioteche, e la fabbrica della piazza, che fu poi appellata di
Trajano, nel sito, dove anche oggidì si mira la sua colonna. Un tesoro
impiegò Trajano in formar questa piazza, perchè gli convenne spianare
una parte del Monte Quirinale, e servendosi di _Apollodoro_ insigne
architetto, ornò in varie maniere tutta la circonferenza di bei
portici, e l'atrio di alte e grossissime colonne con capitelli e
corone, e con istatue e ornamenti di bronzo indorato, rappresentanti
uomini a cavallo e arnesi militari. Nel mezzo dell'atrio si vedea la
statua equestre d'esso Trajano. Era sì vaga e sì magnifica tal fattura
per altre giunte fattevi da Alessandro Severo imperadore, che restava
incantato chiunque la mirava. Ammiano Marcellino[798] scrive, che
venuto a Roma Costanzo Augusto, allorchè giunse alla piazza di
Trajano, fattura che non ha pari tutto il mondo, e che mirabil sembra
fino agli stessi dii (così uno storico pagano), rimase attonito
all'osservar quelle gigantesche figure e tanti begli ornamenti. E
Cassiodoro[799] anch'egli scriveva, che a' suoi tempi, per quanto si
andasse e riandasse alla piazza di Trajano, sempre essa compariva un
miracolo. In somma non vi fu opera fatta da Trajano, che non desse a
conoscere che il suo bel genio era impareggiabile, e il suo buon gusto
mirabile in tutto. Credesi che in quest'anno e nel seguente fosse
compiuta e dedicata quella piazza. Il Tillemont[800], fidatosi di
Giovanni Malala, scrittore abbondante di favole e di sbagli, mise
all'anno 106 e al seguente, la spedizion di Trajano verso l'Armenia.
Le ragioni recate dal Cardinal Noris, dal Pagi e da altri, e lo stesso
racconto che fa Dione di quella guerra, persuadono abbastanza, che
solamente in questo anno Trajano si mosse verso quelle parti[801].
V'ha in oltre qualche medaglia[802] indicante i voti fatti pel suo
buon ritorno. Ardeva di voglia Trajano di far qualche altra militare
impresa, per cui sempre più crescesse la gloria sua. Gli se ne
presentò un'occasione, perchè egli non era di que' principi che
trovano, sempre che vogliono, nei lor gabinetti delle ragioni di far
guerra ai loro vicini. Erano soliti i re dell'Armenia (l'abbiam già
veduto) di prendere il diadema reale dai Romani imperadori, dalla
sovranità de' quali si riconosceano in qualche maniera dipendenti.
_Esedare_, nuovo re di quella contrada, l'avea preso da _Cosroe re de'
Parti_, dominator della Persia. Trajano fece intendere le sue
doglianze a Cosroe, il quale come se fossero burle, o per sua
superbia, niuna adeguata risposta diede. Trajano allora determinò di
farsi fare giustizia con un mezzo più concludente, cioè coll'armi. Si
mise dunque in viaggio nell'anno presente con un possente esercito
verso il Levante. Il solo suo muoversi fece calar tosto l'alterigia di
Cosroe, e spedire ambasciatori a Trajano con dei regali, per esortarlo
a desistere da una guerra di tale importanza, giacchè egli diceva
d'aver deposto Esedare, e il pregava di voler concedere l'Armenia a
Partamasire, che forse era fratello del medesimo Cosroe. Trovarono
questi ambasciatori Trajano già arrivato ad Atene, ma non già in lui
quella facilità, di cui si lusingavano. Rifiutò egli i lor presenti, e
disse conoscersi l'amicizia dalle azioni, non dalle parole, ed esser
egli incamminato verso la Soria, dove avrebbe prese quelle misure che
più converrebbono. Continuato poscia il viaggio per terra, secondo
Giovanni Malala, nel dì 7 del seguente gennaio, oppure nell'ottobre
dell'anno presente, entrò in Antiochia, capitale della Soria, con
corona d'ulivo in capo.

NOTE:

[797] Dio, lib. 68.

[798] Ammianus Marcellinus, lib. 16, c. 10.

[799] Cassiodorus Var., lib. 7, c. 6.

[800] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[801] Dio, lib. 68.

[802] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.




    Anno di CRISTO CXIII. Indizione XI.

    ALESSANDRO papa 6.
    TRAJANO imperadore 16.

_Consoli_

LUCIO PUBLICIO GELSO per la seconda volta e LUCIO CLODIO PRISCINO.


Vogliono alcuni, che nell'occasione che Trajano Augusto si trovò in
Antiochia, o sul fine del precedente anno, o sul principio del
presente, gli fosse condotto d'avanti _santo Ignazio_ vescovo di
quella città[803], accusato d'essere cristiano, e pastore de'
Cristiani. Confessò il santo vecchio intrepidamente il nome di Gesù
Cristo: e però d'ordine di Trajano fu mandato a Roma, per essere
esposto alle fiere nell'anfiteatro. Gli atti del suo gloriosissimo
martirio, compiuto secondo i Greci nel dì 20 di dicembre, e le sue
lettere, spiranti un mirabile amor di Dio e una tenerissima divozione,
restano tuttavia per edificazion della Chiesa. Altri mettono più
presto il suo martirio; ma a noi basti di sapere la certezza del
fatto, se non possiamo quella del tempo. L'iscrizione[804] che si
legge nella base della nobilissima Colonna Trajana, tuttavia esistente
in Roma, ci vien dicendo, che nell'anno presente seguì la dedicazione
di questa maravigliosa fattura a nome del senato in onor di Trajano,
che non ebbe poi il contento di vederla prima di morire. Nella gran
copia delle figure illustrate dalla penna del Fabretti, rappresentata
si vede la guerra di Trajano contra ai Daci. Proseguendo intanto
Trajano il suo viaggio, arrivò con un poderosissimo esercito ai
confini dell'Armenia. Allora i re e principi di quelle contrade[805]
si portarono a gara a visitarlo con ricchissimi presenti, fra' quali
si vide un cavallo così ben ammaestrato, che s'inginocchiava e chinava
il capo a' piedi di chi si voleva. _Abgaro re_, o principe di Edessa
nella Osroena, parte della provincia della Mesopotamia, gl'inviò
regali e proteste di amicizia, ma senza venire in persona, perchè non
volea perdere la buona grazia di _Cosroe re de' Parti_. Tuttavia in
sua vece gli mandò[806] Arbando suo figliuolo, giovane di bellissimo
aspetto, che s'insinuò così bene nel cuor di Trajano, che quando poi
questo imperadore passò per Edessa, Abgaro andatogli incontro,
agevolmente, per intercession del figliuolo, ottenne il perdono.
_Partamasire_ s'era già messo in possesso dell'Armenia con favore de'
Parti, ed avea preso il titolo di re. Con questo titolo scrisse egli
lettera di sommessione a Trajano; ma, non vedendo venire risposta, ne
tornò a scrivere un'altra, senza più intitolarsi re; supplicandolo di
voler inviare a lui _Marco Giunio_, governatore della Cappadocia, per
trattar seco d'accordo. Trajano gl'inviò il figliuolo di Giunio, e
intanto continuò il suo viaggio, con impossessarsi del paese, dovunque
passava, senza trovarvi resistenza alcuna. Arrivato a Satala, città
dell'Armenia minore, venne ad inchinarlo _Anchialo re_ degli Eniochi,
popoli della Circassia verso il mar Nero. Trajano il ricevè con grande
onore, e il rimandò carico di regali. Allora fu, che anche
_Partamasire_, considerando il brutto aspetto de' suoi affari,
probabilmente consigliato dal figliuolo di Giunio a rimettersi nella
clemenza cesarea, ottenuto il salvocondotto, venne a presentarsi a
Trajano. Nol volle egli ricevere, se non assiso sul trono in mezzo al
campo. Se gli accostò Partamasire, e depose a' suoi piedi il diadema
senza proferir parola: il che veduto dall'immensa corona dei soldati
di Trajano, si alzò un sì allegro strepitoso grido di _Viva_, che quel
principe atterrito fu in procinto di fuggirsene, se non si fosse
veduto attorniato da sì gran copia d'armati. Chiesta poi una
particolare udienza da Trajano, l'ottenne egli bensì, ma non già il
diadema, siccome egli dimandava e sperava coll'esempio di Tiridate a'
tempi di Nerone. Era ben diverso dal codardo Nerone il coraggioso
Trajano. Ne uscì in collera Partamasire; ma risalito sul trono
Trajano, il fece richiamare, acciocchè pubblicamente si riconoscesse
il ragionamento seguito fra loro in disparte. Lamentossi Partamasire
d'essere trattato come un prigioniero, quando egli era volontariamente
venuto, e fece nuova istanza, per impetrare il diadema dalle mani di
Cesare, a cui giurerebbe omaggio. Trajano gli rispose, che essendo
l'Armenia pertinenza del romano imperio, non voleva concederla a
chicchessia, ma bensì mettervi un governatore; e licenziatolo, il fece
tosto partire, scortato da un corpo di cavalleria, acciocchè non
potesse manipolar nel ritorno qualche intrico colla gente del paese.
Si venne dunque alla guerra, di cui altro non sappiamo, se non che
Partamasire, dopo essersi sostenuto, finchè potè, coll'armi alla mano,
finalmente fu ucciso, e tutta l'Armenia restò in potere dell'Augusto
Trajano, il quale ne fece una provincia del romano imperio.

NOTE:

[803] Acta Sanctorum apud Bolland. et apud Ruinartum.

[804] Gruterus, pag. 190, num. 4.

[805] Dio, lib. 68.

[806] Idem, in Excerptis Valesian.




    Anno di CRISTO CXIV. Indizione XII.

    ALESSANDRO papa 7.
    TRAJANO imperadore 17.

_Consoli_

QUINTO NINNIO HASTA e PUBLIO MANILIO VOPISCO.


Gran disavventura è stata che uno de' più gloriosi imperadori che
s'abbia avuto Roma, quale ognuno confessa Trajano, con un regno
fecondo di tante belle imprese, e di sì grandi uomini, qual fu il suo,
non sia passato a noi con esatta e convenevole storia della vita e
delle azioni di lui. Non mancò già agli antichi secoli una tale
storia, anzi più d'una ve ne fu, attestando Lampridio[807], avere
_Mario Massimo_, _Fabio Marcellino_, _Aurelio Vero_ e _Stazio Valente_
scritta la di lui vita, ed asserendo Plinio[808] il giovane, che
_Caninio_ era dietro a descrivere la guerra dacica. Pure tutti questi
scritti son rimasti preda del tempo, e son periti i libri di _Arriano_
che avea descritte le guerre dei Parti; sicchè altro a noi non resta
che il compendio di Dione, fatto da Giovanni Sifilino, da cui si
possano ricavar le imprese di Trajano, ma appena abbozzate, e senza
poterne noi trarre i tempi distinti, in cui furono fatte. Perciò
solamente a tentone andiamo riferendo a questo e a quell'anno le di
lui imprese, senza poterne fondatamente assegnare il tempo preciso.
Sia dunque ch'egli nel precedente anno compiesse la conquista di tutta
l'Armenia, o che ciò avvenisse in parte ancora del presente, certo è,
per testimonianza di Dione[809], che sparsasi maggiormente la fama del
di lui valore, e de' suoi acquisti per l'Oriente, i re e i principi
circonvicini vennero ad assoggettarsi all'aquile romane, oppure a
chiedere amicizia e pace. Diede egli un re ai popoli Albani[810]; e i
re dell'Iberia, de' Sauromati, del Bosforo e della Colchide gli
prestarono giuramento di fedeltà. Avea notato Plinio[811], che
Trajano, se volea ricrearsi talvolta dalle applicazioni e fatiche del
governo, non passava già a divertimenti puerili di giuoco, meno poi ad
altri di maggior vergogna, perchè illeciti e scandalosi, ma a
passatempi faticosi, per tenere in esercizio il corpo, e giovare alla
sanità. Il cavalcare, la caccia erano i suoi trastulli; e se si
trovava vicino al mare o ai fiumi, solea talvolta far da piloto in una
nave, e mettersi a remigare, facendo a gara co' suoi cortigiani a chi
meglio sapea esercitar quel duro mestiere in romper l'onde e passare
gli stretti. Non operò di meno questo saggio imperadore in Levante,
insegnando coll'esempio suo ai soldati l'amore e la tolleranza delle
fatiche[812]. Marciava anch'egli a piedi, e al pari d'essi passava a
piedi i guadi dei fiumi. Ordinava egli in persona i soldati nelle
marcie, e camminava innanzi, come un semplice uffiziale. Teneva molte
spie, per saper nuove de' nemici, e talora ne spargeva egli delle
false, per avvezzar la milizia ad ubbidir con prontezza, a star
vigilante e preparata sempre con coraggio a tutti i pericoli ed
avvenimenti. Son di parere il Mezzabarba e monsignor Bianchini, che
Trajano conquistasse in quest'anno l'Assiria, perchè in una sua
medaglia si legge ASSYRIA IN POTESTATEM POPVLI ROMANI REDACTA. Ma
quella medaglia si può riferire ai due seguenti anni, non avendo
caratteristica particolare dell'anno presente; e da Dione, secondo me,
si ricava che più tardi succedette l'acquisto dell'Assiria, o sia
della parte della Soria che allora era posseduta dai Parti.

NOTE:

[807] Lampridius, in Vita Alexandri Severi.

[808] Plin., lib. 8, ep. 4.

[809] Dio, lib. 68.

[810] Eutrop., in Breviar.

[811] Plinius, in Panegyrico, c. 81.

[812] Dio, lib. 68.




    Anno di CRISTO CXV. Indizione XIII.

    ALESSANDRO papa 8.
    TRAJANO imperadore 18.

_Consoli_

LUCIO VIPSTANIO MESSALA e MARCO VERGILIANO PEDONE.


Che _Vipstanio_ e non _Vipstano_ fosse il nome del primo di questi
consoli, apparisce da un'iscrizione da me[813] prodotta, e da due
altre del Grutero[814]. Se crediamo al Tillemont, l'anno fu questo
delle grandi imprese di Trajano in Levante, perchè egli entrò nel
paese de' Parti, e fece quelle grandi conquiste ch'io accennerò
all'anno seguente. Se non c'inganna Dione[815], altro non sappiamo
dell'operato da lui in questo, se non ch'egli s'impadronì delle città
di Nisibi, capitale della Mesopotamia, e di Singara, e di Barne, città
o luogo amenissimo di que' contorni: il che indica abbastanza, che
alle sue mani venne l'intera ricca provincia della Mesopotamia, avendo
noi anche osservato di sopra, ch'egli passò per Edessa, città
parimente di quel tratto dove signoreggiava il re o sia principe
Abgaro. Parla dipoi Dione, e parlerò ancor io, fra poco, del tremuoto
orrendo d'Antiochia, accaduto sul fine del presente anno. Dopo di che
descrive i gloriosi progressi di Trajano contra de Parti, i quali
perciò debbono appartenere all'anno seguente, e non già al presente.
Anche[816] il Mezzabarba mette in quest'anno la dedicazione fatta in
Roma della basilica Ulpia, o sia di Trajano, che può anche riferirsi
all'anno 112, e ai quattro susseguenti. Certo è che questa basilica
era contigua alla piazza di Trajano, superbo edificio che accresceva
la bellezza di quella piazza, sapendo noi, che le basiliche de' Romani
furono sontuosissime fabbriche, simili a molte grandi chiese de'
Cristiani, con trofei, statue ed altri ornamenti in cima, e con
portici magnifici all'intorno, destinate per i giudici che andavano a
tener ragione, concorrendovi anche i negozianti a trattar de' loro
affari. Tornando ora a Trajano, mentr'egli attendeva all'acquisto
della Mesopotamia, _Manete_, capo d'una nazion degli Arabi, _Sporace_
principe dell'Antemisia, cioè di una parte d'essa Mesopotamia, e
_Manisare_, anch'egli signore in quelle contrade, faceano vista di
volersi a lui sottomettere, ma con trovar pretesti ogni dì per
dichiararsi, e per venire a trovarlo[817]. Non si fidava Trajano di
costoro, e molto meno se ne fidò, dappoichè _Mebaraspe_, re
dell'Adiabene, avendo ottenuto da lui un corpo di soldatesche per
difendersi contro di Cosroe, avea da traditore parte trucidati, parte
ritenuti prigioni que' soldati. Fra gli ultimi fu un centurione
chiamato Sentio, il quale con altri imprigionato in un forte castello,
allorchè l'esercito di Trajano, irritato contra del traditore, arrivò
nell'anno seguente in vicinanza di quel luogo, ruppe le catene, uccise
il castellano, ed aprì le porte agli altri Romani. Scrive
Eutropio[818], che Trajano s'impossessò del l'Antemisia. Dovette
essere in quest'anno, perchè quella era una delle provincie della
Mesopotamia. Secondo che abbiam da Dione, per queste vittorie fu dato
a Trajano il titolo di _Partico_; ma egli più si compiaceva dell'altro
di _Ottimo_, perchè esprimente la soavità de' suoi costumi, e il
possesso in cui egli era di tutte le virtù.

Finita la campagna coll'acquisto della Mesopotamia, venne Trajano[819]
a svernare con parte dell'armata ad Antiochia. Ma mentre ivi
soggiornava, avvenne in quella città uno de' più orribili e funesti
tremuoti che mai si leggano nelle storie. L'ordinario popolo di quella
vasta città ascendeva ad un numero esorbitante: ma lo avea accresciuto
a dismisura la venuta colà della corte imperiale, e di gran copia di
soldatesche. V'era inoltre concorsa un'immensa moltitudine di persone
di quasi tutto l'imperio romano, chi per negozi, chi per bisogno del
principe, chi per veder quelle feste. In tale stato si trovava quella
nobilissima metropoli dell'Oriente; quando nel dì 25 di decembre, come
pretende il padre Pagi[820], venne un sì impetuoso tremuoto, preceduto
da fulmini e da venti gagliardissimi, che rovinò buona parte delle
fabbriche della città, con restare oppressa sotto le rovine gran
moltitudine di persone, ed innumerabili altri con ferite e membra
rotte. Si vide il vicino monte Corasio scuotere sì forte la cima, che
parea dover precipitare addosso alla città; uscirono da più luoghi
nuove fontane, e si seccarono le vecchie. Acquetato il gran flagello,
si cominciò a pescar nelle rovine, e moltissimi vi si scoprirono morti
di fame. Trovossi una sola donna che avea sostentato per più giorni sè
stessa e un suo pargoletto col proprio latte, ed amendue furono cavati
vivi: il che par cosa da non credere. Trajano che s'incontrò ad essere
in sì brutto frangente, per una finestra del palazzo, in cui abitava,
se ne fuggì; e scrivono che un personaggio d'inusitata e più che umana
statura lo ajutò a salvarsi. Tal fu nulladimeno la sua paura, che
quantunque fosse cessato lo scotimento della terra, pure per molti
giorni volle abitare a cielo scoperto nel Circo. In questa sciagura
perdè la vita _Pedone_ console, che terminato il suo consolato
ordinario ne' primi sei mesi potè molto ben venire pe' suoi affari ad
Antiochia; se pur non fu un altro Pedone, stato console in alcun degli
anni precedenti.

NOTE:

[813] Thesaurus Novus Inscription., pag. 319, num. 2.

[814] Gruterus, pag. 74 et 1070.

[815] Dio, lib. 68.

[816] Mediobarbus, in Numism. Imperat.

[817] Dio, lib. 68.

[818] Eutrop., in Breviar.

[819] Joannes Matala, in Chron. Dio, lib. 68.

[820] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CXVI. Indizione XIV.

    ALESSANDRO papa 9.
    TRAJANO imperadore 19.

_Consoli_

LUCIO ELIO LAMIA ed ELIANO VETERE.


Chiaramente scrive lo storico Dione[821] che dopo il tremuoto di
Antiochia (e però nell'anno presente, e non già nel precedente) venuta
la primavera, Trajano con tutto lo sforzo delle sue genti si mosse per
portar la guerra nel cuore del regno dei Parti. Conveniva passare il
rapido fiume Tigri, le cui sponde, dalla parte del Levante, erano ben
guernite di nemiche milizie. Avea egli fatto fabbricar nel verno una
prodigiosa quantità di barche con legni presi dai boschi di Nisibi; e
per introdurle nel suddetto fiume, pensò ad un arditissimo e
dispendioso ripiego, cioè di tirare un gran canale di acqua
dall'Eufrate nel Tigri, per cui si potessero condurre le navi. Nacque
sospetto, che essendo più alto l'Eufrate dell'altro fiume, potessero
le di lui acque accrescere di soverchio la rapidità del Tigri, e che
colà si volgesse tutto l'Eufrate, con perdersene anche la navigazione;
e però non si compiè l'impresa; o se pur si compiè, non se ne servì
Trajano. L'altro ripiego, a cui s'attenne, fu di condurre sopra carri
barche fatte, ma sciolte, per unirle poi insieme sulle ripe del Tigri,
e lanciarle quivi nel fiume. Così fu fatto. Di queste si formò un
ponte; e tanta era la copia delle altre navi cariche di armati, che
infestavano i Parti schierati sull'opposta ripa, e di altre che
minacciavano in più luoghi il passaggio dell'armata, che i Parti non
sapendo intendere, come in un paese privo affatto d'alberi, fossero
nate cotante navi, e perciò sgomentati, presero la fuga. Passò dunque
felicemente tutto l'esercito romano, e piombò sulle prime addosso al
traditor _Mebaraspe_ re dell'Adiabene, con sottomettere tutta quella
provincia. Quindi s'impadronì di Arbela e di Gaugamela (dove
Alessandro il Grande diede la sconfitta a Dario), e di Ninive e di
Susa. Di là passò a Babilonia, senza trovare in luogo alcuno
opposizione, perchè i Parti non erano d'accordo col re loro Cosroe, e
più di una sedizione e guerra civile in addietro avea snervata la
potenza di quella nazione. Volle Trajano osservare in quei contorni il
lago onde si cavò il bitume, con cui in vece di calce furono unite le
pietre delle mura di Babilonia. Sì fetente è l'aria di quel lago, che
l'alito suo fa morire gli animali e gli uccelli che vi si appressano.
Di là passò Trajano a Ctesifonte, capitale allora del regno de' Parti,
dove fu fatto un incredibil bottino, e presa una figliuola di Cosroe
col suo ricchissimo trono[822]. Cosroe se n'era fuggito: ne parleremo
a suo tempo. Stese dipoi il vittorioso Augusto le sue conquiste per
quelle parti, soggiogando Seleucia[823], e i popoli Marcomedi, e
un'isola del Tigri, dove regnava Atambilo, e giunse fino all'Oceano.
Svernò coll'armata in quelle parti, e vi corse vari pericoli per
cagion delle tempeste insorte in quel fiume, vastissimo verso le basse
parti per l'union dell'Eufrate.

Lo strepito di tali conquiste arrivato a Roma riempiè di giubilo quel
popolo, che non sapea saziarsi di esaltar le prodezze di questo
Augusto, giacchè l'aquile romane non aveano mai steso sì oltre, come
sotto di lui, i lor voli. Perciò il senato gli confermò il cognome di
_Partico_, con facoltà di trionfalmente entrare in Roma quante volte
egli volesse, perchè in Roma non erano conosciuti tanti popoli da lui
soggiogati. Trovasi ancora in qualche medaglia[824] accresciuto per
lui sino alla nona volta il titolo d'_imperadore_, e datogli il nome
d'_Ercole_. Ordinò parimente il senato, oltre ad altri onori, che gli
fosse alzato un arco trionfale. Preparavansi ancora i Romani a fargli
uno straordinario onorevole incontro, allorchè egli fosse ritornato a
Roma; ma Dio altrimenti avea disposto. Trajano più non rivide Roma, nè
potè goder del trionfo. Intanto stando egli ai confini dell'Oceano,
vista una nave che andava alle Indie, cominciò ad informarsi meglio di
quel paese, di cui avea dianzi udito tante maraviglie; e gran
desiderio mostrava di portarsi colà. Poi dicea, che se egli fosse
giovane vi andrebbe; e chiamava beato Alessandro il Grande, per avere
in età fresca potuto dar principio alle sue imprese. Contuttociò gli
durava questo prurito; ma nell'anno seguente gli sopravvennero tali
traversie, che gli convenne cacciar queste fantasie, e cangiar di
risoluzione. Intanto egli fece dell'Assiria e della Mesopotamia due
provincie del romano imperio. Da una iscrizione[825] esistente
tuttavia nel porto d'Ancona, e riferita da più letterati, si
raccoglie, che circa questi tempi fu compiuto il lavoro di quel porto
per ordine di Trajano, il quale, dopo aver provveduto il Mediterraneo
del porto di Cività Vecchia, volle ancora che l'Adriatico ne avesse il
suo. A lui ha questa obbligazione Ancona, ed ivi tuttavia sussiste un
arco trionfale, posto in onore di così benefico principe. Abbiamo
ancora da Eusebio[826], che verso questi tempi la nazione giudaica,
sparsa per la Libia e per l'Egitto, si rivoltò dappertutto contra de'
Gentili, e ne seguirono innumerabili morti. Ebbero i Giudei la peggio
in Alessandria. Secondo i conti di Dione vi perirono dugento ventimila
persone; in Cirene essi Giudei commisero delle incredibili crudeltà
contro de' Pagani.

NOTE:

[821] Dio, lib. 68.

[822] Spartianus, in Vita Hadriani.

[823] Eutrop., in Breviar.

[824] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.

[825] Gruterus, pag. 247, num. 6.

[826] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO CXVII. Indizione XV.

    SISTO papa 1.
    ADRIANO imperadore 1.

_Consoli_

QUINZIO NEGRO e GAIO VIPSTANIO APRONIANO.


Secondo l'opinione de' migliori, l'anno fu questo, in cui santo
_Alessandro_ papa gloriosamente terminò i suoi giorni col martirio.
Dopo lui, _Sisto_ tenne il pontificato romano. Soggiornando Trajano
verso l'Oceano, tuttavia co' pensieri e desiderii di veder l'Indie, si
fece condurre in nave pel golfo, che Dione[827] ed Eutropio[828]
chiamano il mar Rosso, ma che, secondo tutte le apparenze, fu il golfo
Persico. Aggiugne Dione ch'egli s'inoltrò in quelle parti sino al
luogo, dove si crede che morisse il grande Alessandro, con far ivi le
cerimonie funebri in memoria di lui. Ma restò ben deluso, perchè dopo
la relazione di tante belle cose che si diceano di que' paesi, altro
non vi trovò che favole e luoghi rovinati. In questo mentre gli vien
nuova, che i Parti si son ribellati, e si son perdute tutte le
conquiste della Persia e della Mesopotamia, colla morte e prigionia
delle milizie lasciatevi di guarnigione. Non tardò Trajano ad inviar
colà _Massimo_ e _Lucio Quieto_. Differente fu la fortuna di questi
due generali. _Massimo_ in una battaglia vi lasciò la vita. _Lucio
Quieto_, all'incontro, moro di nazione, ricuperò Nisibi, ed espugnata
Edessa, le diede il sacco e la incendiò. Alla medesima pena fu esposta
la città di Seleucia, presa da _Ericio Claro_ e da _Giulio
Alessandro_. Tali novità fecero risolvere Trajano a mutar disegno
intorno a que' paesi, scorgendo assai, che non gli sarebbe riuscito di
conservarli come provincia, e sotto il governo dei magistrati romani.
Però, tornato a Ctesifonte, e fatti raunare in una gran pianura i
Romani e i Parti, salito sopra un eminente trono, dichiarò re dei
Parti _Partamaspare_ personaggio di quella nazione, chiamato
_Psamatossiris_ da Sparziano[829], e gli pose in capo il diadema:
risoluzione abbracciata volentieri ed applaudita da que' popoli. Indi
passò nell'Arabia Petrea, che s'era anch'essa ribellata; ma vi trovò
il paese molto brutto, nè vi potè prendere Atra lor capitale, con
patirvi ancora insoffribili caldi e molti altri disastri. Credesi
nondimeno da alcuni ch'egli pervenisse fino all'Arabia Felice. Negli
stessi tempi[830] continuarono più che mai le sedizioni e ribellioni
de' Giudei nella Mesopotamia, nell'Egitto e in Cipri. Attesta
Eusebio[831], che in Salamina città di Cipri prevalse la forza de'
Giudei contra de' Gentili, di modo che quella città rimase spopolata.
Ma Artemione capitano de' Cipriotti così fattamente perseguitò i
Giudei in quell'isola, che li disertò affatto, facendosi conto, che
ivi tra Gentili e Giudei perirono dugento quarantamila persone. Fu
anche spedito _Lucio Quieto_ il Moro contra de' medesimi nella
Mesopotamia, che, col farne un'orrida strage, diede fine alla loro
inquietudine.

Ma che? tutte queste vittorie e conquiste di Trajano, che costarono
tanto sangue e tante spese e fatiche ai Romani, non istettero molto a
svanir in fumo; perchè appena ritirossi da quelle contrade Trajano,
che le cose ritornarono nel primiero stato, senza restarvi un palmo di
dominio pe' Romani. E se ne ritirò per forza Trajano, perchè nel mese
di luglio cominciò a sentire aggravata la sua sanità da male
pericoloso, che da lui fu creduto veleno; ma si attribuisce da altri a
cessazion delle emorroidi, e da altri ad un tocco di apoplessia, per
cui restò offesa qualche parte del suo corpo. Altri in fine vogliono
ch'egli fosse assalito dall'idropisia. Questo qualunque sia malore
sopraggiunto a Trajano, allorchè meditava di tornarsene in
Mesopotamia, gli fece cangiar pensiero, e l'invogliò di ritornarsene
in Italia, dove era continuamente richiamato dal senato; e però verso
queste parti frettolosamente s'incamminò[832]. Giunto ad Antiochia,
capitale della Soria, lasciò ivi _Elio Adriano_, suo cugino, con
titolo di governatore, e gli consegnò l'esercito romano. Continuato
poscia il viaggio sino a Selinonte, città marittima della Cilicia,
appellata poi Trajanopoli, oppresso dal male, che Eutropio[833] chiamò
flusso di ventre, quivi in età di sessantuno, altri dicono di
sessantatrè anni, compiè il corso di sua vita, per quanto si crede nel
dì 10 d'agosto. Il detto finora ha condotto i lettori a comprendere le
mirabili belle doti, che concorsero a rendere Trajano uno de' più
gloriosi imperadori che s'abbia mai avuto Roma, e a cui pochi altri
possono uguagliarsi, non che andare innanzi. Oltre alle belle memorie
ch'egli lasciò in Roma e in varie parti del romano imperio, in
fabbriche sontuose, strade, porti, ponti, si trovano ancora varie
città o fabbricate da lui, o che presero il nome da lui. A lui ancora
principalmente attribuisce Aurelio Vittore l'istituzione del Corso
Pubblico, oggidì appellato le Poste, che veramente ebbe origine da
Augusto, ma fu ampliato e regolato in miglior forma da Trajano,
acciocchè si potessero speditamente e regolarmente saper
dall'imperadore le nuove del vasto imperio romano, e andar e venir
prontamente gli uffiziali cesarei: giacchè, come dottamente osservò il
Gotofredo[834], serviva allora la posta solamente per gli ministri ed
uomini dell'imperatore, e non già per le persone private, ed era
mantenuta alle spese del Fisco con cavalli, calessi e carrette. Ma
siccome osserva Aurelio Vittore[835], e si raccoglie dal codice
teodosiano, questo lodevol istituto col tempo, e sotto i cattivi
imperadori degenerò in uno intollerabil aggravio delle provincie e de'
sudditi. Non fu già esente da ogni difetto Trajano, e van di accordo
Dione[836], Aurelio Vittore[837], Sparziano[838] e Giuliano
l'Apostata[839] in dire ch'egli cadea talvolta in eccessi di bere; ma
non si sa ch'egli commettesse giammai azione alcuna contra il dovere,
allorchè era riscaldato dal vino. Anzi, se crediamo ad esso Vittore,
egli ordinò di non aver riguardo a ciò ch'egli avesse comandato dopo
essere intervenuto a qualche convito. Aggiugne Dione, ch'egli fu
suggetto ad un'infame libidine, abborrita dalla natura stessa, ma
senza fare violenza o torto ad alcuno. Tutti effetti della falsa e
stolta religione dei Gentili, la quale accecava e affascinava talmente
le loro menti, che non si attribuivano a vergogna e peccato le
maggiori enormità, che san Paolo chiaramente nomina e riconosce per un
gran vitupero del gentilesimo allora dominante. Contuttociò nelle
virtù politiche, e massimamente nell'amorevolezza, clemenza e
saviezza, fu sì eccellente questo Augusto, che[840] da lì innanzi
nelle acclamazioni che faceva il senato al regnante imperadore, si usò
di augurargli, che fosse più _fortunato d'Augusto, più buono di
Trajano_. E ben godè sotto di lui Roma e l'imperio tutto una mirabil
calma: se non che si sentirono tremuoti in varie città, e peste e
carestia in vari luoghi, e in Roma seguì una fiera inondazion del
Tevere: malanni nondimeno, che servirono solamente di gloria a
Trajano, perchè egli in quante maniere potè si adoperò per rimediare
ai lor pessimi effetti, e per sovvenire chi era in bisogno. Fiorirono
ancora sotto questo insigne imperadore vari eccellenti ingegni, perchè
egli al pari degli altri più rinomati regnanti, amò i letterati, e
promosse le lettere. Restano a noi tuttavia le Opere di _Cornelio
Tacito_, di _Plinio_ il giovane e di _Frontino_, per tacer d'altri,
che fiorirono anche sotto Adriano, e d'altri de' quali si son perduti
i libri.

Ora _Plotina imperadrice_, che accompagnò sempre in tutti i suoi
viaggi il marito Trajano, dacchè egli fu morto, non lasciò traspirare
la di lui perdita, se non dappoichè ebbe concertato tutto per fargli
succedere _Publio Elio Adriano_ di lui cugino, giacchè non si sa che
Trajano avesse mai figliuolo alcuno. La fama è varia intorno a questo
punto. Crederono alcuni[841], che fosse corso per mente a Trajano di
lasciar l'imperio a _Nerazio Prisco_ giurisconsulto di que' tempi, e
che gli dicesse un giorno: _A voi raccomando le provincie, se qualche
disgrazia mi accadesse_. Altri pensarono[842] ch'egli avesse posti gli
occhi sopra _Serviano_ cognato di Adriano, ed altri fin sopra _Lucio
Quieto_, che già dicemmo moro di nazione. Lo creda chi vuole. Vi fu
chi disse essere stata sua intenzione di nominar dieci persone,
lasciando poi la scelta del migliore al senato, dopo la sua morte.
Nulla di ciò fu fatto. Solamente sul fin della vita adottò e nominò
suo successore _Adriano_, e ciò per opera di _Plotina Augusta_ e di
_Celio Taziano_ o sia _Attiano_, tutore di esso Adriano; perchè
veramente Trajano non mostrò mai tenerezza alcuna di amore per lui,
conoscendone assai i difetti; e l'avea bensì sollevato alla dignità di
console, ma senza dargli cariche riguardevoli sussistenti: il che non
si accorda con ciò che abbiam detto rivelato a lui da _Licinio
Sura_[843] nell'anno 109, cioè che fin d'allora Trajano meditava di
adottarlo per suo figliuolo. Convengono nondimeno gli storici in dire,
che Plotina co' suoi maneggi portò il marito infermo a dichiararlo suo
figliuolo e successore, siccome quella che, se vogliamo prestar fede a
Dione[844], era innamorata di Adriano: il che facilmente potè
immaginar la malizia solita a far dei ricami alle azioni altrui, e
massimamente dei grandi. Anzi non mancò chi credesse essere stata
l'adozion di Adriano una tela interamente fatta da essa Plotina senza
notizia e consentimento di Trajano, ed anche dopo la di lui morte,
tenuta celata apposta per qualche dì, con fingere fatta da lui
l'adozione suddetta. A questo sospetto diede qualche fondamento
l'essere state spedite le lettere al senato coll'avviso di tale
adozione, ma sottoscritte dalla sola Plotina. Fece la medesima Augusta
per solleciti corrieri intendere ad _Adriano_ la nuova dell'operato da
Trajano (se pur tutta sua non fu quella fattura) nel dì 9 di agosto.
Poscia nel dì 11 gli arrivò la nuova della morte di Trajano[845]. Non
perdè tempo Adriano a scriver lettere al senato, intitolandosi
_Trajano Adriano_, e pregandolo di confermargli l'imperio, e
protestando di non ammettere onore alcuno, ch'egli non avesse prima
domandato ed ottenuto dal medesimo senato, con altre sparate di non
voler fare se non ciò che fosse utile al pubblico, di non far morire
alcun senatore, aggiungendo a tali proteste gravi giuramenti ed
imprecazioni, se non eseguiva ciò che prometteva. Niuna difficoltà si
trovò ad approvare la di lui successione, ben conoscendo i senatori,
che, comandando egli al nerbo maggiore delle milizie romane, pazzia
sarebbe il negare a lui ciò che colla forza potrebbe ottenere. Oltre
di che l'esercito stesso della Soria, appena udita l'adozione di lui e
la morte di Trajano[846], l'avea riconosciuto per _Imperadore_: del
che fece egli scusa col senato. Uscì Adriano di Antiochia, per veder
le ceneri ed ossa dello stesso Trajano, che _Plotina_ sua moglie,
_Matidia_ sua nipote e _Taziano_ portavano a Roma; e poscia se ne
ritornò ad Antiochia, per dar sesto agli affari dell'Oriente, prima
d'imprendere anch'egli il suo viaggio alla volta della Italia. Furono
accolte in Roma esse ceneri colle lagrime e con un trionfo lugubre, ed
introdotte in quella città sopra un carro trionfale, in cui si mirava
l'immagine del defunto Augusto; e poscia collocate in un'urna d'oro
sotto la colonna trajana, con privilegio conceduto a pochi in
addietro, perchè non era lecito il seppellire entro le città[847].
Egli certo fu il primo degl'imperadori che fossero entro Roma
seppelliti. Scrisse Adriano al senato, acciocchè gli onori divini,
secondo l'empio costume del gentilesimo, fossero compartiti a Trajano.
Non sol questi, ma altri ancora, come templi e sacerdoti, decretò il
senato alla di lui memoria; e per molti anni dipoi si celebrarono in
onor suo i giuochi appellati Partici.

NOTE:

[827] Dio, lib. 68.

[828] Eutropius, in Breviar.

[829] Spartianus, in Vita Hadriani.

[830] Dio, lib. 68.

[831] Euseb., in Chron.

[832] Aurel. Vict., in Epit.

[833] Eutrop., in Breviar.

[834] Gothofredus ad Legem 8, Tit. 5, Codic. Theodosiani.

[835] Aurelius Victor, de Caesarib.

[836] Dio, lib. 68.

[837] Aurel. Vict., de Caesarib.

[838] Spart., in Vita Hadriani.

[839] Julian., de Caesar.

[840] Eutrop., in Brev.

[841] Spartianus, in Vita Hadriani.

[842] Dio, lib. 69.

[843] Spartianus, in Vita Hadriani.

[844] Dio, lib. 69.

[845] Dio, ibid.

[846] Spartianus, in Vita Hadriani.

[847] Eutropius, in Breviar.




    Anno di CRISTO CXVIII. Indizione I.

    SISTO papa 2.
    ADRIANO imperadore 2.

_Consoli_

ELIO ADRIANO AUGUSTO per la seconda volta, e TIBERIO CLAUDIO FOSCO
ALESSANDRO.


Credesi che Trajano avesse all'anno precedente disegnato console
_Adriano_ per l'anno presente. Ma anche senza di questo, il costume
era che i novelli Augusti prendessero il consolato ordinario nel primo
anno del loro governo. Era nato Adriano nell'anno 76 della nostra Era,
nel dì 24 di gennaio, per testimonianza di Sparziano[848], da cui
abbiam la sua vita. Ebbe per moglie _Giulia Sabina_, figliuola di
_Matidia Augusta_, di cui fu madre _Marciana Augusta_, sorella di
_Trajano_. Perchè in sua gioventù comparve scialacquatore, si tirò
addosso lo sdegno di Trajano, suo parente, e già suo tutore. Tuttavia
tal era la sua disinvoltura e vivacità di spirito, che si rimise in
grazia di lui, e ricevè anche molti onori da lui; ma non mai giunse in
vita del medesimo ad essere accertato di succedergli nell'imperio a
cagion del suo naturale, in cui quel saggio imperadore trovava bensì
molte belle doti, ma insieme sapea scoprire non pochi vizii,
quantunque Adriano si studiasse di dissimularli e coprirli.
L'ambizione traspariva dalle di lui azioni e parole, molto più la
leggerezza e l'incostanza; e sopra tutto, il suo essere stizzoso e
vendicativo, facea temere che sarebbe portato alla crudeltà. Non si
può negare, che la penetrazione del suo intendimento, la prontezza
delle sue risposte, un'applicazione a tutto quanto può riuscir
d'ornamento a persona nobile, l'aiutavano a brillar nella corte e
negli uffizi a lui commessi. Prodigiosa era la sua memoria. Tutto
quanto leggeva, lo riteneva a niente. Fu veduto talvolta in uno stesso
tempo scrivere una lettera, dettarne un'altra, ascoltare e favellar
con gli amici. Non si lasciava andar innanzi alcuno nella cognizion
delle lingue greca e latina; sapea egregiamente comporre tanto in
prosa che in versi, ed anche improvvisava talvolta con garbo[849]. La
medicina, l'aritmetica, la geometria le possedeva; dilettavasi di
sonar vari strumenti, di dipignere, di lavorar delle statue; e la sua
non mai sazia curiosità il portava a voler sapere di tutto, con insino
inoltrarsi molto nel vanissimo studio della strologia giudiciaria, o
nell'empio della magia. Lasciò anche dopo di sè vari libri di sua
composizione in prosa e in versi. Suo maestro, o pure aiutante di
studio, fu _Lucio Giulio Vestinio_, che servì poscia a lui divenuto
imperadore di segretario, e vien chiamato sopraintendente alle
biblioteche di Roma greche e latine in una iscrizione[850]. Questo suo
amore alle scienze ed arti cagion fu, che a' suoi tempi fiorirono in
Roma le lettere, e vidersi i professori d'esse sommamente onorati e
premiati, come attesta anche Filostrato[851]. Piena era la sua corte
di grammatici, musici, pittori, geometri ed altri simili. Spezialmente
si compiaceva di conversar coi filosofi, poeti ed oratori, e li teneva
bene in esercizio, proponendo loro stravaganti quistioni, per
imbrogliarli, e rispondendo loro con egual vivacità tanto sul serio,
che burlando. Per altro a misura del suo volubil cervello era anche
bizzarro ed instabile il suo genio e gusto. E credendosi, per istare
sopra gli altri come imperadore, di aver anche questa medesima
superiorità nell'ingegno e nel sapere, portava nello stesso tempo
invidia a chi parea sapere più di lui, con giugnere a maltrattarli, e
a trovar da dire sopra tutte le lor fatiche, e, quel che è peggio, a
perseguitarli. Facevasi anche ridere dietro, allorchè anteponeva ad
Omero un certo cattivo poeta appellato Antimaco, Ennio a Virgilio,
Catone a Cicerone, Celio a Sallustio. E questo suo maligno ed
invidioso talento il trasse fino a screditar le azioni e le fabbriche
di Trajano, quasichè egli andasse innanzi a quel grand'uomo nel
giudizio e nel buon gusto. Ma questo per ora basti del novello
imperadore Adriano, e intorno alle sue doti e costumi.

Dacchè fu egli creato imperadore, giudicò di non dover partire di
Antiochia senza lasciare in istato quieto le cose d'Oriente[852]. Avea
ben Trajano aggiunto al romano imperio le provincie della Mesopotamia,
dell'Assiria e dell'Armenia; ma il mantenere quelle provincie nella
dovuta ubbidienza, non era da un Adriano, principe che s'intendea del
mestier della guerra per parlarne in sua camera, non per esercitarlo
in campagna, perchè mal provveduto di coraggio e di pazienza nelle
fatiche. Però si rivolse egli a' trattati di pace con _Cosroe_, già re
de' Parti, e con quei popoli, contento di salvare la dignità del
popolo romano: giacchè non si credea da tanto da poter conservar
quelle conquiste. Cedette dunque l'Assiria e la Mesopotamia a Cosroe,
mandandogli probabilmente il diadema, con ritener qualche ombra di
superiorità, e riducendo il confine romano all'Eufrate, come era
prima. Levò via _Partamaspare_, cioè quel re che Trajano avea dato ai
Parti, costituendolo re in qualche di angolo quelle contrade. Permise
anche ai popoli dell'Armenia l'eleggersi il loro re. Parve che in
tutto questo egli cercasse d'estinguere la gloria di Trajano, di cui,
per attestato di Eutropio[853], si mostrò sempre invidioso. Fece poi
anche per questo distruggere, contro il volere di tutti, il teatro
fabbricato da esso Trajano nel Campo Marzio. Poco mancò che non
restituisse ancora la Dacia ai Barbari. Impedito ne fu dalla
persuasion degli amici, acciocchè non cadessero sotto il giogo
barbarico tanti cittadini romani, che Trajano aveva inviato ad abitare
colà. Creò Adriano sul principio due prefetti del pretorio, cioè
_Celio Taziano_ per gratitudine, avendolo avuto per tutore in sua
gioventù, e per mezzano a salire in alto; e _Simile_ per la
moderazione ed onoratezza de' suoi costumi. Di questi ne dà un saggio
lo storico Dione[854] con dire che mentre _Simile_ era solamente
centurione, trovossi nella anticamera imperiale per andare all'udienza
di Trajano. V'erano ancora molti altri da più di lui, cioè uffiziali
primari che la desideravano anch'essi. Trajano il fece chiamare
innanzi agli altri, ma egli si scusò con dire, essere contro l'ordine,
che un par suo dovesse goder quest'onore, con fare intanto aspettare i
suoi comandanti nell'anticamera. Accettò Simile con difficoltà la
carica di prefetto, e da lì forse a due anni, scorgendo che verso di
lui s'era raffreddato Adriano, dimandò ed ottenne il suo congedo.
Ritiratosi alla campagna, quivi per sette anni sopravvisse in tutta
pace, comandando poi alla sua morte, che pel suo epitaffio si
scrivesse come egli _era stato settantasei anni sulla terra, ed
esserne vissuto solamente sette_. D'altro umore fu ben _Taziano_,
perchè uomo violento. Egli sulle prime scrisse da Roma ad Adriano di
levar dal mondo[855] _Bebio Marco_ prefetto di Roma, e _Laberio
Massimo_, e _Crasso Frugi_, relegati nell'isole, come persone capaci
di novità. Adriano non volle dar principio al suo governo con queste
crudeltà. Alcune poi ne commise andando innanzi, e di queste diede la
colpa ai consigli del medesimo Taziano. Depresse _Lucio Quieto_,
valoroso uffiziale, con levargli la compagnia de' Mori, perchè si
sospettava che aspirasse all'imperio. Mandò ancora _Marzio Turbone_ ad
acquetare un tumulto insorto nella Mauritania. Probabilmente verso la
primavera di quest'anno Adriano, dopo aver dato ai soldati il doppio
di quel regalo che solevano dare gli altri nuovi imperadori, e
lasciato al governo della Soria _Catilio Severo_, si mise in viaggio
per terra alla volta di Roma. Il senato gli avea decretato il trionfo.
Lo ricusò egli, volendo che a Trajano, benchè defunto, si desse
quest'onore. Perciò entrò in Roma sul carro trionfale, su cui era
inalberata l'immagine di esso Trajano. Cominciò dipoi il suo governo,
come far sogliono per lo più i principi novelli, con somma bontà e
dolcezza, e con far bene a tutti. Diede un congiario al popolo
romano[856], e pare che n'avesse dato due altri nell'anno antecedente.
Rimise alle città d'Italia tutto il tributo coronario, cioè quello che
si solea pagare per le vittorie degl'imperadori, e per l'assunzione
d'essi al trono. Lo sminuì anche alle provincie fuori d'Italia, benchè
egli pomposamente esprimesse, quanto allora lo stato si trovasse in
gran bisogno di danaro, che ciò nonostante egli faceva quella
remissione. Ciò nondimeno che gli produsse un incredibil plauso, fu
l'aver condonato tutti i debiti[857] che aveano le persone private da
sedici anni in addietro coll'erario imperiale, tanto in Roma che in
Italia, e nelle provincie spettanti all'imperadore, secondo la
divisione d'Augusto, non sapendosi se questa liberalità si stendesse
ancora alle provincie governate dal senato. Parla di questa sua
memorabil generosità Sparziano, e ne conservarono la memoria le
medaglie e le iscrizioni antiche[858]. Se non fallano i conti del
Gronovio[859], questa remissione ascese a ventidue milioni e mezzo di
scudi d'oro: il che sembra cosa incredibile. Per dare maggior risalto
a questa sua insigne azione, e per maggior sicurezza dei debitori,
fece bruciar nella piazza di Trajano tutte le lor polizze ed
obbigazioni. Apparisce dalle medaglie suddette, ch'egli appena creato
imperadore prese i titoli di _Germanico_, _Dacico_ e _Partico_, come
se ancor questi fossero passati in lui coll'eredità di Trajano.
Trovasi anche appellato _Pontefice Massimo_. Ma per conto del titolo
di Padre_ della Patria_, benchè il senato non tardasse ad
esibirglielo, e tornasse da lì a qualche tempo ad offerirglielo, nol
volle, sull'esempio di Augusto che tardi l'avea accettato.

NOTE:

[848] Spartianus, in Vita Hadriani.

[849] Dio, lib. 69.

[850] Thesaurus novus Inscription.

[851] Philostratus, in Sophist.

[852] Dio, lib. 69. Spartianus, in Vita Hadriani.

[853] Eutrop., in Breviar.

[854] Dio, lib. 69.

[855] Spartianus, in Vita Hadriani.

[856] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[857] Dio, lib. 69.

[858] Panvinius, Fast. Consular. Spartianus, in Vita Hadriani.

[859] Gronovius de Sestertiis.




    Anno di CRISTO CXIX. Indizione II.

    SISTO papa 3.
    ADRIANO imperatore 3.

_Consoli_

ELIO ADRIANO AUGUSTO per la terza volta, e QUINTO GIUNIO RUSTICO.


Perchè non abbiamo storici che abbiano con ordine di cronologia
distribuite le azioni di Adriano e di molti altri susseguenti
imperadori, possiamo ben rapportar con sicurezza ciò che operarono, ma
non già accertarne i tempi. Le stesse medaglie mancano in questi tempi
di note cronologiche, perchè non vi si esprime, se non in generale, la
podestà tribunizia e il consolato terzo, ripetuto sempre ne'
susseguenti anni, perchè egli più non fu da lì innanzi console. Diede
(forse nel precedente e non meno nel presente) dei sollazzi al popolo
romano, troppo vago degli spettacoli, correndo il suo giorno
natalizio, cioè[860] il combattimento de' gladiatori, e molte cacce di
fiere. Giorni vi furono, ne' quali cento lioni ed altrettante lionesse
restarono uccisi. Tanto nel teatro che nel circo, dove si fecero altri
giuochi, sparse dei doni separatamente agli uomini e alle donne. E
perciocchè regnava in Roma l'abbominevole abuso, che nel medesimo
bagno e nello stesso tempo si andavano a lavar uomini e donne, proibì
così enorme indecenza. Durò[861] il suo consolato dell'anno presente
solamente i primi quattro mesi, senza che si sappia chi gli fosse
sostituito in quella dignità. Ed allora attese ad ascoltar e decidere
le cause, che erano portate al senato. Meglio regolò le poste,
acciocchè i magistrati delle provincie non avessero l'incomodo di
provveder le vetture ai bisogni. Ordinò che da lì innanzi le pene dei
condannati non si pagassero al fisco, cioè alla camera cesarea, ma
bensì all'erario della repubblica. Accrebbe gli alimenti ai fanciulli
e alle fanciulle orfane povere per tutta l'Italia, ampliando la bella
istituzione che aveano dinanzi fatto i buoni imperadori Nerva e
Trajano. Ai senatori, che senza lor colpa aveano sminuito molto del
patrimonio che si esigeva per essere di quell'ordine eminente, diede
egli il supplemento con pensioni ben pagate finchè egli visse. Per le
spese occorrenti nell'ingresso delle cariche a molti suoi amici poveri
somministrò un buon aiuto di costa, e ciò fece ancora con alcuni che
nol meritavano. Sovvenne ancora molte nobili donne, alle quali mancava
il modo onesto di sostentar la vita. Scelse i più accreditati
dell'ordine senatorio per i suoi domestici e familiari, e li teneva
alla sua tavola. Fuorchè nel giorno suo natalizio, ricusò i giuochi
circensi, che in altri tempi volle il senato decretare in onore di
lui. Spesse volte ancora, parlando al senato e al popolo, protestò di
voler far conoscere nel suo governo, ch'egli procurava il ben
pubblico, e non già il proprio.

La cronica di Alessandria mette sotto questi consoli l'andata di
Addano a Gerusalemme[862], per quietare i tumulti eccitati dai Giudei
anche in quelle parti. Prese, se vogliam credere a quello storico, la
città di Terebinto, e vendè schiavi al pubblico i Giudei quivi
trovati. Atterrò il tempio di Gerusalemme; fabbricò ivi due piazze, un
teatro ed altri edifizii. Divise quella città in sette rioni coi lor
sopraintendenti, ed abolito il nome di Gerusalemme, volle che quella
città dal suo si chiamasse Elia. Anche Eusebio[863] qualche cosa di
ciò parla all'anno presente; e il padre Pagi[864] tien per fermo che
allora seguisse il viaggio suddetto di Adriano, e che Gerusalemme
fosse da lui rifabbricata. Ma non è l'autore della cronica
alessandrina di tal peso, da dovergli tosto prestar fede in questo
punto di cronologia, quando Dione e Sparziano nulla di ciò dicono
verso i tempi presenti; e quello scrittore patentemente s'inganna in
attribuire ad Adriano la distruzione del tempio accaduta nella guerra
di Tito. Non è perciò, a mio credere, assai sussistente il viaggio
colà di Adriano in questi tempi. Possiamo bensì tenere, che nell'anno
presente i sediziosi Giudei facessero qualche movimento, e restassero
abbattuti, come scrive san Girolamo[865], e vien accennato anche da
Eusebio. Abbiamo inoltre da Eutropio[866], che Adriano ebbe una sola
guerra, di cui parleremo, nè questa la fece in persona, ma per mezzo
di un suo generale.

NOTE:

[860] Dio, lib. 69.

[861] Spartianus, in vita Hadriani.

[862] Chr. Paschale, tom. I Histor. Byzantin.

[863] Eusebius, in Chron.

[864] Pagius, in Critic. Baron.

[865] Hieron., Comment. in Danymus, c. 9.

[866] Eutrop., in Breviar.




    Anno di CRISTO CXX. Indizione III.

    SISTO papa 4.
    ADRIANO imperadore 4.

_Consoli_

LUCIO CATILIO SEVERO e TITO AURELIO FULVO.


Per quanto c'insegna Giulio Capitolino[867], l'imperadore _Antonino
Pio_ fu prima nominato _Tito Aurelio Fulvio_ o _Fulvo_, ed era stato
console con _Catilio Severo_. Quando quello storico non prenda
abbaglio, il secondo de' consoli dell'anno presente dovette essere il
medesimo Antonino. Non _Lucio Aurelio_, come per errore è corso ne'
fasti del padre Stampa, ma _Tito Aurelio_ fu il prenome e nome d'esso
console, come s'ha da un'iscrizione riferita dal Panvinio[868]. Ora
all'anno presente, secondochè immaginò il padre Pagi[869] con altri, e
non già al precedente, come volle il Tillemont, pare che s'abbia da
riferire la guerra mossa[870] dai Sarmati e dai Rossolani contro le
terre dell'imperio romano. A questo avviso Adriano Augusto
immediatamente mandò innanzi l'esercito romano, e poi, tenendogli
dietro, arrivò anche egli nella Mesia, e si fermò al Danubio,
frapposto fra lui e i nemici. Il Cellario[871], che mette i Sarmati
verso il mar Nero, e i Rossolani circa la Palude Meotide, non so come
ben si accordi col racconto di questa guerra. Un dì la cavalleria
romana, di tutte armi guernita, all'improvviso passò a nuoto il
Danubio: azione sommamente ardita, che mise tal terrore nei Barbari,
che trattarono di pace[872]. Lamentavasi il re de' Rossolani[873], che
gli fosse stata sminuita la pensione solita a pagarsegli dai Romani.
Adriano, che abborriva i pericoli della guerra, il soddisfece, con
accordar vergognosamente quanto il barbaro richiedea. Fu in questi
tempi, che egli diede il governo della Pannonia e della Dacia a
_Marzio Turbone_, ch'era stato presidente della Mauritania,
conferendogli la medesima autorità che avea il governator dell'Egitto.
Fors'anche allora fu ch'egli fece fabbricar nella Mesia una città, che
da lui prese il nome di Adrianopoli, oggidì Andrinopoli, città molto
cospicua tuttavia. Secondo l'ordine che tiene Sparziano nel suo
racconto, parrebbe che appartenessero all'anno presente alcune
crudeltà usate da esso Adriano. Dione[874] sembra metterle molto
prima, cioè all'anno 118 o 119. Siccome Adriano era principe
diffidente e sospettoso, e che facilmente bevea quanto di male gli
veniva riferito, così prestò fede a chi accusò _Domizio_ Negrino
d'aver macchinato contro la di lui vita: del qual delitto (vero o
falso che fosse) furono creduti complici _Cornelio Palma, Lucio
Publicio Celso_ e _Lucio Quieto_, tutti e quattro personaggi di gran
credito e nobiltà, e stati già consoli ordinari o straordinari. Ma non
s'accordano insieme Dione e Sparziano. Il primo scrive che doveano
ammazzare Adriano, allorchè era alla caccia; e l'altro, mentr'egli si
trovava impegnato in un sagrifizio. Si può anche dubitare che un tal
fatto accadesse quando Adriano si trovava nelle vicinanze di Roma, e
non già nella Mesia. Ne scrisse Adriano al senato. Pare che queste
persone prendessero la fuga, perchè _Palma_, per ordine del senato, fu
ucciso in Terracina, _Celso_ a Baja, _Negrino_ a Faenza, e _Lucio_ in
viaggio. Protestò dappoi Adriano, non essere accaduta la lor morte di
commessione sua, e lo scrisse anche nella sua vita, libro che più non
esiste. Ma per quanto egli dicesse[875], comune credenza fu, che per
insinuazioni segrete da lui fatte, il senato levasse a sì riguardevoli
soggetti la vita; nè alcuno si sapea persuadere, che persone di tanta
riputazione fossero giunte a meditar simile attentato. Lo stesso
Adriano poi in qualche congiuntura non negò d'aver data la spinta alla
lor morte, con rigettarne poi la colpa del consiglio sopra _Taziano_,
prefetto del pretorio.

Nè fu questa la sola crudeltà usata da Adriano. Altre nobili e potenti
persone credute colpevoli per la suddetta congiura, o per altre
cagioni, ed in altri tempi, perderono la vita d'ordine suo, tuttochè
l'astuto principe, anche con giuramento, attestasse d'essere in ciò
innocente. Così in un altro anno egli fece levare dal mondo
_Apollodoro Damasceno_[876]. Siccome di sopra accennammo, era questi
un architetto mirabile. Avea fabbricato il maraviglioso ponte di
Trajano sul Danubio. Sua fattura parimente furono la superba piazza di
Trajano, l'Odeo ed il Ginnasio in Roma. Un giorno si trovava presente
Adriano, allorchè l'Augusto Trajano ed Apollodoro trattavano di una di
esse fabbriche, e volle anch'egli fare il saccente, come quegli che
credea di sapere di tutto. Rivoltosegli Apollodoro gli disse: _Andate
di grazia a dipingere delle zucche: chè di questo non v'intendete
punto_. Questa ingiuria non si cancellò mai più dal cuor di Adriano, e
fu cagione che mandò poi con de' pretesti quel valentuomo in esilio.
Tuttavia maggior male per questo non gli avrebbe fatto; anzi in
qualche tempo si servì di lui. Avvenne che Adriano fabbricò il tempio
di Venere e di Roma, dove erano le magnifiche statue di queste due
falsamente appellate dee. Per prendersi beffe di Apollodoro ch'era
fuori di Roma, e forse esiliato, gliene mandò il disegno, acciocchè
intendesse che senza di lui si poteano far delle sontuose e belle
fabbriche in Roma; e nello stesso tempo desiderò che dicesse il suo
sentimento, se fosse o no con buona architettura formato quello
edifizio. Rispose Apollodoro, che conveniva fabbricar quel tempio
assai più alto, se avea da fare un'eminente comparsa sopra le alte
fabbriche della Via sacra: ed anche più concavo, a cagion delle
macchine che si pensava di fabbricar ivi segretamente, per introdurle
poi nel teatro. Aggiugneva, che le maestose statue ivi poste non erano
proporzionate alla grandezza del tempio, perchè se le dee avessero
avuto da levarsi in piedi ed uscir fuori, non avrebbono potuto farlo.
All'udir queste osservazioni, e al conoscere l'error commesso senza
poterlo emendare, s'empiè di tanta rabbia e dolore Adriano, che privò
di vita il troppo sincero architetto, degno ben d'altra mercede pel
suo impareggiabil valore. Oh che bestia il signore Adriano! griderà
qui taluno. Ma convien aspettare alquanto, perchè mirandolo in un
altro prospetto fra poco, troveremo in lui tanto di buono da potere
far bella figura fra i regnanti. Non so io ben dire in che luogo
dimorasse Adriano, allorchè succedette la tragedia dei quattro
consolari suddetti uccisi. Ben so ch'egli si trovava fuori di
Roma[877], ed avvisato dalla grave mormorazione che si faceva per la
morte di sì illustri personaggi, e ch'egli s'era tirato addosso l'odio
di tutti, corse frettolosamente a Roma per prevenire i disordini.
Quetò il popolo con dispensargli un doppio congiario. Mentre era
lontano, gli avea anche fatto distribuire tre scudi d'oro per testa.
Nel senato, dopo aver addotte le scuse dell'operato, giurò di nuovo
che non avrebbe mai fatto morire senatore alcuno, se non era giudicato
degno di morte dal senato. Ma sotto i precedenti cattivi Augusti, un
solo lor cenno bastava a far che il senato proferisse la sentenza di
morte contra di chi incorreva nella loro disgrazia. Se non falla
Eusebio[878], in quest'anno ovvero nel seguente, un fiero tremuoto
diroccò la città di Nicomedia, e ne patirono gran danno tutte le città
circonvicine. Adriano generosamente inviò colà grandi somme di danaro
per rifarle.

NOTE:

[867] Julius Capitolinus, in T. Antonino.

[868] Panvinius, in Fast. Consular.

[869] Pagius, in Critic. Baron.

[870] Dio, lib. 69.

[871] Cellar., Geogr.

[872] Euseb., in Chron.

[873] Spartianus, in Vita Hadriani.

[874] Dio, lib. 69.

[875] Dio, lib. 69.

[876] Dio, ibidem.

[877] Spartianus, in Hadriano.

[878] Euseb., in Chron.




    Anno di CRISTO CXXI. Indizione IV.

    SISTO papa 5.
    ADRIANO imperadore 5.

_Consoli_

LUCIO ANNIO VERO per la seconda volta e AURELIO AUGURINO.


Fu _Lucio Annio Vero_ avolo paterno di _Marco Aurelio_ filosofo ed
imperadore, di cui parleremo a suo tempo. Osservossi[879] in tutte le
maniere di vivere d'Adriano Augusto una continua varietà, e una
costante incostanza. Ora crudele, ora tutto clemenza: ora serio e
severo, ora lieto buffone: avaro insieme e liberale: sincero e
simulatore. Amava facilmente, ma facilmente passava dall'amore
all'odio. S'è veduto com'egli trattò l'architetto Apollodoro, e pure
abbiam da Sparziano, che non si vendicò di chi gli era stato nemico,
allorchè menava vita privata. Divenuto imperadore, solamente non
guardava loro addosso. E vedendo uno che più degli altri se gli era
mostrato contrario, disse: _L'hai scappata_. Tutto ciò può essere, se
non che per testimonianza del medesimo storico, _Palma_ e _Celso_
consoli, stati sempre suoi nemici nella vita privata, abbiam veduto
qual fine fecero. In quest'anno gli venne troppo a noia _Celio
Taziano_, che già dicemmo alzato da lui al grado di prefetto del
pretorio, in guisa che, come dimentico di averlo avuto per tutore, e
per gran promotore della sua assunzione al trono, ad altro non pensava
che a levarselo d'attorno. Non poteva sofferire la grand'aria di
potenza che si dava Taziano; e perciò gli corse più volte per mente di
farlo tagliare a pezzi. Se ne astenne, perchè era fresca la memoria
dei quattro consolari uccisi, e l'odio che gliene era provenuto. Ma
con tutto il suo guardarlo di bieco, non otteneva che Taziano
chiedesse di depor quella carica. Gli fece per tanto dire
all'orecchio, che era bene il chiederlo; ed appena ne udì l'istanza,
che conferì la carica di prefetto del pretorio e _Marzio Turbone_,
richiamato dalla Pannonia e Dacia. Creò senatore _Taziano_, dandogli
anche gli ornamenti consolari, e dicendo che non avea cosa più grande
con cui premiarlo. Anche _Simile_, l'altro prefetto del pretorio,
siccome dissi all'anno 118, dimandò il suo congedo. Entrò nel suo
posto _Setticio Claro_. Sì _Turbone_ che _Claro_ erano due personaggi
di raro merito; ma anch'essi provarono col tempo, quanto instabile
fosse l'amore e la grazia di questo imperadore. Per questa mutazion
d'uffiziali parendo oramai ad Adriano d'aver la vita in sicuro, perchè
di loro non si fidava più, andò a sollazzarsi nella Campania, dove
fece del bene a tutte quelle città e terre, ed ammise all'amicizia sua
le persone più degne ch'egli trovò in quel tratto di paese.

Ritornato a Roma Adriano, come se fosse persona privata, interveniva
alle cause agitate davanti ai consoli e ai pretori; compariva ai
conviti de' suoi amici, e se questi cadevano malati, due ed anche tre
volte il giorno andava a visitarli. Nè solamente ciò praticò coi
senatori; si stesero le visite sue anche ai cavalieri romani infermi,
e insino a persone di schiatta libertina, sollevando tutti con buoni
consigli, ed aiutando chiunque si trovava in bisogno. Gran copia
d'essi amici volea sempre alla sua mensa. Alla suocera sua, cioè a
_Matidia_ _Augusta_, nipote di Trajano, compartì ogni possibil onore,
allorchè si faceano i giuochi de' gladiatori, e in altre occorrenze.
Ebbe sempre in sommo onore _Plotina Augusta_, vedova di Trajano, da
cui conosceva l'imperio. E a lei defunta fece un suntuoso scorruccio.
Gran rispetto ancora mostrava ai consoli, sino a ricondurli a casa
terminati ch'erano i giuochi circensi. Anche con la più bassa gente
parlava umanissimamente, detestando i principi che colla loro altura
si privano del contento di mandar via soddisfatte di sè le persone.
Con queste azioni prive di fasto, piene di clemenza[880], si
procacciava l'affetto del pubblico; e lodavasi nel medesimo tempo la
continua sua attenzione al buon governo; la sua magnificenza nelle
fabbriche; la sua provvidenza ne' bisogni occorrenti, e specialmente
nel mantenere l'abbondanza de' viveri al popolo. Assaissimo ancora
piaceva il non esser egli vago di guerre, che d'ordinario costano
troppo ai sudditi. Tanto le abborriva egli, che se ne insorgeva
alcuna, più tosto si studiava di aggiustar le differenze coi
negoziati, che di venir all'armi. Non confiscò mai i beni altrui per
via d'ingiustizie; troppo si pregiava egli di donare il suo ad altri,
non già di far sua la roba altrui. In fatti grande fu la sua
liberalità verso moltissimi senatori e cavalieri; nè aspettava egli
d'essere pregato; bastava che conoscesse i lor bisogni per correre
spontaneamente a sovvenirli. Se gli poteva parlare con libertà, senza
ch'egli se l'avesse a male. Avendogli una donna dimandata giustizia,
rispose di non aver tempo di ascoltarla. _Perchè siete voi dunque
imperadore?_ gridò la donna. Fermossi allora Adriano, con pazienza
l'ascoltò, e la soddisfece. Un di ne' giuochi de' gladiatori al popolo
non piacea quel che si facea, e con importune grida dimandava
all'imperadore, che se ne facesse un altro. Comandò Adriano all'araldo
che gli era vicino, di dire imperiosamente al popolo _che tacesse_,
come solea far Domiziano. Ma l'araldo fatto cenno al popolo di
dovergli dir qualche parola a nome del regnante, altro non disse se
non: _Quel che ora si fa, è di piacere dell'imperadore._ Non si offese
punto Adriano, che l'araldo avesse contro l'ordine suo parlato con tal
mansuetudine al popolo, anzi il lodò d'aver così fatto. Credesi
ch'egli in quest'anno fabbricasse un circo in Roma. Comincia il
Tillemont[881] nell'anno 120 i viaggi di Adriano fuori di Italia; il
Pagi[882] nell'anno 121. Io mi riserbo di parlarne all'anno seguente.

NOTE:

[879] Spartianus, in Hadriano.

[880] Dio, lib. 69.

[881] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[882] Pagius, Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CXXII. Indizione V.

    SISTO papa 6.
    ADRIANO imperadore 6.

_Consoli_

MANIO ACILIO AVIOLA, e CAJO CORNELIO PANSA.


Per accertar gli anni precisi, ne' quali Adriano Augusto imprese ed
eseguì tanti suoi viaggi, non ci ha provveduti la storia di lumi
sufficienti. Nè occorre volgersi alle medaglie, nelle quali veramente
sono accennati questi suoi viaggi, perchè esse non ritengono vestigio
del tempo. L'Occone e il Mezzabarba[883] le han distribuite a tentone
per varii anni, senza poterne addurre il perchè. Sia dunque lecito a
me il tener qui con esso Mezzabarba e col Bianchini[884], che in
quest'anno cominciasse Adriano a viaggiare. Parte per curiosità, e
parte per farsi rinomare, si era egli messo in testa di voler visitare
tutto il vasto imperio romano; cosa non mai fatta da alcuno de'
predecessori. Venne dunque, a mio credere, nell'anno presente per
l'Italia, e passò nella Gallia[885], dove delle sue azioni altro non
si sa, se non che sollevò colla sua liberalità quanti bisognosi a lui
ricorsero. Certo è che questo suo genio ambulatorio tornava in
profitto delle provincie[886] dove egli arrivava; imperocchè a guisa
di un ispettore s'informava co' suoi occhi, e col saggio esame delle
cose, se i magistrati faceano il lor dovere, oppur mancavano alla
giustizia, e quali fossero gli abusi, per rimediare a tutto; nel che
maravigliosa era non meno la di lui attività e provvidenza, che la sua
costanza in degradare o punire in altre forme i delinquenti. Volea
saper tutte le rendite e gli aggravi delle città; visitava tutte le
fortezze, per osservare se erano ben tenute e munite, ordinando che si
provvedesse quel che mancava, distruggendo ciò che non gli piacea, e
comandando, se occorreva, delle fabbriche nuove in altri siti. Dalla
Gallia passò nella Germania romana. A que' confini distribuito stava a
quartiere il maggior nerbo delle milizie romane sempre all'ordine per
opporsi ai Germani non sudditi, i quali più che altra nazione furono
sempre temuti e rispettati dai Romani. Era Adriano, quanto altri mai,
peritissimo dell'arte militare, e sembra ch'egli anche ne componesse
un libro, come altrove ho io accennato[887]. Adunque senza perder
tempo, si applicò alla visita de' luoghi forti, esaminando le
fortificazioni, l'armi, le macchine militari; e come se fosse
imminente la guerra, diede la mostra a tutte quelle legioni, e premiò
e promosse a gradi superiori chi sel meritava; fece far l'esercizio a
tutti. Trovati moltissimi abusi introdotti nella milizia per
trascuratezza dei principi e generali precedenti, si mise al forte,
per rimettere in piedi l'antica disciplina romana fra que' soldati.
Diede ordini bellissimi intorno a varii impieghi degli uffiziali, e
alle spese che si facevano. Levò via dagli alloggiamenti de' soldati
(che erano obbligati ad abitar sotto le tende alla campagna) i
portici, i pergolati, le grotte ed altre delizie. Niuno de' soldati
senza giusta cagione potea uscire del campo. Per divenir centurione
(noi diremmo capitano) bisognava aver buona fama e robustezza di
corpo. Essere non potea tribuno (noi diremmo colonnello) se non chi
era giunto ad una perfetta giovanezza, accompagnata inoltre dalla
prudenza. Lecito non era ai tribuni l'esigere o ricevere alcun dono o
danaro dai soldati. E per conto de' medesimi soldati disaminò
attentamente le loro armi, il lor bagaglio, la loro età, acciocchè
niuno prima degli anni diecisette fosse assunto alla milizia, nè fosse
tenuto a militar più di trenta, se non voleva. Nell'esattezza della
disciplina precedeva egli a tutti, animando col proprio esempio le sue
leggi. Mangiava in pubblico, altro cibo non prendendo che l'usato dai
soldati gregari, cioè lardo, cacio e posca, o sia acqua mischiata
d'aceto. Talvolta armato fece venti miglia a piedi; bene spesso usava
vesti dimesse, non dissomiglianti da quelle de' soldati. L'usbergo suo
era senza oro, le fibbie senza gemme, di avorio solamente il pomo
della spada. Visitava i soldati infermi; disegnava i siti degli
accampamenti; sopra tutto badando che non si comprassero robe inutili,
nè si desse a mangiare a persone oziose. Da questo poco si può
comprendere la saviezza degli antichi Romani nel ben disciplinare la
loro milizia.

Sbrigato della Germania Adriano, si crede che nell'anno stesso, cioè
come io vo congetturando, nel presente passasse alla visita della gran
Bretagna[888]. Quivi ancora trovò molti abusi, e li corresse. Erano i
Romani in possesso di buona parte di quell'isola; ma nel principio del
governo di Trajano vi era stata qualche ribellione o tumulto in quelle
parti. Certo è che la parte settentrionale non ubbidiva all'aquile
romane. Per assicurarsi dunque Adriano dagl'insulti di que' Barbari,
gente feroce e temuta, ordinò che si fabbricasse un muro lungo ottanta
miglia, il qual dividesse i confini romani dalle terre d'essi Barbari.
Credono gli eruditi Inglesi, che questo muro fosse nella provincia del
Northumberland verso il fiume Tin, e che ne restino tuttavia le
vestigia. Ebbe fra le altre cose in uso Adriano di tener delle spie,
non tanto per saper tutto ciò che si faceva in corte, quanto ancora
per indagar tutt'i fatti particolari de' suoi cortigiani ed amici. Al
qual proposito si racconta, che avendo una dama scritto al marito,
lamentandosi dello star egli tanto tempo lontano, e del perdersi nei
bagni ed in altri piaceri: lo seppe Adriano, e venuto quel tale a
prendersi commiato, gli disse ch'era bene l'andare e l'abbandonare
ormai i bagni e i piaceri. Il cavaliere non sapendo di che mezzi si
servisse Adriano per iscoprire i fatti altrui, allora rispose: _L'ha
forse mia moglie scritto anche a voi, siccome ha fatto a me?_ Ora
dovette Adriano essere avvisato da Roma, che _Svetonio Tranquillo_,
autore delle Vite dei dodici primi Cesari, che allora serviva in corte
nel grado di segretario delle lettere, e _Setticio Claro_, prefetto
del pretorio, ed altri, praticavano troppo familiarmente con _Sabina_
sua moglie, non mostrando quella riverenza che si dovea alla casa
dell'imperadore. Di più non vi volle, perchè egli levasse loro le
cariche. Aggiungono, ch'era anche disgustato della stessa Sabina sua
moglie, perchè gli parea donna aspra e schizzinosa: laonde ebbe a
dire, che s'egli fosse stato persona privata, l'avrebbe ripudiata.
Succedette in questi tempi qualche fastidiosa sedizione in Egitto.
Adoravano que' popoli il dio Apis sotto figura di un bue macchiato; e
morendo questo, si cercava un vitello che avesse le medesime macchie.
Dopo molti anni trovato questo dio bestia, gran gara, anzi un
principio di guerra insorse fra le città, pretendendo molte d'esse di
doverlo nutrire nel loro tempio. A questo avviso turbato Adriano,
dalla Bretagna tornò nella Gallia, e venne a Nimes in Provenza, dove
d'ordine suo fu fabbricata una maravigliosa basilica in onore di
Plotina Augusta, già moglie di Trajano. A lui ancora, o pure ad
Antonino, vien attribuita la fabbrica dell'anfiteatro, in parte ancora
sussistente, ed un ponte ed altre antichità di quella città. Di là poi
si portò in Ispagna, e passò il verno in Tarragona.

NOTE:

[883] Mediobarbus, in Numism. Imperat.

[884] Blanchinius, ad Anastasium.

[885] Spartianus, in Hadriano.

[886] Dio, lib. 69.

[887] Antiquit. Italicar., tom. 2, Dissert. 26.

[888] Spartianus, in Hadriano.




    Anno di CRISTO CXXIII. Indizione VI.

    SISTO papa 7.
    ADRIANO imperadore 7.

_Consoli_

QUINTO APRIO PETINO e LUCIO VENULEJO APRONIANO.


I più degl'illustratori de' Fasti consolari danno il nome di _Cajo
Ventidio Aproniano_ al secondo di questi due consoli. Io, fondato
sopra un embrice o mattone, tuttavia esistente nell'insigne museo del
Campidoglio[889], l'ho appellato _Lucio Venulejo_. Ma in un altro
mattone, riferito dal Fabretti[890], egli ha il prenome di _Tito_, e
non già di _Lucio_. Sembra che sotto Nerva s'introducesse l'uso
continuato di poi per molti anni, d'imprimere ne' mattoni, e in altri
materiali di terra cotta, oltre al nome della bottega o sia della
fornace, quello ancora de' consoli per denotar l'anno. Passò Adriano,
siccome già accennai, il verno in Tarragona, dove egl'incontrò un
pericoloso accidente. Mentre egli un dì passeggiava per un giardino,
gli venne incontro furiosamente colla spada nuda un servo del padrone
di quella casa. Adriano bravamente si difese, e fermato il micidiale,
consegnollo alle guardie[891]. Trovossi che il cervello avea data
volta a costui. L'imperadore con esempio di rara moderazione il fece
curar dai medici, nè volle fargli alcun male. In quella città riparò
egli a sue spese il tempio d'Augusto. Ordinò una leva di gente, ma vi
trovò delle difficoltà, tuttavia con tal prudenza e destrezza maneggiò
gli animi di que' popoli, che ottenne l'intento suo. Motivo di stupore
fu, che trovandosi egli in Ispagna, non andasse a visitar la sua
patria Italica. Sappiamo nondimeno che le fece di gran bene; ed Aulo
Gellio[892] cita un discorso da lui fatto in senato, allorchè Italica,
Utica ed altre città che godeano la libertà dei municipii, dimandarono
d'aver delle colonie romane: il che parve strano, essendo migliore la
condizion dei municipii, che quella delle colonie. Qualche torbido
dovette seguire circa questi tempi nella Mauritania, provincia
dell'Africa. Adriano felicemente lo quietò. Deducendosi dalle
medaglie[893], che anche in persona a quella provincia egli si
trasferì, il Tillemont[894] si figura che questo accadesse nell'anno
presente. Ma il Pagi[895] pensa ciò avvenuto più tardi. Dicendo poi
Sparziano[896], che in questi tempi vi fu un principio di guerra coi
Parti, il quale con un abboccamento seguito fra esso Adriano e forse
con Cosroe re di quella nazione, in breve fu posto fine: potrebbe
taluno argomentare, che Adriano passasse dalla Spagna e dalla
Mauritania in Soria. Il salto a me par troppo grande. Si tien
parimente, che egli andasse dipoi ad Atene, dove si fermò per tutto il
verno seguente. Con tal supposizione pare che possa accordarsi l'avere
scritto Eusebio[897], che Adriano, fattagli istanza di nuove leggi dal
popolo ateniese, formò un estratto di quelle di Dracone, Solone ed
altri legislatori, e loro le diede.

NOTE:

[889] Thesaurus Novus Inscription., pag. 321, num. 6.

[890] Fabrettus, Inscription., pag. 509.

[891] Spartian., in Hadriano.

[892] Gellius, lib. 16, cap. 13.

[893] Mediobarbus, Numism. Imper.

[894] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[895] Pagius, in Crit. Baron.

[896] Spartianus, in Hadriano.

[897] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO CXXIV. Indizione VII.

    SISTO papa 8.
    ADRIANO imperadore 8.

_Consoli_

MANIO ACILIO GLABRIONE e CAJO BELLICIO TORQUATO.


Perchè si sono smarrite tante antiche storie, e massimamente la vita
di sè stesso scritta da Adriano, noi ci troviamo ora troppo intrigati
a seguitar questo imperadore ne' suoi viaggi, e ci convien solamente
per congetture rapportare a questo ed a quell'anno i suoi passi.
Camminando dunque sul supposto che Adriano soggiornasse nel presente
verno ad Atene, ne sarebbe seguito ciò che scrive Eusebio nella sua
Cronica, cioè, che essendo uscito del suo letto il fiume Cefiso, ed
avendo inondata la città di Eleusi o sia Eleusina, egli fabbricò un
ponte sopra quel fiume, e verisimilmente lo fece arginar con delle
muraglie, in maniera che più non potesse farle di queste burle. Quindi
pare ch'egli si portasse alla visita della Bitinia, Macedonia,
Cappadocia, Cicilia, Frigia, Pamfilia, Licia, Armenia, e d'altri paesi
dell'Asia e dell'isole adiacenti. Ci sono medaglie di tali provincie,
che il nominano lor ristauratore; imperciocchè in niun luogo andava
egli, che non vi lasciasse dei benefizii, con esenzioni e privilegii,
o con fabbriche degne di un par suo. Dione[898] attesta ch'egli
magnificamente aiutò ed abbellì le città da lui visitate, chi con
danari, chi con acquedotti o porti, chi con templi, ed altri pubblici
edifizii, o con accrescimento d'onori. Sotto l'antecedente anno
l'autore della cronica alessandrina[899] scrive che Adriano edificò le
piazze di Nicomedia e di Nicea, e i Crociali, e le mura che guardano
verso la Bitinia. Fabbricò inoltre il tempio di Cizico, e in quella
città selciò di marmi la piazza. Colla stessa generosità in molte
altre illustri città alzò vari templi, e varie statue fece mettere in
essi. Aggiugne lo storico Dione, che nella maggior parte delle città,
dove si lasciò vedere, fabbricò de' teatri, e v'istituì dei
combattimenti annuali. Così dappertutto risuonava la fama e il nome di
Adriano, come di comune benefattore di tutto il romano imperio. Varie
iscrizioni in testimonianza di questo ho anch'io rapportato
altrove[900]. Non è inverisimile, che verso il fine dell'anno egli si
riducesse di nuovo ad Atene, città sopra le altre a lui cara, e quivi
soggiornasse ne' mesi del verno, moltiplicando le grazie verso quella
città. In essa volle anche esser presidente dei pubblici giuochi e
combattimenti. Fu osservato che molti de' Greci portavano dei
coltelli, anche andando ai lor templi. O per ordine o per riverenza di
Adriano niuno osò allora di portarli.

NOTE:

[898] Dio, lib. 69.

[899] Chron. Paschale. Histor. Byzantin.

[900] Thesaurus Novus Inscript., tom. 1.




    Anno di CRISTO CXXV. Indizione VIII.

    SISTO papa 9.
    ADRIANO imperadore 9.

_Consoli_

PUBLIO CORNELIO SCIPIONE ASIATICO, per la seconda volta, e QUINTO
VETTIO AQUILINO.


Camminando noi sul supposto, che Adriano Augusto soggiornasse nel
presente verno in Atene, allora dovette succedere ciò che narra
Sparziano, cioè ch'egli volle intervenire[901] alle sacre feste di
Cerere, che si faceano nella città di Eleusi o sia Eleusina. Rinomati
erano i misteri di que' sacerdoti, cioè i riti e le cerimonie che si
adoperavano nel culto di quella falsa deità, appunto perchè segreti e
non veduti dal popolo. Per grazia pochi si ammettevano alla conoscenza
e participazione di sì fatte superstizioni ed imposture. Adriano, ad
esempio d'Ercole e di Filippo il Macedone, ne volle essere partecipe,
e farsi ascrivere al ruolo di que' divoti. Venne poi da Atene a
visitar le città della Sicilia, ed anche ivi è da credere che con
larga mano spargesse benefizii, dacchè abbiamo una medaglia, in cui
vien appellato Restitutore della Sicilia. Volle quivi visitare il
monte Etna, per vedere la nascita del sole, la quale si dicea che
rappresentava l'arco baleno. Dopo tante girate finalmente si restituì
a Roma.

NOTE:

[901] Spartianus, in Hadriano.




    Anno di CRISTO CXXVI. Indizione IX.

    SISTO papa 10.
    ADRIANO imperadore 10.

_Consoli_

MARCO ANNIO VERO per la terza volta, ed EGGIO AMBIBULO.


Il primo de' consoli _Annio Vero_, sappiam di certo che fu avolo
paterno di _Marco Aurelio_ imperadore; non così certo è il suo prenome
di Marco. Ho io appellato il secondo _Eggio Ambibulo_, fondato sopra
un'iscrizione da me rapportata altrove[902], ed esistente nel Museo
Capitolino. Credette il cardinal Noris[903], ch'egli portasse i nomi
di _Lucio Vario Ambibulo_, adducendone per prova due iscrizioni
riferite dal Reinesio. Ma i marmi reinesiani non dicono che quel
_Lucio Vario Ambibulo_ fosse console, e perciò nulla si oppongono al
marmo da me sopra citato. Il padre Pagi[904] pieno della idea de'
quinquennali, decennali, quindecennali, ec. degl'imperadori, de' quali
sì spesso favella, pretende che il motivo d'Adriano per tornare a
Roma, fosse affin di celebrare in quest'anno le feste che si usavano,
allorchè gli Augusti compievano il decimo anno del loro imperio.
Eusebio[905], con cui vanno concordi l'autore della cronica
alessandrina, e Paolo Orosio, scrive che nel presente anno dal senato
romano fu conferito ad Adriano il titolo di _Padre della Patria_, e a
_Giulia_ Sabina sua moglie quello di _Augusta_. Ma che ciò succedesse
in quest'anno, si può giustamente dubitarne, trovandosi
iscrizioni[906] e medaglie[907], nelle quali prima di questi tempi
Adriano si vede intitolato _Padre della Patria_. Abbiamo poi da
Sparziano[908] che continuando questo imperadore nel desiderio di
visitar tutte le provincie dell'imperio, dopo essersi fermato qualche
tempo in Roma, passò in Africa, dove non men si fece conoscere
liberale di grazie e di benefizii verso quelle città, che fosse stato
verso le altre di sopra menzionate. Veggonsi medaglie[909], nelle
quali è appellato Ristoratore dell'Africa, della Mauritania, della
Libia. Terminata poi la visita di quelle provincie, tornò a Roma, per
quivi soggiornare nel verno.

NOTE:

[902] Thesaurus Novus Inscript., p. 323, n. 2.

[903] Noris, Espistol. Consular.

[904] Pagius, Critic. Baron.

[905] Eusebius, in Cron.

[906] Gruterus, Thesaur. Inscript.

[907] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[908] Spartianus, in Hadriano.

[909] Mediobarbus, in Numismat. Imp.




    Anno di CRISTO CXXVII. Indizione X.

    TELESFORO papa 1.
    ADRIANO imperadore 11.

_Consoli_

TIZIANO e GALLICANO.


Finora non si sono scoperti in sicure memorie i prenomi e i nomi di
questi consoli. Assai fu in uso de' Romani il distinguere le persone
nobili, una dall'altra coll'ultimo lor cognome, o sia soprannome.
Questo solo dovea bastare per intendere chi fosse l'uno e l'altro de'
consoli. Opinione poi fondata è, che in quest'anno succedesse il
glorioso martirio di _san Sisto_ papa, in cui luogo nella cattedra di
san Pietro fu sustituito _Telesforo_. Quanto tempo si fermasse in Roma
Adriano, non si sa. Sembra bensì credibile, che ogni qualvolta egli
tornava a Roma, rallegrasse il popolo con un congiario, e con altre
fogge di regali. Le medaglie[910] ci hanno conservata la memoria di
varie _Liberalità_ di Adriano, e ne contano fin sette. Secondochè
scrive Sparziano[911], si rimise poi in viaggio il non mai stanco
Augusto, per visitare un'altra volta la Grecia e l'Asia,
verisimilmente bramoso di conoscere, se le fabbriche già da lui
ordinate in varie città, fossero compiute. Tali trovò quelle che egli
avea disegnato in Atene, e celebrò la festa della lor dedicazione. Fra
gli altri suntuosi edifizii, ch'egli fece fabbricare in Atene, si
contò quello di Giove Olimpio, il quale sembra, siccome dirò, compiuto
solamente nell'anno 134. In alcune iscrizioni[912] da me date alla
luce, egli è chiamato _Adriano Olimpio_. Sembra ancora che
l'adulazione greca arrivasse a dare a lui il titolo di _Giove
Olimpio_: il che, se fosse, sarebbe da cercare chi più meritasse il
nome di pazzo, o chi lo dava o chi lo riceveva. Oltre a ciò si osserva
nelle iscrizioni suddette, che dimorando Adriano in Atene, varie città
gli spedirono ambasciatori, per rallegrarsi del di lui felice ritorno
in quelle parti. Pare anche verisimile, ch'egli innamorato di Atene,
si fermasse ivi tutto il seguente verno. Troppo si compiaceva egli di
trovarsi tra i filosofi e le persone letterate. Di queste tuttavia era
doviziosa la scuola d'Atene; e sopra gli altri furono in gran credito
alla corte di Adriano _Epitteto_, insigne filosofo stoico, di cui ci
restano il manuale, operetta aurea, e molti suoi documenti nel libro
di Arriano suo discepolo; e _Favorino_ sofista, o sia oratore,
dottissimo tanto nella latina che nella greca lingua, di cui molto
parla Aulo Gellio[913]. Di lui si racconta[914] che avendogli un
giorno Adriano, principe uso di fare l'arcifanfano nelle lettere,
riprovata una parola, adoperata da esso oratore in qualche scritto,
dopo breve contrasto Favorino gliela diede vinta. Rimproverandolo
poscia di codardia gli amici suoi, perchè quella era parola buona,
autenticata dall'uso fattone da alcuni accreditati scrittori, egli
saporitamente ridendo, loro rispose: _Trattandosi di uno che ha trenta
legioni al suo comando, non volete voi ch'io il creda più dotto di
me?_ Ma cadde egli in fine dalla grazia di Adriano, perchè non sapea
questo capriccioso e volubile Augusto sofferir lungamente chi potea
far ombra al preteso suo universal sapere. E se n'avvide Favorino,
allorchè fu per trattare una sua causa davanti a lui, pretendendo
l'esenzione dal sostenere le cariche della sua patria Arles nella
Gallia. Conobbe assai, che Adriano era per dargli la sentenza contro;
e però quando si credea ch'egli venuto al contradditorio perorasse per
la sua pretensione, altro non disse, se non che apparitogli la notte
in sogno il suo maestro (forse Dione Grisostomo) l'avea esortato a non
lasciarsi increscere di far quello che faceano gli altri suoi
concittadini. Aveano gli Ateniesi eretta a quel filosofo una statua.
Inteso ch'egli era decaduto dal favore di Adriano, corsero ad
abbatterla[915]. Ne fu portata la nuova a Favorino, ed egli senza
punto scomporsi, rispose: _Avrebbe ben voluto Socrate essere trattato
dagli Ateniesi a così buon mercato._ Anche _Dionisio da Mileto_,
eccellente sofista, godè un tempo della grazia di Adriano; ma perchè
un giorno gli scappò detto ad Eliodoro segretario delle lettere di
esso imperadore; _Cesare ti può ben caricar di onori e di ricchezze,
ma non ti può far divenire oratore_, Adriano l'ebbe da lì innanzi in
odio. Per altro questo imperadore, siccome ho detto di sopra,
s'intendeva di tutte le arti e scienze, e lasciò scritti vari libri,
di dicitura per lo più scura ed affettata, ed uno massimamente della
sua vita. Ma usava di pubblicarli sotto nome de' suoi liberti, uno de'
quali fu _Flegonte_, di cui tuttavia resta un'operetta degli
Avvenimenti maravigliosi, e che compose molti altri libri.

NOTE:

[910] Idem, ibid.

[911] Spartianus, in Hadriano.

[912] Thesaurus Novus Inscript., p. 235.

[913] Spartianus, in Hadriano.

[914] Aulus Gellius, Noct. Attic.

[915] Philostratus, in Sophistis.




    Anno di CRISTO CXXVIII. Indizione XI>.
    TELESFORO papa 2.
    ADRIANO imperadore 12.

_Consoli_

LUCIO NONIO ASPRENATE TORQUATO per la seconda volta, e MARCO ANNIO
LIBONE.


Fu quest'_Annio Libone_ zio paterno di _Marco Aurelio_, poscia
imperadore, come si ricava da Giulio Capitolino[916]. Seguitando
quella poca traccia che dei viaggi di Adriano ci ha lasciato
Sparziano[917], possiam credere ch'esso Augusto nell'anno presente da
Atene ripassasse nell'Asia, per osservare se ivi ancora erano stati
eseguiti gli ordini suoi, e perfezionate le fabbriche e i lavori da
lui nel primo suo viaggio disegnati. In fatti vi fece la consecrazione
di molti templi, appellati di Adriano. Andò nella Cappadocia, e quivi
raunò gran copia di servi o sia schiavi per servigio delle armate, e
non già per farli soldati. A tutti i re e principi barbari di quelle
vicinanze fece sapere il suo arrivo, per confermar la buona amicizia
con tutti. Molti di essi vennero ad attestargli il loro ossequio, e
Adriano li trattò e regalò così generosamente, che si trovarono ben
pentiti coloro i quali ebbero difficoltà di venire ad inchinarlo. Più
degli altri se ne pentì _Farasmane_, probabilmente re dell'Iberia, che
con insolente alterigia avea ricusato di comparire davanti a lui.
Tuttavia Sparziano più di sotto scrive, che Adriano fece dei gran
donativi a molti di quei re, comperando la pace dalla maggior parte di
essi; ma verso niuno fu così liberale, come verso il re dell'Iberia,
al quale, oltre ad altri magnifici regali, donò un lionfante e una
coorte di cinquecento uomini d'armi. _Farasmane_ anch'egli dal canto
suo gl'inviò de' superbi donativi, e fra essi delle vesti di tela
d'oro. Ma Adriano, per deridere i di lui regali, ordinò che trecento
uomini condannati a morte andassero a combattere nell'anfiteatro,
vestiti di tela d'oro. Invitò anche _Cosroe re de' Parti_, con
rimandargli la figliuola, già presa da Trajano, e con promettergli la
restituzione del trono d'oro, ma senza mantenergli poi la parola. Era
la vanità principal compagna di Adriano in tutti questi viaggi.
Abbiamo da Arriano[918], che questo imperadore diede dei re ai popoli
de' Lazii, degli Abasgi, de' Sanigi e degli Zughi, tutti situati verso
le parti del mar Nero. Continuando egli poscia a girar per le
provincie romane, poste nell'Asia, quanti uffiziali ritrovò che si
erano abusati delle loro autorità in pregiudizio de' popoli,
severamente li gastigò, e a molti tolse la vita. Venuto nella Soria,
ebbe sopra tutto in odio il popolo di Antiochia, senza che ne
apparisca il motivo: di modo che pensò di separar la Fenicia dalla
Soria, acciocchè Antiochia non fosse in avvenire capo di tanto paese.
E che in fatti la separasse, e ch'egli veramente venisse in quest'anno
nella Soria, lo prova il padre Pagi[919] colle antiche medaglie. Certo
è, che gli Antiocheni si pregiavano di una lingua tagliente. Forse li
guardò di mal occhio per questo. Volle poi visitare il monte Casio,
dove situato era un rinomato tempio di Giove, e salì colà di notte,
per veder la mattina nascere il sole; ma insorse un temporale, la cui
pioggia il bagnò, e un fulmine cadde sopra la vittima, mentre egli
preparava il sagrifizio. Passò in appresso Adriano dalla Soria
nell'Egitto.

NOTE:

[916] Capitolinus, in Marco Aurelio

[917] Spartianus, in Hadriano.

[918] Arrianus, de Pont.

[919] Pagius, in Critic. Baron.




    Anno di CRISTO CXXIX. Indizione XII.

    TELESFORO papa 3.
    ADRIANO imperadore 13.

_Consoli_

QUINTO GIULIO BALBO e PUBLIO GIUVENZIO CELSO per la seconda volta.


_Celso_ fu un insigne giurisconsulto di questi tempi. Ad essi ordinari
consoli furono sostituiti _Cajo Nerasio Marcello_ e _Gneo Lollio
Gallo_, siccome osservò il Panvinio[920], con produrre un'iscrizione
antica. Un'altra data alla luce dal canonico Gorio[921], ci fa vedere
consoli insieme _Giuvenzio per la seconda volta, e Marcello_ anch'esso
_per la seconda_: laonde si può dubitare che _Balbo_ fosse mancato di
vita prima di compiere i mesi del suo consolato, o ch'egli prima del
collega scendesse. Scrisse Sparziano[922] che essendo stato Adriano
tre volte console promosse molti altri al terzo consolato, ed infiniti
al secondo; il che sembra da lui detto con troppa esagerazione. Che
nell'anno precedente venisse Adriano nell'Egitto, e viaggiasse nel
presente infaticabilmente per quei paesi, lo provò il padre Pagi[923]
colle medaglie battute da varie città egiziane nell'anno 11 di esso
Adriano. Ora in quest'anno egli fece il viaggio per l'Arabia, e di là
tornò a Pelusio, dove fece con maggior magnificenza rifare il sepolcro
di Pompeo il Grande. Mentr'egli navigava pel Nilo, perdè _Antinoo_,
giovinetto nato in Bitinia, di rara bellezza, suo gran favorito, ma
come si credeva per motivi degni della detestazione di tutti. Nella
cronica di Eusebio appunto sotto quest'anno è riferita la di lui
morte. Fece correre voce Adriano, che Antinoo caduto nel Nilo si fosse
affogato. Ma per testimonianza di Sparziano[924] e di Dione[925],
opinion comune fu che Antinoo offerisse ai falsi dii la volontaria sua
morte, per soddisfare a una bestial curiosità o empia superstizione di
Adriano, il quale vago della magia, o credulo alle imposture del
gentilesimo[926], si figurò di prolungar la sua vita coll'iniquo
sacrifizio di questo giovine; oppure, come pensò il Salmasio, volle
cercar nelle viscere di lui l'augurio dei fatti avvenire. Comunque
sia, certo è, per attestato di Sparziano, che Adriano pianse la morte
di Antinoo, come fan le donnicciuole; poscia per consolar sè stesso, e
ricompensare il defunto giovinetto, il fece deificare dai Greci; pazza
e ridicola risoluzione, per tale riconosciuta anche dagli stessi
Gentili, ma specialmente dai Cristiani d'allora, che si servirono di
questa empia buffonata per maggiormente screditare la stolta religion
de' Pagani, come si può vedere ne' libri di san Giustino, di
Tertulliano, di Origene e d'altri difensori della santa religione di
Cristo. Ma che non sa far l'adulazione? Per guadagnarsi merito con
Adriano, i popoli accettarono questo novello dio, gli alzarono statue
per tutto l'imperio romano; più templi furono fabbricati in onore di
lui, con sacerdoti apposta, i quali incominciarono anche a fingere
ch'egli dava le risposte come un oracolo. E gli strologhi, osservata
in cielo una nuova stella, non ebbero vergogna di dire che quell'era
Antinoo trasportato in cielo. Lo stesso Adriano, con dire di vederlo
colà, dava occasion di ridere alla gente savia. Fece egli dipoi
fabbricare una città nel luogo dove morì, e fu seppellito Antinoo,
alla quale pose il nome di Antinopoli, di cui poche vestigia oggidì
restano nell'Egitto.

NOTE:

[920] Panvinius, in Fastis Consul.

[921] Gorius, in Inscript. Etrur.

[922] Spartianus, in Hadriano.

[923] Pagius, in Critic. Baron.

[924] Spartianus, in Hadriano.

[925] Dio, lib. 69.

[926] Aurelius, in Epitome.




    Anno di CRISTO CXXX. Indizione XIII.

    TELESFORO papa 4.
    ADRIANO imperadore 14.

_Consoli_

QUINTO FABIO CATULLINO e MARCO FLAVIO ASPRO.


Non è inverisimile che Adriano stoltamente impegnato ad eternar la
memoria del suo Antinoo, passasse il verno di quest'anno nell'Egitto.
Siccome egli stendeva il guardo a tutte le provincie del romano
imperio per beneficarle, così non avea lasciato indietro la Giudea. Ha
creduto il padre Petavio[927], ch'egli in quest'anno e non prima
rifabbricasse l'abbattuta città di Gerusalemme, e le desse il nome suo
proprio, chiamandola Elia Capitolina, deducendolo da Sparziano, che
nulla dice di questo. Solamente scrive egli[928], che trovandosi
Adriano in Antiochia (probabilmente, siccome abbiam supposto,
nell'anno 128) i Giudei si sollevarono per cagion di un editto, in cui
veniva loro vietato il castrarsi; il che, per quanto si può credere,
vuol dire che loro fu proibita la circoncisione. Non potendo essi
sofferire un divieto cotanto opposto alla lor legge, si mossero a
ribellione. Abbiamo all'incontro da Dione[929], che Adriano fatta
fabbricare Gerusalemme, e mutatole il nome, nel luogo, dove dinanzi
era il tempio dedicato al vero Dio, ne edificò uno in onore di Giove,
e pose in quella città una colonia di gentili romani. Perderono la
pazienza i Giudei al vedere in casa loro venir a piantare una stabile
abitazione gente straniera, e in faccia loro alzato un tempio
all'idolatria; e però non seppero contenersi da' movimenti di
ribellione. Ma finchè Adriano Augusto si fermò in quelle vicinanze,
cioè nell'Egitto e nella Soria, non ardirono di venire all'armi, ed
attesero a covar l'ira loro, aspettando tempo più opportuno per dar
fuoco alla mina. Il padre Pagi, che crede riedificata Gerusalemme
nell'anno 119, differisce sino all'anno 155 la nuova nominazion di
Gerusalemme, e non va certo d'accordo con Dione. Santo Epifanio[930]
scrive, che Adriano passò nella Palestina, e visitò quel paese, dopo
essere stato nell'Egitto. Nulla è più verisimile, che andando egli
dalla Soria in Egitto, oppur nel ritorno, visitasse quella provincia.
Ci ha conservata Vopisco[931] nella vita di Saturnino una lettera,
scritta da Adriano a _Serviano_ suo cognato, nell'anno 134, in cui
descrive i costumi degli Egiziani, come aveva egli stesso osservato,
allorchè fu in quelle contrade, cioè dipinge il popolo specialmente di
Alessandria, come gente volubile, inquieta, pronta sempre alle
sedizioni e alle ingiurie. Se vogliamo prestar fede a lui, i _Gentili
vi adoravano Cristo, i Cristiani vi adoravano Serapide, essendo amanti
solo di novità. Non vi era Giudeo, Samaritano, Cristiano, che non
attendesse alla strologia, agli augurii_: benchè il Salmasio stimi
doversi altrimente spiegar quelle parole: _I Cristiani, i Giudei, i
Gentili non vi conoscevano che un Dio_, probabilmente l'interesse.
_Alessandria era piena di popolo, di ricchezze; niuno vi stava in
ozio; si facevano lavorare fino i ciechi, e quei che pativano di
podagra e chiragra. Loro aveva Adriano confermati gli antichi
privilegii, aggiuntine de' nuovi. Tuttavia appena fu egli partito, che
dissero un mondo di male di lui e dei suoi più cari_. Così Adriano. Ma
che i Giudei e i Cristiani tutti adorassero Serapide, e che fossero
tutti gente superstiziosa e cattiva, non siam tenuti a stare al
giudizio di un Adriano gentile. Di qua bensì intendiamo, quanto in
quella città fosse cresciuto il numero de' Cristiani, e che Adriano li
lasciava vivere in pace. Scrive poi Lampridio[932], aver avuto in
animo questo imperadore di ricevere _Cristo Signor nostro per Dio_, al
qual fine avea fabbricati molti templi senza statue. Ma il Casaubono e
il Pagi credono ciò una diceria popolare. Nè questo s'accorda col
dirsi da Sparziano[933], che Adriano gran diligenza e zelo mostrò per
le cose sacre di Roma, e sprezzò le forestiere.

NOTE:

[927] Petavius, in Chronol.

[928] Spart., in Hadriano.

[929] Dio, lib. 69.

[930] Epiphanius, de Mensuris.

[931] Vopiscus, in Saturn.

[932] Lampridius, in Alexandro Severo.

[933] Spartianus, in Vita Hadriani.




    Anno di CRISTO CXXXI. Indizione XIV.

    TELESFORO papa 5.
    ADRIANO imperadore 15.

_Consoli_

SERVIO OTTAVIO LENATE PONZIANO e MARCO ANTONIO RUFINO.


In un'iscrizione riferita dal Grutero[934] il secondo console vien
chiamato _Annio Rufino_. Quello è un errore. _Antonio Rufino_ ho io
trovato in più di un'antica copia di quel marmo. Secondo la Cronica
d'Eusebio, fu circa questi tempi compiuta in Roma, per ordine di
Adriano, la fabbrica del tempio di Venere e di Roma, e se ne fece la
dedicazione. Era questo uno de' più sontuosi edifizii dell'augusta
città, per la gran quantità e bellezza dei marmi, coi quali era
fabbricato o incrostato, e col tetto coperto di tegole di bronzo, che
poi servirono, a' tempi di Onorio I per coprire la basilica di san
Pietro. Altri riferiscono all'anno seguente la dedicazione del tempio
suddetto, che fu la morte dell'architetto _Apollodoro_, come di sopra
accennai all'anno 120. Per attestato ancora del medesimo Eusebio[935]
fu pubblicato in quest'anno l'editto perpetuo, composto dall'insigne
giurisconsulto _Salvio Giuliano_, che fu uno de' principali
consiglieri di Adriano. Imperciocchè[936] questo imperadore ebbe il
lodevol costume, allorchè andava a giudicare e a decidere le
controversie, di avere per assistenti non solamente i suoi amici e
cortigiani, ma anche i migliori giurisconsulti, approvati prima dal
senato; ed egli principalmente si serviva del suddetto _Salvio
Giuliano_, di _Giulio Celso_ e di _Nerazio Prisco_. Gran diversità era
allora nei giudizii per le provincie; chi decideva a una maniera e chi
all'altra. Adriano, affinchè si camminasse con uniformità dappertutto,
volle che Giuliano formasse una raccolta di leggi ed editti, creduta
bastevole a terminar con giustizia tutte le cause. Di questo editto
perpetuo si veggono raccolti i frammenti nell'edizion dei Digesti
fatta da Dionisio Gotofredo. Le apparenze sono, che Adriano
abbandonasse in quest'anno l'Egitto, e passando per la Soria e per
l'Asia, tornasse alla sua diletta città di Atene, dove, per
testimonianza di Eusebio, egli stette tutto il verno seguente. Giacchè
non abbiamo storico migliore, che ci somministri un buon filo per
seguitare i passi di questo imperadore, non è temerità l'attenersi ad
Eusebio.

NOTE:

[934] Gruterus, Thesaurus Inscription., p. 337.

[935] Euseb., in Chron.

[936] Spartianus, in vita Hadriani.




    Anno di CRISTO CXXXII. Indizione XV.

    TELESFORO papa 6.
    ADRIANO imperadore 16.

_Consoli_

SENTIO AUGURINO ed ARRIO SEVERIANO per la seconda volta.


Non _Severiano_, ma _Sergiano_ è chiamato in vari Fasti il secondo di
questi consoli, e però resta indecisa la lite intorno al di lui vero
cognome. Dimorò[937] Adriano tutto questo verno, e forse il resto
dell'anno presente, in Atene, dove celebrò i suoi quindecennali, cioè
l'anno quindicesimo compiuto del suo imperio[938]. Per attestato di
Eusebio, tornò a visitar le misteriose imposture di Cerere Eleusina;
compiè molte fabbriche in Atene; vi fece de' suntuosi giuochi, fra'
quali una caccia di mille fiere. Sopra tutto quivi formò una
biblioteca delle più copiose e belle che fossero nell'universo. Per
tutto il tempo che si fermò Adriano[939] nelle vicinanze della Giudea,
cioè nella Soria e in Egitto, i Giudei, benchè pieni di rabbia a
cagione del tempio di Giove fabbricato in Gerusalemme, si tenner per
paura quieti. Ma intanto andavano disponendo tutto per ribellarsi a
suo tempo. Fecero preparamenti d'armi, fortificarono vari siti,
formarono cammini sotterranei per ricoverarvisi in caso di bisogno; e
sopra tutto spedirono segreti messi per le varie città dell'imperio,
acciocchè quei della lor nazione accorressero in lor aiuto, o
formassero delle sedizioni. Nè lasciarono di commuovere anche altre
nazioni a prendere l'armi, facendo loro sperare non pochi vantaggi e
guadagni. Dacchè dunque videro Adriano molto allontanato dalle loro
contrade, cominciarono apertamente a non voler ubbidire ai magistrati
romani; ma non osando di venire a combattimenti, attendevano solamente
a premunirsi contro la forza de' Romani. Però Eusebio mette all'anno
presente il principio di questa guerra.

NOTE:

[937] Euseb., in Chron.

[938] Blanchinius, in Anastasium.

[939] Dio, lib. 69.




    Anno di CRISTO CXXXIII. Indizione I.

    TELESFORO papa 7.
    ADRIANO imperadore 17.

_Consoli_

MARCO ANTONIO IBERO e NUMMIO SISENA.


Un'iscrizione rapportata dal Doni[940] ci ha scoperto il prenome del
console Ibero. Dove soggiornasse Adriano nell'anno presente, io nol so
dire. Che fosse ritornato a Roma, non apparisce da alcuna memoria. Il
dire col Tillemont[941], ch'egli fu in questi tempi in Egitto e
nell'anno seguente nella Soria, non si accorda con Dione[942], che fa
ribellati i Giudei, dappoichè Adriano si fu ben allontanato dai lor
paesi: il che dovette succedere nell'anno precedente. Ma o fosse egli
tuttavia in Atene, come io vo' sospettando, o fosse ripassato in Asia,
si può credere che egli non istesse fermo in un sol luogo: tanta era
la sua vaghezza di viaggiare, e di acquistarsi credito colle sue
maniere popolari fra tutt'i popoli. Abbiamo da Sparziano[943], ch'egli
in Atene volle essere uno degli Arconti. Nella Toscana, benchè
divenuto imperadore, esercitò la pretura; e per le città del Lazio si
compiacque degli uffizii municipali di Dittatore, Edile e Duumviro. In
Napoli volle essere Demarco, o capo del popolo; in Italica, sua
patria, in Ispagna, quinquennale; e in Adria, da cui ebbero origine i
suoi maggiori, ebbe il medesimo uffizio di quinquennale. A tutta prima
non fecero i magistrati romani[944] gran caso dei movimenti degli
Ebrei; ma dappoichè si avvidero che si accendeva il fuoco per tutta la
Giudea, e che per l'altre parti dell'imperio romano la nazion giudaica
facea delle adunanze, delle minacce e peggio ancora: Adriano pensò
allora daddovero a reprimere il loro ardire e disegno. Perciò spedì
rinforzi di gente a _Tenio Rufo_, governatore della Giudea, ed ordinò
che i migliori suoi generali passassero in quelle parti. Uno di questi
fu _Giulio Severo_. Abbiamo da Eusebio[945], che i Giudei aveano
saccheggiata la Palestina. Lor capitano era un certo Cochebas o
Barcochebas, uomo sommamente crudele. Fece costui quanto potè per
indurre i Cristiani a prendere anch'essi l'armi contra de' Romani; ma
i cristiani istruiti dalla lor santa legge, che s'ha da osservare la
fedeltà anche ai principi cattivi, non ne vollero far altro; e però lo
spietato Giudeo non solamente contra de' Romani, ma anche contra di
quanti cristiani gli caddero nelle mani, andò sfogando il suo sdegno,
con fargli aspramente tormentare e morire. Ma sopraggiunti gli
eserciti romani, poco potè far fronte alla superiore lor forza.

NOTE:

[940] Donius, Inscription. Antiquar.

[941] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[942] Dio, lib. 69.

[943] Spartianus, in Vita Hadriani.

[944] Dio, lib. 69.

[945] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO CXXXIV. Indizione II.

    TELESFORO papa 8.
    ADRIANO imperadore 18.

_Consoli_

CAJO GIULIO SERVIANO per la terza volta, e CAJO VIBIO VARO.


_Serviano_ console ordinario dell'anno presente era il cognato di
Adriano, perchè marito di _Paolina_, sorella di lui. Però a quest'anno
appartiene la lettera, che di sopra all'anno 230 dicemmo a lui scritta
da Adriano intorno ai costumi degli Alessandrini ed Egiziani, e a noi
conservata da Vopisco[946]. Fa conoscere quella lettera, che Adriano
era stato in Egitto, e tuttavia dimorava ne' primi mesi di quest'anno
lungi da Roma. Non è improbabile ch'egli andasse visitando le città e
le isole della Grecia. Avea nel precedente anno cominciata _Giulio
Severo_ la guerra contro ai Giudei; nel presente la terminò, se
sussiste la cronologia di Eusebio[947], che ne riferisce il fine sotto
quest'anno. Così gran fatti ne racconta Dione[948], che parrebbe non
essersi potuto smorzar quell'incendio in poco tempo. Scrive egli
adunque, che Giulio Severo, valoroso ed accorto generale di Adriano,
non si attentò mai di venire con quella gente disperata, ed ascendente
ad un numero eccessivo, ad una battaglia campale. Ma assalendoli in
corpi separati, impedendo loro i viveri, e rinserrandoli a poco a
poco, e senza azzardare, ne fece un terribil macello, sì fattamente,
che pochissimi salvarono la vita. È da credere ch'egli non la
perdonasse nè pure alle donne, a' fanciulli e ai vecchi; imperocchè vi
perirono, se dobbiamo stare in ciò all'asserzione di quello storico,
cinquecento ottantamila persone di nazione giudaica, tagliate a pezzi,
senza contare i morti di fame, fuoco e malattia, che fu una
moltitudine incredibile. Cinquanta buone loro fortezze vennero in
poter de' Romani: e novecento ottantacinque belle terre, castella e
borghi furono tutti spianati, di modo che quasi tutta la Palestina
rimase un paese deserto. Costò nondimeno assai caro anche ai Romani
quella impresa, perchè ve ne perirono parecchie migliaia; e perciò in
occasione che Adriano scrivendo al senato in questi tempi (segno
ch'egli era lungi da Roma) non si servì dell'usato esordio secondo il
formolario, cioè di quelle parole: _Se voi e i vostri figliuoli siete
sani, me ne rallegro. Quanto a me e all'esercito, noi siam tutti
sani._ Terminata secondo i giusti giudizii di Dio questa gran rovina
del popolo giudaico[949], Adriano pubblicò un editto, che sotto pena
della vita niun Giudeo potesse più entrare in Gerusalemme, e nè pure
appressarvisi. Ma non si mantenne questo gran rigore sotto i
susseguenti Augusti. Diede lo stesso Adriano in ricompensa del buon
servigio a _Giulio Severo_ il governo della Bitinia, esercitato poscia
da lui con tal giustizia, prudenza e nobil contegno, e con sì fatta
cura non men de' pubblici che de' privati affari di quel paese, che
Dione, nativo di lì, attesta essere stata anche ai suoi dì in
venerazione la di lui memoria. Insorse poco appresso un altro torbido
in Levante, perchè gli Alani, appellati anche Massageti, mossi da
_Farasmane re_ loro, diedero il sacco alla Media e all'Armenia,
scorrendo fin sulle terre della Cappadocia, dove era governatore
_Flavio Arriano_, forse quel medesimo, di cui ci restano alcuni libri.
I regali fatti da _Vologeso_ (probabilmente re dell'Armenia) a que'
Barbari, e la paura dell'esercito romano raunato da Arriano, fecero da
lì a non molto cessare le loro ostilità e i saccheggi. Si può ricavar
da Dione, che in questi tempi l'Augusto Adriano stanziasse in Atene,
dove dedicò il tempio di Giove Olimpico, in cui fu anche posto la
statua di lui col suo altare, e un drago fatto venire dall'India.
Solennizzò ivi Adriano con gran magnificenza le feste di Bacco, e vi
fece la sua comparsa, vestito in abito di Arconte. Diede inoltre
licenza ai Greci adulatori di fabbricar in quella città a nome di
tutta la Grecia un tempio alla sua persona, come ad un dio; e per far
onore a questo insigne edifizio, istituì de' combattimenti e giuochi,
e donò agli Ateniesi non solo una grossa somma di danaro e del grano,
ma anche l'isola di Cefalonia. In somma di tante beneficenze colmò
egli Atene, che quasi divenne essa una città nuova. Il che fatto,
finalmente abbandonò quel caro paese, e se ne ritornò in Italia nel
presente anno, o almeno nei primi mesi del seguente.

NOTE:

[946] Vopisc., in Saturn.

[947] Euseb., in Chron. et lib. 4, cap. 6 Historiae Ecclesiasticae.

[948] Dio, lib. 69.

[949] Euseb., lib. 4, cap. 6 Histor. Hieronymus in Isaiam, cap. 6.




    Anno di CRISTO CXXXV. Indizione III.

    TELESFORO papa 9.
    ADRIANO imperadore 19.

_Consoli_

PONZIANO ed ATILIANO.


Il prenome e nome di questi consoli non si sono finora scoperti; v'ha
chi in vece di _Atiliano_ scrive _Atelano_. Da un'iscrizione atletica,
che si legge presso il Grutero e presso il Falconieri, ricavò il padre
Pagi[950], che Adriano Augusto prima del dì 3 di maggio era ritornato
a Roma, perchè un suo rescritto dato in quel giorno e nella stessa
città, appartiene alla di lui _Podestà Tribunizia XVIII_ corrente
allora. Rallegrò tosto il popolo con degli spettacoli. Nel corso delle
carrette si acquistò gran plauso uno di quei cocchieri, servo di
qualche nobile romano[951]. Il popolo con alte grida fece istanza
all'imperadore che gli desse la libertà. Addano in iscritto rispose,
_non essere cosa decente per li Romani il dimandare, che l'imperadore
dia la libertà ad un servo altrui, o forzi il padrone a dargliela_.
Ripigliò Adriano in Roma le sue solite maniere di vivere. Fra gli
altri suoi usi, andava spesso ai pubblici bagni, e si lavava con gli
altri del popolo[952]. Gli venne un dì osservato un veterano, molto
ben noto a lui, che fregava la schiena e le altre parti del corpo ai
marmi del bagno. Gliene dimandò il perchè: _Perchè non ho un servo,
rispose il soldato, che mi possa fregare._ Adriano gliene donò alcuni,
ed anche le spese in vita. Risaputosi ciò, l'altro dì vennero molti
vecchi a far lo stesso, sperando un egual trattamento. Ordinò Adriano
che si fregassero l'un l'altro. Fece molti buoni ordini. Che non fosse
lecito ai senatori il prendere nè direttamente nè indirettamente
appalto alcuno di gabelle. Che fosse vietato ai padroni l'uccidere i
loro servi, cioè gli schiavi (il che ne' tempi addietro era permesso
ai Romani) volendo che se si trovavano rei, fossero condannati dai
giudici. Soffrì nondimeno che tenessero prigioni private per li servi
e liberti. Voleva che i senatori, uscendo in pubblico, sempre
portassero la toga, eccettochè la notte. Tassò le sportole ai giudici,
riducendole all'antica moderazione. Ripudiò le eredità lasciategli da
persone ch'egli non conosceva; ed anche conoscendole, se v'erano de'
figliuoli, le rifiutò. Dilettossi forte della caccia, ed amò sì
fattamente alcuni de' suoi cavalli e cani, che fece far loro dei
sepolcri. Talvolta nelle cacce ammazzò orsi, lioni ed orse; tanta era
la sua destrezza. Non voleva che i suoi liberti avessero alcuna
autorità, nè si credesse che potessero qualche cosa presso di lui,
perchè attribuiva a questa sorta di gente la maggior parte dei
disordini passati sotto i precedenti Augusti. Osservò egli una volta,
che uno di costoro passeggiava in mezzo a due senatori. Mandò tosto
uno de' suoi domestici a dargli una guanciata, e a dirgli: _Guardati
di camminar del pari con persone, delle quali tu puoi tuttavia
divenire schiavo._ Mirabile eziandio parve la sua moderazione, perchè
quantunque infinite fabbriche facesse per tutto l'imperio romano, non
volle che si mettesse il suo nome, se non nel tempio alzato a Trajano.
Riedificò in Roma il Panteon, lo steccato del Campo Marzio, la
basilica di Nettuno, molti templi, la piazza di Augusto, il bagno di
Agrippa: contuttociò d'ordine suo fu ivi rimesso il nome dei primi
fondatori. Fabbricò sopra il Tevere il ponte chiamato di Adriano,
oggidì ponte sant'Angelo; e il suo sepolcro vicino al Tevere che ora
si chiama castello sant'Angelo; e il tempio della Buona Dea. Fece
anche un emissario al lago Fucino. Tutte queste azioni ho io raccolte
sotto quest'anno, benchè spettanti a vari tempi, acciocchè sempre più
si conosca qual imperadore fosse Adriano.

NOTE:

[950] Pagius, Critic. Baron.

[951] Dio, lib. 69.

[952] Spartianus, in Hadriano.




    Anno di CRISTO CXXXVI. Indizione IV.

    TELESFORO papa 10.
    ADRIANO imperadore 20.

_Consoli_

LUCIO CEJONIO COMMODO VERO, e SESTO VETULENO CIVICA POMPEJANO.


_Lucio Cejonio_, primo fra questi due consoli, quel medesimo è che
Adriano adottò per suo figliuolo, e destinò alla succession
dell'imperio. Resta finora in disputa l'anno preciso, in cui seguisse
tale adozione. L'esser egli nominato _Lucio Cejonio Commodo_ nei fasti
e nelle inscrizioni, cioè portando egli i nomi propri della sua
famiglia sul principio di quest'anno, fa abbastanza intendere ch'egli
non era per anche giunto alla figliuolanza di Adriano. Adottato da
lui, prese il nome di _Lucio Elio Commodo_, e il titolo di _Cesare_.
Però sentenza è di alcuni, che in quest'anno solamente seguisse la di
lui adozione. Altri la riferiscono all'anno precedente, perchè nella
lettera che abbiam detto scritta allora da Adriano a suo cognato
Serviano, egli dice che gli Alessandrini aveano tagliati i panni
addosso anche _al mio figliuolo Vero_. E perchè a _Lucio Elio_ vien
dato il cognome di _Vero_ da Sparziano, di cui si crede che parlasse
Adriano. Io per me ne dubito al vedere che Lucio Vero (che fu poi
Augusto) di lui figliuolo, ricevè da Marco Aurelio, e non da suo padre
il cognome di _Vero_. Fu poi di parere il padre Pagi[953], che fin
dall'anno 130, Adriano adottasse il suddetto _Lucio Cejonio_, ma senza
conferirgli il titolo di _Cesare_, e senza destinarlo all'imperio: il
che poi fece nell'anno presente. E con questa idea pare che vada
d'accordo Sparziano[954]. Ma non si saprà mai ben intendere, come
_Lucio Cejonio Commodo_, se prima del presente anno entrò, per via
dell'adozione, nella famiglia _Elia_, comparisse negli atti pubblici
senza il nome di _Elio_: il che poi si osserva fatto nell'anno
seguente. Certo è che il testo di Sparziano in questo racconto ha
delle contraddizioni, e probabilmente degli errori. Ma lasciate da
banda queste liti, a noi basterà di sapere che _Cejonio Commodo_ fu
adottato dall'Augusto Adriano, e perciò da lì innanzi appellato _Lucio
Elio_, ed ebbe il titolo di _Cesare_, cioè la futura promessa
dell'imperio: il che credo io fatto solamente nell'anno presente.
Volle Adriano solennizzar questa elezione, con dare al popolo romano
un congiario, e ai soldati un regalo di sette milioni e mezzo, se
dicono il vero coloro che parlano dell'antica moneta. Si fecero
correre nel circo i cavalli, ed altri divertimenti si diedero, che
accrebbero l'allegrezza del popolo. Fu in oltre esso _Elio Cesare_
disegnato console per l'anno avvenire. Il dirsi da Sparziano, che
questo principe, appena adottato, fu creato pretore, e poscia andò al
governo della Pannonia, cagiona non poco imbroglio: perchè, secondochè
osserva il padre Pagi, esercitò egli la pretura nell'anno 130; il che
poi discorda da altre notizie recate dal medesimo storico. E veramente
sembra che lo stesso Sparziano, siccome lontano da questi tempi, non
sapesse ben quel che dicesse intorno a tali affari. Fors'anche non fu
lo stesso storico, il qual descrisse le gesta di _Adriano_ e la vita
di _Lucio Elio_. Sappiamo bensì di certo, che questo principe era di
cattiva complessione ed infermiccio; per altro di vita allegra, e data
a' piaceri anche illeciti, ornato di letteratura, di grazioso aspetto,
e tale che chi volea male ad Adriano, immaginò proceduta la di lui
elezione dal riflesso piuttosto alla bellezza del corpo, che alle
virtù dell'animo. Ma s'egli godeva poca sanità, anche Adriano cominciò
a sentire venir meno la sua; anzi Dione[955] e Sparziano[956] vanno
d'accordo in dire, che per cagione appunto di questi suoi malori
Adriano si risolvesse di eleggersi questo figliuolo, con disegno di
averlo per successore.

NOTE:

[953] Pagius, in Critic. Baron.

[954] Spartianus, in Hadriano et in Ælio Vero.

[955] Dio, lib. 69.

[956] Spartianus, in Hadriano.




    Anno di CRISTO CXXXVII. Indizione V.

    TELESFORO papa 11.
    ADRIANO imperadore 21.

_Consoli_

LUCIO ELIO CESARE per la seconda volta, e LUCIO CELIO BALBINO VITULIO
PIO.


Cominciò, siccome accennai di sopra, a declinare la sanità
dell'imperadore Adriano: e fu creduto da alcuni originato questo
sconcerto dalle pioggie e dai freddi patiti in tanti suoi viaggi, e
massimamente perchè egli ebbe in uso per tutti i tempi di stare e di
andare colla testa scoperta. Soleva uscirgli di tanto in tanto il
sangue dal naso; questo cominciò a farsi più copioso. Non poca
inquietudine per altra parte gli recava l'osservare, quanto meschina
fosse anche la sanità dell'adottato suo figliuolo _Lucio Elio_, di
modo che dicono, che stette poco a pentirsi di aver messo gli occhi
sopra di lui, per farsi un successore. Certamente fu più volte udito
dire: _Ci siamo appoggiati ad una parete rovinosa, ed abbiam gittati
via dieci milioni_, dati al popolo e ai soldati per la di lui
adozione. Anzi coloro che scrissero la vita d'esso Adriano, e
nominatamente _Mario Massimo_, portarono opinione ch'egli sapesse non
dovergli sopravvivere questo figliuolo; e ciò per via della strologia,
di cui egli si dilettava forte, con dirsi insino, che Adriano, finchè
visse, andava scrivendo ciò che ogni dì gli dovea accadere. Noi
possiamo ben dispensarci dal prestar fede a queste fandonie, e v'ha
contraddizione tra il dire che lo voleva per successore, con sapere
nello stesso tempo che questo successore dovea mancare prima di lui.
Eppure aggiungono, aver più volte Adriano predetta la morte d'esso
_Lucio Elio_ e pensato a provvedersi di un altro successore. Intanto
Adriano, secondo il consiglio de' medici, i quali allorchè non han
rimedio ai mali, propongono la mutazion dell'aria, si ritirò a Tivoli,
sperando di migliorar di salute con quell'aria migliore. Se si ha da
credere a Sparziano, egli mandò Lucio Elio Cesare al governo della
Pannonia, dove si acquistò una convenevole riputazione. Ma chi mai può
persuadersi ch'egli malsano volesse allontanare da sè un figliuolo
anch'esso malconcio di sanità, e destinato a succedergli. Par ben più
verisimile, che Sparziano confondesse le azioni e i tempi, e che Lucio
Cejonio, prima d'essere adottato, esercitasse la pretura, e governasse
dipoi la Pannonia; e che creato Cesare attendesse al governo di Roma.
Attesta il medesimo storico, esser egli stato dopo l'adozione talmente
in grazia di Adriano, che tutto quel che voleva, lo impetrava
dall'imperadore, anche col solo scrivergli delle lettere: il che
suppone che potesse anche parlargli. In fatti Aurelio Vittore[957]
lasciò scritto che Adriano, ritiratosi a Tivoli, permise che Lucio
Elio Cesare restasse in Roma. Abbiamo parimente da esso Vittore, che
stando l'imperadore in Tivoli, quivi si applicò per divertirsi a
fabbricar dei palagi ed altri edifizii, ai quali diede il nome di
Liceo, Accademia, Pritaneo, Canopo, Tempe, ed altri. Attese ancora a
far de' buoni conviti, e delle gallerie di statue e pitture,
abbandonarsi anche alla lascivia, forse ad imitazione di Tiberio. Il
peggio fu che si lasciò trasportare ad imitar Tiberio anche nella
crudeltà: ma questo, a mio credere, appartiene solamente all'anno
seguente.

NOTE:

[957] Aurelius Victor, in Epitome.




    Anno di CRISTO CXXXVIII. Indizione VI.

    IGINO papa 1.
    ANTONINO PIO imperadore 1.

_Consoli_

CAMERINO e NEGRO.


Non si è potuto finora accertare quai fossero i prenomi e nomi di
questi consoli. Da alcuni per sole conghietture furono appellati
_Sulpicio Camerino_ e _Quinzio Negro_; ma meglio fia l'aspettare che
si scuopra qualche marmo che meglio ci istruisca di questa faccenda.
Per quanto s'ha dalla cronica antichissima di Damaso[958], sul
principio di quest'anno _san Telesforo papa_ compiè il corso del suo
pontificato colla corona del martirio. Quantunque Adriano niun editto
nuovo pubblicasse contra de' Cristiani, pure in vigore delle
precedenti leggi, e per lo mal animo dei sacerdoti gentili, noi
sappiamo che sotto di lui moltissimi Cristiani col sangue loro
confermarono la fede di Gesù Cristo. Vero è che, per attestato di
Eusebio[959] e di san Girolamo[960], i santi _Quadrato_ ed _Aristide_
presentarono ad Adriano le loro apologie per la religione cristiana, e
che queste fecero un buon effetto. Contuttociò non mancavano allora
dei nemici del nome cristiano, che instigavano i giudici da infierire
contra i pastori della greggia di Cristo. A Telesforo succedette nella
cattedra di san Pietro _Igino_. _Lucio Elio_ Cesare figlio adottivo di
Adriano anche egli terminò i suoi giorni nel dì primo di quest'anno.
Pareva che i suoi malori gli avessero data posa in guisa tale, che
egli si era preparato per recitar nelle calende di gennaio in senato
un'orazione composta da lui, o dettata a lui da qualche maestro, in
rendimento di grazie ad Adriano _per la sua adozione_, come narra
Sparziano[961]. Dissi per la sua adozione: parole che non possono mai
accordarsi coll'opinione del padre Pagi[962], che il vuole adottato
fin dall'anno 130. V'ha chi crede ciò fatto nell'anno 136, non avendo
egli, come si figurano, per la sua poca salute potuto soddisfare nelle
calende dell'anno precedente. Ma nè pur nelle calende di quest'anno
gli fu permesso, perchè in quel medesimo giorno la morte il rapì.
Essendo quello il tempo, in cui si formavano i voti solenni per la
salute dell'imperadore, non volle Adriano che si facesse piagnisteo
alla sepoltura di lui. Avea _Lucio Elio_ avuta per moglie una
figliuola di _Domizio Negrino_, fatto uccidere da Adriano sui
principii del suo governo; ed essa gli avea partorito un figliuolo
appellato _Lucio Cejonio Commodo_. Verso questo fanciullo vedremo in
breve quanto continuasse l'amore e la beneficenza di Adriano Augusto.

Al vedere sconcertati i suoi disegni per la morte di Lucio Elio, andò
Adriano per qualche settimana pensando a riparar questa perdita
coll'elezione di un altro figliuolo; e per buona fortuna de' Romani
egli fermò il suo guardo sopra _Tito Aurelio Fulvio_ (o Fulvo)
_Bojonio Antonino_, che era stato console nell'anno 120. Egli è
chiamato _Arrio Antonino_ da Sparziano[963]. Giulio Capitolino[964]
gli dà i suddetti nomi, e vuole che _Arrio Antonino_ fosse avolo
materno di esso _Tito Aurelio_. Conosceva molto bene Adriano le rare
virtù di questo soggetto, giacchè egli era uno de' senatori del suo
consiglio; e però gli fece intendere il disegno da lui concepito di
adottarlo per figliuolo e successor nell'imperio, colla condizion
nondimeno, che, stante l'esser esso Antonino privo di prole maschile,
anch'egli volesse adottar per figliuolo _Marco Aurelio Vero_,
figliuolo di Annio Vero, cioè di un fratello di _Sabina Augusta_ sua
moglie; e _Lucio Cejonio Commodo_, che poco fa dicemmo nato da _Lucio
Elio Cesare_, fanciullo allora di circa otto anni, perchè nato
dell'anno 130. Fu dato tempo ad Antonino tanto da pensarvi, ed avendo
egli poi accettata la favorevol offerta fattagli, e le condizioni
prescritte, _Adriano Augusto_, la cui sanità andava di male in peggio,
nel dì 25 febbraio fece la solenne funzione di dichiararlo suo
figliuolo, con dargli il titolo di _Cesare_, e farlo suo collega nella
podestà tribunizia e nel comando proconsolare. Ch'egli ancora
ottenesse il titolo d'_Imperadore_, lo stimò il padre Pagi; ma non ne
abbiamo sufficiente fondamento. Presentò Adriano questo suo nuovo
figliuolo al senato, con dire, _che giacchè la morte gli avea tolto
Lucio Elio, ne avea trovato quest'altro, nobile, mansueto e prudente,
in età da non temere, ch'egli o per temerità male operasse, o per
debolezza trascurasse gli affari_. Parea pure che l'elezione di un sì
degno personaggio avesse da tirarsi dietro l'allegrezza e il plauso di
ognuno: e pure che non può l'ambizione? Moltissimi dell'ordine
senatorio, giacchè cadauno aspirava a sì gran dignità, se l'ebbero a
male; e sopra gli altri _Catilio Severo_, già stato console, ed allora
prefetto di Roma, che si teneva in pugno l'imperio. Perchè questi
dovette lasciar traspirare i suoi lamenti, Adriano gli levò quella
carica prima del tempo consueto. L'aver egli in tal congiuntura
scoperta una tal contrarietà a' suoi voleri, con parergli anche per la
sua malattia di essere oramai sprezzato dal senato, cominciò a farlo
prorompere in alcune azioni di crudeltà. Si credettero alcuni, che
naturalmente Adriano inclinasse a questo vizio, e se ne astenesse per
la sola paura, tenendo davanti agli occhi il fine di Domiziano. Ma
Dione[965] lo niega, e da quanto abbiam detto finora, può apparire che
solamente per qualche esaltazion di bile incrudelì. Si aggiunse in
questi tempi una fastidiosa malattia, che gli svegliò il mal umore e
la rabbia non solamente contra degli altri, ma infin contra di sè
stesso: il perchè venne meno in lui la mansuetudine e la clemenza.

Si sa ch'egli fece morire _Serviano_ suo cognato, cioè marito di
_Paolina_ sua sorella già defunta[966]. Fin qui l'aveva egli amato ed
onorato sopra gli altri; l'avea promosso al terzo consolato, e sempre
usciva ad incontrarlo fuori della camera, ognivoltachè sapeva il di
lui arrivo al palazzo. Ma dappoichè fu compiuta l'adozione di
Antonino, nacque sospetto in Adriano, che Serviano, benchè vecchio di
novant'anni, meditasse di salire sul trono, deducendolo dall'aver egli
mandata la cena ai servi della corte; dell'essersi un dì messo a
sedere con gran possesso sulla sedia imperiale che stava a canto del
suo letto, e dall'esser entrato pettoruto nel quartier de' soldati,
quasi per farsi conoscere tuttavia atto al comando. Dione[967]
espressamente scrive, che _Serviano_ e _Fosco_ di lui nipote si
risentirono per l'elezione di Antonino, credendosi aggravati perchè
Adriano avesse anteposto chi non era parente ad un nipote di sua
sorella. Perciò Adriano li fece uccidere amendue. Raccontano che
Serviano prima di essere strangolato, si fece portar del fuoco, e
messovi dell'incenso, come in atto di sacrifizio, disse: _Voi
immortali dii, che ho per testimoni della mia innocenza, prego di una
sola grazia, cioè che Adriano, benchè ardentemente brami la morte, non
possa morire._ Forse fu una frottola inventata per quello che poscia
avvenne. Di altri che fossero uccisi per ordine di Adriano, non parla
Dione, che pur fu più vicino a questi tempi. Ma Sparziano scrive che
parecchi altri furono levati dal mondo o scopertamente o per insidie;
e corse fin voce, che _Sabina Augusta_, la qual forse finì di vivere
in questi tempi, per veleno datogli da Adriano terminasse i suoi
giorni. Sparziano la tien per una favola. In fatti niuno è più
soggetto alle dicerie del popolo che i gran signori. Aurelio
Vittore[968], benchè più lontano da questi tempi, arrivò a scrivere
che Adriano, prima di morire, fece ammazzar molti senatori; che Sabina
per gli strapazzi a lei usati dal marito, volontariamente si diede la
morte; e ch'ella pubblicamente sparlava del genio crudele di Adriano,
con aggiungere di aver fatto il possibile di non restare gravida di
lui, temendo di partorire qualche mostro pernicioso al genere umano. È
a noi permesso il credere che con qualche verità sia mischiata una
buona dose di falso. E se non falla Capitolino[969] in dire, che
_Marco Aurelio_ adottato per ordine di Adriano da _Antonino_, era
figliuolo di un fratello di essa Sabina; non sembra già che Adriano
nudrisse così mal animo contro la moglie. Contuttociò convengono tutti
gli storici in dire, che il merito di tante belle azioni fatte da
Adriano parve un nulla al senato in confronto della morte da lui data
sul principio del suo governo ai quattro personaggi consolari, e agli
altri sul fin di sua vita, contro replicate promesse da lui fatte, di
maniera che si era messo in testa il medesimo senato di non voler
accordare gli onori consueti dell'empia gentilità ad Adriano defunto,
siccome vedremo fra poco.

Cresceva intanto la malattia di esso Adriano, e fu in fine dichiarata
idropisia, accompagnata da dolori e da un insoffribil tedio, non solo
del male, ma anche della vita[970]. Non si stendeva la potenza di un
imperadore a trovarvi rimedio; e quantunque egli ricorresse insino
alla magia, neppur questa potè aiutarlo. Disperato adunque, altro più
non desiderava, se non di potersi dar la morte da sè stesso, o di
riceverla con veleno o con pugnale da altri. Prometteva impunità e
danari a chi gli prestasse aiuto in questo; ma niuno si sentiva voglia
di ubbidirlo. Importunato con preghiere e minacce il suo medico,
questi amò meglio di uccidersi da sè stesso, che di abbreviare la vita
al suo principe. Al medesimo fine si raccomandò ad un servo, il quale
ne corse a dar l'avviso ad Antonino. Per animarlo alla pazienza, e
levargli di capo sì nere fantasie, entrò in sua camera esso Antonino
Cesare, accompagnato dai prefetti del pretorio. Veggendosi scoperto,
entrò nelle furie Adriano, e comandò che si ammazzasse quel servo.
Antonino il salvò, facendo poi credere ad Adriano che il suo ordine
era stato eseguito. Oltre a ciò gran guardia gli fece fare per questo,
con dire che crederebbe sè stesso reo di omicidio, se avesse
tralasciato di conservarlo vivo finchè si poteva[971]. Invenzione sua
anche fu il far venire una donna, che disse ad Adriano d'avere
ricevuto ordine da una deità di avvisarlo che sarebbe guarito: e
perchè ella non l'avea fatto, era divenuta cieca. Tornò poscia a
dirgli, d'avere inteso in altro sogno, che s'ella baciasse le
ginocchia ad Adriano, ricupererebbe la vista: e così con facilità
avvenne. Si finse ancora cieco nato un uomo, venuto dalla Pannonia,
che col toccare Adriano, tornò anch'egli a vedere. Servirono queste
imposture a quietare alquanto Adriano; e tanto più che per accidente,
o perchè gli fu fatto credere, gli cessò la febbre. Volle egli dipoi
essere portato a Baja; ma quivi nel dì 10 di luglio, in età di
sessantadue anni, dopo aver detto un assai famoso motto, cioè: _I
molti medici hanno ucciso l'imperadore_, e dopo aver recitato cinque
versi sopra l'anima sua, destinata agli orrori dell'inferno,
finalmente morì. Prima di morire, chiamò da Roma _Antonino_, che
giunse a tempo di vederlo vivo, sebben Capitolino[972] sembra dire
ch'egli andò colà solamente per riportarne le ceneri a Roma. Scrive
Sparziano, che Adriano odiato da tutti, fu seppellito in Pozzuolo
nella villa di Cicerone, dove il suo successore Antonino gli fabbricò
un tempio, come ad una deità, dandogli de' Flamini ed altri sacri
ministri. Capitolino, per lo contrario, attesta che le di lui ceneri
furono portate a Roma da Antonino, esposte nel giardino di Domizia, e
riposte nel suo mausuleo (oggidì castello sant'Angelo), perchè in
quello di Augusto non v'era più luogo. Succedette a lui nell'imperio
_Antonino Pio_, di cui parleremo all'anno seguente. E si vuol ben qui
ripetere che le lettere fiorirono non poco sotto Adriano imperadore
letterato. Abbiam di sopra fatta menzione di _Favorino_ sofista, di
_Epitteto_ insigne filosofo della scuola stoica, di _Arriano_ suo
discepolo e di _Flegonte_ liberto d'esso Adriano. Oltre ad altri
scrittori vivuti allora, de' quali si son perdute l'opere, furono e
son tuttavia in gran credito _Svetonio Tranquillo_, autore delle vite
de' dodici primi imperadori, e massimamente _Plutarco_, le cui opere
meritano di essere appellate un dovizioso magazzino dell'erudizione
greca e latina, e dell'antica filosofia.

NOTE:

[958] Anastas. Bibliothecarius.

[959] Eusebius, Hist. Ecclesiast., lib. 4, c. 3.

[960] Hieron., de Viris Illustr.

[961] Spartianus, in Hadriano.

[962] Pagius, Critic. Baron.

[963] Spartianus, in Hadriano.

[964] Capitolinus, in Tito Antonino.

[965] Dio, lib. 69.

[966] Spartianus, in Hadriano.

[967] Dio, lib. 69.

[968] Aur. Victor, in Epitome.

[969] Capitolin., in Antonino Pio.

[970] Dio, lib. 69. Spartianus, in Hadr. Aurelius Victor, in Epit.

[971] Spartianus, in Hadrian. Aurel.

[972] Capitolin., in Marco Aurelio.




    Anno di CRISTO CXXXIX. Indizione VII.

    IGINO papa 2.
    ANTONINO PIO imperadore 2.

_Consoli_

TITO ELIO ADRIANO ANTONINO AUGUSTO per la seconda volta, e CAJO
BRUTTIO PRESENTE per la seconda.


Ebbe il console _Presente_ il prenome di _Cajo_, ciò risultando da una
greca iscrizione che si legge nella mia raccolta[973]. Così da
un'altra pubblicata dal Fabretti[974] apparisce che avendo _Antonino
Augusto_ deposto il consolato, a lui fu sostituito _Aulo Giunio
Rufino_. Morto Adriano imperadore nell'anno precedente, prese le
redini del governo _Antonino Pio_, ed ebbe il titolo d'_Imperadore_
(se non l'avea ottenuto prima), d'_Augusto_ e di _Pontefice Massimo_.
Era egli della famiglia _Aurelia_, originaria di Nimes, città della
Gallia, e il suo primo nome fu quello di _Tito Aurelio Fulvo_ o
Fulvio[975]. L'avolo suo, che portava lo stesso nome, tre volte ebbe
l'onore dei fasti consolari: due volte il di lui padre. _Arria
Fadilla_, sua madre, figliuola fu di _Arrio Antonino_, stato anch'esso
console, ed uno de' più illustri senatori d'allora. Tito Aurelio
suddetto si vede poi nominato _Arrio Antonino_ con indizio, che
l'avolo materno l'avesse adottato per figliuolo; e certamente fu erede
del ricco di lui patrimonio. Nacque egli nell'anno 89 della nostra Era
nella villa di Lanuvio. Nell'anno 120 dal suo merito fu portato al
consolato, imperciocchè si univano in lui la bella presenza, un
ingegno penetrante, ma insieme placido e sodo, molta letteratura,
maggiore eloquenza, e sopra tutto una rara saviezza, sobrietà ed
amorevolezza. Era liberale in donare il suo, lontano dal volere quel
d'altri, il tutto sempre operando con misura e senza giattanza. Tale
in somma comparve agli occhi dei Romani nella vita privata, e molto
più divenuto imperadore, che i saggi l'assomigliavano, e con ragione,
a Numa Pompilio. Da Adriano fu scelto per uno de' quattro consolari
che reggevano l'Italia. Proconsole dell'Asia fece un sì bel governo,
che ne riportò plauso da ognuno. Poscia ammesso nel consiglio di
Adriano, costumò in tutto ciò che era messo in consulta, di eleggere
la sentenza più mite. Stimarono alcuni, che l'avere Adriano veduto
Antonino entrar nel senato dando di braccio al d'_Annia Galeria
Faustina_ sua moglie, tanto si compiacesse di quell'atto, che per
questo il volle suo successore. Ma è ben più da credere che a tale
elezione si sentisse mosso Adriano dalla conoscenza e sperienza del
senno e delle tante virtù che concorrevano in esso Antonino.

Dappoichè egli ebbe riportate a Roma le ceneri di Adriano[976], trovò
il senato così irritato contro la memoria di Adriano per le crudeltà
sul principio e nell'ultimo di sua vita usate verso l'ordine
senatorio, che non solamente stava forte in negargli i creduti onori
divini, ma era in procinto di cassar ancora tutti i di lui atti e
decreti. Entrò in quella illustre assemblea il novello imperadore, che
per la sua adozione fu da lì innanzi nominato _Tito Elio Adriano
Antonino_, e colle lagrime agli occhi perorò in favore del defunto
padre così vivamente, che avrebbe potuto muovere ogni più duro cuore.
Vedendo tuttavia i senatori mal disposti a compiacerlo, venne
all'ultima batteria con dire, che dunque non volevano nè pur lui per
imperadore, giacchè se pensavano d'abolir tutti gli atti d'Adriano,
come di un principe cattivo e nemico, fra questi entrava anche la sua
adozione. A tali parole si piegò il senato, non tanto per riverenza ad
Antonino, quanto per timore de' soldati che erano per lui; decretando
che Adriano potesse aver luogo fra gli dii, benchè personaggio da lor
tenuto per sanguinario e crudele. Puntualmente pagò Antonino[977] di
sua propria borsa alle milizie il regalo promesso loro dal padre, e
diede al popolo un congiario fors'anche vivente lo stesso Adriano.
Restituì e condonò interamente alle città d'Italia l'oro coronario,
cioè la contribuzione o sia il donativo esibito per la sua adozione, e
ne rilasciò la metà alle provincie fuori d'Italia. Rientrato poi in sè
stesso il senato, e conoscendo che bel regalo avesse fatto Adriano con
dare alla repubblica romana un sì buono, un sì degno successore,
rivolse le sue applicazioni ad onorar Antonino, e a renderselo grato.
Gli diede il titolo di _Pio_, che comincia tosto a comparire nelle di
lui medaglie[978]. Crede il Tillemont[979], che questo nome
significasse _Buono_, e a lui fosse accordato per denotare la singolar
sua amorevolezza verso il padre, verso i parenti e la patria. Anche
gli antichi[980] ne cercarono il motivo; chi il credette appellato
così pel suo rispetto alla religione; altri perchè avea salvata la
vita a molti condannati all'ultimo supplicio da Adriano infermo e
furioso, ch'egli nascose, e dopo la di lui morte rimise in libertà: il
che par ben più credibile, che il dirsi da Dione ciò fatto, perchè sul
principio del suo governo molti furono accusati per varii reati, ed
egli non volle che alcun fosse gastigato. Il lasciare impuniti certi
delitti, che turbano la pubblica quiete, non suol essere molto
glorioso ne' principi, ed è nocivo al pubblico. Per altro la clemenza
è una bella gemma della lor corona, e per questo crede Eutropio
ch'egli meritasse il titolo di Pio. Le medaglie ancora[981] battute in
quest'anno ci possono assicurare che fu onorato Antonino col bel nome
di _Padre della Patria_, pel qual fece un bel ringraziamento ai Padri.
Inoltre il senato fece alzar delle statue ai genitori, all'avolo
paterno e materno e ai fratelli già defunti del medesimo Antonino. Non
ebbe discaro esso Augusto che il senato desse anche ad _Annia Galeria
Faustina_ sua moglie il titolo di Augusta; accettò ancora i giuochi
circensi decretati dallo stesso senato per solennizzare il di lui
giorno natalizio, che correva nel dì 19 di settembre; ma rifiutò ogni
altra pubblica dimostrazione. Da lì a qualche anno determinò il
medesimo senato, che i mesi di settembre e di ottobre in onor suo e di
Faustina si chiamassero Antoniano, Faustiniano; ma ricusò Antonino un
sì fatto onore. Trovavansi delle persone non poche condannate o
esiliate da Adriano. Dimandò Antonino grazia per loro nel senato, con
dire che Adriano l'avrebbe chiesta anch'egli. A niun di coloro, che lo
stesso Adriano avea dato dei posti, li levò; anzi suo costume fu
lasciar continuare ne' governi delle provincie per fin sette e nove
anni coloro ch'erano in concetto di governare con illibatezza e
prudenza.

Ebbe Antonino Pio da Faustina sua moglie due figliuoli[982] maschi,
uno appellato _Marco Aurelio Fulvo Antonino_, e l'altro _Marco Galerio
Aurelio Antonino_. Amendue giovani erano a lui premorti. Due figliuole
ancora gli nacquero. La maggiore, maritata con _Lamia Sillano_, mancò
di vita, allorchè il marito andava al governo dell'Asia. Restavagli la
seconda, cioè _Annia Faustina_. Avea ordinato Adriano, ch'egli la
desse in moglie a _Lucio Vero_, cioè a quel medesimo che insieme con
_Marco Aurelio_ per comandamento di Adriano egli avea adottato per suo
figliuolo. Ma Antonino, dacchè cessò Adriano di vivere, riflettendo
all'età troppo tenera di Lucio Vero, e che miglior testa era quella di
Marco Aurelio, cangiata massima[983], s'invogliò di dar la figliuola
ad esso Marco Aurelio, contuttochè egli avesse contratti gli sponsali
con _Fabia_ figliuola di _Lucio Cejonio Commodo_, e sorella del
suddetto _Lucio Vero_. Gliene fece far la proposizione per Giulia
Faustina sua moglie, con dargli tempo di pensarvi. Si credette in fine
Marco Aurelio di assicurar meglio la sua fortuna con questo
matrimonio; e però disciolti gli sponsali suddetti, s'indusse ad
isposare Annia Faustina. Non si sa bene se seguissero tali nozze
nell'anno presente. Prima anche d'esse Antonino, per maggiormente
comprovare al destinato genero il suo compiacimento ed affetto, gli
conferì il titolo di _Cesare_, e il disegnò, ad istanza del senato,
console seco per l'anno seguente, contuttochè egli non fosse se non
questore, nè avesse esercitate altre cariche pubbliche. Il fece anche
accettare ne' Collegi de' sacerdoti, e passare nel palazzo di Tiberio,
con formargli una corte da par suo, benchè egli ripugnasse. Assegnò
anche Antonino[984] in dote alla figliuola tutti i suoi beni
patrimoniali, con riserbarsene nondimeno l'usufrutto sua vita natural
durante per gli bisogni dello stato. Servono le medaglie[985], coniate
nel secondo consolato di Antonino Pio, cioè nell'anno presente, per
farci conoscere che egli diede un re ai Quadi, e un altro ai popoli
dell'Armenia.

NOTE:

[973] Thesaur. Nov. Inscript., pag. 326, n. 4.

[974] Fabrettus, Inscription, pag. 726.

[975] Capitolinus, in Antonino Pio.

[976] Spartianus, in Hadriano.

[977] Capitolinus, in Antonino Pio.

[978] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[979] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[980] Pausanias, lib. 8. Dio, l. 70. Lampridius in Elagabalo.

[981] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.

[982] Capitolinus, in Antonino Pio.

[983] Capitolinus, in Marco Aurel.

[984] Capitolinus, in Antonino Pio.

[985] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.




    Anno di CRISTO CXL. Indizione VIII.

    IGINO papa 3.
    ANTONINO PIO imperadore 3.

_Consoli_

TITO ELIO ADRIANO ANTONINO PIO AUGUSTO per la terza volta e MARCO ELIO
AURELIO VERO CESARE.


Siccome il regno di Antonino Pio fu regno tutto di pace, perchè
quest'ottimo principe, privo d'ambizione e nulla sitibondo della
gloria vana, unicamente attese a rendere felici i suoi popoli:
mestiere che dovrebbe essere quello di tutti i regnanti: così la di
lui vita non ci somministra varietà d'azioni da poter empiere gli anni
del suo lungo imperio. Oltre di che son perite le antiche storie, che
parlavano de' fatti di lui, nè altro ci resta, che la breve sua vita
scritta da Giulio Capitolino, mancante di quel filo ch'è necessario
per riferir cronologicamente anno per anno le di lui imprese. Sia
pertanto ora a me lecito di riportar qui il ritratto di questo insigne
Augusto, che anche il Tillemont[986] raccolse da esso Capitolino[987],
dai libri di Marco Aurelio[988] suo figliuolo adottivo, da Dione[989],
e da altri pochi rimasugli dell'antichità. Fu Antonino Pio provveduto
dalla natura di un corpo di alta statura e ben fatto, con volto
maestoso e insieme dolce, con voce grata ad udirla; allegro nella
conversazione, ma senza eccesso; buon economo del suo, e insieme
liberale e magnifico alle occorrenze, con dilettarsi molto di stare
alla campagna, dove facea fruttare i suoi beni, e solea divertirsi
colla caccia e colla pesca, e in città coll'intervenire alle commedie
e buffonerie degl'istrioni. Studioso della sobrietà, anche giunto
all'imperio, sempre la conservò, contento de' cibi ordinari, senza
cercarne de' rari e senza lusso: con che visse molto, senza bisogno di
medici nè di rimedi. I suoi conviti o pubblici, o privati erano per lo
più conditi dai discorsi de' suoi commensali amici, andando anch'egli
talvolta a pranzare in casa loro con tutta confidenza. Usava[990] la
mattina di ammettere alcuno all'udienza, di mangiare un tozzo di pan
secco, per aver lena agli affari, nei quali sempre si dimostrò
applicato e indefesso. Compiacevasi ancora di andar come persona
privata alle vendemmie co' suoi amici; divertimento carissimo agli
antichi Romani. Anche imperadore usò abiti dimessi, senza curarsi di
ornar molto il corpo, ma neppur mostrandosi dimentico della polizia e
del decoro. Era, dissi, indefesso negli affari e tuttochè patisse di
quando in quando delle micranie, pure appena le avea scrollate, che
tornava più vigoroso di prima alle applicazioni. Quotidiane erano
queste, perchè non meno de' saggi padri di famiglia, che continuamente
studiano il bene della lor casa, anch'egli, come se la repubblica
fosse la casa di lui propria, senza mai darsi posa, ne procurava i
vantaggi, vegliava alla sua difesa, e rimediava ai disordini e
bisogni. Esatto anche nelle minime cose (del che fu deriso da alcuni,
e spezialmente nella sua satira da Giuliano Apostata), con gran
calma[991], e senza fermarsi alle apparenze, esaminava a fondo le
cose, i costumi degli uomini e le ragioni; ma nulla spediva degli
affari, senza aver prima raccolti i pareri di saggi amici e di dotti
consiglieri. Presa poi con maturità una risoluzione, costante e fermo
era nel volerne l'esecuzione. Tanto nel rallegrare il popolo con degli
spettacoli e con de' congiari, quanto nelle fabbriche e in altre
azioni di piacere e d'ornamento del pubblico, non cercava punto con
vanità gli applausi del popolo, siccome nè pur si metteva pensiero dei
di lui sregolati giudizii. Facea del bene per far del bene, e non per
sete di lode; e però gli adulatori alla di lui presenza perdeano la
voce. Nè, come Adriano, avea egli gelosia di chi più di lui compariva
eccellente nell'eloquenza, nella conoscenza delle leggi, o in altre
arti e scienze, anzi tanto più onorava questi tali e cedeva loro con
piacere. Trovasi sopra tutto lodato in lui l'amore della religione:
falsa religione bensì, ma in cui per sua disavventura egli era nato.
Al contrario ancora di Adriano, si provò sempre in lui stabilità nelle
amicizie: frutto nondimeno del non aver egli ammesso al grado di suoi
confidenti ed amici, se non persone di gran merito per l'ingegno e per
la virtù. E bastino per ora queste poche pennellate del ritratto
d'Antonino Pio. Da un'iscrizione riferita dal Grutero[992] ricaviamo
che in questi tempi erano prefetti del pretorio _Petronio Mamertino_ e
_Gavio Massimo_. Questo Gavio, uomo severissimo, durò in quella carica
per venti anni, ed ebbe per successore _Tazio Massimo_. Certo è, che
sotto l'imperio di quest'Augusto seguì un'inondazione del Tevere in
Roma, attestandolo Capitolino[993]; e il padre Pagi[994] pretende ciò
avvenuto nell'anno presente, per trovarsi una medaglia, in cui si
legge TIBERIS. Non ha sufficiente fondamento una tale opinione.
Potrebbe ben esser vero ciò che egli aggiugne, cioè che in quest'anno
riuscisse ad Antonino Pio di riportare una vittoria de' Britanni per
mezzo di _Lollio Urbico_ suo legato, con aver poi maggiormente
ristretti que' popoli con un altro muro più in là che quel di Adriano.
Da altri vien riferita questa vittoria all'anno 144.

NOTE:

[986] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[987] Capitolinus, in Antonio Pio.

[988] Marcus Aurelius, de rebus suis.

[989] Dio, lib. 70.

[990] Aurelius Victor, in Epitome.

[991] Zonaras, in Annalibus.

[992] Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 268, n. 8.

[993] Capitolinus, in Antonino Pio.

[994] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CXLI. Indizione IX.

    IGINO papa 4.
    ANTONINO PIO imperadore 4.

_Consoli_

MARCO PEDUCEO SILOGA PRISCINO e TITO HOENIO SEVERO.


Abbiamo da Capitolino[995] che nell'_anno terzo_ dell'imperio di
Antonino Pio mancò di vita _Annia Galeria Faustina_ Augusta sua
moglie. Però han creduto alcuni avvenuta la sua morte nell'anno
precedente. Ma il padre Pagi, in vigore di un'iscrizione, pubblicata
dal padre Mabillone, e da me ancora riferita[996], in cui è nominata
la DIVA, cioè la defunta _Faustina_, moglie d'Antonino Angusto console
per la terza volta, ornato della _Quarta Podestà Tribunizia_, ha
sostenuto che Faustina terminasse la vita dopo il dì 25 di febbraio
dell'anno presente, e prima del dì 10 di luglio; nel qual tempo
correva la quarta podestà tribunizia, e il terzo anno dell'imperio di
Antonino. Forte è questa ragione, ma non toglie affatto il sospetto
che Faustina potesse essere morta nell'anno precedente, e
quell'iscrizione fosse a lei posta nel presente. Per ordine del senato
fu deificata questa imperatrice; alzato a lei un tempio; deputate
delle donne flaminiche; poste delle statue d'oro e d'argento, o sia
dorate e inargentate. Furono anche in onor suo celebrati i giuochi
circensi. Tutto ciò fu fatto dalla cieca gentilità per onorare una
donna, la quale, per testimonianza di Capitolino, diede da parlare
molto di sè, per la troppa libertà e facilità di vivere; il che
Antonino mirava con dolore e con somma pazienza dissimulava. Che nè
pure lo stesso Antonino fosse esente da simil difetto, il Platino, il
Tillemont, ed altri l'hanno creduto e dedotto dalla satira
ingegnosamente composta da Giuliano apostata[997]. Ma non è assai
chiaro quel passo, e il padre Petavio lo pretende una calunnia.
Abbiamo solamente di certo da Capitolino, che essendo mancato di vita,
molti anni dopo, _Tazio Massimo_ prefetto del pretorio, rammentato di
sopra, in suo luogo ne furono sostituiti due da Antonino, cioè _Fabio
Repentino_ e _Cornelio Vittorino_: ed essere allora corsa una
pasquinata, in cui si dicea che _Repentino_ era giunto a quella
dignità per raccomandazione di una concubina dell'imperadore. Di
questo si può anche dubitare, perchè Antonino Pio mancò di vita in età
di sessantaquattr'anni, ed essendo l'elezion di Repentino succeduta
negli ultimi tempi suoi, non par credibile che un sì saggio principe
si lasciasse vincere da sregolate passioni in quell'età. Oltre di che,
secondo la falsa morale de' Gentili, non erano biasimevoli certi usi
od abusi d'allora. Dalla vita di Avidio Cassio, scritta da Vulcazio
Gallicano[998], abbiamo un barlume, che vivente ancora Faustina, si
ribellò uno non so qual _Celso_ contra di Antonino, però nel
precedente, o nel presente anno, Faustina, sapendo quanto fosse
inclinato il consorte Augusto alla clemenza, gli scrisse che s'egli
avesse compassion di costui, non mostrerebbe d'averla per sua moglie
nè per gli suoi, perchè se andasse ben fatta ai ribelli, essi non
avrebbono pietà nè dell'imperadore nè di chi è congiunto con lui. Ma
niun'altra memoria di questo Celso ci ha conservata la storia.

NOTE:

[995] Capitolinus, in Antonino Pio.

[996] Thesaurus Novus Inscription., p. 239, n. 3.

[997] Julian., de Caesarib.

[998] Vulcat. Gallicanus, in Avidio Cassio.




    Anno di CRISTO CXLII. Indizione X.

    PIO papa 1.
    ANTONINO PIO imperad. 3.

_Consoli_

LUCIO CUSPIO RUFINO e LUCIO STATIO QUADRATO.


È di parere monsignor Bianchini[999], che in quest'anno, e non già nel
precedente, come pensò il padre Pagi[1000], _santo Igino_ romano
pontefice terminasse la sua vita con una più gloriosa morte, perchè
martire della Fede di Gesù Cristo. Certo è bensì, che a lui succedette
_Pio_ papa. Sappiamo del pari, che anche sotto Antonino Pio continuò
la persecuzion de' Cristiani, non già per editto, non già per colpa di
questo clementissimo imperadore e principe assai conoscente che la
cristiana religione ed i seguaci di essa, per la maggior parte
professori della virtù, non meritavano gastighi; ma per gli precedenti
non aboliti editti, e per la malvagità de' presidenti e de' giudici,
adoratori degl'idoli, a' quali non era vietato il procedere contro ai
cristiani. Però circa questi tempi _san Giustino_, poscia glorioso
martire, scrisse un'apologia in favore de' fedeli, e la presentò ad
esso imperadore Antonino, dimostrandogli la falsità dei delitti
attribuiti ai cristiani, e l'ingiustizia de' supplizii, a' quali erano
condannati. L'anno preciso, in cui san Giustino compose e presentò
all'imperadore questa prima sua apologia (perchè egli due ne compose)
nol sappiamo. Fuor di dubbio è, per attestato di Eusebio[1001], aver
non meno essa, che varie favorevoli lettere dei governatori Gentili
dell'Asia, prodotto buon effetto, avendo Antonino dipoi, cioè
nell'anno 152, spediti ordini che niuno fosse condannato perchè fosse
cristiano. Nè si potea aspettar meno da un imperador tale, ch'era la
stessa bontà, e che nulla più desiderava che di far fiorire la pace e
la contentezza per tutte le provincie del romano imperio. Tanto il
portava alla mansuetudine, alla clemenza la sua ben radicata virtù,
che nè pur volea punire le offese fatte a lui stesso. Di due sole
congiure tramate contra di lui parla Capitolino[1002]. L'una di
_Attilo Taziano_. Fu questi processato e convinto dal senato; ma per
ordine di Antonino, gastigato col solo esilio. Nè volle il buon
Angusto, che si ricercassero i complici, e verso il di lui figliuolo
si mostrò in tutte le occorrenze sempre mai favorevole. L'altra fu di
_Prisciano_. Da che costui si vide scoperto, prevenne la clemenza di
Antonino con darsi la morte da sè stesso. Faceva istanza il
senato[1003], che si procedesse oltre per iscoprire gli altri
congiurati: vietollo Antonino, dicendo, _che non era bene il far di
più, non amando egli di sapere a quante persone fosse in odio la sua
persona_. Anche un dì per sospetto, che mancasse in Roma il grano,
l'insolente popolo arrivò a tirargli de' sassi. Ma egli in vece di
punire il pazzo loro ammutinamento, si studiò di placarli con buone ed
amorevoli ragioni. Perciò sotto di lui niuno de' senatori si vide
privato di vita. Un solo convinto di parricidio, fu condannato ad
essere portato e lasciato in un'isola deserta.

NOTE:

[999] Blanchin., ad Anastas. Bibliothecar.

[1000] Pagius, in Crit. Baron.

[1001] Euseb., in Chron. et Hist. Eccl., lib. 4.

[1002] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1003] Aurelius Victor, in Epitome.




    Anno di CRISTO CXLIII. Indizione XI.

    PIO papa 2.
    ANTONINO PIO imperadore 6.

_Consoli_

CAJO BELLICIO TORQUATO e TIBERIO CLAUDIO ATTICO ERODE.


Il secondo console, cioè _Attico Erode_, fu uno dei celebri personaggi
del suo tempo, e trovasi commendato assaissimo da Aulo Gellio[1004] e
da Filostrato[1005]. Si racconta di Attico suo padre, cittadino di
Atene, che avendo trovato un gran tesoro, ne scrisse al buon
imperadore Nerva, per sapere che ne avesse da fare. La risposta fu,
che ne usasse come voleva. Tuttavia temendo egli un dì qualche avania
dal fisco, gli tornò a scrivere, come non osando di valersi di tal
grazia; e Nerva gli replicò che si servisse di ciò che la fortuna gli
avea donato, perchè era cosa sua. Divenne molto più ricco il figliuolo
Erode, ma con impiegar in bene le sue ricchezze, con aiutare un gran
numero di persone bisognose. La eccellenza sua consisteva
nell'eloquenza, in cui forse allora non ebbe pari. Avea esercitati
vari governi, e poi fu scelto da Antonino per maestro de' suoi due
figliuoli adottivi, cioè di _Marco Aurelio_ e di _Lucio Vero_,
affinchè loro insegnasse la eloquenza greca. Accomodando il padre Pagi
le azioni degli Augusti[1006] alle regole da sè stabilite, immagina
che in quest'anno Antonino Pio celebrasse i quinquennali del suo
imperio. Ma di ciò niun vestigio ci somministra la storia, e nè pur le
medaglie, le quali, perchè non esprimono i diversi anni della podestà
tribunizia, non ci conducono a discernere i precisi tempi delle opere
e degli avvenimenti di questi tempi. Per altro nè pure Antonino Pio
lasciò privo il popolo romano de' tanto sospirati spettacoli. Abbiamo
da Capitolino[1007], ch'egli ne diede più volte, facendo comparire in
essi degli elefanti, delle corocotte, delle tigri, e insin de'
coccodrilli, e de' cavalli marini ed altri ammali stranieri, fatti
venire da tutte le parti della terra. E in un dì solo cento lioni si
fecero entrar nell'anfiteatro, e se ne fece la caccia.

NOTE:

[1004] Aulus Gell., Noct. Attic.

[1005] Philost., de Sophist.

[1006] Pagius, in Crit. Baron.

[1007] Capitolin., in Antonino Pio.




    Anno di CRISTO CXLIV. Indizione XII.

    PIO papa 3.
    ANTONINO PIO imperadore 7.

_Consoli_

PUBLIO LOLLIANO AVITO e MASSIMO.


Perchè non è sicuro il nome del secondo console, cioè di _Massimo_,
chiamato da alcuni _Cajo Gavio Massimo_, io l'ho lasciato andare. Il
cardinal Noris[1008] e il padre Pagi[1009] portarono opinione, che
egli si chiamasse _Claudio Massimo_, e fosse quel medesimo che fu uno
de' maestri di Marco Aurelio, poscia imperadore, mentovato da
Capitolino[1010], e che da Apulejo[1011] vien riconosciuto proconsole
dell'Africa, con chiaro indicio, che dianzi egli era stato console.
Pensa all'incontro il Panvinio[1012], seguitato in ciò da altri,
ch'egli fosse quel _Gavio Massimo_, che di sopra dicemmo avere
esercitata la carica di prefetto del pretorio per venti anni, con
citare un'iscrizione, in cui si legge: C. GAVIVS C. F. STRABO MAXIMVS
COS. Ma cotale iscrizione nulla conchiude, perchè non si sa di certo
che appartenga a lui. All'incontro si dee osservare detto da
Capitolino[1013], avere Antonino pio arricchiti _i suoi prefetti_, e
donati loro _gli ornamenti consolari_. Suol significar questa frase,
l'aver solamente ottenuto il privilegio di portar la veste palmata, di
aver la sedia d'avorio, ed altri onorevoli segni, conceduti ai veri
consoli, ma senza essere stato console. Però più probabile sembra
l'opinione del Noris e del Pagi. Tuttavia comparendo essa non esente
da ogni dubbio, meglio ho creduto di nominar solamente _Massimo_ il
console suddetto. Circa questi tempi, siccome abbiamo dagli antichi
scrittori cristiani[1014], sboccarono dall'inferno Valentino, Cerdone
e Marcione, eresiarchi e maestri d'altri non meno empii discepoli, che
si studiarono d'infettar la nostra santa religione con istravaganti
immaginazioni, ed opinioni esecrande, contra de' quali poi aguzzarono
le lor penne varii santi e dottissimi scrittori cattolici. Scrivono
all'incontro san Giustino ed Arnobio, che Antonino Pio, portato dallo
zelo dell'erronea religione pagana, vietasse il leggere i versi dello
Sibille, e le opere di Cicerone della Natura degli dii, e della
Divinazione, ed altri simili, perchè atti a distruggere le imposture e
lo stolto culto de' falsi numi. Di ciò nulla dicono gli autori della
sua vita. Per conto de' libri sibillini, finti negli antichi tempi, è
da vedere il Du-Pin[1015], che dottamente esamina questo argomento,
senza ch'io ne dica una parola di più. Sembra poi inverisimile questo
divieto delle opere di Cicerone, il quale se fosse succeduto, tanta
era la stima di quello presso i Romani, che non avrebbono taciuta sì
importante particolarità gli scrittori della vita di Antonino Pio,
giacchè derisero Adriano solamente perchè egli apprezzava più lo stile
di Catone che quello di Cicerone.

NOTE:

[1008] Noris, Epistola Consulari.

[1009] Pagius, in Critic. Baron.

[1010] Capitol., in Marco Aurel.

[1011] Apulejus, in Apolog. secund.

[1012] Panvin., in Fast. Consular.

[1013] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1014] Justin., in Apolog. Eusebius. Tertull., Philastrius et alii.

[1015] Du-Pin, Dissertat. Préliminair. aux Auteurs Ecclésiastiq.




    Anno di CRISTO CXLV. Indizione XIII.

    PIO papa 4.
    ANTONINO PIO imperadore 8.

_Consoli_

TITO ELIO ADRIANO ANTONINO PIO AUGUSTO per la quarta volta, e MARCO
ELIO AURELIO VERO CESARE per la seconda.


Si figura il padre Pagi[1016], che _Antonino Augusto_ prendesse questo
consolato per solennizzare i quinquennali del suo imperio, avendo
differita questa festa all'anno presente, che dovea farsi nel
precedente. Ma cotal dilazione è immaginata da lui, nè fondata se non
sopra le regole da esso ideate, che patiscono molte difficoltà. Credè
egli parimente, che in quest'anno _Lucio Vero_ suo figliuolo adottivo,
per attestato di Capitolino[1017], essendo in età di quindici anni,
prendesse la toga virile: nella qual occasione solevano i Romani far
festa. Credono altri, che Antonino in fatti la facesse con dedicare il
tempio d'Augusto, da lui ristorato, siccome consta dalle
medaglie[1018]. Ma Capitolino[1019] scrive diversamente, con dire
ch'egli in tal congiuntura dedicò il _Tempio del Padre_, cioè di
Adriano, e non già di Augusto. Dal medesimo autore abbiamo, che
Antonino Pio lasciò di belle memorie, tanto in Roma che altrove, con
fabbriche sontuose, o fatte di pianta o ristorate durante il suo
imperio. Cioè il tempio dedicato in onore di esso Adriano suo padre;
il Grecostadio, o sia la Grecostasi, edificio, in cui si fermavano gli
ambasciadori delle nazioni prima di essere introdotti nel senato.
Questo, già rovinato da un incendio, fu da lui rifatto. Ristorò
similmente l'anfiteatro di Tito, per quanto si crede; il sepolcro di
Adriano; il tempio d'Agrippa, cioè oggidì la Rotonda; il ponte
Sulpicio di legno sul Tevere; il Faro, forse di Pozzuolo o di Gaeta.
Vedesi in Pozzuolo una iscrizione, testimonio di questo[1020].
Racconciò i porti di essa Gaeta e di Terracina. Lo stesso benefizio
prestò alle Terme d'Ostia, all'acquidotto d'Anzio, e al tempio di
Lanuvio, o sia di Lavinia. Del tempio d'Augusto, da lui risarcito, non
parla Capitolino. Soggiugne bensì, aver egli aiutate con danaro molte
città, acciocchè o facessero delle nuove fabbriche, o ristorassero le
vecchie, ed aver contribuito molto del suo, affinchè i senatori ed
altri magistrati potessero con decoro esercitar i loro impieghi.
Pausania[1021] fa menzione di varii altri edifizii attribuiti nella
Grecia al medesimo Antonino Augusto. E da un'iscrizione rapportata dal
marchese Maffei[1022] si raccoglie ch'egli ristorò le Terme di Narbona
nella Gallia. Anche di diverse pubbliche strade per ordin suo
riselciate parlano altre iscrizioni.

NOTE:

[1016] Pagius, in Critic. Baron.

[1017] Capitolinus, in Lucio Vero.

[1018] Mediobarb., in Numism. Imperat.

[1019] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1020] Thesaurus Novus Inscript., pag. 543, n. 5.

[1021] Pausanias, lib. 8.

[1022] Maffejus, Antiquit. Galliae.




    Anno di CRISTO CXLVI. Indizione XIV.

    PIO papa 5.
    ANTONINO PIO imperadore 9.

_Consoli_

SESTO ERUCIO CLARO per la seconda volta, e GNEO CLAUDIO SEVERO.


Intanto si provava una mirabil tranquillità e un delizioso vivere,
tanto in Roma che in tutto il romano imperio, pel savio governo di
Antonino Pio, che si facea conoscere buon principe, e maggiormente
padre a tutti i sudditi suoi. Marco Aurelio, imperador dopo lui, nello
scrivere la vita propria[1023], confessa d'aver molto imparato dagli
esempli e dalla voce d'esso Antonino, padre suo per adozione, e ci dà
un bel saggio della maniera da lui tenuta di vivere. Capitolino[1024]
anch'esso ce ne lasciò qualche memoria. L'altezza del grado, a cui era
pervenuto Antonino, non gli fece punto mutare, se non in meglio, i
costumi, perchè mai non gli andò il fumo alla testa. Vivuto da privato
con gran moderazione, saviezza ed affabilità[1025], maggiormente
continuò ad esser tale divenuto Augusto, con ritener lo stesso
abborrimento al fasto e alla matta superbia, e con istudiare, tanto
superiore come era, di farsi eguale agli altri nobili cittadini: il
che, invece di sminuire, accresceva negli altri la stima e l'amore
della maestà imperiale. Si faceva egli servire da' suoi schiavi, come
usavano anche i privati; andava alle case degli amici; famigliarmente
passeggiava con loro, come se non fosse imperadore; e voleva che
cadauno di essi godesse la sua libertà, senza formalizzarsi, se
invitati non venivano alla cena, se, andando egli in viaggio, non
l'accompagnavano. Costantissimo fu il suo rispetto verso il senato, e
trattava coi senatori in quella stessa guisa e colla medesima bontà
ch'egli, allorchè era senatore, desiderava d'essere trattato dagli
imperatori. Ritenne sempre il costume di render conto di tutto quel
che faceva al senato ed anche al popolo, allorchè avea da pubblicar
degli editti. E qualor voleva il consolato, o qualche altra carica per
sè o per gli figliuoli, la domandava al senato al pari degli altri
particolari. Scrive lo stesso Marco Aurelio, suo figliuolo adottivo,
d'aver fra l'altre avuta a lui l'obbligazione d'essere spogliato della
vanità, appunto dappoichè fu adottato e alzato da lui; perchè Antonino
gli andava insinuando, che si potea vivere anche in corte quasi come
persona privata: cosa appunto praticata da lui, con altre virtù
commemorate da Marco Aurelio.

Grave nell'aspetto, nel medesimo tempo era cortese, gioviale e dolce
verso tutti, infin verso i cattivi, ai quali levava il poter più
nuocere, ma senza punirli quasi mai col rigor delle leggi. Quanto egli
fosse mansueto, tollerante delle ingiurie, e nemico del vendicarsi,
già si è accennato di sopra. Serviranno nondimeno alcuni avvenimenti a
maggiormente comprovarlo. In concetto di uno dei più famosi sofisti
greci[1026] fu in questi tempi _Polemone_. La più bella casa che fosse
nella città di Smirne era la sua. Si era abbattuto a passar di là
Antonino, mentre esercitava la carica di proconsole dell'Asia, e vi
andò ad alloggiare. Polemone, che si trovava fuor di città, venuto una
notte, ed osservando in sua casa tanta foresteria entratavi senza
licenza sua, ne fece tal rumore e tanti lamenti, che il buon Antonino
di mezza notte stimò meglio di uscirne, e di cercarsi un altro
albergo. Creato ch'egli fu poi imperadore, Polemone venne a Roma, ed
ebbe tanto animo di andargli a fare riverenza. Antonino l'accolse
colla solita sua cortesia senza che gli turbasse l'animo la memoria
del passato, e solamente con galante maniera gli ricordò la sua
scortesia, con ordinare _che gli fosse data una stanza nel palazzo, e
che persona nol facesse sloggiare_. Accadde ancora che un commediante
andò a lamentarsi ad Antonino, e a chiedere giustizia, perchè il
suddetto Polemone l'avea cacciato dal teatro nel bel mezzodì: E me,
rispose allora l'imperadore, _egli ha cacciato fuor di casa in tempo
di mezza notte, e non ne ho fatta querela_. Bisogna ben credere che
l'alterigia e l'albagia fossero il quinto elemento della maggior parte
di que' decantati sofisti greci di allora. Antonino, a cui premeva
forte la buona educazion di Marco Aurelio suo figliuolo adottivo fece
venir dalla Grecia _Apollonio_, non già il Tianeo, ma bensì un
filosofo stoico[1027], ch'era in gran riputazion di sapere allora.
Venne costui a Roma, menando seco molti dei suoi discepoli, che
graziosamente, per attestato di Luciano[1028], furono chiamati da
Demonatte filosofo cinico _Argonauti nuovi_, perchè tutti in viaggio
menati dalla speranza di divenir tutti ricconi in Roma. Mandò a dirgli
Antonino che venisse al palazzo, per consegnargli il figliuolo; e
l'orgoglioso sofista altra risposta non diede, se non _che toccava al
discepolo di andar a trovare il maestro, e non già al maestro di
andare al discepolo_. In somma l'essere dotto e prudente non è lo
stesso: e pur troppo il sapere suol mandare de' fumi alla testa. Si
mise a ridere Antonino, e disse: _Mirate che bel capriccio! A costui
non è incresciuto di venir sì da lontano a Roma, ed ora gl'incresce di
venir solamente dalla sua casa al palazzo._ Contuttociò permise che
Marco Aurelio andasse a prendere le lezioni, dove Apollonio volle, e
durò fatica a contentar costui nel salario. Un saggio ancora della sua
mansuetudine diede il buon Antonino nel visitar che fece la casa di
_Valerio Omulo_[1029]. Al vedere le belle colonne di porfido, delle
quali essa era ornata, se ne maravigliò, e dimandò onde le avesse
avute. Omulo, in vece di gradire la stima che facea un imperadore
degli ornamenti di sua casa, sgarbatamente gli rispose: _In casa
d'altri si ha da essere mutolo e sordo._ Tanto questa impertinenza,
quanto altri motti pungenti del medesimo Omulo, persona satirica e
maligna, sopportò sempre con pazienza il buon imperadore Antonino,
senza far valere giammai i diritti della maestà imperiale, e senza
farne mai vendetta.

NOTE:

[1023] Marcus Aur., de rebus suis, lib. 1, §. 26.

[1024] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1025] Eutrop., in Breviar.

[1026] Philostrat., in Sophistis.

[1027] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1028] Lucianus, in Demonacte.

[1029] Capitolinus, in Antonino Pio.




    Anno di CRISTO CXLVII. Indizione XV.

    PIO papa 6.
    ANTONINO PIO imperadore 10.

_Consoli_

LARGO e MESSALINO.


Cresceva ogni dì più l'affetto di Antonino Pio verso di _Marco Aurelio
Cesare_, non solamente perchè figliuolo suo adottivo e marito di
_Faustina_ sua figlia, ma perchè scopriva in lui ben radicata la
saviezza con altre virtù che insegnava la filosofia di quei tempi, e
per le quali meritò poi di essere appellato _Marco Aurelio Antonino il
Filosofo_. Avendogli appunto[1030] Faustina partorita una figliuola,
cioè _Lucilla_, maritata poi con _Lucio Commodo_, o sia _Lucio Vero_,
da che divenne Augusto, volle Antonino Pio esaltar maggiormente
l'amato suo genero e figliuolo, conferendogli in questo anno la
_Tribunizia Podestà_, _l'imperio proconsolare_ fuori di Roma, e il
diritto di far cinque relazioni in qualsivoglia senato. Pretende il
padre Pagi[1031], che Marco Aurelio fosse in quest'anno ancora
dichiarato _Imperadore_ e _Collega dell'Imperio_ con suo padre
Antonino. Il cardinal Noris pretese di no, e par ben più sicura la di
lui opinione. Il gius della quinta relazione, conferito a Marco
Aurelio, non conveniva ad un imperadore, la cui autorità non era
ristretta, ma si stendeva a quello che gli piaceva. Scrive inoltre
Capitolino, che quel maligno uomo di _Valerio Omulo_, di cui poco fa
si è parlato, osservata un giorno _Domizia Calvilla_, madre di Marco
Aurelio, la quale, dopo il presente anno, venerava in un giardino la
statua di Apollo, disse sotto voce ad Antonino: _Colei prega ora, che
tu chiuda gli occhi, e suo figliuolo sia imperadore._ Non ne fece
alcun caso l'imperadore; tanto era conosciuta la probità di Marco
Aurelio, tanta era la modestia nel _principato imperatorio_; le quali
ultime parole non si sa se si abbiano da riferire a Marco Aurelio,
oppure ad Antonino stesso, regnante con tal moderazione, che non
credeva dovergli alcuno augurare la morte. Pareva ancora che Antonino
Pio portasse affetto all'altro suo figliuolo adottivo, cioè a Lucio
Commodo[1032]; ma era ben differente il calibro di questo amore.
Imperciocchè finchè visse, il lasciò sempre nello stato di persona
privata, senza mai conferirgli il titolo di _Cesare_, nè altra
dignità, per cui apparisse che destinava ancor lui all'imperio. Era
egli solamente appellato _Figliuolo dell'Imperadore_, e quando
Antonino usciva in campagna, Lucio Commodo non andava in carrozza col
padre, ma bensì nel cocchio del capitan delle guardie. Tuttociò
chiaramente apparisce da quanto ne scrisse Capitolino; falsa perciò o
adultera si può credere qualche medaglia o iscrizione, che sembra
insinuare il contrario[1033]. Conosceva assai Antonino Pio i difetti
di questo giovinetto, ma non lasciava di compatirlo, ed amava in lui
la semplicità dell'ingegno, e l'andar egli alla buona nella sua
maniera di vivere. Abbiamo dalla cronica alessandrina[1034] che
nell'anno presente Antonino Pio esercitò la sua liberalità verso i
debitori del Fisco, con rimettere loro tutto il debito, e bruciar
pubblicamente le cedole delle loro obbligazioni. Ancor questo possiam
conghietturare fatto per solennizzar maggiormente la promozion
predetta di Marco Aurelio a maggiori onori. Correndo intanto l'anno
novecentesimo dalla fondazion di Roma, sono stati di parere alcuni
dotti uomini che nell'anno presente si celebrassero in Roma i giuochi
secolari con somma magnificenza. L'ha negato il padre Pagi. Ma Aurelio
Vittore[1035], secondo l'edizione del padre Scotto, può abbastanza
assicurarcene in dicendo: _Celebrato magnifice Urbis nongentesimo._

NOTE:

[1030] Capitolinus, in Marco Aurel.

[1031] Pagius, in Crit. Baron.

[1032] Capitolinus, in Lucio Vero.

[1033] Tillemont, Mémoires des Empereurs. Pagius, Crit. Baron.

[1034] Chron. Pascale, Histor. Byzantin.

[1035] Aurelius Victor, in Epitome.




    Anno di CRISTO CXLVIII. Indizione I.

    PIO papa 7.
    ANTONINO PIO imperadore 11.

_Consoli_

LUCIO TORQUATO per la terza volta, e MARCO SALVIO GIULIANO.


Pietro Relando[1036], accuratissimo illustratore dei Fasti consolari
dell'anno 146 dell'Era Cristiana sino al fine, chiama il secondo
console _Cajo Giuliano Vetere_, ricavandolo da un'iscrizione riferita
dal Gudio. Ma converrebbe prima accertarsi, se le tante iscrizioni
pubblicate dal Gudio fossero tutte di buon conio ed esenti da ogni
sospetto: il che non sarà sì facile. Quanto a me vo' giudicando più
sicuro partito il chiamar questo console _Marco Salvio Giuliano_,
giurisconsulto celebratissimo di questi tempi, milanese di patria,
perchè tale si trova appellato in una iscrizione da me data alla
luce[1037], e perchè sappiamo da Sparziano[1038], esser egli stato
console due volte. Se il console dell'anno presente fosse stato _Cajo
Giuliano Vetere_, l'anno sarebbe stato notato _Torquato et Vetere
Coss._ perchè l'ultimo cognome o soprannome soleva enunziarsi, secondo
l'uso più familiare d'allora. Ma in tutt'i fasti antichi noi troviamo
solamente _Torquato et Juliano Coss._ Forse anche si può dubitare, se
questo _Torquato_ fosse appellato console _per la terza volta_. Che in
quest'anno si celebrassero in Roma i decennali di Antonino Pio
Augusto, chiaramente apparisce dalle medaglie[1039] che ne parlano e
rammentano i voti pubblici fatti per la di lui salute. Crede il padre
Pagi[1040], che nell'anno presente _san Giustino_ presentasse ad
Antonino Pio la sua prima apologia, creduta un pezzo la seconda, in
difesa della religione cristiana.

NOTE:

[1036] Reland., Fast. Consular.

[1037] Thesaurus Novus Inscript., p. 329, n. 3.

[1038] Spartianus, in Didio Juliano.

[1039] Mediobarb., in Numism. Imperator.

[1040] Pagius, Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CXLIX. Indizione II.

    PIO papa 8.
    ANTONINO PIO imperadore 12.

_Consoli_

SERVIO SCIPIONE ORFITO e QUINTO NONIO PRISCO.


Se crediamo al Relando[1041], il primo console fu _Sergio Scipione
Orfito_; in prova di che egli cita quattro iscrizioni della Raccolta
di Marquardo Gudio, nelle quali chiaramente si legge _Sergio_. Ma io
torno a dire (e ne chieggo perdono): convien andar cauto a fidarsi de'
marmi del Gudio, dati alla luce pochi anni sono. A buon conto la prima
di quelle iscrizioni, che si dice data sotto questi consoli, è
patentemente falsa, perchè vi si parla delle _Terme Costantiniane_,
che certo non erano per anche nate. Ho io dunque dato ad esso _Orfito_
il prenome di _Servio_, perchè nelle iscrizioni rapportate dal
Panvinio e dal Grutero si legge SER. che significa _Servio_ e non
_Sergio_. Pensa il Noris[1042] che questo console s'abbia da appellare
_Sergio Vettio Scipione Orfito_. Del prenome ho parlato. Per conto del
nome di _Vettio_, lo reputo cosa dubbiosa. Anche lo Spon[1043]
rapporta un'iscrizione, in cui il secondo console è appellato _Sosio
Prisco_. Sarebbe da vedere, se quella fosse un'iscrizione sicura, in
cui comparisce un liberto di Tito Augusto, cioè di un principe morto
sessanta anni prima. In ogni caso col Fabretti si può immaginare
ch'egli fosse chiamato _Nonio Sosio Prisco_. In un mattone antico da
me rapportato[1044] egli vien chiamato _Priscino_, o per vezzo o per
distinguerlo da un altro _Prisco_. Parlando le medaglie[1045] di
quest'anno di una munificenza usata dall'imperadore Antonino al popolo
romano, stima il padre Pagi[1046] ciò fatto per la celebrazione dei
decennali dell'imperio cesareo di Marco Aurelio. Se sia vero, niuno lo
potrà dire. Piena avea la testa esso padre Pagi di quinquennali,
decennali, quindecennali, vicennali, ec. tutto riferendo ad essi; ma
non poco è da diffalcare dalle regole sue.

NOTE:

[1041] Reland., Fast. Consular.

[1042] Noris, Epist. Consulari.

[1043] Sponius, Section. III, num. 28.

[1044] Thesaur. Nov. Inscription., pag. 330, n. 3.

[1045] Mediobarbus, in Numism. Imperat.

[1046] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CL. Indizione III.

    ANICETO papa 1.
    ANTONINO PIO imperadore 13.

_Consoli_

GALLICANO e VETERE.


Il prenome e nome di questi consoli son tuttavia incerti. Ha creduto
il Panvinio[1047], che il secondo si chiamasse _Cajo Antistio Vetere_,
perchè si trova sotto Domiziano un personaggio di tal nome. La
conghiettura è assai debole. Meno si può accordare al Tillemont[1048],
il chiamare il primo di questi consoli _Glabrione Gallicano_, e al
Bianchini[1049] l'appellarlo _Quinto Romulo Gallicano_, senza che essi
ne adducano pruove sufficienti. Nell'anno presente, secondo i conti
del medesimo Bianchini, passò a miglior vita _s. Pio_ pontefice
romano, coronato col martirio, e sulla cattedra di san Pietro fu posto
_Aniceto_. Truovansi medaglie battute in quest'anno dal senato e
popolo romano[1050], in cui vien dato ad Antonino Pio il titolo di
_Ottimo Principe_; e si dice che egli ha accresciuto il numero de'
cittadini. Ben giustamente si meritò questo imperadore un sì glorioso
titolo, perchè egli spendeva tutti i suoi pensieri e le sue
applicazioni per procurare il pubblico bene, tanto di Roma, quanto di
tutte le provincie dell'imperio romano[1051]. Sapeva egli esattamente
lo stato d'esse provincie, e quanto se ne ricavava. Raccomandava agli
esattori de' tributi di procedere senza rigore, molto più senza avanie
nel loro uffizio; e qualora mancavano a questo dovere, gli obbligava a
render conto rigorosamente della loro amministrazione. La porta e gli
orecchi suoi erano sempre aperti a chiunque si trovava aggravato da sì
fatti ministri, abborrendo egli troppo di arricchirsi colle lagrime e
coll'oppressione de' sudditi. Però sotto il suo regno furono ricche e
floride le provincie romane tutte. Che se ad alcuna incontravano
inevitabili disastri di carestie, tremuoti, epidemie e simili malanni,
si trovava in lui un'amorevol prontezza ad esentarle per un
convenevole tempo dalle imposte. Le sue maggiori premure riguardavano
la giustizia; e però quanto egli era attentissimo e indefesso nel
farla, tanto ancora si studiava di scegliere chi credeva abile ed
inclinato ad amministrarla agli altri. Chi più si distingueva in
questo, più veniva da lui amato e promesso a gradi maggiori. Molti
editti fece in bene del pubblico, servendosi de' più celebri
giurisconsulti d'allora, cioè di _Vinidio Vero_, _Salvio Valente_,
_Volusio_, _Metiano_, _Ulpio Marcello_ e _Jaboleno_. Vietò il
seppellire i morti nelle città, perchè doveva esser ito in disuso il
rigore delle antiche leggi. L'aggravio delle poste con savii
regolamenti fu da lui scemato. Probabilmente è di lui una legge,
citata da santo Agostino[1052], che non fu lecito al marito il volere
in giudizio gastigata la moglie per colpa di adulterio, quando
anch'egli fosse mancato di fedeltà verso della stessa. Se talun
veniva[1053] per proporgli qualche cosa utile al pubblico, con piacere
la ascoltava; e lo stesso allegro volto faceva a chiunque gli dava
qualche buon avviso, senza aversi a male che quei del suo consiglio
s'opponessero al di lui sentimento, nè che vi fossero persone, le
quali ingiustamente disapprovassero il governo suo. Molto ancora
onorava i veri filosofi: diede pensioni e privilegi per tutto
l'imperio romano, tanto ad essi che ai professori dell'eloquenza.
Sopportava poi que' filosofi, ch'erano tali solamente in apparenza, e
senza mai rimproverar loro la superbia od ipocrisia. E questo basti
per ora delle ragioni, per le quali si meritò Antonino Pio l'eminente
elogio di _Principe Ottimo_.

NOTE:

[1047] Panvinius, in Fastis Consul.

[1048] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1049] Blanc., ad Anastas. Bibliothecar.

[1050] Mediobarbus, in Numism. Imperator.

[1051] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1052] August., de Adulter. Conjug., lib. 2, cap. 8.

[1053] Marcus Aurel., lib. 1, cap. 16, de Rebus suis.




    Anno di CRISTO CLI. Indizione IV.

    ANICETO papa 2.
    ANTONINO PIO imperadore 14.

_Consoli_

SESTO QUINTILIO CONDIANO e SESTO QUINTILIO MASSIMO.


Senza i prenomi di _Sesto_, il Pagi e il Relando ed altri aveano
proposto i consoli presenti. Loro l'ho aggiunto io in vigore
d'un'iscrizione che si legge nella mia Raccolta[1054]. Nuovo non è,
che due fratelli portino il medesimo prenome. Il cognome o sia
soprannome li distingueva. Nelle medaglie di Antonino Pio[1055]
spettanti all'anno presente, è fatta menzione dell'_Annona_, cioè
della provvision di grani, fatta dal buon imperadore per sollievo del
popolo romano. Se ne trova menzione anche sotto altri anni. Ben
sollecito in sì importante affare fu Antonino Augusto[1056],
trattandosi di provvedere di vitto all'immenso popolo allora abitante
in Roma. Un anno ancora vi fu, in cui si patì una grave carestia.
Servì questa a far meglio conoscere il generoso ed amorevol cuore del
principe. Abbondante provvision da ogni parte fece egli di grano e
d'olio e di vino colla sua propria borsa, e tutto gratuitamente donò
al suo popolo. Pareva che questo imperadore inclinasse troppo al
risparmio, e quasi all'avarizia; ma ciò che veniva disapprovato
dall'ignorante popolo, nell'estimazion de' saggi era uno de' suoi più
begli elogi. Levò egli via moltissime pensioni date da Adriano a delle
persone inutili, con dire, _che era cosa indegna, anzi crudele, il
lasciar divorare il pubblico da chi non gli prestava servigio alcuno.
A Mesomede Candiotto_, poeta e sonator di lira, che dovea essere ben
eccellente nell'arte sua, perchè di lui parlano con lode Eusebio[1057]
e Suida, sminuì Antonino il salario. Vendè ancora vari addobbi ed
altre cose superflue de' palazzi imperiali, ed alcuni poderi ancora:
del che probabilmente si fecero molte dicerie. Pure tutto ciò era per
pubblico bene, e non per ammassar tesori, perchè Antonino in occasione
magnificamente spendea, se così richiedeva il bene e il bisogno della
repubblica, e il risparmio suo tendeva al non aggravar mai di nuove
imposte i popoli. Se dice il vero Zonara[1058], occorrendo qualche
guerra, o pur altro bisogno di regalare i soldati, non richiedeva egli
danari da alcuno, non imponeva gabelle; ma, messi pubblicamente
all'incanto gli ornamenti del palazzo, e fin le gioie ed altri arredi
della moglie Augusta, col ricavato soddisfacea i soldati. Passata poi
quella necessità, procurava di ricuperar le cose preziose vendute, con
rifonderne il prezzo. Alcuni le restituivano; ma altri no, senza che
Antonino se ne sdegnasse, nè inquietasse per questo i compratori. Noi
vedremo all'anno 170, che Marco Aurelio suo successore fece lo stesso,
talmente che si può fondatamente sospettare che Zonara si sia
ingannato attribuendo questo fatto glorioso ad Antonino Pio, quando
esso unicamente si può credere di Marco Aurelio Antonino. Guardossi
egli sempre dall'imprendere alcun viaggio lungo. Il suo andar più
lontano era nella Campania e alle terre che possedeva nelle vicinanze
di Roma; perchè diceva di sapere quanto costasse ai popoli la corte
d'un imperadore in viaggio, ancorchè egli camminasse con poco seguito.
Doveva ben esso Augusto avere inteso i lamenti delle città per li
tanti viaggi fatti da Adriano, o pure da Domiziano. E quanto egli
fosse alieno dal succiar il sangue de' sudditi, lo fece ben
vedere[1059] con levar via tutti gli accusatori che abbondavano in
altri tempi, perchè toccava loro la quarta parte delle condanne. Però
sotto di lui il fisco fece poche faccende. Avea questo usato in
addietro d'ingojar le sostanze di quei governatori, giudici ed altri
ministri, contra de' quali o le comunità o i privati avessero
intentate querele per danari indebitamente presi nel loro uffizio;
Antonino restituì ai loro figliuoli i beni confiscati, con obbligo
nondimeno di rifare ai provinciali il danno ad essi dato. Nè egli fu
mai veduto accettar eredità a lui lasciate da chi avea de' figliuoli.
Se s'ha da credere a Zonara[1060], egli bruciò ed abolì il
senatusconsulto fatto da Giulio Cesare, con cui era proibito il far
testamento, in cui non fosse lasciata all'erario della repubblica una
determinata parte dell'eredità. Parla anche Pausania[1061] d'una
legge, per cui chi avea la cittadinanza romana per privilegio, senza
che questa si stendesse ai suoi figliuoli, l'eredità sua dovea passare
ad altri cittadini, o pure al fisco, restandone privi essi suoi
figliuoli. Ma Antonino più riguardo avendo alle leggi dell'umanità,
che all'altre inventate dall'avarizia de' principi cattivi, volle che
ne' loro figli passasse l'eredità paterna.

NOTE:

[1054] Thesaur. Novus Inscript., pag. 330, n. 5.

[1055] Mediobarb., in Numism. Imper.

[1056] Capitol., in Antonino Pio.

[1057] Eusebius, in Chron.

[1058] Zonaras, in Annal.

[1059] Capitolin., in Antonino Pio.

[1060] Zonar., in Annal.

[1061] Pausanias, lib. 8.




    Anno di CRISTO CLII. Indizione V.

    ANICETO papa 3.
    ANTONINO PIO imperadore 15.

_Consoli_

MARCO ACILIO GLABRIONE e MARCO VALERIO OMULO o sia OMULLO.


Questo _Omulo_ o _Omullo_, console, quel medesimo è che abbiam veduto
di sopra, di genio satirico e maligno. Può essere che Antonino non
avesse a male la libertà del di lui parlare, anzi prendesse per
buffonerie gustose i di lui motti piccanti, o pure che coi benefizii
volesse guadagnar la di lui tagliente lingua in suo favore. Da molti
letterati vien creduta data in quest'anno la lettera[1062] di Antonino
Pio a varie città dell'Asia in favor dei cristiani, comandando di non
inferir loro molestia per cagion della loro religione, ma solamente in
caso d'altri delitti vietati dalla legge comune. Altri han preteso
ch'essa lettera sia di _Marco Aurelio_ Augusto, e però spettante agli
anni del suo imperio. Certo è che si parla in essa di vari tremuoti
accaduti allora nell'Asia, de' quali i ciechi o nemici Gentili soleano
sempre accagionare la religion cristiana. Ora Capitolino[1063] lasciò
scritto, che, regnando Antonino Pio, varie disavventure pubbliche
accaddero, cioè la fame, di cui abbiam parlato, e la rovina del Circo,
un fiero tremuoto, per cui molte città e terre dell'isola di Rodi e
dell'Asia furono atterrate. In Roma un terribile incendio consumò
trecento quaranta tra isole e case. Per isole si crede che gli antichi
appellassero le case separate dall'altre; con tale opinione pare che
non s'accordi la descrizion di Roma a noi venuta da Publio Vittore,
perchè ivi sono attribuite a quella gran città _Insulae per totam
Urbem XLVI Millia et DCCII_, e solamente _Domus MDCCXC_. Col nome di
_Domus_ paiono indicati quei che ora chiamiamo _palazzi_; col nome
d'_isole_ le ordinarie case del popolo romano, l'una dall'altra
distinte, ma insieme coi muri unite. Anche le città di Narbona e di
Antiochia, e la gran piazza di Cartagine, rimasero maltrattate da un
somigliante flagello del fuoco. Parla Ancora Zonara[1064] de' tremuoti
succeduti allora, che rovesciarono varie città della Bitinia e
dell'Ellesponto, con abbattere specialmente il tempio di Cizico,
creduto il più grande e il più bello che fosse allora in Asia.
Servirono queste pubbliche sciagure a far maggiormente risplendere la
liberalità di Antonino Pio; perchè a sue spese furono rifatte varie di
quelle città, o pure contribuì egli non poco per aiutare i popoli a
rifarle. Aristide[1065], sofista celebre, attesta che il gran tempio
di Cizico fu poi terminato sotto l'impero di Marco Aurelio Augusto.

NOTE:

[1062] Eusebius, Hist. Eccles., lib. 4, c. 13.

[1063] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1064] Zonaras, in Annal.

[1065] Aristid., Oration. 16.




    Anno di CRISTO CLIII. Indizione VI.

    ANICETO papa 4.
    ANTONINO PIO imperad. 16.

_Consoli_

CAJO BRUTTIO PRESENTE e AULO GIUNIO RUFINO.


Perchè le medaglie[1066] coniate nell'anno presente ci fanno vedere la
Vittoria che mette in capo all'imperadore una corona d'alloro,
possiamo ben conghietturare che in questi tempi avessero qualche
guerra i Romani, benchè non apparisca che Antonino prendesse se non
due volte il nome d'_imperadore_, significante Vincitore. Scrive
Capitolino[1067], aver egli amata sommamente la pace, con andare in
varie occasioni ripetendo quel detto di Scipione, _che gli era più
caro di salvare un sol cittadino romano, che di uccidere mille
nemici_. Ma altro è l'amar la pace, ed altro non aver guerra. Anche i
principi di genio pacifico sono talvolta, loro malgrado, costretti a
guerreggiare, e se Antonino non andò mai in persona alla guerra, vi
mandò bene i generali suoi. Già abbiamo accennata di sopra quella
della Bretagna, felicemente compiuta da _Lollio Urbico_. Abbiamo dallo
stesso Capitolino, che questo Augusto mandò delle sue milizie in
soccorso degli Olbiopoliti, che erano in guerra coi Taurosciti verso
il Ponto, e colla forza dell'armi obbligò que' barbari a dar degli
ostaggi agli Olbiopoliti. Da san Giustino[1068] si può inoltre
dedurre, che avendo fatto i Giudei qualche nuova ribellion nel loro
paese, furono messi in dovere dalle armi di Antonino Augusto. Di
maggiori notizie intorno a ciò non abbiamo, perchè son perite le
antiche storie. Per altro attesta Capitolino, che questo imperadore
non mai volontariamente, ma per non potere di meno, fece moltissime
guerre, valendosi in esse de' suoi legati, o sia de' suoi
luogotenenti. E a lui pare che si possa più credere che ad Aurelio
Vittore[1069], il quale scrive, aver Antonino senza guerra alcuna
governato per ventitrè anni il romano imperio.

NOTE:

[1066] Mediobarbus, in Numism. Imper.

[1067] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1068] Justinus, in Dialog. contra Triphon.

[1069] Aurelius Victor, in Epitome.




    Anno di CRISTO CLIV. Indizione VII.

    ANICETO papa 5.
    ANTONINO PIO imperad. 17.

_Consoli_

LUCIO ELIO AURELIO COMMODO e TITO SESTIO LATERANO.


Il secondo console, cioè _Laterano_, è chiamato da Capitolino[1070]
_Sestilio Laterano_, e in un'iscrizione greca presso il Grutero, _Tito
Sestio Laterano_. Perchè il cardinal Noris[1071] trovò _Lucio Sestio
Sestino Laterano_ console trecento sessantasei anni prima dell'Era
cristiana, conchiuse egli, che _Sestio_ e non _Sestilio_ fosse il nome
ancora di questo console. Ma non toglie ogni dubbio cotale
osservazione; e potrebbe anche nascere sospetto, se il marmo greco del
Grutero fosse assai esattamente copiato. A buon conto il
Panvinio[1072] ne cita un altro latino, in cui leggiamo _Sestilio
Laterano_, ed _Aquilio Orfito Consoli_: il che s'accorda col testo di
Capitolino. Vien qui portata dal Relando[1073] un'iscrizione del
Gudio, dove questo console si vede appellato _Sestio Sestilio
Laterano_. Ma non si può far fondamento sopra i marmi del Gudio. Il
prenome di _Sesto_ combatte coll'iscrizion gruteriana. Quivi si
trovano _Cassari_, artefici di nome sospetto, e _Scambillari_, che
certo dovrebb'essere _Scabilluri_. Forse perchè il Gudio, uomo
dottissimo, s'avvide che non erano sicuri tutti i marmi ch'egli aveva
raccolti, non li volle mai pubblicare in sua vita. S'è poi trovato chi
meno scrupoloso di lui gli ha dati dopo la sua morte alle stampe. Il
console primo ordinario di quest'anno è _Lucio Elio Aurelio Commodo_,
quel medesimo che fu adottato da Antonino Pio[1074], nè avea altro
onorifico titolo, che quello di _figliuolo dell'imperadore_. L'aveva
il padre promosso alla questura nel precedente anno, nella qual carica
diede al popolo, ma con denaro paterno, il divertimento di uno
spettacolo di gladiatori, ed ebbe l'onore di sedere in mezzo
all'imperadore e a Marco Aurelio Cesare suo fratello. Aveva egli
passati i verdi suoi anni nello studio delle lettere, non avendo
tralasciato il buon Antonino di procurargli tutti i mezzi convenevoli
per una buona educazione, affinchè divenisse un valentuomo. Gli
assegnò egli per aio _Nicomede_, e per maestri nella grammatica latina
_Scauro_, figliuolo di quello _Scauro_ ch'era stato grammatico di
Adriano; nella grammatica greca _Telefo_, _Efestione_ ed
_Arprocazione_; nella retorica greca _Apollonio Caninio Celere_ ed
_Erode Attico_, da noi veduto console; nella retorica latina _Cornelio
Frontone_, anch'esso uomo consolare: e nella filosofia stoica
_Apollonio_, della cui albagia si parlò di sopra, e _Sesto_ anch'esso
celebre filosofo di que' tempi. Tuttochè Lucio Commodo non avesse gran
testa per profittar nelle lettere, egli portò un singolar amore a
tutti questi suoi maestri, ed essi non meno amarono lui. Imparò a far
versi e a compor delle orazioni; e riuscì miglior oratore che poeta,
o, per dir meglio, fu più cattivo poeta che retorico. Dilettavasi
egli, più che delle lettere, del lusso, delle delizie, di aver buona
conversazione di gente allegra, di andare a caccia, di far altri
esercizii cavallereschi, e sopra tutto di assistere ai giuochi
circensi ed ai combattimenti de' gladiatori. Tale era Lucio Commodo,
che vedremo fra pochi anni imperadore, ed appellato _Lucio Vero_. Si
raccoglie poi dalle medaglie[1075], che in quest'anno l'Augusto
Antonino fu _liberale per la settima volta_ verso il popolo romano con
qualche conciario, o sia donativo a lui fatto. Questo era l'uso
degl'imperadori, per tenerlo contento, e fargli dimenticare di avere
una volta avuto tanta parte nel governo e nella padronanza.

NOTE:

[1070] Capitol., in Lucio Vero.

[1071] Noris, Epist. Consulari.

[1072] Panvin., Fast. Consular.

[1073] Reland., Fast. Consular.

[1074] Capitol., in Lucio Vero.

[1075] Mediobarbus, in Numismat. Imp.




    Anno di CRISTO CLV. Indizione VIII.

    ANICETO papa 6.
    ANTONINO PIO imperad. 18.

_Consoli_

CAJO GIULIO SEVERO e MARCO GIUNIO RUFINO SABINIANO.


Ho io aggiunto il nome di _Giunio_ al secondo console, fondato sopra
un'iscrizione pubblicata dal Doni, e posta ancora nella mia
raccolta[1076]. Molti furono ancora in questi tempi consoli
straordinari, o vogliam dire i sostituti agli ordinari; ma quai
fossero, e in qual anno maneggiassero i fasci consolari, ci mancano
memorie da poterlo chiarire. Pare bensì che si raccolga da
un'iscrizione, recata dal Panvinio[1077] e dal Grutero[1078], che nel
dì 5 novembre del presente anno fossero consoli sostituiti _Anzio
Pollione_ ed _Opimiano_. Ma con questo marmo parrebbe che facesse
guerra un altro pubblicato dal medesimo Panvinio, in cui nel dì 5 di
dicembre si veggono tuttavia consoli _Severo_ e _Sabiniano_, se non
sapessimo che gli atti pubblici erano per lo più segnati col nome de'
consoli ordinari, senza far caso de' sostituiti. Una medaglia[1079]
appartenente a quest'anno ci fa veder la _Bretagna_ in abito di donna
mesta, sedente presso una rupe con delle spoglie lì presso potrebbe
ciò porgere indizio, che qualche torbido fosse stato nella Bretagna,
con vantaggio dell'armi romane.

