Amore nell'arte

By Iginio Ugo Tarchetti

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Title: Amore nell'arte

Author: Iginio Ugo Tarchetti

Release date: October 25, 2025 [eBook #77121]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1869

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK AMORE NELL'ARTE ***


                            AMORE NELL’ARTE


                              TRE RACCONTI


                                   DI
                            I. U. TARCHETTI



                                 MILANO
             E. TREVES & C. Editori della BIBLIOTECA UTILE
                                   —
                                 1869




                          Proprietà Letteraria

                 Lodi, Società Cooperativo-Tipografica.




LORENZO ALVIATI


                          L’amore non è una potenza indisciplinabile.
                            Come ogni altra forza naturale, dà
                            una presa alla volontà, all’arte, la
                            quale, checchè se ne dica, lo crea
                            facilissimamente e facilmente lo
                            modifica, mediante gli ambienti, le
                            circostanze estrinseche e le abitudini.

                                                       G. MICHELET.

Lo conobbi nel collegio di Valenza. Io aveva allora quattordici anni,
egli ne aveva diciasette compiuti, ma il suo corpo erasi già sviluppato
come a venti; in quella scolaresca di fanciulli egli rappresentava
colla sua statura elevata, colla sua testa di Apollo, un personaggio
assai più imponente del maestro. Quell’immagine mi richiama le memorie
più dolci e più pure della mia fanciullezza, mi evoca scene obliate
da lunghi anni, rimembranze confuse, sulle quali il mio pensiero
non sa tanto arrestarsi e scrutare da ritesserne intatta la tela.
Difficilmente la nostra memoria ha la virtù di evocare uh passato di
quindici anni; ma spesso in quelle tenebre che lo circondano rimane
un filo di luce che ci guida a rintracciare le gioie; spesso basta il
profumo d’un fiore, un filo d’acqua, un suono, un nome, una fronda,
per richiamarci le immagini di alcuni affetti, le circostanze di
alcuni avvenimenti che si erano dimenticati da anni. Ma sono scene
che l’intelletto illumina ad intervalli, a bagliori; quell’edificio
si sfascia ricostruendolo; la memoria evoca e passa, poichè nella
lotta che noi combattiamo col dolore non ci schermiamo che dal dolore
dell’istante: nessuno potrà lottare ad un tempo colle sofferenze
riunite di tutta una vita.

Non vi è mai accaduto di trattenervi in quelle lunghe notti d’inverno
a meditare vicino al focolare, e, rimescolando le ceneri già fredde,
rinvenirvi un piccolo carbone ancora acceso? Lo avrete veduto brillare
in quel momento d’uno splendore vivissimo, ma subito impallidire ed
estinguersi al contatto di quella luce a cui si era sottratto per
sempre. Così è delle memorie. Esse non si arrestano più d’un istante;
esse ricompariscono e fuggono; la loro apparizione è simile, nel mondo
immaginario, all’apparizione fantastica dei trapassati: si mostrano e
si dileguano, splendono come un baleno nella notte dell’intelligenza e
si estinguono. E che cosa sono in fatto le memorie se non le reliquie
della nostra vita morale, le sue salme, i suoi morti? È strano come
la maggior parte degli uomini consideri la vita come un avvenimento
continuato, e non s’avveda come noi moriamo ogni giorno, come
seppelliamo ogni sera una parte di noi, anzi la nostra intera esistenza
morale, poichè la sola vita fisica costituisce nella sua decadenza
progressiva, un fatto isolato e compiuto. E quante vite non abbiamo
noi sepolte prima di morire! su quante care esistenze di un giorno non
dobbiamo noi piangere! speranze, affetti, piaceri, nobili aspirazioni
alla virtù, ebbrezze ineffabili dell’amore..... a trent’anni la
vita non è più che un immenso cimitero, sulle cui tombe noi veniamo
a lamentare le gioie dell’esistenza che ci è sfuggita, e l’aridità
dell’esistenza che ci rimane. — Dolci e serene memorie dell’infanzia,
voi formate tutto il segreto de’ miei affetti, tutto il tesoro delle
mie più care predilezioni. Oh potessi, dal sepolcro in cui giacete,
evocarvi almeno un istante, per riabbellire del vostro sorriso fugace
questi miei giorni sconsolati e sofferenti!

Povero Lorenzo! E parmi di rivederlo là, sotto quei pioppi, ove
venivamo a riposarci dalle nostre passeggiate delle vacanze. Là il
Po si allarga, e forma alcuni seni incantevoli circondati da alberi
secolari. Uscendo pieno ed unito dalle gole dei colli, si versa e
si dilata nella pianura, ove le sue acque creano una vegetazione
rigogliosa, e le rapide selvette dei salici, i cui fusti riuniti e
raggruppati dai rovi e dai lentischi, coprono gli stessi sabbioni delle
rive. Non un eco, non un grido sotto quei pioppi maestosi e giganti, le
cui sommità riunite come un immenso padiglione ti nascondono spesso la
vista del cielo. Nel meriggio dei giorni canicolari tu non v’intendi
che il ronzio delle ali delle libellule o delle mosche dorate, e solo
nel mattino il lamento malinconico del cuculo ne risveglia gli echi più
lontani e sonori. Allorchè quei lunghi fusti giganti, coperti dei loro
ampi mantelli di licheni, emergono colla loro bianchezza dalle prime
ombre della notte, sembrano acquistare forme o movenze di fantasmi; un
mistero ineffabile di malinconia si diffonde per tutti quei luoghi;
la natura vi siede mesta, quasi ritrosa, e vi crea nel silenzio i
prodigi più meravigliosi della sua vegetazione. Vi sono infatti delle
foglie grandi come ventagli, dei convolvoli ampii come le ninfee, dei
livertisii che s’innalzano coi loro fusti tortuosi fino alle sommità
più elevate degli alberi. E dove le sorgenti si dilatano in qualche
seno e formano alcune bolle o alcuni canali, l’acqua si cinge tutto
all’intorno come di una corona, e sono masse di piccoli fiori bianchi
simile alle margherite dei prati; ma l’onda vi ha la trasparenza del
cristallo, e vi si vedono andare e venire frotte timorose di pesci,
mentre la luce riflette nel fondo sabbioso le forme singolari dei
ragni ballerini che nuotano colle loro lunghe gambe su quell’immobile
superficie d’argento.

Ritornando alle memorie più remote che la mia anima ha conservate di
Lorenzo, mi si affacciano per le prime queste scene incantevoli della
natura, che furono testimoni dei nostri dolori e delle nostre prime
confidenze. Per un rapporto misterioso tra la natura degli esseri e la
nostra natura spirituale, quasi sempre il carattere degli uomini si
informa a quelle impressioni esterne che lo hanno colpito nei primi
anni della vita. Le nostre idee, le nostre aspirazioni, i nostri
giudizii avranno sempre un rapporto esatto, benchè incomprensibile,
colla natura dei luoghi e delle cose che furono testimonii della nostra
infanzia. Io sento che vi ha in me, nella mia indole qualche cosa di
quel teatro della mia fanciullezza, di quei campi, di quelle acque,
di quella vegetazione; in certi miei sentimenti parmi di scorgere un
rapporto ben definito col profumo di certi fiori, colle loro tinte,
coll’azzurro melanconico di quel cielo. Tali fenomeni, non che gli
altri tutti della nostra natura, si manifestano, io credo, in tutti
gli uomini; e se molti tra essi non se n’avvedono, è perchè la loro
indole non li porta a meditare su sè medesimi; ma io penso che essi
tutti sieno o possano essere poeti ad un modo: tutti subiscono le
stesse impressioni, concepiscono le medesime idee; la diversità del
loro valore sta nella diversità dell’espressione, nella forma — la
letteratura non è che arte — noi vediamo che uomini turpi nella loro
vita privata scrissero pagine sublimi; uomini sublimi per domestiche e
sociali virtù, non seppero costrurre un periodo secondo le esigenze dei
rettori. Se ciò non fosse, come avviene che un libro è inteso da tutti?
trova un eco in tutti i cuori?

Lorenzo ed io ci amavamo di un affetto ardentissimo; ma il suo
amore sentiva quasi della paternità, ed egli si tratteneva meco come
avrebbe fatto con un fanciullo; le sue confidenze erano affettuose,
piene, espansive; ma egli pareva rivolgerle a sè più che a me stesso;
non pareva chiedere a me che di essere ammirato o compianto. Nè io
indovinava allora perchè avrei dovuto compiangerlo: mi sfuggiva il
segreto de’ suoi dolori — giovine, vigoroso, intelligente, libero come
il suo pensiero, padrone di vagare a suo talento per quelle campagne,
di contemplarvi tutte le mattine il sorgere del sole, di cercarvi a sua
posta dei nidi, di farvi una colazione sull’erba, di sottrarsi, quando
il volesse alla dura tirannia dello studio — tutto ciò mi parea troppo
dolce perchè io potessi crederlo sventurato, perchè non vi fosse tra
noi chi non avrebbe mutata la sua sorte con esso.

I fanciulli, più che ogni altro, sono avidi della propria libertà, nè
smarriscono questo amore che in proporzione delle abitudini che devono
contrarre vivendo. La vita sociale è una lotta che espelle a dramma
a dramma la natura degli uomini, fino alla completa trasformazione
dei loro caratteri. Le disillusioni, gli inganni, le cure, le lunghe
infermità dello spirito, l’ipocondria, le terribili prerogative dello
scetticismo e del dubbio non esistono nello stato naturale: esse non
sono che un prodotto della società. Nessuna legge havvi nella natura la
quale ci faccia conoscere che il corpo e lo spirito debbono invecchiare
ad un tempo, partecipando alle stesse fasi di decadenza: nulla potrebbe
corrompere in essa la verginità primitiva dei nostri pensieri e
delle nostre aspirazioni; in essa la vita non potrebbe essere che una
fanciullezza eterna, che una giovinezza perenne.

Lorenzo era nato in un piccolo villaggio del Piemonte. Suo padre,
costruttore e suonatore di organi, era venuto con lui, ancora bambino,
a stabilirsi in una grande fattoria, di cui aveva come ereditato per
titolo di parentela, il diritto e i vantaggi dell’amministrazione,
dall’amministratore defunto. Quel vasto stabilimento era situato
sulla riva destra del Po, in una posizione incantevole. Lorenzo vi
aveva passato la sua infanzia, e non era stato mandato alle scuole
che a dodici anni compiuti. Suo padre aveva preferito valersene fino
a quell’età per i servigi che poteva prestargli nel suo mestiere; e
poichè egli era uno dei più vaghi fanciulli dei dintorni, inorgoglivasi
di condurselo seco a tutte le feste dei paesi vicini, ove egli suonava
nelle chiese ed ove il suo giovine allievo era incaricato di muovere i
mantici degli organi. Ma dopo alcuni anni quest’umile attribuzione era
divenuta tediosa a Lorenzo: egli aveva già appreso da suo padre i primi
erudimenti della musica, e aveva voluto ribellarsi a quella schiavitù
che non lo rendeva che uno strumento dell’arte, che lo condannava ad
ignorarne per sempre i segreti. Non era artista, ma voleva divenirlo;
non ne aveva il genio, ma lo presentiva. Egli aveva conosciuto che
doveva in qualche modo dirozzare la propria intelligenza, apprendere a
frenare i trasporti della sua natura impetuosa e selvaggia, prima di
abbandonarsi allo studio dell’armonia, allo studio di un’arte in cui
tutto è raccoglimento e pensiero; si era perciò deciso di frequentare
le scuole, e fu allora che io lo aveva conosciuto a Valenza.

Pochi fanciulli si erano sviluppati come lui a dodici anni. Lorenzo
attraversava il Po a nuoto quando era gonfio, prendeva i nidi delle
ghiandaie sulle punte più elevate dei pioppi, raggiungeva le lontre
alla corsa, aveva disegni e ardimenti proprii di un’età più matura;
onde soffriva di quell’inazione a cui lo condannavano le discipline
dello studio. Non vi si dedicò che per cinque anni, e a malincuore: si
sarebbe detto che egli vi interveniva per una violenza che la sua mente
esercitava sulla sua natura, per una forza di volizione straordinaria:
la sua intelligenza era aperta, forte, serena: dopo un anno di studio
egli ci aveva raggiunti, poco dopo ci aveva superati, e in breve
tempo eragli rimasto più nulla da apprendere di quelle aride e sterili
cognizioni, di cui si era sempre pasciuto lo spirito, e impicciolite e
ingannate le nobili aspirazioni della gioventù nelle scuole.

Tutto era stato precoce in lui; la natura vi aveva sviluppato l’uomo
prima dei fanciullo; alla sfrenata vivacità d’un istante, era successa
una calma pensierosa e profonda; tutta la potenza della sua vitalità
si era trasfusa nell’operosità febbrile dello spirito; si sarebbe detto
che quella vita che appariva in lui come raddoppiata, fosse pur duplice
nella forza e nella celerità della sua azione. Ed egli lo sentiva;
egli aveva forse il presagio di un’esistenza breve e affannosa, e
affrettavasi a trasvolare con rapidità sull’oceano de’ suoi dolori e
delle sue gioie.

E infatti tutte le anime elette, tutte le intelligenze elevate hanno
provato questa impazienza tormentosa, quest’avidità irresistibile
dell’avvenire, questo bisogno di pascere lo spirito delle dolci
seduzioni dell’ignoto. Oh potessi divorarmi la vita! È il voto, è
l’esclamazione di tutte le intelligenze superiori: voto e aspirazione
eloquente, che rialza un lembo della mistica cortina del futuro, che
le riconforta e le rassicura del loro destino immortale. Nate per
l’eternità, esse sentono il peso del finito, e anelano di spezzare i
legami della materia che le incatena e le opprime.

Un giorno Lorenzo si avvide che le sue guancie incominciavano a portare
i segni della pubertà, e che in mezzo a noi tutti, egli appariva
troppo discorde d’anni e di cuore per rimanersene ancora in quella
spensierata società di fanciulli. Ci strinse la mano e ci disse addio
— lo avremmo riveduto ne’ suoi boschi, e chi sa.... forse lo avremmo
anche incontrato in quella vita sconosciuta e svariata che ci rimaneva
a percorrere.

Ci separammo con delle lacrime.

Sei anni dopo io aveva compiuto i miei studii, e stava per abbandonare
il collegio, quando mi sovvenni di Lorenzo che non aveva più riveduto
durante tutto quel tempo, e pensai che egli mi avrebbe abbracciato
volentieri, e che separandomi allora da lui avrei dato anche un addio
affettuoso, quasi più colmo, più intero, alla mia fanciullezza, a’
miei sogni, a quel mondo sì lusinghiero e sì dolce dal quale stava
per dividermi per sempre. Belle colline del Po, dove io non aveva che
venti anni, e che attraversai in quell’incantevole mattino di Agosto
per recarmi alla casa di Lorenzo! Ripasserò io ancora quei colli in un
mattino sì delizioso come quello? e potrò io ripassarli con venti anni
soltanto?

Era lui: seduto presso una siepe di carpino, leggeva ad alta voce _Le
vite_ di Plutarco; mi riconobbe da lontano, si alzò, mi raggiunse e
mi gettò le braccia al collo, esclamando — mio caro amico, mio caro
fanciullo! Fui colpito da questa parola: fanciullo. Era sempre quella
superiorità d’anni, d’intelligenza e di cuore che aveva dimostrata nel
collegio; ma era una dolce superiorità che non sentiva dell’orgoglio,
che non voleva esser tale che per amare e proteggere; era l’espressione
di quell’elevatezza morale che tutti gli uomini acquistano più o meno
coll’esercizio delle passioni e del dolore.

Allorchè due persone s’incontrano per la prima volta ha luogo tra le
loro anime una lotta tacita e ostinata, il cui esito è quasi sempre
immediato, e per la quale una di esse si eleva ed impone, l’altra si
sottomette e obbedisce. Vi sono delle anime orgogliose che contendono
a lungo la loro supremazia, e non potendo serbarla, fuggono dalla
lotta; vi sono delle anime dolci che vi si abbandonano volonterose,
che si affidano a un altr’anima sorella, e gioiscono di questa dolce
sottomissione. Tali sono la maggior parte delle donne coll’uomo, tale
era io con Lorenzo.

Ma quando pure non l’avessi conosciuto che in quell’istante avrei
potuto esitare ad abbandonargli tutto me stesso, come ad un fratello o
ad un padre? Vi era qualche cosa di affascinante nel suo viso, qualche
cosa di magnetico nel suo sguardo; il suono della sua voce era dolce e
severo ad un tempo; i suoi modi affettuosi, ma energici, la sua persona
bella e aitante; e poi quella sua testa di Giove, que’ suoi occhi
neri e inquieti, quelle linee maestose del suo viso, quelle ciocche
massiccie di capelli, mi davano l’idea di una di quelle divinità
greche scolpite da Fidia, di cui il tempo ha come paralizzati i
rigidi lineamenti del volto. Se la natura mi avesse creato donna avrei
trascorsa la mia vita a’ suoi piedi.

Passammo insieme un giorno felice; andammo a risalutare quei boschi,
quelle siepi, quelle campagne; risalimmo a nuoto la corrente: la natura
era tutta una festa; pareva sollevarsi da tutto il creato una voce
che dicesse: — amate, esultate, folleggiate, tutto è vostro quanto vi
circonda, inebbriatevi di me, benedite alla gioventù ed all’amore!

Tornammo silenziosi, raccolti, oppressi da quell’esuberanza di affetti
e di memorie che la natura aveva versato nelle nostre anime.... Ma quel
silenzio di Lorenzo racchiudeva in sè qualche cosa di più opprimente
che non fossero le sole rimembranze del nostro passato. Come avviene
di tutte le costituzioni irritabili e pronte, egli si era trasformato
in un istante: era ritornato fanciullo, aveva folleggiato meco tra
i boschi, sugli argini, tra le fresche correnti del fiume; ma ora la
meditazione lo aveva richiamato a sè, e la natura aveva ripreso il suo
dominio, abituale e imperioso.

Gli chiesi che avesse. Egli mi abbracciò con trasporto e mi disse: —
ti narrerò tutto stassera; se tu sapessi quale trasformazione ha subito
in questi anni il mio carattere; come tutto mi apparisce disprezzevole
e vano; come la mia anima, elevandosi ad investigare il destino umano,
e creandosi una vita in sè, è rimasta imponente e isolata nella gran
vita che le si agita d’attorno. Speranze, amori, piaceri, tutto si è
trasformato per me, tutto si è concretizzato in una sola idea, tutto
ha assunto un solo carattere, una sola legge, una sola rivelazione,
quella dell’arte. Essa ha resa la mia fibra sì irritabile, la mia
immaginazione sì feconda, la mia sensitività sì sofferente e sì viva,
il mio orgoglio sì esigente e severo, che io mi trovo collocato quaggiù
come in un mondo strano ed inesplicabile, di cui non giungo a percepire
nè la natura nè il fine. L’arte mi ha creato un mondo — essa sola —
e se io potessi popolarlo colle creature della mia fantasia, dar loro
forma e esistenza, vivere con esse e per esse, non avrei più nulla a
rimpiangere del mio destino; ma ohimè! nulla esiste quaggiù tranne che
l’ideale, e l’ideale è l’ombra, è il fantasma, la parodia — la realtà
che noi ci affanniamo di raggiungere è oltre la vita.

Egli tacque, ed era mesto; io lo contemplava tacendo; egli
rappresentava in quell’istante per me una di quelle creature
straordinarie in cui la bellezza fisica e la bellezza morale
rivaleggiano, e l’una presta all’altra una forma sensibile, e l’altra
vi si rivela vestendola della sua espressione celeste.

Ritornammo alla fattoria, che le prime ombre della notte si disegnavano
su quelle vaste lande di arena lasciate asciutte dall’acqua; il cielo
si andava qua e là popolando di stelle; alcuni fuochi fatui brillavano
in quei seni dove l’acqua stagnante aveva raccolte e corrotte le
alghe; gli uccelli annidati sulle quercie, mormoravano strane voci dai
loro nidi, i cani si rispondevano dalle valli, e gli ultimi rintocchi
dell’_avemaria_, così prolungati dagli echi e dai venti, sembravano
gemere su quel non so che di funerario e di triste di cui si veste la
natura nel piangere la sua morte di un giorno.

Lorenzo ed io ci tenevamo per mano camminando; spesso le nostre dita
si allentavano o si stringevano convulse; le nostre sensazioni erano
divenute comuni, le nostre vite si effondevano l’una nell’altra, e noi
lo sentivamo tacendo.....

Oh come è nobile la gioventù, come è potente nelle sue concessioni,
come è generosa e severa! E perchè la natura ci ripudia a trent’anni?
Perchè quegli alberi, quelle montagne, quegli astri non hanno più una
voce per noi? Ogni uomo è artista, è poeta nei primi anni della vita;
è un arido egoista negli ultimi; e quei pochi esseri che un’eccessiva
sensibilità ha condannati a rimanere eternamente fanciulli, errano
smarriti nel mondo, sbattuti come un fragile schifo su questo oceano
tempestoso della vita. È la società? è la natura? Domandiamolo a noi
stessi, noi che non abbiamo più che il conforto disperato del dubbio,
ma spargiamo di fiori il sentiero della gioventù, inebbriamola di amore
e di illusioni; non riveliamo ad essa questa terribile verità che ogni
uomo che è giunto a trent’anni, è già sopravvissuto a sè stesso.

Era un suono delicato e lamentevole, un arpeggiare sommesso di
pianoforte, forse una di quelle celesti melodie di Schubert che non si
odono mai senza piangere.

— Ascoltiamo, mi disse Lorenzo — e ci sedemmo sul limitare della porta
— è Adalgisa che suona; essa non ha cantato più da tre giorni, certo la
povera fanciulla è sofferente, e la sua malattia glielo avrà vietato.

— Chi è dessa? gli chiesi commosso dalle note melanconiche di quella
musica.

— Una donna che mi ama, diss’egli, una creatura sventurata; oserei dire
un angelo se le tristi passioni che si sviluppano colla materia non ne
contaminassero la natura privilegiata e celeste. L’infelice, aggiunse
Lorenzo, è travagliata da una malattia terribile, la cui azione
è dolce, lenta, sicura, mortale senza nulla svelarle della morte,
dall’etisia: questa infermità non è che uno svolgersi più rapido della
vita, in cui tutte le nostre facoltà si moltiplicano e si consumano
nella attività straordinaria della loro azione. L’anima dell’etico
acquista facoltà di nuovi e grandiosi concepimenti; la sua sensibilità
è squisita, la bellezza delle sue forme incantevole, l’espressione e
la mollezza dei suoi profili ineffabile. Adalgisa aggiunge alla sua
avvenenza naturale le fatali attrattive di questa infermità.

— E tu l’ami? gli chiesi.

Lorenzo stette un istante pensieroso, poi mi disse risoluto:

— Non l’amo; o almeno, aggiunse correggendosi, non l’amo di quell’amore
che si concepisce quaggiù dagli uomini. Dopo che una fatale avidità di
lanciarmi nell’avvenire mi ha fatto conoscere quali frutti maturassero
sull’albero della vita e mi ha allettato a raccoglierli, la mia anima
ha sentita la vanità di questi piaceri; essa ha compreso l’avvilimento
che le ne proveniva fruendone, e si è formato un ideale di purità
e di perfezione morale, a cui dirigere tutte le sue aspirazioni e
i suoi voti. Non credo alla donna, diss’egli, non ne ammiro che la
bellezza incantevole delle forme; non credo all’amore, non ho fede
che nel godimento che ne deriva. L’amore di un’anima elevata, quello
sforzo che ella compie per avvicinarsi alla divinità col culto del
buono e del bello, non può essere diretto ad una creatura la quale
non può darvi che della voluttà, la più vana di tutte le sensazioni;
non può essere rivolto al conseguimento di un piacere che vi degrada.
L’amore ha tale scopo nella donna; esso non può essere concepito
da lei disgiunto da questo fine, come da quella che vi è portata
dall’istinto della maternità e da una minore elevatezza di concezioni,
di aspirazioni e d’ingegno. Vi ha oltre a ciò nella donna un dolce
sentimento di sottommissione, un delicato desiderio di confortare di
gioie e di piaceri la vita dell’uomo che l’ha scelta a compagna — gioie
e piaceri che ella non può, che ella non sa offrire che offrendosi.
— La perfezione maggiore del suo essere, l’irritabilità della sua
costituzione la rendono più atta a sentire i piaceri e più avida a
procurarseli; ed è perciò che la natura ha collocato in lei una dose
più grande di pudore, che non è che una ipocrisia della sensualità,
e che non ha altro scopo che di frenare le ingenue rivelazioni
dell’istinto. Ma perchè tu comprenda tutto ciò, diss’egli, perchè tu
intenda come quell’amore dell’ideale che ci infiamma nei primi anni
della giovinezza, e ci guida a porgere un omaggio alla virtù come
linguaggio del bello, al bello come rivelazione del buono, escludendo
ogni appetenza di godimento, per ciò solo che noi siamo ancora dominati
dal sentimento dell’arte e della poesia, sentimento innato nell’uomo,
possa così miseramente trasformarsi e rivolgersi al culto esclusivo del
piacere, è d’uopo che io t’accenni quella triste esperienza della vita
che mi fu dato di raccogliere nei primi anni della nostra separazione.
Spesso i fiori che intrecciano la nostra corona non si distaccano che
per opera di quella mano alla quale era dato di aggiungerne, non si
avvizziscono che per ciò solo, che noi li avvolgiamo nell’atmosfera
velenosa delle nostre passioni, e per un frutto amaro della terra non
esitiamo a contaminarli nel fango.

Morto mio padre, io mi sono avventurato nella vita, nella vita agitata,
clamorosa, elegante; nei grandi centri ove la mia gioventù e la mia
arte mi avevano aperta una via. Mio padre aveva accumulate molte
ricchezze durante la sua vita operosa e modesta: un giorno mi trovai
solo nel mondo, ma mi trovai dovizioso: aveva tributato alla mia arte
otto anni di studii indefessi: le prime creazioni del mio genio mi
avevano dato fama di artista valente; aveva ventidue anni, il mio
volto era l’espressione fedele della mia anima, e le mia anima era
nobile e pura; avevo del coraggio e del cuore, e mi gettai risoluto
nell’avvenire.

