Abissinia: Giornale di un viaggio

By Giuseppe Vigoni

The Project Gutenberg EBook of Abissinia, by Pippo Vigoni

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Title: Abissinia
       Giornale di un viaggio

Author: Pippo Vigoni

Release Date: January 28, 2009 [EBook #27919]

Language: Italian


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                       ABISSINIA

                GIORNALE DI UN VIAGGIO


                          DI
                     PIPPO VIGONI


          CON 3 PANORAMI, 33 TAVOLE ILLUSTRATIVE,
        UN FACSIMILE DI UNA LETTERA DEL RE GIOVANNI
                ED UNA CARTA ITINERARIA
  ESEGUITA PER CURA DELLA R. SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA.


                  NAPOLI MILANO PISA
                    ULRICO HOEPLI
                   EDITORE-LIBRAIO

                        1881.




ABISSINIA

GIORNALE DI UN VIAGGIO



    [Illustrazione: GIOVANNI KASSA

    Re dei Re. (Negus Neghest).

    _Imperatore d'Etiopia_]




  ABISSINIA

  GIORNALE DI UN VIAGGIO


  DI
  PIPPO VIGONI


  CON 3 PANORAMI, 33 TAVOLE ILLUSTRATIVE,
  UN FACSIMILE DI UNA LETTERA DEL RE GIOVANNI
  ED UNA CARTA ITINERARIA
  ESEGUITA PER CURA DELLA R. SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA.


  NAPOLI MILANO PISA
  ULRICO HOEPLI
  EDITORE-LIBRAIO

  1881.


PROPRIETÀ LETTERARIA.

_Milano, Tip. Bernardoni di C. Rebecchini e C._




A MIA MADRE.


_A ritemprarmi nei momenti di scoraggiamento, a partecipare in altri al
mio entusiasmo e alla mia soddisfazione, ebbi sempre nelle mie
peregrinazioni un fedele compagno, il pensiero di chi mi seguiva coi
suoi voti._

_A nessuno meglio che a te potrei quindi dedicare queste pagine, scritte
sempre con la speranza di potertele un giorno presentare._

_Credi che ad ogni passo che mossi, il mio cuore era con te, e con me
era la tua santa immagine, e questo ti sia di conforto alle lunghe ore
d'angoscia passate nella mia assenza._




    [Illustrazione: Lettera di raccomandazione per le autorità
    abissinesi, dataci da Re Giovanni alla nostra partenza dal suo
    campo.]


TRADUZIONE.

(_Sigillo in Etiopico e in Arabo_)

GIOVANNI RE DEI RE DI ETIOPIA.


_Lettera del Prefetto di Dio, Giovanni Re dei Re di Etiopia; diretta al
luogotenente per alloggio e vettovaglia, e ai Governatori secondo la
strada.¹ Codesti uomini sono miei amici, abbiate cura di guardare le
loro proprietà e supellettili, darete loro da mangiare e da bere se
avran fame o avran sete, e li farete partire_ (solo) _dopo essere saliti
ad accompagnarli_ (in segno di onore). _Scritta l'anno di grazia 1874,
l'11 di Sanne_ (17 o 18 Giugno) _nella città capitale di Samara._

  ¹ _Questa frase rende certamente il senso del testo, ma non
    s'è potuto tradurla più esattamente_.

       *       *       *       *       *

  Per cortesia di chi regge il celebre Collegio di Propaganda a
  Roma abbiamo potuto ottenere questa traduzione solo dal signor
  professore Ignazio Guidi romano, uno dei più dotti orientalisti
  italiani

                                                  L'EDITORE.




AL LETTORE.


Il non saper vestire il racconto di quella eleganza e naturalezza che lo
rendano simpatico al lettore, e divertendolo lo facciano quasi
partecipare alle emozioni provate da chi le narra, mise sempre lo
spauracchio della critica fra me e il desiderio di rendere di pubblica
ragione le mie impressioni di viaggio.

Incoraggiato ora dal consiglio di molti fra i miei buoni amici, mi
decisi a farlo, fidente almeno nella benevolenza di questi.

Lungi da me l'idea di farmi narratore di avventure straordinarie,
intendo solo di descrivere un viaggio forse abbastanza originale per un
semplice _touriste_, imponendo a me stesso di tenermi alla pura verità
non solo, ma alla verità vera, cioè senza lasciarmi troppo avvilire nei
momenti di scoraggiamento, nè esaltare da quelli di soddisfazione, per
mantenere al carattere d'ogni cosa il suo reale colore.

Io non ho studiato, ma solo visitato l'Abissinia, quindi non faccio
digressioni nè considerazioni, ma solo tento dare una riproduzione
fedele di quanto ho visto, e sentito narrare in quel paese dai suoi
abitanti, sperando con questo di poter interessare chi mi legge. Non
intendo scrivere un libro pei dotti, ma solo dare un abbozzo per chi si
interessa di viaggi, ed è per questo, e perchè convinto che di molti
artisti val meglio lo schizzo improntato sul vero che il quadro
diligentemente finito nella monotonia dello studio, che io credo il
miglior proposito per me quello di trascrivere quasi integralmente le
mie note giornaliere, memore che nel tracciarle ho sempre cercato
d'essere osservatore calmo e giudice spassionato.

E come penso ricorrere alla matita per meglio chiarire quello che forse
la mia penna non saprà abbastanza bene descrivere, sento dovere di
porgere qui i miei più sentiti ringraziamenti agli amici U. Dell'Orto,
G. B. Lelli, G. Servi, A. Valdoni, che interpretando il mio Album di
ricordi presi dal vero, vogliono aiutarmi a preparare i disegni che
formeranno certo la miglior parte di questo volume.




CAPITOLO I.

  Origine della spedizione.--Partenza.--A bordo.--Alessandria e
  Cairo.--Ziber pacha.--A Suez.--Nel Mar Rosso.--Suakin.--Sul
  postale egiziano.--Arrivo a Massaua.


Fu nel settembre del 1878 che per la prima volta vidi farsi concreta la
speranza di un viaggio in quell'interessante e misterioso paese che per
doppia ragione fu detto Continente Nero.

Era un coraggioso industriale nostro, il comm. Carlo Erba, che aveva
ideato di armare una spedizione, che, tenendo la linea di Kartum,
Galabat, Gondar, Goggiam e possibilmente lo Scioa, scendesse poi al Mar
Rosso, esplorando commercialmente quelle contrade: io l'avrei seguita
colla pura veste del dilettante. La cosa doveva farsi se non
misteriosamente, almeno tranquillamente, sperando riportare grate
sorprese, e non disillusioni per coloro che troppo facilmente si
lasciano trasportare dagli entusiasmi che nascono per simili imprese in
paesi, nei quali come da noi, non vi si è abituati. Ma la cosa entrò
presto nel dominio del pubblico, i giornali ne parlarono, si propose una
società per sottoscrizioni. Erba rinunciò generosamente all'interesse
proprio nella speranza di un bene avvenire pel suo paese; fu costituito
un Comitato, alla presidenza del quale fu chiamato a sedere lo stesso
Erba; fu decretata la spedizione che naturalmente assunse ben maggiori
proporzioni. Mi seduceva assai più il primo disegno, ma l'occasione
parvemi favorevole, l'itinerario seducente, quindi, avanti, dissi a me
stesso, forse è giunto il giorno di realizzare uno dei più bei sogni
della mia vita.

Dalle cognizioni assunte leggendo libri sull'Africa e studiando un
pochino i viaggi che vi furono intrapresi, capisco che il còmpito di
_esploratore_ non è pane pei miei denti. O farlo bene o non farlo:
essere ufficiale, ma non semplicissimo ed ignoto soldato del piccolo
esercito di volontarii che tentano da ogni lato di avanzare per quelle
ignote terre. Si esplora in grande colla fede, il tempo, la pazienza di
Livingstone o coll'ardire e i mezzi fisici e materiali di Stanley: si
esplora in piccolo essendo geografo, naturalista, od avendo in qualsiasi
ramo l'arredo di cognizioni necessarie onde si possa portare un obolo
qualunque alla scienza: sempre poi dev'essere guida la più profonda
abnegazione. Io non ho questi requisiti, e per di più e per buona
fortuna ho tali vincoli d'affetto che mi legano alla famiglia, che non
mi permettono di fare viaggi dei quali è imprevedibile la durata, nè di
avventurarmi in paesi dove ogni comunicazione si richiuderebbe dietro i
miei passi. Approfitto dunque dell'occasione di una spedizione puramente
commerciale per visitare l'Abissinia che molto mi interessa, e farmi un
preciso concetto di questi paesi quasi vergini e selvaggi: del come vi
si viaggia, delle peripezie che vi si incontrano, degli usi e costumi
degli abitanti, della loro ricca flora e fauna. Chi sa che la fortuna
non mi sorrida! che le grandi cacce non mi siano propizie! che per tutta
la vita non abbia a portar meco buona memoria e soddisfazione di quanto
mi decido a fare!

Procurati i libri e le carte che mi pareva potessero tornarmi utili, mi
diedi ai preparativi d'oggetti materiali, che furono tutti racchiusi in
cassette tali da potere per peso e dimensioni formare, con una il carico
di un portatore, con due quello di un mulo e con quattro quello di un
camello. Armi e munizioni come un po' di pratica mi insegnava, buone
flanelle, abiti forti e comuni, scarpe che ricordano l'alpinista,
qualche provvigione da bocca, qualche farmaco, e molta fede in Dio che
nulla mi faccia mancare, e conservi sempre bene chi col cuore lascio in
Italia: famiglia ed amici. E non dimentichiamo uno dei più importanti
elementi, cioè disposizione a sofferenze e privazioni di ogni genere,
come pure ad incorrere in disinganni su tutta la linea.

Così armato, il 17 novembre lasciavo il lago di Como con quanto ho di
più caro al mondo, per avventurarmi nel nuovo pellegrinaggio.

In un interessante suo libro, disse un amico mio, che il più bel giorno
di un viaggio è quello della partenza: a me spiace d'essere in questo di
parere diametralmente opposto al suo, trovando che lo è invece quello
del ritorno: e la miglior conferma la trovo in questo, che specialmente
trattandosi di viaggi lunghi e avventurosi, il giorno della partenza si
vedono lagrime sugli occhi di chi se ne va e di chi resta, al giorno del
ritorno è spontaneo il sorriso della consolazione sulle labbra di chi
torna e di chi aspetta: da questo lato durante l'assenza hanno sofferto
tutti: eppure sapendo di soffrire e di far soffrire, si parte; e qui il
dovere imporrebbe che chi si rese colpevole se ne giustifichi dando
ragione del suo operare, ma a questo non mi resta che domandare che mi
si dica cos'è il fascino, ed ancor io allora, lo spero, sarò perdonato.
Una naturale inclinazione mi porta a leggere libri di viaggi: fra tutti,
le avventure di chi toccò l'Africa sono quelle che maggiormente mi
divertono, mi esaltano, mi interessano, mi fanno nascere il desiderio
d'esserne non solo giudice, ma attore: sento che è, e sarà un vuoto
nella mia esistenza se non tento almeno di diventarlo; l'irrequietudine
diventa di me padrona, non sono più io che decido di partire, è una
forza misteriosa che mi ci spinge, sono i due poli di forza elettrica
che irresistibilmente si attraggono, il fascino dell'Africa, la forza
misteriosa che mi domina.

La sera del 21 lasciavo l'incantevole golfo di Napoli a bordo
dell'_Egitto_, vapore di Rubattino, con un temporale indiavolato che
dalla coperta del bastimento non ci concesse neppure di dare l'ultimo
addio a questo lembo di paradiso disceso nella crosta terrestre. Al
mezzogiorno del 22 si gettavano le ancore davanti a Messina che appena
si ebbe il tempo di visitare alla sfuggita, perchè alle quattro si
ripartì, lasciando a terra due giovani sposi francesi che inebbriati
dall'amore o dall'incanto del paesaggio, scordarono l'ora destinata a
proseguire per la loro meta, il Cairo. L'elica riprende il suo continuo
e monotono girare, e ciascuno dei passeggeri cerca ragione per scambiare
qualche parola con chi per parecchi giorni è obbligato a menar vita
comune. Per vero dire io non sono molto entusiasta della vita di mare; è
bella, ma monotona, e a bordo di un bastimento sono tante le circostanze
che devono concorrere a renderla veramente aggradevole, che ben
difficilmente si può avere la fortuna di trovarvele tutte riunite. Vi
sono però sempre dei bei tipi che vi divertono o vi interessano, e per
noi italiani, che siamo sì poco avvezzi al viaggiare, v'ha spesso da
stupire o da imparare. Era, per esempio, con noi una gentilissima
signora belga, vedova di un inglese, che non avendo visto da due anni
suo figlio impiegato in Birmania, vi si recava con due sue ragazze, a
fargli una visita, colla stessa indifferenza come se la farebbero da noi
due signore nel fissato giorno di ricevimento. Una famiglia di
Californesi, padre, madre e figlia, che partiti da S. Francisco,
passando per Nuova York, approdarono in Europa, la attraversarono tutta
fino in Russia, scesero in Italia, andavano in Egitto, passeranno poi
per le Indie, la China il Giappone e torneranno così, a Dio piacendo, a
casa loro, fieri di aver fatto il giro del mondo, certamente però più in
fretta che bene. Un giovane Marocchino, stabilito per affari a Genova,
coll'elegante suo costume: era mussulmano, e ordinando la sua religione
che non si può cibarsi di carni d'animali uccisi da mani per loro
impure, ci offriva ogni giorno il divertimento di farsi carnefice dei
bipedi e quadrupedi che ornati d'intingoli, preparati da mani cristiane,
assaporava poi molto abbondantemente quando ve lo chiamava il suono del
sospirato campanello. Un giovane Tedesco che si recava a cercar salute
in più miti aure, ma, forse più pauroso che ammalato, ci divertiva colle
sue continue agitazioni vedendo capovolgersi il bastimento ad ogni colpo
di vento, una tempesta in ogni nube e la sera fanali di vapori che
venivano ad investirci, in ogni stella. Qualche altro passaggero e il
buon capitano Martino, vecchio lupo di mare, senza complimenti, ma tanto
franco e cordiale.

La mattina del 26 ci schieravamo fra i molti altri bastimenti che bene
allineati popolavano il porto di Alessandria. Non eravamo ancora
completamente fermi e la coperta era invasa da quella massa di arabi
chiassosi che parlando qualche frase di tutte le lingue vi si offrono
come facchini, come battellieri, come agenti dei diversi alberghi: sono
insistenti, nojosi, impertinenti se volete, ma la bellezza del cielo, la
novità dei tipi e dei costumi, la contentezza del riveder terra, vi fa
dimenticare tutto quello che potrebbe essere noja; e trovate bello
persino il chiasso che vi fanno d'attorno, e la poca civiltà dei modi
coi quali cercano di impossessarsi di voi e del vostro bagaglio.

Rivedo questo bel paese, lieta memoria del mio primo viaggio in Oriente,
e subito ritrovo qualche buon amico con cui passo un pajo di giornate, e
il 28 parto pel Cairo, dove da una settimana si trovano Matteucci e
Ferrari, due dei compagni di viaggio: conoscevo già il primo, ora
strinsi la mano al secondo: è abbastanza difficile l'intima convivenza
di questi lunghi viaggi, ma subito trovai in Ferrari un uomo di
carattere tanto leale, e di modi e d'aspetto tanto simpatici, che dal
primo vederlo non dubitai saremmo stati buoni amici per sempre, e non mi
sono ingannato.

Circa la nostra spedizione, trovai un importante cambiamento
nell'itinerario: invece di raggiungere Gondar passando per Kartum e
Galabat, vi si andrà per Massaua e Adoa, seguendo, se si potrà, l'altra
via nel ritorno.

Da quando vidi Cairo la prima volta, trovo che ha perso moltissimo: i
quartieri europei con grandi fabbricati a portici, e l'elemento europeo
che si va infiltrando nei quartieri arabi, sono certo a maggior comodo
di chi vi abita, ma a grave discapito dell'originalità del paese. Il
Kedive crede erigersi un monumento di gloria facendo della sua capitale
una seconda Parigi, ma parmi invece che rovini un paese, e oso dire una
civiltà cui si poteva togliere quanto v'ha di barbaro, rispettandovi
però quanto v'ha di bello e di caratteristico.

Andai cercando un magnifico viale fiancheggiato da sicomori dove ogni
giorno mi recavo a godermi degli splendidi tramonti che dietro le
lontane piramidi infuocavano l'orizzonte: era uno di quegli spettacoli
indescrivibili che ricreano lo spirito e innalzano la mente, ma che non
v'ha penna, nè pennello, nè fantasia che possano ritrarre, e mi trovai
invece rinchiuso in una via fiancheggiata da grandi fabbricati, e allo
sfondo sorgeva un prosaico e fumante camino da opificio. Povero Oriente
come ti vestono da Arlecchino! Fra poco cercheranno di sostituire le tue
eleganti palme con dei tozzi gelsi, i tuoi variopinti costumi con delle
tube e dei _frak_, e spargeranno di belletto le abbronzite guance dei
tuoi figli, per renderti una brutta copia della decrepita Europa. Ma
come il tuo sole impavido non teme che questo fantasma di civiltà possa
far velo all'ardore dei suoi raggi, tu, stattene fermo e non permettere
che i vizii che porta seco abbiano a corrompere la più bella delle tue
doti, quella che per te è legge sacra, l'ospitalità.

Fummo da un amico invitati a fare la conoscenza di Ziber pacha, che in
quel momento più che mai attirava l'attenzione della politica e dei
curiosi in Egitto. È questi nativo del Darfur dove sempre visse. Uomo di
intelligenza non comune e di spiriti belligeri, seppe col senno e colle
armi conquistare tutta quanta quell'estesa provincia, che poi mediante
trattati sottomise al Governo egiziano, ritirandosi lui in Cairo ove
ebbe cortesie, onori, e titolo di pacha. Ora per ragioni di politica e
di amministrazione tutto quanto quel paese si mise in rivolta, e capo
dell'insurrezione è Suleiman, il figlio di Ziber pacha. Questi stesso ci
raccontò tutta la storia che in pochi termini ci venne tradotta. Non
capivo la sua lingua, ma dal modo con cui si esprimeva, accompagnando
spesso la narrazione con gesti, traspariva l'interesse che vi prendeva e
lo spirito che lo dominava, e i suoi occhi benchè incastrati nell'orbita
di un semi-selvaggio si gonfiarono di lagrime quando raccontando
dell'attuale guerra dei suoi compaesani colle truppe di Gordon pacha,
disse che se fosse ucciso suo figlio, lui pure morrebbe di dolore.

Oggi sappiamo che i rivoltosi furono completamente battuti da Gessi, e
Suleiman fatto prigioniero e fucilato.

Interessante fu il genere di ricevimento che vi trovammo, essendo nè
puramente turco nè arabo, ma un poco anche darfuriano. Entrammo in un
primo cortile fiancheggiato dalle scuderie e da questo passammo in un
piccolo giardinetto che ricordava quelli dei nostri curati da campagna,
se qualche palma o banano non ci avesse fatti accorti della distanza che
ci separava. Qui fummo incontrati da parecchi individui di vario colore
e diverso costume che si qualificavano per segretari, intendenti,
cerimonieri, ecc., che con modi garbatissimi ci introdussero in un primo
anticamerone dove comparve il pacha, alto, snello, quasi nero, vestito
all'europea col _fez_. Fu cortesissimo, ci strinse la mano all'araba,
cioè baciandola e portandola al fronte prima e dopo di toccare la
nostra, poi ci fece salire per una scala mezzo diroccata, e attraversate
un pajo di camere deserte di mobili, ma molto popolate di servi, fummo
introdotti nel gran salone dei ricevimenti, dove le finestre erano di
puro stile arabo e i divani coperti da damasco giallo tutto a filacci.
Mentre noi si stava seduti a discorrere, due servi neri stavano impalati
presso la porta cogli occhi fissi al padrone, pronti ad indovinare un
ordine in qualunque suo cenno. Dopo pochi minuti entrò un servo con un
vassoio: tre o quattro altri gli si fecero d'attorno, ognuno prese una
piccola tazza col sotto-coppa alla turca in argento, vi versò un liquido
da un'anfora e ce lo venne ad offrire con tutto rispetto, inchinandosi,
pronunciando una parola gentile e tenendosi la mano sinistra distesa sul
petto. Era un decotto di droghe in cui prevaleva canella e pepe: non
cattivo al gusto, ma non troppo benigno alla lingua e alla gola. I servi
non avevano per anco finito di riavere da noi le tazze vuote, quando
entra un nero con una catinella e un'anfora di metallo e gira per la
sala facendo lavar le mani a tutti, mentre un altro che lo segue
consegna ad ognuno un tovagliolo, per vero dire non proprio di bucato.
Subito appare un altro servo con un tavolo, o meglio uno sgabello alto,
che depone fra noi, ed un secondo vi adagia un gran vassoio coperto da
piatti con pasta di semola, latte coagulato, pezzi di diverse torte,
formaggio, ulive, specie di caramelle, conserve, dolci, pezzetti di pane
e qualche cucchiaio, che però non fecero che da comparsa. Ignorante, io
me ne stetti a vedere cosa faceva Sua Eccellenza, poi non feci che
seguire il suo esempio, assaporando tutto, prendendo tutto colle mani
nelle quali si faceva un vero caos di gusti, ma senza però arrivare al
punto suo di dare continui segni d'aggradimento con manifestazioni
troppo spontanee... Un servo intanto ne andava offrendo una gran tazza
dalla quale in comune si beveva acqua con conserva dolce. Finita questa
frugale mensa, ritirarono la tavola, ci fecero ancora lavare le mani,
poi collo stesso apparato di prima ci offersero caffè e sigarette.

Il 2 dicembre mi trovavo per la sera a Suez in attesa degli altri
componenti la spedizione, che vi dovevano arrivare direttamente
dall'Italia a bordo del _Sumatra_, vapore di Rubattino. Con qualche
ritardo, il giorno quattro, questo elegante bastimento sortiva infatti
dal Canale e a mezzogiorno andava a dar fondo in rada, accanto al
_Messina_, suo compagno destinato alla navigazione speciale nel Mar
Rosso. Si ha diritto davvero di sentirsi fieri nel vedere bastimenti di
così forte portata e inalberando la nostra bandiera, solcare ormai le
onde di tutti i mari, e toccare con mano come possano competere con
quelli delle più forti nazioni e vedere come forastieri d'ogni altro
paese prescelgano i vapori italiani e ne facciano sempre molti elogi.
Così l'Italia si farà grande e ricca, e sia lode ai coraggiosi armatori
ai quali è da augurare che la fortuna sorrida.

Il resto della giornata e parte della notte furono impiegati a
trasbordare mercanzie sul _Messina_, a bordo del quale la mattina del
cinque tutti partivamo; ma prima di troppo scostarci da questo
incantevole paese che è l'Egitto, mi è forza dire due parole di
ringraziamento a tutti coloro che mi vollero assolutamente colmato di
gentilezze e di utili raccomandazioni e di cordiali augurii pel viaggio
che andavo ad intraprendere. Non faccio nomi, che troppo sarebbe lungo,
ma ad ognuno mando di cuore la sua parte e nessuno dubiti della mia
memoria e della mia riconoscenza.

La posizione di Suez è bellissima, specialmente per chi la vede da
bordo. Un ammasso di case bianche e uno di neri bastimenti che stanno
schierati come due eserciti nemici prima dell'attacco, laddove
null'altro che deserto e mare si contrastano lo spazio. Aggiungete la
cupola azzurra di quel cielo o l'orizzonte infuocato da un tramonto che
vi fa rossa la sabbia e metallica la superficie dell'acqua, e se avete
una fantasia abbastanza fervida, immaginatevi l'incanto di questo quadro
in natura. Noi così lo godemmo la sera; una splendida luna venne a
cambiarvi le tinte e renderlo più tetro sì, ma non meno bello e forse
più imponente; e coll'altro effetto ancora di una splendida aurora,
salpammo. In poche ore quante scene diverse, quanto di visto, e quanto
di vissuto!...

Dietro noi lasciamo la città, a sinistra oltrepassiamo l'imboccatura del
Canale e proseguiamo fra le due coste aride, deserte, infuocate
entrambe, d'Asia e d'Africa; qualche cosa di maestoso sorge a tagliare
l'infinito orizzonte, è il gruppo del Sinai che ci lascia l'ultima
impressione delle coste d'Asia, allargandosi considerevolmente il Mar
Rosso e verso sera restando noi fedeli alla costa Africana.

Abbiamo sempre calma perfetta e per sola distrazione, la vista di
qualche pesce volante, di qualche scoglio indicato da fanali e
l'emozione di qualche altro nascosto e non ancora trovato, nel quale si
potrebbe battere il naso; la temperatura va sempre aumentando.

A bordo non abbiamo che un giovane Francese, che prese servizio nelle
truppe di Gordon pacha e per questo se ne va a Kartum: vorrei
ingannarmi, ma mi parve vittima di una risoluzione non abbastanza
meditata; è sempre assai pensieroso e confessa che da lontano tutto
sembra roseo, ma più si avvicina alla realtà, più si fanno grandi i
punti neri che erano quasi invisibili.

È impegnato per circa due anni, che devono essere ben lunghi nella sua
posizione, se invece d'essere animato da speranze, è già depresso dal
pentimento. Un Greco e un Tedesco che esercitano una professione
abbastanza originale: negozianti cioè di leoni, elefanti, ipopotami,
leopardi, buffali, rettili e simili, sì vivi che morti, per musei,
giardini zoologici e amatori. Per questo si portano a Kassala, dove
sono abbastanza numerosi questi cari animaletti.

I racconti delle loro caccie e prese erano assai interessanti, le loro
avventure straordinarie, per quanto si faccia il difalco necessario fra
il raccontato e il credibile.

Già che parliamo dei passeggeri del _Messina_, parmi venuto il momento
di presentare anche quelli coi quali dovrò essere compagno di viaggio:
Pellegrino Matteucci di Bologna, Callisto Legnani di Menaggio, Enrico
Tagliabue di Monza, Gustavo Bianchi di Ferrara, Francesco Filippini: il
primo dirige la spedizione, gli altri sono i delegati, che, per incarico
del Comitato di Esplorazioni commerciali, la compongono. Il Filippini è
destinato a rimanere di stazione nel porto di Massaua. Seguono come
dilettanti il capitano Vincenzo Ferrari da Reggio Emilia e quel
disgraziato che sta colla penna in mano, ha cominciato ieri a scrivere e
si è messo in testa di render conto giorno per giorno del suo operato
durante quasi dieci mesi: chiedo un po' di benevolenza per lui.

Il giorno nove era indicato per l'arrivo a Suakin; fin dal mattino si
naviga fra secche, che come si vede dalle carte sono estesissime in
questi paraggi; consistono di banchi corallini nascosti a diverse
profondità, per cui con grande attenzione si possono appena distinguere
dal colore delle acque che sembrano fangose, e le meno profonde dal
vedervisi frangere contro le onde producendo linee di schiuma
biancastra. Il pilota arabo, guidato da pratica più che da scienza, sta
sul pennone dell'albero di prua, e continuamente dà ordini perchè il
timone sia girato a destra o a manca.

Ad onta di questo, poco dopo il mezzogiorno un urto, seguito da
sfregamento, ci avverte che siamo montati in secco; vidi il bastimento
alzarsi di prua, quasi impennandosi, poi quando il peso di prua
prevalse, questa si abbassò, alzandosi invece la poppa; giuocavamo
d'equilibrio toccando la chiglia sullo scoglio, ma non potendo
naturalmente durare in questa posizione acrobatica, tre o quattro
ondulazioni piuttosto forti di rullio finirono per lasciarci adagiar sul
fianco; subito si ferma la macchina, si ordina indietro, poi ancora
avanti, e fra il panico e la confusione, non so a quale di questi due
movimenti dovemmo la nostra liberazione, ma so che pochi minuti dopo
proseguivamo la nostra rotta con minor velocità e maggiori precauzioni.
Pericolo non ve ne era, chè il mare era calmo, la terra non poteva
essere lontanissima e le scialuppe pronte; ma c'era il caso di dovercene
stare qualche giorno per alleggerire il bastimento, scaricandolo, buttar
ancore, e coll'aiuto di queste, toglierci da questo incommodo letto.

Passiamo fra due enormi banchi che da bordo si distinguono benissimo,
poi viriamo sulla destra per entrare in un canale segnato da torricelle
di muro che poggiano sui depositi corallini, e prima del tramonto
gettiamo le ancore a pochi metri da Suakin, dove siamo subito circondati
da piroghe montate da bellissimi ragazzetti neri, che quasi rivali
d'Adamo in fatto costume, ci si offrono per traghettarci a terra.

La città si presenta bellina, con un ordine di case bianche di stile
puramente arabo, circondate da acqua, collo sfondo di bellissime
montagne che fanno un effetto assai curioso sorgendo direttamente dalla
pianura, senza contrafforti, senza nessuna linea di alture che si vadano
poco a poco elevando. La posizione è assai originale, essendo il
villaggio piantato su d'un isolotto di poche migliaia di metri quadrati
di superficie, banco corallino, che appena si innalza dal livello del
mare, circondato da un canale di un centinaio di metri di larghezza, poi
ancora da terra ferma che ha così l'apparenza, se mi è permesso il
confronto, di racchiudere l'isolotto, come un granchio tien racchiuso la
preda fra le due zanne. A est, il canale pel quale entrammo, e che
porta al mare libero, ad ovest una diga che mette in comunicazione
diretta colla terra ferma.

All'interno nessuna regolarità: qualche piazza dove si tengono i
mercati, qualche via coperta da logore stuoie per difendere dalla sferza
del sole, cui si dà il titolo di bazar e dove si vendono gli elementi
più che necessarii, indispensabili all'esistenza, alcune case di stile
arabo, terminate a terrazze col davanzale frastagliato e ornate di
finestre e balconi a lavori di intaglio in legno molto caratteristici;
qualche piccola torre e qualche minareto da dove si spande la tremula
voce del Muezzin che ad ore fisse chiama i divoti alla preghiera. È
questo il quartiere abitato dagli arabi commercianti od impiegati, e dai
pochi europei che vi tengono i loro affari; dietro abbiamo subito
tugurii di legno e fango, circondati da palizzate di stuoie, abitati
dagli indigeni. Oltre la diga continua la città di questi ultimi che
vanno man mano ritirandosi per far posto ad abitazioni e abitanti un po'
più civili, e si finisce nella vasta pianura con accampamenti di beduini
sparsi qua e là e costituiti da miserabili tende di stuoie. Il commercio
è quasi completamente in mano dei Greci. Svariatissimi sono i tipi che
si incontrano; l'Arabo colla testa rasa, la sua zimarra bianca, e il
_fez_ o la cuffia che trascuratamente pende sulle spalle od
elegantemente è avvolta a turbante; l'altro che vuol parere civilizzato
e non veste che panni neri tagliati all'europea; l'indigeno che presenta
tutte le gradazioni delle tinte che possono dirsi marrone, quasi nudo e
solo difeso da una pezzola qualunque alla cintura; cento altre varietà
di tipi e di tinte fino al nero ebano, provenienti da tutte le province
dell'interno.

Curiosissimo il _biscerino_ o vero beduino del deserto fra Suakin e
Berber, che ha la privativa del servizio di guida e camelliere per le
carovane che attraversano quelle sabbie, di cui è fiero d'essere
assoluto padrone. È alto, snello, ha l'occhio vivissimo, un procedere
vispo e dignitoso. Porta una fascia bianca alla cintura, oppure un
drappo di tela in cui artisticamente si avvolge, e i capelli educati in
modo che un gran ciuffo si innalza a cono rovescio e il resto pende a
grandi masse di ricci o trecce, tagliate orizzontalmente poco sopra
l'attacco della spalla, per difendere la nuca dai raggi del sole.

L'apparenza è perfettamente di quei tipi stecchiti che si vedono incisi
alle pareti dei monumenti egizii. La testa poi ungono con tanto grasso e
burro, da parere, alle volte, mascherati con una parrucca gialla, sempre
ornata da uno stecchetto leggiermente ricurvo che è il loro pettine, e
serve spesso per rimediare ad un molesto e non dubbio prurito. Sulle
braccia portano molti anelli di pelle con sacchettini di cuoio in cui è
religiosamente conservato qualche verso del corano o qualche amuleto che
li preserva da mali e pericoli.

Di donne se ne vedono pochissime, e queste completamente coperte,
essendo qui fanatici mussulmani. Il dottore, un gentilissimo arabo, ne
diceva che anche a lui è interdetto l'avvicinarsi al bel sesso, che in
caso di malattia ricorre piuttosto all'empirismo di una pretesa
medichessa.

La pulizia delle strade e altri servizii in città, sono fatti dai
prigionieri che vivono nel locale della dogana, trattati come da noi
nessuno oserebbe trattare un suo cane; sono logori, indecenti,
macilenti, portano grosse catene ai piedi, che, dal peso e dallo
sfregamento, ne sono continuamente piagati; domandano la carità a
chiunque incontrino e sono custoditi da soldati che lasciano però ben
poco ad invidiare a quei miserabili. Spesso qualcuno tenta fuggire, ma
sempre inutilmente, che l'unica via di scampo è quella del deserto, dove
sono inseguiti dai beduini che vi danno una vera caccia, sapendo d'avere
un compenso di cinque talleri; a quel disgraziato, cui la disperazione
suggerì la fuga, sono applicate parecchie centinaia di legnate, e
qualche volta persino mille.

Ad ogni passo v'era qualcosa di nuovo per noi da osservare, si fece
qualche passeggiata col fucile nei dintorni, ebbimo lo spettacolo di
qualche carovana che partiva od arrivava dall'interno, e così giunse
presto la sera dell'11, e dovemmo recarci a bordo per ripartire
l'indomani mattina.

Siamo affidati ad una vecchia carcassa, il _Zaga-zig_, vapore egiziano
che conta parecchi lustri di esistenza, senza aver mai visto un chiodo
od una penellata di vernice che venissero a supplire quello che il tempo
ha corroso; le cabine sono così sucide e puzzolenti che non è a pensare
a starci, per cui portati i nostri effetti sopra coperta, vi stendemmo i
nostri _pleads_ e vi stabilimmo il nostro primo accampamento. La mattina
del 12 usciamo felicemente dalle secche, poi pieghiamo a sud, sempre a
poca distanza dalla costa africana che appare continuamente arida e
montagnosa. Tutti a bordo sono arabi, tranne i macchinisti; gli
ufficiali sono logori, cenciosi e scalzi; lascio pensare come sia la
ciurma; abbiamo poi a bordo una dozzina di soldati turchi che per
punizione sono mandati alle guarnigioni del Mar Rosso; venendo da
Costantinopoli fecero una sommossa a bordo e tentarono ammazzare il
comandante; tre rimasero uccisi e gli altri, facce da forca, furono
disarmati, e perfettamente liberi sono ora nostri compagni di viaggio;
quando videro salire a bordo le pesanti cassette coi nostri talleri, le
loro fisonomie tradirono le loro speranze e forse i loro intendimenti, e
prevennero noi di dormire vegliando. A bordo di questi vapori non si
pensa neppure alla mensa dei passeggeri, per cui portammo le nostre
provvigioni e cominciammo così a mettere alla prova le nostre abilità
culinarie, o meglio la forza di resistenza dei rispettivi stomachi.

Il secondo giorno incontriamo parecchi scogli a superficie piatta e di
poco sporgenti dal livello delle acque. Una dozzina almeno di ufficiali
sono sul ponte a discutere, guardare con cannocchiali, studiare, senza
capirne un'acca, una gran carta sparsa di gocce di sego più che di
rilievi, e sulla quale misurano le distanze col compasso che fornì madre
natura, le loro sudicissime dita; a prua si scandaglia, sui pennoni
stanno i piloti, il nostromo dà ordini e contrordini che pare una scuola
di fischio.

L'apparato era grande, ci aspettavamo qualcosa che vi corrispondesse,
forse si scoprissero nuove terre, ma invece la macchina ferma, e verso
le cinque si dà fondo in quindici braccia. Cosa succede! ci domandiamo:
nulla di male, ma prudenza suggerisce che prima delle tenebre si faccia
_alt_, perchè la scienza coi suoi calcoli e i suoi strumenti non ha
ancora rischiarate le vie a questi navigatori. Vi sarà ancora chi
disputa per la patria di Cristoforo Colombo, ma si può garantire che di
sangue egiziano non ne scorreva nelle sue vene.

La mattina del 14 si levano le ancore, operazione che col progresso
egiziano si fa ancora a forza di braccia, e richiede quindi altrettanto
tempo che fatica: dopo un paio d'ore appare la costa, si vedono le
montagne allo sfondo, si distingue la linea bianca di Massaua, spiccano
gli alberi di due bastimenti che vi stanno ancorati; alle undici siamo
accanto a loro.




CAPITOLO II.

  Massaua.--In cerca di abitazione.--Conoscenza della famiglia
  Naretti.--Notizie dell'interno e consigli pel nostro
  viaggio.--Descrizione di Massaua.--Un sistema di cura.--Un forno
  assai semplice.--Gite di caccia.--Il pranzo di Natale.--Invasione
  di locuste.


Massaua si presenta presso a poco come Suakin, piantata sopra un banco
di madrepore e tutta circondata dal mare; si protende come lunga lingua
ad est, ove sta un forte e la missione cattolica colla propria
chiesuola; segue uno spazio deserto in cui è sparsa qualche capanna, poi
viene la cittadina di carattere arabo, seguita dal nucleo maggiore di
rozze abitazioni di indigeni; la unisce una diga ad altra isola maggiore
su cui sta il palazzo del Governo, abbastanza elegante, che subito
risalta all'occhio di chi entra in queste acque.

Avvicinati dalla sanità che con tutta formalità ricevette la nostra
patente con lunghe molle in ferro e le espose al fumo di abbondanti
profumi, in pochi momenti ci fu concessa libertà di pratica. Il signor
Habib Sciavi, delegato sanitario e agente postale, adempie al suo
ufficio con vera intelligenza e vero scrupolo; venne a bordo; avevo per
lui una raccomandazione che subito ci fece diventare buoni amici; mi
piace nominarlo, perchè per lui ho molta riconoscenza, e fu per noi una
vera risorsa durante il nostro soggiorno in questa città.

Prima nostra cura fu di recarci dal governatore che ci accolse assai
cordialmente; ma ad onta di tutte le nostre buone commendatizie ci
disse: telegraferemo a Gordon pacha che siete qui giunti; diremo quanti
siete, quante casse e quante armi avete, dove siete diretti, poi dalla
risposta decideremo sul da farsi. Non ci restò che far portare a terra
tutto il nostro bagaglio e depositarlo nei magazzeni di dogana, poi
andarcene in cerca di una casa da affittare, che di alberghi qui non se
ne ha idea. Fummo fortunati di trovarne una abbastanza vasta, con un
piano superiore e un cortile chiuso; lo stile, arabo; le camere hanno
molte aperture, e i vetri sono ignoti; le pareti bianche od almeno lo
furono; il soffitto a travicelle, che sono rozzi tronchi non lavorati
con sovrappostovi un assito o delle stuoie che portano un grosso strato
di terra che forma tetto e serve da terrazza; il pavimento è pure di
terra fina e pulverolenta; in complesso presso a poco e forse peggio
delle case dei nostri contadini.

Per mobiglia troviamo in una camera un paio di _angareb_ o divani
formati da un telaio in legno col sedile di paglia o liste di cuoio
intrecciate.

