La guerra europea : studi e discorsi

By Guglielmo Ferrero

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Title: La guerra europea

Author: Guglielmo Ferrero

Release date: May 28, 2024 [eBook #73717]

Language: Italian

Original publication: Milano: Ravà, 1915

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GUERRA EUROPEA ***


                           GUGLIELMO FERRERO


                               LA GUERRA
                                EUROPEA

                            STUDI E DISCORSI

                              «_Esto ergo bellando pacificus, ut
                            eos, quos expugnas, ad pacis utilitatem
                            vincendo perducas_».
                                                      S. AGOSTINO.



                                 MILANO
                          RAVÀ & C. — EDITORI
                                  1915




                          Proprietà riservata

                 Copyright by GUGLIELMO FERRERO — 1915

   Milano, 1915. Cooperativa Tipografia degli Operai, via Spartaco, 6




SOMMARIO


  _PREFAZIONE_                          pag. VII
  I.   — GLI ULTIMI GIORNI DELLA PACE     »    5
  II.  — LE CAUSE PROFONDE DELLA GUERRA   »   49
  III. — LA LOTTA PER L’EQUILIBRIO        »  109
  IV.  — L’ITALIA E LA GUERRA EUROPEA     »  163
  V.   — LA CONTRADIZIONE SUPREMA         »  251




_PREFAZIONE_


_Mal vezzo della letteratura presente parve sempre all’autore la
facilità e la compiacenza con cui gli scrittori de! tempo nostro
raccolgono in volume le loro pagine sparse. La letteratura delle
gazzette e delle riviste — moltitudine di efimeri che ciascun giorno
vede nascere e morire a migliaia — ha la sua ragione e la sua dignità:
ma perde l’una e l’altra, se pretende di vivere oltre la breve ora
assegnatale dalla sua stessa natura. Perchè dunque anche l’autore — e
per la prima volta in vita sua — si è lasciato persuadere dai solerti
editori di questo libro a secondare il corrotto costume del tempo?_

_Egli spera che l’argomento di questi studi e di questi discorsi
gli varrà di scusa presso i più; e che presso alcuni gli servirà di
giustificazione il fine per cui furono raccolti e pubblicati. Quale che
ne sia il pregio, questi discorsi e questi studi non furono composti
per servire con argomenti di occasione le passioni e gli interessi
dominanti dell’ora; ma per continuare a svolgere, applicandole ai
grandi avvenimenti presenti, alcune idee sulla civiltà moderna e sui
nascosti pericoli da cui è minacciata, che l’autore aveva meditate ed
esposte alcuni anni prima che la guerra europea scoppiasse. Curioso
è spesso il destino degli uomini e delle idee. Casi ed accidenti
che sarebbe inutile perditempo qui ricordare, condussero un giorno
l’autore di questi saggi a chiedersi come avevano potuto, nella storia
delta civiltà nostra, seguirsi due mondi, di cui l’uno era proprio il
rovescio dell’altro, e quale dei due fosse il vero: un mondo — quello
in cui noi viviamo — smanioso di oltrepassare sempre la meta raggiunta,
animoso a procedere senza appoggi nell’ignoto, insaziabile di novità
e dì libertà, tormentato da una inquieta aspirazione al meglio ed al
più: e un mondo — quello in cui avevano vissuto i nostri padri — che,
come il bambino il quale impara a camminare, temeva di lasciare un
appoggio o di fare un passo se non vedesse vicino il nuovo appoggio
a cui tender le mani, compunto di profonda venerazione verso le cose
antiche, sottomesso all’autorità, tutto intento a rintuzzare con
dottrine di rassegnazione e di austerità gli orgogli, le ambizioni e
le cupidigie insorgenti. E paragonando questi due mondi, facilmente si
accorse che il mondo moderno, se aveva compiute mille opere portentose
di ogni natura, aveva però anche osato ribellarsi a quella legge dello
spirito umano, per cui la certezza non può essere che effetto di una
limitazione, nessuno potendo sicuramente distinguere il bello e il
brutto, il bene e il male, il vero e il falso se non creda in una
definizione iniziale, e il definire non essendo altro che un limitare.
Ma il limitarsi era proprio l’atto che più ripugnava a questo secolo,
smanioso di sempre oltrepassare la meta raggiunta: onde il secolo
riprecipitava nel caos quell’ordine spirituale, che ai nostri padri era
apparso come una vitale necessità della mente._

_Senonchè queste considerazioni furono accolte piuttosto male: del che
l’autore, se non si compiacque, neppure si meravigliò. Un secolo che
ha perduta l’abitudine di paragonarsi dal basso a un qualunque modello
di perfezione perchè è sicuro di essere esso il modello insuperabile,
non ama sentirsi dire che qualche volta delira: e a chi glielo dice,
volentieri rinfaccia di non capire il divino trasporto bacchico di
un’epoca prodigiosa.... Fatto più singolare: perfino dei cattolici
si unirono a quel coro! E per dire il vero anche il vituperato autore
era d’opinione che questa spensierata indifferenza dei tempi potesse
esser trattata con indulgenza, poichè per lungo tempo ancora, forse per
parecchie generazioni, non genererebbe che delle filosofie insensate,
delle arti futuristiche e dei costumi assurdi o ridicoli: tutte cose di
cui nessuna è mortale. Aveva, sì, Emilio Rosetti detto, sulle soglie
del Mediterraneo, che l’America, la Rivoluzione, la macchina «hanno
generato un secolo senza limiti e perciò senza appoggi, nel quale
l’uomo procede come un gigante che vacilla a ogni passo....». Ma chi
poteva credere che in uno di questi vacillamenti il gigante sarebbe
caduto, sotto i nostri occhi?_

_Così volle invece il destino. Ammonimento terribile all’America,
l’Europa ha inciampato; è caduta sul ginocchio; si è malamente ferita;
geme ora pietosamente e non riesce a rialzarsi.... E allora l’autore,
che pure aveva sempre sperato di non vedere tanto orrore, ma che non
si è punto meravigliato di doverci assistere, ha creduto fosse dovere
ripigliar il discorso, interrotto da tante vociferazioni ed ingiurie,
per dimostrare che quel caos, dopo tante filosofie insensate, tante
arti futuristiche e tanti costumi assurdi o ridicoli, ha concepita nel
suo grembo tenebroso e generata anche la guerra europea. E non per la
vanità di raccattare in mezzo a tante rovine una prova, ahimè troppo
insanguinata, di una tesi storica e filosofica; ma per aiutare ad
orientarsi quanti — e sono i più — soprafatti da questa catastrofe, si
chiedono oggi sbigottiti se le leggi che reggevano le cose umane fino
ad ora sono state tutte capovolte o se qualche demonio, incomprensibile
dalla nostra mente, è entrato nel mondo per devastarlo. Chè la mente
non può capire un così smisurato fenomeno e quindi ne è soprafatta,
se non guarda che quello; e se non trova il filo per risalire e
comprendere la lunga preparazione storica che l’ha maturato._

_Ma come chiaro apparisce invece, a chi ha trovato questo filo, il
grandioso fenomeno! No: questa guerra non è una guerra come tante
altre ce ne sono state, nel mondo; ma, come la Rivoluzione francese,
è la crisi di una civiltà da cui nessuna cosa si salva e che_ per ora
_prende forma e aspetto di guerra. È vano illudersi. L’Europa nella
quale siamo nati, non è più che un vetusto edificio in rovina. Un
terremoto l’ha messa a soqquadro, da capo a fondo. Di fuori, sulla
facciata, si è sfaldato l’intonaco di menzogne convenzionali, di
pregiudizi e di opinioni interessate, che ne copriva le screpolature e
le macchie putride: i pezzi che ancora reggono per miracolo, cadranno
fragorosamente da un minuto all’altro. Dentro sono state spezzate tutte
le impalcature che lo reggevano: le alleanze e i trattati di commercio,
il diritto pubblico e il diritto privato, gli interessi e le simpatie.
Sulla terra sconvolta, le correnti del traffico, oggi sbarrate,
deviate, risospinte alla sorgente, dovranno aprirsi nuovi letti.
Occorrerà domani sottomettere ad una revisione accurata le opinioni, le
idee e i principî in cui avevamo creduto sino ad oggi. Nè le Dinastie,
nè i Parlamenti, nè i Governi, nè i Partiti, nè alcuna istituzione
sarà alla fine della guerra quale era al principio; ma in tutte sarà
un impaccio, un disagio, un’incertezza, nascente dal non sentirsi più
le medesime e dal sentire intorno il mondo mutato. Occorrerà rifare su
nuovi modelli la Finanza e gli Eserciti di tutti gli Stati, e rifatti
su nuovi modelli questi due istituti, a quanti ritocchi e riforme
occorrerà sottoporre tutti gli altri!_

_Occorrerà infine sciogliere il gran problema della limitazione degli
armamenti, dal quale ormai il nostro destino dipende. Questo secolo,
che si era gloriato di rovesciar tutti i limiti, si trova ora alle
prese, quasi si direbbe per castigo, con una difficilissima questione
di limiti. L’illimitata gara degli armamenti — puntiglio mortale di
un’epoca che non riconobbe altro freno del volere che il potere — ha
generata questa guerra, che a sua volta sembra non avere limiti, nè
nel tempo, nè nello spazio, nè nel modo. E finita la guerra, l’Europa
o riescirà a limitare gli armamenti secondo qualche principio che possa
essere lealmente applicato da tutti i governi; o precipiterà verso uno
stato che, secondo le idee e i principi oggi professati da noi, dovrà
essere giudicato di barbarie._

_L’Europa ormai dovrà essere rifatta. Ma un’epoca non può rifare un
ordine sociale, che è un mondo vivente, composto di parti diverse,
se non compie un potente sforzo sintetico con il pensiero; se non
scopre i nessi vitali di tutti i problemi che tra loro si intrecciano
indissolubili. Perciò questi saggi — troppo piccolo contributo a
un’opera gigantesca — furono raccolti in volume; non facendosi quasi
nessun ritocco per riempire il distacco che separa scritti e discorsi
composti a parte; curando anzi che ognuno di questi studi e di questi
discorsi stia di per sè nel libro, come stette di per sè nel giornale
e nella rivista che l’accolse, o nell’occasione in cui fu pronunciato.
Il lettore dovrà dunque sopportare con pazienza qualche ripetizione.
Ma l’autore si lusinga che non manchi al libro, ciò non ostante,
una certa unità ideale, unico essendo il pensiero animatore di tutti
questi saggi, in apparenza disparati e diversi: che «l’America, la
Rivoluzione, la macchina hanno generato un secolo senza limiti e perciò
senza appoggi, nel quale l’uomo procede come un gigante, che vacilla a
ogni passo...»._

  _Torino, il primo di giugno del 1915._




I.

GLI ULTIMI GIORNI DELLA PACE

(23 LUGLIO — 1º AGOSTO 1914)


  Questo studio fu pubblicato nella _Revue des deux mondes_ il 15
  dicembre 1914, sotto il titolo: «_Le conflit européen, d’après
  les documents diplomatiques_»; e ripubblicato, in una traduzione
  letterale, fatta per cura degli Editori, nella collezione dei
  _Problemi Italiani_ con titolo nuovo: «_Le origini della guerra
  presente_». La traduzione che ora si dà alle stampe è stata curata
  dall’autore stesso ed è forse anche qualche cosa di più che una
  nuova traduzione, tanti sono i punti in cui il testo francese è
  stato rimaneggiato o ritoccato. Nel rimaneggiarlo e ritoccarlo
  l’autore ha tenuto conto del _Libro Rosso Austro-Ungarico_, che,
  quando lo studio comparve nella _Revue des deux mondes_, non
  era ancora pubblicato. Cosicchè in questo scritto si raccontano
  gli avvenimenti diplomatici seguiti in Europa dal 23 luglio al
  1º agosto del 1914 e che misero capo alla guerra europea, quali
  risultano da tutte le raccolte di documenti diplomatici messe
  sinora a disposizione del pubblico, e cioè:

  del _Libro Bianco_ (citato _L. Bianco_) pubblicato dal Governo
  tedesco;

  dei tre _Libri Bianchi_ pubblicati dal Governo inglese — il
  _Miscellaneous_ No. 6 (1914) [Cd. 7467], il _Miscellaneous_ No. 8
  (1914) [Cd. 7445], il _Miscellaneous_ No. 10 (1914) [Cd. 7596] —
  che il Governo stesso ha raccolti in un volumetto: _Great Britain
  and the European Crisis_ (citato con la sigla _G. B._);

  del _Libro Arancio_ (citato _L. Arancio_) pubblicato dal Governo
  russo;

  del _Libro Giallo_ (citato _L. Giallo_) pubblicato dal Governo
  francese;

  del _Libro Rosso_ (citato _L. Rosso_) pubblicato dal Governo
  austro-ungarico. Di questo è stata adoperata e citata la traduzione
  italiana, fatta a cura dello stesso Governo.


I.

Il 23 luglio del 1914 la Monarchia degli Absburgo, per mezzo di una
«nota» diplomatica, chiedeva al Governo di Serbia la riparazione del
sangue per la strage dell’Arciduca a Serajevo. Chi non ricorda lo
sgomento che assalì l’Europa a leggere quella «nota» famosa? Ma la
paura delle Cancellerie nel riceverne copia non fu minore. Non sfuggì
loro che l’Austria aveva studiata la più sanguinosa provocazione alla
Russia con arte fredda e sottile, poichè, dopo avere per due settimane
rassicurate le Potenze della Triplice Intesa che presenterebbe alla
Serbia richieste moderate, di sorpresa invece, quando nessuno se
l’aspettava, e già i Governi dell’Europa erano tutti sul punto di
andare in campagna, chiedeva al piccolo Stato di suicidarsi sulla
tomba dell’Arciduca, concedendogli due giorni soli per il sacrificio.
Che cosa sarebbe avvenuto, se la Russia non avesse voluto o potuto
abbandonare la Serbia al suo destino?

Il 24 luglio l’ambasciatore d’Austria e d’Ungheria a Londra si
recava da Sir Edward Grey a portargli la «nota». Nel prenderla dalle
mani dell’ambasciatore, Sir Edward Grey non gli fece mistero delle
inquietudini che in quel momento pungevano l’animo suo. Gli disse che
nessuno contestava alla Duplice Monarchia il diritto di voler vendicata
la morte dell’Arciduca; ma aggiunse che non aveva ancor visto uno
Stato rivolgere ad altro Stato libero e indipendente un documento
così «minaccioso»: dichiarò che l’Inghilterra si sarebbe tenuta in
disparte sinchè solo Austria e Serbia fossero state alle prese, ma se
la Russia fosse entrata di mezzo, no; perchè allora avrebbe cercato di
intendersi con le altre Potenze per veder quel che si potesse fare (_G.
B._, 5). In quello stesso giorno il Grey si abboccò con l’ambasciatore
di Francia e con l’ambasciatore di Germania. Al primo disse che se
la Russia fosse intervenuta a fare schermo di sè alla Serbia, egli
intendeva proporre alla Francia, alla Germania e all’Italia di unirsi
all’Inghilterra, per interporsi tutte insieme come paciere tra Vienna
e Pietroburgo (la capitale russa si chiamava ancora così). Il Cambon
giudicò savio il proposito; ma osservò pure che queste Potenze non
potevano far nessun passo prima che il Governo russo avesse in qualche
modo dichiarate le sue intenzioni: ora l’Austria aveva concesso così
poco tempo alla Serbia per rispondere, che il termine ne scadrebbe di
sicuro prima che si potesse neppur incominciare ad agire: necessitava
dunque innanzi tutto indurre l’Austria a prolungare il termine concesso
alla Serbia. Ma chi poteva persuadere l’Austria, se non la Germania?
Il Grey annuì; e il giorno stesso, dopo avere esposto all’ambasciatore
di Germania quando e in che modo, a suo parere, le quattro Potenze
dovevano intervenire, lo pregò di sollecitare il suo Governo a chiedere
al Governo austro-ungarico di non procedere ad atti irreparabili,
dopochè il termine fosse scaduto (_G. B._, 10; _L. Giallo_, 32-33).

L’Inghilterra, già sin dal giorno 24, dichiara aperto e preciso quale è
il suo modo di vedere: se la Russia crede di poter lasciare l’Austria e
la Serbia sole alle prese, tenersi in disparte con le braccia conserte;
se la Russia interviene, invitare le Potenze a interporre insieme i
buoni uffici tra i due grandi Imperi. Che dicevano e facevano in quello
stesso giorno la Germania, l’Austria-Ungheria e la Russia?

La Germania definisce pure in quel giorno il suo punto, ma altrimenti:
affermando che nessuna Potenza, per nessuna ragione, ha da entrar di
mezzo tra l’Austria e la Serbia. Il Governo tedesco ha detto e ridetto
ormai cento volte di non aver avuto, neppur esso, prima del 23, alcun
sentore della mossa che l’Impero alleato preparava contro la Serbia; e
sarà vero, se non verisimile, poichè un documento o una prova decisiva
che lo smentisca non c’è. Tuttavia, se proprio era al buio di ogni
cosa, è pur singolare che il Governo tedesco, il giorno stesso in cui
la «nota» austriaca era consegnata alla Serbia, il 23 luglio, potesse
spedire la lunga «nota», che il giorno seguente, il 24, era consegnata
al Governo francese, al Governo inglese e al Governo russo. Questa
«nota» dopo aver difesa calorosamente l’Austria-Ungheria, conchiudeva
con queste parole poco rassicuranti, ma punto ambigue:

  «Il Governo imperiale desidera affermare, con quanta maggior
  forza può, che il presente conflitto non concerne altri che
  l’Austria-Ungheria e la Serbia e che le grandi Potenze devono
  perciò cercare di restringere a queste due sole il conflitto. Il
  Governo imperiale desidera che il conflitto non si allarghi; perchè
  l’intervento di una terza Potenza potrebbe, per via delle alleanze,
  generare effetti incalcolabili» (_G. B._, 9; _L. Bianco_, 1; _L.
  Giallo_, 28).

A che mirasse la Germania con questa prima mossa non può essere dubbio.
Mentre essa terrebbe a bada, minacciando effetti «incalcolabili», il
colosso moscovita, l’Austria squarterebbe, alle sue spalle, sicura,
la piccola Serbia. Ma mentre la Germania borbottava tra i denti
sorde minaccie, la vecchia Monarchia degli Absburgo studiava innanzi
allo specchio il più amabile dei suoi sorrisi; e tutta miele e tutta
dolcezza, con il cuore in mano, si sforzava di rassicurare l’Europa
angosciata. Il Governo russo non stesse in pensiero — diceva il 24 il
conte Berchtold all’ambasciatore di Russia, parlando come un vecchio
amico, la mano sul cuore: la Monarchia austro-ungarica non covava
nessun pravo disegno, non adocchiava nessuna porzione del territorio
serbo, non si proponeva di alterare l’equilibrio dei Balcani: voleva
solo correggere la Serbia di quel brutto vizio di ammazzare sovrani
ed eredi di corone; e voleva correggerla non tanto per il proprio
interesse quanto per l’interesse comune di tutte le dinastie (_L.
Bianco_, 2; _L. Rosso_, 18).

Al Grey, anzi, il buon conte pensava di fare, ma in un orecchio, sotto
voce, una confidenza anche più rassicurante: incaricava l’ambasciatore
di dirgli al momento opportuno — ricopio alla lettera dalla traduzione
ufficiale italiana del _Libro Rosso_ — «che la «nota» presentata ieri
a Belgrado non si deve considerare come un formale «ultimato», bensì
che si tratta di una «nota» con termine fisso per la risposta, la
quale, come V. E. vorrà confidare a Sir E. Grey in tutta segretezza
— spirando il termine infruttuosamente — per ora non sarà seguita che
dalla rottura delle relazioni diplomatiche e dall’inizio di necessari
preparativi militari» (_L. Rosso_, 17).

A Pietroburgo invece gli animi erano alterati assai. In piazza e a
Palazzo avevano presa la cosa in mala parte. La mattina del 24, il
ministro degli Esteri, il Sazonoff, ascoltò tra impaziente e sardonico
la lettura della «nota» alla Serbia che l’ambasciatore d’Austria gli
veniva facendo, interrompendolo ad ogni istante e dichiarando infine
che l’Austria aveva fatto un passo grave. Nel pomeriggio il Consiglio
dei Ministri si radunò e sedè cinque lunghe ore. Quel che deliberò noi
non sappiamo; sappiamo invece che, sciolto il Consiglio, il Sazonoff
dichiarò, senza reticenze e sottintesi, all’ambasciatore tedesco, che
la vertenza tra l’Austria e la Serbia interessando l’Europa tutta,
_a nessun patto_ la Russia non avrebbe lasciate la Serbia e l’Austria
definirla da sole; e chiese esplicitamente all’Austria di prolungare
il termine concesso alla Serbia (_L. Bianco_, 4; _L. Rosso_, 16). Il
modo di vedere della Russia era dunque opposto al modo di vedere della
Germania.


II.

Così nel giorno 24 luglio ciascuna delle grandi Potenze aveva preso,
come si suol dire, posizione. Sola la Francia aveva dichiarato di
non poter esprimere un’opinione definitiva, aspettando che la Russia
chiarisse meglio il suo pensiero.

La notte porta consiglio — dice il proverbio. Conviene supporre che
nella notte tra il 24 e il 25 Pallade Atena comparisse all’insonne
capezzale degli uomini che governavano la Germania, come nella
_Iliade_. Il 25, infatti, il Governo tedesco muta metro e stile. Non
ammonisce più le Potenze europee, con quel fare metà consiglio e metà
minaccia, a non mettere il dito tra Austria e Serbia. Ma si chiude
in un ottimismo indolente e procrastinatore, come se le faccende di
questo basso mondo, e tra quelle il litigio tra Serbia e Austria,
non l’interessino più. Il von Jagow, ministro degli esteri per il
regno di Prussia, dichiarò prima all’ambasciatore inglese e poi
all’incaricato di affari russo che il Governo imperiale acconsentiva
a trasmettere al Governo austriaco la domanda del Governo russo
perchè l’Austria allungasse alla Serbia il termine concesso per
suicidarsi, pur dubitando di arrivare a tempo. Soggiunse esser sicuro
che l’opinione russa si rassicurerebbe quando conoscesse le vere
intenzioni dell’Austria, quali il Berchtold le aveva esposte. Negò che
ci fosse pericolo di guerra generale: tutt’al più poteva scoppiare
guerra tra Austria e Serbia! Dichiarò infine che la Germania voleva
la pace e che era pronta a interporsi quando davvero la pace europea
pericolasse. Quel giorno stesso a Parigi, a mezzogiorno preciso,
l’ambasciatore di Germania si recò al Quai d’Orsay per dire al Governo
quanto gli spiacesse che una gazzetta, l’_Echo de Paris_, avesse
potuto qualificare di «minaccia teutonica» quella tal «nota» tedesca
del giorno precedente sugli «effetti incalcolabili». Ma che minaccia!
Il Governo tedesco aveva inteso di dire soltanto che desiderava il
conflitto non avesse troppo ad allargarsi — desiderio onesto e lecito
se altro mai. Aggiunse infine il barone Schoen che tra Austria e
Germania non c’era nessun accordo (_G. B._, 13; _L. Giallo_, 41-43).

A paragone insomma della «nota» del dì precedente, i discorsi del
25 erano assennati e concilianti. Per quale ragione la Germania
aveva addolcite le troppo chiare note del 24? Tiri a indovinarlo chi
vuole: per chi scrive, questo è un primo mistero. Pur troppo però in
questo stesso giorno l’Austria, che il giorno prima aveva cercato di
rassicurare Russia e Inghilterra, a parole, non vuol compiere il solo
atto che, meglio di mille discorsi, avrebbe potuto tranquillare gli
animi a Pietroburgo. Il 25 il signor Koudachew, l’incaricato d’affari
russo, andò invano in traccia del conte Berchtold, per chiedergli,
a nome del suo Governo, di prolungare alla Serbia il tempo. Il conte
aveva pensato di andare ad Ischl. Il Koudachew dovette presentargli
la domanda per telegrafo; e il Berchtold, a volta di telegrafo, gli
rispose di no (_L. Arancio_, 11-12; _L. Giallo_, 43).

La Germania parlava saviamente, ma l’Austria agiva da nemica. Sir
Grey, quando seppe che l’Austria aveva ricusato di prolungare il
termine, subito la vide brutta. Invano l’ambasciatore d’Austria tentò
di rassicurarlo, confidandogli quel tal segreto pensiero del conte
Berchtold: che se la Serbia non facesse risposta soddisfacente, il
Governo austriaco avrebbe, sì, richiamato il ministro da Belgrado,
ma non avrebbe compiuto veri e propri atti di guerra. Altro che
sottigliezze diplomatiche e distinzioni giuridiche di questa specie!
Il Grey temeva che la Serbia non potesse dar soddisfazione all’Austria;
che il grande impero austro-ungarico e il piccolo regno serbo avrebbero
rotto tra poche ore, Austria e Russia mobilizzato tra un giorno o due;
non c’era dunque neppure un minuto da perdere, se si voleva salvare la
pace. Invece di dar retta alle singolari confidenze dell’ambasciatore
austriaco, il Grey mandò a chiamare l’ambasciatore di Germania;
gli disse che le quattro grandi Potenze dovevano impegnarsi a non
mobilizzare e, tutte d’accordo, chiedere all’Austria e alla Russia di
non procedere a nessun atto di guerra, finchè esse cercherebbero un
accordo; aggiunse le più vive istanze perchè la Germania assentisse e
partecipasse, poichè dal concorso della Germania gli pareva discendere
l’esito della mossa. Solo se la Germania partecipasse, il passo
riescirebbe fruttuoso. Il Lichnowski parve tôcco dalla parola del
ministro. Assentì che l’Austria poteva accettare che quattro grandi
Potenze si interponessero mediatrici non tra essa e la Serbia, ma tra
essa e la Russia (_G. B._, 26; _L. Arancio_, 22).

Ma Sir Grey aveva ragione di essere inquieto e di non voler perdere
tempo. Quel medesimo giorno il ministro di Austria e di Ungheria a
Belgrado chiedeva i passaporti e partiva. Seguendo i consigli della
Russia, della Francia e dell’Inghilterra, la Serbia si era dichiarata
pronta a sgozzarsi al cenno dell’Austria con tanta buona volontà, che
non si può a meno di pensare essa sapesse già che l’Austria non si
accontenterebbe neppure di quell’offerta. L’Austria infatti dichiarò
che la Serbia faceva le viste di volersi suicidare con un finto
coltello; e sebbene il piccolo regno slavo avesse accettati quasi
tutti i capi della «nota», dichiarò che l’aveva respinta (_L. Rosso_,
30). Gli imparziali conchiusero che l’Austria non voleva vendicare la
strage di Serajevo, ma accattare un pretesto di guerra (_G. B._, 41).
Il momento di fare il passo decisivo per tentare un accordo era dunque
giunto.


III.

Il 26 infatti Sir E. Grey diede corso alla proposta ventilata il
giorno prima con l’ambasciatore tedesco, e propose in forma ufficiale
ai Gabinetti di Roma, di Parigi e di Berlino che gli ambasciatori
d’Italia, di Francia e di Germania si unissero con lui a conferenza,
per cercar di mettere d’accordo Austria e Russia, chiedendo intanto a
Serbi, Russi ed Austriaci di astenersi dalle armi finchè la conferenza
sedesse (_G. B._, 36). Lo stesso giorno il Sazonoff tentava di venir di
nuovo a trattato con il conte Berchtold; e telegrafava all’ambasciatore
dello Czar a Vienna (_L. Arancio_, 25):

  «Ho avuto oggi un lungo e amichevole colloquio con l’ambasciatore
  d’Austria-Ungheria. Dopo avere esaminate con lui le dieci richieste
  fatte alla Serbia, gli ho dimostrato che parecchie sono addirittura
  impossibili, anche se il Governo serbo dichiarasse di accettarle.
  Così, per esempio, le richieste 1 e 2 non potrebbero essere
  soddisfatte se le leggi serbe sulla stampa e sulle associazioni
  non fossero rimaneggiate: il che non sarà facile ottenere dalla
  Scupcina. Quanto alle richieste 4 e 5, potrebbero avere conseguenze
  pericolosissime e perfino dar luogo ad atti di terrorismo contro
  i membri della Real Casa e contro Pasich, ciò che non è certo
  nell’intenzione dell’Austria. Per quel che riguarda gli altri
  punti, mi sembra che con qualche mutamento non sarebbe difficile
  trovare un terreno d’intesa, se le accuse si dimostrassero
  confermate da prove sufficienti.

  «Nell’interesse della pace, che, a detta di Szapary, sta a cuore
  all’Austria non meno che a tutte le Potenze, sarebbe necessario
  metter fine il più presto possibile alla lotta odierna. A
  questo scopo mi sembrerebbe molto utile che l’ambasciatore
  d’Austria-Ungheria fosse autorizzato a trattar con me privatamente
  per rimaneggiare insieme alcuni articoli della «nota» austriaca
  del 10 (23) luglio. Ci riuscirà forse a questo modo di trovare una
  formula che la Serbia potrebbe accettare, pur dando soddisfazione
  all’Austria quanto alla sostanza delle sue richieste. Pregovi avere
  una spiegazione prudente e amichevole col ministro degli affari
  esteri».

  (Comunicato agli ambasciatori in Germania, in Francia, in
  Inghilterra e in Italia).

Inghilterra e Russia si adoperavano dunque per la pace.
Disgraziatamente il Grey non si era ingannato prevedendo che la
rottura diplomatica tra Serbia e Austria sarebbe seguita da rapidi
apparecchi militari nell’impero austriaco e nell’impero russo. Il 26
l’Austria-Ungheria incomincia a chiamare sotto le bandiere una parte
delle sue riserve (_L. Arancio_, 24); e la Russia prende le prime
disposizioni per essere pronta a mobilizzare sui confini austriaci (_L.
Bianco_, 23). Che fa intanto la Germania? Si affretta ad approvare
le proposte del Governo inglese, come il Grey aveva chiesto con così
viva istanza, e come in quello stesso giorno fece l’Italia? (_G.
B._, 35). No. Essa continua tutto il giorno 26 a ripetere che vuol
la pace e che il suo amore della pace non è offuscato neppure dalle
prime vaghe notizie intorno alla mobilitazione russa, che durante la
giornata giungono a Berlino (_L. Bianco_, 6, 7, 8): lavora anche a pro
della pace ma per una via molto diversa da quella che l’Inghilterra
aveva consigliata, sforzandosi di convincere il Governo francese, il
Governo inglese e il Governo russo che, avendo l’Austria dichiarato
di non adocchiare territori serbi, la Russia non ha più ragione di
intervenire. «Sazonoff ha dichiarato che la Russia non può permettere
che la Serbia sia mutilata; ma l’Austria non ci pensa neppure;
dunque...» ragiona e conchiude il 26 lo Zimmermann, sottosegretario al
Ministero degli esteri, parlando con l’incaricato di affari inglese
a Berlino (_G. B._, 33). E il Cancelliere dell’impero incaricava in
quel medesimo giorno gli ambasciatori a Parigi e a Londra di tenere lo
stesso discorso al Governo francese e all’inglese (_L. Bianco_, 10; _L.
Giallo_, 56).

  «Oggi l’ambasciatore di Germania — telegrafa il 26 da Parigi
  l’incaricato d’affari russo — ha fatto al reggente il Ministero
  degli affari esteri le seguenti dichiarazioni:

  «L’Austria ha dichiarato alla Russia ch’essa non aspira a territori
  e che non minaccia l’integrità della Serbia. Essa vuol solo
  assicurare la propria tranquillità. Quindi la pace e la guerra
  sono nelle mani della Russia. La Germania come la Francia vuole
  mantenere la pace e spera fermamente che la Francia si varrà della
  propria influenza a Pietroburgo per dare consigli di moderazione.

  «Il ministro rispose che la Germania avrebbe potuto dal canto
  suo fare qualche passo analogo a Vienna, sopratutto considerando
  che la Serbia ha dato prova di molto spirito di conciliazione.
  L’ambasciatore rispose che la Germania non poteva far questo passo,
  avendo deliberato di non intromettersi nel conflitto austro-serbo.
  Allora il ministro chiese se le quattro Potenze — Inghilterra,
  Germania, Italia, Francia — non avrebbero potuto tentar qualche
  passo a Pietroburgo e a Vienna.... L’ambasciatore allegò di non
  avere istruzioni. Alla fine il ministro rifiutò di aderire alla
  proposta tedesca».

La Germania, insomma, voleva che la Francia si incaricasse di spiegare
e di raccomandare alla Russia questo suo modo di vedere. Nel tempo
stesso essa faceva fare dal suo ambasciatore un passo a Pietroburgo: un
passo, di cui ci dà chiara notizia non il _Libro Bianco_, ma il _Libro
Rosso_ nel dispaccio 28, spedito dall’ambasciatore d’Austria in Russia
al conte Berchtold, il quale incomincia così — trascrivo la traduzione
italiana ufficiale, per quanto non molto buona:

                                      «Pietroburgo, 26 luglio 1914.

  «Correndo voce che la Russia prepari la mobilitazione, il conte
  Pourtalès ha reso avvertito il ministro russo nel modo più
  esplicito, che il servirsi di preparativi militari come di mezzi di
  pressione diplomatica è oggigiorno pericolosissimo, giacchè in tal
  caso viene a prevalere il punto di vista puramente militare degli
  stati maggiori e se in Germania si tocca una volta il tasto, la
  cosa non si lascia più arrestare...».

È chiaro, dunque: la Germania amava così svisceratamente la pace
del mondo, che era pronta a farne pagare anche questa volta tutte le
spese dalla Russia. Che cosa chiedeva essa infatti con tanta bonarietà
il 26, a Londra, a Parigi e a Pietroburgo, se non la capitolazione
totale della Russia, come nel 1909? Il Grey pensava a ragione che il
principale, anzi il tutto, per conservare la pace, era che la Germania
si intromettesse imparziale tra l’Austria e la Russia, invece di porsi
a fianco dell’alleata per sostenerne a ogni costo tutte le ragioni
buone o cattive; perchè solo a questo modo i Governi di Francia e
d’Inghilterra potrebbero a lor volta adoperarsi a Pietroburgo come
amici più della pace che della Russia. Ma era chiaro pur troppo che
l’atteggiarsi imparziale era cosa difficile alla Germania, quali ne
fossero le ragioni. Già il 24 essa aveva fatto balenare contro la
Russia e a pro dell’Austria la minaccia degli «effetti incalcolabili»;
il 25 aveva sembrato distaccarsi un po’ dal fianco dell’alleata; ma
il 26 ritornava a mettersele accanto, per aiutarla a vincere il punto
suo, sia pur cercando di avvolger l’aiuto nei veli — ahimè, troppo
trasparenti! — di un disinteressato amore della pace. La mossa tedesca
fallì. Londra e Parigi rimandarono la Germania a dar consigli di
saggezza a Vienna (_G. B._, 46; _L. Arancio_, 28; _L. Giallo_, 56).
Il Governo russo dichiarò chiaro ed esplicito all’ambasciatore tedesco
che la Russia non aveva ancora chiamato sotto le armi neppure un uomo
della riserva; che non avrebbe mai mobilizzato sulle frontiere della
Germania; ma che se l’Austria avesse dichiarata la guerra alla Serbia,
avrebbe indetta la mobilitazione nei distretti di Kiew, di Odessa,
di Mosca e di Kazan (_L. Rosso_, 28; _L. Bianco_, 11). Ma intanto
la proposta inglese, e cioè la sola speranza di accordo, pendeva
sospesa, mancando l’adesione della Germania; e, quel che è peggio, i
propositi mostrati nella giornata non lasciavano grandi speranze che
la Germania fosse disposta ad aderire. La giornata del 26 si chiuse tra
l’incertezza e l’ansietà.


IV.

Ma la notte parve un’altra volta portar consiglio. Alla mattina del
27 la Germania sembrava disposta ad accettare la proposta inglese,
cioè ad interporsi imparzialmente tra la sua alleata e l’alleata
della Francia, nell’interesse supremo della pace. «Ho detto al Signor
Jagow — telegrafa il giorno 27 l’ambasciatore di Francia a Berlino
— che la proposta Grey era un mezzo per salvare la pace. Il signor
Jagow mi ha detto che egli era disposto a mettersi per quella via;
ma ha aggiunto che se la Russia chiamava a raccolta il suo esercito,
la Germania non poteva star ferma a guardarla. Gli ho chiesto se la
Germania credeva di dover essa pure mobilizzare, qualora la Russia
mobilizzasse solo ai confini austriaci. Mi ha risposto di no; e mi ha
autorizzato a riferirvelo» (_L. Giallo_, 67). Lo stesso giorno Sir E.
Grey telegrafava all’ambasciatore inglese a Berlino: «L’ambasciatore
di Germania mi ha informato che il Governo tedesco accetta in massima
la mediazione delle quattro Potenze tra l’Austria e la Russia...» (_G.
B._, 46).

Nella giornata la Francia a sua volta aderì alla proposta inglese; e
il Governo russo dichiarò che, se non potesse intendersi direttamente
con il Governo austro-ungarico, «accoglierebbe la proposta inglese o
qualunque altra proposta atta a comporre il dissidio». Ci fu dunque
un momento, nella giornata del 27, in cui si potè sperare che prima
del tramonto l’accordo tra le quattro grandi Potenze paciere sarebbe
stretto e che il dì seguente, l’Europa, da tre giorni in trepidazione,
potrebbe trarre un gran respiro di sollievo.... Non mancava più che
l’adesione formale della Germania! Invece, quando Sir E. Goschen,
ambasciatore d’Inghilterra a Berlino, si recò, nel pomeriggio del
27, al Ministero degli Esteri per ricevere la risposta ufficiale
del Governo tedesco alla proposta inglese, oh meraviglia! si sentì
risponder chiaro e tondo di no. Il signor Jagow aveva mutato parere,
in poche ore. Dichiarò infatti all’ambasciatore inglese che convocando
quella tal conferenza si istituirebbe sotto altro nome una vera
Corte arbitrale; non potersi dunque citare Austria e Russia innanzi
a una Corte arbitrale, se ambedue non ne sollecitavano il giudizio.
L’ambasciatore si sforzò di dimostrare, con ogni sorta di argomenti,
che la conferenza proposta dall’Inghilterra era tutt’altra cosa che una
Corte arbitrale: ma il ministro stette fermo; concesse solo che, poichè
Austria e Russia volevano trattare tra di loro la questione, si poteva
aspettare che queste trattative fossero terminate, prima di avvisare
ad altri espedienti o tentar nuovi passi. In apparenza, insomma, il
Governo tedesco si rinchiude di nuovo, come la tartaruga nel guscio, in
quel suo ottimismo dilatorio: il pericolo non è urgente, si può dunque
aspettare e vedere.... In effetto, invece, la Germania, dopo avere o
esitato davvero o fatto mostra di esitare, manda a vuoto la proposta
inglese, per aiutar l’Austria a ottenere il suo intento. L’Austria
aveva già dimenticate le confidenze fatte il 25 al Governo inglese.
L’Austria voleva a tutti i costi fare la guerra alla Serbia, e quello
stesso giorno aveva dichiarato alle Potenze di apprestarsi, poichè la
Serbia non aveva data risposta soddisfacente, a usare «mezzi energici».
L’Austria, quindi, non voleva che la conferenza si interponesse a
intralciarne le mosse: ma non voleva neppure rifiutar essa apertamente
i buoni uffici dei pacieri. A ringraziar questi, prima ancora che
entrassero in ufficio, pensò la Germania.

Il bel castelletto di carte che Sir E. Grey aveva eretto con tanto
studio in due giorni era in terra. All’ultimo momento, la Germania ci
aveva soffiato su. Tutto di nuovo pendeva incerto; e — quel che era
peggio — prendeva forza, nelle Cancellerie della Triplice Intesa, il
sospetto che la Germania e l’Austria ponessero ad effetto un piano
abilmente concertato, la Germania tenendo a bada senza parere le
Potenze dell’Intesa, mentre l’Austria agiva. Difatti, si incominciò a
parlar chiaro. Il Grey mandò a chiamare l’ambasciatore d’Austria e gli
chiese se il suo Governo si rendeva conto che così, senza parere, bel
bello, esso andava preparando nè più nè meno che la guerra universale
(_G. B._, 48). L’ambasciatore di Russia a Vienna fece visita al barone
Macchio, in quel tempo sotto-segretario di Stato per gli affari esteri:
gli disse senza reticenze che se l’Austria dichiarasse la guerra alla
Serbia, la Russia interverrebbe e l’Europa andrebbe in fiamme; gli
chiese che l’ambasciatore austriaco a Pietroburgo fosse incaricato
di trattare con il Sazonoff, il quale a sua volta si studierebbe di
persuader la Serbia a concedere all’Austria quanto era giusto (_G. B._,
56; _L. Arancio_, 41). L’ambasciatore di Francia a Berlino propose al
signor Jagow che le quattro Potenze facessero insieme almeno un passo
a Vienna, pregando il Governo austriaco «di astenersi da qualsiasi
atto che potesse aggravar la situazione presente» (_L. Arancio_, 39).
Anche l’incaricato d’affari russo fece visita al Jagow e lo pregò di
consigliare «con forza» il Governo austriaco ad accettare la proposta
dell’ambasciatore russo a Vienna (_L. Arancio_, 38).

L’Austria e la Germania ricevettero dunque nella giornata del 27 avvisi
salutari e proposte concilianti in quantità. La Russia non parlò quel
giorno ambiguamente o per enigmi: disse e ripetè che voleva la pace,
ma aggiunse pure che se l’Austria dichiarasse guerra alla Serbia, essa
avrebbe chiamato a raccolta il suo esercito e sarebbe intervenuta.
Disgraziatamente le proposte non furono accolte e gli avvisi non furono
intesi. Il signor Jagow rispose di no all’ambasciatore francese e di
no all’_attaché_ militare russo, protestando di non poter consigliare
all’Austria di cedere (_L. Arancio_, 38-39). L’ambasciatore di Germania
a Parigi dichiarò al direttore degli affari politici che la Germania
non voleva sentir parlare nè di conferenze nè di mediazioni (_L.
Arancio_, 34). L’atteggiamento della Germania fu tale che perfino
il Governo russo, così deferente fino a quel momento verso il grande
impero vicino, perdè la pazienza. «I miei colloqui con l’ambasciatore
di Germania — scrive il signor Sazonoff in un dispaccio spedito il 28
all’ambasciatore di Russia a Londra — mi confermano che la Germania
approva l’intransigenza dell’Austria. Il Gabinetto di Berlino, che
avrebbe potuto impedir dal principio tutti questi guai, non fa nulla.
L’ambasciatore trova perfino insufficiente la risposta della Serbia.
Questo atteggiamento della Germania è particolarmente inquietante.
Mi sembra che, più di qualsiasi altra Potenza, l’Inghilterra sarebbe
in grado di tentar di indurre il Governo tedesco a far quel occorre.
A Berlino è la chiave della situazione» (_L. Arancio_, 43). Non solo
purtroppo Berlino respingeva tutte le proposte concilianti fatte dalla
Russia e dalla Francia: ma l’Austria, sorda a tutti i consigli e a
tutti gli avvisi, provocava il destino; e il 28 luglio dichiarava la
guerra alla Serbia.


V.

Le cose, da cinque giorni in bilico, erano dunque precipitate.
L’Austria non aveva voluto sentir ragione! Il mondo volse gli occhi
verso la Russia. Che cosa farebbe l’immenso impero, il quale aveva
dichiarato a più riprese che non abbandonerebbe mai nelle mani
dell’Austria il piccolo regno slavo?

Il 28 luglio, il giorno stesso in cui l’Austria dichiarava guerra
alla Serbia, i ministri si riunivano a consiglio in Pietroburgo; e
deliberavano di iniziare il giorno seguente la mobilitazione nelle
circoscrizioni militari di Odessa, di Kiew, di Mosca e di Kazan; di
avvisare per via ufficiale il Gabinetto di Berlino, e di ripetergli
che la Russia non intendeva fare alcuna minaccia alla Germania (_G.
B._, 70; _L. Giallo_, 95, 96). Questa deliberazione non poteva del
resto sorprendere nessuno, poichè fino dal principio la Russia aveva
dichiarato che, se la Serbia fosse stata assalita, essa avrebbe
chiamato a raccolta le sue riserve sui confini dell’Austria. Nè il
furore popolare, concitato dalla provocazione dell’Austria, avrebbe
tollerato che il Governo esitasse. Ma la deliberazione del Governo
russo fu il solo evento di rilievo, che il giorno 28 dovesse registrare
prima di sera. Per alcune ore, dopo la dichiarazione di guerra,
tutte le Potenze aspettarono in silenzio e guardinghe, quale sarebbe
l’effetto di quell’atto audace. Prima a rompere la perplessità ed
il silenzio fu la Germania. Tutto ad un tratto, la sera del 28, il
Cancelliere dell’impero tedesco prega l’ambasciatore inglese di recarsi
da lui e gli tiene il più savio e il più cordiale discorso che si
potesse imaginare: non aver potuto accettare la proposta inglese, non
parendogli che fosse effettuabile; la Germania però esser pronta a fare
quanto potesse per impedire la guerra: Vienna e Pietroburgo avviassero
senza intermezzatori la discussione, e si intenderebbero: egli non
avrebbe risparmiata fatica purchè il discorso tra le due grandi Potenze
si impegnasse. Aggiunse di nutrir qualche timore per la mobilitazione
russa, non gli accrescesse la difficoltà «di predicar la moderazione a
Vienna», ma concluse affermando che «una guerra fra le grandi Potenze
doveva essere evitata» (_G. B._, 71). Alcune ore dopo, alle 10,45
di sera, l’imperatore di Germania, che nella giornata era tornato a
Berlino dal Mare del Nord, spediva allo Czar un dispaccio, amichevole e
fiducioso, che terminava così: «Mi rendo conto delle difficoltà in cui
il movimento della pubblica opinione ha posto Te e il Tuo Governo. Per
la cordiale amicizia che da tanto tempo ci unisce, farò quanto posso
per indurre l’Austria a intendersi lealmente e a conchiudere un accordo
soddisfacente con la Russia. Spero che Tu mi aiuterai» (_L. Bianco_,
20). Nella notte, infine, dovettero partir da Berlino istruzioni
conformi a questi discorsi e a questi propositi, se la mattina del 29
l’ambasciatore di Germania a Parigi confidava al Governo francese, _in
via officiosa_, che il Governo tedesco non dismetteva il proposito di
«indurre il Governo austriaco a iniziare una discussione amichevole»
(_L. Giallo_, 24); e se alla stessa ora a Pietroburgo il signor
Sazonoff e l’ambasciatore di Germania si scambiavano le più cordiali
assicurazioni sui propositi dei propri Governi. Ecco il tenore della
conversazione, secondo il dispaccio del signor Sazonoff stesso, che la
riassume:

  «L’ambasciatore di Germania mi informa a nome del Cancelliere che
  la Germania non ha mancato di esercitare a Vienna un’influenza
  moderatrice e che non desisterà per la dichiarazione di guerra.
  Fino a stamane non si ha notizia che le truppe austriache
  abbiano varcata la frontiera serba. Ho pregato l’ambasciatore
  di trasmettere al Cancelliere i miei ringraziamenti per il
  tenore amichevole di questa comunicazione. Lo ho informato
  dei provvedimenti militari presi dalla Russia, nessuno dei
  quali, gli ho detto, è diretto contro la Germania; ho aggiunto
  che non significavano nemmeno intenzioni aggressive contro
  l’Austria-Ungheria, ma si spiegavano con la mobilitazione della
  maggior parte dell’esercito austro-ungarico. Poichè l’ambasciatore
  si dichiarava favorevole a spiegazioni dirette fra il Gabinetto
  di Vienna e noi, gli risposi che ero a ciò dispostissimo, purchè i
  consigli del Gabinetto di Berlino dei quali egli parlava trovassero
  un’eco a Vienna.

  «Al tempo stesso accennai che noi eravamo anche pronti ad accettare
  una conferenza delle quattro Potenze, che alla Germania non pareva
  piacere troppo.

  «Dissi che, a mio parere, il miglior modo per impedire la
  guerra generale erano le trattative per una conferenza a quattro
  (Germania, Francia, Inghilterra, Italia) e un contatto diretto fra
  l’Austria-Ungheria e la Russia, al modo stesso circa che era stato
  fatto nei momenti più critici della crisi dell’anno scorso.

  «Dissi all’ambasciatore che dopo le concessioni fatte dalla Serbia
  non sarebbe stato difficile trovare un compromesso, purchè ci fosse
  un po’ di buona volontà da parte dell’Austria, e purchè tutte le
  Potenze si adoperassero per la conciliazione».

  (Comunicato agli ambasciatori in Inghilterra, in Francia, in
  Russia, in Austria e in Italia).

Finalmente dunque la Germania faceva quel che l’Europa tutta le
chiedeva da cinque giorni: metteva la sua autorità a servizio della
pace e non dell’Austria. Come si spiega questo mutamento improvviso?
Anche questo è un mistero. Andando per congetture, non pare improbabile
che il Governo tedesco e il Governo austriaco abbiano cominciato
a capire, il giorno 28, che il Governo russo faceva questa volta
sul serio. Di ciò troveremmo conferma nel _Libro Rosso_ austriaco,
dove si legge un dispaccio spedito il 28 luglio dal conte Berchtold
all’ambasciatore austriaco in Berlino e di cui ricopio il testo dalla
versione ufficiale italiana:

  «Prego V. E. di recarsi _immediatamente_ dal Cancelliere
  dell’Impero o dal segretario di Stato e di partecipargli, a mio
  nome, quanto segue:

  «Secondo notizie analoghe, pervenuteci da Pietroburgo, Kiew,
  Varsavia, Mosca e Odessa, la Russia fa ampi preparativi militari.
  Il signor Sazonoff ha dato veramente, come il ministro della
  guerra russo, la sua parola d’onore, che finora non fu ordinata
  alcuna mobilitazione: quest’ultimo però comunicò all’addetto
  militare tedesco, che le circoscrizioni militari vicine
  all’Austria-Ungheria, cioè Kiew, Odessa, Mosca e Kazan verrebbero
  mobilizzate, ove le nostre truppe varcassero il confine serbo.

  «Date tali circostanze, vorrei pregare istantemente il Gabinetto
  di Berlino, che esaminasse l’eventuale opportunità di prevenire
  _amichevolmente_ la Russia, che la mobilitazione di quei distretti
  militari significherebbe una minaccia all’Austria-Ungheria e che
  perciò, se venisse realmente effettuata, tanto la Monarchia quanto
  l’alleata Germania dovrebbero prendere da parte loro le più vaste
  contromisure militari.

  «Per facilitare alla Russia una eventuale resipiscenza, ci
  sembrerebbe indicato che un tale passo venisse fatto dapprima
  dalla sola Germania: pure noi saremmo naturalmente pronti ad
  associarvici.

  «L’essere espliciti mi parrebbe in questo momento il mezzo più
  efficace per far intendere alla Russia l’intero significato di un
  contegno minaccioso» (_L. Rosso_, 42).

Il Governo austriaco incomincia dunque già a inquietarsi per gli
apparecchi militari della Russia durante il giorno 28, e perciò prega
la Germania di ripeter la mossa riuscita così bene nel 1909. Chi
ripugni dunque dal voler attribuirgli accorgimenti e piani troppo
reconditi, può supporre che la sera del 28 il Governo tedesco si sia
accorto, paragonando le notizie di Pietroburgo e quelle di Vienna,
che le cose si mettevano al pericolo; e che, spaventato, abbia voluto
cercare qualche riparo.


VI.

L’autorità della Germania nei consigli dell’Europa era ancora
grandissima negli ultimi giorni di luglio. Tanto più singolare
sembrerà dunque che l’Austria abbia tenuto in così poco conto il suo
primo consiglio di pace, e proprio nel momento in cui domandava alla
sua potente alleata di far cadere di mano alla Russia la spada con
una parola minacciosa e un baleno dello sguardo corusco! Ma così fu.
La mattina del 29 le Cancellerie d’Europa appresero che l’Austria
rifiutava di intavolare una discussione con la Russia intorno alla
risposta della Serbia (_L. Rosso_, 44). E la Germania allora....
Protesta forse? Recrimina? Ritorna all’assalto con l’alleata, che ha
bisogno della sua autorità? No: si rassegna. Del rifiuto dell’Austria
si intrattennero a colloquio quel dì medesimo il Cancelliere
dell’impero e l’ambasciatore inglese; e il Cancelliere dell’impero
disse all’ambasciatore che rammaricava assai la risposta dell’Austria;
aggiunse che l’Austria faceva la guerra solo per avere finalmente
ragione della incorreggibile doppiezza della Serbia; onde egli aveva
consigliato all’Austria di dichiarar le sue intenzioni in modo, che non
ci potessero esser più malintesi (_G. B._, 75). Null’altro! Tuttavia
l’Europa non sapeva, la mattina del 29, che già la sera prima l’Austria
aveva chiesto alla Germania di ripetere la mossa del 1909: l’Europa non
aveva dunque motivo di dubitare della sincerità del Cancelliere.... «La
chiave della situazione è a Berlino», aveva detto, il giorno prima, il
Sazonoff: e con ragione, perchè, nonostante il rifiuto dell’Austria,
le speranze rinacquero nella giornata del 29. Se la Germania, la
potente Germania, voleva la pace, pace sarebbe, ancora una volta! Il
Viviani, presidente del Consiglio e ministro degli esteri di Francia,
che frattanto era tornato a Parigi dalla Russia, telegrafò a Londra
che «poichè Vienna e Pietroburgo avevano cessato di trattare, urgeva
che il Gabinetto di Londra rinnovasse in qualche modo la sua antica
proposta» (_L. Arancio_, 55). L’ambasciatore di Germania a Parigi si
recò dal Viviani per ripetergli ancora una volta che il suo Governo
voleva la pace; e avendogli il Viviani risposto che se la Germania
desiderava la pace, doveva aderire alla proposta inglese, il barone
von Schoen non rispose più, come il 27, rifiutando, ma si limitò a
schermirsi opponendo certe difficoltà di forma. Le parole «conferenza»
o «arbitrato» — egli diceva — spaventavano l’Austria.

Infine Sir E. Grey rinnovò la sua proposta; e poichè la Germania aveva
trovato a ridire più sulla forma che sulla sostanza della cosa, si
dichiarò pronto a lasciare alla Germania il giudizio intorno a tutte le
questioni di forma (_G. B._, 84; _L. Giallo_, 98). Come avrebbe potuto
l’Austria resistere a tanti pacieri che l’assediavano da ogni parte? Si
poteva di nuovo sperare....

