La rovina della civiltà antica

By Guglielmo Ferrero

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Title: La rovina della civiltà antica


Author: Guglielmo Ferrero

Translator: Leo Ferrero

Release date: August 11, 2023 [eBook #71390]

Language: Italian

Original publication: Milano: Athena, 1926

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA ROVINA DELLA CIVILTÀ ANTICA ***


                           GUGLIELMO FERRERO


                               LA ROVINA
                                 DELLA
                             CIVILTÀ ANTICA

                         TRADUZIONE ITALIANA DI
                              LEO FERRERO



                            EDIZIONI ATHENA
                                  1926
                      MILANO — VIA VIGENTINA, 7-9




                          PROPRIETÀ LETTERARIA


     _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
      tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._

                      COPYRIGHT BY G. FERRERO 1925

             Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di
             questa edizione che non porti il doppio timbro
              a secco della Società Italiana degli Autori.

    — Arti Grafiche G. MONFRINI — Milano — Via Vigentina, 33 —




PREFAZIONE


_I cinque capitoli di questo libro furono scritti in francese per la
«Revue des deux mondes», e pubblicati in altrettante puntate della
famosa rivista. Il fastidio di tradurmi da me, e la ripugnanza di farmi
tradurre da un estraneo nella mia propria lingua, hanno ritardato
sin’ora questa pubblicazione, per quanto da me desiderata. Trovato
finalmente un traduttore, che non era l’autore e che non era neppure
un estraneo, sono lieto di offrire questo piccolo libro al pubblico
italiano._

_Questo piccolo libro racconta in succinto e indaga uno degli episodi
più grandiosamente tragici della nostra storia della nostra civiltà.
Sebbene l’Europa sia oggi molto più ricca colta, potente, che 17
secoli fa, credo non sia del tutto inutile, in questi tempi difficili,
ritornare per un momento a questa grande esperienza del passato. Essa
può mostrarci alcuni pericoli, che minacciano la nostra civiltà, come
già distrussero la civiltà antica. Con questo spirito il libro è stato
scritto, e con questo spirito spero che sarà letto._

                                                                G. F.

  Firenze 1 Febbraio 1926.




CAPITOLO PRIMO

LE CAUSE PROFONDE


È convinzione di molti che la civiltà antica si sia spenta a poco
a poco, dopo un’agonia di secoli; ma bisogna persuadersi, quando
almeno si consideri l’Occidente, che la verità è tutt’altra. Allorchè
l’imperatore Alessandro Severo fu trucidato dalle legioni, nel 235 dopo
Cristo, la civiltà antica era ancora intatta in Europa, in Africa, in
Asia. Nei templi edificati e restaurati durante gli ultimi secoli, con
la magnificenza della prosperità, gli dei greci e romani, e gli dei
indigeni ellenizzati o romanizzati delle provincie vegliavano ancora
sull’ordine e sulla prosperità dell’impero. Dal fecondo seno del
politeismo era nato, nei due ultimi secoli, un culto nuovo: il culto
di Roma e dell’Augusto, che al principio del terzo secolo unificava
ancora, dal Reno all’Eufrate, la maestosa vastità dell’Impero. Una
mistura cosmopolita di romanismo, di ellenismo e di orientalismo si
stendeva su tutte le provincie come una vernice luccicante sopra una
rustica terracotta. Due aristocrazie, l’imperiale, vivente in Roma, e
la provinciale, disseminata nelle città minori, erano preparate o dalla
cultura greca o dalla cultura latina o da tutte e due, a governare
l’Impero con saggezza, giustizia e magnificenza. Le Arti — scultura,
pittura, architettura — benchè avessero perduto la semplicità e la
purezza delle grandi epoche, per sodisfare un pubblico più numeroso
ed eterogeneo, fiorivano ancora; la filosofia e la letteratura
erano coltivate con un ardore un po’ superficiale e senza grande
originalità, da uomini e donne, nelle classi medie e nelle classi
alte. Dappertutto, anche nelle piccole città, pullulavano scuole. La
disciplina più studiata e pregiata era la giurisprudenza; qualità,
che fanno un giurista, la perspicacia, la sottigliezza, la dialettica,
l’equità, l’inventiva nell’ordine dei principii, aprivano la via alle
cariche della corte e dell’esercito. Il grande impero, fondato con
tante guerre, voleva dare al mondo la giustizia, con una legge che
fosse pura opera della ragione e dell’equità: missione nobilissima tra
tutte, nella quale si attuava la dottrina di Aristotele, che non la
ricchezza e la potenza, ma la virtù è il supremo fine dello Stato. Le
piccole città rivaleggiavano con le grandi nel costruire begli edifici,
nel fondare scuole, nell’organizzare feste e cerimonie sontuose,
nell’incoraggiare gli studi in voga, nel provvedere al benessere
delle plebi. Prosperavano l’agricoltura, l’industria, il commercio;
le finanze dell’impero e delle città non pericolavano ancora, anche
se già erano oberate; e l’esercito era abbastanza forte, da imporre il
rispetto del nome e delle frontiere romane.

Cinquant’anni dopo l’impero è una rovina. La civiltà greco-romana
agonizza nel politeismo. Gli dei si nascondono nelle campagne,
fuggendo i templi rovinati e deserti. Sono sparite le aristocrazie,
che governavano con tanto splendore e che avevano eretto il grande
monumento del diritto razionale. L’Impero è preda di un dispotismo
violento e debole, che racimola i funzionari civili e militari fra
le popolazioni più barbare. Rovinato è l’Occidente, compresa la
Gallia, compresa l’Italia. Si spopolano le campagne e le cittadine,
uomini e ricchezze vanno a congestionare pochi grossi centri;
spariscono i metalli preziosi; deperiscono l’agricoltura, l’industria
e il commercio; decadono le arti e le scienze. Mentre i due secoli
precedenti si erano sforzati di sovrapporre una grande unità politica
a un’immensa varietà di religioni e di culti, la nuova epoca crea una
grande unità religiosa sulla frantumazione dell’impero. La civiltà
greco-latina, distrutta nella carne dall’anarchia, e dallo spopolamento
e dalla miseria, è scompaginata nello spirito dal cristianesimo, che
scaccia gli dei del politeismo per far posto a Dio e cerca di costruire
una universale società religiosa, mirante solo alla perfezione morale,
sulle rovine dell’esercito e dello Stato romano. Come si spiega questo
mutare del destino? Che cosa è successo in quei cinquant’anni?


I.

Per rispondere all’oscuro quesito, bisogna risalire agli inizi
dell’Impero e intendere che cosa fu veramente l’autorità imperiale.
Gli storici odierni si ostinano a fare dell’imperatore romano, nei due
primi secoli dell’era volgare, un monarca assoluto, sul modello delle
dinastie che governarono l’Europa nel ’600 e nel ’700. L’imperatore
romano rassomigliavasi ai monarchi degli ultimi secoli, perchè il suo
potere durava quanto la vita, e perchè questo potere, senza essere
proprio assoluto, era così vasto che spiriti abituati alle forme e ai
principii dello Stato moderno possono facilmente confonderlo con il
moderno potere assoluto. Eppure l’Impero romano si differenzia dalla
vera monarchia, antica o moderna, perchè non ha mai riconosciuto, fino
a Settimio Severo, il principio dinastico o ereditario.

L’imperatore come i magistrati repubblicani, è investito dei suoi
poteri da un’elezione; la parentela o la nascita non sono mai state
considerate titoli legittimi della sua autorità; e se talora una stessa
famiglia conservò il potere per parecchie generazioni, ciò accadde
per ragioni non di diritto, ma di fatto. Basterebbe questa differenza
a farci concludere che fino a Settimio Severo l’Impero non fu una
monarchia assoluta, senza che, per questo, possa essere definito una
repubblica. Fu un regime intermedio fra i due principii; e questo
incerto carattere è stato una ragione di debolezza che gli storici
hanno avuto il torto di non studiare a fondo.

In ogni sistema politico fondato sulla scelta, la grande difficoltà
sta nel salvare il principio elettivo dalla frode e dalla violenza. Per
molte ragioni che qui sarebbe impossibile di studiare, ma quasi tutte
nascenti da questo carattere incerto dell’autorità imperiale, Roma non
riuscì a fissare le regole dell’elezione imperiale in modo da rendere
impossibili le esitanze nella procedura e da render vane le tentazioni
della frode e della violenza. Il principio voleva che l’imperatore
fosse eletto nei comizi dal popolo romano; tanto è vero che del
potere era investito con una _lex de imperio_; la quale, almeno fino
a Vespasiano, fu sottomessa ai comizi e formalmente approvata. Ma noi
sappiamo che sotto l’impero i comizi erano una finzione costituzionale,
e che, votando la _lex de imperio_, sanzionavano soltanto il testo del
_Senatus consulto_, col quale il Senato aveva assegnato all’imperatore
il potere. Il corpo che per davvero legittimava l’autorità
dell’imperatore, investendolo del potere costituzionale, era dunque
il Senato. Il Senato avrebbe dovuto scegliere l’imperatore, poichè
esso aveva il diritto di legittimare il potere. Ma per diverse ragioni
d’ordine politico e costituzionale il Senato non fu sempre in grado di
esercitare questo diritto in tutti i casi e con la necessaria libertà:
cosicchè scelse qualche volta il capo e lo impose all’Impero; ma gli
capitò anche, altre volte, di essere costretto a ratificare la scelta
fatta al di fuori di lui. Per esempio: Nerva fu scelto dal Senato; ma
Tiberio fu imposto dal Senato da una situazione politica e militare,
che non corrispondeva punto con le preferenze e le vedute dell’illustre
assemblea; Claudio e Nerone furono imposti dai pretoriani; Vespasiano
dalla vittoria e dai soldati. Da Nerva a Marco Aurelio, durante
il periodo più brillante dell’Impero, prevalse un sistema misto:
l’imperatore sceglieva nel Senato e d’accordo col Senato, l’uomo che
gli sembrava più adatto a succedergli; lo adottava come figlio e lo
associava al potere, cosicchè, assegnando al figlio adottivo il potere
imperiale, dopo la morte dell’Imperatore, il Senato ratificava ormai
una scelta, alla quale aveva già consentito. C’era insomma nell’Impero
un corpo che poteva e doveva eleggere l’Imperatore; ma questo corpo,
il Senato, non sempre ebbe l’autorità e la forza necessaria per
esercitare il suo diritto; e, spesso, invece di eleggerlo, si limitò
a legittimare un imperatore scelto da altri. Ma questa funzione almeno
gli fu riconosciuta senza contestazione, cosicchè l’autorità di nessun
imperatore fu legittima, prima che il Senato, volente o per forza,
gliela avesse conferita con la _lex de imperio_. Il Senato romano
sotto l’Impero potrebbe dunque paragonarsi ai parlamenti di molti Stati
moderni, i quali in teoria dovrebbero scegliere, ma in realtà spesso
legittimano soltanto, con la loro approvazione, dei governi eletti
dalla corte o composti da potenti consorterie, estranee al Parlamento.
Per questa ragione gli storici moderni han l’aria, di solito, di
disdegnare il Senato dell’epoca imperiale, che considerano come
una mummia lasciata in eredità dalla repubblica: mummia venerabile,
certo, ma inutile e ingombrante, nella nuova costituzione. Il secolo
XIX ha fatto troppe rivoluzioni, e s’è troppo abituato a confondere
l’autorità con la forza, per poter valutare equamente una istituzione,
che aveva per compito di imprimere sull’autorità imperiale il carattere
indelebile della legittimità. Tanto più sarà utile e savio che ci
sforziamo di capire come la prosperità dell’Impero, durante il primo
secolo, fu opera di un’istituzione, la quale sembra a molti storici
moderni inutile, perchè ebbe una funzione, invece che sostanziale,
formale.


II.

Benchè la maggior parte degli storici moderni, seguendo l’esempio del
Mommsen, si ostinino a immolare il Senato, come vittima espiatoria,
sulla tomba di Cesare, certo è, invece, che il Senato non solo potè
ancora vivere e governare dopo la morte di Cesare, ma che nella
seconda metà del I secolo ringiovanì come un albero invecchiato dopo
un innesto. Si rinnovò, acquistò nuovo prestigio e vigore, governò
l’Impero con un’energia e una saggezza che possono essere paragonate
ai tempi più grandi della Repubblica. Per quali ragioni? Quale fu
l’innesto miracoloso?

Durante il primo prospero e pacifico secolo dell’Impero, molte famiglie
dell’Italia settentrionale, della Gallia, della Spagna, dell’Africa
settentrionale, si arricchiscono e creano delle nuove, piccole
aristocrazie locali. La ricchezza, come al solito, risvegliando il
desiderio di distinguersi e di dominare, queste famiglie cercano un
modello da imitare per raffinarsi e divenire una vera aristocrazia,
staccandosi dal maggior numero non solo per l’opulenza ma anche per la
superiorità intellettuale e morale. Salvo qualche rara famiglia, che
cerca questo modello fra le ceneri ancor calde delle tradizioni e della
indipendenza nazionale, le altre lo trovano a Roma, e nella nobiltà
romana; e non tanto nella nobiltà divisa, prodiga, fastosa, inattiva,
indocile e debole del tempo dei Giuli-Claudi, quanto nella figurazione
solenne e venerabile che Cicerone, Sallustio, Orazio, Virgilio, Tito
Livio, avevano tracciata della vecchia aristocrazia romana; poichè la
letteratura latina non fu una semplice distrazione per ricchi signori
oziosi e curiosi, ma il più nobile organo della potenza romana, il
veicolo elegante, che propagò la conoscenza della lingua latina, il
gusto delle lettere e le dottrine morali e politiche in cui credeva
l’aristocrazia tra nuove _élites_ che emergevano dalla confusa
eguaglianza dei vinti nelle provincie dell’Occidente e dell’Africa.
Educate da precettori latini, le nuove generazioni studiarono i grandi
autori come maestri non solo della forma, ma anche del pensiero e
del sentimento; crebbero con il meraviglioso modello dell’antica
nobiltà romana, innanzi agli occhi, della nobiltà non quale era stata,
ma come l’aveva dipinta, purificandola dai vizi e dalle debolezze,
nella cornice della sua storia immortale, il pennello di Tito Livio;
s’innamorarono delle sue virtù, rese ideali dall’arte: la semplicità,
l’abnegazione civica, il coraggio, la fedeltà alle tradizioni civili
e religiose; si persuasero che, per un uomo, la più alta ambizione
fosse d’essere accolto in quella aristocrazia, e nel Senato, che la
rappresentava.

Tuttavia, fino a Nerone, la vecchia aristocrazia romana non disserrò le
sue porte. Poche furono le grandi famiglie provinciali, che riuscirono
a penetrare nel Senato. Il quale era quasi esclusivamente composto di
famiglie dell’Italia centrale: aristocrazia, in verità troppo ristretta
per un impero così grande, e rosa da troppi vizi, antichi e nuovi. Un
secolo di pace non era riuscito a spegnere le discordie, gli odii e
le rivalità da cui quelle famiglie erano state sempre divise; aveva
anzi esaltato i due vecchi vizi, l’orgoglio e lo spirito di cricca,
aggiungendo a questi dei difetti nuovi: la frenesia del lusso e un
certo scetticismo, che non aveva paura di scherzare con gli esotismi
più pericolosi. Fu responsabile dei torbidi da cui fu agitato, da
Augusto a Nerone, l’impero; questa aristocrazia troppo orgogliosa e
superba l’avrebbe forse trascinato alla rovina, se, nelle provincie,
non si fosse formata un’aristocrazia nuova, che, innestata sul vecchio
tronco, doveva ringiovanire il Senato.

Vespasiano fu l’imperatore che fece, e con felice successo, in tempo
opportuno, l’innesto riparatore. L’atroce guerra civile, che si scatenò
dopo la morte di Nerone, vince l’egoismo e l’esclusivismo secolare
dell’antica aristocrazia. Il pericolo era stato così grande, che
tutti gli uomini di buon senso capirono essere necessario rinnovare e
rinforzare il corpo politico, a cui spettava di scegliere e aiutare
gl’imperatori; e Vespasiano potè, senza troppe difficoltà, compire
la gran riforma, che, qualche anno prima, sarebbe stata impossibile.
Gli storici dell’antichità ci raccontano che assunta l’autorità di
censore, scelse mille famiglie fra le più importanti delle provincie,
le iscrisse nell’ordine senatorio e nell’ordine equestre, e facendole
venire in Roma ricostituì l’aristocrazia romana. Per questa riforma,
Vespasiano merita d’essere considerato come il secondo fondatore
dell’Impero, dopo l’Augusto. Siccome veniva dalle provincie,
quest’aristocrazia era più parsimoniosa, più semplice, di costumi più
austeri, più attiva, più seria, e sopratutto più devota alla grande
tradizione romana, repubblicana e aristocratica, che non la vecchia
aristocrazia originaria d’Italia, guasta dalle guerre civili, dal
successo, dalla ricchezza e dalla pace del primo Impero. Per una di
quelle sorprese di cui la storia è piena, i nipoti dei Galli, degli
Iberi, degli Africani, vinti da Roma, vennero a Roma, quando l’Urbe li
chiamò, più romani che i discendenti di quelle famiglie dell’Italia
centrale, da cui l’Impero era stato fondato. Lo spirito di Roma,
moribondo in Italia, riviveva nelle provincie.

Tacito, Plinio il vecchio e Plinio il giovane nella letteratura,
Traiano e Adriano nella politica, rappresentano questa nuova
aristocrazia provinciale che, con sincerità e fermezza, applicò nel
governo dell’Impero i principii morali e politici della Repubblica,
adattandoli al nuovo stato del mondo, conciliandoli con l’arte e la
filosofia dell’ellenismo e del romanesimo, e creando la vera civiltà
dell’Impero. Il secolo in cui quest’aristocrazia governò fu tranquillo
e prospero, perchè rispettò insieme l’autorità del Senato e quella
dell’Imperatore; cosicchè non nacquero mai, fra i due poteri, quegli
urti e quegli antagonismi, immaginati dagli storici, i quali, a tutti
i costi, vogliono fare dell’impero, già nei due primi secoli, una
monarchia. Come abbiamo detto, il Senato sceglieva, d’accordo con
l’Imperatore, colui che doveva succedergli; lo Stato era una vera
repubblica, governata dal Senato e dall’Imperatore, quest’ultimo
rispettoso dei diritti del primo, e il primo ossequiente all’autorità
del secondo, come al più illustre e al più potente dei suoi membri. Non
ci fu mai, per un secolo, nessuna incertezza a proposito dell’elezione
degli imperatori e delle condizioni richieste perchè fosse legittima.
Il maggior difetto della costituzione imperiale parve miracolosamente
medicato; l’autorità di Traiano, di Adriano, di Antonino, e di Marco
Aurelio fu riconosciuta da tutti, senza essere minata, come quella di
Tiberio, di Claudio e di Nerone, dall’opposizione segreta e inesorabile
della nobiltà; e poichè non era più infirmato da discordie troppo
violente, infurianti in seno al gruppo onnipotente che teneva il
governo, lo Stato romano riuscì, durante quel secolo, a compiere grandi
opere di pace e di guerra nell’immenso Impero.


III.

Ma i principii su cui posa una civiltà, e le classi che hanno il
compito di attuarli, si logorano con il tempo. Anche questa nuova
aristocrazia, originaria delle provincie, si disgregò a poco a poco,
per interno esaurimento, parte per l’azione delle filosofie e delle
religioni di spirito universale. Dottrina nazionale e aristocratica, e
perciò esclusivista; simile ad un’armatura, nella quale un popolo e uno
Stato si chiudevano, per isolarsi, il romanesimo era in contradizione
con le filosofie e con le religioni universali, come lo stoicismo e
il cristianesimo, che mescolavano tutti gli uomini e tutti i popoli
in un principio di uguaglianza morale. Senonchè già indebolita per
l’esaurimento interno e per l’azione delle filosofie e delle religioni
universali, quest’aristocrazia fu sorpresa da una crisi politica, che
l’annientò, dando la prima spinta alla rovina della civiltà antica.
Marco Aurelio è uno dei più celebri tra gli imperatori, perchè i suoi
pensieri sono uno dei più bei monumenti della saggezza umana. E’ però
necessario riconoscere che la filosofia, chiamata, nella sua persona, a
governare il mondo, fece un curioso passo falso nella questione della
successione, che imperatori meno filosofi avevano così bene risolta.
Invece di intendersi, come i suoi predecessori, con il Senato, e di
scegliere Claudio Pompeiano che il Senato giudicava il più degno,
Marco Aurelio, nel 177, si diede per associato all’Impero, e con
potestà tribunizia, il figlio Commodo, quindicenne. Che proprio un
filosofo stoico dovesse tentare di introdurre il principio dinastico
nella repubblica aristocratica, a cui l’impero obbediva, è per noi un
mistero singolare e pur troppo inesplicabile, con quello che sappiamo.
Ma le conseguenze dell’errore furono terribili. Quando Marco Aurelio
morì nel 180, Commodo, che era diciottenne, non aveva nè l’età, nè
la preparazione necessaria, per sobbarcarsi a un compito così grave;
onde parte per la maniera con cui Commodo era stato imposto, parte
per l’inettitudine sua non tardò a nascere, fra il Senato e lui, un
conflitto così violento che, dal tempo di Domiziano, non se n’era
visto l’eguale. Come ai tempi di Domiziano, questa nuova lotta fra i
due supremi poteri dello Stato, si chiuse con una congiura; ma mentre,
dopo la morte di Domiziano, il Senato aveva potuto dominare gli eventi
e imporre il suo candidato nella persona di Nerva, questa volta, dopo
l’uccisione di Commodo, non riuscì ad assicurare la trasmissione legale
dell’autorità suprema. Le legioni si mossero; incominciò, come dopo la
morte di Nerone, una guerra civile, che inalzò l’assolutismo militare
di Settimio Severo sulle rovine dell’autorità del Senato.

Settimio Severo apparteneva a una famiglia di Lepti, molto ricca e
assai colta, ma di nobiltà fresca, poichè egli stesso per primo sedeva
in Senato. Aveva coltivato con uguale ardore le lettere latine e le
greche; ma aveva anche sposato Giulia Domna, discendente di una delle
più ricche famiglie siriache, alla quale doveva i suoi più celebri
sacerdoti il culto del Sole. Africano di nobiltà recente, ellenizzato
e romanizzato ma con forti influssi dell’Oriente asiatico, Settimio
Severo non era uomo da rispettare — come l’aveva rispettata un secolo
prima, il grande Traiano — l’autorità del Senato, massime poi che
il Senato si era schierato contro di lui nella guerra civile. Se il
Senato, per ragioni che non conosciamo, aveva messo al servizio dei
suoi nemici l’autorità di cui disponeva, l’Africano se ne vendicò dopo
la vittoria, lavorando a disfare l’opera di Vespasiano. Appoggiandosi
alla fedeltà delle legioni, indebolì e impoverì quando potè, con
esecuzioni e confische, l’aristocrazia storica; l’umiliò, diminuendo i
suoi privilegi e il suo prestigio a favore dell’ordine dei cavalieri;
a questi assegnò molte cariche, tenute, fino allora, soltanto da
senatori; e cominciò a costituire fra i cavalieri una nobiltà di
funzionari scelti e dipendenti da lui, alla quale dette nuovi titoli
onorifici (_vir egregius, vir perfectus, vir clarissimus_); esercitò
apertamente il potere assoluto, rinvigorì il principio dinastico, e
trattò apertamente l’impero come una proprietà di famiglia, dividendolo
fra i due figli; fece dell’esercito una potenza politica superiore
al Senato, considerando il favore dei soldati e la forza che gliene
veniva, come titoli d’autorità più validi che la scelta del Senato.
Settimio Severo fu insomma il primo vero monarca assoluto, o quasi
assoluto, dell’Impero; quello che osò farsi chiamare, ufficialmente,
_dominus_; che rese giustizia nel suo palazzo, e colpì l’autorità del
Senato con una umiliazione, dalla quale non potè più riaversi. Fece
insomma nell’Impero quella rivoluzione, che troppi storici troppo
frettolosi attribuiscono a Cesare!

Ora, da principio, non sembrò che l’Impero avesse a lagnarsi di
questa profonda rivoluzione, per cui il potere aveva mutato natura
e carattere. L’abbassamento del Senato potè anzi, nei primi tempi,
essere salutato come guadagno e beneficio, non solo dall’ottimismo
ufficiale, ma anche dagli osservatori imparziali. Il governo degli
ultimi Antonini, specialmente quello di Marco Aurelio, era stato giusto
e chiaroveggente, ma assai debole, lento, poco attivo, come sono spesso
i governi delle aristocrazie invecchiate. Il governo di Settimio Severo
fu agile, risoluto, fecondo in ardite iniziative, quale poteva essere
la dittatura di un guerriero fortunato, intelligente, e nel quale c’era
la stoffa di un vero uomo di Stato.

Ma i pericoli, insiti nella sua rivoluzione, si fecero manifesti,
quando lo strumento così ben maneggiato da Settimio Severo passò in
mani più fiacche. Settimio Severo aveva lasciato il potere, come cosa
sua, ai figli: Caracalla e Geta. Ma i due eredi non andaron d’accordo;
Caracalla assassinò il fratello; e, rimasto solo padrone dell’Impero,
cadde a sua volta, poco tempo dopo, vittima di una congiura militare,
che proclamò imperatore il prefetto del pretorio, Marco Opelio Macrino,
un semplice cavaliere. Era la prima volta che i soldati osavano
scegliere un imperatore fuori del Senato; ma la proclamazione dei
soldati, benchè Mommsen abbia sostenuto il contrario, non era senza
l’investitura del Senato, titolo legale di autorità; non conferiva che
un potere di fatto, fragile e incerto. Ciò che un gruppo di legioni
aveva decretato, un altro gruppo poteva disfare, se l’imperatore scelto
non era uomo molto forte e di gran prestigio personale.

Infatti, Macrino cercò di assicurarsi la ratifica dal Senato. Ma mentre
stava negoziando e maneggiando per far legittimare la sua autorità,
un’altra rivolta militare, fomentata dalla famiglia di Settimio Severo,
lo rovesciò, proclamando imperatore Eliogabalo. Appena quattordicenne,
e non avendo, come titolo, che il favore mobile dei soldati, neppure
Eliogabalo conservò a lungo il potere. Dopo quattro anni, i soldati
che l’avevano inalzato all’Impero lo rovesciarono; e non rimase, come
Imperatore, che il cugino di Eliogabalo, Alessandro Severo, il quale
era stato, un poco prima della strage, associato a Eliogabalo, per
volontà dei soldati e della famiglia imperiale. Ma queste rivoluzioni
militari e l’instabilità del supremo potere avevano tanto spaventato le
classi governanti, compresa la famiglia di Settimio Severo, che tutti
si rivolsero ancora verso il Senato, per ristabilire un governo forte
e rispettato, il quale potesse, con incontestabile legittimità, imporsi
all’osservanza delle legioni.