Una delle prime conoscenze fu la famiglia di Giacomo Naretti da Ivrea,
che da parecchi anni vive in Abissinia, dove colla sua onestà, col suo
grande senno pratico e colla rettitudine e disinteresse nei suoi
intendimenti, seppe accaparrarsi la stima e l'affetto del Re che lo
tiene come vero amico e pregiato consigliere. Reduce da una gita in
Egitto, se ne stava già da parecchi mesi in Massaua aspettando di poter
penetrare in Abissinia quando fosse completamente cessato un terribile
tifo che decimava la popolazione del Tigré, e sedata una rivoluzione che
da tre anni teneva agitata la provincia del Hamasen.

Quantunque si sapesse che il primo andava decrescendo e che per la
seconda s'erano intavolate trattative di pace, pure queste notizie non
ci giunsero troppo gradite, prevedendo che, per quanto si confidasse
che il diavolo potesse essere meno brutto di quello che ce lo
dipingevano, bisognava pure rassegnarsi a perdere un tempo che avremmo
meglio impiegato nell'avanzare o nello studiare l'interno. Fummo subito
consigliati di spedire una lettera al Re Giovanni Kassa per annunciargli
il nostro desiderio di recarci a visitarlo, fargli palesi i nostri
progetti tutt'affatto commerciali, e domandare la sovrana permissione di
entrare nei suoi Stati.

    [Illustrazione: MASSAUA]

Questa specie di supplica era già stata preparata al Cairo, dietro
suggerimento avutone, e scritta su pergamena in caratteri amarici da un
sacerdote cofto. Accompagnata da una lettera di raccomandazione di
Naretti, fu subito spedita per mezzo di apposito corriere al campo
reale.

Fra il 15º e il 16º lat. nord, è situata Massaua, che come dissi,
sorge sopra un isolotto di madrepore che si estende per circa 900 metri
da est ad ovest e per 250 da sud a nord elevandosi non più di 6 metri
sul livello del mare; un canale di circa 600 metri di larghezza la
divide da un altro isolotto di maggiori dimensioni detto Tau-el-hud, ed
a questo si accede per mezzo di una diga, come pure per mezzo di altra
diga, della lunghezza di 1200 metri, si passa poi dal lato di ponente
alla terra ferma. Tutto quello che si vede è aridità assoluta, e solo
lungo la spiaggia attecchisce qualche arbusto che può vivere sorbendo
acqua marina; non è che durante la stagione delle pioggie che la
superficie si copre di uno smalto verde, e nel resto dell'anno, se
l'occhio vuol riposarsi, non può che volgersi al sud della città dove un
isolotto detto Scek-Said da un santone che vi fu sepolto, è tutto
coperto da vegetazione. Geograficamente Massaua dovrebbe appartenere
all'Abissinia, ma è occupata dagli Egiziani a cui fu ceduta mediante
trattati dalla sublime Porta nel 1865.

Per dare un'idea del suo interno e del suoi abitanti la percorreremo
partendo dall'estrema punta dell'isola a levante, dove si innalza un
piccolo forte con caserma, da un lato, e la Missione cattolica tenuta da
sacerdoti francesi, dall'altro: si attraversa in seguito uno spazio
occupato da grandi cisterne scavate, dove si raccoglie l'acqua delle
piogge, e da qualche tomba di mussulmani: a sinistra lasciamo qualche
meschino gruppo di capanne per vedere sulla destra alcune abitazioni in
pietra di carattere arabo, una moschea, l'ufficio di sanità e di posta,
il palazzo del governatore, una catapecchia che fu demolita durante il
nostro soggiorno e forse or si starà ricostruendo, i magazzini di
dogana, un gran palazzone appartenente ad un ricco commerciante arabo:
tutto questo forma la fronte che guarda l'ancoraggio dei bastimenti:
all'interno qualche altra casa in pietra e moltissime capanne. Partendo
dalla spianata che è il pubblico sbarco innanzi la dogana, dove abbiamo
ammirato qualche _filuka_, barca originale del paese, che colla lunga
vela tagliata ad ala d'uccello ritorna dalle quotidiane escursioni alle
isole vicine, qualche vispo moretto che con piroghe scavate in un sol
tronco guadagna di che vivere trasportando le mercanzie da terra a
bordo, o qualche pescatore che seduto su due semplici tronchi uniti a
zattera, colle gambe pendenti nell'acqua, getta e ritira continuamente
l'amo cui spessissimo è appigliato qualche pesce, e dopo aver passati in
rivista centinaia di sacchi di stuoia pieni di grano e di caffè, pelli
essicate, otri colme di burro liquido, casse imballate in Europa, denti
di elefante involti in cuoio, grossi corni di bue pieni di zibetto,
mercanzie tutte che mosse dalla forza di robusti biscerini aspettano di
pagare il loro scotto per entrare od uscire dal paese, sortiamo da
questa specie di recinto, e salutati da una sentinella che guarda un
portone, passiamo al primo _bazar_ o via fiancheggiata da casine ad un
sol piano, coperta da logore stuoie che dovrebbero riparare dal sole.
Qui esercitano il commercio di tessuti e filati importati dall'Europa,
i baniani, tipi indiani che in tutto il Mar Rosso hanno quasi il
privilegio di questo genere di commercio. Sono generalmente grassi,
giallognoli, l'occhio tagliato alla chinese, portano per tutto abito un
drappo bianco girato alle spalle o alla cintura, attorno la quale spesso
tengono pure un bellissimo monile in argento; le unghie e i denti hanno
coloriti in rosso, la testa originalmente rasa lasciando solo sparsa
qualche ciocca di capelli, grossi bottoni d'oro od argento con pietre
preziose infissi nelle orecchie e molto profumo sparso sulla pelle. Sono
tipi effeminati, poco simpatici: vivono senza mai toccar carni temendo
trovare nell'animale immolato l'anima di qualche congiunto od amico, e
morti si fanno bruciare e sepellire con tutte le loro gioie, che sono la
maggiore loro ambizione: sono del resto abitanti tranquillissimi che
godono fama di onesti non solo, ma di commercianti discreti.

Parallelo a questo abbiamo il _bazar_ proprio del paese, ancora più
originale. È qui dove si incontrano i mille tipi diversi: l'arabo che ti
fa i sandali, il piccolo negoziante che ti vende grano, riso, datteri
attorno ai quali svolazzano nubi di mosche, l'altro che t'offre su un
gran bacile qualcosa che somiglia a caramelle, la donna che vende latte
acido, burro, pallottole di tamarindi. Un odore nauseante ci annuncia
che siamo vicini al friggitore che prepara continuamente frittelle e
pesci e tien pronta una gran pignatta piena di riso cotto. E mentre
passiamo questa rivista, un ragazzetto verrà ad offrirci un mazzolino di
insalata raccolta nella mattina, od una ragazzina dai modi semplici ma
garbati, avvolta solo in un lurido cencio, ma ornata di braccialetti
alle mani e ai piedi, di grossi anelli d'argento alle dita e alle
orecchie, di qualche collana di conterie o di conterie intrecciate ai
capelli, e col naso forato da uno stecchetto, insisterà perchè da lei
comperiamo qualche limone, cercando collo sguardo penetrante di farci
capire che non è solo quello che intende offrirci. Avanziamo di pochi
passi, ed avremo il macellajo, che non ha bottega, ma ammazza in
pubblico il suo bue, leva la pelle che distesa al suolo diventa tavola,
e su questa, colle mani, le braccia, e quella poca camicia tutte rosse
di sangue, divide in pezzi la sua vittima a seconda delle richieste,
misurandone le parti su una bilancia delle più primitive, che fra
l'altre cose i pesi son pietre: rimpetto abbiamo un arabo che vende
focacce, e a pochi passi una di quelle botteghe come alle volte si
vedono alle nostre fiere, che non hanno nulla di intatto, tutto vi è
scompagnato e rotto; non vi si vede oggetto che sembri possa servire, ma
pure trovano i loro amatori. Qui vedete qualche panierino colla sostanza
che serve a tingere in rosso le unghie, o la galena per tingere
l'occhio, qualche droga, poi un'infinità di cianciafruscole cui non si
sa adattare nè un uso nè un nome. Siamo sbalorditi da tutta questa
novità e dal baccano che rammenta certe viuzze di Napoli; ci ritiriamo
per evitare un somaro carico di pelli piene d'acqua e ci sentiamo nella
schiena qualcosa di tenero, è un otre colmo di burro fuso portato da una
vecchierella, accompagnata da qualche ragazzetto in costume prettamente
adamitico, che ci rivolge lo sguardo intelligente che dinota timore o
sorpresa: vorremmo accarezzarlo se fosse un po' meno sucido, non
possiamo però trattenerci dal mettergli nelle manine qualche piastra.

Usciti da questi _bazar_ ci troviamo in una piazza dove è il caffè,
logora tettoia di paglia sotto la quale si radunano le poche persone
trattabili che qui abitano, e vi passano delle ore intiere sorbendo
caffè alla turca e fumando sigarette o narghillè: da qui proseguendo,
abbiamo qualche abitazione ancora in pietra ove stanno alcuni greci che
nelle loro botteghe tengono di tutto, dalle sardine alle scarpe; il
vice-consolato di Francia che occupa una delle più belle case, e una
massa di capanne rettangolari ove abitano gli indigeni sempre poveri, ed
una massa di donne abissinesi che superbe della loro bellezza vengono
qui a sciuparla facendone vilissimo mercato.

    [Illustrazione: Una via a Massaua]

Abbiamo così attraversata l'isola nella sua lunghezza; proseguiamo sulla
diga, e appena messo piede in Tau-el-hud vedremo la palazzina del
governatore generale, l'ufficio telegrafico, una moschea, il pozzo dove
giunge l'acqua portatavi con canali dalla montagna, e attorno al quale
formicolano centinaia di ragazzi e ragazze che empiono le loro otri o le
loro pelli, se le caricano sulla testa, sul dorso o sui somarelli, e per
pochi quattrini le trasportano in città: qualche baraccone in cui
dormono i soldati, un forte degno dei suoi difensori, poi l'altra diga
che ci porta a terra ferma nella direzione di Omcullo, dove passeremo
facendo qualche altra escursione.

A questa originalità dell'ambiente aggiungiamo la novità in tutto,
persino nell'atmosfera, la varietà dei tipi, il carattere simpatico di
questa gente primitiva, e respiriamo i profumi delicati che spesso
escono dai negozii, in cui i proprietarii accovacciati a contare i
chicchi del rosario aspettando gli avventori, cercano adescarli facendo
evaporare del muschio o bruciando dell'incenso sulla soglia della loro
porta.

Al tramonto tutto muore, che gran parte della popolazione si reca ad un
villaggio circa un'ora dalla città per passarvi la notte che si pretende
meno calda, ed allora nei _bazar_ sono disposte sentinelle ad ogni
trenta o quaranta passi perchè possano farsi la guardia fra loro; che se
qualche volta vi fu rubato, lo fu con tutta sicurezza, perchè il ladro
non temeva chi doveva scoprirlo. Questi soldati che montano la guardia
hanno veramente l'aspetto di pezzenti, e se ne stanno in fazione fumando
tranquillamente, portando seco un vaso d'acqua per bere, e alle volte
persino un _angareb_ per sdraiarvisi comodamente o farvi sedere chi
vuole alleviare le noie della solitudine. La sola cosa che hanno di
pulito è il fucile che tengono però sempre avvolto in cenci dove lo
impugnano per non arrugginirlo.

Massaua è l'antica Sebastrium-os, e fu molto fiorente, concorrendovi i
prodotti dell'India e dell'Etiopia che qui si riunivano per scambiarsi,
e per riprendere poi vie diverse.

Ora non conta più di 6000 abitanti, e vi si fa poco commercio, chè
l'Etiopia è ben lungi dall'essere quella d'una volta; d'altra parte il
Governo egiziano cerca con ogni modo di impedire lo sviluppo
dell'interno, essendo geloso e nemico dell'Abissinia. Si importa qualche
poco di tessuti, filati, commestibili, e si esportano pelli, cera,
avorio, zibetto, poco grano, burro, madreperla, gomma, caffè, prodotti
tutti che provengono con carovane dall'altipiano etiopico, e bene spesso
molto dall'interno.

Il commercio di esportazione deve subire un notevole aumento in questo
porto, ora che re Giovanni, per obbligare i commercianti a percorrere
maggior cammino nei suoi territorii, e nella speranza forse che Massaua
per conquista o per cessione diventi parte del suo Stato, ha proibito
alle carovane che partono dal Goggiam e dal Gondar di prendere la via
del Galabat e Suakim, molto più conveniente, perchè piana e battuta da
camelli, di gran lunga preferibili ai muli.

Fra i mille gridi che continuamente facevano vibrare l'atmosfera, uno
fortissimo e continuato, misto di voci e suoni, ci deliziò tutta una
giornata, gran parte della notte e riprese con maggiore intensità il
giorno appresso: ce ne facemmo guida, ma ci fu impedito entrare nel
tugurio da dove usciva; ma mentre ce ne stavamo ritornando soffocando il
nostro sentimento di curiosità, per mezzo di un nostro servo abissinese
potemmo esservi ammessi. Entrammo in una capanna costrutta con una
intelaiatura di pali ricoperti da sdruscite stuoie; le pareti verticali,
il tetto curvo: in un angolo due _angareb_ con sedutevi otto donne nere,
giovani avvolte in una specie di manto di tela bianca con braccialetti
in argento e conterie, collane, anelli al naso, agli orecchi e alle
dita, tali da coprirle quasi fino all'unghia tinta in rosso.
Accovacciata per terra stava una povera giovane malata, pure avvolta in
panni bianchi, col volto mesto e sofferente: ai suoi lati due giovani
battevano su rozzi tamburi mentre tutte le donne sedute cantavano a
squarciagola una cantilena cadenzata, interrotta di quando in quando da
un acutissimo trillo, e il pubblico composto d'una ventina d'altre
persone accompagnava con un regolare batter di mani: di tempo in tempo
si versavano olii profumati sul fronte della paziente o su un braciere
che le stava dinanzi e con una tela si faceva baldacchino perchè i fumi
profumati che ne esalavano non si perdessero nell'ambiente, ma si
conservassero ad involgere l'ammalata: la semi-oscurità dava maggior
carattere a questa scena originale e selvaggia, che si faceva per
spaventare e cacciare il diavolo della malattia che aveva invaso quella
povera disgraziata, che non so come resistesse a tanto fracasso
infernale. Ci dissero poi che se l'ammalata si illude di star meglio,
tutto d'un tratto s'alza e principia a ballare freneticamente: si corre
allora in cerca di un montone e si festeggia la guarigione con un
festino generale. Il segreto, invero, di questi miracoli sta in ciò che
anche quelle donne sono capricciose come le nostre signore, e la
malattia è spesso un desiderio non soddisfatto dal consorte, e lo star
meglio comincia quando l'amore della pace in famiglia fa che questi
porta o manda la promessa di soddisfare i capricci della moglie.

Mariam, la ragazzina del guardiano della nostra casa è occupata tutta la
giornata a far farina triturando grani di dura fra due pietre: ne forma
poi una pasta che cuoce in un forno alquanto originale. Un otre rotto al
fondo è sepolto col labbro a fil di terra: a poca distanza un foro
praticato obliquamente nel suolo comunica col basso del vaso, formando
così una gran pipa, che dà luogo alla corrente d'aria necessaria a
ravvivare il fuoco acceso nell'otre: quando questo è così riscaldato se
ne levano le brage e Mariam appiccica alle pareti le manate di pasta che
possono quasi dirsi focacce: turato il foro nel suolo e applicato il
coperchio all'otre e ben chiuso all'ingiro con pezzole bagnate, non
riapre che quando la pratica le insegna che deve esser cotto questo pane
che, con qualche cipolla od un po' di pesce, molto abbondante qui, forma
il nutrimento di tutta la famiglia.

Siamo nella stagione invernale, e ad onta di questo la temperatura varia
fra 28° e 30°: è questo forse il punto più caldo nel Mar Rosso che passa
per essere una delle località più infuocate nel mondo: sono qualcosa di
terribile le descrizioni che ci fanno dei mesi in cui non si può aver
respiro nè giorno nè notte, sempre oppressi da un'afa soffocante e
accesa.

Gordon pacha ha telegrafato gentilmente che si lasci passare tutto il
nostro bagaglio, per cui lo trasportammo _a palazzo_ e le nostre camere
hanno assunto un aspetto ancora più originale: casse e cassette in ogni
angolo, fucili e armi d'ogni genere appesi alle pareti, corde tese con
abiti e biancherie, in mancanza di armadii, _angareb_, brande e amache
che funzionano da letto, casse disposte a tavolo od a sedile, un vero
disordine pittoresco. Fra noi, chi scrive, chi legge, chi prepara armi e
munizioni per una prossima caccia, chi fa un po' da servo alla propria
roba, chi, e forse il più benemerito fra tutti, lavora a preparare il
pranzo: compagni non ne mancano, che è un continuo andirivieni di gente
che col solo movente della curiosità vengono a trovarci colla scusa di
offrirci qualcosa od offrire loro stessi in qualità di servi per
accompagnarci nel nostro viaggio: tutti dovrebbero essere pieni di
meriti e conoscere appuntino tutta quanta l'Africa: abbiamo poi
coinquilini dei piccioni coi loro nidi, nidi in fango di grosse vespe,
pipistrelli, lucertole, topi, e degli altri è forse meglio tacere...

Una delle mancanze che più si facevano sentire era quella di una tavola,
per cui avendone vedute due in una piazza andammo in cerca del
rispettivo proprietario per noleggiarle, ma per buona fortuna fummo
avvertiti ancora in tempo che erano di uso pubblico, cioè si
trasportavano a domicilio quando ne era il caso, per stendervi e lavarvi
i morti: tanta è l'abbondanza di mobiglia in queste case.

Le giornate erano abbastanza monotone per cui combinai con Ferrari una
gita di caccia all'estremità sud della baia: noleggiata una _filuka_
(barca del paese), vi portiamo le nostre provviste di acqua dolce, pane,
burro, sale, pepe, confidando molto pel resto nei nostri fucili, e
spiegata la vela volgiamo la prua a mezzogiorno: cosa sia la nostra
imbarcazione di disordine e di costruzione, non si può farsene un'idea
nemmeno prendendo a tipo le peggiori barche dei nostri pescatori.
Abbiamo un _reis_ o capo arabo che con tutta maestria ci guida nella
giusta rotta serpeggiando fra cento _secche_, e quattro ragazzotti che
hanno tutta l'aria d'essere scolpiti in un bel pezzo di ebano.
Oltrepassando l'isolotto di Scek-Said la nostra ciurma intuona una
preghiera, specie di rosario di cui il _reis_ dà l'intonazione, a
suffragio dei morti che vi stanno sepolti e ad invocazione di felice
viaggio: il vento rinforza, la barca piega su un lato, qualche ondata ci
innaffia, il mio buon Ferrari guardando terra pretende sarebbe meglio
percorrere a piedi la costa, ma felicemente in un paio d'ore siamo a
buon porto, e quando credevamo di essere in pochi minuti a terra,
vediamo tutto d'un tratto calar la vela e ci troviamo arenati: la marea
è bassa e il fondo ancora più basso, quindi è forza ultimare il nostro
tragitto alquanto umoristicamente trasportati per qualche centinajo di
metri sulle spalle dei nostri marinari, trascinando i piedi penzoloni
nell'acqua.

Avevamo allo sfondo un'alta montagna, quella che ci fu guida nella
traversata, avanti a questa una catena di colline che venivano man mano
abbassandosi fino a dileguarsi in un piano inclinato che si protende al
mare: qui dovevamo fare le nostre prove di caccia, e nel breve tempo che
ancora restava al tramonto riportammo qualche lepre che ci fornì un
eccellente pranzo: le molli arene ci offrirono un soffice giaciglio per
la notte. Il giorno dopo eravamo alzati ben prima del sole e percorremmo
tutto il piano e le prime alture: il suolo è tutta arena, sparso di
detriti di quarzo e di tufi: poca erba vi alligna, molti _cactus_,
acacie a foglia verde o grigiastra, qualche euforbia, parecchi cespugli
tutti spinosi: in complesso la vegetazione è piuttosto meschina per la
grande siccità che vi dura parecchi mesi dell'anno, e solo in qualche
punto basso si scorgono folte macchie verdi circondate da sterili
praterie in cui trovano appena di che vivere poche capre o camelli.
Otteniamo dai pastori del latte, che ci viene presentato entro vasi
fatti con scorze di alberi intrecciate, quindi internamente intonacati
con sterco vaccino, certo non a perfezionamento del gusto del contenuto,
nè a gran soddisfazione di chi lo beve. La caccia vi è per altro
piuttosto abbondante ed oltre moltissime lepri, pernici, faraone, trovi
gazzelle, antilopi, cignali, jene e l'inseparabile sciacallo.

Il giorno di Natale si avvicinava e ne prendemmo occasione per mostrare
la nostra riconoscenza ai Naretti e ad altri che ci andavano usando
delle continue gentilezze, invitandoli a passare con noi quelle ore che
s'usa in questo giorno riunirsi in famiglia attorno ad una tavola.
L'invito è accettato; a noi dunque a disimpegnarci; chè per pranzare,
sia bene sia male, ci vogliono fatti e non parole. Ci demmo dunque a
girare dalle conoscenze mettendole a contributo per avere piatti,
posate, bicchieri, casseruole, tavoli, sedie e tutto quanto
l'occorrente. Si decorò una delle nostre camere dipingendone le pareti,
a carbone e mattone pesto, cogli stemmi delle nostre principali città e
decorandole con trofei delle nostre armi e componendo di facciata
all'entrata un artistico gruppo di due ritratti del nostro Re e della
nostra Regina circondati da una bandiera tricolore. Alle finestre si
appesero dei lampioncini e al centro un lampadario che la nostra
immaginazione ci ajutò a comporre con traverse di legno che sostenevano
delle bottiglie vuote destinate a portare le candele. Unimmo tre tavole
che resero presso a poco di eguale grandezza alcuni pezzi di nostre
casse aggiuntivi; coprimmo il tutto con due lenzuola di bucato,
preparammo i coperti con posate che la ruggine faceva parere
passabilmente uguali: nel centro una piramide di amaretti di Saronno, ai
lati due ceste di banane giunte la mattina da Hodeida; sui davanzali
delle finestre dei gruppi di eleganti bottiglie di liquori che qualche
amico di buon cuore o qualche fabbricante illuso ci avevano date a
compagne: sulla scala qualche altro lampioncino: nell'insieme un
apparato fantastico e sfarzoso pel paese in cui siamo.

Due o tre giorni lavorarono fantasia e braccia per comporre il _menu_ e
prepararlo coi pochi mezzi che si avevano, dove non si può trovare che
pura carne e qualche pesce; ma l'abilità del capo-cuoco, il Filippini,
seppe disimpegnarsi discretamente.

All'imbrunire del giorno fissato arriva la processione degli invitati
che si ricevono in corte, mentre si corre a dar fuoco alle candele, poi
si da il segnale perchè la comitiva salga. Nella prima camera il
Tagliabue aveva disegnato a carbone un medaglione con un immaginario re
Giovanni, riconoscibile dall'iscrizione, che diede origine ai primi atti
di stupore, che furono poi innumerevoli, quando sollevate le cortine si
presentò la gran scena della sala del banchetto. L'arte culinaria del
nostro compagno fu molto lodata, e i fatti constatarono che lo fu
sinceramente e non per puro complimento: i vini d'Italia trovati
squisiti, talchè il pranzo fu molto allegro e i brindisi assai numerosi.
Era certo la prima volta che in Massaua si trovavano tanti Italiani
riuniti, e la festa era tale che fece a parecchi dimenticare i bicchieri
già vuotati, cui aggiunta la proprietà del Sassella e dell'Inferno di
scaldare le orecchie e paralizzare le gambe, si ebbe una chiusura molto
chiassosa e non scevra di incidenti abbastanza comici. Il servizio fu
fatto piuttosto regolarmente alternando noi con un po' di disinvoltura
la parte dell'anfitrione con quella del cameriere, non senza ritirare
qualche volta un piatto sporco da destra per rimetterlo a sinistra, se
non ve ne erano pronti di ricambio. In complesso gli invitati furono
contenti e noi nella nostra modestia abbastanza soddisfatti, tanto più
che, la mattina dopo, parecchi avevano le idee piuttosto confuse e una
ricordanza un po' svanita di quanto avvenne da metà pranzo in avanti.

Dopo qualche ora di sonno, con Ferrari partimmo in _filuka_ per portarci
ad una partita di caccia ad Arkiko, grosso villaggio lungo la spiaggia a
mezzogiorno di Massaua. Vi trovammo il _mudir_ (capo) cordialissimo,
giovane dall'aspetto aperto, sorridente, simpatico, che ci destinò
un'ampia capanna circondata da un cortile limitato da pali e stuoie: ci
fece subito portare due _angareb_, del caffè, e chiamò una schiava
perchè sbarazzasse quanto ingombrava. Un breve giro nei dintorni ci
fornì il pranzo che noi stessi cucinammo, pensando, ma senza invidia, ai
nostri amici d'Italia che alla stessa ora stavano mettendo il _frak_ per
l'apertura del teatro. Anche noi avemmo però il nostro spettacolo di
canto, chè poco dopo si sentirono le grida dello sciacallo e della jena
che ululavano appena fuori dalla capanna, agognando alle interiori del
nostro lepre. La mattina, quando partimmo, queste erano infatti
scomparse. Seguiti a distanza da un somarello che ci portava l'acqua
dolce, girammo tutto il giorno in terreni sabbiosi, dove trovammo
cignali, gazzelle, lepri, faraone, ma dobbiamo accusare circostanze
eccezionali, per salvare la nostra fama di cacciatori, se il risultato
non fu troppo soddisfacente.

Verso le tre si addensarono neri nuvoloni nelle vallate circostanti e in
pochi minuti fummo raggiunti da una pioggia torrenziale: non una
capanna, non un albero, non una roccia che ne potesse riparare: fu forza
prendercela con disinvoltura e lasciarla penetrare fin nel midollo delle
ossa, mentre ce ne tornavamo al villaggio, dove collo scolo delle vicine
alture si forma presso la capanna un torrente che minaccia di portarla
al mare, e quindi noi con essa: anche questa poco a poco si allaga: dal
tetto cominciano a filtrare alcune goccie che diventano poi altrettanti
rigagnoli: sull'_angareb_ è una vera cascata continua e non si può
scendere per smuoverlo, chè al suolo c'è acqua da andarvi in barca, per
cui si passa la notte in un vero bagno, ridendo dell'avventura e
confidando nel sole dell'indomani, che infatti non mancò.

Tornati a Massaua trovammo che anche nel _nostro palazzo_ l'acqua s'era
fatta strada attraverso al tetto per entrare nelle camere, non nelle
proporzioni però con cui aveva invasa la capanna.

Il giorno 6 gennaio correva la festa del Natale pei Greci e per gli
Abissinesi, per cui fin dal mattino l'aria echeggiava di canti, suoni di
tamburo e grida selvagge: entrammo in qualche tugurio per vedere il
ballo delle donne abissinesi: alcune battono colle mani su un rozzo
tamburo, ed altre disposte a circolo accompagnano con una cantilena
cadenzata interrotta dal solito trillo acuto, ballando, saltellando,
accovacciandosi, poi rimettendosi ritte, girando alternatamente da
destra a sinistra o viceversa: le più distinte di quando in quando
passano al centro per fare apprezzare le loro movenze lascive
accompagnate da sussulti dei muscoli. Spettacolo in cui, per vero dire,
la troppa trivialità è alquanto corretta dall'eleganza delle forme di
queste brave ragazze, e da una certa grazia che è in loro naturale.

Vedemmo una mattina il cielo sparso di macchie nerastre che poco a poco
si andarono avvicinando prendendo quasi forma di nubi: erano miriadi di
grosse locuste divise in diversi gruppi. Alcune stettero qualche tempo
sopra Massaua, poi se ne andarono verso l'interno in cerca di terreni
meglio adatti al loro istinto divoratore.




CAPITOLO III.

  Partenza pei Bogos.--In carovana.--Incontro di
  scimmie.--Paradiso dei cacciatori.--Arrivo alla Missione.--Le
  propagande.--Il villaggio.--Usi e costumi della
  popolazione.--Ritorno.--Bellezze del paesaggio.--Fermata a
  Kalamet.--Nuovamente a Massaua.--Una festa originale.


Per quanto con Ferrari si facessero continuamente gite di caccia, pure
la monotonia di questa vita ci stancò, e non sapendo ancora quando si
potrebbe definitivamente partire per l'Abissinia, pensammo intanto di
andarcene a fare un'escursione nel paese dei Bogos. A noi si associò
l'amico Legnani che, pratico del viaggiare in carovana e parlando
l'arabo, oltre che simpatico, ci fu pure utile compagno di viaggio.
Fissati i camelli e fatti quei pochi preparativi che pensammo
necessarii, il giorno 12 lasciammo gli altri compagni, felici di
incamminarci ad una vita nuova ed a paesi nuovi.

È uso che il primo giorno non si parta mai la mattina e si faccia solo
una breve tappa, quasi a collaudo o correzione del carico dei camelli,
per cui anche noi non potemmo ottenere di muoverci prima delle quattro.
I nostri camellieri sono _biscerini_: per tutto abbigliamento un pezzo
di tela bianca che avvolta alla cintura scende fino al ginocchio e la
notte si stende ad avvolgere tutto il corpo per riparare dall'umido e
dal freddo: ai piedi due logori sandali, e per cappello l'originale
capigliatura a ciuffo ritto e a ricci o trecce pendenti, contro la
sferza del sole: per provvigione qualche pelle che si riempie d'acqua
quando se ne trova, ed una piena di dura: per difesa, pendente dalla
spalla sinistra, uno spadone colla guardia a croce in ferro e la guaina
allargantesi ad uso freccia verso il basso; uno scudo in pelle da
ipopotamo, rotondo, con una sporgenza conica al centro; una lancia alta
forse due metri nella mano destra.

Oltrepassata di circa un'ora in direzione nord, la seconda diga, ci
fermiamo a Onikullo, grossa borgata abitata da indigeni e da piccoli
negozianti che tengono in Massaua i loro affari e passano qui la notte,
pretendendo sia meno calda: riempiamo le nostre pelli ad un pozzo
pubblico, poi proseguiamo volgendo leggermente ad ovest per fare _alt_
verso le sette in un avvallamento qualunque. Le nostre coperte furono i
nostri letti, la volta celeste il nostro tetto: alcuni nuvoloni ci
fecero temere un'inaffiata in regola, ma la provvidenza ce la risparmiò.

Aperti appena gli occhi, la mattina seguente, ancora in una
semi-oscurità e senza muoverci da dove eravamo, si fecero le fucilate a
due jene che tranquillamente passavano a pochissima distanza. Non è
molto a temere questo schifoso animale che difficilmente attacca l'uomo,
perchè lo teme, e piuttosto si avventa agli animali od ai bambini,
sempre ai cadaveri; è tanto ributtante che appena morto è carogna e
tutta la sua vigliaccheria genera ribrezzo. Nessuno osa mangiare le sue
carni e nemmeno far uso della sua pelle. Radunati i camelli che stavano
pascolando, e fatto il carico, ci incamminammo a piedi, precedendo di
pochi passi la carovana, sperando di poter fare un po' di caccia, ma ben
presto il sole ci fece ricordare che eravamo in Africa, per cui montammo
le nostre cavalcature.

Siamo sfortunati nei camelli, che sono piuttosto cattivi, ed uno non
soffre alcun movimento di chi lo cavalca: le selle poi sono perfide, ma
ormai siamo in ballo e bisogna ballare.

    [Illustrazione: Tipo biscerino]

Il terreno è sempre sabbioso e sparso qua e là di qualche cespuglio
spinoso e di acacie nane, ma in complesso l'aspetto è piuttosto arido,
perchè tutto bruciato dalla grande aridità: lentamente andiamo
innalzandoci superando delle elevazioni di pochi metri, oso dire dei
gradini, per passare una sequela di altipiani, tagliati di quando in
quando da torrenti infossati che solo si gonfiano durante le piogge. Nei
punti più bassi del loro letto sono generalmente praticati dei pozzi che
per infiltrazione danno l'acqua necessaria a rifornire le carovane; e
per vero dire non è sempre l'acqua più pura nè la più pulita: spesso è
vero fango diluito con gusto anche di materie organiche in putrefazione,
ma quel terribile male che è la sete alimentata dai raggi di questo sole
cocente, fa superare certe cose che fanno ribrezzo al pensarvi quando si
possono invece avere delle buone limonate.

Verso le 10-1/2 passiamo presso un paio di capanne, abitazioni di
qualche soldato che con aspetto e assetto tutt'altro che militare sta a
guardia del telegrafo che tiene questa linea per spingersi fino a
Kartum.

Le due cose meglio organizzate dove governa l'Egitto sono certamente la
posta e il telegrafo, e dove passa quest'ultimo, che serve anche di
guida alle carovane, con provvido sapere, Gordon pacha pose, ad ogni
quattro ore circa di strada, una capanna di rifugio pei viaggiatori e
spesso un soldato di guardia pel filo.

Ancora un'ora di cammino, e ci fermiamo nel letto di un torrente dove
qualche macchia nerastra nelle sabbie e un po' di vegetazione fresca ci
indicano la presenza dell'acqua, per ristorare noi e lasciar pascolare i
camelli.

Ripartiamo alle due, e sempre continuando in terreno piuttosto monotono,
colla sola distrazione di stupendi uccelletti dai colori vivissimi, dai
riflessi metallici e dalle code assai lunghe, e dell'incontro di
qualche carovana diretta a Massaua per portarvi tabacco di Keren, ci
fermiamo alle sette e mezzo sopra un'altura, in posizione perfettamente
isolata, dove la notte fu solo disturbata dalle voci di qualche jena e
da una abbondante rugiada.

Prima che i camelli siano pronti, ci incamminiamo la mattina del 14
cacciando le lepri che in buon numero fuggono davanti ai nostri passi.
Avanti a noi sta un'enorme pianura e allo sfondo una catena di montagne
che dobbiamo raggiungere per trovar acqua, e che pare si vadano sempre
allontanando al nostro avanzare: la stanchezza era alleviata dalla
distrazione di trovare frequenti gazzelle, ma il sole ci faceva
desiderare il punto fissato pel riposo: verso mezzogiorno incontriamo
molti buoi e capre, indizio che siamo poco lontani dalla sospirata
fonte: pieghiamo infatti leggermente ad ovest, entriamo in una larga
vallata che va a poco a poco restringendosi, la vegetazione si fa più
fitta, e verso l'una ci accampiamo presso il letto di un torrente in cui
con gran consolazione vediamo scorrere acqua limpida.

Qui vicina troviamo pure fermata un'altra carovana che segue la nostra
direzione e che già avevamo incontrata jeri. Dopo un riposo abbastanza
lungo per noi, ma necessario pei camelli, ci rimettiamo in strada verso
le quattro, in coda dell'altra carovana forte di una trentina di
camelli. Seguitiamo sempre camminando nel letto del torrente dove alle
volte scorre acqua, e di quando in quando scompare sprofondandosi nella
molle sabbia che ne rende tanto faticoso il camminarvi. Le due sponde
del torrente sono coperte da folta vegetazione che dev'essere piena di
caccia, ma è impossibile il penetrarvi: folta ma non molta grandiosa
però, specialmente sulle alture circostanti dove la si vede stanca per
lunga sete. Subito dopo l'epoca delle piogge dev'essere di una frescura
sorprendente. Siamo circondati da montagne non molto alte, di natura
vulcanica, roccia cupa, molti detriti, acacie nane, qualche grossa
euforbia, qualche _baobab_ spoglio affatto di foglie, col tronco enorme
e rami tozzi, qualche arbusto dalle foglie grigiastre e carico di grosse
pallottole verdi contenenti i semi, e presso l'acqua canneti, papiri ed
altra vegetazione che ama l'umidità. Di quando in quando la vallata si
restringe fino a lasciare solo uno stretto passaggio fra rocce quasi
verticali e poco discoste, per poi ritrovarci in bacini ancora assai
vasti. La notte arriva e il procedere lento e cadenzato della carovana
assume un aspetto veramente imponente, cui la cantilena dei camellieri
che intonano le loro preghiere dà un carattere assolutamente maestoso e
misterioso.

Si fa perfetto buio, troviamo passaggi piuttosto difficili, dove i
camelli a stento trovano ove posare i loro piedi fatti per calcare le
sabbie del deserto: nell'ombra della notte si capisce che bella
dev'essere la natura che ne circonda, e come viaggiatori ne duole
perderne la vista, ma i nostri camellieri, timorosi forse di fermarsi
soli, sono sordi alle nostre domande e ai nostri ordini, e colla scusa
della mancanza d'acqua ci fanno camminare fin dopo le otto, fin quando
cioè si fermò l'altra carovana. Accampati in un allargamento del letto
del torrente vi lasciarono liberi i camelli di andarsene a pascolare, si
accesero parecchi grandi fuochi, si fece una meschina cena, e ci
sdrajammo in cerca del meritato riposo.

Continuiamo la mattina dopo, alternandosi passaggi stretti ed
allargamenti del fondo della vallata per la quale si va risalendo:
mentre attraversiamo appunto una di queste gole di pochi metri di
larghezza, le cui pareti si elevano a scaglioni basaltici, e la nostra
carovana preceduta dall'altra cammina silenziosa e quasi triste, un
assalto di acute grida ci scuote dal letargo in cui eravamo quasi
caduti, e chiama la nostra attenzione a pochi passi davanti a noi, dove
centinaia di scimmie se ne stavano bevendo attorno ad un pozzo e furono
disturbate dal nostro apparire. Fu un fuggi fuggi generale, le più
grandi stringendo al seno o caricando sulle spalle le piccine, tutte
saltando e arrampicandosi sulle rocce laterali, poi disponendosi
sull'estremo ciglio quasi a darsi spettacolo del nostro passaggio: fra
noi e loro non saprei davvero chi fu il più divertito.

Dopo qualche ora usciamo in un vasto altipiano, e ci andiamo a fermare
verso il mezzogiorno all'ombra di un grosso albero, poco lontano dal
quale i nostri fucili ci procurarono qualche faraona pel pranzo. Circa
tre ore di sosta, poi nuovamente in cammino: incontriamo una carovana
che porta dei prigionieri a Massaua: sono quattro che alternativamente
camminano a piedi o salgono due camelli: quelli che stanno a camello
sono incatenati alle mani ed ai piedi, quelli che camminano ci destano
un vero senso d'orrore: un grosso ramo d'albero lungo circa due metri e
terminato a forcella racchiude con questa il collo del condannato e ve
lo stringe dietro con intreccio di corde: all'altra estremità è legato
alla sella del camello. Nei viaggi in Africa che ho letti, ho visto
questo genere di supplizio usato come mezzo di trasporto o meglio di
punizione per gli schiavi, e m'aveva inorridito: non mi sarei mai
aspettato di vederlo ufficialmente usato da una potenza che la pretende
a civiltà, quale l'Egitto. Sapere poi come questi disgraziati sono
trattati, per quanto colpevoli, è meglio non ripeterlo, per rispetto a
qualsiasi principio di umanità.