NOTE:

[1076] Thesaurus Novus Inscript., p. 332, n. 2.

[1077] Panvinius, in Fastis Consularibus.

[1078] Gruter., in Thesaur. Inscr., p. 607, n. 1.

[1079] Mediobarbus, in Numismat. Imp.




    Anno di CRISTO CLVI. Indizione IX.

    ANICETO papa 7.
    ANTONINO PIO imperad. 19.

_Consoli_

MARCO CEJONIO SILVANO e CAJO SERIO AUGURINO.


Non passano senza disputa i prenomi di questi consoli, come si può
vedere negl'Illustratori de' fasti; ma un'iscrizione del
Grutero[1080], e quanto ha osservato il cardinal Noris[1081], ci dà
assai fondamento per fermarci ne' nomi proposti, e non già in una
iscrizione del Gudio, dove compariscono consoli _Giulio Silvano_ e
_Marco Vibulio Augurino_. Torno a dire, che a fontane torbide ha
bevuto il Gudio, nè si può far capitale de' suoi marmi, se non quando
si veggono presi da buona parte. Monsignor Bianchini[1082] in vece di
_Serio Augurino_ mette _Sestio Augurino_, ma senza produrne il perchè.
Il padre Pagi[1083], che sempre ha nella manica i decennali,
quindecennali, etc., degl'imperadori, pretese che in quest'anno
Antonino Pio celebrasse i vicennali del suo imperio proconsolare. Il
padre Stampa[1084] ha dimostrato che egli prende abbaglio in citare
per prova di tal pretensione una medaglia, dove è notata la tribunizia
podestà XXI di Antonino Pio, la quale cominciava solamente nel
febbraio dell'anno seguente.

NOTE:

[1080] Gruterus, Thes. Inscr., p. 128, n. 5.

[1081] Noris, Epist. Consular.

[1082] Blanchin., ad Anastas. Biblioth.

[1083] Pagius, in Critic. Baron.

[1084] Stampa, Additament. ad Fast. Sigonii.




    Anno di CRISTO CLVII. Indizione X.

    ANICETO papa 8.
    ANTONINO PIO imperad. 20.

_Consoli_

BARBARO e REGOLO.


Null'altro si sa di questi consoli, se non che il cardinal Noris[1085]
andò conghietturando che il primo fosse chiamato _Vetuleno Barbaro_,
ma con dubbiosa prova. Il Panvinio[1086] in vece di _Barbaro_ stimò il
di lui nome _Barbato_. Così pure è scritto nell'edizione
d'Idazio[1087]. Anzi _Barbato_ ancora si legge in una iscrizione
trovata in questi ultimi tempi nelle Terme Ercolane della
Transilvania, e rapportata dal signor Pasquale Garofalo nel trattato
delle medesime Terme, e da me ancora nella mia Raccolta[1088]. Ma
avendo gli antichi Fasti, e qualche altra iscrizione, _Barbaro_ e non
_Barbato_, possiamo per ora attenerci ad essi. Sotto questo anno si
vede una medaglia[1089] battuta in onore di Antonino Pio, in cui gli è
dato il titolo di _Romolo Augusto_. Ciò sembrar può strano; perciocchè
questo pacifico e prudentissimo Augusto, secondochè scrive
Capitolino[1090], in tutte le sue parti fu lodevole, e tale che, per
sentenza di tutti i buoni, e con ragione, veniva paragonato a _Numa
Pompilio_. Era ben d'altro umore Romolo. Eutropio[1091] ebbe a dire
che siccome Trajano fu creduto un altro _Romolo_, così Antonino Pio un
altro _Numa Pompilio_.

NOTE:

[1085] Noris, Epist. Consulari.

[1086] Panvinius, in Fastis Consul.

[1087] Idacius, Fast.

[1088] Thes. Novus Inscript., pag. 332, n. 3.

[1089] Mediobarbus, in Numism. Imperator, ex Goltzio.

[1090] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1091] Eutrop., in Breviar.




    Anno di CRISTO CLVIII. Indizione XI.

    ANICETO papa 9.
    ANTONINO PIO imperad. 21.

_Consoli_

TERTULLO e CLAUDIO SACERDOTE.


Il nome di _Claudio_, dato al console _Sacerdote_, non è autenticato
da memoria alcuna sicura dell'antichità, e solamente si appoggia sopra
una ragionevol conghiettura del cardinal Noris[1092]. In una
medaglia[1093] si fa menzione della _Ottava Liberalità_ usata da
Antonino Pio Augusto al popolo romano. Questa dal Mezzabarba è
riferita all'anno presente, ma può egualmente appartenere ad altri
anni o precedenti o susseguenti; perchè non v'è espresso il numero
della podestà tribunizia. Fuor di dubbio è, che questo significa un
nuovo congiario, con cui egli rallegrò il popolo romano.

NOTE:

[1092] Noris, Epist. Consular.

[1093] Mediobarbus, in Numism. Imperat.




    Anno di CRISTO CLIX. Indizione XII.

    ANICETO papa 10.
    ANTONINO PIO imperad. 22.

_Consoli_

PLAUTIO QUINTILIO per la seconda volta e STAZIO PRISCO.


_Quintillo_ è appellato il primo console in vari Fasti. Ho io scritto
_Quintilio_, ed anche colla nota del secondo consolato, non conosciuto
dagli altri, in vigore di un'iscrizione esistente nella biblioteca
ambrosiana di Milano, e da me inserita nella mia nuova[1094] raccolta.
Che il secondo console, cioè _Stazio Prisco_, portasse il prenome di
_Marco_, fondatamente lo conghietturò il cardinal Noris[1095]. Ci
avvisano le medaglie[1096], che in questo anno si celebrarono in Roma
i vicennali dell'imperio augustale di Antonino Pio, veggendosi i voti
pubblici affinchè egli pervenisse al terzo decennio dell'imperio suo.
In tal occasione dedicò il tempio d'Augusto con averlo nondimeno
solamente ristorato: del che parlano ancora le medesime medaglie.
Credesi che in quest'anno fosse celebrato in Roma dal pontefice
Aniceto il concilio[1097], a cui intervenne il celebre san Policarpo,
e dove fu decisa la controversia intorno al giorno in cui si ha da
fare la Pasqua.

NOTE:

[1094] Thesaurus Novus. Inscr., pag. 333, n. 3.

[1095] Noris, Epist. Consular.

[1096] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[1097] Blanch., ad Anast. Bibliothecar.




    Anno di CRISTO CLX. Indizione XIII.

    ANICETO papa 11.
    ANTONINO PIO imperad. 23.

_Consoli_

APPIO ANNIO ATILIO BRADUA e TITO CLODIO VIBIO VARO.


È stata disputa fra gli eruditi intorno al cognome e soprannome del
secondo console, volendolo alcuni _Vero_ ed altri _Varo_. In favore
degli ultimi è già deciso il punto, stante una riguardevole
iscrizione, scoperta in Lione, e da me riferita altrove[1098], la
quale ci dà con sicurezza i nomi e cognomi di questi consoli. Intorno
a questi tempi son di parere alcuni letterati che succedesse quanto
scrive Aurelio Vittore[1099], cioè che vennero ambascerie de' popoli
dell'Ircania, Battriana, e fin dell'India, ad inchinare Antonino Pio.
Ma niuna ragion v'ha di riferire un cotal fatto più all'anno presente
che ad altri precedenti. Quel che è certo, ancorchè Antonino fosse
uomo di pace, e pieno di benignità e mansuetudine[1100], pure il
credito della sua saviezza, costanza ed equità, gli acquistò tanta
autorità e buon nome anche presso le nazioni barbare, che non
solamente tutti il rispettarono e temerono, ma anche ricercarono a
gara la di lui grazia ed amicizia. Anzi essendo coloro talvolta in
guerra fra essi, solevano rimettere in lui le loro differenze,
credendo di non poter trovare un giudice più abile e disappassionato
di lui. _Farasmane_ re dell'Iberia venne a Roma per conoscere di vista
e riverire un così rinomato Augusto, e fece a lui più presenti che al
suo predecessore Adriano. Avea il re de' Parti (_Vologeso_
probabilmente) mosse l'armi sue contro l'Armenia. Una sola lettera a
lui scritta da Antonino bastò a farlo ritirare e desistere dalle
offese. Ed avendo esso re fatta istanza di riavere il trono d'oro, che
Trajano già tolse al di lui padre, Antonino, senza far caso delle di
lui minacce, continuò a star sulla sua. Comandò parimente esso
Augusto, che _Abgaro_ re di Edessa venisse a Roma, e fu ubbidito.
Rimandò ancora _Rimetalse_ re del Bosforo al suo regno, dacchè intese
nato fra lui e il suo curatore del dissapore. Egli è da stupire, come
di queste sue gloriose azioni le medaglie non ci abbiano conservata
qualche memoria.

NOTE:

[1098] Thesaurus Novus Inscript., p. 333, n. 4.

[1099] Aurelius Victor, in Epitome, edit. Scotti.

[1100] Capitolinus, in Antonino Pio.




    Anno di CRISTO CLXI. Indizione XIV.

    ANICETO papa 12.
    MARCO AURELIO _il filosofo_
    imperadore 1.
    LUCIO VERO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO AURELIO VERO CESARE per la terza volta, e LUCIO VERO AURELIO
COMMODO per la seconda.


Promosse Antonino Pio Augusto al consolato di quest'anno i due
figliuoli adottivi, cioè _Marco Aurelio Cesare_ e _Lucio Commodo_. Coi
soli suddetti nomi aprirono essi l'anno, come consta ancora da
un'iscrizione del Grutero[1101]. Ma perchè sopravvenne dipoi la morte
del padre, ed amendue furono dichiarati imperadori Augusti; perciò si
truovano iscrizioni fatte dopo essa morte, nelle quali son chiamati
_Consoli_ insieme ed _Augusti_. In due leggi del codice di Giustiniano
si trova quest'anno notato _Divis Fratribus Augustis Consulibus_. E
fin qui avea Antonino Pio con mirabil saviezza, e con procurar sempre
la felicità de' popoli, governato il romano imperio. Venne la morte a
privar di sì buon principe i sudditi, allorchè egli entrato nell'anno
sessantesimoterzo della sua età, ne avea già passato cinque mesi e
mezzo[1102]. Trovavasi egli in Lorio sua villa, dodici miglia lungi da
Roma, ed avendo nella cena mangiato del formaggio alpino più del
dovere[1103], la notte lo rigettò, e fu sorpreso dalla febbre.
Sentendosi nel terzo giorno aggravato dal male, alla presenza de'
capitani delle guardie raccomandò a _Marco Aurelio_, suo figliuolo
adottivo e genero, la repubblica e Faustina sua figlia, moglie di lui.
Fece anche passare alla di lui camera la statuetta d'oro della
Fortuna, che soleva sempre stare in quella degl'imperadori. Quindi,
dopo di aver dato il nome delle sentinelle al tribuno di guardia, cioè
_Tranquillità dell'animo_, farneticando alquanto, andava parlando del
governo e dei re, co' quali era in collera (uno di essi è da credere
che fosse il re dei Parti), e poi quietatosi, come se dormisse spirò
l'anima, per quanto si crede, nel dì 7 di marzo. Avea egli prevenuto
questo colpo, con fare il suo testamento, in cui lasciò tutto il suo
patrimonio privato alla figliuola, e legati proporzionati a tutta la
sua servitù. Dalle lagrime di ognuno fu accompagnato il suo funerale;
il corpo suo collocato nel mausoleo di Adriano; e, secondo gli empii
riti del paganesimo, furono decretati a lui dal senato gli onori
divini, templi e ministri sacri. Restò tal memoria delle mirabili
virtù, e dell'ottimo governo di questo imperadore, che, per lo spazio
di quasi un secolo, il popolo e i soldati parea che non sapessero
amare e rispettare un imperadore, s'egli non portava il nome di
_Antonino_, come si usò di quello di _Augusto_: quasi che dal nome e
non dai fatti dipendesse l'essere un principe buono. Noi siam per
vedere che lo presero anche degl'imperadori cattivi. Nè si dee
tralasciare che _Gordiano_ I, fatto imperadore nell'anno dell'era
Cristiana 237, quando era giovane[1104], compose un poema molto
lodevole, intitolato _Antoniniade_, dove espose tuttavia la vita, le
azioni e le guerre di esso Antonino Pio, e di Marco Aurelio Antonino
suo successore. Capitolino attesta di averlo veduto a' suoi dì; ma noi
ora indarno lo desideriamo. Fiorirono ancora sotto questo imperadore
le lettere, e fra gli altri in gran riputazione furono _Appiano
Alessandrino_, delle cui storie ci restano alcuni libri; _Tolomeo_, di
cui abbiamo trattati di astronomia e di geografia; _Massimo
Tirio_, filosofo platonico, del quale tuttavia si conservano i
Ragionamenti[1105]. Ma si son perdute l'opere di _Calvisio Tauro_ di
Berito: di _Apollonio_ da Calcide, filosofo stoico; di _Basilide_ da
Scitopoli, filosofo anch'esso; di _Erode Attico_; di _Callinico_
storico; di _Frontone_ insigne oratore romano, e di altri ch'io
tralascio. Han creduto alcuni che _Giustino_ storico, da cui furono
ridotte in compendio le storie di _Trogo Pompeo_, vivesse in questi
tempi; ma l'hanno creduto senza alcun fondamento. Sappiamo bensì di
sicuro, che allora fiorì s. _Giustino_, insigne filosofo e martire
cristiano. Resta tuttavia un antico itinerario attribuito da alcuni al
medesimo Antonino Pio Augusto; ma il Wesslingio, che con erudite
annotazioni ha illustrata quell'opera, fa conoscere quanto ne sia
incerto l'autore. Ad Antonino Pio succederono nell'imperio _Marco Elio
Aurelio Antonino_, soprannominato il filosofo, e _Lucio Elio Aurelio
Commodo_, appellato poi _Vero_, amendue di lui figliuoli adottivi, e
consoli nell'anno presente.

Abbiamo già accennato che _Marco Aurelio_ fu prima nomato _Annio
Vero_, e nacque nell'anno 121 nel dì 26 di aprile. Adriano Augusto,
che per qualche lato era di lui parente[1106], all'osservare in lui
giovinetto un animo grande, un sommo rispetto ai suoi maggiori, un bel
genio alle lettere, ma sopra tutto l'inclinazione sua alla filosofia
morale, e non già solamente per mettere nella testa i di lei
documenti, ma per praticarla co' fatti; ne concepì un tal amore e
stima, che gli passò per pensiero di lasciare a lui, morendo,
l'imperio. Tuttavia, perchè non gli parve per anche la di lui età
capace di portare un sì grave fardello, elesse poi per suo successore
_Antonino Pio_, ma con obbligarlo ad adottare esso _Annio Vero_, il
quale per tal adozione assunse il nome di _Marco Elio Aurelio Vero_,
ed insieme con lui _Lucio Cejonio Commodo_, figliuolo di _Lucio Elio
Cesare_, che fu poi nominato _Lucio Elio Aurelio Vero_. Quanto a Marco
Aurelio, divenuto ch'egli fu imperadore, comunemente fu chiamato
_Marco Aurelio Antonino_, o pure _Marco Antonino_, distinguendosi dal
suo predecessore pel solo prenome di _Marco_, perchè Antonino Pio
portava quello di _Tito_. Molto ancora è conosciuto questo Augusto col
soprannome di _Filosofo_, dall'essersi egli applicato di buon'ora allo
studio della filosofia stoica, di cui scrisse ancora alcuni libri, che
tuttavia abbiamo, dove egli parla delle cose sue, esponendo ciò che
avea imparato, e producendo le riflessioni sue intorno alle azioni
umane, alle virtù, ai vizii[1107]. Ottimi maestri ebbe Marco Aurelio
nello studio dell'eloquenza, della poesia e dell'erudizione; ma egli
stesso confessa di non avere avuto assai talento per risplendere in sì
fatti studi, e ringrazia Dio di non essersi perduto, come i sofisti,
in far dei bei discorsi, in formar de' sillogismi, e in contemplare le
stelle. Diedesi egli alla conoscenza delle leggi sotto _Lucio Volusio
Meciano_, valente giureconsulto; e questa poi gli servì assaissimo,
allorchè imperadore ebbe da far giustizia. Il suo naturale serio,
grave, tranquillo e lontano dalle inezie anche nell'età più verde, e
il suo genio solamente rivolto al buono e al meglio, per tempo il
portarono allo studio, all'amore e alla professione della filosofia
de' costumi. Studio, il quale volesse Dio che fosse più in onore e più
in pratica a' giorni nostri! Nell'età di dodici anni egli prese
l'abito de' filosofi, cioè il mantello alla greca, e fece, per così
dire, il suo noviziato con darsi ad una vita sobria ed austera, sino
ad avvezzarsi a dormire sulla nuda terra. Per le instanze di _Domizia
Calvilla_ sua madre si ridusse poi a dormire in un piccolo letto,
coperto nel verno con alcune pelli. Si protesta egli obbligato a Dio
di aver così per tempo amata la filosofia, e imparato a mortificar le
sue voglie e passioni, perchè ciò il tenne lungi da' vizii, e fece
ch'egli anche giovanotto conservasse la castità, e molto più da lì
innanzi: cosa ben rara fra i Gentili, professori d'una religione falsa
e fomentatrice degli stessi vizii. Giuliano Apostata[1108], che tagliò
i panni addosso a tutti gli Augusti suoi antecessori, quando arriva a
_Marco Aurelio_, altro non ne fa che un elogio, e cel dipinge con
faccia dolcemente seria, e con barba folta e mal pettinata, con abito
semplice e modesto. Furono suoi maestri nella filosofia peripatetica
_Claudio Severo_, che vedremo console in breve; nella stoica amata da
lui sopra le altre, _Apollonio_ da Calcide, _Sesto_ da Cheronea,
nipote di Plutarco, _Giunio Rustico_, _Claudio Massimo_, _Cinna
Catullo_, _Basilide Arriano_ ed altri[1109]. Sul principio de' suoi
libri, perchè egli sapeva prendere il buono di tutti, e lasciare il
cattivo, va ricordando quali buone ed utili massime avesse imparato da
cadaun d'essi, e da _Antonino Pio_ suo padre per adozione, e da vari
altri o grammatici, o oratori, o filosofi, fra' quali specialmente amò
ed ascoltò il suddetto _Giunio Rustico_[1110]. Abbiam da Capitolino,
che Marco Aurelio, allorchè gli morì un di coloro che aveano avuta
cura della sua educazione, ne pianse; e perchè i cortigiani si
facevano beffe di questa sua tenerezza di cuore, Antonino Pio Augusto
disse loro: _Lasciatelo fare, perchè anche i saggi sono uomini; nè la
filosofia, nè l'imperio estinguono gli affetti nostri_. Da tutti
questi maestri apprese Marco Aurelio qualche cosa di profittevole per
ben vivere, badando ai lor documenti o all'esempio loro: con che
giovane ancora si avvezzò a tenere in freno il corpo, menando una vita
dura, fuggendo ogni delizia, leggendo, faticando, e attendendo agli
affari occorrenti.

Con così bel preparamento adunque, e con tale corteggio di virtù fu
Marco Aurelio adottato per figliuolo da Antonino Pio, e divenne suo
genero, con isposar _Faustina_, unica figliuola di lui, da cui ebbe
poi varie figliuole. Essa in questo medesimo anno, dacchè il marito
era divenuto imperadore, gli partorì due gemelli nel dì 31 d'agosto,
l'uno de' quali fu _Commodo_, figliuolo indegno di sì buon padre, e
che avrà luogo fra gli abbominevoli Augusti. Altri maschi nacquero da
tal matrimonio, ma niun d'essi sopravvisse al padre. Dappoichè ebbe
Antonino Pio fatto fine alla sua vita, il senato dichiarò imperadore
Augusto il solo _Marco Aurelio_; ma egli con un atto di magnanimità,
che non avea, e non avrà forse esempio, benchè _Lucio Elio Commodo_
non fosse a lui attinente per alcuna parentela di sangue, ma solamente
per titolo di adozione gli fosse fratello; pure il volle[1111] per suo
collega nello imperio, e gli conferì i titoli d'_Imperatore_ e
d'_Augusto_, e la _podestà tribunizia e proconsolare_; il che fu cosa
non più veduta; cioè due Augusti nel medesimo tempo. Ritenne per sè il
pontificato massimo, e il cognome di Antonino, cedendo a lui il suo
proprio, cioè quello di _Vero_; di modo che egli da lì innanzi fu
appellato _Marco Aurelio Antonino_, e l'altro _Lucio Aurelio Vero_, o
_Lucio Vero_. Il dirsi da Dione[1112], o pur da Zonara[1113], che
Marco Aurelio s'indusse a risoluzion tale, perchè egli era debole di
complessione, e voleva attendere ai suoi studi, laddove Lucio Vero era
giovane robusto, e più atto alle fatiche della milizia, nol so io
credere vero. Se Marco Aurelio non si attentasse a fare il mestier
della guerra, e si perdesse fra i libri, lo vedremo andando innanzi.
Aristide[1114], famoso sofista di questi tempi, in una delle sue
orazioni, esalta forte, come un'azione la più grande che potesse mai
farsi, l'avere Marco Aurelio spontaneamente, e senza far caso de'
figliuoli che poteano nascere da Lucio Vero, voluto eleggerlo per suo
collega nell'imperio. Egli sì dice il vero. La virtù sola di Marco
Aurelio e la sola grandezza dell'animo suo potè giungere a tanto; e la
virtù quella fu che fece poi camminar concordi questi due fratelli
Augusti, benchè in Lucio abbondassero i difetti, siccome diremo. A lui
promise ancora[1115] Marco Aurelio in moglie _Lucilla_ sua figliuola,
non per anche atta alle nozze, che vedremo effettuate a suo tempo.
Andarono poscia amendue questi Augusti al quartiere de' soldati
pretoriani, promisero ad essi il consueto regalo, e agli altri soldati
a proporzione. _Vicena millia nummum singulis promiserunt militibus_,
si legge nel testo di Capitolino. Temo io dello sbaglio in sì fatta
espressione, perchè vien creduto che sieno quattrocento scudi romani
per testa: somma, che a' dì nostri fa paura, perchè si trattava di
molte migliaia di soldati. Che anche al popolo toccasse il suo
congiario si raccoglie dalle medaglie[1116]. Oltre a ciò il donativo
del frumento, che si faceva ai fanciulli e alle fanciulle de' poveri
cittadini romani, fu steso da loro a quei che nuovamente erano venuti
ad abitare in Roma, se pur non vuol dire lo storico[1117], che
accrebbero per l'Italia il numero de' fanciulli e delle fanciulle,
che, per istituzione di Nerva, Trajano e Adriano, partecipavano della
cesarea liberalità.

NOTE:

[1101] Gruterus, Thesaurus Inscript., pag. 300, num. 1.

[1102] Eutrop., Breviar. Euseb., in Chron. Aurel. Victor, Epitome.

[1103] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1104] Capitolin., in Gordiano.

[1105] Euseb., in Chron.

[1106] Dio, lib. 71.

[1107] Marcus Aurelius, de Rebus suis, lib. 1.

[1108] Julian, de Caesarib.

[1109] Eusebius, in Chron.

[1110] Capitolinus, in Antonino Pio.

[1111] Idem, in Lucio Vero Imper.

[1112] Dio, lib. 71.

[1113] Zonaras, in Annal.

[1114] Aristid., Orat. 16.

[1115] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1116] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.

[1117] Capitolinus, in Marco Aurelio.




    Anno di CRISTO CLXII. Indizione XV.

    SOTERO papa 1.
    MARCO AURELIO imperad. 2.
    LUCIO VERO imperadore 2.

_Consoli_

QUINTO GIUNIO RUSTICO e CAJO VETTIO AQUILINO.


_Rustico_ quel medesimo è che fu uno de' maestri di Marco Aurelio,
sopra gli altri a lui caro. Da un'iscrizione riferita dal
Panvinio[1118], e posta nelle calende di luglio, si deduce che ad
Aquilino succedette nel consolato _Quinto Flavio Tertullo_.
Credesi[1119] che sant'_Aniceto_ papa nell'anno precedente compiesse
gloriosamente il suo pontificato col martirio; ma è intrigata in
questi tempi la cronologia de' romani pontefici, e confessa anche la
cronica di Damaso, la qual va sotto nome di Anastasio bibliotecario.
Tuttavia, secondo essa cronica, _Sotero_ papa cominciò in quest'anno a
contare gli anni del suo pontificato. Avea già dato principio al suo
governo nell'anno procedente _Marco Aurelio Augusto_, e si era
cominciato a provare quanto sia vero il detto di Platone, che
sarebbero felici i popoli, se regnassero solamente i filosofi, ed è lo
stesso che dire se i regnanti studiassero, amassero e professassero la
sapienza. Seco si univa _Lucio Vero Augusto_ nel comando, e con buona
unione, ma con subordinazione a lui, quasi che l'uno fosse padre e
l'altro figliuolo[1120]. Studiavasi Lucio Vero di uniformarsi nelle
maniere di vivere a lui, per quanto poteva, usando sobrietà, gravità e
moderazione in apparenza, perchè nella sostanza troppo era egli
diverso dall'altro. Non si desiderò in essi la bontà e la clemenza di
Antonino Pio; ed uno de' primi a farne pruova fu Marcello commediante,
che in pubblico teatro con qualche equivoco il punse, senza che Marco
Aurelio, che lo seppe, ne facesse risentimento alcuno. Ma che? contro
dell'imperio romano si cominciarono a scatenar le disgrazie, e se al
popolo romano non fosse toccato in tempi sì burrascosi un imperadore
di tanta voglia, come fu Marco Aurelio, poteano maggiormente
moltiplicarsi i guai. La prima disavventura, onde restò turbata la
pubblica felicità, fu l'innondazione del Tevere, che recò un
gravissimo danno alle case, alle mercatanzie ed altre robe della città
di Roma, affogò gran copia di bestiame, e si tirò una terribil
carestia. Le provvisioni fatte in questo bisogno dai due Augusti, tali
furono che si rimediò ai disordini, e ritornò la calma nella città. Ma
più da pensare davano le turbolenze insorte ai confini dell'imperio,
prima eziandio che mancasse di vita Antonino Pio. In Germania i Catti
popoli barbari avevano già fatto delle scorrerie nel paese romano. La
Bretagna anch'essa minacciata dai barbari non sudditi dell'imperio. Fu
dunque inviato in Germania a difendere quelle frontiere _Aufidio
Vittorino_. Cosa ne avvenisse non ne resta memoria nelle storie. Alla
difesa della Bretagna fu spedito _Calpurnio Agricola_, ma di quegli
affari parimente è perita la memoria.

Di maggiore importanza senza paragone fu la guerra mossa fin l'anno
precedente da _Vologeso re de' Parti_, non si sa, se perchè Antonino
Pio ricusò di rendergli il trono regale, tolto a Cosroe suo padre, o
pure perchè anch'egli, al pari de' suoi maggiori, facesse l'amore al
regno dell'Armenia, dipendente dall'imperio romano. Dopo la morte di
esso, Antonino dichiarò egli la guerra, sollevò quanti re e nazioni
potè di là dall'Eufrate e dal Tigri contro ai Romani, e,
verisimilmente sul principio, indirizzò l'armi sue addosso alla stessa
Armenia. Fu conosciuto in Roma necessario lo spedire un capo di grande
autorità con gagliardissime forze, per far fronte a sì potente nemico,
e perchè lo stato della repubblica esigeva in Roma la presenza di
Marco Aurelio, acciocchè egli accudisse anche agli altri rumori della
Bretagna e della Germania; e col consenso del senato fu presa la
risoluzion d'inviare in Oriente _Lucio Vero Augusto_. In fatti,
provveduto di tutti gli uffiziali occorrenti si partì questo
giovinastro principe da Roma, e fu accompagnato dal fratello Augusto
sino a Capoa. Ma appena giunto a Canosa, cadde infermo. Il che inteso
da Marco Aurelio, che s'era restituito a Roma, colà si portò di nuovo
per visitarlo. Tornatosene poscia a Roma, compiè i voti fatti per la
salute d'esso Lucio Vero nel senato. L'andata di esso Vero vien
riferita all'anno presente da vari letterati. Il padre Pagi[1121] la
crede seguita del precedente. Riavuto egli dalla malattia, guadagnata
nel viaggio coi disordini e coi piaceri, a' quali si abbandonò, subito
che si fu sottratto agli occhi del savio fratello Augusto, continuò
per mare il suo viaggio. Abbiamo da Capitolino[1122], e lo asserisce
anche Eusebio[1123], che Lucio Vero andò a Corinto e ad Atene, sempre
accompagnato nella navigazione dalla musica de' cantori e sonatori. In
Atene fece de' sagrifizii con augurii, creduti infausti dai visionarii
pagani. Poscia, ripigliato il viaggio per mare, andò costeggiando
l'Asia Minore, la Pamfilia e la Cilicia, fermandosi qualche giorno per
tutte le città più illustri a darsi bel tempo, finchè finalmente
arrivò ad Antiochia, dove fece punto fermo. Probabilmente non vi
giunse se non nell'anno presente.

NOTE:

[1118] Panvinius, in Fastis Consular.

[1119] Blanc., ad Anastasium Bibliothec.

[1120] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1121] Pagius, Critic. Baron.

[1122] Capitolinus, in Lucio Vero.

[1123] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO CLXIII. Indizione I.

    SOTERO papa 2.
    MARCO AURELIO imperad. 3.
    LUCIO VERO imperad. 3.

_Consoli_

LELIANO e PASTORE.


S'è disputato finora, se il primo console sia da nominarsi _Lucio
Eliano_, o pure _Leliano_. Resta indecisa la lite. Per le ragioni da
me addotte altrove, inclino a crederlo _Leliano_; e un'iscrizione da
me prodotta[1124] mi ha somministrato fondamento per conghietturare,
che il suo prenome e nome fossero _Marco Pontio Leliano_. Con esso lui
si trova ancora console _Quinto Mustio Prisco_, che potè essere
sostituito a _Pastore_. Un'iscrizione prodotta dal Reinesio[1125],
Cupero e Relando[1126] ha _Marco Aurelio_ e _Lucio Eliano Consoli_,
iscrizione creduta da me falsa, perchè si solevano notare i consoli
col cognome, e non già col solo prenome e nome. Ma essa è presa dai
manuscritti del Ligorio, cioè, per quanto ho io accennato nella
prefazione alla mia Raccolta, da opere non vere del Ligorio, ma
accresciute o adulterate da qualche susseguente impostore, che
fabbricò gran copia di antiche iscrizioni, e le spacciò sotto il nome
del Ligorio, delle quali poi specialmente s'è fatto bello il Gudio.
Ne' legittimi manuscritti del Ligorio da me veduti non si trovano
queste merci. Intanto gli affari di Levante male e peggio camminavano
per li Romani. Per testimonianza di Dione[1127], era stato spedito
_Severiano_, forse governatore della Cappadocia, colle forze ch'egli
avea in quelle parti, in aiuto dell'Armenia. Secondo il pazzo rito de'
superstiziosi e troppo crudeli d'allora, volle egli prima consultare
nella Paflagonia _Alessandro_, famoso impostore, che in questi tempi
si spacciava profeta, ed ebbe poi Luciano[1128] scrittore della di lui
infame vita. Il furbo gli predisse delle vittorie. Con questo dolce in
bocca andò Severiano, menando seco più d'una legione, a portarsi in
Elegia città dell'Armenia. Ma eccoti comparire un nuvolo di Parti, che
per tre giorni tennero bloccata da ogni parte l'armata romana, e in
fine con una pioggia di strali la disfecero interamente, lasciandovi
la vita anche tutti i capitani. Se non falla Capitolino[1129], questa
sciagura arrivò ai Romani, fin quando Lucio Vero Augusto, postosi in
cammino verso l'Oriente, si dava bel tempo nella Puglia, andando a
caccia, e perdendo il tempo. Per conseguente dovrebbe tal fatto
appartenere all'anno precedente 162. Fiero per tal vittoria _Vologeso_
re dei Parti, rivolse le armi contro la Soria, dove era governatore
_Attidio Corneliano_. Quivi ancora venuto alle mani coll'esercito
romano, lo mise in rotta, spandendo con ciò il terrore e i saccheggi
per tutte quelle contrade. Nè andò esente da sì fatti danni la
provincia della Cappadocia. Sembra che tal disavventura accadesse nel
precedente anno. Giunto era ad Antiochia, come dicemmo, capitale della
Soria, _Lucio Vero Augusto_[1130]; e invece di attendere
all'importante affare, per cui s'era mosso, quivi tutto si diede in
preda ai piaceri, anche più infami, nel lusso, nei conviti e in ogni
sorta di libidine. Non avea più il maestro a lato che gli tenesse gli
occhi addosso, nè gli legasse le mani. Doveva andare in persona, come
desiderava l'Augusto suo fratello, a procacciarsi gloria nelle armi,
ed egli ad altro non pensava che ad appagare ogni sfrenata sua voglia.
Tutto quel che fece, fu spedire gran gente e dei bravi generali contra
dei Parti, e questi principalmente furono _Stazio Prisco_, _Avidio
Cassio_ (che vedremo a suo tempo ribello) e _Marzio Vero_, lodati
ancora da Dione[1131] pel loro valore. Sembra che si possa dedurre
dalle medaglie[1132], che in quest'anno i Romani riportassero qualche
vantaggio nell'Armenia, o ne ricuperassero una parte; ma non dovette
esser gran cosa. Avea già Marco Aurelio promessa in moglie a _Lucio
Vero_ la sua figliuola _Lucilla_. Secondo i conti del padre
Pagi[1133], in questo anno se ne effettuarono le nozze[1134]. Condotta
questa principessa dal padre sino a Brindisi, fu poi trasferita ad
Efeso, dove si portò Lucio Vero a prenderla. E vi si portò per
concerto fatto prima; imperciocchè Marco Aurelio avea detto in senato
di volerla egli stesso condurre fino in Soria; ma Lucio Vero si esibì
di venire a riceverla ad Efeso per timore che se il fratello arrivasse
ad Antiochia, non iscoprisse tutti i segreti della scandalosa sua
vita. Avea il buon imperadore Marco Aurelio, per esentare i popoli
dagli aggravi, spediti prima degli ordini alle provincie, che non si
facessero incontri alla figliuola. Ma più verosimile sembrerà che
nell'anno susseguente succedesse il viaggio di Lucilla, a cui fu
conferito il titolo di _Augusta_; perchè Marco Aurelio se ne tornò in
fretta da Brindisi a Roma, per ismentire le dicerie sparse, ch'egli
volesse passare in Soria affin di levare al fratello e genero la
gloria di terminar quella guerra. E pure finquì non abbiamo inteso
alcun tale prospero successo delle armi romane in quelle parti, onde
potesse Marco Aurelio portar invidia a Lucio Vero.

NOTE:

[1124] Thesaurus Novus Inscript., pag. 335.

[1125] Reinesius, Inscript., pag. 218.

[1126] Reland., Fast. Consular.

[1127] Dio, lib. 71.

[1128] Lucian., in Pseud.

[1129] Capitolin., in Lucio Vero.

[1130] Idem, ibid.

[1131] Dio, lib. 71.

[1132] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[1133] Pagius, Critic. Baron.

[1134] Capitolinus, in Marco Aurel. et in Lucio Vero.




    Anno di CRISTO CLXIV. Indizione II.

    SOTERO papa 3.
    MARCO AURELIO imperad. 4.
    LUCIO VERO imperad. 4.

_Consoli_

MARCO POMPEO MACRINO e PUBLIO JUVENZIO GELSO.


Cangiossi finalmente nel presente anno in ridente il volto finora
bieco della fortuna verso de' Romani. A _Stazio Prisco_ riuscì di
prendere Artasata città dell'Armenia[1135], di mettere guarnigione in
un luogo, appellato di poi Città-Nuova, perchè _Marzio Vero_, a cui fu
dato il governo di quella provincia, fece di quel luogo la prima città
dell'Armenia[1136]. Allorchè esso Marzio giunse colà, trovò ammutinate
quelle milizie, e colla sua prudenza le pacificò. Nelle medaglie[1137]
di quest'anno si fa menzione dell'_Armenia vinta_, dell'_Armenia
presa_. E più di una vittoria convien dire che riportassero i Romani
in quelle parti, perchè osserviamo che i due Augusti presero in
quest'anno _per due volte_ il titolo d'_Imperadore_, segno appunto di
vittoria. Quel che è più, tanto Marco Aurelio, che Lucio Vero, furono
proclamati _Armeniaci_, come consta dalle medesime loro medaglie, o,
vogliam dire, monete, inoltre dalle stesse apparisce ch'essi Augusti
diedero un re agli Armeni; e questo fu _Soemo_ della razza degli
Arsacidi, senza che si sappia s'egli ne fosse dianzi re, e cacciato da
Vologeso, o pure s'egli fosse re nuovo, dato dai due imperadori a quei
popoli; e Dione[1138], parlando della somma clemenza di Marco Aurelio,
scrive che in questa guerra fu fatto prigione Tiridate Satrapa, il
quale era stato cagione de' torbidi nati nell'Armenia, ed avea ucciso
il re degli Eniochi, e messa mano alla spada contra di _Marzio Vero_
generale de' Romani, perchè gli rimproverava cotesti suoi eccessi. E
pure il buon imperadore altro gastigo non gli diede, se non che il
mandò in esilio nella Bretagna. Intanto ridendosi Lucio Vero dei
rumori e pericoli della guerra, col pretesto di attendere a provveder
le armate romane di viveri e di nuove genti[1139], se ne stava godendo
le delizie di Antiochia, e lasciava che i generali romani sudassero ed
esponessero le lor vite per lui nelle imprese guerriere. Per quattro
anni, ma con soggiorno non fisso, si trattenne egli in quella città:
perchè nel verno abitava a Laodicea, nella state a Dafne, amenissimo
ed ombroso luogo in vicinanza di Antiochia. Per le tante istanze
nondimeno de' suoi consiglieri, si lasciò indurre, durante questa
guerra, a portarsi due volte sino all'Eufrate. Ma appena s'era
lasciato vedere all'esercito romano (non già a quel de' nemici), che
se tornava ai suoi prediletti ed obbrobriosi piaceri di Antiochia. E
non gliela perdonavano già que' commedianti, i quali nel pubblico
teatro più volte con arguti motti destramente mettevano in canzone ora
la di lui codardia, ora la sfrenata sua lussuria; nè v'era persona che
non gli ridesse dietro. Truovasi presso il Mezzabarba sotto quest'anno
una medaglia, in cui Marco Aurelio è intitolato _Germanico_, ed
espressa una _Vittoria d'Augusto_. Ma non può stare. Vedremo a suo
tempo quando a questo imperadore fu dato il titolo di Germanico. Per
ora egli solamente veniva chiamato _Armeniaco_.

NOTE:

[1135] Capitol., in Marco Aurelio.

[1136] Dio, lib. 71.

[1137] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[1138] Dio, in excerpt. Valesian.

[1139] Capitol., in Lucio Vero.




    Anno di CRISTO CLXV. Indizione III.

    SOTERO papa 4.
    MARCO AURELIO imperad. 5.
    LUCIO VERO imperad. 5.

_Consoli_

LUCIO ARRIO PUDENTE e MARCO GAVIO ORFITO.


Più strepitosi ancora furono i fatti de' Romani in quest'anno nella
guerra contra de' Parti[1140]. _Avidio Cassio_, che comandava la
grande armata romana in faccia ai Parti, gittò un ponte sull'Eufrate,
come già fece Trajano, e, ad onta loro, passò coll'esercito nella
Mesopotamia, inseguì i fuggitivi, e mise quelle contrade sotto
l'ubbidienza de' romani Augusti. Fra le sue conquiste massimamente
famosa divenne quella di Seleucia, città popolatissima e ricca sul
Tigri, tale che, se non abbiam difficultà a credere ad Eutropio[1141]
e a Paolo Orosio[1142], era abitata da quattrocento e più mila
persone. Si rendè amichevolmente quel popolo a Cassio, senza voler
aspettare la forza, ma l'iniquo generale che voleva pur rallegrare
l'armata col sacco di sì doviziosa città, trovò de' pretesti ed
inventò delle querele, tanto che si effettuò lo scellerato suo disegno
colla rovina di quel popolo, e coll'incendio dell'intera città, in
cui, anche a' tempi di Ammiano Marcellino[1143], si miravano le
vestigia di così crudele azione. Nulladimeno attesta Capitolino[1144],
che _Asinio Quadrato_, scrittore di questa guerra, discolpa _Cassio_,
e rigetta sopra i Seleuciani, come primi a romper la fede, l'origine
della loro sciagura. In dubbii tali la presunzione corre contra chi ha
l'armi in mano, e facendo quel mestiere per arricchire, ed anche per
altri fini obbrobriosi, facilmente dimentica tutte le leggi
dell'umanità, per ottenere l'intento. Qui non si fermò la vittoria di
Cassio. Passato il fiume Tigri, entrò ancora in Ctesifonte, capitale
del regno de' Parti, e in Babilonia, città famosa di quei tempi.
Rimasero spianati tutti i palazzi che _Vologeso_ avea in Ctesifonte,
acciocchè anch'egli imparasse, al pari di suo padre, a rispettare la
maestà del romano imperio. Scrive Luciano[1145], autore di questi
tempi, una gran battaglia succeduta a Zaugma presso l'Eufrate fra i
Romani e i Parti, colla totale disfatta degli ultimi; e poi per
deridere gli storici adulatori, aggiugne che vi morirono trecento
settantamila Parti, e de' Romani solamente tre furono i morti, e nove
i feriti. Secondo il medesimo Luciano, anche Edessa fu assediata dai
Romani. Per tal vittoria i due fratelli Augusti presero il titolo
d'_imperadori per la terza volta_, siccome ancora il cognome di
Partici. Fu di parere il padre Pagi[1146] che si terminasse in
quest'anno essa guerra partica, e che Lucio Vero Augusto si
restituisse a Roma, fondato sopra la credenza, che nell'anno 161
avesse principio quella guerra: il che non è certo. Alcuni pensano che
all'anno seguente s'abbia da riferire tanto il fine d'essa guerra,
quanto il ritorno di Lucio Vero, e questa giudico io più probabil
opinione.

NOTE:

[1140] Dio, lib. 71.

[1141] Eutrop., in Breviar.

[1142] Orosius, in Histor.

[1143] Ammianus Marcellinus, Histor., lib. 23.

[1144] Capitolin., in Lucio Vero.

[1145] Lucian., de Conscribenda Hist.

[1146] Pagius, in Critic. Baron.




    Anno di CRISTO CLXVI. Indizione IV.

    SOTERO papa 5.
    MARCO AURELIO imperad. 6.
    LUCIO VERO imperadore 6.

_Consoli_

QUINTO SERVILIO PUDENTE e LUCIO FUFIDIO POLLIONE.


Dissi parere a me più probabile, che durasse ancora per molti mesi di
questo anno la guerra dei Romani coi Parti. Ci assicurano le
medaglie[1147], che nell'anno presente Marco Aurelio e Lucio Vero
furono proclamati _per la quarta volta Imperadori_. Adunque l'armi
loro riportarono qualche vittoria, e questa non potè essere se non
contro ai Parti, perchè quella de' Marcomanni fu più tardi. Oltre di
che in esse monete si truova espressa la _Vittoria Partica_. Giusto
motivo dunque ci è di credere, che _Avidio Cassio_ generale de' Romani
continuasse le conquiste e i saccheggi contra de' Parti nell'anno
presente, e fosse allora appunto, ch'egli arrivò sino alla Media, onde
poi ai titoli d'_Armeniaco_ e _Partico_ aggiunse Lucio Vero[1148]
quello di _Medico_, del quale nondimeno non si ha vestigio nelle
medaglie. Dovette Cassio internarsi cotanto in que' paesi, che corse
voce aver egli infin passato il fiume Indo, benchè si possa ciò
credere finto da Luciano[1149], per mettere in ridicolo gli storici
che scrivevano allora cose spropositate per esaltare i loro eroi.
Abbiamo poi da Dione[1150], che Cassio, nel tornare indietro, perdè
gran copia de' suoi soldati, parte per mancanza di viveri, e parte per
malattie; e che con quei che gli restarono, si ridusse in Soria, la
qual vasta provincia a lui fu poscia data in governo. Come finisse
l'impresa suddetta, non ne parla la storia. Verisimilmente si venne
fra i Romani e Vologeso a qualche trattato di pace; ed apparenza c'è,
che della Mesopotamia, o almeno di una parte di essa rimanessero
padroni i Romani. _Lucio Vero Augusto_, che tuttavia dimorava in
Antiochia, si gonfiò forte per così prosperosi successi. Avea spedito
l'imperador Marco Aurelio in quelle parti[1151] _Annio Libone_ suo
cugino germano, con titolo di legato, o sia di luogotenente, cioè con
molta autorità. Questi non istette molto ad ammalarsi e a morire in
fretta. Perchè egli con insolenza avea cominciato ad esercitar la sua
carica, e mostrava poca stima di _Lucio Vero_, con dire nelle cose
dubbiose, che ne scriverebbe a Marco Aurelio; vi fu chi credette per
ordine d'esso Vero Augusto abbreviata a lui la vita col veleno. Ma o
nol credette, o fece finta di non crederlo Marco Aurelio; anzi venuto
il fratello a Roma, e volendo dar per moglie ad Agaclito suo liberto
la vedova d'esso Libone, Marco Aurelio, benchè se l'avesse a male,
pure intervenne al convito di quelle nozze. Sbrigato dunque dalla
guerra de' Parti, dopo cinque anni, come dice Capitolino[1152], Lucio
Vero se ne tornò, prima che terminasse quest'anno, a Roma; menando
seco, non già dei re vinti, ma un gregge di commedianti, buffoni,
giocolieri, ballerini, sonatori ed altra simil sorta di gentaglia, di
cui specialmente si dilettavano i popoli dell'Egitto e della Soria,
troppo dediti ai divertimenti; di modo che pareva, ch'egli fosse
ritornato non da una vera guerra, ma da un serraglio di persone da
lusso e sollazzo. Questi erano i trofei di un tale Augusto, tutto il
rovescio del savissimo imperador suo fratello, dimorante in Roma, e
solamente intento al pubblico bene.

NOTE:

[1147] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[1148] Capitolin., in Lucio Vero.

[1149] Lucian., de Conscribenda Histor.

[1150] Dio, Lib. 71.

[1151] Capitolinus, in Lucio Vero.

[1152] Capitolinus, in Lucio Vero.




    Anno di CRISTO CLXVII. Indizione V.

    SOTERO papa 6.
    MARCO AURELIO imperad. 7.
    LUCIO VERO imperadore 7.

_Consoli_

LUCIO ELIO AURELIO VERO AUGUSTO per la terza volta e QUADRATO.


Secondo i conti del padre Pagi[1153], _Marco Aurelio_ e _Lucio Vero_
Augusti fecero nell'anno precedente la lor solenne entrata in Roma da
trionfanti per la guerra compiuta contro i Parti e gli Armeni. Secondo
quei di Mezzabarba[1154], che sembrano meglio fondati, il trionfo loro
succedette nell'anno presente; per la qual suntuosa funzione _Lucio
Vero_ prese anche il consolato. Abbiamo memoria di ciò in una medaglia
di Marco Aurelio colla di lui _Podestà Tribunizia XXI_ corrente in
questo anno, dove si mirano i due imperadori, in cocchio tirato da
quattro cavalli, e preceduto dalla pompa trionfale. Per sua modestia
non voleva il buon Marco Aurelio[1155] partecipare di questo trionfo,
dicendolo dovuto al suo Lucio Vero, le cui grandi fatiche per domar
que' barbari, già le abbiamo vedute. Ma Lucio Vero fece istanza al
senato, che anche il fratello Augusto trionfasse con lui; e inoltre,
che i di lui figliuoli _Commodo_ e Vero fossero creati Cesari; il che
fu eseguito. Vidersi poscia essi suoi figli, tanto maschi che femmine,
andare in carrozza con loro nel trionfo. In tal occasione decretò ad
amendue il senato la corona civica, e il titolo di _Padri della
Patria_, ricusato finora da Marco Aurelio, per esser lontano il
fratello. Nelle medaglie non s'incontra questo loro glorioso titolo.
Si truova bensì nelle iscrizioni legittime, fatte in quest'anno e ne'
seguenti, in onore dell'altro imperadore: il che può anche servire ad
indicar l'anno preciso del trionfo, da me creduto il presente, e per
conoscere ancora se sieno o scorrette o adulterine quelle iscrizioni
che prima di questi tempi attribuissero loro un sì fatto titolo. In
occasione del suddetto trionfo eziandio fu decretato che fossero fatti
pubblici giuochi, a' quali assisterono tutti e due gli Augusti in
abito trionfale. Parlano finalmente le medaglie[1156] del _quarto
Congiario_ dato al popolo romano da essi Augusti nell'anno presente,
probabilmente per solennizzare con maggior contento d'esso popolo la
pubblica allegrezza. Trovaronsi dunque in Roma i due Augusti in
quest'anno, e si vide come un prodigio, la bella concordia de' loro
animi, tuttochè fossero sì diversi i loro costumi. Quanto a Marco
Aurelio, principe per natural saviezza, per inclinazione alle azioni
lodevoli, e specialmente per l'aiuto della filosofia pieno di belle
massime, egli era tutto rivolto a procurare il ben della repubblica,
non meno di quel che sia un saggio padre di famiglia in ben regolare
la propria casa[1157]. Ammiravasi in lui l'indefessa applicazione ad
amministrar la giustizia, obbligo primario dei regnanti. Voleva
ascoltar tutto con pazienza, interrogava egli le parti, esaminava le
ragioni, lasciando agli avvocati il convenevol tempo per dedurle: di
maniera che talvolta intorno ad un solo affare impiegava più giorni,
laonde coloro poi che erano condannati, si persuadevano che giuste
fossero le di lui sentenze. Nè in ciò procedeva egli mai senza il
consiglio e l'assistenza di valenti giurisconsulti, fra i quali
principalmente si contò _Scevola_, lodatissimo anche oggidì nella
scuola de' Legisti. La sua bontà il portava sempre alla clemenza e
alla dolcezza, sminuendo per lo più nelle cause criminali il rigor
delle pene, se non quando si trattava di atroci delitti, nei quali
compariva inesorabile. Teneva gli occhi sopra i giudici, affinchè non
si abusassero o per negligenza o per malizia, della loro autorità. Ad
un pretore, che non avea ben esaminato un processo, comandò di
rileggerlo da capo a piedi. Ad un altro, che peggio operava, non levò
già il posto per sua bontà, ma gli sospese la giurisdizione,
delegandola al di lui compagno. Lo studio suo maggiore consisteva in
distornar dolcemente gli uomini dal male, ed invitarli al bene,
ricompensando i buoni colla liberalità e con vari premii, e cercando
di guadagnare il cuore de' cattivi con perdonar loro i falli, che si
potessero scusare: il che servì a rendere buoni molti, e a far
divenire migliori i già buoni.

Nelle liti suo costume fu di non favorire quasi mai il fisco.
Piuttosto che far delle leggi nuove, procurava di rimettere in piedi
le vecchie. E ben molte ne rinnovò intorno al ristringere il soverchio
numero delle ferie; in assegnar tutori e curatori; in ben regolare
l'annona, e levarne gli abusi; in tener selciate le vie di Roma e
delle provincie, e nette dai malviventi; e in punire chi nelle gabelle
avesse esatto più delle tasse; in moderar le spese degli spettacoli e
delle commedie; in gastigare i calunniatori, e in simili altri utili.
Proibì sopra tutto l'accusar chicchessia, che avesse sparlato della
maestà imperiale, sofferendo egli senza punto alterarsi le dicerie de'
maligni, fin le insolenze dette in faccia a lui stesso. Un certo
Veterano, malamente screditato presso il pubblico, gli faceva premura
per ottenere un posto. Rispose il savio imperadore, che studiasse
prima di riacquistare il buon nome. Al che colui replicò: _Quasi che
io non abbia veduto molti nel posto di Pretore, che meco hanno
combattuto nell'anfiteatro._ Pazientemente sopportò il buon Augusto
l'insolente risposta. Il rispetto suo verso il senato incredibile fu.
V'interveniva sempre, essendo in Roma, non impedito, ancorchè nulla
avesse da riferire. E quando pure, essendo a villeggiar nella
Campania, gli occorreva di dover proporre qualche cosa, in vece di
scrivere, veniva egli in persona a parlarne. Non aggiugneva a
quell'insigne ordine, se non chi egli ben sapeva meritarlo per le sue
virtù, con promuovere dipoi alle cariche lucrose i senatori poveri, ma
dabbene, per aitarli. Che se talun dei senatori veniva accusato di
delitti capitali, ne facea prima prendere segrete informazioni, per
non iscreditare alcuno senza un sicuro fondamento. Interveniva anche
ai pubblici Comizi, standovi finchè arrivasse la notte; nè mai si
partiva dalla Curia, se prima il console non licenziava l'assemblea.
Tal era il vivere dell'ottimo imperadore. Qual fosse quello di Lucio
Vero Augusto, mi riserbo di accennarlo fra poco. Ma non si vuol qui
lasciar di dire che questo giovinetto imperadore tornando dalla
Soria[1158], un brutto regalo fece alla patria, con condur seco la
peste. Era essa insorta, chi dicea nell'Etiopia, chi nell'Egitto e chi
nel paese dei Parti. Attaccatasi poi alle milizie romane, ed entrata
nella corte di Lucio Vero, dappertutto, dov'egli passava, lasciava la
micidial infezione secondo il suo costume, di modo che cominciò a
sentirsi terribilmente anche in Roma. Si andò poi a poco a poco
dilatando per l'Italia, e per la Gallia sino al Reno, facendo
incredibile strage per tutti i paesi, durando anche più anni. Paolo
Orosio[1159] scrive, che rimasero prive di agricoltori le campagne,
spopolate le città e castella, e crebbero i boschi e le spine in varie
contrade, perchè prive di abitatori. Così feroce si provò essa in
Roma[1160], che i cadaveri de' poveri si mandavano fuori in carrette a
seppellire, e mancarono di vita molti illustri personaggi, ai più
degni de' quali Marco Aurelio fece innalzar delle statue.

NOTE:

[1153] Pagius, Crit. Baron.

[1154] Mediobarbus, in Numism. Imperat.

[1155] Capitolin., in Marco Aurelio.

[1156] Mediob., in Numism. Imperat.

[1157] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1158] Capitolin., in Lucio Vero. Lucian., de Conscrib. Histor.
Ammianus, lib. 23.

[1159] Orosius, Histor. lib. 8.

[1160] Capitol., in Marco Aurelio.




    Anno di CRISTO CLXVIII. Indizione VI.

    SOTERO papa 7.
    MARCO AURELIO imperad. 8.
    LUCIO VERO imperadore 8.

_Consoli_

APRONIANO e LUCIO VETTIO PAOLO.


Tutti gli antichi fasti ci danno consoli sotto quest'anno _Aproniano_
e _Paolo_. Par ben difficile che tutti si sieno ingannati. Una sola
iscrizione riferita dal Panvinio[1161] e dal Grutero, ci dà consoli
_Lucio Vettio Paolo_ e _Tito Giunio Montano_. Ma verisimilmente un
_Aproniano_ sarà stato console ordinario con _Paolo_, ed a lui, o per
morte o per sostituzione, sarà succeduto _Montano_, parendo poco
probabile che _Montano_ fosse lo stesso che _Aproniano_. Già inclinato
al lusso e a tutti gli sfoghi della sensualità Lucio Vero
Augusto[1162], maggiormente dacchè si fu allontanato dagli occhi del
fratello imperadore, si era abbandonato, siccome di sopra accennammo,
ad ogni sorta di piaceri, anche più abbominevoli, deludendo
l'intenzion del fratello stesso che l'aveva inviato là, per isperanza
che le fatiche militari il guarirebbono: speranza vana, come si
conobbe dagli effetti. Ritornato che fu l'Augusto giovane a Roma,
andava egli bensì alquanto ritenuto, per nascondere i suoi vizii al
saggio imperadore Marco Aurelio, ma in secreto faceva alla peggio.
Volle una cucina a parte nel suo appartamento; e, dopo essere stato
alla parca cena di Marco Aurelio, passava colà a soddisfare la sua
ghiottoneria, con farsi servire a tavola da persone infami, e con
volere dei combattimenti di gladiatori a quelle private cene, le quali
andavano sì a lungo, che talvolta egli abborracchiato si addormentava
sopra i cuscini o letti, sui quali si adagiavano gli antichi stando
alla mensa, e conveniva portarlo di peso alla sua stanza. In uso era
allora di non far tavola, dove fossero più di sette persone; e diverse
tavole verisimilmente si mettevano nelle grandi occasioni, perchè
passavano per proverbio: _Sette fanno un convito, nove fanno una
lite._ Lucio Vero fu il primo a voler dodici convitati alla medesima
mensa, e con una profusione spropositata di regali; perchè ai paggi,
agli scalchi ed ai commensali si donavano piatti, bicchieri d'oro,
d'argento e gioiellati, vari animali, vasi d'oro con unguenti, e
carrozze con mule guernite di ricchi finimenti. Costava cadauno di
questi conviti una tal somma, che nè pure mi arrischio a nominarla:
tanto è grande nel testo di Capitolino. Il resto poi della notte si
soleva per lo più spendere in giuoco, vizio, oltre a tanti altri,
imparato in Soria. Fecesi anche fabbricare una suntuosa villa nella
via Clodia, dove se la passava in gozzoviglie co' suoi liberti, e con
quegli amici che godeano beni in quelle parti. Marco Aurelio sapea
tutti questi disordini, e quantunque se ne rammaricasse non poco, pure
fingeva ignorarli, per non romperla col fratello; anzi invitato da lui
alla suddetta villa, non ebbe difficultà di andarvi, per insegnargli
coll'esempio suo, come si dovea far la villeggiatura. E vi si fermò
cinque giorni, attendendo anche allora alla spedizion delle cause,
mentre Lucio Vero si perdeva ne' conviti, o era affaccendato per
prepararli. Dicono di più, che questo sregolato imperadore passò ad
imitare i vergognosi costumi di Caligola, di Nerone e di Vitellio,
coll'andar di notte travestito e incappucciato per le bettole e nei
bordelli, cenando con dei mascalzoni, attaccando delle risse, dalle
quali tornò talvolta colla faccia maltrattata da pugni, e rompendo i
bicchieri delle taverne col gittar in aria delle grosse monete di
rame. Sopra tutto era egli spasimato dietro alle corse de' cavalli nel
Circo, mostrandosi a spada tratta parziale in que' giuochi della
fazione Prasina, che portava la divisa verde; di maniera che anche
mentr'egli col fratello Augusto assisteva a quegli spettacoli, più
volte gli furono dette delle villanie dall'emula fazione Veneta,
vestita d'azzurro. Innamorato specialmente di un suo cavallo,
appellato Volucre, o sia Uccello, fece fare la statua di esso d'oro, e
seco la portava. Invece d'orzo voleva che gli si desse uva passa con
pinocchi; e per cagion di esso s'introdusse il dimandare per premio
de' vincitori nel corso un cavallo d'oro. Morto questo cavallo, gli
fece alzare un sepolcro nel Vaticano. E tali erano i costumi e le
capricciose azioni di _Lucio Vero Augusto_.

Fin quando si facea la guerra de' Parti, se ne preparò un'altra al
settentrione contra de' Romani[1163]. Avevano cominciato i Marcomanni,
creduti oggidì abitatori della Boemia, ad infestare il paese romano;
ma i generali che custodivano quelle parti, per non esporre l'imperio
a questa pericolosa guerra, nel tempo che si facea l'altra più
importante coi Parti, andarono sempre temporeggiando e pazientando,
finchè venisse un tempo più opportuno da fiaccar loro le corna.
Terminata con felicità l'impresa dell'Oriente, maggiormente crebbe
l'insolenza di essi Marcomanni; anzi si venne a scorgere che quasi
tutte le nazioni barbare abitanti di là dal Rene e dal Danubio,
cominciando dall'Oceano, fin quasi al mar Nero, erano in armi ai danni
dei Romani, sia che fosse qualche lega fra loro, o pure che l'una
imparasse dall'esempio dell'altra a disprezzar le forze della
repubblica romana. Fra que' popoli, tutti gente bellicosa e fiera, e
che parea congiurata alla rovina de' Romani, oltre ai Marcomanni
principali fra essi, si contavano i Narisci, gli Ermonduri, i Quadi, i
Suevi, i Sarmati, i Vandali, i Vittovali, i Rossolani, i Basterni, i
Costobochi, gli Alani, i Jazigi ed altri, de' quali non si sa il nome.
Se dice il vero Dione, i Germani Transrenani vennero fino in Italia, e
recarono de' gravissimi danni: il che par difficile a credere. Fra i
cadaveri di costoro uccisi, furono ritrovate molte femmine guernite di
tutte armi. Così gli altri barbari saccheggiarono varie provincie,
presero città, e sembra che s'impadronissero di tutta la Pannonia, o
almeno di una parte di essa. Per attestato di Pausania[1164], i
Costobochi fecero delle scorrerie fino in Grecia. Portate così funeste
nuove a Roma, riempirono tutta la città di spavento; e tanto più,
perchè la peste avea fatto e facea tuttavia un fier macello anche
delle milizie romane. Marco Aurelio[1165], che con tutto il suo bel
genio alla virtù, e con tutti i suoi studi, non giunse mai a conoscere
la falsità della sua religione pagana, nè la verità della cristiana,
di cui piuttosto fu persecutore, ricorse allora per aiuto agl'idoli,
facendo venir da tutte le parti de' sacerdoti, anche di religioni
straniere, moltiplicando i sagrifizii e le preghiere in così gran
bisogno alle sorde sue deità. Fece ancora quanti preparamenti potè,
per ammassar genti, e per reclutare le quasi disfatte legioni. Restò
per un tempo ritardata la sua spedizione dalla peste tuttavia
mietitrice delle vite umane; ma finalmente in quest'anno egli si mosse
da Roma in persona con quelle forze che potè adunare. Insinuò egli
segretamente al senato, essere necessaria l'andata di amendue gli
Augusti, trattandosi di una guerra sì strepitosa e di tanta
estensione; e questo fu decretato. Non si fidava il saggio imperador
Marco Aurelio di mandar solo a cotale impresa il fratello Lucio Vero,
perchè ne avea già sperimentata la codardia[1166]; e nè pur voleva
lasciarlo solo in Roma, affinchè egli in tanta libertà maggiormente
non s'immergesse negli eccessi, e crescesse il suo disonore. Si misero
dunque in viaggio i due imperadori (ma Lucio Vero con interna
ripugnanza e dispiacere) e pervennero sino ad Aquileja. Truovasi nelle
medaglie[1167] di questo anno, che i due Augusti presero _per la
quinta volta_ il titolo d'_Imperadori_. Non apparendo che vittoria
alcuna, di cui questo titolo è indizio, si fosse per anche riportata
contra de' Marcomanni, improbabile non è, che sia con ciò significata
quella che _Avidio Cassio_ ebbe coi Bucoli, o sia coi pastori egiziani
che si erano ribellati. Da Vulcazio Gallicano[1168] abbiamo che Cassio
si portò anch'egli alla guerra marcomannica; e però dovrebbe essere
succeduta prima la ribellion d'essi pastori e la loro disfatta. Dacchè
si sollevarono[1169] i suddetti Bucoli, gente barbara e selvaggia,
molti ne furono presi; ma gli altri vestiti con abiti donneschi, e
fingendosi le mogli de' prigionieri, invitarono un centurione romano a
prendere l'oro preparato pel riscatto de' prigionieri. In vece
dell'oro, trovò egli le spade nemiche, che gli tolsero la vita.
Cresciuto l'ardire in quella gente, e tirata nel suo partito la
maggior parte degli Egiziani, con avere per capo un Isidoro,
valorosissima persona, rimasero vittima del loro furore molte
soldatesche romane; saccheggi senza fine furono fatti; e poco vi mancò
che non s'impadronissero della stessa Alessandria, capitale allora
dell'Egitto. E sarebbe forse avvenuto, se non vi fosse accorso colle
sue genti _Avidio Cassio_ governatore della Soria. Non si attentò egli
di venire a giornata campale con quella sterminata copia di gente
fiera e disperata; ma gli riuscì bene di seminar fra loro la
discordia: il che bastò per opprimere i pertinaci, e per ridurre gli
altri alla sommessione. Quando ciò veramente succedesse in questi
tempi, potrebbe ciò aver dato motivo agli Augusti di prender di nuovo
il titolo d'_Imperadori_. Ma siccome le azioni e gli avvenimenti
dell'imperio di Marco Aurelio sono a noi pervenuti senza distinzioni
di tempo, così malagevol cosa è il poter fissarne gli anni precisi, e
resta indeciso chi meglio in questa oscurità l'indovini.

NOTE:

[1161] Panvin., Fast. Consul.

[1162] Capitol., in Lucio Vero.

[1163] Capitolinus, in Marco Aurelio. Dio, lib. 71.

[1164] Pausanias, lib. 10.

[1165] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1166] Capitolinus, in Lucio Vero.

[1167] Mediobarb., in Numism. Imper.

[1168] Vulcatius, in Avidio Cassio.

[1169] Dio, lib. 71.




    Anno di CRISTO CLXIX. Indizione VII.

    SOTERO papa 8.
    MARCO AURELIO imperad. 9.
    LUCIO VERO imperadore 9.

_Consoli_

QUINTO SOSIO PRISCO SENECIONE e PUBLIO CELIO APOLLINARE.


Al primo console, cioè a _Prisco_, ho aggiunto il cognome di
_Senecione_, che si legge in una iscrizione[1170], da me altrove
riferita, trovandosi nell'altre memorie il solo di _Prisco_, che dovea
essere il più usato. La venuta dei due Augusti ad Aquileja con un
copiosissimo esercito, seguita nell'anno precedente, per testimonianza
di Capitolino[1171], produsse buoni effetti; imperciocchè la maggior
parte dei rei e popoli barbari del Settentrione non solamente
cessarono dalle ostilità, ma uccisero ancora gli autori delle
sedizioni, mostrando di voler concordia coi Romani. E i Quadi rimasti
senza re protestavano di non voler confermare il già eletto, se non
precedeva l'approvazion degl'imperadori. Andavano anche arrivando
ambasciatori dei più di que' popoli ai luogotenenti generali di essi
Augusti, che chiedevano pace. Tal positura d'affari colla giunta della
peste che già s'era inoltrata fino Aquileja, ed avea consumata parte
dell'armata, e colla morte ancora di _Furio Vittorino_, prefetto del
pretorio, animava Lucio Vero a fare istanza al fratello Augusto per
tornarsene a Roma a godervi le solite sue delizie e i consueti
passatempi. Ma Marco Aurelio era di contrario parere, insistendo
sempre in dire, che l'essersi ritirati i Barbari, e il mostrar tanta
voglia di pace, poteano essere loro finzioni e ripieghi presi al
vedere un sì grande apparato d'armi dalla parte de' Romani; e che
bisognava andar innanzi, e chiarir meglio, se i nemici operavano
daddovero, o fingevano. Ch'essi due Augusti passassero il verno in
Aquileja, lo pruova il padre Pagi[1172] con alcuni passi di Galeno. Fu
dunque forzato contro sua voglia Lucio Vero a seguitare il fratello
Augusto nella Pannonia e nell'Illirico, dove diedero buon sesto alla
quiete di quelle contrade, liberandole, o pure avendole trovate libere
dalle nazioni barbare. Le medaglie[1173] ci fan vedere preso da essi
Augusti in quest'anno _per la sesta volta_ il titolo d'_Imperadori_,
senza che apparisca dove le lor milizie avessero guadagnata qualche
battaglia. Eusebio[1174] circa questi tempi scrive, che i Romani
combatterono contra de' Germani, Marcomanni, Quadi, Sarmati e Daci. E
nelle medaglie[1175] battute nell'anno presente si trova menzione
d'una _Vittoria Germanica_, e della _Germania soggiogata_, ed in oltre
dato a Marco Aurelio il titolo di _Germanico_: tutte pruove, che si
dovette menar le mani, e che qualche vittoria toccò all'armi romane.
Capitolino[1176] ignorò molte particolarità di questa guerra, e più di
lui certamente son da apprezzar le medaglie. Ma che in quest'anno
Marco Aurelio conseguisse il nome di _Germanico_, si può dubitarne non
poco.

Adunque dappoichè si vide rimessa la tranquillità nella Pannonia e
nell'Illirico, se ne tornarono i due Augusti da Aquileja. Lucio
Vero[1177], a cui parea un'ora mille anni per rivedere le delizie di
Roma, tanto fece, tanto disse, che impetrò licenza dal fratello di
soddisfar al suo volere verso il fine dell'anno, sebben le parole di
Galeno, riferite dal padre Pagi, sembrano indicare che amendue
d'accordo s'inviassero alla volta di Roma. Fuor di dubbio è, che
viaggiando essi unitamente in carrozza fra Concordia ed Altino, Lucio
Vero[1178] fu improvvisamente colpito da un accidente di apoplessia,
per cui perdè la favella. Cavatogli sangue, e portato ad Altino, da lì
a tre giorni compiè il corso di sua vita. Le dicerie cagionate da
questa improvvisa morte furono infinite, secondo la consuetudine degli
oziosi, de' maligni e degli ignoranti, che tutti vogliono far da
politici. Vi fu dunque non poca gente, che il credè portato all'altra
vita per veleno che dicea fatto a lui dare da _Faustina Augusta_
suocera sua, chi da _Lucilla_ sua moglie per gelosia di _Fabia_,
sorella di lui, ch'era entrata seco in troppa confidenza, o per altri
infami intrighi donneschi, o perchè egli con essa sua sorella avesse
tramato contro la vita di Marco Aurelio; e che Agaclito suo favorito
liberto fosse stato adoperato per levar lui di vita. Altri poi
inventarono una favola, cioè che Marco Aurelio con un coltello
dall'una parte avvelenato avendo tagliato un pezzo di carne, ne desse
a lui la mortifera, e prendesse l'altra per sè: ovvero che per mezzo
di Posidipo suo medico il facesse salassar fuor di tempo. Ma così
stabilita era la riputazione e il concetto dell'integrità di Marco
Aurelio, che niuna onesta persona vi fu, che non conoscesse la falsità
di sì fatte immaginazioni. L'aveva egli sempre amato, avea tenuti
segreti il più che poteva i di lui difetti, benchè gli dispiacessero
al sommo. Comunque passassero quegli affari, abbastanza si raccoglie
da Capitolino[1179] che Marco Aurelio venne in quest'anno a Roma,
pregò il senato a voler accordare al defunto Lucio Vero gli onori
divini, il cui corpo fu posto nel sepolcro di Adriano. Gli assegnò
ancora de' Flamini, ed altri sacri ministri, come si costumava con gli
Augusti, empiamente deificati. Le zie e le sorelle di esso Lucio Vero
furono provvedute di assegni convenevoli al loro stato. Trattò bene, e
regalò tutti i di lui liberti, benchè la maggior parte fossero gente
cattiva che si era abusata della debolezza del padrone in addietro; ma
dopo qualche tempo con apparenza di onorarli, ne liberò la corte,
ritenendo solamente _Eletto_, quel medesimo, che a suo tempo vedremo
uccisore di Commodo Augusto, figliuolo del medesimo imperadore. Andò
poscia Marco Aurelio in senato per ringraziare i padri degli onori
compartiti al defunto fratello, e destramente lasciò capire che tutti
i felici successi della guerra partica non erano provenuti dai suoi
consigli e provvedimenti, e che da lì innanzi passerebbono meglio gli
affari.

NOTE:

[1170] Thesaurus Novus Inscription., pag. 336, num. 5.

[1171] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1172] Pagius, in Critic. Baron.

[1173] Mediobarbus, in Numism. Imper.

[1174] Eusebius, in Chron.

[1175] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[1176] Capitol., in Marco Aurelio et Lucio Vero.

[1177] Capit., in Marco Aurelio et Lucio Vero.

[1178] Eutrop., in Breviar. Aurelius Victor, in Epitome.

[1179] Capit., in Marco Aurelio.




    Anno di CRISTO CLXX. Indizione VIII.

    SOTERO papa 9.
    MARCO AURELIO imperad. 10.

_Consoli_

MARCO CORNELIO CETEGO e CAJO ERUCIO CLARO.


Non s'ingannò l'Augusto Marco Aurelio in dubitare che i barbari
settentrionali con finto animo avessero trattato di pace nell'anno
precedente. In fatti nel presente, ripigliate l'armi, ricominciarono i
Marcomanni con gli altri popoli di sopra nominati, e con altri
mentovati da Capitolino[1180], le ostilità contro le provincie romane,
forse animati dal sapere quanta strage avesse fatta la pestilenza
nelle legioni romane. Il peggio era, che la medesima peste era tornata
ad infierire in Roma; e però mancavano i soldati, ed anche l'altro
nerbo principale di chi vuole far guerra, cioè il danaro; nè in sì
calamitosi tempi sofferiva il cuore al buon imperadore di smugnere con
imposture nuove i popoli afflitti. Che fece egli dunque? Ricorse a dei
ripieghi riserbati alle gravi angustie della repubblica. Non erano mai
ammessi alla milizia i servi, o vogliam dire schiavi; e di questi il
numero a que' tempi era incredibile nel romano imperio. Per valersene
alla guerra, fece conceder loro la libertà, e ne formò alcune legioni,
con dare ad essi il nome di _Volontari_. Altrettanto si era praticato
nelle necessità della guerra Punica a' tempi della repubblica. Volle
ancora, che i gladiatori, benchè persone infami, seco venissero alla
guerra, e che in vece di scannarsi fra loro, impiegassero la lor
destrezza in favor della patria con uso migliore. Prese inoltre al suo
soldo i banditi della Dalmazia, della Dardania e molte compagnie di
Germani, acciocchè servissero contro gli stessi Germani. In tal guisa
mise insieme una poderosissima armata. Ma non reggendo il suo erario a
sì gravi spese, nè volendo egli, siccome dissi, aggravar i popoli, si
ridusse a vendere al pubblico incanto nella piazza di Trajano gli
ornamenti del palazzo imperiale e i vasi preziosi e fin le vesti della
moglie e le gemme trovate negli scrigni di Adriano. Durò due mesi
questo incanto, e tanto oro se ne ricavò, che bastò al bisogno della
guerra. Finita poi essa, mandò fuori un editto, invitando i compratori
di que' preziosi arredi a restituirli pel medesimo prezzo. E chi non
volle renderli, non ebbe per questo vessazione alcuna. Siccome
osservammo di sopra all'anno 151, probabilmente Zonara s'è ingannato
con attribuir questo fatto ad Antonino Pio, che non ebbe come Marco
Aurelio necessità sì premurose di far danaro. Erasi ritirato il buon
imperadore, non so se per godere della villeggiatura, o pure per
guardarsi dalla peste, a Palestrina. Quivi la morte gli rapì il suo
terzogenito, appellato _Vero_, per un tumore natogli sotto un
orecchio, inutilmente tagliato. Era egli in età di sette anni, ed avea
già conseguito il titolo di _Cesare_. Non più che cinque giorni volle
il padre che durasse il suo lutto; consolò i medici che infelicemente
l'aveano curato; e tornò fresco al maneggio degli affari pubblici,
essendosi sempre osservata in questo imperador filosofo la medesima
uguaglianza d'animo e di volto, tanto nella buona che nella avversa
fortuna. Non permise egli che s'interrompessero per la morte del
figliuolo i giuochi capitolini di Giove, che s'incontrarono in sì
funesta occasione: solamente ordinò che si alzassero statue al defunto
fanciullo, e l'immagine sua d'oro fosse portata ne' giuochi circensi.
Era egli in procinto di muoversi per andare alla guerra, quando pensò
di rimaritar la figliuola _Lucilla_, rimasta vedova del morto Lucio
Vero Augusto. Scelse dunque per marito di lei _Claudio Pompejano_, di
origine Antiocheno, e figliuolo d'un cavalier romano, considerata
sopra tutto la di lui onoratezza e saviezza. Ma tra perchè egli non
era della prima nobiltà, e si trovava molto inoltrato nell'età, tanto
essa _Lucilla_, che portava il titolo di Augusta, ed era figliuola di
un Augusto, quanto _Faustina_ imperadrice sua madre, non sapevano
dirigere un sì fatto parentado.

NOTE:

[1180] Capitol., in Marco Aurelio.




    Anno di CRISTO CLXXI. Indizione IX.

    ELEUTERIO papa 1.
    MARCO AURELIO imperad. 11.

_Consoli_

LUCIO SEPTIMIO SEVERO per la seconda volta e LUCIO AUFIDIO ERENNIANO.


Sino a questi tempi tenne _Sotero_ il pontificato romano, e nel
presente anno sostenne col martirio la verità della Religion
Cristiana. Contuttochè Marco Aurelio imperadore tanti lumi avesse
dalla filosofia, pure, siccome già dissi, non giunse mai a discernere
la vanità de' suoi idoli e la falsità della credenza dei Pagani. Anzi,
come zelante dell'onore de' suoi dii, permise che si perseguitassero i
Cristiani, di maniera che Eusebio[1181] ed altri antichi scrittori
mettono sotto di lui la quarta persecuzione del Cristianesimo, per cui
nella Gallia e nell'Asia moltissimi eroi della Fede di Cristo
riceverono la corona del martirio. Celebri sopra gli altri furono i
santi martiri _Policarpio_ e _Giustino_. Anche in Roma toccò questo
glorioso fine a santo _Sotero_ papa. Non accadeva disgrazia al romano
imperio, in cui i falsi sacerdoti del gentilesimo non inveissero
contra de' Cristiani, attribuendo l'ira dei loro sognati dii allo
sprezzo che ne mostravano gli adoratori di un solo Dio. La fierissima
peste accaduta in questi tempi dovette maggiormente inasprir la loro
rabbia contro i seguaci di Cristo. A Sotero succedette nella cattedra
romana _Eleuterio_. E tuttochè i santi _Melitone_ vescovo di Sardi ed
_Apollinare_ vescovo di Jerapoli circa questi tempi esibissero le
apologie del Cristianesimo a Marco Aurelio Augusto, nè egli aprì mai
gli occhi, nè si rallentò il rigore contro ai Cristiani. Era già
marciato in persona esso imperadore verso la Pannonia inondata dai
popoli barbari. Siccome questa fu una delle più pericolose e memorande
guerre che si avessero i Romani, così sarebbe da desiderare che la
storia ce ne avesse conservate le memorie. Ma noi non ne abbiamo che
un solo scuro abbozzo, e senza distinzione di tempi. Probabil è, che
solamente nell'anno presente Marco Aurelio desse principio alle
militari sue imprese; ma cosa egli operasse nol sappiamo. Le
medaglie[1182] non parlano di alcuna sua vittoria, e ci mostrano
solamente un ponte, sul quale egli passa con alquanti soldati. Abbiamo
bensì, che in Roma si celebrarono i decennali del di lui imperio, cioè
che si fecero feste, sagrifizii e giuochi pel decennio compiuto del
suo savio governo, con far dei pubblici voti, acciocchè salvo egli
giungesse al secondo decennio. Fioriva in questi tempi in Roma il
celebre medico _Galeno_ o sia _Gallieno_, come vien chiamato da altri,
nativo di Pergamo in Asia[1183]. Di colà Marco Aurelio l'avea fatto
venire ad Aquileja, nell'anno 169, e poi condottolo a Roma. Sommamente
desiderando di averlo a' suoi fianchi in questa spedizione, gliene
scrisse. Ma avendolo istantemente pregato Galeno di lasciarlo a Roma,
perchè non gli dovea piacere la vita militare, accompagnata da
parecchi incomodi e pericoli, se ne contentò il buono imperadore, ma
con obbligarlo ad assistere alla sanità di _Commodo Cesare_ suo
figliuolo, il qual fu veramente malato durante la lontananza del
padre. Noi sappiamo che fra gli uffiziali, i quali si distinsero nella
suddetta spedizione contra de' Marcomanni e degli altri Barbari, si
contarono _Claudio Pompejano_, genero dell'imperadore, ed _Avidio
Cassio_, che poi si ribellò, ed _Elvio Pertinace_ che fu col tempo
imperadore. Avea quest'ultimo calcati vari posti militari, e si
trovava di quartiere nella Dacia; ma per alcune relazioni de' suoi
malevoli Marco Aurelio il levò di là. Pompejano, che ne conosceva il
valore e il merito, il volle per suo ajutante, ed egli salì con tal
congiuntura in sì fatta riputazione, che meritò di essere creato
senatore. Anzi chiaritosi l'imperadore che i sospetti della di lui
onoratezza erano proceduti da mere calunnie, maggiormente dipoi l'amò,
e il promosse ai primi onori. Attesta Dione[1184], che in qualche
battaglia i Marcomanni furono superiori ai Romani, e che in una d'esse
perdè la vita _Marco Vindice_ prefetto del pretorio, a cui l'Augusto
Marco Aurelio fece alzare tre statue in Roma. Un altro de' suoi
prefetti del pretorio fu _Rufo Basseo_, poveramente nato, e che nè
pure avea studiato lettere. La sua fortuna, il suo valore, la sua
bontà compensarono i difetti della nascita, e l'alzarono in fine a
grado così sublime.

NOTE:

[1181] Eusebius, in Chron. et in Histor. Eccl.

[1182] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[1183] Galenus, de Prognosticis.

[1184] Dio, lib. 71.




    Anno di CRISTO CLXXII. Indizione X.

    ELEUTERIO papa 2.
    MARCO AURELIO imperad. 12.

_Consoli_

MASSIMO e ORFITO.


Quai prenomi e nomi avessero questi due consoli, non si è potuto
accertatamente scoprire fin qui. Nell'anno presente, per quanto sembra
risultar dalle medaglie[1185], la vittoria accompagnò il valore
dell'armi romane nella guerra coi Marcomanni. In esse comparisce la
_Vittoria Germanica_, la _Germania soggiogata_, e truovasi anche il
titolo di _Germanico_ dato a Marco Aurelio. Quel solo che non si sa
intendere, punto non si vede moltiplicato il titolo d'_imperadore_ ad
esso Augusto, come pur solea praticarsi dopo qualche insigne vittoria.
Può anche mettersi in dubbio, s'egli per anche ricevesse il cognome di
_Germanico_. Ma se non sappiamo il quando, abbiamo almen sicure
notizie da Capitolino[1186] e da Dione[1187], ch'egli ridusse i
Marcomanni al Danubio, e che nel voler essi passare quel gran fiume,
diede loro una solenne rotta, e liberò la Pannonia dal giogo de'
Marcomanni, Sarmati e Vandali. Parte del bottino fatto in quella
fortunata azione, siccome composto di roba tolta ai sudditi della
Pannonia, volle che fosse restituita ai poveri paesani. Del resto
pesatamente procedeva il savio imperadore in sì pericolose
congiunture, senza voler azzardare le battaglie a capriccio e sapeva
temporeggiare per cogliere i vantaggi. Che se negli affari civili
nulla mai determinava senza averli conferiti prima co' suoi
consiglieri, molto più ciò praticava in quei della guerra, dove la
prudenza ed accortezza ottien più d'ordinario che la forza. Nè
s'intestava del suo parere; solendo dire: _Più conveniente è ch'io
segua il consiglio di tanti e sì saggi amici, che tanti e sì saggi
amici seguitino il parere di me solo._ Per altro era egli costante
nelle fatiche, sebben molti il biasimavano, perchè un filosofo par suo
volesse menar la vita fra l'armi e fra i pericoli della guerra: vita
che non si accordava punto colle massime degli altri filosofi: pure
egli con lettere o colla viva voce facea conoscere giusto e lodevole
il suo operare, trattandosi del bene della repubblica, per cui si dee
sofferire e sagrificar tutto. Nè per quante lettere gli scrivessero da
Roma gli amici, affinchè lasciato il comando ai generali, venisse al
riposo, mai non si volle muovere, finchè non ebbe dato fine a questa
guerra, che riuscì più lunga di quel che su le prime si credeva.

NOTE:

[1185] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[1186] Capitol., in Marco Aurelio.

[1187] Dio, lib. 71.




    Anno di CRISTO CLXXIII. Indizione XI.

    ELEUTERIO papa 5.
    MARCO AURELIO imperad. 13.

_Consoli_

MARCO AURELIO SEVERO per la seconda volta e TIBERIO CLAUDIO POMPEJANO.


Il secondo console, cioè POMPEJANO, non è già il genero di Marco
Aurelio, siccome colla sua consueta accuratezza osservò
l'incomparabile Noris[1188]. Non gli ho io dato il prenome di _Tito_,
come fan gli altri, perchè in un'iscrizione dal Doni e da me
riferita[1189], il veggo chiamato TIBERIO, con prenome più usitato
dalla famiglia Claudia. Le medaglie[1190] ancora di quest'anno parlano
della _Vittoria Germanica_ e della _Germania soggiogata_, e nominato
_Germanico Augusto_ l'imperator Marco Aurelio; ma senza ch'egli porti
altro titolo che d'_Imperadore per la sesta volta_, com'egli era
chiamato negli anni addietro. Non è improbabile, che in questo verno
succedesse la vittoria che, per attestato di Dione[1191], riportarono
i Romani, combattendo coi popoli Jazigi sul Danubio agghiacciato, con
far di molte prodezze. Fors'anche potrebbe appartenere all'anno
presente ciò che narra Vulcazio Gallicano nella vita di Avidio
Cassio[1192]. Voleva costui essere rigidissimo custode della
disciplina militare, e si pregiava di essere chiamato un altro Marco.
Di tal sua severità, che più convenevolmente si dovea chiamare
crudeltà, molti esempli si raccontavano. Fra gli altri uno è il
seguente. Comandava egli un corpo dell'armata cesarea alle rive del
Danubio. Avendo un dì alcuni de' suoi capitani adocchiato di là dal
fiume una brigata di tremila Sarmati, che non faceano buona guardia,
senza che nè Cassio nè i tribuni lo sapessero, con poca gente
passarono improvvisamente il fiume, diedero loro addosso e li
disfecero, con far anche un riguardevol bottino. Ritornati al campo
que' centurioni, tutti lieti andarono a presentarsi a Cassio, sperando
un bel premio per l'impresa felicemente riuscita. Il premio fu, che
egli fece immantinente giustiziar tutti, e col gastigo degli schiavi
(rigore senza esempio), cioè colla croce, dicendo che si sarebbe
potuto dare che i Barbari avessero finta quella negligenza per tirare
alla trappola i Romani, e che non s'avea a mettere così a repentaglio
la riputazion del romano imperio. E perciocchè a cagion di questa sì
rigorosa giustizia l'esercito suo si mosse a sedizione, saltò Cassio
fuor della tenda in soli calzoni, gridando: _Ammazzate me, se avete
tanto ardire, ed aggiugnete questo delitto all'altro della disciplina
da voi trasgredita._ Questo suo non temere fu cagione che i soldati
temessero daddovero, e si quetassero. Ma divolgata una sì fatta
azione, mise tal terrore ne' Barbari, che spedirono a Marco Aurelio,
lontano allora da quelle contrade, supplicandolo di dar loro la pace
per cento anni avvenire. Al rovescio di Cassio era esso imperadore
tutto amorevolezza e bontà verso de' soldati, e ben li trattava; ma
non volea già che dessero la legge a lui[1193]. Dopo una sanguinosa
battaglia, riuscita felice all'armi romane, gli dimandarono i soldati
paga doppia o altro donativo. Nulla volle dar loro con dire, _che il
di più del solito che avesse dato, bisognava cavarlo dal sangue de'
loro parenti, e ch'egli ne avrebbe renduto conto a Dio_. Nè cessava
l'infaticabil Augusto, sbrigato ch'era dalle faccende militari, di
ascoltare e decidere le cause e liti occorrenti. Si trovava egli nella
città di Sirmio, sua ordinaria residenza durante questa guerra; benchè
Paolo Orosio[1194] scriva ch'egli per tre anni si fermò a Carnunto,
città vicina a Vienna d'oggidì, quando arrivò _Erode Attico_[1195]
celebre oratore di questi tempi, e stato già console, per cagion di
una lite assai calda ch'egli avea con la sua patria Atene. Vi giunse
anche il deputato degli Ateniesi, per nome _Demostrato_, che fu ben
accolto da Marco Aurelio, principe naturalmente inclinato a favorir le
comunità più che i privati. Prese ancora la protezione della città
_Faustina Augusta_, la quale, secondo l'uso di altre imperadrici,
accompagnava il marito Augusto alla guerra; e fino una lor figliuola
di tre soli anni, facendo carezze al padre Augusto, gittandosi a' suoi
piedi, e balbettando gli raccomandava la causa degli Ateniesi. Di
tutto informato Erode Attico, allorchè si dovette trattar la causa
davanti all'imperadore, lasciatosi trasportar dall'ira fuori di
strada, a visiera calata declamò contro al medesimo imperadore, con
giungere fino a rimproverargli, che si lasciasse governar da una donna
e da una fanciulla di tre anni. E perchè _Ruffo Basseo_ capitan delle
guardie gli disse, _che questa maniera di parlare gli potrebbe costar
la vita_, Erode gli rispose, _che un uomo della sua età_ (era assai
vecchio) _nulla avea da temere_; e voltategli le spalle se ne andò
via. Marco Aurelio senza mai scomporsi, senza fare un gesto indicante
noia o sdegno, partito che fu Erode, tranquillamente disse
all'avvocato degli Ateniesi, che dicesse le loro ragioni. Era
Demostrato uomo eloquentissimo, seppe ben vivamente rappresentarle.
Ascoltò Marco Aurelio, ed allorchè intese le maniere, colle quali
Erode e i suoi liberti opprimevano il popolo di Atene, non potè
trattener le lagrime, perchè grande stima professava ad Erode Attico,
uomo insigne, e stato suo maestro, ma ben più amava i suoi popoli.
Tuttavia non volle pronunziare sentenza alcuna contro di Erode.
Solamente decretò alcuni leggeri gastighi contro ai di lui insolenti
liberti, e provvide all'indennità degli Ateniesi. Erode da lì a
qualche tempo, per tentare se Marco Aurelio, venuto in Asia, era in
collera con lui, gli scrisse, come lagnandosi di non ricevere più sue
lettere, quando di tante dianzi era favorito; e il buon imperadore gli
diede un'ampia risposta, piena di amichevoli espressioni, con far
anche scusa dell'essere stato obbligato a condannar persone
appartenenti a lui. Certamente (dice qui il Tillemont[1196]) ci saran
ben de' Cristiani, ai quali nel dì del giudizio farà vergogna questo
dolce operare di un imperadore, ed imperadore pagano.

NOTE:

[1188] Noris, Epist. Consulari.

[1189] Thesaurus Novus Inscription., pag. 338.

[1190] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[1191] Dio, lib. 71.

[1192] Vulcat., in Avidio Cassio.

[1193] Dio, lib. 71.

[1194] Orosius, in Histor.

[1195] Philostr., in Herode Attico.

[1196] Tillemont, Mémoires des Empereurs.




    Anno di CRISTO CLXXIV. Indizione XII.

    ELEUTERIO papa 4.
    MARCO AURELIO imperad. 14.

_Consoli_

GALLO e FLACCO.


Nulla di più sappiamo di questi consoli. Ho io prodotta una nobile
iscrizione[1197] col C. CALPVRNIO FLACCO, L. TREBIO GERMANO COS.,
congetturando che questa si potesse riferire all'anno presente, e che
quel _Germanico_ forse sostituito a _Gallo_ nelle calende di luglio, o
pure ne' mesi seguenti. Se sia o non sia ragionevole tal conghiettura,
ne giudicheranno i lettori. Al vedere nelle medaglie[1198] di
quest'anno, che l'imperador Marco Aurelio prese _per la settima volta
il titolo d'Imperadore_, senza timor di errare, veniamo a conoscere
ch'egli riportò qualche vittoria contra de' Barbari. Secondo tutte le
apparenze, questa fu la descritta da Dione[1199]. Erasi inoltrata
l'armata romana nel paese de' Quadi, e vi era in persona lo stesso
imperadore. In un sito svantaggioso fu essa ristretta da innumerabil
copia di Barbari che presero tutti i passi, senza che i Romani
potessero a lor talento dar la battaglia. Eccessivo era il caldo della
stagione, nè acqua si trovava in quella parte. Andavano differendo i
Barbari il combattimento sperando di cogliere i nemici snervati ed
avviliti per la sete. In fatti, ad un estremo pericolo era ridotta
l'armata romana, se un improvviso accidente non avesse provveduto al
bisogno. Imperciocchè ecco in un subito annuvolarsi il cielo, e cadere
una dirotta pioggia. Ogni soldato allora tutto lieto stese i suoi elmi
e scudi per raccoglier l'acqua cadente, abbeverando sè stesso e i
cavalli, e tutti si riconfortarono. All'incontro i Barbari, veggendo
fallita la loro speranza di vincerli colla sete, e credendoli tuttavia
indeboliti pel patimento preceduto, attaccarono la zuffa. Forse anche
prima l'aveano attaccata, immaginando troppo spossati i Romani e i lor
cavalli, onde non potessero resistere. Generosamente combatterono i
Romani rinvigoriti dall'acqua cadente; ma quel che portò loro la
vittoria, fu una scappata di fulmini addosso all'esercito barbarico, e
un fuoco aereo che cadeva solamente addosso ai medesimi Barbari,
confessato miracoloso dallo stesso Dione gentile. In somma rimasero
interamente sconfitti i Barbari, liberati i Romani, ed ognuno confessò
essere stata prodigiosa così gran vittoria. Era solito Marco Aurelio
ad aspettare dal senato il decreto di moltiplicare il titolo
d'_imperadore_, segnale di qualche nuova vittoria. A cagion della
suddetta, che riuscì cotanto luminosa, fu egli proclamato _Imperatore
per la settima volta_ dal vincitore esercito. Ne scrisse poi egli al
senato in occasione di notificargli il felicissimo e mirabil successo
delle sue armi: e il senato non solamente approvò il fatto, ma
dichiarò anche Faustina Augusta sua moglie _madre degli eserciti_.

Ora, conoscendo anche i Pagani per miracoloso il descritto
avvenimento, chi fra essi ne attribuì la cagione a un incantesimo di
Arnufi mago egiziano, chi ad un altro mago caldeo appellato Giuliano,
chi alle preghiere del medesimo Marco Aurelio, come si può vedere
presso Dione[1200], Capitolino[1201] ed altri antichi scrittori[1202].
E nella colonna Antonina effigiato tuttavia si scorge un Giove che
manda pioggia e fulmini nello stesso tempo dal cielo: con che
s'avvisarono i Pagani di attribuire tal grazia al loro Giove. Ma è ben
più da credere agli antichissimi scrittori, i quali attestano che i
Cristiani, militanti allora in gran numero nell'oste di Marco,
Aurelio, veggendo il comune periglio, ritiratisi in disparte, colle
ginocchia a terra implorarono l'aiuto del vero Dio, ed impetrarono
quel miracolo. Che poi vi fosse una legione tutta di Cristiani,
ch'essa fosse appellata di Melitene, e venisse poi soprannominata la
Fulminatrice, questo è dubbioso, e l'ultimo, secondo le osservazioni
degli eruditi, non sussiste punto. Un buon fondamento bensì abbiamo di
credere ottenuta quella vittoria per intercession de' Cristiani,
asserendolo, per testimonianza di Eusebio[1203], santo Apollinare
vescovo di Jerapoli, vivente allora, e Tertulliano[1204] vicino a
questi tempi, san Girolamo, san Gregorio di Nissa ed altri antichi.
Anzi il suddetto Tertulliano scrive aver lo stesso Marco Aurelio in
una lettera al senato romano attribuito questo prodigio alle preghiere
de' Cristiani, quantunque ne parlasse con qualche dubbio, per non
comparir troppo credulo ad una religione cotanto odiata dagl'idolatri
Gentili. Parlasi poi nelle medaglie[1205] di qualche vittoria
riportata da Marco Aurelio sopra i Sarmati. A quanto si è detto di
sopra de' costumi di questo imperadore, si vuol ora aggiungere ch'egli
ebbe in uso di tenere delle spie dappertutto, non già[1206] per far
danno altrui, ma solamente per saper ciò che si dicea di lui. Niun
caso poi facea delle sciocche o maligne dicerie e detrazioni che udiva
della sua persona. Ma se trovava ben fondata la lor censura, serviva
ciò a lui per emendarsi; chè questo era l'unica mira sua. Trovandosi
egli appunto a questa guerra, fu informato dei lamenti che facea il
popolo romano, per aver condotto via sì gran brigata di gladiatori,
de' sanguinosi combattimenti de' quali viveano spasimati i Romani; e
per avere ordinato che le commedie, o vogliam dire le buffonerie de'
pantomimi, si facessero in ora più tarda, per non impedire i negozii
de' mercatanti. Imperciocchè pareva ai Romani, che l'imperadore, con
privarli de' consueti divertimenti e sollazzi, li volesse far tutti
diventare filosofi. Ora egli mandò ordine, che si facessero gli usati
spettacoli, deputando a ciò i nobili, che aveano miglior borsa, e più
degli altri poteano rallegrare il popolazzo.

NOTE:

[1197] Thesaurus Novus Inscription., pag. 338.

[1198] Mediobarb., in Numism. Imperat.

[1199] Dio, lib. 71.

[1200] Dio, lib. 70.

[1201] Capitol., in Marco Aurelio.

[1202] Themistius, in Oration. ad Imp. Theodosium. Claudianus, in
Sexto Consulatu Honorii.

[1203] Euseb., Histor. Ecclesiast., lib. 5, cap. 5.

[1204] Tertullianus, Apologet., c. 5.

[1205] Mediobarb., in Numism. Imp.

[1206] Capitol., in Marco Aurelio.




    Anno di CRISTO CLXXV. Indizione XIII.

    ELEUTERIO papa 5.
    MARCO AURELIO imperad. 15.

_Consoli_

CALPURNIO PISONE e MARCO SALVIO GIULIANO.


Siccome altrove[1207] ho io accennato, sarebbe da vedere, se questo
_Giuliano_ console potesse essere il medesimo che _Marco Didio
Giuliano Severo_, il quale a suo tempo ci comparirà assunto al trono
imperiale: giacchè Erodiano attesta ottenuto da lui il consolato prima
dell'imperio, e si sa da Sparziano[1208] aver egli avuto per collega
in questa dignità _Pertinace_, il quale divenne anch'egli imperadore,
e forse potrebbe essere stato sostituito a _Pisone_ nell'anno
presente. Di Pertinace scrive Capitolino[1209], che egli liberò la
Retia e il Norico dai nemici, ed in ricompensa fu disegnato console da
Marco Aurelio, senza che se ne sappia l'anno preciso. Ma, per
attestato di Dione[1210], molti ne mormorarono, perchè egli era
bassamente nato. Nulla più resisteva alle armi vittoriose di Marco
Aurelio, a cui era riuscito di ridurre in somme angustie i Marcomanni
e i Quadi. Avea egli anche messi di presidio ne' lor paesi ventimila
armati in siti ben fortificati; e tuttochè quei popoli ricalcitrassero
per qualche tempo ancora, pure forzati furono a sottomettersi,
coll'impetrare un accordo, in cui si obbligarono di non abitare per
certo tratto in vicinanza del Danubio. I Jazigi, già sconfitti dai
Romani, finchè poterono, tennero forte, ed imprigionarono _Bonadaspe_
re loro, perchè avea inviato dei deputati a Marco Aurelio per trattare
di pace. Ma, incalzati sempre più dalla armata de' Romani, si
ridussero anche essi ad umiliarsi. Nulla poterono impetrare la prima
volta, perchè di loro non si fidava l'imperadore; ma in fine venuto
_Zantico_ lor nuovo re coi principali della nazione a' piedi di Marco
Aurelio, ottenne con alcune condizioni la pace. Una d'esse condizioni
era la restituzion de' prigionieri, che ascese a centomila persone,
oltre ai fuggiti, morti o venduti. Diedero in oltre a Marco Aurelio
ottomila uomini a cavallo di lor nazione, cinquemila de' quali furono
spediti nella Bretagna: segni tutti di una gran possanza di que'
popoli. Anch'essi furono obbligati ad abitar lungi dal Danubio più
ancora de' Marcomanni. Non fecero di meno i Narisci, i Buri, ed altre
di quelle barbare nazioni. Tutte implorarono la pace dal temuto
Augusto[1211]: e chi si sottomise, chi entrò in lega, chi provvide di
soldatesche. A molti di costoro diede egli delle terre nella Dacia, e
nella Pannonia, nella Mesia, nella Germania, e gran quantità di
Marcomanni rimandò ad abitare in Italia. Ma perchè alcuni di costoro
posti a Ravenna[1212] tentarono d'impadronirsi di quella città, a
tutti costoro diede poi sussistenza di là dall'Alpi. Tale per certo
era la bontà e la equità di questo imperadore, che trattava i nemici
stessi, prigioni o sottomessi, come amici. Merita anche d'essere
osservato nelle iscrizioni raccolte dal Grutero e da me, che molti
soldati portavano il nome di _Marco Aurelio_. Potrebbe credersi che
fossero liberti suoi; ma più probabilmente furono persone di nazioni
straniere, che venute al suo soldo meritarono in premio il nome dello
stesso imperadore.

Con questa felicità avea l'Augusto Marco Aurelio domate quelle barbare
genti, e conseguito per questo il titolo di _Germanico_ e
_Sarmatico_[1213]. Era anche dietro a dare un nuovo sistema ai
conquistati paesi, meditando di far della Marcomannia e della Sarmazia
due provincie romane, governate da pretori o proconsoli romani, quando
gli convenne interrompere questi disegni per una noiosa novità occorsa
nell'anno presente. _Avidio Cassio_, di cui s'è parlato di sopra, dopo
essere intervenuto alla guerra marcomannica[1214], d'ordine di Marco
Aurelio se ne tornò al governo della Siria o sia della Soria, e quivi
formò una fiera ribellione. Era egli originario di quel paese: il che
diede poi motivo allo stesso Augusto di ordinare che da lì innanzi
niuno potesse avere il governo di quelle provincie, ove fosse nato, o
dalle quali traessero origine i suoi maggiori. Vulcazio Gallicano, che
ne scrisse la vita (se pure autor di essa non fu Sparziano), il vuole
far credere discendente da Cassio, uno degli uccisori di Giulio
Cesare. Ma non è sì facilmente da prestargli fede, nè lo stesso Cassio
in una sua lettera riconosce tale la sua nobiltà. Il medesimo
scrittore cel rappresenta per rigoroso esattor della disciplina
militare, anzi portato alla crudeltà: del che di sopra addussi un
esempio. Egli, per ogni menomo trascorso de' suoi soldati, li facea
crocifiggere, bruciar vivi, affogare, e a molti de' disertori fece
tagliar le mani e le gambe: il che non s'accorda coll'aver _Lucio
Vero_ scritto che Cassio era amato assai dai soldati. Certo è bensì,
che egli sempre un dì della settimana facea far loro l'esercizio, e
che ogni delizia nel mangiare e nel vestire bandì dai loro quartieri.
Gran tempo era, che costui dava a conoscere il suo genio di
signoreggiare; altro non facendo che dir male di Marco Aurelio,
chiamandolo una vecchierella filosofessa, e di Lucio Vero,
appellandolo sciocco lussurioso. Derideva le loro azioni, non istimava
le loro lettere. Udivasi in ogni occasione compiangere lo stato
presente della romana repubblica, dove più non si mirava l'antica
disciplina, dove il principe lasciava andar tutto alla peggio, non
gastigava i cattivi, e permetteva che si ingrassassero a dismisura i
capitani delle guardie e tutti i governatori delle provincie.
Aggiugneva, che se toccasse a lui, saprebbe ben tagliar teste e
premiare i buoni, con altre simili bravate: dalle quali fu mosso Lucio
Vero Augusto, fin quando andò in Soria ad avvisarne Marco Aurelio,
acciocchè si guardasse da uomo sì pericoloso, e provvedesse alla
sicurezza propria e de' suoi figliuoli. Marco Aurelio gli rispose, che
non trovava nella di lui lettera la grandezza d'animo conveniente ad
un imperadore; essere tale il governo suo, che non avea da paventar
rivoluzioni; e che quando altramente dovesse essere, il destino non si
potea schivare; nè potersi condannare un uomo che non era accusato da
alcuno; e però che Cassio dicesse quel che volesse, perchè essendo
uomo di gran valore, buon capitano e severo, egli era utile alla
repubblica, nè gli si dovea recar nocumento. Terminava poi la sua
risposta con queste belle parole: _Quanto al procurare la salvezza de'
miei figliuoli, avrò più caro di vederli perir tutti, quando Cassio
meriti d'esser amato più che essi, e quando importi più alla
repubblica la vita di Cassio che la loro._

Ma eccoti che nell'aprile di questo anno il medesimo _Cassio_ si
ribellò, assunse il titolo d'_Imperadore_, e creò prefetto del
pretorio colui che gli mise addosso il manto imperiale. Dicono ch'egli
con lettere finte facesse credere morto Marco Aurelio, e per consolare
i soldati, gli desse nome di Divo. Altri giunsero a scrivere, che
_Faustina Augusta_[1215] era d'accordo con lui, perchè, vedendo il
marito malsano, avrebbe poi sposato esso Cassio: frottola, a mio
credere, inventata dagli oziosi, e smentita dalle lettere della
medesima Faustina: che son riferite dallo storico Vulcazio
Gallicano[1216]. Imperocchè essa, udita la ribellion di Cassio,
secondo l'esempio di Faustina seniore sua madre riferito di sopra,
accese il marito a punir costui e i complici, rappresentandogli che se
in tal caso non lasciava in disparte la sua troppa clemenza, e non
dava un esempio di giustizia, altri si sarebbono animati a tentar lo
stesso, e che non era in sicuro la vita de' lor figliuoli. Intanto
Cassio, seguitato dalle sue legioni, ebbe tutta la Soria alla sua
ubbidienza. Specialmente gli Antiocheni, che assai l'amavano, si
dichiararono per lui. Altrettanto fece la Cilicia; e per tradimento di
_Flavio Calvisio_ governatore, anche l'Egitto. Tertulliano[1217]
osservò, che niuno de' Cristiani si mischiò in questa ribellione,
perchè la legge di Cristo vuol che si onorino anche i principi
cattivi, non che i buoni. Avvisato di questa inaspettata turbolenza in
Germania l'Augusto Marco Aurelio da _Publio Marzio_ governatore della
Cappadocia, ne dissimulò, per qualche tempo, il suo affanno. Quel che
più gli dispiaceva, era di dover venire ad una guerra civile.
Divolgatosi poi l'affare, fece una savia aringa alle legioni che
l'aveano sì ben servito nella guerra de' Marcomanni; e ne scrisse
ancora al senato, parlando sempre non di vendetta, ma di clemenza.
Ordinò a _Commodo_ suo figliuolo[1218] di venirlo a trovare ai confini
della Germania, per dargli la toga virile, essendo in uso di darla ai
figliuoli degli Augusti da che erano entrati nell'anno quindicesimo
della loro età[1219]. Ciò fu fatto, e per tal festa diede un congiario
al popolo romano, se pur non falla Capitolino. Trovandosi in una
medaglia menzionata la _settima liberalità_ di Marco Aurelio, crede il
Mezzabarba[1220], essere ciò un donativo da lui fatto all'esercito
germanico nell'occasione suddetta. Ma forse più tardi succedette quel
dono. Dichiarato fu ancora _Commodo principe della gioventù_. Intanto
Marco Aurelio, lasciate ben guernite le frontiere della Germania,
diede la marcia alle sue milizie verso la Soria, e tenne poi loro
dietro da lì a qualche tempo: sicchè si preparava oramai un'aspra
guerra fra lui e il ribellato Cassio. In Roma stessa abbondava lo
spavento per timore che Cassio meditasse di venire in Italia, mentre
n'era lontano l'imperadore; benchè per questo non si ritenesse il
senato dal dichiarar _Cassio_ pubblico nemico, e di confiscare i di
lui beni all'erario della repubblica, giacchè Marco Aurelio nulla
volle per sè dei beni di costui.

Ma di corta durata fu questo incendio. Erano appena passati tre mesi e
sei giorni da che Cassio avea assunto l'imperio[1221], quando essendo
egli in viaggio, un centurione per nome Antonio, fedele a Marco
Aurelio, incontratolo per istrada, gli diede di un fendente al collo.
Non fu mortale la ferita, e si sarebbe salvato Cassio colla fuga presa
dal cavallo, se sopraggiunto un decurione non l'avesse finito.
Spiccatagli la testa dal busto, questi due uffiziali presero le poste
per potarla all'imperadore. Altra particolarità più precisa di questo
fatto noi non abbiamo dagli storici, se non che pare seguito qualche
combattimento fra i soldati di Cassio e quei di _Marzio Vero_,
governatore della Cappadocia, inviato da Cesare nella Soria[1222]. Fu
anche ucciso il prefetto del pretorio, creato da lui, siccome ancora
_Metiano_ governatore di Alessandria, che avea abbracciato il di lui
partito. Capitolino[1223] il chiama figliuolo di Cassio. Succederono
cotali uccisioni senza alcun ordine o saputa di Marco Aurelio, il
quale troppa premura avea che non si spandesse il sangue di verun
senatore, desiderando di salvar la vita a Cassio stesso, e solamente
di potere rinfacciargli la sua infedeltà e ingratitudine. In fatti
s'afflisse all'udirlo ucciso per aver perduta l'occasione di esercitar
la misericordia. Furono trovate nello scrigno di _Pudente_ molte
lettere scritte a Cassio da' suoi parziali. _Marzio Vero_, dichiarato
poi governatore della Soria, tutte le bruciò, con dire che credeva
d'incontrar così il genio di Marco Aurelio; e quando pur fosse
succeduto il contrario, amava piuttosto di perir solo che di lasciar
perir tanti altri[1224]. Ma più costante fama fu, che portate quelle
lettere a Marco Aurelio, senza volerle dissuggellare, le gettò nel
fuoco per non conoscere alcuno de' suoi insidiatori, o per non essere,
suo malgrado, forzato ad odiarli. Lo stesso fece allorchè gli fu
portato il processo formato contra di Cassio, nè volle vedere la di
lui testa, avendo comandato di seppellirla, prima che arrivasse chi
gliela portava. Nè qui si fermò la di lui clemenza. Si guardò egli
dall'imprigionare, o far morire alcuno de' senatori denunziati di aver
tenuta mano a cotesta ribellione[1225]. E perciocchè il senato seguitò
dipoi le ricerche e i processi contra di tutti i complici, e molti ne
condannò, Marco Aurelio, non coll'ipocrisia di Tiberio, ma colla sua
sincera umanità, scrisse dalla Asia, dove il vedremo andare, ad esso
senato, pregandolo e scongiurandolo di usar piuttosto l'indulgenza che
il rigor contra de' delinquenti, e di non condannar a morte
chicchessia, e massimamente chi fosse dell'ordine senatorio o
equestre: _perchè egli desiderava questa gloria al suo regno, che in
occasion di ribellione niuno, fuori del calore del tumulto perdesse la
vita._ Aggiungeva, _che avrebbe anzi voluto, se fosse stato possibile,
richiamar dal sepolcro gli estinti_[1226]; e chiudeva in fine tal
preghiera con dire, _che se altrimenti avessero fatto per conto di
alcun senatore o cavaliere, si aspettassero di vedere ancor lui in
breve morire._ In effetto, a riserva di pochissimi centurioni
decapitati, gli altri colpevoli furono solamente gastigati
coll'esilio. _Flavio Calvisio_ governator dell'Egitto, benchè
partigiano dichiarato della ribellione, fu relegato in un'isola, nè
solo ebbe salva la vita, ma anche i beni.

Perdonò Marco Aurelio alla moglie, ai figliuoli, al genero di Cassio,
ancorchè sapesse che aveano sparlato di lui. Il solo _Eliodoro_ fu
relegato in un'isola. Agli altri figliuoli di Cassio volle che fosse
conservata la metà de' beni paterni e materni, con facoltà di andare
dovunque loro piacesse (probabilmente lungi da Roma e fuori d'Italia),
colla giunta ancora di molti regali, e con divieto di ingiuriarli o
rimproverarli per cagion della loro disgrazia. Così poterono essi con
sicurezza e comodo vivere da lì innanzi non come figliuoli d'un
tiranno, ma come senatori romani, finchè il bestial _Commodo_, figlio
di Marco Aurelio, sotto pretesto d'una congiura, li condannò col tempo
ad esser bruciati vivi. Nè andò molto, che Marco Aurelio fece anche
richiamar dall'esilio parecchi banditi per questa turbolenza. In
somma, ad altro non servì la ribellione di Cassio, che a far
maggiormente risaltare la grandezza d'animo e l'incomparabile bontà di
Marco Aurelio. Molti nulladimeno vi furono che disapprovarono cotanta
indulgenza, perchè era un dar ansa di far del male ad altri, nè era
sicura la vita di lui nè di suo figliuolo. Ed uno fra gli altri vi fu
che disse allo stesso Augusto: _Ma come sarebbe andata, se Cassio
avesse vinto?_ Al che egli rispose: _Io non ho sì poco timor
degl'iddii, nè vivo in maniera che Cassio avesse da vincere_[1227].
Meritava bene un principe tale di conoscere il vero Dio, giacchè egli
avea tanta fiducia nei falsi. E qui si metteva egli a dire, _che niun
de' principi precedente uccisi v'era, che non sel fosse meritato. Così
Caligola, Nerone, Ottone e Vitellio. Galba anch'esso era perito per la
sua avarizia._ Nel testo di Vulcazio Gallicano v'ha, che egli disse lo
stesso di Pertinace: errore massiccio che non può venir dallo storico,
ma da qualche saputello, che vi fece quella giunta, perchè _Pertinace_
venne dipoi. Aggiugneva, _che non Augusto, non Trajano, Adriano ed
Antonio Pio suo padre erano stati sopraffatti dai ribelli o dai
congiurati, perchè non si lasciarono mai sopraffare dai vizii._ A
picciole giornate finalmente marciò l'Augusto Marco Aurelio, con
pensiero d'andar in Soria. Per viaggio intese la morte di Cassio, e
per viaggio scrisse al senato quanto s'è detto di sopra[1228]. Da una
lettera ch'egli inviò a _Faustina_, sua moglie, e dalla risposta di
lei, si può raccogliere ch'egli fece la via d'Italia, e venne ad
Albano e a Capoa, senza apparire che entrasse in Roma. Gli stava
probabilmente a cuore di non interrompere l'incominciato cammino; e in
fatti con essa sua moglie e col figliuolo _Commodo Cesare_ lo
continuò, imbarcatosi, come credono alcuni, nella flotta del Miseno.
Vogliono il cardinal Noris e il padre Pagi[1229], che nell'agosto di
quest'anno, mentre Marco Aurelio tuttavia era in Campania, per le
istanze del senato conferisse ad esso suo figlio la potestà
tribunizia. Scrittori di tanta autorità si possono seguitare a chiusi
occhi. Nulladimeno potrebbe restar qualche sospetto, che più tardi
succedesse questo fatto. Certo è che dopo avere il senato ricevuta la
lettera d'esso Augusto, sì piena di clemenza verso i partigiani della
ribellione cassiana[1230], proruppe in allegre acclamazioni verso di
lui, chiedendo, fra l'altre cose, che assicurasse l'imperio al
figliuolo, e che gli concedesse la tribunizia podestà. Quando e dove
fosse scritta quella lettera, non si sa. Da essa impariamo che già
alcuni erano stati relegati nell'isole, altri banditi, e seguite altre
condanne; e i processi esigevano del tempo e notizie ed esami dalla
Soria. Però sembra scritta la lettera, dappoichè l'imperadore era
giunto in Levante. E tanto più, perchè Dione[1231] assai chiaramente
mostra averla egli scritta, dappoichè l'Augusta _Faustina_ era morta;
e questa senza fallo, siccome dirò, mancò di vita mentr'egli era in
Asia. Ecco dunque sufficiente motivo di sospettare che non sia tanto
sicura l'opinion de' suddetti critici, e potersi dubitare che
_Commodo_ ottenesse quella insigne prerogativa alquanto più tardi.

NOTE:

[1207] Thesaurus Novus Inscript., pag. 338.

[1208] Spartianus, in Juliano.

[1209] Capitol., in Pertinace.

[1210] Dio, lib. 71.

[1211] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1212] Dio, lib. 71.

[1213] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.

[1214] Vulcat., in Avidio Cassio. Dio, lib. 71.

[1215] Dio, lib. 71.

[1216] Vulcat., in Avidio Cassio.

[1217] Tertullianus, ad Scap., cap. 2; et Apologet., cap. 35.

[1218] Lampridius, in Commodo.

[1219] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1220] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[1221] Dio, lib. 71.

[1222] Vulcatius, in Avidio Cassio.

[1223] Capitol., in Marco Aurelio.

[1224] Dio, in Excerptis Valer. Ammianus, Histor., lib. 21.

[1225] Vulcatius, in Avidio Cassio.

[1226] Dio, lib. 71.

[1227] Vulcat., in Avidio Cass.

[1228] Vulcat., in Avidio Cassio.

[1229] Pagius, in Crit. Baron.

[1230] Vulcat., in Avidio Cassio.

[1231] Dio, lib. 71.




    Anno di CRISTO CLXXVI. Indizione XIV.

    ELEUTERIO papa 6.
    MARCO AURELIO imperadore 16.

_Consoli_

TITO VITRASIO POLLIONE per la seconda volta e MARCO FLAVIO APRO per la
seconda.


Già dissi passato in Oriente l'Augusto Marco Aurelio nell'anno
precedente per dar sesto agli affari sconvolti della Soria e
dell'Egitto a cagion della ribellione di Cassio. Era egli giunto ad un
borgo chiamato Halala nella Cappadocia, a piè del monte Tauro[1232],
borgo poscia da lui popolato con una colonia, e fatto divenire una
città, cui diede il nome di Faustinopoli. Quivi presa da mortal
malattia sua moglie _Annia Faustina_ Augusta minore, finì i suoi
giorni, e fu attribuita la sua morte alla gotta, male, a cui era
soggetta. Dione[1233], intestato ch'essa avesse parte nella
sollevazion di Cassio, dubitò ch'ella medesima si lasciasse morire per
paura d'essere scoperta complice di quella ribellione: sospetto, come
già vedemmo, insussistente e privo affatto di verisimiglianza. Il
Tillemont[1234] la fa defunta nell'anno precedente. Il Petavio[1235],
il Mezzabarba[1236] ed altri nell'anno presente. Non è facile il
decidere tal quistione. Solamente abbiamo da Filostrato[1237] nella
vita di Erode Attico, che Marco Aurelio rispondendo benignamente alla
lettera scrittagli da esso Erode, di cui parlammo all'anno 173,
esprimeva il suo dolore per la recente morte di _Faustina Augusta_,
dicendo ch'egli si trovava a quartier d'inverno colle soldatesche che
l'accompagnavano: il che può convenire al precedente dicembre, e molto
più ai primi mesi dell'anno corrente. Si vuol ora avvertire, che
questa imperadrice lasciò di sè un nome obbrobrioso per la sua
lascivia: vizio troppo usuale in chi adorava delle deità infami pel
medesimo eccesso. Per attestato di Capitolino[1238], fama era che
_Commodo_ suo figliuolo fosse nato di adulterio, perchè trovandosi
ella a Gaeta, scialacquò la sua pudicizia colla feccia dei barcaiuoli
e gladiatori. Sapevasi ancora essere stati de' suoi drudi Tertullo,
Utilio, Orfito e Moderato; e perchè Marco Aurelio promosse costoro
alle cariche, ed alcuni fino al consolato, ne fu anche proverbiato
dalla gente e messo in canzone ne' teatri. Corse inoltre voce, ch'essa
perdutamente si innamorasse d'un gladiatore; essendo per questo folle
amore lungamente inferma, confessò il suo fallo all'Augusto consorte.
Consigliatosi egli coi Caldei, ebbe per risposta, che ucciso quel
gladiatore, facesse lavar la moglie nel di lui sangue. Il che fatto,
essa guarì e concepì poco dappoi Commodo, principe che vedremo
impastato di tutti i vizii della canaglia, e abbandonato all'infamia
degli spettacoli gladiatorii. Non ignorava già Marco Aurelio, se non
tutti, almeno gran parte dei trascorsi della moglie impudica: pure non
seppe mai indursi a prendere alcuna risoluzione gagliarda su questo. E
a chi gli disse un dì, che se non volea ucciderla, almeno la
ripudiasse, rispose: _Ma così facendo, converrà anche renderle la
dote;_ e volea dir l'imperio da lui conseguito per cagion d'essa. Nè
egli lasciò mai per le sue follie d'amarla e di andar d'accordo con
lei. Morta che fu questa donna, certo indegna d'aver avuto per padre
un Antonino Pio, per marito un Marco Aurelio, ne fece il senato una
ridicola deità per le istanze del marito Augusto, il quale la pianse,
e le alzò un tempio, al cui servigio pose anche delle fanciulle
appellate Faustiniane. Giuliano Apostata[1239] gli diede la burla per
questo. _Fabia_, sorella di Lucio Vero, a lui giovine destinata in
moglie, si studiò allora per giugnere al di lui talamo. Ma Marco
Aurelio, per non dare una matrigna ai figliuoli, se la passò da lì
innanzi con una concubina, giacchè ciò s'accordava colle leggi romane.

Abbiamo dalle medaglie[1240], che in quest'anno esso imperadore prese
per _la ottava volta_ il titolo d'_Imperadore_: il che ci fa intendere
riportata dai Romani qualche nuova vittoria, e questa in Germania,
come traluce dalle stesse monete. Nella lettera, o pure nell'orazione
mandata da esso imperadore al senato, e riferita da Vulcazio
Gallicano[1241], dove tanto raccomanda la piacevolezza verso i
congiurati con Cassio, credo io che si parli di questa vittoria, per
cui s'era rallegrato il senato con lui. Il che è da osservare, perchè
prima di quella lettera _Commodo Cesare_ non era per anche giunto ad
ottenere la podestà tribunizia. In essa lettera ancora si parla del
consolato dato a _Claudio Pompejano_ suo genero, il cui nome non
comparendo ne' fasti, ci fa conoscere non esser egli stato console
ordinario. Ora Marco Aurelio in quest'anno visitò la Soria, la
Palestina e l'Egitto, lasciando dappertutto segni luminosi della sua
clemenza coll'aver perdonato a tutte le città che aveano aderito a
Cassio, e prese l'armi in favore di lui. Ma non volle veder quella di
Cirro, perchè patria di Cassio, essendo ben più probabile che
Capitolino[1242] scrivesse _Cirro_, città della Soria, che _Cipri_.
Molto men volle passare in Antiochia, città che con isfacciata
alterigia avea sostenuto la ribellion cassiana. Anzi verso questa sola
diede a divedere il suo sdegno con privar que' cittadini del diritto
di adunarsi, di ascoltar pubbliche orazioni, di fare spettacoli (cosa
lor tanto cara), e con levar loro simili altri privilegii, spettanti
alle città che si governavano colle proprie leggi. Ma non durò molto
la collera del buon imperadore. Fra pochi mesi restituì loro tutto, e,
nel tornar dall'Egitto consolò quel popolo con visitare la loro città.
Mentre andava in Egitto, abbiamo da Ammiano Marcellino[1243], che fu
sì attediato in passando per la Palestina dai ricorsi e dai rissosi
cicalecci dei fetenti Giudei, che in fine esclamò: _O Marcomanni, o
Quadi, o Sarmati, ho pur una volta trovata gente più inquieta e noiosa
di voi!_ Ancorchè gli abitanti di Alessandria avessero incensato
Cassio con grandi elogi[1244], pure non si fece pregare per dar loro
il perdono. Quivi anche lasciò una sua figliuola, mentre andò alla
visita d'altre città dell'Egitto, per le quali tutte comparve sempre
vestito alla moda di quel paese, o pur con abito da filosofo. Durante
questo suo pellegrinaggio vennero i re dell'Oriente e gli ambasciatori
del re dei Parti ad inchinarlo, e a rinnovare i trattati di pace. In
somma lasciò questo Augusto per tutta l'Asia e per l'Egitto un gran
nome della sua saviezza e moderazione; nè persona vi fu che non
concepisse un grande amore e stima per lui. Venuto alle Smirne, imparò
ivi a conoscere il sofista[1245] _Aristide_, di cui restano le
orazioni. Arrivò ad Atene, e quivi, per provare la sua innocenza,
volle essere ammesso ai misteri di Cerere, e solo entrò in quel
sacrario. Accrebbe i privilegii a così illustre città, e specialmente
beneficò quelle scuole con assegnar buone pensioni a tutti i maestri
delle sette filosofiche, cioè Stoici, Platonici, Peripatetici ed
Epicurei. Poscia imbarcatosi, spiegò le vele alla volta di Italia, e
soffrì nel viaggio una gravissima tempesta di mare. Sbarcato che fu a
Brindisi, prese tosto la toga, cioè l'abito di pace, e con questa
ancora volle che marciassero tutte le milizie che lo scortavano. Entrò
dipoi in Roma colla solennità del trionfo a lui decretato per le
vittorie riportate in Germania[1246]. Nel dì 27 di novembre, impetrata
dal senato la dispensa dell'età per Commodo suo figliuolo, il disegnò
console per l'anno prossimo venturo. Ad amendue ancora nel dì 28 di
ottobre era stato conferito il titolo d'_Imperadori_ per la vittoria,
di cui parlammo di sopra; e se si ha da credere a Capitolino[1247], in
questa occasione fu che Marco Aurelio conferì al figliuolo la podestà
tribunizia. Ma siccome già accennai, in vigore delle medaglie che
abbiamo, il Noris e il Pagi pretendono conceduta a Commodo questa
podestà nell'anno precedente. Lascerò io qui combattere gli eruditi,
con dir solamente che non intendo io qui una regola del padre
Pagi[1248]. Egli vuole che gl'imperadori disegnassero prima consoli
poi Cesari ed Augusti i lor figliuoli; e pure certo è, che Commodo
prima del consolato portò il titolo di Cesare. Lampridio[1249] scrive,
che Commodo trionfò col padre _X Kalendas Amazionias_ nell'anno
corrente; e il padre Pagi spiega celebrato questo trionfo _X Kalendas
januarias_, seguendo l'opinion del Salmasio, che credette appellato
_Amazonio_ il gennaio; opinione non certa, scrivendo chiaramente
Capitolino, che il mese di _dicembre_ fu dal capriccioso Commodo
appellato _Amazonio_; e però quel trionfo, secondo lui, cadde nel dì
23 novembre dell'anno presente. Pretende esso padre Pagi dato in
quest'anno il titolo d'_Augusto_ al medesimo _Commodo_: punto
anch'esso imbrogliato dalle medaglie. Non me ne prenderò io altro
pensiero; e solamente dirò, che sarebbe da desiderare che tutte le
medaglie fossero legittime, e tutte ben attentamente lette ed
accuratamente copiate. Perchè appunto son qui imbrogliati i conti, non
oserò io di dar principio all'epoca dell'imperio del sopraddetto
Commodo. Diede Marco Aurelio in occasion di tali feste un congiario al
popolo. In che consistesse questo donativo si ha da Dione[1250]. Nella
pubblica concione avendo egli detto, che era stato in pellegrinaggio
_otto anni_, il popolo gridò colle mani alzate _otto_, volendo dire,
che aspettava da lui il regalo di otto monete d'oro per persona.
Sorrise l'imperadore; e contuttochè non fosse mai giunto alcuno dei
suoi predecessori a donar tanto, pure tutta quella somma fece sborsare
al popolo. Per attestato di Capitolino[1251], diede anche degli
spettacoli maravigliosi: cosa dopo il danaro la maggiormente grata ai
Romani.

NOTE:

[1232] Antoninus, in Itinerario. Cellarius, in Geograph.

[1233] Dio, lib. 71.

[1234] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1235] Petavius, de Doctrin. Temp.

[1236] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[1237] Philostr., in Sophist., lib. 27.

[1238] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1239] Julianus, de Caesarib.

[1240] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[1241] Vulcat., in Avidio Cassio.

[1242] Capitol., in Marco Aurelio.

[1243] Ammianus, lib. 23, cap. 5.

[1244] Capitol., in Marco Aurel.

[1245] Philost., in Sophistis., c. 34.

[1246] Lampridius, in Commodo.

[1247] Capitolin., in Marco Aurelio.

[1248] Pagius, Crit. Baron. ad hunc annum.

[1249] Lampridius, in Commodo.

[1250] Dio, lib. 71.

[1251] Capitolinus, in Marco Aurelio.




    Anno di CRISTO CLXXVII. Indizione XV.

    ELEUTERIO papa 7.
    MARCO AURELIO imperad. 17.

_Consoli_

LUCIO AURELIO COMMODO CESARE o pure AUGUSTO e QUINTILIO.


In una iscrizione del Gudio s'incontrano questi consoli disegnati: M.
AVRELIO ANTONINO COMMODO AVGVSTO ET QVINTILIO COS. Ma mi sia lecito il
ripetere, che l'appoggiarsi ai marmi gudiani, non è cosa sicura nei
punti controversi. Non v'ha dubbio, Commodo portò il prenome di
_Lucio_, e in onore del padre assunse quello di _Marco_. Vivente il
padre, il troviam quasi sempre nominato _Lucio_; anzi credono
uomini[1252] dottissimi, ch'egli solamente dopo la morte di esso suo
padre prendesse l'altro: laddove nel marmo del Gudio comparisce
_Marco_ in quest'anno. Quivi parimente vien chiamato _Quintilio_ il
secondo console, il cui cognome in tutti i fasti è _Quintillo_.
Vedemmo di sopra all'anno 159 console _Marco Plautio Quintillo_.
Questi forse fu suo figliuolo, e portò i medesimi nomi. S'aggiunge
l'aver alquanto del pellegrino nell'iscrizione gudiana quel GENIS DEF.
ET HERCVLI CVSTODI DELVBR. CAPIT. Abbiamo dunque il primo consolato di
_Commodo_ figliuolo di Marco Aurelio, al quale nell'anno presente
(altri credono nel seguente) il padre diede[1253] per moglie
_Crispina_ figliuola di _Bruttio Presente_, personaggio stato già
console. Le nozze furono celebrate alla maniera de' privati: e, ciò
non ostante, egli volle rallegrare il popolo con un nuovo congiario.
Di ciò v'ha qualche vestigio in una medaglia[1254], dove è segnata la
_Liberalità VIII_ d'esso Augusto, ma può dubitarsi se sia ben copiata.
Nel tempo ch'esso imperadore si fermò in Roma, levò via vari abusi
civili. Moderò le spese che si faceano nei giuochi dei gladiatori.
Osserva Dione[1255] una particolarità, sempre più comprovante quanto
egli fosse alieno dallo spargimento del sangue. Era impazzito il
popolo romano dietro ai gladiatori; quanto più sanguinosi erano i lor
combattimenti, tanto maggior piacere ne provavano i Romani. Marco
Aurelio ordinò che adoperassero nelle lor battaglie spade senza punta
e senza taglio, acciocchè si facessero onore colla destrezza, ma non
già coll'ammazzarsi. Fece ancora dei regolamenti per correggere il
soverchio lusso e la troppa libertà delle matrone e dei giovani
nobili. Stese[1256] eziandio la sua liberalità a tutte le provincie,
con rimettere ad ognuno i debiti che avevano coll'erario, non men suo
che della repubblica, e in mezzo alla piazza maggiore di Roma bruciò
le carte delle loro obbligazioni.

Pareva intanto, che per la pace riportata a Roma da Marco Aurelio,
tutti si promettessero una durevol serenità, quando si scompigliarono
di nuovo gli affari della Germania, se pur questi si erano mai
acconciati daddovero. Sappiamo da Dione[1257], che i Quadi, dappoichè
l'imperadore fu passato in Oriente, si burlarono degli accordi fatti
con lui. Deposero essi il re, verisimilmente dato loro dal medesimo
Augusto, ed alzarono al trono _Ariogeso_. Al vedere Marco Aurelio
sprezzata così l'imperiale autorità, e violati i patti, contra il suo
solito andò sì fattamente in collera che mise fuori una taglia,
promettendo mille scudi d'oro a chi gli desse vivo in mano _Ariogeso_,
e cinquecento a chi gliene portasse la testa. Vero è nondimeno che
essendogli poi riuscito di averlo prigione, altro male non gli fece,
che di mandarlo in esilio ad Alessandria. Qualche altra turbolenza
maggiore dovette accadere al Danubio, e tale ch'egli spedì (a mio
credere nell'anno presente) a que' romori i due _Quintilii_, uomini
amendue di molto volere e di non minore sperienza nella guerra. Ma
perchè nulla profittavano essi, anzi doveano camminar poco bene gli
affari di essa guerra, nell'anno seguente credette l'infaticabile
Augusto necessaria la sua persona a quell'impresa, ed egli stesso vi
andò, siccome vedremo. Crede il padre Pagi[1258] rotta solamente nel
seguente anno la pace e ricominciata la guerra; ma ben più verisimile
è che ciò avvenisse nell'anno presente, perchè Dione riconosce che i
due Quintilii aveano prima comandata in quelle parti l'armata, nè
riusciva loro di mettere al dovere que' Barbari: il che non si potè
fare in poco tempo. Secondo Dione, questa seconda guerra non fu contro
i Germani, ma bensì contro gli Sciti. Capitolino all'incontro
asserisce[1259], che Marco Aurelio di nuovo guerreggiò coi Marcomanni,
Hermunduri, Sarmati e Quadi.

NOTE:

[1252] Noris, Epistol. Consular. Pagius, in Critic. Baron. Bimard.,
Epistol., pag. 122. Tom. 1. Thesaur. Novus. Inscript. Mur.

[1253] Capitolinus, in Marco Aurel.

[1254] Mediobarb., in Numism. Imperat.

[1255] Dio, lib. 71.

[1256] Euseb., in Chron.

[1257] Dio, in Excerpt. Vales.

[1258] Pagius, in Crit. Baron.

[1259] Capitol., in Marco Aurel.




    Anno di CRISTO CLXXVIII. Indizione I.

    ELEUTERIO papa 8.
    MARCO AURELIO imperad. 18.

_Consoli_

ORFITO e RUFO.


Il Panvinio[1260] per conghiettura diede i nomi a questi due consoli,
de' quali ho io posto il solo cognome, ch'è assicurato dal consenso
de' fasti e da Lampridio. Il cardinal Noris[1261] li rifiutò, e con
ragione. Credette egli poi, conghietturando, che il secondo fosse
_Gavio Orfito_, e il primo _Giuliano Rufo_, a cagion di una iscrizione
in cui i consoli di quest'anno sono _Orfito_ e _Giuliano_. Ma chi ci
assicura che Giuliano non sia stato console sostituito a _Rufo_?
Perciò non ho io osato di scrivere di più. Lampridio[1262], citando
gli atti pubblici, attesta che _Commodo_ imperadore nel dì 3 del mese
_Commodio_, essendo consoli _Orfito_ e _Rufo_, cioè nell'anno
presente, andò di nuovo alla guerra. Pretende il Salmasio che questo
fosse il mese di agosto, ma non è ben certo. Potè anche essere luglio.
Abbiamo poi da Dione[1263] che _gl'imperadori_ per necessità
marciarono in Germania. Sicchè a quest'anno si dee riferir l'andata
dell'Augusto Marco Aurelio col figliuolo, tuttochè Capitolino[1264]
scriva ch'egli per tre anni guerreggiò di nuovo in quelle parti. Era
ben poca la sanità, meschina di molto la complessione di questo
principe: tuttavia sì gli stava a cuore il pubblico bene e il dovere
dell'uffizio suo, che niun privato riguardo il potè ritenere. Ito egli
in senato, propose l'andata sua, e dimandò ai padri aiuto dall'erario
pubblico, senza volerlo prendere di sua autorità, come usarono altri
imperadori; _perchè_ (siccome egli disse in parlando ai medesimi)
_quel danaro e tutti gli altri beni sono del senato e popolo romano,
in maniera tale, che nulla noi possediamo del proprio, ed è vostra fin
quella casa dove abitiamo._ Ciò detto, presa l'asta insanguinata, a
lui recata dal tempio di Marte, in segno di dichiarar la guerra, la
scagliò verso il settentrione. Portossi ancora al Campidoglio, dove
protestò con giuramento che da che egli regnava, niun senatore era
stato ucciso d'ordine suo, o con sua contezza, e ch'egli avrebbe anche
perdonato ai ribelli, se non fossero stati uccisi prima ch'egli lo
sapesse. Noi troviamo nelle medaglie[1265] di quest'anno a lui dato
per _la nona volta_ il titolo d'_Imperatore_, e _per la terza_ a
Commodo Augusto suo figliuolo, per qualche vittoria al certo
guadagnata dai Romani, e forse da che i due imperadori furono giunti
al campo. Ma la storia non ci somministra lume per poterne dire di
più. Il console _Orfito_ diede il nome in questo anno al
Senatusconsulto[1266], per cui i figliuoli dell'uno e dell'altro
sesso, benchè passati per adozione in altre famiglie, furono ammessi
alla successione delle loro madri morte ab intestato. Ciò non si
praticava, o era proibito in addietro; e le adozioni, oggidì si rare,
ben frequenti erano presso gli antichi Romani.

NOTE:

[1260] Panvin., in Fast. Consular.

[1261] Noris, Epistola Consulari.

[1262] Lampridius, in Commodo.

[1263] Dio, lib. 71.

[1264] Capitolin., in Marco Aurel.

[1265] Mediobarbus, in Numism. Imperat.

[1266] Institut., lib. III, cap. 4.




    Anno di CRISTO CLXXIX. Indizione II.

    ELEUTERIO papa 9.
    MARCO AURELIO imperad. 19.

_Consoli_

LUCIO AURELIO COMMODO AUGUSTO per la seconda volta e PUBLIO MARZIO
VERO.


Due iscrizioni sono presso il Grutero[1267], spettanti all'anno
presente. Nell'una il secondo console è chiamato _Tito Annio Vero per
la seconda volta_; nell'altra _Aurelio Vero per la seconda volta_.
Perciò il cardinal Noris[1268], il Pagi[1269], il Relando[1270] ed
altri gli han dato il nome di _Tito Annio Aurelio Vero_. Ma da che il
sig. Bimard[1271], barone della Bastia, ed uno dell'Accademia reale di
Parigi, ha prodotto un marmo esistente in Aosta, che si legge nel
primo tomo delle mie iscrizioni, e posto IMP. COMMODO II. P. MARTIO
VERO II. COS., credo io che si abbia a preferir questo nome, ricavato
da un'iscrizione d'indubitata legittimità, alle due del Grutero che
son dubbiose e non concordi tra loro. Anzi apocrife le giudica esso
Bimard, perchè la famiglia Annia solamente si unì coll'Aurelia in
quella degli Antonini; nè alcuno vi era allora che portasse tal nome.
All'incontro _Publio Marzio Vero_ celebre fu in questi tempi, come si
ha da Capitolino[1272] e da Dione[1273]; e noi l'abbiamo veduto di
sopra il primo mobile di Marco Aurelio Augusto nella ribellione di
Cassio. Bolliva intanto la guerra barbarica al Danubio, avvalorata
dalla presenza dei due imperadori Marco Aurelio e Commodo. La
resistenza dei Barbari era grande[1274], quando Marco Aurelio ordinò a
_Paterno_ di andare ad assalirli con tutto il nerbo delle milizie
romane. Di _Tarrutenio Paterno_, prefetto del pretorio sotto Commodo,
parlano Lampridio[1275] e Dione. Durò l'atroce battaglia, per
attestato d'esso Dione, un'intera giornata, e finì colla totale
sconfitta delle nazioni nemiche. Per questa insigne vittoria fu
proclamato Marco Aurelio _Imperadore per la decima volta_, e Commodo
_per la quarta_[1276]. Trovasi questa lor denominazione nelle medaglie
coniate nell'anno presente, nel quale, secondo la testimonianza
d'Eusebio[1277], la città di Smirna restò smantellata da un furioso
tremuoto. Dione sembra mettere questa disavventura all'anno
precedente. Ne parla ancora Aristide[1278] in una delle sue orazioni,
con farci intendere la mirabil carità usata verso quell'illustre città
da tutte l'altre della Grecia e dell'Asia, perchè ognuna fece a gara
per dare ricetto a quei che erano rimasti in vita. Certamente i
Cristiani molto dilatati in quelle contrade, siccome allevati nella
scuola della carità, saranno stati i primi e i più abbondanti in recar
loro soccorso, ed avran servito di esempio anche ai Gentili. Ne
scrisse il suddetto Aristide[1279] ai due Augusti una compassionevol
lettera, che tuttavia esiste, pregandoli di risarcire l'infelice
città, siccome aveano fatto per tante altre di Italia in somiglianti
sciagure. Non potè ritener le lagrime il buon imperador Marco Aurelio
in leggendo la catastrofe di così rinomata città[1280]; e senza
aspettare che arrivassero i di lei deputati a pregarlo d'aiuto, con
viscere paterne ne scrisse al popolo rimasto in Smirna una lettera
consolatoria; mandò gran somma di danaro, acciocchè rifabbricassero le
case; gli esentò per dieci anni dai tributi; raccomandò con sue
lettere al senato romano di dar loro altri soccorsi, onde potesse
risorgere l'abbattuta città.

NOTE:

[1267] Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 65, n. 9, et 77, n. 3.

[1268] Noris, Epist. Consul.

[1269] Pagius, in Critic. Baron.

[1270] Reland., in Fastis.

[1271] Bimard, Epist., pag. 120. Tom. 1 Thesaur. Nov. Inscript.

[1272] Capitolin., in Marco Aurelio.

[1273] Dio, lib. 71.

[1274] Idem, ibidem.

[1275] Lampridius, in Commodo.

[1276] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[1277] Euseb., in Chron.

[1278] Aristid., Or. 21.

[1279] Aristid., Or. 20.

[1280] Philost., in Sophist., cap. 35.




    Anno di CRISTO CLXXX. Indizione III.

    ELEUTERIO papa 10.
    COMMODO imperadore 1.

_Consoli_

CAJO BRUTTIO PRESENTE per la seconda volta, e SESTO QUINTILIO
CONDIANO.


Fondato il cardinal Noris[1281] sopra un'iscrizione gruteriana[1282],
ch'egli nondimeno riconosce per difettosa, diede al primo console il
nome di _Lucio Fulvio Bruttio Presente per la seconda volta_, nel che
fu seguitato dal Pagi[1283], dal Relando[1284] e da altri. Ma chiunque
esaminerà meglio quel marmo, non avrà difficoltà a chiamarlo
un'impostura, e però appoggiati que' nomi ad un fondamento che non
regge. Ho io prodotta un'iscrizione[1285], dove _Cajo Bruttio
Presente_ vien detto _console per la seconda volta_. Era questi padre
di _Crispina_ moglie di _Commodo_ Augusto. Se non vogliamo ammettere
ch'egli fosse per la prima volta console nell'anno 153, sarà almeno
stato in alcuno de' susseguenti anni console straordinario ed
ordinario nel presente. Certamente motivo bastevole abbiamo di così
credere, finchè si disotterri altra memoria che tolga ogni dubbio.
Avea già l'Augusto Marco Aurelio ridotta a buon termine la guerra coi
Barbari. Erodiano[1286], che qui dà principio alla sua storia, scrive
che già alcuni di que' popoli s'erano a lui sottomessi, altri aveano
fatta lega con lui, ed altri fuggiti non comparivano più per paura
delle di lui vittoriose schiere. Ma non piacque a Dio di lasciargli
tanto di tempo per dar compimento all'impresa. Cadde egli
infermo[1287] nel marzo dell'anno presente, essendoglisi attaccata la
peste o sia l'epidemia, che già s'era introdotta nell'armata[1288].
Nel sesto giorno della sua malattia chiamò al suo letto gli amici, e
fece loro un discorso intorno alla vanità delle cose umane, facendo
assai conoscere di disprezzar la vicina morte. Piangevano essi, ed
egli, loro rivolto, disse: _Perchè piagnete me, invece di piagnere la
peste che va desolando l'armata?_ Erodiano gli mette in bocca una
bella orazione, con cui raccomandò a tutti _Commodo_, benchè
Capitolino scriva che non ne parlò, ma che solamente interrogato a chi
egli raccomandasse il figliuolo, rispose: _A voi e agli dii immortali,
se pur se ne mostrerà degno._ L'aveva egli sul principio del male
chiamato a sè, pregandolo di non partirsi se prima non era terminata
la guerra: al che rispose Commodo che più gli premeva la propria
sanità, e desiderar perciò di andarsene. Ma più del male e più
dell'imminente morte, si affliggeva l'ottimo imperadore al vedere che
lasciava dopo di sè un figlio troppo diverso da' suoi costumi. Ne avea
già osservata la perversa inclinazione, e gli correa per mente
l'immagine di Nerone, di Domiziano e d'altri principi giovinastri
scapestrati, che erano stati la rovina della lor patria. Ma rimedio
più non appariva. Egli era già imperadore Augusto, nè si poteva
disfare il fatto. Giuliano Apostata nella sua Satira[1289] scrisse che
Marco Aurelio dovea lasciar l'impero a _Claudio Pompejano_ suo genero,
personaggio di gran saviezza, più tosto che ad un figlio di natural sì
maligno. Ma l'affetto paterno, lusingandosi sempre che nel crescere
dell'età crescerebbe il senno del giovane Commodo, prevalse all'amor
della repubblica, che in lui certamente era sommo. Fu anche
sollecitato a ciò dal senato romano istesso, siccome attesta Vulcazio
Gallicano[1290]. Puossi ancor credere che Marco Aurelio, sperando vita
più lunga, si figurasse d'aver tempo da ridirizzar quella pianta, che
già minacciava frutti cattivi. Turbato poi da questo rammarico
l'infermo Augusto, nè sapendo come quetarlo, desiderò che
sollecitamente venisse la sua morte, e stette anche senza voler
prendere cibo. Nel settimo dì copertosi il capo, come se volesse
dormire[1291], spirò nella notte del dì 17 di marzo, secondo
Tertulliano[1292], in Sirmio, o pure, secondo Aurelio Vittore[1293],
in Vienna d'Austria, mentre era nell'anno cinquantanovesimo dell'età
sua. Dione scrive d'aver avuto riscontri accertati, esser egli stato
tolto dal mondo, non già dalla malattia, ma dai medici che Commodo
avea guadagnati per sì esecrabile azione. Forse l'odio universale, in
cui, siccome vedremo, incorse Commodo, diede origine e fomento a
questa voce.

L'afflizione dell'armata fu incredibile per la perdita di questo
principe, perchè quantunque egli fosse assai ritenuto a regalare i
soldati, e lontano da quelle esorbitanti liberalità che altri
imperadori aveano usato per tenersi ben affette le milizie; e tuttochè
egli volesse una rigida disciplina ed impiegati in continui esercizii
i soldati, pure teneramente era amato da tutti: frutto della sua gran
bontà e giustizia. Non fu minore l'affanno[1294] che ne provò Roma e
le provincie, gridando tutti che era morto il lor fortissimo capitano
e un principe che non avea pari. Portate a Roma le sue ceneri, furono
collocate verisimilmente nel mausoleo di Adriano, e fatta la di lui
deificazione secondo l'empio rito di allora. Venne poi riguardato qual
sacrilego, chi da lì innanzi non tenne la di lui immagine in
casa[1295], e restò sempre anche appresso i posteri in tal onore la di
lui memoria, come di principe ottimo, che fino il satirico Giuliano
Apostata[1296] il collocò in cielo sopra Augusto, sopra Trajano e
sopra gli altri rinomati regnanti. Non mancarono certamente dei
difetti in Marco Aurelio: e chi mai ne va senza? La stessa sua bontà,
e l'abborrimento ad ogni severità di gastigo non potò far di meno che
non cagionasse qualche disordine con abusarsene i cattivi. E il non
aver frenate le dissolutezze della moglie; l'aver eletto per suo
collega _Lucio Vero_, che nol meritava; ma sopra tutto l'aver voluto o
permesso che fosse successor suo nell'imperio chi n'era sì indegno,
recò non poca taccia al suo nome. Contuttociò tali e tante furono le
virtù sue, che tutti gli antichi scrittori s'accordano in iscusare
que' pochi difetti che in lui si osservarono. Imperocchè, oltre al
molto che ne ho già detto di sopra, il solo esempio del grave, onesto
e virtuoso suo vivere, servì, a riformar non poco i costumi sregolati
de' Romani. Suo uso fu anche di mettere negli uffizii chi egli credeva
più dabbene e più utile al pubblico; e perchè niuno ordinariamente si
trovava che fosse perfetto, diceva[1297]: _Essere impossibile a noi il
fare gli uomini, come noi li vorremmo; e che però conveniva valersi di
loro, come sono, cercando solamente i men difettosi fra gli altri._
Gli diede veramente la natura un corpo debole, o pure il provvide
bensì di assai vigore, perchè in gioventù era robusto, facea gli
esercizii militari, uccideva alla caccia i cignali; ma poi creduto fu
che l'applicazione agli studi l'indebolisse e gli cagionasse molti
incomodi di salute. Contuttociò al pari de' più vigorosi tollerava le
fatiche; e già si è veduto quanti viaggi egli facesse, e quanto tempo
restasse esposto agl'incomodi della guerra. La beneficenza gli stette
sopra tutto a cuore; a questa sognata deità eresse anche un tempio in
Roma. Da alcuni si desiderò in lui la magnificenza, e si sarebbe
voluto più liberale; ma con censura indebita, perchè egli non ammassò
mai pecunia per sè; ed era bensì buon economo del danaro, ma per
valersene solamente in bene del pubblico, senza mai accrescere gli
aggravi ai popoli, con isminuirli alle occorrenze e con soccorrere
sempre ne' bisogni le persone di merito. Non la finirebbe mai chi
volesse riandar le belle massime ch'ebbe questo principe per regolare
non men sè stesso che gli altri. Ne lasciò egli anche una perenne
memoria in dodici libri, che abbiam tuttavia, _delle cose sue_,
commentati da Merico Casaubono e da Tommaso Gatachero. Sono memorie
delle meditazioni sue, concernenti il meglio della filosofia stoica,
scritte in greco, come gli venivano in mente, con istile semplice, ma
purissimo, ed altamente commendato dagl'intendenti. Per questi libri,
ma più per la vita e per le azioni sue, egli si meritò il titolo di
_filosofo_, ed è specialmente conosciuto sotto nome di _Marco Aurelio
Antonino il Filosofo_. La vita, che si legge di lui, composta da
Antonio da Guevara, vescovo spagnuolo di Mondognetto, è un'impostura,
che nondimeno può esser utile a chi ne voglia far la lettura.
Fiorirono poi[1298] sotto questo letterato principe molte persone
dottissime, fra le quali io solamente rammenterò _Luciano
Samosatense_, il cui faceto, erudito e vivacissimo stile si ammira nei
suoi libri, ma che più sarebbe degno di stima, s'egli non facesse
un'aperta professione d'empietà. _Lucio Apulejo_, scrittore della
medesima tempra, si crede che fiorisse in questi tempi; ed è certo che
_Galeno_, o sia _Gallieno_, medico rinomatissimo, gran tempo visse
nella corte di Marco Aurelio. Così _Pausania_, _Aristide_, _Polieno_,
_Artemidoro_, _Aulo Gellio_, e forse _Sesto Empirico_, fiorirono in
questi tempi, e di loro ci restano libri, per tacere di tanti altri,
de' quali l'opere si son perdute. Restò dunque dopo la morte di _Marco
Aurelio_ al governo dell'imperio romano _Lucio Aurelio Antonino
Commodo_, molto prima dichiarato imperadore augusto, di cui parlerò
all'anno seguente. Ed io comincio ora a contare gli anni del suo
imperio, non avendo osato di farlo finora, perchè non parmi per anche
ben certo il principio del suo imperio augustale. Trovasi egli,
siccome già accennai, da qui innanzi nominato per lo più _Marco
Aurelio Commodo_, avendo egli assunto il prenome del padre, ma senza
avere ereditata alcuna delle di lui virtù che nel mostrassero degno
suo figlio.

NOTE:

[1281] Noris, Epist. Consul.

[1282] Gruterus, Thes. Inscript., p. 1095, n. 1.

[1283] Pagius, in Crit. Baron.

[1284] Reland., in Fastis.

[1285] Thesaurus Novus Inscription., p. 339, n. 5.

[1286] Herodianus, Histor., lib. 1.

[1287] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1288] Dio, lib. 71.

[1289] Julianus, de Caesarib.

[1290] Vulcat., in Commodo.

[1291] Dio, lib. 71.

[1292] Tertullianus, in Apologetico, cap. 25.

[1293] Aurelius Victor, in Epitome.

[1294] Herodianus, Histor., lib. 1.

[1295] Capitolinus, in Marco Aurelio.

[1296] Julianus, de Caesarib.

[1297] Dio, in Excerptis Vales.

[1298] Tillemont, Mémoires des Empereurs.




    Anno di CRISTO CLXXXI. Indizione IV.

    ELEUTERIO papa 11.
    COMMODO imperadore 2.

_Consoli_

MARCO AURELIO ANTONINO COMMODO AUGUSTO per la terza volta, e LUCIO
ANTISTIO BURRO.


_Antistio Burro_ console in quest'anno era cognato di Commodo Augusto,
perchè marito di una di lui sorella. Imperciocchè Marco Aurelio avea
procreato da Faustina, oltre a Commodo, due o tre altri maschi, che
mancarono in tenera età, e varie femmine, cioè _Lucilla_ maritata a
_Lucio Vero_, poscia a _Claudio Pompejano_, e _Fadilla_ e _Vibia
Aurelia_ e _Domizia Faustina_, e forse alcun'altra. Una di esse fu
data in moglie al suddetto _Burro_, ed un'altra a _Petronio
Mamertino_, personaggi tutti scelti dal padre per generi in riguardo
della loro sperimentata saviezza. Assunse nell'anno precedente Commodo
Augusto il governo della romana repubblica. Era egli nato[1299] nel dì
31 d'agosto dell'anno 161, giorno natalizio anche del bestiale e
crudel Cajo Caligola, sul cui modello tagliato fu parimente
quest'altro. Non avea mancato il di lui buon padre di procurargli
tutti i possibili mezzi, affinchè fosse ben educato ne' costumi ed
istradato nelle buone arti e nelle lettere. Suo maestro fu nella
lingua ed erudizione greca _Onesicrato_; nella latina _Antistio
Capella_, e nell'eloquenza _Attejo Santo_ o _Santio_. Non ne ricavò
egli profitto alcuno: tanto potè l'indole cattiva; imperciocchè egli
nulla ebbe dell'ottimo suo padre, e solamente in lui passarono le
magagne della madre infame, con essersi fin creduto, siccome già
accennai, averlo essa conceputo da un gladiatore, nel cui amore era
perduta. In fatti di buon'ora comparve inclinato alla crudeltà, alla
libidine, e dedito solamente a discorsi osceni, a saltare, a fare il
buffone e il gladiatore, con altri costumi propri della vil canaglia.
Non avea che dodici anni, quando in villeggiare a Centocelle, oggidì
Cività Vecchia, perchè non trovò assai calda l'acqua del bagno, ordinò
che il deputato del bagno fosse gittato in una fornace; e bisognò che
il suo aio _Pitolao_ fingesse di ubbidirlo non far bruciare una pelle
di castrone. Non poteva egli sofferir le persone dotate di probità,
che il padre gli avea messo appresso; solamente gli davano nel genio i
cattivi; e perchè il padre glieli levò d'attorno, si ammalò di rabbia.
Il troppo indulgente genitore non tenne saldo; laonde egli cominciò di
buon'ora a far bettola in sua camera, e praticar giuochi d'azzardo, ad
ammettere donne di vita cattiva, ad essere sboccato di lingua. Con
questo bell'apparato di vizii, coperti nondimeno fin qui, e non
passati alla vista del popolo, si trovò egli solo sul trono. Tuttavia
si può credere che non tanti allora fossero i suoi difetti, o
certamente che fossero coperti, e non passati agli occhi del popolo,
perchè Erodiano[1300], più vicino di lunga mano a questi tempi, non ci
fa un sì brutto ritratto della gioventù di Commodo.

Era egli, siccome dissi, in Ungheria coll'armata. Dopo i funerali del
padre, per consiglio de' parenti ed amici fece una bella allocuzione
all'esercito, e gli dispensò un abbondante donativo. Ma perciocchè
presso lui gran potere avea chi era più cattivo e sapea più adulare,
costoro non tardarono ad esagerar le delizie di Roma, e a dir quanto
male sapeano del brutto soggiorno del Danubio, tanto che l'indussero a
determinare di abbandonar l'armata e di venirsene in Italia. Preso il
pretesto di temere che alcuno in Roma si facesse dichiarare
imperadore, pubblicò il suo disegno. Tante ragioni nondimeno gli
addusse _Pompejano_ suo cognato, che il fermò per qualche tempo in
quelle parti, per terminare con qualche onore la guerra. Secondochè
s'ha da Erodiano, riuscì ai suoi generali di domar qualcheduno di quei
popoli barbari. Condusse Commodo gli altri alla pace, con regalarli
ben bene impiegando l'erario ch'egli avea trovato ben provveduto. Se
si vuol credere ad Eutropio[1301], felicemente egli combattè contro ai
Germani; ma non apparendo dalle medaglie ch'egli prendesse nuovo
titolo d'_Imperadore_ nell'anno precedente, o niuno o di poco rilievo
dovettero essere le sue vittorie. Certo è bensì, che egli con
condizioni anche svantaggiose, e a forza di danaro, comperò la pace,
perchè troppo gli stava a cuore di cangiare quell'aspro cielo nel
delizioso di Roma. Venn'egli finalmente accolto per tutte le città
dove passò con solenne allegria; e il senato e, per così dire, tutta
Roma con corone di alloro gli fece un festoso incontro. I più
considerandolo figliuolo di sì buon padre, veggendolo sì bel giovane,
con occhi vivi, con bionda zazzera, tale che parea sparsa sul suo capo
una pioggia d'oro, si figuravano maraviglie di lui; e però tra le
infinite acclamazioni, accompagnato da gran profusione di fiori e di
corone, entrò Commodo in Roma. Fu al senato, e recitò un'orazione che
contenea solamente delle inezie. Dione[1302], il quale comincia qui a
raccontar cose da lui stesso vedute, scrive ch'egli fece gran pompa
dell'aver dato soccorso al padre Augusto, che era caduto in una fossa
fangosa. Se il mese _romano_ fu, come pensa il Salmasio, novembre,
l'arrivo a Roma di Commodo seguì nel dì 22 di ottobre[1303]; ma è cosa
dubbiosa. Fece egli un ragionamento anche ai soldati di Roma, con
lodare la lor fedeltà. E che desse loro il consueto regalo e al popolo
un congiario, pare che si ricavi dalle medaglie. Procedente egli
console per la terza volta nell'anno presente; ed in questo ancora,
per attestato d'Eusebio[1304], egli trionfò dei Germani, ma con dare
una bella mostra dell'animo suo corrotto: perchè nello stesso cocchio
trionfale dietro a sè condusse un infame suo liberto, appellato
Antero, e l'andò baciando più volte pubblicamente, volgendo la faccia
indietro. Lo stesso praticò nell'orchestra a vista d'ognuno. Vivente
anche il padre, avea Commodo senza alcun merito conseguito il bel
titolo di _Padre della Patria_. In quest'anno l'adulazione gli conferì
ancor quello di _Pio_, che s'incontra nelle medaglie[1305], ma non già
quello di _Felice_, come va credendo il Tillemont[1306].

NOTE:

[1299] Vulcat., in Commodo.

[1300] Herodianus, Histor., lib. 1.

[1301] Eutrop., in Breviar.

[1302] Dio, lib. 72.

[1303] Lampridius, in Commodo.

[1304] Euseb., in Chronic. Edition. Pont.

[1305] Mediobarb., in Numism. Imperator.

[1306] Tillemont, Mémoires des Empereurs.




    Anno di CRISTO CLXXXII. Indizione V.

    ELEUTERIO papa 12.
    COMMODO imperadore 3.

_Consoli_

POMPONIO MAMERTINO e RUFO.


Non ho io osato di chiamare altrimenti questi due consoli, perchè non
veggo sicurezza negli altri nomi. Certo è che il primo fu cognato di
Commodo Augusto, perchè avea per moglie una di lui sorella. Il
Panvinio[1307], seguitato da molti altri, chiamò il secondo console
_Trebellio Rufo_. Perchè il Relando[1308] pubblicò un'iscrizione
gudiana, posta nelle calende di marzo, C. PETRONIO MAMERTINO ET
CORNELIO RUFO COS., tanto esso Relando che il Bianchini[1309] e lo
Stampa[1310], stabilirono con tali nomi i consoli dell'anno presente.
Ma sarebbe prima da vedere se si possa riposar sulla fede de' marmi
riferiti dal Gudio. Il Fabretti[1311] porta un mattone, dove egli
lesse VETTIO RUFO ET POMP. MATER. COS. Probabilmente ivi si dee
leggere POMP. MAMER., cioè Pomponio Mamertino: il che se fosse,
l'altro console sarebbe stato _Vettio Rufo_, e non già _Trabellio_, o
_Cornelio Rufo_. _Velio Rufo_ vien posto fra i consoli da
Lampridio[1312]. Probabilmente egli scrisse _Vettio Rufo_. Crede poi
il suddetto Panvinio, che nelle calende di luglio fossero sostituiti
nel consolato _Emilio Junto_ o _Junzio_, ed _Atilio Severo_. Abbiam di
certo, che amendue furono consoli, ma non apparisce già che in
quest'anno. Anzi essendo essi stati esiliati, in tempo che Commodo si
abbandonò alla crudeltà, si dee credere che il lor consolato accadesse
molto più tardi. In questi primi tempi, secondo ciò che s'è anche
veduto di Tiberio, di Caligola, di Nerone e di Domiziano, anche
l'Augusto Commodo fece un buon governo. Onorava egli i consiglieri ed
amici del padre[1313], nulla risolveva senza il loro parere.
L'autorità di questi savi personaggi teneva in qualche freno le
sregolate passioni di questo giovinastro. E probabilmente è da
riferire all'anno presente ciò che racconta Dione[1314], cioè che
_Manilio_, il qual era stalo segretario delle lettere latine di
_Avidio Cassio_, della cui ribellione parlammo di sopra, e molta
possanza avea avuto sotto di lui, finalmente fu scoperto e condotto a
Roma. Prometteva egli di rivelar molti segreti; ma Commodo, per
consiglio, come possiam credere, de' saggi suoi ministri, non
solamente non volle ascoltarlo, ma fece anche bruciar tutte le di lui
lettere o carte, senza curarsi di leggerne pur una. Questa bella
azione diede speranza al senato e al popolo, ch'egli non volesse
essere da meno del padre. E perciocchè Commodo compariva in pubblico
con gran magnificenza, e faceva spiccare dappertutto la sua
leggiadria, l'ignorante popolo dicea _oh bello_! e si rallegrava
d'avere un principe sì grazioso. Ma non così la sentivano quei che il
praticavano, ed aveano miglior conoscenza delle di lui perverse
inclinazioni, che di giorno in giorno s'andavano meglio spiegando.
Truovasi egli in qualche medaglia[1315] dell'anno presente proclamato
_Imperadore per la quinta volta_. Dione[1316] parla della guerra fatta
contra de' Barbari di là della Dacia. E Lampridio[1317] scrive che
quei popoli rimasero sconfitti dai legati, cioè dai luogotenenti
generali dell'imperadore. Questi furono _Albino_ e _Negro_, de' quali
si parlerà a' tempi di Severo imperadore. Ciò probabilmente succedette
nell'anno presente, e per qualche loro vittoria si accrebbero i titoli
a Commodo senza sua fatica.

NOTE:

[1307] Panvin., in Fast. Consular.

[1308] Reland., Fast. Cons.

[1309] Blanchin., ad Anast. Bibliot.

[1310] Stamp., Fast. Cons. Sigon.

[1311] Fabrettus, Inscript., pag. 511.

[1312] Lampr., in Commodo.

[1313] Herodianus, Histor., lib. 1.

[1314] Dio, in Excerptis Valesianis.

[1315] Mediobarbus, in Numism. Imperator.

[1316] Dio, lib. 72.

[1317] Lampridius, in Commodo.




    Anno di CRISTO CLXXXIII. Indizione VI.

    ELEUTERIO papa 13.
    COMMODO imperadore 4.

_Consoli_

MARCO AURELIO ANTONINO COMMODO AUGUSTO per la quarta volta, e CAJO
AUFIDIO VITTORINO per la seconda.


Perchè abbiamo una nobile iscrizione, già pubblicata da monsignor
della Torre, che si legge anche nella mia raccolta[1318], luogo non
resta a disputare dei nomi di questi consoli. E di qui ancora può
risultare qual fede si possa avere alle iscrizioni del Gudio. Una di
esse, riferita anche dal Relando[1319], si dice posta IDIBVS OCTOBRIS
M. AVRELIO COMMODO IIII. ET M. AVRELIO VICTORINO COS. Ecco qual
capitale si possa far di quelle merci. Da un marmo, di cui non si può
trovare un più autentico, siamo assicurati che quel console si
chiamava _Cajo Aufidio_, ed esso nell'emporio gudiano ci comparisce
_Marco Aurelio_. Ora questo _Cajo Aufidio Vittorino_[1320] fu uno de'
più insigni senatori ed oratori del suo tempo, carissimo già a Marco
Aurelio Augusto, di modo che giunse ad essere non solamente prefetto
di Roma, ma console due volte. Di lui racconta Dione[1321], che
essendo governatore della Germania molti anni prima, certificato che
il suo legato, o sia luogotenente, prendeva de' regali, l'ammonì in
segreto di desistere da quell'abuso. Veggendo di non far frutto, un dì
assiso sul tribunale alla vista di ognuno, si fece citar dall'araldo a
giurare di non aver mai preso regali, e di non essere per prenderne,
finchè vivesse. Appresso fu esibito il giuramento medesimo al legato,
il quale convinto dalla coscienza e dal timore di chi potea deporre
contra di lui, ricusò il giurare. Vittorino immantinente il licenziò.
Essendo anche proconsole in Africa, trovò un altro legato, che
zoppicava dello stesso piede. Ed egli, senza far altre cerimonie, il
fece imbarcare, e rimandollo a Roma. Da che, siccome vedremo, Commodo
cominciò ne' tempi seguenti a mietere le vite de' più accreditati
senatori, più volte fu detto che anch'egli era in lista. Mosso da
questa voce Vittorino, francamente andò a trovar _Perenne_, prefetto
allora del pretorio, e gli disse d'aver inteso che si volea farlo
morire, ed aggiunse: _Se è così, che state a fare? Ora è il tempo._ Fu
lasciato in vita, e morto poi di morte naturale, ebbe l'onore di una
statua. Quanto a _Perenne_ poco fa nominato, costui[1322] per la sua
perizia della disciplina militare, fu alzato da Commodo al grado di
prefetto del pretorio, o sia di capitano delle guardie, quale ancora
_Tarrutino_ o sia _Tarrutenio Paterno_[1323]. Costui fu la rovina del
padrone, perchè andò tanto innanzi nella confidenza e grazia di lui
che diventò poi l'arbitro del governo. La sete di accumular tesori si
potè dire in lui inesausta. Quasi che un nulla fossero i già
guadagnati, tutto era egli sempre ansante a procacciarne de' nuovi. E
gli se ne presentò ben presto l'occasione, siccome vedremo. Intanto
convien avvertire i lettori, che gli avvenimenti in questi tempi non
si possono compartire per gli loro precisi anni, perchè le storie che
restano raccontano bensì i fatti, ma senza indicarne la cronologia.
Però solamente a tentone si andran riferendo le cose sotto gli anni
seguenti. Nel presente le medaglie[1324] ci avvisano che Commodo
Augusto fu proclamato _per la sesta volta Imperadore_, ma senza
apparire per qual vittoria. Il Tillemont[1325] la crede riportata
nella guerra che si accese nella Bretagna; ma questa vittoria, per
quel che dirò, sembra più tosto appartenere all'anno seguente.
Verisimile è più tosto, che in quest'anno ancora i generali cesarei in
Germania, come conghietturò il Mezzabarba, dessero qualche rotta ai
Barbari di quelle contrade. Parlano le stesse monete di un viaggio di
Commodo, di cui niun vestigio s'ha nella storia; siccome ancora di una
sua _munificenza_: indizio di qualche congiario dato al popolo. Ma
delle stesse monete si incontrano degl'imbrogli, o perchè non sincere,
o perchè non assai attentamente copiate.

NOTE:

[1318] Thesaur. Novus Inscript., pag. 340, n. 2.

[1319] Reland., in Fastis.

[1320] Capitol., in Marco Aurelio.

[1321] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1322] Herodianus, Histor., lib. 1.

[1323] Lampridius, in Commodo.

[1324] Mediobarb., in Numism. Imper.

[1325] Tillemont, Mémoires des Empereurs.




    Anno di CRISTO CLXXXIV. Indizione VII.

    ELEUTERIO papa 14.
    COMMODO imperadore 5.

_Consoli_

LUCIO COSSONIO EGGIO MARULLO e GNEO PAPIRIO ELIANO.


Al primo console _Marullo_ ho io aggiunto il nome di _Cossonio_,
ricavato da un'iscrizione, esistente nel Museo Capitolino, data alla
luce da monsignor Torre, e prodotta anche nella mia raccolta[1326]. In
una iscrizione del Gudio, rapportata dal Relando[1327], il primo
console si vede chiamato _Marco Marullo_, quando è certissimo che il
suo prenome fu _Lucio_. Il secondo comparisce ivi col nome di _Giunio
Eliano_; e pure nell'altre iscrizioni troviamo costantemente _Gneo
Papirio Eliano_: tutte pruove che i fasti e l'erudizione antica
debbono aspettar dal Gudio, in vece di un sicuro rinforzo, della
confusione. Era, dissi, insorta una fiera guerra nella Bretagna[1328],
guerra la più lunga che si avesse Commodo ai suoi dì. Aveano i Barbari
passato il muro, posto da Antonino Pio ai confini, e tagliato a pezzi
il general romano con tutte le milizie che erano ivi di guardia.
Portata questa funesta nuova a Roma, il vile Commodo tutto impaurito
spedì tosto colà _Ulpio Marcello_, uomo di grand'animo, e di raro
valore; chè di tali persone non era già perduto il seminario in Roma.
Questi, per attestato di Dione, uomo modesto e severo, ma di una
severità che si accostava all'asprezza, fece più volte conoscere la
sua bravura ne' combattimenti, nè mai si lasciò invischiare dall'amor
de' regali e della pecunia. Era vigilantissimo, e per maggiormente
comparir tale, e tener anche vigilanti gli uffiziali di guerra, solea
qualche sera scrivere dodici biglietti, con ordine ai suoi servi di
portarli in varie ore della notte a diversi d'essi ufficiali,
acciocchè credessero ch'egli allora vegliasse. Non si distingueva egli
nel mangiare e vestire dai semplici soldati; anzi, per mangiar meno,
si facea venire con bizzarria quasi incredibile fin da Roma il pane,
come ognun può credere, ben secco e duro. Questo bravo uomo adunque
gravissimi danni recò a que' Barbari, e dovette dar loro una gran
rotta, per cui si osserva nelle medaglie[1329] che Commodo Augusto
conseguì in questo anno non solamente _per la settima volta_ il titolo
d'_Imperadore_, ma anche quello di _Britannico_[1330]. Era egli già
stato appellato _Pio_, adulatoriamente senza fallo, perchè egli nulla
mai fece, per cui meritasse così bell'elogio. Nell'anno presente si
aggiunse a' suoi titoli quello di _Felice_. L'esempio suo servì poi ai
susseguenti Augusti per più secoli, acciocchè cadaun d'essi fosse
chiamato _Pio Felice_.

Se non succedette nell'anno precedente, si dovrà almeno attribuire al
presente la prima congiura tramata contra di Commodo. Abbiamo da
Erodiano[1331] ch'egli per _pochi anni_ stette in dovere, e però
probabil cosa è che in questo si sovvertisse il di lui ingegno, e che
cominciasse il suo precipizio. Merita ben più di Lampridio d'essere
qui ascoltato Erodiano, siccome storico che visse in que' tempi e
soggiornò in Roma. Quel mal arnese adunque di _Perenne_ prefetto del
pretorio, per dominar solo, avea già staccati dal fianco del giovane
Augusto i migliori suoi consiglieri, con far subentrare in lor luogo
una frotta di persone vili, e maneggiava già solo tutti gli affari:
dal che può essere che prendesse origine l'odiosità dei buoni contra
di Commodo. Comunque sia, la prima pietra dei disordini fu posta da
_Lucilla_ figliuola di Marco Aurelio, e sorella dello stesso Commodo.
Per essere stata moglie di _Lucio Vero_ imperadore, il padre, tuttochè
la rimaritasse con _Claudio Pompejano_, pure le lasciò il titolo e gli
onori di Augusta; ed essa nel teatro soleva assidersi in una sedia
imperatoria, ed uscendo fuor di casa, le era portato innanzi il fuoco,
come si faceva agli Augusti. Sposata che fu _Crispina_ da Commodo, si
vide obbligata _Lucilla_ a cederle il primo luogo; ma gliel cedette
con immensa rabbia, credendo fatto a sè stessa un gran torto per la
sua anzianità in quell'onore, e da lì innanzi ne cercò sempre la
vendetta. Non si arrischiò mai a parlarne con _Pompejano_ suo marito,
perchè sapeva quant'egli amasse Commodo. Passava fra lei e _Quadrato_,
giovane nobilissimo e ricchissimo, appellato mastro di camera di
Commodo da Dione[1332], una stretta ed anche peccaminosa amicizia. Le
tante querele di Lucilla trassero questo giovane a formar una
cospirazione contro la vita di Commodo, in cui entrarono alcuni
senatori ancora. Scelto fu per eseguir l'impresa un giovane di grande
ardire per nome _Quinziano_. Lampridio il chiama _Claudio Pompejano_:
sbaglio probabilmente suo o de' copisti, benchè anco lo stesso scriva
Zonara[1333], anzi dice che fu lo stesso marito di Lucilla: errore
massiccio. Ora Quinziano ito a postarsi in luogo stretto e scuro
dell'entrata dell'anfiteatro, stette aspettando che arrivasse Commodo;
ed allorchè il vide, sfoderato un pugnale, che tenea sotto nascosto,
mattescamente gliel fece vedere con dire: _Questo te lo manda il
senato_, e gli si avventò addosso. Se crediamo ad Ammiano[1334], gli
diede qualche ferita. Erodiano e Lampridio nol dicono. Certo è che
lasciò tempo a Commodo di difendersi o di scappare. Preso dunque dalle
guardie lo sconsigliato Quinziano, e messo ai tormenti da _Perenne_,
rivelò i complici. Fu perciò relegata _Lucilla_ nell'isola di Capri, e
quivi da lì a qualche tempo uccisa. Tolta fu la vita a _Quinziano_, a
_Quadrato_, ad _Eletto_, mastro anch'esso di camera di Commodo[1335];
e per attestato di Lampridio[1336], fecero il medesimo fine _Norbana_,
_Norbano_ e, _Parelio_ colla madre sua. Il peggio fu, che il pugnale e
l'assalto di Quinziano, e più le parole da lui proferite, restarono
talmente impresse nella mente di Commodo, che sempre gli parea d'aver
davanti agli occhi quello spettacolo, e da lì innanzi cominciò ad
odiar tutti i senatori, come se veramente tutti avessero cospirato
contra di lui, ed ordinato a Quinziano di fargli quel brutto
complimento. Seppe ben prevalersi di questa congiuntura Perenne, per
empiere di paura l'incauto principe, ed accrescere i suoi odii contra
de' più ricchi e potenti, con lavorar poi di calunnie a fine di
processarli, e di arricchir sè stesso coi loro beni.

NOTE:

[1326] Thesaurus Novus Inscription., pag. 342.

[1327] Reland., in Fastis.

[1328] Dio, lib. 72.

[1329] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[1330] Lampridius, in Commodo.

[1331] Herodianus, Histor., lib. 1.

[1332] Dio, l. 72.

[1333] Zonaras, in Annalib.

[1334] Ammianus, lib. 29.

[1335] Dio, lib. 72.

[1336] Lampridius, in Commodo.




    Anno di CRISTO CLXXXV. Indizione VIII.

    ELEUTERIO papa 15.
    COMMODO imperadore 6.

_Consoli_

MARCO CORNELIO NEGRINO CURIAZIO MATERNO e MARCO ATTILIO BRADUA.


Il Relando[1337] non mette se non i cognomi di _Materno_ e _Bradua_.
Al Panvinio[1338], seguitato dal padre Pagi[1339], parve il primo
_Triario Materno_, solamente perchè sotto Pertinace si trovava un
senatore di tal nome: pruova troppo fievole. Gli ho io dato que' nomi,
mosso da un'iscrizione da me pubblicata nella mia raccolta[1340]. Il
nome dell'altro console _Bradua_ si raccoglie da un'iscrizione dello
Smirne, che pur ivi si legge. Trovandosene un'altra posta MATERNO ET
ATTICO COS., potrebbe essere che questo Attico fosso stato sostituito
a _Bradua_. Sino all'anno presente arrivò la vita di _santo Eleuterio_
romano pontefice, secondo la cronica di Damaso[1341]. Nel martirologio
egli porta il titolo di _Martire_; ma non è certo ch'egli desse il
capo per la confessione della religion di Cristo. Saggiamente osservò
il cardinal Baronio[1342], che ne' primi secoli il nome di _Martire_
fu conferito a coloro eziandio che sofferirono vessazioni o tormenti
per la fede di Cristo, benchè non morissero ne' tormenti. San Cipriano
non ce ne lascia dubitare. Al che si dee avere riguardo anche per
altri primi romani pontefici, tutti ornati di sì glorioso titolo,
senza che resti più precisa memoria della lor morte nel martirio. Per
questa cagione alcuni d'essi da _santo Ireneo_, celebre vescovo di
Lione, che fiorì in questi tempi, sono considerati solamente come
_Confessori_. A santo _Eleuterio_ fu sostituito _Vittore_ nella
cattedra di san Pietro, i cui anni cominceremo a contare nell'anno
seguente, seguendo la cronologia del padre Pagi e del Bianchini. A me
sia lecito di riferire a quest'anno altri sconcerti della corte di
Commodo e della nobiltà romana. Gran riputazione e potenza godeva in
quella corte Antero, infame suo liberto[1343]. Era costui stato alzato
al grado di mastro di camera da Commodo, a cui nello stesso tempo
serviva per ministro nelle disonestà. L'odio universale contra di
questo cattivo strumento cresceva ogni dì più, e andava poi a
terminare contra dello stesso Commodo, il quale spasimava per lui.
Sofferì un pezzo _Tarrutino_ o sia _Tarrutenio Paterno_, prefetto del
pretorio, costui; ma finalmente un dì rotta la pazienza, fattolo con
galanteria uscir di palazzo col pretesto d'un sagrificio, nel tornare
che egli faceva a casa, il fece assassinare ed uccidere da alquanti
sgherri. Diede nelle smanie Commodo per questo, e ne fu più cruccioso
di quel che fosse stato nel pericolo della vita ch'egli avea corso per
l'assalto di Quinziano. Avuto sufficiente sentore che _Paterno_ era
stato autore del colpo, col consiglio di _Tigidio_, e fors'anche di
_Perenne_, il quale prese questa congiuntura per tagliar le gambe al
compagno, il creò senatore, levandolo in tal guisa dal pretorio, sotto
specie di promuoverlo a grado più cospicuo. Ma non andò molto che fece
accusare Paterno di una congiura, apponendogli d'aver promessa sua
figliuola a _Salvio Giuliano_, nipote di _Giuliano_ celebre
giurisconsulto, per farne poscia un imperadore[1344]. Se avessero
avuto questo disegno Paterno e Giuliano, nulla mancava loro per
eseguirlo, comandando il primo alle guardie e l'altro a qualche
migliaio di soldati. Perciò amendue perderono la vita, e con esso loro
_Vitruvio Secondo_, segretario delle lettere dell'imperadore, perchè
era confidentissimo di Paterno. Nella stessa disgrazia rimasero
involti _Velio_ o sia _Vettio Rufo_ ed _Egnazio Capitone_, stati
consoli amendue. _Emilio Junto_ ed _Atilio Severo_, consoli sostituiti
(se pure in quest'anno succedette la morte di Antero), furono mandati
in esilio. Anche _Quintilio Massimo_ e _Quintilio Condiano_, già stato
console, due de' più riguardevoli personaggi che si avesse il senato,
amatissimi per la lor singolare saviezza da Marco Aurelio, e adoperati
nei primi posti militari e civili, furono in tal occasione tolti dal
mondo, e finì la lor casa. Narra Dione che fu condannato anche _Sesto
Quintilio_ figliuolo di Massimo. Precorsa a lui questa nuova, mentre
era in Soria, fece finta di cader da cavallo, e d'essere morto, e da'
suoi famigliari invece fu portato alla sepoltura un montone. Andò egli
dipoi, mutando sempre abito, vagabondo per vari paesi, nè più si seppe
nuova di lui, e ciò fu la rovina di molti, perchè essendo ricercato
dappertutto, le teste di non pochi innocenti furono portate a Roma,
pretese quella di Sesto, e rimasero altri spogliati di beni col
pretesto che gli avessero dato ricovero. Mancato poi di vita Commodo,
comparve persona a Roma che sosteneva d'essere Sesto, e rispondeva a
proposito a tutti gli esami. Pertinace scoprì la furberia, facendogli
delle interrogazioni in greco, lingua ch'egli sapeva essere già ben
intesa da Sesto; e qui s'imbrogliò l'impostore, perchè non capiva le
interrogazioni. V'era presente Dione. _Didio Giuliano_, che fu poi
imperadore, corse anch'egli pericolo della vita, per l'accusa datagli
d'aver tenuta mano alla congiura con Salvio Giuliano. Commodo il fece
assolvere, e condannar l'accusatore[1345]. Dopo la caduta di Paterno,
restò prefetto del pretorio il solo _Perenne_[1346], con divenir
padrone totale della corte. Seppe egli persuadere a Commodo, giovane
timidissimo, che non si fidasse d'alcuno, e se ne stesse in ritiro,
attendendo ai piaceri mentre egli assumerebbe in sè le cure spinose
del governo. Così fu fatto. Commodo rade volte da lì innanzi si lasciò
vedere in pubblico, e chiuso come in un turchesco serraglio, s'immerse
affatto nel baratro della lussuria con trecento concubine, scelte
parte dalla nobiltà, parte dai postriboli, e con altra non minor turba
anche più infame. I conviti e i bagni erano una continua scuola di
intemperanza e di disonestà; faceva egli ancora de' combattimenti in
abito da gladiatore, co' suoi camerieri, e talvolta ancora con ispada
nuda, uccidendo alcun d'essi armati solamente di spade colla punta
impiombata. E intanto Perenne aggirava tutti gli affari, uccidendo
quei che voleva, altri assaissimi spogliando dei loro beni non solo in
Roma, ma anche per le provincie, conculcando tutte leggi, ed
ammassando senza ritegno alcuno tesori immensi. In questo misero stato
si trovava allora l'augusta città per la balordaggine e sfrenatezza
del suo regnante.

NOTE:

[1337] Reland., in Fastis.

[1338] Panvin., in Fast.

[1339] Pagius, Critic. Baron.

[1340] Thesaurus Novus Inscript., p. 343.

[1341] Anast., Bibliot.

[1342] Baronius, Annal. Eccles. ad annum 194.

[1343] Lampridius, in Commodo.

[1344] Dio, lib. 72.

[1345] Spartianus, in Juliano.

[1346] Lampridius, in Commodo.




    Anno di CRISTO CLXXXVI. Indizione IX.

    VITTORE papa 1.
    COMMODO imperadore 7.

_Consoli_

MARCO AURELIO COMMODO AUGUSTO per la quinta volta, e MANIO ACILIO
GABRIONE per la seconda.


Era già pervenuta al sommo la potenza di _Perenne_ prefetto del
pretorio, e l'abuso ch'egli ne faceva. Le tante ricchezze da lui
accumulate pareva che tendessero a guadagnarsi l'amore dei pretoriani,
qualora egli volesse tentar qualche tradimento contro la vita di
Commodo[1347]. Allo stesso fine sembrava che cospirassero le macchine
de' suoi giovani figliuoli, i quali portati da lui al governo
dell'Illirico, altro non faceano che ammassar gente. Può essere che in
mente sua non bollissero così alti disegni; certo è nondimeno, che
l'odio universale dava questa interpretazione a tutte le azioni di lui
e de' suoi figli. Di qua venne la rovina sua, narrata diversamente
nelle particolarità da Erodiano e da Dione[1348]. Abbiamo dal primo,
che celebrandosi in quest'anno i sontuosissimi giuochi capitolini, i
quali si solevano fare ad ogni quattro anni con immenso concorso di
popolo, ed assistendovi Commodo nella sedia imperatoria, prima che
gl'istrioni cominciassero le loro fatiche, comparve in iscena uno
vestito da filosofo con tasca al fianco, bastone in mano. Costui,
fatto silenzio colla mano, ad alta voce gridò verso Commodo,
dicendogli, quello non essere tempo da divertirsi in giuochi, perchè
_Perenne_ era in procinto di levargli la vita; per questo aver egli
adunate tante ricchezze; per questo i di lui figliuoli tante
soldatesche; e che se non vi provvedeva prontamente, egli era spedito.
Sperava fosse costui di veder subito una commozion del popolo contra
di Perenne, e poscia un bel premio dall'imperadore. Ma Commodo restò
solamente sbalordito, nè disse parola; il popolo, benchè gli prestasse
fede, nè pur esso fece movimento alcuno; e intanto Perenne, fatto
prendere il finto filosofo, ordinò che fosse bruciato vivo. Tuttavia
questo accidente diede campo a chi era presso all'imperadore, e volea
male a Perenne per la sua intollerabile alterigia, di far credere
forse più di quel ch'era, a Commodo. Gli mostrarono in oltre alcune
monete battute coll'immagine del figliuolo di esso Perenne, benchè si
credesse ciò fatto senza notizia del padre, e forse per manifattura
de' suoi emuli. In somma andò tanto innanzi la mena, che Commodo una
notte mandò alcuni a levar la testa a Perenne, e immediatamente spedì
gente a far venire in Italia dall'Illirico il di lui figlio maggiore,
prima che gli arrivasse l'avviso della morte del padre. Chiamato egli
con dolci lettere dall'imperadore, benchè mal volentieri, venne, ed
appena toccò l'Italia, che gli fu reciso il capo. Dione[1349] e
Lampridio[1350], il cui testo è qui imbrogliato, ben diversamente
scrivono, essere nata una sedizione nell'armata britannica, comandata
da _Ulpio Marcello_, perchè Perenne, levati via gli uffiziali
dell'ordine senatorio, ne avea mandati là degli altri dell'ordine
equestre. Ammutinatisi quei soldati, stavano sul duro, nè volendosi
quetare, giunsero a scegliere dal corpo loro mille e cinquecento
armati, e gl'inviarono a Roma a dir le loro ragioni. Commodo, allorchè
intese l'arrivo di essi, siccome era un coniglio, andò loro incontro
per saper la cagione di questa novità. Gli risposero di essere venuti
apposta per liberarlo dalle insidie di Perenne, ch'era dietro a far
imperadore un suo figliuolo. Commodo, quantunque non gli mancasse
tanta forza di pretoriani da assorbir questi pochi soldati, non gli
sprezzò; anzi prestò loro fede per istigazione principalmente di
_Cleandro_ suo mastro di camera, che odiava forte Perenne, come remora
all'adempimento di tutte le sue voglie. Però, tolta a Perenne la
carica di prefetto del pretorio, la diede ad altri e permise che i
soldati britannici tagliassero a pezzi Perenne, e non lui solo, ma
anche la moglie, la sorella e i due figliuoli di lui. Chi sia più
veritiero degli storici suddetti, non è in nostra mano il deciderlo.
Strano è che Dione, lungi dall'accordarsi con Erodiano e con Lampridio
nell'imputare a Perenne gli eccessi e disegni sopra narrati, ne faccia
un ritratto vantaggioso, con rappresentarlo continente, modesto, non
sitibondo di gloria e di danaro, buon custode della persona
dell'imperadore, in una parola indegno di quella morte: se non che il
confessa reo della caduta di _Paterno_ suo collega, procurata per
restar solo nel comando delle guardie principesche. Ci fan le
medaglie[1351] vedere in quest'anno Commodo Augusto non solamente
console per la quinta volta, ma anche proclamato _Imperadore per
l'ottava volta_. Pensano alcuni[1352] ciò fatto per una vittoria
riportata da _Clodio Albino_ contra i popoli della Frisia di là del
Reno, mentovata da Capitolino[1353]. Il Mezzabarba anch'egli si
credette di ricavar da esse medaglie un viaggio di Commodo, fatto in
quest'anno contra de' Mori, ovvero nella Pannonia, e una allocuzione
all'esercito colla vittoria pel ritorno e col congiario sesto dato al
popolo. Ma nulla di questo si ha dalle antiche storie, e però conviene
andar cauto a crederlo. Abbiam solamente da Lampridio[1354], ch'egli
fece mostra una volta di voler andare alla guerra in Africa a fin di
esigere le spese del viaggio. Esatte che l'ebbe, tutte se le consumò
in tanti banchetti e giuochi d'azzardo.

NOTE:

[1347] Herodianus, Histor., lib. 1.

[1348] Dio, lib. 72.

[1349] Dio, lib. 72.

[1350] Lampridius, in Commodo.

[1351] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[1352] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1353] Capitolin., in Clodio Albino.

[1354] Lampridius, in Commodo.




    Anno di CRISTO CLXXXVII. Indizione X.

    VITTORE papa 2.
    COMMODO imperadore 8.

_Consoli_

CRISPINO ed ELIANO.


Abbiamo di certo i soli cognomi di questi consoli. Incerti sono i lor
nomi. Il Panvinio[1355] li credette _Tullio Crispino_ e _Papirio
Eliano_, ma con troppo fievoli conghietture. Da che estinta rimase la
possanza e vita di Perenne, saltò su un altro dominante nella corte
imperiale, peggiore ancora dell'altro; e questi fu _Cleandro_[1356].
Costui, per attestato di Dione, era nato servo, cioè, come ora
diciamo, schiavo; e fra i servi venduto, fu condotto a Roma, dove
s'applicò al mestier di facchino. Tanto seppe fare costui introdotto
in corte, tanto seppe piacere alla testa sventata di Commodo, perchè
questi da fanciullo seco praticò, che a poco a poco salendo, arrivò ad
essere suo mastro di camera, con isposare Damostrazia, una delle
meretrici di esso imperadore. Prima di lui sosteneva questa carica
_Saoterio_ da Nicomedia con grande autorità, e quegli fu che ai suoi
compatriotti ottenne di poter celebrare i giuochi de' gladiatori, e di
alzar un tempio a chi sopra gli altri n'era indegno, cioè al medesimo
Commodo. Cleandro buttò giù questo Saoterio, e il fece ammazzare,
entrando dopo sì bel fatto nel posto di lui. Il Salmasio[1357]
sospettò che questo Saoterio fosse il medesimo che _Antero_, da noi
veduto di sopra mastro di camera di Commodo, ed ucciso. Ma lo stesso
Lampridio lo attesta assassinato per ordine dei prefetti del pretorio,
e non già di Cleandro. Ora, dopo la morte di Perenne, la padronanza
della corte si mirò unita in esso Cleandro. Ancorchè Commodo cassasse
molte cose fatte come senza ordine suo da Perenne[1358], non passarono
trenta giorni, che lasciò far di peggio a Cleandro; laonde tuttodì si
vedeano mutazioni in Corte. _Negro_, succeduto a Perenne nel posto di
prefetto del pretorio, nol tenne che sole sei ore; _Marzio Quarto_
cinque giorni solamente. E così a proporzione altri, che furono di
mano in mano o imprigionati o uccisi per ordine di Cleandro. L'ultimo
di questi tolti dal mondo fu _Ebuziano_; ed allora fu che Cleandro si
fece crear prefetto del pretorio con due altri scelti da sè, portando
nondimeno egli solo la spada nuda davanti all'imperadore. Questa fu la
prima volta che si videro tre prefetti del pretorio nello stesso
tempo[1359]. Essendo alla testa di essi pretoriani Cleandro, non vi fu
scelleraggine che da loro e dalle altre soldatesche romane non si
commettesse. Uccidevano, bruciavano, ingiuriavano chiunque loro
piaceva, e riparo non vi era. Commodo non aveva orecchi, unicamente
intento alle sue infami dissolutezze, a far correre cavalli, a guidar
egli stesso le carrette, ai combattimenti di gladiatori, e a cacce di
fiere, per lo più nel suo ritiro, talvolta ancora in pubblico.

Aveva egli dopo la morte di Perenne inviato in Bretagna _Elvio
Pertinace_[1360], siccome persona di gran credito e rigido osservatore
della disciplina militare, acciocchè riducesse al dovere quei soldati
tuttavia ammutinati e sediziosi. Perenne l'avea dianzi cacciato di
Roma dopo vari illustri suoi impieghi, ed egli si era ridotto alla
villa di Marte sullo Apennino nella Liguria, dov'era nato, e dove si
fermò per tre anni. Commodo, per risarcire il di lui onore, e valersi
in congiuntura di tanto bisogno di un uomo di tanta vaglia,
richiamatolo, il mandò colà per calmare que' torbidi con titolo di
legato. Andò, e trovò quelle milizie sì mal animate contro di Commodo,
che se un solo avesse alzato il dito, ed egli avesse acconsentito alle
loro istanze, l'avrebbono proclamato imperadore. Il tentarono in fatti
su questo, ma il trovarono uomo d'onore. Tenne egli per qualche tempo
in freno quelle milizie; ma un dì sollevatasi una legione, si venne
alle mani, e poco mancò ch'egli non restasse ucciso. Certamente fu
creduto morto, perchè con più ferite restò mischiato fra i cadaveri
degli uccisi; del che fece egli a suo tempo, cioè divenuto imperadore,
aspra vendetta. Dovrebbe appartenere all'anno presente un fatto
raccontato da Erodiano[1361], ed avvenuto non molto tempo dopo la
morte di Perenne. Un certo _Materno_ soldato, uomo di mirabil ardire,
essendo disertato, si unì con altri disertori, e formò un corpo di
gente accresciuto di mano in mano da chiunque avea voglia di far del
male, sino ad alcune migliaia. Con costoro cominciò egli a scorrere
per la Gallia e per la Spagna, dando il sacco non solamente alla
campagna, ma anche alle città, con poi abbruciarle, e mettendo in
libertà tutti i prigioni che si univano tosto con lui. Commodo scrisse
lettere di fuoco a quelle provincie; spedì colà _Pescennio
Negro_[1362], uomo di coraggio, il quale con _Settimio Severo_, allora
governatore di Lione, messo insieme un esercito, disperse quella
canaglia. Ma qui non si fermò Materno. Per varie strade, egli e le sue
genti, chi per una parte e chi per altra, calarono in Italia. Era
saltato in capo ad esso Materno di fare un gran colpo, cioè, giacchè
non potea competere colle forze di Commodo in aperta campagna, pensò
di ammazzarlo insidiosamente in Roma stessa. Gran festa si solea dai
Romani far nella primavera in onor di Cibele, chiamata madre degli
dii, dove tanto l'imperadore, quanto i particolari esponevano le più
preziose lor masserizie, ed era permesso ad ognuno di andar travestito
e mascherato. Il disegno di Materno era di frammischiarsi con vari dei
suoi fra le guardie di Commodo vestito alla stessa maniera, e di
svenarlo. Ma tradito prima del tempo da qualche suo compagno, fu preso
e giustiziato con gli altri. Pare che tal fatto succedesse nella
primavera di quest'anno; ma il padre Pagi[1363] lo differisce sino
all'anno 190, del che nondimeno egli non reca pruova sufficiente.
Commodo, ammaestrato da questo pericolo, tanto meno da lì innanzi
comparve in pubblico, e la maggior parte del tempo soggiornò nelle
ville fuori di città, senza prendersi alcun pensiero di amministrar
giustizia, nè far l'altre azioni pubbliche convenienti ad un
imperadore o necessarie al governo. In sua vece tutto faceva l'iniquo
Cleandro.

NOTE:

[1355] Panvin., in Fast. Consular.

[1356] Dio, lib. 72.

[1357] Salmasius, in Notis ad Lampridium.

[1358] Lampridius, in Commodo.

[1359] Dio, lib. 72.

[1360] Capitolin., in Pertinac.

[1361] Herodian., Histor., lib. 1.

[1362] Spartianus, in Pescennio Nigro.

[1363] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CLXXXVIII. Indizione XI.

    VITTORE papa 3.
    COMMODO imperadore 9.

_Consoli_

CAJO ALLIO FUSCIANO per la seconda volta, e DUILLIO SILANO per la
seconda.


Di male in peggio andavano gli affari di Roma per la disattenzione e
pazza condotta di Commodo[1364], ma più per la crudeltà ed avarizia
del suddetto Cleandro, già arbitro della corte. Costui vendeva tutte
le grazie e tutte le dignità tanto militari che civili. Per andare al
governo delle provincie, bisognava comperar le cariche. Per denaro le
persone di condizion libertina ottenevano la nobiltà, giungevano anche
a divenir senatori. I banditi, purchè spendessero, tornavano alla
patria, ed erano promossi agli onori; nè si portava rispetto alle
sentenze date dal senato e dai giudici. L'oro le faceva abolire.
Perchè _Antistio Burro_, uno de' primi senatori, coll'autorità e
confidenza che gli dava l'essere marito di una sorella di Commodo,
volle avvertire il cognato Augusto di tanti disordini, si tirò addosso
l'ira di Cleandro. Nè andò molto che costui contra di un uomo sì degno
fece saltar fuori un processo, quasi che egli aspirasse all'imperio.
Ciò bastò per togliere la vita a lui e a molti altri che impresero la
di lui difesa. Avvenne tal iniquità prima ancora che Cleandro
occupasse il posto di prefetto del pretorio: al che egli probabilmente
pervenne circa questi tempi. Tante avanie, concussioni ed uccisioni
faceva costui a fine di ammassar tesori, non solamente in suo pro, ma
anche per regalar le bagasce dell'imperador suo padrone, e molto più
lui stesso[1365], perciocchè egli col tanto scialacquare in ispese o
inutili od obbrobriose, si trovava sempre smunto o coll'erario voto.
Ma nè pur bastando al di lui bisogno i tanti rinforzi che gli
somministrava la malvagità di Cleandro, si ricorse al ripiego di
minacciar dei processi anche alle matrone romane, con inventati e
finti delitti, atterrendole in maniera, che conveniva venire a
composizioni, e a riscattarsi con buona somma di danari. Inventò
Commodo inoltre di mettere una tassa di due scudi d'oro a cadaun
senatore, loro mogli e figliuoli, da pagarsegli ogni anno nel giorno
suo natalizio, e di cinque denari ad ogni decurione della città. Pure
tutto questo era una goccia al mare, perchè malamente si consumava
tanto oro in cacce, in combattimenti di gladiatori e in altri
divertimenti peggiori. Abbiamo da Lampridio[1366], che sotto questi
consoli furono fatti dei voti pubblici per la salute e prosperità di
Commodo; e nelle monete[1367] si parla della _pubblica Felicità_,
quando altro non si provava che miserie ed affanni. Ma non mai si
esercita tanto l'adulazione, che sotto i principi cattivi, ai quali si
fa plauso per timore di peggio. Scrive ancora Eusebio[1368], che in
quest'anno cadde un fulmine nel Campidoglio, per cui rimase bruciata
la biblioteca colle case vicine. Non può già stare il dirsi da lui,
che le Terme di Commodo fossero fabbricate nell'anno IV del suo
imperio, avendo noi, non meno da Lampridio[1369] che da
Erodiano[1370], essere quella stata una fabbrica fatta da Cleandro, il
quale molto più tardi salì in alto. Queste terme e un ginnasio, ossia
una scuola di atleti e di scherma, opere anch'esse di lui, furono
bensì dedicate sotto nome di Commodo; ma Cleandro avea caro che si
sapesse esserne egli stato l'autore per guadagnarsi l'amor del popolo
a tenore d'alcuni suoi grandiosi disegni, de' quali parleremo fra
poco.

NOTE:

[1364] Lampr., in Commodo.

[1365] Dio, in Excerptis Vales.

[1366] Lampr., in Commod.

[1367] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[1368] Eusebius, in Chron.

[1369] Lamprid., in Commodo.

[1370] Herodianus, Histor., lib. 1.




    Anno di CRISTO CLXXXIX. Indizione XII.

    VITTORE papa 4.
    COMMODO imperadore 10.

_Consoli_

SILANO e SILANO


Siamo assicurati dai fasti antichi, essere stati in quest'anno consoli
ordinari _due Silani_. Che il primo si chiamasse _Giunio Silano_, lo
conghiettura il Panvinio[1371], ma non è certo. Vogliono che l'altro
si chiamasse _Servilio Silano_, e con più ragione, sapendosi da
Lampridio[1372], che Commodo tolse di poi la vita ad un consolare di
questo nome. Una iscrizione riferita dal Fabretti[1373] si vede posta
C. ATILIO, Q. SERVILIO COS., ma non si può arrivar a sapere se
appartenga all'anno presente. In questo sì giudicò il padre Pagi[1374]
che accadesse quanto narrano Dione[1375] e Lampridio[1376], cioè che
si contarono venticinque consoli in un anno solo. Il Panvinio credette
questa deforme scena nell'anno 185, senza badare che Cleandro, salito
molto più tardi in auge, ne fu l'autore, e per cogliere verisimilmente
un grosso regalo da tanti soggetti vogliosi di quell'onore. Quando ciò
sia avvenuto nell'anno presente, certo sarà che nel medesimo giunse al
consolato anche _Settimio Severo_, il qual fu poi imperadore,
scrivendo Sparziano[1377] ch'egli sostenne il primo consolato con
_Apulejo Rufino_, disegnato da Commodo a quella dignità insieme con
molti altri. Strano poi sembra che il medesimo Sparziano[1378] dica
nato _Geta_, figliuolo di Settimio Severo, mentre erano consoli
_Severo e Vitellio_, quando avea dato _Rufino_ per collega a _Severo_.
Seguitava intanto Cleandro[1379] a far delle estorsioni, e a vendere
gli onori, impoverendo la sciocca gente che correva a comperare da lui
il fumo. Uno di questi fu _Giulio Solone_, uomo ignobile, che per la
vanità di salire al grado di senatore, consumò quasi tutte le sue
facoltà, di modo che fu detto argutamente, _che Solone, a guisa de'
condannati, era stato spogliato de' suoi beni, e relegato nel senato_.
Ma quando men se l'aspettava, arrivò ancora Cleandro al fine dovuto ai
pari suoi. Il precipizio suo vien differito dal padre Pagi all'anno
seguente; dal Tillemont vien riferito[1380] al presente. In tale
incertezza credo io meglio di parlarne qui. Entrò in questi
tempi[1381] una fierissima peste in Italia[1382], e per le poche
precauzioni che si costumavano allora, si diffuse ben tosto per tutte
le città, e passò anche oltramonti. Questo di raro avea essa, che non
men gli uomini che le bestie perivano. In casi tali, quanto più vaste
e popolate son le città, tanto maggiormente infierisce il malore nella
folta misera plebe. Così fu in Roma. Dione, testimonio di veduta,
asserisce che per lo più ogni dì vi morivano duemila persone.
Rinnovossi inoltre allora l'uso di certi aghi attossicati, co' quali
fu data la morte a non pochi. Commodo, per consiglio de' medici, si
ritirò a Laurento, luogo fresco alla marina, e pieno di lauri, creduti
allora per l'odor loro un possente scudo contro la peste. A questo
gravissimo male s'aggiunse la carestia, facile disgrazia, massimamente
alle grandi città, dove immenso è il popolo, e dove allorchè
infierisce la peste, molti si guardano dall'accostarvisi per timor
della vita. Dicono che _Dionisio Papirio_, presidente dell'annona,
accrebbe maggiormente la penuria dei viveri, colla mira che il popolo
già irritato contra di Cleandro, per le tante ruberie, ne attribuisse
a lui la colpa, e si alzasse a rumore contra di lui, siccome in fatti
avvenne. Sapevasi ch'egli avea comperata gran quantità di grano, nè lo
lasciava uscire de' suoi granai. In mezzo a sì calamitosi tempi
mirabile è la facilità, con cui può sorgere e prender piede una voce
ed opinione anche più spallata. Fu dunque detto che Cleandro tendesse
ad occupar il trono imperiale. Le ricchezze da lui adunate, e il grano
ammassato avea da servire a guadagnar in suo favore i pretoriani e
l'altre milizie romane. Di più non occorse, perchè si facesse una
sollevazione. Non vanno ben d'accordo Dione ed Erodiano in raccontar
le circostanze del fatto. Molto meno Lampridio[1383], che attribuisce
la odiosità del popolo contro Cleandro all'aver costui fatto morire
_Arrio Antonino_, personaggio di gran credito, a forza di calunnie,
perchè, essendo egli proconsole dell'Asia, avea condannato un certo
Attalo, probabilmente creatura del medesimo Cleandro. Confessano poi,
tanto Erodiano quanto Dione, che Commodo in tempo di questa
sollevazione si trovava nella villa di Quintilio poco lungi da Roma,
dove attendeva a' suoi infami piaceri. Aggiugne Dione, che si fecero
in quel tempo le corse de' cavalli nel circo: il che mi fa sospettare
che fosse già terminata in Roma la peste, e solamente allora si
provasse il flagello della carestia.

Comunque sia, parte del popolo spronato dalla fame, e mosso dalle
grida di moltissimi fanciulli attruppati, condotti da una fanciulla
d'alta statura, e di terribile aspetto, creduta dalla buona gente una
dea, si mosse in furia, e andò al palazzo di villa, dove dimorava
coll'imperadore _Cleandro_. Quindi, dopo aver gridato: _Viva il nostro
Augusto!_ dimandarono di aver in mano il traditore Cleandro,
caricandolo intanto d'infinite villanie. Nulla ne intese Commodo,
immerso nei suoi divertimenti. Cleandro allora ordinò che il corpo di
cavalleria di guardia dissipasse quella gentaglia, e fu puntualmente
ubbidito. Misero que' cavalieri in fuga il popolo disarmato, ne
uccisero o ferirono molti, inseguendoli fin dentro le porte di Roma.
Mossesi allora a rumore tutto il popolo, e correndo ai balconi e su
per gli tetti, cominciò a tempestar con sassi e tegole i cavalieri;
unissi ancora col popolo parte de' soldati a piedi della città: e
tutti con armi e grida cominciarono una fiera battaglia colla peggio
de' cavalieri, parte scavalcati o feriti, o morti, e gl'inseguirono
sino al palazzo suburbano dell'imperadore. Niuno si attentava a far
motto di ciò a Commodo. Marzia, già concubina di Quadrato, che non era
già stata uccisa, come si legge in Sifilino, quella fu che ne avvisò
l'imperadore. Erodiano, all'incontro, scrive essere stata _Fadilla_
sorella del medesimo Augusto, che, atterrita dal rumore, corse
scapigliata a' piedi del fratello, e l'avvertì del pericolo, in cui
egli con tutti i suoi si trovava, se non sagrificava allo sdegno del
popolo quel suo scelleratissimo ministro. Altri, che ivi si trovavano,
calcarono la mano, accrescendogli la paura talmente, ch'egli in fine,
fatto chiamar Cleandro, ordinò che gli fosse tagliato il capo, e
consegnato sopra un'asta al popolo. Spettacolo di gran letizia fu la
testa di costui a chi l'odiava, e strascinò poscia il di lui cadavero
per la città. Due piccoli figliuoli suoi vi perderono anch'essi la
vita; nè finì questa turbolenza, che anche molti familiari o favoriti
di esso Cleandro vennero uccisi: con che restò quieto il tumulto.
Lampridio aggiugne che Apolausto ed altri liberti di corte in tal
congiuntura rimasero anch'essi vittima del furore popolare; e Commodo,
per testimonianza di Dione, fece poi morire il sopra mentovato
presidente dell'annona _Papirio_, dando probabilmente a lui tutta la
colpa del nato sconcerto. In luogo di Cleandro creati furono prefetti
del pretorio _Giuliano e Regillo_, e la presidenza dell'annona fu
conferita ad _Elvio Pertinace_, il quale doveva essere poco prima
tornato dalla Bretagna, con fama d'aver anch'egli di là incitato
Commodo contro di _Antistio Burro_ e di _Arrio Antonino_, imputando
loro che aspirassero all'imperio. Commodo non si attentava più,
siccome timidissimo, di rientrare in Roma. Tanto cuore gli fecero i
suoi confidenti[1384], che comparve colà, e fu accolto con grandi
acclamazioni del popolo: del che si consolò non poco. Eusebio[1385]
sotto il presente anno scrive che Commodo fece levar la testa al
colosso fabbricato da Nerone, per mettervi la sua. Vedremo ben altri
più ridicoli eccessi della di lui vanità.

NOTE:

[1371] Panvin., in Fastis.

[1372] Lampridius, in Commodo.

[1373] Fabrettus, Inscript., pag. 635.

[1374] Pagius, Critic. Baron. ad hunc annum.

[1375] Dio, lib. 72.

[1376] Lampr., in Commodo.

[1377] Spartianus, in Septimio Sev.

[1378] Spart., in Geta.

[1379] Dio, lib. 72.

[1380] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1381] Dio, lib. 72.

[1382] Herodianus, lib. 1.

[1383] Lampr., in Commodo.

[1384] Herodianus, Histor., l. 1.

[1385] Euseb., in Chron.




    Anno di CRISTO CXC. Indizione XIII.

    VITTORE papa 5.
    COMMODO imperadore 11.

_Consoli_

MARCO AURELIO COMMODO AUGUSTO per la sesta volta, e MARCO PETRONIO
SETTIMIANO.