Alessandro Severo rinnovò dunque, e persino esagerò la politica di
Traiano, di Antonino Pio, di Marco Aurelio. Rifiutò il titolo di
dominus, soppresse il cerimoniale, trattò i senatori da pari a pari,
affidò di nuovo al Senato la scelta dei funzionari più importanti,
compresi i governatori delle provincie; formò, con dei senatori, il
_Consilium Principis_; volle che i senatori assistessero i governatori,
e non solo limitò l’autorità dei procuratori imperiali, ma li fece
anche eleggere dal popolo. Come Silla, Augusto e Vespasiano oppose
alla forza scatenata della rivolta militare, il Senato, rocca della
legalità. Ma fu l’ultima volta. Le legioni non erano più, come ai primi
secoli dell’Impero, reclutate quasi unicamente fra gli italiani, che
per tradizione veneravano il Senato come il padre della loro nazione:
erano piene di provinciali, calati dai paesi barbari dell’Impero, pei
quali il Senato appariva un’autorità vaga, lontana, che si rispettava
solo in ragione della forza. Inoltre lo spirito severiano del potere
assoluto, l’ambizione di essere unico sostegno dell’autorità imperiale,
era troppo penetrato nelle legioni, perchè si inchinassero davvero e
sul serio dinanzi al Senato.

Le circostanze infine favorirono il loro spirito di rivolta. In
quel momento critico della storia d’Occidente, scoppiò una grande
rivoluzione in Oriente: l’ultimo re dei Parti è rovesciato, e risale
sul trono la dinastia nazionale dei Sassanidi, risoluti a sterminare in
Persia la cultura greca che era stata agevolata, nella sua diffusione,
dall’Impero dei Parti, e a riconquistare i territori dell’antico impero
persiano, soggetti, allora, a Roma. L’Impero Romano si trovò tutto
a un tratto impegnato in una guerra con la Persia. Alessandro Severo
riuscì a respingere l’invasione persiana, ma impiegando tutte le forze
dell’Impero, comprese quelle che difendevano le frontiere d’Occidente.
Ed ecco gli Alamanni e i Marcomanni ne approfittano per guadare gli uni
il Danubio, gli altri il Reno. Impegnato in Oriente, Alessandro Severo
giudicò di non poter respingere l’invasione, con la sola forza delle
armi, e ricorse ai negoziati e ai sussidii. Ma i soldati scontenti di
non sentirsi più padroni dello Stato, come ai tempi di Settimio Severo
e di Caracalla, colsero questo pretesto, accusarono Settimio Severo di
render l’Impero tributario dei barbari, si rivoltarono e sterminarono
con lui tutta la famiglia imperiale. Dopodichè proclamarono imperatore
il capo della congiura, un ufficiale superiore nato in Tracia, soldato
valoroso, ma che sapeva appena balbettare il latino: _C. Giulio Vero
Massimino_.


IV.

Questa rivolta segna l’inizio di un interminabile seguito di calamità,
guerre civili, guerre esterne, pesti e carestie che per cinquant’anni,
spopolarono e impoverirono l’Impero, distruggendo le _élites_ che
l’avevano governato, pacificato, e incivilito durante il primo e il
secondo secolo; e con queste _élites_, le arti della pace e la parte
migliore della cultura greca e latina.

Si cercano da secoli le ragioni per cui la civiltà antica è scomparsa:
e si capisce che l’argomento abbia tentato e tenti gli spiriti,
perchè poche civiltà sono state, nel loro fiore, più gloriose, e
hanno, nello stesso tempo, subito un destino più fatale. Quando noi
consideriamo quale fu la sorte della civiltà che, dall’anno mille,
cominciò a rifiorire in Europa sulle rovine della antica, non possiamo
non domandarci perchè l’Europa goda da 9 secoli di uno sviluppo quasi
ininterrotto, in cui le conquiste e i profitti accennati sorpassano
sempre le perdite; e perchè, invece, la civiltà antica, vigorosa e
creatrice, è stata vittima di una terribile catastrofe, in cui doveva
essere, quasi interamente, sommersa. Si accusano da molti, le invasioni
dei barbari; e si dimentica che è necessario, allora, spiegare
come un sì grande Impero, che possedeva tutta la scienza militare
dell’epoca, non sia stato capace di difendere le sue frontiere,
contro quei popoli che da lui avevano imparato i primi rudimenti
dell’arte della guerra e del governo. Altri storici attribuiscono
questa rovina al cristianesimo; altri ancora alla preponderanza che
presero, nell’Impero, le classi inferiori e le popolazioni più barbare;
altri al fiscalismo spoliatore e all’assolutismo. Ma tutte queste
spiegazioni, in parte giuste, non spiegano _nulla_; se non si spiega
nello stesso tempo perchè il cristianesimo potè, _in certo momento_,
imporre all’Impero dottrine e istituzioni, che dovevano annientare il
suo vigore politico e militare; se non si spiega per quali ragioni le
razze, che popolavano l’Impero, si mescolarono insieme, diventando
barbare; e come e perchè lo Stato finì per strangolare l’Impero con
il suo assolutismo e la sua finanza insensata. Tutti questi fenomeni
di decomposizione dovevano avere una causa prima, che bisogna
chiarificare.

Questa causa prima è un grande disordine politico: proprio quel
disordine politico, che fu generato dalle guerre civili seguite alla
morte di Alessandro Severo e che continuò per mezzo secolo. Ma quale
fu a sua volta la causa di questo disordine politico? L’annientamento
assoluto dell’autorità del Senato, che tanti storici considerano come
ingombro inutile nella struttura dell’Impero. Il Senato fu distrutto
dalle legioni barbare che, a un certo momento, non s’inchinarono più
alla sua autorità secolare; dalla paura che lo paralizzò dinanzi alla
forza scatenata delle legioni, quando s’accorse che il suo prestigio,
tutto morale, non esisteva più; dalla distruzione delle famiglie più
illustri e più rispettate; dagli elementi nuovi, incolti e grossolani,
che riempirono i vuoti della vecchia aristocrazia, decimata dalle
guerre civili. Ma quando il Senato fu spogliato della sua autorità,
non ci fu più in tutto l’Impero un’autorità capace di legittimare
l’imperatore; venne cioè a mancare ogni principio di legittimità,
in nome del quale si riconoscessero tutti obbligati a obbedire
all’Imperatore; e con questo principio sparì ogni traccia di procedura
legale per l’elezione dei capi dell’Impero. Le legioni scelsero gli
imperatori, e il loro favore divenne unica fonte dell’autorità suprema;
ma le legioni eran molte, stazionavano in paesi lontani, di rado si
trovavano d’accordo, e spesso cambiavano idea.

Come si sarebbe potuto, se non con la guerra e la spada, fare una
scelta, fra imperatori che tutti si riconoscevano lo stesso diritto,
poichè tutti erano egualmente eletti da legioni, il cui voto
conclamatorio aveva il medesimo valore? Onde l’interminabile seguito
delle guerre civili; perchè non c’è verdetto della forza contro il
quale non si possa ricorrere alla forza. Non era la prima volta che,
nel mondo antico, un popolo restava come sospeso in aria, dopochè erano
cadute quelle istituzioni con cui s’era, per secoli, governato.

Ma quelle crisi, benchè spesso rovinose, erano state circoscritte,
trovandosi quei popoli attorniati di Stati, in cui l’ordine legale
non era turbato, e in cui il potere si basava su un principio di
legittimità ancora solido. Il popolo in rivoluzione poteva sempre
prendere in prestito ai paesi confinanti questo principio di
legittimità e il modello delle istituzioni, che su quello posavano, per
ristabilire, presto o tardi, un governo. Quando in un popolo l’anarchia
durava tanto tempo da inquietare i vicini, si trovava sempre tra questi
vicini, uno Stato, pronto a imporre con la forza quell’ordine, che non
sapeva darsi da sè. Per questo, nell’antichità, le guerre sono tanto
spesso legate alle rivoluzioni interne degli Stati.

Invece, per la prima volta nella storia del mondo antico, nel terzo
secolo nella nostra era, un immenso Impero si trovò senza un principio
con cui distinguere l’autorità legittima dall’usurpazione violenta,
senza nessuna istituzione politica abbastanza forte per imporre
tale principio. Ma questo immenso Impero, che comprendeva una parte
dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, era, per la sua stessa grandezza,
al sicuro di un intervento, che vi avrebbe ristabilito l’ordine,
imponendo altri principii e altre istituzioni; e non poteva d’altra
parte attingere in nessun paese un nuovo principio di legittimità,
perchè a settentrione, a occidente, a mezzogiorno, confinava con una
turbolenta barbarie; a oriente con un Stato non barbaro, l’Impero
persiano, ma di recente fondazione, uscito appena da una guerra civile,
ostile e quanto diverso per storia ed aspirazioni! L’Impero Romano
fu dunque abbandonato a sè stesso e costretto a risolvere il tremendo
problema di trovare, con le sue forze, un nuovo principio d’autorità
e di legittimità. Donde la formidabile esplosione di violenza, che
distrusse a poco a poco la più grande e miglior parte della civiltà
antica.


V.

Sarebbe un errore il voler negare che la civiltà greco-latina, in
apparenza ancor florida al principio del terzo secolo, fosse già
sordamente minata da un travaglio di lenta decomposizione.

Questa civiltà posava sul politeismo e sopra uno spirito di tradizione
locale, che noi troppo facilmente confondiamo con lo spirito nazionale
della nostra civiltà, benchè fosse cosa molto diversa. Senonchè il
cosmopolitismo dell’Impero, le mescolanze delle razze delle religioni
dei costumi delle culture, l’unificazione del governo, lo sviluppo del
commercio e dell’industria, le nuove dottrine religiose e filosofiche,
favorite dal cosmopolitismo, avevano ferito a morte il politeismo
e lo spirito della tradizione locale. La prosperità stessa, quella
relativa facilità di arricchirsi, di istruirsi, e di salire nelle
classi superiori con la ricchezza o con l’istruzione, o con ambedue
insieme, erano state segrete ma profonde cause di indebolimento. La
civiltà greco-latina era aristocratica; la sua forza stava nelle sue
_élites_ molto ristrette, ma molto intelligenti; quanto essa guadagnava
in _diffusione_, perdeva in intensità. L’umanismo egualitario, che si
sviluppò durante l’Impero in forme così varie, doveva indebolirla nella
religione, nello Stato, e nei costumi.

Ma tutte queste cause nascoste e profonde non avrebbero mai partorito
una catastrofe così vasta, se non fosse sopravvenuto un formidabile
accidente politico, che precipitò le cose e impedì ogni tentativo di
salvarle. Questo accidente fu la distruzione dell’autorità del Senato,
opera della rivoluzione di Settimio Severo. Bastò questa distruzione
perchè tutto l’Impero restasse senza un principio di legittimità
con cui riconoscere l’Imperatore che aveva il diritto di comandare;
e l’assenza di questo principio scatenò rivoluzioni e guerre quante
bastarono in cinquant’anni ad annientare quasi tutta l’opera di tanti
secoli.

La rovina della civiltà antica è dunque il resultato di una decadenza
lenta, dovuta a malattie organiche, e di un terribile accidente che,
distruggendo con una scossa vigorosa la chiave di volta di tutto
l’ordine legale, gettò questa civiltà già indebolita, per la sua
massa e per la sua decadenza interna, nelle convulsioni del dispotismo
rivoluzionario. Questa terribile esperienza merita di essere meditata
dalla nostra epoca. Da cinquant’anni la civiltà occidentale s’è
indebolita per la crescente confusione delle dottrine, dei costumi,
delle classi, delle razze e dei popoli; per una specie di anarchia
intellettuale e morale a cui nessuna istituzione o tradizione o
dottrina ha resistito; per lo spossamento del lavoro continuo,
rapido e senza riposo, per la mobilità via via crescente di tutti gli
elementi della vita sociale; per una specie di febbre universale, che
sovraeccita le volontà e le intelligenze, rendendole atte a sforzi
molto intensi, ma corti e poco profondi; per la volgarizzazione di
tutte le attività dello spirito e di tutti i beni della terra. Mentre
eravamo in questo stato di indebolimento interno, è sopravvenuto un
accidente terribile, il più terribile, forse di tutta la storia....

La guerra mondiale può ricordare, per le sue conseguenze, ed in grande,
la rivoluzione di Settimio Severo, perchè ha distrutto o indebolito
tutti i principi d’autorità o di legittimità che sostenevano l’ordine
sociale. Due erano questi principii: il diritto divino delle dinastie
nelle potenti monarchie dell’Europa centrale e settentrionale; la
volontà del popolo, nelle democrazie dell’Europa occidentale. Con la
caduta dell’Impero russo, dell’Impero austro-ungarico, e dell’Impero
tedesco, il diritto divino ha ricevuto un colpo, da cui è ben difficile
che possa rialzarsi. Ma è dubbio che l’opposto principio approfitti
della sua rovina. Questo principio, di per se stesso poco chiaro e
di applicazione difficilissima, esce da questa grande crisi debole e
screditato a tal punto, che il suo inatteso trionfo negli imperi del
centro e nell’impero russo non suscitò sette anni fa nè speranza nè
entusiasmo nel resto dell’Europa; è stato seguito da una sua clamorosa
rovina in Italia, e sembra oggi, sette anni dopo la fine della guerra,
pericolare in molte nazioni, perfino in Francia e in Inghilterra, dove
è risalito da molte parti in vigore.

Come l’Impero romano al terzo secolo, l’Europa sta dunque per trovarsi
senza un principio chiaro e preciso con cui riconoscere chi e in che
limiti ha il diritto di comandare e chi, e in che limiti, ha il dovere
di obbedire? Nessuno potrebbe oggi rispondere risolutamente nè sì nè
no. Ma appunto perchè non si può rispondere risolutamente di no, non
sarà inutile ristudiare un po’ la vecchia storia di Roma, la quale ci
mostra che cosa può capitare ad una civiltà, la quale lasci cadere
tutti i vecchi principii di autorità, che sono il fondamento del
diritto di comandare, sia che non sappia sostituirli con dei nuovi, sia
che si illuda essere cosa facile di sostituirli.




CAPITOLO SECONDO

LA CRISI DEL TERZO SECOLO.


I.

Alessandro Severo fu ucciso al principio del 235, da una rivolta
militare, capeggiata da un Trace, Massimino. Giunto grazie al suo
valore e alla protezione della famiglia di Settimio Severo ai più alti
gradi della milizia, benchè parlasse assai male il latino, Massimino
rappresentava le razze più barbare dell’Impero, che, approfittando del
dispotismo orientale della famiglia di Settimio Severo, cercavano di
prendere il posto delle vecchie famiglie di nobiltà senatoria. Morto
Alessandro Severo, le legioni lo proclamarono imperatore a Magonza.
La rivolta contro Alessandro Severo, che voleva restaurare l’autorità
del Senato, e l’elezione all’Impero di questo Trace, acclamato dalle
legioni, erano due sfide gridate dal nuovo dispotismo militare al
solo principio di legittimità che esistesse allora; due sfide, per
conseguenza, anche all’ordine legale, che si basava da tanti secoli
sull’autorità del Senato. Settimio Severo e i suoi successori avevano
ancora cercato di giustificare il loro dispotismo, invocando, almeno
per la forma, l’autorità del Senato; ma con Massimino la rottura
diventa aperta. La forza rinnegava il solo principio di autorità che
poteva giustificarla, e affermava la sua volontà di trovare in sè
stessa i titoli necessari all’esercizio del potere.

Massimino infatti non si preoccupò che di aver l’appoggio delle
legioni; non cercò neppure la convalida del Senato, e governò come se
il Senato non esistesse. Ma per quanto indebolito e depresso, il Senato
non era ancora giunto a tanto, da sopportare, da parte di un Trace,
questa umiliazione. Non sappiamo bene ciò che successe allora a Roma; e
possiamo appena intravederlo, attraverso le frammentarie informazioni
che ci son date: certo è che il Senato nominò due Imperatori, Pupieno
e Balbino, il primo un soldato di gran valore che, partendo dal nulla
era giunto ai gradi più alti; il secondo, un senatore di intelligenza
mediocre, ma molto stimato e di grande casata. Il merito personale e
la nobiltà della razza erano dunque invocati, dal Senato, a difendere
insieme la sua moribonda autorità. Un principio di legittimità ha
sempre bisogno, per farsi rispettare, della forza; ma non è detto
che se questo principio e questa forza entrano in lotta, proprio il
primo sia destinato sempre a soccombere; perchè rivoltandosi contro
il principio di autorità, di cui dovrebbe essere solo strumento, la
forza talvolta s’indebolisce. Così avvenne allora. I due imperatori,
con l’aiuto del Senato, riuscirono a costituire un governo, che fu
riconosciuto legittimo da un certo numero di provincie, e che oppose
all’usurpatore un esercito. Massimino non tardò a capire, che se il
governo di Roma si consolidava sarebbe diventato pericoloso pel suo
potere, il quale s’appoggiava soltanto sul favore di qualche legione;
e per rovesciarlo subito venne, con il suo esercito, in Italia.
Ma in Italia tutto il popolo era favorevole al Senato, e contrario
all’usurpatore; Aquileia chiuse a costui il passo, obbligandolo ad
assediarla; a contatto del rispetto universale, che il Senato ispirava
ancora, la fedeltà delle legioni incominciò a vacillare; Aquileia,
resistendo, compì l’opera nella primavera del 238. Massimino fu
assassinato sotto quelle mura inespugnate, dagli stessi soldati che
l’avevano portato in trionfo.

Il Senato, Roma, l’Italia e la legalità avevano trionfato delle
legioni semibarbare e della forza in rivolta. Ma questa vittoria
della legalità sulla forza durò poco. Presto nacque discordia fra
Pupieno e Balbino; il Senato non seppe approfittare della vittoria e
irritò i soldati senza disarmarli; e prima della fine del 238, una
nuova rivolta militare mandò a morte Pupieno e Balbino e proclamò
imperatore Gordiano. La forza aveva avuto la sua rivincita. In questo
tempo i Carpi e i Goti traversavano il Danubio; i Persiani invadevano
la Mesopotamia e minacciavano la Siria. Gordiano, che era giovane
e inesperto, aveva avuto la fortuna di trovare come prefetto del
pretorio Timesiteo, un uomo intelligente, avveduto e — qualità rara,
allora — fedele. Timesiteo rimise in ordine l’esercito e cacciò i
Persiani, i Goti e i Carpi. Queste vittorie, e il pericolo attenuarono
la discordia tra il Senato e le legioni, tra la legalità e la forza;
cosicchè, sebbene eletto dalle legioni Gordiano non incontrò, nel
Senato, opposizioni. Il suo governo era legittimato da un consenso
posteriore. Disgraziatamente Timesiteo morì nel 243, e Gordiano non
trovò, per sostituirlo, che un alto ufficiale dell’esercito, Giulio
Filippo, un arabo. Era un soldato valoroso, ma non così fedele come
il suo predecessore. Volle essere, non il subordinato, ma il collega
di Gordiano, costrinse i soldati a domandare per lui quell’onore; e,
siccome Gordiano rifiutava, lo fece assassinare. Per la quarta volta,
in pochi anni, la rivolta militare trionfava, la forza si imponeva
alla legalità indebolita e screditata; ma questa volta, e appunto
perchè era la quarta, la rivolta si propagò rapidamente in tutto
l’Impero. Indebolita al centro l’autorità imperiale l’esempio diventa
contagioso. Se proprio le legioni devono eleggere l’Imperatore, perchè
questo privilegio sarebbe concesso alle legioni di una provincia e non
a quelle di un’altra? Ogni gruppo di legioni vuole il suo Imperatore;
i pretendenti pullulano nelle provincie. Il pericolo divenne di nuovo
così grave, che avvenne una reazione in favore del Senato, e che
spaventati, i tempi si volsero verso il solo principio di autorità
che sussisteva ancora, a dispetto di tutti gli oltraggi. Per quanto
arabo, Filippo cercò di farsi legittimare dal Senato, per avere quella
convalida che sarebbe mancata ai suoi concorrenti. E il Senato si
rassegnò a riconoscerlo, preferendo avere in Roma un imperatore che
almeno cercava, quantunque eletto da una sedizione, d’essere confermato
dal suo consenso. Ma invano gli uomini ricorrono, nella necessità,
a quel principio d’autorità che hanno indebolito, per sodisfare le
loro ambizioni. Mentre Filippo cercava di rafforzare il suo potere in
Italia, facendolo legittimare dal Senato, i Goti invadevano di nuovo
l’Impero; e le legioni del Danubio, scontente di veder che l’Imperatore
s’adagiava in Italia, quando le frontiere dell’Impero erano violate dai
barbari, annullarono i decreti del Senato e proclamarono Imperatore il
governatore della Dacia e della Mesia, Decio. Scoppiò una nuova guerra
civile. Decio venne in Italia, vinse Filippo a Verona e lo uccise;
poi ripassò le Alpi per andare a combattere i Goti. Ma senza gran
resultato, perchè, nel 251, morì sul campo di battaglia. Era il primo
degli imperatori romani che cadeva combattendo i barbari. È facile
immaginare l’impressione fatta da questo avvenimento. Le legioni,
che ormai credevano di poter disporre dell’Impero, s’affrettarono a
proclamare Imperatore il governatore della Mesia, Treboniano Gallo.
Ma anche Treboniano, invece di combattere i Goti, preferì trattare e
comprare, a peso d’oro, la pace. Allora le legioni si rivoltarono di
nuovo, e elessero all’Impero il Governatore che gli era successo in
Mesia, Emiliano. Scoppiò una nuova guerra civile, in cui Treboniano
fu sconfitto. E l’autorità del Senato fu di nuovo invocata, perchè
desse al nuovo Imperatore un carattere legittimo, atto a fortificarlo
nel suo governo. Il Senato riconobbe Emiliano; ma Emiliano, appena
riconosciuto, fu trucidato dalle legioni, che si rivoltarono,
acclamando imperatore Valeriano (253).

Dalla morte di Alessandro Severo sono trascorsi diciotto anni in
continue sedizioni. L’autorità del Senato è distrutta e con essa
la pietra angolare della legalità. Qualsiasi regola e principio per
l’elezione dell’imperatore messi da parte, l’elezione è abbandonata al
capriccio delle legioni; si moltiplicano le rivolte militari, stimolate
dall’emulazione, dalla certezza dell’impunità e dalla speranza del
bottino; le guerre civili nascono l’una dall’altra, indebolendo
dappertutto la difesa delle frontiere. L’Impero comincia a diventare
preda dei barbari che, incoraggiati dalla crescente debolezza del
colosso, lo attaccano da tutte le parti. Fra il 254 e il 260 i Goti
invadono di nuovo la Dacia, la Macedonia, l’Asia Minore; gli Alamanni
e i Franchi si gettano sulla Gallia, una nuova razza germanica, quella
dei Sassoni, fa la sua comparsa sul mare, lungo le coste della Gallia
e della Bretagna; dei gravi torbidi scoppiano in Africa, e nuovi
pericoli minacciano l’Oriente dove l’Armenia e la Persia ricadono sotto
l’influenza persiana. E come se tutte queste disgrazie non bastassero,
una epidemia di peste infuriò, in quegli anni, spopolando intere
legioni dell’Impero. Valeriano il quale era un senatore di nobile
famiglia e di una certa intelligenza, s’intese col Senato, e, d’accordo
con l’alta assemblea, cercò di provvedere alle terribili difficoltà del
momento con un ripiego che, a poco a poco, doveva dislocare tutta la
civiltà antica; nominando Cesare suo figlio Galieno, assegnandogli le
provincie dell’Occidente, e tenendo per se l’Oriente; spezzando per la
prima volta l’unità dell’Impero. Chiara sembra l’idea ispiratrice di
questa riforma: rinforzare l’autorità imperiale, e con essa il governo
indebolito, rimpicciolendo l’area troppo vasta, in cui doveva operare.
Ma era questo un rimedio di natura, per così dire, geometrica, che poco
poteva curare un male di natura morale. Il governo era debole, perchè
non aveva più titoli indiscutibili e universalmente riconosciuti;
la divisione del potere non poteva annullare questo incorreggibile
vizio d’origine. Mentre Galieno faceva del suo meglio per arginare
le invasioni germaniche in Occidente, Valeriano tentava una grande
spedizione contro la Persia. Ma nel 259 o nel 260 è fatto prigioniero
dai Persiani, e va, non si sa dove nè quando, a morire in prigionia.
Pochi anni prima, un imperatore era caduto sul campo di battaglia,
combattendo i barbari; ora un imperatore era catturato, e andava
prigioniero nel campo nemico. Fu un colpo terribile per l’autorità
imperiale; e se ne videro presto le conseguenze: alla catastrofe segue
una specie di smembramento dell’Impero.

Già sino dal 258 le legioni della Gallia avevano acclamato imperatore
Postumio. Postumio, che era un uomo di molti meriti, riuscì, dopo la
morte di Valeriano, a farsi riconoscere in Spagna e in Britannia, e
fondò un Impero gallo-iberico, che durò nonostante gli attacchi di
Galieno, fino al 267. Nello stesso tempo, in Oriente, un generale di
Valeriano, Macriano, con l’aiuto della città di Palmira e di Odenato
che era il più ricco e il più potente dei suoi abitanti, aveva di
propria iniziativa, combattuto contro i Persiani, ricacciandoli e
salvando le più ricche provincie d’Oriente. Ma incoraggiato da questi
successi, pensò di impadronirsi anch’egli dell’impero a favore dei suoi
figliuoli.