Le montagne si vanno facendo più alte, i _baobab_ e le euforbie più
numerosi, grossissimi i primi, alte le seconde. Verso le cinque, poco
lontano da una stazione di soldati, vediamo nel fondo della valle un
recinto con tracce di coltivazione e qualche capanna: è l'abitazione di
due francesi che vi stanno tentando una speculazione, di cavare cioè del
filo dalle foglie di cespugli comunissimi in questa località che porta
il nome di Kalamet. Noi oltrepassiamo, ed alternata ancora la roccia
colla sabbia, ci fermiamo a notte fatta nel letto del torrente asciutto.
Ci vien detto essere le vicinanze molto abitate da leoni, e quindi utile
prendere le necessarie precauzioni: invece di lasciar liberi a pascolare
i camelli, si dispongono in un circolo attorno al quale si accendono sei
grossi fuochi, che qualcuno dei camellieri veglia a tener nutriti tutta
la notte.

Questo accampamento in luogo perfettamente isolato e selvaggio, il
mistero della notte, l'apprensione per quel che poteva forse succedere,
e l'emozione del poterci veder davanti quei due occhioni scintillanti
senza le barre di ferro che ce ne separino, un ascoltare ansiosi ad ogni
muover di foglia, la cantilena dei camellieri che sparsi a gruppi
stavano preparandosi con pochi grani di dura la loro cena, la luce delle
enormi fiamme che innalzavano grosse colonne di fumo e spandevano i loro
raggi luminosi sulle foreste che da ogni lato ci circondavano, tutto
questo, ripeto, formava uno spettacolo veramente imponente e fantastico.
Lo contemplammo lungamente, poi ci sdraiammo coi nostri fucili al fianco
e cercando addormentarci con un occhio aperto, ma la stanchezza la vinse
ben presto. S. M. il re delle foreste non venne a turbarci i nostri
sonni placidi e solo verso l'alba un muoversi confuso fra le piante ci
fece balzare e mettere in guardia, ma non era che un innocente cignale
che se ne andava facendo la sua passeggiata mattutina.

Fu questa la nostra sveglia, e poco dopo riprendemmo il nostro
itinerario, lungo il quale incontriamo spesso dei cimiteri di tribù
nomadi che vi tennero le loro tende. Le tombe consistono di un ammasso
conico di pietra o di un largo circolo segnato pure da pietre, con un
tumulo al centro; generalmente si copre la tomba con piccole pietre di
quarzo bianco; se la tomba è di fresca data, è circondata da una siepe
di rami spinosi per tenervi lontana la jena, ed allora ogni fedele che
passa vi recita una prece e vi aggiunge un sasso.

La natura si fa sempre più grandiosa e selvaggia, la vegetazione
aumenta, i baobab sono giganteschi, non hanno in questa stagione una
sola foglia, ma molti frutti consistenti in piccoli globi verdastri, che
contengono una farina bianca acidula e di sapore grato e molti semi dal
gusto di mandorla; le euforbie si fanno veri alberi di cinque, sei, otto
e più metri d'altezza e in alcuni punti costituiscono da sole vere
foreste. Saliamo sempre finchè ci troviamo in un vasto bacino,
attraversato il quale, in direzione ovest, ci si presenta un'erta salita
che ne è forza superare a piedi.

Passata così la catena dello spartiacque che dà origine a levante al
torrente Ain, del quale rimontammo il corso, e dall'altro versante ad
altri torrenti che radunati gli sfoghi di varie vallate secondarie,
attraversano la provincia di Barka, costituendo il Xor Barka che ha foce
poco lungi da Suakin, ridiscendiamo per una lunga vallata dove la natura
non è per nulla cambiata, ma da dove ci sta davanti un esteso e variato
panorama, e alla 1-1/2 ci fermiamo in un vastissimo altipiano.

Dopo un paio d'ore di riposo, rimontiamo a camello, ma fatti pochi passi
siamo attratti a discenderne dall'abbondanza della caccia. Siamo in vera
Africa, come tante volte la ammirai nelle illustrazioni e ne sognai la
realtà; i monti generalmente conici, staccati uno dall'altro e raramente
tentando formar catena, vegetazione non rigogliosa, ma abbondante; la
nostra carovana avanza nel letto sempre sabbioso del torrente largo da
venti a trenta metri e fronteggiato da dense foreste dietro le quali ad
intervalli si nascondono spazii coltivati a dura; il nostro cammino è
continuamente accompagnato dall'apparire di gruppi di pernici, faraone,
lepri, gazzelle; sugli alberi svolazzano stormi di uccelli dai colori
smaglianti; fra me e Ferrari è un continuo schioppettio e un continuo
far vittime, che passiamo al buon Legnani che ne orna i fianchi del suo
camello. In poco tempo eravamo materialmente stanchi della fucilata e
sazii della carneficina, e non avevamo fatto che pochi passi, dopo
ripreso le nostre cavalcature, quando avanti a noi vediamo attraversarci
la strada un piccolo quadrupede, poi due, poi una sequela infinita: sono
piccole scimmie che inseguendosi forse per giuoco, passavano dalla
destra alla sinistra sponda. Attraversato questo vero paradiso dei
cacciatori, risaliamo altre alture per discendere in altri piani;
incontriamo qualche truppa di pecore e buoi, il sole tramonta e sempre
camminiamo. A quest'ora, attorno ai pozzi scavati nelle sabbie, è un
vero formicolio di selvaggina che vi si raduna per abbeverarsi e che noi
ci accontentiamo di disturbare col nostro passaggio per non fare un
inutile macello. Non sappiamo dove troveremo alloggio a Keren, per cui
non volendo arrivare a notte inoltrata, vorremmo fermarci per proseguire
l'indomani, ma i nostri camellieri non acconsentono, ripetendoci che
siamo vicinissimi alla meta. Avanti dunque; si scorge un lume, ma non è
che l'abitazione di un agricoltore che ha i suoi campi lontani dal
villaggio. Finalmente i lumi si moltiplicano, passiamo fra molte
capanne; nell'oscurità si distingue dell'abitato, e non sapendo dove
dirigerci, ma memore dell'ospitalità usatami nei conventi di Terra
Santa, ci facciamo portare alla Missione, certi di trovarvi rifugio
almeno per la prima notte. Alla destra, avanti una casa di cui
nell'oscurità si distinguevano a stento i contorni, vediamo il largo
cappello di una suora che con un fanale entra da una porta, e piegato a
sinistra siamo, dopo pochi passi, alla casa dei missionarii. La carità
cristiana che andavamo ad incontrare, il forte contingente di
quell'appetito che collima colla fame, che portavamo noi, e il sapere od
almeno il supporre che la buona e abbondante tavola non fa mai difetto
nei conventi, ci avevano fatto sognare una cena poco meno che
luculliana, e con questa speranza, col solo titolo di viaggiatori, ci
presentammo ad un padre, chiedendo ospitalità. Era l'ora della
preghiera, per cui portammo un po' di scompiglio in questo piccolo
esercito della fede; ci venne assegnata una camera in cui si stesero
delle stuoie e ci fu detto che con sommo dispiacere a quest'ora i fuochi
delle cucine erano già spenti. Una lettera che persona molto alto locata
aveva data in Italia per la spedizione, fece per altro l'effetto della
molla che fa comparire il diavoletto nella scatola di dolci, e per noi
invece allontanò il brutto fantasma del digiuno e fece comparire del
pane, del cacio e dell'idromele, detto _tecc_ o vino degli Abissinesi,
ottenuto dal fermento di acqua e miele coll'infusione di alcune foglie o
radici.

Ci svegliammo l'indomani quando il vescovo, monsignor Touvier, con due
preti vennero ad augurarci il buon giorno e con ogni sorta di gentilezze
vollero traslocarci in uno spazioso salotto con un letto e due comodi
divani.

La provincia dei Bogos geograficamente appartiene all'Abissinia, ma è
ora occupata dall'Egitto che la tiene preziosa come linea di
comunicazione fra il Sudan e il porto di Massaua, e per questo è fonte
di continue inimicizie e di frequenti attacchi fra i due Governi. Essa è
costituita da un altipiano a più di 1200 metri sul mare, rinserrato da
montagne granitiche; la sua popolazione, sparsa in parecchi villaggi, si
pretende da secoli immigrata dall'interna provincia del Lasta e derivare
quindi dalle bellicose tribù degli Agau, dei quali mantiene lingua,
costumi e tradizioni.

La capitale ne è Sanayd, villaggio posto sul versante di un'altura
coronata da un forte costrutto da Munzinger pacha; rimpetto a questo, e
più sotto la montagna, sta Keren, ove siede la Missione stabilitavi or
fanno circa trent'anni dal padre Stella, che dopo avervi consacrata
l'esistenza, facendosi amare dalla popolazione, morì travagliato da
dispiaceri e perseguitato da chi gli mosse ingiusta guerra. Col tempio
della fede vi aveva stabilito pure un faro di civiltà, unendo così
queste due propagande che sempre dovrebbero essere compagne nella
faticosa marcia attraverso popoli barbari, e praticando per tal modo la
vera e pura dottrina di Cristo. Una colonia di Europei dava l'esempio
del lavoro, e mostrava alle popolazioni selvagge che la missione
dell'uomo sulla terra ha uno scopo ben più alto che quello di vegetare
abbrutendosi e facendosi continua guerra gli uni agli altri. Ma come pur
troppo spesso succede, la mancanza di mezzi materiali e di costanza a
sopportare le prime disillusioni per un avvenire migliore, fecero che la
piccola colonia finì per morire quasi di consunzione. La Missione restò,
ed è ora occupata da lazzaristi francesi, e la colonia riprese sviluppo
quando or fanno quattro anni si introdusse la coltivazione del tabacco.

Uscimmo accompagnati dal padre Picard, un simpatico uomo che da
quattordici anni vive in questo paese cristianizzando: è commovente
vedere come tutti lo amano e lo rispettano, e come al suo apparire,
vecchi e fanciulli gli corrono incontro chiamandolo _gaetana_ o _abuna_,
che suonano _mio signore, mio padre_, gli baciano la mano e gliela
toccano col fronte in segno di venerazione. Con lui andiamo a far visita
al governatore, comandante il presidio di circa 600 uomini.

È un nero del Sudan che fece, nella legione straniera, la campagna del
Messico, poi fu in Francia, ma ebbe troppo rispetto per la civiltà, e
non osò troppo avvicinarla; fu però con noi cordialissimo e ci fece
vedere in tutti i suoi particolari il forte costruito sotto la sua
direzione. Quasi alla vetta del colle su cui è piantato, per occupare i
soldati, fece scavare una gran vasca per raccogliere l'acqua delle
piogge, idea questa assai buona e pratica in un paese dove fa tanto
difetto questo elemento. Passiamo a visitare qualche Greco e il reggiano
Cocconi che tengono piccoli negozii, e vi coltivano tabacco, e da tutti
quanti siamo ricevuti con gran festa, poi passiamo da M. Constant, un
francese e il principale degli agricoltori.

Egli tiene una bella fattoria composta di tre capanne rettangolari in
stuoie, ma ben costrutte e pulite, e presso queste l'essicatoio del
tabacco che si appende a fili tesi fra pali per farlo essicare, quindi
farne delle grosse balle che si mettono in commercio. Qui sentiamo come
questo genere di industria potrebbe essere assai proficua se non ci
fossero molti _ma_ e _se_. Il Governo che invece di favorire
un'industria nascente, cerca di paralizzarla con gravi tasse; la
lontananza dal porto di Massaua, la mancanza di strade e la difficoltà
delle comunicazioni; la mancanza di sicurezza, essendo continuamente
minacciati da un invasione degli Abissinesi; l'incertezza delle piogge,
cui è affidata la nascita e lo sviluppo delle piante, piogge che alcuni
anni anticipano, altri ritardano, e possono quindi esser causa di gravi
spese impreviste e della perdita completa della seminagione, senza che
s'abbia ancora il tempo a ripeterla. Cause tutte insomma che finirono
alla conclusione, che su tre si può calcolare ad una annata veramente
buona. Aggiungi, che tutti questi onesti agricoltori, bisognosi di
capitali per le prime spese di impianto, trovarono in loro soccorso
aperte le borse di alcuni Greci, che diventarono poi i più fieri
strozzini, che oggi vergognosamente impinguano coi guadagni di chi ci
mette intelligenza e fatica.

Le monache sono ora in numero di sette e vi furono chiamate da solo un
mese; la superiora fu per vent'anni a Roma direttrice del convento di
San Spirito, da dove partì, come ella disse, dopo che _i Piemontesi
bombardarono ed entrarono_.

Passiamo a visitare le scuole e il _collegio_ degli allievi, che sono
piccoli bambini fatti cristiani, e che per essere orfani od abbandonati,
si ricoverano e si istruiscono. Vivono in capanne e sono custoditi da
donne del paese istruite dai missionarii e che da questi ebbero il
titolo di maestre.

    [Illustrazione: Macina e forno abissinesi]

In una vasta capanna entriamo a vedere la fabbrica del pane che si dà
loro. Quattro ragazze sono occupate a macinare la dura schiacciandola
fra due pietre, una fissa a lastra, l'altra cilindrica che colle mani si
fa scorrere sulla prima. Fatta con farina e acqua una pasta assai
tenera, la si versa e distende su larghi piatti di terra, sotto ai quali
arde il fuoco, e si ottiene così un pane molle, ma abbastanza gustoso,
di forma piatta, del diametro di circa quaranta centimetri e dello
spessore di non più di uno. Ogni giorno ne vengono distribuiti ottanta
ai bambini.

Visitiamo qualche capanna di nativi: le loro abitazioni sono meschine
assai, e per mobilia, i meglio arredati, hanno qualche _angareb_,
qualche stuoia o pelle di bue per sdraiarvisi, pelli per l'acqua, vasi
in terra o scorza d'albero intrecciata per conservarvi farina, sale,
ecc.

La chiesa è piccolina, in muratura ed eseguita per ordine di Munzinger
pacha, poi donata alla Missione. Il convento non ha nulla di
rimarchevole: una casina con cinque finestre, a due piani, e ai lati due
bracci sporgenti col solo pianterreno, e in continuazione a questi
qualche altro locale cogli opificii da un lato, e la tettoia col recinto
per gli animali addetti al servizio, cioè muli, somari e buoi,
dall'altro. Vi sono ora dieci preti e qualche indigeno convertito non
solo, ma consacrato sacerdote perchè aiuti nella propaganda.

E giacchè il nostro itinerario ci ha portati su questo argomento, mi si
permetta di fermarmici a dirne due parole. Ho tanto e sempre sentito dir
bene delle Missioni cattoliche che hanno sede a Kartum, e delle quali è
capo l'egregio monsignor Comboni, ed ho avuto io stesso tali prove in
Palestina dell'utilità che possono arrecare le Missioni quando siano
ispirate da sentimenti veramente cristiani e umanitarii, che davvero
bisogna essere compresi da venerazione per simili istituzioni. Da coloro
che vogliono atteggiarsi a critici giudicando le cose solo da lontano e
senza altro aiuto che il proprio criterio, ispirato spesso da falsi
pregiudizii o da spirito di parte, sentii spesso chiedermi cosa mai
possano fare di bene pochi individui che si sagrificano per andare
battezzando dei selvaggi sia in Africa, sia in altre parti del mondo:
per rispondere a questi e per difendere una causa che i fatti m'hanno
persuaso essere santa, mi permetto una breve disertazione in proposito.
Pur troppo ho visto qualche volta missionarii che si accontentano di
appiccicare il titolo di cristiani a dei bambini ottusi, solo perchè
bagnarono loro il fronte con dell'acqua benedetta, aggiungendovi la
formola battesimale, oppure perchè credettero convertire degli individui
col far loro luccicare avanti agli occhi qualche tallero, o collo
spaventarli approfittando della loro ignoranza e mostrando loro degli
ignobili dipinti che fanno vedere Maometto all'inferno fra le fiamme
perchè mangiava un cristiano mattina e sera, oppure un leone che fra
parecchi dormienti si avventa sul solo mussulmano che se ne sta fra
cristiani; e schiettamente io pel primo ammetto che non si possono
seriamente chiamare cristiane delle genti convertite con simili mezzi
che mi permetto di chiamare immorali. Io crederei offendere Cristo
presentandogli di tali fedeli, come sono convinto che con questo sistema
nulla si può far di bene alla umanità, e si vilipende anzi la santità
dello scopo. Apprezzo sempre l'abnegazione di chi si sagrifica per la
causa di cui è convinto, ma prescindendo da questo merito tutt'affatto
personale e presa invece a considerare la causa delle Missioni quando
basano su tali principii, tenuto calcolo dei sacrificii, delle preziose
esistenze, delle somme enormi che questa propaganda costa, e considerato
il bene che ne deriva alla religione ed alla umanità, trovo che non
regge il confronto coll'utilità che se ne potrebbe avere, usandone
invece ad alleviare tante e tante miserie che pur sussistono fra noi.

Ma quando invece si prepara alla religione un fondamento di sviluppo
intellettuale, si sveglia questa povera gente dal suo letargo di
ignoranza, si fa loro vedere e toccar con mano di quanto bene possa
esser fonte la civilità, si sviluppa l'industria e l'agricoltura, si
aprono loro così la mente e gli occhi, e si migliora la loro condizione,
si ottiene della gente che veramente ci ama e ci stima, ci crede, perchè
ci vede capaci di un bene reale, e dietro questa si ispira ad amare e
stimare chi ha ispirata in noi quella fede per la quale si abbandonò
patria e famiglia per andare cercando il bene altrui, quel bene dal
quale vedranno scaturire il loro nuovo benessere. Quando la propaganda
si basa su tali principii, come fortunatamente si basa nel maggior
numero dei casi, allora si prefigge ed ottiene uno scopo eminentemente
utile e sacro, ed a questo proposito mi è caro poter ripetere qualche
parola che pronunciava con me quel valente uomo che è M. Comboni, capo
della Missione che risiede a Kartum e di la distende i suoi raggi in un
orizzonte quasi sconfinato. «Bisogna che noi conosciamo, mi diceva,
l'anatomia dello spirito degli individui per prepararli al
cristianesimo; abbiamo pressochè delle bestie che bisogna rendere uomini
prima di farne dei cristiani, perchè la civiltà e la religione devono
baciarsi in fronte ed essere sorelle alla scienza.»

Nobili massime queste, e si può aver piena persuasione del quanto siano
vere e praticate, quando si videro i sagrificii ai quali questi martiri
si espongono, la rassegnazione colla quale li sopportano, l'entusiasmo
col quale sono sempre disposti ad affrontarne altri. Una prova la si può
avere leggendo il libro da poco pubblicato, delle _Memorie di padre
Beltrame_, che fu compagno al Comboni nell'avventurarsi in quelle
vergini contrade colla fede per guida e la croce per difesa.

Il giorno 19 essendo domenica, assistemmo alla messa, che fu per vero
dire soggetto di distrazione più che di divozione; era detta da
convertiti Abissinesi che recitano le loro orazioni nella lingua madre,
e vestono una lunga pellegrina come anticamente si usava nel servizio
religioso; i chierici erano pure indigeni e vestiti di rosso; le candele
anch'esse nere, perchè fatte con cera del paese non purificata.
L'insieme era assai originale.

Tutti i giorni e spesso anche la notte abbiamo accompagnamenti di canti
e tamburi per qualche _fantasia_. Se ne fanno per nascite, per morti,
per guarigioni, per matrimonii, per tutte le feste del loro calendario,
e alle volte si continuano fin quindici giorni, per cui lascio
immaginare che gazzarra continua. Padre Picard ci interessa sempre
raccontandoci degli usi e costumi di queste popolazioni; per quanto il
Governo egiziano cerchi far rispettare le leggi sue e far penetrare un
po' di civiltà a modo suo, e dal canto loro le Missioni tentino od
almeno sperino dissipare certe superstizioni, pure la maggior parte
delle istituzioni, se così si possono dire, di questi popoli, sono
talmente inveterate dalla tradizione, che a ben poco riescono gli sforzi
di questi due civilizzatori.

Ogni villaggio riconosce come suo capo supremo e giudice colui che per
merito o meglio per anzianità fu chiamato a godere della fiducia di
tutti i compaesani, fra i quali ancora vige una specie di sistema
feudale, cioè i plebei riconoscono la superiorità dei patrizii ai quali
devono parte dei redditi, ubbedienza, soccorso e difesa a pericolo della
propria vita in caso di necessità. Ogni padre poi ha diritto di vita, di
morte o di vendere quale schiavo, se può farlo in barba al Governo
egiziano, sui proprii figli, finchè hanno raggiunto i 18 anni, in cui
sortendo di minore età, diventano padroni di sè stessi e con questo
cessa la superiorità e la responsabilità paterna. Lo spirito di vendetta
vi regna fortissimo e tale che un'offesa viene qualche volta ripagata
della stessa moneta dopo qualche generazione.

Nel caso di morte di un capo o di qualche persona influente o ricca, la
famiglia, gli amici e alcune donne espressamente chiamate e pagate e
delle quali la professione abituale è molto comune in paese e meglio
tacere, si radunano nella casa del defunto e fingendo piangere e
disperarsi decantano le virtù sue, lo glorificano come brava persona,
guerriero invincibile, forte, prode, amato, distinto nel maneggio della
lancia e della spada, ecc., e terminano sempre col rallegrarsi, perchè
oltre questo era ricco, quindi in sua casa si troverà dell'idromele,
della dura, dei talleri, molta roba d'ogni genere e quindi si mangerà,
si beverà, si farà buon festino.

Dopo ciò si lava il corpo del morto con acqua, che si conserva in un
gran vaso, e quindi si fa il trasporto alla sepoltura sempre seguiti da
tutto il corteo; dopo circa un mese altra funzione solenne con canti,
gridi, suoni, abbondanti libazioni e sagrificii di buoi e montoni; si
investe allora il primogenito dell'eredità e dei diritti paterni, e per
questo lo si lava da capo a piedi coll'acqua conservata dalla stessa
operazione fatta al genitore morto. Trattandosi di uomini tenuti in gran
conto, dove fu sepolto il padre, deve essere sepolto il figlio, per cui
bisogna alle volte operarne il trasporto attraverso monti e valli.

I matrimonii si fanno innanzi testimonii, e meno la lavatura, presso a
poco colla stessa cerimonia dei funerali.

Noi non avemmo ad assistere ad un banchetto funebre, ma fummo invitati
un giorno ad un eccellente pranzo nella simpatica ed originale fattoria
del cordiale signor Costant, poi pensammo alle provvigioni per il
ritorno, e la cosa che ci fu più difficile procurarci, fu anche la più
semplice e la più necessaria, il pane, perchè qui tutti usano farselo in
casa propria. Dovemmo procurarci della farina che affidammo ad un greco,
che il giorno dopo ce la restituì convertita in tante pagnotte.

La mattina del giorno 20 i nostri camelli ci stavano aspettando nel
cortile, per cui fatti i convenevoli e i dovuti ringraziamenti coi
nostri ospiti, ci avviammo alla casa di Costant, dove si uni a noi il
signor Jules Nevière, uno dei due giovani francesi che vivono a Kalamet
e che ora ritorna alla sua solitaria dimora dove ci invitò di far sosta.
Ingrossata così la carovana, giriamo l'altura su cui è il forte, e
scendiamo a raggiungere in pochi minuti il letto del torrente _Ansaba_,
che ci sarà guida fino al passaggio della catena ove ha origine.
Attraversiamo dapprima qualche terreno coltivato a dura e tabacco, poi
per lunga pezza proseguiamo attraverso pascoli popolati da capre e da
buoi. Durante le prime tre ore ricalchiamo le orme impresse
nell'oscurità completa arrivando, ed ora siamo sorpresi dalla bellezza
del paesaggio che attraversiamo. Alberi giganteschi, gruppi pittoreschi
quanto mai, piante secolari dalla forma squarciata abbracciate ad altre
di diverso verde e di diversa natura, fiori e frutti pendenti, liane che
si arrampicano, scendono a terra a succhiarne gli umori, poi risalgono a
bevere l'aria più pura e più fresca, enormi fusti troncati dal vento o
dal fulmine, tronchi rovesciati che sbarrano il passaggio; cespugli
d'ogni sorta, aloe, grassule, erbe e fiori che fanno un vero mosaico del
suolo; e tutto questo animato dallo svolazzare di mille augeletti e dal
fuggire al nostro avanzare d'ogni sorta di selvaggina. Tutti eravamo
compresi dalla bellezza e dalla immensità di questa scena, e la carovana
maestosamente procedeva di quel passo lento, ma imponente, che è proprio
del camello. Ognuno di noi godeva, e quasi temeva recar guasto
lasciandosi trasportare ad una esclamazione o comunicando al compagno le
proprie impressioni, per cui regnava sovrano il silenzio, ciò che dava
ancora miglior tinta al quadro. Respirando in mezzo a tutto questo,
quelle aure africane, io gustavo la dolce voluttà di quell'oblio che fa
confondere il sogno colla realtà, e dopo aver fantasticato che stavo
sognando, che dalla mia camera la fantasia eccitata dal desiderio e
dalla speranza, m'aveva portato in questo mondo di illusioni,
doppiamente godevo rifacendomi da questa specie di letargo di pochi
istanti e persuadendomi che tutto era proprio realtà, che stavo io in
mezzo a questo splendido edificio del Creato.

Oltre i grossi baobab dai quali pendono numerosi frutti, vi sono
grossissimi alberi che portano frutti simili a lunghe salsicce, assai
originali, ed un bellissimo arrampicante di cui il frutto è una zucca a
sporgenze acute, una vera bomba Orsini, che da verde passa colla
maturanza al rosso e al giallognolo. Fra i molti uccelli sono curiosi
due tipi, uno che al passaggio delle carovane le accompagna con un
perfetto ridere sgangherato, un altro che potrebbe dirsi un compito
suonatore di flauto, tanto le sue note sono sonore e distinte.

Fermatici all'ombra di un bel gruppo d'alberi per la colazione,
proseguimmo poi a piedi per procurarci colla caccia il pranzo, e quando
ci fermammo la sera, la nostra casseruola traboccava infatti di pernici
e faraone. La notte fu fredda e tanto umida che ci trovammo la mattina
come usciti da un bagno. Sforzando la marcia passiamo la montagna il
giorno dopo, e per mezzogiorno siamo ospitati dal nostro compagno di
viaggio e dal suo socio.

Kalamet è all'incrocicchio di parecchie vallate e nel fondo di queste,
sulla via fra Keren e Massaua e ad un quarto di strada dalla prima alla
seconda. Questi due cordiali esploratori delle industrie, dopo girati i
paesi limitrofi, vennero qui a stabilirsi, dove non esisteva altro che
la misera capanna dei soldati, guardie al telegrafo, vi chiamarono dei
servi, e mentre facevano i tentativi per la loro speculazione, si
occuparono di adattarvisi il meglio che potevano. Impossessatisi di un
bel tratto di terreno, lo circondarono con tronchi spinosi per
delinearne la proprietà ed incutere rispetto alle fiere, scavarono un
pozzo, piantarono frutta, verdure, tabacco pel loro uso, costruirono
capanne per loro, per la cucina, per ripostigli, insomma un vero
accampamento che mostrava quanto può l'uomo industrioso spinto dalla
necessità e dal buon volere anche con mezzi limitatissimi, e per noi
riuscì assai interessante. Sgraziatamente da tre mesi si erano
sviluppate le febbri, i servi spaventati disertarono, ed uno solo era
rimasto fedele, quindi la mancanza materiale di braccia e di
sorveglianza avevano lasciato libero il campo al disordine.

Le capanne riposano all'ombra di cespugli e di una gigantesca acacia a
ombrello intrecciata da grosse liane; l'ammobigliamento è rozzo ed
originale, perchè tutto creato da questi industriosi giovani con tronchi
d'albero, avanzi di casse, e tutto quello che il loro talento inventivo
e speculativo faceva tornar utile fra il poco che si trovavano
d'attorno.

Dopo una refezione fummo guidati in una vicina valle, dove avemmo la
fortuna di incontrarci con diversi gruppi di grosse antilopi dette
_agazen_: sono enormi, e basti il dire che le loro corna nere,
attorcigliate a spira, misurano spesso più di un metro d'altezza. Caccia
minore si incontra piuttosto abbondante, e la notte si ha spesso il
ruggito del leone.

Dopo il mezzogiorno del 22 ripartimmo, seguendo sempre il letto del
torrente che avevamo risalito pochi giorni prima, e ci fermammo per la
colazione del 23 ad _Ain_, laddove finisce la vera vallata e comincia il
piano inclinato, e dove anche venendo ci fermammo alla stessa ora beati
di incontrare dell'acqua corrente. Discendiamo poi fino a sera
calpestando detriti granitici, fra acacie e qualche altra varietà di
piante, più fresche e verdi dove è depressione di terreno; frequenti
sono dei mucchi di terra giallastra dell'altezza e diametro di due e più
metri, che non sono altro che ciclopiche abitazioni di migliaia di
formiche che continuamente lavorano a rendere più grandi esternamente e
più comodi internamente questi frutti della loro arte e delle loro
fatiche.

    [Illustrazione: KALAMET]

Il 24 attraversiamo il deserto, e verso sera dense nubi e un primo
acquazzone ci fanno avvertiti delle cattive intenzioni del cielo. I
camellieri volevano ad ogni costo fermarsi, ma avendo già sperimentato
quanto sia sgradevole l'essere esposti alla pioggia senza tende per la
notte, e sapendo d'altra parte che non poteva essere troppo lontana la
stazione dei soldati, mi opposi assolutamente, dichiarando che non mi
sarei fermato se non era raggiunta quest'ultima. Dopo un'ora circa la
raggiungemmo infatti, e per buona fortuna nostra, chè non erano
trascorsi dieci minuti che una pioggia dirotta cominciò e senza
interruzione continuò tutta la notte. Bene o male eravamo riparati da un
tetto di paglia, e tranne qualche goccia che filtrava ce la passammo
discretamente, tanto più pensando alla nostra posizione, se ci fossimo
fermati lungo la strada.

Il giorno 25 discendendo i diversi piani a scaglioni e passando per le
alture che ci avevano ospitati la prima notte nell'andata, giungemmo
verso mezzogiorno ad Omkullo dove ci rifocilammo per ripartire quasi
subito, ed essere così verso le tre a Massaua.

Durante la nostra assenza aveva durato in queste regioni l'epoca della
piogge, e straordinario fu il cambiamento che trovammo al ritorno, da
_Ain_ in avanti. Allora tutto era secco, sterile, desolante; ora invece
le piogge vi hanno portata una verdura che spira fresco e vita; il suolo
non è più arido, ma quasi tutto coperto da uno smalto verde; quel che
allora era irrigidito, ora è vivo, le acace hanno messe le nuove
puntate, gli uccelli vi stanno saltando di ramo in ramo e vi
costruiscono i loro nidi pendenti a forma di borsa, dei quali fin venti
contai sulla stessa pianta; le lepri, le gazzelle, i dik-dik, le pernici
sono stanate dai loro rifugi, e si incontrano frequentissimi; i pastori
colle loro mandre sono ridiscesi dagli altipiani e vi stanno pascolando:
insomma, completamente un altro paese, una natura risuscitata da vera
morte a nuova vita, e questo nello spazio di circa due settimane. Ciò
prova la fertilità del suolo e la mancanza assoluta d'acqua anche nel
sottosuolo.

Al nostro ritorno in Massaua speravamo trovare tutto combinato e pronto
per incamminarci verso l'Abissinia, ma invece niente di tutto questo, e
la sola notizia portata da un negoziante proveniente da Adua, che le
mule che vi avevamo spedite a comperare, sarebbero partite un paio di
giorni dopo di lui. La stagione che avanzava, questa vita monotona, resa
ancor più grave per noi dopo aver provato qualche giorno di carovana,
l'abitudine ormai fatta alle chiacchiere di questi paesi, dove con tutta
facilità i giorni diventano settimane ed anche mesi, e alle promesse di
questa gente più che indolente, apata, ci indussero a fare i nostri
passi presso il governatore per avere i mezzi necessarii onde metterci
in cammino. Fummo molto contrariati dai diversi consigli per la scelta
fra la via di _Gura_ più breve, ma più faticosa e attraverso le tribù
indipendenti dei Schohos che assai facilmente attaccano le carovane che
si avventurano nei loro territorii, e la via dell'_Amassen_, più lunga,
ma più sicura e più comoda pel trasporto del bagaglio. La scelta cadde
su questa seconda.

Si celebrava in quei giorni la festa per la circoncisione di un bambino
d'un impiegato al divano, e fummo invitati ad intervenire una sera al
divertimento.

Su una pubblica piazza, accanto all'abitazione, erano disposti quattro
pali a rettangolo, e dei lampioncini pendevano a delle funi che li
riunivano: alcuni _angareb_ servivano per gli invitati, la massa del
pubblico stava disposta in seconda linea; c'era tutta l'apparenza d'una
compagnia di saltimbanchi ad una nostra fiera; fummo molto gentilmente
ricevuti e serviti di caffè, liquori e sigarette.

Una ballerina venuta dall'Egitto, bassa avventuriera del paese, bambina
di undici anni e che già da tre anni aveva abbracciata questa poco
onorifica carriera, girava il circo affettando mosse voluttuose nel
genere delle almee, facendo però prova più di forza e di costanza, che
di abilità o di grazia, e fermandosi di tratto in tratto avanti qualche
spettatore per dedicargli una speciale pantomima che le fruttava risate
e applausi dal pubblico e qualche piastra dal prescelto. Quattro pifferi
e un paio di tamburelli continuavano un baccano infernale; dietro una
siepe di stuoie che limitava da un lato l'arena improvvisata e confinava
colla casa dell'anfitrione, stava la moglie di questi colle sue amiche,
spiando, come le nostre ballerine dal sipario, e fendendo di quando in
quando le più alte regioni dell'atmosfera con acuti gridi e trilli.
Negli intermezzi della protagonista entravano uomini vestiti a donna o
seminudi, e rappresentavano scene di cui non è permessa la descrizione,
e solo si può dire che invece di risa, in chi ha appena germe di
educazione e di senso morale, destavano ribrezzo e indignazione. E tutto
il pubblico, fra cui vecchi, donne e ragazze, assisteva e si compiaceva
di queste scene che attestano la più schifosa depravazione. Questa
gazzarra dura circa una settimana, principiando sul far della sera e
continuando fino a mattina. È la preparazione al sagrificio, alla
vigilia del quale, una massa di popolo portando candele, lampioncini,
emblemi qualunque, e seguiti dalla solita musica, andò girando la città
accompagnata dal padre e da un cavallo bianco elegantemente bardato, sul
quale un giovanetto teneva e mostrava il povero bambino di circa due
anni, che sbalordito e piangente si disponeva ad essere per l'indomani
un mussulmano _di fatto_. Così si andò di porta in porta da tutti i
conoscenti, gridando ai loro nomi, ed obbligandoli quasi a presentarsi e
gettar dolci o meglio monete.




CAPITOLO IV.

  Arrivano le mule.--Partenza per l'interno.--Indolenza dei
  camellieri.--Sorpresi dalle piogge.--Equipaggiamento.--Emozione
  notturna.--Un funerale.--Trattative noiose pei buoi da
  carico.--Ballo fantastico.--Grandiosità delle scene.--Si raggiunge
  l'Altipiano etiopico.


Il 3 febbraio arrivano finalmente le nostre mule, ed un orizzonte più
chiaro comincia ad aprirsi alle nostre speranze.

Principia il lavoro per disporsi alla partenza: si distribuiscono le
casse, si fa la scelta di quello che pratica e consigli ci suggeriscono
di portare all'interno e di quello che stimato inutile sarebbe imbarazzo
e nulla più il trasportare con noi. Torna nuovamente in campo la
questione delle due strade, ma la prima scelta prevale un'altra volta;
procuriamo i camelli pel bagaglio durante i primi giorni; riadattiamo
alla meglio le nostre selle e specialmente le staffe troppo strette, che
essendo gli Abissini scalzi usano introdurvi il solo pollice, e così
siamo pronti pel giorno fissato.

L'otto mattina il nostro cortile era ingombro di casse e camelli; come
al solito i camellieri si rifiutano di caricare lamentandosi del prezzo
stabilito, poi dicendo i carichi troppo pesanti, tutte scuse per carpire
qualche tallero di più e ritardare la partenza, ma la pazienza nostra
non volle resistere a tante prove e quando mostrammo della risolutezza e
domandammo giudice il governatore, ogni difficoltà fu appianata, anzi,
fu ingiunto al _naib_ o capo dei territorii che dovevamo attraversare
coi camelli, di accompagnarci fino ai confini dei suoi dominii; e perchè
i nostri ordini fossero eseguiti ci fornì una scorta di quattro soldati,
che per dir vero sono d'imbarazzo più che d'aiuto.

Verso le due, una fila di una quindicina di camelli col bagaglio nostro
e della famiglia Naretti, scortato dal nostro bravo Tagliabue, che colle
sue lunghe gambe, armato di tutto punto, inforcando una magra mulettina,
poteva rappresentare un bellissimo Don Quichotte, partiva per Omkullo,
dove ci avrebbe aspettati per la sera. Alle cinque infatti anche le
nostre mule erano sellate e la lunga carovana cui si erano aggiunti
parecchi amici che ci vollero accompagnare fino alla prima fermata,
usciva per la diga salutata da mezza Massaua che echeggiava delle grida
di evviva, salute, buon viaggio e felice ritorno. Eccoci finalmente a
quel sospirato momento in cui si può realmente dire il nostro viaggio
comincia; quanti pensieri, quanti sogni in quel vasto orizzonte che mi
sta davanti, quante speranze vanno a realizzarsi, quale fantasmagoria di
cose nuove e interessanti va a schiudersi davanti agli occhi miei; ma in
pari tempo ogni passo mi allontana dai miei cari, e dietro me quasi si
chiude ogni comunicazione con loro.

Queste idee mi turbavano la mente, ma una voce misteriosa mi suggeriva
d'essere uomo, di farmi superiore a me stesso e mi faceva trovar svago
nell'ammirare la scena che mi circondava, e forza nelle speranze e nelle
soddisfazioni dell'avvenire. A notte fatta arriviamo ad Omkullo, dove
troviamo le casse disposte presso il villaggio, e qui stabiliamo il
nostro accampamento; una frugale, ma allegra cena, finì coi brindisi e i
saluti agli amici che ci avevano accompagnati, e che con una splendida
luna se ne tornarono in città, lasciando in noi profondo il desiderio di
stringere loro ancora una volta le mani prima di far ritorno in Europa.

_Domenica 9 febbraio_: Prima di giorno siamo pronti, ma il _naib_ viene
ad avvertirci che non si può partire prima di mezzogiorno, avendo i
camelli nulla mangiato la notte e il giorno innanzi; pur troppo
acconsentiamo, ma con questa gente non bisognerebbe mai dar retta alle
chiacchere, ed usare invece prepotenza e minacce. Passano infatti le
dodici, la una, le due, si grida, si strepita, si mandano a cercare i
camelli, ma con tutta pace non si riesce a mettersi in cammino che dopo
le tre.

La tappa fissata era Sahati, a quattro ore di distanza, ma ecco che dopo
due ore la carovana si ferma, e adducendo mille motivi non si vuol più
proseguire; abbiamo un bel gridare, ma i camellieri infischiandosi
altamente di noi, scaricano e lasciano i camelli liberi al pascolo.

Forza ne è dunque pernottare su un piccolo ripiano, trovandoci qui fra
alture quasi aride e solo popolate da acace nane. L'aspetto del terreno
è vulcanico; si cammina su detriti granitici.

Qui mi sono convinto della necessità di mantenere la _bastonatura_ fra
queste popolazioni, e credo che il maggior torto che potrebbe farsi il
Governo egiziano sarebbe di levarla. Non è gente cattiva, ma tanto
indolente e facile all'inganno che davvero strappa le bastonate, e le
rende la cosa più naturale e giusta anche per chi sente ripugnanza a
battere un suo simile. La notte è splendida per la luna, quindi per
acquistar tempo si stabilisce di partire col poetico chiarore e poche
provvigioni, per arrivare in giornata a Sabarguma e farvi le pratiche
necessarie per avere i buoi che devono quindi innanzi rimpiazzare i
camelli.