Fu ben calmata la sedizione popolare descritta di sopra, e
ritornossene Commodo Augusto alla sua residenza in Roma[1386], ma non
si quietò già l'animo suo; anzi il fresco esempio fece in lui crescere
le diffidenze e i sospetti. Personaggio non v'era di qualche abilità e
credito che non fosse mirato di mal occhio da Commodo, e di cui egli
non desiderasse la morte; e, quel ch'è peggio, non la procurasse o col
veleno o col ferro. Ogni sinistra relazione o calunnia sufficiente era
perchè egli levasse dal mondo i nobili, e massimamente i più amati dal
popolo e i più potenti. Ognuno gli facea ombra, perchè non ignorava
già quanto fosse l'odio del pubblico contra di lui. Credesi
dunque[1387] che in questi tempi egli privasse di vita _Petronio
Mamertino_ suo cognato, cioè marito di una sua sorella, ed _Antonino_
di lui figlio, ed _Annia Faustina_ cugina di suo padre, che stava in
Grecia. La sua crudeltà principalmente prendeva di mira chi era stato
console. Tali furono _Duillio_ e _Servilio Silani_, _Allio Fosco_,
_Celio Felice_, _Lucejo Torquato_, _Larzio Euripiano_, _Valerio
Bassiano_ e _Patulejo Magno_ co' suoi figliuoli, _Sulpizio Crasso_
proconsole dell'Asia, _Claudio Lucano_, _Giulio Procolo_ colla sua
prole, ed altri infiniti, come dice Lampridio, a' quali tutti o in una
maniera o in un'altra procurò la morte. Fece anche bruciar vivi tutti
i figliuoli e nipoti del già ribello _Avidio Cassio_[1388], nulla
servendo loro il perdono ottenuto dal di lui buon padre Marco Aurelio;
e ciò con imputar loro che macchinassero delle novità. Probabil cosa è
che non tutte in quest'anno succedessero tali stragi, e che alcune
appartengano all'anno seguente. _Giuliano_ e _Regillo_, già creati
prefetti del pretorio, poco la durarono con questa bestia, ed amendue
furono ammazzati. E pur Giuliano godea sì forte della grazia di
Commodo, che pubblicamente era da lui abbracciato, baciato, e chiamato
suo padre. _Quinto Emilio Leto_ ottenne allora il grado di prefetto
del pretorio. Accadde ancora verso questi tempi[1389] la morte di
_Giulio Alessandro_, personaggio di maraviglioso ardire, uno de'
nobili cittadini di Emesa nella Soria, che stando a cavallo avea colla
lancia passato da parte a parte un lione. Se crediamo a Lampridio,
s'era egli ribellato. Altro non dice Dione, se non che all'udire
l'arrivo di un centurione, spedito con una truppa di soldati per
ammazzarlo, di notte andò a trovarli, e tutti li tagliò a pezzi. Lo
stesso brutto giuoco fece appresso ad alcuni suoi concittadini, coi
quali manteneva nimicizia; e poi montato a cavallo con un ragazzo
ch'egli amava, se ne fuggì. Si sarebbe egli ridotto in salvo, ma non
potendo più reggere il ragazzo alla corsa, nè volendolo egli
abbandonare, fu raggiunto dai corridori, che il venivano seguitando.
Diede egli allora la morte al ragazzo e a sè stesso, e così terminò la
sua tragedia.

Tali erano in questi tempi le barbariche azioni di Commodo. E merita
ben d'essere osservato che sotto questo crudel regnante la religion
cristiana non patì per conto suo persecuzione veruna; e chi morì
martire a que' tempi, non già da lui, ma dai governatori delle
provincie, nemici del nome cristiano, riportarono una gloriosa morte.
E però, lui regnante, crebbe e sempre più si dilatò il numero de'
Cristiani. Questa indulgenza di Commodo vien attribuita da
Sifilino[1390] a Marzia, donna di bassa nascita, ch'era stata
concubina di Quadrato. Dopo la morte di Quadrato entrò essa talmente
in grazia di Commodo, il quale avea relegato a Capri, e poi fatta
morire _Crispina_ sua moglie, che, a riserva del nome di
Augusta[1391], conseguì gli onori delle imperadrici. Poteva ella molto
nel cuor di Commodo; e però si pretende che amando essa molto, benchè
non cristiana, i cristiani, procurasse loro un buon trattamento ed
altri benefizii. Vuole il padre Pagi[1392] che la peste e la fame, di
cui parlammo all'anno precedente, infierissero in questo; e non men
Dione che le medaglie sembrano dar peso a così fatta opinione. Ma,
secondo Erodiano, sembra più verosimile che fossero preceduti questi
flagelli. Parlasi ancora nelle monete[1393] della _Liberalità Settima_
di Commodo, cioè di qualche congiario dato al popolo per tenerselo
amico. E Dione, fra l'altre cose, lasciò scritto che Commodo più volte
donò al popolo cinque scudi d'oro e quindici denari per testa.

NOTE:

[1386] Herodianus, Histor., lib. 1.

[1387] Lampridius, in Commodo.

[1388] Vulcat., in Avidio Cassio.

[1389] Dio, lib. 72.

[1390] Xiphilinus, in Commodo.

[1391] Dio, lib. 72.

[1392] Pagius, Critic. Baron. ad hunc annum.

[1393] Mediobarbus, in Numismat. Imp.




    Anno di CRISTO CXCI. Indizione XIV.

    VITTORE papa 6.
    COMMODO imperadore 12.

_Consoli_

CASSIO APRONIANO e BRADUA.


Se il primo console _Aproniano_ portò veramente il nome di _Cassio_,
egli fu padre di Dione Cassio, storico celebratissimo; ma ciò non è
senza qualche dubbio. Alle disgrazie che andava provando Roma pel
governo tirannico di Commodo e per gli altri mali di sopra accennati,
si aggiunse nel presente anno quello di un fiero incendio[1394].
Attaccatosi il fuoco al tempio della Pace, fabbricato da Vespasiano,
interamente lo consumò colle botteghe ricchissime delle specierie
contigue: tempio il più magnifico che si fosse allora in Roma.
Imperciocchè quivi erano conservate le più preziose spoglie del tempio
di Gerusalemme; quivi si faceano le assemblee dei letterati; e pare
che vi si conservassero anche i loro scritti, giacchè Galeno[1395] il
medico si duole che un gran numero de' suoi vi perisse in tal
congiuntura. Ma, quel che è più, colà si portavano in deposito i
danari e le cose più preziose de' Romani, come in luogo il più sicuro
d'ogni altro. Perciò, essendo succeduto di notte quel gravissimo
incendio, moltissimi, venuto il giorno, si trovarono poveri di ricchi
che erano la sera innanzi. Nè ivi si fermarono le fiamme, perchè
passarono ad altri assaissimi nobili edifizii romani, e fra gli altri
il tempio di Vesta col palazzo rimase anch'esso consunto. Durò molti
giorni il fuoco, dilatandosi qua e là, senza potersi fermare con arte
umana, finchè un'improvvisa dirotta pioggia gli troncò i passi.
Eusebio[1396] dice che gran parte della città di Roma restò preda
delle fiamme. Salvarono le Vestali il palladio, cioè la statua di
Pallade, la quale fama era che fosse stata portata da Troja. Dione
anch'egli attesta che il fuoco arrivò al palazzo, e vi bruciò la
maggior parte delle scritture spettanti al principato. Questa
gravissima sciagura moltiplicò l'odio di ognuno contra di Commodo,
credendo tale incendio un'ira palese del cielo per le di lui iniquità:
e giacchè era ito in rovina il tempio della Pace, giudicarono tutti
questa una predizion di guerra vicina per tutto il romano imperio.
Intanto la vanità di Commodo cominciava a degenerare in pazzia. Perchè
niuno l'uguagliava nella destrezza in uccidere le fiere, e molte e
grandi pruove di ciò aveva egli dato in Lanuvio, gli saltò in testa di
farsi appellare l'_Ercole Romano_[1397], gloriandosi di essere
figliuolo non più dell'ottimo imperadore Marco Aurelio, ma di Giove.
In abito d'Ercole volle che gli fossero alzate le statue. Una pelle di
lione e una clava gli erano portate innanzi, allorchè faceva viaggio;
e queste ne' teatri, intervenendovi egli o non intervenendovi, si
mettevano sopra la sedia d'oro imperatoria. Veggonsi ancora molte
medaglie[1398] dell'anno presente e susseguente, dov'è nominato
_Ercole Romano_, _Ercole Commodiano_. Oltre a ciò comandò che da lì
innanzi Roma si chiamasse _Commodiana_, e il senato istesso dovette
assumere il cognome di _Commodiano_. Per comandamento suo ancora
furono mutati i nomi a tutti i mesi, e si adattarono ad essi quei che
esprimevano titoli e nomi del medesimo folle Augusto. Dione[1399] gli
annovera con quest'ordine: _Amazonio_, _Invitto_, _Felice_, _Pio_,
_Lucio_, _Elio_, _Aurelio_, _Commodo_, _Augusto_, _Ercole_, _Romano_ e
_Superante_. Se crediamo a Lampridio[1400], il mese di agosto si
appellò _Commodo_: settembre _Ercole_: ottobre _Invitto_: novembre
_Superante_ o _Superatorio_: e dicembre _Amazonio_. Questi due ultimi
specialmente se gli teneva egli ben cari; quasichè egli in ogni cosa
superasse il resto degli uomini; tanto gli frullava il capo. Qui il
Casaubono e il Salmasio insorgono con allontanarsi dalla sentenza di
Lampridio, e pretendendo che ad altri mesi si applicassero que' nomi.
Poco a noi importa la frenesia del pazzo Augusto, volendo che si
formasse un decreto[1401], per cui da lì innanzi tutto il tempo
ch'egli regnasse, si appellasse il _Secolo d'oro_, e di questo si
facesse menzione in tutte le lettere del senato. Certo è che a sì
fatti ordini strignevano le labbra, inarcavano le ciglia i senatori;
ma conveniva chinare la testa. Altre pazzie mischiate colle crudeltà e
varie disonestà di questo principe si possono raccogliere da
Lampridio, che ne fa un lungo catalogo. Ma non si può tacere che
debbono parerci falsità la maggior parte degli elogi a lui dati nelle
monete. Sopra tutto in esse è chiamato _Pio_, ed anche _Autore_ e
_Ristoratore della Pietà_. Quando con questo nome si voglia
significare il culto della falsa religione gentile, abbiamo in fatti
da esso Lampridio[1402] che col capo raso nella festa d'Iside egli
portò la statua di Anubi, ma ridicolosamente, perchè con quella
medesima andava gravemente percotendo le teste dei sacerdoti vicini; e
voleva che que' sacri ministri d'Iside si battessero maledettamente il
petto colle pigne che portavano in mano. Non la perdonò poi la sua
sfrenata libidine nè pure ai templi: eccesso detestabile anche presso
i Gentili. Nei sagrifizii ancora di Mitra uccise un uomo. Ecco qual
fosse la religione di questo forsennato Augusto.

NOTE:

[1394] Herodianus, lib. 1, et Dio, lib. 72.

[1395] Galenus, de libris suis.

[1396] Euseb., in Chronic.

[1397] Lamprid., in Commodo. Dio, lib. 72. Herodianus Histor., lib. 1.

[1398] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[1399] Dio, lib. 72.

[1400] Lampridius, in Commodo.

[1401] Dio, lib. 72.

[1402] Lampridius, in Commodo.




    Anno di CRISTO CXCII. Indizione XV.

    VITTORE papa 7.
    COMMODO imperadore 13.

_Consoli_

MARCO AURELIO COMMODO AUGUSTO per la settima volta e PUBLIO ELVIO
PERTINACE per la seconda.


Guastandosi ogni dì più il cervello a Commodo imperadore, andavano
crescendo le sue perverse azioni e, per conseguente ancora, l'odio del
popolo, e specialmente de' buoni contra di lui. A capriccio egli
faceva uccidere le persone. Alcuni tolse dal mondo, perchè
incontratosi in loro, osservò ch'erano vestiti di abito
straniero[1403]; altri perchè parevano più belli di lui. Saputo che
certuno avea letta la vita di Caligola, scritta da Svetonio, il diede
in preda alle fiere, perchè egli era nato lo stesso dì che Caligola.
Tralascio altre simili sue crudeltà, narrate da Lampridio. Nè minori
di numero erano le sue inezie, che si tiravano dietro le risate di
ognuno. Guai nondimeno, se si accorgeva di chi il burlasse e
deridesse, perchè tosto il faceva consegnare alle bestie feroci. E pur
egli non si guardava dal comparire ridicolo in faccia di tutti,
lasciandosi vedere in pubblico vestito ora da donna, ora da Ercole
colla clava, ora da Mercurio col caduceo in mano. Ma il colmo delle
sue pazzie quel fu d'intestarsi di essere il più bravo ed esperto
gladiatore e cacciatore che fosse sopra l'universa terra[1404]. E
veramente confessano tutti gli storici, maravigliosa essere stata la
destrezza sua nell'uccidere le fiere o lanciando l'asta contra di
esse, o scagliando frecce e dardi. Con tal giustezza scaricava i colpi
che feriva quasi sempre dove avea presa la mira. Questo fu il solo de'
pregi ch'egli ebbe: che per altro differenza non si scorgeva tra lui e
un vero coniglio. S'era egli avvezzato a queste cacce in Lanuvio, e
ne' suoi palazzi di villa, dove dicono che ammazzò in varii tempi
migliaja di esse fiere. Per conto dei gladiatori infinite pruove avea
fatto in quell'infame mestiere, combattendo con essi armato di spada e
scudo, nudo o pur vestito, facendo anche tutti i giuochi de' reziarii
e dei secutori, ch'erano specie di gladiatori. Di sua mano uccise egli
talvolta i competitori, senza che alcun di essi ardisse di torcere a
lui un capello. Ordinariamente dopo aver quella canaglia sostenuto
alquanto gli assalti e riportata talora qualche ferita, se gli dava
per vinto, chiedendogli la vita in dono, ed acclamandolo pel più forte
imperadore che Roma avesse mai prodotto. S'invanì tanto per tante sue
lodi e per la stupenda sua bravura il folle Commodo, che, per
attestato di Mario Massimo, le cui storie si sono perdute, ma
esistevano a' tempi di Lampridio, ordinò che negli atti pubblici si
registrassero queste sue ridicole vittorie, come già si facea delle
campali riportate dagli eserciti romani; e queste ascendevano a
migliaja e migliaja. Arrivò egli sì oltre (cotanto si era ubbriacato
di questa vergognosa gloria), che più non curando il nome di Ercole,
s'invogliò di quello di primo fra i gladiatori, con prendere anche il
nome di un Paolo già defunto, e stato mirabile a' suoi dì nell'arte
obbrobriosa de' gladiatori.

Ma troppa lieve parve in fine quella gloria a Commodo, perchè
ristretta nei suoi privati palagi e nelle scuole gladiatorie. Gli
venne in capriccio di farsi anche ammirare da tutto il popolo romano;
e però fece precorrer voce, che nei giuochi saturnali, soliti a
celebrarsi nel dicembre[1405], egli solo volea uccidere tutte le
fiere, e combattere coi più bravi dell'arena. All'avviso di questa
gran novità, incredibile fu il concorso, non solo del popolo romano,
ma anche da varie parti d'Italia. Quattordici dì durarono questi
spettacoli. Innumerabili e di varie specie furono le fiere e le
bestie, fatte venir dall'India, dall'Africa e da altre contrade, che
comparvero nell'anfiteatro, e molte di esse conosciute dianzi
solamente in pittura. Si aspettava poi la gente di mirare il valoroso
Augusto affrontar nell'arena lioni, pantere, tigri, orsi e somiglianti
feroci animali. Ma il per altro pazzo Commodo ebbe tanto senno di far
guerra a tali fiere da un corridore alquanto alto, che girava intorno
alla platea dell'anfiteatro. Vero è nondimeno, ch'egli di là con tanta
maestria e forza scagliava aste e dardi che feriva e trapassava gli
animali, cogliendo nella fronte e nel cuor de' medesimi senza fallare.
Cento lioni in questa guisa per mano di lui rimasero estinti sul
campo. Il popolo tutto andava gridando _Bravo_ e _Viva_; per lo che si
ringalluzziva sempre più il balordo Augusto. E qualora egli si sentiva
stanco, Marzia, sua cara concubina, era pronta a porgergli una tazza
di buon vino rinfrescato; e il popolo, e i senatori stessi, uno de'
quali era lo stesso Dione storico, come si fa nei conviti, gli
auguravano salute e vita. Un altro dì lo spettacolo fu di lepri,
cervi, daini, tori e di altre bestie da corno. Commodo, calato nella
piazza dell'anfiteatro, ne fece una grande strage. In altri giorni
uccise una tigre, un cavallo marino, un elefante ed altre bestie. E
fin qui se gli potea pur perdonare. Ma da che spiegò di voler anche
combattere da gladiatore, non si potè contenere Marzia dal buttarsegli
ai piedi, e dal supplicarlo colle lagrime agli occhi di non
isvergognare la dignità di un imperadore con quell'infame mestiere. Se
la levò egli d'attorno con dirle delle villanie. Chiamati poi _Quinto
Emilio Leto_ prefetto del pretorio, ed _Eletto_ mastro di camera,
ordinò loro di preparar tutto il bisognevole. Anch'essi con forti
ragioni lo scongiurarono di non andarvi; ma indarno sempre. Ad altro
non servì la loro resistenza, se non a suscitargli un odio grave
contra di loro, quasi che gl'invidiassero la gloria che era per
acquistarsi. Erodiano non iscrive che Commodo andasse al
combattimento; ma Dione, che v'era presente, ci assicura che vi
comparve più volte, e combattè in quella indecente figura; e che i
gladiatori fecero battaglia fra loro colla morte di molti di essi, ed
anche di parecchi spettatori, che per la gran folla non poteano
tirarsi indietro. I senatori, siccome era stato loro imposto erano
forzati a gridare: _Viva il Signore: Viva il vincitor di tutti: Viva
l'Amazonio._ Per altro molti della plebe non si azzardarono
d'intervenire a quegli spettacoli, parte per l'orrore di mirar un
Augusto sì delirante ed avvilito, e parte per una voce corsa, che
Commodo volea regalarli di colpi di frecce, come Ercole avea fatto
alle Stinfalidi; e tanto più perchè ne' giorni addietro esso Augusto
raunati tutti i poveri mancanti di piedi, e fattili vestir da giganti,
colla clava gli avea tutti morti, per rassomigliarsi ad Ercole anche
in questo. Puossi egli immaginare un più bestiale ed impazzito
principe? Confessa Dione, che nè pur egli co' suoi colleghi senatori
andò esente da paura; imperciocchè Commodo, dopo aver tagliata la
testa ad un passero (se pur tale fu), con essa in mano, e colla spada
nell'altra andò alla volta dei senatori con torvo aspetto, ma senza
aprir bocca, volendo forse far intendere che potea far loro
altrettanto. A tutta prima molti di que' senatori non sapeano contener
la risa, ed erano perduti se Commodo se ne accorgea. Dione, col
mettersi a masticar delle foglie di lauro, insegnò agli altri di
moderarsi, e poco poi stettero ad avvedersi del corso pericolo. L'aver
Commodo in appresso comandato che i senatori venissero all'anfiteatro
nell'abito che solamente si usava nello scorruccio del principe, e
l'essere stata nell'ultimo dì dei giuochi portata la di lui celata
alla porta, per dove uscivano i morti, diede a pensare a tutti, che
fosse imminente il fine della di lui vita; e così fu. Altri augurii,
a' quali badavano forte i superstiziosi Romani, racconta
Lampridio[1406], ch'io tralascio come cose vane.

Non van d'accordo[1407] Erodiano e Dione[1408] in assegnare i motivi e
le circostanze della morte di _Commodo_. Scrive il primo, che irritato
il pazzo Augusto contro Marzia, Leto ed Eletto, perchè gli aveano
contrastata la sconvenevol comparsa nel campo de' gladiatori, scrisse
in un biglietto l'ordine della lor morte, colla giunta di parecchi
altri, e pose la carta sul letto. Entrato un nano suo carissimo in
camera, avendo preso quello scritto, uscì fuori, ed incontratosi in
Marzia, questa gliel tolse di mano, imaginandosi che fosse cosa
d'importanza. Vi trovò quel che non voleva. Avvisatine Leto ed Eletto,
concertarono tutti e tre di esentarsi da quel temporale con prevenire
la mala volontà dell'iniquo principe. Nulla dice Dione di questa
particolarità, ed intanto il lettore si ricorderà, aver quello storico
narrato un simil fatto nella morte di Domiziano. Certamente uno di
questi due racconti ha da essere falso; ed il presente ha qualche più
di verisimiglianza. Dione e Lampridio scrivono che Leto ed Eletto, per
timore della propria vita, sì perchè aveano davanti più specchi della
somma facilità con cui Commodo la toglieva ai capitani delle sue
guardie e a' suoi mastri di camera, e sì ancora perchè conoscevano di
averlo disgustato colla ripugnanza alle sue bestialità, unitisi a
Marzia, tentarono prima la via del veleno, con darglielo in una tazza
di vino ch'egli soleva prendere dopo il bagno. Occupato da lì a poco
da gravezza di capo e da sonnolenza, Commodo entrò in letto. Era
l'ultimo dì dell'anno. Venuta la notte, si svegliò, e fosse la sua
robusta complessione, o pure il molto mangiar e bere dianzi da lui
fatto, che l'aiutasse, cominciò a vomitare, e per secesso ancora ad
alleggerirsi dell'interno nemico. Allora i congiurati, apprendendo più
che mai il rischio loro, introdussero Narciso robustissimo atleta,
comperato con promessa di gran regalo, che serrategli le canne del
fiato, il soffocò. Sparsero poi voce, ch'egli fosse morto per
accidente apopletico. In questa maniera terminò _Commodo_ la vita sua
sì malamente menata, in età non più che di trentadue anni, senza
lasciar dopo di sè figliuoli. Fu poi detto, ch'egli avea comandato di
bruciar Roma, e che ne sarebbe seguito l'effetto, se Leto non lo
avesse trattenuto. Sparsero inoltre voce aver egli avuto in animo di
uccidere _Erucio Claro_ e _Socio Falcone_, consoli disegnati, che
doveano far l'entrata nel giorno seguente, e di proceder egli console
con prendere per collega uno dei gladiatori. Dione par che lo creda;
ma morto chi è odiato da tutti, nè più può far paura, a mille ciarle
si scioglie la lingua. In quest'anno probabilmente avvenne ciò che
narra Capitolino[1409]. Comandava _Clodio Albino_ alle armi romane
nella Bretagna. Fu portata colà una falsa nuova che Commodo era morto;
Commodo, dissi, quale il tanta fede avea in lui, che gli avea dianzi
mandato il titolo di Cesare, cioè un segno di volerlo per successore.
Albino non l'accettò; venuta poi quella falsa voce, egli parlò
all'esercito britannico, esortando tutti a ritornare la repubblica
romana nell'antico suo stato, e ad abolir la monarchia, con toccar i
disordini venuti per cagion degl'imperadori, senza risparmiare lo
stesso Commodo. Di questa sua disposizione ed aringa avvertito
Commodo, ch'era ancor vivo, mandò _Giulio Severo_ al comando
dell'armata britannica, e richiamò Albino; ma per la morte d'esso
Commodo non dovette aver esecuzione quell'ordine. Gran credito con ciò
Albino si guadagnò presso il senato. Nè si dee tacere, che quando poi
da Roma furono spediti pubblici messaggeri alle provincie per dar
avviso che più non viveva Commodo, quasi tutti furono messi in
prigione dai governatori, per paura che questa fosse una nuova falsa a
fine di tentar la lor fede, quantunque tutti sospirassero che fosse
vera, siccome dipoi si trovò.

NOTE:

[1403] Lampr., in Commodo.

[1404] Herodianus, Histor., lib. 1. Dio, lib. 72.

[1405] Herodianus, Histor., lib. 1. Dio, lib. 72.

[1406] Lampridius, in Commodo.

[1407] Herodianus, Histor., lib. 3.

[1408] Dio, lib. 72.

[1409] Capitolin., in Clodio Albino.




    Anno di CRISTO CXCIII. Indizione I.

    VITTORE papa 8.
    ELVIO PERTINACE imperad. 1.
    DIDIO GIULIANO imperad. 1.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 1.

_Consoli_

QUINTO SOSIO FALCONE e CAJO GIULIO ERUCIO CLARO.


Nella notte precedente al dì primo di gennaio, siccome dissi, accadde
la morte di Commodo. Prima nondimeno che si divulgasse il fatto, Leto
ed Eletto[1410] furono a trovar _Publio Elvio Pertinace_, che tuttavia
era console[1411]. Egli dormiva, e sentendo che veniva a lui il
prefetto del pretorio, s'immaginò quella essere l'ultima sua ora,
perchè se lo aspettava, dicendosi che gli era stata predetta in
quest'anno. Intrepidamente accolse i due ministri, e rimase ben
sorpreso all'intendere che in vece della morte gli esibivano l'impero.
La credette a tutta prima una furberia; ma giurando essi, che Commodo
non era più vivo, se ne volle chiarire, con inviar uno de' suoi più
confidenti a mirar coi suoi occhi il cadavere dall'estinto principe.
Allora egli cedette alle lor persuasioni, e con essi andò al quartiere
dei pretoriani. Era molto inoltrata la notte, e fuorchè le sentinelle,
tutti riposavano. Leto, esposta la morte di Commodo, presentò loro
Pertinace, che dal canto suo promise il consueto regalo; e però tutti,
almeno in apparenza, consentirono; ma restarono amareggiati, perchè
egli, nell'arringa che fece loro, si lasciò scappar di bocca, che
v'erano molti abusi, i quali sperava di levar via collo aiuto di essi.
Sospettarono coloro, che volesse spogliarli di quanto avea loro
prodigamente donato il morto imperadore. Oltre di che, avvezzi colla
briglia sul collo sotto un principe giovinastro cattivo, che lor
permetteva di far quanto cadeva loro in capriccio, non potevano mirar
di buon occhio Pertinace, cioè un vecchio[1412], di costumi tanto
diversi dal precedente Augusto. Imperocchè è da sapere che _Elvio
Pertinace_, nato da povero padre nella villa di Marte del territorio
d'Alba Pompea, città oggidì del Monferrato, insegnò grammatica da
giovane; ma perchè gli fruttava poco il mestiere, si rivolse alla
milizia, e salendo di grado in grado con riputazione, sostenne de'
riguardevoli impieghi nella Mesia e nella Dacia. Per calunnie perdè la
grazia di Marco Aurelio Augusto, ma per opera di Claudio Pompejano,
genero d'esso imperadore, scoperta la falsità delle accuse, fu
Pertinace promosso all'ordine senatorio, ed anche al consolato. Ebbe
poscia il governo di varie provincie, e massimamente di Soria, dove
attese ad empiere la borsa. Sotto Commodo, abbassato dal prepotente
Perenne, si ritirò alla sua patria, dove comperò di molti stabili.
Dopo la morte di Perenne, siccome accennai di sopra, fu spedito da
Commodo in Bretagna, e di là passò al governo dell'Africa. Finalmente
tornato a Roma, vi esercitò, dopo _Fusciano_, uomo severo, la carica
di prefetto della città, con tale umanità e piacevolezza, che piacque
maggiormente a Commodo, e meritò di procedere di nuovo console con
esso lui[1413]. Passava Pertinace in questi tempi l'età di anni
sessantasei, perchè nato nell'anno 126 della nostra Era; ma era in
concetto d'uomo di onore, di molta saviezza ed amorevolezza, e
sperimentato nelle cose della guerra. Per attestato di Erodiano[1414],
la sua gravità ed anche la povertà il salvarono sotto Commodo, perchè
fra gli altri pregi si contava ancor questo, d'esser egli il più
povero dei senatori, ancorchè avesse esercitato molti riguardevoli
uffizii. Ma, secondo Capitolino[1415], si diceva aver egli sempre
atteso a raccogliere molto e spendere poco. Un uomo di tal probità, ma
insieme poco inclinato alla liberalità, non potea piacere ai soldati,
troppo male avvezzati sotto Commodo.

Durava tuttavia la notte, quando si fece sparger voce per la città,
che _Commodo_ era morto, ed eletto imperador _Pertinace_. Saltò fuori
tutto il popolo con incredibil festa ed incessanti grida, caricando di
maladizioni e villanie il defunto Augusto, cantando i suoi vituperii,
e dandogli i nomi di tiranno, di gladiatore, di ernioso, perchè egli
patì di una ernia, ch'era visibile agli occhi del pubblico. Anche i
senatori, balzati dal letto, corsero, non sapendo dove stare per la
gioia, alla curia: e quivi si presentò loro Pertinace, ma senza
insegna alcuna d'imperadore e coll'animo assai agitato, perchè sapendo
la bassa sua condizione in confronto di tanti altri senatori delle
prime e nobili casate di Roma, sembrava a lui un'indecenza, ed anche
un passo pericoloso, il prendere un posto più ragionevolmente dovuto
ad altri. Però assiso in senato nella solita sua sedia, disse che egli
veramente era stato riconosciuto imperadore dai soldati, ma che
vecchio inabile ed immeritevole, rinunziava a quell'onore, e che
eleggessero chi loro piacesse, essendovi tanti nobili degni più di lui
del trono. Secondo Erodiano, prese anche pel braccio _Aulo Glabrione_,
creduto il più nobile de' Romani, e l'esortò a voler egli assumere la
dignità imperiale. Capitolino aggiunge, che fece lo stesso con
_Claudio Pompejano_, genero già di Marco Aurelio, e cognato di
Commodo; ma che anch'egli si scusò. E qui dee aver luogo ciò che
racconta Dione[1416], cioè che _Pompejano_, siccome persona di gran
prudenza, osservato ch'ebbe qual mala bestia fosse Commodo suo
cognato, di buon'ora si ritirò in villa, nè si lasciava se non rade
volte vedere in città, adducendo per iscusa varie sue indisposizioni,
e specialmente la vista sua troppo indebolita. Nè volle già egli
venire agli ultimi spettacoli di Commodo, per non essere spettator del
disonore della maestà imperatoria, essendosi solamente contentato che
v'intervenissero i suoi figliuoli. Creato poi Pertinace imperadore,
gli tornò la vista, svanirono i suoi malori; e Pertinace a lui e a
Glabrione fece sempre un distinto onore, nè risoluzione imprendeva
senza il loro consiglio. Lo stesso Pompejano poi, da che fu morto
Pertinace, e si videro imbrogliati forte gli affari, tornò ad
ammalarsi, a vedervi poco, e a battere la ritirata. Da ciò si
raccoglie essere adulterato il testo di Dione presso Zonara[1417] e
Sifilino, là dove è detto, che Claudio Pompejano, genero di Marco
Aurelio fu quegli che presentò a Commodo il pugnale per ammazzarlo.
Ora i senatori, veduta la umiltà e l'onorato procedere di Pertinace,
quasi tutti di buon cuore il confermarono imperadore, e convenne anche
fargli forza perchè accettasse l'imperio[1418], se non che _Falcone_,
il quale dovea la mattina seguente entrar console, gli si mostrò ora,
e peggio poi nel progresso, assai contrario, con dirgli di non sapere
come avesse da riuscire il di lui governo, da che il mirava sì
favorevole a Marzia e a Leto, stati ministri delle iniquità di
Commodo. Al che rispose quietamente Pertinace: _Voi siete console
giovane, nè sapete che cosa sia la necessità di ubbidire. Costoro
hanno ubbidito fin qui loro malgrado a Commodo. Subito che han potuto,
han dato a conoscere la lor buona volontà._

Quindi proruppe il senato in acclamazioni festose verso il novello
regnante, in detestazioni di Commodo, che si leggono a parola per
parola presso Lampridio[1419], prese dalla storia perduta di Mario
Massimo. Soprattutto dimandavano i senatori, che si facesse al
cadavero di Commodo il trattamento conveniente a chi era stato nemico
degli dii, boia del senato, parricida, nemico della patria, cioè che
fosse strascinato coll'uncino per la città, e gittato nel Tevere,
siccome si usava co' malfattori più esecrandi. Ma quel corpo, di
permissione di Pertinace, era già stato segretamente seppellito in
qualche sepolcro, e di là fra qualche tempo Pertinace lo fece
trasportare nel mausoleo d'Adriano, perchè non gli piaceva d'irritare
i pretoriani, troppo innamorati dell'estinto regnante. Fatta fu anche
istanza dal senato, che si rompessero tutte le statue di Commodo, e si
abolissero tutte le sue memorie. Non perdè tempo il popolo ad
eseguirne il decreto. A Pertinace furono nello stesso tempo accordati
tutti i titoli consueti degl'imperadori. Scrive Capitolino[1420], che
a _Flavia Taziana_ di lui moglie fu dato il titolo di _Augusta_; ma sì
egli, che Dione senatore, presente allora a tutti quegli affari,
aggiungono averle bensì il senato decretato questo onore, siccome
ancora al di lui figliuolo il titolo di _Cesare_; ma che Pertinace
ricusò l'uno e l'altro, perchè non mirava per anche abbastanza
assodato il suo imperio, conosceva l'umor petulante della moglie, nè
gli pareva che il figliuolo di età anche tenera fosse capace di tanto
onore. Diede egli principio al suo governo con ottime idee e
rettissima volontà. Dovea pagarsi il regalo promesso ai pretoriani e
agli altri soldati di Roma, e nell'erario non si trovò più di
venticinquemila scudi. Mise perciò[1421] in vendita le statue, l'armi
gioiellate, i cavalli, le carrozze, gli schiavi, le concubine, e tutte
le altre vane suppellettili di Commodo, tanto che ne ricavò danaro da
pagare in parte il regalo pattuito coi soldati, e da fare un donativo
al popolo di cento danari per testa. _Emilio Leto_ nello stesso tempo
spogliò d'ordine suo tanti buffoni, che Commodo avea smisuratamente
arricchiti coi beni dei senatori uccisi. Trattava il buon Pertinace,
uomo senza fasto, cortesemente con tutti, ed affabile era massimamente
coi senatori, ciascun de' quali potea liberamente dire il suo parere;
e dicea anche egli il suo, ma con tranquillità e rispetto a quello
degli altri. Or questi or quelli voleva alla sua tavola, tavola
propria di un principe, ma frugale. Per questa frugalità v'erano de'
ricchi e magnifici che il mettevano in burla; ma da tutta la gente
savia ne veniva egli ben commendato. Applicossi a riformar le spese
superflue, a levare gli abusi introdotti, a pagare i debiti del
pubblico. Ai pretoriani e alle altre milizie non fu più permesso di
rubare nè il far insolenze ed ingiurie a chicchessia. Cessarono le
spie e gli accusatori, furono cassate le ingiuste condanne; restituiti
i beni indebitamente confiscati; richiamati i banditi; e si potè dar
sepoltura convenevole a chi in addietro non la potè conseguire. Abolì
per le provincie vari dazi imposti dai cattivi principi alle rive de'
fiumi, ai ponti, alle strade. Promosse l'agricoltura per tutta
l'Italia, donando le terre abbandonate ed incolte, acciocchè si
coltivassero. In somma, sotto sì moderato e buon principe[1422]
cominciava a rifiorir Roma, ed ogni saggia persona benediceva il tempo
presente; ma questo tempo, che pareva così sereno, stette ben poco a
rannuvolarsi.

Malcontenti già erano, siccome dissi, del nuovo governo i
soldati[1423]; e molto più se ne disgustarono, da che si videro
imbrigliati e ritenuti dal far que' mali che solevano. Aveano insino
ne' primi giorni tentato di esaltare al trono _Triario Materno
Lascivio_ senatore; ma egli scappò lor dalle mani, e andato a trovar
Pertinace, si ritirò poi fuori di Roma. Mirarono ancor i pretoriani di
mal occhio l'abbattimento delle statue di Commodo, e ne fremevano.
Intanto aspettava Pertinace il giorno natalizio di Roma, per mutar la
famiglia di corte, che dianzi serviva a Commodo, non l'avendo egli
licenziata finora. Da tutti costoro ancora era egli odiato a morte, e
specialmente dai liberti, a' quali avea già tagliate le unghie sul
vivo. Il saper poi quanto egli fosse guardingo nelle spese, e in
concetto d'avaro, e che per ristorare l'erario fallito esigeva imposte
messe da Commodo, contro le promesse fatte; e la voce corsa, che per
far danaro si cominciassero a vendere le grazie e la giustizia; e che
quei d'Alba Pompea corsi, credendo di toccare il cielo col dito sotto
un Augusto lor compatriotto, s'erano trovati delusi: tutto ciò cagion
fu che dalla maggior parte del popolazzo egli fosse poco amato, e che
nella commedia sotto nome d'altre persone si sparlasse di lui, con
dire fra le altre cose, ch'egli aveva bei detti, ma pochi fatti. Ai
soldati e alla plebe non solevano piacere se non quegl'imperadori che
largamente spendevano e più largamente donavano. Così la discorre
Capitolino[1424], il quale cento anni dipoi scrisse alla rifusa la di
lui vita, nè dovea aver qui buone memorie. Imperocchè Dione[1425] ed
Erodiano[1426], meglio informati di questi affari, ci lasciarono un
diverso, cioè un bellissimo ritratto di Pertinace, dicendone amendue
un gran bene, ed assicurandoci tale essere stata la clemenza, la
saviezza, la modestia, l'illibatezza sua, tanta la sua premura pel
pubblico bene, a cui principalmente tendevano le mire sue, che già
Roma si potea dire tornata in un tranquillissimo e felicissimo stato.
Lo stesso Capitolino attesta di poi anch'egli, che il popolo andò
nelle smanie, udita la di lui morte, perchè tutti speravano di veder
sotto di lui tornare ad un bel mezzogiorno l'imperio romano: segno
dunque che l'amavano molto, e che non ha sussistenza quanto egli ha
detto di sopra. Solamente confessa Dione, ch'egli fallò nello aver
voluto con troppa fretta correggere tutti i disordini, parte de' quali
era inveterati; e molto più nell'aver dato ai soldati men regalo di
quel che avessero ricevuto da Marco Aurelio e da Commodo; perchè
sebben egli nel senato protestò di averlo fatto, la verità nondimeno
era che que' due Augusti aveano loro donati venti sesterzii per testa,
laddove Pertinace non ne diede che dodici. Ma la rovina di questo
recente imperadore si dee principalmente attribuire ad _Emilio Leto_
prefetto del pretorio, che o per qualche riprensione a lui fatta da
Pertinace[1427], o perchè non potea conseguir quella padronanza che
avea dianzi immaginato, si pentì d'averlo promosso all'imperio, e
congiurò coi pretoriani contra di lui. Scoprissi intanto che _Sosio
Falcone_ console personaggio di gran credito per la sua nobiltà ed
opulenza, trattava con essi pretoriani per occupare il trono cesareo,
e ne fu portata l'accusa colle pruove al senato. Pretesero nondimeno
alcuni ch'egli fosse innocente di questo fatto. Trovandosi allora
Pertinace al mare, per provvedere all'abbondanza della annona, corse
subito a Roma, e nel senato avendo inteso che già s'era in procinto di
condannar Falcone[1428]: _Non sia mai vero, gridò, che sotto il mio
principato alcuno senatore anche per giusta cagione abbia da perdere
la vita._ Ma Emilio Leto[1429], benchè niun ordine ne avesse da
Pertinace, e solamente per renderlo odioso, prese di qua il pretesto
di far ammazzare alcuni soldati quasi complici di Falcone, con
ispargere anche il terrore sopra gli altri, quasi che tutti avessero
da perire. Attizzati perciò dugento de' più arditi pretoriani, colle
spade sguainate a dirittura di mezzodì andarono al palazzo, e, senza
che alcun si opponesse, furiosamente salirono le scale. Capitolino
scrive ch'essi erano di guardia, e che parte degli stessi servitori di
corte, che odiava Pertinace in suo cuore, li vide volentieri venire, e
spalancò le porte. Essendo volata la moglie ad avvisar l'Augusto
marito di questa novità, egli ordinò a Leto di correre a frenar la
sedizione; ma Leto, uscito per altra via, se n'andò, lasciando agli
ammutinati di eseguir quello che pensavano. Nulla dice Dione di
questo; ma bensì, che avrebbe potuto Pertinace salvarsi, se avesse
voluto, perchè v'era una squadra di cavalleria con altre guardie, e
molta gente di corte, bastante a tagliar a pezzi coloro; ed almeno
poteva nascondersi, e far serrare le porte. Signor no: gli cadde in
pensiero d'affacciarsi egli stesso, figurandosi d'atterrirli col suo
venerabil aspetto, e di placarli a forza di buone parole. In fatti
loro parlò con tal gravità ed amore, che molti già deposte l'armi,
colla testa bassa si ritirarono; quando un d'essi più temerario degli
altri, Liegese di patria, per nome Tausio, se gli avventò col ferro
dicendo: _Questo tel mandano i soldati_, e il ferì nel petto; gli
altri il finirono. _Eletto_, mastro di camera, che gli stava al
fianco, dopo aver ucciso due di quegli scellerati, e feriti
molt'altri, con gran fedeltà lasciò anch'egli la vita fra le loro
spade. Accadde questa tragedia nel dì 28 di marzo, essendo appena
corsi ottantasette giorni da che Pertinace reggeva l'imperio. Il capo
dell'infelice Augusto, posto sopra una picca, fu portato al quartiere
dai soldati, i quali tosto armarono i lor posti, cioè il castello
pretorio, per paura del popolo.

Sparsa infatti in Roma così funesta nuova, non potea il popolo darsi
pace per la perdita di sì buon principe, che tante cose in sì poco
tempo avea fatto in servigio del pubblico, e più si conosceva che
avrebbe fatto, se più lungamente fosse vivuto. Ognun fremeva, tutti
piangevano, e smaniando uscirono per le piazze, per le strade,
cercando gli assassini, gridando vendetta. Ma i senatori veggendo in
tanta confusion la città, chi si ritirò alle sue case, e chi anche in
villa per timore di peggio. Se crediamo ad Erodiano[1430], due dì
passarono in questo ondeggiamento e turbolenza, senza che il popolo
potesse vendicar la morte dell'infelice principe, e senza che i
pretoriani movessero piede dalla loro fortezza. Dopo di che costoro,
osservato che nulla si facea dal senato e dal popolo, misero in
vendita il romano imperio. Merita nondimeno più fede Dione[1431], da
cui impariamo, che essendo stato mandato da Pertinace per placare i
pretoriani Flavio o sia _Flacco Sulpiciano_, suocero suo, già da lui
creato prefetto di Roma e personaggio assai degno di quell'impiego:
questi appena intese la morte del genero Augusto, che si diede a far
brighe per divenire successore di lui nel trono. Ma _Didio Severo
Giuliano_, che intese messa all'incanto l'imperial dignità, corse
anch'egli al mercato, e stando alle mura del quartiere de' pretoriani,
cominciò ad esibir danari più dell'altro[1432]. Era _Giuliano_, di
nobil casa nativo di Milano. Dione[1433] chiama quella città patria di
lui, e vi fu relegato da Commodo per sospetto che fosse complice della
pretesa congiura di _Salvio Giuliano_. Discendeva, per via di padre o
pur di madre, dal celebre giurisconsulto Giuliano. Nato nell'anno 133
di Cristo, avea passati i suoi anni in vari impieghi civili e militari
con riputazione, governate provincie, ottenuto il consolato in
compagnia di Pertinace. Parlano indifferentemente dei di lui costumi
gli scrittori[1434], facendolo gli uni un avaro, altri un crapulone.
Dione, ch'era forte in collera contra di lui, giugne fino a dire, che
fu dedito alla magia. Convengono poi tutti in dire, ch'egli era
sommamente denaroso, e che con tal fiducia si fece innanzi per
comperar l'imperio da chi volea venderlo. Entro il quartiere de'
pretoriani si trovava anche _Sulpiciano_, siccome dissi, a questo
traffico. Andavano innanzi indietro sensali per vedere chi più
offeriva; ed era già a buon segno Sulpiciano, coll'aver promesso
ventimila nummi per testa, che da alcuno son figurati quattrocento
scudi romani, o filippi, ed a me paiono somma eccessiva. Ma restò
superiore Giuliano con prometterne venticinquemila, dicendo anche di
averli in cassa e con far conoscere ai pretoriani, che facevano un mal
contratto accordandosi coll'altro, il quale, siccome suocero di
Pertinace, avrebbe saputo ben vendicarlo. _Viva dunque l'imperador
Giuliano_, gridarono allora i pretoriani, tanto più inclinati a
costui, perchè prese il nome di _Commodo_, e si mostrò amico della di
lui memoria. Dopo aver promesso, secondo le loro istanze, di non
nuocere a Sulpiciano, creò prefetti del pretorio _Flavio Geniale_ e
_Tullio Crispino_.

Verso la sera s'inviò Giuliano alla volta del senato[1435], scortato
più del solito da una copiosa masnada di pretoriani, tutti in armi,
come se andassero a battaglia per timore del popolo. Allora i
senatori, ancorchè in lor cuore detestassero questo mercatante della
dignità imperiale, e fra gli altri Dione sapesse di non essere molto
in grazia di lui, perchè caro già a Pertinace, e perchè in trattar
varie cause avea aringato forte contra del medesimo Giuliano; pure
ognun di essi, accomodandosi al tempo, andò frettolosamente alla
curia. Comparso colà Giuliano, parlò senza giudizio, chiamando sè
stesso degnissimo dell'imperio, dicendo di essere venuto solo,
acciocchè il confermassero imperadore, quando seco avea tante schiere
d'armi, e molti di essi soldati nello stesso senato, che poteano dar
polso a tali preghiere. Mostrò ancora di conoscere ch'essi l'odiavano.
Ciò non ostante fu confermato e passò al palazzo. Prima di cena fece
dar sepoltura al corpo di Pertinace. Non avea detto una parola di lui
nel senato, e non ne disse mai più per non dispiacere ai pretoriani.
Vuole Sparziano ch'egli cenasse con della malinconia. Dione,
all'incontro, ch'egli si mostrò allegro, giocò ai dadi, e fece entrare
in sua camera Pilade ballerino con altri buffoni. Furono la mattina
seguente senatori e cavalieri ad inchinarlo e a rallegrarsi, ed egli
con somma cortesia accolse ognuno. Una mascherata era quella, perchè
gli uni da burla si congratulavano, ed egli fingeva di credere ciò che
sapea non essere vero[1436]. Si portò egli dipoi al senato, ed
allorchè era per fare un sagrifizio, il popolo cominciò con alte voci
a gridare ch'egli era un parricida, un usurpatore dell'imperio.
_Giuliano_, senza alterarsi, mostrò loro la borsa come promettendo
loro un donativo, o pur colle dita accennò quante migliaia volea donar
loro. Ed essi più che mai incolleriti gridavano: _Non ne vogliamo; no,
che non ne vogliamo_, e gli gittarono de' sassi. Perdè allora la
pazienza Giuliano, ed ordinò ai soldati di guardia di ammazzare i più
vicini. Il che fatto, il popolo più che mai andò caricando di villanie
lui, ma più i soldati. Indi corse a pigliar l'armi, e si ridusse nel
circo, dove si fermò tutta la notte senza prender cibo, e nè pure un
sorso d'acqua, facendo intanto istanza, che si chiamasse a Roma
_Pescennio Negro_, governator di Soria, colle sue legioni. Nel dì
seguente deposte l'armi, se ne tornarono alle lor case, e cessò la
tempesta. Ora se il senato, se il popolo romano non sapea sofferire un
imperadore, per via sì ignominiosa portato al trono, aveano ben
ragione. Questo funestissimo esempio insegnò a tanti altri indegni e
tiranni di occupar da lì innanzi l'augusto soglio di Roma; aprì la
porta ad infinite guerre civili, che andremo raccontando, e fu infine
la rovina dell'imperio romano, col prevalere i Barbari, e soperchiare
il corpo, che a poco a poco si andò disciogliendo, della romana
repubblica. Nè si vergognò Giuliano di prendere tutti i titoli più
onorevoli degli altri imperadori; fece anche dar quello di Augusta a
_Mallia Scantilla_ sua moglie e a _Didia Clara_ sua figliuola,
maritata con _Cornelio Repentino_, a cui conferì la prefettura di
Roma. Per attestato di Erodiano[1437] con tutto il votare de' suoi
scrigni, e col ricorrere allo smunto erario imperiale, non trovò tanto
da pagare tutto il promesso regalo ai pretoriani, i quali perciò
rimasero disgustati di lui: laddove Sparziano[1438] slargando la
bocca, scrive che avea promesso a cadauno venticinquemila nummi, e ne
pagò trentamila. Non si sa ch'egli fosse crudele; le finezze e carezze
che facea a tutti erano incredibili; ma specialmente le praticava coi
senatori, che vi trovavano dell'affettazione. I conviti suoi furono
frequenti; le tavole superbamente imbandite; ma il cuore de' grandi e
del popolo era sempre lo stesso.

Tre principali eserciti si contavano allora nel romano imperio
comandati da tre insigni generali. Quello dell'Illirico e della
Pannonia ubbidiva a _Lucio Settimio Severo_: quello della Bretagna a
_Decimo Clodio Albino_: e quello della Soria, il governo della qual
provincia era in que' tempi il più riguardevole di tutti, a _Cajo
Pescennio Negro_. Perchè a Pescennio arrivò ben tosto l'avviso di
essere chiamato in aiuto del popolo romano, altro non occorse, perchè
egli si facesse proclamar _Imperadore_ dal suo esercito, e dal
numerosissimo popolo della città di Antiochia. Ma _Settimio Severo_,
verisimilmente mosso con segrete lettere da qualche senatore, che lui
considerava miglior testa, che gli altri due, oltre all'esser egli più
vicino, e all'aver più forze al suo comando, nè pur egli tardò ad
assumere il titolo d'_Imperatore Augusto_ in Carnunto città della
Pannonia. Per non aver poi da contendere con due avversarii nel
medesimo tempo, prese il partito di guadagnar _Albino_, dichiarandolo
_Cesare_, con una specie di adozione: trappola, che a lui ben servì,
perchè Albino ricevute le lettere di Severo, le quali non si poteano
scrivere più tenere da un padre ad un figliuolo, non pensò più a far
novità e movimento alcuno. Secondo alcuni autori sembra che tale
risoluzion di Severo verso Albino succedesse più tardi. Dione[1439]
attesta, che si videro in questi tempi tre stelle intorno al sole,
cospicuo a tutti, ed egli stesso chiaramente le osservò, o ne fu
formato un cattivo presagio agli affari di _Giuliano_. Intanto tutte
le città dell'Illirico sino a Bisanzio (cioè sino ad una città che
avea riconosciuto Pescennio Negro) e le Gallie, e la Germania romana,
si dichiararono per Settimio Severo; laonde egli senza perdere tempo
si mosse coll'armata sua, per venire a dirittura a Roma, da dove prima
di prendere la porpora imperiale, aveva egli destramente ritirati i
suoi figliuoli. All'avviso di tante novità a non pochi batteva forte
il cuore in Roma, ma i più brillavano per l'allegrezza, nondimeno
celata, per desiderio e speranza di veder a terra l'odiato Giuliano.
Fu di parere il Relando[1440], che nelle calende di marzo agli
ordinari consoli fossero sostituiti _Flavio Claudio Sulpiciano_ e
_Fabio Cilone Septimiano_. Pare che ciò dovesse succedere più tardi,
citando egli un'iscrizione del Fabretti[1441], posta nel dì 19 di
marzo di quest'anno FALCONE ET CLARO COS. Anzi si vede un altro marmo
presso il Grutero[1442], dove a dì 5 di settembre sono mentovati gli
stessi consoli. Ma non è ben certo, perchè molti non ne faceano caso
dei consoli sostituiti. Per conto di _Cilone_ una altra iscrizione
pubblicata dal Doni, e riferita anche da me[1443], c'insegna essere
stato il suo nome _Lucio Fabio Cilone Septimiano_. Ma nè pur apparisce
che questi due fossero sostituiti; ed è malamente citato, in pruova di
ciò, Erodiano. Abbiamo bensì da Dione[1444], che _Silio Messala_,
verisimilmente sustituito a _Falcone_, dappoichè cadde di posto per
l'accusa narrata di sopra, era console sul principio di giugno.
D'altri consoli sostituiti in quest'anno parla il Relando, senza che
se ne veggano le pruove.

Non si credeva Giuliano di aver a contendere se non con _Pescennio
Negro_, quando gli arrivò la nuova, che anche _Settimio Severo_, avea
alzata bandiera contra di lui. Allora si vide perduto. Precauzioni da
ridere furono quelle ch'ei prese con fare che il senato dichiarasse
nemici pubblici _Severo_ e _Negro_ con terribil bando ai soldati che
loro ubbidissero; ma Severo assai informato era del cuore de'
senatori. Spedì il senato anche dei deputati all'uno e all'altro, per
esortarli ad ubbidire; ma Severo guadagnò gli spediti a lui, e
gl'indusse a parlare in suo favore all'armata. Aquilio Centurione, ed
altri mandati da Giuliano, per assassinar i due nuovi imperadori,
trovarono di aver che fare con gente più accorta di loro. Mise esso
Giuliano in armi i suoi pretoriani, fece fare un trincieramento fuori
di Roma con fosse; e mise delle buone porte e dei cancelli al palazzo
imperiale. Dione presente a tutto confessa che non potea trattener le
risa al mirare i pretoriani, avvezzi alle delizie, intrigati a
ripigliare il mestier della guerra; meno ancora le soldatesche ne
sapeano, che Giuliano avea fatto venire dall'armata navale di Miseno;
e per gli elefanti, co' quali si sperava di atterrire i cavalli de'
nemici, non si trovava chi li sapesse condurre. Roma sembrava oramai
una città assediata, non vedendosi andar innanzi indietro altro che
armi, cavalli ed attrezzi di guerra. Giuliano in questi tempi fece
uccidere _Emilio Leto_, prefetto del pretorio, e Marzia, autori della
morte di Commodo, sapendo che Severo era creatura di Leto, e temendo
perciò di vedergli uniti contra di sè. Ma Severo, senza mettersi
pensiero de' vani preparamenti di Giuliano, veniva a gran giornate
verso l'Italia. A lui si davano tutte le città. Senza opposizione
entrò in Ravenna, e s'impadronì della flotta solita a stare in quel
porto. _Tullio Crispino_ creato nuovamente prefetto del pretorio, e
mandato da Giuliano per occupar quella flotta, se ne tornò indietro
con poco gusto. Allora Giuliano non sapendo dove volgersi, ordinò che
le vestali, i sacerdoti e il senato andassero incontro a Severo per
fermarlo; e perchè trovò in ciò della contraddizione, avea disegnato
di spingere i soldati nel senato, per isforzare i senatori ad
ubbidire; e non ubbidendo, di fargli tagliare a pezzi. Tanto gli fu
detto, che desistè da sì maligno pensiero, e mandò poi ordine al
senato di dichiarar _Severo_ collega dell'imperio, pensando con ciò di
comperarsi la di lui grazia. Il decreto fu fatto ed inviato a Severo,
il quale per consiglio de' suoi lo rifiutò, perchè le sue forze e la
conoscenza di quel che bolliva in Roma, gli prometteano molto più.
Aveva egli fatto sapere ai pretoriani, che se stessero quieti, e gli
dessero in mano gli uccisori di Pertinace, non farebbe lor male; e ne
scrisse a _Veturio Macrino_, con dargli speranza di crearlo prefetto
del pretorio. S'egli poi mantenesse la parola, nol so dire; certo è
bensì, che promosse a tal carica _Flavio Giovenale_. Continuato poscia
il viaggio, le milizie dell'Umbria, che doveano guardare i passi
dell'Apennino, si unirono con esso lui, ed intanto i pretoriani
abbandonarono Giuliano. Allora costui restò in isola, e in braccio
alla disperazione[1445]. Indarno avea tentato di rinunziar l'imperio a
_Claudio Pompejano_, personaggio di gran senno, che si scusò colla sua
vecchiaia; indarno fece scannar molti fanciulli, credendo per magia di
conoscere il suo destino. Il senato adunque, subito che fu assicurato
da _Silio Messala_ console, che non vi era più da temere de'
pretoriani, proferì la sentenza di morte contra di Giuliano, usurpator
dell'imperio; dichiarò imperadore _Severo_, con far una deputazione di
cento senatori che andassero ad incontrarlo, e decretò gli onori
divini a _Pertinace_. Probabilmente ciò fu sul fine di maggio, o in un
dei primi due giorni di giugno. Furono inviati alcuni a tagliar la
testa a Giuliano, che restò ben servito, nè altro seppe dire, se non:
_Che male ho io fatto? a chi ho io tolta la vita?_ tardi conoscendo di
aver impiegati i suoi tesori per comperarsi un fine sì miserabile.
Permise poi Severo, che il di lui corpo trovasse riposo nella
sepoltura de' suoi antenati.

Ora Severo, uomo sommamente guardingo e diffidente, massimamente dopo
avere scoperto le già mandate persone per assassinarlo, era dalla
Pannonia marciato fin qui in mezzo ad una guardia di secento soldati
scelti, i quali mai non si cavarono la corazza, ed accompagnato
dall'armata sua, come se fosse in paese nemico. A Narni se gli
presentarono i cento senatori deputati che prima della udienza furono
ben ricercati se aveano armi sotto[1446]. Li ricevè Severo con della
maestà, e nel dì seguente, dopo averli regalati, diede loro licenza di
ritornarsene a Roma, con facoltà nondimeno di restar chi volesse con
lui. Vicino a Roma mandò ordine ai pretoriani di venire ad incontrarlo
senz'armi, e in abito di pace e di festa. Aveva egli fatto giustiziare
gli uccisori di Pertinace. Venuti che furono, fattili attorniare dalle
sue genti armate, all'improvviso ordinò che fossero presi tutti, e
dopo aver loro fatto un aspro rimprovero per le iniquità commesse in
addietro, volle che fossero spogliati dei lor pugnali, o spade che
fossero, delle vesti, e fin della camicia; e che sotto pena capitale
stessero cento miglia lungi da Roma, con riconoscere da lui per grazia
grande, se donava loro la vita. Svergognati e colla testa bassa se ne
andarono costoro, ben pentiti di essere capitati colà disarmati.
Furono loro tolti anche i cavalli; e Dione[1447] racconta che un di
questi cavalli scappò per tener dietro al suo padrone nitrendo.
Accortosi il soldato di questo, tanto era turbato l'animo suo, che
rivoltosi uccise il cavallo, e poi sè stesso. Nè tardò Severo a mandar
guernigione nella fortezza dei pretoriani, e ad impossessarsi di tutte
le lor armi ed arnesi. Fece dipoi l'entrata sua in Roma, se crediamo a
Sparziano, armato di tutte armi. Dione che ne sapea più di lui,
siccome presente a tutto, scrive ch'egli venne a cavallo sino alla
porta, e quivi smontato si vestì da città, e a piedi vi entrò. Era
tutta la città in festa, e i cittadini coronati di lauro e di fiori,
ornate le strade di preziosi addobbi, lumi e profumi dappertutto; e
tutti i senatori magnificamente coi loro roboni il corteggiavano col
popolo affollato, che assordava il cielo con viva e con alte
acclamazioni, gareggiando ognuno per mirar questo novello padrone. Con
tal pompa andò Severo al Campidoglio, dove nel tempio di Giove fece i
sacrifizii; e dopo aver visitato altri templi, passò a riposar nello
imperial palazzo. Il resto delle azioni sue spettanti a quest'anno mi
sia lecito di riserbarlo al seguente.

NOTE:

[1410] Dio, lib. 73.

[1411] Herodianus, Histor., lib. 2.

[1412] Capitol., in Pertinace.

[1413] Herodianus, Histor., lib. 2.

[1414] Ibidem.

[1415] Capitol., in Pertinace.

[1416] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1417] Zonaras, in Annal.

[1418] Capitol., in Pertinac.

[1419] Lampr., in Commod.

[1420] Capitolin., in Pertinac.

[1421] Dio, lib. 73.

[1422] Herodianus, Histor., lib. 2.

[1423] Capitol., in Pertinace.

[1424] Capitol., in Pertinace.

[1425] Dio, lib. 73.

[1426] Herod., Histor., lib. 2.

[1427] Capitolinus, in Pertinace.

[1428] Dio, lib. 73.

[1429] Zonaras, in Annalib.

[1430] Herod., Histor., lib. 2.

[1431] Dio, lib. 73.

[1432] Spartianus, in Jul.

[1433] Dio, lib. 73.

[1434] Herodianus, lib. 2.

[1435] Dio, lib. 73.

[1436] Spartianus, Dio, Herodian.

[1437] Herodian., Hist., lib. 2.

[1438] Spartian., in Jul.

[1439] Dio, lib. 73.

[1440] Reland., Fast. Consul.

[1441] Fabret., Inscript., p. 688.

[1442] Gruterus, Thesaur. Inscr., p. 475, n. 4.

[1443] Thesaurus Novus Inscription., pag. 345.

[1444] Dio, lib. 73.

[1445] Dio, lib. 73. Spartianus, in Jul. Herodian., lib. 2.

[1446] Spartianus, in Sev. Herodian., lib. 3.

[1447] Dio, lib. 72.




    Anno di CRISTO CXCIV. Indizione II.

    VITTORE papa 9.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 2.

_Consoli_

LUCIO SETTIMIO SEVERO AUGUSTO per la seconda volta, e DECIMO CLODIO
SETTIMIO ALBINO CESARE per la seconda.


Si sa che _Severo Augusto_ era stato ornato di un consolato
straordinario, con avere avuto per suo collega _Apulejo Rufino_; ma
non se ne sa l'anno. Molto meno ci è noto quando _Albino_ fosse
console la prima volta. Ci assicurano le medaglie[1448] che anch'egli
procedette in quest'anno console per la seconda volta. Severo, che con
questi onori voleva addormentarlo, fece anche battere monete ad onor
suo; sicchè ognun lo avrebbe creduto il Beniamino di Severo. Il nome
di _Settimio_ a lui dato nelle stesse medaglie ci fa intendere che
Severo lo avea adottato per figliuolo; se con retto cuore poi, non
istaremo molto ad avvedercene. In una iscrizione riferita dal Cupero e
dal Relando[1449], _Albino_ console è chiamato _Lucio Postumiano_. Ma
venendo quel marmo dal magazzino fallace del Gudio, non se ne può far
capitale; quando pur non volessimo che ad _Albino Cesare_, appellato
nelle medaglie _Decimo Clodio_, fosse sostituito un altro Albino: il
che non è credibile. Venga ora meco il lettore a conoscere chi fosse
_Lucio_ _Settimio Severo_ nuovo Augusto[1450]. Era egli per nascita
Africano, perchè venuto alla luce in Leptis, città della provincia
Tripolitana, nell'anno 146 della nostra Era, a dì undici d'aprile.
Senatoria fu la sua famiglia. Due suoi zii paterni erano stati
consoli. Suo padre portò il nome di _Marco Settimio Gela_. Esso
Settimio Severo giovinetto studiò lettere latine e greche in
Africa[1451]; gran profitto fece nell'eloquenza e nella filosofia de'
costumi; e venuto dipoi in età di diciotto anni a Roma fu condiscepolo
di _Papiniano_[1452], studiando la giurisprudenza sotto _Scevola_,
insigne legista di questi tempi. Nondimeno Dione[1453], che
intimamente il conosceva, trovò in lui un buon genio, ma non molta
abilità per l'eloquenza e per le scienze. Diedesi anche a far
l'avvocato, ma con poca fortuna. Aveva egli portato seco a Roma il
fuoco africano[1454]; e però la sua gioventù fu piena di furore, ed
anche di delitti, ed accusato una volta d'adulterio, la scappò netta
per grazia di _Salvio Giuliano_, di cui poscia procurò la rovina.
Sotto Marco Aurelio entrò negli impieghi civili, poscia nei governi; e
trovandosi in Africa legato del proconsole, si racconta che,
camminando egli a piedi un giorno colle insegne avanti della sua
dignità, un uomo plebeo della sua patria Leptis, vedutolo in così
nobil carica ed accompagnamento, per allegrezza corse buonamente ad
abbracciarlo, dicendogli: _O paesano caro._ Severo gli fece dare una
man di bastonate per esempio agli altri, affinchè più rispettassero i
magistrati romani. Scrivono ancora ch'egli consultò uno strologo
africano, il quale, veduta ch'ebbe la di lui genitura, gliela restituì
dicendo: _Dammi la tua, e non quella degli altri._ Giurò Severo, che
era la sua; ed allora gli fu predetto quanto poscia avvenne. Di sì
fatte predizioni e di augurii presi da' sogni e da varii accidenti,
nel che non poco deliravano una volta i Gentili, parlano molto gli
storici antichi. Io, siccome vanità o fole, non le reputo degne di
menzione. Passò poi Severo per impieghi militari al governo della
Gallia Lionese. Fu console, proconsole della Pannonia, della Sicilia,
e finalmente dell'Illirico, dove stando, le rivoluzioni di Roma
aprirono a lui strada per salire sul trono.

Cominciarono di buonora i Romani a provare che duro maestro fosse
questo padrone[1455]. Da che egli fu entrato in Roma, i soldati suoi
co' cavalli presero alloggio, e fecero stalla ne' templi, ne' portici,
e dovunque loro piacque; e a buon mercato comperavano quel che loro
occorreva, perchè non volevano pagare un soldo. Un gran dire e paura
per questo era nella città. S'aggiunse che ito nel giorno seguente
Severo in senato, quei soldati cominciarono con alte grida a
pretendere un'esorbitante somma di regalo da esso senato, cioè quella
stessa che fu pagata all'esercito, allorchè s'introdusse in Roma
Ottavio Augusto: quasi che fosse costato loro assai di pena il far
entrare in Roma il loro imperadore. Durò fatica lo stesso Severo a
quetar quel tumulto, con far loro pagare, o promettere una somma
minore, cioè dugento cinquanta dracme per testa. Era poi inveterato
costume[1456], che le guardie degli Augusti si prendessero dalla
Italia, Spagna, Macedonia e Norico, siccome persone di bell'aspetto e
trattabili ne' costumi. Gran mormorazione insorse, perchè Severo a
formar quelle compagnie badò solamente alla fortezza, scegliendo
perciò gente tutta di orrido aspetto, di linguaggio che facea paura,
di costumi salvatici e bestiali. Accrebbe anche il numero d'esse
compagnie con grave spesa del pubblico. Ma questo fu rose e viole in
paragon di quello che vedremo nell'andare innanzi. Sapeva Severo
quanto fosse caro ai Romani Pertinace, quanto lodata la forma del suo
governo; e però da uomo accorto, per lusingar il popolo, unì ai suoi
nomi quello ancora di _Pertinace_[1457]. Allorchè fu nel senato parlò
con assai cortesia e bontà, promettendo di gran cose, e sopra tutto di
voler prendere per suo modello Marco Aurelio e Pertinace. Nè solamente
promise e giurò di non far mai morire alcun senatore[1458], ma ordinò
ancora, che si formasse un decreto che _quello imperadore, il quale
altramente operasse, e chiunque a ciò gli prestasse mano, eglino coi
lor figliuoli fossero tenuti per nemici della repubblica_. Si poteva
egli desiderar di più? Ma se ne dimenticò ben presto Severo. _Giulio
Solone_, che avea steso quel decreto, fu il primo a provarne
l'inosservanza, e dopo lui tanti altri, siccome vedremo. Contuttociò
al basso popolo le prime azioni di Severo fecero concepire molta stima
ed affetto per lui; ma quei che conoscevano qual volpe si nascondesse
sotto quella pelle d'agnello, andavano l'un all'altro dicendo
all'orecchio: _E sarà poi così?_ In fatti fu Severo fornito di
mirabili doti per governar bene un imperio, ma insieme di terribili
difetti per far un gran male; fra i quali due specialmente toccherò
qui, cioè non solamente la severità corrispondente al suo cognome, ma
la crudeltà e la poca fede ch'egli non osservava giammai, se non
quando gli tornava il conto.

Per guadagnarsi maggiormente l'affetto popolare, diede Severo un
congiario, e volle far il funerale e l'Apoteosi di _Pertinace_. Questa
magnifica funzione vien descritta da Dione[1459] con tutte le sue
circostanze. L'orazion funebre in lode di lui la recitò il medesimo
Severo. I lamenti e i pianti per la rinnovata memoria di sì buon
principe furono infiniti: che non gli elogi fatti in vita dei
regnanti, ma l'amore e il desiderio dei popoli dopo la lor morte son
la vera pruova del merito d'essi. Con questa pompa i Romani pretesero
di formare un dio di Pertinace; pure non ne stette egli certamente
meglio nel mondo di là. Parimente a Severo furono accordati o
confermati tutti i titoli e l'autorità consueta degli altri
imperadori; e probabilmente non si tardò a conferire il titolo di
Augusta a _Giulia_ sua moglie, di nazione soriana, da lui sposata
prima dell'anno di Cristo 175, la quale gli avea partorito _Bassiano_,
che fu poi _Caracalla_ imperatore, e _Geta_, de' quali si parlerà a
suo tempo. Maritò anche Severo due sue figlie, l'una a _Probo_,
l'altra ad _Aezio_, i quali egli arricchì dipoi e promosse al
consolato, non si sa in qual anno. La prefettura di Roma fu da lui
appoggiata a _Domizio Destro_. Diede ancora buon sesto all'annona,
sbrigò molte cause, e quelle principalmente di alcuni governatori
accusati di avanie ed ingiustizie, gastigando rigorosamente che si
provò delinquente. Non si fermò egli in Roma se non un mese, ed in
quel tempo usò una mirabil diligenza e fretta nel prepararsi per far
guerra a _Pescennio Negro_, che avea preso il titolo d'_Imperadore_ in
Soria, comandando già a tutte le provincie dell'Asia ed anche a
Bisanzio. Avea Severo avuta l'attenzione, prima di arrivare a Roma, di
spedire _Fulvio Plauziano_ a far prigioni i figliuoli di Negro[1460];
ed egli poi giunto a Roma fece ritenere gli altri di qualunque
magistrato ed uffiziale che fosse in Soria, comandando nondimeno che
fossero tutti ben trattati. In Roma non si udì mai Severo dir parola
di esso Negro. Solamente studiò egli indefessamente di far leva di
gente da tutte le provincie, di adunare una possente flotta da ogni
parte d'Italia, e di ordinare alle soldatesche lasciate nell'Illirico
di marciare verso il Levante. Non si può assai dire, che spirito vivo
e vigoroso fosse quel di Severo; quanta la di lui attività, l'ardire e
la prontezza nel concepir le imprese, non meno che nell'eseguirle;
quanta la penetrazion della sua mente, per cui prevedeva acutamente
l'avvenire, e trovar ripieghi e spedienti, senza guardare a spesa ne'
bisogni, senza curarsi punto di quel che si dicesse di lui, purchè
riuscisse ne' suoi disegni. Però quando men se l'aspettava la gente,
mise in marcia il raunato esercito, e verisimilmente nel luglio
dell'anno precedente, partendo egli in persona da Roma, per non
lasciar tempo a Pescennio Negro di maggiormente assodarsi in Asia.
Provvide nello stesso tempo alla sicurezza dell'Africa. Una malattia
dipoi sopraggiuntagli in cammino, la lunghezza del viaggio necessario
per condurre sì lontano una poderosa armata per terra, perchè non
potea tanta gente per mare passar a dirittura in Soria, e il tempo
occorrente per unir tante forze da varie parti, pare che non gli
lasciassero tempo da far progressi nell'anno suddetto, se non che
alcune medaglie (dubbiose nondimeno) cel rappresentano _Imperadore per
la seconda volta_[1461], benchè non apparisca quando tale foss'egli
proclamato per la prima.

_Cajo Pescennio Negro_, soprannominato _Giusto_ nelle monete, contra
di cui Severo faceva questi preparamenti[1462], e che fu creduto
nativo da Aquino, di famiglia equestre, da giovane si svergognò colla
sfrenata sua libidine; ma impiegato nella milizia, da tutti sempre fu
riconosciuto e lodato per uomo di raro coraggio, e sopra gli altri
geloso della disciplina militare, senza mai sofferire che i suoi
soldati facessero estorsione alcuna ne' paesi per dove passavano o
dove si fermavano. Arrivò sotto Commodo ad essere console, ed inoltre,
per intercessione di quel Narciso atleta, che strangolò poi lo stesso
Commodo, cioè d'uno che in quella sfacciata corte avea, come
tant'altra canaglia, gran polso, ottenne il governo della Soria, dove
si affezionò que' popoli con permettere loro quanti spettacoli
voleano, dietro a' quali era quella gente perduta, e dove, in fine,
benchè vecchio, vestì la porpora imperiale. Tuttochè egli sapesse di
essere desiderato dal popolo romano, e probabilmente anche da una
parte de' senatori, pure niuna fretta giammai si fece per venir alla
volta di Roma. Le delizie e i divertimenti di Antiochia l'aveano
troppo incantato[1463]. Quivi si pavoneggiava egli dell'alta sua
dignità, si riputava un novello Alessandro, e intanto nulla facea,
persuadendosi forse che senza fatica sua cederebbe Giuliano Augusto,
ed allora con tutta pace egli se ne anderebbe a sedere sul trono
cesareo in Roma stessa. Restò egli dipoi sommamente sorpreso
all'intendere ad un punto stesso ucciso Giuliano, e Severo pervenuto a
Roma, e concorsi in lui i voti del senato e popolo romano. Allora si
svegliò dal sonno, allora diede ad ammassar gente, ad implorar
soccorsi dai re vicini, e guernir di milizie i passi massimamente del
monte Tauro. In persona andò egli a Bisanzio, per ben munire di gente
e di fortificazioni quella città, troppo importante, attesa la sua
situazione, e più perchè solamente pel suo stretto si soleva passare
dalle armate romane in Asia[1464]. Andò anche a Perinto, dove seguì un
combattimento svantaggioso per la parte di Severo, e da cui prese
motivo il senato romano di dichiarare _Pescennio Negro_ nemico della
repubblica. Se sussiste ciò che narra Sparziano, dopo quella vittoria
vennero in poter di Negro la Tracia, la Macedonia e la Grecia; ed egli
allora andò ad offerir a Severo, che il prenderebbe per collega
nell'imperio: al che altra risposta non diede Severo se non una
risata. Ma non è facilmente da credere che Pescennio stendesse tanto
l'ali, perchè Severo non gliene lasciò il tempo. Arrivò in quest'anno
l'Augusto Severo sotto Bisanzio col grosso dell'armata sua, e ne
imprese l'assedio[1465]; ma conosciuto essere troppo duro quell'osso,
dopo aver lasciata ivi gente bastante a tenerla assediata o bloccata,
passò col rimanente dell'esercito suo lo stretto, valendosi della
flotta seco condotta. Appena arrivò a Cizico città della Misia[1466],
che gli fu a fronte _Emiliano_, stato governator della Soria prima di
Negro, e, presentemente proconsole dell'Asia, che, sposato il partito
di esso Negro, era divenuto suo generale. Godeva questi il credito di
essere una delle migliori teste di allora; ma perchè n'era persuaso
anch'esso, ed, oltre a ciò, passava parentela fra lui e Pescennio
Negro, l'insolenza e superbia sua dava negli occhi a tutti. Ma gli
calò ben presto il fumo. Andò in rotta l'esercito suo, ed egli da lì a
non molto fatto prigione, per ordine de' generali di Severo perdè la
vita[1467]. Questa vittoria portò all'ubbidienza di Severo Nicomedia
con altre città della Bitinia; ma Nicea ed altre tennero forte per
Negro, il quale arrivato di poi con un gran nerbo di armati e raccolti
gli sbanditi, fra essa Nicea e la città di Cio venne ad un secondo
fatto d'armi[1468], che fu assai sanguinoso e dubbioso, con
dichiararsi in fine la vittoria in favor di _Candido_ generale di
Severo. Dopo di che fece il vincitore Augusto esibire a Negro un
onorato e sicuro esilio, se volea deporre l'armi; ma prevalendo i
consigli di _Severo Aureliano_, che avea promesso le sue figliuole ai
figli di Negro, quasi rigettò ogni offerta[1469]. Ridottosi poi
Pescennio Negro al monte Tauro, afforzò tutti quei passi; e perchè gli
venne nuova che Laodicea e Tiro, per odio ed invidia che portavano ad
Antiochia, aveano alzate le bandiere di Severo, spedì contra di esse
città alquante brigate di Mori, che dopo un fiero sacco fecero del
resto con incendiarle. Severo dipoi le rimise in piedi. Allorchè
giunse al Tauro fra la Cappadocia e la Cilicia l'armata di
Severo[1470] trovò chiusi talmente que' passi, che impossibil era
l'inoltrarsi. Fermatisi ivi i soldati tutti per qualche giorno, aveano
già smarrito il coraggio, si trovavano anche disperati, quando ecco
all'improvviso una dirottissima pioggia con neve (segno che si
avvicinava il fine dell'anno) la quale, formati dei torrenti, schiantò
e distrusse tutte le sbarre e fortificazioni fatte in que' passaggi
dall'oste nemica, la quale a tal vista prese la fuga, e lasciò
all'armi di Severo comodità di valicar quelle montagne, e di calar
nella Cilicia. Fu creduto, secondo il costume, questo avvenimento un
chiaro segno del cielo favorevole a Severo. Perchè vo io
conghietturando che il fine di questa guerra appartenga all'anno
seguente, altro per ora non soggiugnerò, se non che Severo Augusto si
truova nelle medaglie[1471] battute nel presente, _Imperadore per la
terza volta_, e ciò a cagion delle vittorie riportate da' suoi
generali, come abbiam veduto di sopra.

NOTE:

[1448] Mediobarbus, in Numism. Imper.

[1449] Reland., in Fastis Consul.

[1450] Spartianus, in Sever.

[1451] Eutrop., in Breviar.

[1452] Spartianus, in Caracalla.

[1453] Dio, in Excerptis Vales.

[1454] Spartianus, in Caracalla.

[1455] Spartianus, in Severo.

[1456] Dio, lib. 74.

[1457] Herodianus, lib. 2.

[1458] Dio, lib. 74.

[1459] Ibidem.

[1460] Spartianus, in Severo. Herodianus, lib. 2.

[1461] Mediobarb., in Numism. Imperat.

[1462] Spartianus, in Pescennio Negro.

[1463] Dio, in Excerptis Vales.

[1464] Spart., in Severo et Pescennio.

[1465] Herodianus, lib. 3.

[1466] Dio, in Excerptis Valesianis.

[1467] Spartianus, in Pescennio.

[1468] Dio, lib. 74.

[1469] Spartianus, in Pescennio.

[1470] Herodianus, lib. 3.

[1471] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.




    Anno di CRISTO CXCV. Indizione III.

    VITTORE papa 10.
    SETTIMIO SEVERO Imperad. 3.

_Consoli_

SCAPOLA TERTULLO e TINEJO CLEMENTE.


Questo _Scapola_ console vien creduto quel medesimo che fu poi
proconsole dell'Africa, fiero persecutor de' Cristiani, a cui
Tertulliano scrisse il suo Apologetico. Sufficiente motivo di credere
ci è, che al presente anno sia da riferire il fin della guerra di
Severo contra di Pescennio Negro, perchè il miriamo nelle
medaglie[1472] dichiarato _Imperadore per la quarta e quinta volta_.
Avea Negro avuto tempo di mettere in piedi una ben numerosa armata,
essendovi concorsa in gran copia la gioventù antiochena, armata
nondimeno di poca sperienza ne' fatti della guerra. Si venne egli a
postare alle porte della Cilicia vicino al mare, e alla città d'Isso,
oggidì Lajazzo, ad un passo strettissimo, dove Dario ne' secoli avanti
rimase sconfitto da Alessandro. Attaccossi[1473] aspra battaglia un
giorno fra i suoi e l'esercito di Severo, comandato da _Valeriano_ ed
_Anullino_ suoi generali, di cui si vede la descrizione in
Dione[1474]. Lungo ed ostinato riuscì il conflitto, ed erano già per
restar vincitori quei di Negro nel vantaggio del sito, quando,
turbatosi il cielo con tuoni e folgori, cadde un'impetuosa pioggia,
che dando in faccia ad essi, non incomodava quei di Severo, perchè
ricevuta alle spalle. Fu interpretato ancor questo avvenimento per una
dichiarazione del volere del cielo, con accrescere il coraggio
all'esercito di Severo, e scorare il nemico. In somma fu rotto il
campo di Pescennio Negro con tale strage che vi restarono estinti
ventimila de' suoi. Salvossi Negro ad Antiochia; ma poco stettero ad
arrivar colà anche i vittoriosi Severiani; nè fidandosi egli di star
ivi rinserrato, prese la fuga, disegnando di portarsi all'Eufrate. Ma
essendosi renduta immediatamente Antiochia, fu con tal sollecitudine
inseguito da' corridori nemici, che restò preso. Tagliatogli il capo,
fu portato a Severo; ma, secondo Sparziano[1475], fece egli quanta
difesa potè, e ferito venne condotto a Severo, davanti al quale spirò.
La vendetta che fece dipoi Severo de' partigiani di Pescennio
Negro[1476], gli acquistò il titolo di crudele, perchè non levò già la
vita ad alcuno de' senatori che aveano seguitato l'emulo suo, per
attestato di Dione autor più sicuro che Sparziano[1477], il quale ne
vuole uno ucciso, ma la maggior parte d'essi spogliò de' lor beni, e
li relegò nell'isole. Fra questi si distinse pel suo coraggio _Cassio
Clemente_[1478], perchè condotto in faccia allo stesso Severo,
francamente gli disse, _che s'era unito con Negro, non per far contro
a Severo, di cui non sapeva i disegni, ma bensì contro a Giuliano
usurpator dell'imperio; e se non avea peccato chi avea preso il
partito di Severo, per ottenere il medesimo fine, nè pur egli si dovea
credere reo. Che se Severo avrebbe tenuto per traditore chi si fosse
partito da lui per seguitar Negro, militava in favor suo la medesima
ragione._ Non dispiacque a Severo questa libertà di parlare, e gli
lasciò la metà de' suoi beni. Per altro fece Severo privar di vita
molti degli uffiziali di Pescennio Negro. Costoro, se pur vero ciò è
che narra Erodiano[1479], per suggestione dello stesso Severo che
teneva in suo potere i loro figliuoli, aveano tradito Pescennio; pure,
ciò non ostante, Severo, dopo la vittoria, fece morir non meno essi
che i loro figliuoli.

Stesesi l'inumanità di Severo alle città che aveano aderito a Negro.
Quattro volte più volle del danaro, che anche per forza aveano ad esso
Negro contribuito. Ma principalmente sfogò egli il suo sdegno contro
ad Antiochia, privandola d'ogni suo diritto e privilegio, e
sottomettendola a Laodicea, città che lo avea ben servito in questa
occasione, ed emula già dell'altra; la qual prese allora il cognome di
Settimia e di Severiana. Nulladimeno poco tempo passò, che alle
preghiere di _Caracalla_[1480] suo primogenito restituì ad essa
Antiochia il primiero onore. Molti, che niuna parte aveano avuto
nell'affare di Pescennio Negro, nè l'aveano mai veduto, nè fatto alcun
passo per lui, si trovarono involti in questa persecuzione, perchè
Severo abbisognava di danaro, e ne volea per ogni verso: il che odioso
il rendè in tutto l'Oriente. Ma egli facea e lasciava dire. Vero è che
buona parte di cotali contribuzioni impiegò in ristorar le altre
città, che per tener la sua parte aveano patito gravissime sciagure. E
il bello fu che anche _Albino Cesare_[1481] inviò colà soccorsi di
danaro, senza fallo per mostrare di secondar le idee di Severo, ma
insieme colla mira di guadagnarsi l'affetto di quei popoli per li suoi
fini. Accadde ancora che assaissimi, per sottrarsi alla fierezza di
Severo, fuggirono nel paese dei Parti[1482]; e quantunque da lì a
qualche tempo Severo pubblicasse il perdono per tutti, non pochi
restarono fra i Parti, insegnando loro di fabbricar armi e di
combattere alla maniera romana con danno poi del romano imperio. Rade
volte la clemenza nocque ai regnanti; spessissimo la crudeltà: vizio
tanto più sconvenevole a Severo in tal congiuntura, perchè scusabil
era la risoluzion presa da quei popoli. Quanto alla moglie e ai
figliuoli di Pescennio Negro, dopo la di lui morte furono mandati da
Severo in esilio[1483]; ma da che insorse la guerra con Albino, per
timore che questi non facessero delle novità, Severo gli spedì tutti
al paese dei più. Noi miriamo nelle medaglie[1484] appellato Severo in
questo anno _Imperadore per la quinta volta_, a cagione, come si può
credere, della sconfitta di esso Negro.

NOTE:

[1472] Ibid.

[1473] Herodian., lib. 3.

[1474] Dio, lib. 74.

[1475] Spartianus, in Pescennio.

[1476] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1477] Spartianus, in Severo.

[1478] Dio, lib. 74.

[1479] Herod., lib. 3.

[1480] Spart., in Caracal.

[1481] Capitol., in Clodio Albino.

[1482] Herod., lib. 3.

[1483] Spartianus, in Severo et in Nigro.

[1484] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.




    Anno di CRISTO CXCVI. Indizione IV.

    VITTORE papa 11.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 4.

_Consoli_

CAJO DOMIZIO DESTRO per la seconda volta, e LUCIO VALERIO MESSALA
TRASIA PRISCO.


Porta il Relando[1485] sotto quest'anno delle leggi date _Fusco II et
Dextro Cos_. Ma quelle appartengono all'anno 225. Una iscrizione bensì
ho prodotto io[1486], posta DEXTRO II ET FVSCO COS., la quale si dee,
a mio credere, riferire al presente anno, in cui al console ordinario
_Prisco_ dovette essere prima delle calende di giugno sostituito
_Fosco_; e questi poi probabilmente nel suddetto anno 225 arrivò al
secondo consolato. Correva già il terzo anno che la città di Bizanzio
era assediata dalle milizie di Severo Augusto. Colà dopo la rovina di
Pescennio Negro si era rifuggita gran copia dei di lui uffiziali e
soldati che maggiormente accesero gli animi di quegli abitanti alla
difesa. Dione[1487] assai ampiamente descrive le fortificazioni di
quella città munita di buone mura, perchè di marmo, guernita di alte
torri, di bastioni e di ogni sorta di macchine da guerra, mirabili
essendo fra l'altre le fabbricate da Prisco da Nicea, ingegnosissimo
architetto. Circa cinquecento barchette aveano gli assediati, colle
quali infestavano continuamente la gran flotta spedita colà da Severo.
A nulla servì per atterrire ed esortare alla resa quei cittadini e
soldati l'aver Severo inviata colà la testa di Pescennio Negro. Essi
ostinati più che mai resisterono con far delle maraviglie che pareran
di valore, ma che son piuttosto da dire di pazzia. Imperciocchè, in
vece di procurare il perdono e qualche tollerabil capitolazione,
quando niuna speranza restava lor di soccorso, amarono piuttosto di
ridursi agli estremi, che di cedere. Ciò che non potè ottenere la
forza operò la fame. Giunsero quegli abitanti, dappoichè ebbero
consumati tutti i viveri, anche più schifosi, a mangiarsi l'un
l'altro. Nè restando più altro scampo, gran parte d'essi volle tentar
la fuga colle loro barchette. Aspettato dunque un gagliardo vento,
s'imbarcarono; ma le navi romane furono loro addosso, fracassarono i
loro piccioli legni, di modo che il dì seguente nel porto di Bisanzio
altro non si vide che cadaveri e pezzi di barche rotte. Allora le
grida e i pianti di chiunque restato era nella città, furono oggetti
di gran compassione, nè si tardò più a rendere la città. Entrativi i
Severiani tagliarono a pezzi tutti i soldati che vi trovarono, e
chiunque avea esercitato gli uffizii pubblici. Furono poi d'ordine di
Severo smantellate tutte le mura e fortificazioni di quella
riguardevol città, le terme, i teatri ed ogni altro più bello
edifizio[1488]. Di peggio non avrebbono potuto fare i Barbari.
Dione[1489], che dianzi avea veduta in tanta forza ed onore quella
città, al mirarla poi ridotta a sì miserabile stato, non seppe già
tacciar d'ingiustizia un tanto rigor di Severo, dappoichè con tanta
ostinazione quel popolo volle cozzar col suo sovrano; ma non gli seppe
già perdonare, che lo sdegno suo avesse privato l'imperio romano di un
sì forte antemurale contro i tentativi de' Barbari. Confiscò Severo i
beni di tutti gli abitanti; non solamente li privò di ogni privilegio,
ma anche del titolo di città la lor patria, sottomettendo Bisanzio a
guisa d'un borgo alla città di Perinto, che insolentemente dipoi
esercitò la sua autorità sopra i Bizantini. Al valente ingegnere
Prisco fu salvata la vita, e Severo di lui poscia utilmente si servì
da lì innanzi nelle guerre.

Allorchè accadde la resa di Bisanzio, si trovava Severo nella
Mesopotamia, voglioso di acquistarsi gloria in guerreggiare coi Parti
e con altre di quelle nazioni. Per la grande allegrezza esclamò:
_Abbiamo in fine preso Bisanzio._ Aveano i popoli dell'Osroene, e
dell'Adiabene, gli Arabi e i Parti o prestato aiuto nella passata
guerra a Pescennio Negro, o pure tentato di profittar della discordia
di lui con Severo, saccheggiando il paese romano, e prendendo ancora
alquante castella[1490]. Severo, a cui premeva di far rispettare in
quelle parti il nome romano, mosse guerra a que' popoli. Ma
ritrovandosi di là dall'Eufrate in stagione bollente, in campagne
prive d'acqua, e come soffocate dal gran polverio che facea la marcia
dell'esercito, fu vicino a veder perire tutti i suoi. Trovata
finalmente acqua, tornò ad ognuno il cuore in corpo. Sappiamo inoltre
che Severo spedì _Laterano_, _Candido_ e _Leto_ a mettere a sacco e a
fuoco le nemiche nazioni; nel che fu ben egli ubbidito, con aver
eglino anche prese alcune città. Per tali successi non poco s'invanì
Severo; ma dovette restar alquanto mortificata la di lui vanità,
perchè nel mentre che si cercava con gran premura un certo Claudio,
che faceva continue scorrerie e ruberie per la Giudea e per la Soria,
costui con una mano de' suoi, come se fosse stato un tribuno delle
armate romane, venne a trovar Severo nel campo, l'inchinò e gli baciò
la mano, e poi se n'andò senza che mai riuscisse a Severo di averlo
nelle mani. Da queste prodezze e da tali poco a noi note vittorie di
Severo, si trova a lui dato nelle medaglie il titolo d'_Imperadore per
la sesta, settima ed ottava volta_[1491]. Oltre a ciò il senato romano
gli accordò i titoli di _Adiabenico_, _Partico_ ed _Arabico_: il qual
ultimo ci guida a credere ch'egli facesse guerra anche contra degli
Arabi. Decretogli ancora un trionfo; ma, secondo Sparziano[1492],
Severo ricusò il trionfo, per non parere di voler gloria da una guerra
e vittoria civile. Nè pur volle accettare il titolo di _Partico_, per
non irritar maggiormente quella possente nazione. Nientedimeno in
alcune medaglie di quest'anno il troviamo ornato di tutti e tre i
suddetti titoli. Lo stesso si può osservare in varie iscrizioni. Andò
poscia Severo a Nisibi, e dopo aver onorata quella città di molti
privilegi, ne diede il governo a un cavaliere romano. Osserva
Dione[1493] che Severo si facea bello di aver accresciuto notabilmente
in quelle parti il romano imperio, e provvedutolo di un forte baluardo
colla città di Nisibi; la verità nondimeno era che Nisibi non costava
se non ispese e guerre per cagion de' Medi e Parti che non la
lasciavano mai in pace: il che in vece d'utile, portava seco un gran
danno e dispendio. Ma nel mentre che Severo attendeva a guerreggiar in
Oriente, se gli preparò un più pericoloso cimento in Occidente per la
guerra a lui mossa nella Bretagna da _Clodio Albino Cesare_, di cui
parlerò all'anno seguente. Per ora basterà di sapere che questo
incendio minacciava anche la Gallia; e però all'Augusto Severo fu
d'uopo di abbandonar la Soria, e di ricondurre in Europa per terra la
grande armata divisa in più corpi, dopo averla ben rallegrata con un
magnifico donativo. Racconta Erodiano[1494] ch'egli marciava con
diligenza senza riposo, non distinguendo i dì delle feste da quei da
lavoro. Non l'aggravava fatica alcuna, nè caldo, nè freddo, passando
sovente per montagne piene di nevi, e colla neve che fioccava,
camminando col capo scoperto, per animar i soldati alla fatica e alla
pazienza; ed essi in effetto non per paura, nè per forza, ma per una
bella gara al vedere l'esempio del principe, marciavano allegri. Era
in somma nato Severo per fare il generale di armata. Allorchè egli
pervenne[1495] a Viminacio nella Mesia Superiore sulla ripa del
Danubio, quivi dichiarò _Cesare_ il suo figliuolo primogenito
_Bassiano_, a cui mutò il nome, con farlo chiamar da lì innanzi _Marco
Aurelio Antonino_. Questi è da noi ora più conosciuto pel soprannome
di _Caracalla_, che gli fu dato dagli storici dopo morte, a cagion
d'un abito di nuova invenzione ch'egli portò.

NOTE:

[1485] Reland., in Fastis Consular.

[1486] Thesaurus Novus Inscription., p. 346, n. 2.

[1487] Dio, lib. 74.

[1488] Herodianus, lib. 3.

[1489] Dio, lib. 74.

[1490] Ibidem.

[1491] Mediobarb., in Numism. Imp.

[1492] Spartianus, in Severo.

[1493] Dio, lib. 74.

[1494] Herodianus, lib. 3.

[1495] Spartianus, in Severo.




    Anno di CRISTO CXCVII. Indizione V.

    ZEFIRINO papa 1.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 5.

_Consoli_

APPIO CLAUDIO LATERANO e RUFINO.


La cagione per cui si sconcertò la buona armonia fra _Severo Augusto_
e _Decimo Clodio Albino Cesare_, secondo il costume l'uno la rifondeva
sull'altro. A Severo veniva riferito[1496] che Albino nella Bretagna
si abusava dell'autorità a lui data, facendola più da imperadore che
da Cesare. Anzi Dione aggiugne aver egli scritte lettere a Severo, con
pretensione d'essere dichiarato _Augusto_. Dicevasi inoltre che alcuni
de' principali del senato segretamente scriveano ad Albino,
esortandolo a venirsene a Roma, mentre Severo soggiornava in Levante,
con sicurezza d'essere ben accolto. Nè si potea negare che tutta la
nobiltà romana inclinasse più ad Albino, per esser egli nato da
nobilissima famiglia in Africa: almeno così pretendeva egli, benchè
Severo ciò tenesse per falso. Era anche creduto d'indole mansueta ed
amabile, contuttochè Capitolino[1497] diversamente ne parli. Certo è
altresì che a Severo mancava il pregio della nobiltà, e l'opere sue
spiravano solamente crudeltà. Dall'altro canto poi in cuor di Albino
stavano non poche spine, perchè gli amici suoi gli andavano picchiando
in capo che non si fidasse di Severo, uomo di niuna fede, pieno di
frodi e d'insidie, il quale avendo due figliuoli, non si potea mai
presumere che intendesse di esaltare e preferir Albino in pregiudizio
d'essi. La diffidenza conceputa da Albino passò dipoi in certezza;
imperciocchè Severo alterato contro di lui, sulle prime pensò di
sbrigarsene con ricorrere ad inganni, e fingere ottima volontà verso
di lui in iscrivendo al senato e a lui, per poterlo assassinare. Spedì
in Bretagna corrieri fidati con ordine di parlargli in segreto, e di
ammazzarlo, se potevano; o pure di levarlo di vita col veleno. Albino,
che stava all'erta, e prima di dar udienza facea ben indagare se le
persone portavano armi addosso, accortosi di questa mena[1498], fece
pigliar quei corrieri, e ricavata co' tormenti la verità, ordinò che
fossero impiccati. Ed ecco manifestamente in rotta _Albino_ e
_Severo_. Allora, per consiglio de' suoi, Albino prese il titolo e le
insegne d'_Imperadore_, e raunata gran copia di soldatesche, passò nel
presente anno nella Gallia, dove si studiò di tirar nel suo partito
quante città mai potè. S'ebbero ben a pentirne quelle che il
seguitarono. Severo, che già era in marcia coll'esercito suo venendo
dalla Soria, premise ordini pressanti, affinchè si fornissero di
armati i passi dell'Alpi, per sospetto che Albino tentasse di penetrar
in Italia. Racconta Dione[1499], che saltata fuori questa nuova guerra
civile, gran bisbiglio e mormorazione ne fu in Roma. Amavano Albino,
loro dispiacevano le conseguenze funeste della guerra per le tante
spese e per lo spargimento del sangue de' cittadini; e però in pieno
teatro se ne lamentarono. Venne intanto ordine al senato di pubblicar
il bando contra di Albino, e tosto fu eseguito.

Anche nell'anno precedente si può credere che seguisse qualche
conflitto nella Gallia fra le genti di Albino e quegli uffiziali che
tuttavia conservavano la fedeltà a Severo, scrivendo Capitolino che i
capitani d'esso Severo ebbero delle busse. Ed abbiam qui un'avventura
curiosa narrata da Dione[1500]. Un certo _Numeriano_, che insegnava
grammatica ai fanciulli in Roma, essendogli salito al capo un pensier
bizzarro, se n'andò nella Gallia, e facendosi credere alla gente un
senatore spedito da Severo per mettere insieme un corpo d'armata,
raccolse a tutta prima alcune poche truppe, colle quali diede la mala
pasqua ad alquanta cavalleria d'Albino, e fece dipoi altri bei fatti
in favor di Severo. Ne andò l'avviso ad esso Severo, che credendolo
veramente senatore, gli scrisse lodandolo, e comandando che
accrescesse il suo esercito. L'ubbidì Numeriano, nè solamente fece
varie prodezze contra di Albino, ma inviò anche a Severo un milione e
mezzo di danaro adunato in quelle contrade. Finita poi la guerra, si
presentò a Severo, nè gli tacque cosa alcuna. Avrebbe potuto ottener
molta roba ed onorevoli posti, ma altro non accettò che una lieve
pension da Severo, bastante a farlo vivere in villa con tutta quiete.
Stavasi anche _Albino_ come in pace nella Gallia, godendo di quelle
delizie, quando gli giunse la disgustosa nuova che Severo
coll'esercito suo era già dietro a passar l'Alpi per entrar nella
Gallia. Allora venne a postarsi a Lione con tutta l'oste sua.
Succederono varie scaramucce[1501], e in un fatto d'armi riuscì alle
genti di Albino di sconfiggere _Lupo_ generai di Severo con istrage di
molti soldati. Era impaziente Severo, e voleva una giornata campale,
decisoria della gran lite, fidandosi molto nelle sue agguerrite
milizie, avvezze già alle vittorie, che ascendevano a cinquantamila
combattenti. Un egual numero si pretende che ne avesse anche Albino,
gente di non minor valore e sperienza nel suo mestiere. Però
attaccatasi la feroce e sanguinosa battaglia in vicinanza di poche
miglia a Lione[1502] nel dì 19 di febbraio, amendue le parti
combatterono con incredibil bravura ed ostinazione. Stette lungamente
in bilancio la fortuna dell'armi, quando l'ala sinistra di Albino
piegò, e fu interamente rovesciata sino alle sue tende, intorno allo
spoglio delle quali si perderono i vincitori. Per lo contrario l'ala
destra diede una terribile percossa alle genti di Severo. Secondo lo
stratagemma usato non poco allora, aveano quei di Albino fabbricate
delle fosse coperte di terra, dietro alle quali stavano saettando
mostrando paura. Inoltratisi i Severiani precipitarono dentro, laonde
di essi e dei cavalli fu fatto un gran macello. Retrocedendo gli altri
spaventati, misero in confusione ogni schiera. Allora accorse Severo
coi pretoriani; ma fu così ben ricevuto da quei di Albino, che
uccisogli sotto il cavallo, corse pericolo di restar morto o prigione.
Erano già in rotta tutti i suoi, quando egli, stracciatasi la
sopravveste e collo stocco nudo in mano, si mise innanzi a' suoi
fuggitivi. La sua voce e presenza bastò a farli voltar faccia, e a
ripulsare i nemici. Non s'era mosso finora _Leto_ col suo corpo di
riserva, e fu detto dipoi per isperanza che amendue gl'imperadori
perissero, e che susseguentemente l'una e l'altra fazione desse a lui
lo scettro imperiale, oppure che egli differisse tanto, per unirsi con
chi fosse vincitore. Questa ciarla vien da Erodiano[1503], il quale
aggiugne, da ciò essere proceduto che Severo, invece di ricompensar
Leto, come gli altri generali, gli levasse nell'anno seguente la vita.
Ora Leto, veggendo superiore Severo, con sì duro assalto piombò
anch'egli addosso alle squadre di Albino, che finì di sconfiggerle. Ma
immenso fu il numero de' morti e feriti non men dall'una che
dall'altra parte; e se vogliam credere ad un'usata maniera di dire
degli storici, il sangue scorreva a ruscelli nei fiumi, di maniera che
se i vinti piansero, nè pure risero i vincitori. Il padre Pagi[1504]
riferisce all'anno seguente tutta questa tragedia; ma è ben più
verisimile ch'essa appartenga all'anno presente.

La città di Lione, dopo la vittoria di Severo, divenne il teatro della
crudeltà. Fin colà inseguì Severo i fuggitivi[1505], ed entrate le sue
genti in quella città, la misero a sacco, e poi la bruciarono. Erasi
ritirato _Albino_ in una casa sulle rive del Rodano. Allorchè prese la
risoluzion di fuggire, non fu più tempo, perchè erano occupati i
passi; però diede fine alla sua tragedia con uccidersi di propria
mano[1506]. Altri il dissero ucciso da' soldati, o pure da un servo, e
condotto mezzo morto davanti a Severo, il quale ne mandò il capo a
Roma, con lettere al senato, dolendosi forte in esse, perchè tanti de'
senatori avessero portato amore a costui, e desiderato di vederlo
vincitore: il che atterrì non poco quell'augusto corpo. Sfogò poscia
Severo la rabbia sua contro il cadavero dell'estinto Albino[1507];
perdonò bensì a tutta prima alla moglie e a due figliuoli di lui; ma
da lì a poco li fece svenare e gittare nel Rodano. Aveva egli avuta
l'attenzione di far occupar tutta la segreteria d'Albino, per
conoscere i di lui corrispondenti. Quanti ne trovò fece di poi morire.
Tutta la famiglia d'Albino, e i suoi nobili amici della Gallia e della
Spagna, perderono la vita, sì uomini che donne. Altrettanto avvenne
appresso in Italia, perchè non si perdonò a persona scoperta parziale
dell'estinto Albino. Era implacabil Severo contro a tutti; e perchè
uno de' nobili infelici, che suo malgrado si trovò involto nel partito
contrario, gli dimandò[1508], _cosa desidererebbe egli, se la fortuna
gli fosse stata contraria, e si trovasse ora ne' panni di lui_:
crudelmente gli rispose: _Soffrirei con pazienza quello che tu hai ora
da sofferire_[1509], e il fece ammazzare. Tutti i beni di coloro che
Severo condannò a morte, furono confiscati ed applicati all'erario
privato d'esso imperadore, a cui riuscì facile di premiare ed
arricchire tutti i suoi soldati e i lor figliuoli, perchè si trattò
d'incredibil confisco. Non tornò poi così tosto la quiete nella
Gallia, essendovi restati dei partigiani d'Albino, che fecero testa,
finchè poterono, con prevaler infine la maggior forza di Severo, il
quale in questi tempi divise in due provincie la Bretagna, non la
volendo più sotto il governo d'un solo. Poscia mossosi dalla Gallia a
gran giornate, siccome suo costume era, sen venne a Roma, menando seco
tutta l'armata per maggiormente atterrire i Romani, che tutti già
tremavano, conoscendo che mal uomo fosse questo, e specialmente per le
terribili lettere mandate innanzi. Entrò nella gran città, accolto con
incessanti _Viva_ dal popolo tutto laureato e in gala, e dal senato in
corpo: acclamazioni nondimeno uscite dalla bocca, ma non dal cuore.

Furono lieti questi primi giorni, perchè egli diede un suntuoso regalo
al popolo[1510], ed allargò la sua liberalità sopra i soldati, donando
loro più di quello che mai avesse fatto alcuno de' suoi predecessori,
con accrescere loro la porzione del grano, e conceder anche ad essi di
poter portare anelli d'oro, e il tener mogli o pur donne in casa: cose
non permesse dianzi dalla militar disciplina, e che servirono poi al
loro lusso, e a snervar il vigore della milizia romana. Ma Severo,
purchè si facesse amar dai soldati, null'altro curava, esigendo
solamente d'esser temuto dagli altri. Andò poscia al senato, e
confessa Dione[1511] che un gran ribrezzo corse per l'ossa sue e di
tutt'i suoi colleghi, allorchè lo udirono entrar nelle lodi di
_Commodo Augusto_, di cui avea già cominciato ad intitolarsi
fratello[1512], inveendo contro al senato perchè avea caricato esso
Commodo d'ignominia, e dicendo che la maggior parte d'essi senatori
menavano una vita più scandalosa di lui, e al pari di lui facevano da
gladiatori. Passò ad esaltare Silla, Mario e i primi anni del governo
d'Augusto, ne' quali di gran faccende ebbero le mannaie e le scuri,
pretendendo che questa fosse la maniera più sicura di quetare
l'imperio, di estinguere le fazioni, di prevenir le ribellioni, e non
già quella troppo dolce e pietosa di Pompeo e di Giulio Cesare, che fu
la loro rovina[1513]. Massime detestabili e contrarie alla vera
politica; imperciocchè la crudeltà e l'eccessivo rigore fanno divenir
segreti nemici anche gli amici; laddove la clemenza, adoperata a
tempo, muta i nemici in amici, ed util pruova ne aveano sempre fatto i
principi e buoni e saggi. Andarono a terminar questi tuoni in fulmini,
perchè messe fuori le lettere scritte da vari senatori ad Albino,
contò per grave delitto ogni menoma espression d'amicizia verso di
lui. Perdonò, è vero, a trentacinque d'essi senatori per farsi credere
clemente, e li trattò sempre da lì innanzi come amici; ma ne condannò
senza processo a morte ventinove altri, fra' quali _Sulpiciano_
suocero di Pertinace Augusto. Sparziano[1514] ne nomina fin
quarantadue della principal nobiltà di Roma, la maggior parte stati
consoli, o pretori, o in altre riguardevoli cariche. Erodiano dice di
più[1515], cioè ch'egli levò dal mondo i più nobili e ricchi delle
provincie, sotto pretesto che fossero fautori d'Albino, ma
effettivamente per sete dei lor beni, perchè egli era non mai sazio di
raunar tesori. Tra i fatti morire, uno fu _Erucio Claro_[1516], già
stato console. Gli prometteva Severo la vita, purchè volesse rivelare
ed accusare chi aveva tenuto la parte d'Albino; ma egli protestò che
morrebbe più tosto mille volte, che di far sì brutto mestiere, e si
lasciò in fatti uccidere. Non così operò _Giuliano_, che s'indusse a
far quanto volle Severo, e si salvò. Caro nondimeno gli costò questa
vile ubbidienza, perchè Severo il fece ben ben tormentare, acciocchè
più giuridiche comparissero le di lui deposizioni. Osserva il
Tillemont[1517] che Tertulliano[1518] vivente in Africa in questi
tempi animava i martiri cristiani a sofferir i tormenti e la morte
coll'esempio di tanti nobili romani che Severo avea sagrificati al suo
furore, nè merito alcuno acquistavano colla lor pazienza. Imperciocchè
sotto Severo infierì di nuovo la persecuzion de' Pagani contro chi
professava la fede di Cristo. Ed appunto si crede che in quest'anno
san _Vittore_ papa celebre terminasse col martirio, e che a lui
succedesse _Zefirino_.

Ad una specie di frenesia attribuì Sparziano[1519] l'avere l'Augusto
Severo preso ad onorar la memoria di _Commodo Imperatore_, con
dichiararsi, come accennai, suo fratello: del che si truova memoria in
qualche iscrizione. Volle egli inoltre che il senato suo malgrado
decretasse gli onori divini a sì screditato Augusto: il che sempre più
fa scorgere la pazzia di una religion tale, che dovea tener per dio un
principe lordo di tutti i vizii. E fin qui era vivuto in pace quel
Narciso atleta che strangolò Commodo. Severo, divenuto protettore e
panegirista di Commodo, fece in quest'anno gittare costui nel
serraglio dei lioni. Per essersi egli dichiarato fratello d'esso
Commodo e figliuolo di Marco Aurelio[1520], _Pollenio Sebennio_, uomo
avvezzo a proferir dei motti arguti, ebbe tanto animo di dire a
Severo, _che si rallegrava con lui, perchè avesse trovato il padre_,
quasi che il vero suo padre per la bassezza de' suoi natali non si
sapesse. Pure il sì accorto Severo non si avvide della burla.
Venne[1521] appunto a trovarlo, non so dove, una sua sorella, maritata
già poveramente in Leptis città dell'Africa, con un suo figliuolo;
Severo la regalò da par suo, e creò anche senatore suo figlio; ma,
vergognandosi ch'ella nè men sapesse parlar latino, la rimandò a casa.
In breve tempo quel figliuolo terminò i suoi giorni. Secondo i conti
di Sparziano, accrebbe Severo in quest'anno gli onori a Bassiano suo
primogenito, appellato già Marco Aurelio Antonino, e da noi chiamato
_Caracalla_, disegnandolo suo successore, e facendogli dare dal senato
gli ornamenti imperiali. Erodiano[1522] vuole che il dichiarasse anche
collega nell'imperio; intorno a che hanno disputato gli eruditi, e i
più convengono doversi riferire all'anno seguente cotesti onori, non
essendo già probabile, come vorrebbe il padre Pagi[1523], che Severo
concedesse in quest'anno la tribunizia podestà a Caracalla, e che solo
nel seguente gli fosse confermata dal senato. Gran tempo era che il
senato faceva tutto quanto comandavano i dominanti Augusti, e bastava
che aprissero la bocca per essere tosto ubbiditi. Sembra poi, secondo
il suddetto Erodiano, che in quest'anno l'Augusto Severo, dopo essersi
fermato per qualche tempo in Roma, marciasse di nuovo coll'armata in
Oriente: del che mi riserbo di parlare nell'anno seguente.

NOTE:

[1496] Herodianus, lib. 3.

[1497] Capitolinus, in Albino.

[1498] Capitolinus, in Albino.

[1499] Dio, lib. 75.

[1500] Ibidem.

[1501] Dio, lib. 75.

[1502] Capitolinus, in Severo.

[1503] Herodianus, lib. 3.

[1504] Pagius, in Critic. Baron., ad annum 198.

[1505] Dio, lib. 71.

[1506] Capitolinus, in Albino.

[1507] Spartianus, in Severo.

[1508] Aurelius Victor., in Breviario.

[1509] Spartianus, in Severo.

[1510] Herodianus, lib. 3.

[1511] Dio, lib. 75. Herodianus, lib. 3.

[1512] Spartianus, in Severo.

[1513] Aurelius Victor, in Breviario.

[1514] Spartianus, in Severo.

[1515] Herodianus, lib. 3.

[1516] Dio, in Excerptis Vales.

[1517] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1518] Tertull., ad Martyres.

[1519] Spartian., in Sev.

[1520] Dio, lib. 71.

[1521] Spartianus, in Severo.

[1522] Herod., lib. 3.

[1523] Pagius, in Critic. Baron., ad hunc annum.




    Anno di CRISTO CXCVIII. Indizione VI.

    ZEFIRINO papa 2.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 6.
    CARACALLA imperadore 1.

_Consoli_

SATURNINO e GALLO.


Perchè non paiono ben sicuri i prenomi di _Tiberio_ e di _Cajo_, dati
da taluno a questi due consoli, io non ho posto se non i loro cognomi.
Certamente non era molto in uso di notare i consoli col prenome e
cognome, lasciando andare i lor nomi. O sia che l'Augusto Severo
nell'anno precedente, o pure nel presente s'inviasse in Levante, certo
è che egli si mosse per fare una nuova guerra in quelle parti. Sì
Erodiano[1524] che Sparziano[1525] pretendono che niuna necessità vi
fosse in questa guerra, ed averla Severo intrapresa unicamente per la
sua capricciosa voglia di volere un trionfo, giacchè i Romani non
solevano trionfare per le vittorie ottenute nelle guerre civili. Ma
qui si truova la storia in gravi imbrogli, non tanto per determinare i
tempi di tali imprese, che sono scuri e controversi fra gli scrittori
moderni, quanto per esporre le imprese medesime, essendo troppo
discordi fra loro Dione, Erodiano e Sparziano, cioè le uniche nostre
scorte per gli affari di questi tempi. Dall'ultimo di questi scrittori
abbiamo che Severo da Brindisi traghettò l'esercito in Grecia, e per
terra continuando la marcia, arrivò in Soria. E qui Dione[1526] vien
dicendo che, trovandosi occupato Severo nella guerra contro d'Albino,
i Parti aveano agevolmente occupata la Mesopotamia, ed anche messo
l'assedio alla città di Nisibi. Leto, che verisimilmente dopo la rotta
data ad Albino, era stato spedito da Severo in quelle contrade, quegli
fu che difese Nisibi. Però ecco contraddizione fra questo fatto e il
dirsi da Erodiano e Sparziano che Severo, senza bisogno alcuno e per
sola sete di gloria, entrò in questo nuovo cimento. E pur ciò è poco
rispetto a quello che aggiugnerò. Scrive lo stesso Erodiano che il
pretesto preso da Severo per tal guerra fu di vendicarsi del re
d'Atra, che s'era dichiarato in favor di Pescennio Negro nella
precedente guerra. Si partì egli dunque con pensiero di malmettere
l'Armenia; ma prevenuto da quel re con regali, ostaggi e preghiere,
comparve poi come amico in quel paese. Anche il re dell'Osroene
_Abgaro_ gli diede per pegno della sua fede i suoi figliuoli, e
somministrò una gran copia di arcieri all'esercito romano. Poscia
Severo, passato il paese degli Albeni, entrò nell'Arabia Felice (cosa
dura da credere), e dopo aver espugnate molte città e castella, e dato
il guasto a quelle contrade, si portò all'assedio di Atra, città
fortissima, sì per le sue mura, come per essere situata sopra una
montagna e guernita di bravi arcieri. Fecero una terribil difesa gli
Atreni, bruciarono le macchine degli assedianti; perì quivi gran
quantità di Romani per le spade e saette de' nimici, ma più per le
malattie che entrarono nel loro campo. Però fu forzato l'imperadore a
levar l'assedio con rabbia e confusione incredibile, perchè, essendo
avvezzo alle vittorie, ora gli parve d'essere vinto, perchè non avea
vinto. Dipoi voltò l'armi contra dei Parti. Così Erodiano[1527].
Dione, all'incontro, scrive[1528], che i Parti, senza aspettar
l'arrivo di Severo, se n'erano tornati alle case loro: e che Severo
giunse a Nisibi, dove trovò che un grossissimo cignale avea buttato
giù da cavallo ed ucciso un cavaliere. Trenta soldati appresso tanto
fecero che uccisero quella bestia, e la presentarono a Severo, il
quale non tardò a portar la guerra addosso ai Parti, chiamando
_Vologeso_ quel re che da Erodiano vien appellato _Artabano_.
Succedette dipoi, secondo Dione, l'assedio infelice d'Atra. Ma perchè
il medesimo storico mette due assedii di quella città, situata non so
dire se nella Mesopotamia non lungi da Nisibi, o pur nell'Arabia, come
vuole lo stesso Dione, pare che il primo si possa riferire all'anno
presente; e tanto più perchè quell'autore lo mette intrapreso
dappoichè Severo fu entrato in essa Mesopotamia. Noi abbiam le storie
di Dione troppo accorciate e sconvolte da Sifilino.

Staccatosi da Atra l'Augusto Severo, se pur sussiste l'assedio
suddetto nell'anno presente, mosse l'armi contra de' Parti. Vuole
Erodiano[1529], che imbarcatesi le di lui soldatesche, fossero per
accidente trasportate dall'empito dell'acque nel paese d'essi Parti,
mentre quel re se ne stava con tutta pace senza aspettare ostilità
alcuna dai Romani; laddove Dione[1530] attesta che i Parti aveano poco
prima fatto guerra nella Mesopotamia, e che Severo fece gran
preparamento di barche leggere da mettere nell'Eufrate per assalire i
medesimi Parti. Allorchè fu in ordine l'armamento navale, marciò
l'armata romana, ed entrò in Seleucia e in Babilonia, abbandonate dai
nemici, e poco appresso sorprese, o pur colla forza acquistò
Ctesifonte, reggia in que' tempi de' Parti. Secondo Sparziano[1531],
ciò accade sul fin dell'autunno. Ne fuggì il re Vologeso, o sia
Artabano, con pochi cavalli; furono presi i di lui tesori; permesso il
sacco della città ai soldati, i quali, dopo un gran macello di
persone, vi fecero centomila prigioni. Ma non si fermò molto
l'imperadore in quella città per mancanza di viveri, e tornossene
coll'armata piena di bottino indietro. Se non falla Sparziano[1532],
fu in questa occasione che gli allegri soldati proclamarono collega
nell'imperio, cioè _Imperadore Augusto_, _Marco Aurelio Antonino
Caracalla_, primogenito d'esso imperador Severo, e _Cesare Geta_ suo
secondogenito. Ora dai più si crede che solamente nel presente anno
Caracalla conseguisse questo onore, e, per conseguente, il differire
la presa di Ctesifonte all'anno di Cristo 200, come han fatto il
Petavio, il Mezzabarba e il Bianchini, non sembra appoggiato ad assai
forti fondamenti. Ho io rapportata[1533] un'iscrizione dedicata XIII.
KAL. OCTOBR. SATVRNINO ET GALLO COS., cioè in quest'anno in cui
Caracalla si vede appellato _Imperadore Augusto_, e dotato
dell'_autorità tribunizia e proconsolare_. V'ha qualche medaglia[1534]
che ci rappresenta Severo sotto quest'anno _Imperadore per la decima
volta_; il che è segno (quando ciò sussista) della vittoria riportata
contra de' Parti. Con magnifiche parole diede Severo[1535] un distinto
ragguaglio di queste sue vittorie al senato e popolo romano, e ne
mandò anche la descrizione dipinta in varie tavolette che furono
esposte in Roma. Nè fu minore la diligenza del senato in accordargli
tutt'i più onorevoli titoli delle nazioni ch'egli diceva d'aver
soggiogate; e l'adulazione inventò allora quello di _Partico Massimo_,
che si comincia a trovar nelle iscrizioni e medaglie. A lui fu
decretato il trionfo. Se crediamo al suddetto Sparziano[1536], senza
saputa, non che consenso di Severo, seguì la proclamazione di
_Caracalla Augusto_; e perchè il padre o seppe o s'immaginò ciò fatto
perchè egli pativa delle doglie articolari, o pur delle gotte ne'
piedi, nè potea ben soddisfare ai bisogni della guerra, salito sul
trono, e fatti venir tutti gli uffiziali dell'armata, volea gastigar
chiunque era stato autore di quella novità. Ognun d'essi si gittò
ginocchioni, chiedendo perdono. Terminò questa scena solamente in dir
egli: _Avete da conoscere in fine, essere la testa che comanda, e non
i piedi._ Al Salmasio questa parve una frottola di Sparziano. Il
Tillemont[1537] cerca di renderla verisimile con dire che Caracalla
dovette far questo maneggio per escludere Geta suo fratello: il che
dispiacque a Severo. O pure che ciò potè accadere nell'ultima guerra
da lui fatta nella Bretagna, siccome vedremo. Son plausibili le di lui
riflessioni; ma come sarà poi vero che _Caracalla_ acquistasse
nell'anno presente il titolo d'_Augusto_?

NOTE:

[1524] Herodian., Histor., lib. 3.

[1525] Spartianus, in Severo.

[1526] Dio, lib. 75.

[1527] Herodianus, lib. 3.

[1528] Dio, lib. 75.

[1529] Herodianus, lib. 3.

[1530] Dio, lib. 75.

[1531] Spartianus, in Severo.

[1532] Spartianus, ibidem.

[1533] Thes. Novus Inscript., Clas. XV, p. 1035, num. 6.

[1534] Mediobarbus, in Numismat. imperat.

[1535] Herodianus, lib. 4.

[1536] Spartianus, in Severo.

[1537] Tillemont, Mémoires des Empereurs.




    Anno di CRISTO CXCIX. Indizione VII.

    ZEFIRINO papa 3.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 7.
    CARACALLA imperadore 2.

_Consoli_

PUBLIO CORNELIO ANULINO per la seconda volta, e MARCO AUFIDIO
FRONTONE.


Di due assedii della città di Atra, siccome accennai, fatti
dall'Augusto Severo, noi siamo accertati dallo storico Dione[1538]. Il
primo, per attestato di Erodiano[1539], dovrebbe appartenere all'anno
precedente, assedio calamitoso ed insieme frustraneo all'armata
romana. Funesto riuscì sopra tutto il medesimo a due de' primi e più
valorosi uffiziali. L'uno fu _Giulio Crispo_, tribuno de' soldati
pretoriani. Questi, perchè si trovava stanco per le fatiche militari,
e in collera al vedere che l'imperadore, per l'ostinata sua ambizione
e vanità, consumava tante truppe intorno a quell'inespugnabil
fortezza, cominciò a cantar quei versi di Virgilio nel libro undecimo
dell'Eneide, dove Drance si duole _che Turno fa perir senza ragione
tanti de' suoi soldati_. Riferito ciò a Severo, non vi volle altro,
perchè egli il facesse tosto ammazzare, con dar poi quel posto ad un
semplice soldato appellato Valerio, stato accusatore dello stesso
Crispo. L'altro fu _Leto_, quel medesimo che già vedemmo principal
autore della vittoria riportata da Severo contra di Albino; L'amavano
forte i soldati, e perchè un dì non voleano combattere, se non erano
guidati da lui, tal gelosia prese Severo per cagione di tanta
parzialità mostrata da quella gente al suo generale, che a lui fece
torre la vita. Dione ci rappresenta questo personaggio per uomo di
rara prudenza negli affari civili, e di non minor prodezza nei
militari, con attribuire l'indegna sua morte, non già all'aver egli
meditato de' tradimenti nella battaglia di Lione, come asserisce
Erodiano e il suo seguace Sparziano, ma solamente all'abbominevole
invidia ed inumanità di Severo. Ne ebbe poi tal rossore lo stesso
Severo[1540], che si diede a volere far credere che Leto contra sua
volontà era stato ucciso dai soldati. Tornò dunque[1541] nell'anno
presente esso imperadore all'assedio di Atra, dopo aver fatta gran
provvisione di viveri e di macchine, perchè nulla a lui parea di aver
fatto, se non superava quella forte rocca. Ma Iddio avea destinato
questa medesima città per umiliare l'orgoglio di Severo. Vi perdè egli
intorno anche questa volta un numero grande di milizie, e i nemici con
bitume acceso fecero un falò di tutte le di lui macchine di legno, a
riserva delle fabbricate da Prisco, ingegnere famoso di Nicea.
Contuttociò essendo caduta una parte del muro esteriore, allorchè
l'esercito a tal vista incoraggito dimandava di andare all'assalto,
Severo nol volle, e fece sonar la ritirata. Ne fu data la colpa alla
somma sua avarizia, perchè voce correa che in quella città si
chiudessero immensi tesori, e massimamente in un tempio del Sole, che
quivi era in gran venerazione; e Severo si figurava, che esponendo gli
Atreni bandiera bianca, si avrebbe egli ingoiate tutte quelle
ricchezze. Ma gli Atreni niun segno fecero di volersi dare; anzi la
notte rifabbricarono, il meglio che poterono, la caduta muraglia.
Venuto il dì seguente, Severo, trovate fallite le sue idee e fumando
di collera, comandò all'esercito di dar l'assalto, ma niuno de'
soldati europei il volle ubbidire, amareggiati troppo dalla vittoria
loro tolta di mano nel dì innanzi dalla insaziabilità di Severo. Per
forza v'andarono i Soriani; ma gran sangue costò loro l'ubbidienza, e
la città tenne forte. Tanta fu allora l'agitazion di Severo al vedere
l'ammutinamento nei soldati, che essendo venuto uno de' suoi capitani
a domandargli solamente cinquecento cinquanta soldati, co' quali si
prometteva di entrar nella città, non potè contenersi dal dire a
sentita d'ognuno: _Ma onde prenderemo noi tanta gente?_ Sicchè, dopo
venti giorni d'infelice assedio egli più che prima malcontento di sè
stesso lasciò Atra in pace. Potrebbe essere che questo assedio
appartenesse ad uno dei seguenti anni: a buon conto qui ne ho fatta
menzione. Che fossero o pur fossero stati dei rumori di guerra anche
in Palestina verso questi tempi, si può dedurre da Eusebio[1542], il
quale all'anno quinto di Severo mette il cominciamento di una guerra
nella Giudea e nella Samaria. E che guerra appunto facessero quivi i
Romani, possiam raccoglierlo da Sparziano[1543], il quale scrive avere
il senato romano accordato a Caracalla Augusto di lui figliuolo il
_Trionfo Giudaico_, a contemplazione ancora delle felici imprese della
Soria. Qual altra azione facesse in Oriente l'Augusto Severo, nol
saprei dire, restando esse in troppa caligine involte, e senza poter
noi accertare i tempi, ne' quali accaddero. Ma essendovi qualche
medaglia[1544], in cui esso Severo comparisce nell'anno presente
acclamato _Imperadore per l'undecima volta_, questo ci reca indizio di
qualche vittoria riportata in esso anno. Nella Cronica di Eusebio è
scritto che Severo in questi tempi talmente domò anche gli Arabi
_interiori_, che formò una provincia romana del loro paese.

NOTE:

[1538] Dio, lib. 75.

[1539] Herodianus, lib. 3.

[1540] Spartianus, in Severo.

[1541] Dio, lib. 75.

[1542] Euseb., in Chron.

[1543] Spartianus, in Sev.

[1544] Mediobarbus, in Numismat. Imper.




    Anno di CRISTO CC. Indizione VIII.

    ZEFIRINO papa 4.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 8.
    CARACALLA imperadore 3.

_Consoli_

TIBERIO CLAUDIO SEVERO e CAJO AUFIDIO VITTORINO.


Una bella iscrizione si vede in Roma, scoperta negli anni addietro, e
da me rapportata nella mia Raccolta[1545]. Fu essa dedicata nel primo
dì di aprile, SEVERO ET VICTORINO COS., cioè nell'anno presente, da
una compagnia di soldati ritornata dalla spedizione contro i Parti,
_per la salute, per l'andare e ritornare, e per la vittoria
degl'imperadori Severo_, il qual si chiama dotato della _podestà
tribunizia VIII_, ed _imperadore per l'undecima volta_, e di _Marco
Aurelio Antonino_ cioè Caracalla, al quale si attribuisce la _Podestà
Tribunizia III_. Dal che apparisce che prima delle calende dell'anno
198, Caracalla avea conseguita la podestà tribunizia. Fu di parere il
Petavio, seguitato dal Mezzabarba[1546] e dal Bianchini, che in
quest'anno si facesse la guerra partica, e succedesse ora solamente la
presa di Seleucia, Babilonia e Ctesifonte. E veramente rapporta esso
Mezzabarba monete, dove si legge VICTORIA PARTHICA MAXIMA, da lui
credute spettanti a questo anno. Ma, oltre all'osservarsi che alcune
di esse possono appartenere anche agli anni precedenti, perchè
accompagnate dal numero della podestà tribunizia, conviene avvertire
che non nelle sole monete dell'anno, in cui succedeano le vittorie
degli imperadori, si truova menzione delle medesime vittorie, ma in
alcune ancora degli anni susseguenti, e però non si può far capitale
di sì fatta nozione. All'incontro a dimostrare che prima di quest'anno
succedessero le imprese suddette contra de' Parti, bastar dovrebbe
l'osservare


che Severo anche nel precedente anno era _Imperadore per l'undecima
volta_, e nel presente non più che tale comparisce nelle monete:
laonde non è da credere che a quest'anno sia da riferir la guerra e la
vittoria riportata contra dei Parti. Ma e che operò Severo in Oriente
in questi tempi? Noi non troviamo che oscurità. A me dunque sia lecito
di riferir qui ciò che forse non disconviene al presente anno. Una
delle applicazioni di Severo[1547], allorchè andava girando per le
città d'Oriente, era d'indagare chiunque fosse stato amico o parziale
di Pescennio Negro, tanto tempo prima ucciso, sempre con la mira
d'occupar le loro sostanze: perchè in ciò non si dava mai posa la di
lui avarizia. Dico ciò, seguitando Sparziano[1548], che per altro
Dione[1549] storico più fidato attesta, non aver Severo fatto
ammazzare alcuno per avidità della roba loro. Certo è che in questi
tempi molte persone, accusate della parzialità suddetta, furono da lui
private di vita, _graspugliando egli dopo la vendemmia_, come dice
Tertulliano[1550]. _Plauziano_, prefetto del pretorio, della cui
malvagità parleremo fra poco, o era l'autore di tutte queste iniquità,
o almeno andava maggiormente attizzando alla crudeltà Severo; e
verisimilmente le stesse ricerche non si ometteano in Roma e nelle
provincie europee[1551]. Raccontasi, che mentre si facea cotal
persecuzione ai partigiani di Negro e di Albino, per la quale diceva
Severo ai suoi figliuoli _di liberarli dai nemici_; il giovine
Caracalla ne mostrava piacere ed aggiugneva, _doversi anche far morire
i figli di costoro_. Allora Geta, minor suo fratello, dimandò se
costoro aveano de' parenti. _Molti_, rispose Severo. E Geta: _Molti
ancora avremo che ci odieranno._ Poi voltatosi a Caracalla, gli disse:
_Se voi non perdonate a chi che sia, potrete benanco ammazzar vostro
fratello_; il che fu una predizione di quel che poscia avvenne. Notò
il padre queste savie parole del fanciullo, e gli piacquero; ma
profittar non seppe per la prepotenza del suddetto _Plauziano_ e di
_Giuvenale_ prefetti del pretorio, intenti troppo a far buona borsa
colle altrui calamità. Perderono ancora molti la vita, accusati di
aver interrogato gl'indovini caldei intorno alla salute
degl'imperadori. A quest'anno scrive Eusebio[1552], che furono
fabbricate in Antiochia e in Roma le Terme di Severo Augusto e il
Settizonio. Sparziano[1553] non parla se non delle Terme romane e del
Settizonio, fabbrica di gran magnificenza, intorno al sito e
all'impiego della quale disputano tuttavia gli eruditi, credendolo
alcuni un mausoleo, ed altri un edifizio ad uso civile.

NOTE:

[1545] Thesaurus Novus Inscript., pag. 347.

[1546] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.

[1547] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1548] Spartianus, in Sever.

[1549] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1550] Tertullianus, in Apologet., cap. 35.

[1551] Spart., in Sev. et in Geta.

[1552] Euseb., in Chronic.

[1553] Spartianus, in Sever.




    Anno di CRISTO CCI. Indizione IX.

    ZEFIRINO papa 5.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 9.
    CARACALLA imperadore 4.

_Consoli_

LUCIO ANNIO FABIANO e MARCO NONIO ARRIO MUCIANO.


Che così s'abbia a scrivere il nome del secondo console, apparisce da
una iscrizione della mia Raccolta[1554]. Nè pur sappiamo qual cose si
andasse facendo in Levante l'Augusto Severo nell'anno presente. Dalle
medaglie[1555] risulta, che egli circa questi tempi cominciò ad usare
il titolo di _Pio_, che frequente poi si osserva da lì innanzi. Stava
pur male ad un imperador sì crudele e spietato un sì bel titolo.
Quello di _Pertinace_, perchè egli era proverbiato a cagion d'esso,
andò a poco a poco in disuso. Abbiamo inoltre da Sparziano[1556], che
soggiornando esso Severo in Antiochia, diede la toga virile a
_Caracalla Augusto_ suo figliuolo. S'è vero, come pretende il padre
Pagi, che Caracalla[1557] fosse nato nell'anno 188, nel dì 6 d'aprile,
egli anticipò d'un anno questa funzione, non solendo i Romani prendere
essa toga se non compiuto l'anno quattordicesimo della loro età.
Disegnò ancora sè stesso console per l'anno prossimo venturo,
prendendo per collega in esso consolato il medesimo Caracalla. So io
molto bene che Sparziano riferisce all'anno seguente l'andata di
Severo Augusto in Egitto: nel che è seguito da insigni scrittori. Ma
non essendo Sparziano in tanti altri punti uno scrittore sì esatto,
come ognun confessa, io chieggo licenza di riferir questo viaggio
all'anno presente, perchè vo credendo che gl'imperadori nel seguente
anno ritornassero a Roma più presto di quel che credono alcuni.
Abbiamo dunque da Dione[1558], che terminato infelicemente l'assedio
di Atra, lo Augusto Severo andò in Palestina. Quivi perdonò ai Giudei
ch'erano stati parziali di Pescennio Negro[1559], e fece molti
regolamenti pel governo di quel paese; ma con proibire sotto rigorose
pene che alcuno potesse abbracciare la religione giudaica, e stese
questo divieto anche alla cristiana. Eusebio[1560] nell'anno seguente
mette la quinta persecuzion de' Cristiani. Il resto nondimeno, come fu
pubblicato da Gioseffo Scaligero, non è sicuro; imperciocchè nella
Cronica Alessandrina[1561] sotto questi consoli, e non già sotto i
seguenti, vien riferita la suddetta persecuzione, per cui moltissimi
fedeli riceverono la corona del martirio. Per altro può essere che la
medesima cominciasse in quest'anno, e crescesse di poi nel seguente.
Quindi passò Severo in Egitto, dove, dopo aver visitato il sepolcro di
Pompeo, si portò ad Alessandria. Abbiamo da Suida[1562], che,
nell'entrare in quella città, egli osservò un'iscrizione con queste
parole in greco, che qui rapporto in latino: DOMINI NIGRI EST HAEC
CIVITAS. Se ne turbò egli forte, ma gli spiritosi Alessandrini
risposero tosto, _contener essa iscrizione verità, perchè quella città
era del signore di Pescennio Negro_; e Severo se ne contentò. Lo creda
chi vuole. Poco verisimile è quella iscrizione, e troppo stiracchiata
l'interpretazione. Trattò Severo gli Alessandrini assai bene. Nei
tempi addietro il solo governatore cesareo amministrava quivi la
giustizia. Concedette loro[1563] che avessero da lì innanzi il loro
senato, e che giudicassero delle cause, a mio credere, civili. Fece
anche altre mutazioni in lor favore. Poscia imbarcatosi sul Nilo,
volle visitar tutte le città ed i luoghi più celebri di quella
fortunata provincia, e massimamente Menfi, le Piramidi, il Labirinto e
la statua di Mennone. Soleva poi ricordarsi con piacere di questo suo
pellegrinaggio, per aver veduto tante belle memorie, tanti diversi
animali, e il culto di quelle deità, massimamente ne' templi
memorabili di Serapide. Nulla vi fu di cose sacre o profane[1564], e
specialmente delle più recondite, delle quali non volesse essere ben
informato: ma portò via da essi templi quanti libri potè mai trovare,
contenenti dei segreti. Fece chiudere il sepolcro di Alessandro, in
maniera che niuno da lì innanzi potesse mirare il di lui corpo, nè
leggere le iscrizioni ivi contenute. Sul supposto intanto che tal suo
viaggio si facesse nell'anno presente, egli di là partito verso il
principio del verno, arrivò ad Antiochia, e quivi passò la seguente
fredda stagione. Che poi in questo anno Caracalla, come vuole il padre
Pagi[1565], celebrasse il suo trionfo giudaico, allora c'indurremo a
crederlo che ci sarà dimostrato che gli Augusti trionfassero fuori di
Roma. A Roma certamente non tornarono in quest'anno gl'imperadori.

NOTE:

[1554] Thesaurus Novus Inscript., p. 348, n. 5.

[1555] Mediobarbus, in Numism. Imperat.

[1556] Spartianus, in Sever.

[1557] Pagius, in Critic. Baron.

[1558] Dio, lib. 75.

[1559] Spartianus, in Severo.

[1560] Eusebius, in Chron.

[1561] Chronic. Paschal., Tom. II, Hist. Byz.

[1562] In Excerpt. Suidae, Tom. I, Hist. Byz.

[1563] Spartianus, in Severo.

[1564] Dio, lib. 75.

[1565] Pagius, in Critic. Baron., ad hunc annum.




    Anno di CRISTO CCII. Indizione X.

    ZEFIRINO papa 6.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 10.
    CARACALLA imperad. 5.

_Consoli_

LUCIO SETTIMIO SEVERO AUGUSTO per la terza volta, e MARCO AURELIO
ANTONINO CARACALLA AUGUSTO.


Perchè sul principio di quest'anno soggiornavano tuttavia in Antiochia
i due Augusti, quivi perciò diedero principio al loro consolato. Di là
poi, secondo Sparziano[1566], andò Severo in Egitto; ma, a tenore
della mia supposizione, egli non aspettò la primavera a mettersi in
viaggio per tornare dopo tanto tempo in Europa e a Roma. Certo è
ch'egli fece questo viaggio per terra nella Bitinia, arrivò a Nicea, e
passò il mare allo stretto del Bosforo Tracio. Perciò potrebbe essere
che succedesse allora ciò che racconta Suida[1567], cioè che arrivato
a Bisanzio, gli vennero incontro quei cittadini con corone di ulivo in
capo gridando: _Viva_, e dimandando loro vita e grazia. Li sottopose
ben egli di nuovo a Perinto, ma perdonò loro, ed ordinò che quivi si
fabbricasse l'anfiteatro coi portici per le cacce, e un circo
magnifico con dei bagni nel tempio di Giove appellato Seusippo.
Rifabbricò ancora il pretorio. Tutte queste fabbriche furono bensì
cominciate sotto Severo, ma Caracalla suo figliuolo quegli fu poi che
le perfezionò. Passando per la Tracia, si può credere che allora
_Massimino_, il qual fu poi imperadore, fosse conosciuto per la prima
volta da Severo Augusto[1568]; perchè celebrandosi il dì natalizio di
Geta suo figliuolo nel dì 27 di maggio, Massimino allora pastore fece
di gran pruove nei giuochi, allora celebrati dall'armata per ordine
dell'imperadore. Abbiamo da Erodiano[1569] che Severo, in transitando
per la Mesia e per la Pannonia, diede la mostra a quegli eserciti; e
di là poi continuando il viaggio, pervenne in Italia, e finalmente in
Roma. Entrò nell'augusta città, secondo Sparziano[1570], colla sola
ovazione, cioè con una solennità minore del trionfo; ma Erodiano ci fa
abbastanza intendere, ch'egli col figliuolo Caracalla veramente
trionfò fra gl'incessanti viva e plausi del popolo; fece anche delle
magnifiche feste, dei sagrifizii e spettacoli suntuosissimi, e diede
ad esso popolo un ricchissimo congiario.

Prima nondimeno di spiegar meglio in che consistessero quelle
grandiose feste, convien avvertire che il Mezzabarba[1571] in questo
medesimo anno mette insieme l'andata di Severo Augusto da Antiochia in
Egitto, il suo ritorno in Italia, il trionfo e le nozze di Caracalla:
il che non può mai stare, considerato il tempo che si dovette spendere
in tante ricerche fatte da Severo in Egitto, e la sterminata lunghezza
de' viaggi fatti tutti per terra, e coll'accompagnamento di un'armata.
Però il Pagi[1572] e il Tillemont[1573] differirono all'anno seguente
l'arrivo a Roma di Severo e il suo trionfo, con riferir al presente il
suo viaggio e la sua dimora in Egitto. Crede anche esso padre Pagi di
ricavar ciò da più di una medaglia, dove si legge ADVENT. AVGVSTOR.,
correndo la _Podestà Tribunizia X_ di Severo, che terminava nel dì 13
d'aprile dell'anno seguente. A me all'incontro più verisimile sembra
che nel precedente anno Severo fosse in Egitto, e nel presente
arrivasse a Roma. Quelle stesse medaglie convengono più al presente
che al susseguente anno, come ancora conghietturò il Mezzabarba,
giacchè la tribunizia podestà decima di Severo ebbe, per confession
del Pagi, principio nel dì 13 di aprile di quest'anno. Quel che è più,
riconosce il Pagi preso il consolato dagli Augusti in quest'anno,
perchè Severo era entrato nel decennio del suo imperio, e Caracalla
nel quinquennio, volendo poi, contra le stesse sue regole, ch'essi
Augusti differissero le feste e i voti decennali e quinquennali nel
seguente anno. Se avessero voluto differir tali feste, doveano anche
riserbare il consolato al seguente anno. Però è da credere più tosto
che tali solennità si facessero in questo, essendo essi consoli.
Inoltre Dione[1574] scrive che Severo, allorchè fu entrato nel decimo
anno del suo imperio, diede al popolo quel superbo congiario, e questo
senza dubbio gliel diede in Roma. Ma avendo noi veduto che nell'aprile
di quest'anno cominciava l'anno suo decimo, in esso ancora dovettero
succedere le feste suddette. Il Tillemont pensa che Severo arrivasse a
Roma verso il fine di maggio dell'anno seguente. Ma se lo ADVENT.
AUGUSTOR., segnato nelle medaglie significa l'arrivo succeduto,
correndo la podestà tribunizia _decima_, non può sussistere tale
opinione, perchè, secondo i conti del padre Pagi, allora Severo godeva
dell'_undecima_. Ora noi abbiamo da Dione, che in questi tempi si vide
nel pubblico anfiteatro un crudel combattimento di donne; ed avendo
esse dipoi caricato di villanie le nobili matrone romane, uscì un
proclama, che da lì innanzi non fosse permesso alle donne il far da
gladiatori. Aggiugne esso storico, che pel ritorno di Severo, pel suo
decennio e per le sue vittorie si fecero varii spettacoli in Roma,
cioè di combattimenti e cacce di fiere. Sessanta cignali di Plauziano
in un dì si azzuffarono insieme, e furono uccise altre bestie, fra le
quali un elefante e una crocota, non mai più veduta in Roma. Fattasi
una macchina nell'anfiteatro a guisa di nave, questa si sciolse, e ne
uscirono orsi, lionesse, pantere, struzzoli, asini selvatici e
bissonti. Per sette dì durarono le feste, e in cadaun giorno cento
fiere uccise diedero sollazzo al popolo. Il congiario dato da Severo
al popolo, e il donativo ai soldati, fu di dieci monete d'oro per
cadauno a misura degli anni del suo principato: del che si compiaceva
egli, perchè niuno dei suoi predecessori era giunto a sì eminente
liberalità. A queste feste accrebbe decoro l'aver anche l'_Augusto
Caracalla_ presa in moglie _Fulvia Plautilla_, figliuola di
_Plauziano_, favorito di Severo, di cui parlerò nell'anno seguente.
Diede egli tanto in dote ad essa sua figliuola, che, per attestato di
Dione, sarebbe stato sufficiente a maritar cinquanta regine. E si
videro passar per la piazza le portate degli arredi ed ornamenti, che
empierono tutti di maraviglia. Un convito di magnificenza incredibile
fu dato nel palazzo, dove non si potè immaginar vivanda, o romana o
barbarica, che vi si desiderasse[1575]. Per tali nozze Severo disegnò
console per l'anno venturo _Plauziano_. Adunque le medesime si
celebrarono nell'anno presente, e non già nel seguente. Una cometa e
un terribil incendio del monte Vesuvio, che si videro in questi tempi,
siccome poco usati effetti della natura, somministrarono occasione di
predir novità e malanni, a chi ridicolosamente vuol pescare ne' libri
dello avvenire. In quest'anno ancora i due Augusti ristorarono
l'insigne fabbrica del Pantheon, come si raccoglie dalla iscrizione
riferita dal Panvinio[1576], dal Grutero e da altri[1577].

NOTE:

[1566] Spartianus, in Severo.

[1567] Excerpt. Suidae, Tom. I, Histor. Byz.

[1568] Capitol., in Maximino.

[1569] Herodian., lib. 3.

[1570] Spartianus, in Severo.

[1571] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[1572] Pagius, Critic. Baronii ad annum seq.

[1573] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1574] Dio, lib. 75.

[1575] Dio, lib. 75.

[1576] Panvin., Fast. Consular.

[1577] Vignolius, Dissert. II.




    Anno di CRISTO CCIII. Indizione XI.

    ZEFIRINO papa 7.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 11.
    CARACALLA imperadore 6.

_Consoli_

LUCIO FULVIO PLAUZIANO per la seconda volta e PUBLIO SETTIMIO GETA.


_Geta_, secondo fra questi consoli, vien comunemente creduto, non già
il figliuolo, ma il fratello dell'imperador Severo. Quanto a
_Plauziano_, egli era suocero di Caracalla Augusto, e il primo mobile
della corte cesarea. Hassi dunque a sapere che costui, riputato da
alcuni parente del medesimo imperadore, ma certamente nativo della
stessa città di Leptis in Africa[1578], cioè della patria dello stesso
Augusto, benchè uscito dalla feccia del popolo, talmente s'andò
insinuando nella grazia di Severo, ch'egli non mirava con altri occhi
che con quei di Plauziano. Si dà un certo ascendente di persone nel
mondo, per cui arrivano anche persone vili e di niun merito a farla da
signori sopra le teste de' migliori, e dei più grandi ed intendenti.
N'era Severo così innamorato, che non sapea vivere senza di lui, e
considerava di morir prima egli che Plauziano. Il creò prefetto del
pretorio, e senza di lui nulla faceva; pareva anzi che Plauziano fosse
l'imperadore (tanto era la di lui potenza), e che Severo la facesse da
prefetto del pretorio. Non v'era segreto dell'imperadore che Plauziano
nol sapesse; e, per lo contrario, niun arrivava a sapere i segreti di
Plauziano. Nei viaggi fatti in Oriente da Severo, anch'egli si trovò
sempre ai fianchi dell'imperadore; a lui toccava di ordinario il
miglior alloggio, a lui i cibi più squisiti, di modo che, essendo
Severo in Nicea di Bitinia, se volle un pesce mugile (cefalo creduto
da alcuni), mandò a dimandarlo a Plauziano. E nella città di Tiane in
Cappadocia essendosi infermato esso Plauziano, fu a visitarlo Severo,
ma senza che le guardie dello stesso Plauziano permettessero d'entrare
a quei del suo seguito. Della sua ribalderia non si può dire
abbastanza. Era giunto costui ad un'immensa ricchezza per li tanti
beni confiscati, a lui donati da Severo; e pure non sapendo mai
saziarsi l'insaziabil sua avarizia, ad altro non attendeva che a far
sempre nuovi bottini. Per istigazione principalmente di lui furono
fatti morir da Severo tanti benestanti, nè v'era provincia o città,
dov'egli fosse capitato, che non restasse spogliata del meglio da
costui, senza perdonarla nè pure ai templi, contandosi fra le altre
sue ruberie, che egli portò via i cavalli del Sole dall'isole del mar
Rosso. Credevasi, in una parola, che egli possedesse più roba che lo
stesso imperadore e i suoi figliuoli. Dello orgoglio suo non
occorrerebbe dire. Quando usciva per città, andavano innanzi i suoi
col bastone alla mano a far ritirare ognun dalla strada, ordinando che
tutti tenessero gli occhi bassi, nè il riguardassero, come si fa alle
sultane in Levante. Perciò egli era più temuto che lo stesso
imperadore; e i soldati e i senatori non giuravano che per la di lui
fortuna. Pubbliche preghiere si faceano per la di lui conservazione; e
più statue a lui furono alzate in tutte le provincie, che allo stesso
Severo, e fino in Roma, ed anche coll'autorità del senato. Severo o
non sapeva tutto, o sofferiva tutto; tanto era il predominio che
costui aveva preso sopra di lui.

Già abbiam detto che Severo fece sposar _Plautilla_, figliuola d'esso
Plauziano, a Caracalla Augusto suo figlio; e per maggiormente onorar
questo suo favorito, il creò console nell'anno presente, con far due
novità. L'una fu, che avendolo dianzi dichiarato console onorario, con
solamente conferire a lui gli ornamenti consolari, quantunque non
fosse stato veramente console, pur volle che venisse chiamato _console
per la seconda volta_. L'altro fu, che il grado di prefetto del
pretorio non si concedeva allora, se non a' cavalieri, cioè a quei
dell'ordine equestre: il consolato solamente a chi era senatore. Volle
Severo che Plauziano nello stesso tempo procedesse console, e
ritenesse anche il posto di prefetto del pretorio. Due erano allora i
prefetti di esso pretorio[1579], cioè l'uno esso _Plauziano_ e l'altro
_Emilio Saturnino_. Plauziano, a cui non piaceva d'aver compagni in
quella importante carica, fece ammazzar l'altro. Cotanto si teneva
egli sicuro del suo potere e padrone dell'imperadore, che niun
rispetto mostrava per _Giulia Augusta_; anzi la maltrattava, e ne
diceva male tuttodì allo stesso imperadore, con aver anche tormentate
delle nobili donne, per ricavar loro qualche trascorso della medesima;
di maniera che Giulia, abbandonati tutti i divertimenti, cominciò
allora a studiar la filosofia morale, e a conversar solamente con
persone dotte. Ci vien anche dipinto costui da Dione per uomo di
sfrenata libidine, col non voler nello stesso tempo che sua moglie
conversasse con alcuno, e nè pur fosse visitata dall'imperadore o
dall'imperadrice. Aggiugnevasi a sì fatti vizi anche una intemperanza
somma, perchè empieva così forte il sacco, che non potendo digerir
tanta copia di cibo e di vino, ricorreva per lo più al recipe di
rigettarlo. Per tali eccessi nondimeno, ma più per la paura di
Caracalla suo genero, questo sì potente personaggio, questo gran
favorito si vedeva sempre pallido e tremante. Motivo di gravi dicerie
contra di lui fu ancora l'aver egli contra le leggi romane fatto
castrare cento buoni cittadini romani, parte fanciulli e giovinetti,
parte ancora ammogliati, acciocchè servissero da eunuchi a Plautilla
sua figliuola, maritata, come dicemmo, all'Augusto Caracalla. Tale era
in questi tempi Plauziano prefetto del pretorio e console. Il
Panvinio[1580] e il Relando[1581] crederono che costui nell'anno
presente fosse ucciso, perchè si trova una legge data sotto il solo
_Geta_ console. Ma non può stare, da che sappiamo ch'esso Geta morì
prima di Plauziano. Certo è bensì che in quest'anno fu dedicato in
Roma il superbo arco trionfale di Severo, tuttavia esistente, ma
corroso dal tempo. Nella iscrizione[1582] ivi posta, Severo ha
l'_undecima_, e Caracalla la _sesta tribunizia podestà_.

NOTE:

[1578] Dio, lib. 75. Herodianus, lib. 3.

[1579] Dio, in Excerpt. Vales.

[1580] Panvin., in Fast. Cons.

[1581] Reland., Fast. Cons.

[1582] Panvinius, Gruterus, Bellorius et alii.




    Anno di CRISTO CCIV. Indizione XII.

    ZEFIRINO papa 8.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 12.
    CARACALLA imperad. 7.

_Consoli_

LUCIO FABIO SETTIMIO CILONE per la seconda volta e FLAVIO LIBONE.


Gran figura fece sotto Severo e sotto Caracalla questo _Libone_
console. Egli fu prefetto di Roma, ed ebbe molti altri impieghi, come
c'insegna un'iscrizione a lui posta e riferita dal Panvinio[1583] e
dal Grutero. Ancorchè poi non apparisca chiaro, se a questo o al
seguente anno appartenga la morte di _Plauziano_ favorito di Severo,
mi fo lecito io di rammentarla qui. Un anno prima che succedesse la di
lui caduta, Severo finalmente avea cominciato a mirar di mal occhio
tante statue poste a costui in Roma stessa; e perciò ne fece fondere
alcune che doveano essere di bronzo. Un gran dire ne fu; volò questa
voce per le provincie[1584], ingrandita, secondo il solito, per
istrada: _Plauziano non è più in grazia, Plauziano è morto._ Di qui
avvenne che molti atterrarono le di lui statue, e male per loro,
perchè Severo volea ben abbassare alquanto l'albagia di Plauziano, ma
non dargli il tracollo; e perciò que' tali processati, perderono la
vita. Ed uno d'essi fu _Racio Costante_, governatore allora della
Sardegna, ch'era corso troppo presto a creder vera quella voce.
Trattossi la di lui causa in Roma alla presenza di Severo e di molti
senatori, uno de' quali era _Dione_. E fu allora che si sentì dire
l'avvocato che arringava contra d'esso Costante, qualmente _sarebbe
più tosto caduto il cielo, che l'imperador Severo facesse alcun male a
Plauziano_; e Severo stesso confermò con altre parole quanto avea
detto quell'oratore. Parea dunque sopra un'immobil base assicurata la
fortuna di costui. Ma venne all'ultimo della vita, probabilmente in
questo anno, _Settimio Geta_, fratello dell'imperadore, uomo che
odiava forte Plauziano; ed avendogli fatta una visita l'Augusto
fratello, trovandosi Geta in istato di non temer da lì innanzi di
quell'empio ministro, ne disse quanto male potè a Severo, scoprendogli
quel che ne diceva il pubblico, e qual disonore a lui venisse dal
tener sì caro un sì cattivo arnese. Aprì allora Severo alquanto gli
occhi, e, dopo aver fatto mettere nella piazza la statua del defunto
fratello, cominciò a non far più tanto onore a Plauziano, anzi si
diede a sminuire la di lui potenza. Non avvezzo a questi bocconi di
corte Plauziano, ne attribuiva la cagione ai mali uffizii di
_Caracalla_ Augusto suo genero. Imperocchè avendo Caracalla, contro
suo genio e solamente per ubbidire al padre[1585], sposata la
figliuola di Plauziano, non mai andò d'accordo con lei; e tanto più
perchè la trovò femmina insolentissima: laonde, oltre al non aver con
lei comunione alcuna di letto e di abitazione, odiava a morte non men
lei, che il padre di lei, con essergli anche più di una volta scappato
di bocca, _che arrivando a comandare, saprebbe bene schiantar dal
mondo radici così cattive_. Tutto riferiva Plautilla al padre; e però
l'altero ed irritato Plauziano aspramente trattava il genero, gli
facea delle riprensioni assai disgustose, e gli tenea continuamente
delle spie attorno per indagare i di lui andamenti, affine di
screditarlo appresso l'Augusto di lui genitore.

Perdè infine la pazienza Caracalla, e cominciò a studiar la maniera di
rovinar Plauziano[1586]; e la maniera fu di fingere che costui avesse
ordita una congiura contro la vita di Severo Augusto e dello stesso
Caracalla. Erodiano[1587], seguitato in ciò da Ammiano[1588],
pretendono che la congiura fosse vera, e il primo ne racconta varie
circostanze; ma Dione, che meglio di loro seppe esaminar questo fatto,
la tenne per un'invenzion di Caracalla e di chi l'assisteva coi
consigli. Il concerto dunque fu che Saturnino, uno dei centurioni del
pretorio, con due altri uffiziali suoi eguali, guadagnato da Evodo,
balio di Caracalla, finiti che fossero certi spettacoli fatti nel
palazzo, dimandasse udienza all'imperador Severo, e gli rivelasse la
trama, e dicesse venuto l'ordine a dieci centurioni di fare il fatto:
in pruova di che mise fuori gli ordini in iscritto dati, per quanto
dicevano, da Plauziano medesimo ad essi uffiziali. Prestò qualche fede
Severo a tale accusa, perchè i Romani d'allora erano sommamente
superstiziosi, con trovar dappertutto dei presagi dell'avvenire; e
Severo appunto nella notte precedente avea veduto in sogno Albino
vivente che tendeva insidie alla di lui vita. O sia che egli facesse
tosto chiamare a corte Plauziano, oppure che questi non chiamato vi
andasse, scrive Dione che vicino al palazzo caddero le mule della
carrozza, in cui egli veniva; ed entrante egli per la prima porta, non
permisero le guardie che alcun altro del seguito suo entrasse: cosa
che l'intimorì e riempiè di molti sospetti. Contuttociò perchè non
potea più tornare indietro, animosamente si presentò a Severo, il
quale assai placidamente gli domandò come gli fosse saltato in testa
di voler ammazzare i suoi principi; e si preparava ad ascoltar le sue
ragioni e discolpe. Mentre Plauziano comincia a mostrarsi maravigliato
di un tal ragionamento e a negare, eccoti avvantarsegli _Caracalla_
addosso, torgli la spada dal fianco e dargli un gran pugno. Era dietro
lo stesso Caracalla a volerlo uccidere di sua mano; ma Severo diede
ordine ad uno de' famigli di corte che gli togliesse la vita. Così fu
fatto, ed alcuni de' cortigiani, strappatigli alcuni peli della barba,
corsero a mostrargli a _Giulia Augusta_, che si abbattè ad essere
allora con _Plautilla_ sua nuora. Ne sentì ella gran piacere, gran
dolore all'incontro la misera nuora. Gittato fu in istrada il corpo di
Plauziano, ma permise dipoi Severo che gli fosse data sepoltura. Nel
seguente giorno raunato il senato, Severo senza entrare in alcun reato
di Plauziano, ne espose la morte, e parlò della deplorabil condizione
del genere umano, che si lascia sovvertire dalla felicità, accusando
nello stesso tempo sè stesso, per aver troppo amato e favorito chi nol
meritava. Quindi ritiratosi fece entrare gli accusatori di Plauziano a
render ragione dei lor detti al senato. Corsero molti da lì innanzi
pericolo della vita, per essere stati adulatori dell'estinto ministro,
ed alcuni ancora perirono per questo. Fra gli altri _Cocrano_, che più
degli altri affettava di comparir confidente di Plauziano, benchè in
fatti tale non fosse, convinto d'avergli, colla ridicola
interpretazione d'un sogno, predetto l'imperio, fu mandato in esilio.
Ma ritornato dopo sette anni, ottenne il grado senatorio, ed arrivò
anche ad esser console. Furono allora premiati _Saturnino_ ed _Evodo_,
autori della morte di Plauziano; ma col tempo Caracalla non li lasciò
vivere; nè Severo permise che il senato lodasse Evodo, dicendo _che
non conveniva far insuperbire i liberti della corte_. Suo costume
veramente fu di tenerli bassi. _Plautilla Augusta_ e _Plauto_, o
_Plauzio_, figli di esso Plauziano, relegati nell'isola di Lipari,
quivi per qualche anno mangiarono il pan del dolore, privi anche delle
cose necessarie, e sempre colla morte davanti agli occhi. Erodiano
scrive ch'erano ben trattati. Caracalla poi quando arrivò alla
signoria, li liberò appunto da quei guai con fargli uccidere. E tale
fu il fine di Plauziano, che sel comperò a danari contanti colla sua
incredibil avarizia, non meno che colla crudeltà e coll'alterigia.
Abbiamo da Censorino[1589] e da Zosimo[1590], che furono in quest'anno
celebrati con gran suntuosità i giuochi secolari in Roma e di ciò è
fatta anche menzione nelle medaglie[1591]. La descrizion d'essi si può
vedere nella Storia di Zosimo.

NOTE:

[1583] Panvin., in Fast. Cons.

[1584] Dio, lib. 75.

[1585] Herodianus, lib. 3.

[1586] Dio, lib. 75.

[1587] Herodianus, lib. 3.

[1588] Ammianus Marcellinus, lib. 29.

[1589] Censorinus, de Die Natali, cap. 17.

[1590] Zosimus, Histor., lib. 2.

[1591] Mediobarbus, in Numism. Imperat.




    Anno di CRISTO CCV. Indizione XIII.

    ZEFIRINO papa 9.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 13.
    CARACALLA imperadore 8.

_Consoli_

MARCO AURELIO ANTONINO CARACALLA AUGUSTO per la seconda volta, e
PUBLIO SETTIMIO GETA CESARE.


Sbrigato Severo del pessimo suo ministro Plauziano, regolò ne' tempi
susseguenti con bell'ordine la vita sua, giacchè si godeva gran quiete
in Roma, e da niuna guerra in questi tempi era molestato l'imperio
romano[1592]. Andava egli spesso a villeggiar nella Campania; ma o
fosse quivi, o pure in Roma, soleva levarsi di buon mattino, e tosto
ascoltava i processi delle cause, poi faceva una buona passeggiata a
piedi, ascoltando e dicendo intanto quello che riguardava l'utilità
del pubblico. Andava appresso al senato e al consiglio, per udire i
contraddittorii, e decidere le cause, concedendo il tempo prescritto
agli avvocati per dedurre le ragioni delle parti litiganti, e
lasciando una piena libertà ai senatori di esporre il lor sentimento.
Venuto il mezzodì, montava a cavallo, per far di nuovo quello
esercizio di corpo, e dipoi andava al bagno. Pranzava solo o pur co'
suoi figliuoli, e con lentezza, ma senza invitarvi senatori, come in
addietro costumarono di far vari imperadori. Vi intervenivano essi
solamente in certe feste solenni dell'anno, ed allora ne' di lui
conviti non si desiderava punto la magnificenza. Dopo il pranzo
dormiva, e non poco. Svegliato, passeggiava, dilettandosi in quel
mentre di studiar lettere, o sia l'erudizion latina e greca. Tornava
al bagno verso la sera, e poi cenava coi suoi domestici. Le
applicazioni sue pel buon governo di Roma si stendevano anche nelle
provincie, sapendo egli scegliere le persone più abili a ben reggere i
popoli[1593]; e più volentieri dava quei governi a chi vi era stato
dianzi luogotenente, e s'era acquistato credito, siccome persone più
pratiche di quei paesi; nè permetteva che si vendessero le cariche.
Per l'amministrazione della giustizia si serviva egli di eccellenti
giurisconsulti. Uno di essi fu _Papiniano_, celebre anche oggidì pel
suo profondo saper nelle leggi, che giunse ad essere prefetto del
pretorio. Questi prese per suoi assessori o consiglieri _Paolo_ ed
_Ulpiano_, personaggi anch'essi rinomatissimi nella scienza legale.
Però molte leggi utili di esso Severo si leggono nei testi di
Giustiniano. Una ve n'ha, in cui permette ai Giudei di poter essere
promossi agli uffizii ed onori[1594]. Sotto questo nome si pensò il
cardinal Baronio, dopo l'Alciato, che fossero compresi anche i
Cristiani: il che, quantunque cosa dubbiosa, non è però inverisimile.
Ben certo è che quella legge non venne da Marco Aurelio e Lucio Vero,
come fu creduto, ma bensì da _Severo_ ed _Antonino_, cioè Caracalla,
Augusti. Odiava Severo sopra tutto i ladri ed assassini, e li
perseguitava dappertutto. La libertà della lascivia era giunta
all'eccesso in Roma. Severo non solamente ci vien descritto per uomo
continente, ma che abborriva in altrui gli adulterii. Però abbiamo
leggi da lui pubblicate contro questo vizio. E Dione[1595] confessa di
aver trovato nei registri criminali d'allora, che furono accusate di
adulterio tremila persone; ma perchè non si proseguivano poi i
processi, si ridussero a nulla le provvisioni fatte per questo
dall'imperadore. E, a ben conoscere quanto fossero in ciò depravati i
costumi de' Romani gentili, servirà una risposta data dalla moglie di
un nobile della Bretagna, probabilmente allorchè Severo Augusto,
siccome diremo, fu in quelle parti. _Giulia Augusta_ l'andava
motteggiando pel libertinaggio che praticavano allora le femmine
britanne con gli uomini: _Almeno_, disse quella gentildonna, _se noi
trapassiamo i limiti dell'onestà, lo facciamo con persone nobili; ma
voi altre romane segretamente vi valete della canaglia per soddisfare
alle vostre voglie._ Starei a vedere che persona ci fosse a' tempi
nostri, la qual credesse con così magra scusa difendere l'intemperanza
sua. Forse non fu la stessa _Giulia_ imperatrice esente da sì fatto
discredito. Anzi, se crediamo a Sparziano[1596], anch'ella si rendè
famosa per l'impudicizia: vizio troppo facile a chi non conosce o non
teme il vero Dio, amatore della sola virtù, e punitore de' vizii, o
pure troppo lascia la libertà del conversare all'uno e all'altro
sesso. Ma perchè Dione ed Erodiano non riconoscono in lei questo
vizio, e vedremo che Sparziano altre favole raccontò di questa
imperatrice, possiam credere, rapportar egli qui piuttosto le dicerie
del volgo che la verità della storia.

NOTE:

[1592] Dio, lib. 76. Herodianus, lib. 3.

[1593] Aurelius Victor, in Epitome. Spartianus, in Severo.

[1594] Lib. 3, ff. de Decur.

[1595] Dio, lib. 76.

[1596] Spartianus, in Severo.




    Anno di CRISTO CCVI. Indizione XIV.

    ZEFIRINO papa 10.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 14.
    CARACALLA imperadore 9.

_Consoli_

LUCIO FULVIO RUSTICO EMILIANO e MARCO NUMMIO PRIMO SENECIONE ALBINO.


Tali nomi ho io dato a questi consoli, fondato sulle iscrizioni che si
leggono nella mia raccolta[1597]. Quei del secondo console ci fanno
abbastanza intendere che non dovea punto passar parentela fra lui e
_Clodio Albino_, da noi veduto imperadore, ma di poco tempo. Ora da
che tolto fu dal mondo Plauziano, cioè il superbo favorito di Severo
Augusto, _Caracalla_ e _Geta_ figliuoli di esso imperadore, come se
allora fossero rimasti liberi dal timore di quell'aguzzino, lasciarono
la briglia ai loro giovanili appetiti. Tanto Dione[1598] che
Erodiano[1599] confessano che amendue si diedero in preda alla
libidine, con isvergognar le case de' nobili, e senza guardarsi da ciò
ch'è più infame in quel vizio. Se loro mancava danaro, non mancavano
già delle inique vie per raccoglierne. I lor principali impieghi e
divertimenti consistevano in assistere a tutt'i combattimenti e a
tutte le corse dei cavalli, ed anch'essi in carrette gareggiavano
insieme a chi correa più forte. E sì male un dì terminò la lor
carriera, che Caracalla, caduto dal carro, si ruppe una gamba. Ma
questa gara da gran tempo dava a conoscere qual grave antipatia ed
invidia bollisse fra loro, perchè passava sempre in discordia. Ancora
quando erano in minore età, o vedessero i combattimenti delle
coturnici o dei galli, o pur le battagliuole de' fanciulli, o si
trovassero ai pubblici giuochi, si scoprivano sempre differenti di
genio; e quel che piaceva all'uno, dispiaceva all'altro.
S'introdussero anche fra loro degli adulatori e mali arnesi che, in
vece di metter acqua al fuoco, lo fomentavano, aggiugnendovi anche
dell'olio. Quanto più crescevano in età, tanto più sbrigliati
correvano dietro ai piaceri ed alle iniquità, e la loro vicendevole
avversione prendeva sempre più piede. Non avea già lasciato l'Augusto
Severo lor padre di provvederli di eccellenti governatori e maestri, e
scorgendoli poi sì discordi fra loro, or colle dolci, or colle brusche
si studiava di correggere questa lor malnata passione, mostrando loro
i beni della concordia, e il felice stato, in cui era per lasciarli, e
in cui si manterrebbono, se sapessero andar ben uniti. Tolse anche di
vita alcuni che seminavano zizzanie fra loro. Ma indarno era tutto.
_Geta_, siccome di umor più mansueto ed umile, dal suo canto ubbidiva;
ma _Caracalla_, divenuto dopo la morte del suocero più orgoglioso e
fiero che mai, ascoltava le parole del padre, ma fremendo in suo
cuore, e poi seguitava ad operar come prima. Accadde probabilmente in
questi tempi ciò che narra Dione[1600] della crudeltà di Severo, non
soddisfatta peranche. Il perchè non si sa, ma egli fece morir varie
persone, e fra l'altre _Quintillo Plauziano_, senator nobilissimo:
morte che fu creduta ingiustissima. Altri senatori[1601] da lui tolti
dal mondo erano stati convinti di reità; ma questi in età assai
decrepita, standosene da gran tempo ritirato in villa, pensando non
già a far delle novità, ma bensì alla morte vicina, per soli sospetti
e per mere calunnie fu condannato a morte. Recatagli la funesta nuova,
si fece portare gli arredi che avea molti anni prima preparati pel suo
funerale, e trovatili guasti dalle tignuole, disse: _Ho anche tardato
troppo a morire._ E fatto venir del fuoco, sopra di esso sparse
l'incenso in segno di sagrifizio a' suoi falsi dii, pregandoli che
avvenisse a Severo quel tanto che Severiano in simil congiuntura
augurò ad Adriano. Era in questi tempi proconsole dell'Asia
_Aproniano_. Contro ancora di lui fu proferita la sentenza di morte,
perchè avendo la sua nudrice sognato ch'egli dovea regnare un giorno,
si pretendeva che Aproniano avesse intorno a ciò consultato i maghi.
Ed ecco un amaro frutto della sciocchezza di que' tempi, che
prestavano tanta fede ai sogni, agli augurii e alle arti vane piene
d'imposture. Nel leggersi in senato il processo, si trovò avere un
testimonio deposto, che mentre si facea quella consultazione da
Aproniano, un senator calvo, veduto così di passaggio da esso
testimonio, v'era presente. Corse allora un ghiaccio per le vene di
chiunque in senato era, o cominciava a divenir calvo; Dione confessa
che egli e tanti altri, che avevano buona capigliatura, restarono sì
turbati, che non seppero ritenersi dal tastar colla mano se avevano
tuttora i lor capelli in capo. Il sospetto cadde principalmente sopra
_Bebio Marcellino_, il qual fece istanza che fosse introdotto il
testimonio, acciocchè costui, se gli dava l'animo, riconoscesse il
senatore calvo. Entrato costui, andò girando un pezzo con gli occhi
senza parlare. Verisimilmente gli fece un cenno _Pollenio Sebennio_
senatore, uomo di lingua mordace, da me rammentato di sopra, perchè
Dione a lui attribuisce la disgrazia dell'infelice Marcellino, il
quale fu mostrato a dito dal testimonio suddetto e condotto
immediatamente al patibolo. Quando fu in piazza, diede l'ultimo addio
a quattro suoi figliuoli con un discorso patetico, conchiudendo, che
_solamente gli dispiaceva di lasciarli in vita in tempi così cattivi_.
Gli fu mozzato il capo, prima ancora che Severo Augusto sapesse la di
lui condanna; tanto era allora avvilito il senato, e tanta era la
paura che si avea dello sdegno di Severo. Gran disgrazia di dover
vivere sotto principi tali! e pur se ne trovarono tanti altri di lunga
mano più fieri e crudeli di questo!

NOTE:

[1597] Thesaurus Novus Inscription., p. 352.

[1598] Dio, lib. 76.

[1599] Herodianus, lib. 3.

[1600] Dio, lib. 76.

[1601] Dio, in Excerpt. Valesianis.




    Anno di CRISTO CCVII. Indizione XV.

    ZEFIRINO papa 11.
    SETTIMIO SEVERO imper. 15.
    CARACALLA imperadore 10.

_Consoli_

APRO e MASSIMO.


Altro non sappiamo dei nomi di questi consoli fin ora. Al presente
anno sembra che si possa riferire un avvenimento raccontato da
Dione[1602]. Era divenuto un certo Bulla, cognominato Felice, capo dei
ladri e banditi nelle parti di quel che ora è regno di Napoli. Secento
uomini teneva egli al suo servigio, parte dei quali erano schiavi
dell'imperadore fuggiti; ed infestava tutte quelle contrade. Non gli
mancavano spie in Roma stessa ed altrove, che l'andavano avvisando di
chiunque si metteva in viaggio, e con qual compagnia, con quali robe.
Della gente che prendeva, molti lasciava andare, contentandosi di
qualche parte delle lor sostanze; gli artefici li riteneva alcun tempo
per farli lavorare, e li rimandava poi regalati. Per due anni continuò
costui il suo detestabil mestiere, e tanta era la sua accortezza, che
quantunque perseguitato da molti e con pressanti ordini da Severo
Augusto cercato dappertutto, pure quasi sugli occhi di lui e di tanti
suoi soldati commetteva quelle ruberie; niuno il vedeva, benchè
l'avessero davanti; niuno il prendeva, benchè potessero averlo in
mano: tutto per industria sua, perchè giocava di grosso con regali.
Presi furono due de' suoi masnadieri, e si stava per condannarli ad
essere il pascolo delle fiere. Bulla, fingendosi governatore del
paese, fu a trovare il carceriere, e mostrando di aver bisogno di
quegli uomini, li liberò e condusse via. Quindi in persona andò a
trovare il centurione posto alla guardia di quei contorni, e si esibì
di dargli in mano quell'infame di Bulla, se voleva seguitarlo. Il
seguitò con alcuni de' suoi il centurione; ma allorchè fu in una valle
attorniata da dirupi, Bulla, dopo averlo preso, gli fece radere il
capo a guisa degli schiavi, e il lasciò andare, dicendogli che facesse
sapere ai suoi padroni nudrir meglio i loro schiavi, affinchè non
fossero obbligati a fare gli assassini da strada. All'udir queste
insolenze Severo Augusto andava nelle smanie, dolendosi, che mentre i
suoi nella Bretagna riportavano vittorie e tenevano in freno popoli
intieri, egli non fosse da tanto da potersi liberar da un ladrone che,
in faccia sua commettendo tante iniquità, si rideva di lui. Finalmente
spedì in traccia di costui un tribuno con un corpo di fanteria e
cavalleria, minacciando forte quest'uffiziale, se non gliel conduceva
morto e vivo. Andò il tribuno, e per mezzo di una donna, con cui Bulla
avea commercio, il colse in una grotta, e menollo vivo a Roma.
Interrogato Bulla dal celebre giurisconsulto Papiniano, prefetto
allora del pretorio, perchè si fosse dato al mestier del rubare: _E
tu_, rispose, _perchè fai il mestier di prefetto?_ volendo dire, che
anche quell'uffizio era per rubare. Fu egli condannato alle bestie, e
si dissipò tutta la ciurma de' suoi seguaci. Dione[1603] ci ha detto
che in questi tempi Severo ebbe qualche vittoria nella Bretagna.
Trovasi in fatti circa questi tempi ch'egli è chiamato in qualche
medaglia[1604] _Imperadore per la dodicesima volta_. Il padre
Pagi[1605], pieno sempre delle sue idee di quinquennali, decennali,
ec., sospettò ch'egli prendesse questo nome per cagion de' suoi
quindecennali; ma con opinione da non abbracciare, certo essendo, che
solamente per cagion di qualche vera o finta vittoria gli Augusti
replicavano il titolo d'_Imperadore_. Abbiamo assai lume da Dione per
credere che avendo i generali di Severo riportato qualche considerabil
vantaggio nella Bretagna, dove si era risvegliata la guerra, gli
accrescesse il suo titolario. Anche suo figliuolo Caracalla Augusto si
comincia a vedere _Imperadore per la seconda volta_.

NOTE:

[1602] Dio, lib. 76.

[1603] Dio, lib. 76.

[1604] Mediobarbus, in Numism. Imperat.

[1605] Pagius, in Critic. Baron.




    Anno di CRISTO CCVIII. Indizione I.

    ZEFIRINO papa 12.
    SETTIMIO SEVERO imper. 16.
    CARACALLA imperadore 11.
    SETTIMIO GETA imperad. 1.

_Consoli_

MARCO AURELIO ANTONINO CARACALLA AUGUSTO per la terza volta e PUBLIO
SETTIMIO GETA CESARE per la seconda.


Allorchè _Geta_ entrò console nell'anno presente, egli non era
fregiato di altro titolo che di quello di _Cesare_. Che a lui in
quest'anno fosse conferita dal padre Augusto la _podestà tribunizia_,
sufficientemente si raccoglie delle medaglie[1606]. Che anche
ricevesse il titolo e l'autorità d'_Imperadore Augusto_, l'ho io bene
scritto nel titolo dall'anno presente, per conformarmi al Pagi e ad
altri che tengono tale opinione, ma con crederla nondimeno non esente
da dubbi, perchè qui compariscono imbrogli nelle medaglie. E il volere
il Pagi[1607] dedur ciò dai decennali di Caracalla Augusto celebrati
in quest'anno, sembrerà un lavorare sopra fondamenti non riconosciuti
finora stabili. Potrebbe nondimeno essere ch'egli fosse nell'anno
presente promosso a così eccelsa dignità; e certamente noi il troviamo
Augusto nel seguente. Erasi, come accennai, riaccesa la guerra nella
Bretagna, dove nondimeno niuna pace almen durevole era stata negli
anni addietro[1608]. Vennero lettere a Severo Augusto da quel cesareo
governatore, che i Britanni non sudditi faceano grande massa di armati
e scorrerie e saccheggi pel paese romano, e ch'egli abbisognava di
rinforzi e soccorsi, e parergli anche necessaria la presenza dello
stesso regnante. Già toccava l'imperador Severo gli anni della
vecchiaia, stava anche male ne' piedi o per la podagra, o per doglie
d'altra fatta. Contuttociò, a guisa di un baldanzoso e fresco
giovinetto, accolse con piacere questo invito, e determinò di portarsi
a quel ballo. Troppo di forza in lui avea l'appetito della gloria.
Avea trionfato de' popoli dell'Oriente, sospirava di poter anche
trionfare di quei dell'Occidente, e di procacciarsi il titolo di
_Britannico_. Oltre a ciò gli premeva forte di levare i figliuoli dal
lusso pericoloso di Roma, e dai soverchi divertimenti, per avvezzarli
alla frugalità e temperanza usata nelle armate, siccome di non lasciar
più lungamente marcir nell'ozio le milizie, le quali, al pari dei
cavalli, se non son tenute in esercizio, diventano rozze. Però in
quest'anno egli imprese il viaggio coi figliuoli, colla moglie
_Giulia_ e coll'esercito a quella volta. Per lo più si fece condurre
in lettiga, e volle far posate, perchè la sollecitudine nelle marcie
fu un suo ordinario costume, corrispondente al natural focoso, che in
tutte le azioni sue dava a conoscere. Dione[1609], secondo il suo
stile, anzi secondo l'uso universale degli storici di allora, vien
dicendo ch'egli andò, benchè con sicurezza di non dover tornare; e qui
sfodera una mano di augurii, e la di lui genitura che prediceva quanto
dipoi avvenne. Possiamo ben credere ch'egli, prima che terminasse il
corrente anno, passato felicemente il mare, arrivasse nella Bretagna,
dove cominciò a far dei preparamenti grandiosi, per far pentire quei
Barbari della loro insolenza.

NOTE:

[1606] Mediobarbus, in Numism. Imp.

[1607] Pagius, in Crit. Baron.

[1608] Herodianus, lib. 3.

[1609] Dio, lib. 76.




    Anno di CRISTO CCIX. Indizione II.

    ZEFIRINO papa 13.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 17.
    CARACALLA imperadore 12.
    SETTIMIO GETA imperad. 2.

_Consoli_

POMPEJANO ed AVITO.


Il Relando[1610] e il padre Stampa[1611] chiamano questi consoli
_Civica Pompejano_ e _Lolliano Avito_, fondati sopra una iscrizione
rapportata dal Gudio. Ma io, che non so fidarmi delle merci gudiane,
meglio ho riputato di mettere solamente i loro indubitati cognomi. Nè
serve il dire che Capitolino[1612] fa menzione di _Lolliano Avito
consolare_, in parlando di Pertinace. Quell'_Avito_, se di lui si
parlasse qui, il mireremmo appellato console _per la seconda volta_.
Arrivato[1613] che fu Severo Augusto nell'Isola Britannica, la sua
presenza e le poderose forze ch'egli avea condotto seco, misero lo
spavento in cuor di que' Barbari; e però non tardarono a spedirgli
degli ambasciatori, per giustificarsi e per chiedergli pace. Ma
Severo, che tanto s'era scomodato per andargli a trovare affin di
conseguire la gloria d'essere intitolato _Britannico_, non volea già
pace, ed unicamente cercava la guerra; perciò li rimandò colle mani
vuote, ed attese a mettersi in ordine con tutti gli attrezzi militari,
con ponti ed altri ordigni, per sottomettere il loro paese[1614].
Possedevano allora i Romani più della metà della Bretagna presa nella
sua lunghezza, che vuoi dire, tutta la parte meridionale, cioè il più
e il meglio di quella che oggidì appelliamo Inghilterra e Scozia,
giugnendo il dominio loro almen sino allo stretto di Edemburgo. Dione
ed Erodiano ci lasciarono una descrizione de' popoli che restavano
tuttavia esenti dal giogo romano, i principali de' quali erano i Meati
e i Calidonii, gente di costumi barbari, feroce e bellicosa, nudi
dalla cintura in su, col corpo dipinto, andando alla guerra armati
solamente d'una corta lancia, d'uno scudo e di spada da punta. Le loro
abitazioni erano sotto le tende fra aspre montagne e fra paludi,
perchè niuna città o borgo si trovava fra essi. Lasciò Severo il minor
suo figlino lo Geta per governatore del paese romano, con formargli un
consiglio di alcune savie persone; ed egli col figliuolo maggiore
Caracalla marciò alla guerra. Delle imprese sue dirò quel poco che
sappiamo all'anno seguente.

NOTE:

[1610] Reland., in Consul.

[1611] Stampa, Fast. Consul.

[1612] Capitolin., in Pertinace.

[1613] Herodian., lib. 5.

[1614] Dio, lib. 76.




    Anno di CRISTO CCX. Indizione III.

    ZEFIRINO papa 14.
    SETTIMIO SEVERO imperad. 18.
    CARACALLA imperad. 13.
    SETTIMIO GETA imperad. 3.

_Consoli_

MANIO ACILIO FAUSTINO e TRIARIO RUFINO.


Intorno alla guerra fatta dall'Augusto Severo nella Bretagna, altro
non abbiamo da Erodiano[1615], se non che seguirono varie scaramucce
con quei Barbari, sfavorevoli per lo più ai Romani, perchè quella
gente non si univa giammai per venire ad una regolata battaglia, e
lavorava solamente d'insidie, ritirandosi ben tosto in salvo ne' folti
boschi e nelle frequenti paludi. Lo stesso viene attestato da
Dione[1616], scrivendo che Severo non diede in quelle parti battaglia
alcuna, nè vide mai schierati nemici, per far fatto d'armi: laonde non
si sa vedere, come il padre Pagi[1617] parli di molte vittorie da lui
riportate in questa spedizione. La maniera tenuta da quei Barbari
consisteva in esporre buoi o pecore, per tirare i soldati romani alla
preda, ed opprimerli all'improvviso; e guai se alcuno di essi Romani
si dilungava punto dal corpo dell'armata o restava indietro: era tosto
dai nemici ucciso o preso. Tra per questa guerra, e per le acque
malsane di quelle contrade, e le tante fatiche, ci assicura esso Dione
che vi perirono circa cinquantamila soldati romani. Nulladimeno
l'indefesso Severo volea andare innanzi. Le selve, che si opponevano,
le faceva tagliare; per le paludi apriva passaggi con terra portata; e
gittando ponti sui fiumi, li valicava, facendosi portar sempre in
lettiga a cagion della debolezza del corpo. Così arrivò sino al fine
della parte settentrionale di quella grand'isola, con osservar ivi la
diversità di quel clima dal nostro. Ma quivi le campagne erano
incolte[1618]; niuna fortezza, niuna città si trovava per via; sicchè
gli convenne tornar indietro alla fine con poco piacere. Pur queste
sue bravure cagion furono che i Britanni barbari tornarono a dimandar
pace, e l'ottennero con cedere una certa parte del paese ai Romani.
Allora fu che Severo[1619] tirò un nuovo muro, o pur rifece il vecchio
al confine del dominio romano, disputando tuttavia gli eruditi
Inglesi, per assegnare il sito d'esso muro e d'essi confini. Nulla di
ciò dice Dione, e neppur Erodiano. Per questi felici avvenimenti tanto
lo imperador Severo, quanto i suoi due figliuoli presero il titolo di
_Britannici_, ma senza ch'eglino fossero di nuovo _imperadori_, perchè
in fatti alcuna vittoria in battaglia campale non riportarono.

Ma queste felicità esteriori di Severo Augusto erano di soverchio
amareggiate da vari suoi interni disgusti ed affanni. Mirava egli nel
maggior de' suoi figli, cioè in _Caracalla_, che sempre più i vizii
gli toglievano la mano; imperciocchè anche in mezzo alle fatiche della
guerra egli si dava in preda alla libidine, e cresceva ogni dì più la
sua insolenza e petulanza. Quel che più l'affliggeva, si era potersi
oramai prevedere che il bisbetico umore di questo suo maggior
figliuolo avrebbe tolta la vita al minore, subito che avesse potuto. E
tanto più se ne persuase, da che s'avvide che Caracalla nudriva dei
neri pensieri contra la persona dello stesso suo padre, e se n'erano
anche veduti due brutti cenni. Un dì uscì Caracalla dalla tenda del
padre, gridando che _Castore_ l'avea ingiuriato. Era Castore il
migliore dei liberti di corte, mastro di camera del medesimo imperador
Severo, che in lui depositava tutti i suoi segreti. Stavano appostati
alcuni soldati al di fuori, che cominciarono anch'essi ad alzar la
voce contra di Castore, e a chiamar altri. Forse aveano qualche mal
animo, quando Severo, creduto da essi obbligato al letto, uscì fuori,
e fattili prendere, fece morire i più sediziosi. Ma questo fu un nulla
rispetto a ciò che avvenne nell'andar Caracalla col padre a trattar
coi nemici caledonii, già disposti a cedere e capitolare. Benchè
malconcio ne' piedi, marciava a cavallo Severo; e già si trovava quasi
in faccia ai nemici, quando Caracalla, che cavalcava a lato del padre,
fermò il cavallo, e sguainò la spada, per quanto fu creduto, con
disegno di cacciarla nelle reni al padre. Chi veniva dietro alzò
allora un grido, da cui atterrito Caracalla rimise tosto la spada nel
fodero: e Severo, che si voltò indietro a quel grido, ebbe tempo di
vedergliela in mano, ma allora non disse nè pure una parola. Fatto
ch'ebbe l'accordo coi Barbari, se ne tornò al campo, e chiamato
Caracalla nel suo padiglione, alla presenza di Papiniano prefetto del
pretorio, e del suddetto Castore, fece portar una spada nuda; e poi
cominciò a sgridare il figliuolo dell'orrido misfatto ch'egli avea
tentato, e in faccia de' nemici; aggiugnendo in fine, che se tale era
l'animo suo, se ne cavasse allora la voglia, giacchè egli era vecchio
ed infermo, e vivuto abbastanza. Che se non ardiva di ammazzarlo di
sua mano, lo ordinasse, siccome imperadore, a Papiniano prefetto, che
l'ubbidirebbe. Dovette Caracalla palliare, come potè, l'iniquo
attentato, e se la passò senza che il padre gli torcesse un capello. E
pur, soggiugne lo storico Dione, Severo più volte fu udito dir male di
Marco Aurelio, perchè non avea tolto dal mondo quella mala bestia di
Commodo; ed egli stesso talvolta si lasciò scappar di bocca, che
farebbe a Caracalla ciò che non volle far Marco Aurelio a Commodo. Ma
queste minacce gli uscivano dai denti, allorchè era in collera; e
passata questa, si trovava ch'egli volea più bene ai suoi figliuoli
che a tutta la repubblica romana. Con tuttociò neppur Severo amò i
suoi figliuoli come dovea, perchè assassinò il men cattivo figliuolo,
lasciandolo alla discrezion dello altro cattivissimo, tuttochè si
credesse ch'egli prevedesse di certo la di lui rovina.

NOTE:

[1615] Herodian., lib. 3.

[1616] Dio, lib. 76.

[1617] Pagius, in Crit. Baron.

[1618] Dio, lib. 76.

[1619] Spartianus, in Severo.




    Anno di CRISTO CCXI. Indizione IV.

    ZEFIRINO papa 15.
    CARACALLA imperad. 14 e 1.
    SETTIMIO GETA imperad. 4.

_Consoli_

GENZIANO e BASSO.


Abbiamo veramente una iscrizione presso il Panvinio[1620], riferita
anche dal Grutero[1621], che ci fa vedere _Quinto Epidio Rufo Lolliano
Genziano, augure, console, proconsole della provincia di Lione_, e
_conte_ (cioè consigliere ed assessore) _degl'imperatori Severo ed
Antonino Caracalla_. Perciò il Relando[1622] diede tutti questi nomi a
_Genziano_ console di questo anno. Io non mi sono attentato a
seguirlo. Imperocchè Capitolino[1623] ci fa vedere sotto Pertinace
_Lolliano Genziano consolare_, a cui verisimilmente appartiene il
marmo gruteriano; nè questi può essere il console dell'anno presente,
perchè sarebbe stato appellato _console per la seconda volta_. Perciò
più sicuro partito reputo io il non proporre se non i loro indubitati
cognomi. Di corta durata fu l'accordo stabilito coi Britanni barbari.
Tornarono essi alle primiere insolenze; Severo tanto bollente di
collera, fatte raunar le sue schiere, inumanamente comandò loro
l'esterminio di que' popoli, senza perdonar neppure alle lor donne e
fanciulli. Trovavasi già da qualche tempo esso Augusto indisposto di
corpo, più pel crepacuore di mirare i presenti disordini di Caracalla
e di presagirne dei più gravi, che per gli soliti suoi malori. Andò
sempre più declinando la di lui sanità, in guisa che restò confinato
in letto[1624]. Allora sì che il malvagio _Caracalla_ più che mai si
diede a guadagnare gli animi de' soldati, per escludere, se potea, il
fratello _Geta_ dal succedere nel comando. Studiossi ancora di
accelerar la morte del padre, col corrompere quei medici che trovò
privi di onore: e corse fama ancora, ch'egli aiutasse il male a
sbrigarlo da questa vita. Si disse inoltre che Severo sugli estremi
del vivere chiamati i figliuoli, gli esortò a camminar di concordia, e
ad arricchire e tener ben contenti i soldati, senza poi far conto
degli altri tutti[1625]. Diede egli fine ai suoi giorni nel dì 4 di
febbraio dell'anno presente nella città di Jorch, in età di
sessantacinque e quasi sei mesi. Al di lui corpo furono fatte solenni
esequie da tutta la milizia, e le ceneri riposte in un'urna di porfido
o pur d'oro. Se è vero ch'egli prima di morire, fattasi portar
quell'urna, tastandola con le mani, dicesse: _In te capirà un uomo, a
capir cui non era bastante tutto il mondo_, fu questo un vanto
sconvenevole a chi era sull'orlo della vita senza essere per anche
giunto a conoscere sè stesso. Fu poi portata quell'urna a Roma, e con
grande onore posta nel mausoleo di Adriano, ed egli dalla stolta
Gentiltà deificato. Ed ecco terminate le grandezze di _Settimio Severo
imperadore_, che di bassa fortuna giunse al governo di un vastissimo
impero, di mirabil penetrazion di mente, principe lodato anche
all'eccesso pel suo raro valore, e per tante sue vittorie, implacabile
verso chi cadeva dalla sua grazia, grato e liberale verso gli amici,
amator delle lettere, avido del danaro che raccoglieva per tutte le
vie, per ispenderlo poi non già per sè, poichè egli si contentava di
poco, ma pel pubblico. Avea egli rifatte tutte le più insigni
fabbriche di Roma[1626], con rimettervi il nome dei primi fondatori.
Dione[1627] diversamente scrive ch'egli vi mise il suo. Altre
fabbriche suntuose fece di pianta, e liberale fu verso il popolo, ma
più verso i soldati; e pure con tante spese lasciò un gran tesoro in
cassa ai figliuoli, tanto frumento ne' pubblici granai, che potea
bastar per sette anni a mantener i soldati, e chi del popolo ricevea
_gratis_ il grano, e tanto olio nei magazzini della repubblica, che
per cinque anni potea soddisfare al bisogno, non dirò solamente di
Roma, ma di tutta l'Italia. La sua rapacità nondimeno, e più la sua
crudeltà guastarono ogni suo merito e pregio. E pure vennero tempi sì
cattivi, che fu desiderato il suo governo, e si disse, come d'Augusto,
che egli o non dovea mai nascere, o non mai morire. Sotto di lui
fiorirono le lettere, e visse il maggiore dei _Filostrati_; e si crede
che vivesse anche _Diogene Laerzio_, autore della bella opera delle
Vite de' filosofi, oltre alcuni altri, de' quali abbiamo perduto i
libri.

Morto dunque Severo Augusto, _Marco Aurelio Antonino_ suo maggior
figliuolo, soprannominato dipoi _Caracalla_, che si trovava
all'armata, in tempo che i Britanni barbari aveano ricominciata la
guerra[1628], marciò contra di loro, non già per disertarli, ma per
mettere tal terrore in essi, che abbracciassero la pace, altra voglia
non allignando in suo cuore, che quella di tornare il più presto
possibile alle delizie di Roma. Stabilì dunque una pace, non quale si
conveniva ad un romano imperadore, ma quale la prescrissero que'
Barbari, con restituir loro il paese ceduto, ed abbandonare i luoghi
fortificati dal padre. I suoi iniqui maneggi, perchè i soldati
riconoscessero lui solo per imperadore ad esclusione di _Publio
Settimio Geta_, suo minor fratello, dichiarato, siccome vedemmo,
anch'esso _Imperadore Augusto_, non sortirono l'effetto ch'egli
desiderava. Giurarono i soldati fedeltà all'uno e all'altro; e tanto
si adoperò _Giulia Augusta_ lor madre, e tanto dissero i comuni amici,
che i due fratelli si unirono insieme, in apparenza nondimeno;
perciocchè Caracalla, il qual pure godea se non tutta l'autorità del
comando, certamente la maggior parte, da gran tempo covava in cuore il
maligno pensiero di voler sedere solo sul trono cesareo. Ma finchè
Geta si trovò in mezzo all'esercito, che l'amava forte, non osò mai di
levargli la vita. Abbiamo bensì da Dione[1629], ch'egli tolse a
_Papiniano_ la carica di prefetto del pretorio, alzandolo forse al
grado senatorio, e fece ammazzare _Evodo_ che era stato suo balio, ed
avea prestato a lui grande aiuto per levar di vita Plauziano. Del pari
tolse di vita _Castore_, che già vedemmo mastro di camera di suo
padre. Mandò poscia ordini, perchè fosse uccisa _Plautilla_ sua
moglie, e _Plauto_ o _Plauzio_ di lei fratello, relegati nell'isola di
Lipari. Erodiano aggiugne che fece anche morir que' medici che non
l'aveano voluto ubbidire per sollecitar la morte del padre; e molti
altri ch'erano stati de' più cari ed onorati appresso il medesimo suo
genitore. Con tali scene di crudeltà diede principio Caracalla al suo
governo, e passato dipoi il mare colla madre, col fratello e
coll'armata, accompagnato dai voti degli adulatori, sen venne a Roma,
dove fu ricevuto con gran festa e solennità[1630], e rendè gli ultimi
doveri alla memoria del padre. Vedesi descritto da Dione il
solennissimo funerale e l'empia deificazion di Severo fatta allora. Io
mi dispenso dall'entrarvi. Può il lettore informarsene ancora, se
vuole, da Onofrio Panvinio[1631].

NOTE:

[1620] Panvin., in Fast. Consul.

[1621] Gruterus, Thes. Inscr., pag. 304, n. 6.

[1622] Reland., Fast. Cons.

[1623] Capitolin., in Pertinace.

[1624] Dio, lib. 76. Herodian., lib. 3.

[1625] Aurelius Victor, in Epitome. Eutropius, in Breviario.

[1626] Spartianus, in Sev.

[1627] Dio, in Excerptis Vales.

[1628] Herodian., lib. 3.

[1629] Dio, lib. 76.

[1630] Herodianus, lib. 4.

[1631] Panvin., in Fast. Consul.




    Anno di CRISTO CCXII. Indizione V.

    ZEFIRINO papa 16.
    CARACALLA imperad. 15 e 2.

_Consoli_

CAIO GIULIO ASPRO per la seconda volta e CAJO GIULIO ASPRO.


Erano fratelli questi due consoli, e, per attestato di Dione[1632],
figliuoli di _Giuliano Aspro_, personaggio pel suo sapere e per la
grandezza d'animo assai rinomato, e tanto amato da Caracalla, che
tanto egli che i suoi figliuoli furono esaltati da lui a' primi onori.
Ma poca sussistenza ebbe il favore di questo bestiale Augusto.
_Giuliano_ da qui a non molto fu vituperosamente cacciato fuori di
Roma ed obbligato a tornarsene alla sua patria. Un'iscrizione
pubblicata dal Fabretti[1633] ci fa vedere che sì l'un come l'altro
portava il nome di _Cajo Giulio Aspro_: cosa nondimeno assai rara, e
Dio sa se vera, non veggendosi distinto per alcun segno, come si
usava, l'uno dallo altro. Nel viaggio a Roma dei due fratelli Augusti,
_Caracalla_ e _Geta_, diede negli occhi ad ognuno la comune lor
diffidenza e discordia, perchè non alloggiavano mai nè mangiavano
insieme; temendo cadaun d'essi di veleno. Più visibile riuscì poi in
Roma il lor contraggenio, anzi l'odio vicendevole che l'un covava
contro dell'altro, quantunque Geta, giovane di miglior cuore,
solamente per necessità stesse in guardia, perchè assai persuaso del
cuor fellone di suo fratello[1634]. Questa fiera diffidenza cagion fu
ch'essi fecero due parti del palazzo cesareo, per istar ben separati
l'uno dall'altro, con far chiudere le porte frapposte fra i loro
appartamenti, e tenendo solamente aperte quelle delle sale, dove
amendue davano pubblica udienza. Nè già ad alcun d'essi mancava veruna
delle comodità, perchè il palazzo imperiale era più vasto, se Erodiano
dice il vero, del resto di Roma stessa: il che un gran dire a me
sembra, e nol so digerire. Andò tanto innanzi questa contrarietà e
mutola guerra fraterna, che ognun d'essi s'ingegnava di tirar più
gente nel suo partito; nel che Geta avea più destrezza e fortuna,
perchè generalmente più amato che l'altro, a cagion d'essere giovane
placido, cortese verso tutti, in una parola assai diverso dal barbaro
suo fratello. Cadauno intanto volle la sua guardia separata,
lasciandosi vedere di rado insieme, e questo nelle sole pubbliche
funzioni. Fu dunque proposto da qualche amico e consigliere, per
prevenir maggiori disordini, che si dividesse fra loro l'imperio.
Erano come d'accordo i due fratelli su questo. Contentavasi Geta di
aver in sua parte l'Asia, la Soria e l'Egitto, lasciando tutto il
resto nell'Europa e nell'Africa al fratello, con pensiero di mettere
la sua residenza o in Antiochia o in Alessandria, città che allora
poteano gareggiare in grandezza con Roma. I senatori di nazione
europea resterebbono in Roma; gli altri potrebbono seguitar Geta. Nel
consiglio degli amici del padre, e alla presenza di _Giulia Augusta_
lor madre, spiegarono i due Augusti questa loro risoluzione. Con
ribrezzo e con gli occhi fitti nel suolo ciascuno gli ascoltò, nè
alcuno osava di aprir bocca, quando saltò su Giulia, e pateticamente
loro parlò dicendo, _che potrebbono ben partire gli Stati, ma come poi
partirebbono fra loro la madre?_ e qui con singhiozzi e con lagrime li
pregò di piuttosto uccidere lei, che di lasciarla sopravvivere a
questo sì lagrimevole spettacolo. Correndo poi ad abbracciarli
teneramente amendue, gli scongiurò di vivere uniti in pace. Questo
bastò perchè anche gli altri disapprovassero un tal fatto, troppo
orrore sentendo ciascuno all'udire che s'avesse a dividere, e per
conseguente da indebolir cotanto il romano imperio. Però nulla se ne
fece.

Ma le dissensioni, le gare e i sospetti andarono sempre più crescendo,
ed ognun d'essi fratelli pensava alla maniera di opprimere
l'altro[1635]. Venne in mente a Caracalla di sbrigarsi di Geta nelle
feste Saturnali dell'anno presente, perchè in esse una gran licenza si
concedeva agli schiavi; ma perchè ebbe paura che troppo pubblico fosse
il misfatto, se ne astenne. Tutte le strade ch'egli andò meditando,
parendogli sempre pericolose, perchè Geta stava molto bene in guardia,
ed era ben voluto, massimamente dai soldati, dai quali, siccome anche
da buon numero di gladiatori, veniva custodito, prese in fine il
partito di valersi dell'inganno, che che gliene potesse avvenire. Fece
dunque credere a Giulia sua madre di volersi riconciliar da dovero col
fratello, e che si abboccherebbe con lui nella di lei camera segreta.
Chiamato Geta dalla madre, buonamente corse colà. Quando fu dentro,
secondo Erodiano[1636], lo stesso Caracalla di sua man lo scannò.
Dione[1637], che scrive i fatti de' suoi giorni, confessa che
Caracalla dipoi consacrò a Serapide la spada con cui avea ucciso il
fratello; ma con aggiugnere che sbucarono fuori alcuni centurioni, già
messi da Caracalla in agguato, che gli si avventarono anch'essi coi
ferri nudi addosso. Altro non potè fare l'infelice giovane, che
correre ad abbracciare strettamente l'atterrita Giulia, gridando:
_Mamma, mamma, aiutatemi, che mi ammazzano._ L'ammazzarono in fatti
nel seno dell'ingannata madre, che restò tutta coperta del sangue del
misero figlio, e ne riportò anch'essa una ferita nella mano, per
averla stesa affin di trattener que' colpi. Questo fu il miserabil
fine di _Geta Augusto_, nell'età sua di ventidue anni e nove mesi,
probabilmente negli ultimi giorni di febbraio, o pur ne' primi di
marzo, essendo egli nato nell'anno 189 della nostr'Era. Erodiano non
men che Sparziano[1638] cel descrivono per giovane non esente già da
difetti, ma pure alieno dalla crudeltà, amabile, e che teneva a mente
tutti i buoni documenti del padre. L'indegno Caracalla, dopo così
enorme misfatto, corse qua e là pel palazzo, facendo lo
spaventato[1639], e gridando di essere scampato dal più gran pericolo
del mondo, e fingendo di non tenersi sicuro ivi, a gran passi (ed era
la sera) marciò verso il quartiere de' pretoriani. I soldati, che
erano di guardia del palazzo, non sapendo come fosse l'affare, gli
tennero dietro anch'essi, passando per mezzo alla città con ispargere
un gravissimo terrore fra il popolo, che non intendeva il soggetto di
tanto rumore. Allorchè arrivò Caracalla alla fortezza de' pretoriani,
andò diritto al luogo, dove stavano le insegne e gl'idoletti loro,
fatto a guisa di cappella; e quivi prostrato a terra, fece vista di
ringraziar il cielo che gli avesse salvata la vita. Corsero colà tutti
i soldati, ansiosi di sapere che novità era quella; ed egli sempre
parlando con parole ambigue di pericoli, d'insidie a lui tese, a poco
a poco finalmente arrivò a far loro intendere che non aveano più se
non un padrone. Poscia, per amicarseli, promise loro un regalo di
duemila e cinquecento dracme per testa, e la metà di più del grano
solito darsi loro: di maniera che in un sol dì egli dissipò tutti i
tesori ammassati in diciotto anni colla crudeltà e rapacità da suo
padre. Permise anche ai soldati di andare a spogliar vari templi delle
cose preziose. Tanta prodigalità di Caracalla, ancorchè si venisse da
lì a poco a scoprire il fratricidio, quetò gli animi di coloro, che
non solamente proclamarono lui _Imperadore_, ma dichiararono nemico
pubblico l'estinto Geta.

Fermossi tutta la notte Caracalla nel campo dei pretoriani[1640], e la
mattina seguente accompagnato da tutto l'esercito in armi più del
solito, portando egli stesso la corazza sotto le vesti, si portò al
senato, facendovi anche entrare parecchi soldati con volere che
sedessero. Parlò delle insidie in varie guise a lui tese dal nemico
fratello, da cui anche ultimamente poco era mancato che non fosse
stato ucciso a tradimento; ma che egli, in difendendo sè stesso, aveva
ammazzato l'altro. Se crediamo ad Erodiano[1641], parlò anche con
asprezza e volto fiero contro gli amici di Geta. Dione[1642] nol dice,
e nè pure Sparziano. Amendue bensì attestano, che all'uscir della
curia rivolto a senatori: _Ascoltate_, disse, _una cosa che rallegrerà
tutto il mondo. Io fo grazia a tutti i banditi e relegati nelle
isole._ Con che egli venne a riempiere Roma di scellerati e
malviventi, per poi popolar quelle medesime isole di persone
innocenti. Tornossene Caracalla dal senato al palazzo, accompagnato di
qua e di là da _Papiniano_ e da _Fabio Cilone_, che gli davano di
braccio, e sembravano due suoi cari fratelli, ma per far in breve
un'altra ben diversa figura. Comandò poi che al cadavero dell'ucciso
Geta fosse fatto un solenne funerale[1643], e che gli fosse data
sepoltura nel sepolcro dei Settimii nella via Appia. Di là fu poi esso
trasportato nel mausoleo di Adriano. Che egli allora fosse deificato,
lo scrive taluno, ma non se ne trovano sufficienti prove. Tutto ciò
fece Caracalla per isminuir, se poteva, l'universale odiosità che egli
s'era tirata addosso con sì nero misfatto. Non istarò io qui a
raccontare i presagii della morte violenta di Geta, che Sparziano,
fecondo di tali osservazioni, poco per lo più degne di fede, lasciò
scritti. Dirò bensì che Dio anche in vita punì Caracalla, perchè egli
ebbe sempre davanti agli occhi l'orrido aspetto del fratello
svenato[1644], e dormendo se gli presentavano sempre, degli oggetti
spaventevoli, e pareagli di vedere or esso suo fratello, ed ora il
padre, che colla spada sguainata gli venivano alla vita. Scrive Dione,
che, per trovar rimedio a questo interno flagello, ricorse fino alla
magia, e che gli comparvero l'ombre di molti, fra le quali solamente
quella di Commodo gli disse: _Va, che t'aspetta il patibolo._ Ne creda
il lettor quel che vuole. Certo è bensì che questi tetri fantasmi gli
guastarono a poco a poco la fantasia, talmente che il vedremo furioso.
Ed egli non mancò di visitar i templi de' suoi dii, dovunque egli
andava, e di mandarvi dei doni per quetar pure tante interne
agitazioni; ma tutto fu indarno. Il bello era[1645] che non udiva mai
ricordarsi il nome di Geta, non ne mirava mai il ritratto, o le statue
di lui, che non gli venissero le lagrime agli occhi. Ma o egli fingeva
questo dolore, o pur egli ad ogni soffio di vento mutava affetti e
voleri. Io mi riserbo di parlare all'anno seguente dell'incredibil sua
crudeltà contro la memoria del fratello, benchè più propriamente
appartengano al presente anno tutte quelle sue barbare azioni. E qui
dirò unicamente ch'egli fece rompere tutte le statue di lui, ed anche
fondere la moneta, dove era il suo nome.

NOTE:

[1632] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1633] Fabretti, Inscript., pag. 494.

[1634] Herodianus, lib. 4.

[1635] Dio, lib. 77.

[1636] Herodian., lib. 4.

[1637] Dio, lib. 78.

[1638] Spart., in Geta.

[1639] Herod., lib. 4. Dio, lib. 78.

[1640] Spartianus, in Caracalla.

[1641] Herodian., lib. 4.

[1642] Dio, lib. 77.

[1643] Spartianus, in Geta.

[1644] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1645] Spartianus, in Geta.




    Anno di CRISTO CCXIII. Indizione VI.

    ZEFIRINO papa 17.
    CARACALLA imperad. 16 e 3.

_Consoli_

MARCO AURELIO ANTONINO CARACALLA AUGUSTO per la quarta volta e DECIMO
CELIO BALBINO per la seconda.


Per alcune ragioni da me altrove[1646] accennate, sufficiente motivo
abbiamo di dubitare se il secondo console fosse _Balbino_ o pure
_Albino_. Che _Marco Antonino Gordiano_, il qual fu poi imperadore,
venisse nel presente anno sostituito console a Balbino, pare che si
ricavi da Capitolino[1647]. Ma un'iscrizione scorretta del
Grutero[1648] ci fa veder Balbino tuttavia console nel dì 3 di
novembre; e però resta dubbiosa la cosa. Che _Elvio Pertinace_,
figliuolo del fu Pertinace Augusto, fosse anch'egli promosso in
quest'anno al consolato, come stimarono il Panvinio[1649] e il
Relando[1650], molto più dubbioso, per non dir falso, a me comparisce.
Debbo io qui ora accennare le immense crudeltà esercitate dall'inumano
Caracalla nel precedente anno, e parte ancora in questo; ma quasi mi
cade di mano la penna per l'orrore: tanto fu il sangue innocente
sparso da quel mostro Augusto. Vanno concordi gli antichi
storici[1651] in asserire ch'egli sfogò la bestiale sua rabbia contro
chiunque era stato o domestico o amico o in qualsivoglia maniera
parziale allo ucciso fratello. Quanti nella numerosa corte di esso
Geta, o liberti, o schiavi, o cortigiani d'altra specie, si trovarono,
tutti furono messi a fil di spada; nè si perdonò a donne e fanciulli.
Fino gli atleti, gl'istrioni, i gladiatori e qualunque altra persona
che avesse servito al divertimento degli occhi o degli orecchi di
Geta, e fin que' soldati che stettero alla sua guardia, perderono la
vita. Questo macello si andava facendo di notte, e, venuto il dì, si
portavano i lor cadaveri fuori della città. Dione conta venti mila
persone sacrificate in questa maniera dal furore tirannico di
Caracalla. Sparziano aggiugne che furono innumerabili. Bastava che
s'indicasse un qualche filo di attaccamento avuto con Geta, vero o
falso che fosse, perchè si desse la sentenza di morte. Nè i suoi
fulmini si fermarono senza percuotere anche l'alte torri. Era in que'
tempi riputato l'arca del sapere legale il celebre _Papiniano_, stato
già prefetto del pretorio, verso il quale poco fa vedemmo usate tante
finezze da Caracalla. Non altro reato di lui si trovava che il
glorioso di aver fatto il possibile per rimettere la concordia fra i
due fratelli Augusti. V'ha nondimeno chi scrive[1652], esser egli
caduto in disgrazia di Caracalla, perchè, chiestagli un'orazione da
recitare in senato per sua discolpa, egli generosamente rispondesse
_che non era tanto facile lo scusare un fratricidio, come il
commetterlo; ed essere un secondo delitto l'accusare un innocente,
dopo avergli tolta la vita_. Sparziano[1653] crede ciò un sogno de'
politici. Fuori bensì di dubbio è che Papiniano fu ammazzato per
ordine di Caracalla, il qual poi riprese l'uccisore, perchè,
nell'ucciderlo, si fosse servito della scure in vece della spada,
strumento di morte riservato per la gente nobile. Un figliuolo di esso
Papiniano, che era allora questore, e tre giorni prima avea fatto
grande spesa in alcuni magnifici spettacoli, fu anch'egli tolto dal
mondo. Abbiam veduto ancora _Lucio Fabio Cilone_, stato due volte
console e prefetto di Roma, in auge di gran credito e fortuna.
Caracalla il chiamava suo padre, perchè lo avea avuto per suo aio in
gioventù; era anche creduto il suo braccio diritto; ma niun si potea
fidare del capo stravolto di un tale imperadore[1654]. Perchè
anch'egli avea persuasa l'union de' fratelli, Caracalla mandò un
tribuno con alcuni soldati per tagliargli il capo. Costoro nol
trovarono tosto; e si perderono a svaligiar le argenterie, i danari e
gli altri preziosi mobili delle sue stanze. Coltolo poi al bagno, così
com'era in camicia e in pianelle, il menarono per mezzo la città con
disegno di ucciderlo nel palazzo, maltrattandolo intanto con pugni sul
viso per la strada. La plebe e i soldati della città, al vedere in sì
compassionevole stato un personaggio di tanta stima, alzarono un gran
rumore e fecero sedizione. Avvisatone Caracalla, per quietare il
tumulto, avendo paura di peggio, gli venne incontro, e, cavatasi la
sopravveste militare, la pose indosso al quasi nudo Cilone, gridando:
_Lasciate stare mio padre; non vogliate toccare il mio aio._ Fece poi
morire quel tribuno co' soldati ch'erano iti per ucciderlo, fingendoli
rei, per avere insidiato alla vita di un sì degno personaggio, ma con
essersi comunemente creduto che li gastigasse per non averlo ucciso.
Di altri nobili e senatori uccisi parlano Dione, Erodiano e Sparziano,
facendone un fascio; ma verisimilmente non tulle quelle stragi
appartengono ai due suoi primi anni. E qui non si dee tacer quella di
_Quinto Sereno Sammonico_, uno de' più insigni letterati uomini di
questi tempi, compositore di moltissimi libri, che son quasi tutti
periti[1655], e che possedeva una biblioteca di sessantadue mila
volumi, donati poi da suo figliuolo al secondo dei Giordani Augusti.
Forse perchè Geta si dilettava forte della lettura dei di lui libri,
Caracalla la prese con lui. Si trovava l'infelice Sammonico a cena
quando gli arrivarono i sicarii che gli spiccarono la testa dal busto.