Quando a un tratto, a mezzanotte, arrivò a Londra da Berlino un
dispaccio che parve _molto strano_. L’ambasciatore inglese raccontava
che il Cancelliere lo aveva fatto chiamare in serata. Il Cancelliere,
_tornava allora da Potsdam_; e malgrado l’ora incomoda aveva disturbato
Sua Eccellenza per domandargli _se l’Inghilterra si impegnava a
restare neutrale in una guerra europea, quando la Germania promettesse
di rispettare l’Olanda e di togliere alla Francia solamente le sue
colonie_ (_G. B._, 85). Imaginarsi lo stupore che provò il _Foreign
Office_ leggendo questo strano dispaccio! Sino ad allora non si
era parlato che del conflitto austro-russo e del modo di comporlo
senza guerra: ma ecco che a un tratto, la Germania, seduta stante,
senza nemmeno attendere l’indomani mattina, vuol sapere quel che
l’Inghilterra farà o non farà, se scoppia la guerra europea; e già
ventila perfino le condizioni di pace da imporre alla Francia! Ma
la Germania allora, invece di pensare a metter d’accordo Austria e
Russia, macchinava di far guerra alla Francia? Era chiaro infatti
che il Cancelliere non sarebbe uscito in così strane domande, quella
sera, dopo i discorsi del giorno prima, se nel Convegno di Potsdam,
dal quale egli allora tornava, non fosse già stata virtualmente decisa
la guerra. Onde un oscuro quesito: perchè tanto mutamento e così
improvviso? Che cosa è successo nella giornata del 29 luglio? Per quale
ragione il Cancelliere, che la sera del 28 dichiarava all’ambasciatore
d’Inghilterra doversi impedire la guerra fra le grandi Potenze, la
sera del 29 già negoziava la neutralità dell’Inghilterra nella guerra
europea ormai deliberata?


VII.

Eccoci al maggior mistero di questa terribile storia. Cercherò
chiarirlo, come posso, pochi mesi dopo gli eventi, in tanta scarsezza
di documenti, per via di congetture: congetture che domani nuovi
documenti forse spazzeranno via, come un soffio di vento spazza via
dall’orizzonte in pochi minuti una nuvolaglia che ristagna pesante
e immota nell’aria; ma che potranno almeno servire la verità,
sollecitando la curiosità di quanti sono avidi di conoscere il vero.

Per provarci all’impresa non facile, incominciamo a osservare che il
Governo russo ha ufficialmente avvertito il Governo tedesco di aver
ordinata la mobilitazione sulla frontiera austriaca, il 29. Questo
afferma il _Libro Bianco_ tedesco; e questo conferma un dispaccio
spedito da Berlino dall’ambasciatore inglese (_L. Bianco_, 9; _G. B._,
76). Procediamo quindi a leggere alcuni documenti che giacciono lontani
e quasi stranieri l’uno all’altro nei differenti Libri diplomatici
sinora pubblicati, ma che invece si intrecciano a vicenda come
altrettante maglie del gran tessuto degli eventi. Primo, il dispaccio
spedito il 29 dal Sazonoff all’ambasciatore di Russia a Parigi (_L.
Arancio_, 58).

  «L’ambasciatore di Germania mi ha oggi comunicato che il suo
  Governo ha risoluto di mobilizzare se la Russia non interrompe
  i preparativi militari. Ora noi abbiamo incominciato questi in
  seguito alla mobilitazione cui già si era accinta l’Austria,
  e visto che l’Austria non desiderava di trovare una qualsiasi
  soluzione pacifica del suo conflitto con la Serbia.

  «Poichè non possiamo accedere al desiderio della Germania, non
  ci resta che affrettare i nostri armamenti, e contare sulla
  inevitabilità della guerra. Vogliate avvertirne il Governo
  francese, esprimergli al tempo stesso la nostra sincera
  riconoscenza per la dichiarazione che l’ambasciatore di Francia
  m’ha fatto a suo nome, dicendomi che noi possiamo contare
  intieramente sull’appoggio della nostra alleata, la Francia. Nelle
  attuali circostanze questa dichiarazione ci è particolarmente
  preziosa».

  (Comunicato agli ambasciatori in Inghilterra, Austria-Ungheria,
  Italia, Germania).

Spigoliamo quindi nel _Libro Bianco_ tedesco e ritroveremo un dispaccio
spedito dall’imperatore di Germania all’imperatore di Russia, nella
notte dal 29 al 30, all’una del mattino, e scritto in tono ben diverso
dal dispaccio del 28:

  «Il mio ambasciatore è stato incaricato di richiamare
  l’attenzione del Tuo Governo sui pericoli della mobilitazione.
  L’Austria-Ungheria ha solamente mobilitato una parte del suo
  esercito e contro la Serbia. Se la Russia, come pare sia intenzione
  Tua e del Tuo Governo, mobilita contro l’Austria-Ungheria, la parte
  di mediatore che Tu mi hai affidata con così viva istanza e che io
  ho accettata per farti piacere, diventa impossibile o quasi. Ormai
  tutto dipende da Te, come sopra di Te peserà la responsabilità
  della guerra e della pace» (_L. Bianco_, 23).

Leggiamo quindi un dispaccio spedito il 30 luglio dall’ambasciatore
d’Inghilterra a Pietroburgo, per raccontare ciò che era avvenuto il 29:

  «L’ambasciatore di Francia ed io abbiamo fatta visita al ministro
  degli affari esteri questa mattina (30 luglio). Sua Eccellenza
  ci ha raccontato che ieri _nel pomeriggio_ l’ambasciatore di
  Germania gli ha detto che la Germania era pronta a garantire per
  conto dell’Austria-Ungheria la integrità della Serbia: il sig.
  Sazonoff ha risposto che ciononostante la Serbia potrebbe cadere
  sotto il vassallaggio dell’Austria come Bucara è caduta sotto il
  vassallaggio della Russia e che una rivoluzione scoppierebbe in
  Russia se il Governo tollerasse una cosa simile.

  «Il sig. Sazonoff aggiunse che la Germania faceva preparativi
  militari contro la Russia, specialmente in direzione del golfo di
  Finlandia; il Governo ne aveva prove incontestabili.

  «L’ambasciatore di Germania ebbe un secondo colloquio col sig.
  Sazonoff durante la notte, alle ore 2 antimeridiane. L’ambasciatore
  è scoppiato in pianto (_completely broke down_) quando capì che
  la guerra era inevitabile. Supplicò allora il sig. Sazonoff di
  suggerirgli qualche cosa da poter telegrafare al suo Governo,
  come ultima speranza. Per contentarlo il sig. Sazonoff scrisse
  in francese e gli consegnò la formola seguente: _Se l’Austria,
  riconoscendo che la questione austro-serba ha assunto il carattere
  di una questione europea, si dichiara pronta a eliminare dal suo_
  ultimatum _i punti che portano pregiudizio ai diritti sovrani della
  Serbia, la Russia si impegna a cessare dai preparativi militari_.

  «Se questa proposta sarà respinta dall’Austria, sarà decretata la
  mobilitazione generale. La guerra europea sarà allora inevitabile.
  Gli animi sono qui così eccitati, che se l’Austria non fa
  concessioni, la Russia non potrà più indietreggiare. La Russia,
  poichè sa che la Germania si prepara, non può indugiare molto a
  convertire la sua mobilitazione parziale in mobilitazione generale»
  (_G. B._, 97).

Nè meno importante è il dispaccio che il Paléologue, ambasciatore di
Francia alla Corte russa, inviava da Pietroburgo il 30 (_L. Giallo_,
103):

  «L’ambasciatore di Germania è venuto questa notte a insistere
  di nuovo, ma in termini meno categorici, presso il sig. Sazonoff
  perchè la Russia cessi dai suoi preparativi militari, affermando
  che l’Austria non avrebbe intaccato l’integrità territoriale della
  Serbia.

  « — Non è soltanto l’integrità territoriale della Serbia che noi
  dobbiamo preservare — ha risposto il sig. Sazonoff — è anche la sua
  indipendenza e la sua sovranità. Noi non possiamo ammettere che la
  Serbia diventi vassalla dell’Austria.

  «Il sig. Sazonoff ha soggiunto: — L’ora è troppo grave perchè io
  non vi dichiari intieramente il mio pensiero, intromettendosi
  a Pietroburgo mentre si rifiuta di intromettersi a Vienna,
  la Germania non cerca che di guadagnar tempo per permettere
  all’Austria di schiacciare il piccolo regno serbo prima che la
  Russia abbia potuto soccorrerlo. Ma l’imperatore Nicola ha tanto
  desiderio di scongiurare la guerra che io vi farò a nome suo una
  nuova proposta: _Se l’Austria, riconoscendo_, ecc. Il conte di
  Pourtalès ha promesso di appoggiare questa proposta presso il suo
  Governo».

Finalmente il 30 luglio il signor Sazonoff telegrafa all’ambasciatore
di Russia a Berlino (_L. Arancio_, 60):

  «L’ambasciatore di Germania, che mi ha lasciato adesso, mi
  ha domandato se non ci potevamo contentare della promessa che
  l’Austria non toccherebbe l’integrità del regno di Serbia, e mi
  ha chiesto a quali condizioni si potrebbe ancora acconsentire
  a sospendere i nostri armamenti. Io gli ho dettato, perchè sia
  trasmessa d’urgenza a Berlino, la dichiarazione seguente: _Se
  l’Austria, riconoscendo_, ecc.

  «Vogliateci telegrafare d’urgenza quale sarà l’atteggiamento del
  Governo tedesco di fronte a questa nuova prova del nostro desiderio
  che la pace non sia turbata, giacchè noi non possiamo ammettere che
  tutte queste trattative non servano che a far guadagnar tempo alla
  Germania e all’Austria per i loro preparativi militari».

Studiamo ora e confrontiamo questi documenti. Dal dispaccio 58
del _Libro Arancio_ noi apprendiamo che il 29 luglio il Sazonoff
e l’ambasciatore di Germania ebbero un colloquio. Il dispaccio 97
della pubblicazione inglese _Great Britain and the European Crisis_,
narra pure di una conversazione ch’ebbe luogo fra quei due personaggi
_nel pomeriggio_ del 29. I due dispacci alludono forse allo stesso
colloquio? Sembra probabile. Allora è possibile, riscontrando i due
dispacci, scoprire di che si trattò nel colloquio. L’ambasciatore
di Germania disse al signor Sazonoff che l’Austria prometteva di
rispettare l’integrità territoriale della Serbia, e che la Germania era
pronta a garantire la promessa; ma lo avvisò che se la Russia avesse
continuata la sua mobilitazione _contro l’Austria_ la Germania avrebbe
anch’essa mobilizzato. Il Governo tedesco, dunque, dopo aver mandato
alla mattina del 29 il suo ambasciatore a rassicurare il Governo
russo e a consigliargli di trattare con il Governo austriaco, nel
pomeriggio, dopochè il Governo austriaco aveva rifiutato di intavolare
la discussione consigliata dall’alleata, invece di insistere nel suo
consiglio, invece di tentar qualche passo per far ravvedere l’Austria,
rimanda il suo ambasciatore a fare la mossa richiesta il giorno prima
dal conte Berchtold: a esigere cioè, tra il dolce e il brusco, che
la Russia riponga nell’armadio la spada. In altre parole il Governo
tedesco, il quale alla mattina diceva ancora di voler interporsi come
paciere tra l’Austria e la Russia, nel pomeriggio si presenta di nuovo
alla Russia in veste di alleata dell’Austria e con la mano sull’elsa
della spada.

Anche le ragioni di questo mutamento sono un mistero. Chi non voglia
interpretare in sinistro tutte le azioni del Governo tedesco e supporre
che il 28 luglio fingesse per addormentare gli avversari e meglio
sorprenderli il dì seguente, può argomentare che a Berlino fossero due
partiti: uno più debole e in vista che voleva trattenere l’Austria
e conservare la pace; l’altro più potente ed occulto che voleva la
guerra; e che questo secondo partito prevalse nei consigli del Governo
la mattina del 29. Come e perchè — se questa congettura è vera — ce
lo dirà forse un giorno la storia. Ad ogni modo se le ragioni del
passo sono oscure, certo è invece che il passo fatto dall’ambasciatore
tedesco a Pietroburgo nel pomeriggio del 29 fu l’atto decisivo e
irreparabile che provocò la guerra europea. L’ambasciatore tedesco
era appena uscito dal colloquio, che già il Sazonoff telegrafava
all’ambasciatore russo a Parigi la guerra essere ormai inevitabile,
Francia e Russia dovere senza indugio approntare le armi. Nè è
difficile intendere il perchè. Scottante era ancora in Russia il
ricordo dell’umiliazione che la Germania aveva inflitto all’impero
moscovita nel 1909; ben fermo il proposito di non passare una seconda
volta, in cospetto del mondo, sotto quelle Forche Caudine. Quel passo
invece diceva chiaro che la Germania voleva ripetere il gioco....
Come spiegare altrimenti che non l’Austria, alle cui frontiere la
mobilitazione era stata ordinata, ma la Germania chiedesse alla Russia
di non indossare le armi; e ciò chiedesse, quando la Russia aveva
appena decretata, ma non ancora incominciata la mobilitazione; dopochè
il von Jagow aveva dichiarato al Cambon che la Germania non avrebbe
messo il suo esercito su piede di guerra, qualora la Russia avesse
mobilizzato solo sulle frontiere dell’Austria? La Russia quindi era
risoluta questa volta a sfidare la minaccia, il che forzerebbe la
Germania a porla ad effetto: ma tutti sapevano, in tutta Europa, che
se la Germania avesse un giorno chiamato il popolo alle armi, avrebbe
dichiarata la guerra il dì seguente.

E difatti non a Pietroburgo solo ma anche a Berlino si pensò che la
guerra era imminente, dopochè l’ambasciatore tedesco ebbe fallito,
nel pomeriggio del 29, quel suo passo fatale. Noi possiamo infatti,
a questo modo, spiegare gli strani discorsi tenuti la sera del 29
dal Cancelliere dell’impero all’ambasciatore inglese. Il Cancelliere
dell’impero tornava, allora allora, come è stato detto, da Potsdam.
Per qual ragione era egli andato a Potsdam? Ce lo dice il signor
Cambon: per prender parte «a un consiglio straordinario con le autorità
militari, sotto la presidenza dell’imperatore» (_L. Giallo_, 105).
Ma di che si trattò e intorno a quali materie si deliberò in questo
grande consiglio, alla presenza dei capi dell’esercito? Delle cose
di cui il Cancelliere, appena tornato a Berlino, tenne la sera stessa
discorso con l’ambasciatore inglese; e di quelle di cui l’ambasciatore
tedesco andò a ragionare con il Sazonoff, nella notte del 29 al 30
luglio, alle due del mattino. Riscontrando i fatti e le date è dunque
possibile di ricostruire per sommi capi gli eventi di quella giornata.
La risposta della Russia metteva il Governo tedesco nell’impegno
di porre a effetto la minaccia: ma alla mobilitazione seguirebbe la
guerra, la guerra europea. Era dunque necessario chiamare a consiglio i
capi dell’esercito. Il consiglio di Potsdam fu convocato per discutere
intorno alla risposta che la Russia aveva data, nel pomeriggio del 29,
alla richiesta dell’ambasciatore tedesco; e dopo una lunga discussione
deliberò di fare ancora un passo presso la Russia, ma subito, nella
notte stessa, per chiederle di nuovo «in termini meno categorici» come
dice il Paléologue, a quali condizioni avrebbe consentito a sospendere
gli apparecchi di guerra: se la Russia rifiutasse ancora, di romper
gli indugi e dichiarare la guerra, senza più perdere un minuto,
assicurandosi il vantaggio dell’iniziativa e dell’attacco. Tanto è ciò
vero che il Cancelliere dell’impero doveva assicurarsi immediatamente,
appena tornato a Berlino, senza neppure aspettare il giorno seguente,
la neutralità dell’Inghilterra. La guerra europea fu dunque decisa a
Potsdam, la sera del 29 luglio 1914.

Nessun documento sinora venuto in luce prova in modo sicuro che la
Germania abbia cominciati subito i suoi ultimi preparativi di guerra;
ma è difficile credere che il Governo tedesco sia stato inoperoso
per quarant’otto ore, quando sapeva la guerra imminente e quando
mostrava di avere tanta fretta per tutto il resto. Come che sia, non è
dubbio che, la sera stessa, appena tornato a Berlino, il Cancelliere
dell’impero presentò le sue _strane_ domande all’ambasciatore
d’Inghilterra; che l’imperatore spedì il suo dispaccio allo Czar al
tocco di notte, per appoggiare il passo che il suo ambasciatore, il
conte di Pourtalès, doveva fare alle due, ad un’ora che sola basta
a dimostrare la gran fretta che aveva invaso il Governo tedesco,
dopo il consiglio di Potsdam. È chiaro che questi tre fatti sono
concatenati. Quel che disse il conte di Pourtalès al Sazonoff e quel
che gli rispose il Sazonoff, si ricava dal dispaccio 60 del _Libro
Arancio_ e dal dispaccio 103 del _Libro Giallo_. L’ambasciatore di
Germania insistette nel dimostrare al Sazonoff, come dice il dispaccio
dell’imperatore di Germania, i gravi pericoli della mobilitazione; ma
quando si accorse che la decisione del Governo russo era irrevocabile,
non seppe nascondere la sua emozione. Fino a quel momento egli aveva
sperato che il Governo russo cederebbe, come nel 1909; e certo non
aveva fatto il suo passo del pomeriggio del 29, supponendo che egli era
in quel momento il piccolo e inconsapevole strumento di cui si serviva
il destino per scatenare sull’Europa il più terribile flagello che
l’avesse sino ad allora percossa. Scoppiò in pianto — debolezza umana
e di cui nessuno gli farà rimprovero — quando se ne accorse; e furono
forse le prime lagrime della guerra o le ultime della pace europea —
troppo tardive, in ogni caso! L’irreparabile era già stato compiuto.
Continuarono, sì, Russia ed Austria a trattare il 30 e 31; anzi, il 31,
il Governo austriaco, assalito da dubbi e timori, consentì a discutere
con le grandi Potenze di Europa il suo _ultimatum_ (_G. B._, 131);
a far quello che le Potenze le avevano chiesto fin dal principio.
Per un istante a Londra e a Parigi rinacque la speranza: ma il passo
tedesco del 29 a Pietroburgo aveva ormai fatto nascere fra Russia e
Germania troppa sfiducia. Il 30 i due imperi affrettano gli apparecchi
di guerra: la Russia, perchè aveva ormai troppe ragioni di dubitare
della Germania; la Germania, perchè sapeva che, fallita la minaccia,
era forza colpire. I preparativi militari della Germania decisero il
Governo russo a ordinare, il 31, la mobilitazione generale; e questa a
sua volta determinò il Governo tedesco all’_ultimatum_ del 31 luglio
che è stato l’inizio della guerra europea. Nel racconto storico che
precede il _Libro Bianco_ tedesco è detto che la mobilitazione generale
dell’esercito russo fu deliberata a Pietroburgo _nel pomeriggio del
31 luglio_ e il _Libro Arancio_ racconta che l’_ultimatum_ tedesco
fu consegnato a Pietroburgo il 31 a mezzanotte (_L. Bianco_, 14;
_L. Arancio_, 64). Poichè l’ora russa anticipa di sessant’un minuti
sull’ora dell’Europa centrale, è chiaro che l’_ultimatum_ tedesco fu
spedito non appena giunse a Berlino la notizia della mobilitazione
generale russa. Non vi furon dubbi o esitanze a Berlino: altra prova
che, fino dalla sera del 29, la guerra era cosa deliberata, se il
secondo passo dell’ambasciatore tedesco a Pietroburgo fosse fallito
come il primo. Non si cercava più che un pretesto per dichiarare la
guerra: chè invero sarebbe stato strano far la guerra alla Russia,
perchè la Russia mobilitava al confine austriaco, mentre l’Austria il
31 ancora dichiarava, sia pur senza pensarlo, di non considerare come
atto ostile la mobilitazione russa (_G. B._, 118). Perfino gli illustri
professori che firmarono il famoso manifesto dei 93 si sarebbero
accorti allora che provocatrice era proprio la Germania. Sembra per
altro che a Berlino sino all’ultimo minuto si sia sperato che la Russia
cederebbe. Ma la Russia non cedè, questa volta; e il sabato, 1º agosto,
alle cinque del pomeriggio, l’ambasciatore di Germania consegnava a
Pietroburgo questa dichiarazione di guerra:

  «Il Governo imperiale ha fatto il possibile, fino dal principio
  della crisi, per giungere a una soluzione pacifica. Conformandosi
  a un desiderio espressogli da S. M. l’Imperatore di Russia, S. M.
  l’Imperatore di Germania, d’accordo con l’Inghilterra, voleva farsi
  mediatore presso i Gabinetti di Vienna e di Pietroburgo, allorchè
  la Russia senza attendere i risultati procedette alla mobilitazione
  di tutte le sue forze di terra e di mare. In seguito a questa
  misura minacciosa che nessun preparativo militare della Germania
  ha motivato, l’Impero tedesco si è trovato di fronte a un pericolo
  grave e imminente. Se il Governo imperiale non avesse provveduto
  a questo pericolo, avrebbe compromessa la sicurezza e la stessa
  esistenza della Germania. Perciò il Governo tedesco si è visto
  obbligato a rivolgersi al Governo di S. M. l’Imperatore di tutte le
  Russie, insistendo per la cessazione dei sopradetti atti militari.
  Avendo la Russia rifiutato di riconoscere questa domanda e avendo
  manifestato, con questo rifiuto, che la sua azione era diretta
  contro la Germania, ho l’onore di informare l’Eccellenza Vostra,
  per ordine del mio Governo, di quanto segue: S. M. l’Imperatore,
  mio Augusto Sovrano, in nome dell’Impero, raccogliendo la sfida, si
  considera in istato di guerra con la Russia».

La guerra europea era scoppiata. La corrente del tempo che, un po’
torbida e gonfia ma senza pericolo, aveva sino a quel giorno portati
i nostri destini con un corso che ci pareva sicuro, si era inabissata
ad un tratto in una voragine immensa; e nessuno sa quando e dove e per
quali abissi uscirà a rivedere il bel sole, che aveva sorriso sulla
nostra vita sino a quel fatale primo giorno di agosto dell’anno 1914.


VIII.

Questa sommaria indagine dei documenti diplomatici sinora venuti in
luce, ci consente di rettificare la dichiarazione di guerra della
Germania. No, non la Russia e meno che mai l’Inghilterra, ma l’Austria
e la Germania hanno acceso il grande incendio. I fatti e le date
parlano chiaro. Nei primi giorni della settimana fatale che corse
dal 24 luglio al 1º agosto, l’Austria provoca apertamente le Potenze
della Triplice Intesa, minacciando la Serbia, dichiarandole guerra,
respingendo tutti i pacieri che si offrono, non ascoltando gli avvisi
della Russia, alla quale tutto si potrà apporre fuori che di non aver
parlato chiaro sin dal primissimo giorno.... Frattanto la Germania
parla e agisce piuttosto ambiguamente, ma sempre cercando di favorire
copertamente, senza troppo aprirsi, i piani e i maneggi dell’Austria.
Negli ultimi giorni l’Austria sembra rinsavire alquanto, forse più
a parole che a fatti, perchè mentre accenna a ritrarsi, incita di
soppiatto la Germania a farsi innanzi e a minacciare in sua vece. Al
che la Germania acconsente, sul principio con qualche circospezione:
finchè alla prima resistenza un po’ seria della Russia prorompe; e
mentre tutti intorno a lei esitano, aspettano, temono, si crucciano,
trattengono il respiro, rompe in poche ore ogni indugio e la sera del
29 luglio, poche ore dopo aver rassicurata con parole di pace l’Europa,
delibera la guerra universale.

Non sarà mai ripetuto abbastanza che proprio questo è il gran mistero
della terribile storia: perchè il 29 luglio, ventiquattr’ore dopo che
il Cancelliere aveva rassicurato con parole l’ambasciatore inglese,
il Governo imperiale a un tratto intima alla Russia di cessare la
mobilitazione contro l’Austria, mentre l’Austria non si considerava
ancora minacciata dai preparativi russi e non ne muoveva lagnanza?
Delle generazioni si tormenteranno forse per sciogliere questo tremendo
quesito, a cui sinora i documenti non dànno che una sola risposta,
laconica ma pregnante, per rubare agli antichi retori un loro aggettivo
espressivo: che cioè «i capi dell’esercito insisterono» — come disse
il 30 luglio lo Jagow al Cambon (_L. Giallo_, 109). Quante cose lascia
intravedere questa frase! Ma se i capi dell’esercito hanno voluta e
imposta la guerra al Governo tedesco debole e incerto, la sera del 29
luglio, in quel Consiglio di Potsdam, un altro quesito si pone: come
abbiano potuto i capi dell’esercito aver tanta autorità da trarre tutto
il popolo alla favolosa avventura; come sia accaduto che quella sera,
in quel Consiglio, o nessuno abbia pensato che si stava per dar fuoco
all’Europa; o se alcuno ci ha pensato, gli altri non abbiano tremato
innanzi alla terribile responsabilità che si assumevano. Negli studi
seguenti si cercherà di sciogliere questo quesito. Provato che la
Germania ha presa l’iniziativa della guerra universale, cercheremo di
spiegare come una Nazione abbia potuto osare, innanzi al mondo e alla
storia, nell’anno di grazia 1914, questa incredibile audacia.




II.

LE CAUSE PROFONDE DELLA GUERRA


  Questa seconda parte del volume comprende tre discorsi — dei quali
  i due primi sono inediti.

  Il primo fu tenuto a Milano, per invito della Università Popolare,
  il 25 gennaio del 1914. Non tratta dunque della guerra, ma
  dell’America, dell’Europa e del progresso, riassumendo una delle
  tesi principali dell’ultimo libro dell’autore, che si intitola
  appunto _Tra i due mondi_. Il discorso potrebbe dunque sembrar
  estraneo all’argomento di questo volume: ma non è. Quanto sta
  scritto sulla guerra negli studi successivi raccolti in questo
  volume è l’applicazione di alcune idee esposte brevemente in
  questo discorso e più ampiamente svolte nel libro. È parso quindi
  opportuno all’autore far sì che il lettore, volendo, potesse,
  dopo aver conosciuto come la guerra europea è scoppiata, e prima
  di passare a vedere quali sono state le cause profonde della
  catastrofe, rendersi conto delle idee direttive che saranno
  guida e lume all’autore per intendere un così vasto fenomeno.
  L’autore spera così che gli studi seguenti riescano più chiari; e
  che il lettore possa giudicare se egli non si illuda, sul finir
  di questo primo discorso, mostrando di credere che «questo modo
  di considerare la storia del mondo aiuti a intendere il nostro
  tempo; e nelle loro congiunture vitali, le idee e le dottrine in
  cui crede, la politica che fa, le aspirazioni e i bisogni che lo
  travagliano, le crisi e i pericoli che lo minacciano». La guerra
  europea dovrebbe essere una eccellente pietra di paragone per
  tutte le dottrine, che pretendono di illuminare gli uomini sulle
  inclinazioni, i meriti e i vizi della civiltà presente.

  Il secondo discorso fu tenuto a Firenze, il 13 marzo del 1915, per
  invito di un Comitato riunitosi apposta e di cui era anima Giulio
  Caprin, nel salone dell’Università Popolare posta nella scuola
  _Luigi Alamanni_; e ripetuto il 16. Applica alla guerra europea
  alcune delle idee svolte nel discorso precedente.

  Altre di queste idee sono infine applicate nel terzo discorso,
  che fu pronunciato il 12 febbraio del 1915, a Parigi, nel massimo
  Anfiteatro della Sorbona, nella grande riunione convocata
  dall’_Union des groupements latins_ e presieduta da Paolo
  Deschanel, presidente della Camera dei deputati. Il testo francese
  fu pubblicato nel _Temps_ e nel _Journal des Débats_ del 13 e nella
  _Revue Hebdomadaire_ del 20 febbraio: la traduzione italiana,
  curata dall’autore stesso, nel _Secolo_ del 13 febbraio. Questa
  traduzione non concorda sul finire con il testo francese, che
  porta le tracce di un pentimento avvenuto all’ultimo momento: la si
  ristampa con qualche emenda e ritocco, facendola terminare nel modo
  stesso del testo francese.




I.

IL DISCORSO DI MILANO: PROGRESSO E DECADENZA


  _Signore e Signori_,


I.

L’europeo che viaggia l’America in ferrovia, può figurarsi che
attraversa un deserto. Vede all’Argentina trascorrergli innanzi, lenta
e monotona, una verde pianura, nella quale ogni tanto quattro o cinque
casette rosse, allineate al di là di una stazione, appaiono, tutte
eguali, a ricordare che degli uomini vivono pure in quella infinita
solitudine. Vede nel Brasile, sin dove l’occhio giunge, montagne cupe
nella luce sfolgorante del giorno; e in mezzo a quelle ogni tanto delle
montagne più chiare, su cui la foresta primitiva fu incendiata per far
posto ai filari del caffè: ma non vede case e villaggi, se non ogni
tanto, nella solitudine, e dopo un lungo viaggiare. Vede nell’America
del Nord un villaggio apparire ogni tanto qua e là in mezzo al deserto:
poi a un tratto il treno irrompe, sbuffando e sibilando, tra case,
camini, edifici, casette che sembrano rincorrersi alla rinfusa; si
intravedono strade, uomini, veicoli, che appena visti scompariscono.
Entriamo in una grande città. Mezzo milione, un milione, due milioni di
uomini si pigiano su quel piccolo territorio, sotto il nero padiglione
di fumo che distendono sul loro capo i mille camini. Ma ripigliando
dopo una breve sosta la corsa, il treno getta di nuovo, dopo pochi
minuti, il suo stridulo fischio nella vasta solitudine.

Spettacolo di singolare novità per l’europeo, che viene da una delle
terre più popolose del mondo, dove case e casette si arrampicano a
branchi dalle rive del mare alle ultime vette abitabili delle Alpi!
Ma in quelle pianure e in quelle montagne che paiono spopolate, come
in quelle città che sembrano sorgere in mezzo al deserto, l’uomo ha
trovata finalmente la Terra promessa, il Giardino delle Esperidi,
l’Eldorado sognato per tanti secoli: ma da quelle pianure, da quelle
montagne, da quelle città trabocca ogni anno sul mondo una piena di
diverse ricchezze: di cereali, di cotone, di tabacco, di caffè, di
lana, di carne, di oro, di argento, di rame, di carbone, di petrolio,
di ferro e manufatti di ogni specie; ma in quelle pianure, in quelle
montagne, in quelle città milioni di europei trovano ogni anno il pane,
il tetto, il giaciglio, l’agiatezza; e la Fortuna sembra scapricciarsi
a gettare alla cieca in mezzo agli uomini, a piene mani, i suoi doni
più ricchi. Tante favole corrono oggi per l’Europa intorno agli orrori
e alle meraviglie dell’America, che non si raccomanderà mai abbastanza
agli uomini del vecchio mondo di non essere troppo creduli: ma non sono
favole invece e sono forse maggiori che l’Europa non creda, le sue
ricchezze. Quelle ricchezze che risvegliano nell’anima della vecchia
Europa tanta ammirazione, tanta invidia e tanta cupidigia; quelle
ricchezze intorno alle quali in tutto il mondo tanto si scrive, si
disputa e si farnetica.... Ed a ragione. Non che l’America si prepari
con quella, come troppo spesso si dice, a comperare il vecchio mondo in
bisogno; ma perchè l’America precipita con la forza di quelle ricchezze
un rovesciamento di ideali e di misure, che già da un secolo venivano
lentamente capovolgendosi.


II.

Questa affermazione sembrerà oscura. Cercherò di chiarirla con questo
discorso. Che cosa sono dunque queste tanto celebrate ricchezze
dell’America? Molti scrollano le spalle, a sentir questa domanda,
in Europa. Dei barbari che vogliono arricchire per arricchire, nelle
cui mani l’oro diventa sterile: e gli Americani son giudicati. Ma non
è necessario aver viaggiato a lungo, per esempio, negli Stati Uniti
dell’America del Nord, per sapere quanto questa opinione si dilunghi
dal vero. Cupido solo di ricchezza il paese ove i corpi pubblici e
i ricchi privati fanno a gara per fondare biblioteche, musei, scuole
d’ogni genere e specie? Dove gli studenti e i ricchi mecenati bastano
a mantenere, senza sussidio alcuno dello Stato, immense Università —
come Harward e Columbia? Dove Stati, Città, Banche, Ferrovie, Società
di assicurazioni e milionari profondono ogni anno tesori per abbellire
di sontuosi edifici le città? Il popolo che spalanca le porte, da ogni
epoca della storia e da ogni contrada della terra, a tutte le arti,
a tutte le scienze, a tutte le dottrine e le credenze? Dove si creano
ogni giorno delle religioni nuove? — No: l’Americano non è il barbaro
carico d’oro, di cui favoleggiano certe leggende in Europa. Anche
l’Americano sa che, se è necessario produrre ricchezza, il produrla
non basta. «Ma — si dice — l’arte, la scienza, la religione sono cose
a cui l’Americano attende a tempo perso: alla ricchezza, invece, no.
_Totus in hoc est_». È vero: ma, di grazia, e l’Europa? Chi oserebbe
affermare che oggi, al sommo dei pensieri del vecchio mondo stiano
la morale, il diritto, le arti, le lettere o le scienze? Di che si
parla anche tra noi tuttodì se non delle industrie, dei commerci,
dell’agricoltura e del loro incremento? Non abbiamo noi forse udito
sovrani regnanti per la grazia di Dio vantarsi di seguire con occhio
vigile il commercio del proprio popolo su tutte le vie della terra? Se
dunque l’America è barbara, anche l’Europa e il mondo rimbarbariscono.
E a dire il vero non pochi fanno propria, almeno di tempo in tempo e
quasi senza accorgersene, questa conclusione. Non ci lamentiamo forse
tutti — dieci volte ogni dì — che gli operai, che gli impiegati, che
i soldati, che gli studenti, che i professori, che i figli e i padri,
che i mariti e le mogli, che i ministri dello Stato e i camerieri
non valgono più quelli di una volta; che l’arte del ben cucinare si
perde insieme con i prelibati vini di un tempo e con le maniere della
buona creanza, il senso del bello e i sentimenti generosi? Ma il
tralignar di tutte queste cose non è forse un rimbarbarire? Dunque,
il mondo rimbarbarisce.... E sia: ma donde è nato questo movimento
che ad un tempo sospinge i popoli alla ricchezza e alla barbarie?
Volgiamoci verso il passato: lo vedremo scaturire e discendere alla
volta del nostro secolo dai tempi lontani, in cui un genovese oscuro
e ostinato spiegò dalle coste della Spagna le sue vele e sparve a
Ponente nell’Oceano intentato. Sì: sino ad allora l’Europa aveva creato
arti, religioni, filosofie, morali, sistemi giuridici di incomparabile
perfezione: ma era povera: lavorava poco e lenta: venerava le
tradizioni e l’autorità: aveva costretta l’energia dell’uomo entro
leggi, pregiudizi e precetti senza numero: si sforzava di inculcare
nelle generazioni il tenebroso pensiero che l’uomo è un essere debole,
corrotto e simile — come canta Virgilio — al barcaiolo che risale a
forza di remi la corrente vorticosa di un fiume. Guai a lui, se per
un istante egli cessa di far forza! La corrente lo travolgerà. Ma
come ebbe scoperto in mezzo all’Oceano un continente nuovo, l’Europa a
poco a poco si fece ardita: si accorse che Prometeo era stato un ladro
maldestro, perchè del fuoco non aveva rubato che una piccola scintilla;
scoprì il carbone e l’elettricità; fabbricò la macchina a vapore, e
non si appagò più di sognare la Terra promessa ma la volle; distrusse
le tradizioni, le leggi e le istituzioni che avevano incatenate tante
generazioni; imparò a lavorar presto e assai; non desiderò più solo la
ricchezza, ma anche la libertà; e gettò nel mondo, come un rimprovero
al passato e una sfida alla natura, la parola che domina il secolo:
progresso!...

Poichè l’idea del progresso è nata proprio tra il crepuscolo del
Seicento e l’alba del Settecento, dopo i primi trionfi delle scienze:
e si è diffusa, ha vinta nel popolo come nei grandi la forza della
tradizione, gli scrupoli della fede, le obiezioni dei filosofi e le
paure del misoneismo, a mano a mano che l’uomo, armato di fuoco e
di scienza, conquistava la terra e i suoi tesori. Ma allora, se noi
viviamo nel secolo del progresso, come accade che ci lagniamo della
decadenza di tutte le cose? Come può rimbarbarire il secolo del
progresso? Affermando che l’America è barbara e che il mondo deteriora,
bestemmiamo noi forse alla leggera il progresso? O altrimenti, che cosa
è questo progresso che lascia il mondo sdrucciolare nel peggio e per il
quale ogni giorno ci affatichiamo, soffriamo e talora gettiamo perfino
la vita?


III.

Così fu che, dopo aver errato assai nel nuovo mondo per monti, per
valli ed entro il labirinto di questi dubbi e di queste contradizioni,
mi trovai alla fine un giorno alle prese con questo problema: che cosa
è il progresso? Era chiaro che solo dopo aver definito il progresso, si
poteva giudicare l’America; ma che, definitolo, si potrebbe giudicare
addirittura la civiltà moderna nei suoi fini e nei suoi mezzi, Poichè
se il progresso è incremento della ricchezza, l’America è il modello
dei popoli e il mondo cammina sulla buona via. Se invece il progresso
è alcunchè diverso dall’incremento dei beni, potrebbe anche esser
vero che l’America e l’Europa vadano rimbarbarendo. Ma purtroppo il
quesito era oscuro e difficile. Se domandassimo a mille persone che
cosa è il progresso, quante saprebbero rispondere con sicurezza; e
quante definizioni, tutte incerte e tutte diverse, non ci verrebbe
fatto di raccogliere? Non ci volle molto tempo a scoprire che tutti
pronunciamo cento volte al giorno questa gran parola, ma che nessuno
di noi sa quel che propriamente significhi. Ricorsi ai libri dei
dotti, per riceverne luce e consiglio: ma invano. Ogni savio definiva
il progresso a modo suo e in modo arbitrario, poichè invano cercavo
nell’uno e nell’altro un argomento decisivo che dimostrasse vera una
definizione e false tutte le altre. Insomma, il secolo del progresso
non sa che cosa il progresso sia e quindi non sa se l’America è da
più o da meno dell’Europa, e se esso stesso progredisce davvero o no.
Qualche volta dice di sì, qualche volta di no. Come si spiegano queste
stranissime contradizioni e incertezze? Forse le spiegheremo, se ci
volgeremo insieme, come io mi volsi allora, dal fondo dell’America
verso le civiltà antiche, tra le rovine delle quali, prima di prender
la mossa al viaggio del nuovo mondo, avevo vissuto tanti anni. Sì:
le civiltà che furono prima della civiltà presente erano povere e
limitavano da ogni parte lo spirito umano, incatenandone i desiderî,
le ambizioni, l’ardimento; lavoravano poco e lente; e, pur soffrendo
della penuria, pensavano che l’accrescere i beni fosse, più che un
merito e un vanto, una croce. Ma in compenso volevano una qualsiasi
perfezione: o esigevano negli oggetti fabbricati dall’industria ben
altra solidità, finitezza e bellezza; o avevano le arti decorative
e i loro grandi maestri in quella stima in cui noi abbiamo oggi
gli inventori fortunati e gli abili tecnici; o ingombravano la vita
pubblica e la privata di cerimonie fastose ed eleganti; o davano gran
peso alle questioni di morale personale e onoravano di pubblico culto
certe virtù. Insomma, badavano alla qualità più che alla quantità;
e perciò sapevano limitarsi con una pazienza che è cagione a noi di
tanto stupore. Noi abbiamo capovolto quell’antico ordine di cose;
ci siamo proposti come fine l’incremento della ricchezza; abbiamo
rovesciati o cancellati tutti i limiti antichi conquistando la libertà:
ma abbiamo dovuto subordinare in ogni cosa la qualità alla quantità,
e relegare tra le anticaglie gli esempi di perfezione che i nostri
antenati tenevano in mezzo alla casa al posto d’onore. La decadenza
degli studi classici, per esempio. Molti non sanno darsi pace che i
tempi non vogliano più saperne di Omero, di Virgilio e di Cicerone;
e vorrebbero ripristinare gli antichi nell’antico onore. Ma come e
in che modo? Gli antichi scrittori furono studiati con zelo indefesso
sinchè furono il modello ammirato da tutti della perfezione letteraria,
e sinchè questa perfezione, oltre che ornare la mente, fruttò la
pubblica stima, la fama, qualche volta la gloria e cospicue dignità.
Ma da un secolo una sordida polvere ha coperti anche quei modelli, un
tempo così sfolgoranti: altre letterature e diverse, più accese e più
colorite, sono venute in fama: e poi che catena sarebbero tutte quelle
antiche regole del bello scrivere, per un secolo che vuol scrivere
e parlar tanto, e così a precipizio! Gli antichi non possono essere
più i maestri del gusto, nel secolo della ferrovia e del telegrafo;
e non potendo esser più i maestri del gusto, non sono, per il maggior
numero, più nulla, neppure degli scrittori interessanti — perchè molti
si dilettano maggiormente di libri più freschi. Tutte le arti, voi lo
sapete, sono oggi travagliate da un misterioso malessere; ma non tutte
allo stesso modo e nella stessa misura: perchè delle arti ce ne son
due sorta, quelle che divertono gli uomini — la musica, il teatro, la
letteratura; e quelle che abbelliscono il mondo — l’architettura, la
scultura, la pittura e in genere le arti decorative. Orbene: le arti
che abbelliscono il mondo sono oggi le più tribolate. Nessun secolo
costruì mai tanti palazzi, tanti monumenti, tante nuove città; nessuno
nutrì tanti architetti, pittori, scultori e decoratori di ogni genere.
Noi abbiamo tutto quello che occorre, pare, per far bello il mondo: il
denaro, gli artisti, il desiderio. Perchè non ci riesce? Che cosa ci
manca? Una cosa sola: il Tempo. Lodavo un giorno certe architetture
di New York ad un valentissimo architetto di quella città. «Sì, sì —
mi rispose ironicamente. I miei concittadini spenderebbero volentieri
cento milioni di dollari per costruire un nuovo San Marco o una seconda
Nôtre Dame: ma a un patto... Che io la terminassi in diciotto mesi!».
Ecco il punto. Come abbellire un mondo che non sta mai fermo, che
sempre muta, che ha tanta fretta e che vuol moltiplicare la quantità
di tutte le cose? Che si voglian fabbricare dei bei palazzi, o dei
bei mobili, o dei bei gingilli — quale si sia, grande o piccola, la
perfezione ambita — ci vuol tempo, e non furia; ci vuol discrezione
nella richiesta e gusti non troppo volubili. In diciotto mesi non si
poteva edificare San Marco: nè la Francia avrebbe creati i famosi
stili del settecento, se già allora gli uomini fossero stati morsi
dalla tarantola del nuovo, e avessero desiderato rinnovar mobiglio e
inventare uno stile novissimo ogni dieci anni.


IV.

Quanti altri esempi si potrebbero citare! Intorno a noi, da ogni parte,
ferve la lotta della quantità e della qualità. Questa lotta è l’essenza
stessa della civiltà moderna. Sì, due mondi vivono e combattono in seno
ai nostri tempi; ma non sono l’Europa e l’America, sono la quantità e
la qualità; e combattendo confondono a tal punto le idee degli uomini,
che noi non siamo più capaci di definire il progresso. Perchè noi ci
contradiciamo tutti i giorni, ora affermando che il mondo progredisce,
ora che declina? Perchè i nostri tempi hanno accresciuta di molto la
quantità di tutte le cose, ma quasi sempre a scapito della qualità;
cosicchè paiono progredire o decadere secondo che li giudichiamo
alla stregua della quantità o alla stregua della qualità. Noi non ci
raccapezziamo più, perchè confondiamo di continuo le due misure — la
quantità e la qualità — adoperandole promiscuamente.

Supponete che un architetto e un impresario di cementi armati discutano
dei tempi presenti: vi meravigliereste voi se il primo versasse lagrime
amare sulla decadenza del mondo, che non è più capace di edificare, in
mezzo alla congerie dozzinale delle città moderne, un nuovo Palazzo
Vecchio o una nuova San Marco; e che il secondo celebrasse invece il
magnifico progresso dei tempi, in cui le città pullulano e crescono
in ogni parte come i funghi in una foresta dopo la pioggia? Hanno
tutti e due ragione, ma ciascuno secondo il modo suo di vedere. Il
primo giudica alla stregua della qualità e ha ragione di affermare che
tutte le città dell’America non valgono San Marco o Palazzo Vecchio.
L’altro giudica alla stregua della quantità; e naturalmente conchiude
a rovescio. Tale è il mondo, in cui viviamo: misurato con il metro e
la bilancia è un gigante. Gli uomini non possederono mai tanta terra,
non dominarono mai le forze della natura con così potenti strumenti
e non profusero mai al sole tante ricchezze. Ma se lo giudichiamo
alla stregua della qualità, esso scomparisce a paragone di molte
generazioni passate; di quelle che crearono la scultura greca, per
esempio, o l’architettura italiana del medio evo, o i grandi stili
decorativi francesi del settecento. Noi possiamo egualmente sostenere
che i nostri tempi progrediscono e che declinano, adoperando ora l’una,
ora l’altra misura: così come possiamo, scambiando le due misure,
sostenere a piacere la preminenza dell’America e quella dell’Europa.
Non cercate in America nè le meraviglie nè gli orrori, di cui troppo vi
tengon discorso; perchè non ci troverete altra cosa che il principio
della quantità, cresciuto da un secolo in tanto potere, e i suoi più
meravigliosi prodigi. Un popolo laborioso e volonteroso si è trovato
padrone di un vastissimo continente ricco di terre fertili, di boschi
e di miniere — proprio quando l’uomo inventava lo strumento atto a
sfruttare rapidamente le immensità: la macchina a vapore. Armato
di questo strumento, quel popolo ha moltiplicate in un secolo le
ricchezze di cui l’uomo è più cupido, un infinito numero di volte;
e abbozzata in fretta una società grandiosa, disordinata e potente,
che agli ideali antichi ha anteposto un ideale nuovo: far molto e far
presto.... L’America non ignora e non disprezza, come dicono i suoi
nemici, le arti e le scienze: ma a queste attende con minor foga che
allo sfruttamento del suo continente. Nè è più conforme al vero dir che
l’Europa è maestra di civiltà al nuovo mondo ancora barbaro; o che a
fianco dell’America giovane essa raffigura la decrepitezza impotente.
Anche in Europa la moltitudine si avvezza al largo spendere; il lusso
privato cresce con le pubbliche spese: occorre quindi affrettare la
produzione della ricchezza. Ma il vecchio mondo è più popoloso e meno
ricco del nuovo; è tutto frastagliato di frontiere; vive ancor troppo,
almeno con la memoria, nei tempi in cui gli uomini si contentavano
di fare e di possedere poche cose, ma belle e buone. Se l’Europa
avanza l’America nella coltura, è più timida, più avara, più lenta
nelle industrie e nei commerci. Chi assuma dunque come misura la
quantità, giudicherà che l’America è il modello; chi la qualità invece,
conserverà all’Europa il suo antico primato.


V.

Voi però mi direte a questo punto: «Ma — di grazia — la misura vera,
qual’è? Quale dobbiamo adoperare sicuri di non errare? La quantità? La
qualità? Possiamo noi vivere senza sapere se progrediamo o decliniamo
— e quale dei due mondi possa ragionevolmente aspirare al primato?
Camminare, ignorando dove la via ci mena?». E chi dicesse così,
avrebbe ragione. Noi dovremmo poter definire quel progresso in cui
crediamo quasi come i nostri nonni credevano in Dio. E invece...
E invece continueremo per un pezzo a balbettarne delle definizioni
confuse e incoerenti — come di parecchie altre parole, oggi non meno
strapazzate di questa: della parola libertà, per esempio. E difatti:
possiamo noi sperare che la qualità ritorni a governare gli uomini
come in passato? Che la bellezza antica rientri in trionfo, come
regina, nel mondo ampliato e sconciato dalla macchina? Occorrerebbe
che gli uomini preferissero di nuovo l’eccellenza all’abbondanza. Ma
possiamo noi credere possibile oggi un moto — o religioso o politico o
intellettuale — che imponga a tutti gli ordini sociali una restrizione
un po’ rigorosa dei bisogni, dei desideri, del lusso? E allora, sinchè
il numero, come i bisogni e le aspirazioni degli uomini cresceranno;
sinchè i privati e gli Stati cederanno così facilmente alla voglia
di far più spese, la quantità dilaterà il suo impero sulla terra,
l’incremento delle ricchezze servirà come misura unica del progresso,
e all’arte e alla morale non avanzerà nel mondo altro spazio che quel
poco di cui gli uomini non avranno bisogno per sbracciarsi a fabbricare
macchine più veloci, a coltivare più vaste distese di terre e a scavare
miniere.... Queste cose son così vere, che molti pensano di sciogliere
il quesito, pigliandolo bravamente dall’altro capo. «Volgiamoci allora
alla quantità — dicono. Incoroniamola regina del mondo. Sia progresso
l’incremento delle ricchezze. Anche il produrre ricchezza è opera
grande e meritevole». Certamente. Ma chi riuscirebbe a imaginare un
mondo che fosse quantità pura, privo di arte e di morale, spoglio
di bellezza e di giustizia? Non facciamoci dunque illusioni: non c’è
scienza, filosofia o religione — venga essa dalla Germania, dall’India
o dal pianeta Marte — che possa effettuare questa quadratura del
circolo, almeno sinchè noi non ci decideremo a volere o la vittoria
definitiva della quantità sulla qualità o quella della qualità sulla
quantità. Ma noi non possiamo — oggi almeno — volere nè l’una nè
l’altra; dunque il mondo continuerà a vivere, malamente contento di
una equivoca definizione del progresso e i tempi sembreranno per un
pezzo ancora tralignare insieme ed ascendere. Volgeranno cioè propizi
ai popoli ricchi di terre, di ferro e di carbone, pur non potendo
largire a costoro che delle ricchezze imperfette e manchevoli; mentre
i popoli cui toccarono in sorte le tradizioni di una antica e gloriosa
cultura e un territorio magro, malediranno in cuor loro quel fardello
diventato inutile in tempi in cui bisogna alleggerirsi per correre
alla conquista della terra; brameranno insoddisfatti, cercheranno,
ammireranno l’opulenza ignorante. Il segreto della più recente storia
d’Italia, delle sue fortune e delle sue sventure, è questo e non altro.
L’Italia, che è un piccolo territorio naturalmente nè molto ricco nè
molto povero — una cosa di mezzo — fu grande sinchè la qualità regnò
sola nel mondo; sinchè una gente potè per forza d’ingegno e di lavoro
imporsi ai popoli più ricchi; sinchè la grandezza delle nazioni dipese
dalla cultura più che dalle risorse naturali del territorio. Ma la sua
decadenza incominciò quando la quantità entrò nel novero delle forze
storiche, e cioè nel secolo XVI; lenta da prima, come lenti furono
da prima i progressi della quantità, e via via più rapida, finchè si
giunse alla Rivoluzione francese. In mezzo al gran rivolgimento del
settecento anche l’Italia aveva preso a sognare, sia pur nel vago, un
qualche rinnovamento della antica grandezza; e con quel sogno, dopo
la fragorosa rovina del ’15, aveva consolata insieme ed esacerbata la
lunga attesa della generazione che visse tra la caduta di Napoleone
e la Rivoluzione del ’48. Ma in quel trentennio, mentre l’Italia
aspettava e sognava, la quantità si impossessava alla fine del mondo:
si costruivano le prime ferrovie, la grande industria e l’America
uscivano insieme di adolescenza. Cosicchè non appena, nel ’59,
l’Italia entrò nel mondo, in veste di nazione unita e moderna, subito
si accorse che il modesto patrimonio ereditato dagli avi non bastava
più; occorrevano oro, ferro, carbone, armi e tante altre dispendiose
diavolerie ormai obbligatorie. E si mise all’opera con ardore: ma
ahimè! il suo territorio era angusto; ed era ormai già quasi tutto
spoglio di boschi; e aveva poche miniere, non carbone, scarso ferro
sebbene eccellente: molte invece le bocche; anzi queste crescevano
ogni anno, a vista d’occhio, da ogni parte, intorno alle mense non
lautamente imbandite. Fu dunque forza lavorare, lavorare, lavorare per
produrre la maggior somma di ricchezza possibile, a qualunque costo,
sconvolgendo e rimescolando tutto il paese da un capo all’altro, le sue
tradizioni, istituzioni e fortune; sopratutto immolando i sogni fatti
negli anni dell’attesa e le alte ambizioni agli spiccioli bisogni del
giorno, o per ripetere ancora una volta la formula di cui forse ho
abusato: immolando la qualità alla quantità.

Da cinquanta anni la storia dell’Italia è quasi dominata da una legge
di degradazione dei modelli o, se vi piace meglio, di volgarizzazione
degli ideali: degradazione e volgarizzazione, che nella politica
come nella cultura e nell’industria, hanno avvicinati e sostituiti
i modelli o gli ideali lontani e difficili con altri più vicini e
più facili. Abbiamo allargate le basi dello Stato fino al suffragio
universale. Abbiamo accresciuta e assai — se si pon mente alla povertà
iniziale del suolo — la ricchezza totale. Abbiamo diffusa l’istruzione
nei ceti medi e popolari. Ma tutti i modelli di perfezione verso
i quali si era sforzata l’Italia antica si son perduti o confusi
— dall’umanesimo, le cui ultime faville furono barbaramente spente
nelle Università, alle tradizioni delle nostre arti più antiche e
gloriose. Sotto nome di libertà prevalse una anarchia intellettuale,
per la quale, caduti i modelli e indebolite, quando non rovesciate,
tutte le autorità spirituali che li imponevano, la nazione ha perduta
ogni chiara nozione dell’eccellenza in tutte le alte attività della
mente; e ora seguendo troppo alla leggera mode caduche, ora ingannata
dai ciarlatani venute in credito spacciando sofistiche filosofie
distruttive d’oltr’alpe, ha perduto il coraggio e la lena delle vaste
opere organiche; si è, nell’arte come nella scienza, nell’industria
come nel diritto, troppo spesso accontentata della mediocrità dozzinale
e del genere frammentario — lirica e novelle in letteratura, monografie
nella scienza, espedienti nella politica — pur non appagandosene,
pur aspirando in cuor suo all’eccelso, al grande, al nobile, ma non
sapendo più precisamente a quale stregua riconoscerlo e con quale
premio incoronarlo. Non per nulla anche nel secolo della quantità,
noi siamo gli eredi di tanti secoli di civiltà qualitativa! Di qui
la smania che non dà pace alle classi alte e colte, e che le spinge
così spesso a lacerarsi le proprie carni; quella smania, di cui voi
potete vedere l’insorgere improvviso nella nostra storia, confrontando
i due scrittori maggiori della prima e della seconda metà del secolo
XIX. Alessandro Manzoni ci apparisce nella prima come uomo pieno di
dubbi, perplesso e quasi timido, schivo di giudicare gli altri o di
imporre loro le proprie opinioni e il proprio sentire. Ma quanto ai
principî suoi no, era fermo e sicuro: fermo e sicuro nei principî
d’arte, che professò e seguì; sicuro e fermo nei principî religiosi,
morali, politici, che fece suoi dopo varie prove e vicende. C’è nella
sua vita una conversione: ma è risoluta e definitiva, come il colpo di
spada che tagliò il nodo gordiano. Visse insomma con la mente in un
mondo circoscritto e limitato; ma in quello sapendo quel che voleva
e di quel che voleva sapendo rendere ragione chiaramente: onde, pur
non lavorando con alacrità grande che una parte sola della sua vita,
potè lasciare parecchie opere, diverse tra loro ma tutte figlie di
una intenzione precisa, e un capolavoro. Giosuè Carducci ci guarda
invece, anche dai ritratti che adornano le sue edizioni, quasi con un
atteggiamento di sfida: e difatti sembra dominare la generazione sua
come un Dio che investe, giudica e fulmina. Ma non lasciatevi ingannare
dalle apparenze! Quelle collere e quelle violenze coprono in verità la
perenne incertezza e la smania incessante di una mente che cerca dei
criteri fermi e sicuri per giudicare il mondo, un appoggio cioè, e non
lo trova; che ondeggia sempre tra il classicismo e il romanticismo,
tra l’erudizione e la poesia, tra la ricerca e l’intuizione, tra
l’inno a Satana e l’invocazione alla Vergine, tra la democrazia e il
nazionalismo, tra la repubblica e la monarchia. Non c’è quasi grande
questione d’arte e di politica, sulla quale Giosuè Carducci non abbia
professate in buona fede e sinceramente le opinioni opposte; cosicchè
le sue opere sono una miniera inesauribile di citazioni per tutti
i partiti e per tutte le scuole. Ma se si è contradetto spesso, non
si è convertito quasi mai, e anche quando si è convertito nel modo e
per i motivi più degni di rispetto, non ha voluto riconoscerlo: anzi
che furie, se lo sentiva a dire! Quanto ha lavorato! Tutta la vita,
infaticatamente: molto più che il Manzoni, e quanto pochi altri nostri
scrittori del secolo scorso. Ma nei suoi numerosi volumi c’è tutto,
c’è prosa e poesia, storia e critica, politica e filosofia, polemica ed
estetica, e quanti meravigliosi frammenti possono bastare alla gloria
di molti scrittori: non c’è però un’opera di lunga lena. Che cosa sta
in mezzo a questi due grandi, che sono così vicini e così lontani? Una
rivoluzione — e non soltanto politica: una rivoluzione che, togliendo
di mezzo ogni regolatore della vita intellettuale, ha gettato le menti,
al di là di tutti i limiti antichi, in un immenso vuoto vorticoso.