Il _naib_ trova giusta la nostra decisione, imparte gli ordini ai
camellieri perchè ci seguano e ci raggiungano l'indomani mattina, quindi
si mette alla testa della nostra piccola carovana che parte all'una e
mezzo antimeridiane del dieci. Man mano che avanziamo, le alture si
fanno più erte e la vegetazione più fitta; attraversiamo frequenti letti
di torrenti dove le sponde sono coperte da stupenda verdura. Alle 3 e
mezzo siamo a Sahati, dove ci dicono è forza fermarsi per lasciar bere e
pascolare le mule, e mentre sotto un gigantesco albero vediamo
rischiararsi l'atmosfera per l'alba che si avvicina, i nostri camelli ci
sorpassano; ripartendo alle 5 e mezzo li raggiungiamo dopo due ore,
mentre stanno disponendosi al loro _alt_ in un vasto altipiano, e dove
ci fermiamo noi pure per una piccola refezione nostra e delle rispettive
cavalcature. In questo tragitto nessuna abitazione tranne un
accampamento di beduini pastori, che, essendo nella giurisdizione del
_naib_ che ci accompagna, vengono ad offrirci dell'eccellente latte.
Alle 10 tutti uniti ci rimettiamo in strada, e dopo pochi passi ci si
presenta un'ertissima salita che ci porta alla vetta di un colle, e così
costeggiando alcune alture e salendone altre, dopo un paio d'ore ci si
presenta la vasta pianura di Aylet alla quale discendiamo per
attraversarla in parte, e fermarci presso un villaggio diviso in tre
gruppi di capanne e chiamato _Dambe_. La vegetazione fresca e
rigogliosa, il suolo coperto da splendida erba, uccelli di ogni canto e
colore, buoi a masse e miserabili pastori dal tipo snello, coperti da
pochi cenci. Ogni gruppo di capanne è circondato da una siepe di piante
spinose, svelte e secche; appena giunti e scaricate le mule, ce ne
andiamo cercando nella caccia il necessario pel pranzo, ma allontanati
appena da poco dal campo, siamo sorpresi da un acquazzone veramente
torrenziale; ritorniamo e ci ricoveriamo sotto la tenda dei Naretti.
Qualcuno dei camelli arriva, e con loro la cattiva notizia che nella
salita cinque sono caduti esausti e non possono continuare, per cui
siamo costretti di mandare muli e buoi, che verso sera tornano colle
casse, delle quali per buona sorte nessuna sofferse. Continua un vero
diluvio e da ogni lato siamo circondati da nubi e nebbie; nel campo
tutto si bagna, il suolo si fa pantanoso, i poveri servi, coperti come
sono da un meschino pezzo di tela, non sanno dove ricoverarsi;
l'appetito si fa sentire, ma non si possono tener accesi i fuochi tanto
è l'infuriare della pioggia. Il _naib_ fa mettere a nostra disposizione
una capanna, ma tanto piccola e lontana dalle nostre robe che non
possiamo approfittarne, per cui piantiamo anche noi la nostra tenda, e
sotto questa siamo forzati di accendere i fuochi per la cucina. Non è a
credersi la massa di noie e di imbarazzi nel trovarsi così sorpresi da
un cattivo tempo che perdura; nello spazio di un'ora ho avuto una tale
lezione su quanto è necessario in questi viaggi, che davvero non
dimenticherò mai più; spero anzi mi possa tornar utile in altre
occasioni.

    [Illustrazione: Fac-simile di pittura da chiesa]

Quando si va ad avventurarsi in viaggi di esplorazione, arriva il giorno
in cui tutto, provviste ed equipaggiamento, può essere esaurito, ed
allora è forza aiutarsi agli usi del paese, vivere da bestia più che da
uomo, e bisogna anzi esservi preparati; ma quando si intraprende invece
un viaggio che ha la pomposa etichetta di _viaggio in Africa_, ma che
deve limitarsi a paesi dal più al meno già noti agli Europei, e dei
quali si possono e si dovrebbero ben conoscere gli usi e i costumi, il
trovarsi il bel primo giorno nelle circostanze in cui ci trovammo noi, è
proprio cosa ridicola, perchè merito non se ne acquista di certo, la
spedizione non ne ha vantaggio alcuno, anzi danno, perchè ci va di mezzo
la salute di chi viaggia, e d'altronde impone a queste popolazioni il
far vedere come si viva da gente civilizzata. Una delle cose più
necessarie, e che consiglio a chiunque voglia intraprendere di simili
spedizioni, è un letto da campo; se ne fanno ora di piccoli e leggieri
che proprio il disturbo del portarli è nulla, mentre i vantaggi ne sono
incalcolabili, perchè per quanto si sia provvisti di tenda, quando si
trova un suolo che è fango od erba inzuppata da settimane di continua
pioggia, lo sdraiarvisi per passarvi la notte non è certo la cosa più
aggradevole nè igienica, e le conseguenze possono avere grande
influenza sulla continuazione del viaggio. Quelli che hanno fatto la
loro pratica sui libri, e quelli che sono troppo facili agli entusiasmi,
ridono a chi pretende che in Africa si possa viaggiare con certi comodi
relativi, e plaudono a chi grida che, presso a poco come un Giobbe, si
può attraversare il continente; io mi permetto invece di dire che nè la
necessità del confortabile, nè l'imbarazzo del bagagliume non devono
essere mai ostacolo al proseguire, ma che se seriamente si considera
quanto costano certi comodi e si pensa alle conseguenze che se ne
possono trarre, il procurarseli è un vero impiego più che ad usura, e il
non esserseli procurati almeno dapprincipio, disposti però a privarsene
quando le circostanze lo impongano, non è prova di soverchio ardire, ma
di assoluta inesperienza. Il merito e la soddisfazione di un viaggio
come questo, è di avanzare il più che si può, ed a me pare meglio
conseguito l'intento spingendosi solo cento passi più avanti, senza
poter far pompa di tanti disagi, che fermandosi a mezza strada perchè
una buona febbre vi ha proibito di continuare.

I fuochi ci avevano un po' asciugato il suolo sotto la tenda, ma questa
invece imbevuta d'acqua, cominciava a lasciarla filtrare. Così alla
meglio ci disponemmo per passare la notte, chè il sonno e la stanchezza
la vincevano certo su tutto il resto, ma appena stavamo per
addormentarci, grida, strilli, fucilate, ci risvegliano di soprassalto;
il campo è tutto in confusione, perchè le mule furono attaccate, a detta
d'alcuni, dal leopardo, e a detta d'altri, dalle iene. Il baccano che
aveva turbati i nostri sonni aveva pure messi in fuga gli assalitori, e
mentre constatiamo la leggiera ferita fatta al collo di una mula, il
_naib_ ci manda ad avvertire che stessimo all'erta, perchè da qualche
giorno i pastori avevano udito il leone, per cui stabiliamo di fare
alternativamente una guardia di due ore.

Eccomi dunque convertito in sentinella con una pioggia continua a
compagna e l'occupazione di ravvivare, per quanto si poteva, i fuochi
accesi per allontanare gli incomodi visitatori. Il fucile restò
inoperoso, e il silenzio fu solo turbato verso mezzanotte da grida che
partivano da uno dei gruppi di capanne, e che sapemmo essere i pianti
delle donne per un morto.

_Martedì 11._ Il cielo continua a favorirci le sue grazie. I pianti pel
morto continuano, e ci avviciniamo per vedere la cerimonia.

Una trentina di megere schifose, con conterie e grossi anelli d'argento
intrecciati ai capelli, coperte solo da logori cenci, e alcune con un
bambino appeso al dorso con una pelle, continuano a ballare stranissime
danze simili a rozze quadriglie, accompagnandosi con una monotona
cantilena interrotta da acuti gridi. Girano continuamente in un
ristrettissimo spazio diventato un vero pantano, nel quale di quando in
quando si sdraiano per rimettersi poi accovacciate a riposare. Di tempo
in tempo dalle capanne vicine arrivano disposte in fila altre megere
saltellando, e prima di entrare nel circolo delle contraddanze, tutte
devono stendersi al suolo. A circa dugento metri era il cimitero dove si
scavò la fossa: una cinquantina di uomini in doppia fila stavano davanti
a questa; dalla capanna partì il cadavere avvolto in panni bianchi,
portato su una barella e accompagnato da alcuni parenti e amici; il
figlio era fra questi e gridava e piangeva invocando il genitore, mentre
i più fedeli fra i suoi compagni lo andavano incoraggiando scuotendolo
con rozze maniere e quasi maltrattandolo. Quelli che stavano presso la
tomba andarono ad incontrare a mezza strada il convoglio e subentrarono
a portare il morto che, giunto innanzi alla fossa, vi fu deposto e
coperto con terra e grosse pietre, mentre a pochi passi si faceva il
sagrificio di un bue e nel tempo stesso si recitavano preghiere. Tutti
si riunirono poi in gran circolo presso il camposanto, e in onore del
morto divorarono le carni della vittima, ancora fumanti di vita.

Tranne qualche breve sosta, l'acqua continuò tutta la giornata, per cui
fummo obbligati di passarla tutta quanta inoperosi.

_Mercoledì 12._ Fino da buon mattino cominciamo a predicare che
assolutamente in giornata vogliamo partire, e il _naib_ vista la nostra
risolutezza, si adopera molto per noi, e ci procura i buoi e somari
necessarii. Ci voglion delle ore di noie prima di riuscire ad accordarsi
con questa gente pel prezzo di trasporto, e quando si crede che tutto
sia conchiuso, ecco che con un pretesto qualunque vi fanno tornare da
capo, un po' per differire la partenza, che è nell'indole loro di
rimettere sempre a più tardi quello che si deve fare, e un po' perchè
sperano che stancando così il viaggiatore, questi abbia a cedere e
finire col pagare qualcosa di più. Intanto grida, proteste, accordi, poi
nuovi rifiuti, consigli fra di loro che si raccolgono in circolo sotto
un albero, quindi nuove proposte, minacce, rottura completa di
trattative, poi ripacificazione, cose tutte che fanno perdere delle
intiere giornate, e farebbero scappare la pazienza al più santo dei
santi.

Il caricare buoi non è inoltre la cosa più facile, non avendo questa
gente i basti necessarii e non essendo questi animali troppo addestrati
a simile lavoro; quindi mentre si va preparando la carovana vedi un
gruppo di buoi che tranquillamente se ne stanno col loro carico sul
dorso ad aspettare il nuovo destino, un altro invece che se ne va per
tutt'altra direzione che la giusta, buoi che non vogliono sentirsi il
peso sul dorso e fanno ogni possibile per liberarsene, altri che fuggono
trascinando le casse, altri che le calpestano coi piedi o a colpi di
corna quasi a maledire l'incommodo: una vera confusione che farebbe
ridere, se non si pensasse al tempo che costa, e alle conseguenze che
possono avere simili maltrattamenti sulle provvigioni in cui molto si
confida.

E qui non credo inutile ripetere un consiglio a chi volesse
intraprendere simile viaggio, di procurarsi cioè a Massaua tutte le mule
necessarie alla carovana e rendersi così indipendente da questi mezzi di
trasporto noiosi, dispendiosi e poco sicuri.

Finalmente alle dodici e mezza partiamo noi pure in coda alla maggior
parte del bagaglio, lasciando due dei nostri a cura di quello che
restava. Si prosegue su terreno ondulato, avvicinandosi in direzione
ovest ai monti, fra folta vegetazione. Dopo un'ora siamo in un allargo
di vallata detto _Sabarguma_, dove il _naib_ e i condottieri dei buoi
vorrebbero fermarsi, ma i nostri servi trovano pericoloso il farlo per
le febbri, a causa dell'umidità della posizione; d'altronde ci pare
ridicolo far sosta dopo sì breve tappa, e facciamo quindi proseguire
tutta la carovana. Ci ingolfiamo nelle vallate, e cominciamo
un'ertissima salita: dai due lati foltissime foreste.

Il vecchio Desta, un abissinese nostro servo fin dai primi giorni che
giungemmo a Massaua, un bel tipo originale, sempre disposto allo scherzo
e pazzo per portare un fucile, cammina alla testa della carovana e ci
racconta le sue prodezze nell'ultima guerra, pretendendo aver fatto
saltare la testa a quattro soldati egiziani, portando, nel dirlo,
l'indice alla bocca poi al traverso della gola, quasi aggiungendo di
fare che l'eco non si ripercuota, per non averne tagliata la testa; ma
giunti al preteso confine abissinese, fece quattro capriole di gioia,
gridò forte le sue prodezze e fece un'invocazione alla sua patria, al
suo re, alla libertà. La pioggia comincia dirotta più che mai, e ne è
forza godercela in santa pace. Il nostro Desta pretende che un leone gli
ha attraversata la strada a pochi passi, ma lui solo riesce a vederlo, e
alla nostra buona fede a crederlo. La salita è ertissima, il sentiero
malagevole, pietre, tronchi, radici lo attraversano in ogni senso, e i
nostri pensieri corrono alle nostre casse che dovranno dar prova di gran
robustezza per rimanere incolumi. Alle quattro arriviamo su di un vasto
altipiano nel mezzo del quale piantiamo la tenda di Naretti, la prima
arrivata. Qualche bue comincia a vedersi, e per fortuna una cassa di
provvigioni, chè eravamo dalla mattina con un po' di latte. C'è la
cassa, ma la chiave la tiene l'amico Bianchi che restò alla sorveglianza
del bagaglio; ma la buona stella ci fa però trovare una chiave che si
adatta, e possiamo così pensare un pochino anche a ristorare le nostre
forze.

Altri buoi colla nostra tenda arrivano, ma Bianchi fedele alla consegna
restò presso alcuni buoi, che esausti, non poterono superare l'erta
salita. La notte si fa buja, piove, le foreste abbondano di leoni,
leopardi e jene, per cui siamo assai inquieti per la sorte del nostro
compagno. Vorremmo andargli incontro, ma il fanale è nella cassa, e con
questo buio fitto non vogliamo arrischiare di perderci tutti quanti: si
suonano le trombe, si sparano diverse fucilate, ma nessuna risposta.
Finalmente da un servo sappiamo che Bianchi sta fermo con quattro o
cinque altri uomini, e questo ci tranquillizza alquanto. Nello stesso
altipiano sono accampate due altre piccole carovane di mercanti che
vanno alla costa, per cui la notte abbiamo un bello spettacolo di tutti
i fuochi che nelle varie direzioni illuminano gli accampamenti e il
paesaggio circostante.

_Giovedì 13._ La pioggia ci lascia un po' di tregua, ma il sole è
coperto da nubi. Arriva qualche bue ancora, poi il nostro Bianchi che
passò la notte sulla strada, sdraiato su qualche cassa e completamente
esposto alla pioggia senza una briciola di pane. Lo rifocilliamo, e
subito scompare la tinta giallognola che le sofferenze avevano impressa
sul suo volto. Alle 10 arriva pure il _naib_, cogli accompagnatori dei
buoi che non vogliono proseguire, accampando nuove pretese che noi
incarichiamo il _naib_ stesso di appianare. Si portano sotto un grande
albero, presso il tronco stendono un tappeto pel _naib_, e tutti gli si
dispongono d'attorno accovacciati in circolo. Grandi discussioni poi
vengono a riferirci, tornano al parlamento, e finalmente si riesce ad
una combinazione accettabile; ma i buoi sono stanchi, e per oggi non si
può proseguire. Ce la passiamo dunque facendo un po' di caccia: l'erba è
folta e altissima e vi piove da parecchie settimane, per cui si può
pensare che magazzino di umidità abbiamo per letto. Ad onta di questo
però la salute nostra è buona, e solo qualche servo accusa un pochino di
febbre. Questa posizione è detta _Ghinda_, a circa 950 metri sul mare.

_Venerdì 14._ Il tempo è chiaro ed appena giorno si comincia a far
caricare i buoi che alle otto sono tutti partiti, e noi, salutato il
_naib_ che se ne ritorna, essendo qui già fuori dei confini della sua
giurisdizione, ci mettiamo in strada in coda alla carovana. Il sentiero
che seguiamo non potrebbe essere più pittoresco, il paesaggio che
attraversiamo grandioso e selvaggio: imponente poi ed originale la lunga
fila delle mule, buoi e somari con tutti i loro guardiani che li guidano
a forza di urli e di fischi, e la sequela dei nostri servi dei quali
ognuno porta un fucile, una lancia, uno scudo, una spada abissinese od
un altro strumento qualunque di difesa; non due vestiti ugualmente, per
quanto a metà perfettamente identici, perchè nudi. Chi una camiciola,
chi una pezzuola alla cintura, chi dei pantaloncini, chi un fazzoletto
rosso in testa, chi un _gilet_, alcuni con folte chiome, altri colla
testa rasa, saltavano, correvano, gridavano, di quando in quando
risuonava qualche colpo di fucile. Era uno spettacolo unico, impossibile
a dirsi.

Saliamo sempre: la vegetazione va continuamente crescendo, siamo
letteralmente fra due mura di verdura, e spessissimo entro una vera
galleria: foglie d'ogni forma, dimensione e colore, tinte svariatissime,
liane, fiori, alberi giganteschi, uccelli, scimmie che si arrampicano. A
diverse riprese attraversiamo un piccolo corso d'acqua ed alcune volte
facciamo strada del suo letto. In alcuni punti il suolo è di un verde
chiarissimo e lucente, e vi sono sparse piante dalle foglie di verde
cupo; ciò che colla luce del sole produce bellissimi effetti. Enormi
tronchi sporgono spesso sulla via e minacciano di rompere il naso a chi
non ha gli occhi bene aperti. La strada è un vero sentiero e nulla più,
dove nessun uomo ha rimossa mai la più piccola pietra. La causa di
questa folta vegetazione è l'essere questa una zona che partecipa alle
piogge della costa ed a parte di quelle dell'interno: le piante
principali mi parvero le acace, l'ulivo selvatico, le euforbie,
_crataegus_, lauri, papiri ed una miriade di fiori e foglie svariate.
Alle dodici e mezzo siamo a Madiet, un semplice allargo della valle che
percorriamo, e dove accampiamo, chè proseguendo, per lunga tratta non si
troverebbe erba nè acqua. Siamo a circa 1330 metri di elevazione. Verso
le due giunge la solita pioggia che dura pochissimo, essendo già vicini
al limite dove regna la buona stagione.

Dopo pranzo i condottieri dei buoi vengono avanti le nostre tende e ci
danno uno spettacolo di danza selvaggia: si dispongono su due file in
modo da formare un rettangolo aperto dal lato ove siamo noi, e mentre
tutti cantano una cantilena interrotta da battimani e gridi, due o tre
eseguiscono la danza inseguendosi nel rettangolo, camminando con strane
movenze, saltellando e facendo capriole: dopo qualche minuto, uno si
ferma e girando la testa si contorce con movenze muscolari
principalmente dei fianchi e delle spalle: parecchi allora gli si fanno
d'attorno, e saltellando e strillando gli stendono le braccia sul capo,
coprendolo di battimani. Così finisce una scena e ne principia subito
un'altra con altri protagonisti.

Fattosi buio, due dei nostri servi ci fanno una pantomima fingendo lo
_sciacal_ inseguito dal leone: per imitare questo ultimo un ragazzotto
si avvolse in quattro cenci, si aggiustò sul capo una pelle in modo da
far cadere i due orecchioni e si prese in bocca due bastoncini che
accesi all'altro estremo fingevano gli occhi, ed imitando il passo e il
grave respirare del re degli animali, percorreva il campo inseguendo il
povero cane selvatico che per paura abbajava.

Sono scherzi semplici per chi li legge, ma che hanno del grandioso e
dell'originale per chi li ha visti nel loro ambiente.

Due piccole carovane di mercanti abissinesi, fidenti forse nel detto
_l'unione fa la forza_, si sono unite a noi, per cui il campo è
estesissimo questa sera e rischiarato da dodici grandi fuochi, e nelle
mie ore di guardia mi godo un imponente spettacolo. Le nostre tende, il
bagaglio sparso in diversi punti, le capanne improvvisatevi d'attorno
dai servi con pochi rami e pelli, tutti i buoi, muli e boricchi
concentrati in diversi gruppi, i gruppi di beduini accovacciati attorno
ai grandi falò che illuminano la scena persa nella solitudine di una
valle, fra monti coperti da foreste abitate da fiere: in qualche
brigatella si canta, in altra si dorme, in alcune si balla e qualche
volta si alternano le danze ad esercizii di scherma, fingendo alcuni di
attaccare un nemico che si difende colla propria lancia e collo scudo,
facendo finte, assalti, retrocedendo, avanzando, inginocchiandosi per
essere coperto dallo scudo, fingendo cadere ferito per poi alzandosi
d'un tratto riattaccare di sorpresa il nemico, e di quando in quando
interrompendo questa fantastica scena con grida acute e con battimani.

_Sabato 15._ Appena giorno comincia la carica del bagaglio e alle otto
ci mettiamo noi pure in marcia. Cresce sempre, man mano ci innalziamo,
il fitto e il gigantesco della vegetazione ed aumentano pure le varietà:
vedo grandissime ortiche in fioritura, vaniglie, pelargonii, glicine, il
fico selvatico, molti aloe di diverse specie, l'agave filifera che dà il
filo vegetale, la fuxia comune ed una fuxia parassita che orna di mille
fiorellini rossi i tronchi dei grossi alberi dai quali succhia la vita,
_crataegus_, lauri, moltissime varietà di rubinie, opunzie, salvie,
_cereus_. Queste parvemi almeno di aver riconosciute, senza garanzia
però di non aver preso un granchio nel classificarle.

Ad un certo punto la valle ci appare quasi chiusa e ci arrampichiamo
sull'altura che pare contrastarci il passaggio. La salita è ertissima,
tale che bisogna spesso scendere dalle nostre cavalcature: il sentiero
sale a zig-zag fra foreste, e stupendo è l'effetto della lunga carovana
che lo percorre animando la scena selvaggia e del burrone che ad ogni
nostro passo aumenta dietro noi: guardando la strada che veniamo di
percorrere l'occhio si perde in un vero pozzo di verdura. Alle undici e
mezzo arriviamo al passo del colle, che si fa entro una piccola trincea,
il solo punto forse dove in tutta questa strada si veda traccia di
lavoro d'uomo, e ci si presenta un nuovo panorama: non l'imponenza dei
ghiacciai della Svizzera, non il grandioso delle nostre montagne
scoscese e rocciose e intarsiate da laghi o da corsi d'acqua, ma una
sequela infinita di monti conici che si vanno man mano innalzando, e
coperti tutti da dense foreste.

L'altezza del passo è circa 2500 metri. Discendiamo sul versante di
un'altura ed a circa mezzogiorno ritroviamo il resto della carovana
ferma in un punto detto _Machensie_, dove abbiamo la buona notizia che
per mancanza di acqua e erba, i buoi avrebbero ancora proseguito. Dopo
un po' di riposo ci rimettiamo quindi in marcia verso le tre. Altra
salita assai lunga e forte: la vegetazione meno rigogliosa, mancanza
quasi assoluta di vita animale. Dopo un'ora e mezzo siamo alla vetta di
un secondo passaggio di catena di monti ed entriamo nella provincia
dell'Amassen della quale ci profetizzavano mirabilia, ma troviamo invece
che tutto è bruciato e sterile in questo versante: rocce rosse per ferro
aggiungono ancora maggior forza all'aspetto deserto: ci si presenta un
villaggio e lo avviciniamo; è _Asmara_, in gran parte distrutto dal
fuoco durante un'ultima rivolta di questa provincia. A poca distanza
stabiliamo il nostro campo, dove subito accorre tutta la popolazione,
avanzo delle stragi infami, e chi per curiosità, chi per offrirci a
comperare qualche montone. Siamo qui a 2300 metri: lungo la via percorsa
devo notare il predominio delle euforbie che raggiungono proporzioni
alle volte colossali: portano fiore giallognolo, qualche volta rosso: fu
tentata la speculazione di raccogliere l'umore bianco che geme facendo
un'incisione al tronco, e che servirebbe per non so quale industria, ma
non se ne potè mai trarre bastante profitto.

Alla sera sorge un vento freddo che fa scendere il termometro a 10°, e
la notte è pure fredda e umidissima.




CAPITOLO V.

  Tracce della rivoluzione.--Visita al villaggio di Asmara.--La
  chiesa.--Cambio dei buoi.--Sistema di fare il
  pane.--Godofelassi.--Un compagno ammalato.--Arrivo del corriere
  reale.--Lettera di re Giovanni.--Guda-Guddi.--Il campo di
  battaglia.--Il soldato abissinese.--Un accampamento della
  carovana.--Il Mareb.--Tipi che ci accompagnano.--Arrivo in
  Adua.--Prima impressione.


_Domenica 16_ alla mattina non abbiamo che 4 gradi. In una girata di
caccia trovo poco da ammazzare, ma molto di ammazzato, chè le tracce
delle ultime rivolte di questa provincia sono abbastanza palesi dalle
ossa e dai cranii che stanno ancora sparsi sul suolo: In questa stagione
tutto è arido, l'aspetto generale è desolante. Essendo questo il primo
villaggio _assolutamente_ dipendente dall'Abissinia, riceviamo una
visita di un preteso direttore delle dogane che ci presenta del latte e
un montone, ed assicurato da Naretti che non siamo negozianti, ma
semplici viaggiatori diretti al re, ci dichiara esenti dai suoi diritti.

Più tardi vediamo avanzare al gran galoppo due cavalieri avvolti
nell'elegante manto bianco tagliato da una gran striscia scarlatta, e
seguiti da parecchi ragazzotti che correndo portano i loro fucili e i
loro scudi. Sono messi del governatore che desidera una nostra visita,
ma ce ne scusiamo per mancanza di tempo, abitando lui a circa tre ore, e
Naretti gli invia in regalo un parasole e un pacco di candele.

Vado al villaggio, che è tutto bruciato e solo resta qualche misero
avanzo di capanne costrutte con fango e paglia, abitato da povera gente
avvilita e macilenta. Sulla vetta dell'altura è la chiesa che ottengo
permesso di visitare. Per una porticina si entra in un recinto circolare
che serve da cimitero, e al centro sorge la chiesa rettangolare, bassa,
col tetto piatto, molto rozzamente costrutta con legni e pietre: sul
davanti un corpo più stretto forma quasi un peristilo murato negli
intercolonnii e racchiudente una piccola camera le cui pareti dipinte
con arte assai primitiva, rappresentano episodii di storia sacra, fra
cui spicca la Vergine e san Giorgio. Da questo si passa nel grande
ambiente diviso da grossi pilastri in tre navate, delle quali parte
della centrale è chiusa da muri e riservata alle funzioni religiose; il
resto pel pubblico. Qualche messale, semplici leggii in ferro, rozzi
tamburi, stavano ammucchiati in un angolo. La luce non entra che dalla
porta e da alcuni buchi praticati nei muri. Fuori della chiesa ad una
trave sostenuta da due tronchi, pendono legate con strisce di pelle da
bue tre pietre oblunghe: sono le campane, che percosse con altra pietra
producono tre suoni differenti ed acuti. È molto interessante questa
costruzione per la sua originalità, e perchè tanto internamente che
esternamente, colla differenza che passa fra un nano ed un gigante,
presenta per altro qualche analogia cogli antichi templi egiziani.

Dovendoci qui procurare nuovi buoi, siamo obbligati di passarvi tutta la
giornata sempre in continue contese.

    [Illustrazione: Campane abissinesi]

Abbiamo un guaio curioso fra i nostri servi, due dei quali sono
mussulmani e gli altri cristiani, e i primi non mangiano bestie
ammazzate dai secondi, e viceversa, e in un paese dove bisogna farsi la
propria _macelleria in casa_, c'è così sempre qualcuno che resta
digiuno. Anche le nostre provviste di pane sono esaurite, ed alcune
donne ci fabbricano il pane col sistema del paese, come vedemmo a Keren.
Le prime volte lo stomaco quasi vi si rifiuta, ma il condimento
dell'appetito finisce per far gustare molte cose che e da noi farebbero
ribrezzo.

_Lunedì 17._ Grandi noie ancora per i buoi che ci vengono rifiutati, ma
finalmente dichiariamo che le casse contengono regali pel re, e che se
si persiste a non volerle trasportare a prezzi onesti, partiremo soli
colle nostre mule, lasciando il bagaglio in consegna al capo della
dogana; faremo i nostri rapporti e il re obbligherà poi al trasporto
gratuito. Così potemmo decidere questi mascalzoni a caricare e alle
quattro la carovana era tutta in moto. Il terreno è leggermente
ondulato, poca vegetazione, solo moltissime agave cariche di fiori
giallognoli e rossastri.

Attorno a noi si stende una grande pianura interrotta da qualche lieve
altura, e allo sfondo bassi contorni di montagne. Dopo due ore, al
tramonto, ci fermiamo davanti al villaggio di _Aduguadat_. Un altro
villaggio avevamo passato a circa mezza strada: sono aggruppamenti di
capanne piantati sempre, per maggior difesa, sulle vette delle alture:
le costruzioni basse, a tetto piatto in terra, per cui difficilmente si
distinguono dal suolo sparso di rocce vulcaniche. La popolazione è
generalmente brutta, coperta da logori cenci, e solo raramente dal
pittoresco manto bianco e rosso: la loro tinta è il marrone: la testa
alle volte rasa completamente, alle volte solo in parte, oppure molto
originalmente pettinata, formando una sottilissima treccia che gira
tutta la periferia, e dividendo il resto in un'infinità di altre piccole
trecce che dal fronte scendono alla nuca, le donne; e in cinque grosse
trecce, egualmente disposte, gli uomini.

Dalla posizione di ieri siamo discesi una cinquantina di metri.

_Martedì 18._ Prima di partire, i condottieri dei nostri buoi vogliono
farsi il loro pane: divisa la pasta in bolle, nel mezzo di ognuna
introducono una pietra riscaldata al fuoco ottenuto con sterco vaccino
essicato, non essendovi legna, poi pongono sulla brage la bolla che
così cuoce esternamente ed internamente. Partito il bagaglio, alle otto
e mezzo ci incamminiamo noi pure. Per più di due ore si prosegue di
altura in altura, salendo e discendendo in modo da mantenersi in media
presso a poco allo stesso livello.

La vegetazione va leggermente aumentando: prevalgono acace ed ulivi,
torna qualche euforbia, qualche _cactus_, dei peschi selvatici. Verso le
undici siamo all'estremità di questo altipiano, e ai piedi della discesa
che ci sta davanti ci si presenta ancora una vasta pianura che ben da
lontano si vede chiusa da altri monti ancora: ai nostri lati profonde
vallate sempre collo stesso carattere. Ci è forza fare a piedi la ripida
discesa, e alle dodici e mezzo ci accampiamo al principio di questo
nuovo altipiano, ai piedi dell'altura su cui sta il villaggio di
_Sciket_, sotto un secolare ulivo. In complesso però fa molto difetto la
vita sì vegetale che animale, e da questo lato confesso che da quando
ponemmo piede nell'Amassen, ebbi una gran disillusione su questo paese:
speriamo che avanzando cambii, e torni conforme alle lusinghe. Il capo
del villaggio ci ingiunge di ripartire perchè tutte le nostre bestie gli
distruggono il poco di erba che ancora avanza; ma noi non ci muoviamo ed
è la sola risposta che gli facciamo avere. Siamo a circa 2050 metri.

La sera grandi fuochi, chè si pretende abbondino i leoni, che hanno però
il buon senso di non farci neppur sentire il loro ruggito.

_Mercoledì 19._ Alle sette e mezzo in cammino: sempre lo stesso
carattere, acace in pieno fiore ed un altro arbusto dal fiore odoroso
che tiene della dafne e del gelsomino. Per un breve riposo ci fermiamo
presso dell'acqua, all'ombra di un enorme sicomoro il cui tronco misura
dieci metri di circonferenza, ed i cui rami, scendendo fin quasi a
terra, formano un ombrello di centocinquanta metri alla periferia.
L'acqua è l'elemento che più manca in questo paese: mai se ne incontra
di limpida e corrente, e solo nei punti dove facciamo stazione ve ne è
qualche deposito in fondo a crepacci del suolo o ad avvallamenti: sempre
però acqua torbida, fangosa e puzzolente. Il terreno e le rocce sono
quasi sempre rossastre, ciò che prova la presenza del ferro: sparsi
infatti, sono dei rognoni ferruginosi, roccie quarzose e di quando in
quando bellissimi prismi basaltici. Strano è il carattere generale delle
alture, tutte a profili e strati orizzontali, interrotti solo nella loro
monotonia da qualche cono perfettamente regolare che si innalza qualche
volta immediatamente dal livello dell'altipiano, qualche volta invece
dal profilo orizzontale stesso delle alture che ci rinserrano.

Dopo la breve fermata abbiamo un'erta salita che ci porta ad un
villaggio abbandonato: l'ultima guerra civile, le stragi, le malattie
che ebbe per conseguenze, spopolarono quasi questa provincia altre volte
floridissima.

Lentamente discendiamo fra alture, ed attraversato ancora un altipiano,
accampiamo in località detta _Toraemmi_, a 1960 metri. Sulle alture
prevalgono sempre le euforbie, al basso l'erba essicata è ancora poco
meno di due metri d'altezza, ciò che lascia immaginare quanto di
splendido dev'essere questo paese subito dopo l'epoca delle piogge.

Ci si dice non esservi pericolo di fiere, per cui la sera tralasciamo la
guardia, ma dopo qualche ora di sonno un gran baccano ci sveglia, e
troviamo tutti in armi e in agitazione. Una banda di ladri venne per far
bottino, ma spaventata dal numero delle tende forse, e da qualche
fucilata, se la diede a gambe. Nessun altro incidente, nella notte,
fuorchè una jena che attaccò una mula, e il continuo gridare delle sue
compagne e dei sciacalli.

_Giovedì 20._ Per essere pronti a qualche agguato che ci possono aver
teso i galantuomini della notte scorsa, facciamo procedere la carovana
riunita e noi ci dividiamo alla testa, al centro e alla coda.

Sempre la stessa natura che offre poco di interessante e di piacevole:
quasi insensibilmente si va discendendo su terreno leggermente ondulato.
Raggiunto un vasto altipiano in gran parte coltivato a dura, alle dodici
e mezzo mettiamo il campo presso il villaggio di Godofelassi. La
popolazione viene in massa a circondarci, a spiare e mettere ad ogni
prova la nostra pazienza. Dapprincipio ci negano l'acqua per abbeverare
le nostre mule, ma colla fermezza otteniamo questa concessione.
Villaggio e abitanti sono il vero emblema della miseria. Le case sono
costituite da una siepe od un muro circolare alto poco più di mezzo
metro, e coperto da un tetto conico di paglia: mobilia nè attrezzi
niente; un disordine e un sudiciume superiori ad ogni credere: nel
centro del villaggio la chiesa, di costruzione eguale alle abitazioni,
ma più grande con una croce cofta al vertice del tetto, e circondata da
euforbie popolate da centinaia di piccioni che si ritengono sacri e che
nessuno oserebbe toccare. Molti di questi però, ignari d'un asilo tanto
sicuro, abitano le campagne circostanti, e ci forniscono un eccellente
pranzo.

I nostri _boari_ di Asmara finiscono qui il loro servizio e ci domandano
un prezzo enorme per proseguire, quindi sarà forza procurarcene altri e
perdere ancora almeno domani per le trattative.

    [Illustrazione: Dado interno di chiesa cofta abissinese]

_Venerdì 21._ Il villaggio visitato internamente è piuttosto vasto, ma
meschino, senza nessuna regolarità di vie. Ogni capanna o gruppo di due
o tre di esse è circondato generalmente da uno steccato; c'è pochissima
vita, nessuna industria: solo alcune donne mischiando fango a sterco e
paglia tagliuzzata, costruiscono dei grandi vasi a forma di botte, in
cui conservano le loro provviste di grano. Sono questi assai originali e
non meno pratici: costituiti da una serie di anelli dell'altezza di
circa 25 cent. ciascuno, man mano che la provvista di grano diminuisce,
si vanno levando anelli, impiccolendo così il contenente e rendendo più
comoda l'estrazione del contenuto.

La chiesa è originale: la croce che sta sul tetto porta agli estremi
delle sue braccia delle uova di struzzo; la circonda il cimitero
racchiuso da una cinta: la costruzione circolare; sul davanti la porta
d'entrata: il muro esterno alto circa due metri, e concentrico a questo
un altro muro, lasciando così un anello di spazio, largo un paio di
metri, pel pubblico. All'interno poi, ancora in muratura, un dado di
forse quattro metri di lato, riservato ai preti: le pareti tutte dipinte
come si può dipingere dove l'arte è meno ancora che bambina: sulla porta
l'Angelo della Giustizia, ai due lati la Vergine, san Giorgio, ornati e
putti.

Vedendo i fuochi fumare pensiamo alle casseruole, e in un breve giro di
caccia riportiamo una massa di piccioni, tortore, pernici di diverse e
stupende qualità, e lepri. Un reggimento di ragazzetti ci seguono
offrendosi a portare la caccia per avere le cartucce bruciate che per
loro sono qualcosa di splendido, come curiosità e come ornamento da
appendere al collo.

Mentre pranziamo alcuni bambini ci danno lo spettacolo di una finta
lotta, simulando attacchi e parate con tanta maestria ed atteggiandosi
con tanta eleganza e tanta disinvoltura, da ricordarci i gladiatori nel
circo, mostrandoci come sia innata in questa popolazione la passione del
maneggio nelle armi.

_Sabato 22._ Stiamo aspettando i buoi, ma arrivano invece soli i loro
padroni che ci invitano a preparare le casse ben divise e legate per
partire domani per tempo: per quanto strepitiamo bisogna rassegnarci
alla loro volontà. Alcuni che si pretendono autorità del paese vengono
di quando in quando, sempre seguiti dal servo che porta le armi, a
confabulare promettendoci la loro assistenza, ma tutto questo non per
generosità loro, ma per carpire qualche regaluccio. Non ho mai visto
gente più indiscreta, insistente e interessata di questa.

Una ventina di pretesi soldati, parte a piedi e parte a mulo, partono
per inseguire un ladro che si dice fu visto nei dintorni: sucidi e
laceri marciano nel più perfetto disordine: chi armato di fucile, chi di
lancia, chi di spada, tutti poco vestiti, ma tutti diversamente vestiti,
ricordavano insieme una mascherata e una compagnia di banditi.

È frequente un cespuglio spinoso, a foglia grigia, elegante, coperto da
fiori gialli, e leggermente odorosi, che dal nostro dizionario pare
dovrebbe essere un _cheirantus_.

Originali sono degli ombrelli di paglia intrecciata, piatti, di circa 60
centimetri di diametro, portati da un bastone infitto al centro, dei
quali usano, con tutta serietà, i più rispettabili capi di famiglia e
spesso i preti per difendersi dal sole.