NOTE:

[1646] Thesaur. Novus Inscript., pag. 356.

[1647] Capitol., in Giordano.

[1648] Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 44, n. 2.

[1649] Panvin., in Fastis Cons.

[1650] Reland., in Fastis Consular.

[1651] Dio, lib. 77. Herodianus, lib. 4. Spartianus, in Caracalla.

[1652] Zosimus., Histor., lib. 1.

[1653] Spartianus, in Caracalla.

[1654] Spartianus, in Caracalla. Dio, lib. 77.

[1655] Spartianus, in Caracalla. Capitolinus, in Giordano.




    Anno di CRISTO CCXIV. Indizione VII.

    ZEFIRINO papa 18.
    CARACALLA imperad. 17 e 4.

_Consoli_

MESSALLA e SABINO.


Non è certo, come vuole il Relando[1656], che _Messalla_ portasse il
nome di _Silio_; nè questi potè essere quel _Silia Messalla_ che Dione
mette console nell'anno 193 sotto Giuliano, perchè sarebbe appellato
console _per la seconda volta_. Tornando ora a Caracalla, volle egli,
non so ben dire se in questo o nel precedente anno, rallegrare il
popolo romano con degli spettacoli[1657], cioè con cacce di fiere,
combattimenti di gladiatori e corse di cavalli. Ma quivi ancora ebbe
luogo la sua crudeltà, mostrando il suo piacere nel vedere i
gladiatori scannarsi l'un l'altro. Si sa[1658] che, quando egli era
fanciullo, pareva così inclinato alla clemenza, che non si poteva
immaginare di più; perchè, vedendo uomini esposti alle fiere, si
metteva a piangere, e voltava il viso altrove. E un dì, perchè uno de'
fanciulli che giocavano seco fu aspramente battuto, per essersi
scoperto attaccato alla religion giudaica (probabilmente vuoi dire
Sparziano la cristiana), egli non guardò mai più di buon occhio il
padre di esso fanciullo, o pur colui che l'avea sferzato. Ma, fatto
grande, cangiò ben costumi e natura, e sua delizia divenne lo
spargimento e la vista del sangue. Fra gli altri gladiatori che in
que' giuochi perirono, uno fu Batone, forzato da lui a combattere
nello stesso dì con tre altri di fila. Restò egli ucciso dall'ultimo,
ma ebbe la consolazione che il pazzo imperadore gli fece una magnifica
sepoltura. Un altro di essi gladiatori, appellato Alessandro, gli fu
sì caro, che a lui innalzò molte statue in Roma ed altrove. Nelle
corse poi dei cavalli, perchè alcuni del popolo dissero qualche burla
contro ad uno de' carrettieri da lui favoriti, ordinò a tutti i
soldati di ammazzar chiunque avea parlato. Non conoscendosi i rei di
questo gran delitto, restarono molti innocenti uccisi, e gli altri con
denari riscattarono la lor vita. Ma perciocchè Roma era divenuta per
lui un teatro di nere immaginazioni, se ne partì Caracalla, non già
nel precedente, ma nel presente anno, perchè si ha una sua legge[1659]
data in Roma nel dì 5 di febbraio. Prese il pretesto di visitar le
provincie, e di levar dall'ozio le milizie[1660]. Andò nella Gallia,
ed appena arrivato colà, fece morir il proconsole della provincia
narbonese, sconvolse tutti quei popoli, guastò i privilegii delle
città, e si comperò l'odio di ognuno. Ammalatosi quivi, guarì, e
trattò poi crudelmente que' medici che l'aveano curato. Di là passò
nella Germania. Che prodezze egli facesse in quelle parti, non è ben
noto. Scrive Sparziano ch'egli verso la Rezia ammazzò molti Barbari, e
soggiogò i Germani. Certo è[1661] che una specie di guerra fu da lui
fatta contra dei Catti e degli Alemanni o Alamanni, il nome de' quali
si comincia ad udire in questi tempi. Se crediamo ad Erodiano[1662],
fece Caracalla una bellissima figura fra i suoi soldati, perchè andava
vestito da fantaccino, era de' primi ad alzar terreno, a far ponte,
marciava a piedi coll'armi, mangiava poveramente al pari di essi, con
altre simili scene di bravura. Dione[1663] confessa anch'egli che la
funzion di soldato seppe farla, fingendo nondimeno più di quel che
era; ma non già quella di generale; e ch'egli in quella spedizione si
fece assai ridere dietro dai popoli della Germania. Venivano i lor
deputati fin dall'Elba per dimandar pace, ma nello stesso tempo
dimandavano danaro; e Caracalla, dopo aver fatta qualche rodomontata,
li pagava bene, ed accordava loro delle pensioni, comperando a questo
prezzo la loro amicizia. Anzi si cominciò ad affratellar cotanto con
loro, che si vestiva alla lor moda, portava parrucca bionda, per
assomigliar i loro capelli, e venne fino ad arrolar nelle sue schiere,
ed anche nelle sue guardie, moltissimi di loro, con fidarsi da lì
innanzi più di essi che dei soldati romani. Trattava anche in segreto
alle volte con quei deputati, non essendovi presenti che
gl'interpreti, a' quali fece poi levar la vita, affinchè non
rivelassero le sue conferenze. In somma, o per diritto o per rovescio,
tanto egli fece, che prese il titolo di _Germanico_, il quale comincia
a vedersi nelle monete[1664] di questi tempi. Truovasi anche appellato
_Imperadore per la terza volta_, che non dà un sicuro indizio di
vittoria, trattandosi di questo general da commedia.

NOTE:

[1656] Reland., Fast. Cons.

[1657] Herod., lib. 4. Dio, lib. 77.

[1658] Spartianus, in Caracalla.

[1659] L. Si hi quos servos., C. de libera causa.

[1660] Spartianus, in Caracalla.

[1661] Dio, in Excerptis Valesianis.

[1662] Erodian., lib. 4.

[1663] Dio, lib. 77, et in Excerp. Valesianis.

[1664] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.




    Anno di CRISTO CCXV. Indizione VIII.

    ZEFIRINO papa 19.
    CARACALLA imperad. 18 e 5.

_Consoli_

LETO per la seconda volta e CEREALE.


Un'iscrizione, probabilmente spettante a questo _Leto_ console, e da
me riferita nella mia Raccolta[1665], se fosse a noi pervenuta ben
intera, forse ci scoprirebbe ch'egli fu della famiglia _Catia_. Altri
nomi loro dati dagl'illustratori de' Fasti, per essere dubbiosi, io li
tralascio. Sparziano scrive[1666] che un _Leto_, il quale era stato il
primo a consigliar Caracalla di uccidere Geta, fu anche il primo
forzato a morir col veleno, a lui inviato dallo stesso Caracalla; e
però non dovrebbe essere questo che fu ora console. Dalla Germania,
secondo il medesimo Sparziano, passò Caracalla nella Dacia, oggidì
Transilvania, e vi si fermò qualche tempo; con far ivi qualche
scaramuccia coi Geti, appellati poi più comunemente Goti, e pare che
ne riportasse vittoria. _Elvio Pertinace_, figlio del fu Pertinace
Augusto, prese di qua motivo nell'anno seguente di dire un motto
pungente; perchè, nominandosi i titoli dati a Caracalla di
_Germanico_, _Partico_, _Arabico_ ed _Alemannico_; _aggiugnetevi_,
diss'egli, _anche quello di Getico Massimo_, come a lui dovuto per
aver debellato i Geti, tacitamente nondimeno alludendo alla morte da
lui data a Geta suo fratello. Forse non è vero ch'egli facesse guerra
coi Geti, ma è ben da credere vero quel motto. Sappiamo che questo
_Pertinace_ fu fatto morire da Caracalla, e non già per questa puntura
a lui riferita. Spanciano scrive che gli tolse la vita perchè era
figliuolo di un imperadore. Ma come mai aspettò egli tanto? Forse fu
in que' medesimi tempi che egli mandò all'altro mondo _Claudio
Pompeiano_, nato da _Lucilla_, figliuola di Marco Aurelio Augusto, e
da _Pompeiano_, cioè da un padre stato due volte console, e bravo
generale di armate[1667]. Incamminossi poi Caracalla per la Mesia
nella Tracia. La vicinanza della Macedonia produsse un mirabil
effetto, perchè fece diventar questo Augusto un novello Alessandro. Se
gli mancò il capo e il valore di quel gran conquistatore, non gli
mancò già l'esterno di lui portamento. Si vestì egli alla macedonica,
e poi scrisse al senato che gli era entrata in corpo l'anima di
Alessandro, e per questo volea essere chiamato _Alessandro Orientale_.
Da tali azioni che conseguenza sia per tirare il lettore, io non
istarò a cercarlo. Inoltre della più scelta gioventù della Macedonia
formò una brigata di fanteria, a cui diede il nome di falange
macedonica, di sedici mila persone, tutte armate nella guisa che
anticamente furono le truppe di Alessandro. Volle inoltre che si
alzassero statue per tutte le città in onor di esso Alessandro, e
massimamente nel Campidoglio e in ogni tempio di Roma. Moveva il riso
il vedere in varii luoghi immagini dipinte che con un sol corpo in due
differenti viste rappresentavano la faccia di Alessandro il Macedone e
di Caracalla.

Volendo poi passare il Bosforo di Tracia per entrar nell'Asia[1668],
fu in pericolo di fare naufragio, essendosi rotta l'antenna della sua
nave; ma si salvò nello schifo. Racconta Dione[1669], che essendo
giunto a Nicomedia, dove passò il verno di quest'anno, la sua vita era
questa. Facea sapere ai senatori che l'accompagnavano (uno de' quali
era lo stesso Dione) che alla levata del sole fossero pronti, perchè
volea tener ragione e trattar degli affari spettanti al pubblico bene;
e li facea aspettar fino a mezzodì, e talvolta fino a sera, senza mai
lasciarsi vedere. Ed egli intanto si dava bel tempo col carrozzare,
ammazzar bestie, addestrarsi ai combattimenti de' gladiatori, e col
bere ed ubbriacarsi. Alla presenza degli stessi senatori mandava
piatti di vivande e bicchieri di vino ai soldati ch'erano di guardia.
Finalmente si lasciava pur vedere per isbrigar qualche causa, per lo
più mezzo ubbriaco ed appena udite poche parole, voleva che si
decidesse. Teneva in sua corte un eunuco spagnuolo, deforme al maggior
segno non men di corpo che di costumi, creduto uno stregone, e
fabbricator di veleni, che facea da padrone sopra il senato.
Dappertutto manteneva spie che gli riferivano quel di vero o di falso
che lor piaceva, senza parteciparlo al suo consiglio; volendo egli
gastigar le persone senza saputa de' ministri: il che cagionava una
somma confusion di cose, ed era seminario di molte ingiustizie. In
tutti poi questi suoi viaggi pareva che avesse tolto di mira i
senatori, per ridurli in camicia, volendo che a loro spese (cioè, per
quanto io credo, della repubblica) fabbricassero per istrada alloggi e
case di molto costo, la maggior parte delle quali a nulla servirono, e
nè pur erano da lui vedute. E dovunque egli s'immaginava di dover
dimorare nel verno, esigeva che gli si edificassero anfiteatri e
circhi; e questi appresso si distruggevano. Che s'egli impoveriva il
senato e maltrattava i senatori, era poi tutto cortesia verso i
soldati, e consisteva la sua gran premura in regalarli con prodigalità
incredibile. Nelle monete[1670] di quest'anno si vede esaltata la di
lui _liberalità VII_, _VIII_ e _IX_, senza fallo usata verso le
milizie. Largamente poi spendeva in bestie fiere o mansuete, e in
cavalli[1671], per far la caccia di quelle, o per correre alla
disperata con gli altri in cocchio. Volta vi fu ch'egli uccise di sua
mano cento cignali. E facendo le sue carriere, diceva d'imitare il
sole, gloriandosi forte di non esser da meno di lui. Costrigneva
poscia i suoi cortigiani e gli altri ricchi a rappresentar degli
spettacoli con gravissima loro spesa, e vigliaccamente ancora
dimandava ad essi del danaro quando n'era senza. Tale fu la sua
maniera di vivere finchè regnò; e per questo suo scialacquare non si
può dire quante gabelle nuove egli mettesse, quante estorsioni
facesse; di maniera che egli in quei pochi anni diede il guasto a
tutto l'imperio romano, e desolò le provincie. E diceva spesso di non
abbisognar di cosa alcuna, fuorchè di danaro, da impiegarsi poi, non
già in gratificar chi lo meritava, ma solamente per arricchir soldati
e regalar adulatori. A _Giunio Paolino_ donò egli un dì dieci mila
scudi d'oro, perchè gli disse, che _quando anche fingeva d'essere in
collera, sapea farlo sì bene, che si credea veramente incollerito_.
_Giulia Augusta_ sua madre, che gli tenne sempre compagnia in questi
viaggi, non si guardò dal riprenderlo, perchè gittasse tanti tesori in
seno ai soldati, con essersi ridotto a non aver più un soldo di tanti
danari giustamente o ingiustamente esatti; ed egli: _Non dubitate, o
madre_ (rispose mostrandole la spada), _finchè questa durerà, non
mancheranno danari_. Tanto poi si mostrò spasimato per la memoria di
Alessandro il Grande questo nuovo Alessandro, che, essendosi
compiaciuto un dì in vedere un tribuno di soldati saltar molto snello
a cavallo, gli dimandò di che paese fosse: _Macedone_, rispose egli. E
il vostro nome? _Antigono_. E quello del padre? _Filippo_. Allora
disse Caracalla: _Ho tutto quel ch'io voleva_; e il fece salire a più
alto posto, e da lì a poco il creò senatore e pretore. Fu proposta
davanti a lui la causa d'un certo Alessandro, non già Macedone, reo di
molti misfatti. Perchè l'accusatore di tanto in tanto andava dicendo:
_Alessandro omicida; Alessandro odiato dagli dii_. Caracalla, quasi
che si parlasse di lui, saltò su gridando: _Se non la dismetti di
trattar così il nome di Alessandro, ti farò andar per le poste
all'altro mondo_. Conduceva anche seco molti elefanti, perchè ancor
questo conveniva ad un vero imitator d'Alessandro e di Bacco. Ed ecco
in quali mani era caduto in questi tempi il misero imperio romano.
Furono nell'anno presente, se dice il vero Eusebio[1672], terminate in
Roma le terme antoniane, fabbricate d'ordine d'esso Caracalla.
Sparziano[1673] fa un bell'elogio di quell'edifizio, mirabile non meno
per la magnificenza che per la bellezza dell'architettura. Resta
ancora accertato, che laddove in addietro si contava per grazia grande
il conseguire la cittadinanza di Roma, questo imperadore con suo
decreto la diede a tutte le città del romano imperio: intorno a che
molto hanno parlato i letterati illustratori delle cose romane.

NOTE:

[1665] Thesaurus Novus Inscription., pag. 353, num. 4.

[1666] Spartianus, in Caracalla.

[1667] Herodianus, lib. 4.

[1668] Spartianus, in Caracalla.

[1669] Dio, lib. 77.

[1670] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[1671] Dio, lib. 77.

[1672] Eusebius, in Chron.

[1673] Spartianus, in Severo.




    Anno di CRISTO CCXVI. Indizione IX.

    ZEFIRINO papa 20.
    CARACALLA imperad. 19 e 6.

_Consoli_

CATIO SABINO per la seconda volta e CORNELIO ANULINO.


Certi sono i cognomi de' consoli di quest'anno, cioè _Sabino_ ed
_Anulino_. Per conto dei nomi, un'iscrizione riferita dal
Panvinio[1674] e dal Grutero[1675], si dice posta Q. AQVILLIO SABINO
II. SEX. AVRELIO ANVLLINO COS. Ma essa dee essere falsa; o, se è
legittima, appartiene a qualche altro anno. Perciocchè un'altra presso
il medesimo Grutero[1676] fu alzata CATTO SABINO II. ET CO. ANVLLINO
COS., ed una parimente presso il Fabretti[1677], C. ATIO SABINO II. ET
CORNELIO ANVLINO COS. In vece di C. ATIO, credo io che s'abbia a
leggere CATIO SABINO II., perchè, se questo primo console fosse ornato
del prenome, anche il prenome dell'altro apparirebbe. Dopo avere[1678]
l'Augusto Caracalla passato il verno in Nicomedia, dove celebrò il suo
giorno natalizio nel dì 4 di aprile, ripigliò il suo viaggio[1679]; ed
arrivato alla città di Pergamo, celebre fra i Gentili pel tempio di
Esculapio, dove si facea credere alla buona gente che quel falso dio
in sogno rivelasse il rimedio dei mali del corpo: quivi Caracalla si
raccomandò, e di cuore, a quella ridicola divinità, che pur non avea
orecchi. Egli era malsano, e pativa varii mali, parte evidenti, parte
occulti: effetti dell'intemperanza sua nella gola e nella libidine,
per cui anche era divenuto inabile alla generazione[1680]. Sognò
quanto volle; ma niun sollievo trovò a' suoi malori. Visitò la città
d'Ilio, e benchè i Romani si tenessero per discendenti dai Troiani,
pure più onor fece, al sepolcro di Achille. Non si trovava chi facesse
la figura di Patroclo. O di morte naturale o di veleno morì allora
Festo, il più caro de' suoi liberti; e quella vana testa di Caracalla
gli fece far le esequie con tutte quelle cerimonie che sono descritte
da Omero per Patroclo del suo poema. Di là passò ad Antiochia, dove
per qualche tempo attese alle delizie, e dichiarò guerra al re de'
Parti. Ne prese motivo, perchè Tiridate ed Antioco, due de' suoi
uffiziali, erano disertati e passati al servigio di quel re, il quale,
non ostante che da Caracalla ne fossero fatte più istanze, non li
volle mai rendere. Trovavasi allora quel re in dispari, perchè in
guerra con un suo fratello, e Caracalla si gloriava di aver seminato
fra loro la discordia; però, per non tirarsi addosso anche la potenza
romana, fu costretto a restitur que' due uffiziali. Caracalla allora
si quietò, al vedersi così rispettato e temuto; e fatto poi sapere ad
_Abgaro_ re di Edessa, o sia dell'Osroene, con amichevoli lettere, che
desiderava di vederlo, questi sen venne; ma, credendo di trovare in
Caracalla un imperador romano, vi trovò un traditore[1681]. Abgaro fu
messo in prigione, e Caracalla s'impadronì di quella provincia, dove
in fatti lo stesso Abgaro per la sua crudeltà era forte odiato da
quella nobiltà. Confessano tutti gli storici che la simulazione e il
mancar di fede non fu l'ultimo dei vizii di Caracalla. Anche nella
guerra fatta in Germania avea lavorato di frodi, gloriandosi poi di
aver colle sue arti messa rottura fra i Vandali e Marcomanni, ed
attrappolato _Gaiovomaro_ re de' Quadi, con torgli anche la vita.
Inoltre, avendo finto di voler arrolar nelle sue guardie moltissimi
giovani di nazion germanica, gli avea poi fatti tagliare a pezzi.


In questi tempi ancora bolliva la discordia tra il re dell'Armenia e i
suoi figliuoli. Caracalla colla sua consueta infedeltà chiamò cadaun
d'essi alla corte, facendo loro credere di volerli accordare insieme.
L'accordo fu, che tutti li ritenne prigioni, figurandosi di poter fare
il medesimo giuoco dell'Armenia che avea fatto dell'Osroene; ma
s'ingannò. Que' popoli presero l'armi per difendersi, senza volersi
punto fidare di un principe che s'era troppo screditato colla sua
perfidia. Avea Caracalla alzato al grado di prefetto del pretorio
_Teocrito_, uomo vilmente nato, già ballerino nei teatri, e divenuto a
lui caro, perchè stato suo maestro nel ballo, e che per ammassar roba
commise varie crudeltà[1682], e facea anche sotto mano il mercatante.
Presso Sifilino è detto essere stato tanta la di lui autorità nella
corte, che la facea da superiore ai due prefetti del pretorio. Questo
degnissimo generale fu da lui inviato con un corpo d'armata per
sottomettere l'Armenia; ma da quei popoli rimase intieramente
disfatto. Scrisse in questi tempi Caracalla al senato, con dire di
saper bene ch'esso non sarebbe contento delle di lui imprese; ma che,
tenendo egli una buona armata al servigio suo, avea in fastidio
chiunque sparlasse di lui. Quindi volle passar in Egitto, con
ispargere voce d'essere spinto da divozione verso Serapide, e da
desiderio di veder la fiorita città di Alessandria, fabbricata dal suo
caro Alessandro Magno[1683]. Arrivata questa nuova in quella città,
gli Alessandrini, gente vana, non cupando in sè stessi per
l'allegrezza, si diedero a far mirabili preparamenti di addobbi, di
musiche, di profumi per accogliere con gran solennità il regnante. Ma
Caracalla, secondo il suo costume, doppio di cuore, si portava colà
non per rallegrar que' cittadini, ma per disertarli. Il natural di
quel popolo era inclinato forte alla maldicenza, ed avea sempre in
bocca motti frizzanti, specialmente contro ai potenti. In fatti, senza
nè pur risparmiare l'imperador stesso, misero in canzone la morte da
lui data al fratello, attribuendogli anche un disonesto commercio
colla madre, e deridendo la piccola di lui statura, non ostante la
quale egli si credeva un altro Alessandro e un nuovo Achille. I
principi saggi, che non prendono mosche, non fan più caso di simili
ciarle, di quel che si faccia delle ingiurie de' pappagalli e delle
gazze. Ma all'iracondo e bestial Caracalla esse trapassavano il cuore,
e però ne volea far gran vendetta. Giunto ad Alessandria, visitato con
divozione il tempio di Serapide, vi fece molti sagrifizii; andò al
sepolcro di Alessandro, e vi lasciò de' preziosi ornamenti. Gridavano
gli Alessandrini: _Viva il buon Imperadore;_ e lo sdegno sanguinario
di Caracalla stava allora per piombar sulle loro teste. Erodiano
scrive che, fatta raunar la gioventù di Alessandria fuori della città,
che ascendeva a migliaia, fingendo di voler formare un falange ancora
di Alessandrini, dopo averli fatti attorniare dal suo esercito, tutti
ordinò che fossero messi a fil di spada. Orridissima fu quella strage.
Dione[1684] scrive che il macello seguì nella città di notte e di
giorno, ed essere stato sì grande il numero degli uccisi, che
impossibile fu il raccoglierlo[1685]. Vi perì gran copia ancora di
forestieri venuti per veder quelle feste; il sacco fu dato ai fondachi
a alle case, nè andarono esenti dalla rapacità militare que' templi. E
questi furono i nemici che il detestabil Augusto andò a cercare in
Oriente per gastigarli. Divise poi la città in due parti, la privò di
tutti i privilegii, e lasciovvi presidio, con divieto ai cittadini di
far adunanze in avvenire. Perseguitò ancora i seguaci di Aristotile,
con dire che quel filosofo era stato cagion della morte di Alessandro,
e levò loro le scuole che godevano in quella città. Da uno di quegli
oracoli Caracalla fu chiamato una fiera; ma chi v'ha che non l'abbia a
chiamar tale, e vedute crudeltà sì enormi? Anch'egli nondimeno si
gloriava di questo, benchè molti poi facesse uccidere, perchè
divulgavano l'oracolo suddetto.

Tornossene questa fiera Augusta ad Antiochia, con animo di far una
delle sue frodi anche ad _Artabano_ re dei Parti. Se crediamo ad
Erodiano[1686], gli dimandò per moglie una di lui figliuola,
proponendo nello stesso tempo di far una specie di unione delle due
monarchie, sufficiente ad assoggettar tutto il mondo allora
conosciuto. Non ne volea sentir parlare a tutta prima Artabano, ma
poscia, accettato il partito, lasciò campo a Caracalla d'inoltrarsi
nel suo regno, come s'egli andasse a prendere la sposa, e a visitar il
re suocero. Venne da una certa città ad incontrarlo Artabano con
immensa quantità di gente tutta inghirlandata e senz'armi. Allora
Caracalla comandò a' suoi di menar le mani contra de' Parti, che,
trovandosi privi di cavalli e d'armi, ed imbrogliati dalle vesti
lunghe, nè poteano punto difendersi, nè speditamente fuggire. Gran
carnificina vi fu fatta; il re ebbe tempo di scappare; restò il paese
in preda ai Romani, i quali, stanchi del tanto uccidere e rubare, se
ne tornarono finalmente nella Mesopotamia colla gloria di essere
insigni traditori. Dione[1687], all'incontro, lasciò scritto (ed è ben
più verisimile il suo racconto) che avendo Artabano promesso la
figliuola a Caracalla, e poi negatala, perchè s'avvide avere un sì
perfido Augusto dei perniciosi disegni sopra il suo regno, e che non
era uomo da fidarsi di lui; allora Caracalla ostilmente entrò nella
Media, saccheggiò e smantellò varie città, e fra l'altre Arbela, e
distrusse i sepolcri dei re parti. Si servì ancora di lioni,
mandandoli a quelle genti[1688]. Dione nondimeno scrive che fu un solo
lione, che, calato all'improvviso dal monte, fece del male ai Parti.
Ora, quantunque niuna battaglia seguisse, perchè i Parti scapparono
alle montagne, e di là dal fiume Tigri, pure il vano imperadore
scrisse al senato magnifiche lettere di queste sue vittorie, colle
quali avea conquistato tutto l'Oriente, e volle il titolo di
_Partico_. Si sapeva a Roma quel ch'era, ma convenne far vista di
credere illustri e memorande quelle imprese. Nelle monete[1689]
dell'anno seguente si trova menzionata la _vittoria partica_, ma non
si vide già che egli prendesse il titolo di _Imperadore per la quarta
volta_, benchè al Tillemont[1690] sia sembrato di vederlo. Venne[1691]
poscia Caracalla coll'armata a prendere la stanza di verno nella città
di Edessa, assai contento delle sue strepitose prodezze.

NOTE:

[1674] Panvin., in Fast. Consular.

[1675] Gruterus, Thesaurus Inscript., p. 183, n. 4.

[1676] Idem, pag. 261.

[1677] Fabrettus, Inscript., pag. 682.

[1678] Dio, lib. 77.

[1679] Herodianus, lib. 4.

[1680] Dio, in Excerptis Valesianis.

[1681] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1682] Dio, lib. 77.

[1683] Herodianus, lib. 4.

[1684] Dio, lib. 77.

[1685] Spartianus, in Severo.

[1686] Herodianus, lib. 4.

[1687] Dio, lib. 78.

[1688] Spartianus, in Severo.

[1689] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[1690] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1691] Spartianus, in Severo.




    Anno di CRISTO CCXVII. Indizione X.

    CALLISTO papa 1.
    MACRINO imperadore 1.

_Consoli_

CAIO BRUTTIO PRESENTE e TITO MESSIO EXTRICATO per la seconda volta.


Ricevette in quest'anno la corona del martirio san _Zefirino_ papa, e
fu in suo luogo posto nella cattedra di san Pietro _Callisto_. Svernò,
come già accennai, l'Augusto Caracalla in Edessa[1692], dove tanto
egli che i soldati suoi viveano nelle delizie senza disciplina alcuna
nelle case de' cittadini, e prendendo come proprie tutte le loro
sostanze; quando, secondo i regolamenti de' tempi addietro, i soldati
anche in tempo di verno abitavano sotto le pelli, cioè sotto le tende
fatte di pelli. Lo stesso imperadore avea mutata la forma delle vesti
militari, avendo presa dai Galli la foggia di un abito talare,
appellato _Caracalla_, con cappuccio, di cui andava egli
vestito[1693], e voleva che andassero vestiti anche i soldati. Di là
venne il soprannome a lui dato di _Caracalla_. Si avvidero allora i
Parti che non erano poi lioni i Romani; anzi, in sapere che la vita
molle del quartiere di verno e le fatiche dell'anno precedente aveano
snervata la milizia romana, facean dei gran preparamenti per
vendicarsi. Ma nè pur Caracalla si teneva le mani alla cintola,
ammassando anche egli gente, e quanto occorreva per tornare in
campagna contra di loro; quando Iddio volle mettere fine alle iniquità
di questo indegno imperadore o piuttosto esecrabil tiranno. Esercitava
in questi tempi l'uffizio di prefetto del pretorio, o sia capitan
delle guardie, _Marco Opellio Macrino_, nativo d'Africa, i cui natali
furono vilissimi. Era in età di circa cinquantatrè anni.
Capitolino[1694], nella Vita di lui, ne parla assai male. Dione,
all'incontro, scrive[1695] aver egli con alcune buone qualità
compensati i difetti della sua bassa nascita, essendo stato
competentemente dotto nello studio legale, uomo moderato, avvezzo a
giudicare con molta equità, e che si facea amare. Avvenne che un
indovino in Africa chiaramente disse ch'esso Macrino e _Diaduminiano_
suo figlio, in età allora di circa nove anni, aveano da essere
imperadori[1696]. Costui, mandato a Roma, confessò questo medesimo a
_Flavio Materniano_, comandante delle milizie lasciate in Roma, il
qual tosto ne spedì l'avviso a Caracalla Augusto. Ma, per attestato di
Dione, non andò la lettera direttamente a lui, perchè ordine v'era di
portar le lettere provenienti da Roma a _Giulia Augusta_, la quale,
dimorando in Antiochia con grande autorità, avea l'incumbenza di
accudire a tutti gli affari, per non isturbare il figliuolo occupato
nella guerra coi Parti. Intanto avendo _Ulpiano Giuliano_, allora
censore, inviato frettolosamente a Macrino un altr'uomo coll'avviso di
quanto bolliva in Roma contra di lui, Macrino venne prima di Caracalla
a risapere il pericolo a cui egli era esposto, perchè in simili casi
vi andava la vita. Si aggiunse che un certo Serapione Egiziano pochi
dì prima avea predetto a Caracalla che poco restava a lui di vita, e
che gli succederebbe _Macrino_. Fu ben pagata la di lui predizione,
con essere dato in cibo ai lioni. Imperciocchè Caracalla conduceva
sempre seco una man di lioni, e specialmente ne amava uno assai
dimestico, appellato Acinace (noi diremmo scimitarra), e il teneva a
guisa d'un cane alla tavola, al letto od alla porta, con baciarlo
sovente pubblicamente. Per tali accidenti determinò Macrino di
prevenir la morte propria con procurar quella di Caracalla.
Erodiano[1697] aggiunge che Caracalla anche talvolta aspramente
motteggiava Macrino, trattandolo da uomo da nulla nel mestier
dell'armi, con giungere ancora a minacciargli la morte. Secondochè
s'ha dal medesimo storico, arrivato il plico delle lettere spedite da
Materniano, Caracalla, che in cocchio era dietro a far correre i suoi
cavalli, lo diede a Macrino, come era suo costume alle volte, con
ordine di riferirgli dipoi le cose importanti, e di eseguir intanto
quelle che esigessero risoluzione. Trovò[1698] per questo fortunato
accidente Macrino il brutto avviso che di sua persona era dato a
Caracalla. Osservi qui il lettore che mali effetti producesse una
volta la troppa credenza agl'impostori indovini. Caracalla avea gli
oroscopi e le geniture di tutti i nobili romani, credendo di conoscere
chi l'amava o l'odiava, e chi gli potesse tendere insidie. Si folle
credenza o produsse o almeno accelerò la di lui rovina.


Macrino adunque, senza perdere tempo, giacchè credeva perduto sè
stesso, qualora Materniano avesse con altre lettere replicato
l'avviso, segretamente trattò con un tribuno delle guardie, appellato
Giulio Marziale, della maniera di levar dal mondo l'iniquo Caracalla.
Oltre all'essere Marziale uno de' maggiori suoi amici, nudriva ancora
un odio gravissimo contra di esso Augusto, perchè avea fatto morir,
qualche tempo prima, indubitamente un di lui fratello. Promise egli di
fare il colpo alla prima buona congiuntura. Infatti, nel dì 8 di
aprile, essendo montato a cavallo Caracalla con poche guardie[1699],
per andare alla città di Carre a fare il sacrifizio alla dea Luna,
appellata da quel popolo il dio Luno, essendo smontato per una
necessità del corpo, e ritiratesi per riverenza le guardie; Marziale,
che stava attento ad ogni momento per isvenarlo, se gli accostò con
qualche pretesto, quando egli ebbe soddisfatto al bisogno, ovvero per
aiutargli a risalire a cavallo, perchè non erano in uso allora le
staffe. Quel che è certo, con un pugnale gli diede una ferita nella
gola, e morto lo distese per terra. Perchè l'altre guardie non si
avvidero così tosto del colpo fatto, avrebbe potuto salvarsi Marziale,
se avesse lasciato indietro il pugnale. Ma riconosciuto da uno de'
Tedeschi, o pure Sciti, che scortavano Caracalla, gli scagliarono
dietro delle freccie e l'uccisero. Divulgata la morte dell'imperadore,
corse colà tutto l'esercito, e più degli altri Macrino si mostrò
dolente d'una sciagura, per cui internamente facea gran festa il suo
cuore. Ma a chi era morto nulla giovavano i lamenti altrui. Così
_Marco Aurelio Antonino_, non meritevole d'essere da noi rammentato se
non col soprannome di _Caracalla_, terminò i suoi giorni in età di
ventinove anni, dopo aver regnato solo sei anni, due mesi ed alcuni
giorni. Egli[1700] era anche soprannominato _Tarante_, dal nome di un
gladiatore, il più sparuto e scellerato uomo che vivesse sopra la
terra. E morì odiato da tutti, ma non già dai soldati, ancorchè non
pochi sofferissero mal volentieri che egli nelle sue guardie
anteponesse i Germani e gli Sciti ai Romani. Macrino, fatto dipoi
bruciare il di lui corpo, e riposte le ceneri in un'urna, le mandò ad
Antiochia a Giulia sua madre. Dopo qualche tempo le fece egli stesso
portare a Roma a seppellire nel mausoleo d'Adriano. Allorchè arrivò a
Roma la nuova della morte di Caracalla, non si attentava la gente a
mostrare di crederla vera, finchè, venuti più corrieri ed accertato il
fatto, ognuno lasciò la briglia all'allegrezza, ma specialmente il
senato e la nobiltà, a' quali parve di ritornar in vita[1701], perchè
in addietro lor sempre parea di aver la spada pendente sul capo.
Caricarono i senatori il nome e la memoria di lui dei più obbrobriosi
titoli, ma per paura de' soldati non ardirono di chiamarlo nemico
pubblico. Anzi, creato che fu imperadore _Macrino_, vennero sue
lettere, colle quali pregava il senato di decretare gli onori divini
ad esso _Caracalla_, e bisognò ubbidire. E si vide allora, come
osserva fin lo stesso Sparziano di professione pagano[1702], questa
orrida deformità, che un uccisore del padre e del fratello, un boia
del senato e del popolo di Roma e d'Alessandria, l'orrore in somma del
genere umano, presso il quale dopo morte si trovò una incredibile
copia di varii veleni, per valersene a soddisfare le sue voglie
crudeli: questo mostro, diss'io, conseguì il titolo di dio, e per
ordine di un Macrino, che l'avea fatto uccidere, con aver da li
innanzi tempio, sacerdoti e cultori. Saran pure stati contenti ed
allegri di sì nobil compagnia gli dii della Gentilità! avran pure
ottenuto delle belle grazie da questo nuovo dio i Pagani! Io tralascio
i presagii della di lui morte riferiti da Dione[1703], gran cacciatore
di somiglianti augurii, ai quali per lo più si facea mente dopo il
fatto.

Quanto a _Giulia Augusta_, madre di esso Caracalla, si vuol ora
avvertire che essa era nata in Soria, e probabilmente ella fu che
condusse colà il figliuolo, forse per non partirne mai più. Grande era
stata sotto Severo Augusto suo marito la di lei autorità, maggiore fu
sotto il figlio Caracalla, di modo che comunemente veniva appellata
_Julia Domna_, cioè _Giulia signora e padrona_. L'adulazione inoltre
inventò per lei i titoli di _madre degli Augusti, della patria, del
senato, delle armate_. Sparziano[1704] le dà taccia di donna infame
per gli adulterii, ed aggiunge anche un fatto più nero, cioè che il
figliuolo, dopo la morte di Severo, la prese per moglie nella seguente
maniera. Essendo ella bellissima femmina, si lasciò un dì vedere a
Caracalla quasi affatto ignuda. Miratala in quell'atto Caracalla,
disse: _Io vorrei se fosse lecito...!_ Ed ella rispose: _Purchè vi
piaccia, è lecito. Non siete voi imperadore? A voi tocca di dar le
leggi, e non di riceverle._ Ed egli allora la sposò. Così orrido è il
fatto, che lo stesso Sparziano tenne Giulia per matrigna, e non già
per madre di Caracalla; e, da lui addottrinati, scrissero lo stesso
anche Aurelio Vittore[1705], Eutropio[1706], Eusebio[1707] ed altri;
ma queste son tutte fandonie e calunnie. Dione, che fu famigliare di
essa Giulia Augusta, ed Erodiano, che fiorì almeno in vicinanza di
questi tempi, concordemente asseriscono che essa Giulia fu vera madre
di Caracalla e di Geta[1708], e ce la descrivono per donna savia ed
applicata alla filosofia. Nè all'età di lei, che si dovea accostare ai
cinquant'anni, conviene l'eccesso narrato da Sparziano. Oltre di che,
se Caracalla l'avesse presa per moglie, non avrebbe trattato col re
dei Parti di prender una di lui figliuola. Dalle dicerie degli
Alessandrini venne questa calunniosa voce. Già vedemmo che la
maldicenza la trattava da Giocasta. Contra chi è odiato nulla è più
facile che l'inventare delitti oltre al vero. Non può già negarsi che
Giulia non fosse donna di rara avvedutezza e disinvoltura. Ancorchè il
barbaro Caracalla le avesse ammazzato in grembo il figliuolo
Geta[1709], pure seppe ella contener le sue lagrime, per non accusare
ed irritare il bestial fratricida; anzi contraffaceva in pubblico a
dispetto del suo dolore il volto sereno ed allegro, perchè era notata
ogni sua parola ed ogni menomo gesto. Non si accorda ciò col dirsi da
Sparziano[1710], che avendo ella sparse alcune lagrime in compagnia di
alcune dame, poco mancò che Caracalla non facesse morir lei e tutte
quelle sue confidenti. Ci assicura Dione ch'ella da lì innanzi fu
sommamente rispettata dal figliuolo Augusto, e che a lei diede
l'incumbenza di rispondere alle lettere e di fare i rescritti ai
memoriali, con dover solo riferire a lui le cose più importanti.
Stavasene in Antiochia allorchè arrivò la nuova certa che il figliuolo
Caracalla era stato tolto dal mondo[1711]. Sopraffatta dal dolore, più
pugni si diede sul petto, che irritarono forte un cancro che già
l'affliggeva. Scaricando ancora la sua bile contra di Macrino, altro
non desiderava che di morire; non già che ella amasse il perduto
figliuolo, ma perchè colla morte di lui era spirata la somma di lei
autorità. Tuttavia, perchè Macrino le scrisse con assai civiltà,
lasciandole tutti i suoi uffiziali e fin le guardie, anche ella lasciò
andare il pensiero di non più vivere. Informato poi Macrino del suo
sparlare, e ch'ella facea dei segreti maneggi per rendersi padrona
dell'imperio, le mandò ordine di levarsi da Antiochia. Tra per questo,
e per la nuova a lei pervenuta degli strapazzi fatti in Roma alla
memoria e al nome di Caracalla, si lasciò essa dipoi morire col non
volere cibarsi; benchè Erodiano[1712] scrive, essere incerto se
spontanea o forzata fu la di lei morte.

Due giorni stette vacante l'imperio, perchè l'armata cesarea di Soria
non sapea a chi conferirlo; e pur conveniva affrettarsi, perchè con
poderoso sforzo di armati era già in campagna _Artabano re de' Parti_,
voglioso di vendicar le ingiurie e i danni a lui recati da
Caracalla[1713]. Macrino esternamente parea non ricercare quella
sublime dignità, per non dar sospetto all'armata di aver tenuta mano
alla morte di Caracalla, ma segretamente faceva i suoi maneggi coi
primi uffiziali, affinchè in lui cadesse la elezione. Per suggestione
appunto di essi, nel dì 11 d'aprile, e non già per inclinazione che ne
avessero, i pretoriani proclamarono _Macrino imperadore_: al che
consentì il restante dell'esercito. Aveano prima tentato di alzare al
trono _Advento_, prefetto anch'esso del pretorio; ma egli non avea
voluto accettare, con allegar la troppo avanzata età. Anche Macrino
fece alquanto lo schifoso, pure in fine mostrò di cedere alla lor
premura[1714]. Diede un regalo ai soldati, e molto più ne promise. Per
farsi anche credito presso i medesimi, assunse il nome di _Severo_; e
però nelle monete[1715] si trova chiamato _Marco Opellio Severo
Macrino_: per lo che fu deriso, niuna attinenza avendo egli con Severo
già Augusto. Vuol Capitolino che fosse da lui preso anche il nome
d'_Antonino_; ma di ciò niun vestigio apparendo nelle monete e nelle
iscrizioni, si crede un fallo di quello storico. Il nome bensì di
_Antonino_, troppo caro all'esercito, diede egli a _Diadumeniano_ suo
figliuolo, con dichiararlo _Cesare e principe della gioventù_.
Comparisce egli nelle monete[1716] col nome di _Marco Opellio Antonino
Diadumeniano_. Ha creduto il padre Pagi[1717] che dal padre sul
principio del suo imperio gli fosse conferita la podestà tribunizia, e
che amendue prendessero il consolato dell'anno presente, sostituiti ai
due consoli ordinarii. Ma questa opinione è appoggiata solamente a
qualche medaglia[1718], che sarà adulterata o falsa. Tale specialmente
è, a mio credere, una, in cui Diadumeniano è chiamato all'anno
seguente _console per la seconda volta_, ornato della _tribunizia
podestà per la seconda, imperadore, pontefice massimo e padre della
patria_. Dio sa se Diadumeniano fu nè pure imperadore Augusto.
Erodiano[1719], Dione[1720], Capitolino[1721] e Lampridio[1722] o ne
dubitano, o chiaramente il riconoscono non più che _Cesare_. Il che
risulta ancora da una iscrizione esistente nel museo cesareo, e da
altre nell'appendice da me[1723] pubblicate, dove nell'anno seguente
_Diadumeniano_ tuttavia vien detto _Cesare_ e _principe della
gioventù_, e non già imperadore, nè console, e tanto meno console per
la seconda volta. Ivi ancora s'incontra Macrino _console_, ma senza
segno alcuno di aver egli altra volta tenuta la dignità consolare.
Impostori di medaglie, non men che d'iscrizioni antiche, non sono
mancati negli ultimi secoli.

Scrisse poi Macrino lettere di molta sommessione al senato, il quale
non fece difficoltà di accettarlo, qualunque egli fosse: tanto era il
piacere di vedersi liberato dal carnefice Caracalla. Perciò il
proclamarono patrizio romano[1724], che nè pur tale era egli in
addietro; e gli conferirono la podestà tribunizia e l'autorità
proconsolare con tutti gli altri onori. Trovavasi imbrogliato Macrino,
perchè dall'un canto, per non dispiacere ai soldati, dovea mostrare di
amar la memoria di Caracalla: e, ciò facendo, disgustava il senato ed
innumerabili altri. Tuttavia cassò alcune leggi ingiuste di Caracalla,
levò via le esorbitanti pensioni da lui accordate[1725], relegò ancora
in un'isola _Lucio Priscilliano_, famoso per gli combattimenti da lui
bravamente fatti con assaissime fiere, ma più per le sue calunnie, che
aveano cagionata la morte di moltissimi cavalieri e senatori, allorchè
era favorito di Caracalla[1726]. Anche tre senatori, spie d'esso
Caracalla, ebbero il medesimo gastigo, con altri non pochi di minore
sfera. Intanto il re dei Parti _Artabano_, messo insieme un
formidabile esercito di fanti e cavalli, entrò nella Mesopotamia, e
veniva a bandiere spiegate per vendicarsi de' torti a lui fatti dal
perfido Caracalla. Macrino, uomo di poco cuore, spedì ambasciatori per
placarlo e per trattar di pace. Ma Artabano mise ad alto prezzo questa
pace, con pretendere il rifacimento delle terre e città rovinate da'
Romani, ed eccessive somme di danaro in compenso de' sepolcri guasti e
di tanti altri danni recati al suo paese. Appena ebbe data questa
risposta, che comparve con tutte le sue forze in faccia ai Romani
nelle vicinanze di Nisibi[1727]. Due sanguinosissime battaglie si
fecero, dove perì innumerabil gente, e sempre con isvantaggio de'
Romani. Allora il tremante Macrino più che mai rinforzò le preghiere
per la pace, ed Artabano ebbe anch'egli i suoi motivi di concorrere in
essa, ma con venderla ben cara. Scrive Dione, aver Macrino spesi
cinque milioni di ducatoni per far cessare questa guerra, con aver
anche restituiti i prigionieri e quel bottino che si potè. Se merita
in ciò fede Capitolino[1728], Macrino ebbe da combattere ancora coi
popoli dell'Armenia e dell'Arabia Felice, ed in ciò mostrò valore, e
fu fortunato. Abbiamo solamente da Dione ch'egli stabilì la pace con
quel re _Tiridate_. Sembra poco verisimile l'altro punto dell'Arabia
Felice. Andarono queste nuove a Roma, e tuttochè sia da credere che il
senato avesse delle informazioni fedeli de' sinistri successi, pure
serrò gli occhi, e alle lettere di Macrino, che parlavano di vittoria,
e promettevano ottimo governo, rispose con pienezza di civiltà e di
congratulazioni, accordandogli il titolo di _Partico_ e il trionfo,
ch'egli nondimeno ricusò, per non sentire i rimproveri della sua
coscienza. Avvicinandosi poi il verno, egli sen venne ad Antiochia, e
compartì l'armata per la Soria.

NOTE:

[1692] Anastasius Bibliothecar.

[1693] Spartianus. Dio. Aurelius Victor.

[1694] Capitol., in Macrino.

[1695] Dio, lib. 78.

[1696] Herodianus, lib. 2.

[1697] Herodianus, lib. 2.

[1698] Dio, in Excerptis Vales.

[1699] Dio, lib. 78. Herod., lib. 4. Spartianus, in Severo.

[1700] Dio, lib. 78.

[1701] Capitolinus, in Macrino.

[1702] Spartianus, in Caracalla.

[1703] Dio, lib. 68.

[1704] Spartianus, in Severo.

[1705] Aurelius Victor, in Epitome.

[1706] Eutrop., in Breviar.

[1707] Eusebius, in Chron.

[1708] Dio, lib. 78. Herodianus, lib. 4.

[1709] Dio, lib. 78.

[1710] Spartianus, in Geta.

[1711] Dio, lib. 78.

[1712] Herodianus, lib. 4.

[1713] Dio, lib. 78.

[1714] Capitolin., in Macrino.

[1715] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[1716] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[1717] Pagius, in Critic. Baron.

[1718] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.

[1719] Herodianus, Histor., lib. 4.

[1720] Dio, lib. 78.

[1721] Capitol., in Macrino.

[1722] Lampridius, in Diadumeniano.

[1723] Thesaur. Novus Inscript., pag. 469, n. 1.

[1724] Capitolinus, in Macrino.

[1725] Dio, lib. 78.

[1726] Herodianus, lib. 4.

[1727] Dio, lib. 78.

[1728] Capitol., in Macrino.




    Anno di CRISTO CCXVIII. Indizione XI.

    CALLISTO papa 2.
    MACRINO imperadore 2.
    ELAGABALO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO OPELLIO SEVERO MACRINO AUGUSTO ed OCLATINO ADVENTO.


Questo _Advento_ console quel medesimo è che in compagnia di Macrino
era dianzi prefetto del pretorio, ed avea ricusato l'imperio. Macrino
il compensò con quest'onore, benchè fosse anch'egli di bassissima
sfera. Non si può ben chiarire il di lui prenome e nome. Il
Relando[1729], con produrre una iscrizione assai logora del Fabretti,
il nomina _Q. M. Coclatino Advento per la seconda volta_. Non è da
credere ch'egli usasse due prenomi, o che il suo nome fosse disegnato
con un solo M. Molto meno sussiste ch'egli fosse stato console
un'altra volta[1730]. Dai frammenti di Dione abbiamo che fu ripreso
Macrino per aver creato senatore, collega nel consolato e prefetto di
Roma _Advento_, uomo già soldato gregario, poscia corriere e, poco fa,
procuratore. In vigore di due iscrizioni, da me[1731] altrove
pubblicate, è sembrato a me più verisimile il suo nome _Oclatino_ che
_Coclatino_. Almen dubbioso, se non falso, parimente sembra che
Macrino fosse chiamato _console per la seconda volta_, come giudicò il
Relando. Ci sono medaglie[1732] che il nominano solamente _console_ in
quest'anno; però è da vedere se legittime sieno l'altre che ci
rappresentano il secondo suo consolato. Passò Macrino Augusto il verno
in Antiochia, ma senza prender ben le sue misure per assodar la sua
fortuna sul trono. Era desiderato, era sollecitato a venirsene a Roma,
dove, non ostante i difetti della sua nascita, si era conceputa non
lieve stima ed amore per lui, sapendo ch'era uomo di genio moderato ed
inclinato alla giustizia e a far del bene. Fallò egli non poco[1733]
col perdersi tanto nelle delizie di Antiochia[1734]. Ad errore ancora
gli fu attribuito l'aver lasciato troppo tempo unita l'armata senza
dividerla, e senza mandare i differenti corpi alle loro provincie,
giacchè più non si parlava di guerra. Oltre a ciò, in vece di studiar
la maniera di farsi amare, affettava una aria di gravità e di altura
non convenevole a chi era salito tant'alto dal basso; nè si mostrava
assai cortese verso i soldati. Capitolino[1735], che unì tutto quel
che seppe per iscreditare la di lui memoria, cel rappresenta crudele
anche nello stesso far la giustizia, e troppo rigoroso nell'esigere la
militar disciplina. Diedesi inoltre a far degli eccessi di gola, e
divertirsi nei teatri, e dar poche udienze. Può essere che tale
storico alterasse la verità in più d'un capo. Oltre di che,
Lampridio[1736] scrive che _Elagabalo_ fece dire dagli storici
d'allora quanto male mai seppe di esso _Macrino_. Tuttavia, per
attestato di Dione[1737], noi sappiamo che esso Macrino conferiva i
magistrati a persone inabili ed indegne, e che le sue parole, al pari
dei fatti, non mostravano ch'egli avesse mai testa e spalle per
sostener con decoro e con utile del pubblico una sì gran dignità. Ma
quello che finalmente diede il tracollo alla di lui fortuna, fu che, a
riserva de' pretoriani, il resto dell'armata, la quale mal volentieri
aveva accettato dalle mani di essi pretoriani questo nuovo Augusto,
sempre più si andò alienando da lui; perchè osservava in Macrino uno
spietato rigore nel voler rimettere l'antica disciplina nelle truppe,
costringendoli ad alloggiar sotto le tende anche nel verno, e sì
perchè non cadevano più le frequenti rugiade di regali, usate verso di
loro dal prodigo Caracalla; ed aveva anche preso piede il sospetto
ch'egli avesse tolto dal mondo quell'Augusto loro sì caro. Con questo
cuor guasto andavano fra loro sparlando di Macrino, e trapelava dalle
parole della maggior parte d'essi una inclinazione a ribellarsi.
Solamente mancava chi alzasse il dito e si facesse capo; ma questo
tale non tardò a presentarsi.

Ebbe _Giulia Domna Augusta_, madre di Caracalla, Soriana, siccome già
vedemmo, di nazione, una sorella in quelle parti, appellata _Giulia
Mesa_, da cui erano nate due figliuole, l'una _Giulia Soemia_, e
l'altra _Giulia Mammea_[1738]. Fu maritata la prima di esse con _Vario
Marcello_, la seconda con _Genesio Marziano_, amendue ricchi signori
in Soria, e già mancati di vita. Giulia Mesa, che tuttavia era in
buona età, stando in addietro alla corte in compagnia di Giulia
Augusta sua sorella, vi aveva ammassata gran copia di ricchezza; e
siccome donna accorta e spiritosa, gran provvisione avea fatta di
disinvoltura e sperienza negli affari del mondo. Lasciolla Macrino in
pace, nè tolse un soldo dei tesori da lei accumulati: laonde ella,
dappoichè fu morta la sorella Augusta, si ritirò nella città di Emesa,
patria sua, colle due sue figliuole vedove, e con due nepoti,
figliuoli delle medesime. Quello di Giulia Soemia si appellava _Vario
Avito Bassiano_ (Dione, non so perchè, lo chiama _Lupo_: fors'era un
soprannome), che noi vedremo fra poco imperadore col soprannome di
_Elagabalo_. L'altro, nato da Giulia Mammea, portava il nome di
_Alessiano_, il quale, giunto anch'esso all'imperio, sarà da noi
conosciuto col nome di _Severo Alessandro_. Bassiano, giunto all'età
di quattordici anni[1739], era bellissimo giovinetto, e sacerdote del
tempio del dio Elagabalo, cioè del Sole, benchè altri dicano di Giove
o di Serapide, adorato in quella città, non già in qualche immagine o
statua, ma in una pietra che avea la figura di cono o sia di un pane
di zucchero, pietra caduta dal cielo per felicità di quel popolo. I
soldati acquartierati fuori di Emesa, coll'andare a quel tempio, e
veder in esso e fuori di esso in superbe vesti e con corona gioiellata
in capo il vaghissimo sacerdote Bassiano, se n'erano mezzo innamorati.
Crebbe poi a dismisura questo amore, da che l'accorta Giulia Mesa fece
spargere voce[1740] che questo bel giovine era figliuolo di _Caracalla
Augusto_, mercè del commercio da lui avuto con _Giulia Soemia_
figliuola di lei, allorchè dimoravano tutte in corte. Vera o falsa che
fosse questa voce, commosse non poco i soldati tra per lo amore che
tuttavia nudrivano verso Caracalla, e per l'odio che portavano a
Macrino. Si aggiunse la fama delle grandi ricchezze di Giulia Mesa, la
quale ne facea loro una generosa offerta, se volevano promuovere al
trono il giovine Bassiano. Fatto il concerto, ed uscita ella una notte
di Emesa, condusse il nipote al campo de' soldati, che immediatamente
lo acclamarono _Imperadore_, e vestirono di porpora nel dì 16 di
maggio, dandogli il nome di _Marco Aurelio Antonino_, soprannominato
dipoi _Elagabalo_ per cagione del suddetto suo sacerdozio. Da
Capitolino e da altri è chiamato _Heliogabalo_; sono d'accordo ora gli
eruditi in appellarlo _Elagabalo_. Dione[1741], all'incontro, lasciò
scritto, essere stata l'esaltazione di questo mentito figlio di
Caracalla opera e maneggio solamente di _Eutichiano_, soprannominato
_Comazonte_ a cagion del suo umore allegro e buffone, già figliuolo di
uno schiavo, e poi liberto degl'imperadori, uomo screditato al maggior
segno per varii vizii. Costui (seguita a dire Dione) arditamente
trattò l'affare senza che lo sapessero nè la madre, nè l'avola di
Elagabalo; ma sembra ben più verosimile il racconto di Erodiano, che
mette incitati i soldati alle sedizione specialmente per la speranza
de' tesori loro esibiti da Giulia Mesa.

Portata a Macrino questa nuova, mostrò egli nel di fuori di non farne
conto, anzi di ridersene, considerato per uno scioccherello e ragazzo
Elagabalo, ed atteso particolarmente il nerbo de' suoi pretoriani e
delle altre milizie che il fiancheggiavano. Scrisse nondimeno questa
novità al senato, e con lettera appellata puerile da Dione. S'egli
fosse stato uomo di testa e provveduto di coraggio, nulla più facile
era che di affogar quella ribellione, marciando tosto con tutte le sue
forze contro quel corpo di armata ribelle, troppo inferiore alla sua,
e col promettere ai soldati il bottino delle ricchezze di Giulia Mesa.
Gli parve sufficiente rimedio al male lo spedir colà _Ulpio Giuliano_
perfetto del pretorio con parte delle milizie[1742]. Appena arrivato
colà questo uffiziale, ruppe alcune porte della città, dove si erano
ritirati e fortificati i ribelli; ma non vi volle entrar per forza,
sperando di veder di momento in momento esposta bandiera bianca.
Questa bandiera non comparve, e durante la notte si fortificarono così
bene i soldati di dentro, che quando Giuliano, venuta la mattina, fece
dare l'assalto alle mura, trovò una insuperabile resistenza negli
assediati. Inoltre, si lasciò vedere quel bel fantoccio di Elagabalo
magnificamente abbigliato sui merli delle mura e delle torri, gridando
i suoi soldati: _Ecco il figliuolo di Antonino_, cioè di _Caracalla_,
e mostrando nel medesimo tempo i sacchi dell'oro e dell'argento loro
dati da Giulia Mesa. Quella bella vista, passando in cuore di chi
tanto bene avea ricevuto da Caracalla, servì d'incanto ai soldati di
Macrino, che, ammutinati anch'essi, trucidarono i più dei loro
uffiziali, e si unirono con quei di Elagabalo. _Giuliano_ fuggì, ma
raggiunto perdè la vita; e fu così ardito un soldato, che, posta la di
lui testa entro un sacchetto sigillato col sigillo del medesimo
Giuliano, la portò a Macrino, fingendo che fosse il capo di Elagabalo;
e mentre quella si sviluppava, destramente se ne fuggì. Erasi
inoltrato Macrino Augusto sino ad Apamea, aspettando l'esito della
spedizion di Giuliano. Uditolo sinistro, credono alcuni[1743] ch'egli
creasse allora Augusto il figliuolo _Diadumeniano_. Altro non dice
Dione[1744], se non che _il disegnò Imperadore_, e promise un grosso
regalo ai soldati. Però le monete che ci rappresentano Diadumeniano
_Augusto_ prima di quel tempo e le lettere citate da Capitolino, o son
false o non vanno esenti da sospetto. Anzi non pare che vi restasse
tempo di battere nè pur monete in onore di questo nuovo Augusto, oltre
al dirsi da Dione ch'egli fu _disegnato_ solamente, per aspettarne
probabilmente il consenso dal senato. Erodiano il riconosce fregiato
unicamente col titolo di _Cesare_.

Non si fidò Macrino di fermarsi dopo la disgrazia di Giuliano in
Apamea, e si mise in viaggio per ritornarsene ad Antiochia. Ma
l'esercito di Elagabalo, ch'era per tanti desertori cresciuto a segno
di poter fare paura a Macrino, uscì in campagna, e con isforzate
marcie il raggiunse in un luogo distante circa trenta miglia da
Antiochia[1745]. Bisognò venire ad un fatto d'armi correndo il dì 7 di
giugno. I pretoriani, siccome bei pezzi di uomini e gente scelta,
erano superiori di forze; ma i nemici con più furore combattevano,
perchè, perdendo, si aspettavano la pena della lor ribellione.
Contuttociò, prevalendo i primi, cominciarono a piegare e a prendere
la fuga gli altri; se non che, scesa dal cocchio _Giulia Mesa_ colla
figlia _Soemia_, con lagrime e preghiere tanto fece, che li rispinse
nella mischia. Lo stesso _Elagabalo_, il più vile uomo del mondo,
comparve in questa occasione un Marte, perchè a cavallo e col brando
in mano maggiormente animò i suoi alla pugna. Nulladimeno si sarebbe
anche dichiarata la vittoria per Macrino, s'egli non fosse stato
figliuolo della paura. Allorchè vide dubbioso il combattimento, per
timore di essere preso, se restava rotto il suo campo, abbandonò i
suoi per salvarsi ad Antiochia. Tennero saldo, ciò non ostante, i
pretoriani, finchè Elagabalo, informato della fuga di Macrino, lo fece
loro sapere, con promettere nello stesso tempo di conservare ad essi
il grado loro, e di regalargli se si dichiaravano per lui, siccome
seguì. Ciò saputosi da Macrino, travestito prese le poste alla volta
di Bisanzio, dove se potea giugnere, facea poi conto di passare a
Roma, e di rimettere in piedi la cadente sua fortuna. Si mise a passar
lo stretto, ed era già presso a Bisanzio, quando un vento furioso il
rigettò a Calcedonia, dove stette nascoso alcun poco, finchè giunti i
corridori spediti da Elagabalo coll'avviso della vittoria, fu scoperto
e messo in una carretta per condurlo vivo al vincitore; ma gittatosi
dal carro, e rottasi una spalla ad Archelaide, città della Cappadocia,
gli fu mozzato il capo e portato ad Elagabalo, che lo fece porre sopra
una lancia, e girar per tutto il campo alla vista di ognuno. Terminò
_Macrino_ i suoi giorni in età di cinquantaquattro anni, dopo aver
regnato quasi quattordici mesi. Mentre _Diadumeniano_ suo figliuolo
era in viaggio, sperando di salvarsi nel paese de' Parti, raccomandato
dal padre ad Artabano, fu preso anch'egli[1746], ed ucciso in età di
circa dieci anni, con che restò solo padrone del romano imperio _Marco
Aurelio Antonino_, soprannominato _Elagabalo_, in cui andiamo a vedere
il più vergognoso ed abbominevol uomo che sedesse mai sul trono de'
Cesari. Dopo l'union degli eserciti proclamato di nuovo _Imperadore_,
entrò come trionfante in Antiochia. Pretendevano i soldati il sacco di
quella innocente città: la salvò Elagabalo, con promettere loro
cinquecento dramme per testa; somma che la dovettero pagare per loro
men male i cittadini.

Dai frammenti di Dione, pubblicati dal Valesio[1747], abbiamo che esso
Elagabalo, ovvero chi faceva per lui, scrisse al senato, mandando la
lettera a _Pollione console_. S'intitolava egli _imperadore Cesare
Augusto, figliuolo di Antonino_ (cioè di Caracalla), _nipote di
Severo, Pio, Felice, dotato della podestà tribunizia e proconsolare_;
cosa contraria all'ordine e all'uso, perchè gli altri principi aveano
aspettata questa autorità dal senato, almen per un atto di
convenienza. Si può argomentare da ciò quanto abbiam detto di
Diadumeniano creduto Augusto, perchè non vi fu tempo da poter ricevere
questo titolo dal senato. In essa lettera Elagabalo sparlava forte di
Macrino, prometteva gran cose di sè stesso, protestando di prendere
per suo modello Augusto e Marco Aurelio. Tutte spampanate di lui o di
chi dettò a lui quella lettera. Staremo poco ad avvedercene. E se ne
accorsero allora i senatori, perchè egli a parte scrisse al console
_Pollione_, che se alcuno facesse opposizione o resistenza, egli si
servisse della forza e dei soldati ch'erano in Roma. Già erano
afflitti essi senatori per aver perduto Macrino, principe che non
doveva essere quel tanto sciagurato che Capitolino ci vuole far
credere; e molto più per dover essere governati da uno sbarbatello
Soriano, non conosciuto da alcuno, o almen da pochi: il quale senza
verun legittimo titolo, e per una vergognosa finzione di bastardismo,
si era intruso nel trono cesareo. Tuttavia bisognò chinare il capo,
insegnare alla lor lingua le acclamazioni e gli elogi ad Elagabalo, e
fino all'odiato Caracalla, vantato suo padre, e dichiarar nemico
pubblico Macrino. Trovasi qualche iscrizione spettante a quest'anno in
cui si veggono consoli _Antonino_ ed _Advento_. Una specialmente ne
produce il Fabretti[1748]: il che fa intendere, e lo conferma anche
Dione, che _Elagabalo_, chiamato _Marco Aurelio Antonino_, di sua
autorità si fece console in quest'anno, e ciò senza licenza del
senato, con far anche radere dagli atti pubblici il nome di Macrino, e
mettervi il suo, quasichè egli fin dalle calende di gennaio fosse
stato console con Advento. Ma noi poco fa abbiam veduto console in
quest'anno anche _Pollione_. Forse nelle calende di maggio era egli
stato sostituito a Macrino in quella insigne dignità. Ardevano intanto
di voglia Mesa e Giulia Soemia, madre del nuovo Augusto, di rivedere
Roma, dove erano state in delizie ne' tempi addietro, e però
affrettarono verso quella parte Elagabalo[1749]. Giunto egli
coll'armata a Nicomedia, per la stagion troppo avanzata, quivi si
fermò, per proseguire il viaggio nella prossima ventura primavera.

NOTE:

[1729] Reland., Fast. Cons.

[1730] Noris, Epist. Cons.

[1731] Thesaurus Novus Inscript., pag. 354.

[1732] Mediobarb., in Numism. Imperator.

[1733] Herodianus, lib. 5.

[1734] Dio, lib. 78.

[1735] Capitolin., in Macrino.

[1736] Lampridius, in Elagabalo.

[1737] Dio, lib. 78.

[1738] Herod., lib. 4. Dio, Lib. 78. Capitol., in Macrino.

[1739] Herodianus, lib. 4.

[1740] Capitol., in Macrino.

[1741] Dio, lib. 78.

[1742] Herod., lib. 5. Dio, lib. 78.

[1743] Goltzius. Mediobarb. Tillemont. Pagius.

[1744] Dio, lib. 78.

[1745] Herodianus, lib. 5. Dio, lib. 78.

[1746] Lamprid., in Diadumeniano. Herod., lib. 5. Dio, lib. 78.

[1747] Dio, in Excerptis Valesianis.

[1748] Fabrettus, Inscript., pag. 637.

[1749] Herodianus, lib. 6.




    Anno di CRISTO CCXIX. Indizione XII.

    CALLISTO papa 3.
    ELAGABALO imperadore 2.

_Consoli_

MARCO AURELIO ANTONINO, soprannominato ELAGABALO, per la seconda volta
e SACERDOTE per la seconda.


Una iscrizione da me[1750] riferita porge qualche barlume per credere
che il secondo console fosse appellato _Tiberio Claudio Sacerdote_.
Ora mentre tuttavia dimorava in Oriente l'Augusto Elagabalo,
Dione[1751] accenna alcuni torbidi, che dovettero essere di poca
conseguenza, cagionati da chi, avendo veduto salire all'imperio un
Macrino ed un Elagabalo, benchè sprovveduto di nobiltà, si diede a
tentar delle novità negli eserciti. Furono costoro ben tosto oppressi.
Nè tardò il nuovo Augusto a dar segni della sua crudeltà, con uccidere
di man propria il suo aio, pel cui senno e valore avea conseguita la
vittoria di Macrino ed ottenuto l'imperio: solamente perchè lo
esortava a lasciar le ragazzate. Fece anche uccidere _Giuliano
Nestore_, già prefetto del pretorio sotto Macrino, _Fabio Agrippino_
governatore della Soria, _Reano_ governator dell'Arabia, _Claudio
Attalo_ presidente di Cipri, e _Decio Trajano_ governator della
Pannonia, non per altro delitto, che per essersi eglino sottomessi con
prontezza all'usurpato imperio suo[1752]. Durante il verno, ch'egli
passò in Nicomedia, cominciò di buon'ora a farsi conoscere quel mostro
non solo di crudeltà, come ho già detto, ma anche di libidine, di
capriccio e di leggerezza di senno, che poi da tutto il mondo fu
conosciuto e detestato. La prima sua pazzia, principio di molte altre,
fu l'esser egli perduto dietro al suo dio Elagabalo, di cui era stato
e pretendeva di voler essere tuttavia sacerdote. Ne cominciò in essa
Nicomedia a promuovere il culto con varie feste, portando veste
sacerdotale tessuta di porpora e d'oro, e maniglie e gioielli, e
corona a guisa di mitra o tiara fregiata d'oro e di gemme. Questo
abito all'orientale, pieno di lusso, era il suo favorito; gli facea
nausea il vestire alla romana o alla greca, chiamando i lor abiti
troppo vili, perchè fatti di lana; laddove egli li voleva di seta:
cosa assai rara e preziosa in que' tempi. Lasciavasi anche vedere fra
i sonatori di timpani e di pive, e faceva il ballerino nei sacrifizii
a quel ridicolo dio. Giulia Mesa sua nonna, a cui dispiacevano forte
queste sue puerilità, non mancò di riprenderlo, col mettergli davanti
il discredito in cui incorrerebbe con sì straniere vesti comparendo a
Roma. Più che mai si ostinò a volerla a suo modo, perch'egli non
badava se non a chi gli stava intorno per adularlo. Affine poi di
provare quanto egli si potesse promettere dalla sommession de' Romani
ad ogni suo volere, fattosi dipingere in quel l'abito sfarzoso e
forestiere di sacerdote insieme col dio da lui adorato, mandò a Roma
quel ritratto, comandando che si appendesse nella sala del senato, e
che ad ogni assemblea de' padri s'incensasse, con ordine ancora a
tutti i ministri sacri di Roma che nei loro sacrifizii prima degli
altri dii nominassero il suo dio Elagabalo. Fu ubbidito, e questo
servì a far conoscere in Roma il di lui esterior portamento, prima che
vi arrivasse; ed, arrivato che fu, a non maravigliarsene.

Comparve dunque il folle giovinastro in quella gran città, e l'unica
cosa che fece meritevol di lode[1753], fu l'attener la promessa da lui
fatta di non punir chicchessia che avesse operato o parlato contra di
lui finchè Macrino visse. Diede al popolo il congiario solito a darsi
dai novelli regnanti; ed è da credere che allora, se non prima,
impetrasse dal senato il titolo di _Augusta_ a _Giulia Mesa_ avola
sua, ed a _Giulia Soemia_ sua madre, che a noi vien dipinta da
Lampridio[1754] per donna avvezza a mettersi sotto i piedi l'onestà e
l'onore. Volle appunto Elagabalo, nella sua prima comparsa in senato,
che i senatori pregassero la medesima sua madre di sedere presso i
consoli, e di dire il suo parere a guisa degli altri senatori: novità
non più veduta ne' tempi addietro, e che non si praticò se non sotto
questo capriccioso giovane Augusto. Costituì anche un senato di donne
nel monte Quirinale, capo di cui era la stessa Soemia, acciocchè quivi
si trattassero e decidessero gl'importantissimi affari della
repubblica femminina. Quivi poi furono fatti dal senato consulti
ridicoli intorno alle precedenze e mode donnesche; e fu deciso qual
foggia di vesti s'avesse a portare; quale delle dame precedere, quale
baciar l'altra, ed a chi competesse carrozza colle mule, a chi coi
buoi. Ad alcune era conceduto l'andare a cavallo, ad altre solamente
il cavalcare asinelli, e ad altre il farsi portare in seggetta. Fra
queste seggette ancora fu decretato chi la potesse avere intarsiata di
avorio, e chi di argento, e chi coperta di pelle; e si determinò a chi
fosse lecito il portar oro e gemme nelle scarpette. Quanto allo stesso
Elagabalo[1755], i suoi gran pensieri cominciarono ad impiegarsi tutti
per introdurre ed ampliare il culto del suo dio in Roma. Fece venir da
Emesa quel pezzo di pietra a guisa di cono, in cui si facea credere ai
popoli insensati che si adorava il dio Sole; e fabbricò per questo un
suntuosissimo tempio. Noi il troviamo nelle medaglie[1756] intitolato
_sacerdote dote del dio Sole Elagabalo_. Si era egli messo in capo di
ridurre tutta la religione, cioè tutte le superstizioni dei Gentili
Romani, al culto di questo solo favorito suo nume. Pretendeva in
oltre, come lasciò scritto Lampridio pagano, di tirare ad onorar
questo dio anche la religion de' Giudei e de' Samaritani, e infin la
_divozion de' Cristiani_: dal che certo erano ben lontani i nemici
dell'idolatria, e massimamente gli adoratori di Gesù Cristo. Pensava
ancora di trasportare in quel tempio, e forse anche trasportò, tutto
quello che di più sacro e raro si trovava negli altri tempi, come il
fuoco di Vesta, la statua di Cibele, lo scudo di Marte, il Palladio, e
simili altre superstiziose memorie della divozion de' Gentili. Se
queste novità e violenze dispiacessero ai Romani, amanti degli antichi
falsi loro dii e delle inveterate loro superstizioni, facilmente
ognuno sel può figurare. E un gran dire dovea essere in Roma, al
mirare tolta la mano al suo Giove altitonante da questa forestiera
divinità. Abbiamo ancora da Erodiano che Elagabalo intorno a quel suo
tempio fece ergere molti altari, ne' quali ogni dì sagrificava una
gran copia di buoi e di pecore, e si spandevano infiniti fiaschi di
vino del migliore e più vecchio che fosse in Roma, vedendosi scorrere
a ruscelli quel vino e quel sangue per terra. Bisognava che di tanto
in tanto i senatori e cavalieri assistessero a quei sagrifizii, e vi
facessero anche le funzioni più vili, con tener sulla testa i piatti
d'oro e d'argento dorato, ne' quali si mettevano le viscere delle
vittime, e coll'andar vestiti alla forma dei sacerdoti orientali.
Intanto l'imperadore conduceva i cori intorno agli altari fra lo
strepito d'innumerabili musicali strumenti, e colle donne di Fenicia
che ballavano battendo cembali e timpani. Ed ecco ove era giunta la
maestà di un imperadore e di un senato romano.

NOTE:

[1750] Thesaurus Novus Inscription., pag. 355.

[1751] Dio, lib. 79.

[1752] Herodian., lib. 5.

[1753] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1754] Lampridius, in Elagabalo.

[1755] Dio, lib. 79. Herodianus, lib. 5. Lamprid., in Elag.

[1756] Goltzius, Numism. Mediobarb., in Numism. Imper.




    Anno di CRISTO CCXX. Indizione XIII.

    CALLISTO papa 4.
    ELAGABALO imperadore 3.

_Consoli_

MARCO AURELIO ANTONINO ELAGABALO per la terza volta ed EUTICHIANO
COMAZONTE.


Questo _Eutichiano_, soprannominato _Comazonte_, quel medesimo è che,
secondo Dione, cooperò più degli altri alla esaltazione di Elagabalo.
Per ricompensa fu creato prefetto del pretorio e poi console, benchè
di razza abbietta, per essere di condizion servile e libertina.
Pretendono alcuni ch'egli in quest'anno si abbia ad appellar _console
per la seconda volta_; ma non ne abbiamo sicuri fondamenti. Scrive
bensì Dione[1757], aver egli ottenuto tre volte il consolato: il che
si può credere seguito ne' due seguenti anni per sostituzione. Altresì
fuor di dubbio è ch'egli esercitò tre volte la carica di prefetto di
Roma. Niun'altra applicazione si prendeva il folle Elagabalo dei
pubblici affari di Roma e delle provincie, se non per vendere le
cariche e i magistrati a persone talvolta vili ed infami. Quel tempo
che gli restava dopo le sue grandi occupazioni in promuovere il culto
del suo caro nume, tutto lo impiegava in isfogar la sua libidine, che
forse non ebbe pari nel mondo. Il regno suo non giunse a quattro anni,
e pure più e più mogli prese[1758]. La prima fu _Giulia Cornelia
Paola_, delle più illustri famiglie di Roma, sposata con gran
solennità e con regali al popolo e ai soldati, ma ripudiata ben presto
ed anche spogliata del titolo di Augusta e degli altri onori di chi
era stata moglie di un imperadore. Sposò egli dipoi _Giulia Aquilia
Severa_, vergine Vestale, con iscandalo e mormorazion grande dei
Romani, dicendo egli di aver ciò fatto, affinchè da lui pontefice e da
una sacerdotessa di Vesta nascessero dei figliuoli divini. Se ne stufò
dopo ben poco tempo, perchè rivolse gli occhi ad _Annia Faustina_,
bellissima donna, nipote di Marco Aurelio Augusto, e moglie allora di
_Pomponio Basso_. Per averla in libertà, fece sotto altro pretesto
morire il di lei marito, e sposolla. Discacciò ancor questa, e ne
prese poi delle altre, delle quali non sappiamo il nome con tornare in
fine ad _Aquilia Severa_. Ma questo fu il meno delle bestiali sue
stravaganze. Abbandonossi egli ad ogni eccesso ed infamia di
impudicizia. Nè a me convien di entrare in sì fatta cloaca, nè onesto
cristiano lettore potrebbe aver piacere d'intendere tutto ciò che in
questo genere lasciarono scritto gli storici Dione e Lampridio, ma non
senza orrore di lor medesimi. Basta dire che la malizia unita colla
pazzia arrivò a tali sozzure, che non cadrebbono ora in mente di
persone anche le più pratiche dell'infame regno della disonestà.
Arrivò egli in fine a sposar pubblicamente l'un dopo l'altro due
vilissimi giovani, con far mille pazzie, cioè Jerocle carrozziere ed
Aurelio Zotico, figliuolo di un cuoco; e però egli vestiva da donna, e
voleva essere appellato la signora Regina. Di più non occorre per
ravvisare che pezzo di forsennato e d'infame fosse Elagabalo Augusto.
E pure con questi effemminati costumi si vedeva unita anche la
crudeltà[1759]. Solamente perchè con qualche cenno mostrarono di non
approvare le di lui bestiali operazioni, egli fece levar la vita a
_Peto Valeriano_ e a _Silio Messalla_. Lo stesso fine ebbero altri
ancora dei suoi più amici e confidenti, perchè osarono di esortarlo a
vivere con più onestà e moderazione. In onore ancora del suo dio fece
scannar molti garzoni nobili[1760], scelti da tutta l'Italia, nella
guisa che si faceva delle bestie, per osservar le viscere loro.

NOTE:

[1757] Dio, lib. 79.

[1758] Herodian., lib. 5. Dio, lib. 79.

[1759] Dio, lib. 79.

[1760] Lampridius, in Elagabalo.




    Anno di CRISTO CCXXI. Indizione XIV.

    CALLISTO papa 5.
    ELAGABALO imperadore 4.

_Consoli_

GRATO SABINIANO e CLAUDIO SELEUCO.


Più che mai andò continuando le sue sordidezze e follie l'Augusto
Elagabalo[1761], nelle quali consumò gran copia d'oro trovato
nell'erario principesco, e nè pur bastavano al lusso e alla lussuria
sua le rendite del pubblico. Ne' borghi di Roma[1762] avea fatto
fabbricare un altro tempio di gran magnificenza. Venuto il settembre,
conduceva colà a spasso il suo dio, cioè quella pietra, di cui abbiam
parlato, posta sopra di un carro tutto ornato di oro e di pietre
preziose, e tirato da candidissimi cavalli. Andava innanzi il folle
Augusto, tenendo le briglie in mano, colla testa volta all'idolo, e
camminando sempre all'indietro. Era composta la processione di tutto
il popolo, che portava le statue degli dii di Roma, ed ogni cosa più
rara de' templi, con fiaccole accese in mano e corone in capo; e
veniva fiancheggiato dalla cavalleria e fanteria di Roma. Finita poi
la solenne funzione, saliva l'imperadore nelle altissime torri del
tempio, e di là gittava alla plebe vasi d'oro e d'argento, e vesti e
panni di varie sorte: il che finiva colla morte di parecchi affogati
nella calca, o trapassati dalle lance dei soldati. Passò poi la sua
sfrenatezza più oltre, perchè, non volendo essere da meno di Nerone e
degli altri abbominevoli suoi predecessori, la notte travestito e con
un cappellino in capo girava per le osterie e pei bordelli, facendo
delle insolenze. Aprì anche un postribolo nello stesso palazzo.
Sovente facea il carrozziere alla presenza di tutti i cortigiani e di
molti senatori: de' senatori, dico, ch'egli nulla stimava, solendo
chiamarli _schiavi togati_. Più spesso facea il ballerino, non
solamente nell'orchestra, ma ne' sagrifizii ed in altre pubbliche
funzioni. Di questo passo camminava lo scapestrato Augusto, perduta
affatto ogni riverenza al suo grado, e divenuto, per le sue infami
lascivie, l'obbrobrio del mondo: quando gli saltò in capo di dar
moglie al suo dio Elagabalo. Scelse a questo effetto[1763] la statua
della dea Urania, o sia Celeste, venerata in Cartagine, oggetto di
gran divozione ad ogni città dell'Africa. Era essa dea creduta la
Luna; e però il pazzo imperadore diceva, ch'essendo quel suo dio il
Sole, non potea darsi matrimonio più proprio e convenevol di questo.
Quant'oro e cose preziose si trovarono in quel tempio di Cartagine,
tutto volle portato a Roma, acciocchè servisse di dote al suo dio.
Giunta poi quella statua, ordinò che in Roma e per tutta l'Italia si
facessero feste ed allegrezze, affin di onorar le nozze di questi
numi. Non era egli un imperador da legare?

Qui racconta Dione[1764] uno strano avvenimento, appartenente a questi
tempi, di cui potè egli essere ben informato, trovandosi allora in
Bitinia. Sulle rive del Danubio comparve un personaggio, creduto da
esso Dione un dio, cioè un demonio, che diceva di essere Alessandro il
Grande, quale veramente pareva all'aspetto ed all'abbigliamento. Seco
menava quattrocento persone, portanti in mano dei tirsi, e addosso
pelli, come si solea dipignere Bacco, ed imitanti quel dio e le
baccanti colle lor danze e follie. Passò per la Mesia e per la Tracia,
senza far male ad alcuno; nè i pubblici ministri nè i soldati gli si
opposero mai; anzi tutte le città, per dove andò, gli preparavano
l'alloggio, e somministravano quanto gli bisognava. Arrivato a
Bisanzio, passò lo stretto, e venuto a Calcedonia, dopo aver quivi
creato un sacerdote, disparve, senza apparire che ne fosse divenuto.
Ma un altro Alessandro, non già immaginario come questo, si vide in
questi medesimi tempi in Roma[1765]. _Giulia Mammea_, figliuola
anch'essa di Giulia Mesa, siccome di sopra accennammo, avea un
figliuolo appellato _Alessiano_, cugino, per conseguente, dell'Augusto
Elagabalo, ma giovinetto di ottimi costumi ed affatto diversi da quel
mostro regnante. Già dicemmo che donna accorta fosse _Giulia Mesa_.
Costei, osservando le tante pazzie ed infamie del nipote Augusto, per
le quali cominciò anch'ella ad odiarlo, ben considerò ch'egli non
potea durare sul trono, e che presto o tardi farebbe il fine degli
altri troppo screditati imperadori, e ch'ella con esso rimarrebbe
spogliata dell'autorità, con pericolo anche di peggio. Prese dunque ad
esaltar l'altro nipote _Alessiano_; e per ben condurre il disegno,
destramente insinuò ad Elagabalo, che giacchè egli era occupato nella
divozione verso il suo gran dio, ben sarebbe lo scegliere persona che
per lui accudisse ai pubblici affari; e questo doversi prendere dalla
casa propria, e non altronde, proponendogli infine il cugino
Alessiano. Piacque ad Elagabalo questa proposizione, e però entrato un
dì in senato coll'avola _Mesa_ e con la madre _Soemia_, dichiarò che
adottava per suo figliuolo Alessiano, dandogli il titolo di _Cesare_
ed il nome di _Alessandro_, spacciando che ciò faceva per ordine del
suo dio Elagabalo. Disegnollo ancora console per l'anno prossimo
venturo. Risero i Romani al vedere ch'egli in età di circa diciassette
anni voleva intitolarsi il padre del cugino, che già era in età di
tredici o quattordici anni. Dione gli dà anche più età che allo stesso
Elagabalo. Tuttavia tanto i senatori che i soldati di buon cuore
accettarono il novello Cesare, già consapevoli del di lui buon
naturale. E l'astuta Mesa, per renderlo vieppiù caro a' soldati,
divulgò dappertutto, che anche questo suo nipote era figliuolo di
Antonino Caracalla: finzione, la quale poi prese un sì fatto piede,
che laddove si tenea Elagabalo per un falso figliuolo di esso
Caracalla, Alessandro comunemente veniva creduto nato da lui.

NOTE:

[1761] Dio, in Excerptis Vales.

[1762] Herod., lib. 5.

[1763] Herod., lib. 5.

[1764] Dio, lib. 75.

[1765] Herod., lib. 5. Dio, lib. 79.




    Anno di CRISTO CCXXII. Indizione XV.

    URBANO papa 1.
    ALESSANDRO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO AURELIO ANTONINO detto ELAGABALO per la quarta volta e MARCO
AURELIO ALESSANDRO SEVERO.


Terminò in quest'anno il pontificato e la vita _san Callisto_ papa,
con riportare la gloriosa corona del martirio, ed ebbe per successore
nella cattedra pontificia _Urbano_. Da che _Elagabalo_ ebbe alzato
alla dignità cesarea il cugino _Alessandro_[1766], per qualche tempo
continuò a favorirlo ed amarlo. Ma cominciò a poco a poco a
raffreddarsi questo amore, e giunse egli ancora a mirarlo di mal
occhio e a pentirsi dell'adozione fatta. E ciò per due motivi. L'uno,
perchè voleva addestrarlo ai suoi infami costumi, e pretendeva che
seco si unisse a ballare, e a far da sacerdote con quelle sue
barbariche fogge di vestiti. Alessandro, di natural grave, e di mente
ormai capace di ben discernere il ridicolo e l'indecente nelle azioni
del cugino Augusto, non si sentiva voglia d'imitarlo. Oltre a ciò,
_Mammea_, donna savia, sua madre, il distornava da somiglianti
eccessi[1767]. Lo aveva essa allevato con gran cura fin da' primi
anni, provvedendolo di ottimi maestri sì per le lettere che per gli
esercizii cavallereschi e militari, senza lasciar passare un giorno in
cui nol facesse studiare. Per maestro della lingua greca avea avuto
_Nebone_, per la rettorica _Serapione_, per la filosofia _Stilione_.
Ebbe poi in Roma per maestro della lingua latina _Scaurino_, uomo
rinomatissimo nella sua professione, per la rettorica _Giulio
Frontino_, _Bebio Macrino_ e _Giulio Graniano_. Servirono ancora ad
ammaestrarlo nell'erudizione _Valerio Cordo_, _Lucio Veturio_ ed
_Aurelio Filippo_, che scrisse poscia la di lui vita. L'altro motivo,
per cui si svegliò o crebbe il mal animo e lo sdegno di Elagabalo
contro il cugino Alessandro, fu il cominciar ad avvedersi che i
soldati più genio ed amore mostravano al figlio adottato che al padre.
Era in fatti succeduto che le tante pazzie e l'infame vita di questo
sfrenato Augusto aveano generata nausea fino negli stessi soldati,
gente per altro di buono stomaco. E, all'incontro, mirando essi la
saviezza e moderazione del giovinetto _Alessandro_, quanto sprezzavano
e già odiavano il folle Augusto, altrettanto di stima ed amore aveano
conceputo pel sì ben costumato Cesare. Pertanto la nata gelosia in
cuor di Elagabalo il portò a tentar varie vie di levarlo dal mondo col
veleno, col ferro o in altre guise. A questa indegna azione sollecitò
chiunque gli stava appresso con promesse di grandi ricompense[1768].
Tutti osservarono una fedeltà onorata verso di Alessandro, e tutti i
tentativi del barbaro imperadore ad altro non servirono che a rendere
più cauta per la conservazion del figliuolo _Giulia Mammea_ sua madre,
la quale lo istruì di non prendere alcun cibo o bevanda che venisse
dalla parte di Elagabalo, e facevagli preparar la mensa solamente da
persone di sperimentata onoratezza. Fece Elagabalo levargli d'appresso
tutti i maestri, esiliandone alcuni, ed altri uccidendoli; e pur
questo a nulla servì. Potevano le spade dei suoi soldati appagar la
crudel voglia di Elagabalo; ma, oltre al professar essi dell'amore per
Alessandro, e all'avergli verisimilmente giurata anche fede in
riconoscerlo per figliuolo dell'imperadore, Alessandro segretamente li
regalava; e però niun d'essi volea macchiarsi le mani nel di lui
sangue innocente. _Giulia Mesa_ anch'ella andava scoprendo tutti i
disegni e le trame del cattivo nipote, e destramente preservava il
buono, con non lasciarlo uscire in pubblico[1769]. Accortosi
finalmente Elagabalo della inutilità di queste occulte macchine,
determinò di venire a guerra aperta. Mandò pertanto ordine al senato
di togliere ad Alessandro il titolo e la dignità di _Cesare_, e di
cassare la di lui adozione. Allorchè in senato fu letta questa
polizza[1770], niuno de' padri seppe trovar parola da dire. Se
ubbidissero, nol so; ben so che tutti amavano Alessandro, e
detestavano in lor cuore la violenza dell'indegno regnante. Certo niun
male avvenne ad Alessandro dalla parte de' soldati. Spedì loro
Elagabalo lo stesso ordine, per cui cominciarono a fremere non meno i
pretoriani che le altre milizie[1771]; e perchè videro arrivar gente
che cominciò a cancellar le iscrizioni poste alle statue d'esso
Alessandro, già erano vicini a prorompere in una sedizione. Vi fu
anche una man d'essi soldati che corse al palazzo, con apparenza di
voler uccidere Elagabalo[1772]. Avvisatone il coniglio imperadore, si
nascose in un cantone dietro ad una tappezzeria, ed inviò
_Antiochiano_ prefetto del pretorio a pacificarli. Poscia, perchè
durava la commozione nel quartier de' pretoriani, colà si portò
Elagabalo in persona, per quetare il rumore, insieme col suddetto
prefetto. Non si vollero mai arrendere i soldati, finchè Elagabalo non
diede parola di cacciare dal palazzo e gastigar colla morte Jerocle,
Gordo ed altri scellerati suoi cortigiani, che lui di stolto aveano
fatto diventare stoltissimo. Arrivò[1773] a tanta viltà Elagabalo, che
piangendo dimandò loro in grazia Jerocle, cioè colui che portava il
nome infame di suo marito, dicendo che più tosto uccidessero lui
stesso che quel suo caro ministro. L'accordo in fine fu conchiuso, con
patto che Elagabalo mutasse vita, e fosse assicurata la vita di
Alessandro, nè alcuno degli amici di Elagabalo andasse a visitarlo,
per timore che non gli nuocessero o nol conducessero ad imitare gli
sregolati costumi del corrotto Augusto. Secondo Lampridio[1774],
succederono queste cose nell'anno precedente.

Era restato pien di veleno per tali avvenimenti l'indegno Elagabalo, e
però, venuto il primo dì di questo anno, in cui doveva egli col cugino
Alessandro procedere console, non si volle muovere di camera, se non
che l'avola e la madre tanto dissero, con fargli temer imminente una
sollevazion delle milizie, che solamente a mezzodì con esso Alessandro
andò a prendere il possesso della dignità consolare. Ma non volle
passar al Campidoglio a compiere la funzione, e convenne che il
prefetto di Roma la compiesse, come se non vi fossero consoli. Non
sapea digerire Elagabalo il veder così limitata l'autorità sua
imperiale, e molto meno che al dispetto suo e sugli occhi suoi vivesse
l'odiato Alessandro. Però andava cercando nuove maniere di levarlo di
vita; ed ora solamente fu, secondo Erodiano[1775], che tentò di torgli
il titolo e la dignità di _Cesare_. Fece partir di Roma all'improvviso
tutti i senatori[1776], acciocchè non osassero opporsi ai suoi malvagi
disegni. E perchè _Sabino_, senator gravissimo, era restato in città,
diede ordine ad un centurione che andasse ad ammazzarlo. Per buona
fortuna costui pativa di sordità, e credendo che l'ordine fosse per
l'esilio, non ne fece di più. Per comandamento poi di esso Elagabalo,
era ridotto Alessandro a starsene chiuso in casa, nè ammetteva
udienze. Da lì a poco tempo, volendo il folle ed insieme furbo
imperadore scandagliare qual disposizione si potesse aspettar dai
soldati, qualora facesse ammazzar Alessandro, fece correr voce ch'esso
_Cesare_ era vicino per malattia a mancar di vita. Grande fu il
bisbiglio, maggiore dipoi la commozion delle milizie, gridando
moltissimi di essi che volevano vedere Alessandro Cesare. Perciò si
chiusero ne' lor quartieri, nè più volevano far le guardie al palazzo
cesareo. Imminente era una terribil sollevazione, se Elagabalo, preso
seco in carrozza Alessandro, non fosse ito al loro campo. Apertegli le
porte, il condussero al loro tempio, unendosi intanto molti strepitosi
viva per _Alessandro_, pochi per _Elagabalo_. L'ultima pazzia di
questo imperadore fu che, essendosi egli trattenuto in quel tempio la
notte, nella mattina seguente, che fu il dì 7 (altri vogliono nel dì 9
di marzo, altri più tardi, ma Lampridio chiaramente sta colla prima
opinione), fece istanza che fossero ammazzati alcuni di coloro che
aveano gridato: _Viva Alessandro_. Così irritati da questo pazzo
ordine rimasero i soldati, che a furia si sollevarono contra di lui.
Fuggì Elagabalo, e si nascose in una cloaca, luogo degno di lui; ma,
avendolo trovato, lo uccisero, e seco _Soemia_ sua madre, ch'era in
sua compagnia, e molti dei suoi iniqui ministri. Fra questi si
contarono i due prefetti del pretorio ed _Aurelio Eubulo_ da Emesa,
presidente della sua camera, scorticator della gente, che dalla plebe,
sollevata anch'essa, e dai soldati tagliato fu a pezzi. Nella stessa
rovina restò involto _Fulvio_ prefetto di Roma, e l'infame Jerocle. Di
tanti suoi obbrobriosi cortigiani, potenti presso di lui, non si salvò
che uno. Furono trascinati per la città i cadaveri dell'ucciso Augusto
e di sua madre; poi quello di esso Elagabalo gittato fu nel Tevere.
Fece il senato radere dalle iscrizioni a lui poste il nome di
Antonino, cotanto da lui disonorato, ed egli da lì innanzi non con
altro nome fu menzionato che di _falso Antonino_, di _Sardanapalo_ e
di _Tiberino_, o pur di _Vario Elagabalo_. Così, dopo aver questo
scapestrato giovine regnato tre anni, nove mesi e qualche giorno,
colla più vituperosa vita che mai si udisse, ricevette una più
vituperosa morte, pena convenevole ai suoi molti delitti. E in questa
maniera restò libera da un famoso mostro Roma e l'imperio.
Lampridio[1777] vien poi descrivendo le strane invenzioni della
golosità di Elagabalo, nelle quali impiegava egli grosse somme d'oro,
perchè superò le cene di Apicio e di Vitellio. Le altre pazzie della
sua lussuria si mette egli ancora ad annoverare che non meritano luogo
nella presente storia; e però passo a ragionare del novello imperador
de' Romani, cioè di _Alessandro_, che immediatamente dopo la morte di
_Elagabalo_ fu riconosciuto imperadore, per parlarne nondimeno
solamente all'anno seguente.

NOTE:

[1766] Dio, lib. 79. Herod., lib. 5.

[1767] Lamprid., in Alexandro.

[1768] Herodianus, lib. 5.

[1769] Dio, lib. 79.

[1770] Lamprid., in Elagabalo.

[1771] Herod., lib. 5. Dio, lib. 79.

[1772] Lampridius, in Elagabalo.

[1773] Dio, lib. 79.

[1774] Lamprid., in Elagabalo.

[1775] Herod., lib. 5.

[1776] Lamprid., in Elagabalo.

[1777] Lampridius, in Elagabalo.




    Anno di CRISTO CCXXIII. Indizione I.

    URBANO papa 2.
    ALESSANDRO imperadore 2.

_Consoli_

LUCIO MARIO MASSIMO per la seconda volta e LUCIO ROSCIO ELIANO.


Dappoichè tolta dal mondo fu la peste dell'impuro Elagabalo nell'anno
precedente, _Marco Aurelio Severo Alessandro_, che si trovava nel
quartiere dei pretoriani, con alte voci fu da essi proclamato
_Imperadore Augusto_[1778], e condotto fra i viva del popolo al
palazzo cesareo. Di là passò egli al senato, dove con allegrissimi
concordi voti fu confermato a lui l'imperio, e conferita la podestà
tribunizia e proconsolare col nome di _padre della patria_. Tutto ciò
fatto ad un tempo stesso, parte perchè il titolo di _Cesare_ già a lui
dato gli avea acquistato il diritto a questi onori, e parte perchè la
conosciuta sua morigeratezza gli avea preventivamente conciliato
l'amore d'ognuno. L'essere egli stato perseguitato da Elagabalo avea
servito a renderlo più caro tanto ai soldati che ai senatori, tutti
oramai troppo stomacati della sozza e pazza vita di quell'Augusto
animale. Leggonsi in Lampridio le nobili acclamazioni fatte dal senato
ad Alessandro, unite alle detestazioni dell'infame suo predecessore.
Volevano quei padri ch'egli assumesse il nome di _Antonino_ assai
conveniente al suo buon naturale; ma egli con bella grazia si mostrò
non ancor degno di portare un sì venerabil nome. Molto più ricusò il
titolo di _Grande_, esibitogli dal senato, per unirlo a quel di
_Alessandro_, con dire di meritarlo molto meno, perchè nulla di grande
avea operato fin qui: la qual moderazione di animo gli acquistò più
credito che se lo avesse accettato. Il nome di _Marco Aurelio_ non si
sa bene se lo assumesse perchè fu adottato da Elagabalo che usava quel
nome, o pure perchè fu creduto figliuolo di Caracalla, appellato
anch'esso _Marco Aurelio_. Quanto al nome di _Severo_, verisimilmente
lo prese egli per essere (falso o vero che fosse) nipote di Severo
Augusto, e non già, come vuole il suddetto Lampridio, pel suo vigore e
costanza nell'esigere la militar disciplina dai soldati. Di questa sua
fermezza e rigore egli diede i segni, non già sui principii del suo
governo, ma nel progresso del tempo; e noi abbiam le monete[1779]
anche nell'anno precedente, nelle quali è chiamato _Marco Aurelio
Alessandro Imperadore_. Che età avesse egli allorchè fu assunto al
trono, non si può decidere. Erodiano[1780] gli dà circa tredici anni.
Dione[1781], siccome già accennai, il fa maggiore di età di Elagabalo:
il che se si accorda, egli avrebbe avuto più dieciotto anni. Quel che
sappiam di certo, era egli molto giovinetto, e perciò tanto più dee
comparire mirabil cosa ch'egli sì lodevolmente cominciasse, e più
gloriosamente proseguisse il governo del romano imperio. Certo l'età
sua e la poca sperienza del mondo non erano sul principio bastevoli a
sostener con onore un tal peso; e il senato avea già fatto un decreto
che niuna donna potesse da lì innanzi sedere in senato. Perciò la
vecchia sua avola _Giulia Mesa_, e la madre sua _Giulia Mammea_,
desiderose della vera gloria del nipote e figliuolo, o scelsero esse,
o pur vollero[1782] che il senato eleggesse sedici senatori, i più
riguardevoli per l'età, per la saviezza e dottrina, e per probità dei
costumi, che si trovassero in Roma, i quali servissero di assessori e
consiglieri al giovinetto principe. Così fu fatto[1783]. Fra gli altri
scelti si contano _Ulpiano_, _Celso_, _Modestino_, _Paolo_, _Pomponio_
e _Venuleio_, insigni giurisconsulti; _Fabio Sabino_, Catone dei suoi
tempi; _Gordiano_, che fu poi imperadore, _Catilio Severo_, _Elio
Sereniano_, _Quintilio Marcello_ ed altri, tutti personaggi di
sperimentata integrità. Nè il savio giovine Augusto da lì innanzi
solea dire o far cosa alcuna in pubblico senza la loro approvazione:
maniera di governo quanto lontana dalla tirannica precedente, tanto
più cara al senato, al popolo ed ai soldati. Dal consiglio di uomini
tanto onorati e saggi fu creduto che procedesse la gloria del suo
principe, e la felicità da lui procurata ai suoi popoli. La prima
plausibil azione sua fu di restituire ai templi le statue e robe
preziose tolte loro dal capriccioso predecessore, e di bandire da Roma
il dio Elagabalo, o sia quella ridicola pietra, con rimandarla al suo
paese di Emesa. Quindi nettò la corte da un prodigioso numero di
persone inutili o ridicole, o la maggior parte infami, che aveano in
addietro servito all'oscena ed abbominevol vita di Elagabalo. Tutti i
di lui nani, buffoni, musici, commedianti, eunuchi ed altri di peggior
condizione, si videro esposti alle fischiate del popolo, o donati agli
amici, o venduti come schiavi o banditi. Si stese il medesimo espurgo
al senato e a tutte le cariche e ministeri civili conferiti dal
malvagio Elagabalo ad uomini vili, inabili ed anche infami. Tutti
costoro tornarono alla lor primiera bassa fortuna, e furono a quella
dignità e a quegli uffizii promosse persone dabbene, intendenti delle
leggi e gelose del proprio onore. Si vide rifiorire anche la milizia,
con darsi gl'impieghi più onorevoli a chi avea dato maggiori pruove
del suo valore e della sua prudenza nelle passate congiunture. In
questa maniera non andò molto che si vide risorgere ad un tranquillo e
felicissimo stato Roma e l'imperio romano, tanto sconvolto e
svergognato in addietro dal ribaldo e stolto Elagabalo.

NOTE:

[1778] Idem, in Alexandro.

[1779] Mediobarbus, in Numismat. Imper. I.

[1780] Herodian., lib. 5.

[1781] Dio, lib. 79.

[1782] Herodianus, lib. 6.

[1783] Lamprid., in Alexandro.




    Anno di CRISTO CCXXIV. Indizione II.

    URBANO papa 3.
    ALESSANDRO imperadore 3.

_Consoli_

GIULIANO per la seconda volta e CRISPINO.


Forse non è ben certo che _Giuliano_ fosse console _per la seconda
volta_, essendovi leggi, fasti ed un marmo[1784] che non vi mettono
questa giunta. Camminava con felicità il governo di Roma tra per
l'inclinazione al bene e alle opere virtuose che seco portava il
giovane imperador Alessandro, e per la saviezza e vigilanza de' suoi
ministri e consiglieri, principalmente di _Domizio Ulpiano_,
celebratissimo giurisconsulto, creato poscia da lui prefetto del
pretorio. Non lasciavano _Giulia Mesa_ sua avola e _Giulia Mammea_ sua
madre, amendue decorate del titolo di _Auguste_[1785], di vegliare
alla buona condotta e preservazion dai vizii di esso lor nipote e
figliuolo, studiandosi sopra tutto di tener lontani gli adulatori,
gran peste delle corti, e chiunque potea guastar il cuore del ben
educato principe. E pur con tutta la loro attenzione s'introdussero
presso di lui alcune persone di questa mala razza, le quali colle lor
persuasioni e cabale cotanto gli screditarono, come un giogo
intollerabile, la dipendenza sua da quei consiglieri, che lo indussero
a non più ascoltarli. Ma durò poco questo suo sviamento, perchè,
conosciuta la lor malizia, li cacciò, e feceli anche gastigar dal
senato secondo il merito loro, con attaccarsi più di prima a coloro
che poteano farlo regnare con giustizia ed onore. Ancorchè fosse di
buon'ora ispirato ad Alessandro l'abborrimento alla disonestà, e
servissero a lui di un vivo specchio della deformità di questo vizio
gli eccessi di suo cugino Elagabalo; e tuttochè egli in fatti avesse
sempre in orrore i delitti contra della castità, talmente che la
storia non fa giammai menzione ch'egli trasgredisse le leggi
prescritte in ciò dagli stessi Gentili: pure avrebbe potuto il bollore
della gioventù tirarlo fuor di cammino. Per questo gli fu data in
moglie una dama della primaria nobiltà di Roma, a cui prese affetto, e
rendeva ogni conveniente onore, con favorire assaissimo nel medesimo
tempo il suocero suo. Erodiano[1786] non ne lasciò a noi il nome, nè
sappiamo il tempo in cui egli si ammogliò per la prima volta, e nè pur
le seguenti. Ma che? _Mammea_ sua madre, che dopo la morte di _Giulia
Mesa_, mancata di vecchiaia, voleva essere l'arbitra del figliuolo,
non soffrì lungo tempo che la nuora si fosse impossessata cotanto del
cuore del figliuolo, e godesse al pari di lui il titolo di _Augusta_;
e però cominciò a maltrattarla sì fattamente, e seco il di lei padre,
che questi, benchè amato non poco da Alessandro, si ritirò un dì nel
quartier dei soldati dicendo di render grazie all'imperadore dei
benefizii a lui compartiti, ma senza voler più comparire alla corte; e
qui sfogò la sua collera contro di Mammea, divolgando tutte le
ingiurie a lui fatte e alla figliuola. Tal fu di poi la prepotenza di
Mammea, che fece ammazzar lui, e relegare in Africa la infelice nuora.
Se questo è vero, non è da credere che _Mammea_ fosse cristiana, come
han pensato alcuni[1787], perchè ella veramente ebbe del latte
cristiano, ed ascoltò Origene, come attesta Eusebio[1788]. Ma potrebbe
essere che Erodiano non sapesse tutte le particolarità ed i motivi di
quel fallo. Lampridio[1789] certamente scrive, coll'autorità di
Desippo istorico, che Marziano suocero di Alessandro gli tese delle
insidie per ammazzarlo; ma che, scoperto il fatto, costui fu ucciso, e
scacciata la moglie Augusta. Aggiunge altrove il medesimo Lampridio
che un Ovinio Camillo, senatore di antica famiglia, tramò una
ribellione, e se n'ebbero le pruove. Il buon imperadore, in vece di
punirlo, il fece chiamar a palazzo, lodò il suo zelo pel pubblico
bene, e poi nel senato il dichiarò partecipe dell'imperio, cioè gli
diede il nome di _Cesare_ e gli ornamenti imperiali. Avea detto prima
lo storico stesso che al suddetto _Marziano_ suocero fu dato il titolo
di _Cesare_. Quel Camillo dipoi nella spedizione di Alessandro contro
i Barbari rinunziò, e gli fu permesso di ritirarsi in villa, dove
lungo tempo visse; ma in fine fu fatto uccidere dall'imperadore,
perchè era uomo militare ed amato assai dai soldati. Truovasi del buio
in questi fatti; ma vi è tanto barlume che basta a far dubitare che
giusto motivo non mancasse a Mammea di atterrare il suocero del
figliuolo, e la nuora ancora, caso che anch'essa fosse stata partecipe
della fellonia del padre. Oltre di che, lo stesso Lampridio scrive che
un tal avvenimento vien da alcuni riferito ai tempi di Traiano. Che
Alessandro sposasse _Memmia_, figliuola di _Sulpizio_ stato console,
lo abbiamo dal suddetto Lampridio. Forse questa fu la seconda sua
moglie. Trovasi anche nelle medaglie[1790] una _Sallustia Barbia
Orbiana Augusta_, ed hanno inclinato alcuni letterati[1791] a crederla
moglie del medesimo Alessandro imperadore. Ma trovandosi in quelle
medaglie CONCORDIA AVGVSTORVM, parole significanti l'esistenza allora
di più di un Augusto, a me non sembra verisimile la loro opinione.

et cap. 21.

NOTE:

[1784] Thesaurus Novus Inscription., pag. 355, num. 3.

[1785] Lampridius, in Alexandro.

[1786] Herod., lib. 5.

[1787] Orosius. Cedrenus. Vincentius Lirinensis. Casaubonus et alii.

[1788] Eusebius, Histor. Eccles., lib. 6. cap. 16,

[1789] Lampridius, in Alexandro.

[1790] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[1791] Spanhemius, de Praestantia et Usu Numismatum.




    Anno di CRISTO CCXXV. Indizione III.

    URBANO papa 4.
    ALESSANDRO imperadore 4.

_Consoli_

FOSCO per la seconda volta e DESTRO.


Sempre più andavano riconoscendo i Romani la felicità propria
nell'essere loro toccato un sì buono imperadore, qual fu Severo
Alessandro. Ed era tale principalmente, perchè si erano ben radicati
nel cuore di lui i principii della religione: virtù, di cui se sono
scarsi, e peggio se mancanti i rettori dei popoli, troppo facile è,
per non dir certo, che la lor vita abbonderà d'iniquità e di azioni
malfatte. Falsa, non v'ha dubbio, era quella religione che non
conosceva il vero Dio, e adorava insensati dii e creature o demonii.
Tuttavia non può negarsi che questo principe, quantunque nato ed
allevato nella idolatria, non avesse in sè dei lodevoli principii,
perchè amava, temeva ed onorava, per quanto poteva, la divinità, e
tutto ciò che si credeva allora che avesse qualche cosa di Dio[1792].
Appena era egli levato, che nel tempio del palazzo andava a rendere il
culto ai suoi dii con dei sacrifizii. Quivi teneva le statue di essi e
delle anime credute sante dai ciechi Gentili, come Orfeo, Alessandro
il Grande, Apollonio Tianeo. Quel che più merita la nostra attenzione,
si è che vi conservava anche la statua di _Gesù Cristo_, e colle altre
l'adorava. Può ben credersi che Mammea Augusta sua madre, la quale
avea imparato a conoscere in Soria la santità della religion
cristiana, ma senza mai abbandonare la falsità dell'etnica, ne avesse
inspirato del rispetto ed amore anche al figliuolo. Per questo
venerava egli _Cristo_, ed anche _Abramo_. Anzi, siccome attesta
Lampridio scrittore pagano, egli meditava di alzare un tempio al
medesimo Cristo, e di farlo ricevere per Dio; ma gli si opposero i
zelanti del Paganesimo, con dire di aver consultato intorno a ciò gli
oracoli, e riportato per risposta, che, se ciò si facesse, tutti
abbraccerebbono il Cristianesimo, e converrebbe chiudere ogni altro
tempio. Mai più non disse il demonio, padre della bugia, una verità
più luminosa di questa. Avea ancora Alessandro sovente in bocca quella
insigne massima, imparata più probabilmente dai Cristiani che dai
Giudei: _Non fare agli altri quello che non vorresti fatto a te
stesso_. E questa fece anche scrivere nel palazzo cesareo e in varie
fabbriche a lettere maiuscole. Avendo anche i Cristiani occupato un
luogo pubblico, per farvi una chiesa, e pretendendolo gli osti di lor
ragione, con suo rescritto dichiarò l'imperadore: _Essere meglio che
Dio ivi in qualunque maniera si adorasse, che se ne servissero gli
osti_: segno che già in Roma si fabbricavano e si tolleravano templi
al vero Dio. Di qui poi venne, ch'egli lasciò in pace i Cristiani, e
sotto di lui crebbe molto di fedeli la Chiesa. Quei che morirono
martiri in questi tempi furono vittime de' malvagi governatori delle
provincie, che senza saputa e permissione del principe[1793] non
lasciavano di trovar pretesti per uccidere gli odiati Cristiani.

Sempre ancora professò l'Augusto Alessandro a sua madre _Mammea_ un
rispetto singolare, anzi tale che passò all'eccesso. Se crediamo ed
Erodiano[1794], questo solo difetto gli si potè opporre, cioè che
troppo amava la madre, sino ad ubbidirla, suo malgrado, in cose che
non trovava ben fatte. Perciò potente era ella nel governo, e fu al
pari di _Giulia_ di Severo intitolata _madre delle armate, del senato
e della patria_. Certo non mancò essa giammai di dar dei buoni
avvertimenti al figliuolo; fu nulladimeno tacciata di avidità della
roba altrui: il che andava ella scusando presso il figliuolo, con
dirgli che accumulava quell'oro per di lui servigio, affinchè avesse
di che regalare i soldati. Ma accumulandone talvolta per vie illecite,
ed empiendone i proprii scrigni, se ne lagnava poi Alessandro, senza
potervi nondimeno rimediare: tanta era la riverenza che professava a
chi gli avea data la vita. Onesti poi erano i divertimenti suoi. Amava
la musica, si dilettava della geometria, dipingeva assai bene, sonava
varii strumenti, cantava, ancora con bella voce e con garbo, ma
solamente in camera sua e nella privata conversazion degli amici.
Talvolta a cavallo, talora a piè facea delle buone passeggiate; gli
piaceva anche la caccia e la pesca. Una delle cure di sua madre fu
sempre quella di tenerlo occupato e lontano dall'ozio. Nè
pregiudicavano punto i divertimenti suoi al pubblico governo[1795].
Gli erano portati gli affari smaltiti prima dai saggi suoi
consiglieri, ed era facile lo sbrigarli. Ma quando occorrevano cose di
molta importanza e premura, vi assisteva, levandosi anche prima del
sole, e stava nel consiglio le ore intere senza mai annoiarsi o
stancarsi. Impiegava anche talvolta il tempo che gli restava dopo gli
affari in leggere libri, essendogli spezialmente piaciuti in greco
quel di _Platone_ della Repubblica, e in latino quei di _Cicerone_
degli Uffizii, o sia dei Doveri e della Repubblica. Dilettavasi ancora
di leggere degli oratori e dei poeti, e massimamente le poesie di
_Orazio_ e di _Sereno Sammonico_, da lui conosciuto ed amato. Ma sopra
le altre letture era a lui cara quella della vita di Alessandro il
Macedone, per istudiarsi d'imitarlo dove potea, condannando nondimeno
in lui l'ubbriachezza e la crudeltà verso gli amici. Dopo la lettura
esercitava il corpo in tirar di spada, in lotte discrete, in giuochi
ch'esigevano del moto: tutte maniere proprie per conservar la sanità.
Andava anche, secondo l'uso d'allora, al bagno, dopo il quale faceva
un po' di colezione, differendo talvolta il prender cibo dipoi sino
alla cena. Nulladimeno l'ordinario suo stile era di pranzare; e ne'
pranzi suoi non compariva nè sordidezza nè lusso, ma bensì un
bell'ordine, cibi semplici, piatti ben puliti, e quel che occorreva
per satollare e non per aggravare lo stomaco. Solamente nei dì di
festa si accresceva alla tavola un papero, e nelle maggiori solennità,
tutto il grande sfarzo era la giunta di uno o due fagiani o di due
polli. Oro non volle mai nella sua mensa, e tutto il suo vasellamento
d'argento consisteva in ducento libbre. Occorrendone di più nelle
occasioni, se ne facea prestar dagli amici. Se solo si cibava, teneva
un libro a tavola, e leggeva, se pur non facea leggere. Ma più spesso
voleva seco a pranzo degli uomini dotti, e particolarmente _Ulpiano_,
dicendo _che più gli faceano pro i ragionamenti loro eruditi, che le
vivande_. Allorchè dovea far de' pubblici banchetti, anche da questi
volea bandito lo sfoggio, portandosi solamente i piatti consueti, ma
aumentati a proporzione dei convitati. Per altro non gli piacea quella
gran turba, perchè dicea _di parergli di mangiar nel teatro o nel
circo_. Costumarono alcuni Augusti, ed era anche in uso presso i
grandi, di aver commedianti o buffoni intorno alle lor tavole per
divertirsi. L'innocente suo trastullo era di veder combattimenti di
pernici e di altri piccioli animaletti. Una sola, per altro innocente,
particolarità di lui parve strana, cioè ch'egli sommamente si dilettò
di aver nel suo palazzo varie uccelliere di fagiani, paoni, galline,
anitre e pernici, e spezialmente di colombi, dicendosi che ne nudrisse
fin venti mila. Dopo le applicazioni si ricreava in veder questi
volatili; ed affinchè non gli fosse attribuito a scialacquamento,
tenea dei servi, che colle nova, coi polli e coi piccioni cavavano
tanto da far le spese a tanto uccellame. Ma qui non è finito il
ritratto di questo buon imperadore. Il resto lo riserbo all'anno
seguente, giacchè il pacifico felice stato dell'imperio romano in que'
tempi non somministra avvenimento alcuno alla storia.

NOTE:

[1792] Lampridius, in Alexandro.

[1793] Eusebius, Histor. Eccles., lib. 6, cap. 28.

[1794] Herodian., lib 6.

[1795] Lampridius, in Alexandro.




    Anno di CRISTO CCXXVI. Indizione IV.

    URBANO papa 5.
    ALESSANDRO imperadore 5.

_Consoli_

MARCO AURELIO SEVERO ALESSANDRO AUGUSTO per la seconda volta e LUCIO
AUFIDIO MARCELLO anch'egli per la seconda.


Il Relando[1796], il Bianchini[1797] e il padre Stampa[1798] chiamano
il secondo console _Caio Marcella Quintiliano per la seconda volta_,
fidandosi di una iscrizione pubblicata dal Gudio. Dispiacemi sempre di
dovere ripetere che le merci gudiane son dubbiose, nè possono prestar
sicuro fondamento alla erudizione. Una iscrizione stampata dal
marchese Maffei[1799], e da me riferita nella mia Raccolta[1800],
benchè corrosa, vo io credendo che ci abbia conservato il vero nome di
esso console. Tutti i fasti e varie leggi ci danno _Marcello_ console
in quest'anno. S'egli avesse portato il cognome di _Quintiliano_, non
_Marcello_, ma _Quintiliano_ lo avrebbono appellato gli antichi.
Miriamo ora l'Augusto Alessandro nella vita civile. Mirabil cosa fu il
vedere com'egli odiasse il fasto, e quasi dimentico del sublime suo
grado, amasse di uguagliarsi a' suoi cittadini. Spesso andava ai
pubblici bagni a lavarsi dove concorreva anche il resto del popolo; e
nel suo palazzo si facea servire unicamente dai suoi servi. A chiunque
dimandava udienza, e a chi de' nobili di buona fama veniva per
salutarlo, era sempre la porta aperta; nè voleva egli che
s'inginocchiassero davanti a lui, come dianzi esigeva il vanissimo
Elagabalo, ma che gli facessero quello stesso saluto che si usava co'
senatori, chiamandolo col proprio nome, e senza nè pur chinare il
capo. Il fare altrimenti veniva da lui interpretato per adulazione, e
metteva in burla chi faceva troppi complimenti o eccedeva in ossequio.
Talvolta ancora licenziò in collera taluno di questi falsi adoratori.
Per la stessa ragione non potea soffrire, e teneva per una pazzia,
coll'esempio di Pescennio Negro, l'ascoltar poeti ed oratori che
facessero il di lui panegirico. Volentieri bensì porgea le orecchie a
coloro che contavano i fatti degli uomini illustri[1801], e sopra
tutti di Alessandro il Macedone, de' buoni imperadori e de' famosi
Romani. Vietò il dare a lui il titolo di _Signore_, ed ordinò che si
scrivesse alla sua persona come si faceva ai particolari, colla giunta
del solo nome d'_Imperadore_, cioè, come già si stilava ne' tempi di
Cicerone. Fece pubblicare che non entrasse a salutarlo chi sapeva di
non essere innocente. Specialmente ciò era detto per gli ministri e
nobili ladri. La maniera di trattar co' suoi amici era di molta
familiarità e franchezza, pregandoli sempre di sedere presso di sè: il
che indispensabilmente praticava coi senatori. Quanta fosse le sua
moderazione, principalmente si riconosceva nelle udienze, perchè si
mostrava cortese ed affabile verso di ognuno. Niuno partiva da lui
malcontento, nè passava mai giorno senza che egli facesse qualche atto
di bontà. Ed ammalandosi chi era amato da lui, ancorchè di basso
ordine, amorevolmente andava a visitarlo. Perchè poi _Mammea_ la madre
e _Memmia_ sua moglie gli dicevano che quella tanta cortesia esponeva
allo sprezzo la sublime sua dignità: _Può essere_, rispondeva, _ma
certo la rende più sicura e di maggior durata_. Alcuni de' suoi più
cari obbligava a venire a pranzo con lui; e di chi non veniva,
dimandava conto con bella grazia. Tanto alla tavola che alle udienze
si trovava sempre di buon umore, e non mai in collera; e diceva le sue
burle, ma senza punture. Esigeva che gli amici gli dicessero
liberamente il lor sentimento; e dicendolo, gli ascoltava con
attenzione, correggendo poscia proprii i difetti. Colla stessa libertà
diceva anch'egli dov'essi mancavano; e ciò non mai con fasto ed
asprezza.

Il suo vestire era semplice e modesto, senza oro e senza perle,
imitando in ciò la moderazion di Severo, ed abborrendo la vanità di
Elagabalo, che voleva guernite di perle infino le scarpe. Soleano
essere gli abiti suoi di color bianco, e non di seta, che costava
allora assaissimo. Dicea _che le gemme convenivano solo alle donne; e
che le stesse donne, senza eccettuarne l'imperadrice, doveano essere
contente di poche_. Avendo un ambasciador d'Oriente donate due perle
di mirabil grossezza e bellezza all'Augusta sua moglie, cercò di
venderle; e perchè non si trovò compratore, ne formò due orecchini
alla statua di Venere, con dire _che l'imperadrice darebbe troppo
cattivo esempio portando addosso cose di tanto prezzo_. Con questo
esempio arrivò egli a correggere il lusso degli uomini, siccome anche
l'Augusta consorte quello delle donne. Fece inoltre Alessandro
ristorar molte fabbriche di Traiano, ma con rimettere dappertutto il
nome di esso primo autore. Quanto affetto poi egli sempre ebbe ai
buoni, altrettanto odio, o, per dir meglio, abborrimento, portava ai
cattivi. Un certo _Settimio_, che scrisse la vita di questo
impareggiabile Augusto, attestava che egli specialmente si sentiva
tutto commovere, e s'infiammava in volto, incontrandosi in giudici che
fossero in concetto di ladri. Accadde che un _Settimio Arabino_,
senatore famoso per sì fatto vizio, e liberato sotto Elagabalo,
comparve un dì con gli altri a salutarlo. _O dii immortali!_ gridò
allora Alessandro, _Arabino non solamente vive, ma vien anche in
senato! Spera forse costui da me un buon trattamento? Mi dee ben egli
tenere per un pazzo e scimunito_. Non vi era parente o amico ch'egli
potesse tollerare, se si lasciavano trasportare ad azioni disonorate,
e massimamente se per interesse vendevano la giustizia, riguardando
egli costoro come i più perniciosi nimici del pubblico. Però li faceva
processare e punire: o se pur s'induceva a far loro la grazia, la
godevano con patto che si ritirassero; _perchè_, siccome egli diceva,
_a lui più cara era la repubblica che qualsivoglia privata persona_.
Così ad un suo segretario, perchè portò al consiglio il sommario falso
di un processo, egli fece tagliare i nervi delle dita, acciocchè più
non potesse scrivere, e relegollo in un'isola. Venne in mente ad un
nobile, altre volte processato per le sue mani poco nette, di farsi
raccomandar caldamente da alcuni re o principi stranieri che erano
alla corte, per ottenere una carica militare. Tali furono le loro
istanze, che l'Augusto Alessandro non seppe negar la grazia. Ma da lì
innanzi tenne così ben gli occhi addosso a costui, che fra poco si
scoprì una sua ruberia. Fece egli esaminar lo affare in presenza di
que' medesimi principi, tuttavia dimoranti in Roma, e il reo fu
convinto e confesso. Dimandò allora a que' principi che gastigo si
desse nel loro paese a sì fatte persone: _La croce_, risposero essi;
ed in effetto, per sentenza de' suoi medesimi protettori, fu colui
condannato alla croce, senza che alcuno si potesse lagnare del rigor
di Alessandro. E non è già che questo buon imperadore non fosse
inclinato alla clemenza. Certamente niun senatore a' tempi suoi,
benchè delinquente, perdè la vita; ed egli incaricava i giudici di
procedere il più di rado che si potesse contra dei rei alla pena della
morte e al confisco dei beni. Ma, premendogli il pubblico bene, voleva
che la giustizia avesse il luogo nei casi bisognosi di esempio. E
perchè Erodiano[1802] scrive che il suo imperio fu senza sangue,
Lampridio[1803] ragionevolmente lo interpreta de' soli senatori; e
tanto più attestando il medesimo Erodiano, che a niuno sotto di lui fu
levata la vita, senza essere stato prima conosciuto giuridicamente dai
tribunali il suo delitto, ed emanata la condanna.

NOTE:

[1796] Reland., in Fastis Consul.

[1797] Blanchin., ad Anastas. Biblioth.

[1798] Stampa, in Fastis.

[1799] Maffejus, Antiquit. Gall.

[1800] Thesaurus Novus Inscript., pag. 356, n. 2.

[1801] Lampridius, in Alexandro.

[1802] Herodian., lib. 6.

[1803] Lampridius, in Alexandro.




    Anno di CRISTO CCXXVII. Indizione V.

    URBANO papa 6.
    ALESSANDRO imperadore 6.

_Consoli_

ALBINO e MASSIMO.


Di gravi dispute sono state fra gli eruditi intorno al prenome e nome
di questi consoli. Inclinò il cardinal Noris[1804] a credere il primo
_Marco_ o _Numerio Nummio Albino_, ma con conghiettura priva di forza.
Il Relando[1805] e il padre Stampa[1806], recata in mezzo una
iscrizione del Gudio, appellarono questi consoli _Lucio Albino_ e
_Massimo Emilio Emiliano_. Ma possiamo noi fidarci dei marmi gudiani?
Impropria cosa è che in quella iscrizione abbia il prenome _Albino_, e
non lo abbia l'altro console. Più improprio è che il secondo console
sia chiamato _Massimo Emilio Emiliano_. Non è nome di famiglia
_Massimo_. E se l'ultimo suo cognome fosse stato _Emiliano_, le leggi
e i fasti lo avrebbono notato con esso, e non già con quello di
_Massimo_. Tre leggi, che hanno _Albino ed Emiliano_, non son da
contrapporre a tante altre, che portano _Albino et Maximo_. Si
potrebbe solamente sospettare che quell'_Emiliano_ fosse sustituito a
_Massimo_. Sempre nei decreti del senato si riteneva uno stile, nè si
mutava, se non si cambiava console. Continuiamo ora a vedere come si
regolasse verso del pubblico il buon imperadore Alessandro. Merita ben
più la vita sua che quella del Macedone di esser letta dai principi,
per imparar ciò che talvolta non sanno[1807]. Procurava egli a tutto
suo potere la felicità de' popoli, non solo coll'astenersi
dall'imporre nuovi aggravii, ma con istudiarsi di sminuire i già
imposti. In fatti ridusse ad un terzo quel che si pagava sotto
Elagabalo per le gabelle, di maniera che dieci in vece di trenta si
cominciò a pagare. Pensava anche di fare di più, ma non glielo
permisero le necessità del pubblico. Non si sa ch'egli istituisse
altro dazio che sopra i banchieri, orefici, pellicciai e quei delle
altre arti. Questo nondimeno dovea essere leggiera cosa, perchè
Lampridio lo chiama _vectigal pulcherrimum_. E questo non per farlo
colar nella sua borsa, ma perchè il ricavato servisse al mantenimento
delle terme, cioè dei pubblici bagni, che erano allora in gran credito
ed uso; il che vuoi dire che tal dazio tornava in comodo solamente del
pubblico stesso. Volle si aggiugnesse olio ad esse terme, acciocchè
anche di notte se ne potesse valere il popolo: il che dianzi non si
faceva; e fu poi abolito da _Tacito imperadore_, perchè se ne abusava
la gente cattiva. Levò anche affatto interamente qualche dazio, solito
a pagarsi in Roma. Nè già favoriva egli il fisco in pregiudizio del
popolo e della giustizia; anzi odiava tutti i ministri del fisco e
delle dogane, e li chiamava un _male necessario_. Uso suo fu di
cambiarli spesso, sperando forse che i nuovi sulle prime opererebbono
con più discretezza e meno ingiustizia. In beneficio de' poveri sminuì
le usure; e se i senatori prestavano per cavarne frutto, ne' primi
anni del suo governo, voleva che loro non si pagasse usura, ma
solamente un regalo, ad arbitrio di chi prendeva in prestanza il
danaro. Poscia ridusse al sei per cento le usure di essi senatori, e
senza altro regalo; laddove gli altri per lo più esigevano il dodici.
Dava egli stesso danari a prestanza a' poveri, e senza volerne frutto;
anzi si contentava che coi frutti ch'essi ricavavano degli stabili
comperati col di lui danaro, gli fosse restituito il capitale. Teneva
egli esatto registro di tutto. E se gli veniva a notizia che talun de'
suoi conoscenti in bisogno di pecunia gli avesse o nulla o poco
chiesto in prestito, il faceva chiamare per dimandargli conto di sì
poca speranza e confidenza in lui.

Del resto non era egli di coloro che non credono l'economia e il
risparmio una virtù da principe. Anche in essi è virtù, se ciò non
fanno per risparmiare ai suoi popoli gli aggravii, e per impiegare in
benefizio e sollievo del pubblico stesso il loro risparmio. Regolavasi
appunto così l'Augusto Alessandro, il quale era assai persuaso che il
principe dee far da economo del danaro che si cava dai sudori de'
sudditi, e non già da padrone per impiegarlo ne' suoi capricci e
divertimenti. Perciò egli risecò tutte le spese e i salariati inutili
della corte, ritenendo solamente la servitù necessaria con decenti e
non isfoggiate paghe. Solea dire _che la gloria e grandezza di un
imperio consiste non già nella magnificenza, ma nelle buone forze_,
cioè, a mio credere, nell'aver ricchi sudditi e valorose milizie.
Quanto ai soldati ne parleremo più a basso. Per conto de' sudditi,
favorì Alessandro non poco la mercatura, concedendo esenzioni a tutti
i trafficanti. Attese all'accrescimento e all'abbondanza dell'annona,
mandata in malora dall'impuro Elagabalo, e la rimise in piedi colla
sua borsa. Il donativo dell'olio, che Severo Augusto ogni anno faceva
al popolo, e che il suddetto Elagabalo avea molto assottigliato, fu da
lui rimesso nel primiero suo essere. Era anche il popolo romano a
parte una volta del governo e delle rendite della repubblica.
Dappoichè si alzarono gl'imperadori, siccome di sopra accennammo, gran
tempo durò il dare alla plebe di tanto in tanto qualche congiario, ed
ogni anno tante misure di grano per testa, e vi si aggiunse anche il
dono dell'olio e della carne. All'incontro condonò Alessandro alle
provincie e ai mercatanti quella contribuzione che aveva a titolo di
regalo, ma era forzata, solita a pagarsi all'entrare del nuovo
principe, chiamata l'Oro Coronario. Per altro non lasciò
Lampridio[1808] di osservare che questo principe non ometteva
diligenza alcuna per ammassar pecunia, e per custodirla ancora; ma non
ne cercò mai egli per le vie illecite, nè con aggravio indebito
d'altrui. Mai non diede per danari le giudicature, solendo dire: _Chi
compera bisogna che venda. Io mai non soffrirò questi mercatanti di
cariche, e se li promettessi, non potrei poi ragionevolmente
gastigarli. Mi vergognerei di punire un uomo che ha comperato, s'egli
poi vende._ Ma non donava oro nè argento a commedianti, carrozzieri e
ad altri che davano divertimento al pubblico, ancorchè si dilettasse
non poco degli spettacoli. Diceva _che costoro andavano trattati come
i famigli_, cioè con paghe tenui. E tuttochè egli avesse un gran
rispetto per la sua falsa religione, pure non offeriva ai templi
pagani più di quattro o cinque libbre d'argento, e mai nulla d'oro,
con ripetere un verso di Persio, indicante, _che gli dii non aveano
bisogno d'oro_, nè servir esso per fare star bene gli dii, ma sì bene
i loro ministri. Dissi con Lampridio che questo Augusto sapea ben
custodire il danaro. Ciò non vuoi dire ch'egli, a guisa degli avari,
il covasse. Solamente significa ch'egli non sel lasciava uscir delle
mani per ispese di vanità, di gola o di lussuria. Che per altro egli
largamente spendeva, e tutto in opere lodevoli, cioè in fabbriche ed
altre imprese di utile, o di ornamento alla città di Roma, o per far
guadagnare gli operai e il basso popolo.

Istituì scuole di rettorica, grammatica, medicina, aruspicina,
matematica, architettura e di macchine, con salarii fissi ai maestri,
e vitto ai discepoli figliuoli di poveri, purchè liberi. Stese anche
la sua liberalità agli oratori nelle provincia. A molte città
deformate dai tremuoti rilasciò parte del danaro delle gabelle,
acciocchè rimettessero in piedi gli edifizii pubblici e privati. A chi
trovava de' tesori li lasciava godere. Solamente s'erano di molto
valore, ne faceva dar qualche parte ai suoi uffiziali. Fece fabbricar
dei pubblici granai per cadaun rione di Roma, acciocchè chi n'era
senza potesse quivi rinserrare i suoi grani. Diede compimento alle
terme magnifiche, cioè ai bagni di Caracalla, e ne fabbricò ancora
delle suntuose, che portarono il suo nome. Aggiunse inoltre varii
altri bagni a que' rioni di Roma che n'erano privi. Altri edifizii
fece in quella città e a Baia, con risarcire i ponti fabbricati da
Traiano, e con ristorar anche molte antiche memorie di Roma, e adornar
quella città di assaissimi colossi, o sia di statue sopra l'usata
misura, specialmente per li più rinomati imperadori, colle loro
iscrizioni e con colonne di bronzo, dove erano descritte le loro
imprese. Fabbricò eziandio molte case bellissime, e le donò a quegli
amici suoi ch'erano in concetto di maggior probità. Non invidiava, non
uccellava le ricchezze altrui, come usarono i cattivi principi;
all'incontro stendeva la mano in aiuto de' poveri; e massimamente le
rugiade della sua beneficenza si spandevano sopra i nobili caduti in
povertà non per loro colpa, e in povertà non finta, con donare ad essi
delle terre, de' servi, degli animali e degli utensili contadineschi;
diede anche tre congiarii al popolo, e fece tre donativi alle milizie.
Il danaro che ricavava dal dazio delle meretrici, dei ruffiani e di
altre peggiori pesti, siccome pecunia infame, non volle che passasse
nell'erario suo o pure del pubblico, ma che s'impiegasse nel
mantenimento del teatro, del circo e dell'anfiteatro. Sua intenzione
era parimente di proibire un detestabil vizio, che dalla sporca
Gentilità si permetteva al pari di quel delle pubbliche donne; ma vi
trovò tali difficoltà, che gli convenne desistere, e Dio riserbava
alla santa Religione di Cristo una tal vittoria. Contuttociò fece
confiscar i beni alle donne infami[1809], delle quali trovò un
infinito numero in Roma pagana piena di lordure, e mandò in esilio
tutta la gran ciurma de' nefandi garzoni, parte de' quali nel viaggio,
naufragando, perì.

NOTE:

[1804] Reland., Fast. Cons.

[1805] Idem, ibid.

[1806] Stampa, in Fastis.

[1807] Lampridius, in Alexandro.

[1808] Lampridius, in Alexandro.

[1809] Lampridius, in Alexandro.




    Anno di CRISTO CCXXVIII. Indizione VI.

    URBANO papa 7.
    ALESSANDRO imperad. 7.

_Consoli_

MODESTO e PROBO.


Le conghietture del cardinal Noris[1810], seguitate da' susseguenti
scrittori, sono che questi consoli portassero i nomi di _Tiberio
Manlio Modesto_ e _Servio_ (non _Sergio_) _Calpurnio Probo_, perchè
una iscrizione del Grutero[1811] rammemora il consolato di _Marco
Acilio Faustino_, e _Triario Rufino_, spettante all'anno di Cristo
210, poi quello di _Tiberio Manilio_ ... e _Servio Calpurnio_ ... poi
quello di _Alessandro Augusto_, appartenente all'anno 229, e poi
quello di _Lucio Virio Agricola_ e _Sesto Catto Clementino_ nell'anno
230. Ma non resta a tal conghiettura quieta la mente nostra per la
tanta distanza de' consoli dell'anno 210 all'anno presente 228,
potendo nel tempo di mezzo, ed in altro anno che nel corrente, essere
stati consoli que' due _Tiberio Manilio_ e _Servio Calpurnio_, per le
rivoluzioni succedute allora. Però più sicuro partito ho creduto di
mettere solamente i lor cognomi, de' quali niuno può dubitare.
Difficil cosa è, per non dire di più, il mettere ai lor siti gli
avvenimenti di questi tempi, perciocchè o ci mancano le storie, o son
confusi o dubbiosi i lor testi. Sia a me dunque lecito di riferirne
qui alcuni di molta importanza, che certamente dovettero accadere
prima dell'anno seguente 229, quando sia fuor di dubbio che Dione
istorico[1812] terminasse la storia sua in esso anno 229. Quantunque
regnasse un sì buon imperadore, pure avvenne che per una cagione assai
lieve insorse una rissa fra il popolo di Roma e i pretoriani, voglio
dire i soldati delle guardie. Crebbe tanto questo fuoco, che prese le
armi, per tre dì si combattè aspramente fra loro colla mortalità di
assaissime persone dall'un canto e dall'altro. Per la sua gran copia
era in istato il popolo di opprimere i soldati; ma avendo costoro
cominciato ad attaccar il fuoco alle case, esso popolo, per timore che
tutta la città andasse in fiamme, fu forzato di trattar di accordo, e
così ebbe fine quella guerra civile. Non si sa se prima o dopo di
questo accidente succedesse l'altro della morte di _Domizio Ulpiano_,
insigne giureconsulto di questi tempi e celebre nella storia delle
leggi. Egli, siccome il più dotto e saggio dei senatori di allora, era
come capo del consiglio cesareo[1813], e più di lui che di altri si
serviva l'Augusto Alessandro nel governo degli stati, facendo egli la
funzione di segretario de' memoriali e delle lettere. Arrivò anche ad
essere prefetto del pretorio[1814], dopo aver fatto ammazzare
(probabilmente con processo e condanna giudiciaria) _Flaviano_ e
_Cresio_ prefetti, per succedere loro in quella carica. Certamente
dagli antichi storici vien molto esaltato il sapere, la prudenza e lo
zelo di Ulpiano; e sappiamo che egli corresse non pochi abusi
introdotti da Elagabalo; ma forse colla sua gran dottrina egli sapeva
accoppiar l'ambizione ed altri vizii, credendosi ancora ch'egli
odiasse di molto i Cristiani. O sia dunque che la morte data ai
suddetti due prefetti irritasse forse gli animi de' pretoriani, o pure
che il loro sdegno provenisse dall'aver egli voluto riformare la
scaduta lor disciplina, e trattarli con asprezza: certo è che essi
pretoriani si sollevarono un giorno contra di lui, e dimandarono la
sua morte ad Alessandro Augusto, che lungi dall'acconsentire alla loro
dimanda, colla stessa sua porpora coprì e difese più di una volta
Ulpiano. Ma questo nulla giovò. Una notte lo assalirono, ed egli
scappò al palazzo, implorando la protezion dell'imperadore e
dell'augusta Mammea sua madre: il che non ritenne gl'infuriati soldati
dallo scannare sugli occhi dello stesso Augusto il misero Ulpiano. Ci
viene bensì dicendo Lampridio che Alessandro si fece rispettar dalle
sue milizie; e pure noi non sentiamo ch'egli facesse altro
risentimento per così grave insulto fatto alla sua dignità, che di
gastigare _Epagato_ stato la principal cagione della morte di
Ulpiano[1815]. Convenne ancora camminar in ciò con gran riguardo, cioè
mandarlo prima per prefetto in Egitto, e poi in Candia, dove fu
condannato e spogliato della vita: non essendosi attentata la corte di
punirlo in Roma per timore di una nuova sedizione. Non si sa bene il
netto e i motivi di quel torbido; e Zosimo[1816] scrive che ne
parlavano differentemente gli scrittori di questi tempi.

Abbiamo nondimeno da questo medesimo storico, che i pretoriani, per
timor della pena, proclamarono imperadore un _Antonino_, il quale
destramente si ritirò, non volendo servir di giuoco alla lor pazza
ribellione, nè più si lasciò vedere. Parla lo stesso Zosimo anche di
un Urano schiavo, il quale proclamato Augusto, fu ben tosto preso e
condotto ad Alessandro colla porpora che gli aveano messa indosso. Di
un _Urano_ appunto, che usurpò l'imperio in Edessa nella Osroena, e fu
abbattuto da Alessandro, favella Giorgio Sincello[1817]; siccome
ancora Vittore, di un _Taurino_ (lo stesso forse che Urano) il quale
acclamato dai soldati imperadore[1818], per orrore di ciò si precipitò
nell'Eufrate. Oscuri fatti son questi. Tuttavia che varie ribellioni
si facessero, tutte nondimeno di poca durata, e tutte verisimilmente
per colpa de' soli pretoriani e degli altri soldati che sotto
Caracalla ed Elagabalo si erano troppo male avvezzati, e per poco
insolentivano, ne siamo assicurati da Dione[1819]. Aggiunge egli
stesso, ch'essendo insorta la guerra in Mesopotamia, per le conquiste
fatte da _Artaserse_ re dei Persiani contra de' Parti (del che parlerò
andando innanzi), molti dell'armata romana, ch'era in quelle parti,
desertando passavano ai Persiani, e più furono gli altri che non
voleano combattere, e giunsero ad ammazzare _Flavio Eracleone_ lor
generale: tanto grande era divenuta la effeminatezza, sbrigliatezza ed
impunità. Trovasi ancora nelle monete di questo anno[1820] fatta
menzione di una vittoria, senza che se ne sappia il perchè, e senza
che Alessandro prendesse il titolo d'_imperadore_. Intanto non
lasciava esso Augusto le applicazioni al governo de' popoli con
prudenza superiore alla sua età[1821]. Si ridusse nondimeno a non
ammettere alcuno a ragionamenti di familiarità e confidenza, se non
v'era presente il prefetto del pretorio ed altri de' suoi ministri. E
ciò avvenne perchè un _Vetronio Turino_, con cui egli trattava assai
alla domestica, parlava di lui, come se fosse suo favorito, vantandosi
di ottener tutto quanto voleva da lui. Passò più oltre, perchè
cominciò a far bottega di questo suo mentito favore, e per le grazie
fatte dall'imperadore esigeva de' buoni regali dai corrivi, facendole
credere impetrate da sè, contuttochè nè pure ne avesse detta una
parola. Informato di ciò Alessandro, e che costui vendendo il fumo,
screditava lo stesso Augusto, quasi che fosse un ragazzo e uno
scioccherello che si lasciasse da lui menare pel naso: volle prima
chiarirsi della verità del fatto, mandando sotto mano persona a
raccomandarsi a Turino, per impetrar una grazia di molta importanza.
Promise Turino di assistere; e dopo avergliela fatta saper buona col
mostrare la difficoltà, e di aver parlato più volte, finalmente
dappoichè fu spedita la grazia, in presenza di testimonii, si spacciò
mezzano di essa, e volle un grosso pagamento, ancorchè nè pure una
sillaba avesse detto di ciò all'imperadore. Allora Alessandro il fece
accusare, e convinto, fu attaccato ad un palo con paglia umida e legne
verdi intorno, che il soffocarono col fumo, gridando intanto il
banditore: _Col fumo è punito chi vendeva il fumo._ Ciò avvenne prima
che fosse ucciso Ulpiano. Veggonsi molti savii decreti di questo
principe nel corpo delle leggi romane. Costituì egli dei corpi di
cadauna arte, con dar loro dei difensori. Proibì l'andare gli uomini e
le donne al medesimo bagno. Aveva anche formato il disegno che ogni
ordine di cittadini avesse l'abito suo particolare, acciocchè si
distinguesse dagli altri, e specialmente si riconoscessero gli
schiavi. Ulpiano il distornò da questa risoluzione, perchè ne
sarebbero insorte molte dispute fra le persone, e gli schiavi si
sarebbono avveduti di essere in troppo maggior numero che la gente
libera. Lamentandosi il popolo che la carne di bue e porco era troppo
cara, in vece di calarne il prezzo, ordinò che non si ammazzassero
vitelli, vacche, porchette e troie gravide: e in meno di due anni la
carne suddetta venne a costare un solo quarto di quello che si vendeva
in addietro.

NOTE:

[1810] Noris, Epist. Consul.

[1811] Gruterus, Thesaur. Inscript., p. 300, n. 1.

[1812] Dio, lib. 80.

[1813] Lampridius, in Alexandro.

[1814] Dio, lib. 80.

[1815] Dio, lib. 80.

[1816] Zosimus, Histor., lib. 1.

[1817] Syncellus, Histor.

[1818] Aurelius Victor, in Epitome.

[1819] Dio, lib. 80.

[1820] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[1821] Lampridius, in Alexandro.




    Anno di CRISTO CCXXIX. Indizione VII.

    URBANO papa 8.
    ALESSANDRO imperadore 8.

_Consoli_

MARCO AURELIO SEVERO ALESSANDRO per la terza volta, DIONE CASSIO per
la seconda.


Lo stesso _Dione_, che terminò in questi tempi la sua storia, confessa
che _Alessandro Augusto_ lui volle per collega nel suo consolato,
essendo egli stato console sostituito in alcuno degli anni precedenti.
Però sembra scorretta una legge riferita dal Relando[1822], siccome
ancora una iscrizione pubblicata dal Panvinio[1823] e dal
Grutero[1824], ed un'altra dal Doni, dove in vece di _Dione_ si legge
_Dionysio_, quando a Dione non fosse stato sostituito un console
appellato _Dionisio_, il che non par da credere. Ne' Fasti ancora del
Cuspiniano si legge _Dyonisio_. Racconta il medesimo Dione[1825]
d'avere avuto negli anni addietro il governo dell'Africa da Alessandro
Augusto, e poi quello della Dalmazia, e successivamente quello
dell'Alta Pannonia, dove con vigore cercò di rimettere sul piede
dell'antica disciplina quelle milizie. Venuto poscia a Roma nell'anno
precedente, gl'insolenti pretoriani, siccome aveano fatto ad Ulpiano,
accusarono anche lui, perchè paventavano ch'egli volesse rimettere fra
loro stessi la militar disciplina. Alessandro, che ben conosceva il
merito di Dione, in vece di fargli del male, per dar gusto a quegli
scellerati, il disegnò console per l'anno presente in sua compagnia.
Ma perciocchè dubitò che i pretoriani, al vederlo in quella dignità,
facessero maggior tumulto e lo uccidessero, credette meglio che Dione
stesse per qualche tempo fuori di Roma in quelle vicinanze. Portossi
poi Alessandro nella Campania, e colà fu a trovarlo Dione, e stette
qualche giorno con lui alla vista dei soldati, che non dissero una
parola. Ed egli allora ottenne licenza di potersi ritirare a Nicea di
Bitinia patria sua, per quivi passare quel che gli restava di vita,
trovandosi già vecchio e mal sano, e probabilmente colla paura in
corpo di non finir male, come era succeduto ad Ulpiano. Che a lui nel
consolato succedesse _Marco Antonio Gordiano_ in questo medesimo anno
si ricava da Capitolino[1826], colà, dove scrive essere stato il più
vecchio de' _Gordiani_ console in compagnia di _Alessandro Augusto_, e
ch'egli dipoi fu mandato proconsole al governo dell'Africa, con tal
piacere di esso Augusto, che con sua lettera ringraziò molto il senato
di sì fatta elezione, stante l'essere _Gordiano_ uomo nobile,
magnanimo, eloquente, giusto, continente e dabbene. Se ne ricordi il
lettore, perchè a suo tempo vedremo il medesimo Gordiano portare il
titolo di Augusto.

Fu appunto una delle belle doti dell'imperadore Alessandro quella di
scegliere, e di volere che si scegliessero per le cariche e pel
governo delle provincie coloro, ne' quali concorreva più abilità a
governar altri e maggior probità[1827]. Nulla si dava al favore, nulla
alle raccomandazioni, molto meno al danaro. Gli eunuchi, i quali erano
stati in addietro potentissimi in corte, e venivano chiamati da lui
una _terza specie del genere umano_, tutti furono rimossi dal di lui
servigio, ed appena si contentò egli, che di alcuni pochi si servisse
la imperadrice, ed in uffizii bassi, e con abito de notante la
bassezza del loro stato, togliendo con ciò tanti disordini cagionati
per lo passato dalla soverchia autorità che godeano o faceano credere
di godere. Alessandro col parer del senato eleggeva i consoli, i
prefetti del pretorio ed altri magistrati, lasciando la elezion degli
altri al senato medesimo. Diceva egli, _meglio essere per lo più il
dare gli uffizii a chi non li ricerca, che a chi tante premure usa per
ottenerli_. Niun senatore nuovo creava egli, se persone di credito
prima non rendevano buona testimonianza del merito suo, e non veniva
approvato da' senatori suoi consiglieri. E guai se trovava che lo
avessero in ciò ingannato: colui era cacciato dal senato, e i suoi
fautori gastigati. Una rarissima ed ammirabil maniera ebbe ancora
nella elezion de' presidenti delle provincie e di altri magistrati
meno importanti. Prima di conferir que' posti, faceva esporre in
pubblico i nomi de' proposti per essi, esortando ognuno a scoprire se
costoro avessero commesso qualche delitto, purchè ne potessero dar le
pruove; poichè nello stesso tempo proibiva sotto pena della vita
l'accusare senza poter provare l'accusa. Lampridio[1828], storico
pagano, attesta aver egli appreso questo rito dai _Cristiani_
ch'esaminavano diligentemente prima chi si avea da ammettere al
sacerdozio. E solea dire Alessandro, _parergli strano come non si
usasse la diligenza medesima, allorchè si voleva eleggere chi dovea
avere in mano i beni di fortuna e le vite dei popoli, quando ciò si
praticava dai suddetti Cristiani per la elezione de' sacerdoti_.
Avrebbe egli desiderato che ogni governator delle provincie avesse
saputo esercitare il suo uffizio senza bisogno di assessore, tuttavia
soffrì sempre l'uso di tali assessori; e diede anche loro buoni
salarii. Provvedeva egli in oltre le persone, nel mandarle ai governi,
di danaro, servi, mule, cavalli e di altre robe necessarie, dandole
poi a' medesimi, se con lode esercitavano i loro impieghi. Se male,
voleva che rendessero quattro volte più di quello che avea loro
somministrato. In somma, la vita di questo Augusto, tanto più
mirabile, quanto ch'egli era assai giovane, sarebbe un bellissimo
modello per qualunque principe che amasse la vera gloria, ed imparar
volesse il meglio degli esempi altrui, con leggere le vite di que'
principi buoni ed uomini illustri, dei quali forse niuna età e nazione
è stata priva.

NOTE:

[1822] Reland., in Fast. Cons.

[1823] Panvin., in Fast. Consular.

[1824] Gruterus, Thesaurus Inscript., pag. 1079, num. 11.

[1825] Dio, lib. 80.

[1826] Capitolinus, in Gordian.

[1827] Lampridius, in Alexandro.

[1828] Lampridius, in Alexandro.




    Anno di CRISTO CCXXX. Indizione VIII.

    PONZIANO papa 1.
    ALESSANDRO imperadore 9.

_Consoli_

LUCIO VIRIO AGRICOLA e SESTO CATIO CLEMENTINO.


Il secondo console in qualche testo è chiamato _Clemente_[1829], e in
una iscrizione riferita del Cupero, _Clemenziano_. Se questa è
legittima, può essa prevalere agli antichi codici. Credesi che in
questi tempi santo _Urbano_ papa gloriosamente compiesse i suoi giorni
con ricevere la corona del martirio. Ebbe per successore _Ponziano_.
Tempo è ora di parlare di una strepitosa rivoluzion di cose accaduta
in Oriente. La Persia, conquistata alcuni secoli prima da Alessandro
il Grande, durò per qualche tempo sotto il dominio dei re della Siria,
ossia della Soria, successori del Macedone. _Arsace_, famoso re de'
Parti, loro la tolse circa ducento cinquant'anni prima dell'era
cristiana, e continuò ivi a signoreggiare la schiatta degli Arsacidi
sino ad _Artabano_ re di quelle contrade, e regnante a' tempi
dell'Augusto Alessandro[1830]. Contra di Artabano si ribellò un uomo
di basso affare, ma di gran coraggio, chiamalo _Artaserse_,
discendente dagli antichi Persiani; il quale messa in armi la nazione
sua, e collegato con altri popoli vicini, tre volte diede battaglia ad
Artabano, ed altrettante ancora lo sconfisse, ed in fine gli levò la
vita. Abbattuto dunque il regno de' Parti, ritornò la corona in capo
ed _Artaserse_ Persiano, e si rinnovò la potenza di quella nazione, la
quale troveremo, andando innanzi, terribile ai Romani, poi soggiogata
dagli Arabi, e di tal possanza anche oggidì dopo incredibili peripezie
che fa paura al potentissimo Sultano de' Turchi, e più che paura ha
fatto, pochi anni sono, al Mogol, grande imperadore delle Indie
orientali. Mise[1831] il vittorioso _Artaserse_ l'assedio alla
fortezza di Atra; ma perdutavi indarno molta gente, passò nella Media,
e ne conquistò la maggior parte. Rivolse poi le sue forze contro
l'Armenia, dove quel popolo assistito dai Medi e dai figliuoli di
Artabano, colà rifugiati, il costrinse con suo poco gusto a battere la
ritirata. Pretende il padre Pagi[1832] che nell'anno di Cristo 226,
Artaserse sulle rovine del regno de' Parti piantasse il trono de'
Persiani, citando in pruova di ciò lo storico Agatia; e che nel
seguente anno, o pure nel 228, egli incominciasse la guerra contra dei
Romani. Non è Agatia uno scrittore sicuro per tempi sì lontani da lui.
Abbiamo di certo da Dione[1833] che nell'anno 229 grande apprensione
recava Artaserse ai Romani, con minacciare di assalir la Mesopotamia e
la stessa Soria, pretendendo di voler ricuperar tutto quanto
appartenne una volta ai re di Persia[1834], l'imperio de' quali
arrivava sino al Mediterraneo e all'Egeo. Vuole il suddetto Pagi che
nell'anno precedente l'Augusto Alessandro, per frenare questo
minaccioso torrente, si portasse coll'esercito ad Antiochia. Monsignor
Bianchini[1835] differisce la di lui andata al presente anno, il
Tillemont[1836] sino all'anno 232. A me sembra più probabile che in
quest'anno Alessandro si mettesse in viaggio, giacchè abbiamo una
moneta[1837], spettante all'anno IX della di lui podestà tribunizia,
dove si legge PROFECTIO AVGVSTI.

Scrive Erodiano[1838], che arrivato Alessandro all'anno tredicesimo
del suo imperio (numero senza fallo scorretto), si svegliò la guerra
coi Persiani, ed avere esso Augusto sulle prime creduto bene di
scrivere lettere ad _Artaserse_, per esortarlo a desistere dalle
novità, e a contentarsi del suo, perchè non gli andrebbe così ben
fatta, volendo combattere coi Romani, come gli era accaduto con altri
popoli, ricordandogli le imprese di Augusto, Lucio Vero e Settimio
Severo in quelle parti. Si rise l'orgoglioso Artaserse di queste
lettere, e la risposta che diede, fu coll'entrare armato nella
Mesopotamia, e dar principio ad assedii e saccheggi nel paese romano.
Venute queste nuove a Roma, benchè Alessandro fosse allevato nella
pace, pure, per parere ancora de' suoi consiglieri, fu creduta
necessaria la di lui presenza alle frontiere della Soria. Gran leva
dunque di gente si fece per l'Italia e per tutte le altre provincie; e
formato un poderosissimo esercito coll'unione de' pretoriani ed altri
soldati di Roma, si congedò Alessandro dal senato, ed imprese il
viaggio alla volta di Levante. Attesta il medesimo Erodiano che niuno
vi fu dei senatori e de' cittadini romani che potesse ritener le
lagrime al vedere allontanarsi da loro un principe sì buono, sì amato
ed adorato da tutti. Fece il viaggio per terra coll'armata, e data
nell'Illirico la revista a quelle legioni seco le prese. Passato
poscia lo stretto della Tracia, continuò il suo viaggio sino ad
Antiochia, capitale della Soria, dove attese a far i preparativi
necessarii per così pericolosa guerra. Racconta Lampridio[1839] la
bella maniera tenuta da lui nella marcia dell'esercito suo. Prima di
muoversi di Roma, fece attaccare ne' pubblici luoghi in iscritto la
disposizione del viaggio, indicando il giorno della partenza, e di
mano in mano assegnando i luoghi, dove l'armata dovea far alto nelle
notti, o prendere il riposo di un giorno. Mandati innanzi tali avvisi,
si trovava dappertutto preparata la tappa, cioè la provvisione de'
viveri; nè vi fu verso ch'egli volesse mai mutare alcuna delle posate
prescritte, per paura che i suoi uffiziali non facessero traffico
delle marcie, per guadagnar danaro. Non altro cibo prendeva egli che
l'usato dagli altri soldati, pranzando e cenando colla tenda aperta,
affinchè ognuno il potesse vedere. Gran cura si prendeva egli perchè
nulla mancasse di vettovaglia, di armi, di abiti, di selle e di altri
arnesi alle soldatesche; ed in tutto esigeva la pulizia, di maniera
che si concepiva, in mirar quelle truppe sì ben guarnite, un'alta idea
del nome romano. Più di ogni altra cosa poi gli stava a cuore la
disciplina militare, e che niun danno fosse inferito agli abitanti e
alle campagne per dove passava l'armata. Visitava egli in persona le
tende, nè permetteva che nella marcia alcuno, anche degli uffiziali
non che de' soldati, uscisse di cammino. Se taluno trasgrediva
l'ordine, le bastonate o altre convenevoli pene erano in pronto. E ai
principali dell'esercito, che avessero mancato in questo, e
danneggiato il paese, faceva una severa correzione, con intonar loro
la massima imparata da' Cristiani, cioè con dire: _Avreste voi caro
che gli altri facessero alle terre vostre quel che voi fate alle
loro?_ Perchè un soldato maltrattò una povera vecchia, il cassò e il
diede per ischiavo ad essa donna, acciocchè col mestiere di falegname,
ch'egli esercitava, la mantenesse. Ed avendo fatta doglianza di ciò
gli altri soldati, fece lor conoscere la giustizia di questo gastigo,
che servì a tenere gli altri in freno. Per così bei regolamenti, e col
tenere sì forte in briglia le milizie, dappertutto dove queste
passavano, si dicea, _che non già de' soldati, ma dei senatori erano
in viaggio_; ed ognuno, in vece di fuggirli, gli amava, vedendo tanta
modestia e sì bell'ordine in gente non avvezza se non a far del male,
con benedire Alessandro, come se fosse stato un dio.

Veramente Zosimo[1840] scrive che i soldati erano malcontenti di
Alessandro per questo rigore di disciplina; e vedremo in fine che fu
così. E pure Lampridio, scrittore più antico, e che avea bene studiato
le precedenti storie, attesta ch'egli era amato da essi, come lor
fratello e lor padre. Aggiugne questo medesimo storico[1841], che
arrivato il giovine imperadore ad Antiochia, e trovato che alcuni
soldati di una legione si perdevano nelle delizie, e andavano ai bagni
colle donne, li fece tosto mettere in prigione. Cominciò per questo
tutta la legione a far tumulto e doglianze. Allora Alessandro salito
sul tribunale, si fece condurre davanti quei prigioni alla presenza di
tutti gli altri ch'erano in armi, e parlò con vigore intorno alla
necessità di mantener la disciplina, e che il supplicio di coloro
dovea insegnare agli altri. Grande schiamazzo allora insorse; ed egli
più franco che mai ricordò loro, dover essi alzar le grida contra dei
Persiani, e non contra il proprio imperadore, che cava il sangue dai
popoli per vestire, nudrire ed arricchir le milizie. Li minacciò
ancora, se non dimettevano, di cassarli tutti, e che forse non si
contenterebbe di questo, rimproverando loro, che dimenticavano di
essere cittadini romani. Più forte cominciarono essi allora a gridare
ed a muovere l'armi, come minacciandolo. Ma egli, _non istate_,
soggiunse, _a bravare. L'armi vostre han da essere contro i nemici di
Roma. Nè vi avvisaste di farmi paura. Quand'anche uccideste un par
mio, alla repubblica non mancherà un nuovo Augusto per governar lei e
punire voi altri._ E perciocchè non si quetavano, con gran voce gridò:
_Cittadini romani, deponete l'armi e andatevene con Dio._ Allora (e
par cosa da non credere) tutti, posate l'armi, le casacche militari e
le insegne, si ritirarono. Gli altri soldati e il popolo raccolsero
quelle armi e bandiere, e portarono tutto al palazzo. Di là poi ad un
mese, pregato, rendè loro l'armi, con far nondimeno morire i lor
tribuni, per negligenza de' quali erano caduti in tanta effeminatezza
quei soldati. Questa legione dipoi si segnalò sopra le altre nella
guerra contro i Persiani. Formò Alessandro di sei legioni una falange
di trenta mila combattenti: il che ci fa intendere che allora ogni
legione era composta di cinque mila armati. Altre guardie ancora avea
con gli scudi intarsiati d'oro e d'argento. A tutti dopo la guerra di
Persia fu data maggior paga che agli altri soldati.

NOTE:

[1829] Thesaurus Novus Inscription., pag. 357, num. 2.

[1830] Dio. Herod. Lamprid. Agathias et alii.

[1831] Dio, in Excerpt. Valesianis.

[1832] Pagius, in Crit. Baron.

[1833] Dio, in Excerptis Valesianis.

[1834] Herod., lib. 6.

[1835] Blanchinius, ad Anastas. Bibliothecar.

[1836] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1837] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.

[1838] Herodianus, lib. 6.

[1839] Lampridius, in Alexandro.

[1840] Zosimus, lib. 1.

[1841] Lampridius, in Alexandro.




    Anno di CRISTO CCXXXI. Indizione IX.

    PONZIANO papa 2.
    ALESSANDRO imperadore 10.

_Consoli_

POMPEIANO e PELIGNIANO.


Non mi son io attentato a chiamare il primo di questi consoli _Civica
Pompeiano_, perchè quel _Civica_ viene da una sola iscrizione del
Gudio, le cui merci sono a me sospette. Nell'anno 209 era stato
console _Civica Pompeiano_. Un altro ne troveremo all'anno 241. Ma
certo non è che ancor questo Pompeiano fosse appellato _Civica_. Il
secondo console vien chiamato da Cassiodoro, dal Panvinio e da altri
_Feliciano_; ma più è sicuro il cognome di _Peligniano_. L'Augusto
Alessandro, prima di mettersi in campagna, volle tentar di
nuovo se colle buone si potea frenar l'alterigia del Persiano
_Artaserse_[1842], e gli spedì nuovi ambasciatori lusingandosi che la
presenza sua, sostenuta da sì poderoso esercito, avesse da inspirare
al Barbaro pensieri più ragionevoli. Se ne tornarono essi senza
risoluzione alcuna. All'incontro, inviò Artaserse ad Alessandro
quattrocento dei suoi, tutti di alta statura, con vesti fregiate d'oro
ed archi sfarzosi, credendo con tal comparsa di atterrire i Romani.
Consistè la loro ambasciata in comandare orgogliosamente all'imperador
dei Romani di uscire quanto prima di tutta la Soria e di ogni altra
provincia di là dal mare, perchè tutto quel paese apparteneva ai
Persiani, come antica dipendenza della loro corona. Da così insolente
comando irritato Alessandro, col parere del suo consiglio, ordinò che
tutti quegli ambasciadori, spogliati de' loro arnesi, fossero relegati
nella Frigia, con dar loro campagne da coltivare. Nè volle fargli
uccidere, perchè una iniquità sarebbe stata il punir colla morte gente
non presa in battaglia, e che eseguiva gli ordini del suo re; quasi
che non fosse anche una iniquità e un violare il diritto delle genti
quel privarli di libertà, e il non lasciarli ritornare al loro
signore. Si venne dunque all'armi. Se crediamo ad Erodiano[1843], tre
corpi fece Alessandro delle sue genti, come gli fu suggerito da' suoi
generali, e da chi meglio sapeva il mestier della guerra, perchè egli
nulla mai faceva di sua testa nelle spedizioni militari[1844]; ma
voleva prima udire il sentimento de' più vecchi e sperimentati
nell'arte della milizia. Uno ne spinse nella Media per via
dell'Armenia; un altro nel paese de' Parti, e riserbò per sè il terzo,
per condurlo egli stesso. Ma o perchè Alessandro fosse di sua natura e
per l'educazione alquanto timido, o perchè l'Augusta _Mammea_ sua
madre nol volesse vedere esposto ai pericoli, o perchè succederono
diserzioni e tumulti in Soria, egli non s'inoltrò punto contro i
nemici; e cagion fu che il secondo corpo fu disfatto dai Persiani, con
vittoria nondimeno che costò loro ben caro; e che il primo, dopo aver
ben resistito alle forze de' Persiani, nel ritornare in Armenia, per
gli disagi perisse. Aggiugne lo stesso Erodiano che il corpo di
riserva di Alessandro per le malattie calò di molto, e fu a rischio di
lasciarvi la vita il suddetto imperadore per una grave infermità che
il sorprese. Ma perchè la grande armata de' Persiani notabilmente
anch'essa si sminuì, cessò dipoi la guerra; e per tre o quattro anni
stettero que' Barbari in pace. Così Erodiano. Non così Lampridio, il
quale, più che al racconto di quello storico, prestando fede a ciò che
tanti altri aveano scritto de' fatti di questo imperadore, da lui ben
esaminati, gli attribuisce una insigne vittoria riportata contra dei
Persiani. E maggiormente lo pruova, coll'aver veduto gli atti del
senato e la relazione dell'avvenimento glorioso fatta dal medesimo
Alessandro al senato, dopo il suo ritorno a Roma nel dì 25 di
settembre. Non si può sì facilmente credere che le parole di
Alessandro fossero soli vanti e menzogne, sì perchè non fu egli di
carattere millantatore, sì perchè poco sarebbe occorso per ismentirle.
Disse dunque Alessandro di avere sconfitto i Persiani, nell'armata dei
quali bella e terribil mostra faceano settecento elefanti colle lor
torri guernite di arcieri. Trecento di questi essere stati presi,
ducento morti, e diciotto venivano condotti a Roma. Vi erano mille
carri falcati. Cento venti mila cavalli si contavano parimente
nell'esercito nemico; dieci mila di essi rimasero sul campo; gli altri
si salvarono colla fuga. Molti erano stati i Persiani presi, e poscia
venduti per ischiavi. Si erano ricuperate le città perdute della
Mesopotamia; Artaserse, colla perdita delle bandiere, avea presa la
fuga. I soldati romani se ne ritornavano ben ricchi, nè sentivano più
le fatiche della guerra dopo sì felice vittoria. A questa relazione
tennero dietro le acclamazioni del senato. Aggiugne Lampridio che in
quella calda azione Alessandro correva per le file della sua armata,
animando i soldati, lodando chi meglio combatteva, combattendo
anch'egli, e trovandosi esposto alle freccie nemiche. Dopo sì
segnalata vittoria se ne tornò Alessandro ad Antiochia, per passare,
come io vo credendo, il verno colla sua armata. E che in quest'anno
esso Augusto fiaccasse le corna al superbo Artaserse, e non già nel
precedente, come volle il padre Pagi, e non nel seguente, come pensò
il Tillemont, bastantemente si raccoglie dalle monete[1845] rapportate
dal Mezzabarba, correndo la di lui tribunizia podestà X, cioè
nell'anno presente, perchè ivi si vede menzionata VICTORIA AVGVSTI.
Solamente non si sa intendere come Alessandro non prendesse il titolo
d'_Imperadore_ per questa vittoria. Forse lo impedì la sua modestia.
Dal senato ancora fu acclamato _Persico Massimo_: e pure questo suo
titolo non s'incontra nelle medaglie. Ha poi un bel dire Erodiano che
i Persiani da sè stessi desisterono dalla guerra; perchè se così
felicemente, com'egli vuole, fossero proceduti i loro affari, e le
armate romane fossero rimaste disfatte, inverisimil cosa è come i
medesimi non avessero proseguita la vittoria, ed occupata ai Romani la
Mesopotamia.

NOTE:

[1842] Herodianus, lib. 6.

[1843] Herodian., lib. 6.

[1844] Lamprid., in Alexandro.

[1845] Mediobarb., in Numism. Imperat.




    Anno di CRISTO CCXXXII. Indizione X.

    PONZIANO papa 3.
    ALESSANDRO imperadore 11.

_Consoli_

LUPO e MASSIMO.


Abbiamo anche da Erodiano[1846] che l'imperadore Alessandro si fermò
molto tempo in Antiochia: il che ci serve di fondamento per credere
che vi passasse il verno insieme coll'esercito distribuito in quei
quartieri. Lungo tempo si esigeva a ricondurre per terra le legioni
destinate per l'Europa; però sembra verisimile che succedesse
in quest'anno il suo arrivo a Roma nel tempo assegnato da
Lampridio[1847], cioè nel dì 25 di settembre, in cui egli comparve in
senato a rendere conto della sua spedizione. Fece la sua entrata da
trionfante, corteggiato da tutto il senato e dall'ordine equestre, fra
i plausi e l'indicibil allegrezza di tutto il popolo. Non entrò sul
cocchio, come si costumava ne' trionfi, ma bensì a piedi, venendogli
dietro il carro trionfale tirato da quattro elefanti. A piedi ancora
andò al palazzo, e tanta era la folla, che appena in quattr'ore potè
compiere il viaggio, tutti gridando intanto: _Se salvo è Alessandro,
salva è Roma._ Nel dì seguente si fecero le corse dei cavalli e i
giuochi scenici, dopo de' quali toccò un congiario al popolo. Allora
fu che si cominciarono a vedere presso i Romani degli schiavi
persiani; ma, non sofferendo allora la superbia dei re di Persia che
alcuno de' suoi sudditi restasse in ischiavitù, fu pregato Alessandro
di rimetterli in libertà col pagamento del riscatto, ed egli non mancò
di far loro questa grazia con rendere ai padroni il danaro pagato in
comperarli, o pure col metterlo nell'erario, se non erano venduti.
Questi servi adunque e gli elefanti condotti sempre più ci vengono ad
assicurare che l'Augusto Alessandro non vinto, ma vincitore, ritornò
dalla guerra di Persia. Seguita a dire Lampridio che anche nella
Mauritana Tingitana felicemente procederono gli affari della guerra
per la buona condotta di _Furio Celso_. Similmente nell'Illirico
_Vario Macrino_, parente d'esso Alessandro, riportò de' vantaggi
contro i nemici del popolo romano; e nell'Armenia _Giunio Palmato_
diede anch'egli qualche buona lezione ai Persiani. Da tutti quei
luoghi probabilmente in questi tempi giunsero a Roma le laureate
lettere di avviso di que' prosperosi avvenimenti, le quali, lette in
senato e al popolo, rallegrarono ognuno, ed esaltarono sempre più il
nome e la gloria dell'Augusto Alessandro.

NOTE:

[1846] Herodianus, lib. 5.

[1847] Lampridius, in Alexandro.




    Anno di CRISTO CCXXXIII. Indizione XI.

    PONZIANO papa 4.
    ALESSANDRO imperadore 12.

_Consoli_

MASSIMO e PATERNO.


Un'iscrizione, che si legge nella mia Raccolta[1848], in vece di
_Paterno_, ha _Paterio_. Così ancora egli è chiamato in alcune leggi
raccolte dal Relando[1849]. Però, quantunque io abbia ritenuto
_Paterno_, gran dubbio mi resta che il suo vero cognome fosse
_Paterio_. In quattro leggi ancora _Massimo_ vien detto console _per
la seconda volta_; ma ciò meglio starà nell'anno seguente.
Instituì[1850] in questi tempi l'Augusto Alessandro in onore di
_Mammea_ imperatrice sua madre un collegio di fanciulli e un altro di
fanciulle, con chiamarli Mammeani e Mammeane, siccome Antonino Pio
avea dato il nome di Faustiniane alle fanciulle instituite in onore di
Faustina sua moglie. Parimente attese a premiare chiunque s'era
segnalato nel governo civile e militare della repubblica. Ai senatori
più meritevoli accordò gli ornamenti consolari, con aggiugnere dei
sacerdozii e dei poderi a quei ch'erano poveri o vecchi. Agli amici
donò i prigionieri di varie nazioni, ritenendo solamente i nobili fra
essi, che furono arrolati nella milizia. Le terre prese ai nemici donò
egli ai capitani e soldati posti alla guardia de' confini, con
permettere che passassero ancora in dominio de' loro eredi, purchè
anch'essi facessero il mestier dei soldati; non volendo che quei beni
restassero in proprietà di persona alcuna privata, con dire _che quei
tali con più attenzione militerebbono, ove si trattasse di difendere
le cose concedute loro con questo patto_. Ed ecco, se non il
principio, almeno un segno assai chiaro di quei che poscia furono
chiamati benefizii, cioè stabili dati a godere ai soldati con obbligo
di militare in favor del donante, con riservarsene i principi il
diretto dominio. Passò, dico, questo nome anche nella Chiesa,
dispensatrice di sì fatti beni a chi si consacra alla milizia
ecclesiastica. Oltre alle terre, donò ai medesimi soldati degli
animali e dei servi, acciocchè potessero coltivarle, e non le
lasciassero abbandonate all'invasion de' nemici; il che riputava egli
gran vergogna della repubblica. Mentre si godeva tanta felicità in
Roma, ecco nuove spiacevoli dalle contrade germaniche[1851], cioè
avere i Germani passato il Reno, mettere in conquasso la Gallia in
quelle parti con potenti armate, saccheggiar borghi e campagne, e far
paura alle stesse città. Se crediamo ad Erodiano[1852], fin quando
Alessandro dimorava in Antiochia, cominciò questa brutta danza, e
portatine colà gli avvisi, colla giunta di aver essi Germani passato
non solo il Reno, ma anche il Danubio, ed essere in grave rischio le
confinanti provincie dell'Illirico e l'Italia stessa. Per questo si
affrettò egli di lasciar la Soria, e di volgere i passi e l'armi colà
dove il chiamava il bisogno. Se vero fosse il racconto di Erodiano,
converrebbe dire che Alessandro si fermasse un anno di più in
Antiochia; o pure ch'egli, un anno dopo quel che abbiam supposto,
imprendesse la guerra coi Persiani. Ma non è sì facilmente da
acquetarsi in ciò a quello storico greco, da che gli viene a fronte
Lampridio, certo inferiore a lui di tempo, ma più di lui informato
degli affari di Roma. Secondo Erodiano, l'Augusto Alessandro marciò a
dirittura dalla Soria in Germania, nè più ritornò a Roma; laddove
Lampridio, citando gli atti del senato, ci assicura esser egli
dall'Oriente rivenuto a Roma, ed aver ottenuto il trionfo, e che quivi
si godeva una mirabil quiete, quando sopraggiunse la novità dei
Germani. Se questa giugnesse nell'anno presente, o pure nel
susseguente, non so dirlo. Caso che nel presente, attese Alessandro a
far dei preparamenti per andar in persona a dimandar conto ai Germani
dei danni inferiti alle contrade romane.

NOTE:

[1848] Thesaurus Novus Inscription., pag. 358, num. 3.

[1849] Reland., in Fast. Cons.

[1850] Lampridius, in Alexandro.

[1851] Lamprid., in Alexandro. Zosim., Hist., l. 1.

[1852] Herodianus, lib. 6.




    Anno di CRISTO CCXXXIV. Indizione XII.

    PONZIANO papa 5.
    ALESSANDRO imperadore 13.

_Consoli_

MASSIMO per la seconda volta e CAIO CELIO URBANO.


Già ardeva la guerra tanto ai confini della Gallia quanto a quei della
Pannonia, con terrore non lieve dell'Italia stessa. Però in quest'anno
l'Augusto Alessandro, messo insieme un potente esercito, s'inviò alla
volta della Gallia, dove maggiore era il pericolo[1853]. Conduceva
egli seco un gran corpo di Mori e di arcieri presi dalla provincia
della Osroena, o pure disertori parti, guadagnati con buono stipendio.
Di costoro pensava egli di valersi con vantaggio in questa nuova
guerra, perchè tal sorta di gente saettava più lontano che i Germani,
e coglieva più facilmente nel bersaglio de' loro corpi. Si partì
Alessandro da Roma, quantunque il senato e i migliori, mal volentieri
vedendolo disposto alla partenza, si studiassero di ritenerlo[1854]:
tanto era l'amore che gli portavano, tanta la premura che non si
esponesse a pericolo alcuno e ai dubbiosi successi della guerra. Ma
egli avea fisso il chiodo di andare, perchè non potea sofferire che,
dopo aver vinto i Persiani, venissero ad insultare l'imperio romano i
Germani, gente che altri imperadori da meno di sè aveano saputo
mettere in dovere. Seco andò _Mammea_ sua madre; e, se crediamo a
Lampridio, tutti i senatori l'accompagnarono per centocinquanta
miglia. Nel fare a gran giornate il suo viaggio, incontratosi con una
donna della razza de' Druidi sacerdoti della Gallia, questa gli disse:
_Va pure, ma non isperar vittoria; e fidati poco de' tuoi soldati_.
Egli non l'ascoltò, o pure non se ne mise pensiero, perchè sprezzava
la morte. E Lampridio aggiugne, che avendogli predetto un celebre
astrologo ch'egli dovea morire per mano d'un Barbaro, se ne rallegrò,
credendo di aver da morire in qualche battaglia, e di far quel fine
glorioso ch'era toccato ad altri generali famosi. Arrivato alle rive
del Reno[1855], quivi si fermò a disporre tutto l'occorrente per
portare la guerra addosso a' Germani; ed intanto fece fabbricar un
ponte su quel fiume, acciocchè vi potesse transitar tutta la armata.
Vuole Erodiano, scrittore che solamente ci descrive Alessandro per un
imperador timoroso e privo di coraggio, ch'egli tentasse prima, se
potea, colle buone intavolar pace coi Germani; e loro a questo fine
inviò suoi ambasciatori, con esibire gran copia di danaro, assai
consapevole della forza che ha l'oro fra quei popoli. Forse che se
avesse tenuta questa via non gli sarebbe mancata la pace. Ma Lampridio
nulla parla di ciò, e nè meno di varii combattimenti accennati dal
suddetto Erodiano, nei quali scrive che bene spesso i Germani
comparvero non men forti dei Romani. Certo è che non abbiam vestigio
di alcuna bella militare impresa da lui fatta in essa guerra, ancorchè
il numeroso e prode esercito suo promettesse di molto in sì fatta
spedizione.

NOTE:

[1853] Herodianus, lib. 6.

[1854] Lampridius, in Alexandro.

[1855] Herodianus, lib. 6.




    Anno di CRISTO CCXXXV. Indizione XIII.

    ANTERO papa 1.
    MASSIMINO imperadore 1.

_Consoli_

SEVERO e QUINZIANO.


Altro non abbiam di certo di questi consoli che il loro cognome, e il
secondo vien anche chiamato _Quintiliano_. Ho io prodotta
un'iscrizione[1856], dove ci comparisce _Gneo Pinario Severo console_,
ma senza poter dire se appartenga all'anno presente. Il Panvinio[1857]
avea citata un'iscrizione posta per la salute di _Lucio Ragonio
Urinazio Larcio Quinziano console_, credendo che ivi si parlasse del
secondo console. Un'altra[1858], a lui pure spettante, ho dato io, ma
con farmi a credere che questo _Quinziano_ molto prima dell'anno
presente fosse sostituito nel consolato. In un altro marmo[1859],
rapportato anche nella mia Raccolta, s'incontra _Tito Cesernio
Macedone Quinziano console_; ma senza che resti alcun lume se
appartenga all'anno presente. Una grande scossa ebbe in quest'anno il
romano imperio per la morte del buon _imperadore Alessandro_, tolto di
vita dagli empii ed iniqui suoi soldati. Non se ne sa bene il luogo e
la maniera. Lampridio[1860] ne fu anch'egli allo scuro, mentre scrive
che l'Augusto giovane, trovandosi nella gran Bretagna, da noi chiamata
Inghilterra, fu ucciso, e che altri scrissero essere ciò avvenuto
nella Gallia in un villaggio appellato Sicila, nel distretto di
Magonza, come vuole Eusebio[1861], oppure in quel di Treveri. Espone
bensì Erodiano[1862] con varie particolarità questo avvenimento, ma le
circostanze da lui narrate non hanno assai del verisimile. Secondo
lui, _Massimino_, uffiziale, che avea la cura di insegnar l'arte
militare ai soldati di nuova leva, per la maggior parte presi dalla
Pannonia, era amato non poco da esse milizie. Sparlavano costoro di
Alessandro, come di un principe troppo timoroso, che non lasciava fare
alcuna bella impresa contra dei nemici, e stava tuttavia sotto l'ali
della madre, donna, secondo essi, intenta solamente ad ammassar
danaro, e che colla sua parsimonia rendeva odioso a tutti il
figliuolo; essere perciò da eleggersi per imperadore un uomo forte e
pratico della guerra, e che meglio premiasse i soldati. Lamentavansi
eglino in fatti anche di Alessandro, perchè non profondeva sopra di
loro i tesori, siccome aveano praticato Caracalla ed Elagabalo,
scialacquatori delle pubbliche sostanze, per guadagnarsi l'affetto
delle milizie; e per questo sclamavano contro di Mammea, attribuendo
ad avarizia di lei ciò che si negava alla loro insaziabile avidità.
Posti dunque gli occhi sopra _Massimino_, all'improvviso il vestirono
di porpora, e l'acclamarono _Imperadore_. Fosse egli o non fosse
consapevole del loro disegno, almen finse di resistere; ma, minacciato
colle spade, accettò come forzato l'augustal dignità. Promesso dipoi
un grosso donativo, e di raddoppiar loro la provianda, concertò subito
la maniera di opprimere Alessandro. Avvisato questi di sì pericolosa
novità, tremando, piangendo, e simile ad un furioso, uscì dalla tenda,
e raccomandossi a' suoi soldati, con promettere quanto volessero,
purchè il difendessero. Con grandi acclamazioni promisero essi di
farlo. Passata la notte, eccoti l'avviso che vengono i soldati di
Massimino; e di nuovo Alessandro, uscito in pubblico, implorò l'aiuto
de' suoi, i quali replicarono le promesse; ma, all'arrivo delle truppe
di Massimino, lasciatisi sovvertire da lui, il riconobbero anch'essi
per Imperadore. Ciò fatto, diede Massimino ordine ai tribuni e
centurioni di levar la vita ad Alessandro, a Mammea sua madre e a
chiunque si volesse opporre. Fu il barbaro comandamento immediatamente
eseguito, e, a riserva di chi era fuggito, tutti rimasero vittima
delle loro spade. Così Erodiano.

Ma non è probabile che _Massimino_ fosse proclamato Imperadore, perchè
si sa ch'egli studiò in tutte le forme di comparir innocente della
morte di Alessandro; nè che Alessandro sapesse l'esaltazion di
Massimino, nè che dopo tal notizia passasse anche una notte, prima di
essere ucciso, perchè o egli sarebbe fuggito, o, avendo tante persone
che l'amavano, non è da credere che tutti lo avessero abbandonato. Ha
ben più apparenza di verità ciò che scrivono Lampridio[1863] e
Capitolino[1864]: cioè che molti de' soldati, massimamente della
Gallia, erano disgustati di Alessandro, perchè egli, avendoli trovati
male avvezzati sotto Elagabalo, voleva rimetterli con vigore
nell'antica disciplina. E che, segretamente intesisi con Massimino,
molti di essi, inviati alla tenda di Alessandro nel dopo pranzo
allorchè vi era poca gente ed egli dormiva, il trucidassero colla
madre. Comunque ciò accadesse, fuor di dubbio è che il buono, ma
infelice imperadore, per mano di que' sicarii, e con intelligenza e
per comando di Massimino, uomo ingratissimo ai tanti benefizii che
avea da lui ricevuto, terminò i suoi giorni. Si è disputato da varii
letterati, cioè dal padre Pagi, dal Tillemont, dall'abbate Vignoli, da
monsignor della Torre e dal padre Valsecchi abbate benedettino,
intorno alla di lui età, intorno alla durazion del suo imperio e al
giorno della sua morte. Credesi con più probabilità ch'egli fosse
ucciso non nel marzo, ma nella state dell'anno presente, in età di
ventisei anni e di alquanti mesi, e non già di 29 anni, mesi 3 e
giorni 7, come ha il testo, che si tiene per iscorretto, di Lampridio;
e dopo tredici anni ed alquanti giorni o pur mesi d'imperio. A me non
convien di entrare in sì fatte dispute, bastando al lettore
d'intendere ciò che più importa al filo della storia. Intanto le
ammirabili cose da noi udite di questo novello Alessandro, tanto più
degne di stupore e di lode, quanto che operate da un sì giovinetto
Augusto, in cui lo stesso Erodiano, che pur gli è poco favorevole,
altro non seppe trovar di difetto, se non la troppa dipendenza da sua
madre, ci han già fatto detestare l'esecrabil azione di Massimino, o
pure di que' barbari soldati che gli tolsero la vita contra tutte le
leggi umane e divine, e ci danno a conoscere qual grave perdita fecero
in lui il senato e popolo romano, e tutte le provincie del romano
imperio. Un fulmine, che scoppiasse contra di ognuno, parve l'avviso
della sua morte. Se ne mostrò dolente, in apparenza, fin lo stesso
Massimino, e volle che nella Gallia gli fosse alzato un magnifico
monumento[1865]. Più riguardevole fu l'altro che il senato gli fece
fabbricare in Roma, dove furono portate le sue ceneri, e dove non
mancarono nè a lui nè a Mammea sua madre gli onori divini,
coll'assegno di alcuni sacerdoti: e gran tempo durò in Roma la festa
nel dì natalizio di lui e di sua madre. Gli stessi soldati, e fin
quelli ch'egli avea cassati in Soria, tagliarono poscia a pezzi quegli
assassini che si erano bagnate le mani nel di lui sangue: segno che
non lo aveano abbandonato, come vuole Erodiano, ma che improvvisa
dovette essere l'uccisione di lui. Fu da molti scritta la vita di
questo insigne Augusto; e Lampridio cita quella di _Settimio_,
_Acolio_ ed _Encolpo_, che oggidì perdute, servirono a lui da scorta
per tramandarci le notizie che abbiamo di esso imperadore.
Verisimilmente, se non si fossero perduti tanti libri della storia
nobilissima di _Dione Cassio_, sebben presso Sifilino egli poco parla
delle azioni di Alessandro, noi avremmo qualche altro lume del suo
governo: governo incomparabile, perchè, oltre all'esser egli stato di
gran mente e di ottima intenzione, volle sempre nel suo consiglio i
più saggi, i più giusti e disinteressati senatori e giureconsulti che
allora si trovassero. Ma a questo adorabil regnante, degno di
lunghissima vita, succedette _Massimino_ di carattere tutto contrario,
dedito solamente alla crudeltà, e, fuorchè dai soldati, universalmente
odiato ed abborrito qual manigoldo del migliore di tutti i principi.
Da che costui, tolto di mezzo il buon Alessandro, fu proclamato
_Imperadore_, partecipò al senato l'elezione sua. Bisognò approvarla,
perchè non si potea di meno, avendo egli dalla sua le forze maggiori
del romano imperio. Non sappiamo se da sè o pure se per decreto del
senato egli prendesse la _podestà tribunizia_ e il titolo di _padre
della patria_, che non fu mai sì indegnamente impiegato che questa
fiata. E se immenso fu il dolore de' Romani e degli altri popoli,
perchè privati di un ottimo Augusto, questo molto più crebbe, perchè
un uomo pessimo a lui succedeva, il quale dal secolo d'oro fece in
breve passare ad un secolo di ferro l'imperio romano. Ma l'ambizione,
che cotanto lo acciecò, siccome vedremo, ebbe dopo tre anni il
meritato supplizio. Chi fosse _Massimino_, e quale nella privata
fortuna, mi riserbo io di esporlo all'anno seguente. Nel presente
trovandosi san _Ponziano_ papa in esilio[1866] per la fede di Gesù
Cristo, gloriosamente compiè il suo pontificato, ed in vece sua fu
eletto _Antero_, e posto nella sedia di san Pietro.

NOTE:

[1856] Thesaur. Novus Inscript., pag. 358, n. 2.

[1857] Panvin., in Fast. Consul.

[1858] Thesaur. Novus Inscript., pag. 359, n. 1.

[1859] Idem, ibid., p. 358, n. 4.

[1860] Lampridius, in Alexandro.

[1861] Eusebius, in Chron.

[1862] Herodianus, lib. 6.

[1863] Lampridius, in Alexandro.

[1864] Capitolin., in Maximino.

[1865] Lampridius, in Alexandro.

[1866] Blanchinius, ad Anastas. Bibliothec.




    Anno di CRISTO CCXXXVI. Indizione XIV.

    FABIANO papa 1.
    MASSIMINO imperadore 2.

_Consoli_

CAIO GIULIO MASSIMINO AUGUSTO ed AFRICANO.


Il nome di _Giulio_, dato dai compilatori de' Fasti ad _Africano_,
dipende da una conghiettura del Panvinio[1867], senza che se ne vegga
pruova alcuna; e però non mi son io attentato e darglielo, siccome
cosa dubbiosa. In vece di _Massimino_, noi troviamo _Massimo_[1868] in
varii Fasti: il che potrebbe far dubitare se _Massimino_ prendesse il
consolato. Ma essendo stati soliti i novelli Augusti nel primo nuovo
anno a prenderlo, ed essendovi altri lumi, ragionevolmente possiam
credere che _Massimino_ procedesse console nell'anno presente. Poco
più di un mese tenne santo _Antero_ papa il pontificato romano, e
diede fine alla sua vita col martirio[1869]. Succedette a lui
nell'apostolica sede _Fabiano_. Andiamo ora a vedere chi fosse colui
che nell'enorme delitto della morte data al buon Alessandro Augusto,
si aprì la strada al trono cesareo. _Caio Giulio Vero Massimino_ (che
così egli si fece chiamare) era di nazione barbara[1870], perchè
figlio di Micea o Micca, uomo goto, e di Ababa o Abala, donna alana.
Nacque in un villaggio ai confini della Tracia, e però veniva
considerato come Trace d'origine. Dicono che fosse terribile
d'aspetto; che la sua statura eccedesse otto piedi; che la sua forza
fosse prodigiosa; che in un sol pasto mangiasse quaranta ed anche
sessanta libbre di carne: il che se sia da credere, lascerò giudicare
agli altri. Essendo egli in sua gioventù pastore di professione, lo
sceglievano gli altri per loro capo a fine d'opporsi ai ladri.
Conosciuto costui da Severo Augusto, allorchè era nella Tracia, per
uomo di straordinaria robustezza, fu arrolato nella cavalleria, poscia
nelle guardie del corpo, e promosso dipoi a varie cariche militari,
spezialmente sotto Caracalla, nelle quali si acquistò molto credito,
perchè infaticabile, perchè non mangiava addosso ai soldati; anzi,
ricompensandoli, e gran cura prendendo di loro, si facea amare da
tutti. Per odio che portava a Macrino, siccome distruttore della casa
di Severo, si ritirò al suo paese, e con difficoltà tornò alla milizia
sotto l'impuro Elagabalo, creato tribuno, ma senza comparire per tre
anni a salutarlo, nè a baciargli la mano. Morto Elagabalo, venne a
Roma, accolto con grande allegrezza da Alessandro Augusto, da lui
lodato al senato, e creato tribuno della legione quarta, composta di
giovani di nuova leva, acciocchè loro insegnasse la milizia. Chi per
la sua forza il chiamava Ercole, chi Milone Crotoniate, Achille, ec.
In questo concetto era Massimino, quando, senza nè pur essere
senatore, usurpò il trono de' Cesari, in età d'anni settantadue, se si
ha da credere alla Cronica Alessandrina[1871] e a Zonara[1872]. Aveva
egli un figliuolo giovinetto, per nome _Caio Giulio Vero Massimino_,
come s'ha dalle medaglie[1873]. _Massimino_, ancor egli è chiamato da
alcuni storici, giovane di rara bellezza, di alta statura, e più
pulito del padre rozzo e barbaro, ma creduto più superbo di lui stesso
benchè Capitolino[1874], che ciò scrive, dica altrove ch'egli era di
un natural buono, e che Alessandro Augusto gli avrebbe data in moglie
_Teoclia_ sua sorella, se non fosse stato ritenuto dai barbari costumi
del di lui padre Massimino. Scrive il suddetto Capitolino che gli fu
da esso suo padre conferito il titolo d'_Imperadore_. Nelle iscrizioni
e medaglie che restano di lui, il troviamo ornato solamente del titolo
di _Cesare e di principe della gioventù_. Però è da dire che quello
storico s'inganna, o pur, come vuole il Pagi[1875], imperadori erano
anche chiamati allora i Cesari.

Creato imperadore Massimino, siccome non gli era ignoto d'essere
mirato di mal occhio da chi considerava nella viltà dei di lui natali
troppo avvilita l'imperial dignità, e teneva per vittima delle di lui
ambiziose voglie l'ucciso Augusto, si rivolse ad assodar, se potea,
col terrore il suo trono, giacchè coll'amore non sapea sperarlo[1876].
Tosto dunque sotto varii pretesti congedò gli amici e consiglieri
d'Alessandro, eletti già dal senato, col rimandar parte d'essi a Roma,
e con privare gli altri delle loro cariche. Era la sua mira di far
alto e basso senza dipendere da alcuno, per poter più liberamente
esercitare la sua tirannia. Tutta la servitù e i cortigiani del
passato governo mandò con Dio; moltissimi ancora ne fece uccidere, non
d'altro colpevoli che di mostrarsi afflitti per la morte del buon
padrone. Tiene Eusebio[1877] che, in odio appunto di Alessandro, nella
cui corte si trovavano assaissimi Cristiani, egli movesse una fiera
persecuzione contro la Chiesa, per cui crebbe in terra e in cielo il
numero de' santi martiri. Tremavano già i Romani per le frequenti
nuove[1878] che andavano arrivando della di lui crudeltà, mentre chi
faceva crocifiggere, chi dar in preda alle fiere, chi chiuder vivo
nelle bestie uccise, chi lasciar la vita sotto le bastonate. Altro
nome già non gli si dava, che di Ciclope, di Busiride, di Falari, ec.
Cacciossi perciò, coll'andar innanzi tal timore nel senato e popolo
romano, che o pubblicamente o privatamente ognun facea dei voti
affinchè Massimino mai non vedesse Roma. Fosse la verità, o pure una
finzione[1879], si scoprì una trama ordita contro di lui da _Magno_,
uomo consolare e di gran nobiltà. Dicono ch'egli, avendo prima
guadagnati molti uffiziali e le guardie del ponte di barche fatte sul
Reno, allorchè Massimino era passato di là, avesse disegnato di far
rompere lo stesso ponte, acciocchè Massimino restasse fra le branche
de' Germani, e nello stesso tempo pensasse di far proclamare sè stesso
Imperadore. Tutti coloro che furono sospetti di tal cospirazione
perderono la vita senz'altro esame o processo, di modo che non si potè
mai venire in chiaro se fosse vera o falsa, e molti la crederono
un'invenzione di Massimino per liberarsi da chi non gli era in grazia.
Si fa conto che quattro mila persone rimasero per tal cagione private
di vita. Dopo questa tragedia, il corpo dei soldati osroeni ch'era
all'armata, siccome gente persuasa che il tanto amato da loro
Alessandro Augusto fosse perito per ordine del crudel Massimino, si
rivoltarono contra di lui; e trovato per accidente _Tito
Quartino_[1880], già stato console ed amico di Alessandro, ma
congedato dal campo, con tutto il suo gridare e resistere, chiamatolo
_Imperadore_, il vestirono di porpora. Ma da lì a poco questi fu
assassinato da _Macedonio_ suo amico, che era stato promotor della
sedizione, o per rabbia d'essere stato posposto a lui, o per isperanza
di qualche gran ricompensa da Massimino, a chi ne portò il capo. La
ricompensa fu che Massimino allora il ringraziò, ma poco dipoi il fece
ammazzare, come autor della ribellione e traditor dell'amico. Non
s'accorda con questi scrittori Trebellio Pollione[1881], mentre scrive
che questo _Tito_ era tribuno de' Mori, e che imperò sei mesi,
contraddicendo a sè stesso per aver detto prima ch'egli fra pochi
giorni fu ucciso. Secondo questo autore, era sua moglie _Calpurnia_
della nobil famiglia de' _Gensorini_, cioè de' _Pisoni_, sacerdotessa,
che per l'insigne sua castità fu adorata dai Romani. Gran tempo stette
la di lei statua in luogo ben improprio, perchè nel tempio di Venere.

All'anno presente mi sia permesso di riferire la guerra fatta da
Massimino ai Germani, quantunque si possa dubitare che appartenga al
precedente. Un poderosissimo esercito avea condotto seco Alessandro
Augusto in quella spedizione, perchè, oltre a molte legioni di soldati
occidentali, s'era studiato, siccome ho detto, di avere gran copia di
Osroeni, Armeni, Parti e Mori; e credevasi che il maggior nerbo
dell'armata consistesse in costoro, per far quella guerra, perchè
erano tutti gente sperta nel saettare: mestier poco praticato dai
Germani. Massimino a tanti combattenti ne aggiunse degli altri, e in
persona attese ad esercitarli tutti e disciplinarli. Ardeva egli di
voglia di far delle grandi prodezze, acciocchè venisse ad intendere il
mondo l'importante vantaggio di avere un imperador bellicoso, e
dimenticasse, s'era possibile, il suo timido predecessore. Quindi,
passato il Reno, diede addosso ai Barbari. Niun d'essi sulle prime osò
di venirgli a fronte; tutti si ritirarono nei boschi e nelle paludi,
con fare dipoi, il meglio che poteano, la guerra con insidie. Diversi
combattimenti seguirono in quelle selve e paludi. Tanta era la
temerità di Massimino, che, al pari d'ogni soldato, entrava anch'egli
nelle mischie, e menava le mani. Ma corse una volta pericolo della
vita; perchè, inviluppato col cavallo nel fango di una palude, fu
attorniato da' nemici; e se non erano i suoi, che accorsero in aiuto,
si vedeva il fine della sua tirannia. Scrisse egli poscia al
senato[1882] d'essere entrato nel paese germanico, d'averne corso ben
quattrocento miglia, con uccidere molti de' nemici, farne assai più
prigioni, con incendiare i loro villaggi, tutti fabbricati di legno, e
col condur via un immenso bottino di bestiami e d'altre robe, che
tutte lasciò ai soldati. Erodiano[1883] aggiugne aver egli dato il
guasto ai raccolti di quelle contrade: il che fa intendere aver egli
guerreggiato nel giugno e luglio. Mandò anche Massimino a Roma dipinte
in alcune tavole le battaglie dai lui fatte in quelle parti, acciocchè
anche gl'ignoranti leggessero quivi i trofei del suo valore. Par tali
vittorie fu non meno a lui che al figlio Cesare dato il titolo di
_Germanico_; e questo si legge nelle monete battute[1884] correndo la
tribunizia podestà seconda di lui, cioè nell'anno presente, col motto
di VICTORIA GERMANICA. Giacchè non si trovavano più nemici da
combattere, e si accostava il verno[1885], coll'armata passò nella
Pannonia, e prese il suo alloggio nella città di Sirmio, capitale di
quelle contrade, meditando maggiori imprese nell'anno vegnente contra
dei Sarmati. Minacciava egli di voler sottomettere al romano imperio
tutte le nazioni germaniche; e fatto verisimilmente l'avrebbe: tanta
era la sua bravura e l'indefesso operare nel mestier dell'armi, s'egli
nello stesso tempo non avesse fatta ai sudditi suoi una guerra anche
più cruda che ai Barbari stessi: del che parleremo all'anno seguente.

NOTE:

[1867] Panvin., in Fast. Consul.

[1868] Reland., Fast. Consul.

[1869] Blanchinius, ad Anastas.

[1870] Capitolin., in Maximino seniore.

[1871] Chronicon Alexandrinum.

[1872] Zonaras, in Annalibus.

[1873] Mediob., in Numism. Imperator.

[1874] Capitolinus, in Maxim. juniore.

[1875] Pagius, in Crit. Baron.

[1876] Capitolin., in Maxim. seniore. Herodianus, lib. 7.

[1877] Euseb., Histor. Eccles., lib. 6, cap. 28.

[1878] Capitol., in Maximino seniore.

[1879] Herodianus, lib. 6.

[1880] Capitolin., in Maximin. seniore. Herod., lib. 6.

[1881] Trebellius Pollio, in Tito.

[1882] Capitolinus, in Maxim. seniore.

[1883] Herodianus, lib. 7.

[1884] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[1885] Herodianus, lib. 7.




    Anno di CRISTO CCXXXVII. Indizione XV.

    FABIANO papa 2.
    MASSIMINO imperadore 3.

_Consoli_

PERPETUO e CORNELIANO.


In due iscrizioni riferite dal Panvinio[1886] si truova un _Lucio
Ovinio Rustico Corneliano console disegnato_, e un _Publio Tizio
perpetuo consolare della Toscana e dell'Umbria_. Perciò i più han
creduto che tali fossero i prenomi e nomi di questi consoli. Perchè
non è esente da dubbii sì fatta partita, ho creduto meglio di star col
Relando[1887], che solamente accenna i loro cognomi. Quali imprese in
quest'anno facesse Massimino, dopo avere svernato nella Pannonia,
resta a noi molto scuro. Truovansi nondimeno iscrizioni[1888] a lui
poste nel susseguente anno dalle provincie che continuarono ad
ubbidirlo, nelle quali è chiamato _Dacico Massimo_, _Sarmatico
Massimo_ ed _Imperadore_ fin _sette volte_: tutti indizii di battaglie
date e di vittorie riportate contra de' Sarmati e Daci.
Capitolino[1889] attesta anch'egli che Massimino ebbe moltissime
guerre, dalle quali ritornò sempre vincitore e con gran copia di
prigionieri e di bottino. Nulladimeno ha ciera di una rodomontata
l'aver egli scritto al senato. _Tante essere state le guerre da lui
fatte in poco tempo, quante mai altri ne facesse in vita sua: tanta la
preda, che avea superata la speranza di ognuno; tanti i prigionieri,
che non bastava il paese romano a contenerli tutti_. Dissi che intanto
egli peggio trattava i sudditi suoi. Abbisognava di danaro per
sostenere quel diluvio di armati; e per cavarne da tutti i lati, si
concedeva ad ognuno licenza d'accusare[1890]. Stavano sempre aperti
gli orecchi di Massimino alle spie e a qualunque giusta o calunniosa
relazione, bastando che comparisse l'accusa, perchè ne succedesse
tosto la carcerazion delle persone, senza distinzione alcuna di grado
o di età. Laonde notte e dì si vedevano da ogni parte anche più
lontana del romano imperio condotti sopra carrette in Pannonia uomini
incatenati di qualsivoglia dignità civile o militare, cominciando da
coloro che erano stati consoli[1891]; e tutti poi o innocenti o rei
venivano condannati alla morte o all'esilio, col confisco de' loro
beni e colla rovina delle lor famiglie. Gran disavventura, o almen
gran pericolo e batticuore era allora l'essere ricco, coll'esempio di
tanti e tanti, i quali, di ricchissimi ch'erano, erano ridotti a
limosinar il pane. Nè qui terminò l'insaziabil crudeltà e avidità del
tiranno. Mise anche le mani sopra tutte le rendite proprie della
città, destinate per mantenimento della pubblica annona, per aiuto
della povera plebe, per le feste e per li giuochi allora usati. Passò
inoltre a spogliare i templi di tutte le statue, e d'ogni altro
ornamento d'oro, d'argento o di rame: che tutto, portato alle zecche,
si convertiva in moneta. Per tanti spogli e violenze veggendosi i
popoli sì conculcati e tanagliati dal proprio principe, non si può
dire come fossero malcontenti ed amareggiati; ma le lor doglianze
consistevano in sole parole, in maledizioni, in implorar l'aiuto de'
sordi numi offesi, a riserva d'alcuni, che, non potendo soffrire
gl'insulti fatti ai lor templi, nel difenderli, si lasciarono
piuttosto scannar presso gli altari. Ne mormoravano forte fin gli
stessi soldati, perchè tutto dì veniva rimproverato loro dai parenti
ed amici che per colpa d'essi tante iniquità erano commesse da
Massimino. Sotto quest'anno la corrente dei moderni storici mette la
sollevazion dell'Africa contro dell'indegno Massimino, e l'assunzione
al trono augustale dei due Gordiani, e la lor caduta, con altri
accidenti; ma con restare involti in molte tenebre i fatti d'allora.
Quanto a me, credo tutto ciò avvenuto solamente nell'anno seguente,
siccome dirò: e che Massimino passasse il presente in far guerra ai
Daci e Sarmati, e svernasse dipoi quietamente nella Pannonia.

NOTE:

[1886] Panvin., in Fast. Consular.

[1887] Reland., in Fast. Cons.

[1888] Gruterus, Inscript., pag. 151 et 158. Sponius, pag. 186. Thes.
Novus Inscript., p. 250, n. 5.

[1889] Capitolin., in Maxim. seniore.

[1890] Herod., lib. 7.

[1891] Capitol., in Maxim. seniore.




    Anno di CRISTO CCXXXVIII. Indizione I.

    FABIANO papa 3.
    MASSIMINO imperadore 4.
    due GORDIANI, imperadori 1.
    PUPIENO e BALBINO imp. 1.
    GORDIANO III imperadore 1.

_Consoli_

PIO e PONZIANO.


Gran lite è qui fra gl'illustratori[1892] de' Fasti in assegnare i
prenomi e nomi di questi consoli. Il primo vien chiamato non Pio, ma
Ulpio in alcune leggi e da Censorino; altri gli danno il nome di Annio
Pio, ed altri di Marco Ulpio Crinito. Il secondo vien creduto Procolo
Ponziano, ovvero Ponziano Procolo, perchè in alcuni fasti, in vece di
Ponziano, si trova Procolo. Il nodo è tuttavia qual era prima. Ho io
prodotto altrove due inscrizioni[1893] che parlano di due consoli
Procoli coi loro prenomi e nomi, senza poter attestare se al presente
anno alcuna di esse appartenga. Penso bensì che solamente in questo
accadessero le novità dell'Africa[1894]. Le continue condanne ed
estorsioni che facea nelle provincie africane il procuratore del fisco
per ben somministrar della pecunia a Massimino (che questa era la via
di guadagnarsi merito presso di lui) cagion furono che alcuni nobili
giovani, capo de' quali fu un Maurizio nella città di Tisdoro, raunata
una gran frotta di loro servi e concittadini coll'armi sotto, andarono
a trovar costui, per pagare una condanna. Il pagamento fu, che lo
ammazzarono. Fecero bensì i soldati della guardia molta resistenza, ma
furono messi in fuga. Fatto il colpo, allora meglio che prima
conobbero il proprio pericolo, e però pensarono ad un colpo maggiore.
Sapendo in quanto odio de' popoli fosse Massimino, mossero assai gente
a sedizione, e poi si portarono a trovare _Marco Antonio Gordiano_
proconsole di quella contrada, e, per quanta opposizione e ripugnanza
egli mostrasse, lo acclamarono _Imperadore Augusto_, e il vestirono di
porpora, minacciandogli la morte se non accettava. Era _Gordiano_ un
venerabil vecchio di ottant'anni, ornato di tutte le più luminose
virtù. _Mezio Marullo_ suo padre tirava l'origine dai Gracchi; _Ulpia
Gordiana_ sua madre da Traiano imperadore. Pareva ereditario in casa
di lui il consolato, avendolo avuto il padre, l'avolo e il bisavolo,
oltre ad altri dalla parte di sua moglie. Stato era anch'egli console
due volte, l'una con _Caracalla_ imperadore nell'anno di Cristo 215, e
nell'anno 229 con _Alessandro_ imperadore. Pochi si contavano che gli
andassero avanti in abbondanza di comodi e di facoltà. Da giovinetto
si applicò a far dei poemi, e specialmente mise in versi e in prosa le
azioni degl'imperadori Antonini, de' quali era innamorato. La pretura
e le altre pubbliche cariche da lui furono sostenute con tal
magnificenza di giuochi e di altri pubblici solazzi, che si tirò
dietro in Roma e per le provincie l'amore e il plauso di tutti i
popoli. Ma specialmente divenuto proconsole dell'Africa, a tal segno
si diede a conoscere la di lui giustizia, moderazione e prudenza, che
quei popoli il riguardavano come lor padre, nè mai cotanto amore
aveano portato ad alcuno dei suoi antecessori. Gli davano il nome di
Catone, di Scipione e di altri insigni Romani.

Ora il buon vecchio, ancorchè, contra sua voglia, e per non poter di
meno, avesse accettate le imperiali insegne, pure, considerando che
sbrigata era la sua vita sotto il crudel Massimino, a cui non parrebbe
mai innocente un tal fatto, altro ripiego non seppe trovare che quello
di cercare di assodarsi il meglio che poteva sul trono, giacchè troppo
pericolo era il discenderne. Dichiarato dunque Augusto _Marco Antonio
Gordiano_ suo figliuolo, che da alcuni vien creduto chiamato _Marco
Antonino_, s'inviò a Cartagine, dove fu solennemente riconosciuto
Imperadore. Fra le ragioni che muovono me a credere succeduta in
quest'anno la di lui assunzione al trono, a me par decisiva quella di
Erodiano[1895], che asserisce accaduta tal novità _terminato l'anno
terzo dell'imperio di Massimino_; il che solamente accadde nel
presente anno. Fu ben di parere il padre Pagi[1896] che tal frase si
abbia da intendere _mentre correva il terzo anno di Massimino_; ma
conveniva recar esempli chiari comprovanti il suo assunto: il che egli
non ha fatto. Secondo la comune significazione, Erodiano parla di un
_terzo anno finito_, e non già cominciato o corrente. Furono dagli
Africani abbattute le statue di Massimino, ed alzate quelle de' due
Gordiani Augusti, i quali furono e son tuttavia chiamati Africani.
Spedirono essi immediatamente a Roma un'ambasciata. Non so se fra gli
ambasciatori si trovasse _Valeriano_, uno de' primarii senatori, che
fu poi imperadore, o pure s'egli fu quello che accolse in Roma quegli
ambasciatori. Esponevano essi quanto era succeduto, e pregavano il
senato di confermar la loro elezione[1897]. Nel tempio de' Castori
raunato il senato nel dì 27 _di maggio_, furono lette le lettere dei
Gordiani da _Giunio Sillano console_, sostituito insieme con
_Gallicano_ nel presente anno, e non già nel precedente, ai due
consoli ordinarii. Con sonore acclamazioni riconosciuti furono
Imperadori essi due _Gordiani_, e dichiarato nemico pubblico
_Massimino_ col figliuolo. Prima nondimeno di divolgar le lettere, e
di tener la suddetta assemblea, finto fu che venissero spediti da
Massimino alcuni sgherri a _Vitaliano_ prefetto del pretorio, uomo
crudelissimo, con lettere ed ordine di dirgli a bocca in segreto cose
d'importanza. Ammessi costoro nel di lui gabinetto, mentre egli
osservava i sigilli delle lettere, lo ammazzarono, con far poi credere
ai soldati, ciò essere stato comandamento di Massimino, solito a far
di questi servigi a' suoi ministri. Renduto poi pubblico il decreto
del senato, e sparsa voce fra il popolo che Massimino era stato
ucciso, che i Gordiani promettano un gran congiario alla plebe e un
suntuoso donativo ai soldati, si levò esso popolo a rumore, abbattè le
statue e le immagini di Massimino, e scaricò il suo furore addosso a
varii suoi uffiziali ed amici, e specialmente infierì contro le spie e
gli accusatori che si baldanzosamente esercitavano in addietro
l'infame lor mestiere. Molli innocenti ancora vi perirono; e perchè
_Sabino_, prefetto di Roma, volle mettervi freno, restò anch'egli
ucciso. Diede poscia il senato incumbenza a venti senatori, già stati
consoli, di andar a difendere i confini dell'Italia contro gli sforzi
che potesse far Massimino. Scrissero a tutte le provincie, anche fuori
d'Italia, esortando ognuno di prender l'armi in favor de' Gordiani e
contra di Massimino. I più ubbidirono; altri per paura se ne
guardarono, ed uccisero o mandarono a Massimino i messi del senato.