Odenato rimase invece fedele all’Imperatore, e col titolo di _Dux
Orientis_ si mise a far guerra a Macriano. Ma l’Occidente e l’Oriente
erano già smembrati, o sul punto di smembrarsi, e l’audacia dei barbari
aumentava, quanto più si indeboliva l’Impero. Nel 261, gli Alamanni
riescono a invadere l’Italia, e Galieno li sconfigge soltanto alle
porte di Milano. Poco dopo, i Franchi invadono la Gallia e la Spagna,
e si spingono, a quanto pare, sino in Africa. I barbari dell’Europa
Centrale, i Goti, gli Eruli, i Sarmati saccheggiano le coste del Mar
Nero, forzano i Dardanelli e penetrano in Grecia e in Asia. Nel 267,
gli Eruli bivaccano in Grecia, a Atene, a Corinto, a Argo, a Sparta. Il
mediocre Galieno non sa come opporsi a tante calamità; la disperazione
si impadronisce dei popoli; ogni provincia e ogni regione, sperando
di difendersi meglio da sola, si rivolta e si da un imperatore suo
proprio. Durante gli ultimi anni della vita di Galieno, i pretendenti
— i tiranni, come disse — sono così numerosi e transitori, che è quasi
impossibile di raccontarne, ad uno ad uno, la storia. In Germania, dove
la guerra contro l’Impero Romano stava per diventare diremo per adoprar
parole moderne la «grande industria nazionale», si capì ch’era il
momento di tentare un grosso colpo. Molti popoli germanici s’intesero
per formare, sotto il nome di Goti e di Alamanni, una potente
coalizione contro l’Impero; e nella primavera del 268 un forte esercito
passava sulla riva destra del Danubio, invadeva la Macedonia Orientale,
la Grecia, le Cicladi, Rodi, Cipro, e le coste dell’Asia Minore. Nello
stesso tempo un altro esercito entrava nella Mesia e s’inoltrava in
Macedonia. Il piano era chiaro: conquistare la penisola balcanica e
tagliare in due l’Impero, interponendosi tra le provincie d’Oriente e
quelle di Occidente.


II.

Da trent’anni l’Impero era preda del dispotismo militare, delle
invasioni, della guerra civile, dell’anarchia, della peste, della
carestia. Le guerre civili della repubblica, erano state a paragone
piccolezze, perchè non avevano mai minacciato gli elementi vitali della
civiltà.

Ora è altra cosa: tutti questi elementi, a cominciare dalla
popolazione, sono colpiti a morte, nelle provincie occidentali.
Già troppo scarsa in tempi prosperi, la popolazione era decimata
dalla guerra, dalle invasioni, dalla generale insicurezza,
dall’impoverimento, dalle epidemie. L’ostinazione con cui anche i
più saggi imperatori continuarono a trapiantar barbari nei territori
dell’Impero e specialmente in Occidente, nonostante il manifesto
pericolo, è la prova più luminosa di questo bisogno d’uomini.
Lo spopolamento, effetto della povertà, ne era a sua volta una
causa, poichè rovinava l’agricoltura, l’industria, il commercio.
I coltivatori, così i coloni liberi come i lavoratori schiavi, si
diradavano; s’assottigliava la piccola proprietà, s’allargava la
grande, dilatavano le terre incolte e abbandonate. L’industria, così
florida in tutto l’Impero sotto gli Antonini e anche sotto i Severi,
aveva profondamente sofferto, un po’ per la morte di molti artigiani,
che avevano portato nella tomba il segreto delle difficili perfezioni,
un po’ per la povertà crescente, che diminuiva il consumo.

Molte miniere, massime le miniere d’oro, sono abbandonate o per
mancanza di braccia, o perchè le regioni sono invase dai barbari;
i metalli preziosi sono tesaurizzati e nascosti, il capitale si fa
raro e l’interesse del 12 per 100, considerato ai tempi di Nerone
come eccessivo, diventa l’interesse mensile. La insicurezza generale,
la difficoltà delle comunicazioni, le restrizioni imposte dalla
crescente povertà, rallentano anche il commercio. Le piccole e le
medie fortune spariscono, e in mezzo alla miseria che aumenta, le
ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Le piccole città sono
abbandonate e si spopolano. Invece, nelle grandi, la popolazione si
accumula e aumenta il numero dei miserabili che, sotto una qualunque
forma di mendicità, vivono a spese dei ricchi e dello Stato. Lo Stato
diventa la provvidenza e il tormento di tutti. Il suo fiscalismo,
imposto dalla moltiplicazione della burocrazia, dalla mendicità
delle masse, dall’aumento delle spese militari, dalle inutili e
dispendiose costruzioni, è atroce e implacabile. Il peso delle imposte
è accresciuto dalla perturbazione monetaria. Parte per rimediare
alla crescente scarsezza dell’oro, parte per far fronte alle spese di
guerra e alle altre spese pubbliche, senza inasprire le imposte, gli
imperatori alterano il peso e la lega delle monete. Sotto Caracalla il
peso dell’_aureus_ era disceso a 6 gr. 55, ma dopo Alessandro Severo
diviene così irregolare, che i pagamenti in oro si fanno soltanto con
la bilancia. Peggio ancora, per le monete d’argento: le proporzioni
della lega del _denarius_ e dell’_antonianus argenteus_, emessi per la
prima volta da Caracalla, erano già aumentati senza misura fino dai
primi anni dopo la morte di Alessandro Severo. Ma sotto l’imperatore
Claudio il Gotico, l’antoniano non ha più che quattro o cinque parti
di argento su cento! Non si distingue dalla moneta di bronzo che
per il colore, fornito con un bagno d’argento e qualche volta di
stagno. Anche le monete di bronzo sono coniate a peso ridotto. Di
qui un vertiginoso aumento e una pazza irregolarità dei prezzi, che
riduce alla disperazione le disgraziate popolazioni, e contro cui gli
imperatori cercheranno invano di lottare a colpi di editti; di qui un
continuo impoverimento delle classi più numerose aggravato ancora, per
i disgraziati sudditi, dall’ordine, di pagare le imposte in oro. Lo
Stato rifiutava la cattiva moneta, di cui inondava l’Impero!

Dal disordine politico e dalla povertà il caos sociale. Sterminate o
disperse l’aristocrazia e la classe agiata, che durante il primo e il
secondo secolo erano stati i sostegni dell’Impero e ne avevano creato
la brillante civiltà fondendo l’ellenismo e il romanismo, le loro
ricchezze, o almeno quelle che non sono distrutte, e la loro potenza
passano a una nuova oligarchia d’arricchiti e di alti funzionari,
civili o militari, reclutata quasi tutta fra le classi inferiori e
tra le popolazioni più barbare, che solo da lontano avevan sentito
l’influenza del romanismo e dell’ellenismo. L’Impero ridiventa barbaro,
e dall’interno ancor più che dal di fuori, con questo arricchire e
salire degli elementi più rozzi, ancor più che per le invasioni dei
barbari dell’altra riva del Reno o del Danubio. S’abbassa, dappertutto,
il livello della cultura, nella filosofia, nel diritto, nella
letteratura; perchè i nuovi dominatori, quando non la sprezzano, la
ignorano.

Una raffinata cultura, fra i potenti, non è più regola, ma eccezione. E
la decadenza si stende a tutte le industrie e a tutte le arti, in cui
la civiltà greco-romana aveva eccelso e che ora diventano più rozze
e volgari; all’arte degli scultori, all’arte degli orafi, all’arte
degli architetti. Gli avanzi della ricchezza passata sono sprecati
in un lusso barbaro di cattivo gusto, spettacoloso, pesante, fatto
per sbalordire la gente rozza; o in piaceri e in feste violente e
disordinate o in edifici giganteschi e inutili, che ingombrano più che
non abbelliscano le poche città ancor floride in mezzo alla rovina
delle piccole. E più l’Impero si impoverisce e più l’architettura
pubblica colossaleggia. Inoltre, e questo è il colpo di grazia alla
civiltà antica, la religione che era stata il fondamento dello Stato
e della coltura antica, il _politeismo_ agonizza. I culti orientali
irrompono dappertutto, minacciano di sconvolgere moralmente il mondo,
già così perturbato dalle guerre e dalle rivoluzioni.


III.

Tuttavia, benchè dalla morte di Alessandro Severo e per più di
trent’anni, l’Impero in apparenza si sia abbandonato come un corpo
morto ai mali che lo distruggevano, c’erano ancora, in questa civiltà
agonizzante, ma che per tanti secoli era stata così vigorosa,
le forze atte a tentare una disperata resistenza. Nonostante la
barbarie invadente, le alte classi erano ancora sotto l’influsso di
una cultura troppo antica, troppo ricca e troppo grande, perchè gli
avanzi dovessero cessar di operare; e contavano ancora persone di
grande animo e di alta intelligenza. Nel 268 una congiura di generali
trucidò Galieno, e proclamò, questa volta, per succedergli non già
un inetto o un intrigante, ma il migliore uomo di guerra del tempo,
Claudio. Claudio, non lontano dall’antica Naissus (Nisch) sorprese
il grosso dell’esercito nemico, l’annientò e ne inseguì i resti con
spietato vigore. E chi sa quanto bene avrebbe potuto fare, se la
peste non l’avesse ucciso nel 270! Ma ebbe per successore, acclamato
dalle legioni di Pannonia, l’uomo che egli stesso aveva designato, uno
dei generali che aveva combattuto con lui contro Galieno, Aureliano.
Forte carattere e grande ingegno, come Claudio, Aureliano, arrivava
al buon momento, perchè i Goti, vinti da Claudio, erano soltanto
un’avanguardia. Nel 270, l’Italia era invasa dai Vandali e dagli
Alemanni, i quali, nel 271, distruggevano addirittura un esercito
romano presso Piacenza!

Aureliano fu il primo che cercò di fermare la decomposizione
dell’impero e il suo rimbarbarimento, con un vasto piano coerente di
riforme e di guerre. Vinse e distrusse a Pavia e a Fano l’invasione
germanica, liberandone l’Italia; ridusse di nuovo sotto il dominio
romano, l’Oriente, una parte del quale si era staccata dopo la morte
di Odenath, formando un impero di Siria sotto lo scettro della vedova
Zenobia; sbarazzò l’Impero da tutti i pretendenti e da tutti i piccoli
imperatori locali, pullulanti negli anni precedenti, e lo riunificò;
circondò Roma con la potente cerchia delle mura gigantesche che si
ammira ancor oggi. Per tutti questi meriti può con ragione essere
chiamato _restitutor orbis_.

Ma era una mente troppo vasta, da non capir che la ricostituita
unità sarebbe presto distrutta di nuovo, se non si trovava, pei mali
dell’Impero, qualche rimedio radicale. Due sue disposizioni meritano
d’esser segnalate, più che le altre. Pensando con ragione che l’Impero
era troppo esteso per le sue forze diminuite, Aureliano risolvè di
abbandonare il pericoloso saliente della Dacia, irrorata dal sangue dei
legionari di Traiano e dal sudore di molte generazioni di coloni, dando
il nome della provincia abbandonata a quella parte della Mesia che si
stendeva sulla riva destra del Danubio. L’altra disposizione è d’ordine
politico e religioso. Aureliano istituì ufficialmente il culto del _Sol
invictus_, proclamando religione di stato il _mitraismo_ latinizzato.

Per capire il valore di questa grande riforma, bisogna ricordare che
il mitraismo era un culto asiatico, nato da una fusione del masdeismo
con la teologia semita e con altri elementi, presi in prestito alle
religioni indigene dell’Asia Minore.

Era, come quasi tutte le religioni asiatiche, assolutista e monarchica,
perchè insegnava che i monarchi regnano per grazia divina e come
tali ricevono da Mitra gli attributi della divinità e ne diventano
consubstanziali. L’adozione del mitraismo come culto ufficiale era
dunque un atto di profonda politica; rappresentava uno sforzo, per
trovare nell’assolutismo mistico un principio di legittimità, che
sostituisse l’antica convalidazione del Senato, ora inefficace, e
sottraesse l’autorità imperiale ai capricci delle legioni, sempre
in rivolta. In mezzo all’anarchia in cui naufragava l’Impero,
Aureliano cerca insomma un nuovo principio d’autorità, e lo cerca là
dove soltanto poteva trovarlo, ora che s’erano estinti i principii
creati dal mondo greco e romano; nelle grandi monarchie assolute che
confinavano con l’Impero Romano dalla parte d’Oriente. Dopo la caduta
della repubblica, dopo la caduta del governo misto di monarchia e
di repubblica, ma di struttura greco-latina, con cui l’Impero si
era governato per più di due secoli, dopo la caduta della dittatura
militare dei Severi, pareva che non rimanesse ormai più, come forma di
governo, che l’assolutismo orientale, fondato sul principio religioso,
e in cui il sovrano era Dio.

Aureliano cerca insomma di tramutare l’impero greco-romano in un impero
asiatico. Tuttavia, questo sforzo, benchè ampiamente giustificato dalle
necessità politiche, sembra aver cozzato con una forte opposizione.
Verso la fine del 275, Aureliano cade a sua volta vittima di una
congiura di generali. Per che ragioni? Il punto è oscuro. Noi
sappiamo che, come rappresentante del _Sol invictus_, Aureliano aveva
incominciato risolutamente a ristabilire, nel vasto impero, l’ordine;
onde non pare improbabile che il suo zelo nel reprimere gli abusi di
cui soffriva il mondo romano, gli avesse procurato molti nemici. Ma
non è impossibile che la congiura sia stata in parte un movimento
di reazione del vecchio spirito greco-latino, contro l’assolutismo
mistico dell’Oriente, ormai vincitore. Un fatto curioso, che altrimenti
resterebbe inesplicabile, tenderebbe a persuadercene; le legioni, dopo
la morte di Aureliano, non vollero acclamare l’Imperatore e vollero
invece affidarne l’elezione al Senato. Sorpreso da un rispetto a cui
da molto tempo non era più avvezzo, il Senato cominciò col rifiutare;
scelse poi il più antico dei suoi membri, il _princeps senatus_, Marco
Claudio Tacito. Ma non si era più ai tempi di Traiano, e per aver
voluto governare come Traiano, Tacito fu trucidato dalle legioni, pochi
mesi dopo che era stato eletto.

Ricominciò la guerra civile. Una parte delle legioni elesse Floriano,
un’altra Probo, che era uno dei migliori generali di Aureliano. Probo
prevalse; e quantunque discepolo di Aureliano, continuò la politica di
Tacito; riconobbe l’autorità del Senato, cercando così di consolidare
la propria; gli restituì il diritto di giudicare in appello nei
processi penali, di nominare i governatori, e anche di ratificare
le costituzioni imperiali. Come spiegare questo ultimo tentativo di
governar l’Impero con l’appoggio del Senato, dopo 50 anni di torbidi e
guerre civili, proprio quando il Senato non era più che un’ombra, se
non si ammette che l’assolutismo mistico di Aureliano aveva irritato
o spaventato quanto sussisteva ancora dell’antico spirito latino?
Ma questo tentativo non riuscì meglio che il precedente. Benchè
Probo fosse stato un generale molto abile, fu vittima, anch’egli,
dell’implacabile violenza delle legioni; e ritornò l’anarchia. Le
legioni elessero allora M. Aurelio Caro, che si affrettò a dare
ai suoi figli, Carino e Numeriano, il titolo di Cesare, e si mise
immediatamente in guerra con la Persia. Aveva già occupato Seleucia e
Ctesifone, quando, alla fine del 283, perì colpito, secondo gli uni
dal fulmine, secondo altri da una congiura militare. Numeriano, che
l’aveva accompagnato, era un poeta, inadatto a comandare l’esercito,
in un’impresa così difficile. Fu dunque deciso il ritorno. Ma per la
strada anche Numeriano morì. Si accusò allora, apertamente, il prefetto
del pretorio. Un’inchiesta fu ordinata e affidata a un tribunale di
generali, che elesse imperatore, il 17 settembre del 284, il comandante
delle guardie del corpo: Diocleziano.


IV.

Diocleziano è dopo Claudio e Aureliano, il terzo dei grandi uomini
usciti dal barbaro caos del terzo secolo. Egli riprende risolutamente
il piano di Aureliano, arrestato dall’ultima reazione del vecchio
spirito romano e senatorio: fare, dell’Impero romano un impero
asiatico, nelle mani di un sovrano assoluto il quale, agli occhi dei
sudditi, sia come la incarnazione della divinità. Vedremo più innanzi
come cercò di mettere in pratica questo vasto disegno e a che cosa
riuscì. Per ora, ci limiteremo a osservare che la trasformazione
dell’Impero in una monarchia asiatica, e la divinizzazione del sovrano,
tentata da Aureliano e ripresa da Diocleziano, erano i soli mezzi ai
quali potesse ricorrere lo Stato per ristabilire, nel caos in cui si
dibatteva, un principio di legittimità sostituibile all’autorità del
Senato. E si sarebbe detto che tutte le condizioni per il successo
concorrevano in quel tempo. Le tradizioni greco-romane erano troppo
indebolite per opporre una lunga resistenza. La ricostruzione di un
governo, che non disponesse solo della forza, ma anche di un’autorità
morale, era oramai, nell’Impero, necessaria perchè si trattava di
vita o di morte. In tutto il mondo civile conosciuto dai Greci e
dai Romani, non c’era allora altro principio d’autorità che potesse
essere assunto dall’Impero in rovina. Il lungo duello fra l’Asia e la
Grecia, tra l’Asia e Roma, pareva esser sul punto di finire col trionfo
completo dell’Asia; perchè erano esaurite tutte le forze di resistenza
che la civiltà greco-latina aveva opposto all’assolutismo mistico
dell’Oriente. L’Europa stava per diventare un’appendice dell’Asia e
cadere anch’essa sotto uno di quei governi assoluti, che aveva per
tanti secoli disprezzati. Quando tutto a un tratto si levò un altro
avversario, ben più formidabile della cultura greco-latina, addirittura
invincibile: il cristianesimo.

Durante i lunghi torbidi del terzo secolo, il Cristianesimo si
era sparso in tutto l’Impero e in tutte le classi, era penetrato
nell’Esercito, nel Senato, nella Corte; aveva conquistato i poveri
e i ricchi; gl’ignoranti e i colti; aveva già creato una abbondante
e profonda letteratura teologica; aveva costituito una gerarchia
semplice, ma solida, e non fondata sulla forza, come la gerarchia
imperiale, ma soltanto sull’autorità.

Ogni chiesa contava un clero numeroso, composto di Diaconi, i quali
formavano il personale di servizio, di Anziani, che formavano il
personale dirigente, e del Vescovo che era, con pieni poteri, il capo
della chiesa. Il vescovo, nominato a vita, era eletto dal clero,
con il consenso dell’assemblea; nominava i diaconi e gli anziani,
e, all’epoca di cui ci occupiamo, era già un personaggio importante
nella città, non solo perchè molti erano i fedeli, ma anche perchè il
cristianesimo aveva già organizzato quel meraviglioso sistema di opere
di assistenza e di beneficenza, che fu la sua più grande creazione
sociale e una delle cause del suo trionfo. Le comunità cristiane
provvedono dappertutto, non solo alle spese del culto e al mantenimento
dei suoi ministri, ma anche al soccorso delle vedove, degli orfani,
dei malati, degli impotenti, dei vecchi, degli operai disoccupati, di
quelli che sono stati condannati per la causa di Dio; si occupano di
riscattare i prigionieri portati via dai barbari, di fondare delle
chiese, di prendersi cura degli schiavi, di seppellire i poveri, di
ospitare i correligionari stranieri, di raccogliere delle sovvenzioni
per le comunità in bisogno e minacciate. I beni, che posseggono le
comunità cristiane, provengono per la massima parte da doni dei ricchi,
che in gran numero, sia in vita che dopo la morte, lasciano alla chiesa
una parte o tutta la loro sostanza. La chiesa accumulava così i beni
di una parte delle classi superiori, in una gigantesca mano morta, le
cui rendite erano spese in favore di tutti gli uomini colpiti dalla
sventura, sotto ogni forma. Non è difficile capire che strumento di
potenza quella ricchezza accumulata, e le istituzioni di assistenza
e di beneficenza che poteva sostenere, fossero in mezzo alle calamità
del terzo secolo... Le chiese cristiane apparvero allora come un porto
nella tempesta. Mentre le anime elevate arrivavano al cristianesimo
attraverso le prove del loro dolore e la visione del dolore altrui, o
con uno slancio supremo verso la pace e la beatitudine, per il disgusto
del mondo contaminato e sconvolto, le folle erano attirate alla nuova
fede dalla generosa assistenza di cui la chiesa era larga ai miseri
e che animava un soffio divino di carità, sconosciuto all’assistenza
ufficiale, o alla protezione politica delle grandi famiglie dell’antico
Stato pagano. Se la fede legava i fedeli alla Chiesa, altri legami
materiali rinforzavano efficacemente la potenza e l’autorità della
religione; le elemosine, i sussidi, l’assistenza, le funzioni, le
cariche ecclesiastiche e le rendite annesse, la gestione delle terre
di recente acquistate, che impiegava un numero grande di agenti, di
schiavi, di lavoratori, di coloni, di amministratori.

Il Cristianesimo era dunque diventato una potenza spirituale e
temporale insieme. Ma non godeva affatto, come il mitraismo, della
benevolenza imperiale. Se è esagerato dire, come pretendono alcuni
storici, che tutti gli imperatori del terzo secolo furono contrari
ai Cristiani, è certo che il Cristianesimo ebbe in quel mezzo secolo
a soffrire gravi persecuzioni e che fu sempre considerato dalle
autorità pubbliche, anche nei momenti in cui le sanguinose persecuzioni
erano sospese con un’ostile diffidenza, che contrasta assai col
favore concesso al mitraismo. Quale è la ragione profonda di questo
atteggiamento, che ha lasciato dei ricordi così tragici nella storia
della Chiesa? Lo spirito stesso del Cristianesimo.

Alla stregua dell’Impero e dei suoi vitali interessi politici, non c’è
dubbio che il Cristianesimo era una forza di dissoluzione. A mano a
mano che si aggravava il disordine del terzo secolo, la nuova religione
osa sostenere, con più o meno fervore, a seconda delle sette, che il
cristiano non deve cercare nè le cariche pubbliche, nè gli onori, nè i
posti in cui la fede possa essere in pericolo, ossia i posti più alti e
i più importanti; perchè, se non vuol perdere l’anima, gli è proibito
di prender cura dei templi, di organizzare i giochi dei circhi, di
giudicare e perseguitare i suoi fratelli. Il mondo in cui gli altri
uomini vivono e godono, è contaminato da una religione e da una
civiltà che Cristo ha maledette; non v’è gioia, nè dolore, nè prezzo,
nè castigo, che possano indurre a partecipare alle pericolose vanità
di quella corrotta esistenza il perfetto cristiano, che aspira solo a
uscire quanto prima da questa valle di peccato e di lagrime. A rigor di
logica, dovere del cristiano sarebbe distruggere l’impero; non lo fa,
come dice Tertulliano, perchè è troppo compenetrato dalla dottrina e
dall’abitudine della dolcezza, e perchè la violenza gli ripugna. Ma che
non si mescoli mai alla sua vita di peccato e di empietà! Piuttosto la
morte o la miseria.

Possiamo facilmente immaginare che effetto, sugli spiriti alti,
producevano queste dottrine, in tempi in cui le funzioni pubbliche
diventavano così pesanti e così pericolose; in cui le razze barbare si
impadronivano dello Stato, e le qualità violente dello spirito umano
erano sempre più necessarie al governo. Il Cristianesimo distruggeva
l’impero con l’astensione, privando l’amministrazione imperiale e le
amministrazioni municipali di un grande numero di persone intelligenti
e colte delle classi superiori; accaparrandosi e unendo gli uomini
migliori, le anime nobili e alte.

La vita di S. Agostino ci mostrerà un po’ più tardi, in un caso
celebre, come gli spiriti superiori, preferivano alla fine la religione
alla politica, la Chiesa alle cariche pubbliche. Ma già al terzo secolo
molti cittadini, destinati dalle leggi alla gestione degli affari
pubblici, preferivano dare i loro beni alla Chiesa e sottrarsi con
la povertà alle pesanti responsabilità del potere; altri sfuggivano
con diversi mezzi che saranno parzialmente biasimati dagli stessi
imperatori cristiani; il celibato, santificato dalla religione,
si diffonde ancora più che nei momenti critici del mondo pagano. E
l’esercito soffriva di questa astensione anche più che gli impieghi
civili. Già fino dal secondo secolo, il cristianesimo aveva dichiarato
che non era permesso d’essere «uomo di spada» e che «il figlio della
pace», il quale non può nemmeno intentare un processo, può ancor meno
prender parte a una battaglia; aveva insomma affermato che il servizio
militare e il cristianesimo erano incompatibili poichè «il signore,
disarmando Pietro, dimostrò chiaramente la volontà che ogni soldato
deponesse la sua spada». Al soldato cristiano non restava dunque che
«abbandonare immediatamente l’esercito, e risolversi a soffrire per
Cristo la sorte di tutti gli altri cristiani». I canoni della Chiesa
di Alessandria sconsigliavano il volontariato e affermavano con
autorità che il cristiano non deve portar armi. Lattanzio mette sullo
stesso piano l’impossibilità di eseguire o di aiutare ad eseguire una
condanna di morte e di prender parte a una guerra, perchè al principio
divino che proibisce di uccidere «non si può fare nessuna eccezione».
S. Agostino dimostrerà un po’ più tardi, che per il buon cristiano è
indifferente vivere sotto questo o quel Governo, obbedire all’Impero
o ai barbari, purchè lo Stato non l’obblighi a commettere empietà o
iniquità.

In tutta la storia del genere umano non v’è forse tragedia comparabile
a questa. Per dieci secoli, la civiltà antica aveva infaticabilmente
lavorato a creare lo Stato perfetto: saggio, umano, generoso, libero,
giusto, capace di far regnare nel mondo la bellezza, la virtù e la
verità. Questo Stato perfetto era stato la suprema ambizione della
Grecia e di Roma, di Roma repubblicana come di Roma imperiale.
Guerrieri e uomini di stato, filosofi e oratori, poeti e artisti,
avevano consumato il fiore delle loro energie, per secoli e secoli, in
quest’opera immensa. Aristide e Pericle, Scipione e Augusto, Platone
e Aristotele, Demostene e Cicerone, Omero e Virgilio, Orazio e Tacito,
Vespasiano e Marco Aurelio, erano stati i collaboratori di quell’unica
creazione. E questo sforzo meraviglioso di tanti secoli e di tanti
geni, terminava nel terzo secolo della nostra era, nel maggior caos di
disordine, che si fosse mai visto; nel dispotismo violento e corrotto
della forza bruta spoglia di ogni autorità morale; nella distruzione
della più raffinata civiltà, nella necessità d’inginocchiarsi innanzi
a un sovrano asiatico come se fosse un Dio incarnato, per riuscire a
salvare quello che poteva essere ancora salvo del vecchio mondo e dei
suoi tesori. Il servaggio monarchico, che per tanti secoli era apparsa
allo spirito greco-romano come la più abbietta e la più ignominiosa
delle schiavitù, era la ricompensa suprema dello sforzo con cui i due
più grandi popoli antichi avevano voluto creare lo Stato perfetto!
Quale civiltà, dinanzi a questo disinganno, non avrebbe disperato di sè
e dell’avvenire?