Questo battesimo sociale che chiude la vecchia vita e ce ne riapre una
muova apporta spesso con sè molte gioie e molti, dolori. Io non ebbi
che dolori. Non era la mia anima suscettibile di provare la gioia?
Forse lo era, ma non per quella presso la quale si affannano tutti
gli uomini. I tripudii del mondo erano troppo o troppo poco per me; mi
opprimevano, e mi lasciavano un gran vuoto nel cuore: più io correva
verso di loro, e più me ne trovava lontano; avrei voluto vedervi
un’entità, una cosa concreta, uno scopo, un soddisfacimento nobile e
pieno, e non vi vedeva che il nulla.

Amai. Chi non ha amato o non ama? Era stato il delirio della mia
gioventù, il sogno di tante notti, lo scopo della mia arte. Predispormi
coll’arte all’amore, prepararmi l’animo ad accogliere questo
sentimento e a sentirlo, ingigantirmene l’ideale, rivestirlo di tutte
le illusioni, di tutte le parvenze possibili, ecco ciò che io aveva
vagheggiato nel silenzio di questo ritiro, prima di avventurarmi nel
mondo.

Ma gli uomini tutti e la gioventù sovratutto, credono che lo scopo
dell’amore sia la donna, non distinguono tra il sentimento e la
sensazione, fanno di queste due cose disparatissime una cosa sola, e
chiedono più tardi a sè stessi: che cosa era l’amore? avrebbero dovuto
chiedere: che cosa era la donna?

Io pure ho ingannato me medesimo: ho creduto che tale fosse lo scopo di
questo sentimento e mi affrettai a raggiungerlo. Mi era creato di esso
un ideale abbagliante, lo aveva vagheggiato per tanti anni, non aveva
mai dubitato di realizzarlo; e quando aveva abbandonato per sempre la
casa di mio padre, aveva detto a me stesso: — avrò anch’io un amore.

Ohimè, io non sapeva, che un artista non può amare che l’amore, che
due affetti sono troppo per esso, che quell’ideale che egli si è
creato, non è che l’ideale dell’arte, che nessuna creatura al mondo può
renderglielo in tutta la sua sublimità, può possederne tutte le forme e
i colori.

Ma che cosa è l’arte? È dessa che ci conduce all’amore, o è l’amore
che ci conduce all’arte? quale dei due è l’essenza e quale è la forma?
quale è quello che rivela, e quale è quello che è rivelato?

Non ho potuto comprenderlo ancora; egli è però ben certo che ogni
grande anima si è manifestata coll’arte, e che nessuna di esse ha
potuto sottrarsi al dominio dell’amore.

Ho amato anch’io una donna, una creatura non migliore e non peggiore
delle altre, un essere vago e felice, quali ne incontriamo spesso nel
mondo — esseri che sorvolano su tutto, che aman tutto, che spargono
delle rose su tutto; che versano delle lacrime e non piangono, che
sorridono e non gioiscono, che non potrebbero essere felici e lo sono.
Si chiamava Regina, aveva vent’anni ed era vedova. Viveva sola, aveva
blasoni e livree, aveva ammiratori ed amici, aveva arredi e palazzo da
sultana, era superbamente bella e orgogliosa. L’aveva veduta e l’aveva
segretamente ammirata, mi pareva che la sua avvenenza avesse sorpassato
la bellezza di quel tipo immaginario che io portava meco nel cuore;
mi pareva che il suo amore avrebbe dovuto colmare ad esuberanza quel
vuoto che io sentiva in me da gran tempo. Volli ispirare dell’affetto
e l’ottenni, volli smarrirmi nella mia passione e lo feci.... non ne
ritrassi che amarezza e sconforti.

La vedeva ogni giorno lungo i viali cavalcare colla spigliatezza
d’un giocoliere e coll’ardimento di una amazzone sorridere e pure
atteggiarsi a mestizia. Era sempre sola, un palafreniere la seguiva
da lontano; e quando io passava presso di lei mi fissava in volto gli
occhi con espressione di affetto indicibile! Ne fui presto ammaliato;
era il mio primo amore — il mio ultimo — mi vi abbandonai come un
fanciullo.

M’incontrava con lei ogni giorno durante le sue passeggiate; e benchè
non avessi osato o potuto dirle il mio amore, e benchè ella del paro
mi avesse tutto taciuto nessuno di noi due ignorava di essere amato, e
non attendeva che l’occasione di accertarsene. Anche questa occasione
venne. Io aveva dato una sera un concerto e vi era stato applaudito: il
teatro era affollatissimo, l’uditorio silenzioso ed intento, io stesso
agitato da una commozione indicibile; era giovane e artista, e aveva
destato in tutti gli animi un interesse profondo, una viva ammirazione
di me: il mio trionfo era stato facile ma non era stato meno completo;
mi erano stati gettati dei fiori, molte signore si erano tolte dai
capelli le loro camelie e le avevano lasciate cadere sul palco: io ne
aveva raccolto una parte, quando nell’alzare lo sguardo scorsi Regina
che mi gettava colla sua piccola mano coperta dal guanto un ricco mazzo
di fiori. Rimasi indicibilmente confuso; accennai appena del capo in
atto di ringraziamento, e mi ritrassi stringendomi al seno quel dono.

Quando fui nella mia camera, nell’appressare alle labbra quel mazzo,
vi scorsi un piccolo brano di carta arrotolata. Lo svolsi, era un
foglietto da taccuino dorato nei margini: su cui ella aveva scritte
colla matita queste parole:

  «Siete degno del mio amore, e ve ne ringrazio. Vi posso scrivere
  queste righe perchè sono sola, e posso farlo perchè ho dell’affetto
  per voi. Voi siete un grande uomo, ma avete la timidità di un
  fanciullo: venite domani a ringraziarmi di questa lettera.»

                                                            REGINA.

Rimasi profondamente impressionato da quella lettera. Non era così
che io avrei voluto conoscere di essere riamato; quelle parole non mi
rivelano quell’amore casto, esitante, ritroso, che aveva desiderato
di scorgere in lei, che aveva sentito fino allora in me stesso.
Non conosceva ancora il linguaggio e gli ardimenti di una passione
sensuale, ma ne aveva avuto in quelle parole una intuizione piena e
scoraggiante. Cercava un amore puro, quell’amore che tutti gli uomini
cercano a vent’anni, e non vi trovava che un amore di progetto, un
amore già quasi colpevole nella prima, nella più timida, nella più
santa delle sue rivelazioni. Ne era turbato; avrei voluto trovare in
me la forza di non andarvi, ma mi sentiva sì debole anche dinnanzi a
quell’affetto, che mi era impossibile il combattere il mio cuore. La
natura e l’istinto trionfavano. Io ignorava che le espressioni di quel
foglio erano il linguaggio esatto di un sentimento intorno al quale gli
uomini si formano generalmente un falso concetto, erano la rivelazione
del vero amore, quale egli è, quale deve essere: gli uomini non tengono
mai una giusta via di mezzo nell’uso e nell’apprezzamento che essi ne
fanno; prima di vent’anni domandano ciò che la natura non può dare, che
la stessa innocenza rifiuta — il sentimento puro e intangibile; dopo
le prime disillusioni non chiedono più che la voluttà, negano la sua
fusione col sentimento — non vogliono più che il piacere. La donna si
dà, ma non si dà mai sola, dà il cuore con essa: la donna soltanto sa
amare.

Lottai, ma mi era impossibile sottrarmi alla mia passione; andai da
Regina. La trovai, splendida, superba, raggiante; non l’aveva veduta
mai così bella. Non appena fummo soli mi si gettò tra le braccia e mi
baciò sulle guancie, eccitata da una commozione che pareva sincera.
Provai nondimeno una gioia meno intensa di quanto non lo fosse il
dolore che la mia anima sentiva in quell’istante. Avrei desiderato di
averlo ottenuto dopo lunghi giorni di amore quel bacio; ma averlo così,
senza conoscersi ancora, senza avere ancora ragione di amarsi.... il
primo bacio, quello che non si dimentica più, quello che segna il primo
periodo della nostra esistenza morale!..... Ah, tutto ciò parevami
assai doloroso!

Queste considerazioni si agitavano dentro di me in quell’istante
medesimo in cui ella pendeva sul mio seno, e aspettava parole colme di
passione e di affetto. Non ne dissi, non avrei potuto dirne. Regina si
sciolse dalla mie braccia, e guardandomi con occhi pieni di meraviglia
e di amore, esclamò con suono di dolce rimprovero:

— Non mi amate voi dunque? Mi avete dunque ingannata?

Dio buono! ingannata..... e come? Apprezzava dunque ella tanto il
nostro amore? Era amore vero e sentito? Era un abbandono logico,
naturale, doveroso quello di gettarsi tra le mie braccia? Mi parve di
comprendere qualche cosa: mi affrettai a rispondere, non meno commosso
di lei:

— Perdonate, è una strana confusione di idee che si è formata nella
mia anima è gioia, è amore, è sorpresa, sono mille sensazioni che mi
opprimono per quanto siano dolci e nuove, anzi perchè sono tali mi
opprimono.... Non ho mai amato, Regina, non fui mai amato; è naturale
che io debba trovarmi così confuso ed oppresso, così dolcemente
oppresso... avrei bisogno di sollevarmi colle lagrime; se fossi, come
voi dite, un fanciullo, se fossi solo, vorrei piangere, e piangere fino
a morirne.

— Quanto siete sensibile! mi disse Regina, quanto siete nobile e buono!
Ed è in vero la prima volta che amate? e son io che vi avrò inspirato
il primo amore, che potrò farvi conoscere le prime dolcezze di questo
sentimento? Oh ditemi che io non m’inganno, che mi amate; ho osato
tutto con voi, ho osato troppo, non punitemi col vostro silenzio, con
una riserbatezza che mi offende, perchè mi fa supporre che il vostro
cuore abbia emesso un giudizio troppo severo su di me.

Compresi che ella mi amava veracemente, che nel suo stesso abbandono,
nella sua stessa felicità vi era la prova più eloquente del suo
amore. È dell’amore che io doveva lagnarmi, non di lei; e mi accinsi a
rassicurarla con quanta potenza di persuasione io seppi attingere dalla
mia mente sconvolta ed agitata. Passai seco alcune ore — ci separammo
commossi. — Quando fui solo nella mia camera mi raccolsi e piansi
lungamente, piansi per la cessazione di un’illusione che avrebbe dovuto
accompagnarmi per tutta la vita. Era quello l’amore? Era così che lo
concepiscono gli uomini, che deve essere concepito da tutti gli uomini?
E perchè formarsene un ideale così elevato? Che cosa è l’ideale? Che
cosa è il sentimento in amore? Può egli l’amore stare da sè, rinunciare
alla sensazione che ne costituisce l’essenza, che unicamente lo crea?
Poichè non è il sentimento astratto che ci unisca indissolubilmente
alla donna, ma il possedimento che ci crea dei doveri e dei bisogni; è
l’intimità, è l’abitudine che rendono potente l’amore.

Tuttavia non abbandonai Regina: la natura agiva troppo potentemente su
me perch’io potessi superarla colla forza della mia volontà. La volontà
è sempre più debole dell’istinto, perchè ove nol fosse, ciascun uomo
potrebbe violare impunemente la propria natura. Incominciai anzi ad
amarla, conosceva che il suo cuore era retto e sincero, non ne poteva
dubitare: investigai il suo passato, e non vi trovai cosa alcuna di
cui dovessi soffrire ed affliggermi: un uomo qualunque, un uomo che non
fosse stato vero artista, avrebbe potuto essere felice con Regina. Io
non lo era.

Ottenni tutto da lei. Da quel giorno ella cominciò ad amarmi, da quel
giorno io sentii che il mio affetto era svanito. Lo dissimulai lungo
tempo, era pietà, era gratitudine che me lo imponevano, ma essa non
tardò ad avvedersi del mio abbandono, e ne fu mortalmente ferita.

— Che vuoi! mi disse ella una volta, che pretendi da me per amarmi?
che posso io fare per meritarmi il tuo amore? Hai guardato nel mio
passato e non vi hai veduto nulla, hai indagata la mia condotta e sono
uscita illibata dalle tue investigazioni. Quale demerito ho io per
essere condannata al tuo abbandono? Non sono abbastanza bella? non
sono abbastanza giovine e ricca? Sei geloso? preferisci l’isolamento?
Vuoi che rinunci a tutto, a’ miei abiti, a’ miei cavalli, alle mie
abitudini? Vuoi che abbandoniamo questa città e ci ripariamo in un
angolo di terra ignorato? che viviamo soli, sconosciuti, felici? Dimmi
lo vuoi?

Io era vinto, io era commosso, io avrei fatto il sacrificio della
mia vita per lei, ma non poteva amarla, non lo poteva: sentiva che
nessuna donna avrebbe potuto inspirarmi ancora dell’amore; l’amore, la
continuazione, il culto, l’affetto di quell’ideale che portava meco nel
cuore lo trovava nell’arte — la donna ne era la negazione.

Oscillammo alcun tempo tra la repulsione e l’amore, prevalse la
repulsione — ci separammo.

Io abbandonai quella città sei mesi dopo, nello stesso giorno in cui
ella partiva per Francia col ricco barone di Saint-Froix, colonnello di
cavalleria, col quale si era sposata al mattino.

Così disgustato dell’amore altrui rientrai nell’amore di me medesimo,
non perchè il mio cuore fosse incapace di collocare in una creatura
simile a me un affetto saldo e durevole, ma perchè aveva compreso
che nessuna di esse avrebbe potuto divider meco questo sentimento
senza offenderne la purezza; perchè sapeva che quell’amore che io
voleva, il mondo non me lo avrebbe mai dato, non me lo avrebbe mai
potuto dare. Nell’amore dell’uomo, e più specialmente della donna, ho
sempre veduto una specie d’ipocrisia, delle norme di convenzione che
volevano mostrare di condurre al sentimento, e non conducevano che alla
sensazione, non avevano altro scopo che la voluttà, e incominciate
con tutte le apparenze di un amore ideale, di un puro affetto di
cuore, finivano colle basse soddisfazioni di un amore brutale, assai
spesso colla sazietà, colla nausea, col disgusto che dà una passione
soddisfatta. L’amore non è che un’ipocrisia — nella maggior parte degli
uomini non è che l’abuso, l’applicazione falsa ed inesatta di un nome.
Potrebbe chiamarsi il piacere, la voluttà, la sensazione — sarebbero
le parole — ma l’_amore_, questa espressione di cui ci serviamo per
indicare quanto abbiamo di sacro e di diletto nel mondo, per rivolgerci
alla divinità, per accennare a quei legami pieni di mistero e di
incanto che sembrano congiungerci all’universo; essa, la parola più
dolce e più nobile del linguaggio umano, quella che inchiude l’idea
del sacrificio scambievole, che è la nostra religione, la rivelazione
più eloquente della nostra immortalità, non può essere adoperata per
nascondere la natura ed i fini di un desiderio sì basso, per velarne la
nudità, per travisarne lo scopo — l’amore è cosa dell’anima, la voluttà
è cosa della materia: distinguiamo tra due nature sì differenti.

Nella stessa facilità di quelle donne che si danno senza ritegno — e
quel ritegno ha sempre le sue cause nell’amor proprio, è sempre un’arte
quando non è calcolo o freddezza, — che non lo dissimulano, che dicono:
vi domando del piacere e vi do del piacere, mi parve di scorgere non
dirò una maggiore virtù, ma una maggiore arditezza della verità, una
franchezza saggia e lodevole. Che differenza tra esse e le altre? Le
une promettono di darsi, nulla più, e si danno — le altre promettono
cose infinite, l’amore puro e ideale, tutte le smorfie che affetta
il sentimento, e finiscono col darsi come le prime, nulla di meno:
in quelle una sincerità che ne scema se non ne scusa i traviamenti,
in queste un inganno, un artifizio volgare, od una ignoranza di sè
deplorevole. Tra un uomo ed una donna che si piacciono la virtù non è
in alcun luogo, se è in tal cosa che vuolsi far risiedere la virtù.
Basta avere un’esperienza della vita assai lieve per apprezzare la
verità di questa asserzione: quando due giovani creature di sesso
diverso sono prese di affetto l’una per l’altra sanno a che cosa
li deve condurre l’amore, e comprendono che dissimulano, e fingono
entrambe l’ignoranza di uno scopo che pure si struggono di affrettare
col desiderio.

Ecco le considerazioni che mi allontanarono per sempre dall’amore:
intendo l’amore quale è ordinariamente tra gli uomini, quell’affetto
che incomincia da un’apoteosi e finisce in una degradazione, le
cui fila sembrano partire dal cielo, e nondimeno toccano il fango.
Non spero altro dalla donna, benchè sappia che l’amicizia non è che
un’ombra dell’amore, e che non potè mai appagarmi soltanto di essa;
benchè comprenda che non può darlo che la donna, lei sola, ancorchè
puro, ancorchè deliberato per sempre all’astinenza dì quei piaceri che
ella può offrire.

Ma ciò è per fermo nella natura; e come ella abbia condannato ad
un fine sì triste un sentimento sì elevato e sì nobile, come si sia
servita di mezzi così divini per raggiungere uno scopo sì turpe, è
ciò di cui la mia anima non ha mai saputo darsi ragione, è l’enimma
eterno e insolvibile del cuore umano. Non condanno la facilità con cui
gli uomini corrono al piacere, ma l’astuzia con cui dissimulano di non
corrervi, le illusioni di cui circondano un atto di intimità che non
ne ha alcuna, e che riserbano alla gioventù inconsapevole un disinganno
certo e terribile.

Hai tu avuto quattordici anni? Te ne rammenti? Ti ricordi di quel
tempo quando nella donna non vedevi che l’angelo, quando nell’amore
non vedevi che l’unificazione di due anime? Ed hai serbato memoria di
quel giorno in cui afferrasti la realtà, in cui vedesti soccombere il
tuo ideale? Oh, la natura vi ebbe la sua parte di colpa, ma la donna
non meno!... La donna voluttuosa, facile, meno elevata di mente, è
meno atta a comprendere la bassezza e la vanità del piacere; desiderosa
di darsi perchè sa darsi, perchè vi ha attitudine, perchè desidera di
sottomettersi, e sa porre più che altrove in questo abbandono, quella
leggierezza, quella grazia, quella docilità, quel non so che di vago
e di fatuo che sa mettere sì bene in tutti i piccoli nonnulla della
sua vita. Si direbbe che il loro ritegno non è che un’arte, che quelle
medesime che si serbano virtuose lo fanno perciò solo, che sanno di
conservare in tal modo uno degli allettamenti più energici, e di poter
esercitare una seduzione più potente. Tutto ciò che vi è nella donna
— le sue opere, i suo pensieri, le sue parole, i suoi atti — tutto è
seduzione, benchè seduzione tacita e delicata. Oh, l’uomo è assai più
puro! Nella sua franchezza, nelle sue abitudini un po’ ardite, nel suo
stesso linguaggio un po’ rozzo e un po’ brutale, egli è assai più puro!
Nella fanciulla si trova sempre la donna — l’angelo bisogna cercarlo
nella madre.

Mio caro amico, riprese Lorenzo dopo un breve intervallo di silenzio,
io mi sono disgustato assai presto delle donne; le prime prove mi hanno
atterrito; non ti dirò ciò che ebbi ad esperimentare di poi; aggiunsi
sconforto a sconforto — mi ritrassi nella mia solitudine disperando
di non poter amare che la mia arte. E forse un artista non può, non
deve avere un altro amore che questo — l’amore astratto del bello,
del buono, l’amore che conduce direttamente a Dio, che rinuncia alla
creatura, che non si posa su cosa alcuna del mondo — tutto il resto
è sogno, è illusione, è voluttà d’un istante. Se l’amore debb’essere
infinito e gli uomini tutti amano cose finite, gli artisti sono i soli
uomini che amano.

Dopo l’abbandono di Regina ebbi altri affetti e altri inganni;
conobbi le donne uguali tutte, propense all’amore, ripugnanti
perciò dall’amicizia che ne rifiuta i privilegi e i diritti, facili
all’affetto, atte a colorire con quella vena di facile poesia che
è in esse qualunque atto di degradazione fisica sul quale l’uomo si
arresta a meditare con dolore.... Non ho serbato memoria di una donna
giovine, che abbia saputo perdonare a me giovane di averle potuto
offrire dell’amore e di non averle dato che dell’amicizia. Rientrai
in me stesso; volli riabitare questa casa, rivedere questi luoghi
che mi parlavano dell’infanzia, l’unica età della vita sulla quale
noi possiamo ritornare senza piangere, e darmi tutto alla mia arte, e
vivere di essa e per essa.

Ma neppure qui non mi sento sereno, non mi sento felice; non si può
amare l’amore per l’amore, e l’arte che ci crea un ideale così elevato,
non basta a far tacere quel bisogno incessante dell’anima che ci spinge
a cercarne una personificazione più o meno imperfetta negli uomini e
nelle cose reali della vita.

Bisogna amare, ecco la condanna; o turpemente o nobilmente bisogna
amare: per noi che ne vediamo l’oggetto nel cielo e dobbiamo cercarlo
nel fango è una condanna doppiamente terribile. Io vorrei possederlo
questo oggetto, ma dove mi sarà dato di rinvenirlo? dove troverò la
donna diversa dalla donna? Combatto da lungo tempo col mio cuore, tento
di ucciderne l’affettività, di deviarla dalla donna e di rivolgerla
all’arte. Inutile sforzo? La natura prevale; e l’arte che è troppo
grande, troppo conscia di sè per temere di una rivalità così poco
durevole, ne seconda la legge ed i fini.

Tornato qui, trovai Adalgisa già adulta; ci eravamo separati bambini e
benchè io non fossi allora che un povero fanciullo della sua fattoria,
ci eravamo legati di quell’amicizia pronta e sincera che si contrae
facilmente in quegli anni; ora quel sentimento si è mutato dal canto
suo in un amore appassionato e ardentissimo. Posso io corrispondervi?
È troppo tardi, nè ella potrebbe offrirmi di più di ciò che altre
m’offersero, nè vorrebbe offrirmi di meno; in lei vedrei sempre la
donna, l’amante sparirebbe coll’amore.

Così dicendo la notte era caduta, e Lorenzo, prendendomi per mano, mi
ritrasse dal limitare nella stanza. Passai con lui altri due giorni in
cui vidi e conobbi Adalgisa, dopo di che ci separammo tristi e scorati.

Abbrevierò la narrazione di questo racconto.

Due anni dopo ebbi, da Lorenzo questa lettera:

»È assai tempo che non ho più novelle di te. Ho saputo che sei a Nizza
e ti scrivo. Avrei avuto bisogno prima di scriverti. Ho attraversato
molte calamità, ho subite molte prove dacchè ci siamo divisi — ho
compreso spesso che se avessi potuto confidarmi a te, versarti tutto
il mio cuore, mi sarei sentito sollevato. Come la vita ci sfugge,
come la felicità ci sfugge! Due soli anni!... e pure quale solitudine
si è fatta intorno a noi, quante care esistenze ci sono state rapite
in così breve spazio di tempo! Ho pensato sovente con dolore quanto
debba essere triste la vecchiezza, quanto debba essere tormentoso il
sopravvivere a tutti quegli esseri che si sono amati e perduti.

»Ti ricordi dei discorsi che facemmo l’ultima volta che ci siamo
abbracciati? Il mio cuore combatteva allora una gran lotta, la mia
virtù stava per soccombere, una sfiducia terribile si era impadronito
di me. Io non credeva alla donna, io non poteva amare la donna —
reputava l’amore turpe o impossibile, così soggetta come mi appariva
ai bisogni irresistibili della natura, così fuso, così legato, così
immedesimato con questi stessi bisogni. Nel tempo medesimo anelava a
questo amore che la mia ragione ripudiava, nè subiva la prepotenza
irresistibile, vi soggiaceva come alla tirannia di una passione
indomabile. Strano mistero del mio cuore! Amava la donna nella sua
beltà, nelle sue attrattive — l’odiava nelle sue debolezze, nella sua
facilità, nella sua avidità di piacere. L’arte me ne aveva creato un
tipo perfetto, io voleva concretizzare questo tipo in una creatura
vivente, spiritualizzare la donna fino a trasformarla, fino a farle
raggiungere la perfezione ideale di quel modello.

»Mi ricordo che tu sorridevi di questo sogno, dissimulavi a stento
la tua sfiducia, mi nascondevi appena l’ilarità che ti destava
questa illusione. E pure che cosa è questo lavoro assiduo che compie
l’umanità da molti secoli se non una conseguenza del bisogno che essa
ha di spiritualizzarsi, di sottrarsi alle leggi fisiche per crearsi
delle leggi morali? Le idee confuse di civiltà, di progresso, di
perfezionamento sono una derivazione di questa grande idea, di questa
grande aspirazione. Ogni uomo tende a spiritualizzarsi. Perchè ci
vergogniamo delle nostre debolezze, delle nostre imperfezioni, dei
nostri bisogni? Perchè ci sono delle cose che ci sembrano turpi nella
nostra natura?... Perchè tentiamo di nasconderle? Nella lotta di questi
due grandi principii — del principio fisico e del principio morale —
è riposto il segreto delle lotte umane — forse anche le oscure ragioni
dell’umanità e della vita.

»Ebbene! che faceva io se non che spingermi troppo innanzi su questa
via? se non che anelare con troppo ardore a quel perfezionamento ideale
cui tutti gli uomini aspirano? Gli artisti sono uomini che precedono
gli altri — vanno innanzi e additano il sentiero, si voltano indietro e
si trovano soli... questi grandi, questi infelici solitarii!...

»Ti ricorderai anche di Adalgisa. Io non poteva accettarne l’amore,
corrispondervi; le ragioni che ti ho espresso ora mi allontanavano
anche da lei, me ne allontanavano ripugnante, afflitto, corrucciato di
me stesso. Perchè io avrei voluto amarla, poterla amare, rendere a lei
quelle gioie, quella felicità, quella luce che essa voleva gettare su
tutta la mia vita. Non lo poteva. Tu mi lasciasti in quel tempo — erano
gli ultimi giorni delle mie lotte e delle mie esitazioni. Adalgisa si
ammalò poco dopo la tua partenza — la sua etisia raggiunse uno sviluppo
impossibile ad arrestarsi — non si riebbe più — io la perdetti quando
incominciava a tenermi cara la sua vita e il suo amore.