VI.

Voi mi direte che, prese le mosse dall’America, noi abbiamo fatto un
lungo cammino, ritornando per un così tortuoso giro in Italia. È vero.
Ma credo che, almeno per chi non ami nè quel particolar genere di
filosofia che specula fuori dello spazio e del tempo, nè quell’altro
genere ancor più particolare di scienza che per capirla tagliuzza la
realtà in tanti pezzetti, un viaggio meditativo dalle civiltà antiche
in America possa chiarire molti oscuri problemi intorno al passato e
al presente. Chiarire almeno che quel che noi chiamiamo il progresso,
non è in verità altra cosa che il capovolgimento dei principî a
cui alludevo poco fa, e che, incominciato appunto dopo la scoperta
dell’America, precipita ora per la spinta che il torrente delle nuove
ricchezze americane gli imprime. Tutti i secoli avevano detto all’uomo:
ogni cosa nuova, solo perchè nuova, deve esser considerata peggiore
delle antiche. Il secolo decimottavo e il decimonono rovesciarono
questo principio, affermando che la novità, solo perchè nova, doveva
presumersi migliore dell’antico. Tutti i secoli avevano detto all’uomo
che egli si avvicinerebbe tanto più alla perfezione, quanto più fosse
moderato nei suoi desiderî, semplice e parsimonioso nei suoi abiti,
ossequente alle Autorità e alla tradizione. I tempi rovesciarono
anche questi principî; affermarono che per salire la scala della
perfezione, l’uomo deve accrescere desiderî, bisogni, aspirazioni,
aguzzare la curiosità e il senso critico a domandar la ragione di
tutte le cose. Tutti i secoli avevano ingiunto all’uomo di rispettar
i limiti che trovava tracciati in ogni parte nascendo. E venne un
secolo che gli disse invece di smuoverli, per verificar se erano
solidamente piantati e nel luogo opportuno. Necessario effetto di
quel gran moto di popoli, di classi, di idee, di ambizioni che dopo
la scoperta dell’America ha spinto l’Europa prima, e poi l’Europa e
l’America insieme alla conquista della terra, questo capovolgimento
doveva generare un perturbamento universale nella vita del mondo,
più grande assai di quello effettuato dal Cristianesimo che anch’esso
tanti principî della società antica aveva rovesciati, sebbene con un
procedimento diverso: quel perturbamento di cui noi siamo testimoni e
autori, e nel quale la stessa crisi dell’Italia di cui vi ho parlato
si perde come una ondata in una tempesta. Mi ingannerò: ma pare a me
che questo modo di considerare la storia del mondo aiuti a intendere
il tempo nostro e nelle loro congiunture vitali le idee e le dottrine
in cui crede, la politica che segue, le aspirazioni e i bisogni che lo
travagliano, i pericoli e le crisi che lo minacciano. Perciò ritornando
dall’America, sulle cui strade io l’ho trovato, ho creduto bene di
esporlo, in un libro che a molti è sembrato oscuro: come penso non
sarebbe stata sterile in un pubblico insegnamento, se la catastrofe a
cui è soggiaciuta in Italia l’alta cultura, negli ultimi cinquant’anni,
non avesse chiuse le pubbliche scuole ad ogni non sterile idea. Ma per
quanto nemica voglia e debba essere a questo modo di considerare il
passato e il presente un mandarinato di falsi savi, che intravede forse
adombrata in quella la condanna della sua leggerezza e del suo vano
orgoglio, non sarà male di insistere, non foss’altro che per inculcare
nello spirito delle nuove generazioni — massime in quella parte che
può sfuggire più facilmente alle influenze nocive di troppe sciagurate
dottrine accolte e divulgate senza discernimento — che l’Italia può
chiedere alla quantità il pane quotidiano per la moltitudine, non la
grandezza, la gloria, il prestigio. Di quel che occorre affinchè un
popolo grandeggi per la quantità, la natura non ci ha dato che un
elemento che solo, senza territori, miniere, boschi, capitali, non
basta: la fecondità. Noi non possiamo dunque sperar gloria e grandezza,
come i nostri padri, che dalla qualità: il che vuol dire che ci è
toccato nella vita un compito particolarmente difficile. Se a un popolo
che ha avuto dalla sorte un territorio ricco, l’ordine e la laboriosità
bastano per sbalordire nello spazio di una generazione il mondo con le
sue subite ricchezze, ad eccellere per qualità in ogni ramo dell’umano
lavoro, non basta invece neppure saper raggiungere un modello difficile
di perfezione: occorre oggi, come sempre, farlo riconoscere per tale,
imporlo agli altri, nessun modello essendo necessario e assoluto. E per
imporlo agli altri, occorre imporlo a se medesimi; e per imporlo a se
medesimi, è necessaria disciplina, tradizione, abnegazione, un senso
sicuro dei limiti; tutte qualità che si van perdendo nel formidabile
vortice della civiltà moderna. Salvarle in mezzo a questo vortice, è
dunque l’impresa più ardua a cui una nazione possa accingersi; ma la
virtù degli uomini come dei popoli grandi si mostra nel saper fare non
le cose facili, ma le cose difficili.




II.

IL DISCORSO DI FIRENZE: ANARCHIA, LIBERTÀ, DISCIPLINA


  _Signore e Signori_,


I.

La guerra europea — questo terremoto che ha già diroccato a metà il
vecchio mondo; la guerra europea, di cui da tanti anni tutti parlavano
ma i più senza credere che potesse scoppiare, come si parlava del
giorno in cui il sole si spegnerà nel firmamento o la terra incontrerà
nello spazio qualche errabonda cometa, la guerra europea è scoppiata
in otto giorni. La sera del 24 luglio l’Europa si è addormentata, dal
Baltico all’Ionio, dai Pirenei agli Urali, pensando che il giorno
seguente sarebbe giunto tra gli uomini all’ora consueta, simile a
quelli che lo avevano preceduto e a quelli che lo seguirebbero, per
scaricare sul mondo il consueto fardello di beni e di mali, e dileguare
poi inosservato nella vasta uniformità del tempo. L’imperatore di
Germania faceva la solita crociera nei Mari del Nord; l’imperatore
d’Austria era alle acque d’Ischl; il presidente della Repubblica
francese partiva dalla Russia, per far visita ai Sovrani scandinavi. Ma
la mattina del 25 — era un sabato — l’Europa tutta lesse, sbigottendo,
le torbide minaccie che il ministro austriaco a Belgrado intimava di
sorpresa al Governo serbo; e il sabato dopo — il 1º agosto — il conte
di Pourtalès, ambasciatore di Germania a Pietroburgo, consegnava
al Governo russo la dichiarazione di guerra. Come è accaduto? Per
colpa di chi? Per quali motivi? Anche oggi, dopo otto mesi, ci par di
sognare, quando pensiamo a quei giorni fatali, alla rapidità con cui
in una settimana la supposta cometa errabonda negli spazi è apparsa,
è ingrandita, è piombata su di noi; allo stupore sbigottito ed inerte
con cui l’abbiamo vista correre alla nostra volta, sfolgoreggiare sul
firmamento, travolgerci in un torrente di fiamme.

La storia indagherà a suo tempo e racconterà agli uomini, giorno per
giorno, ora per ora, quanto fu detto, sussurrato, pensato, voluto,
operato, nelle Corti e nelle Cancellerie dell’Europa, in quella
settimana fatale. Oggi ogni Governo si studia di non divulgare se
non quanto serve a ributtare su gli altri Governi la responsabilità
dell’immane catastrofe. Ciò non ostante un punto non può ormai più
essere messo in dubbio da nessun osservatore imparziale e informato.
La guerra europea è scoppiata, perchè la Germania — popolo e governo —
l’hanno voluto. Quale sia stata la parte del governo e quale la parte
del popolo, poco importa: quel che conta, è che nel momento decisivo
popolo e governo sono stati d’accordo nel fulmineo assalire a ponente
e a levante due potenti vicini, che non avrebbero desiderato di meglio
che di godersi la prospera pace di cui si allietavano. Onde il gran
quesito: perchè un popolo che, essendo così industrioso e professando
gli stessi principî morali e politici dei suoi vicini, avrebbe dovuto
desiderare la pace alla pari degli altri popoli d’Europa, è stato
ad un tratto invasato da tanta furia guerresca, senza aver ricevuto
provocazione, a proposito di fatti che lo toccavano solo per via
indiretta? È questo popolo, a dispetto delle apparenze, diverso dai
suoi vicini e in verità straniero all’Europa, nel cui cuore vive e
cresce di numero?

Per rispondere a questo quesito occorre innanzi tutto ricordare
che questa guerra non è soltanto una guerra; ma è, come la caduta
dell’impero d’Occidente, come l’avvento del Cristianesimo e la
Rivoluzione francese, un cataclisma storico. Perciò, se gli accidenti
che ne furono l’occasione sono nel presente, le cause profonde, cioè
le vere, rimontano lontano: a quella immensa rivoluzione di cui la
stessa Rivoluzione francese è un episodio, e che da due secoli va
capovolgendo i principî su cui l’ordine sociale aveva posato sin dalle
origini della storia. I secoli avevano detto all’uomo: ogni cosa nuova,
solo perchè nuova, deve esser considerata peggiore delle antiche, e
quindi ogni cosa antica deve essere sacra. E un secolo — il decimonono
— osò rovesciare questo principio e affermare, in nome del progresso,
che la novità, solo perchè nova, doveva esser migliore dell’antico;
che ogni generazione aveva il dovere di rinnovare quante più cose
potesse tra quelle che troverebbe. I secoli avevano detto all’uomo che
la moderazione dei desiderî, la semplicità del vivere, la parsimonia
erano le virtù massime. E il secolo decimonono rovesciò anche
queste opinioni; disse virtù il guadagnare e lo spendere largamente,
l’accrescere i desiderî, i bisogni, le aspirazioni. Per secoli e secoli
era stato detto che l’uomo nasceva per obbedire alle autorità umane e
divine: e il secolo decimonono gli disse invece che egli nasceva per
vivere libero e per esercitare nella libertà tutte le facoltà sue; che
egli perciò doveva domandare la ragione di tutte le autorità a cui
si vuol sottoporlo. Necessario effetto di quel gran moto di popoli,
di classi, di idee, di ambizioni che dopo la scoperta dell’America
ha spinto l’Europa prima, e poi l’Europa e l’America insieme alla
conquista della terra, questo capovolgimento di principî, per cui quel
che era male è diventato o sta diventando bene e quel che era bene
è diventato o sta diventando male, doveva generare un perturbamento
universale nella vita del mondo, più grande assai di quello effettuato
dal Cristianesimo, che anch’esso tanti principî della società antica
aveva capovolti, sebbene con un procedimento diverso; un perturbamento,
le cui cagioni sfuggono ai più, ma che si fa sentire in ogni parte del
mondo presente. O che non possa accadere mai che il principio nuovo
della libertà e del progresso sradichi e tolga di mezzo per sempre e
tutto intero il principio antico dell’autorità e della tradizione; o
che per sradicarlo e annullarlo occorra più tempo di quello che sinora
è corso, fatto sta che presso tutti i popoli d’Europa il principio
nuovo non ha trionfato che in parte, mentre in parte l’antico si è
conservato. Nasce da ciò, in tutte le moderne nazioni d’Europa, una
interna ineguaglianza, tormentosa e continua ma diversa dall’una
all’altra; perchè la tradizione e l’autorità non hanno vinto e non
hanno ceduto allo stesso modo in tutta Europa. Un popolo è conservatore
e tradizionalista in cose in cui l’altro cerca smanioso il progresso,
la novità, la libertà — e viceversa.


II.

Se noi paragoneremo rapidamente tra loro i tre maggiori Stati
dell’Europa considerandoli a questa stregua, noi spiegheremo forse
per qual ragione la Francia e l’Inghilterra desideravano la pace, e
la Germania abbia invece loro imposta, come l’ha imposta al mondo, la
guerra. Nel grande rivolgimento di idee e di principî, onde è nata la
civiltà moderna, la Francia ha fatta la parte sua — e che parte: la
Rivoluzione! La Rivoluzione francese ha opposto, come tutti sanno, al
principio dell’autorità che per tanti secoli aveva retti gli Stati,
il principio della libertà. Perciò la Francia è certamente la nazione
d’Europa in cui il principio nuovo della libertà ha maggiormente
prevalso nella politica sull’antico: la sola nazione, forse, presso
la quale lo Stato, distaccato dalla sua facciata tutto il mistico e
magnifico apparato di un tempo, apparisce agli uomini quale è, nuda
opera della ragione, inteso solo a servire gli uomini che gli sono
sottoposti; e l’autorità, invece di discender dall’alto, emana da
coloro che devono obbedire. L’opinione quindi, abbandonata alle sue
libere ispirazioni, governa senza limiti e freni la repubblica: una
cosa che sarebbe sembrata, tre secoli fa, una empietà o una follia
solo a parlarne. Ma dallo Stato e dalle dottrine politiche in fuori,
non c’è forse altra nazione di Europa in cui lo spirito antico — il
rispetto della tradizione, il senso della misura e dell’autorità —
sia così forte come in Francia. La Francia è giudicata da molti un
paese «arretrato», come oggi si dice, perchè, quando non si tratti
di teorie politiche, l’antico vi resiste molto meglio che altrove al
modernismo invadente. La gente vive ancora, non ostante la ricchezza,
con modestia e semplicità, almeno a paragone dei larghi mezzi di cui
dispone; pratica l’antiquata virtù del risparmio; è restia a mutare
i modi usati del vivere quotidiano; ha forte il sentimento della
famiglia. Le classi colte non sentono ancora così viva come in altri
paesi la smania di rammodernare senza tregua filosofie, arti, scienze.
Dopo la Rivoluzione, la Francia — e non è questo uno dei suoi meriti
minori — non ha più dato alla luce molte filosofie nuove e non si è
molto riscaldata per quelle che la Germania veniva partorendo con tanta
fecondità. Oggi ancora la Francia, sola forse tra le nazioni, dubita
che l’arte debba anch’essa fare ad ogni costo e sempre delle cose
nuove; e non ripugna dal riconoscere l’autorità dei modelli.

Non è difficile dunque intendere come un popolo, il quale era ricco,
potente, istruito, e aveva il senso della misura, e non si lasciava
facilmente abbagliare da speciose dottrine a desiderare l’impossibile,
e lasciava l’opinione popolare governare lo Stato, desiderasse la
pace. La Francia era paga della sua sorte e non desiderava cose
impossibili: per quale ragione avrebbe attirato sulla sua terra felice
il flagello della guerra? La moltitudine, quando può seguire la sua
inclinazione naturale, vuol piuttosto pace che guerra. La Francia
aveva desiderata la pace con tanto ardore, che più di un vicino —
e forse anche il nemico — aveva conchiuso che fosse infrollita. Se
passiamo a considerare l’Inghilterra noi troviamo una contradizione
diversa. L’Inghilterra ha fatta anche essa la sua parte nel recente
sconvolgimento del mondo. Opera più sua che d’altri è la rivoluzione
industriale, senza la quale la rivoluzione politica avrebbe assai meno
alterato l’antico ordine del mondo. Quando l’uomo non possedeva altri
strumenti che quelli — i più di legno — che erano mossi dalla sua
mano o dai muscoli di qualche animale addomesticato, egli poteva, sì,
fabbricar delle meraviglie, ma in quantità scarsa; e perciò pure doveva
considerare la parsimonia come una virtù, la prodigalità come un vizio.
Ma quando gli uomini riuscirono a congegnare nuove macchine di ferro, a
muoverle con la forza del vapore e a produrre beni in quantità, sia pur
più scadenti, non cercarono più nelle cose la bellezza o la bontà, ma
la varietà e l’abbondanza. Se no, a che scopo fabbricarne tanto numero?
L’uomo sembrò allora farsi più perfetto, quanto più imparava a lavorar
rapido e quanto più numerosi si facevano i suoi bisogni.

L’Inghilterra avendo iniziato la rivoluzione industriale, doveva —
come ha fatto — cercare prima e più di ogni altro popolo di screditare
i costumi dei padri, le tradizioni casalinghe, la semplicità, la
parsimonia. Tutti sanno che nella vita privata l’inglese è una specie
di zingaro, che non può più affezionarsi seriamente a nessuna delle
cose che lo circondano: nè alla famiglia, da cui si stacca facilmente
e presto, nè alla casa che cambierà cento volte in sua vita, nè alle
proprie abitudini, perchè la tirannica forza della moda, governata a
sua volta dall’industria, lo costringerà ogni pochi anni a contrarne
di nuove. Ma questa instabilità di gusti, di abiti, di costumi posa
invece sopra un fondamento di tradizioni politiche ed intellettuali,
poco meno che granitico. Non c’è popolo più restio dell’inglese a
mutare opinioni, gusti, metodi, principî, convinzioni, nell’arte,
nella scienza, nella religione, nella filosofia e sino ad un certo
segno anche nella politica. Accusano oggi i tedeschi l’Inghilterra
di aver voluta e fatta nascere la guerra: ma sono davvero ingrati con
la nazione che aveva fatto quanto stava in lei perchè essi potessero
impadronirsi di sorpresa dell’Europa. L’Inghilterra non solo non
voleva la guerra europea, ma non ha mai neppure creduto, per quanto
pochi veggenti l’avessero più volte messa sull’avviso, che potesse
scoppiare; perchè nella storia non aveva mai visto un altro ciclone che
somigliasse a questo e perchè la guerra l’avrebbe disturbata troppo
nei suoi piaceri e nei suoi affari. Onde non aveva preparato nulla
per la guerra — nè alleanze, nè esercito, nè tesoro; ha esitato fino
all’ultimo istante, sinchè i soldati tedeschi non hanno varcata la
frontiera belga; e per parecchi mesi ancora dopochè la conflagrazione
era scoppiata, non ha capita la grandezza del cimento a cui si era
accinta. Buon per lei che la Francia è riuscita da sola a contenere
l’invasione tedesca; se no, che cosa mai sarebbe stato di te,
disgraziatissima Europa!

In Germania invece ritroveremo una contradizione, diversa così da
quella della Francia come da quella dell’Inghilterra. Tutti sanno
quanta forza il principio mistico dell’autorità abbia conservato,
anche nel ventesimo secolo, in mezzo ai tedeschi. Dio governa ancora
i tedeschi, i quali perciò credono di dover essere i suoi beniamini.
Si ripete sovente in Europa che la Germania è un pezzo di medio evo:
a torto, se si guarda alle forme dello Stato, che si sono abbastanza
rammodernate; a ragione, se si guarda allo spirito. Dove se non in
Germania possiamo noi ritrovare l’adorazione della potestà regia e
di tutte le autorità che emanano dal Sovrano, trasportata dal secolo
XVII al secolo XX ma più viva e sincera, perchè temperata con un certo
spirito di libertà e di critica; ma più universale e più imperativa,
perchè insegnata e inculcata da uno Stato organato mirabilmente,
onnipotente, onnipresente? Le monarchie assolute che furono prima della
Rivoluzione, erano venerate molto più che non fossero davvero obbedite.
Come venerata più che obbedita è oggi ancora l’autorità dello Stato
in Russia e in Turchia. In Germania l’autorità, applicando con forza e
misura moderna gli antichi principî del governo monarchico, è riuscita
a farsi rispettare e obbedire; cosicchè lo Stato tedesco era certo,
allo scoppiar della guerra, il più forte d’Europa, quello che aveva a
temere meno così la contradizione, come la malavoglia e l’indifferenza
dei sudditi.

Ma quale anarchia di costumi, di gusti, di aspirazioni, di criteri, di
idee controbilancia, nella Germania moderna, questa forza dello Stato!
Non c’è popolo presso il quale le antiche tradizioni di semplicità e di
modestia siano state soprafatte da una smania più furente di ricchezza
e di lusso: non c’è popolo che abbia santificato con maggior fervore
per tutti gli uomini l’eroico dovere di guadagnare e di spendere, di
lavorare e di godere finchè bastano le forze e il respiro: non c’è
popolo che si sia più gloriato di scavalcare, pensando e operando,
tutti i limiti che per tanti secoli l’uomo aveva rispettati: non solo
quelli segnati dalle autorità antiche o dalla tradizione, ma anche
quelli segnati dal buon senso, o dal senso morale o dalla verecondia.
Tutti avete sentito anche troppo parlare, in questi mesi e prima
della guerra, della cultura tedesca, di quella scienza e di quella
filosofia che dalla Rivoluzione francese in poi hanno trovati tanti
alunni tra i popoli troppo vecchi e i popoli troppo giovani, e di cui
disgraziatamente le Università d’Italia sono oggi le ancelle più umili
che ci siano in tutta Europa. Ma in che propriamente si distingue
questa cultura dalle altre, che l’hanno preceduta o che le vivono
accanto? In questo: che troppo spesso o per soverchio orgoglio o per
scarsa esperienza o per qualche altro mancamento, non sa discernere
il punto a cui il pensiero deve nella ricerca fermarsi, perchè se
lo oltrepassa si capovolge e precipita roteando su se medesimo nel
vuoto sofistico. C’è molta gente che da otto mesi, levando gli occhi
e le mani al cielo, esclama e sospira: «Chi l’avrebbe mai detto? La
Germania.... La Germania.... Far tutto quello che ha fatto! Dar tanti
cattivi esempi! Un paese con tanti scienziati e filosofi, così istruito
e sapiente!». Ma credete voi davvero che la scienza e la sapienza
siano, come dicono gli scienziati e i filosofi, beni immarcescibili
e incorruttibili, l’essenza stessa del progresso, un raggio della
luce divina che ovunque si posi, purifica, avviva, rallegra? No:
anche la scienza e la sapienza, opere umane, sono soggette a tutte
le perversioni e le corruzioni, in cui la natura umana può incorrere:
errano anch’esse e traviano, sopratutto se presumono di oltrepassare
nel conoscere una certa misura, che non è mai tracciata dalla scienza
stessa, ma dalla modestia, dal senno, da un certo, quasi direi,
«senso umano» che il sapiente deve avere di sè e delle cose. Ma è
proprio questo «senso umano» che fa difetto alla cultura tedesca,
insofferente di limiti. Spinto da un orgoglio frenetico a non voler
prendere le mosse che da se medesimo, smanioso di creare ogni giorno
morali, diritti, arti, religioni, filosofie tutte nuove e originali,
lo spirito tedesco compie da un secolo un lavoro titanico, per riuscir
troppo spesso a complicare le questioni semplici, a oscurare le chiare,
a porre problemi insolubili, a confondere la coscienza morale, a
intorbidare il gusto artistico del mondo!


III.

Quanti esempi si potrebbero citare! Basti uno, tratto da studi con
cui ho maggiore domestichezza; e che forse apparirà memorando agli
uomini, il giorno in cui saranno guariti da questa malattia: la
questione omerica. L’_Iliade_ e l’_Odissea_ — tutti lo sanno — sono
i due solenni monumenti di poesia che fiancheggiano le porte della
nostra storia. Incomincia da quelli la letteratura dell’Europa. Non
è dunque meraviglia che in tutti i secoli essi siano stati oggetto di
molti e diligenti studi. Ma per quanto siano grandi le libertà che di
solito i critici si arrogano nell’interpretare, commentare e ammirare i
capolavori, i cui autori sono morti da un pezzo, i critici avevano per
secoli rispettati almeno due limiti, nel trattare quei due venerandi
decani della letteratura. Uno di questi limiti era la tradizione, la
quale ci raccontava che nell’ottavo secolo a. C. era vissuto un poeta,
chiamato Omero, il quale aveva composti i due poemi e di cui ci narrava
alla meglio la vita. Sebbene la tradizione fosse manchevole, lacunosa
e non in ogni parte concorde, gli uomini avevano creduto per secoli
di rispettarla, pensando che in fin dei conti gli antichi erano in
grado di saper da chi, quando e come erano state scritte l’_Iliade_ e
l’_Odissea_ meglio di noi; e che se già gli antichi avevano dimenticato
il vero nome dell’autore, era poco probabile che potessimo ricordarcene
noi. L’altro limite era ancora più umile, perchè era posto dal buon
senso; il quale pretende che, come ogni figlio ha un padre, così
ogni libro debba avere un autore; e che se tutti i libri che noi
possediamo sono purtroppo stati scritti da uno sciagurato, che un bel
giorno ha intinto la penna nel calamaio e ha incominciato a scrivere
la prima parola, continuando sino all’ultima pagina, così dovrebbero
essere state scritte anche l’_Iliade_ e l’_Odissea_. Se dunque la
tradizione e queste considerazioni del senso comune non soddisfacevano
a pieno il nostro desiderio di sapere, almeno furono per secoli le
colonne d’Ercole, oltre le quali la curiosità degli uomini non osò
avventurarsi, sinchè non sopraggiunse la scienza tedesca. Questa, senza
esitare, varcò anche quei limiti; e il castigo non mancò: invece di
continuare a rinfrescar la mente in quella viva onda di poesia, gli
uomini si scervellarono a voler risolvere l’insolubile problema di
rifar la storia di un’opera, intorno a cui non ci sono più notizie;
architettarono e discussero sul serio le ipotesi più insensate,
studiarono e scrissero molto, ma non conchiusero nulla; finchè uno
sciagurato portò le rozze manaccie sul capolavoro immortale, osò
spezzarlo per ricostruire, egli, in Germania, l’_Ur-Ilias_, la vera
Iliade.


IV.

Altri esempi simiglianti potrebbe somministrarci la storia di
Roma, nella quale la scienza tedesca ha condotta l’Italia sino agli
incredibili delirî critici del Pais; e forse gli ordini di studi
più diversi, se avessimo il tempo di inoltrarci nello studio della
cultura tedesca, in tutti i campi. È questa insomma una cultura a cui
fa difetto il senso del limite e quindi l’ordine e la disciplina; una
cultura che non sa graduare i problemi, ma troppo spesso li confonde
facilmente nel modo più bizzarro; che pecca nel tempo stesso per troppo
orgoglio e per troppa ingenuità; e che perciò è stata cagione di un
immenso disordine in tutti i paesi — e tra questi pur troppo occorre
annoverare l’Italia — che non hanno saputo far in essa rigorosamente
la cernita dei principî buoni e dei deleteri. Orbene: la vera causa
della guerra europea deve cercarsi in questa ineguaglianza, per cui al
centro dell’Europa si sono trovate accanto nello stesso popolo tanta
indisciplina intellettuale e tanta disciplina politica. Da questo
squilibrio tra la disciplina intellettuale e la disciplina politica
della Germania è nato il ciclone, che sta devastando l’Europa. In
qual modo e come, non è difficile intendere. Le idee non possono
tenere un po’ a freno le passioni, se non sono fortemente legate in
un sistema e appoggiate sul sodo: o sopra una tradizione, o sopra
un’autorità, o sopra principî riconosciuti, sentiti e venerati per
veri da tutti. Se questi appoggi e sostegni mancano, se il pensiero
vuol spiccare il salto dalla pedana di se medesimo, porre ogni mattina
a capriccio i principî da cui prendere le mosse per rifare da capo
a fondo l’universo, necessariamente la bellezza, la morale e la
verità non saranno più che un immenso e volubile giuoco di sofismi,
in cui ognuno, mutando arbitrariamente i principî, potrà dimostrare
a piacere le tesi opposte; e nel quale, quali tesi trionferanno alla
fine? Quelle che lusingheranno maggiormente le passioni dominanti.
Le idee opereranno non come freni, ma come stimoli delle passioni più
forti. Questo han fatto la letteratura e la filosofia in tutti i tempi
di anarchia intellettuale, e questo hanno fatto in Germania, negli
ultimi quarant’anni, la storia, la filosofia, la letteratura, quelle
che si chiamano le scienze politiche, a mano a mano che l’orgoglio
delle vittorie e della potenza era rinfocolato dall’incremento della
popolazione, dalle nuove ricchezze, estratte così facilmente da un
suolo tanto ricco di ferro e di carbone. Debole perchè libera; non
regolata nè da principî, nè da tradizioni, nè da autorità di nessun
genere e perciò impotente a sua volta a regolare le menti, la cultura
tedesca, la sua scienza, la sua filosofia, la sua letteratura si
sono messe al servizio di quelle passioni che non potevano infrenare
o correggere, delle buone e delle cattive, esaltandole tutte: il
patriotismo, lo spirito di disciplina e di unione, la reverenza per
il Sovrano e lo Stato, la fretta dei subiti guadagni, l’orgoglio e
la petulanza nazionali, quel che si suol chiamare con barbara parola
l’arrivismo. Hanno dunque secondate e infervorate tutte le inclinazioni
dello spirito pubblico, senza poter distinguerle in buone e cattive, in
benefiche e pericolose; e tra queste il vezzo di scambiare per grande
quel che è colossale soltanto, di assumere la quantità a misura della
qualità, e di credere che il popolo tedesco fosse il sale della terra
e il modello del mondo; hanno infiammato l’orgoglio della moltitudine
ed inasprito quel delirio di persecuzione che segue sempre, compagno
inseparabile e castigo immediato, tutti gli orgogli eccessivi. Onde
a poco a poco noi abbiamo veduto — fenomeno grandioso e terribile —
ripetersi nel centro dell’Europa la biblica tragedia di Ninive e di
Babilonia: non più un re, ma tutto un popolo crescer di potenza, di
ricchezza, di prestigio così da aver intorno tutta l’Europa e l’America
tra ammirate e intimorite: ma farsi nel tempo stesso sempre più
inquieto, malcontento, sospettoso; lagnarsi che a lui non si tributava
il giusto rispetto, che la sua potenza non era temuta a dovere, che i
suoi meriti erano misconosciuti e i suoi beni insidiati da ogni parte
dall’invidia di nemici sleali. Sinchè un giorno, al sommo della potenza
e della ricchezza, in una Europa che tremava al pensiero di veder
risfolgorare al sole la spada del ’70, quando solo in Europa avrebbe
potuto godersi sicuramente la pace, perchè era temuto e non temeva,
questo strano popolo, in una settimana, a proposito di una questione
che non lo toccava, ha mandato un cartello di sfida, si può dire, al
mondo; ha provocati cinque Stati, tra cui nientemeno che i tre più
vasti e potenti imperi del mondo, a un duello mortale; e lanciata la
folle sfida, è mosso alla battaglia e alla morte in file serrate, tutto
unito e concorde, al comando dell’imperatore, docile alle spinte di
uno Stato, per disgrazia del mondo troppo autorevole in mezzo ai suoi.
La guerra europea non sarebbe scoppiata se il popolo tedesco fosse
stato più savio, o se il Governo fosse stato più debole: la disciplina
politica e il disordine intellettuale hanno generata la catastrofe.
Così un Governo forte, bene amato, ben temprato contro i colpi della
fortuna, servito da uomini intelligenti, provvisto di denaro e di
mezzi, è diventato lo strumento della più sregolata imaginazione e
ambizione, in una impresa nella quale al popolo tedesco non par che
resti altra speranza se non quella di render memorabile per secoli
la sua caduta, trascinando il mondo intero nella propria rovina; di
seppellire la sua potenza immolata in un’ora di follia sotto le macerie
di una civiltà, sino ad un anno fa floridissima e che nessuno può dire
in che stato sarà tra un anno o due.


V.

Non si vede, infatti, altra fine a questa tragedia. Siamo intesi:
l’avvenire siede sulle ginocchia di Giove; nessuno può pretendere
oggi di predire come questa guerra finirà. Tuttavia ad un popolo
che per secoli e secoli ha governato il mondo, ora temporalmente
ora spiritualmente; e che deve aver conservato un po’ il senso della
storia, non può ormai non apparire chiaro che i tedeschi, almeno in
questo quarto d’ora della loro storia, non sono nella disposizione
d’animo più acconcia a fondare i grandi e durevoli imperi. A fondare
imperi che durino non basta il valore, l’unione, l’amor patrio ardente
o addirittura fanatico: occorre anche il senno, il senso della misura,
l’intuizione chiara del possibile, proprio ciò che ai tedeschi oggi
più difetta. Onde, almeno se non interviene un miracolo imprevedibile,
l’esito di questa guerra non può essere dubbio. La ostinazione essendo
eguale dalle due parti, vincerà la parte che dispone di mezzi maggiori
e che saprà farne un uso più giudizioso: la coalizione dunque, che può
con il tempo armare un numero d’uomini maggiore, i cui scrigni sono
meglio fomiti, che ha il dominio del mare, e nella quale due popoli
almeno, la Francia e l’Inghilterra, posseggono quel senno politico,
quel senso della misura che vale da solo, in una lotta come questa,
molti corpi di esercito. Questo ragionamento sembrerà forse un po’
troppo semplice. Ed è infatti: ma temo assai che nel momento presente,
dopo quasi otto mesi che i popoli più potenti di Europa guerreggiano
con tanto accanimento, ci sia una bilancia più delicata e precisa,
su cui pesare le probabilità della guerra. Non vedo come si possa
speculare il futuro, se non argomentando che alla Germania è fallito il
disegno di coglier alla sprovvista, assalendoli con fulminea energia,
i suoi avversari e vincerli separatamente: la guerra sarà dunque decisa
dal Tempo e dalla pazienza dei belligeranti: quindi, se qualche evento
imprevedibile non viene ad alterare l’ordine e il gioco delle forze in
conflitto, l’alterna vicenda di sconfitte e vittorie in cui la guerra
oggi sta come sospesa, dovrebbe a un certo momento — quando e in che
misura nessuno potrebbe dire — piegare definitivamente a favore della
Francia, dell’Inghilterra e della Russia. Nè si ripeta, come troppi
fanno, che intanto i tedeschi combattono in casa altrui. Napoleone
diceva che in guerra non è fatto nulla sinchè non è fatto tutto; e
lo sperimentò a sue spese nel 1812. Non a Lodz o sul Narew era giunto
Napoleone, ma addirittura a Mosca, nel 1812....


VI.

Del resto, anche se la situazione militare fosse più incerta che non
è, noi avremmo bisogno di credere che la guerra terminerà a questo
modo. Si potrebbe dire che è necessario che così termini, se si vuole
che l’Europa possa godere di una pace lunga, feconda, non agitata ogni
giorno da improvvisi spaventi, non insidiata di continuo da oscure
ambizioni. Di questa pace — non giova illudersi su questo punto —
l’Europa non godrà per parecchie generazioni, se lo spirito tedesco
potrà continuare, anzi con più forza, perchè esaltato da una strepitosa
vittoria, a compiere quello che da un secolo sembra esser stato il
suo speciale ufficio nel mondo. Noi non neghiamo punto che il popolo
tedesco sia dotato di grandi qualità: ma ci par purtroppo anche vero
che di queste qualità ha fatto sovente un uso pericoloso per i suoi
vicini, prendendo agli altri popoli certi principî di civiltà da quelli
creati ed esagerandoli sino a convertirli in tormenti e pericoli. La
milizia, per esempio. Che il servizio militare sia un dovere di ogni
cittadino è principio classico e antico, che la Rivoluzione francese
aveva rinnovato applicandolo con discrezione. Ma i tedeschi, riducendo
la ferma e accrescendo il numero dei soldati quanto più era possibile,
hanno con quel principio creato e imposto all’Europa l’esercito moderno
che è tutto il popolo in armi: l’esercito immenso, dispendiosissimo,
lento, che ha fatto della guerra una calamità, a paragone della quale
tutti i flagelli che sinora hanno afflitto l’umanità erano piccoli
inconvenienti! L’industria moderna — noi l’abbiamo veduto — si sforza
di accrescere la quantità a scapito della qualità. Tuttavia la Francia
e l’Inghilterra avevano applicato questo principio con una certa
misura e non oltrepassando certi limiti. Sopraggiunge la Germania e
che fa? Che cosa è la _pacotille_ tedesca, di cui tanto si è parlato?
L’esagerazione di quel principio. La Germania ha applicato quel
principio sino a empire il mondo di ogni sorta di falsificazioni. Non
c’è ordinamento sociale, che possa sussistere senza adoperare in una
certa misura la forza. Anche la forza è dunque, in una certa misura,
un fattore di bene e un elemento di progresso. Tutti i tempi e tutti
i popoli hanno riconosciuto e praticato questo principio, che solo
pochi mistici negano. Ma da questa verità elementare, semplice, vitale
i tedeschi hanno ricavate le teorie del Clausevitz, del Nietzsche e
del Bernardi; le pose prepotenti di Bismarck, che è da quarant’anni
il cattivo esempio di tutti gli uomini di Stato dell’Europa; e infine
la guerra europea, con le stragi, gli incendi, le devastazioni, il
deliberato proposito di non riconoscere nella guerra nessuna legge o
regola o norma.

È troppo. L’Europa ha bisogno di ritornare sotto la guida e la autorità
di popoli più vecchi, più maturi, più ponderati. Non pochi sono coloro
i quali credono che la guerra durerà ancora qualche mese; poi si terrà
un Congresso della Pace e si firmerà un gran trattato; in seguito al
quale ripiglieremo la vita al punto ove la lasciammo quella fatale
mattina del 25 luglio, in cui leggemmo le torbide minaccie dell’Austria
alla Serbia. Ma è purtroppo una illusione. Quando, ristabilita la
pace, noi tenteremo di ripigliar la vita che avevamo condotta sino
al 25 luglio, noi ci accorgeremo che la corrente della storia si è a
quel punto inabissata in una voragine, per riapparire più lontano con
aspetto e direzione mutata. Non c’è più modo di risalirla. Troppe cose
saranno irrevocabilmente mutate e troppe dovranno esser rifatte sopra
un piano nuovo, se non si vuole che tanto sangue sia stato versato
invano e che questa catastrofe sia il principio non di un ordine nuovo
e migliore, ma di una rovina più terribile ancora di quella a cui
assistiamo. E tutte queste cose non potranno esser rifatte e questa
rovina risparmiata all’Europa, se l’Europa non ritroverà nel pensiero
e nell’azione quella misura che aveva negli ultimi cinquanta anni
perduta. A questa prova la storia aspetta la nostra generazione; e in
questa prova si vedrà quel che noi veramente siamo capaci di fare, per
il vero progresso del mondo.




III.

IL DISCORSO DI PARIGI: GRANDI E COLOSSI


  _Signore e Signori_,

Tra le infinite calamità del presente, quando la violenza dei tempi
travolge, come vento le foglie, gli animi tutti e li tiene trepidanti
e sospesi sul tetro abisso dell’avvenire, non potevo non accogliere
con riconoscenza il cortese invito di parlare in questa radunanza,
convocata a Parigi per celebrare la fratellanza intellettuale dei
popoli latini. Nessun tempo si ebbe mai più opportuno, per ricordare
quella nobiltà storica di tutti noi, i cui primi titoli risalgono alla
gloriosa civiltà che, nata in Grecia, trapassò prima a latinizzarsi
in Italia; poi si fe’ cristiana; indi sotto veste latina e impugnando
la croce fece sua per sempre tanta parte d’Europa: per ricordare di
quanta gloria questa civiltà due volte millenare va fiera: per ricordar
sopratutto, se dal passato vogliamo attingere forza al presente, che
questa civiltà ha saputo prima tra tutte essere grande.

Sostiamo a piè di una smisurata colonna in un tempio egiziano: o
aggiriamoci tra le rovine di uno di quegli immensi edifici persiani,
assiri o babilonesi, che gli archeologi cercano con tanto zelo.
Che cosa sono, se non piccole moli, al paragone, il Partenone, il
Tempio così detto della Concordia a Girgenti e tante altre meraviglie
dell’architettura greca? L’_Iliade_ e l’_Odissea_ non sono forse
due brevi volumi, accanto ai poemi interminabili dell’Oriente; al
_Ramayama_ o al libro dei Re? Ogni Vangelo è una raccolta dei discorsi
di Gesù; paragonate uno dei Vangeli ad una raccolta dei discorsi di
Budda e vedrete quanto conciso e taciturno è Gesù nelle pagine dei
suoi discepoli ellenizzati a confronto del riformatore indiano, che
parla per migliaia di pagine, resistendo imperterrito — egli, ma non
lo sventurato lettore — alla fatica ed al sonno. La massa, il peso,
la ripetizione, la prolissità, questo troviamo in Oriente. In Grecia,
invece, la proporzione, l’armonia, la leggerezza, la chiarezza, la
concisione. L’Oriente ambì di essere un colosso, la Grecia volle essere
grande.

Il colossale ed il grande differiscono infatti per una ragione nel
tempo stesso intellettuale e morale. _Grande_ è lo sforzo compiuto
dall’uomo per raggiungere un modello ideale di perfezione, creato
dalla sua mente; l’ambizione di superare una difficoltà di ordine
spirituale, la cui legge è interna. _Colossale_ invece è lo sforzo
di vincere la materia e di sottoporla al nostro volere e al nostro
capriccio, l’ambizione di rovesciare un ostacolo esterno. Chi volesse
servirsi di un gergo un po’ astratto, direbbe che il grande è qualità
pura, il colossale è una miscela impura di qualità e di quantità. Non
solo per fare, ma per capire le cose grandi, in ogni campo del pensiero
e dell’azione, occorre disciplina e modestia; poichè è necessario
accettare come legge un modello di perfezione. Il colossale invece
soddisfa l’orgoglio; e abbaglia, stordisce, soggioga anche le menti
rozze, ineducate e sregolate. Non è dunque meraviglia che anche la
Grecia e Roma, dopo aver fatte cose grandi davvero nei secoli più
felici, siano ricascate nel colossale. Andate a Girgenti: poco lungi
dal cosidetto Tempio della Concordia, così piccolo e così grande, la
cui bellezza ben si potrebbe definire qualità pura, giacciono alla
rinfusa gli avanzi di un tempio gigantesco e in mezzo a quelli certi
rottami di colossali colonne che strappano anche oggi grida di stupore
ai barbari dei due mondi. Passate in Roma; paragonate gli avanzi del
Mausoleo di Augusto e Castel S. Angelo che fu il Mausoleo di Adriano,
il Panteon di Agrippa e le Terme di Caracalla, le Terme di Caracalla
e le Terme di Diocleziano: voi vedete i secoli giganteggiare uno
sopra l’altro, a mano a mano che si allontanano dalle origini. Una
volta ancora gli edifici narrano, in caratteri di marmo e di pietra,
la storia delle generazioni. Per secoli Roma era stata modesta,
povera, prudentissima nel secondare le circostanze che la spingevano
a ingrandire l’impero. Roma voleva fondare un grande impero, non
un impero colossale, come gli imperi dell’Oriente. E in quei secoli
Roma, governata da una aristocrazia, tanto autorevole da reggere lo
Stato non solo, ma da dirigere pure il pubblico gusto, seppe capire e
imitare le cose grandi. non le colossali, che la Grecia aveva fatte.
Ma la ricchezza, la potenza, la sicurezza alterarono anche Roma.
Quella aristocrazia parte perì, parte fu esautorata; le moltitudini,
abbandonate a loro stesse, asiatizzarono; i tempi si gonfiarono di un
orgoglio frenetico, smaniarono di una insaziabile sete di piaceri e di
eccitamenti, e quindi furono presi dal delirio del colossale.

Di quanti esempi simili a questi è ricca la storia di tutti i popoli
latini: della Spagna, dell’Italia, della Francia! Dopo la Grecia,
la storia è stata una lotta incessante tra questi due principî, il
colossale ed il grande: una lotta che, se nella architettura si vede
con gli occhi e si misura con il metro, si ritrova, visibile alla
mente, dappertutto; nella letteratura, nello Stato, nella guerra.
In ogni tempo ed in ogni luogo, ove la Grecia sia stata anche per
poco maestra, ci furono e ci saranno uomini e popoli che vollero
e vorranno far grandi cose; uomini e popoli che vollero e vorranno
far cose colossali. Non è questo forse il senso profondo anche della
crisi in mezzo a cui noi viviamo sbigottiti da sei mesi? Quando noi
e i nostri figli non saremo più; quando le passioni che infocano i
nostri tempi saranno spente; quando gli storici leggeranno, con animo
tranquillo, i morti documenti delle nostre presenti sciagure, come
i geologi, dopo una eruzione, salgono armati di picozza sulle lave
raffreddate, questa guerra sembrerà forse agli uomini una immane
follia. Diranno allora gli storici: «Viveva nel cuore dell’Europa un
popolo numeroso, potente, ammirato, invidiato, temuto. Pullulava ormai,
tanto era fecondo; possedeva l’esercito che era giudicato il più forte
di tutti; in pochi anni aveva varata la seconda armata del mondo;
si arricchiva con l’industria ed il commercio così presto e in tal
misura, da destar la gelosia anche dei popoli sino allora considerati
più ricchi; era venuto in tanta reputazione di sapienza che in mezza
Europa ed America le Università non erano ormai più che immense gabbie
di ridicoli pappagalli, buoni solo a fare malamente il verso ai maestri
di quella nazione. Anche gli anziani tra i popoli dell’Europa, un
po’ scoraggiti e stanchi, quasi già si acconciavano a riconoscere in
quel nuovo rivale uno dei modelli del mondo. Nessun altro popolo in
Europa poteva godersi più sicuro la pace. E invece no: più cresceva per
numero, forza e ricchezza; più era ammirato e temuto, e più quel popolo
smaniava, mormorava, si adombrava di ogni cosa: qui di nemici che gli
tendevano insidia; là di offese inflitte al suo onore; altrove di torti
e di ingiustizie che avrebbe subìte dall’invidia altrui. Sinchè un
giorno, alla fine, quando stava per metter il piede sul vertice della
prosperità, della gloria e della potenza, essendo nata una questione
che toccava altri più che lui e che ad ogni modo poteva, pur essendo
grave, esser composta con le ragioni, questo popolo incomprensibile
ha in una settimana mandato cartello di sfida, si può dire, al mondo
intero, poichè ha provocato a guerra — e che guerra! — i tre più
vasti imperi del mondo, e insieme con quelli due piccole ma valorose
nazioni!».

Così forse gli uomini giudicheranno un giorno. Ma a noi, figli
della Grecia e di Roma, l’enigma non pare tanto oscuro. Quel popolo
era invasato dal furore del colossale, che è uno dei tanti delirî
dell’orgoglio umano. Poichè la causa ultima di tanta catastrofe è
stato proprio l’orgoglio di un popolo; e questo orgoglio è proprio un
frutto del secolo in cui viviamo. In questa città dove una numerosa
schiera di spiriti pensosi vigila e scruta gli eventi del mondo, alcuni
savi, atterriti dagli orrori inaspettati di questa terribile guerra,
si sono chiesti se per caso arricchendo, istruendosi e accrescendo
la sua potenza l’uomo non si corrompa e non peggiori. Come negare
tuttavia che i nostri tempi abbiano gittati con larga mano i semi
del bene, nelle anime, sopratutto nella moltitudine, tanto trascurata
dai secoli precedenti? Impegnatisi in una grande lotta con la natura
per strapparle i tesori nascosti e soggiogarne le forze erranti per
il creato, i nostri tempi hanno sradicati dal mondo tutti i vizi
che avrebbero nuociuto in quella lotta, e massime la pigrizia; hanno
seminate e coltivate con cura assidua le virtù che potevano servire: la
precisione, la puntualità, lo zelo, la solidarietà. La tenace concordia
con cui tanti popoli — fenomeno non ancora visto nella storia del
mondo — combattono da sei mesi, prova quanto i legami della solidarietà
nazionale sono forti anche nella moltitudine. Come e perchè, allora,
i tempi sono stati presi ad un tratto da questa follia di distruzione
e di morte? Perchè troppo intenti a convertir tutti gli uomini in
artigiani laboriosi e disciplinati, hanno trascurate altre passioni,
che possono traviare ed inferocire gli animi: l’orgoglio, per esempio,
di cui la passione del colossale è una delle forme più pericolose.
In principio, alle sue prime scaramuccie e battaglie con la natura,
la civiltà nostra aveva fatte modestamente delle grandi cose. Ma poi,
dopo le prime vittorie, quando la ricchezza, la potenza, i mezzi sono
cresciuti a dismisura, i tempi saliti in orgoglio non furono più
contenti di far delle grandi cose, vollero fare cose colossali — e
potevano, di tanti mezzi disponevano ormai! Che cosa sono le città,
le officine, le armate, gli eserciti, gli imperi del mondo antico, a
petto dei moderni? Il commercio e l’industria di una volta, a paragone
del commercio e dell’industria di oggi? Tutti i popoli dell’Europa
furono, prima o poi, tôcchi dal delirio; ma uno, più di tutti gli
altri, perchè meglio predisposto dalla natura e dalla storia. La natura
sembra avergli largita una violenta energia, che lo spinge facilmente
ad eccedere in ogni cosa. Non ha mai sentito l’influsso profondo della
cultura greca e latina, sebbene — o fosse perchè — nell’ultimo secolo
abbia generato filologi ed archeologi in quantità. Più che dalla
precisa delimitazione del pensiero classico è stato in ogni tempo
attirato da quel mistico indefinito che le teste deboli scambiano così
facilmente per l’infinito. Aveva vinte due grandi guerre, e possedeva
un suolo ricco di ferro e di carbone: gran cosa in un’epoca, in cui il
fuoco non è più il modesto servo dell’uomo ma il signore del mondo. E
perciò alla fine ha ambito di giganteggiare sul mondo impicciolito ai
suoi piedi; si è creduto grande, tentando opere e imprese di mole non
ancora vista.

Invece era soltanto un colosso: incontentabile, inquieto, sospettoso,
come tutti i colossi. I popoli e i tempi che vogliono far delle cose
grandi, possono ancora esser felici, quanto si può essere felici
in questo mondo; perchè si propongono di raggiungere un ideale di
perfezione, che per quanto lontano è un segno e limite fisso, al quale
è possibile di avvicinarsi godendo. I popoli e i tempi che vogliono far
delle cose colossali camminano invece nell’illimitato e senza meta,
volendo sempre oltrepassare l’ultima linea raggiunta; e quindi non
possono esser contenti mai. Perciò gli imperi e le civiltà che hanno
nutrite ambizioni colossali, dopo essere stati per qualche tempo il
tormento proprio ed altrui, sono precipitati in catastrofi subitanee e
incomprensibili; perciò noi possiamo domandarci se il Destino non vuole
che noi assistiamo, ancora una volta, a una di queste catastrofi.

E se tali sono veramente, in questo momento, gli oscuri disegni della
storia, come grande e nobile apparisce il nuovo sacrificio di sangue
che il Destino, dopo tanti altri, ha chiesto ancora alla Francia;
quello che il Destino potrebbe chiedere domani agli altri popoli
della famiglia latina! Non dimentichiamolo: solo con le prove, che ne
testimoniano la forza vitale, i popoli tengono vivi i principi morali,
intellettuali ed estetici da essi creati o professati. I nostri padri
avevano costruito il Partenone, il Panteon, Venezia e Versailles;
avevano creato l’Impero, la Chiesa, il diritto, la filosofia e l’arte
decorativa del XVIII secolo; avevano fatta la Rivoluzione.... Ma che
ci giovava, da cinquant’anni a questa parte? Il sentimento greco e
latino della grandezza si spegneva, oppresso dalla smania asiatica
del colossale. Dappertutto la quantità trionfava sulla qualità; e il
progresso, cioè il merito dei popoli, si misurava dalle statistiche
del commercio. Per aver voluto opporsi quanto ancora poteva a questo
capovolgimento del mondo, la Francia passava ormai agli occhi di
tutti o di quasi tutti per una nazione decaduta e invecchiata.
Perchè la sua popolazione e il suo commercio crescevano meno che la
popolazione e il commercio della Germania, essa aveva finito il suo
còmpito; era un inutile ingombro in Europa ed in Africa! Chi crede
che la penna o la parola avrebbero potuto sviare la torbida fiumana
di sofismi e di interessi, che travolgeva ormai tutti i popoli verso
le orrende enormità di una civiltà puramente quantitativa? Un grande
avvenimento, occorreva: uno di quegli avvenimenti, che soli hanno
la forza di persuadere e di convertire la moltitudine; una di quelle
prove decisive, in cui si vede quel che possono davvero i principî che
reggono le diverse nazioni. La prova è, questa volta, così terribile,
che nessun oserebbe dire che essa _doveva_ aver luogo. Ma poichè il
Destino l’ha voluta.... Innalziamo dunque le menti, al disopra delle
tristezze e delle angoscie dell’ora che volge, nel sublime pensiero del
grande avvenimento che si compie intorno a noi, in noi, e per mezzo
di noi. Nelle prime settimane della guerra un brivido di angoscia ha
agghiacciati tutti i figli di Roma. Molti cuori tremarono, in quel
terribile agosto, in cui nessuna forza umana sembrò potesse fermare
il furente colosso che, coperto di ferro e rovesciando ogni ostacolo,
invadeva questa terra, dove una civiltà troppo antica e delicata
pareva agonizzare. E tutti volgevano gli sguardi impazienti verso
il settentrione lontano, sperando veder spuntar di lassù l’atteso
soccorso! Quando, tutto a un tratto, allorchè già i più incominciavano
a disperare, il colosso urta e vacilla contro una specie di invisibile
ostacolo, sorto come per miracolo; si ferma, indietreggia.... Noi
abbiamo forse in quei giorni vissuto uno dei grandi momenti della
storia; poichè fu quello il momento in cui la nostra generazione,
stupefatta, si chiese per la prima volta se proprio la massa ed il
numero fossero il tutto, nel mondo! E da quel momento, qualche cosa
succede nelle menti degli uomini, per ogni terra del mondo. Che cosa?
È troppo presto presumere di indovinarlo. La prova, pur troppo, non
è ancora finita. Ma poichè è cosa sicura che noi termineremo il corso
della vita in un mondo diverso da quello in cui siamo nati e cresciuti,
noi possiamo almeno sperare che la Francia abbia ancora una volta, con
il suo coraggio indomito, spezzata una fatalità storica che pareva
soverchiante. È necessario che tanto e così prezioso sangue — quel
sangue la cui effusione empie da sei mesi di una angoscia incessante
le nostre anime — non sia versato invano per l’umanità tutta quanta.
È necessario che questa guerra fiacchi e rovesci il folle orgoglio
che aveva indurite e acciecate le menti. È necessario che insegni di
nuovo agli uomini ad ammirare le cose che sono grandi davvero, per
la perfezione raggiunta, nella piccolezza delle proporzioni e nella
modestia; che prepari nuove generazioni capaci di far grandi cose con
semplicità e senza orgoglio; che aiuti i tempi a ritrovare l’equilibrio
morale nel sentimento della vera grandezza. Temerità sarebbe affermare
che questa sarà l’ultima guerra del mondo. Ma se ci saranno ancora
delle grandi guerre, è necessario, per l’onore e per la felicità
del genere umano, che non ci sia più un’altra guerra colossale, come
questa che oggi inzuppa di sangue la terra. Onde noi tutti, figli della
Grecia e di Roma, legati alla Francia dal vincolo sacro della lingua
e della cultura, dobbiamo ripiegarci su noi medesimi, interrogare la
nostra coscienza; e rispondere ad un quesito terribile e decisivo....
Noi non abbiamo visti mai senza dolore ed orrore i chiassosi trionfi
del colossale nel mondo. Gli interessi o i trasporti passaggeri dei
tempi frivoli non hanno mai spento in noi l’istinto, che ci sforza a
cercar la grandezza nell’armonia e nella perfezione. Chiaro è infine
che questa terribile guerra richiederà ancora inenarrabili sacrifici
di sangue e una lunga tenacia. Noi dobbiamo dunque chiedere a noi
medesimi: possiamo noi lasciar la Francia sola, sino alla fine, nel
cimento terribile, che deve ringiovanire il genio della nostra razza?