_Domenica 23._ Di buon mattino si comincia a veder arrivare qualche bue,
ma i loro padroni accampano nuove pretese, dicendo le casse più pesanti
di quanto credevano, volendo essere pagati anticipatamente, e così
gridano, strillano, questionano, che davvero sarà benedetta la mano che
userà lo staffile o meglio un po' di corda con questa gente senza buona
fede, inerte, indolente, cattiva. Finalmente si riesce a caricare, ma
siamo alla solita storia dei buoi cattivi, e persino il buon Naretti
perde la pazienza quando vede andar a rotoli due delle sue casse e farsi
una vera insalata delle sue biancherie coi vasi di legumi e conserve che
aveva custodite con ogni riguardo, facendosi una festa di assaporarle
forse fra qualche anno. Montiamo noi pure a mulo, ma il Tagliabue,
indisposto da un paio di giorni, è impotente a reggervisi, la testa gli
gira, la vista gli si confonde, grida che è cieco, che cade, l'occhio ha
vitreo, il viso si fa verde, bisogna prenderlo giù di sella e sdraiarlo
per terra. Dopo qualche riposo si tenta e ritenta la prova, ma sempre
di male in peggio. Cerchiamo in paese un _angareb_ per trasportarlo, non
se ne trova; si fanno patti allora con otto uomini che costruiscano una
lettiga e pensino a portarlo. Molto male, ma la lettiga si fa; ma questi
mascalzoni pretendono essere pagati prima di partire. Le casse coi
talleri sono già avanti, quindi lo facciamo dire promettendo pagare la
sera: non accettano e noi ordiniamo ai nostri servi di prendere la
lettiga, ma questi vigliacchi alzano i bastoni sui nostri servi.
Fortunatamente Naretti giunse ad appianare la questione che per poco
avesse continuato finiva colle fucilate. Dovemmo però lasciare la
lettiga, e il nostro malato proseguì parte a piedi, parte a mulo, sempre
sorretto da alcuni servi.

Proseguiamo nell'altipiano, passiamo qualche altura e dopo un paio d'ore
vediamo issate le tende: sono i servi che visto il nostro ritardo,
pensando stesse male il nostro compagno, fecero _alt_. Non dobbiamo
essere molto discosti dall'abitato, perchè v'è coltivazione, ma villaggi
non si vedono. La posizione è detta _Anahaiella_.

_Lunedì 24._ Il Tagliabue non è in grado di montare la sua mula ed in un
posto isolato come questo è impossibile tener ferma la carovana in
attesa di un miglioramento che non si sa quanto potrà farsi aspettare.
Combiniamo quindi coi pali delle tende ed una amaca, una spece di
barella nella quale lo adagiamo e lo facciamo trasportare da quattro
servi. È triste trovarsi in simili circostanze, e vedere un giovane pel
quale si ha stima ed affezione, pieno di speranze e di attività pochi
giorni prima, ridotto in tale stato, senza possibilità di prestargli
quelle cure che l'amicizia suggerirebbe e il caso richiederebbe, e
pensare alle tristi conseguenze dell'avvenire.

La carovana procede lenta e silenziosa, le difficoltà del terreno
rendono maggiormente penoso il trasporto pei portatori e pel povero
ammalato pel quale ogni scossa è uno strazio, e per conto mio, dico il
vero, non poteva guardare quella barella senza sentirmi spuntare le
lagrime, e rattristare da una folla di pensieri che amareggiavano ogni
ora più questa giornata.

Ci andiamo insensibilmente innalzando su un piano inclinato, alla fine
del quale una forte discesa ci porta in altro altipiano. Sempre la
stessa natura, poche piante e in gran parte acace, fieno altissimo: di
quando in quando qualche tratto dove l'evidenza del ferro si oppone a
qualunque vegetazione. Verso mezzogiorno troviamo la testa della
carovana ferma in un punto detto _Adicasmu_, presso la prima palma che
mi è dato incontrare in questo paese: esile, ma ricca al piede di
numerosa famiglia, forma un gruppo elegante e pittorico che vedo con
piacere come tipo di vecchia e simpatica conoscenza. La tappa fissata
per oggi sarebbe più avanti, ma non vi troveremmo legna, per cui
acconsentiamo a fermarci qui, colla promessa di acquistare domani il
tempo perduto.

Verso le cinque arrivano tre cavalieri, che entrano nel nostro campo,
scendono di sella e si presentano a Naretti. Sono latori per
quest'ultimo di una lettera di re Giovanni che dovevano portargli fino a
Massaua: tutti accorriamo, appena si sparse la notizia, a sentire delle
nostre sorti, e la signora Naretti ci fa da interprete. La lettera
presso a poco suona così:

«Mando il buon giorno a te ed ai tuoi amici.

Io non sono il padrone di questo paese, che appartiene a Dio, e solo mi
è concesso di governarlo: tutta la gente buona è quindi libera di
entrarvi. Ho avuti molti altri bianchi, ma ho dovuto persuadermi che
fanno molte promesse e mantengono poco, per finire poi ad immischiarsi
negli affari religiosi, ciò che io non tollero, perchè stimo buona la
religione del mio popolo e non voglio che la cambii. Ma questi sono
italiani come te, e tu sei tanto bravo e onesto che i tuoi compatrioti
devono esserlo pure loro. Siate dunque i benvenuti.»

Nella sua semplicità questa lettera non poteva essere più cordiale, e
lusinghiera per noi. Il povero Naretti ne era commosso e le lagrime gli
spuntavano dalla consolazione: era un vero trionfo per lui, e può
seriamente gloriarsene e compiacersene. Noi ne fummo felici e per
Naretti, e per l'avvenire nostro e pel decoro del nome italiano. Per
quanto bene dica, non riescirò mai a dare una idea della lealtà del
carattere, dell'abnegazione a nostro riguardo e della stima che seppe
accappararsi in paese il bravo nostro Giacomo Naretti, e in nessun modo
potrò esternargli la mia riconoscenza per quanto ha fatto per me e per
la spedizione tutta. E questa riconoscenza sento che vorrei pure
esternarla al bravo suo fratello Giuseppe che ora venne a stabilirsi in
Abissinia, e alla signora Teresa moglie a Giacomo, che ci fu pure
compagna di viaggio, sempre così cortese con noi, e che tanto mi fu
utile per cento e cento informazioni. Figlia ad una abissinese e ad un
europeo, prese dalla madre una leggera tinta delle donne del paese e dal
padre i germi di civiltà che in terreno così vergine trovarono campo
propizio allo svilupparsi con tutto il rigoglio di una vegetazione
tropicale. Ella è colta, è gentile, parla quattro lingue del paese e due
europee, ha il coraggio di tentare tutto e in tutto riesce, è una vera
perla pel bravo Naretti. E tutto questo seppe diventare per esuberanza
di talento e per forza di volontà, senza aver mai messo piede fuori dal
suolo abissino, su cui nacque.

_Martedì 25._ Partiti alle sette e mezzo, dopo un'ora passiamo il
villaggio di _Adi-hualala_, meschino come gli altri tutti. Qualche lieve
altura, poi avanziamo al centro di un altipiano in cui va sempre più
diminuendo il carattere di sterilità, e vi si vedono sparsi grossi
_ficus dealbata_.

Dietro noi si svolge un estesissimo panorama di tutto il paese che
abbiamo attraversato. Giunti ad un certo punto ci troviamo quasi per
sorpresa al limitare di un precipizio: siamo sull'estremo spigolo
dell'altipiano, che finisce con una vasta parete semicircolare e quasi
verticale di colonne basaltiche: ai due lati le due braccia si
protendono per finire pure a scaglioni perpendicolari e rinserrare una
specie di anfiteatro che sta sotto i nostri piedi: al fondo vediamo del
verde, dei gruppi di grossi alberi, all'orizzonte si svolge un
vastissimo panorama che finisce colle vette acuminate dei monti di Adua
e di Axum. Per un malagevole sentiero discendiamo a piedi fra i crepacci
e i gradini dei prismi basaltici: passato questo periodo prettamente
roccioso, andiamo ancora qualche poco discendendo su terreno misto
vegetale e roccioso, in cui ben poco alligna tranne qualche acacia,
finchè ci troviamo perfettamente al fondo del ciclopico anfiteatro.

La vegetazione vi è abbondante: incontriamo ossa umane e teschi in
quantità, e questo ne indica che ci avviciniamo al campo di battaglia di
_Guda-Guddi_, dove or fanno tre anni fu completamente distrutto il corpo
egiziano comandato da Ratif-bey, che tentò invadere l'Abissinia con poco
più di quattro mila uomini. Percorsa presso a poco la stessa nostra
strada, lasciò una retroguardia di cinquecento uomini, portò il grosso
delle truppe nel punto ove oggi mettiamo le tende e lo accampò fra
immensi blocchi di granito formandosi quasi una trincea di questi e di
tronchi spinosi, e spedì in avanti un piccolo corpo a ricognizione.
Giunto questo nelle vicinanze del Mareb, incontrò le prime truppe degli
Abissinesi che forti di circa 20,000 uomini si erano mossi contro
l'esercito invasore.

Ebbe luogo una scaramuccia che fece poche vittime perchè gli Egiziani si
ritirarono sopraffatti dal numero e obbligati di portare al quartiere
generale la notizia della vicinanza del nemico. Dal canto suo questi
ubbidì pure a sì elementare principio di tattica, e tutto l'esercito
guidato da re Giovanni mosse a marcia forzata verso Guda-Guddi.

    [Illustrazione: Fac-simile di disegno eseguito da un artista
    abissinese]

Gli Egiziani erano bene armati, disciplinati, comandati e istruiti da
ufficiali europei, possedevano anche cannoni; gli Abissinesi invece
avevano pochi fucili, vere anticaglie, lance e sciabole alquanto rozze,
ma erano animati dalla voce risoluta del loro sovrano, spinti dall'odio
contro chi quasi in segno di sprezzo li aveva così aggrediti, accecati
da fanatismo religioso.

La lotta fu terribile, e finì con un massacro, non con una vittoria. Non
si calcolano le vittime da parte dei vincitori, basti dire che degli
Egiziani sette soli riuscirono colla fuga a raggiungere la retroguardia,
uno solo dei feriti potè nascondersi e guarito vive ora in Adua, temendo
un troppo severo castigo se tornasse in patria. Nè prigionieri nè feriti
furono rispettati, tutto quanto fu trovato facesse parte del nemico si
passò a fil di spada. Trattandosi di mussulmani, questi fanatici
cristiani non vollero concedere l'onore della sepoltura, ed anche oggi
tutto il campo è seminato delle miserande reliquie di questa fatale
giornata. Al centro della trincea, dove era radunato lo stato maggiore
difeso da una batteria, le ossa, i teschi, i resti dei cavalli coprono
letteralmente il terreno, mostrando come si possano calpestare i più
sacri principii di una religione, quando questa sia male interpretata o
faccia velo alla ragione col fanatismo.

Profano nell'arte militare, bisogna però che convenga come sia stato
imprudente e insieme ardito il dirigere un corpo di soldati attraverso
un paese come questo, dove mancano strade, indicazioni, comunicazioni,
dove la natura lo rende doppiamente difficile pel nemico, ma altrettanto
propizio a chi vi ha l'abitudine, ostile per di più, privo affatto
d'ogni risorsa e del più necessario alla sussistenza, dove scarsissima è
persino l'acqua, e la poca che si trova, sempre cattiva. Irragionevole
poi, mi permetto di dirlo dopo aver visitata la località, di far
sostare la truppa laddove da tre lati, alle spalle e ai fianchi, era
completamente serrata ogni ritirata dalle pareti verticali basaltiche,
restando aperto solo il fronte, da dove si poteva, come avvenne,
aspettarsi l'attacco nemico.

Il soldato abissinese ha un modo curiosissimo di battersi: al momento
della mischia si sbarazza generalmente di tutto quanto porta con sè,
spesso anche del fucile, preferendo l'arma bianca: colla spada al
fianco, una o due lance nella destra e lo scudo nella sinistra,
difendendosi con questo, quasi strisciando e passando da una pietra
all'altra, da un albero all'altro, facendo difesa al proprio corpo di
tutto quanto incontra, si porta fino a venti o venticinque metri dal
nemico. Coglie allora il momento opportuno, si alza, getta con tutta
forza le proprie lance, chè in questo è maestro, e approfittando del
momento di confusione che questo nuvolo di lance produce nelle file
ordinate del nemico, in due salti gli è addosso e colla sciabola lo
assale a grandi fendenti. La maggior parte dei teschi che vedemmo
avevano infatti la ferita trasversale all'altezza dell'orecchio. È una
manovra difficile se si vuole, ma terribile e che può praticarsi da chi
è dotato di gran sangue freddo, ha poco attaccamento alla vita, ed è
spinto da una forza misteriosa che al pensiero della vita futura gli
rende cara la morte se guadagnata col sangue di un nemico nella fede.

Sul campo di battaglia, presso alcuni pozzi di acqua verde, puzzolente e
fangosa, a poca distanza dal villaggio di Gundet, piantammo le nostre
tende verso le dodici e mezzo, a circa 1700 metri di elevazione.

I nostri servi credettero fare dello spirito, sfogare forse un po'
ancora della loro ira, forse anche procurarci spettacolo grato, col
mettersi a giuocare alla palla ed inseguirsi gettandosi dei teschi, come
fossero pallottole di neve, ma invece dei nostri applausi s'ebbero una
buona lezione di carità cristiana.

_Mercoledì 26._ In Gundet è impossibile trovare quadrupedi pel trasporto
della nostra roba. Proponiamo quindi agli stessi che vennero fin qui di
proseguire: alcuni acconsentono ad accompagnarci ma solo fino ad una
giornata da Adua, altri si rifiutano recisamente. Come al solito nascono
mille difficoltà chè pare che le casse siano divenute più pesanti, e si
perdono delle ore in chiacchere e questioni inutili. Baramascal, il capo
dei servi, addetto al bagaglio, ci mette tutta la sua pazienza e la sua
voce, accetta i buoi che vogliono proseguire, trova qualche buricco e
qualche portatore e riesce così di combinare tutto. Fra noi, i Naretti,
e qualche altra piccola carovana che ci segue sperando trovare nella
nostra compagnia maggior sicurezza, abbiamo almeno un centinaio di buoi,
muli e buricchi, una quarantina di indigeni che accompagnano questi
animali col bagaglio, una trentina di servi ed altrettanti portatori. La
carovana è ben numerosa e stupendo lo spettacolo sia della marcia, sia
dell'accampamento. Appena si giunge alla tappa è un vero formicaio di
uomini e di animali. Chi scarica il bagaglio, chi pensa a radunarlo: gli
animali intanto, sollevati dal noioso peso se ne vanno pascolando: chi
subito si mette in cerca di fieno per tenerli tranquilli la notte, chi
se ne va colle pelli al vicino pozzo a prender acqua, chi a far della
legna, alcuni piantano le tende, altri accende il fuoco, quello fra noi
destinato alla cucina s'accinge subito al lavoro, i suoi assistenti lo
aiutano a scorticare qualche lepre o spennare pernici, altri vanno in
cerca di nuove vittime, i servi sgozzano il bue o il montone destinato
alla giornata, quando c'è, le donne attorno ai fuochi s'accingono subito
a fare il nostro pane, i servi fanno il loro, gli indigeni che
accompagnano i buoi il loro; chi cuce, chi rade la testa al compagno,
chi applica il ferro rovente a qualche povera mula piagata, chi si sta
liberando da molesti abitatori. Appena fa buio si richiamano tutti i
quadrupedi che si legano nell'interno dell'accampamento, all'ingiro si
accendono enormi fuochi e attorno a questi stanno accovacciati i diversi
gruppi dei nostri seguaci, poi sorgono le voci di quelli che se la
passano colla solita cantilena, poi il ballo o fantasia degli indigeni.
È una continua lanterna magica di quadri e costumi, cui va aggiunta
l'imponenza e l'originalità che non può dare che il pennello di madre
natura.

In coda alla carovana, alle due, partiamo noi pure: le colline si fanno
un po' più alte, l'aspetto generale assume un po' più l'imponenza delle
montagne: il carattere di sterilità va diminuendo, e di quando in quando
l'occhio trova a riposarsi su qualche masso verde: i profili delle
alture che si disegnano all'orizzonte sono mossi e artistici e non più
tanto bassi, orizzontali o quasi geometricamente conici e altrettanto
monotoni, come nei giorni scorsi. Proseguiamo di collina in collina:
sulle creste delle circostanti qualche capanna conica che dà indizio di
piccoli villaggi: di tempo in tempo qualche colonna di fumo infuocato si
innalza nell'atmosfera: sono praterie incolte e secche che i nativi
incendiano per concimare il terreno colle ceneri e disporlo a ricevere
l'anno dopo qualche seme di dura. Allo svolgere da una altura che
andavamo salendo sulla costa, ci si presenta come incorniciato dai
profili dei pendii di due altre alture che si incontrano a valle, uno
stupendo panorama delle montagne d'Adua: fiere parevano innalzare il
capo nell'atmosfera, superbe di trovarsi giganti fra la miriade di
colline che sotto loro formavano come un mare agitato: vette acuminate,
creste frastagliate, pareti all'apparenza rocciosa e dirupata, mi
richiamavano le care Alpi e la loro maestosità. Discendiamo lungamente
ed aspramente per uno dei soliti sentieri dove ad ogni passo v'ha da
rompersi le ginocchia contro le punte di granito sporgenti, o da cavarsi
un occhio colle spine delle acace che qui crescono fitte come gramigna.
Finita la gran discesa seguiamo per qualche tratto il letto di un
piccolo torrente, poi una lieve altura, poi altro torrente, e nei campi
vicini troviamo sparsi gli avanzi umani che stanno a memoria della prima
scaramuccia avvenuta fra Egiziani e Abissini. Attraversata ancora una
campagna coltivata a dura, scendiamo nel letto del Mareb che presenta
ancora tutte le tracce abbastanza recenti del passaggio dell'acqua, che
ora è limitata a pochissima quantità che scorre per qualche tratto per
poi sprofondarsi nelle sabbie e ricomparire più a valle. Le sponde
coperte da bellissima vegetazione, piante gigantesche, specialmente
acace e _ficus dealbata_, oltre una massa di piccole piante, cespugli,
fiori, liane. Molta caccia trovammo laddove scorreva l'acqua, e la
cucina ne fu subito ben fornita. Piantammo il campo alle sei a circa
1320 metri di elevazione: la posizione per sè ed un bellissimo chiaror
di luna lo resero ancora più bello, più grandioso, più fantastico del
solito.

_Giovedì 27._ Di buon'ora i buoi sono carichi, talchè anche noi alle
6-1/2 partiamo. Sempre si attraversano brevi altipiani rinserrati da
alture che si oltrepassano per portarsi dall'uno all'altro: poche tracce
di coltivazione e qualche misera capanna sono i soli indizii della vita
e della attività di questo paese. Finalmente abbiamo la fortuna di
attraversare un pajo di corsi d'acqua, dove poca e lenta, ma limpida, ne
scorre. Alle nove troviamo la carovana fermata sotto un enorme sicomoro,
che coll'ombra de' suoi giganteschi rami tutta la protegge dai raggi
cocenti del sole: vi facciamo la nostra colazione; le armi appese al
colossale tronco, e di noi chi sdrajato al suolo, chi seduto sulle
sporgenti radici, chi appoggiato a qualcuna delle nostre casse. Era un
quadro impossibile a descriversi come mi sarà impossibile dimenticarlo.
Gli uomini dei buoi adducono mille ragioni, fra cui che devono cercarsi
farina ad un villaggio vicino, tutte scuse per non proseguire. Meno male
che quel piccolo corso d'acqua, per quanto meschino, dopo tanta siccità
mi ravviva, mi rianima e vi passo vicina buona parte della giornata,
cacciando cento varietà di bellissimi uccelli, fra cui delle oche
selvatiche assai grosse, e stupende per colori. Su un albero mi fecero
sorpresa due grossi nidi sferici, del diametro di circa un metro,
coll'apertura di forse venti centimetri, rivolta al basso.

Il forte della nostra carovana è tolto dalla più miserabile classe della
popolazione della provincia dell'Amassena che è limitata appunto dal
corso del Mareb, e, come passando in altre provincie, tipi e costumi
possono variare, è meglio dirne ora qualcosa. Sono figure snelle,
robuste, dall'occhio ardito, dalla tinta cioccolata: indolenti ma capaci
e pronti a sopportare fatiche e strapazzi quando l'occasione se ne
presenti: facili piuttosto alla contesa, ma che prolungano con gridi e
discussioni, venendo difficilmente alle mani. Sopportano qualunque
insolenza, qualunque osservazione si rivolga loro, ma guai a chi alzasse
su loro una mano: sempre coperti, o meglio avvolti in un cencioso
lenzuolo che gira attraverso alla cintura, e spingono su una spalla e
alle volte fin sulla testa. Lo chiamano _scemma_: i benestanti lo
portano bianco attraversato da una grossa riga scarlatta, ed allora è
elegante e pittoresco quanto mai, ma il povero sopprime il rosso perchè
più costoso, e lascia il bianco diventar tutt'altro colore per
economizzare la lavatura, per cui perde quasi tutto il suo carattere.
Marciano scalzi, rare volte con sandali: portano la lancia, se lo hanno
un fucile, lo scudo in pelle da ipopotamo, spesso un rozzo spadone,
quasi sempre una grossa clava che serve pei buoi: qualche anello con
amuleti in pelle al braccio, alle volte qualche anello d'argento alle
mani. I capelli generalmente rasi o corti, spesso le orecchie bucate e
passate da un semplice filo annodato. Le abitazioni sono capanne
conico-circolari costrutte con tutta la semplicità e la miseria
possibili: all'interno non hanno nulla, tutto al più qualche _angareb_
fisso al suolo, in legno, o fango e pietre: i più cuocciono il pane, che
è quasi solo loro nutrimento, come già vedemmo, colla pietra calda al
centro, alcuni hanno per questo uso una piastra in ferro leggermente
concava. Altri utensili domestici non hanno. Solo si costruiscono rozzi
vasi in terra, in forma d'anfora, entro cui conservano burro e miele.
Colle pelli di capra e montone formano sacchi entro cui conservano
farina, grano, sale, acqua e tutto quanto. Riempite di paglia servono
come basto per buoi, muli o somari, sono la loro valigia quando
viaggiano, le loro casse per mettervi le mercanzie quando vanno al
mercato; se ne coprono alle volte le spalle o le avvolgono alla cintura
per tutto costume. Stendono le pelli di bue per dormirvi e difendersi
dall'umido e dagli insetti, se ne riparano dalla pioggia, vi mettono al
coperto le loro masserizie o la roba che trasportano per forastieri, le
stendono nella sabbia facendovi un'infossatura per raccogliervi acqua o
per lavarvi, le tagliano a strisce per farne cinghie che per loro sono
corde, le stendono su telaj di canne per farne le porte delle loro
abitazioni. Insomma non si finirebbe di enumerare gli usi cui sono
destinate le pelli in questo paese, ed è sorprendente come se ne sia
cavato tanto profitto.

_Venerdì 28._ Si prosegue fino al fondo dell'altipiano, poi prendiamo a
salire lungo la costa di una catena di alture, passandone di quando in
quando alcune per poi discendere nel vallone che le separa da altre e
salire a queste. I passaggi principali furono a 1550 metri il primo, a
1600 il secondo, poi a 1750 e l'ultimo a 1850. Raggiunta la vetta di
questo, ci si stende ai piedi un esteso bacino di piccole alture e lievi
avvallamenti, il tutto coperto da boscaglie. Discendiamo qualche poco e
verso le undici troviamo i primi muli fermi e accampati sotto una acacia
secolare, presso il villaggio di Derataclé, a 1800 metri. La via d'oggi
è delle più faticose, perchè le salite e le discese si succedono senza
tregua, e spesso il sentiero corre poco meno che verticale su pietra a
nudo, e sempre ingombrato da rami, radici, pietre sporgenti, che
l'attraversarlo sani e salvi è quasi miracolo, e spesso si è obbligati
far deviare le mule e i buoi o levarvi il carico perchè possano passare
attraverso simili ostacoli. La vegetazione è abbondante ma non
grandiosa, predominando gli arbusti, le boscaglie, interrotte a quando a
quando da ficus dealbata o da grosse acace che elegantemente si
innalzano ad ombrello. Oltre l'ultima altura solo riappare l'ulivo
selvatico, il pesco ed il fico. Abitazioni scarsissime e sempre
rifugiate sulle più alte vette per non essere tormentate dai passanti e
fuori d'ogni pericolo d'aggressione in tempo di guerra. Ci sono guida a
sud le acuminate vette dei monti di Adua, e noi andiamo girando verso
ovest e sud-ovest per raggiungerle, evitando di sorpassare direttamente
i più alti colli che per la linea più breve ne separano. Al campo
troviamo alcuni soldati spediti dal governatore di Adua per incontrarci
e facilitarci il trasporto delle nostre casse: i condottieri dei buoi
intanto, timorosi che colla forza potessero essere costretti a
proseguire _gratis_, più che in fretta se ne tornarono indietro,
lasciandoci un'altra volta nell'imbarazzo di doverne trovare dei nuovi.
Arriva il capo del villaggio sulla sua mula, accompagnato da un paio di
aiutanti e seguiti dai soliti ragazzotti che portano le armi. Grandi
inchini e complimenti a Naretti che pare sua vecchia conoscenza; quindi
una sequela di promesse, come al solito però seguite da una fila di _ma_
e _se_ e di considerazioni sull'annata poco ricca di raccolti. È strano
il saluto fra Abissinesi che si rivedono dopo qualche tempo d'assenza:
si toccano replicatamente le mani ripetendosi il _buon giorno, come
state_, poi si stringono l'un l'altro per appoggiare labbro a labbro e
darsi con tutta delicatezza una buona dose di baci. Verso sera ci arriva
dal villaggio, in parte a titolo regalo d'amicizia, in parte perchè
comandati dal governatore, un vaso di miele, una capra, quaranta pani.

_Sabato 1º marzo._ La solita questione del bagaglio ci fa perdere
ancora una giornata. Adua deve essere a poche ore, ma in questo paese
non si può mai sapere nulla di preciso o di positivo, e mentre alcuni ce
la dicono vicinissima, altri ci dicono che non potremmo arrivarvi in una
sola tappa. Pare però dal consiglio dei più che a gran distanza non
debba essere, quindi stabiliamo di mandarvi le nostre mule col più
necessario del bagaglio, dando ordine ai servi di ritornare l'indomani
mattina prima di giorno coi quadrupedi che devono servire al nostro
ingresso. Lasceremo il bagaglio qui affidato ai soldati che penseranno a
farcelo avere. Nella giornata intanto, a rompere la monotonia, arriva
qualche altro capo dei villaggi vicini, col solito seguito, e spesso ci
offrono del _tecc_, il loro vino, portato entro gigantesche corna da bue
rivestite in pelle, e servito in bicchieri pure di corno.

La sera ci portano miele, una capra e cento pani.

_Domenica 2._ Siamo inquieti pei nostri muli che si fanno aspettare;
senza questi è impossibile partire e in questi paesi siamo ormai
persuasi che in fatto di ritardi bisogna aspettarsi qualunque
mostruosità. Intanto arrivano piccole squadriglie di indigeni destinati
al trasporto del bagaglio. Verso mezzogiorno finalmente possiamo
metterci in marcia tutti quanti: la strada malagevole, la natura sempre
la stessa; solo più frequente si incontra qualche tratto di terreno con
tracce di coltivazione. Andiamo girando da sud-est a sud e sud-ovest per
raggiungere la nostra meta dei monti rocciosi, che di quando in quando
ci appaiono, se non nascostici da qualche vicina altura. Si sale e
scende per sentieri impossibili, tendendo però generalmente al salire,
talchè si arriva a 2150 metri circa per principiare poi la discesa lungo
la costa di una catena di alture.

Quei benedetti monti pare si vadano allontanando davanti al grande
desiderio di raggiungerli per vedere questa sospirata Adua, della quale
ci dicono meraviglie, ma che nessuno ancora sa precisamente indicarci
all'ombra di quale vetta sia piantata. Cinque o sei si vedono elevarsi
a catena che forma un anfiteatro aperto ad ovest, ed entro cui, vedemmo
poi, siede la sospirata capitale. Uno, più ad ovest, sta come a
sentinella avanzata degli altri, e si eleva quale piramide triangolare,
superbo quasi del suo isolamento, da ricordare l'elegante e ardito
profilo del Cervino; l'illusione fugge però subito che si osserva ai
piedi uno sterile suolo invece di quel mare di ghiaccio tanto ricco di
bellezze e di imponenza. Passiamo presso il piccolo villaggio di
_Adi-Abuna_, artisticamente piantato sul pendio di un'altura, e qui ci
vengono ad incontrare una quindicina di cavalieri che formano un gruppo
alquanto pittoresco. Sono amici di Naretti, spinti dal desiderio
d'essere i primi a dargli il benvenuto. Ritorna qualche euforbia e
appare qualche palmizzo. Ancora una mezz'ora ed ecco le prime case di
Adua. Non aspettavo certo una gran città, speravo anzi che vi fosse
tutto il caratteristico di questi paesi, ma immaginavo un bel paesaggio
e me lo avevano descritto ricco di corsi d'acqua e sparso di fresca
verdura: invece disillusione completa. Confesso che poche volte provai
una sensazione così triste, così sconfortante, e la lessi in viso
condivisa dai miei compagni. Solo in parte si presenta il panorama della
città che sta disposta sui pendii di diverse alture: le case basse,
pochissime hanno una camera superiore, la maggior parte sono tugurii
circolari col tetto conico in paglia, alcune rettangolari con piccole
aperture, il tetto piatto e coperto con terra su cui cresce l'erba come
in una prateria, e alle volte persino qualche arbusto. I tetti si
confondono quindi col suolo, i muri sono impastati con fango, quindi
sono pure all'unisono col pavimento naturale. Qualche pianta che
potrebbe dar vita alla monotonia della scena, sta invece intisichita per
mancanza di pioggia e coperta di polvere: quasi nessun abitante che dia
animo a questo triste quadro. Dal lato da dove arriviamo, incassato in
una fenditura scorre un torrente che attraversiamo a guado per entrare
dall'altro lato, salendo l'altura, nelle vie della città. Peggio che
mai; il più meschino dei nostri villaggi di montagna è una Parigi al
confronto: case disabitate e cadenti, tetti rovinati, carcami di ogni
sorta d'animali che ingombrano ad ogni passo la via, l'eco di morte che
pare risuoni ad ogni porta, un vero disastro, una seconda Pompei per lo
squallore, senza il bello artistico, ma colle tracce recenti della
catastrofe. Ma non precipitiamo un giudizio sotto la prima impressione,
e così tutti taciturni e avviliti arriviamo alla casa di Naretti, dove
abbiamo squisita accoglienza ed un pranzo fatto preparare dai suoi servi
che l'aspettano, e al quale ci sentiamo di far molto onore.

Fra i tipi abissinesi, amici di Naretti, che lo circondano, lo baciano e
ribaciano e ci danno così nuova testimonianza della stima e
dell'affezione che questo buon piemontese ha saputo acquistarsi in
questo paese, spicca un tipo europeo che fa magnifico contrasto, e ancor
più che sugli altri, sul suo viso, che porta l'impronta di recenti
sofferenze, s'illumina quella scintilla di gioja che svela un profondo
contento. Ha un'espressione di bonarietà ad onta della capigliatura e
della barba semi-selvagge: piuttosto tozzo nelle proporzioni, veste
abiti neri rappezzati o cuciti con filo di ben altro colore, dei bottoni
non restano che le tracce e ne fanno le veci delle cordine e degli
stecchetti: le orecchie gli sopportano un cappello, dal quale in diversi
punti escono a prender aria ciocche di peli biancastri. Alla
presentazione ci stringe la mano con tutta effusione, non
raccapezzandosi di trovarsi con tanta gente fatta e educata come lui. È
il signor Barallon, un bravo artigiano francese che da cinque anni vive
in Adua facendo l'armaiuolo. Il primo discorso che ci tiene è il
racconto di una puntata di spada che or fa un anno un miserabile quasi
pazzo gli diede a tradimento passandolo dal dorso al petto. Era solo
europeo allora in paese, e le prime cure le ebbe da un abissino, che
vedendo l'apertura fatta dalla lama non trovò nulla di più logico che
di chiuderla ben bene con una specie di tappo. La provvidenza venne però
in suo aiuto, non mancarono i consigli di cento altri Dulcamara, unti,
erbe, radici gli furono applicati e dopo lunghe ed atroci sofferenze
finì col rimettersi.

Venuto in Abissinia dove sperava trovar tesori, non scoprì questi, ma
molto ricercato per l'arte sua ottenne permesso di stabilirvisi e il
lavoro non gli faceva certo difetto. Il re lo prese pure a proteggere e
lo onorò di sue commissioni, ma avendogli una volta dato un fucile a
riparare, fatte le necessarie operazioni, Barallon si presentò alla
Corte a riportare l'arma.

Se l'hai bene aggiustata, disse il re, caricala e spara in mia presenza.
Ciò fu subito eseguito, ma disgrazia volle che proprio a questo colpo
una canna scoppiasse. Il re vide un tradimento preparato e mal riuscito
e voleva _ipso facto_ toglier la vita al povero armaiuolo. Calmato però
e ridotto a miglior consiglio dal Naretti presente all'avvenimento e da
qualche altro de' suoi aiutanti, perdonò l'accaduto, ma cessò la sua
protezione al disgraziato francese, che deve certamente aver passato un
cattivo quarto d'ora.

Gli argomenti di discorso non mancarono certo per far durare il pranzo
parecchie ore, poi passammo nella casa che si era noleggiata per noi.




CAPITOLO VI.

  Descrizione di Adua.--Squallore.--Visita al governatore.--Una
  seduta di tribunale.--Pene diverse.--La cattedrale di
  Adua.--Industrie abissinesi.--Il mercato.--I regali al
  governatore.--Un abissino che parla l'italiano.--Considerazioni
  sulla guerra di Teodoro.--Seconda campagna contro gli
  Egiziani.--Chirurgia abissinese.


Speravamo di migliorare la nostra prima impressione su Adua, ma anche
visitata per bene e con tutto il buon volere immaginabile, bisogna pur
confessare che è un vero squallore. Il nucleo principale è disposto su
una altura alla vetta della quale sta la chiesa maggiore, il cui tetto
conico è sormontato da una grossa sfera dorata; gruppi di abitazioni si
distendono nella piccola valle sottostante spingendosi pure alle alture
circostanti. Perfettamente a nord sta la prima delle montagne schierate
a catena e che vedemmo costituire come un anfiteatro che si protende
verso est: a sud e ovest, una distesa di alture lievi e di altipiani in
cui si coltiva grano, ma aridi in questa stagione e popolati solo a
lunghe distanze da qualche abituro. A rompere la monotonia di queste
ultime sorge isolato a sud il picco che già ci rammentò una delle più
ardite vette delle nostre Alpi. Ai piedi del colle sul quale sta la
città, dal lato nord-est, una pianura tagliata da una profonda fenditura
in cui scorre il piccolo torrente Assam, costituisce la piazza
principale, il pubblico passeggio se si vuole, e il ritrovo pei mercati.
Questo torrente lambe tutta la città da questo lato, ed all'estremo
ovest si unisce coll'altro di minor importanza detto Maiguagua, che
scendendo da sud ad ovest delinea il confine della città da questo lato.
Entrambi però sono fiumi di poco conto, l'acqua vi è poca e vi scorre
lentamente, ma abbastanza limpida: all'epoca delle piogge si riempiono
come si riempiono alcune altre fenditure nel suolo, che dalle campagne
circostanti scendono a versarsi nell'Assam.

Le vie di Adua sono nè più nè meno di letti da torrente, senza la
risorsa dell'acqua che si incaricherebbe di un pochino di pulizia:
larghe in media poco più, e qualche volta meno di un metro, e tutte
fiancheggiate da mura o da steccati alti da due a tre.

Di quando in quando un'apertura che mette ad un cortile, o dirò meglio
recinto, in cui sono una, due, tre o più capanne o semplici tettoie
rozzamente costrutte con paglia o fusti secchi di dura. Poche sono le
abitazioni che hanno l'aspetto relativamente civile, cioè costrutte con
mura ed un piano superiore; alcune di queste sono della solita forma
cilindro-conica, altre rettangolari col tetto piatto.

Di queste ultime sono quella di Naretti e la nostra; all'interno però
tutto quello di più rozzo che si possa immaginare; di serramenti non se
ne parla, chè non li possiede che Naretti perchè se li fabbricò lui
stesso; per porta abbiamo un telaio di canne; il soffitto sono tronchi
d'euforbia uno presso l'altro e ricoperti di terra; le pareti, ad una
certa altezza, adorne di una sequela di corna da bue conficcate nel
muro, che servono per appendervi la nostra roba e sono l'unica mobiglia
della casa; dell'erba sul suolo ci fornisce il letto, le nostre casse
sono sedie e tavolini.

Le guerre continue che tolgono le migliori braccia all'agricultura, la
scarsità delle piogge di due anni or sono che tolsero buona parte dei
raccolti, produssero in questa miserabile provincia una carestia
terribile che, unita ai miasmi prodotti dalle migliaia dei cadaveri
degli Egiziani lasciati insepolti, ebbe per conseguenza un tifo che fece
vere stragi, e si calcola a più di due terzi della popolazione di Adua
perita; e girando le strade se ne vede ovunque l'impronta.

Quasi nessuno si incontra, la maggior parte delle case sono deserte, in
esse si scorge la sciagura, la morte. Vedi il vero abbandono di
un'abitazione ove tutti perirono; i pochi vasi che sono tutta la loro
suppellettile, sparsi nei cortili; i tetti spesso rovesciati, chè dopo
le piogge, quest'anno straordinariamente abbondanti, nessuno rimase od
ebbe forza ed agio a ripararli. I buoi morti pure di fame o di malattia
popolano cortili e strade coi loro scheletri, avanzi delle jene; i pochi
abitanti che si incontrano o si presentano curiosi alla porta, al nostro
passaggio, quasi tutti sparuti e macilenti.

Il luogo non è certo dei più simpatici e divertenti, ma ci dovremo pur
troppo restare forse qualche settimana per aspettare la risposta di un
secondo corriere che Naretti consiglia di spedire al Re per domandargli
un'udienza. S. M. si trova ai confini dello Scioa a riscuotere i tributi
di quel sovrano, diventato ora suo vassallo, e questo ci fa temere che
l'aspettativa sarà assai più lunga di quanto si osa sperare; ma ci vuol
pazienza, ed è forza dunque esercitarla tutta quanta. Valga almeno
questo riposo a ridare la salute al nostro Tagliabue che si trascinò
fino in Adua con mille cure, che fa ogni sforzo per reggersi, ma che si
vede seriamente ammalato.

Un paio di giorni dopo l'arrivo si dovette andare a far visita ai
governatore.