»Io ti parlerò di questo amore come di una malattia della mia
anima, come di un fenomeno inesplicabile della mia natura. Non vi ha
dubbio che gli artisti sieno uomini infermi, creature malate, esseri
incompleti, i quali perciò appunto dovranno sempre sottrarsi alle
norme comuni della vita. Ciò che essi creano è effetto della loro
imperfezione, della loro infermità; come alcune specie di bache, di
frutti, di nodi bizzarri, sono un prodotto della malattia delle piante,
come dalla corteccia incisa di alcuni alberi stilla la gomma. Io
che l’aveva tratta a morire colla mia indifferenza, che l’aveva resa
infelice col mio rifiuto, io doveva amarla quando già la vita avea
incominciato a sfuggirle, ad adorarla dopo che l’aveva perduta. Non so
se tu abbia provata la più spaventosa tortura che possa subire il cuore
umano — l’impossibilità d’amare le persone che ci amano e che reputiamo
degne di amare. Non vi è tormento che possa adeguarsi a questo: basta
averlo provato una volta perchè si comprenda tutta l’impotenza della
nostra volontà, perchè rovini tutto l’edificio della nostra fede,
perchè una tenebra immensa si distenda su tutta la nostra vita. L’amore
è inesorabile; è in noi, ma è fuori di noi; non possiamo imporlo a noi
stessi, non possiamo lasciarcelo imporre.

»Tutte le persone dotate di qualche virtù e di qualche avvenenza
hanno assistito a questa rovina che facevano intorno a sè stessi,
hanno suscitato delle passioni che non potevano appagare, consumato
delle vite che non potevano proteggere col loro amore. Nelle stragi
che l’amore mena nel mondo, alcuni pochi soccombono alla felicità
dell’affetto contraccambiato, molti al dolore dell’affetto non
corrisposto, moltissimi — e sono infinitamente i più miseri — allo
strazio di non poter amare.

»Io ho provato questo strazio in tutta la sua potenza. Vedeva deperire
la bellezza di Adalgisa, avvizzirsi la sua fede, affievolirsi e
consumarsi la sua vita, e non poteva soccorrerla. Io assisteva a questa
distruzione, lenta, penosa, inesorabile, senza poterla impedire.
Chiedeva indarno al mio cuore ciò ch’egli non poteva darmi, ciò che
io non poteva esigere da lui. Perchè l’amore è una gran fede, è un
gran vero — non lo si finge, non lo si smentisce. Esso non proviene da
noi, ci viene non sappiamo d’onde, lo subiamo — perciò non lo possiamo
mentire perchè non lo conosciamo che dopo averlo provato — o meglio
ancora provandolo.

»Te partito, Adalgisa si pose a letto, la pietà mi trattenne presso di
lei fino al giorno della sua morte. Fu in quel frattempo che il gelo
del mio cuore si sciolse, che io incominciai ad amarla e a confortarla
di questo convincimento — non visse felice, ma morì felice. Perchè
ho incominciato ad amarla in quei giorni? È una domanda che mi sono
rivolto sovente io stesso senza potervi rispondere. Di mano in mano
che la sua malattia affievoliva la sua vitalità, prostrava le sue
forze e le sue passioni, la sua anima acquistava una nuova potenza —
di mano in mano che si restringevano i limiti della sua vita fisica,
si dilatavano, si estendevano quelli della sua vita morale. Io l’amava
forse perchè vedeva in lei sparire la donna e formarsi l’angelo, pur
rimanendo angelo e donna ad un tempo — perchè la vedeva librata tra
il cielo ed il mondo, come avesse voluto additarmi il cielo senza
togliermi alle gioje più miti della terra.

»Non ti parlerò dei giorni che trascorsi presso di lei, al suo
capezzale — giorni pieni di tristezza e di grandi gioje ad un tempo,
di esitanze, di sogni, di illusioni, di subiti sconforti — cari e mesti
giorni che io non potrò ricordare mai senza piangere.

»Adalgisa non prevedeva, non credeva vicino il suo fine: mi parlava
dell’avvenire, di noi, del suo amore; formava progetti di felicità per
un tempo lontano — la sua anima, simile alla fiamma che si ravviva un
istante prima di spegnersi, gettava, già vicina a dividersi da lei,
una più gran luce sulle gioie immaginarie del suo avvenire. Soventi
ella intravedeva il vero, ricadeva ne’ suoi sconforti, presentiva
l’abbandono della vita. Allora rivolava al passato, evocava, numerava,
interrogava le gioje in quell’età, più spesso accarezzate che godute,
più spesso sognate che ottenute; mi parlava dell’infanzia, di quegli
anni che avevamo trascorsi assieme, quando la nostra affettività era
ancora una virtù che spandevamo su tutti, che dividevamo con tutti;
quando gli affetti, così dispersi, non si erano ancora riuniti nel
cuore per rivolgerli ad una sola creatura. L’amore, diceva ella, era
stato allora una grande espansione, ora non era che un grande egoismo.

»La malattia aveva come modificate le sue sembianze, aveva dato al suo
volto qualche cosa di sì pallido, di sì mobile, di sì trasparente,
che la sua natura appariva trasfigurata, spiritualizzata, mutata
essenzialmente da quella di prima. La sua vitalità era affluita tutta
allo sguardo; pareva intravedesse sempre qualche cosa al di là degli
oggetti che la circondavano — guardava come si guarda spesso, senza
vedere. Le sue mani si erano come affilate, erano divenute sì piccole,
sì leggiere, sì bianche, che nello stringerle vi sentivate la mancanza
della vita, e ricordavate quelle mani che vi accarezzavano fanciullo,
vi avvedevate che esse non dovevano più toccare alcuna cosa della
terra...... Oh le mani di un morente! Chi non ha strette una volta
quelle mani? Chi non ha compreso il terribile linguaggio di quel
contatto? Sì le mani hanno un linguaggio speciale, un’espressione a
sè, un’eloquenza misteriosa che ogni uomo non può non intendere. Son
esse che accarezzano le teste dei biondi fanciulli, che asciugano le
lagrime degli infelici, che rivelano i primi tumulti della passione,
che esprimono la pietà, la tenerezza, che infondono i conforti, che vi
toccano, che vi stringono, che vi abbracciano l’ultima volta prima di
morire. Le mani sono il linguaggio del corpo, come il sentimento è il
linguaggio dell’anima.

»Non è senza ragione che le superstizioni umane hanno attribuito un
pregio sì grande alla verginità della donna. Non saprei come provare
questa asserzione, come giustificare questa fede che mi ha inspirata
la vista di Adalgisa; ma egli è ben certo che se vi sono nella nostra
natura due elementi che lottano per dominarsi — l’elemento fisico
e l’elemento spirituale — e se la nostra perfezione, la nostra
supremazia, la nostra grandezza sono riposte nella prevalenza di
quest’ultimo, ella è una grande rinuncia quella che vien fatta per
esso alla soddisfazione dei sensi più viva e più irresistibile. Si può
deplorare questa rinuncia, non si può non ammirarla — la verginità
eserciterà sempre uno dei più grandi prestigi sugli uomini, perchè
rivela ad un’ora la casta verginità del cuore e della mente.

»Vi sono delle creature che sentono il peso della materia, la sua
tirannia, l’impero che esercita sullo spirito: alcuni la subiscono,
alcuni vi si ribellano. Quei martiri delle leggende cristiane che,
spinti da un ascetismo religioso, si maceravano il corpo coi digiuni
e colle battiture, non potevano essere che uomini straordinarii:
combattevano ad oltranza quella lotta che noi combattiamo con armi
più facili, con tregue lunghe, con viltà più frequenti, e nelle quali
preferiamo spesso il soccombere al resistere forti ed infaticati.

»Questa vittoria dello spirito sulla materia mi appariva piena, intera
in Adalgisa — è in ciò che è riposto il segreto di quel fascino che la
fede, che il genio, che il culto di un gran principio morale esercitano
sopra di noi; il rispetto che c’inspira la vecchiaja, l’interesse
che ci destano le persone deboli o inferme — simile a quelle lampade
funerarie che gli antichi collocavano presso le tombe, la cui fiammella
acquistava sempre più maggior luce, quanto più s’assottigliava il vaso
d’alabastro che la conteneva — l’anima della fanciulla traspariva,
si rivelava, attraverso le forme vaghissime del suo corpo che la
consunzione svigoriva senza alterare.

»Essa era anzi più bella. Che ti dirò delle contraddizioni
inesplicabili della mia natura?... Io me ne innamorai in quei giorni;
e quanto più ella si andava approssimando al suo fine, quanto più io
acquistava la certezza del suo abbandono, tanto più si rafforzava in
me questo affetto. Come raccontarti tutte le lotte del mio cuore?
descriverti, enumerarti le mie sensazioni? In poco tempo il mio
amore raggiunse tutta la sua pienezza, assunse tutta la forza d’una
passione indomabile. Sola, mia, soffrente, purificata dalla morte —
così e non altrimenti io poteva amare una donna. Una donna! Non era
una creatura umana che io amava in lei, era uno spirito concretizzato,
personificato in un essere vivo, racchiuso in un velo vaghissimo,
delicato, trasparente, che appena lasciava indovinare l’essenza di cui
era composto.

»Ma a che dirti tutto? come spiegarti il carattere della mia passione?
Spesso mi atterriva il pensiero di perderla, più spesso ancora il
pensiero di ricuperarla. La vita le avrebbe ridonato la forza, la
salute, i desiderii; io avrei trovato in lei ciò che aveva trovato
in Regina, ciò che si trova in tutte le donne, la donna; noi saremmo
sopravvissuti al nostro amore... Perdendola, io raffermava invece
per sempre la mia fede, conservava per sempre le mie illusioni; la
religione dell’amore avrebbe potuto pretendere da me un culto sincero
ed eterno. Incauti coloro che piangono la perdita di una donna
amata! Non vi è che la morte che possa purificare l’amore, che possa
santificarlo, eternarlo — essa ne suggella la fede. Quando essa ha
diviso due esseri che si amano, colui che è sopravvissuto può illudersi
sulla durata che quell’affetto avrebbe avuto, se vivo; ha una tomba su
cui piangere, e può costruirsi una fede su cui riposare. Nessuna gioja
della terra è dolce come quelle lagrime e come quella fede! Ma ciò che
è orribile è sopravvivere alle proprie affezioni, vederle vacillare,
cadere, finire, irridire a sè stessi, posarsi sopra altre creature.
Quanti esseri ci circondano che avevamo amati, che avevamo fusi colla
nostra esistenza, coi quali avevamo sfidato la mutabilità dei tempi e
della fortuna... e che adesso sono più nulla! Vivere tra tali creature,
vederle vive e felici, e portarne il lutto, è come vivere in un mondo
che ha cessato di appartenerci, è come presentire la morte co’ suoi
dolori, co’ suoi abbandoni, co’ suoi rimpianti, senza averne nè la
dimenticanza, nè la quiete.

»Ma a che farti conoscere tutti i dettagli dolorosi del mio racconto?
Adalgisa morì; e con quella morte cessò in me quell’indifferenza,
quell’avversione all’amore, quel bisogno di raccogliermi in me stesso
che mi aveva chiuso fino allora tutte le sorgenti della felicità e
del piacere. Quell’affetto che mi s’era formato nel cuore durante
la sua malattia, si tramutò dopo che l’ebbi perduta, in una passione
che mi divorava la vita, senza che potessi spegnerla, che mi dominava
senza che potessi combatterla. L’aveva dimenticata viva, l’aveva amata
morente, l’adorava già morta. In ciò io era conseguente a me stesso,
a’ miei principii, alle mie idee: il mio amore era logico come lo era
stata la mia indifferenza — procedeva dalle stesse cause, si riposava
sulle medesime convinzioni. Un ostacolo mi aveva allontanato fino
allora dalla donna — la sensualità della bellezza: ora questo ostacolo
era sparito, la bellezza di Adalgisa non era più che un riflesso
della bellezza intatta ed eterna — in quelle forme pure e perfette
io vedeva personificato quell’ideale che l’arte, che il vero, che il
bello avevano come delineato nella mia fantasia. Gli uomini tendono
a personificare tutte le loro sensazioni, tutte le concezioni della
loro mente — la vasta idealità umana si riduce tutta alla creazione
di alcuni tipi vaghi e indecisi, di cui cerchiamo indarno quaggiù
una personificazione vivente. Dio non si è rivelato a noi: egli
non ha tanto creato gli uomini, quanto gli uomini hanno creato lui
stesso — l’idea di Dio non è che una personificazione dell’idea del
bello eterno, e del buono eterno — le anime elevate non hanno osato
circoscrivere questa bontà e questa bellezza in una forma, le anime
volgari sono discese fino all’umanazione.

»Se tu avessi visto Adalgisa, avresti potuto comprendere quanto ella si
avvicinasse a questo ideale. Non so dirti quanto ella fosse bella, nè
quanto il mio ideale fosse elevato! D’altronde che cosa è la bellezza?
Essa non può essere il risultato dell’armonia di alcune linee,
perchè queste stesse linee disposte diversamente possono dare diverse
specie di bellezze — vi è non una legge in ciò; non vi è una bellezza
assoluta. Possiamo analizzare il volto umano, descriverlo in tutte
le sue parti, ammirare l’armonia dei loro rapporti — non basta — vi è
ancora qualche cosa che è fuori di questa legge, che sfugge a questa
analisi, che costituisce unicamente il bello che noi ammiriamo. Egli
è che ciascun uomo, personificando le proprie idee, si è formato un
tipo di bellezza, secondo il quale esamina e giudica delle forme degli
oggetti e delle creature che ci circondano. Ciò è quanto noi chiamiamo
il gusto. Le leggi della bellezza fisica sono riposte in una legge
della bellezza morale. L’identità della natura in ciascun uomo rende
queste leggi pressochè simili in tutti, quindi pressochè uno il tipo
della bellezza umana, ma se noi potessimo uscire un istante fuori di
noi medesimi, distruggere e mutare questa legge vedremmo che il bello
ci apparirebbe deforme, e il deforme bello, che la bellezza è tutta
immaginaria, tutta convenzionale, tutta subordinata a questo principio.
Ecco perchè io non tenterò di delinearti l’immagine di Adalgisa —
converrebbe che tu discendessi nella mia anima per rintracciarvela.

»Non ho mai preso ad investigare che cosa sia l’amore, quali i suoi
limiti nel cuore degli altri uomini. Perciò appunto che ti ho detto
ora, io non ignorava che nel bello si ama inconsciamente il buono, che
nel deforme si odia inconsciamente ciò che è cattivo, ma le ragioni
di quest’odio e di questo amore mi rimasero sempre ignorate — si
poteva aver coscienza di questi due estremi morali, ammirarne queste
personificazioni diverse, senza nè amarle, nè odiarle — il segreto
dell’amore, che è ad un tempo il segreto della vita universale, rimarrà
sempre inviolato dagli uomini.

»Oh! dirti le ore di ebbrezza che io trascorsi al suo fianco, i
deliri di quegli abbandoni!... Quel cadavere che mi stava d’innanzi
ricongiungeva i fili spezzati della mia esistenza, mi rimetteva in pace
coll’umanità, con me stesso; riannodava i legami che mi avvincevano
all’arte e alla vita. Quante anime non sapranno comprendere la natura
di questa passione, giustificare la sua origine, la sua essenza, i suoi
fini! Non è vero che le donne sappiano amare, sanno piacere, godere.
Spogliatele di quelle attrattive del sesso che vi vedete mascherate
dal sentimento — e non vi è più nulla. Ma in Adalgisa queste attrattive
erano mute, distrutte — tutto ciò che vi era di ripugnante era sparito,
tutto ciò che vi era di dolce era rimasto. Che importava a me che ella
non vivesse? Io non aveva mai voluto chiederle del piacere. Nella
ricerca affannosa del bello, io non aveva cercato mai che il bello,
ancorchè passeggiero, ancorchè inanimato. Fui sempre casto di quella
castità che è propria della robustezza; nè io aveva cercato nella
personificazione dei mio ideale altri attributi che quelli elevatissimi
del mio ideale medesimo. E poi vi è qualche cosa di morto in natura? vi
è qualche cosa di inanimato intorno a noi, cui non possiamo infondere
una parte della nostra anima? Ho sempre sorriso di questa specie
di avversione che gli uomini hanno per tutto ciò che non vive: mi
sono sempre sentito nel cuore un’esuberanza di spirito sufficiente
a infondere la vita a tutti quegli esseri inerti che mi stavano
dintorno. Le grandi anime soffrono in mezzo a ciò che si agita e vive;
prediligono la solitudine dove possono espandere la propria vitalità.

»Non vissi con lei che due giorni — la terra riebbe Adalgisa — io
assistetti senza lacrime alla sua sepoltura. E perchè avrei dovuto
piangerla? Non mi bastava la memoria? Coloro che piangono ciò che
muore rinnegano la propria fede, la durabilità dei proprii affetti, la
coscienza del proprio destino.

»Da quel giorno le mie lotte erano finite, io mi sentiva riconciliato
coll’esistenza. Mi ridonai all’amore della mia arte — non era che un
solo amore, uno stesso amore — non vissi più che di quello.

»La musica fra tutte le arti è la più divina perchè la più
indeterminata. Concretizzate le idee nelle parole, la luce nella
tela, le forme nel sasso, ma non potete concretizzare il suono — il
regno delle note è infinito come il regno delle idee — più ancora,
va oltre le idee, ve ne crea di quelle che non potete determinare,
di cui non sapete darvi ragione. Strana e ridicola cosa! Gli uomini
hanno voluto circoscrivere la potenza di questo linguaggio, il solo
che sia veramente universale; l’hanno collegato colla parola la quale
non esprime che cose determinate, — connubio mostruoso! — hanno detto:
queste note esprimeranno il dolore, queste il piacere, quelle la
sorpresa, e via via; hanno composta la sintassi delle note — hanno
immiserito, circoscritto, rinnegato questo linguaggio che ci parlava
di un mondo lontano, che ci sollevava sull’ordine delle idee comuni,
che ci trasportava oltre il dominio dei sensi; che appunto era grande,
perchè era impossibile sottoporlo a leggi fisse, trattenerlo dentro
limiti fissi, perchè era inesauribile, perchè era indeterminato.

»Queste parole ti lascieranno indovinare quali sieno le mie idee in
fatto di musica, quali i tentativi che io faccio per redimerla da
queste leggi di convenzione.

»Scrivimi. Dopo la perdita di Adalgisa, io vivo da solo, in questa
città. Vorrei farti comprendere quali sieno i rapporti misteriosi che
esistono tra la di lei memoria e la mia arte, e come questa attinga da
quella, e quella si avvivi nella fiamma di questa, e formino un tutto
solo ed armonico — ma ciò mi tornerebbe impossibile.

«Rimarrai tu costì lungo tempo? Ti scriverò altra volta.»

Ma non ebbi da lui altre lettere.

Passarono due anni da quell’epoca, nè io aveva più ricevuta notizia
alcuna di Lorenzo, e quasi me n’era dimenticato, allorchè n’ebbi da un
amico le tristi novelle che mi accingo a raccontare; anzi trascriverò
qui quel brano della sua lettera, che vi si riferisce:

«È da lui stesso che io ho saputo che tu non ignori le sue follie
passate, e quella sua passione d’amore così strana, così ideale, e
così incomprensibile. Ho anzi ragione a credere che tu abbia penetrato
meglio e più profondamente di me nelle segrete oscurità della sua
anima, e che la natura della sua follia ti sia apparsa più evidente
e più chiara. Credo averla compresa io pure, e ciò mi spiega in
qualche guisa la seconda e la più grave delle sue aberrazioni. Se
egli non ti ha scritto più dopo la’ tua partenza da ***, ignori senza
dubbio che egli si è dimenticato di Adalgisa, e che un amore non
meno appassionato, non meno esigente, ma non meno inesplicabile si è
sostituito a quel primo.

»Era naturale che egli se ne dimenticasse, e che quell’affetto così
triste, così spento, così solitario si spegnesse nel suo cuore per dar
luogo ad una passione più viva e più reale benchè ancora più assurda.
Tu meraviglierai dell’oggetto di questa sua seconda affezione.

»Io credo che tutta l’infermità della sua anima e della sua
intelligenza si riducesse a ciò: che egli voleva personificare in un
tipo di bellezza sensibile quel tipo astratto e ideale che gli aveva
creato la sua arte. La natura stessa lo conduceva a cercare questa
personificazione nella donna; la purità della sua anima, la casta
religione di questo ideale lo costringevano a volerne escluse quelle
passioni fisiche che la contaminavano. Perciò egli non aveva amata
Adalgisa che morta, l’aveva amata solamente in quegli istanti, in
cui senza avere ancora perduto nulla della sua bellezza, si era già
spogliata di tutte le sue passioni. Seguendo questo ordine stesso di
idee, non allontanandoci dalle leggi e dalla natura della sua follia,
comprenderai agevolmente come egli non potesse rimanere fedele a
questa affezione giacchè egli aveva d’uopo di vedere, di ammirare
questa personificazione più o meno imperfetta del suo ideale. Non è a
dirsi se egli soffrisse di questa dimenticanza che gli imponeva la sua
stessa natura, la sua arte stessa; egli aveva creduto che quell’affetto
sarebbe durato eterno, e lo sentiva svanire, spegnersi, dileguarsi
miseramente come tutti gli affetti terreni; sentiva riformarsi nel
cuore quel vuoto che egli aveva riempiuto un istante, ma che ora non
poteva sperare più di riempire.

»In quell’intervallo di lotte, in quel periodo di triste scoraggiamento
si disgustò anche della sua arte, alla quale credeva, e non senza
ragione, dovere unicamente la sua infelicità. La musica, diceva
egli, è relativamente alle nostre facoltà la più imperfetta, e la più
incompleta di tutte le arti. Noi non sappiamo se ci andiamo avvicinando
od allontanando dalla sua perfezione — non lo potremo mai indovinare —
non le potremo mai assegnare nè un limite, nè una legge, nemmeno una
via sicura, tanto ella si allontana da tutto ciò che è sensibile, da
tutto ciò che è reale. Non è nemmeno possibile una definizione, ella
sfugge ai sensi, al raziocinio, a tutto: si è camminato finora sopra
delle ipotesi, si sono stabilite delle norme elementari, si sono creati
dei sistemi, dei generi, delle leggi di convenzione, ma nessuno ha
ancora potuto comprendere che cosa ella sia, d’onde si è partiti, e fin
dove si potrà giungere. I veri artisti hanno sentito tutto il tormento
di questa ignoranza e di questa impotenza, hanno compreso quanto
fosse grande il contrasto che la vaga idealità di quest’arte formava
coll’arido realismo, con cui la natura li aveva condannati a lottare.

»Disperando di trovar pace qui, egli prese a viaggiare; e fu a Firenze
che vide la Venere dei Medici, e che lo stesso sentimento che lo aveva
fatto invogliare di una fanciulla morta, gli destò nell’anima una
passione ancora più ardente, ancora più inesplicabile, per quel tipo
perfettissimo della bellezza femminile. Lorenzo passò da quell’amore a
questo colle stesse esitanze, colle stesse indecisioni di coloro che si
sciolgono da un affetto reale. E con questa nuova passione non fece che
crearsi nuove origini di sofferenze. Era naturale che egli sì vigoroso,
sì ardente, dotato di un’immaginazione così viva e così feconda, non
potesse appagarsi di un amore così sterile e così solitario. Egli aveva
voluto lottare colla sua natura, ma indarno.

»Fu anzi quella medesima esuberanza di vitalità che egli si sforzava
di trattenere, di accumulare in sè stesso, che guastò in qualche modo
il suo organismo, e finì collo spegnere in parte la sua ragione. Il
suo cuore, la sua mente, le sue aspirazioni combattevano una lotta
perenne coi bisogni della sua vita, colle esigenze aride, materiali,
inesorabili della natura. Egli non voleva soccombere anche a prezzo
della sua felicità; non voleva concedere nulla al realismo dei sensi e
delle passioni.

«Se tu verrai qui ti racconterò a voce la storia di questo suo secondo
amore. I dettagli sono molti e strazianti, nè mi regge l’animo di
evocarli e di scriverli.»

Tale era il brano di quella lettera che si riferiva a Lorenzo.

Io accorcio, per quanto mi è possibile, la mia narrazione.

L’analisi di questa dolorosa infermità della sua mente — noi chiamiamo
infermità di mente tutto ciò che si allontana dalle sue leggi comuni —
potrebbe fornire argomento a molti volumi, e pochi saprebbero entrare
nello spirito vero di questo esame — gli artisti forse, e non tutti.
Questa specie di anatomia di un’anima non potrebbe offrire interesse
che per coloro i quali furono dotati di una mente superiore, per quei
pochi che hanno molto amato o molto sofferto, per quegli eletti, cui
l’idea del bello si è mostrata per altre vie e per altre immagini che
non soglia mostrarsi alle masse.

Lorenzo Alviati ebbe natura e passioni e genio eccezionali. Le sue
opere, non note che a pochi amici, furono forse di quelle grandi
aberrazioni, di quei grandi errori, di quegli slanci giganteschi,
di quelle prodigiose antiveggenze che precedettero in ogni tempo le
scoperte dei più grandi veri scentifici e filosofici. Fu un uomo fuori
de’ suoi tempi — oserei quasi dire che fu un’anima fuori della sua
natura, tanto egli seppe combatterla: ancorchè ne uscisse vinto, e
dominarla così miseramente.

È noto come quella Venere destasse passioni d’amore violentissime.
Lorenzo tradì, suo malgrado, il suo segreto, — il segreto di questo
priapismo singolare del genio — e gli fu impedito di rivederla.
Rimpatriato, si ammalò di malinconia, e la sua ragione incominciò ad
alterarsi nell’isolamento che egli creava intorno a sè stesso. Tutta
quell’affettività, e assieme tutto quel fuoco represso di gioventù che
non aveva potuto versare in nessun cuore, si raccolse e si riversò
tutto in sè medesimo. Come spiegarlo? Egli incominciò a non trovare
più altra compiacenza che con sè stesso, altro oggetto degno di amore
che sè stesso, altra rivelazione del bello che la sua persona. In
una parola, la sua ragione ne andò interamente sconvolta — egli finì
coll’essere preso d’amore per sè medesimo. Io rifuggo dal descrivere
i dettagli deplorevoli di questa follia: ciascuno li potrà agevolmente
immaginare.