III.

LA LOTTA PER L’EQUILIBRIO


  Questi cinque saggi furono, sotto altro titolo e nello stesso
  ordine, pubblicati il 28 febbraio, il 7, il 14, il 21, il 28
  marzo 1915 nell’edizione domenicale del _New York American_, e di
  parecchi altri giornali dell’America del Nord. Il testo italiano fu
  pubblicato nei giorni medesimi dal _Progresso italo-americano_, che
  è il maggiore giornale italiano di Nuova York.


I.

IL BELGIO, CHIAVE DEL MONDO

L’invasione del Belgio ha offeso il mondo, come una prepotenza e una
perfidia che capovolgeva dalle fondamenta l’ordine morale dei tempi
nostri. Ma poichè il popolo tedesco grida e il Governo lascia intendere
di voler conservare per sempre con la forza quel che ha conquistato
con la perfidia, è opportuno considerare quali effetti politici ed
economici genererebbe in Europa la incorporazione del Belgio alla
Germania. Non solo la Fede e l’Onore andrebbero in esilio per secoli
dal vecchio mondo; ma l’equilibrio delle forze sarebbe talmente
alterato, che la Germania diverrebbe arbitra oggi dell’Europa e forse
domani del mondo. Il Belgio è in questo momento la chiave del mondo:
onde si spiega come la Germania, nel primo tumulto che seguì lo scoppio
della guerra europea, se ne sia prontamente impadronita, gridando che
necessità non ha legge e che i trattati son pezzi di carta.

Sembrerà a molti singolare che una così piccola conquista possa aver
tanto effetto. Il Belgio è uno staterello, che si estende sopra
una superficie alquanto minore di 30.000 chilometri quadrati; e i
dipartimenti della Francia invasi sono anche meno estesi del Belgio.
Come mai tanta poca terra, aggiunta al vasto Impero germanico,
basterebbe ad alterare così profondamente l’equilibrio delle forze
in Europa? Ma gli uomini di Stato non possono misurare i paesi come i
geografi, a braccia. Occorre in primo luogo considerare che il Belgio
è il paese più popoloso dell’Europa. Il censimento contò, nel 1911,
in cifre tonde, sette milioni e mezzo di abitanti, circa 250 per ogni
chilometro quadrato. Chiudendo questi sette milioni e mezzo di uomini,
e quelli che abitano i dipartimenti invasi della Francia nella nuova
cerchia delle sue frontiere ampliate, l’Impero germanico potrebbe
presto contare 80 milioni di abitanti: sarebbe dunque una nazione,
doppia per numero della Francia e dell’Inghilterra, minore in Europa
solo della Russia e di poco minore degli Stati Uniti d’America. Ma
non basta. Il Belgio è così popoloso, perchè è ricco; ed è ricco,
perchè è industrioso; ed è industrioso, perchè possiede molte miniere
di carbone. Nel 1912 furono scavati dalle miniere del Belgio quasi 23
milioni di tonnellate di carbone.

Se si pensa che nella Lorena francese, e precisamente nel territorio
di Briey, oggi occupato dai tedeschi, è posto il più vasto e ricco
giacimento di ferro di tutta l’Europa; che il Lussemburgo pure è
ricchissimo di ferro; che nei territori francesi contigui al Belgio
e anch’essi occupati, la Francia possiede le sue più ricche miniere
di carbone, alcune delle quali sono tra le più ricche del mondo,
il conchiudere è facile. La Germania è oggi il paese dell’Europa
continentale più ricco di carbon fossile, grazie agli immensi bacini
carboniferi della Lorena e della Vestfalia. La Germania ha ricche
miniere di ferro, sebbene non tante che bastino ad alimentare i
suoi alti forni. Se dunque la Germania riuscisse ad impadronirsi del
Belgio e del Lussemburgo, e ad arrotondare un poco i suoi confini a
danno della Francia, si impadronirebbe di quasi tutte le miniere di
carbon fossile e di ferro dell’Europa, eccezione fatta della Russia;
e relegherebbe anche Vulcano, dopo aver tentato di catturare Minerva,
nell’Olimpo germanico, in compagnia di Odino e degli altri Dei che
guidarono i Cimbri e i Teutoni nelle loro invasioni. La siderurgia
non sarebbe più in Europa che un’industria tedesca. Ma noi viviamo
— chi non lo sa, sebbene quanti lo ricordano? — nel secolo del ferro
e del fuoco. Il ferro è ormai, nell’affaccendato disordine di questo
secolo che vuole ma non sa definire il progresso, il metallo principe
della pace e della guerra; e l’arte del fabbro è il tirocinio di tutte
le vaste ambizioni d’impero; perchè di ferro sono fatte quasi tutte
le macchine, in cui e per le quali la nostra potenza si esercita e
si allarga sul mondo. Quel piccolo territorio varrebbe dunque, per
la Germania, se riuscisse a impadronirsene, quanto e più di un vasto
impero in Africa e in Asia.

I tedeschi del resto l’avevano capito da un pezzo. Negli ultimi
quaranta anni, tra gli spensierati ammiratori della Germania, delle sue
vittorie, della sua scienza, della sua musica e della sua filosofia,
che pullularono in Italia, pochi si sono accorti che quel popolo,
devoto un tempo alle Muse, si era messo in capo di diventare il primo
fabbro d’Europa, aspettando di essere il primo del mondo; e tra i
pochi che se ne accorsero nessuno, forse, si è mai chiesto per qual
ragione questo impero di Marte e di Apollo si fosse consacrato con
tanto fervore a Vulcano e ambisse di primeggiare nel ferro. Ambizione
che poteva essere giudicata ridicola cinquanta anni fa, quando si pensi
che nel 1860 l’ordine delle nazioni, nell’industria del ferro, era il
seguente:

  Gran Bretagna            3.500.000  tonnellate
  Francia                  1.000.000     »
  Stati Uniti d’America      800.000     »
  Germania                   700.000     »
  Belgio                     300.000     »
  Austria-Ungheria           250.000     »
  Russia                     200.000     »

Senonchè nel 1870 l’ordine è già un po’ alterato. La Germania ha
fatto un piccolo passo avanti e ha sorpassata la Francia, sebbene la
metallurgia inglese sia ancora quattro volte più potente della tedesca.

  Gran Bretagna            6.050.000  tonnellate
  Stati Uniti d’America    1.700.000      »
  Germania                 1.400.000      »
  Francia                  1.200.000      »
  Belgio                     630.000      »
  Austria-Ungheria           350.000      »
  Russia                     300.000      »

Dieci anni dopo, nel 1880, l’ordine non è mutato. La Germania è ancora
al terzo posto, l’Inghilterra al primo, gli Stati Uniti al secondo.
Ma la Germania ha raddoppiato il passo, mentre l’Inghilterra non l’ha
allungato che di un terzo.

  Gran Bretagna       7.800.000  tonnellate
  Stati Uniti         4.000.000      »
  Germania            2.800.000      »
  Francia             1.700.000      »
  Belgio                700.000      »
  Austria-Ungheria      470.000      »
  Russia                450.000      »

Tuttavia la distanza è ancora assai grande. Ma la Germania non si
scoraggia. Nel 1890 gli Stati Uniti hanno conquistato il primato,
fucinando più di 9 milioni di tonnellate di ferro; la Gran Bretagna
si mantiene sugli 8 milioni; la Germania sale a 4 milioni e mezzo;
la Francia a 2 milioni; il Belgio a 800.000. La Germania accelera
il passo, e l’Inghilterra lo rallenta. Dieci anni dopo, nel 1900,
al chiudersi del gran secolo che aveva visto il trionfo di Vulcano
sugli antichi Dei dell’Olimpo, gli Stati Uniti fucinarono nientemeno
che 14.000.000 di tonnellate; e la Germania 8.500.000. La Germania ha
dunque quasi raggiunta la Gran Bretagna, che in quell’anno fabbricò
9.000.000 di tonnellate di ferro. Nell’anno stesso la Russia può
vantare che 3 milioni di tonnellate sono uscite dai suoi forni; 300.000
più che dai forni della Francia, la quale ha un po’ sonnecchiato in
quel decennio. Il Belgio infine ha fabbricato un milione di tonnellate.

Ma il primo decennio del secolo ventesimo vede finalmente l’ambizione
della Germania appagata. Nel 1910 la Germania ha sorpassata
l’Inghilterra; è la seconda potenza siderurgica del mondo, la prima
d’Europa.

  Stati Uniti        27.700.000  tonnellate
  Germania           14.800.000     »
  Gran Bretagna      10.200.000     »
  Francia             4.000.000     »
  Russia              3.000.000     »
  Austria-Ungheria    2.100.000     »
  Belgio              1.800.000     »

Nè dopo questo immane sforzo, Vulcano ha cessato di stancare la terra
tedesca con i colpi del suo martello. La Germania ha fucinato nel
1913 quasi 17 milioni di tonnellate di ferro; il Belgio 2.760.000; e
la Francia, che da qualche anno cerca di ricuperare il tempo perduto,
più di 5 milioni. Ma se si pensa che le miniere di carbone e di ferro
più ricche e le ferriere più vaste della Francia sono poste in quelle
regioni che ora gli eserciti germanici occupano, è facile capire che,
incorporata alla siderurgia tedesca la siderurgia belga e la parte più
potente della siderurgia francese, resterebbero nel mondo tre popoli
fabbricatori di ferro: gli americani di là dell’Atlantico; i tedeschi
nel cuore d’Europa continentale; gli inglesi nella piccola isola che un
breve braccio di mare separa dalla costa europea. L’industria americana
primeggerebbe ancora; ma la tedesca la seguirebbe alle calcagna;
e in mezzo a queste industrie così potenti la metallurgia inglese
apparirebbe come una piccola casa serrata e quasi schiacciata tra due
giganteschi edifici.

Le conseguenze, chi non le vede già fin d’ora? Chi non vede che la
potenza tedesca traboccherebbe irrefrenata sull’Europa e sul mondo?
Questo impero consacrato a Marte e a Vulcano, popolato da ottanta
milioni di uomini, e posto nel cuore dell’Europa, dominerebbe il
vecchio mondo con l’oro e con il ferro. Dipenderebbero da quello in
tutta l’Europa continentale tutte le industrie che adoperano il ferro
come materia greggia precipua: e cioè tutte le industrie meccaniche,
dalle quali dipendono più o meno tutte le altre industrie, fuorchè
certe industrie chimiche. La marina mercantile francese e l’italiana
scomparirebbero quasi dai mari, e giganteggerebbe in loro vece,
di fronte all’inglese, sola la marina tedesca. Sola tra le nazioni
dell’Europa continentale la Germania potrebbe ancora costruire ferrovie
nei paesi nuovi. Infine l’Impero tedesco minaccerebbe, dal mezzo, come
un gran campo trincerato, l’Europa tutta, presente e pronto all’offesa
verso ogni angolo dell’orizzonte. Accresciuta di uomini e di ricchezza,
signora delle più ricche miniere di carbone e di ferro, arbitra della
siderurgia e delle industrie meccaniche nel continente, quanti corpi
d’esercito potrebbe armare la Germania? E non avrebbe allora tutti i
mezzi — gli uomini, i denari, i porti — per apparecchiarsi a strappare
all’Inghilterra il tridente dei mari? L’Inghilterra sarà ricca e
forte, quanto si vuole: ma conta poco più di 40 milioni di abitanti, e
dovrebbe affrontare un Impero di 80 milioni!

Al punto a cui siamo giunti della storia, in questo secolo del ferro
e del fuoco, il Belgio è oggi la chiave dell’Europa e quindi anche
del mondo. Se il Belgio cadesse in potere della Germania, la Germania
sarebbe domani arbitra dell’Europa e dopodomani, forse, del mondo.
Non poteva quindi esser dubbio che l’invasione del Belgio sarebbe il
principio della più terribile guerra che il mondo avesse vista; perchè
in quella guerra o la Francia e l’Inghilterra insieme o la Germania
dovranno procombere in una immane rovina. La Germania non potrà tenere
il Belgio, che se giungerà con le sue armi non a Parigi ma addirittura
a Lione, e a Londra: la Francia e l’Inghilterra non potranno per il
Belgio venire a patti o a trattati e dovranno scacciare la Germania
dal piccolo Regno conquistato a tradimento, a qualunque costo, anche
se fiumi di sangue dovessero scorrere. La battaglia decisiva della
guerra europea si combatterà nel Belgio ed in Francia; anzi già si
combatte, e fin dai primi giorni di settembre; poichè gli innumerevoli
combattimenti parziali presso le trincee che hanno seguìto la grande
battaglia campale della Marna non sono che una sola battaglia, la
più lunga, la più ostinata, la più micidiale che la storia ricordi;
la nuova Waterloo, che dopo un secolo si ritorna a combattere, negli
stessi luoghi, ma sopra un campo di battaglia più vasto, e che deve
decidere se nel cuore dell’Europa si formerà o no un immenso Impero
germanico, soverchiante tutti gli altri Stati del continente e così
forte ormai da poter ambire una specie di egemonia mondiale.

Sembra dunque che non senza ragione anche quelle nazioni, le quali
sino allo scoppiar della guerra europea erano state amiche della
Germania e inclini ad ammirarla, come l’Italia, si siano poi a poco a
poco discostate da lei. Ma la annessione del piccolo Belgio soltanto
e l’arrotondamento della frontiera tedesca a spese della Francia non
sarebbero i soli effetti di una vittoria tedesca. Se la Germania,
alleata dell’Austria e della Turchia, vincesse a segno da poter imporre
agli avversari la volontà sua, non sarebbe paga del Belgio e di qualche
brano di territorio francese; vorrebbe allargarsi anche a spese della
Russia; e con essa si allargherebbe anche l’Austria, a danno sia
della Russia sia della Serbia. Ma un così grande trionfo accrescerebbe
l’autorità della Germania nel mondo. La Germania sarebbe ammirata come
il modello in ogni cosa, anche più che non fosse prima della guerra
europea. Chi oserebbe ancora pensare che tutto non sia perfetto, in
una nazione che, sia pure alleata con l’Austria e la Turchia, avesse
vinta la Francia, l’Inghilterra, la Russia, il Belgio, la Serbia e
il Giappone? Vedremo perciò nel saggio seguente quali altri effetti
sarebbero da aspettarsi da una vittoria della Germania.


II.

L’EQUILIBRIO MORALE DELL’EUROPA

Il rapporto segreto dello Stato Maggiore all’Imperatore di Germania,
del 19 marzo 1913, che il Governo francese potè procurarsi e di cui ha
pubblicato la traduzione nel _Libro Giallo_, finisce con queste parole:

«Tels sont les devoirs qui incombent à notre armée, et qui exigent
un effectif élevé. Si l’ennemi nous attaque, ou si nous voulons le
dompter, nous ferons comme nos frères d’il y a cents ans; l’aigle
provoquée prendra son vol, saisira l’ennemi dans ses serres acérées, et
le rendra inoffensif. Nous nous souviendrons alors que les provinces de
l’ancien Empire allemand: Comté de Bourgogne et une belle part de la
Lorraine sont encore aux mains des Francs; que des milliers de frères
allemands des provinces baltiques gémissent sous le joug slave. C’est
une question nationale de rendre à l’Allemagne ce qu’elle a autrefois
possédé».

Se dunque la Germania vincesse la Russia, annetterebbe all’Impero
germanico le provincie baltiche che oggi appartengono all’Impero
moscovita. Ma se la Germania vincesse, vincerebbe anche
l’Austria-Ungheria, che farebbe sua certamente la Serbia. E chi
potrebbe poi dubitare che l’Austria-Ungheria e la Germania serrerebbero
ancor più, dopo la vittoria, i nodi della alleanza, per godersi in pace
le sanguinose conquiste? Ma chi guardi una carta geografica, scorge
alla prima occhiata che l’Europa sarebbe allora come tagliata per mezzo
da due immensi imperi germanici, i quali, contigui e alleati, farebbero
come un gran ponte tedesco dal Baltico all’Adriatico, aspettando di
prolungarsi fino all’Egeo. Posti nel cuore dell’Europa e quindi in una
posizione centrale, contigui, popolati, tutti e due insieme, forse da
140 milioni di uomini, accresciuti di prestigio, formidabili per armi
sulla terra e sul mare, padroni del carbone e del ferro, dominanti le
vie del nord e del sud, di oriente e di ponente, i due Imperi alleati
potrebbero non solo imporsi agli slavi e ai latini, che popolano il
resto del vecchio mondo, ma anche alzare il capo e parlare minacciosi
agli altri continenti.

Posti nel cuore dell’Europa, in sito centrale e contigui: ho detto.
Giova considerare questo fatto con particolare attenzione, poichè è
fatto di grande rilievo. Due Stati alleati e contigui che sono assaliti
a cerchio, come avviene in questa guerra, si trovano in una posizione
o buonissima o pessima. Buonissima, se sono più forti, perchè da
quella posizione centrale possono sconfiggere ad uno ad uno i nemici e
sfruttare a fondo la vittoria sugli avversari distaccati. Pessima, se
sono più deboli, perchè possono al momento decisivo essere assaliti ad
un tempo da più parti, così da non poter parare a destra e a sinistra,
sul capo e a tergo, i colpi che fioccano. Perciò se gli Imperi
germanici vincono, devono per ragione geografica stravincere.

Quali effetti morali, politici, intellettuali ne nascerebbero? Molti,
e tutti gravi. Già la guerra del 1870 bastò a ridar voga al principio
autoritario e monarchico che dalla Rivoluzione francese in poi
declinava. Pochi sono gli uomini di Stato in Europa che dopo il 1870
non abbiano sognato, nel segreto pensiero, di copiare Bismarck. Quante
caricature del primo cancelliere tedesco hanno afflitto l’Europa,
in quarant’anni! Il supporre che i popoli d’Europa potessero, se
non amarsi, rispettarsi e vivere in pace, fu considerata semplicità
indegna di un grave uomo di Stato. Credere la guerra eterna e fatale in
Europa fu il primo dovere di ogni uomo che ambisse di governare i suoi
simili. L’Europa dovette indossare tante armi, da non poter quasi più
reggere al peso; e non ci fu modo, per quanto tutti lo desiderassero,
di assicurare al vecchio mondo una pace meno dispendiosa e meno
precaria. Ma non è possibile dubitare che il male, già insopportabile,
peggiorerebbe ancora, se la Germania rivincesse. Guglielmo II
diventerebbe il modello dei sovrani; e la conquista del Belgio
passerebbe per una prodezza. Sarebbe forza o rassegnarsi a vivere tutti
in una immensa caserma; o prepararsi a nuove e sanguinosissime guerre;
o sperare la salvezza da una rivoluzione. A mali estremi, estremi
rimedi — dice il proverbio.

Ma ci sarebbe forse da temere anche un pericolo maggiore. Dopo una
nuova vittoria, la Germania e tutte le cose tedesche godrebbero di
maggior prestigio nel mondo; e cioè di un prestigio troppo grande. I
tedeschi sono certamente dotati di diverse virtù; hanno fatto molte
cose degne di ammirazione; e possono rivendicare un posto cospicuo
nella gerarchia delle nazioni. Ma neppur essi sono perfetti, e perciò
sono un cattivo modello, se gli uomini se ne innamorano troppo e se
vogliono troppo e troppo servilmente imitarlo. Il che, del resto, non
accade solo dei tedeschi; ma dei tedeschi forse più presto e in misura
maggiore che degli altri popoli, perchè essi peccano precipuamente
di esagerazione. Erasmo di Rotterdam chiamava Lutero «il dottore
iperbolico». Noi potremmo chiamare la Germania «la nazione iperbolica».
Trascinata da una specie di sregolato vigore, troppo spesso essa
eccede al di là di quella che agli altri popoli pare la giusta misura;
scambia quel che è colossale e gigantesco per grande; tenta impossibili
imprese; si diletta di andar contro la modesta e consueta ragione delle
cose; e massime da un secolo a questa parte si vanta di esagerare tutti
i principî di civiltà che i nostri tempi vanno via via creando, anche a
rischio di mutarli, come più di una volta è successo, in tormenti e in
pericoli.

Quanti esempi si potrebbero citare! Quale è, per esempio, il principio
che muove l’industria moderna; quella nuova industria che alle mani
dell’uomo, abilissime ma lente, ha sostituite le macchine, mosse
dal vapore e dall’elettricità, rapidissime ma rozze? Accrescere la
quantità delle cose fabbricate, a scapito della qualità. I nostri tempi
non sanno più fabbricare nè le meravigliose stoffe, nè i magnifici e
solidissimi mobili, nè i ninnoli e i gingilli incantevoli del secolo
XVII e XVIII; ma viceversa di tutte le cose fabbricano quantità
ben maggiori in tempo più breve, empiendo tutte le case. Senonchè
l’Inghilterra e la Francia avevano applicato questo principio con una
certa moderazione e misura; deteriorata, sì, la qualità delle cose, per
accrescerne la quantità e rinvilirne il prezzo, ma non oltre un certo
limite.... I tedeschi invece hanno oltrepassato senza riguardi questo
limite; iniziando nell’industria moderna l’êra di quella che i francesi
chiamano la _camelote_; spacciando in ogni parte del mondo imitazioni
frettolose e scadenti ma di poco prezzo; cercando di vincere i rivali
con l’apparenza e il buon mercato; sacrificando cioè la qualità alla
quantità, molto più che i francesi e gli inglesi non avessero osato.
Del che francesi e inglesi hanno mosso ai tedeschi vivo rimprovero:
in parte a torto, in parte a ragione. A torto, perchè i tedeschi
hanno fatto alle industrie inglesi e francesi quel che gli inglesi
e i francesi, a loro volta avevano fatto alle antiche industrie a
mano: hanno volgarizzati ancora di più, deteriorandoli maggiormente,
quegli oggetti che gli inglesi e i francesi avevano incominciato a
deteriorare, per accrescerne l’uso. A ragione, perchè nella smania di
arricchire in fretta, i tedeschi sembrano non scorgere più il limite,
oltre il quale continuando ad accrescere la quantità a detrimento della
qualità, la vita deve perdere colore e sapore: poichè la qualità — la
bellezza o la bontà delle cose — è il sale e il condimento della vita,
ciò che screzia l’aspetto dell’universo, risveglia ed appaga sempre
nuovi desiderî, fuga dal vivere il tedio e la sazietà. Che cosa è
la civiltà, se non un miglioramento del mondo? Potremmo noi definire
un’abbondanza crescente di cose ogni dì più scadenti, altrimenti che
una barbarie grassa e ricca?

Gli ordini militari oggi vigenti in Europa sono un altro esempio
luminoso della esagerazione germanica. Nel secolo XVIII gli eserciti
di Europa erano composti per la maggior parte di soldati di mestiere.
Le armi erano allora una professione. Fu la Rivoluzione francese che
rinnovò dall’antichità il principio, oggi riconosciuto e accolto
da tutta l’Europa fuorchè dall’Inghilterra: che la milizia sia un
dovere civico di tutti i cittadini. Di qui la coscrizione. Ma tutte
le altre nazioni di Europa — la Francia prima di tutte — non hanno,
sino al 1870, applicato questo principio che con molta moderazione,
restringendosi a raccogliere degli eserciti non troppo numerosi,
imponendo l’obbligo del servizio solo ad una parte della popolazione,
e tenendo questa sotto le armi un tempo abbastanza lungo. La Germania
invece si studiò, sino dai tempi delle guerre napoleoniche, di
applicare il principio opposto: di ridurre il tempo del servizio,
chiamando sotto le armi il maggior numero di cittadini che potesse. Nel
1870 già i soldati tedeschi servivano tre anni, e cinque i francesi.
Ma la Germania potè mettere in campo circa un milione di uomini, nel
tempo in cui la Francia ne chiamava alla guerra circa 750.000; e avendo
vinto, sembrò agli occhi del mondo avere avuto ragione; cosicchè da
allora in poi, grazie all’autorità conferita a lei dalla vittoria, ha
potuto applicare sino alle ultime conseguenze quel principio non suo
ed obbligare le altre nazioni — la Francia compresa — a seguirla. Ha
ridotto il servizio militare a due anni; ha accresciuto senza tregua
l’esercito di prima linea; ha addestrate e inquadrate le riserve dalle
più giovani alle più vecchie; ha armata davvero la nazione in modo
da poter condurre alla guerra non la parte più giovane del popolo,
come nel 1870, ma tutti gli uomini già validi e ancora validi, dai
giovinetti di 17 anni agli uomini di 48.

E così, dando i tedeschi l’esempio e gli altri popoli imitandolo,
gli eserciti sono cresciuti negli ultimi trent’anni siffattamente di
numero e di mole, che quasi non si possono più muovere: e facendo della
propria grandezza ingombro a se medesimi, combattono nel secolo del
vapore e della elettricità con una lentezza di mosse che ricorda le
guerre di posizioni dei secoli passati. Questi eserciti non possono
muoversi rapidi e finir presto la guerra, perchè sono dei colossi.
Esagerati oltre una certa misura, anche i principî militari della
Rivoluzione francese si steriliscono; anzi si ritorcono in danno
dei tempi, i quali facendo in ogni altra cosa gran tesoro del tempo,
avrebbero bisogno d’eserciti capaci sopra tutto di condurre la guerra
rapidamente a termine. Solo a questa condizione le immense somme
di denaro spese negli armamenti sarebbero state bene spese. Ordini
militari che, sia pure per risolvere le più gravi tra le questioni
della politica mondiale, obblighino l’Europa a rimanere in armi per un
anno, e forse per due o tre, facendo un tal soqquadro di tutte le cose,
vanno a ritroso e fanno violenza alle necessità più vitali dei tempi.

Ho citato questi due soli esempi per non dilungarmi troppo. Ma questi
due soli bastano forse ad avvalorare una conclusione. Lo spirito
tedesco è stato nell’ultimo secolo molto attivo, invadente, ambizioso:
è riuscito ad acquistare, con sforzi perseveranti, molta autorità
in ogni parte della terra; e come è accaduto a tutti i popoli nel
tempo della loro potenza maggiore, ha fatto di questa autorità un
uso, parte buono e parte cattivo; ma siamo ora giunti a un punto
in cui sembra essere interesse di tutti — e della stessa Germania —
che quell’autorità non cresca più, almeno per qualche tempo. Importa
assai a tutti i popoli dell’Europa e dell’America, che la Germania,
esaltata da nuove vittorie, non rinfocoli ancora nel mondo la smania
delle cose colossali, l’ammirazione della forza, la frenesia della
quantità, l’orgoglio della ricchezza, la vertigine della velocità, la
superstizione del nuovo. Il mondo moderno ha bisogno non soltanto di
ricchezze, di godimenti, di ferro, di macchine, di potenza, di scienza;
ma anche di equilibrio, di misura, di un senso più profondo, più sicuro
e più lucido del bene e del male. Chè il bene e il male da un pezzo
vanno stranamente confondendosi nella mente degli uomini. Noi credevamo
di esser tutti cristiani e civili; e in pochi mesi di guerra abbiamo
visto non soltanto orrori, che credevamo cancellati per sempre dalla
storia dell’Europa, ma ne abbiamo intese tali strane giustificazioni
che ci è forza chiederci spaventati se gli uomini sieno oggi più feroci
o incoscienti. Come si spiegherebbe questa sorpresa se, troppo intento
ad accrescere le ricchezze e ad allargare il suo dominio sulla natura,
l’uomo non avesse trascurato se medesimo e cessato di vigilare su
quegli istinti feroci e perversi che, insiti nella natura umana, si
addormentano talora, ma non si spengono mai?

Sopratutto è necessario decada e si obliteri nelle menti quel culto
della forza, cui la Germania aveva data, con la guerra del 1870,
tanta voga; poichè gli sfrenati armamenti dell’ultimo quarantennio e
la conflagrazione europea non sono stati che due riti di questo culto
sanguinario. Se dopo questa guerra i popoli d’Europa non torneranno ad
innalzare di nuovo gli altari della Pace e della Giustizia, intorno ai
quali si era per qualche tempo raccolta, seria e grave, condotta dai
suoi poeti e dai suoi migliori statisti, la generazione del 1848; se
non riconosceranno tutti — anche i più forti — che gli altri — anche
i più deboli — hanno diritto di vivere e di progredire indipendenti,
secondo le tradizioni e il genio della loro razza, l’Europa non potrà
mai godere di una pace lunga e sicura, e quindi rimbarbarirà. Non si
può assicurare la pace al mondo solamente con un equilibrio di forze
avverse; perchè l’equilibrio delle forze è una ipotesi che ogni tanto
occorre verificare con la guerra, come ora si sta facendo: si deve
assicurarla riconoscendo lealmente, sotto certe condizioni precise,
il diritto dei popoli — grandi e piccoli — alla indipendenza e alla
libertà. Ma come potrebbe la religione della forza che nega questo
diritto decadere in Europa, se la Germania fosse di nuovo vittoriosa —
e di mezza Europa — questa volta?

Ho detto essere necessario che l’autorità della Germania non cresca
ancora nel mondo, anche nell’interesse della stessa Germania.
L’affermazione non è paradossale e strana che in apparenza. Quale
infatti è stato il difetto che negli ultimi quarant’anni ha guastato
il carattere tedesco, che pure è ricco di molte virtù? Il difetto che
ha spinta la Germania a scatenare sull’Europa, desiderosa di pace,
questa guerra terribile; e che ancora le impedisce di capire la gravità
del soqquadro, in cui ha travolto il mondo? L’orgoglio. Le vittorie
del 1866 e del 1870, il rapido incremento della popolazione e della
ricchezza, lo sviluppo prodigioso davvero di alcune industrie, e
massime della metallurgia, l’ammirazione che tutti gli altri popoli
professavano per la sua scienza, per i suoi ordini sociali, per le
sue industrie, per il suo esercito e per la sua marina, hanno messa
a dura prova la sua saggezza. A tante fortune non ha resistito. Ha
creduto di essere il maestro di tutti i popoli d’Europa; il più colto,
il più morale, il più attivo, il più valoroso, il più laborioso e il
più forte; e persuasosi di essere il primo, ha veduto in ogni parte
persecutori e nemici. Gli altri popoli non gli rendevano la dovuta
giustizia per invidia, per ignoranza, per gelosia; doveva dunque
vigilare da ogni parte, difendere il proprio primato, che popoli da
meno di lui insidiavano. E un giorno ha dichiarata guerra all’Europa.

La Germania ha dunque anch’essa bisogno di raccogliersi e di
convincersi che nel mondo ci sono popoli che, meno valenti di lei in
certe cose, le vanno invece innanzi in altre; e popoli che, pur essendo
da meno di lei in tutto o in quasi tutto, hanno anche essi diritto
di vivere, di lavorare, di farsi migliori. Che cosa succederebbe
invece, se questo orgoglio, già troppo grande, fosse esaltato da nuove
vittorie? No: i tempi e la civiltà in cui viviamo sono tali, che non
potrebbero tollerare un grande Impero universale, soverchiante tutti
gli altri Stati di un continente. I tempi antichi poterono obbedire,
ammirare e venerare l’Impero universale di Roma, perchè l’orgoglio,
l’ambizione, la cupidigia e tutte le passioni umane che più facilmente
si esaltano, erano allora limitate dalle tradizioni, dalla religione,
dalla cultura artistica e filosofica, dalla stessa povertà e ignoranza
in cui gli uomini vivevano. Un imperatore romano era una creatura
modesta, a paragone del più umile di noi, perchè da ogni parte le cose
e gli uomini lo ammonivano senza tregua a non presumere troppo di sè,
del proprio ingegno, della propria fortuna, della propria potenza.

Oggi non più. Oggi il mondo è ricco, sapiente e potente. Osa criticare
le tradizioni, fare e disfare gli Stati, chiedere conto a Dio dei suoi
comandi, alla Natura delle sue leggi. La letteratura, la filosofia e
il costume, quel che si chiama lo spirito dei tempi, esaltano, invece
di limitare, l’audacia, l’orgoglio, l’ambizione, la cupidigia degli
uomini. Perciò è necessario che sussista nel mondo una specie di
equilibrio morale; che ogni popolo senta la sua potenza limitata dalla
potenza di altri popoli egualmente forti, intelligenti e sapienti.
Se un popolo diventasse così potente da soverchiare tutti gli altri,
l’equilibrio morale del mondo sarebbe rotto per sempre; e quel popolo,
in tempi già così proclivi in ogni cosa all’eccesso, diventerebbe il
Nabuccodonosor delle nazioni.

La nostra generazione, pur non essendoci ancora tra noi il
Nabuccodonosor dei popoli, ha già fatta la guerra universale. Parrebbe
che basti.


III.

L’EQUILIBRIO POLITICO DELL’EUROPA

Disparatissime voci corrono intorno alla pace che l’Inghilterra, la
Francia e la Russia, vincendo, imporrebbero alla Germania. Che la
Francia reclamerà la Alsazia e la Lorena, è sicuro; poichè il Governo
francese l’ha già dichiarato ripetute volte. Molti dubitano invece che
la Russia manterrà la promessa di scoperchiare il sepolcro, in cui la
Polonia giace sepolta e viva da più di un secolo. Ma dell’Inghilterra
non si sa nulla di preciso; e perciò più si discorre, si discute, si
farnetica. Chi dice che intenda costituire un regno di Ungheria e un
regno di Boemia indipendenti; chi pretende che voglia unire in un solo
Stato, separandole dall’Impero, le provincie tedesche dell’Austria e
gli Stati meridionali della Confederazione germanica; chi afferma che
non toccherà l’Impero tedesco, ma imporrà invece una specie di disarmo
e certi patti — trattati di commercio e di navigazione, convenzioni sui
brevetti e via dicendo — che impedirebbero alla Germania di produrre
e vendere troppo, come fa da trent’anni, esagerando a quel modo il
principio moderno di accrescere la quantità a scapito della qualità.

Che vale discutere queste dicerie, che non hanno alcun solido
fondamento? La pace è purtroppo ancora molto lontana; e non fu mai
cosa savia vendere la pelle prima di aver ammazzato l’orso. D’altra
parte ci sono più qualità di vittorie; poichè si può vincere in molti
modi: pienamente, a mezzo, appena appena. Io penso che la Francia, la
Russia e l’Inghilterra saranno alla fine vittoriose; ma nessuno, credo,
potrebbe predire con sicurezza in quale misura saranno vittoriose e
perciò quali condizioni saranno in grado di imporre. Sarebbe quindi
proprio un vanissimo perditempo ragionare intorno alla pace futura
e ai suoi effetti. Meglio sarà cercar di argomentare, in modo più
generale, quali effetti seguiranno una vittoria della coalizione,
astrazione fatta dalla sua grandezza e importanza: gli effetti che
si può presumere debbano in ogni caso seguire la vittoria, sia questa
grandissima o grande o modesta....

Il primo effetto e il più sicuro sarà un profondo rivolgimento
psicologico, politico e morale della Germania. Soltanto una sconfitta
potrà persuadere il popolo tedesco che neppure la sua spada è
incantata, invulnerabile e invincibile. Non ci fu mai — tutti lo
sanno — e non ci sarà mai, un popolo invincibile; la guerra fu e sarà
sempre un’alterna e misteriosa vicenda di sorti. Ma dopo le guerre del
1866 e del 1870 i tedeschi erano invece venuti nell’opinione che la
Germania fosse invincibile; e in questa opinione erano tutti d’accordo.
Socialisti e conservatori, operai e generali, professori e banchieri,
prussiani e bavaresi ripetevano, sicuri come enunciassero una verità
matematica, che non c’era esercito al mondo il quale potesse misurarsi
con l’esercito tedesco. Quale argomento o ragionamento avrebbe potuto
vincere questa illusione, questo orgoglio, questa beata sicurezza
di sè, in milioni e milioni di menti, rozze e istruite, ma tutte
egualmente accese ed illuse? Una guerra ci voleva, che argomentasse,
non con i sillogismi, ma con i disastri e le sciagure: sola logica che
la moltitudine intende.

Ma il giorno in cui il popolo tedesco si ricrederà sulla virtù
della sua spada, una immensa rivoluzione avverrà in Germania; perchè
l’opinione che l’esercito tedesco fosse invincibile era una delle
colonne su cui posava tutta la macchinosa struttura del nuovo Impero
germanico. Intanto il prestigio di cui godono la dinastia degli
Hohenzollern, le minori dinastie tedesche e l’aristocrazia prussiana
declinerà rapidamente. Si suole ripetere spesso che in Germania vige
un governo feudale, adoperando una parola che ha un senso troppo
limitato e preciso, perchè non generi confusione. Meglio sarebbe dire
che in Germania l’_ancien régime_ — l’ordine di cose anteriore alla
Rivoluzione francese — è stato meno alterato dagli eventi del XIX
secolo, che in Inghilterra e che in Francia. L’Impero tedesco è posto
sotto l’egemonia della Prussia, la quale a sua volta è governata da una
aristocrazia che, per forza di tradizioni e di privilegi riconosciuti
dalla legge, prevale ancora ed ha il passo su tutti gli altri ordini
sociali nel Parlamento, nell’amministrazione civile, nell’esercito,
alla Corte, vantandosi di essere in ogni parte della società il
sostegno del trono. La borghesia colta che in Francia e in Inghilterra
si è fatta largo nello Stato e predomina — gli avvocati, i banchieri, i
professori, i medici, i giornalisti, i commercianti, gli industriali —
è in Germania molto meno influente e molto più umile. Ma il prestigio
di questa nobiltà di funzionari e di guerrieri resisterebbe ad una
sciagura, di cui essa fosse responsabile assai più che gli altri ordini
sociali?

È lecito dubitarne. Si ripete spesso e volentieri che i tedeschi sono
un popolo sottomesso, obbediente, docile all’autorità per natura.
Sarà: ma non al punto da dover essere, per forza innata e sempre, i
devotissimi e fedelissimi servitori di una aristocrazia semidivina.
Anche in Germania le idee e le ambizioni democratiche fermentano; anche
in Germania piacerebbe alle classi medie e alle classi colte di potere
aspirare alle grandi cariche dello Stato e comandare, come in Francia.
Tanto è vero che da un pezzo la Prussia vuole che sia riformato
il sistema elettorale, il quale è ordinato in modo da fare della
maggioranza un privilegio eterno e intangibile della nobiltà. Ma sinora
domandò invano la riforma; perchè l’aristocrazia prussiana, appoggiata
dalla monarchia, è riuscita a frustrare tutti i conati e le agitazioni
del partito socialista e dei partiti borghesi. Ma se la Germania sarà
vinta, la monarchia si affretterà a concedere al popolo, a compenso
della sconfitta, la tanto contrastata riforma; e una parte almeno
della nobiltà, sentendosi meno appoggiata dalla monarchia e indebolita
dalla guerra, si rassegnerà al destino. Come l’Austria, vinta nel 1866,
abolì l’assolutismo e introdusse le istituzioni parlamentari; come la
Francia, vinta nel 1870, fondò la repubblica e concesse il suffragio
universale; come la Russia, vinta dal Giappone nel 1905, convocò la
Duma, così la Prussia, se la Germania sarà vinta nella grande guerra
europea, sarà forzata a riformare la costituzione prussiana. E allora
che rivolgimento, nella Prussia prima e nella Germania poi! Nel
Parlamento prussiano compariranno socialisti e partiti di sinistra,
tutti animosi, pugnaci, risoluti — perchè sentiranno di aver a fronte
un Governo e un regime indeboliti dalla sconfitta, esitanti e discordi.
Anche in Prussia il regime parlamentare prenderà il posto del regime
costituzionale; sull’albero del diritto divino molti poteri della
Corona seccheranno, come rami morti; le Camere impareranno a fare e a
rovesciare i Ministeri; liberali e socialisti diventeranno ministri.
E dalla Prussia il movimento dilagherà nell’Impero e nel Governo
imperiale; nel quale i poteri del Reichstag cresceranno a scapito dei
poteri imperiali.

Una sconfitta infine offuscherà il prestigio degli Hohenzollern. Molti
chiedono oggi se la Germania, sconfitta, non farà una rivoluzione,
rovesciando la dinastia prussiana, come la Francia rovesciò dopo Sédan
i Napoleonidi. Di questa paura non sono esenti neppure alti funzionari
tedeschi. So di un gran personaggio tedesco che, quando seppe che
l’Inghilterra aveva dichiarata la guerra alla Germania, esclamò ad
uno straniero con cui parlava in francese: «_Les Hohenzollern sont par
terre!_». Ma può anche argomentarsi che i tempi non siano maturi per
tanta rovina. Gli Hohenzollern sono oggi molto più tenacemente radicati
in Prussia, che i Napoleonidi non fossero radicati nel 1870 in Francia.
Nè la Germania è terra così vulcanica come la Francia. Tuttavia, se
pare prematuro predire, tra gli effetti della sconfitta, la caduta
degli Hohenzollern, sarebbe errore il pensare che la sconfitta non
li toccherà. La guerra europea potrebbe essere per la Casa degli
Hohenzollern quel che per la monarchia francese fu la guerra dei sette
anni: il principio della irrevocabile decadenza. Guglielmo II potrà
ancora regnare dopo una sconfitta, e trasmettere al figlio la corona:
ma la sua corona non sarà più venerata dopo, come prima della guerra;
non rifulgerà più agli occhi del popolo per il sacro prestigio delle
grandi vittorie e dell’Impero ricostituito. Crescerà invece il numero
dei tedeschi, i quali chiederanno per qual ragione una famiglia debba
possedere per diritto ereditario il potere supremo; e se non sarebbe
meglio affidar questo potere ad una persona liberamente scelta, che
sembri possedere le qualità necessarie, come si fa nelle Repubbliche.

Tale è il rivolgimento di idee e di sentimenti, che par si possa
aspettare in Germania da una sconfitta. Ma avrebbe questo mutamento
della Germania a sua volta effetto sull’Europa e sul mondo? Immenso
effetto — si può presumere. Solo se la Germania muterà a questo modo,
la coalizione vittoriosa potrà assicurare all’Europa quel gran bene da
tutti sospirato: la pace lunga, sicura, definitiva.

Molti credono — massime in America — che l’Europa non possa vivere in
pace, perchè non ha ancora sradicato dal suo suolo un certo numero
di vecchie idee e di vecchi pregiudizi. Ma anche gli Europei, i più
istruiti come i più ignoranti, si sono da un pezzo convinti che le
dolcezze della pace valgono meglio che gli orrori della guerra: tanto è
vero che la Francia e l’Inghilterra avevano mostrato dal 1900 in poi un
così vivo desiderio di pace, da indurre molti ad accusarle un po’ alla
leggera di ignavia. La Francia aveva tacitamente rinunciato all’Alsazia
e alla Lorena, chiedendo solo che la Germania non le maltrattasse
come ostaggi nemici. La Francia e l’Inghilterra avevano acconsentito
a far largo alla Germania e alle sue ambizioni coloniali in Africa;
e la Francia aveva persino ceduto un pezzo del Congo, che era terra
sua, in cambio della rinuncia della Germania a diritti, molto vaghi
e ipotetici, sopra un impero quale il Marocco, che non apparteneva
a nessuno, e al quale — come i fatti hanno provato — non era facile
imporre la propria protezione. La Francia aveva nel decennio dal 1900
al 1910 a più riprese lasciata la Germania sorpassarla negli armamenti,
mentre fino al 1900 aveva voluto che la rivale non la precedesse neppur
di un passo; e aveva favorito tutti i tentativi fatti dal pacifismo per
limitare gli armamenti e impedire le guerre. E l’Inghilterra aveva più
volte cercato di intendersi con la Germania, per porre un freno alla
reciproca gara degli armamenti.

Ora la Francia e l’Inghilterra sono, con la Germania, le due Potenze
maggiori dell’Europa. È manifesto che il giorno in cui Francia,
Inghilterra e Germania fossero veramente d’accordo, potrebbe regnare
in Europa una pace se non inerme, neppur sovracarica d’armi, armata
secondo ragione e con misura. Anche la Russia sarebbe impotente
contro la concorde volontà di questi tre Stati. Ma per qual ragione
l’Inghilterra e la Francia hanno potuto così facilmente intendersi
fra di loro, e invece non son riuscite mai a mettersi d’accordo con
la Germania? Non perchè la Francia volesse riconquistare l’Alsazia e
la Lorena; non perchè l’Inghilterra fosse invidiosa della Germania;
non perchè i tedeschi siano una razza che ha bisogno di combattere
una grande guerra ogni mezzo secolo; ma perchè tra la Francia e
l’Inghilterra da una parte, e la Germania dall’altra, c’era, per dir
così, uno squilibrio politico. Le forze e lo spirito che governano
l’Inghilterra e la Francia sono diversi dalle forze e dallo spirito
che governano la Germania. Mentre la Francia e l’Inghilterra sono
governate da borghesie pacifiche per lunga esperienza, per inclinazione
professionale, per interesse, in Germania un popolo che si credeva
invincibile era fino a pochi mesi fa retto da una aristocrazia di
guerrieri, nemica della pace per dovere di casta.

Molti si meravigliano che lo spirito di pace non sia mai entrato in
Germania, nemmeno tra i socialisti, i quali sono pacifisti dappertutto;
cosicchè nemmeno i socialisti si sono sentiti commuovere dallo
strazio fatto del Belgio. Ma potrà un popolo che si crede invincibile
essere mai pacifista; prendere sul serio i principî del diritto
internazionale, la Corte dell’Aja, le generose fondazioni del Carnegie,
i Congressi della pace? Nè è umano aspettare che una aristocrazia e
parecchie dinastie investite di preziosi privilegi perchè vittoriose,
vorranno adoperarsi per dare al mondo quella sicurezza della pace che
renderebbe inutili quelle loro virtù — vere o supposte — per le quali
il popolo le venera ed obbedisce ai loro comandi.

La guerra europea è quindi, almeno in parte, nata da un disquilibrio
politico. La Francia e l’Inghilterra non potevano nè persuadere con
le ragioni, nè costringere con la forza la Germania a disarmare; onde
un giorno alla fine la Germania ha adoperate le armi che non voleva
deporre, contro i vicini che reputava più deboli perchè più pacifici.
Se la guerra europea spianerà queste differenze, se rallenterà il moto
democratico in Francia ed in Inghilterra e lo inciterà in Germania,
sarà più facile ai tre maggiori Stati europei di intendersi. E allora
l’Europa potrà sperare di aver pace.


IV.

DA SCILLA A CARIDDI? IL PERICOLO RUSSO

Ma un dubbio potrebbe nascere a questo punto: se non sia piuttosto da
temere che la sconfitta esasperi la Germania e quindi lasci infiniti
semi di nuove guerre; o che la vittoria rinfocoli in Francia, in
Inghilterra, in Russia lo spirito bellicoso e le ambizioni d’impero,
cosicchè l’Europa guadagnerebbe per un verso quel che perderebbe per un
altro. Molti temono che, per schivare il pericolo tedesco, l’Europa non
incorra nel pericolo russo.

Una guerra disgraziata lascerà certamente un lungo strascico di
rancori e di rammarici in Germania. Un popolo che per mezzo secolo
si è illuso di essere invincibile, non apre volentieri gli occhi alla
verità; non si rassegna allegramente a riconoscere di essere soggetto
in guerra alla legge comune, che Napoleone enunciò così bene sul campo
di battaglia di Marengo: _battu battant, c’est le sort des batailles_.
Tuttavia, almeno se la pace toglierà alla Germania soltanto quel che
essa tolse agli altri con la forza e tenne con ingiustizia, lasciandole
quel che è suo per diritto storico e nazionale, queste collere
dovrebbero placarsi a poco a poco. Intanto per molti anni la Germania,
come le altre nazioni, dovrà attendere a curare le sue ferite. Chi
potrebbe pensare che una tal guerra possa essere ricominciata di qui
a qualche anno? E col tempo il naturale risentimento della delusione
dovrebbe cedere, nei vecchi e nei giovani, se non alla ragione almeno
alla necessità, che nella vita è poi sempre il supremo argomento. La
pace non è una aspirazione di filantropi e di idealisti, ma un bisogno
vitale dei nostri tempi: anche i tedeschi dovranno pure accorgersene
un giorno, come se ne sono accorti a un certo punto della loro storia
i francesi. Quale popolo ha combattuto negli ultimi due secoli tante
e così grandi guerre quante i francesi? Non sono essi stati maestri
dell’arte della guerra a tutta Europa ed anche ai tedeschi, i quali in
fatto d’armi hanno imparato dai loro odierni nemici molto più di quanto
non sembrano aver loro insegnato? Anche dei francesi l’Europa non aveva
per lungo tempo temuto che quel demonio della guerra da cui parevano
invasi, non potesse calmarsi; che la Francia e il suo spirito guerresco
non avrebbero lasciato mai riposare l’Europa? Invece anche la Francia,
dopo aver tanto combattuto, aveva ringuainato la spada; e non l’ha
tratta nell’agosto del 1914, se non perchè fu costretta dall’altrui
aggressione.

Perchè lo stesso mutamento non dovrebbe avvenir nei tedeschi, in
condizioni e sotto l’azione di circostanze analoghe? La guerra e la
pace non dipendono oggi in Europa dal temperamento dei popoli, ma dalle
situazioni storiche e politiche. La Francia fu, dopo la Rivoluzione,
bellicosa, finchè i Governi per reggersi furono costretti a esaltare
e perciò ogni tanto a soddisfare la passione popolare della gloria
militare, generata dalle grandi guerre del secolo XVII, del secolo
XVIII, della Rivoluzione e dell’Impero. La Germania ha minacciata per
tanti anni e infine ha intimata la guerra a mezza l’Europa, perchè
l’aristocrazia e le dinastie non potevano governarla a loro modo,
se non inebriandola con i ricordi delle vittorie passate e con le
promesse di una straordinaria grandezza futura. La Francia ha imparato
ad amare la pace, quando fu retta da un Governo — la Repubblica — cui
non fu più necessario minacciare i vicini e inquietare l’Europa, per
durare. È legittimo dunque supporre che anche la Germania perturberà
meno facilmente la pace del mondo, quando sarà governata da classi e
partiti, che non avendo più tanti privilegi da difendere, avranno minor
bisogno di prestigio militare.

E con ragioni di questo stesso ordine noi possiamo rispondere alla
seconda questione e rassicurarci che la Francia e l’Inghilterra non
muteranno con la vittoria l’umore pacifico in aggressivo. Queste
due nazioni volevano pace: non pensavano di aggredire nessuno Stato
nè di far conquiste in Europa, già prima di questa guerra, perchè
i loro Governi non avevano bisogno, per reggersi, di fare sfoggio
ad ogni momento della propria forza. Si rafforzerebbero, dopo una
vittoria, come sempre avviene, di nuovo prestigio dentro e fuori dei
confini; e se già prima della guerra non avevano bisogno per reggersi
di inquietare e molestare il mondo, lo lasceranno più sicuramente
tranquillo, quando la vittoria li avrà fatti anche più autorevoli. Le
popolazioni, se amavano la pace prima, più l’ameranno dopo, quando
potranno godere più sicuramente, senza le ansietà che la hanno
avvelenata negli ultimi anni.

Non bisogna inoltre dimenticare che la Francia e l’Inghilterra sono
nazioni di spirito più misurato che la Germania; ambedue esenti da
quella esagerazione tumultuosa e da quell’orgoglio, che così spesso
trascina i tedeschi, per la smania di far sempre cose più grandi,
a tentar l’impossibile. Vogliono rafforzarsi e durare nell’alta
situazione storica, a cui sono giunte con secoli di lavoro e di lotta,
e che è tale da accontentarsene, almeno per due popoli saggi. Perciò
non vinceranno solo per sè, ma anche per gli altri e per tutti i
popoli.

Non ripeteremo insomma mai quanto basti — perchè è punto di sommo
rilievo — che la pace e la guerra dipendono oggi in Europa dalle
istituzioni politiche. La Germania ha dichiarata la guerra all’Europa,
perchè è governata da una aristocrazia e da una monarchia militare. La
Francia invece, governata dalle classi a cui la guerra è più funesta,
sarebbe contenta della sua condizione presente, il giorno in cui avesse
recuperata l’Alsazia e la Lorena; e perciò il giorno dopo la vittoria
non desidererà che di dichiarare la pace all’Europa, come aveva
previsto Michelet. Chi suppone che essa ricomincerà ad ambire conquiste
in Europa, si inganna come si ingannavano quanti pensavano che
avrebbe buttate le armi, all’avvicinarsi dei tedeschi. In Inghilterra
l’aristocrazia e l’alta borghesia possono assai più nello Stato che
in Francia, e il popolo invece può meno: ma in compenso il popolo è
più pacifico che in Francia. Da secoli il popolo inglese, si può dire,
non combatte, poichè adopera per le sue guerre eserciti di mercenari:
non può quindi avere la tradizione, l’esperienza e neppure la passione
della guerra, come il popolo francese che ha versato il suo sangue, in
cento guerre.