Ma il Cristianesimo salvò il mondo antico da questa suprema
disperazione, con la più audace, originale, e grandiosa rivoluzione
spirituale che la storia ricordi, rovesciando il punto di vista
antico, affermando che l’essere uno Stato buono o cattivo, giusto o
iniquo, saggio o folle, poteva importare a coloro che governavano o che
commettevano il male; ma lasciava indifferenti i governati o coloro che
avessero a soffrire dell’iniquità dei potenti. Fine supremo della città
è la perfezione religiosa e morale del singolo; a questa perfezione
ognuno può arrivare con il suo sforzo personale, qualunque sia il
governo, buone o cattive che siano le sue istituzioni. L’uomo non ha
che un solo padrone vero: Dio; se serve con pietà il Signore unico e
supremo, se merita il suo amore e le sue lodi, il resto non conta. I
potenti della terra diventano impotenti.

Questa nuova visione della vita, con la quale il Cristianesimo
capovolse le basi intellettuali e morali della civiltà antica, trionfa
definitivamente, in mezzo al terrificante disordine del terzo secolo,
come suprema reazione a questo disordine. Immensa sarà l’influenza,
che questa nuova visione della vita dovrà esercitare sul futuro, perchè
darà per secoli una nuova direzione a tutta la civiltà occidentale.




CAPITOLO TERZO

DIOCLEZIANO E LA RIFORMA DELL’IMPERO


I.

L’uomo che le legioni avevano eletto per succedere a Caro, era un
dalmata, come Claudio e come Aureliano, benchè fosse di nascita anche
più oscura. Una tradizione lo vuole persino figlio di liberto. Fin
dalla prima giovinezza era stato soldato, e s’era fatto alla scuola di
tre grandi generali: Claudio, Aureliano e Probo. Ma questo barbaro e
questo soldato era un uomo di genio.

Appena eletto, Diocleziano dovette sostenere una guerra civile. Carino,
che aveva combattuto contro gli Jazigi, non voleva rinunziare alla
successione del padre. Le due parti si prepararono molti mesi alla
battaglia; e nella primavera del 285 si diedero battaglia in Mesia.
Sembra che Diocleziano avrebbe avuto la peggio, se Carino, non fosse
stato ucciso da uno dei suoi ufficiali. Ma la nuova guerra civile
aveva provocato una di quelle perturbazioni, a cui l’Impero ormai
era avvezzo. Le provincie, abbandonate a sè medesime per lunghi mesi,
s’erano messe a proclamare nuovi pretendenti. Una rivolta di contadini
rovinati e di debitori insolvibili, l’insurrezione dei Bagaudi era
scoppiata in Gallia. Sulle frontiere, i barbari ricominciavano ad
agitarsi e i pirati a turbare le coste della Gallia e della Britannia.
Diocleziano capì che il compito era troppo pesante per un solo
imperatore; e poco dopo la sua elezione, nella seconda metà del 285,
chiamò a dividere le responsabilità del potere un compagno d’arme,
Massimiano, figlio di un colono della Pannonia, dei dintorni di Sirmio.
Soldato valoroso, ma solamente soldato, è probabile che Massimiano
fosse scelto dapprima non come collega, ma come luogotenente sicuro e
fedele, tanto è vero che non ricevette il titolo di Augusto, ma quello
di Cesare. Senonchè Massimiano essendo riuscito a domare la rivolta
dei Bagaudi in poche settimane, Diocleziano nel 296, mutò parere, gli
conferì il titolo di Augusto, e rese pari, almeno in teoria, i poteri
dei due capi di stato, senza alterare l’unità politica e legislativa
dell’Impero. Ciascuno dei due Augusti aveva, è vero, il suo esercito,
il suo prefetto del pretorio, il suo bilancio particolare, ma comuni
restavano le leggi e il danaro, e gli atti pubblici apparivano firmati
dai due nomi insieme. Il nome di Diocleziano, tuttavia, era primo, e la
sua volontà era sempre preponderante, perchè, quantunque il suo potere
non fosse più grande di quello di Massimiano, la sua autorità e il suo
valore erano ben superiori. L’amministrazione e le forze militari degli
Augusti erano distinte ma senza limiti invarcabili, poichè essi non
esitarono mai a penetrare per qualunque motivo nei territori che erano
loro rispettivamente affidati.

A capo dell’Impero, insomma, non c’era più un imperatore, ma due,
uguali in potenza, così come durante tanti secoli, c’erano stati
due consoli alla testa della Repubblica. Del resto questa riforma,
già tentata da Valeriano, era ormai necessaria, poichè l’Impero era
minacciato da tutte le parti. Approfittando della rivolta dei Bagaudi,
di nuovo Eruli, Burgondi, Alamanni passavano il Reno; il comandante
della flotta incaricata di dar la caccia ai pirati sassoni e franchi,
un certo Carausio, s’accordava segretamente con loro, e, condannato
a morte da Massimiano, prendeva in Britannia il titolo d’Augusto, e
si impadroniva dell’isola e di qualche città della costa della Gallia
e creava una flotta potente, con la quale sfidava l’autorità dei due
imperatori legittimi. Le cose non procedevano meglio in Oriente, ove
l’Impero continuava a essere minacciato, come dopo Valeriano, ossia da
quando Roma aveva perso la sua difesa maggiore contro il nuovo impero
dei Sassanidi: l’Armenia. Non erano dunque troppi due imperatori, uno
in Oriente e uno in Occidente. Infatti, mentre Massimiano riusciva
a respingere, sul Reno, la nuova invasione germanica, Diocleziano
cercava di rientrare in Armenia con gli intrighi più che con le guerre,
approfittando di alcune contingenze favorevoli. La guerra civile
aveva indebolito l’Impero persiano, a tal punto che il re Bahram
aveva mandato ambasciatori a Diocleziano sollecitandone l’amicizia;
l’Armenia era stanca e scontenta del dominio persiano; l’erede della
corona armena, Tiridate, viveva a Roma in esilio, e del tutto contro
voglia. Diocleziano lo spinse e lo aiutò segretamente a riconquistare
il trono; e Tiridate, approfittando delle difficoltà del Re di Persia
e dello scontento dell’Armenia, riuscì, con un colpo di mano abilmente
preparato, a riprendere possesso del regno dei padri. L’Armenia si
trovò di nuovo sotto l’influenza di Roma; e il re dei Persiani, che non
era in grado di ricorrere alle armi, si rassegnò a riconoscere il fatto
compiuto.

Questo buon successo sollevò le sorti dell’Impero in Oriente benchè
un nuovo nemico — i Sarracini, venuti dai deserti di Siria e d’Arabia
— fosse comparso in territorio romano, saccheggiando, e benchè
l’Egitto si agitasse per ragioni che non conosciamo. Ma in Occidente
non diminuivano le difficoltà. Massimiano non aveva potuto debellare
Carausio, che aveva arruolato un esercito di Franchi e di Sassoni;
di nuovo si avvertivano minacciosi movimenti in Germania, dove Goti,
Vandali, Gepidi e Burgondi erano in armi. Nell’Europa Orientale si
agitavano anche i Sarmati; e ricominciavano le sedizioni degli indigeni
nella Mauritania e nella Numidia. I due Augusti si sforzavano di
tener testa a tutte queste difficoltà, volando da un capo all’altro
dell’Impero, conferendo a questo o a quel generale i più estesi poteri
civili o militari, facendo talvolta di necessità virtù e riconoscendo,
poichè non lo potevano vincere, Carausio, come terzo Augusto.

Ma dopo alcuni anni Diocleziano e Massimiano si convinsero che anche
due Augusti non bastavano al compito; e nel 293, Diocleziano divise
ancora l’Amministrazione dell’Impero, dando ai due Augusti due nuovi
collaboratori ufficiali, ma di grado inferiore: i Cesari. Uno dei due
ufficiali chiamato a così alta carica fu Galerio, soldato energico
e valente, senza cultura raffinata, originario della Dacia. L’altro,
Costanzo, soprannominato Cloro per la sua cera pallida, discendeva per
linea materna da Claudio il Gotico; era di famiglia facoltosa, di dolce
temperamento e di spirito colto: un aristocratico smarrito tra gli
uomini nuovi che governavano l’Impero. Le provincie furono distribuite
fra i quattro imperatori, in questa maniera: Diocleziano si tenne
la parte più orientale dell’Impero, la Bitinia, l’Arabia, la Libia,
l’Egitto, la Siria; Galerio ebbe la Dalmazia, la Pannonia, la Mesia, la
Tracia, la Grecia, e l’Asia Minore; Massimiano ebbe Roma, l’Italia, la
Rezia, la Sicilia, la Sardegna, la Spagna e tutto il resto dell’Africa;
Costanzo, la Bretagna e la Gallia. Per le ragioni stesse della loro
nomina i capi dell’Impero non dovevano risiedere in Roma, ma vicino
alle frontiere: Diocleziano a Nicomedia, in Bitinia; Galerio a Sirmio,
in Pannonia; Massimiano a Milano; Costanzo a Treviri, in Gallia.


II.

La moltiplicazione degli imperatori, come abbiamo già osservato a
proposito di Valeriano, era un rimedio di natura geometrica, mentre
il male di cui moriva l’Impero era un male di natura morale. Da
solo, questo rimedio non poteva essere più efficace ai tempi di
Diocleziano che in quelli di Valeriano. Avrebbe anzi potuto affrettare
lo smembramento dell’Impero, spingendo gli imperatori a rendersi
indipendenti. Ma Diocleziano integrò questa divisione dell’Impero
con una profonda e organica riforma di tutta la suprema istituzione.
Nel 293 questa grande riforma era compiuta, e doveva dare ai quattro
imperatori una legittimità più certa e rispettata insieme con più
potenti ed efficaci organi di governo, aumentando nel tempo stesso
la forza e l’autorità della carica suprema. Ripigliando la via che
Aureliano aveva seguita, ma con più prudenza, Diocleziano accettò
solennemente il principio della divinità degli imperatori, facendola
però derivare non da un Dio orientale ed esotico, ma da due antiche
divinità dell’Olimpo romano — Giove ed Ercole — le quali così venivano
ad assumere l’ufficio proprio di tanti dei, di Mitra per esempio, nei
culti asiatici, di protettori e legittimatori della monarchia. Egli
tenta insomma di infondere nelle arcaiche forme del politeismo romano e
repubblicano, un po’ dello spirito monarchico dei culti asiatici.

Gli imperatori sono _a Deis geniti et deorum creatores_; Diocleziano
prende il titolo di _Jovius_ poichè il Dio da cui discende è Giove,
la mente suprema; Massimiano quello di _Herculius_ poichè discende
da Ercole, il dio della forza e il collaboratore di Giove nella lotta
contro i Titani; i sudditi e l’esercito giurano sul loro nome, come un
tempo su quello di Giove e di Ercole[1].

Questa nuova maestà divina dell’Impero è inculcata in forme tangibili
e visibili nella coscienza dei sudditi. I rapporti fra costoro e gli
imperatori, e tutti gli atti esterni della sovranità, sono legati da un
cerimoniale, ignoto nei primi due secoli della nostra era. L’Imperatore
deve portare un diadema a raggiera, come i grandi monarchi orientali;
le sue vesti e le sue calzature sono adorne e sparse di pietre
preziose. Non è più, come Augusto, Trajano e Vespasiano, un semplice
mortale, che tutti possono avvicinare a qualunque ora del giorno, o che
s’accosta agli altri uomini con familiarità, aprendo facilmente la casa
a tutti i cittadini liberi. Per rivolgergli la parola bisogna osservare
un protocollo e quando si è arrivati al suo cospetto è di rigore
prosternarsi in segno di adorazione. L’assolutismo orientale trionfa
finalmente sulle rovine dell’ellenismo e del romanismo, quasi distrutti
dalla grande crisi del terzo secolo, nell’Impero che ormai popolano in
gran parte, e governano i barbari.

Ma non sarebbe stato così utile conferire al potere supremo una più
grande autorità e un prestigio divino, se la pluralità delle persone,
che dovevano adoperarlo, ne fosse stata un indebolimento. Benchè
diviso tra quattro sovrani il potere supremo, secondo Diocleziano,
doveva restare una monarchia, ossia un’unità. Come cercò di risolvere
l’insolubile problema di costruire un governo dotato di unità forte
con quattro sovrani? Prima, subordinando i due Cesari ai due Augusti
e assicurando a se stesso, tra i due Augusti, l’ufficio di regolatore
e di coordinatore supremo. Il suo titolo di _Jovius_ accanto a
quello di _Herculius_, concesso a Massimiano, indica una superiorità.
Inoltre applica alla monarchia divinizzata, mediante l’istituto romano
dell’adozione, il principio dinastico della monarchia asiatica, che
già nel primo e nel secondo secolo s’era infiltrato nella costituzione
dell’autorità suprema dell’Impero romano. Augusti e Cesari formano una
sola famiglia; e come Massimiano era stato adottato da Diocleziano, i
due Cesari sono adottati dai due Augusti, ripudiano le loro mogli per
sposare le figlie degli Augusti, che li hanno adottati come figli;
specie di incesto dinastico, che ci richiama la monarchia egizia
dei Faraoni e dei Tolomei. Aggiungendo al principio religioso e al
principio dinastico il principio della cooptazione, si poteva creder
risolta, con una contaminazione di romanesimo e di orientalismo, tra le
questioni dell’autorità suprema, quella più spinosa, che, da più di tre
secoli, turbava invano l’Impero: la successione. Morendo un Augusto il
suo Cesare doveva prenderne il posto e nominare a sua volta un altro
Cesare, che farebbe entrare nella famiglia divina dei padroni del
mondo.

Ma non solo d’autorità aveva bisogno il potere supremo, per guarir
le piaghe d’Europa; gli era necessaria anche la forza, ossia organi
abili, sicuri, obbedienti. Diocleziano cercò di infondere questa nuova
forza nello Stato, creando una burocrazia che non dipendesse più dal
Senato, ma unicamente ed esclusivamente dall’Imperatore-Dio, come nelle
monarchie asiatiche. Forse non trascurò di rendere nota al Senato la
sua elezione al trono e le elezioni successive, nè di rispettare certe
forme consacrate dalla tradizione. Ma è certo che il Senato, come
corpo politico, è annullato, perchè se si possono ascoltare ancora
i suoi consigli, non c’è più obbligo di seguirli; perchè non ha più
provincie da amministrare, tutte essendo passate sotto la giurisdizione
dell’imperatore; perchè è escluso dalla direzione politica e sostituito
dal _concistorium principis_, composto da tutti i grandi funzionari
dello Stato. E’ questo il corpo nuovo che esamina, come l’antico
Senato, le questioni di carattere legislativo. Tutta l’Amministrazione
dipende dunque dall’Imperatore e dal _concistorium principis_, che ne è
il rappresentante supremo; è composta da una burocrazia reclutata senza
considerazioni di rango sociale, di origine o di nazionalità; e in cui
tutti i sudditi dell’Impero, e anche gli stessi barbari, non tarderanno
a essere ammessi a condizioni pari.


III.

Era questa, dal punto di vista delle tradizioni greco-latine, una
grande rivoluzione. Tanto la civiltà greca come la civiltà latina
posavano sul doppio principio aristocratico dell’ineguaglianza
necessaria e quasi mistica dei popoli e delle classi; ossia sul
principio della superiorità innata ed eterna dei greci o dei
romani sugli altri popoli; e su quello della superiorità innata
ed eterna delle classi che avevano il privilegio di comandare sui
semplici mortali. Perciò i governi greci e latini furono quasi tutti
aristocratici, e si ressero sul privilegio ereditario di una piccola
oligarchia, che sola aveva le qualità del governo; mentre i tentativi
di governi veramente democratici, in cui potevano regger le cariche
uomini d’ogni classe, anche di quelle medie e popolari, furon rari e
di poca durata. Il più celebre fu quello di Atene, ma sappiamo come
andò a finire. Quanto a Roma, non fu mai governata dalla democrazia,
anche ai tempi più agitati della Repubblica; e lo stesso Impero
romano, fino a Caracalla, cioè fino al principio del terzo secolo, era
ancora governato da quella che potremmo chiamare l’aristocrazia di una
aristocrazia. L’ordine senatorio e l’ordine equestre, a cui spettava
il privilegio di reggere tutte le alte cariche dell’Impero, erano
un’aristocrazia raccolta fra i cittadini romani, che, a loro volta,
nobili e plebei, ricchi e poveri, colti e ignoranti, costituivano tutti
insieme, tra le popolazioni dell’Impero, una seconda aristocrazia,
dotata da importanti privilegi e sottomessa a uno speciale diritto
penale. La civiltà greco-latina era dunque fondata sulla potenza
delle _élites_; e questa potenza, a sua volta, era fondata sull’idea
che gli uomini e i popoli sono moralmente disuguali. Una delle
conseguenze di questo carattere aristocratico dello Stato e della
società greco-latina, era la limitazione di tutti gli organi politici e
amministrativi. Riesce difficile a noi capire perchè Roma, all’apogeo
della sua potenza, esitò così spesso ad allargare le sue conquiste e
ad ingrandire l’Impero. Ma un’aristocrazia è un corpo chiuso, che non
si improvvisa e non si sviluppa a volontà, come si può improvvisare
e sviluppare una burocrazia raccolta in tutte le classi e in tutte le
nazioni; per questo Roma dovette badar sempre a non far l’Impero così
grande, che il numero degli amministratori e degli ufficiali superiori,
dei quali unica fornitrice era l’aristocrazia, non diventasse, a
un tratto, insufficiente; e per questo anche si sforzò sempre di
amministrare l’Impero con la minor quantità di funzionari, che gli era
possibile. Benchè non ci sia possibile citare cifre esatte, risulta
indirettamente da tutto quello che sappiamo sulla storia interna ed
esterna dell’Impero, che i quadri dell’Amministrazione romana furono,
relativamente, assai ristretti, sino al termine della dinastia degli
Antonini. Amministrare con un minimo di funzionari fu regola costante
del governo imperiale, appunto perchè era un governo aristocratico.

Nei tempi, di cui parliamo ora, il Cristianesimo aveva già inflitto,
nel dominio ideale, un colpo mortale allo spirito aristocratico della
civiltà antica, affermando che tutti gli uomini, come figli dello
stesso Dio, sono uguali innanzi a lui. La dottrina dell’uguaglianza
morale degli uomini era già stata enunciata da alcuni grandi filosofi
dell’antichità; ma solo il Cristianesimo riuscì a farla penetrare
nella coscienza universale, distruggendo fino dalle fondamenta il vero
governo aristocratico, e creando la democrazia moderna. Dal giorno
in cui fu distrutto, nella coscienza delle masse, il principio che
affermava esser gli uomini, anzichè uguali, moralmente disuguali,
l’aristocrazia rimase ancora come convenzione sociale, accettata, in
certe epoche, per utilità, ma cessò di essere quella forma organica e
quasi sacra della società civile, che era stata nell’antichità. Il che
spiega come nel mondo cristiano e mussulmano i governi aristocratici
sono stati sempre governi deboli, e nulla più che pallide imitazioni
delle vere e grandi aristocrazie del mondo antico.

A sua volta Diocleziano inflisse al principio aristocratico,
nell’ordine reale, un colpo mortale, con la sua riforma
dell’amministrazione.

Non si può non sospettare un nesso segreto tra questi due fatti, perchè
i progressi del Cristianesimo furono una preparazione necessaria per
la riforma di Diocleziano. Ma ragioni di ordine sopratutto politico
spinsero l’Imperatore a questa riforma; e, fra queste ragioni, la più
grave fu la necessità di sostituire all’organizzazione aristocratica
dell’Impero, distrutta dalle turbolenze del terzo secolo, una nuova
organizzazione che fosse adatta alle esigenze politiche e militari,
create da queste stesse turbolenze. La scarsezza del personale,
la piccolezza degli organi politici e amministrativi, paragonati
alla grandezza dell’Impero da governare, erano state tra le cause
della catastrofe, nella quale, durante gli ultimi cinquant’anni,
l’aristocrazia dell’Impero era perita. Bisognava creare una
amministrazione, che disponesse di forze e di organi adeguati, non solo
alla grandezza dell’Impero, ma anche allo sforzo sempre più intenso
che lo Stato doveva compiere, per arginare l’universale dissoluzione.
E come raccogliere quest’amministrazione, ora che l’aristocrazia, già
insufficiente nel secondo secolo, era ormai quasi totalmente scomparsa,
se non scegliendo i funzionari in tutte le classi e in tutte le
popolazioni?

La moltiplicazione delle cariche e dei funzionari, in alto e in basso,
fu dunque uno dei principii della grande riforma di Diocleziano.
Per la prima volta, nella storia di questo Impero fondato da
un’aristocrazia militare, Diocleziano separa l’amministrazione civile
dall’amministrazione militare, e mette alla testa di ogni provincia due
funzionari con i loro rispettivi impiegati; il _praeses_, o governatore
civile; il _dux_ o governatore militare. Questa riforma, imitata
forse dall’antico impero persiano, aveva certo due fini; rendere più
difficili, con la divisione dei poteri, i pronunciamenti delle legioni
nelle provincie, e le continue proclamazioni dei nuovi imperatori, vero
flagello del terzo secolo; rimediare all’insufficienza dell’elemento
militare che, reclutato quasi unicamente nelle provincie meno civili,
non aveva sempre le qualità necessarie al governo civile di un impero,
erede ancora, per quanto in decadenza, di una gloriosa cultura.

Ma intanto è distrutto un altro principio vitale della civiltà antica:
l’unità di tutte le funzioni pubbliche. La divisione dell’autorità
civile dall’autorità militare, che ci sembra uno dei progressi
politici più importanti della storia della civiltà, appare per la prima
volta nella storia dell’Impero romano come un espediente di tempi in
decadenza. E non basta: a questa è legata un’altra riforma, che si
potrebbe definire lo spezzettamento delle provincie. Diocleziano non
si limita, come Valeriano, a moltiplicare il numero degli imperatori;
moltiplica anche quello dei governatori, assegnando a ciascuno un
territorio più ristretto perchè possa governarlo più facilmente,
e perchè, disponendo di poche forze, non diventi pericoloso.
Così, nell’anno 297, invece di cinquantasette, come erano al tempo
dell’elezione di Diocleziano, troviamo novantasei governatori civili
per le provincie.

Nello stesso tempo, per impedire che lo spezzettamento delle provincie
indebolisse l’Impero e la forza dell’autorità centrale, Diocleziano
istituì la _Diocesi_. Le _Diocesi_ erano state fino ad allora
suddivisioni fiscali e giudiziarie delle provincie. La _Diocesi_ di
Diocleziano è l’aggruppamento di molte provincie in una circoscrizione
superiore, sotto gli ordini di un magistrato nuovo: il _vicario_.
I vicari sono dodici: cinque in Oriente, coi nomi di _Oriens,
Pontica, Asiana, Thracia, Moesiae_; e sette in Occidente, coi nomi di
_Pannoniae, Britanniae, Galliae, Viennesis, Italia, Hispaniae, Africa_.
D’ora innanzi, ci saranno dunque, alla testa dell’Impero, due Augusti
e due Cesari. Immediatamente sotto di loro dodici vicari alla testa di
altrettante diocesi; e al fianco di costoro, e allo stesso piano, i
proconsoli, governatori di certe provincie privilegiate. Finalmente,
sotto i vicari, i _praesides_, o alle volte dei _consulares_ o
_correctores_ come sono detti indifferentemente i governatori delle
nuove provincie ridotte. A fianco di questa gerarchia civile stanno
i _duces_, capi militari, che hanno poteri territoriali per ragioni
militari, senza corrispondenza con le provincie o le diocesi in quanto
all’estensione.

Ma la moltiplicazione dei capi dello Stato e la loro distribuzione
in determinati centri strategici; la divisione del potere civile e
del militare non bastavano, per rinforzare la difesa dell’Impero.
La riforma amministrativa doveva essere integrata con l’aumento
dell’esercito. Si dovettero quadruplicare le guardie del corpo degli
imperatori, aggiungere agli antichi nuovi pretoriani, che saranno i
_milites Paladini e Comitatenses._ Fu necessità anche aumentare gli
effettivi militari. Diocleziano li accrebbe da 350.000 a 500.000
uomini, e, in proporzione, accrebbe ancor più il numero degli
ufficiali. Per inquadrare più solidamente le legioni e assicurarsene la
fedeltà, ridusse gli effettivi e moltiplicò i tribuni militari.

La pluralità delle corti, lo sviluppo della burocrazia centrale
e provinciale, e l’aumento dell’esercito esigevano molto danaro.
Diocleziano provvede a tutto con energia e ingegnosità. Comincia,
decretando una revisione generale del valore delle terre; un nuovo
catasto, si direbbe oggi; e a poco a poco, introduce un nuovo sistema
di imposte, uniforme per tutte le provincie, ma che doveva anche
tener conto rigorosamente della qualità e del rendimento delle terre.
Crea una nuova unità fiscale, che, secondo i luoghi, risponde ai nomi
di _jugum, caput, millena, centuria_, che comprende delle terre di
natura diversa e di diversa estensione, ma che, nell’insieme, deve
avere sempre un valore identico, e fornire la stessa contribuzione.
Per esempio: 5 iugeri di vigna e 20 iugeri di terre coltivabili di
prima qualità facevano un _jugum_, mentre, per arrivare a quello
stesso risultato, ci volevano 40 jugeri di seconda qualità, e 60 di
terza; e, con qualunque coltivazione, ce ne volevano di più se il
terreno era in montagna, e meno se era in pianura. La riscossione
delle imposte è regolata con cura. La somma stabilita dallo Stato per
una circoscrizione fiscale, che comprende un certo numero di _juga_,
è notificata ai decurioni (i membri del piccolo senato di ogni città)
i quali ne distribuivano l’ammontare fra proprietari e fittavoli del
suolo pubblico (_possessores_) eccettuando coloro che ne avevano una
parte troppo piccola e sorvegliando da vicino la riscossione, perchè
erano responsabili di quello che sarebbe mancato. Il sistema tributario
sembrava dunque ottimo e di sicuro rendimento.


IV.