Il mio amico non lasciò scritte che poche opere, le quali per quanto
io credo, andarono smarrite. Io conservo tuttora un suo manoscritto
contenente alcune idee speciosissime sul ritmo, e uno schizzo di
progetto relativo all’abolizione del melodramma. La sua musica —
contrariamente a ciò che si poteva supporre — era dolce, semplice,
appassionata, estremamente melodica. Coloro che l’hanno udita
hanno serbato memoria per lungo tempo di quel fascino inesplicabile
che esercitavano le sue melodie. Mi è pur rimasta una sua memoria
circa quel barbaro sistema di finali fragorosi e convenzionali, da
cui nessuno ha finora saputo sciogliersi, e che io ho in animo di
pubblicare. Sarà l’ultimo omaggio che io renderò alla memoria di un
amico affettuoso, e di un genio sventuratissimo.

Lorenzo Alviati, morì nel manicomio di Alessandria l’11 giugno 1863.




RICCARDO WAITZEN


                                  LORENZO. E voi lo credete?

                                  IL MAGISTRATO. No, io non ho fede
                                    alcuna negli spiriti — intesi
                                    però a dire che essi esercitano
                                    delle strane influenze sugli
                                    uomini, e questa fede antica
                                    quanto l’umanità non può
                                    essere avversata ciecamente, nè
                                    distrutta ad un tratto.
                                              (A GHOST IN COMEDY).

Che cosa è l’immaginazione? Chi ne definisce le facoltà? Dove
rintraccieremo noi quella linea che separa l’immaginario dal vero? E
nel mondo dello spirito, nelle sue vaste concezioni, esiste qualche
cosa che noi possiamo chiamare assolutamente reale, od assolutamente
fantastico? O piuttosto non è egli tutto fantastico nello spirito? Come
nulla vi ha di individuato, di isolato, nell’immensità delle masse
che compongono l’universo, ma tutto si riunisce e si sfuma per mezzo
delle piccole masse intermedie, non potrebbe essere che l’ideale ed
il realismo si congiungessero tra di loro per certe leggi che a noi
non è dato di conoscere, per certo mistero che a noi non è concesso
di afferrare; e che gli uomini non facessero che definire con queste
due parole i due punti estremi di questa linea, quali sono il mondo
sensibile ed il mondo immaginario? Qualunque sia quel vero che a noi
non è dato di percepire, egli è però ben certo che dei grandi legami
esistono tra di loro. La loro conciliazione secondo la natura umana,
ha formato la lotta di tutti i tempi, come forma la lotta dell’oggi:
l’umanità tende ad equilibrarsi tra queste due grandi attrazioni, come
quella che si sente dominata da entrambe, e non ignora costituirsi
dalla loro azione il segreto delle sue lotte e della sua vita.

La letteratura moderna, conscia di questa verità, si è rivolta alla
soluzione di un grande quesito: «idealizzare il reale»; fondere assieme
queste due potenze, costringere l’immaginazione, l’idea a soffermarsi
sulla realtà, ad anatomizzarla, a rivestirla de’ suoi colori, delle
sue forme, delle sue seduzioni divine. Quella grande letteratura, che è
la recente letteratura francese: Karr, Vittor Ugo, Girardin, e più di
tutti Michelet co’ suoi libri divini dell’amore e della donna, hanno
dimostrata possibile questa conciliazione, indirizzandola allo scopo
dell’umana felicità. Forse la letteratura avvenire non mirerà più ad
altro fine che a questo: essa arresterà lo spirito degli uomini sempre
rivolto all’ideale e al fantastico, per trattenerlo sui campi della
realtà, ove noi dobbiamo combattere, qui e non altrove, vogliosi o non
volenti, la lotta secolare della vita.


Ma la scienza ha pure rialzato in questi ultimi tempi un lembo della
cortina misteriosa. Mesmer colla scoperta del magnetismo sembrò
aver fatto un passo gigantesco su questa via. I primi fenomeni di
quella scienza, arcani, oscuri, confusi, perciò accolti con quella
superstiziosa credulità che affascina tutti gli uomini all’idea
dell’incomprensibile e dello ignoto, sembrarono aver afferrato le prime
fila per districare tutto quanto il segreto, fino allora inviolato,
della natura umana: — la fusione delle anime, la trasmissione del
pensiero, la chiaroveggenza, l’intuizione, l’unificazione di due, di
più individualità; furono altrettante scoperte che parvero assicurarci
la conquista di verità prodigiose e infinite.

Tuttavia non si tardò a riconoscere che tutto era fittizio in questa
scienza, e che le prime basi gettate con tanta apparente solidità,
non bastavano a sostenere quell’edificio colossale e gigantesco che
si voleva innalzare sopra di esse: toltine i fenomeni materiali,
tutto si è arrestato, tutto è ricaduto nell’ignoto; — l’ipnotismo
ci ha dimostrato che gli stessi effetti si ottenevano colla semplice
fissazione di un oggetto luminoso; lo spiritualismo rimaneva dunque
escluso, e i fenomeni del Mesmer ricadevano nel dominio della materia.
— Perocchè chi ha mai potuto definire le proprietà degli spiriti,
e i rapporti che essi hanno tra di loro? Che cosa è il sogno, il
sonnambulismo, il presagio, l’astrazione, il pensiero e più di tutto
l’incubo? I sensi — ecco i limiti estremi delle nostre facoltà; nulla
di positivo, nulla di assoluto fuori di essi — ogni altra cosa è
immaginaria e fantastica; essa appartiene a un’altra sfera di esseri,
sulla cui natura, sul cui fine, sulle cui facoltà, nulla ci è dato di
comprendere e di asserire con sicurezza.


Ciò non di meno, una vaga, una poetica illusione è venuta oggi a
mettere in rapporto il mondo fisico col mondo spirituale, il mondo
finito col vivente: intendo parlare dello _spiritismo_, questa
applicazione singolare della scienza, per la quale uno spirito
compiacente discende a parlare con voi un linguaggio di convenzione
immedesimandosi in un tavolo, in una sedia, in un arnese qualunque
della vostra camera: ed ecco che il magnetismo si è collocato come
interprete, come intermedio tra voi e il mondo spirituale — perocchè
come avrebbe potuto uno spirito rivelarsi senza il concorso di un
oggetto sensibile?


Io vorrei conoscere se coloro i quali, mercè questo mezzo, continuano
a convivere in ispirito coi loro cari, hanno la fede assoluta nella
realtà di questa convivenza. Se essi credono, il fenomeno esiste.
Noi non possiamo sorridere di questa credenza: proviamone l’assurdo,
proviamone del paro la verità se ci è possibile. Bensì ciascuno di
noi ha sentito in sè stesso, in molte circostanze della vita, qualche
cosa che gli parlava di altri esseri, o sofferenti o lontani, o già
morti alla nostra esistenza di un giorno. Ditemi, non avete voi perduto
qualcuno dei vostri diletti? e non ne avete spesso udito ancora la voce
e i consigli? non li avete più riveduti nei vostri sogni, nelle vostre
veglie affaticate e affannose? non li avete sentiti come discendere,
pesare sopra di voi, immedesimarsi in voi stessi, congiungere alla
vostra la loro vita? Chi vi dice che mentre vi si affaccia un’immagine
nel sogno, quell’immagine stessa non sia lì viva, palpitante, curvata
sopra di voi o assisa presso il vostro guanciale? E chi vi dice ancora
che voi sognate? Che cosa è il sogno se non che un’esistenza piena,
colma, smisurata, al cui confronto l’esistenza della veglia, non è che
la vita monca e impotente della pietra?.... Veglia, sonno.... parole!
Io non vi domanderò quali fatti appartengano al mondo reale e quali a
quello della immaginazione, non vi domanderò ancora quale sia quella
linea che separa questi due mondi — negatemi che i fenomeni esistano.

È assai tempo che io conobbi nell’esercito due giovani ufficiali, due
gemelli: la natura li aveva fatti ad uno stampo; nessuna distinzione
fra di loro — le stesse fattezze, lo stesso colorito, lo stesso suono
di voce — essi si amavano di tutta la tenerezza fraterna, e forse
alla loro nascita la natura, ignara del concepimento di due esseri,
trovatasi così alle strette, poichè la cosa non ammetteva indugio,
aveva diviso fra di loro quel soffio della vita, che aveva predestinato
inconsciamente ad un solo. Non ho conservato memoria di avvenimenti più
singolari di quelli a cui dava luogo la loro prodigiosa somiglianza.

Uno di essi, Giulio, era un abile giocatore di bigliardo: l’altro,
Luciano, non era che un giocatore assai mediocre. Spesso i loro
compagni prima di accingersi al giuoco con uno di essi (era impossibile
farlo con entrambi senza che ne derivasse una strana confusione) gli
domandavano:

— Sei tu Giulio o Luciano? noi confidiamo sulla tua parola.

— Luciano, sul mio onore.

Ed ecco che la partita s’impegnava colla certezza di uscirne vincitori,
ma ad un dato momento, Luciano scivolava nella sala, subentrava non
visto il fratello, e la partita era perduta.

Spesso ancora nelle riviste del reggimento, uno di essi si assentava
per turno, sicuro che l’altro poteva supplirlo senza pericolo di
essere scoperti. Ed eccone uno sfilare grave e impettito d’innanzi al
colonnello nella prima compagnia cui appartiene, e appena uscitogli
di vista, portarsi alla coda del reggimento e ripassare di nuovo
alla testa della compagnia dell’assente. Ma un giorno il colonnello
insospettito lo fa uscire dalle file, lo trattiene presso di sè, ed
ecco che lo strattagemma è scoperto e punito.

Come è costume di soldato, essere chiuso agli affetti duraturi e
gentili, e aperto solamente alle piccole passioni di un giorno, essi
avevano delle amanti delle quali si dividevano i favori senza che le
tradite potessero avvedersi dell’inganno. La loro vita rimaneva così
come moltiplicata, e la loro natura porgeva ad essi il privilegio di
sensazioni sempre rinnovate e sempre recenti.

Spesso avveniva che una di loro gli dicesse:

«Amor mio io non ti riconosco più questa sera, tu mi sei tutto
mutato: è forse ciò che tu mi promettevi ieri l’altro? un contegno più
delicato, più rispettoso, più calmo?.... ecco le tue promesse, ecco i
tuoi giuramenti svaniti.....»

«Non mi badare, o fanciulla, le mie preoccupazioni del giorno sono sì
gravi che io ho tutto dimenticato, e poi il mio amore è sì veemente,
sì imperioso, sì cieco.... ma tu che lo disconosci, oh! tu mi ami sì
poco.....»

Certo quella mente immaginosa di Shakespeare, nell’ideare la sua
commedia degli equivoci, non avrebbe potuto creare delle combinazioni
più singolari e più ardite. Ma la vita dei due giovani era predestinata
ad un fine prematuro e inatteso. Luciano cadde colpito da una palla
austriaca nella giornata di S. Martino: Giulio che gli sopravisse
divenne malinconico e pensieroso, sentì che gli era venuta a mancare
come una metà di sè stesso, abbandonò la carriera militare, e essendosi
ritirato a vivere in una piccola casa di campagna sul Canavese, vi morì
di patéma un anno dopo.

Alcuni mesi prima della sua morte io mi recai a visitarlo, e mi
trattenni alcuni giorni presso di lui. Lo trovai infermo e prostrato,
affetto da quell’etisia del cuore che precede nelle nature soffrenti e
sensibili l’etisia fisica; ma la sua anima aveva acquistata tuttavia
una potente effettività, una forza di astrazione straordinaria.
Egli mi assicurava che era felice, che aveva ogni giorno dei lunghi
ed affettuosi colloquii con suo fratello, che egli era presente ad
ogni istante, che in quelle sei ore che egli trascorreva ogni giorno
rinchiuso nella sua camera ne evocava lo spirito col solo atto della
volizione, e si abbandonava con lui alle dolci confidenze, alle piene
espansioni del loro affetto, alle costanti e profonde investigazioni
del loro destino.

Spesso io sorrideva della sua fede ed egli mostrava di compiangere la
mia incredulità, e diceva con tutto lo slancio d’un desiderio a stento
represso: «oh potessi io presto morire, andarmene, libero, là dov’egli
dimora! oh potessi presto raggiungerlo!

E lo raggiunse di fatto.

Ora potremo noi dileggiare un trasporto di fede sì vivo? E siamo noi
ben sicuri che tutto ciò non fosse che fede, che allucinazione, che
sogno? Ho sentito uomini colti e severi dire coll’espressione d’un
convincimento incrollabile: «ciò è falso, ciò è vero, ciò solamente
sussiste, fin là e non più oltre voi dovete innalzare l’edifizio della
vostra fede.» Presuntuosi! E fino a qual punto hanno essi scrutato
nelle viscere della natura? Fino a qual pagina essa ha loro aperto
il libro meraviglioso de’ suoi segreti? Che vi hanno essi letto? La
fede è finita: dalle sue basi incrollabili noi possiamo trarre delle
conseguenze finite, perciò spesso imperfette: ma il dubbio solo è
grande, sconfinato come l’immenso universo, incommensurabile come
l’oceano, profondo e tenebroso come gli abissi dell’anima umana: il
dubbio è la rivelazione della scienza, — essa lo cerca immolandogli
ogni fede — poichè una sola fede esiste, quella del dubbio.

Ma veniamo al nostro racconto.


In un caldo mattino di agosto dell’anno 1840, un elegante calesse
tirato da due buoni cavalli amburghesi, sollevava un nembo di polvere
sulla via che da Raab mena a Vienna. Su quel calesse vi era Riccardo
Waitzen: egli veniva da Ofen; era uscito di tutela due giorni prima,
e andava a domiciliarsi nella capitale dell’impero, con ventidue anni,
due cavalli amburghesi, uno spartito di Mozart nella sua valigia e un
ordine di pagamento di cento mila fiorini sopra una banca principale
di Vienna. Riccardo Waitzen si sentiva equilibrato come un principe
nella sua carrozza; egli non era mai stato così felice, e poichè la
felicità eccessiva sente assai spesso della natura del dolore, il
giovine era portato a sentimenti malinconici, e guardava il sorgere
del sole dietro le foreste del lago di Neusiedl con aspetto cupo e
turbato, come se quel giorno fosse stato l’estremo della sua felicità
e delle sue speranze. Questa sensibilità che si eccita e si ridesta
alla vista della natura ci dice che Riccardo non era cattivo e che
il suo animo era suscettibile di sentimenti delicati e profondi: sì,
egli era tale, e lo sarebbe per certo rimasto se egli non fosse uscito
da Ofen, se gli avvenimenti futuri della sua vita non ne avessero
sconvolto l’indole e il cuore. Poveretto! il giovine non aveva più
nè padre nè madre, anzi, egli non li aveva mai conosciuti; non aveva
ricevuto quella dolce e perseverante educazione della famiglia che
s’immedesima in noi e perdura a traverso tutte le peripezie della vita:
uscito da un collegio a diciotto anni, egli conosceva le coniugazioni
latine, e i primi elementi della storia, sapeva suonare un valzer di
Bach, e cantare una cabaletta di Schubert o di Thalberg; ma il suo
cuore era rimasto costantemente la parte più negletta di lui: egli
non aveva amato, egli non si era mai sentito tratto ad amare; la sua
natura lo chiamava soltanto al piacere, all’incostanza, alla vita
clamorosa e felice. Riccardo non aveva che una passione, una sola,
ma energica, prepotente, assoluta, la passione ruinosa del giuoco,
e fu da essa che ebbero origine quegli avvenimenti che noi stiamo
per raccontare. Non ci arresteremo su quei due primi anni che egli
trascorse così ignorato nella capitale; noi non lo considereremo che
nella sua vita di artista e di amante, e aggiungeremo solamente che
un anno dopo quel primo mattino di agosto, egli aveva ventitre anni,
un solo cavallo amburghese, lo spartito di Mozart ancora nella sua
valigia, e cinque mila fiorini di capitale depositati alla banca. E
finalmente un’altr’anno dopo, egli non aveva più che ventiquattro anni,
lo spartito inalienabile di Mozart, e cinquantamila fiorini di debito.
Il giuoco lo aveva rovinato.


Ma prima che Riccardo Waitzen, per una di quelle predilezioni della
fortuna così rare negli annali del genio, si fosse acquistato per tutta
la Germania fama di artista straordinario in due soli anni di studii
e di occupazioni indefesse, era già conosciuto nei grandi centri di
Vienna come un giovine la cui eleganza e la cui liberalità avevano
superato ogni esempio. Bisogna aggiungere che Riccardo era bello, di
quella bellezza intatta, sorridente, fiorita, da cui traspare, come
la luce in un vaso d’alabastro, l’interna contentezza dell’anima: il
dolore non aveva tracciata la più piccola ruga su quel volto, e, a dire
il vero, è d’uopo confessare che egli ignorava completamente cosa fosse
il dolore.


Non so se qualcuno de’ miei lettori, qualcuno di coloro che sono
portati dalla loro natura a riflettere e a trarre il meglio che si
può dalla dubbia morale dei costumi presenti, si sia mai tolto seco
uno di questi esseri che in tutte le società, in tutte le nazioni,
rappresentano la classe più improduttrice, più inoperosa e più
riprovevole del popolo — i _lions_, i _dandies_, i _zerbini_ — e
rinchiusoselo nella sua camera, da solo a solo, e citatolo al tribunale
incorruttibile della sua coscienza. Io mi sento umiliato nella mia
natura di uomo all’idea di emettere un giudizio su queste creature. Io
li vorrei poco meno che esclusi dalla nostra grande famiglia, nè dubito
che verrà un tempo in cui l’umanità riverente ai due grandi principii
d’ogni ordine sociale che sono la punizione dell’ozio e la santità e la
ricompensa del lavoro, condannerà all’ostracismo e al disprezzo questa
classe inoperosa e fatale. Giova però osservare che il _fashionable_
inglese ha certe eccentricità proprie della sua nazione che ne fanno
un tipo interessante e curioso: il tedesco è quasi sempre assai colto
spesso artista o poeta: il francese splendido, originale, simpatico,
impaziente di profondere tutta la sua fortuna per avere il diritto
di uccidersi a venticinque anni, o di rientrare con decoro nella
vita domestica: ma l’italiano non ambisce che lo sfoggio dell’abito,
non ha nè arte, nè studio nè distinzione alcuna, nè pregio alcuno
intellettuale: egli è costantemente il più frivolo, il più ignorante, e
il più scipito di tutti.

Riccardo non era però tanto caduto in fondo d’ogni bassezza che non
riconoscesse l’avvilimento che gli proveniva da quella sua vita
insipida e vana. «Io ho più di cento mila lire di debito, diceva
egli una sera a sè stesso, una somma che non potrò più restituire; la
fortuna ha cessato di sorridermi, e di tutto ciò che mi aveva accordato
una volta non mi è rimasto nè un confidente, nè un amico, nè tampoco
uno di quei buoni cavalli amburghesi che aveva portato meco da Ofen:
in verità gli è ben tempo che io riprenda tra le mani quell’eccellente
spartito di Mozart che riassume tutte le mie memorie di collegio: non
per nulla la Provvidenza lo avrà collocato tra gli arnesi della mia
guardaroba, e conservatomelo per due anni nel fondo della mia vecchia
valigia». Riccardo meditava su queste e tante altre cose più tristi tra
il frastuono d’una festa da ballo, sdrajato sopra un sofà collocato
nello sfondo di una finestra, di cui aveva racchiuse le cortine per
nascondersi alla vista de’ suoi amici. Era la prima volta che il
pensiero del suo avvenire veniva a collocarsi come un incubo assiduo,
pesante, affannoso, tra lui e l’abbandono prestabilito della sua vita:
Riccardo, soffriva e sentiva per la prima volta di soffrire.

Ma mentre egli si abbandona con una voluttà ancora ignorata a questo
nuovo sentimento di dolore, ode profferire il suo nome, sente che si
cerca di lui; e il giovine si scuote, si passa le mani sul viso, si
racconcia la zazzera colle dita, si alza, e si slancia sorridente nella
sala.

Una vaga fanciulla di sedici anni, la cui voce era melodiosa come
quel bisbiglio degli usignuoli, delle farfalle, e dei fiori che sì
ascolta nelle prime notti di aprile, era stata pregata di cantare una
vecchia leggenda tedesca ordita sopra i motivi d’una patetica sinfonia
di Hummel, e Riccardo doveva accompagnarla al piano-forte. Anna Roof,
che tale era il suo nome, era uscita di collegio pochi giorni prima,
e si dicevano grandi cose della sua abilità nel canto e nel suono, ma
sopratutto nel canto: ella era divenuta a un tratto la regina della
festa, e aveva ricevuto un tributo di ammirazione e di elogi che poche
donne avevano fino allora ottenuto. La sua bellezza aveva certo giovato
a questo trionfo, ma nessuno avrebbe saputo dire perchè Anna era bella:
le sue fattezze sfuggivano allo sguardo, come qualche cosa di mobile
e di vaporoso; i suoi occhi avevano tutta la trasparenza del cielo,
e quella profondità e quel mistero del suo azzurro; il sentimento e
la malinconia nel baciare il volto di una donna, non vi avevano mai
lasciato tanta parte di sè come su quello di Anna: il sentimento e la
malinconia riuniti formano la natura dell’angelo, e Anna era un angelo.

Certo se v’ha al mondo un tipo vivente di donna che si informi a
quell’ideale di cui ogni uomo ha portato delirando l’immagine nel
cuore fino a vent’anni, quella è la donna tedesca. In verità io
posso anche odiare i tedeschi, ma non posso odiare le loro spose e
le loro fanciulle. È ad esse, alla loro dolcezza, al loro abbandono,
alla loro fedeltà, a quella verginità di mente e di cuore, a quella
cara ingenuità di fanciulla che esse sanno conservare per tutta la
vita, che la Germania va debitrice della letteratura più morale e più
appassionata del mondo.

È la loro moralità che regge e costituisce la famiglia, è la moralità
della famiglia che regge e costituisce la nazione. Io lo ripeto; io
credo che ogni buon italiano odia cordialmente un tedesco, ma vede di
buon occhio le sue donne.


Dobbiamo e possiamo noi credere alla predestinazione? certo molti
avvenimenti si compiono quaggiù per un concorso di circostanze che non
possiamo giudicare imprevedute e immediate. Vi sono molte anime che si
sentono, che si conoscono, che si cercano, che non ignorano l’esistenza
di un’altra colla quale sono destinate a raggiungere la loro
completazione. Tutte le unità nell’universo sono divise e separate,
e tendono per le proprietà della loro natura a riunirsi: forse vi è
nel fondo tenebroso di questo pensiero un debole filo di luce che ci
potrebbe guidare a rintracciare i segreti della vita universale, del
moto, della generazione e dell’amore.

Quando Anna Roof e Riccardo si videro in quella sera la prima volta,
sentirono che essi erano nati l’uno per l’altro, e che nessuna
avversità di fortuna li avrebbe potuti disgiungere. Nessuno di loro
aveva ancora amato, ma il giovane non aveva più di puro che il cuore;
Anna aveva ancora l’ignoranza della purità e l’ignoranza della colpa:
aveva la purezza naturale dell’angelo.

Quella sera fu decisiva per tutta la vita dì Waitzen; egli suonò con
entusiasmo e s’inebbriò della voce divina della fanciulla.

Anna cantava con sentimento; la sua voce era debole e languida,
uscivale dal petto come affannosa; era più un lamento che un canto,
ma quel lamento aveva affascinato ogni cuore e spremuto delle lacrime
dagli occhi di tutta quella folla spensierata e felice. Riccardo ballò
colla fanciulla un valzer vertiginoso, le cui rimembranze, il cui suono
non uscirono mai più dalla sua memoria, come quelle che avevano segnato
per lui il primo periodo di una nuova esistenza. Quella ghirlanda
di rose bianche avvizzite, quell’abito azzurro tempestato di stelle
d’argento, quei capelli cadenti e scomposti, quella taglia slanciata e
flessibile, tutto quell’olezzo di cielo che emanava dalla sua persona,
riempirono per lunghi anni la mente immaginosa del giovine con sì
grande pienezza di affetti, di sensazioni e di fede, che tanta non
gliene avrebbe procurato una lunga esistenza di felicità, di godimento
e di amore.

Quando Riccardo, rientrato nella sua camera, rivolse lo sguardo a
quegli oggetti che gli richiamavano alla memoria il suo passato,
lo assalse un pentimento doloroso della sua esistenza trascorsa, di
quei giorni senza amore, senza amicizia, senza coscienza di bene e di
male, nei quali nulla si è raccolto, non una rimembranza, un affetto,
una fede di cui riconfortarsi in quell’età nella quale non si può
più vivere che di memorie. Il giovine si commosse e si armò di saldi
e nobili propositi per l’avvenire: che accadesse di lui in quella
notte, il cielo ed egli solo lo seppero; egli pregò e pianse come un
fanciullo, si coricò colle lacrime e si ridestò tutto mutato.


Otto giorni dopo egli abitava un piccolo appartamento in una casa
di fronte a quella di Anna, modo che non si frapponeva tra di loro
che la distanza della via. Fu così che Riccardo poteva lanciare sul
balcone della fanciulla delle piccole pallottole di carta, sulle quali
effondeva tutti gli affetti della sua anima innamorata e sofferente.


Nella sua potente vitalità l’amore subisce due fasi: quella delle
idee e quella dei fatti, ed è la prima di esse che ha nobilitato negli
uomini questo sentimento, creando una distinzione tra i loro amori e
quegli degli altri esseri organizzati, poichè nell’uomo l’amore non è
tanto il congiungimento delle vite, quanto è quello delle anime e delle
idee. Esistono due forze nella natura umana, sulle quali si basa tutto
il sistema della vita: e sono la forza di attrazione e la forza di
ripulsione — l’amore e l’odio: — l’amore è quella lotta che combattono
due anime per riunirsi; e la sensualità non ha più altro scopo che
quello di distruggere i corpi per affrettare la fusione delle anime:
ma questa fusione è impossibile nel mondo materiale senza la cessazione
delle vite, è del paro impossibile nel mondo dello spirito come quella
che distruggerebbe l’individualità: da ciò il desiderio di morte negli
abbandoni di amore, e quel vuoto eterno e quell’insoddisfacimento
tormentoso che si prova anche nell’amore corrisposto.