Senonchè proprio per questa ragione, perchè la guerra e la pace
dipendono dalla natura e dallo spirito dei regimi politici, molti
sono inquieti per la Russia. E dicono: sta bene, la Francia è, e
l’Inghilterra è quasi, una democrazia; perciò si può confidare che,
anche fatte più grandi e potenti, non molesteranno l’Europa; ma e
la Russia? Non è la Russia un impero militare, come la Germania, e
per giunta poco meno che autocratico ed assoluto? Non è da credere
che in questa autocrazia guerresca, mal controllata da un Parlamento
fanciullo, inesperto, timido, senza autorità, la vittoria risvegli
quell’orgoglio, quell’audacia, quello spirito aggressivo che ora
minaccia l’Europa dalla Germania? E se il pericolo passasse da Berlino
a Pietroburgo?

I giornali austriaci e tedeschi, i partiti e i giornali fautori della
causa tedesca nei paesi neutri non si stancano infatti, dal principio
della guerra, di annunciare all’Europa l’imminente _pericolo slavo_.
Sul principio anzi lo stesso Governo di Berlino aveva annunciato al
popolo che la guerra sarebbe proprio una guerra nazionale di difesa
contro la «barbarie russa»; e i socialisti di Germania e d’Austria
hanno creduto di difendere il loro atteggiamento bellicoso, protestando
che non potevano aprire le porte della Germania e dell’Austria ai
Cosacchi. La futura potenza e prepotenza della Russia è uno degli
argomenti preferiti in Italia dai superstiti fautori della Triplice
alleanza; i quali ogni mattina vedono già la Russia arbitra dell’Europa
continentale, Santa Sofia riconsacrata dallo Czar al culto cristiano,
le navi da guerra russe scorrazzanti per il Mediterraneo e i Cosacchi
in via per l’Adriatico....

L’avvenire siede sulle ginocchia di Giove, dicevano gli antichi. Sta
nelle mani di Dio, dicono ora i Cristiani. Io non mi sento il coraggio
di profetare l’avvenire dell’Impero moscovita. Ma se ci contentiamo
di argomentare quel che può accadere di qui a poco da quel che ora
succede, sembra lecito affermare che la egemonia russa in Europa è un
vano fantasma, e per parecchie ragioni. Prima, una ragione di ordine
geografico. A dominare con le armi e il prestigio un vasto continente,
è necessario che un popolo tenga una posizione centrale, così da
poter minacciare e al caso colpire su punti diversi, a nord, a sud, ad
est, ad ovest. Per questa ragione l’Italia antica potè, per secoli,
dominare in tutto il bacino mediterraneo dalla Gallia e dalla Spagna
all’Egitto e alla Siria, dall’Africa del Nord alla Penisola balcanica.
Per questa ragione la Francia e la Germania hanno potuto ambire, a più
riprese, l’egemonia dell’Europa; ma non hanno potuto mai ambirla nè
l’Inghilterra nè l’Italia, collocate sul fianco o all’estremità del
continente. E per questa stessa ragione non potrà neppure ambirla la
Russia.

La stessa presente guerra, del resto, lo prova. La Russia è un colosso.
Ha il più numeroso esercito del mondo; e soldati che non la cedono ai
soldati di nessun altro paese di Europa per valore. Eppure chi non vede
che, sola, non potrebbe vincere l’Austria e la Germania, le quali pure
anche unite hanno popolazione ed eserciti minori? E per quale ragione?
Perchè essa deve oggi combattere ad un capo del suo vastissimo Impero,
verso l’Europa, come dieci anni fa dovè combattere all’altro capo,
contro il Giappone. La grandezza sua le è d’impaccio a guerreggiare.
Potenze più piccole ma più agili; e perciò dovrebbe essere ragione
non di inquietudine ma di tranquillità a quanti temono l’egemonia
della Russia vittoriosa. L’autorità di una Potenza in pace si misura
all’ingrosso dalla forza che essa eserciterebbe — o si presume potrebbe
esercitare — in tempo di guerra.

Nè basta. La Russia è un immenso impero, metà europeo, metà asiatico;
che confina con la Svezia, con la Germania, con l’Austria, con la
Rumenia, con la Turchia, con la Persia, con la China, con il Giappone.
Ciascuna di queste frontiere l’impegna in una politica particolare,
che deve curare certi interessi, proporsi certi fini e adoperare certi
mezzi. Il Governo russo, se deve tener d’occhio le faccende europee,
non può trascurare le cose balcaniche, le cose turche, gli affari
dell’Estremo Oriente. Ma appunto perchè ha tante frontiere, tanti
interessi e tanti impegni diversi a cui badare, la Russia non potrà
mai puntare con tutte le forze nella sola politica europea. Gli altri
interessi suoi la distrarranno ogni tanto dalle faccende europee, come
è successo tante volte in passato.

Non aveva la Russia, dopo il 1895, trascurati gli affari balcanici, che
sono uno dei suoi maggiori impegni ed interessi in Europa, perchè era
stata troppo attirata dall’Estremo Oriente? I Serbi, i Montenegrini,
i Bulgari se ne lagnavano assai vivamente; e non a torto, perchè
mentre la Russia, già così vasta, si allargava anche di più in Asia,
gli Slavi dei Balcani restavano in balìa dell’Austria e quindi della
Germania, alleata dell’Austria. A sua volta la Germania ha cercato
sempre di spingere la Russia verso l’Estremo Oriente, per allontanarla
dall’Europa, adoperando a questo scopo perfino l’amicizia intima che
fino allo scoppio della guerra intercedeva tra l’imperatore di Germania
e l’imperatore di Russia, e l’ascendente che Guglielmo II, uomo
ardito, invadente, un po’ fantastico, aveva acquistato sullo spirito
più timido e chiuso di Nicola II. Io so, perchè me l’ha detto uno dei
funzionari della Corte di Pietroburgo che stanno più vicino allo Czar,
che l’imperatore di Germania non tralasciava mai, quando si trovava
con l’imperatore di Russia, di incoraggiarlo ad ampliare il suo Impero
asiatico. L’imperatore di Germania spronava Nicola II ad impegnarsi in
vaste conquiste in Cina e contro il Giappone, sapendo che non c’era per
la Germania mezzo più efficace e sicuro di indebolire l’alleanza della
Francia e della Russia in Europa.

Si potrebbe, anzi, dire addirittura che la politica russa sia una
specie di pendolo, oscillante tra l’Asia e l’Europa. Tra il 1895
e il 1905 la Russia fu, per dir così, presente in Asia e assente
dall’Europa. Disinteressandosi quanto poteva dagli affari d’Europa, si
tenne facilmente in buoni rapporti con l’Austria e con la Germania.
Ma la guerra contro il Giappone risospinge di nuovo la Russia verso
l’Europa. Dopo il 1905 la Russia ripiglia in mano, amplia, rinforza
l’alleanza con la Francia; conchiude l’_entente_ con l’Inghilterra;
riprende a vigilare le faccende balcaniche e i piccoli popoli slavi,
tanto trascurati nel decennio precedente; conchiude una intesa anche
con il Giappone, acconsentendo a mantenere in Estremo Oriente le
cose nel loro stato presente. Ma ben presto si guasta con l’Austria
e con la Germania, dopochè i Giovani Turchi fanno la rivoluzione in
Turchia. L’Austria annette la Bosnia-Erzegovina; la Russia è obbligata
a cedere alla minaccia tedesca; si inasprisce tra Russia e Germania
la discussione intorno al trattato di commercio, che la Germania vuol
rinnovato tale quale e la Russia invece vuol ritoccare in ogni parte;
si esaspera a Costantinopoli la rivalità tra la Russia e la Germania;
scoppia la guerra Balcanica, e infine la guerra tra l’Austria e la
Serbia, principio della guerra europea.

La guerra europea è la crisi decisiva della nuova politica europea,
incominciata dalla Russia dopo il 1905. Terminata la guerra europea
il pendolo dovrebbe dunque discendere di nuovo verso l’opposta parte;
e la Russia per un certo tempo dileguare di nuovo dall’Europa,
sprofondandosi nella sacra immensità dell’Asia. Appunto perchè la
Russia non è nè Potenza tutta europea nè Potenza tutta asiatica, non
potrà mai dominare nè l’Europa nè l’Asia; ma incomberà invece sui due
continenti, come una forza immane e lenta, più regolatrice che egemone.

C’è infine un’ultima ragione per la quale non si deve temere che una
vittoria della coalizione anglo-franco-russa alteri l’equilibrio
politico dell’Europa, come l’altererebbe certamente la vittoria
dell’alleanza austro-germanica. Abbiamo già veduto che questa alleanza
è così possente, perchè l’Impero tedesco e l’Impero austriaco sono
contigui. Si aggiunga che hanno la medesima lingua ufficiale e
istituzioni politiche affini. Nella coalizione franco-anglo-russa
invece, se la Francia e l’Inghilterra si possono considerare contigue,
non ostante gli impedimenti non piccoli, che un braccio di mare, anche
corto, interpone, tra la Russia, invece e i suoi alleati di Occidente
sta la mole dei due Imperi nemici. Inoltre la lingua e le istituzioni
politiche di queste tre Potenze sono molto diverse. Ne segue che la
vittoria potrebbe fare dell’alleanza austro-germanica, ma non della
coalizione anglo-franco-russa, un tutto unico. La posizione geografica,
la diversità delle lingue delle istituzioni e degli ordini sociali, la
molteplicità degli interessi, terranno sempre tutte e tre le Potenze
alleate ad una certa distanza e come in un certo isolamento. Lo
dimostra la debolezza di cui per molti anni la Triplice Intesa ha fatto
prova; e la parziale impreparazione in cui fu sorpresa dall’attacco
germanico.

Per tutte queste ragioni la vittoria della Triplice Intesa sembra
legittimare maggiori e migliori speranze per il mondo, il quale a
giusta ragione vuole che a questa guerra possa tener dietro una lunga
e sicura pace. La moltitudine l’ha intuito in tutti i paesi; e perciò
apertamente parteggia per la Francia, per l’Inghilterra e la Russia.
Nelle classi alte, nel mondo intellettuale, tra gli uomini politici ci
sono dei dispareri; nelle masse no. Anzi, le masse in Europa sperano
addirittura che con questa guerra, se la coalizione anglo-franco-russa
trionferà, tutte le guerre finiranno, il militarismo cadrà per sempre
e incomincerà la pace universale ed eterna. Gli uomini l’hanno sempre
sognata, questa pace inalterabile del mondo e dei secoli; tutti gli
imperi e tutte le religioni l’hanno annunciata, sfidando l’ostinata
esperienza di tante generazioni: non è dunque meraviglia se tale
speranza rinasce, come un conforto, in mezzo agli orrori della più
terribile delle guerre. Potrebbe il mondo sostenere oggi la prova,
se non sperasse che le stragi e le rovine presenti serviranno almeno
a risparmiare ai nostri figli e ai nostri nipoti una simigliante
sciagura?

Senonchè la speranza spiana sovente troppo facilmente le difficoltà.
Che la vittoria della Francia, della Russia e dell’Inghilterra, possa
assicurare all’Europa la pace per qualche tempo, sembra cosa certa.
Incerto è invece che possa, non dirò toglier di mezzo il militarismo,
ma moderare quel mostruoso accrescimento degli eserciti che negli
ultimi trent’anni ha così profondamente perturbata l’Europa, e alla
fine generato il gran soqquadro di questi tempi. La vittoria dei tre
Imperi alleati potrebbe generare anche questo effetto: ma solo se fosse
seguita da un profondo rivolgimento dello spirito pubblico, che sarebbe
poco meno che un nuovo indirizzo della civiltà.

Quale è questo rivolgimento dello spirito pubblico? Questo nuovo
indirizzo della civiltà? Lo vedremo conchiudendo questi studî.


V.

TRAGEDIA DI ORGOGLIO

Pace vera e disarmo, sono una cosa. L’Europa è oggi in guerra, perchè
ha creduto di poter mantenere la pace equilibrando gli armamenti, e
cioè accrescendoli egualmente da tutte le parti. Come ogni organo vuol
compiere il suo ufficio; come il polmone vuol respirare, il braccio
muoversi e lo stomaco digerire, così gli eserciti vogliono combattere.
La guerra europea è scoppiata, perchè i tedeschi non volevano aver
speso tanto denaro per acquistare armi, senza almeno poter vantarsi che
la potenza tedesca era rispettata e temuta in tutto il mondo. Ma a loro
volta in Francia, in Russia, in Inghilterra i popoli che spendevano
somme così ingenti per armare l’esercito e la flotta, volevano poter
con quelli resistere alle esigenze eccessive della politica tedesca. E
naturalmente quel che al Governo tedesco pareva richiesta giustissima
sembrava sempre alla Francia, alla Russia, all’Inghilterra esigenza
quanto mai indiscreta e insopportabile: perciò quelle Potenze hanno
per anni ed anni litigato, finchè alla fine, ogni popolo volendo che
le armi acquistate a così caro prezzo non fossero acquistate invano,
i Governi si sono tutti impuntati in una questione; e la guerra dei
popoli è incominciata.

E così avverrà sinchè ogni popolo di Europa ambisca di avere il
più forte esercito e la più forte armata che può. Ma potrà l’Europa
disarmare dopo la guerra? Non è dubbio che nei primi anni della pace
gli Stati non potranno accrescere e forse dovranno tutti diminuire gli
armamenti. La guerra distrugge ricchezze e impedisce di produrne: anche
se cessasse domani — e potrebbe invece durare ancora mesi, forse anni —
già tutti gli Stati belligeranti si troverebbero nell’alternativa o di
fallire o di ridurre le spese militari a proporzioni più ragionevoli.
Ma il fallire aggraverebbe il male, perchè fatta la pace gli Stati
saranno in grandissimo bisogno di denaro; e nessuno vorrà prestarne
loro, se mancheranno agli impegni più antichi. Non resterà dunque che
l’altro scampo.

Ma questo disarmo, imposto dalla necessità, quanto tempo durerà?
Ecco il gran punto. La presente guerra, certo, distrugge infinite
ricchezze; ma dieci anni d’intenso lavoro possono riparare molte
rovine. E l’uomo dimentica così presto! Se dopo un decennio o due di
raccoglimento o di saggezza, le idee e i sentimenti che hanno dominate
le menti negli ultimi anni ripigliassero voga nelle generazioni di
coloro che non furono nè testimoni nè parte della guerra europea,
l’Europa ricomincerà ad armare; e dopo aver fucinate le armi, vorrà di
nuovo un giorno o l’altro provarle. Cosicchè noi dobbiamo chiederci
che cosa occorra, affinchè il disarmo parziale a cui possibilmente
le Potenze ricorreranno dopo la fine della guerra, non sia uno
spediente transitorio, ma il primo passo risoluto sulla via della pace
definitiva.

Occorre che il frenetico orgoglio dei popoli moderni si umilii un
poco. Questa guerra è una delle tante tragedie dell’orgoglio umano. Le
rivalità politiche ed economiche non avrebbero, sole, avuta la forza
di generare un tal soqquadro, perchè le rivalità politiche toccano
soltanto piccoli gruppi, e gli interessi economici sono troppo numerosi
e diversi. Sono i popoli interi, che oggi combattono sui campi di
battaglia e si affrontano con le armi alla mano; nè le plebi non si
sarebbero lasciate così facilmente condurre a versare il loro sangue
per l’onore di una corona, per i programmi politici di un partito
o per gli interessi di qualche industria o di qualche commercio. Ma
le rivalità politiche e gli interessi economici hanno invece potuto
trascinare i popoli a questo cimento, eccitandone l’orgoglio. Ogni
popolo d’Europa vuole essere primo o almeno pari agli altri in ogni
cosa; vuole possedere un esercito, un’armata, delle navi mercantili,
delle industrie, dei commerci, una letteratura, un’arte, una scienza,
una finanza, una politica coloniale che non sfigurino a petto delle
altrui. Nazioni che si sono appena dirozzate da una barbarie secolare
vogliono essere stimate colte come popoli che scrivono, scolpiscono,
dipingono, indagano il vero e filosofeggiano da secoli; e perciò
inventano ogni giorno dei genii, se non riescono a generarli. Popoli
che cercano a prestito capitali, ne prestano a lor volta ad altri
popoli per credersi anch’essi una potenza finanziaria del mondo.
Nazioni che non hanno carbone o che non hanno ferro, vogliono a tutti
i costi fondere il ferro e l’acciaio. Popoli scarsi di capitali o
ancora poco numerosi conquistano immense colonie. Di qui una lotta
incessante, accanita, talora puerile, che a poco a poco ha inferociti
gli animi da frontiera a frontiera. Per somma sventura, viveva nel
cuore dell’Europa un popolo che, a torto o a ragione, si era persuaso
di esser più grande, più sapiente, più virtuoso, più coraggioso, più
forte dei suoi vicini; che voleva perciò esser considerato e trattato
come un popolo eletto. Ma i suoi vicini, pur riconoscendogli molte
qualità, non volevano considerarsi da meno di lui e umiliarsi in sua
presenza. Da dieci anni tutti questi popoli lottavano tra di loro
con la penna, con la parola, con il denaro, con il commercio, con gli
intrighi diplomatici, ciascuno cercando di dimostrare la sua eccellenza
in confronto degli altri. E alla fine, siccome le discussioni non
giungevano ad alcuna conclusione, si è venuto al giudizio di Dio!

Guardiamo nella nostra coscienza e siamo una volta almeno sinceri
con noi medesimi.... Quell’ardente patriottismo che sostiene oggi i
popoli d’Europa nell’immane contesa, che fa loro sopportare stoicamente
tanti lutti, tante rovine e tante privazioni, è un tragico puntiglio
di amor proprio. I tedeschi vogliono mostrare all’Europa di che cosa
sono capaci, anche contro tanti nemici; e si ostinano, e muoiono, e
impegnano le loro sostanze, e si rassegnano alla carestia, e si stanno
rovinando, dopo aver raggiunta, lavorando trent’anni senza riposo,
una bella agiatezza. Gli altri popoli d’Europa vogliono mostrare
ai tedeschi che nè il loro numero nè la loro audacia, nè la loro
preparazione, nè la loro ostinazione non li spaventano; e a loro volta
sacrificano senza risparmio vite e tesori. L’orgoglio e la ostinazione
delle due parti si esasperano a vicenda; e la lotta si inferocisce.
Cosicchè terribili guerre devasteranno l’Europa sinchè i popoli saranno
ebbri di tanto orgoglio; sinchè vorranno tutti primeggiare in tutte le
cose; sinchè ognuno facilmente verrà nella persuasione di essere da più
degli altri e di aver diritto ad esser trattato come un popolo eletto:
sinchè l’Ungherese e il Serbo, il Francese e il Tedesco, l’Inglese
e l’Irlandese, il Russo e il Polacco non saranno capaci di sedere
alla stessa mensa, sia pur senza amore, ma senza odio e dispetto,
sentendo di essere tutti eguali, riconoscendo che le opere civili
sono numerosissime e diverse, onde ogni popolo può compierne con onore
alcune, lasciando senza vergogna altri eccellere in altre.

Ardua impresa, dunque, pacificare la vecchia Europa; perchè l’orgoglio
è da un secolo lo stimolo più forte dell’attività di tutti i popoli. La
civiltà moderna ha procurati all’uomo molti vantaggi: infinita comodità
di rapide comunicazioni; una abbondanza di tutte le cose necessarie e
superflue, quale il mondo non aveva mai neppure sognata; valida difesa
contro molti flagelli che avevano tormentate tante generazioni, come
le malattie, la pestilenza, le carestie; una libertà di pensare, di
dire e di fare, di cui i secoli passati avrebbero avuto sgomento. Ma in
compenso i tempi moderni impongono agli uomini parecchi obblighi che i
tempi antichi non conobbero: il servizio militare, balzelli da pagare
in quantità e tutti gravissimi, una attività incessante, assidua,
mai libera, sempre preoccupata della propria responsabilità, e perciò
sempre grave e accigliata. Gli uomini vivevano più semplicemente due
secoli fa; ma lavoravano anche meno, più pacatamente e più allegri.
Cosicchè tutti i vantaggi che questa civiltà offre a compenso di tanti
obblighi e del più grave e più serio lavoro, non basterebbero a vincere
in molti l’innata pigrizia e a scuotere quell’egoismo del maggior
numero, che vuol piuttosto il poco tranquillo che il molto agitato, se
non si aggiungesse quest’altro stimolo dell’orgoglio. Tutti i popoli
lavorano più di quanto sarebbe necessario a soddisfare i loro bisogni,
perchè sono animati dalla emulazione di far più e di far meglio che gli
altri popoli.

Perciò l’orgoglio è oggi, per tutti gli Stati dell’Europa, uno
strumento necessario di governo. Sferzando l’orgoglio nazionale e
lo spirito di emulazione dei popoli, che non vogliono esser da meno
gli uni degli altri, i Governi ottengono che i Parlamenti accrescano
le pubbliche spese per costruire nuove scuole e nuove caserme, nuove
strade e nuove ferrovie; che i popoli ansanti si curvino volentieri
a ricevere sulle spalle i crescenti carichi militari e i gravami del
protezionismo; che tollerino rassegnati gli sperperi delle pubbliche
amministrazioni, dappertutto ormai incurabili; che resistano al
turbamento di cui è dappertutto cagione, sul principio, la grande
industria; che facciano volentieri le spese e gli sforzi di quella
politica coloniale, che nell’ultimo mezzo secolo ha aperta l’Africa
all’Europa.

Nè meno dei Governi si son prevalsi e si prevalgono dell’orgoglio dei
popoli e del loro amor proprio gli interessi privati: le industrie,
il commercio, la scienza, le arti, e persino i divertimenti e le
religioni. Industrie e commerci che vogliono accreditare nuovi oggetti
o nuove abitudini; scienze in cerca di protettori ed arti a caccia di
clienti; patroni di nuovi sollazzi, propagatori di nuove idee politiche
o di nuove sètte morali e religiose, tutti si valgono sempre di questo
argomento: che un popolo deve misurarsi con tutti gli altri in tutte le
cose.... Onde è facile argomentare il perturbamento che arrecherebbe
nella vita dell’Europa l’umiliazione di questi orgogli frenetici;
e quanto l’asse del mondo moderno sarebbe spostato, se i popoli
consentissero finalmente a spartirsi il lavoro considerando che la
civiltà è una officina troppo vasta, perchè anche le più grandi tra le
nazioni possano presumere di riuscire le prime in tutto: nella guerra,
nell’industria, nell’arte, nella scienza, nella finanza; se ogni popolo
si sforzasse di eccellere in alcuni rami dell’umano lavoro, lasciando
gli altri popoli eccellere in altri, riconoscendo senza invidia la
loro superiorità senza nè minacciarla apertamente, nè insidiarla di
soppiatto.

Insomma, l’orgoglio occupa una parte troppo grande tra i sentimenti che
muovono così gli uomini come i popoli moderni. Questa è la debolezza
dei nostri tempi; una ragione di tante catastrofi e di questa terribile
guerra. E il male è compenetrato così addentro nella carne e nelle ossa
del mondo moderno, che l’estirparlo è impresa ardua tra tutte.

Ma il mondo va sempre cercando, da un eccesso all’altro, un equilibrio
che mai non trova. Una catastrofe tanto immane non può mancar di
muovere profondamente le anime, in tutti gli ordini sociali, perchè
tutte ci rimettono uomini e beni. Nei palazzi come nelle capanne oggi
si piangono quelli che sono partiti e che non torneranno più; si pensa
con ansia al futuro. Chi teme che tra poco gli manchi addirittura
il pane; chi trema che precipiti quella che era per lui la ragione
stessa del vivere: il potere e il prestigio della propria famiglia,
della propria classe, del proprio partito, della propria patria.
Perciò quanti si illudono che, conchiusa la pace, noi ripiglieremo
la vita che conducemmo sino al primo giorno di agosto del 1914, si
accorgeranno che la vita della nostra generazione è stata troncata da
questo cataclisma; e che ormai a tutti sarà necessario rifarsi da capo.
Nè il corusco orgoglio di cui oggi sfolgora la civiltà moderna è una
forza necessaria della grandezza civile: poichè altre civiltà che pur
fecero grandi cose, come le civiltà antiche, non lo conobbero; furono
prudenti e modeste. Non c’è dunque ragione di pensare che la storia non
possa muoversi più, se non per la spinta di questa forza satanica. Il
mondo vive trasfigurandosi di continuo; le epoche si succedono, spesso
contrapponendosi. Al secolo dell’orgoglio, della guerra e del ferro,
potrebbe forse succedere un secolo di più operosa modestia, di più
raccolta serietà, di pace più sicura e sincera.




IV.

L’ITALIA E LA GUERRA EUROPEA


  Nel primo di questi tre studi sono ristampati quattro scritti
  pubblicati nel _Secolo_, il 23 e il 26 aprile, il 1º maggio e il
  17 giugno 1914, i quali trattano dei fatti e degli avvenimenti di
  maggior rilievo, avvenuti negli anni precedenti la guerra. Sebbene
  le difficoltà di cui l’autore mostrava allora inquietarsi come
  s’inquietava il Paese, non appariscano ormai più ai nostri occhi
  che come dolci collinette a pie’ dell’Imalaia che ci sta innanzi e
  che ci è forza varcare, quegli studi sono stati ristampati tali e
  quali, perchè è sembrato all’autore possano servire come documenti
  storici e quindi aiutare così a capire i gravi avvenimenti degli
  ultimi tempi come ad orientarsi in mezzo alle difficoltà presenti.

  Il secondo studio, «L’Italia esitante», è uno scritto, composto nel
  mese di gennaio del 1915 e stampato nel fascicolo dell’_Atlantic
  Monthly Review_ per il mese di aprile. L’_Atlantic_ è la più
  autorevole delle riviste non illustrate d’America; e si pubblica a
  Boston. Queste pagine furono scritte per spiegare le perplessità
  dell’Italia agli Americani — e non erano pochi — che un po’ per
  affetto all’Italia, un po’ per avversione agli Imperi germanici,
  si meravigliavano che essa tardasse tanto a prendere le armi.
  Espongono lo stato delle cose quale era al principio del 1915.

  Il terzo studio, «La crisi di Maggio e la guerra», è inedito. Il
  titolo ne dichiara l’argomento e lo scopo, senza che occorrano
  dilucidazioni.




I.

PRIMA DELLA GUERRA: UOMINI E FATTI


1. — Il monopolio delle assicurazioni.

(Dal _Secolo_, del 23 aprile 1914).

L’erario, le industrie, i commerci in tormentose strettezze;
disorientate le menti e inaspriti gli animi in ogni parte; i
socialisti di nuovo in armi come nel 1900; mal sicure e piene di
sospetti le relazioni coi vicini, in Europa ed in Africa; debole
e incerto il Governo; la moltitudine un mare che si arriccia
minacciando tempesta.... Lunga è la lista dei mali presenti. Quel certo
assestamento a cui il Paese era giunto faticosamente nel primo decennio
del secolo, è sconvolto di nuovo; ma nessuno potrebbe dire in quanto
tempo ed a spese di chi le cose torneranno a bilanciarsi.

Ci rifaremo, per capire come venimmo a questi guai, da quel giorno
della primavera del 1911, in cui Leonida Bissolati arrivò a piedi,
in giacchetta e cappello moscio, alle porte della reggia; e salì bel
bello le scale del Quirinale per ragionare con il Sovrano intorno
alla situazione parlamentare. Nessuno ha dimenticato il susurro di
quei giorni, e il gran malcontento che agitò il partito conservatore
o costituzionale che dir si voglia, quando si ebbe notizia che il
Bissolati era nelle viste del nuovo Governo come ministro. A stento e
brontolando la maggioranza aveva tollerato che due ministri radicali
sedessero nel Gabinetto Luzzatti; ed ora l’uomo in cui il partito o
i partiti costituzionali riponevano piena fiducia, che tutti avevano
evocato dal suo ritiro a Roma a impugnare con mano più ferma il timone,
voleva chiamare al Governo i socialisti addirittura? Ma i malcontenti
si rabbonirono, quando il Bissolati ebbe fatto il gran rifiuto; perchè
a paragone del peggio che avevano temuto — dei socialisti — i ministri
radicali parvero un male tollerabile. L’on. Giolitti era in quei
dieci anni venuto in tanta fama di abilità, che non parve alla parte
conservatrice lecito disperare egli volesse e sapesse servirla anche
con quel Ministero screziato di rosso. Onde la Camera gli manifestò
unanime fiducia, quando egli espose il suo programma, annunciando
due grandi riforme: il monopolio delle assicurazioni sulla vita e il
suffragio universale.

Fu dopo quel voto, e nei mesi di aprile e di maggio del 1911, che la
fortuna dell’on. Giolitti toccò l’apogeo. «Siamo giunti al perfetto
equilibrio — mi diceva verso la metà di maggio un deputato tra i
più colti e intelligenti. I partiti si bilanciano ormai, egualmente
contenti». E così poteva sembrare davvero, in quelle settimane. Delle
tre sorelle dell’Estrema, l’Estrema radicale si godeva la luna di
miele del potere; l’Estrema socialista non stava in sè per la gioia
di sapersi ormai ufficialmente fidanzata con il Governo, si chiedeva
ogni giorno se sognava o era desta, e affrettava con il desiderio le
auspicate nozze; la Estrema repubblicana non poteva esser nè maritata
nè fidanzata, avendo fatto voto di castità, ma non osava turbare la
gioia delle due sorelle più fortunate, che del resto nell’egoismo
della loro felicità non la guardavano più neanche in faccia. L’Estrema
socialista anzi non si riconosceva più; e come succede spesso alle
fidanzate, si sentiva presa di subito affetto e ammirazione per tutto
quello che circondava o avvicinava lo sposo; anche per il suocero, che
nel caso era l’on. Giolitti.

Ma la prosperità è caduca — diceva la saggezza antica. Questa gioia
e questa ammirazione di tutti i partiti durarono fino al giorno in
cui fu scoperto in Roma il gran monumento di Re Vittorio. La sera
prima, a tarda ora, la «Stefani» aveva divulgato il disegno di legge
proposto dal Governo per monopolizzare le assicurazioni sulla vita.
Caddero quella mattina le tele che avvolgevano la statua del Re; e
tutto il giorno, fino a notte inoltrata, Roma tripudiò, esaltandosi
nelle memorie del passato. Ma che sorpresa, i giorni seguenti, quando,
quetate le fanfare e tolte vie le bandiere della festa, le gente
rilesse a mente fredda e con ponderazione il testo della legge! Io non
voglio qui discutere le ragioni di alto interesse pubblico, con cui si
cercò giustificare una tanto grave perturbazione dell’ordine giuridico
garantito dalle leggi a tutte le industrie e a tutti i commerci: se
cioè fosse quello il miglior modo o almeno un modo sicuro di far lo
Stato meno ligio ai grandi potentati della finanza. Anche se l’avvenire
dovesse comprovare definitivamente questo argomento, lo storico
non può non osservare che, nel momento in cui la legge fu proposta,
questo interesse di Stato appariva remoto, mentre la perturbazione era
profonda e imminente. Con un tratto di penna quella legge pretendeva
distruggere una industria fiorita liberamente per forza propria e
all’ombra del diritto comune, rifiutando qualsiasi risarcimento a
coloro che ne vivevano, per i capitali e il lavoro spesi a farla
prosperare; gettava nell’ansietà un infinito numero di persone poco
facoltose, riducendole a temere — a torto o a ragione — che rovinassero
le Compagnie di assicurazione a cui avevano affidati i sudati risparmi,
unico schermo contro certi colpi molto temuti della Fortuna; screditava
l’Italia presso l’alta finanza dell’Europa, largamente interessata
in molte Compagnie operanti nella penisola, e che non potevano
rassegnarsi, senza almeno protestare, ad una così improvvisa confisca.

Io non so davvero spiegare come la consumata esperienza di uomo,
invecchiato nel Governo degli uomini, abbia potuto così lungamente
illudersi che una legge di quel tenore potesse essere facilmente
approvata, in un Paese in cui — e chi poteva saperlo meglio di lui? —
il Governo è così debole di fronte a tutti gli interessi particolari;
ed è costretto a rispettare come sacri tanti diritti acquisiti molto
meno legittimi e meno difesi di questi, di cui si proponeva di far
scempio nel volger di un giorno. O piuttosto me lo spiego, ripensando
che agli uomini i quali hanno governato a lungo succede spesso che alla
fine presumono troppo della propria potenza. Questo caso così frequente
si ripetè forse una volta ancora, nella primavera del 1911, in Italia.
In pochi giorni, infatti, il Governo che poche settimane prima pareva
idolatrato da tutta l’Italia, fu assalito da ogni parte da critiche,
recriminazioni, invettive e rampogne furenti. L’Orlando Furioso
dell’opposizione, il martello dei ministri novelli, il _Giornale
d’Italia_, diè in un’altra di quelle sue matte furie e incominciò a
tirar colpi all’impazzata; gli interessati — assicurati e assicuratori
— si intesero e cercarono di far valere le proprie ragioni come
sapevano e potevano; i sonnecchianti rancori dei gruppi e dei partiti
si risvegliarono. Per opprimere i ricchi con leggi di quella natura
l’Estrema Sinistra voleva scalare il potere e l’on. Giolitti si curvava
a farle spalla!

Gli stessi socialisti avevano da principio ricevuto con una certa
indifferenza questo regalo del Governo. Avrebbero forse preferito
un altro presente di nozze. Non si riscaldarono un po’ che quando
videro la maggioranza parlamentare e i giornali conservatori andar
sulle furie: ma allora uscirono in un elogio della legge che dovette
far venire la pelle d’oca al Governo. Dissero che la legge a loro
piaceva solo perchè era il primo saggio di «espropriazione senza
risarcimento!». Anche gli altri difensori meno accesi della legge
usarono, forse anche abusarono, di argomenti presi a prestito alla
demagogia: denunciarono all’invidia delle masse i grassi guadagni e
le pingui sinecure degli assicuratori; malmenarono alla cieca l’alta
banca; e scagliarono qualche saetta intrisa di tossico nazionalista
contro la finanza che non conosce frontiere. Ma tutti questi argomenti
esasperavano addirittura la maggioranza del Parlamento contro il
detestato monopolio; cosicchè nelle settimane in cui il testo della
legge giacque sul tavolo della Commissione parlamentare incaricata di
scrutarne le viscere, la corrente delle opposizioni e delle critiche
ingrossò rapidamente, rumoreggiando sempre più fragorosa, come una
piena, nei giornali, negli anditi della Camera, nei crocchi politici e
perfino in qualche pubblico comizio....

La critica del resto facilmente trionfava delle timide difese,
perchè la legge, preparata con incredibile fretta e leggerezza da un
ministro incompetente e incapace, era zeppa di errori, di lacune e di
contradizioni. Ma quando la discussione incominciò nella Camera dei
Deputati.... Oh meraviglia! Quella piena di critiche e di rampogne
parve ad un tratto sparire sotto terra, in qualche misteriosa voragine.
Per molti giorni la legge, che in piazza era stata impugnata con tanta
veemenza, fu timidamente criticata e superficialmente difesa da oratori
quasi tutti oscuri, silenti od assenti gli uomini più autorevoli,
davanti ad una assemblea enigmatica, che applaudiva ugualmente amici e
nemici, e nella quale si vedevano i socialisti volteggiare intorno al
Governo come una torma di beduini, lanciando per difenderlo invettive e
interruzioni ai conservatori, che infuriati raccattavano e ritorcevano
contro di essi i dardi da cui tante volte erano stati feriti,
chiamandoli ascari, mazzieri e servitori del Giolitti. Il mondo alla
rovescia, insomma! Chi avesse seguito da una tribuna, come l’ho seguita
io, questa discussione, ma senza conoscere uomini ed interessi, avrebbe
potuto pensar di leggere un rebus vivente che sfidava l’intelletto più
sottile. Come era chiaro e piano invece quel rebus, a chi ne possedeva
la chiave! La Camera non voleva approvare la legge, ma non osava
neppure rovesciare il Ministero, ognuno temendo lo scioglimento della
Camera. Applaudiva quindi i deputati favorevoli per dimostrare ossequio
al Governo; applaudiva gli oppositori per fare manifesto il proprio
animo avverso alla legge; e intanto aspettava con pazienza, come una
moglie sottomessa aspetta che il marito ritorni a lei da un passaggero
capriccio, che il Governo si ravvedesse, capisse il tormento che la
struggeva, e correggesse almeno la legge. Tante altre volte il capo del
Governo aveva saputo cedere a tempo!

Ma il capo del Governo si ostinò questa volta. Non si lasciò smuovere
nè dai giornali, nè dagli interessi, nè dai savî, nè dal numero delle
opposizioni, nè dagli incerti umori della maggioranza. Fu necessario il
discorso dell’on. Salandra e i segni manifesti di una imminente rivolta
della maggioranza, perchè acconsentisse finalmente a tentare accordi e
accomodamenti tra la legge e i diritti acquisiti: ma era troppo tardi!

Il momento in cui il Ministero avrebbe potuto riparare l’errore
iniziale senza scapitare nel prestigio e nella forza era passato da
un pezzo. La Camera si aggiornò dopo aver approvato il principio
generico della legge e rimandata a novembre la discussione degli
articoli. Ma ormai il destino era irrevocabile. Pochi mesi ancora, e il
Governo democratico, con tutti i propositi che maturava, con tutte le
speranze che aveva risvegliate, andrebbe ad arenarsi per sempre nelle
Sirti. Poichè proprio la grave crisi interna e parlamentare, generata
dall’accordo dell’on. Giolitti con l’Estrema Sinistra, dal monopolio e
dalla legge del suffragio universale, ha spinto il Governo alla guerra
di Libia.


2. — Il suffragio universale e la guerra di Libia.

(Dal _Secolo_, del 26 aprile 1914).

Per quale ragione l’Italia mosse, tre anni sono, così all’improvviso,
tanta mole di armi alla conquista della Libia? Perchè l’ora del
destino era suonata sul quadrante della storia? Perchè l’equilibrio del
Mediterraneo sarebbe, se no, stato alterato ai nostri danni? Perchè i
giornali avevano scaldata la testa al pubblico ignaro o perchè faceva
comodo al Banco di Roma? Ognuno scioglie il quesito a modo suo; tutti
credono di avere — e in parte hanno — ragione. Il popolo non si muove
mai ad una impresa di guerra, se molti non sono a spingerlo. Tuttavia
tra i fattori dell’impresa due furono certo di grande rilievo: il
movimento della opinione pubblica, che tra l’agosto e il settembre
del 1911 venne per la Tripolitania in quella furia di conquista che
tutti ricordano; e la debolezza del Governo, che non potè opporsi alla
pubblica esaltazione.

Nei mesi di giugno e di luglio del 1911, mentre la legge del monopolio
era discussa nella Camera dei deputati, la situazione politica si
alterò più profondamente che non paresse agli osservatori superficiali.
Quella legge, la leggerezza e l’incapacità che l’avevano preparata,
la sopraffazione statale che essa minacciava con ogni parola, gli
argomenti demagogici che l’avevano difesa, la baldanza dei socialisti
e la impazienza manifesta con cui affrettavano le desiate nozze con
il potere, risvegliarono nei conservatori o costituzionali che dir si
vogliano — nella maggioranza — il sopito malumore e la sonnecchiante
diffidenza per l’avvento dell’Estrema Sinistra al potere. Con che
diritto una minoranza usurpava tanta parte del potere? Spetta o non
spetta il potere, nel regime parlamentare, alla maggioranza? E poi: era
proprio matura una riforma, che inscriveva nella lista degli elettori
milioni di analfabeti? Il suffragio universale, pure spiacendo, non
aveva troppo inquietata da principio la maggioranza, sinchè questa
aveva pensato di poter fidarsi a occhi chiusi del capo del Governo.
Ma ormai molti non riconoscevano più nel capo del Governo l’uomo che
per tanti anni aveva loro permesso di dormire sonni tranquilli. Dove
volgeva? Quale uso intendeva fare dell’autorità acquistata governando
per un decennio l’Italia? Voleva forse conciliare la Monarchia e i
Rossi a spese dei vecchi partiti e delle classi ricche?

Chi sfogliasse i giornali di quei tempi li troverebbe pieni di queste
ansie e di questi timori. Nel tempo stesso il Governo, dopo aver
sognata per qualche mese l’onnipotenza sicura, apriva gli occhi; si
avvedeva che così il mantenersi al potere come il far approvare il
monopolio e il suffragio universale sarebbero imprese più ardue del
previsto. E come sempre è accaduto e accadrà, dalle difficoltà interne
cercò aiuto e riparo fuori di casa.

Tutti ricordano che tra il luglio e l’agosto del 1911 il Governo
italiano attaccò briga con l’Argentina, a proposito di certi
regolamenti sanitari; e da un giorno all’altro vietò l’emigrazione per
il Plata. Questa mossa energica non poteva non piacere all’opinione
pubblica, ancora calda delle feste cinquantenarie; e quindi rafforzava
il Ministero. Ma intanto erano incominciate le trattative tra la
Francia e la Germania per il Marocco; e ben presto fu chiaro che
il decrepito impero stava per cadere, implorando protezione, ai
piedi della Francia. Incominciò allora, nell’opinione pubblica, una
inquietudine che, fomentata da molti giornali — e massime da quelli che
più fortemente avevano avversato il Ministero e il monopolio — divampò
presto in agitazione. Si rinfrescarono nella memoria del pubblico
le delusioni dell’Egitto e di Tunisi; si ripetè che tutti pigliavan
qualche cosa e noi sempre a mani vuote; si gridò che quella era la
suprema occasione; sinchè commosso e agitato come un gran pericolo
ci pendesse sul capo imminente, il pubblico chiese a gran voce la
Tripolitania a compenso del Marocco preso dalla Francia. Quale sarebbe
stato il dovere di un Governo forte in quel frangente difficile?

Resistere. Il pubblico non sapeva che, chiedendo la Tripolitania,
chiedeva nientemeno che l’aggressione in piena pace di una grande
Potenza europea; e dimenticava, mettendo in un fascio la Tripolitania,
la Tunisia ed il Marocco, che la Tripolitania era una provincia
dell’Impero turco, e l’Impero turco una grande Potenza europea, come
la Francia, l’Austria-Ungheria o la Germania, rappresentata nelle
capitali del mondo da ambasciatori; che tra Potenze europee non si
fanno guerre e conquiste se non c’è almeno un serio pretesto, in
mancanza di una ragione. La fatalità storica, il diritto della civiltà
superiore, la necessità di compensi per gli altrui ingrandimenti non
sono ammessi ancora in Europa tra i motivi o i pretesti di guerra. Se
l’Austria, delusa nelle sue ambizioni orientali dalla guerra balcanica,
avesse gridato a un tratto di sentirsi spinta dalla fatalità storica
a impadronirsi del Veneto e ci avesse dichiarata la guerra, affermando
che essa non voleva essere soffocata nell’Adriatico, che cosa avremmo
detto noi e che cosa avrebbe detto il mondo? Ma il pubblico incitava il
Governo italiano ad agire con la Turchia proprio a questo modo.

È vero che i letterati italiani, dal Machiavelli in poi, hanno sovente
e volentieri considerato il diritto e la morale come veli bugiardi
gettati sul mondo per nascondere la lotta brutale degli interessi, dai
quali un uomo di Stato abile e destro non si lascia impacciar troppo.
Ma è da sperare, per l’avvenire e per la salute del nostro Paese,
che il Governo non dimenticherà sempre così facilmente che anche i
principî di diritto internazionale, pur essendo limitati, parziali e
convenzionali, sono una delle impalcature che reggono alla meglio nel
mondo quell’ordine a cui si suol dare nome di civiltà. Nè credo possa
dubitarsi che, se il Governo fosse stato più forte, non si sarebbe così
facilmente indotto a dichiarare la guerra in quel modo che parve troppo
spicciativo in tutta Europa, a quanti pensano che il diritto delle
genti non debba essere solo un elegante passatempo di professori o un
pretesto per concorrere al premio Nobel.

Ma il Governo non poteva fare più assegnamento nella Camera sopra una
sicura maggioranza. Ma aveva proposto il monopolio e il suffragio
universale che la Camera non voleva approvare. Ma aveva urtati,
indispettiti, anche un po’ spaventati i partiti più potenti e i ceti
più ricchi. Se avesse cercato anche di resistere a quella esaltata
opinione popolare, avrebbe corso pericolo di essere rovesciato. Tutti
i nemici del monopolio e del suffragio universale non l’avrebbero
assalito, rimproverandogli di non aver difesi gli interessi dell’Italia
nel Mediterraneo? Con l’aiuto della collera pubblica, anche una
opposizione imbelle come quella che guatava nell’ombra il Governo,
poteva buttare nel Mediterraneo il Ministero e quelle leggi detestate,
senza più temere lo scioglimento della Camera. Non parrà cosa
probabile, a chi ricordi quale era lo spirito pubblico nell’autunno del
1911, che un Governo, rovesciato per non aver agito in Africa, avrebbe
osato appellarsi al Paese; e tanto peggio per lui, se avesse osato!

Non è da meravigliarsi dunque che il Ministero Giolitti abbia in
settembre gettati i dadi. La situazione politica interna non gli
lasciava scampo: o conquistava la Tripolitania o era spacciato. E
quella situazione non diè tregua al Governo nei primi mesi della
guerra, sinchè le due leggi, da cui tutto questo scompiglio è nato — il
monopolio ed il suffragio — non furono approvate.

Nell’ultima discussione parlamentare l’on. Giolitti, rispondendo agli
oratori che avevano biasimate le lentezze della guerra, disse che il
Governo aveva voluto piuttosto spendere denaro che versare sangue.
Decisione che a me pare molto savia, anche se sarà giudicata un’eresia
dai generali educati alla scuola di Napoleone. Ma la guerra è un’arte
viva e parte della politica: bisogna dunque adattarne i metodi ai tempi
e agli uomini. Chi pensa che le masse avrebbero allegramente consentito
a prodigare il proprio sangue per conquistare la Tripolitania e
la Cirenaica, vada a governare la repubblica di Platone. Ai tempi
che corrono, guai al Governo il quale, in una guerra coloniale,
dimenticasse che il sangue è un liquido più prezioso dell’inchiostro; e
che non si può prodigare il sangue a far delle grandi battaglie, come i
giornali prodigano l’inchiostro a reclamarle e a descriverle!

Senonchè qualche deputato socialista avrebbe, a quel punto del suo
savio discorso, dovuto interrompere il capo del Governo, dicendogli:
«Sta bene, ma allora non dovevate decretare l’annessione!». Qui sta
il punto. Il decreto di annessione richiedeva una guerra rapida,
energica, aggressiva: non la cauta guerra di posizioni, che abbiamo
rinnovata in Africa dalle campagne militari del settecento. Tutti i
guai della guerra di cui ci lagniamo sono nati da questa contradizione
tra lo scopo che si voleva conseguire — l’annessione, ossia la resa
incondizionata dell’avversario — e il modo di guerreggiare che abbiamo
scelto e che — lo ripeto — era il solo che potesse essere voluto da
un Governo non impazzito. Da questa contradizione, procedè infatti
la interminabile lunghezza della guerra e la sua spesa immoderata; da
questa contradizione, quello snervante gioco di minaccie eternamente
sospese, di bombardamenti a fior di pelle, di operazioni mai decisive;
da questa contradizione, quella guerra platonica, che alla fine
aveva esasperato noi, i nostri nemici e l’Europa tutta; da questa
contradizione, la fine della guerra, che sarebbe difficile dire se fu
una gran fortuna o una catastrofe. La pace di Losanna fu sottoscritta
dai Turchi, perchè ormai incalzava la guerra balcanica: la guerra
balcanica, dunque, fu lì per lì una provvidenza, perchè ci permise
di uscire alla meglio da quella contradizione impossibile in cui ci
eravamo cacciati, volendo uccidere il nemico senza colpirlo a morte.
Ma è lecito chiederci se non minacci di diventare nell’avvenire una
catastrofe, tante difficoltà nuove sono nate da quella.

Orbene: perchè nei primi giorni di novembre, quando appena avevamo
messo il piede nel paese, all’improvviso, il Governo usci fuori con
quel decreto? Nella risposta sta la ragione di molte tra le maggiori
difficoltà in cui siamo impigliati. Nè pretendo di darla io, questa
risposta. Non occorre però esser molto addentro nei segreti della
nostra politica, per affermare che il motivo primo di quell’atto
gravissimo, il motivo senza il quale gli altri, che possono avervi
contribuito, sarebbero stati senza effetto, deve cercarsi anche
quello nella situazione interna. Una pace che avesse assegnato a noi
i territori turchi dell’Africa salvando il prestigio del Sultano di
fronte ai Mussulmani, poteva, pur essendo seme di difficoltà future,
risparmiarci molte delle difficoltà presenti. Ma tale pace, finchè
durava la furia nazionalista dell’opinione pubblica, e finchè le due
famose leggi non erano approvate, poteva mettere in gran pericolo
il Governo. Che rumore avrebbero levato in ogni parte i nemici del
Ministero, i nemici del monopolio, i nemici del suffragio universale,
che erano tanti, denunciandola all’opinione pubblica come una sciagura!

Non ci sarebbe da meravigliarsi se un giorno si venisse a sapere
che il Governo, inquieto per lo zelo con cui qualche Potenza europea
cercava di persuaderci ad una ragionevole transazione con la Turchia,
abbia fatto il famoso decreto per poter meglio resistere a consigli
ed esortazioni, che gli avrebbero create gravi difficoltà interne.
Quel famoso Ministero insomma, per le persone che lo componevano e le
leggi che proponeva, non ha potuto reggersi in una Camera di diversa
opinione e di altro sentire; non ha potuto far approvare il monopolio
e il suffragio universale, che capitolando innanzi alla corrente
nazionalista, scatenata dalla guerra. La guerra alla Turchia e il
decreto di annessione furono il prezzo posto dal partito conservatore
all’approvazione del monopolio e del suffragio. Il Paese sborsò
volonteroso il prezzo; e quindi il Governo potè forzare la situazione
parlamentare e far approvare, da una maggioranza ostile, una legge
attenuata di monopolio, e il suffragio universale, tal quale l’aveva
proposto. Ma il prezzo era più gravoso assai che il Paese non credesse
da principio; onde è nato il penoso stato presente. Il quale richiede
ancora una breve disamina; e sarà poi possibile tirare la conclusione
di questa rapida storia.


3. — Non vogliate essere troppo abili!

(Dal _Secolo_, del 1º maggio 1914).

Mi è capitato spesso, in questi ultimi tempi, di udire deputati di
parte ministeriale esclamare sospirando: «Pare impossibile, ma dal 1911
in poi Giolitti non ha commesso che errori! Dove se ne è andata quella
sua antica e famosa abilità?». In verità l’on. Giolitti non ha commesso
che un errore, dal quale tutti gli altri hanno poi proceduto, per quel
ferreo destino che lega l’una all’altra le azioni umane.

Dico errore, perchè questo è forse uno dei pochi casi della
storia politica in cui la parola «errore» può essere adoperata non
impropriamente, ma per quel che davvero significa: atto cioè che ebbe
conseguenze non liete e che poteva schivarsi. Troppo spesso infatti
noi imputiamo le pubbliche sciagure all’errore di un uomo di Stato,
il quale fu invece costretto ad agire a quel modo, pur scorgendo
dell’agire il pericolo, perchè altrimenti incorreva in un male
maggiore. A pochi uomini di Stato invece capitò la rara fortuna e il
tremendo cimento, che toccò al Giolitti in quella primavera dell’11, in
cui la sua potenza toccò l’apogeo. Egli era allora veramente arbitro
della situazione: poteva cercare i suoi ministri a destra come a
sinistra, perchè ogni parte della Camera era pronta all’ossequio e alla
chiamata; poteva scegliere nella farragginosa eredità del Gabinetto
antecedente a piacere; fare un passo indietro o fare un passo innanzi
sulla via della riforma elettorale, in cui il suo predecessore aveva
messo il piede troppo alla leggera.

Per qual ragione egli cercò i suoi collaboratori tra i radicali e i
socialisti, e propose il monopolio e il suffragio universale? Lo mosse
certamente la speranza di gettare un altro ponte tra le istituzioni e
la moltitudine, anche a rischio di dover affrontare aspre lotte con i
partiti conservatori. Proposito nobile, senza dubbio: ma alla nobiltà
del proposito corrispondevano le forze? Se è vero quel che si dice,
egli avrebbe pensato che la sua potenza personale, tanto cresciuta
nell’ultimo decennio, potesse bastare, se appoggiata risolutamente
dagli uomini di parte Estrema, a sforzare le resistenze dei partiti
conservatori. Senonchè questo pensiero fu il vero e proprio errore
suo, dal quale tutti gli altri mali hanno proceduto. I fatti hanno
data ragione ai pochi che sin dal principio giudicarono artificioso
e temerario quel piano. Offrendo parte del potere ai radicali e ai
socialisti, il Giolitti si indebolì invece di rafforzarsi ad un Governo
di riforme: perchè la maggioranza, composta ancora di conservatori,
avversò le sue riforme per una doppia ragione e con una forza doppia:
per essere quelle ancora acerbe al loro gusto e per esser proposte da
un Ministero che scivolava troppo a sinistra. Cosicchè per conservare
il potere e per poter vincere l’opposizione nascosta o palese alle due
leggi capitali da lui proposte, dovè fare la guerra e farla secondando
la corrente imperialista.

A questo errore del capo del Governo corrispose un errore della parte
Estrema. Troppo facilmente questa parte si illuse, tre anni fa, di
potere, facendo leva della potenza personale dell’on. Giolitti,
smuovere il principio della maggioranza su cui posa il regime
parlamentare e impadronirsi, almeno parzialmente, del Governo prima del
tempo, pur essendo ancora piccola minoranza. Il sogno era bello, ma era
un sogno: e quanto meglio avrebbero fatto quei partiti a dar retta al
Fradeletto, che parve allora ai più un sognatore, mentre era il solo
che vegliasse e vedesse, ad occhi aperti, il mondo e le cose quali
erano! Forse il Paese non si troverebbe oggi in tanti guai.

Ma più grave è la responsabilità dei partiti e dei gruppi che
disponevano della maggioranza nel Parlamento. Questi gruppi e questi
partiti avevano il diritto di governare e la forza per far valere
questo diritto, che nei regimi parlamentari è appunto la maggioranza.
Questi gruppi e questi partiti non volevano nè un Governo per metà
radicale, nè il monopolio, nè il suffragio universale: perchè dunque
non si sono serviti della forza di cui pure disponevano per rovesciare
il Ministero sin dal principio? Perchè hanno invece giuocato di astuzia
prima e tentato poi, quando l’esaltazione popolare parve offrirne
l’occasione, di affogare nel Mediterraneo quel detestato Governo con
le sue leggi, mentre avevano pronta e alla mano l’arma infallibile per
recidere il sottile stame a cui per tanti mesi fu appesa la sua vita?
Perchè delirando alla fine anche essi insieme con le masse, e nella
folle speranza di sterminare i socialisti, hanno forzato il Governo
non soltanto a impadronirsi nel modo più spiccio e più semplice della
Tripolitania, ma a fare di proposito e per un puntiglio d’amor proprio
una guerra lunga e dispendiosa, che ha così sordamente irritate le
plebi?