Con la riforma di Diocleziano, l’Impero romano esce rinnovato dal caos
del terzo secolo. E’ ormai una vasta cosmopoli di razze diverse, le più
semi-barbare, governato dal dispotismo asiatico di quattro sovrani-Dio,
sottomesso a una numerosa burocrazia; e che grazie a queste grandi
riforme politiche e amministrative, ritrova in parte almeno per qualche
tempo l’antica pace e l’antica prosperità. Diocleziano riuscì, in
una certa misura, a ricostituire la potenza e l’unità dell’Impero.
Riconquistò la Bretagna, dopochè Carausio era stato ucciso da uno dei
suoi ufficiali, che si era illuso di succedergli (296); salvò l’Egitto,
dove un’insurrezione aveva tentato di opporre un pretendente ai sovrani
legittimi (296); assestò felicemente, approfittando di circostanze
favorevoli, le cose di Oriente. Nel 294 il Re di Persia, Barahram era
morto, e gli era successo il figlio, Narsete, sotto il regno del quale
la politica conciliante del predecessore cadde in disgrazia; onde, nel
296, mettendo a profitto la lontananza di Galerio, che era in Pannonia,
e di Diocleziano che era in Egitto, Narsete si gettò sull’Armenia,
minacciando la Siria. Galerio richiamato da Diocleziano, commise
l’imprudenza di attaccare i Persiani nella stessa regione in cui, tre
secoli e mezzo prima, le legioni di Crasso erano perite. E anch’egli fu
sconfitto. Diocleziano dovette rifare l’esercito distrutto, arruolando
molti Goti e Daci, per tentare di invadere il paese nemico, seguendo le
vie montagnose dell’Armenia.

Il nuovo esercito fu affidato a Galerio, che smaniava di vendicare
la disfatta, e ci riuscì. Con un impetuoso attacco notturno non
soltanto distrusse il campo persiano, ma catturò la famiglia reale,
fuorchè Narsete. E già sognava, inebriato come un nuovo Alessandro,
la conquista della Persia. Ma i barbari minacciavano di nuovo le
frontiere; in questo stesso anno Costanzo era costretto a partire per
la Britannia, e, mentre i Germani, approfittando della sua assenza,
minacciavano la Gallia, Massimiano doveva correre in Africa, teatro di
un’altra rivolta.

Diocleziano dunque era disposto a far la pace; e al principio del
298, questa pace era conchiusa veramente, a condizioni che potevano
ricordare i tempi lontani, in cui Roma trionfava in ogni terra. Tutta
la Mesopotamia, conquistata un tempo da Settimio Severo, era restituita
all’Impero; inoltre, il re di Persia cedeva cinque provincie armene
dell’alta valle del Tigri, conquistate una volta, da Sapore I, ma
intorno alle quali le fonti non si accordano. L’Armenia fino a Zinta,
nella Media Atropatene, era riconosciuta a Tiridate, l’Iberia (attuale
Georgia) diventava uno Stato vassallo, non più della Persia, ma di
Roma. L’Impero romano riconquistava in Oriente una frontiera strategica
ottima per la difesa della Siria e dell’Asia Minore, e acquistava
preziosi alleati, con una pace che doveva durare quarant’anni.

Nel tempo stesso Diocleziano riusciva a ristabilire l’ordine
nell’interno. All’anarchia cronica succedeva dappertutto un governo
stabile e regolare. Pilotata con fermezza dai due Augusti, dai due
Cesari e dalla volontà sicura e dalla mente vigorosa del primo Augusto,
la nave dello Stato gonfiava le sue vele verso un ridente avvenire. La
meticolosità delle leggi pesava sui sudditi, ma li univa anche in una
forte disciplina pubblica; persino l’aumento delle imposte sembrava
quasi compensato dalla nuova ripartizione, dai metodi ragionevoli
della riscossione e dal risorgere di una generale prosperità. La nuova
famiglia imperiale godeva del favore universale; la sua divinità non
scandalizzava più nessuno, ma era anzi adorata dai popoli soggetti,
e la _felicitas saeculi_ sembrava dovesse coronare i durissimi sforzi
compiuti in diciotto anni di lavoro faticoso. La grande perturbazione
politica e militare, cominciata con la morte di Alessandro Severo,
sembrava finita.


V.

Senonchè, disgraziatamente, c’era nell’opera di Diocleziano, una
contradizione che sotto sotto la minava. Diocleziano aveva cercato di
salvare l’Impero dai barbari che lo attaccavano dal di fuori, facendolo
barbaro dentro. Aveva distrutto definitivamente il romanismo e
l’ellenismo, già guasti dal caos del terzo secolo, riordinando l’Impero
su principii opposti a quello su cui si basava lo Stato greco e latino;
annientando quello che era stata l’anima, la forza, il sostegno
dell’ellenismo e del romanismo: l’unità delle funzioni pubbliche,
l’organizzazione aristocratica della società, lo spirito politico, il
politeismo. Diocleziano sostituiva a una meravigliosa civiltà, che era
stata per secoli, nei suoi organi diversi — religione, famiglia, Stato,
cultura, unità viva — un sistema di istituzioni che, salvo qualche
ricordo storico della grandezza di Roma, aveva come solo principio
spirituale il culto asiatico del sovrano Dio: principio troppo
nuovo e troppo meschino per animare una mole come l’Impero. L’Impero
dioclezianeo sembra un corpo troppo grande con un’anima troppo piccola,
e che va alla cerca di un’anima proporzionata.

L’ordine, instaurato da Diocleziano, era un ordine vuoto; e in questo
ordine vuoto nascono e si sviluppano due correnti contrarie. Una tende
a risuscitare, nella pace ristabilita, la cultura antica — letteratura,
arti, filosofie, religioni servendosi di ciò che resta; perchè questa
cultura era stata così ricca, così gloriosa, che molti non si potevano
ancora persuadere, anche dopo tante calamità, che fosse morta, e
volevano a ogni costo farla rivivere nella sua antica unità. L’altra
corrente tende a riempire il vuoto dell’ordine ristabilito, con la
nuova dottrina cristiana, che rovesciava l’antica concezione della vita
e dello Stato. Distruggendo per sempre la struttura aristocratica della
società antica, Diocleziano aveva tolto di mezzo il principale ostacolo
alla cristianizzazione dell’Impero; e per quanto formidabili fossero
ancora gli ostacoli non distrutti non potevan certo scoraggire una
dottrina animata da tanto slancio e da così salda coscienza della sua
missione rigeneratrice.

Posti fra queste due correnti, Diocleziano e i suoi colleghi cercarono
di favorire la prima, senza opporsi alla seconda con intransigenza. Si
sforzarono di rimettere in onore lo studio della giurisprudenza, della
letteratura, dell’architettura, proteggendo le scuole e i professori,
ricompensando e onorando gli uomini grandi. Così Diocleziano chiamò
a Nicomedia il grammatico Flavio e il retore Lattanzio; protesse la
scuola di diritto di Berito e cercò di attirarvi allo studio anche
dei giovani Arabi. Così Costanzo Cloro scelse dapprima per _magister
memoriae_ il famoso retore Eumene, nominandolo poi professore della
celebre scuola di Augustodunum (Autun). E’ dottrina ufficiale del
nuovo regime, esposta da Eumene in pagine eloquenti, che le lettere
siano la sacra fonte di tutte le virtù e la miglior preparazione a
tutte le carriere, anche a quelle dell’armi. Nè questa sollecitudine
per la vita intellettuale è difficile a spiegarsi; perchè, per quanto,
dopo tante calamità, l’Impero fosse decaduto e quasi totalmente
governato da barbari, aveva sempre bisogno di quella grande coltura
che l’aveva formato, adornato e vivificato per tanti secoli. E’ invece
più difficile capire come l’Impero abbia potuto vivere così a lungo,
fino all’anno 303, in pace col cristianesimo, che in tante questioni
capitali era contrario allo spirito della riforma di Diocleziano.
Ma i Cristiani erano già a quel tempo, molto numerosi in tutta
l’amministrazione e nella corte stessa; sembra anzi che l’imperatrice e
sua figlia avessero avuto qualche contatto col nuovo culto. Diocleziano
era troppo savio e troppo giudizioso da non capire, quanto pericolosa
all’unità e alla pace dell’Impero sarebbe stata una persecuzione, e
durante molti anni si rifiutò di trattare da nemici i cristiani. C’era
tuttavia alla corte un partito molto potente, con a capo Galerio,
che non approvava questa saggia politica. E questo partito alla fine
prevalse, a quanto pare, per le difficoltà che il cristianesimo
creava all’autorità imperiale, specialmente nell’esercito e nella
disciplina militare. C’erano ancora fra i cristiani dei fanatici che si
rifiutavano al servizio militare, come quel Massimiliano, che fu messo
a morte il 12 marzo del 295, sebbene, man mano che la nuova religione
guadagnava proseliti, il numero dei cristiani che si rassegnava a fare
il soldato fosse sempre più grande.

Ma se diminuiva la ripugnanza alla guerra, la difficoltà, che rimaneva
insoluta e insolubile, era il culto degli imperatori. I cristiani
non potevano riconoscere e adorare il Sovrano Dio; ma il culto del
Sovrano-Dio era la base stessa della disciplina militare. Su questo
punto non c’era accordo possibile; e doveva scoppiare un giorno o
l’altro il conflitto. Nel 302 un editto cacciò dall’esercito tutti
i cristiani, e fu seguito, un anno dopo, il 24 febbraio del 303 da
un altro editto, il primo editto di Diocleziano veramente contrario
ai cristiani, che imponeva la distruzione dei templi e dei libri
cristiani, la dissoluzione delle comunità, e la confisca dei loro beni,
proibiva le assemblee dei fedeli ed escludeva costoro da ogni carica
pubblica. L’editto era relativamente moderato, poi che non conteneva
nessuna minaccia di morte; ma dopo che fu bandito, seguirono gravi
perturbamenti. Scoppiò in Siria una rivolta; il palazzo imperiale di
Nicomedia fu quasi distrutto da un incendio. I nemici dei cristiani
li accusarono di essere gli autori di quei disordini; a loro volta
i cristiani accusarono i loro nemici di eccitare contro di loro, con
tumulti, sollevati intenzionalmente, la collera di Diocleziano.

E’ impossibile decidere da che parte fosse il torto. E’ certo invece
che quei tumulti provocarono un secondo editto, molto più duro,
il quale ordinava l’imprigionamento dei vescovi, dei preti e dei
diaconi, che si sarebbero rifiutati di consegnare i libri sacri. Ma
a Diocleziano ripugnava di spingere all’estremo gli eventi; tanto è
vero che, nella seconda metà dello stesso anno, il 17 settembre del
303, prese occasione dalla grande solennità pubblica dei _Vicennalia_,
cioè delle feste in onore del ventesimo anniversario del governo
dei due Augusti, per promulgare una specie di amnistia generale.
Tutti i prigionieri cristiani che si dichiaravano pronti a ritornare
apertamente nel seno della religione antica, dovevano essere rimessi
in libertà. Gli altri invece non potevano approfittare della grazia, e
dovevano anzi, in ragione della loro insensata ostinazione, essere, nel
futuro, trattati con maggior severità.

Questi editti sono il documento più eloquente della potenza del
cristianesimo, poichè mostrano quanto Diocleziano esitasse a impegnarsi
sul serio contro un nemico così numeroso e così forte. Come sempre,
quando uno Stato si trova alle prese con un pericolo che non ha la
forza di distruggere, anche Diocleziano ricorreva alle mezze misure,
le quali non potevano che aggravare il male. L’amnistia esasperò
la resistenza dei cristiani più fervidi; e l’Impero fu costretto a
prendere le misure di rigore, dalle quali in principio si era astenuto.
Alla fine del 303 o del 304, Diocleziano cadde gravemente ammalato e
Galerio assunse la reggenza in Oriente. Prevalsero allora nel governo
consigli di lotta a oltranza; e l’accordo di Galerio e Massimiano
strappò a Diocleziano l’ultimo editto di persecuzione: un editto che
faceva obbligo a tutti i sudditi dell’Impero di sacrificare agli dei,
sotto minaccia di gravi castighi corporali ai recalcitranti.

Otto anni durò questa persecuzione. Ma benchè fosse stata la più
violenta e la più sistematica di tutte le persecuzioni che il
cristianesimo subì, non ebbe quella implacabile ferocia che doveva
poi attribuirgli la tradizione ecclesiastica. Fu applicata variamente,
con maggiore o minore durezza, secondo i paesi e l’umore dei Cesari e
degli Augusti. Costanzo Cloro, per esempio, distrusse soltanto qualche
chiesa, senza perdere il tempo a violentare la coscienza dei fedeli; e
se anch’egli dovette ordinare delle esecuzioni, accadde in gran parte
per la vivace reazione e la vera sete di sacrificio, che spingeva molti
fedeli, gioiosamente, al martirio. Ma Diocleziano ebbe solo una piccola
parte nelle diverse vicissitudini di questa lunga persecuzione, di cui
studieremo più innanzi la grande importanza storica. Venti anni di
governo avevano stancato il vecchio imperatore, e benchè non ancora
sessantenne, la sua robusta costituzione era stata, prima dell’età,
minata da una vita febbrile e strapazzosa.

Da molti anni pensava a un ricovero, donde potesse assistere, come
spettatore disinteressato, all’applicazione delle sue grandi riforme,
senza essere dappertutto presente a dirigerla. E si faceva costruire a
Salona, nella sua Dalmazia, un eremo per ritirarsi. Aveva anzi voluto
qualcosa di più: non essere solo a mettersi fuori degli affari dello
Stato, ma trascinare con sè il fedele compagno delle sue fatiche,
Massimiano, al quale aveva fatto giurare contemporanea abdicazione.
Questo diligente amministratore sembrava preso dalla pericolosa
curiosità di sapere che cosa succederebbe nell’Impero, dopo la
scomparsa di coloro che l’avevano restaurato!

E suonò finalmente la grande ora, il 1 maggio del 305. Quel giorno,
a tre miglia da Nicomedia, sulla cima di un poggio che s’alzava
dolcemente dalla pianura, ai piè di una colonna che sosteneva la statua
di Giove, là dove egli stesso aveva offerto la porpora a Galerio,
circondato dagli alti personaggi dell’Impero e dagli alti dignitari
dell’esercito, Diocleziano si spogliò del diadema, dello scettro, del
mantello imperiale e proclamò suo successore Galerio, al quale diede, a
sua volta, per Cesare, un ufficiale dei _protectores_, Massimino Daia.

Lo stesso giorno, forse alla stessa ora, si svolse la stessa scena
a Milano, dove Massimiano cedeva il suo trono a Costanzo e poneva la
porpora dei Cesari sulle spalle di un altro ufficiale: Severo.

Cominciò allora per lui e per Massimiano quell’epoca della vita, nota
nella storia col nome di _quies Augustorum_. Ma pare che durante
gli otto anni in cui Diocleziano continuò a sopravviversi, nel suo
immenso palazzo di Salona, tra mare, cielo e monti passando dalle
grandi cacce all’umile orticello, l’Augusto vecchio e stanco non fosse
mai considerato come uomo privato. Fino all’ultimo giorno della vita
conservò tutti i titoli e accolse tutti gli omaggi che meritava il suo
passato; rimase, pei nuovi principi, «nostro signore e nostro padre». E
quando arrivò la sua ultima ora, il Senato di Roma lo onorò con quella
apoteosi che si concedeva soltanto agli imperatori.

Ma visse abbastanza per vedere la conclusione della lotta tra l’Impero
e il cristianesimo, che aveva voluto evitare, come una terribile
calamità, e per assistere al definitivo trionfo del cristianesimo, che
doveva sembrargli un avvenimento più funesto ancora di quella lotta,
già tanto temuta. Questo trionfo, era nel tempo la fine della civiltà
antica, e la conseguenza necessaria di tutta l’opera, che egli aveva
compiuta mirando a altro fine.




CAPITOLO QUARTO

COSTANTINO E IL TRIONFO DEL CRISTIANESIMO


I.

Diocleziano aveva cercato di restaurare l’autorità su tre principii:
la divisione dell’Impero, la divinità degli imperatori, la scelta per
cooptazione. Il suo sistema era dunque più complicato e raffinato
che il sistema della monarchia asiatica, fondata sui principii
dinastici dell’eredità e, in certa misura, dell’unità, perchè era una
contaminazione di orientalismo e di romanesimo. Nel suo sistema il
figlio non era il divino successore del padre, ma il successore scelto
diventava, per adozione, figlio del predecessore, proprio come nel
secolo degli Antonini. Così, nell’ultima ripartizione dell’Impero,
Diocleziano aveva escluso dal trono il figlio di Costanzo Cloro,
Costantino, e il figlio di Massimiano, Massenzio. Come supremo omaggio
alla civiltà greco latina che, in punto di morte, aveva generato
quel sistema e il suo creatore, Diocleziano aveva voluto salvi i
diritti sovrani dell’intelligenza, non affidandosi per la scelta
dell’imperatore a quell’accidente di un accidente che è la nascita, e
sforzandosi di evitare nello stesso tempo, a ogni successione, quelle
lotte di ambizioni che avevano già fatto tanto danno all’impero.

Ma questa contaminazione di monarchia asiatica e di scelta
aristocratica era troppo complicata per le passioni violente e la
cultura grossolana di quegli elementi quasi barbari, nelle mani dei
quali era caduto l’Impero. Nemmeno un anno dopo l’abdicazione di
Diocleziano e di Massimiano moriva Costanzo Cloro, lasciando, come si è
detto, un figlio, Costantino, che Diocleziano, nella nuova ripartizione
del potere, aveva escluso. Ma Costantino era un giovane intelligente,
energico, molto ambizioso; e appena morto il padre, pensò bene di
farsi proclamare Cesare dai suoi soldati, a Eboraco, senza aspettare
le decisioni degli Augusti (28 luglio del 306). Questo colpo di testa
riuscì. Per evitare la guerra civile, Galerio, che era il più antico
e il più autorevole dei due Augusti, riconobbe il fatto compiuto e
proclamò Costantino Cesare, dando a Severo il rango di Augusto. Ma la
guerra civile, ch’egli aveva sperato di evitare, cedendo in Gallia,
scoppiò poco tempo dopo in Italia, appunto perchè egli aveva ceduto
in Gallia. La vecchia Roma tollerava con malumore il rango di città di
provincia, in cui era caduta. L’assenza della Corte e dell’Imperatore
feriva l’orgoglio e danneggiava insieme gli interessi della metropoli.
Il Senato non aveva più autorità, i pretoriani non contavano più
nulla; mancavano al popolo i grandi spettacoli e tutti i profitti dei
tempi passati. Cosicchè, valendosi di un pretesto offerto da un nuovo
censimento, ordinato da Galerio, il popolo e il corpo dei pretoriani si
sollevarono, proclamando Augusto il figlio di Massimiano, Massenzio,
che viveva poco lontano da Roma e che voleva pure, dopo la nomina di
Costantino, salire al trono imperiale (27 ottobre 306). Massenzio, per
essere più saldo nel potere, persuase il padre, malcontento del suo
ritiro, a riprendere il potere imperiale. La tetrarchia era distrutta;
l’Impero contava oramai sei imperatori: quattro Augusti e due Cesari!

Questa volta Galerio non volle (o non potè) riconoscere il fatto
compiuto, e incaricò Severo di riconquistare l’Italia. Ma il nome di
Massimiano, dell’antico collega di Diocleziano, era ancora una tale
forza, che i soldati di Severo non vollero combattere contro il vecchio
generale e preferirono passare al nemico. Severo, fuggito a Ravenna,
restituì a Massimiano la porpora di cui Massimiano stesso, poco prima,
l’aveva insignito (307). Un secondo tentativo contro Massenzio, fatto
da Galerio, in persona, non ebbe esito più felice, perchè l’Italia, mal
contenta del nuovo regime e dei nuovi signori che le erano stranieri,
s’era tutta dichiarata solidale con Roma e con Massenzio; e le città
sbarrarono le porte al legittimo erede della potenza di Diocleziano.
Galerio giudicò savia cosa non assediare Roma, che Aureliano aveva così
ben fortificata; uscì dalla penisola; e invitò a Carnunto (in Pannonia)
Diocleziano stesso, sperando nel suo consiglio e nella sua autorità
per trovare una soluzione del conflitto, che minacciava di smembrare
l’Impero.

Era questo un grande omaggio fatto al fondatore della tetrarchia; ma
il risultato fu mediocre. Nemmeno l’uomo che l’aveva creata riuscì a
riorganizzarla. L’avrebbe forse potuto, riprendendo il potere, ma non
volle, sebbene Massimiano, che aveva già litigato con il figlio, e
Galerio cercassero di persuaderlo. La conferenza decise soltanto che
un nuovo Augusto, un antico compagno di Galerio, Luciniano Licinio,
sarebbe sostituito a Severo, nel governo dell’Illiria (novembre del
307); che Massimiano sarebbe rientrato a vita privata, e Massenzio
escluso dall’Impero. Il rimedio era peggiore del male. Massenzio
conservò l’Italia a dispetto delle deliberazioni di Carnunto;
Massimiano non depose la porpora e cercò di intendersi con Costantino,
al quale diede in moglie la figlia Fausta, sperando da lui l’appoggio
che non aveva trovato in Massenzio; la nomina di Licinio creò nuove
difficoltà. Licinio saliva al primo posto dell’Impero senza essere
passato attraverso il grado di Cesare, lasciandosi così indietro
Massimino Daja e Costantino. I due Cesari protestarono; il primo si
fece proclamare Augusto dalle sue truppe, e il secondo reclamò per
sè, da Galerio un’altra investitura. Al principio del 308 c’erano
quattro Augusti, oltre Massenzio e Massimiano, senza che, fra questi
quattro Augusti, apparisse più nessun rapporto di subordinazione.
Tutti gli sforzi di Diocleziano erano fatti sterili per le ambizioni
rivali degli Augusti e dei Cesari; l’unità dell’Impero era di nuovo
rotta; l’incertezza del principio d’autorità, sul quale posava la
carica suprema, questa malattia mortale che dalla morte di Augusto
aveva continuato a tormentare l’Impero, generava ora una nuova crisi,
che non doveva chiudersi senza fiumi di sangue. La prima vittima
fu Massimiano, scomparso in circostanze misteriose. Si buccinò che
avesse cospirato contro il genero, e certo è che Costantino lo fece
arrestare a Marsiglia, e poi, due anni dopo, sparire per sempre (310)
senza curarsi dei grandi servizi che aveva resi all’Impero. Ma proprio
in mezzo a questi disordini e a questi intrighi, tutto a un tratto,
nel 311, tre dei quattro imperatori legittimi, Galerio, Costantino,
Licinio, promulgavano un editto, che sospendeva la persecuzione del
Cristianesimo.


II.

Come spiegare questo improvviso cambiamento di una politica che durava
da tanti anni? Per quale motivo i Cristiani vedevano finire ad un
tratto l’ultima delle grandi persecuzioni? In che misura le convinzioni
personali degli imperatori sia stata cagione di questo mutamento, non
ci è possibile dire; più facile ci riesce determinare l’influenza che
potè avere sulla decisione lo stato interno dell’Impero. Era evidente
che fra i cinque Augusti, l’accordo non poteva durare a lungo, ora che
tra di loro non c’era più un’autorità preponderante; e che presto o
tardi scoppierebbe una nuova guerra civile. Ma Massenzio e Massimiano
Daja erano favorevoli all’antico culto pagano e contrari ai cristiani;
anzi Massimino Daja cercava di dare al paganesimo un’organizzazione
più forte. È dunque verosimile che gli altri Augusti abbiano pensato di
procurarsi, con quel decreto, l’appoggio dell’elemento cristiano, così
potente, per gli eventi dell’avvenire. In altre parole, i cristiani
approfittavano dell’indebolimento dell’Impero, nato da questa nuova
crisi del potere supremo.

Il decreto del 311 è dunque uno dei segni che annuncia, dopo tanti
altri una nuova guerra civile. Parve infatti che scoppiasse subito
dopo la proclamazione dell’editto, alla morte di Galerio. Licinio e
Massimino si prepararono subito a disputarsi la successione con l’armi,
ma si accordarono poco dopo, dividendosi l’Oriente. Massimino prese
l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto; Licinio, il resto delle provincie
orientali, dal Bosforo all’Adriatico. La guerra doveva scoppiare poco
dopo, non in Oriente, ma in Europa. Da almeno due anni Costantino,
che si era già fatto notare in guerre fortunate contro i Franchi
e gli Alemanni, sorvegliava attentamente gli affari d’Italia, dove
Massenzio apprestava degli eserciti, destinati, si diceva, a strappare
la Gallia a Costantino e l’Illiria a Licinio; e intanto si avvicinava
a Massimino, che continuava a perseguitare vigorosamente i Cristiani
in Siria, in Egitto e nelle altre provincie. Costantino a sua volta
si riavvicinò a Licinio, al quale diede in moglie la sorella Costanza,
preparò un esercito, si creò in Italia delle segrete intelligenze, per
non ripetere l’errore di Severo e di Galerio, entrando nella penisola
come in paese nemico. Quando gli parve di essere pronto, al principio
del 312, passò le Alpi con circa 50.000 uomini, che per metà erano
legionari scelti e temprati; ruppe facilmente le prime resistenze,
s’impadronì della valle del Po e marciò contro la metropoli. Massenzio
non s’era mosso da Roma, confidando nella posizione forte della città,
nei suoi molti eserciti, e in tutti gli ostacoli che avevano fatto
fallire le spedizioni di Severo e di Galerio. Ma Costantino aveva
preparata meglio la sua spedizione, e s’appoggiava a una parte della
popolazione: i cristiani. Non lo trattenevano perciò quelle difficoltà
e quelle resistenze, che avevano già fermato Severo e Galerio. Quando
Massenzio seppe che Costantino si avvicinava a Roma, a capo di un
forte esercito, e che le popolazioni stanche del suo governo avevano
favorito l’invasione, comprese che non poteva restar chiuso nelle mura
aureliane e uscì dalla città per affrontare il nemico in campo aperto.
La battaglia avvenne a _Saxa_ o a _Castra Rubra_, vicino all’attuale
ponte Milvio, e finì con la disfatta di Massenzio. Massenzio stesso
perì nel fiume con grossa parte dell’esercito (25 ottobre del 312). Il
giorno dopo il vincitore entrava in Roma, dove il Senato, lusingato da
un discorso che quasi prometteva la restaurazione delle sue antiche
prerogative, gli conferì il titolo di primo Augusto e gli decretò un
arco trionfale, che si può ancor oggi ammirare. I Romani lo adornarono
con le spoglie dell’arco di Trajano.


III.