Partimmo la mattina colle nostre mule, accompagnati da una massa di
servì e di pretesi soldati, tanto per dare maggior importanza alla cosa.
La pittoresca cavalcata si dirige ad ovest passando per una sequela di
alture sterili, bruciate e poco meno che disabitate; troviamo sul
sentiero lo scheletro quasi intiero di un miserabile che vi perì forse
di fame e di stenti; gli restava ancora accanto un avanzo di cencio che
altre volte lo copriva; e si dice ed è fanatico cristiano un popolo che
non si cura di dar sepoltura ad un disgraziato fratello?... Dopo circa
un'ora e mezzo ci si presenta una collina che si innalza come cono
isolato, la cui vetta è coronata da belle macchiette bianche e rosse.
Come inforcassimo delle capre ci accingiamo alla salita; a sud-est si
spiega la catena dei monti di Adua, il solo panorama di natura che ne
ravviva un pochino. Al vertice del cono formicolano soldati e ragazzi;
sparse qua e là delle piccole e meschine capannucce; al centro un rozzo
steccato circolare di pietre e spini. Si scende di sella, tutti si fanno
attorno a noi, che siamo subito invitati ad entrare nel recinto. Sotto
una tettoia di una decina di metri di lato e alta forse due, aperta sul
davanti e molto primitivamente costrutta con fusti di dura, stava il
governatore con cinque o sei magnati, accovacciati su un piccolo
tappeto. Sua Eccellenza è un bell'uomo dalle forme erculee, alto, barba
quasi nera, occhio vivace, fisonomia simpatica; non ha nessun distintivo
e veste una camicia bianca e il solito scemma bianco attraversato dalla
riga scarlatta. Fatti i saluti e la presentazione, ci sedemmo per terra
accanto a lui. Entrò allora il popolo, chè si doveva tenere una seduta
di tribunale. Dietro noi ed ai nostri lati stavano una ventina di
pretesi giudici, poi una massa di soldati dei quali credo che due soli
non avevano le stesse armi nè lo stesso costume; grandi, piccoli,
giovani, vecchi, d'ogni età ed altezza; davanti a noi, in uno spazio
vuoto, due grosse pietre sovrapposte dovevano rappresentate l'altare
avanti al quale venivano ad inchinarsi i delinquenti; ai lati gli
avvocati, poi molti curiosi. Un usciere con un bastone e con molta forza
di polmoni, teneva l'ordine. Comparvero i giudicandi che, trattandosi di
cause civili, sono solamente _guardati_, ma non _legati_. L'accusato
introdotto fa atto di umiliazione avanti le pietre, poi racconta il
fatto del quale è incolpato: tutti sapevano spiegarsi con molta
facilità, parlando con enfasi e con spigliatezza, usando nei momenti di
maggior calore nel discorso di fare un nodo sul proprio scemma o su
quello di un vicino, poi picchiarvi dei pugni gridando _Joannes imut_,
«per la morte di Giovanni.» È questa una specie di formola di
giuramento, sacramentale per chi la invoca. Trattandosi di cose da poco,
il governatore pronuncia da solo il giudizio, ma, se la cosa si
complica, domanda il parere degli avvocati che uno dopo l'altro si
alzano, si portano presso il delinquente e con molta prosopopea emettono
il loro parere in proposito.

Sorge allora anche l'avvocato difensore, che interrotto nello
svolgimento delle sue idee, chiude alle volte colla mano la bocca al suo
patrocinato, se questi vuol mettere il naso nel discorso. Entrarono poi
due creduti ladri, che è sperabile avranno a dar conto delle loro azioni
commesse solo prima della prigionia, perchè incatenati l'uno all'altro,
e giovani entrambi e di diverso sesso. Dopo lunga discussione ne fu
rimesso il giudizio ad altra seduta.

Trattandosi di cause civili o di ladruncoli, un governatore può essere
giudice, ma per grossi ladri, per cause importanti, o per chi è scoperto
ladro per la seconda volta, bisogna ricorrere al tribunale del re. Per
fatti politici si condanna ad esser relegati sulla vetta di una
montagna, custoditi da soldati, e dove bisogna lavorare il terreno per
procurarsi da vivere; chi è scoperto di apertamente cospirare contro il
Re, è acciecato, ma questa pena è ora quasi caduta in disuso; chi
pubblicamente sparla della sacra persona di S. M. ha la lingua tagliata;
pei ladri la condanna e il taglio della mano destra e del piede
sinistro.

L'operazione è fatta da apposito carnefice che stacca queste membra
all'articolazione, operando prima una incisione circolare; ne fa poi
speculazione sua, chè se il paziente paga qualche tallero, l'operazione
è fatta per bene con un'arma affilata, ma se invece non ci sono
quattrini, il coltello non taglia e lascio immaginare cosa soffre il
miserabile. L'operazione dev'essere fatta in pubblico, a titolo
d'esempio, e il condannato deve starsene al posto del supplizio fino a
sera, accanto alla sua mano ed al suo piede staccati; nessuno, nemmeno
della famiglia, può prestargli soccorso nella giornata. Per fermare
l'emorragia, l'operatore stesso appena finito il taglio vi applica della
terra asciutta o della sabbia ben fina. E ad onta di questo, moltissimi
campano, e ne vedemmo di cicatrizzati meglio forse che se fossero stati
operati da alcune nostre celebrità.

Come pena, per delitti minori, vi sono anche le bastonature.

Finita l'udienza del tribunale, che per nostra disgrazia durò tre ore,
passammo nel tucul del governatore, dove fummo serviti di _tecc_ che
fece accrescere l'appetito che già ci tormentava. Rimontati in sella
eravamo verso le tre di ritorno al nostro quartiere generale.

Il nome del governatore è _Ghedano Mariam_, che vuol dire Figlio di
Maria.

La cattedrale di Adua è, come vedemmo, l'edificio che corona l'altura su
cui sorge la città. Due cinte circolari vastissime e di raggi di una
decina di metri di differenza, racchiudono il cimitero, le cui tombe non
sono che semplici pietre ammucchiate, tanto da ricordare il posto della
sepoltura. Al centro della seconda cinta, sopra una piattaforma rialzata
da otto o dieci gradini, sorge la chiesa: il tetto conico in paglia
porta al vertice una specie di sfera dorata sormontata da una croce
ornata con uova di struzzo; le pareti alte circa quattro metri, di circa
26 di diametro, di forma circolare. Il muro esterno è continuamente
alternato a pilastri e finestre chiuse da griglie in legno; nessuna
intonacatura ai muri, nessuna modanatura nè ornato. Concentrico è altro
muro, lasciando un corridoio in forma d'anello di circa tre metri di
larghezza, riservato al pubblico devoto; entro questa doppia cerchia
sorge ancora un edificio rettangolare, all'infuori tutto dipinto con
episodi della storia sacra o fasti dell'armata abissinese. Sul davanti,
la Vergine e San Giorgio ai due lati, e nel mezzo l'apertura che mena
alla camera interna riservata ai preti. Sollevata, col permesso dei
sacerdoti presenti, una cortina, regalo della regina d'Inghilterra,
fummo ammessi ai misteri di quel santuario, Non v'è al centro che una
edicola in legno, specie di confessionale di poco più di due metri di
lato, dove nessuno entra mai, ma solo si appoggia il libro di preghiere
al davanzale di un finestrino, e i preti vi stanno attorno a leggere e
pregare. Nel circuito esterno sta il campanile costituito da tre dadi
sovrapposti, di lato decrescente, e sormontati da una cupola acuminata.
È questa la più gran chiesa che oggi esiste in Abissinia; il progetto e
parte dell'esecuzione sono dovuti al bravo Naretti.

    [Illustrazione: Cattedrale di Adua]

Passammo a vedere gli arredi sacri e gli utensili pel servizio
religioso. Molto ricche ed originali sono le croci cofte in bronzo ed
argento massiccio. I bornus che vestono i preti durante le funzioni, in
raso azzurro con ricami in sete a vario colore e grandi ornati e
fermagli in argento lavorato ad uso filograna; il cappello, il
baldacchino ad ombrello, il turibolo in bronzo dallo stile bizantino, il
campanello ad _U_ coi dischi in lamina d'ottone, che scorrendo su fili e
battendo un contro l'altro producono il suono; le croci in ferro che i
sacerdoti devono sempre tenere fra mani e servirsene per farsi il segno
della croce. Cose tutte che difficilmente potrei descrivere e che
siccome credo piuttosto interessanti riproduco alla meglio colla matita.
Le stoffe sono tutte importazioni dall'Europa o dall'India, ma tutto il
resto è fatto in paese, e parmi strano assai come, dove quasi ogni
traccia di civiltà è scomparsa, dove non ne resta neppure la
reminiscenza per tutto quello che costituisce comodi della vita od
organizzazione sociale, abbia potuto conservarsi l'uso di questi
utensili e la relativa industria.

Questa è assai limitata in Abissinia, e si riduce a pochissimi rami ed a
singoli individui che la professano. Si fila il cotone di produzione
indigena e lo si tesse con telai affatto primitivi per fare gli scemma,
di cui però la riga rossa è fatta con cotone importato, non conoscendosi
in paese l'arte del tintore.

Si lavorano un pochino le pelli e se ne fanno selle, bardature per
cavalli, sandali, astucci per le armi; si lavora il ferro, che si trova
poco meno che puro in natura, e se ne cavano rozze lance e lame per
sciabole.

In qualche provincia si fanno panieri bene intrecciati con scorze di
palma o di canne palustri; uno o due individui forse, sanno lavorare il
bronzo, importato, per farne gli utensili dei quali parlai, e qualche
altro lavora l'argento, ottenuto fondendo i talleri, per farne collane,
braccialetti, anelli, spilloni per la testa, ornamenti per chiesa.

È sorprendente vedere come possano ottenere una relativa finezza e
perfezione di lavoro, mentre il loro laboratorio è una miserabile
capanna, la tavola da lavoro, la terra, la fucina, un fuoco acceso
contro due pietre disposte ad angolo e ravvivato dal soffio ottenuto
comprimendo una pelle da capra; i ferri, qualche rozzo scalpello o punta
d'acciaio. Tutto si ottiene colla gran pazienza, che il tempo val poco e
il vitto costa meno.

Ebbi la fortuna di trovare in Adua un turibolo di nuovo finito, e il
fabbricante che me lo vendette mi confessò che gli costava tre mesi di
lavoro.

    [Illustrazione: 1. Braccialetti. 2. Turibolo. 3. Collane.]

    [Illustrazione: 1. Distintivo dell'ordine cavalleresco di Salomone.
    2. Croce cofta. 3. Campanello da chiesa. 4. Spilloni per testa.]

La sola industria che abbia un certo sviluppo in paese è quella del
sale, che si estrae da immensi depositi che stanno nella provincia di
Sokota, e che è monopolio governativo, o meglio reale; lo si riduce
in rombi di venti centimetri di lunghezza per cinque di larghezza al
centro, e tre di spessore, che sono messi in commercio e corrono come
moneta, aumentandone il valore a misura che si allontana dalle miniere.
Così, mentre a Sokota se ne possono avere da 25 fino a 30 per un
tallero, ad Adua non se ne avevano che 18 a 20, a Gondar da 8 a 12 e nel
Goggiam alle volte non se ne danno che quattro.

Del resto come moneta in paese non è noto che il tallero di Maria
Teresa, e per gli spiccioli si usano i pezzi di sale o cambi di
prodotti. Come misura si usano dei recipienti in legno, scavati entro un
pezzo di tronco, più rozzi e certo meno precisi, ma presso a poco come
si adoperano da noi per le granaglie. Per misura di lunghezza è adottata
quella del braccio, dall'estremo delle dita al gomito, molto variabile
quindi a seconda degli individui, ma a tali piccolezze non guardano i
commercianti di questo paese.

Il _sabato 8_ siamo in grande aspettativa, desiderosi di assistere al
primo mercato.

La mattina, la piazza o meglio lo spazio a ciò destinato, comincia a
popolarsi; gente arriva da ogni lato, chi a piedi, chi colle mule, chi
colla modesta aria del commerciante, chi coll'aspetto baldanzoso del
compratore o del dilettante che viene a divertirsi, seguito dai suoi
servi e dagli armati. Diversi capannelli si formano, parecchi gruppi
cominciano a stabilirsi in diversi punti; quell'atmosfera di silenzio e
di desolazione che pesa su questa disgraziata città, comincia ad essere
rotta da qualche lampo di vita. Verso le dieci l'andirivieni degli
accorsi ci pare abbastanza importante e noi pure scendiamo fra loro.

Comincia la noia dell'essere circondati, seguiti, assediati da una massa
di curiosi che, non paghi di importunare col chiudere il passo, coi loro
commenti e col tenerci fissi gli occhi, ci rivolgono domande e spingono
le mani a toccarci gli abiti; ma bisogna farvi l'abitudine e sopportare
la loro oppressione con pazienza e prudenza.

Il colpo d'occhio è stupendo e per l'animazione e per l'impronta
artistica e caratteristica che danno tutti questi manti dai colori
vivaci, artisticamente gittati sui dorsi dalle tinte diverse, queste
punte di lancie e fucili che luccicano, e parasoli e teste di cavalieri
che si elevano sulla folla. L'ineguaglianza del terreno, da un lato
limitato dal corso del torrente e dall'altro elevantesi verso la
montagna, aggiunge ancora maggior effetto a questa scena in cui la vita
ed il moto pare si consumino e si rinnovino sempre. I prodotti che si
vendono sono portati da tutti i paesi circonvicini ed i rispettivi
venditori si dispongono a crocchi, qualche volta riunendosi quelli
provenienti dallo stesso paese, altra invece quelli che apportarono la
stessa qualità di merce. Non v'hanno però in complesso grandi negozianti
e non si vede ricchezza nè abbondanza; ognuno cerca di far qualche
quattrino col poco che il suo campo o la sua arte primitiva gli
fornirono dopo qualche mese di lavoro. Verso il fiume stanno gli
animali, cavalli, muli, buricchi, buoi e capre. Desiderando fare
acquisti di cavalli, il proprietario subito monta in sella, discende al
torrente, risale nel campo opposto e su un piano che vi si stende
comincia a galoppare e caracollare. Un altro subito gli corre appresso,
gli passa vicino in segno di invito alla sfida, si fanno dei tratti alla
carriera, si rivolta indietro il cavallo senza fermarlo, come nessuno
oserebbe da noi, si arresta di colpo poi si riprende una sequela di
volate; ritornano poi col povero animale bagnato di sudore e di sangue
alla bocca. Volevamo fare qualche acquisto, ma trattandosi di vendere a
dei bianchi, vorrebbero non contrattare, ma rubare, cosa che non ci
accomoda punto.

    [Illustrazione: 1. Ombrello-baldacchino. 2. Beretto da prete in
    funzione. 3. Fermaglio e ornamenti diversi per abiti sacerdotali.]

Rivoltandoci a sud ci si spiega dinanzi tutto il pittoresco spettacolo
del complesso del mercato. Circa quattromila erano parmi le macchiette
viventi, tutte nuove per noi e tutte diverse una dall'altra, che
animavano questo quadro fantastico. Ecco un gruppo di donne che vendono
dura, frumento, ceci, semi di lino, foglie secche per fabbricare il
tecc, cipolline, peperoni rossi ed altri prodotti dei suolo, tutti stesi
in poca quantità su rozzi pezzi di stoffa o pelli spiegate a terra o
piccoli vassoi di scorza d'albero intrecciata. E fra loro chi coperta da
tele o da tessuti di cotone, chi da semplici pelli, chi seminuda, chi
porta un bambino da latte sul dorso, chi è circondata da altri più
grandini, dall'occhio vivace, dalle fattezze regolari, che attirerebbero
carezze se non ne allontanasse il sudiciume che li veste. Più avanti
ecco alcuni venditori di pezzi di sale, ed a sinistra i crocchi delle
madri, mogli o figli che aspettano coi somarelli il ritorno del messere
che andò nella folla a cambiare i suoi prodotti con altri che gli
necessitavano: pochi passi, ed eccoci nel gruppo dei venditori dei manti
tessuti in paese, e così proseguendo senza una direzione fissa, alcuni
negozianti di sciabole, di cartuccere, di pelli, di vecchi e sucidi
_bric-a-brac_, di otri in terra. Verso la collina tre o quattro orefici
che uniti rappresentano il valore di forse una decina di talleri in
anelli d'argento, bottoni per orecchini, spilloni per testa e simili
gingilli. Più sopra le venditrici delle piastre, in ferro o terra, per
cuocere il pane, e accanto a loro i panieri e gli ombrelli pure
intrecciati con scorza o canne palustri: di quando in quando qualche
miserabile viene ad offrirci delle meschinità d'argento, dei bicchieri
in corno da bue, scudi in pelle da ipopotamo, lance od altre simili
cose. Parecchi colpi di tamburo richiamano la nostra attenzione verso un
punto elevato: molta gente vi sta infatti radunata, molti ombrelli
spiccano dalla folla: è il governatore che sta presiedendo il tribunale
di giustizia: ad un secondo batter di tamburo vediamo un grande
accorrere ed affollarsi di popolo. Era un bando e credo si rendesse noto
alla popolazione di Adua che la si obbligava a spazzare le strade da
tutte quelle immondezze che da mesi le infestano. Mi passano accanto i
due incatenati che l'altro giorno comparvero al tribunale del
governatore: sono accompagnati da soldati e diretti appunto al secondo
interrogatorio e forse a sentirsi la sentenza: mi avvicinano e mi
supplicano colle lagrime agli occhi che mi interessi a perorare per
loro. La donna non bellissima ma un tipo simpatico, l'uomo un bel
giovane dall'occhio intelligente. Non scorderò mai l'impressione che mi
produsse, col contrasto di questa folla gaja ed irrequieta, un certo
istante in cui questo disgraziato, alzando il braccio che gli restava
libero dalle grosse catene, e con esso sollevando artisticamente il
manto, tese l'indice al cielo e con voce tremante lo domandò testimonio
della sua innocenza. In quel momento ho visto un poema di verità in
questi compagni di sventura, e un pittore ne avrebbe certo fatto
soggetto ad un quadro.

Prima di sera andiamo a far visita al governatore per portargli i regali
destinatigli. Una massa di popolo e di soldati stanno avanti
l'abitazione in cui siamo ricevuti, e dove noi terremmo i maiali. Egli
ci sta però in compagnia della sua mula che ha l'ardire di allungarsi
fino a mangiare i pochi fili d'erba che formano sedile e cuscino di Sua
Eccellenza. Fatti i soliti complimenti, si fanno entrare i servi che gli
stendono ai piedi dodici metri di tela, cinque di velluto, due bottiglie
fantasia piene di liquori, quattro pacchi di candele, un candeliere di
vetro argentato, avanzo del massacro che della sua specie si fece
durante il viaggio, due specchi, qualche scatola fiammiferi. Tutto fu
molto bene accetto, e parve soddisfatto della nostra generosità. Il
vecchio Desta, assunta un'aria di importanza che a noi pareva ridicola,
faceva la spiegazione degli oggetti. Il governatore era affabile ma
altrettanto sucido; dovemmo scusarlo quando ci fu spiegato che perdette
da un mese suo padre, e in segno di lutto non s'era da quel funesto
giorno più cambiata la camicia, e Dio sa fin quando non la cambierà.

    [Illustrazione: 1. Gran croce cofta per funzioni religiose. 2. Lavabo
    da sagrestia.]

Le giornate passano piuttosto noiose in questo soggiorno, per quanto si
cerchi di occuparsi vedendo il poco che v'ha di interessante e
raccogliendo particolari sugli usi e costumi del paese. Siamo intenti a
ridurre il nostro bagaglio, limitando il numero delle casse e facendo
queste di non più di una trentina di chilogrammi ognuna, perchè una mula
possa resistere a portarne alla lunga due. Parecchie di queste sono
occupate dai regali che a nome del Comitato milanese si dovranno
presentare al re e ai capi che saranno con lui. Molte varietà di oggetti
si possono regalare, ma in genere i più accetti sono le così dette
_camice_, o cinque metri di tela, oppure per maggior lusso la stessa
misura di velluto o stoffe di seta a colori vivaci: fiammiferi, candele,
bottiglie a cipolla col collo allungato e colorate, armi, coltelli,
parasoli, carta da lettera.

Spesso i nostri lavori sono interrotti da seccatori che vengono a
domandar medicine perchè ammalati, a farci semplicemente delle visite a
titolo d'amicizia, ma in fondo in fondo per curiosità, per domandare
qualcosa in regalo, od almeno per bere un bicchierino di liquore, oppure
per proporci a comperare qualche lavoro in argento, di che però
pretendono tre volte il valore.

Faccio una visita a un tal Mercher, che avendo vissuto qualche tempo in
India parla benino l'inglese ed è dragomanno del re. Abita un bel tucul,
vasto, il cui soffitto è abbastanza ben fatto con travi, in modo da
nascondere la paglia che costituisce il tetto.

La forma di queste abitazioni, quando sono un po' grandi e belle,
all'interno è una perfetta croce segnata da muri: da uno dei rami si
entra, al centro è sala da conversazione dove si sta seduti su pelli o
tappeti, negli altri rami sono gli _angareb_ per la notte, ed essendo
l'esterno circolare, ne restano quattro angoli destinati a ripostiglio e
scuderie.

Altra conoscenza fatta in questi giorni è quella del signor Zaccaria,
cristiano cattolico, che in gioventù visse quattordici anni alla
missione abissina a Roma, per cui parla perfettamente l'italiano ed ha
riportate care memorie dal nostro paese.

Furono queste due conoscenze preziose per me, perchè potendo con loro
discorrere potei raggranellare una massa di importanti nozioni. Le
descrizioni dell'ultima epidemia sono spaventevoli: oltre le cagioni di
cui già dissi, si aggiunse quell'anno, ad accrescere la carestia, una
invasione di cavallette che tutto distrasse. La popolazione era
affievolita dal digiuno, quindi appena si sviluppò il tifo, trovando un
terreno così preparato, estese con tanta violenza le sue radici che
produsse tale spavento e scompiglio che si lasciavano i morti a
putrefare nelle case o tutt'al più si mettevano fuori la porta,
confidando nella pietà degli altri per la sepoltura, e quando anche
questa aveva luogo, non era che un coprire il cadavere d'uno strato di
pochi centimetri di terra. Nelle chiese poi, dove generalmente sono i
cimiteri, si portavano i morti e si lasciavano l'uno sull'altro, talchè
i preti che dovevano avervi contatto ne furono tutti vittime, tranne
rarissime eccezioni.

Non sapevo trovar ragioni alla differenza del modo in cui si portò
l'armata abissinese nelle due guerre, contro gli Inglesi e contro gli
Egiziani, ma con dell'insistenza nelle domande su questo argomento potei
averne qualche spiegazione. Innanzi tutto contro gli Egiziani trattavasi
di guerra di religione, e quando v'ha di mezzo il fanatismo tutti
accorrono e si sfida indifferentemente la morte. Parecchie volte ho
sentito degli Abissinesi ripetere che se venisse un'armata cristiana
qualunque, resterebbero indifferenti, ma se tornassero i Mussulmani
troverebbero tutti disposti a morire per respingerli. Teodoro poi, colle
sue originalità e crudeltà che somigliavano a pazzie, s'era allontanato
gran parte del suo popolo. Tutto il Tigré con a capo l'attuale re era
favorevole agli Inglesi, lo Scioa era indipendente, il Goggiam non
ancora sottomesso, e buona parte dell'Amara indignata contro il sovrano:
alla battaglia, se così si può dire una semplicissima scaramuccia, di
Magdala, Teodoro era seguito da pochissimi fedeli.

    [Illustrazione: Pianta della Cattedrale di Adua

    a = entrata alla prima cinta. b.b = cimitero. c.c = capanne pei
    poveri. d = passaggio alla seconda cinta. e = chiesa. f = campanile.
    g = passaggio al segmento riservato. h.h = sagrestia e deposito
    tesori reali.]

La campagna degli Inglesi fu quindi presso a poco una marcia trionfale.
Gran parte della popolazione che sarebbe rimasta indifferente e
fors'anche all'occasione avrebbe militato in difesa del proprio paese,
fu sedotta dalla massa dei talleri che si spandevano a solo titolo di
corruzione.

Non ultima delle cagioni fu poi anche il panico di trovarsi la prima
volta a contatto con un nemico disciplinato, armato di tutto punto e
accompagnato da batterie d'artiglieria.

Dove gli Abissinesi mostrarono realmente molto valore fu alla seconda
battaglia contro gli Egiziani, a Gura. Dopo la sconfitta di Guda-Guddi,
il Governo del Cairo voleva una rivincita, e mandò una seconda
spedizione di circa 16,000 uomini, capitanata dal principe reale Hassan
pacha. Da Massaua salirono per le vallate che più direttamente portano
alla capitale del Tigré, e giunti al principio dell'altipiano etiopico,
presso il villaggio di Gura, scelsero a loro campo un'altura isolata,
che sorge quasi a delineare il limite fra l'altipiano e il principio
della discesa. Costrussero strade per portarvi i cannoni, coronarono
l'altura con un magnifico forte e con casematte, e fortificarono il
versante verso l'Abissinia con trincee che nascondevano famosi pezzi
d'artiglieria. Gli Abissinesi, forti di più che centomila uomini, a
quanto si pretende, s'avviarono incontro al nemico e stabilirono il loro
campo sulle alture circostanti l'altipiano, e rimpetto a quella occupata
dagli altri.

Gli Egiziani scesero in campo aperto in atto di sfida: Re Giovanni
allora, tagliando colla sua spada le pelli che tenevano le provviste
d'acqua, gridò: figliuoli, se non volete morir di sete andatevi a cercar
l'acqua oltre la linea nemica. Fu come fosse aperto un alveare, chè da
ogni lato irruppero squadre di Abissinesi che in breve tempo invasero
tutta la pianura. La lotta fu accanita, il numero e il valore la
vinsero, e dopo sforzi incredibili, gli Egiziani dovettero ritirarsi nei
loro forti lasciando sul campo una buona metà dei loro. Dopo tre giorni
gli Abissinesi ebbero l'ardire, oso dire la temerità, di dar l'assalto
alla collina fortificata, ma questa volta, i cannoni ebbero ragione, e
dovettero ritirarsi. Stettero tre mesi le due armate spiandosi l'una
coll'altra, ed alla fine avendo re Giovanni promesso che se il nemico
usciva per ritirarsi non avrebbe avuto nulla a temere dal suo esercito,
gli Egiziani se ne ritornarono a Massaua, certo poco soddisfatti di
questa seconda prova.

Dopo queste due battaglie, re Giovanni, quantunque vittorioso e forte
non volle inseguire il nemico, nè estendere di un palmo i suoi
territorii. Gli Egiziani, egli disse, hanno invaso il mio Stato senza
mandarmi una intimazione di guerra, io quindi ho il diritto di trattarli
non come un esercito nemico che mi muove incontro, ma come una banda di
briganti che venne ad assalirmi a tradimento: li respingo dunque, ma non
degno continuare la lotta con loro; solo, ora che le ostilità sono
aperte, mi riservo di attaccarli quando a me piacerà, senza necessità di
mandare intimazioni e senza tema di mancare per questo alle regole della
cavalleria e della guerra fra gente civile.

Il raziocinio, se si vuole, è giusto ed assai fino, e re Giovanni lo
mantenne rifiutando ogni trattativa di pace.

Frutto principale di questa guerra, per gli Abissinesi, fu la presa di
alcuni cannoni e di circa 15,000 fucili _remington_ presi al nemico con
buona provvista di munizioni. Queste però si tengono ben custodite, chè
il giorno che fossero finite non v'ha modo di rinnovarle. Alcune volte
si fabbricano da loro la polvere, ma cattiva e in poca quantità, e in
mancanza di piombo usano delle palle che si fanno con pietre, munizioni
che possono servire per i pochi fucili da museo che hanno, e coi quali
non mi fiderei di sparare un colpo, ma cartucce non possono
assolutamente procurarsene. Strano che questa gente, pazza per avere
un'arma da fuoco, non ha confidenza a sparare i cannoni, e si risparmiò
la vita ad una dozzina di prigionieri egiziani, per tenerli al servizio
dell'artiglieria, frutto della vittoria.

    [Illustrazione: Aratro abissinese]

L'acquisto dei quadrupedi per la continuazione del nostro viaggio è
cominciato, e la mattina si vanno facendo delle cavalcate nei dintorni,
che sono sempre aridi: nelle vicinanze il terreno è rozzamente coltivato
ed ora preparato per la seminagione.

L'aratro è una semplice punta di ferro legata a due aste che son tenute
dal lavoratore per la direzione, e dal punto di legatura si parte
un'altra asta che va ad essere attaccata al primitivo finimento di due
buoi: non si fanno che dei solchi superficiali e non si cura nemmeno di
levare le pietre che natura ha sparse al suolo. Qualche piccolo
cespuglio, specie di oleandri dal fiore piccolo bianco, alcuni palmizzi,
dei fichi selvatici, qualche ulivo. In un solo cortile di Adua vidi una
musa ensete, alcune mele granate e una vite. A nord e a sud-est della
città due grosse masse di ulivi selvatici coprono delle loro ombre due
piccoli villaggi, avanti al primo dei quali sta un grosso sicomoro ai
rami del quale si usa appendere i disgraziati che vi sono condannati,
supplizio però che ora è quasi fuori d'uso, servendosi invece della
fucilazione.

La fauna non è ricca e poco c'è a divertirsi colla caccia: solo
abbondano le jene che tutte le notti danno veri concerti coi loro urli
attorno alle abitazioni. Falchi e avoltoi si aggirano spesso nello
spazio, e di tale ardire che scendono alle volte fino a rubare la carne
che si sta preparando per noi. Dei merli dalle penne metalliche a
riflessi stupendi, specie di passeri della testa nera, piccoli
uccelletti dal becco rosso, alcune lepri, lungo il fiume il grosso
martino pescatore bianco e nero e il piccolo dai cento colori, qualche
anitra e oca. Tutto però piuttosto raro; si direbbe che l'epidemia si è
estesa anche a questi, od almeno ha consigliato loro aure più pure.

Fra gli oggetti che ci vanno portando per vendere, è curioso un
bracciale d'argento dorato lavorato a filograna, alto circa quindici
centimetri, e due scarpe dalla punta acuta e curva, pure in argento e
dello stesso lavoro. Il primo è un distintivo che il re in benemerenza
dona ai suoi generali, e se ne servono nei giorni di gran battaglia; le
seconde sono usate dalle donne nei grandi ricevimenti, ma invece di
calzarle, che sarebbe troppo incomodo, si fanno tenere sulle mani tese
di un servo che segue sempre la sua signora.

Uno dei nostri servi accusa un giorno forte mal di capo, e il vecchio
Desta ci dà una prova della scienza chirurgica del paese. Seduto il
paziente coi gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani tese sulle
orecchie, lo strinsero al collo con un panno arrotolato: il Dulcamara,
appoggiato un rasoio al fronte vi diede un colpo con un bastone, ed
aperse così una ferita dalla quale sgorgò copioso il sangue: due altri
intanto appoggiando le rispettive ginocchia al dorso dell'operato lo
stringevano al collo quasi volessero strozzarlo. Defluita una certa dose
di sangue si chiuse il taglio con cenere. Ripetuta, se necessario,
l'operazione il giorno dopo, pretendono basti a salvare dall'incomodo
male.




CAPITOLO VII.

  Posizione geografica dell'Abissinia.--Sua divisione in
  provincie.--Distinzione dei diversi terreni.--Storia del paese e
  degli abitanti.


A poca distanza da Adua sta Axum, l'antica città santa dell'Abissinia,
che naturalmente molto ci premeva di visitare, per cui combinammo
l'escursione pel mercoledì 19.

Prima di incamminarci a vedere le rovine dell'antica civiltà, mi pare
però giunto il momento opportuno di dire due parole sul paese nel quale
stiamo viaggiando.

È cosa assai difficile delineare con una certa precisione i confini
geografici dell'Abissinia, ma si può ritenere sotto questo nome la zona
che si estende dal 9º al 16º di latitudine nord e dal 36º al 40º
longitudine orientale. Confina a nord coi territorii dei pastori Bigias,
all'est coi Danakil, a sud coi Gallas e ad ovest col Sennar, ed entro
questi limiti la sua superficie può calcolarsi di circa 240,000
chilometri quadrati. Le provincie in cui è diviso questo grande stato
sono: il Tigré, che dai confini dell'altipiano etiope, si stende fino al
Taccazé: l'Amara, che costituisce un altipiano, che da quest'ultimo
fiume declina ad ovest fino al lago Tzana e verso il Sennar: Lasta, che
è la parte sud-ovest e la più montuosa: il Goggiam racchiuso dalla
curva, vero ferro da cavallo, che fa il Nilo Azzurro, sortendo dal lago
Tzana, dirigendosi a sud per piegare ad ovest e terminare il suo corso
quasi a nord verso Sennar: lo Scioa, vasto e ricco paese che confina
colle tribù Gallas che occupano territorii estesissimi ed in parte
inesplorati. La tradizione vuole che i Gallas provengano dal di là del
mare, com'essi ancora raccontano, mare che però si ridurrebbe ad uno dei
grandi laghi interni, da dove nella loro peregrinazione avrebbero
proseguito a nord, allettati dalla fertilità del suolo.

Quasi ognuna di queste provincie usa una lingua speciale, e cioè: il
Tigré, il tigrigna, l'Amara l'amarico od amarigna, e le altre il
galligna o lingua dei Gallas: lingue tutte che credo però si possano
considerare come altrettanti dialetti, ritenuta lingua madre il gheez,
od antico idioma del paese, che ora resta solo scritto nei libri sacri e
raramente usato nelle divine funzioni.

L'Abissinia è un immenso altipiano che declina a nord-ovest, sostenuto
verso il mar Rosso dalla catena detta Taranta. La sua elevazione sul
mare è nella media di circa 2000 metri: vi sono poi catene di montagne
speciali elevantisi su questo livello, e tali sono quelle del Goggiam
dove a 3000 metri d'elevazione ha origine il fiume Abai, che immischiate
le sue acque a quelle del lago Tzana, ne esce poi col nome di Nilo
Azzurro: quelle del Lasta dove scaturisce il Taccazé, e il gruppo del
Semien. Fra questi vi sono monti degni dell'attenzione di qualsiasi
alpinista, e Salt narra di aver visto in aprile della neve su due delle
vette del Semien: Pearce in ottobre vi fu sorpreso da una nevicata, e
Rüppel osservò delle nevi sul Buahat che stima essere 4,800 metri
d'altezza.

In paese si danno poi nomi distinti ai terreni, a seconda della loro
elevazione, e questo appoggiandosi al genere di produzione di cui sono
suscettibili. Così sono detti _colla_ i terreni al disotto dei 2000
metri e _deuga_ quelli al disopra dei 2400: quelli compresi fra queste
due altitudini _woina-deuga_ o terreni deuga capaci della coltivazione
della vite. Come queste distinzioni sono proprie del paese e ricordate
per tradizione, se ne può dedurre come altre volte vi prosperasse la
vite, che fu distrutta ovunque per ordine di re Teodoro.

Secondo autori che non hanno solo visitato, ma anche studiato il paese,
l'etimologia della parola Etiopia starebbe nelle due greche
_aito_-bruciare e _ops_-occhio o viso; ed infatti anche oggidì vi è
conservato l'uso di abbruciare gli occhi per certe pene. Abissinia,
deriverebbe invece da _Habesc_, che così infatti si pronuncia in paese,
e il passo dall'una all'altra non è lungo, ed è vocabolo arabo che
significa riunione di diverse famiglie, e sarebbe stato usato in origine
dai Mussulmani in segno di sprezzo verso gli abitatori di questa
regione, che come credesi vi sono accorsi da diverse parti.

Quanto alla storia del paese, come non si può inventarla nè immaginarla,
dirò qualcosa che raggranellai nelle interessanti opere di Bruce, Salt,
Rochet d'Héricourt, Ferret et Gallinier, Raffray, per la parte antica, e
per la moderna ripetendo alla meglio quanto mi feci raccontare dai pochi
che in paese me ne potevano parlare.

Come benissimo osserva Bruce nella descrizione del suo viaggio
nell'Africa orientale intrapreso nel 1768, gli storici parlano sempre
delle grandi ricchezze dei popoli, raramente curandosi di cercare la
fonte di queste ricchezze, ed i viaggiatori trovano negli avanzi delle
antiche civiltà a studiare templi e monumenti, ma non trovano mai
traccia delle abitazioni e mancano quindi completamente i particolari
sugli usi domestici. Questo mette una grande difficoltà allo studioso
che vorrebbe, dai confronti fra le civiltà e dalle vie commerciali usate
per gli scambii, dedurre la storia delle immigrazioni. Così, ad esempio
troviamo, egli aggiunge, nella sacra scrittura, delle descrizioni
favolose sull'oro e l'argento che si trovava in Palestina, mentre questo
suolo non ne produce, e non si fa menzione alcuna da dove questi
preziosi metalli provenissero.

Montesquieu parlando dei tesori di Semiramide immagina le ricchezze
dell'Impero Assiro, frutto del saccheggio di altre nazioni vinte, e che
gli Assiri a loro volta distrussero e saccheggiarono, e così via, senza
però venire a concludere sul paese o sul popolo che primo produceva
queste fenomenali ricchezze. Quello che manca nella storia e nelle
iscrizioni bisogna dunque trarlo dalla tradizione, ed è per ciò che a
questa molto ci affideremo nel nostro proposito.

Vuole una tradizione abissinese che uno dei figli di Noè, spaventato dal
diluvio, attraversando l'Egitto, si sia rifugiato sul primo luogo
montagnoso incontrato nella sua fuga, e vi si sia stabilito abitando co'
suoi seguaci le caverne, ed i suoi pronipoti avrebbero costrutta la
città di Axum poco prima della nascita di Abramo. Estendendo le loro
colonie da questo centro, si spinsero poi fino ad Atbara ove si sa da
Erodoto che coltivarono assai profondamente le scienze, e furono quindi
detti Meroiti o abitanti di Meroe. Fu poi loro guida il Nilo per
scendere a fondare Tebe, e si vorrebbe vedere la traccia del loro
itinerario nelle grandi grotte abitate che si trovano lungo questo fiume
sotto Meroe e sopra Tebe.

Mentre questi avanzavano così verso nord, i loro fratelli progredivano
dal sud nelle montagne che si protendono parallelamente al golfo
arabico: così divenivano proprietarii degli aromi che producevano quelle
ricche terre e vi scoprivano miniere d'oro. In India, non si sa per qual
motivo, oro e argento divennero i più cercati oggetti, e presero quindi
grande sviluppo le comunicazioni fra questi due popoli avidi dello
scambiarsi i proprii prodotti. Trascinato da questa corrente, Sesostri
passa con una gran flotta dal golfo arabico all'oceano indiano e apre
all'Egitto il commercio dell'India per mare: prima di Sesostri gli
Egiziani costruivano le loro imbarcazioni con papiri rivestiti di pelle,
ma in onore di questa gran conquista, Sesostri fece costruire un gran
naviglio in legno di cedro rivestito in lamina d'oro all'esterno e
d'argento all'interno e lo consacrò a memoria del grande avvenimento nel
tempio d'Iside.

Le ricchezze ammassate dagli abitanti del sud e il lusso sviluppatosi
fra quelli del Nord, che coi loro studii di architettura, astronomia,
matematiche, ecc., avevano originata una civiltà, fecero trovar
necessario lo scambio, e per questo fare si usarono i pastori, che non
avendo dimora stabile non trovarono difficoltà a menare la vita ramminga
del commerciante. Con questo mezzo questi accrebbero le loro ricchezze,
aumentarono i loro bestiami e i loro territori e si fecero potenti. Loro
attributo era di prendere alle coste del Mar Rosso le mercanzie che
venivano dalle Indie, e portarle a Tebe e fra i negri del sud-ovest
d'Africa, dai quali ricevevano in cambio dell'oro. Tebe divenne assai
florida e ricca. I pastori, per questioni religiose e commerciali furono
a volte anche nemici dei Tebani, e diventati forti e potenti poterono
vantar pretese contro questi, conquistarli, occuparne i troni ed
istituire così la serie dei re pastori.

Secondo la cronaca d'Axum fra la creazione del mondo e Gesù Cristo
passarono 5500 anni: l'Abissinia non fu popolata che 1808 anni prima di
Cristo, e dopo 200 anni, cioè nel 1608 prima della nascita del Salvatore
fu sommersa da un gran diluvio. Circa 1400 anni av. G. C. fu invasa da
un gran numero di emigranti che provenivano dalla Palestina, parlavano
lingue diverse, presero possesso delle terre e vi si stabilirono.