La qual cosa apparirà un immane errore, sopratutto a chi la consideri
alla stregua dei ragionevoli interessi dei partiti conservatori. Questi
avranno negli anni venturi fin troppo frequenti occasioni di borbottar
fra i denti, come Strepsiade nelle _Nuvole_ di Aristofane: «Maledetta
guerra! Non posso più nemmeno castigare i miei servi». La lunghezza
della guerra — ci accadrà pur troppo di dover toccare spesso questo
tasto — ha indebolito ancor più lo Stato così di fronte alle masse,
come a petto delle potenti consorterie finanziarie e burocratiche che
da un pezzo minacciano sopraffarlo: ed è questo, tra gli effetti della
guerra, certamente il più funesto, quello che forse annulla da solo
tutti gli altri vantaggi che la guerra ha potuto procurarci, e quello
che peserà maggiormente sulle classi alte.

Non ho ricapitolata la storia di questi tre anni per incoraggiare il
pubblico alle sterili recriminazioni o per giudicare uomini e cose con
il facile senno di poi: l’ho ricapitolata affinchè riesca più agevole
ai più intendere la luminosa lezione che essa ci porge. Per quale
ragione siamo noi cascati nelle presenti difficoltà, che se non sono
invincibili, sono certo gravi e numerose? Perchè tutti i partiti hanno
voluto esser troppo abili e furbi; e hanno creduto di poter giocare
impunemente di scaltrezza con il principio stesso su cui riposa il
regime parlamentare: il principio di maggioranza.

Questo principio, come tutti i principî su cui posa di secolo
in secolo, nelle sue mutazioni incessanti, l’ordine sociale, è
convenzionale, limitato, rovesciabile, non necessario. È una finzione,
che un ingegno sottile e baldanzoso può facilmente, solo che voglia,
sbugiardare, provando che non nelle maggioranze ma nelle minoranze si
ritrova più spesso il senno e la ragione. Ma gli italiani furon sempre
gente di ingegno sottile e baldanzoso: da quando poi hanno perduto il
santo timor di Dio frequentando le scuole filosofiche aperte da due
secoli nei diversi Paesi di Europa, e specialmente in Germania, sono
diventati dei terribili sofisti, che giuocano con i principî politici,
morali, giuridici, estetici di cui il mondo ha vissuto e in cui il
mondo ha creduto per tanti secoli, come il prestigiatore giuoca con i
fazzoletti, i coltelli, le palle od i piatti.

Non è quindi da meravigliare se un uomo, fattosi in dieci anni
potentissimo nel Parlamento e nello Stato, abbia pensato alla fine di
poter sforzare questa finzione convenzionale sino a farne lo strumento
per porre ad effetto, a dispetto della maggioranza, un suo vasto
disegno politico; se delle minoranze abbiano creduto di potere, con un
po’ di scaltrezza, eluderla a proprio vantaggio e del Paese, scalzando
la maggioranza; se la maggioranza, minacciata da queste scaltrissime
abilità, si sia a sua volta illusa di poter difendersi con una
scaltrezza ancor più sottile: mantenendo intatti i suoi diritti senza
compier nessuno sforzo per farli valere!

Poche volte si videro tante abilità giostrare tra di loro in più
elegante torneo, intorno ad una formula, che essendo finzione, e
cioè apparenza, sembrava innocua ed inerte. Ma ahimè! Le finzioni che
reggono il mondo si vendicano a volte in maniere impensate e terribili
degli uomini che tentano far loro violenza o frodarle. Così fu che
per voler vincersi l’un l’altro in abilità ed in scaltrezza, uomini e
partiti accumularono negli ultimi tre anni tanta mole di errori, di
imprudenze e di impegni, che il Governo non meno che il Paese se ne
risentiranno per un pezzo.

È dunque venuto il tempo di ricordare che, se i principî su cui posa
l’ordine sociale sono in una certa misura convenzionali, limitati,
arbitrari, non necessari, non è possibile nè Stato, nè politica, nè
ordine morale, nè ragionevole concordia di intenti e di opere, se
gli uomini non frenano le passioni e la smania di ragionare in modo
da agire come se quei principî, sinchè vigono, fossero assoluti ed
eterni; se non li rispettano lealmente, invece di cercare di eluderli
o violentarli. Il che tradotto in linguaggio meno filosofico e più
chiaro vuol dire che la politica italiana ha bisogno di sincerità, di
lealtà e di verità. Noi non ci trarremo dalle difficoltà in cui ci ha
spinta una abilità troppo innamorata di combinazioni artificiose, se i
partiti, se i gruppi, se gli uomini non ritorneranno ad una più aperta
schiettezza e semplicità di intenzioni e di atti; se tra il dire e il
fare continuerà a interporsi un oceano di reticenze, di sottintesi,
di scaltre menzogne, di segrete mire, di interessate e consapevoli
imposture; se le minoranze non avranno pazienza di aspettare il potere
finchè non saranno maggioranza; se la maggioranza non avrà il coraggio
e l’energia di far valere il proprio diritto, ma crederà che ad
assicurarlo bastino i testi e le dottrine che i professori commentano
nelle Università innanzi a qualche dozzina di studenti sonnecchianti
e svogliati; se gli uomini cui tocca di governare il Paese, a furia di
volere esser abili, saranno così ingenui da illudersi che all’abilità
dei partiti politici sia rimasto quel potere di far miracoli, che gli
uomini negano ormai perfino a Domeneddio.


4. — La settimana rossa.

(Dal _Secolo_, del 17 giugno 1914).

Abbiamo noi veduti in questi giorni, per le piazze e per le vie delle
cento città, proprio quei guizzi e quei lampi, che precorrono nella
storia tutte le guerre civili? Non saprei. Certo è però che i casi di
Ancona furono più che altro l’occasione a manifestare una avversione
generale contro lo Stato e l’ordine costituito, che, sebbene sorda e
confusa, apparisce — il negarlo sarebbe cecità — largamente diffusa.

Si potrebbe discutere assai e molto si discuterà intorno alle cause
di questa crescente avversione. Io ne vorrei oggi studiare una sola,
che non è tra le minori: l’indebolimento dello Stato. I popoli sentono
i governi, come il cavallo sente il cavaliere: se è fermo in sella o
se si può sbalzarlo di groppa. Lo spirito rivoluzionario e la forza
dello Stato son come i due piatti della bilancia: uno scende, quando
l’altro sale. Le masse italiane prendono coraggio a manifestare con
atti rivoluzionari la loro avversione allo Stato, perchè lo sentono
indebolito. Indebolito dalla guerra e dalla Libia. Indebolito dalle
strettezze di denaro e dalle ultime elezioni. Indebolito dalla rivolta
della burocrazia, dal disordine intellettuale delle classi governanti,
dagli odî e dalle discordie che le dividono. Indebolito infine
dall’estenuamento in cui il Parlamento è caduto.

Chi voglia capire in che strette ci ritroviamo, volga lo sguardo dal
Paese a Montecitorio. Mentre si incendiano stazioni e chiese; mentre
in tutta la penisola folle infuriate assaltano lo Stato con i sassi
e lo Stato risponde a fucilate; mentre si preparano in ogni parte
repressioni e rappresaglie, oscure notizie arrivano dall’Abissinia.
A chi le sa leggere dicon chiaro che potrebbe presto scoppiare
un’altra guerra tra il regno d’Italia e l’impero di Etiopia. Abbiamo
ancora sulle braccia la Libia conquistata solo a metà. Abbiamo sulle
braccia l’Albania. Siamo ricascati di nuovo in quella contradizione
tra la nostra politica coloniale e la nostra politica continentale,
che fu una delle cause di Adua. Dobbiamo versare nell’erario, ogni
anno, parecchie centinaia di milioni di più. E pronto per affrontare
tutti questi pericoli, per vincere tutte queste difficoltà, sta un
Ministero che, sebbene conti parecchi ministri di ingegno egregio,
non ha e non avrà mai maggioranza sicura; che vive alla giornata, non
sapendo ogni mattina se il tramonto lo saluterà ancora al potere....
Ma la Camera non si risolve a rovesciarlo, perchè sa che il Ministero
che gli succederebbe non sarebbe nè più stabile nè più forte di
questo; perchè sa che il solo uomo il quale sarebbe sostenuto da una
maggioranza sicura, ha bisogno di riposo. Cosicchè i più sono ridotti
ad augurarsi che il solito «interregno», che si apre al principio di
ogni legislatura, duri poco.

Se la situazione fosse quale la vedon costoro, sarebbe già grave. In
un momento difficile la fortuna dell’Italia potrebbe pender dunque
da un filo così sottile e così fragile come è la energia, la forza,
la salute di un uomo solo? Ma più grave apparirà se si consideri che
anche le speranze riposte segretamente o palesemente da molti nell’uomo
possono a ragione giudicarsi chimeriche. Altro che _interregno_! È
una vera crisi dello Stato, questa: la crisi del Governo che ha retta
l’Italia negli ultimi quattordici anni; di quel curioso, artificioso e
in parte misterioso Governo non compreso dai più, che fu una mescolanza
— o contaminazione, se vogliamo adoperare la parola antica — di potere
personale e di governo di parte.

Questo fenomeno è di così vitale importanza, che giova soffermarsi
alquanto a studiarlo. Ci sono nel Parlamento, come si agitano nel
Paese, dei partiti veramente politici, bene o male organizzati, e che
rappresentano, alla meglio o alla peggio, le aspirazioni e i bisogni di
questa o di quella parte della Nazione. Tali il partito socialista, il
partito repubblicano, il partito radicale, il partito clericale; tale
anche quel partito, meno ben definito, più ondeggiante e svaporato,
ma di tutti il più potente, che chiamandosi qui costituzionale, là
liberale, altrove monarchico o moderato, dappertutto sbandierando
il tricolore e intonando la marcia reale, è il braccio e la voce di
quella parte delle classi alte che, per sentimento o per interesse,
è più ligia all’ordine di cose stabilito nel 1860. Ma questi partiti
non contendono tra di loro con varia fortuna che per una parte dei
508 collegi. Gli altri collegi sono rappresentati in Parlamento o da
milionari che li hanno comperati a peso d’oro; o da faccendieri, che
li hanno mendicati con i favori spiccioli; o da campioni di potenti
consorterie locali, che se ne sono impadroniti con le buone o con le
cattive maniere; o da beniamini del Governo, che li hanno scroccati con
l’aiuto di questo.

Di questa disparità di condizioni politiche un uomo si è abilmente
prevalso, nel primo decennio del secolo, per primeggiare, come nessun
altro prima di lui, nello Stato. Forte del prestigio acquistato
debellando ed ammansando i socialisti, favorito dalla prosperità
economica e da altre circostanze, che sarebbe troppo lungo esporre,
l’on. Giolitti riuscì, tra il 1900 e il 1906, a raccogliere, nei
collegi dove i partiti politici erano meno forti, una clientela di
deputati ligi a lui personalmente, numerosa e fedele. Ci riuscì qui
imponendo con la forza del Governo degli amici provati; là puntellando
la fortuna pericolante di un partito o di un uomo; dovunque discernendo
con occhio sicuro quello tra gli uomini e i partiti rivali che già da
solo era più forte e facendo piegare definitivamente a suo vantaggio le
sorti della contesa.

Ma il rapido e il rigoglioso crescere in Parlamento d’una forte
clientela ligia ad un uomo soltanto, e quindi di un potere personale,
in mezzo ai partiti che già del Parlamento occupavano tanta parte, non
poteva non generare un perturbamento profondo. Il Governo parlamentare
è un sistema di convenzioni, che non può reggere alla critica del buon
senso, se non ci sono dei partiti un po’ distinti e disposti a lottare
tra di loro con una certa lealtà. Questi tolti di mezzo o indeboliti
oltre misura, quel Governo non è più che una commedia senza senso.
Si spiega dunque come tra il 1900 e il 1906 tutti i partiti — quelli
di destra e quelli di sinistra — si siano sentiti ogni tanto spinti
ad assaltare, per distruggerlo, quel potere personale che si andava
rafforzando in mezzo a loro. Ma tutti gli assalti — movessero da destra
o da sinistra — furono brevi, fiacchi, slegati. Ogni partito, solo,
era troppo debole; e nessuno aveva tal repugnanza al potere personale,
da non acconciarvisi facilmente, se il potere personale servisse le
sue ambizioni e i suoi interessi. D’altra parte lo stringere alleanze
era cosa difficile. Ci si provò il Sonnino nel 1906. Parve strano a
molti che egli comparisse al banco dei ministri tra il Sacchi e il
Pantano da una parte, il Boselli e il Rubini dall’altra! Ma strano
non era. Il Sonnino aveva cercato con quel Ministero di unire tutti i
partiti più propriamente politici, rappresentati alla Camera, contro la
preponderanza di una clientela personale.

Il tentativo non riuscì, per molte ragioni; tra le altre, perchè
poco prima della battaglia decisiva, i socialisti, l’ala sinistra
della coalizione, si sbandarono. Ma se, a capo di quella clientela,
l’on. Giolitti era il più forte tra tutti i parlamentari, non avrebbe
neppur egli potuto governare a dispetto di tutti i partiti. Quindi
lo studio indefesso per procurarsi, a destra e a sinistra, l’appoggio
sottinteso e indiretto almeno, quando non poteva averlo dichiarato e
manifesto, dei partiti politici. Ma egli non fu veramente l’arbitro
della situazione che dopo il 1906, allorchè, fallito il tentativo del
Sonnino, tutti i partiti rinunciarono, apertamente o tacitamente,
a combattere la sua preminenza nello Stato. In ciascun partito gli
inconciliabili che non vollero deporre le armi, il Ferri e il Ciccotti
sulla montagna, il Sonnino e il Salandra a destra, furono lasciati in
disparte a continuare una stanca guerriglia di sparuti manipoli. E gli
altri cercarono d’intendersi con quel potere personale che ormai teneva
saldo l’acropoli dello Stato.

Così nacque e crebbe, nel primo lustro del secolo, quel potere
tra costituzionale e personale, tra consortesco e politico, che ha
governata l’Italia senza contrasto, tra il 1906 e il 1911, facendo del
bene e del male. Narcotizzò, se non spense, molti odî, molti rancori,
molte collere e molte impazienze; infrenò in Parlamento le furibonde
gare dei capi, che ci avevano condotti ad Adua; seppe e potè — sino
al 1911 — non chiedere al Parlamento e alla Nazione nè sangue, nè
sacrifici straordinari, nè più denaro di quel che già il popolo era
avvezzo a pagare: sopratutto — e fu sino al 1911 il suo merito maggiore
— non die’ in nessuna di quelle tragiche follie, non commise nessuno
di quegli errori irreparabili, in cui pare destino che noi dobbiamo
ogni tanto ricascare. Ma ha nel tempo stesso indebolito lo Stato ad
un punto, che anche i ciechi incominciano adesso a vedere il pericolo,
cercando di accontentare i partiti, le classi e gli interessi opposti,
il più spesso a danno degli interessi generali e della giustizia.

Negli ultimi dieci anni io ho potuto vedere e parlare, in molti
Stati d’Europa e delle due Americhe, con capi di Stato, con ministri,
ambasciatori, membri di famiglie regnanti o di Parlamenti. Figurarsi
se non ne ho sentite di tutti i colori intorno all’arte di governare
gli uomini! Ma in nessuna città di Europa e d’America provai mai
tal sorpresa, come una sera in Roma, in casa di un amico, alla cui
mensa pranzavo con un uomo di Stato molto autorevole anche oggi e
che ha occupati parecchi ministeri nei diversi Governi dell’ultimo
quindicennio, tra gli altri quello che è forse il più spinoso tra i
ministeri non politici. Il discorso era caduto sui terribili guai che
avevano tribolato parecchi dei suoi predecessori in quel ministero:
quand’ecco quel potente ci dice che egli aveva trovato il mezzo di
superare tutte le difficoltà in cui gli altri avevano così malamente
incappato. Gli fu chiesto quale; e quello sorridendo:

— Ho _esautorato_ il Ministero!

Non potei trattenere un gesto così espressivo di stupore, che il
ministro, volgendosi con un cortese sorriso verso di me:

— Sì — continuò scandendo le sillabe — ho _e-sa-u-to-ra-to_ il
Ministero.... — E mi spiegò, lieto e orgoglioso, che aveva pensato
non ci fosse miglior mezzo di evitar guai, che deferire quanto più
gli riusciva i poteri del Ministero alle Commissioni, ai Consigli
superiori, ai Corpi amministrativi, ai Sindacati del personale —
non lasciando al ministro altro compito che quello di attaccare i
francobolli sulle lettere. Orbene: questa frase alquanto ingenua
definisce meravigliosamente il Governo che ha retta negli ultimi
quindici anni l’Italia. Per non assumere responsabilità troppo grandi,
per semplificare il suo compito, per non cedere alla tentazione di mal
fare, per disarmare opposizioni talvolta giuste e tal’altra faziose,
per procurarsi una facile popolarità, lo Stato ha lasciato fare, ha
chiuso un occhio, ha ceduto poteri, ha rinunciato a diritti, ha veduti
abusi in quantità convertirsi in diritti acquisiti; cosicchè oggi si è
ridotto a non aver quasi più alcuna autorità per difendere l’interesse
generale e per imporre la giustizia.

Avevamo bevuto il vino senz’alcool, e fumati i sigari senza nicotina:
il secolo felice vuol che obbediamo anche allo Stato senza autorità!
Ma è facile capire che un Governo esautorato può governare in tempi
prosperi e facili, non in tempi agitati e difficili. Perciò vorremmo
che il Parlamento non si facesse soverchie illusioni sulla miracolosa
potenza di nessun uomo, e neppure dell’uomo che dal 1901 governa
l’Italia. Egli potrebbe, forse, comporre un Ministero forte e sicuro
nelle votazioni e nei tornei oratorî di Montecitorio; ma non so se
potrebbe comporre un Ministero non solo più stabile, ma anche più
fattivo di quello che ora governa. Ha dato le dimissioni nel mese di
marzo perchè, nonostante la maggioranza che aveva numerosa e sicura,
non aveva forza ad affrontare la difficilissima situazione creata dalla
guerra di Tripoli e dal suffragio universale; e non si vede in quale
combinazione, a destra o a sinistra, potrebbe ringagliardirsi al nuovo
còmpito fattosi tanto più arduo. La maggioranza — non dimentichiamolo,
per carità, in questo grave momento — è nei regimi parlamentari la
finzione — o se volete adoperare una parola più elegante — il principio
convenzionale che legittima il potere. Non è per se stessa fonte nè di
energia, nè di intelligenza. Quanti Governi si son visti, sostenuti da
strabocchevoli maggioranze, eppure impotenti e paralitici!

E allora? La conclusione è chiara. Ci troviamo in pericoli molto
maggiori che i più non pensino. Se il Parlamento e il Paese non fanno
a tempo uno sforzo vigoroso, noi potremmo anche incorrere in qualche
catastrofe. E ancora e sempre occorrerebbe ricordarci di Adua!




II.

L’ITALIA NELL’INVERNO DEL 1915 E LE SUE ESITAZIONI


I.

Nel 1866, quando si stava trattando la pace tra l’Italia, l’Austria
e la Prussia, e già era trapelato che l’Italia riceverebbe il Veneto,
ma non il Trentino nè l’Istria, Giuseppe Mazzini pubblicò nell’_Unità
Italiana_ del 25 agosto uno scritto per chiarire al popolo i danni
e i pericoli di siffatta pace. In quello scritto le rivendicazioni
nazionali dell’Italia sono enumerate e illustrate con tanta abbondanza
di argomenti, con tanta chiarezza e dottrina, con tanto colore e calore
di eloquenza, che io non so resistere alla tentazione di citarne il
brano capitale.

«Le Alpi Giulie son nostre come le Carniche delle quali sono appendice.
Il litorale Istriano è la parte orientale, il compimento del litorale
Veneto. Nostro è l’Alto Friuli. Per condizioni etnografiche,
politiche, commerciali, nostra è l’Istria; necessaria all’Italia
come sono necessari i porti della Dalmazia agli Slavi meridionali.
Nostra è Trieste, nostra è la Postoina o Carsia, ora sottoposta
amministrativamente a Lubiana. Da Cluverio a Napoleone, dall’_Utraeque_
(Venezia e Istria) «_pro una provincia habentur_» di Paolo Diacono al
«_due gran montagne dividono l’Italia dai barbari; l’una addimandata
Monte Calvera, l’altra Monte Maggiore nominata_» di Leandro Alberti,
geografi, storici, uomini politici e militari assegnarono all’Italia
i confini accennati dall’Alighieri e confermati dalle tradizioni
e dalla favella. Ma, s’anche diritti e doveri fossero or poca cosa
per gli Italiani, perchè dimenticherebbero l’utile e la difesa? Dai
paesi dell’Alto Friuli scesero nel 1848 le forze che ci sconfissero
in Lombardia e isolarono Venezia. E l’Istria è la chiave della nostra
frontiera orientale, la porta d’Italia dal lato dell’Adriatico, il
ponte che è fra noi, gli Ungaresi e gli Slavi. Abbandonandola, quei
popoli rimangono nemici nostri: avendola, sono sottratti all’esercito
nemico e alleati del nostro.

«Nostro — se mai terra italiana fu nostra — è il Trentino: nostro fino
al di là di Brunopoli, alla cinta delle Alpi Retiche. Là sono le Alpi
interne o Prealpi: e nostre sono le acque che ne discendono a versarsi,
da un lato, nell’Adige, dall’altro, nell’Adda, nell’Oglio, nel Chiese,
e tutte poi nel Po e nel Golfo Veneto. E la natura, gli ulivi, gli
agrumi, le frutta meridionali, la temperatura, a contrasto colla valle
dell’Inn, parlano a noi e al viaggiatore straniero d’Italia: ricordano
la X Regione italica della geografia romana d’Augusto. E italiane
vi sono le tradizioni, le civili abitudini: italiane le relazioni
economiche: italiane le linee naturali del sistema di comunicazioni: e
italiana è la lingua: su 500.000 abitanti, soli 100.000 sono di stirpe
teutonica, non compatti e facili a italianizzarsi.

«Ma, s’anche foste, o Italiani, incapaci di sentire il vincolo
nazionale d’amore che annoda le vostre terre con quelle 246 miglia
quadrate giacenti al di qua delle Alpi — s’anche poteste esser immemori
dei Trentini che morirono per la causa d’Italia e combattevano ieri per
essa nelle vostre file — s’anche il cannone che serbate in Alessandria
col nome _Trento_, tra i cento che anni sono il patriottismo del
Paese vi dava non dovesse essere rimorso a voi, ironia pei Trentini —
non dimenticate almeno che il Trentino è l’altra porta d’Italia; non
dimenticate che monti, fiumi, valli di quelle Prealpi, sino al lago
di Garda formano un vasto campo trincerato dalla natura, chiave del
bacino del Po — che l’Alto Adige taglia tutte le comunicazioni tra il
nemico e noi; e ad essere sicuri bisogna averlo; che là si concentrano
tutte le vie militari conducenti per la valle del Noce e il Tonale a
Bergamo e Milano, pel Sarca e pel Chiese a Rocca d’Anfo, per la riva
sinistra dell’Adige a Verona, per le sorgenti del Brenta a Bassano: —
che il Trentino è un cuneo cacciato fra la Lombardia e la Venezia, non
concedente che una zona ristretta alle comunicazioni militari dirette
fra quelle due ali dell’esercito nazionale: — che mentre il nemico,
giovandosi dell’Istria e dei passi dell’Alto Friuli da voi concessi,
opererebbe a oriente sul Veneto, gli rimarrebbe aperta l’invasione a
occidente pel passo di Colfredo, per la valle d’Ampezzo e per quella
di Agordo; che tutte le grandi autorità militari, fino a Napoleone,
statuirono unica valida frontiera all’Italia essere quella segnata
dalla natura sui vertici che separano le acque del Mar Nero e quelle
del seno Adriatico.

«Accettando voi dunque, o Italiani, la pace che v’è minacciata, non
solamente porreste un suggello di vergogna sulla fronte della Nazione
— non solamente tradireste vilmente i vostri fratelli dell’Istria,
del Friuli e del Trentino — non solamente tronchereste per lunghi anni
ogni degno futuro all’Italia condannandovi ad essere potenza di terzo
rango in Europa; non solamente perdereste ogni fiducia di popoli, ogni
influenza iniziatrice con essi; ma sospendereste voi stessi sulla
vostra testa la spada di Damocle dell’invasione straniera. E questa
spada di Damocle significa per voi impossibilità di sciogliere o di
scemare l’esercito: importa impossibilità di economie, incertezza
d’ogni cosa, assenza d’ogni fiducia per parte dei capitalisti e d’ogni
pacifico sicuro sviluppo di vita industriale, diminuzione progressiva
di credito, accrescimento progressivo di disavanzo, impossibilità di
rimedi, rovina economica e fallimento: importa — dacchè non tutti fra
voi si rassegneranno — agitazione crescente, perenne: discordia più che
mai accanita di parti; guerra civile in un tempo più o meno remoto, ma
inevitabile»[1].


II.

Non una frase sola di queste pagine è invecchiata, dopo quasi mezzo
secolo. Nessuno potrebbe, neppure oggi, esporre più lucidamente le
ragioni per le quali l’Italia dovrebbe sforzarsi di compiere la sua
unità nazionale e di farla finita con il pericolo austriaco che dal
1859 in poi non ha cessato un istante di minacciarci. Ma se oggi ancora
valgono tutte le ragioni, enumerate nel 1866 dal Mazzini per dimostrare
che il Regno d’Italia non sarà sicuro del presente e dell’avvenire
sinchè non avrà conquistate le provincie italiane oggi ancor soggette
all’impero degli Absburgo, a quelle enumerate dal Mazzini se ne possono
ora aggiungere altre due, che allora non esistevano ancora. La prima
è una ragione di ordine militare. Tutti sanno che nell’Adriatico la
sponda orientale è frastagliata, piena di golfi e di seni, ricca quindi
di eccellenti porti naturali; la sponda occidentale invece — l’italiana
— è liscia, senza golfi e seni profondi, e quindi senza porti. Noi non
possiamo opporre nessun porto ai meravigliosi porti naturali di Pola e
di Cattaro. Ma dal 1866 in poi le armate navali si sono fatte giganti;
e quindi cercano case proporzionate alla loro mole crescente; hanno
bisogno di porti immensi e di arsenali giganteschi. Onde l’Italia si
trova e si troverà sempre quasi disarmata nell’Adriatico, di fronte
alla potenza che tenga l’Istria, Pola e la Dalmazia.

L’altra è ragione nazionale e linguistica. In Istria ed in Dalmazia
le città sono italiane, mentre le campagne sono popolate da slavi.
Ma sino a trenta anni fa, gli slavi delle campagne non pensavano di
essere una razza ed un popolo diverso dagli italiani delle città:
imparavano l’italiano; frequentavano le scuole italiane; ambivano di
ascendere con lo studio e il lavoro in quella borghesia italiana che
nelle città commerciava, esercitava le professioni liberali, studiava,
scriveva e coltivava le arti; consideravano la loro lingua nazionale
come un dialetto, che serviva per la famiglia e la casa. Molte famiglie
italiane viventi nelle città discendono da slavi italianizzati e che
furono ai loro tempi fieri di diventare italiani. Uno dei più illustri
scrittori italiani del secolo XIX, e uno dei più insigni maestri della
filologia, Niccolò Tommaseo, era uno slavo di Zara, che la scuola e
la cultura avevano, come tanti altri, italianizzato. Senonchè questo
stato di cose s’è, negli ultimi trent’anni, profondamente alterato.
Per indebolire l’elemento italiano delle città, il Governo austriaco
si è studiato di accendere in Istria e in Dalmazia una fiera discordia
tra slavi e italiani, risvegliando nelle campagne slave il sentimento
nazionale; dicendo agli slavi che essi erano un popolo e una razza
differente dagli italiani, e che la loro lingua non doveva rimpiattarsi
nelle case, come un rozzo dialetto, ma essere ammessa nei tribunali,
nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle banche, a pari della
lingua italiana, con gli stessi onori. È apparsa infatti e cresce
da qualche decennio, nelle città e nelle cittadine che specchiano
nelle acque dell’Adria la bella faccia ancor veneziana, una borghesia
slava di professionisti, di mercanti, di banchieri, di professori, di
giornalisti, che si atteggia a rivale e nemica dell’italiana. Siccome
gli slavi son più numerosi e prolifici degli italiani, non solo la
costa Dalmata, ma l’Istria stessa, e in questa Trieste, difficilmente
potranno scampare al pericolo di slavizzarsi se l’Austria aiuterà
ancora per mezzo secolo gli slavi con la forza di uno Stato potente.
Solo conquistando l’Istria, noi potremo impedire che a Trieste non
si parli e non si scriva più tra cinquant’anni italiano; e che ogni
memoria dell’Italia sia perduta in quelle terre che dai tempi di
Augusto in poi furono sempre latine. Il che sarebbe come una disfatta
storica dell’Italia. Per ragioni che sarebbe troppo lungo enumerare,
è cosa oggi assai difficile di conquistare alla lingua italiana nuovi
territori. Tanto maggiore è dunque il nostro dovere di impedire che
nessuno dei territori in cui oggi si parla italiano lo dimentichi.


III.

Non sono dunque nè poche nè di poco momento le ragioni che
spingerebbero oggi l’Italia a unire le proprie armi a quelle che già
fanno guerra agli Imperi germanici. Sono ragioni così vitali che, se
l’Italia resterà con le braccia incrociate, è facile prevedere possa
riceverne un colpo mortale. Si dovrebbe quindi credere che in Italia
popolo e Governo siano uniti e concordi nel deliberato proposito di
rompere gli indugi e di affrettare il destino. Molti stranieri infatti
sono di questo pensiero; e di giorno in giorno aspettano che l’Italia
si muova. Ma passano le settimane e i mesi, senza che il gran gesto
si compia: onde ogni tanto molti voltano la testa sorpresi verso il
Mediterraneo e la penisola che in quella è chiusa, come chiedendo: «Ma
che cosa dunque aspetta l’Italia?». Quante lettere mi giungono ogni
settimana, da ogni parte, che mi pongono tutte la grande questione: «Ma
l’Italia cosa fa? Quando suonerà l’ora del destino?».

Eppure è così. Gli stranieri si ingannano. Quella volontà concorde,
risoluta ed unanime di tutti, che molti stranieri suppongono, non
esiste ancora. L’Italia è perplessa e divisa. C’è ancora chi pensa
che l’Italia avrebbe dovuto scendere in campo con l’Austria e la
Germania contro la Francia, la Russia e l’Inghilterra. C’è chi vuole
che l’Italia conservi la neutralità sino alla fine della guerra;
e chi vuole infine, che essa intervenga a fianco della Francia,
dell’Inghilterra e della Russia contro l’Austria. Di queste tre
opinioni, la prima ormai non è professata apertamente che dai pochi
fedeli della Triplice ancora superstiti; tra la seconda e la terza
è diviso quasi tutto il Paese; ma sebbene non sia cosa facile fare
il conto di quelli che professano l’una e di quelli che professano
l’altra opinione, non è dubbio che la maggioranza parteggia per la
neutralità. Se guardiamo al mondo politico, noi troviamo infatti
apertamente favorevoli alla neutralità il partito socialista e il
partito clericale; apertamente favorevoli all’intervento il partito
repubblicano, il partito riformista, che raccoglie la parte più
moderata del partito socialista, e il partito radicale; incerto e
perplesso il partito liberale, che è nel Parlamento il più numeroso.
Ma il partito socialista e il partito clericale hanno un seguito ben
più numeroso che non il partito radicale, il partito repubblicano e il
partito riformista.

Se dai partiti politici si passa al Paese si può affermare che il
popolo — i contadini e gli operai — sono quasi tutti avversi ad
ogni guerra, anche alla guerra contro l’Austria. I ceti industriali,
commerciali e finanziari sono più favorevoli alla pace che alla guerra;
ma la maggiore istruzione facendo chiaro a molti che in questo mondo
non basta voler la pace per averla, questi ceti si rassegnano alla
guerra, se questa sarà necessaria, come a una disgrazia che non c’è
mezzo di schivare. Bellicose — con maggiore o minor fervore — sono
invece le classi istruite: la burocrazia, i giornalisti, gli insegnanti
delle scuole, molti professionisti. Quasi tutti i giornali largamente
diffusi predicano la guerra all’Austria.

Anche più difficile è il distinguere tra regione e regione. Differenze
da città a città non mancano mai, in Italia; ma questa volta sono
più incerte e confuse che di solito. Pare che il Veneto, il quale
confina con l’Austria, sia favorevole alla guerra. Il Piemonte invece
l’avversa risolutamente, mentre la Lombardia e la Liguria sono divise.
Nell’Italia centrale ci sono regioni, come la Romagna, dove lo spirito
bellicoso, forse per opera del partito repubblicano, è entrato nella
moltitudine; ma anche nell’Italia centrale il partito favorevole alla
neutralità è forte. Si dice invece che il desiderio della guerra
prevalga nell’Italia meridionale e in Sicilia. Molte persone che
conoscono a fondo quei paesi me l’hanno ripetuto.


IV.

L’Italia, dunque, esita; e pur parteggiando per la coalizione, pur
desiderando che l’Inghilterra, la Francia e la Russia siano vittoriose,
inclina ancora più alla neutralità ed alla pace che all’intervento
e alla guerra. Ma per capire quel che è successo e quel che potrà
succedere in Italia non basta sapere quale è lo stato presente
dell’opinione pubblica; occorre conoscerne le ragioni. Come è accaduto
che l’Italia nel 1915 sia così lenta a intendere quella necessità
nazionale, che Giuseppe Mazzini spiegava già sin dal 1866 con così
luminosa chiarezza? Perchè è disorientato là dove anche gli stranieri
vedono chiaro? E per sciogliere questo quesito, occorre rammentare che
nel 1882 l’Italia contraeva con l’Austria e la Germania un’alleanza
la quale, rinnovata parecchie volte, è ancora valida, almeno in
teoria, poichè non è stata denunciata neppure quando scoppiò la guerra
Europea; ricordare quali obblighi impose all’Italia questa alleanza.
L’Italia era, tra le tre Potenze alleate, la più debole, perchè aveva
un territorio più angusto, popolazione meno numerosa, l’esercito più
piccolo, mediocre ricchezza e prestigio militare; onde dovè nei patti
subire la volontà dei due troppo potenti alleati. D’altra parte è
chiaro che l’Austria non avrebbe stretta alleanza con l’Italia, se il
Governo italiano non avesse cancellate le terre italiane dell’impero
dal novero delle sue rivendicazioni ufficiali. Così fu che, dopo aver
stretta alleanza con l’Austria, il Governo italiano dovè con le scuole,
i giornali e i partiti che a lui erano ligi, con tutti i mezzi insomma
di cui dispone in Europa un Governo — e son più numerosi e potenti
che in America — combattere e proscrivere «l’irredentismo», come lo
chiamiamo noi; fare quanto poteva affinchè la nazione dimenticasse che
degli italiani vivevano ancora sotto lo scettro degli Absburgo, che il
confine orientale era aperto all’invasione nemica, che nell’Adriatico
Italia e Austria erano nemiche non per malvolere di uomini, ma per
ragioni geografiche. Ci furono anni in cui, di Trento e di Trieste,
degli Italiani sudditi dell’Austria e delle cose loro, era prudenza
parlare in Italia a voce bassa, chi non volesse aver delle noie; e
sempre fu più prudente il non parlare affatto, massime per gli uomini
di Stato che non volevano cadere in disgrazia.... Restò famoso, verso
il 1890, il caso del ministro Seismit-Doda. Faceva costui parte di
un Ministero presieduto dal Crispi; ed ebbe un giorno la disgrazia
di essere invitato ad un pranzo pubblico, non ricordo più per quale
cerimonia, in una città posta poco lungi dal confine austriaco. A
questo banchetto assisteva un giovane deputato, che al levar delle
mense fece un discorso, ed alluse al vicino confine di cui l’Italia non
poteva dichiararsi contenta. Il ministro ascoltò senza battere ciglia
e senza dare a divedere alcun sentimento: e che altro avrebbe potuto
o dovuto fare? Ma per non aver protestato, fu in ventiquattro ore
destituito.


V.

Ho ricordato questo fatterello perchè chiarisce meglio di lunghi
ragionamenti a che prezzo l’Italia potè stringere alleanza con
l’Austria. Ogni tanto qualche nuova persecuzione degli Italiani sudditi
dell’Austria, che non si poteva nascondere; qualche episodio della
lotta incessante tra slavi e italiani di cui era necessario informare
il pubblico, ricordavano all’Italia che il problema adriatico poteva
essere dimenticato, non sepolto. Ma il Governo, stretto dal suo patto,
lasciava sbollire il primo dolore; poi con i suoi giornali, con i suoi
partiti, con tutti i mezzi di cui disponeva, cercava di affrettare
l’opera del tempo che tutto oblia.

Per lunghi anni, dunque, alle provincie irredente non restarono altri
protettori in Italia che il partito radicale e il partito repubblicano
— i quali però avevano poca autorità; e qualche poeta che ogni tanto,
tra una lirica di amore e una baruffa letteraria, saettava una manciata
di giambi contro l’Austria e gli Absburgo. Certamente il Governo
italiano faceva le viste di aver dimenticati gli Italiani soggetti
all’Austria, più che non li avesse dimenticati. La diplomazia sa
l’arte di eludere un trattato, mentre sembra osservarlo. Un giorno,
in cui tanti segreti saranno svelati, si saprà forse anche come dei
Ministeri, i quali perseguitavano in Italia le agitazioni irredentiste,
copertamente aiutavano con denaro gli Italiani dell’Istria e della
Dalmazia contro gli slavi e il Governo austriaco. Nè la tradizione
irredentista si perdeva tra le classi intellettuali. Giosuè Carducci,
lo scrittore che l’Italia ha canonizzato come il maggiore della seconda
metà del secolo XIX, a cui il Governo ha tributato nell’ultima parte
della sua vita i più grandi onori ufficiali, e al quale sta erigendo un
monumento in Bologna, fu un nemico implacabile dell’Austria. Insomma,
il Governo italiano avrebbe potuto far suo, per Trento e per Trieste,
il consiglio che Gambetta diede ai Francesi per l’Alsazia e la Lorena:
pensarci sempre e non parlarne mai. Credeva forse di provvedere così
nel tempo stesso agli interessi presenti dell’Italia e di riserbare
l’avvenire.

Ma le classi governanti non si accorgevano che, mentre esse pensavano
in silenzio a Trento e Trieste, anche in Italia, come in tutta
l’Europa, l’intera fabbrica dello Stato crescendo di mole e di altezza,
era necessità rinforzarne e ingrandirne le fondamenta, che posano sulla
plebe. A poco a poco il servizio militare e per conseguenza anche il
diritto di voto si allargavano. Era forza quindi istruire la plebe:
ma questa istruendosi non poteva non smettere una parte dell’antica
docilità; si raccoglieva in associazioni, parteggiava, voleva leggere
i suoi giornali, e far sentire la sua voce al Governo. Oggi, in
Italia, come in ogni altra nazione d’Europa, nessun Governo potrebbe
obbligare con la forza il popolo a fare una guerra, senza avergliene
spiegata in qualche modo la ragione. Ma per persuadere la plebe poco
colta, che l’Italia dovesse, presentandosi l’occasione, sforzarsi di
compiere anche con le armi l’unità nazionale, e per averla pronta in
quel giorno al cimento, non bastava pensare in silenzio ai fratelli
ancor soggetti all’Austria: occorreva parlarne al popolo e di continuo;
spiegargli che cosa fosse e che cosa minacciasse il pericolo austriaco,
come la Francia non ha smesso un istante di spiegare al popolo, dopo
il 1870, il pericolo tedesco; toccare il sentimento, alimentare una
fiamma di passione popolare con le formole diplomatiche e militari
della questione adriatica. Non si prepara la moltitudine alla guerra
con i ragionamenti, che possono convenire alle dotte discussioni di
una Accademia di scienze politiche o di un Consiglio superiore di
guerra. Chi ha parlato invece al popolo di Trento e di Trieste, negli
ultimi trent’anni? Nessuno. La letteratura, che ha conservata nelle
classi colte la tradizione irredentista, non è letta dalla plebe. La
scuola, che è un’istituzione ufficiale, non ha potuto diventare un
organo di propaganda avversa all’Austria. Dei partiti politici, il
partito conservatore e il liberale, ligi al Governo, si sono chiusi nel
silenzio. Il partito radicale e il partito repubblicano, che invece
non vollero mai tacere, non hanno mai avuto largo seguito, fuori che
in certe regioni. Grande ascendente ha acquistato invece sulla plebe,
in tutta Italia, il partito socialista: ma anche questo ha parlato
al popolo di cose ben diverse che non fossero le provincie irredente
dell’Austria. In conclusione, quando la guerra europea è scoppiata,
il popolo non aveva che un vago sentore di quel che l’Italia potesse o
dovesse fare nell’Adriatico.


VI.

È facile dunque capire in quali strette terribili si è trovato ad un
tratto il Governo italiano, allo scoppio della conflagrazione europea.
Pochi episodi della storia possono dimostrare più luminosamente non
esserci nè forza nè accorgimento di Governo che possa sostenere alla
lunga una politica troppo artificiosa. Sino al 24 luglio l’opinione
pubblica italiana era più incline a Germania che a Francia. Da due anni
c’era molto malumore tra i due popoli latini, per le diverse questioni
nate in Oriente ed in Africa dalla nostra guerra di Tripolitania: e i
giornali come i partiti ligi al Governo si sforzavano, quanto potevano,
di irritare ancora più quell’acredine ormai invelenita. Ma otto giorni
bastarono a capovolgere il sentimento della nazione. Nessuno di noi
dimenticherà finchè viva il procelloso tumulto di affetti che si levò
in Italia, in quella ultima settimana del luglio fatale e nelle prime
settimane dell’agosto del 1914; prima l’irritazione per le prepotenti
minaccie dell’Austria alla Serbia; poi l’irritazione per le tortuose
mosse delle due diplomazie tedesche nei giorni successivi, e per le
oblique intenzioni di cui erano indizio; indi lo stupore e il terrore,
allorchè la Germania sfoderò improvvisamente la spada dichiarando
guerra alla Russia e alla Francia: infine lo sdegno e il furore, quando
gli eserciti tedeschi si precipitarono per il Belgio neutrale sulla
Francia....

L’Italia voleva la pace; si era acconciata a sopportare molti danni
procedenti dalla Triplice alleanza, perchè l’avevano assicurata che,
sinchè fosse alleata dei due Imperi germanici, la guerra non avrebbe
sconvolta l’Europa: essa non potè perdonare, in quel momento supremo,
ai due Imperi alleati di aver tradita la sua suprema speranza. Senonchè
questa giusta collera pubblica buttava a terra in un giorno, come un
terremoto, tutto l’edificio che il Governo italiano aveva pazientemente
architettato in trent’anni. Il Governo italiano ebbe ragione di negare
il _casus foederis_; ma anche ci fosse stato il _casus foederis_,
come avrebbe potuto costringere la nazione a versare il suo sangue
per difendere la causa dei due Imperi aggressori? L’Italia si dichiarò
neutrale perchè la nazione, inorridita, non volle prestare man forte
all’aggressione premeditata dai due Imperi centrali. Passò così
l’agosto, e quelle settimane in cui ci toccò di ascoltare le prime
urla frenetiche di vittoria degli aggressori e dovemmo chiederci se
davvero la Giustizia era passata in qualche altro pianeta, per punire
gli uomini di averne tanto negletti gli altari. Per fortuna nella prima
quindicina di settembre i russi vincevano la battaglia di Lemberg, i
francesi la battaglia della Marna: e sbollito un poco lo sdegno dei
primi giorni d’agosto, calmatasi l’ansia del cominciar di settembre,
l’Italia prese a riflettere più ponderatamente sui terribili eventi
di cui l’Europa era teatro. Al Governo, a quanti avevano esperienza
di cose politiche e giudicavano senza passione, apparve allora chiaro
che se restasse neutrale, l’Italia potrebbe trovarsi dopo la guerra in
grande pericolo, qualunque fosse la parte vittoriosa. Vincessero, ad
esempio, i due Imperi germanici: l’Austria conquisterebbe la Serbia,
si amplierebbe, si rafforzerebbe di nuovo prestigio, e che altro
scampo sarebbe rimasto all’Italia, che già ora è più piccola, più
debole e meno popolosa dell’Austria, se non di rassegnarsi a figurar
nel codazzo degli Stati suoi clienti, insieme con la Rumenia e con la
Bulgaria? Avremmo noi potuto sperare aiuto od appoggio dalla Francia,
dall’Inghilterra e dalla Russia, vinte e indebolite? Se invece i
due Imperi germanici fossero vinti e l’Austria mutilata, senza che
all’Italia toccasse il brandello che è suo, le classi intellettuali
non perdonerebbero più, questa volta, nè alla Dinastia nè al Governo; e
dimenticando di aver approvata e favorita per trent’anni tutta l’opera
del Governo, gli rinfaccerebbero spietate tutti quegli atti che a suo
tempo approvarono come saggissimi. Ma a schivar Scilla senza incappare
in Cariddi, era forza muovere guerra all’Austria. Ora non è facile,
come ognuno intende, improvvisare in pochi mesi la guerra contro un
Impero, dopo esserne stati per trentatrè anni alleati.


VII.

Le maggiori difficoltà con cui il Governo si trova alle prese sono due:
la avversione, non aperta ma tenace di una parte assai potente delle
classi governanti, che non vuole la guerra contro l’Austria, perchè
è amica della Germania e vuol sostenere in Europa il germanesimo;
e l’avversione aperta della plebe che, pur essendo avversa ai
tedeschi, non vuol fare la guerra se l’Italia non è assalita, perchè
preferisce la pace. Le classi governanti dell’Italia sono state troppo
germanizzate negli ultimi trent’anni, nelle Scuole e nelle Università,
dalla scienza, dalla filosofia, dalla letteratura, dai giornali,
perchè potessero davvero e sul serio inorridire di questa sanguinosa
avventura, che è, come la Riforma, come la filosofia di Hegel, come
la Monarchia prussiana, un’opera genuina dello spirito germanico.
Dopo il 1870 hanno di continuo tentennato tra le ideologie umanitarie
e democratiche venute di Francia, che ci erano state di così grande
aiuto a rifarci nazione; e le dottrine autoritarie, gli antichi e
recenti evangeli della forza a cui le vittorie della Germania avevano
conferita nuova autorità: hanno sempre spregiate nell’intima coscienza
le ideologie umanitarie e democratiche, come tante altre cose venute
di Francia, e si sono sentite attratte piuttosto dalla forza tedesca;
ma si erano troppo servite, in passato, di quelle ideologie, se ne
servono troppo nel presente, da osare apertamente negarle! Onde le
infinite contradizioni in cui si sono smarrite negli ultimi trent’anni,
e quando la guerra europea scoppiò. Universale fu da prima, anche nelle
classi governanti d’Italia, lo sdegno per l’aggressione germanica e
la gioia per la vittoria delle armi francesi sulla Marna: ma poi, a
poco a poco, dileguata la prima impressione, mentre una parte veniva
meditando su quel che succederebbe all’Italia se essa uscisse dalla
crisi a mani vuote, un’altra parte si chiedeva quel che succederebbe
se il germanesimo fosse troppo indebolito in Europa In quale misura
sarebbe perturbato l’equilibrio politico, religioso, intellettuale,
economico dell’Europa? E quanti di questi perturbamenti nuocerebbero
al prestigio, alla potenza, alla ricchezza di questo o di quel partito,
di questa o di quella consorteria, di questo o di quel gruppo? E rotta
per sempre la Triplice Alleanza, non incomincerebbe per l’Italia un
nuovo periodo storico, diverso dal precedente, in cui bisognerebbe
mutar troppe delle antiche cose? Gli uomini e i gruppi politici
che per trent’anni avevano insegnato all’Italia che la Germania era
invincibile, che l’Austria e la Germania erano lo scudo delle nostre
fortune, che cosa potrebbero dire e fare il giorno in cui l’Italia
movesse in armi contro i suoi antichi alleati? Alcuni anche sentono
degli scrupoli sinceri di lealtà.

A questa parte delle classi governanti si oppone l’altra, che si
sforza con grande ardore di riguadagnare il tempo perduto; e cerca
di convincere il popolo esser necessario muovere guerra all’Austria,
per rivendicare nell’Adriatico l’eredità della Serenissima e liberare
i fratelli ancora irredenti. Ma la plebe sinora è rimasta piuttosto
fredda, perchè a suscitar nella moltitudine numerosa, torpida e lenta,
una grande passione incitatrice, occorrono le lunghe preparazioni.
È facile dunque capire che, sinchè queste due opposizioni, o almeno
una delle due non venga meno, l’intervento dell’Italia nel conflitto
europeo non sarà un’impresa così semplice e facile come molti stranieri
pensano. Tuttavia io credo che, nonostante queste difficoltà che
sono grandissime, l’Italia prenderà parte alla guerra europea contro
l’Austria, accanto alla Francia, all’Inghilterra, alla Russia. Se tra
un mese o due o tre, se quando le nevi si scioglieranno sulle Alpi o
prima, io non lo so, e forse lo ignora ancora lo stesso Governo. Gli
eventi indicheranno il momento; ma il momento dovrebbe scoccare....

E per questa ragione, precipuamente: che sebbene le difficoltà
e i pericoli del muovere guerra siano grandi, verrà il giorno in
cui, massime se la fortuna delle armi continuerà ad essere avversa
all’Austria, il pericolo del non agire apparirà anche maggiore. E
apparirà maggiore del primo perchè se l’Austria fosse vinta e mutilata,
senza che l’Italia riscattasse in libertà le provincie italiane, tutta
Italia, anche quella parte che ora più ardentemente chiede di restare
neutrale, capirebbe alla fine quel che da un pezzo pochi spiriti più
illuminati avevano inutilmente veduto: che se si può discutere intorno
alla Triplice Alleanza, quale fu stipulata nel 1882, se cioè fu allora
errore o no lo stipularla, fu certo errore grave averla rinnovata
così a lungo, dopochè la Triplice Intesa si era stretta, ed errore
gravissimo non essersi accorti che dal 1905 in poi l’Alleanza aveva
mutato scopo e indirizzo. Pur quanti pensano che l’Italia avrebbe fatto
meglio a non legarsi nè nel 1882 nè mai con i due Imperi germanici,
riconoscono però che dal 1882 al 1900 la Triplice Alleanza ebbe il
merito di volere la pace. In Germania governava la generazione che
aveva combattute le guerre del 1866 e del 1870; e che chiedeva soltanto
di conservare gli acquisti fatti con tanta fortuna. Ma dal 1900 in
poi, a poco a poco, lo spirito pubblico muta in Germania; cresce una
nuova generazione, che, piena di orgoglio e ignara di guerra, sogna le
glorie e i lucri di una egemonia mondiale; mentre l’Austria, che non è
riuscita a trovar ristoro all’interno travaglio nella pace, ricomincia
a pensar di salvarsi con la guerra. L’alleanza, dal 1905, dopo la
questione del Marocco, diventa aggressiva: ma il Governo italiano,
che pure, come il popolo, voleva ancora e solamente la pace, non se ne
accorge; vede sempre con gli occhi antichi nella Germania il custode
armato e vigile della pace europea[2]; non fa nulla nè per impedire
la catastrofe nè per preparare l’Italia ad affrontarla; rinnova ad
ogni scadenza il patto; lascia gli antichi rapporti con l’Inghilterra
raffreddarsi e rallentarsi; aizza ogni tanto l’opinione pubblica contro
la Francia; e lascia la guerra europea sopraggiungere l’Italia alleata
di due Potenze con cui non voleva combattere; inclinata alle Potenze di
cui avrebbe dovuto esser nemica; e poco preparata ad intendere che la
neutralità sarebbe una specie di suicidio nazionale.

Che cosa potrebbe accadere se, terminata la guerra europea, quando
l’Italia dovrà penare con gli altri popoli d’Europa nella lunga miseria
che allora accomunerà belligeranti e neutrali, vinti e vincitori,
dovesse per di più sentirsi delusa per l’occasione mancata, odiata
dagli uni come traditrice, spregiata dagli altri come inetta e pavida;
e se il partito repubblicano, il partito socialista, i malcontenti, gli
ambiziosi, i mestatori approfittassero dello stato d’animo popolare,
per indagare come e per colpa di chi questi errori sono stati commessi?
Questa paura spingerà al momento decisivo il Governo ad agire; ossia
— per esprimere la stessa idea con altre parole — il Governo sarà un
giorno obbligato a far la guerra all’Austria perchè troppo lungamente,
fedelmente e quasi devotamente ne fu alleato. Questo basti, per dire
quanto la situazione sia oscura e difficile. Ma è un destino a cui non
si può sfuggire. La fortuna, che ci ha assistito altra volta, non vorrà
abbandonarci oggi. Ma che i numerosi amici dell’Italia sparsi nel nuovo
mondo, non si facciano illusioni e non si meraviglino se l’Italia tarda
tanto a muoversi. Il cimento a cui essa si avvia, sarà il più aspro e
pericoloso a cui si è accinta dal 1859. Quanti amano il proprio Paese
e non prendono le cose troppo alla leggera, non dormono oggi sonni
tranquilli. Come vorrei che questo terribile anno passasse presto; e
che potessi domani svegliarmi nel 1916, fuori di tutti gli orrori e
di tutti i pericoli di cui sentiamo incombere la nuvolosa minaccia sul
nostro capo!




III.

LA CRISI DI MAGGIO E LA GUERRA


1. — L’ultima esitazione.

Che l’on. Giolitti si proponesse, se non di accettare definitivamente,
di discutere le ultime concessioni dell’Austria e di tenere l’Italia
almeno per qualche tempo ancora in disparte dal grande conflitto,
è cosa ormai manifesta e che del resto non meraviglia. La guerra
tra l’Italia e l’Austria è stata l’opera dei «pennaroli» — come li
chiamava quel Borbone, che li spregiava e temeva; dell’«intelligenza»
come oggi si dice qualche volta non senza pretensione e seguendo un
vezzo tedesco; della gente di cappa e di penna insomma, o, per parlar
più alla buona, delle classi colte: giornalisti e poeti, professori e
avvocati, studenti ed artisti. Ma tra queste classi e l’on. Giolitti
non c’è mai stato buon sangue. L’uomo che per tanti anni ha governata
l’Italia è un fonditore che maneggia la fiamma, non una falena che ci
si butta dentro; un uomo di Stato, simile a tanti altri che l’Italia
ha generati in tutti i secoli, freddi e cauti nel fuoco delle passioni
che attizzano per governare. Poteva l’«intelligenza» del Paese mandar
la Poesia e la Storia, la Geografia e la Filologia, la Retorica e
la Strategica, tutte le Muse per i trivii e le piazze a bandire la
guerra: sinchè il popolo tirava via sbadato, lasciando queste nobili
signore predicare a un piccolo cerchio di già convertiti; sinchè il
suffragio universale non avesse dato il suo consenso alla guerra,
l’uomo di Stato, che il suffragio universale aveva imposto all’Italia
riluttante, avrebbe considerato savio consiglio cercare sino all’ultimo
di conciliare le aspirazioni degli uni e le riluttanze degli altri
tentando una via di mezzo. Chè null’altro se non una via di mezzo tra
l’intervento e la piena neutralità erano i compensi da ottener per
trattato.