La conquista dell’Italia, a cui avrebbe seguito tra poco la conquista
dell’Africa, alterava seriamente l’equilibrio delle forze dei tre
imperatori, e a scapito precipuamente di Massimino. Per intendersi
appunto sul nuovo stato delle cose, Licinio e Costantino si
incontrarono, al principio del 313, in Milano. Non sappiamo quali
questioni furono trattate in quella nuova conferenza, perchè la
misera tradizione storiografica del tempo tace totalmente su questo
punto. Non è tuttavia arbitrario supporre che, Licinio acconsentendo
al nuovo ingrandimento di Costantino, ottenesse da costui libertà
d’azione contro Massimino. Ma il congresso di Milano, intorno al
quale siamo così male informati, è famoso nella storia per un’altra
ragione; perchè promulgò un nuovo editto di tolleranza, in favore dei
Cristiani, che è generalmente considerato come il trionfo definitivo
del cristianesimo. Quest’editto, a dire il vero, non riconobbe ancora
la nuova religione come superiore a tutte le altre, nè come la sola
vera religione, o come il culto ufficiale dello Stato; si contentò di
convalidare il precedente del 311 con una forma enfatica, concedendo
di nuovo ai cristiani la libertà di culto già concessa due anni
prima; tolse qualche ultima restrizione che era rimasta, e offrì una
nuova sanzione pratica della volontà degli Augusti, ordinando che
fossero restituiti alle chiese cristiane i beni sequestrati durante
la grande persecuzione. Della crisi del potere supremo continuavano ad
approfittare i cristiani: i due imperatori accarezzavano i cristiani,
quanto più Massimino nelle provincie orientali li maltrattava,
ordinando le ultime persecuzioni; il cristianesimo e il paganesimo
diventavano nelle mani degli imperatori rivali, armi di guerra civile.
I due imperatori non avevano forse nemmeno pensato, che la storia
darebbe un giorno tanta importanza al loro editto; è anzi probabile
che, fra le questioni trattate, quest’ultima sembrasse loro di
importanza relativa, a paragone d’altre questioni di cui la storia non
doveva occuparsi più. Ma quando mai gli uomini di stato, occupati a
disputarsi il potere, hanno capito il vero oggetto delle loro lotte, e
il vero significato del loro operare? Non vedono e non s’appassionano
che al piccolo gioco in cui son mescolati. Infatti Massimino lesse
subito chiaro nel gioco degli avversari, e non esitò un momento a
muoversi; mentre Licinio era ancora in Italia, invadeva già la penisola
balcanica, assaliva prima Bisanzio e poi Perinto, spingendosi verso
Adrianopoli. Licinio dovette accorrere e mettersi sulla difensiva.
Ma una grande battaglia, combattuta non lontano da Perinto, a circa
diciotto miglia da Eraclea, il 30 aprile del 313, mutò le sorti della
guerra. Massimino sconfitto, fuggì in Cilicia, dove morì.


IV.

Poco prima Diocleziano era morto a Salona, dopo aver assistito alla
rovina del suo sistema. La sua tetrarchia era ormai ridotta a una
diarchia, che si reggeva soltanto e per miracolo sull’equilibrio della
forza. Quanto tempo durerebbe questo equilibrio, che minacciavano di
continuo la diffidenza, l’ambizione, la rivalità, tutte le violenti
passioni dell’epoca semi barbara, in cui nessun principio sovrano
d’autorità dominava? Non tardò infatti a scoppiare una guerra tra i due
Augusti sopravissuti. Pare che Costantino ne abbia preso l’iniziativa,
con un qualunque pretesto; e Licinio fu battuto a Cibale, in Pannonia,
sulla Sava (oggi Vinteow) l’8 ottobre del 314, e poi di nuovo in
Tracia. Ma nè l’una nè l’altra furono battaglie decisive. Costantino
comprese che per vincere definitivamente il rivale, bisognava portar
la guerra nel cuore dell’Oriente, adoperando la maggior parte degli
eserciti e impoverendo la difesa delle frontiere, sempre minacciate.
Non avendo forze sufficienti per tale impresa, preferì un accordo. A
sua volta Licinio, che era stato vinto, consentì a trattare. Costantino
ebbe l’Illiria, la Grecia, una parte della Mesia, la Macedonia,
l’Epiro, la Dardania, la Dalmazia, la Pannonia, il Norico. Con questo
accordo, l’equilibrio delle forze tra i due imperatori, fu ricostituito
e si conservò per circa nove anni; durante i quali l’impero conservò la
forma equivoca di una diarchia, in cui la potenza degli imperatori era
limitata soltanto dalla diffidenza e dalla paura reciproca.

Ma non fu che una lunga tregua. Il sistema di Diocleziano era distrutto
mancando un Augusto che ne fosse, con la sua autorità, il dominatore;
e le ambizioni dei due imperatori e delle due corti concorrevano, con
le forze delle cose, a spingere l’impero verso la monarchia unitaria
ed ereditaria. In quei nove anni i due imperatori si prepararono alla
lotta risolutiva in tutti i modi, organizzando gli eserciti, cercando
alleati, e sfruttando sopratutto la lotta tra l’antica religione
moribonda e la nuova, che la sostituiva con tanta energia. Costantino
si sforzò, quanto potè, di assicurarsi l’elemento cristiano; Licinio,
per opposizione, mutò politica e cercò il favore dell’elemento pagano.
Quando scoppiò la guerra nel 323, Costantino non rappresentava soltanto
l’Occidente contro l’Oriente, aveva con sè anche i voti dei cristiani,
contro il rivale, a cui guardavano con fede e simpatia i pagani. E’
noto che la vittoria arrise al campione dei cristiani. Il 5 luglio
del 323, i due eserciti si incontrarono nella pianura di Adrianopoli;
Licinio fu vinto, e dopo avere combattuto con energia, si richiuse
in Bisanzio, che sbarrava la strada terrestre dell’Asia mentre la sua
flotta potente sbarrava quella del mare. Ma la flotta di Costantino era
comandata dal primogenito dell’imperatore, Crispo, che, ancora molto
giovane, s’era già distinto in precedenti operazioni contro i Franchi
e aveva ricevuto il titolo di Cesare. Crispo sconfisse l’armata di
Licinio allo sbocco dell’Ellesponto. Licinio abbandonò Bisanzio e cercò
di sbarrare a Costantino le vie dell’Asia Minore; ma circondato dal
nemico, dovette combattere vicino a Chrisopoli (Scutari), dove fu vinto
ancora (18 settembre del 324). Si rese allora al vincitore che, pur
avendogli promessa vita salva, lo fece uccidere l’anno seguente.


V.

Con questa vittoria, cadevano le ultime vestigia del sistema di
Diocleziano, e la monarchia ereditaria poteva finalmente governare
tutto l’Impero, ricomposto di nuovo nell’antica unità. La lunga
evoluzione della grande repubblica aristocratica, riordinata da
Augusto, stava per chiudersi. Costantino avrebbe dunque la gloria di
creare la dinastia, che governerebbe il vasto impero, come i Tolomei
avevano governato l’Egitto. Il frutto sembrava questa volta maturo;
poichè, morte ormai le ripugnanze dello spirito e della tradizione
greco-latina, non c’erano più istituzioni così forti da opporsi;
e la dinastia era pronta, Costantino avendo abbattuto tutti i capi
che nutrissero ambizioni rivali, mentre l’Impero aveva bisogno di
un’autorità unica e forte, solida e permanente.

Senonchè tolte di mezzo tutte le altre difficoltà, ne sorse una nuova,
quella a cui abbiamo già alluso, più formidabile che le precedenti: il
cristianesimo. Costantino, che nella sua lotta contro Licinio, s’era
appoggiato sui cristiani, non poteva più governare che d’accordo con
i cristiani, e rispettando le loro credenze gli apologisti cristiani
videro più giusto di molti storici moderni, quando hanno detto che
la vittoria di Costantino su Licinio fu la vittoria decisiva del
cristianesimo sul paganesimo. Dopo la vittoria, di fatto se non di
diritto, il cristianesimo è già la religione ufficiale dell’Impero;
e non tarderà molto a diventare tale anche di diritto. Costantino
poteva dunque introdurre nell’Impero le istituzioni e il cerimoniale
delle monarchie asiatiche, ma non la dottrina che il sovrano era un
Dio, perchè questa idolatria politica avrebbe fatto orrore a tutti i
cristiani. Se aveva potuto istituire un potere più forte che quello di
Diocleziano, evitando la divisione dell’autorità suprema tra quattro
sovrani, doveva rinunciare per riguardo ai cristiani, al principio
della divinità degli imperatori, e per questo lato, il suo governo
sarebbe stato più debole che quello di Diocleziano.

La monarchia assoluta ed ereditaria è un sistema politico molto
comodo, sopratutto perchè scioglie con molta semplicità i due problemi
maggiori, che stanno dinanzi a ogni governo: l’unità e la continuità.
Ma fra gli inconvenienti, ce n’è uno particolarmente grave: la
difficoltà di giustificare l’attribuzione di poteri così illimitati
a una sola famiglia, come un privilegio ereditario. Gli antichi,
i quali nelle loro concezioni politiche facevano spesso prova di
un’audacia ingenua che manca ai moderni, avevano trovata una soluzione
di questa difficoltà radicale, facendo del sovrano una divinità. Come
dei, i re potevano avere dei privilegi, che sarebbero stati assurdi
per uomini. Il cristianesimo ha distrutto questa giustificazione del
potere monarchico che appare un po’ grossolana, ma che è ottima per
gli spiriti semplici; e questo spiega come il governare gli stati sia
divenuto, dopo il trionfo della nuova religione, molto più difficile e
complesso di prima.

Costantino ne fece a sue spese la prima esperienza. Se ci fu mai un
imperatore, che compì tutti gli sforzi dopo la sua vittoria su Licinio,
per ricostituire l’unità dell’Impero, per dargli di nuovo un governo
coerente e potente, la sua cultura e le sue arti, le sue leggi, questi
fu certo Costantino. Quanto ricca, varia e tenace ci appare l’opera
sua! Rimaneggiò definitivamente il sistema politico e amministrativo
di Diocleziano, cercando di rinforzare lo Stato. Se il sovrano non è
più considerato ufficialmente come un Dio, la corte diventa totalmente
orientale; la pompa del cerimoniale, la complicazione dell’etichetta,
il lusso dei cortigiani, il mistero in cui si nasconde l’imperatore
sono accresciuti. I grandi dignitari hanno, sotto la loro dipendenza
un numeroso personale, minutamente gerarchizzato. Sono il _Questor
Sacri Palatii_ che accoglie le istanze e prepara e controfirma le leggi
discusse dal _Concistorium_; il _magister officiorum_, una specie di
ministro della casa reale, che dirige il personale della polizia, le
guardie del palazzo, gli impiegati dell’amministrazione centrale;
i due ministri delle finanze, il _comes sacrarum largitionum_ e il
_comes rerum privatarum_. Anche il nuovo Consiglio dell’Imperatore, il
_Concistorium_, diventa più regolare che ai tempi di Diocleziano.

Sotto il _Concistorium_ e i ministri della casa imperiale sta
la burocrazia, creata da Diocleziano e notevolmente ingrandita.
L’incremento della burocrazia è uno dei fenomeni, che accompagnano la
decadenza e la dislocazione dell’Impero.

Tutti gli alti funzionari dell’Impero hanno ai loro ordini, un ufficio
o _scrinium_; e ogni _scrinium_ ha un personale gerarchizzato, che
servirà di modello alle monarchie assolute della prima storia moderna.

L’organizzazione provinciale è sempre quella di Diocleziano.
Invece di quattro tetrarchi c’è un solo imperatore; ma la divisione
amministrativa, creata da Diocleziano, è ancora in vita. L’Impero è
diviso in due o tre, forse anche quattro sezioni; alla loro testa
stanno appunto i prefetti del pretorio che, dopo la scomparsa dei
pretoriani, son divenuti dei grandi funzionari, civili e militari. Da
costoro dipendono i vicari, dai vicari i _praesides_ o i _consulares_
o i _correctores_. Ma sembra che il numero delle provincie, in cui
l’Impero era diviso, sia stato ancora accresciuto; e per quelle
stesse ragioni, che avevano spinto Diocleziano alla sua riforma delle
provincie.

Che fanno durante questo tempo le vecchie magistrature e il Senato
romano? Roma conserva ancora il suo Senato, i suoi consoli, i
suoi pretori, i suoi editti, e i suoi tribuni. Ma queste gloriose
magistrature non sono quasi più che delle cariche municipali.
L’esercito resta quello di Diocleziano con alcune riforme, che in
parte, ne esagerano, in parte, ne alterano il carattere originale.
Gli effettivi di ogni legione continuano a esser ridotti; il comando
militare è distinto dal civile; anzi, quello della cavalleria è
separato da quello della fanteria; il servizio dei viveri e del soldo,
da quello del movimento degli eserciti. Tutto l’Esercito è diviso in
tre grandi sezioni. La prima è rappresentata dalla milizia palatina
(_domestici, protectores, scolares_) che può essere paragonata
all’antica guardia pretoriana, e comprende un quinto o un sesto di
tutti gli effettivi, formando come un esercito di riserva e seguendo
nelle spedizioni importanti, l’imperatore. La seconda sezione è
rappresentata dall’esercito di linea o _comitatenses_ composta di
cittadini e di barbari, sparsa in piccole guarnigioni nelle città
dell’interno. La terza sezione comprende le truppe delle frontiere
(_riparienses, castriciani, limitanei_) reclutata sopratutto tra
i barbari e nei bassifondi delle popolazioni. Valevano meno dei
_comitatenses_; il loro servizio, era più lungo, e più piccola la loro
retribuzione; dovevano restare in permanenza nelle zone determinate
della frontiera, o nei castelli, nelle fortezze, nei campi di
concentramento. Una parte di queste truppe erano coloni.

Si scopre subito il difetto di questo sistema; mentre il corpo scelto,
la milizia palatina, era più che altro una truppa di parata, il nerbo
dell’esercito (i _comitatenses_) è suddiviso in piccoli nuclei e sperso
in piccole città dell’interno, per mantener l’ordine pubblico; fa
dunque l’ufficio di una gendarmeria più che quello di un vero esercito.
Di più nelle tre sezioni dell’esercito, abbondano i barbari. Costantino
apre ai barbari persino le porte della milizia palatina; e in una sola
volta recluterà 40,000 Goti.


VI.

Anche la legislazione economica di Costantino è molto importante.
Pare che proprio Costantino abbia avviato l’impero all’organizzazione
coercitiva del lavoro e della produzione. La ragione principale che
ci induce a crederlo è che nel codice teodosiano (XIII-5) le leggi
più importanti che organizzano il servizio dei _navicularii_ sono di
Costantino, e che le leggi degli imperatori successivi, relativamente
a questo servizio, alludono spesso ad altre sue leggi, che non ci
sono arrivate. Queste leggi ci danno una idea abbastanza precisa
dell’organizzazione dei trasporti marittimi nel quarto secolo; e non
sarà inutile fermarci un momento su questo argomento, per capire in
che condizione si trovavano ridotti il lavoro e la produzione durante
l’agonia dell’Impero. I _navicularii_ erano gli armatori, che facevano
i trasporti marittimi per conto dello Stato (grano, marmi, soldati,
oggetti necessari agli eserciti); e formavano in tutte le provincie
una corporazione, i cui membri venivano indicati dal governo secondo
certe regole fissate dalla legge. Erano sempre scelti nelle classi
possidenti; e se, come membri della corporazione, godevano di molti
privilegi, non potevano nemmeno rifiutare di farne parte, quando voleva
il governo; era, anzi, per i cittadini scelti, un dovere com’è ai
giorni nostri, il servizio militare; e un dovere che si trasmetteva
con le proprietà. Chi comprava o ereditava i beni di un _navicularius_,
ne assumeva anche il compito. In che cosa consisteva, questo compito?
Il _navicularius_ doveva costruire un bastimento secondo il disegno
che gli forniva lo Stato, e tenerlo a disposizione dello Stato, per
ogni sua necessità. Riceveva dallo Stato, gratuitamente, il materiale
necessario per la costruzione e delle sovvenzioni (_subsidia_) per le
spese di navigazione; pare che lo Stato lo garantisse anche contro i
naufraghi e gli altri accidenti. Le spese di riparazione e l’eventuale
differenza tra il costo reale dei viaggi e i _subsidia_ allogati dallo
Stato erano a carico del _navicularius_.

Al principio del quarto secolo troviamo dunque nell’Impero una
organizzazione coercitiva di trasporti marittimi fatti per via di
requisizioni, che doveva essere una novità, poichè non se ne trova
traccia nei secoli precedenti. Tutto ci fa credere che, nel primo e
secondo secolo, i trasporti marittimi fossero liberi; gli imperatori,
allora, si limitavano tutt’al più a incoraggiare, con sovvenzioni e
favori, gli armatori che si dedicavano particolarmente al servizio
dello Stato. Questo sistema di requisizione, del resto, doveva essere
molto oneroso per i navicularii, com’è provato dagli sforzi che si
facevano per sfuggire a quel dovere, e dai molti inconvenienti ai quali
le leggi han cercato di rimediare. Anche questi inconvenienti sono
curiosi a studiarsi. Il maggiore era la lentezza _voluta_ dei viaggi.
Siccome i trasporti erano onerosi per i _navicularii_, costoro avevano
interesse di viaggiare, per conto dello Stato, il meno possibile.
La cosa era, a quei tempi, molto facile, perchè la navigazione non
poteva sfidare le tempeste e il cattivo tempo, come la navigazione
moderna, che dispone di navi di ferro e di macchine a vapore. Bisognava
aspettare il bel tempo, rifugiarsi quando si avvicinava la tempesta,
nei porti. Col pretesto di non esporre il bastimento, di cui lo Stato,
in qualche maniera, era comproprietario e garante, al pericolo del
naufragio, il _navicularius_ poteva fermarlo per strada fin che voleva,
cercar dei noli per conto di privati, tentare di ricavare un profitto
personale dal servizio oneroso, che gli imponeva lo Stato. Questo
inconveniente era così inerente al sistema, che, come ci insegna il
codice teodosiano, Costantino dovette concedere ai _navicularii_ due
anni di tempo per ogni viaggio di andata e ritorno nel Mediterraneo.
Se non riportava, nei due anni, all’autorità che gli aveva affidato
le merci, le _securitates_, o ricevute di quelle merci, consegnate
dall’autorità a cui eran dovute, il _navicularius_ viaggiava a suo
rischio e pericolo; lo Stato non garantiva più la perdita in caso di
naufragio del bastimento. Tanto era l’interesse del _navicularius_
a viaggiar lentamente, che lo Stato si accontentava di esigere, per
suo servizio, da ogni bastimento e durante due anni, un solo viaggio:
questo era il significato della legge. I trasporti marittimi erano
insomma paralizzati a mezzo, in un impero che aveva nel Mediterraneo la
grande via di comunicazione tra le provincie!

Ma il codice teodosiano ci fa sapere che anche questa generosità
dello Stato non bastò a impedire nuovi abusi. I due anni, conceduti
da Costantino per ogni viaggio, bastavano ampiamente ai _navicularii_
abili e senza scrupoli, per fare affari dannosi all’interesse pubblico.
Quelli che trasportavano del grano lo vendevano spesso nel primo porto
di scalo, sopratutto durante gli anni di carestia, per ricomprarlo a
miglior prezzo l’anno di poi. Ci volle una legge che, pur concedendo
per il viaggio due anni di tempo, obbligava il _navicularius_ a
consegnare il carico nel primo anno (Cod. Teod. XIII, 5, 26).

Costantino ha dovuto rassegnarsi a un sistema così imperfetto, così
oneroso, così pieno di abusi, solo perchè non poteva più servirsi,
come gli imperatori del primo e del secondo secolo, della navigazione
libera. Ma perchè non poteva più servirsi della navigazione libera?
Su questo punto non abbiamo nessuna informazione diretta. Ma abbiamo
un documento della maggiore importanza, che ci permette di attribuire
questa difficoltà straordinaria ai prezzi eccessivi a cui s’erano
alzati i trasporti marittimi, come ogni oggetto e ogni genere di
lavoro, al principio del quarto secolo. Questo documento è il famoso
editto di Diocleziano, _de pretio rerum venalium_, che tassa le merci
fissando i prezzi che commercianti e clienti non possono oltrepassare,
_sotto pena di morte_. Questo editto non ci ha soltanto trasmesso
informazioni preziose sulla carezza della vita al principio del quarto
secolo; ma lo precede una lunga prefazione dell’imperatore, nella
quale il fenomeno della vita cara è analizzato e deplorato con molti
particolari e molta forza, benchè in un latino oscuro e bizzarro. È
detto chiaramente, in quella prefazione che i prezzi esorbitanti di
tutte le cose _stremano le risorse dell’amministrazione militare_,
in modo che tutti i tesori raccolti in tutto l’Impero per mantenere
l’esercito, appaiono ogni giorno più insufficienti.

Senza dubbio Costantino ha dovuto ricorrere all’organizzazione
coercitiva dei trasporti marittimi per conto dello Stato, perchè i
trasporti liberi gli sarebbero costati somme enormi. Per giungere sino
alla causa profonda di questa crisi, resterebbe dunque da spiegare
perchè i prezzi avessero tanto aumento da disorganizzare tutta
l’Amministrazione.

Diocleziano, che deplora il male e vuol guarirlo col ferro, non fa
nessuno sforzo per ritrovarne le cause. Ma noi possiamo indovinarle
anche dopo tanti secoli; erano la distruzione degli uomini e delle
ricchezze, prodotta dalla guerra, le carestie, le epidemie, e la
svalutazione del denaro. L’Impero non aveva più nè gli uomini nè le
ricchezze necessarie, per mantenersi nella civiltà che aveva raggiunta;
siccome voleva conservare una amministrazione e una organizzazione
sociale troppo costose per la sua diminuita ricchezza, tutto rincarava
— lavoro e oggetti — come capita sempre quando si chiede a un mercato
più di quel che può dare. La svalutazione del denaro, di cui abbiamo
già visto le ragioni, doveva anche allora generare quegli effetti che
ha prodotto in tutte le epoche. Una volta falsificata l’unità di misura
dei valori economici, nessuno sapeva più precisamente quanto valevano
le cose; tutti i valori diventavano mobili; per mettersi al sicuro
dal fluttuare del denaro, la gente ricorreva al solo mezzo che sembra
esistere contro un male così capriccioso: guadagnare il più possibile,
vendendo tutte le cose ai prezzi più alti.

La guerra e l’anarchia decomponevano dunque l’agricoltura,
l’industria e il commercio, con cui si era sostenuta fino allora
la vita materiale della civiltà antica. Costantino cercò di fermare
questa decomposizione, con una organizzazione coercitiva. Siccome le
cause di questa decomposizione persisteranno, questa organizzazione
s’allargherà; a poco a poco, durante il quarto e il quinto secolo,
la vita economica dell’Impero si muterà in un sistema complicato di
requisizioni sempre più tiranniche, e che alla fine lo soffocheranno.


VII.

Tra le riforme più famose di Costantino, è necessario annoverare anche
uno degli atti più audaci che potesse immaginare un capo di Stato. Egli
riprese il disegno di Antonio; tolse a Roma la sua corona; e trasportò
in Oriente la capitale dell’Impero.

La sua azione è larga, forte, profonda, ricca di idee generali; è la
manifestazione di un genio politico e amministrativo di prim’ordine; ma
è anche la prova luminosa che la monarchia pura era ancora più debole
che con il sistema di Diocleziano. Si potrebbe definire la politica di
Costantino dicendo che, per conquistare e esercitare da solo il potere
assoluto, ne aveva indebolito, appoggiandosi sul Cristianesimo, le basi
che Aureliano e Diocleziano avevano cercato di consolidare coi culti
orientali.

Per che ragione Costantino avrebbe complicato ancor più il cerimoniale
e moltiplicato la burocrazia, se il suo governo non si fosse sentito
più debole del precedente, nonostante la concentrazione di tutti
i poteri in una sola mano? Allo stesso modo, non si può spiegare
che un soldato e un uomo di Stato di tanto genio abbia frazionato
e immobilizzato l’esercito in un sì gran numero di guarnigioni,
nell’interno e lontano dalle frontiere, se non si ammette che
l’esercito doveva ormai servire a conservare con la forza l’ordine
interno, minacciato da tante cause di dissoluzione, più ancora che a
difendere l’Impero, dai nemici esterni. Non si può nemmeno spiegare
come Costantino abbia così facilmente aperto ai barbari i ranghi
delle legioni, senza ammettere che si sentiva impotente a lottare
contro la ripugnanza della nuova società cristiana verso la vita
militare. E’ finalmente impossibile di spiegare, se non come segno di
indebolimento dell’Impero, la fondazione di Costantinopoli. Se molte
furono le cause di questo avvenimento, la prima dev’essere cercata
nella decadenza delle provincie occidentali, devastate dai barbari,
impoverite, spopolate. Come lo sviluppo delle provincie occidentali, e
sopratutto della Gallia, avevano fissata in Italia la sede dell’Impero,
allo stesso modo l’Impero si spostava verso l’Oriente, cioè verso le
provincie più ricche, più popolate, meno tocche dalla perturbazione dei
tempi, ora che l’Occidente cadeva in rovina. Costantino scelse il posto
con intelligenza straordinaria, perchè Costantinopoli si trova nella
situazione ideale per essere capitale di un Impero che è metà in Asia e
metà in Europa. Ma trasportare sul Bosforo la capitale dell’Impero era
come dichiarare che il compito di Roma in Occidente, l’ultima grande
opera della civiltà antica, era finito, e che la storia aveva voltato
pagina.

Nè Costantino riesci a ricostituire, col principio dinastico, l’unità
e la continuità del potere supremo. La dinastia, che vuol fondare, è
subito minata dalle discordie, dai sospetti, dalle gelosie; ai mali che
avevano afflitto sino a quel tempo l’Impero si aggiungono le sanguinose
e oscure tragedie dinastiche. Nella famiglia stessa del fondatore
comincia una lunga storia di rivoluzioni di palazzo, della quale, per
molti secoli, sarà teatro Costantinopoli.

Già nel 326, per ragioni ignote, Costantino fece uccidere il figlio
Crispo, vincitore dei Franchi e di Licinio, e poco dopo Fausta, la
sua seconda moglie e la figlia di Massimiano. Nel 333, compì un atto
meno tragico, ma ancor più significativo, come prova della debolezza
dell’edificio politico che egli aveva costruito. Divise l’Impero tra i
suoi tre figli e uno dei suoi nipoti. Assegnò a Costantino la Spagna,
la Gallia, la Britannia; a Costanzo l’Asia, la Siria, l’Egitto; a
Costante, l’Italia, l’Illirico, l’Africa; e il titolo di Augusto a
tutti e tre; al nipote Dalmazio, col titolo di Cesare, la Tracia, la
Macedonia, l’Acaia. Finalmente, a un fratello di costui, Annibaliano,
erano assegnati, col titolo di re dei re, il trono allora vacante
dell’Armenia, e le regioni limitrofe del Ponto. A che dunque aver
tanto lottato e sparso tanto sangue, per rovesciare la tetrarchia
di Diocleziano, se poi la ricostituiva più debole e in forma più
pericolosa? Ma nemmeno Costantino aveva la forza di risolvere la
terribile questione del principio legale della suprema autorità. Anche
il principio dinastico, spoglio del carattere divino, era debole,
incerto, oscillante, come tutti gli altri principii che l’Impero aveva
provati. Costantino comprese che non aveva nè la forza, nè l’autorità
necessaria per imporsi alle ambizioni di tutti i membri della sua
famiglia e trasmettere il suo potere a uno solo dei suoi figli; preferì
di rompere l’Impero, coll’illusione di assicurargli più facilmente
la pace, soddisfacendo a tutte le ambizioni rivali che non poteva
sopprimere.