Ma la storia di un amore nella prima delle sue fasi, il suo nascere, il
suo crescere, il suo svilupparsi, è tal cosa che sfugge alla potenza
della parola. E che è ella la parola? Tutti coloro che hanno sentito
potentemente si sono arrovellati contro questo povero linguaggio
umano, il quale non sa accomodarsi che colla vita dei fatti, e si
trova immiserito e impotente allorchè vuole esprimere la vita delle
idee. Essa può manifestare un fatto con un suono, con una voce, con un
periodo; ma un’idea richiede dei volumi ancorchè non avesse abbracciato
che un atomo impercettibile di tempo, perchè l’idea è l’infinito.

È perciò che noi pubblicheremo qui semplicemente il contenuto
delle varie pallottole di carta che Anna Roof e Riccardo Waitzen si
scambiarono dai loro balconi.

Il lettore che ha amato indovini le battaglie di quelle anime.


I.ª _pallottola di Riccardo ad Anna_: Io vi amo.

II.ª _pallottola di Riccardo ad Anna_: Io vi amo.

III.ª _pallottola di Riccardo ad Anna_: Il vostro silenzio è
inesplicabile; perchè ricevere le mie pallottole, se non mi amate? E se
mi amate perchè non rispondere?

IV.ª _pallottola di Riccardo ad Anna_: Voi mi dileggiate crudelmente,
voi raccogliete volontieri le mie pallottole, voi mostrate di leggerle
con commozione, e non mi rispondete; mostrate di amarmi e non me
lo dite. Il vostro contegno è un enimma che tortura e confonde la
mia povera ragione, allorchè io tento di decifrarlo. Qualunque sia
il vostro cuore per me, o rispondetemi od abbandonerò domani questo
alloggio.

I.ª _pallottola di Anna a Riccardo:_ (_Se ne ignora il contenuto
essendo caduta sulla via_).

II.ª _pallottola di Anna a Riccardo_: (_Caduta come sopra_).

V.ª _pallottola di Riccardo ad Anna_: Per carità, lanciate le vostre
pallottole con maggior forza; componetele di una carta più consistente.

III.ª _pallottola di Anna a Riccardo_: Che vi dirò io, o Riccardo?
Abbiate compassione di me, perchè io più non mi riconosco in questi
giorni. Ve lo dirò, sì, che vi amo, ma non mi opprimete colla vostra
insistenza, non mi lusingate, non mi straziate coll’immagine d’una
felicità che non può, che non deve durare.... sappiate che il filo
della mia vita è spezzato.... giurate di amarmi, e vi rivelerò un
segreto terribile.

VI.ª _pallottola di Riccardo ad Anna_: Sulla mia vita, sul nostro
amore, lo giuro. Dite, angelo, dite.

IV.ª _pallottola di Anna a Riccardo_: Il nostro amore sul quale avete
ora giurato, non vi legherà a me per uno spazio maggiore di un anno.
Sappiate che la mia esistenza è consumata da una malattia tremenda la
quale non conosce rimedio, dall’etisia. Io devo morire indubbiamente
non più tardi del mio anno diciasettesimo che compirò nella prossima
primavera, nella stagione dei fiori, quando tutto mi richiamerebbe alla
felicità ed alla vita. Dite ora, o Riccardo, potete voi amarmi a questo
prezzo? potete voi rendermi vostra?

VII.ª _pallottola di Riccardo ad Anna_: Sono dodici giorni che non vi
vedo: voi soffrite? voi siete malata? o, perdonate questo sospetto,
ricusate piuttosto di vedermi? La vostra confessione mi ha atterito,
e io sento più che mai il bisogno di amarvi, e di rendervi mia. Ma
esistono pure dal mio canto ostacoli forse insuperabili: io vi amo,
Anna, ma ho centomila franchi di debito.

V.ª _pallottola di Anna a Riccardo_: Il vostro cuore non vi aveva
ingannato; io era malata. La speranza di tanta felicità mi ha commossa
ed oppressa fino a morirne. Ho voluto meditare su tutte le possibili
eventualità del nostro amore prima di rispondervi. Sono lieta che
accettando il sacrificio che vi assumete di compiere col rendermi
vostra, io possa dimostrarvene in qualche modo la mia riconoscenza.
Ma potrò io ricompensarvi del vostro amore? Possiedo esattamente
abbastanza di che pagare i vostri debiti, e dispongo liberamente dalla
mia fortuna. Ma questo mutamento di stato richiederà la mia lontananza
da questa città; e quindi anche la vostra. Acconsentite? Io vi offro la
mia vita di un anno, ma una vita la cui potenza sarà centuplicata dalla
sensibilità, dall’amore, dal pensiero della sua cessazione imminente.
Un’altra donna non potrebbe offrirvi un anno di ebbrezze più divoranti;
la vostra esistenza trascorrerà attraverso una serie di sensazioni
nuove e infuocate, io non vivrò che un anno nel tempo, ma vivrò
un’eternità nell’amore. Tuttavia questa passione smisurata ha diritto
ad una ricompensa: un altro patto tra noi: — _voi dovete essermi
fedele anche dopo la mia morte, voi dovete amarmi per tutta la vostra
vita_. —

VIII.ª _pallottola di Riccardo ad Anna_: Acconsento ad amarvi per tutta
la mia vita: ma giacchè noi dovremo abbandonare questa città, non si
potrebbe fare a meno di pagare i miei creditori?


Noi non diremo quante altre pallottole furono scambiate tra i due
amanti, fino all’ultima di esse che era così concepita: «Venite
Riccardo, tutto è combinato e compiuto».

E una settimana dopo una carrozza da posta viaggiava sulla via da
Vienna ad Amburgo. Anna Roof e Riccardo Waitzen andavano a passarvi la
loro settimana d’orpello.


Da questo punto ebbe principio la vita artistica di Riccardo, poichè
egli non aveva appreso da giovinetto che i primi rudimenti dell’arte,
e sebbene la natura lo avesse creato per essa, egli ne aveva delusi
e attraversati sempre i disegni. La fanciulla non lo aveva ingannato
assicurandolo della sua terribile predestinazione ad una morte sicura
e precoce: egli stesso s’avvedeva di quella rapida rovina che la morte
andava compiendo sopra di lei; quella gemma si era sbucciata ad un
tratto, troppo presto fioriva, ma di quella bellezza, fugace, di quello
schiudersi violento del fiore raccolto e collocato nel vaso d’acqua, i
cui petali si distaccano ancora non avvizziti dal gambo: ma nondimeno
essa era bella; era mesta, ma di quella mestizia che forse negli esseri
soprannaturali costituisce la gioja; l’amore la rivestiva di tutta la
sua luce, il suo amore era tutta la sua vita, e la sua vita bastava a
tutto il suo amore.


Coloro che hanno veramente amato sanno comprendere l’eternità di un
anno di amore, le mille voluttà ch’egli può offrire in un giorno, in
un’ora, in un fugace momento, quegli abbandoni riuniti di ebbrezza e di
cuore, in cui si dice: basta, te ne scongiuro, lasciami amico, perchè
io temo di morire.... io temo che la mia natura s’infranga.

Riccardo non aveva ancora amato: come la maggior parte degli uomini
egli aveva trasvolato su tutto, sfiorato tutto; ma non era giunto mai
al fondo di un cuore, non aveva conosciuto quel profondo possedimento
morale che costituisce unicamente l’amore, che unicamente lo autorizza,
che eleva il possedimento fisico fino alla sua celeste sublimità, e
la cui privazione fa sì che molti di coloro i quali credono di avere
smisuratamente amato, muoiono senza aver conosciuto questo divino
sentimento.


Fu quindi una serie di sensazioni nuove e profonde quella che venne
a ridestare la sensibilità assopita del giovine. Riccardo si vide
come risvegliato da uno di quei sogni i quali ci sembrano così belli,
così lusinghieri nel sonno, e che al mattino ci appaiono insipidi e
vani. Allo svelarsi di questa verità egli avrebbe potuto rinvenire un
conforto nelle seduzioni della sua vita avvenire, ma questa dolcezza
eragli amareggiata da un convincimento terribile, dalla perdita
inevitabile di Anna.

Riccardo non poteva illudersi: egli lo vedeva, egli lo sentiva; quello
stesso amore, quegli stessi abbandoni della fanciulla scuotevano
troppo profondamente la sua sensibilità.... oh ella era sì fragile, sì
delicata.... l’avresti detta uno di quegli steli di giunchiglie che si
spezzano sotto il peso di una goccia di rugiada, una di quelle piccole
farfalle azzurrine che s’intorpidiscono e muoiono sotto il soffio più
sottile del tuo alito... e il giovine temeva sovente di abbracciarla,
egli poteva stringerla troppo forte, farle male, intorpidire, arrestare
quella corrente vorticosa della sua vita; scuotere, avvizzire quelle
forme divine e sensibili come le foglie pudiche della mimosa.

Questo ritegno forzato e volonteroso ad un tempo, quel non so che di
arcano che circonda una creatura sì sofferente, sì delicata, e sì
frale; quella nobile imponenza del dolore, quella triste e solenne
maestà che proveniale dalla morte, che era già in lei, che rivelavasi
appunto in quell’azione centuplicata della vita, ne formavano per
Riccardo l’oggetto di un culto superstizioso e indefesso. Ma ciò che
affascinava soprattutto la mente esaltata del giovine, era la dolcezza,
l’espressione ineffabile del suo canto. Anna cantava con forza, con
sentimento; cantava spesso dalla mattina alla sera, la musica era il
suo linguaggio, essa ne conosceva tutte le leggi, tutte le intonazioni,
tutti gli effetti, tutte le modulazioni più arcane.... Ma ciò che v’era
di incomprensibile, direi quasi di pauroso nel suo canto, era che esso
non ridestava idee, od affetti, o memorie di questa terra; colui che
l’udiva si sentita rivivere con sensazioni nuove, incomprensibili,
inusitate, in un mondo del pari inusitato....

Era forse l’approssimarsi per lei di questo mondo che le permetteva di
udirne, e di rivelarne le armonie come l’eco di un eco?


Perocchè io credo che esistano armonie, linguaggi, rivelazioni tra
mondi e mondi. Quella vaga malinconia che s’impossessa talora di noi,
che sente come del rimpianto, che sembra accennare a gioie, a dolori,
ad affetti trascorsi, e ci occupa tutto, e non si sa cosa sia, è la
rimembranza di un mondo passato: quelle aspirazioni che riempiono ed
agitano tutta la nostra vita, quel succedersi di tante speranze sempre
deluse, e sempre rinnovate, quell’avidità insistente dell’infinito, non
sono che l’attrazione di un mondo avvenire. Noi viviamo nell’eternità,
collocati tra queste due potenze ugualmente dilette, e ugualmente
formidabili: sono queste attrazioni del passato e del futuro che
dilatano i confini della nostra esistenza, anzi che la costituiscono,
poichè noi non vivremmo senza di esse che la vita materiale
dell’istante.

L’infinito è nell’uomo. Chi non lo sente? Noi viviamo in esso a sbalzi,
a tratti, a periodi, a vite parziali; ma passiamo dall’una in un’altra
come gli anelli di una catena riunita alle sue estremità, come i punti
lineari di un circolo; noi giriamo sulla superficie senza mai uscirne.
Ecco l’infanzia: voi non vi siete ancora tutto emancipato dalla vecchia
vita: avete modi, pensieri, aspirazioni inadatte a quello stato di cose
nel quale siete rinato; vi sentite smarriti, confusi, impicciati; egli
è che voi agite tuttora per le abitudini di un mondo antecedente: ma
la vostra intelligenza, dopo aver lottato trent’anni per redimersi,
vi pone finalmente in equilibrio tra queste due attrazioni, ed ecco
a quell’età la pienezza della vita, sulla quale oscillate un istante
prima di uscire dalla corrente, prima di subire l’attrazione di un
mondo avvenire che vi precipita verso la vecchiaia e verso la morte; ma
la morte non esiste; essa è la vita e la luce.

Avete mai osservato un infermo? egli è buono, egli è docile, la sua
natura si è tutta mutata, per poco che il suo spirito sia stato
coltivato, egli sarà anche poeta: egli è che più si rallentano
i nodi che ci avvinghiano a questo mondo, e più noi ci sentiamo
posseduti dall’altro: i vecchi, i sofferenti, gl’infermi ne subiscono
già la natura; essi si trovano collocati tra le due vite, lì, sul
margine, sentono ancora dell’una e dall’altra, e non appartengono più
interamente ad alcuna. L’umanità riverisce nel dolore e nella vecchiaia
le scolte di questo mondo invocato.

E certo quel fascino del canto di Anna quella emanazione divina e
incomprensibile di tutta la sua persona, non erano che l’eco di una
rivelazione di quel mondo. E che cosa è il canto? Tutti i popoli
cantano, ma gli sventurati sopra tutti. Egli è forse la rimembranza di
un linguaggio che sparve o le prime voci di un linguaggio che sorge;
forse la lingua delle passioni, di cui noi balbutiamo le prime sillabe
disordinate e sconnesse. Anna cantava il suo amore e la sua morte, e
le sue note erano l’elegia del suo destino. — Anche gli uccelli cantano
morendo.

Mi ricordo che quando era fanciullo mi prendeva vaghezza di andare
le notti di primavera ad ascoltare il canto degli usignuoli. Una sera
era per ciò uscito alla campagna, e m’era seduto presso una siepe poco
distante da un olmo su cui uno di essi cantava con tale abbandono, e
con note sì malinconiche e toccanti che io, senza saperne il perchè,
mi struggevo tutto in lacrime udendolo. Si piange assai facilmente a
quell’età, e tutta la vita avvenire ha di rado un sorriso che valga
una sola di quelle lacrime. La luna era limpida e piena e inondava
quelle campagne silenziose della sua luce; tutta la valle risuonava
di quel canto. Ma nel colmo della notte la sua voce divenne fioca
e lamentevole; a poco a poco le sue note si mutarono in un gemito
prolungato, sommesso, poi interrotto... poi non udii più nulla: pensai
che fosse volato via. Stava allora per allontanarmi quando intesi un
improvviso rumorio tra quelle frondi, e sentii qualche cosa caderne,
urtando di ramo in ramo:.... mi avvicinai esitando, e vidi che era
un uccello, un usignuolo, certo quello medesimo; lo raccolsi, era
ancor vivo, ma sì delicato, sì leggiero, non aveva più che le penne;
il suo piccolo cuore batteva sì concitato che non poteva numerarne le
pulsazioni.... il poveretto mi spirò tra le mani pochi minuti dopo. Non
ho mai dimenticato quell’uccello.

Strana potenza dell’amore! Riccardo divenne artista per Anna: fu a
lei che egli dovette la sua gloria, la sua fecondità, il suo nome. Per
quale mistero essa aveva potuto apprendergli in un anno i segreti più
imperscrutabili dell’arte? essa che pure li ignorava, e a cui forse non
erano suggeriti o svelati che da un istinto? Ecco la sorgente di quel
terrore superstizioso e fatale che invase tutta la vita del giovine, e
che si accrebbe dopo la cessata esistenza di Anna. Essa avevalo educato
col canto. Sotto l’incantesimo delle sue note, la mano inesperta di
Riccardo, quasi passiva, quasi non volente aveva creato delle melodie
straordinarie: a poco a poco il suo orecchio, il suo cuore si erano
aperti a quell’armonia, a quel ritmo celeste della musica; il giovine
vi si era abbandonato con trasporto, tutto era inusitato per lui, tutto
delizioso e incantevole; egli aveva provato delle sensazioni nuove,
energiche, insperate, la cui potenza lo aveva quasi atterrito; come
cosa che egli aveva creduto impossibile nell’arida realtà della sua
vita trascorsa. Pareva che la fanciulla non volesse dividersi da lui
senza apprendergli tutto, senza trasfondersi tutta in lui stesso. «Mio
povero amico, le diceva ella sovente, tu rimarrai solo assai presto, ma
io sento che non ti abbandonerò anche estinta: il mio spirito veglierà
costantemente presso di te, e ti accompagnerà come una guida invisibile
sulla tua via abbandonata e deserta: come una fiaccola solitaria
illuminerà della modesta sua luce la tua povera vita di artista. Ma se
pure io dovessi talvolta separarmi da te, se tu più non mi sentissi al
tuo fianco, e avessi bisogno della tua Anna.... oh allora chiamami;
suona quella sinfonia memorabile di Hummel, le cui note ci ricordano
il primo giorno avventurato del nostro amore, e a quel richiamo, io
abbandonerò tutto, io volerò ancora presso di te, dovessi per ciò
divellermi dall’infinito, e rinunciare alle gioie più sacre e più
inebrianti del cielo».

E tredici mesi dopo le nozze di Riccardo e di Anna, la Germania era
commossa dall’apparizione di una raccolta, di grandiosi componimenti
musicali, che un artista già grande e ancora ignorato dedicava sotto
il titolo di _Foglie di cipresso_, alla santa memoria di Anna Roof sua
moglie.

Passeremo di volo su tutte le fasi della sua vita di artista: non
accenneremo ad alcuna delle sue composizioni più elette, benchè
quell’ingiusta dimenticanza a cui furono condannate da una fatalità
dolorosa, altrettanto che inesplicabile, ci ecciti a riporle, per
quanto è in noi, alla luce della pubblicità e della gloria. Ma ciò
appartiene al compito dell’arte e sfugge alle esigenze del romanzo. E
chi d’altronde potrebbe rintracciare nel vasto oceano dell’armonia,
tra i ruderi de’ suoi monumenti abbattuti le reliquie di quelle
concezioni obbliate e disperse? Prodigio ineffabile dell’amore! Egli
è sopravvissuto alla scienza, egli che ne è la sintesi, egli che è
la scienza immortale della vita. Il nome di Riccardo accoppiato alle
glorie palesi dell’arte fu travolto nell’oscurità e nell’obblìo,
congiunto alle gioie segrete dell’affetto è passato splendido e illeso
a traverso le tenebre secolari del tempo. L’amore giudice e maestro
dell’umanità ne registra la storia ne’ suoi volumi infiniti. L’umanità
è nata e si perpetua coll’amore, nè potrà ricomporsi che nella sua
tomba medesima.

Dopo la perdita di Anna, Riccardo abbandonò Amburgo, e pensò che la
vista di nuovi cieli e di nuovi costumi lo avrebbe distolto dal suo
dolore operoso e costante. Venne a Linz, attraversando quegli ultimi
gioghi delle Alpi che si perdono nelle pianure del Danubio, e poichè
tutti quei luoghi gli parlavano ancora di lei e della sua infanzia,
decise d’attraversare la Germania e di entrare nella Francia per quel
fiume e pel Reno.

Fu sui teatri di Ratisbona e di Straubing che egli raccolse i suoi
primi allori musicali, e di là festeggiato e onorato in tutti i diversi
stadii del suo cammino, ad Amberga, ad Asch, a Coburgo, a Francoforte,
a Magonza, entrò in Parigi pochi mesi dopo la sua partenza, preceduto
da tutti gli allettamenti della pubblicità e della fama.

Riccardo passò cinque anni nella capitale della Francia, allora come
attualmente, l’unico paese della vecchia Europa ove le arti e le
scienze fossero rimunerate di fama e di danaro: l’unico centro ove si
riflettesse tuttora un debole raggio di quella civiltà che è tramontata
nell’antico continente per risorgere sulle rive del nuovo mondo. Egli
vi si vide ad un tratto onorato, dovizioso, felice; ma una profonda
amarezza veniva a turbare di tempo in tempo l’immensità delle sue gioie
insperate: la rimembranza, la terribile rimembranza, diremmo quasi la
presenza spirituale di Anna. Riccardo era buono, sensibile, affettuoso,
ma la sua natura era variabile, sdegnosa di riposi e d’indugii;
egli non sapeva essere lungamente misero o lungamente felice, non
sapeva, come tanti esseri sensibili e delicati, sacrificarsi ad una
astrazione, ad un’idea fissa, ad un voto, darsi ad un affetto per
tutta la vita: e che era egli quell’affetto?.... quali diritti aveva il
passato sopra di lui? perchè tributare ad un amore che aveva cessato
di esistere il sacrificio di quelli che potevano ancora rallegrare la
sua vita spensierata e ridente? Egli aveva pianta la fanciulla per due
anni, l’aveva amata fortemente e nobilmente, e questo lungo tributo
di lagrime e di memorie doveva bastare alle terribili esigenze di
quell’amore sepolto. Riccardo lo credeva, lo voleva, egli sentiva che
la vita ha i suoi diritti, la virtù i suoi doveri, e l’umanità le sue
leggi; tutto inesorabile, tutto prepotente e severo.

Noi lo diremo, Riccardo non amava più Anna: non solo egli avrebbe
voluto dimenticare di averla amata, ma per una di quelle facili
ingratitudini di cui tanto si compiace lo spirito umano, egli avrebbe
desiderato di obliare anche il suo debito, il debito della sua
celebrità, del suo nome, della sua ricchezza medesima.

Nulla è più grave e penoso, nulla è più insoffribile alla maggior
parte degli uomini che il peso della riconoscenza. Assai di rado, se
il benefattore non assume i modi e l’apparenza del beneficato (ciò che
pretendiamo assai spesso) noi possiamo perdonargli il suo beneficio.
È un debito tremendo che ci toglie ogni quiete, che ci rende avidi e
impazienti di soddisfarlo anche ad usura. Quelle minute soddisfazioni,
quelle piccole vittorie che si riportano ogni giorno, ogni ora, in
questa lotta indefessa tra anima ed anima, tra creatura e creatura,
in queste battaglie assidue e spietate dell’egoismo, sono le uniche
sensazioni che ci confortino, nella nostra umana piccolezza, dei mali
grandi e reali della vita; — tutto ciò è dolce, ma nulla è più dolce e
più consolante che lo sciogliersi dal vincolo della gratitudine.

Noi non l’abbiamo detto; ma abbiamo sentito più volte la nostra
coscienza sussurrarci all’orecchio: oh com’è dolce l’essere ingrati!

Dopo la morte di Anna Riccardo aveva passato sei mesi interi senza
suonare: il suo dolore era ancora troppo vivo, troppo recente;
pareagli che ogni nota richiamandogli qualche circostanza della sua
vita felice, un atto, un detto, un sorriso della fanciulla, avrebbegli
ricordata con una realtà troppo eloquente, la memoria terribile di
quella perdita. Ogni rimembranza di lei era connessa ad una rimembranza
della sua arte: ripassando su tutti gli studii musicali di quella sua
carriera prodigiosa, egli poteva ricostruire tutto intero l’edificio
del suo amore e delle sue memorie: Anna era morta, ma avevagli
lasciata un’eredità di rimembranze così potenti che avrebbero bastato
a riempiere tutta una vita. L’arte e l’amore si erano fusi per lei, e
così unite le erano sopravvissuti nel giovine: forse in tal modo ella
aveva tentato di eternare in lui la sua memoria, affidando al suo cuore
di artista i doveri e gli affetti del suo cuore di amante.

Ma una sera Riccardo aveva avuto vaghezza di risuonare quella sinfonia
di Hummel che la fanciulla avevagli indicata per richiamarla. Egli
aveva errato tutto quel giorno per le campagne, l’autunno volgeva al
suo termine, e l’inverno si riaffacciava colle sue brezze; cadevano
dagli alberi le ultime foglie ingiallite, e i piccoli scriccioli
nascosti nelle siepi alternavano quei loro gridi acuti e lamentevoli
come di qualche cosa che pianga: l’anima di Riccardo era agitata da
strane sensazioni.... egli pensava a lei.... egli avrebbe data la sua
vita per rivivere un giorno nel suo amore, per ritogliere alla mente
inesorabile quella sua Anna adorata.

Rientrò nella sua camera che le prime tenebre della notte ne velavano
stranamente gli oggetti senza nasconderli e senza lasciarne apparire
le forme; il vento faceva gemere gli alberi del suo giardino, e gli
steli dei fiori collocati nei vasi della sua finestra, percuotevano
spesso, così agitati, nei vetri come persona che accenni di entrare.
Riccardo si sedette risoluto al pianoforte e suonò la sinfonia
fatale di Hummel. Prodigio meraviglioso! Le sue mani scorrevano come
trascinate, come mosse da una forza estranea, sulla tastiera; le note
ne uscivano così limpide, così pure, così simili alla voce umana, e
più propriamente alla voce di Anna, che il giovine si sentì rivivere un
istante in tutta la più dolce realtà del suo passato; egli si sentiva
invaso da un’altr’anima, sentiva la sua esistenza raddoppiata, vi era
qualche cosa che gravitava sopra di lui senza pesare, che lo investiva
tutto senza toccarlo, che parlavagli senza essere udito; egli udiva
suonare e pareagli ad un tempo che tutto fosse silenzio intorno a lui,
senonchè la fiammella della candela che gli ardeva d’innanzi, crepitava
stranamente, curvandosi da un lato e dall’altro come sotto l’azione di
un soffio invisibile.