Così pensando, il _princeps_ del Parlamento teneva fede al suo modo
proprio di vedere e di governare, anche se, come altre volte, si
dimostrava un po’ troppo sollecito soltanto delle difficoltà immediate
e dei primi effetti. Quando l’8 maggio egli partì da Torino alla volta
di Roma, la situazione era ancora quale l’avevo descritta sul finire
di gennaio nelle pagine mandate all’_Atlantic Monthly_ e ristampate in
questo volume. In alto il partito germanofilo che, piccolo e schivo
di apparire, ma attivo e potentissimo, non tralasciava sforzi, pur
dissimulandoli, per impedire la guerra: in basso le plebi o apatiche o
avverse; tra quello e queste, a mezza costa, le classi medie, incerte
e desiderose se si potesse, di schivare la prova; i due partiti di
maggior seguito — il clericale e il socialista — per la prima volta
concordi nel chiedere che l’Italia non prendesse le armi; il Parlamento
in maggioranza avverso all’intervento, la Camera, perchè paurosa del
suffragio universale, il Senato, perchè cariato di germanesimo sino
alle ossa. Insomma, il Paese più incline a pace che a guerra; ma
tutto cosparso di piccoli e focosi stormi di partigiani della guerra,
accorsi dalle biblioteche, dalle scuole, dagli uffici dei giornali,
dai partiti di poco seguito, come il riformista e il repubblicano;
e rinforzati da non pochi dispersi e fuorusciti di tutti gli altri
partiti. Dimodochè chi guardava al Paese solo e considerava lo stato
degli animi, poteva conchiudere, che il capo della maggioranza avesse
il diritto e il dovere di andare a Roma a rovesciare il Ministero, che
preparava in segreto la guerra; e non poteva dubitare che riuscirebbe.
Autorevolissimo a Palazzo, così potente nel Parlamento da averlo
forzato ad approvar perfino la legge del suffragio universale, egli
poteva fare assegnamento per quella sua mossa lungamente studiata sulla
piazza, sulla maggioranza del Parlamento che questa volta era d’accordo
con lui, sul partito socialista, sul partito clericale, e sul consenso,
sia pure generico, del maggior numero che, senza troppo stillarsi il
cervello a pensare il pro e il contro, chiedeva la pace perchè temeva
la guerra. Gli stava invece a fronte un Ministero, il quale aveva
vissuto sino allora delle sue elemosine di fiducia; alcuni giornali
diffusi; alcuni partiti che avevano più ardore che seguito; e quegli
stormi di propagandisti focosi: poca gente, a contarla, per quanto
facesse un rumore indiavolato.

L’autore di queste pagine aveva sul finire di gennaio scritto
all’_Atlantic Monthly_ e aveva ripetuto in diverse occasioni, a
gazzettieri dei due mondi venuti a chieder la sua, del resto punto
autorevole, opinione, che a suo giudizio l’Italia sarebbe stata presto
o tardi costretta alle armi. Ma egli pure, ogni tanto, si chiedeva
per che canale questa necessità e fatalità storica irromperebbe nei
fatti, rovesciando le opposte volontà degli uomini e dei corpi legali;
e non riusciva, per quanto aguzzasse il pensiero, a imaginarlo.
Ben pochi furono i partigiani dell’intervento, i quali, la mattina
dell’11 maggio, quando videro delinearsi chiaramente nei giornali
consapevoli e partecipi la mossa del potentissimo parlamentare,
non ebbero per spacciata la loro causa. Soltanto un colpo di Stato
poteva ormai salvarla: ma chi poteva supporre che il Ministero avesse
muscoli per un colpo di Stato? Quando ad un tratto, qua e là, qualche
esasperato partigiano della guerra grida al vento, tanto per sfogare
la rabbia, pur sapendo che il vento la disperderà, una parola vaga
e terribile: tradimento! Ed ecco — oh sorpresa! — quel grido non
si perde; altre voci più numerose e più lontane rispondono da varie
parti «tradimento, tradimento!»: i primi, incoraggiati, urlano più
forte; gli altri rispondono più numerosi; e in poche ore il grido
ripetuto, ripreso, scritto a carbone sui muri, impresso a stampa su
cartelli, ingrandito dai megafoni dei giornali, vola di quartiere in
quartiere, di villaggio in villaggio, di città in città, da un mare
all’altro. Tutti i partigiani della guerra — repubblicani, riformisti,
radicali, moderati — stringono una fulminea alleanza; le dimostrazioni
si ripetono in tutte le città, ingrossano, infuriano; i giornali
dànno assalti furibondi; in tutta Italia si leva un immenso clamore,
un turbine di invettive, un ciclone di collera che investe l’uomo
più potente d’Italia, i suoi amici, il suo partito, il principe di
Bülow, gli Imperi centrali, e a cui nessuna forma morale — libera od
organizzata — ha saputo resistere. Intimiditi e stupefatti i socialisti
non si sono mossi; la piazza, su cui il partito della pace faceva
tanto assegnamento, si è vuotata come per miracolo; i clericali si
sono appartati, come il pubblico sorpreso e disorientato, quella parte
almeno che non ha fatto coro, vinta dall’esempio, con i fischianti e
gli urlanti; amicizie, convinzioni, interessi, speranze, tutti i nodi
che legavano al suo capo quella potente clientela, di cui abbiamo nelle
pagine antecedenti studiata l’origine e la struttura, si sono sciolti:
l’uomo che sino al giorno prima era l’arbitro della pubblica cosa,
è stato isolato nella sua casa: e nel grande vuoto fattosi intorno
a lui la folla insorta è passata correndo, e non trovando inciampo o
barriera, è giunta trafelata alle porte di Montecitorio; ci ha fatto
irruzione; e gridando, rompendo vetri, fracassando mobili, malmenando
i malcapitati amici dell’antico ministro ha imposto il Ministero e la
guerra.


2. — Il ciclone.

Chi non ha sentito, in quei giorni, prorompere da ogni parte quelle
forze ignote e latenti, che sono il fenomeno più terribile e grandioso
della storia? Senonchè giova soffermarsi un istante ad analizzare
quanto è possibile queste forze ignote e latenti che hanno dichiarata,
per conto del Governo ma per propria iniziativa, la guerra all’Austria,
se si vuole intendere quel che è successo e quel che oggi importa di
fare.

Quando, la mattina dell’11 maggio, il pubblico intravide che il
capo della maggioranza si apprestava a terminare, secondo il modo
usato, l’interregno durato più di un anno, e, ripreso il potere, a
ripigliare i negoziati con l’Austria-Ungheria, un pensiero balenò
subito a molti, che pur conoscevano ancora imperfettamente il vero
stato delle trattative. «L’Italia farà come la Grecia!». E pur non
sapendo precisamente che cosa l’Italia dovesse e potesse fare, si
sentirono umiliati ed offesi, prevedendo che l’Europa non perdonerebbe
all’Italia quel che aveva potuto perdonare alla Grecia. Altri furono
offesi da quel consiglio troppo aperto di mercanteggiare freddamente
sino all’ultimo il sangue e la pelle della Serbia, come da un egoismo
che ledeva l’onore. Altri si sentirono stringere il cuore, pensando
al nuovo schianto delle rinate speranze degli italiani soggetti
all’Austria. Altri smaniò per l’occasione che l’Italia stava per
perdere; o si infuriò per le sospettate e sussurrate ingerenze del
principe di Bülow nelle faccende interne del Regno; o si dolse del
vantaggio che deriverebbe agli Imperi germanici da questo trionfo
diplomatico. Ci fu chi temè il risentimento delle Potenze della
Triplice Intesa e il giudizio del mondo aspettante; e chi avendo
tollerato a stento già due interregni e luogotenenze, perdè la
pazienza appena vide che si voleva ricominciare il gioco, e in
cospetto dell’Europa in armi, questa volta! Molti si sdegnarono per
la strapotenza di quell’uomo che anche nella vita privata comandava a
tutti e occupava un posto intermedio tra il Presidente del Consiglio e
il Sovrano. Altri che dalla consorteria da lunghi anni dominante erano
stati o esclusi o offesi o maltrattati o solo anche non favoriti, e che
pure erano stati sino al giorno prima tepidi fautori dell’intervento,
vollero la guerra appena si accorsero che la guerra poteva diroccare
la consorteria dominante. Quanti odî inveterati, che si nascondevano
perchè ormai disperavano della vendetta, sono ricomparsi tutti allegri
nella via, gridando e strepitando, non appena sentirono che il giorno
della vendetta era finalmente spuntato! È sorte comune di tutti i
Governi invecchiati aver pochi nemici palesi e molti nemici occulti,
i quali sbucano da tutte le parti a viso scoperto, appena quelli
vacillano.

Ma su questi sentimenti così diversi grandeggiò in tutti uno spavento
comune: che della pace e della guerra dovesse decidere il Parlamento.
Il Parlamento non è stato pur troppo mai, in Italia, una istituzione di
molto vigore. Ma è maggiormente scaduto da dieci anni in qua, a mano
a mano che quel potere tra costituzionale e personale di cui abbiamo
già tenuto discorso negli studi precedenti, ha vuotato l’Istituto
parlamentare del suo midollo vitale — i partiti, la discussione, il
principio di maggioranza — non lasciandone in piedi, come certi alberi
stravecchi, che la morta corteccia, una apparenza e una finzione, per
governare facilmente e senza contrasto. Si fecero rari nel Parlamento
gli uomini, i gruppi e i partiti che avessero autorità; non rimasero
che uomini, gruppi e partiti i quali avevano del potere; e il Paese
sospirava e ogni tanto si doleva a parole di questo decadimento, ma
non cercava o tentava nessun rimedio; anzi approfittava del male senza
scrupolo, allorchè se ne porgeva il destro. Ma quando parve che il
Parlamento dovesse decidere la pace o la guerra, molti sbigottirono.
Arbitro delle sorti comuni il Parlamento, e cioè quella Camera e quel
Senato? Il Parlamento che aveva lasciato crescere entro sè quel potere
personale da cui tanti si sentivano offesi in quel momento, pur non
sapendo precisamente il perchè? Il Parlamento che aveva approvato il
monopolio delle assicurazioni, pur pensando che la legge era funesta, e
il suffragio universale, pur temendo che la riforma fosse immatura? Il
Parlamento che era stato inerte testimone della guerra di Tripolitania,
e che aveva lasciata rinnovare innanzi tempo la Triplice Alleanza senza
nemmeno chiedere una spiegazione al Governo? Il Parlamento che, fidando
ciecamente nella saggezza di un uomo, aveva lasciato obliterare a poco
a poco i suoi diritti e poteri?

Da queste collere, da questi sdegni, da queste apprensioni, da queste
angoscie, levatesi incontratesi accozzatesi insieme, nacque negli
uffici dei giornali, in mezzo alle studentesche, nelle biblioteche,
nelle scuole, e tra la gente che sa di lettere, come dicevano i nostri
vecchi, il moto di opinione, che ha deliberata la guerra, esautorando
il Parlamento. Come nella primavera del 1912 un capo potente tra
tutti aveva obbligato il Parlamento nolente ad approvare il suffragio
universale, che fu un fiero colpo all’influenza politica delle classi
colte, nella primavera del 1915, a loro volta, le classi colte hanno
obbligato il Parlamento, con una violenta agitazione di piazza e di
stampa, a rinnegare quel capo e a fare la guerra.


3. — Il «Libro Verde».

Sarebbe vano il tentar di negare che l’atto sia stato grave. Conviene
dunque che ci chiediamo se la collera pubblica, che ha compiuto
quell’atto rivoluzionario, era giustificata; e quali doveri l’atto
imponga oggi a tutti.

Per giudicare se la collera pubblica era giustificata, occorre
conoscere quale fosse, verso il 10 maggio, la situazione diplomatica
dell’Italia. Studiamo dunque il _Libro Verde_. Nel trattato della
Triplice Alleanza era stato inserito un articolo, il settimo, la cui
lettera non è ancora nota a noi semplici mortali, ma il cui tenore si
arguisce dalle discussioni che intorno a quello sono fatte nel _Libro
Verde_. Con quel patto l’Austria-Ungheria e l’Italia si impegnavano
ad intendersi prima e a concedersi a vicenda dei compensi, per ogni
azione dell’una e dell’altra Potenza, che alterasse l’equilibrio dei
Balcani. Richiamandosi appunto a questo patto, il 9 dicembre del 1914
l’onorevole Sonnino chiede all’Austria, che tentava in quei giorni di
invadere la Serbia, di intavolare la discussione intorno ai compensi
che all’Italia spettavano per ciò che l’Impero vicino aveva fatto,
faceva e potrebbe fare in Serbia e contro la Serbia. Da questa prima
domanda prende le mosse una discussione, che ha durato sino alla fine
di aprile: una discussione, nella quale pur troppo l’Italia ha dovuto
far figura di mercanteggiare per cinque lunghi mesi, freddamente,
brano a brano, la pelle della Serbia; ma che l’Italia, per quanto
il discutere potesse ripugnarle non poteva schivare. Nessun Governo
avrebbe potuto lasciar cadere in prescrizione i diritti contenuti
in quel fatale articolo settimo, senza incorrere in una terribile
responsabilità il giorno in cui il testo del trattato fosse stato
conosciuto. «Che avete fatto dei diritti dell’Italia?» — avrebbe
gridato quel giorno al Governo il Paese. Era dunque necessità chiedere
i compensi, e, chiestili, discuterli. Non starò a seguir passo passo
la lunga discussione, chè sarebbe una inutile fatica: dirò solo
che entro gli angusti limiti delle convenzioni e dei principî che
regolano l’azione diplomatica, l’on. Sonnino ha discusso con pazienza,
con dignità e con abilità, in modo da poter rompere con l’Austria
plausibilmente, in base al trattato medesimo. Ma sia, come è probabile,
che l’articolo settimo fosse vago e impreciso, e fosse stato scritto in
vista di eventi ben diversi da quelli a cui era forza applicarlo; sia
che l’Austria fosse restìa per ragioni che non è difficile imaginare,
certo è che molti passi e molte parole ci vollero, per persuadere
l’Austria a interpretare il famoso e misterioso articolo su per giù
allo stesso modo dell’Italia. Superato con l’aiuto e per intromissione
della Germania questo punto, non ci volle minor tempo e fatica per
persuadere l’Austria a dire quali compensi essa fosse disposta a dare
all’Italia. Finalmente il 27 marzo il barone Burian partecipa al duca
di Avarna (_Libro Verde_, doc. 56) che «l’Austria-Ungheria sarebbe
pronta ad una cessione di territorî nel Tirolo meridionale, compresa
la città di Trento. La delimitazione particolareggiata sarebbe fissata
in modo da tener conto delle esigenze strategiche che creerebbe
per la Monarchia una nuova frontiera, e dei bisogni economici delle
popolazioni». Il Governo italiano (_Libro Verde_, doc. 58) risponde il
31 marzo che l’offerta è vaga e insufficente; e il 2 aprile (_Libro
Verde_, doc. 60) il Governo austriaco precisa: «I territori che
l’Austria-Ungheria sarebbe disposta a cedere all’Italia alle condizioni
indicate comprenderebbero i distretti (_Politische Bezirke_) di Trento,
Rovereto, Riva, Tione (ad eccezione di Madonna di Campiglio e dei suoi
dintorni), nonchè il distretto di Borgo. Nella Vallata dell’Adige il
confine rimonterebbe fino a Lavis, località che resterebbe all’Italia».
L’8 aprile (_Libro Verde_, doc. 64) l’on. Sonnino dichiara che quel
che l’Austria-Ungheria offre non basta; e presenta le richieste sue:
chiede cioè che l’Austria dia tutto il Trentino coi confini, che
ebbe il Regno Italico nel 1811 e il gruppo delle Isole Curzolari; che
corregga a favore dell’Italia il confine orientale, restando comprese
nel territorio ceduto le città di Gradisca e di Gorizia; che acconsenta
a costituire Trieste e il suo territorio in uno Stato autonomo;
che riconosca la sovranità dell’Italia su Vallona e si disinteressi
dell’Albania, acconsentendo infine a dar subito esecuzione al trattato.
Ma l’Austria respinge tutte queste richieste, acconsentendo solo
a ingrandire alquanto la sua offerta del Tirolo: intorno a queste
proposte e risposte si discute tutto il mese di aprile senza venire a
conclusione, finchè il 3 maggio (_Libro Verde_, doc. 76) il Governo
italiano denuncia l’alleanza con l’Austria «C’est pourquoi l’Italie
— così termina la denuncia — confiante dans son bon droit, affirme et
proclame qu’elle reprend dès ce moment son entière liberté d’action,
et déclare annullé et deshomais sans effets son traité d’alliance avec
l’Autriche-Hongrie».

Tale è, per sommi capi, il negoziato diplomatico che ha messo capo alla
guerra: monumento della mala fede italica, diranno gli Austriaci; prova
lampante della perfidia austriaca, risponderanno gli Italiani; rovina
inevitabile di una politica troppo artificiosa, conchiuderà chi abbia
forza di abbracciar nelle loro congiunture vitali gli eventi. La guerra
tra l’Austria e l’Italia era stata scritta molti anni prima nello
stesso trattato di alleanza da diplomatici che pur troppo non sapevano
leggere l’avvenire negli astri; dalla mano ignara che, credendo di
provvedere alla pace, aveva compilato quel fatale articolo settimo.
Già l’abbiamo veduto: l’Italia era obbligata a chiedere i compensi,
anche a rischio di sforzare la lettera dell’articolo: ma che cosa
poteva offrir l’Austria se non qualche ritaglio di territorio o qualche
vantaggio d’ordine o economico o coloniale? Si è mai veduta una grande
Potenza comperare da un’altra il diritto di fare una guerra a prezzo
di un brano della sua carne viva? E allora poteva l’Italia, sotto gli
occhi del mondo, mentre i grandi popoli di Europa sono tutti una piaga
e tutti rossi di sangue, vendere per trenta denari la Serbia ed il
Belgio, che, pur senza che alcuno nemmeno accennasse nelle trattative
al piccolo regno sbranato dalla Germania, avrebbe per la forza della
situazione fatto parte dello stesso mercato? Che altro scampo ci
restava, se non chiedere compensi che il Governo austriaco non potesse
concedere, e il cui rifiuto era forza provocasse la guerra?

Le richieste poste innanzi dal Governo italiano potevano essere subite
da uno Stato vinto e rivinto, non essere accettate dall’Austria, nelle
circostanze presenti. Ma se questo punto non è dubbio, è pur evidente
che il Governo italiano doveva porre all’Austria, per permetterle di
sgozzare liberamente la Serbia, delle condizioni inaccettabili: perchè
le concessioni che l’Austria avrebbe potuto fare, esso non poteva
accettarle; e non le poteva accettare, perchè il sangue della Serbia
e del Belgio non potevano essere oggetto di un mercato e materia di
compensi. Nessuno, il quale conosca l’Europa, abbia sentore dei fremiti
che ne percorrono le viscere, intraveda i nuovi orientamenti dello
spirito pubblico, può dubitare che noi, facendo mercato del sangue
dei Serbi e dei Belgi, ci saremmo disonorati di fronte alle Potenze
della Triplice Intesa, nel tempo stesso in cui, approfittando senza
misericordia delle difficoltà che angustiano gli Imperi germanici, ce
li saremmo inimicati. E tanto meno poi dubiterà che da questa infamia
e da questa inimicizia potevano nascere per l’Italia, nel presente
perturbatissimo stato dell’Europa, i maggiori pericoli. Certamente chi
imaginò e scrisse quel settimo articolo del trattato non prevedeva che
un giorno, da un incidente di politica balcanica, sarebbe scoppiata
la guerra europea; non prevedeva che quel nostro piccolo interesse
balcanico, a cui credeva aver provveduto con accortezza, sarebbe stato
un giorno legato da terribili eventi al destino del Belgio, della
Francia, dell’Inghilterra, della Russia, dell’Europa intera; credeva
in buona fede di avere messo tra le due diffidenti Potenze un serio
pegno di pace, e aveva invece — ironici scherzi che la storia fa spesso
alla saggezza umana — gettato tra l’Italia e l’Austria il pomo della
discordia, che genererebbe la guerra.

Insomma, sotto un certo aspetto questa guerra non è che la fine
predestinata della Triplice Alleanza. Come tante altre opere del
Bismarck, la Triplice Alleanza fu artificiosa, sforzata, quasi
impossibile; perchè volle unire non interessi concordanti, ma molte,
troppe rivalità passate, presenti e future, sperando di annullarle
reciprocamente. L’autorità che conferì al Bismarck il successo e
l’altrui pochezza, la debolezza del Governo austriaco e del Governo
italiano, l’hanno protratta per trentatrè anni, non ostante mille
inciampi; ma la guerra europea l’ha sfasciata nel volgere di nove
mesi. E come tutte le alleanze rotte prima del tempo, si è rotta con la
guerra.

Senonchè tutte queste considerazioni potrebbero sembrare della
filosofia, all’uomo di Stato che di proposito suole circoscrivere i
problemi politici nel cerchio angusto dell’ora presente. Chiudiamoci
dunque anche noi — chè questa volta lo possiamo — in questo angusto
cerchio. L’on. Giolitti è arrivato a Roma il 9 maggio; è stato ricevuto
dal Re e si è abboccato con il Presidente del Consiglio il 10: sette
giorni dopo che il trattato con l’Austria era stato denunciato.
Come ha egli potuto pensare che, dopo aver denunciato, e a quel
modo, il trattato, l’Italia potesse ancora ritornare sui suoi passi,
ricominciare a discutere dei compensi in base al trattato, disdirsi
cioè e ritirare la denuncia? Come mai non si è accorto che, savia o
improvvida che la denuncia fosse, ormai era stata fatta; che l’atto
irrevocabile era compiuto; e che la guerra era già stata virtualmente
dichiarata il 3 maggio? Ha dunque potuto sfuggirgli che l’Italia si
sarebbe screditata alla pari di uno Stato mussulmano in decomposizione,
se fosse sospettata di aver denunciato un trattato di alleanza, che
per trentatrè anni era stato uno dei fondamenti della pace del mondo,
così, per una finta, a scopo di lucro, come un’astuzia di sensale che
mercanteggi? Non ha temuto che tra la Triplice Intesa ingannata e la
Triplice Alleanza ricattata, l’Italia potesse domani sprofondarsi nel
vuoto? E non l’ha trattenuto neppure il pensiero di turbare con nuovi
dubbi e rinate incertezze la nazione, che a poco a poco si faceva animo
alla guerra, persuadendosi che era — come difatti era — imposta dalla
necessità?

Io non riesco a imaginare come un uomo invecchiato governando abbia
potuto non vedere tutte queste cose; come non saprei spiegare perchè il
Ministero abbia fatto un tal mistero della avvenuta denunzia. Se già il
10 maggio fosse stato di pubblica ragione che l’alleanza con l’Austria
era rotta, forse la mossa dell’on. Giolitti non avrebbe trovato seguito
e i partiti avrebbero fatta grazia al Paese delle turbolenze che la
seguirono. Tra i deputati che fra il 10 e il 15 maggio hanno ondeggiato
come i campi di grano quando soffia il vento, molti erano sinceri; e
quasi tutti potrebbero allegare la scusa che il 10, l’11 e il 12 maggio
non conoscevano il vero stato delle cose. Nè può non sembrare singolare
che, deliberata la guerra dal Consiglio dei Ministri e dalla piazza,
non siano state concesse al Parlamento che poche ore per leggere il
_Libro Verde_, meditarlo, risolversi ed approvare, a sua volta ed
ultimo, la guerra. Questa fretta non è forse anch’essa una specie di
atto ufficiale di esautoramento? Ad ogni modo tale fu il destino di
questa guerra; e così fu che tra un uomo diventato inabile per eccesso
di abilità, un Parlamento incerto, perplesso, ligio ad un uomo, mal
informato, screditato, e un Ministero silenzioso, il Paese è entrato
di mezzo, o meglio una parte del Paese, spinta da una passione e da
una specie di istinto chiaroveggente, che tenne luogo in quei giorni
di esperienza e di senno, e lo fece avvertito che in alto si stava per
compiere alla leggera un passo pericolosissimo, più pericoloso della
guerra più lunga e terribile. E allora in pochi giorni precipitò quella
catastrofe, che l’autore di queste pagine già presentiva — si direbbe
— scrivendo nel mese di giugno del 1914 intorno alla settimana rossa;
e il solito _interregno_ di ogni nuova legislatura apparve questa volta
quale era: una crisi gravissima dello Stato tutto quanto, esautorato di
proposito e quasi con metodo da quindici anni. Allo Stato esautorato
è mancata autorità per resistere alle grida, alle imprecazioni, alle
processioni, alle concioni, alle gazzette infuriate; il Parlamento ha
capitolato, stordito da questo clamore; quel potere personale, da dieci
anni saldo in vetta allo Stato come un’Acropoli, si è abbiosciato —
dirà il tempo se per sempre o per qualche mese — in quarantotto ore,
sotto quel gridar furioso e insensato di mille voci al «tradimento».
Espiazione ben nota a chi conosce la storia del mondo: chè sempre i
Governi i quali hanno indebolito lo Stato per non essere travagliati da
opposizioni troppo forti, non hanno poi trovata negli organi debilitati
dello Stato alcuna difesa, il giorno in cui sono stati fatti segno
ad un attacco risoluto. Quella fina, troppo fina arte di governo, che
da quindici anni reggeva l’Italia con tanta maestria di combinazioni
contradittorie, non ha voluto riconoscere che già, componendo il fatale
Ministero del 1911, essa aveva di gran lungo ecceduta la misura della
prudenza nel governare a ritroso della ragione naturale, schietta e
semplice delle cose. Chè anzi, quasi innamorata della propria abilità
e affascinata dall’impossibile, ha voluto addirittura far passare
l’Italia attraverso le fiamme della guerra europea senza scottarsi; una
impresa a cui non c’era abilità di consumato parlamentare che potesse
riuscire; e questa volta è stata presa nella rete sottile dei propri
accorgimenti.


4. — La guerra.

Senonchè proprio per questa ragione la crisi di maggio fu cosa tragica
e grave; e per questa ragione una responsabilità grande e grandi
doveri pesano oggi su tutti noi: massimo tra i quali impedire che
questa guerra sia principio e cagione quasi di un’altra guerra civile
tra le classi colte e le plebi, tra l’«intelligenza» e il suffragio
universale.

L’Italia ha nell’ultimo secolo spesse volte sacrificata la qualità
alla quantità, là dove avrebbe ancora potuto — e forse dovuto —
sostenere i diritti storici della qualità. Non si lasci oggi illudere
che la qualità possa più che la quantità nella guerra europea; e
che un’_elite_ riesca ad imporre alla moltitudine una guerra lunga
e difficile, senza averla persuasa che essa combatte per una causa
giusta, la quale non poteva essere difesa che con le armi. Oggi le
masse sono ancora turbate da una incertezza che, all’opposto di quanto
era ragionevole prevedere, è andata crescendo man mano che la guerra
europea si svolgeva. Nessuno di noi — già l’ho detto ma giova ripeterlo
— dimenticherà finchè vive il procelloso tumulto di affetti che si
levò in Italia nell’ultima settimana di luglio e nelle prime settimane
di agosto del 1914: prima, l’irritazione per le prepotenti minaccie
dell’Austria alla Serbia; poi l’inquietudine per le tortuose mosse
delle due diplomazie tedesche e per le oblique intenzioni di cui erano
chiarissimo indizio; indi lo stupore e il terrore, allorchè la Germania
sfoderò la spada, dichiarando all’improvviso guerra alla Russia ed alla
Francia; infine lo sdegno e il furore, quando gli eserciti tedeschi
corsero, attraversando il Belgio, all’assalto della Francia. In quei
giorni l’Italia tutta, quella parte che scrive e quella che non legge,
quella parte che crede in Dio e quella che crede nel socialismo,
intuì che un popolo troppo orgoglioso stava per commettere nel cuore
dell’Europa, sotto gli occhi del mondo atterrito, una tal violenza, che
l’ordine morale dei nostri tempi sarebbe capovolto dalle fondamenta, se
la violenza riuscisse felicemente; e spaventata invocò la Giustizia che
frenasse non solo gli uomini, ma anche i popoli prepotenti; e sapesse
respinger dalle frontiere violate a torto gli eserciti più formidabili.
Furono i giorni in cui si udirono uomini, che per trent’anni avevano
creduto di opporre la Triplice Alleanza allo spirito inquieto dei
tempi come baluardo delle istituzioni, esclamare scuotendo il capo e
alludendo alla monarchia prussiana «che in repubblica certe cose non
potevano succedere». Furono i giorni in cui molti fra coloro che per
anni avevano vilipesa la Francia, come una nazione corrotta e sfinita,
tremarono in cuor loro di non essere stati calunniatori. Furono i
giorni in cui tutta l’Italia imprecò alla Germania e al suo Sovrano,
che avevano rotta la pace; intese che per molti secoli l’Europa
avrebbe appena osato balbettare di libertà, di diritto, di pace, di
fratellanza, se i tedeschi, calpestando il cadavere del Belgio, fossero
giunti di nuovo vittoriosi a Parigi; e invocò un’idea, un esercito,
un genio di guerra, qualunque forza e qualunque miracolo che potesse
salvare l’Europa da quella crudele ambizione.

Rileggete i giornali del tempo; ricordate i discorsi che ognuno di
noi faceva ed udiva in quei giorni.... Tutti abbiamo allora svolto
— ognuno come sapeva e il cuore colmo di angoscia — questo unico
tema. L’Italia in quei giorni si confuse e si fuse davvero, in un
gran fremito di orrore e in un grande slancio di speranza, con tutta
l’Europa minacciata dai Germani di nuovo in armi. Vennero poi le
ultime settimane di agosto, quelle settimane in cui parve proprio che
la Giustizia fosse sorda alle imprecazioni e alle supplicazioni di
tanti suoi improvvisati devoti. Chi non ricorda le speranze chimeriche
con cui cercammo di confortarci in quei giorni di passione? Ma
gli aggressori avevano gridato vittoria troppo presto. Nella prima
quindicina di settembre i russi vincevano la battaglia di Lemberg,
i francesi la battaglia della Marna. Il mondo respirò; respirammo
pure noi. Ma sbollito un po’ lo sdegno dei primi e calmatasi alquanto
l’ansia degli ultimi giorni di agosto, prendemmo a riflettere più
ponderatamente sui terribili eventi di cui l’Europa era teatro. A
poco a poco allora, senza quasi ce ne accorgessimo, un mutamento si
operò nello spirito pubblico. Quello che si potrebbe chiamare il
senso mondiale del conflitto, che era stato così vivo nelle prime
settimane di agosto, si annebbiò nella nazione. L’Italia parve non
sentire più in se medesima per simpatia i colpi inferti a tanti popoli
dall’aggressione germanica; si staccò dall’Europa; si raccolse in sè e
si isolò con il pensiero in quelli che potevano essere, nel conflitto
europeo, gli interessi suoi.

Come è avvenuto un mutamento così profondo e di tanto rilievo? La
spinta decisiva al rivolgimento fu data dal Presidente del Consiglio,
con le parole che pronunciò il 19 ottobre, prendendo possesso del
Ministero degli Esteri che egli tenne interinalmente per qualche tempo,
dopo la morte del marchese Di San Giuliano. «Le direttive supreme
della nostra politica internazionale — disse quel giorno il Presidente
del Consiglio — saranno domani quelle che erano ieri. A proseguire in
esse occorre incrollabile fermezza di animo, serena visione dei reali
interessi del Paese, maturità di riflessione che non esclude al bisogno
prontezza di azione; occorre ardimento, non di parole ma di opere;
occorre animo scevro da ogni preconcetto, da ogni pregiudizio, da ogni
sentimento, che non sia quello della esclusiva ed illimitata devozione
alla patria nostra, del «sacro egoismo» per l’Italia». Ma che cosa
poteva consigliare il «sacro egoismo» all’Italia se non di sciogliere
senza indugio quei vincoli di solidarietà con gli Stati aggrediti
dagli Imperi tedeschi, che il sentimento veniva intrecciando; di non
parteggiare nè per gli aggressori nè per le vittime; di non inquietarsi
se l’equilibrio dell’Europa fosse alterato per un verso o per il verso
opposto, pur di essere essa stessa ingrandita? E la divisa parve così
felice che fu subito inalberata da quasi tutti i partiti, i gruppi e
gli uomini che governano l’Italia: da quelli che miravano alla guerra,
come da quelli che volevano la pace, sebbene ormai, più di un mese dopo
la battaglia di Lemberg e della Marna, apparisse chiaro che l’Austria
e la Germania non riuscirebbero più a debellare in poche settimane gli
avversari; e che perciò l’Italia potrebbe essere costretta, prima o
poi, a scendere in campo contro i suoi antichi alleati. Perchè dunque
allora, proprio allora, quando sarebbe stato necessario preparare gli
animi alla alleanza con le Potenze della Triplice Intesa, si cercava
di spezzare bruscamente tutti i legami di simpatia popolare, già
annodatisi spontaneamente tra noi e i nostri futuri alleati?

Che il Governo agisse soltanto entro i limiti precisi del «sacro
egoismo» — si intende. L’Italia non poteva intavolare con l’Austria una
discussione filosofica intorno al diritto delle genti o ai principî
di giustizia che potrebbero e dovrebbero regolare i rapporti dei
popoli. Non poteva che squadernare innanzi all’alleata il trattato
della Triplice e chiederle conto del modo con cui essa lo interpretava
e applicava. Ma perchè dirlo e ripeterlo ad alta voce tante volte?
Farlo gridare dai propri organi ai quattro venti? Se è cosa umana,
per i singoli uomini come per le nazioni, badare soltanto al proprio
interesse, non è prudenza dir troppo chiaramente agli uomini che
noi penseremo soltanto a noi stessi e che del loro destino non ci
importa nulla. Senonchè il Governo fu di certo mosso ad ostentare
la divisa del «sacro egoismo» da una ragione politica. In quel
sentimento di sdegno e di orrore che aveva sul principio commosso
così vivamente la moltitudine, pigliavano forza e coscienza le
grandi ideologie umanitarie, che nacquero e crebbero in Francia tra
il 1750 e il 1850; e che la Germania ha senza tregua combattute nel
pensiero e nell’azione, con i libri e con le armi, dalle Cattedre e
nei Parlamenti. Ma le classi alte e le classi colte dell’Italia sono
state troppo germanizzate negli ultimi trent’anni, nelle Università,
dalla scienza, dalla filosofia, dalla letteratura, perchè non avessero
anch’esse in orrore quelle ideologie che pure ci erano state di tanto
aiuto a rifarci nazione.... Basti dire che — vergogna quasi incredibile
— noi abbiamo assistito in Italia, al principio del ventesimo secolo,
per opera di Benedetto Croce, a una specie di rinascita della più
sciagurata tra tutte le sofistiche che la Germania abbia create per
confondere i criteri del bene e del male a servizio di tutti i potenti
e per giustificare in ogni caso il successo; che per qualche anno molti
giovani hanno vegliato sui morti libri dell’Hegel per imparare che
tutte le cose si contradicono in se medesime, perchè l’opposizione è
l’anima stessa del mondo; che il bene dunque non è tale se non perchè
si contrappone al male e quindi non sarebbe, se il male non fosse; che
Dio e il Diavolo sono l’eterna e indissolubile ragione sociale della
grande Ditta del mondo; che la tirannide è santa come la libertà,
perchè senza tirannide l’uomo non saprebbe neppur che cosa libertà
sia; che noi dobbiamo — ed è proprio il Croce che ci ha ammonito di
farlo sul finir di dicembre — piegare reverenti le ginocchia innanzi
ai mortai fusi dal Krupp, adorare l’insidioso siluro che ha affondato
il _Lusitania_, e baciare la spada della Germania intrisa di sangue
belga[3], perchè se non fosse la prepotenza non sarebbe nemmeno il
diritto che la rintuzza, e perchè le bombe sono il seme da cui cresce
sulla terra il santo albero della Giustizia.

Si aggiungano a questa disposizione degli animi, inculcata nelle
classi governanti da una lunga educazione privata e pubblica, gli
interessi, le rivalità e i puntigli che dividono i partiti e i gruppi
politici, e in alcuni anche scrupoli sinceri di fede e di lealtà. Con
la rottura tra l’Italia e gli Imperi centrali si chiude un’êra della
nostra storia e ne comincia una nuova — se più felice dell’antica
lo dirà il tempo — certo diversa. Tante altre cose dovranno mutare
con la politica estera! Non è dunque meraviglia, se da quando fu
chiaro che l’Italia potrebbe un giorno essere costretta a scendere
in campo contro gli antichi alleati, il Governo abbia precipuamente
temuto — e con esso i suoi amici e i giornali che ne esprimevano il
pensiero — di esser sospettato di voler fare la guerra all’Austria
e alla Germania per salvare l’Europa dall’egemonia germanica, per
rivendicare la santità dei trattati, per difendere i diritti delle
Nazioni deboli, e — peggio che mai — per aiutare la Francia. Ma
questo atteggiamento del Governo e dei gruppi politici più influenti
ha disorientate le masse, poichè alle masse nessuno da tanti anni in
qua, dopochè la Triplice era stata conchiusa, aveva detto e ridetto e
ripetuto ancora, quanto è necessario perchè le masse l’intendano, che
l’Italia fosse un’opera lasciata a mezzo e che un giorno o l’altro
sarebbe dovere finirla. Di questa difficoltà capitale abbiamo del
resto già tenuto, e lungamente, discorso nello scritto precedente.
Che i tedeschi invece volessero soggiogare i popoli più deboli contro
ogni ragione di diritto e di giustizia; che la loro vittoria avrebbe
sovrapposta a tutta l’Europa una smisurata ambizione di impero; che
fosse necessario umiliare la potenza di quella dinastia e di quella
aristocrazia, che avevano scatenata la guerra e dare al mondo con
questa umiliazione pace sicura: questo, sì, lo sentivano e lo capivano.
Ma neppur di queste cose nessuno ha più ragionato alla moltitudine
negli ultimi mesi: neppure i socialisti. I socialisti italiani, quando
la guerra scoppiò, andarono anch’essi sulle furie, accusando i compagni
teutonici di fellonia; e quando l’ambasciatore rosso di Guglielmo II,
il Sudeküm, osò pregare i socialisti italiani di intercedere presso
i socialisti francesi e chieder loro di tradire, per i begli occhi
dell’Internazionale, la Russia, l’Inghilterra e la Francia stessa,
accettando una pace separata, seppero rispondergli come meritava. Ma
poi, man mano che la guerra parve avvicinarsi, man mano che il Governo,
i giornali e i partiti che lo rappresentano si chiusero, per preparare
la guerra, nel bozzolo del «sacro egoismo», i socialisti videro al di
là della guerra il nemico implacabile, il nazionalismo, che già aveva
tentato di torcere ai loro danni la guerra di Tripoli; e allora il
veleno hegeliano, contenuto nel marxismo, riprese ad agire. A poco
a poco si atteggiarono a quell’apparente imparzialità che metteva
capo per un’altra via là dove sbocca pure il più acceso nazionalismo:
a considerare la guerra europea come un conflitto di particolari
interessi dei diversi Stati belligeranti: interessi sacri — dicono i
nazionalisti; interessi loschi — dicono i socialisti.


5. — Per noi e per gli altri.

Così a poco a poco la moltitudine, mentre il Governo approntava armi
e maggio avvicinava, si disinteressava dal conflitto europeo. Essa
è stata quasi sorpresa dalla dichiarazione di guerra. Alla sorpresa
succederà senza dubbio la coscienza del dovere e la risolutezza di
compierlo: ma l’_elite_ che ha voluta e imposta la guerra deve a sua
volta assecondare con tutti i mezzi il buon volere della massa che in
questa guerra — forse aspra e lunga — dovrà versare il suo sangue. E
lo asseconderà efficacemente curando che il popolo soffra quanto meno
è possibile; provvedendo alle famiglie dei combattenti generosamente;
persuadendo i ricchi ad assumere quanta maggior parte possono dei
sacrifici e dei carichi; e infine persuadendo le masse che l’Italia
non combatte solo per allargare i suoi territori e accrescere la sua
potenza, ma per dare all’Europa la pace. Il popolo forse non ha torto,
pur nella sua ignoranza, di voler essere assicurato su questi punti:
perchè veramente, e l’Alsazia, e la Lorena, e Trento, e Trieste, e la
Dalmazia, e la Bosnia, e l’Erzegovina, tutte insomma le rivendicazioni
nazionali, per quanto in sè nobili e grandi, rimpiccioliscono ormai a
piè di quel còmpito gigantesco che ci sovrasta come una rupe scoscesa
da ascendere: come ricomporre in Europa un ordine di cose, sotto il
quale si possa di nuovo vivere e progredire.

Non ripeteremo perciò mai quanto basti al popolo che questa guerra
non è una guerra come tante altre ce ne sono state nella storia, e
come affermano nazionalisti e socialisti; è l’immensa crisi di una
civiltà che _per ora_ ha preso forma di guerra. Nessun’epoca forse fu
sopraggiunta mai all’improvviso e a mezzo di una corsa più sfrenata
e più ansante, da una difficoltà così formidabile. Noi credevamo
di essere l’apogeo della storia. Noi guardavamo il passato come
l’alpinista giunto sulla vetta guarda ai suoi piedi i burroni per cui
si è inerpicato. Tra i secoli che precedettero il decimonono e noi, la
storia pareva aver fatto tale sbalzo, che ci domandavamo ogni tanto
se non fossimo una umanità nuova. Noi credevamo di possedere tutti i
beni, che gli uomini avevano invano desiderati per tanti secoli: la
ricchezza, la scienza, la potenza, la sicurezza, la libertà, tutta
la terra, e, con la mente almeno, l’universo. Ed ecco, ad un tratto,
in otto giorni, quasi tutti i popoli dell’Europa, lasciate le case,
le spose ed i figli, si avvinghiano furibondi in una mischia immane,
feroce, interminabile; dànno principio ad una carneficina, a un
vandalismo, a un furor di violenze, a una crudeltà di insidie, a un
soqquadro della terra e dei mari, che il mondo non ne aveva visto
l’eguale mai! Sì, gli uomini una volta erano meno potenti, ricchi e
sapienti di noi; non avevano nè ali per volare nè pinne per nuotare
sotto l’acqua; morivano ogni tanto a torme di peste e fame. Ma tutto il
medio evo non ha assassinate tante persone, quante ciascuna delle molte
settimane che già sono passate dal primo agosto del 1914.

Le nostre più liete speranze e i nostri più nobili orgogli si rivoltano
ora contro di noi e ci minacciano la distruzione e la morte, come
degli schiavi ribelli. La scienza ha inventate e fabbricate queste
armi. L’istruzione e il suffragio universale hanno preparate queste
schiere infinite di cui la terra oggi nereggia, convertendo in soldati
milioni di uomini i quali nei secoli passati vivevano sulla montagna,
nei campi, nelle botteghe, ignorati, passivi, docili, imbelli. Il
progresso dello spirito democratico, ha legati insieme, anche negli
Imperi tedeschi, popoli e governi, grandi e plebei, intrecciando in
ogni nazione gli interessi e le volontà in un fascio che non si può
spezzare. La ricchezza infine ha esaltato l’orgoglio e la cupidigia.
Chi di noi supponeva che mentre ci credevamo così sicuri, eravamo
invece circondati da tanti nemici invisibili, ognuno dei quali ci
aveva mostrato per tanti anni il volto dell’amico più sincero e
devoto? Avevamo posto in cima a tutti i nostri pensieri l’incremento
della ricchezza, e stiamo facendo un gran rogo dei nostri tesori.
Avevamo abolito la tortura, il duello, gli spettacoli crudeli; non
osavamo più infliggere la pena di morte se non a pochi criminali
efferatissimi e di nascosto; ci facevamo scrupolo persino di trattenere
il braccio del carrettiere avvinazzato in collera con la sua bestia:
e di che carneficina siamo ormai già colpevoli e responsabili innanzi
all’eternità! Ci vantavamo di essere liberi; e oggi obbediamo tutti
a governi anonimi, senza mormorare, senza chiedere ragione di nessuna
cosa, come nessun popolo d’Asia obbedì mai alle Divinità, parlanti per
bocca del sovrano.

Potrebbe l’Italia precipitarsi in questa voragine ardente, proponendosi
solo di compiere l’opera di Mazzini, di Cavour, di Vittorio Emanuele
e di Garibaldi? Noi non siamo più nel 1859. Il mondo è cresciuto da
allora; ha contratti nuovi impegni e nuovi doveri. Non dobbiamo pensare
solo al passato, ma anche all’avvenire. Gli inglesi e i francesi
l’hanno sentito: dobbiamo sentirlo anche noi; unirci a loro per
tracciare in Europa non solo delle nuove frontiere meno inique, ma dei
limiti che si elevino inviolati tra i grandi Imperi e i piccoli Stati;
per assicurare ai nostri figli una pace più sicura e serena. Non solo
un’Italia più grande dobbiamo noi desiderare, ma un’Italia più grande
in un’Europa migliore; in una Europa in cui si facciano carne e sangue,
sentimento e azione quelle grandi ideologie umanitarie a cui tanta
guerra fu fatta negli ultimi cinquanta anni, con la penna e con la
spada.

L’impresa è ardua, senza dubbio. Il nemico è risoluto e potente. Ma ci
sarebbe da disperare di noi stessi e dell’avvenire se tanto sangue,
se tanti pensieri, se tanta concordia, tanta risolutezza, tanti
popoli non bastassero a ben’avviarla. Bisognerebbe conchiudere che
noi e i nostri figli siamo ormai destinati a esser sepolti sotto le
rovine di un grande secolo. L’uomo può fare il sacrificio totale di
sè in una contingenza suprema, ma ama la pace, vuol godere i frutti
del suo lavoro, è attaccato a questa breve esistenza terrena. Le
masse prenderebbero in orrore una civiltà che, in cambio di un po’
più di pane, di luce, di ferro, di oro e di velocità, imponesse ad
ogni generazione un sacrificio come il presente; che negli intervalli
largisse una pace incerta, torbida di odî, grave di oneri militari
insopportabili; o che promettesse pace meno precaria e meno pesante, a
prezzo dell’egemonia di una stirpe cupida e prepotente. Potrebbero gli
uomini venerare ancora la scienza, aver fiducia nella democrazia, amare
il proprio lavoro, credere nel progresso?

Ma no: nè noi nè i nostri figli non assisteremo a questa catastrofe.
Sono pronti e alla mano gli elementi necessari per restaurare
nell’Europa devastata da questa terribile guerra un ordine nuovo, più
sincero, più giusto e più stabile. Già sono abbozzate, se non sono
ancora elaborate in ogni loro parte, le dottrine che giustificano
e pronta è la forza che può imporre i principî cardinali di questo
ordine nuovo. L’Inghilterra, la Francia, la Russia, l’Italia, aiutate
da alcune Potenze minori, sorrette dalle simpatie del mondo, devono
poter compiere insieme quest’opera. I sacrifici saranno grandi; ma
la messe sarà splendida, quando sarà matura. Necessità vuole dunque
che l’Italia sia e si senta in questa prova parte dell’Europa che si
sforza di superare una delle vette più scoscese incontrate sulla sua
via dalle origini della sua storia; che intenda di dover dare l’opera
sua per sciogliere anche un problema universale, che tocca tutti, gli
Italiani come i Russi, i Tedeschi come i Francesi, gli Americani come
i Belgi; che voglia lottare nel tempo stesso per sè e per gli altri.
Non ci fu nella storia forse mai altra congiuntura, in cui l’interesse
nazionale si integrasse nell’interesse universale: non guastiamo
questo accordo meraviglioso; illustriamolo a noi stessi e sforziamoci
di chiarirlo alle masse, perchè nessun mezzo sarà più efficace
per sostenerne il coraggio alla prova, che potrebbe essere lunga e
difficile. L’universale commozione, di cui fummo testimoni nei primi
giorni d’agosto, prova che, se solo pochi spiriti più profondi possono
penetrare sin nelle viscere di questa crisi storica, le masse hanno
confusamente sentito, sdegnandosi come allora si sdegnarono, che in
mezzo a questo immane soqquadro i popoli non cercano solo delle nuove
frontiere politiche ma dei nuovi limiti ideali; che lottano per alcuni
di quei principî morali che l’uomo sente anche senza preparazione di
studî e senza raffinato lavoro di pensiero. Una parte dell’Europa è
oggi in armi, e versa il suo sangue, per assicurare al travagliato
continente il più prezioso e desiderato dei beni, la pace: ripetiamolo
senza stancarci alle masse, per rinfocolarne l’ardore a questa opera,
che sarà benedetta dalle generazioni future. Queste ne godranno più di
noi: ma a noi rimarrà il merito e la gloria.

E ricordiamoci infine che la crisi di Maggio ha distrutto, forse
per sempre, quel curioso, artificioso e in parte ignorato governo
che reggeva l’Italia da quasi quindici anni e che era una mescolanza
— o contaminazione, se vogliamo usare la parola antica — di potere
personale e di governo di parte. Ricordiamoci che, quali e quanti
fossero i difetti di quel governo, esso ha retto l’Italia per quasi
quindici anni, e che la sua caduta farà come un gran vuoto nello
Stato; ricordiamoci che noi siamo in guerra; e che perciò è necessario,
questa volta, riempire quel vuoto al più presto, e non di egoismi, di
rivalità, di odî, di espedienti, di abilità, di piccoli interessi e
discordie, di macerie e rottami: ma di capacità, di coraggio, di fede,
di concordia, di idee, di alte ambizioni, di coerenza e di patriottismo
sentito, con le materie solide insomma di cui si fanno le grandi
costruzioni della storia. Ricordiamoci infine che la guerra del 1859
creò in Italia un governo, il quale per quindici anni ebbe autorità da
poter fare, tra molti errori, anche cose degne di lode; e auguriamoci
questa nuova guerra possa darci un nuovo governo che, poco importa con
qual nome e con quali forme, sia almeno una forza; forza circoscritta e
limitata fin che si vuole, ma vera forza; non simulacro, non apparenza,
non finzione e impostura, sollecita solo di nascondere al popolo la sua
vanità.




V.

LA CONTRADIZIONE SUPREMA


  In questa parte ultima sono stati raccolti e fusi in uno parecchi
  scritti pubblicati in diversi giornali e riviste, di Europa e di
  America. Sono stati raccolti e fusi in un solo, per schivare troppe
  ripetizioni e perchè viviamo in tempi in cui la concisione non è
  solo un pregio letterario, ma anche un dovere civico.


E si ricasca sempre lì, pensando e ripensando ai casi presenti
dell’Europa, in quella domanda che, a guisa di mendicante ostinato
a strappare insistendo l’elemosina, si ripresenta sempre, perchè
non ottiene mai risposta adeguata: come, come ha potuto un’epoca,
la quale aveva posto in cima a tutti i suoi pensieri l’incremento
della ricchezza, la sicurezza della vita, e l’impero universale della
ragione, come ha potuto preparare, volere, combattere questa terribile
guerra? E a questa angosciosa domanda, che tante volte si è affacciata
nelle pagine di questo libro, torneremo anche noi qui sulla fine, per
tentare un ultimo sforzo e rispondere, se ci riesce.


1. — Patria e progresso.

Non tutto il male viene per nuocere — dice il proverbio. Le infinite
calamità presenti possono essere — e sono già state per non pochi
scrittori, tra i quali alcuno di molto insigne — motivo di qualche
compiacimento. Era opinione comune che, se la guerra europea
scoppiasse, sarebbe intervenuto a intimare di deporre le armi, se non
la Ragione o la Pietà, almeno l’Egoismo. Si diceva che in alto e in
basso gli uomini si erano ormai troppo avvezzati alla vita comoda,
larga, sicura, e che non tollererebbero a lungo le privazioni e
le rovine di una guerra generale. Si prediceva la rivoluzione, se
la guerra durasse tre mesi. Si faceva credito al nostro secolo di
abnegazione e di spirito di sacrificio per poche settimane e non più.
Anche gli Stati Maggiori riconoscevano nell’Egoismo il sovrano dei
tempi, e protestavano che non farebbero mai la guerra, se non pigliando
gli ordini di Sua Maestà. Quando la storia della guerra europea sarà
nota in ogni sua parte, si saprà pure che quasi tutti gli errori e
quasi tutte le crudeltà del principio furono suggerite dalla fretta. I
capi che avevano voluto tentare la grande avventura, erano partiti per
il campo con l’idea fissa che bisognava far presto, perchè i popoli non
resisterebbero a una prova troppo lunga.

Ma noi ci calunniavamo. Nessuna di queste previsioni si è avverata. Nel
mese di luglio del 1914 le vecchie discordie dell’Europa rifermentavano
più acri che mai. In Inghilterra, protestanti e cattolici minacciavano
di pigliare le armi. In Francia, le due parti che da più di un secolo
si avventano l’una contro l’altra ogni volta e dovunque si incontrano,
si erano di nuovo avvinghiate e si mordevano accanitamente, nella
chiusa arena di un tribunale. L’Italia aveva fatta poco prima una
specie di prova generale della rivoluzione. In Russia milioni di
operai scioperavano e tumultuavano. In Austria le razze e le lingue
si rinfacciavano con rinnovato furore il sangue dell’Arciduca ucciso a
Serajevo. Ma tra il 30 di luglio e il 1º di agosto, in quarantotto ore,
tutte queste turbolenze sono cessate, non appena la guerra è apparsa
inevitabile. Perfino la Francia, il punto dell’Europa dove, per ragione
storica e geografica, tutti i venti di discordia si incontrano e fanno
vortice; la nazione nel cui seno hanno lottato e lottano il germanesimo
e il latinismo, il protestantesimo e il cattolicismo, l’autorità e la
libertà, il principio di qualità e il principio di quantità — per la
prima volta forse nella sua storia, dai tempi di Giulio Cesare — la
Francia è stata un cuore e un’anima sola.