VIII.

Ma questa divisione dell’Impero, pur annullando, nella sua parte
sostanziale, l’opera di Costantino, non era il pericolo più grave. Non
rompeva infatti che l’unità materiale! Molto più grave era il pericolo
che minacciava l’unità morale dell’Impero col cristianesimo trionfante.
Costantino, e lo dice egli stesso, in un editto che citeremo più
innanzi, si era avvicinato al cristianesimo e l’aveva favorito con
l’idea di ricostituire l’unità morale dell’Impero. Costantino era
ancor troppo un uomo politico d’idee antiche, per non considerare,
alla romana, la religione come uno strumento della politica. Poi che
il cristianesimo era oramai più diffuso e più forte che il paganesimo,
la saggezza politica consigliava di accelerare la cristianizzazione
dell’Impero. Ma il cristianesimo non era una religione che potesse
servire di strumento politico, nelle mani dello Stato, come le
varie religioni pagane. Aveva una morale e una dottrina tutte sue,
indipendenti e tali che nessuno Stato poteva modificarle per i suoi
fini politici. Costantino non tardò ad accorgersene, quando le eresie,
limitate a lungo dalle persecuzioni, scoppiarono, come una forza
distruttiva, nella pace e nell’ordine, appena il cristianesimo trionfò
con l’aiuto e l’appoggio dell’imperatore. Non è esagerato dire che
Costantino, cercando di ricostituire l’unità dell’Impero con l’aiuto
del cristianesimo, vi ha introdotto una nuova forza dissolvente; le
dispute teologiche. Ne è prova la storia della grande eresia ariana. Un
prete di Alessandria, Ario, aveva cominciato a sostenere, da qualche
tempo, che Dio ha creato il Cristo, o il _Logos_, per adoperare la
lingua teologica, dal Niente, come tutte le altre creature, e non
dalla sostanza divina; che l’aveva adottato come figlio, prevedendo
i suoi meriti, ma senza che da questa adozione dovesse risultare
una partecipazione della divinità. Ario negava così l’identità delle
persone della Trinità e la divinità del Cristo. In Oriente, dove la
cultura filosofica e la passione della dialettica erano ancora ben
vive, questa eresia, che non era nuova, aveva sollevato questa volta
una tempesta formidabile, perchè da quando i cristiani non avevano
più da temere le persecuzioni dei pagani, s’erano messi a discutere
con fervore sulla divinità di Cristo. Il vescovo di Alessandria,
Alessandro, sostenuto dal voto di un sinodo di cento vescovi, aveva
espulso nel 321 Ario dalla comunità cristiana. Ma Ario non era solo:
la semplicità della sua dottrina la rendeva più accessibile alla media
degli uomini, che la dottrina opposta, molto oscura e profonda, della
Trinità; le simpatie che egli ritrovava nel neo platonismo pagano così
diffuso in Oriente, gli odi e i rancori lasciati dalle precedenti
eresie, le molte discordie che dividevano il mondo cristiano, gli
dettero subito un partito numeroso, se non scelto.

Immediatamente i sinodi cominciarono a opporsi ai sinodi; gli animi si
accesero; alle dispute teologiche seguirono i parapiglia, i colpi, le
violenze nella strada. La sicurezza di cui godevano dopo il trionfo,
favoriva anche frammezzo ai cristiani l’esplosione delle cattive
passioni. Poteva Costantino, che era stato spalleggiato dai cristiani,
nei suoi sforzi per ricostituire l’unità dell’Impero, vedere con
indifferenza questo disordine religioso, che stava quasi per mutarsi
in guerra civile? No, certamente. E così fu preso nel vortice delle
dispute teologiche.

Ciò che egli pensasse, col suo senso politico, di quelle dispute, lo
sappiamo dalla lettera, che rivolse ai cristiani dissidenti:

«M’ero proposto di ricondurre a una unica forma l’opinione che tutti
i popoli si fanno della divinità, perchè sentivo bene che, se avessi
potuto, su questo punto, ristabilire l’accordo come volevo, ne sarebbe
stata facilitata la gestione degli affari pubblici. Ma, oh divina
bontà! che novità ha ferito crudelmente i miei orecchi, anzi il mio
cuore! Vengo a sapere che ci sono tra voi più dissensi che in Africa
nei tempi passati. Eppure mi par che la ragione sia ben piccola,
e assolutamente indegna di tante contestazioni... Tu, Alessandro,
hai voluto sapere ciò che pensavano i tuoi preti sopra un punto
della legge, anzi soltanto sopra una parte di una questione, priva,
assolutamente di _importanza_; e tu, Ario, se pensavi così, dovevi
tacere. Non si doveva nè interrogare nè rispondere, poichè si tratta
di problemi che non v’è nessun bisogno di discutere, ma che suggerisce
soltanto l’ozio, dato che, tutt’al più, son buoni a aguzzar l’ingegno.
E’ forse giusto, che per _delle vane parole_, impegniate una battaglia
tra fratelli e fratelli? Son queste cose _volgari, degne di bambini
senza esperienza_, non di preti o d’uomini di senno. _Ridàtemi dunque,
vi prego, giorni tranquilli e notti senza inquietudini_, in modo che
possa anch’io, nell’avvenire, goder della pura gioia di vivere».

Il senso della lettera è chiaro. Costantino, che concepiva la
religione come uno strumento politico per mantenere l’ordine nello
Stato, considera insensato quel furore di discussioni teologiche.
Una religione che, invece di aiutare l’imperatore gli crea delle
difficoltà, sembrava a lui, fedele interprete del pensiero romano, una
mostruosa assurdità. E infatti, approfittando dell’autorità di cui
godeva tra i cristiani, prese l’iniziativa di un gran concilio, che
doveva metter fine alla questione. A Nicea, nella primavera del 325, si
riunirono più di 250 vescovi di ogni parte delle provincie orientali,
e Costantino inaugurò il Concilio con un assai modesto discorso.
Ristabilendo la concordia nella Chiesa, l’assemblea avrebbe fatto
un’opera che sarebbe piaciuta a Dio e avrebbe reso un gran servizio
all’Imperatore. Il concilio era presieduto da uno dei suoi segretari,
il vescovo Osio, avversario dell’arianismo; onde le influenze imperiali
agirono tutte contro questo partito.

Ario fu dunque rinnegato ancora una volta. Il Concilio decretò che
Cristo non era stato creato dal niente, e che non era diverso dal
padre, ma che invece era stato fatto da Dio, dell’essenza del padre
«vero Dio del vero Dio» e che gli era _consubstanziale_.

Ma poco durò l’illusione d’aver così ricostituita l’unità morale
dell’Impero. Ciò che sembrava pazzia furiosa al suo senso politico
di romano, era qualcosa di così profondo, che tutta l’autorità
dell’Imperatore riusciva impotente a combatterla. Condannato dal
concilio di Nicea, Ario era andato in esilio; ma l’arianismo era
diffuso e potente; aveva, anche a corte, degli amici fidati, tra i
quali Costanza, la sorella di Costantino; non rinunciò dunque alla
lotta. Approfittando degli errori degli avversarii, addolcendo la sua
dottrina. Ario e i suoi partigiani riuscirono a riguadagnare il favore
di Costantino, persuadendolo che era possibile una riconciliazione.
L’Imperatore, sempre animato dal desiderio di ristabilire l’unità
morale dell’Impero, tentò allora questa riconciliazione; ma si urtò
in un’opposizione invincibile specialmente da parte del nuovo vescovo
di Alessandria, Atanasio. Questa intransigenza degli avversari
spinse finalmente Costantino verso Ario. Il favore imperiale rese
coraggio alla setta, che, nel 335, riuscì a far condannare Atanasio al
concilio di Tiro. A sua volta Atanasio fu esiliato in Gallia e i suoi
partigiani più in vista vennero perseguitati e dispersi; Ario rientrò
come trionfatore; la corte fu invasa dagli ariani, che in quasi tutto
l’Oriente divennero il partito prevalente della Chiesa cristiana. Ma
il partito avverso non disarmò; e da quel momento una lotta immensa, di
furore implacabile, squassò tutto l’Impero, aggiungendo, alle altre più
gravi, una causa nuova di debolezza.


IX.

Come spiegare questo fenomeno quasi incredibile? Queste dispute
teologiche, che sono state parte così importante nella storia del
cristianesimo, sembrano a noi moderni, come a Costantino, quasi
un’inconcepibile pazzia! Ma qui si pone una grave questione. Come mai
tutta la forza e la saggezza dell’autorità imperiale furono impotenti
contro questo che è, o sembra a noi, un delirio? Come han potuto,
quegli uomini, odiarsi, perseguitarsi, massacrarsi per tanti secoli,
spingere alla rovina un grande impero per questioni così astruse
e sottili? Perchè a noi, che non vediamo più ciò che si nascondeva
dietro, quelle dispute sembran fatte soltanto di parole. Ma giudicar
così significa non capire uno dei più grandi drammi della storia umana.
Che vita anima quelle discussioni oscure, quando le ricollochiamo nel
disordine dell’immenso impero che crollava, perchè non possedeva più
un principio d’autorità solido e sicuro da sostenere l’ordine sociale:
nè l’antico principio greco latino, aristocratico e repubblicano,
consacrato dal politeismo, che era caduto definitivamente; nè il nuovo
principio asiatico e monarchico, che non riusciva ad abbarbicarsi con
radici resistenti. Le lotte teologiche di quest’epoca non sono che uno
sforzo titanico per costituire una disciplina intellettuale di ferro,
una dottrina della vita, indiscussa e indiscutibile, forte contro
tutti gli assalti degli interessi e delle passioni, in un momento in
cui l’autorità politica barcollava, l’autorità religiosa era ancora
divisa e debole, e tutte le tradizioni erano state scompaginate
dalle rivoluzioni, dalle guerre, dalle mescolanze delle classi e
delle popolazioni, dalle infiltrazioni dei barbari. Se ogni cosa, nel
mondo era instabile, le leggi, le tradizioni, le forze dello Stato,
le fortune e gl’interessi degli uomini e delle famiglie, stabile e
fermo fosse almeno il pensiero umano, nella dottrina che Dio aveva
rivelata agli uomini per mezzo del Messia e degli Apostoli, trasmessa
in un’edizione autentica e _in aeternum_, nei libri santi. Tale è il
pensiero profondo, che si trova in queste terribili e oscure lotte
teologiche. Molte, se non tutte le grandi lotte dell’ortodossia e
contro l’eresia, si spiegano e si comprendono, quando ci si rende conto
che dietro le questioni teologiche, sottili, in apparenza, e puramente
teoriche, era nascosta la questione, ben altrimenti grave, dell’unità
e della stabilità delle dottrine fondamentali del cristianesimo, e che
questa unità e questa stabilità era l’ultima base dell’ordine, in un
mondo che si decomponeva, perchè non aveva trovato un sicuro e solido
principio d’autorità. L’arianismo è un caso particolarmente chiaro e
istruttivo di questa verità. Separando Cristo da Dio come una delle sue
emanazioni ed esteriorizzazioni, l’arianismo ammetteva implicitamente
che altre emanazioni e esteriorizzazioni potevano seguire quelle di
Cristo. Come Dio aveva di sua volontà creato dal nulla e poi adottato
Gesù Cristo, così potrebbe di sua volontà creare dal nulla e adottare
altri redentori. Dunque il libro della rivelazione non era chiuso;
potrebbe continuare in volumi nuovi; potrebbero comparire ancora altri
Messia, e la dottrina del cristianesimo si muterebbe in un continuo
divenire come lo concepiscono certe sette del protestantesimo più
radicale, che in Ario hanno trovato veramente un precursore. Ma questo
continuo divenire della dottrina doveva spaventare, come una pazzia
criminale, in mezzo alla dissoluzione universale delle leggi, dei
costumi, degli Stati, gli spiriti illuminati e profondi che sentivano
quanto fosse necessario di dare agli uomini, disperati per l’universa
mobilità, qualcosa di solido, di fisso, d’incrollabile a cui potessero
abbrancarsi. Per questa ragione tanti grandi spiriti si opposero
all’eresia ariana, fino a sfidare, per questo, l’esilio e la morte, per
questa ragione le dispute sulla consubstanziazione poterono riscaldare
tanto gli animi, da provocare battaglie nelle strade e continue
effusioni di sangue. Se Cristo era figlio di Dio, consustanziale del
padre, vero Dio nato dal vero Dio senza romperne l’unità, il mistero
dell’Incarnazione era unico e definitivo in eterno; un altro Messia
non verrebbe più; il libro della Rivelazione era chiuso per sempre
e l’umanità aveva ormai trovato il fondamento indistruttibile della
perpetua verità, sul quale potrebbe costruire l’ordine morale e sociale
a condizione di interpretarli alla lettera, nei due Testamenti.

Non è difficile di spiegare l’ardore terribile delle grandi lotte
teologiche in mezzo a cui si è formato a poco a poco il dogma,
quando queste lotte si intendano in questa maniera. Che volevano i
grandi fondatori e difensori dell’ortodossia? Unificare e fissare
le credenze sulla base della rivelazione e dei libri santi, con la
forza del pensiero, e sopratutto con quello strumento particolare
dell’intelligenza che è la dialettica. Ma il pensiero è uno degli
elementi più mobili dell’universo; e la dialettica uno strumento
potente, ma poco sicuro perchè sa servire tutte le passioni, anche
quelle che seminano i torbidi e il disordine negli spiriti e nel mondo.
Se n’erano già serviti i filosofi greci, per distruggere più che per
sostenere le credenze e le tradizioni del mondo antico, sostituendo
loro l’eterna mobilità delle passioni e degli interessi, mascherati
con ingegnosi sofismi. Inoltre, se il pensiero dell’uomo ripugna
sempre a sottomettersi a una forte e seria disciplina, vi ripugna
di più in tempi d’anarchia politica e sociale. Voler ricostituire
l’ordine nell’anarchia di un immenso impero crollante incominciando
dal pensiero, era iniziar l’opera proprio dalla parte più difficile,
seguire la linea dello sforzo più grande, affrontare, con dei
ragionamenti, tutte quelle pericolose passioni scatenate dall’anarchia,
che cercano sempre di prolungarla, perchè vivono di lei!


X.

Se quell’opera era necessaria per salvare una parte del mondo da una
catastrofe totale, che avrebbe annientato tutta la civiltà antica; era
certo la più difficile che si offrisse allo spirito umano. Non bisogna
dunque meravigliarsi se in quella gigantesca difesa dell’ortodossia,
apparvero tanti uomini straordinari per grandezza intellettuale e
morale, che la Chiesa ha santificati. La grandezza della natura e del
genio umano non si vedono che in tempi di calamità, di fronte alle
imprese difficili e quasi impossibili.

Ma che cosa rappresentavano, a paragone di questo sforzo ultra
umano, per unificare la verità con la dialettica e l’eloquenza, e per
adoperare i più potenti strumenti della cultura antica in vista di un
fine così nuovo, gli sforzi di Costantino per salvare i resti della
cultura antica? Anche in questa direzione Costantino aveva saggiamente
continuata l’opera di Diocleziano.

Nella nuova capitale dell’Impero aveva fondato quella che noi
chiameremmo una università, ove professori pagati dallo Stato
insegnavano la lingua e la letteratura greca e latina, la retorica, la
filosofia, la giurisprudenza, per preparare all’Impero dei funzionari.
Ci restano ancor molte leggi di Costantino che concedono privilegi
e vantaggi, o che assicurano la vita ai medici, ai grammatici, ai
professori di belle lettere in tutte le città dell’Impero. Ma quegli
sforzi restavano sterili. Burocratizzate in un insegnamento ufficiale,
non avendo più nell’agonia del paganesimo da compiere un’opera viva
e vitale, le letterature e le filosofie antiche si disseccavano
nella mediocrità dei professori di mestiere, che volevano vivere
e farsi una posizione a spese dei geni del passato, mentre i nuovi
geni, gli spiriti di grande forza, voltavan la schiena al presente,
sprezzavano la protezione ufficiale, si davano tutti alla grande opera
vivificatrice dei loro tempi....

Uno dei più grandi libri dell’antichità, le _Confessioni_ di S.
Agostino, ci fa vedere sul vivo questa crisi spirituale della cultura
antica.

S. Agostino aveva ricevuto dalla natura tutti i doni necessari per
diventare un grande scrittore; l’immaginazione, il sentimento, lo
stile, la lingua, lo spirito sintetico e filosofico. La forza della
dialettica era in lui pari alla potenza delle immagini; lo slancio
della fantasia e del sentimento alla profondità del pensiero. E pure
era diventato uno di quei professori ufficiali di letteratura, che
l’Impero pagava e onorava perchè conservassero viva la tradizione
della letteratura antica. Una volta tanto, l’insegnamento ufficiale
aveva messo la mano sopra un vero genio... Ma l’Uomo di genio ci ha
lasciato un’indimenticata descrizione della misera esistenza, che
egli condusse facendo il professore a Cartagine, a Roma, a Milano;
l’inquieto scontento che lo rodeva in quegli anni, il furioso agitarsi
del suo grand’ingegno nel vuoto di quella cultura ormai esaurita e
schematizzata nel quadro convenzionale di un insegnamento ufficiale.
Quando un giorno, in un villaggio vicino a Milano, si fece la luce
in quella grande anima, disgustata dal vile mestiere, a cui voleva
condannarlo una civiltà moribonda. Il professore di letteratura
abbandonò la cattedra, gettò i vecchi libri morti e come un ardito
palombaro si cala nel mare, scese negli abissi teologici della grazia,
della predestinazione, del libero arbitrio, per gettare laggiù i piloni
del gran ponte sul quale l’Europa doveva fare il lungo e difficile
passaggio dalla civiltà antica a quella moderna.

Costantino insomma non fallì, ma riuscì solo a mezzo; e contribuì a
evitare per il momento la catastrofe, prolungando l’agonia. Dopo di
lui, l’Impero visse ancora, ma tra scosse continue, e indebolendosi
ogni giorno di più. Aumenta la povertà; lo Stato si disorganizza e si
fa insieme più violento, oppressivo e rapace, il fiscalismo imperiale
imperversa, si rinnovano le atroci tragedie dinastiche; l’esercito
si decompone; vacilla la difesa delle frontiere, le campagne si
spopolano affollando le città; le piccole città, a vantaggio delle
grandi, rovinano; i barbari s’infiltrano dappertutto; la cultura,
dalle arti alla filosofia, si deteriora; s’inaspriscono le lotte
religiose; si spezza l’unità dell’Impero; si separano l’Oriente e
l’Occidente. L’Oriente si difende meglio che l’Occidente, contro
la decadenza, perchè la monarchia assoluta, ritornando come nel suo
paese di origine, vi si stabilisce con maggior facilità e solidità, e
può arginare la dissoluzione generale con più forza e più lungamente
che in Occidente. Così che la forza dell’Impero si ritira, a poco a
poco, verso l’Asia, fino al giorno in cui l’Occidente cade sotto i
colpi rinnovati dei barbari. La civiltà antica è allora, in Occidente,
distrutta quasi del tutto. Per secoli, non ne resteranno più, in quelle
immense regioni ridiventate barbare e deserte, molte delle quali son
colonizzate dagli invasori germanici, che dei vaghi ricordi e poche
vestigia frammentarie, tra cui, unico elemento vitale, la teologia
creata negli ultimi secoli dell’Impero per unificare la dottrina
della nuova religione. La teologia è stata, per lunghi secoli, in
Occidente, l’ultima forma di alta cultura sopravissuta in mezzo alla
rovina di tutte l’altre, quella che ha salvato l’Impero dalla barbarie
piena e definitiva. Da questa ultima forma sopravissuta infatti,
sono a poco a poco uscite, per svilupparsi di nuovo, la filosofia, la
letteratura, il diritto, tutto il grande movimento intellettuale, che
culminò nella Rinascenza. Nella disciplina intellettuale, conservata
dal dogma attraverso il gran caos del medioevo, l’Europa a poco a
poco ha ritrovato e sviluppato i principii d’autorità, che l’Impero
aveva cercati invano, e che gli hanno permesso di ricostituire dei
governi solidi e forti. Ma a mano a mano che ricostituiva l’autorità
dei governi e si sottometteva a una vigorosa disciplina politica,
l’Europa è diventata più intollerante di quella unità e disciplina
intellettuale che, dall’epoca di Costantino alla Riforma, gli erano
parse necessità vitali, più dell’organizzazione degli Stati e degli
eserciti. Incominciano nello stesso tempo a formarsi i grandi Stati
e il pensiero umano si rivolta contro tutte le autorità, alle quali
s’era sottomesso nel medioevo; doppio movimento parallelo e inverso che
doveva svilupparsi per tre secoli e sbocciare nella situazione attuale:
Stati di una potenza formidabile, come non se n’erano mai visti, che
s’appoggiano sopra una delle più grandi anarchie intellettuali e morali
della storia, ossia sul vuoto. Schizzeremo rapidamente, nell’ultimo
capitolo, l’ultima fase, quella più importante, di questa straordinaria
trasformazione del mondo.




CAPITOLO QUINTO

DAL TERZO AL VENTESIMO SECOLO


La rovina della civiltà antica è stata effetto di cause profonde e
complesse. Ma la nostra ricerca sembra provare che essa è incominciata
con una grande perturbazione politica, che scatenando un’incurabile
anarchia ha distrutto a poco a poco la civiltà antica nei suoi
elementi essenziali. E’ anche possibile spiegare il procedimento di
questa crisi. L’impero romano aveva cercato di conciliare due diversi
principii d’autorità; il principio monarchico che aveva avuto un
grande sviluppo in Oriente, in Asia Minore, in Siria, in Egitto con
le dinastie anteriori e posteriori alla conquista di Alessandro; il
principio repubblicano, che si era sviluppato in Europa, sopratutto
in Grecia e in Italia, nelle istituzioni della città antica. La
conciliazione che l’_imperator_ o il _princeps_ simboleggiavano, era
sempre stata difettosa perchè non era riuscita a definire il principio
costituzionale, donde doveva uscire l’autorità suprema di quella
monarchia repubblicana, questo principio non essendo nè l’eredità, come
nelle monarchie, nè una regolare elezione, che avesse procedura fissata
dalle leggi e dalle tradizioni, come nelle repubbliche. Tuttavia, fino
che conservò l’antico prestigio e la sua immensa autorità, il Senato fu
generalmente riconosciuto come la fonte della legittimità imperiale. Un
imperatore era considerato legittimo, appena il Senato aveva approvato
la sua elezione. E infatti il Senato riuscì, per due secoli, a prezzo
di lotte talora molto violente e di una sanguinosa guerra civile, a
render sicura la continuità legale del regime. Ma indebolita l’autorità
del Senato dalla vittoria di Settimio Severo, e dall’istituirsi di una
vera monarchia assoluta non rimase più nessun principio di legittimità,
chiaro e forte, per la scelta dell’Imperatore: nè l’eredità, nè
l’elezione, nè la convalida del Senato. Da questo nacque il grande
tumulto di rivoluzioni e di guerre che, come abbiamo detto, ha tutto
distrutto.

In fondo a questa immensa crisi storica, troviamo dunque la lotta di
due principii politici opposti, che invece di conciliarsi, come si
vorrebbe, finiscono per distruggersi. Una forte conferma di questa
visione storica è appunto data dalla diversa sorte dell’Impero
d’Oriente e dell’Impero d’Occidente. La rovina dell’Impero Romano è in
verità la rovina dell’Occidente. Indebolita da un’incurabile anarchia,
sommersa dai marosi delle invasioni, l’Europa romana si spopola,
ridiventa barbara, è spezzettata in un gran numero di Stati, che
per secoli hanno il carattere comune di una continua instabilità. In
Oriente invece l’autorità imperiale, sotto forma di monarchia assoluta,
resiste ancora ai colpi della sorte per secoli; riesce a mantenere un
certo ordine, una forza militare, una tradizione di cultura, a salvare
quella parte della civiltà antica che aveva potuto sfuggire al caos del
terzo secolo e non si trovava in contradizione troppo violenta con lo
spirito cristiano. In grazia appunto di questa resistenza l’Oriente può
diventare una seconda volta l’educatore dell’Occidente, rimbarbarito.
Ma questa vitalità dell’Impero d’Oriente può solo spiegarsi con le
diverse vicissitudini della crisi politica. La monarchia assoluta e
ereditaria, fondata da Costantino, è riuscita meglio in Oriente che
in Occidente, perchè si è ritrovata nel paese d’origine e perciò
sopra un terreno più favorevole, preparato dalla tradizione. In
fondo, l’Oriente non aveva visto, nell’Imperatore romano, che il
successore e il continuatore di quei re, i quali, sotto nomi diversi,
avevano governato gli Stati asiatici nei secoli anteriori alla
conquista romana. L’Oriente aveva capito la repubblica aristocratica
di Augusto, come una monarchia unificata e universale. Anzi, proprio
quel sentimento monarchico con cui l’Oriente considerò la persona
e l’autorità dell’imperatore, contribuì reagendo sull’Occidente, a
indebolire nei primi secoli dell’Impero il carattere repubblicano
della costituzione di Augusto. E appunto perchè era abituato da secoli
a un governo di funzionari, l’Oriente sentì meno, nel terzo secolo,
la distruzione della costituzione aristocratica, che scosse tutto
l’edificio sociale in Occidente. Insomma, una volta distrutta la
costituzione aristocratica della società imperiale insieme col regime
mezzo repubblicano e mezzo monarchico dell’Impero, l’Occidente non ha
più governo. Le vecchie istituzioni repubblicane non son più possibili,
la monarchia assoluta o ereditaria, fondata da Costantino, non trova
radici vive nel sentimento dei popoli; è debole, instabile, inetta
a difendere le provincie contro le invasioni dei barbari e a mettere
un po’ d’ordine nell’interno. A poco a poco la civiltà si decompone
e scompare. In Oriente è più forte il principio monarchico, perchè
trova un terreno già preparato dalla storia; la monarchia assoluta
e ereditaria può, nonostante le cospirazioni di palazzo, le rivolte
militari e le crisi dinastiche frequenti, governare, mantenere un
certo ordine, difendere il paese dai nemici esterni. Faticosamente, la
civiltà continua a vivere.