Riccardo non dimenticò mai quella notte. Egli visse più volte di questa
doppia e misteriosa esistenza, le cui sensazioni anzichè estinguersi
coll’abitudine, diventavano sempre più delicate e più vive. È in
quegli istanti che egli aveva creato quelle melodie così dolci e
così patetiche, che gli procurarono, ancora vivente, una celebrità
invidiatagli da tutti i più grandi compositori della Germania. Fu per
ciò che le sue opere, benchè sorte in un paese che vanta una musica
ideale come la sua letteratura, e che può dirsi la patria della musica
elegiaca, furono segnalate per la loro malinconia e per i sentimenti
singolari e nuovissimi che suscitavano anche nei cuori più induriti
e più aridi. Ma il carattere di Riccardo formava uno strano contrasto
coll’indole delle sue creazioni: egli lo sentiva, egli comprendeva del
paro che nulla proveniagli da sè stesso, che la sua musica non era sua,
era di Anna. Fu forse questa convinzione che uccise il suo amore e la
sua riverenza per essa? Noi esitiamo a credere che un’invidia così
ingiusta e colpevole abbia potuto allontanare dal cuore del giovane
la dolce immagine della fanciulla, e quasi rimproverarle la tenacità
del suo affetto, e l’assiduità della sua dimora presso di lui; egli è
però ben certo, che due anni dopo la sua perdita, l’anima di Riccardo
incominciò a ribellarsi a quella memoria, e ciò che aveva formato un
tempo uno dei suoi allettamenti più dolci, quella presenza spirituale
di lei che manifestavasi appunto nella fecondità e nella potenza
improvvisa del suo genio, divenne pel giovine un oggetto di terrore e
di sdegno.

Riccardo si sentiva trascinato al realismo della vita, e forse la sua
anima era troppo debole per reggere all’imponenza di quell’affetto,
troppo poco elevata per inorgoglirsene e tributargli il sacrificio di
tutta la sua esistenza. E pure egli lo aveva promesso: «_tu mi amerai
anche dopo la mia morte, tu mi amerai per tutta la tua vita_»; ecco il
patto terribile che lo aveva vincolato a quella fanciulla, e che ella
sembrava richiamargli ad ogni ora, ad ogni istante, rinfacciandogli
colla tremenda solennità della sua presenza, il disegno che egli aveva
concepito d’infrangerlo. Parve a Riccardo che vi fosse qualche cosa di
crudele in quel pretendere il compimento d’un sacrificio sì inutile e
sì doloroso; egli pensò che l’insistenza della fanciulla lo sciogliesse
dall’obbligo della sua gratitudine e del suo amore, e credette che
avrebbe potuto dimenticarla senza essere infedele ed ingrato.

Egli è così facile il credere ciò che è nei nostri voti, che Riccardo
si avvalorò di quella persuasione per obbliare senza rimorso ciò
che doveva essere l’oggetto di tutti i suoi affetti di amante, e di
tutte le sue aspirazioni di artista: a poco a poco il suo spirito si
sentì preparato a quella rivolta, e un giorno esitò, poi decise, e si
abbandonò risoluto alle sue nuove passioni, pregustando l’ebbrezza di
esaudirle senza lacrime e senza pentimento.

Passò così quattro anni, durante i quali egli non aveva mai più
udito quella fatale sinfonia di Hummel, nè nota alcuna che potesse
richiamargli il suo passato: l’immagine della fanciulla era così
svanita a poco a poco dal suo cuore, e se vi tornava qualche volta egli
sapeva attutirne e dimenticarne i rimproveri nella gioia di affetti più
recenti e più lieti.

Riccardo era felice.

Quattro anni dopo questo ultimo avvenimento, Waitzen diresse al suo
amico Giorgio Duplessy, direttore della società degli artisti la
lettera seguente:

«Mio caro amico. Come tu sai, io sposerò domattina madamigella Emilia
Duport, quella bella e saggia Guascona che abbiamo conosciuto insieme
a Pontoise, ricca de’ suoi diciott’anni e d’un mezzo milione di dote.
Papà Duport darà per ciò domani a sera una splendida festa da ballo nel
suo palazzo al boulevard Montmartre N. 52. Egli, mia moglie e il tuo
amico ti pregano di intervenirvi».


Come aveva passato Riccardo quei quattro anni? Egli era ricaduto nel
suo abbandono abituale, in quell’avvidità di piaceri frivoli e vani pei
quali aveva già un tempo dissipata quella fortuna che aveva portato
seco da Ofen. Non aveva più amato ma si era dato ai piccoli amori di
un giorno a quegli amori senza trasporti, senza dolori, senza quelle
gioie opprimenti che danno le grandi passioni, simili a quei fiori che
noi raccogliamo quasi senza avvedercene camminando, e che sfogliamo
e gettiamo sulla via dopo averne aspirato una sola volta il profumo.
Nei due primi anni della sua vedovanza egli aveva già stabilita la
sua fama d’artista ed ottenuto un successo che nulla avrebbegli più
potuto contendere. In quella sua stessa inazione egli si era serbato
un posto eminente tra le più grandi individualità della scienza, e
vi sarebbe rimasto anche perseverandovi, ma l’amore dell’arte e della
vita domestica avevano ripreso il loro impero sopra di lui, e Riccardo
contava oramai di abbandonarvisi per tutta la sua esistenza.

Non aveva egli più pensato ad Anna durante tutto quel tempo? La memoria
della fanciulla era dunque svanita per sempre dal suo cuore? No, egli
aveva riprovati ancora dei momenti paurosi, aveva risentite delle
memorie strazianti; in quegli stessi abbandoni de’ suoi mille amori,
nell’ebbrezza delle sue gioie, nel colmo della sua felicità, l’immagine
di lei gli s’era riaffacciata cupa, minacciosa, inesorabile: il giovine
aveva risentita la presenza di lei con tutte quelle circostanze che
gliel’avevano palesata la prima volta; aveva avuti dei sogni tremendi
dai quali si era destato inorridito, compreso d’uno sgomento che
rinasceva ogni notte più tormentoso e più atroce. E più volte, sotto
l’oppressione di quell’incubo, Riccardo aveva pregato la fanciulla
di perdonargli: l’aveva pregata come un ragazzo, piangendo; le si
era prostrato, le si era umiliato come un codardo, tremando d’innanzi
all’orrenda apparizione di quell’immagine spaventevole. Perchè essa le
appariva nel sogno sotto altre forme, e non per questo perdeva della
sua somiglianza. Riccardo la vedeva dappertutto nelle prime ombre della
notte, in tutti gli oggetti che si presentavano al suo sguardo, in quei
riflessi profondi e fantastici degli specchi che ricevono l’ultima
luce del giorno, nelle persone da lui amate, in sè stesso; sì, e ciò
era più terribile, in sè stesso. Egli se ne sentiva invaso come da
uno spirito che assorbisse tutte le sue facoltà, che lo paralizzasse,
che lo possedesse tutto senza lasciargli che l’impotente intuizione
del suo stato. Vi furono dei momenti, in cui Riccardo aveva pensato
di sottrarsi col suicidio all’orrenda persecuzione di quell’immagine;
vi fu un giorno in cui, il giovine inorridiva pensandovi, aveva osato
perfino di maledirla. E che poteva ora pretendere da lui quella donna?
quali erano i tremendi disegni di quello spirito severo e implacabile?
Avvelenargli tutte le sorgenti della vita, mescersi a tutte le sue
gioie, travolgere tutti i suoi affetti, turbare tutti i suoi sonni....
perchè.... sì, era d’uopo che egli il confessasse a sè stesso, egli si
era deciso per ciò solo a scegliersi una nuova compagna; per avere una
creatura al suo fianco, cui dire nella notte: svegliati, te ne prego,
ho paura, ella è lì, vedila; ella mi vuole, ella mi domanda.

                             . . . . . . .

Riccardo volgeva nella sua mente questi pensieri in quella stessa ora
felice che seguiva al suo nodo fortunato; tra lo stesso fragore del
ballo, in quella sala di papà Duport che per una strana somiglianza di
decorazioni e di arredi gli richiamava alla memoria quella sala di una
casa sconosciuta ove aveva veduto Anna la prima volta.

Ma egli fu riscosso assai presto da quella preoccupazione affannosa:
tutto gli parlava di felicità e di amore in quel luogo, e la danza e
quel frastuono di mille voci, e quel profumo inebbriante di donna, —
emanazione della loro anima, mista a quegli atomi più preziosi della
loro persona che esse abbandonano col moto, come i fiori agitati dal
vento abbandonano la parte più pura del loro polline fecondatore.
Ma nell’uomo questo profumo, il bacio di questi atomi volatizzati,
non desta che la voluttà, e non suscita che desiderii di amore: nel
fiore, essere più perfetto, soddisfa egli solo a tutte le leggi della
fecondazione.

Riccardo si abbandonò con trasporto alla danza e si scagliò in quel
turbine di valseggiatori, ove si confuse abbracciato alla fanciulla.
Sotto quella sua taglia piena ad un tempo e flessibile, la mano
del giovine indovinava le dolci ondulazioni delle sue forme: vi
era in esse, nella loro mobilità, nel loro fremito qualche cosa di
più eloquente del desiderio; il cuore di Emilia batteva concitato e
sommesso, spesso interrotto come il timido linguaggio delle passioni: i
ricci de’ suoi capelli disciolti lambivano la fronte del giovine come
un bacio protratto; le lunghe pieghe del suo abito ne avvolgevano,
agitandosi, la persona quasi a confonderli in un essere solo e
indivisibile.

In quell’abbisso di voluttà Riccardo dimenticò il suo passato e sè
stesso.

Ma nell’ora che la festa volgeva quasi al suo termine, in un momento
in cui i danzatori si riposavano sui soffici divani della sala, e
le fanciulle si asciugavano coi loro fazzolettini di batista, quelle
gemme importune di sudore che piovevano dai loro volti arrossati; in
quel periodo di solenni meditazioni in cui ripassano d’innanzi a noi
tutte le gioie, tutti i timori, tutte le ansietà della festa; e la
stretta di mano e il bacio involato, e il fremito di tutta la persona,
e, la parola sussurrata all’orecchio, e, Dio lo perdoni, quel contatto
ardente e magnetico del ginocchio che uccide tante innocenze nei balli,
e basta a svelare egli solo tutti gli arcani più imperscrutabili della
vita, il signor Duplessy entrò nella sala tenendo per mano una bella
fanciulla, e disse al signor Duport.

«Perchè non fate suonare vostro genero?.... ecco qui una giovine
artista che ha una voce portentosa da soprano, e che accompagnata da
lui, ci farà sentire tutte le meraviglie del suo canto».

Pregato dal signor Duport, Riccardo si sedette senza esitazione al
pianoforte; tutte le copie dei danzatori gli si disposero in circolo;
egli era lieto di dare a sua moglie e a quella vaga riunione di giovani
e di signore un saggio straordinario della sua abilità musicale.

Ma nel rivolgersi alla fanciulli per invitarla a sedersi presso di lui,
egli trasalì nello scorgerne le sembianze. Era lo stesso profilo di
Anna, la stessa persona esile e delicata, lo stesso aspetto pensieroso
e soffrente; ma v’era ancora di più, essa vestiva un abito azzurro
sparso di stelle d’argento, e pendevale tra le treccie scomposte una
corona di rose bianche avvizzite. Tutto si riaffacciò allora alla sua
mente: erano scorsi sei anni che in una sala come quella, in una festa
da ballo, forse in quell’ora medesima, egli aveva conosciuto quella
fanciulla a cui lo aveva legato un giuramento formidabile, a cui aveva
fatto sacramento di fedeltà e di amore per tutta la vita; in quel
giorno stesso egli aveva infranto il suo patto, in quel giorno stesso
egli doveva forse subirne una punizione tremenda.

Riccardo impallidì a questa rimembranza e disse alla fanciulla con voce
interrotta:

«Che cosa desiderate di cantare? Incominciate».

«Non so, diss’ella, ciò che mi verrà pel primo sotto le mani» e tolto
un volume di musica, e apertolo a caso, lo collocò sul leggio. Riccardo
vi gettò gli occhi e trattenne a forza un grido di spavento.... era
quella sinfonia abborrita di Hummel!.....

Allora il giovine avrebbe voluto ritirarsi, ma non era più in tempo;
la fanciulla aveva già incominciato.... era la stessa voce di Anna....
un brivido di morte scorse per tutte le fibbre di Riccardo; egli pure
volle incominciare, ma, orribile cosa! le sue mani erano irrigidite;
le sue dita toccavano la tastiera e non potevano premerla; cinque o
sei note soltanto risposero a’ suoi sforzi impotenti, e convulsi: la
sua fronte si coperse di un sudore gelato e un pallore cadaverico si
diffuse per tutto il suo volto....

Papà Duport gli si avvicinò e gli disse:

«Che avete? cessate per carità, voi soffrite, voi siete pallido come un
cadavere».

«È nulla, disse Riccardo sorridendo d’un sorriso spaventevole, ora
vedrete».

E volle ricominciare, ma le sue braccia avevano smarrita ogni
coscienza della loro forza e ogni facoltà di governarla; egli percosse
sì violentemente sulla tastiera, che molte corde si infransero e
si arricciarono scivolando sulle altre con uno stridio prolungato
e terribile. In quel momento parve a Riccardo che la fanciulla si
curvasse presso di lui e gli mormorasse all’orecchio: «_tu mi amerai
anche dopo la mia morte, tu mi amerai per tutta la tua vita_».

Egli gettò un grido e svenne. Trasportato nella sua stanza nuziale,
gli furono prodigate tutte le cure che la scienza e l’affetto potevano
suggerire alla desolata famiglia di Duport.... ma fu indarno che si
tentò di richiamarlo alla vita.

Riccardo Waitzen era morto di sincope.




BOUVARD


    Arn... with all deformity’s dull, deadly
      Discouraging weight upon me, like a mountain,
      In feeling, on my heart as on my shoulders
      A hateful and un sightly mole-hill to
      The eyes of happier men.....
               BYRON — _The deformed trasformed_

Bouvard! Chi era Bouvard?

Forse taluno de’ miei lettori tenterà ancora, non indarno, di far
rivivere nel suo cuore le memorie vaghe e lontane che vanno annesse a
quel nome; forse ricorderà tuttavia una storia misteriosa che ha per
lungo tratto agitato le giovani fantasie di quei tempi, e ricevuto da
tutte le anime sensibili un omaggio di pietà e di affetto.

Io stesso mi arrovello di richiamarmi alla mente le circostanze di
questo racconto pietoso, come le memorie lontane dell’infanzia, come le
visioni fantastiche di un sogno: — bello e fuggevole com’esso, severo e
malinconico come tutto ciò che ha creato il sentimento e l’amore.

Vi furono alcune vite che la natura aveva destinate alla pubblicità,
alcune intelligenze che il cielo voleva collocate nella luce per
dirigervi le masse come ad un faro luminoso, e tuttavia quelle vite
si spensero ignorate nel mistero, quelle intelligenze si consumarono
sdegnose nelle tenebre. — Esistono due forze nella natura? — la forza
positiva che crea e predestina, e la forza negativa che reagisce e
distrugge? Domandatelo all’uomo, domandatelo al segreto della sua vita
intima, domandatelo al genio sventurato!

Bouvard fu un genio sventurato. Il suo nome tramontò così rapido come
l’astro precoce della sera; la sua vita fu il passaggio di una meteora
abbagliante che si spegne a metà della sua curva, e s’invola agli occhi
meravigliati che la mirarono.

Io non tesserò qui un racconto immaginato: scriverò la storia di un
uomo che ha sofferto, la storia di una vita la cui azione si concentrò
tutta nel dolore, la cui catastrofe ha colmato di orrore e di pietà
tutti gli animi generosi che la conobbero. — Scrivo per me stesso,
scrivo per dare alle memorie della mia gioventù la durata della
mia esistenza, per riserbarmi negli anni dell’aridità il conforto
ineffabile delle lagrime.

Chi non ha visitato il paese della Savoja, il suo suolo a sbalzi le sue
valli ripiene di nebbie e le sue montagne di pini e di granito, non
conosce quel punto della Terra dove la natura ha riposto il segreto
della sua malinconia. Sulle montagne di Crest-Voland gli uccelli
hanno una voce più dolce, il rigogolo canta nelle siepi con delle note
tristissime, e vi ha in tutto il territorio dello Ciablese una specie
di reattino, il cui grido appena sensibile si assomiglia al lamento
di un moribondo. Lungo i ciglioni delle montagne, le rive tapezzate
di viole bianche che la superstizione ha collocato tra i fiori di
cimitero, spiccano, come nastri candidi ondeggianti, su quel verde cupo
delle eriche, ove delle folate di farfalle grigie aleggiano intorno a
quei cespugli a migliaia.

Bouvard nacque in quel luogo, nacque in una capanna: — suo padre
suonava la gironda e faceva ballare una marmotta nera della valle di
Champagneux. Fu un triste acquisto quello che la famiglia di Bouvard
aveva fatto colla nascita di questo fanciullo: in fatto egli era
rachitico e infermiccio; la deformità lo aveva segnato colle sue
tracce ributtanti, e non gli aveva lasciato nulla di regolare, nulla di
attraente nel viso, nulla di vago nell’occhio e nella voce: — parea che
la natura lo avesse per metà ripudiato non consentendogli che la pura
fruizione della vita.

A sette anni Bouvard cominciò ad avvedersi della derisione che gli
fruttava la sua deformità, e si sentì trafitto nel cuore, immaginando
e indovinando forse il destino di tutta la sua esistenza. Le prime
avversità dell’infanzia lo fecero inclinare alla meditazione e
all’isolamento; e forse dovette a questa sventura precoce lo sviluppo
straordinario della sua sensibilità, fors’anche il suo genio medesimo;
— chè, se il dolore crea o modifica i grandi ingegni (e la sventura nei
sommi è causa e non accidente od effetto) la sua azione debb’essere più
efficace nei primi anni della vita, quando la società non ci ha ancora
armato il cuore di punte per schermircene e lo spirito vergine e puro
ritiene le impronte incancellabili della natura.

Egli era costretto a separarsi da’ suoi compagni, e si assideva la sera
lungo le rive dell’Isere a veder scorrere le acque e tramontare il sole
dietro la foresta di Gresy.

«Com’è bello il sole! — aveva detto una volta a sè stesso Bouvard, —
come sono belle queste farfalle e questi uccelli che fanno qui il loro
nido! — Ecco un magnifico fiore di giglio; quale precisione in tutte
le sue parti, quale esattezza nella disposizione delle sue foglie,
quale flessibilità meravigliosa nel suo stelo!» — E nel chinarsi
a raccoglierlo, aveva intraveduto la sua immagine nella superficie
trasparente del fiume, — la sua immagine brutta, laida, ributtante....
Bouvard sedette sopra la riva e pianse lungamente con abbandono. Egli
avrebbe almeno desiderato un cuore, cui confidare il segreto delle sue
prime sofferenze; e forse la tenerezza melanconica di sua madre aveva
compreso quanto tesoro di affetti si rinchiudesse nell’animo delicato
di quel fanciullo, forse nella madre avrebbe trovato un’amica, ma
quell’amica doveva essergli presto rapita; — a dieci anni Bouvard era
rimasto solo nel mondo.

Un giorno suo padre gli aveva detto: — mio caro figliuolo, tu hai dieci
anni compiuti, e quantunque tu sia alquanto malaticcio e la tua figura
non sia per verità delle migliori, le tue forze sono ora abbastanza
sviluppate, e puoi bastare, d’ora in avanti, a te stesso: — io conto di
andare nella Francia, ed è tempo che noi ci separiamo; prenditi la mia
marmotta e la mia gironda, è assai più di quello che io potrei darti,
ma il cielo compenserà almeno colla tua fortuna il sacrificio generoso
di tuo padre.

Bouvard prese la via di Bonneville e dormì la prima notte in un canneto
lungo la riva del torrente. Era una bella notte di agosto, egli non
aveva veduto mai tante stelle, nè inteso così bene quel rumorìo che
fanno le locuste nelle stoppie, e quei mille suoni soavi e ineffabili
che producono le foglie in una notte serena di estate. Parve a Bouvard
di sentire in sè stesso qualche cosa di inusitato: — egli non aveva
sonno, egli non aveva paura, non stanchezza, non disagio, si sentiva
calmo e tranquillo — un sentimento infinito di benessere gl’infondeva
per tutte le fibre una dolcezza non mai provata fino allora: — era
pensieroso ad un tempo e sereno.

— Sentiamo, diss’egli, è ben questo un grillo che canta; — perchè canta
egli questo grillo?.... e che cosa fanno lassù tutti quei luminari
che il buon Dio accende tutte le sere?... e queste piante?... e questo
usignuolo che sento gorgheggiare da lontano? — In verità, io non avevo
mai osservato che ci fossero tante belle cose nel cielo, e che i grili
cantassero di notte così dolcemente. Oh! egli deve essere pur buono il
Signore se ha creato tante cose meravigliose.

Bouvard cadde in una profonda meditazione; — egli pensò a sua madre
e alla sua capanna, e a quel mondo sconosciuto nel quale stava per
entrare così fanciullo: — a poco a poco i suoi sensi si assopirono, —
egli porse attenzione a tutta quell’armonia malinconica che blandiva
il suo orecchio come la nenia d’un bambino, — a quel fremito degli
steli, — a quel susurro degli insetti, — a quel lamento delle acque, —
alla voce del vento e delle foglie: la sua anima acquistava una strana
sensibilità, il suo udito una potenza di sensazione ineffabile: —
egli distinse le note più delicate, i tuoni più melodiosi, le cadenze
più dolci; e gli parve d’aver indovinato il segreto della grande
musica della natura. Egli prese la sua gironda e suonò una vecchia
aria lamentevole che aveva ascoltata un tempo da suo padre: — non
vi era nulla di più semplice di quella musica, nulla di più monotomo
di quel suono; ma pure egli vi trovò tanta dolcezza che i suoi occhi
si riempirono di lacrime, e quando ebbe finito, si avvide che stava
inginocchiato pregando.

Fu una grande rivelazione quella che la natura aveva fatto in quel
momento a Bouvard: egli aveva compreso di essere artista; per una
potenza straordinaria di intuizione, egli aveva presvelato il mistero
di tutta una vita. — Una fiducia illimitata di sè stesso, un’avidità
irresistibile dell’avvenire agitarono da quell’istante il suo cuore:
— egli si sentiva superbo di sè, superbo della sua arte divina, egli
comprendeva bene che non aveva ancor nulla conseguito, ma che avrebbe
tutto conseguito col tempo.

Bouvard si addormentò che era assai tardi, e sognò degli angeli e dei
fiori, la sua capanna e le sue montagne, le rondini bianche dell’Isere,
e le sue rive fiorite di ranuncoli... egli sognava ancora, quando si
sentì battere sulle spalle, e nello svegliarsi vide due uomini seduti
presso di lui, e di cui uno era intento a guardarlo.

— Piccino mio, gli disse costui che pareva il più anziano, tu stai, a
quanto mi pare, guadagnando male il tuo pane con questa brutta marmotta
e con questo cattivo strumento, e sei pur molto giovane per andartene
così solo nel mondo: io ti darò bene un compagno, — eccoti qui il mio
amico Jeanin dal quale devo separarmi oggi stesso; egli è una persona
di distinzione e non ha che un piccolo difetto, una menda di nessuna
importanza per l’arte sua: è cieco da tutti e due gli occhi, ma ci vede
bene colla mente, e ci sente meglio colle orecchie, che non è già uno
stordito il mio amico Jeanin, e ti farà toccare delle buone monete col
suo violino. Veramente il tuo viso non mi fa troppo l’elogio di tua
madre, ma tu hai l’aria di un buon fanciullo, e il cielo ti sarà grato
se farai una buona compagnia al mio amico. Suvvia, sciogli subito il
laccio a questa tua marmotta scodata, chè non va bene il tentare la tua
fortuna con questa patente di povertà, — porgi la mano al tuo compagno,
e vattene alla buon’ora, chè io devo trovarmi per mezzo giorno sulla
via di Villaz, lungo il canale.

Bouvard considerò questo avvenimento come un favore straordinario
della fortuna, e gli parve pure che vi fosse qualche cosa di dolce
nella missione di carità e di amore che il cielo pareva affidargli
coll’alleanza inaspettata di quel cieco.

Egli non si era ingannato.

Sette anni dopo, si leggeva sui giornali di Ginevra:

«Bouvard il celebre suonatore di violino, darà questa sera un’accademia
musicale nel nostro teatro. L’ingegno straordinario di questo
giovane artista, e la fama universale che le precede, ci esimono
dall’aggiungere per lui alcuna parola di elogio e di raccomandazione.»

                                   *
                                  * *

Rivediamo ora Bouvard nella seconda fase della sua vita, — Bouvard,
non più il piccolo savoiardo, — ma l’uomo di mondo il giovane elegante,
l’artista straordinario.

Quali saranno ora le sue passioni, il suo cuore?

Il lago di Lemano giace calmo e tranquillo; il cielo è sereno e
stellato, e la luna si riflette nelle sue onde. È una di quelle notti
di silenzio, e di amore, in cui tutto ciò che vi ha nel creato si
agita e vive di questo sentimento. Che dice il susurro del vento che
increspa leggermente le acque? che dicono le acque al vento? — Perchè
le migliaja di foglie di quell’albero tremolano mormorando tra di loro?
La goccia di rugiada che discende dal cielo a collocarsi nel calice
vagheggiato del fiore, per quale attrazione ha saputo percorrere la
sua via verso di lui, nel vasto universo che l’ha creata? Porgiamo
attenzione a questo linguaggio degli enti sconosciuto agli umani. Noi
v’intendiamo il bisbiglio dell’insetto che compie le sue nozze fra i
petali profumati della rosa; — il ronzio della farfalla notturna che
aleggia intorno alla sua compagna nel suo nido di foglie e di seta;
— la voce dello zeffiro che prepara la fecondazione misteriosa de’
fiori; — il fremito delle alghe che si curvano ad accarezzare le onde
fuggevoli del torrente; — il linguaggio segreto delle stelle, — il
mormorio degli steli e delle gemme, — i baci delle fronde, — i numeri
infiniti che svelano nella natura il sentimento universale e prepotente
della vita, l’amore.

Ma quanti sono tra gli uomini che intendano questo linguaggio? E non
è l’uomo tra tutte le creature la sola che abbia spesso prostituito
l’amore e sagrificato sull’altare dell’egoismo questo celeste
sentimento? Non chiedete all’uomo dell’amore, non gliene domandate che
un’ombra, — un’ardita apparenza che finge, che asserisce, che giura....
Vi fu un tempo in cui gli uomini si amavano, prima che la famiglia,
fanciulla vergine e pura, toltasi dalle foreste e dalle capanne per
venirne a nozze colla società, non s’incontrasse per via coll’oro,
garzone petulante e avventuriere che le fece violenza; e da quello
sconcio nacque l’egoismo, mostro scellerato e insaziabile, che divora
gli affetti nati da lui stesso, come Saturno divorava un tempo i suoi
figliuoli.