Appena la novità dell'Africa accadde, che per corrieri espressi ne fu
portato il doloroso avviso a Massimino[1898]. Sopraggiunse poi l'altra
di quanto era accaduto in Roma. Allora uscì così fattamente in ismanie
quel fiero Augusto, con dar del capo nelle pareti, gittarsi in terra,
stracciarsi le vesti, imbrandire la spada, come se volesse uccidere il
senato: che non più uomo, ma un forsennato, una bestia parea. Se non
usciva di là suo figliuolo, fu creduto che gli avrebbe cavato gli
occhi, tanto era infuriato anche contra di lui, perchè sul principio
del suo governo volle mandarlo a Roma, ed egli, per l'amore che
portava al padre, non si seppe mai staccare da lui. _Se foss'ito_,
dicea Massimino, _non sarebbe avvenuto quel che ora intendiamo_.
Affogata poi col vino la conceputa rabbia, nel dì seguente arringò i
soldati[1899], vomitando quante ingiurie mai seppe contra dei Gordiani
e del senato romano; ed ordinò la marcia dell'esercito verso l'Italia
con tal fretta, che appena diede un sol dì di tempo per prepararsi al
viaggio. Oltre alla poderosa armata dei Romani, seco ancora menò
assaissime schiere di Tedeschi presi al suo servigio, e mandò innanzi
le coorti della Pannonia. Marciaron tutti, quando arrivarono
dall'Africa nuove di gran consolazione per Massimino. Era suo
procuratore nella Numidia _Capelliano_ dell'ordine senatorio. Gli
venne ordine fuor di tempo dal vecchio Gordiano di dimettere la
carica. Irritato costui pensò tosto a vendicarsene. Aveva egli sotto
il suo comando un corpo di brave soldatesche, assai pratiche del loro
mestiere, perchè affinate nella guerra continuamente fatta coi Barbari
di quelle contrade. Con questa gente, accresciuta da un possente
rinforzo di Numidi, tutti spertissimi arcieri, s'inviò alla volta di
Cartagine. Grande fu lo spavento non men de' Gordiani che di quel
popolo, perchè non aveano truppe regolate da opporre. Tuttavia diede
all'armi quella gran città, uscirono a folla i cittadini, per assalire
i nemici, avendo alla lor testa Gordiano minore Augusto. Si venne ad
un'aspra battaglia, in cui, quantunque i Cartaginesi fossero di lunga
mano superiori di numero ai nemici, pure, per la poca loro perizia nei
combattimenti, furono sconfitti con grave loro strage. Vi perì lo
stesso Gordiano secondo in età di quarantasei anni, e fra la
moltitudine dei cadaveri il suo non si potè poi rinvenire. Ciò inteso
dal vecchio Gordiano suo padre, per disperazione, e per non cadere in
man de' nemici, secondo Capitolino[1900], si strangolò, dando fino
anch'egli alla vita e all'imperio. Vuole Erodiano[1901] che egli
morisse prima del figliuolo; ma più probabile sembra su questo punto
il racconto di Capitolino. Entrato in Cartagine Capelliano, con gran
macello di gente, spogliò i templi, e fece un mondo di mali anche in
altre città. All'avviso di così inaspettata mutazion di cose,
Massimino, ch'era in viaggio, si rincorò forte. Chiunque poi ben
prenderà il filo di tali avvenimenti, conoscerà essere guasto il testo
di Capitolino, dove scrive che questi due Gordiani tennero l'imperio
_un anno e sei mesi_. Se Massimino, appena udita la loro esaltazione,
si mise in viaggio per venire in Italia, e prima di giugnere ad
Aquileia ne intese la lor caduta, come può mai stare che sì lungamente
regnassero i Gordiani? Però saggiamente il Panvinio[1902] ed altri han
tenuto che il loro imperio non durasse più d'un mese e sei dì, ed
altri han creduto due mesi e qualche giorno.

Allorchè si seppe in Roma l'infelice morte dei due Gordiani,
incredibil fu la agitazione degli animi e lo spavento di ognuno al
vedersi tolti coloro, nei quali era riposta la comune speranza, e al
prevedere gl'immensi mali che si poteano aspettare da Massimino,
principe di sua natura sì sanguinario, e tanto più perchè irritato
dalla ribellione di Roma. Era fatto il primo passo, convenne fare il
secondo, per difendersi fino all'ultimo[1903]. Raunato dunque il
senato nel tempio di Giove Capitolino a porte chiuse, oppure in quello
della Concordia, elesse due nuovi imperadori, cioè _Marco Clodio
Pupieno Massimo_ e _Decimo Celio Balbino_, senatori di gran credito ed
abilità. Il primo, cioè _Massimo_, chiamato _Pupieno_ da altri, perchè
avea tutti e due questi cognomi, era di bassa nascita; ma il merito
acquistato da lui col valore e colla prudenza nel mestiere della
guerra lo avea fatto salire di grado in grado fino a quel di generale,
esercitando il quale nell'Illirico e nella Germania, quanto si era
renduto formidabile ai Sarmati e Germani, altrettanto s'era fatto amar
dai soldati. Alzato al posto di senatore, fu pretore, console, poi
proconsole nella Bitinia, nella Grecia e nella Gallia Narbonese, e
finalmente era stato prefetto di Roma; personaggio savio, attivo e
severo non poco, anzi creduto di genio aspro, e rigoroso esattore del
giusto. _Balbino_, all'incontro, discendeva da famiglia antica e
nobilissima: era stato due volte console; avea governato con lode
varie provincie; amato da ognuno pel suo natural buono, per la sua
affabilità e pel buon uso delle morte sue ricchezze[1904]. Erano
allora consoli sostituiti _Claudio Giuliano_ e _Celso Eliano_, il
consolato de' quali, secondo me, appartiene all'anno presente, e non
già al precedente, come altri ha creduto. Un altro errore è corso
nella vita di questi due imperadori, descritta da Capitolino[1905].
Sul principio di essa si legge che la loro elezione seguì _septimo
kalendas junii_, cioè nel dì 26 di maggio, mentre si facevano i
_giuochi apollinari_. Noi abbiam veduto di sopra dirsi da lui che i
Gordiani furono confermati Augusti dal senato romano _nel dì 27 di
maggio_ di questo anno; ed essendo succeduta nel medesimo anno la
morte de' Gordiani, e l'innalzamento di Pupieno Massimo e di Celio
Balbino, perchè la nuova ne fu portata a Massimino durante il suo
viaggio, e prima ch'egli entrasse in Italia, per conseguente è fallato
il testo di Capitolino. Oltre a ciò, ha osservato il padre Pagi[1906]
che i _giuochi apollinari_ si celebravano _septimo idus julii_; e però
si dee credere che Capitolino asserisse eletti questi due novelli
Augusti _nel dì 9 di luglio_, non già dell'anno antecedente, come si
figurò esso padre Pagi, ma bensì del presente. Proposta dipoi al
popolo la loro elezione, grande apprensione ebbe la plebe del genio
severo di _Pupieno Massimo_, e però coll'armi e con le grida si
opposero. Trovato fu il ripiego di quetarli con crear Cesare _Marco
Antonio Gordiano_, che alcuni dicono nipote del vecchio Gordiano, e
figliuolo del secondo, ed altri nato da una figliuola del primo
Gordiano. Erodiano è di questo ultimo parere. L'età di questo _terzo
Gordiano_, il quale si trovava allora in Roma, e fu accolto con
giulive acclamazioni, restò dubbiosa anche presso gli antichi. La più
verisimile opinione è ch'egli fosse in età di circa dodici anni.

Non si perdè tempo in Roma ad unire quante milizie si potè per marciar
contra di Massimino[1907]; e _Pupieno Massimo_ Augusto, siccome
persona di sperimentata buona condotta nel comando dell'armi, fu
prescelto per capo della armata. Ma, prima di muoversi, convenne
soddisfare alla superstizion de' Romani, presso i quali non solevano
andare alla guerra gl'imperadori, se prima non aveano dato al popolo
un combattimento di gladiatori, acciocchè i soldati si avvezzassero al
sangue, o si ottenesse il favore della dea Nemesi. Questo fu fatto,
siccome ancora altri giuochi nei teatri e nel circo. Dopo di che
Pupieno Massimo s'inviò contra di Massimino, e si fermò a Ravenna, per
far quivi maggior massa di gente e preparamenti per resistere al
ciclope[1908]: così egli nominava Massimino[1909]. Mandò ancora il
senato per tutte le provincie e città che aveano alzata bandiera
contra del tiranno, personaggi consolari, ed altri già stati pretori,
questori, edili, ec., con ordine di fortificar le città capaci di
difesa, provvederle d'armi e vettovaglie, e d'introdurvi tutto il
grano delle campagne, acciocchè mancasse la sussistenza allo arrivo di
Massimino. Allorchè pervenne ad esso Massimino la nuova dei novelli
due imperadori, conobbe chiaro che l'odio del popolo romano era
irreconciliabile contra di lui, e però doversi riporre tutte le sue
speranze nella forza. Sollecitata dunque più che mai la marcia del suo
esercito, che tuttavia era fuori della Italia, giunse ad Emona città
dell'Istria, e la trovò abbandonata da quegli abitanti. Il non aver
essi lasciata ivi vettovaglia alcuna diede da mormorare ai di lui
soldati, i quali, dopo tante marcie sforzate e patimenti del viaggio,
si erano lusingati di trovar le tavole imbandite, anzi le delizie ai
confini dell'Italia. Il peggio fu, che, continuato il viaggio, ebbero
avviso, qualmente Aquileia, città allora assai vasta, ricca e
popolata, ed una delle più riguardevoli del romano imperio, avea
chiuse le porte, e s'era accinta alla difesa. Prima d'imprendere
l'assedio di quella città, mandò Massimino uffiziali a parlare a quel
popolo, per esortarlo alla pace: al qual fine furono adoperate
promesse e parole le più belle del mondo. Ma dentro v'erano _Menofilo_
e _Crespino_, uomini consolari, che meglio seppero parlare e ritenere
il vacillante popolo dall'aprir le porte al nemico, con avere
spezialmente finto che Apollo Beleno, singolarmente ivi onorato,
avesse, per mezzo degli aruspici, predetto che Massimino resterebbe
vinto. Fu di avviso il padre Pagi che questo assedio si facesse in
tempo di verno: e il cardinal Noris cita Erodiano[1910] là dove scrive
che il fiume Isonzo era grosso per le nevi delle montagne, le quali
dopo un lungo verno si disfacevano, deducendo da ciò che l'assedio si
facesse nel principio del mese di marzo. Ma le nevi delle alte
montagne più tardi si disfanno, e tanto più dovettero tardare dopo un
lungo verno, e però nè pure al giugno e luglio non disconviene
l'essere tuttavia ricchi d'acque i fiumi. Passò Massimino coll'armata
quel fiume,, volendosi di botti vuote, o pur di quei vasi, ne' quali
si portano l'uve alla città; e poi strinse d'assedio Aquileia.

Mentre queste cose succedeano, un lagrimevole accidente occorse in
Roma diffusamente narrato da Erodiano[1911]. Due soldati pretoriani di
que' pochi che restavano in Roma, mossi da curiosità d'intendere ciò
che si trattava nel senato, entrarono dentro, e s'inoltrarono sino
all'altare della Vittoria. _Giuliano_, che poco fa era stato console
(non so se diverso dai due sostituiti soprannominati, o pure l'un
d'essi), e _Mecenate_, uno de' senatori, piantati nel petto di que'
due soldati i lor pugnali, li stesero morti a terra. Fuggirono gli
altri pretoriani al quartiere, e quivi rinserrati aspettavano il tempo
di vendicarsi. Uscito Giuliano, commosse il popolo e i gladiatori
all'armi contra de' pretoriani: laonde tutti in folla corsero al
castello pretorio, credendosi di poterlo superare, e di ingoiare i
pretoriani. Ma furono ben ricevuti dalle lor freccie e picche, in
maniera tale, che, vegnendo la sera, se ne tornarono confusamente
entro la città, riportando solamente delle ferite da quel conflitto.
Allora, spalancate le porte del pretorio, ne uscirono i soldati, e
diedero addosso a quella disordinata moltitudine, con farne grande
strage, e massimamente de' gladiatori. Irritato sempre più il popolo
romano per questa grave percossa, cercò aiuto, e continuò pei più
giorni a far guerra al pretorio, non sapendo sofferire che un mucchio
di soldati tanto inferiori di numero facesse sì lunga resistenza.
Tolsero anche gli acquidotti al pretorio, ma allora que' soldati,
mossi dalla disperazione, tornarono fuori, e colle spade alle reni
inseguirono il popolo fin dentro la città, con ucciderne molti.
Trovandosi ivi con isvantaggio, perchè dalle finestre e dai tetti
fioccavano i sassi e le tegole, s'avvisarono di mettere il fuoco a
varie case. Per disavventura s'andò sì fattamente dilatando
l'incendio, che non poca parte della città ne rimase disfatta: ed
unitasi coi soldati tutta la feccia de' cattivi, diede un fiero
saccheggio alle case de' benestanti. Non v'era giorno che _Balbino
Augusto_, rimasto al governo di Roma, non mandasse fuori qualche
editto, per quetare, se mai era possibile, sì gran turbolenza, e
pacificare il popolo coi pretoriani; ma nè gli uni nè gli altri
l'ubbidivano. E benchè in persona molte volte si sforzasse di fermar
quel furore, nulla ottenne, anzi gli fu gittato un sasso; ed altri
scrisse che gli arrivò una bastonata addosso[1912]. L'unico mezzo per
ismorzar quell'izza fu di condurre in pubblico il giovinetto _Gordiano
Cesare_, alla cui visita tanto il popolo che i soldati (perchè era
amato da ognuno) si placarono, e formarono una specie di concordia, o,
per dir meglio, di tregua, perchè vera pace non fu.

Avea ben Massimino cominciato l'assedio di Aquileia, perchè gli pareva
troppo disonore il continuar il viaggio verso Roma, lasciando indietro
disubbidiente la prima città d'Italia ch'egli incontrava, e città di
tanto riguardo[1913]. Ma ebbe ben tosto ad arrabbiare al vedere la
valorosa difesa dei cittadini sì uomini che donne e fanciulli, i quali
con bitumi accesi accoglievano chiunque veniva all'assalto, bruciavano
le macchine nemiche, e magagnavano continuamente con sassi e fuoco i
più arditi del campo nemico. Però quanto più cresceva il coraggio agli
assediati, sino a farsi dalle mura le più grande beffe di Massimino,
tanto più calava l'animo agli assedianti. Poteano ben quanto voleano i
due Massimini montati a cavallo girar per le schiere, animando
ciascuno alla bravura e agli assalti: tutto era indarno. Allora
l'iniquo Massimino, giacchè non potea infierir contro gli Aquileiesi,
sfogò il suo sdegno contra di alcuni dei proprii capitani, imputando
loro di mantener intelligenza co' nemici, e di non far molto, perchè
nulla intendeano di fare; e li fece morire. Questa ingiustizia alienò
da lui l'animo di moltissimi soldati. Si aggiunse che mancava la
vettovaglia al campo per gli uomini e cavalli, dappoichè Pupieno
Massimo avea fatto ridurre nelle città forti tutti i viveri, e
vietatone per mare e pe' fiumi il trasporto. Bestemmiava per questi
patimenti la sua armata, ed erano anche tutti mesti e scorati per le
nuove, probabilmente da Pupieno Massimo fatte spargere, che tutto il
popolo romano era in armi, tutte le provincie romane, e fino i Barbari
congiurati contra di Massimino. Pertanto una brigata di soldati,
solita ad aver quartiere vicino a Roma nel monte Albano, e che
militava allora nel campo di Massimino, ricordevole delle mogli e de'
figliuoli lasciati nella stessa Roma, determinò di finir la tragedia.
Verso il mezzodì tutti attruppati andarono al padiglione di Massimino,
ed essendo di accordo colle guardie, levarono dalle bandiere le
immagini di lui. Usciti Massimino e il figliuolo per placarli,
rimasero tagliati a pezzi, correndo il quarto anno del loro imperio.
Lo stesso trattamento fu fatto al prefetto, e a qualunque altro de'
confidenti de' Massimini. Furono i lor cadaveri lasciati ai cani; le
sole teste inviate per alcuni corridori a Roma. Dispiacque forte la
morte di questi due tiranni ai soldati della Tracia; ma il fatto era
fatto. Trattò allora l'esercito di entrare amichevolmente in Aquileia;
ma quel popolo non amando ospiti tali, solamente dalle mura gli andava
somministrando de' viveri, e seguitò a tener chiuse le porte. Intanto
i corridori destinati a portar le teste dei tiranni a Roma, passarono
in barca le paludi formate dall'Adige, dal Po e da altri fiumi da
Altino sino a Ravenna, e chiamate Sette Mari, e con altro nome la
Padusa. Trovato in Ravenna _Pupieno Massimo Augusto_, che ivi
attendeva ad ingrossarsi di gente, recarono a lui e a tutti i
Ravegnani un immenso giubilo colla inaspettata felicissima nuova di
essere liberato il romano imperio dai due formidabili tiranni. Allora
Pupieno Massimo volò ad Aquileia, ricevuto da quella città con
indicibil plauso. Concorsero a lui ambascerie dalle città vicine,
tutte per congratularsi, e l'armata stessa di Massimino in abito di
pace e con corone di alloro in capo, mostrò di accomodarsi alla
presente fortuna, prorompendo in liete acclamazioni, ma internamente
covando del veleno, per vedersi assoggettata ad un imperadore eletto
dal senato, e non da loro. Fece Pupieno Massimo una bella aringa a
costoro con promessa di un grosso regalo; e diviso quell'esercito,
mandò ogni legione alla sua provincia, e pochi dì fermatosi in
Aquileia con varie schiere, colla guardia de' Germani, ne' quali più
confidava, si rimise in viaggio, e tornossene a Roma.

Fu così sollecito per le poste il viaggio di coloro che portavano le
teste dei due Massimini, che da Aquileia in quattro dì giunsero a
Roma[1914]. Perchè era giorno di giuochi, si trovavano allora al
teatro _Balbino Augusto_, il giovine _Gordiano Cesare_, e il popolo;
ed appena comparvero que' messi, che il popolo gridò: _Massimino è
ucciso_. Verificatosi il fatto, ebbero tutti ad impazzir per la gioia.
Tosto si raunò il senato, furono fatte le acclamazioni agl'Imperadori;
determinato che _Pupieno Massimo_ e _Balbino_ Augusti fossero consoli
nel resto dell'anno, e che in luogo di Massimino fosse sostituito
_Gordiano Cesare_. Riconosce lo stesso padre Pagi[1915], voler dire
queste parole che Massimino avea prima della ribellione disegnato sè
stesso console per l'anno venturo 239, e che, venuta la nuova di sua
morte, il senato disegnò console per esso anno Gordiano terzo. Adunque
egli dovea riconoscere ancora che non era per anche nata la ribellione
dei due Gordiani Africani nel principio dell'anno presente, in cui si
soleano disegnare i consoli per l'anno prossimo; nè doversi riferire
al precedente anno la esaltazione e morte di essi due Gordiani, e la
creazione di Pupieno Massimo e di Balbino. Tutte queste scene nel solo
presente anno avvennero; e chi inoltre ben rifletterà ai frettolosi
passi di Massimino, troverà confermata la medesima verità. Arrivato
vicino a Roma Pupieno Massimo, ebbe l'incontro di Balbino, di Gordiano
terzo, e del senato e popolo romano, e gran festa fu fatta; ma in
faccia ai soldati altro non si leggeva che malinconia; e per altro
verso cominciò ad apparire nebbia di dissensione fra gli stessi
regnanti. Cioè, quantunque i due Augusti attendessero con somma
moderazione e zelo al buon governo sì civile che militare, pure fra
loro si scorgeva della gelosia e poco buona armonia. _Balbino_
sprezzava _Pupieno Massimo_, perchè bassamente nato; e _Massimo_ non
istimava l'altro, perchè non era suo pari nel valore dell'armi. Di
questa discordia avvedutisi gl'infelloniti soldati, specialmente i
pretoriani, conobbero che non era tanto difficile l'atterrar due
imperadori da loro mal voluti, perchè alzati senza di loro al trono, e
perchè sempre erano in sospetto di essere degradati, come avvenne a'
tempi di Severo Augusto[1916]. Ora, allorchè si celebrarono i giuochi
scenici, o pure, come vuole Erodiano[1917], i capitolini, furiosamente
vennero i pretoriani al palazzo. Pupieno Massimo, che fu il primo ad
accorgersi di questo nuvolo minaccioso, mandò, e dipoi andò anche in
persona a Balbino, perchè si facessero venire in aiuto loro i soldati
germani. Qui saltò di nuovo in campo la gelosia. Balbino, per sospetto
che l'altro li chiamasse per farsi solo imperatore, non acconsentì, e
vennero a parole fra loro: quando ecco, forzate le porte e le guardie,
arrivar loro addosso i pretoriani, spogliarli, e menarli fuori, con
istrappar loro la barba, batterli e caricarli d'ingiurie. Volevano
condurli al loro quartiere, per quivi finirli; ma inteso che i Germani
prendevano l'armi per soccorrerli, in mezzo alla strada gli svenarono
amendue (non ne sappiamo nè il giorno nè il mese), e preso seco il
giovanetto _Gordiano terzo_ acclamato _Imperadore_ da essi, andarono a
rinserrarsi nella fortezza pretoria. E tal fu l'infelice fine di
questi due Augusti, degni certamente per le belle doti loro di miglior
fortuna, colla morte dei quali Erodiano termina la storia sua. Rimasto
_Gordiano III Cesare_, dopo tante tragiche scene, solo ed amato non
men dal popolo che dai soldati, tuttochè, secondo Erodiano[1918], egli
non avesse che tredici anni di età, fu riconosciuto da tutti
_Imperadore romano_.

NOTE:

[1892] Pagius. Relandus. Stampa et alii.

[1893] Thesaurus Novus Inscription., pag. 360.

[1894] Herodianus, lib. 7. Capitol., in Maximino seniore et in
Gordian.

[1895] Herodianus, lib. 7.

[1896] Pagius, in Crit. Baron.

[1897] Capitolin., in Maximino seniore. Herodian., lib. 7.

[1898] Capitolinus, in Maximino seniore.

[1899] Herod., lib. 5.

[1900] Capitol., in Gordiano seniore.

[1901] Herod., lib. 7.

[1902] Panvin., Fast. Cons.

[1903] Herodian., lib. 7. Capitol., in Maxim. et Balbin.

[1904] Capitol., in Maxim. et Balbin.

[1905] Capitol., in Maximin. seniore.

[1906] Pagius, Crit. Baron., ad annum 236.

[1907] Capitol., in Maximo et Balbin.

[1908] Idem, ibid.

[1909] Herodian., lib. 5.

[1910] Herodianus, lib. 8.

[1911] Herodianus, lib. 8.

[1912] Capitol., in Maximo et Balbino.

[1913] Herodianus, lib. 7. Capitol., in Maximino seniore.

[1914] Capitol., in Maximino seniore.

[1915] Pagius, Crit. Baron., ad annum 239.

[1916] Capitol., in Maximo et Balbino.

[1917] Herodianus, lib. 8.

[1918] Herodianus, lib. 8.




    Anno di CRISTO CCXXXIX. Indizione II.

    FABIANO papa 4.
    GORDIANO III imperadore 2.

_Consoli_

MARCO ANTONIO GORDIANO AUGUSTO e MANIO ACILIO AVIOLA.


In una iscrizione riferita dal Doni e da me[1919] apparisce che tal fu
il prenome e nome del secondo console, cioè di _Aviola_. Già dicemmo
che _Gordiano III_ era stato nell'anno precedente disegnato console.
Portava egli lo stesso nome dell'avolo e del padre Augusto, cioè
_Marco Antonio Gordiano_; perchè nato da una figliuola di _Gordiano
I_, fu verisimilmente adottato da lui, o pure da _Gordiano II_ suo zio
materno, benchè Desippo e un altro antico storico il facciano
figliuolo di _Gordiano II_. Il che se fosse, sarebbe stato solamente
figlio naturale; perchè, per attestato di Capitolino[1920], il secondo
dei Gordiani non ebbe mai moglie legittima, e se la passava con
ventidue concubine. Il vedere che sua madre, tuttavia vivente dopo
l'esaltazion del figliuolo, non vien nominata da alcuno Augusta,
potrebbe servire per farla credere di bassa sfera, e non sorella, ma
concubina di Gordiano II. Questo principe vi fu alcun degli
antichi[1921] che il pretese nominato _Antonino_; opinione che pare
confermata da qualche marmo; ma il più sicuro suo nome è quello di
_Antonio_. Era questo giovinetto principe bello di aspetto, di umore
allegro, affabile con tutti, amabilissimo; avea studiato lettere;
tante in somma erano le sue belle doti, che faceano a gara il senato,
il popolo ed i soldati ad amarlo, dandogli il titolo di lor figliuolo,
e chiamandolo la lor delizia. Altro non gli mancava, per ben governar
l'imperio, che l'età e la sperienza degli affari; poichè per la buona
volontà non la cedeva ad alcuno. Creato dunque che egli fu _Augusto_,
cessarono tutti i tumulti e le brighe di Roma, si pacificarono i
soldati col popolo, e cominciò ognuno a goder del riposo e dei
solazzi, studiandosi di dimenticare i tanti affanni patiti dopo la
morte del buon imperadore Alessandro. Racconta il suddetto
Capitolino[1922], che, tolto di vita il crudo Massimino, i Parti, cioè
i Persiani, minacciavano guerra in Oriente; e che i Carpi e gli Sciti
l'aveano già mossa contro le due Mesie, provincie dell'imperio romano,
con farvi gran danno. Perciò nel precedente anno era già stabilito che
_Pupieno Massimo_ andrebbe in Levante per opporsi ai tentativi de'
Persiani, e che _Balbino_ con altra armata passerebbe il Danubio, per
far fronte ai Barbari, con lasciare il giovane _Gordiano_ al governo
di Roma. Ma Iddio altramente dispose, e convien pensare che non fosse
grande nè il pericolo, nè il bisogno, perchè in questo anno si godè
buona pace in Roma, nè si sa che l'imperio romano patisse scossa o
molestia alcuna in quelle contrade. Che questo novello Augusto
_Gordiano_, per maggiormente procacciarsi l'amore del popolo e delle
milizie, usasse loro un gran regalo, come si praticava dai nuovi
principi, si ricava dalle monete[1923] d'allora, nelle quali è
mentovata la prima _liberalità_ di questo Augusto.

NOTE:

[1919] Thes. Inscript., p. 361, n. 1.

[1920] Capitol., in Gordiano III.

[1921] Lampridius, in Elagabalo.

[1922] Capitolin., in Maxim. et Balbino.

[1923] Mediobarb., in Numism. Imperator.




    Anno di CRISTO CCXL. Indizione III.

    FABIANO papa 5.
    GORDIANO III imperadore 3.

_Consoli_

SABINO per la seconda volta e VENUSTO.


Questo _Sabino_ console verisimilmente è quello che, dopo la morte dei
due Gordiani, propose in senato di eleggere imperadori Pupieno Massimo
e Balbino, ed appresso fu creato prefetto di Roma. Quando ciò si
ammettesse, dicendo Capitolino[1924] ch'egli era della famiglia degli
Ulpii, la stessa che quella di Traiano, converrebbe chiamarlo _Ulpio
Vettio Sabino_. Godevasi in Roma una invidiabil tranquillità, quando
vennero nuove dall'Africa[1925] che s'era fatta ivi un'unione di
malcontenti e ribelli contra dell'Augusto Gordiano, e capo di essi era
un certo _Sabiniano_. Colà inviò Gordiano un rinforzo di gente, con
cui il governatore della Mauritania, dianzi assediato dai congiurati,
talmente ristrinse coloro, che gli obbligò a venire a Cartagine, a
dargli legato il lor condottiero Sabiniano e a chieder perdono: il che
loro conceduto, si quietò tutto il rumore. Ma il testo di Capitolino
alquanto confuso non ci lascia ben discernere come passasse quella
faccenda, nè s'accorda con Zosimo[1926], quale pretende che il popolo
di Cartagine avesse proclamato Imperadore lo stesso _Sabiniano_, senza
che altro si sappia di lui. Da una legge di Gordiano si ricava che in
questi tempi era prefetto del pretorio un _Domizio_.

NOTE:

[1924] Capitolin., in Maximo et Balbino.

[1925] Capitol., in Gordiano III.

[1926] Zosimus, Hist., lib. 1.




    Anno di CRISTO CCXLI. Indizione IV.

    FABIANO papa 6.
    GORDIANO III imperadore 4.

_Consoli_

MARCO ANTONIO GORDIANO AUGUSTO per la seconda volta e CIVICA
POMPEIANO.


Se non mi ritenesse una iscrizione greca rapportata dal Reinesio[1927]
e presa da quelle del Ligorio, in cui si legge console con Gordiano
Augusto _Pompeiano Civica_, io non gli darei il nome di _Civica_, nè
mi fiderei di un'altra del Gudio, dove questo console è appellato
_Civica Pompeiano_. Posto nondimeno ch'egli usasse questi due cognomi,
almen certo sarà che fu personaggio diverso da Pompeiano veduto da noi
console nell'anno 231, perchè qui non vien chiamato console per la
seconda volta. Guasto sarà il testo di Capitolino[1928], dove ha il
nome di _Popiniano_, avendo noi troppe testimonianze di leggi e di
marmi che _Pompeiano_ fu il suo cognome. Abbiam già veduto di sopra
come _Artaserse_ avea ristabilito la monarchia de' Persiani. Dopo la
guerra a lui fatta da Alessandro Augusto stettero per qualche tempo
quieti quei popoli; ma, defunto Artaserse, divenne _Sapore_ suo
figliuolo successore non men dei regni che dell'ambizione del padre.
La Mesopotamia posseduta dai Romani, siccome sottoposta una volta al
dominio persiano, tosto fu l'oggetto delle superbe sue mire.
Eutichio[1929] il loda per la sua giustizia; Agatia[1930] cel descrive
tutto il rovescio, uomo crudele, sanguinario, implacabile e di maniere
affatto tiranniche. Entrò costui con formidabil esercito sui principii
del suo governo nella Mesopotamia; prese Carre ed altre città
circonvicine, e mise l'assedio a quella di Nisibi. Fabbricato quivi un
castello alto presso le mura di quella città, continuamente infestava
quegli abitanti, i quali erano già vicini a rendersi, quando gli
convenne per urgente bisogno ritornar coll'armata nelle sue contrade.
S'accordò co' cittadini di Nisibi, che se promettessero di lasciare in
piedi quel castello fino al suo ritorno, egli se ne andrebbe. Ma non
sì tosto fu partito, che i Nisibini con fossa e muro nuovo chiusero
quel castello nella città. Tornato poi Sapore, e rinnovato l'assedio
con impadronirsi di Nisibi, fiera strage fece di parte di quel popolo,
e il resto condusse in ischiavitù con immenso bottino. I progressi di
questo ferocissimo re fecero paura fino all'Italia. Applicossi perciò
con tutto vigore il senato romano ad ammassar gente e danaro per
reprimere il borioso nemico, e fu determinato che il giovine
_imperador Gordiano_ in persona andrebbe a comandar l'armata, o, per
dir meglio, ad apprendere il mestier della guerra[1931]. Intanto si
pensò ad accasarlo, ancorchè, secondo i conti di Erodiano, non fosse
giunto per anche all'età di diciotto anni. La madre sua, da noi poco
conosciuta, probabilmente fu quella che gli trovò la moglie, cioè
_Furia Tranquillina Sabina_, così appellata nelle medaglie[1932] e in
alcune iscrizioni[1933], ma _Sabina_ in altre. Era essa figliuola di
_Misiteo_, uomo di competente nobiltà, ed allora solamente noto pel
suo sapere, per la sua eloquenza e prudenza, e non per impiego alcuno.
Altro non sappiamo di essa Tranquillina, se non che portò il titolo di
_Augusta_, senza apparire che da lei nascesse prole alcuna. Fu bensì
celebre _Misiteo_ suo padre, perchè divenuto suocero dell'imperadore e
creato prefetto del pretorio. Nè tardò egli a valersi della sua
autorità per dar sesto alla corte e mettere sul buon cammino lo
Augusto suo genero. Fin qui era stato il giovine Gordiano sotto il
governo della madre, che, poco avvertita, il lasciava aggirare a lor
talento dagli eunuchi della corte. Costoro lo allevarono in
divertimenti fanciulleschi e in bagattelle, e insieme d'accordo
vendevano la giustizia e i posti. Proponeva Mauro, uno di essi,
qualche risoluzione in lode o in biasimo di taluno. Sopra ciò chiedeva
Gordiano il loro parere a Gaudiano, Reverendo e Montano; ed approvando
questi la proposizion dell'altro, tutto si faceva. Per consiglio di
essi avea creato _Felice_ prefetto del pretorio, e data la quarta
legione a _Sarapammone_, uomini indegni di sì fatte cariche. L'erario
del principe caduto nelle griffe di queste arpie si trovava affatto
senza sangue. Venne a tempo il saggio Misiteo per liberar da peste sì
abbominevole l'Augusto suo genero. Abbiamo da Capitolino[1934] una
lettera da lui scritta ad esso Gordiano, in cui si rallegra di aver
medicate quelle piaghe, e di aver Gordiano allontanati da sè tali
ministri, congiurati contro l'onore di lui e contro il pubblico bene.
E Gordiano in altra lettera riconosce d'avere operato in addietro cose
che non erano da fare, dicendo, fra le altre cose, di _conoscere
oramai quanto sia infelice il principe posto in mano di gente, la
quale gli taccia il vero, e lo inganni col falso_. Però da lì innanzi
Gordiano volea saper tutto; e siccome principe di buon intendimento e
di miglior volontà, non lasciò indietro disordine alcuno conosciuto, a
cui non rimediasse, valendosi in tutto de' consigli del savio suo
suocero, a cui dava il titolo di padre. Per tale, e per tutore della
repubblica voleva che fosse riconosciuto anche dal senato: e
pubblicamente protestava che quel di bene che si faceva, tutto si
doveva attribuire a quel ministro d'onore ch'era toccato a lui per
suocero. In questa maniera non parve più governo di un giovane il suo;
e andò sempre crescendo l'amore del pubblico verso di esso Augusto. Un
gran tremuoto in questi tempi si fece udire, per cui traballarono
varie città, e si aprirono voragini con inghiottire gli abitatori.

NOTE:

[1927] Reinesius, Inscript., pag. 633.

[1928] Capitolinus, in Gordiano III.

[1929] Eutichius, Annal. Eccles.

[1930] Agathias, Histor., lib. 4.

[1931] Capitolin., in Gordiano III.

[1932] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[1933] Thesaurus Novus Inscription., pag. 251.

[1934] Capitol., in Gordiano III.




    Anno di CRISTO CCXLII. Indizione V.

    FABIANO papa 7.
    GORDIANO III imperadore 5.

_Consoli_

CAIO VETTIO ATTICO e CAIO ASINIO PRETESTATO.


_Caio Aufidio Attico_ si truova nominato il primo console in una
iscrizione del Grutero[1935]. Più ne restano dove è nominato _Vettio_,
e non _Aufidio_, e così pure si legge in un marmo riferito nella mia
Raccolta[1936]. Però è scorretta quella iscrizione, o pur egli portò
amendue quei nomi. Gran tempo era che non si praticava in Roma la
cerimonia di aprire e chiudere le porte del tempio di Giano, allorchè
si dava principio o fine alle guerre[1937]. Gordiano, già risoluto di
passare in Levante per opporre le forze romane a quelle de' Persiani,
le fece spalancare sul principio di quest'anno in segno di guerra.
Venuta poi la primavera, provveduto di una fiorita armata e di assai
danaro, imprese il viaggio per terra alla volta di Bisanzio, per di là
traghettare in Asia. Passato per la Mesia, trovò nella Tracia molti
nemici del romano imperio, verisimilmente Sarmati, Alani o altra simil
gente barbara: tutti, o gli sterminò, o li fece ritirar colla fuga ai
loro paesi. Seco era _Misiteo_ suo suocero, prefetto del pretorio, e
suo braccio diritto. La provvidenza e l'indefessa vigilanza di questo
uffizial comandante si facea ammirar da tutti. Non v'era alcuna città
considerabile ne' confini dell'imperio romano che non fosse provveduta
di tanto grano, aceto, lardo, orzo e paglia da poter mantenere per un
anno l'imperadore col suo esercito, se pure s'han così da interpretar
le parole di Capitolino: il che a me par difficile a credersi. Altre
aveano provvisione per due mesi, ed altre meno, a proporzione delle
lor forze. Essendo prefetto del pretorio, spessissimo visitava l'armi
dei suoi soldati; non permetteva che i vecchi militassero, nè si
arrolassero fanciulli. Ovunque si accampava l'armata, volea che il
campo fosse cinto di fosse, e di notte facea sovente la ronda. Questo
suo zelo pel pubblico bene riportava in premio l'amore di tutti, ed
era così amato e rispettato dagli uffiziali subalterni, che niun di
essi osava di mancare al suo dovere. Dopo l'acquisto della
Mesopotamia, _Sapore_ re di Persia più altiero che mai era entrato
colle sue armi nella Soria, e forse gli sarebbe riuscito agevole di
conquistarla interamente, se non fosse giunto l'Augusto Gordiano a
reprimere un sì potente avversario. Secondo le parole di Capitolino,
sembra che Antiochia fosse caduta in potere del re barbaro; e ne fa
dubitare anche una lettera scritta dal medesimo Gordiano al senato; ma
potrebbe essere che quella gran città solamente fosse assediata dai
Persiani, e ridotta agli estremi. Certo è almeno, che arrivato colà
Gordiano, la liberò dalle lor mani. Seguirono varii combattimenti: in
tutti cantarono la vittoria i Romani. Tal terrore misero questi
fortunati successi in cuor di Sapore e de' Persiani, che il più
frettolosamente che poterono si ritirarono di là dall'Eufrate. Ed
esser può che succedesse allora quanto racconta Pietro Patrizio[1938]
ne' frammenti delle ambascerie, cioè, che, avendo Sapore passato
l'Eufrate, si abbracciavano l'un l'altro i di lui soldati: tanta era
la lor gioia di avere scappato il gran pericolo, in cui si trovavano,
credendo ad ogni momento d'avere alle spalle le spade romane. Dovette
egli passare quel fiume verso Edessa posta di là; e però mandò messi
alla guarnigion romana di quella città, offerendo loro un grosso
regalo della sua moneta, se il volevano lasciar passare, fingendo
d'andare al suo paese, non per paura, ma per solennizzarvi una festa,
non sapendo probabilmente quei soldati che Gordiano avesse data ai
Persiani la mala ventura, o pure per la gola del regalo, il lasciarono
passare senza molestia alcuna. Il resto delle imprese di Gordiano io
riferirò all'anno seguente, perchè non ci consta se nel presente o nel
susseguente egli ripigliasse la fortezza di Carre, e vittorioso
arrivasse fino alla città di Nisibi, città della Mesopotamia, la quale
ritornò anch'essa sotto l'aquile romane. Basterà per ora di dire con
Capitolino[1939], tale essere stata la paura del re persiano, che,
senza farsi pregare, abbandonò tutte le città tolte ai Romani, con
ritirarne i suoi presidii, consegnandole ai cittadini, senza usar
saccheggi o far loro altro danno.

NOTE:

[1935] Gruterus, Inscript., pag. 309, n. 7.

[1936] Thesaurus Novus Inscription., pag. 361, num. 3.

[1937] Capitolinus, in Gordiano III.

[1938] Petrus Patricius, Legation. Tom. I Hist. Byzant.

[1939] Capitolinus, in Gordiano III.




    Anno di CRISTO CCXLIII. Indizione VI.

    FABIANO papa 8.
    GORDIANO III imperadore 6.

_Consoli_

ARRIANO e PAPO.


O nell'anno precedente o in questo l'Augusto Gordiano finì di
rimettere sotto il comando suo e della repubblica romana le città
perdute della Soria e Mesopotamia[1940]. Ed allorchè fu a Nisibi,
scrisse al senato, ragguagliandolo de' suoi prosperosi avvenimenti, e
che sperava di far una visita al re Sapore nella stessa di lui
capitale, cioè in Ctesifonte; che perciò fosse lor cura di far dei
sacrifizii e delle processioni, di raccomandar lui agli dii, e di
ringraziar Misiteo prefetto e padre suo, perchè dalla buona e saggia
condotta di lui egli riconosceva tutta la felicità di quella impresa.
Perciò dal senato fu decretato il trionfo a _Gordiano_, e ch'egli
entrasse in Roma con cocchio tirato dagli elefanti, e potesse entrarvi
anche _Misiteo_ in carrozza trionfale tirata da cavalli, a cui fu
inoltre fatto incidere in marmo l'elogio suo. Ma eccoti ammalarsi
Misiteo per una dissenteria, e venir men la sua vita. Fu creduto dai
più che _Filippo_, il qual fu dipoi imperadore, ed avea gran paura
della severità di Misiteo, gli affrettasse la morte, coll'aver
guadagnati i medici che lo assistevano, e fattogli dare una medicina
contraria al di lui bisogno. Lasciò Misiteo erede di tutto il suo la
repubblica romana, e se ne morì, e con lui venne anche a morir la
fortuna del genero Augusto, perchè rimase senza guida ed appoggio. In
luogo suo fu creato prefetto del pretorio il suddetto _Marco Giulio
Filippo_, il quale poco tardò ad aprirsi la strada al trono imperiale
colla più detestabil ingratitudine, siccome vedremo all'anno seguente.
In questi tempi fiorì _Plotino_, insigne filosofo platonico, di cui
restano molte opere, e la sua vita compilata da _Porfirio_[1941], cioè
da un altro celebre filosofo, seguace anch'esso di Platone. Si mise
Plotino nell'esercito di Gordiano, allorchè fu per entrar nelle terre
di Persia, condotto dal desiderio di conferire i sentimenti suoi coi
filosofi persiani, ed era allora in età di trentanove anni.

NOTE:

[1940] Idem, ibid.

[1941] Porphyrius, in vita Plotini.




    Anno di CRISTO CCXLIV. Indizione VII.

    FABIANO papa 9.
    FILIPPO imperadore 1.

_Consoli_

PELLEGRINO ed EMILIANO.


Trovandosi all'anno 249 _Marco Emiliano_ console _per la seconda
volta_, verisimil cosa è ch'egli stesso procedesse console per la
prima nell'anno presente. Alla smoderata ambizion di _Marco Giulio
Filippo_ parve poco la dignità di prefetto del pretorio. I suoi voti
tendevano all'imperio, e l'arte, con cui egli vi arrivò, fu la
seguente[1942]. Mentre si trovava il romano esercito fra Nisibi e
Carre, in procinto di entrar nelle terre de' Persiani, segretamente
fece andare innanzi le navi che portavano i viveri destinati
all'armata, affinchè, mancando la sussistenza, nascesse qualche
sedizione contra del principe, siccome in fatti avvenne. Si trovavano
i soldati in luoghi privi d'ogni sussidio per la bocca; molti di essi
erano anche stati guadagnati ed istruiti da Filippo; e però cominciò a
trapelare, e poscia a prendere sempre più piede, la mormorazione
contra Gordiano, con dire che stava male l'imperio e l'esercito in
mano di un giovinetto inesperto, e doversi provvedere di un imperadore
che avesse testa e braccio. Passarono i sediziosi fino a chiedere che
Filippo fosse posto sul trono. Per quanta resistenza facessero gli
amici di Gordiano, convenne cedere al ripiego proposto dagli altri,
cioè che _Filippo_ anch'egli fosse dichiarato _Augusto_, e regnasse
come tutore di Gordiano. Così fu fatto. Resta qui molto scura la
storia. Fuor che Capitolino, niun altro scrittore fa menzione di
questa associazion dell'imperio. Si truovano le leggi date[1943] sul
principio di quest'anno da Gordiano solo: una di Filippo solo data nel
dì 14 marzo si vede. E pur ne comparisce un'altra del medesimo
Gordiano solo nel dì 25 di aprile, la cui data dal Doduello[1944] è
creduta guasta. Pretende il padre Pagi[1945] ciò succeduto perchè non
andavano insieme d'accordo Gordiano e Filippo, e cadaun comandava e
faceva leggi da sè: il che par difficile a credere, perchè tutti e due
si truovavano nel medesimo esercito, e bisognava che l'infelice
Gordiano stesse di sotto. Capitolino poi si contraddice, scrivendo che
Filippo, dopo di aver tolto di vita Gordiano, notificò al senato con
sue lettere la di lui morte, come succeduta per malattia, ed insieme
la elezion di sè fatta dai soldati; e che il senato, da queste lettere
ingannato, il riconobbe per Imperadore. Se prima egli fu dato collega
a Gordiano nella dignità imperiale, come non iscrisse allora al senato
per ottenerne l'approvazione? Si può perciò dubitare del racconto di
Capitolino, ed anche di altre particolarità ch'egli aggiugne. Cioè che
non potendo Gordiano sofferire di esser trattato con tanta alterigia
dal nuovo suo collega Filippo, uomo vilmente nato dalla pessima gente
degli Arabi[1946], e salito colle sue furberie tanto alto, quando esso
Gordiano era di nobilissima schiatta romana, nipote d'imperadori, ed
imperadore prima di lui: montò un dì sul tribunale, assisto da _Mezio
Gordiano_ suo parente, creato prefetto del pretorio, e fece un'aringa
ai soldati, sperando d'indurli a deporlo, con rappresentare loro la
stomachevole ingratitudine di costui. Furono gettate al vento le di
lui parole, perchè prevaleva la fazion di Filippo. Fece istanza che
fosse eguale fra loro l'autorità, ma ne pur questo ottenne. Si ridusse
a chieder di usar solamente il titolo di Cesare: poi di esser prefetto
del pretorio; ed in fine di calcare almeno il posto di uno de'
generali, purchè fosse salva la sua vita. Pareva che Filippo si
mostrasse inclinato a quest'ultimo partito; ma, riflettendo che un dì
o l'altro potrebbe risorgere l'amore portato dal senato e popolo
romano, anzi da tutto l'imperio, a questo giovane principe, e che i
soldati, ora adirati contro di lui per la fame, non istarebbono sempre
del medesimo umore; fece venire alla presenza sua il misero giovane,
spogliarlo ed ucciderlo. Certamente non si accorda questo racconto di
Capitolino coll'amore ch'egli dice portato da tutti e dai soldati
medesimi a Gordiano. E se Filippo era già imperadore, perchè non
provvide tosto alla fame dell'armata? Più perciò verisimile sembra che
Filippo fosse non imperadore, ma bensì tutore di Gordiano in luogo di
Misiteo, e ch'egli di poi barbaramente all'improvviso il privasse di
vita. Giuliano Apostata presso Ammiano Marcellino[1947] in una sua
aringa scrive, che avendo Gordiano data presso Resena, città
dell'Osroena, una rotta al re persiano, se ne tornava vittorioso,
quando fu oppresso da _Filippo prefetto_ del pretorio. Non dice da
Filippo già creato imperadore. Anche Zosimo[1948] lasciò scritto, che
trovandosi Gordiano fra Nisibi e Carre, Filippo fraudolentemente
lasciò affamare l'esercito, con disegno di abbattere Gordiano,
quasichè per colpa di lui avvenisse quel disordine, e di salir egli
poscia sul trono: il che gli venne fatto, con restare scannato
l'infelice Gordiano. Sembra più verisimile il racconto di questi
ultimi scrittori. Pare che la di lui morte accadesse verso il
principio di marzo, correndo il sesto anno del suo imperio. Una o due
medaglie[1949] parlano della di lui _tribunizia podestà VII_, il che,
secondo i conti del Pagi[1950], basta a far credere che egli toccasse
l'anno settimo dell'imperio. Ma queste possono essere state battute
prima che si sapesse la di lui morte in Europa; però il punto non è
chiaro, siccome ancora resta dubbiosa la di lui età, che alcuni fanno
di diecinove anni, ed altri fino di ventitrè. Fu poi onorevolmente
seppellito nel luogo della sua morte il di lui corpo. Eusebio[1951]
scrive che questo fu portato a Roma. Accordogli il senato gli onori
divini. Lo stesso Filippo, per farsi credere innocente del sangue di
lui, l'onorava sempre col titolo di divo. Coloro che l'uccisero, tutti
poi, per attestato di Capitolino, perirono di mala morte, e vedremo a
suo tempo che non andò esente dai gastighi di Dio l'infedele ed
ingrato Filippo. Fiorirono sotto Gordiano, _Censorino_, che scrisse
del _Giorno Natalizio_, ed _Erodiano_ storico, della cui storia mi
sono servito in addietro, oltre ad altri scrittori, de' quali son
perite le memorie. Di Filippo, che succedette nel romano imperio, mi
riserbo di parlare all'anno seguente.

NOTE:

[1942] Capitolin., in Gordiano III. Zosimus, Hist., lib. 1, cap. 18.

[1943] Reland., Fast. Cons.

[1944] Dodwellus, in Annalibus Cyprian.

[1945] Pagius, in Crit. Baron.

[1946] Capitolin., in Gordiano III. Aurelius Victor, in Epitome.
Zosimus, Hist., lib. 1, cap. 18.

[1947] Ammianus, lib. 23, cap. 54.

[1948] Zosimus, lib. 1, cap. 19.

[1949] Occo et Mediobarbus, Numism. Imper.

[1950] Pagius, in Crit. Baron.

[1951] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO CCXLV. Indizione VIII.

    FABIANO papa 10.
    FILIPPO imperadore 2.

_Consoli_

MARCO GIULIO FILIPPO AUGUSTO e TIZIANO.


Il secondo console, cioè _Tiziano_, verisimilmente quegli è che vien
chiamato in una iscrizion del Fabretti[1952] _Caio Messio Aquillio
Fabio Tiziano_. Il Relando[1953] e il padre Stampa[1954], fidandosi di
una iscrizione del Gudio, gli danno il nome di _Giunio Didiano_, o sia
_Tiziano_. Per me non oserei fabbricare coi materiali a noi lasciati
dal Gudio. Trovasi ancora in un'iscrizione del Grutero[1955] _Fabio
Tiziano Console_. A cagion di tale incertezza ho io posto il solo
cognome. Da che nell'anno precedente, dopo l'assassinio fatto a
Gordiano (e non prima, come sembra più probabile), _Marco Giulio
Filippo_ fu proclamato Imperadore Augusto dall'armata romana,
significò egli con sue lettere al senato di Roma l'assunzione sua al
trono, con fingere morto di malattia Gordiano[1956]. Il senato, già
avvezzo a cedere alla forza ed usurpazione de' soldati, chinò il capo,
ed accettollo. Era sua moglie _Marcia Otacilia Severa_, così nominata
nelle medaglie[1957], a cui fu dato il titolo d'_Augusta_. Aveva egli
anche un figliuolo che, secondo Aurelio Vittore[1958], era chiamato
_Caio Giulio Saturnino_, ma nelle iscrizioni e nelle medaglie
comparisce col solo nome paterno di _Caio Giulio Filippo_, dichiarato
immantinente _Cesare_ dal padre. Eusebio Cesariense[1959], seguitato
poi da san Girolamo, da san Giovanni Grisostomo, da Paolo Orosio e da
altri, scrisse essere fama che amendue i _Filippi_, padre e figliuolo,
fossero cristiani, e i primi Augusti che professassero la fede di Gesù
Cristo. In pruova di che narra che, venuto l'imperadore Filippo ad
Antiochia per la festa di Pasqua, volendo egli intervenire la notte
avanti alle sacre funzioni della Chiesa colla moglie Otacilia, san
Babila vescovo di quella città, consapevole dell'eccesso commesso
contra del suo legittimo principe, animosamente li rispinse,
protestando che non entrerebbono in chiesa, se non faceano la
confession de' lor falli e non prendeano luogo fra i pubblici
penitenti: il che da loro fu con somma umiltà eseguito. Ma l'autorità
per altro grande d'Eusebio e degli autori sopraccitati non ha ottenuto
dai critici degli ultimi tempi che se gli creda in questo. Pare che
fin Zonara[1960] ne dubitasse a' suoi dì. Il tradimento fatto da
Filippo a Gordiano non convien mai ad un cristiano. Per ciò
giudiziosamente il cardinal Baronio[1961] coll'autorità di Origene
osservò ch'egli almeno ne' principii del suo imperio non potè
professar la religion di Cristo. Oltre di che, Lattanzio,
contemporaneo di Eusebio, Sulpicio Severo, Teodoreto ed altri hanno
riconosciuto che Costantino il Grande fu il primo che abbracciasse la
fede cristiana. Quel sì, che ragionevolmente si può credere, e
l'afferma anche san Dionisio vescovo d'Alessandria, furono i due
Filippi molto favorevoli ai cristiani, e crebbe di molto sotto di loro
la Chiesa di Dio. E chi sa che la Augusta Otacilia non fosse quella
che nudrisse nel marito sì buon cuore verso la santa religion de'
cristiani? È perita la vita dei due Filippi, che verisimilmente fu
scritta da alcuno degli scrittori della Storia Augusta; laonde poco
abbiamo di lui per meglio conoscere il sistema delle sue operazioni.
Ora noi sappiamo da Zosimo[1962] che Filippo fece pace con Sapore re
della Persia; ed è privo di verisimile ciò che narra Giovanni
Zonara[1963], cioè ch'egli comperò questa pace con cedere al re
persiano la Mesopotamia e l'Armenia, ma che, mormorando non poco i
Romani di questo, egli poi difese e conservò quelle provincie. Sapore,
già vinto da Gordiano, vedea minacciata fin la sua capitale, nè è
credibile che in un trattato riportasse cotali vantaggi. Che questa
pace esigesse qualche tempo per conchiuderla, si può giustamente
immaginare; e però sembra conchiusa in questo, e non già
nell'antecedente anno. Quando poi fosse da credere il fatto attribuito
a san Babila vescovo d'Antiochia, ed accaduto nel tempo della Pasqua,
la quale nell'antecedente anno cadde nel dì 14 d'aprile, si avrebbe
assai argomento di credere che Filippo dalle vicinanze di Ctesifonte
non potesse arrivare a quel tempo in Antiochia, e sarebbe da riferire
all'anno presente il suo arrivo ad essa città. Ma quel fatto, per le
cose dette, ha ciera di favola. Che poi Filippo, mossosi dalla Soria,
arrivasse nell'anno precedente a Roma, se lo persuase il padre
Pagi[1964], ma senza pruove sicure. Le monete rapportate dal
Mezzabarba[1965] sembrano piuttosto indicare ch'egli vi giugnesse
nell'anno presente, sotto il quale appunto altro non so io riferire,
se non la suddetta pace, e l'aver Filippo fatto il viaggio assai lungo
dalla Soria a Roma.

NOTE:

[1952] Fabrettus, Inscript., pag. 119.

[1953] Reland., in Fast. Consul.

[1954] Stampa, Fast. Consul.

[1955] Gruterus, Inscript., pag. 407, n. 8.

[1956] Capitolin., in Gordian. III.

[1957] Vaillant et Mediobarb., in Numismat.

[1958] Aurelius Victor, in Brev.

[1959] Euseb., Histor. Eccles., lib. 6, cap. 36.

[1960] Zonaras, in Annalibus.

[1961] Baron., in Annal. Eccles.

[1962] Zosimus, lib. 1, cap. 19.

[1963] Zonaras, in Annalibus.

[1964] Pagius, Crit. Baron.

[1965] Mediobarbus, in Numism. Imperator.




    Anno di CRISTO CCXLVI. Indizione IX.

    FABIANO papa 11.
    FILIPPO imperadore 3.

_Consoli_

PRESENTE ed ALBINO.


Da che fu giunto Filippo a Roma, ben sapendo, altro non meritar le
azioni sue che l'odio universale[1966], si studiò in tutte le forme di
guadagnar l'affezione delle milizie e del senato. Nelle monete[1967]
dell'anno precedente si parla della sua _liberalità_, e Zosimo attesta
ch'egli con gran profusione d'oro rallegrò l'avidità de' soldati. Al
senato romano parlò con somma benignità, promettendo gran cose; e
certo quel poco che resta di notizie a lui spettanti, ci rappresenta
ben questo principe ambizioso ed anche superbo, ma non già crudele.
Parlava egli sempre di Gordiano con onore, nè alcun oltraggio mai fece
alle di lui statue e memorie. Solamente abbiamo da Capitolino[1968]
che la magnifica casa di _Gneo Pompeo_, posseduta dai _Gordiani_, fu
occupata sotto Filippo dal fisco imperiale. Tuttavia, non fidandosi
de' Romani, i principali impieghi conferiva egli ai proprii parenti.
Per questo diede il comando dell'armi in Soria a _Prisco_ suo
fratello, e quello della Mesia e Macedonia a _Severino_ padre di sua
moglie, persone poco atte a farsi ubbidire e rispettare: il che influì
col tempo alla di lui rovina. Credettero il Mezzabarba[1969] e il
Bianchini[1970] che Filippo in quest'anno rompesse la pace co'
Persiani, e non deponesse l'armi, se non dappoichè la Mesopotamia e
l'Armenia furono restituite al romano imperio. Ma, siccome vedemmo,
questa partita è presa di peso da Zonara, storico di poca esattezza.
Era la potenza de' Persiani tale da non lasciarsi far paura da grosse
armate, non che dalle poche milizie che furono lasciate allora di
guarnigione nella Soria. Però questa guerra seconda col re di Persia
siam dispensati dal crederla vera. Quel sì, che sopra buon fondamento
si truova appoggiato, ma che io non so dire se appartenga all'anno
presente o pure al seguente, si è il movimento de' Carpi, popoli
barbari forse dalla Sarmazia[1971]. Costoro, fatta un'irruzione da'
luoghi vicini al Danubio, portavano la desolazione in quelle parti.
Filippo, per farsi credito co' Romani, in persona passò colà con un
buon esercito, e venuto con quei Barbari alle mani, gli sconfisse.
Ritiraronsi molti d'essi in un castello, a cui fu posto l'assedio. Ma
raccolte di nuovo le lor forze, tentarono un altro combattimento, che
non fu per loro più felice del primo, per l'empito de' Mori militanti
nell'armata romana. Però fecero istanza di pace e lega: al che avendo,
senza farsi molto pregare, acconsentito Filippo, restituita la quiete
a quelle provincie, se ne ritornò tosto a Roma. Alcune medaglie,
portate dal Mezzabarba[1972] sotto il presente anno, parlano di una
_allocuzione_ fatta da Filippo all'esercito, e di una sua _vittoria_,
che ragionevolmente si può riferire alla suddetta impresa. Ma io non
me ne assicuro, perchè in un'iscrizione del Fabretti[1973], spettante
all'anno seguente, Filippo Augusto è chiamato _proconsole_: titolo
dato agl'imperadori allorchè erano in qualche spedizion militare.

NOTE:

[1966] Zosimus, lib. 1, cap. 19.

[1967] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[1968] Capitolinus, in Gordiano seniore.

[1969] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[1970] Blanchinius, ad Anastas.

[1971] Zosimus, lib. 1, cap. 20.

[1972] Mediob., Numism. Imper.

[1973] Fabrettus, Inscript., pag. 687.




    Anno di CRISTO CCXLVII. Indizione X.

    FABIANO papa 12.
    FILIPPO imperadore 4.
    FILIPPO juniore imperad. 1.

_Consoli_

MARCO GIULIO FILIPPO AUGUSTO per la seconda volta e MARCO GIULIO
FILIPPO CESARE.


Il giovane _Filippo_, figliuolo di Filippo Augusto, che procedette
console col padre in quest'anno, non era che _Cesare_ nelle calende di
gennaio. Fu di parere il padre Pagi[1974] ch'egli dipoi in questo
medesimo anno fosse dichiarato collega dell'imperio da esso suo padre,
cioè _Imperadore Augusto_. Molta oscurità s'incontra nella storia di
questi tempi, e crescono ancora per cagione di marmi finti e di
medaglie false, o non assai attentamente lette. Se noi prestassimo
fede ad una iscrizione del Gudio, rapportata anche dal Relando[1975],
il giovane Filippo nè pure nell'anno seguente era fregiato del titolo
d'imperadore, usando il solo di Cesare, leggendosi ivi: IMP. CAES.
PHILIPPO III. ET IVLIO PHILIPPO CAESARE II. COS. Ma cento volte
ripeterò che le merci del Gudio non ci possono servire per iscorta
sicura all'erudizione. Lo Spon[1976], il Bellorio e il Fabretti[1977]
ci han fatto vedere un decreto emanato in favore de' soldati
dell'armata navale del Miseno, in cui Filippo il padre vien detto IMP.
CAESAR M. IVLIVS PHILIPPVS PIVS FELIX AVG. PONT. MAX. TRIB. POT. IIII.
CONSVL. III. DESIG. P. P. PROCONSVL; e il figliuolo IMP. CAESAR M.
IVLIVS PHILIPPUS PIVS FELIX AVG. PONT. MAX. TRIB. POT. IIII. COS.
DESIGNAT. P. P. Più sotto si legge IMP. M. IVLIO PHILIPPO COS. DES.
III. ET IMP. M. IVLIO PHILIPPO COS. II. DES. COS. Sarebbe da
desiderare che avessimo più iscrizioni dei due Filippi, per
confrontarle insieme ed assicurarci che niun inganno s'incontri nelle
memorie antiche o credute antiche. Da questo monumento, fatto mentre
correa la _quarta tribunizia podestà_ di Filippo seniore, cioè
nell'anno presente, deducono alcuni che il giovane Filippo, subito che
fu creato _Cesare_, ottenne dal padre la _podestà tribunizia_
nell'anno 244, e ch'egli nel presente fu promosso al sommo grado
d'Imperadore Augusto. Ma il padre Harduino avrebbe trovato da dir
contra di tal decreto, perchè, secondo lui, non si comunicava ad
altri, ed era ritenuto per sè dall'imperador seniore il grado di
_pontefice massimo_, che pur qui si mira goduto anche da _Filippo
juniore_. Potrebbe parimente comparir della confusione nell'appellar
esso _Filippo_ COS. II. DES. COS., benchè sia certo ch'egli fu console
per la prima volta in quest'anno, e disegnato console per la seconda
nel seguente. Certamente può credersi non assai esattamente copiato
quel decreto, e tanto più perchè con esso convien confrontarne un
altro simile, che si legge nella mia Raccolta[1978], ed appartiene
all'anno seguente. Quivi anche il _giovane Filippo_ si trova appellato
_Augusto_, ciò servendo a farci riconoscere per falsa l'iscrizione del
Gudio. Similmente _Filippo juniore_ porta il titolo di _pontefice
massimo_ al pari del padre; e però cade a terra la regola proposta dal
padre Harduino. Quivi inoltre si dà al medesimo Filippo juniore la
_seconda tribunizia podestà_, e, per conseguente, l'ottenne egli
nell'anno presente, allorchè fu promosso alla dignità imperatoria, e
non già allorchè venne creato _Cesare_, come voleva il padre Pagi. Con
tal notizia s'accordano ancora varie monete rapportate dal Goltzio, e
indarno credute false da esso, perchè discordi dalla sua opinione. Un
riguardevol punto di storia è l'essersi sotto i _Filippi Augusti_
celebrato l'anno millesimo della creduta fondazion di Roma, ma senza
che apparisca chiaro se a questo anno o pure al seguente si debba
riferire la gran festa, di cui fanno menzione gli storici antichi. Io
ne parlerò al seguente anno. Abbiamo da Aurelio Vittore[1979] che
Filippo fece fare di là dal Tevere un lago, perchè quel paese
penuriava troppo d'acqua. Ciò verisimilmente succedette in questi
tempi.

NOTE:

[1974] Pagius, in Critic. Baron.

[1975] Reland., Fast. Consul.

[1976] Spon, Miscellan. Erudit., pag. 244.

[1977] Fabrettus, Inscription., pag. 687.

[1978] Thesaurus Novus Inscript., pag. 362, n. 1.

[1979] Aurel. Victor, in Breviar.




    Anno di CRISTO CCXLVIII. Indizione XI.

    FABIANO papa 13.
    FILIPPO imperadore 5.
    FILIPPO juniore imperad. 2.

_Consoli_

MARCO GIULIO FILIPPO seniore AUGUSTO per la terza volta e MARCO GIULIO
FILIPPO juniore AUGUSTO per la seconda.


Due son l'epoche della fondazion di Roma; l'una di Marco Varrone,
secondo la quale nell'anno precedente correva l'anno millesimo d'essa
fondazione; l'altra dei Fasti capitolini, e secondo questa cominciava
a correre nel presente anno esso millesimo. Il giorno natalizio di
Roma comunemente si credeva il dì 21 aprile. Fuor di dubbio è che
questo millesimo s'incontrò sotto l'imperio dei due Filippi Augusti, e
fu con somma magnificenza di giuochi e solazzi solennizzato. Stimarono
il cardinal Noris[1980] e il padre Pagi[1981] cominciato questo
millesimo nell'aprile del precedente anno; il Petavio[1982], il
Mezzabarba[1983], il Tillemont[1984], il Bianchini[1985] e il
Relando[1986] riferirono esso millesimo all'anno presente. Si credono
alcuni di poter conciliare insieme queste due opinioni con dire, ma
senza pruova, che essendo durata la solennità dal dì 21 aprile
dell'anno precedente sino al dì 21 d'esso mese del presente anno, si
verifica che in amendue i suddetti anni si celebrò l'anno millesimo
della fondazione di Roma. Contuttociò, se noi miriam le monete[1987]
rapportate dai varii scrittori, ci sembrerà accostarsi più al vero
l'opinione di chi mette il principio d'esso millesimo nell'anno
presente, perciocchè i _giuochi secolari_ e il _secolo millenario_ son
qui enunziati colla tribunizia podestà V di Filippo seniore,
cominciata nel marzo di quest'anno, e mentr'egli esercitava il _terzo
consolato_, che parimente significa l'anno presente. Niuna memoria di
ciò si trova nelle monete battute, correndo la quarta tribunizia
podestà di Filippo. E però quando non si pruovi che tutte le feste
allora fatte si ridussero ai soli ultimi giorni dell'anno millesimo, a
noi resta giusto motivo di credere cominciato esso anno nell'aprile
del presente. Abbiamo da Zosimo[1988] la descrizione de' giuochi
secolari, e da Capitolino[1989] la notizia degli animali forestieri
che comparvero nei combattimenti fatti allora nell'anfiteatro e nel
circo: cioè elefanti XXXII, alci X, tigri X, leoni mansueti LX, un
cavallo marino, un rinoceronte, X lioni bianchi, X cammelopardali, X
asini selvatici, XL cavalli fieri, ed innumerabili altri diversi
animali. Servì questa gran folla di fiere ai divertimenti del popolo
romano, oltre ai giuochi circensi, ed oltre a mille paia di gladiatori
mantenuti dal fisco. Eusebio[1990] anch'egli racconta che in questa
solennità furono uccise innumerabili bestie nel circo magno, e che nel
campo Marzio per tre dì e tre notti si fecero i giuochi teatrali.
Aggiugne dipoi che in esso anno millesimo bruciò in Roma il teatro di
Pompeo, e l'edifizio chiamato Cento Colonne, sontuoso portico di
quella incomparabil città. In Roma pagana, anzi dovunque dominava la
falsa religion degli dii viziosi[1991], si lasciava da molti secoli il
passaporto a quell'infame vizio per cui Sodoma e Gomorra perirono.
V'erano abbominevoli scuole di questo, e il fisco ne ricavava un
tributo. Avea tentato, siccome già osservammo, anche il buon
imperadore Alessandro di rimediare a questa infamia. Non meno di lui
fece conoscere l'Augusto Filippo il suo buon genio, perchè con editto
pubblico vietò questa nefanda lussuria. E contuttochè Aurelio Vittore
confessi l'obbrobriosa corruzion de' Romani gentili, con aggiugnere
che la proibizione, in vece di estinguere tal pestilenza, maggiormente
l'attizzò, dovuta nondimeno è la sua lode a questo imperadore, siccome
quegli che dal canto suo non lasciò di perseguitare il vizio, ancorchè
gli mancassero poi le forze e il tempo per isradicarlo.

NOTE:

[1980] Noris, Epist. Consul.

[1981] Pagius, in Critic. Baron.

[1982] Petavius, de Doctrin. Temp.

[1983] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[1984] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[1985] Blanchinius, ad Anastas. Bibliothec.

[1986] Reland., in Fast. Consular.

[1987] Mediob., in Numismat. Imperator.

[1988] Zosimus, Histor., lib. 2, cap. 5.

[1989] Capitolinus, in Gordiano III.

[1990] Euseb., in Chronic.

[1991] Aurelius Victor, in Breviar.




    Anno di CRISTO CCXLIX. Indizione XII.

    FABIANO papa 14.
    FILIPPO imperadore 6.
    FILIPPO juniore imperad. 3.
    DECIO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO EMILIANO per la seconda volta e GIUNIO AQUILINO.


Cominciarono a sconcertarsi, se non nell'anno antecedente, certo nel
presente, gli affari di Filippo imperadore, non già per colpa di lui,
perchè era buon uomo, nè facea male ad alcuno, e però fu creduto da
alcuni che fosse cristiano; ma per le gravi imposte, motivo sempre di
doglianze ai popoli, e perchè i governatori ed uffiziali da lui posti
nelle provincie, o non sapeano governare, o troppo voleano governare;
perlochè erano odiati dai soldati e dai popoli. Essendo governatore
della Soria _Prisco_ fratello di _Filippo Augusto_, e rendutosi egli
oramai insoffribile, si fece in quelle parti una sedizione[1992], e fu
proclamato Imperadore un certo _Papiano_, di cui perì tosto la
memoria, perchè fu ucciso. Fa menzione Aurelio Vittore[1993] sotto
l'imperio di Decio successor di Filippo di un _Jotapiano_ che aspirò
all'imperio in quelle parti, per essere, diceva egli, parente di
Alessandro. Verisimilmente costui è il medesimo che presso Zosimo
porta il nome di _Papiano_, e come un fungo fece la comparsa
d'imperadore sotto Filippo. Ne' medesimi tempi nella Mesia e Pannonia,
governate allora da _Severiano_ suocero di Filippo, succedette
un'altra sedizione, per cui alquanti di quei popoli e soldati
acclamarono Imperadore un certo _Marino_ centurione, o qualche cosa di
più in quelle armate, che si crede chiamato in alcune medaglie (se di
sicura antichità, non so) _Publio Carvilio Marino_[1994]. Portate
queste nuove a Roma, alterossi forte l'Augusto Filippo, sì pel timore
che l'incendio crescesse, e sì perchè amava la quiete per sè stesso, e
la lasciava godere agli altri. Andossene al senato per pregarlo di
aiuto in sì gravi congiunture, e disse ancora, se dispiaceva il suo
governo, di esser pronto a deporre l'augusto suo ministero. Parevano
legate le lingue di cadaun senatore, ma in fine _Decio_, un di essi,
per nobiltà di sangue e per molte belle doti personaggio assai
riguardevole, si alzò e disse che non v'era motivo di tremare per
quelle novità, perchè fatte da persone mancanti di nobiltà, di seguito
e di mezzi per sostenersi; e che perciò avesse un po' di pazienza,
perchè non tarderebbono a svanire quei fantasmi d'imperadori. Così fu:
anche a _Marino_ s'intese fra poco tolta la vita. Ma non cessando in
Filippo la paura di altri simili sconcerti, perchè sapea quanto mal
animo nudrissero i soldati verso dei loro uffiziali, gli cadde in
mente di spedir nella Mesia e Pannonia per governatore un uomo di
vaglia, e mise gli occhi addosso al suddetto _Decio_. Questi si scusò
per quanto potè; ma cotanto Filippo il pregò, e quasi lo sforzò, che,
benchè contra sua voglia, accettò quell'impiego, ed andò[1995].
All'arrivo suo rimasero ben confuse e turbate quelle milizie,
giudicando non per altro essere stato mandato _Decio_ colà che per
dare un esemplar gastigo a chi avea avuta mano nella ribellione.
Furono a consiglio, e tanto per esentarsi dal di lui rigore, quanto
per precautarsi all'avvenire, determinarono di crear _Imperadore_ il
medesimo _Decio_, in cui riconoscevano tutte le doti convenevoli per
sì eccelsa dignità. Se senza saputa di lui, Dio lo sa. Presentatisi
dunque all'improvviso a Decio, con alte voci lo acclamarono
Imperadore, e gli misero addosso la porpora. Non mancò egli di fare
ogni possibil resistenza a questa novità, parlando, per quanto si
crede, di cuore, a fine di scuotere quella nobilissima sì, ma
pericolosa soma; nulladimeno per le minaccie de' soldati, che misero
mano alle spade, gli convenne quetarsi.

Per attestato di Zonara[1996], scrisse _Decio_ delle lettere segrete a
_Filippo_, adducendo in sua scusa la violenza a lui fatta, ed
assicurandolo che verrebbe a Roma, e deporrebbe la porpora. Ma Filippo
Augusto punto non si fidò di queste parole, credute da lui trappole,
perchè persuaso che Decio avesse tramata d'accordo la ribellione ed
esaltazione sua[1997]. Raunata perciò una poderosa armata, ancorchè la
sua età e la poca sanità potessero dissuadergli l'andare, pure,
lasciato il figliuolo Augusto al governo di Roma, s'inviò in persona
contra di Decio, il quale colle sue soldatesche s'era già messo in
viaggio alla volta dell'Italia. Restarono in Roma tanti pretoriani che
bastassero alla difesa del figlio[1998], Incontraronsi le due nemiche
armate nelle campagne di Verona; superiore era di numero e di forze
quella di Filippo; ciò non ostante, il valore e la buona condotta di
Decio fecero piegar la vittoria in suo favore. Zosimo e Zonara
scrivono che nel calore di quella battaglia restò ucciso _Filippo_;
Eutropio, Aurelio Vittore ed Eusebio[1999] il fanno trucidato in
Verona, mettendo forse la città per denotare il territorio. Fu inviata
la di lui testa a Roma, dove i soldati non tardarono ad uccider anche
il giovinetto _Filippo Augusto_, il quale, per testimonianza di
Aurelio Vittore, si trovava allora in età di dodici anni, di naturale
sì severo e malinconico, che dopo i primi suoi cinque anni per
qualunque spettacolo o facezia non fu mai veduto ridere; e perchè ne'
giuochi secolari avea osservato il padre imperadore sbardellatamente
ridere, con volto corruccioso il guatò. Spropositato racconto è quello
della Cronica Alessandrina[2000], dove si narra che il giovine
Filippo, rappresentato vivente anche sotto Gallo e Volusiano, con
felicità fece molte guerre, finchè combattendo contra ai Gepidi cade
da cavallo, e si ruppe una costa: laonde portato a Roma, quivi terminò
i i suoi dì in età di quarantacinque anni. Ma io ho osservato
altrove[2001] che abbiam quella cronica di mano di Andrea Darmario
greco impostore. Forse in vece di _Filippo_, si dee scrivere _Decio
juniore_, benchè nè pur ciò si accordi colla vera storia. Si accorda
bensì colla verità quanto è ivi scritto intorno all'avere Filippo
seniore istituite alcune compagnie di giovani scelti per le guardie
del corpo. Nella iscrizione da me pubblicata[2002], di cui feci
menzione di sopra, si vede che erano dieci _coorti_ appellate
_filippiane_. L'anno, in cui restò abbreviata la vita a questi due
imperadori, è senza fallo il presente: il mese e il giorno sono
incerti. Si può stare all'opinione del padre Pagi[2003] che mette la
lor morte circa il mese di luglio, giacchè abbiamo una legge di
_Filippo_, data nel dì 19 di giugno sotto questi consoli, e un'altra
di Decio suo successore, data nel dì 19 di ottobre parimente nel
presente anno. Parlerò di esso _Decio_ nell'anno seguente. Nè si dee
tacere che, regnando i due Filippi Augusti[2004], si suscitò in
Alessandria, probabilmente nell'anno precedente, una persecuzione
contra de' cristiani, mossa non già per ordine o editto alcuno di essi
imperadori, ma per la malignità di que' cittadini pagani, facili ai
tumulti, e che miravano sempre di mal occhio i seguaci di Gesù Cristo.
Ne fa menzione _san Dionisio_, vescovo celebre di quella gran città,
che fioriva in questi tempi, siccome ancora fiorì _Origene_, scrittore
di gran nome, ma non egualmente glorioso nella Chiesa di Dio. In
quest'anno ancora, ovvero nel precedente, fu creato vescovo di
Cartagine l'insigne martire e scrittore sacro _san Cipriano_.

NOTE:

[1992] Zosimus, lib. 1, cap. 20.

[1993] Aurelius Victor, in Breviar.

[1994] Goltzius et Mediobarb., in Numism. Imp.

[1995] Zosimus, lib. 1, cap. 21.

[1996] Zonaras, in Annalib.

[1997] Aurelius Victor, in Breviario.

[1998] Eutrop., in Epitome Histor. Roman.

[1999] Eusebius, in Chronic.

[2000] Chronicon Paschale, tom. II Histor. Byzantin.

[2001] Antiquit. Italicar.

[2002] Thesaur. Novus Inscript., pag. 362.

[2003] Pagius, in Crit. Baron.

[2004] Euseb., Hist. Eccles., lib. 6, cap. 41.




    Anno di CRISTO CCL. Indizione XIII.

    CORNELIO papa 1.
    DECIO imperadore 2.

_Consoli_

CAIO MESSIO QUINTO TRAIANO DECIO AUGUSTO per la seconda volta e
MASSIMO GRATO.

Essendo perite le vite dei due _Filippi_, dei _Decii_, e di _Gallo_ e
di _Volusiano_, già scritte da Trebellio Pollione, la storia di questi
tempi resta troppo smunta ed involta in molte tenebre, di maniera che
si stenta a distinguere le persone e i fatti d'allora. _Decio_, che
dopo la caduta dei due Filippi restò solo imperadore, si trova ne'
marmi e nelle monete appellato _Caio Messio Quinto Traiano Decio_.
Zosimo[2005], storico pagano e nemico dichiarato de' cristiani, cel
rappresenta personaggio di molta nobiltà ed ornato di tutte le virtù.
Tale principalmente dovette sembrare a lui, perchè trovò in questo
Augusto un fiero persecutore della religion di Cristo. Era egli nato
nel borgo di Bubalia o Budalia del territorio di Sirmio nella Pannonia
inferiore, il qual luogo ci difficulta di credere tanta nobiltà,
quanta gliene dà Zosimo. Secondo Aurelio Vittore[2006], potea egli
allora essere in età di circa quarantasette anni. Anche
Eutropio[2007], pagano al pari di Zosimo, cel descrive per uomo ornato
di tutte le virtù, mansueto, placido, che vivea senza fasto, che
nell'armi era bravissimo. Quali onorevoli impieghi avesse egli prima
esercitati, nol dice la storia. Certo è ch'egli era dell'ordine
senatorio. Benchè poi non si sappia con evidenza, pure si tien
comunemente che moglie di Decio fosse _Erennia Etruscilla Augusta_, di
cui resta memoria nelle medaglie[2008]; e il nome di un figliuolo di
_Decio_ serve a confermarlo; imperciocchè il primogenito suo portava
il nome di _Quinto Erennio Etrusco Messio Decio_, e questi fu dal
padre Augusto nell'anno precedente fregiato col titolo di _Cesare_. Un
altro suo figliuolo, per nome _Caio Valente Hostiliano Messio Quinto
Decio_, conseguì anch'esso il nome e la dignità cesarea. Che Decio
avesse due altri figliuoli appellati _Etrusco_ e _Traiano_, l'hanno
creduto alcuni, ma senza pruove valevoli a riportarne il comune
assenso. Ora _Decio imperadore_, secondo lo stile de' nuovi
imperadori, prese il consolato nelle prime calende di gennaio
dell'imperio suo. Perchè egli si truova in alcune antiche memorie
chiamato CONSUL II, perciò si crede che in alcuno dei precedenti anni
egli fosse stato console sostituito. Se alcuna riguardevol impresa, se
verun utile regolamento facesse questo novello Augusto ne' primi tempi
del suo governo, non v'ha storia, non v'ha iscrizione od altra memoria
che ce l'insegni. Quel solo detestabil fatto spettante all'anno
presente, di cui s'hanno parecchi insigni contemporanei testimoni
nella storia ecclesiastica, fu la fiera persecuzione da lui mossa
contro del Cristianesimo, per la quale stranamente restò sconvolta la
Chiesa di Dio, ed innumerabili Cristiani lasciarono gloriosamente la
vita nei tormenti e sotto le scuri.

Correvano già trentotto anni dopo la morte di Severo imperadore, che i
Cristiani universalmente godevano pace, ancorchè non mancassero de'
mali ministri e governatori, che or qua or là infierissero contra di
chi professava la legge di Cristo. Alcuni degli stessi imperadori
erano stati favorevoli a questa santa religione, con essersi per ciò
diffusa e mirabilmente moltiplicata per la terra la semente
evangelica, e il numero de' fedeli divenuta innumerabile; quando
l'imperador Decio, quel descritto sì _placido_ da Aurelio Vittore,
prese a perseguitar apertamente chiunque nemico si scopriva degl'idoli
ed adorava il vero Creatore e Salvatore del mondo, con editti crudeli
che furono sparsi per tutto l'imperio romano e più barbaramente
eseguiti dove maggior copia di fedeli si trovava. Altro io non dirò di
questo gran flagello della Chiesa di Dio, per cui nelle antiche storie
e memorie dei Cristiani _Decio_ si acquistò il nome d'uno de' più
cattivi principi di Roma. Son da vedere intorno a ciò l'opere di san
Cipriano allora vivente, Eusebio Cesariense, Lattanzio, Orosio, gli
Annali del Baronio, gli Atti de' Bollandisti e le Memorie del
Tillemont. Quel solo che a me conviene di ricordar qui, si è essere
stato uno de' primi a far pruova della crudeltà di Decio _san Fabiano_
papa, il quale nell'anno presente, con ricevere la corona del
martirio, passò a miglior vita. Suo successore nella sedia di san
Pietro, ma dopo molte difficultà, fu _Cornelio_, uno dei più insigni
pontefici della Chiesa di Dio. Intanto _Decio_ sen venne a Roma, dove
altro non si sa ch'egli facesse, se non un bagno, di cui parla
Eutropio[2009]. Ma s'egli mosse guerra al popolo cristiano, Dio
permise che nè pur egli godesse, pel poco tempo che visse e regnò,
pace nell'imperio. Sotto di lui cominciò a rinvigorirsi la potenza dei
barbari, e a rendersi familiari nel romano imperio la sedizione e
rivoluzion degli stati. Giordano storico[2010], corrottamente
appellato Giornande, benchè scrittore a cui non mancavano favole, pure
si può credere che ci abbia conservata qualche verità in un racconto
spettante a questi tempi. Scrive egli adunque che _Cniva_ re dei Goti,
avendo diviso l'armata sua in due corpi, spinse il minore contro la
Mesia romana; ed egli coll'altro consistente in settantamila
combattenti, andò per assediare Eustesio, chiamato Novi, città della
Mesia alle rive del Danubio. Ne fu respinto da _Gallo_ comandante
dell'armi romane. Passò a Nicopoli, città fabbricata da Traiano presso
quel fiume; e sopravvenendo _Decio imperadore_, anche di là fu
costretto a ritirarsi. Forse nell'anno precedente, trovandosi Decio
Augusto in quelle parti, succedette questa irruzion de' Goti: o pure,
se fu nel presente, parrebbe che Giordano col nome di Decio imperadore
significar volesse _Decio Cesare_ di lui figliuolo, il quale
verisimilmente fu lasciato o mandato dal padre per opporsi ai
tentativi di que' barbari. Passò Cniva il monte Emo, con disegno di
assediar Filippopoli, città della Tracia, che alcuni credono
fabbricata da Filippo imperadore, ma che più anticamente portò questo
nome. Per soccorrere questa città, anche Decio passò l'Emo, e venne a
postarsi a Berea. Cniva all'improvviso gli piombò addosso, e gli diede
tale spelazzata, che Decio fuggendo si ricoverò in Italia, restando al
comando di quell'armi _Gallo_, il quale si studiò di riparar le
perdite fatte dai Romani. In alcune medaglie, rapportate dal
Mezzabarba[2011] sotto questo anno, si truova DACIA CAPTA, DACIA
FELIX; ma senza che si sappia qual guerra sia questa, e nè pure se al
presente anno o al precedente appartengano queste medaglie.

NOTE:

[2005] Zosimus, lib. 1, cap. 21.

[2006] Aurelius Victor, in Breviario.

[2007] Eutrop., in Epitome.

[2008] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[2009] Eutrop., Epitome Hist. Rom.

[2010] Jordan., De Rebus Geticis, cap. 19.

[2011] Mediobarbus, in Numismat. Imp.




    Anno di CRISTO CCLI. Indizione XIV.

    CORNELIO papa 2.
    DECIO imperadore 3.
    TREBONIANO GALLO imper. 1.
    HOSTILIANO DECIO imper. 1.

_Consoli_

CAIO MESSIO QUINTO TRAIANO DECIO AUGUSTO per la terza volta e QUINTO
HERENNIO ETRUSCO DECIO CESARE.


Non so ben dire se nel precedente o nel presente anno i Goti, senza
dubbio quegli stessi che da Zosimo[2012] son chiamati Sciti, o
vogliamo dire Tartari, assediassero la città di Filippopoli nella
Tracia. Quel che è certo, per testimonianza non men di esso Zosimo che
di Giordano[2013], s'impadronirono quei barbari dopo lungo assedio di
quella città; e, se scrive il vero Ammiano[2014], vi passarono a fil
di spada centomila persone. Zosimo e Giordano non parlano se non di
una gran copia di prigioni fatta nell'acquisto d'essa città. O sia che
_Lucio Prisco_ (forse fratello del già Filippo imperadore) fosse
governatore di Filippopoli, o pure ch'egli fosse presidente della
Macedonia, nella qual provincia si stesero i rapaci vincitori Goti:
noi abbiamo da Giordano e da Aurelio Vittore[2015] che costui, unitosi
con essi Goti, prese il titolo d'_imperadore_, volgendo l'armi contra
dei _Decii_. E sembra che san Cipriano[2016] avesse conoscenza di lui.
Ma costui, dichiarato pubblico nemico dal senato romano, stette poco
ad essere ucciso. Noi qui certamente ci troviamo in folte nebbie di
storia, essendovi altri che credono preso questo titolo da _Prisco_
solamente dopo la morte dei medesimi _Decii_, e restando una gran
confusione nell'assegnare i successori e i tiranni insorti dopo di
loro. Intanto non si mette in dubbio il funesto fine dei _Decii_,
benchè le circostanze del medesimo sieno varie e discordi presso gli
antichi scrittori. I fortunati progressi adunque dei Goti, e
l'innalzamento, se pure è vero, di _Prisco_, fecero che Decio seniore
giudicò necessaria la sua presenza nella Mesia e Macedonia per liberar
dai Barbari quelle provincie. Se in quelle parti non era già il
figliuolo _Erennio Etrusco Decio_, seco andò nel presente; e
trovandosi qualche medaglia[2017], in cui esso si vede appellato
_Augusto_, credesi che in tal congiuntura egli fosse dichiarato
_imperadore_ e collega nell'imperio dal padre. Marciarono i due
Augusti Decii contra dei Goti con esercito poderoso, e, secondo
Zonara[2018], gl'incalzarono sì valorosamente, che li fecero ritirar
nel loro paese. Alcuni vogliono[2019] che Decio gl'inseguisse di là
dal Danubio; ma più verisimile sembra che di qua da esso fiume egli
venisse con loro alle mani. In quel conflitto il _giovane Decio_, per
quanto s'ha da Giordano[2020], trafitto dalle frecce gotiche, perì: il
che disanimò lo esercito romano[2021]. Ma il _vecchio Decio_ fece loro
coraggio, con dire che la perdita di un solo soldato nulla era alla
potenza romana: dopo di che alla disperata si spinse contra de'
Barbari, cercando o morte o vendetta. Trovò appunto la morte,
circondato ed oppresso da' nemici.

Ma Zosimo[2022] ci vorrebbe far credere che Gallo, generale de'
medesimi Decii, per ingordigia dell'imperio, segretamente se
l'intendesse coi Goti, e per mezzo loro arrivasse ad atterrar questi
due regnanti. Per consiglio d'esso Gallo, dice esso Zosimo, si misero
essi Goti in battaglia dietro una palude; ed allorchè Decio ebbe poste
in fuga e sconfitte le due prime loro schiere, volendo dar addosso
alla terza, s'inoltrò col figliuolo nella palude, dove amendue
impantanati ed esposti alle frecce de' Barbari, insieme col loro
seguito perirono. Secondo Vittore Zonara, nè pur furono trovati, non
che seppelliti, i loro cadaveri; e ciò espressamente vien confermato
da Lattanzio[2023] nel suo trattato delle morti de' persecutori della
religione di Cristo. Certamente tutti gli antichi[2024] cristiani
riconobbero per un colpo della mano di Dio la presta ed ignominiosa
morte di _Decio_, nemico dichiarato dei seguaci di Gesù Cristo:
gastigo toccato anche prima e di poi a qualunque principe romano che
apertamente volle muover guerra ad una religione santa, che Dio volea
al loro dispetto piantata e dilatata sulla terra. Il luogo della morte
dei due Decii resta tuttavia dubbioso, o, per meglio dire, ignoto.
Costantino il Grande in una sua orazione presso Eusebio sembra tenerlo
morto nel paese dei Goti, e di là dal Danubio; altri di qua; alcuni
nella Mesia, ed altri nella Tracia. Danno il nome di Abirto o Abritto
a quel sito; e Giordano attesta che tuttavia restava un luogo,
chiamato Altare di Decio, dov'egli sagrificò prima di far quella
giornata. Ma niuno ora sa additare in qual provincia e territorio
fosse tal luogo. Si disputa ancora intorno al tempo, in cui perirono i
due Decii. V'ha[2025] chi crede ciò succeduto circa il mese di
giugno[2026], ed altri negli ultimi due mesi dell'anno presente.
Abbiamo da Trebellio Pollione[2027], che essendo consoli i due _Decii_
(adunque nell'anno corrente), vennero al senato romano lettere ed
ordini di Decio, di eleggere un censore, uffizio da gran tempo dimesso
in Roma. Il pretore, giacchè amendue i consoli, cioè i due Augusti
Decii, erano assenti, nel dì 27 di ottobre propose l'affare, e di
comune consentimento fu eletto censore per la sua rara probità
_Valeriano_, il qual poi divenne imperadore. Trovavasi questi
coll'imperadore all'armata nella Tracia e nella Mesia, come io credo,
e non già in Roma, come pensò il padre Pagi. Informato Decio del
senatusconsulto, fece chiamar Valeriano, ed in piena assemblea il
dichiarò censore, con ispiegare la di lui autorità che era amplissima.
Cioè poteva egli determinare chi dovea aver luogo in senato; ridurre
all'antico stato l'ordine equestre; modificare o confermare i tributi
e i dazii; far nuove leggi; riformar le milizie, e giudicar tutte le
cause de' palatini, de' giudici e dei prefetti, a riserva dei consoli
ordinarii, del prefetto di Roma e del re delle cose sacre, e della
primaria vergine vestale, se pur essa conservava illesa la pudicizia.
Ma _Valeriano_, alzatosi in piedi, pregò l'Augusto Decio di averlo per
iscusato, se non poteva accettar questo carico, perchè questo
apparteneva a chi godeva il grado d'imperadore, ed erano venuti tempi,
nei quali niuna persona privata potea promettersi tal forza da farsi
ubbidire, e così andò in nulla il disegno. Ma se nel dì 27 di ottobre
_Decio_ tuttavia regnava, e se noi vedremo _Gallo_ suo successore
Augusto nelle calende seguenti di gennaio, vegniamo insieme a scorgere
che nel novembre o dicembre di quest'anno dovettero i due Decii
perdere la vita e lo imperio. Quel che succedesse dopo la lor morte,
sarà accennato all'anno seguente.

NOTE:

[2012] Zosimus, lib. 1, cap. 23.

[2013] Jordan., de Rebus Geticis, cap. 18.

[2014] Ammianus Marcellinus, Hist., lib. 31.

[2015] Aurelius Victor, in Epitome. Zonaras, in Annalibus.

[2016] Cyprian., Epistola 52.

[2017] Mediob., Numism. Imper.

[2018] Zonaras, in Annalibus.

[2019] Aurelius Victor. Eutropius.

[2020] Jordan., de Rebus Geticis, cap. 18.

[2021] Eutrop., in Epitome.

[2022] Zosimus, lib. 1, cap. 23.

[2023] Lactantius, de Mortibus Persecutor.

[2024] Cyprianus, Epist. ad Demetr. Eusebius, Orat. Constantin., cap.
24. Hieronym., Commentar. in Zachar., cap. 14.

[2025] Blanchinius, ad Anastas.

[2026] Pagius, in Critic. Baron.

[2027] Trebellius Pollio, in Valerian.




    Anno di CRISTO CCLII. Indizione XV.

    CORNELIO papa 3.
    LUCIO papa 1.
    TREBONIANO GALLO imp. 2.
    HOSTILIANO DECIO imp. 2.
    VOLUSIANO GALLO imp. 1.

_Consoli_

CAIO TREBONIANO GALLO AUGUSTO per la seconda volta e CAIO VIBIO
VOLUSIANO CESARE.


Divulgata la morte dei due Decii, le armate della Mesia e della Tracia
poco stettero a proclamar Imperadore _Caio Treboniano Gallo_ lor
generale, a cui forse indebitamente fu attribuito da Zosimo[2028] il
tradimento fatto ai due Decii. Aurelio Vittore[2029] scrive, essere
stato il traditore un Bruto. Di che paese fosse il suddetto Treboniano
Gallo, nol sappiamo, se non che, al dir di Vittore, sembra nato
nell'isola delle Gerbe sulle coste dell'Africa. Perchè egli avendo
preso, secondo lo stile degli altri nuovi Augusti, il consolato in
quest'anno[2030], si trova in un'iscrizione e in alcuni fasti _console
per la seconda volta_, da ciò, si argomenta esser egli stato console
sustituito in alcuno degli anni addietro. Il grado di generale
dell'armi, che dicemmo sostenuto da lui, gli facilitò quello di
imperadore. Aveva egli un figliuolo, appellato _Caio Vibio Gallo
Volusiano_, cui diede immediatamente il titolo di _Cesare_. Ma
affinchè non nascesse o già nato si smorzasse il sospetto ch'egli
avesse tenuta mano all'obbrobriosa morte dei Decii, si mostrò
amantissimo della lor memoria, parlandone sempre con lode e riverenza;
volle ancora o pure acconsentì che amendue fossero, secondo la stolta
persuasione del gentilesimo, deificati. Vi restava un altro figliuolo
di Decio seniore, cioè _Caio Valente Hostiliano Messio Quinto Decio_,
già dichiarato _Cesare_ dal padre. Gallo, non tanto per farsi sempre
più credere ben affetto alla memoria di esso Decio, quanto per timore
che questo di lui figliuolo, spalleggiato dai soldati, potesse
prorompere in qualche sedizione, spontaneamente il dichiarò _Augusto_
e collega suo nell'imperio, aspettando più proprio tempo per liberarsi
da lui. Disegnò ancora sè stesso console col figliuolo _Volusiano_ per
l'anno presente. Di tutto questo, accaduto nell'anno addietro, spedì
egli l'avviso a Roma, e il senato niuna difficoltà mostrò ad
approvarlo.

Noi troviamo circa questi tempi varii altri imperadori o tiranni,
senza poterne ben chiaramente distinguere l'innalzamento e i luoghi,
dove fecero la loro breve comparsa e caddero. Di un _Giulio Valente_,
che usurpò la porpora imperiale, parla Aurelio Vittore, con dir appena
partito da Roma Decio, che costui occupò il trono, e fu in breve
punita la sua temerità colla morte. Ma Trebellio Pollione[2031], che
merita qui maggior fede, asserisce che costui per pochi giorni fece la
figura d'imperadore, non in Roma o in Italia, ma nell'Illirico, e
quivi fu ucciso. E forse il movimento suo accadde dappoichè i due
Decii avevano cessato di vivere. Vedesi tuttavia una medaglia[2032],
felicemente, se pur è vero, disotterrata, in cui vien fatta menzione
di _Marco Aufidio Perpenna Liciniano imperadore Augusto_, confuso da
Vittore ora con _Valente_ ed ora con _Hostiliano_. Il padre Pagi[2033]
è di parere che costui, vivente Decio, formasse la sua cospirazione,
e, preso il nome d'Augusto nelle Gallie, quivi da esso Decio restasse
soffocato, scrivendo Eutropio[2034] ch'esso Decio, prima di portar
l'armi contra dei Goti, estinse una guerra civile insorta nelle
Gallie. È plausibile la di lui conghiettura, ma non esente da dubbii.
Torniamo ora a _Treboniano Gallo_, riconosciuto imperadore anche dal
senato romano. Le prime sue occupazioni furono quelle di stabilir pace
coi Goti, comperandola nondimeno con vergognose condizioni[2035];
perchè non solamente permise loro di tornarsene alle loro contrade di
là dal Danubio con tutto il bottino fatto sulle terre romane, e senza
prendersi cura di riscattare, o far rilasciare gran copia di Romani,
anche nobili, fatti prigioni nella presa di Filippopoli; ma eziandio
si obbligò di pagar da lì innanzi un certo tributo annuale a quei
Barbari, affinchè non inquietassero lo imperio romano. Non fu però
Gallo il primo ad avvilir la maestà romana con simili patti. L'esempio
gliene avea dato Domiziano, e probabilmente altri debili Augusti
aveano fatto lo stesso. Dopo di che, come s'egli avesse con tali
prodezze meritato il trionfo, se ne venne probabilmente nella
primavera di quest'anno a Roma, tutto spirante gloria ed assai
contento di sè stesso. Forse perchè i sacerdoti pagani o il senato
zelante della conservazione de' suoi falsi dii, fecero nuove istanze
anche a Gallo, certo è che la persecuzion de' cristiani, alquanto
rallentata, e fors'anche cessata negli ultimi mesi dell'anno
precedente e nei primi del corrente, si rinnovellò; e per tutte le
provincie si attese ad infierire contro i cristiani che ricusavano di
sagrificare agli abborriti numi della gentilità. Son qui da vedere le
nobilissime lettere e gli opuscoli di san Cipriano[2036] e di san
_Cornelio_ papa, il qual ultimo, per cagione di tal persecuzione, fu
mandato in esilio, e poi coronato col martirio. Al governo della
Chiesa romana fu sustituito _Lucio_ papa, il quale dovette anche egli
da lì a qualche tempo sofferire l'esilio. Ma Iddio non cessò di
flagellar con nuovi gastighi questi principi nemici del popolo suo
eletto, cominciando con una delle più terribili e lunghe pestilenze
che mai passeggiassero sulla terra. Si andò essa stendendo a poco a
poco per tutte le provincie del romano imperio[2037], facendo
dappertutto una fiera strage. Se crediamo ad Augusto Vittore[2038],
_Hostiliano Augusto_, già figliuolo di _Decio imperadore_, colto da
questa infezione, terminò i suoi giorni. Ma Zosimo[2039] pretende che
_Gallo imperadore_, sospettando che questo collega, da chi amava la
memoria del di lui padre Decio, fosse un dì portato troppo innanzi con
pericolo della propria dignità, il facesse a tradimento levare dal
mondo, fingendo verisimilmente che fosse morto di peste. Dopo la cui
morte egli dichiarò Augusto il suo figliuolo _Gallo Volusiano_, il
quale nelle iscrizioni[2040] è chiamato _Caio Vibio Affinio Gallo
Veldumiano Volusiano_.

NOTE:

[2028] Zosimus, lib. 1, cap. 23.

[2029] Aurelius Victor, in Breviar.

[2030] Reland., in Fast. Consul.

[2031] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 19.

[2032] Mediobarbus, in Numism. Imperator.

[2033] Pagius, in Crit. Baron.

[2034] Eutrop., in Epitome.

[2035] Zosimus, lib. 1, cap. 24.

[2036] SS. Cyprian. et Cornel., in Epistolis.

[2037] Eutrop. Eusebius. Sanctus Cyprianus, et alii.

[2038] Aurelius Victor, in Brev.

[2039] Zosimus, lib. 1, cap. 25.

[2040] Thesaurus Novus Inscript., pag. 253.




    Anno di CRISTO CCLIII. Indizione I.

    LUCIO papa 2.
    TREBONIANO GALLO imp. 3.
    GALLO VOLUSIANO imp. 1.
    VALERIANO imperadore 1.
    GALLIENO imperadore 1.

_Consoli_

CAIO VIBIO VOLUSIANO GALLO AUGUSTO per la seconda volta, e MASSIMO.


Il secondo console vien chiamato da alcuni _Marco Valerio Massimo_.
Perchè non ne ho veduto finora le prove, io m' attengo a chi solamente
l'appella _Massimo_[2041]. Sembra che il Governo di _Gallo Augusto_
fosse assai dolce, e ch'egli, usando maniere popolari e placide, si
studiasse di farsi amare da ognuno, fuorchè da' cristiani. Ma
l'essersi tanto egli che il figliuolo dati al lusso e alle
delizie[2042], li faceva disprezzar dalla gente; e la loro negligenza
e poca applicazione al governo incoraggi di molto i Barbari, per
assalire e malmenare le provincia del romano imperio. Finalmente l'ira
di Dio stava addosso ad un principe che mossa avea anch'esso guerra ai
cristiani, i quali pure erano i migliori de' sudditi suoi. Durando
dunque l'orrido flagello della peste, s'aggiunse ai mali la irruzion
degli Sciti, cioè de' Goti, Carpi, Borani, o sieno Burgondi, e d'
altre nazioni tartare, nella Mesia, Tracia, Macedonia e Grecia sino al
mare Adriatico. Inesplicabili furono i saccheggi da lor fatti, le
città non fortificate, ed alcune ancora delle forti si videro
soccombere al loro furore; ed intanto Gallo in Roma si dava bel tempo.
Comandava in questi tempi l'armi romane nella Pannonia _Marco Giulio
Emiliano_. Aurelio Vittore[2043] gli dà il nome di _Emilio Emiliano_.
Questi, secondo che racconta Zosimo, animati i suoi soldati, diede
addosso agli a Sciti, e gli riuscì di sconfiggerli e d'incalzarli fin
dentro ai loro paesi. Questa vittoria cagion fu che l'esercito suo il
proclamò _imperadore_. Giordano[2044] solamente scrive che _Emiliano_,
considerati i gravissimi danni recati allora dai Barbari alle terre
romane, e la trascuratezza di Gallo e di Volusiano Augusti, fece
conoscere alle sue milizie la necessità di aver un imperadore di petto
da opporre all'insolenza de' Goti: dal che venne (per suggestione
certo di lui) che quell'armata si accordò a crearlo imperadore.
Ch'egli ripulsasse, o avesse già ripulsati i Barbari, o pure ch'egli
facesse qualche tregua con loro, si potrebbe argomentar dal sapere che
egli s'incamminò a gran giornate verso l'Italia, senza far caso
d'essi. Ma forse ciò avvenne perchè, secondo Zosimo[2045], que'
Barbari, rivolte le loro scorrerie verso l'Asia, arrivarono ad Efeso,
e desertarono poi tutta la Cappadocia. Allora fu che si svegliò
_Gallo_, e raunate quelle forze che potè nell'angustia del tempo,
marciò contra di _Emiliano_, non solamente entrato nell'Italia, ma
anche giunto nell'Umbria. Furono a fronte le due armate a Terni,
secondo l'asserzione di Vittore[2046] e di Eutropio[2047], o pure al
foro di Flaminio, città da gran tempo distrutta, e posta allora ai
confini di Foligno, come si ha da Eusebio[2048]. Ma le soldatesche di
Gallo, snervate dalle delizie di Roma, non poteano competere con
quelle di Emiliano, il quale ebbe anche l'avvertenza di subornarle con
far correre secretamente fra loro la promessa di un gran regalo. Il
perchè i due imperadori _Treboniano Gallo_ e _Volusiano Gallo_ furono
dai lor proprii soldati privati di vita.

Credesi che _Gallo_ fosse allora in età di quarantasette anni, e gran
disputa è intorno alla durata del suo imperio. Fu di avviso il
Tillemont[2049] che verso il mese di Maggio Gallo fosse ucciso.
Ambedue si videro poi nell'anno seguente aggregati al numero degli dii
da _Valeriano Augusto_, ch'era loro amico fedele, ma non aveva già
l'autorità di fare dei veri dii. Rimasto vincitore _Emiliano_, e
rinforzato anche dall'armata di _Gallo_, che si unì alla sua, altro
non gli restava per essere assodato sul trono imperiale che
l'approvazion del senato. Questa la ottenne senza difficoltà, perchè
niuno osava di negarla; ed egli[2050] promise di scacciare i Barbari
dalla Mesia, e di far guerra ai Persiani, che mettevano a sacco la
Mesopotamia. Si sa[2051] che _Emiliano_ era Moro di nazione, e nato di
bassa famiglia; ma il suo valore gli avea spianata la strada ai posti
più sublimi. Se si dee credere ad una moneta di lui rapportata
dall'Angelloni[2052], egli fu due volte _console_. Potrebbe essere che
in uno degli anni addietro fosse stato console sostituito, e che dopo
la morte di Volusiano Augusto, console nell'anno presente, avesse
preso il consolato. Ma nulla di ciò apparendo in tante altre medaglie
che restano di esso _Emiliano_[2053], si può dubitar della legittimità
di questa. Ebbero poco effetto le promesse del novello imperadore,
perchè poco stette a scoppiar contra di lui un fulmine, che si andava
fabbricando nella Rezia e nel Norico. In quelle provincie _Publio
Licinio Valeriano_ era dietro a far gran massa di gente da tutte le
parti con disegno di venire in soccorso di _Gallo_ e di _Volusiano_:
quand'ecco giugnergli l'avviso di essere questi stati uccisi, e che
regnava il nemico loro _Emiliano_. O sia che Valeriano sdegnasse di
sottomettersi all'usurpator dell'imperio, o che i soldati suoi ne
concepissero anch'essi dell'abborrimento, andò a terminar la faccenda
nell'essere _Valeriano_ acclamato _Imperadore_[2054] dal medesimo
esercito suo, benchè Zosimo[2055] sembri avere creduto che solamente
dopo la morte di Emiliano, egli per consentimento di tutti, fosse
alzato al trono. Allora dunque che egli si trovò ben in forze calò in
Italia, e prese il cammino alla volta di Roma. Già correva il terzo
mese che _Emiliano_ signoreggiava, ma in maniera tale, che se
Zonara[2056] dice il vero, fino gli stessi soldati suoi il riputavano
indegno di regnare. Perciò uscito anch'egli in campagna per andare ad
affrontarsi con Valeriano, allorchè fu nelle vicinanze di Spoleti
(verisimilmente verso il mese di agosto) fu quivi da' suoi proprii
soldati svenato. La morte sua confermò _Valeriano_ senza spargimento
di sangue nel pieno possesso della dignità imperiale. Che _Valeriano_,
riconosciuto da tutti _imperadore_, desse dipoi in quest'anno il
titolo di _Augusto_ a _Publio Licinio Gallieno_ suo figliuol
primogenito, e il creasse collega nell'imperio, lo scorgeremo dagli
atti dell'anno seguente. Credesi che _Origene_, celebre ma combattuto
scrittore della Chiesa di Dio, terminasse[2057] anch'egli i suoi
giorni nell'anno presente.

NOTE:

[2041] Aurelius Victor, Syncellus et alii.

[2042] Zosimus, lib. 1, cap. 16.

[2043] Aurel. Victor, in Epitome.

[2044] Jordan., de Rebus Geticis, cap. 19. Eutropius, in Breviar.
Aurelius Victor, ibid.

[2045] Zosimus, lib. 1, cap. 16.

[2046] Aurelius Victor, in Epit.

[2047] Eutrop., in Brev.

[2048] Euseb., in Chronic. Syncellus, Chronogr.

[2049] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2050] Zonaras, in Annalib.

[2051] Aurelius Victor, in Epitome.

[2052] Angellonius, Hist. August.

[2053] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[2054] Aurelius Victor, et alii.

[2055] Zosimus, l. 1, cap. 28.

[2056] Zonaras, in Annalibus.

[2057] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CCLIV. Indizione II.

    STEFANO papa 1.
    VALERIANO imperadore 2.
    GALLIENO imperadore 2.

_Consoli_

PUBLIO LICINIO VALERIANO AUGUSTO per la seconda volta e PUBLIO LICINIO
GALLIENO AUGUSTO.

Secondo la Cronica di Damaso, o sia secondo Anastasio
bibliotecario[2058], il romano pontefice _san Lucio_, richiamato
dall'esilio, regnando Valeriano Augusto, coll'esser decapitato per la
fede di Gesù Cristo, compiè gloriosamente il corso della sua vita. E
che ciò succedesse in quest'anno alli 3 di marzo, fu opinione di
monsignor Bianchini[2059], laddove il padre Pagi[2060] riferì la di
lui morte all'anno precedente. Quel che è certo, nella cattedra di san
Pietro succedette Stefano; ma è ben difficile il provar
concludentemente che in tale e tal giorno succedesse l'elezion di
questo e di altri antichi romani pontefici. Del resto il fare
martirizzato _san Lucio_ sotto di Valeriano nell'anno presente non si
accorda con quanto abbiamo da Eusebio Cesariense[2061], cioè avere san
Dionisio, vescovo in questo tempo di Alessandria, scritto ad
Ermammone, che _Valeriano_ si mostrò sì mansueto e benigno verso de'
cristiani ne' principii, o sia ne' primi anni del suo governo, che
niuno de' precedenti Augusti, anche di quei che furono creduti
cristiani (cioè dei Filippi), avea mai praticata tanta cortesia e
benevolenza verso i seguaci di Gesù Cristo, come egli fece. La sua
stessa corte era piena di cristiani, e pareva una chiesa di Dio. Come
dunque pretendere ch'egli levasse la vita a san Lucio papa in questi
principii del suo regno? E questa fu la ragione, per cui il cardinal
Baronio differì la di lui morte sino ai tempi della persecuzione,
succeduta solamente nel quinto anno del di lui imperio. Sarebbe
pertanto da vedere se _san Lucio_, riconosciuto martire anche vivente
da Eusebio, tale fosse stato, perchè sostenne l'esilio ed altri
strapazzi per la fede di Cristo, senza poi lasciare il capo sotto la
spada dei persecutori. Quanto ho poi ricordato della benignità di
_Valeriano_ verso de' cristiani, ci fa per tempo conoscere la bellezza
e dirittura dell'animo suo, e la probità dei suoi costumi. Abbiamo
anche veduto di sopra, come egli era stato scelto dal senato romano
censore[2062], per essere in concetto del più savio ed onorato
senatore che allora si trovasse in Roma. Contava egli fra i suoi pregi
la nobiltà del sangue, ma più una vita fin qui menata con gran
prudenza e modestia. Giovanni Malala[2063] cel descrive per uomo di
statura corta, gracile, canuto, col naso alquanto schiacciato, con
barba folta, pupille nere, occhi grandi, timido e di molta parsimonia.
Pare certamente ch'egli avesse più di sessanta anni allorchè fu
acclamato imperadore. Due mogli, per attestato di Trebellio Pollione,
ebbe egli, amendue a noi ignote. La prima gli partorì _Gallieno_ suo
collega e successore; l'altra _Valeriano juniore_. Era passato
Valeriano Augusto lor padre per tutti i gradi della dignità sino al
consolato, in cui si conosce sostituito in alcuno de' precedenti anni,
giacchè avendolo preso in quest'anno, come soleano fare tutti i
novelli Augusti, vien registrato ne' Fasti _console per la seconda
volta_. Da che Valeriano fu con gran plauso riconosciuto da tutti
imperadore, il senato dichiarò _Cesare_ il di lui primogenito[2064],
cioè _Publio Licinio Gallieno_. Ciò fu nell'anno precedente, dopo di
che essendo di molto inoltrata la state, cioè, per quanto si può
conghietturare, passata la metà di agosto, o sul principio di
settembre, il Tevere gonfio oltre misura inondò la città di Roma: il
che fu preso per un presagio di disgrazie. Ma non molto dovette stare
l'imperador Valeriano a dar anche il titolo di _Augusto_ al figliuolo
Gallieno, ancorchè Zosimo ciò riferisca più tardi; perchè in tante
monete[2065] che restano di lui, egli si truova chiamato solamente
_imperadore Augusto_ e non mai _Cesare_. Passarono dunque a Roma i due
novelli Augusti, accolti con istraordinaria gioia dal senato e popolo
romano, perchè Valeriano era riputato il più meritevole di tutti di
quella eccelsa dignità[2066]: e se si fosse data al mondo tutta la
facoltà di eleggere un buon imperadore, sarebbe ognuno concorso ad
eleggere questo. Era pertanto grande la speranza e l'aspettazione di
tutti, che Valeriano avesse da rimettere in fiore l'impero romano.
Come ciò si verificasse, lo andremo a poco a poco vedendo. Entrarono
consoli nelle calende di gennaio i due Augusti; ma ciò che operassero
nell'anno presente a nostra notizia non è fin qui pervenuto.

NOTE:

[2058] Anastasius Bibliothecarius.

[2059] Blanchin., ad Anast.

[2060] Pagius, Crit. Baron., ad annum 253.

[2061] Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 10.

[2062] Trebellius Pollio, in Vita Valeriani.

[2063] Joannes Malala, in Chronogr.

[2064] Eutrop., in Breviar. Aurelius Victor, in Epitome.

[2065] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2066] Trebellius Pollio, in Vita Valeriani.




    Anno di CRISTO CCLV. Indizione III.

    STEFANO papa 2.
    VALERIANO imperadore 3.
    GALLIENO imperadore 3.

_Consoli_

PUBLIO LICINIO VALERIANO AUGUSTO per la terza volta e PUBLIO GALLIENO
AUGUSTO per la seconda.


Certo è che in _Valeriano Augusto_ concorrevano moltissime di quelle
belle doti e qualità che possono rendere gloriosi i regnanti, come la
prudenza, l'affabilità, la gravità, e la lontananza dalla superbia e
dal fasto. Il desiderio suo di accertar nelle buone risoluzioni, di
rimediare ai disordini e di giovare al pubblico, per quanto era in sua
mano, gli rendea cari tutti gli avvisi di chiunque suggeriva
avvertimenti e regole di buon governo. Resta tuttavia una sua
lettera[2067] scritta a _Balista_, forse prefetto del pretorio, che
gli aveva insinuato delle buone massime intorno al non permettere
uffiziali inutili e soldati nelle guardie, che non fossero uomini
sperimentati nel mestier della guerra. Raro giudizio ancora traspirava
dalle elezioni ch'egli faceva degli uffiziali della milizia; e tutti
coloro, che noi andremo vedendo ribellarsi a _Gallieno_ suo figliuolo,
e furono in concetto di personaggi dotati di molto valore e merito,
erano creature di lui. Così _Aureliano_ e _Probo_, che riuscirono
dipoi insigni imperadori, da lui riconobbero il principio dell'alta
loro fortuna. Secondo il catalogo del Bucherio[2068], _Lolliano_ fu da
lui creato prefetto di Roma nell'anno precedente; _Valerio Massimo_
nel presente. Contuttociò mancava di molto a Valeriano per divenire un
eccellente imperadore. Egli non avea petto, nè quella forza di mente e
di coraggio che serve ai principi grandi, per operare intrepidamente
gran cose ne' proprii regni, e per mettere il cervello a partito ai
nemici de' suoi regni[2069]. La prudenza sua scompagnata da questo
vigore il rendeva diffidente e troppo guardingo, per timor sempre di
non errare. L'inoltrata sua età contribuiva non poco ad indebolir
ancora l'animo suo. Contuttociò s'applicò egli bravamente agli affari;
ed in vero sotto di lui egregiamente procedeva il governo civile dei
popoli. Ma si cominciarono a scatenar disastri da ogni parte. Durava
tuttavia la peste; le nazioni germaniche verso il Reno facevano
frequenti scorrerie nella Gallia; le scitiche, passato il Danubio,
andavano desolando la Tracia, Mesia e Macedonia; e i Persiani dal
canto loro non cessavano d'infestar la Mesopotamia e la Soria. Mancano
a noi storie che mettano per ordine e riferiscano ai lor anni proprii
que' fatti. Troviamo anche nelle medaglie di quest'anno[2070]
mentovata una _vittoria degli Augusti_, ma senza che apparisca in qual
paese e contra chi fosse riportata. In una lettera[2071] scritta da
Valeriano Augusto a _Ceionio Albino_ prefetto di Roma nell'anno
seguente, e in alcuni altri dipoi, egli chiama _Aureliano_, che fu
dipoi imperadore, _liberatore dell'Illirico_ e _ristoratore delle
Gallie_. Potrebbe essere che questi nell'anno presente desse qualche
buona percossa ai Goti che malmenavano l'Illirico, ovvero ai Germani
che sconciamente infestavano le galliche contrade. Abbiamo ancora nel
Codice[2072] un rescritto fatto in quest'anno dagli imperadori
_Valeriano_ e _Gallieno_, e da _Valeriano nobilissimo Cesare_. Chi sia
questo Valeriano Cesare, s'è disputato fra gli eruditi, e resta
tuttavia indecisa la lite. I più l'hanno creduto _Publio Licinio
Valeriano_, secondogenito di Valeriano Augusto; ma il padre Pagi[2073]
pretende ch'egli fosse _Publio Licinio Cornelio Salonino Valeriano_,
figliuolo di Gallieno Augusto, e nipote di Valeriano seniore Augusto,
il quale si sa di certo che ebbe il titolo di _Cesare_ e di _principe
della gioventù_. Certamente a' tempi ancora di Trebellio
Pollione[2074] punto controverso era, se Valeriano secondogenito di
Valeriano seniore avesse avuto il titolo di _Cesare_ ed anche
d'_Augusto_; nè le medaglie decidono questo punto. Esse bensì, e in
molta copia, ci assicurano che _Salonino Valeriano_ figliuolo di
Gallieno fu ornato del titolo cesareo. Ma una nobile iscrizione, da me
pubblicata[2075], spettante all'anno 259 può qui togliere ogni dubbio,
veggendosi ivi registrati _Valeriano e Gallieno Augusti_, ed insieme
con loro _Publio Cornelio Salonino Valeriano Nobilissimo Cesare_. Se
Valeriano fratello di Gallieno fosse stato Cesare allora, di lui
ancora si sarebbe fatta menzione. Tale era bensì _Salonino_. E però le
medaglie[2076] che parlano di _Valeriano Cesare_, e sono attribuite al
figlio secondogenito di Valeriano Augusto, abbiam giusto motivo di
credere che appartengano a _Salonino Valeriano Cesare_ figlio di
Gallieno. Di qui finalmente apprendiamo che la dignità di chi era
solamente _Cesare_, e non _imperadore Augusto_, portava seco molta
autorità, da che il nome loro si comincia a veder negli editti.

NOTE:

[2067] Trebel. Pollio, in Triginta Tyrannis, c. 17.

[2068] Cuspinianus Bucherii.

[2069] Zosimus, lib. 1, cap. 36. Aurelius Victor, in Epitome.

[2070] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[2071] Vopiscus, in Aurel.

[2072] Leg. 11 de Fideicommisso, tit. 4, C. de Transaction.

[2073] Pagius, in Crit. Baron.

[2074] Trebellius Pollio, in duobus Gallienis.

[2075] Trebellius, Novus Inscript., pag. 360, n. 5.

[2076] Mediobarbus, ibidem.




    Anno di CRISTO CCLVI. Indizione IV.

    STEFANO papa 3.
    VALERIANO imperadore 4.
    GALLIENO imperadore 4.

_Consoli_

MASSIMO e GLARRIONE.


V' ha chi dà il nome di _Valerio_ al primo di questi consoli, cioè a
_Massimo_, senza che se ne veggano buone prove. Il medesimo ancora
vien detto _console per la seconda volta_, quasichè egli lo stesso
fosse ch'era stato promosso al consolato nell'anno 253, o pure ch'egli
fosse quel _Massimo_ che nel precedente anno esercitò la carica di
prefetto di Roma. Perchè qui si lavora solamente di conghietture, amo
io meglio di mettere il solo suo certo cognome, che di proporlo con
nomi dubbiosi. Già dissi non essere agevol cosa lo sbrogliare i tempi
e le avventure di questi imperadori per penuria di memorie. Però,
camminando a tentone, l'Occone e il Mezzabarba[2077] rapportano
all'anno presente alcune medaglie, dove si parla di una _vittoria
germanica_; e pure in niuna di esse troviamo la tribunizia podestà
terza o quarta di Valeriano, che ci assicuri dell'anno presente.
Tuttavia, essendovene una di Gallieno Augusto, in cui si legge la di
lui _tribunizia podestà quarta_, e la stessa _vittoria germanica_,
bastante fondamento ci resta di credere vittoriose in quest'anno
l'armi romane contra dei Germani. E probabilmente il giovane _Gallieno
Augusto_ quegli fu ch'ebbe l'onore di tal vittoria. Nel rovescio di
una medaglia di _Valeriano_ suo padre, attribuita dal Mezzabarba
all'anno presente, si legge: GALLIENVS CVM EXERCITV SVO, in un'altra
ad esso Gallieno è dato in questi medesimi tempi il titolo di
_Germanico_. Aurelio Vittore[2078] ed Eutropio[2079] scrivono che
Gallieno ne' primi anni del suo imperio fece alcune imprese con valore
e fortuna nelle Gallie, da dove scacciò i Germani. Abbiamo parimente
da Zosimo[2080], che vedendo Valeriano desolato l'Oriente dai Barbari,
determinò di correre a quelle parti con un esercito, lasciando al
figliuolo Gallieno la cura di opporsi agli altri Barbari che
maltrattavano le provincie romane dell'Europa. Però Gallieno, siccome
quegli che conosceva maggiore il bisogno contra dei Germani, popoli
fieri, i quali calpestavano tutto dì gli abitatori delle Gallie, passò
in persona al Reno, dando ad altri capitani ordine di opporsi ai
Borani, Carpi, Goti e Burgundi, che recavano continui travagli alla
Tracia e alla Mesia. Postatosi Gallieno alle ripe del Reno, talvolta
impediva ai nemici il passaggio, e, se pur passavano, dava loro
addosso. Ma non avea egli tali forze da poter fare lungo e vigoroso
contrasto a que' nuvoli di gente che da varie parti della Germania,
allettati dalla gola del bottino, calavano alla distruzion delle
Gallie. Perciò ricorse al ripiego di far lega con uno di quei principi
della Germania, lavorando, come si può credere, di regali, di contanti
e di promesse per l'avvenire; ed essi da lì innanzi quei furono che
impedirono agli altri Germani il passare il Reno; e se pur passavano,
tosto moveano loro guerra. Ed è da notare[2081] che in questi tempi si
comincia ad udire il nome de' Franchi, popolo della Germania
anch'esso, che unito con altri infestava le terre de' Romani.

NOTE:

[2077] Occo et Mediob., Numism. Imperator.

[2078] Aurelius Victor, in Epitome.

[2079] Eutrop., in Breviar.

[2080] Zosimus, lib. 1, cap. 30.

[2081] Vopiscus, in Aurelian.




    Anno di CRISTO CCLVII. Indizione V.

    STEFANO papa 4.
    SISTO papa 1.
    VALERIANO imperadore 5.
    GALLIENO imperadore 5.

_Consoli_

PUBLIO LICINIO VALERIANO AUGUSTO per la quarta volta e PUBLIO LICINIO
GALLIENO AUGUSTO per la terza.


Fin qui potè lodarsi della mansuetudine e clemenza di Valeriano
Augusto il popolo cristiano, avendolo egli favorito, non che lasciato
vivere in pace; ma in quest'anno si cangiò sì fattamente il cuor
d'esso imperadore, che divenne persecutor mortifero e fiero degli
adoratori di Gesù Cristo[2082]. _Macriano_, che dal fango s'era alzato
ai primi onori della corte, e godeva spezial confidenza e possesso nel
cuor di Valeriano, quegli fu che, per attestato di _san Dionisio_,
vescovo allora d'Alessandria, sovvertì il regnante, facendogli credere
che fra le tante disavventure, ond'era allora oppresso l'imperio
romano, conveniva valersi della magia e della invocazione de' demonii:
al che essendo troppo contraria la religion de' cristiani, bisognava
sterminarla. Nè probabilmente dimenticò di attribuire ad essa religion
la folla delle pubbliche disgrazie: che così erano soliti di fare i
pagani[2083]. Vedremo poscia costui aspirar all'imperio, e ricevere da
Dio per mano degli uomini il gastigo delle sue iniquità. Ebbe dunque
principio in quest'anno la persecuzion di Valeriano, che andò poi
crescendo, e solamente cessò allorchè la mano di Dio si fece sentire
anche sopra questo crudel nemico del suo nome, con restar egli prigion
de' Persiani. Intorno a ciò è da vedere la storia ecclesiastica[2084];
nè altro ora dirò io, se non che _santo Stefano_ romano pontefice
nell'anno presente gloriosamente sostenne la morte, confessando la
fede di Gesù Cristo, ed ebbe per successore _Sisto_ nel pontificato.
Furono anche in pericolo, e perciò si ritirarono, due insigni campioni
della Chiesa di Dio, cioè i santi _Dionisio_ vescovo d'Alessandria, e
_Cipriano_ vescovo di Cartagine, per tacere degli altri. Si
moltiplicavano intanto le guerre, e da ogni parte si trovava
angustiato dai Barbari nemici il romano imperio. Era già qualche tempo
che _Sapore_ re de' Persiani non lasciava passar anno che non
iscorresse coll'esercito suo a danni della Mesopotamia e della Soria.
Maggiori ancora furono i rumori e danni che si sentirono dalla parte
della Tracia e della Mesia, perchè i Goti con altre nazioni abitanti
di là dal Danubio vi faceano delle frequenti incursioni. Zosimo[2085]
arriva a dire che i Borani, i Goti, i Carpi, i Burgundi non lasciarono
parte dell'Illirico, dove non facessero delle scorrerie e saccheggi,
che giunsero fino in Italia, senza trovarvi chi loro facesse
resistenza. Comandava allora l'armi romane nella Tracia[2086] _Marco
Ulpio Crinito_, uomo di gran vaglia, creduto della casa di Traiano
imperadore, e già stato console nell'anno 258. Quali imprese egli
facesse per reprimere la petulanza di que' Barbari, nol sappiamo. Tale
nondimeno era il di lui credito, che fu creduto inclinar Valeriano a
dargli il titolo di _Cesare_: cosa nondimeno poco verisimile per le
conseguenze che ne poteano avvenire in danno dei proprii figliuoli e
nipoti. _Giunio Donato_ fu prefetto di Roma in quest'anno.

NOTE:

[2082] Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 10.

[2083] Baron., in Annalib. Pagius, Critic. Baron. Tillemont, Mémoires
des Empereurs.

[2084] Anastasius. Baronius. Pagius. Tillemont. Blanchinius et alii.

[2085] Zosimus, lib. 1, cap. 31.

[2086] Vopiscus, in Aurelian.




    Anno di CRISTO CCLVIII. Indizione VI.

    SISTO papa 2.
    VALERIANO imperadore 6.
    GALLIENO imperadore 6.

_Consoli_

MEMMIO TOSCO e BASSO.


Sempre più s'inaspriva la persecuzione mossa da Valeriano Augusto
contra dei seguaci di Gesù Cristo; e però in quest'anno fu nobilitata
la Chiesa dal martirio di _san Sisto_ sommo pontefice, e del suo
glorioso diacono _san Lorenzo_. Vide anche l'Africa morir nella
confessione della vera fede l'immortal vescovo di Cartagine _san
Cipriano_, oltre a tanti altri martiri che si possono leggere nella
storia ecclesiastica. Accadde che _Ulpio Crinito_, governatore della
Tracia e di tutto l'Illirico[2087], si ammalò in tempo appunto che le
continue vessazioni date dai Goti e dalle altre barbare nazioni a
quelle contrade maggiormente esigevano l'assistenza d'un bravo
generale. Valeriano imperadore, verisimilmente ne' primi mesi di
quest'anno, spedì colà per vicario o luogotenente di lui _Lucio
Domizio Aureliano_, che fu col tempo imperadore. Ci ha conservata
Vopisco la lettera scrittagli dal medesimo Augusto piena di stima del
valore e della saviezza d'esso Aureliano; col registro delle truppe
che doveano militare sotto di lui, fra le quali si può credere che si
contassero alcune compagnie di gente germanica, perchè i lor capitani
si veggono chiamati _Hartomondo_, _Haldegaste_, _Hidemondo_ e
_Cariovisco_. I Francesi moderni si figurano che questi fossero della
nazion franca, conquistatrice dipoi delle Gallie, quasichè nomi tali
non convenissero anche ad altre nazioni germaniche. In essa lettera
Valeriano promette il consolato ad _Aureliano_ e ad _Ulpio Crinito_
pel dì 22 maggio dell'anno seguente. E perchè di grandi spese doveano
fare i nuovi consoli, prendendo quell'insigne dignità, con fare i
giuochi circensi, e dar dei magnifici conviti ai senatori e cavalieri
romani; e la povertà di _Aureliano_ disegnato console non era atta a
sì grosse spese, Valeriano ordinò che l'erario pubblico gli
somministrasse tutto il danaro e gli utensili occorrenti, affinchè
egli non comparisse da meno degli altri. Andò Aureliano al comando
dell'armi in quelle parti, e con tal sollecitudine e bravura diede la
caccia ai Barbari, e con varii combattimenti gli atterrì, che chi non
restò vittima delle spade romane, si ritirò di là dal Danubio,
restando con ciò libera la Tracia e l'Illirico da quella mala gente. A
sì liete nuove dovette ben esultare il cuore di Valeriano e del senato
e popolo romano; ma probabilmente a turbar questa gioia giunsero altri
corrieri dall'Oriente coll'avviso di funestissimi guai. _Sapore_ re
della Persia, se crediamo ad Eusebio[2088], in quest'anno venne più
furiosamente di prima a saccheggiar la Soria. Potrebbe nondimeno
essere che al precedente anno appartenessero le disavventure di quelle
contrade. Trebellio Pollione[2089] ci dà fondamento di credere ch'egli
occupasse e spogliasse anche la nobilissima città d'Antiochia. E in
fatti Giovanni Malala[2090], storico antiocheno, scrive che un certo
Mariade, uno dei magistrati d'Antiochia, cacciato per le ruberie
ch'egli faceva al pubblico, andò a trovare il re di Persia, e si esibì
di fargli prendere a man salva la patria sua. Non lasciò il re cader
in terra una sì bella offerta, e messo in ordine l'esercito, per la
via di Calcide s'inviò colà. Per testimonianza di Ammiano[2091], e di
Egesippo[2092], se ne stava un dì il popolo d'Antiochia, siccome gente
perduta dietro ai solazzi, con gran festa ed attenzione mirando un
istrione e sua moglie, che colle lor buffonerie cavava il riso da
tutti: quando essa dopo una girata d'occhi disse ad alta voce:
_Marito, o io sogno, o vengono i Persiani_. Rivolse ognuno gli occhi
alla montagna, e videro in fatti calar l'esercito persiano. Tutti
allora a gambe, e a studiarsi di salvar quello che poteano. Entrati
nella città, che niuna difesa fece, i Persiani, dopo la strage di
molti cittadini, misero a sacco tutta quella ricca città, poscia ad
essa e a' circonvicini luoghi dato il fuoco, se ne andarono carichi di
bottino. Volle il re Sapore, prima di partirsi, far godere il premio
dovuto al traditore Mariade, con ordinare che fosse bruciato vivo,
come si ha da Ammiano, o decapitato, come scrive il Malala.

Trebellio Pollione[2093] racconta che un Ciriade ricco e nobile,
avendo svaligiato il padre, si ritirò in Persia, e mosse il re Sapore
e Odenato re della Fenicia contra de' Romani; e che avendo Sapore
presa Antiochia e Cesarea, costui si fece proclamar Cesare, e prese
dipoi anche il nome d'Augusto, ed empiè di terrore tutto l'Oriente. Ma
non andò molto che fu ucciso a tradimento dai suoi stessi soldati, in
tempo appunto che Valeriano Augusto era in viaggio per far guerra ai
Persiani. Troppo verisimil sembra che questo _Ciriade_ lo stesso sia
che _Mariade_ mentovato da Giovanni Malala, e che o l'uno o l'altro di
quegli storici abbia alterate le circostanze del fatto. Fulvio
Orsino[2094] e il Mezzabarba[2095] portano una medaglia di questo
_Ciriade_. Quanto a me, allorchè miro una o due medaglie di simili
effimeri tiranni, sempre tremo per paura che qualche impostore abbia
burlato chi si affanna per formar raccolta di medaglie. Zonara[2096]
fa accaduta la disgrazia d'Antiochia dopo la prigionia di Valeriano
imperadore; ma, come abbiam veduto, Trebellio Pollione ce la
rappresenta succeduta prima ch'egli arrivasse in Oriente; e così pare
da credere, perchè appunto Valeriano si mise nell'anno presente in
campagna per tagliar il corso ai progressi de' Persiani nella Soria.
Ammiano, che riferisce cotal fatto a Gallieno, non discorda punto,
perchè Gallieno fu imperadore col padre. Di queste sciagure adunque
accadute in Oriente informato Valeriano Augusto, non penò a giudicar
necessaria la sua presenza in quelle parti; e perciò, raunato un gran
corpo d'armata, mosse da Roma per andar a passare, secondo l'uso
d'allora, il mare a Bisanzio. Ch'egli si trovasse in quella città
nell'anno presente, si ha con sicurezza da Vopisco[2097], nel
rapportare ch'egli fa un atto pubblico quivi fatto. Cioè, essendo
assiso nelle terme di Bisanzio l'_imperador Valeriano_ alla presenza
dell'esercito e degli uffiziali del palazzo, sedendo alla destra sua
_Memmio Fosco_ (vuole dire _Tosco_) console ordinario di quest'anno,
_Bebio Macro_ prefetto del pretorio e _Quinto Ancario_ presidente
dell'Oriente; ed essendo assisi dalla sinistra _Avulnio_, ossia
_Amulio_ oppure _Anolino_, _Saturnino_ duce posto ai confini della
Scizia, _Maurenzio_ destinato governator dell'Egitto, ed altri dei
primarii uffiziali, l'imperadore a nome della repubblica ringraziò
_Aureliano_, perchè avesse liberate dai Goti le provincie romane di
quelle parti, e il regalò di quattro corone murali, di cinque vallari
e di due navali, di due civiche, di dieci aste pure, di quattro
bandiere di due colori, di quattro tonache ducali rosse, di due
mantelli proconsolari, di una pretesta, di una tonaca palmata, di una
toga dipinta, ec. Il disegnò ancora console sostituito per l'anno
seguente, con promessa di scrivere al senato che gli desse il bastone
e i fasci consolari. Per tanta benignità anche Aureliano rendè umili
grazie al generoso Augusto; dopo di che levatosi in piedi _Ulpio
Crinito_ duce dell'Illirico e della Tracia, destinato console in
compagnia d'esso Aureliano per l'anno seguente, venne dicendo che,
trovandosi egli senza successione, adottava per suo figliuolo il
suddetto _Aureliano_, siccome persona meritevole d'ogni onore per la
sua prudenza e valore, con fare istanza che l'atto suo fosse approvato
e corroborato dall'imperadore presente: siccome fu fatto. Se ne
ricordino i lettori, perchè vedranno a suo tempo esso _Aureliano_
alzato alla dignità imperiale. Da Bisanzio passò poi l'Augusto
Valeriano ad Antiochia, ma senza che apparisca s'egli vi arrivasse nel
presente anno, o pur nel seguente. Intanto i Persiani, dopo il gran
flagello recato ad Antiochia[2098], passarono nella Cilicia e
Cappadocia, dando il sacco e tutto quel paese. Aggiunge Giovanni
Malala[2099] che le loro scorrerie si stesero per tutto l'Oriente sino
alla città di Emesa, non vi lasciando paese che non devastassero e
bruciassero. Altri malanni ebbe l'imperio romano ancora dalla parte
del Ponto Eusino, o sia del mar Nero, dei quali parleremo all'anno
seguente. Sotto i consoli di quest'anno riferisce Trebellio
Pollione[2100] la ribellione di _Decimo Lelio Ingenuo_, generale
dell'armi della Mesia e Pannonia, che fu acclamato _imperadore_ da
quell'esercito, e poscia abbattuto da Gallieno. Tuttavia è difficile
il credere accaduta nell'anno presente cotal sollevazione, perchè
Valeriano imperadore passò in vicinanza di quelle parti, nè in tempo
tale costui avrebbe avuto tanto ardire; e pare che Gallieno, regnando
il padre, non si fosse per anche abbandonato ai piaceri, come vien
supposto da chi racconta questo fatto.

NOTE:

[2087] Idem, ibid.

[2088] Euseb., in Chronic.

[2089] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 1.

[2090] Joannes Malala, in Chronogr.

[2091] Ammianus, lib. 23, cap. 5.

[2092] Hegesippus, lib. 3, cap. 5.

[2093] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 1.

[2094] Ursinus, in Numism. Imp.

[2095] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2096] Zonaras, in Annalib.

[2097] Vopiscus, in Aurelian.

[2098] Euseb., in Chronic.

[2099] Joannes Malala, Chronogr.

[2100] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 8.




    Anno di CRISTO CCLIX. Indizione VII.

    DIONISIO papa 1.
    VALERIANO imperadore 7.
    GALLIENO imperadore 7.

_Consoli_

EMILIANO e BASSO.


Zosimo[2101], dopo avere scritto che i Borani, Goti, Carpi e Burgundi,
popoli tutti da lui chiamati Sciti, portarono il terrore e la
desolazione per ogni parte d'Italia e dell'Illirico, aggiugne che
rivolsero i loro disegni e passi anche verso l'Asia. Probabilmente ciò
avvenne dappoichè il valor d'_Aureliano_ gli ebbe fatti sloggiare
dalle provincie europee. Mancavano legni a costoro per passar forse
dalla Taurica Chersoneso, o sia dalla Crimea, nelle terre dell'Asia,
ma ne furono provveduti dagli abitanti di quei paesi, o per timore o
per danari. Arrivarono alla città di Pitiunte, posta alla ripa del mar
Nero, e si provarono d'impadronirsene. Ma _Successiano_, che comandava
in quelle parti l'armi romane, li ricevè così bravamente, che li fece
ritirare in fretta, non senza mortalità di molti d'essi. Avvenne che
Valeriano già pervenuto ad Antiochia, conoscendo il valore di
Successiano, il volle presso di sè, e chiamatolo, il creò prefetto del
pretorio in luogo di _Bebio Macro_, o pure unitamente con lui, con
ordinargli di ristorar le rovine della città d'Antiochia. Così Zosimo,
da cui veggiamo attestata l'occupazione d'essa città fatta dai
Persiani, non già dopo la prigionia dell'imperador Valeriano, ma
innanzi. Dovette la partenza di questo prode capitano animare gli
Sciti, cioè i Tartari suddetti, ad altre imprese; e però passarono in
Colco, e senza poter prendere il ricco tempio di Diana in Fasi,
tirarono diritto a Pitiunte, e se ne impadronirono. Di là
s'inoltrarono a Trabisonda, città grande e piena di popolo, provveduta
di buon presidio di soldati, e vi misero l'assedio. Sì trascurati
furono non meno i cittadini, che la guarnigione, che lasciarono
entrarvi una notte i Barbari. Gran bottino vi fu fatto, gran copia di
prigioni; diroccati i templi e le case; tutta la città e i luoghi
circonvicini rimasero un teatro di miserie e rovine. Secondo
Zosimo[2102], aveano costoro consumata quasi tutta la state prima di
occupar Trabisonda; ed occupata che l'ebbero, fecero delle scorrerie
per tutto il paese all'intorno, e finalmente carichi d'immensa preda
se ne tornarono sulle navi al loro paese, come si può credere,
accostandosi al verno. _Valeriano Augusto_, per quanto vedremo,
seguitando Zosimo, era tuttavia in Soria, e vel troveremo anche
nell'anno appresso: e per conseguente non si può abbracciar l'opinione
del padre Pagi[2103] e d'altri, che mettono sotto quest'anno la
cattività del medesimo imperadore; ma convien riferirla all'anno
seguente. _Cornelio Secolare_ fu in quest'anno prefetto di Roma. Ed
ivi dopo molti mesi di sede vacante, a cagion della persecuzione, che
tuttavia durava, fu eletto sommo pontefice _Dionisio_. Non v'ha
memoria se in quest'anno _Ulpio Crinito_ ed _Aureliano_ prendessero il
consolato loro promesso nell'antecedente da Valeriano Augusto. Ma
all'anno 271 troveremo esso Aureliano _console per la seconda volta_;
e quando ciò sia certo, puossi inferirne che nell'anno presente
egli procedesse console sostituito in luogo di _Gallieno_ e
_Valeriano_[2104], che doveano procedere nel consolato. Hanno
disputato gli eruditi per indovinar chi fossero questo _Gallieno_ e
questo Valeriano, destinati anch'essi consoli nell'anno presente.
Veggasi il Pagi[2105]. Resta tuttavia dubbiosa una tale quistione.

NOTE:

[2101] Zosimus, lib. 1, cap. 31.

[2102] Zosimus, lib. 1, cap. 33.

[2103] Pagius, in Critic. Baron.

[2104] Vopiscus, in Aurelian.

[2105] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CCLX. Indizione VIII.

    DIONISIO papa 2.
    VALERIANO imperadore 8.
    GALLIENO imperadore 8.

_Consoli_

PUBLIO CORNELIO SECOLARE per la seconda volta e GIUNIO DONATO per la
seconda.


Il prenome e nome di questi due consoli, non ben sicuri in addietro,
vengono oggidì chiaramente confermati da una nobile iscrizione,
esistente nel museo del Campidoglio, che si legge nella mia
Raccolta[2106]. Le ricchezze portate al loro paese dagli Sciti, cioè
dai Tartari, saccheggiatori di Trabisonda sul mar Nero, fecero
invogliar altri circonvicini Barbari a concorrere a così lucroso
mestiere[2107]. Si diedero tosto a preparar navi, obbligando gli
schiavi cristiani a fabbricarne; poi senz'aspettare il fine del verno,
e senza volersi valer di quei legni, per la Mesia inferiore passando,
ebbero maniera di valicar lo stretto di Bisanzio, e di giugnere a
Calcedone, città che andò tutta a sacco. Di là si trasferirono a
Nicomedia di Bitinia, città vasta e piena di popolo, abbondante in
ricchezze e in ogni copia di beni. Ancorchè ne fossero fuggiti i
cittadini portando quel meglio che poterono con loro, sì grande
nondimeno fu la preda ivi fatta, che ne stupivano i Barbari stessi. Le
città di Nicea, di Cio, di Apamea e di Prusa incorsero nella medesima
infelicità; e perchè coloro non poterono mettere il piede in quella di
Cizico, se ne tornarono indietro, e diedero alle fiamme Nicomedia e
Nicea. Dimorava tuttavia l'Augusto Valeriano in Antiochia, quando gli
vennero sì funeste nuove dalla Bitinia. Credevasi che egli spedirebbe
colà alcuno de' generali con un corpo di gente; ma perchè era signore
assai diffidente, altro non fece che inviar _Felice_ alla difesa di
Bisanzio. Ed egli poi se ne andò colla sua armata nella Cappadocia.
Trovò guastata da' Persiani anche quella provincia: dai Persiani,
dico, i quali aveano ancora fatta rivoltare l'Armenia, e creato ivi un
re da loro dipendente, stando più che mai orgogliosi in campagna
contra de' Romani. Ma giunto era il tempo che Dio voleva umiliare ed
insieme punire Valeriano, crudel persecutore de' servi suoi, e reo di
tante morti date a sì gran copia d'illustri campioni della fede di
Cristo. Quando egli pur pensava di andare a mettersi a fronte de'
Persiani, ecco la peste entrar nel di lui esercito, e farne un
orribile scempio. Ciò non ostante, più storici[2108] scrivono che fece
guerra ai Persiani nella Mesopotamia; e che in una battaglia per
tradimento di un suo generale, come scrive Trebellio Pollione[2109],
egli fu vinto. Questo generale vien creduto _Macriano_; e san Dionisio
vescovo d'Alessandria presso Eusebio[2110] scrive che costui, dopo
avere istigato Valeriano a perseguitar i cristiani, e dopo avere
ottenuto il supremo comando dell'armata, come s'ha da una
lettera[2111] scritta da Valeriano al senato, tradì lui stesso in
fine. Noi vedremo che costui aspirava all'imperio, e senza la rovina
di Valeriano non poteva salire sul trono. Zonara[2112] pretende che
Valeriano in questo infelice combattimento restasse preso. Ma
Zosimo[2113], senza far menzione alcuna di battaglia, e solamente
notando che rimase disfatto lo esercito romano dalla peste, seguita a
dire che Valeriano, uomo non avvezzo alle peripezie della guerra,
cadde in disperazione, nè altro scampo seppe immaginare, che quello di
guadagnar col danaro il temuto re _Sapore_, cioè di comperar la pace
dai Persiani. Spedì per questo ambasciatori con grande offerta d'oro;
ma Sapore li rimandò indietro senza nulla accettare, solamente
rispondendo, che se Valeriano volesse venire ad abboccarsi con lui, si
tratterebbono meglio i loro affari. Qui mancò la prudenza a Valeriano;
perchè, fidatosi della parola del re barbaro, andò con poco seguito a
trovarlo, e fu immediatamente ritenuto prigione. Altri[2114] furono di
parere, che trovandosi Valeriano in Edessa, ed essendo affamato
l'esercito, i soldati si sollevarono minacciando la vita di lui; e
ch'egli se ne fuggì nel campo persiano, dove restò imprigionato.
Questo racconto ha ben ciera di favola.

Certo è intanto che _Valeriano imperadore de' Romani_ cadde nelle mani
di Sapore, superbissimo re de' Persiani, e secondo tutte le apparenze,
per frode o di _Macriano_ suo generale, o pur dei Persiani stessi,
come ha Zosimo, e sembra anche insinuare Pietro Patrizio[2115] ne'
frammenti delle ambascerie. Sappiamo altresì, per attestato di varii
antichi scrittori[2116], che dall'alta dignità imperiale egli si vide
ridotto alla condizione di un vilissimo schiavo sotto la tirannia del
re nemico, che il menava dappertutto come un trofeo delle sue
vittorie, vestito della porpora per sua maggior confusione, e carico
nello stesso tempo di catene. Allorchè il tiranno volea salire a
cavallo, obbligava lo schiavo Augusto a chinarsi colle mani in terra,
e a servirgli di scabello, con aggiugner anche un insolente riso,
dicendo _che questo era un vero trionfare, e non già il dipingere
nelle muraglie e nelle tavole i re vinti, come faceano i Romani_. In
somma nulla lasciò egli indietro per avvilire, per quanto potea, la
maestà del nome romano, nè vi fu obbrobrio ed ignominia che non si
facesse patire a questo infelice regnante, la cui caduta e il
vergognoso stato sembrò poscia a chi visse lungi da que' tempi degno
non poco di compassione. Ma san Dionisio, vescovo allora d
Alessandria, Lattanzio, Costantino il Grande, Paolo Orosio ed altri
hanno riconosciuta nell'ingiusta crudeltà del re Sapore la condotta
giustissima della provvidenza di Dio contra d'un principe che s'era
messo in pensiero di estinguere la santa religion dei cristiani, e
sopra tanti innocenti servi del vero Dio avea sfogato il suo furore.
Quel che dovette oltre a tante miserie ed ignominie maggiormente
lacerare il cuore di Valeriano, si può credere che fosse il vedere che
aveva un figliuolo imperadore, un nipote Cesare, e tanti grandi uomini
da lui sollevati ai primi posti ed onori; e pure niuno di essi alzò
mai un dito per liberarlo colla forza, o per riscattarlo coll'oro da
quella vergognosa schiavitù. Anzi dovette ben giugnergli
all'orecchio[2117] che l'infame suo figliuolo _Gallieno_, non
solamente niun pensiero si prendeva di lui, mai non ispedì a Sapore
per trattare della di lui liberazione; ma lasciava anche traspirare il
contento suo per quella disavventura, che l'avea liberato da un padre
riguardato da lui come troppo rigoroso. A chi con dispiacere gli
parlava di questa funestissima scena, mostrava egli di consolarsi con
dir di sapere _che suo padre era uomo mortale, ed essere ben grande la
di lui sciagura, ma che finalmente v'era incorso colla gloria di esser
uom coraggioso._ Ed ecco come l'ambizione sregolata avea estinto nel
cuor di Gallieno tutti i doveri della gratitudine filiale, ed ogni
riguardo all'onore dell'imperio romano, troppo svergognato nella
persona di Valeriano dal re altero di Persia. Maggiormente poi dovea
risaltare l'abbominevol sua non curanza delle sventure del padre,
all'osservare come tanto il popolo romano che le milizie deploravano
concordemente la miserabil sorte d'un Augusto divenuto schiavo. Fino i
popoli battriani, iberi, albani e taurosciti, quantunque non fossero
sudditi del romano imperio, si condolsero tanto di questo sinistro
caso, che non vollero ricevere le lettere, colle quali Sapore lor
notificava la sua vittoria, e scrissero ai generali romani, esibendosi
pronti a prestar loro aiuto per liberare dalla schiavitù
Valeriano[2118]. Rapporta anche Trebellio Pollione le lettere scritte
(se pur non sono finte) al re _Sapore_ da _Balero_ re dei Cadusi, da
_Artabasde_ re dell'Armenia, e da un certo _Belseto_, che io credo
nome guasto, nelle quali parlano in favore di Valeriano, ed esaltano
il poter de' Romani. Ma chi più era tenuto a sbracciarsi pel
prigioniero Augusto, cioè _Gallieno_ suo figliuolo, quegli era che men
degli altri pensava a liberarlo o riscattarlo. E però Valeriano,
spogliato dell'imperio, in un abisso di miserie, continuò a vivere
alcuni anni ancora nella schiavitù, da cui finalmente la morte il
liberò. L'autore della Cronica Alessandrina scrive[2119] che i
Persiani l'uccisero nell'anno di Cristo 269, ma più verisimil sembra
che morisse di morte naturale. E morto che fu, per ordine di Sapore,
venne scorticato[2120]. Concia la sua pelle, per maggior vergogna del
nome romano, fu posta in un tempio, e si mostrava a tutti gli
ambasciatori vegnenti da Roma, per ricordar loro di non fidarsi molto
della loro potenza. Il dirsi da Agatia[2121] che Valeriano fu
scorticato vivo, si può relegar tra le favole. Ho io pur rapportata a
quest'anno la cattività di questo imperatore, con seguitar l'opinione
del Panvinio, del Petavio, del Pearson, del Tillemont e d'altri,
perchè questa convien più col filo delle azioni di lui a noi
conservate da Trebellio Pollione e da Zosimo. Il padre Pagi[2122], che
mette la di lui caduta nell'anno precedente, niuna valevole pruova
adduce da poter battere l'altra opinione, che il fa prigioniere
nell'anno presente, come scorgerà chiunque sappia farne l'esame.

NOTE:

[2106] Thesaurus Novus Inscript., pag. 364, n. 1.

[2107] Zosimus, lib. 1, cap. 34.

[2108] Aurelius Victor. Eutropius. Zonaras. Agathias et alii.

[2109] Trebellius Pollio, in Valerian.

[2110] Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 33.

[2111] Trebellius Pollio, Trigint. Tyrann., cap. 11.

[2112] Zonaras, in Annalibus.

[2113] Zosimus, lib. 1, cap. 35.

[2114] Zonaras, in Annal. Syncellus, in Hist.

[2115] Petrus Patricius, de Legationibus, t. I Histor. Byzantin.

[2116] Trebellius Pollio, in Valerian. Lactantius, de Mortibus
Persecut. Eusebius, in Oration. Constantin. Orosius, lib. 7, et alii.

[2117] Trebellius Pollio, in Gallieno.

[2118] Idem, in Valeriano.

[2119] Chronicon Alexandrin., tom. II Histor. Byzantin.

[2120] Petrus Patricius, de Legationibus. Lactant., de Mortib.
Persecut.

[2121] Agathias, lib. 4 Histor.

[2122] Pagius, in Crit. Baron., ad annum 259.




    Anno di CRISTO CCLXI. Indizione IX.

    DIONISIO papa 3.
    GALLIENO imperadore 9.

_Consoli_

PUBLIO LICINIO AUGUSTO per la quarta volta e LUCIO PETRONIO TAURO
VOLUSIANO.


Dopo le disavventure del padre, che non fu più contato per imperadore,
restò solo al governo del romano imperio il di lui figliuolo Publio
Licinio Gallieno. In alcune iscrizioni da me rapportate[2123] egli è
ancora chiamato _Publio Licinio Egnazio Gallieno._ Il Reinesio[2124],
avendo trovato questo _Egnazio_, si avvisò ch'egli fosse un fratello
del medesimo Gallieno Augusto, e l'opinione sua si trova seguitata dal
Tillemont[2125]. Ma egli altri non fu che lo stesso imperadore
_Gallieno_. Da _Cornelia Salonina Augusta_ ebbe Gallieno due
figliuoli, cioè _Publio Licinio Cornelio Salonino Valeriano_, a cui
abbiam già veduto che non si tardò a concedere il titolo di Cesare.
Trovansi molte medaglie[2126] col nome suo. L'altro fu _Quinto Giulio
Salonino Gallieno_, che in alcune rare medaglie s'incontra onorato
anche esso col titolo di _Cesare_. Vopisco[2127] nella Vita di
Aureliano riferisce una lettera scritta ad _Antonino Gallo console_,
senza che noi sappiamo in qual anno cada il consolato di costui. Dice
d'essere stato ripreso da esso console in una lettera familiare, per
aver mandato ad educare _Gallieno suo figliuolo_ presso di _Postumo_,
piuttosto che presso di _Aureliano_. S'è disputato chi sia questo
_Gallieno_ mandato nella Gallia, ed appoggiato alla direzione di
_Postumo_, governatore di que' paesi. Il Tillemont[2128] parve
sospettare in un luogo, benchè poscia sia di diverso parere in un
altro, che questi fosse lo stesso primogenito suo, cioè _Gallieno_ ora
imperadore; ma questo Gallieno è detto _puer_ da Valeriano, età che
non conviene all'Augusto Gallieno, che in que' tempi avea già de'
figliuoli. Parve al conte Mezzabarba[2129] che fosse mandato colà
_Quinto Giulio Salonino Gallieno_, da noi già detto secondogenito
dell'imperador Gallieno, quando Valeriano il chiama suo _figliuolo_, e
non già nipote. Finalmente stimò il padre Pagi[2130] che questi fosse
_Licinio Salonino Valeriano_ primogenito di Gallieno. Trebellio
Pollione[2131] il chiama _Salonino Gallieno_. Lascerò io che altri
decida cotal controversia, per cui non si possono recare se non
conghietture, e passerò innanzi.

Non mancavano all'_imperador Gallieno_ delle buone doti. Per conto
delle ingegno, molti si lasciava addietro. Avea studiata l'eloquenza e
la poesia; faceva anche dei versi tollerabili; mostrava genio alla
filosofia platonica, e tale stima ebbe di _Plotino_, eccellente
maestro di quella scuola, vivente allora, che gli era venuto il
capriccio[2132] di rifabbricare una città nella Campania, per ivi
fondare una repubblica di platonici; ma ne fu distornato da' suoi
cortigiani. Pareva avere del coraggio e della prontezza[2133]; ma
solamente ciò si verificava quando era in collera, o si sentiva
irritato dallo sprezzo altrui. La sua magnificenza e liberalità, se
vogliam credere a Zonara[2134], era qual si conveniva ad un
imperadore, amando egli di far del bene a tutti, e di non rifiutar
grazie a chiunque ne chiedeva. Aggiugne ch'egli inclinava alla
clemenza, non avendo fatto morire chi contra di lui s'era rivoltato.
Anche Ammiano Marcellino sembra concorde con lui su questo punto.
Tuttavia un ritratto ben diverso di lui fece Trebellio Pollione, e la
sua crudeltà starà poco a darci negli occhi. Del pari vedremo che andò
col progresso del tempo svanendo quella parte di buono che in lui si
trovava, con lasciarsi egli prender la mano dall'eccessivo amor dei
divertimenti e dei piaceri illeciti, e col divenir neghittoso e
sprezzato: cose tutte che si tirarono dietro de' gravissimi sconcerti,
e furono quasi la rovina della repubblica romana. Non si dee già
tacere che questo principe debolissimo, riconosciuta per ingiustissima
la fiera persecuzione mossa dal padre contra de' cristiani[2135],
restituì sul principio del suo governo la pace alla Chiesa, vietando
il recar ulteriori molestie ai professori della legge di Cristo. Ma
non cessò per questo l'ira di Dio, che volea puniti i Romani gentili,
per aver attizzata la crudeltà di Valeriano contra dei suoi servi; e
però si affollò ogni sorta di disgrazie sopra l'imperio romano,
regnante Gallieno. La peste più che mai vigorosa seguitò a mietere le
vite degli uomini; i tremuoti rovesciarono le città; da ogni parte i
Barbari continuarono a spogliare e lacerare le contrade romane. Il
maggiore de' guai nondimeno fu, che nel cuore del romano imperio
insorsero di mano in mano varii usurpatori e tiranni, l'insolenza de'
quali non si potè reprimere senza lo spargimento d'infinito sangue.

Per la prigionia di Valeriano restarono in una somma confusione gli
affari dell'Oriente[2136]; e corsa questa voce per tutto l'imperio e
fra i Barbari, si spalancarono le porte alle sedizioni, alle rapine e
ad ogni più funesta novità, quasi che fosse rimasta vedova abbandonata
la repubblica romana, e si riputasse uomo da nulla il di lui figliuolo
Gallieno Augusto. Trovavasi questi allora all'armata del Reno, per
opporsi ai tentativi de' sempre inquieti Germani. Racconta Zosimo che
gli Sciti, cioè i Tartari, abitanti di là dal Danubio, unite insieme
varie loro nazioni, divisero in due corpi l'immensa lor moltitudine.
Coll'uno entrarono furiosi nell'Illirico, saccheggiando e devastando
le città e campagne; e coll'altro vennero fino in Italia, ardendo di
voglia di dare il sacco alla stessa città di Roma, ne' cui tesori
speravano di saziare la loro avidità. In fatti giunsero fino in quelle
vicinanze. Il senato allora, per rimediare a sì gran pericolo, raunò
quanti soldati potè, diede l'armi ai più gagliardi della plebe, in
maniera tale, che mise in piedi un esercito più copioso che quello de'
Barbari: il che bastò per far retrocedere quegli assassini. Se ne
tornarono essi al paese loro, ma con lasciar la desolazione dovunque
passarono. Incredibili mali altresì recarono gli altri all'Illirico,
dove nello stesso tempo si provò il loro flagello e quel della peste.
Forse la peste medesima fu quella che cacciò di là quelle barbariche
locuste. Io non so dire se possa essere succeduto in questi tempi ciò
che vien narrato da Zonara[2137]: cioè che riuscì a Gallieno con soli
dieci mila soldati suoi di sconfiggere presso a Milano trecentomila
Barbari: bravura di cui non intendo io di essere mallevadore.
Veramente Zosimo attesta ch'egli dalla Gallia calò in Italia per
iscacciarne gli Sciti; ma Zonara scrive, essere stati Alamanni que'
Barbari, a' quali diede la rotta. Gli antichi scrittori facilmente
confondono i nomi delle nazioni barbariche. Eusebio[2138] ed
Orosio[2139] in fatti scrivono che circa questi tempi gli Alamanni,
dopo aver saccheggiate le Gallie, vennero a dare il malanno
all'Italia. Anche i Sarmati, se pur non sono parte anch'essi degli
Sciti mentovati da Zosimo, portarono l'armi loro contro l'Illirico
nell'anno presente. Avea in quelle parti il comando dell'armi romane
_Regilliano_[2140], uomo di gran valore. Da una lettera a lui scritta
da _Claudio_, che fu poi imperadore, si raccoglie aver egli data una
gran rotta ai Sarmati presso Scupi, città della Mesia superiore,
oggidì Uscubi nella Servia. Abbiamo da Trebellio[2141], che essendo
consoli _Fosco_ (cioè _Tosco_) e _Basso_ nell'anno 258, e sapendo le
legioni della Mesia quanto fosse immerso Gallieno nelle crapole e
nella lussuria, e che v'era bisogno d'un coraggioso generale contra
de' Sarmati già incamminati alla lor volta, proclamarono Imperadore
_Ingenuo_ governator della Pannonia. Ma o il testo di Trebellio si dee
credere guasto, o pur egli s'ingannò in riferire la ribellione
d'_Ingenuo_ prima delle sventure di Valeriano Augusto; e dobbiamo
attenerci qui ad Aurelio Vittore[2142], il quale chiaramente scrive
avere la cattività di Valeriano data ansa all'ambizion d'_Ingenuo_ per
ribellarsi. Lo stesso vien confermato da Zonara[2143]; e però all'anno
presente dee appartenere quel fatto. Ne fu portata la nuova a
_Gallieno_ Augusto, che a gran giornate passò colà con un esercito,
dov'erano molti Mori. _Aureolo_ capitano della sua cavalleria diede
una rotta ad _Ingenuo_, per la quale disperato si uccise. Può
nondimeno dubitarsi se in persona vi andasse Gallieno. Abbiamo[2144]
una sua lettera scritta a _Celere Veriano_ suo generale in quelle
parti, dove con furore inudito gli ordina di procedere contra
d'_Ingenuo_ e de' suoi seguaci senza misericordia alcuna, con uccidere
e tagliare a pezzi chiunque de' soldati o di que' popoli avea avuta
mano in quella sollevazione; e che quanto più farebbe di vendetta,
tanto più gusto a lui darebbe. V'ha chi dice che _Ingenuo_, presa la
città di Mursa, o di Sirmio, dove egli risedeva, col pugnale si
levasse la vita, per non venire in man del crudo Gallieno. Che o
nell'anno precedente o pur nel presente si rivoltassero _Postumo_
nella Gallia, _Macriano_ in Oriente, _Valente_ nell'Acaia,
_Regilliano_ nella Mesia, _Aureolo_ nell'Illirico, è stato parere di
varii moderni storici. Mancano a noi lumi per distinguere bene i fili
e tempi della storia, per quel che riguarda i tiranni allora insorti
nel romano imperio; nè ho io voglia di presentar ai lettori le dispute
dei letterati intorno a questi punti. Però chieggo licenza di parlar
di essi tiranni negli anni seguenti, perchè non o facile l'assegnar i
veri tempi de' fatti d'allora.

NOTE:

[2123] Thes. Novus Inscript., pag. 254.

[2124] Reinesius, Inscription.

[2125] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2126] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2127] Vopiscus, in Aurelian.

[2128] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2129] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[2130] Pagius, in Crit. Baron.

[2131] Trebellius Pollio, in Salonino.

[2132] Porphyrius, in Vita Plotini.

[2133] Trebellius Pollio, in duobus Gallienis.

[2134] Zonaras, in Annalibus.

[2135] Euseb., Hist. Eccles., lib. 7, c. 13. Baronius, Annal. Eccles.
ad hunc ann. Pagius, Crit. Baron. ad hunc ann.

[2136] Zosimus, lib. 1, cap. 37.

[2137] Zonaras, in Annalibus.

[2138] Euseb., in Chronic.

[2139] Orosius, lib. 7, cap. 22.

[2140] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 9.

[2141] Idem, cap. 8.

[2142] Aurelius Victor, in Epitome.

[2143] Zonaras, in Annalibus.

[2144] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrann., c. 8.




    Anno di CRISTO CCLXII. Indizione X.

    DIONISIO papa 4.
    GALLIENO imperadore 10.

_Consoli_

PUBLIO LICINIO GALLIENO AUGUSTO per la quinta volta e FAUSTINO.


Un di coloro che, alzata bandiera contra di Gallieno Augusto, si
fecero proclamar Imperadori, fu _Marco Fulvio Macriano_[2145], da noi
più volte nominato di sopra, personaggio nato bassamente, ma che,
salendo per varii gradi militari, acquistò il credito di essere il più
valoroso e prudente generale che si avesse allora l'imperio romano.
Arrivò costui sì avanti, che _Valeriano_ Augusto, siccome già
accennai, non avea persona più confidente di lui, e da lui appunto fu
mosso a perseguitare i cristiani[2146]. Perchè avea imparata la magia
dai maghi egiziani, ha sospettato taluno ch'egli fosse di quella
stessa nazione. A lui diede Valeriano il comando dell'armata, allorchè
infelicemente prese a far guerra a' Persiani, e per opinione di alcuni
tradito fu da lui. Tradì egli ancora il di lui figliuolo _Gallieno_.
Imperocchè dopo la prigionia di Valeriano, giacchè nulla era stimato
Gallieno, i soldati della Soria cominciarono, secondochè scrive
Trebellio Pollione[2147], a trattar di voler un principe atto a
sostenere l'imperio. Furono a consiglio su questo _Macriano_ e _Servio
Anicio Balista_, ch'era stato prefetto del pretorio sotto Valeriano,
ed esercitava allora la carica anch'egli di generale. Fu d'avviso
Balista che niun fosse più atto di Macriano al comando dell'armi e al
governo dell'imperio romano. Se ne scusò Macriano con dire di esser
vecchio e zoppo; ma perchè avea due suoi figliuoli giovani, già
tribuni, e di singolar bravura, cioè _Quinto Fulvio Macriano_ e _Gneo
Fulvio Quieto_, fu conchiuso che il braccio di questi due figliuoli
supplirebbe all'età del padre; e però _Macriano_ venne acclamato
_Imperadore Augusto_, ed egli appresso promosse alla medesima dignità
i due suoi figli. Di tutti e tre resta memoria nelle antiche
medaglie[2148]. Trebellio Pollione[2149] vuole che Macriano usurpasse
l'imperio, essendo consoli _Gallieno_ e _Volusiano_, cioè nell'anno
precedente 261. Al padre Pagi[2150] parve questo un errore o dello
storico o del testo, perchè, secondo lui, nell'anno 259 accade la
disgrazia di Valeriano, nè tanto potè restar l'armata di Soria senza
capo. Ma siccome abbiam detto che non regge l'opinione del Pagi
intorno all'anno della cattività di Valeriano, così nè pur sussiste il
negar qui fede a Trebellio. Già si è detto che Valeriano cadde in man
dei Persiani nell'anno 260. Che poi non succedesse sì tosto
l'usurpazione da Macriano fatta dell'imperio, si può ricavar da
Zonara[2151]. Scrive questo autore che dopo la sventura di Valeriano i
Persiani senza paura d'alcuno portarono l'armi vincitrici per la
Soria, per la Cilicia e Cappadocia: il che vien confermato da Eusebio
Cesariense[2152]. Presero la nobilissima città d'Antiochia capitale
della Soria; poi Tarso insigne città della Cilicia. Quindi misero
l'assedio a Cesarea di Cappadocia, la qual si crede che contenesse
allora quattrocento mila anime. Gran difesa fu fatta da que'
cittadini, essendo lor capitano _Demostene_, uomo di gran cuore, e
forse l'avrebbono scappata, se un certo medico fatto prigione, per non
poter reggere ai tormenti, non avesse rivelato ai nemici un sito, per
cui entrati una notte, fecero una strage immensa di quei cittadini.
_Demostene_ lor capitano, essendovi ordine di prenderlo vivo, salito a
cavallo, ed imbrandito lo stocco, si cacciò per mezzo ai Persiani, ed
atterratine non pochi, ebbe la fortuna di salvarsi. Gran quantità di
prigioni fu fatta da' Barbari nella presa di quella città, e tutti
appena provveduti di tanto cibo che bastasse a tenerli in vita, e
senza poter bere acqua se non una volta al giorno, come si fa colle
bestie. Finalmente i Romani fuggiti elessero per lor capitano un
_Callisto_ (il Tillemont[2153] sospetta che Zonara voglia dire
_Balista_), il quale, trovando sbandati i Persiani, diede loro assai
busse in varii incontri, e prese anche le concubine del re Sapore con
delle grandi ricchezze. Per queste percosse si affrettò Sapore a
ricondursi ne' suoi paesi, seco menando l'infelice Valeriano. Ora
cotali imprese richieggono del tempo, nè si vede che Macriano se ne
impacciasse punto; e però fondatamente si può credere ch'esso Macriano
solamente nell'anno 261, siccome attesta Zonara, fosse acclamato
Imperadore. Credesi che egli regnasse in Egitto; ma, se ciò è vero,
non dovette ivi piantare la sua signoria senza spargimento di sangue,
facendo menzione _san Dionisio_ vescovo alessandrino presso
Eusebio[2154] d'un'atroce guerra civile che circa questi tempi
afflisse la città d'Alessandria, susseguita poi da una terribil peste.
Che il dominio di Macriano si stendesse quasi per tutta l'Asia,
abbiamo motivo di crederlo senza difficoltà; ed ivi egli comandò per
più d'un anno.

Pensava probabilmente _Macriano_ di incamminarsi alla volta di Roma, e
di passare lo stretto di Bisanzio colla sua armata[2155]; ma perchè
ben prevedeva che _Publio Valerio Valente_, creato proconsole
dell'Acaia da Gallieno, uomo d'alto affare e suo particolar nimico,
gli avrebbe fatta opposizion nel passaggio, mandò un personaggio di
gran credito, cioè _Lucio Calpurnio Pisone Frugi_[2156], per
ammazzarlo. Se ne accorse _Valente_, e non sapendo come meglio
sottrarsi ai pericoli, si fece proclamar Augusto[2157], e regnò
qualche tempo nell'Acaia e Macedonia. Non andò più innanzi _Pisone_,
ma ritiratosi nella Tessaglia, giacchè vedea tanti che usurpavano
l'imperio, ne volle anch'egli la sua parte, con prendere il titolo
d'_Imperadore_ e di _Tessalico_ in quella contrada. Ma spedita una man
di soldati da Valente, levò di vita _Pisone_, e _Valente_ stesso fu
anch'egli da lì a poco ucciso da' suoi soldati. V'ha delle
inverisimiglianze in questi racconti; ma più ancora inverisimile a me
sembra il dirsi da Trebellio Pollione[2158], che saputosi in Roma la
morte di questi due personaggi nel dì 25 di giugno, il senato decretò
gli onori divini a _Pisone_, con dire che non si potea trovar uomo
migliore e più costante di lui. Come mai questo, se è vero ch'egli
usurpasse l'imperio contra di _Gallieno_ padrone di Roma? Nello stesso
decreto disse il console di confidare che _Gallieno_, _Valeriano_ e
_Salonino_ sieno _nostri imperadori_: intorno alle quali parole han
disputato più letterati, per determinare chi fossero _Valeriano_ e
_Salonino_, e se tutti godessero allora il titolo d'imperadori: il che
è difficile da stabilire per varii motivi. Ora _Macriano_, messa
insieme un'armata di quarantacinque mila combattenti, e lasciato
_Quieto_ Augusto suo secondo figliuolo, assistito da _Balista_, al
governo della Soria, marciò verso l'Europa, e passò il mare a
Bisanzio. Ma fosse nell'Illirico, o pure nelle estremità della Tracia,
gli venne a fronte _Marco Acilio Aureolo_ con altro più poderoso
esercito, per dargli battaglia, e segui ancora qualche menar di
spade[2159]. Trattandosi di altri Romani, non voleva Aureolo lasciar
la briglia a' suoi, sperando che quei di Macriano verrebbono dalla sua
parte, perchè avea fatta la chiamata, e forse guadagnato alcuno dei
contrarii uffiziali. Ma quei non si movevano. Per avventura venne ad
imbrogliarsi e a chinar la bandiera uno degli alfieri di Macriano; non
vi volle di più perchè gli altri alfieri, credendo ciò fatto non per
azzardo, ma per ordine de' capitani, abbassarono anch'essi le insegne,
e andarono in numero di trenta mila ad unirsi con _Aureolo_[2160],
acclamando l'imperador Gallieno. Accortosi dipoi Macriano che anche
gli altri restati con lui titubavano, li pregò di non voler dare sè
stesso e il figlio _Quinto Fulvio Macriano_ in mano di Aureolo. Il
compiacquero essi con ammazzar lui e il figliuolo; e, ciò fatto,
passarono anch'essi all'armata di Aureolo. Trebellio Pollione dà la
gloria di questo fatto a _Domiziano_, valoroso capitano d'esso
Aureolo, facendosi credere che Aureolo non v'intervenisse in persona.
Da san Dionisio Alessandrino[2161] si ricava che la caduta di
_Macriano_, per cui restò l'imperadore Gallieno libero da un nemico
che gli facea gran ribrezzo, accadde nell'_anno nono_ dell'imperio
d'esso Gallieno, e però nel presente. Si vuol qui aggiungere che restò
tuttavia padrone di quasi tutte le provincie orientali _Gneo Fulvio
Quieto_, dichiarato, come già dissi, Augusto da Macriano suo padre.
Stavagli a' fianchi _Balista_, personaggio di gran senno e di
sperimentato valore. Ma giunta la nuova che il di lui padre e fratello
erano stati vinti e tolti dal mondo, cominciarono le città
dell'Oriente l'una dopo l'altra a ritirarsi dall'ubbidienza di Quieto.
Zonara[2162] pretende che _Odenato_ da Palmira, di cui parleremo fra
poco, quegli fosse che, assediato Quieto nella città di Emesa,
l'uccidesse. Trebellio Pollione[2163] sembra piuttosto attribuire la
di lui morte ai soldati che Aureolo avea spedito per prenderlo vivo.
Quanto a _Balista_, o egli se ne fuggì, o per mezzo di qualche accordo
ebbe la facoltà di ritirarsi. Anch'egli, scrivono che prendesse dipoi
il titolo d'_Imperadore Augusto_ in qualche parte dell'Oriente, e si
mantenesse sino all'anno 264. In fatti v'ha qualche medaglia[2164] che
cel rappresenta Augusto. Ma io torno a desiderare che le medaglie di
tanti tiranni vivuti in questi tempi sieno tutte legittime e vere,
perchè non son mancati di coloro che, per farsi ben pagare dai
dilettanti di sì fatte anticaglie, han saputo formar di pianta monete
simili alle antiche col mutar le loro iscrizioni. Trebellio Pollione
confessa ingenuamente di non sapere se _Balista_ prendesse sì o no la
porpora; ed esservi scrittori che asseriscono essersi egli ritirato ad
una vita privata. Quel che è certo, egli fu dipoi ucciso, chi dice per
ordine di _Odenato_, e chi dai soldati di _Aureolo_, con riferire la
di lui morte all'anno 264: circostanze tutte dubbiose, e che non si
possono chiarire. Noi sappiamo ancora che dopo la morte d'_Ingenuo_
tiranno _Quinto Nonio Regilliano_ nell'Illirico[2165] si sollevò e
prese il titolo d'_Imperadore Augusto_. Costui, siccome di sopra
accennai, fece di molte prodezze contra dei Sarmati, e ricuperò
l'Illirico, che per la dappocaggine di Gallieno era quasi tutto
perduto. Ciò dovette avvenire prima di usurpar l'imperio; ma in qual
tempo egli l'usurpasse, nol possiamo determinare; e noi vedremo fra
poco che anche _Aureolo_ prese il titolo d'Augusto nel medesimo
Illirico. Per quel che scrive Trebellio, fu un accidente che costui
fosse promosso all'imperial dignità dai soldati, i quali, scherzando
sul nome di _Regilliano_, trovarono che Dio gli avea dato questo nome,
acciocchè divenisse re, e per questo l'acclamarono Augusto. Ma quei
medesimi soldati poi per timore della crudeltà di Gallieno, già
provata nella ribellion d'Ingenuo, e per le premure di quei popoli che
non voleano quel peso addosso, diedero ad esso Regilliano la morte.

NOTE:

[2145] Mediobarbus, in Numism. Imperat. Trebell. Pollio, in Trigint.
Tyrann., cap. 8.

[2146] Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 10.

[2147] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 11.

[2148] Goltzius et Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[2149] Trebellius Pollio, in Gallieno.

[2150] Pagius, in Critic. Baron.

[2151] Zonaras, in Annalibus.

[2152] Eusebius, in Chronic.

[2153] Tillemont, Mémoires de Empereurs.

[2154] Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 22.

[2155] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 18.

[2156] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2157] Aurelius Victor, in Epitome.

[2158] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 20.

[2159] Zonaras, in Annalib.

[2160] Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrannis, cap. 11.

[2161] Euseb., Hist. Eccles., lib. 7, cap. 23.

[2162] Zonaras, in Annalibus.

[2163] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 17.

[2164] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[2165] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 9.




    Anno di CRISTO CCLXIII. Indizione XI.

    DIONISIO papa 5.
    GALLIENO imperadore 11.

_Consoli_

ALBINO per la seconda volta e MASSIMO DESTRO.


Credesi che il primo console fosse nominato _Marco_ o _Manio Nummio
Albino_, perchè v'ha un'iscrizione romana, dove egli è chiamato
_consul ordinarius iterum_. Che così fosse, può darsi. Ma nell'antico
catalogo[2166] de' prefetti di Roma noi troviamo che _Nummio Albino_
era stato _prefetto di Roma_ nell'anno 261, e seguitò ad esercitar
quella carica nell'anno seguente ed anche nel presente; e non sapendo
noi che fosse per anche introdotto di dare ad un solo quelle due
dignità nel medesimo anno, perciò può restar sospetto che fossero due
persone diverse; se non che andando innanzi, cominceremo a trovare
chi, essendo prefetto di Roma, esercitò nello stesso tempo il
consolato. Circa questi tempi i Germani penetrarono colle loro
scorrerie fino in Ispagna. Aurelio Vittore[2167] ed Eutropio[2168]
scrivono che i Franchi, popoli allora della Germania, quei furono che,
entrati nelle Gallie, vi fecero immensi saccheggi, e di là passarono
nella Spagna Tarragonese, dove presero per forza e saccheggiarono la
capitale di quel paese, cioè Tarragona; e trovata copia di navi,
andarono insino a visitar l'Africa. Paolo Orosio[2169] attesta anche
egli la desolazione lasciata da costoro nella Spagna, con aggiungere
che ne restavano anche a' suoi tempi le funeste memorie, e che durò
per dodici anni la persecuzione da loro recata a quelle contrade. Fu
di parere il Valesio[2170] che costoro non per le Gallie, ma per
l'Oceano passassero in Ispagna, come poi fecero i Normanni nel secolo
nono; ed Eumene[2171] porge buon fondamento a questa opinione, che
sembra più verisimile, che non è il creduto loro passaggio per le
Gallie. A queste calamità son da aggiugnere l'altre narrate tutte in
un fiato[2172] da Aurelio Vittore, da Eutropio e da Orosio, ancorchè
non se ne sappia il tempo preciso. Cioè, che la Dacia, di cui quella
che oggi è Transilvania, era anticamente una parte, e tutto quanto il
paese conquistato una volta da Traiano venne in potere dei Barbari.
Secondo Eutropio, i Quadi e i Sarmati devastarono la Pannonia.
Eusebio[2173] scrive che l'occuparono. Orribili ancora furono i danni
recati dagli Sciti, cioè dai Goti, alle provincie dell'Europa e
dell'Asia, colle quali confinavano. Trebellio Pollione[2174] racconta
che costoro s'impossessarono della Tracia, devastarono la Macedonia, e
vennero ad assediare Tessalonica, oggidì Salonichi. Fu loro data
battaglia nell'Acaia da _Macriano_ general de' Romani, diverso da
colui che abbiam veduto di sopra, e il cui vero nome probabilmente era
_Marziano_, di cui parleremo più abbasso. Sconfitti se n'andarono i
Barbari. L'altro esercito di essi Goti, passato nell'Asia, pervenne
sino ad Efeso, dove, dato in prima il sacco al celebre e ricchissimo
tempio di Diana, poscia lo consegnarono alle fiamme. Lo storico
Giordano[2175] non lasciò indietro questa partita, con dire che i Goti
condotti da Respa, Veduco, Turo e Varo loro capitani, vi
saccheggiarono varie città, incendiarono il tempio di Diana Efesina, e
nella Bitinia spogliarono e diroccarono la bella città di Calcedonia.
Carichi di bottino nel ritornare a casa devastarono Troia ed Ilio:
lasciarono i segni della loro fierezza nella Tracia, e presero la
città d'Anchialo, posta alle radici del monte Emo, dove si fermarono
molti dì per que' bagni caldi che quivi si trovavano. Dopo di che se
ne tornarono ai lor paesi. Ma non si contentarono di questo que'
Barbari. Un sì gustoso mestiere li fece altre volte ritornare ai danni
delle provincie romane. Crede il padre Pagi[2176] che l'irruzione
suddetta de' Goti appartenga all'anno precedente, perchè si figura
celebrati allora i decennali di Gallieno. Ma chi riferisce a
quest'anno esse feste, vi unisce ancora i pianti dell'Asia per cagion
dei suddetti Barbari.

In qual anno _Postumo_ governator delle Gallie si rivoltasse contra di
Gallieno Augusto, e prendesse il titolo di _imperadore_, è tuttavia in
disputa, nè io son qui per entrare in sì fatte liti di critica che il
lettore non aspetta da me. Certo è che almen qualche tempo prima
dell'anno presente egli usurpò l'imperio in quelle parti. Per quanto
credono gli eruditi di ricavar dalle medaglie[2177], era il suo nome
_Marco Cassio Latieno Postumo_, benchè Trebellio Pollione[2178] il
chiami _Postumio_. In una iscrizione[2179] da me data alla luce, non
_Latieno_, ma _Latino_ si vede appellato. Questi era bassamente nato,
ma giunto ad essere uno de' più eccellenti capitani che si avesse Roma
allora, uomo di singolar prudenza e gravità, che con tutta la sua
severità intendeva l'arte di farsi amare dai popoli e dai soldati.
_Valeriano Augusto_, che sapea ben discernere i meriti delle persone,
gli avea dato il governo delle Gallie, acciocchè il suo valore
servisse a rintuzzar l'orgoglio de' Franchi e d'altre nazioni
germaniche transrenane, già usate a molestar le provincie romane. Tal
credito s'era egli acquistato, ch'esso Valeriane gl'inviò suo nipote
_Salonino_, non so se il primo o se il secondo figliuolo di
_Gallieno_, acciocchè l'istruisse nelle arti convenienti ad un
principe e ad un guerriero. Ma se Postumo era dotato di tanti bei
pregi, non si trovava già in lui l'importantissimo della fedeltà. Il
sapersi nelle Gallie la vita lussuriosa e scandalosa che menava
_Gallieno_ in Roma cagionò in que' popoli un tal disprezzo di questo
principe, aiutato probabilmente anche dalle scerete insinuazioni
d'esso Postumo, che pensarono a provvedersi d'un imperadore, in cui
concorresse il valore e il senno, per difendersi dai nemici Germani.
Avea Postumo, per relazione di Zonara[2180], sconfitto un corpo di
que' Barbari passati di qua dal Reno, e distribuito ai soldati il
bottino fatto[2181] Silvano capitan delle guardie del giovinetto
_Salonino Cesare_ l'obbligò ad inviar quella preda al principe: il che
sì forte amareggiò i soldati, mal soddisfatti per altro, poichè lor
non piaceva di star sotto il comando di un fanciullo, cioè di esso
_Salonino_, che, alzato rumore, proclamarono _imperadore Postumo_. Il
che fatto, marciarono tutti a Colonia, dove dimorava esso _Salonino_,
gridando di voler nelle mani il principe e _Silvano_, ed assediarono
quella città. Bisognò darli, e Postumo li fece morire amendue,
aggiugnendo quest'altra taccia alla violata fede contra del suo
sovrano. Non vi fu popolo alcun delle Gallie che nol riconoscesse
volentieri per imperadore; e pare che anche le Spagne e l'Inghilterra
si sottomettessero al di lui imperio; e tolta la fellonia, era egli
ben degno di reggere popoli[2182]. Nello spazio di sette anni che
Postumo regnò, anche nelle Gallie regnò la felicità: tanta era la sua
moderazione e giustizia, tanto il suo valore, per cui ridusse i
Germani a contenersi nei loro limiti, e fabbricò anche alcune castella
nel loro paese. Egli si trova nelle medaglie[2183] (se pur tutte son
vere) appellato console per la quarta volta. Avea un figliuolo nomato
_Caio Giunio Cassio Postumo_, a cui diede il titolo di _Cesare_, e poi
quello di _Augusto_. Fu Postumo il più potente e terribil avversario
che si avesse Gallieno, non tanto per la sua buona testa, quanto per
l'amore che gli portavano i popoli delle Gallie, e per lo grande
squarcio ch'egli avea fatto dell'imperio romano.

Ora _Gallieno Augusto_ (io non so dire in qual anno) con buon esercito
marciò in persona contra di Postumo. _Teodoto_ era il generale della
sua armata. Posero l'assedio ad una città, dove s'era rinchiuso
Postumo; ma nel fare Gallieno la ronda intorno a quella città, fu
ferito da una saetta, e dovette cessare per questo l'assedio. Se poi
Trebellio Pollione[2184] tien qualche ordine ne' suoi racconti, circa
questi tempi, o pur nell'anno precedente, il medesimo Gallieno,
conducendo seco due bravi capitani, cioè _Aureolo_ e _Claudio_ (il
qual fu poscia imperadore), tornò di nuovo a far guerra a Postumo. Fu
allora che Postumo dichiarò imperadore Augusto e collega suo _Marco
Aurelio Piavvonio Vittorino_, uomo di grande abilità nel mestier della
guerra, benchè perduto dietro le femmine, per poter più facilmente
opporsi agli sforzi di Gallieno. Seguirono varii combattimenti o
scaramuccie, e in una battaglia restò anche sconfino Postumo; ma senza
apparire che per questo sinistro colpo peggiorassero gli affari di
lui, e ne profittasse quei di Gallieno. Parimente intorno a questi
tempi un'orribil disavventura accadde in Bisanzio. Per quanto sembra
dire Trebellio, dovea essere venuto alle mani il popolo di quella
città colla guarnigione; e prevalendo la forza de' soldati, restò
tagliata a pezzi quella cittadinanza, in maniera che tutte le vecchie
famiglie vi perirono, a riserva di coloro che o per la mercatura o per
la milizia n'erano lontani. Gallieno adunque, sbrigato che fu dalla
guerra di Postumo, passò alla volta di Bisanzio, dove non ispirava di
entrare se non colla forza. Ma, avendo capitolato quel presidio,
v'entrò; e poi, senza osservar la parola e il giuramento, fece
uccidere tutti quanti que' soldati che vi si trovarono. Di là poi
frettolosamente, e glorioso per quel macello, come se ne avesse
riportata qualche gran vittoria, sen venne a Roma, dove celebrò con
grande e disusata pompa il decennio compiuto del suo imperio. Secondo
il padre Pagi[2185], questa solennità si fece nel precedente anno;
secondo altri, nel presente, perchè in questo terminava esso decennio,
e si faceano i voti pubblici per la conservazione dell'imperadore per
un altro decennio. Le medaglie[2186] ne parlano, ma senza chiarirne il
tempo. Racconta lo stesso Trebellio[2187] che _Gallieno_ corteggiato
da tutto il senato e dall'ordine equestre, e dalle milizie vestite di
bianco, preceduto dal popolo e fin da' suoi servi e dalle donne che
portavano torcie e lampade accese, processionalmente si portò al
Campidoglio. Cento buoi colle corna dorate e con gualdrappe di seta
(cosa preziosa in que' tempi) e ducento bianche agnelle, andavano
innanzi per servire ai sagrifizii. V'intervennero ancora dieci
elefanti che si trovavano allora in Roma; e mille e ducento gladiatori
superbamente vestiti. V'erano carrette che menavano ogni sorta di
buffoni, ed altre, nelle quali si rappresentavano le forze dei
ciclopi. Per tutte in somma le strade altro non si vedeva che giuochi,
e le acclamazioni dappertutto andavano al cielo. Comparivano in fine
centinaia di persone, fintamente vestite, chi alla gotica, chi alla
sarmatica, ed altre con abiti da Franchi e da Persiani. Con questa
vana pompa, o sia con questa mascherata, si credeva l'inetto principe
d'imporre al popolo romano, il quale in mezzo agli applausi si burlava
di lui, mostrandosi favorevole, chi a _Postumo_, chi a _Regilliano_,
il qual non dovea per anche essere ucciso; ed altri ad _Emiliano_ e a
_Saturnino_, che già si dicevano anch'essi rivoltati. I più nondimeno
compiangevano la prigionia di Valeriano, a cui nulla pensava l'ingrato
figliuolo. Accadde, che conducendosi fra la turba dei finti Persiani
anche il re di Persia, come prigioniere (cosa che moveva il riso a
tutti), alcuni buffoni si cacciarono fra que' Persiani, guatando
attentamente ognun d'essi in viso. Interrogati che cercassero con
tanta premura, risposero: _Cerchiamo il padre del principe_. Gallieno,
che mai non si risentiva all'udir parlare dell'infelice suo padre, e
solamente mutava discorso con dire agli astanti: _Cosa di buono avremo
al pranzo? che solazzi abbiam da godere oggi? vi sarà egli spasso
domani al teatro, al circo?_ avvertito della facezia di que' buffoni,
allora prese fuoco; e fattili imprigionare, li condannò ad essere
bruciati vivi: sentenza e spettacolo che amareggiò sommamente il
popolo, e talmente se ne dolsero i soldati, che ne fecero a suo tempo
aspra vendetta.

NOTE:

[2166] Apud Bucherium et Eccardum.

[2167] Aurelius Victor, in Epitome.

[2168] Eutrop., in Breviar.

[2169] Paulus Orosius, Histor., lib. 7.

[2170] Valesius, Rer. Franc., lib. 11.

[2171] Eumenes, in Panegyrico Constantin.

[2172] Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar. Orosius,
Histor., lib. 7.

[2173] Euseb., in Chronic.

[2174] Trebellius Pollio, in Gallieno.

[2175] Jordanus, de Rebus Geticis, cap. 20.

[2176] Pagius, in Critic. Baron.

[2177] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2178] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, et in Gallieno.

[2179] Thesaurus Novus Inscript., pag. 360, n. 5.

[2180] Zonaras, in Annalibus.

[2181] Zosimus, lib. 1, cap. 38.

[2182] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 2 et 4.

[2183] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[2184] Trebellius Pollio, in Gallieno.

[2185] Pagius, in Crit. Baron. ad annum 262.

[2186] Mediob., in Numismat. Imperator.

[2187] Trebellius Pollio, in Gallieno.




    Anno di CRISTO CCLXIV. Indizione XII.

    DIONISIO papa 6.
    GALLIENO imperadore 12.

_Consoli_

PUBLIO LICINIO GALLIENO AUGUSTO per la sesta volta e SATURNINO.


Ho io prodotta un'iscrizione[2188] posta a _Lucio Albino Saturnino
console_, ma senza poter determinare se ivi si parli di _Saturnino_
console di quest'anno. S'è fatta poco fa menzione di _Saturnino_,
personaggio anch'esso usurpator dell'imperio in questi calamitosi
tempi di Roma. Quel poco che ne sappiamo, l'abbiamo dal solo Trebellio
Pollione[2189], il quale non seppe nè pur egli dirci altro, se non che
era uomo di prudenza singolare, di vita amabile, e che avea riportato
più vittorie contra dei Barbari; ma senza poter assegnare nè il tempo,
nè il paese, dove l'armata posta sotto il suo comando gli diede la
porpora imperiale. Probabilmente egli comandava ai confini della
Scizia. Ma perchè parve, nell'andar innanzi, troppo severo, que'
medesimi che gli aveano dato l'imperio, quello, insieme colla vita,
gli tolsero. Maraviglia è come quello storico ed altri sì vicini a
questi tempi sì poco sapessero di quegli avvenimenti. Per quello che
riguarda _Emiliano_, mentovato anch'esso poco fa da Trebellio
Pollione, non è per anche stabilita la serie de' suoi nomi, perchè le
poche medaglie che s'hanno di lui, lasciano dubbio d'impostura. Vien
creduto non diverso da quell'_Emiliano_ che, per attestalo di Dionisio
Alessandrino[2190], perseguitò malamente i cristiani in Egitto. Era
egli generale dell'armi romane in quelle stesse provincie[2191],
quando, insorta una briga per avere un soldato battuto un servo, a cui
era scappato detto, _essere migliori le scarpe sue che quelle dei
soldati_, la plebe alessandrina, solita per ogni bagattella a muoversi
e a far sedizione, s'attruppò, e con armi e sassi andò infuriata a
trovar _Emiliano_, regolandolo ancora d'alcune sassate. Dicono ch'egli
non trovasse altro scampo che quello di farsi dichiarar _imperadore_,
per poter comandare a bacchetta e farsi più rispettare. Per quel tempo
ch'egli regnò tenne con vigore l'imperio e visitò la Tebaide e tutto
l'Egitto, mettendo buon ordine dappertutto. Ma spedito colà da
Gallieno un esercito sotto il comando di _Teodoto_, Emiliano, nel
punto che si preparava a far una spedizione contro agl'Indiani, fu
preso e strangolato in prigione. Voleva poi Gallieno crear _Teodoto
proconsole_ dell'Egitto, acciocchè godesse più autorità e balìa; ma ne
fu ritenuto dai sacerdoti, perchè v'era una predizione, che allora
l'Egitto tornerebbe in libertà, quando v'entrassero i fasci consolari
che si davano ai proconsoli, e la pretesta dei Romani. Trebellio
Pollione cita per testimonio di ciò Cicerone e Procolo grammatico. Il
tempo, in cui Emiliano usurpò la porpora e perdè la vita, indarno si
va ora cercando. Lo stesso Pollione nel precedente anno parlò di
_Aureolo_, come di persona già ribellata contra di Gallieno Augusto.
Per questa ragione metto io sulla scena costui nell'anno presente,
benchè trovi qui imbrogliati non poco i conti di quello storico[2192].
Sembra che egli proponga la di lui ribellione avvenuta non molto dopo
la cattività di _Valeriano imperadore_; e perciocchè dipoi si vede
ch'egli combattè in favor di Gallieno contra di Macriano, ed anzi poco
fa in compagnia del medesimo Gallieno, lo abbiam veduto far guerra a
Postumo; non si può già facilmente credere che così presto egli si
rivoltasse. Pollione l'acconcia con dire che Gallieno fece pace con
Aureolo, e di lui si servì poscia contra di Postumo. Altri sono stati
di avviso che il prendesse per collega nell'imperio per abbattere col
braccio di lui gli altri tiranni: tutte cose improbabili presso chi sa
le gelosie e le diffidenze dei dominanti. Zosimo[2193] riferisce la
rivolta d'esso _Aureolo_ all'anno 267, ed in ciò è seguito da
Zonara[2194]. Questa pare la più verisimil opinione. Nelle
medaglie[2195] che restano d'esso tiranno si vede ch'egli era
appellato _Manio_ (e non già _Marco_) _Acilio Aureolo_. Il governo
dell'Illirico fu a lui conferito da Gallieno; ma egli, guadagnati gli
animi dei soldati, si fece acclamar _Imperadore_. Se dice il vero il
sopraccitato Trebellio Pollione[2196], nell'anno precedente _Odenato_
re de' Palmireni ottenne l'imperio di tutto l'Oriente. Riserbo io le
notizie di questo insigne personaggio all'anno seguente.

NOTE:

[2188] Thesaur. Novus Inscript., pag. 365.

[2189] Trebell. Pollio, in Trigint. Tyrann., c. 22.

[2190] Euseb., Histor. Eccles., lib. 7, cap. 11.

[2191] Trebell. Pollio, in Triginta Tyrann., c. 21.

[2192] Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrann., et in Gall.

[2193] Zosimus, lib. 1, cap. 40.

[2194] Zonaras, in Annalibus.

[2195] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2196] Trebellius Pollio, in Gallieno.




    Anno di CRISTO CCLXV. Indizione XIII.

    DIONISIO papa 7.
    GALLIENO imperadore 13.

_Consoli_

PUBLIO LICINIO VALERIANO per la seconda volta e LUCIO CESONIO LUCILIO
MACRO RUFINIANO.


Il primo console, cioè _Valeriano_, comunemente vien creduto il
fratello di _Gallieno Augusto_, con opinione ch'egli nell'anno 259
fosse stato console sostituito. Tempo è ormai di parlare di _Odenato_,
il cui nome si rendè ben celebre per le imprese da lui fatte in
servigio dell'imperio romano in Oriente. Egli[2197] era nato in
Palmira, città nobile della Fenicia, non lungi dall'Eufrate, delle cui
rovine ed antichità han rapportato molte notizie in questi ultimi
tempi i viaggiatori inglesi. Ch'egli fosse solamente cittadino e
decurione in quella città, lo scrive Eusebio[2198]. Ciò vien anche
confermato da Zosimo[2199], il quale nondimeno aggiunge aver egli
avuto delle milizie proprie: il che sembra indicare ch'egli fosse uno
dei principi dei Saraceni abitanti verso l'Eufrate e collegati dei
Romani, siccome ancora fu di parere Procopio[2200]. Fece Dio nascere
in questi tempi un uomo tale per umiliar l'orgoglio di _Sapore_ re
della Persia, che dopo la gran vergogna inferita ai Romani, col fare
suo schiavo il loro _imperador Valeriano_, pareva in istato di
assorbir tutte le provincie romane dell'Oriente. Avea _Odenato_[2201]
in sua gioventù fatto il noviziato della guerra nella caccia delle
fiere, prendendo lioni, pardi, orsi ed altri animali selvatici, ed
indurando il corpo ai venti e alle pioggie. Veduto ch'egli ebbe
divenuto formidabile a tutto l'Oriente il re Sapore per le vittorie
guadagnate sopra i Romani, abbiamo da Pietro Patrizio[2202], che per
comperarsi la buona grazia di quel regnante, gli inviò molti cammelli
carichi di preziosi regali, con lettera di tutta sommessione e
rispetto. All'alterigia di Sapore (male ordinario dei gran tiranni
dell'Oriente) parve un'insolenza l'atto di Odenato, che, essendo
persona privata, avesse osato di scrivergli senza presentarsi egli in
persona al soglio suo. Il perchè stracciò quella lettera, fece gittar
nel fiume que' presenti, e disse ai messi ch'egli saprebbe ben
insegnar le creanze al loro signore, e come un par suo dovea trattare
con chi era suo padrone, e che sterminerebbe lui colla sua famiglia e
patria. Contuttociò, s'egli bramava un gastigo men rigoroso, venisse a
prostrarsi ai suoi piedi colle mani legate. Fu allora che Odenato, non
sapendo digerir tanta boria, nè tollerar le mal meritate minaccie del
barbaro regnante, si gittò affatto nel partito de' Romani.
Zonara[2203] scrive, esser egli stato quello che nella Mesopotamia
assediò in Emesa _Quieto_ figliuolo di _Macriano_ tiranno, ed il fece
uccidere. Da lui parimente[2204] tolta fu la vita a _Batista_,
usurpatore anche esso dell'imperio in Oriente. Appresso mosse una
fiera guerra al re di Persia; ricuperò Nisibi e Carre e tutta la
Mesopotamia. S'era egli dato il vanto di voler anche cavar dalle mani
de' Persiani il prigionier Valeriano; e perciocchè mostrava in tutto
dipendenza da Gallieno Augusto, ed ubbidienza agli ordini che venivano
da lui, fu creato governatore e generale dell'Oriente da esso
imperadore. Avvennero questi fatti negli anni addietro.

Che Odenato anche prima di questo anno entrato nelle terre de'
Persiani, grande strage facesse di loro, ed arrivasse fino a
Ctesifonte, capitale allora di quella monarchia, si può raccogliere da
Zosimo[2205] e da Trebellio Pollione[2206]. Ma verso questi tempi egli
di nuovo, più potente e risoluto che mai, tornò addosso ai Persiani, e
mise l'assedio a Ctesifonte. Molti combattimenti e saccheggi di tutto
quel paese, e macello incredibile della nemica genie fu ivi fatto. Ma
perchè tutti i satrapi della Persia si unirono per la comune difesa,
non potè far crollare ai suoi voleri quella metropoli. Portate intanto
a Gallieno le nuove, qualmente _Odenato_, dopo aver liberata dai
Persiani la Mesopotamia, era giunto sotto Ctesifonte, avea messo in
fuga il re Sapore, presi molti di questi satrapi, e fatta strage di
que' Barbari: per consiglio di _Valeriano_ suo fratello e di _Lucilio_
suo parente, che abbiam veduto consoli ordinarii nell'anno presente, a
motivo di maggiormente attaccare _Odenato_ agl'interessi del romano
imperio, gli diede il titolo di _Augusto_, dichiarandolo suo collega,
ed ordinando che si battessero monete in onore di lui, delle quali
alcune ancora ne restano[2207]. A molti dovette parere strana una tal
risoluzione, perchè restava giustificatamente in mano ad Odenato,
principe straniero, tutto lo Oriente; e pure, se dice il vero
Trebellio Pollione, il senato e tutto il popolo romano sommamente
lodarono questo fatto, probabilmente sperando che andasse a terra
l'inetto Gallieno, e che questo valoroso Fenicio avesse poi da
rimettere in buon sesto il troppo sfasciato imperio romano. E ciò
basti per ora di Odenato. Benchè non si sappia il tempo preciso in cui
anche _Trebelliano_ non volle esser da meno di tanti altri usurpatori
dell'imperio[2208], pure ne parleremo qui. Solamente noi sappiamo che
costui, nominato _Caio Annio Trebelliano_ in qualche medaglia[2209]
(se pur son legittime le medaglie di lui), trovando nella Isauria quel
popolo malcontento di Gallieno, e bramoso di un condottiere, prese il
titolo d'_imperadore_, e nella rocca d'Isauria si fabbricò un palazzo.
Fra que' luoghi stretti del monte Tauro si mantenne egli per qualche
tempo; ma speditogli contro da Gallieno _Causisoleo_ Egiziano,
fratello di quel _Teodoto_ che avea preso Emiliano tiranno
dell'Egitto, ebbe maniera di tirarlo a campagna aperta, di dargli
battaglia, di sconfiggerlo e di levargli la vita. Ma quei popoli per
paura di gastighi continuarono nella lor ribellione e libertà, nè si
poterono per gran tempo, e forse mai più, rimettere all'ubbidienza
della repubblica romana. Nè pure all'Africa mancarono i suoi
disastri[2210]. Quivi per cura di _Vibio Passieno_ proconsole, e di
_Fabio Pomponiano_ general dell'armi ai confini nella Libia, fu creato
imperadore un _Tito Cornelio Celso_ semplice tribuno, e vestito colla
porpora imperiale da una _Galliena_ cugina del medesimo Gallieno
Augusto. Ma non passarono sette dì che costui fu ucciso, il suo corpo
dato ai cani, ed impiccata l'effigie sua per opera del popolo di
Sicca, il quale s'era mantenuto fedele a Gallieno. Abbiamo
un'iscrizione[2211] comprovante ch'esso Gallieno fece in quest'anno
rifabbricar le mura di Verona; perlochè quella città prese il titolo
di Galleniana. Il lavoro fu cominciato a dì 5 d'aprile, e terminato
nel dì 4 di dicembre. Dovea servire quella città d'antemurale
agl'insulti de' Germani. A' tempi del gran Pompeo era essa divenuta
colonia de' Romani[2212]; ma, scaduta per le guerre, trovò
miracolosamente un ristoratore in questo sì disattento e scioperato
Augusto.

NOTE:

[2197] Agathias, lib. 4 Histor.

[2198] Euseb., in Chronic.

[2199] Zosimus, lib. 1, cap. 38.

[2200] Procopius, de Bello Pers., lib. 11.

[2201] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 14.

[2202] Petrus Patricius, de Legationibus, t. I Histor. Byzantin.

[2203] Zonaras, in Annalibus.

[2204] Trebellius Pollio, in Gallienis.

[2205] Zosimus, lib. 1, cap. 29.

[2206] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 14.

[2207] Goltzius, et Mediob., in Numism. Imperat.

[2208] Trebellius Pollio, in Gallieno, et in Trig. Tyrann., cap. 14.

[2209] Goltzius, et Mediob., Numism. Imper.

[2210] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis.

[2211] Panv., in Fast. Cons. Maffeius, Veron. Illustr.

[2212] Incertus, in Panegyrico Constant., cap. 8.




    Anno di CRISTO CCLXVI. Indizione XIV.

    DIONISIO papa 8.
    GALLIENO imperadore 14.

_Consoli_

PUBLIO LICINIO GALLIENO AUGUSTO per la settima volta e SABINILLO.


Per gli nuovi tiranni che ogni dì saltavano fuori, conquassato era
l'imperio romano; ma poco parea che se ne affliggesse la testa
leggiera di Gallieno imperadore[2213]. Quando gli giugneva la nuova
che l'Egitto era perduto: _E che?_ diceva egli, _non potremo noi
vivere senza il lino d'Egitto?_ Veniva un altro a dirgli le orribili
scorrerie fatte dagli Sciti nell'Asia, e i tremuoti che aveano in
quelle parti diroccate le città, rispondeva: _Non potremo noi far
senza le loro spume di nitro per lavarci?_ Udita la perdita delle
Gallie, se ne rise, dicendo: _Sto a vedere che la repubblica sia
sbrigata, se non verran più le tele di Arras_. Così questo imperadore
con aria da filosofo, ma con vera dappocaggine e stoltizia di
principe. E intanto le applicazioni sue più serie erano dietro alla
cucina e alle tavole per mangiar bene e ber meglio, e a soddisfar le
sfrenate voglie della libidine sua, e a far comparse di lusso
disusato, senza prendersi pensiero del pubblico governo, e senza
mettersi affanno di tante ribellioni e disastri che fioccavano da
tutte le bande sul romano imperio. Abbiamo da Aurelio Vittore[2214]
ch'egli, oltre alla moglie _Salonina Augusta_, teneva varie concubine,
fra le quali la principale fu _Pipa_, figliuola del re de' Marcomanni,
per ottenere la quale cedette ad esso re una parte della Pannonia
superiore. E questa sua trascuraggine appunto era quella che animava
or questo or quello ad alzar bandiera contra di lui, e ad usurpare il
nome d'imperadore. Trovò egli nondimeno un ingegnoso spediente per
mettere freno all'esaltazione di nuovi Augusti[2215], e fu quello di
proibir da lì innanzi che i senatori avessero impieghi nella milizia,
e si trovassero nelle armate, perchè diffidava di chiunque era in
credito, e poteva aspirare all'imperio, o muover altri a liberarsi da
lui. Uso fu degli Augusti di condur sempre seco ne' viaggi e nelle
guerre un numero scelto di senatori, che formavano il loro consiglio,
e mantenevano ne' popoli e nelle soldatesche il rispetto dovuto al
senato, e comandavano bene spesso le armate. Tutto il contrario fece
Gallieno. E di qui poi venne, che avvezzatisi i senatori a godersi in
pace i loro posti e beni, e a risparmiar le fatiche, i pericoli e le
sedizioni della milizia, più non cercarono di far cessare quella legge
di Gallieno: perlochè sempre più venne calando la loro stima ed
autorità, e crebbe l'insolenza di chi comandava e maneggiava l'armi.

Intorno a questi tempi pare che succedesse nelle Gallie il fine di
_Postumo_, stato per più anni tiranno, o sia imperadore in quelle
parti, dove ancora avea preso il quarto consolato. Scrivono[2216]
ch'egli mantenne sempre que' popoli in istato felice, mercè del suo
senno e valore, ed era anche universalmente amato e rispettato.
Tuttavia si sollevò contra di lui _Lucio Eliano_, che prese il titolo
d'_Imperadore_ in Magonza. Eutropio[2217] scrive, che avendo Postumo
presa quella città, per non aver voluto abbandonarne il sacco ai
soldati, costoro l'uccisero insieme col giovane Postumo suo figliuolo.
Ho io con Aurelio Vittore appellato _Eliano_ l'emulo che si rivoltò
contro di lui; ma questi infallibilmente non è se non quel personaggio
che da Trebellio Pollione[2218] vien chiamato _Lolliano_, e tale
ancora si trova il suo nome presso d'Eutropio. Postumo, secondo il
suddetto Pollione, per maneggi segreti d'esso Lolliano, perdè la vita;
ed è certo che questi sopravvisse a Postumo. Dicono ch'egli fu
accettato per _Imperadore_ da una parte delle Gallie; e che fece di
gran bene alle città di quelle contrade, e che rifabbricò varii luoghi
di là del Reno. Ma che? _Vittorino_, figliuolo di Vittoria, già preso
per collega dell'imperio da Postumo, gli fece guerra; e peggiore
gliela fecero i soldati, perchè annoiati dalle troppe fatiche, alle
quali continuamente gli obbligava, gli tolsero la vita. Trovansi
medaglie[2219], dove egli è chiamato _Lucio Eliano_ ed _Aulo Pomponio
Eliano_; altre se ne rapportano col nome di _Spurio Servilio
Lolliano_. O l'une o l'altre sono mere imposture, quando ancora non
sieno tutte. Sicchè _Marco Aurelio Vittorino_ restò solo possessor
delle Gallie. Ma costui[2220] con tutte le belle doti d'uomo grave,
clemente, economo, ed esattor della disciplina militare, portava
nell'ossa un vizio che denigrava tutte le sue virtù, cioè una sfrenata
libidine, per cui niun rispetto portava ai talami de' suoi soldati. Ne
riportò anche il castigo[2221]. Trovandosi egli in Colonia, un
cancelliere dell'esercito, irritato contra di lui per violenza usata a
sua moglie, essendosi congiurato con altri, lo uccise. Il fanciullo
_Vittorino_ di lui figliuolo fu allora chiamato _Cesare_ da Vittoria o
sia Vittorina, avola sua paterna; ma nella stessa maniera che il
padre, fu anch'egli ammazzato dai medesimi soldati. Così Trebellio
Pollione, il quale, se son vere le medaglie riferite dal Goltzio e dal
Mezzabarba[2222], mal informato si scuopre di quegli affari. In esse
medaglie veggiamo appellato questo fanciullo _Caio Piavio Vittorino_,
e non già col suo titolo di _Cesare_, ma bensì _d'Imperadore Augusto_.
Se fosse vero il racconto di Pollione, non vi restò tempo da battere
monete in onore di questo piccolo Augusto. Il punto sta che siamo ben
sicuri d'essere quelle monete fattura indubitata dell'antichità.
Certamente è lecito il dubitarne. Dopo i due Vittorini, l'imperio
delle Gallie fu da quelle milizie conferito ad un _Mario_, già stato
fabbro ferraio. Eutropio[2223] mette l'esaltazione di costui fra
_Lolliano_ e _Vittorino_; Trebellio Pollione[2224] dopo _Vittorino_.
Era costui salito in alto ne' posti militari per l'estrema sua forza,
di cui alcune prove rapporta Pollione. Ma un soldato, già di lui
garzone nella bottega del suo mestiero, vedendosi sprezzato da lui o
prima o dopo l'usurpato imperio, due o tre giorni dopo la di lui
promozione, col ferro lo stese morto a terra, dicendo nel medesimo
tempo: _Questa è la spada che tu di tua mano fabbricasti_. Allora
Vittoria madre del vecchio Vittorino, che volea pur conservar
l'acquistata sua autorità nelle Gallie, a forza di denaro indusse i
soldati a proclamar Imperadore, forse nell'anno seguente, _Tetrico_
suo parente, senatore romano, e governatore nell'Aquitania, provincia
delle Gallie. Questi nelle medaglie[2225] si trova nominato _Publio
Piveso_, o, secondo un'iscrizione, _Pesuvio Tetrico_, con apparenza
che alcuna di esse memorie patisca eccezione. Dicono ch'egli era anche
stato console, e che portatagli questa lieta nuova a Bordeos, quivi
prese la porpora. Suo figliuolo _Caio Pacuvio Piveso Tetrico_,
ancorchè allora fanciullo, fu creato _Cesare_ dalla suddetta Vittoria,
la quale appresso (non si sa in qual anno) terminò i suoi giorni,
aiutata, per quanto ne corse la voce, dal medesimo Tetrico, al quale
piaceva di comandare e non d'essere comandato da lei. Continuò dipoi
Tetrico la sua signoria non solamente nelle Gallie, ma anche nelle
Spagne, fino ai tempi di Aureliano Augusto, siccome allora diremo. Fu
di parere il Pagi[2226] che Postumo regnasse nelle Gallie sino
all'anno secondo di Claudio imperadore. Non mancano ragioni ad altri
per crederlo ucciso sotto Gallieno. La lite non è per anche decisa; nè
certo si può ben chiarire il tempo di tante rivoluzioni succedute in
quelle contrade.