Veduta così, questa esperienza storica è molto importante per la
nostra epoca. Noi ci troviamo in una situazione che, con un fondo
più vasto e in forme più complesse, ha profonde analogie con quella
descritta. Ho alluso a queste analogie nel primo capitolo; ma sarà
utile di ritornarci sopra. Il mondo non s’è ancora accorto dei
risultati politici che ha avuto la guerra mondiale, indipendentemente
dalla volontà e dai piani di quegli uomini che pareva guidassero gli
avvenimenti; e ragiona ancora come se ci trovassimo all’indomani del
trattato di Utrecht, come se non ci fosse stato che un trasporto di
potenza e di prestigio, da alcune ad altre nazioni. Non s’è ancora
accorto che nel marzo del 1917 uno dei due principii politici sui quali
s’appoggiava tutto l’ordine sociale in Europa, il principio monarchico,
ha ricevuto un colpo tremendo con la rivoluzione russa; che ne ha
ricevuto un secondo e questo definitivo e mortale, nel mese di novembre
del 1918, quando l’Impero degli Asburgo e quello degli Hohenzollern
si sono sfasciati. Non ha ancora capito che la caduta del principio
monarchico in Europa è un avvenimento di formidabile importanza;
in quanto chiude una crisi politica cominciata due secoli fa; e che
l’Europa rischia di nuovo, come nel terzo secolo, di trovarsi senza
nessun principio d’autorità.

Una rapida occhiata agli avvenimenti dei due ultimi secoli, dopo
questo lungo studio sulla crisi della civiltà antica, potrà forse
illuminare un poco le spesse tenebre dell’avvenire. L’Europa cristiana,
venuta fuori, a poco a poco, dalla catastrofe della civiltà antica,
aveva trovato una soluzione del problema politico, che, nel quadro
delle idee religiose dominanti allora, era quasi perfetta. Aveva
dato un carattere sacro a tutti i governi, repubblicani o monarchici,
aristocratici o democratici, che fossero legittimi, che cioè dovessero
la loro origine a un atto legale di validità indiscutibile, o che
fossero stati legittimati dal tempo. L’obbedienza a quei governi era
un dovere imposto da Dio ogni volta che quei governi non imponevano
alcunchè di contrario alla legge divina. Quanto agli errori e alle
colpe dei governi legittimi, non bisognava, secondo questa concezione
dello Stato, dare loro troppa importanza, quando non minacciavano
di produrre una depravazione generale, perchè, essendo la perfezione
morale e religiosa dell’individuo il fine supremo della vita, a questa
perfezione si poteva giungere indipendentemente dalla perfezione
del governo. Gli abusi dei governi nuocevano a chi li faceva, molto
più che alle vittime, perchè costoro dovevano soltanto subire delle
pene materiali e delle sofferenze, mentre gli altri si gravavano la
coscienza con un peccato, di cui dovrebbero un giorno rendere conto a
Dio.

Questa concezione del governo accordava assai bene il dovere dei capi
di ben comandare, il diritto dei popoli, d’essere ben comandati, e
la necessità di una certa tolleranza per le colpe dei potenti! Ma
per quanto perfetta, non poteva mantenersi che nel quadro delle idee
religiose, dominanti allora. Cominciò a esser scossa dall’ondata di
incredulità che percorse la classe dirigente di tutta Europa dopo la
guerra dei trent’anni: quella guerra che, facendo apertamente del
cattolicismo e del protestantesimo delle armi per una grande lotta
politica, fu per l’Europa la prima grande scuola di scetticismo
religioso. Il settecento le oppose inoltre la concezione filosofica e
razionalista che culminò nella Rivoluzione Francese. L’autorità è cosa
umana, la sua fonte è nella volontà stessa di coloro che obbediscono e
che hanno, per conseguenza, il diritto di controllarla; il vero sovrano
è dunque il popolo; la legge, per esser giusta, non deve esprimere che
la sua volontà. La teoria era seducente, e sedusse infatti lo spirito
di un secolo illuminato, che era scontento per molte ragioni, del
suo regime, rimproverandogli, in fondo, sotto il nome di tirannia, la
sua debolezza, la sua lentezza, il suo spirito di _routine_, il suo
rispetto delle tradizioni e dei diritti acquisiti.

La Rivoluzione francese cercò di applicare il nuovo principio. Ma
non tardarono ad apparire le difficoltà dell’applicazione. Che cosa
era il popolo? A che segni si riconosceva la sua vera volontà? Con
quali organi si potrebbe esprimere? Sappiamo con quante oscillazioni
la Rivoluzione francese cercò di rispondere a questi quesiti. Basta
seguire tutte le costituzioni che elaborò in pochi anni, per vedere
quanto difficile fosse l’applicazione del principio della sovranità
del popolo. Ora il suffragio universale, ora il suffragio doppio, ora
il suffragio censitario le sembrarono via via espressione vera della
volontà popolare, sinchè alla fine, la volontà popolare non diventa
che una formalità per legittimare una dittatura militare, fondata
con la forza e molto più assoluta, nel suo esercizio, che quella
della monarchia dell’antico regime. Ma questo brancolare si spiega
facilmente, quando si guarda il nuovo sovrano che doveva sostituire gli
antichi, perchè il popolo, la cui volontà avrebbe dovuto governare lo
Stato, aveva poca voglia e poca capacità di esercitare il suo potere,
anzi mostrava certe volte il desiderio di rinunziarci e di ristabilire
le autorità a cui avrebbe dovuto succedere. Si poteva lasciare a questo
nuovo sovrano la libertà di abdicare? Tutta la Rivoluzione francese si
è dibattuta in questa contradizione insolubile, perchè la Rivoluzione
è stata, in fondo, lo sforzo di una _élite_ relativamente ristretta
contro la volontà profonda delle masse, compiuto in nome della
sovranità popolare.

Infatti, tutti i regimi fondati allora sopra un principio così
oscillante e poco chiaro, sono stati deboli e instabili: persino la
dittatura militare che è stata il coronamento di tutti gli sforzi della
Rivoluzione. Sostenuta dalle vittorie, si sfascia quando la vittoria
l’ha abbandonata. Messa sottosopra da tante guerre, sconvolta per la
lotta dei due principii antagonisti d’autorità, l’Europa fa allora
un grande sforzo per conciliarli e ristabilire un ordine duraturo. E’
questa l’opera del congresso di Vienna e della Santa Alleanza. Mentre
il congresso delibera di ricostituire l’Europa sul principio della
legittimità, di riconoscere cioè come titoli legittimi di autorità
il tempo e la fedeltà dei popoli, la maggioranza dei grandi Stati
crede che sia necessario rinforzare il principio di legittimità con
la concessione d’istituzioni rappresentative. La dinastia legittima
rientra in Francia con la Carta di Luigi XVIII. L’Imperatore di Russia
ambisce di far la parte di protettore della libertà. Anche il re di
Prussia ha promesso una costituzione al suo popolo. Solo fra i grandi
Stati l’imperatore d’Austria resta fedele alla dottrina assolutista.
Le altre grandi monarchie inclinano con maggiore o minor risolutezza
verso una conciliazione dei due principii politici, basata sulla
subordinazione del principio nuovo all’antico. La monarchia resterà
il principio sovrano di Europa; le istituzioni rappresentative
funzioneranno sotto il suo controllo; la pace aiuterà questa
conciliazione. Le idee rivoluzionarie avevano scosso le istituzioni
monarchiche con l’aiuto della guerra. La Santa Alleanza sarà una tregua
conchiusa tra le monarchie d’Europa, per non facilitar troppo, con le
loro lotte, il compito della Rivoluzione.

Ma la conciliazione fallisce. In Francia, la dinastia legittima non
riesce che con grandi sforzi a mantenere la Camera nella posizione
subordinata che le impone la Carta, benchè il Parlamento non sia eletto
che da una minoranza di ricchi. La lotta tra la corona e il parlamento,
tra il diritto divino e la sovranità del popolo, fra la vecchia
aristocrazia e la borghesia, è continua, accanita, implacabile. Questa
lotta, per le inquietudini che solleva, contribuisce a far vincere
pienamente il partito assolutista in tutta Europa dopo il 1821. Si
dimenticano dappertutto le promesse fatte di concedere una costituzione
e il diritto divino trionfa. A sua volta, questo trionfo universale del
diritto divino in tutta Europa reagisce sulla Francia, dove, con Carlo
X, vince il partito monarchico a oltranza. La lotta tra i due principii
s’inasprisce, fino a scoppiare nelle giornate di luglio, nel 1830.

La dinastia legittima è rovesciata. Il principio della sovranità
popolare esce vittorioso da una lotta sanguinosa che dura tre giorni.
Ma non osa sfruttare a fondo la sua vittoria, proclamando la repubblica
e coronando il popolo sovrano dello Stato. Anche Lafayette esita; e
quando, il 31 luglio, il duca d’Orléans si presenta al Municipio per
rendere omaggio nella sua persona al popolo sovrano, Lafayette esce
sul balcone, insieme a lui, con una bandiera tricolore. Una cricca di
parlamentari abili, maneggiata abilmente da un banchiere, prepara una
nuova conciliazione tra i due principii: la monarchia borghese, o, come
la definì proprio Luigi Filippo, un trono circondato da istituzioni
repubblicane. Il re riconosce la fonte della sua legittimità nel
popolo e nel parlamento che lo rappresenta; è abolito il diritto
ereditario dei pari; il diritto elettorale è un po’ allargato pur
restando strettamente censitario. Il popolo, che governa la Francia è
rappresentato da 200.000 elettori. Ma la nuova conciliazione non riuscì
meglio della precedente. La contradizione tra il carattere censitario
del suffragio e la dottrina della volontà del popolo, si poteva ancora
tollerare sotto la monarchia legittima, la quale affermava d’essere
l’autorità, e non riconosceva alla volontà popolare che una parte
subordinata di collaborazione, per così dire. Ma la monarchia borghese,
invece, non era più che una delegazione del popolo, sottomessa
al popolo, che l’aveva creata con la sua volontà. Come si poteva
riconoscere il popolo sovrano in una piccola minoranza di 200.000
possidenti? Appunto tra il 1830 e il 1848, per reazione a questa
mostruosa contradizione, la dottrina del suffragio universale diventa
l’espressione quasi mistica della sovranità popolare.

La rivoluzione del 1848 è la sua grande rivincita. La Francia
rovescia la monarchia borghese e proclama la sovranità del popolo
nella repubblica, basata sul suffragio universale. L’Europa segue
il suo esempio, si solleva quasi tutta contro la monarchia assoluta,
domanda delle costituzioni. Lo slancio fu così grande, che tutte le
monarchie, salva la Russia, furono costrette a cedere, anche l’Austria
e la Prussia. Come in Francia, il suffragio universale è proclamato
fonte di tutta l’autorità, al posto di Dio, quasi in ogni grande Stato
d’Europa. Ma si ripete allora sopra una scala più larga ciò che era
già successo più oscuramente all’epoca della Rivoluzione; passato il
primo entusiasmo, il suffragio universale esita ad esercitare il potere
supremo; diffida delle sue forze, guarda intorno a sè per cercare
appoggi, e si rivolge finalmente verso l’antico principio d’autorità
che avrebbe dovuto sostituire, per scaricarsi su di lui della sua
responsabilità. L’Assemblea nazionale, eletta nel 1848 dal suffragio
universale, è composta per metà di partigiani degli antichi regimi
monarchici, e per metà di una grossa maggioranza di repubblicani
improvvisati e di una piccola minoranza di repubblicani sinceri e
fervidi. La sua volontà è così confusa ed incerta, così debole la sua
fiducia nella propria autorità, il suo operare così poco energico, che
un gran disordine invade la Francia. La rivoluzione si trova presto
in faccia a questo problema paradossale: ha il suffragio universale,
che è pure un sovrano, il diritto di abdicare la sua autorità suprema
in favore degli antichi regimi? Si può o si deve fargli violenza, per
obbligarlo a governare, nonostante le sue riluttanze? Nelle sanguinose
giornate di giugno l’ala estrema del partito repubblicano si leva
contro l’Assemblea e il suffragio universale, che accusa di tradire
la Rivoluzione! E’ vinta; il suffragio universale resta in teoria il
padrone dello Stato; ma si indebolisce, si scoraggia ogni giorno di
più, di fronte alle crescenti difficoltà interne ed esterne, fino al
giorno in cui, chiamato a scegliere il presidente della repubblica,
ha l’idea di darsi col cappello e la spada di Napoleone, l’aria
e l’aspetto di un vero sovrano. Da quel giorno il destino della
repubblica è deciso: il suffragio universale non servirà più che a
legittimare con un consulto teorico, una monarchia militare, fondata
con un colpo di Stato sul prestigio di un nome. Lo stesso dramma
si svolge più rapidamente e in forma più semplice nella Germania.
Che cerca, appena eletto dal suffragio universale, il parlamento di
Francoforte? Un imperatore per tutta la Germania. Non ambisce che di
sostituire il papa del medioevo, nell’unzione di un nuovo imperatore.
Il parlamento si rivolge all’Imperatore d’Austria, all’arciduca
Giovanni, al re di Prussia; quando s’accorge che il suo richiamo rimane
vano, si lascia dissolvere senza resistenza, come se non avesse più
niente da fare.

Fallisce dunque dappertutto la rivoluzione del ’48. La sovranità del
popolo non dura che un momento. Delle costituzioni timide e sospettose,
che subordinano le istituzioni rappresentative al potere monarchico,
come nella Carta di Luigi XVIII; ecco quanto rimane nei paesi in cui
l’assolutismo non riesce, come in Austria, a ritirare tutte le sue
concessioni. Lo scacco è così grande, che i partiti e le dottrine
democratiche ne resteranno scoraggiati per tre generazioni. Ma il
principio vittorioso, il diritto divino, non è meno indebolito, dalla
sua vittoria, che il principio vinto, dalla sua sconfitta: questo è
il controsenso tragico del 1848, ed è la chiave di tutta la storia
dell’Europa fino alla guerra mondiale. Il principio vittorioso non
è soltanto indebolito dalle concessioni, che dovette fare, sotto la
minaccia della rivoluzione; dalle istituzioni parlamentari adottate
dopo il 1848 in quasi tutti i grandi Stati d’Europa; ma anche dalla
discordia che s’è insinuata tra le grandi e le piccole monarchie
dell’Europa. La rivoluzione del 1848, se non ha sradicato la monarchia
dal suolo dell’Europa, ha rotto la santa Alleanza e la tregua delle
dinastie. Governata dal nipote di Napoleone, la Francia non poteva più
far parte di un sistema che era stato organizzato contro la famiglia
del nuovo imperatore. Il piccolo re di Sardegna aveva osato, nel 1848,
primo di tutti, strappare i trattati del 1815 dichiarando la guerra
all’impero d’Austria. Il parlamento di Francoforte, se non aveva
trovato un imperatore, era però riuscito a gettare la diffidenza e
il sospetto fra la Prussia e l’Austria, offrendo la corona al Re di
Prussia; presto la guerra di Crimea inimicherà per sempre gli Asburgo e
i Romanoff. L’accordo tra le grandi corti settentrionali che era, nel
sistema della Santa Alleanza, il fondamento della potenza monarchica
in Europa, è spezzato definitivamente, l’Europa è come abbandonata a
se medesima, in un disordine inquieto, pieno di discordie. Vittorio
Emanuele II e Cavour furono i primi a approfittare di questo disordine
e di queste discordie. Sfruttando la gelosia e la diffidenza nate,
per il ristabilimento dell’Impero, tra la Francia e l’Austria,
riescono a trascinare Napoleone III in una guerra contro l’Impero
degli Asburgo; inalberando la bandiera liberale e costituzionale,
riescono a provocare, dopo Solferino, un largo movimento in tutta la
penisola, che permetta loro di riunirla in un solo Stato. Le piccole
corti assolute sono sostituite, in Italia, da una sola monarchia
costituzionale. Ma gli avvenimenti d’Italia non sarebbero bastati,
così da soli, a far uscire l’Europa dal suo stato di incertezza e di
torbidi, se il Piemonte non avesse aperta la strada alla Prussia, e
se con un colpo di fantastica temerità, Bismarck non fosse riuscito
a risolvere la situazione incerta, creata in tutta l’Europa dalla
rivoluzione del 1848, a profitto della Germania e del principio
monarchico. Approfittando della discordia che la rivoluzione del 1848,
la guerra di Crimea, la guerra d’Italia, la rivoluzione di Polonia, han
fatto nascere fra l’Austria e la Russia, tra la Russia e la Francia,
tra la Francia e l’Inghilterra; servendosi dell’esercito prussiano
riorganizzato e della dottrina rivoluzionaria del suffragio universale,
riesce, contro la volontà del parlamento prussiano, a vincere l’Austria
e a fondare la confederazione del Nord, sotto l’egemonia prussiana;
lancia la confederazione contro la Francia e fonda l’Impero tedesco,
sotto un capo per diritto divino e con un parlamento eletto dal
suffragio universale.

Bismarck sembra aver risolto il problema che Luigi XVIII e Carlo X non
avevano potuto sciogliere: far collaborare il principio monarchico e
il principio democratico, subordinando questo a quello. Per quaranta
quattr’anni la Germania ha attuato con successo il piano politico,
che aveva fatto cadere, in Francia, la dinastia legittima. Per questa
ragione la guerra del 1870 era sembrata ai partiti conservatori del
mondo intero la rivincita della monarchia sulla rivoluzione del 1848,
il gran trionfo del principio monarchico. Durante questi quaranta
quattr’anni, la monarchia si consolida in apparenza al punto che non
ha nemmeno più paura di molte dottrine e istituzioni democratiche,
considerate, fino ad allora, come incompatibili con ogni governo
monarchico. Si generalizzano le istituzioni parlamentari; soltanto
la Russia resiste fino al 1905; e la base delle istituzioni elettive
diventa sempre più larga. Lo stesso impero d’Austria adotta, alla fine,
il suffragio universale. Le idee repubblicane si spengono a poco a
poco; la Francia se riesce, con sforzi tenaci e continui, a organizzare
una repubblica basata sul suffragio universale e sull’opinione
pubblica, resta però sola, tra le grandi potenze d’Europa, e può
continuare il suo sforzo audace perchè approfitta dell’ordine generale,
assicurato in tutta l’Europa dalla potenza delle monarchie. Pare che
la monarchia abbia definitivamente vinto nella grande lotta con le
dottrine democratiche, cominciata nel 1789.

Ma è ancora un’illusione. L’accordo tra le grandi corti settentrionali,
Berlino, Vienna, Pietroburgo, pietra angolare del principio monarchico,
è spezzato per sempre. Vani sono tutti gli sforzi fatti da Bismarck
per ristabilirlo. La Russia finisce per allearsi con la Francia. Gli
eserciti di coscrizione, dono pericoloso lasciato dalla rivoluzione
alle monarchie, si sviluppano sopratutto in Germania e in Russia. Il
prestigio del principio monarchico è aumentato da questi nuovi eserciti
di Serse, comandati da tanti re e imperatori. Ma nessuno pensa che una
potenza troppo grande può diventare più pericolosa che una debolezza.
E poi, il sistema monarchico dell’Europa riposa tutto sull’egemonia
della Germania, e questa egemonia può mantenersi a lungo solo mostrando
che la forza da cui era stata fondata, era ancora preponderante come
nel 1870, o più? Presto o tardi sarebbe arrivato il giorno in cui la
Germania avrebbe dovuto dare questa prova al mondo! Arrivato questo
giorno, la Germania e l’Austria hanno attaccato la Russia, con gli
eserciti immensi che la coscrizione e i progressi dell’industria
avevan permesso loro di mettere insieme. Ne è nata una guerra senza
limiti, in cui l’Austria e la Germania, han distrutto la Russia, e
distruggendola si sono suicidate. La rivoluzione russa, con l’esempio
e col vuoto che ha creato nel fianco degli imperi centrali; la guerra
illimitata, con l’esaurimento atroce di tutte le energie dei due paesi,
hanno provocato la rivoluzione tedesca e la rivoluzione austriaca. La
caduta degli Asburgo e degli Hohenzollern, dopo quella dei Romanoff è
stata la catastrofe finale del principio monarchico, cioè del principio
d’autorità che dominava la maggior parte dell’Europa!

La grande lotta contro il principio monarchico, cominciata nel
1789, è dunque finita. Il principio monarchico è morto. Già scosso
dall’incredulità, dal razionalismo, dalle dottrine ugualitarie, dalle
guerre e dalle rivoluzioni di un secolo, è stato pienamente sradicato
dalla guerra mondiale. Si trovano ancora, qua e là, dei troni in
Europa, come rocce che emergono dal diluvio; ma coloro che li occupano
non sono dei re, sono delle ombre. L’Europa potrà assistere ancora a
parziali restaurazioni; ma queste restaurazioni non saranno più che
espedienti e combinazioni politiche, le quali dureranno quanto durano
le combinazioni politiche! Il rispetto, l’ammirazione, la fiducia,
quasi religiosa in quel principio, sono morti. Troppo terribile è
stata la catastrofe, che li ha rovesciati! Ma il principio opposto,
quello che avrebbe dovuto approfittare della catastrofe del principio
monarchico, potrà sostituirlo? In questo sta il tutto. E purtroppo
il desiderio di rispondere di sì, deve frenarsi innanzi alla fredda
considerazione dei fatti, i quali risvegliano il dubbio anche negli
spiriti più fiduciosi.

Innanzi tutto gli eventi della Russia. La repubblica democratica è
durata dal marzo al novembre del 1917. Nel mese di novembre del 1917 il
popolo sovrano, dopo un regno di otto mesi, era costretto ad abdicare,
spossessato dalla dittatura del partito comunista, o, per essere più
esatti, dalla piccola oligarchia che domina questo partito. Sciolta
la Costituente, che era la legittima rappresentante della volontà
della Russia, questa oligarchia ha preso a combattere accanitamente i
principii democratici dell’Occidente, opponendo all’ideologia borghese
delle democrazie, la dottrina della dittatura del proletariato, che
non è poi altro se non la giustificazione preventiva di un regime di
assolutismo. Nè meglio danno da sperare i casi dell’Ungheria, dove la
repubblica democratica, è caduta in pochi mesi sotto la dittatura del
proletariato, per ricadere poi sotto la dittatura militare. A questi
devono aggiungersi gli eventi dell’Italia, dove le vecchie forze
dirigenti, alleatesi con elementi nuovi e di origine rivoluzionaria,
hanno preferito tentare addirittura una restaurazione della monarchia
assoluta del 1815, anzichè sostituire un vero e proprio regime
rappresentativo integrale, simile a quello dell’Inghilterra e della
Francia, al governo misto di democrazia e di monarchia, con cui il
Regno si era retto dal 1860 in poi.

Nè uno spirito chiaroveggente può chiudere gli occhi alle penose
difficoltà, contro cui lotta la repubblica tedesca, al malcontento
contro le istituzioni parlamentari che agita sotto sotto la Francia e
perfino l’Inghilterra, alla popolarità forse incauta e superficiale, ma
diffusa, di cui godono le dottrine dittatoriali, presso i popoli che
hanno la fortuna di non saper più o di non sapere ancora che cosa è
davvero una dittatura senza patenti legittime.

Se il regime rappresentativo non riuscisse a mantenersi nel maggior
numero degli Stati di Europa, la guerra tra i due principii di autorità
— il monarchico e il democratico — incominciata nel 1789, terminerebbe
con la sconfitta di tutti e due; e l’Europa si troverebbe in quella
stessa stretta, in cui si trovò l’impero romano, nel terzo secolo,
dopochè il Senato fu esautorato dalla vittoria di Settimio Severo:
senza un principio di autorità universalmente riconosciuto, e forte
abbastanza da reggere l’ordine sociale. Come allora la dittatura della
forza farebbe le veci del governo legittimo; e non sarebbe una sola,
ma molte, e ciascuna diversa, da Stato e Stato; e tutte cercherebbero
di giustificarsi; come i governi di Aureliano, di Diocleziano e di
Costantino, aggrappandosi ai ricordi più vecchi del passato o alle
speranze più immature dell’avvenire; e sarebbero necessariamente
trascinate a farsi la guerra fra loro. La pace non può in Europa
mantenersi che fra governi legittimi. Quale sarebbe il destino della
civiltà europea, come potrebbero sussistere le genti che si affollano
nel continente, in mezzo a tanto disordine e a tanta insicurezza, è
difficile a dire.

Non è detto però che ciò debba accadere. Non ostante le mille
difficoltà che rendono ardua l’impresa, i maggiori Stati europei
potranno governarsi con gli istituti del regime rappresentativo, se le
classi governanti capiranno che gli sforzi e i sacrifici necessari per
adattare ai tempi nuovi le vecchie forme, sono piccola cosa a confronto
dei danni, di cui il regime della forza sarebbe cagione a tutti. Dalla
Francia, dall’Inghilterra, dalla Germania sembra dipendere l’avvenire
dell’Europa. Se questi tre Stati non rinnegheranno le tradizioni e
i principii del regime rappresentativo, ma sapranno ringiovanirne
le istituzioni, il loro esempio si imporrà e tutta l’Europa potrà
ritrovare l’ordine interno e la pace nella saldezza di governi
universalmente riconosciuti come legittimi. Se anche questi governi
cedessero alle forze del disordine, che li travaglia, un’èra di lunghi
torbidi comincerebbe, di cui tutta la civiltà occidentale avrebbe certo
a soffrire.

L’ora, è per l’Europa, piena di pericoli. Possa l’antica storia, che
qui abbiamo narrata imparzialmente, illuminare anche da noi gli spiriti
eletti, far loro vedere questi pericoli, armare la loro volontà della
chiaroveggenza che è necessaria, per combatterli con intelligente
fermezza.




INDICE


  Prefazione                                           Pag.   5
  I.    Le cause profonde                               »     7
  II.   La crisi del terzo secolo                       »    41
  III.  Diocleziano e la riforma dell’Impero            »    75
  IV.   Costantino e il trionfo del Cristianesimo       »   111
  V.    Dal terzo al ventesimo secolo                   »   163




NOTE:


[1] Questo carattere mezzo arcaico, mezzo rivoluzionario, della riforma
politico-religiosa di Diocleziano è stato acutamente illustrato da _G.
Costa_, Religione e politica nell’impero romano, Bocca, Torino, 1923,
N. 183 sg.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



        
            *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA ROVINA DELLA CIVILTÀ ANTICA ***
        

    

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START: FULL LICENSE

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Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
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Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
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Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
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