Insieme con le discordie religiose e politiche, sono cessati quei
dispetti e quegli sgarbi che la Ricchezza e la Povertà usavano da
un pezzo scambiarsi, tanto per ingannare il tempo. Il socialismo è
andato in caserma e ha indossate le armi, docile e pronto come un
giovane coscritto arrivato allora allora dal villaggio. E neppure
oggi, dopo dieci mesi di guerra, uccisi e feriti milioni di uomini,
distrutte infinite ricchezze, capovolto interamente l’ordine di cose
in cui eravamo vissuti tanti anni, nessun popolo belligerante grida
ancora misericordia o mercè. La storia non aveva ancora sottoposta
una così grande moltitudine di uomini a tal prova; e la prova è stata
così bene superata che molti si sono messi a gridare al miracolo.
Ma ogni cosidetto miracolo della storia è sempre una di quelle opere
lente, che il tempo compie di nascosto e rivela poi a un tratto agli
uomini, quando l’ha terminata. Anche di questo miracolo noi troveremo
la ragione in quell’immenso rivolgimento che è incominciato in
Europa dopo la scoperta dell’America e al quale così spesso abbiamo
dovuto risalire, per spiegare i calamitosi tempi presenti: in quel
rivolgimento che, mutando scopo alla vita, a poco a poco ha fatto il
mondo — altro dei tanti effetti di quella immensa rivoluzione, da cui
tutto il nostro vivere presente dipende — più uniforme e perciò meno
discorde. Che la civiltà moderna sia più uniforme di quelle che la
precedettero, è cosa notissima: chi paragoni l’America all’Europa,
le parti dell’Europa più nuove alle più antiche, subito se ne rende
ragione, per dir così, alla prima occhiata. Meno chiaro è invece ai
più, come questa differenza proceda anch’essa dal trapasso dell’antica
civiltà qualitativa nella nuova civiltà quantitativa. L’uomo non
può sforzarsi ad una perfezione se non limitandosi, scegliendo una
sola tra le innumeri perfezioni che può proporsi, appuntando verso
quella tutte le forze dell’animo e della mente, ignorando od odiando
le altre; perchè non c’è mezzo più sicuro di riuscir mediocre in
ogni cosa, che l’innamorarsi e l’aspirare nel tempo stesso a troppe
perfezioni diverse. La varietà, l’isolamento, la discordia sono perciò
altrettante ragioni vitali di ogni civiltà qualitativa, che si proponga
come fine una o più perfezioni: onde le infinite lotte religiose,
artistiche, letterarie, morali, politiche che hanno turbato il mondo
prima dell’epoca nostra. Oggi invece soltanto le lotte di razza e di
lingua sono ancora vive e violente, là dove una razza è governata
da un’altra che vuole farle mutare a forza patria e favella: ma le
altre lotte — religiose, artistiche, letterarie, morali, politiche —
si affievoliscono da mezzo secolo, così in Europa come in America —
e perchè? Perchè a mano a mano che la quantità domina il mondo e gli
uomini antepongono la conquista della terra alla bellezza, alla gloria,
all’eroismo, all’onore, alla santità, come scopo, pregio e ragione
della vita, le antiche differenze tra gli uomini, che in passato
erano state cagione in Europa di tanti odî e di tante guerre, si
scoloriscono e diluiscono. Sono, sì, anche nei nostri tempi in Europa,
come un secolo fa, cattolici e protestanti, laici e preti, popolani e
borghesi, borghesi e nobili, dotti e ignoranti, romantici e classici,
conservatori e liberali, monarchici e repubblicani. Ma di tutte queste
differenze gli uomini del nostro tempo appena si accorgono, quando
si trovano insieme per conquistare i tesori della terra. In questa
impresa una differenza sola importa e conta: l’abilità, lo zelo,
l’attività. Protestante o cattolico, un artigiano, un impiegato, un
ingegnere, un funzionario contano oggi nel mondo assai più per quel
che sanno fare, che per le dottrine religiose che professano. Se i
nobili conoscono ancora i bei modi e la buona creanza, la borghesia
è ricca di energie che il mondo oggi cerca, perchè ne abbisogna, più
che le principesche eleganze. Il popolo è certamente ancora rozzo e
ignorante: ma dovrebbero perciò i grandi spregiarlo? Se la moltitudine
non lavorasse infaticatamente o non spendesse facilmente il proprio
salario, se stesse paga, come nel buon tempo antico, di guadagnar poco
e di vivere poveramente, pur di non lavorare a lungo, le classi ricche
non impoverirebbero forse anch’esse? Non è cosa difficile ai ricchi
sentirsi tôcchi da simpatia umana per la plebe, in tempi in cui nella
plebe essi possono amare se medesimi. La letteratura non è più la
laboriosa gara di una perfezione ambita e ammirata; è un passatempo —
o un’arma per le ultime lotte politiche e sociali, che ancora fervono
nel mondo: purchè diverta o sia arma efficace, tutti i generi e tutte
le scuole sono oggi buone, per un pubblico eclettico e volubile, il
quale ha perduta perfino la nozione di quegli esempi di perfezione, a
cui la letteratura aspirava in altri tempi. Monarchia e repubblica sono
forme di governo che riposano su principî differenti: ma chi ha voglia
ancora e tempo di lottare per uno di questi principî contro l’altro,
in un secolo che vuol sopratutto accrescere la ricchezza del mondo? Le
Repubbliche, i Regni e gli Imperi gareggiano oggi per far quattrini: la
saggezza dunque consiglia agli uomini di badare ai propri affari e di
accettare le istituzioni vigenti. Gli ultimi repubblicani superstiti
si rassegnano nelle monarchie; e gli ultimi monarchici fedeli, nelle
repubbliche.

Perciò da un secolo in qua, a mano a mano che l’uomo si è infervorato
nella conquista della terra, trascurando per quella ogni altra impresa
e ambizione, le nazioni di Europa e di America sono andate fondendosi
in grandi masse abbastanza omogenee, nelle quali l’opposizione dei
principî religiosi morali estetici propria delle civiltà precedenti,
e le stesse differenze di regione, di classe e di razza, si sono
sbiadite; e si è nel tempo stesso indebolito lo spirito di isolamento
e di discordia. Per questa ragione molti accusano oggi i nostri tempi
di ingrassare beatamente nel brago del greve materialismo in cui sono
affondati, e di non pensare ad altro. Ma a torto: perchè due idee
mistiche si sono diffuse nelle masse omogenee delle nazioni moderne
e le legano insieme: patria e progresso. Sono idee molto semplici o
che per lo meno possono essere semplificate in modo da avere facile
adito anche nelle menti rozze ed incolte; sono idee piuttosto vaghe,
tali cioè che non possono punto frenare, ma possono invece esaltare le
passioni dominanti del tempo, e massime tra queste quell’orgoglio che
abbiamo visto essere il più potente stimolo a fare che il secolo senta:
l’idea del progresso anzi è, come vedemmo, addirittura contradittoria e
incoerente: sono infine idee mistiche e trascendenti, perchè obbligano
gli uomini a sacrificare il loro egoismo — oggi il piacere, domani la
libertà, le opinioni predilette, i beni, talora persino la vita — a
qualche cosa che li sovrasta, invisibile o adombrata nei veli di un
sacro mistero. Se fino al primo giorno di agosto dell’anno 1914 tutti
gli uomini si affaticavano dalla mattina alla sera per accrescere la
ricchezza del mondo, godevano essi forse — i disgraziati — le ricchezze
che creavano? Per quale ragione sosteniamo noi tanti carichi — e
il lavoro incessante, accigliato, affannato, e il servizio militare
obbligatorio per parecchi anni, e il pericolo continuo della guerra, e
le innumerevoli e gravissime imposte, e i molti doveri civici — se non
per promuovere questo mal definito progresso del mondo, che noi non
sappiamo neppure che cosa sia precisamente; se non per creare delle
ricchezze che il più spesso sono un peso e un tormento a ciascuno
di noi? Questa epoca che ha fama di tanto pratica è mistica invece,
mistica rozzamente e violentemente; e il popolo che sembra più pratico
di tutti, l’Americano, è il più mistico, perchè più di tutti gli altri
si affatica per creare ricchezze di cui meno gode.

Non calunniamo dunque i nostri tempi, se vogliamo capire la guerra
europea e spiegarci le sue sorprese. L’improvvisa concordia in cui
tutte le nazioni d’Europa si stringono, lo spirito di sacrificio di
cui fanno prova, non sono un miracolo inesplicabile dalla ragione.
L’Europa voleva la pace. Ma quando ha vista la Germania minacciarla,
tutta in armi, unita e concorde, ha potuto opporre alla concordia
tedesca la propria concordia e mettere in pochi giorni da banda le
discordie religiose e politiche, perchè queste si affievolivano da
un pezzo, venendone meno la ragione vitale; e perchè nella massa più
omogenea delle nazioni si è diffuso il sentimento patriottico. A tutti
i Governi fu facile, tanto più che la Germania ne aveva dato l’esempio,
di ottenere nelle prime settimane della guerra il consenso unanime
del popolo intero a tutti i sacrifici e a tutte le dedizioni; e di
impadronirsi, con i potenti mezzi di cui lo stato moderno dispone,
del corpo e dell’anima della propria Nazione così pienamente, che i
pentimenti, che potessero sopravvenire in seguito, fossero inutili
e vani. Ed ora tanti popoli sopportano con pazienza gli ineffabili
sacrifici della guerra, sia perchè in tutti, specialmente in quelli che
sono di una sola razza e che parlano una sola lingua, il sentimento
patriottico è penetrato profondo nelle classi più numerose e meno
colte; sia perchè si sono oramai legati gli uni con gli altri a
combattere sino all’ultimo, in modo che nessuno si può sciogliere: gli
aggressori per il puntiglio e la paura delle meritate rappresaglie, gli
aggrediti per la necessità di difendersi, e la sete di vendicarsi.

Cosicchè la più felice delle conclusioni sembra balzare fuori da questo
lungo discorso. Noi siamo nati davvero nel secolo d’oro annunciato da
tante leggende e da tanti poeti! La dottrina del progresso non mente,
anche se noi non la sappiamo ridurre in una definizione precisa! Il
mondo progredisce davvero, poichè noi possediamo tutti i beni della
terra: la ricchezza, la potenza, il sapere, la concordia, lo spirito
di sacrificio; perchè noi sappiamo vivere in pace e sappiamo fare la
guerra....


2. — Le due faccie del progresso.

Conclusione troppo felice e troppo pronta. La dottrina del progresso,
a cui noi abbiamo sinora creduto, se non bugiarda, era ambigua; e con
le sue ambiguità ci ha tratti in una difficoltà disperata. Allorchè
viaggiavo l’America e la paragonavo al mondo antico nel quale avevo
vissuto in ispirito tanti anni; quando scrivevo _Tra i due mondi_
e preparavo quel discorso che tenni a Milano nel gennaio del 1914
e che è stampato in questo volume; allorchè affondavo e rivoltavo
il coltello dell’analisi nelle innumerevoli contradizioni latenti
entro l’idea di progresso quale noi la professiamo, e dalle vette
di un’alta meditazione contemplavo ai miei piedi, con una specie di
voluttuosa tristezza, il mondo immenso, tutto in moto e in affanno e
in furore per cercar sempre qualche cosa di nuovo e di meglio, senza
saper chiaramente quel che volesse; non supponevo che di lì a qualche
anno o a qualche mese, una tal catastrofe doveva procedere da una di
quelle contradizioni. Poichè chi voglia risalire la catena delle cause
sino alle più remote, dopo essersi soffermato agli intrighi delle
diplomazie, agli occulti disegni degli Stati Maggiori, alle ambizioni
dei Governi, alle gelosie dei popoli, alle sobillazioni dei giornali,
ai vaneggiamenti delle filosofie salariate, alle rivalità delle
industrie e dei commerci, alle irrequietezze degli imperi cadenti,
alle sofferenze delle nazioni oppresse, all’orgoglio, alle ambizioni,
ai sogni della gente tedesca e a quella sua smania di oltrepassare
sempre la meta raggiunta anche a rischio di smarrirsi nell’illimitato,
dovrà giungere passo passo ad una delle tante contradizioni, in
cui noi vivevamo da un secolo; alla contradizione suprema, che non
abbiamo mai saputa sciogliere: a quella furia di accrescere la potenza
dell’uomo, senza distinguere tra la potenza che crea e la potenza
che distrugge. Quando la scienza scopriva qualche nuova diavoleria;
quando l’industria costruiva una macchina più veloce e potente; quando
contavamo le nostre ricchezze e scoprivamo che erano cresciute,
noi gridavamo che il mondo progrediva. Non si era il secolo nostro
proposto di conquistare la terra con il fuoco e con la scienza? Ogni
passo che ci avvicinava a questa meta lontana non doveva considerarsi
— e la stessa ragione filologica non ce ne faceva avvertiti — come
progresso? L’Europa e l’America avevano dunque progredito lasciando le
antiche diligenze per salire nei treni, le navi a vela per salire nei
piroscafi; avevano progredito inventando il telefono, il telegrafo,
l’automobile, l’aeroplano e il dirigibile; accumulando cognizioni e
mezzi quanti bastavano a debellare l’istmo di Panama, che aveva vinto
trent’anni fa il Lesseps: avevano progredito, fabbricando le macchine
che falciano, vagliano e misurano il grano, che arano e seminano, che
cuciono le scarpe e battono i chiodi e fanno, rapide come il lampo,
tante altre operazioni, per tanti secoli lasciate alla piccola e tarda
mano dell’uomo.

Nè basta. Conseguente a se stesso e al suo modo di intendere il
progresso, il nostro tempo celebrò come le virtù più nobili la
laboriosità, la disciplina, l’obbedienza, il coraggio, l’energia, lo
spirito di iniziativa e di novità, l’ambizione e la sicurezza di sè;
come eroi i _self-made-men_, gli inventori fortunati e sfortunati,
i pionieri di tutte le aspirazioni, gli iniziatori di rivoluzioni
nell’arte, nell’industria, nella religione, nella banca, nella moda e
nella politica. Ma i tempi non hanno fabbricate solo delle ferrovie,
delle navi, degli aratri, delle trebbiatrici, dei vagli velocissimi,
preparato dei farmaci meravigliosi, accese delle luci sfolgoranti,
trovata la via di parlare e di scrivere attraverso lo spazio. Hanno
anche fabbricati fucili, cannoni, corazzate, polveri cento volte più
potenti e micidiali che quelle di cui si servivano i nostri nonni e
bisnonni. Hanno ingrandite e abbellite le scuole, gli ospedali, le
biblioteche; ma di quali atroci ordigni non hanno anche armati i più
grandi eserciti che la storia abbia visti! Dovevamo andar noi fieri
anche di questi progressi come di quelli? Domanda spinosa tra tutte!
Rispondere di sì, voleva dire venerare, alla foggia hegeliana, la
distruzione come la creazione; adorare sullo stesso altare Dio e il
Diavolo. Ripugnava ad un’epoca che ha creduto nella bontà della natura
umana, che si è tanto affaticata per accrescere la ricchezza del mondo.
Ma a rispondere di no, occorreva sciogliere gli eserciti, sopprimere
le monarchie che ne stanno a capo, rifar la carta dell’Europa, mutare
profondamente lo spirito dello stato moderno. L’Europa non se ne
sentiva la forza; e quindi ha prescelto non rispondere nè si nè no;
contentarsi di una definizione del progresso vaga quanto bastava perchè
potesse abbracciare la pace e la guerra, la violenza e il diritto, la
vita e la morte, gli aratri a vapore e i mortai a motore, il siero
antirabbico e la melinite; non ha osato decidere se l’audacia, lo
spirito d’iniziativa e di sacrificio, il coraggio e la perseveranza
fossero egualmente da ammirare, sia che l’uomo li adoperasse nelle
lotte contro la natura o per conquistare terre ed imperi, in guerre
di aggressione e in guerre di difesa. Sempre ha tentennato tra il sì
e il no; gli uni dicendo di sì, gli altri di no.... Il secolo voleva
la pace; ma quando si è accinto a predicarla, subito si è scoraggito
a vedere su tante faccie di soldati, di filosofi e di politici tanti
ironici sorrisi; e pieno di vergogna non ha osato neppure — esso il
secolo che tutto aveva osato, anche rivoltarsi a Dio e rivedere le
bozze della creazione — ripetere quello che San Tommaso aveva asserito
a fronte alta e senza esitanza in mezzo alle barbarie del medio evo:
che la guerra è lecita solo se è fatta per una causa giusta e senza
prava intenzione.

E così venne il giorno in cui la Germania ha appiccato il fuoco ai
quattro canti dell’Europa. Essa ha avuto questo coraggio incredibile,
perchè tra tutte le nazioni di Europa ha più intrepidamente confusa nel
progresso la distruzione e la creazione e affermato che una nazione
deve sforzarsi di essere grande in pace e in guerra, che l’imporre
con la forza e con il terrore agli altri uomini la propria volontà
non è minor merito e gloria che il debellare la natura e sforzarne i
segreti tesori. Le vittorie del 1866 e del 1870, il rapido sviluppo
delle industrie, il grande incremento della popolazione e della
ricchezza, quel difetto di «senso umano» e di misura che è proprio del
pensiero tedesco, la febbre d’orgoglio, di ambizione, di cupidigia che
l’assalse negli ultimi anni, spiegano come la Germania abbia potuto
violentar due principî così opposti entro una definizione ibrida e
contradittoria, e creare alla rinfusa strumenti di vita e strumenti di
morte; moltiplicare officine e caserme, navi mercantili e da guerra;
voler essere una immensa officina e un immenso accampamento, servendo
una mostruosa e doppia divinità del Progresso che incitava gli uomini
a diventar più ricchi e più temuti, più sapienti e più minacciosi, più
laboriosi e più violenti. Finchè un giorno, essendo giunta al sommo
della prosperità e della potenza, si è creduta anche al sommo della
forza, e allora ha sfidato ad un duello mortale tre dei più grandi
imperi di Europa. E la terribile carneficina è incominciata; nè si può
prevedere quando avrà fine, la guerra europea sembrando differire da
quante la precedettero precipuamente perchè non ha limiti: nè nello
spazio, nè nel tempo, nè nel modo.


3. — Una guerra senza limiti.

Nelle guerre precedenti, anche nella guerra del 1870, solo una parte
della nazione aveva combattuto: la parte giovane, valida e già istruita
alle armi. In questa guerra già parecchie tra le maggiori nazioni
belligeranti non badano più, per far numero, nè alla età, nè alla
debolezza, nè alla impreparazione, nè alle condizioni di famiglia:
ogni uomo capace di imparare in poche settimane a maneggiare un fucile
è preso e mandato alla guerra: anzi si può dire che perfino i vecchi
e le donne siano stati mobilizzati, perchè quelli che non combattono
negli eserciti, sostituiscono nelle opere civili i combattenti,
curano i feriti, aiutano le famiglie orbate del capo. È il caso
di chiedersi se la guerra europea non sarà terminata da giovinetti
imberbi e da vecchi canuti. Era sembrata cosa unica e immensa che
nella guerra della Rivoluzione e dell’Impero tutta l’Europa avesse
prese le armi: questa volta combattono l’Europa, l’Asia, l’Africa,
l’Australia; e chi si meraviglierebbe, se dopo la Turchia e l’Italia
anche gli Stati balcanici prendessero le armi; e se un giorno fossero,
se non dichiarate le ostilità, rotti i rapporti diplomatici tra la
Germania e gli Stati Uniti? Quando la guerra scoppiò, tutti pensammo
che più di tre mesi non poteva durare: dieci mesi sono passati, chi
osa più sperare che non debba durare un pezzo ancora, almeno se non
interviene un miracolo? Già tutti gli Stati preparano la seconda
campagna invernale. Pur essendo certo che anche la guerra europea,
come ogni altra cosa al mondo, avrà quando che sia una fine; pur
apparendo probabile che debba terminare con uno scioglimento subitaneo
e inaspettato, nessuno, per quanto aguzzi gli occhi, riesce a scorgere
innanzi a lui quel limite insuperabile verso il quale pure cammina e
al quale avrà fine anche questa nuova pazzia delle genti umane. Nè si
vede quale sia il limite a cui voglia finalmente dar di freno al furore
una delle parti belligeranti, quella che sembra essersi proposto di
combattere senza riconoscere nè leggi, nè convenzioni, nè regole, nè
principî o di pietà o di umanità o di qualsivoglia altra natura....

Neppure la leggenda aveva mai sognato quello che oggi i nostri occhi
vedono: nè tante miriadi di combattenti, nè tante e così lunghe
battaglie, nè tanta mole di strumenti mortiferi, nè tanta distruzione
di vite e di averi, nè tanto accanimento e furore di animi. Viviamo in
un secolo che è il più potente tra quanti sono apparsi sulla terra;
ma che non vuole nè freni nè limiti e quindi non ha discernimento:
crea e distrugge, fa il bene e fa il male, secondo l’interesse o le
circostanze o il mutabile umore lo spingono e sempre a modo suo, cioè
in grande. Per tre generazioni aveva atteso a colonizzare nuove terre,
ad aprire nuove vie, ad accrescere la ricchezza, gli strumenti e il
sapere, a istruire e a disciplinare la moltitudine; e aveva fatti
prodigi di bene. Ma quando, preso da subita follia, ha volte le sue
forze alla distruzione, ha compiuto tale uno sterminio, un flagello,
un orrore che per secoli gli uomini allibiranno al ricordo. Le stesse
virtù di cui l’Europa ha saputo far mirabile prova — la concordia, il
patriotismo, lo spirito di sacrificio — non sono proprio le ragioni
per cui la guerra dura così ostinata e terribile? Tedeschi, francesi,
belgi, serbi, russi, austriaci da dieci mesi combattono: ora vincono
gli uni ora gli altri; milioni di uomini sono caduti; eppure la guerra
continua: perchè? Perchè non eserciti e Stati guerreggiano oggi,
ma popoli tutti egualmente risoluti a vincere, a qualunque prezzo,
perchè tutti esaltati da quella mistica idea della patria, che negli
uni infiamma l’orgoglio ed esalta la prepotenza, negli altri esaspera
il risentimento dell’aggressione e quindi l’ardore della vendetta.
Perciò le sconfitte e le vittorie non sono mai decisive; ed è forza
sempre ricominciare. Le battaglie che non riescono — e quelle che ci
riescono sono poche — ad annichilare le forze di uno degli avversari,
non operano se non per l’impressione che fanno sulle menti: un popolo
può dunque essere sconfitto non una ma dieci volte, senza essere vinto,
sinchè non disperi della vittoria. I Romani antichi l’hanno provato
in cento guerre. Non c’è forse popolo che abbia subite più disfatte e
vinte più guerre.

Ci eravamo dunque troppo illusi gloriandoci che la nostra civiltà fosse
la più perfetta tra tutte quelle che l’avevano preceduta? Parrebbe. A
tutto c’è compenso nella vita. Certo gli uomini del medio evo erano
molto più poveri, più rozzi, più ignoranti di noi; non potevano
viaggiare in ferrovia nè volare, nè navigare sotto l’acqua; ma non
imaginavano neppure gli orrori a cui oggi l’Europa assiste queta queta,
quasi indifferente: città incendiate, milioni di uomini trucidati,
fatti a pezzi, bruciati vivi, polverizzati da esplosivi infernali, navi
che in pochi minuti sprofondano con gli uomini, bare immani di vivi.
Onde l’Europa era nel 1315 un paradiso, a paragone dell’Europa quale
è nel 1915: meraviglioso effetto di sei secoli di progresso, del quale
hanno oggi ragione di sorridere ironicamente i cinesi, gli indiani, i
musulmani e tutti i popoli che così leggermente avevamo maltrattato
di barbari; e del quale del resto anche molti europei oggi dubitano
amaramente. Quanti si chiedono ogni giorno, scuotendo il capo, se
questo, proprio questo è il celebrato progresso del secolo! Tirar via
e oltrepassare la domanda in silenzio come tutti avevamo fatto sinora,
slanciandoci nel folto dell’azione e quasi pretendendo rispondere,
non con parole ma con le opere, non si può più, se volendo progredire
senza perdere tempo a chiederci che cosa è il progresso e scambiando
per progresso vero tutto quel che lì per lì giovava e piaceva, ci è
capitato di dover fare in pochi mesi un gran rogo dei tesori accumulati
in molti anni, noi che ci gloriavamo tanto di accrescere la ricchezza
del mondo; e di dover assistere freddi alla strage di milioni di
giovani, noi che ci eravamo sentite viscere fraterne perfino per i
muli, i cavalli ed i cani! Le moltitudini hanno diritto di chiedere
alle classi che in nome del progresso le hanno condotte a questa prova,
se esse sono state ingannate; i cinesi, gli indiani e i musulmani
hanno ragione di chiedere se anche la guerra europea è prova di quel
meraviglioso progresso, nel quale noi crediamo con tanta fede e che
vogliamo imporre con la forza anche alla loro rassegnazione. E quanti
sono oggi sicuri, proprio sicuri, che i tempi, impauriti e inorriditi,
non risponderanno rinnegando come una menzogna il progresso di cui
l’Europa si vantava?


4. — Forza nuova e saggezza antica.

Eppure no. Il progresso, in cui abbiamo creduto un po’ troppo
ciecamente, non è una menzogna. La sua dottrina è stata ambigua per
colpa nostra, ma non mente. E la guerra europea, che sembra averla
sbugiardata, potrà essere principio e fattore di vero progresso.

Nessuno può predire l’avvenire. Ma non è temerario supporre che
la guerra europea sarà considerata nella storia come la crisi di
una civiltà, la quale si era vantata di sciogliere l’energia umana
dai ceppi, dai freni e dai lacci che nelle civiltà precedenti la
limitavano; e che, dopo averla liberata, non ha più saputo frenarla il
giorno in cui si è infuriata a distruggere: la crisi di una civiltà
che, dopo aver per un secolo spossate tre generazioni, affinchè non
restassero un solo momento dal creare, ora distrugge la quarta con
tutte le cose sue, senza misericordia e per la stessa ragione, perchè
è senza misura nel bene e nel male. La prima e grande crisi di quella
che i socialisti usano chiamare la «società capitalista» — dell’ordine
di cose che l’ultimo secolo ha stabilito in Europa e in America — è
proprio questa, è la guerra europea: ma quanto è diversa dalla crisi
che i socialisti avevano annunciata! Così come è diversa dalla grande
crisi storica, che l’ha preceduta: la Rivoluzione francese. Allora
un’epoca che aspirava alla libertà, alla ricchezza, alla potenza, al
sapere, si levò e rovesciò tutti quei limiti antichi, che parevano
interporsi tra l’uomo e il suo desiderio: oggi invece vacilla e
stramazza, ferendosi, un secolo che dopo aver conquistata la libertà,
la potenza, la scienza, i tesori della terra, è stato preso dalla
vertigine di distruggere se stesso e l’opera sua.

Onde si possono supporre due cose. O che, dopo essere caduto così
malamente, il secolo si rialzi e, curate le ferite, ripigli, appena si
risenta in forze, la sua folle corsa verso l’antica meta, che più si
allontana quanto più l’uomo cammina verso di lei.... La guerra europea
non sarà allora che una parentesi nella storia del secolo decimonono e
del ventesimo; un accidente terribile ma passaggero, come un terremoto
o una inondazione; o, se si vuole, un avvertimento agli uomini inutile
e la prima prova di una catastrofe ancora più colossale, di qui a
cinquanta o a cento anni. Oppure la dura percossa farà riavere il mondo
da quella vertigine, in cui si era smarrito; lo indurrà a ripiegarsi su
se medesimo e a chiedersi quale uso abbia fatto e quale uso debba fare
della sua potenza a dismisura cresciuta; e da quel momento il mondo
incomincierà a progredire davvero. Io non vedo infatti come si possa
uscire dalle inestricabili difficoltà in cui il pensiero e l’azione
si impigliano, quando il primo vuol definire e la seconda vuol creare
il progresso, se non ammettendo che ogni epoca compie una parte sola
dell’opera incessante e molteplice, che è il compito del genere umano
tutto quanto. Alcune civiltà hanno create arti e filosofie; altre
ordini politici nuovi; altre leggi e diritti; altre riti, sacerdozi e
religioni; altre nuove forme di industria e di commercio; altre armi
e procedimenti di guerra, e via dicendo.... Ma tutte queste opere
parziali di tante generazioni che si seguono, se almeno in parte se
ne conservi il ricordo, si aggiungono le une alle altre; e in questo
lento ma continuo crescere del numero loro consiste il vero progresso
e il solo modo con cui si possa alla meglio saldare nella definizione
del progresso la qualità sulla quantità, con un attacco vitale e perciò
indissolubile. Infatti le generazioni che seguono possiedono una
_quantità_ maggiore di principi _qualitativi_; o, per dir la stessa
cosa più semplicemente, conoscono un numero maggiore di principî
estetici, politici, religiosi e morali, cosicchè ne possono ricavare
combinazioni più svariate e più ricche, e vivere di una vita più piena
e più originale.

Un esempio chiarirà meglio questo pensiero. Se noi ci paragoniamo
ai Greci o ai Latini o ai Medievali, possiamo facilmente scoprire
che in certe cose noi li superiamo, in altre siamo invece vinti da
loro. I Greci erano da più di noi nell’arte e nella letteratura;
i Latini nel diritto; gli uomini del Medio Evo in certe arti, come
l’architettura. Ma noi siamo molto più ricchi e sapienti e potenti dei
Greci, dei Latini e dei Medievali. Come decidere dunque, paragonando
queste differenze, se dai Greci a noi il mondo ha progredito o no?
Bisognerebbe decidere se è meglio esser dotti o essere artisti,
costruire delle macchine a vapore o edificare delle belle cattedrali,
esplorar l’Africa o comporre l’_Antigone_. Ma è chiaro che ogni uomo
e ogni epoca vantano come più utile e più nobile l’attività propria;
e che non c’è modo di provare che la ricchezza vale più o meno della
bellezza, la bellezza più o meno della sapienza. Tutti i ragionamenti
con cui si è creduto di provare uno di questi punti sono facilmente
rovesciabili; o presuppongono una definizione del progresso in cui è
già ammessa la tesi che si vuol discutere: sono quindi dei sofismi che
solo l’interesse e la passione possono, perchè son ciechi, scambiare
per dimostrazioni. Ma invece noi possiamo dire che il mondo ha
progredito, quando paragoniamo tutta l’epoca nostra alla Grecia: perchè
noi gustiamo l’arte e la letteratura greca, ne conosciamo la filosofia,
abbiamo derivati da lei alcuni sentimenti e principî politici;
ma conosciamo anche altre arti ai greci ignote — l’architettura
medievale, la scultura giapponese, per esempio; conosciamo altre
filosofie; pratichiamo le virtù insegnate dal cristianesimo, come
l’amore del prossimo, la carità, la purezza; a queste aggiungiamo i
principî politici creati dalla Rivoluzione francese; possediamo infine
conoscenze geografiche e scientifiche molto più vaste; viaggiamo in
ferrovia, parliamo attraverso lo spazio, e voliamo.

Così inteso il progresso, parecchi dei problemi morali posti dalla
guerra europea si chiariscono alquanto. L’incremento della ricchezza,
del sapere e del potere non è progresso, che se noi impariamo a far
di questa ricchezza, di questo sapere e di questo potere un uso che
sia più bello e più nobile o più savio o nel tempo stesso più bello,
più nobile e savio. Ma noi non impareremo a far un uso più bello, più
nobile e savio della nostra ricchezza, del nostro sapere e della nostra
potenza, da noi soli e come dal nulla, se non cercheremo di imitare e
di superare le generazioni passate, combinando le idee, i sentimenti
e i principî che esse ci hanno tramandato con le idee, i sentimenti,
i principî che noi abbiamo creati. Le civiltà antiche eccellevano
nel frenare l’uomo così da impedirgli di commettere troppo grandi e
pericolose follie; ma nel tempo stesso ne limitavano la forza anche
nel fare le grandi cose. La civiltà moderna ha esaltata, liberandola da
tutti i freni, l’energia dell’uomo e l’ha fatta capace di prodigi; ma
essa ha tolti anche i freni che la trattenevano dalle supreme follie.
La civiltà nostra toccherà la vetta della gloria e della perfezione
il giorno in cui riuscirà, contaminando la nuova potenza, che essa
ha creata, con la saggezza antica, che ha obliata, a sottoporre
la disordinata energia dell’uomo al freno di regole e di principî
estetici, morali, religiosi, filosofici, che ne siano i limiti — ampi
quanto si vuole, ma saldi. Onde gli storici e i filosofi farebbero
opera assai più utile se, invece di vagellare intorno all’esistenza di
Romolo o di baloccarsi con i giocattoli gnoseologici del diciottesimo
secolo, preparassero le menti a questa salutare e sublime fusione di
due civiltà, da cui potrebbe nascerne una terza, veramente più grande
dell’una e dell’altra.

Poichè insomma quando l’Europa avrà finito di combattere questa
terribile guerra, ed esangue, spossata, si chiederà quel che debba
e possa fare per provvedere all’avvenire, a che si troverà, se non
innanzi all’eterna questione in cui l’uomo si imbatte a capo di
tutte le vie che imbocca per cercare la felicità: ad una questione di
limiti? Se dopo la guerra europea gli Stati ricominceranno ad armare
illimitatamente per non esser l’uno da meno dell’altro, come hanno
fatto dal 1870 al 1914, saremo presto o tardi da capo. La pace non
potrà rinsanguare l’Europa svenata se le Potenze belligeranti non
riusciranno alla fine della guerra a intendersi seriamente, a limitare
gli armamenti, e a statizzare le fabbriche d’armi. Una cosa che a
dirsi è semplice e facile, ma che pur troppo sarà molto più difficile
a porre ad effetto: perchè non c’è atto che più ripugni al mondo
moderno che il limitarsi, per qualunque motivo e in qualunque modo.
Ho già detto che San Tommaso afferma e dimostra come la guerra sia in
sè un peccato, e cioè male; ma divenga lecita sotto tre condizioni:
quando è fatta dall’autorità legittima, per una giusta causa e senza
prava intenzione. Il sottil dottore medievale aveva già sin da quei
tempi previste guerre fatte per causa giusta, ma con prava intenzione!
Orbene: chi non vede che questo modo di considerare la guerra è quello
che meglio soddisfa la ragione e il sentimento di tutte le persone che
non siano o interessate a voler che la guerra duri eterna in Europa, o
prive di quel «senso umano» delle cose, che è una forma della saggezza
e che la filosofia tedesca ha fatto perdere in così larga misura anche
a noi? Chi non vede che basterebbe portare ad effetto questa dottrina
sul serio e lealmente; e l’Europa potrebbe godere di una pace più lunga
e sicura? Eppure troverete in tutto il secolo decimonono ben pochi
pensatori, i quali abbiano osato sostenere una dottrina simile a questa
apertamente, a fronte alta, senza vergognarsene come di una dottrina
ridicola per vecchie zitelle; perchè molte tra le filosofie del secolo
— e massime quelle che si vantano idealistiche — non hanno voluto
mai pigliare le mosse che da se medesime e non riconoscere alla loro
indagine nessuno dei limiti che le filosofie antiche, per amore o per
forza, avevano rispettato, neppure i limiti del buon senso e di quel
«senso umano» a cui ripugnano tutte le dottrine e i principî che vanno
a ritroso della natura dell’uomo, delle sue più comuni e manifeste e
ragionevoli esigenze. Queste filosofie hanno avuto in gran dispregio,
come era naturale, il buon senso di San Tommaso e delle vecchie
zitelle; ma rovesciandosi a vicenda i propri argomenti le une hanno
dimostrato che la guerra è divina, le altre che è diabolica; quelle
hanno affermato che la vittoria in guerra è il segno più manifesto
della perfezione, le altre che il guerreggiare è un’operazione bestiale
e che un popolo virtuoso non adopera le armi neppure per respingere
un’aggressione! Se fu cosa tanto difficile far accettare a questo
secolo delle opinioni ragionevoli intorno alla guerra e ai suoi limiti,
imaginarsi se sarà facile indurlo a compiere degli atti savî! Ma chi
può, dopo questa prova, dubitare che la civiltà moderna si distruggerà
un giorno o l’altro, con le sue proprie mani, se non riescirà ad
adoperare la forza tremenda di cui dispone con maggiore discernimento?
Questo nostro secolo apparirà forse ai posteri come un fanciullo che
ha giocato a lungo con le mitragliatrici, i cannoni a tiro rapido, gli
obici esplodenti e i milioni di soldati, senza imaginare come sarebbero
tremendi alla prova quei giocatoli: è necessario che il secolo si
faccia adulto e impari a maneggiare quegli ordigni con prudenza
adeguata al pericolo!

Noi dovremo quindi invocare le ombre dei padri, perchè assistano
l’Europa con la loro obliata saggezza a scampare dal passo mortale in
cui si è avventurata per orgoglio e temerità. Noi dovremo invocare
sopratutto le ombre di quei grandi che nel secolo decimottavo e
decimonono insegnarono agli uomini a sentire che ci possa e ci debba
essere una giustizia anche tra i popoli. Anche questo, tra i nuovi
sentimenti che sono la dignità dei nostri tempi, è nato nel secolo
decimottavo ed in Francia. Riaccantucciatosi nei cuori e nei libri,
potè scampare al diluvio di fuoco che cadde sull’Europa, tra la fine
del secolo decimottavo e il principio del secolo decimonono. Poi a
poco a poco, nella lunga veglia di rimpianti e di speranze che corse
tra la caduta dell’impero napoleonico e la rivoluzione del 1848, uscì
dai suoi ripostigli; e travestito da sogno, percorse di soppiatto
l’Europa, sotto gli occhi sospettosi delle polizie, guadagnando a
migliaia le menti ed i cuori. Quando, ad un tratto, nel 1848, gettato
il suo travestimento in mezzo a quel grande commovimento di popoli, il
sogno perseguitato e proscritto parve in poche settimane conquistare
da sovrano l’Europa e diventare l’ordinatore di un mondo nuovo e più
felice....

Invece la delusione fu pronta. Quanto lontani erano ancora i tempi
del suo trionfo! Sopraggiunsero i rivolgimenti politici ed economici
della seconda metà del secolo XIX, la êra del ferro e del fuoco,
il chiassoso trionfo della quantità, la contaminazione delle classi
e degli interessi, l’avvento della borghesia faccendiera. L’Europa
confuse nella stessa definizione del progresso la vita e la morte, la
distruzione e la creazione; e pur desiderando la pace lasciò i governi
preparare e i filosofi predicare la guerra. Quel gran sentimento non
fu più perseguitato dalla polizia, ma deriso e vilipeso. Si cercò
di isolarlo, chiudendogli tutte le porte, la porta della scuola come
la porta del parlamento. In ogni paese si tentò con diversa fortuna
di innalzare, in mezzo al popolo, un monumento di ammirazione a
Bismarck, non per altro scopo se non perchè con il suo ceffo di mastino
agghiacciasse le anime che si lasciavano toccare dal nuovo sentimento.
Agli sforzi che faceva per guadagnar le menti, i governi e i partiti
rispondevano ironicamente fabbricando nuove armi e in quantità quasi
infinita, e salariando, nelle Università e nei giornali, filosofi e
filosofastri, che rispolverassero le vecchie teorie buone a far da
contraveleno, tra le quali l’hegelianismo. Gli si rimproverò di esser
mezzo cattolico e mezzo protestante; cattolico perchè aspirava ad
essere trascendente ed eterno, protestante, in quanto pretendeva essere
figlio della ragione: come se un sentimento, per esser in grado di
dar ragione di se medesimo e di giustificare i suoi comandi, perdesse
perciò il diritto di dirigere le menti al bene o si tramutasse in una
impostura. Ma a dispetto di tutte queste critiche o miopi o maligne
o interessate, il sentimento non è morto, appunto perchè era un
sentimento vero, profondo, sgorgante dalle profondità dell’anima umana;
e potrà salvar l’Europa dalla rovina perchè è capace di tracciare dei
limiti all’orgoglio, all’ambizione e alla prepotenza dei popoli. Perciò
noi dobbiamo ravvivare questo sentimento negli animi, precisarne le
imposizioni con la ragione; far che imperi nella Europa nuova sulle
masse sbigottite dalla catastrofe; su quelle masse che il secolo della
quantità ha fatte arbitre di quasi ogni cosa: anche della guerra e
della pace.


5. — Dioniso incatenato.

Nessuno potrebbe anticipare la sentenza del tempo, dalla quale dipende
l’avvenire dell’Europa: tuttavia noi possiamo, prima di chiuder queste
pagine, soffermarci un istante sopra un segno che già i tempi hanno
manifestato. Il segno è forse piccolo in sè, ma può incoraggiare
a sperare maturi davvero nella coscienza dell’Europa un progresso
— un progresso non equivoco e incerto come tanti altri, di cui ci
affrettammo troppo a compiacerci in passato; un progresso vero e
sicuro, nel risorgere di antichi principî in mezzo al possente ma
mostruoso disordine del mondo moderno.

Gli antichi avevano annoverato il vino tra gli Dei, perchè giudicavano
divina una bevanda che, bevuta con moderazione, ha la virtù di assopire
i crucci, di infondere l’allegrezza, di stimolare l’imaginazione, di
rasserenare e di esaltare la mente. Ma l’antico Dio, apparendo sulla
terra in forme sempre più numerose e diverse, da un secolo in qua s’è
convertito in un torbido e tetro demonio: non genera più la gaiezza
e la gioia, ma la pazzia, il delitto, la sterilità, la discordia, la
miseria, la morte. Tutti sanno di quante sciagure quella malattia,
a cui i medici hanno dato nome di alcoolismo, è cagione in tutta
l’Europa, e come due nazioni fossero più gravemente minacciate da
due di queste fatali bevande: la Russia dalla _vodka_ e la Francia
dall’_absinthe_.

Non è quindi da meravigliare se nei due paesi si cercassero farmaci
al male. E quanti erano i medici! Uomini di Stato e di scienza,
filantropi, preti, moralisti, capi di industria, maestri di scuola,
gentili signore. Le Commissioni e le Società di propaganda create
negli ultimi venticinque anni, e le leggi promulgate per ricondurre
gli uomini della ebrietà alla sobrietà, non si contano; e neppure
gli scritti pubblicati sulle cause e sulla cura del male. Tuttavia
a dispetto di tanti medici, il male si aggravava in ogni paese, e
massime in Francia ed in Russia. Il farmaco cercato dappertutto non
si trovava in nessuna parte. La Scuola e la Chiesa erano egualmente
impotenti. L’operaio ascoltava i buoni consigli e poi tornava alla
bettola a berne un altro bicchiere. Scoraggiati, non pochi tra i medici
conchiudevano che l’uomo è un essere naturalmente vizioso e che è
inutile volerlo trattenere dal perdersi cercando il piacere. Qualcuno
raccattava persino delle scuse al vizio. Era poi proprio così funesto,
come si diceva? E quale altro conforto alleggerisce all’operaio la sua
pesante catena negli ergastoli dell’industrialismo moderno? Ogni uomo
cerca di evadere con l’imaginazione, come può, ogni tanto, dal carcere
angusto del mondo ove è prigioniero, per i liberi campi dell’infinito.
Il bicchiere di vino o il bicchierino di liquore possono essere,
per l’operaio che non ne conosce altra, la piccola finestra aperta
sull’infinito.

Così l’Europa si inebriava liberamente, sebbene a molti, che questo
ottimismo non illudeva, stringesse il cuore di veder così nobili
razze imbestiarsi a quel modo. Ma non c’era rimedio! Quand’ecco
scoppia la guerra europea.... Ed allora, considerando che se in tempi
ordinari l’ubriachezza è un vizio pericoloso, pericolosissimo è in
tempo di guerra, quando così quelli che prendono le armi come quelli
che restano a casa devono far uso, per la salvezza comune, di quanto
giudizio la natura fu loro larga, si è pensato — rimedio a cui nessuno
fino ad allora aveva posto mente — di proibire che si fabbricassero
e si spacciassero le bevande inebrianti più nocive. Non era l’ovo di
Colombo? Il giorno in cui l’operaio e il contadino non troveranno
più alla bettola la bibita perniciosa, non si ubriacheranno più o
almeno si ubriacheranno meno. Detto, fatto: in tempo di guerra si
va per le spiccie. Il giorno dopo che lo stato d’assedio era stato
proclamato, l’autorità militare proibiva in tutta la Francia la vendita
dell’_absinthe_; e appena il Parlamento francese fu riconvocato, subito
approvò una legge che interdiceva per sempre di fabbricare, vendere e
importare _absinthe_ in Francia. Poche settimane dopo che la guerra
europea era scoppiata, lo Czar chiudeva tutte le fabbriche e tutti
gli spacci di _vodka_ che in Russia appartenevano, per diritto di
monopolio, allo Stato. E da dieci mesi in Russia e in Francia, se non
si può dir che non si beva più nè _vodka_ nè _absinthe_ — frodi e abusi
non mancheranno mai nel mondo, finchè esisteranno uomini — la sobrietà
è cresciuta e sono scemati gli effetti funesti dell’ubriachezza. Il
rimedio, semplice ed efficace, è stato trovato.

Senonchè per quale ragione occorse tanto tempo — e nientemeno che un
terremoto come la guerra europea — per trovare questo rimedio?

Infatti questo di cui parliamo non solo è un modo efficace per frenare
nel popolo l’intemperanza, ma è il solo efficace. Due o tre secoli fa
gli uomini, se erano per molti rispetti peggiori di noi, erano invece
certamente più sobrî; ed erano più sobrî perchè non distillavano ogni
anno tanti liquori e non pigiavano nei tini tanta uva; cosicchè ogni
persona non ne poteva bevere che una parca misura. Qualche raro beone
opulento poteva fare scempio della sua salute; la moltitudine povera
e di modesta condizione, no. Perchè invece gli uomini si sono dati
sfrenatamente al bere da un secolo; e proprio dopochè incominciò nel
mondo l’êra della quantità? Perchè il secolo decimonono ha piantata
la vigna in milioni di ettari incolti, perfino sulle terre strappate
all’Islam, e al di là dell’Oceano; perchè ha ingrandite di mole e
cresciute di numero a dismisura le fabbriche di birra; perchè ha
inventati mille modi nuovi e ingegnosi di distillare da infinite
sostanze l’alcool, e ha fabbricati, in gigantesche officine e per il
mondo, dei liquori di cui una volta si fabbricavano ogni anno poche
bottiglie in famiglia, seguendo una ricetta tradizionale. Ma dopo
aver distillate tante bevande inebrianti, l’industria moderna doveva
ben trovare il modo di farle ingoiare dal mondo. Non si dica infatti
che oggi si fabbricano tante bevande inebrianti perchè il mondo è
assetato; che il vizio è la causa e non l’effetto di questo grandissimo
incremento del commercio del vino, della birra e dei liquori. No: qui
come altrove e dappertutto, l’industria ha fatta l’abbondanza; e fatta
l’abbondanza ha persuaso ogni uomo a largheggiare con sè e con gli
altri, anche a rischio di sperperare.

È dunque chiaro che, sinchè l’industria potrà liberamente distillare
bevande inebrianti quante vuole, come liberamente fila e tesse quante
braccia di tela e di panno crede, l’intemperanza crescerà irrefrenata.
L’industria sarà spinta a fabbricar misure sempre maggiori di bevande
inebrianti; e il mondo dovrà ingoiare i fiumi di birra, di vino e
di alcool di cui essa irrigherà il mondo ogni anno. La birreria e la
bettola persuaderanno gli uomini a molto bevere il mattino e la sera,
i giorni di festa e i giorni di lavoro; perchè l’uomo è naturalmente
inclinato ad abusare di tutti i piaceri; e se gli date la libertà del
vizio, ne abuserà certamente.... Insomma il nostro tempo aveva concessa
la libertà di disordinare bevendo e poi si doleva che gli uomini ne
abusassero; proprio come, dopo aver creato i più smisurati eserciti e
averli armati delle armi più micidiali, non sa darsi pace che sia nata
in Europa la guerra più vasta e lunga e sanguinosa della storia. Le
due contradizioni sono simili, perchè sono figlie gemelle della stessa
madre. Il secolo ha armati i più grandi eserciti, non perchè volesse
suicidarsi in una guerra mondiale, ma perchè impegnatisi i popoli in
una gara di orgoglio e di potenza, è mancata in Europa una forza, così
interiore come esterna, che imponesse un limite agli armamenti. E ha
concesso la libertà del vizio, non perchè fosse corrotto e perverso,
ma perchè sollecito di far progredire l’industria e il commercio, non
ha voluto riconoscere alcun limite — neppur le esigenze della salute,
della morale e della bellezza — che rallentasse l’incremento della
ricchezza: perciò ha spinto nel tempo stesso le industrie a produrre e
gli uomini a consumare quante più cose potessero; a mangiare, a bere,
a fumare, a divertirsi, a logorare e rinnovare vestiti, a viaggiare, a
desiderar comodi nella misura maggiore. E perciò ha dovuto confondere
i criterî che nelle società passate servivano a distinguere il consumo
dallo spreco e il vizio dal bisogno; perchè, questi criterî, se fossero
oggi chiari e precisi nella mente degli uomini, come due secoli fa,
sarebbero limiti a quella libertà di crescere indefinitamente di cui
tutte le industrie moderne sono così gelose; così come non ha saputo
distinguere tra i servizi che la scienza e l’industria rendevano alla
pace e quelli che rendevano alla guerra.

La guerra europea ha sciolta in un attimo questa contradizione, per
quel che concerne il vizio del bere. Ha già ricondotti alcuni popoli
dell’Europa ai principî che due o tre secoli fa regolavano il mondo.
Imminente il pericolo, tutti hanno inteso che lo Stato ha il diritto e
il dovere di impedire al popolo di suicidarsi lentamente inebriandosi;
che la salute della razza e gli interessi della morale pubblica
possono e debbono essere dei limiti a quella piena e intera libertà di
abusare mortalmente dei piaceri, che i singoli si erano arrogati da un
secolo in qua. Intenderà l’Europa con la stessa fatalità e rapidità
che la guerra non deve essere — come è oggi in Europa — la selvaggia
esplosione di tutte le energie di distruzione e di sacrificio, di
odio e di amore, di bene e di male, che l’anima umana può accumulare
nello spazio di una generazione sino all’estremo esaurimento di tutte
le forze fisiche e morali di un popolo; alcunchè di simile a una
forza della natura senza regola e legge? Che deve essere invece una
istituzione umana, come la giustizia; un segno e un simbolo della forza
di un popolo quanto più fedele si può e adeguato alla cosa significata,
ma circoscritto entro limiti precisi, per i quali non possa essere più
un flagello di Dio e uno sterminio di vincitori, di vinti e di neutri,
ma uno strumento umano mosso dalla ragione e che la serva?

L’avvenire lo dirà. La volontà oscura e potente delle masse, che oggi
combattono questa guerra ciclopica, deciderà. Quel che occorre è oggi
un atto di volontà, un grande atto di volontà delle masse. Nei due
ultimi secoli gli uomini hanno capovolto l’ordine di cose, in cui i
loro padri avevano vissuto tanti secoli; hanno incominciata quella
nuova e meravigliosa storia del mondo, di cui noi vediamo oggi la
prima crisi veramente profonda, il vero segno grave di un disordine
interno che può minacciare la morte, perchè hanno voluta la libertà,
la ricchezza, la potenza, il sapere. I nostri figli e i nostri nipoti
godranno la pace sicura e sincera, se gli uomini la vorranno sul serio,
volendo anche tutto ciò che di una pace sicura e sincera è condizione
necessaria. Onde in questo momento in cui tanti uomini sono in armi,
e si spiano con il fucile spianato dalle feritoie delle trincee, e si
cercano sui mari e sulle terre con i cannocchiali e con i cannoni, è
proprio il caso di ripetere ai soldati della nuova e questa volta per
davvero santa alleanza, ai soldati delle Potenze che dovettero subire
questa guerra, perchè i due Imperi germanici la imposero a loro, la
grande parola di Sant’Agostino: quella parola che dovrebbe essere
la divisa della nuova Europa, sperata da quante menti si chiedono
oggi angustiate se la più grande epoca della storia non stia per
crollare sotto il peso dei suoi trionfi, desiderata confusamente dalle
moltitudini umili e ignoranti che versano oscuramente su tanti campi
di battaglia il loro sangue, anche da quelle che combattono nelle file
degli eserciti assalitori: _esto ergo bellando pacificas, ut eos, quos
expugnas, ad pacis utilitatem vincendo perducas_.


  FINE.




NOTE:


[1] _Scritti editi e inediti_ di G. Mazzini, Vol. XIV, pag. 215-218.

[2] Chi voglia conoscere quanto questa illusione sia stata tenace in
quello che si suol chiamare il «mondo ufficiale», legga lo scritto
pubblicato nel _Corriere della Sera_, il 29 luglio 1914, da uno
statista che, per le cariche occupate, era in grado di conoscere meglio
di tutti uomini e cose: Luigi Luzzatti. In quello scritto il Luzzatti
confortava il pubblico a sperare che la pace non sarebbe turbata,
perchè sulla pace del mondo vegliava, più ferma che mai, la Germania!
Poche ore dopo che il giornale era pubblicato, il conte di Pourtalès
faceva a Pietroburgo il passo fatale che ha provocata la guerra; e
la sera di quel giorno stesso, mentre migliaia di fedeli lettori si
rassicuravano meditando dopo cena la prosa del ministro, alla luce
della lampada familiare, il gran Consiglio dei capi dell’esercito
deliberava a Potsdam la guerra europea!

[3] «Certamente, tu colpiresti assai più giusto, se parlassi, quanto
alla Germania odierna, della mia profonda ammirazione per la sua virtù
politica ed etica. Ma non perciò mi coglieresti in fallo; perchè, chi
non ammira questa Germania? L’ammirano persino coloro che l’aborrono o
dicono di aborrirla; perchè in quell’aborrimento c’è invidia, gelosia,
soggezione, e insomma rispetto e ammirazione; in quell’antipatia c’è
il tentativo di reagire violentemente contro una spontanea simpatia,
che sarebbe troppo piena di rimproveri per noi. Vedi: io ho palpitato
un tempo pel socialismo parlamentare alla Marx, e poi pel socialismo
sindacalistico alla Sorel: ho sperato dall’uno e dall’altro una
rigenerazione della presente vita sociale. E tutte le due volte ho
visto corrompersi e dileguare il mio ideale di lavoro e di giustizia.
Ma ora mi si è accesa la speranza di un movimento proletario inquadrato
e risoluto nella tradizione storica, di un socialismo di Stato e
nazione; e penso che ciò che non faranno, o faranno assai male e con
finale insuccesso, i demagoghi di Francia, d’Inghilterra e d’Italia
(che aprono la via non al proletariato e ai lavoratori, ma, come dice
il mio venerato amico Sorel, ai _noceurs_), lo farà forse la Germania,
dandone l’esempio e il modello agli altri popoli. Perciò giudico assai
diversamente dai socialisti italiani l’atto compiuto da quelli dì
Germania; e credo che quei socialisti tedeschi, che si sono sentiti
tutt’uno con lo Stato germanico e con la sua ferrea disciplina, saranno
i veri promotori dell’avvenire della loro classe.

«Eppure, neanche questo mio giudizio sulla Germania odierna è il motivo
che determina il mio presente atteggiamento politico e la mia adesione
al gruppo _Pro Italia nostra_. Perchè, per alta, per sublime che sia
la virtù della Germania, l’intreccio degli avvenimenti, come ci ha
indotti dapprima alla neutralità, potrebbe, per gl’interessi italiani,
costringerci a schierarci contro la Germania....»

(Da una lettera ad un amico, scritta da Benedetto Croce il 22 dicembre
1914, cinque mesi dopo l’inizio della guerra europea, e pubblicata come
articolo nell’_Italia nostra_ del 27 dicembre 1914, sotto il titolo:
«Cultura tedesca e Politica italiana»).





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GUERRA EUROPEA ***


    

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