NOTE:

[2213] Trebellius Pollio, in Gallieno.

[2214] Aurelius Victor, in Epitome.

[2215] Idem, ibidem.

[2216] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., cap. 2.

[2217] Eutrop., in Breviar.

[2218] Trebellius Pollio, in Trig. Tyran., cap. 4.

[2219] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2220] Trebellius Pollio, in Trig. Tyran., cap. 5.

[2221] Aurelius Victor, in Epitome.

[2222] Goltzius et Mediob., in Numism. Imperat.

[2223] Eutrop., in Breviar.

[2224] Trebellius Pollio, in Triginta Tyrannis, cap. 7.

[2225] Goltzius, in Numism. Imperat.

[2226] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CCLXVII. Indizione XV.

    DIONISIO papa 9.
    GALLIENO imperadore 15.

_Consoli_

PATERNO e ARCESILAO.


Fin qui il valoroso _Odenato_ da Palmira, dichiarato _Augusto_ in
Oriente, mostrava bensì unione con Gallieno imperadore, ma
verisimilmente si facea conoscere per solo padrone delle provincie
romane dell'Asia. Seguitava egli a far vigorosamente guerra ai
Persiani, quando fu ucciso. Si disputa tuttavia intorno al tempo, al
luogo e all'uccisore. Chi crede succeduta la di lui morte nell'anno
precedente, chi nel presente. Certo è che circa questi tempi i Goti, o
sieno gli Sciti, fecero un'irruzione nell'Asia[2227], e giunsero fino
ad Eraclea, saccheggiando tutto il paese. Secondo Sincello[2228],
_Odenato_ prese la risoluzione di portar l'armi contra di costoro, e
giunto ad Eraclea, vi fu ferito e morto. Zosimo[2229], all'incontro,
scrive ch'egli soggiornava in Emesa, dove, celebrando un non so qual
giorno natalizio, a tradimento restò privato di vita. V'ha chi il fa
ucciso[2230] da un altro _Odenato_ suo nipote, chi da _Meonio_ suo
cugino; e sospettò anche taluno che _Zenobia_ sua moglie tenesse mano
al misfatto per gelosia di veder anteposto a' proprii figliuoli
_Erode_, nato da una prima moglie ad esso Odenato, e da lui creato
_Augusto_. Certo è che questo Erode, nominato anche _Erodiano_ in
qualche medaglia, della cui legittimità non so se possiam dubitare,
perdè anch'egli la vita col padre. Era giovane portato al lusso, alla
magnificenza, ai piaceri, e il padre gli lasciava far tutto. E questo
infelice fine ebbe _Odenato_, principe de' più gloriosi del Levante,
perchè gran flagello de' Persiani, e perchè conservò all'imperio
romano le pericolanti provincie dell'Asia. Arrivò Trebellio
Pollione[2231] a dire che Dio veramente si mostrò irato contra del
popolo romano, perchè toltogli _Valeriano Augusto_, non gli conservò
_Odenato_. Egli intanto il mette fra' tiranni, ma con ingiuria al
vero, e contraddicendo a sè stesso[2232]. Quanto a _Meonio_, che lo
stesso Pollione ci rappresenta come d'accordo con Zenobia per togliere
la vita a Odenato, dicono che fu con consenso di lei proclamato
_imperadore_; ma non andò molto che i soldati, nauseati per la di lui
sporca lussuria, gli levarono insieme coll'imperio la vita. Lasciò
Odenato dopo di sè tre figliuoli, cioè _Hereniano_, _Timolao_ ed
_Uhaballato_, che presero il titolo di _Augusti_, e si trovano
mentovati nelle medaglie[2233]. Ma perciocchè erano in età non ancora
capace di governo, _Settimia Zenobia_ lor madre Augusta prese essa le
redini a nome de' figliuoli, siccome donna virile, e fece dipoi varie
gloriose imprese, del che parleremo andando innanzi.

Dissi che gli Sciti, o vogliam dire i Goti, aveano portata la
desolazione in varie provincie dell'Asia, e massimamente della
Cappadocia[2234]. Ora si vuol aggiugnere che costoro, udito che loro
si appressava colle armi _Odenato Augusto_, non vollero già
aspettarlo, e si affrettarono per tornarsene ai loro paesi collo
immenso bottino fatto. Nondimeno sul mar Nero ne perirono non pochi,
perchè assaliti dalle truppe e navi romane. Ma non passò gran tempo,
ch'entrati per le bocche del Danubio nelle terre dello imperio, vi
fecero un mondo di mali. Sulle rive del mar Nero fu data loro una
rotta dalla guarnigione romana di Bisanzio, ma senza che cessassero
per questo dal bottinare in quelle parti. Nè da lor soli vennero
cotanti affanni. Anche gli Eruli passati dalla palude Meotide nel mar
Nero con cinquecento vele sotto il comando di Naulobat loro capitano,
per mare vennero fino a Bisanzio e a Crisopoli. In una battaglia loro
data restò superiore l'esercito romano; e però tumultuosamente si
ritirarono[2235]. Ma ecco tornar di nuovo i Goti, che son chiamati
Sciti da altri, i quali andati alla ricca città di Cizico, la
spogliarono. Indi si portarono alle isole di Lenno e di Suero
nell'Arcipelago, ed arrivati sino all'insigne città di Atene, la
bruciarono, con far lo stesso barbaro trattamento a Corinto, Sparta,
Argo, e a quasi tutta l'Acaia, senza trovar persona che osasse di loro
opporsi. Tuttavia, messisi gli Ateniesi in una imboscata, con aver per
loro capitano _Desippo_ istorico, ne fecero un gran macello. (Si vedrà
qui sotto all'anno 269 un'altra presa di Atene, e forse solamente a
que' tempi è da riferire la disgrazia di quella città.) E pure non
finì la faccenda, che scorrendo per l'Epiro, per la Acarnania e per la
Beozia, recarono anche a quelle parti de' gran malanni. Zonara[2236]
sembra riferir questo flagello ai tempi di Claudio successore di
Gallieno. Mentre sì fiero temporale spremeva da ogni banda le grida
dei popoli afflitti, non potè di meno che non si svegliasse
l'_imperador Gallieno_, e non si movesse da Roma per accorrere al
soccorso delle malconce provincie. Arrivato ch'egli fu nell'Illirico,
non pochi di que' Barbari caddero sotto le spade romane; laonde gli
altri presero la fuga pel monte Gessace. Marziano ed Eracliano suoi
capitani con altre prodezze liberarono in fine da quei Barbari le
provincie dell'imperio. Ebbe parte in tali imprese anche _Claudio_,
che fu dipoi imperadore; e i due primi generali divisando fra loro
come si potesse sollevar la repubblica dall'inetto e crudel governo di
Gallieno, misero per tempo gli occhi sopra di esso Claudio per
adornarlo della porpora imperiale. Diedero probabilmente la spinta a
questi lor disegni l'essere, a mio credere, succeduto in questi tempi
ciò che narra Trebellio Pollione[2237] con dire, che quando si credeva
che Gallieno fosse ito coll'esercito per cacciare i Barbari, egli si
fermò ad Atene per la vanità di prendere la cittadinanza di
quell'illustre città, di esercitar ivi la carica di arconte, cioè del
magistrato supremo, di essere arrolato fra i giudici dell'Areopago, e
di assistere a tutti i loro sagrifizii, con vitupero della dignità
imperiale. Poco fa ho detto, potersi dubitare che non accadesse verso
questi tempi la presa e l'incendio di Atene. Viene maggiormente
confermato questo dubbio dall'andata colà di Gallieno. Questa ridicola
gloria, questa trascuratezza de' pubblici affari nel bisogno, in cui
si trovavano allora le provincie romane, fece perdere ai soldati la
pazienza e il rispetto verso di un principe sì disattento e vile, e
trattar fra loro di eleggere un degno imperador di Roma. Lo seppe
Gallieno, cercò di placarli, e non potendo, ne fece uccidere qualche
migliaio: risoluzione che indusse anche i generali a desiderar e
procurare la di lui rovina, come vedremo all'anno seguente.

NOTE:

[2227] Trebellius Pollio, in Gallien.

[2228] Syncellus, in Hist.

[2229] Zosimus, lib. 1, cap. 39.

[2230] Zonaras, in Annalibus.

[2231] Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrann., cap. 14.

[2232] Idem, ibidem, cap. 16.

[2233] Goltzius et Mediobarb, in Numism. Imperatorum.

[2234] Trebellius Pollio, in Gallieno.

[2235] Trebellius Pollio, Syncellus, Zonaras.

[2236] Zonaras, in Annalibus.

[2237] Trebellius Pollio, in Gallien.




    Anno di CRISTO CCLXVIII. Indizione I.

    DIONISIO papa 10.
    CLAUDIO II imperadore 1.

_Consoli_

PATERNO per la seconda volta e MARINIANO.

Non si crede che questo _Paterno_ console fosse quello stesso che
nell'anno precedente esercitò il consolato ordinario, perchè non
solevano le persone private goder quella insigne dignità due anni di
fila, come talor facevano gli Augusti. _Petronio Volusiano_ bensì,
stato prefetto di Roma nell'anno precedente, continuò in quella carica
anche nel presente. Abbiam parlato di sopra di _Manio Acilio Aureolo_,
generale della cavalleria romana nell'Illirico, uomo di gran valore
nell'armi. Ribellossi anch'egli, al pari di tanti altri, contro al
disprezzato Gallieno; e chi si attiene a Trebellio Pollione[2238],
mette la di lui rivolta sino nell'anno 201. Ma di gran lunga maggior
apparenza di verità ha il racconto di Zosimo[2239], seguitato da
Zonara[2240], che riferisce all'anno precedente l'aver egli preso il
titolo d'_imperadore_. Allorchè Gallieno si trovava nella Mesia, o pur
nella Grecia, per timore che _Postumo_ imperadore, o sia tiranno nelle
Gallie, o pur chi era succeduto a lui, non profittasse della di lui
lontananza, ordinò ad _Aureolo_ di venir colle sue milizie a Milano, e
di far abortire i disegni di chi governava le Gallie. Venne _Aureolo_,
e meglio chiarito del discredito in cui era Gallieno, e che le Gallie
per la morte di Postumo e per le mutazioni seguite, invece di dar
gelosia all'Italia, pareano esposte ad essere vinte, credette essere
questo il tempo di salire sul trono. Ne pervennero gli avvisi a
Gallieno, che, conosciuta la gravità del pericolo, a gran giornate se
ne tornò in Italia, e a dirittura marciò contra di Aureolo[2241].
Avendolo sconfitto e ferito in un fatto d'armi, l'obbligò a ritirarsi
a Milano, città che appresso fu da lui assediata[2242]. Accadde in
occasion di quella battaglia, che l'imperadrice _Cornelia Salonina_
corse pericolo di essere presa da' nemici; perchè avendo essi
osservato come poca guardia si faceva nel campo di Gallieno,
arrivarono fino al padiglione di lui, dove dimorava essa imperadrice.
Trovavasi ivi per avventura un soldato, il qual era dietro a cucire
una sua veste. Costui, al comparir dei nemici, dato di piglio allo
scudo e allo stocco, con tal ferocia due ne percosse, che gli altri
giudicarono meglio di retrocedere. Intanto venne a rinforzar
l'esercito di Gallieno Marziano generale, ch'egli avea lasciato nella
Mesia, o nella Tracia contra de' Goti. _Eracliano_ prefetto del
pretorio vi giunse anch'egli con della cavalleria. Zonara il chiama
non Eracliano, ma Aureliano, il quale fu poi imperadore.

Ora questi generali, invece di condurre a fine l'assedio di Milano,
piuttosto andavano concertando di levar dal mondo il malvoluto
Gallieno[2243]. Ne diede _Marziano_ l'incumbenza a _Cecrope_, o
_Cecropio_, capitano de' Dalmatini, uomo coraggioso, che arditamente
prese l'impegno, con lusingarsi di poter egli essere assunto
all'imperio. Ma qui, secondo il solito, discordano fra loro gli
scrittori. Aurelio Vittore[2244] scrive che _Aureolo_, vedendosi a mal
partito, ebbe maniera di contraffare una lettera o carta, come scritta
da Gallieno, in cui erano notati i principali uffiziali della armata,
che egli intendeva di voler far morire quasi suoi traditori. Questa
carta, trovata dagl'interessati, gli spronò a rimediare al proprio
pericolo colla morte di Gallieno. _Marziano_ ed Eracliano furono i
principali de' congiurati; _ma_ non nega Trebellio Pollione[2245] che
anche _Claudio_ non tenesse mano a questo trattato. Sembra nondimeno
più verisimile il dirsi da Zonara[2246], che avendo molto prima quegli
uffiziali tramata la congiura contro di Gallieno, ed essendo
traspirata questa mina, eglino si affrettarono ad eseguirla; e la
maniera fu la seguente. Una notte mentre Gallieno cenava, o pure se
n'era ito a dormire, Eracliano e Cecrope comparvero affannati a dirgli
che Aureolo con tutte le sue forze faceva una sortita. Gallieno
spaventato si fa tosto armare, e, montato a cavallo, esce dalla tenda,
movendo all'armi le soldatesche. In quella confusione ed oscurità
Cecrope se gli appressò e l'uccise. Altri vogliono, che un dardo
scagliato non si sa da chi gli levasse la vita; ed altri ch'egli fosse
morto in letto. Non merita certo fede il dirsi da Aurelio
Vittore[2247], che Gallieno ferito inviasse prima di morire le insegne
imperiali a _Claudio_, soggiornante allora in Pavia. Comunque sia,
questo miserabil fine ebbe la vita di _Gallieno_; e posciachè la nuova
d'essere stato dipoi eletto imperadore _Claudio_[2248], si seppe in
Roma nel dì 24 di marzo, da ciò con sicurezza raccogliamo che la morte
di esso dovette succedere alquanti giorni prima. Parimente sappiamo
che _Valeriano_ di lui fratello, il quale da alcuni fu creduto, ma con
poco fondamento, ornato del titolo di _Cesare_, ed anche di _Augusto_,
e il giovine _Gallieno_, di lui figliuolo, già dichiarato _Cesare_,
restarono involti in questo naufragio ed ammazzati nelle vicinanze di
Milano. V'ha chi li tiene privati di vita in Roma. In somma noi
troviamo strapazzata di molto in questi tempi la storia italiana,
senza sapere a chi attenerci senza pericolo di errare. Aurelio
Vittore[2249] aggiugne che portata la nuova dell'ucciso Gallieno a
Roma, il popolo si sfogò con infinite imprecazioni contra di lui; e il
senato scaricò l'odio suo contra de' suoi ministri e parenti,
_facendoli_ precipitar giù per le scale gemonie. Claudio succeduto
nello imperio, ordinò dipoi che non si recasse molestia agli altri che
aveano schivato il primo furore della burrasca. E per far conoscere o
dar ad intendere ch'egli non s'era mischiato nella morte di Gallieno,
mandò il di lui corpo, per quanto si crede, a Roma, e comandò che un
sì screditato Augusto fosse messo nel numero degli dii: il che si
deduce da qualche rara medaglia, dove gli è dato il titolo di divo. Ma
siamo noi ben certi, che antiche sieno e legittime tutte le medaglie
che si chiamano rare e rarissime? Noi certo non leggiamo che _Claudio_
punisse alcuno per la morte data ad esso Gallieno.

Dopo la tragedia di questo imperadore, i soldati che l'aveano odiato
vivo, mostrarono di compiagnerlo estinto, e ne facevano elogi, con
apparenza di formar una sedizione non già per vendicarlo, ma con
disegno di dare un gran sacco in tal congiuntura a chi non se
l'aspettava[2250]. Per frenare la loro insolenza, Marziano e gli altri
generali si appigliarono al solito lenitivo della moneta. Però loro
promisero venti pezzi d'oro per testa, e non tardarono a sborsarli,
perchè Gallieno avea lasciato un ricco tesoro. Questa rugiada smorzò
tutto il loro fuoco, e concorsero anch'essi a dichiarar _Gallieno_ un
tiranno, e ad accettar _Claudio_ per imperadore. Quanto a questo
principe, noi il troviamo nominato nelle medaglie[2251] _Marco Aurelio
Claudio_, e non già _Flavio_, come l'intitola Trebellio Pollione; ed
oggidì vien comunemente da noi conosciuto e mentovato col nome di
_Claudio II_, e più sovente di _Claudio il Gotico_. Il suddetto
Trebellio[2252], che si sforzò di esaltarlo dappertutto, perchè
scriveva a _Costantino Augusto_, la cui avola _Claudia_ era stata
figlia di _Crispo_ fratello di esso _Claudio_, tuttavia non seppe
trovare che la nobiltà del sangue fosse un pregio di Claudio. Era egli
nato nell'Illirico, cioè nella Dalmazia o nella Dardania, provincie
d'esso Illirico, nell'anno di Cristo 214, o nel 215, nel dì 10 di
marzo. Le sue belle doti, le sue molte virtù per la scala dei gradi
militari il portarono in fine all'imperio. S'egli avesse moglie non si
sa: certo non ebbe figliuoli. Due erano i suoi fratelli, cioè
_Quintillo_ che succedette a lui nell'imperio, e _Crispo_, dal quale
poco fa dissi discendente per via di una sua figliuola Costantino il
Grande. _Costantina_ ebbe anche nome una di lui sorella. Sotto lo
imperador Decio cominciò egli la carriera dei suoi onori; e creato
tribuno ebbe la guardia del passo delle Termopile, e sotto Valeriano
il comando della quinta legione nella Soria, con salario da generale;
poscia il generalato dell'armi in tutto l'Illirico. Trebellio Pollione
rapporta una lettera di Gallieno, in cui mostra molto affanno
dell'esser egli in cattivo concetto di _Claudio_, e la premura di
placarlo; al qual fine spedì ancora molti regali. La verità si è, che
tutti gli scrittori[2253], e fin Zosimo, benchè nemico di Costantino
Augusto, confessano che in questo personaggio concorrevano il valore,
la prudenza, l'amore del pubblico bene, la moderazione, l'abborrimento
al lusso ed altre nobili qualità, che senza dubbio il rendevano
degnissimo dell'imperio, ed egli fu dipoi registrato da ognuno fra i
principi buoni e gloriosi della repubblica romana.

Ora dappoichè tolto fu di vita Gallieno, o sia, come vuol
Trebellio[2254], che _Marziano_ ed _Eracliano_ prefetto del pretorio,
avessero già fatto il concetto di alzar _Claudio_ al trono imperiale,
o pure che, tenuto il consiglio da tutta l'uffizialità, di consenso
comune ognun concorresse nell'elezione di questo sì degno suggetto,
certo è ch'egli fu creato _imperadore_ con approvazione e gioia
universale, e massimamente dell'esercito, perchè tutti riconoscevano
in lui abilità da poter rimettere in buono stato l'imperio romano,
lasciato in preda ad amici e nemici dalla negligenza di Gallieno.
Allorchè s'intese in Roma l'assunzione di questo principe, che non
mancò di parteciparla tosto con le lettere al senato, le acclamazioni
furono immense, strepitosa la allegrezza del popolo. Gli atti d'esso
senato ci scuoprono i comuni desiderii e le comuni speranze che il
novello Augusto liberasse l'Italia da _Aureolo_; la Gallia e la Spagna
da _Vittoria_, già madre di Vittorino, e da _Tetrico_ dichiarato quivi
imperadore (il che qualora sussistesse, converrebbe differire sino
all'anno seguente la rovina di Vittoria e di Tetrico), e l'Oriente da
_Zenobia_ regina de' Palmireni e vedova di Odenato, la quale non volea
più dipendere dai romani Augusti, e faceva da padrona nelle provincie
orientali dell'imperio. La prima applicazione dell'Augusto Claudio
quella fu di abbattere il tuttavia resistente _Aureolo_ con
dichiararlo tiranno e nemico pubblico. Mandò ben esso Aureolo messi a
Claudio, pregandolo di pace, ed esibendosi di far lega o patti con
lui; ma Claudio con gravità rispose, _che queste erano proposizioni da
fare ad un Gallieno_ (simile ad Aureolo nei costumi e timido) _e non
già ad un par suo_. Secondo Trebellio Pollione[2255], Aureolo in una
battaglia datagli da Claudio ad un luogo che fu denominato il ponte di
Aureolo, oggidì Pontirolo, rimase sconfino ed ucciso. Zosimo[2256]
all'incontro narra ch'egli si arrendè, ma che i soldati, già irritati
contra di lui, gli levarono la vita. Non conobbe Trebellio una
vittoria riportata in quest'anno da Claudio Augusto contra degli
Alamanni; ma ne parla bene Aurelio Vittore[2257]. Costoro
probabilmente chiamati in soccorso suo dal vivente Aureolo, erano
calati fin presso al lago di Garda nel Veronese. Claudio tal rotta
diede loro, che appena la metà di sì sterminata moltitudine si salvò
con la fuga. Trovansi medaglie[2258], nelle quali è appellato
_Germanico_, prima che _Gotico_, non perchè i Goti fossero popoli
della Germania come ha creduto taluno, ma bensì per la vittoria da lui
riportata degli Alamanni. Passò dipoi il novello Augusto a Roma[2259],
dove ristabilì la disciplina e il buon governo, ch'egli trovò in uno
stato deplorabile per la debolezza di Gallieno. Formò delle buone
leggi, condannò vigorosamente i magistrati che vendevano ai più
offerenti la giustizia, e frenò col terrore i cattivi. Uso era stato,
anzi abuso, per attestato di Zonara[2260], che alcuni dei precedenti
imperadori donavano anche i beni altrui; e sotto Gallieno spezialmente
ciò s'era praticato: e lo stesso Claudio possedeva uno stabile a lui
donato dal medesimo Augusto, appartenente ad una povera donna. Ricorse
questa a Claudio, con dire nel memoriale, che un uffiziale della
milizia ingiustamente possedeva un suo campo. Claudio accortosi che a
lui andava la stoccata, in vece di averselo a male, rispose: _Essere
ben di dovere, che Claudio imperadore_ (obbligato a far giustizia a
tutti) _restituisse ciò che Claudio uffiziale avea preso_, senza badar
molto alle leggi del giusto. Sul fine di quest'anno si crede che dopo
insigni fatiche per la Chiesa di Dio, terminasse i suoi giorni
_Dionisio_ romano pontefice.

NOTE:

[2238] Trebellius Pollio, in Gallien.

[2239] Zosimus, lib. 1.

[2240] Zonaras, in Annalibus.

[2241] Aurelius Victor, in Epitome.

[2242] Zonaras, in Annalibus.

[2243] Trebellius Pollio, in Gallien.

[2244] Aurelius Victor, in Epitome.

[2245] Trebellius Pollio, in Claud.

[2246] Zonaras, in Annalibus.

[2247] Aurelius Victor, in Epitome.

[2248] Trebellius Pollio, in Claudio.

[2249] Aurelius Victor, in Epitome.

[2250] Trebellius Pollio, in Gallieno.

[2251] Goltzius et Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2252] Trebellius Pollio, in Claudio.

[2253] Goltzius, et Mediob., in Numism. Imperat. Victor, Eutropius,
Zosimus.

[2254] Trebellius Pollio, in Claudio.

[2255] Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrann., cap. 10.

[2256] Zosimus, lib. 1.

[2257] Aurelius Victor, in Epitome.

[2258] Mediobarbus, in Numismat. Imper.

[2259] Eumenes, in Panegyrico Costantini. Trebel. Pollio, in Claudio.

[2260] Zonaras, in Annalibus.




    Anno di CRISTO CCLXIX. Indizione II.

    FELICE papa 1.
    CLAUDIO II imperadore 2.

_Consoli_

MARCO AURELIO CLAUDIO AUGUSTO e PATERNO.


V'ha una o due iscrizioni, nelle quali _Claudio_ è chiamato _Console
per la seconda volta_. Non mi son io arrischiato ad intitolarlo tale,
perchè più sono i monumenti, ne' quali egli si vede puramente
appellalo console. Questo _Paterno_, se a lui si applica un'iscrizione
da me pubblicata[2261], dovette essere chiamato _Nonio Paterno_. Era
in quest'anno prefetto di Roma[2262] _Flavio Antiochiano_. Giacchè
andava ben la faccenda sotto un imperadore sì screditato, come era
Gallieno, aveano preso gusto alle ruberie e ai saccheggi delle
provincie romane i Goti negli anni addietro; in questo invitarono al
medesimo giuoco altre nazioni barbare, cioè Ostrogoti, Gepidi,
Virtinghi, Eruli, Peusini, Trutungi ed altri di quei settentrionali
feroci popoli. Nell'anno presente adunque si videro comparir di nuovo
costoro, compresi da molti antichi sotto il nome di Goti o Gotti, a
desolar l'imperio romano. Può dubitarsi di un errore nel testo di
Zosimo[2263], allorchè scrive che formarono una flotta di seimila
navi. Quando anche non fossero che barche, il numero par troppo
grande. Trebellio Pollione[2264] non riferisce se non due mille navi
di que' Barbari. E di più non ne conta Ammiano Marcellino[2265] là
dove fa menzione di questi fatti. Ma sì Zosimo che Pollione fanno
ascendere il numero di coloro a trecento venti mila persone
combattenti, senza contare i servi e le donne. La prima scarica del
loro furore fu contro la città di Tomi, vicina alle bocche del
Danubio, da dove passarono a Marcianopoli, città della Mesia. Da
ammendue respinti dopo varii combattimenti si rimisero nei loro legni,
e dal mar Nero entrarono nello stretto di Bisanzio, dove la corrente
rapida delle acque, che urtava quelle navi le une contra delle altre,
ne fece perir non poche insieme colla gente. E non mancarono quei di
Bisanzio di far loro quanta guerra poterono. Dopo avere[2266]
inutilmente tentata la città di Cizico, vennero nell'Arcipelago, e
posero l'assedio a Salonichi, o sia Tessalonica, e a Cassandria.
Aveano macchine proprie per prendere città, e già pareano vicini ad
impadronirsi di ammendue, quando venne lor nuova, che Claudio Augusto
s'appressava colle sue forze. Certo è che _Claudio_ dimorante in Roma,
allorchè intese questo gran diluvio di Barbari, prese la risoluzione
di andar in persona ad incontrarli; e tuttochè si disputasse da alcuni
se fosse meglio il far guerra a Tetrico, occupator della Gallia e
della Spagna, cioè delle migliori forze dello imperio, che ai Goti e
agli altri Tartari rispose: _La guerra di Tetrico è mia propria, ma
quella de' Goti riguarda il pubblico_: e però volle anteporre il
pubblico al privato bisogno. Zonara[2267] in vece di _Tetrico_ mette
_Postumo_, che era già, secondo i nostri conti, morto. Or mentre egli
attendeva a fare un possente armamento per quella impresa, spedì
innanzi _Quintillo_ suo fratello e con esso lui _Aureliano_, al quale,
per la maggior sperienza negli affari della guerra, diede il principal
comando delle milizie nella Tracia e nell'Illirico.

L'arrivo di questi due generali con un poderoso corpo di gente quel fu
che persuase ai Goti di abbandonar l'assedio di Salonichi, e di
gittarsi alla Pelagonia e Peonia, dove la cavalleria dei Dalmatini si
segnalò con tagliare a pezzi tremila di coloro. Di là passarono i
Barbari nell'alta Mesia, dove comparve ancora l'Augusto _Claudio_
colla sua armata[2268]; si venne ad una giornata campale, che fu un
pezzo dubbiosa. Piegarono in fine i Romani, e fuggirono o fecero vista
di fuggire; ma ritornati all'improvviso per vie disastrose addosso ai
Barbari, ne stesero morti sul campo cinquantamila, riportando una
nobilissima vittoria d'essi. Quei che si salvarono colla fuga
voltarono verso la Macedonia, ma assaliti dipoi in un sito dalla
cavalleria romana ed oppressi dalla fame, buona parte lasciarono ivi
le lor ossa; e il resto veggendosi tagliata la strada, si ridussero al
monte Emo, dove fra mille stenti cercarono di passare il verno. Ancor
questi li vedremo sterminati nell'anno seguente. Se è vero ciò che
racconta Zonara[2269], convien che una parte della lor flotta e gente,
staccata dal grosso dell'armata, andasse a dare il guasto alla
Tessalia ed Acaia. Vi fecero gran danno, ma solamente alle campagne,
perchè le città erano ben munite e in guardia, e seppero ben
difendersi. Tuttavia riuscì ai Barbari di prendere quella di Atene,
dove raunati tutti i libri di quelle famose scuole erano per farne un
falò, se un d'essi, più accorto degli altri, non gli avesse
trattenuti, dicendo che perdendosi gli Ateniesi intorno a quelle
bagattelle, non avrebbono badato al mestier della guerra, e più facile
era il vincer essi che altri popoli. Questa disavventura di Atene
verisimilmente non altra è che la raccontata di sopra all'anno 267.
Aggiungono gli storici, che i Barbari suddetti tornando a navigare
giunsero alle isole di Creta e di Rodi, e fino in Cipri, ma senza far
impresa alcuna considerabile; anzi, assaliti dalla peste, rimase
estinto un buon numero di loro. Altre novità ebbe in questi tempi
l'Oriente. _Zenobia_ regina dei Palmireni, dominante nella Siria,
scosso ogni rispetto ed ogni suggezione al romano imperio,
rivolse i pensieri ad aggrandire il suo dominio colla conquista
dell'Egitto[2270], mantenendo ivi a questo fine corrispondenza con
_Timagene_, nobile di quel paese. Spedì colà _Zabda_ suo generale con
una armata di settantamila persone tra Palmireni e Soriani, il quale,
data battaglia a cinquantamila Egiziani venutigli all'incontro, gli
sbaragliò: vittoria che si tirò dietro l'ubbidienza di tutto quel
ricco paese. Zabda, lasciato in Alessandria un presidio di cinque mila
armati, se ne tornò in Soria. Trovavasi in quelle parti _Probo_ o sia
_Probato_ con una flotta per dar la caccia ai corsari. Questi, udite
le mutazioni dell'Egitto, verso là indirizzò le prore, ed ammassate
quelle soldatesche che potè, sì dell'Egitto che della Libia, scacciò
la guarnigion Palmirena da Alessandria, e fece tornar lo Egitto sotto
il comando de' Romani. Ma non rallentò Zenobia gli sforzi suoi[2271].
Rispedì colà con nuovo esercito Zabda e Timagene, che furono sì
bravamente ricevuti e combattuti da Probo e dai popoli di Egitto, che
ne andarono sconfitti; ed era terminata la scena, se Probo non avesse
occupato un sito presso Babilonia di Egitto, per tagliare il passo a
duemila Palmireni. Ma Timagene ch'era con loro, siccome più pratico
del paese, essendosi impadronito della montagna, con tal forza piombò
sopra gli Egiziani, che li mise in rotta. Probo par questo di sua mano
si diede la morte, e l'Egitto tornò in potere di Zenobia[2272].
Claudio Augusto, perchè impegnato nella guerra dei Goti, non poteva
attendere a questi affari, siccome nè pure alle Gallie occupate da
_Tetrico_[2273], il quale in questi tempi tenne per sette mesi
assediata la città di Autun che non voleva ubbidirlo, e colla forza in
fine la sottomise. Al defunto papa _Dionisio_ succedette sul principio
di quest'anno _Felice_ nella sedia di san Pietro[2274].

NOTE:

[2261] Thesaurus Novus Inscript., pag. 366, n. 1.

[2262] Bucherius, de Cycl.

[2263] Zosimus, lib. 1, cap. 42.

[2264] Trebellius Pollio, in Claudio.

[2265] Ammianus Marcellinus, Hist., lib. 31, c. 5.

[2266] Zosimus, lib. 1, cap. 42. Trebellius Pollio, in Claudio.
Ammianus Marcellinus, Zonaras, in Annalibus.

[2267] Zonaras, in Annalib.

[2268] Trebellius Pollio, in Claudio.

[2269] Zonaras, in Annalibus.

[2270] Zosimus, lib. 1, cap. 44.

[2271] Trebellius Pollio, in Claudio.

[2272] Joannes Malala, in Chronogr.

[2273] Eumenes, in Panegyr. Constant.

[2274] Blanchinius, ad Anastasium.




    Anno di CRISTO CCLXX. Indizione III.

    FELICE papa 2.
    CLAUDIO II imperadore 3.
    QUINTILLO imperadore 1.
    AURELIANO imperadore 1.

_Consoli_

ANTIOCO per la seconda volta e ORFITO.


Il dirsi da me _Antioco_ console _per la seconda volta_, è fondato
sopra un'iscrizione da me data alla luce[2275], e sopra i Fasti di
Teone e di Eraclio, chiamati fiorentini, ne' quali i consoli di
quest'anno son chiamati _Antioco per la seconda volta_ ed
_Orfito_[2276]. Fu nell'anno presente prefetto di Roma _Flavio
Antiochiano_: il che bastò al Mezzabarba[2277] e al padre Pagi[2278],
per dar questo nome al console suddetto. Ma non ho io osato per questo
di mutar il nome a noi somministrato dai Fasti. Il resto de'
Goti[2279] che avea passato il verno fra molti patimenti nel monte
Emo, e per la peste andava sempre più calando, venuta la primavera
tentò di aprirsi un cammino per tornarsene al suo paese; ma essendo
bloccati que' Barbari da varii corpi dell'armata romana, bisognò farsi
largo colle spade. Alla fanteria romana toccò l'urto loro, urto così
gagliardo, che le fece voltar le spalle, e ne restarono sul campo
duemila. Peggio anche andava, se non sopraggiungeva la cavalleria
spedita da _Claudio Augusto_, che mise fine alla strage de' suoi.
Furono poi cotanto incalzati i Goti dall'esercito romano, e ridotti
anche a mal partito dalla peste, che, deposte l'armi, dimandarono di
rendersi. Molti di essi furono arrolati nelle legioni; ad altri fu
dato del terreno da coltivare; alcuni pochi restarono in armi sin dopo
la morte di Claudio, di maniera che di tanta gente pochissimi furono
coloro che potessero riveder le proprie contrade. Rapporta Trebellio
Pollione[2280] una lettera di Claudio Augusto, scritta a _Brocco_
comandante delle armi nell'Illirico, in cui dice di aver annichilati
trecento ventimila Goti, affondate duemila navi di essi, che i fiumi e
i lidi erano coperti di scudi, spade e picciole lance; grande il
numero de' carriaggi e delle donne prese. Per così memorabil vittoria
a Claudio imperadore fu conferito il titolo di _Gotico_ o sia
_Gottico_[2281], che comparisce in varie monete di lui[2282]. Dal
medesimo Pollione[2283] abbiamo aver Claudio così ristretti gl'Isauri,
da noi veduti ribellati sotto Gallieno, che già pensava d'averli colla
corda al collo ai suoi piedi, e di metterli poi nella Cilicia, per
togliere loro la comodità di nuove ribellioni col vantaggio dell'aspre
lor montagne. Ma coloro continuarono nella rivolta, non si sa se per
ostinazione di essi, ovvero per la morte sopraggiunta a Claudio. Nè
pur sappiamo se a quest'anno o se all'antecedente appartenga la
ribellione ed esaltazione di _Censorino_ al trono imperiale. Costui,
se crediamo a Trebellio Pollione[2284] il quale è solo a parlarne, due
volte era stato console, due volte prefetto del pretorio, tre prefetto
di Roma ed anche proconsole, consolare, legato pretorio, ec. Vecchio
era e zoppo per una ferita a lui toccata nella guerra di Valeriano
contra de' Persiani. Prese egli la porpora imperiale; non apparisce in
qual anno; è ignoto in qual luogo, se non che quello storico nota
esser egli stato ucciso dai soldati medesimi che lo aveano fatto
imperadore, dopo sette giorni d'imperio, alla guisa appunto de'
funghi, e che fu seppellito presso Bologna con un epitaffio, in cui si
riferivano tutti i suoi onori, conchiudendo che egli era stato felice
in tutto fuorchè nell'essere imperadore. Però tener si può, a mio
credere, per battuta alla macchia una moneta riferita dal
Mezzabarba[2285], dove egli è chiamato _Appio Claudio Censorino_, e
coll'anno terzo dell'imperio. I parenti di costui duravano ai tempi di
Costantino il Grande, e per odio verso Roma andarono ad abitar[2286]
nella Tracia e nella Bitinia. Purchè s'abbia a prestar fede a Giovanni
Malala[2287], che fra non poche verità a noi conservate ha mischiato
molte favole, in questi tempi la regina _Zenobia_ occupò l'Arabia,
stata fin qui ubbidiente ai Romani, con uccidere il loro governatore
_Trasso_ (forse _Crasso_, perchè questo non par cognome romano),
mentre l'imperador Claudio dimorava in Sirmio, città della Pannonia.

Quivi appunto si trovava questo Augusto, quando egli terminò colla
vita il suo corto, ma glorioso imperio[2288]. I Goti, da lui sì
felicemente vinti, fecero le lor vendette, coll'attaccar la peste
all'armata romana; e un malore sì micidiale passò alla persona del
medesimo[2289] Claudio imperadore, e il rapì dal mondo. S'è disputato
intorno al mese in cui egli morì[2290]. Dal Tillemont[2291] vien
creduto morto nell'aprile di questo anno, e più verisimile a me sembra
la di lui opinione. Il Noris e il Pagi, perchè si trova una
legge[2292] col nome di Claudio, data nel dì 26 di ottobre dell'anno
presente, la qual potrebbe esser fallata, come sono tant'altre, han
tenuto ch'egli circa il fine di quel mese cessasse di vivere. Certo è
almeno presso gli eruditi che in quest'anno succedette la morte sua,
compianta da tutti, e massimamente dal senato romano[2293], il quale
gli decretò uno scudo, o sia un busto, e una statua d'oro, che furono
messi per suo onore nella curia del Campidoglio, e, secondo la folle
superstizion de' pagani, se ne fece un dio. In quest'anno ancora diede
fine al suo vivere _Plotino_[2294], famoso filosofo platonico, le cui
opere son giunte fino a' dì nostri. Chiaramente scrive Trebellio
Pollione[2295], che dopo la morte di Claudio fu creato imperadore
_Marco Aurelio Claudio Quintillo_ (che così il troviamo appellato
nelle medaglie[2296]), fratello del medesimo defunto Claudio,
dimorante in Aquileia, e non già vivente Claudio, come ha creduto
taluno. Questo _Quintillo_, che Eutropio[2297] dice approvato dal
senato, era ben conosciuto per uomo dabbene e molto affabile, ma,
secondo Zonara[2298], peccava di semplicità, nè avea spalle per sì
gran fardello; e però non si sa ch'egli facesse azione od impresa
alcuna degna d'osservazione. Per sua disavventura avvenne che
_Aureliano_, il più accreditato uffiziale che si trovasse nell'armata
acquartierata in Sirmio, fu proclamato quasi nello stesso tempo
_Imperadore_ con universal consentimento di que' soldati[2299].
Portata questa nuova in Italia, grande strepito fece, considerando
ognuno le qualità eminenti di questo eletto, superiori senza paragone
a quelle di Quintillo, e la forza dell'armata che accompagnava
l'elezione stessa. Da questa novità procedette la morte del medesimo
Quintillo nella suddetta città d'Aquileia. Vi ha[2300] chi il dice
rapito da una malattia. Trebellio Pollione[2301] con altri[2302]
apertamente cel rappresenta ucciso da' soldati, e Zosimo[2303] tiene,
che conoscendosi evidente la di lui caduta, i suoi stessi parenti il
consigliarono a cedere con darsi la morte; al qual partito si appigliò
con farsi tagliar le vene. Diciassette soli giorni di imperio a lui
son dati dal suddetto Pollione, da Eutropio, Eusebio[2304] e
Zonara[2305]; venti da Vopisco[2306]. Zosimo scrive ch'egli regnò
pochi mesi; e tante medaglie[2307] restanti di lui pare che persuadano
non essere stato sì breve il suo regno. Intanto è fuor di dubbio che
_Aureliano_ restò solo sul trono, ed approvato con gran plauso dal
senato romano. Noi il vedremo uno de' più gloriosi ed insieme aspri
imperadori; e di uomo tale avea ben bisogno allora la romana
repubblica, lacerata da' suoi stessi figliuoli, e più ancora malmenata
dalle potenze straniere. Nè tardò già Aureliano a mettere in esercizio
il suo valore con belle imprese, le quali se fossero succedute tutte
nell'anno presente, come pensò il Tillemont[2308], non al fine di
ottobre, ma all'aprile di quest'anno, si dovrebbe riferire la morte di
Claudio, e l'assunzione all'imperio dello stesso Aureliano. Ma il
padre Pagi[2309] ne attribuisce una parte all'anno seguente; e
veramente ci troviam qui sprovveduti di lumi per assegnare il preciso
tempo di que' fatti: fatti nondimeno certi, de' quali mi riserbo ad
esporre unitamente la serie nell'anno che viene.

NOTE:

[2275] Thesaurus Novus Inscript., pag. 366.

[2276] Cuspinianus, Bucherius.

[2277] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[2278] Pagius, in Crit. Baron.

[2279] Trebellius Pollio, in Claudio. Zosimus, lib. 1, cap. 45.

[2280] Trebellius Pollio, in Claudio.

[2281] Julianus, Oratione I.

[2282] Goltzius et Mediobarb., in Numism. Imp.

[2283] Trebellius Pollio, in Trigint. Tyrann., cap. 25.

[2284] Trebellius Pollio, in Censorino et Tito.

[2285] Mediob., in Numismat. Imperator.

[2286] Trebellius Pollio, in Censorino et Tito.

[2287] Joannes Malala, Chronogr.

[2288] Euseb., in Chron. Joannes Malala, Chronogr. Zonaras, in
Annalibus.

[2289] Trebellius Pollio, in Claudio.

[2290] Petavius et Noris. Pagius et alii.

[2291] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2292] L. 2, tit. 23, C. de divers. rescript.

[2293] Eutrop. Aurel. Vict. Trebellius Pollio. Zosimus.

[2294] Porphyrius, in Vita Plotini.

[2295] Trebellius Pollio, in Claud.

[2296] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2297] Eutrop., in Breviar.

[2298] Zonaras, in Annalibus.

[2299] Zosimus, lib. 1, cap. 47. Zonaras, in Annalibus.

[2300] Joannes Malala, Chronogr.

[2301] Trebellius Pollio, in Gallieno.

[2302] Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.

[2303] Zosimus, lib. 1, cap. 47.

[2304] Eusebius, in Chronic.

[2305] Zonaras, in Annalib.

[2306] Vopiscus, in Aurel.

[2307] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2308] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2309] Pagius, in Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CCLXXI. Indizione IV.

    FELICE papa 5.
    AURELIANO imperadore 2.

_Consoli_

LUCIO DOMIZIO AURELIANO AUGUSTO e BASSO per la seconda volta.


Il padre Pagi, il Relando ed altri ci danno _Aureliano_ imperadore
_console per la seconda volta_, ma con fondamenti poco stabili, a mio
credere. Si suppone che Aureliano nell'anno 259 fosse console
sostituito; e di questo niuna certezza apparisce. Sono citate due
iscrizioni; l'una ligoriana, pubblicata dal Reinesio[2310], e l'altra
data alla luce dal Relando[2311], e presa dal Gudio; cioè due
monumenti che patiscono varie eccezioni, e vengono da fonti che non
possono servire a darci limpida e sicura la verità. All'incontro tutti
i Fasti consolari antichi ci presentano sotto l'anno corrente
_Aureliano console_, ma senza la nota del consolato secondo.
Altrettanto troviamo nelle iscrizioni di questo o de' seguenti anni,
tutte conformi in mettere questo pel primo consolato di Aureliano. Una
anch'io ne ho prodotta[2312] non diversa dalle altre. _Pomponio Basso_
fu creduto dal Panvinio[2313] il secondo console, perchè sotto Claudio
si truova un riguardevol senatore di questo nome: conghiettura troppo
debole. Dai susseguenti illustratori de' Fasti vien egli chiamato
_Numerio_ o pur _Marco Ceionio Virio Basso_; ma con aver succiato nomi
tali dalle due suddette non affatto sicure iscrizioni. Per altro si
truova un _Ceionio Basso_[2314], a cui Aureliano scrisse una lettera,
ma senza segno ch'egli fosse stato console. Il perchè a maggior
precauzione non l'ho io appellato se non col solo cognome di _Basso_.
L'imperador novello Aureliano nelle monete[2315] parlanti di lui vien
chiamato _Lucio Domizio Aureliano_. Si può dubitare che sia un fallo
in alcune l'esser chiamato _Claudio Domizio Aureliano_, e che in vece
d'IMP. CL. DOM., ec., s'abbia a leggere IMP. C. L. DOM., cioè _Cesare
Lucio_, ec., come nell'altre. Il cardinal Noris e il padre Pagi
credettero che la vera sua famiglia fosse la _Valeria_, perchè,
scrivendogli una lettera Claudio imperadore, il chiama _Valerio
Aureliano_, e nell'iscrizione ligoriana, che dissi pubblicata dal
Reinesio, egli porta il medesimo nome. Ma se fosse guasto il testo di
Vopisco[2316]? Poichè quanto a quella iscrizione, torno a dire ch'essa
non è atta a decidere le controversie. Tanto nelle medaglie che nelle
antiche iscrizioni, altro nome, siccome dissi, non vien dato a questo
imperadore, che quello di _Lucio Domizio Aureliano_, e a questo
conviene attenersi. E se altri[2317] il chiama Flavio Claudio Valerio,
non v'è obbligazione di seguitarlo. Non ebbe difficoltà Vopisco di
confessare che _Aureliano_ sortì nascita bassa ed oscura nella città
di Sirmio, ovvero nella Dacia Ripense. Ma si fece egli largo colla sua
prudenza e valore nella milizia, e di grado in grado salendo, sempre
più guadagnò di plauso e di credito. Bello era il suo aspetto, alta la
statura, non ordinaria la robustezza. Nel bere, mangiare e in altri
piaceri del corpo, in lui si osservava una gran moderazione[2318]. La
sua severità e il rigore nella militar disciplina, quasi andava
all'eccesso. Denunziato a lui un soldato che avea commesso adulterio
colla moglie del suo albergatore, ordinò che si piegassero due forte
rami d'un albero, all'un de' quali fosse legato l'un piede del
delinquente, e l'altro all'altro, e che poi si lasciassero andare i
rami. Lo spettacolo di quel misero spaccato in due parti gran terrore
infuse negli altri. Ebbe principio la fortuna sua sotto Valeriano
Augusto; Gallieno ne mostrò altissima stima; e più di lui Claudio. In
varie cariche militari riportò vittorie contra de' Franchi, de'
Sarmati, de' Goti. Teneva mirabilmente in briglia le sue soldatesche,
e, ciò non ostante, sapea farsi amare dalle medesime. Merita d'essere
qui rammentata una lettera di lui, scritta ad un suo luogotenente, ove
dice: _Se vuoi essere tribuno, anzi, se t'è caro di vivere, tieni in
dovere le mani de' soldati. Niun d'essi rapisca i polli altrui, niuno
tocchi le altrui pecore. Sia proibito il rubar le uve, il far danno ai
seminati, e l'esigere dalla gente olio, sale e legna, dovendo ognuno
contentarsi della provvisione del principe. Si hanno i soldati a
rallegrar del bottino fatto sopra i nemici, e non già delle lagrime
de' sudditi romani. Cadauno abbia l'armi sue ben terse, le spade ben
aguzze ed affilate, e le scarpe ben cucite. Alle vesti fruste
succedono le nuove. Mettano la paga nella tasca, e non già
nell'osteria. Ognun porti la sua collana, il suo anello, il suo
bracciale, e nol venda o giuochi. Si governi e freghi il cavallo, ed
il giumento per le bagaglie; e così ancora il mulo comune della
compagnia; e non si venda la biada lor destinata. L'uno all'altro
presti aiuto, come se fosse un servo. Non han da pagare il medico. Non
gettino il danaro in consultar indovini. Vivano costantemente negli
alloggi, e se attaccheran lite, loro non manchi un regalo di buone
bastonate._ Bene sarebbe che alcun generale od uffiziale de' nostri
tempi studiasse questa sì lodevol lezione, saputa dai gentili, e
talvolta ignorata dai cristiani. Moglie di Aureliano imperadore fu
_Ulpia Severina_, la quale non si sa che procreasse altro che una
figliuola, i cui discendenti viveano a' tempi di Vopisco.

Ora da che fu creato imperadore _Aureliano_, se dice il vero
Zosimo[2319], egli sen venne a Roma, e, dopo aver quivi bene
assicurata la sua autorità, di colà mosse, e per la via d'Aquileia
passò nella Pannonia, che era gravemente infestata dagli Sciti, o sia
dai Goti. Mandò innanzi ordine che si ritirassero nelle città e ne'
luoghi i viveri e i foraggi, affinchè la fame fosse la prima a far
guerra ai nemici. Comparvero, ciò non ostante, di qua dal Danubio i
Barbari, e bisognò venire ad un fatto d'armi. Senza sapersi chi
restasse vincitore, la sera separò le armate, e fatta notte, i nemici
si ritirarono di là dal fiume. La seguente mattina ecco i loro
ambasciatori ad Aureliano per trattar di pace. Se la concludessero,
nol dice Zosimo: e sembra che no, perchè partito Aureliano, e lasciato
un buon corpo di gente in quelle parti, furono alcune migliaia di que'
Barbari tagliate a pezzi. Il motivo per cui si mise in viaggio
Aureliano, fu la minaccia de' popoli, che Vopisco[2320] chiama
Marcomanni, e Desippo[2321] storico Giutunghi, di calare in Italia; se
pur de' medesimi fatti e popoli parlano i suddetti due scrittori.
Secondo Desippo, Aureliano, portatosi al Danubio contro ai Giutunghi
Sciti, diede loro una sanguinosa rotta; e, passato anche il Danubio,
fu loro addosso, e ne fece un buon macello, talmente che i restanti
mandarono deputati ad Aureliano per chieder pace. Fece Aureliano
metter in armi e in ordinanza il suo esercito, e per dare a quei
Barbari una idea della grandezza romana, vestito di porpora andò a
sedere in un alto trono in mezzo del campo, con tutti gli uffiziali a
cavallo, divisi in più schiere intorno a lui, e colle bandiere ed
insegne, portanti l'aquile d'oro e le immagini del principe poste in
fila dietro al suo trono. Parlarono que' deputati con gran fermezza,
chiedendo la pace, ma non da vinti; rammentando allo imperadore
ch'erano giornaliere le fortune e sfortune nelle guerre; ed esaltando
la loro bravura, giunsero a dire d'aver quaranta mila cavalieri della
sola nazion de' Giutunghi, ed anche maggior numero di fanti, e d'esser
nondimeno disposti alla pace, purchè loro si dessero i regali
consueti, e quell'oro ed argento che si praticava prima d'aver rotta
la pace. Aureliano con gravità loro rispose, che dopo aver eglino col
muover guerra mancato ai trattati, non conveniva loro il dimandar
grazie e presenti; e toccare a lui, e non a loro, il dar le condizioni
della pace; che pensassero a quanto era avvenuto ai trecento mila
Sciti, o Goti, che ultimamente aveano osato molestar le contrade
dell'Europa e dell'Asia; e che i Romani non sarebbono mai soddisfatti,
se non passavano il Danubio, per punirli nel loro paese. Con questa
disgustosa risposta furono rimandati quegli ambasciatori. Per
attestato del medesimo Desippo[2322], autore poco lontano da questi
tempi, anche i Vandali mossero guerra al romano imperio, gente anche
essi della Tartaria; ma una gran rotta loro data dall'esercito fece
ben tosto smontare il loro orgoglio, ed inviar ambasciatori ad
Aureliano per far pace e lega. Volle Aureliano udire intorno a ciò il
parere dell'armata; e la risposta generale fu, che avendo que' Barbari
esibite condizioni onorevoli, ben era il finir quella guerra. Così fu
fatto. Diedero i Vandali gli ostaggi all'imperadore, e due mila
cavalli ausiliarii all'armata romana; gli altri se ne tornarono alle
loro case con quiete. E perchè cinquecento d'essi vennero dipoi a
bottinar nelle terre romane, il re loro, per mantenere i patti, li
fece tutti mettere a fil di spada.

Mentre si trovava Aureliano impegnato contra d'essi Vandali, ecco
giugnergli nuova che una nuova armata di Giutunghi era in moto verso
l'Italia. Mandò egli innanzi la maggior parte dell'esercito suo, e
poscia col resto frettolosamente anch'egli marciò per impedire la lor
calata; ma non fu a tempo. Costoro più presti di lui penetrarono in
Italia, e recarono infiniti mali al distretto di Milano. Vopisco[2323]
li chiama Svevi, Sarmati, Marcomanni, e si può temere che sieno
confuse le azioni, e replicate le già dette di sopra. Comunque sia,
per le cose che succederono, convien dire che non fossero lievi le
forze e il numero di costoro. E si sa che, avendo voluto Aureliano con
tutto il suo sforzo assalire que' Barbari verso Piacenza, costoro si
appiattarono nei boschi, e poi verso la sera si scagliarono addosso ai
Romani con tal furia, che li misero in rotta e ne fecero sì copiosa
strage, che si temè perduto l'imperio. In oltre si sa che questi loro
pregressi tal terrore e costernazione svegliarono in Roma, che ne
seguirono varie sedizioni, le quali, aggiunte agli altri guai, diedero
molta apprensione e sdegno ad Aureliano. Scrisse egli allora al
senato, riprendendolo perchè tanti riguardi, timori e dubbii avesse a
consultar i libri sibillini in occasione di tanta calamità e bisogno,
_quasi che_ (son parole della sua lettera) _essi fossero in una chiesa
di cristiani, e non già nel tempio di tutti gli dii_. Il decreto di
visitare i libri d'esse Sibille fu steso nel dì 11 di gennaio, cioè,
secondo il padre Pagi[2324], nel gennaio dell'anno presente. Ma non
può mai stare che Aureliano, come pensa il medesimo Pagi, fosse creato
imperadore in Sirmio sul principio di novembre dell'anno prossimo
passato, e che egli venisse a Roma, tornasse in Pannonia, riportasse
vittorie in più luoghi al Danubio, e dopo aver seguitato gli Alamanni,
o vogliam dire i Marcomanni e Giutunghi, mandasse gli ordini suddetti
a Roma: il tutto in due soli mesi. Chi sa come gl'imperadori non
marciavano per le poste, ma con gran corte, guardie e milizie, conosce
tosto che di più mesi abbisognarono tante imprese. Però convien dire
che Aureliano, siccome immaginò il Tillemont[2325], fu creato
imperadore nello aprile dell'anno precedente, in cui fece più guerre;
o pure che la calata in Italia dei Barbari appartiene all'anno
presente, per la qual poi nel dì 11 di gennaio dell'anno susseguente
vennero consultati in Roma i libri creduti delle Sibille, nei quali si
trovò che conveniva far molti sacrifizii crudeli, processioni ed altre
cerimonie praticate dalla superstizion de' pagani. A noi basterà,
giacchè non possiamo accertare i tempi di questi sì strepitosi
avvenimenti, che si rapporti il poco che sappiamo della continuazione
e del fine di tal guerra, tutto di seguito. Abbiamo da Aurelio
Vittore[2326] (perchè Vopisco qui ci abbandona) che Aureliano in tre
battaglie fu vincitore dei Barbari. L'una fu a Piacenza, che dee
essere diversa dalla raccontata da Vopisco: altrimenti l'un d'essi ha
fallato. La seconda fu data in vicinanza di Fano e del fiume Metauro,
segno che la giornata di Piacenza era stata favorevole ai Barbari, per
essersi eglino inoltrati cotanto verso Roma. La terza nelle campagne
di Pavia, che dovette sterminar affatto questi Barbari turbatori della
pace d'Italia: con che ebbe felice fine questa guerra. Allora
Aureliano mosse alla volta di Roma i suoi passi, non per portarvi
l'allegrezza d'un trionfo, ma per farvi sentire la sua severità, anzi
crudeltà. Imperocchè[2327], pien di furore per le sedizioni che nate
ivi dicemmo, con voce che fossero state tese insidie[2328] a lui
stesso e al governo, condannò a morte gli autori di quelle turbolenze.
Vopisco, tuttochè suo panegirista, confessa che egli troppo aspra e
rigorosa giustizia fece. E tanto più ne fu biasimato, perchè non
perdonò nè pure ad alcuni nobili senatori, fra' quali _Epitimio_,
_Urbano_ e _Domiziano_; ancorchè di poco momento fossero, e
meritassero perdono alcuni loro reati, e questi anche fondati nella
accusa di un sol testimonio. Prima era forse amato Aureliano; da lì
innanzi cominciò ad essere solamente temuto; e la gente dicea, non
altro essere da desiderare a lui che la morte, e _ch'egli era un buon
medico, ma che con mal garbo curava i malati_. Anche Giuliano
Augusto[2329] Apostata l'accusa di una barbarica crudeltà, ed Aurelio
Vittore[2330] con Eutropio[2331] cel rappresenta come uomo privo di
umanità e sanguinario, avendo egli levato di vita fino un figliuolo di
sua sorella. Tal sua barbarie pretende Ammiano[2332] che si stendesse
sotto varii pretesti, spezialmente sopra i ricchi, affine d'impinguar
l'erario, restato troppo esausto per le pazzie di Gallieno; e in tal
opinione concorre anche Vopisco[2333]. Fu in questi tempi che
Aureliano, considerata l'avidità dei Barbari, già scatenati contra
dell'imperio romano[2334], col consiglio del senato prese la
risoluzione di rifabbricar le mura rovinate di Roma, per poterla
difendere in ogni evento di pericoli e guerre. Idacio[2335] ne fa
menzione sotto questo anno. Ma Eusebio[2336], Cassiodoro[2337] ed
altri mettono ciò più tardi. Nella Cronica Alessandrina solamente se
ne parla all'anno seguente. Con questa occasione certo è che Aureliano
ampliò il circuito di Roma, scrivendo Vopisco che il giro d'essa città
arrivò allora a cinquanta miglia; opera sì grande nondimeno, secondo
Zosimo, fu solamente terminata sotto _Probo Augusto_.

NOTE:

[2310] Reinesius, Inscription., pag. 387.

[2311] Reland., in Fast. Consul.

[2312] Thesaurus Novus Inscript., pag. 367, n. 1.

[2313] Panvin., in Fast. Consul.

[2314] Vopiscus, in Aurelian.

[2315] Mediobarb., in Numismat. Imper.

[2316] Vopiscus, in Aurelian.

[2317] Stampa, ad Fast. Consul.

[2318] Vopiscus, in Aurelian.

[2319] Zosimus, lib. 1, cap. 48.

[2320] Vopiscus, in Aurelian.

[2321] Dexippus, de Legat., tom. I Hist. Byzantin.

[2322] Dexippus, de Legat., tom. I Hist. Byzantin.

[2323] Vopiscus, in Aurelian.

[2324] Pagius, in Critic. Baron.

[2325] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2326] Aurelius Victor, in Epitome.

[2327] Vopiscus, in Aurel.

[2328] Zosimus, lib. 1, cap. 49.

[2329] Julianus, de Caesarib.

[2330] Aurelius Victor, in Epitome.

[2331] Eutrop., in Breviar.

[2332] Ammianus Marcellinus, lib. 30 Histor.

[2333] Vopiscus, in Aurelian.

[2334] Idem, ibidem.

[2335] Idacius, in Chronic.

[2336] Euseb., in Chronic.

[2337] Cassiodorus, in Chronico.




    Anno di CRISTO CCLXXII. Indizione V.

    FELICE papa 4.
    AURELIANO imperadore 3.

_Consoli_

QUINTO e VELDUMIANO o sia VELDUMNIANO.


Domati i Barbari, e restituita la tranquillità all'Italia, due altre
importantissime imprese restavano da fare allo Augusto Aureliano.
_Tetrico_ occupava le Gallie e le Spagne. _Zenobia_ regina dei
Palmireni quasi tutte o tutte le provincie dell'Oriente occupava, ed
anche l'Egitto. Per varii motivi antepose Aureliano all'altra la
spedizion militare contro a Zenobia. Questa principessa, che
s'intitolava regina dell'Oriente, una delle più rinomate donne
dell'antichità, si trova chiamata in alcune medaglie[2338], che si
suppongono vere, _Settimia Zenobia Augusta_, quasichè ella discendesse
dalla famiglia di Settimio Severo Augusto; quando essa, secondo
Trebellio Pollione[2339], vantava di discendere dalla casa di
Cleopatra e dei re Tolomei. Santo Atanasio[2340] pretese ch'ella
seguitasse la religion de' Giudei, e favorisse per questo l'empio
Paolo Samosateno; e da Malala[2341] vien detta regina de' Saraceni.
Scrive il suddetto storico Pollione che in lei si ammirava una
bellezza incredibile, un spirito divino. Neri e vivacissimi i suoi
occhi, il colore fosco; non denti, ma perle pareano ornarle la bocca;
la voce soave e chiara, ma virile. Al bisogno uguagliava i tiranni
nella severità: superava nel resto la clemenza de' migliori principi.
Contro il costume delle donne sapeva conservare i tesori, ma non
lasciava di far risplendere la sua liberalità, ove lo richiedesse il
dovere. Nel portamento e ne' costumi non cedeva agli uomini, rade
volte uscendo in carrozza, spesso a cavallo, e più spesso facendo le
tre o quattro miglia a piedi, siccome persona allevata sempre nelle
caccie. Da _Odenato_ suo marito, che già dicemmo ucciso, non riceveva
le leggi, ma a lui le dava. Prese bensì da lui il titolo di _Augusta_,
dacchè egli fu dichiarato Augusto, e portava l'abito imperiale, a cui
aggiunse anche il diadema. Non sì tosto s'accorgeva essa d'esser
gravida, che non volea più commercio col marito. Il suo vivere era
alla persiana, cioè con singolar magnificenza, e volea essere
inchinata secondo lo stile praticato coi re persiani. A parlare al
popolo iva armata di corazza; pranzava sempre coi primi uffiziali
della sua armata, usando piatti d'oro e gemmati. Poche fanciulle,
molti eunuchi teneva al suo servigio; e l'impareggiabil sua castità,
tanto da maritata che da vedova, veniva decantata dappertutto.
_Aureliano_ stesso in una lettera al senato[2342] ne parla con elogio,
dicendo ch'essa non parea donna: tanta era la di lei prudenza ne'
consigli, la fermezza nell'eseguir le prese risoluzioni, e la gravità
con cui parlava ai soldati, di modo che non meno i popoli dell'Oriente
e dell'Egitto, a lei divenuti sudditi, che gli Arabi, i Saraceni e gli
Armeni non osavano di disubbidirla, o di voltarsi contro di lei: tanta
era la paura che ne aveano. A lei anche in buona parte si attribuivano
le gloriose azioni del fu Odenato suo marito contro ai Persiani. Nè
già le mancava il pregio delle lingue e della letteratura. Oltre al
suo nativo linguaggio fenicio o saracenico, perfettamente possedeva
l'egiziano, il greco e il latino, ma non s'arrischiava a parlare
questo ultimo. Ebbe per maestro nel greco il celebre _Longino_
filosofo, di cui resta un bel trattato del Sublime, e la cui morte
vedremo fra poco. Fece imparare a' suoi figliuoli il latino sì
fattamente, che poche volte e con difficoltà parlavano il greco. Sì
pratica fu della storia dell'Oriente e dell'Egitto, che si crede che
ne formasse un compendio. Al suo marito Odenato ella avea partorito
tre figliuoli, cioè _Herenniano_, _Timolao_ e _Vaballato_, a' quali
dopo la morte del padre ella fece prendere la porpora imperiale e il
titolo d'_Augusti_; ma perchè erano di età non per anche capace di
governo, essa in nome loro governava gli Stati. Un altro figliuolo
ebbe Odenato da una sua prima moglie, chiamato _Erode_ o pure
_Erodiano_[2343], che si trova nelle medaglie (non so se tutte
legittime) col titolo di Augusto, a lui dato dal padre, come anche
afferma Trebellio Pollione[2344]. Per cagione dell'esaltazion di
questo suo figliastro, fama era che Zenobia avesse fatto morire lui e
il marito _Odenato_, siccome accennai di sopra. Una tal testa, benchè
di donna, signoreggiante dallo stretto di Costantinopoli fino a tutto
l'Egitto, ed assistita da molti dei suoi vicini, potea dar suggezione
ad ogni altro potentato, ma non già ad Aureliano imperadore, che pel
suo coraggio e saggio contegno, teneva sempre le vittorie in pugno.

S'inviò dunque Aureliano da Roma con possente esercito verso l'Oriente
per la strada solita di que' tempi, cioè per terra alla volta di
Bisanzio, pel cui stretto si passava in Asia. Ma prima di giugnervi,
egli nettò[2345] l'Illirico, e poi la Tracia da tutti i nemici del
romano imperio, ch'erano tornati ad infestar quelle provincie. Scrive
Aurelio Vittore[2346] che a' tempi d'esso Aureliano un certo
_Settimio_ nella Dalmazia prese il titolo d'_imperadore_, e da lì a
poco ne pagò la pena, ammazzato da' suoi proprii soldati. Quando ciò
avvenisse, nol sappiamo. Per attestato bensì di Vopisco, Aureliano,
perchè _Cannabaude_ re e duca dei Goti dovea aver commesso delle
insolenze nel paese romano, passato il Danubio, l'andò a ricercar
nelle terre di lui; e datagli battaglia, lo uccise insieme con cinque
mila di que' Barbari combattenti. Probabilmente fu in questa
congiuntura ch'egli prese la carretta di quel re, tirata da quattro
cervi, su cui poscia entrò a suo tempo trionfante in Roma, siccome
diremo. Furono trovate nel campo barbarico molte donne estinte vestite
da soldati, e prese dieci di esse vive. Molte altre nobili donne di
nazione gotica rimasero prigioniere[2347], che Aureliano mandò dipoi a
Perinto, acciocchè ivi fossero mantenute alle spese del pubblico, non
già cadauna in particolare, ma sette insieme, acciocchè costasse meno
alla repubblica. Sbrigato da questi affari, marciò Aureliano a
Bisanzio, e passato lo stretto, al solo suo comparire ricuperò
Calcedone e la Bitinia, che Zenobia avea sottomesso al suo imperio.
Zosimo[2348] nondimeno asserisce aver la Bitinia scosso il giogo de'
Palmireni, fin quando udì esaltato al trono Aureliano. Ancira nella
Galazia sembra aver fatta qualche resistenza: certo è nondimeno che
Aureliano se ne impadronì. Giunto poscia che egli fu a Tiana, città
della Cappadocia[2349], vi trovò le porte serrate e preparato quel
popolo alla difesa. Dicono che Aureliano in collera gridasse: _Non
lascerò un cane in questa città._ Vopisco, grande ammiratore del morto
_Apollonio_, filosofo celebre, anzi mago, nativo di quella città, di
cui tanto egli come altri antichi raccontano varie maraviglie, cioè
molte favole, e che era tenuto da que' popoli per un dio: Vopisco,
dico, racconta ch'esso Apollonio comparve in sogno ad Aureliano, e lo
esortò alla clemenza, se gli premeva di vincere: parole che bastarono
a disarmare il di lui sdegno. Venne poi a trovarlo al campo
_Eraclammone_, uno dei più ricchi cittadini di Tiana, sperando di
farsi gran merito, col tradire la patria, e gl'insegnò un sito per cui
si poteva entrare nella città. Fu essa, mercè di questo avviso, presa
con facilità; e quando ognun si aspettava di darle il sacco, e di
farne man bassa contro gli abitanti, Aureliano ordinò che fosse ucciso
il solo traditore Eraclammone, con dire _che non si potea sperar
fedeltà da chi era stato infedele alla sua patria_; ma lasciò godere
ai di lui figliuoli tutta la eredità paterna, affinchè non si credesse
che lo avesse fatto morire per cogliere le molte di lui ricchezze.
Ricordata ad Aureliano la parola detta di non lasciare un cane in
Tiana: _Oh_, rispose, _ammazzino tutti i cani, che ne son contento_:
risposta applaudita fin dai medesimi soldati, benchè contraria alla
lor brama e speranza del sacco.

Se crediamo a Vopisco[2350], Aureliano, continuato il cammino, arrivò
ad Antiochia, capitale della Soria, e dopo una leggiera zuffa al luogo
di Dafne, entrò vittorioso in quella gran città; e ricordevole
dell'avvertimento datogli in sogno da Apollonio Tianeo, usò di sua
clemenza anche verso di que' cittadini. Passando dipoi ad Emesa, città
della Mesopotamia, quivi con una fiera battaglia decise le sue liti
con Zenobia. Ma Zosimo[2351] diversamente scrive. Zenobia con grandi
forze lo aspettò di piè fermo in Antiochia, e mandò incontro a lui la
poderosa armata sua sino ad Imma, città molte miglia distante di là.
Gran copia di arcieri si contava nello esercito di lei, e di questi
penuriava quel de' Romani. Avea inoltre Zenobia la sua numerosa
cavalleria armata tutta da capo a' piedi, laddove la romana non era
composta se non di cavalli leggieri. Aureliano, mastro di guerra,
osservato lo svantaggio, ordinò alla sua cavalleria di mostrar di
fuggire, tantochè la nemica in seguitarli si trovasse assai stanca pel
peso dell'armi, e che poi voltassero faccia, e menassero le mani. Così
fu fatto, e seguì un'orribile strage dei Palmireni. Eusebio[2352]
scrive che si segnalò in quella gran battaglia un generale de' Romani,
appellato _Pompeiano_ e cognominato _il Franco_, la cui famiglia
durava in Antiochia anche a' suoi dì. Non osavano i fuggitivi di
portarsi ad Antiochia[2353], per timore di non essere ammessi, o pur
di essere tagliati a pezzi da' cittadini, se si accorgevano della
rotta lor data; ma Zabda, o sia Zaba, lor generale, preso un uomo che
si rassomigliava ad Aureliano, e fatta precorrer voce che conduceva
prigioniere lo imperadore stesso, trovò aperte le porte, e quietò il
popolo. La notte seguente poi con Zenobia s'incamminò alla volta di
Emessa. Entrò il vincitore Aureliano in Antiochia, ricevuto con alte
acclamazioni da quegli abitanti, e perchè parecchi de' più facoltosi
si erano ritirati per paura dello sdegno imperiale, Aureliano pubblicò
tosto un bando di perdono a tutti; e questa sua benignità fece
ripatriar di buon grado ciascuno. Dopo aver dato buon ordine agli
affari di Antiochia, ripigliò Aureliano il suo viaggio verso Emesa,
dove s'era ridotta Zenobia. Trovato presso Dafne un corpo di Palmireni
che voleano disputargli il passo, ne uccise un gran numero. Apamea,
Larissa ed Aretusa nel viaggio vennero alla sua ubbidienza[2354].
Consisteva tuttavia l'armata di Zenobia in settanta mila combattenti
sotto il comando di Zabda. Si venne dunque ad una altra campale
giornata, che sulle prime fu o parve svantaggiosa ai Romani, perchè
parte della lor cavalleria o per forza o consigliatamente piegò. Ma
mentre la inseguivano i Palmireni, la fanteria romana di fianco gli
assalì, e ne fece gran macello, non giovando loro l'essere tutti
armati di ferro, perchè i Romani colle mazze li tempestavano e
rovesciavano a terra. Piena di cadaveri restò quella campagna. Zenobia
con gran fretta se ne fuggì, ritirandosi a Palmira; ed Aureliano fu
ricevuto con plauso giulivo in Emesa, dove rendè grazie al dio
Elagabalo, creduto autore di quella vittoria; e dopo aver presi e
vagheggiati con piacere i tesori che Zenobia non avea avuto tempo di
asportare, marciò con diligenza alla volta di Palmira, città
fabbricata da Salomone ne' deserti della Soria, o sia della Fenicia,
ed assai ricca pel commercio che faceva co' Romani e Persiani. Nel
cammino fu più volte in pericolo, e riportò gravi danni l'armata sua
dagli assassini soriani. Pur, giunto a Palmira, la strinse d'assedio.
S'egli in questo o pur nel seguente anno riducesse a fine sì grande
impresa, per mancanza di lumi non si può ora decidere. Sia lecito a me
il differirne il racconto al seguente.

NOTE:

[2338] Spanhemius, de Usu et Praestant. Numismat. Patinus, Num.
Mediob., Numismat. Imp.

[2339] Trebellius Pollio, in Trig. Tyrann., c. 29.

[2340] Athanasius, in Histor.

[2341] Johannes Malala, in Chronogr.

[2342] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.

[2343] Goltzius. Tristanus. Mediob., in Numism. Imper.

[2344] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.

[2345] Vopiscus, in Aurel.

[2346] Aurelius Victor, in Epitome.

[2347] Vopiscus, in Bonoso.

[2348] Zosimus, lib. 1, cap. 50.

[2349] Vopiscus, in Bonoso.

[2350] Vopiscus, in Aurelian.

[2351] Zosimus, lib. 1, cap. 50.

[2352] Eusebius, in Chronic.

[2353] Zosimus, lib. 1, cap. 50.

[2354] Vopiscus, in Aurel. Zosim., lib. 1, cap. 52.




    Anno di CRISTO CCLXXIII. Indizione VI.

    FELICE papa 5.
    AURELIANO imperadore 4.

_Consoli_

MARCO CLAUDIO TACITO e PLACIDIANO.


A _Tacito_ primo console in quest'anno, perchè vien comunemente
creduto lo stesso che vedremo poi imperadore, gl'illustratori de'
Fasti danno il nome di _Marco Claudio_. Benchè vi possa restar qualche
dubbio, pure io mi son lasciato condurre dalla corrente. L'assedio di
Palmira, siccome dicemmo, fu impreso da Aureliano con gran calore; ma
non erano men riguardevoli i preparamenti per la difesa[2355]. Stava
ben provveduta quella città di freccie, pietre, macchine e d'altri
strumenti da guerra e da lanciar fuoco sopra i nemici, siccome ancora
di viveri, quando all'incontro uomini e bestie dell'armata romana
niuna sussistenza trovavano in quella spelata campagna, piena solo di
sabbia. Oltre a ciò, aspettava Zenobia soccorso da' Persiani, Armeni e
Saraceni, di maniera che si ridevano gli assediati delle sgherrate
degli assedianti. Ma Aureliano supplì al bisogno dell'armata per conto
delle provvisioni, facendone venire al campo da tutte le vicinanze; nè
lasciava indietro forza e diligenza alcuna per vincere quella sì ben
guernita città. Maggiormente crebbe l'izza e la picca sua, perchè
avendo sui principii scritto a Zenobia, comandandole imperiosamente di
rendersi, con esibirle comodo mantenimento, dove il senato l'avesse
messa, e con promettere salvo ogni diritto de' Palmireni, Zenobia gli
diede una insolente risposta, con intitolarsi _regina d'Oriente_,
anteporre il suo nome a quello dell'imperadore, e mostrar fiducia di
fargli calar l'orgoglio coi soccorsi ch'ella aspettava[2356]. Vennero
in fatti gli aiuti a lei promessi da' Persiani; ma Aureliano tagliò
loro la strada, e gli sbandò. Vennero anche le schiere de' Saraceni e
degli Armeni; ma egli, parte col terrore, parte coi danari le indusse
a militar nell'esercito suo. Contuttociò un'ostinata difesa fecero gli
assediati, con beffar eziandio ed ingiuriar i Romani. Un di coloro,
vedendo un dì l'imperadore, il caricò di villanie. Allora un arciere
persiano si esibì di rispondergli, e gli tirò così aggiustatamente uno
strale, che colpitolo il fece rotolar morto giù dalle mura. Intanto
veggendo Zenobia che a Palmira s'assottigliava la vettovaglia, stimò
meglio di ritirarsi sulle terre de' Persiani; ma fuggendo sopra dei
dromedarii, fu presa per via dai cavalieri che le spedì dietro
Aureliano, e prigioniera fu a lui condotta. Grande strepito ed istanza
fecero i soldati perchè egli castigasse colla morte la superbia di
costei; ma Aureliano non volle la vergogna di aver uccisa una donna, e
donna tale. La città dipoi ridotta all'agonia, dimandò ed ottenne
qualche capitolazione. V'entrò Aureliano, e perdonò al popolo, ma non
già ai principali, creduti consiglieri di Zenobia, a' quali, come a
seduttori ed autori di tanti mali, levò la vita. Fra questi fu
compreso[2357] _Longino_, celebre filosofo e sofista, e maestro o
segretario della medesima, convinto di aver egli dettata l'albagiosa
ed insolente risposta che Zenobia avea data alla lettera di Aureliano.
Soffrì Longino con tal fortezza la morte, ch'egli stesso consolava gli
amici venuti a deplorar la di lui sciagura. Perdonò anche Aureliano,
per quanto si crede, a _Vaballato_, uno de' figliuoli di Zenobia; e
truovasi una medaglia[2358], in cui si legge il suo nome col titolo di
_Augusto_, e nell'altra parte quello di Aureliano Augusto. Quando sia
vera (del che si può dubitare), sarà stata battuta in uno dei
precedenti anni, e prima della soprascritta tragedia. Di _Herenniano_
e _Timolao_, due altri figliuoli di Zenobia, non si sa ben qual fosse
la sorte loro. Zosimo parla d'un solo figliuolo di Zenobia, condotto
in prigionia colla madre. Vopisco, all'incontro, scrive che Zenobia
sopravvisse molto tempo _cum liberis_ nelle vicinanze di Roma. Questo
si può intendere anche di figlie, che certo essa ne avea; ma Trebellio
Pollione[2359] c'insegna che Zenobia co' suoi due figliuoli minori
Herenniano e Timolao fu condotta in trionfo a Roma. Fu poi di parere
esso Zosimo che Zenobia nell'esser condotta in Europa, o per malattia,
o per non voler prender cibo, morisse per istrada, vinta dal dolore
della mutata fortuna; o per non soffrire la vergogna d'essere condotta
in trionfo. Merita ben qui fede Vopisco, il quale più vicino a questi
tempi ci assicura ch'ella giunse a Roma, e visse molto dipoi, come
dirò all'anno seguente. Anche Giovanni Malala[2360] attesta che
l'infelice principessa comparve nel trionfo romano di Aureliano,
fallando solamente nell'aggiugnere che le fu dipoi tagliato il capo.
Zonara[2361] rapporta su questo varie opinioni. Possiamo ben poi
credere a Zosimo[2362], allorchè racconta avere Aureliano spogliata
Palmira di tutte le sue ricchezze, senza rispettar nè pure i templi:
il che fatto, si rimise in cammino, e tornò ad Emesa[2363], dove forse
il trovarono le ambascerie de' Saraceni, Blemmii, Assomiti, Battriani,
Seri (creduti i Cinesi), Iberi, Albani, Armeni ed Indiani, che gli
portarono dei suntuosi regali. Trattò con superbia e fierezza i
Persiani, gli Armeni e i Saraceni, perchè aveano prestato aiuto a
Zenobia.

Rimesso dunque in pace l'Oriente Aureliano passò lo stretto di
Bisanzio per tornarsene a Roma, menando seco Zenobia e i di lei
figliuoli[2364]. Informato che i popoli carpi aveano fatta
un'incursione nella Tracia, andò a trovarli e li disfece: e perciò il
senato romano, che gli avea già accordato i titoli di _Gotico_,
_Sarmatico_, _Armeniaco_, _Partico ed Adiabenico_, il nominò ancora
_Carpico_. Se ne rise Aureliano, e scrisse loro che si aspettava ormai
d'esser anche intitolato _Carpiscolo_, nome significante una sorta di
scarpe, e da cui poscia è a noi venuto il medesimo nome di _scarpa_.
Ma eccoti arrivargli avviso che i Palmireni s'erano ribellati, con
aver tagliato a pezzi _Sandarione_, e secento arcieri lasciati ivi di
presidio. Con tal sollecitudine tornò egli indietro, che
all'improvviso arrivò ad Antiochia, e spaventò quel popolo, intento
allora a' giuochi equestri. Aveano tentato i Palmireni d'indurre
_Marcellino_, governatore della Mesopotamia e di tutto l'Oriente, a
prendere il titolo di Augusto. Gli andò egli tenendo a bada, ed
informando intanto di tutto Aureliano; ma coloro, non vedendo
risoluzione di lui, dichiararono poi imperadore un certo appellato
_Achilleo_ da Vopisco, _Antioco_ da Zosimo. Giunse Aureliano a Palmira
quando men sel pensavano, e presa quella città senza colpo di spada,
fece mettere a fil di spada tutto quel popolo, uomini, donne,
fanciulli e vecchi, con furore d'inudita crudeltà, benchè poi, tornato
in sè stesso, scrivesse a _Ceionio Basso_ di perdonare a quei che
restavano in vita. Zosimo pretende che egli per isprezzo non facesse
morire quel ridicolo imperadore creato dai Palmireni. Ordinò egli
ancora che si ristabilisse come prima il tempio del Sole messo a sacco
dai soldati, deputando a tal effetto buona somma d'oro e d'argento.
Del resto fece spianare quella città, le cui rovine, visitate a' tempi
nostri dagli eruditi inglesi, ritengono ancora molti vestigii
dell'antica lor maestà. Già dicemmo che Zenobia nelle sue prosperità
avea usurpato al romano imperio l'Egitto. Ora Aureliano, mentre
nell'anno addietro faceva a lei la guerra in Oriente, spedì
_Probo_[2365], il qual fu poi imperadore, con delle soldatesche, per
ricuperar quella ricca ed importantissima provincia. Nel primo
combattimento sbaragliò Probo i nemici: nel secondo ebbe la peggio:
ma, ripigliate le forze, tanto si adoperò, che mise quella nobil
contrada sotto il comando de' Romani, ed aiutò poi Aureliano a
ripigliar l'Oriente nel resto della guerra coi Palmireni. Pareva dopo
ciò che l'Egitto avesse da goder pace, quando un _Marco Firmo_, o
_Firmio_, nativo di Seleucia[2366], amico di Zenobia non ancor vinta,
prese il titolo d'Augusto e d'imperadore, come, secondo Vopisco,
appariva dalle medaglie battute di lui, alcuna delle quali si crede
che resti tuttavia[2367]. Possedeva costui molte ricchezze, e
massimamente nell'Egitto, dove, fra l'altre cose, tanta carta,
chiamata papiro, si fabbricava ne' suoi beni, ch'egli si vantava di
poter mantenere col solo papiro e colla, adoperata in formar la carta,
un esercito. Teneva corrispondenza costui coi Blemmii e Saraceni, e
mandava alle Indie navi a trafficare. Impadronitosi dunque costui di
Alessandria e dell'Egitto, aiutò, per quanto potè, Zenobia; ma caduta
essa, cadde anche egli. Aureliano non già in persona, a mio credere,
andò, ma spedì colà parte della armata, che sconfisse Firmo, e dopo
varii tormenti lo uccise, con sottomettere in poco tempo quel ricco
paese, e mandare a Roma gran copia di grani, la spedizion dei quali
costui avea interrotta. Aureliano[2368], in ragguagliare il popolo
romano di queste vittorie, scrisse fra le altre cose di saper egli
ch'esso popolo non andava d'accordo col senato, non era amico
dell'ordine equestre, ed avea poco buon cuore verso dei pretoriani.
Sbrigato finalmente da questi affari l'infaticabil Aureliano Augusto,
indirizzò i suoi passi verso l'Europa con animo e voglia di atterrar
anche _Tetrico_, che solo restava tra gli usurpatori del romano
imperio. Come egli arrivato colà ricuperasse in poco tempo quelle
provincie, alla sfuggita lo raccontano i vecchi storici[2369]. Altro
non si sa, se non che seguì una battaglia a Scialons sopra la Marna,
in cui _Tetrico_ stesso tradì lo esercito suo, perchè si diede
volontariamente ad Aureliano: laonde i suoi soldati riportarono una
gran percossa da quei di Aureliano. Sono altri di parere che Tetrico
fosse da' suoi soldati tradito e consegnato ad Aureliano, al quale si
sottomisero poscia anch'essi. Tuttavia grande apparenza c'è che
seguisse, o prima o poco dopo dell'arrivo di Aureliano in quelle
contrade, qualche segreta capitolazione ed accordo fra Aureliano e
lui, al vedere l'indulgenza, con cui esso Aureliano, principe poco
avvezzo alla clemenza, trattò il medesimo Tetrico. E la ragione di
abbandonare i suoi per gittarsi in braccio ad Aureliano, l'abbiamo
dagli antichi storici. Cioè fu la continua disubbidienza dei soldati
suoi che ad ogni poco si sollevavano: dal che fu forzato Tetrico ad
invitare e pregar Aureliano che il liberasse da tanti mali. Venuto
egli alla divozion di Aureliano, tutte poi del pari le di lui milizie
il riconobbero per imperadore, e passarono nell'armata romana; con che
le Gallie, e, per conseguente, la Spagna e Bretagna, si videro
restituiti sotto la signoria del medesimo Augusto. Può o dee anche
oggidì essere motivo di stupore il corso di tante imprese e vittorie
fatte da un solo Augusto, e in poco più di tre anni, con aver egli
liberato da tanti barbari nemici il romano imperio, atterrati i
tiranni e riunite al suo corpo tante membra, da esso per più anni
disgiunte. Eusebio[2370] nella Cronica mette sotto quest'anno il
trionfo romano di Aureliano; ma si dee credere uno sbaglio, siccome
vien giudicato ancora il riferirsi da lui nell'anno primo e secondo
d'esso imperadore la caduta di Tetrico, la quale vien posta da Vopisco
dopo la guerra palmirena. Non si sa nè anche intendere, come in un
solo anno potesse Aureliano far tante azioni e viaggi, quanti ne
abbiam veduto in questo anno, menando seco eserciti, cioè ruote
pesanti, che non volano, senz'aggiungervi ancora il suo ritorno dalle
Gallie o Roma. Però coi più degli storici rapporterò io all'anno
seguente il suddetto trionfo.

NOTE:

[2355] Vopiscus, in Aurel. Zosimus, lib. 1, c. 54.

[2356] Zosimus, lib. 1, cap. 55.

[2357] Vopiscus, in Aurelian. Zosimus, l. 1, c. 56.

[2358] Tristan., et Mediobarb., in Numism. Imp.

[2359] Trebellius Pollio, in Trig. Tyrann., c. 23.

[2360] Joannes Malala, Chronogr.

[2361] Zonaras, in Annalib.

[2362] Zosimus, lib. 1, cap. 56.

[2363] Vopiscus, in Aurelian.

[2364] Zosimus, lib. 1, cap. 60. Vopiscus, ibid.

[2365] Vopiscus, in Probo.

[2366] Vopiscus, in Firmo.

[2367] Goltzius, et Spanhemius, in Numism. Imp.

[2368] Vopiscus, in Firmo.

[2369] Vopiscus, in Aureliano. Trebellius Pollio, in Tetrico. Euseb.,
in Chron.

[2370] Euseb., in Chronic.




    Anno di CRISTO CCLXXIV. Indiz. VII.

    FELICE papa 6.
    AURELIANO imperadore 5.

_Consoli_

LUCIO DOMIZIO AURELIANO AUGUSTO per la seconda volta e CAIO GIULIO
CAPITOLINO.


Dopo aver dato buon sesto agli affari delle Gallie, sen venne a Roma
l'Augusto Aureliano per celebrare il trionfo suo. Riuscì questo dei
più grandiosi e memorabili che mai si fossero veduti in quell'augusta
città. Vopisco[2371] bene dà un poco d'idea, con dire che vi erano tre
carrozze regali, le quali tiravano a sè gli sguardi di ognuno. La
prima avea servito ad _Odenato Augusto_, già marito di Zenobia,
coperta d'argento, oro e pietre preziose. La seconda di somigliante
ricco lavoro l'avea avuta Aureliano in dono dal figliuolo o nipote del
morto re _Sapore_, dominante allora in Persia. La terza era stata di
Zenobia, che con essa sperava di comparir vittoriosa in Roma: ed in
essa entrò ella appunto, ma vinta e trionfata. Eravi anche la carretta
del re de' Goti, tirata da quattro cervi, entro la quale Aureliano fu
condotto al Campidoglio, dove sagrificò a Giove que' medesimi cervi,
secondo il voto già fatto da lui. Precedevano in quella immensa
processione venti elefanti, ducento fiere ammansate della Libia e
Palestina, che Aureliano appresso donò a varii particolari, per non
aggravar di tale spesa il fisco; e dei cammellopardi e delle alci ed
altre simili bestie forestiere. Succedevano ottocento paia di
gladiatori e i prigionieri di diverse nazioni barbare, cioè Blemmii,
Assomiti, Arabi, Eudemoni, Indiani, Battriani, Iberi, Saraceni,
Persiani, Goti, Alani, Rossolani, Sarmati, Franchi, Svevi, Vandali e
Germani, colle mani legate; fra' quali ancora si contarono molti de'
principali Palmireni sopravanzati alla strage, e parecchi Egiziani a
cagion della loro ribellione. Ma quello che maggiormente tirò a sè gli
occhi di tutti, fu la comparsa fra i vinti di _Tetrico_ vestito alla
maniera dei Galli, col figliuolo _Tetrico_, al quale egli avea
conferito il titolo di senatore[2372]. Veniva anche _Zenobia_ con
pompa maggiore, tutta ornata, anzi caricata di gemme, dopo aver fatta
gran resistenza ad ammettere il peso ed uso di quelle gioie in sì
disgustosa congiuntura. Con catena d'oro avea legati i piedi e le
mani, ed una ancora ne avea dal collo pendente, sostenuta da un
Persiano che le andava avanti. Con questo mirabile apparato, colle
corone d'oro di tutte le città, colle carrette piene di ricco bottino,
con tutte le insegne e coll'accompagnamento del senato, esercito e
popolo, pervenne molte ore dipoi Aureliano al Campidoglio, e tardi al
palazzo; rattristandosi nondimeno molti al vedere condotti in trionfo
dei senatori romani, il che non era in uso, e mormorando altri[2373],
perchè si menasse in trionfo una donna, come s'ella fosse qualche gran
capitano. Intorno al qual lamento Aureliano dipoi con sua lettera
cercò di soddisfare il senato e popolo romano, col mettere Zenobia del
pari co' più illustri rettori di popoli. Furono poscia impiegati i
seguenti giorni in pubblici sollazzi di giuochi scenici e circensi, in
combattimenti di gladiatori, caccie di fiere, battaglie in acqua, e in
assegnamento perpetuo di pane e carne porcina, che ogni dì si
distribuiva a cadauno del popolo romano.

Abbiamo da Trebellio Pollione[2374] che Aureliano non solamente
perdonò a Zenobia, ma le assegnò ancora un decente appannaggio pel
mantenimento di lei e de' suoi figliuoli, e un luogo a Tivoli presso
al palazzo di Adriano, dove ella soggiornò dipoi a guisa d'una matrona
romana. Eutropio[2375] scrive che a' suoi giorni restavano ancora dei
discendenti da essa Zenobia, senza dire se per via di maschi, o pur
delle sue figliuole. Il dirsi da Zonara[2376] che Aureliano sposò lei,
o pur una delle sue figlie, s'ha da contare per una favola. Ciera
bensì di verità ha l'aggiunger egli, che le figlie di essa Zenobia
furono da lui collocate in matrimonio con dei nobili romani. A quanto
poco fa ho detto non si ristrinse la liberalità di Aureliano verso il
popolo, perchè altri regali gli fece in abiti e danari[2377]. E
perciocchè infinita copia vi era di debitori del fisco, ordinò che
nella piazza di Traiano si bruciassero tutte le lor cedole. Pubblicò
ancora un perdon generale per tutti i rei di lesa maestà. S'acquistò
egli specialmente lode nell'aver non solamente rimessa ogni pena a
_Tetrico_, già imperadore, o sia tiranno delle Gallie[2378], ma
dichiaratolo ancora Correttore di tutta l'Italia, cioè della Campania,
del Sannio, della Lucania, de' Bruzii, della Puglia, Calabria, Etruria
ed Umbria, del Piceno e Flaminia, e di tutto il paese Annonario,
colmandolo di onori, e chiamandolo talvolta collega, commilitone ed
anche imperadore: segni di qualche precedente accordo seguito fra
loro. Gli diceva, burlando, _ch'era più onore il governare una
provincia d'Italia, che il regnar nelle Gallie_. Anche al giovane
_Tetrico_ di lui figlio fu conceduto posto fra i senatori, con godere
illesi i lor beni patrimoniali[2379]. Fece inoltre Aureliano portare
alla zecca tutte le monete adulterate e calanti, e ne diede al popolo
delle buone. Fu in questa occasione che i ministri della zecca[2380],
accusati di qualche frode nel loro uffizio, spinti da Felicissimo,
schiavo o liberto dell'imperadore, mossero una sì fiera sedizione in
Roma, che vi uccisero sette mila soldati di Aureliano: cosa difficile
a credersi. Ma pagarono anch'essi il fio della lor crudeltà, col
restar vinti ed esposti al furore, ch'era per lo più eccessivo, in
Aureliano. Racconta Suida[2381] che questo imperadore fece morir molti
senatori per informazioni della loro infedeltà, ricavate da Zenobia.
Era egli un grande adoratore e divoto del Sole[2382]: però in
quest'anno fece fabbricare in Roma il tempio del Sole con singolar
magnificenza, arricchendolo di immensi ornamenti d'oro, di perle e di
altre cose preziose. Pesava il solo oro ivi posto quindici mila
libbre. Quivi espose le statue del medesimo Sole e di Belo, con altri
ornamenti asportati da Palmira. Anche il Campidoglio si vide riempiuto
dei doni a lui fatti da varie nazioni; e tempio alcuno non vi fu in
Roma che non partecipasse di qualche suo dono. Fortificò ancora
l'autorità de' pontefici, ed assegnò rendite per la manutenzione de'
templi e de' ministri. Azioni tutte che fan conoscere l'amore e zelo
ch'egli nudriva per la sua falsa religione, cioè per l'idolatria: zelo
che ancora circa questi tempi lo spinse, dopo essere stato finora
clemente verso i Cristiani, a muovere contro di loro una fiera
persecuzione[2383]. Ma per poco tempo, perchè Dio non tardò a dargli
quel fine e gastigo, a cui soggiacquero anche in questo mondo altri
nemici e persecutori della religione e Chiesa sua santa. Alcune buone
leggi fece Aureliano, ma altre più meditava di farne, e sopra tutto
voleva provvedere al soverchio lusso introdotto in Roma[2384], con
proibire il consumo dell'oro in tanti ricami, indorature ed altri vani
usi, e con vietar l'uso della seta, perchè venendo questa allora
solamente dall'India, ogni libbra di essa costava una libbra d'oro.
Sarebbe da desiderare che anche a' dì nostri nascessero degli
Aureliani, per rimediare al lusso di certe città d'Italia, e alla
pazza mutazion delle mode. Per altro godeva Aureliano Augusto che i
privati abbondassero in vasi d'oro e d'argento. Trovandosi ancora
molte terre incolte nella Toscana e Liguria, suo disegno fu di mandar
colà a coltivarle le famiglie dei Barbari prigioni. Ma questi ed altri
disegni, troncato il filo della sua vita, abortirono tutti.
Credesi[2385] che in quest'anno _Felice_ papa fosse chiamato da Dio al
premio delle sue fatiche, e che o per l'imminente o già insorta
persecuzione non si eleggesse il suo successore se non nell'anno
seguente.

NOTE:

[2371] Vopiscus, in Aurelian.

[2372] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.

[2373] Vopiscus, in Aurel.

[2374] Trebellius Pollio, ibid.

[2375] Eutrop., in Breviar.

[2376] Zonaras, in Annalibus.

[2377] Vopiscus, in Aurel.

[2378] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 23.

[2379] Zosimus, lib. 1, cap. 61.

[2380] Vopiscus, in Aurelian. Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in
Breviar.

[2381] Suidas, in Lexico.

[2382] Zosimus, lib. 1, cap. 61. Vopiscus. Eusebius et alii.

[2383] Eusebius, in Histor. et in Chronico. Lactantius, de Mortibus
Persecutor. Orosius, Syncellus, et alii.

[2384] Vopiscus, in Aureliano.

[2385] Blanchinius, ad Anastasium.




    Anno di CRISTO CCLXXV. Indizione VIII.

    EUTICHIANO papa 1.
    TACITO imperadore 1.

_Consoli_

LUCIO DOMIZIO AURELIANO AUGUSTO per la terza volta e TITO NONIO
MARCELLINO.


_Annio_, e non _Avonio_, nè _Anonio_, fu il nome del console. Per
attestato di Vopisco[2386] fu console sostituito _Aurelio Gordiano_, e
nel dì 25 di settembre _Velio Cornificio Gordiano_. Sul principio di
quest'anno opinione è che fosse promosso al pontificato romano
_Eutichiano_. Nell'anno addietro l'Augusto Aureliano era passato nelle
Gallie, verisimilmente per cagion di qualche ribellione, accaduta in
quelle parti, ch'egli senza fatica estinse. La città di Orleans vien
creduto che fosse rifabbricata da lui e prendesse il di lui nome. E
perchè i Barbari erano entrati nel paese della Vindelicia, che
abbracciava allora parte della Baviera, della Svevia e i Grigioni,
Aureliano accorso a quelle parti, rimase il paese in pace con averne
cacciati i nemici. Di là andò nell'Illirico, e probabilmente fu allora
che scorta la difficoltà di poter sostenere la provincia della Dacia,
oggidì Transilvania, posta di là dal Danubio, attorniata da troppi
Barbari, prese la risoluzione di abbandonarla[2387]. A questo fine
ritirò di qua dal fiume tutte le milizie e famiglie romane abitanti in
quel paese, e lor diede parte della Mesia per abitarvi; paese che si
nominò dipoi la Nuova Dacia, di cui dicono che Sardica divenisse la
capitale. Da ciò si vede fallita l'immaginazione e il vanto dei Romani
gentili, pretendenti che il loro dio Termine non rinculasse giammai,
cioè non lasciasse mai perdere paese una volta unito al loro imperio.
Altri simili esempli di questo loro inetto dio riferisce
sant'Agostino[2388]. Verisimilmente svernò Aureliano in quelle parti,
o pur nella Tracia nell'anno presente, applicato a mettere insieme un
possente esercito per portar la guerra addosso a' Persiani. Era egli
invasato dal desiderio della gloria, e quanto più di grandi imprese
egli avea fatto fin qui, a nulla serviva che maggiormente accenderlo
per farne delle altre. Nè gli mancavano ragioni e pretesti contro la
Persia, che già vedemmo aver prese l'armi in favor di Zenobia. Ma
Iddio il colse nel punto[2389] che i suoi ordini di ferro e fuoco
contra dei cristiani erano già dati, e si doveano stendere per tutto
l'imperio[2390]. Un fulmine caduto in vicinanza di lui e dei suoi
cortigiani pure non fu bastante a rimuoverlo dalle prese risoluzioni.
Per altra mano egli perì, siccome ora son per dire.


A riserva del popolo romano, che veramente l'amava per i molti
benefizii già ricevuti o che si speravano[2391], pochi altri gli
portavano affetto: a colpa della sua severità, anzi crudeltà, di cui
sovente abbiam recate le pruove. Il senato romano, e fino i suoi
proprii cortigiani, non amore, ma bensì timore aveano di lui[2392].
Accadde ch'egli un dì minacciò gravemente _Mnesteo_, uno dei suoi
segretarii, per qualche fallo. _Erote_ vien chiamato da Zosimo[2393].
Costui, siccome pratico che Aureliano non minacciava, mai da burla, e
che se minacciava, non sapeva perdonare, essendosi molto prima
avvezzato a contraffare il carattere del padrone, formò un biglietto,
mettendovi col suo i nomi di molti altri, co' quali Aureliano era in
collera, e di altri ancora che non erano stati minacciati da lui, come
destinati tutti dal sanguinario Augusto alla morte; ed esagerando poi
la necessità di salvare sè stessi, con levare dal mondo quello
spietato carnefice. Abbiam veduto altri Augusti condotti a morte per
sì fatte liste di cortigiani destinati a perire. Dubitar si potrebbe
che alcuna di esse fosse a noi venuta dalle sole dicerie dei
novellisti. Quel ch'è certo, si trovava allora Aureliano in un luogo
chiamato _Caenophrurium_, cioè Castelnuovo, posto fra Bisanzio ed
Eraclea. Quivi gli uffiziali animati da Mnesteo contra di lui, preso
il tempo che Aureliano era con poche guardie, lo stesero morto a terra
con varie ferite. Vopisco[2394] scrive ch'egli morì per mano di
Mucapor, uno de' suoi generali. Altre particolarità di questo fatto
non ha a noi conservato la storia. Essendo giunta a Roma la nuova di
sua morte nel dì 3 di febbraio per attestato del medesimo storico,
vegniamo a conoscere che alquanti giorni prima del fine di gennaio
dell'anno presente dovette succedere la di lui tragedia. Scoprissi
dipoi la furberia di Mnesteo, e ne fu fatta aspra vendetta, con
legarlo ad un palo ed esporlo ad essere divorato dalle fiere. Gli
altri da lui ingannati gran pentimento ebbero d'aver bagnate le mani
nel sangue del loro principe, e parte vennero allora uccisi dai
soldati, parte poi dai successori Augusti Tacito e Probo. Funerali
magnifici furono fatti al defunto imperadore dall'armata, la quale
anche scrisse al senato e popolo romano coll'avviso del funesto
successo, e con premura, perchè Aureliano fosse aggregato al catalogo
degli dii. _Tacito_, che fu poi imperadore, il primo allora dei
senatori, quegli fu che dopo un bell'elogio alla memoria di Aureliano,
fu il primo a decretargli tutti gli onori divini. E certamente non si
può negare ad Aureliano la gloria di uno de' più insigni imperadori
romani, per aver egli in sì poco tempo rimesso in piedi e liberato dai
nemici interni ed esterni tutto l'imperio romano, con disposizione di
far altre mirabili imprese, se non gli fosse stato sul più bello
troncato il filo della vita. Era egli tuttavia vegeto d'età, e questa
la sapeva egli conservare colla sobrietà del vivere; e se si ammalava,
non correva giù a chiamar i medici, ma curava egli stesso i suoi mali
con una dieta rigorosa. La sua soverchia severità, benchè gli
partorisse l'odio di molti, pure riuscì di grande utilità alla
repubblica, perchè levò di mezzo o cacciò in esilio i cervelli
torbidi, cabalisti e perturbatori della quiete pubblica. Specialmente
perseguitò egli i delatori, cioè gli accusatori, tanto ben veduti
sotto altri precedenti governi. Non la perdonava nè pure ai suoi
medesimi parenti e familiari. E la moderazione sua nel vestire si
stendeva anche alla moglie e alla figliuola, alle quali, perchè pur
volevano una veste di seta, rispose, _troppo costare una tela che si
vendeva a peso d'oro_. Altre sue lodevoli doti rammenta Vopisco. Ma a
questo egregio principe mancava la clemenza, virtù necessaria, nonchè
sommamente commendabile ne' saggi principi; e da questo difetto, o,
per dir meglio, dalla sua crudeltà fu egli finalmente condotto ad un
fine infelice.

Avrebbe ognuno creduto che, appena morto Aureliano, l'armata sua
acclamasse Augusto alcuno di quei generali, ma non fu così[2395].
Forse perchè niun d'essi v'era esente dal reato, o dal sospetto della
morte di Aureliano, però non si poterono indurre i soldati a creare
alcun d'essi imperadore. Anzi scrissero al senato, con pregarlo di
scegliere un imperadore degno di tal posto. Non attentandosi di farlo
il senato, perchè alle armate non soleano piacere Augusti creati in
Roma da' senatori, tre volte corsero e ricopersero lettere fra loro,
rimettendo sempre l'una parte all'altra una tale elezione:
controversia rara, e che facea stupir chiunque era consapevole della
prepotenza dei passati eserciti in tali congiunture[2396]. Durante
questa contesa passarono sei mesi, senza che si eleggesse imperadore;
e, ciò non ostante, nell'interno si godeva buona calma; e tutti i
governatori scelti da Aureliano e dal senato continuavano
tranquillamente ne' loro impieghi, fuorchè _Aurelio Fosco_ proconsole
dell'Asia, in cui luogo fu spedito _Falconio_. Era in questi tempi
prefetto di Roma _Postumio Siagrio_, secondo il catalogo pubblicato
dal Bucherio[2397]; ma Vopisco scrive che nel dì 25 di settembre era
essa prefettura appoggiata ad _Elio Ceseziano_. Quegli che diede fine
a questa sonnolenza, e fece che il senato procedesse alla elezion di
un nuovo imperadore, fu il militar movimento de' Germani[2398], i
quali passato il Reno, aveano già occupato varie nobili città, e
temeva anche guerra dai Persiani. _Velio Cornificio Gordiano_, console
sostituito, rappresentò nel dì 25 di settembre la necessità di crear
un imperadore. Preparavasi a rispondere _Marco Claudio Tacito_, primo
fra i consolari, quando a comun voce fu interrotto dal senato, che
l'acclamò _imperadore_, siccome personaggio, per la rara sua prudenza
ed integrità, riconosciuto degnissimo di quell'eccelsa degnità. Fece
egli resistenza per quanto potè, con allegare l'avanzata sua età, e il
non poter cavalcare e reggere eserciti; anzi, perch'egli avea
preveduto questo colpo, per due mesi era stato ritirato nella
Campania. Ma, alzatosi _Mezio Falconio Nicomaco_, tanto disse, tanto
pregò Tacito, mettendogli davanti il bisogno della repubblica, ch'egli
cedette; e l'elezione sua fu molto applaudita dal popolo e da'
pretoriani, a' quali fu promesso il solito regalo. Si vantava _Tacito_
d'essere discendente o parente di _Cornelio Tacito_ celebre storico,
ed egli perciò fece mettere in tutte le librerie l'opere di lui; e
pur, ciò non ostante, perite molte di esse sono oggidì indarno
desiderate da' letterati. Era stato console, avea molti figliuoli, ma
giovanetti, ed un fratello uterino, appellato nelle medaglie _Marco
Annio Floriano_. Non capiva in sè per l'allegrezza il senato al
vedersi giunto a poter eleggere dopo sì lungo tempo un Augusto, e si
pregiava di averlo eletto tale, che in breve potè corrispondere
all'espettazione di ognuno, col rimettere in uso gli antichi diritti e
l'autorità del senato e del prefetto di Roma. Ne diedero i senatori
tosto il lieto avviso con lettere a Cartagine, a Treveri, città
libera, ad Antiochia, Aquileia, Milano, Alessandria, Tessalonica,
Corinto ed Atene. Ora Tacito, appena accettato l'imperio e rendute
grazie al senato, ordinò che si mettessero in alcuni templi le statue
d'argento d'_Aureliano_ ed una d'oro nel Campidoglio. Quest'ultima
dipoi non fu posta; le altre sì. Proibì tanto al pubblico, quanto ai
privati il mischiar insieme l'argento e il rame, e l'argento e l'oro.
Vietò che i servi non potessero chiamarsi all'esame contra de' proprii
padroni, e neppure trattandosi di delitti di lesa maestà. Determinò
che si facesse un tempio de' defunti imperadori deificati, volendo
nondimeno che ivi si collocassero le sole statue dei buoni Augusti,
per animar alla loro imitazione i successori. Avendo fatta istanza del
consolato dell'anno susseguente per suo fratello _Floriano_, il
senato, benchè avvezzo a chinar il capo a tutto quanto bramavano i
precedenti Augusti, pure negò a lui questa soddisfazione, adducendo
che già erano disegnati i consoli, ed essere inconveniente il far
torto ad alcun degli eletti. Dicono che Tacito si rallegrasse
all'osservare questa libertà nella cura, e che dicesse: _Sa il senato
di che tempra sia il principe ch'egli ha eletto._ Poscia donò al
pubblico il privato suo patrimonio, le cui rendite si fanno ascendere
dal Salmasio ad un valore ch'io non ardisco di esprimere, parendo
difficile a credersi. Sembra anche inverisimile questo dono per chi
era vecchio ed avea figliuoli; e il _publicavit_ di Vopisco potrebbe
ammettere un altro senso. Tutto poscia il contante ch'egli si trovava
in cassa l'impiegò in pagar le milizie. E tanto per ora basti di
questo imperadore di pochi giorni.

NOTE:

[2386] Vopiscus, in Valerian. Zonaras, in Annalibus.

[2387] Lactantius, de Mortib. Persecut. Eutropius. Syncellus.

[2388] S. Augustinus, de Civitate Dei, lib. 4, c. 29.

[2389] Lactantius, de Mort. Persec., cap. 7.

[2390] Euseb., in Chronic.

[2391] Vopiscus, in Aureliano.

[2392] Aurelius Victor, in Epitome. Eutropius, in Breviar.

[2393] Zosimus, lib. 1, cap. 62.

[2394] Vopiscus, ibid.

[2395] Vopiscus, in Aureliano.

[2396] Vopiscus, in Tacito. Aurelius Victor, in Epitome.

[2397] Bucherius, in Cycl.

[2398] Vopiscus, in Aureliano.




    Anno di CRISTO CCLXXVI. Indizione IX.

    EUTICHIANO papa 2.
    FLORIANO imperadore 1.
    PROBO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO CLAUDIO TACITO AUGUSTO per la seconda volta ed EMILIANO.


Fa menzione Vopisco[2399] di _Elio Scorpiano_, che era console nel 3
di febbraio dell'anno presente; e perciò si può credere che _Tacito
Augusto_ tenesse un solo mese il consolato. Fra le altre azioni di lui
riferite da Vopisco vi fu l'aver egli bandito da Roma i postriboli,
non già delle pubbliche donne, per quanto io mi figuro, ma bensì di un
vizio più deforme ed abbominevole: provvisione nondimeno che fu di
brevissima durata in un popolo avvezzo ad ogni brutalità, perchè
mancante dei lumi e del freno della vera religione. Proibì ancora il
tenere aperti i bagni in tempo di notte, per impedire le sedizioni; e
vietò, tanto agli uomini che alle donne, il portar vesti di seta.
Volle che si distruggesse la casa propria, e che a sue spese quivi si
fabbricasse un bagno pel pubblico. Cento colonne di marmo di Numidia,
alte ventitrè piedi, donò al popolo d'Ostia. Assegnò alla manutenzion
delle fabbriche del Campidoglio le possessioni ch'egli avea nella
Mauritania; donò ai templi l'argento che serviva alla sua tavola; e
manumise cento dei suoi servi dell'uno e dell'altro sesso. Continuò
poscia a vivere come prima, usando le medesime vesti che gli aveano
servito da privato. La sua tavola continuò ad essere parchissima: il
maggiore imbandimento consisteva in cavoli ed erbaggi. Non volea che
la moglie portasse gemme, e neppure permise al pubblico i ricami d'oro
nelle vesti. Ebbe anche cura di punire rigorosamente gli uccisori di
Aureliano, e sopra gli altri a Mucapor fu dato un rigoroso
gastigo[2400]. S'era fin l'anno dietro udito un gran movimento di
barbari Sciti dalla Palude Meotide, che pretendeano d'essere stati
chiamati da Aureliano Augusto in suo aiuto. Costoro si sparsero pel
Ponto, per la Cappadocia, Galazia e Cilicia, commettendo quelle
ruberie ed insolenze ch'erano il mestier familiare di gente usata alle
rapine. Tacito, benchè vecchio, giudicò debito della sua dignità il
portarsi colà in persona coll'esercito. Seco era _Floriano_ suo
fratello, dichiarato prefetto del pretorio. Da due parti amendue
combatterono contra di tali assassini, con obbligar quelli che non
restarono vittima delle spade romane a ritirarsi ne' lor paesi. Ciò
fatto, si preparava Tacito per tornare in Europa, quando la morte
venne a trovarlo[2401], chi dice in Tarso, chi in Tiana e chi nel
Ponto; e non avendo regnato che sei mesi e giorni, secondo i conti
d'alcuni, si conghiettura ch'egli finisse di vivere nell'aprile
dell'anno presente. Restava tuttavia indeciso ai tempi di Vopisco
s'egli mancasse di vita per malattia naturale, oppure perchè ucciso.
Convengono gli scrittori greci[2402] che violenta fosse la morte sua.
Intorno a ciò scrive Zosimo che avendo Tacito mandato per governator
della Soria _Massimino_ suo parente, costui maltrattò in maniera i
magistrati della città, che tutti cospirarono contra di lui, e gli
levarono la vita. Temendo poscia coloro di ricevere da Tacito il
meritato gastigo, unitisi con quegli uccisori di Aureliano che
restavano anche vivi, tali insidie tramarono ad esso Augusto Tacito,
che il levarono dal mondo. Nulla di più sappiamo di lui, e neppur ne
seppero gli autori della Storia Augusta, se non che[2403] a Terni gli
fu alzata una memoria sepolcrale con istatua, che poi restò atterrata
ed infranta da un fulmine. Certo il suo senno e l'amore del pubblico
bene poteano far sperare da lui delle gloriose imprese; ma il corto
suo vivere gl'impedì il fare di più. Stento io a credere a
Vopisco[2404], quando scrive, aver egli comandato che il mese di
_settembre_ si appellasse _Tacito_, non parendo propria di un sì
saggio vecchio Augusto una sì pueril vanità.

Dopo la caduta di Tacito, _Marco Annio Floriano_, suo fratello uterino
e prefetto del pretorio, quasi che l'imperio fosse ereditario, si fece
proclamare _Imperadore Augusto_ da' suoi soldati, e non tardò a
spedirne l'avviso al senato romano, il quale non fece difficoltà ad
accettarlo. Ma ritrovandosi allora _Probo_ generale dell'armi romane
in Soria, quell'armata, appena udì la morte di Tacito, che a gran voce
chiamò _imperadore_ esso Probo. Fece egli, almeno apparentemente, non
poca resistenza, siccome personaggio che non avea, per quanto egli
dicea, mai desiderato quell'onore[2405], protestando specialmente a
que' soldati che non troverebbono vantaggio in volerlo innalzare,
perchè egli era uomo poco indulgente. Tuttavia gli convenne cedere, e
tanto più perchè dopo un tal atto sarebbe riuscito pericoloso a lui il
dimorare in istato privato. Perciò ecco insorgere una guerra civile.
_Floriano_ fu riconosciuto per imperadore a Roma, e per tutte le
provincie dell'Europa e dell'Africa, ed anche in Asia sino alla
Cilicia; laddove solamente la Soria, la Fenicia, la Palestina e
l'Egitto si sottomisero a _Probo_, pochissima parte di mondo in
paragone dell'altra. Dimorava allora Floriano verso lo stretto di
Bisanzio, dove avea ristretti gli Sciti rimasti sbanditi nell'Asia,
quando gli giunse l'avviso d'aver per competitore Probo. Lasciati
dunque andare i Barbari, si mise in arnese per procedere coll'armi
contra di lui, e passò nella Cilicia. Probo, all'incontro, perchè si
sentiva assai inferiore di forze, ad altro non pensò che a prepararsi
per la difesa, e a tirare in lungo la guerra, quando arrivò il caldo
della stagione, il quale ardente in quelle parti non solamente si fece
sentir molestissimo ai soldati di Floriano, la maggior parte europei,
e piuttosto usati al freddo, ma li fece anche cadere per la maggior
parte malati. Di ciò informato Probo si accostò coll'esercito suo a
Tarso, dov'era Floriano; e benchè uscissero in ordine di battaglia i
soldati di lui, pure non osarono azzardarsi che ad alcune scaramuccie.
Pertanto, inquieti al veder così indebolita per le malattie la loro
armata, e non ignorando quanto fosse superiore in abilità e merito
l'emulo Probo, il quale si può conghietturare che facesse far loro
delle segrete insinuazioni di molto vantaggio, vennero in risoluzione
di terminar quella guerra, con abbandonar Floriano ed accettar Probo
per imperadore[2406]. La più comune opinione degli storici è, che
_Floriano_ fosse ucciso da' suoi. Aurelio Vittore[2407] nondimeno
lasciò scritto ch'egli, con tagliarsi le vene da sè stesso, si diede
la morte, dopo due mesi in circa d'imperio. Sicchè restò solo
imperadore _Probo_, ed ebbe alla sua ubbidienza tutte le milizie che
si trovavano in Oriente: dopo di che spedì a Roma delle saporite
lettere, rappresentando al senato e al popolo romano, ch'egli per
forza avea ben preso il titolo d'_Augusto_, ma che senza la
approvazion d'essi, ch'erano i principi del mondo, egli non volea
ritenerlo: che ben sapeva di poter far tali slargate da che avea in
mano le forze maggiori dell'imperio, e qual fosse in casi tali l'uso
del senato. Nel testo di Vopisco è scritto che questa lettera di Probo
fu letta in senato nel dì 3 di febbraio, e in lui concorsero i voti e
plausi d'ognuno. Per consenso di tutti i critici, v'ha dell'errore, da
che il medesimo storico confessa cessata la vita di Floriano nella
state dell'anno presente, dopo due o tre mesi d'imperio: e però non
potè Probo nel febbraio di quest'anno aver presa la porpora, nè
aspettar sino al febbraio dell'anno seguente per procurarsi
l'approvazion del senato.

NOTE:

[2399] Vopiscus, in Probo.

[2400] Zosimus, lib. 1, cap. 63. Zonaras, in Annal. Vopiscus, in
Tacito.

[2401] Aurel. Victor, in Epitome. Eusebius, in Chron.

[2402] Zosim. Zonar. Euseb. Joan. Malala.

[2403] Vopiscus., in Flor.

[2404] Idem, in Tacito.

[2405] Vopiscus, in Probo.

[2406] Vopiscus, in Probo. Zosimus. Eusebius. Syncellus. Joannes
Malala.

[2407] Aurelius Victor, in Epitome.




    Anno di CRISTO CCLXXVII. Indizione X.

    EUTICHIANO papa 3.
    PROBO imperadore 2.

_Consoli_

MARCO AURELIO PROBO AUGUSTO e MARCO AURELIO PAOLINO.


Nelle medaglie[2408] il novello imperadore porta il nome di _Marco
Aurelio Probo_. Egli era[2409] nativo di Sirmio nella Pannonia, di
famiglia mediocre e mal provveduta di beni. Diedesi in sua gioventù
alla milizia, e sotto Valeriano Augusto per li suoi buoni portamenti
arrivò ad essere tribuno. Lodavasi forte in lui la bella presenza, il
coraggio e la probità de' costumi corrispondente al suo cognome. Non
poche segnalate imprese fece egli in guerra contra varie nazioni
barbare e contro i ribelli dello imperio, di modo che fu carissimo a
Gallieno imperadore, il quale, scrivendo a lui, il chiamava suo padre.
Tanto lo stimò Aureliano Augusto, che parve inclinato a volerlo per
suo successore; e Claudio e Tacito il riguardavano sempre come il
miglior nobile della repubblica romana. Vopisco rapporta varie
prodezze di lui ed alcune lettere dei suddetti Augusti in pruova del
gran concetto che aveano di questo personaggio quando era in privata
fortuna. Nel mestier poi della guerra niun forse il pareggiava, nè a
lui mancava il bel segreto di farsi amar dai soldati, non già con
lasciar loro la briglia sul collo, ma con far conoscere ad ognuno
quanto gli amasse. Li visitava sovente; nulla voleva che loro
mancasse, nè che lor fosse fatta ingiustizia alcuna; anzi colla sua
saviezza spesso placava il crudel Aureliano, se il trovava adirato
contra di loro. Qualor si faceva qualche bottino, a riserva dell'armi,
tutto voleva che si dividesse fra i medesimi soldati. Per altro li
teneva egli continuamente in esercizio e in lavorieri, affinchè
s'indurassero nelle fatiche, imitando in ciò l'africano Annibale. E
però in molte città fece da essi fabbricar ponti, templi, portici ed
altri edifizii, e seccar nell'Egitto delle paludi, per potervi
seminare, aprendo canali che scaricassero l'acque, e facilitando in
altre maniere il traffico pel fiume Nilo. Creato poscia imperadore in
età, e riconosciuto per tale da tutti i popoli del romano imperio, in
così belle azioni s'impiegò, che Vopisco si lasciò scappar dalla
penna, a mio credere, una sfoggiata iperbole, con dire ch'egli fu da
preferire ad Aureliano, Traiano, Adriano, agli Antonini, ad Alessandro
e Claudio Augusti, perchè ebbe tutte le loro virtù, ma non già i loro
difetti. Così Vopisco[2410], il qual poi si trova aver saputo sì poco
delle gesta di questo imperadore. Scrive Zosimo[2411] che una delle
prime sue applicazioni fu quella di punire gli uccisori di Aureliano e
di Tacito. Nè arrischiandosi a tal giustizia con pubblicità, li fece
invitar tutti ad un convito, dove furono tagliati a pezzi dalle sue
guardie, fuorchè uno che si salvò, e preso dipoi fu abbruciato vivo.
Ma Vopisco[2412] non s'accorda con lui, confessando bensì che Probo
vendicò la morte di quegli imperadori, ma con più moderazione e
discretezza che non aveano prima fatto i soldati e Tacito Augusto.
Perdonò ancora a coloro che aveano sostenuto _Floriano_ contra di lui,
perchè seguaci non di usurpatore o tiranno, ma di un fratello del
principe. Nel mentre che si trovavano imbrogliati gli affari pubblici
per la morte di Tacito e per la disputa dell'imperio tra Floriano e
Probo, i popoli della Germania, passato il Reno[2413], occuparono non
poche città delle Gallie in que' contorni. Vopisco[2414] ci vorrebbe
far credere che tutte quelle provincie dopo la caduta di Postumo
restassero sconvolte: e che, tolto di vita Aureliano, venissero in
poter d'essi Germani. Pertanto l'Augusto Probo, lasciato per ora il
pensiero di passare a Roma, sen venne a Sirmio sul principio di
maggio, e di là poi marciò alla volta del Reno. Trovò i Barbari sparsi
per le città galliche, e diede loro addosso in varii combattimenti,
con farne una strage incredibile. In una lettera da lui scritta al
senato romano si pregia d'aver uccisi quattrocento mila di que'
Barbari, e di averne presi sedici mila, ch'erano poi arrolati nelle
truppe romane, e da lui sparsi in varii luoghi e in diverse legioni.
Temer si può che sia scorretto qui il testo di Vopisco, o che la morte
di tanti armati sia un vanto, difficile a credere. Ricuperò Probo e
liberò dal giogo barbarico sessanta o settanta città nobili delle
Gallie.

Racconta qui Zosimo[2415] una cosa strana, cioè che, provandosi gran
carestia di viveri nell'armata sua, oscuratosi il cielo
all'improvviso, cadde una dirotta pioggia, e seco una tal quantità di
grano, che se ne trovavano dei mucchi nella campagna. Stupefatti i
soldati, non ardivano di valersi di questo soccorso; ma incalzati
dalla fame, fecero macinar quel grano, e il trovarono molto a
proposito per saziarsi. Non avrei fatta io menzione di questo
racconto, che, al pari degli altri lettori, credo anch'io favoloso, e
tanto più perchè Vopisco non ne dice parola, e Zonara[2416] ne parla
dubitativamente; ma non ho voluto ometterlo, perchè anche nell'anno
1740 vennero nuove che in una villa dell'Austria era piovuto del
grano, e ne ebbi io stesso sotto gli occhi, ma senza essersi potuto
chiarire se il vento lo avesse colà trasportato da altro luogo, o in
qual altra maniera ciò seguisse: dovendo per altro essere certo che
grano tale (se pur ne fu vera la pioggia) non era nato in cielo, nè
venuto da quel paese, dove non si ara nè semina. Aggiugne il suddetto
Zosimo che intervenne lo stesso Probo Augusto ad una gran battaglia
data ai Logioni, popoli della Germania, que' medesimi probabilmente
che son chiamati Ligi da Cornelio Tacito. La vittoria fu dal canto de'
Romani; Sennone, principe di quella gente, col figliuolo restò
prigioniere; ma Probo li rimise poscia in libertà mercè di un trattato
di pace, per cui furono restituiti tutti i prigioni e le prede da lor
fatte. Seguì ancora un fiero combattimento tra i generali di Probo e i
popoli Franchi, mentre l'imperadore in persona facea guerra, e venne
alle mani coi Borgognoni e Vandali sulle rive del Reno, popoli che non
si sa intendere come dalla Tartaria o da altro paese settentrionale
fossero pervenuti fin colà. Non avea Probo forze tali da poter
combattere del pari con quelle sterminate masnade di Barbari; però da
saggio cercò solamente di dividerli. Tanto dunque gli attizzarono i
Romani con dir loro delle villanie, e mostrando poi di fuggire, se
alcun d'essi passava di qua dal Reno, che gran parte del loro campo
passò il fiume. Non tardarono allora i Romani ad assalirli e disfarli;
e quei che restarono intatti di là, non ottennero pace se non con
obbligarsi di restituir tutto il bottino e i prigioni. Perchè non
eseguirono con fedeltà il trattato, Probo andò ad assalirli ne' loro
trincieramenti, una parte ne uccise, un'altra ne fece prigioniera con
_Igillo_ lor principe; e questi, mandati nella gran Bretagna a popolar
quel paese, servirono dipoi con fedeltà al romano imperio. Anche
Vopisco attesta che Probo, avendo valicato il Reno, portò la guerra in
casa de' Barbari, e li fece ritirare sino ai fiumi Necro ed Alba, con
torre loro non minor bottino di quel che essi aveano fatto nel paese
romano. Continuò ancora molto tempo quella guerra, senza che passasse
giorno in cui non gli fossero portate molte teste di que' Barbari, per
cadauna delle quali egli pagava una moneta d'oro. Un tal guasto
obbligò nove di que' principi a venire a' suoi piedi e a dimandar
pace. Questa fu loro accordata, purchè dessero ostaggi, ed insieme una
contribuzion di vacche, pecore e grano. Veggonsi medaglie[2417] di
Probo colla _vittoria germanica_, le quali son da riferire all'anno
presente, od anche al susseguente, parendo che tante imprese non si
potessero compiere in pochi mesi. Cominciò in quest'anno[2418] ad
infettare il mondo l'eresia di Manete, che stese poi di molto le
radici, e durò di poi per moltissimi secoli, con penetrar anche
nell'Italia dopo l'anno millesimo della era volgare.

NOTE:

[2408] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2409] Vopiscus, in Probo. Victor, in Epitome.

[2410] Vopiscus, in Floriano.

[2411] Zosimus, lib. 1, cap. 65.

[2412] Vopiscus, in Probo.

[2413] Zosimus, lib. 1, c. 67.

[2414] Vopiscus, in Probo.

[2415] Zosimus, lib. 1, c. 67.

[2416] Zonaras, in Annalib.

[2417] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[2418] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO CCLXXVIII. Indiz. XI.

    EUTICHIANO papa 4.
    PROBO imperadore 3.

_Consoli_

MARCO AURELIO PROBO AUGUSTO per la seconda volta e LUPO.


_Furio_ o _Virio Lupo_ fu prefetto di Roma[2419] nell'anno presente e
ne' due susseguenti. Si figurò il Panvinio ch'egli procedesse ancora
console in questo anno: il che può essere vero, quando si supponga già
introdotto l'uso d'unir insieme queste due dignità. Dopo aver
restituita la quiete alle Gallie, passò lo _Augusto Probo_ nella
Rezia[2420], e lasciò quel paese in somma pace, e libero per allora
dal sospetto di ricevere molestia da' nemici del romano imperio.
Arrivato nell'Illirico, compianse quelle contrade infestate e messe a
sacco dai Sarmati e da altre nazioni barbare. Il terrore, che seco
portavano l'armi di lui, fu bastante a dissipar tutta la nemica gente,
e a ripigliar il possesso di ogni luogo da lor preso, quasi senza
sfoderare le spade. Continuato il cammino, trovò anche la Tracia
gemente per la irruzion de' Goti in quelle parti. Duolsi Vopisco che
la storia di questo insigne imperadore fosse come perita a' suoi
tempi; e pur egli fiorì poco più di un mezzo secolo dappoi. Altro
dunque non ci seppe egli dire delle imprese di Probo nella Tracia, se
non che tal paura concepirono di lui i Goti, che parte si sottomise ai
di lui voleri, e parte stabilì con dei trattati una buona amicizia coi
Romani. Gran tempo era che i popoli dell'Isauria stavano ribelli al
romano imperio, senza aver potuto i precedenti Augusti ridurli al
dovere, perchè le asprissime lor montagne tante rocche erano di lor
difesa, e quivi si manteneano a forza di ruberie continue. Probo,
aspirando alla gloria di domar quegli assassini, marciò a quella
volta, e nel viaggio colse e fece morire _Palfurio_, potentissimo capo
di que' ladroni: e con tal arte dipoi maneggiò la guerra, che liberò
tutta l'Isauria, e rimise in quelle parti l'autorità e le leggi della
romana repubblica. Non vi fu luogo, per iscosceso che fosse, in cui
non tendessero d'entrare o per amore o per forza i di lui soldati:
benchè egli dipoi dicesse essere tale quel paese, che ben più facile
era l'impedirne l'entrata ai ladroni che il cavarneli, se vi fossero
entrati. Donò ai veterani molti di quei luoghi a titolo di benefizio
(noi diciamo ora feudo), con obbligo ai loro figliuoli di militare
dopo i diciotto anni, acciocchè non imparassero prima il mestier del
rubare che quel della guerra. Ma per quanto egli facesse, non andò
molto che quel popolo tornò alla ribellione, ed il paese seguitò ad
essere un nido di ladri. Parla anche Zosimo[2421] dei fatti
dell'Isauria, scrivendo che un certo Lidio di quella nazione, gran
capo di masnadieri, e forse non diverso da quel Palfurio che vien
mentovato da Vopisco, con un corpo di gente avea fin qui malmenata la
Licia e la Panfilia. All'approssimarsi dell'armata romana andò a
rinserrarsi co' suoi in Cremma, fortezza inespugnabile della Licia per
la sua situazione in montagna e per le fosse profonde. Quivi
assediato, fece rasar molti edifizii per seminarvi, ma conoscendo ciò
non bastante al bisogno, si scaricò delle persone inutili, mandandole
fuori; e perchè furono queste fatte rientrar dai Romani, il crudel
uomo le fece precipitar giù da que' dirupi. Trovò anche maniera di
cavare una strada sotterranea, per cui i suoi uscivano a bottinare.
Per via d'una donna fu scoperto l'affare. Allora Lidio si sbrigò col
ferro di quei ch'erano superflui alla difesa. Non finiva sì presto
quel blocco, se un valente suo maneggiator di macchine, che solea
colpir colle freccie dovunque mirava, battuto ingiustamente da lui,
non fosse fuggito al campo de' Romani, da dove con una saetta
mortalmente ferì Lidio in tempo ch'egli si affacciava ad una finestra
per guatare gli andamenti dei nemici. Questo colpo diede fine
all'assedio, essendosi renduti quei difensori. Probabilmente son da
riferire all'anno presente tutte le suddette prodezze dell'Augusto
probo. Truovasi qualche sua medaglia[2422], dove è menzionata la
_vittoria gotica_, attribuita con ragione all'anno corrente, e con
indizio che qualche battaglia con fortunato esito fosse stata data ai
Goti, ancorchè Vopisco nulla parli di combattimenti con quella
nazione.

NOTE:

[2419] Bucherius, in Cycl.

[2420] Vopiscus, in Probo.

[2421] Zosimus, lib. 1, c. 69.

[2422] Mediobarb., in Numism. Imperator.




    Anno di CRISTO CCLXXIX. Indiz. XII.

    EUTICHIANO papa 5.
    PROBO imperadore 4.

_Consoli_

MARCO AURELIO PROBO AUGUSTO per la terza volta e NONIO MARCELLO per la
seconda.


Questo secondo consolato di _Nonio Marcello_ è appoggiato ad una
iscrizione romana da me data alla luce[2423]. Coronato di vittorie
passava l'Augusto Probo di un paese in un altro. Dalla Soria dunque
mosse egli contro ai popoli Blemmii, confinanti all'Egitto. Costoro, o
per forza, o perchè chiamati da qualche congiurato, s'erano
impadroniti di Copto e di Tolemaide, città egiziane, che presto
cederono alle forze dell'armata romana, con istrage dei
difensori[2424]. Ed essendo mandati molti di costoro a Roma
prigionieri, per la sparutezza e novità del volto e del portamento
loro, furono oggetto di stupore a chiunque li mirava. La sconfitta di
que' popoli, giudicati in que' tempi il terrore de' lor vicini, diede
molto da paventare al re di Persia, creduto _Narseo_ o _Narsete_.
Probo Augusto in fatti meditava di fargli guerra, quando
sopraggiunsero i di lui ambasciatori, dimandando pace con assai
umiltà. Probo con sostenutezza gli accolse, non volle ricevere i
regali a lui inviati, con dire che si maravigliava come il re loro
inviasse così poca cosa ad un principe, il quale, qualor gli piacesse,
diverrebbe padrone di tutto il di lui paese. Con tale risposta li
rimandò spaventati e confusi. Cresciuta perciò la paura ne' Persiani,
di nuovo spedirono legati con esibizioni tali, che Probo soddisfatto
conchiuse pace con loro. Fu di parere il padre Petavio che
appartenesse più tosto a _Probo_ ciò che Sinesio[2425] attribuisce a
_Carino Augusto_, con iscrivere che, avendo il re persiano fatta
qualche ingiuria ai Romani, l'imperadore marciò per l'Armenia colla
sua armata contra di lui. Giunto sulla cima della montagna, onde si
scopriva la pianura della Persia, con quella vista rallegrò i suoi
soldati, dicendo essere quello il paese, dove avrebbono sguazzato
nella abbondanza, e che pazientassero per ora il difetto di molte
cose. Quindi, postosi a tavola sopra l'erba, fece portare il suo
pranzo, consistente in una sola scudella di piselli, e in qualche
pezzo di porco salato; ed eccoti l'avviso di essere arrivati gli
ambasciatori persiani. Senza muoversi, senza mutarsi d'abito, mentre
era vestito di una casacca di porpora, ma di lana, e con un cappello
in testa, perchè calvo affatto, diede loro udienza; e disse che se il
re loro non provvedeva, vedrebbe in breve tutte le di lui campagne sì
nude d'alberi e grani, come la sua testa era di capelli, e, così
dicendo, si levò il cappello. Esibì a que' legati la sua tavola, se
aveano bisogno di mangiare; se no, che se ne andassero. La relazione
da costoro fatta al re di un imperadore e di un'armata sì poco curante
delle delizie e del lusso, talmente accrebbe il terror dei Persiani,
che il re stesso in persona fu a visitar l'imperadore, e ad
accordargli tutto ciò ch'egli desiderava. Noi non sappiamo che
_Carino_ facesse guerra a' Persiani; abbiamo bensì da Vopisco[2426], e
lo vedremo fra poco, avere l'imperador _Caro_ portate felicemente
l'armi contra di loro; e però potersi a lui più tosto che a Carino
riferir questo fatto. Contuttociò convien esso meglio a Probo, a cui
bastò di far paura ai Persiani, senza adoperar l'armi per farsi
rispettare.

NOTE:

[2423] Thesaurus Novus Inscription., pag. 267.

[2424] Vopiscus, in Probo.

[2425] Synesius, de Regno.

[2426] Vopiscus, in Caro.




    Anno di CRISTO CCLXXX. Indiz. XIII.

    EUTICHIANO papa 6.
    PROBO imperadore 5.

_Consoli_

MESSALA e GRATO.


Un marmo rapportato dal Malvasia[2427] ci fa vedere un _Lucio Pomponio
Grato_ due volte console. Non è improbabile che ivi si parli del
console dell'anno presente. Lasciato ch'ebbe lo Augusto Probo in una
invidiabil pace l'Oriente, se ne ritornò in Europa. Fermatosi nella
Tracia, ricorsero a lui i Bastarni, popolo barbaro abitante verso le
bocche del Danubio, forse perchè cacciati dai lor nemici, o pure per
migliorar di paese, chiedendogli abitazione nelle terre romane, e
promettendo fedeltà[2428]. A cento mila di costoro assegnò Probo
campagne da coltivar nella Tracia, e costoro da lì innanzi furono
assai fedeli al romano imperio. Non così fu de' Gepidi, Grotunghi, o
sieno Trutunghi, e Vandali, molte migliaia de' quali ottennero
anch'essi di fissar il piede nelle provincie romane, acciocchè le
popolassero. Imperciocchè costoro, appena videro occupato Probo in
guerreggiar contro ai tiranni (de' quali fra poco parlerò), che si
rivoltarono, e, parte per terra, parte per mare, gravissimi danni
recarono a più contrade romane. Fu perciò obbligato dipoi l'imperadore
Probo a volgere l'armi contra di que' masnadieri, con opprimerli sì
fattamente, che pochi ne ritornarono vivi all'antico loro paese.
Abbiamo nondimeno da Zosimo che una parte de' Franchi, la quale si era
stabilita nel paese romano, fatta una sollevazione e raunata gran
copia di navi, infestò la Grecia; passata dipoi in Sicilia, vi prese
la città di Siracusa con grande strage di que' cittadini; ed infine
respinta dall'Africa, ebbe la fortuna, uscendo probabilmente dallo
stretto di Gibilterra, di ritornarsene sana e salva nella Germania.
Ancorchè manchino lumi per accertare il tempo in cui seguì e terminò
la ribellion di _Saturnino_, parlandone Eusebio[2429] sotto
quest'anno, e non dissentendo Vopisco[2430], a me non disdirà il farne
qui parola. Vedemmo già un _Saturnino_ tiranno sotto Gallieno; per
consenso di tutti gli antichi storici[2431], un altro di tal nome si
sollevò a' tempi di Probo. Trovansi medaglie[2432], nelle quali l'un
di essi è chiamato _Sesto Giulio Saturnino_, e l'altro _Publio
Sempronio Saturnino_, amendue col titolo di _Augusti_, senza potersi
ben chiarire qual d'essi appartenga al regno di Probo. Secondo il
Tillemont[2433], _Sesto Giulio_ par quegli che in questi tempi si
rivoltò. Zosimo il fa nato nella Mauritania; Vopisco cel dà oriondo
dalle Gallie, cioè da un paese inquietissimo e facile a crear dei
nuovi principi e a scuotere il giogo. Però Aureliano[2434], avendolo
fatto comandante dell'armi nelle frontiere dell'Oriente, specialmente
ordinò che costui non entrasse mai nell'Egitto, ben conoscendo il
carattere de' Galli, e l'inquietudine e vanità degli Egiziani, avidi
sempre di cose nuove. Si era segnalato Saturnino in varii posti
militari e in diverse occasioni di guerra, di modo che egli si vantava
di aver estinte le turbolenze delle Gallie, liberata l'Africa dalle
mani de' Mori, e data la pace alle Spagne. In somma era creduto il più
bravo generale che si avesse a' suoi di Aureliano. Probo Augusto lo
amava anche egli forte, e fidavasi assaissimo di lui. Avea inoltre
costui cominciato a fabbricare una nuova città in Antiochia, o pure
un'Antiochia nuova[2435], in non so qual paese. Ma essendo egli andato
in Egitto contro il divieto, il popolo troppo volubile d'Alessandria
lo acclamò improvvisamente _Augusto_. Saturnino, per operar da uomo di
onore, fuggì di colà, e si ritirò nella Palestina; ma quivi tanto gli
dovettero picchiar in capo gli amici suoi, rappresentandogli il
pericolo di vivere privato dopo un tal fatto, che si lasciò indurre a
prender la porpora e il titolo d'_Augusto_. Per altro, si dice[2436]
che egli mal volentieri si riducesse a questo; e fra le acclamazioni
del popolo gli cadevano le lagrime dagli occhi, considerando
gl'imminenti pericoli; e a chi gli facea coraggio, tenne un bel
discorso intorno alla miseria de' regnanti, e riconobbe che questo
passo il menava alla morte. Pretende Zonara[2437], tale essere stato
l'amore e la fiducia che a questo generale professava Probo, che fece
punir come calunniatore il primo che portò la nuova della di lui
ribellione. Gli scrisse anche più lettere per assicurarlo della sua
grazia; ma prevalendo le insinuazioni di chi sosteneva non doversi
egli fidar di sì belle parole, non si seppe arrendere. Pertanto colà
inviò l'Augusto Probo un corpo di milizia, a cui molte altre si
unirono, abbandonando Saturnino, il quale, assediato in un forte
castello, restò in fine preso, e gli fu reciso il capo contro la
volontà di Probo: con che tornò la calma nell'Oriente e nell'Egitto.

A questi medesimi tempi mi sia lecito di riferir anche la ribellione
di _Procolo_ e di _Bonoso_, esposta da Vopisco[2438], ed appena
accennata da Aurelio Vittore[2439] e da Eutropio[2440]. Era _Tito Elio
Procolo_[2441] nativo di Albenga nella Riviera di Genova, avvezzo dai
suoi maggiori al mestier de' ladroni, in cui era divenuto sì ricco,
che al tempo della sua rivolta potè mettere in armi due mila de' suoi
proprii servi. Datosi alla milizia, giunse ad essere tribuno di varie
legioni, e bei fatti d'arme si contavano di lui, non men che brutti
della sua abbominevole lussuria. Trovavasi egli in Colonia, e dicono
che, giuocando agli scacchi, per burla un soldato o buffone il chiamò
_Augusto_, e portata una veste di lana di color di porpora, gliela
mise addosso; e che per tal atto sul timore di gastigo egli tentò
l'esercito, e trovatolo condiscendente, assunse daddovero il nome di
_Augusto_. Credesi che a questo salto più d'ogni altro lo animasse la
moglie sua, donna d'animo virile, e che poi fu nominata Sansone. Anche
i Lionesi, disgustati di Aureliano per i mali trattamenti ricevuti da
lui, confortarono costui a prendere la porpora. Per attestato di
Vopisco[2442], la Gallia Narbonese, le Spagne e la Bretagna a lui si
sottomisero, ed avendo in que' tempi gli Alemanni fatta una incursione
nelle Gallie, Procolo li disfece in più volte. Ma rimase anch'egli
disfatto dall'armata che contra di lui inviò Probo, dalla quale
perseguitato sino ai confini, si raccomandò all'aiuto dei Franchi, ma
questi il tradirono, ed egli perdè la vita. Non diverso fine ebbe un
altro ribello, cioè _Bonoso_[2443], che osò di farsi dichiarar
_Imperadore_. Costui era nato in Ispagna, ma originario dalla
Bretagna, e la madre sua procedeva dalla Gallia. Oltre al credito di
essere un bravo uffiziale, godeva ancor l'altro di essere un
solennissimo bevitore. Quando più ne tracannava, più fresco sempre
appariva, in guisa che Aureliano imperadore ebbe più volte a dire:
_Costui non è nato per vivere, ma per bere_. Se ne serviva
quell'Augusto per cavare i segreti degli ambasciadori de' Barbari,
restando essi ubbriachi, ed egli no. Ma perciocchè, comandando egli
l'armi romane al Reno, per poca guardia de' suoi riuscì ai Germani di
bruciar la flotta romana esistente in quel fiume, per timore d'esserne
gastigato, si fece proclamar _Imperadore_[2444]. Pare che ciò
succedesse nel tempo che Procolo si era anch'egli ribellato, e che
unitamente si sostenessero contro le forze di Probo. Attesta Vopisco
che occorsero varii combattimenti per atterrar questo tiranno, il
quale in fine terminò la sua vita sopra una forca, con dire allora la
gente: _Mirate là pendente non un uomo, ma un gran fiasco_. Zosimo
poi[2445] e Zonara[2446] fanno menzione della ribellione di un
governatore della Bretagna, senza nominarlo. Del che avvertito Probo,
ne fece querela a _Mauro Vittorino_, perchè sulla raccomandazione di
lui gli avesse dato quel governo. Vittorino per questo andò a trovare
in Bretagna l'amico, ed ebbe maniera di farlo trucidare. Qualche
sedizion di gladiatori fu anche in Roma, e con esso loro si unirono
molti della plebe romana, laonde fu d'uopo che Probo mandasse
dell'armi a Roma per soggiogarli. Il che pienamente gli riuscì.

NOTE:

[2427] Malvasia, Marm. Felsin., pag. 353.

[2428] Vopiscus, in Probo. Zosimus, l. 1, c. 71.

[2429] Eusebius, in Chron.

[2430] Vopiscus, in Probo.

[2431] Zosimus, Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Brev.

[2432] Goltzius et Mediob., in Numismat. Imper.

[2433] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2434] Vopiscus, in Saturn.

[2435] Euseb., in Chron.

[2436] Vopiscus, in Saturn.

[2437] Zonaras, in Annalib.

[2438] Vopiscus, in Probo.

[2439] Aurelius Victor, in Epitome.

[2440] Eutrop., in Breviar.

[2441] Goltzius et Mediob., in Numismat. Imperat.

[2442] Vopiscus, in Probo.

[2443] Idem, in Bonoso.

[2444] Vopiscus, in Probo.

[2445] Zosimus, lib. 1, cap. 66.

[2446] Zonaras, in Annalibus.




    Anno di CRISTO CCLXXXI. Indizione XIV.

    EUTICHIANO papa 7.
    PROBO imperadore 6.

_Consoli_

MARCO AURELIO PROBO AUGUSTO per la quarta volta e TIBERIANO.


Prefetto di Roma fu _Ovinio Paterno_[2447] in quest'anno. Resta
tuttavia in disputa il tempo, in cui Probo Augusto entrasse trionfante
in Roma. Ma certo sembra più proprio questo che gli altri, giacchè
dopo tante vittorie contro le nazioni barbare, e dopo aver restituita
la pace a tutto l'imperio romano, potè egli finalmente venir a
cogliere gli allori e i plausi nella dominante città[2448]. In questo
suo trionfo precedevano varie schiere di nazioni barbariche da lui
vinte. Diedesi poi una caccia magnifica di fiere nel circo, del quale
era stata formata una selva, con trasportarvi gli alberi interi colle
loro radici. Vi si videro mille struzzoli ed altrettanti cervi,
cignali, caprioli, ibici ed altri animali che mangiano erba; e se ne
lasciò la preda al popolo. Nel dì seguente si fecero comparire
nell'anfiteatro cento lioni colle lor giubbe o crini, che coi ruggiti
formavano una specie di tuono. Furono tutti uccisi, ma con ispettacolo
che diede poco divertimento o piacere al popolo. Lo stesso avvenne di
ducento leopardi, di cento lionesse e di trecento orsi. Si fecero
ancora combattimenti di gladiatori, condotti in numero di trecento
paia; e Probo diede un ricco congiario al popolo. Aveva egli fin sul
principio del suo governo rimesse in piedi le appellazioni dai
processi e da altri primarii magistrati al senato, come era ne' vecchi
tempi, e conceduto al medesimo senato di mandare i proconsoli, e di
dar loro i legati, o vogliam dire i luogotenenti, e il gius pretorio
ai governatori nelle provincie; volendo ancora che le leggi da esso
Augusto fatte venissero confermate con decreto del medesimo senato.
Tanta autorità restituita a quell'insigne corpo, per cui pareva ai
senatori d'essere tornati ai tempi di Augusto, procacciò a Probo un
gran plauso e lode. In questi tempi poi di pace, affinchè i soldati
non si guastassero nell'ozio, gl'impiegò in varie faccende,
specialmente in piantar vigne nelle colline delle Gallie, della
Pannonia e della Mesia, permettendo ad ognuno[2449], e massimamente ai
popoli delle Spagne, di aver delle vigne: licenza che dopo Domiziano
non era conceduta a tutti. Giuliano Apostata[2450] scrive che Probo
nel breve corso del suo imperio rifabbricò ed ornò ben settanta varie
città. E da Giovanni Malala[2451] abbiamo ch'esso Augusto adornò in
Antiochia il Museo e il Ninfeo con de' musaici; siccome ancora ordinò
che l'erario pubblico di quella città contribuisse de' salarii
annuali, affinchè gratuitamente la gioventù di Antiochia fosse
istruita nelle lettere.

NOTE:

[2447] Bucherius, de Cycl.

[2448] Vopiscus, in Probo.

[2449] Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviario. Vopiscus,
in Probo.

[2450] Julianus, de Caesaribus.

[2451] Joannes Malala, in Chronogr.




    Anno di CRISTO CCLXXXII. Indizione XV.

    EUTICHIANO papa 8.
    PROBO imperadore 7.
    CARO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO AURELIO PROBO AUGUSTO per la quinta volta e VITTORINO.


Ebbe Roma in quest'anno per suo prefetto _Pomponio Vittorino_, o sia
_Vittoriano_[2452], il quale vien creduto da alcuni lo stesso che
_Vittorino_ console. Quai nuovi disgusti avessero i Persiani recato
all'imperio romano, è a noi ignoto. Solamente sappiamo che Probo
imperadore era in procinto di far loro guerra. A questo fine marciò
egli coll'armata a Sirmio nella Pannonia, o sia nell'Illirico, con
disegno di passar in Oriente; ma eccoti que' medesimi soldati che lui
aveano renduto vincitore di tanti nemici, levargli la vita con
improvvisa sedizione[2453]. I motivi de' loro disgusti erano il
vedersi sempre d'una in altra fatica da lui impiegati senza mai goder
posa nè quartieri, dicendo egli _che il soldato non dovea mangiare il
pane a tradimento_; siccome ancora l'essergli scappato un giorno _che
sperava di ridurre in tale stato di quiete la repubblica, che non vi
fosse bisogno di soldati_; detto inverisimile in bocca di un sì saggio
imperadore. Ma quel che più irritò molti d'essi militari, fu, che
desiderando egli di accrescere e rendere più fecondo il territorio di
Sirmio sua patria, ordinò a molte migliaia di soldati di cavar una
fossa, per seccare una vasta palude in quelle parti. Per questo
inferociti coloro, un dì se gli scagliarono addosso[2454]; ed ancorchè
egli fuggisse nella torre ferrata, pur questa non fu sufficiente a
sottrarlo al loro furore e a salvargli la vita. Credesi che succedesse
la morte sua nell'agosto di quest'anno, correndo l'anno settimo del
suo imperio, e che egli non avesse più che cinquanta anni d'età[2455],
principe degno di lunghissima vita, perchè in valore non la cedeva ad
alcuno de' suoi predecessori, e nella clemenza moltissimi ne superò;
e, trovata la romana repubblica in cattivo stato, la rimise
nell'antica sua potenza di onore, più sempre pensando al pubblico che
al privato suo bene. Non si sa ch'egli avesse o lasciasse figliuoli;
si tiene che avesse moglie, ma senza che se ne possa assegnare con
sicurezza il nome. Perciò non intendiam bene ciò che significhi
Vopisco[2456] con dire che i di lui posteri si ritirarono da Roma, e
andarono ad abitare nel territorio di Verona verso i laghi di Garda e
di Como. Fu eretto dipoi dai soldati un magnifico sepolcro a Probo con
iscrizione denotante lui veramente principe dabbene, e vincitor delle
nazioni barbare e dei tiranni. Giunta a Roma la nuova della di lui
morte, inconsolabile si fece conoscere il dolore del senato e popolo
romano, non tanto per avere perduto un ottimo principe, quanto per
paura che a questa perdita tenessero dietro dei gravissimi guai,
siccome in fatti avvenne. Niuno vi fu degli onori anche sacrileghi,
che Roma pagana sapesse decretare alla memoria dei loro Augusti, di
cui restasse privo il defunto Probo, essendo egli stato deificato,
innalzati templi al suo nome, e stabiliti ogni anno da farsi i giuochi
circensi in onore di lui.

Prefetto del pretorio di Probo era _Marco Aurelio Caro_, e non pochi
furono coloro che sospettarono aver egli tenuta mano all'uccision del
suo principe. Vopisco[2457] da simil taccia il difende, allegando
l'integrità de' costumi di esso Caro, e l'aver egli fatta dipoi severa
giustizia di chi avea tolta la vita a quell'insigne imperadore. Ma non
seppe Vopisco assegnare qual fosse la vera patria di Caro, facendolo
alcuni nato in Roma, altri nell'Illirico ed altri in Milano. I due
Vittori[2458], Eutropio[2459] ed Eusebio[2460] cel rappresentano nato
in Narbona nella Gallia. Egli nondimeno pretendeva che i suoi maggiori
fossero di patria Romani. Per varii gradi militari era egli salito
all'eminente di prefetto del pretorio, e fu sommamente amato e
stimato, non men da Probo che dall'armata tutta, ancorchè, secondo
Giuliano Apostata[2461], egli fosse di genio melanconico e severo. Di
due suoi figliuoli il primogenito fu _Marco Aurelio Carino_, la cui
infame vita, troppo diversa da quella del padre, la vedremo fra poco.
L'altro si crede appellato _Marco Aurelio Numeriano_, di costumi
saggio e di maniere molto amabile. In due iscrizioni da me date alla
luce[2462] egli porta il nome di _Marco Numerio Numeriano_; e però è
da vedere se sieno legittime certe medaglie[2463] spettanti a lui, o
se il difetto fosse in tali iscrizioni. Ora, tolto di vita Probo,
concorsero i voti dei più dell'imperiale armata nella persona di esso
_Caro_, e il proclamarono _Augusto_, giudicandolo più d'ogni altro
meritevole di quell'eccelsa dignità, e volendo con ciò rimettere in
piedi l'uso negli eserciti di creare gl'imperadori, senza riceverli
dalle mani del senato. Portata questa nuova a Roma, tanto il senato
che il popolo se ne rattristarono forte, non perchè non sapessero
ch'egli era un buon uomo, benchè troppo inferiore a Probo[2464], ma
perchè ognun temeva _Carino_, di lui figliuolo, troppo screditato per
li suoi vizii. Nè tardò già Caro a dichiarar Cesari amendue i suoi
figliuoli, cioè _Carino_ e _Numeriano_. Poscia perchè il minore troppo
giovane non parea proprio per governar popoli, inviò il maggiore, cioè
_Carino_, nelle Gallie[2465], dandogli facoltà di comandar a quelle
provincie, ed insieme all'Italia, all'Illirico, alle Spagne, alla
Bretagna, come se fosse Augusto; giacchè esso Caro imperadore avea già
presa la risoluzione di passar in Oriente contra dei Persiani. Ma si
mostrò sempre scontentissimo di non avervi potuto inviar _Numeriano_,
perchè ben conosceva le ribalderie di Carino; anzi fu creduto che, se
vivea un poco di più, avrebbe levato ad esso Carino il titolo di
Cesare, per non lasciare un pessimo successore a sè stesso e
all'imperio. Mandandolo nondimeno nelle Gallie, gli mise a' fianchi
de' consiglieri onorati e saggi, rimedio di poca utilità, qualora nei
principi si unisca debolezza di testa ed inclinazione cattiva.

NOTE:

[2452] Bucher., in Cycl.

[2453] Vopiscus, in Probo. Julianus, de Caesaribus.

[2454] Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviario. Eusebius,
in Chronico.

[2455] Johannes Malala, in Chronogr.

[2456] Vopiscus, in Probo.

[2457] Idem, in Caro.

[2458] Aurelius Victor, in Epitome.

[2459] Eutrop., in Breviario.

[2460] Euseb., in Chronic.

[2461] Julianus, de Caesaribus.

[2462] Thesaurus Novus Inscription., pag. 256, num. 7, et 461, num. 5.

[2463] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2464] Vopiscus, in Probo.

[2465] Vopiscus, in Carino.




    Anno di CRISTO CCLXXXIII. Indizione I.

    EUTICHIANO papa 9.
    CAIO papa 1.
    CARO imperadore 2.
    CARINO imperatore 1.
    NUMERIANO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO AURELIO CARO AUGUSTO e MARCO AURELIO CARINO CESARE.


Ne' Fasti pubblicati dal Noris e presso Anastasio bibliotecario, _Caro
Augusto_ è detto _console per la seconda volta_. Perchè gli altri
Fasti e varie leggi non accennano questo suo secondo consolato, nè pur
io ho ardito di metterlo per cosa certa. Il Panvinio[2466] nondimeno
reca un'iscrizione, in cui Caro è chiamato CONSVL II. Aggiugne che nel
luglio furono sustituiti con _Numeriano Cesare_ e _Matroniano_,
adducendo l'autorità di Vopisco. Presso di questo storico non ne trovo
io vestigio. Nella Cronica Alessandrina[2467] sotto quest'anno, oltre
Caro e Carino, sono chiamati consoli _Diocleziano_ e _Basso_. Di
questi due consoli sustituiti pare che s'incontri memoria in un marmo
da me pubblicato[2468]. Noi vedremo in fatti fra poco _Diocleziano
console per la seconda volta_: segno di un precedente consolato. Fu in
quest'anno prefetto di Roma _Titurio Robusto_ o _Roburro_. Alcune
leggi ci fan vedere _Carino_ e _Numeriano_ decorati col titolo
d'Imperadori Augusti: il che vien confermato da Zonara[2469]; ma è
incerto il mese in cui dal padre fossero presi per colleghi
dell'imperio. La mente di Probo, terrore de' Barbari, avea fatto calar
l'orgoglio ai Sarmati. Ma da che costoro il seppero estinto, si
prepararono di nuovo per invadere l'Illirico e la Tracia, con
isperanza ancora di maggiori progressi. Mossi dalle lor contrade,
trovarono lo Augusto Caro coll'armi in mano, il quale lasciò loro un
buon ricordo del valore romano[2470], con ucciderne sedici mila, e
farne venti mila prigionieri. Di più non vi volle a rimettere la pace
nell'Illirico. Forse avrebbe fatto di più Caro, se i movimenti de'
Persiani non l'avessero chiamato in Oriente a quell'impresa che già
era disegnata da Probo, e desiderata dall'esercito suo, per isperanza
di fare maggior bottino quivi che nei paesi dei Barbari
settentrionali. Non si sa che egli, prima d'imprendere il viaggio di
Levante, venisse a Roma. Ne dà qualche indizio Vopisco[2471], con dire
che _Diocleziano_, udendo lodar i giuochi teatrali e circensi, dati da
Caro in Roma, rispose _che Caro s'era ben fatto ridere dietro
nell'imperio suo_. Ma anche in lontananza di esso Caro si poterono far
quegli spettacoli. Quel ch'è certo, si portò Caro col suo esercito
nella Mesopotamia, ed essendosene ritirati i Persiani, senza
difficoltà la ricuperò tutta. Di là entrato nel territorio persiano,
arrivò sino a Ctesifonte, capitale allora della Persia. Eutropio[2472]
e Zonara[2473] scrivono ch'egli la prese insieme con Seleucia; per la
quale impresa gli fu dato il titolo di _Partico_. Vero è che da'
Persiani gli fu voltato addosso un canale del fiume Tigri; tuttavia
egli pieno di gloria si ritirò in luogo sicuro coll'esercito suo:
sicuro, dissi, dai nemici persiani, ma non già dai domestici, essendo
anche negli antichi tempi stato disputato di qual genere di morte
terminasse i suoi giorni[2474]. Ma comune opinione si è ch'egli in
vicinanza del fiume Tigri cadesse infermo, e sopraggiunto un temporale
sì nero, che dei suoi cortigiani uno non vedeva l'altro, scoppiò un
fulmine, da cui morisse soffocato, e che nello stesso tempo si
attaccasse il fuoco alla sua tenda. Altri dissero che i di lui
camerieri, disperati al mirarlo morto, appiccarono il fuoco alla tenda
medesima, ma ch'egli era mancato di vita per la malattia in quel
brutto frangente. Tal fu la relazion di sua morte inviata al prefetto
di Roma. Se in ciò intervenisse malizia alcuna umana, non v'ha che Dio
che lo sappia. Fu egli deificato[2475], secondo il sacrilego stile de'
Romani gentili. Fra le molte favole che s'incontrano nella Cronografia
di Giovanni Malala[2476], vi sono ancor queste, cioè che Caro diede il
nome di Caria ad una delle provincie di Oriente, siccome ancora il
nome alla città di Caras nella Mesopotamia; e ch'egli tornato a Roma,
nel far poi guerra contro gli Unni, restò ucciso, essendo consoli
_Massimo_ e _Gennaro_, cioè nell'anno 288. Verso il fine dell'anno
vien creduto che seguisse la morte di Caro, e per cagion di essa
restarono imperadori _Carino_ e _Numeriano_ suoi figliuoli. Fuor di
dubbio è che Numeriano si trovava con esso lui alla guerra contro ai
Persiani; e sembra che Carino tuttavia soggiornasse alle Gallie.
L'anno fu questo in cui _Eutichiano_ sommo pontefice diede fine al suo
vivere, ed ebbe per successore _Caio_ papa.

NOTE:

[2466] Panvin., in Fastis Consul.

[2467] Chron. Paschale, seu Alexandr.

[2468] Thesaurus Novus Inscripit., pag. 368, n. 1.

[2469] Zonaras, in Annalib.

[2470] Vopiscus, in Caro.

[2471] Vopiscus, in Carino.

[2472] Eutrop., in Breviar.

[2473] Zonaras, in Annalib.

[2474] Vopiscus. Aurel. Victor. Eutropius. Eusebius. Zonaras.

[2475] Mediobarbus, in Numism. Imperator.

[2476] Johannes Malala, in Chronograph.




    Anno di CRISTO CCLXXXIV. Indizione II.

    CAIO papa 2.
    CARINO imperadore 2.
    NUMERIANO imperadore 2.
    DIOCLEZIANO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO AURELIO CARINO AUGUSTO per la seconda volta e MARCO AURELIO
NUMERIANO AUGUSTO.


Il Panvinio[2477] e il Relando[2478], che mettono anche _Numeriano_
Augusto console _per la seconda volta_, lavorano sul supposto ch'egli
fosse sostituito console nell'anno precedente; il che dissi non aver
fondamento. Certamente tutti i Fasti e le leggi ed altre antiche
memorie parlano bensì del secondo consolato di Carino, ma ciò non
dicono di Numeriano. Così nelle medaglie[2479] il troviamo appellato
solamente CONSVL, e non già _consul II_. Puossi perciò riputar falso
quel marmo che vien citato dal Panvinio col _consul II_. Si trova
prefetto di Roma in questo e nel seguente anno _Caio Ceionio Varo_.
Riconosciuti furono per imperadori in Roma e in tutte le provincie i
due fratelli _Carino_ e _Numeriano_, ed abbiam leggi pubblicate in
quest'anno col nome di amendue. Resta tuttavia incerto s'essi
venissero a Roma. Si crederebbe di sì, all'udir Vopisco[2480], il
quale racconta di aver veduti dipinti i giuochi romani celebrati da
loro con rarità di musiche e divertimenti teatrali, e questi nella
città di Roma: tuttavia le apparenze sono che dalle Gallie non venisse
sì tosto in Italia Carino, e che a Numeriano[2481] non restasse tempo
di ritornarci. Imperciocchè mentre esso _Numeriano_ era in viaggio
alla volta dell'Italia, e, secondo Sincello[2482], si trovava in
Eraclea della Tracia, tolta gli fu la vita. Aveva egli presa in moglie
una figlia di _Arrio Apro_ prefetto del pretorio, cioè di un
personaggio che moriva di voglia di esser imperadore; e coll'autorità
del suo grado e colla confidenza di suocero, sperava facile l'ottenere
il suo intento, sagrificando il giovinetto Numeriano alla sua
ambizione. Costui lo aveva spinto ad inoltrarsi nel paese de'
Persiani, lusingandosi di farlo perire in quella impresa per man de'
nemici. Non ebbe effetto la mina. Avvenne[2483] che _Numeriano_ fu
sorpreso da mal d'occhi, per cui non si lasciava vedere, e viaggiava
chiuso in una lettiga, ritornando coll'armata dalla Persia. Si servì
di questa occasione Apro per uccidere il genero Augusto, conducendo
poi il di lui corpo per più giorni in quella lettiga, come se fosse
vivo, per fare intanto de' maneggi affin di salire sul trono. Non è sì
facile il capire come alla uffizialità si potesse per tanto tempo
nascondere un imperadore, morto, non nel suo palagio, ma in una
marcia. Finalmente il fetore del cadavere scoprì il fatto, ed
accorgendosi ognuno che non si poteva imputare se non a frode del
capitano delle guardie, cioè ad Apro, lo aver tenuta così occulta la
morte del principe, fu egli preso e condotto avanti alle insegne e
schiere messe in ordinanza. Si tenne un'assemblea di tutta l'armata,
ed, alzato un tribunale, si cominciò a trattar di eleggere un altro
che fosse buon principe, ed insieme giustissimo vendicatore della
morte di Numeriano. Concorsero i voti dei più nella persona di
_Diocleziano_, capitano allora della guardia a cavallo de' domestici,
di cui parleremo all'anno seguente. Dall'anno presente appunto prese
principio l'era di Diocleziano, appellata anche de' Martiri, e celebre
nella storia della Chiesa. Salito dunque _Diocleziano_ sul palco, e
proclamato Augusto, mentre i soldati faceano istanza di sapere chi
fosse stato l'uccisore del principe, giurò egli prima di non aver
avuta parte nella morte di lui; poi, messa mano allo stocco, lo piantò
nel petto ad Apro, con dire: _Costui è quegli che ha tolto di vita
Numeriano_. Gloriavasi egli dipoi[2484] di avere ucciso un Apro, cioè
un cignale. Il dire Giovanni Malala[2485] che Numeriano dopo la morte
del padre riportò delle vittorie contro i Persiani, può aver qualche
sembianza di verità; ma non già il soggiugnere che egli, assediato
nella città di Caras dai Persiani, fu preso da essi, ucciso e
scorticato, con tenere dipoi la di lui pelle come un trofeo di gloria
per loro, di vergogna per gli Romani. Son qui attribuite a Numeriano
le disgrazie di Valeriano Augusto. Zonara[2486] rapporta bensì questa
tradizione, ma aggiugne l'altra più fondata ch'egli fu ucciso da Apro.
Nella Cronica poi di Alessandria[2487] è corso doppio errore, perchè
_Carino_, e non già _Numeriano_, vien detto da' Persiani. Trovandosi
una legge di Diocleziano Augusto, data nel dì 15 di ottobre di
quest'anno[2488], se ne deduce che nel settembre accadesse la morte di
Numeriano e l'innalzamento di Diocleziano, con restar tuttavia vivo e
in forze l'imperadore _Carino_. Ed ecco due competitori Augusti, e,
per conseguente, guerra civile fra i Romani. Il peggio fu che anche un
terzo concorse a questo mercato, cioè _Giuliano Valente_[2489], il
quale essendo Correttore della Venezia, appena udì la morte di Caro
Augusto, che prese la porpora e il titolo d'_Imperadore_. Sicchè tre
emuli si videro disputare il dominio del romano imperio. In Roma fu
compianta la morte di Numeriano, giovane universalmente amato per le
sue buone qualità, fra le quali si contava ancora l'eloquenza[2490],
dicendosi che egli componesse delle declamazioni; e fosse anche sì
eccellente nella poesia, che superasse tutti i poeti del suo tempo.
Una medaglia (se pure è legittima) vi ha[2491], in cui si trova la di
lui deificazione; e che Roma continuasse dopo la di lui morte a
riconoscere per imperadore suo fratello _Carino Augusto_, senza far
caso di _Diocleziano_ e di _Giuliano Valente_, pare che non se ne
abbia a dubitare.

NOTE:

[2477] Panvin., in Fastis Consul.

[2478] Reland., in Fastis.

[2479] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[2480] Vopiscus, in Carino.

[2481] Vopiscus, in Numeriano.

[2482] Syncell., Histor.

[2483] Victor, de Caesaribus.

[2484] Victor, de Caesaribus.

[2485] Johannes Malala, Chronogr.

[2486] Zonaras, in Annalibus.

[2487] Chron. Alexandrin.

[2488] L. ut nemo invit., Ibi. 3 Cod.

[2489] Victor, de Caesaribus.

[2490] Vopiscus, in Numeriano.

[2491] Mediobarb., in Numismat. Imperat.




    Anno di CRISTO CCLXXXV. Indiz. III.

    CAIO papa 3.
    CARINO imperadore 3.
    DIOCLEZIANO imperadore 2.

_Consoli_

MARCO AURELIO CARINO AUGUSTO per la terza volta ed ARISTOBOLO; CAIO
AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per la seconda volta in Oriente.


Ancorchè le leggi spettanti a questo anno, e riferite dal
Relando[2492], ed anche i Fasti antichi solamente ci esibiscano
consoli ordinarii nell'anno presente _Diocleziano Augusto per la
seconda volta_ ed _Aristobolo_, si ha nondimeno, a mio credere, da
tenere che _Carino Augusto per la terza volta_ nelle calende di
gennaio procedesse console insieme con _Aristobolo_. Siccome osservò
il cardinal Noris[2493] coll'autorità di Vittore, _Aristobolo_ era
prefetto del pretorio di Carino, e fu ai di lui servigi sino alla di
lui morte, succeduta, siccome diremo, in quest'anno. Come dunque può
stare che Aristobolo procedesse console con Diocleziano nemico di
Carino sul principio dell'anno presente? Però la legge[2494] che si
dice data nelle calende di questo anno, _Diocletiano II Augusto, et
Aristobulo Coss._, o è fallata nel mese, o pure Diocleziano, rimasto
solo nell'imperio, fece mutar la data, come ora sta. Sembra dunque
credibile ciò che Idacio[2495] scrisse ne' Fasti: cioè che _Carino_ in
Occidente con _Aristobolo_, e _Diocleziano_ in Oriente con altro
collega prendessero il consolato. Essendo poi riuscito a Diocleziano,
il più furbo uomo del mondo, di sedurre secretamente Aristobolo ed
altri del partito di Carino ad essere traditori del loro principe, dal
che venne la caduta di esso Carino Diocleziano dipoi, per premiar
Aristobolo, il lasciò continuar seco nel consolato, con volere che da'
precedenti atti si cancellasse il nome di Carino, e si leggesse in
essi il solo suo e di Aristobolo. Alla rovina poi di Carino sommamente
contribuì il discredito ch'egli s'era guadagnato colla enormità de'
suoi vizii e col suo vivere troppo sregolato. Il ritratto a noi fatto
da Vopisco[2496] cel rappresenta per uomo dato solo ai piaceri, ed
anche più illeciti, perduto nel lusso, e con testa insieme leggiera.
Nove mogli l'una dopo l'altra aveva preso, ed anche aveva ripudiate,
rimandandole gravide per lo più. Abborrì e cacciò in esilio i suoi
ottimi amici, per prenderne de' pessimi. I posti principali erano da
lui conferiti a gente infame. Uccise il suo prefetto del pretorio, e
in suo luogo mise _Matroniano_, antico mezzano delle sue libidini.
Diede anche il consolato ad un suo notaio della medesima scuola, ed
empiè il palazzo di buffoni, meretrici, cantori e ruffiani. Per non
durar la fatica di sottoscrivere le lettere e i decreti, si serviva
della mano di un complice dei suoi impuri eccessi. Aggiungasi che di
varii atti della sua crudeltà parla Eutropio[2497]; al qual vizio si
aggiunse ancora l'alterigia, leggendosi questa nelle superbe lettere
che scriveva al senato e nel poco rispetto che portava ai consoli,
anche prima di essere imperadore. Ne' suoi conviti, ne' suoi bagni si
notava una pazza prodigalità. In somma tali erano le di lui perverse
inclinazioni e scapestrata vita, che l'imperador Caro ebbe più d'una
volta a dire: _Costui non è mio figlio_; e fu creduto che esso suo
padre meditasse di levarlo dal mondo per non lasciar dopo di sè
successore sì indegno. Soggiornava probabilmente tuttavia nelle Gallie
Carino, quando gli giunsero gli avvisi della morte di _Numeriano_ suo
fratello, e che _Diocleziano_ in Oriente, _Giuliano Valente_
nell'Illirico erano stati proclamati Augusti. Laonde[2498], raunate
quante forze potè, si mosse per abbattere, se poteva, cotali
competitori. Girata l'Italia, e venuto nell'Illirico, diede battaglia
ad esso Valente, ed ebbe la fortuna di vincerlo e di levargli la vita.
Continuato poscia il viaggio, arrivò nella Mesia, dove gli fu a fronte
_Diocleziano_ coll'esercito suo. Seguirono fra loro varii
combattimenti; ma finalmente tra Viminacio e Murgo si venne ad una
giornata capitale, in cui riuscì a Carino di rovesciar l'armata nemica
e d'inseguirla. Erano molti de' suoi, per attestato di Aurelio
Vittore[2499], disgustati di un sì sfrenato Augusto, perchè non erano
salve dalla di lui libidine le mogli loro; e pensando che, s'egli
restava vincitore e solo padron dello imperio, maggiormente
imperverserebbe, e verisimilmente ancora mossi dalle offerte segrete
di Diocleziano, nell'inseguir ch'egli faceva i fuggitivi, lo stesero
morto con più ferite a terra. Così in poco più di due anni mancò
l'imperador _Caro_ colla sua prole; e _Diocleziano_ Augusto rimasto
assodato sul trono imperiale, da uomo accorto, perdonò a tutti, e
massimamente ad _Aristobolo_ console, uomo insigne, a cui conservò
tutti i suoi onori. Prese anche al suo servigio quasi tutte le milizie
che aveano servito a _Carino_: azione, a cui fece ognuno gran plauso,
al veder terminata una guerra civile senza esilii, senza morti e
confische di beni, siccome cosa rara e quasi senza esempio sotto Roma
pagana. Che Diocleziano vincitore venisse dipoi in questo anno a farsi
conoscere a Roma, e a ricevere le sommessioni del senato e del popolo,
sembra non inverisimile; e Zonara[2500] lo scrive. Nulladimeno le
memorie antiche osservate dal cardinal Noris[2501] ci portano a
credere ch'egli andasse a passar il verno nella Pannonia, con
apparenza che meditasse una spedizione contra de' Persiani, perchè con
essi non era seguita pace alcuna.

NOTE:

[2492] Reland., Fast. Consul.

[2493] Noris, Dissertat. de Num. Imper. Dioclet.

[2494] L. 2, C. si quis aliquem.

[2495] Idacius, in Fastis.

[2496] Vopiscus, in Carino.

[2497] Eutrop., in Breviar.

[2498] Aurelius Victor, in Epitome.

[2499] Idem, ibidem.

[2500] Zonaras, in Annalibus.

[2501] Noris, de Dioclet. Num.




    Anno di CRISTO CCLXXXVI. Indizione IV.

    CAIO papa 4.
    DIOCLEZIANO imperadore 3.
    MASSIMIANO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO GIUNIO MASSIMO per la seconda volta e VETTIO AQUILINO.


_Diocleziano_, che abbiam veduto sì prosperosamente portato al soglio
imperiale, e sbrigato dagli emuli suoi, era oriondo[2502] da Dioclea,
città della Dalmazia; portò anche il nome di _Diocle_, che cangiò
poscia in quello di _Diocleziano_. L'uno dei Vittori[2503] e Zonara il
fanno di famiglia bassissima; ed opinione anche fu che fosse liberato,
o pur figliuolo di un liberto di _Anulino_ senatore. I più nondimeno
credeano che suo padre fosse stato uno scrivano o notaio. Non si sa
perchè egli assumesse il nome di _Caio Valerio Diocleziano_, come per
l'ordinario era chiamato. Truovasi col nome ancora di _Caio Aurelio
Valerio Diocleziano_, per mostrarsi forse successore ed erede di Marco
Aurelio Caro, e di Numeriano suo figlio. Per la via dell'armi andò
salendo sino ad essere comandante delle milizie della Mesia; e sotto
Numeriano fu capitano della guardia a cavallo. Fama era che gli fosse
stato predetto dalla moglie di un druido, a Tungres nelle Gallie,
ch'egli sarebbe imperadore[2504]. Imperocchè, facendo i conti con
quella donna istessa, questa disse ch'egli era troppo avaro.
Diocleziano burlando le rispose _che sarebbe poi liberale quando fosse
divenuto imperadore_. Replicò la donna _che non burlasse, perchè tale
sarebbe, allorchè avesse ucciso un apro_, cioè un cignale. Non cadde
in terra questa parola. Da lì innanzi Diocleziano si dilettò molto
della caccia e di uccidere dei cignali, ma senza veder mai effettuata
la predizione. Allora poi ch'ebbe ucciso il prefetto del pretorio
Apro, gridò: _Ora sì che ho ucciso il fatal cignale_; racconto che ha
del curioso, purchè questa cosa nata non fosse e inventata da qualche
bell'ingegno dopo del fatto. Il credito di Diocleziano[2505] l'aveva
portato al posto di console surrogato nell'anno 283, siccome accennai
di sopra. Non si può negare: in lui s'univano delle invidiabili
qualità, e soprattutto mirabile fu in lui l'accortezza e vivacità
della mente. In questa non avea pari; col suo mezzo penetrava
facilmente nel cuore altrui per iscoprirne le intenzioni e non
lasciarsi ingannare; e mercè d'essa ne' bisogni e pericoli sapea tosto
ritrovar ripieghi e scappatoie, con prevedere a tutto, con simulare e
dissimulare dovunque occorreva. L'umor suo era veramente impetuoso e
violento, ma s'era anche avvezzato a ritenerlo e a comandare a sè
stesso; e quando ancora prorompeva in crudeltà, avea l'arte di
coprirla, o di rigettarne l'odiosità sopra i consiglieri e ministri.
Ancorchè fosse inclinatissimo al risparmio e alla avarizia, sino a
commettere ogni sorta d'ingiustizia per danari, pure si mostrava
appassionato del fasto, massimamente nella pompa de' suoi abiti, sì
ricchi d'oro e di gemme, che superò la vanità de' più vani suoi
antecessori. Ma questo fu il più picciolo sfogo della sua superbia.
Giunse egli col tempo, ad imitazion di Caligola e di Domiziano, a
farsi chiamar Signore, ed adorare qual Dio: pazzia che Vittore scusa
con dire ch'egli non lasciò per questo di comparir padre dei suoi
popoli. Noi vedremo le di lui militari imprese; e pure Lattanzio ci
assicura ch'egli naturalmente era timido e tremava ne' pericoli. Ma in
fine, la lunghezza del suo imperio, benchè agitata da assaissime
tempeste, è un bastante argomento di credere che Diocleziano fosse
uomo di gran testa, e capacissimo di reggere un vasto imperio, con
saper tenere in freno i soldati e i grandi, veduti da noi autori in
addietro di tante mutazioni e tragedie.

Aveva ben egli moglie, cioè _Prisca_, ma non aveva figliuoli maschi da
essa. Però, volendo provvedersi di un aiuto, per sostenere il gran
peso di quell'ampia monarchia, uno ne scelse, e questi fu
_Massimiano_, appellato _Marco Aurelio Valerio Massimiano_ nelle
monete[2506] ed iscrizioni: nomi ch'egli prese dallo stesso suo
benefattor Diocleziano, come se fosse stato adottato da lui.
Convennero anche fra loro che Diocleziano prendesse il titolo di
_Giovio_, e Massimiano quello d'_Erculio_, quasi che fosse rinato
Giove, per cui tante belle azioni Ercole fece, come s'ha dalle favole.
E ornati di questi due vani e ridicoli titoli si trovano amendue nelle
antiche storie. Credesi che Diocleziano fosse nato circa l'anno 255, e
Massimiano circa l'anno 250. La patria d'esso Massimiano fu una villa
del distretto di Sirmio nella Pannonia, dove egli col tempo fece
fabbricare un suntuoso palazzo. I suoi genitori si guadagnavano il
pane con lavorare a giornata per altri. Ma il mestier della guerra
quel fu che da sì bassa condizione alzò a varii gradi e finalmente
alla più sublime grandezza Massimiano[2507]. Era egli sempre stato
amico intrinseco di Diocleziano, e partecipe di tutti i suoi segreti.
Parecchi attestati della sua bravura parimente avea dato in varie
guerre al Danubio, all'Eufrate, al Reno, all'Oceano[2508] sotto
Aureliano e Probo Augusti; e però Diocleziano, sentendo sè stesso di
natural timido e bisognoso di chi avesse petto per lui alle occasioni,
elesse l'amico Massimiano per suo braccio diritto, e poi per compagno
nel trono, tuttochè non apparisca che fra loro passasse parentela
alcuna. Cioè primieramente nel precedente anno il creò Cesare, e
cominciò ad appoggiargli i rischi e le più importanti imprese
dell'imperio. Da che fu partito dalle Gallie Carino, ovvero dappoichè
s'intese la di lui morte, s'erano sollevati in esse Gallie due capi di
masnadieri, cioè _Lucio Eliano_ e _Gneo Salvio Amando_: che così si
veggono appellati, e col titolo d'_Augusti_ in due medaglie[2509], se
pur esse son vere, giacchè Eliano dal Tillemont[2510] è appellato
_Aulo Pomponio_, e può dubitarsi che il desiderio degli amatori dei
musei di aver continuata la serie di tutti gli imperadori, abbia mosso
gl'impostori ad appagarli. Costoro adunque alla testa di numerose
schiere di contadini e ladri, chiamati Bagaudi, si diedero a scorrere
e saccheggiar le Gallie, con forzare talvolta anche le stesse città.
Diocleziano contra di tal gente non tardò a spedir Massimiano[2511]
con assai forze, e questi dopo alcuni combattimenti dissipò quella
canaglia, e rimise in pace le Gallie. S'è disputato fra i
letterati[2512] se questa impresa di Massimiano Erculio appartenga
all'anno precedente, oppure al presente o seguente. Probabilmente i
lettori non amerebbono ch'io entrassi in sì fatto litigio, e
massimamente perchè non è sì facile il deciderlo. Quel sì in che
convengono essi eruditi, si è che Diocleziano essendo in Nicomedia, e
sempre più riconoscendo quanto egli si poteva promettere di questo suo
bravo e vecchio amico, cioè di Massimiano, nell'anno corrente il
dichiarò anche Augusto e collega nell'imperio nel dì primo di aprile,
per quanto si ricava da Idacio nei Fasti[2513]. Fu stupenda cosa in
que' tempi il vedere come questi due Augusti, senza legame di sangue,
e d'umore l'un dall'altro diverso, pure andassero da lì innanzi sì
uniti, o governassero a guisa di due buoni fratelli. Conservava
Massimiano quel rustico che egli aveva portato dalla nascita, non meno
nel volto che ne' costumi[2514]. Il suo naturale era aspro e violento,
privo di civiltà e di umanità; si osservava anche dell'imprudenza nei
suoi disegni. Diocleziano, all'incontro, siccome furbo al maggior
segno, affettava l'affabilità e la dolcezza[2515], con lamentarsi
anche talvolta della durezza di Massimiano. Ma sapeva valersi della di
lui ferocia e selvatichezza all'esecuzion de' suoi voleri; e qualor si
trattava di qualche risoluzion severa ed odiosa, a lui ne dava
l'incumbenza e l'onore, sicuro che l'altro, senza farsi pregare,
l'avrebbe ubbidito. Il perchè chi mirava le sole apparenze, diceva che
Diocleziano era nato per fare un secolo d'oro, e Massimiano un secolo
di ferro. Abbiamo inoltre da Lattanzio[2516] che Massimiano non si
assomigliava già all'altro nell'avarizia, amando di comparir liberale;
ma qualora abbisognava di danaro, sapeva anche addossar dei delitti di
false cospirazioni ai più ricchi senatori, e fargli uccidere per
occupare i loro beni. Parla in oltre Lattanzio dell'insaziabil
lussuria di Massimiano, e della violenza che egli usava dappertutto
alle figliuole de' benestanti. Un passo di Mamertino[2517] sembra
indicare che appena dopo la sconfitta de' Bagaudi facessero
un'irruzion nelle Gallie i Borgognoni, Alamanni, Caiboni ed Eruli,
popoli della Germania. Furono anch'essi ben ricevuti da Massimiano che
si trovava in quelle parti; pochi d'essi si contarono che non
restassero vittima delle spade romane, niuno quasi essendone restato
che potesse portar la nuova della rotta alle proprie contrade. Vedesi
una iscrizione fatta prima del dì 17 di settembre dell'anno
presente[2518], in cui Diocleziano porta i titoli di _Germanico_ e
_Britannico_, credendosi questi derivati dalla vittoria suddetta, e da
qualche altra riportata dai suoi generali nella Bretagna.

NOTE:

[2502] Eutrop., in Brev. Lactant., de Mort. Persec.

[2503] Aurel. Victor, in Epit. Zonaras, in Annal.

[2504] Vopiscus, in Numeriano.

[2505] Aurelius Victor, in Epitome. Lactantius, de Mort. Persecut.
Eutrop., in Breviar.

[2506] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2507] Aurelius Victor. Lactantius. Eutropius.

[2508] Mamertinus, in Panegyrico.

[2509] Goltzius et Mediobarbus, in Numismat. Imperat.

[2510] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2511] In Panegyr. Max. et Const. Aurel. Victor. Eutropius.

[2512] Noris. Pagius. Tillemont et alii.

[2513] Idacius, in Fastis.

[2514] Aurelius Victor, ibidem. Eutrop., in Breviar. Lactantius, de
Mortib. Persecutor.

[2515] Vopiscus, in Aureliano.

[2516] Lactantius, de Mortib. Persecutor., cap. 8.

[2517] Mamertinus, in Panegyr. Maximiani.

[2518] Pagius, in Critic. Baron. ad hunc annum.




    Anno di CRISTO CCLXXXVII. Indizione V.

    CAIO papa 5.
    DIOCLEZIANO imperadore 4.
    MASSIMIANO imperadore 2.

_Consoli_

CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO per la terza volta e MARCO AURELIO
VALERIO MASSIMIANO.


Prefetto di Roma[2519] fu in questo anno _Giunio Massimo_, da noi
veduto console. Un medaglione illustrato dall'incomparabile cardinal
Noris[2520], e battuto in quest'anno, ci rappresenta Diocleziano e
Massimiano Augusti, condotti in una carretta trionfale: segno che essi
celebrarono qualche trionfo, oppure che questo fu loro decretato dal
senato. Ciò vien creduto fatto o per le vittorie riportate nel
precedente anno da Massimiano contra le nazioni germaniche accennate
di sopra, oppure per qualche altra guadagnata contra de' Persiani,
siccome dirò, ovvero contra de' Franchi e Sassoni[2521], i quali per
mare faceano delle scorrerie nell'Oceano contro le Gallie. Certamente
Mamertino[2522], per lodar Massimiano, scrive (probabilmente con
iperbole e adulazione oratoria) che erano seguiti innumerabili
combattimenti nelle Gallie contra de' Germani, con aggiugnere che
costoro dipoi giunsero nel dì primo di quest'anno fin sotto le mura di
Treveri. Massimiano, che quivi era a quartier di verno, e solennizzava
l'ingresso del suo consolato, prese l'armi, si scagliò contra di loro,
e li mise in rotta. Venuta poi la primavera, valicò il Reno, portando
la guerra in casa de' medesimi Barbari, devastando quel paese con loro
gran danno. Il movimento poco fa accennato dei Franchi e Sassoni per
mare contra le Gallie ebbe principio nell'anno precedente. Massimiano
non perdè tempo ad allestire anch'egli una flotta di navi per opporla
a quelle barbare nazioni, e ne diede il comando a _Carausio_, uomo
bassamente bensì nato fra i popoli Menapii[2523] nella Fiandra, oppur
nel Brabante, ma di gran credito, specialmente nel condurre navi e far
battaglie marittime. Che costui desse delle percosse a que' corsari,
pare che si ricavi dal panegirico di Mamertino. Ma a poco a poco si
venne scorgendo che Carausio prendea gusto a continuar la guerra in
vece di estinguerla, lasciando che i Franchi e i Sassoni venissero a
spogliar le contrade romane, per poscia tor loro il bottino, senza
pensare a restituirlo a chi si dovea. Ordinò perciò Massimiano colla
consueta fierezza che gli fosse tolta la vita. Trapelò quest'ordine,
ed avvisatone Carausio, provvide a sè stesso col condur tutta la
flotta a lui raccomandata nella Bretagna, dove tratte nel suo partito
le milizie romane di guarnigione in quella grand'isola, si fece
acclamare Augusto. Il Noris crede ciò fatto nell'anno presente, ed è
seco Eusebio[2524]. Il Pagi[2525] nel precedente. Diedesi poscia
Carausio a far preparamenti per sostenersi in quel grado, fabbricando
nuovi legni, facendo leve di gente e tirando al suo servigio una gran
copia di Barbari, a' quali insegnò l'arte di combattere in mare.
Perchè nel medaglione prodotto dal Noris si vede tirato il carro
trionfale da quattro elefanti, potrebbe ciò piuttosto indicar vittorie
riportate da Diocleziano in Levante contra de' Persiani. Certo è
ch'egli marciò a quella volta, non volendo soffrire che Narseo, o
Narse, re di Persia (altri dicono Vararane II) avesse[2526] dopo la
morte di Caro Augusto occupata la Mesopotamia, e se la ritenesse.
Sembra in oltre che l'armi persiane fossero penetrate nella Soria, e
ne minacciassero la stessa capitale Antiochia. Chiaramente scrisse
Mamertino che i Persiani, o pel terrore o per la forza dell'armi
romane, si ritirarono dalla Mesopotamia, e si vide obbligata quella
nazione ad aver per confine il fiume Tigri. E verisimilmente fu in
quella occasione che il re loro inviò dei ricchi presenti a
Diocleziano, con parere eziandio che seguisse pace fra loro.
Certamente la storia non ci esibisce per molti anni dissensione alcuna
fra i Romani e i Persiani; e però sembra che Diocleziano ottenesse
l'intento suo, non solo di ricuperar le provincie e città perdute in
Oriente, ma di lasciar quivi anche la quiete. Convien nondimeno
confessare che troppo difficil cosa è il riferire a' suoi proprii anni
le imprese di questi due imperadori, perchè d'esse fanno bensì
menzione i panegiristi d'allora, ma senza ordine di tempi. Perciò
può essere che appartenga all'anno seguente, come pensò il
Tillemont[2527], la guerra fatta da Massimiano ai Germani di là dal
Reno, con dare ampiamente il guasto al loro paese; e che medesimamente
si debba differire ad esso anno la rinnovata amicizia dei Persiani con
Diocleziano, e la spedizion dei regali fatta da quel re, e mentovata
da Mamertino[2528]. Ma in fine, quel che importa, si è di saper gli
avvenimenti d'allora, ancorchè non si possa con sicurezza assegnarne
il tempo.

NOTE:

[2519] Bucherius, de Cycl.

[2520] Noris, de Num. Dioclet.

[2521] Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.

[2522] Mamertinus, in Panegyr. Maximiani.

[2523] Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.

[2524] Eusebius, in Chron.

[2525] Pagius, Crit. Baron.

[2526] Mamertinus, in Panegyr. Maximiani, c. 7.

[2527] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2528] Mamertinus, in Paneg. Maximian., cap. 10.




    Anno di CRISTO CCLXXXVIII. Indiz. VI.

    CAIO papa 6.
    DIOCLEZIANO imperadore 5.
    MASSIMIANO imperatore 3.

_Consoli_

MARCO AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la seconda volta e
POMPONIO JANUARIO.


Fu, secondo il catalogo pubblicato dal Cuspiniano e Bucherio, in
questo anno prefetto di Roma _Pomponio Januario_; però il
Panvinio[2529] ed altri han creduto ch'egli nello stesso tempo
esercitasse l'impiego del consolato. E parendo veramente che in questi
tempi non ripugnasse l'esser insieme console e prefetto di Roma,
perciò ho osato anche io di dar a questo console il nome di
_Pomponio_. Stimò eziandio il suddetto Panvinio che non _Massimiano_
Augusto, ma un _Massimo_ procedesse console in quest'anno, affidato ad
un passo di Ammiano[2530], e di uno o due scrittori; ma il cardinal
Noris colla comune dei Fasti ha assicurato qui il consolato a
Massimiano. Se noi sapessimo l'anno preciso, in cui Mamertino recitò
il suo primo panegirico nel natale di Roma, cioè nel dì 21 d'aprile,
in lode di esso Massimiano imperadore, alla cronologia d'allora si
porgerebbe qualche sussidio. Il Noris lo riferisce all'anno seguente,
il Pagi al presente, altri più tardi. A me basterà di dire
raccogliersi da quel panegirico che Massimiano[2531], nel medesimo
tempo che dava delle lezioni del suo valore ai popoli nemici della
Germania, mettendo a ferro e fuoco le lor campagne, faceva un
formidabil preparamento di navi ne' fiumi grossi delle Gallie, con
disegno di liberar la Bretagna dall'usurpatore Carausio. Accadde che
in questo o pure nel precedente anno per una mirabil serenità si
mostrò favorevole il cielo alla fabbrica di essa flotta, e il verno
stesso parve una primavera. Non si sa ben distinguere nel testo di
esso Mamertino se a Massimiano o pure a Diocleziano sia da riferire la
venuta con un buon esercito nella Rezia, e l'aver quivi riportata
qualche vittoria contra i Germani, con istendere da quella parte i
confini del romano imperio. Certo è che Diocleziano circa questi tempi
ritornò carico d'allori dalla spedizion militare contra de' Persiani
in Europa, per trattare con Massimiano dei pubblici affari. Fa
parimente menzione Mamertino[2532] di Genobon, o sia Genobaud, re di
qualche nazion germanica (il Valesio[2533] ed altri il credono re de'
Franchi), il quale con tutta la sua gente venne ad inchinar
Massimiano, ad implorar la pace, e a promettere buona amicizia e lega.

NOTE:

[2529] Panvin., in Fastis Consul.

[2530] Ammianus, lib. 23.

[2531] Mamertinus, in Panegyr., cap. 7 et 12.

[2532] Idem, ibid., cap. 10.

[2533] Valesius, Hist. Franc.




    Anno di CRISTO CCLXXXIX. Indiz. VII.

    CAIO papa 7.
    DIOCLEZIANO imperadore 6.
    MASSIMIANO imperadore 4.

_Consoli_

BASSO per la seconda volta e QUINZIANO.


Seguitò ad essere prefetto di Roma _Pomponio Januario_. Prima che
Mamertino recitasse il suo panegirico, racconta egli che i due
imperadori vennero, Diocleziano dall'Oriente, e Massimiano dal
Ponente, per abboccarsi insieme e trattar dei ripieghi per i bisogni
dell'imperio. _Carausio_, impadronito della Bretagna, sempre più
cresceva in forze; i Barbari scatenati da ogni parte, non ostante le
rotte lor date, minacciavano tutto dì le provincie romane.
Mamertino[2534] parla di questo abboccamento, che sembra diverso da un
altro, di cui ragioneremo più innanzi. Videsi allora e si ammirò la
stupenda unione e concordia di questi due principi, uno de' quali,
cioè Diocleziano, fece pompa dei regali a lui mandati dal re persiano,
e l'altro delle spoglie riportate dal paese germanico. Quando si
ammetta che in questo, e non già nel precedente, anno Mamertino
recitasse in Treveri il suo panegirico a Massimiano, che si trovava in
quella città, capo allora delle Gallie, e frontiera contro i Germani,
si può credere che qualche tempo prima avendo esso Augusto Massimiano
compiuta la fabbrica di una flotta, per procedere contro Carausio
usurpator della Bretagna[2535], la spignesse dai fiumi nel mare. Erano
state basse fin allora l'acque per la lunga serenità, durata anche nel
verno; ma vennero a tempo pioggie, le quali, coll'ingrossar i fiumi,
facilitarono il trasporto di que' legni all'Oceano. Di bei successi,
di felici vittorie prometteva perciò quel panegerista a Massimiano. Ma
diversi dall'aspettazione riuscirono poscia gli avvenimenti. Dovette
darsi qualche battaglia navale, in cui la peggio, per la testimonianza
di Eutropio[2536], toccò a Massimiano, non essendo le genti sue sì
sperte nei combattimenti marittimi, come quelle di Carausio, uomo
avvezzo più di Massimiano a combattere in quell'elemento. Questa non
aspettata disgrazia quella fu che indusse Massimiano[2537] ad ascoltar
proposizioni di pace. E infatti riuscì a Carausio di ottenerla, con
ritener la signoria della Bretagna, inorpellandola col titolo di
Difensore di quelle provincie per la repubblica romana. Se è vera una
medaglia, rapportata dal cardinal Noris[2538], leggendosi ivi PAX
AVGGG., si conosce che anche Carausio conservò il titolo di _Augusto_,
di consenso degli altri due imperadori. Per conto di Diocleziano,
potrebbe essere che in quest'anno egli facesse guerra ai Sarmati,
Jutunghi e Quadi, e ne riportasse quelle vittorie che si veggono
mentovate dai panegiristi d'allora[2539], per le quali in qualche
iscrizione Diocleziano è intitolato _Sarmatico_. Trovasi anche nelle
medaglie[2540] di questo Augusto VICTORIA SARMATICA. Sarà
probabilmente un'iperbole adulatoria quella di Eumene[2541], dove dice
che la nazion de' Sarmati fu per queste guerre sì estenuata ed
abbattuta, che appena ne restò il nome per pruova della sua rovina.
Noi troveremo anche da qui innanzi assai vigorosa quella gente, e
nemica possente dell'imperio romano. Parlano ancora i panegiristi del
ristabilimento della Dacia, provincia di là dal Danubio[2542],
abbandonata già da Aureliano, ma senza poter noi meglio conoscere in
che consistesse questo accrescimento o vantaggio dell'armi romane.

NOTE:

[2534] Mamert., in Panegyr., cap. 9.

[2535] Idem, ibidem, cap. 11.

[2536] Eutrop., in Breviario.

[2537] Eumen., Panegyric. Const., cap. 11.

[2538] Noris, Dissert. de Num. Dioclet.

[2539] Mamert. et Eumenes, in Panegyr.

[2540] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2541] Eumenes, Panegyr. Const., cap. 11.

[2542] Idem, ibid.




    Anno di CRISTO CCXC. Indizione VIII.

    CAIO papa 8.
    DIOCLEZIANO imperadore 7.
    MASSIMIANO imperadore 5.

_Consoli_

CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per la quarta volta, e MARCO
AURELIO MASSIMIANO AUGUSTO per la terza.


Fu in quest'anno prefetto di Roma _Turranio Graziano_. Erano tuttavia
in continuo moto i due Augusti Diocleziano e Massimiano, così esigendo
le turbolenze di que' tempi. Le leggi citate dal Relando e dal
Tillemont[2543] ci fan vedere Diocleziano nell'anno presente, ora a
Sirmio nella Pannonia, ora a Bisanzio nella Tracia; ed una ancora si
trova data in Emesa, città della Mesopotamia, ancorchè difficil sia
l'accordar insieme viaggi cotanto disparati, fatti in poco tempo. Ma
quando sussista, come si fece a credere il padre Pagi[2544], che il
panegirico di Eumene (creduto Mamertino da altri) fosse recitato nel
presente anno, certamente di là apprendiamo[2545] che Diocleziano
dalla _Soria_ era venuto nella _Pannonia_, da dove poi il vedremo
calare in Italia. Fa menzione il medesimo panegirista de' Saraceni
vinti e fatti schiavi dallo stesso Diocleziano; ma ignoto ci è se
fosse in questa o pure nella precedente andata di esso Augusto in
Oriente. Non è già improbabile che circa questi tempi cominciassero
altre nuove rivoluzioni nell'imperio romano, delle quali ci hanno
conservata memoria Aurelio Vittore[2546] ed Eutropio[2547]. Già la
Bretagna restava come smembrata da Roma per la occupazione fattane da
Carausio, benchè fosse succeduto quell'apparente accordo, di cui s'è
parlato di sopra. Sollevossi anche nell'Africa un _Giuliano_, il
quale, se dobbiam credere al Goltzio[2548], in cui mano fortunatamente
caddero le medaglie di quasi tutti i tiranni (voglia Dio che tutte
legittime), portava il nome di _Quinto Trebonio Giuliano_, ed assunse
il titolo d'_Imperadore Augusto_. Nella stessa Africa ancora erano in
armi, non so se barbari o pure ribelli, i popoli quinquegenziani, dei
quali non troviamo altrove memoria, col restar solamente sospetto che
tal nome prendessero cinque popoli confederati insieme. E non andava
l'Egitto esente da somiglianti turbolenze. Quivi _Lucio Epidio
Achilleo_ (così è nominato nelle medaglie) aveva preso il titolo di
_Augusto_; e sembra che stendesse il dominio, se non in tutta, almeno
in buona parte di quella provincia. Da esse medaglie apparisce ch'egli
tenne per cinque anni quel dominio; ma non sappiamo quando questi
avessero il principio. Aggiungasi che i Persiani, i quali presso
alcuni scrittori si veggono tuttavia appellati Parti, non mai quieti,
qualor se la vedeano bella, pizzicavano le contrade romane
dell'Oriente; impegni tutti di gran considerazione per i due regnanti
imperadori.

NOTE:

[2543] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2544] Pagius, Critic. Baron.

[2545] Eumen., seu Mamert., Panegyr. Maximian., cap. 4.

[2546] Aurelius Victor, Epitome.

[2547] Eutrop., in Breviar.

[2548] Goltzius et Mediob., in Numismat. Imper.




    Anno di CRISTO CCXCI. Indizione IX.

    CAIO papa 9.
    DIOCLEZIANO imperadore 8.
    MASSIMIANO imperad. 6.

_Consoli_

CAIO GIUNIO TIBERIANO per la seconda volta e DIONE.


Che _Tiberiano_ fosse promosso in quest'anno al secondo consolato, si
raccoglie da un'iscrizione da me[2549] data alla luce. E lo confermano
i Fasti Fiorentini e il Catalogo de' prefetti di Roma pubblicati dal
Bucherio. E perciocchè nell'anno 281 vedemmo console _Caio Giunto
Tiberiano_, fondata conghiettura abbiamo per credere che fosse il
medesimo che procedesse console ancora in quest'anno. Vero è che il
suddetto Catalogo ci dà prefetto di Roma nell'anno presente _Giunio
Tiberiano_: ma già abbiam detto essere probabile che fosse introdotto
l'uso di unir insieme talvolta la dignità di console e di prefetto.
Che il secondo console _Dione_ fosse figliuolo, o piuttosto nipote di
Cassio celebre storico, s'è giudicato con assai verisimiglianza, e
perciò a lui pure han dato fondatamente alcuni il nome di _Cassio
Dione_. L'autore[2550] del Genetliaco di Massimiano (sia egli Eumene,
o pur Mamertino) racconta l'abboccamento seguito in Milano fra i due
Augusti. Concorrono forti motivi per crederlo succeduto in
quest'anno[2551], e certo seguì ne' primi mesi dell'anno. Correva
allora un verno rigorosissimo[2552] con ghiaccio e nevi dappertutto, e
sì aspro freddo che, per così dire, gelava il fiato delle persone.
Contuttociò Diocleziano dalla Soria sen venne per la Pannonia in
Italia. Massimiano dalle Gallie per le vie di Monaco passò anch'egli
in queste parti con tal sollecitudine, viaggiando amendue con poco
seguito di notte e di giorno, che quasi pervennero prima de' corrieri
da loro spediti innanzi. L'abboccamento di essi si fece, come dissi,
in Milano con plauso inusitato di quel popolo, per lo inaspettato loro
arrivo e presenza, non meno che per la mirabil loro concordia. Il
senato romano spedì in questa congiuntura i più illustri senatori a
quella città, per complimentare i due Augusti, giacchè si seppe che
non erano per passar a Roma. Non si può fallare pensando che l'oggetto
di un tale abboccamento fosse di consultare insieme de' mezzi per
sostenere l'imperio in mezzo a tante turbolenze, e domare i ribelli; e
che allora divisassero di venire alla risoluzione, di cui parleremo
all'anno seguente. Abbiamo poi dal suddetto panegirico[2553]
(recitato, per quanto sembra, nell'anno presente in Treveri alla
presenza di Massimiano) che in questi tempi nel cuor dell'imperio si
godeva gran tranquillità, e che copiosissimi erano stati i raccolti.
All'incontro, i Barbari tutti si trovavano involti in fiere guerre
insieme. Cioè in Africa erano fra loro in rotta i Mori; nella Sarmazia
i Goti combattevano contra dei Borgognoni, i quali, avendo la peggio,
s'erano raccomandati agli Alemanni per soccorso, con dirsi (cosa che
pare strana) aver poi essi Borgognoni occupato il paese degli amici.
Similmente i Tervigi, altra spezie di Goti, uniti coi Taifali, aspra
guerra aveano mosso ai Vandali e Gepidi. Lo stesso maligno influsso
provavano i Persiani[2554], perchè Osmida s'era sollevato contra del
fratello re di Persia, avendo dalla sua i popoli Sacchi, Russi e
Gelli. Finalmente i Blemmii confinanti all'Egitto erano in guerra coi
popoli dell'Etiopia. Certamente le discordie presenti dei Barbari
tornavano in vantaggio del romano imperio; tuttavia non mancavano ad
esso imperio i suoi guai, e ne abbiam già fatta menzione. Lo stesso
andarsi sempre più agguerrendo que' Barbari ridondò in danno de'
Romani col tempo, siccome andremo vedendo. Potrebbe essere che in
questi tempi succedesse ciò che racconta Eumene, o sia Mamertino, con
dire che Massimiano Erculio popolò il paese incolto di Cambray e di
Treveri con gente del paese de' Franchi, la quale si era sottoposta ai
Romani. Anche Eusebio[2555] nota sotto quest'anno, che essendosi
ribellate a' Romani Busiri e Copto, città dell'Egitto, furono prese e
spianate, non si sa da qual generale degli Augusti. Secondo questo
istorico, sembra che non fosse per anche succeduta la ribellione
d'Achilleo, se pur l'eccidio delle due suddette città non si dee
prendere per indizio della medesima ribellione.

NOTE:

[2549] Thesaurus Novus Inscript., p. 268, n. 1.

[2550] Genethliac. Maximian., cap. 4.

[2551] Pagius, Crit. Baron.

[2552] Genethliac. Maximian., cap. 9.

[2553] Panegyr. Maximian., cap. 16.

[2554] Agathias. Eutychius. Sincellus.

[2555] Euseb., in Chronic.




    Anno di CRISTO CCXCII. Indizione X.

    CAIO papa 10.
    DIOCLEZIANO imperadore 9.
    MASSIMIANO imperatore 7.

_Consoli_

ANNIBALIANO ed ASCLEPIODOTO.


Noi vedremo prefetto di Roma nell'anno 297 _Afranio Annibaliano_.
Verisimilmente lo stesso fu che procedette console nell'anno presente.
_Claudio Marcello_ nel Catalogo del Bucherio[2556] si truova prefetto
di Roma al dì 3 di agosto di quest'anno. In esso appunto succedette
una riguardevol novità nel romano imperio. Tra perchè da più parti era
esso o minacciato dai Barbari, o lacerato dai ribelli, nè i due
Augusti potevano accudire a tutto[2557]; e perchè Diocleziano, uomo di
naturale pauroso, non amava molto di esporsi ai pericoli, prese egli
col collega Massimiano la risoluzion di scegliere due valorosi
generali d'armata, il braccio de' quali alleviasse loro le fatiche. E
per maggiormente tenerli uniti e subordinati al loro comando,
giudicarono meglio di dare ad essi il nome di _Cesari_, equivalente a
quel d'oggidì il re de' Romani. Quanto all'anno di tale elezione,
discordano forte Cassiodoro, Idacio, Eusebio e la Cronica
Alessandrina. Le ragioni addotte dal Pagi[2558] bastanti sono a
persuaderci che ciò succedesse nell'anno presente, allorchè i due
Augusti si trovavano in Nicomedia nel dì primo di marzo[2559]. Furono
gli eletti _Costanzo Cloro_ e _Galerio Massimo_, tutti e due adottati
per figliuoli da essi imperadori, ed insieme obbligati a ripudiar le
loro mogli, siccome era succeduto a Tiberio imperadore, affinchè
sposassero le figliuole de' medesimi Augusti. Costanzo prese per
moglie _Teodora_ figliastra di Massimiano, e Galerio _Valeria_ figlia
di Diocleziano. Ai novelli Cesari fu conceduta la tribunizia podestà,
con cui andava congiunta una notabil autorità. Nè qui si fermò la lor
fortuna. Per tutto il tempo addietro, avvegnachè vi fossero più
imperadori e cesari, sempre l'imperio romano era stato unito. Fecesi
ora una specie di divisione, che diede da mormorar non poco a tutti
gl'intendenti ed amatori della maestà romana, prevedendo che in tal
forma verrebbe ad indebolirsi l'imperio, e a cadere col tempo in
rovina: quando, all'incontro, i due Augusti si figuravano che
attendendo cadaun d'essi imperadori e cesari alla difesa della propria
porzione, e con prontezza ad aiutare gli altri che abbisognassero di
soccorso, più saldezza ne acquisterebbe l'imperio. Nè certo questo era
smembramento dell'imperio stesso, ma un comparto amichevole fra quei
quattro principi; imperciocchè durava la concordia del governo fra
loro; le leggi fatte dagli Augusti seguitavano a correre per tutte le
provincie; e l'uno di questi principi, secondo le occorrenze, passava
nelle provincie dell'altro.