Pure, a quella guisa che vediamo tra le cento braccia inaridite d’un
albero fulminato, sopravvivere talora un ramo solo e rivestirsi di
fiori così leggiadri, che mai quell’albero ne aveva dato di tali nella
pienezza della sua gioventù e della sua primavera: non altrimenti
l’amore sbandito dal seno dell’umanità, si è rifuggito nel petto di
pochi uomini che lo custodirono nel segreto del loro cuore. — Domandate
a costoro come si ami, — cosa si speri dall’amore, — domandate loro se
si può amare impunemente. — Oh! la gioventù è severa, e la società non
lo è meno nelle sue leggi.... evitate dunque la lotta, insozzate la
vostra anima, e gettatele ai piedi la vostra corona di rose, prima che
essa ve la strappi dal capo per collocarvi il suo serto di spine e di
cipresso.

Sulla superficie tranquilla del lago si culla leggermente una barca
abbandonata, — i due remi che le pendono dai fianchi imprimono nelle
onde due solchi paralleli d’argento che si riempiono, e si rinnovano
senza sparire e senza lasciare alcuna traccia di sè, — emblema della
vita. — Perocchè, chi crede che l’avvenire esista? chi crede che esista
il passato? Il presente soltanto esiste, ed è quel punto impercettibile
che li riunisce: il tempo è una catena che si snoda dall’abisso del
futuro, e si riaccoglie nella voragine del passato. Ma forse la parte
che sparve tornerà a ricomparire? — il serpente che si morde la coda.
— Chi sa se il tempo trascorso non ritorni colle sue circostanze di
luoghi e di avvenimenti? Le leggi che governano le evoluzioni degli
astri e dei mondi, perchè non governeranno altresì le evoluzioni del
tempo? Tutto parte da un solo principio di vita: piccoli mondi in un
gran mondo, piccole esistenze in una grande esistenza... oh, sì, —
il tempo ritorna, o l’eternità non sarebbe che un vaneggiamento dei
mortali. — E puossi concepire l’idea dell’eternità ove vi ha qualche
cosa che muore?

Forse sono tali i pensieri che agitano la mente di Bouvard seduto con
abbandono nella sua barca. — Bouvard così giovane, incomincia a provar
quella malattia di cuore che nasce dalle speranze deluse, e che si
alimenta nella solitudine degli affetti.

Le prime pagine del libro della vita contengono racconti deliziosi,
profezie e presagi di felicità senza fine, ma le pagine di mezzo ne
preparano al disinganno, le ultime alla rassegnazione; e spesso si
butta il libro, e non si vive che delle memorie di ciò che si lesse.
Bouvard ha fatto ciò che tutti gli infelici hanno fatto: — ha divorato
le prime pagine con isdegno, ed ora si riposa sconsolato a mezzo del
libro. Ma egli non le lesse, no, quelle pagine, le ha indovinate:
— egli non ha accelerato il suo disinganno, ma lo ha prevenuto, —
egli non ha trovato nei piaceri dell’esistenza che una prostituzione
indegna della nostra natura, un mondo fittizio che ci sfugge, e pure
ci accarezza, una menzogna che ci degrada e pure ci alimenta... Quale
è infatti l’epoca della vita che si rimpiange? Quali i giorni in cui
osammo chiamarci felici? La gioventù.... E pure l’età che l’ha seguita
ce ne ha fatto conoscere gli errori, ci ha snudato quel mondo apparente
e menzognero de’ suoi colori fatui e abbaglianti, ci ha mostrato la
vanità di quelle passioni, la piccolezza di quelle gioje, la nullità di
quei piaceri, il ridicolo di quelle aspirazioni, la sorgente crudele di
quei sogni, che ci promettevano godimenti infiniti nella vita virile.
Ma se noi abbiamo conosciuto quell’inganno a profitto della verità,
perchè oseremo rammaricarne?

Certo una condanna crudele pesa tuttavia sui nostri capi: — ovunque
l’albero della scienza dilata i suoi rami, e alletta gli uomini a
raccoglierne i frutti proibiti, sembra rinnovarsi la sentenza terribile
che il cielo fulminò sui nostri padri: ogni passo che l’umanità
ha fatto finora sulla via della verità e del progresso, ha segnato
un punto di allontanamento dalla via della sua felicità e del suo
perfezionamento morale. Avviene dell’individuo ciò che avviene delle
nazioni, avviene delle vite parziali ciò che avviene dell’esistenza
delle masse. La gioventù sfugge colle sue gioie a quegli uomini, cui
uno sviluppo precoce dell’intelligenza e l’abitudine fatale della
meditazione hanno svelato troppo presto la grande nullità della vita, e
insegnato che la verità è un fantasma nudo, che la nostra sola avidità
di raggiungerlo lo riveste di colori abbaglianti e di forme celesti, e
che non le rimane che un solo conforto disperato, — quello che ritrae
da sè stessa.

Bouvard non ha che diciannove anni, e già ha trasvolato collo sguardo
su tutto l’oceano tempestoso dell’esistenza: — egli vi scorge la
gloria, la fama, l’agiatezza, la vita elegante e fragorosa, tutte onde
clementi che sembrano assicurargli un posto tranquillo e sicuro; ma non
è là ch’egli desidera di riposarsi, egli vaneggia un altro lido lontano
e insperato.... oserà egli nominarlo? oserà dirlo a sè stesso? Bouvard
desidera un affetto, un affetto ardente come la sua anima, com’esso
infinito, un amore di cui saziarsi o morire.

Egli era nato per amare. — Vi sono delle vite che non furono mai che
una rivelazione continua, incessante di questo sentimento. — Bouvard
aveva amato prima sua madre, e con essa la sua capanna, i fiori e gli
uccelli delle sue montagne, poi la sua marmotta da cui si era diviso
con delle lacrime, poi il suo cieco compagno e i poveri villaggi della
Savoja che aveva percorso con esso.

Egli è a lui sopratutto, che aveva rivolto per molti anni le sue
cure pietose e il suo affetto. Quel vecchio gli aveva tenuto luogo
di un mondo: — vi aveva trovato la severa tenerezza del padre, e
la confidente espansione dell’amico. Il povero Jeanin era stato un
tempo un artista conosciuto, poi amareggiato dal livore dei cattivi,
poi ingratamente obliato, e aveva voluto fare di Bouvard un allievo
destinato a rivendicare il suo genio. Egli è altresì a quell’esempio
che il giovinetto aveva piegato il suo cuore ad una tenerezza infinita,
ad una sensibilità senza conforto, ad una generosità d’animo troppo
grande e troppo spesso vilipesa dagli uomini. Nelle loro peregrinazioni
per quelle campagne essi amavano talora di dormire nelle notti d’estate
a cielo scoperto, e d’inspirarsi alla musica della natura; — e se
entravano qualche volta nei villaggi, non era che per farvi intendere
quell’armonia che ne avevano attinta, come un’emanazione improvvisa del
loro genio, come un tributo dovuto a quegli uomini che li soccorrevano
nei bisogni della loro vita materiale. Compiuta la loro missione, essi
ritornavano ai loro campi, — e spesso Bouvard conduceva il suo compagno
ad assidersi lungo le rive dei torrenti, o in quei seni remoti delle
valli dove il vento agita continuamente le grandi foglie di cerri, e
dove erano molti usignuoli che cantavano nelle notti serene fino al
mattino.

«Vedi tu il sole? — gli domandava il vecchio qualche volta, — è egli
ancora così luminoso, come quando io lo vedeva nella mia fanciullezza?
Dammi la tua mano lascia ch’io tocchi il tuo viso e i tuoi capelli;
che io senta se le tue fattezze sono quali erano pure le mie in quel
tempo».

Fanciullo com’era, Bouvard dormiva la notte profondamente, e spesso
nel suo sonno l’udiva discorrere con sè stesso, o pregare. Una notte
l’intese suonare così dolcemente, che mai il giovane aveva udita
una musica così sublime: egli pensò che uno di quegli angeli di cui
gli aveva parlato una volta sua madre, fosse disceso ad apprendergli
quell’armonia che si doveva sentire soltanto nel cielo: — poi l’udì
gemere e mormorare alcune preghiere, poi non udì più nulla — Si destò
al mattino ch’egli dormiva ancora; — attese che si destasse, indugiando
egli, lo scosse..... era morto! Bouvard pianse alcuni giorni, poi
lo seppellì assieme col suo violino, sotto tre grandi alberi che
crescevano lì presso, lungo un torrente che metteva nel Rodano perchè,
avendogli egli detto che era del paese di Montelimart, pensò che le
acque ne avrebbero col tempo restituito il cadavere alla patria.

Fu un nuovo avvenire quello che si aperse allora al suo sguardo;
quantunque modesta, Bouvard aveva la coscenza del suo genio, egli
sentiva di essere artista, sentiva di poter dare saggio di sè in ben
altri luoghi che non fossero quei poveri villaggi della Savoia. La
speranza di rinvenire suo padre bagattelliere girovago nella Francia,
lo trasse quasi suo malgrado a quel paese. Entrò nel territorio della
Saona, suonò la prima volta a Bourg, poi a Macon, a Moulins, a Never;
riscosse ovunque degli applausi, ovunque destò l’ammirazione la più
insperata, a Melun gli furono gettate delle corone, e poichè egli
si trovava così vicino a Parigi, entrò in quella città, allettato da
quella vita fragorosa e felice nella quale anelava di lanciarsi.

Vi passò quattro anni; — il piccolo savojardo, il povero suonatore
di gironda, era divenuto un giovane elegante, un artista ricercato,
l’elemento morale di quelle grandi riunioni: l’eletta società si
contendeva Bouvard come il genio vivente dell’arte, come una di quelle
grandi individualità della scienza, di cui si ambisce la predilezione e
la stima.

Fu in quei grandi centri che egli aveva studiato gli uomini e più di
loro sè stesso. Egli avea bene veduto dovunque delle mani sporte a
stringere le sue, dovunque aveva ascoltato delle parole di omaggio,
egli s’era accostato alle labbra il veleno melato dell’adulazione; ma
di quell’esistenza fittizia pareva sdegnarsi la sua anima, e quando
volle un cuore, un cuore soltanto, conobbe che vi era un deserto
intorno a lui, che l’amicizia rifuggiva da quella vita apparente
e simulata, e che la sua deformità lo condannava all’isolamento
dell’amore.

Vi furono in tutti i tempi delle donne che sacrificarono la loro
fama alla bellezza disgiunta dal genio — nessuna che la sacrificasse
al genio disgiunto dalla bellezza. La donna, questa quintessenza di
polvere la più perfetta tra le opere della creazione, non nasconde
spesso sotto la maschera irritabile del pudore che le traccie più
delicate della sensualità. Nelle passioni di amore, l’uomo è quasi
sempre guidato nella sua scelta dalla virtù, la donna non lo è mai
che dall’avvenenza. Nessuna di loro ha confortato del suo affetto di
amante la vita di qualche grande sventurato: una tomba recente, — la
tomba dell’infelice Leopardi, — accusa in faccia all’umanità l’egoismo
sensuale della donna.

Bouvard si avvide troppo presto che egli non poteva sperare dell’amore,
e conobbe ad un tempo che questo bisogno si era talmente inviscerato
nella sua natura, che non avrebbe potuto attutirlo che colla morte.
Sdegnato di quella vita apata e clamorosa ove tutto si tributava
all’apparenza, pensò che la solitudine lo avrebbe collocato in maggiore
armonia con sè stesso, pensò che aveva ancora qualche cosa ad amare, le
sue memorie. Egli era quasi ricco; diede un addio alla vita pubblica,
partì inavvertito e venne pellegrinando alle sue montagne. Ma quivi
pure gli erano riserbate delle disillusioni inattese: tutto era mutato
nel campestre teatro della sua infanzia; le nevi disciolte avevano
fatto scoscendere qua e là gran parte di quelle rupi; i montanari
avevano recisa una foresta prediletta di pini dove veniva a riposarsi
nei giorni canicolari dell’agosto, poche pietre rimanevano della sua
capanna ove le lucertole verdi guizzavano ai raggi del sole, — e come
venne alla tomba del suo amico, trovò che il terreno smosso e inumidito
dalle acque, era tutto fiorito di quei ciclamini vermigli che crescono
sulle montagne, e ne raccolse alcuni che portò seco per tutta la vita,
come l’unica reliquia sopravvissuta al naufragio della sua felicità e
della sua giovinezza.

Fu su quella tomba che egli compose le più belle melodie che mai il
genio della musica avesse saputo inspirare, come un tributo alla santa
memoria dovuta di quell’uomo che gli aveva appresi i primi erudimenti
dell’arte, svelati i misteri più sublimi dell’armonia.

Ma come nessun uomo è capace di rimanere lungamente infelice, Bouvard
pensò che il soggiorno d’una grande città lo avrebbe distolto dalle sue
meditazioni sconfortanti, e quasi stordito e calmato nel suo dolore. La
fama della Nuova Eloisa, — il più bel libro d’amore che mai sia stato
scritto, — era ancora diffusa e fiorente tra la gioventù appassionata
di quei tempi; egli aveva divorato quelle pagine con una specie di
febbre e di delirio; la vita del grande socialista si approssimava
allora al suo tramonto, splendido e maestoso come uno di quegli astri
che si circondano di maggior luce prima d’involarsi alla vista degli
uomini. — Bouvard volle baciare quelle zolle che avevano data la vita a
Gian Giacomo, e venne a Ginevra.

Ecco come noi lo rivediamo in quella città, nel silenzio di una
notte stellata, solo, abbandonato sopra una barca in mezzo alle onde
tranquille del Lemano. Che fa? Che medita il giovane in quell’istante?

Vi sono dei periodi di effervescenza nello sviluppo dello spirito
umano, in cui l’anima si sublima, e si eleva ad una grandezza smisurata
non concepibile che a sè sola. Che è la parola perchè si attenti
a manifestare quegli slanci? Non sono che le piccole passioni, le
sensazioni inerenti alla materia quelle che la parola può esprimere:
ma ciascun uomo ha in sè qualche cosa che non rivela, che non può
rivelare; ciascun uomo è più grande di quanto lo appaia, di quanto
forse lo creda egli stesso. E che è ciò che noi chiamiamo genio, se non
la facoltà di concepire e di estrinsecare, con quanta maggior verità è
possibile, questa vita profondamente intima e spirituale dell’uomo?

Bouvard guarda le stelle, il cielo, la superficie immobile del lago,
i salici che si curvano sulle rive, i pesci che guizzano inseguendosi,
gli acari fosforescenti che scintillano nelle onde commosse dai remi;
e da questo spettacolo svariato attinge delle idee che egli sente, che
egli comprende, ma che non, saprebbe pure manifestare a sè stesso. È
il linguaggio arcano che vi ha tra noi e la natura, e che Iddio non ha
concesso all’uomo di esprimere.

Ma gli occhi del giovine si rivolgono con insistenza a quei lumi
lontani che appaiono sulle rive come tante scolte immobili nella
notte, a quelle ville disseminate lungo la spiaggia, a quelle finestre
socchiuse e illuminate che nascondono mille misteri di felicità e di
amore. Sotto ciascuno di quei tetti vi ha una famiglia, vi hanno dei
cuori che si amano, che sperano, che gioiscono, la cui esistenza non
è tutta tessuta di dolore... Oh! sentirsi nati ad amare, possedere un
cuore capace di amare un universo, e cercare indarno in questo deserto
della vita qualche cosa che risponda a questo appello incessante
dell’anima! — sempre indarno! — eternamente indarno! Bellezza, crudele
bellezza! — perchè fu concesso a te sola l’impero assoluto dell’amore?
perchè sei tu l’unica rivelazione, l’unica forma sensibile di questo
sentimento? — Perchè, esclama Bouvard, — perchè rinchiudere la mia
anima in questa creazione abortita dalla natura? Perchè darmi questo
profilo di Etiope, questo naso da Ottentotto, e questa bocca di
Lappone? Poteva la deformità rivestirmi di spoglie più ributtanti? Oh
la terribile condanna che associa al bello morale il brutto sensibile,
e lo destina a rivelarlo!

Dopo quella notte Bouvard si ammalò, risanò a stento, partì
improvvisamente da Ginevra e venne pellegrinando in Italia.


Vi passò tre anni: fu a Venezia, a Roma, a Firenze, e finalmente sostò
a Napoli, dove ricco di fama e di danaro, aveva determinato compiere la
sua carriera di artista nel mistero e nell’isolamento.

La più grande disillusione e la più inattesa lo aveva colpito in quegli
ultimi anni del suo trionfo: — egli si era sdegnato della sua arte. A
che crearsi con essa un mondo ideale e fantastico che la società gli
contendeva di raggiungere? a che accarezzare i suoi inganni, palliare
la sua sventura, eccitare la sua sensibilità, se gli era nota la vanità
di questi rimedii, e se l’orgoglio suo gl’imponeva con insistenza di
rifuggirne? A che profondere quei tesori di armonie, quelle esuberanze
dell’arte, ad una folla spensierata che lo copriva di oro, che lo
acclamava artista divino, ma a cui avrebbe chiesto indarno un solo
di quegli affetti che egli aveva eccitato con tanta potenza nei loro
cuori? Essi avevano ammirato in lui l’artista, non l’uomo, — il genio,
non il delicato sentire che l’accompagna, non l’ineffabile martirio
che lo sconta. — Il giovine si sentì prostrato, si sentì invaso da uno
scoraggiamento che indarno avrebbe tentato di superare: — vivere per sè
stesso e a sè stesso; — obliare, — odiare anche — fors’anche odiare;
giacchè l’odio può ben contendere la sua voluttà a quella dell’amore:
— ecco l’estrema risoluzione di Bouvard, ecco il conforto disperato che
si riprometteva da questo disegno.

Si ritrasse allora in una villa remota presso Posilipo, e visse lungo
tempo ignorato. Forse l’oblìo avrebbe cancellato per sempre il suo nome
dalle pagine della fama, se un avvenimento misterioso non ve lo avesse
segnato con caratteri indelebili, se una catastrofe di terrore non
avesse rischiarato d’una luce fosca e spaventevole il tramonto precoce
della sua vita.

Bouvard aveva venticinque anni e non aveva amato; aveva bensì
desiderato di amare, — aveva vagheggiato un affetto di donna come si
vagheggia l’affetto ideale di un angelo, — lo aveva chiesto al cielo
come un forsennato, avrebbe accettato una intera e lunga esistenza di
spasimo per un breve e fuggevole momento di amore. Oh! a venticinque
anni, l’amore non è più una vaga aspirazione, non è più quel
sentimento variabile, indeciso, estesissimo che si sviluppa nella prima
giovinezza, ma è una nuova sensazione che si comunica a tutto il nostro
essere, che riassume tutte le fila spirituali e fisiche della nostra
esistenza. La vita, quale fu concessa agli uomini, sta nel giusto
equilibrio dello spirito e della materia, e l’amore vero e potente si
libra con essi senza propendere: ogni affetto che sfugge a queste leggi
si oppone alle leggi della natura. — Egli è a venticinque anni che si
ama la donna, a quindici non si è amato che l’amore.

Ma se l’anima di Bouvard era delicata e sensibile, era pure ad un
tempo severa. Se egli non poteva disconoscere la propria deformità, non
disconosceva però l’elevatezza del suo spirito e della sua mente: un
affetto comune era un affetto indegno di lui; egli si sarebbe consumato
nella tremenda solitudine delle passioni, anzichè accettare l’amore di
una donna che non avesse saputo comprendere quanti tesori di poesia e
di affetti si celassero nel suo cuore lacerato.

Allo sguardo di chi ama, la virtù non si rivela che nella bellezza. Il
bello ed il buono sembrano partecipare della stessa natura, accoppiarsi
e manifestarsi a vicenda — si direbbe che il buono è il bello morale,
che il bello è il buono sensibile. Bouvard stesso si era ingannato
come tutti gli uomini fanno: — egli non aveva conosciuto come una
forza inesplicabile li tenga spesso disgiunti, e come questa fatale
contraddizione si riveli distinta e frequente più che mai nella vacua
natura della donna. Per quanto poco si abbia vissuto nella società, o
attinto leggieri erudimenti dall’esperienza, si avrà osservato che le
favolose bellezze di ogni tempo si segnalarono per difetto di merito
morale, spesso ancora per malvagità di cuore o per vizio sfrenato: —
sono le bellezze mediocri quelle che annoverano i migliori caratteri di
donna e i più dolci, e forse perchè il loro numero è più diffuso; ma
la deformità sfugge da questi limiti, e accenna quasi sempre a bontà
estrema o a malvagità estrema. Bouvard, volendo cercare una virtù,
cercava una bellezza, e la rinvenne.

In una sera d’autunno egli sedeva lungo la riva del mare, in uno di
quei piccoli seni deliziosi che formano qua e là le acque incavando
le rupi che le cingono, e contemplava il tramonto del sole dietro
le scogliere addentellate di Lacco, quando una barca venne a passare
all’improvviso rasente la spiaggia. Una donna attempata sedeva a prora
leggendo, e poco lungi da lei, una giovane bellissima stava silenziosa
meditando, cogli occhi rivolti al cielo in atto di abbandono e di
rapimento, mentre una mano che cadevale giù come morta pel fianco della
barca, sfiorava colle dita bianchissime le onde che la cingevano come
d’un mobile smaniglio di perle e di argento. Una vela candidissima
gonfia dal vento, quella luce di paradiso che si riflette dal sole
nelle onde nell’ora del tramonto, e che le onde riversano a torrenti
sulle rive, componevano il fondo di quel quadro maraviglioso, che passò
e sparve dinanzi agli occhi del giovine, come una creazione istantanea
della sua fantasia, come la celeste visione di un sogno. — Quella donna
non aveva veduto Bouvard, ma lo aveva guardato, — lo aveva lungamente
guardato; — i suoi occhi fissi ed immobili parevano versare in lui
quei sentimenti che forse nasceano dal pensiero di un essere lontano
ed amato, — parevano dirigergli quelle aspirazioni che erano tutte
pel cielo e che la fanciulla avrebbe indarno tentato di rivelare alla
terra.

Bouvard sapeva di non poter essere amato, ma troppo grande era ancora
in lui la fede del sacrificio nella donna, perchè non credesse di
poterlo essere per compassione. Una seduzione credeva egli esistere
in lui, quella della sventura, ed egli vi attribuiva l’onnipotenza
della bellezza. No, egli non è vero che l’amore inspirato dalla
compassione possa generare l’avvilimento in chi lo riceve: ella è la
più orgogliosa, la più nobile e la più durevole delle passioni, forse
l’unica che il cielo benedice, e che non si spegne che colla vita,
perchè soltanto colla vita si spegne la sventura che l’ha generata.

Bouvard attribuì a sè quello sguardo. «Ella mi ama, egli disse, ella ha
indovinato che io soffro. E potrebbe egli, quel viso di angelo, mentire
un sentimento che non fosse di pietà e di tenerezza? Potrebbe ella
amare un felice?... la felicità petulante, scherzevole, menzognera!»...
E poi egli aveva veduto altre volte quella donna, l’aveva veduta
ne’ suoi sogni, ogni notte, da diciasette anni: — era il genio
fantastico della sua arte, la creazione severa della sua musica, l’ente
concretizzato, vivo, sensibile, palpitante, che egli si era composto
nell’estasi delle sue melodie e delle sue meditazioni.

E invero ciascuno di noi si crea fino dai primi anni della vita
l’ideale della donna che vorrebbe amare, ciascuno di noi crede che
esista un’anima sorella, le cui sembianze, le cui aspirazioni ci sono
note, e verso la quale ci sentiamo attratti, nostro malgrado, per tutta
la vita. Quell’amore che si strugge da sè senza posarsi, non è che
l’incognita attrazione di un essere che la lontananza, che la società
e la fortuna ci contendono; e spesso si vaga di amore in amore senza
raggiungerlo, sempre ansiosi e sempre insoddisfatti, amanti sempre, e
senza mai amare, portando seco fino alla tomba quel vuoto tremendo che
i mille affetti passeggieri dell’esistenza non hanno avuto potere di
riempiere.

Quando Bouvard si avvide della sua passione, provò come uno
sbigottimento, come una voluttà che sentiva del dolore, come una nuova
intuizione della vita, a cui si accoppiava il presagio lontano di
quelle sventure che il cielo gli aveva destinate con quell’affetto.
Quella donna era sparita: l’avrebbe egli riveduta? E dove? E quando?
E rivedendola, si sarebbe ella risovvenuta di lui? l’avrebbe amato?
Quell’intervallo di tempo non avrebbe modificato il sentimento di pietà
e di amore che il giovine aveva creduto di leggere nei di lei occhi?

Oh! quell’istante in cui l’amore si rivela per la prima volta ad
un’anima, è il momento più solenne della vita. E qual’è quell’uomo
che può averlo dimenticato? Per quanto numerose sieno state le
nostre passioni, per quanto indegne di noi, nessuno potrà mai obliare
quell’istante in cui conobbe per la prima volta di amare. È lo svelarsi
di questo sentimento che segna il principio della vita morale di
ciascun uomo.

Non accenneremo ai cambiamenti avvenuti nelle abitudini e nel carattere
di Bouvard dopo quel giorno. Egli passò tre mesi senza rivederla: aveva
corse e ricorse tutte le vie di Napoli come un demente, era stato a
tutti i teatri, aveva frequentati tutti i centri di riunioni, senza
avere indizio alcuno di lei e senza quasi sperare di rinvenirla, quando
un mattino la rivide in una carrozza elegante che attraversava la via
di Chiaja, verso la Villa. — Bouvard non ebbe il tempo di meditare
al partito più conveniente cui poteva appigliarsi per raggiungerla:
— trascinato da una forza irresistibile l’insegue alla corsa,... si
affatica,... resiste... le sta al paro per lungo tempo: — ma già il
suo ardore si scema, — le sue forze lo abbandonano, ed egli si arresta
sfinito sulla via. Passò un altro mese: — la rivide una seconda volta,
e collo stesso esito, — la rivide una terza e ahimè! pure indarno;
ma i suoi sforzi furono finalmente coronati: — egli giunge un giorno
a seguirla fino alla sua dimora. — Egli conosce finalmente il suo
soggiorno, il suo nido, quel punto invidiato della terra su cui vive
una donna adorata... oh! gioia! — osa chiedere di lei: — si chiama
Giulia — non ha che diciasette anni, è fanciulla, è ricca, è felice,
e il suo cuore è puro come la sua anima, è libero come la luce che lo
circonda.