Di questo fatto Bruce darebbe la spiegazione seguente: quando Giosuè
passò il Giordano e fece cadere le mura di Gerico, un gran panico
dovette naturalmente prendere le popolazioni terrorizzate da questa
armata invadente che tutto metteva a ferro e fuoco. Cercarono allora di
salvarsi colla fuga, e trova naturale che si rifugiassero presso i
pastori etiopi che già conoscevano pei commerci esistenti fra loro.

La regina di Saba, sovrana di quelle contrade, che per legge pare
fossero sempre governate da donne, spinta dal desiderio di vedere
l'impiego che si faceva dei tesori e delle ricchezze che si esportavano
dal suo regno, volle visitare il Principe che le impiegava. Questa
regina, secondo gli arabi si chiamava Belkis, secondo gli Abissinesi
Maqueda: non si sa bene qual religione avesse, ma la cronaca abissinese
la farebbe pagana prima del viaggio, e le fa abbracciare il giudaismo in
ammirazione delle massime di Salomone. Lo sfarzo della Corte e la
profondità del sapere di questo Sovrano pare abbiano esercitato un certo
fascino sulla regina, che ebbe forse un momento d'oblìo, come dicono i
poeti, e frutto della sua visita fu un figlio cui fu posto il nome di
_Menilek_. Al suo ritorno in patria lo tenne qualche anno con sè, poi lo
mandò al padre perchè lo istruisse. Fu unto e coronato re d'Etiopia nel
tempio di Gerusalemme, poi tornò a Saba con molti dottori della legge
che convertirono gran parte d'Abissinia al giudaismo. Ultimo atto della
regina fu il decreto che stabiliva la successione maschile della sua
dinastia, con obbligo di relegare su alta montagna tutti quelli della
famiglia che avrebbero potuto vantare pretese al trono. Uso questo che
ancora oggi è in vigore in Abissinia. La regina dopo 40 anni di regno
morì, nel 986 av. G. C., e pretendono gli Abissinesi che la sua stirpe
tenga ancora lo scettro.

Il suggello reale abissinese porta infatti un leone al centro, e
l'iscrizione _mo ansaba am nizilet Salomon am negardé Judé_--che
dice--il leone della razza di Salomone e della tribù di Giuda ha
trionfato.

Da queste note certo assai sconnesse, ma che possono costituire un
mosaico di storie e tradizioni sul paese e sugli abitanti, risulta come
nella razza abissinese si possa trovar fuso diverso sangue, e cioè
quello dei popoli immigrati per commercio dall'estremo oriente, passando
per lo stretto di Bab-el-mandeb, dei coloni rimontati dal basso Egitto,
dei fuggiaschi dall'Asia Minore, e delle famiglie mandate da Salomone ad
accompagnare Menilek. Il fatto è che anche oggidì traspare che
appartengono a razza distinta, formano un tipo speciale che per colorito
e per lineamenti si stacca da qualunque altro delle tante famiglie che
popolano l'Africa, e certo ricordano nei tratti, e qualche volta nel
costumi, alcuni dei profili che si vedono incisi nei monumenti
dell'antico Egitto.

Aggiunge poi ancora la tradizione, che Menilek, desiderando portare in
patria un importante ricordo del paese di suo padre, pensò appropriarsi
dal Tabernacolo le tavole della legge. Favorito dai compagni e da
circostanze speciali, il piano suo riuscì e fece ritorno in Etiopia con
questo prezioso ricordo che seguì sempre la Corte laddove si accampava,
finchè ad un'epoca di data incerta, ad esempio di Salomone, si convenne
di costruire un tempio in Axum dove conservare il sacro deposito.

Da quest'epoca i sovrani d'Etiopia avrebbero avuto a loro dimora diversi
punti, a seconda che le circostanze lo richiedevano, e qualche volta la
Capitale sarebbe stata anche Axum, che si trovava sul passaggio delle
grandi carovane che dalle coste del Mar Rosso portavano a Meroe le
mercanzie provenienti dall'estremo Oriente.

Secondo i loro annali, colla conferma però anche della tradizione, fin
da tempo immemorabile gli Abissinesi sarebbero stati retti a sistema
feudale con un _Atsé_ o imperatore per sovrano supremo, che doveva
essere dei discendenti di Menilek, e il diritto di successione spettava,
come vedemmo, al primogenito: pare però che si potesse transigere su
questo, qualora o dall'imperatore regnante, sia lui vivente, sia per
testamento, o per voto della nazione, era designato altro successore al
trono. Al loro avvenimento al trono gli Atsé facevano giuramento di
rispettare la libertà del popolo e di uniformarsi agli usi del
predecessore.

Il fascino del potere, l'ambizione, lo spirito di dominare, portarono
pertanto parecchi di loro ad intraprese che tendevano a limitare i
diritti dei sudditi, e questo diede luogo a delle continue lotte, delle
quali sgraziatamente si è perduta la storia, e la sola memoria che ne
resta è la pretesa che fra un tale caos di guerre intestine, la stirpe
di Salomone si sia sempre conservata al potere.

L'imperatore era investito del potere militare, amministrativo,
giudiziario e per forma più che altro, anche del religioso.

Come custode della Giustizia era assistito da un consiglio supremo
composto di otto giudici, dei quali quattro, la cui nobiltà risaliva
agli Ebrei, erano detti Licaonti, e quattro d'origine etiope, eran detti
Azzagi. Il loro potere era ereditario, ma legato alla conferma del Re,
come pure i loro decreti dovevano essere sanzionati dalla firma sovrana.

Portavano il costume sacerdotale, non avevano armi, dovevano seguir
sempre l'imperatore, anche alla guerra.

Nel quarto secolo dell'êra nostra, l'imperatore regnante, unitamente a
parte della sua famiglia, abbracciano il cristianesimo importatovi da
Frumenzio, e questo fatto dà luogo a nuove guerre e rivolte, dividendo
il popolo in due partiti accaniti l'uno contro l'altro, per fanatismo
religioso. La nuova fede però si fa presto strada, e i rivoltosi sono
costretti di rifugiarsi nelle montagne del Semien, dove continuano a
professare il giudaismo e vengono distinti col nome di Felasian o
esiliati, che si corruppe poi in quello di Felachas.

Verso il 530, come risulta da una iscrizione in marmo trovata in Axum,
il re Caleb o Elesbaan, alleato all'imperatore Giustiniano, fece varie
campagne in Arabia contro i Coreisciti e conquistò parte dell'Yemen, da
dove dopo sessant'anni gli Abissinesi furono espulsi dai Persiani che li
spinsero oltre il Mar Rosso e occuparono un tratto della costa Africana;
ma la struttura fisica del suolo, rese atti gli Abissinesi a respingere
il nemico che tentava inoltrarsi nell'altipiano etiope.

Al decimo secolo una delle ebree Felachas rifugiate nel Semien, sorge a
rivolta e riesce ad impossessarsi del potere che tiene colla sua
discendenza per circa 3 secoli; ed a questa epoca la dinastia di
Solomone si rifugia allo Scioa.

Usavano i principi Abissinesi fare dei pellegrinaggi in Palestina, ma
all'epoca delle crociate se ne astennero, e per compiere un atto di
devozione mandarono un loro vescovo a visitare il santo sepolcro. Costui
cadde nelle mani dei musulmani che lo forzarono ad abbracciare la loro
credenza, e da quest'insulto nacque naturalmente un'accanita guerra fra
Abissinesi e Maomettani.

Invogliati i portoghesi di entrare in relazioni con questo paese strano
e potente, inviarono Pedro Covilham che nel 1499 si presentò alla Corte
del Negus, residente allora allo Scioa, ed ottenne che il sovrano
mandasse un ambasciatore in Portogallo. Strette queste amichevoli
relazioni, pochi anni dopo si vedono 400 portoghesi alleati agli
Abissinesi nel respingere gli attacchi dei musulmani. Erano questi
guidati da un semplice cavaliero detto Ahmed, che per ironia fu dai
cristiani soprannominato _gragne_ (il mancino), che, fortunato nelle
armi e dandosi a rubare e saccheggiare, aveva trovato buon numero di
seguaci. I portoghesi erano invece condotti da Cristoforo de Gama,
fratello a Vasco, che con molti dei suoi morì prigioniero di Gragne,
restando però la vittoria della lotta ai cristiani.

Alcuni missionari cattolici venuti coi portoghesi, cercarono scacciare i
cofti, e vedendo fallire questo tentativo li conciliarono invece per
poco colla chiesa di Roma, ma la religione primitiva tornò presto a
prevalere.

In un paese come questo, dove domina lo spirito di conquista, la
tendenza alla rivolta, la frenesia al maneggio delle armi, i diversi
partiti religiosi, e dove non fu mai guida lo spirito di unità che
deriva dall'educazione e dall'amor proprio, continuarono le lotte
intestine che spesso vestivano il carattere religioso, altre volte
mantenevano il politico, e sempre erano a decadimento del paese.

In queste guerre fratricide si perde dunque la storia, finchè verso il
1840 si trova _ras_ Aly nell'Amara e _ras_ Ubiè nel Tigré che sono fra
loro in guerra. Il primo vince il secondo, ma lo vuol trattare con
troppa generosità, e Ubiè si rivolta nuovamente e riesce a riafferrare
il suo trono. Lo Scioa da lungo tempo si era dichiarato indipendente e
vi regnava Sahala Selasé, che mostrò di essere proclive alla civiltà e
di possedere modi cortesi e cuore aperto, quando si presentò alla sua
Corte D'Abbadie. Nelle montagne del Lasta sorge un avventuriero, certo
Kassa, che con molto ardire e il favore delle armi batte _ras_ Aly, ne
imprigiona la madre, ne sposa la sorella, si impadronisce dell'Amara e
si fa proclamare re d'Etiopia, dopo aver fatto assassinare _ras_ Aly;
era questi re Teodoro del quale tutti conoscono le gesta. Morì il re
dello Scioa e lui colse l'occasione per usurparne il trono, e colla
forza dei due regni uniti non trovò grave difficoltà a conquistare anche
il Tigré.

Teodoro, il vero tipo dell'avventuriero, pieno di ardire, di energia e
dotato anche di un certo grado di intelligenza, entrò presto nelle
simpatie di un popolo, che facilmente si esalta per chi mantiene la
guerra e sa condurlo vittorioso alla pugna. Unite le diverse provincie
del suo regno e ottenuta la pace, pensò allo sviluppo materiale e morale
dei sudditi ed invitò a stabilirsi presso di lui alcuni Europei che
conoscessero diverse arti e specialmente quella del fabbricar cannoni e
polvere.

Le idee erano buone ed apprezzabili in un individuo che non era mai
uscito dai confini di un paese poco meno che selvaggio, ma la gloria e
l'avidità della supremazia gli scaldarono presto il cervello, la sua
natura rozza e l'indole in fondo forse cattiva, trovando nella sua
posizione mezzo a sfogarsi, non conobbero più freno. Si diede
all'ubriachezza, commise nefandità che destano ribrezzo al rammentarle.
L'uccidere il prossimo era per lui la cosa più semplice, e credeva quasi
averne il diritto e farsene merito. Per punire piccole mancanze od anche
solo per il capriccio di un momento faceva metter fuoco ad un intiero
villaggio obbligando gli abitanti a starsene chiusi nelle rispettive
capanne.

Ordinò una volta che si radunassero in una pianura per una data epoca
30,000 buoi e volle in un solo giorno vederli tutti decapitati. Si portò
poi come già tutti sanno, cogli artefici europei da lui chiamati, e
cogli ambasciatori inglesi inviati dal loro Governo, talchè ne nacque la
guerra che gli fu fatale. Fino all'ultimo istante però diede prova del
suo carattere fermo e pieno d'amor proprio, col darsi un colpo di
pistola alla testa, piuttosto che cader prigioniero dell'esercito
nemico. Sono tante e tali le nefandità da lui commesse, che per
concepirle in un essere umano e per scusare lui, non si può pensare
altro che alla pazzia che lo avesse colpito. Per tal modo la maggior
parte dei suoi sudditi lo avevano completamente abbandonato, e come già
dissi, all'epoca della guerra inglese il regno da lui riunito era già
sfasciato.

Morto Teodoro, l'Abissinia restava così divisa e dominata: il Tigré, di
cui era principe Giovanni Kassa, che strinse amicizia cogli Inglesi,
lasciando loro libero passaggio sui suoi dominii, e fornendo guide,
interpreti, vettovaglie, quanto infine poteva necessitare, dietro
promesse di regali e protezione per l'avvenire; l'Amara di cui era
principe Gobusié: il Goggiam con a capo _ras_ Desta: lo Scioa capitanato
dal padre dell'attuale Menelik, era stato non soggiogato, ma domato fino
a pagare un tributo a Teodoro, e, morto questo, lo pagava al re del
Goggiam.

Come è naturale, nessuno di questi regnanti era contento di quel che
possedeva e mirava ad invadere i territori del vicino. La guerra non
tardò infatti a dichiararsi fra Gobusié e _ras_ Desta, e in due
battaglie fu decisa la sorte delle armi in favore di Gobusié che
distrusse e scompigliò le file del nemico in modo che questi, fuggiasco,
si diede alla montagna per continuarvi una guerriglia. Gobusié diede
allora la sovranità, od almeno il governo del Goggiam a suo cugino _ras_
Adal. Questi continua le ostilità, sorprende il nemico in una gola di
montagne, gli piomba addosso, lo fa prigioniero e incatenato lo porta a
Gobusié.

In questo frattempo un'altra guerra era scoppiata in Abissinia. Devo
premettere, che per tradizione è privilegio del principe del Tigré di
domandare al patriarca d'Alessandria l'_Abuna_, o vescovo cofto che deve
risiedere in Abissinia e che solo ha il diritto di incoronare i sovrani.
È uso fare la domanda mediante un'apposita commissione che si reca in
Egitto e riporta con gran sfarzo la sacra persona domandata, che deve
essere un nero. La tassa e le spese per questa funzione sommano a 25,000
talleri.

Giunto in Abissinia, l'Abuna vi resta come capo supremo della chiesa,
durante tutta la sua vita, dimora presso il re od in Axum, e per
appannaggio gli è destinata una delle più ricche province, più un tanto
da ogni chiesa che sta sotto la sua giurisdizione. All'epoca di cui
narriamo le vicende, mancava in paese questa autorità, e Giovanni Kassa,
usando del suo privilegio quale principe del Tigré, e di una avvedutezza
non comune, pensò procurarselo dicendolo necessario per la sua
incoronazione a re d'Etiopia. Gobusié allora, ingelositosi, mostrò le
sue lagnanze adducendo che lui pure poteva vantare altrettante pretese
al trono d'Abissinia. Ebbene, rispose Kassa, per farti incoronare ti è
necessario l'Abuna che tengo presso di me, vieni a prendermelo se puoi.
Così fu dichiarata la guerra, e il vincitore fra i due pretendenti
doveva cingere l'ambita corona. In questo spazio di tempo appunto _ras_
Adal aveva consegnato, incatenato, _ras_ Desta a Gobusié. La guerra, che
in questi paesi si riduce ad una o due battaglie laddove le due armate
marciando una contro l'altra si incontrano, si portò nelle alture fra
Adua e Axum e la vittoria fu a re Giovanni, quantunque questi si dice
non avesse che 12,000 uomini e l'altro fosse forte di un'armata di circa
60,000. Gobusié e _ras_ Desta caddero prigionieri e il primo fu pure
ferito. Torna qui a proposito ripetere un episodio che qualifica il
carattere fiero di questo popolo; re Giovanni, che era cognato a
Gobusié, avendo riguardo anche alle sue ferite, volle trattarlo
generosamente, lo fece raccogliere sul campo di battaglia e ricoverare
con ogni cura in un tenda vicina alla sua, dove spesso andava a
trovarlo. In una di queste visite, Gobusié gli disse: tu pretendi essere
re d'Abissinia, ma dovresti prima di vantare tanto, studiare la storia
dei tuoi avi ed arricchirti tanto da poter fare quello che hanno sempre
fatto i veri sovrani del nostro paese. Re Giovanni non sapeva
comprendere la stranezza di questo linguaggio, e Gobusié soggiunse;
sappi che in Etiopia si usò sempre incatenare i re prigionieri con
catene d'oro; ma tu l'ignori o non sei abbastanza ricco per farlo.

Kassa si trovò punto da questa osservazione, mandò subito una grossa
catena di ferro da Naretti, che allora era da poco arrivato in paese e
vi si trovava ancora coi compagni artefici, pregandolo trovar modo di
renderla come fosse argento. Fortunatamente, negli arnesi portati v'era
il necessario, e l'operazione fu subito eseguita. Kassa si presentò
allora al cognato e disse: se i re d'Etiopia si legavano con catene
d'oro, credo già far molto mettendo in catene d'argento chi voleva esser
re, ma non riuscì a diventarlo. E con questo, appena fu ristabilito
dalle ferite, lo mandò _alla montagna_ dove morì or fanno quattro anni.

Re Giovanni poi trovando più giusto di favorire _ras_ Desta che non
_ras_ Adal, forse perchè il primo aveva maggiori diritti al principato,
mentre il secondo aveva il demerito d'essere cugino di Gobusié, levò le
catene a _ras_ Desta e lo nominò _ras_ del Goggiam. A _ras_ Adal non
restò altro che ritirarsi, ma non per starsene tranquillo; con quelli
che gli rimasero fedeli mosse guerriglia a _ras_ Desta, lo sconfisse e
uccise, poi si presentò a re Giovanni professandoglisi amico,
dichiarandogli non aver mai avuto astio contro di lui, ed aver solo
agito in tal modo perchè riteneva sacre le sue pretese al principato del
Goggiam, e ora che l'intento suo era raggiunto, gli si sottometteva
giurandogli fedeltà ed ubbedienza. Re Giovanni accettò queste
dichiarazioni, lo confermò re del Goggiam e lo annovera ora fra i suoi
più devoti amici e vassalli.

Giovanni Kassa intanto, con gran pompa, nel dicembre del 1871 si faceva
coronare re d'Abissinia in Axum. Il Naretti fu incaricato della
costruzione del trono e della direzione dei preparativi per le feste che
ci disse furono splendide, come lo possono essere in tal paese. Le due
cose che certo meritano maggiormente d'essere ricordate, sono
l'accorrere di un numero favoloso di sudditi e la presentazione, il
sagrificio e la consumazione di un numero stragrande di buoi, con una
gazzarra infernale.

Veniamo ora al secondo periodo delle guerre del regno di re Giovanni. La
questione si fa molto delicata per un intervento e per certe
intelligenze segrete fra la Corte dello Scioa e quella del Cairo, che
gli Abissinesi vogliono ammettere, ma gli Egiziani decisamente negano.

Io sono ben lungi dal volermi fare lo storico di questo paese, che ben
poco merito ne avrei d'altronde per me e nessun vantaggio per gli altri,
solo mi faccio narratore delle opinioni che sono in paese. I fatti
nessuno li cambia, le apprezzazioni saranno vere o ispirate da spirito
di parte o da soverchia animosità, io non intendo farmene giudice nè
garante. Nega l'Egitto le sue intelligenze segrete con Menelik?
Spogliate il mio racconto della parte che riguarda questo soggetto e vi
resterà la pura verità storica dei fatti.

    [Illustrazione: 1. Bottiglia e bicchiere di corno. 2. Paniere-Tavola.
    3. Scarpa da donna in gran costume. 4. Cetra. 5. Lance.]

Causa delle guerre che ora vado a narrare, è la pretesa del re dello
Scioa di essere lui il solo discendente del ramo diretto da Salomone, e
quindi le sue pretese al trono di Etiopia.

Quando, or fanno quattro anni, avvenne la guerra cogli Egiziani, che fu
finita collo sterminio del Mareb e di Guda Guddi, si pretende vi fosse
una intelligenza fra lo Scioa e l'Egitto per attaccare i primi a sud e i
secondi a nord, ma gli Scioani non arrivarono in tempo, chè come vedemmo
la guerra non si protrasse e in pochi giorni fu troncata col massacro
completo degli Egiziani. Tre mesi dopo il Governo del Kedive organizzò
la seconda e più forte spedizione, che invece d'ottenere rivincita ebbe
pure sì triste sorte nelle giornate di Gura, e pretendono gli Abissinesi
che allora fosse delegato Munzinger pacha a portarne la notizia a
Menelik, perchè dal canto suo egli pure avanzasse. Avvenne che questo
messo, come sappiamo, fu massacrato per via dai Somali, quindi allo
Scioa non giunse la sua ambasciata, ma la notizia invece della prima
vittoria riportata da re Giovanni a Gundet. Menelik allora, invece
d'avanzare da nemico, fingendo rallegrarsi per l'importante trionfo,
mandò 500 cavalieri e dei doni a re Giovanni. Questi arrivarono appunto
quando il paese veniva invaso dalla seconda spedizione egiziana, ed ecco
come alla battaglia di Gura erano presenti questi pochi alleati, che
senza tanti contrattempi sarebbero invece stati piccola parte di un
esercito nemico che doveva attaccare alle spalle, mentre l'azione di
fronte era già impegnata coll'egiziano.

Assopiti per un momento tutti i rancori, pareva che la pace fosse
assicurata, quando or fanno circa tre anni un'altra alleanza è stretta
fra Menelik e l'Egitto. Quest'ultimo lo incoraggia a spingersi su
Gondar, dove se le sue truppe sono vincitrici, sarà coronato re
d'Abissinia, e se le sorti sono avverse si verrà in suo aiuto invadendo
dal Galabat.

Menelik col suo esercito si avanza infatti, raggiunge Debra-Tabor e si
accinge a procedere nel Goggiam e su Gondar. Come le cose erano
combinate, se pur lo erano, poteva certo esser questo un cattivo quarto
d'ora per re Giovanni, ma la sua stella si mostrò questa volta più
lucente che mai; raccoglie il suo esercito e passando pel Semien marcia
verso il Gondar per sorprendervi l'invasore, quand'ecco che la guerra
fra Russi e Turchi prende proporzioni gigantesche e volge sfavorevole
pei secondi. Questo avvenimento ebbe grandissima importanza sulle sorti
di Abissinia, chè, dovendo il Kedive mandare le sue migliori truppe al
Sultano, non potè tenere un corpo d'esercito impegnato nelle pianure di
Metemma, e Menelik vedendosi così abbandonato, non ebbe più confidenza
nelle sue forze e battè in ritirata passando al Goggiam, dove portò lo
sterminio, saccheggiando, massacrando e _amputando_ quanti poteva, e fra
l'altre volle far sua la donna di _ras_ Adal che pare fosse di rinomata
bellezza e d'altrettanto buon cuore. La moglie, che lo seguiva,
ingelositasi, non fece rimostranze apparenti al marito, ma dicendosi
poco sicura in questo paese nemico, dichiarò di voler rientrare in
patria facendosi per maggior garanzia scortare da buon numero di truppe.
Tutto questo però non era che una finta, e giunta ai confini cominciò a
svolgere il suo piano di vendetta.

Proseguì verso la capitale, annunciò che Menelik era stato sconfitto e
ucciso, si proclamò regina dello Scioa, mise in libertà molti di sua
famiglia che il marito per tema o per gelosia teneva incatenati alla
montagna, e mandò persino ambasciatori a re Giovanni per trattare la
pace in nome suo, ma questi rispose che non era uso trattare con donne e
voleva direttamente il re.

Il governatore lasciato da Menelik durante la sua assenza, prestò per
altro poca fede alle notizie portate dalla pseudo-regina e invece di
sottometterlesi, avuta notizia che il suo re viveva e si avvicinava,
radunò quante truppe potè, le mosse battaglia, la vinse, incatenò e
consegnò al Sovrano che sopraggiunse poco dopo. Mentre allo Scioa si
svolgeva questa pagina di storia che merita solo titolo di aneddoto,
Menelik andava continuamente ritirandosi, e re Giovanni lo inseguiva,
finchè ebbe percorso quasi tutto il paese e andò ad abitare il palazzo
del re nemico alla sua capitale. Qui si finì per conchiudere la pace che
diede tutta l'Abissinia sotto lo scettro di re Giovanni, e pacificata,
tranne qualche _rivoltato_ che continuò ancora per qualche tempo le sue
guerriglie, considerate però come attacchi da briganti più che campagne
da nemici. Fra questi, il più importante fu certamente Woldi Michael,
che per tre anni tenne in rivoluzione tutta la provincia dell'Amassena,
ed anche questo si pretende dagli Abissinesi che fosse istigato, anzi
espressamente stipendiato dagli Egiziani.

Colla pace conchiusa, Menelik conservò il suo titolo di re dello Scioa,
anzi re Giovanni gli fece dono di una splendida corona, ma si dichiarò
tributario del re dei re, obbligandosi a pagargli un annuo tributo ed a
fornirgli buon contingente di truppe in caso di guerra. Re Giovanni poi,
quasi per mostrargli come non lo temesse, invece di disarmarlo, come
forse avrebbe fatto un sovrano in Europa, gli fece dono di 200 fucili
per le truppe e di qualche cannone.

Nelle trattative pel tributo, fu una gara di cortesia e di generosità
finissime, che nel fondo corrispondevano ad altrettante punture che si
davano l'un l'altro questi due che nel cuore nutrivano odio reciproco,
ma apparentemente dovevano mostrarsi fratelli, dei quali uno era
vincitore e superbo, l'altro vinto e avvilito, ma per cavalleria
volevano nascondere questi sentimenti e fingere la più schietta amicizia
e indifferenza. Così Menelik fu il primo a fare la proposta, ed enumerò
tale quantità di cose che avrebbe voluto annualmente mettere ai piedi
del suo nuovo sovrano, che questi insospettitosi forse della finezza
che vi si nascondeva ed impuntigliatosi ad essere ancora più grande,
dichiarò essere pienamente soddisfatto di un tributo di gran lunga
inferiore, e così si conchiuse.

Venuto però il giorno del pagamento, re Menelik presentò appuntino il
convenuto, poi a titolo di regalo per simpatia e ammirazione, fece
sfilare avanti a re Giovanni molto più ancora di quanto pel primo gli
aveva proposto. Alcuni del seguito mi raccontavano favolosa la massa di
roba presentata, e pretendono impiegasse tre giorni a sfilare davanti a
re Giovanni.

Tutto consisteva in buoi, vacche, capre, mule, cavalli, talleri, avorio,
biade e grani, tende nere tessute in paese, miele, burro.

L'atto di sottomissione si dovette compiere con tutte le formalità
d'uso, e cioè radunata la Corte, il vinto si deve presentare chinato dal
peso di una pietra che porta sulle spalle.

Il vincitore leva, od ordina che si levi quella pietra, e Menelik potè
allora alzar la fronte davanti a re Giovanni e al suo seguito, chè in
quel momento devono tutti alzarsi in segno di saluto e d'amicizia al
nuovo confratello. _Ras_ Adal, che nella ritirata di Menelik attraverso
al suo stato aveva avuti tanti maltrattamenti, dichiarò che mai non si
sarebbe alzato davanti a costui che per lui era nemico giurato per tutta
la vita. Per quanto le etichette di Corte lo richiedessero,
assolutamente si dichiarò pronto a perdere posizione e vita piuttosto
che umiliarsi a tanto, e come re Giovanni teneva a che figurasse nel
momento del ricevimento solenne, si conchiuse che _ras_ Adal starebbe ai
piedi del suo re, facendogli delle proprie gambe sgabello, come si usa
in paese. Con questo potè figurare fra i fidi di re Giovanni ed evitare
di alzarsi davanti al suo più gran nemico.

    [Illustrazione: AXUM]




CAPITOLO VIII.

  Da Adua a Axum.--Panorama della città.--L'obelisco.--Avanzi
  antichi.--La chiesa.--Ritorno in Adua.--Costumi degli
  Abissinesi.--Rito religioso.--Caste sociali.--Carattere della
  popolazione.--Clima.--Visite noiose.--Un ordine
  reale.--Amministrazione.--Tradizioni.--Agricultura.--Carovana
  dello Scioa.--Una refezione all'abissinese.


Per riprendere il filo del nostro itinerario montiamo a cavallo la
mattina di mercoledì 19, e seguiti da poche provvigioni ci interniamo in
direzione ovest in un labirinto di alture aride e quasi spopolate, delle
quali alla vetta delle più alte sorge quasi sempre una chiesa. Avanti a
noi, un po' a sud, nella poco limpida atmosfera si distingue a quando a
quando il profilo dell'imponente gruppo del Semien. Facciamo breve sosta
presso un pozzo naturale, scendiamo in un vasto piano che alcuni
miserabili stanno preparando alla coltivazione, lo attraversiamo, e una
colonna rettangolare che scorgiamo ai piedi delle estreme falde di una
altura che fronteggiamo, ci indica vicina la meta. Girando infatti sulla
destra e oltrepassando un'incassatura fra rocce, ci si presenta distesa
ai piedi di un catena di alture, Axum, le cui capanne riposano all'ombra
di gruppi di tamarindi e tuje pendule.

Nel mezzo, nascosto dalle fronde, appare come l'avanzo di un castello
merlato, a nord-ovest l'obelisco fiancheggiato da un enorme sicomoro.

A mezzogiorno mettiamo piede a terra in un ricinto in cui è una capanna
che ci è destinata, desiderosi di rassicurarci della impressione
simpatica che abbiamo dell'insieme di questa città, e ravvivati dal
desiderio di rivedere che cosa l'arte e la civiltà hanno potuto in altri
tempi.

Siamo subito pregati di una visita, e percorsa poca strada entriamo nel
recinto sacro del tempio e per una viuzza giungiamo ad una capanna che
dalle altre si distingue per capacità e proprietà. È l'abitazione del
_Cighié_, titolo che si conviene al capo religioso e civile di questa
provincia, e che fa le parti dell'_Abuna_, quando, come ora, questi
manca in Abissinia. Il personaggio è assente, trovandosi al campo del
re, ma i suoi figli, nipoti e servi ne fanno gli onori. Tutti sono
accovacciati al suolo e ci accolgono cortesemente; noi pure sediamo come
loro su tappeti e stuoie. Poco dopo recano un gran vaso di tecc coperto
da stoffa rossa, come usano i grandi, lo posano su uno sgabello e ne
versano il liquido in grandi bicchieri di corno, per poi riversarlo
nelle solite bottiglie a cipolla col primitivo imbuto di due dita, e
offrircelo. Recano poi un paniere con pane di teff e un vaso di
_berberi_ o peperoni rossi essicati poi impastati con cipolle, e
adottando gli usi e le posate del paese dovemmo ingoiarne e assaporarne.
Consumato questo sacrificio e risposto ad una vera tempesta di domande,
si accommiatammo.

    [Illustrazione: Obelisco d'Axum

    Vertice posteriore. Dettaglio delle sculture.]

Accompagnati da Zaccaria che ci fa da interprete e da cicerone passiamo
a visitare l'obelisco che rettangolare e leggermente rastremato al
vertice si eleva di circa 25 metri: alla facciata è tutto scolpito e
diviso con linee orizzontali e disegni strani e ripetuti. Alla base ha
scolpito una finta porta cui non mancano i particolari delle serrature:
misura metri 1.50 di larghezza e 1.15 di spessore, e sorge fra due
grosse lastre ora sconnesse, ma che si vede dovevano perfettamente
abbracciarlo e formargli come un pianerottolo all'ingiro: il tutto di
granito grigio scuro. La pietra che sta sul davanti porta tre
forature, come mortai, parallele all'obelisco stesso, ed una quarta al
centro avanti alle altre. Rende poetica ed artistica la posizione un
secolare sicomoro, di cui il tronco è quindici metri in circonferenza, e
che fra le sue sporgenti radici tiene abbracciato un altro obelisco
minore. Nei dintorni molti altri ne stanno di colossali e lavorati, ma
caduti e fatti a pezzi: molti riposano presso le stesse pietre che li
circondavano, e che portano le stesse forature. Parecchi ne stanno
ancora nella loro posizione verticale, ma di minore importanza; alcuni
appena regolarmente tagliati o levigati, altri rozzi pezzi di granito a
forma di lingua, qualche volta con rigature orizzontali o calotte
sferiche in leggero rilievo. Lascio allo studioso il decifrare questi
muti testimoni della civiltà d'altri secoli, e mi permetto solo di
aggiungere che dalla poca esperienza fatta visitando altre reliquie
sorelle, mi pare questo abbia tutta l'apparenza di una necropoli o di
una località consacrata al culto. Gli Abissinesi, non potendosi spiegare
con quali mezzi siansi potuti innalzare pezzi così grandi e pesanti, ne
attribuiscono il merito al diavolo che voleva costruire una gran torre
per dare la scalata al cielo. Il nostro bravo Zaccaria, che fra i suoi è
certo il più istrutto, non può credere a questo lavoro diabolico, ma non
sa neppur immaginare che vi abbiano riuscito uomini come lui, e pretende
che a quei tempi si sapesse sciogliere poi rimpastare il granito, e con
questo sistema si costruissero gli obelischi a pezzo a pezzo.
L'ingenuità è per lo meno ingegnosa. Proseguendo a nord è un recinto
circolare destinato ad erigervi una chiesa, poi quasi a terminare la
città da questo lato, un altro spazio circolare racchiuso da una cinta,
sede reale. Si accede per un'apertura coperta da una tettoia di paglia a
metà rovinata. L'interno è diviso in due parti da un piccolo muro. Al
centro sorge un edificio circolare di una dozzina di metri di diametro,
sormontato da un tetto conico in paglia; è la sala del trono e delle
udienze. Un giro di rozzi tronchi che fanno ufficio di colonne aiutano a
sopportare il tetto ben fatto con canne e corde intrecciate, e talora
avvolte con stoffe a colori. Come mobilia, nulla, tranne il trono che
servì all'incoronazione, semplice sedia sormontata da un baldacchino con
corona e qualche ornato, poggiando su una piattaforma alla quale si
accede per cinque o sei gradini. Nelle pareti alcuni semplici fori per
dar luce, da un lato la porta d'ingresso, e opposta a questa l'altra da
cui esce S. M. quando vuole andarsi a riposare nel _vicino palazzo_.
Sorge questo a pochi metri nello stesso recinto, in forma rettangolare
con un piano superiore che tutto è costituito da una rozza camera. Nel
locale inferiore abita il custode, e la scala che accede agli
appartamenti superiori è esterna e mostra per la sua costruzione che i
giorni del re non si reputano troppo preziosi pel suo popolo. Quando il
re vi abita, ci si disse che vi si portano degli _angareb_, e le pareti
si coprono con stoffe.

Rimpetto a tutto questo è un'altura che finisce con roccia nuda, e la
cui base forma parete ad una vasca semicircolare lunga una trentina di
metri, larga la metà e profonda forse sei, in cui all'epoca delle piogge
si raccoglie l'acqua. È detta _maiscium_ o acqua dei principi. Dal lato
dell'altura sono due vie scavate nella roccia che dagli estremi della
vasca vanno elevandosi sopra il centro, dove trovansi quattro o cinque
gradini disposti ad anfiteatro. Avanzi di antiche gradinate scendono
pure fin sul fondo della vasca. In un avvallamento di fianco a questa
altura sta un grosso sicomoro, dove per antica tradizione, il giorno
dell'Epifania, si piantano due tende, di cui una è regalo del re, vi si
celebrano solenni messe, vi si fanno grandi feste e si benedice l'acqua.

Da qui verso sud continua la catena di alture che stanno rimpetto alla
città da cui sono divise per pochi metri dall'incassatura di un
piccolo torrente in cui scorre acqua solo al tempo del _carif_. Alla
vetta di una di queste, ove salimmo, Zaccaria ci mostrò alcune tracce di
un antico edificio in pietra da taglio, distrutto dal tempo ed
ultimamente dall'avidità del materiale. In diversi punti avanzi di
antiche opere, per lo più finte porte scolpite nella roccia.

    [Illustrazione: Chiesa d'Axum nel castello portoghese]

Passiamo, invitati, a visitare il Nebrid, l'autorità ecclesiastica che
viene subito dopo il Cighiè in via gerarchica. Abbiamo uno dei soliti
ricevimenti con trattamenti, e vi troviamo una cordialità senza pari e
una persona franca, intelligente, simpatica quanto mai.

Da qui alla chiesa, che è entro un curioso edificio merlato,
rettangolare, che ha tutto l'aspetto di un castello medioevale, ciò che
mi fa ritenere per certo essere un avanzo di fortificazione della
dominazione portoghese. Sul davanti è un rozzo porticato con pilastri.
L'interno è diviso in tre navate, ed a circa metà della sua lunghezza
diviso da un muro che rinserra così la parte riservata ai preti. Qui
dentro si conserva il trono di gala che il re fece fare a Naretti e che
modestamente si intitola trono di Salomone. Dieci gradini in legno,
fiancheggiati da una balaustrata, portano ad una piattaforma, sulla
quale, dietro la sedia reale si innalza un assito sormontato da una gran
corona, intagliato a disegni fra cui al centro i leoni d'Etiopia ed una
iscrizione che porta il nome del re, la data dell'incoronazione e il
nome dell'artefice.

In uno speciale cortiletto, a fianco alla chiesa, sorge un piccolo
edificio nel quale si pretende siano state deposte e conservate le
tavole della legge: ora vi stanno positivamente due cannoni di bronzo
presi agli Egiziani a Gura, e che il re in atto di devozione offrì alla
chiesa quale ringraziamento della vittoria. Attorno alla chiesa è un
gran recinto sacro, popolato da molte piante, nel quale non possono
entrare donne; sparse vi sono parecchie capanne che per tradizione si
ritengono inviolabili, e quindi vi tengono deposti i loro tesori i
grandi personaggi. Avanti la chiesa è una lunga gradinata, larga
sessanta metri, che aggiunge imponenza a questo edificio che in mezzo a
tante abitazioni e templi in paglia figura già come gigante. Sortendo
dal primo recinto in direzione ovest si trova una massa di rovine, e fra
queste ancora perfettamente riconoscibili le sedie dei giudici che la
tradizione vuole sedessero a pubblico tribunale rappresentando le dieci
tribù d'Israele. Sono basamenti in pietra che sopportano massicci sedili
pure in granito, nei quali restano le tracce delle incisioni dove si
assicuravano il dorsale e i bracciali che dovevano forse essere in
metallo o ricoperti da ricche stoffe.

Altri avanzi si trovano in diversi altri punti della città: resti di
grosse muraglie: grossi dadi in pietra, disposti in linea retta, che
mostrano l'esistenza di un edificio di qualche importanza, e
perfettamente all'estremo sud una gradinata di sei gradini, lunga una
quindicina di metri. Resti parlanti della antica civiltà sono due
lapidi, o meglio frammenti di lapidi, delle quali una in caratteri greci
rimonta al 330 della nostra era e narra i fasti di un imperatore
_Aizana_.

L'elevazione di Axum mi risulta di 2170 metri circa.

Un altro obelisco caduto e spezzato ci fu mostrato presso alcune
abitazioni: è il più grande, parmi, e misurato a metà dell'altezza
circa, mi diede metri 3.50 x 2.05: la lastra che doveva fargli
piattaforma sul davanti è metri 6 x 17.20.

Passati un paio di giorni a visitare questi interessanti avanzi ed a
cavarne qualche schizzo che ce ne possa ricordare le linee principali,
riprendiamo la via del ritorno per Adua.