Secondo le antiche notizie[2560], a _Costanzo Cesare_ furono assegnate
le provincie tutte di là dall'Alpi, cioè le Gallie, le Spagne, la gran
Bretagna e la Mauritania Tingitana, siccome provincia dipendente dalla
Spagna. A _Massimiano Erculio Augusto_ fu data l'Italia e il resto
dell'Africa colle isole spettanti alle medesime. A _Galerio Cesare_ la
Tracia e l'Illirico colla Macedonia, Pannonia e Grecia. _Diocleziano
Augusto_ ritenne per sè la Soria e tutte l'altre provincie d'Oriente,
cominciando dallo stretto di Bisanzio, e riserbossi anche l'Egitto,
ricuperato dalle mani di Achilleo. Ne già si tardò a sentir le cattive
conseguenze di questa moltiplicazion di principi e divisione di Stati.
Buon testimonio è Lattanzio[2561], con dire, che volendo cadaun di
que' regnanti tener corte non inferiore a quella degli altri, ed
esercito che non la cedesse a que' dei colleghi, si accrebbero a
dismisura le imposte e gabelle per soddisfare alle spese, e con tali
aggravii, che in moltissimi luoghi erano lasciate incolte le campagne,
giacchè, pagati i pubblici pesi, non restava da vivere ai coltivatori
e padroni delle medesime. Ed allora fu, per attestato di Aurelio
Vittore[2562], che l'Italia, non ad altro obbligata fin qui che a
provvedere viveri alla corte e alle milizie di suo seguito, cominciò,
al pari delle provincie oltramontane, a pagar tributo, lieve bensì sul
principio, ma che andò poscia a poco a poco crescendo sino
all'eccesso, e produsse in fine la total sua rovina. Quanto ai
suddetti due Cesari, derivavano amendue dall'Illirico, onde erano
anche usciti Diocleziano e Massimiano. _Costanzo_, soprannominato
_Cloro_ dagli storici[2563], forse pel color pallido del volto, o
verde del vestito, ebbe per padre Eutropio, il quale dicono che fosse
uno dei meglio stanti del suo paese, e che per moglie avesse Claudia
figliuola di Crispo, cioè di un fratello di Claudio il Gotico
imperadore. Certamente gli antichi storici il fanno discendente dalla
casa di quell'Augusto per via di donne; e forse per questo ne' suoi
posteri si trova rinnovata la famiglia Claudia. Che nondimeno la
nobiltà e le facoltà di sua casa non fossero molte, si può dedurre
dall'aver egli studiato poco le lettere, e cominciata la sua fortuna
dal più basso della milizia, e dal sopportar le fatiche proprie da'
soldati gregarii nelle armate di Aureliano e di Probo. Aurelio
Vittore[2564] sembra quasi indicare che egli fosse nato poveramente in
villa, dicendo che tanto egli come Galerio aveano poca civiltà, ma
che, avvezzi alle miserie della campagna e della milizia, riuscirono
poi utili alla repubblica. L'anonimo del Valesio[2565] scrive che
Costanzo fu il primo soldato nelle guardie del corpo dell'imperadore,
poscia pel suo valore tribuno, o sia colonnello di una legione, e
giunse ad esser governator della Dalmazia, con essersi segnalato in
varie occasioni di guerra. In tal credito certamente egli salì, che fu
giudicato degno di esser creato Cesare in quest'anno dai due Augusti.
Nelle iscrizioni e medaglie si vede egli chiamato _Flavio Valerio
Costanzo_. Perchè Valerio, s'intende, essendo egli stato adottato
dall'uno degl'imperadori, amendue portanti il nome d'essa famiglia.
Perchè _Flavio_, non si sa, credendosi un'adulazione quella di
Trebellio Pollione, che il fa discendere da Flavio Vespasiano. Delle
ottime qualità di questo principe parleremo altrove; principe, la cui
maggior gloria fu l'essere stato padre di Costantino il Grande, a lui
nato circa l'anno di Cristo 274, mentre egli militava nell'Elvezia.

Per quel che riguarda _Galerio_, l'altro dei nuovi Cesari, anch'egli
era nato bassamente in villa presso Serdica, o sia Sardica, capitale
della nuova Dacia[2566]. Romula sua madre, nemica de' cristiani in
quel paese, perchè non voleano intervenire ai suoi empi sacrifizii e
conviti, gli inspirò fin da picciolo un odio grande contro la
religione di Cristo. Che i suoi genitori fossero contadini, lo dicono
i vecchi storici, e si argomenta dal soprannome di _Armentario_, che
gli vien dato dagli antichi scrittori. Anche egli col mestiere
dell'armi si acquistò tal fama, che dai due Augusti fu creduto
meritevole di essere promosso alla dignità di Cesare. Noi il vediam
nominato nelle medaglie _Caio Galerio Valerio Massimiano_. Se dice il
vero Eutropio[2567], meritavano lode i di lui costumi; ma
Lattanzio[2568], all'incontro, ci assicura che nel portamento e nelle
azioni di costui compariva quell'aria di selvatichezza ch'egli portò
dalla nascita, ma ch'egli vi aggiunse anche col tempo un'insopportabil
fierezza e crudeltà, per cui scompariva quel poco di buono che in lui
si trovava[2569]. Sprezzava egli le lettere e chi le coltivava, non
amando se non le persone militari, le quali ancora, benchè ignoranti,
erano da lui promosse ai magistrati civili con discapito grande della
giustizia. L'ambizione sua vedremo che portò Diocleziano a deporre il
baston del comando; così l'avidità del danaro, per cui impose
esorbitanti aggravii, trasse i popoli ad una miserabil rovina. A lui
specialmente vien attribuita la crudel persecuzione mossa contro ai
cristiani, che accenneremo a suo tempo. Quel che fu mirabile[2570],
per varii anni si osservò una rara unione fra questi quattro principi,
gareggiando tutti nel promuovere gl'interessi della repubblica.
Diocleziano veniva considerato quel padre di tutti, e i suoi ordini e
voleri fedelmente erano eseguiti dagli altri; ed arte non mancava allo
stesso Diocleziano per tener contenti i subordinati colleghi, con
dissimular i loro trascorsi, e soprattutto procurando di dar nella
lesta ai seminatori di zizzanie e di false relazioni, perchè certo dal
suo canto egli non ometteva diligenza alcuna per conservar la buona
intelligenza ed armonia con chi si mostrava dipendente da lui. Dicemmo
già che un _Giuliano_ avea usurpato l'imperio nell'Africa. Credesi che
in quest'anno Massimiano Erculio passasse in quelle parti, come poste
sotto il comando suo nel comparto dell'imperio, ed obbligasse quel
tiranno a trapassarsi il petto col ferro e a gittarsi nel fuoco.
Abbiamo da Eumene, o sia Eumenio[2571], che Costanzo, dappoichè fu
dichiarato Cesare, con tal fretta passò nelle Gallie a lui destinate
per comandarvi, che non v'era per anche giunto l'avviso di avervi egli
a venire, anzi nè pure la notizia della sublime dignità a lui
conferita. La nuova a lui portata che le genti di Carausio tiranno
della Bretagna, venute con molte vele per mare, aveano occupato
Gesoriaco (oggidì Bologna di Picardia) fu a Costanzo un acuto sprone
per volar colà ed imprenderne l'assedio. Affinchè non potesse
approdarvi soccorso alcuno per mare, nè fuggir di là quella man di
corsari, fece egli con alte travi, conficcate intorno al porto,
piantare una forte palizzata. Fu obbligata quella guarnigione alla
resa, e Costanzo l'arrolò fra le sue truppe. Il che fatto, quasichè
fin allora il mare avesse rispettata la palizzata suddetta, a forza d'
onde la smantellò. Diedesi poi Costanzo a far preparamenti di navi per
liberar la Bretagna dalle mani di esso Carausio, il quale godea bensì
la pace in quell'isola, ma non lasciava di star ben armato e in
guardia per difendersi, qualora si vedesse assalito. A quest'anno, o
pure al seguente, scrive Eusebio[2572] che i popoli Carpi e Basterni
furono condotti ad abitar nelle provincie romane: segno che nel loro
paese con vittoriosi passi erano entrati i Romani, se pur coloro non
furono dalla forza di altri Barbari cacciati dal loro paese. La nazion
loro vien creduta germanica, ma abitante alla Vistola, in quella che
oggi si chiama Polonia. Probabilmente questa guerra appartiene
all'anno 294, siccome diremo.

NOTE:

[2556] Bucher, in Cyclo.

[2557] Lactantius, de Mortibus Persecutor., cap. 7.

[2558] Pagius, Crit.

[2559] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 7. Eutropius. Aurel.
Vict. Eusebius.

[2560] Aurelius Victor, in Epitome.

[2561] Lactantius, de Mortib. Persecutor., cap. 7.

[2562] Aurelius Victor, Epitome.

[2563] Pollio, in Claudio.

[2564] Aurelius Victor, in Epitome.

[2565] Anonymus Vales. post Ammian.

[2566] Lactantius, de Mort. Persec., cap. 9. Aurel. Victor, in
Epitome. Eutrop., in Breviar.

[2567] Eutrop., in Breviario.

[2568] Lactant., de Mort. Persec., cap. 9.

[2569] Aurelius Victor, in Epitome.

[2570] Vopiscus, in Caro. Julian., Oratione I. Aurel. Vict., ibid.

[2571] Eumen., in Panegyr. Constant.

[2572] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO CCXCIII. Indizione XI.

    CAIO papa 11.
    DIOCLEZIANO imperadore 10.
    MASSIMIANO imperadore 8.

_Consoli_

CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per la quinta volta e MARCO
AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO par la quarta.


_Settimio Acindino_ fu in quest'anno prefetto di Roma, e continuò in
tal dignità anche nell'anno seguente. Si aspettava _Carausio_,
occupator della Bretagna, la guerra dalla parte della Gallia, senza
avvedersi che una più perniciosa, perchè occulta, gli si preparava in
casa[2573]. _Alletto_, o sia _Alesto_, ministro di sua maggior
confidenza, fosse per timore che piombasse il gastigo sopra i delitti
da lui commessi, o pure per sola vaghezza di comandare, l'assassinò
con torgli la vita: dopo di che prese col titolo d'_Augusto_ il
dominio di quelle provincie, ed ebbe forza e maniera per tenerlo lo
spazio di alcuni anni. Questo accidente, per cui forse rimasero
sconcertate alcune segrete misure di Costanzo Cesare, cagion fu
ch'egli per ora non impiegasse l'armi sue verso la Bretagna, ma che le
volgesse contro de' Cauchi, o Camavi, e dei Frisoni, che possedevano
il paese bagnato dalla Schelda, cioè quel che ora vien chiamato i
Paesi Bassi. Ancorchè in quei tempi un tal paese fosse pien di boschi
e paludi, ossia di acque stagnanti, cioè di siti difficili a farvi
guerra, tanta nondimeno fu l'industria e la ostinazion di Costanzo,
che ridusse tutte quelle barbariche popolazioni a rendersi. Il che
fatto, trasportò quella gente colle mogli e figliuoli nelle Gallie,
dando loro terreno da coltivare, senza lasciar armi ad essi, acciocchè
si avvezzassero ad ubbidire, senza più pensare a ribellarsi. Ciò che
in questi tempi operassero i due Augusti e Galerio Cesare, resta
ignoto. Dalle leggi che abbiamo, date nell'anno presente ed accennate
dal Relando[2574], si vede Diocleziano soggiornante nell'Illirico, o
nella Tracia, provincie governate da esso Galerio, ma senza apparire
quali imprese militari si facessero in quelle parti. Se vogliam
credere ad Eusebio[2575], cominciò Diocleziano in questi tempi a farsi
adorare qual dio, cioè, per quanto io m'avviso, con obbligar le
persone ad inginocchiarsi davanti a lui, come si usava coi boriosi re
di Persia, da' quali forse avea appreso questo costume, laddove
bastava in addietro salutare i precedenti Augusti con inchinar la
fronte, come si faceva anche coi giudici. S'egli pretendesse di più,
nol saprei dire. Proruppe ancora in isfoggi di vanità, col mettersi a
portar gemme nelle vesti, e fino nelle scarpe: dal che s'erano
guardati quei precedenti imperadori che furono in concetto di moderati
e savii.

NOTE:

[2573] Aurelius Victor. Eutropius. Eumenes.

[2574] Reland., Fast. Consul.

[2575] Eusebius, in Chron.




    Anno di CRISTO CCXCIV. Indizione XII.

    CAIO papa 12.
    DIOCLEZIANO imperadore 11.
    MASSIMIANO imperadore 9.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANZO CESARE e CAIO GALERIO VALERIO MASSIMIANO
CESARE.


Che in quest'anno ancora i due Cesari Costanzo e Galerio facessero
delle prodezze contra de' Barbari, si può dedurre da Giuliano
Apostata[2576] e dal panegirista di Costantino Augusto, cioè da
Eumenio[2577]. Oltre all'aver essi cacciato dalle terre romane i
Barbari, che da gran tempo vi si erano annidati, e le coltivavano come
sue proprie, quel panegirista parla di diverse altre nazioni
germaniche, nel paese delle quali entrò il valoroso Costanzo,
seguitandolo la vittoria dappertutto. Parte egli sterminò que' popoli,
trovandoli resistenti; e parte umiliati trasse ad abitar nelle
provincie romane, per accrescerne la popolazione e coltura. Continuava
in questi tempi Diocleziano Augusto a dimorar nell'Illirico insieme
con Galerio Cesare, come si ricava da alcune leggi, e verisimilmente
attendevano nelle parti della Pannonia e Mesia a tenere in freno i
Barbari, sempre ansanti di bottinar nel paese romano. Idacio[2578]
scrive che furono in quest'anno fabbricate delle fortezze nel paese
de' Sarmati di là dal Danubio in faccia delle città di Acinco e
Bononia. E a questi tempi verisimilmente appartiene ciò che lasciò
scritto Eutropio[2579], con dire che Diocleziano e Valerio Massimiano
varie guerre fecero unitamente, o separatamente, e che soggiogarono i
Carpi e Bastarni, de' quali parlò Eusebio all'anno 292, coll'aver
inoltre dato delle rotte ai Sarmati. Gran copia ancora di costoro
fatta prigioniera fu poscia da essi principi trasportata nelle
provincie romane, e concedute loro terre incolte per sostentamento
delle lor famiglie, e con vantaggio del pubblico. Presso il
Mezzabarba[2580] si veggono medaglie di Diocleziano colla _Vittoria
Sarmatica_, le quali si può credere che sieno da riferire all'anno
presente.

NOTE:

[2576] Julian., Oratione I.

[2577] Eumenes, Panegyr. 7 Costant., cap. 6.

[2578] Idacius, in Fastis.

[2579] Eutrop., in Breviar.

[2580] Mediobarbus, in Numism. Imperator.




    Anno di CRISTO CCXCV. Indizione XIII.

    CAIO papa 13.
    DIOCLEZIANO imperadore 12.
    MASSIMIANO imperadore 10.

_Consoli_

TOSCO ed ANULLINO.


Che _Mummio Tosco_ fosse appellato il primo console, _Annio Cornelio
Anullino_ il secondo, lo conghietturò il Panvinio[2581], perchè
troveremo, andando innanzi, questi due personaggi prefetti di Roma.
Lodevole è bensì, ma non sicura, una tal conghiettura, e perciò del
loro solo cognome io mi contento. La prefettura di Roma fu in
quest'anno appoggiata ad _Aristobolo_. Per attestato d'Idacio[2582], i
popoli Carpi, che abbiam detto sottomessi nell'anno precedente,
acciocchè non alzassero più le corna, furono obbligati a mutar cielo,
con venire ad abitar nella Pannonia. Abbiamo delle leggi date in
quest'anno, in cui Diocleziano Augusto seguitò a soggiornar nella
Pannonia e Mesia. Probabilmente tra per le vittorie riportate contra
de' Sarmati in quelle parti, e pel buon ordine ch'egli diede,
restarono que' paesi in pace: laonde potè esso Augusto far
preparamenti per ricuperare l'Egitto, siccome dirò all'anno seguente.
Si può parimente credere che in questi tempi Galerio Massimiano, per
adular Diocleziano suocero suo, e Valeria di lui figlia, moglie
sua[2583], desse il nome di Valeria ad una parte della Pannonia, ossia
della moderna Ungheria, dopo aver quivi tagliate vastissime selve per
ridurre quel territorio a coltura. Circa questi tempi ancora sembra
che succedesse ciò che narrano Eumenio[2584] e l'autore del panegirico
di Massimiano e Costantino[2585]: cioè l'aver Massimiano Erculio
Augusto domati i popoli ferocissimi della Mauritania, con aver poscia
trasportata gran copia di essi in altri paesi.

NOTE:

[2581] Panvin., in Fastis Consul.

[2582] Idacius, in Fastis.

[2583] Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 15. Aurelius Victor, in
Epitome. Ammianus, lib. 19.

[2584] Eumen., Oration. de Schol. restaur.

[2585] Incertus, in Panegyr. Maximian., cap. 8.




    Anno di CRISTO CCXCVI. Indizione XIV.

    MARCELLINO papa 1.
    DIOCLEZIANO imperadore 13.
    MASSIMIANO imperadore 11.

_Consoli_

CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per la sesta volta e FLAVIO
VALERIO COSTANZO CESARE per la seconda.


La carica di prefetto di Roma, secondo l'antico Catalogo del
Cuspiniano e Bucherio, fu esercitata da _Cassio Dione_ in quest'anno,
nel quale mancò di vita _Caio_ romano pontefice[2586]. A lui
succedette nella sedia di San Pietro _Marcellino_. Fecondo di vittorie
fu l'anno presente ai principi romani, se pur si può accertare nella
cronologia di quei fatti, fatti per altro certissimi. Costanzo Cesare,
ardendo sempre di voglia di riacquistar la Bretagna, con torla dalle
mani dell'usurpatore _Alletto_[2587], teneva già in ordine buon
esercito e poderose flotte per far vela verso colà. Ma sospettando che
i Franchi ed altri popoli della Germania, allorchè vedessero lui
impegnato nella guerra oltre mare, secondo il lor uso, tentassero
d'inquietar le Gallie, raccomandossi a Massimiano Augusto, padrigno di
sua moglie, pregandolo di venir alla difesa di que' confini. Venne in
fatti, per attestato d'Eumenio, Massimiano al Reno, e bastante fu la
sua presenza a tenere in briglia i popoli nemici. Intanto con ardore
incredibile si mossero le flotte di Costanzo verso la Bretagna. Su
quella ch'era a Gesoriaco, cioè a Bologna di Picardia, s'imbarcò egli;
ed ancorchè il mare fosse gonfio, e poco favorevole il vento, pure
animosamente sciolse dal lido. Pervenuto questo avviso all'altra
flotta preparata alla sboccatura della Senna, accrebbe il coraggio a
quei soldati e marinari in maniera, che al dispetto del tempo
contrario si mossero anch'essi. Era comandante d'essa _Asclepiodoto_
prefetto del pretorio. Riuscì a questa col benefizio d'una densa
nebbia di andar a dirittura con prospero cammino nella Bretagna, senza
essere scoperta da Alletto, che colla sua s'era postato in
osservazione all'isola Vetta, oggidì di Wight. Appena ebbe
Asclepiodoto afferrato il lido, e sbarcate le truppe e le munizioni
tutte, che fece dar fuoco alle navi, acciocchè i suoi, veggendosi
tolta la speranza d'ogni scampo, sapessero che nelle lor sole braccia
era riposta la salute, ed anche per impedir che que' legni non
cadessero in poter de' nemici. Atterrito Alletto parte dalla notizia
che Costanzo veniva contra di lui con una flotta, e che l'altra, già
pervenuta in terra ferma, minacciava tutte le sue città, lasciata
andare l'armata sua navale, co' suoi se ne ritornò anch'egli indietro,
e si mise in campagna contra di Asclepiodoto. Senza aspettare di aver
unite tutte le sue forze, e senza nè pur mettere in ordine di
battaglia quelle che seco avea, coi soli Barbari di suo seguito assalì
egli dipoi i Romani. Rimase sconfitto, ed anch'egli lasciò nel
combattimento la vita, con essersi poi appena potuto discernere il
cadavero suo, per aver egli deposto l'abito imperiale, che avrebbe
potuto farlo conoscere nella zuffa o nella fuga. Ma forse molto più
tardi accadde la caduta di costui. Intanto la flotta, dove era
Costanzo Cesare, più per accidente che per sicura condotta, a cagion
delle folte nebbie, imboccò il Tamigi, e per esso si spinse fino alla
città di Londra. L'arrivo suo fu la salute di quel popolo;
imperciocchè essendosi ridotti colà i Franchi ed altri Barbari che si
erano salvati dalla rotta di Alletto, mentre concertavano fra loro di
dare il sacco alla città, e poi di fuggirsene, eccoli giugnere loro
addosso Costanzo colle sue milizie, e tagliarli lutti a pezzi, con
salvar le vite e i beni di que' cittadini. Così in poco tempo tutto
quel paese della Bretagna, che ubbidiva già all'aquile romane, tornò
alla division di Costanzo, con estremo giubilo di quei popoli, per
vedersi liberi dai tiranni e dai Barbari ausiliarii, e più perchè
trovarono in Costanzo non un nemico, nè un vendicativo, ma un principe
pien di clemenza. Perdonò egli a tutti, ed anche ai complici della
ribellione[2588], e fece restituire ai particolari tutto quanto era
stato loro tolto o dai tiranni passati, o dalle sue medesime milizie.
Così fu restituita le quiete e l'allegrezza alle contrade romane della
Bretagna; e i popoli, non per anche soggiogati in essa, un sommo
rispetto cominciarono ad osservare verso i Romani. Le Gallie anche
esse restarono libere dalle molte vessazioni patite in addietro per
cagione di que' corsari.

A questo medesimo anno, se non falla la Cronica d'Eusebio[2589], si
dee riferir la spedizione di Diocleziano Augusto contra di _Achilleo_
usurpatore dell'Egitto[2590]. Tenne egli assediata per otto mesi
Alessandria, e, secondo Giovanni Malala[2591], le tolse l'uso
dell'acqua, con rompere gli acquidotti. Finalmente entratovi,
dimentico affatto della clemenza, non solamente tolse di vita il
tiranno ed altri suoi complici, ma permise a' suoi soldati il sacco di
quella insigne città, e poi, datole il fuoco, ne fece diroccar le
mura. Innumerabili furono coloro che rimasero spogliati delle lor
facoltà e cacciati in esilio. Una favola sarà il raccontar esso
Malala, che avendo Diocleziano ordinato che non si cessasse di
uccidere gli Alessandrini, finchè il sangue loro non arrivasse ai
ginocchi del suo cavallo, per accidente nell'entrar egli nella città,
inciampando il suo cavallo in un uomo ucciso, si tinse di sangue il
ginocchio. Diocleziano allora comandò che desistessero dalla strage,
per essersi adempiuto il suo giuramento: perlochè quel popolo alzò
dipoi una statua di bronzo al di lui cavallo. Il solo Eumenio da
panegirista adulatore esalta la clemenza di Diocleziano, con cui avea
data la pace all'Egitto; imperciocchè lo stesso Eutropio[2592], oltre
ad altri scrittori[2593], ci assicura ch'egli con somma crudeltà
trattò que' popoli. Galerio Massimiano presso Eusebio[2594] si truova
intitolato _Egiziano_ e _Tebaico_: indizio ch'egli, siccome il bravo
Diocleziano, faticò in quella impresa. Nella Istoria Miscella[2595] è
scritto che Costantino figlio di Costanzo accompagnò Diocleziano colà,
e militando diede più segni del suo valore. Se poi crediamo a
Suida[2596], in questa occasione fece Diocleziano cercare e bruciare
quanti libri potè ritrovare che trattassero d'alchimia, cioè di
cangiare i metalli, convenendoli in oro ed argento. Credono alcuni
che, prestando egli fede a que' decantati segreti, volesse levare a
que' popoli i mezzi da ribellarsi. Più probabile è, che, tenendoli per
cose vane, siccome sono in fatti, egli cercasse di guarir quella gente
da cotal malattia. Quando quei libri avessero contenuto il segreto di
far oro ed argento, non era sì corto di giudizio Diocleziano che gli
avesse dati alle fiamme: avrebbe saputo ritenerli per valersene in suo
pro. Oltre a questo, egli visitò tutto il paese; ed abbiamo da
Procopio[2597], che avendo trovato un gran tratto di paese nell'alto
Egitto confinante coll'Etiopia, o sia colla Nubia, il cui mantenimento
portava più spesa che profitto a cagion delle scorrerie che vi faceano
continuamente i Nubiani, per via di una convenzione lo rilasciò ai
medesimi, con obbligarli a tenere in freno i Blemmii ed altri popoli
dell'Arabia, acciocchè non molestassero l'Egitto. Aggiugne
Olimpiodoro[2598] che Diocleziano, invitato dai Blemmii, andò a
divertirsi nel loro paese, e che loro accordò un'annua pensione per
averli amici: il che a nulla servì col tempo, essendo troppo avvezzi
coloro al mestier del rubare, che tuttavia a' dì nostri continua in
quel paese, altri non essendo stati i Blemmii, se non una nazione
d'Arabi masnadieri. Osserva ancora Procopio che in que' paesi erano
miniere di smeraldi; il che veggo confermato dai moderni viaggiatori,
i quali nondimeno asseriscono non sapersi più il sito di quelle, per
vendetta fatta da un principe d'Arabi, perseguitato indebitamente
dall'avarizia turchesca.

NOTE:

[2586] Anastas. Bibliothecar.

[2587] Eumenes, in Constant. Eutropius. Aurelius Victor.

[2588] Eumenes., Panegyr. Constant., cap. 6.

[2589] Eusebius, in Chron.

[2590] Aurelius Victor, in Epitome. Eutrop., in Breviar.

[2591] Johannes Malala, in Chronograph.

[2592] Eutrop., in Breviar.

[2593] Euseb., in Chron. Orosius et alii.

[2594] Euseb., Hist. Eccl. lib. 8, cap. 17.

[2595] Histor. Miscella in Dioclet.

[2596] Suidas, in Excerpt.

[2597] Procop., de Reb. Pers., lib. 1, cap. 19.

[2598] Olympiodorus, Eclog. in Histor. Byzant.




    Anno di CRISTO CCXCVII. Indizione XV.

    MARCELLINO papa 2.
    DIOCLEZIANO imperadore 14.
    MASSIMIANO imperadore 12.

_Consoli_

MARCO AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la quinta volta e CAIO
GALERIO MASSIMIANO CESARE per la seconda.


_Afranio Annibaliano_ tenne in questo anno la prefettura di Roma. Se
fosse vero che nell'anno presente Eumenio recitata avesse la sua
orazione delle scuole di Autun, come ha creduto il padre Pagi con
altri[2599], sarebbe da dire che in quest'anno fosse già cominciata la
guerra fatta da Galerio Massimiano contro ai Persiani. Ma non è ciò
esente da dubbii, potendo essere che nel corrente anno, o pur nel
seguente, come pensa il Tillemont[2600], quell'orazione venisse
recitata, non contenendo essa indizio certo dell'anno, oltre all'aver
anche alcuni dubitato se Eumenio ne sia l'autore. Sia dunque a me
permesso rammentar qui la guerra persiana di Galerio, giacchè
Eutropio[2601], Eusebio[2602], Idacio[2603] e la Cronica
Alessandrina[2604] la riferiscono dopo la liberazion dell'Egitto:
confessando io nondimeno che Aurelio Vittore[2605] e Giovanni
Malala[2606] sembrano rapportarla al tempo avanti. Zonara[2607] ne
parla come se fossero tutte e due nello stesso tempo succedute.
Regnava allora nella Persia non so se Narseo, o sia Narse, o Narsete,
o pur Vararane, principe ambizioso, che s'era messo in testa di non la
cedere a Sapore, avolo suo, nella gloria di conquistatore. Avea egli
già tolto ai Romani l'Armenia, e con formidabil armata minacciava il
resto dell'Oriente. Diocleziano, per attestato di Lattanzio[2608], non
si sentendo voglia di far pruova del suo valore contra di coloro, per
non incorrere nella sciagura di Valeriano Augusto, diede, secondo il
solito, l'incumbenza d'essa guerra al suo gran campione, cioè a
Galerio Massimiano Cesare, con andarsene egli a riposare in Antiochia
col pretesto di attender ivi alla spedizione di gente e di viveri
all'armata di Galerio a misura de' bisogni. Era Galerio uomo
arditissimo, ed Orosio[2609] parla di due combattimenti contro i
Persiani, ma senza dirne l'esito. Convengono poi tutti gli
storici[2610] che in un d'essi, o pure nel terzo, egli totalmente
rimase sconfitto dai nemici, non già per sua dappocaggine, ma per sua
temerità, avendo voluto con poche schiere de' suoi assalir le
moltissime dei Persiani. Da una o due parole di Eusebio[2611], e da
altre di Eutropio[2612] e di Rufo Festo[2613], ricaviamo che lo stesso
Galerio venne in persona ad informar Diocleziano de' suoi sinistri
avvenimenti; ma fu sì sgarbatamente, e con tale alterigia e sprezzo
ricevuto da Diocleziano, che fu costretto a tenergli dietro per più di
un miglio di viaggio a piedi vicino alla carrozza con tutto il suo
abito di porpora indosso. Potrebbe essere che nel precedente anno
tutto questo avvenisse. Ma per tal disavventura ed ignominia in vece
di perdere il coraggio, Galerio maggiormente si sentì animato alla
vendetta. Raunato dunque un possente esercito[2614], massimamente di
veterani e di Goti nell'Illirico e nella Mesia, con esso passò
nell'Armenia, per azzuffarsi di nuovo col re persiano. Diocleziano
anch'egli con molte forze si avvicinò ai confini della Persia nella
Mesopotamia, per fiancheggiar Galerio, ma lungi dai pericoli. Mirabile
fu questa volta la circospezione e sagacità di Galerio, dopo aver
imparato dianzi alle sue spese. In persona con due soli compagni andò
egli prima a spiare l'armata nemica, e seppe sì ben disporre le
insidie e cogliere il tempo, che, assalito all'improvviso il campo
nemico, superiore bensì di forze, ma impedito da gran bagaglio,
interamente lo disfece con orrido macello della gente persiana. Scrive
Zonara[2615] che il re loro se ne fuggì portando seco per buona
ricordanza del fatto una ferita. Ma restò prigioniera la di lui
moglie, o pure, come altri vogliono, le di lui mogli, sorelle e
figliuoli dell'uno e l'altro sesso, con assaissime altre persone della
prima nobiltà della Persia. Lo spoglio del campo nemico fu d'immense
ricchezze, e ne arricchirono tutti i soldati. Ebbe cura Galerio, per
attestato di Pietro Patrizio[2616], che fossero trattale con tutta
proprietà e modestia le principesse prigioniere: atto sommamente
ammirato dai Persiani, i quali furono forzati a confessare che i
Romani andavano loro innanzi, non meno nel valore dell'armi che nella
pulizia de' costumi. Avrà pena il lettore a credere ad Ammiano
Marcellino[2617], allorchè racconta, che avendo un soldato trovato in
quell'occasione un sacco di cuoio, se pur non fu uno scudo, dove era
gran quantità di perle, gittò via le perle, contento del solo scudo o
sacco: tanto erano allora le armate romane lontane del lusso, e
ignoranti nelle cose di vanità. Certo un grande ignorante dovea essere
costui!

Giovanni Malala[2618] lasciò scritto che Arsane regina di Persia,
rimasta prigioniera, fu condotta ad Antiochia, ed ivi nel delizioso
luogo di Dafne per alcuni anni con tutto onore mantenuta da
Diocleziano, finchè, fatta la pace, fu restituita al marito. Aggiunge
ch'esso Augusto per la vittoria suddetta provar fece a tutte le
province la sua liberalità. Ma non sussiste che per alcuni anni
durasse la prigionia della regina persiana. Imperciocchè Narse, dopo
essere fuggito sino alle parti estreme del suo reame, rivenne in sè
stesso, e spedì a Galerio uno de' suoi più confidenti[2619], per nome
Afarban, affinchè umilmente il pregasse di pace, con dargli un foglio
in bianco per quelle condizioni che più piacessero ad esso Galerio. Nè
altro chiedeva quel re, fuorchè la restituzion delle sue donne e de'
suoi figliuoli, perchè nel resto sperava buon trattamento dalla
generosità romana, la quale non vorrebbe troppo eclissata la monarchia
persiana, cioè uno dei due occhi, o pur dei due soli che si avesse
allora la terra. L'ambasciata andò; e Galerio in collera rispose che
non toccava ai Persiani il domandare ad altrui della moderazion nella
vittoria dopo gl'indegni trattamenti da lor fatti a Valeriano Augusto,
e che egli restava più tosto offeso delle lor preghiere. Nientedimeno
voleva ben ricordarsi del costume de' Romani, avvezzi a vincere i
superbi e resistenti, e a trattar bene chi si sottometteva. Con questo
licenziò l'ambasciatore, dicendogli che il di lui padrone sperasse di
riveder presto persone a lui tanto care. Venne Galerio a Nisibi nella
Mesopotamia, dove si trovava Diocleziano, per conferir seco le
proposizioni del re nemico. Con grande onore fu allora ricevuto, e si
trattò fra loro se si avea da dar mano alla pace. Pretendeva Galerio
che si seguitasse la vittoria[2620], in guisa che si facesse della
Persia una provincia soggetta all'imperio romano. Ma Diocleziano, che
la volea finire, e più dell'altro scorgeva quanto fosse malagevole il
tenere in ubbidienza quel vasto regno, si ridusse a più discrete
pretensioni. Fu dunque spedito a Narse il segretario Sicorio Probo, il
quale, trovato il re nella Media vicino al fiume Asprudis, fu molto
onorevolmente accolto; ma non ebbe sì tosto udienza, perchè Narse
volle dar tempo a' suoi fuggiti dalla battaglia di comparir colà.
L'udienza fu fata alla presenza del solo Afarban e di due altri; e
Probo dimandò che il re cedesse ai Romani cinque provincie poste di
qua dal fiume Tigri verso la di lui sorgente, ciò l'Intelene, la
Sofene, l'Arzacene, la Carduene e la Zabdicene. Pretese inoltre che il
Tigri fosse il divisorio delle monarchie, Nisibi il luogo di commercio
fra le due nazioni; che l'Armenia sottoposta ai Romani arrivasse fino
al castello di Zinta sui confini della Media; e che il re d'Iberia
ricevesse la corona dall'imperatore. A riserva dell'articolo Nisibi,
Narse accordò tutto, e rinunziò ad ogni sua pretensione sopra la
Mesopotamia: con che seguì la pace, e furono restituiti i prigioni.
Gloria ed utilità non poca provenne dalla suddetta vittoria
all'imperio romano; perchè, a testimonianza di Rufo Festo[2621], durò
la stabilita pace sino ai suoi giorni, cioè per quaranta anni,
avendola rotta i Persiani solamente verso il fine del governo di
Costantino, per riaver le provincie cedute, siccome in fatti le
riebbero. Galerio per questa sì fortunata campagna si gonfiò a
dismisura; e, siccome avvertì Lattanzio[2622], prese i titoli fastosi
di _Persico, Armeniaco, Medico_ e _Adiabenico_, quasichè egli avesse
soggiogate tutte quelle nazioni. Quel che è più ridicolo, da lì
innanzi egli affettò il titolo di _figliuolo di Marte_, laonde
Diocleziano cominciò a temer forte di lui. Si sa che nel presentare a
Galerio le lettere di esso Diocleziano col titolo consueto di
_Cesare_, più volte egli esclamò dicendo: _E fin a quando io dovrò
ricevere questo solo titolo?_ Potrebbe essere che nel presente anno
ancora Massimiano Augusto e Costanzo Cloro Cesare riportassero altre
vittorie dal canto loro contra dei Barbari; ma giacchè il tempo
preciso delle loro imprese non si può fissare, parlerò dei loro fatti
negli anni seguenti.

NOTE:

[2599] Pagius, Critic. Baron. De la Baune et alii.

[2600] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2601] Eutrop., in Breviario.

[2602] Eusebius, in Chronic.

[2603] Idacius, in Fastis.

[2604] Chronic. Alexandrinam.

[2605] Aurelius Victor, in Epitome.

[2606] Johannes Malala, in Chronograph.

[2607] Zonaras, in Annalibus.

[2608] Lactantius, de Mortibus Persecutor., cap. 9.

[2609] Orosius, Histor., lib. 7, cap. 25.

[2610] Aurelius Victor, in Epitome. Julianus, Oratione I. Ammianus
Marcellin. et alii.

[2611] Euseb., in Chronic.

[2612] Eutrop., in Breviar.

[2613] Rufus Festus, in Breviar.

[2614] Jordan., de Reb. Getic., cap. 21. Lactantius, de Mortibus
Persecut., cap. 9. Rufus Festus, in Breviar. Eutropius et alii.

[2615] Zonaras, in Annalibus.

[2616] Petrus Patritius, de Legat. Tom. I Histor. Byzant.

[2617] Ammianus Marcellinus, lib. 22.

[2618] Joannes Malala, in Chronogr.

[2619] Petrus Patricius, de Legat. Tom. I Hist. Byzant.

[2620] Aurelius Victor, Epitome.

[2621] Rufus Festus, in Breviario. Libanius, in Basilic.

[2622] Lactantius, de Mortib. Persec.




    Anno di CRISTO CCXCVIII. Indizione I.

    MARCELLINO papa 3.
    DIOCLEZIANO imperadore 15.
    MASSIMIANO imperadore 13.

_Consoli_

ANICIO FAUSTO e VIRIO GALLO.


Così ho io descritto i nomi di questi consoli, appoggiato a due
iscrizioni che si leggono nella mia Raccolta[2623], senza dare a
_Fausto_ il secondo consolato, come alcuno ha tenuto; e con chiamare
il secondo console _Virio_, e non _Severo_, come fa la Cronica
Alessandrina. _Artorio Massimo_, per attestato degli antichi
cataloghi, fu prefetto di Roma in questo anno. Potrebbe essere che
all'anno presente appartenesse la guerra fatta da Costanzo Cesare
contra degli Alamanni. Eusebio[2624] la riferisce circa questi tempi.
Eutropio[2625] e Zonara[2626] ne parlano prima della guerra di Persia.
Erano in armi gli Alamanni, e con poderoso esercito venuti alla volta
di Langres nelle Gallie, sorpresero in maniera Costanzo, che fu
forzato a ritirarsi precipitosamente colle sue genti. Pervenuto a
quella città, vi trovò chiuse le porte, per timore che v'entrassero i
nemici. Se volle salvarsi, gli convenne farsi tirar su per le mura con
delle corde. Ma raccolte in meno di cinque ore tutte le sue milizie,
coraggiosamente uscì addosso ai nemici, li sbaragliò, e ne fece restar
freddi sul campo sessantamila, come ha il testo latino di Eusebio,
Eutropio, Orosio[2627] e Zonara. Ma chi è pratico delle guerre, e sa
che d'ordinario troppo da' parziali s'ingrandiscono le vittorie, avrà
ben ragionevolmente dubbio, che invece di sessantamila s'abbia a
leggere sei mila, come appunto sta nel testo greco di Eusebio e di
Teofane[2628]. In questa battaglia restò ferito Costanzo. Eutropio
dopo sì gloriosa vittoria seguita a dire che Massimiano Augusto
nell'Africa terminò la guerra contro ai Quinquegenziani con averli
domati, e costretti a chieder pace, ch'egli loro non negò.

NOTE:

[2623] Thesaurus Novus Inscript., pag 370.

[2624] Euseb., in Chron.

[2625] Eutrop., in Breviar.

[2626] Zonaras, in Annalibus.

[2627] Orosius, lib. 7, cap. 25.

[2628] Teophanes, in Chronico.




    Anno di CRISTO CCXCIX. Indizione II.

    MARCELLINO papa 4.
    DIOCLEZIANO imperadore 16.
    MASSIMIANO imperadore 14.

_Consoli_

CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per la settima volta e MARCO
AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la sesta.


Fu in quest'anno esercitata la prefettura di Roma da _Anicio Fausto_.
Da che Diocleziano Augusto ebbe scelto per sè il governo dell'Oriente,
per l'affetto da lui preso a quel soggiorno, si diede ad abbellir di
nuove fabbriche l'insigne città di Antiochia, cioè la Roma di quelle
contrade; ma specialmente v'attese da che ebbe ricuperato l'Egitto, e
terminata felicemente la guerra co' Persiani, per essere succeduta
un'invidiabil pace. Giovanni Malala[2629], siccome di patria
Antiocheno, merita ben qualche fede, allorchè descrive le sontuose
opere di lui in ornamento d'Antiochia, e per sicurezza delle frontiere
romane. Scrive egli dunque che in quella città fabbricò un vasto
palazzo, di cui già avea Gallieno gittati i fondamenti, siccome ancora
un bagno pubblico vicino al circo, a cui diede il nome di terme
diocleziane. Furono ancora, d'ordine suo, fabbricati i pubblici
granai, per riporvi i grani, con regolar le misure del frumento e
delle altre cose venali, affinchè i mercatanti non venissero
danneggiati dai soldati. Inoltre fabbricò nel luogo di Dafne lo
stadio, acciocchè ivi dopo i giuochi olimpici si coronassero i
vincitori. Quivi ancora eresse i templi di Giove Olimpico, di Apolline
e di Nemesi, incrostandoli di marmi pellegrini. Parimente fabbricò
sotterra un tempio ad Ecate, al quale si scendeva per trecento
sessantacinque gradini; e in Dafne un palazzo, dove potessero
alloggiar gl'imperadori andando colà, quando in addietro stavano sotto
le tende. Quivi pure, siccome ancora in Edessa e in Damasco, dispose
botteghe, per lavorarvi ogni sorta d'armi ad uso della guerra, e per
impedir le frequenti scorrerie degli Arabi. Oltre a ciò, in Antiochia
da' fondamenti eresse una zecca, e fra alcuni altri bagni uno, a cui
diede il nome di senatorio. Nè questo bastò al suo magnifico genio. Si
applicò ancora ad alzar castella e fortezze ai confini, mettendo
guarnigioni di soldati dappertutto; e valenti capitani per custodir
quelle frontiere. Abbiamo confermata da Ammiano[2630] questa diligenza
di Diocleziano, siccome ancora da Procopio[2631], i quali scrivono
aver egli specialmente fortificato di mura e di torri il castello di
Cercusio, o sia Circesio, nella Mesopotamia. L'autore[2632] inoltre
della orazione pel ristoramento delle scuole in Autun, parla di varie
città già deserte, e divenute covili di fiere, le quali dalla
diligenza degli Augusti e Cesari di questi tempi erano state rimesse
io buono stato e popolate. Fa egli eziandio menzione delle fortezze
alzate al Reno, al Danubio, all'Eufrate per guardia del paese romano.
Se vogliamo stare alla testimonianza di Idacio[2633], ebbe Massimiano
Augusto guerra in quest'anno coi Marcomanni, popoli della Germania, e
fracassò le loro squadre: della qual vittoria fecero anche menzione
Eutropio[2634] ed Aurelio Vittore[2635].

NOTE:

[2629] Joannes Malala, in Chronogr.

[2630] Ammianus, lib. 23, cap. 11.

[2631] Procop., de Ædicti., lib. 1, cap. 6.

[2632] Eumen., Orat. de Schol. restaurand.

[2633] Idacius, in Fastis.

[2634] Eutrop., in Breviar.

[2635] Aurelius Victor, in Epitome.




    Anno di CRISTO CCC. Indizione III.

    MARCELLINO papa 5.
    DIOCLEZIANO imperadore 17.
    MASSIMIANO imperatore 15.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANZO CESARE per la terza volta e CAIO VALERIO
GALERIO MASSIMIANO CESARE per la terza.


L'essere nominato _Costanzo_ Cesare ne' Fasti prima di _Galerio_,
avvalora l'opinion di coloro che gli attribuiscono la preminenza,
allorchè egli fu eletto Cesare. _Appio Pompeo Faustino_, secondo gli
antichi Cataloghi[2636], esercitò in quest'anno la prefettura di Roma.
Alcune leggi, che si possono riferire all'anno presente, ci fan vedere
Diocleziano dimorante in questi tempi nelle città della Tracia e
dell'Illirico, e massimamente a Sirmio. Il dirsi poi da Eutropio[2637]
che dopo la guerra persiana furono vinti i Sarmati, e domati i popoli
Carpi e Bastarni, se veramente riguardasse l'anno presente, ci farebbe
intendere perchè Diocleziano si trattenesse in quelle parti della
giurisdizion di Galerio, cioè per secondare le di lui militari imprese
contra di que' Barbari. Ma per conto de' Carpi e Bastarni, la Cronica
d'Eusebio[2638] ce li rappresenta molto prima soggiogati, e
trasportati ad abitar nelle provincie romane. Parla il medesimo
Eusebio delle terme diocleziane che si cominciarono a fabbricare
(secondochè crede il padre Pagi)[2639] circa questi tempi in Roma, e
furono poi compiute da Costantino; fabbrica di maravigliosa mole, di
cui son da vedere gli scrittori che hanno illustrato Roma antica.
Similmente Massimiano Erculio Augusto si applicò ad edificar le terme
massimiane in Cartagine. Frequentissimo in questi secoli era
dappertutto l'uso dei bagni, che pure troviamo da sì lungo tempo
dismesso per quasi tutta l'Europa.

NOTE:

[2636] Panvin., in Fastis Consul.

[2637] Eutrop., in Breviario.

[2638] Eusebius, in Chron.

[2639] Pagius, Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CCCI. Indizione IV.

    MARCELLINO papa 6.
    DIOCLEZIANO imperadore 18.
    MASSIMIANO imperadore 16.

_Consoli_

TIZIANO per la seconda volta e NEPOZIANO.


Si parla in un'iscrizione pubblicata dal Fabretti[2640] di un _Tito
Flavio Postumio Tiziano console_. Egli da me è creduto quegli stesso
che in quest'anno procedette console, perciocchè noi vedremo all'anno
505 _Postumio Tiziano_ prefetto di Roma. Per l'anno presente quella
prefettura fu data ad _Elio Dionisio_. Eusebio[2641] riferisce un
orribil tremuoto che in questi tempi si fece sentire in Sidone e Tiro,
colla rovina di moltissimi edifizii, ed oppressione di popolo
innumerabile. Quali imprese in questi tempi facesse Costanzo Cloro
Cesare nelle Gallie, non sappiam dirlo, nè a qual anno appartenga il
raccontarsi da Eumenio[2642], nel panegirico a Costantino Augusto, che
Costanzo suo padre nei campi di Vindone, creduto oggidì un luogo nel
cantone di Berna, fece una grande strage di nemici. Oltre a ciò,
essendo passata una sterminata moltitudine di nazioni germaniche col
benefizio del ghiaccio nella grande isola formata dal Reno, cioè nella
Batavia, allo improvviso scioltosi il ghiaccio, restò ivi di maniera
ristretta, che fu obbligata a rendersi prigioniera a Costanzo. Non è
improbabile che verso questi tempi un tal fatto accadesse.

NOTE:

[2640] Fabrettus, Inscript., pag. 208.

[2641] Euseb., in Chron.

[2642] Eumenes, Panegyric. Const.




    Anno di CRISTO CCCII. Indizione V.

    MARCELLINO papa 7.
    DIOCLEZIANO imperadore 19.
    MASSIMIANO imperadore 17.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANZO CESARE per la quarta volta e CAIO VALERIO
MASSIMIANO CESARE per la quarta.


_Nummio Tosco_ esercitò in quest'anno la carica di prefetto di Roma.
Gran carestia si patì in Oriente, ed arrivò ad una esorbitanza il
prezzo de' grani[2643]. Nel ripiego che prese in tal congiuntura
Diocleziano, si desiderò la prudenza; imperciocchè ordinò che ad un
prezzo mediocre si vendesse il grano: dal che venne che i mercanti non
ne vendevano più, nè faceano venirne da lontani paesi: sicchè crebbe
di lunga mano la penuria e la fame, e succederono sedizioni ed
ammazzamenti, con essere in fine costretto l'imperadore a levar quella
tassa, e a lasciare che il mondo per questo conto si governasse da sè
stesso. Può essere che tale carestia si stendesse anche allo Egitto,
paese per altro scelto a pascere gli altri coll'abbondanza sua.
Certamente abbiamo dalla Cronica di Alessandria[2644] e da
Procopio[2645] che Diocleziano assegnò alcuni milioni di misure di
grano, da darsi annualmente in dono ai poveri di quel paese, con
distribuirlo per famiglie: liberalità che durò sino ai tempi di
Giustiniano Augusto, e sotto di lui cessò. Abbiamo da Aurelio
Vittore[2646] che furono dai due Augusti pubblicate delle giustissime
leggi per la quiete pubblica e buono stato delle città, e sopra tutto
fu abolito l'uffizio dei frumentarii, cioè di spie, ossia
d'inspettori, che si mandavano nelle provincie per indagare se v'erano
movimenti, abusi e doglianze. Sembra che sul principio un tal impiego
fosse onorevole, e ne ridondasse buon utile al pubblico, perchè,
informati gli Augusti dei disordini occorrenti, vi rimediavano. Ma nel
progresso del tempo, giusta il costume delle umane cose, il buon
istituto degenerò in una vera peste; perchè costoro, con inventar
mille false accuse, assassinavano chiunque lor non piaceva, o non si
comperava la loro amicizia; e facendo paura anche ai più lontani,
mettevano in contribuzione tutti i paesi. Inoltre buoni regolamenti
furono fatti per mantenere l'abbondanza de' viveri in Roma, e perchè
puntualmente fossero pagate le milizie e promosse le persone
meritevoli, e gastigati i malfattori. Finalmente si continuò a cingere
di belle e forti mura la città di Roma, e ad abbellir l'altre città
con delle nuove e magnifiche fabbriche: il che particolarmente fu
fatto in Cartagine, Nicomedia e Milano. Fra gli altri suntuosi
edificii Massimiano Erculio Augusto in questa ultima città fece
fabbricar le terme, o vogliam dire i bagni, che presero la
denominazione da lui. Ne fa menzione Ausonio[2647] nella descrizion
delle primarie città. Non si può negare, v'erano motivi per poter
appellar felice allora lo stato dell'imperio romano; ma, siccome
aggiugne lo stesso Aurelio Vittore, neppure allora mancavano pubblici
guai e sconcerti. La nefanda libidine di Massimiano Erculio Augusto
cagionava non pochi lamenti, non perdonando egli neppure agli ostaggi;
e Diocleziano, per non isconciar la quiete e gl'interessi suoi
proprii, nè rompere la concordia con esso Massimiano e con Galerio
Cesare, chiudeva gli occhi, lasciando far loro quanto volevano
d'ingiustizie e prepotenze. Peggio ancora operò nell'anno seguente,
come fra poco vedremo.

NOTE:

[2643] Idacius, in Fastis. Lactantius, de Mort. Persecut., cap. 7.

[2644] Chron. Alexandrin.

[2645] Procop., in Histor. arc.

[2646] Aurelius Victor, in Epitome.

[2647] Ausonius, de Urbibus.




    Anno di CRISTO CCCIII. Indizione VI.

    MARCELLINO papa 8.
    DIOCLEZIANO imperadore 20.
    MASSIMIANO imperadore 18.

_Consoli_

CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per l'ottava volta e MARCO
AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la settima.


L'uffizio di prefetto di Roma fu appoggiato a _Giunio Tiberiano_[2648]
in questo anno; anno non so s'io dica di funesta, oppur di gloriosa
memoria alla religione cristiana. Funesto, perchè in esso fu mossa la
più orrida persecuzione che mai patisse in addietro la fede di Cristo;
glorioso, perchè questa fede si mirò sostenuta da innumerabili
campioni sprezzatori dei tormenti e della morte, e che col loro
martirio accrebbero i cittadini al cielo[2649]. Per testimonianza di
Lattanzio[2650], fin l'anno di Cristo 298, perchè nel sagrificare agli
idoli niun segno si vedeva nelle viscere delle vittime per predir
l'avvenire, come si figurarono i troppo crudeli pagani, gli aruspici
attribuirono questo sconcerto al sospetto o alla certezza che fosse
presente qualche cristiano. Allora Diocleziano in collera ordinò che
non solamente tutte le persone di corte, fra le quali non poche
professavano la religione cristiana, ma anche i soldati per le
provincie sagrificassero agl'idoli, sotto pena d'essere flagellati e
cassati. Alcuni pochi per questo ordine sostennero anche la morte, ma
per allora gran rumore non si fece. Avvenne che Diocleziano Augusto e
Galerio Cesare suo genero unitamente passarono il verno di quest'anno
nella Bitinia, nella città di Nicomedia. In quei tempi, come confessa
Eusebio, per la lunga pace s'era bensì in mirabil forma dilatata la
religion di Cristo, coll'erezion d'infiniti templi nelle stesse città
per tutte le provincie romane; ed innumerabil popolo era già divenuto
quello degli adoratori della croce per l'Oriente e per l'Occidente. Ma
il loglio era anche col grano; già fra gli stessi cristiani s'udivano
eresie, si mirava l'invidia, la frode, la simulazione e l'ipocrisia
cresciuta fra loro. E fino i vescovi mal d'accordo insieme disputavano
di precedenze, l'un mormorando dell'altro, con giugnere poi le lor
gregge ad ingiurie e sedizioni, e a dimenticare i doveri e i bei
documenti di sì santa religione. Giacchè niun pensava a placar Dio,
volle Dio farli ravvedere, volle con leggier braccio gastigar le loro
negligenze, lasciando che i pagani sfogassero l'antico lor odio contra
del suo popolo eletto[2651]. Galerio Cesare quegli fu che accese il
fuoco. Costui da sua madre, donna di villa, asprissima nemica de'
cristiani, imparò ad abborrirli, e ne avea ben dati in addietro dei
fieri segni; ma in quest'anno decretò di sterminarli affatto.
Trovandosi egli dunque in Nicomedia col suocero Diocleziano, quando
ognuno credeva che amendue per tutto il verno trattassero in secreti
colloqui dei più importanti affari di stato, si venne a sapere che la
sola rovina de' cristiani si maneggiava ne' lor gabinetti. Galerio,
dissi, era l'ardente promotore di quest'empia impresa. Diocleziano
fece quanta difesa potè, dicendo che pericolosa cosa era l'inquietar
tutto il mondo romano; e che a nulla avrebbe servito, perchè i
cristiani erano usati a sofferir la morte per tener salda la lor
religione; e che, per conseguente, sarebbe bastato il solamente
vietarla ai cortigiani e soldati. Fece istanza Galerio che si udisse
il parer d'alcuni uffiziali della corte e dalla milizia. Costoro
aderirono tutti a Galerio. Volle parimente Diocleziano udir sopra ciò
gli oracoli dei suoi dii e dei sacerdoti gentili. Senza che io lo
dica, ognuno concepisce qual dovette essere la loro risposta. Fu
dunque stabilito di dar all'armi contra dei professori della fede di
Cristo; e Galerio pretendeva che eglino si avessero da bruciar vivi;
ma Diocleziano per allora solamente accordò che senza sangue si
procedesse contra di loro.

Diedesi principio a questa lagrimevol tragedia, per attestato di
Lattanzio, nel dì 25 di febbraio dell'anno presente, in cui il
prefetto del pretorio con una man di soldati si portò alla chiesa di
Nicomedia, posta sopra una eminenza in faccia al palazzo imperiale.
Rotte le porte, si cercò invano la figura del Dio adorato dai
cristiani. Vi si trovavano bensì le sacre scritture, che furono tosto
bruciate, e dato il saccheggio a tutti gli arredi e vasi sacri.
Stavano intanto i due principi alla finestra, da cui si mirava la
chiesa, disputando fra loro, perchè Galerio insisteva che se le desse
il fuoco, ma con prevalere la volontà di Diocleziano, che quel tempio
si demolisse, per non esporre al manifesto pericolo d'incendio le case
contigue. Restò in poche ore pienamente eseguito il decreto, e nel dì
seguente si vide pubblicato un editto[2652], con cui si ordinava
l'abbattere sino ai fondamenti tutte le chiese dei cristiani, il dar
alle fiamme tutti i lor sacri libri, con dichiarar infame ogni persona
nobile, e schiavo ciascun della plebe che non rinunziasse alla
religion di Cristo. Tale sul principio fu l'imperial editto, a cui
poscia fu aggiunto che si dovessero cercar tutti i vescovi, ed
obbligarli a sagrificare ai falsi dii. Finalmente si arrivò a
praticare i tormenti e le scuri; onde poi venne tanta copia di martiri
che illustrarono la fede di Gesù Cristo, e servirono col loro sangue a
maggiormente assodarla e a renderla trionfante nel mondo. Poco dopo la
pubblicazion di questo editto si attaccò il fuoco due volte al palazzo
di Nicomedia[2653], dove abitavano Diocleziano e Galerio, e bruciò
buona parte. Costantino, che fu poscia Augusto, e si trovava allora in
quella città, in una sua orazione[2654] ne attribuisce la cagione ad
un fulmine e fuoco del cielo. Lattanzio tenne, all'incontro, per certo
che autor di quell'incendio fosse lo stesso Galerio Cesare, par
incolparne poscia i cristiani, e maggiormente irritar Diocleziano
contra di loro, siccome avvenne. Non aspetti da me il lettore altro
racconto di questa famosa terribil persecuzione del popolo cristiano,
dovendosi prendere la serie della medesima da Eusebio[2655], dal
cardinal Baronio[2656], dal Tillemont[2657], dagli Atti dei santi del
Bollando[2658], in una parola dalla Storia ecclesiastica.

Circa questi tempi, per quanto si raccoglie da Eusebio[2659],
tentarono alcuni di farsi imperadori nella Melitene, provincia
dell'Armenia, e nella Soria. Di tali movimenti altro non sappiamo se
non ciò che il Valerio osservò presso Libanio sofista[2660]: cioè che
un certo Eugenio capitano di cinquecento soldati in Seleucia fu
forzato dai medesimi a prendere la porpora, perchè non poteano più
reggere alle fatiche loro imposte di nettare il porto di quella città.
S'avvisò egli di occupare Antiochia, ed ebbe anche la fortuna di
entrarvi con quel pugno di gente; ma sollevatosi contra di lui il
popolo d'essa città, non passò la notte che tutti quei masnadieri
furono morti o presi. La bella ricompensa che per questo atto di
fedeltà ebbero gli Antiocheni da Diocleziano, fu che i principali
uffiziali delle città d'Antiochia e Seleucia furono condannati a morte
senza forma di processo e senza concedere loro le difese. Questo atto
di detestabil crudeltà rendè sì odioso per tutta la Soria il nome di
Diocleziano, che anche novanta anni dappoi, cioè ai tempi di Libanio,
il cui avolo paterno fra gli altri perdè allora la vita, con orrore si
pronunziava il suo nome. Abbiamo poi da Lattanzio[2661] che
Diocleziano si portò a Roma in quest'anno per celebrarvi i vicennali,
che cadevano nel dì 20 di novembre. Hanno disputato intorno a questo
passo il padre Pagi[2662], il Tillemont[2663] ed altri, cercando quai
vicennali si debbano qui intendere, e come cadessero questi in quel
giorno. Non entrerò io in sì fatti litigii, e solamente dirò che
oggidì son d'accordo i letterati in credere celebrato in quest'anno, e
non già nel precedente, come porta il testo della Cronica di
Eusebio[2664], il trionfo romano d'esso Diocleziano, al quale, per
attestato d'un antico panegirista[2665], intervenne anche Massimiano
Augusto, siccome partecipe delle vittorie fin qui riportate contro ai
nemici del romano imperio. Con ciò che abbiam detto di sopra all'anno
297 della pace seguita col re di Persia, secondo la riguardevol
autorità di Pietro Patrizio[2666], pare che s'accordi ciò che
lasciarono scritto il suddetto Eusebio ed Eutropio[2667]: cioè che
davanti al cocchio trionfale furono condotte le mogli, le sorelle o i
figliuoli di Narse re di Persia, i quali già dicemmo restituiti molto
prima. Si può verisimilmente credere che solamente in figura, ma non
già in verità, comparissero in quel trionfo le principesse e i
principi suddetti. Parla ancora Eutropio di sontuosi conviti dati in
questa occasione da Diocleziano, ma non già di solenni giuochi,
siccome costumarono i precedenti Augusti; perchè egli, studiando il
più che potea, il risparmio, si rideva di Caro e d'altri suoi
predecessori, che, secondo lui, scialacquavano il danaro nella vanità
di quegli spettacoli[2668]. Uscirono perciò contra di lui varie
pasquinate in Roma; e non potendo egli sofferire cotanta libertà ed
insolenza, giudicò meglio di ritirarsi da Roma, e di andarsene a
Ravenna verso il fine dell'anno, senza voler aspettare il primo dì
dell'anno seguente, in cui egli dovea entrar console per la nona
volta. Ma essendo la stagione assai scomoda a cagion del freddo e
delle pioggie, egli contrasse nel viaggio delle febbri, leggiere sì,
ma nondimeno costanti, che l'obbligarono sempre ad andare in lettiga.
I cristiani, allora vessati in ogni parte, cominciarono a conoscere la
mano di Dio contra di questo lor persecutore. Dissi in ogni parte; ma
se n'ha da eccettuare il paese governato da Costanzo Cesare, cioè la
Gallia; imperciocchè, per attestato di Lattanzio[2669], essendo quel
principe amorevolissimo verso i cristiani, ed estimatore delle lor
virtù, volle bensì, per non comparir discorde da Diocleziano capo
dell'imperio, che fossero atterrate le lor chiese, ma che niun danno o
molestia venisse inferita alle persone. Anzi, se dice vero
Eusebio[2670], furono anche salve le chiese nel paese di sua
giurisdizione; o se pur ne furono distrutte alcune, ciò provenne dal
furor dei pagani, ma non da comandamento alcuno di Costanzo. Come poi
si dica che non mancassero anche alla Gallia i suoi martiri, bollendo
la persecuzione suddetta, è da vedere il padre Pagi all'anno presente.
Abbiamo poi dal sopra citato Lattanzio[2671] che nel tempo dei
vicennali una nazion di Barbari, cacciata dai Goti, si rifugiò sotto
l'ali di Massimiano Augusto, la qual poi presa nelle guardie da
Galerio, e indi da Massimino, in vece di servire ai Romani, li
signoreggiò e calpestò col tempo.

NOTE:

[2648] Bucherius, de Cyclo.

[2649] Euseb., Hist. Eccl., lib. 8, c. 1, et in Chron.

[2650] Lactantius, de Mortib. Persecutor., cap. 9 et 10.

[2651] Lactantius, de Mort. Persecutor., cap. 9 et 10.

[2652] Euseb., Histor. Eccles., lib. 8, cap. 2.

[2653] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 14.

[2654] Constantinus, in Oration. apud Eusebium.

[2655] Euseb., Histor. Eccles., lib. 8.

[2656] Baronius, in Annalib.

[2657] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2658] Acta Sanctorum Bolland.

[2659] Eusebius, lib. eod., cap. 6.

[2660] Liban., Oration. 14 et 15.

[2661] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 17.

[2662] Pagius, Critic. Baron. ad annum 298.

[2663] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2664] Eusebius, in Chronic.

[2665] Incertus, in Paneg. Max. et Const., cap. 8.

[2666] Petrus Patricius, de Legation., tom. I Hist. Byzant.

[2667] Eutrop., in Breviario.

[2668] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 17.

[2669] Idem, cap. 15.

[2670] Euseb., Hist. Eccl., lib. 7. cap. 13.

[2671] Lactantius, cap. 38.




    Anno di CRISTO CCCIV. Indizione VII.

    MARCELLINO papa 9.
    DIOCLEZIANO imperadore 21.
    MASSIMIANO imperadore 19.

_Consoli_

CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per la nona volta e MARCO
AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la ottava.


Prefetto di Roma noi troviamo nell'anno presente _Araclio Ruffino_.
Appena ebbe principio la persecuzion decretata da Diocleziano e
Massimiano Augusti, e da Galerio Cesare contro i seguaci della
religion cristiana, che nello stesso tempo l'ira di Dio cominciò a
farsi sentire sopra questi persecutori, che crudelmente spargevano il
sangue de' giusti; di modo che svanì ogni lor pace e grandezza; e
l'imperio romano, già ridotto ad un florido stato, tornò ad essere un
caos di rivoluzioni e calamità. Già dicemmo che il capo de'
persecutori predetti, cioè Diocleziano, caduto infermo nell'anno
precedente, era venuto a Ravenna. Quivi stando, procedette console per
la nona volta nelle calende di gennaio, e per isperanza di ricuperar
la salute, vi si fermò tutta la state. Ma veggendo che il male, in
vece di prendere buona piega, sembrava che peggiorasse, determinò di
passare all'aria più salutevole della Tracia; e tanto più perchè gli
premeva di dedicare il circo che egli avea fatto fabbricare a
Nicomedia. Facevansi intanto dappertutto preghiere ai sordi dii del
paganesimo per la conservazion della sua vita. Per la Venezia, per
l'Illirico e per le rive del Danubio, arrivò egli finalmente a
Nicomedia, dove da tal languidezza fu oppresso, che nel dì 13 di
dicembre corse voce di sua morte: il che riempiè tutta la corte di
lagrime e di sospetti, e per la città si giunse fino a dire che era
stata data sepoltura al suo corpo. Ma egli viveva, con tale
indebolimento nondimeno di cervello, che di tanto in tanto delirava; e
quantunque non mancassero persone, le quali l'attestavano vivo, pure
non pochi sospettavano che si tenesse occulta la sua morte per dar
tempo a Galerio Cesare di venire, e d'impedire che i soldati non
facessero delle novità. Ma noi nulla sappiamo delle azioni di Galerio
in quest'anno. Quanto a Massimiano Erculio Augusto, si ricava da un
antico panegirico[2672] ch'egli, essendo console per l'ottava volta,
soggiornò non poco in Roma. Secondo la Cronica di Damaso[2673],
_Marcellino_, romano pontefice, terminò in quest'anno il corso di sua
vita, alcuni han creduto col martirio, ma senza addurne valevoli
pruove. Anche negli antichi secoli sparsero voce i Donatisti ch'egli
nella persecuzione si lasciasse vincere dalla paura, e sacrificasse
agl'idoli: laonde fu poi formata una leggenda, in cui si rappresentava
la di lui caduta, e poi la penitenza, con altre favole, alle quali
l'erudizione degli ultimi secoli ha tagliato affatto le gambe, certo
ora essendo che questo pontefice fu esente da quel reato. La fierezza
poi della persecuzione cagion fu che la sedia di San Pietro stesse
vacante per tre anni, non arrischiandosi alcuno ad empierla, perchè il
furor de' pagani spezialmente si scaricava sopra i pastori della
Chiesa di Dio.

NOTE:

[2672] Incertus, in Panegyr. Maximian. et Constant., cap. 8.

[2673] Anastas. Bibliothec.




    Anno di CRISTO CCCV. Indizione VIII.

    SEDE PONTIFICIA vacante.
    COSTANZO imperadore 1.
    GALERIO MASSIMIANO imper. 1.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANZO CESARE per la quinta volta e CAIO GALERIO
VALERIO MASSIMIANO CESARE per la quinta.


Restò appoggiata nell'anno presente la prefettura di Roma a _Postumio
Tiziano_. Seguitava intanto Diocleziano Augusto il soggiorno suo in
Nicomedia, sempre infermo; se non che nel dì primo di marzo fece forza
a sè stesso[2674], ed uscì il meglio che potè fuori del palazzo per
farsi vedere al popolo, ma sì contraffatto pel male, che appena si
riconosceva quel desso, e in certi tempi ancora si osservava in lui
qualche alienazione di mente. Da lì a poco sopraggiunse Galieno Cesare
a visitarlo, non già per seco rallegrarsi della ricuperata salute, ma
per esortarlo, anzi forzarlo a rinunziare all'imperio. Già aveva egli
tenuto un simile ragionamento a Massimiano Erculio imperadore,
adoperando parole di gran polso, cioè minacciandolo di una guerra
civile, se non deponeva in sue mani il governo. Ora egli sulle prime
si studiò con buone maniere di tirare il suocero Diocleziano a' suoi
voleri, rappresentandogli l'età avanzata, l'infermità e l'inabilità a
più governar popoli, e mettendogli innanzi agli occhi l'esempio di
Nerva Augusto. Al che rispondeva Diocleziano, essere cosa indecente
che chi era stato sul trono, si avesse a ridurre ad una vita umile e
privata; e ciò anche pericoloso, per aver egli disgustato assaissime
persone. Nè valere l'esempio di Nerva, perchè egli sino alla morte
ritenne il suo grado. Che se pur Galerio bramava di alzarsi, tanto a
lui quanto a Costanzo Cloro si conferirebbe il titolo d'Augusto. Ma
Galerio, dopo aver replicato che, in far quattro imperadori, si
sconcerterebbe la forma del governo introdotto dal medesimo
Diocleziano, preso un tuono alto di voce, aggiunse, che s'egli non
voleva cedere, sarebbe sua cura di provvedervi, perchè certo non
voleva più far sì bassa figura, stanco della dura vita di quindici
anni menata nell'Illirico sempre in armi contra de' Barbari, quando
altri godevano le delizie in paesi migliori e tranquilli. Diocleziano
infermo, e che già avea ricevuto lettere di Massimiano coll'avviso di
somiglianti minaccie a lui fatte da Galerio, e colla notizia che
costui andava a questo fine sempre più ingrossando l'esercito proprio;
allora colle lagrime agli occhi si diede per vinto, e restarono
d'accordo tanto egli che Massimiano di deporre l'imperio. Si passò
dunque a trattare dell'elezion di due Cesari. Proponeva Diocleziano
che tal dignità si conferisse a Costantino figlio di Costanzo, e a
_Massenzio_ figlio di Massimiano. Amendue li rigettò l'orgoglioso
Galerio, con dire che Massenzio era troppo pien di vizii, benchè
genero suo; Costantino troppo pien di virtù ed amato dalle milizie; e
che niun d'essi presterebbe a lui l'ubbidienza dovuta; laddove egli
voleva persone che facessero a modo suo. _Ma e chi si farà?_ disse
allora Diocleziano. Rispose Galerio che promoverebbe _Severo_ e
_Daia_, ossia _Daza_, figliuolo d'una sua sorella, ed appellato poco
innanzi _Massimino_, amendue nativi dell'Illirico. Al nome di _Severo_
replicò Diocleziano: _Quel ballerino? quell'ubbriacone, che fa di
notte giorno, e di giorno notte?--Quello appunto, seguitò a dir
Galerio, perchè egli sa onoratamente governar le milizie._ Bisognò che
Diocleziano abbassasse la testa, e si accomodasse ai voleri
dell'altero suo genero. Altro dunque non restò a Diocleziano che di
concertare per via di lettere con Massimiano la maniera e il giorno di
rinunziare l'imperio, e di dar la porpora ai due stabiliti Cesari,
benchè l'insolenza di Galerio, prima anche di parlare a Diocleziano,
era giunta ad inviar Severo ad esso Massimiano, con fargli istanza
della porpora cesarea.

Venne il dì primo di maggio, cioè il giorno concertato per far la
rinunzia suddetta[2675]. Comparve _Diocleziano_ in un luogo Ire miglia
lungi da Nicomedia, dove già lo stesso Galerio molti anni prima era
stato creato Cesare. Quivi alzato si mirava un trono, quivi era
disposta in ordinanza la corte ed armata tutta. Costantino anch'egli,
siccome tribuno di prima riga, v'intervenne, e gli occhi di tutti
stavano rivolti verso di lui, sperando, anzi tenendo per fermo che
sarebbe egli l'eletto per la cesarea dignità: quand'ecco Diocleziano,
dopo aver colle lagrime agli occhi confessata h sua inabilità e il
bisogno di riposo, e dichiarati i due nuovi Augusti _Costanzo Cloro_ e
_Galerio Massimino_, pronunzia Cesari _Severo_ e _Massimino_.
Stupefatti i soldati, cominciarono a guardarsi l'un l'altro, con
chiedere se forse si fosse mutato il nome a Costantino. In questo
mentre Galerio fece venire innanzi _Daia_, chiamato _Massimino_: e
Diocleziano, cavatasi di dosso la porpora, con essa ne vestì il
novello Cesare: cioè chi cavato negli anni addietro dal pecoraio e
dalle selve, prima fu semplice soldato, poi soldato nelle guardie,
indi tribuno, e finalmente Cesare; non più pastore di pecore, ma di
soldati, ed assunto a governare, cioè a calpestar l'Oriente, benchè
nulla s'intendesse nè di milizie nè di governo di popoli.
_Diocleziano_, ripigliato il suo nome di _Diocle_, fu mandato in
carrozza a riposare in Dalmazia patria sua; e si fermò a Salona. Nè
sussiste il dirsi da Malala[2676] ch'egli fece la rinuncia in
Antiochia, e prese l'abito de' sacerdoti di Giove in quella città.
Galerio Augusto e Massimino Cesare presero le redini, e cominciarono
nuove tele per salire anche più alto. Trovavasi allora _Massimiano
Erculio_ Augusto in Milano, città, dove solea soggiornar volentieri.
Già accennai che quivi egli avea fabbricate suntuose terme. Si può
credere che vi edificasse, come lasciò scritto Galvano dalla
Fiamma[2677], il palazzo imperiale, e un tempio ad Ercole, creduto
oggidì la basilica di San Lorenzo. In essa città[2678] nel medesimo dì
primo di maggio, secondo il concerto, anche lo stesso Massimiano
imperadore depose la porpora; dichiarò _Costanzo Cloro Augusto_ e
_Severo Cesare_: il che fatto, per attestato di Eutropio[2679] e di
Zosimo[2680], la cui Storia, mancante negli anni addietro, torna qui a
risorgere, si ritirò nei luoghi più deliziosi della Lucania, parte
oggidì della Calabria, non già per riposare, siccome vedremo, ma per
aspettar venti più favorevoli alla sua non ancor domata ambizione. Il
racconto fin qui fatto, e quanto succedette dipoi, ci fa conoscere che
questi non per grandezza d'animo, come Aurelio Vittore, Eutropio ed
altri gentili dissero, ma per forza lor fatta deposero lo scettro.
Sicchè noi miriamo passato l'imperio romano in due novelli Augusti,
cioè in _Costanzo Cloro_ e in _Galerio_, appellato _Massimiano il
giovine_, a distinzione del vecchio deposto; e in due nuovi Cesari,
cioè in _Severo_ e _Massimino_. Le porzioni loro assegnate furono le
seguenti. A _Costanzo_ toccò la Gallia, l'Italia e l'Africa, e per
conseguente anche la Spagna e Bretagna. A _Galerio_ tutta l'Asia
romana, l'Egitto, la Tracia e l'Illirico. Ma, per attestato di
Eutropio[2681] e di Aurelio Vittore[2682], Costanzo, contento del
titolo e dell'autorità augustale, e delle provincie a lui già
commesse, lasciò a Severo Cesare la cura dell'Italia, e probabilmente
ancora dell'Africa, che nel comparto precedente andava unita con essa
Italia, dovendo nondimeno esso Severo[2683], a tenore del regolamento
già fatto, dipendere dai cenni di esso Costanzo. Per segno di questo,
come consta dalle medaglie[2684], prese egli il nome di _Flavio
Valerio Severo_. Nella stessa guisa _Massimiano Cesare_ dovea prestare
ubbidienza a Galerio Augusto suo zio materno.

Già abbiamo detto come costui fosse vilmente nato. Aggiungasi ora
ch'egli era una sentina di vizii[2685]. Spezialmente predominava in
lui l'amore del vino, per cui sovente usciva di cervello; e perchè in
quello stato ordinava cose pregiudiziali anche a sè stesso, ebbe poi
tanto giudizio da ordinare che da lì innanzi nulla si eseguisse di
quello ch'egli comandava dopo il pranzo o dopo la cena, se non nel
giorno seguente. A questo vizio tenne dietro un'esecrabil lascivia, ed
una non inferior crudeltà, ch'egli massimamente sfogò contra de'
cristiani, de' quali fu fiero nemico ed asprissimo persecutore. Di che
peso fosse costui, troppo lo provarono i popoli da lui governati,
perchè da lui caricati d'insoffribili imposte, in guisa che sotto di
lui restarono impoverite e spogliate le provincie, tutto rubando egli,
per darlo ai suoi cortigiani e soldati. Vero è che Vittore gli dà la
lode d'uomo quieto ed amator de' letterati; ma, secondo Eusebio, non
si sa ch'altri egli amasse, se non i maghi ed incantatori, i quali
erano i suoi più favoriti. Siccome apparisce dalle medaglie[2686],
questo barbaro Daia o Daza si vede appellato _Caio Galerio Valerio
Massimino_. A cosini, secondo Eusebio[2687], non lasciò Galerio tutto
l'Oriente in governo, ma solamente la Soria e l'Egitto. Siccome dissi,
Costantino, deluso dalle sue speranze[2688], tuttavia dimorava a
Nicomedia nell'annata del fu imperador Diocleziano, presso il quale
s'era fin qui trattenuto, come ostaggio della fedeltà di Costanzo già
Cesare, ed ora Augusto. Ed appunto in questi tempi esso suo padre con
varie lettere andava facendo istanza a Galerio che gli si rimandasse
il figliuolo per desiderio di rivederlo, massimamente da che si
sentiva malconcio di sanità. Galerio avea delle altre mire per non
lasciarlo andare. Imperciocchè, considerando il natural di Costanzo,
assai dolce e pacifico, per cui lo sprezzava, e molto più la
disposizione in lui di corta vita, a cagion degl'incomodi di sua
salute, colla giunta ancora di poter egli disporre dei due Cesari a
talento suo, siccome sue creature: già si teneva egli in pugno il
dominio di tutto l'imperio romano per la morte di Costanze; e quando
occorresse, colla superiorità delle sue forze. Perciò, avendo in mano
Costantino, non si sentiva voglia di licenziarlo, anzi nulla più
desiderava che di torsi dagli occhi questo ostacolo al suo maggiore
innalzamento, con levargli la vita. Ma non osava di farlo apertamente,
perchè non gli era ignoto quanto affetto portasse l'esercito a questo
giovane principe, dotato di mirabili qualità. Ricorse pertanto alle
insidie e frodi. Prassagora, storico[2689], il quale si crede che
vivesse sotto lo stesso Costantino, o pur sotto i di lui figliuoli,
lasciò scritto che Galerio obbligò un giorno Costantino a combattere
con un furioso lione, ed egli in fatti l'uccise. Così, per relazion di
Zonara[2690], l'inviò un dì ad assalir con poca gente un capitano de'
Sarmati, che s'era inoltrato con molte soldatesche[2691]. Costantino
v'andò, e, presolo per li capelli, lo strascinò ai piedi di Galerio.
Probabilmente nella stessa guerra coi Sarmati, che sembra succeduta in
quest'anno, fu da esso Galerio inviato Costantino alla testa d'alcune
milizie contra di que' Barbari per mezzo ad una palude, con isperanza
che egli restasse quivi o affogato, ovvero oppresso dai nemici. Tutto
il contrario avvenne. Egli fece strage dei Sarmati, e tornò colla
vittoria a Galerio, che si fece bello del valore altrui. Così Dio in
mezzo a tanti pericoli ed insidie preservò questo principe, per farne
poscia un mirabile spettacolo della sua provvidenza in favore della
santa sua religione. Certo non sussiste, come vuole Aurelio
Vittore[2692], che Costantino fosse tenuto in Roma per ostaggio da
Galerio, il quale si sa che non venne più a Roma. Di queste insidie a
lui tese abbiamo anche la testimonianza d'Eusebio[2693].

NOTE:

[2674] Lactantius, de Mort. Persecutor., cap. 17.

[2675] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 19.

[2676] Johannes Malala, in Chronogr.

[2677] Gualvaneus de Flamma, Manipul. Flor. tom. XI Rer. Italic.

[2678] Euseb., in Chron. Idacius, in Chronico. Incertus, in Panegyr.
Maximian.

[2679] Eutrop., in Breviario.

[2680] Zosimus, lib. 2.

[2681] Eutrop., in Breviar.

[2682] Aurelius Victor, de Caesaribus.

[2683] Anonymus Valesianus post Ammian.

[2684] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[2685] Euseb. Lactant. Victor, etc.

[2686] Mediobarbus, in Numism. Imperator.

[2687] Euseb., Histor. Eccles., lib. 9, cap. 1.

[2688] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 24.

[2689] Photius, Bibliothec. Cod. 62.

[2690] Zonaras, in Annalibus.

[2691] Anonymus Valesianus post Ammian.

[2692] Aurelius Victor, in Epitome.

[2693] Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 20.




    Anno di CRISTO CCCVI. Indizione IX.

    SEDE PONTIFICIA vacante.
    GALERIO MASSIMIANO imperadore 2.
    SEVERO imperadore 1.
    MARCO AURELIO VALERIO MASSENZIO
    imperadore 1.
    MARCO AURELIO VALERIO MASSIMIANO
    imperadore 1.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANZO AUGUSTO per la sesta volta e CAIO GALERIO
VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la sesta.


Prefetto di Roma in quest'anno fu _Annio Anulino_. Non solo erano a
Costantino assai note le premure che faceva per rivederlo Costanzo
Augusto suo padre, ma eziandio che la di lui sanità ogni dì più andava
declinando[2694]. Perciò cotanto anche egli pregò e si raccomandò per
levarsi da quei pericolosi ceppi, che Galerio, per non venire ad una
aperta rottura con Costanzo, si contentò in fine che egli se ne
andasse. Diedegli dunque una sera le dimissorie, con gli opportuni
ordini alle poste di somministrargli i cavalli, ma con dirgli che
aspettasse a muoversi la mattina seguente, finchè egli fosse levato di
letto, perchè avea degli altri ordini da dargli. Fu creduto preso da
lui questo tempo per ispedire innanzi un corriere ad avvisar Severo
Cesare, che, nel passare Costantino per l'Italia, sotto qualche
pretesto il ritenesse. Galerio a questo fine stette in letto quella
mattina sino a mezzodì. Levatosi allora, disse che si facesse venir
Costantino. Ma Costantino, appena fu a letto Galerio, nella notte
innanzi se ne era partito, camminando per le poste con tal fretta,
come se fuggisse da un gran pericolo, ed aspettasse d'essere
inseguito. Anzi, dopo aversi presi quanti cavalli gli occorreano alle
poste[2695], ebbe la precauzione di storpiar di mano in mano gli
altri, affinchè niuno gli potesse correre dietro. A questo avviso oh
sì che Galerio per la collera fumò[2696]. Peggio fu allorchè, dopo
avere ordinato di inseguirlo tosto a briglia sciolta, gli fu detto che
non restavano più cavalli abili alle poste. Durò fatica a ritener le
lagrime per la rabbia. In questa maniera felicemente Costantino si
levò dalle unghie di chi mal volontieri il mirava tra i vivi, e senza
interrompimento passate l'Alpi, arrivò nelle Gallie, cioè nella
giurisdizion di suo padre. Aurelio Vittore e Zosimo[2697]
attribuiscono la fuga di Costantino alla sua ansietà di regnare, e al
dispetto di veder anteposti nella dignità a sè, figliuolo d'un
imperadore, due selvatici villani, cioè _Severo_ e _Massimino_. Non è
improbabile che fosse anche così. Arrivò Costantino all'Augusto suo
padre, e nol trovò già sugli estremi della vita, come scrivono
Eusebio[2698] ed Aurelio Vittore, perchè, oltre all'Anonimo Valesiano,
Eumenio[2699], scrittore più sicuro di tutti, ci assicura, nel
panegirico di lui recitato pochi anni dipoi, che Costantino giunse a
Gesoriaco, oggidì Bologna di Picardia, nel tempo appunto che Costanzo
suo padre era per levar le ancore di una poderosa flotta da lui
preparata per passare nella Bretagna a guerreggiar coi popoli Pitti e
Caledonii. Immenso fu il giubilo suo all'inaspettato arrivo del
figlio, il quale unissi tosto a lui nel passaggio per quella spedizion
militare.

Abitavano i Pitti e Caledonii in quella parte della gran Bretagna che
oggidì Scozia si noma, nazione fiera, che si credeva, secondo
Beda[2700], venuta dalla Scitia colà. L'Usserio[2701] la stimò uscita
della Scandinavia o de' luoghi circonvicini. Ma gli antichi[2702]
stendevano talvolta il nome degli Sciti non solo alla presente
Tartaria, ma anche alla Russia e agli ultimi popoli del Settentrione.
Fu assistito Costanzo in quella militare impresa da Eroe re degli
Alamanni, che intervenne in persona. Altro non sappiamo di quella
guerra, se non che, per attestato dell'Anonimo Valesiano[2703], egli
riportò vittoria di quei popoli. Ma mentre si trovava esso Costanzo
nella città di Jorch, la sanità sua, stata assai debole in addietro, e
molto più infievolita per la vecchiaia, peggiorando il condusse
all'ultima meta; e però nel dì 25 di luglio[2704] in mezzo ai
figliuoli passò all'altra vita. Magnifico funerale fu a lui fatto, e
siccome pagano di credenza, secondo il sacrilego rito dei gentili, fu
egli anche deificato, ciò apparendo da varie medaglie[2705]. Hanno
disputato e tuttavia disputano gli eruditi inglesi intorno al luogo
della sua sepoltura. Era egli nato a Naissum, città della nuova Dacia,
che oggidì si chiama la Servia, e però nell'Illirico, come si ricava
da Stefano Bizantino[2706], dall'Anonimo Valesiano, da Costantino
Porfirogeneta[2707] e da altri scrittori. Se è vero che Claudia sua
madre, moglie di Eutropio suo padre, fosse figliuola di Crispo
fratello di Claudio il Gotico imperadore, non si può negare un po' di
nobiltà alla di lui origine. Certamente gli antichi diedero per
indubitata questa sua discendenza. La famiglia Claudia e il nome di
Crispo si truova nei suoi posteri. Per la via dell'armi diede egli
principio alla sua maggior fortuna, e trovandosi alla guerra nel paese
dell'Elvezia, oggidì gli Svizzeri, quivi Elena, donna di bassissima
condizione, gli partorì, nell'anno di Cristo 274, Costantino, che fu
poi gloriosissimo imperadore. Se Elena fosse moglie o pur semplice
concubina di Costanzo, non s'è potuto finora decidere. Eusebio[2708]
nella Cronica (se pur non è ivi san Girolamo che parli), Zosimo[2709],
nemico aperto di Costantino il Grande, l'autore della Cronica
Alessandrina[2710], Niceforo ed altri ci rappresentano l'imperador
Costantino nato fuori delle nozze. All'incontro l'Anonimo Valesiano
chiaramente ci dà Elena per sua moglie; ed Eutropio[2711], scrittore
assai vicino a questi tempi, mette Costantino nato _ex obscuriori
matrimonio_, confessando bensì la viltà della madre, madre nondimeno
sposata da Costanzo. Lo stesso vien attestato dai due Vittori[2712],
con dire che Costanzo, allorchè fu creato Cesare, dovette ripudiare
_la prima moglie_, e questa non potè essere se non Elena, perchè non
apparisce che egli altra ne avesse. Quel che è più, l'anonimo
panegirista[2713] di Costantino scrisse di lui: _Quo enim magis
continentiam patris acquare potuisti, quam quod et ab ipso fine
pueritiae illico matrimonii legibus tradidisti, ut primo ingressu
adolescentiae formares animum maritalem_, ec. Ma se un autore
contemporaneo scrive che Costantino, per non essere da meno di suo
padre nella continenza, appena uscito dalla puerizia prese moglie;
certamente in confronto di tale autorità cessa quella di Zosimo e
d'altri autori molti posteriori, e sembra giusto il credere stata
Elena moglie legittima di Costanzo, benchè egli poi, secondo l'uso dei
gentili, la ripudiasse per prendere Teodora figliuola di Massimiano
Augusto, nell'anno di Cristo 292.

Scrittore non v'ha fra gli antichi, nè solo dei cristiani, ma anche
de' gentili, il quale non parli con elogio delle qualità di esso
Costanzo Augusto[2714]. Osservavasi in lui un natural buono, dolce ed
eguale, e un amore perpetuo della giustizia. Quanto egli si mostrava
focoso e valoroso nel mestier della guerra, altrettanto poi compariva
moderato nelle vittorie, e facile a perdonare; nè mai l'ambizione il
portò a desiderar quello de' colleghi, nè gli appetiti bestiali a
contravvenire ai doveri della continenza. Con queste ed altre virtù
s'era egli comperato il cuore de' popoli delle Gallie; ma specialmente
si celebrava da tutti l'onorata sua premura che i sudditi godessero
quiete e felicità, amando che si arricchisse non già il fisco, ma essi
bensì. Viveva egli appunto con grande frugalità per non aggravarli; e
contento per uso suo di pochi vasi d'argento, allorchè dovea far dei
solenni conviti, mandava a prendere in prestito l'argenteria degli
amici. Fra l'altre cose racconta Eusebio[2715] un fatto degno di
memoria. Cioè, che essendo giunte queste relazioni a Diocleziano,
spedì egli nella Gallia alcuni suoi uomini con ordine di fare a nome
suo una parlata forte intorno alla sua disattenzion nel governo,
stante la sua povertà, e il non aver tesori in cassa per valersene ne'
bisogni della repubblica. Costanzo, dopo aver mostrato di gradir lo
zelo del vecchio imperadore, li pregò di fermarsi qualche giorno nel
suo palazzo. Intanto fece sapere a tutti i più ricchi delle provincie
di sua giurisdizione d'essere in bisogno di danaro. Tutti allegramente
corsero a portare ori ed argenti, gareggiando fra loro a chi più ne
recasse. Allora Costanzo, fatti venire gli uomini di Diocleziano,
mostrò loro quel ricco tesoro, dicendo che questo lo tenevano in
deposito persone sue fidate per darlo alle occorrenze. Maravigliati
coloro se ne andarono, riferendo poi a Diocleziano quanto aveano
veduto. E Costanzo, richiamati i padroni di que' danari, loro
puntualmente tutto restituì colla giunta di molti ringraziamenti. Ho
io udito raccontar questo fatto di un principe d'Italia del secolo
prossimo passato; ma probabilmente la copia di tal azione non
sussiste. Non fu men luminosa in Costanzo la pietà[2716]. Ancorchè
egli non giugnesse mai ad abbracciar la vera religion di Cristo, pur
si tiene che abborrisse il copioso numero dei suoi falsi dii, e non
adorasse se non un solo dio sovrano del tutto. Amava inoltre non poco
i cristiani, li favoriva in ogni congiuntura, moltissimi ne teneva al
suo servigio in corte. Ed allorchè nell'anno 303 Diocleziano e Galerio
pubblicarono que' fieri editti contro il nome cristiano, e
gl'inviarono anche a Costanzo e a Massimiano Erculio per l'esecuzione,
Massimiano gli eseguì con piacere; ma Costanzo, per non parere di
opporsi agli altri, lasciò bensì che si abbattessero molte chiese
nelle Gallie, siccome accennai di sopra, ma non permise che si
perseguitassero le persone, nè che fosse tolta ad alcuno la libertà
della religione. Egli è credibile che indulgenza tale provenisse dal
suo naturale amorevole verso tutti, o pure dalle insinuazioni a lui
fatte da Elena sua prima consorte, se pur ella era in que' tempi
cristiana; del che si dubita, ed Eusebio chiaramente lo niega. Può
nondimeno essere che anch'ella fosse almeno in que' primi tempi assai
inclinata a religion così santa. Si racconta ancor qui da
Eusebio[2717] una memorabil azione di Costanzo. Allorchè vennero que'
fulminanti editti contra dei Cristiani, egli intimò a chiunque de'
suoi cortigiani, de' giudici e dei provveduti di altri uffizii,
professanti la legge di Gesù Cristo, che dimettessero i posti, o pur
lasciassero quella religione. Chi s'appigliò all'uno, chi all'altro
partito. Allora Costanzo rimproverò ai disertori del Cristianesimo la
loro infedeltà e viltà, e li cacciò dal suo servigio, con dire, che
dopo aver tradito il loro Dio, molto più erano capaci di tradir lui; e
però ritenne al servigio suo i fedeli, confidò loro la sua guardia, e
li trattò come suoi amici nel tempo stesso che gli altri principi
infierivano contro alla greggia di Cristo. Dopo Elena sua prima
moglie, ch'egli fu obbligato a ripudiare nell'anno 292, dalla quale
ebbe _Costantino il Grande_, sposò _Flavia Massimiana Teodora_, figlia
di Massimiano Augusto, che gli partorì tre maschi, cioè _Delmacio_,
_Giulio Costanzo_ ed _Annibaliano_, siccome ancora tre figlie,
_Costanza_, _Anastasia_ ed _Eutropia_.

Prima di morire, siccome abbiamo da Eusebio Cesariense[2718], da
Lattanzio[2719], da Giuliano Apostata[2720], da Libanio[2721], e
massimamente da Eumenio[2722] scrittore contemporaneo, Costanzo
determinò che il solo Costantino primogenito suo, nato, per quanto si
crede, nell'anno 274, regnasse, e che gli altri suoi fratelli
vivessero vita privata. Raccomandollo ancora all'esercito suo, e nol
raccomandò indarno; imperciocchè nel giorno stesso, in cui mancò di
vita esso suo padre, tutte le milizie col re degli Alamanni, Eroc, il
quale ausiliario dei Romani si trovava anch'egli a Jorch nella
Bretagna, il proclamarono, come s'ha da Eusebio, _Imperadore_ ed
_Augusto_, e il vestirono di porpora. Dopo di che egli attese ai
funerali de! padre. Zosimo[2723] e l'Anonimo Valesiano[2724]
pretendono che da' soldati altro titolo non fosse dato che quello di
_Cesare_ a Costantino. Truovansi in fatti medaglie[2725], dove egli è
appellato _Cesare_, battute senza dubbio dopo il dì 25 luglio
dell'anno presente, in cui cominciò il suo regno. Ma facilmente si
possono conciliar gli autori. Fu veramente proclamato Costantino dai
soldati _Imperadore Augusto_, asserendolo anche Lattanzio[2726]; ma
egli camminando con più ritenutezza, nè volendo romperla a visiera
calata con gli altri principi regnanti, mandò bensì loro l'immagine
sua laureata, come solevano i principi novelli, ma con espressioni di
voler buona armonia con loro. Galerio Augusto a tal vista forte si
alterò, e fu in procinto di far bruciare quell'immagine e chi la
portò; ma i suoi amici tanto dissero, rappresentandogli che se si
veniva ad una rottura, i soldati del medesimo Galerio, siccome
affezionatissimi a Costantino, di cui per pratica sapeano le rare doti
e virtù, passerebbono tutti al servigio di lui, che Galerio smontò,
accettò l'immagine, mandò a Costantino la sua, ma con obbligarlo di
contentarsi del solo titolo di _Cesare_ colla tribunizia podestà. Fu
sì discreto Costantino, che in ciò si sottomise alla volontà di
Galerio. Se vide sì di mal occhio esso Galerio l'esaltazione di
Costantino, non è punto da stupirsene, perchè questa rovesciava tutti
i disegni da lui fatti. Si era egli figurato, mancando di vita
Costanzo, di poter dar a _Licinio_, suo gran favorito, il titolo e la
dignità augustale, tagliando fuori i figli di esso Costanzo, per aver
solamente delle creature sue e da sè dipendenti nel governo; e col
tempo di crear anche _Severo_ Augusto, e Cesare _Candidiano_ suo
bastardo, adottato da Valeria Augusta sua consorte; con disegno
finalmente, dopo aver regnato quanto a lui piacesse, di rinunziare
l'imperio, come aveano fatto Diocleziano e Massimiano, per passare gli
ultimi anni di sua vita quieto in onorato ritiro. E perchè la morte di
Costanzo arrivò molto prima de' suoi conti, e saltò su Costantino, da
tali avvenimenti rimasero sconcertate tutte le di lui misure.
Accomodossi bensì Costantino, siccome dissi, ai voleri di Galerio, col
prendere il solo titolo di _Cesare_; ma Galerio, per serrare a lui il
passo alla dignità augustale, giacchè non vi doveano essere se non due
Augusti, secondo il regolamento fatto da Diocleziano, da lì a non
molto dichiarò _Severo Imperadore Augusto_, mostrando di farlo, perchè
questi era maggiore d'età e più anziano nella dignità cesarea che
Costantino. E fin qui camminarono con quiete gli affari, e da Galerio
dipendevano tutti gli altri principi.

Ma non tardò la mutazion delle cose, per i costumi ed atti tirannici
di Galerio stesso. Ne abbiamo la descrizion da Lattanzio[2727].
Allorchè egli vinse i Persiani, imparò che que' popoli erano schiavi
dei re loro; e però anche a lui saltò in testa di valersi di quel
modello per ridurre i Romani alla medesima servitù, ed opprimere la
lor libertà. Toglieva a suo capriccio i posti e gli onori alle
persone, e tutto dì sfoggiava in nuove invenzioni di crudeltà, con
adoperarle prima contro i Cristiani, e stendendole poi ad ogni sorta
di persone, e a' suoi cortigiani stessi. Le croci, il bruciar vive le
persone, il farle divorar dalle fiere (al qual uso teneva spezialmente
dei grossissimi e ferocissimi orsi) erano divenuti spettacoli d'ogni
giorno, presente lo stesso Galerio, che ne rideva, nè voleva mettersi
a tavola senza aver prima pasciuti gli occhi coll'orribil morte
d'alcuno. Le carceri, gli esilii, i metalli, il taglio della testa
parevano a lui pene troppo lievi. Erano prese ancora e condotte nel
Serraglio di lui le matrone nobili. Oltre a ciò, la giustizia andò in
bando, perchè egli o facea morire, o cacciava in esilio gli avvocati e
legisti, e per giudici erano elette persone militari, che nulla
sapeano delle leggi, e si mandavano senza assessori nelle provincie.
Per incorrere nell'odio suo bastava essere letterato o professor
d'eloquenza. In somma tutto era confusione, e l'iniquità sola regnava.
A questi malanni s'aggiunse l'immensa avidità e violenza di Galerio
per far danari. Furono messe intollerabili imposte per tutte le
provincie dell'imperio; ed esatte con incredibil rigore sopra le teste
degli uomini e degli animali, sopra le terre, gli alberi e le viti. Nè
infermi, nè vecchi, nè età alcuna andava da questo torchio esente.
Perchè i poveri non poteano pagare, col pretesto che fosse finta la
loro impotenza, una gran quantità di essi ne fece annegare. Ma in fine
la mano di Dio cominciò ad apparire anche contra di questo nemico, non
solo del popolo cristiano, ma di tutto il genere umano, siccome era
avvenuto agli altri due Augusti persecutori del Cristianesimo.

Accadde che Galerio si mise in punto per istendere quelle sue
gravissime imposte alla medesima città di Roma, senza far caso de'
privilegii e della esenzion del popolo romano; ed avea già inviate
persone per informarsi del numero e dei beni di quei cittadini. A
simili aggravii non era avvezzo il popolo romano, siccome quello che
fin qui avea ritenuta qualche figura di padrone e non di servo; e però
insorsero in Roma non pochi lamenti e principii di sedizione, dei
quali seppe ben profittare _Massenzio_ figliuolo di Massimiano Erculio
imperadore deposto. Costui si truova nelle antiche monete[2728]
appellato _Marco Aurelio Valerio Massenzio_. Gli antichi
panegiristi[2729] cel rappresentano figliuolo supposto al suddetto
Massimiano da Eutropia sua moglie, per farsi amare da lui. Così ancora
hanno Aurelio Vittore[2730] e l'Anonimo Valesiano. Ma se questo non è
certo, almen per indubitato sappiamo che Massenzio fu un vero
complesso di tutti i vizii, poltrone, eppur superbo al maggior segno,
crudele senza pari, ed inclinato unicamente alla malvagità. Tuttochè
Galerio gli avesse data molto tempo prima per moglie una sua
figliuola, pure per la riconoscenza dei di lui sfrenati ed
abbominevoli costumi, nol volle mai promuovere alla dignità cesarea.
Dimorava Massenzio[2731] in una villa del distretto di Roma,
sfaccendato, quando gli venne all'orecchio la disposizione del popolo
romano ad una sedizione per timor degli aggravii che lor minacciava
Galerio. Diedesi egli a far de' maneggi coi pochi soldati pretoriani
restati in Roma, disgustati appunto di Galerio, perchè gli avea
ridotti ad un poco numero[2732]. Guadagnò alcuni uffiziali, cioè
Luciano, Marcello e Marcelliano, con promettere loro mari e monti.
Disposto tutto, costoro diedero fuoco alla mina, con uccidere Abellio
vicario del prefetto di Roma, se pur non era egli stesso il prefetto.
Quindi proclamarono _Augusto Massenzio_, che tuttavia dimorava in
villa, nel dì 27 di ottobre, come s'ha da Lattanzio, oppur, come
sostiene il Tillemont[2733], appoggiato ad un antico calendario, nel
dì 28 del mese stesso. Non si oppose, anzi consentì all'esaltazione di
questo novello imperadore il popolo romano, perchè gli fece costui
sperare di molti vantaggi, e specialmente la sua residenza in Roma,
giacchè la lunga lontananza della corte da quella città riusciva ad
essa pregiudiziale non poco. Alla nuora dell'esaltazion del figliuolo,
dalla Lucania si accostò _Massimiano Erculio_ a Roma. V'ha chi
crede[2734] ch'egli fosse molto prima consapevole di quella trama, e
pare che anche si opponesse ai disegni del figlio. Ma ben più probabil
sembra ciò che scrive Eutropio[2735], cioè che siccome egli mal
volentieri avea deposto lo scettro, e stato continuamente alla
vedetta, spiando ed aspettando occasion propizia per ripigliarlo, così
ebbe piacere che il figliuolo cominciasse la danza, perchè in tal
guisa si preparava a lui il gradino per rimontar sul trono. In fatti
dalla Lucania passato Massimiano nella Campania, quivi si fermò[2736],
e, secondo altri, sen venne a dirittura a Roma con apparenza di
assistere al figliuolo, o piuttosto di arrivar a comandare sopra il
figliuolo, siccome poi dimostrarono i fatti. Nè molto andò che
sovrastando sedizioni in Roma contra di Massenzio, personaggio
screditato per i suoi vizii, e scorgendosi necessaria l'autorità di
suo padre, amato e rispettato tuttavia dai più dei Romani, pregollo il
figliuolo di ripigliar la porpora, e gliela mandò nella
Campania[2737], oppur gliela diede in Roma, dichiarandolo di nuovo
Imperadore Augusto, e suo collega nell'imperio. Dopo essersi fatto
pregare l'astuto Massimiano anche dal senato e popolo romano, di buon
cuore accettò. Sicchè due Augusti si videro allora in Roma, cioè
_Massimiano_ e _Massenzio_: e due altri nell'Illirico e nell'Oriente,
cioè _Galerio_ e _Severo_; e _Costantino_ Cesare nelle Gallie, nelle
Spagne e nella Bretagna. Fu profittevole questa novità ai
Cristiani[2738], perchè Massenzio ordinò tosto che cessasse nei paesi
a lui sottoposti la persecuzione.

Quanto a Costantino, una delle prime azioni del governo suo fu di
restituire anch'egli dal suo canto la libertà ad essi Cristiani di
professar pubblicamente la loro religione. La buona sua madre Elena
gliene avea predicata la santità[2739], ispirato l'amore, e con che
frutto, l'andremo scorgendo. Poscia si applicò a regolar gli affari
delle provincie di sua dipendenza con tal prudenza e dolcezza, che si
tirò dietro le lodi e l'amore d'ognuno. Nè molto lasciò in ozio il suo
valore. Nel tempo che Costanzo suo padre si trovava impegnato nella
guerra della Bretagna[2740], i Franchi, popoli della Germania, rotta
la pace, aveano fatta una irruzion nelle Gallie. Contra di loro
sfoderò il ferro Costantino, già ritornato nelle Gallie; gli
sconfisse, prese due dei loro re[2741], cioè Ascarico e Regaiso, ossia
Gaiso, dei quali poi fece una rigorosa, anzi barbarica giustizia, con
esporli alle fiere, nel tempo dei magnifici spettacoli ch'egli diede
al pubblico. Non era per anche il di lui feroce genio ammansato dalla
religion di Cristo. Dopo questa vittoria all'improvviso egli passò il
Reno, per rendere la pariglia ai nemici dell'imperio, e indurli a
rispettar maggiormente da lì innanzi la maestà romana. Addosso ai
Brutteri, popoli della Frisia, si scaricarono le armi sue con istrage
e prigionia di migliaia d'essi, con incendiar le loro ville, e con
ispogliarli di tutti i loro bestiami. L'aver egli poi data alle fiere
la gioventù di quella nazione restata prigioniera, fu probabilmente un
gastigo dei patti rotti anche da essi, ma non esente da macchia di
crudeltà. Nè contento di ciò Costantino, affinchè i popoli della
Germania se l'aspettassero addosso, quando a lui piacesse, prese a
fabbricar un ponte sul Reno in vicinanza di Colonia: opera di mirabil
magnificenza, con aver piantate in mezzo a sì vasto fiume le pile, e
condotta col tempo la fabbrica a perfezione, come chiaramente attesta
Eumenio, pretendendo in vano il Valesio[2742] che egli non la
terminasse. Con tali imprese questo prode principe, e col mettere
buone guarnigioni per le castella sparse sulla riva del Reno, tal
terrore infuse nelle genti germaniche, che per gran tempo le Gallie
goderono una mirabil quiete, non attentandosi più di turbarle le
barbare nazioni.

NOTE:

[2694] Lactantius, de Mortib. Persec., cap. 14.

[2695] Anonymus Valesianus post Ammian.

[2696] Zosimus, lib. 2, cap. 5.

[2697] Aurel. Victor, in Epit. et Zosimus, lib. 2, cap. 5.

[2698] Euseb., Vit. Constant., lib 1, cap. 21.

[2699] Eumen., Panegyr. Constant., cap. 7.

[2700] Beda, Hist. Angl., lib. 1, cap. 1.

[2701] Usser., de Reb. Britann.

[2702] Aurelius Victor, in Epitome.

[2703] Anonymus Valesianus.

[2704] Idacius, in Chronico.

[2705] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2706] Stephanus, de Urbibus.

[2707] Constantinus Porphyrogeneta, de Provin.

[2708] Eusebius, in Chron.

[2709] Zosimus, lib 2, cap. 5.

[2710] Chronic. Alexandrinum.

[2711] Eutrop., in Breviar.

[2712] Aurelius Victor, in Epitome, et de Caesarib.

[2713] Incertus, in Panegyr. Const., pag. 3.

[2714] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 8. Incertus, in Panegyr.
Maximian. Eutrop., in Breviar. Eusebius, in Vita Constantini, lib. 1.

[2715] Eusebius, in Vita Constantini, lib. 1, cap. 14.

[2716] Euseb., lib. 8, cap. 13 Hist. Eccl. et in Vita Constant., lib.
1, cap. 15. Optatus, lib. 1. Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 15.

[2717] Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 16.

[2718] Euseb., in Vita Constantini.

[2719] Lactantius, de Mortibus Persecut.

[2720] Julian., Oratione I.

[2721] Libanius, Oratione III.

[2722] Eumen., Panegyr. Constant., cap. 7.

[2723] Zosimus, lib. 2, cap. 9.

[2724] Anonymus Valesianus, post Ammian.

[2725] Mediobarbus, Numism. Imperator.

[2726] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 25.

[2727] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 21.

[2728] Goltzius et Mediobarbus, Numismat. Imp.

[2729] Incertus, Panegyr. Const.

[2730] Aurelius Victor. Anonymus Valesianus.

[2731] Aurel. Victor. Zosimus, lib. 2, cap. 9.

[2732] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 26.

[2733] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2734] Aurelius Victor, de Caesaribus.

[2735] Eutrop., in Breviario.

[2736] Lactantius, de Mortib. Persecut.

[2737] Incertus, in Panegyr. Maximian. et Constant., cap. 10.

[2738] Euseb., Histor. Eccl., lib. 8, cap. 14.

[2739] Euseb., in Vita Constantini, lib. 1, cap. 25.

[2740] Eumen., Panegyr. Constant.

[2741] Eutrop., in Breviar.

[2742] Valesius, Rer. Franc.




    Anno di CRISTO CCCVII. Indizione X.

    SEDE PONTIFICIA vacante.
    GALERIO MASSIMIANO imper. 3.
    MASSENZIO imperadore 2.
    MASSIMIANO ERCULIO imper. 2.
    COSTANTINO imperadore 1.
    LICINIO imperadore 1.

_Consoli_

MARCO AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la nona volta e FLAVIO
VALERIO COSTANTINO CESARE.


Col Relando[2743], appoggiato ad alcuni Fasti, ho ben io enunziati i
consoli suddetti; ma avvertir debbo i lettori che gran confusione
cominciò ad introdursi nei consolati per questi tempi, a cagion delle
turbolenze e divisioni insorte nel romano imperio, e dei molti
regnanti fra loro discordi. Altri consoli furono fatti in Roma da
Massenzio e da Massimiano, ed altri da Galerio Augusto nell'Oriente. I
sopra enunziati sembrano i Romani. Gli altri, secondo i Fasti di
Teone, furono _Severo Augusto_ e _Massimino Cesare_. Forse anche
_Costantino_ fu promosso da Galerio al consolato, solamente dopo la
morte di _Severo_. Alcuni, per non fallare, usarono allora di notare
il _post consulatum_ dei consoli dell'anno precedente. _Giusteo
Tertullo_ esercitò in questo anno la prefettura di Roma. Da che
conferita fu da Massenzio l'augustal dignità a Massimiano Erculio suo
padre, questi per maggiormente imbrogliare le carte, e dar da pensare
a Galerio, scrisse lettere a _Diocle_, o sia _Diocleziano_, che si
godeva la quiete in una villa di Salona, dove si era fabbricato un
sontuoso palazzo e un delizioso orto e giardino, invitandolo ed
esortandolo a ripigliar la porpora imperiale. Son di parere altri che
questo succedesse più tardi. Diocleziano, che più senno di lui e meno
ambizione avea, tosto rigettò la proposizione, con dire al
messo[2744]: _Oh se vedesse i bei cavoli piantati di mia mano qui in
Salona, al certo non darebbe il cuore a Massimiano di tentarmi in
questa maniera._ Che anche Galerio tentasse Diocleziano, lo scrive ben
Aurelio Vittore, ma non par credibile. Che poi fosse veramente
disingannato esso Diocleziano della vanità del regno, si può anche
raccogliere da Vopisco[2745], il quale racconta di avere inteso da suo
padre, come questo principe attestava, non esserci cosa più difficile
che il ben regnare; perchè dicea che quattro o cinque persone del
primo ministero si collegano insieme per ingannare il padrone, e tutto
ciò che esse vogliono san farlo volere a lui. Imperciocchè, aggiungeva
egli, non potendo il principe, collo stare nei suoi gabinetti, veder
le cose co' proprii occhi, crede di operar saviamente stando sulla
fede di molti che gli attestano la medesima cosa. E intanto nulla egli
vede, nè sa la verità, e qualunque sia la sua buona intenzione,
capacità e prudenza, egli è ingannato e venduto, e dà le cariche a chi
meno le merita, e le toglie a chi sarebbe più atto ad esercitarle.

Allorchè Galerio Massimiano Augusto ebbe intesa la ribellion di
Massenzio genero suo, parve che non se ne mettesse gran
pensiero[2746], ben sapendo che egli era un solennissimo poltrone, ed
immerso nei vizii, per i quali in vece dell'amore si guadagnerebbe
l'odio di tutti. Però senza curarsi di venir egli in persona ad
abbattere questo idolo (il che se avesse fatto, sarebbono forse
passati gli affari a seconda dei suoi desiderii), diede questa
incombenza a _Severo Augusto_ sua creatura, a cui particolarmente
apparteneva il governo dell'Italia. Venne Severo in Italia nell'anno
presente con una buona armata, ma composta la maggior parte di
milizie, che due anni prima aveano servito a Massimiano Erculio, ed
ansavano di tornare alle delizie di Roma. Però appena si presentò
Severo alle mura di Roma, che Massenzio facilmente subornò con segrete
offerte quell'armata, la quale, alzate le bandiere, e passata nel suo
partito, rivolse l'armi contra di Severo. Altro scampo adunque non
restò a costui che di prendere la fuga, ed incontratosi in Massimiano,
che probabilmente conduceva rinforzi di gente a Roma, il più che potè
fare fu di ritirarsi a Ravenna. Quivi fu bensì assediato da
Massimiano, ma essendo quella città forte ed abbondante di viveri,
apparenza non v'era di superarla[2747]. Superolla la frode, se è vero
quanto narra Zosimo[2748], perchè non si accordano in tutto con lui
Eusebio ed Eutropio: cioè Massimiano con varie lusinghe, promesse e
giuramenti il trasse a deporre la porpora e a venir seco a Roma.
Giunto che fu Severo al luogo appellato le Tre Taberne, sbucò un
agguato di armati ivi dallo spergiuro Massimiano preparati, che col
laccio gli tolsero la vita, o pure, come ha l'Anonimo Valesiano[2749],
tenuto ivi in prigione, allorchè Galerio calò in Italia, fu fatto
strangolare. Gli altri scrittori il dicono ucciso in Ravenna, e che
per grazia gli fu permesso di morir dolcemente colle vene tagliate; e
Lattanzio[2750] lasciò scritto, che egli, veggendo disperato il caso,
volontariamente s'era renduto a Massimiano. Pare che tal tragedia
succedesse nel febbraio di questo anno. Rimase di Severo un figlio per
nome _Severiano_, che Licinio fece poi morire nell'anno di Cristo 313
per estinguere in lui ogni pretensione al dominio.

Sbrigato da questo nemico, Massimiano Erculio ben conosceva che gli
restava più da fare con Galerio Augusto, uomo temuto pel suo valore,
ma più per la copia e possanza delle sue armi; giacchè ognun prevedeva
ch'egli non lascerebbe invendicata la morte di Severo. Pertanto andò
in persona a trovare il vecchio Diocleziano che si godeva un delizioso
riposo nella sua villa di Salona, per muoverlo a riassumere la porpora
imperiale. Gittò i passi, perchè Diocleziano vedeva il mare in
burrasca, ed egli se ne voleva stare sicuro sul lido, di là mirando le
altrui tempeste. Rivolse dunque Massimiano le speranze e i passi suoi
a Costantino Cesare, che nelle Gallie, dopo le vittorie riportate
contro ai Franchi, con gran credito di valore e di forze si godeva la
pace[2751]. Per tirarlo nel suo partito, gli disse quanto male potè di
Massenzio suo figliuolo, probabilmente esibendo di deporlo; il
dichiarò ancora _Imperadore Augusto_, e gli diede in moglie _Flavia
Massimiana Fausta_ sua figliuola, chiamata così nelle medaglie[2752],
giacchè si suppone che fosse già mancata di vita _Minervina_ sua prima
moglie, o pur concubina e madre di Crispo suo primogenito, che fu poi
Cesare. Perciò di qui cominceremo a contare gli anni dell'imperio di
Costantino. Intanto calò in Italia con poderoso esercito Galerio
Augusto, e venne a Roma, con trovare che si era ingannato in credere
sufficiente quell'armata ad assediarla, perchè, non avendola mai
veduta, non ne sapeva la vasta circonferenza. Arrivato a Terni, spedì
Licinio e Probo a Massenzio suo genero, per indurlo a venire a
trovarlo, e trattare d'accordo. Se ne rise Massenzio: dal che
maggiormente irritato Galerio minacciava l'eccidio al genero, al
senato e a tutto il popolo romano[2753]. Ma seppe anche questa volta
Massenzio sedurre una parte della di lui armata, perchè conoscendo
costoro quanto fosse vergognosa azione che soldati romani volgessero
l'armi contra di Roma lor madre, non durarono fatica ad abbandonar
Galerio, per darsi a Massenzio. Avrebbe fatto altrettanto il resto
dell'armata di Galerio, s'egli, gittatosi ai lor piedi, non avesse con
preghiere e promesse frastornata la lor sollevazione. Sicchè fu
costretto a levar l'assedio; e colui che si credeva di far paura a
tutti, ebbe per grazia il potersene andare in salvo, pieno non so se
più di rabbia o di vergogna. Nel tornarsene addietro, parte per
impedire ai nemici il tenergli dietro, e parte perchè così avea
promesso ai soldati restati con lui, loro permise di dare il sacco a
tutto il paese per dove passò: nella quale occasione commisero tutte
quante le enormità che si sogliono praticare nel saccheggio delle
nemiche prese città. Ebbe in questa maniera Galerio il comodo di
tornarsene nella Pannonia, ma con lasciare in Italia il nome non
d'Imperadore, ma di assassino de' Romani.

Mentre tali cose succedeano in Italia, Massimiano Erculio, che
dimorava nelle Gallie, avea ben conseguito che il genero Costantino
Augusto non si unisse con Galerio, ma non potè già ottenere ch'egli
prendesse l'armi contra del medesimo Galerio, ancorchè venissero le
nuove ch'esso al maggior segno spelato e scornato se ne scappava
dall'Italia. Indispettito il suo cuore per questo, se ne ritornò a
Roma, e quivi col figlio Massenzio seguitò a signoreggiare[2754]. Ma
l'ambizioso ed inquieto vecchio non sapea sofferire che si desse la
preminenza al figliuolo, benchè da lui avesse ricevuta la porpora, nè
che i soldati mostrassero maggior obbedienza ad esso suo figlio che a
lui. Perciò pien di veleno cominciò sotto mano a procurar d'alienare
gli animi delle soldatesche da Massenzio; ma vedendo che non gli
riusciva il tentativo, un dì, fatte raunar le milizie e il popolo,
alla presenza del figliuolo, esagerò forte i mali e i disordini
correnti dello Stato, e poi si rivolse con fiera invettiva contra
Massenzio, attribuendo alla di lui poca testa e cattiva condotta la
serie di tutti que' malanni. Non avea lo indiavolato vecchio finito di
dire, quando preso colle mani il manto purpureo del figliuolo, glielo
strappò di dosso, e lo stracciò. Si contenne Massenzio in quel
frangente, ed altro non fece se non che si rifugiò fra i soldati, i
quali caricarono di villanie Massimiano, e si sollevarono contra di
lui. Sembrerà a taluno una semplicità il dirsi da Zonara[2755], che
Massimiano volle dipoi far credere ai soldati che quella era stata una
burla, per provare se amavano veramente suo figlio: il che nulla gli
valse, perchè tanto strepito fecero le milizie, ch'egli fu forzato a
fuggirsi di Roma. Se ne andò nelle Gallie a dolersi col genero
Costantino d'essere stato cacciato dal figlio[2756]; ma Costantino, a
cui non doveano mancare più sicuri avvisi del fatto, niun impegno
volle assumere dell'inquieto suocero, di maniera ch'egli, dopo essere
dimorato qualche tempo, ma senza vantaggio de' suoi interessi, nelle
Gallie, prese lo spediente di andar a trovare il maggior nemico che si
avesse il figliuolo, cioè lo stesso Galerio Augusto. Fu creduto, per
vedere se potesse aprirsi la strada a qualche tradimento per levargli
la vita, ed occupar, se gli veniva fatto il suo luogo[2757]. Trovavasi
allora Galerio nella Pannonia a Carnonto, dove avea fatto venir
Diocleziano da Salona, per dar più credito alla elezione di un nuovo
Augusto ch'egli meditava, per supplire la mancanza dell'ucciso Severo.
Andarono falliti tutti gl'intrighi, tutte le speranze di Massimiano,
per aver trovato quelle milizie fedeli a Galerio, e tentata invano la
costanza di Diocleziano per fargli riassumere la porpora imperiale.
Sicchè altro non gli restò che di assistere con lui e di dar vigore,
per non potere di meno, alla promozione che Galerio fece di _Licinio_,
dichiarandolo _Augusto_, avendogli forse ne' precedenti mesi conferito
il titolo di _Cesare_, come ha preteso taluno, e sembra confermato da
Aurelio Vittore. Seguì tal funzione, secondo Idacio[2758], nel dì 11
di novembre, non già dell'anno seguente, come ha esso Idacio, ma del
presente, come si raccoglie dalla Cronica Alessandrina.

_Licinio_ che, creato Augusto, si trova appellato nelle medaglie[2759]
e nelle iscrizioni[2760] _Caio Flavio Galerio Liciniano Licinio_, era
nativo[2761] anch'egli dell'Illirico, perchè venuto alla luce nella
Dacia nuova, oggidì la Servia, di vile e rustica famiglia[2762],
ancorchè egli dipoi cresciuto in fortuna si vantasse di trar l'origine
sua dall'imperadore Filippo. Passato dall'aratro alla milizia, niuna
conoscenza avea delle lettere, anzi se ne protestava nemico
dichiarato[2763], chiamandole un veleno e peste dello stato, e
massimamente odiando gli avvocati e procuratori, ch'egli credeva atti
solo ad imbrogliare ed eternar le liti del foro. L'amicizia fra lui e
Galerio Augusto avea avuto principio fin quando si diedero entrambi al
mestiere delle armi; ed ora poi cresciuta a tal segno la loro
intrinsichezza, massimamente dipoi che di grandi prodezze avea fatto
Licinio nella guerra co' Persiani, che Galerio nulla quasi facea senza
il di lui consiglio. Pertanto prima d'ora avea egli risoluto di
crearlo Augusto, subito che fosse mancato di vita l'imperador
Costanzo. Ma essendo stato prevenuto da Costantino, Galerio eseguì ora
il suo disegno con dargli la porpora imperiale, disegnando poi di
mandarlo a far guerra a Massenzio tiranno di Roma e dell'Italia.
Scrive Eusebio[2764] che sul principio del principato di Costantino i
Britanni posti all'Occidente dell'Oceano, si sottomisero al di lui
dominio. Non so io dire, se ciò sia un fatto diverso da quanto si è
narrato al precedente anno della guerra di Costanzo suo padre coi
Pitti e Caledonii.

NOTE:

[2743] Reland., in Fast.

[2744] Aurelius Victor, in Epitome.

[2745] Vopiscus, in Vita Aureliani.

[2746] Eutrop. Aurel. Vict. Lactantius.

[2747] Idacius, in Chronico.

[2748] Zosimus, lib. 2, cap. 10.

[2749] Anonymus Valesianus.

[2750] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 26.

[2751] Incertus, in Panegyr. Maximian. et Const.

[2752] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[2753] Anonym. Valesianus. Lactantius. Zosimus. Aurel. Vict.

[2754] Lactantius, de Mortibus Persecut., cap. 28. Eutrop., in Brev.

[2755] Zonaras, in Annalibus.

[2756] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 26.

[2757] Eusebius, in Chron.

[2758] Idacius, in Fastis.

[2759] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2760] Gruterus in Inscription. Thesaur. Novus Veter. Inscript.

[2761] Eutrop., in Breviar. Anonymus Valesianus.

[2762] Capitolin., in Gordian.

[2763] Aurelius Victor, in Epitome.

[2764] Euseb., in Vita Constantini, lib. 4. cap. 50.




    Anno di CRISTO CCCVIII. Indizione XI.

    MARCELLO papa 1.
    GALERIO imperadore 4.
    MASSENZIO imperadore 3.
    COSTANTINO imperadore 2.
    LICINIO imperadore 2.
    MASSIMINO imperadore 1.

_Consoli_

_Marco Aurelio Valerio Massimiano Augusto_ per la decima volta e CAIO
GALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la settima.


Durando tuttavia la discordia tra tanti imperadori, continuò ancora la
confusione ne' consolati. Pare che i suddetti consoli fossero
pubblicati da Galerio Augusto, che era d'accordo con Massimiano, ma
non già col di lui figliuolo e genero suo Massenzio, benchè
probabilmente si trattasse di qualche accordo. Di qua venne che in
Roma non furono accettati i consoli suddetti pei tre primi mesi. E non
essendo seguito aggiustamento alcuno, abbiamo dall'autore del Catalogo
dei prefetti di Roma[2765], che _Massenzio_ si fece dichiarar console
nell'anno presente insieme con _Romolo_ suo figliuolo, il quale è
nomato nelle medaglie[2766] _Marco Aurelio Romolo_. Truovasi anche in
alcuni Fasti sotto quest'anno _Diocleziano console per la decima
volta_; ma è da credere uno sbaglio de' copisti, perchè Diocleziano
non si volle più ingerire ne' pubblici affari. La prefettura di Roma
fu in quest'anno appoggiata a _Stazio Raffino_[2767]. Dopo essere
stata lungo tempo vacante la cattedra di San Pietro, in quest'anno fu
creato papa _Marcello_. Contuttochè il padre Pagi[2768] pretenda che
nell'anno precedente _Massimino Cesare_ prendesse di sua autorità il
titolo d'_Augusto_, tuttavia sembra più probabile che ciò succedesse
nell'anno presente. Stava esso Massimiano alla guardia e al governo
dell'Oriente. Allorchè egli intese che _Licinio_ era stato promosso,
nel di 11 di novembre, alla dignità imperiale, cominciò forte a
strepitare, pretendendo fatto a sè stesso un gravissimo torto, perchè,
essendo egli stato dichiarato Cesare molto prima di Licinio,
l'anzianità sua esigeva ch'egli fosse anteposto all'altro negli
onori[2769]. Pervenuti a notizia di Galerio questi suoi lamenti, per
attestato di Lattanzio, inviò _più legati_ a Massimino per quetarlo,
pregandolo istantemente di ubbidire, di accettar le risoluzioni da lui
prese, e di cedere a chi era maggiore di lui in età: che tale dovea
essere Licinio. Ostinossi Massimino nella sua pretensione, e perciò
Galerio si rodeva le dita per aver alzato costui dal fango, e creatolo
Cesare con isperanza d'averlo ubbidiente ad ogni suo cenno, quando ora
il trovava sì restio e impaziente degli ordini. Andò poi a terminare
la faccenda in avere il superbo Massimino, ad onta di Galerio, deposto
il titolo di _Cesare_ e preso quel di _Augusto_, con far poi sapere a
Galerio, essere stato l'esercito suo che l'avea proclamato
_imperadore_, senza ch'egli avesse potuto resistere. Queste ambasciate
e questo dibattimento, che per la lontananza delle persone richiedeva
del tempo, debbono a noi parere bastevoli fondamenti per credere
seguita, non già nell'anno precedente, ma bensì nel presente,
l'esaltazione di Massimino. Sicchè noi ora abbiamo nell'imperio romano
cinque diversi Augusti, _Galerio Massimiano_, _Massenzio_,
_Costantino_, _Licinio_, e _Massimino_. Lattanzio vi aggiugne anche
_Diocleziano_; ma niuno scrive ch'egli mai ripigliasse la porpora. Da
tanti principi ognun può immaginare qual confusione dovesse esser
quella de' pubblici affari. Sembra nondimeno che, a riserva di
Massenzio, gli altri andassero in qualche maniera d'accordo insieme.
Quanto a _Massimino_, già appellato _Daza_, come dicemmo, uscito da
parenti rustici e vili nell'Illirico, egli si era tirato innanzi colla
profession delle armi, e tuttochè si dica ch'egli fosse uomo
quieto[2770], pure abbiamo da Lattanzio[2771] e da Eusebio[2772],
ch'egli fu un grande assassino de' popoli a lui sottoposti, con
ispogliarli per arricchire i soldati, e del pari superstizioso e fiero
persecutor de' Cristiani, come risulta dalla storia ecclesiastica.

Chiarito in questi tempi _Massimiano Erculio_, che poco a lui
profittavano le cabale sue ne' paesi di Galerio Augusto, se ne promise
miglior effetto presso di Costantino imperadore, genero suo e
figliuolo di un suo genero. Andossene dunque[2773] a trovarlo nelle
Gallie, fu ricevuto da lui con tutti gli onori, alloggiato nel
palazzo, e sì nobilmente provveduto di tutto[2774], come s'egli fosse
padrone in quelle parti, volendo Costantino che ognun l'ossequiasse ed
ubbidisse quasi più di lui stesso. Allora l'astuto vecchio, trovandosi
in mezzo a tanti comodi, per far ben credere al genero di non covar
più pensiero alcuno di regno, e di voler terminare in pace al pari di
Diocleziano i suoi giorni, depose la porpora, e si ridusse ad una vita
privata, in cui non mancava a lui delizia veruna. Tutto questo per più
facilmente ingannare l'Augusto genero. Avvenne che i Franchi fecero in
questi tempi qualche movimento d'armi contro le terre romane. Marciò a
quella volta Costantino con poca gente e alla sordina, così
consigliato da Massimiano, per sorprendere i nemici; ma altro in testa
avea il tuttavia ambizioso suo suocero. Sperava costui che Costantino
restasse involto in qualche grave pericolo, e di poter egli intanto
impadronirsi dell'armi e milizie lasciate addietro. In fatti, da che
si fu separato da lui, s'inviò verso Arles, dov'era il grosso delle
soldatesche, consumando nel cammino tutti i viveri, affinchè
mancassero a Costantino, caso ch'egli si rivolgesse a quelle parti.
Giunto ad Arles, di nuovo assunse l'abito imperiale, s'impossessò del
palazzo e de' tesori, dei quali tosto si servì per adescare e tirar
dalla sua quelle soldatesche; scrisse del pari all'altre più lontane,
invitandole con grandiose promesse, e screditando presso tutti un
genero, da cui tante finezze avea ricevuto Costantino, che non molto
si fidava di questo inquieto vecchio, e gli avea lasciato appresso
delle spie, immantinente fu avvertito de' primi moti del suo
tradimento, e però a gran giornate dal Reno sen venne ad Arles, prima
che Massimiano avesse preso buon piede; riguadagnò tutte le ribellate
milizie, e seguitò il suocero, che andò a ritirarsi a Marsiglia. Dato
l'assalto a quella città, si trovò che le scale erano troppo corte pel
bisogno, e convenne far sonare la ritirata. Lasciatosi veder
Massimiano sulle mura, Costantino avvicinatosegli, con tutta la
dolcezza possibile gli rimproverò una perfidia così indegna di un par
suo. Altro per risposta non riportò che delle ingiurie. Ma i cittadini
in quel tempo, aperta una porta della città, vi lasciarono entrar la
gente di Costantino, la quale, preso Massimiano, il condusse davanti
al genero Augusto. Atto d'incredibil moderazione convien ben dire che
fosse quel di Costantino, perchè a riserva de' rimproveri fatti al
perfido suocero, e all'avergli tolta di dosso la porpora imperiale,
niun altro male gli fece, nè il cacciò dalle Gallie; anzi sembra che
seguitasse a ritenerlo in sua corte, vinto probabilmente dalle
preghiere di Fausta sua moglie. Qui nondimeno non finirono le scene di
quest'uomo perfidioso, siccome vedremo. Liberato dal suddetto pericolo
l'Augusto Costantino, perocchè tuttavia pagano[2775], fece dei ricchi
donativi al superbo tempio d'Apollo creduto quello di Autun, dove
opinione era che si scoprisse la gente spergiura in quelle acque
calde.

Si può fondatamente riferire all'anno presente una sollevazione
insorta nell'Africa, di cui parlano Zosimo[2776] ed Aurelio
Vittore[2777]. Probabilmente ubbidiva l'Africa a Galerio Augusto dopo
la morte di Severo. Massenzio, imperadore di Roma e dell'Italia, ben
sapendo che quelle provincie erano dinanzi assegnate all'Augusto
dominante in Roma, cercò di stendere colà il suo dominio, e vi mandò
le sue immagini scortate da una man di soldati. Furono queste
rigettale da que' popoli. Ma perchè le truppe del paese non poterono o
non vollero fare resistenza, Cartagine col resto della contrada venne
alla di lui ubbidienza. Cadde in pensiero a Massenzio di portarsi
personalmente in Africa per processare e spogliare chiunque avea
sprezzate l'immagini sue; ed avrebbe eseguito il disegno, se gli
aruspici, con allegar segni infausti nelle vittime, non l'avessero
trattenuto. Pertanto non fidandosi di _Alessandro_ nativo della
Frigia, che esercitava l'uffizio del prefetto del pretorio, o pur di
suo vicario in Cartagine, gli scrisse che voleva per ostaggio un di
lui figliuolo. Sapeva Alessandro che iniquo e sregolato principe fosse
Massenzio, e però si andò scusando per non inviarlo. Scoperto poi che
era venuta gente d'ordine d'esso Massenzio per assassinarlo, ancorchè
persona di poco spirito e di molta età e pigrizia, intavolò una
ribellione, e si fece proclamar _Augusto_ da quelle milizie. Cosi ai
cinque sopraccitati imperadori si aggiunse quest'altro, sempre più
crescendo con ciò lo smembramento del romano imperio. Crede il
Tristano[2778] che un _Nigriniano_, appellato _Divo_ in qualche rara
medaglia, fosse figliuolo del suddetto Alessandro; ma si può
dubitarne. Per tre anni si sostenne esso Alessandro nella signoria
dell'Africa, come apparisce dalle di lui medaglie[2779].

NOTE:

[2765] Bucher., de Cyclo.

[2766] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2767] Cospinianus. Bucherius.

[2768] Pagius, in Crit. Baron.

[2769] Lactantius, de Mortib. Persec., cap. 32.

[2770] Aurelius Victor, in Epitome.

[2771] Lactantius, de Mortib. Persecut. cap. 32.

[2772] Euseb., Histor. Eccles., lib. 8, cap. 14.

[2773] Lactant., ibid., cap. 29.

[2774] Eumen., Panegyr. Constant., cap. 14 e seg.

[2775] Eumen., Panegyr. Const., cap. 21.

[2776] Zosimus, lib. 2, cap. 12.

[2777] Aurel. Victor, in Epitome.

[2778] Tristan., Medail., lib. 3.

[2779] Mediobarbus, Numism. Imperator.




    Anno di CRISTO CCCIX. Indizione XII.

    MARCELLO papa 2.
    GALERIO imperadore 5.
    MASSENZIO imperadore 4.
    COSTANTINO imperadore 3.
    LICINIO imperadore 3.
    MASSIMINO imperadore 3.

_Consoli_

MASSENZIO AUGUSTO per la seconda volta, e ROMOLO CESARE per la
seconda.


I consoli da me proposti sono quei che Massenzio tiranno elesse in
Roma, e venivano riconosciuti per l'Italia. Ma per le altre provincie
del romano imperio, stante la discordia fra gli Augusti, non si sa che
fossero eletti consoli; o se furono eletti, ne è ignoto il nome, dal
che venne che la gente, per denotar l'anno presente, si valeva della
formola _post consulatum Maximiani X et Galerii VII_. Contuttociò vi
ha chi pretende che _Licinio Augusto_ prendesse il consolato anche
egli. Abbiam veduto _Romolo_ Cesare, figliuolo di Massenzio,
esercitare il secondo consolato nell'anno presente; ma forse in questo
medesimo egli mancò di vita, credendo alcuni che nelle acque del
Tevere egli si affogasse, ma senza notizia del come; anzi con dubbio
tuttavia se tale veramente fosse la morte di lui, perchè il passo di
un panegirista[2780] di Costantino non lascia scorgere se ivi si parli
di Massenzio stesso o pure del figlio. Anzi perchè vedremo veramente
annegato Massenzio in quel fiume, di lui e non del figliuolo pare che
s'abbia da intendere quel passo. La prefettura di Roma fu in
quest'anno appoggiata ad _Aurelio Ermogene_. Il tempo, in cui
Massimiano Erculio pose fine alle cabale sue colla morte, resta
tuttavia incerto. Idacio[2781] ne parla all'anno seguente.
Eusebio[2782] all'anno terzo di Massenzio suo figlio. E perciocchè
esso anno terzo si stendeva alla maggior parte del presente, sembra a
me assai verisimile che in questo succedesse il fine della sua
tragedia, di cui buon testimonio è Lattanzio[2783] scrittore di questi
tempi, oltre all'Anonimo Valesiano[2784], Zosimo[2785] ed
Eutropio[2786]. Noi lasciammo questo maligno personaggio nelle Gallie,
dove, deposta la porpora, non ostante la sua sperimentata perfidia,
ricevea un trattamento onorevolissimo da Costantino suo genero. Ma
avvezzo al comando, nè sapendo accomodarsi alla vita privata, che non
fece il mal uomo? Ora con preghiere ed ora con lusinghe andò
tempestando la figliuola Fausta, per indurla a tradire l'Augusto
marito, con promettergliene un altro più degno, e a lasciar aperta una
notte la camera del letto maritale. Finse ella d'acconsentire, e
rivelò tutto a Costantino; ed egli per chiarirsene mise nel suo letto
per quella notte un vile eunuco. Massimiano sulla mezza notte armato
comparve colà, e trovate poche guardie, ed anche lontane, con dir loro
d'aver fatto un sogno che egli voleva rivelare al suo caro figliuolo
imperadore, passò nella stanza e trucidò il misero eunuco. Ciò fatto,
uscì fuori confessando il fatto, ed anche gloriandosene; ma eccoti
sopravvenir Costantino con una man d'armati, il quale, fatto portare
il cadavero dell'ucciso alla presenza d'ognuno, fece una scarica
d'improperii sopra l'iniquissimo vecchio, senzachè egli sapesse
proferir parola in sua discolpa: tanto si trovò sbalordito e confuso.
Gli fu data licenza d'eleggersi la maniera della morte, e questo fu il
laccio, con cui diede fine alla scellerata sua vita. Fallò Zosimo con
dire che questo ignominioso fine gli arrivò in Tarso, quando è certo
che fu in Provenza, cioè ad Arles, dove soleva dimorar colla sua corte
Costantino, o pure a Marsiglia, dove l'autore della Cronaca
Novaliciense[2787] circa l'anno 1054 pretende che fosse disotterrato
il corpo di Massimiano, il quale si trovò imbalsamato ed esistente in
cassa di piombo entro un'altra di candido marmo. Questo poi per ordine
di Rambaldo arcivescovo d'Arles fu gittato in alto mare. E tale fu il
fine obbrobrioso di quel superbo ed ambizioso principe, stato in
addietro sì fiero persecutore della religione di Cristo, e d'uno
ancora di questi ultimi imperadori nemici del nome cristiano, che Dio
punì con una morte la più vergognosa ed infame. Dall'aver Costantino
data onorevole sepoltura al suocero (come anche attesta santo
Ambrosio[2788], con dire che il fece mettere in una cassa non di marmo
bianco, ma di porfido), dedusse il padre Pagi[2789] che esso Augusto
si attribuiva ad onore d'essere _nipote di Massimiano_, adducendo per
questo un'inscrizione a lui posta, dove si trova intitolato così. Ma
se Costantino il Grande non appetisse, anzi abborrisse questa lode, si
può argomentare[2790] dal saper noi ch'egli fece atterrare tutte le
statue ed immagini appartenenti a Massimiano, e cancellar quante
iscrizioni e memorie potè di lui; e per conseguente è più tosto da
riferire quel marmo a Costantino juniore, figliuolo del Grande e di
Fausta figlia di esso Massimiano.

NOTE:

[2780] Incertus, in Panegyr. Constantini, cap. 18.

[2781] Idacius, in Fastis.

[2782] Eusebius, in Chron.

[2783] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 30.

[2784] Anonymus Valesianus.

[2785] Zosimus, lib. 2, cap. 11.

[2786] Eutrop., in Breviar.

[2787] Chron. Novaliciense, Rer. Italicar., Part. II, tom. 2.

[2788] Ambrosius, Epistol. 53.

[2789] Pagius, in Crit. Baron.

[2790] Euseb., Histor. Eccles., lib. 8, cap. 13. Lactantius, de Mort.
Persec., cap. 42.




    Anno di CRISTO CCCX. Indizione XIII.

    EUSEBIO papa 1.
    MELCHIADE papa 1.
    GALERIO MASSIMIANO imperadore 6.
    MASSENZIO imperadore 5.
    COSTANTINO imperadore 4.
    LICINIO imperadore 4.
    MASSIMINO imperadore 4.

_Console_

_Massenzio_ imperatore solo.


Ne' fasti d'Idacio e nell'Anonimo del Bucherio, o sia del Cuspiniano,
è nominato il solo _Massenzio_ console in Roma. Fuori d'Italia si
contava _l'anno II dopo il consolato di Massimiano Erculio X e di
Galerio Massimiano VII_. Ne' Fasti di Teone enunziati si veggono sotto
questo anno _Andronico_ e _Probo_. Possiam sospettare che fossero
sostituiti a Massenzio. _Rufo Volusiano_ si trova nel presente anno
prefetto di Roma. In questi tempi la giustizia di Dio, che già aveva
abbattuto l'iniquo Massimiano Erculio, si fece sentire anche all'altro
imperadore Galerio Massimiano, soggiornante[2791] in Sardica nella
Dacia novella, cioè a colui che abbiam di sopra veduto principal
promotore della persecuzion dei Cristiani. Era egli innamorato del suo
paese nativo, ed abbiamo da Aurelio Vittore[2792], ch'egli con far
tagliare delle sterminate selve nella Pannonia, e mettere quelle terre
a coltura, e con fare scolar l'acque del lago Pelsone nel Danubio,
avea renduto un gran tratto di paese utilissimo alla repubblica.
Ardeva egli di odio contra di Massenzio tiranno di Roma, nè ad altro
pensava che a procedergli contro, ammassando a questo fine a tutto
potere genti e denari. Col pretesto adunque d'aver egli a solennizzare
i vicennali del suo regno cesareo, al che diceva che occorreano
immense spese, dopo aver già rovinate le provincie a lui suddite a
furia d'imposte, inorpellate col nome di prestanze, finì di smugnerle
e di assassinarle con altre gravezze, alla riscossion delle quali
deputò i suoi soldati, che meritavano piuttosto il nome di carnefici
che di esattori: tanta era la lor crudeltà. Lattanzio ci fa qui un
lagrimevol ritratto di quelle inumane esazioni, per le quali
violentemente si toglievano alla gente tutti i frutti delle lor terre,
senza lasciarle di che vivere. Ma chi è terribile sopra i re della
terra, fece finalmente intendere a costui che v'era uno sopra di
lui[2793], percuotendolo con piaga nelle parti segrete e vergognose,
piaga orribile ed incurabile, per i cui dolori insoffribili cominciò
egli a patire e a prorompere in grida ed urli spaventosi. Ciò
probabilmente avvenne in Sardica, città della nuova Dacia. Si
affaticavano i medici per curar questo fiero nemico, che già aveva
cancrenate le carni, con tagliare e bruciare; e pareva che omai la
piaga si cicatrizzasse, quando essa più che mai inferocì, menando tal
fetore, che non solamente per tutto il palazzo, ma anche per tutta la
città si diffuse, come iperbolicamente lasciò scritto Lattanzio. E,
marcendo le carni, cominciò ad uscirne gran copia di vermi. In sì
orrido stato sotto il flagello di Dio si trovava l'iniquo principe,
del cui fine parleremo all'anno seguente. Sembra che al presente
s'abbia da riferire quanto abbiamo da Nazario[2794] nel Panegirico di
Costantino Augusto. Avevano formata una lega contra di lui i Brutteri,
Camavi, Cherusci, Vangioni, Alamanni e Tubanti, popoli tutti della
Germania; ed unita una formidabile armata si misero in campagna. Lento
non fu Costantino a presentarsi colla sua incontro ad essi, ed
ottenuto passaporto per gli suoi deputati a trattar con quelle barbare
nazioni, travestito come un d'essi, passò nel campo nemico,
accompagnato da due soli de' suoi, per ispiare le lor forze e disegni;
il che felicemente seguì. All'aver prima saputo che Costantino era in
persona all'armata, già aveano pensato coloro di separarsi, e di non
voler battaglia; ma assicurati poi da Costantino non conosciuto, che
l'imperadore era lontano dalle sue milizie, arrischiarono in fine il
combattimento, in cui sbaragliati ad altro non pensarono che a menar
ben le gambe. Dopo questa insigne vittoria, accennata in poche parole
anche da Eusebio[2795], passò Costantino nella Gran Bretagna, chiamato
colà dalle turbolenze mosse da alcuni di que' popoli, non si sa se
ribelli o pur nemici. La soggiogò in poco tempo, forse con poca
fatica, e senza venire a battaglia, perchè i di lui panegiristi non ne
fanno parola. _San Marcello_ papa, cacciato in esilio da Massenzio
tiranno di Roma, terminò sul principio di quest'anno la sua vita,
onorato col titolo di martire, ed ebbe per successore _Eusebio_ nella
sedia di san Pietro[2796], il quale dopo soli quattro mesi e mezzo di
pontificato fu chiamato da Dio a miglior vita. A lui succedette nella
cattedra pontificale _Melchiade_ papa.

NOTE:

[2791] Lactantius, de Mortibus Persecut., cap. 31. Anonym. Valesianus.

[2792] Aurelius Victor, de Caesaribus.

[2793] Eusebius, Histor. Eccl., lib. 8, cap. 16. Lactantius, de Mort.
Persec., cap. 33.

[2794] Nazar., in Panegyr., cap. 18.

[2795] Euseb., in Vita Constantini, lib. 1, cap. 25.

[2796] Pagius, Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CCCXI. Indizione XIV.

    MELCHIADE papa 2.
    MASSENZIO imperadore 6.
    COSTANTINO imperadore 5.
    LICINIO imperadore 5.
    MASSIMINO imperadore 5.

_Console_

CAIO GALERIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la ottava volta.


Per la discordia di tanti imperadori più che mai continuò la
confusione nei consolati. Dal canto suo _Galerio_ Augusto, benchè
confinato in letto per l'orribil sua malattia, procedette solo
_Console per l'ottava volta_, come s'ha dal Catalogo del
Bucherio[2797] e da Idacio[2798]. Suo collega è appellato _Licinio_
Augusto da Cassiodoro[2799], chi li mette amendue consoli sotto
quest'anno. I Fasti di Teone e Lattanzio[2800] fanno consoli _Galerio_
e _Massimino_, amendue imperadori; il che può indicare che fosse
tornata fra loro qualche armonia. In fatti ho io recato nell'Appendice
al tomo IV delle mie Iscrizioni un marmo della Carintia, dove vien
detto edificato un tempio _Maximiano VIII et Maximino iterum Augg.
Coss._, e pare che si possa riferire all'anno presente. Quanto a Roma,
siamo accertati dal suddetto Catalogo dei prefetti di Roma, pubblicato
dal Cuspiniano e dal Bucherio, che si stette quivi sino al settembre
senza consoli; ed allora solamente furono pronunziati consoli _Rufino_
ed _Eusebio_, o pure, come la Cronica di Damaso[2801], _Volusiano_ e
_Rufino_. Anche Idacio[2802] mette questi due ultimi consoli; e certo
per le conghietture da me altrove[2803] addotte, in quest'anno si può
credere assunto in Roma al consolato _Caio Ceionio Rufino Volusiano_.
Forse il suo collega fu _Eusebio_, potendosi temere il cognome di
_Rufio_ mutato in _Rufino_. Che se pure diverso da lui fu _Rufino_,
non è improbabile che _Aradio Rufino_, il quale troveremo prefetto di
Roma nell'anno seguente, procedesse console nel presente. A Giunto
Flaviano essa prefettura di Roma fu conferita sul fine di ottobre di
quest'anno. Intanto fra orribili tormenti, divorato da' vermi,
continuava[2804] a marcire Galerio Massimiano Augusto[2805]. Per
quanti ricorsi egli avesse fatto ai suoi falsi dii, cioè ad Apollo ed
Esculapio, niun sollievo provava, anzi sempre più si sentiva
peggiorare. Allora fu che s'avvide, ovvero ch'altri gli fece venir in
mente, che l'onnipotente vero Dio il flagellava per gastigo della
fiera persecuzione da lui specialmente accesa e crudelmente esercitata
contra de' suoi servi cristiani. Il perchè s'avvisò di dar loro la
pace, e sopra ciò pubblicò un editto, a noi conservato da Lattanzio e
da Eusebio, in cui troviamo una filza di titoli corrispondenti alla di
lui vanità. Quivi egli ordinò di non molestar da lì innanzi i seguaci
di Gesù Cristo, affinchè essi potessero pregar Dio per la di lui
salute. Ma niun segno ivi si legge di pentimento; e vi si leggono anzi
delle bestemmie contro la credenza de' Cristiani. Ad esso editto
concorsero ancora Costantino e Licinio Augusti, i quali andavano
d'accordo con esso Galerio; e sembra che anche Massimino vi
acconsentisse, per quanto accenna Lattanzio. Abbiamo poi dal medesimo
autore che nel dì 30 d'aprile questo editto fu pubblicato in
Nicomedia, dove furono aperte le prigioni, e che colà nel mese
seguente arrivò la nuova che _Galerio imperadore_ avea dato fine
all'odiata sua vita. Mancò egli in fatti nel mese di aprile,
terminando la sua superbia e crudeltà con evidente gastigo della mano
di Dio.

Trovossi presente alla di lui morte Licinio imperadore, a cui egli
raccomandò sua moglie _Valeria_, figliuola di Diocleziano, e
_Candidiano_ suo figlio bastardo. Trovansi medaglie[2806] che ci
assicurano aver egli ricevuto dall'empietà pagana gli onori divini nel
paese, per quanto si può credere, che fu dipendente dalla di lui
autorità. Per la morte di lui restò _Licinio_ Augusto padrone di
quelle medesime contrade, cioè di tutto l'Illirico, che abbracciava
l'Ungheria ed altre provincie, e della Grecia, Macedonia e Tracia, ed
anche della Bitinia, posta di là dallo stretto di Bisanzio. Ma non sì
tosto ebbe intesa la di lui morte _Massimino_, imperador delle
provincie d'Oriente, che dato di piglio all'armi volò nella Bitinia, e
se ne impadronì[2807]. Accorse bensì Licinio a Bisanzio per opporsi,
ma non fu a tempo; e perchè non si sentiva gran voglia di venir per
ora con lui alle mani, diede orecchio ad un abboccamento[2808], in cui
rimasero insieme d'accordo, restando padrone Massimino d'essa Bitinia:
con che lo stretto di Bisanzio venne ad essere il confine de' loro
imperii. Seguita poi a dire Lattanzio che Massimino tornò come prima a
perseguitar i Cristiani, mostrando di farlo come pregato dalle città.
Tuttavia per far risplendere la sua clemenza ordinò che ai servi del
vero Dio non si levasse la vita, ma permettendo che loro si cavassero
gli occhi, si tagliassero le mani o piedi, o il naso e l'orecchie.
Valeria vedova di Galerio Augusto, ancorchè raccomandata a Licinio, si
ritirò da lui, e passò sulle terre di Massimino con Candidiano,
figliuolo del defunto marito, e da lei ancora adottato. Altro non dice
Lattanzio[2809], se non che le facea paura la libidine di Licinio, e
ch'ella si giudicò più sicura sotto la protezion di Massimino, perchè
uomo ammogliato. Ma que' villani imperadori tutti erano bestie anche
per questo conto. Massimino, da che fu entrata ne' suoi stati la
suddetta Valeria Augusta con Prisca sua madre, e moglie di Diocleziano
già imperadore, cominciò a pulsarla, affinchè rinunziasse a lui tutte
le sue pretensioni sopra la succession del padre e del marito Augusti.
Valeria, forse per tener salvi i diritti dell'adottato Candidiano e i
propri, non ne volle far altro. Veramente sul principio si trovò essa
ben trattata da lui; ma da lì a poco tempo restò essa non poco
ammirata e confusa, perchè Massimino le fece proporre di prenderla per
moglie; al qual fine si esibiva di ripudiar quella ch'egli avea. La
risposta di Valeria fu da donna saggia e di petto costante: che si
maravigliava di una tal proposizione, come empia, pendente lo
scorruccio del defunto consorte, e parere a lei strano ch'egli volesse
abbandonar una moglie senza alcun demerito suo; e che questo procedere
apriva a lei gli occhi per temer tutto da lui; in somma non essere
permesso ad una persona del suo grado di pensare ad un secondo marito,
come cosa scandalosa e senza esempio. Udita ch'ebbe Massimino questa
generosa risposta, cangiossi tutta la libidine sua in odio e furore.
Cacciò Valeria e tutti i suoi in esilio, senza assegnar loro un luogo
fisso, e con farla vergognosamente condurre qua e là. Occupò tutti i
di lei beni, le levò i suoi ufficiali, fece tormentare i suoi eunuchi,
e mosse guerra alle nobili dame della di lei corte, alcune delle quali
condannò alla morte con false accuse di adulterio, quando egli sapeva
che erano più caste di quel ch'egli stesso voleva: iniquità che
accrebbe a dismisura l'odio di ognuno verso questo manigoldo tiranno.
Come terminasse la tragedia d'essa Valeria non tarderemo ad udirlo.
Mosse anche guerra Massimino, per attestato di Eusebio, ai popoli
dell'Armenia, perchè, siccome cristiani, non voleano far sacrifizii ai
falsi dii; ma con poco suo utile. La fame e la peste anch'esse fecero
guerra alle di lui armate.

Mentre tali cose succedevano in Oriente, Costantino Augusto si
applicava a stabilire una buona pace nelle Gallie, per essere in
istato di rispondere in buona forma alle minacce[2810] che andava
facendo Massenzio tiranno di Roma contro di lui, servendosi del
pretesto della morte di Massimiano Erculio suo padre, benchè in suo
cuore non ne avesse disgusto. Visitò Costantino[2811] in quest'anno la
città di Autun, e trovandola desolata, rimise a quel popolo i debiti
di cinque anni addietro contratti col fisco, e parte delle imposte per
gli anni avvenire: il che fu di mirabil sollievo a quella città, la
quale da lì innanzi prese il titolo di Flavia dalla famiglia
dell'Augusto benefattore. Fu in questa congiuntura che l'oratore
Eumene, o Eumenio, recitò in lode di lui un panegirico che resta con
altri tuttavia. Pensava in fatti Massenzio di far guerra a Costantino,
e già avea disegnato di passar pei Grigioni nelle Gallie, con formar
de' mirabili castelli in aria, cioè figurandosi di poter atterrar
Costantino con facilità, e poi d'impadronirsi della Dalmazia e
dell'Illirico, con abbattere l'Augusto Licinio, dominante in quelle
parti. Ma prima d'intraprendere questa guerra, giudicò meglio di
ricuperar l'Africa[2812]. Quivi tuttavia sussisteva l'usurpatore
_Alessandro_ che avea preso il titolo d'_Augusto_. Colà fu inviato
assai nerbo di gente Rufio Volusiano prefetto del pretorio, che
probabilmente dopo tale impresa fu assunto al consolato. Menò egli
seco Zena, uomo che egregiamente intendeva il mestier della guerra, ed
era in credito d'uomo pien di mansuetudine. Poca fatica durò questo
capitano a sbrigarsi di quel tiranno, con aver messo in fuga i di lui
soldati. Restò egli preso e strangolato. Bella occasion fu questa pel
crudele Massenzio di spogliar del suo meglio l'Africa tutta. Non vi fu
persona, nobile o ricca, che a torto o a diritto non fosse processata
e condannata come aderente all'estinto Alessandro, con perdere perciò
vita e roba. Oltre a ciò, ordinò l'empio Massenzio che fosse dato il
sacco e il fuoco a Cartagine, città allora delle più belle e
riguardevoli del mondo, non che dell'Africa. In una parola, per tante
crudeltà rimasero affatto impoverite e rovinate tutte le africane
provincie; e pure delle lacrime di que' popoli si fece trionfo e falò
in Roma, città nondimeno con ugual furore maltrattata dallo stesso
Massenzio, siccome fra poco dirò.

NOTE:

[2797] Bucherius, de Cycl.

[2798] Idacius, in Fastis.

[2799] Cassiodorus, in Fastis.

[2800] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 35.

[2801] Chronic. Damasi, apud Anastasium. Bibliothecar.

[2802] Idacius, ibid.

[2803] Thesaurus Novus Inscript., pag. 172.

[2804] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 33.

[2805] Euseb., Histor. Eccles., l. 8, cap. 17.

[2806] Mediobarbus, in Numismat. Imp.

[2807] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 36.

[2808] Euseb., Histor. Eccles., lib. 9, cap. 6 et 10.

[2809] Lactant., ibid., cap. 39.

[2810] Zosimus, lib. 2, cap. 14. Lactant., de Mort. Persec., cap. 43.

[2811] Eumen., Panegyr. Constant.

[2812] Zosimus, lib. 2, cap. 14. Aurelius Victor, de Caesaribus.




    Anno di CRISTO CCCXII. Indizione XV.

    MELCHIADE papa 3.
    MASSENZIO imperadore 7.
    COSTANTINO imperadore 6.
    LICINIO imperadore 6.
    MASSIMINO imperadore 6.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANTINO AUGUSTO per la seconda volta e PUBLIO
LICINIANO LICINIO AUGUSTO per la seconda.


Tali furono i consoli per le Gallie e per altri paesi, dove regnava
_Costantino_, e nell'Illirico, dove dominava _Licinio_. Andavano
d'accordo insieme questi due imperadori. Ma in Roma, per attestato
d'Idacio[2813] e del Catalogo Bucheriano[2814], fu _console_ il solo
_Massenzio per la quarta volta_. In Oriente credono alcuni che
procedessero _consoli Massimino Augusto e Picenzio_. Fu in quest'anno
prefetto di Roma Aradio Rufino. Fra tanti imperadori cavati
dall'aratro e dalla zappa, che in questi tempi governarono, o, per dir
meglio, divisero e lacerarono l'imperio romano, niuno, a mio credere,
fu più pernicioso e pestilente di Massenzio e di Massimino; l'uno
signoreggiante in Roma, nell'Italia e nell'Africa; e l'altro
nell'Oriente. Ne ho per testimonio Aurelio Vittore[2815] e lo stesso
Zosimo[2816], nemico di Costantino, oltre agli storici cristiani che,
parlano a lungo delle loro scelleraggini. Sopra gli altri
Lattanzio[2817] descrive la lascivia incredibile di Massimino e le
violenze da lui usate. L'autore incerto[2818] del panegirico di
Costantino ed Eusebio[2819] ci fan sapere gli enormi vizii di
Massenzio, tali che possono far orrore a chiunque legge; sì sfrenata
era la sua libidine, barbarica la sua crudeltà, non solo nella Africa,
come abbiam detto, ma nell'Italia ancora e in Roma stessa. Niuna
matrona era ivi sicura dalle unghie di questo avoltoio. La moglie
dello stesso prefetto di Roma, cristiana di religione, per sottrarsi
alla di lui bestiale violenza, si cacciò un pugnale nel petto e morì:
azione gloriosa bensì secondo la morale de' pagani, ma non già secondo
quella de' Cristiani. Le estorsioni poi fatte da Massenzio per adunar
tesori con disegno di valersene a far guerra a Costantino, e per tener
contente ed allegre le sue milizie, furono innumerabili, perchè
continue. Tutto dì saltavano fuori calunnie contra dei benestanti e
de' medesimi senatori; ed oltre ai lor beni vi andava anche la vita,
di maniera che il senato restò spogliato dei suoi più illustri
soggetti. Potevano poi i soldati a man salva commettere quante
iniquità volevano contra l'onore, la vita e i beni degl'innocenti,
perchè la giustizia per conto loro avea affatto perduta la voce e le
mani. Lo stesso, che in Roma, si praticava per tutta l'Italia dai suoi
perversi ministri. Giunse Massenzio per questa via in meno di sei anni
a spogliar Roma e le provincie italiane di tulle le ricchezze adunate
dai popoli in più di dieci secoli addietro[2820]. Fu fatto anche in
Roma un giorno un gran macello di cittadini romani per leggerissima
cagione. Forse fu quella, di cui Zosimo[2821] fa menzione, dicendo che
attaccatosi il fuoco in Roma al tempio della Fortuna, perchè uno de'
soldati metteva in burla quella falsa deità, i Romani accorsi a folla
per ismorzar l'incendio, se gli avventarono addosso e l'uccisero. Di
più non vi volle perchè gli altri soldati ammutinati facessero una
fiera strage di que' cittadini, e se non accorreva Massenzio, la città
affatto periva. Anche Nazario[2822], anche Prudenzio[2823] ci
lasciarono un vivo ritratto del compassionevole stato di Roma sotto di
questo tiranno, impudico, crudele, assassino delle sostanze altrui, e
dato alla magia per la folle speranza di scoprir l'avvenire: nel che
quanto egli s'ingannasse fra poco apparirà.

Intanto l'Augusto Costantino con segrete lettere veniva sollecitato
dai Romani a calare in Italia, per liberarli dall'insoffribil tiranno;
ma quello che finalmente diede la spinta alle di lui armi, fu l'udire
che Massenzio era risoluto di muovere a lui stesso guerra, con
lasciarsene anche intendere dappertutto, e mirabil preparamento faceva
a tal fine, fingendo di voler vendicare la morte di Massimiano suo
padre. Un gran dappoco[2824], un figlio della paura era per altro
Massenzio; dato unicamente ai piaceri, non usciva quasi mai di
palazzo: il più gran viaggio che faceva, ma di raro, consisteva in
passare agli orti di Sallustio. La fidanza nondimeno di riuscire nelle
grandi imprese, la riponeva egli nel numero e nella forza delle sue
scapestrate milizie, in alcuni suoi valorosi uffiziali, e nei tesori
ammassati con impoverire tutti i suoi sudditi. Oltre al grosso corpo
dei suoi pretoriani, gente creduta la più valorosa dell'altre, oltre
all'armata che già servì sotto suo padre, aveva egli fatta copiosa
leva di soldati non meno in Italia che nell'Africa. Il panegirista
anonimo di Costantino gli dà un esercito di cento mila combattenti.
Aggiugne che quello di Costantino ascendeva solo alla quarta parte,
cioè a venticinque mila, espressamente dicendo che era minore di quel
di Alessandro il Grande, consistente in quaranta mila. Zosimo[2825],
all'incontro, benchè lontano da questi tempi e fatti, pure con più
verisimiglianza racconta che Massenzio avea in armi, oltre alle
vecchie sue squadre, ottanta mila Italiani, e quaranta mila tra
Siciliani ed Africani, di modo che nella sua armata si contavano cento
settanta mila pedoni, e diciotto mila cavalli. Dall'altra parte
Costantino aveva messo in piedi un esercito di gente, parte gallica e
parte germanica, sino al numero di novanta mila fanti ed otto mila
cavalli. Abbiamo da Nazario[2826] che Costantino tentò prima le vie
dolci per risparmiare la guerra, con ispedir ambasciatori a Massenzio
e far proposizioni di pace. Più che mai ostinato nei suoi disegni si
trovò il tiranno: e non passò molto[2827] ch'egli diede principio alla
danza con abbattere in Roma le statue ed immagini di Costantino, più
che mai protestando di voler la vendetta del padre. Ora Costantino,
veggendo che a costui piaceva il giuoco continuò più che mai a
mettersi in arnese. Ma per assicurarsi di non aver che un nemico da
affrontare, trattò prima una lega con Licinio imperadore
dell'Illirico, e gli riuscì di stabilirla con promettergli in moglie
_Flavia Valeria Costanza_ sua sorella[2828]. Informato di questo
accordo Massimino imperador dell'Oriente, che prima era in trattato di
lega con esso Licinio, ingelosito della contratta loro forte amistà,
quasi che mirassero alla di lui rovina, tosto si rivolse al tiranno di
Roma, cioè Massenzio, con offerirsi di stringersi in lega con lui.
Massenzio a braccia aperte accettò le esibizioni, parendogli mandato
dal cielo un sì fatto aiuto in occasione di tanta importanza. Pure noi
non sappiamo che Licinio porgesse in questa guerra soccorso alcuno a
Costantino, nè che Massimino si sbracciasse punto per sostenere
Massenzio.

Non volle già il saggio Costantino lasciarsi prevenir da Massenzio, ma
animosamente determinò di prevenir lui, e di allontanar dal suo
dominio la guerra, con portarla nel paese nemico. Probabilmente
adunque sulla primavera dell'anno presente mosse egli dal Reno
l'armata sua[2829], con inviarne un'altra per mare, e tal diligenza
fece che all'improvviso comparve all'Alpi, e le passò senza trovar
resistenza. Trovò bensì la città di Susa ben fortificata, ben
rinforzata di guarnigione, che si oppose ai suoi passi, nè volle
cedere alla chiamata. Costantino, senza mettersi ad assediarla,
comandò immantinente che si attaccasse il fuoco alle porte, e si desse
la scalata alle mura. V'entrò vittoriosa la di lui gente; e pure il
buon imperadore ne impedì il sacco, e perdonò a quegli abitanti e
soldati[2830]. S'inoltrò poi l'esercito suo alla volta di Torino; ma
prima di giugnervi, ecco possenti schiere di nemici a cavallo, tutte
armate di ferro, attraversargli il cammino. Fatto far largo ai suoi,
Costantino le prese in mezzo, e poi diede loro addosso. I più
restarono ivi atterrati a colpi di mazze, gli altri inseguiti sino a
Torino, trovarono le porte che non si vollero aprir dagli abitanti per
loro, a piè delle quali perciò rimasero estinti. Di volere del popolo
entrò in quella città Costantino, ricevuto con giubilo da tutti.
Questo primo prosperoso successo dell'armi sue mosse le circonvicine
città a spedirgli dei deputati, con esibirgli la lor sommessione e
provvisione di viveri, di maniera che, senza più sfoderar la spada,
egli arrivò a Milano, dove entrò fra i viva di tutto quel popolo. Il
buon trattamento ch'egli faceva a chiunque volontariamente si rendeva,
invitava gli altri ad accettarlo allegramente per signore. Dopo aver
dato per qualche giorno riposo all'esercito suo in quella nobil città,
passò Costantino a Brescia, dove trovò un buon corpo di cavalleria che
parea disposto a far fronte; ma sbaragliato con pochi colpi, prese
tosto la fuga, con salvarsi a Verona, dove si erano unite le
soldatesche di Massenzio, sparse prima in varii siti per difendere
quella forte città[2831]. Avea quivi il comando dell'armi Ruricio
Pompeiano prefetto del pretorio, uomo di molta sperienza ne' fatti
della guerra, che, senza volersi esporre all'azzardo di una battaglia,
si dispose a sostenere l'assedio, con restare a sua disposizione il di
là dall'Adige. Fu dato principio all'assedio, ma riconoscendosi la
vanità d'esso se non si stringeva la città anche dalla parte
settentrionale, riuscì poi alle milizie di Costantino di valicar quel
fiume nella parte superiore in sito poco custodito da' nemici; e però
d'ogni intorno restò assediata Verona. Più d'una sortita fece
Pompeiano, ma con lasciar sempre sul campo la maggior parte dei suoi:
il perchè prese egli la risoluzione di uscirne segretamente dalla
città per portarsi a raunar gente, e tornar poi a soccorrerla. Ritornò
in fatti con molte forze[2832]. Ma Costantino, lasciata la maggior
parte dell'esercito all'assedio, col resto, benchè inferiore di numero
ai nemici, andò coraggiosamente ad assalirlo. Si attaccò la zuffa
verso la sera, e durò parte della notte, colla totale sconfitta e
strage grande de' Massenziani, e colla morte dello stesso lor generale
Pompeiano. Grandi prodezze fece in questo combattimento Costantino,
coll'entrare nel più forte e pericoloso della mischia, e menar le mani
al pari d'ogni semplice soldato, di maniera che dopo la vittoria i
suoi uffiziali colle lagrime agli occhi lo scongiurarono di non
azzardar più a questa maniera una vita di tanta importanza[2833]. Pare
che continuasse anche qualche tempo l'assedio, e che la città fosse
presa o per dedizione o per assalto, e poi saccheggiata, ma i
panegiristi d'allora, usati, secondo il loro mestiere, a farci veder
solamente il bello del loro eroe, non ci lasciano scorgere come
terminasse quella tragedia, se non che l'Anonimo scrive, che Pompeiano
cagion fu della rovina di Verona, e che miserabil fu la calamità di
quel popolo. A tutti nondimeno fu salva la vita, ed anche agli stessi
soldati nemici. Ma perchè non v'erano tante catene da poter legare sì
gran copia di prigioni, Costantino ordinò che delle spade loro si
facessero tante catene per custodirli nelle carceri.

Tocca Nazario[2834] di passaggio le città d'Aquileia e di Modena, con
far comprendere che anch'esse fecero della resistenza, e convenne usar
della forza contra di esse. Ma in fine anche quei popoli si renderono
e con piacere, perchè sottoposti a Costantino si promettevano migliore
stato, e in fatti si trovarono da lì innanzi in buone mani. Niuna
altra opposizione provò l'Augusto principe nella continuazion del suo
viaggio, finchè arrivò alle vicinanze di Roma, primario scopo delle
sue armi, per desiderio di far sua la capital dell'imperio, e di
liberar quel popolo dal giogo intollerabile del violento tiranno
Massenzio. Costui non s'era attentato in addietro, e molto meno si
attentava ora a mettere il piede fuori di Roma[2835], perchè da' suoi
astrologhi o maghi era stato predetto, che qualora ne uscisse, sarebbe
perito. L'armata sua di gran lunga era superiore all'altra; in Roma
aveva egli raunata un'immensa copia di viveri; ed inoltre colle
immense somme d'oro, da lui messe insieme colle inudite sue avanie, si
lusingava di poter sovvertire tutte le milizie di Costantino, siccome
gli era venuto fatto con quelle di Severo e di Galerio. Il perchè
sembrava più tosto godere che rattristarsi della venuta di Costantino,
stante il tenersi egli come in pugno di spogliarlo di gente, di
riputazione e di vita. Ma differenti erano gli alti disegni di Dio,
che intendeva di liberar oramai Roma dal tiranno, e la sua Chiesa
dalla persecuzion de' pagani, i quali intorno a tre secoli sparso
aveano tanto sangue di persone innocenti. Era già l'Augusto Costantino
assai inclinato verso de' Cristiani, ancorchè nato ed allevato nella
superstizion dei Gentili, con aver forse ereditato questo buon genio
da Costanzo suo padre, da noi veduto sì favorevole ai cristiani, o pur
da Elena sua madre. Trovandosi egli ora in questo gran cimento; cioè a
fronte di un potentissimo nemico, e sul bivio o di perdere o di
guadagnar tutto, allora fu che, conoscendo il bisogno di essere
assistito da Dio, seriamente pensò a qual Dio dovesse egli ricorrere
per aiuto. La follia e falsità de' finora creduti suoi dii in varie
occasioni l'avea egli osservata, e però sull'esempio di suo padre non
soleva più adorare se non il Dio supremo, padrone e regolatore
dell'universo. Eusebio[2836] gravissimo storico ci assicura d'aver
intesa la verità di questo fatto dalla bocca del medesimo Costantino,
allorchè da lì ad alcuni anni familiarmente cominciò a trattare con
lui. Cioè si raccomandò egli vivamente a Dio creatore del tutto,
quando nel marciar egli coll'esercito suo un giorno, sul bel mezzo dì
mirò in cielo sopra il sole una croce di luce, ed appresso le seguenti
parole: _Con questa va a vincere._ Di tal miracoloso fenomeno
spettatori furono anche i soldati della sua comitiva. Restò egli
perplesso del suo significato, quando nella seguente notte
apparendogli in sogno Cristo, gli disse, che, di quella bandiera
valendosi, egli vincerebbe. Nulla di più occorse perchè Costantino,
fatti chiamare de' sacerdoti cristiani, ed esposto loro quanto avea
veduto, imparasse a conoscere la venerazion dovuta alla Croce
santificata da Gesù Cristo, e dal culto de' falsi dii passasse alla
pura e santa religion dei Cristiani: fatto de' più mirabili e
strepitosi che somministri la storia, perchè mutò affatto in poco di
tempo anche la faccia del romano imperio.

Fece adunque Costantino mettere nelle sue insegne il monogramma di
Cristo Signor nostro, e con questa animosamente procedette contro del
tiranno. In qual tempo precisamente, cioè se nel principio di questa
guerra o pur nelle vicinanze di Roma, accadesse un tal fatto, l'han
ricercato gli eruditi. Chiaramente Lattanzio[2837] scrive che
Costantino prima di venir a battaglia con Massenzio, avvertito da Dio
in sogno, fece mettere il nome di Cristo negli scudi de' soldati, e
che in virtù d'esso vinse. E benchè possa parere strano a taluno, che
i panegiristi di allora e gli storici pagani, come Eutropio, Sesto
Vittore e Zosimo non abbiano fatto menzione alcuna di un avvenimento
di tanta conseguenza; pure non è da maravigliarsene, perchè nè pur
essi parlano della religion cristiana abbracciata da Costantino; o se
ne parlano, solamente è per isparlarne, e non già per riconoscerne i
pregi e i miracoli. A buon conto fuor di dubbio è che Costantino,
abbandonati gl'idoli, abbracciò la credenza dei cristiani, e fu il
primo degl'imperadori che venerasse la Croce; avvenimento per sè
stesso miracoloso, ed effetto della mano di Dio. Lattanzio poi ed
Eusebio furono scrittori nobili, contemporanei e familiari di quel
grande Augusto, nè loro si può negar fede senza temerità. Le
precauzioni che prese in questa congiuntura Massenzio, furono di
portare l'armata sua, più numerosa di lunga mano che quella di
Costantino, fuori di Roma, alla difesa del Tevere e di Ponte Molle; e
di fabbricar su quel fiume un ponte di barche, congegnato in maniera,
che levando via alcuni ramponi[2838], da' quali era legato nel mezzo,
esso si scioglieva, non tanto per assicurarsi della propria ritirata
occorrendo, quanto per annegare i nemici se si mettevano a passarlo.
Arrivato che fu Costantino a Ponte Molle, quivi si accampò
coll'esercito suo, ma senza scorgere come potere passar oltre; colla
opposizione di un fiume allora assai ricco d'acque, e difeso da tante
squadre nemiche. Ma permise Iddio che il tiranno dovette essere sì
caldamente spronato dagli uffiziali suoi, a' quali per la superiorità
delle forze parea certa la vittoria, che s'indusse a far egli passare
l'armata sua di là dal fiume pel nuovo ponte di navi, con animo di
venir a battaglia campale col nemico; ed intanto prese posto fra
Costantino e il Tevere ad un luogo appellato i Sassi Rossi, lungi da
Roma, se disse il vero Aurelio Vittore[2839], nove miglia. Non poteva
Massenzio far cosa più grata di questa a Costantino, il quale non
altro temeva, se non che il tiranno stesse chiuso in Roma, ed
aspettasse piuttosto un assedio; il che sarebbe stato la rovina o di
Roma, o degli assedianti, perchè quella gran città era a maraviglia
fornita di munizioni da bocca e da guerra, e di un'armata maggior
della sua[2840]. Due giorni prima il tiranno spaventato da un sogno,
s'era levato dal palazzo, e colla moglie e col figliuolo (non sappiamo
se Romolo o pure un altro) era passato ad abitare in una casa
particolare: dal che i superstiziosi Romani presagirono tosto che
fosse imminente la sua caduta.

Era venuto il dì in cui Massenzio dovea celebrare il giorno suo
natalizio, o pure l'ultimo dell'anno sesto del suo imperio con feste e
giuochi; cioè il dì 27 d'ottobre, per quanto si ricava da
Lattanzio[2841], ovvero il dì 28 d'esso mese, come si raccoglie da un
Calendario antichissimo pubblicato dal Bucherio[2842]. Non mancò
Massenzio di dare al popolo giuochi circensi; ma perchè il medesimo
popolo gridò che Costantino non si potea vincere, tutto in collera si
levò di là, e spediti alcuni senatori a consultare i libri
sibillini[2843], mentre egli attendeva a far de' sacrifizii, gli fu
riferito essersi trovato che in quel giorno avea da perire il nemico
de' Romani. Questo bastò per incoraggirlo, perchè l'interpretò contra
di Costantino, senza pensare ch'egli stesso potesse essere quel desso;
e però tutto in armi passò all'esercito suo, il qual già era alle mani
coll'avversario. Così Lattanzio. Ma i panegiristi di Costantino[2844]
sembrano dire ch'egli in persona schierò la propria armata ed attaccò
la zuffa[2845]. Fu questa delle più terribili e sanguinose, e parve
che Dio permettesse che il tiranno ristrignesse la sterminata
moltitudine de' suoi fra il Tevere e l'esercito nemico, acciocchè
restando sconfitta, ne perisse la maggior parte o trafitta dalle
spade, o sommersa nel fiume. In fatti Costantino, dopo aver messe in
miglior ordinanza di battaglia le sue milizie, tutto fiducia nel Dio
de' cristiani, fece dar alle trombe, e innanzi agli altri si scagliò
contro ai nemici. I primi a piegare furono i soldati romani ed
italiani, perchè ansiosi d'essere liberati dall'insoffribil tiranno.
Tennero forte gli altri, e moltissimo sangue si sparse; ma in fine
rotta la cavalleria di Massenzio, tutto il suo campo voltò le spalle,
ma con aver dietro le spade nemiche, ed avanti un largo fiume. Però la
strage degli uccisi fu grande, maggior la copia di coloro che finirono
la lor vita nelle acque. Anche Massenzio, spronato il cavallo, cercò
di salvarsi pel suo ponte di barche, ma il trovò sì carico per la
folla dei fuggitivi, ch'esso ponte si sciolse, e si affondò, ed egli
in compagnia d'altra non poca gente precipitò nell'acque, ed ivi restò
sommerso[2846]. Giunta questa nuova in Roma, niuno per qualche tempo
osò di mostrarne allegrezza, perchè non mancava chi l'asseriva
falsissima; ma ritrovato nel giorno appresso il cadavero dell'estinto
tiranno, e spiccatane dal busto le testa, portata che fu questa sopra
un'asta nella città, allora tutto il popolo proruppe[2847] in
trasporti incessanti di gioia, senza potersi esprimere quanta fosse la
consolazion sua al trovarsi libero da un tiranno, delle cui iniquità
parlarono cotanto non meno i cristiani che gli etnici scrittori. Ma
crebbe il giubilo, quando videro entrar in Roma nel giorno susseguente
al fatto d'armi il vittorioso Costantino in foggia di trionfo, ma
insieme in abito di pace e d'amore, perchè senza condur prigioni, e
con fare buon volto a tutti, e solamente con aria di clemenza si
lasciò vedere a quel gran popolo.

Zosimo scrive ch'egli fece levar di vita un picciolo numero di persone
troppo in addietro attaccate al tiranno; ed oltre a ciò Nazario sembra
dire che Costantino sradicò dal mondo la di lui schiatta colla morte
probabilmente del figliuolo di Massenzio, che non sappiamo se fosse
Romolo o pure un altro. La clemenza sua si stese dipoi sopra il
restante delle persone[2848], ricevendo in sua grazia chiunque era
stato apertamente contra di lui, e conservando loro il possesso dei
beni ed impieghi, e fino ad alcuni, dei quali il popolo dimandava la
morte. Accettò inoltre al suo servigio que' soldati di Massenzio
ch'erano salvati nella rotta, con levar loro l'armi; benchè dipoi loro
le restituì, mandandoli solamente divisi alle guarnigioni dei suoi
stati sul Reno e sul Danubio. Ma ciò che più d'ogni altra sua
risoluzione diede nel genio al popolo romano, e gli guadagnò le
benedizioni di ognuno, fu ch'egli abolì affatto la milizia pretoriana.
Questo considerabil corpo di gente militare e scelta, istituito anche
prima da Augusto, e conservato dai susseguenti imperadori per difesa
delle lor persone, dell'imperial palazzo e della città di Roma,
l'abbiamo tante volte vedute prorompere in deplorabili insolenza per
rovina della medesima città, e divenuto con tante sedizioni l'arbitrio
dello imperio, perchè avvezzo ad usurparsi l'autorità di creare o di
svenar gl'imperadori. Incredibili specialmente erano stati i disordini
da lor commessi sotto Massenzio, principe che per tenerseli bene
affezionati, permetteva lor tutto, e sovente dicea che stessero pure
allegri e spendessero largamente, perchè nulla lascerebbe mancare a
soldati di tanto merito. Costantino ritenne chi volle servire al soldo
suo con essere semplice soldato; e, licenziati gli altri, distrusse il
castello pretoriano, specie di fortezza destinata lor per quartiere.
Noi non sappiamo che altra guarnigione da lì innanzi stesse in Roma,
fuorchè i vigili destinati a battere di notte la pattuglia, e forse
qualche discreta guardia del palazzo dei regnanti. Ma non fu per
questo abolita l'insigne carica di prefetto del pretorio, la quale
continuò ad essere una delle prime nella corte imperiale. Anzi, perchè
la division fatta da Diocleziano del romano imperio in quattro parti
avea introdotto quattro diversi prefetti del pretorio, volendo cadaun
de' principi il suo prefetto, cioè il suo capitano delle guardie; così
ne seguitò il loro istituto, con trovar noi da qui innanzi i prefetti
del pretorio dell'Italia, delle Gallie, dell'Illirico e dell'Oriente.
Comparve poi nel senato il novello signore[2849], e con graziosa
orazione piena di clemenza parlò che voleva salva l'antica loro
autorità. Gli accusatori, de' quali sotto i principi cattivi abbondò
sempre la razza in Roma, e per cui non meno i rei che gl'innocenti
perdevano roba ed anche vita, fu vietato l'ascoltarli da lì innanzi,
ed intimato contra di essi l'ultimo supplicio. Erano poi innumerabili
coloro che Massenzio ingiustamente avea o cacciati in esilio, o
imprigionati, o condannati a diverse pene, o spogliati delle loro
sostanze[2850]. A tutti fu fatta grazia, ad ognuno restituiti i lor
beni. In somma parve che Roma rinascesse in breve tempo, perchè nel
termine di soli due mesi la benignità di Costantino riparò tutti i
mali che nello spazio di sei anni avea fatto la crudeltà di Massenzio.
Per questa vittoria dipoi divenne egli padron di tutta l'Italia, e fu
meravigliosa la commozione delle persone accorse allora dalle varie
provincie a Roma, per mirar coi loro occhi l'invitto liberatore che
rotte avea le lor catene. Fu anche inviata in Africa la testa del
tiranno accolta ivi con istrepitose ingiurie; e però senza fatica,
anzi con gran festa, i popoli ancora di quelle provincie riconobbero
per lor signore chi gli avea finalmente tratti da lagrimevole
schiavitù.

NOTE:

[2813] Idacius, in Fastis.

[2814] Bucher., de Cyclo.

[2815] Aurelius Victor, de Caesaribus.

[2816] Zosimus, lib. 2, cap. 14.

[2817] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 37 et sequent.

[2818] Incertus, in Panegyr. Const., cap. 4.

[2819] Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 33.

[2820] Aurelius Victor, de Caesaribus. Euseb., in Vita Constantini,
lib. 1, cap. 35.

[2821] Zosimus, lib. 2, cap. 13.

[2822] Nazar., in Panegyr. Constant.

[2823] Prudentius, in Sammach., lib. 1.

[2824] Aurelius Victor, de Caesaribus. Incertus, Panegyrico
Constantin.

[2825] Zosimus, lib. 2, cap. 15.

[2826] Nazar., in Panegyr. Constant., cap. 9.

[2827] Nazar., ibid., cap. 10.

[2828] Lactant., de Mort. Persecut., cap. 43.

[2829] Incertus, in Panegyr. Costantini, cap. 5.

[2830] Nazar., in Panegyr. Constan., cap. 22.

[2831] Incertus, in Panegyr. Costant., cap. 8.

[2832] Nazar., in Panegyr. Const., cap. 26.

[2833] Incertus, in Panegyr., cap. 11.

[2834] Nazar., in Panegyr. Const., cap. 27.

[2835] Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 44.

[2836] Euseb., in Vita Constan., lib. 1, cap. 27 et seq.

[2837] Lactantius, de Mort. Persecut. cap. 43.

[2838] Eusebius, in Vita Constantini, lib. 1, c. 38.

[2839] Aurelius Victor, de Caesaribus.

[2840] Incertus, in Panegyr. Costantini, cap. 16.

[2841] Lactantius, de Mortib. Persec., cap. 44.

[2842] Bucherius, de Cycl.

[2843] Zosimus, lib. 2, cap. 16.

[2844] Incertus, in Panegyr. Const., cap. 16. Nazar., in Panegyr.,
cap. 28.

[2845] Zosimus, lib. 2, cap. 16.

[2846] Euseb., in Vit. Const., lib. 1, cap. 38.

[2847] Eutrop., in Breviar. Aurelius Victor, de Caesarib. Zosimus,
lib. 1, cap. 16.

[2848] Incertus, in Paneg. Const., cap. 21. Libanius, Oratione 21.

[2849] Incertus, in Panegyr. Const., cap. 18.

[2850] Nazar., in Paneg. Constant., cap. 32 et seq.




    Anno di CRISTO CCCXIII. Indizione I.

    MELCHIADE papa 4.
    COSTANTINO imperatore 7.
    LICINIO imperadore 7.
    MASSIMINO imperadore 7.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANTINO AUGUSTO per la terza volta, PUBLIO VALERIO
LICINIANO LICINIO AUGUSTO per la terza.


Fu in quest'anno prefetto di Roma _Rufio Volusiano_. Ho ben io,
secondo l'uso di altri scrittori, notato negli anni addietro,
cominciando dal principio dell'Era nostra, le _Indizioni_, cioè un
corso di quindici anni, terminando il quale si torna a contare la
prima indizione. Ma tempo è ormai d'avvertire che non furono punto in
uso le indizioni ne' secoli passati, e che, per consentimento degli
eruditi, ne fu istitutore Costantino il Grande[2851]. Il motivo di tal
istituzione resta oscuro tuttavia. Opinione fu de' legisti, ch'essa
indizione fosse così chiamata da un determinato pagamento di tributi,
e il cardinal Baronio[2852] aggiunse, fatto questo regolamento pel
tempo destinato ai soldati di militare, dopo il quale s'imponeva un
tributo per pagarli. Conghietture son queste assai lodevoli, ma che
nulla di certo a noi somministrano. Quel che è fuor di dubbio,
servirono da lì innanzi, e tuttavia servono le indizioni per regolare
il tempo. Tiensi inoltre che la prima indizione cominciasse a correre
nel settembre dell'anno precedente, e non già per la vittoria di
Costantino contra di Massenzio, come immaginò il Panvinio, perchè
questa accadde sul fine d'ottobre. Ma perchè appunto nel settembre
antecedente non era Costantino per anche padrone di Roma, han creduto
alcuni che si desse principio ad essa indizione nel settembre
dell'anno corrente: il che alle pruove non sussiste. Potè anche prima
della vittoria Costantino introdurre l'uso di tali indizioni, essendo
per altro fuor di dubbio che le nuove indizioni cominciavano il corso
loro nel dì primo di settembre, o pure nel dì 24 d'esso mese; e questo
uso per assaissimi secoli durò in Occidente, con essere poi prevaluto
quel della curia romana, la quale da qualche secolo in qua conta dal
dì primo di gennaio la novella indizione. Egli è ben credibile che
l'Augusto Costantino continuasse a dimorare in Roma almen sino alle
calende di gennaio di quest'anno, per solennizzar ivi il terzo suo
consolato. Quivi pubblicata fu una legge[2853] in sollievo de' poveri,
che dai collettori delle pubbliche imposte erano più del dovere
caricati per favorire i ricchi. Passò egli dipoi a Milano, ed era in
quella città nel 10 di marzo, come apparisce da un'altra sua
legge[2854]. Chiamato colà Licinio imperadore dall'Illirico, vi venne
per isposare _Costanza_ sorella dell'Augusto Costantino, a lui
promessa nell'anno precedente, e quivi in fatti si solennizzarono
quelle nozze, e si formò un nuovo decreto per la pace delle chiese e
persone cristiane.

Fin quando era in Roma Costantino, avviso gli pervenne che i Franchi,
gente avvezza a violar per poco i patti e i trattati, faceano de'
preparamenti per passar ai danni delle Gallie. E perciò, sbrigato
dagli affari dell'Italia, volò alle sponde del Reno[2855], e trovò non
ancora passati i Barbari. Fece egli finta di ritirarsi, mostrandosi
non accorto dei loro andamenti, ma lasciò in un'imboscata un grosso
corpo di gente. Allora fu che i Barbari, credendo lui ben lontano, si
arrischiarono a valicare il Reno in gran copia. Ma caduti
nell'agguato, pagarono ben caro il fio della loro perfidia. Nè questa
bastò. Eccoti giugnere di nuovo Costantino, il quale, radunata una
buona flotta di navi, ed imbarcata la sua gente, passò animosamente il
Reno, e portò lo sdegno e la vendetta addosso a quelle barbare e
disleali nazioni. L'Anonimo Panegirista gonfiando le pive secondo
l'uso de' suoi pari, giugne a dire, aver Costantino dato sì gran
guasto al loro paese, e fatta cotanta strage di loro, che si credeva
non doversi più nominar la nazione dei Franchi, avvezza in que' tempi
a solamente nudrirsi di cacciagione. Ci farà ben vedere la storia che
sparata oratoria fosse la sua. Sembra che in questo anno appunto il
panegirista suddetto, creduto Nazario da alcuni, recitasse in Treveri
quel panegirico in lode di Costantino, con dire, fra l'altre cose, che
il senato romano ad esso Augusto avea dedicata una statua, come ad un
dio liberatore, e che l'Italia gli avea anche essa dedicato uno scudo
e una corona d'oro. Ed è anche da osservare che quell'oratore, per
altro pagano, sul fine ricorre non al suo Giove, non ad Apollo o ad
altra delle false divinità, ma all'invisibile Creatore dell'universo
Iddio, pregandolo di conservar vita così preziosa come quella di
Costantino. Dovea costui sapere qual già fosse la credenza di questo
glorioso imperadore, già divenuto adoratore del solo vero Iddio.

L'anno fu questo, per attestato di Lattanzio, e non già l'anno 316,
come han creduto Zosimo, l'autore della Cronica Alessandrina e Idacio,
in cui il vecchio _Diocleziano_, già imperadore, diede fine al suo
vivere nella villa del territorio di Salona, città della Dalmazia
sull'Adriatico, dove dicemmo ch'egli s'era ritirato a vivere dopo
l'abdicazion dell'imperio. Quivi si crede che sorgesse la moderna
città di Spalatro. Non si può negare che di belle qualità
concorressero in Diocleziano. Due autori pagani, cioè Libanio[2856] e
Giuliano l'Apostata[2857], il lodano come persona ammirabile in molte
cose, benchè non in tutte, riconoscendo fra l'altre, ch'egli avea
faticato di molto in utilità del pubblico. Veggonsi tuttavia molte
leggi fatte da lui, ed inserite nel Codice di Giustiniano, che spirano
prudenza e giustizia. Gran cura ebbe egli sempre di promuovere i
buoni[2858] e di punire i cattivi, di mantenere l'abbondanza dei
viveri, e di rimettere in buono stato i paesi spopolati per le guerre.
Sotto di lui andarono a vuoto tutti gli sforzi delle barbare nazioni:
tanta era l'applicazione di lui, tanti i suoi viaggi e le sue fatiche
per reprimere col braccio del suo bravo, cioè di Massimiano Erculio, i
nemici del romano imperio. Sapeva anche farsi amare, e soprattutto poi
fu con ragione ammirata la di lui saviezza, perchè, quantunque per
forza deponesse l'imperio, pure disingannato delle spinose grandezze
del principato, non seppe mai più indursi a ripigliarlo, risoluto di
finire i suoi giorni in vita privata. Ma non andò esente da
biasimo[2859] l'aver egli, secondo la sua politica, moltiplicati i
principi, e divise le provincie dell'imperio, siccome abbiamo veduto;
perciocchè, oltre all'essere costato carissimo ai popoli il dover
mantenere due _Augusti_ e due _Cesari_, nello stesso tempo dominanti
nel paese loro assegnato, e con corte non inferiore alle altre, di qui
poi venne uno smembramento della monarchia romana, e le guerre fin qui
accennate, ed altre che vedremo fra poco. Moltiplicò eziandio gli
uffiziali e gli esattori in cadauna provincia, che servirono a
conculcare ed impoverire i popoli. E perciocchè egli sommamente si
dilettò di alzar suntuose fabbriche tanto in Roma che in altri paesi,
e particolarmente a Nicomedia, con disegno di renderla uguale a Roma,
e fatta una fabbrica, se non gli piaceva, la faceva atterrare per
alzarne una nuova: di qua vennero infinite angarie alle città, per
somministrar artefici, per condurre materiali, e per pagar taglioni;
di modo che per ornare le città egli rovinava le provincie.
Dell'avarizia di Diocleziano abbiam parlato altrove. Ammassava tesori,
ma non per ispenderli, fuorchè una parte nelle fabbriche suddette;
poichè per altro se occorrevano bisogni del pubblico, soddisfaceva
coll'imporre nuove gravezze. E qualora egli osservava qualche campagna
ben coltivata, o casa ben ornata, non mancavano calunnie contro ai
padroni, per carpir loro non solamente gli stabili, ma anche la vita,
perchè egli senza sangue non sapea rapire l'altrui. Cosi Lattanzio. Ed
anche Eusebio attesta aver egli colle nuove imposte così scorticati i
popoli, che più tollerabile riusciva loro il morire che il vivere.

Motivo ancora alla pubblica censura diede il fasto di Diocleziano per
lo suo sfoggiare in abiti troppo pomposi, siccome accennammo di sopra;
e il peggio fu che introdusse il farsi adorare, cioè l'inginocchiarsi
davanti a lui: cosa allora praticata solamente coi falsi dii, e non
gli dispiaceva di ricevere il titolo di Dio, e che si scrivesse alla
sua divinità. Questi conti avea da fare un così ambizioso ed avaro
principe col vero Dio, ad onta ancora del quale aggiunse in fine agli
altri suoi reati quello della fiera persecuzione che egli, come capo
dell'imperio, mosse contra degl'innocenti seguaci di Cristo. Noi già
il vedemmo, appena cominciata questa persecuzione, colpito da Dio con
una lunga e terribile malattia, e poi balzato dal trono. Certamente
per alcuni anni nel suo ritiro fu onorato da que' principi che
regnarono dopo di lui, perchè tutti da lui riconoscevano la lor
fortuna, ed era da essi sovente consultato negli affari scabrosi. Ma
il fine ancora di Diocleziano non andò diverso da quello degli altri
persecutori della Chiesa di Dio. Fioccarono le disgrazie e i
crepacuori sopra di lui nell'ultimo di sua vita. Vide abbattute da
Costantino le statue ed iscrizioni sue; vide Valerla sua figliuola,
già moglie di Galerio Massimiano, e Prisca sua moglie, rifugiate
nell'anno 311 nelle terre di Massimino imperador d'Oriente,
maltrattate da lui, spogliate dei lor beni, e poi relegate ne' deserti
della Soria. Mandò ben egli più volte de' suoi uffiziali[2860] a
pregare quel crudele Augusto di restituirgli due sì care persone,
ricordandogli le tante sue obbligazioni; ma nulla potè ottenere:
negativa, per cui crebbe tanto in lui il dolore e il dispetto, che,
veggendosi sprezzato ed oltraggiato da tutti, cadde in una tormentosa
malattia. A farlo maggiormente disperare dovette altresì contribuire,
se è vero, ciò che narra Aurelio Vittore[2861], cioè che avendolo
Costantino e Licinio pregato d'intervenire in Milano alle nozze poco
fa accennate, egli se ne scusò con allegare la sua grave età: del che
mal soddisfatti quei principi, gli scrissero una lettera minaccievole,
trattandolo come da lor nemico. Per questo disgustoso complimento,
venuto dietro alle altre suddette disavventure, egli si ridusse a non
voler nè mangiare nè dormire, sospirando, gemendo, piagnendo, e
rivoltandosi ora nel letto, or sulla terra, tanto che disperato chiuse
gli occhi per sempre circa il mese di giugno dell'anno presente. Fu
egli poi deificato secondo l'empietà d'allora, per attestato di
Eutropio[2862]. Nelle medaglie[2863] nol veggo col titolo di Divo, ma
bensì in un editto di Massimino e in altre memorie si truova a lui
compartito questo sacrilego onore. Fiorirono a' suoi tempi Sparziano,
Lampridio, Capitolino, Vulcazio Gallicano e Trebellio Pollione,
scrittori della Storia Augusta tante volte di sopra mentovati, senza
de' quali resterebbe per due secoli troppo involta nelle tenebre la
storia romana. Fiorì ancora Porfirio, filosofo celebre del paganesimo,
e nemico giurato della religione cristiana: intorno ai quali si
possono vedere il Vossio, il Tillemont, il Cave ed altri autori.

Più visibilmente ancora si fece in quest'anno sentir la mano di Dio
sopra un altro persecutore della religione cristiana, forse il più
crudele degli altri, cioè sopra _Massimino_ Augusto, signoreggiante
nelle provincie d'Oriente. Già vedemmo che anch'egli concorse nello
editto pubblicato da Galerio Massimiano imperadore, di concerto con
gli altri Augusti, per dar la pace ai Cristiani; ma se ne dimenticò
egli ben tosto, e seguitò con più cautela, ma pur seguitò ad infierir
contra di loro. Abbiamo da Eusebio[2864], che, tolto di vita
Massenzio, unitamente Costantino e Licinio Augusti diedero fuori
nell'anno precedente un proclama in favor de' cristiani; ed inviatolo
a Massimino, non solo il pregarono di conformarsi alla loro
intenzione, ma in certa guisa gliel comandarono. Per paura mostrò egli
della prontezza a farlo; e, pubblicato un editto, l'inviò a Sabino e
agli altri uffiziali del suo imperio. Ma nè pure per questo cessò il
suo mal talento, perchè di nascosto faceva annegar quei cristiani che
gli capitavano alle mani; nè permetteva loro di raunarsi, nè di
fabbricar le chiese loro occorrenti. Giacchè i suddetti due Augusti in
Milano confermarono il già fatto editto per la pace de' cristiani,
alcuni han creduto che comunicassero di nuovo ancor questo a
Massimino, ma senza apparirne pruova alcuna. Anzi abbiamo che lo
stesso Massimino cominciò la guerra a Licinio nel tempo stesso che
questi venne a trovar Costantino in Milano. S'era avuto non poco a
male quel superbo[2865] che il senato romano avesse decretata la
precedenza di Costantino agli altri due Augusti, nè sapeva digerire la
vittoria da lui riportata contro Massenzio. S'aggiunse che egli avea
bensì tenuta nascosta la sua lega con Massenzio, ma di questa venne ad
accertarsi Costantino colle lettere trovate dopo la morte del tiranno
nella di lui segreteria. Il perchè immaginando egli un mal animo in
Costantino verso di sè, vieppiù gli crebbe la rabbia al vedere ito
Licinio a Milano per abboccarsi con esso Costantino e per contrarre
parentela con lui, perchè tutto a lui pareva concertato per la propria
sua rovina. Determinò dunque di prevenir egli i veri o creduti suoi
avversarii; e preso il tempo medesimo in cui Licinio Augusto si
trovava lungi da suoi Stati per la sua venuta a Milano, mosse
l'esercito suo, e a gran giornate dalla Soria si trasferì nella
Bitinia. Durava tuttavia il verno; il rigor della stagione, le nevi,
le pioggie, le strade rotte gli fecero perdere gran parte de' suoi
cavalli e delle bestie da soma. Ciò non ostante, senza prendere posa,
traghettato lo stretto, passò nella Tracia, e si presentò sotto
Bisanzio, dove coi regali e colle promesse tentò indarno di sedurre
quella guarnigione, e gli convenne adoperar la forza. Perchè erano
pochi i difensori, non più che undici giorni sostennero l'assedio e
gli assalti, e poi si renderono. Arrivato Massimino ad Eraclea, ivi
ancora fu obbligato a spendere alquanti giorni per ridurre alla sua
ubbidienza quella città. Un ritardo tale al corso delle sue armi servì
ai corrieri per portare volando in Italia l'avviso della invasione, e
a Licinio per tornarsene con diligenza a' suoi Stati. Quivi in fretta
raunate quelle truppe che potè, s'innoltrò sino ad Andrinopoli non già
col pensiero di venire ad alcun fatto d'armi, ma solamente per fermare
le ulteriori conquiste di Massimino, perch'egli non avea più di trenta
mila combattenti, laddove il nemico ne conduceva settanta mila. Il
racconto è tutto di Lattanzio.

Seguita egli poi a dire che giunsero a vista l'una dell'altra le due
armate tra Andrinopoli ed Eraclea[2866]. Era il penultimo dì d'aprile,
e Licinio, veggendo di non poter fare di meno, pensava di dar
battaglia nel giorno primo di maggio, perchè, essendo quel dì in cui
Massimino compieva l'anno ottavo dell'esaltazione sua alla dignità
cesarea, sperava di vincerla, come era succeduto a Costantino contra
Massenzio in un simile giorno. Massimino, all'incontro, determinò di
venire alle mani nell'ultimo di aprile, per poter poi dopo la segnata
vittoria festeggiare nel dì appresso il suo natalizio. E la vittoria
se la teneva ben egli in pugno, dopo aver fatto voto a' suoi insensati
Numi, che guadagnandola, avrebbe interamente esterminati i cristiani.
Ora Licinio, che non potea più ritirarsi, nella notte in sogno fu
consigliato di ricorrere per aiuto all'onnipotente vero Dio d'essi
cristiani con una preghiera ch'egli poi, venuto il giorno, fece
scrivere in assaissimi biglietti, e distribuire fra l'esercito suo. La
rapporta intera lo stesso Lattanzio[2867]. La mattina dunque del dì
ultimo d'aprile ben per tempo mise Massimino in ordinanza di battaglia
le sue milizie: il che riferito nel campo di Licinio, anche egli fu
forzato a schierar le sue. Era quella campagna sterile e fatta apposta
per sì brutta danza: le due armate stavano già a vista l'una
dell'altra, e chi ansioso e chi timoroso di venire al cimento: quando
i soldati di Licinio, cavatisi di testa gli elmi, e colle mani alzate
verso il cielo, a dettatura de' loro uffiziali, intonarono per tre
volte coll'imperadore la preghiera suddetta al formidabil Dio degli
eserciti, supplicandolo della forte sua assistenza in quel bisogno,
con tal mormorio, che anche si udì dalla nemica armata. Ciò fatto,
rimessi in testa gli elmi, imbracciano gli scudi, e pieni di coraggio
stanno con impazienza aspettando il segno della battaglia. Seguì un
abboccamento fra i due imperadori, ma senza che Massimino volesse
piegarsi a condizione alcuna di pace, perchè lusingato dalla speranza
di veder desertare tutto l'esercito di Licinio alla sua parte, per
esser egli in concetto di principe assai liberale verso le persone
militari. Anzi sognava con tanto accrescimento di forze di poter poi
procedere contra di Costantino, e di abbattere dopo l'uno anche
l'altro. Ed eccoti dar fiato alle trombe, accozzarsi amendue le
armate[2868]. Parve che quei di Massimino non sapessero mettere mano
alle spade, nè scegliere i lor dardi. Di qua e di là correa Massimino
per animarli alla pugna, pregando, promettendo ricompense, ma senza
essere ascoltato. Per lo contrario quei di Licinio come lioni menavano
le mani, facendo, benchè tanto inferiori di numero, orribil macello
dei nemici, i quali sembravano venuti non per combattere, ma per farsi
scannare. Già era seguita una fiera strage di loro, quando Massimino,
accortosi che la faccenda passasse diversamente dal suo supposto,
cadutogli il cuor per terra, gittò via la porpora; e presa una veste
da servo, e datosi alla fuga, andò a passare il mare allo stretto di
Bisanzio. Intanto l'una metà del suo esercito restò vittima delle
spade, l'altra o si rendè o si salvò colla fuga[2869]. Le stesse sue
guardie si diedero al vincitore Licinio.

Tal diligenza fece Massimino in fuggire, che nel termine di una notte
e di un dì, cioè nella sera del giorno primo di maggio pervenne
(certamente coll'aiuto delle poste) a Nicomedia in Bitinia, lontana
dal luogo della battaglia suddetta cento sessanta miglia. Quivi nè pur
credendosi sicuro, prese seco in fretta i figli, la moglie e pochi de'
suoi cortigiani, e ritirossi nella Cappadocia, dove, dopo aver messo
insieme, come potè, un corpo di soldatesche, in fine ripigliò la
porpora; e tutto furore fece uccidere molti de' suoi sacerdoti e
profeti, accusandoli come autori delle sue disgrazie coi loro falsi
oracoli. Ma Licinio, senza perdere tempo, con una parte del vittorioso
esercito suo, ricuperata che ebbe assai facilmente la Tracia, passò il
mare, e s'impadronì della Bitinia. Trovavasi egli nella città di
Nicomedia nel dì 13 di giugno[2870], quando, riconoscendo dal Dio dei
cristiani l'avvenimento felice delle sue armi, a nome ancora
dell'Augusto Costantino, pubblicò un editto, con cui annullò tutti gli
altri emanati contra di essi cristiani, e loro concedette la libertà
della religione e la fabbrica della chiese. Inseguì poscia Licinio con
vigore il fuggitivo Massimino, il quale, troppo tardi conosciuto il
gastigo di Dio per l'ingiustizia e barbarie sua contro chi professava
la legge di Cristo[2871], pubblicò anch'egli un editto in lor favore:
con che cessò la fiera carnificina che dianzi si faceva degl'innocenti
sudditi suoi. Fortificò poscia Massimino i passi del monte Tauro per
impedire i progressi al nemico Licinio[2872]; andò anche in Egitto per
far nuove leve di gente; ma ritornato alla città di Tarso, e udito che
Licinio superava gli argini e i trinceramenti del monte suddetto, e
che per mare e per terra gli veniva addosso una fiera tempesta, allora
s'avvide di non poter resistere alle forze dell'avversario, nè alla
giustizia di Dio irritata contro di lui. Adunque disperato ebbe
ricorso al veleno[2873]; ma perchè lo prese dopo aver mangiato e
bevuto a crepa pancia, non potè il veleno levarlo di vita, e solamente
gli cagionò una terribil malattia, per cui s'empiè tutto di piaghe,
sentendosi anche bruciar le viscere, e consumare fra insoffribili
dolori. Arrivò il suo corpo a diseccarsi, non restandogli altro che la
pelle e l'ossa, in guisa che perdè affatto la sua forma antica, nè più
si conosceva per quel che fu[2874]. Gli uscivano ancora gli occhi di
testa; effetti tutti non men del potente veleno, che dell'ira di Dio,
come attestano Eusebio e san Girolamo[2875]; di modo che quel suo
corpo tutto marcito meritava più tosto d'essere appellato un fetente
sepolcro, in cui si trovava imprigionata un'anima cattiva. Così fra
gli urli, e con dar della testa ne' muri, e confessando finalmente il
grave suo delitto, per aver perseguitato Gesù Cristo nella persona de'
suoi servi, ma senza abbandonar per questo la superstizion pagana,
finì Massimino la detestabil sua vita. Lasciò de' figli maschi, alcuno
dei quali aveva egli associato all'imperio, e una figliuola di sette
anni, promessa già in moglie a Candidiano figlio bastardo di Galerio
Massimiano. Ma Licinio levò poi dal mondo tutta la di lui stirpe,
secondo i giusti giudizii di Dio, che furono visibili sopra tutti
questi tiranni persecutori della santa sua religione.

Per la morte di Massimino, il vincitor Licinio niuna fatica durò più
ad impossessarsi di tutto l'Oriente[2876]. Pervenuto egli ad
Antiochia, quivi lasciò le redini alla sua fierezza non solamente,
come dissi, contro la prole di Massimino e contra della di lui moglie,
che fu gittata ne' gorghi del fiume Oronte; ma anche contro la maggior
parte de' suoi favoriti e ministri, fra' quali spezialmente si
contarono Calciano e Peucecio o Picenzio, che aveano sparso tanto
sangue del popolo cristiano. Levò del pari la vita ad un Teotecno,
facendogli prima confessar le sue imposture, per le quali avea fatto
di gran male ad essi cristiani. Mentre dimorava Licinio nella suddetta
città d'Antiochia, venne a presentarsegli Candidiano, che già dicemmo
figliuolo di Galerio imperadore, e perseguitato da Massimino. Fu sulle
prime ben accolto, ben trattato, di maniera che Valeria figlia del fu
Diocleziano, che l'avea adottato per figliuolo, partendosi dal luogo
dell'esilio suo, venne travestita alla corte per vedere l'esito di
questo giovane. Ma quando men se l'aspettava la gente, tolta fu da
Licinio a Candidiano la vita, ed insieme con lui perdè la sua
Severiano, figlio di quel Severo Augusto che vedemmo ucciso nell'anno
307. Fu preteso che l'un d'essi, o pure amendue avessero disegnato,
dopo la morte di Massimino, di prendere la porpora. Uscì ancora
sentenza di morte contro la suddetta Valeria, la quale, udito sì
disgustoso tenore, prese la fuga, e per quindici mesi andò errando
sconosciuta in varii paesi, finchè scoperta in Tessalonica,
ossia in Salonichi, e presa con Prisca sua madre, già moglie di
Diocleziano[2877], furono tutte e due condannate nell'anno 315 a
perdere la testa, compiante da ognuno, e massimamente Valeria, per
essersi tirati addosso que' disastri col voler conservare la castità
in mezzo agli assalti dell'iniquo Massimino. Ma Iddio, sdegnato contro
la stirpe di quegli Augusti che tanta guerra aveano fatto ai suoi
servi, non essi solamente, ma anche tutta la lor famiglia volle
sradicata dal mondo. Fu in oltre l'estinto Massimino dichiarato
tiranno e pubblico nemico dei due Augusti Costantino e Licinio,
spezzate le sue statue, cancellate le iscrizioni, ed abbattuta ogni
memoria alzata in onore di lui e de' suoi figliuoli. Nè si dee tacere
che, non so se prima o dopo la rotta data nel penultimo dì d'aprile da
Licinio a Massimino, un _Valerio Valente_ si fece proclamar _Augusto_
in Oriente[2878]. Massimino il prese; ma non avendo egli voluto allora
ucciderlo, Licinio di poi, divenuto padrone dell'Oriente, gli diede il
meritato gastigo con torgli la vita. Il padre Pagi[2879] ne parla a
lungo sotto quest'anno; ma contuttociò resta non poca oscurità intorno
ai fatti di costui.

NOTE:

[2851] Panvin., in Fast. Consul. Petav., de Doctrina Tempor. Pagius,
in Critic. Baron.

[2852] Baron., in Annalib. Eccles.

[2853] Cod. Theodos. L. 13, tit. 10, lib. 1.

[2854] Gothofredus, in Chron. Cod. Theodos.

[2855] Incertus, Panegyr. Const., cap. 22. Zosimus, lib. 2, cap. 17.

[2856] Liban., Oratione 14.

[2857] Julian., Oratione I.

[2858] Aurelius Victor, in Epitome.

[2859] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 7.

[2860] Lactantius, de Mortib. Persec., cap. 41.

[2861] Aurelius Victor, in Epitome.

[2862] Eutrop., in Breviar.

[2863] Mediob., Numism. Imper.

[2864] Eusebius, Histor. Eccl., lib. 9, cap. 9.

[2865] Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 44.

[2866] Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 46.

[2867] Lactant., de Mort. Persecut., cap. 47.

[2868] Eusebius, Histor. Eccl., l. 1, cap. 10.

[2869] Lactant., de Mortib. Persecut., cap. 48.

[2870] Idem, ibidem.

[2871] Eusebius, Histor. Eccl., lib. 1, cap. 10.

[2872] Zosimus, lib. 2, cap. 17.

[2873] Euseb., lib. 9, cap. 10. Lactant., de Mortib. Persecut., cap.
49.

[2874] Chrysostomus, Orat. in Gent.

[2875] Hieronymus, in Zachariam, cap. 14.

[2876] Aurelius Victor, de Cesaribus. Zosimus, lib. 2, cap. 18.
Euseb., lib. 9, cap. 11.

[2877] Lactantius, de Mort. Persec., cap. 51.

[2878] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 50. Aurelius Victor, in
Epitome.

[2879] Pagius, Critic. Baron. ad hunc annum.




    Anno di CRISTO CCCXIV. Indizione II.

    SILVESTRO papa 1.
    COSTANTINO imperadore 8.
    LICINIO imperadore 8.

_Consoli_

CAIO CEIONIO RUFIO VOLUSIANO per la seconda volta ed ANNIANO.