Da quel giorno Bouvard divenne audace: ardì sperare di essere
amato, ardì meditare di palesarle la sua passione, e di affrettarne
l’opportunità col prestigio della sua arte e della sua fama. Non andò a
lungo che per esse furono superati quegli ostacoli che gli contendevano
di avvicinarla, e giunse finalmente quell’istante sì ardentemente
anelato, in cui avrebbe potuto inebriarsi della sua vista, e leggere
con sicurezza nelle pagine ignorate del suo destino.

Giulia apparteneva ad una famiglia patrizia, presso la quale
convenivano il fiore dell’aristocrazia, e le celebrità più elette nel
campo dell’arte e della scienza. Fu ad una di quelle serate artistiche
che Bouvard venne invitato: egli vi fu accolto con gioia, udito con
trasporto, applaudito con frenetici entusiasmi... ma, oh Dio! era essa
ancora quella Giulia che egli aveva veduto la prima volta dalla riva
del mare nell’ora melanconica del tramonto?... quella fanciulla sì
bella, sì dolce, sì compassionevole, quell’essere gentile e pensieroso
che gli era apparso come una visione di cielo nelle ore tremende del
suo sconforto! Colei, quell’angelo, quella fanciulla adorata, non era
più che una donna comune, lieta, incurevole, folleggiante, sorridente a
tutti quegli esseri fatui e leggiadri che se ne contendevano l’affetto;
— una creatura della società e del piacere, ricca di gioventù e di
bellezza, baldanzosa perchè felice, e felice perchè troppo insensibile,
troppo esente da quella infermità di mente e di cuore, che ci rende
pietosi a tutti i mali della società, ovunque sieno sentiti, e ci
costringe a dividerli.

Forse Bouvard non si era ingannato credendo che la fanciulla lo avesse
riconosciuto, e avesse riso del suo affetto e della sua deformità. Il
contegno di Giulia sentiva troppo della derisione e della noncuranza,
perchè egli potesse almeno lusingarsi di non aver tradito il suo
segreto... quel segreto sì dolce, sì caro, sì lungamente vagheggiato
e la cui rivelazione lo opprimeva ora di rossore e di avvilimento.
E infatti quel giovine che aveva inseguito come un insensato la sua
carrozza, che le aveva prostituita la sua dignità e il suo orgoglio,
che aveva preteso in sì strana guisa e con sì strana insistenza al
suo cuore, era lì muto, umiliato, tacitamente deriso... E che era egli
per Giulia?... lui... quell’artista quasi ignorato, perchè sdegnoso di
ammirazione, quel povero fanciullo della Savoja, quel giovine timido,
sofferente, deforme?

Bouvard comprese troppo tardi come un acciecamento fatale lo avesse
lusingato di un affetto che la sua deformità gli rendeva impossibile
d’inspirare. La sua deformità... essa sola, — sempre essa... quella
inesorabile condanna, quella terribile distinzione, quel marchio
indelebile della natura, che nè l’arte, nè il cuore, nè l’ingegno
avevano avuto potere di distruggere. Un orribile desiderio balenò
allora attraversò alla sua mente, — il desiderio di una deformità
più mostruosa, di una bruttezza sì spaventevole, che, spingendo gli
uomini a rifuggirne, avesse potuto saziare in lui l’avidità ineffabile
dell’odio, quella nascente avidità, che aveva già surrogato nel suo
animo la prima e nobile aspirazione dell’amore.

Tale è la vicenda degli affetti, e quelli soltanto che furono miti
e volgari si spengono soventi nell’apatia: ma niuna via di mezzo è
concessa alle grandi passioni, e l’odio e l’amore che ne segnano i
due punti culminanti, si alternano nella pienezza del loro vigore
senza mescersi e senza arrestarsi. Egli è tuttora mal deciso quale sia
veramente la più nobile e la più giusta di queste due passioni, poichè
l’una ci viene dal cielo e l’altra dalla terra, e l’una predomina nella
società e l’altra nella vita privata, ma egli è ben certo che nella
maggior parte degli uomini, è l’odio soltanto che finisce per riempiere
quel vuoto, che non ha potuto riempiere l’amore.

Noi non diremo che Bouvard odiasse: — la sua vita avvenire non offrì
circostanze sì palesi da poterlo asserire con sicurezza; forse lo
aveva solamente desiderato, e ciò è desolante nella nostra natura, che
i buoni desiderino sempre indarno di diventare malvagi, e i malvagi
buoni. Si muore egli dunque quali si è nati? E che è questa fatale
predestinazione che la nostra volontà non ha potere di distruggere?
Bouvard amava ancora Giulia: — per una strana contraddizione dell’anima
umana, per la potenza irresistibile che il bello esercitava sopra di
lui, egli amava ancora quella fanciulla; — ma non era più la Giulia
ideale, la creatura celeste, pensante, amorevole de’ suoi sogni; — egli
amava una donna, una donna viva, folleggiante, voluttuosa, l’immagine
palpitante della gioia e del godimento. — E perchè avrebbe egli dovuto
odiarla? Per quale diritto aveva egli osato pretendere al sacrificio
della sua beltà e del suo cuore? Se l’idea di tale sacrificio, se il
sentimento dell’amore nobile e disinteressato, dell’affetto isolato
dalla materia, possono essere concepiti sulla terra, essi non sono
punto della terra, e spesso lo svelarsi di questa verità rigetta per
sempre nel fango quelle anime delicate e sensibili che vi avevano una
volta creduto.

La vita di Bouvard si ravvolse da quel giorno in un mistero così
imperscrutabile, che noi non potremmo accennare, neppure per
supposizione, ai mutamenti avvenuti nel suo spirito e nel suo cuore.
Non fu che l’ultimo istante della sua esistenza, che gettò una luce
incerta e tetra sul suo passato, e rannodò in qualche guisa le fila
spezzate e disperse del suo destino. Ove egli abbia vissuto e in
qual modo, — ove esulato, si ignora. Sparve nella pienezza della sua
gioventù e della sua gloria; — il suo soggiorno fu rinvenuto deserto,
i suoi specchi infranti, distrutto ogni oggetto che aveva potuto
riflettere a’ suoi occhi la sua immagine: — ogni traccia che egli
aveva lasciata di sè, accusava l’esaltazione della sua mente, e qualche
proposito irremovibile e disperato.

Noi non lo rivedremo più che nell’ultimo giorno della sua vita.

Quattro anni dopo quest’ultimo avvenimento, — in un mattino profumato
di maggio, nella stagione che invita la natura all’amore, — si ornavano
di gramaglie le porte di un sontuoso palazzo... Giulia, la ricca, la
nobile, la leggiadra patrizia era morta, — morta alla vigilia delle
sue nozze; involata alla terra da una malattia improvvisa e crudele, in
tutta la pienezza de’ suoi inganni e della sua fede, in tutto il vigore
della sua gioventù e della sua bellezza.

Allora da una piccola finestra di una soffitta in una casa di fronte,
si affacciò una figura d’uomo, i cui lineamenti alterati dal dolore si
contrassero in un sorriso amaro e terribile. — Quell’uomo era Bouvard.
— Il pallore sepolcrale del suo volto, l’incolta abbondanza dei capelli
e della barba, lo sguardo immobile e lucido, quell’espressione tetra
e indefinibile di cui la sventura aveva velate le sue fattezze come
d’un velo funerario, rivelavano il segreto di quei patimenti intimi e
soprannaturali che intessono quaggiù molte vite, e che rifuggono sempre
dalla confidenza e dalla pubblicità, fieri e sdegnosi d’ogni umiliante
compassione e d’ogni conforto impossibile. E infatti, checchè egli
avesse sofferto rimase pur sempre un mistero. Amava egli ancora Giulia?
Non aveala obliata in quei quattro anni di separazione? Era egli sempre
vissuto presso di lei? Certo è ch’egli non abitava quella soffitta che
da due mesi, e che la povertà più desolante era venuta spesso in quei
giorni a visitare la sua modesta dimora d’artista.

Bouvard guardò, vide, lesse la funebre iscrizione, osservò il drappo
nero che ornava le porte della fanciulla defunta, lo osservò con
una muta indifferenza, senza affliggersi, senza stupirsi: — si
sarebbe detto che quella sciagura non gli si palesava inattesa, che
egli l’aveva preveduta, invocata, affrettata forse col desiderio.
Certo il cattivo genio di cui favoleggiano gli uomini non avrebbe
sorriso più tristamente, non avrebbe dimostrata una compiacenza più
malvagia e crudele. Il giovine rinchiuse la finestra preoccupato da
un pensiero insistente, da un’idea fissa, confortevole, lungamente
blandita. «Affrettiamo, egli disse, affrettiamo il momento anelato...
apparecchiamo per le mie nozze;» — e un istante dopo, gli ultimi arredi
della sua soffitta, i suoi libri, la sua musica, le ultime reliquie
della sua fortuna erano scomparse. Bouvard aveale mutate in oro e con
esso aveva acquistato dei fiori.

La stagione erane feconda. — La famiglia infinita dei giacinti, fiori
di gioventù e di primavera, le prime rose simbolo dell’amore nascente,
le gemme dell’arancio che intessono le corone delle fidanzate, le
stelle mobili del gelsomino che simboleggiano l’amore pudico, le
lavande che significano amore ardimentoso, le azzalee e le cardenie
fiori di passione e di sentimento, ornarono in sì grande quantità e con
tanta profusione di olezzi quell’umile soffitta del giovine, che la si
sarebbe creduta una di quelle dimore favolose, dove le fate attiravano
alle loro nozze la gioventù incauta e ardimentosa, destinata a perirvi
in un’ebbrezza di voluttà e di profumi.

Bouvard attese con una gioia sfrenata a questa strana trasformazione
della sua soffitta: — egli volle conoscere il linguaggio di ciascun
fiore, volle collocarli egli stesso, alternarli con dei veli azzuri
e rosati; e vi aggiunse, sorridendo tristamente, alcuni steli di
ramerino fiorito che esprimono l’amore corrisposto. — Centinaia di
lumi erano apparecchiati a versare torrenti di luce su quei veli e
su quegli strati enormi di fiori: — e come il giovine ebbe compiuto
i suoi apparecchi col più diligente mistero, si compiacque di quella
vista deliziosa e allettante, e disse con trasporto a sè stesso: «Ecco
apparecchiata la mia camera nuziale e la mia tomba ad un tempo...
la vita e la morte,... il gelo del sepolcro, e il fuoco dell’amore
sì lungamente represso;... certo non fu mai stretto sulla terra un
connubio più degno degli uomini, e la stessa divinità potrà forse
invidiarmi le mie nozze.»

Noi domandiamo esitando: era Bouvard colpevole? Il dolore non aveva
già alterato la sua ragione? quell’anima che fu un tempo sì pura, sì
candida, sì generosa, poteva essersi così miseramente trasformata?
poteva ella concepire nella piena lucidità della sua potenza un così
orrendo progetto? Noi non lo affermiamo. La sua natura dovea certamente
aver subìta una dolorosa modificazione: — la povertà, i disinganni,
lo scetticismo sociale, l’isolamento dovevano, senza alcun dubbio,
aver provocato in lui quella rivolta che ci trae a reagire contro la
divinità e contro noi stessi, ma la sua colpa non fu certamente che la
conseguenza d’uno sconvolgimento istantaneo della sua ragione. Il suo
delitto fu espiato dalla sua vita, e l’espiazione lo precedette; vi
fu in esso dell’amore, direi quasi del genio; — le fasi dell’esistenza
umana hanno poche pagine più sublimi, e le nostre passioni si elevarono
di rado ad una potenza più smisurata: — si può dire che l’ultimo giorno
di Bouvard fu il riassunto di tutta la sua vita.

Le notti nel mezzogiorno dell’Italia hanno in sè qualche cosa di
voluttuoso e di molle; — il cielo è più elevato, l’azzurro più
trasparente, le stelle più numerose e più lucide, — i fiori delle
magnolie caduche e dell’arancio che si schiudono due volte all’anno,
impregnano l’aria dei loro profumi delicati, e vi ha in essi qualche
cosa che gli altri fiori non hanno, vi si sente l’amore, vi si respira
la gioventù e l’abbandono. Ho domandato più volte a me stesso, perchè
il cielo abbia destinate quelle ore al riposo: ma forse la notte è
la scena più calma e più meravigliosa della natura per ciò solo che
è in essa che gli uomini amano. Oh la sublime epopea della notte! Io
vorrei conoscere se i morti conservano ancora sopra il loro giaciglio
di pietra una parte della loro vita morale; se quella polvere, —
poich’ella esiste, — ha la coscienza dell’esistere. Nella grande
oscurità che avvolge tutti i segreti della natura, io credo che nessuno
possa sorridere di questo pensiero: la superstizione ha pure i suoi
diritti, giacchè è dalle sue tenebre che uscirono in ogni tempo i
primi barlumi della verità e della luce. Ma avete voi mai passato una
notte in un cimitero? — Il silenzio vi è più tetro che in qualunque
altro punto della terra, e non per ciò vi sembrerà meno di sentire
qualche cosa che vive, che pensa, che si agita sotto di voi. — Certo
se i morti vivono, la debb’essere una vita di solenni meditazioni...
E come passano essi quelle lunghe notti d’inverno?... quegli anni
infiniti della loro muta esistenza?... Alla pioggia, al sole, alla
neve... Povere anime! — No, egli non è vero che la morte uguagli tutti
i destini; la ricchezza ha preparate le sale sepolcrali, e vi mantiene
ancora un raggio di quella luce, di cui essi erano così avidi nella
vita.

In una di quelle più splendide dimore fu collocata la salma di Giulia,
e la giovine riposa sopra il suo lenzuolo di gramaglia come in mezzo ai
veli del suo letto verginale. La sua bellezza ha nulla smarrito delle
sue seduzioni; un abito bianco, leggiero, quasi vaporoso, ricopre le
modeste sue forme; i suoi cappelli neri e disciolti sono trattenuti
sulla fronte da una corona di tuberose ancora fresche, le sue mani
bianchissime le cadono dai fianchi coll’abbandono soave del sonno,
e solamente i suoi piedi diritti e riuniti fanno fede dell’orrida
rigidità della morte.

Bouvard penetra in quel luogo colla gioja scolpita sul volto,
con quella trepidazione affannosa ma dolce che ci accompagna al
primo convegno colpevole della donna desiderata. Il ribrezzo non
lo trattiene, non frena la sua impazienza, non ammorza l’avidità
irresistibile della sua passione: — ma ogni indugio può essere fatale
al suo disegno, — è d’uopo affrettarne l’esecuzione; — il suo oro gli
ha procurato dei complici... egli invola il cadavere della fanciulla, e
pochi istanti dopo è lasciato solo con lei nella sua dimora solitaria e
segreta.

Allora il giovine la adagia con dolcezza sopra uno strato di fiori,
— poi s’inginocchia e la guarda... quell’abito candidissimo, quelle
lunghe trecce disciolte, quel corpo che si abbandona e quasi si affonda
coll’immobilità della morte in un letto profumato di verzura, — quella
luce abbagliante che vi tinge ogni oggetto del colore dell’oro e del
topazio, formano uno strano spettacolo che esalta e rapisce la mente
immaginosa di Bouvard. — Ma egli non ha ancora osato sollevare il velo
che nasconde il suo volto: — egli trema di quelle sembianze, teme che
la morte ne abbia già alterata la bellezza, paventa quello sguardo
fisso e severo che deve rinfacciargli colla sua terribile immobilità
il suo delitto. Mille pensieri si agitano allora nella sua anima
conturbata, il pensiero della sua vita sofferente, dell’inutile suo
amore, del suo genio infelice, di quell’abbandono di sè stesso che lo
trasse di giorno in giorno, sempre esitante, e sempre sfiduciato fino a
spegnere la sua vita in una colpa: — giacchè egli sente la prossimità
del suo fine, giacchè egli ha deciso irrevocabilmente di morire...
morire presso di lei, — presso di quella donna al cui fianco non ha
potuto trascorrere quell’esistenza avventurata e innocente che era
stata il suo sogno d’un istante.

A questo richiamo gli si affacciano tutte le memorie della prima
giovinezza, di quegli anni confidenti e felici, quando l’avidità
dell’ignoto gli dipingeva di mille colori vaghissimi le scene future
della sua vita: — quelle illusioni, quei sogni, quella fede balda
e sicura, — quel sorridere cortese della fortuna, — quell’amore
universale che avrebbe voluto spargere delle rose sulle teste di tutti
gli uomini, — quel vagheggiare un nido e una famiglia e perpetuare la
nostra esistenza in altri esseri nati da noi, — quell’ideare il bene e
compierlo, e prefiggerselo all’unico scopo della vita... aspirazioni
menzognere e crudeli! Nulla gli è rimasto di ciò: egli ha sofferto,
egli soffre, ecco tutto, ecco la sintesi delle sue speranze, — egli ha
dinanzi un cadavere, e l’ultimo de’ suoi giorni sta per compiersi con
un delitto. — Bouvard si commove e piange. — Vi ha in quel periodo di
calma morale che precede la morte un istante di lucidità straordinaria
nel nostro intelletto, durante la quale si va svolgendo dinanzi ai
nostri occhi tutta la tela tenebrosa del nostro passato. Gioje, dolori,
predilezioni, memorie, affetti, colpe tutto ripassa dinanzi a noi,
tutto vi è evocato dalla inesorabile coscienza: e felici coloro le cui
rimembranze soavi e confortevoli non lasciano nulla a rammaricare della
vita!

Bouvard ha rivolto lo sguardo sul suo passato, e non vi ha scorto che
un deserto senza limiti, una landa senza oasi, senza acqua, senza
verzura, senza sorriso di cielo: — ventinove anni sono trascorsi,
ed egli non ha raccolto un solo di quei fiori di cui la natura fu
sì prodiga a tutti gli uomini; — egli non ha spiccato dall’albero
dell’esistenza che un solo frutto, un frutto amaro e velenoso, il
più crudele fra quanti ne maturino sui suoi rami — il frutto della
derisione.

A questo pensiero la mente del giovine; smarrita nell’abisso delle sue
rimembranze, ritorna d’improvviso a sè stesso, alla sua deformità, a
Giulia: — egli osserva quel corpo inanimato e leggiadro che gli sta
dinanzi, — quella creatura sì lungamente desiderata, — quella fanciulla
che fu un tempo sì bella, sì lieta, sì incurevole, il cui amore lo
avrebbe consumato nell’esuberanza della sua felicità, il cui odio lo ha
tratto invece per una ostinata potenza di volontà a sopravviverle.

E d’onde procede quello sgomento incomprensibile che ci arresta dinanzi
a un cadavere? Che è egli questo rispetto ipocrita e vano che ci trae
silenziosi e dimessi dinanzi a un mucchio di polvere che si dissolve?
Oh! la sfacciata impudenza che curva le ginocchia degli uomini
all’aspetto delle relique di un essere, di cui si è talora manomessa la
felicità, e avvelenata a mille riprese la vita!

Ma non è tale la posizione di Bouvard: egli solo ha sofferto, egli
è la vittima; egli vorrebbe elevarsi a giudice sopra di lei, ma un
interno convincimento gli dice che non gli anni misurano l’esistenza,
ma la felicità, la sola, la irrevocabile felicità ch’egli ha perduto: —
quella fanciulla è morta, ma fu felice; egli vive ma soffre, — egli non
le sopravvisse che per rimembrarlo.

L’anima del giovine si agita crudelmente a questo pensiero che lo
ripiomba ne’ suoi propositi di vendetta: — quel cadavere sembra
ora stargli dinanzi minaccioso... forse egli vede, egli sente; egli
sorride, egli si agita sotto il suo lenzuolo funerario... Bouvard si
rialza impetuoso, e strappa il velo che copre il viso della fanciulla.
— Dio! quale bellezza irresistibile! — E può il volto d’una defunta
essere ancora così bello? Un’espressione di calma celeste si diffonde
sulle sue sembianze, le guancie sono tuttora leggermente rosate; la
fronte candida e pura, le labbra e gli occhi socchiusi, l’epidermide
trasparente e bianchissima: — non vi ha nulla di spaventevole in
lei, nulla che possa essere più vago, più dolce, più allettante nella
vita... essa riposa, — essa dorme — come dormono i fanciulli a sette
anni, quando non si sognano che delle nubi, delle farfalle e degli
angeli... tutte cose che volano, volano, e vanno verso il cielo.

Vi sono due soli e grandi avvenimenti nell’esistenza che possano dare
ai nostri volti un raggio di quella bellezza celeste che sfugge a
qualunque manifestazione, e sono l’amore e la morte — due cose sorelle,
— l’estasi dell’uno, e la calma che succede all’altra. Coloro che hanno
amato e che furono amati lo sanno: — quella bellezza non è della terra
e non dura, è qualche cosa di aereo che si posa un istante sulle nostre
sembianze e svanisce, — essa si vede, ma è inesplicabile: — è forse
una luce di lassù che discende a benedire i due atti più solenni della
vita, l’amore che ci rende degni del cielo, e la morte che ci concede
di raggiungerlo.

Io ho pensato più volte che se tutti gli uomini si innamorassero ad un
tempo, la società sarebbe in un attimo trasformata: l’età dell’oro non
sarebbe più quella favola allettante di cui si ride come dei sogni dei
fanciulli. — Ogni uomo che ama è buono e grande. — I poeti sono uomini
che amano.

A quella vista Bouvard si arresta colpito dall’entusiasmo: l’incanto
di quella bellezza lo rapisce ed eccita la mente fervida ed immaginosa
del giovine. Nel suo atto violento, egli ha scoperto una parte del
seno della fanciulla: — essa gli appare come una statua rovesciata di
Fidia, come una di quelle immagini di vergine greca, che il turbine
ha divelto dalla loro base, e che s’incontrano talora mezzo sepolte
tra i corimbi e le foglie oscure delle ellere, nelle isole solitarie
dell’Egeo. Divina bellezza! — E perchè non gli è dato di rianimarla? di
spirarle il soffio della vita che Dio ha riserbato a sè solo? Ma Giulia
lo odierebbe vivendo; — e non lo ha ella deriso?

Il giovine rimane lungo tempo silenzioso, — poi il suo volto assume
un’espressione tetra e risoluta, — egli si curva sopra di lei, egli
vuole abbracciarla... «nessuna donna, egli dice, si è data mai con
maggiore abbandono ad un uomo»... Bouvard sorride seco stesso di questo
orribile pensiero, — china il capo sopra di lei e ne bacia le labbra
irrigidite dalla morte. Quale contatto! Egli si scuote, egli trasalisce
inorridito, egli raccapriccia di quel gelo; e ricade prostrato dinanzi
alla fanciulla. Allora egli piange, egli invoca, egli prega, — vorrebbe
amarla, adorarla, come una santa, e lo trattiene la memoria del suo
passato; — vorrebbe odiarla, e lo arresta quell’immagine soave di
angelo. Alcuni istanti dopo egli vaneggia e delira, — egli ripete
ad alta voce il nome di Giulia, il nome della fanciulla adorata, e
si abbandona al suo dolore disperato e selvaggio. — Poi l’asfissia
dei fiori assopisce a poco a poco i suoi sensi, inebria e confonde
la sua ragione: — egli prova come delle vertigini, — vede come degli
oggetti che si muovono, — ode un bisbiglio di voci incomprensibili, —
ripassano dinanzi a’ suoi occhi delle strane figure che lo guardano
e sogghignano... egli si agita, vorrebbe avventarsi contro di esse,
tenta di rialzarsi brancolando nel vuoto, — e ricade spossato presso il
cadavere della fanciulla...

                             . . . . . . .

Certo Bouvard non incontrò una morte così sùbita, nè così violenta,
poichè i vicini raccontarono al mattino di aver inteso nelle ultime
ore di quella notte dei gemiti e delle grida soffocate; — ma ciò che
aveva colpito maggiormente la loro immaginazione, era stato un suono di
violino, da cui erano rimasti affascinati e sedotti come da un’armonia
soprannaturale; — nè mai s’indussero a credere per quante prove ne
venissero lor date, che quella musica fosse stata l’opera di un uomo.

Tale fu l’ultima creazione di Bouvard, l’ultimo lamento della sua
anima, l’agonia sublime del suo genio. Vi erano in essa tutte le voci
della natura, vi era il bisbiglio del vento e l’aleggiare dell’uccello,
il susurro dei piccoli steli e il fremere dei grandi fusti dei cerri,
lo scorrere del filo d’acqua e il frangersi delle onde dell’oceano,
— vi era tutto ciò che il suono ha di aspro e di dolce, di soave e di
orribile. — Sfortunati coloro che udirono quella musica! La voce degli
esseri più diletti, la parola di padre pronunciata la prima volta dal
labbro del fanciullo, la prima rivelazione d’amore della donna adorata,
non hanno avuto più nulla di soave, nulla di allettante per essi.

Il domani la fama di un sepolcro violato si diffonde per la città; — si
cerca il cadavere di Giulia, — gli indizii de’ suoi complici guidano
alla soffitta di Bouvard; — si chiama, nessuno risponde, — si batte,
nessuno apre: — allora si atterrano le porte... orrendo spettacolo! —
tutti quei fiori erano calpestati e dispersi, molti oggetti infranti,
i veli della fanciulla lacerati, — dovunque le traccie di una lotta
disperata e inuguale.

Non era Giulia morta? o le preghiere del giovine avevano avuto potere
di rianimarla un istante?......

                             . . . . . . .

Scheggie e frantumi di violino giacevano sparsi sul pavimento, ed un
corpo deforme, inanimato, stringeva convulsivamente il cadavere della
bella Giulia... — Bouvard era morto!




INDICE


  Lorenzo Alviati          Pag. 5
  Riccardo Waitzen             67
  Bouvard                     113





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è
stato aggiunto un indice a fine libro.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK AMORE NELL'ARTE ***


    

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THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE

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additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
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While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
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Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
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freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
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