Truovasi prefetto di Roma in questo anno _Rufio Volusiano_. Ciò non
ostante, vien creduto ch'egli esercitasse nel medesimo tempo il
consolato, giacchè la prefettura era stata a lui appoggiata nel
settembre dell'anno precedente. Sul principio di questo terminò i suoi
giorni MELCHIADE papa[2880], e succedette a lui nella sedia di san
Pietro SILVESTRO, che noi vedremo uno de' più gloriosi pontefici della
Chiesa di Dio, e felice anche in terra, perchè vivuto a' tempi del
primo degl'imperadori cristiani, cioè di Costantino. Certamente non
tardò questo insigne Augusto a farsi conoscere dopo la rotta di
Massenzio quale egli era, cioè attaccato alla religione de' cristiani,
e per questo si stima ch'egli, trionfalmente entrato in Roma, non
passasse al Campidoglio, ricusando di portarsi a venerar il Giove
sordo de' Romani[2881]. Fece in oltre alzare una statua in Roma a sè
stesso, che teneva la croce in mano, per segno che da quella egli
riconosceva la riportata vittoria. La prudenza sua non gli permise per
allora di far altra maggior risoluzione, perchè egli desiderava che i
popoli spontaneamente, e non già per forza, si arrendessero al lume
del Vangelo, oltre al temer di sedizioni, ove egli avesse tentato di
levar la libertà della religione in un subito ad immensa gente che
tuttavia professava il paganesimo. Truovasi in alcune iscrizioni, fra
gli altri titoli d'autorità e d'onore conferiti a Costantino, quello
di _pontefice massimo_; ma, siccome osservò il padre Pagi[2882], non
fu cotal titolo da lui preso, ma solamente a lui dato dai pagani,
secondo l'antico lor uso. Per altro pubblicamente egli si studiava di
far conoscere ai Romani il Dio, a cui si doveano gl'incensi[2883]; un
gran rispetto professava ai vescovi ed altri ministri dell'Altissimo;
ne teneva alcuni ancora in sua corte, li voleva alla sua mensa, e
compagni anche nei viaggi, credendo che la loro presenza tirasse sopra
di lui i favori e le benedizioni del cielo. Era già insorto
nell'Africa lo scisma de' Donatisti con una deplorabil division di
quelle chiese. L'Augusto Costantino, benchè novizzo nella religion di
Cristo, in vece di scandalezzarsi di una tal discordia troppo
contraria agli insegnamenti del Vangelo, si accese più tosto di zelo
per curare e sanar quella piaga[2884]. Intimò dunque un concilio di
vescovi ad Arles, acciocchè ivi si discutessero le accuse de'
Donatisti contra di Ceciliano vescovo; e in una lettera loro scritta
espresse i sentimenti della sua vera pietà, con rilevare la benignità
di Dio verso de' peccatori, dicendo: _Ho operato anch'io molte cose
contrarie alla giustizia, senza figurarmi allora che le vedesse la
suprema Potenza, ai cui occhi non sono nascose le fibre più occulte
del mio cuore. Per questo io meritava d'essere trattato in una maniera
conveniente alla mia cecità, e di essere punito con ogni sorta di
malanni. Ma così non ha fatto l'onnipotente ed eterno Dio che tien la
sua residenza ne' cieli. Egli per lo contrario mi ha compartito dei
beni, de' quali io non era degno, nè si possono annoverar tutti i
favori, coi quali la bontà celeste ha, per così dire, oppresso questo
suo servo._

Dacchè ebbe Licinio Augusto atterrato il nemico Massimino, siccome
dissi, tutte le provincie dell'Oriente coll'Egitto vennero in suo
potere, e si unirono coll'Illirico, formando egli così una vasta
possanza. L'Italia, l'Africa e tutte le restanti provincie d'Occidente
rendevano ubbidienza all'Augusto Costantino di lui cognato. Ma, per
attestato di Aurelio Vittore[2885], troppo diversi di genio erano
questi due principi. Costantino, istruito già delle massime del
Vangelo, inclinava alla clemenza; se non avea già abolito, tardò poco
ad abolire l'antico uso del patibolo della croce, perchè santificata
dal divino Salvator nostro, siccome ancor l'altro di rompere le gambe
ai rei. Ai suoi stessi nemici lasciava egli ancora godere gli onori e
i beni, non che la vita; laddove Licinio, uomo selvatico e dato al
risparmio, facilmente infieriva contra delle persone; ed abbiam veduto
di sopra un notabile esempio della sua crudeltà; sapendosi inoltre
ch'egli non si guardò dal tormentare a guisa di vili servi non pochi
innocenti e nobili filosofi di que' tempi. Poco per questo durò fra
tali regnanti la buona armonia, anzi si allumò guerra fra loro
nell'anno presente. Truovavasi l'imperador Costantino ne' primi mesi
di questo anno in Treveri, dove pubblicò varii ordini e leggi[2886]
concernenti il pubblico governo, ed una principalmente, in cui rimediò
al disordine accaduto sotto il tiranno Massenzio; cioè all'aver molti
perduto la lor libertà per la prepotenza e violenza de' grandi che
tuttavia li riteneva per ischiavi. Coll'intimazione di gravi pene
comandò egli che fosse escluso dalle dignità chiunque avea poco buon
nome e carestia d'onoratezza. Il motivo della disunione e guerra nata
in quest'anno fra Costantino e Licinio resta dubbioso. Zosimo[2887]
scrittor pagano ne rigetta tutta la colpa sopra il solo Costantino,
che non sapeva mantenere i patti, e cominciò a pretendere qualche
paese come di sua giurisdizione. Eutropio[2888], anch'egli scrittore
pagano, ne attribuisce l'origine all'ambizione di Costantino, malattia
troppo familiare ai regnanti del secolo, e che mai non suol dire
basta, se non quando il timore la frena. Ma Libanio sofista pretende
che Licinio per lo stesso male fosse il primo a rompere la concordia;
ed il perchè ce l'ha conservato l'Anonimo Valesiano[2889]. Scrive
questo autore, aver Costantino maritata _Anastasia_ sua sorella a
Bassiano, con disegno di dichiararlo Cesare, e di dargli il governo
dell'Italia. Per camminar dunque d'accordo col cognato Licinio, spedì
a lui un personaggio nomato Costanzo, richiedendolo del suo assenso.
Venne in questo mentre Costantino a scoprire che Licinio segretamente
per mezzo di Senecione, fratello di Bassiano, e suo confidente, era
dietro ad indurre lo stesso Bassiano a prendere l'armi contra del
medesimo Costantino. Di questa trama fu convinto Bassiano, e gli costò
la vita. Fece Costantino istanza per aver nelle mani il manipolatore
di tal trama, cioè Senecione; e Licinio gliel negò. Per questa
negativa, e perchè Licinio fece abbattere le immagini e statue di
Costantino in Emona, città, non so se dell'Istria o della Pannonia, si
venne a guerra aperta. Costantino marciò in persona con una armata di
soli venti mila tra cavalli e pedoni alla volta della Pannonia, per
farsi giustizia, coll'armi, e s'incontrò nelle campagne di Cibala con
Licinio, il cui esercito ascendeva a trentacinque mila uomini, parte
cavalleria e parte fanteria. Qui furono alle mani i due principi, e ne
rimase sconfitto Licinio. Zosimo[2890] descrive l'ordine di quella
battaglia, che durò dalla mattina sino alla sera con gran mortalità di
gente; ma in fine l'ala destra, dove era lo stesso Costantino, ruppe
la nemica; e le legioni di Licinio, dopo aver combattuto a piè fermo
tutto quel giorno, poichè videro il lor principe a cavallo in fuga,
anch'esse sull'imbrunir della notte, preso sol tanto di cibo che
bastasse per allora, ed abbandonato il resto de' viveri, de' carriaggi
e del bagaglio, frettolosamente si ritirarono alla volta di Sirmio,
dove prima di loro era pervenuto Licinio[2891]. Nel dì 8 di ottobre
succedette questo sanguinoso fatto d'armi; ed essendo il racconto di
Zosimo così circostanziato, merita ben più fede che quel di
Eutropio[2892], il quale sembra dire che Licinio prima di questo tempo
ebbe una percossa da Costantino, e che poi, sorpreso all'improvviso
sotto Cibala, di nuovo fu disfatto. L'Anonimo Valesiano fa giugnere la
sua perdita sino a venti mila persone: il che par troppo.

Poco si fermò Licinio in Sirmio, città da due bande cinta dal Savo
fiume, colà dove esso si scarica nel Danubio[2893]; ma presi seco le
moglie e i figliuoli, e rotto il ponte, marciò con diligenza verso la
novella Dacia, finchè arrivò nella Tracia. Per viaggio[2894] egli creò
Cesare Valente, uffiziale assai valoroso della sua armata, di cui
leggerissima informazione ci resta nella storia. Indarno gli spedì
dietro Costantino cinque mila de' suoi per coglierlo nella fuga.
Impadronissi dipoi Costantino di Cibala e di Sirmio; ed allorchè fu
arrivato a Filippi, città della Macedonia, o piuttosto a Filippopoli
della Tracia, comparvero da Andrinopoli ambasciatori di Licinio per
dimandar pace; ma nulla ottennero, perchè Costantino esigeva la
deposizion di Valente creato Cesare al suo dispetto, e Licinio non
acconsentì. Intanto con somma diligenza mise Licinio insieme un'altra
assai numerosa armata colle genti a lui spedite dall'Oriente; e fu di
nuovo in campagna. Ma nol lasciò punto dormire l'infaticabil
Costantino, che gli giunse addosso nella pianura di Mardia. Seguì
un'altra giornata campale con perdita vicendevole di gente, secondo
Zosimo, e con restare indecisa la sorte, avendo la notte messo fine al
menar delle mani; ma dall'Anonimo del Valesio abbiamo che terminò la
zuffa con qualche svantaggio di Licinio, il quale, col favor della
notte tiratosi in disparte, lasciò nel dì seguente passar oltre
Costantino, con ridursi egli e i suoi a Berea. Pietro Patrizio[2895]
lasciò scritto che Costantino perdè in tal congiuntura parte del suo
bagaglio, sorpreso in un'imboscata da quei di Licinio. Tornò dunque
esso Licinio a spedire a Costantino proposizioni di pace, e
l'ambasciatore fu Mestriano, uno de' suoi consiglieri, il quale trovò
delle durezze più che mai. Contuttociò, considerando l'Augusto
Costantino quanto egli si fosse allontanato da' proprii Stati, e molto
più come sieno incerti gli avvenimenti delle guerre, finalmente si
lasciò piegare ad ascoltar l'inviato. Mostrossi egli irritato forte
contra di Licinio, perchè senza suo consentimento, anzi ad onta sua,
avesse creato un nuovo Cesare, cioè _Valente_, e volesse anche
sostenere piuttosto quel suo famiglio[2896] (che così il nominava
egli) che un Augusto suo cognato. Però, se si aveva a trattar di pace,
esigeva per preliminare la deposizion di Valente. Cedette in fine
Licinio a questa pretensione, e fu dipoi conchiusa la pace. Se non è
fallato il testo di Aurelio Vittore[2897], Licinio levò appresso non
solamente la porpora, ma anche la vita ad esso Valente. Per questa
pace vennero in potere di Costantino l'Illirico, la Dardania, la
Macedonia, la Grecia e la Mesia superiore. Restarono sotto il dominio
di Licinio la Soria colle altre provincie orientali, l'Egitto, la
Tracia e la Mesia inferiore[2898], appellata da alcuni la picciola
Scitia, perchè abitata ne' vecchi tempi dalle nazioni scitiche. Così
venne a crescere di molto la signoria di Costantino colle penne
tagliate al cognato. Nel Codice Teodosiano[2899] abbiamo una legge
pubblicata da Costantino nelle Gallie nel dì 29 di ottobre di
quest'anno; ma, siccome osservò il Gotofredo, sarà scorretto quel
luogo, o pure il mese, non essendo probabile che Costantino tornasse
sì tosto colà dopo la guerra fatta a Licinio.

NOTE:

[2880] Chron. Damasi, seu Anast. Biblioth.

[2881] Euseb., Hist. Eccles., lib. 9.

[2882] Pagius, Crit. Baron. ad annum 312.

[2883] Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap 42.

[2884] Labb., Concil. Collect. Baron., in Annal. Pagius, in Crit. Bar.

[2885] Aurelius Victor, de Caesaribus.

[2886] Gothofred., Chron. Cod. Theodos.

[2887] Zosimus, lib. 2, cap. 18.

[2888] Eutrop., in Breviar.

[2889] Anonymus Valesianus post Ammianum.

[2890] Zosimus, lib. 2, cap. 18.

[2891] Idacius, in Fastis. Euseb., in Chron.

[2892] Eutrop., in Breviar.

[2893] Zosimus, lib. 2, cap. 18.

[2894] Anonymus Valesianus.

[2895] Petrus Patricius, de Legat., Tom. I Hist. Byzantin.

[2896] Anonymus Valesianus. Zosimus.

[2897] Aurelius Victor, in Epitome.

[2898] Jordan., de Reb. Getic.

[2899] Cod. Theodos., l. 1, de Privileg. eorum, etc.




    Anno di CRISTO CCCXV. Indizione III.

    SILVESTRO papa 2.
    COSTANTINO imperadore 9.
    LICINIO imperadore 9.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANTINO AUGUSTO per la quarta volta e PUBLIO VALERIO
LICINIANO LICINIO AUGUSTO per la quarta.


Per attestare al pubblico la ristabilita loro unione, presero amendue
gli Augusti il consolato in quest'anno. Truovasi _Rufio Volusiano_
tuttavia prefetto di Roma nel dì 25 di febbraio, ciò apparendo da un
decreto[2900] a lui indirizzato da Costantino. Secondo il Catalogo de'
prefetti, dato alla luce dal Cuspiniano e dal Bucherio, in quella
dignità succedette _Vettio Rufino_ nel dì 20 d'agosto. Per la maggior
parte dell'anno presente si trattenne l'imperador Costantino nella
Pannonia, Dacia, Mesia superiore e Macedonia, per dar buon sesto a
que' paesi di nuova conquista, siccome attestano le leggi raccolte dal
Gotofredo[2901] e dal Relando[2902]. Ora si truova egli in
Tessalonica, ora in Sirmio e in Cibala, ed ora in Naisso e in altre
città tutte di quelle contrade. In una d'esse leggi inviata ad
Eumelio, che si vede poi nell'anno seguente vicario dell'Africa, egli
abolisce l'uso di marcar in fronte con ferro rovente i rei condannati
a combattere da gladiatori negli anfiteatri, o pure alle miniere, per
non disonorare, siccome egli dice, il volto umano, in cui traluce
qualche vestigio della bellezza celeste. Fors'anche ebbe egli riguardo
in ciò alla fronte, dove si faceva da' cristiani la sacra unzione e il
segno della croce, usato anche allora, per testimonianza di Lattanzio
e di Eusebio. Truovasi egli parimente nella città di Naisso, dove era
nato, che fu poi da lui abbellita con varie fabbriche, e quivi
pubblicò una legge ben degna della sua pietà, con ordine specialmente
di farla osservare in Italia, e di tenerla esposta in tavole di
bronzo. Un crudele abuso da gran tempo correva, che i padri e le madri
per la loro povertà non potendo alimentare i lor figliuoli, o gli
uccidevano, o li vendevano, o pure gli abbandonavano, esponendoli
nelle strade; con che divenivano schiavi di chiunque gli
accoglieva[2903]. Ordinò dunque il piissimo imperadore, che portando
un padre agli uffiziali del pubblico i suoi figliuoli, con provare la
impotenza sua di nutrirli, dovesse il tesoro del pubblico, o pure
l'erario del principe, somministrare gli alimenti a quelle povere
creature. Nell'anno poi 322 fece una somigliante legge per l'Africa;
incaricando i proconsoli e gli altri pubblici ministri di vegliare per
questo, e di prevenir la necessità de' poveri, prendendo dai granai
del pubblico di che soddisfare alla lor deplorabile indigenza,
acciocchè non si vedesse più quell'indegnità di lasciar morire alcuno
di fame. Poscia col tempo ordinò che i fanciulli esposti dai lor padri
nelle necessità, e fatti schiavi, si potessero riscattare, dando un
ragionevol prezzo, o pure il cambio d'un altro schiavo. Con altra
legge[2904] data in Sirmio noi troviamo che egli vietò sotto pena
della vita, nel pignorare i debitori, massimamente del fisco, il levar
loro i servi ed animali che servono a coltivar la campagna,
anteponendo con ciò il bene del pubblico al privato, come richiede il
dovere de' buoni e saggi principi. Abbiamo inoltre una legge[2905]
data da Costantino nel dì 18 di luglio, mentr'egli era in Aquileia, ed
indirizzata ai consoli, pretori e tribuni della plebe di Roma, la qual
poi solamente nel dì 5 di settembre fu recitata nel senato da Vettio
Rufino prefetto della città. Tal notizia ci mena ad intendere che esso
Augusto, dopo aver ordinati gli affari suoi nella Pannonia, Macedonia,
Mesia e Grecia, calò in questi tempi in Italia. In fatti si trovano
due susseguenti leggi[2906] da lui date in Roma sul fine d'agosto e
principio di settembre. Altre leggi poi cel fanno vedere nel medesimo
settembre, ottobre e ne' due seguenti mesi ritornato nella Pannonia;
ma certamente in alcuna di esse leggi è fallata la data, perchè
Costantino non sapeva volare. Dicesi pubblicata in Murgillo nel dì 18
di ottobre quella[2907], con cui Costantino proibisce ai Giudei
d'inquietare, siccome faceano, coloro, i quali abbandonavano la lor
religione per abbracciar la cristiana; minacciando anche il fuoco a
chi in avvenire ardisse di molestarli; siccome ancora diverse pene a
chi passasse alla religione giudaica. Se poi crediamo qui al cardinal
Baronio, nell'anno presente tenuto fu un concilio di settantacinque
vescovi in Roma da papa Silvestro; ma essendo a noi venuta
cotal notizia dai soli atti di san Silvestro, che oggidì son
riconosciuti[2908] da ogni erudito per apocrifi, cade ancora a terra
quel concilio, perchè fondato sopra imposture, e contenente cose
troppo inverisimili.

NOTE:

[2900] Cod. Theodos., lib. 2, quor. appellat.

[2901] Gothofred., in Chron. Cod. Theodos.

[2902] Reland., in Fast.

[2903] Cod. Theodos., l. 1, de aliment.

[2904] Ibidem, l. 1, de pignoribus.

[2905] Ibidem, l. 1, de matern. bon.

[2906] Gothofred., Chron. Cod. Theodos.

[2907] Ibidem, l. 1, de Judaeis.

[2908] Pagius, Crit. Baron. Natalis Alexander et alii.




    Anno di CRISTO CCCXVI. Indizione IV.

    SILVESTRO papa 3.
    COSTANTINO imperadore 10.
    LICINIO imperadore 10.

_Consoli_

SABINO e RUFINO.


Seguitò ad essere prefetto di Roma _Vettio Rufino_, forse non diverso
dal console suddetto, sino al dì 4 d'agosto, in cui quella dignità fu
conferita ad _Ovinio Gallicano_. Le leggi del codice Teodosiano,
benchè alcune abbiano la data fallata, pure ci fan vedere Costantino
Augusto nella Gallia ne' mesi di maggio e d'agosto, essendo egli
passato colà da Roma. La prima d'esse leggi[2909], data in Roma
stessa, servì a non pochi di una mirabil quiete; perchè vien quivi
decretato che chiunque si trovasse da gran tempo in pacifico possesso
di beni una volta spettanti al demanio del principe, ed acquistati o
per donazione o per altra via legittima, ne resterebbe per sempre
padrone. Nell'Africa si osservava un abuso, cioè che per debiti con
particolari, o col fisco, le donne onorate erano per forza tirate
fuori delle loro case. Costantino, sotto pena di rigorosi supplicii, e
della vita stessa, proibì tal vessazione. E perciocchè egli di giorno
in giorno facea maggiormente comparire la sua venerazione alla
religion cristiana, per condurre soavemente e senza forza all'amor
d'essa i suoi sudditi, nell'anno presente con una legge
indirizzata[2910] a Protogene vescovo, probabilmente di Serdica,
permise ad ognuno di dar la libertà ai suoi schiavi nella chiesa alla
presenza del popolo cristiano, de' vescovi e de' preti. Queste
manomissioni si faceano in addietro davanti ai magistrati civili con
molte formalità o varie difficoltà: laddove da lì innanzi costò poca
fatica il farlo, e bastava per indennità de' liberti cristiani un
attestato de' sacri ministri della chiesa. Fu poi confermata questa
legge da Costantino e dai suoi successori con altri editti. Non
ostante la dichiarazione del concilio d'Arles, e la precedente di un
romano, tenuto sotto Melchiade papa, ne' quali fu assoluto Ceciliano
vescovo di Cartagine, e condannati come iniqui accusatori i Donatisti,
imperversavano tuttavia quegli scismatici; e riuscì loro d'impetrar da
Costantino un nuovo giudizio. Partitosi dalle Gallie, dove mai più non
ritornò, e venuto a Milano l'Augusto regnante[2911], quivi al
concistoro suo nel mese d'ottobre si presentarono Ceciliano e le parti
contrarie. Volle lo stesso imperadore con carità e pazienza ascoltar
tutti ed esaminar tutto; e di nuovo la sentenza riuscì favorevole a
Ceciliano, con restar nondimeno più che mai ostinati gli avversarii
suoi, e continuar poscia lo scisma per più di un secolo nelle chiese
dell'Africa. Se dicono il vero le leggi, da Milano passò Costantino
nella Pannonia e Dacia nuova, veggendosi una legge da lui data nel dì
4 di dicembre in Sardica, indirizzata ad Ottaviano conte di Spagna, in
cui ordina che i potenti, rei d'avere usurpato le donne, i servi o i
beni altrui, o pur colpevoli d'altro delitto, saranno giudicati
secondo le leggi ordinarie dai governatori de' luoghi, senza
permettere l'appellazione al prefetto di Roma, e senza bisogno di
scriverne all'imperadore. Dovea essere necessaria questa severità per
frenare gli abusi di coloro che, per la lontananza della corte e pel
vantaggio dell'appellazione, si facevano lecito tutto ciò che loro
piaceva. Nè si dee tacere che stando esso imperadore in Arles della
Gallia nel mese d'agosto, Fausta sua moglie a lui partorì un figliolo
nel dì 7 di quel mese. Aurelio Vittore[2912] il chiama _Costantino
juniore_; Zosimo[2913], secondo l'edizion del Silburgio, gli dà il
nome di _Costanzo_. Il Tillemont[2914] ha esaminata tal controversia,
ed inclina a crederlo _Costantino juniore_; nè altro, a mio credere,
si dee tenere. Nella edizione di Zosimo fatta da Arrigo Stefano si
legge _Costantino_; ed Eusebio[2915] e l'Anonimo Valesiano[2916]
decidono questa lite con dire che _Costantino juniore_ fu creato
Cesare, siccome vedremo nell'anno seguente; e Zosimo confessa che
questo Cesare era nato qualche tempo prima in Arles. Fu egli poscia
imperadore.

NOTE:

[2909] Cod. Theodos., l. 10, de longi temporis praescript.

[2910] Cod. Justinian., l. 3, de bis qui in Eccles. manumit.

[2911] Baron. Pagius. Fleury et alii.

[2912] Aurelius Victor, in Epitome.

[2913] Zosimus, lib. 2, cap. 20.

[2914] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2915] Eusebius, in Vita Constantini, lib. 1, c. 40.

[2916] Anonym. Valesianus post Amm.




    Anno di CRISTO CCCXVII. Indizione V.

    SILVESTRO papa 4.
    COSTANTINO imperadore 11.
    LICINIO imperadore 11.

_Consoli_

OVINIO GALLICANO e BASSO.


Probabilmente il secondo console si nominò _Settimio Basso_, il quale,
secondo il Catalogo del Cuspiniano e Bucherio, nel dì 15 di maggio
cominciò ad esercitar la carica di prefetto di Roma. Quanto a
Gallicano, il Valesio pretende[2917] ch'egli fosse _Vulcazio
Gallicano_ lo storico, perchè _Ovinio Gallicano_ era prefetto di Roma.
Ma in questi tempi noi troviamo sovente unita al consolato essa
prefettura. L'Anonimo Valesiano e Zosimo ci fan sapere, che mentre
Costantino Augusto era in Serdica, o sia Sardica, città della nuova
Dacia, correndo l'anno decimo del suo imperio, trattò con Licinio
imperadore d'Oriente per creare concordemente _Cesari_ i loro
figliuoli. A Costantino Minervina sua prima moglie avea partorito
_Crispo_ forse prima dell'anno 300. A questo principe, allorchè fu
giunto all'età capace di lettere, diede il padre per maestro[2918] il
celebre Lattanzio Firmiano, acciocchè gl'insegnasse la lingua latina,
l'eloquenza, ed insieme la vera pietà coi documenti della religione
cristiana. Ne profittò il giovinetto; e noi presto il vedremo
cominciarsi a segnalare nel mestier della guerra, e dar grande
espettazion di sè stesso; ma sì belle speranze svanirono poi, siccome
diremo, coll'infausta sua morte. Era parimente nato a Costantino
Augusto da Fausta, di presente sua moglie, _Costantino juniore_
nell'anno precedente. Pertanto amendue furono decorati nel presente
della dignità cesarea. Abbiamo da Libanio[2919] che usò Costantino di
formar la corte a cadaun de' suoi figliuoli, e di dar loro il comando
d'un'armata, ma con tenerli nondimeno sempre al suo lato, affinchè la
verde loro età non li facesse sdrucciolare. Crispo nelle
iscrizioni[2920] e medaglie[2921] si truova chiamato _Flavio Valerio
Giulio Crispo_; e il giovane Costantino _Flavio Claudio Costantino
juniore_. Anche l'imperador Licinio avea un figliuolo che portava il
nome paterno di _Valerio Liciniano Licinio_[2922], e si pretende
ch'egli fosse entrato solamente nel mese ventesimo di sua età: il che
se è vero, venghiamo a conoscere che un altro figliuolo di Licinio,
già atto alle armi, e da noi veduto alla battaglia di Cibala, dovea
essere premorto al padre. Ora anche a questo _Licinio_ fanciullo fu
conferita, d'accordo dei padri Augusti, la dignità cesarea. Dimorò in
tutto questo anno, o nella maggior parte almeno, l'imperadore
Costantino nella Dacia novella, nella Pannonia e in altri luoghi
dell'Illirico, come consta dalle sue leggi[2923] e dagli autori
suddetti; di modo che si può credere fallo in due d'esse che si dicono
date in Roma nel marzo e nel luglio, se pure appartengono all'anno
presente. In quelle parti si trovava ancora la moglie di Costantino,
Fausta Augusta, che diede alla luce nel dì 13 d'agosto un figliuolo, a
cui fu posto il nome di _Costanzo_. Fu anch'egli a suo tempo
imperadore, e riuscì il più rinomato de' suoi figli, non so se più per
li suoi vizii[2924], ovvero per le sue virtù.

NOTE:

[2917] Valesius, in Notis ad Ammian.

[2918] Eusebius, in Chron.

[2919] Libanius, Oratione 3.

[2920] Gruterus, Thesaur Inscription.

[2921] Mediob., Numism. Imperat.

[2922] Zosimus, lib. 2, cap. 20.

[2923] Gothofredus, in Chronic. Cod. Theodos.

[2924] Julian., Oratione I. Anonymus Valesianus.




    Anno di CRISTO CCCXVIII. Indizione VI.

    SILVESTRO papa 5.
    COSTANTINO imperadore 12.
    LICINIO imperadore 12.

_Consoli_

PUBLIO VALERIO LICINIO AUGUSTO per la quinta volta, e FLAVIO GIULIO
CRISPO CESARE.


Continuò ad esercitare anche per quest'anno la carica di prefetto di
Roma _Settimio Basso_[2925]; ma perchè egli fu obbligato a portarsi
alla corte di Costantino, probabilmente soggiornante anche allor
nell'Illirico, _Giulio Cassio_ dal dì 13 di luglio fino al dì 13
d'agosto sostenne le sue veci in quell'uffizio, finchè, ritornato esso
Basso, ne ripigliò l'esercizio. Nulla di rilevante intorno a
Costantino ci somministra in quest'anno la storia, se non che troviamo
tuttavia esso Augusto nell'Illirico, e particolarmente in
Sirmio[2926], dove son date due sue leggi. Intanto, siccome abbiamo da
Eusebio[2927], sotto questo piissimo Augusto godevano i cristiani una
tranquillissima pace e libertà, crescendo ogni dì più il lor numero,
ed alzandosi per tutto il romano imperio chiese e suntuosi templi al
vero Iddio. Somministrava il buon principe, come consta dai suoi
rescritti, ai vescovi dell'erario proprio l'occorrente danaro per le
fabbriche e per altre spese pertinenti al culto divino; esentava
inoltre i sacri ministri della Chiesa di Dio dalle gravezze imposte ai
secolari. E quantunque Licinio Augusto in Oriente professasse come
prima il culto degl'idoli, pure, più per paura di Costantino che per
proprio genio, non inquietava punto i fedeli, i quali ne' paesi di sua
giurisdizione abbondavano anche più che in altri luoghi. Tuttavia
Sozomeno è di parere[2928] che Licinio in qualche tempo si mostrasse
seguace o almen fautore della religion di Cristo; e può questo dedursi
anche da un passo d'Eusebio[2929], siccome osservò il padre
Pagi[2930]. Ma fuor di dubbio è, per attestato de' medesimi due
antichi storici, ch'egli o non mai ben rinunziò alla superstizion de'
Gentili, o pure, dappoichè nella battaglia di Cibala restò sconfitto
da Costantino, la ripigliò come prima, ed in quella credenza terminò
poi i suoi giorni.

NOTE:

[2925] Cuspinianus. Bucherius. Panvin.

[2926] Gothofredus, in Chronic. Cod. Theodos.

[2927] Euseb., in Vita Constant., l. 4, cap. 1 et seq.

[2928] Sozomenus, lib. 1, cap. 7.

[2929] Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 14.

[2930] Pagius, Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CCCXIX. Indizione VII.

    SILVESTRO papa 6.
    COSTANTINO imperadore 13.
    LICINIO imperadore 13.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANTINO AUGUSTO per la quinta volta e VALERIO
LICINIANO LICINIO CESARE.


Continuò _Settimio Basso_ nella prefettura di Roma sino alle calende
di settembre, nel qual giorno succedette a lui in quella carica
_Valerio Massimo Basilio_, il quale seguitò anche per li tre
susseguenti anni, siccome dignità che non avea tempo fisso, e
dipendeva dal solo volere del principe. Nel Catalogo del Cuspiniano,
chiamato anche del Bucherio, egli si truova nei susseguenti anni
appellato solamente _Valerio Massimo_; e varii rescritti di Costantino
compariscono indirizzati a _Massimo prefetto di Roma_: che per quel
solo cognome era egli più comunemente conosciuto. Il soggiorno
dell'Augusto Costantino era tuttavia nell'Illirico, che abbracciava
allora anche la Pannonia e la Dacia nuova: ciò apparendo da varie sue
leggi. I motivi di fermarsi in quelle contrade, prive delle delizie
dell'Italia e della Gallia, possiam credere che fossero l'amore verso
un paese stato patria sua, ma più il vegliare agli andamenti dei
Sarmati e di altre nazioni barbariche, sempre ansanti di bottinar
nelle provincie romane. Forse anche era insorta guerra con loro.
Sembra più verisimile ch'egli attendesse a fortificar quelle città,
per essere all'ordine, giacchè correva sospetto che Licinio Augusto
suo cognato macchinasse un dì guerra contro di lui. Ma quivi stando,
non lasciava di promuovere il buon governo di Roma e dell'Italia,
specialmente accudendo a levarne i disordini e gli abusi introdotti
sotto i principi cattivi, e per istabilir dappertutto la umanità e la
pace. Molte savie leggi da lui pubblicate in quest'anno si trovano
raccolte dal Gotofredo[2931] e dal Relando[2932]. Da due di
esse[2933], date nel dì 1 di febbraio e 15 di maggio, raccogliamo
ch'egli cominciò a metter freno alle imposture degli aruspici ed altri
indovini della gentilità, acciocchè con vane speranze non ingannassero
chi loro prestava fede; comandando che non potessero entrare in casa
alcuna particolare per esercitarvi il lor mestiere, ma che loro
unicamente fosse permesso il farlo nei templi e luoghi pubblici.
Zosimo[2934], fiero nemico di Costantino, pretende ch'egli solamente
dopo la morte di Crispo e di Fausta prendesse avversione a quella
razza di furbi, de' quali si fosse ben servito in addietro, con
avergli predetto essi più fiate l'avvenire. Resta la di lui asserzione
smentita dalle suddette sue leggi, scorgendosi che il saggio Augusto
avea già scoperta la vanità di quell'arte, e la contava fra le
superstizioni. Troppo lungi mi condurrebbe il ragionamento, se volessi
qui rammentar tutte le sagge ordinazioni da lui fatte sopra altri
soggetti in benefizio del pubblico, e riguardanti i servi, gli
accusatori, le pasquinate, il mantenimento delle strade, varii
artefici, gli sponsali, e così discorrendo. Truovansi ancora alcune
leggi da lui date in Aquileia nel giugno e luglio di quest'anno; segno
ch'egli venne sino alle porte d'Italia, se pur non sono fallate, come
dirò, quelle date. Ma che andasse anche a Roma, qualche legge sembra
indicarlo; contuttociò si può tener per fermo che sieno scorrette
quelle date. Parlai poco fa di guerra coi Sarmati, ed in fatti crede
il padre Pagi[2935] che in quest'anno essa avesse principio, e
continuasse nei tre seguenti; ma senza aver noi notizia sicura del
tempo, anzi potendosi credere ciò non vero, per quel che osserveremo
andando innanzi.

NOTE:

[2931] Gothofredus, Chron. Cod. Theodosian.

[2932] Reland., Fast. Consul.

[2933] L. 1 et 2 de maleficiis.

[2934] Zosimus, l. 2, cap. 29.

[2935] Pagius, Crit. Baron.




    Anno di CRISTO CCCXX. Indizione VIII.

    SILVESTRO papa 7.
    COSTANTINO imperadore 14.
    LICINIO imperadore 14.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANTINO AUGUSTO per la sesta volta e FLAVIO VALERIO
COSTANTINO juniore CESARE.


Seguitò _Valerio Massimo_ ad essere prefetto di Roma, e seguitò
l'Augusto Costantino a dimorar nella Dacia, Pannonia e Mesia, e
solamente nell'aprile venne ad Aquileia: del che ci porgono
testimonianza le leggi[2936] da lui pubblicate in que' luoghi, a
riserva di quella _Aquileja_, il cui nome vien da me creduto fallato.
In vigor d'esse egli raffrenò il rigore dei ricchi, che facilmente
s'impadronivano dei beni de' poveri lor debitori, volendo che fossero
rilasciati quei beni, qualora il debito venisse pagato in contanti.
Altrove da noi fu fatta menzione della legge Papia[2937], e dei
regolamenti di Augusto contra chi non prendeva moglie, essendovi pene
per questi tali, siccome all'incontro privilegii per chi s'ammogliava:
e tutto ciò a fine di procrear figliuoli, dei quali scarseggiava la
repubblica, correndo bisogni di gente per le guerre. Ma perciocchè
questa legge era contraria alla verginità e continenza, virtù lodate
dal Vangelo, Costantino, intento a favorir la religion cristiana, levò
via le pene intimate contro chiunque era maritato[2938], lasciando
solamente i privilegii accordati dalla legge Papia a chi avea de'
figliuoli. Per altro santo Ambrosio sostiene[2939] che i paesi, dove
erano più vergini, come Alessandria, l'Africa e l'Oriente, erano più
popolati degli altri. Osservasi ancora che nell'anno presente fece
Costantino risplendere l'animo suo misericordioso nell'ordinare che i
debitori del fisco non sieno posti nelle prigioni segrete, riserbate
ai soli rei di delitti, nè sieno flagellati, nè sottoposti ad altri
supplizii inventati dall'insolenza e crudeltà de' giudici; ma che
sieno detenuti in prigioni alla larga, dove ognun possa vederli. La
dissolutezza poi de' costumi e lo sprezzo dell'onestà era una
conseguenza della falsa religione dei gentili. Ne abbiam più volte
toccata qualche cosa. Costantino prese a correggere alcuno di quegli
eccessi. Al ratto delle vergini, divenuto oramai male familiare in
Roma, provvide egli con assai rigorose pene, stendendole anche alle
stesse fanciulle, che volle prive dell'eredità paterna e materna,
ancorchè sembrassero rapite per forza, parendo a lui difficile che non
fossero almen colpevoli d'aver avuta poca cura e precauzione nella
custodia di un tesoro che lor dovea essere così caro. Provvide in
parte ancora alla libidine delle donne che abbandonavano il loro onore
agli schiavi[2940], con intimar la pena della morte ad esse, e
l'essere bruciati vivi ad essi schiavi, con escludere i lor figliuoli
da ogni successione e dignità. E fin qui il paganesimo avea senza
alcun divieto permesso alle persone maritate il tener delle concubine.
Lo proibì Costantino[2941], come abuso troppo contrario alle leggi e
all'onestà del matrimonio. Fu egli nondimeno il primo che accordasse
ai figli naturali qualche luogo nella eredità del padre. Ebbe
parimente cura il buon imperadore de' prigioni accusati di qualche
delitto, ordinando che i processi criminali colla maggior diligenza si
terminassero; e che gli accusati fossero detenuti in luoghi comodi ed
ariosi, soprattutto durante il giorno. Mise anche la pena di morte ai
guardiani ed altri ministri delle carceri che maltrattassero i
prigionieri o per cavarne del danaro o perchè ne avessero ricevuto dai
lor nemici, minacciando l'indignazione sua ai magistrati che non li
punissero. Con tutta ragion poi si crede che a quest'anno appartenga
la vittoria riportata da Crispo Cesare contra de' popoli transrenani,
di cui parla Nazario[2942] all'anno seguente. Altra particolarità non
ne sappiamo, se non che questo giovinetto principe fu alle mani con
loro, li vinse e supplichevoli gli ammise alla pace. Qualche
medaglia[2943] cel rappresenta vincitor degli _Alamanni_. Abbiamo
ancora da Eusebio[2944] che circa questi tempi Licinio imperador
d'Oriente cominciò a scoprire il suo mal animo contra de' cristiani,
perchè li cacciò tutti dalla sua corte.

NOTE:

[2936] Gothofred., Chron. Cod. Theodos.

[2937] L. unica de Commissor. Cod. Theodos.

[2938] L. unica de infirmand. poen. caelib.

[2939] Ambrosius, de Virginit., lib. 3.

[2940] L. unica, de mulier., quae serv.

[2941] Ibid., de concubin. Cod. Justinian.

[2942] Nazar., in Panegyr. Constant.

[2943] Mediobarb., Numism. Imp.

[2944] Euseb., in Chronic.




    Anno di CRISTO CCCXXI. Indizione IX.

    SILVESTRO papa 8.
    COSTANTINO imperadore 15.
    LICINIO imperadore 15.

_Consoli_

FLAVIO GIULIO CRISPO CESARE per seconda volta e FLAVIO VALERIO
COSTANTINO juniore CESARE per la seconda.


_Valerio Massimo_ continuò tuttavia nella prefettura di Roma, e
Costantino Augusto seguitò a dimorar nell'Illirico, come si ha dalle
sue leggi[2945] date in Sirmio, Viminacio e Serdica. Una sola si
osserva data in Aquileia. Ma il far saltare sì sovente Costantino
dalla Pannonia e Dacia ad Aquileia, più di una volta ha somministrato
motivo a me di sospettare che la data di quelle possa appartenere non
ad Aquileia città d'Italia, ma bensì _ad Aquas_, o pure _Aquis_, luogo
della Mesia superiore, dove probabilmente l'imperadore andava a
bagnarsi. Trovasi appunto nell'anno 325 una legge[2946] data in quel
luogo. L'anno fu questo, in cui Nazario, chiamato insigne oratore da
Eusebio[2947], e lodato anche da Ausonio, recitò un panegirico, che
tuttavia abbiamo, in lode di Costantino imperadore, in occasione dei
voti quinquennali fatti nel dì primo di marzo per la salute di Crispo
e di Costantino juniore Cesari, i quali entravano nell'anno quinto
della dignità cesarea. Verisimilmente fu esso recitato in Roma, mentre
essi Cesari e l'Augusto lor padre erano ben lontani di là,
argomentandosi dal vedere sul fine un desiderio dell'oratore, che Roma
possa oramai godere la consolazion di mirare il suo principe e i suoi
figliuoli. Raccoglie Nazario[2948] in poche parole nella perorazione i
benefizii già fatti da Costantino al popolo romano e al resto
dell'imperio, con dire che i Barbari al Reno erano stati respinti
dalle Gallie, e nei loro stessi paesi aveano provato il filo delle
spade romane. Che la nazion de' Persiani, la più potente che fosse
allora dopo la romana, facea premura per istar amica di Costantino; nè
si trovava nazion sì feroce e barbara, che non temesse od amasse un
imperadore di tanto senno e valore. Che per tutte le città
dell'imperio si teneva buona giustizia, si godeva un'invidiabil pace
ed abbondanza di viveri. Che le città mirabilmente venivano ornate di
nuove fabbriche, ed alcune di esse pareano interamente rinnovate. Che
molte leggi pubblicate da Costantino tendevano tutte a riformare i
costumi e a reprimere i vizii. Che le sofisticherie, le calunnie, le
cabale non aveano più luogo nel foro, volendo egli che con semplicità
si amministrasse la giustizia. Che le oneste donne erano in sicuro, ed
onorato il matrimonio, col non soffrire gli adulterii e i concubinati.
Finalmente che ognuno si godeva in pace il suo, senza paura di
soperchierie dalla parte dei prepotenti, o concussioni da quella del
fisco. Altrettanto s'ha da Optaziano[2949] nel panegirico di
Costantino, con aggiugner egli che questo buon principe, per quanto
poteva, addolciva il rigor delle leggi; e quantunque anche le sue
fossero ben rigorose, pure egli con gran facilità accordava il perdono
ai colpevoli. Abbiamo poi dal suddetto Nazario[2950] che il giovinetto
Crispo Cesare, dopo essersi acquistato non poco credito nella guerra
contra degli Alamanni, venne nel furore d'un rigoroso verno, cioè ne'
primi mesi dell'anno corrente, a ritrovar il padre Augusto, tuttavia
soggiornante nell'Illirico.

In quelle parti appunto noi osserviamo pubblicate da lui molte
leggi[2951], e massimamente in Sirmio. In una di esse[2952], data in
Serdica nel dì 27 di febbraio, egli temperò l'usato rigore delle
confiscazioni per delitti, ordinando che restasse esente dalle griffe
del fisco tutto quel che i delinquenti prima de' lor misfatti avessero
donato alle mogli, ai figliuoli e ad altre persone, non essendo di
dovere che chi non avea avuta parte ne' delitti, l'avesse nella pena.
Comandò inoltre che i ministri del fisco nella memoria de' beni
confiscati notassero sempre se il reo avea dei figliuoli; ed avendone,
se loro avea fatta qualche donazione, con disegno, come si può
credere, di far loro qualche grazia a proporzione del loro bisogno.
V'ha un'altra legge sua[2953], in cui concede licenza di consultare
gli aruspici, o sia gl'indovini della superstizione pagana: il che
fece dubitare il cardinale Baronio[2954] e il Gotofredo[2955] che
Costantino in questi tempi retrocedesse dalla religione cristiana per
aderire alla falsa de' gentili. Ma siccome lo stesso Gotofredo,
Giovanni Morino, il padre Pagi e il Relando hanno osservato, altro non
fece quel grande Augusto, che permettere all'importunità dei Romani il
continuare nel loro abuso di prestar fede a quelle imposture, perchè
troppo si lagnavano di non poter prevedere i mali avvenire per
guardarsene, come stoltamente si figuravano di raccogliere dalle
viscere delle bestie sagrificate. E che in effetto più che mai stesse
Costantino forte nell'amore e nella profession della fede di Cristo,
si tocca con mano in riflettere ad alcune leggi da lui date in questo
medesimo anno in favore della stessa santa religione. Nel dì 7 di
marzo ordinò[2956] che nel giorno di domenica cessassero tutti gli
atti della giustizia, i mestieri e le occupazioni ordinarie della
città, a riserva di quelle dell'agricoltura, in cui v'ha de' giorni
che il lavorare è di grande importanza. Con altra sua legge, la quale
fu pubblicata in Cagliari nel dì 3 di luglio, si vide[2957] proibito
in esso dì di domenica ai giusdicenti di far processi ed altri atti
giudiciali, riserbando solamente il poter dare in esso giorno nelle
chiese la libertà agli schiavi e il farne rogito, trattandosi in ciò
di un atto di carità cristiana. Anche Eusebio[2958] fa menzione di
questa legge, dicendo aver desiderato il piissimo imperadore che
ognuno impiegasse quel santo giorno in orazioni al vero Dio, come egli
faceva con tutta la sua casa. Concedeva anche vacanza ai soldati
cristiani in tutto quel dì, acciocchè andassero alle chiese ad
offerire a Dio le lor preghiere. Inoltre con legge[2959] indirizzata
al popolo romano, e pubblicata nel dì 3 di luglio, decretò lecito ad
ognuno di lasciar nei testamenti quei beni che volessero alla Chiesa
cattolica, e che queste ultime volontà sortissero il loro effetto. Or
veggasi se Costantino si fosse punto alienato dalla già abbracciata
religione di Gesù Cristo. Truovasi poi una legge[2960], la cui data è
del dì 22 di giugno in Aquileia (se pur non fu, come dissi, _Aquis_
nella Mesia), nella quale egli ordina di punir severamente chiunque
impiega magia contro la vita e pudicizia altrui, lasciando poi la
libertà di valersi di rimedii superstiziosi per guarir le malattie, o
per conservare i beni della terra, o per altri usi che non recavano
nocumento a chicchessia. Anche per questa licenza potrebbe taluno fare
un reato al buon Costantino, quasichè egli non sapesse riprovate dalla
legge santa de' cristiani quelle benchè non nocive superstizioni. Ma
nè pur Costantino approvava quell'abuso; solamente lo permetteva ai
pagani, come pur lasciava lor fare i sagrificii ai loro falsi dii. Non
si può dire quanto fossero in voga presso i gentili gli amuleti e i
rimedii superstiziosi, inventati dagl'impostori per la guarigione dei
mali, per iscoprir l'avvenire, e per altri loro bisogni. Il saggio
principe, che non volea ne' principii irritar troppo, e muovere a
sedizioni l'immensa moltitudine dei pagani, con opprimere le loro
benchè sciocche usanze, permetteva loro quelle stoltezze, giacchè di
là non proveniva verun danno al pubblico, benchè sia da credere
ch'egli se ne ridesse, e le detestasse ancora in suo cuore.

NOTE:

[2945] Gothofred., Chronic. Cod. Theodos.

[2946] L. 1, de erogat. milit. Cod. Theodosian.

[2947] Euseb., in Chronico.

[2948] Nazar., in Panegyr. Constantin., cap. 38.

[2949] Optatianus, Panegyr. Constantin., apud Velserum.

[2950] Nazar., Panegyr., cap. 36.

[2951] Gothofr., in Chron. Cod. Theodos.

[2952] L. 1, de bonis proscript., Cod. Theod.

[2953] L. 1, de Paganis, Cod. Theodos.

[2954] Baron., in Annal. Eccles.

[2955] Gothofred., de Statu Christian.

[2956] L. Omnes Judices. De feriis, Cod. Theod.

[2957] L. 1, de feriis, Cod. Theodos.

[2958] Euseb., in Vita Constantin., lib. 4, cap. 18.

[2959] L. Habeat unusquisq. De Episc.

[2960] L. 3, de maleficiis, Cod. Theod.




    Anno di CRISTO CCCXXII. Indizione X.

    SILVESTRO papa 9.
    COSTANTINO imperadore 16.
    LICINIO imperadore 16.

_Consoli_

PETRONIO PROBIANO ed ANICIO GIULIANO.


De' suddetti consoli si trova un bell'elogio fra gli epigrammi di
Simmaco: la prefettura di Roma per questo anno ancora fu amministrata
da _Valerio Massimo_. Quanto all'imperador Costantino, noi il troviam
tuttavia di soggiorno nell'Illirico, ciò apparendo dalle sue
leggi[2961] date in Sirmio e Sabaria. E nell'anno presente appunto
possiam credere che succedesse la guerra viva da lui fatta coi
Sarmati, di cui parla Zosimo[2962]. Il padre Pagi la fa cominciata fin
dall'anno 319. Il Mezzabarba[2963] la mette all'anno precedente, e
potrebbe essere cominciata allora. Il non fare Nazario, nel panegirico
recitato l'anno avanti, menzione alcuna di tal guerra, assai motivo ci
porge di tenerla insorta dopo il dì primo di marzo di esso anno, e
probabilmente terminata nel presente, come han creduto il
Gotofredo[2964] e il Tillemont[2965]. Che fosse di molta importanza
e di non lieve pericolo, si può raccogliere da Optaziano
panegirista[2966], il quale asserisce che i Sarmati uniti ai Carpi e
Geti, appellati poi Goti, furono più volte sconfitti da Costantino a
Campona, a Margo e a Bononia città sul Danubio. Erano que' Barbari,
per relazion di Zosimo, venuti all'assedio di una città di qua dal
Danubio col loro re Rausimodo, figurandosi di poterla espugnare con
facilità, perchè era bensì la parte inferiore delle mura di pietra
viva, ma la superiore di legno. A questa attaccarono essi il fuoco, e
diedero poi l'assalto. Dentro v'era una buona guarnigione, che con
dardi e sassi seppe far gagliarda difesa, tanto che loro sopraggiunse
alle spalle Costantino, che moltissimi ne uccise, e più ne fece
prigioni. Il resto si salvò colla fuga di là dal Danubio coll'aiuto
delle barche tenute da essi in pronto. Rinforzatosi dipoi Rausimodo
con altra gente, meditava di tornar addosso ai Romani, quando l'ardito
Costantino, valicato il Danubio, all'improvviso arrivò loro addosso
vicino ad una collina piena di boschi, e ne fece grande strage,
restandovi fra gli altri ucciso lo stesso re Rausimodo. Assaissimi
furono i prigionieri, e il resto di que' Barbari, deposte l'armi,
dimandò quartiere; sicchè con gran moltitudine di prigioni il
vittorioso Augusto se ne tornò di qua dal Danubio, e distribuì per
varie città quella barbara gente, dando loro, secondo il costume, dei
terreni dal coltivare[2967]. Restano varie medaglie[2968] che
attestano la suddetta vittoria, spettanti più verisimilmente all'anno
presente che al precedente. Trovasi ancora fatta menzione da lì
innanzi nel Codice Teodosiano de' giuochi sarmatici, i quali possiam
conghietturare istituiti in memoria di questa gloriosa Vittoria. Si
facevano essi sul fine di novembre e principio di dicembre, come s'ha
da un calendario dell'Hervagio. Mandò in quest'anno l'Augusto
Costantino a Roma Crispo Cesare suo figliuolo con Elena avola sua, e
in riguardo loro volle rallegrar il popolo romano, con far grazia a
tutti i rei di varii delitti, a riserva del veleno, omicidio ed
adulterio. Così intende quella legge[2969] il Gotofredo: legge
nondimeno oscura, perchè vi sta solamente scritto: _propter Crispi,
adque Helenae partum_: il che diede molto da pensare al cardinal
Baronio[2970]. Conghietturò il Tillemont[2971] con altri, che qui si
parlasse del parto di un'Elena moglie di Crispo; ma di questo
maritaggio niun vestigio abbiano nella storia. Però esso Gotofredo in
vece di _partum_ legge _paratum_, o _apparatum_, con interpretare
l'andata di Crispo e d'Elena sua nonna all'augusta città. In questo
anno ancora, siccome nel seguente, pubblicò Costantino leggi
favorevoli a chi degli schiavi pretendeva di essere stato messo in
libertà, qualor questa gli fosse messa in dubbio.

NOTE:

[2961] Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.

[2962] Zosimus, lib. 2, cap. 21.

[2963] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2964] Gothofredus, Chronolog. Cod. Theod.

[2965] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[2966] Optatianus, Panegyr. Constant., cap. 32.

[2967] Du Cange, Hist. Byz.

[2968] Mediob., in Numismat. Imperator.

[2969] Lib. 1, de indulgen. crim., Cod. Theod.

[2970] Baron., in Annal.

[2971] Tillemont, Mémoires des Empereurs.




    Anno di CRISTO CCCXXIII. Indizione XI.

    SILVESTRO papa 10.
    COSTANTINO imperadore 17.
    LICINIO imperadore 17.

_Consoli_

ACILIO SEVERO e VETTIO RUFINO.


Un'iscrizione dal Doni e da me[2972] data alla luce, fu posta a _Caio
Vettio Cossinio Rufino_, prefetto di Roma e proconsole dell'Acaia, che
sembra veramente spettante al secondo console di quest'anno, avendo in
fatti _Vettio Rufino_ esercitata la prefettura urbana nell'anno 315, e
non trovandosene altro di questo nome ornato di quella dignità. Per
più anni avea _Valerio Massimo_ tenuta la medesima carica; ma nel
presente a lui fu sostituito in essa _Lucerio_ ossia _Lucrio Verino_
nel dì 13 di settembre, come si ha ancora dall'antico Catalogo del
Cuspiniano[2973]. Una legge di Costantino Augusto, data nel gennaio o
febbraio di quest'anno, cel fa vedere in Tessalonica ossia Salonichi,
città della Macedonia. Il motivo, per cui egli si fosse portato colà,
l'abbiamo da Zosimo[2974], cioè per fabbricar quivi un porto,
essendone dianzi priva quella città. Abbiamo poi una sua legge[2975]
data in Sirmio nel dì 25 di maggio. Gli fu riferita una vessazione
recata dai Pagani ai Cristiani, con volere che ancor questi
intervenissero ai sagrifizii delle loro lustrazioni: azione
incompatibile colla purità della religione di Cristo. Perciò ordinò
esso Augusto, che chiunque del basso popolo facesse loro violenza in
materia di religione, fosse sonoramente bastonato, e gli altri di
condizione più alta fossero condannati a pene pecuniarie. Fu poi
questo un anno memorando per le imprese bellicose dell'imperadore
suddetto. Avvenne che i Goti[2976] nell'anno presente (se pur non fu
nel precedente) avendo osservata poca guardia nella Tracia e nella
Mesia Inferiore, provincia spettanti a Licinio Augusto, fecero colà
una grande incursione, saccheggiando e menando in ischiavitù una gran
moltitudine di gente. Fossero costoro passati anche nelle terre
dipendenti da Costantino, o pur temendo egli che vi passassero, nè
veggendo egli provvisione al bisogno dalla parte di Licinio, mosse
l'armi sue contra di que' Barbari da Tessalonica; e con tal empito
giunse loro addosso, ch'ebbero per grazia il poter impetrar da lui la
pace colla restituzion dei prigioni. Due leggi[2977] da lui date sul
fine di aprile, dove parla delle scorrerie de' Barbari e de' saccheggi
familiari a quelle nazioni, con imporre fra le altre cose gravissime
pene a chiunque tenesse mano alle loro violenze e bottini, han fatto
credere che ne' primi mesi dell'anno corrente succedesse questa
barbarica irruzione. Ma perciocchè Costantino o andasse ad assalir
costoro nelle giurisdizion di Licinio, o pur vi entrasse per necessità
d'inseguirli, Licinio, in vece di ringraziarlo pel benefizio fatto a'
sudditi suoi, con liberarli dall'oppression dei Goti, ne fece un'amara
querela, come se Costantino avesse violati i patti, ed esercitata una
prepotenza nel paese non suo. Fece quanto potè Costantino per
giustificar l'azione sua, e mostrar indiscreti que' lamenti. A nulla
giovarono le lettere e deputazioni. Licinio non ammettendo scuse, più
che mai parlava alto col cognato Augusto, di maniera che Costantino,
perduta la pazienza, alzò anch'egli la testa, e non facendo frutto le
minaccie, venne in fine a guerra aperta con esso Licinio.

Era già assai tempo che si conoscevano raffreddati gli animi di questi
due Augusti e cognati. Licinio, se crediamo all'apostata
Giuliano[2978], era odiato da Dio e dagli uomini per l'abbondanza ed
enormità de' suoi vizii. Imperocchè, per attestato d'Eusebio[2979] e
di Aurelio Vittore[2980], la brutalità sua nella libidine si tirava
dietro la detestazione d'ognuno, perchè non era sicura l'onestà di
persona alcuna o vergine o maritata, dalle di lui violenze; nè
bastando a lui di svergognar dal suo canto le famiglie più nobili,
permetteva anche ai suoi cortigiani di saziar, come volevano, le lor
voglie impure senza rispetto alcuno alle case più riguardevoli. Di
tutto ciò è da credere che fosse ben mal contento l'Augusto
Costantino, da che a lui avea conceduta Costanza sua sorella in
moglie. Superiore nulladimeno alla di lui sfrenata libidine era
l'avarizia, febbre sua oltre modo cocente. Da questa provenne
un'infinità di mali, perchè per adunar danari s'inventavano ogni dì
nuovi pretesti; e gran disavventura si riputava allora l'essere
facoltoso, perchè non mancavano mai accusatori e delitti da gastigare,
cioè da spogliare gl'innocenti de' loro beni. Non mancavano già
aggravii reali e personali ai popoli; ma Licinio sapea far ben
crescere questa gravosa mercatanzia, coll'inventar nuovi estimi, e far
trovare più campi dove non erano, e far risuscitare chi da gran tempo
più non si contava tra i vivi. Seppe anche trovar la sua avarizia
delle insolite gravezze per cavar dai testamenti e dai maritaggi
grosse somme di danaro. E pure con tutto il suo succiar continuamente
il sangue de' suoi popoli, ed ammassar tesori, il bello era che tutto
dì egli si lagnava di essere poverissimo e miserabile, come in fatti
son tutti gli avari, i quali non godono quel che hanno, e muoiono sol
di voglia di quel che non hanno. Osservavasi oltre a ciò in lui
un'esecrabile crudeltà, col non volere che alcuno assistesse ai
prigioni, sotto pena d'essere cacciato nelle medesime carceri, e
proibendo l'aver compassione d'essi, e il somministrar da mangiare a
chi si moriva di fame, facendo con ciò diventare un delitto le opere
della misericordia. Se un principe tale fosse amato da' sudditi suoi,
non occorre ch'io lo ricordi ai lettori. Tutto il rovescio era
l'Augusto Costantino, di modo che Eusebio[2981], scrittore che fioriva
in questi tempi, ebbe a dire che l'imperio romano, diviso allora fra
questi due principi, parea simile al dì e alla notte. La parte di
Costantino, cioè l'Occidente, compariva un bel giorno sereno; ma
l'Oriente, dominato da Licinio, si poteva affatto assomigliare alla
notte.

Ma ciò che maggiormente a Costantino riuscì dispiacevole, e da non
sofferire nell'indegno suo cognato Licinio, fu la persecuzione da lui
mossa contra dei Cristiani, il numero de' quali nelle provincie
dell'Asia e dell'Egitto di gran lunga a proporzione superava quei
dell'Occidente. Già dicemmo ch'egli cacciò di sua corte chiunque
professava la religione cristiana. Ordinò poscia che i vescovi non
potessero celebrar concilio alcuno; che il popolo cristiano non
potesse raccogliersi nelle chiese per fare le sue divozioni, ma che
loro fosse lecito solamente a cielo aperto: perchè si figurava che le
loro orazioni avessero per iscopo la salute e felicità di Costantino,
e non già la sua, e che tramassero sempre delle congiure contra di
lui. Fece inoltre cassare chiunque de' soldati non sagrificava
agl'idoli; cacciò in esilio i nobili professanti la legge di Cristo; e
passò in fine a minacciar la morte a chiunque abbracciasse questa
santa religione[2982]. Ma perciocchè la paura che egli aveva di
Costantino il riteneva dal muovere una pubblica persecuzione contra
de' Cristiani, prese a farla il più cautamente o segretamente che
poteva, con insidie e calunnie, le quali costarono la vita a molti
innocenti vescovi, e l'atterramento di non poche chiese in Amasia ed
in altre città, senza volersi riflettere all'infausto fine di tanti
suoi predecessori, persecutori della Chiesa di Dio. Tutto questo non
poteva se non dispiacere al piissimo Costantino, perchè contrario agli
editti concordemente pubblicati in favor della religione cristiana, ed
insieme ai patti della pace stipulata dopo la battaglia di Cibala; e
tanto più che ciò parea fatto per far dispetto ad esso Augusto,
professore e protettore di questa religione. Perciò a questi dissapori
aggiunto l'altro che di sopra accennai della guerra coi Goti, si venne
all'armi, ed ognun degli Augusti gran preparamento fece per terra e
per mare. Zosimo[2983] minutamente descrive la flotta allestita da
Licinio consistente in trecentocinquanta galee raccolte dall'Egitto,
Fenicia, Cipro, Bitinia ed altri luoghi, e in quasi centocinquanta
mila fanti, e quindici mila cavalli cavati dalla Frigia e Cappadocia.
Costantino, all'incontro, unì dugento grossi legni, due mila altri da
carico, cento venti mila pedoni, con circa dieci mila cavalli. Che nel
di lui esercito si contassero moltissimi Goti ausiliarii, lo abbiamo
da Giordano[2984]. Venne Licinio a postarsi ad Andrinopoli con tutte
le sue forze. Costantino anch'egli marciò da Tessalonica a quella
volta colle sue, menando seco non già de' maghi, indovini ed altri
ciurmatori, come facea Licinio, ma dei santi vescovi e ministri della
Chiesa, perchè delle orazioni loro più che mai avea allora bisogno, e
in queste più che nelle armi metteva la sua fidanza. Per lo contrario
strideva Licinio a tutto pasto della divozione di Costantino e de'
suoi cherici; e perchè a lui i suoi falsi aruspici e sacerdoti
promettevano senza fallo vittorie, tutto altero e coraggioso si
dispose alla pugna. Ma prima fece di molti sagrifizii in un sacro
bosco ai suoi idoli, e tenne un ragionamento ai suoi cortigiani,
proponendo che si vedrebbe ora chi avesse più forza, o tanti antichi
suoi dii, o pure il nuovo e vergognoso Dio di Costantino.

Stettero qualche dì le due armate a vista, ma separate dal fiume Ebro
nella Tracia. Costantino, impaziente di venir alle mani, finse di
voler gittare un ponte ad un passo stretto con preparar gran copia di
materiali[2985]; ma un dì condotta seco parte dell'esercito suo,
passando per mezzo ad una folta selva, andò a trovar un guado dianzi
adocchiato in quel fiume. Passò egli arditamente con soli dodici
cavalieri, ed immantinente si scagliò contro i primi delle guardie
nemiche ivi esistenti, che sbalordite per l'impensato assalto, parte
restarono trucidate, parte diedero alle gambe. Ebbe con ciò comodo la
di lui armata di passar tutta di là dal fiume; e in quello stesso
giorno, come sembra indicare lo storico Zosimo, o pure in altro dì,
egli è fuor di dubbio che si venne dipoi ad una giornata campale.
Secondo il calendario del Bucherio[2986], nel dì 3 di luglio accadde
quel memorabil e sanguinoso conflitto, in cui il segnale dato ai
soldati dalla parte di Costantino fu _Dio Salvator nostro_[2987], e
coll'aiuto d'esso il pio Augusto riportò in fine una segnalata
vittoria. Ci assicura Eusebio d'aver inteso dalla bocca del medesimo
imperadore, che cinquanta delle sue guardie, tutti cristiani, furono
scelti per portare l'insegna della Croce santa per mezzo l'esercito
suo, e che dovunque compariva questa sacra bandiera, restavano
sbaragliati i nemici. Trentaquattro mila persone rimasero estinte sul
campo, la maggior parte di quei di Licinio, e molti con arrendersi
salvarono le vite. Lo stesso Costantino che si cacciò anche egli nella
mischia, ne riportò una lieve ferita. Verso la sera furono presi gli
alloggiamenti nemici, e nel dì seguente essendosi trovati più branchi
di soldati fuggiti di Licinio qua e là sparsi, parte volontariamente
venne all'ubbidienza di Costantino, e parte ostinata fu messa a filo
di spada. Raccomandatosi alle gambe d'un poderoso destriero fuggì
Licinio a Bisanzio: e quivi si afforzò per sostenere un assedio[2988],
confidato spezialmente nella flotta sua, comandata da Abanto, ossia da
Amando, uffiziale di molta sperienza e valore. Ma lento non fu il
vittorioso Costantino ad inseguire co' suoi il fuggitivo nemico, e ad
imprendere l'assedio di Bisanzio. Conoscendo poi l'impossibilità di
riuscir nell'impresa, finchè l'armata navale di Licinio mantenesse la
comunicazion dell'Asia con quella città; ordinò a Crispo Cesare suo
figliuolo di far vela colla sua flotta, per venire a nuova battaglia
in mare. Trovaronsi a fronte le due armate navali nello stretto di
Gallipoli; quella di Licinio era composta di dugento navi; e i
capitani di Costantino ne scelsero solamente ottanta delle meglio
corredate e più forti. Derideva Abanto, generale di Licinio, il poco
numero dei legni nemici, e si credeva d'ingoiarli col tanto superiore
de' suoi; ma alle pruove si trovò ingannato. Con ordine procedevano
quei di Costantino alla pugna; senza ordine gli altri; e la
moltitudine di tante navi non servì loro se non d'imbroglio, perchè
urtandosi nel sito stretto l'una con l'altra, cagion fu che molte
d'esse coi soldati e marinari perissero. La notte separò la zuffa.
Fatto poi giorno, pensava Abanto di venire al secondo combattimento,
quando levatosi un vento furioso spinse la di lui flotta con tal
empito ne' sassi e lidi dell'Asia, che perirono cento e trenta delle
sue navi e circa cinque mila de' suoi soldati, combattendo in questa
maniera Dio contra di chi era nemico del suo nome[2989]. Se ne fuggì
Abanto, e lasciò aperto il varco alla flotta di Costantino, se voleva
inoltrarsi e passare anch'essa ad assediar Bisanzio per mare.

Ma Licinio, ravvisato il pericolo, colle migliori sue milizie e coi
tesori si ritirò, e andò a piantarsi in Calcedonia dell'Asia, con
isperanza di rimettere in piedi una nuova armata, e di trovare in
altri incontri più propizia la sorte. Aveva egli stando in Bisanzio,
secondo l'Anonimo del Valesio, dichiarato Cesare[2990] _Martiniano_
sopraintendente a tutti gli uffiziali della sua corte, per valersi di
questo campione a riparar le sue perdite. Zosimo[2991] e l'altro
Vittore[2992] scrivono che tal determinazione fu da lui presa,
dappoichè si fu ritirato a Calcedonia. Abbiamo medaglie[2993], dove il
troviamo appellato _Marco Martiniano_, e decorato, non solamente del
titolo di _Cesare_, ma anche d'_Augusto_: il che discordando dagli
antichi storici ci può far giustamente dubitar d'impostura in quelle
medaglie; giacchè (convien pure ripeterlo) non sono mancati ne' due
ultimi secoli fabbricatori d'iscrizioni e medaglie, rivolti a far
mercato della curiosità degli eruditi. Fu spedito Marciniano a
Lampsaco per impedire il passaggio della flotta di Costantino; ma
l'assennato e prode Augusto, in vece di valersi delle navi grosse da
carico, si servì di alcune centinaia di barchette, ed empiutele di
soldatesche, felicemente le fece passar lo Stretto, e andò a sbarcar
nella Bitinia circa trenta miglia lungi da Calcedonia, dove
soggiornava Licinio. Benchè Costantino desse tanto tempo al cognato da
ravvedersi e da chiedere pace, egli non si era saputo fin qui
umiliare; perchè tante volte ingannato dai suoi falsi dii e sacerdoti,
pure cercava dei nuovi dii che gli recassero aiuto: laddove Costantino
non di altro si fidava che della protezione del vero Dio, e a lui
continuamente ricorreva con preghiere. Contuttociò si raccoglie da
Eusebio[2994] che qualche trattato e concordia seguì fra loro; ma non
sincera dalla parte di Licinio, il quale cercò in questa maniera di
addormentar Costantino, per unire intanto una poderosa armata. Non
furono occulti i di lui disegni, e si venne a scoprire ch'egli da
tutte le nazioni barbare cercava soccorsi, ed in fatti ottenne un
grosso rinforzo dai Goti: il perchè Costantino determinò di schiacciar
la testa, se poteva, a questo serpente, con venire ad una nuova
battaglia, se pur non fu lo stesso Licinio il primo a volerla, siccome
risulta da Eusebio. Abbiamo da Zosimo[2995], che nell'armata di
Licinio si contavano cento trenta mila combattenti, avendo egli
richiamato Martiniano da Lampsaco colle milizie inviate colà. Con
quanta gente procedesse a quel fatto d'armi Costantino, nol sappiamo.
Si venne alle mani. Licinio facea portar fra le schiere le statue de'
suoi falsi dii per incoraggiare i suoi. Le insegne di Costantino colla
croce quelle erano che promettevano sicura vittoria a lui: e così fu.
S'affrontarono le armate a Crisopoli[2996] in poca distanza da
Calcedonia nel dì 18 di settembre; andò in rotta ben presto quella di
Licinio; e tale strage ne fu fatta, che Zosimo[2997] giunse ad aprir
ben la bocca con dire, esservi periti cento mila de' suoi. Ma più
sicuro sarà l'attenersi all'Anonimo di Valesio, che mette solamente
venticinque mila stesi morti sul campo. Questa insigne vittoria si
tirò dietro la presa di Bisanzio, e poi di Calcedonia.

Ritirossi _Licinio_ con que' pochi che potè raunare a Nicomedia; ma
incalzato dall'armi vittoriose di Costantino, senza dimora assediato
in quella città, altro scampo non ebbe che d'inviar supplichevole
Costanza sua moglie al fratello Costantino. Andò essa, ed ottenne
salva la vita al consorte. Venne poscia il medesimo Licinio nel campo
a' piedi di Costantino, in cui mano rimise la porpora imperiale;
riconobbe lui per suo signore ed imperadore, ed umilmente dimandò
perdono delle cose passate. Costantino il tenne seco a tavola, poscia
il mandò come in luogo di rilegazione a Tessalonica, essendosi, per
quanto scrive Zosimo, obbligato con giuramento alla sorella di
conservargli la vita. Per conto di _Martiniano Cesare_, Aurelio
Vittore[2998] e Zosimo[2999] scrivono che per ordine di Costantino
dalle guardie fu immediatamente tagliato a pezzi. L'Anonimo Valesiano
vuol che per allora gli fosse lasciata la vita, ma questa dopo qualche
tempo tolta gli fu nella Cappadocia. Così il giovane _Licinio_, nipote
di Costantino, perchè figliuolo di Costanza sua sorella, e di pochi
anni di età, se crediamo a Teofane[3000], restò spogliato della
porpora e del titolo di Cesare; ma dopo tre anni, siccome vedremo,
anch'egli fu ucciso. Alcune medaglie presso il Du-Cange[3001] ed
altri, cel rappresentano _Cesare_ anche dipoi; ma della legittimità
d'esse noi non siamo bastevolmente sicuri; e certo poco verisimile si
scorge che a lui fosse lasciato un titolo di tanto decoro. Che a molti
ancora de' ministri ed uffiziali di Licinio, principali in addietro
persecutori dei cristiani, fosse reciso il capo, non dimenticò di
dirlo Eusebio[3002]. Per tali vittorie in pochissimo tempo tutte le
provincie romane dell'Oriente coll'Egitto vennero all'ubbidienza di
Costantino: con che l'antico romano imperio, dopo tante divisioni e
vicende, si vide totalmente riunito sotto la signoria di un solo
Augusto. E tutto ciò nell'anno presente 323, giacchè non pare
sussistente l'opinione del Pagi[3003], che vuol cominciata in questo e
terminata nell'anno seguente la guerra suddetta. Che i popoli
dell'Oriente, liberati dal pesante giogo di Licinio, si rallegrassero
di tal mutazione, e che anche i pagani romani giubilassero al mirar
saldate tante piaghe del loro imperio, si può facilmente immaginare.
Ma non è già l'esprimere la allegrezza degl'innumerabili cristiani,
sparsi per tutte le terre d'esso imperio, in vedere vittoriosa la
Croce di tanti suoi nemici, e divenuto padrone di sì vasta monarchia
un adoratore della medesima. Nè già tardò Costantino a liberar dalle
carceri, a richiamar dall'esilio e dai metalli, e a rimettere in
possesso dei lor beni, tanti d'essi cristiani che aveane provata la
persecuzion di Licinio. Ed a coloro che, per esser seguaci di Cristo,
era stato tolto il cingolo militare, fu permesso il rientrar, se
volevano, nell'onore della milizia.

Intorno a questi tempi venne a mettersi sotto la protezione
dell'Augusto Costantino, _Ormisda_ figlio primogenito di Ormisda II,
re della Persia. Zosimo[3004] è quello che ci ha conservati gli
avvenimenti di questo principe. Perchè nel giorno natalizio del re suo
padre i grandi non gli fecero quell'onore che era dovuto ad un
principe ereditario, il giovane si lasciò scappar di bocca, che se
arrivava alla corona, voleva far loro provare le sorte di Marsia. Non
intesero quei magnati allora che volesse ciò dire; ma informati dipoi
da un Persiano stato nella Frigia, significar ciò che sarebbono
scorticati vivi, se la legarono al dito. Venuto dunque a morte il re
suo padre, quando Ormisda si pensava di succedergli, scoppiò la
congiura de' grandi, che lui preso confinarono in un castello, con
crear poscia re _Sapore_, suo fratello minore. Questi, se vogliam
credere ad Agatia[3005], non era per anche nato; ma perchè la regina
si trovava incinta, e i magi predicevano che nascerebbe un maschio, i
Persiani misero la tiara, ossia la corona sul ventre della madre, che
in fatti partorì un fanciullo. Ma dopo qualche tempo l'industriosa
moglie d'Ormisda trovò la maniera di liberarlo, inviandogli, per mezzo
di un fidato eunuco, un grosso pesce, nel cui ventre stava nascosa una
lima, e facendogli sapere di mangiarne, allorchè niun fosse presente,
e di valersi del ventre di quel pesce. Nello stesso tempo inviò gran
copia di vivande e di vini ai guardiani delle carceri, i quali
abborracchiati ben bene, ne rimasero tutti ubbriachi. Allora il
prigioniero Ormisda, aperto il pesce e trovata la lima, segò i ceppi,
e per mezzo de' balordi custodi uscì fuori, e si rifugiò nella
Armenia. Quivi fu ben ricevuto da quel re suo amico, e con una scorta
inviato a Costantino, che l'accolse con onore, e trattollo sempre da
par suo colla moglie, a lui, secondo Zonara[3006], rimandata dai
Persiani. Ma Costantino niun altro impegno volle mai prendere in
favore di lui. Attesta Ammiano[3007] che in molta considerazione fu
esso Ormisda anche sotto Costanzo Augusto per la sua saviezza.
Allorchè esso Costanzo, nell'anno di Cristo 356, fu a Roma, in
osservare la mirabil piazza di Traiano, e la suntuosa statua a cavallo
del medesimo Augusto, disse ad Ormisda, di voler fare per sè una
somigliante cavallo. Gli rispose Ormisda: _Signore, fate prima una
stalla uguale a questa, se potete, acciocchè vi stia bene il cavallo
che pensate di fare_. Interrogato ancora del suo sentimento intorno
alle grandiosità e alle mirabili cose di Roma rispose: _Solamente
essergli piaciuto_ (vi ha chi crede che dicesse _dispiaciuto_) _d'aver
imparato che anche in Roma gli uomini morivano_. Benchè ci sieno delle
dispute fra gli eruditi[3008] intorno al tempo, in cui Costanzo,
secondo figliuolo di Costantino Augusto e di Fausta, fu creato
_Cesare_ dal padre: pure sembra opinione più ricevuta il credere che
in quest'anno nel dì 3 di novembre fosse a lui conferita quella
dignità[3009]. Era egli in età di sei o sette anni, perchè nato
nell'agosto dell'anno 317.

NOTE:

[2972] Thes. Novus Inscript., pag. 373.

[2973] Cuspinianus, Panvinius, Bucherius.

[2974] Zosimus, lib. 2, cap. 22.

[2975] L. 1, de Episcop., Cod. Theodos.

[2976] Anonymus Valesian.

[2977] Lib. 1, de re militar., et lib. 1, de comment., Cod. Theodos.

[2978] Julian., de Caesarib.

[2979] Euseb., Histor. Eccles., lib. 9, cap. 8; et Vita Const., lib.
1, cap. 55.

[2980] Aurel. Victor, in Epitome.

[2981] Euseb., in Vita Const., lib. 1, cap. 49.

[2982] Euseb., in Vita Const., lib. 2, cap. 3 et seq.

[2983] Zosimus, lib. 2, cap. 22.

[2984] Jordan., de Reb. Getic.

[2985] Zosimus, lib. 2, cap. 22.

[2986] Bucher., de Cyclo.

[2987] Euseb., in Vita Constan., lib. 2, cap. 6.

[2988] Anonym. Valesianus. Zosim., lib. 2, cap. 23.

[2989] Euseb., Hist. Eccles., lib. 10, cap. 9.

[2990] Anonymus Valesianus. Aurel. Victor, in Epitome.

[2991] Zosimus, lib. 2, cap. 25.

[2992] Victor, de Caesarib.

[2993] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[2994] Euseb., in Vita Costantini, lib. 2, cap. 15.

[2995] Zosimus, lib. 2, cap. 26.

[2996] Anonym. Valesianus.

[2997] Zosimus, lib. 2, cap. 26.

[2998] Aurelius Victor, in Epitome.

[2999] Zosimus, lib 2, cap. 28.

[3000] Theophan., Chronographia.

[3001] Du-Cange, Hist. Byz.

[3002] Euseb., in Vita Constant., lib. 2, cap. 18.

[3003] Pagius, in Crit. Baron.

[3004] Zosimus, lib. 2, cap. 27.

[3005] Agathias, Histor.

[3006] Zonaras, in Annalibus.

[3007] Ammianus, lib. 16, cap. 10.

[3008] Gothofredus, Valesius, Pagius, Tillemont et alii.

[3009] Idacius, in Fastis. Chron. Alexandrinum. Pagius, Critic. Baron.




    Anno di CRISTO CCCXXIV. Indizione XII.

    SILVESTRO papa 11.
    COSTANTINO imperadore 18.

_Consoli_

FLAVIO GIULIO CRISPO CESARE per la terza volta, e FLAVIO VALERIO
COSTANTINO CESARE per la terza.


Prefetto di Roma nel Catalogo del Cuspiniano, ossia del Bucherio,
continuò ad essere nell'anno presente _Lucerio_ ossia _Lucerio Valerio
Verino_. Secondo l'asserzione d'Idacio[3010], che mette in un anno la
totale sconfitta di Licinio, e nel seguente la di lui morte, dovrebbe
Licinio, coerentemente a quanto s'è detto di sopra, essere giunto nel
presente al fine de' suoi giorni. Il Pagi[3011], che pretese atterrato
Licinio solamente nell'anno corrente, differisce la di lui morte al
seguente. Eusebio[3012], dopo aver detto che Costanzo fu creato
_Cesare_ (il che anche da esso padre Pagi vien riferito all'anno 323),
seguita a narrar la morte d'esso Licinio. Quello intanto che non cade
in controversia, si è che mentre Licinio inviato a soggiornare in
Tessalonica, dove si può credere che godesse libertà e buon
trattamento, quivi per ordine di Costantino fu strangolato. Non
solamente Zosimo[3013] ed Eutropio[3014] autori pagani, ma anche
Eusebio nella sua Cronica (se pur non è san Girolamo traduttore della
medesima) chiaramente dicono che Costantino, in torgli la vita, mancò
alla promessa e al giuramento da lui fatto a Costanza, sua sorella e
di lui moglie, di lasciarlo in vita. E Zosimo, autore per altro di
umore alterato contro le azioni di questo invitto principe, aggiunge
che non era in lui cosa insolita il violar la parola e i giuramenti.
Eusebio[3015], nella vita di esso Costantino, altro non dice, se non
che Licinio dal consiglio di guerra fu giudicato degno di non più
vivere. E l'Anonimo Valesiano[3016] pare che scriva, avere i soldati
in un tumulto dimandata la di lui morte, e che vi acconsentisse
Costantino per tema ch'egli, imitando Massimiano Erculio, un qualche
dì ripigliasse la porpora. Quel solo che può sembrar più verisimile,
si è il dirsi da Socrate[3017], che egli tolto fu dal mondo perchè
sollecitava i Barbari in suo favore. Qualche movimento d'essi in
questi tempi probabilmente fece sospettare che avesse origine dai
segreti impulsi di Licinio, e però piombò sopra di lui la sentenza di
morte, arrivando anch'egli, per giusto giudizio di Dio, al fine di
tanti altri persecutori della santa ed innocente religione di Cristo.
Furono perciò cassati i decreti ed altri atti di Licinio, fatti
durante la di lui tirannia. Poche sono le leggi di Costantino sotto
l'anno presente, e queste cel fanno vedere in Sirmio e Tessalonica. Nè
apparenza alcuna ci è ch'egli venisse a Roma, come s'avvisò il
cardinal Baronio[3018], il quale racconta succeduto in quella gran
città il battesimo d'esso Augusto, la sontuosa donazione che si
pretende da lui fatta alla Chiesa romana, la lepra del medesimo, con
altri assai strepitosi avvenimenti. Niuno v'ha oggi dei letterati che
non conosca essere tai fatti invenzioni favolose de' secoli
posteriori, nè io mi fermerò punto ad esporne la falsità, perchè
superfluo sarebbe il dirne di più. Quel sì che può appartenere
all'anno presente, si è la premura del piissimo Costantino per
soffocare la già insorta eresia d'Ario contraria alla divinità del
nostro Signor Gesù Cristo. Gran tumulto per questa bolliva in Egitto e
nei paesi circonvicini; ed Alessandro vescovo santo di Alessandria
avea già scomunicato l'ostinato eresiarca. Maraviglia è che Costantino
solamente catecumeno allora nella fede di Cristo, dopo aver vedute le
dissensioni de' cristiani nell'Africa per la petulanza de' Donatisti
senza poterle acquetare, trovando nato anche un più fiero scisma per
cagion d'Ario, non si scandalizzasse e formasse cattiva opinion de'
cristiani. Ma il saggio Augusto, ben riflettendo questi non essere
mali o difetti della religione in sè santissima, ma bensì dei mortali
troppo esposti al furor delle passioni; e sentendosi ben radicato
nell'amore d'essa religione, concepì anzi uno zelo grande per ismorzar
quell'incendio. Perciò da Nicomedia spedì un suo fedel deputato ad
Alessandria, che si crede essere stato Osio, insigne vescovo di
Cordova, per mettere la pace fra Alessandro ed Ario. Bellissima è la
lettera da lui scritta in questa occasione, rapportata da Eusebio
Cesariense, se non che egli si mostra in essa poco conoscente della
controversia de' cattolici con Ario, perchè probabilmente mal
informato da Eusebio vescovo di Nicomedia, gran protettore del
medesimo Ario, e sommo imbroglione, il quale si era, non ostante i
suoi demeriti, introdotto forte nella corte dell'imperadore. Venuta
dipoi una sincera informazione del fatto, scrisse egli un'altra
lettera piena di zelo contra dell'eresiarca. Ma indarno la scrisse.
Chiaritosi dipoi che non v'era mezzo per mettere in dovere
l'orgoglioso Ario, perchè assistito e fomentato da varii vescovi suoi
partigiani, non potè lo zelantissimo principe ritener le lagrime, e
ricorse poi al ripiego di far celebrar per questa causa nell'anno
seguente il famoso concilio di Nicea, di cui parleremo. Credono il
Baronio[3019] e il Tillemont[3020] che in questi tempi avvenisse ciò
che racconta s. Giovanni Grisostomo detto da san Flaviano a Teodosio
Augusto. Cioè che avendo i furiosi Ariani in Egitto scoperto l'Augusto
Costantino contrario all'empia loro opinione, sfogarono la loro rabbia
contra delle di lui statue, sfregiandole con una pioggia di sassate.
Saputo che l'ebbe, non se ne alterò punto il magnanimo imperadore; e
perchè i suoi cortigiani pur lo instigavano a farne vendetta, si mise
la mano al volto, e tastatoselo, sorridendo poi disse che non si
sentiva ferita alcuna: il che fece ammutolire gli adulatori
consiglieri.

Benchè poi, per quanto ho detto, poche leggi si riconoscano date
nell'anno presente da Costantino, pure Eusebio[3021] si stende a
raccontar varie nobilissime di lui azioni e costituzioni fatte,
dappoichè colla caduta di Licinio egli ebbe uniti gli imperii
d'Occidente e d'Oriente, tutte in favore del pubblico e della
professata da lui religione di Cristo. Molte furono le provvisioni da
lui fatte per rimettere la felicità nelle conquistate provincie
dell'Oriente e dell'Egitto, diffondendo spezialmente le rugiade della
sua munificenza sopra que' popoli cotanto in addietro estenuati dalle
estorsioni di Licinio: di modo che a tutti parve di rinascere da morte
a vita, e sembrava loro un miracolo tanta mutazione di cose. Ma
quello, a che maggiormente si applicò il piissimo imperadore, fu di
favorire i cristiani, e di dilatare la loro religione, scorgendo
provenuto dalla santità e verità di essa il conseguimento di tante sue
vittorie, e l'abbassamento di qualsivoglia persecutore della medesima.
Leggesi presso Eusebio l'ampio editto da lui pubblicato per i
cristiani in addietro oppressi, e per la ristituzion delle chiese e
dei loro beni. Poscia, per promuovere la cristiana religione, diede
fuori altre leggi di gran forza contro dei professori del
paganesimo[3022], con esortar ognuno, ma senza forzare alcuno, ad
abbracciar il culto del vero Dio. Cominciò ad inviar nelle provincie
governatori per lo più cristiani, o se pur gentili, loro era vietato
di sacrificare e di far alcun'altra azione d'idolatria, affinchè le
persone tuttavia dedite agl'idoli si disavvezzassero dal prestar loro
onore e fede. Ordinò che si ristabilissero le chiese già abbattute,
che se ne fabbricassero dell'altre e più magnifiche, sperando di
vedere un dì tutti i suoi sudditi adoratori di Gesù Cristo, e volle
che l'erario suo soccombesse a tutte le occorrenti spese. Abbiamo
inoltre un editto composto da lui stesso in latino, e tradotto in
greco da Eusebio, in cui, deplorando la cecità dei suoi predecessori
nell'adorare i falsi dii, esorta in forma patetica tutti i sudditi
suoi a riconoscere e venerare Iddio creatore del mondo, notando che
già in qualche paese erano stati aboliti gl'idoli, ed interamente
cessato il sacrilego lor culto: del che sommo piacere egli sentiva.
Proibì ancora le imposture degli aruspici e di altri indovini della
setta gentile, meritando ben più fede Eusebio storico contemporaneo,
che Zosimo[3023] gentile, vivuto quasi un secolo dopo, il quale
spaccia Costantino come tuttavia attaccato a quegl'ingannatori, e come
seguace delle superstizioni pagane. Che questo zelantissimo imperadore
giugnesse anche a far serrare i templi e spezzare gl'idoli in molti
paesi, l'abbiamo dal suddetto Eusebio[3024]; ma di questo tornerà
occasion di parlare; perciocchè non nel solo anno presente, ma in
altri susseguenti andò sempre più crescendo lo zelo di questo insigne
Augusto per isbarbicare la gramigna de' pagani: cosa nondimeno da lui
eseguita con destrezza, affinchè non nascessero sedizioni, e chiunque
voleva ridursi alla vera religione, spontaneamente e non per forza lo
facesse.

NOTE:

[3010] Idacius, in Fastis.

[3011] Pagius, Crit. Baron., ad hunc annum et seq.

[3012] Eusebius, in Chron.

[3013] Zosimus, lib. 2, cap. 28.

[3014] Eutropius, in Breviar.

[3015] Eusebius, in Vita Const., lib. 2, cap. 48.

[3016] Anonym. Valesianus.

[3017] Socrat., Hist. Eccl., lib. 1, cap. 4.

[3018] Baron., Annal. Eccl.

[3019] Baron., Annal. Eccl.

[3020] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[3021] Euseb., Vit. Constant., lib. 2, c. 19. Idem, Hist. Eccles.,
lib. 9, cap. 9.

[3022] Euseb., Vit. Constant., lib. 2, cap. 44.

[3023] Zosimus, lib. 2, cap. 29.

[3024] Euseb., Vit. Const., lib. 2, c. 48.




    Anno di CRISTO CCCXXV. Indizione XIII.

    SILVESTRO papa 12.
    COSTANTINO imperadore 19.

_Consoli_

PAOLINO e GIULIANO.


Intorno ai nomi di questi due consoli molta disputa è stata fra gli
eruditi[3025], ma senza che si possa conchiudere cosa alcuna; e però
non ho io voluto esporre se non l'ultimo loro sicuro cognome, per cui
erano comunemente conosciuti. Non è inverisimile che amendue fossero
della famiglia _Anicia_. Dal dì 4 di gennaio probabilmente sino al dì
3 di novembre dell'anno seguente la prefettura di Roma fu esercitata
da _Acilio Severo_[3026]. Famosissimo riuscì dipoi l'anno presente per
la celebrazione del sacro concilio di Nicea, primo dei concilii
generali, dove intervennero trecento e dieciotto vescovi, da' quali
concordemente fulminati furono gli anatemi contra dell'ostinato Ario e
della sua pestilente eresia. Non si può dire abbastanza quanto
sfavillasse l'ardore dell'ottimo Augusto Costantino per la purità
della dottrina della Chiesa di Dio e per l'unione della medesima. Egli
fu che promosse quella non mai veduta in addietro memorabil assemblea
di prelati, secondato in ciò anche dalle premure del santo pontefice
Silvestro. Assistè egli medesimo a quell'augusta raunanza, ed ebbe
parte a tutto ciò che vi si fece, ma con far sempre ammirare la sua
umiltà, e un gran rispetto ai vescovi, riconosciuti da lui per giudici
di tali controversie. Di più non ne dico io, perchè intorno a questo è
da consultare la storia ecclesiastica. Terminato poi il concilio,
ancorchè Eusebio vescovo di Nicomedia, e Teognide vescovo di Nicea
godessero dianzi non poco della grazia sua, pure perchè non si
acquetavano alle decisioni sacrosante del medesimo concilio, e
continuavano a sostenere l'empietà di Ario, li mandò in esilio. Per
tanti capi sarà sempre in benedizione nella cristianità la memoria di
Costantino il Grande; ma egli spezialmente per cagione di questo
importantissimo concilio si meritò una particolar venerazione presso
tutti i cattolici. Basta leggere le Storie di Eusebio e di Socrate e
gli Atti del concilio suddetto per conoscere qual fosse in tal
occasione il fervore di questo gran principe nel culto e nell'amore
della santa religione di Cristo. E però torno a dire, essere una
marcia bugia quella di Zosimo[3027] scrittore pagano, il quale circa
cento anni dipoi fiorì, allorchè scrisse che Costantino, anche dopo la
caduta di Licinio, continuò a seguitar il culto de' gentili, e a
valersi degli aruspici ed indovini del paganesimo, con abbracciar il
Cristianesimo solamente dopo la morte del figlio e della moglie. Da
troppe prove si vede smentito un tal racconto, nè occorre fermarsi a
confutarlo. Gli spettacoli de' gladiatori fin qui erano stati le
delizie del popolo romano, anzi di tutti i popoli del romano imperio,
benchè dappertutto non si facessero, perchè costavano troppo. Al
mirare quegl'infami combattenti, che l'un l'altro ferivano, o
scannavano solamente per vile interesse, giubilavano gli spettatori,
applaudendo alla destrezza ed agilità degli uni, senza punto
compassionare il sangue e la morte degli altri. Ora Costantino,
illuminato dai documenti della legge di Cristo, ravvisata la deformità
e barbarie di que' giuochi, pieno di giusto zelo, con suo
editto[3028], mentre dimorava in Berito, nel dì primo di ottobre, li
vietò da lì innanzi sotto rigorose pene. Pretese il Gotofredo che
quella legge fosse solamente locale, nè si stendesse per tutto il
romano imperio; e non per altro, se non perchè sotto i successori di
Costantino s'incontrano nè più nè meno gli spettacoli de'
gladiatori[3029]. Credo io di avere abbastanza dimostrato,
massimamente coll'autorità di Eusebio, che veramente fu universale
quel divieto di Costantino, ancorchè i di lui figliuoli non sapessero
poi sostenerlo: tanto erano impazziti i pagani dietro a que' barbarici
e sanguinarii giuochi. All'anno presente ancora appartiene un'altra
legge[3030] di Costantino, data nel dì 17 di aprile intorno alle
usure. Erano queste a dismisura cresciute, perchè, secondo le leggi
romane, non era proibito il cavar frutto dai prestiti, e perciò
abbondavano allora i prestatori. Secondo l'opinione del Gotofredo,
Costantino ridusse, per conto dei danari prestati, il frutto al dodici
per cento, cioè a pagare l'uno per cento ogni mese; e, per quel che
riguarda i naturali prestati, come sarebbe il grano, permise che il
frutto d'ogni anno uguagliasse il capitale. Le leggi del Vangelo
corressero dipoi sì fatte usure, e ne moderarono l'esorbitanza con
lodevoli provvisioni. Possono vedersi nel codice Teodosiano altre
leggi del medesimo Augusto, tutte correttrici degli abusi d'allora, o
pure testimoni della di lui munificenza verso le chiese e verso le
vergini sacre e le povere vedove, alle quali assegnò un'annua
prestazione di grano. Nobilissimo del pari fu un suo editto, per cui
si mostrò pronto ad ascoltare e ricevere le querele ed accuse
d'ognuno, purchè assistite da buone pruove, contra di tutti gli
uffiziali di corte, governatori delle provincie ed altri pubblici
ministri che si abusassero del loro ufficio, promettendo di punir le
loro ingiustizie e frodi, e di premiar chiunque gli scoprisse questi
traditori della giustizia e nemici del pubblico e privato bene.

NOTE:

[3025] Panvinius. Du-Cange. Pagius. Relandus. Tillemont.

[3026] Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.

[3027] Zosimus, lib. 2, c. 29.

[3028] L. 1, de Gladiator., Cod. Theodos.

[3029] Thesaur. Novus Inscript., Tom. III, in fine.

[3030] L. 1, de Usuris, Cod. Theodos.




    Anno di CRISTO CCCXXVI. Indizione XIV.

    SILVESTRO papa 13.
    COSTANTINO imperadore 20.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANTINO AUGUSTO per la settima volta e FLAVIO GIULIO
COSTANZO CESARE.


Entrò nella prefettura di Roma _Anicio Giuliano_ nel dì 13 di
novembre[3031] in luogo di Acilio Severo, e in quella carica continuò
egli per i due seguenti anni. Un grande sfregio patì nell'anno
presente la riputazione di Costantino per quelle passioni ed inganni,
da' quali non va esente quasi mai alcuno de' potentati perchè uomini
anch'essi come gli altri, ed uomini che hanno men freno degli altri.
Prima nondimeno di palesar questo suo trascorso, convien dire che il
vittorioso imperadore determinò in questo anno di passare, dopo tanto
tempo di lontananza, a Roma, secondo tutte le apparenze, per celebrar
ivi i vicennali del suo augustale imperio con più solennità. Di
febbraio noi il troviamo[3032] in Eraclea di Tracia, nel marzo in
Sirmio di Pannonia, e nell'aprile in Aquileia. Ci comparisce nel
principio di luglio in Milano, e nel dì 8 di luglio in Roma, dove
abbiamo da Idacio[3033] ch'egli celebrò l'anno ventesimo del suo
imperio augustale, siccome nell'anno precedente egli avea solennizzato
in Nicomedia il ventesimo del cesareo. Per quel che riferisce
Zosimo[3034], il popolo romano con una sinfonia di maledizioni e
d'ingiurie lo accolse, non per altro, se non perchè sempre più si
accertarono ch'egli aveva dato un calcio al culto dei loro idoli. In
fatti solito era in quelle grandi solennità che gl'imperadori col
senato, esercito e popolo si portassero al Campidoglio, per far ivi
de' sacrifizii a Giove Capitolino; ma nulla di ciò volle far
Costantino; e perchè si scaldarono alcuni per l'osservanza di quel
sacrilego rito, non seppe ritenersi il pio imperadore dal prorompere
in parole di abborrimento e sprezzo della superstizione pagana: il che
gli tirò addosso l'odio del senato e popolo romano, costante per la
maggior parte nell'idolatria. Anzi, se crediamo al medesimo Zosimo,
l'esser egli restato mal soddisfatto di loro fece cader in mente il
pensiero di formare una nuova Roma, e veramente la formò dipoi,
siccome vedremo. Si vuol nondimeno ascoltare Libanio sofista[3035],
cioè un oratore di questo secolo, ben più di Zosimo vicino a
Costantino, allorchè asserisce aver questo imperadore trattato i
Romani con assai dolcezza, tuttochè le loro pasquinate e parole
pungenti paressero degne di un trattamento diverso. Accadde un dì che,
avendo egli stesso udita una salva d'insolentissime grida di quel
popolo in dispregio suo, dimandò ai suoi due fratelli (cioè
probabilmente a Delmazio ed Annibaliano, o pur Costanzo) che gli
stavano appresso, cosa in tal congiuntura fosse da fare. L'un di essi
fu di parere che s'inviassero i soldati a tagliare a pezzi que'
temerarii. L'altro rispose che così avrebbono fatto i principi
cattivi, ma che i buoni doveano dissimulare e sofferir le vane dicerie
e scappate della plebe senza giudizio. Se ne rise in fatti Costantino:
cosa che, a parer di Libanio, gli acquistò l'affezion de' Romani.
Anche Aurelio Vittore[3036] lasciò scritto che il dolore mostrato dal
popolo romano, allorchè questo glorioso principe venne a morte, assai
diede a conoscere ch'egli era molto amato da essi Romani. Dopo essersi
fermato in Roma Costantino per qualche tempo, sembra, secondo le
leggi[3037] che restano, aver egli di nuovo ripigliato il cammino alla
volta della Pannonia, giacchè una sua legge di settembre è data in
Spoleti, un'altra di ottobre in Milano, e una di dicembre in Sirmio.

Veniamo ora al passo più degli altri scabroso della vita di
Costantino. Abbiam più volte fatta menzione di _Crispo_ suo
primogenito, partorito a lui da Minervina sua prima moglie, già creato
_Cesare_, giovane di grande espettazione, e che avea anche dato saggi
del suo valore nella guerra coi Franchi e con Licinio. Questo infelice
principe nell'anno presente[3038], per ordine dello stesso Augusto suo
padre, tolto fu di vita, chi dice col veleno, e chi colla spada.
Zosimo[3039] pretende succeduto così funesto avvenimento in Roma nel
tempo che vi si trattenne Costantino; ma Ammiano Marcellino[3040],
scrittore più vicino a questi tempi, assegna la città di Pola
nell'Istria per luogo di tal tragedia. Perchè Costantino, principe sì
saggio e clemente, e nello stesso tempo sì crudo padre, giugnesse a
tanta severità, nol seppero dire di certo neppure gli antichi
scrittori, e solamente a noi tramandarono i loro sospetti. Zosimo
immaginò incolpato il misero giovane di tenere un'amicizia illecita
con Fausta Augusta sua matrigna; o, per dir meglio, che Fausta facesse
calunniosamente credere al marito d'essere stata tentata da questo suo
figliastro[3041]. Altri si figurarono che la medesima Augusta
inventasse delle cabale per persuadere a Costantino che il figlio
macchinasse contro la vita e lo stato del padre[3042]. Certamente i
più convengono in dire che per le accuse della matrigna Crispo
innocente perdè la vita. E ben probabile è che quell'ambiziosa donna,
la qual già avea tre suoi proprii figliuoli, mirasse di mal occhio il
figliastro Crispo anteposto per cagion dell'età ai suoi fratelli, per
timore ancora che a lui solo potesse un dì pervenire l'imperio, e però
si studiasse di screditarlo presso del padre, e le riuscisse di
precipitarlo. Ell'era figliuola di un gran cabalista, cioè di
Massimiano Erculio. Probabilmente profittò anch'essa di quell'indegna
scuola. Comunque sia, la morte di questo amabil nipote fu un coltello
al cuore di Elena madre dell'Augusto Costantino, nè potea essa darsene
pace. Andò ella dipoi tanto pescando, che dovette in fine far costare
al medesimo imperadore non men l'innocenza di Crispo, che la malvagità
e la calunnia di Fausta sua matrigna; e vuole Filostorgio[3043] che si
scoprisse allora, come l'iniqua donna avea tradito il talamo nuziale
con prostituirsi a delle vili persone. Un sicuro segnale che
Costantino la credesse rea, fu l'aver egli medesimamente ordinato che
a lei si fosse tolta la vita: il che si crede eseguito con farla
serrare in un bagno d'acqua bollente[3044]. Se un esecrando commercio
fosse stato fatto credere a Costantino fra la matrigna e Crispo,
contra di amendue nello stesso tempo sarebbe caduta la pena. Perciò
l'essersi differita la morte di Fausta rende assai verisimile che,
scoperte le sue trame ed iniquità, essa arrivasse al meritato gastigo.
Eutropio[3045] aggiugne che non si fermò qui l'ira di Costantino,
perchè egli appresso fece uccidere molti de' proprii amici, o
sospetti, o complici dei delitti verisimilmente di Fausta.

Ora questo lagrimevole avvenimento, di cui Eusebio non si attentò di
far parola, perchè tasto troppo delicato, non volendo egli dispiacere
ai figliuoli allora regnanti di Fausta, certo è che diede da mormorar
non poco a' grandi e piccoli, ed offuscò non poco la gloria di
Costantino, con esser giunto taluno[3046] ad assomigliare il governo e
secolo di lui a quel di Nerone; e senza trovarsi chi abbia saputo
scusare o giustificare la credulità soverchia, o il rigore estremo da
lui mostrato in tal occasione. Perciò Eutropio non ebbe difficoltà di
dire che Costantino ne' suoi primi anni meritò d'essere uguagliato ai
più insigni principi di Roma, ma che nel progresso egli potè
contentarsi d'essere annoverato fra i mediocri. Non sussiste poi ciò
che Zosimo[3047], dopo aver narrata questa tragedia, aggiugne con
dire, che rimordendo la coscienza ad esso Augusto per tali trascorsi,
e cercando la via di rimettersi in grazia di Dio, ricorse ai pagani,
che gli dissero di non aver maniera di purgare i parricidii (il che
Sozomeno[3048] mostra essere falso), ebbe allora ricorso ad un
Egiziano venuto di Spagna, cristiano di religione, che già s'era
introdotto in corte (vuol probabilmente dire Osio, vescovo di
Cordova), il quale l'assicurò che dal battesimo de' cristiani restava
cancellata qualsivoglia reità: e però Costantino da lì innanzi aderì
alla religione di Cristo. Più chiaro del sole è che molto prima di
questi tempi Costantino s'era rivolto al Dio vero, con abbandonar
gl'idoli. Che poi per tali fatti Dio permettesse che sopra Costantino
si affollassero da lì innanzi varie sciagure, e che ne' figli suoi
terminasse la sua discendenza, del che sembra essere persuaso il
Tillemont[3049]: tuttavia meglio è non voler entrare ne' gabinetti di
Dio, perchè le cifre de' suoi, sempre per altro giusti, giudizii
venerar si debbono anche senza intenderle, e massimamente per non
saper noi i veri reati di Costantino. Abbiamo poi da Eusebio[3050] e
da Eutropio[3051] che nell'anno stesso, in cui a Crispo tolta fu la
vita, anche il giovane _Licinio_, figliuolo del già Licinio Augusto,
fu, d'ordine di Costantino, ucciso, nulla avendo servito a lui
l'essere nato da Costanza sorella dell'imperadore medesimo. Qual
motivo influisse a farlo privar di vita, e s'egli tuttavia conservasse
il titolo di Cesare, a noi resta ignoto. Può ben temersi che anche per
tale azione s'aguzzassero contra di Costantino le lingue di chi fra i
pagani mirava lui di mal occhio. L'anno fu questo, in cui esso Augusto
con sua legge[3052] ordinò che i cherici ed altri ecclesiastici si
cavassero dalla classe de' poveri, e non se ne ordinasse se non quel
numero ch'era necessario alle chiese, acciocchè l'esenzione da lui
conceduta ai sacri ministri del Vangelo non riuscisse dannosa al
pubblico, cioè al corpo secolare. Con altra legge ancora[3053]
dichiarò che i privilegii da lui accordati alle persone ecclesiastiche
s'intendessero in favore de' soli cattolici, e che ne restassero
esclusi gli eretici e sismatici. Credesi finalmente[3054] che in
quest'anno fosse composto il poema in versi di Publilio Optaziano
Porfirio, che giunto sino a' dì nostri fu dato alla luce dal Velsero,
contenente le lodi di Costantino, ma formato con degli acrostici, e
con altre di quelle ingegnose, o, per dir meglio, laboriose
bagattelle, che erano anche nel secolo precedente al nostro il grande
sforzo degl'ingegni minori. Contuttociò anche tali rimasugli
dell'antichità son da tenere in pregio, sì per le cose che contengono,
come per farci intendere ancora il genio di que' secoli, nei quali per
altro fiorirono tanti uomini grandi nelle lettere e nella santità.
Augurando Optaziano in esso poema i vicennali felici a Costantino, e
non men felici i decennali ai di lui figliuoli; perciò si crede
composto quel poema prima della morte di Crispo.

NOTE:

[3031] Bucher., de Cyclo.

[3032] Gothofr., Chron. Codic. Theodos.

[3033] Idacius, in Fastis. Euseb., in Chron.

[3034] Zosimus, lib. 2, cap. 29.

[3035] Liban., Oration. 14 et 15.

[3036] Aurelius Victor, de Caesarib.

[3037] Gothofredus, Chronolog. Cod. Theod.

[3038] Idacius, in Fastis.

[3039] Zosimus, lib. 2, cap. 29.

[3040] Ammianus, lib. 14, cap. 11.

[3041] Zonaras, in Annalibus.

[3042] Aurel. Victor, in Epitome.

[3043] Philostorgius, in Histor.

[3044] Zosimus. Victor. Sidonius et alii.

[3045] Eutropius, in Breviar.

[3046] Sidonius Apollinaris, lib. 5, Epist. 8.

[3047] Zosimus, lib. 2, cap. 29.

[3048] Sozomenus, Histor., lib. 1, cap. 5.

[3049] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[3050] Eusebius, in Chron.

[3051] Eutrop., in Breviar.

[3052] L. 6, de Episc., Cod. Theodos.

[3053] L. 1, de Haereticis, Cod. Theodos.

[3054] Pagius. Tillemont.




    Anno di CRISTO CCCXXVII. Indizione XV.

    SILVESTRO papa 14.
    COSTANTINO imperadore 21.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANTINO e MASSIMO.


Nell'assegnare il nome del primo console ho io seguitato il padre
Pagi[3055] e il Relando[3056]; ma debbo ora dire che non abbiam
sicurezza d'esso, nè sappiam chi egli fosse: tanto son diverse le date
delle leggi di quest'anno e le asserzioni dei Fasti. Presso alcuni in
vece di _Costantino_ si legge _Costanzo_. Presso altri il puro suo
nome è scritto senza il titolo di _Cesare_, e in altri sì. Alcuni il
fanno console _per la prima volta_, altri _per la seconda_, ed altri
per la _quinta_. Fu creduto questo Costantino dal Panvinio[3057] un
parente di Costantino Augusto. Può essere che un dì salti fuori
qualche iscrizione che tolga ogni dubbio. Una[3058] ne ho io recato,
dove altra menzione non è fatta che di _Flavio Cesare_ e di _Massimo_.
Per conto di questo ultimo conghietturò il suddetto Panvinio ch'egli
non fosse diverso da _Valerio Massimo Basilio_, già da noi veduto
prefetto di Roma; ma nei Fasti si soleva notare il solo ultimo
cognome. Nella stessa prefettura seguitò ancora in questo anno _Anicio
Giuliano_. Truovavasi lo Augusto Costantino, per quanto apparisce
dalle date di varie sue leggi[3059], nell'anno presente in Tessalonica
ed Eraclea, cioè in città della Macedonia e Tracia. San Girolamo, che
dopo aver tradotta in latino la Cronica di Eusebio Cesariense[3060],
la continuò poi fino ai suoi giorni, fa verso a questi tempi menzione
di _Arnobio_ oratore africano. Era egli di credenza pagano, ed
insegnava agli scolari rettorica. Convertito alla religione di Cristo,
impugnò di poi la penna contro le superstizioni e follie del
gentilesimo con que' libri che tuttavia abbiamo gravi d'erudizion
pagana, e bisognosi di commento. Non è improbabile che circa questi
tempi _Elena_, madre dell'Augusto Costantino, donna santa e colma di
zelo per l'abbracciata religione di Cristo, andasse a Gerusalemme,
dove scoprì il sepolcro del divino nostro Salvatore, e la vera croce,
su cui egli morì. Portatone l'avviso a Costantino, ordinò che si
fabbricasse ivi un insigne tempio col titolo della Resurrezione. Altre
chiese a petizione della piissima Augusta egli piantò nel monte
Oliveto, in Betlemme ed altri luoghi, per onorar le memorie della
nascita e passion del Signore. Ma intorno a ciò è da consultare la
storia ecclesiastica, depurata nondimeno da alcuni racconti poco
sussistenti. L'anno preciso, in cui sant'Elena fu chiamata da Dio a
miglior vita, resta tuttavia ignoto o controverso. Potrebbe essere che
ciò succedesse nell'anno seguente. Eusebio[3061], dopo aver narrato le
suntuose chiese alzate da Costantino in quei santi luoghi, descrive
ancora le gloriose azioni di pietà, di munificenza e d'umiltà della
santa imperadrice, e quanto amore a lei professasse, quanto onore le
concedesse il figlio Augusto. Non solamente volle che foss'ella
riconosciuta per imperadrice, e che si battessero medaglie d'oro in
suo onore, ma le conferì ancora una piena balìa per valersi del tesoro
imperiale in opere di pietà. Appresso aggiugne, che essendo ella
mancata di vita in età di circa ottant'anni, Costantino fece portare
il suo corpo nella città regale, cioè a Roma, come comunemente vien
creduto, e deporlo in un magnifico sepolcro. Altri visibili segni
diede Costantino dell'amor suo verso la madre. Imperciocchè sotto
quest'anno nota san Girolamo[3062], ch'egli varie fabbriche alzò in
onore di san Luciano martire, seppellito nel borgo di Drepano nella
Bitinia, con farne una città, a cui diede il nome della madre, forse
tuttavia vivente, chiamandola Elenopoli. Ne parla ancora la Cronica
Alessandrina[3063]. Filostorgio[3064] attribuisce alla stessa Elena la
fabbrica di quella città e l'insigne tempio edificato in onore del
suddetto martire. Abbiamo anche da Sozomeno[3065] che una città di
Palestina prese il nome di Elenopoli da questa santa imperadrice.
Veggonsi iscrizioni, trovansi medaglie che confermano il gran credito
ch'ella meritamente godè, tanto in vita che dopo morte, per le sue
luminose virtù.

NOTE:

[3055] Pagius, Crit. Baron., ad hunc annum.

[3056] Reland., Fast. Consul.

[3057] Panvin., Fast. Consul.

[3058] Thes. Novus Inscript., pag. 354.

[3059] Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.

[3060] Hieronymus, in Chronico.

[3061] Euseb., in Vita Const., lib. 2, cap. 23 et seq.

[3062] Hieron., in Chronico.

[3063] Chron. Alexandrinum.

[3064] Philostorgius, Hist., lib. 2, cap. 13.

[3065] Sozomenus, lib. 2, cap. 2.




    Anno di CRISTO CCCXXVIII. Indizione I.

    SILVESTRO papa 15.
    COSTANTINO imperadore 22.

_Consoli_

JANUARIO e GIUSTO.


S'incontra il primo console appellato anche _Januarino_. Seguitò
nell'anno presente ad esercitar la prefettura di Roma _Anicio
Giuliano_. Le poche leggi[3066] che abbiamo appartenenti a quest'anno
ci fan vedere Costantino in Nicomedia, capitale della Bitinia, e poi
in Oiscos, o Escos, luogo della Dacia, o piuttosto della Mesia
inferiore, oggidì Bulgaria. Qui la Cronica Alessandrina ci fa sapere
che Costantino passò più volte di là dal Danubio, e che sopra quel
fiume fece fabbricar un ponte di pietra. Anche l'uno e l'altro
Vittore[3067] attestano la fabbrica di questo ponte, nè si sa vedere
perchè il Tillemont[3068] la chiami affatto inverisimile. Noi sappiamo
che Costantino, più di quel che si possa credere, fu avidissimo della
lode e della gloria. Ben probabile è ch'egli non volesse essere da
meno di Traiano, da cui fu fabbricato un simil ponte su quel fiume
regale. Abbiamo anche medaglie[3069], dove si mira quel ponte col
motto SALVS REIPVBLICAE DANVBIVS. Questi movimenti di Costantino hanno
poi fatto pensare a qualche erudito[3070] che in quest'anno egli
avesse guerra coi Goti e Taifali, popoli abitanti di là dal Danubio in
faccia alla Mesia. E però il Mezzabarba[3071] rapporta monete battute,
a suo credere, nel presente anno col motto VICTORIA GOTHICA. Ma forse
tali medaglie son da riferire nell'anno 322. Per altro ve n'ha di
quelle, dove egli comparisce circa questi tempi _imperadore per la
vigesima seconda volta_, e queste dovrebbono assicurarci di qualche
vittoria da lui riportata verisimilmente contra de' Barbari
transdanubiani. In questi tempi appunto gli autori della storia
ecclesiastica[3072] muovono gravi querele contro la memoria di
Costantino, perchè egli richiamò dall'esilio l'eresiarca Ario, e poi
Eusebio, Mari e Teognide, vescovi protettori del medesimo: dal che
vennero poi non poche turbolenze alla Chiesa di Dio, e cominciò la
persecuzione contra di sant'Atanasio. Certo è da stupire come un sì
saggio Augusto, dianzi veneratore dei decreti del celebre concilio
niceno, e che avea banditi i vescovi suddetti, perchè disubbidienti al
medesimo concilio, poscia retrocedesse, e tanto si lasciasse
avviluppar da Eusebio, vescovo di Nicomedia, che da lì innanzi il
tenne per uno de' suoi più intimi consiglieri, e in riguardo suo molti
falli commise in favore dell'arianismo. A simili salti è suggetto
chiunque de' principi non sa sceglier buoni ministri.

NOTE:

[3066] Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.

[3067] Victor, in Epitome. Idem, de Caesarib.

[3068] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[3069] Mediobarb., in Numismat. Imperat.

[3070] Gothofredus et Tillemont.

[3071] Mediob., in Numismat. Imperator.

[3072] Socrat. Sozomen. Philostorg. Pagius. Baronius et alii.




    Anno di CRISTO CCCXXIX. Indizione II.

    SILVESTRO papa 16.
    COSTANTINO imperatore 23.

_Consoli_

FLAVIO VALERIO COSTANTINO AUGUSTO per l'ottava volta e FLAVIO VALERIO
COSTANTINO CESARE per la quarta.


Ad Anicio Giuliano nella prefettura di Roma succedette nel dì 7 di
settembre _Publio Optaziano_[3073], che taluno ha creduto quel
medesimo Optaziano poeta da noi veduto di sopra autore del panegirico
di Costantino. Ma quel poeta si nomò _Publilio_, e forse non è da
credere che uomo di grande affare e degno di sì riguardevol carica
egli fosse, da che si perdeva in quelle pedanterie d'acrostici. Oltre
di che, san Girolamo[3074] scrive ch'egli in quest'anno fu richiamato
dall'esilio. Poscia nella suddetta prefettura entrò, nel dì 8 di
ottobre, _Petronio Probiano_. Dimorò Costantino in questi tempi,
siccome risulta dalle date delle sue leggi[3075], nella Pannonia,
Dacia e Tracia, ora in Sirmio, ora in Naisso, Sardica ed Eraclea. Era
egli in questi tempi tutto applicato alla fabbrica della nuova città
di Costantinopoli, della cui dedicazione parleremo all'anno seguente.
Nota san Girolamo, nella sua Cronica, che in quest'anno solamente fece
Costantino morir Fausta sua moglie; ma dee ben prevalere l'opinione di
tanti altri che tal tragedia riferiscono all'anno stesso in cui tolta
fu la vita a Crispo Cesare. Aggiugne il medesimo che parimente in
questi tempi fece grande strepito in Africa Donato vescovo di
Cartagine, con avvalorare lo scisma di quelle chiese, e che da lui
venne il nome de' Donatisti più tosto che da un altro precedente
Donato. Similmente scrive che nella città di Antiochia si cominciò a
fabbricare la suntuosa basilica de' cristiani, chiamata Aurea, per
ordine senza fallo di Costantino. Giovanni Malala[3076] probabilmente
indica il medesimo tempio, con dire che esso Augusto edificò in quella
città la gran chiesa, cioè la cattedrale, opera veramente magnifica,
con aver demolito il bagno del re Filippo, già maltrattato dalle
ingiurie del tempo, e divenuto inutile. Presso a quella chiesa ancora
fabbricò lo spedale dei pellegrini; e del tempio di Mercurio formò la
basilica appellata di Rufino.

NOTE:

[3073] Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.

[3074] Hieronymus, in Chron.

[3075] Gothofred., in Chron. Cod. Theodos.

[3076] Joannes Malala, in Chronogr.




    Anno di CRISTO CCCXXX. Indizione III.

    SILVESTRO papa 17.
    COSTANTINO imperadore 24.

_Consoli_

GALLICANO e SIMMACO.


In alcuni Fasti[3077] in vece di _Gallicano_ si trova un _Costanzo per
la terza volta_, piuttosto che _per la settima_, console con
_Simmaco_. Però taluno ha creduto ch'egli fosse sostituito a
Gallicano. Io il lascio nelle sue tenebre. Continuò anche per l'anno
presente _Petronio Probiano_ ad esercitar la prefettura di Roma. S'è
disputato non poco fra gli eruditi[3078] intorno all'anno, in cui
Costantino Augusto cominciò la fabbrica della nuova città di
Costantinopoli, e poi ne fece la dedicazione. Lasciando io il primo
punto che poco importa, dico convenire oggidì i più in credere che in
quest'anno egli dedicasse quella città, mutando il nome di Bisanzio in
quello di Costantinopoli. Era egli negli anni addietro, siccome
sommamente vago di gloria, invogliato di fabbricare una città, per
imporle il suo nome, ed eternar con ciò maggiormente la sua memoria
nei secoli avvenire. Pensava ancora di stabilir ivi la sua residenza,
facendo di quella città una nuova Roma, che gareggiasse in grandezza
ed ornamenti colla vecchia. Pretende Zosimo[3079] che egli a ciò
s'inducesse, perchè mal soddisfatto del popolo romano, da cui era
stato caricato di maledizioni l'ultima volta che egli fu a Roma, a
cagion della religione mutata. Non è questo improbabile, dacchè
sappiamo che dalla nuova città egli escluse ogni reliquia di
paganesimo: il che non gli sarebbe con egual facilità e quiete
riuscito nell'antica Roma. Fosse questo il motivo, o pure il desiderio
della gloria, e di divertire i suoi pensieri in tempo di pace, che
gl'ispirasse tal disegno, certissimo è aver egli a tutta prima scelto
un sito sulla costa dell'Asia in vicinanza della già distrutta città
di Troia, per fabbricarvi la novella sua città, e che v'impiegò assai
tempo ed operarii ad alzarne le mura e le porte. Ma nell'andar egli
soggiornando in quelle vicinanze, meglio di quel che avesse fatto in
addietro, adocchiò, e ravvisò la mirabil situazione dell'antica città
di Bisanzio, e quivi determinò di far la sua reggia; e lasciato andare
l'incominciato lavoro, tutto si diede ad accrescere e rinnovare
quest'altro luogo. Chiunque anche oggidì osserva Costantinopoli,
confessa non potersi trovare un sito più bello, più delizioso e più
comodo di quello sulla terra, perchè posta quella città sotto moderato
clima sul fin dell'Europa in un promontorio, e in faccia alla vicina
Asia, col mare che le bacia le mura, con porto capacissimo di navi,
con fertili campagne, e frapposta a due mari, ciascun dei quali può
facilmente mantenere in essa l'abbondanza. Quivi dunque tutto si diede
l'Augusto Costantino a fabbricare, con aprire gli scrigni ed impiegar
largamente i suoi tesori in quell'impresa, con ritenere il meglio del
vecchio Bisanzio, ed accrescere a meraviglia il circuito delle sue
mura.

Gli autori greci[3080], siccome si può vedere nella descrizion di
Costantinopoli cristiana, che abbiamo dall'erudita penna del Du-Cange,
contano maraviglie, avvenimenti soprannaturali, ed anche favolosi,
della fondazione di questa città. Non convenendo all'assunto mio
l'entrare in sì fatto argomento, a me basterà di dire che le nuove
mura abbracciarono un gran sito, entro il quale egli fece edificare un
superbo imperial palagio, con altri assaissimi per i suoi cortigiani
ed uffiziali, belle strade e case, piazze non inferiori in bellezza a
quelle di Roma, circhi, statue, fontane, terme, portici suntuosi
sostenuti da più file di colonne di marmo: in una parola, si studiò
egli di formare una città che in fabbriche ed ornamenti potesse
competere con quella di Roma che era la maraviglia delle città. E per
maggiormente abbellirla, non si mise scrupolo di spogliar l'altre
città, per asportar colà le cose più rare, senza neppur eccettuare
quella di Roma. Chi leggesse la storia sola di Zosimo[3081],
crederebbe che Costantino in questa nuova città avesse eretti templi
ai falsi dii, ed onorate le statue loro. Ma Eusebio[3082], che scrive
le cose de' suoi dì, ed altri antichi scrittori[3083] ci assicurano
che egli unicamente vi fabbricò delle magnifiche chiese, fra le quali
mirabil poscia fu quella de' Santi Apostoli, oltre a varii oratorii in
memoria de' martiri, e che in quella città non soffrì alcun tempio de'
gentili, nè che le statue de' loro dii si onorassero ne' templi.
Quelle che v'erano, o che furono portate altronde colà, servivano
solamente per ornamento della città, e non per ricevere culto dai
pagani. Però di là fu estirpata l'idolatria, ed in essa pubblicamente
non si adorava se non il vero Dio e la croce santa; e questa
gioiellata facea bella comparsa nella sala maggiore dell'imperial
palazzo. Quel solo che troviam ripreso da Zosimo[3084] e da
Temistio[3085] in Costantino, fu la soverchia fretta sua, per aver
presto il piacere di veder terminate tante fabbriche, perchè,
trovandole malfatte, le disfaceva, ed altre non poche d'esse ebbero in
effetto corta sussistenza, e convenne ai susseguenti Augusti di
risarcirle e far di nuovo. A fine poi di popolare quest'ampia città,
ed accrescerne l'abitato, tirava ad essa i popoli delle altre città e
provincie, allettandoli con privilegii ed esenzioni, e con donar loro
terre da coltivare, ovver danari. E a molti senatori ancora, venuti da
Roma a stanziare colà, donò palazzi e ville. Assegnò anche rendite
annuali che servissero ad aumentare le case e a sempre più abbellir la
città di nuovi edifizii. Altre poi erano destinate per dare
annualmente al povero popolo pane o pur grano, carne ed olio[3086].

In questa maniera non passò gran tempo che Costantino vide piena di
abitatori la sua città, con avere, siccome scrisse anche san
Girolamo[3087], spogliate quasi tutte le altre per ingrandire ed ornar
questa sua favorita figlia. Affinchè poi vi abbondassero i viveri,
concedette varii privilegii ai mercatanti di grano dell'Oriente e
dell'Egitto, che tutti da lì innanzi correvano a smaltire in sì
popolata città le lor vettovaglie, città che per l'addietro tante ne
produceva, che ne facea parte all'altre. I Greci moderni, spezialmente
Codino[3088], spacciarono dipoi una man di fole intorno a questa
fondazione, e massimamente una curiosa particolarità, che, quantunque
favolosa, merita di essere comunicata ai lettori. Cioè che Costantino,
allorchè era dietro alla fabbrica d'essa città, chiamò a sè i
principali nobili romani, e li mandò alla guerra contro i Persiani. In
quel mentre, secondo le misure venute da Roma, ordinò che si
fabbricassero palazzi e case affatto simili a quelle che essi godevano
in Roma; e dopo averle mobigliate di tutto punto, segretamente fece
venir colà le loro mogli e i figliuoli con tutte le famiglie, e le
collocò in quelle abitazioni. Dopo sedici mesi tornarono que' nobili
dalla guerra, accolti con un solenne convito dall'imperadore, il quale
fece poi condurre cadauno all'abitazion loro assegnata, e tutti
all'improvviso si trovarono fra gli abbracciamenti dei lor cari. Torno
a dire, che è spezioso il racconto; ma che chiunque l'esamina, ne
scorge tosto la finzione; e tanto più che guerra non fu allora coi
Persiani, nè gli antichi fan parola di questo fatto, e lo avrebbono
ben saputo e dovuto dire, se fosse avvenuto. Ora varii autori[3089]
s'accordano in iscrivere che l'Augusto Costantino nel dì 11 di maggio
dell'anno presente fece con gran solennità di giuochi e profusion di
doni la dedicazione di questa nuova città, abolendo l'antico nome di
Bisanzio, ed ordinando ch'essa da lì innanzi fosse chiamata _città di
Costantino_, o sia _Costantinopoli_. Fra le sue leggi[3090] comincia
appunto a trovarsene una data sul fin di novembre in quella città col
suddetto nome. Non è già che in quest'anno fosse ridotta a perfezione
così insigne città, ricavandosi da Giuliano Apostata[3091] e da
Filostorgio[3092] che si continuarono i lavori anche qualche anno
dipoi. Ma perchè dovevano essere terminate le mura, le porte e i
principali edifizii, perciò l'imperadore impaziente non potè aspettare
di più per darle il nome e farne la dedicazione in quel giorno, che
annualmente fu poi celebrato anche ne' secoli susseguenti dalla
nazione greca. Per maggiormente poi esaltare la sua città, Costantino
le diede ancora il titolo di _seconda Roma_, o pure di _Roma
novella_[3093]; volle che godesse tutti i diritti e le esenzioni che
godeva la vecchia, stabilì ivi un senato, ma del secondo ordine, e
varii magistrati, che esercitavano la loro autorità sopra tutto
l'imperio dell'Oriente, e sopra l'Illirico orientale; in una parola,
se vogliam credere a Sozomeno, andò così crescendo Costantinopoli, che
in meno di cento anni giunse a superar Roma stessa non men per le
ricchezze che per la copia degli abitanti. Zosimo[3094] scriveva,
circa cento anni dappoi, che facea stupore la sterminata folla di
gente e di giumenti che si mirava in quelle strade e piazze; ma che,
essendo strette esse strade, scomodo e pericoloso era il passarvi.
Giunge anche a dire che niun'altra città potea allora paragonarsi in
felicità e grandezza a Costantinopoli, senza eccettuar Roma vecchia,
la qual certo cominciò a declinar da qui innanzi non poco per questa
emula nuova.

NOTE:

[3077] Cassiodorus, Prosper, in Fastis.

[3078] Baron. Gothofred. Petavius. Pagius.

[3079] Zosimus, lib. 2, cap 30.

[3080] Euseb. Sozomen. Philostorg. Codinus, et alii.

[3081] Zosimus, l. 2, cap. 31.

[3082] Euseb., in Vita Costantini, lib. 3, cap. 48.

[3083] Socrates, l. 1 Histor., cap. 16 et alii.

[3084] Zosimus, lib. 2, cap. 32.

[3085] Themistius, Orat. 3.

[3086] Sozom. Socrates. Zosimus. Cod. Theodos. et alii.

[3087] Hieron., in Chronico.

[3088] Codinus, Origin. Constantin.

[3089] Idacius, in Fastis. Chronic. Alexandrinum. Hieron., in Chron.
Zonaras, in Annalib. et alii.

[3090] L. 2, de Judaeis, Cod. Theod.

[3091] Julian., Oratione I.

[3092] Philostorgius, Histor., lib. 2, cap. 9.

[3093] Sozomenus, Histor., lib. 2, cap. 3. Socrates, Hist., lib. 1,
cap. 1.

[3094] Zosimus, lib. 2, cap. 35.




    Anno di CRISTO CCCXXXI. Indizione IV.

    SILVESTRO papa 18.
    COSTANTINO imperadore 25.

_Consoli_

ANNIO BASSO ed ABLAVIO.


Nel dì 12 d'aprile entrò nella prefettura di Roma _Anicio Paolino_. Le
leggi[3095] pubblicate in quest'anno dall'Augusto Costantino cel fanno
vedere tuttavia residente in Costantinopoli, applicato ivi al
compimento di varie fabbriche. Allora fu ch'egli con un prolisso
editto, il quale nel Codice di Giustiniano si trova diviso in sei
diverse leggi, e indrizzato a tutte le provincie del romano imperio,
si studiò di provvedere alle concussioni ed avanie dei giudici, notai,
portieri ed altri uffiziali della giustizia, ed anche alla prepotenza
de' privati. Vuol dunque ivi che chiunque si sentirà aggravato
dall'avarizia, rapacità e ingiustizia de' suddetti, liberamente porti
le sue doglianze ai governatori; e, non provvedendo essi, ricorra ai
conti delle provincie, o ai prefetti del pretorio, affinchè essi ne
diano conto alla maestà sua, ed egli possa punire questi abusi e
delitti secondo il merito. Nè solamente impiegava in questi tempi
Costantino i suoi tesori per l'accrescimento della sua diletta città
di Costantinopoli; stendeva anche la sua munificenza ad altre città,
con fabbricar ivi dei riguardevoli templi in onore di Dio, de' quali
parla Eusebio[3096]. Faceva inoltre sfavillare il suo zelo in favore
della Chiesa cattolica, con aver pubblicato un editto contra de' varii
eretici che allora l'infestavano, ma non già contra degli Ariani,
perchè introdottosi forte in grazia di lui uno scaltro protettore
d'essi, cioè quel volpone di Eusebio, vescovo di Nicomedia, di cui si
parlò di sopra, andò egli non solamente inorpellando al buon Augusto i
sacrileghi dogmi dell'eresiarca Ario, ma mise anche sottosopra le due
insigni chiese di Antiochia e di Alessandria: del che potrà il lettore
chiarirsi consultando la storia ecclesiastica. Racconta eziandio il
medesimo Eusebio[3097] che Costantino fece sentire la beneficenza sua
a tutto l'imperio, con levare un quarto dei tributi che annualmente
pagavano i terreni: indulgenza che gli tirò addosso la benedizione dei
popoli. E perciocchè non mancavano persone, le quali si lamentavano di
essere state oltre il dovere aggravate negli estimi delle loro terre
sotto i principi precedenti, spedì estimatori dappertutto, acciocchè
riducessero al giusto quello che fosse difettoso. Parla anche Eusebio
della non mai stanca liberalità di questo grazioso regnante verso le
provincie e verso chiunque a lui ricorreva; di maniera che egli
giunse, per soddisfare a tanti che chiedevano onori, ad inventar nuove
cariche e nuovi uffizii, colla distribuzion de' quali si studiava di
rimandar contenta ogni meritevol persona. Zosimo[3098], che per
cagione del suo paganismo non seppe se non mirar d'occhio bieco tutte
le azioni di Costantino, gli fa un reato di questo, e particolarmente
perchè di due prefetti del pretorio egli ne formasse quattro. Il primo
d'essi era prefetto del pretorio dell'_Italia_, da cui dipendeva
l'Italia tutta colla Sicilia, Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle
Sirti sino a Cirene, e la Rezia, e qualche parte dell'antico Illirico,
come l'Istria e Dalmazia, e verisimilmente anche il Norico. Era il
secondo quello dell'_Oriente_, a cui Costantino, per onorar la sua
cara Costantinopoli, diede una buona porzione, unendo sotto di lui
l'Egitto colla Libia Tripolitana, e tutte le provincie dell'Asia, e la
Tracia, e la Mesia inferiore con Cipri ed altre moltissime isole. Il
terzo fu quel dell'_Illirico_, al quale erano sottoposte le provincie
della Mesia superiore, la Pannonia, la Macedonia, la nuova Dacia, la
Grecia ed altri adiacenti paesi, compresi anticamente sotto esso nome
d'Illirico. Fu il quarto quello delle _Gallie_, che comandava a tutta
la Francia moderna sino al Reno, e a tutta la Spagna, con cui andava
congiunta la Mauritania Tangitana, e alle provincie romane della
Bretagna. Zosimo pretende che l'istituzione di tali magistrati
riuscisse pregiudiziale all'imperio. Ma doveva far mente quello
storico che Diocleziano il primo fu in certa maniera ad istituire
quattro prefetti del pretorio, allorchè in quattro parti divise il
romano imperio. Quel che più importava, quand'anche se ne faccia
autore Costantino, con ottima intenzione o per maggior comodo de'
popoli egli creò que' magistrati. Veggasi il Gotofredo[3099] ed altri
che han trattato dell'uffizio, dell'autorità e delle incumbenze de'
prefetti del pretorio. Che se uffiziali di tanta dignità, o i lor
subalterni col tempo si abusarono del loro impiego, alla lor
negligenza o malizia si dovea attribuire il reato, e non già alla
dignità, saviamente e con buon fine istituita, che, al pari di tante
altre, potè cadere in mani cattive.

NOTE:

[3095] Gothofred., Chronolog. Cod. Theodos.

[3096] Euseb., in Vita Const., lib. 3, cap. 50 et 63.

[3097] Idem, ibidem, lib. 4, cap. 2.

[3098] Zosimus, lib. 2, cap. 32 et seq.

[3099] Gothofred., tom. VI Cod. Theodosian. Pancirolus, Notitia
Utriusque Imperii. Bulenger., de Imp. Roman., lib. 3.




    Anno di CRISTO CCCXXXII. Indizione V.

    SILVESTRO papa 19.
    COSTANTINO imperadore 26.

_Consoli_

PACAZIANO ed ILARIANO.


Trovasi _Anicio Paolino_ continuare in quest'anno ancora nella
prefettura di Roma. Se vogliam riposar sull'asserzione di quella mala
lingua di Zosimo[3100], da che Costantino si perdè tutto dietro alla
fabbrica di Costantinopoli, non si curò più di far guerra, ed attese
solamente a darsi bel tempo. Cinquecento Taifali, nazione scitica,
fecero con soli cinquecento cavalli un'irruzione nel paese romano
(probabilmente in quest'anno), e non solamente niuna schiera loro
oppose Costantino, ma anche, dopo aver perduta la maggior parte
dell'esercito suo, allorchè vide comparire sino ai trincieramenti del
suo campo i nemici che davano il sacco alla campagna, si mise fuggendo
con gran fretta in salvo. Ho tradotto le stesse parole di Zosimo,
acciocchè il lettore comprenda la contraddizione di questo
appassionato storico. Se Costantino perdè tanti de' suoi armati, il
che suppone qualche battaglia, come non oppose egli gente a que'
Barbari? Ma nè questi svantaggi della cesarea armata, nè la fuga
dell'invitto imperadore son cose da credere a Zosimo, venendo egli
smentito da Eusebio scrittore contemporaneo[3101], e da s.
Girolamo[3102], e da Socrate[3103], e da Sozomeno[3104]. Sotto
quest'anno san Girolamo scrive che i Romani vinsero i Goti; perciocchè
con questo nome usarono molti di comprendere molte delle nazioni
scitiche, Tartari da noi chiamate oggidì, si può conghietturare
ch'egli significasse i Taifali di Zosimo. Eusebio anch'esso ci
assicura che Costantino soggiogò le dianzi indomite nazioni degli
Sciti e dei Sarmati. E Socrate attesta bensì che i Goti fecero delle
incursioni nel territorio romano, ma soggiugne che Costantino li
vinse. Abbiamo anche dall'Anonimo Valesiano[3105] che i Sarmati,
pressati dalla guerra che lor facevano i Goti, implorato l'aiuto di
Costantino, l'impetrarono; e che per la buona condotta di _Costantino
Cesare_ circa cento mila di que' Barbari perirono di fame e di freddo.
Pare perciò che Costantino, primogenito dell'Augusto Costantino,
quegli fosse che un titolo di generale a nome del padre guerreggiasse
coi Goti: il che si può anche inferire da Giuliano Apostata[3106]. A
ciò si dee unire lo scriversi da Idacio[3107] che i Goti furono
sconfitti dai Romani nel paese de' Sarmati, correndo il dì 22 d'aprile
dell'anno presente. Secondo l'Anonimo Valesiano[3108], Ararico o sia
Aorico, re dei Goti, per tale riconosciuto anche da Giordano[3109]
istorico, fu poscia obbligato a chiedere pace, per sicurezza della
quale diede alcuni ostaggi, e fra essi un suo figliuolo. Anche Aurelio
Vittore[3110] ed Eutropio[3111] riconobbero vinti da Costantino
Augusto i Goti; di maniera che le dicerie di Zosimo si scuoprono
effetti unicamente del suo mal cuore verso di un imperadore sì
glorioso e degno. Abbiamo inoltre nelle medaglie[3112] autenticati
questi fatti colla memoria della VICTORIA GOTHICA. E qui Eusebio[3113]
osserva un riguardevol pregio dell'Augusto Costantino. Erano stati
soliti non pochi de' precedenti imperadori di pagare alle nazioni
barbare confinanti un annuo regalo, che in sostanza era un tributo, ed
indizio che i Romani si professavano come sudditi e servi de' Barbari.
Non volle l'invitto Costantino sofferir questo vergognoso aggravio; e
perchè ricusò di pagare, ebbe guerra con que' popoli. Confidato nella
protezione di quel divino Signore, colla cui croce egli procedeva
nelle guerre, domò tutti coloro che osarono di fargli resistenza; nè
più pagò loro tributo: il che vien confermato da Socrate[3114]. Gli
altri Barbari poi che non presero l'armi ammansò egli in tal maniera
con prudenti ambascerie, che li ridusse da una vita senza legge e
simile alle fiere ad una civile ed umana forma di vivere, imparando in
fine gli Sciti ad ubbidir ai Romani. Così Eusebio vescovo di Cesarea,
egregio testimonio di tali affari, perchè vivente e scrivente allora
le sue Storie. Ma esso Eusebio, nel descrivere le azioni di
Costantino, perchè si prefisse di compilar quelle solamente che
riguardavano la di lui pietà, non si curò delle altre che concernevano
la di lui gloria civile e militare; e però non sappiamo distintamente
in che consistessero le sue guerre e vittorie contra dei Goti e
d'altri Barbari. Se fossero pervenute sino a' dì nostri le storie di
_Prassagora Ateniese_, conosciute da Fozio[3115], e quelle di _Bemarco
Cesariense_, mentovate da Suida[3116], siccome ancora le Vite
degl'imperadori composte da _Eunapio_, autori che trattarono de' fatti
di Costantino, altre particolarità noi sapremmo ora della di lui vita.
Tanto nondimeno a noi resta da potere smentire la licenza di Zosimo
ostinato pagano. Nè si dee tacere aver asserito Socrate[3117] e
Sozomeno[3118] che le vittorie di Costantino, riportate nelle guerre
coi Goti, fecero visibilmente conoscere la protezione di Dio sopra
questo principe, in guisa tale che moltissimi d'essi Goti, convinti
anche per tale osservazione della verità della religion cristiana
(passata settanta anni prima nelle lor contrade coll'occasion degli
schiavi cristiani), la abbracciarono e professarono, benchè infettata
dagli errori d'Ario. Abbiamo ancora dal sopraccitato storico
Giordano[3119] che Alarico, re allora d'essi Goti, provvide all'armate
di Costantino quaranta mila de' suoi soldati, i quali sotto nome di
collegati cominciarono a militare al di lui servigio. Se costoro
vollero i danari de' Romani, convenne che da lì innanzi se li
guadagnassero col servire negli eserciti cesarei.

NOTE:

[3100] Zosimus, lib. 2, cap. 31.

[3101] Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 5.

[3102] Hieronymus, in Chronico.

[3103] Socrates, Histor., lib. 1, cap. 18.

[3104] Sozomenus, Histor., lib. 2, cap. 8.

[3105] Anonym. Valesianus.

[3106] Julian., Oration. I.

[3107] Idacius, in Fastis.

[3108] Anonym. Vales.

[3109] Jordan., de Reb. Get., cap. 21.

[3110] Aurelius Victor, de Caesarib.

[3111] Eutrop., in Breviar.

[3112] Mediob., in Numismat. Imperator.

[3113] Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 5.

[3114] Socrates, Hist., lib. 1, cap. 18.

[3115] Photius, in Biblioth., Cod. 62.

[3116] Suidas, in Lexico.

[3117] Socrat., lib. 1, cap. 8.

[3118] Sozomenus, lib. 1, cap. 18.

[3119] Jordan., de Reb. Getic., cap. 21.




    Anno di CRISTO CCCXXXIII. Indizione VI.

    SILVESTRO papa 20.
    COSTANTINO imperadore 27.

_Consoli_

FLAVIO DELMAZIO e ZENOFILO.


Quelle leggi e que' fasti, ne' quali in vece di _Delmazio_ si legge
_Dalmazio_, s'hanno da credere alterati dai copisti ignoranti ed
avvezzi a chiamar _Dalmazia_ quella che negli antichi secoli era
appellata _Delmazia_, siccome apparisce da varie iscrizioni militari
nella mia Raccolta[3120]. Nelle medaglie[3121] poi troviamo conservato
il di lui vero nome _Delmazio_. Alcuni han creduto questo Delmazio
fratello di Costantino, ma di altra madre. Oggidì opinion più ricevuta
è ch'egli fosse figlio di un fratello di Costantino, nè andrà molto
che il vedremo decorato col titolo di _Cesare_. Nel dì 7 d'aprile fu
conferita la carica di prefetto di Roma a _Publio Optaziano_[3122]
creduto dal Tillemont[3123] quel medesimo Publio Optaziano Porfirio
che compose in acrostici il panegirico di Costantino. Ma poco durò il
suo impiego, perchè nel dì 10 di maggio gli succedette _Ceionio
Giuliano Camenio_. Fra i tre figliuoli dell'Augusto Costantino,
l'ultimo era _Costante_, nato circa l'anno 320. Al pari degli altri
due fratelli fu anch'egli nel dì 25 di dicembre dell'anno presente
creato _Cesare_[3124]. Nelle altre medaglie e nelle iscrizioni si
trova chiamato _Flavio Giulio Costante_. Abbiamo da san Girolamo che
terribilmente infierì nella Soria e Cicilia la carestia colla
mortalità d'innumerabili persone. Di questa orrida fame, che afflisse
tutto l'Oriente, parla anche Teofane[3125], dicendo che un moggio di
grano costava allora un'incredibile prezzo; e che in Antiochia e Cipri
le ville altro non faceano che saccheggi sulle vicine, e buon per chi
avea superiorità di forze. Racconta ancora Eunapio che in non so qual
anno si patì penuria di grano in Costantinopoli, perchè i venti
contrarii impedivano ai legni mercantili l'abbordare a quel porto.
Trovavasi allora in gran credito alla corte di Costantino _Sopatro_,
filosofo platonico, ito colà per frenare l'impetuosità di Costantino
in distruggere il paganesimo. Ma, venuto un dì in cui mancò il pane
alla piazza, infuriata la plebe con alte grida cominciò ad esclamare
contra di Sopatro, con dire ch'egli era un mago, ed incantava i venti,
affinchè non arrivassero i vascelli del grano. Zosimo[3126] pretende
che questa fosse una cabala di _Ablavio_ prefetto del pretorio, al
quale non piaceva tanta familiarità di quel barbone coll'imperador
Costantino. Nientedimeno si può credere che di gran conseguenza non
fosse il favore goduto da costui; imperciocchè Costantino permise che
l'infuriata plebe il mettesse a pezzi, forse, come vuole Suida, per
far conoscere l'abborrimento suo al paganesimo. Si può anche riferire
a questi tempi ciò che lasciò scritto Eusebio[3127], cioè tanto essere
salito in riputazione l'Augusto Costantino, che da tutte le parti
della terra erano a lui spedite ambascerie. Ed egli stesso attesta
d'aver più volte osservato alle porte del palazzo imperiale le varie
generazioni di Barbari, fra' quali specialmente i Blemmii, gli
Indiani, gli Etiopi, tutti venuti per inchinare un così glorioso e
temuto monarca. Il vestir loro, la capigliatura, le barbe, tutte erano
diverse. Terribile il loro aspetto, e la statura quasi gigantesca.
Rosso il colore d'alcuni, candidissimo quello d'altri. Portavano tutti
costoro dei regali a Costantino, chi corone d'oro, chi diademi
gioiellati, cavalli, armi ed altre specie di donativi, per entrare in
lega con lui, e stabilir seco buona amicizia. Più era poi quello che
il generoso principe loro donava, rimandandoli perciò più ricchi di
prima, e contenti a casa. Oltre a ciò, i più nobili fra que' Barbari
soleva egli affezionarsegli, decorandoli con titoli ed ammettendoli
alle dignità romane: dal che veniva che la maggior parte d'essi, non
curando più ritornarsene alla patria, si fermava ai servigi del
medesimo Augusto. E tale era la politica di Costantino, il cui cuore
non si trovava inquietato dalla dannosa insaziabilità de'
conquistatori, ma bensì nobilmente bramava di far godere un'invidiabil
pace e tranquillità a tutti i sudditi del suo vasto imperio: lode non
intesa dal maledico Zosimo[3128], che quasi gli fa un reato, perchè
desistè dalle guerre. E di questa sua premura di far godere la pace ai
suoi popoli un bel segno diede, allorchè Sapore re della Persia (se
crediamo a Libanio[3129]), in occasione di inviargli una solenne
ambasciata, gli dimandò una gran quantità di ferro, di cui niuna
miniera si trovava in Persia, col pretesto di valersene per far guerra
ai lontani. Tuttochè Costantino conoscesse che questo ferro potea un
dì servire contro i Romani, pure, per non romperla con quel re, che
parea disposto a far guerra, ne permise l'estrazione, assicurandosi
coll'aiuto di Dio di vincere anche i Persiani armati, se l'occasion
veniva. Della stessa ambasciata fa menzione Eusebio[3130], siccome
ancora della suntuosità de' regali passati fra loro, e della pace di
nuovo assodata fra i due imperii. Aggiugne che un motivo particolare
ebbe il piissimo Costantino di mantener buona armonia con quel re,
perchè la religione di Cristo avea stese le radici fino in Persia; ed
egli, siccome protettor d'essa, non volea che i cristiani di quelle
contrade restassero esposti alla vendicativa barbarie del re persiano.
Anzi abbracciò egli questa congiuntura per iscrivere a quel regnante
una lettera, a noi conservata da Eusebio e da Teodoreto[3131], in cui,
dopo aver esaltata la religion de' cristiani, come sola ragionevole e
protetta da Dio, raccomanda a quel re i fedeli abitanti nel di lui
regno. Il Gotofredo[3132] e il padre Pagi[3133] mettono sotto
quest'anno lo studio di Costantino, affinchè si distruggessero i
templi e gl'idoli più famosi del gentilesimo, come si ricava da san
Girolamo[3134] e da altri antichi scrittori.

NOTE:

[3120] Thesaur. Novus Inscr., Class. XI.

[3121] Goltzius. Tristanus. Spanhemius et alii.

[3122] Cuspinianus. Panvinius. Bucher.

[3123] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[3124] Idacius, in Fastis. Hieron., in Chronico.

[3125] Theophanes, Chronogr.

[3126] Zosimus, lib. 2, cap. 40.

[3127] Euseb., in Vita Constantin., lib. 4, c. 7.

[3128] Zosimus, lib. 2, cap. 32.

[3129] Liban., Oration. 3.

[3130] Euseb., in Vita Const., lib. 4, cap. 8.

[3131] Theodoretus, Hist., lib. 1, cap. 24.

[3132] Gothofred., Chron. Cod. Theodos.

[3133] Pagius, Crit. Baron., ad hunc annum.

[3134] Hieron., in Chronico.




    Anno di CRISTO CCCXXXIV. Indizione VII.

    SILVESTRO papa 21.
    COSTANTINO imperadore 28.

_Consoli_

LUCIO RANIO ACONZIO OPTATO e ANICIO PAOLINO juniore.


_Optato_ e _Paolino_ sono i cognomi indubitati di questi due consoli.
I loro nomi son presi da iscrizioni riferite dal Panvinio e Grutero,
le quali non è ugualmente certo che appartengano a questi personaggi.
Dal Catalogo del Cuspiniano e Bucherio[3135] abbiamo che nel dì 27
d'aprile del presente anno la prefettura di Roma fu raccomandata ad
_Anicio Paolino_: sicchè, se regge il suddetto supposto, egli fu nello
stesso tempo ornato delle due più illustri dignità di Roma.
Un'iscrizione del Panvinio[3136] parla di tutte e due queste dignità,
e il Tillemont[3137] l'adduce per pruova che Paolino le esercitò nel
medesimo tempo. Ma nelle iscrizioni si solevano annoverar tutte le
dignità e gl'impieghi onorevoli dei personaggi, loro addossati in
varii tempi; e però non è bastante quel marmo a togliere ogni dubbio
che Paolino in quest'anno fosse console e prefetto di Roma. Le leggi
del Codice Teodosiano[3138] ci fan vedere Costantino Augusto,
nell'anno presente, ora in Costantinopoli, ora in Singidone della
Mesia, ed ora in Naisso della Dacia. Diede egli nella prima d'esse
città una legge[3139] nel dì 26 di giugno in favor de' pupilli, delle
vedove, e d'altre miserabili persone, concedendo loro il privilegio di
non poter essere tratte fuori del loro foro e paese, quando abbiano
liti, per farle litigare nel tribunale supremo del principe; e di
poter esse all'incontro citare i loro avversarii a quel tribunale. Con
varie altre leggi promosse il medesimo Augusto l'ornamento della città
di Costantinopoli, col concedere dei privilegii agli architetti, e
l'abbondanza de' viveri con proporne degli altri ai mercatanti. Noi
vedemmo di sopra all'anno 332 che trovandosi i Sarmati in pericolo di
soccombere alla potenza de' Goti, ottennero aiuto da Costantino, dalle
cui armi entrate nella Sarmazia furono que' Barbari sonoramente
battuti e sconfitti. Due parole abbiamo dall'Anonimo Valesiano[3140],
le quali sembrano significare, che per aver egli dipoi trovati i
medesimi Sarmati di fede dubbiosa ed ingrati a' suoi benefizii, anche
contra di loro ebbe guerra, e li vinse. Socrate[3141] chiaramente
attesta le vittorie da lui riportate, non solo de' Goti, ma anche de'
Sarmati, senza che ne sappiamo di più, nè in qual anno ciò succedesse.
Truovansi perciò medaglie[3142] d'esso Augusto, dove egli è appellato
VICTOR OMNIVM GENTIVM; e in altre si legge: DEBELLATORI GENTIVM
BARBARARVM. Ora si vuol narrare uno stravagante fatto che appartiene
all'anno presente, per attestato d'Idacio[3143], Eusebio[3144] ed
altri[3145]. Ossia che i popoli suddetti della Sarmazia (oggidì
Polonia) avessero guerra solamente nell'anno 332 coi Goti, poi
debellati dalle armi di Costantino; o pure, come par più probabile,
che si riaccendesse un'altra volta quel fuoco; certo è che, sentendosi
eglino debili di forze contra di sì potenti avversarii, misero l'armi
in mano ai loro servi, cioè ai loro schiavi, e data coll'aiuto d'essi
una rotta ai nemici, rimasero liberi da quella vessazione e pericolo.
Ma che? Uno di gran lunga peggiore se ne suscitò in casa loro. Uso fu
de' Greci, Romani e Barbari stessi di non ammettere alla milizia se
non persone libere, e di non dar l'armi giammai agli schiavi, per
timore che costoro dipoi non insolentissero e scuotessero il giogo; e
tanto più perchè il numero degli schiavi ordinariamente era sterminato
negli antichi tempi presso d'ogni nazione. Se i Romani in qualche
gravissimo bisogno di gente si vollero valer degli schiavi, lor
diedero prima la libertà. Non dovettero i signori sarmati usar tutta
la convenevol precauzione in tal congiuntura. Insuperbiti i loro
servi, e conosciuta la propria forza, rivolsero in fatti da lì a non
molto l'armi contra de' proprii padroni; e questi, non potendo
resistere, furono astretti a prendere la fuga, ed a lasciar tutto in
potere di chi dianzi loro ubbidiva. San Girolamo[3146] ed
Ammiano[3147] danno il nome di Limiganti a quei servi, e a' lor
padroni quello di Arcaraganti. Ebbero questi ultimi ricorso allo
Augusto Costantino, il quale benignamente gli accolse ne' suoi Stati.
Per attestato dell'Anonimo Valesiano[3148], erano più di trecento mila
persone tra grandi e piccioli dell'uno e dell'altro sesso. Costantino
arrolò nella milizia i più robusti: il rimanente fu da lui compartito
per varii paesi, cioè per la Tracia, Scitia (cioè la Tartaria minore),
Macedonia ed Italia, con dar loro terreni da coltivare. Altri di que'
Sarmati liberi, per testimonianza d'Ammiano, si ricoverarono nel paese
dei Victobali; e solamente nell'anno 358 furono rimessi dai Romani in
possesso del loro paese.

NOTE:

[3135] Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.

[3136] Panvinius, in Fast.

[3137] Tillemont, Mémoires des Emp.

[3138] Gothofred., Chron. Cod. Theod.

[3139] L. 2, de Offic. Judic. omn.

[3140] Anonymus Valesianus.

[3141] Socrat., lib. 1, cap. 18.

[3142] Mediobarb., Numism. Imper.

[3143] Idacius, in Fastis.

[3144] Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 6.

[3145] Hieron., in Chron.

[3146] Hieron., in Chronico.

[3147] Ammian., Histor., lib. 17 et 19.

[3148] Anonymus Valesianus.




    Anno di CRISTO CCCXXXV. Indizione VIII.

    SILVESTRO papa 22.
    COSTANTINO imperadore 29.

_Consoli_

GIULIO COSTANZO e CEIONIO RUFIO ALBINO.


Fratello di Costantino Augusto, ma da altra madre nato, cioè da
Teodora figliastra di Massimiano Erculio, fu questo _Giulio Costanzo_
console. Oltre allo onore del consolato, ebbe egli anche la eminente
dignità di patrizio, il titolo di nobilissimo, e la facoltà di portar
la veste rossa orlata d'oro[3149]. La cognizion di questo personaggio
importa molto alla storia, perchè noi troveremo _Gallo Cesare_ a lui
nato dalla prima moglie, e _Giuliano_, a lui procreato da Basilina sua
seconda moglie, Giuliano, dissi, che arrivò poi ad essere imperadore,
ma d'infame memoria per la sua apostasia. Il secondo console, cioè
_Ceionio Rufio Albino_, era figliuolo di Rufio Volusiano, stato due
volte console, come apparisce da un'antica iscrizione[3150]. Dal
Catalogo[3151] del Cuspiniano e del Bucherio si ricava che a lui
stesso nel dì 30 di dicembre dell'anno presente fu conferita la
prefettura di Roma, nella quale egli continuò per tutto l'anno
seguente. Entrava l'Augusto Costantino nel dì 25 di luglio del
presente anno nell'anno trentesimo del suo regno, o imperio _cesareo_.
Il padre Pagi[3152] pretende che questi fossero i tricennali
dell'imperio _augustale_ di Costantino, e che da lui nell'anno
precedente fossero stati celebrati quei del cesareo. Ma, secondo i
miei conti, avendo egli veramente preso il titolo di Augusto nell'anno
di Cristo 307, non poteva aver principio nell'anno presente il
trentesimo dell'augustale imperio. Nè può stare che egli nel
precedente anno celebrasse i tricennali del regno cesareo, perchè
nell'anno 305 non fu, per quanto abbiam detto, dichiarato Cesare, ma
solamente nel 306. Comunque sia con grande magnificenza[3153] e con
una non minor divozione e pietà solennizzò Costantino questa festa,
giacchè, fuorchè a Cesare Augusto, a niun altro degli imperadori era
riuscito di giugnere così avanti nel godimento del regno. Perciò umili
azioni di grazie rendè all'Altissimo[3154]; ed in questo medesimo anno
fece la dedicazione dell'insigne chiesa della Resurrezione ch'egli
avea fatto fabbricare in Gerusalemme. Ma che? La stessa pietà di sì
glorioso Augusto incorse in questi medesimi tempi in una gravissima
macchia, di cui parla diffusamente la storia ecclesiastica, e che a me
basta di accennare in poche parole. Più che mai si trovava sconvolta
la Chiesa di Dio per l'eresia d'Ario, e per la prepotenza de' suoi
partigiani e protettori. Costantino, per mettere fine a tanti torbidi,
ordinò nel presente anno che si tenessero[3155] due concilii, l'uno in
Tiro, e l'altro in Gerusalemme. La intenzione sua si può credere che
fosse buona; ma non badò egli d'aver presso di sè lo scaltro Eusebio
vescovo di Nicomedia, ed altri o segreti o palesi campioni d'Ario, che
s'abusavano della di lui confidenza ed autorità in favore di
quell'eresiarca, e in pregiudizio della dottrina della Chiesa
cattolica e del santo concilio di Nicea. Avvenne dunque che nel
concilio di Tiro, Atanasio, insigne e santo vescovo d'Alessandria,
scudo de' cattolici, fu deposto, e in quello di Gerusalemme Ario ed i
suoi seguaci furono ammessi alla comunion della Chiesa cattolica;
tutti passi che offuscarono non poco la gloria di Costantino sulla
terra, e che abbisognarono della misericordia di Dio per lui
nell'altra vita. Portatosi a dimandargli giustizia sant'Atanasio, in
vece di ottenerla, fu relegato nelle Gallie. Altra novità nell'anno
presente, novità pregiudiziale alla sua politica, fece l'Augusto
Costantino; perchè, non contento di aver dichiarati _Cesari_ i suoi
tre figliuoli, cioè _Costantino_, _Costanzo_ e _Costante_[3156]: nel
settembre di quest'anno conferì il medesimo titolo di _Cesare_ e di
principe della gioventù a _Flavio Giulio Delmazio_ suo nipote, perchè
figliuolo di Delmazio suo fratello. Un altro nipote, nato dal medesimo
suo fratello, avea Costantino, per nome _Flavio Claudio Annibaliano_.
Il creò re del Ponto, della Cappadocia e dell'Armenia minore. Per
attestato ancora dell'Anonimo Valesiano[3157], gli diede in moglie
_Costantina_ o sia _Costanziana_ sua figlia, decorata del titolo
d'Augusta. Disavvedutamente con questi atti di munificenza, lodevoli
per altro in sè stessi, trattandosi di esaltare parenti suoi sì
stretti, non badò il saggio Augusto che egli seminava le discordie fra
i proprii figliuoli e i lor cugini. Non andrà molto che ce ne
accorgeremo. Benchè sia incerto il tempo, in cui ad un certo
_Calocero_, uomo vilissimo, saltò in capo la follia di farsi
imperadore, pure non è fuor di proposito il darne qui un barlume di
conoscenza (che di più egli non meritava), giacchè san Girolamo[3158]
e Teofane[3159] ne parlano all'anno 29 di Costantino. Costui pare che
occupasse l'isola di Cipri; ma un fuoco di paglia fu questo: dall'armi
imperiali egli restò in breve oppresso, e condannato ai supplizii
degli schiavi ed assassini. Recitò Eusebio vescovo di Cesarea nel
settembre di quest'anno in Costantinopoli quel panegirico[3160] che di
lui abbiamo in onore di Costantino Augusto. E nell'ultimo dì parimente
dell'anno presente passò a miglior vita san _Silvestro papa_[3161],
pontefice gloriosissimo, perchè a' suoi tempi, ed anche, siccome
possiam conghietturare, per cura sua, si vide trionfar la croce di
Cristo nel cuore di Costantino, ed alzar bandiera la religion
cristiana sopra l'antica superstizione di Roma pagana; di Roma, dico,
dove tanti insigni templi sotto di lui si cominciarono a dedicare al
vero Dio, siccome può vedersi nella storia ecclesiastica.

NOTE:

[3149] Zosimus, lib. 2, cap. 39.

[3150] Panvin., in Fast. Gruterus, in Thesaur. Inscript. Reland., in
Fast.

[3151] Cuspin. Bucher., de Cyclo.

[3152] Pagius, Crit. Baron.

[3153] Idacius, in Fastis. Chronic. Alexandr.

[3154] Euseb., in Vita Constantin., lib. 4, cap. 40.

[3155] Baron., Annal. Eccl. Collectio Concilior. Labbe, Fleury, et
alii.

[3156] Idacius, in Fastis. Chronicon Alexandr. Hieron., in Chron.

[3157] Anonymus Vales.

[3158] Hieronymus, in Chronico.

[3159] Theophan., Chronographia.

[3160] Euseb., in Vita Constant., lib. 4

[3161] Anastas. Bibliothec.




    Anno di CRISTO CCCXXXVI. Indizione IX.

    MARCO papa 1.
    COSTANTINO imperadore 30.

_Consoli_

FLAVIO POPILIO NEPOZIANO e FACONDO.


Benchè i fasti e le leggi non ci porgano se non il cognome del primo
console, cioè _Nepoziano_, pure difficilmente si fallerà in credere
ch'egli fosse quel _Flavio Popilio Nepoziano_, a cui fu madre
_Eutropia_ sorella di Costantino Augusto. Noi torneremo a vedere
questo personaggio, all'anno 350, proclamato imperadore, ma imperadore
di poca durata. Seguitò ancora in quest'anno _Rufio Albino_ ad
esercitare la prefettura di Roma. In luogo del defunto s. Silvestro fu
creato romano pontefice[3162] _Marco_ nel gennaio dell'anno presente.
Cosa alquanto pellegrina può parere a talun il vederlo appellato
solamente _Marco_, perchè questo era un solo prenome; e non già un
nome o cognome de' Romani. Ma s. Marco evangelista avea fatto divenir
nome questo prenome, per tacere altri esempli. Non durò più di otto
mesi e venti giorni la vita di esso pontefice, registrato dipoi nel
catalogo de' santi. Fu di parere il cardinal Baronio[3163] che
_Giulio_ a lui succedesse nella cattedra di san Pietro sul fine
d'ottobre; ma il padre Pagi[3164], fondato nella Cronica di Damaso,
differisce la di lui esaltazione sino al febbraio del susseguente
anno, senza apparire il perchè in questi pacifici tempi restasse
vacante per tanto tempo la sedia di san Pietro. Appartengono a
quest'anno le prime nozze di _Costanzo Cesare_, secondo figliuolo
dell'imperadore[3165], celebrate con gran pompa dalla corte: nella
qual congiuntura l'Augusto suo padre distribuì ai popoli e alle città
moltissimi doni. Il Du-Cange[3166] inclinò a credere che questa prima
moglie di Costanzo (perchè n'ebbe più d'una) fosse figliuola di Giulio
Costanzo, cioè d'un fratello di esso Costantino Augusto e di Galla; ma
resta tuttavia scuro questo punto. Una solenne ambasciata dall'India
circa questi medesimi tempi venne a trovar Costantino, portandogli in
dono delle gemme preziose, e delle stravaganti bestie di que' paesi
sconosciute presso i Romani. Aggiugne Eusebio, che i re e i popoli
dell'India in certa maniera si suggettarono alla signoria di
Costantino, con riconoscerlo per loro imperadore e re, alzando in
onore di lui statue ed immagini. Si potrebbe dubitare se Eusebio in
questo sito la facesse più da oratore o poeta, che da storico. Volle
dopo le nozze di Costanzo, e conseguentemente nel presente anno, e non
già nel precedente, come fu d'avviso il Tillemont[3167], l'Augusto
Costantino provvedere alla succession de' figliuoli, forse perchè
qualche incomodo della sanità gli faceva già presentire non lontano il
fin de' suoi giorni; nè i saggi aspettano a regolar le loro faccende
allorchè la morte picchia alla porta. Divise dunque l'imperio fra i
suoi tre figliuoli e due nipoti nella seguente maniera. Al primogenito
suo _Costantino_, già ammogliato, ma senza sapersi con chi, lasciò
tutto il paese che è di là dalle Alpi, ed era stato della giurisdizion
di suo padre, cioè tutte le Gallie coll'Alpi Cozie, le Spagne colla
Mauritania Tingitana e la Bretagna, porzione che oggidì forma tre
potenti e fioriti regni. A questo principe, abitante allora in
Treveri, fece ricorso l'esiliato sant'Atanasio, e ne fu ben ricevuto.
A _Costanzo_ secondogenito assegnò il padre tutto l'Oriente
coll'Egitto, a riserva della porzione che già dissi data ad
_Annibaliano_ suo nipote. Pretese l'Apostata Giuliano[3168] che per
favore particolare Costantino concedesse le provincie d'Oriente a
Costanzo, perchè più degli altri l'amava a cagion della sua
sommessione e compiacenza. A _Costante_ terzogenito fu assegnata[3169]
l'Italia, l'Africa e l'Illirico: vasta porzione anche essa, perchè si
stendeva per tutta la Pannonia, per le Mesie, Dacia, Grecia,
Macedonia, ed altri paesi già attinenti all'Illirico, e verisimilmente
abbracciava anche il Norico e le Rezie. Il Valesio e il Tillemont,
correggendo un passo di Aurelio Vittore, con leggere _Delmatio_ in
vece di _Delmatiam_, pretendono che Costantino lasciasse la Tracia, la
Macedonia e l'Acaia, cioè la Grecia, a _Delmazio_ suo nipote. Ma non è
da credere che Costantino della sua diletta città di Costantinopoli
volesse privare i suoi figliuoli, e darla al nipote con dote tanto
inferiore di paese annesso. O non s'ha dunque da emendare il passo di
Vittore che attribuisce a _Costante_ l'Illirico, la Italia, la Tracia,
la Macedonia e la Grecia; o, quando pur si voglia fallato il suo
testo, si dee stare con Zonara[3170], il quale chiaramente scrive che
a _Costante_ toccò, oltre all'Oriente, anche la Tracia colla città del
padre, cioè con Costantinopoli. E a farci credere che così fosse,
concorre quanto poco fa dicemmo della parzialità a lui mostrata dal
padre Augusto. Quanto a _Delmazio_, altra parte, a mio credere, non fu
assegnata che la _Ripa Gotica_, come ha l'Anonimo Valesiano[3171],
cioè verisimilmente la Dacia nuova, o pur la Mesia inferiore. Di qual
parte divenisse o restasse signore _Annibaliano_ con titolo di re, già
s'è detto all'anno precedente. Ed ecco il romano imperio trinciato in
tante parti, e con tal divisione infievolito in maniera da prepararsi
alla rovina; ma Diocleziano avea già somministrato a Costantino questo
modello, e Costantino dovette anch'egli figurarsi meglio assicurata la
sussistenza di questi regni con provvederli di principi, de' quali
cadauno dal suo canto gareggerebbe per difendere dai Barbari la sua
porzione, senza prevedere o sospettar egli che l'ambizione e gelosia
potesse poi con tutta facilità attizzar la discordia fra tanti
principi, ed anche fra gli stessi fratelli.

NOTE:

[3162] Anastas., in Bibl. sive Chron. Damasi.

[3163] Baron., in Annal.

[3164] Pagius, Crit. Baron.

[3165] Euseb., in Vita Constant., lib. 4, cap. 49.

[3166] Du-Cange, Hist. Byz.

[3167] Tillemont, Mémoires des Empereurs.

[3168] Julian., Orat. III.

[3169] Anonym. Valesianus. Zonaras, in Ann. Aurelius Victor, in
Epitome.

[3170] Zonaras, in Annal.

[3171] Anonym. Vales.




    Anno di CRISTO CCCXXXVII. Indizione X.

    GIULIO papa 1.

    COSTANTINO juniore }
    COSTANZO e         } imp. 1.
    COSTANTE           }

_Consoli_

FELICIANO e TIBERIO FABIO TIZIANO.


Certo è il cognome del secondo console, cioè di _Tiziano_, non
egualmente è sembrato tale il suo nome e prenome a cagion dei dubbii
mossi al consolato dell'anno 391, siccome vedremo. Nel dì 10 di marzo
a Rufio Albino succedette nella dignità di prefetto di Roma _Valerio
Procolo_. La saviezza con cui Costantino reggeva i suoi popoli, la
sterminata sua potenza, e il credito con tante vittorie acquistato,
aveano per più anni tenuto in dovere i Barbari e fatta godere a tutte
le parti del romano imperio un'invidiabil pace: quando eccoli dare
all'armi i Persiani, e muover guerra al romano imperio. Un racconto di
Cedreno[3172], a cui il Valesio[3173] prestò fede, fa originata questa
rottura de' Persiani coi Romani dopo una pace per circa quaranta anni
durata fra loro, da un certo _Metrodoro_, filosofo persiano, il quale,
adunata gran copia di pietre preziose nell'India, parte da lui rubate
e parte a lui consegnate da un re indiano da portare in suo nome
all'Augusto Costantino, venne veramente a trovar l'imperadore, a cui
diede le gioie, ma senza far parola del re donatore, con aggiugnere
ancora di avergliene consegnata quel re un'altra gran quantità, ma
che, in passando per la Persia, erano state occupate da quel re Sapore
II. Perchè Costantino ne fece delle istanze ad esso re con assai
altura, e non ne ricevè risposta, si allumò la guerra fra loro. Altre
particolarità aggiunte da esso Cedreno a una tal relazione da niuno
degli antichi conosciute, han ciera di favole, delle quali per altro è
fecondo quello scrittore troppo lontano dai tempi di Costantino.
Tuttavia Ammiano[3174] ha qualche cosa di questo Metrodoro, con dire
che Costanzo, e non già Costantino, badando alle bugie di Metrodoro,
fu istigato a far guerra ai Persiani. Intanto a noi gioverà
l'attenerci ad autori più classici, cioè ad Eusebio[3175],
Libanio[3176] ed Aurelio Vittore[3177]. Vanno essi d'accordo in dire
che il re di Persia, Sapore, da gran tempo faceva de' preparamenti per
muovere guerra al romano imperio. Allorchè ebbe disposto tutto, inviò
ambasciatori a Costantino, ridomandando gli Stati che una volta
appartenevano alla corona persiana. La risposta di Costantino fu che
verrebbe egli in persona ad informarlo de' suoi sentimenti; ed in
fatti allestite armi e milizie, chiamate in gran copia da tutte le
parti del suo imperio, con vigore si preparò per questa importante
spedizione. Un così potente armamento d'un imperadore avvezzo alle
vittorie fece calar ben tosto gli orgogliosi spiriti del re persiano,
le cui armate aveano già dato principio alle scorrerie nella
Mesopotamia, di modo che spedì nuovi ambasciatori a Costantino per
trattar di pace. Eusebio[3178] qui più degli altri merita fede, e ci
assicura che l'ottennero; laddove Rufo Festo[3179] e l'Anonimo
Valesiano[3180], Libanio e Giuliano l'Apostata pretendono che
Costantino continuasse i preparamenti militari per la guerra; e noi
vedremo che Costanzo suo figliuolo fu da lì a non molto alle mani col
re di Persia. Tuttavia Ammiano è di parere che Costanzo, e non già i
Persiani, quegli fu che volle rompere, sedotto, siccome già
accennammo, dal suddetto Metrodoro.

Avea l'Augusto Costantino goduta in addietro una prosperosa sanità,
accompagnata con gran vigore di corpo e d'animo[3181], ed era già
pervenuto al principio dell'anno sessantesimo terzo di sua età. Ma
convien credere che anche nel precedente anno qualche interna
debolezza o malore più vivamente che mai il facesse accorto
dell'inevitabile nostra mortalità. Però, siccome dicemmo, assettò
gl'interessi domestici; più che mai si applicò alle opere di pietà;
fece fabbricare il sepolcro suo presso il magnifico tempio degli
Apostoli, eretto e dedicato da lui in Costantinopoli, e spesso
trattava dell'immortalità dell'anima, insegnata dalla religion di
Cristo e dalla migliore filosofia. Ora, dopo aver egli con gran
divozione celebrato il giorno santo della Pasqua, cominciò a sentir
de' più gravi sconcerti nella sanità, e si portò ai bagni, ma senza
provarne profitto. Venuto che fu ad Elenopoli, si aggravò il suo male;
ed allora, conoscendo approssimarsi ormai il fine dei suoi
giorni[3182], con tutta umiltà confessò i suoi peccati in quella
chiesa, e fece istanza ai vescovi dimoranti nella sua corte di
ricevere il sacro battesimo, differito da lui fin qui, secondo l'uso
od abuso d'alcuni in que' tempi, per cancellare e purgare prima di
morire in un punto solo tutti i peccati della vita passata
coll'efficacia di quel sacramento. Questa funzione fu celebrata poco
appresso, essendo egli passato da una sua villa presso di
Nicomedia[3183]; e chi il battezzò, fu Eusebio vescovo di quella
città, uomo per altro screditato per la sua aderenza agli errori
d'Ario. Non v'ha oggidì persona alquanto applicata all'erudizione che
non conosca essere stato conferito il battesimo a questo celebre
imperadore, e primo fra gl'imperadori cristiani, non già in Roma per
mano di san Silvestro papa nell'anno 324, come ne' secoli
dell'ignoranza le leggende favolose fecero credere, ma bensì nell'anno
presente in Nicomedia sul fine della di lui vita. Se altro testimonio
che Eusebio Cesariense non avessimo di questo fatto, potrebbesi forse
dubitare della di lui fede, perchè vescovo almen sospetto di aver
favorito il partito dell'eresiarca Ario, contuttochè non sia mai
probabile che scrittore sì riguardevole volesse e potesse spacciare un
fatto, che così agevolmente si sarebbe potuto con sua vergogna
smentire, qualora fosse pubblicamente seguito in Roma tanti anni prima
il battesimo d'esso Augusto. Ma il punto sta, che con Eusebio, in
raccontar questo fatto, s'accordano il santo vescovo[3184] Ambrosio,
san Girolamo e tanti vescovi del concilio di Rimini nell'anno di
Cristo 359; e Socrate, Sozomeno, Teodoreto, Evagrio e la Cronica
Alessandrina. Non ne cito i passi, potendo il lettore informarsi
meglio di questo da chi _ex professo_ ha ventilata cotal quistione.
Posto poi il battesimo così tardi ricevuto da Costantino, per cui egli
cominciò veramente a chiamarsi cristiano, e ad essere partecipe dei
divini misteri[3185]; s'è cercato se Costantino fosse almeno in
addietro nel numero de' catecumeni, nè si son trovati bastanti lumi
per decidere questo punto. Quel che è certo, da gran tempo
l'impareggiabil Augusto, con aver abiurato l'empio culto degli idoli,
era cristiano in suo cuore, e adorava Gesù Cristo, e promoveva a tutto
suo potere gl'interessi della sua santa religione, benchè non si
sottomettesse per anche al giogo soave del Vangelo, e all'obbrobrio
della Croce; e si sa che egli superava col suo zelo e colla sua
divozione anche molti veterani nella scuola del Crocifisso. Dopo il
battesimo, che il piissimo Augusto ricevè con gran compunzione ed
ilarità insieme d'animo al veder quelle sacre cerimonie, vesti l'abito
bianco, e diedesi a far varii regolamenti, l'uno dei quali fu il
richiamar dall'esilio sant'Atanasio[3186], e, secondo tutte le
apparenze, anche gli altri vescovi banditi. Confermò ancora nel
testamento la division fatta degli Stati ne' suoi figliuoli, con
chiamare a sè, come più vicino, Costanzo, il quale non giunse a tempo
di vederlo vivo.

Nella sacra festa adunque della Pentecoste, caduta in quest'anno nel
dì 22 di maggio, fu chiamato, come si può credere, alla gloria de'
beati questo insigne imperadore, in età di sessantatrè anni e tre
mesi, per quanto si deduce con varie conghietture dagli antichi
scrittori[3187], correndo l'anno trentunesimo, dacchè egli fu creato
Cesare. Nè sussiste che egli nell'ultimo della vita inclinasse agli
errori d'Ario, come si lasciò scappar dalla penna san Girolamo[3188],
avendo assai fatto conoscere alcuni letterati ch'egli morì nella
credenza e comunione della Chiesa cattolica: al che certamente nulla
pregiudicò l'avergli Eusebio di Nicomedia somministrato il battesimo,
la cui virtù non dipende dal ministro. Fu il corpo del defunto
Augusto[3189] con lugubre pompa portalo a Costantinopoli, accompagnato
da tutta l'armata di quelle parti; ed esposto nella gran sala del
palazzo, parata a lutto, e illuminata da assaissimi doppieri su
candellieri d'oro, quivi restò, finchè arrivato dalla Soria Costanzo
di lui figliuolo, solennemente lo condusse al sepolcro, ch'egli stesso
s'era preparato, e che fu posto alla porta del tempio de' santi
Apostoli in Costantinopoli. Incredibile ed universale fu il
dolore[3190] dei popoli per la perdita di questo incomparabile
imperadore; e spezialmente il senato e popolo romano[3191] se ne
afflisse, riflettendo che egli coll'armi, colle leggi e colla clemenza
avea, per così dire, fatta rinascere Roma, e procacciata con tanta
cura in addietro una mirabil tranquillità di pace al suo imperio.
Perciò furono in essa Roma sospesi tutti gli spettacoli ed altri
divertimenti; si serrarono i bagni, e con alte grida il popolo fece
istanza che il di lui corpo venisse trasportato colà, con provar
poscia estremo dolore, allorchè intese data ad esso sepoltura in
Costantinopoli. I pagani stessi[3192], secondo il sacrilego loro
stile, ne fecero un dio, come eziandio si raccoglie da varie
medaglie[3193], onore certamente detestato da quella grande anima che
adorò il solo vero Dio in vita, e dopo morte possiam credere che
passasse a godere i premii riserbati ai buoni in un regno più stabile
e migliore. Il titolo di _Grande_, che noi comunemente diamo a
Costantino, parve poco ai popoli, anche vivente lui; e però gli
diedero quel di _Massimo_, che s'incontra nelle suddette medaglie e
nelle iscrizioni. Ed, in vero, per quanto ebbe a confessare lo stesso
Eutropio[3194], benchè scrittore pagano, innumerabili pregi di corpo e
d'animo, e una rara fortuna concorsero a formare di lui uno dei
maggiori eroi dell'antichità. Videsi ritornato dal valore delle sue
armi sotto un solo capo il romano imperio; cessarono pel suo saggio e
clemente governo i gravissimi mali e disordini internamente patiti
sotto i precedenti cattivi Augusti; e calato l'orgoglio alle nazioni
barbare, niuna d'esse inferiva più molestia alcuna alle provincie
romane, per timore di questo invitto Augusto. Ma la principal gloria
di Costantino fu, e sempre sarà presso di noi cristiani, l'esser egli
stato il primo ad abbandonare il culto degli idoli con abbracciare la
vera religione di Cristo; e non solo di aver profittato per sè stesso
di questa luce, ma d'essersi studiato a tutto potere di dilatarla pel
vasto suo imperio, senza nondimeno forzare le coscienze altrui: studio
che, secondato da' suoi successori, giunse in fine ad atterrar affatto
il paganesimo, e a far solamente regnare la Croce per tutte le
provincie romane. Quanto egli operasse, affinchè ciascuno aprisse gli
occhi al lume del Vangelo, quante chiese egli fabbricasse, quanti
templi famosi della idolatria distruggesse, e tanti altri saggi della
sua umiltà e pietà, all'istituto mio non convien di riferire,
rimettendo io il lettore, desideroso di chiarirsene, alla Vita di lui
scritta da Eusebio, e alla storia ecclesiastica. Ma non posso tacere
che, per attestato del medesimo storico[3195], lo zelo di Costantino
giunse a proibire l'esterno culto degl'idoli, e a far chiudere le
porte de' loro templi, e a vietare i sagrifizii, l'aruspicina e varie
altre superstizioni del gentilesimo. Che s'egli non potè sradicar
tutto, il potente crollo nondimeno che gli diede, servì ai successori
suoi Augusti di campo per compiere quella grande impresa. Per questo
la memoria di Costantino si rendè venerabile per tutta la Chiesa, e
tanto innanzi andò presso i Greci la stima di questo imperadore, che
ne fecero un santo, e ne celebrano tuttavia la festa. Anzi nello
Occidente stesso non sono mancate chiese che han fatto altrettanto, e
scrittori che han compilata la Vita di _san Costantino_ il Grande.

Ma qui si vuol avvertire i lettori, che quantunque riguardevoli sieno
stati i meriti di questo glorioso imperadore; tuttavia, se noi
prendiamo nella sua vera significazione il titolo di _santo_,
indicante il complesso d'ogni virtù cristiana, e l'essere affatto
privo di vizii e di sostanziali difetti: ben lontano fu Costantino dal
conseguir sì decoroso titolo, che la sola pia adulazione de' secoli
barbari a lui contribuì. Imperciocchè, a guisa di tanti altri principi
che grandi sono appellati, non mancarono in lui varii difetti, che
ebbero bisogno di misericordia presso Dio, e di scusa presso i
mortali. Non son già qui sì facilmente da credere tanti biasimi a lui
dati da Giuliano Apostata, e massimamente da Zosimo, il qual ultimo
fece quanto sforzo potè per isminuire o denigrar la fama di
Costantino. Scrittori tali, perchè ostinati nel paganesimo, maraviglia
non è se sparlassero d'un imperadore che, quanto potè, diroccò il
regno della lor superstizione. Ora tanto Giuliano[3196] che Aurelio
Vittore[3197] ed Eutropio[3198] ci rappresentano Costantino, non solo
avidissimo della gloria (passione per altro che in sè merita scusa,
per non dire anche lode, qualora è di stimolo alle sole belle opere),
ma ancora pieno d'ambizione, avendo egli cercato sempre d'ingrandirsi,
senza mettersi pensiero se per vie giuste od ingiuste. Ma chi vuol
male, tutte le altrui opere interpreta in sinistro. Gli attribuiscono
ancora[3199] un eccesso di lusso nell'ornamento del suo corpo, per
aver portato, ed anche continuamente, il diadema; dal che si
guardarono i suoi predecessori: accusa nondimeno di poco momento,
perchè ai monarchi non è disdetto il sostenere la propria maestà colla
magnificenza esteriore, purchè non giungano, come facea Diocleziano, a
farsi trattare da iddii. Che poi Costantino negli ultimi suoi anni si
desse ad una vita voluttuosa, amando i piaceri e gli spettacoli, lo
scrissero bensì Giuliano[3200] e Zosimo[3201]; ma lo stesso Aurelio
Vittore[3202] e Libanio[3203], amendue gentili, difendono qui la di
lui memoria, con dire ch'egli continuamente leggeva, scriveva,
meditavo, ascoltava le ambascerie e le querele delle provincie; e
molto più parla esso Libanio delle continue di lui occupazioni per
promuovere il pubblico bene; nè alcuno certamente mai fu che potesse
imputargli l'aver trasgredite le leggi della continenza, nè commessi
eccessi di gola. Se vero poi fosse che Costantino, come vuol
Zosimo[3204], e si ricava anche da Aurelio Vittore, dall'una parte
scorticava i popoli colle imposte e coi tributi, e dall'altra
scialacquava i tesori in fabbriche e in arricchir persone inutili ed
immeritevoli, di maniera che, secondo esso Vittore, governò ben egli
come buon principe ne' primi dieci anni, ma ne' dieci seguenti
comparve un ladrone, e ne' dieci ultimi si trovò come uno spelato
pupillo: se vero, dissi, ciò fosse, avrebbe senza dubbio pregiudicato
non poco alla di lui riputazione. Ma Evagrio[3205] difende qui la fama
di Costantino; e di sopra vedemmo, coll'autorità d'Eusebio, che questo
regnante levò via un quarto degli aggravii sopra le terre; oltre di
che, le sue leggi il danno a conoscere per nemico, e certo non
tollerante delle avanie sopra i sudditi. Quel forse che con più
ragione fu ripreso in questo gran principe, fu la sua troppa bontà,
amorevolezza e clemenza; male procedente da buon principio, ma che non
lascia d'essere male in chi è posto da Dio a governar popoli, se tale
eccesso va a finire in danno del pubblico. Confessa lo stesso
Eusebio[3206] che Costantino fu proverbiato, perchè niuno temendo, a
cagione della soverchia di lui clemenza, di soggiacere all'ultimo
supplizio, e poco o nulla affaticandosi i governatori delle provincie
per frenare i delinquenti, ne pativa la pubblica quiete, e frequenti
erano i lamenti de' sudditi. Aggiugne che due gravi disordini si
provarono in quei tempi, cioè la prepotenza ed insaziabil cupidigia
dei ministri di corte, che travagliavano tutti i mortali, e la
furberia di molte inique persone che, fingendosi convertite alla
religion cristiana, s'introducevano nella confidenza dell'imperadore,
con abusarsene poi in pregiudizio del pubblico e della religione
stessa, facendo credere quel che volevano all'incauto Augusto. Che
anche appresso dei buoni principi si veggano cattivi, scellerati
ministri, non è cosa forestiera; ma non sono esentati i principi
stessi dal rendere conto a Dio e al pubblico di valersi di sì fatte
braccia, senza prendersi pensiero delle lor malvage azioni. E
Costantino ben li conosceva[3207], e gridava, ma non provvedeva. E per
conto degl'impostori che colla maschera del Cristianesimo ingannavano
il troppo buono imperadore, sappiamo ch'egli, badando ad Eusebio di
Nicomedia, e verisimilmente anche allo stesso Eusebio di Cesarea, fece
de' passi falsi contra del sacrosanto concilio di Nicea, e in danno
della dottrina e religione cattolica. Contuttociò si vuol ripetere che
ad un principe tale, per tanti versi tutto dato alla pietà cristiana,
e pieno di retta intenzione, possiam fondatamente credere che il
misericordioso Dio avrà fatto godere un'abbondante misura della sua
clemenza nel mondo di là; e che s'egli, al pari di un altro suo
eguale, cioè di Carlo Magno, non meritò già d'essere venerato qual
indubitato santo sugli altari, non l'abbia almeno Iddio escluso da un
invidiabil riposo nel regno suo. Finalmente non vo' tralasciar di dire
che sotto Costantino il Grande fiorirono non poco le lettere e i
letterati, sì fra i cristiani che fra i pagani, perch'egli, per
attestato di Aurelio Vittore[3208], cura particolare ebbe che si
coltivassero l'arti e le scienze, e costituì ancora salarii ai maestri
delle medesime. Si sa ch'egli stesso componeva orazioni e discorsi, e
scriveva lettere con eloquenza, e ne restano tuttavia le pruove. Gli
autori della Storia Augusta, tante volte menzionati di sopra,
fiorirono quasi tutti sotto di lui, e alcuni d'essi ancora d'ordine
suo scrissero le Vite de' precedenti imperadori, come _Sparziano_,
_Lampridio_ e _Capitolino_. Di sopra ancora parlammo di _Eumene_, di
_Nazario_ e d'_Optaziano_ panegiristi, _Jamblico_ filosofo platonico,
_Commodiano_ (se pur non è più antico) e _Giuvenco_ poeti cristiani,
_Arnobio_, _Giulio Firmico_, _Eusebio Cesariense_, e probabilmente
_Gregorio_ ed _Ermogeniano_, autori di due codici, una volta celebri,
delle leggi romane, con altri che io tralascio, e intorno a' quali è
da vedere la storia ecclesiastica e letteraria. Quel poi che dopo la
morte di Costantino succedette, ancorchè appartenente al presente
anno, sia a me lecito di trasferirlo al seguente, perchè assai si è
parlato di questo.

NOTE:

[3172] Cedren., in Histor.

[3173] Valesius, in Annot. ad Ammian., lib. 25, cap. 4.

[3174] Ammianus, lib. 25, cap. 4.

[3175] Euseb., in Vita Constantini, lib. 4, cap. 56.

[3176] Liban., Orat. III.

[3177] Aurelius Victor, de Caesarib.

[3178] Euseb., in Vita Constantini, cap. 57.

[3179] Rufus Festus, in Breviar.

[3180] Anonym. Valesianus. Libanius. Julianus.

[3181] Euseb., in Vita Constantini, lib. 4, cap. 53.

[3182] Euseb., ibid., cap. 61.

[3183] Hieron., in Chron.

[3184] Ambrosius. Hieronym. Socrates. Sozomenus. Theodoret. Evagrius.
Chron. Alexandrinum.

[3185] Valesius, Adnot. ad Euseb. Tillemont, Mémoires des Emper.

[3186] Athan., Apolog. II.

[3187] Euseb., in Vit. Const. Socrates, in Histor. Eccl. Idacius, in
Fastis. Cron. Alexandr.

[3188] Hieron., in Chronico.

[3189] Theodoretus, Histor., lib. 1, cap. 34.

[3190] Euseb., in Vita Constant., lib. 4, cap. 69.

[3191] Aurel. Vict., de Caesarib.

[3192] Eutrop., in Brev.

[3193] Mediobarb., Numismat. Imper.

[3194] Eutrop., in Brev.

[3195] Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 23 et 25.

[3196] Julian., Oratione VII.

[3197] Aurel. Victor, in Epitome.

[3198] Eutropius, in Breviar.

[3199] Aurelius Victor, in Epitome.

[3200] Julian., de Caesarib.

[3201] Zosimus, lib. 2, cap. 32.

[3202] Aurelius Victor, in Epitome.

[3203] Liban., Or. III.

[3204] Zosimus, lib. 2, cap. 38

[3205] Evagr., lib. 3, cap. 40.

[3206] Euseb., in Vita Constantini, lib. 4, cap. 51 et 54.

[3207] Euseb., in Vita Constant., lib. 4, cap. 55.

[3208] Aurelius Victor, in Epitome.




    Anno di CRISTO CCCXXXVIII. Indiz. XI.

    GIULIO papa 2.

    COSTANTINO juniore }
    COSTANZO e         } imp. 2.
    COSTANTE           }

_Consoli_

ORSO e POLEMIO.


_Mecilio Ilariano_ esercitò in questo anno la prefettura di Roma. Da
che giunto a Costantinopoli _Costanzo_ Cesare ebbe data solenne
sepoltura al cadavero del defunto padre, nell'anno addietro si applicò
a dar sesto agli affari del pubblico. Intanto giunsero gli altri due
suoi fratelli[3209], cioè _Costantino_ juniore e _Costante_. Niun
d'essi finora avea portato se non il nome di _Cesare_. Le milizie,
verisimilmente bene istruite da essi, fecero istanza che tutti e tre
prendessero quello di _Augusto_, e questo di consenso delle altre
armate, alle quali fu significata la morte di Costantino, e
l'intenzione di crear imperadori tutti e tre i suoi figliuoli. Perchè
si volle anche far l'onore al senato romano di aspettare il di lui
assenso, che non mancò, tanto si andò innanzi, che solamente nel dì 9
di settembre[3210] dell'anno prossimo passato furono essi pienamente
proclamati Imperadori ed Augusti; e ne presero il titolo. Avea,
siccome già dicemmo, l'Augusto Costantino creato Cesare _Delmazio_ suo
nipote, con assegnargli ancora alcuni Stati; e dichiarato re del
Ponto, della Cappadocia ed Armenia _Annibaliano_ di lui fratello. Non
seppero sofferire i tre ambiziosi fratelli Augusti che, fuor d'essi,
alcuno avesse parte nella signoria del romano imperio; e però furono a
consiglio per escluderli. La maniera di ottener l'intento fu
barbarica, e fa orrore, perchè si conchiuse di levar loro la vita. Ma
prima di eseguire così crudele risoluzione, cominciarono essi ad
esercitare la sovrana autorità, con levare il posto di prefetto del
pretorio ad _Ablavio_[3211], benchè lasciato da Costantino per
consigliere di Costanzo. Era stato costui onnipotente sotto il
medesimo Costantino; ed uno di coloro che Eusebio Cesariense volle
indicare, accennando que' ministri che, abusandosi della bontà d'esso
Costantino, s'erano renduti odiosi a tutti per le loro violenze e per
l'ingordigia della roba. Ritirossi Ablavio ad un suo palazzo di villa
nella Bitinia, credendosi assoluto colla sola perdita del grado; tua
abbiamo da Eunapio[3212] che Costanzo sotto mano spedì alcuni
uffiziali con lettere dell'armata che lo invitava a tornarsene per suo
gran vantaggio. Gli furono presentate quelle lettere con tutta
sommessione dagli uffiziali, come s'egli fosse stato un imperadore; ed
egli infatti si persuase che l'intenzione de' soldati fosse di crearlo
Augusto. Ma dove è la porpora? domandò egli con volto e voce fiera.
Risposero gli uffiziali di non aver eglino se non le lettere; ma che
altri stavano alla porta per eseguire il resto. Ordinò Ablavio che
entrassero; ma, in vece della porpora, gli presentarono le punte delle
spade, e il tagliarono a pezzi. Fu insinuato forse nei medesimi tempi,
se non prima, all'armata di far tumulto, con protestare ad alte grida
di non volere se non i tre figliuoli del defunto Augusto per signori
ed imperadori. E perciocchè erano venuti alla corte i suddetti
_Delmazio Cesare_ ed _Annibaliano re_ e _Giulio Costanzo_, quelli
cugini, e questi zio paterno d'essi tre Augusti, in quel bollore fu
loro dai soldati tolta la vita[3213]. Un altro fratello del defunto
Augusto (forse _Annibaliano_) e cinque altri del medesimo sangue,
tutti innocenti, incorsero nella stessa sciagura, per attestato di
Giuliano Apostata[3214]. Anzi poco mancò che lo stesso _Giuliano_ e
_Gallo_ suo fratello, figliuoli amendue del suddetto _Giulio
Costanzo_, e per conseguente cugini anche essi dei tre Augusti, non
fossero involti in questa rovina. Gallo restò illeso, perchè la
infelice sua sanità il rappresentava, senza fargli maggior fretta,
assai vicino alla tomba. L'età poi di soli sette anni quella fu che
salvò la vita a Giuliano. Potrebbe essere che a questi principi
scappasse detta qualche parola, che a loro, più che a' figliuoli di
Costantino, fosse dovuto l'imperio per le ragioni della lor nascita; e
che di qua procedesse il loro esterminio.

Ed ecco con che turchesca crudeltà diede l'Augusto _Costanzo_
incominciamento al suo governo, giacchè niuno degli antichi scrittori
attribuisce questa sanguinaria esecuzione a _Costantino juniore_ o a
_Costante_ di lui fratelli, ma bensì a lui solo[3215]. Ed ancorchè
egli palliasse l'iniquità sua, rifondendola sull'ammutinamento de'
soldati, fu ognuno nondimeno persuaso che egli n'era stato
segretamente il motore. Dopo la strage di questi principi, tutti del
sangue imperiale, entrò anche la discordia fra i tre fratelli Augusti,
o sia perchè cadaun d'essi pretendesse d'aver la sua parte negli Stati
decaduti per la morte di Delmazio e di Annibaliano, o pure perchè la
division de' regni fatta dal padre non piacesse a talun d'essi, o
restasse esposta, per cagion de' confini, a varie controversie. È
ignoto se allora, o pure dipoi, a motivo dell'Africa, insorgesse fiera
lite fra Costantino e Costante, la quale poi andò a terminare in una
brutta tragedia, forse perchè Costante pretendesse la Mauritania
Tingitana, che soleva andar unita colla Spagna, o perchè Costantino
credesse a sè dovuta qualche altra parte dell'Africa stessa. Unironsi,
a cagion di tali dissensioni, i tre fratelli a Sirmio nella Pannonia,
come attesta Giuliano l'Apostata[3216], e quivi Costanzo la fece da
arbitrio, con tal saviezza nondimeno e moderazione, che non lasciò ai
fratelli motivo di dolersi di lui; anzi nella partizion degli Stati
più diede ad essi di quel che ritenne per sè, affinchè si mantenesse
la buona unione e concordia fra tutti. Si disputa tuttavia fra gli
eruditi se questo abboccamento ed accordo de' fratelli Augusti
seguitasse nell'anno precedente o pure nel presente. Resta parimente
controverso qual cambiamento si facesse nell'assegnamento degli Stati.
Nulla io dirò del tempo, a noi bastando la certezza del fatto. Ma per
conto della divisione, niuna apparenza di verità ha il dirsi
dall'autore della Cronica Alessandrina[3217] che a Costantino, il
maggiore dei fratelli, toccasse Costantinopoli colla Tracia, e ch'egli
regnasse quivi un anno, quando, siccome dicemmo, le signorie di lui
erano la Gallia, le Spagne e la Bretagna, paesi troppo disuniti e
lontani dalla Tracia. Si può ben credere che la Cappadocia e
l'Armenia, provincia allora assai sconvolta, venisse in poter di
Costanzo; e che egli cedesse a Costantino il Ponto (il che vien
asserito da Zosimo)[3218], e forse la Mesia inferiore; e che
vicendevolmente Costante promettesse o rilasciasse a Costantino
qualche parte dell'Africa, o pur altri paesi adiacenti all'Italia. Non
si possono ben chiarire queste partite; quel che intanto è certo,
l'ambizione, cioè quella fame che rode il cuore di quasi tutti i
regnanti, nè mai si sazia, sconvolse di buon'ora i fratelli Augusti,
e, non ostante il predetto accordo, poco stette a produr delle
funestissime scene. Mentre poi fra loro bollivano queste dissensioni,
_Sapore_ re di Persia, animato dalla morte di Costantino il Grande, e
credendo venuto il tempo di mietere, entrò con potente armata nella
Mesopotamia[3219], e mise l'assedio alla città di Nisibi. Più di due
mesi vi tenne il campo, ma inutilmente, perchè quella guernigione co'
cittadini fece sì gagliarda difesa, che il superbo re dovette battere
la ritirata, probabilmente perchè Costanzo avea ammassata gran gente
per darle soccorso. Ma è disputato se all'anno presente appartenga
questo assedio: che per altro la guerra coi Persiani continuò dipoi
per anni parecchi, e Nisibi altre volle si vide assediata con
avvenimenti de' quali non si può assegnare il tempo preciso, e che
solamente, andando innanzi, saran brevemente accennati. Belle son due
leggi d'essi Augusti, spettanti a questo anno contro ai ribelli
infamatorii[3220] e alle lettere orbe, ed accuse secrete, con ordinare
che, in vigor di questi atti clandestini, non fatti secondo le regole
della giustizia, niuno de' giudici potesse procedere contra degli
accusati; e che si dessero alle fiamme quegl'iniqui libelli.

NOTE:

[3209] Euseb., in Vit. Const., lib. 4, cap. 68.

[3210] Idacius, in Fastis.

[3211] Gregorius Nazianzenus, Orat. 3.

[3212] Eunap., de Vit. Sophistar., cap. 4.

[3213] Zosimus, lib. 2, c. 40. Eutrop., in Breviar.

[3214] Julian., Epist. ad Athen.

[3215] Julian., Epist. ad Athen. Hieron., in Chron. Zosimus, lib. 2,
cap. 40.

[3216] Julian., Orat. I et III.

[3217] Chron. Alexandr.

[3218] Zosimus, lib. 2, cap. 39.

[3219] Theophanes, Chronogr. Chron. Alexandr. Hieron., in Chron.

[3220] L. 4, de petition., et l. 5, de famos. libell., Cod. Theodos.




    Anno di CRISTO CCCXXXIX. Indiz. XII.

    GIULIO papa 3.

    COSTANTINO juniore }
    COSTANZO e         } imp. 3.
    COSTANTE           }

_Consoli_

FLAVIO GIULIO COSTANZO AUGUSTO per la seconda volta e FLAVIO GIULIO
COSTANTE AUGUSTO.


Prefetto di Roma fu in quest'anno dal dì 14 di luglio sino al dì 25
d'ottobre _Lucio Turcio Secondo Aproniano Asterio_, ed ebbe per
successore pel resto dell'anno in quella dignità _Tiberio Fabio
Tiziano_, creduto lo stesso che nell'anno 337 era stato console. Non
mancano leggi e fasti che non _Costanzo_, ma _Costantino_ chiamano il
primo console, e va d'accordo con essi un'iscrizione[3221] da me data
alla luce. Contuttociò non si può abbandonar la comune opinione che
mette _Costanzo_ Augusto console, altrimenti si imbroglierebbe la
serie dei consolati susseguentemente da lui presi. Che se Costantino
juniore avesse presa in questo anno tal dignità, dovea dirsi _console
per la quinta volta_. Nulla di particolare ci somministra a quest'anno
la storia. Abbiam solamente alcune leggi[3222] che ci fan vedere, dove
in varii giorni si trovassero gli Augusti, ma non senza confusione,
per li testi guasti. Allora se uno d'essi imperadori pubblicava una
legge, non il solo suo nome, ma quello ancora degli altri due fratelli
Augusti vi si metteva in fronte, acciocchè paresse che il romano
imperio, tuttochè diviso fra i tre regnanti, seguitasse nondimeno ad
essere un corpo ed una cosa stessa. Tre d'esse leggi, date in
Laodicea, in Eliopoli e in Antiochia, indicar possono che Costanzo
Augusto dovea essere passato colà per accudire alla guerra dei
Persiani, i quali si può dire che ogni anno venivano a dar mala
ventura alla Mesopotamia, provincia de' Romani. In esse leggi Costanzo
si studiò di liberare i pubblici giudizii dalle sofisticherie e
formalità superflue che eternavano i processi e le liti. Proibì egli
ancora, sotto pena della vita, i matrimonii fra zio e nipote; e ai
Giudei il poter comperare schiavi d'altre nazioni, e molto più il
circonciderli, specialmente liberando gli schiavi cristiani dalle lor
mani.

NOTE:

[3221] Thes. Novus Inscript., pag. 377.

[3222] Gothofred. Chronolog. Cod. Theodos.




    Anno di CRISTO CCCXL. Indizione XIII.

    GIULIO papa 4.

    COSTANZO e }
    COSTANTE   } imperadori 4.

_Consoli_

ACINDINO e LUCIO ARADIO VALERIO PROCOLO.


Non si dee sottrarre alla conoscenza dei lettori un'avventura di
questo _Acindino console_, narrata da santo Agostino[3223] come
succeduta circa l'anno 343. Essendo egli prefetto dell'Oriente in
Antiochia, fece imprigionar certuno che andava debitore al fisco di
una libbra d'oro; e, simile a tant'altri che negli uffizii pubblici
fanno a sè lecito tutto quel che loro cade in capriccio, con suo
giuramento minacciò che se dentro al tal giorno colui non
soddisfaceva, la sua vita la pagherebbe. A costui era impossibile il
trovar quella somma. Per buona ventura aveva una moglie di rara
bellezza, ma sprovveduta anch'essa di contante; quando un certo ricco,
che le faceva la caccia, preso il buon vento, le esibì quel danaro, se
ella voleva per una notte acconsentir alle sue voglie. Comunicò la
donna tal esibizione al marito, che approvò il disonesto contratto.
Ma, appagata che ebbe l'impuro la sua passione, giuocò di mano, e
quando l'incauta donna si credè di avere in pugno l'oro promesso, non
vi trovò che della terra. Qui si diede alle smanie e grida, e ricorsa
ella ad Acindino prefetto, sinceramente gli espose il fatto. Allora
egli riconobbe il suo fallo per le indebite minaccie fatte a quel
misero. Obbligò l'adultero a pagar la somma dovuta al fisco, e alla
donna assegnò quel campo, onde fu presa quella terra, con cui rimase
beffata. Continuò nella carica di prefetto di Roma _Tiberio Fabio
Tiziano_[3224]; ma perchè egli dovette nel maggio portarsi alla corte
di Costante Augusto, dimorante allora nell'Illirico, _Giunio Tertullo_
sostenne le di lui veci finchè egli fu ritornato. Non erano sopite le
pretensioni di _Costantino juniore_ contra di _Costante_, e mala
intelligenza passava fra questi due fratelli Augusti, esigendo esso
Costantino alcuni paesi dal fratello o nella Africa, o nei confini
d'Italia, quasichè il dominio delle Gallie, Spagne e Bretagna fosse
picciola porzione per appagare le di lui ambiziose voglie. Forse
perchè parole sole, e non fatti, riportava da Costante, pensò di farsi
ragione coll'armi, giacchè vi era chi soffiava nel fuoco, e
massimamente un certo Anfiloco tribuno, gran seminatore di zizzanie
fra i due fratelli, al quale, col tempo, la giustizia di Dio non mancò
di dare il condegno gastigo. Mossosi dunque Costantino dalle Gallie
coll'esercito suo, entrò in Italia, e giunse fino ad Aquileia. Copriva
egli il movimento di queste armi col pretesto di voler marciare in
Oriente, per prestare aiuto al fratello Costanzo, che ne abbisognava,
per la guerra a lui mossa dai Persiani. Zonara[3225], che assai
fondatamente tratta di queste funesta lite, scrive che Costante
Augusto si trovava allora nella Dacia; ed in effetto abbiamo due
leggi[3226] date da lui nel febbraio dell'anno presente in Naisso,
città di quella provincia. Sì fatta visita non se l'aspettava egli; ma
appena gli giunse l'avviso dell'entrata di Costantino in Italia, che,
per fermare i suoi passi, gli spedì incontro i suoi generali con
quelle milizie che raccorre potè nella scarsezza del tempo. Trovarono
questi pervenuto ad Aquileia Costantino[3227], e ch'egli attendeva più
a saccheggiar il paese e ad ubbriacarsi, che a stare in guardia;
perciò disposero un'imboscata nelle vicinanze di quella città presso
il fiume Alsa, e col resto della loro gente lo impegnarono ad una
battaglia. Tale fu questa, che le di lui schiere alla fronte e alla
coda urtate, rimasero tagliate a pezzi, ed egli rovesciato a terra dal
cavallo impennatosegli; e poi, trafitto da più spade, lasciò ivi la
vita. Il suo cadavero, gittato nel vicino fiume, fu poi riscosso ed
inviato a Costantinopoli, dove ottenne onorevole sepoltura. È giunta
sino ai dì nostri una funebre orazione[3228], greca, composta da
anonimo oratore, in lode di questo sconsigliato principe, da cui
apparisce sparsa voce ch'egli dopo la battaglia morisse di peste in
Aquileia. Faceva in fatti la pestilenza grande strage non meno nelle
Gallie che nell'Italia in questi tempi. Ma i più convengono in dirlo
privato di vita nel combattimento suddetto. E questo fine ebbe la di
lui imprudente ambizione, e l'invidia portata al fratello Costante.

Zosimo[3229], che in tutto si studiò di spargere il fiele nelle azioni
degl'imperadori cristiani, lasciò scritto che _Costante_ per tre anni
dissimulò il mal animo suo contra di _Costantino_, e che, mentre
questi era amichevolmente entrato in una provincia (senza dire qual
fosse), Costante, fingendo d'inviar soccorsi d'armati a Costanzo in
Oriente, col braccio d'essi fece assassinarlo. Anche l'autore anonimo
dell'orazione suddetta sembra autenticar questo racconto, con dire
ucciso Costantino juniore da sicarii inviati da Costante suo fratello;
ma egli attesta ancora la battaglia seguita fra loro, ed aggiunge la
voce ch'egli fosse morto di peste. Ci può anche essere dubbio se
quell'orazione fosse fatta in quel tempo, potendo essere una
declamazione di qualche sofista lontano da questo fatto. Sembra
inoltre che Filostorgio[3230], scrittore ariano, se pure non è fallato
il suo testo, concorra nel sentimento di Zosimo. Ma noi abbiamo san
Girolamo[3231], Socrate[3232], Sozomeno[3233], i due Vittori[3234],
Eutropio[3235] e Zonara[3236] che asseriscono aver Costantino mossa la
guerra al fratello, ed incontrata perciò la morte. E a buon conto non
si può negare ch'egli non fosse calato in Italia armato, ch'è quanto
dire entrato coll'armi in casa di Costante. Della verità fu e sarà
giudice Iddio. Intanto la morte di questo principe fece slargar molto
le ali ad esso Costante, perchè egli entrò in possesso di tutti i di
lui Stati, di maniera che si videro unite sotto il suo comando
l'Italia colle adiacenti isole, l'Illirico colla Grecia, Macedonia ed
altre settentrionali provincie, e quelle dell'Africa sino allo stretto
di Gibilterra, e le Gallie, le Spagne e la Bretagna: ch'è quanto dire
tutto l'Occidente, a riserva di Costantinopoli colla Tracia. Avrebbe
potuto Costanzo Augusto suo fratello pretendere la sua porzione di
questa eredità; ma, se crediamo a Giuliano[3237], volontariamente
rinunziò ad ogni sua pretensione, sapendo, dice egli, che la grandezza
d'un principe non consiste in signoreggiar molto paese (perchè quanto
più esso è, tanto maggiore è la pension delle cure ed inquietudini),
ma bensì nel governare quello che si ha, con altre, che possiam
chiamare sparate oratorie, credendo nello stesso tempo che non
mancasse ambizione a Costanzo per desiderar di crescere in potenza, se
avesse potuto. Ma egli avea allora sulle spalle i Persiani, e talmente
s'era ingrandito il fratello Costante colla giunta di tanti Stati, che
troppo pericoloso sarebbe riuscito il muovergli guerra, e il voler
colla forza ciò che non potea conseguir per amore. Nel mese di marzo
verisimilmente accadde la morte di _Costantino_, perchè dopo d'essa le
leggi del Codice Teodosiano[3238] ci fan vedere _Costante Augusto_
venuto dalla Dacia ad Aquileia, e nel mese di giugno in Milano, dove
pubblicò un severo editto contra di coloro che demolivano i sepolcri,
o per isperanza di trovarvi dei tesori, o per asportarne i marmi e gli
altri ornamenti. Specialmente per tutto quel secolo fu in voga la
frenesia ed avarizia di tali assassini delle antiche memorie, come
consta da altre leggi e da molti versi del Nazianzeno[3239], da me
dati alla luce. Quanto all'Augusto Costanzo, egli era in Bessa di
Tracia nell'agosto, e nel settembre ad Antiochia, ma senza restar
contezza alcuna di altre azioni che a lui appartengano.

NOTE:

[3223] August., de Serm. Dom., lib. 1, cap. 50.

[3224] Cuspinianus. Panvinius. Bucherius.

[3225] Zonaras, in Annalibus.

[3226] L. 29, de Decurion., et l. 5, de petition., Cod. Theodos.

[3227] Aurel. Victor, in Epitome.

[3228] Monod., in Const.

[3229] Zosimus, lib. 2, cap. 41.

[3230] Philostorgius, Hist., lib. 3, cap. 1.

[3231] Hieron., in Chron.

[3232] Socrates, Histor. Eccles., lib. 2, cap. 5.

[3233] Sozomen., in Histor. Eccl.

[3234] Victor, in Epitome. Victor, de Caes.

[3235] Eutrop., in Brev.

[3236] Zonar., in Annal.

[3237] Julian., Orat. III.

[3238] Gothofred., in Chron. Cod. Theod.

[3239] Anecdota Graeca.


FINE DEL PRIMO VOLUME.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così
come le numerose grafie alternative (imperatore/imperadore,
cadavere/cadavero, radunare/raunare, domestico/dimestico,
giungere/giugnere, nascoste/nascose, Svetonius/Suetonius,
sessantatrè/sessantatre, arringare/aringare e simili), correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

Nella prima nota relativa all'anno LVII manca nell'originale il numero
di capitolo.





End of the Project Gutenberg EBook of Annali d'Italia, vol. 1, by 
Lodovico Antonio Muratori

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