    [Illustrazione: Abitazione reale in Axum]

Proseguiamo per poco verso nord ove anche dopo le ultime capanne si
continuano ad incontrare avanzi di obelischi più o meno rozzamente
lavorati. Questo mi conferma nella mia opinione che trattasi di una
necropoli o di un santuario, essendo gli obelischi maggiori, che tutti
portano presso a poco le stesse incisioni, dedicati ai singoli membri
della dinastia regnante, od innalzati come fari del culto e della fede.
Non potrebbe quella porta che sta scolpita ai piedi di molti degli
obelischi, avere allusione all'ingresso nella nuova e forse miglior
vita? Vediamo tanti monumenti moderni che vorrebbero esprimere lo stesso
concetto! E quelle forature nella piattaforma, non potevano servire ad
accendere fuochi per tener viva la memoria del trapassato, o a ricevere
offerte che gli amici e i parenti deponevano in omaggio al defunto, e
che i poveri raccoglievano? Sono usi che vediamo ancora oggi praticati
in alcuni paesi. E non c'è a stupire se di una città, anzi di una
civiltà, non restano che poche tracce di lavori dedicati alla fede e ai
morti. La stessa cosa vediamo negli avanzi di quasi tutte le città
romane, nei giganti dell'antico Egitto, nei colossali templi dell'India,
dove quasi nessuna traccia ne resta che ci dia idea della vita privata
di quelle popolazioni che vivevano forse sotto meschine capanne o entro
grotte, ma lasciarono quei ricordi davanti ai quali noi ci sentiamo
pigmei, quegli edificii che per culto alla fede o per rispetto ai
trapassati furono arditamente innalzati colla vita di migliaia di
schiavi e colle ricchezze di intiere provincie.

Noi abbiamo raggiunto, almeno a quanto pare, un grado molto superiore di
civiltà, e per ottenere questo intento abbiamo trascurate le tradizioni
per far trionfare l'egoismo, ma credo che molti plaudirebbero al giorno
in cui il faro che ci guida nella vita fosse meno l'interesse, ma meglio
le affezioni.

Volgiamo ad est, saliamo un'altura dalla quale diamo l'ultimo addio ad
Axum e dopo mezz'ora ci fermiamo per visitare alcune grotte. Un'apertura
di poco più di un metro di larghezza per due di altezza dà accesso ad un
corridoio le cui pareti sono in blocchi di granito squadrati: l'entrata
è in discesa e la soffitta pure in blocchi di granito sovrapposti come
gradini di scala rovescia.

Dopo sette o otto metri s'incontra un corridoio trasversale: rimpetto
all'entrata una specie di camera di quattro metri circa di profondità, e
ai lati di questa due corridoi dall'apparenza paralleli continuano in
direzione dell'entrata. Mi inoltro per qualche metro, ma sgraziatamente
la mancanza di luce naturale ed artificiale non mi permette di
verificarne nè la direzione nè la profondità.

Nelle vicinanze se ne vedono altre simili, ma l'accesso ne è quasi
completamente proibito da pietre che lo ingombrano, e solo vi hanno
rifugio jene e sciacalli.

Per una via molto più variata e simpatica di quella percorsa venendo, ce
ne torniamo alla nostra dimora di Adua, dove gli amici rimasti ci
avevano preparato di che rifocillarci; ma mentre tutti quanti stiamo col
piatto sulle ginocchia, entra un corriere speditoci da Massaua.

Tacque la fame, ognuno dimenticò quanto aveva sul piatto e alle nostre
narrazioni, al tintinnio delle posate subentrò un silenzio sepolcrale
interrotto solo dal fruscio di qualche pagina che dava posto ad
un'altra.

Bisogna averlo provato, per poterlo immaginare, cosa sia di consolazione
ricevere nuove della propria famiglia, e inaspettatamente, in simili
circostanze.

    [Illustrazione: Costume da donna abissinese]

    [Illustrazione: Soldato abissinese]

Il costume generale dell'Abissinese è lo _scemma_, specie di lenzuolo
bianco attraversato da una striscia scarlatta di cinquanta centimetri di
larghezza: il bianco si ottiene da cotone coltivato in alcune provincie,
filato e tessuto in paese, il rosso è filo importato d'Europa, e come
per questo motivo è la parte più costosa, i poveri lo sopprimono e più
si avanza nell'interno, più si restringe, diventando maggiormente caro
pel trasporto. Il genere dell'abbigliamento e l'eleganza del modo di
indossarlo portata dall'abitudine, lo rendono quanto mai pittoresco:
le persone più agiate o che occupano alte cariche vi aggiungono una
semplice camicia od un paio di calzoncini in tela bianca: il povero è
meschinamente coperto da un cencio qualunque o qualche volta da una
semplice pelle alla cintura: i bambini spesso come natura li fece. Le
donne si fanno una piccolissima treccia che gira sul fronte e scende
dietro le orecchie, e pettinano il resto della testa con una massa di
treccine che partendo dal fronte, nel senso longitudinale del capo,
scendono a radunarsi alla nuca. Gli uomini portano capelli corti, o in
segno di distinzione cinque grosse trecce che pure scendono dal fronte
alla nuca, e questo serve a dar loro aspetto assai marziale. Le prime
spesso, i secondi qualche volta, uno spillone d'argento conficcato nei
capelli. Le ragazze, in segno della loro verginità, portano una larga
tonsura che tutta occupa la nuca e lascia solo un anello di capelli
all'ingiro. Il costume comune alle donne è una camicia di tela ricamata
a strani disegni con fili colorati, sul davanti, attorno al collo e alle
maniche. Spesso hanno braccialetti anche ai piedi, piccoli orecchini e
originalissime collane in argento. Alle dita molti anelli grossi ma
lisci. L'uomo porta raramente monili: alle volte qualche anello
d'argento alle dita: spesso però gli pende dal cordone azzurro, che in
segno di cristianesimo porta al collo, un grosso anello in bronzo od
argento, e, cosa curiosissima, uno spazza-orecchie alle volte abbastanza
elegante, ma del quale credo che l'uso sia poco meno che ignoto.
Comunque sia è strana la presenza di questo unico strumento da toeletta
che sia conosciuto in paese.

Il D'Abbadie appoggia molto sul modo di vestirsi e sulle conseguenze
almeno apparenti che ne derivano nei costumi per trovare un certo nesso
fra gli Abissinesi e gli Etruschi, i Romani e i Greci, e come i Romani
distinguevano la Gallia togata, la Gallia bracata e la Gallia comata,
vorrebbe che l'Etiopia fosse quella che dal costume potrebbe dirsi
Africa togata. Finamente poi osserva come anticamente i soldati
acquistavano diritto a farsi una treccia per ogni nemico ucciso o fatto
prigione, e dieci fatti simili permettevano di fare a trecce tutta la
testa e vede nell'attuale uso abissinese una tradizione di questo
costume.

Non si coprono mai il capo e marciano sempre scalzi, solo usando dei
sandali quando hanno i piedi piagati. Vivono molto parcamente, chè il
loro nutrimento abituale è pane con berberi, pastina ottenuta da
peperoni rossi essicati e cipolle pestati insieme, che qualche volta
riscaldano con farina di ceci e ne fanno così una pietanza assai forte
nella quale intingono il pane. Solo in circostanze particolari mangiano
carne, quasi sempre da bue, e la preferiscono cruda, di animale appena
ucciso. Sono ghiottissimi di questo pasto selvaggio che chiamano
_brundò_: qualche volta abbrustoliscono le carni sulla bragia. Indolenti
per carattere, il loro primo scopo è il dolce far niente, ma l'attività
non manca loro e in caso di necessità sono capaci di fatiche e di
privazioni straordinarie. Con pochi pugni di farina vivono e camminano
intiere giornate, e il giorno che possono sgozzare un bue lo divorano
materialmente, empiendosi fino al punto di non potersi quasi più
muovere.

Come bibite hanno la birra, liquido torbido ed acidulo che si ottiene
dal fermento di acqua con pane o grano abbrustoliti. Più usato è il
_tecc_ ottenuto dal fermento di acqua, miele e foglie di _ghessò_ o
radici di _teddò_, arbusti che crescono allo stato selvaggio e che
qualche volta si coltivano all'uopo. Il più delicato è quello che si ha
dalle foglie di _ghessò_: come usano questa bevanda nel momento della
sua maggiore fermentazione, assai facilmente se ne ubbriacano.

Qualche arabo ha introdotto in paese l'uso di distillare il grano di
_dagussà_, dal quale ricavano una specie di acquavite, di che sono assai
ghiotti, e che chiamano _arachi_.

    [Illustrazione: La nostra abitazione in Axum]

La _dura_ è il grano più usato dalla popolazione: i benestanti usano
molto il _teff_, che somiglia al nostro miglio, e col quale fanno dei
pani simili a grandi ostie tutte a piccoli fori come un merletto, sempre
molle come pasta cruda, anche se stracotto. Hanno buon frumento, ma
raramente lo usano. Le capanne loro sono meschinissime e tutto quello di
più sudicio che si può immaginare: è un lusso concesso a pochi l'avere
un _angareb_, chè la maggior parte dorme per terra rannicchiata su una
pelle da bue che difende dall'umido e dagli insetti. È gente del resto
contenta del suo stato, che con poco potrebbe procurarsi qualche
miglioramento nelle abitudini e nel vivere, ma che non ne sente il
bisogno e non se ne cura.

Il sapone vegetale è un arbusto curioso che prende volentieri forma
d'arrampicante nelle siepi: produce dei fiocchi di fiori biancastri, dei
quali i semi si usano come sapone e ottengono benissimo l'intento
producendo molta schiuma.

L'abissinese non si lascia mai vedere quando mangia, e facendo questa
indispensabile operazione, si raccolgono a piccoli crocchi e si coprono
stendendo uno scemma sulle teste. Così pure quando parlano, lo fanno
spesso sotto voce e alzando il manto a coprire la bocca. È gran lusso
l'avere delle bottiglie europee in cristallo a forma di cipolla, e di
queste si servono come da bicchiere. Hanno poi bicchieri e bottiglie di
_fabbrica nazionale_, che consistono in grosse corna da bue ridotte
all'uopo.

Si pretende sia conseguenza dell'uso delle carni crude la frequenza del
tenia, che curano con una decozione di _cussó_, albero che vegeta
splendidamente in molte località. Del resto la loro farmacia si riduce a
qualche rimedio empirico, sempre vegetale, e nel confidare nel tempo e
nel lavoro di natura. Per le ferite e le piaghe applicano assai
facilmente il fuoco con un ferro rovente; e frequentissimi sono gli
individui che al petto, al dorso o alle braccia ne portano le tracce.

Secondo il rito abissinese v'ha un battesimo pei neonati e un matrimonio
per chi vuole regolarmente crearne. Battezzando, il prete passa al collo
del bambino un cordone tricolore in segno della Trinità: questo si
riduce in seguito ad un cordone azzurro, che si usa portare come
distintivo, dai cristiani. Pochi adempiono alla formalità del secondo
sacramento: la separazione è frequente e il divorzio ammesso anche
religiosamente qualora si provi che la donna ha bastanti mezzi per la
sua sussistenza, o che il marito può fornirglieli. I maschi restano al
marito, le femmine alla moglie. Sono cristiani, ma separati dalla chiesa
cattolica e dipendenti direttamente dal loro patriarca che siede in
Alessandria d'Egitto. Il loro rito è il cofto, che ebbe vita verso la
metà del quinto secolo da Eutichio, monaco di un monastero in vicinanza
di Costantinopoli, il quale si dichiarò oppositore alle vigenti credenze
sulla doppia natura di Gesù Cristo. Il nuovo dogma non piacque al
cattolicismo, e radunato un primo Concilio per ordine di papa Leone
Magno, Eutichio fu dichiarato eretico, ma riammesso a far parte della
chiesa cattolica dai voti di un secondo Concilio convocato per ordine
dell'imperatore Teodosio II. I proseliti si divisero per altro in due
fazioni favorevoli alle contrarie decisioni dei due Concilii, per cui
per por fine ai dissidii ne fu convocato un terzo in cui gli Eutichiani
furono irrevocabilmente dichiarati eretici, e per questo si separarono
completamente dalla chiesa di Roma, e propagarono le loro credenze in
Oriente. Credono alla Trinità riconoscendo in Cristo una sola natura,
perchè pretendono che la divina ha assorbito l'umana. Il loro culto
d'adozione è quello della Vergine che come madre di Cristo ha, secondo
loro, maggiori titoli alla venerazione dei fedeli. Osservano il culto
delle immagini. Hanno due quaresime, una di quaranta giorni che precede
la Pasqua, e una di dieciotto durante l'Advento: entrambe si osservano
scrupolosamente, facendo un solo pasto ogni ventiquattro ore e dopo il
tramonto: la carne, il latte, le uova sono proibiti in questo epoche, e
si tollerano solo i legumi. Nessuna concessione è fatta, neppure, per
malati e moribondi.

    [Illustrazione: Prete cofto d'Abissinia]

Per speciali divozioni, il re può far proclamare altri digiuni. Le
funzioni religiose hanno luogo generalmente la notte, e nelle feste
speciali con gran pompa. La popolazione è molto religiosa in apparenza,
ma mi pare assai poco nella sostanza, come pure sono fieri d'esser
cristiani, ma in realtà lo sono di nome più che di fatto. I preti devono
saper leggere, è un lusso se sanno scrivere, e dando un piccolo esame
davanti al vescovo od a chi ne fa le veci, vengono investiti del sacro
ordine: nelle chiese insegnano poi a leggere e commentare le sacre
scritture a dei ragazzi che a loro volta diventano i successori. È loro
concesso di ammogliarsi, ma in caso di vedovanza non possono passare a
seconde nozze.

Per vivere è loro destinato un tributo sui terreni appartenenti al
villaggio cui sono addetti, e ricevono offerte private. Vestono uno
scemma tutto bianco e un turbante pure bianco, rare volte giallo.
Portano sempre una croce in ferro colla quale si fanno il segno della
croce. Conoscono la propria ignoranza e temono il confronto di qualunque
altro sacerdote, per cui sono i più terribili nemici di qualunque
influenza europea, immaginando che dietro l'ambasciatore o il
commerciante, venga subito il ministro della fede. Nella celebrazione
della messa stanno racchiusi nel camerino interno della chiesa, talchè
non sono visibili agli occhi del pubblico: all'esterno però vi sono
sempre altri preti e chierici che coll'originale turibolo tutto a
campanelli, col loro speciale campanello, con canti e gridi fanno un
baccano che somiglia più ad una ridda infernale che ad un sagrificio
religioso.

Nella società non vi sono grandi distinzioni di classi. Solo ai tempi
di D'Abbadie e di Rüppel esisteva ancora una certa organizzazione, si
usavano certe etichette nei ricevimenti, nei costumi trasparivano
principii di eleganza, di effeminatezza: si parlava allora di tinture
agli occhi, di profumi sulla testa, si adoperava un elegante ed
originale _bornus_ da signora in seta azzurra e gialla con ricami
caratteristici a colori. Cose tutte che oggi sono quasi scomparse perchè
le continue guerre hanno devastato il paese, e la miseria generale ha
portato la trascuratezza del superfluo e la svogliatezza
dell'attendervi.

Oggi mi pare che l'abissinese può dividersi in tre categorie: quelle dei
così detti _grandi_ che hanno cariche civili, militari o religiose:
quella dei _benestanti_, se così si possono dire, che corrispondono al
nostro medio ceto, e che per eredità di famiglia, per speciali favori o
per ricompensa ebbero dal re il dono di terre, e dal ricavo di queste
vivono: l'ultima classe è la povera, anzi poverissima, quella degli
agricoltori, se così si possono chiamare quelli che grattano un po' di
terreno per spandervi del grano e senz'altro raccoglierne i frutti
qualche mese dopo. Questa classe, che infine è quella che pensa alla
sussistenza di tutti quanti gli Abissinesi, è ritenuta l'infima e quasi
tenuta in conto di spregio, chè in paese considerano il coltivare la
terra come il più basso grado di avvilimento per un uomo. E pensare che
sono i soli individui, si può dire, che in Abissinia lavorano. Chi vi si
adatta sono i pochi che annidano sentimenti umani nel cuore e
preferiscono le affezioni della famiglia alle emozioni delle armi, e
della vita errante, oppure quei disgraziati seminudi e semi-schiavi che
non poterono mai giungere a procurarsi un cencio ed un'arma tanto da
rendersi capaci di seguire un corpo qualunque d'esercito. Questo è la
vera piaga del paese, che essendo il soldato mantenuto e godendo del
beato far niente tutta la giornata, il sogno d'ogni abissinese è di
diventarlo, e tutte le braccia robuste sono così tolte all'agricoltura.

Il carattere dell'abissinese varia molto a seconda delle province e
delle classi sociali. Così nel Tigré è più fiero e ardito, nell'Amara
calmo e serio, nello Scioa cortese ed elevato, almeno a quanto potei
giudicare da parecchi scioani venuti in Adua.

La più alta classe sociale, sia per natura, sia per ambizione, sia
perchè lo ritiene un dovere, volendo farsi credere educata con degli
Europei, è generalmente affabile, ospitaliera. Il ceto medio vorrebbe
esserlo, ma non può o non sa esserlo, e tutte le gentilezze, i tratti di
generosità che per lo più vi usa, cerca di averli materialmente
compensati ad usura. La classe povera è piuttosto buona e sarebbe
ospitaliera se non la trattenesse dall'esserlo la gran miseria e la
paura costante d'esser vittima degli abusi del paese. Quando viaggiano
carovane per ordine o servizio del Governo o del re, che è poi la stessa
cosa, oppure compagnie di soldati, hanno diritto d'essere mantenuti in
ogni villaggio che si trova sulla loro via, e come hanno una certa
impunità e nessuna riservatezza, non si accontentano di vivere, ma dove
toccano portano la devastazione.

Entrano nelle case, fanno sgombrare gli uomini, obbligano le donne a far
pani, tecc, a dar loro miele, latte e tutto quel poco che si può avere,
poi spesso abusano di questa ospitalità forzata e non rare volte si
divertono ad insaccare o buttar via per malvagità o dispetto le
provviste che a questi miserabili dovevano servire fino alla fin d'anno.
Da questo deriva che la povera popolazione è diffidente, quando vede
arrivare una carovana scappa, nasconde le provvigioni, rifiuta ogni
cosa, e spesso dovemmo durar fatica a persuaderli che eravamo
galantuomini e che volevamo pagare quanto cercavamo.

In complesso non vedono di buon occhio l'Europeo, perchè non sanno
concepire per qual ragione viaggi nei loro paesi e subito sospettano in
lui mire religiose: ne sono poi diffidenti vedendo in ogni bianco un
turco, e _turco_ ci chiamano per sprezzo: non hanno per altro coraggio
di farci del male, temendo il castigo del re, e ci rispettano quando ci
sanno protetti dal loro sovrano. Sono generalmente onesti, e questo
credo in parte si deve anche alla mancanza di tante formalità e quindi
all'abitudine di tener sacra una parola data o giurata su una vaga
formola qualunque. La gravità delle pene fa sì che sono galantuomini, e
raramente commettono rubalizi: ha portato invece l'altro inconveniente,
che non osando appropriarsi, cercano, e sono di tale insistenza da
mancare alla propria dignità e da far perdere la pazienza a qualunque
santo. Tranne il re e uno o due dei principali capi, del resto tutti
quanti gli Abissinesi peccano di questo grave difetto, vengono a farti
visita con mille protestazioni d'amicizia, poi cominciano a domandarti
tutto quello che vedono dattorno, poi quello che desiderano nella loro
fantasia, e invece di avvilirsi alle continue negative, pare prendano
maggior lena a cercare di colpire nell'oggetto del quale per
indifferenza o per levarti la noia sei disposto a privarti. I più
educati, se così si possono dire, sono quelli che invece di chiedere
assolutamente ti propongono una vendita, ma si può ben star certi che il
corrispettivo non arriverà mai più.

Noi avevamo moltissime medicine che furono distribuite a chi ne mostrava
necessità o desiderio, ma la maggior parte, invece di malati, erano
gente che voleva piuttosto la boccetta o la scatolina che non il
farmaco, e i più trovavano che sì piccola dose di questo era impossibile
potesse guarire uomini e mali così grandi.

Le prigioni furono edificate da madre natura in questo paese: i
prigionieri si mandano a vivere su un altipiano tutto circondato da
pareti verticali basaltiche e dove l'unico accesso possibile si fa
guardare da pochi soldati: i condannati devono fabbricarvi la propria
capanna e coltivarvi il grano necessario alla loro sussistenza.

    [Illustrazione: Palazzo reale presso Adua]

A nord-ovest di Adua, a circa un chilometro dalla città, è una palazzina
reale, l'unica in Abissinia che abbia l'aspetto un po' diverso delle
solite abitazioni e ornata da griglie che fece Naretti. All'interno
tutt'affatto rozzo.

Invece di perdermi in descrizioni, che ormai sarebbero ripetizioni,
credo meglio darne un disegnino fatto sul vero.

Il clima in Abissinia è eccellente e solo dopo le piogge si sviluppano
alle volte alcune febbri nelle vallate più basse e lungo i corsi del
Mareb e del Taccazè. La temperatura varia nell'anno dai 18° ai 25°,
nelle altitudini medie: certo che nelle alte montagne il termometro
scende ben più basso. Il sole è cocente, chè per quanto elevati non
dimentica d'esser sole tropicale e piomba i suoi raggi verticali, ma
l'aria rarefatta e spesso mossa dovuta all'altitudine e alla natura
montagnosa, fa che raramente s'abbia a soffrire del più terribile
tormento dei climi caldi, l'afa. È però facile pigliarsi un colpo di
sole.

In aprile cominciano i primi annunci dell'avvicinarsi dell'autunno, o
epoca delle piogge, che gli Arabi chiamano _karif_. La notte e la
mattina il cielo è serenissimo, ma verso le due o le tre i venti di
nord-ovest lo coprono di nubi spintevi dalla costa: qualche volta fanno
una semplice visita poi scompaiono, spesso invece danno origine a lampi
e tuoni, poi ad acquazzoni torrenziali, dopo i quali torna il più
splendido sole. Dura così una quindicina di giorni, per poi rimettersi
al bello fino alla metà di giugno, ed a quest'epoca comincia la vera
stagione delle piogge che si protrae per quattro mesi, piovendo
dapprincipio due o tre volte per settimana, durante qualche ora, poi
aumentando fino a continuare giorno e notte nel mese centrale, poi
decrescendo nella stessa ragione. È allora che tutto il suolo si copre
di uno smalto verde intarsiato da splendidi fiori, che le foreste
riprendono nuova vita per rafforzarsi ad affrontare gli altri mesi di
siccità, che le campagne diventano produttive e si ripopolano d'ogni
genere di selvaggina stanata dalle oasi che vivono dell'umidità dei
terreni bassi, dei depositi d'acqua o delle piccole sorgenti od
infiltrazioni.

A nuovo direttore delle dogane in Adua fu nominato un giovane
dall'aspetto simpatico che viene un giorno a trovarci accompagnato dai
suoi fedeli e seguito da una massa di soldati con lance, fucili,
sciabole, scudi e una folla di seguaci inermi e curiosi. È questa ancora
una prova della vanità di questa gente che non cerca istruzione nè
educazione, nè soddisfazioni di amor proprio, ma si crede e forse si
sente ingigantita dall'aver sempre uomini e armi dietro di sè.
L'annuncio della visita era a titolo d'amicizia, ma lo scopo era di
annoiarci, sperando cavarci qualche cosa pei pretesi suoi diritti. «Noi
non siamo commercianti e andiamo al re, quindi siamo esenti da tali
imposte» e con della fermezza e minacce di protestare presso S. M., lo
mandammo in santa pace. Guai a chi si mostrasse debole con questi
importuni, che non sarebbero mai sazii di carpire balzelli. Bisogna
esser risoluti e non dimenticare che chi la dura la vince.

Siamo al sabato 29 e il piazzale è animato dal solito mercato: sentiamo
un grande strepito, grida di gioia, e vediamo spuntare una grossa
comitiva entro una nube di polvere. Alcuni cavalieri avanzano alla
carriera, facendo fantasia, donne e ragazzi gridano a squarciagola, una
grossa carovana fra cui spiccano il rosso, il luccicare di fucili e
lance e qualche ombrellino, li segue. Chi dice essere Ghedano Mariam,
chi il figlio del re che vive a _Macalé_ a tre giorni da qui. È infatti
il primo che torna da una visita al secondo, e appena giunto all'altezza
del mercato scende dalla mula, e attorniato dal seguito dichiara aperto
il tribunale. Finita la seduta i tamburi chiamano il pubblico a raccolta
e si proclama la nomina del figlio del re a governatore generale del
Tigré, e di Ghedano Mariam a suo _wachil_ o rappresentante.

Abbiamo poi l'alto onore di ricevere una sua visita e di dover dare da
bere ad una massa di seguaci che non sono mai sazii, e con una
ingordigia schifosa continuano a far capire che la parola _ancora_ e il
loro _ventricolo_ sono sempre all'ordine del giorno. Quando è servito il
liquido ad un personaggio importante, questi ne versa qualche goccia nel
palmo della mano di chi lo offre, il quale lo beve, come a prova che non
c'è pericolo di veleno. Il più fedel servo, fatto sgabello delle proprie
ginocchia a Sua Eccellenza, durante tutto il tempo della visita gli andò
grattando e strofinando piedi e gambe, ciò che prova la grandezza
dell'individuo e forse anche che non sono del tutto deserte quelle
ascose parti degli alti dignitarii dello Stato.

Metà della popolazione venne da noi; la nostra unica camera fu
letteralmente invasa e con tutta calma il governatore cominciò a
trattare affari particolari coll'uno e coll'altro, come fosse a casa
sua. Sarà uso del paese, ma per noi che intanto eravamo schiacciati come
sardine fra tutta questa gente che non pecca certo per troppa pulizia,
non era un gran divertimento. E la seduta si prolungava sempre, e l'ora
del pranzo era passata, il sole volgeva al tramonto e mia era in quel
giorno la responsabilità della cucina e temevo che quella brava gente di
soldati che stavano nella corte, colla nota loro discrezione mi
facessero pulita la pignatta. Finalmente potemmo liberarcene e il frutto
della mia arte culinaria servì a chi era destinato.

Il giorno 30 arriva una carovana dallo Scioa, con incarico di fare
acquisti di oggetti a Massaua; da questa possiamo avere buone nuove dei
nostri amici della spedizione geografica, che in parte sono in Ankober,
in parte proseguono per Kaffa, ma di tutti le notizie sono eccellenti.

Siamo sempre perseguitati dall'alto onore di visite del governatore che
si direbbe preso da speciale simpatia per noi, ma alla fin dei conti
scoppia la bomba e finisce per farci domandare una cassa con chiave, un
orologio, un fanale, delle candele, una camicia e non ricordo cosa
altro.

Malgrado questo, quando si acconsente a qualche loro richiesta o si
fanno dei regali, non fanno mai atti di stupore per la novità
dell'oggetto, nè segni molto evidenti di riconoscenza. Un paio di
inchini, portando la destra da terra al fronte, ma con tutta freddezza,
quasi mostrando che la cosa è meno di quanto si aspettavano e che era
dover vostro il privarvene per loro.

Un intercalare, se così si può dire, di tutti gli Abissinesi, è la
parola _Isci_ che pronunciano in segno di adesione, di aggradimento e
quasi di approvazione a quanto dice un altro. È tanto comune e ripetuta
questa parola, che subito l'osserva chi si trova in paese, e per questo
mi piace ora ricordarla.

Uno degli inconvenienti delle frequenti visite che si hanno a subire,
oltre certi piccoli ma molesti compagni che lasciano in abbondanza, è
quello che nell'adempiere una semplicissima funzione, per la quale noi
adoperiamo un fazzoletto, loro si servono delle dita che poi puliscono
nel primo coso che capita sotto mano. Il re volle una notte andarsene
incognito in una chiesa per spiare se si compivano con tutta formalità i
sacrificii, ed ebbe ad osservare che i fedeli che entravano, facilmente
insudiciavano le sacre pareti, senza riguardo alcuno alle pitture che
spesso le ornano. Indispettito, fece subito pubblicare la proibizione
del tabacco sotto pena del taglio del naso. Vuolsi per altro sia stata
questa una finezza, tanto d'avere un pretesto di togliere l'utile
all'Egitto, da dove per la maggior parte si importava il tabacco stesso.

In Abissinia esiste un sistema di spionaggio veramente modello.
Qualunque cosa si dica od avvenga, subito ne corre la voce ed il re ne è
immediatamente avvertito. Invece del telegrafo, accendono fuochi alle
vette dove sono villaggi, e con voci acutissime si trasmettono le
notizie da un punto all'altro. Ci dicevano i missionarii di Keren che
seppero della battaglia di Gura molto più presto di quello che avrebbe
potuto impiegare qualunque corriere a percorrere la strada.

In qualche capanna d'ogni villaggio si conserva sempre del fuoco durante
la notte, e la mattina da questo hanno vita tutti i focolari del
villaggio stesso. In caso di estinzione completa, si ottiene fuoco colla
forte confricazione di due legni, uno assai secco, l'altro altrettanto
duro.

Abbiamo ancora il governatore per prendere una lezione sul modo di
caricare l'orologio e di distinguerne le ore. Ci volle del buon tempo e
della buona pazienza a fargliela entrare, poi scommetto che il giorno
dopo la molla sarà rotta. Alla catena pendeva un fischietto ed era
proprio miserabile, più che ridicolo l'effetto di un alto funzionario,
governatore di una provincia, rappresentante di un re dei re, _alter
ego_ di un principe ereditario, che con riso ed espressioni di contento
infantile si trovava soddisfatto di sè e in pari tempo sorpreso per aver
soffiato in questo strumentino e averne ottenuto l'acuto suono.

Tutti questi capi, governatori e simili dignitari e funzionari non hanno
paghe fisse, ma a loro si destina una provincia e da questa devono
riscuotere i tributi, tenerne i loro appuntamenti, mantenere la loro
casa e la loro truppa, e dare un tanto al re che se ne serve pel
mantenimento del suo seguito, della sua armata, per fare qualche dono a
delle chiese, ecc. Ogni governatore è capo civile e militare, tiene
tribunali e può sentenziare fino a pene di sangue o di morte, per le
quali si deve ricorrere al supremo tribunale del re. In caso di guerra
seguono colle loro truppe quelle del sovrano.

La conseguenza di questo sistema di amministrazione, dove non ci sono
tasse fisse, è che ognuno cerca di cavare da ogni villaggio il più che
può, così che i pochi uomini abili alle armi preferiscono fare il
soldato, ed all'agricoltura restano donne, bambini e vecchi nella più
squallida miseria, soffrono persino di fame e qualche volta anche ne
muoiono.

L'assassinio è punito colla morte, che hanno diritto d'infliggere i
parenti dell'assassinato, ai quali è pure riservato l'altro diritto di
mercanteggiare il delitto commesso e il sangue di chi dovrebbe subire il
castigo.

Io ritengo il carattere abissinese incapace di adattarsi a qualsiasi
civiltà, e lo vedemmo infatti dimenticare tutta l'antica, e restare
completamente indifferente alle invasioni portoghesi e al contatto dei
tanti viaggiatori europei. È come una pietra che anche lasciata dei
secoli in fondo a un lago, non ne assorbirà mai goccia d'acqua. E a
conferma di questa mia supposizione ho il fatto che tre Abissinesi che
ho conosciuti, che vissero per degli anni in Europa o in India,
ritornarono in Abissinia per diventarvi più Abissinesi di prima. Niente
ispirò loro la civiltà, neppure un poco di attività e di amore alla
pulizia, e quasi indifferenti restarono a tutto quello che hanno visto.
Strano poi come della civiltà che ebbero, conservarono qualcosa per
tradizione nel modo di reggersi, nei sentimenti e in qualche arredo
sacro e d'ornamento, nulla affatto di quello che serve alla vita
giornaliera. E sia che non ne sentano il bisogno, sia che si credano
superiori a noi, non cercano per nulla di imparare qualcosa da chi, come
devono pur vedere, sa rendersi l'esistenza un po' più piacevole. Essi
vivono allo stato poco meno che selvaggio, non hanno assolutamente alcun
utensile casalingo, all'infuori di alcuni vasi grossolanamente fatti in
terra, nessun mobile, nessuna industria, ma conservano e fabbricano i
monili d'argento dei quali il tipo è venuto dall'Arabia, alcuni utensili
e ornamenti per chiesa, e fra questi i turiboli assolutamente belli e di
stile bizantino. Hanno alcuni ponti lasciati dai portoghesi, ma li
lasciano cadere in rovina, non pensano farne altri ad imitazione e
bisogna passare i loro fiumi a guado od a nuoto, col pericolo della
corrente che vi trascini o dei coccodrilli che vi piglino alle gambe.
Hanno l'esempio di alcune chiese, come quella d'Axum, piantate entro
costruzioni portoghesi, e i stupendi palazzi di Gondar, ma nessuno
pensa a prenderli a modello e migliorare la propria abitazione.

In quello che può soddisfare la loro vanità, invece, hanno conservata
buonissima memoria, e il sentimento dell'aristocrazia è inveterato
quanto ridicolo in loro. Basti venire sul discorso e tutti vi diranno di
discendere da stirpe reale o principesca, d'aver dominato in famiglia
intere provincie per dei secoli, d'aver posseduto centinaia di villaggi,
di avere i loro avi guidati, sempre alla vittoria, potenti eserciti,
d'aver portati i primi titoli di nobiltà abissinese. Una stilla del
sangue di Salomone dovrebbe essersi sparsa nella linfa d'ogni albero
genealogico di questa buona gente, felice forse più di noi e forse
troppo ragionevole di volersene star lontana dalla civilizzazione.

Abbiamo oggi, è vero, l'esempio di un popolo che in pochi anni abbracciò
tutto quanto trovò di bene nella civiltà europea, svestendosi, con raro
esempio di abnegazione, da tutti i pregiudizii inveterati dalle antiche
usanze del sistema feudale che da secoli lo reggeva. Ma l'Abissinese non
farà certo quanto fece il Giapponese, per quanto la tradizione
dell'antica civiltà non gli dovrebbe essere che stimolo, mentre nel
Giapponese la sostituzione di un'altra alla civiltà propria dovette
forse essere se non un inciampo, certo un ritardo al suo progredire.

La razza abissinese è bella, il tipo lanciato, snello, elegante. La
tinta varia dall'olivastro al marrone, più chiara verso la costa e
sempre più cupa nelle province dell'interno. L'uomo è piuttosto alto,
non secco nè pingue, ma muscoloso, raramente ha barba, l'occhio vivo, i
denti bellissimi, il naso spesso leggermente aquilino, sempre, come le
labbra, regolare. Le donne hanno tutte le belle qualità dell'uomo,
aggiungendovi che la bellezza delle forme e la semplicità del costume le
rende assai provocanti: mani e piedi piccolissimi e bellissime
attaccature. Anche nel maschio è spesso ammirabile la piccolezza della
mano e del piede e la finezza delle dita e dei tratti in generale. La
moralità è molto al basso, chè la ragazza gode di piena libertà, e chi
vuol prender moglie la sceglie generalmente fra quelle che hanno
consumati i primi anni della loro bellezza, facendone mercato nelle
città della costa, dove le belle etiopi sono molto cercate e rinomate, e
hanno raggranellato così un piccolo gruzzolo di talleri. È poi costume
nel paese, che il padre prima di sposare la figlia, se bella, ne vende
al maggior offerente il primo fiore.

In fatto d'agricoltura credo che il suolo abissinese sarebbe capace di
qualunque produzione, se il popolo non fosse indifferente a tutto quello
che è non strettamente necessario per vivere, il grano, e non stimasse
un avvilimento il coltivare la terra. La temperatura quasi costante, il
suolo fertile e poco meno che vergine, i diversi gradi di elevazione,
non chiederebbero che pochissimo lavoro per ridurre tutto quanto il
paese un vero giardino: non trovate invece assolutamente mai un frutto
nè un legume, tranne i pochi che crescono allo stato selvaggio. Nei
_collas_ la temperatura non permette la coltivazione del frumento, ma vi
si trova il cotone, l'indigo, tamarindi, ricini, zafferano, canna a
zucchero, palme, banani, gommieri, baobab, piante medicinali molte,
mimose, la dura e il dagussa. Nei _woina-deuga_ la temperatura vi è
sempre primaverile e quindi costituiscono la zona la più ricca; vi si
trova orzo, avena, fave, lenti, teff, il kolqual o euforbia, l'ulivo, il
_cusso_, la vigna, l'arancio, il limone, il pesco. Tutti questi alberi
vi potrebbero essere coltivati e produrrebbero stupendi frutti, ma vi si
trovano invece solo allo stato selvaggio, e i frutti che producono non
sono mangiabili.

I deuga sono i terreni più alti, quindi la vegetazione vi è meno ricca:
l'orzo e l'avena sono i soli che vi attecchiscano, e come alberi il
cusso è quello che sfida le più alte regioni: dopo un certo punto però,
voglio dire oltre circa 3500 metri, non si trovano più alberi, e lo
spazio è occupato solo da praterie naturali che forniscono il pascolo a
truppe di buoi, capre e montoni. In queste regioni, durante il _karif_,
si ha spesso neve e ghiaccio, e mentre questi, nella stagione secca si
limitano a circa 4400 metri, nell'inverno discendono fino a 3500 metri
sul mare.

Nell'opera di Ferret e Gallinier trovo la spiegazione allo strano
fenomeno che da giugno a settembre, epoca del freddo nelle montagne e
delle pioggie nell'altipiano, non una goccia d'acqua cade verso la
costa, ed il motivo si è che essendo allora quest'ultima regione
enormemente riscaldata dal sole, la colonna d'aria che si eleva dal
suolo impedisce alle nubi di condensarsi e di precipitarsi in pioggia.
Da ottobre a marzo, invece, che la temperatura alla costa è molto meno
elevata, le nubi trovano libera la loro via nell'atmosfera e portano il
loro contingente a quelle desolate contrade.

L'attuale re è severo assai col suo popolo, e non transige sulle pene
che devono infliggersi ai colpevoli, ma alieno dal trascendere ad atti
brutali come la tradizione, o meglio l'uso impone, è sempre proclive a
mitigare le condanne. Come esempio al popolo, i pretesi avvocati lo
consigliano però spesso ad atti veramente barbari, pretendendo che
l'Abissinese è tanto indifferente alla morte, e la affronta con tale
coraggio e freddezza, che il condannarvelo non basta a trattenerlo dal
commettere delle nefandità, e quindi per prevenirle è indispensabile
commetterne altre che infiorino la condanna a morte dei più terribili
tormenti.

Citerò, ad esempio, un fatto occorso or fa qualche anno: una banda di
insorti che univa le due qualità di rivolta al Governo e di
brigantaggio, fu sconfitta in un incontro e fatta prigioniera: per
evitare un massacro e accappararsi l'affezione con un tratto di
generosità, il re perdonò e diede piena libertà al grosso della
comitiva, ma ai quattro capi si tagliarono i polpacci a sottili fette,
come si trattasse di giambone, finchè si arrivò all'osso, poi si
lasciarono a disanguare.

Così mi raccontava Naretti d'esser stato testimonio del seguente fatto
avvenuto sulla piazza del mercato di Adua. Una donna aveva commessi
delitti senza esempio e che sarebbe troppo lungo ripetere: si scavò una
fossa, vi si seppellì la condannata, in posizione verticale, fino al
petto, e i dettagli della freddezza con cui sopportò l'operazione,
preparandosi alla tragica fine, sono cose da far rabbrividire, poi
_coram populo_, con un grosso fucile le si diede l'ultimo colpo alla
testa. Tutto il giorno stette così esposta, e la mattina dopo era ancora
triste spettacolo, e per di più aveva una guancia rosa dalle jene nella
notte.

E il pubblico assiste, si diverte, applaudisce a questi delitti
ufficiali, e intanto pretende a dirsi cristiano.

Così le _esecuzioni semplici_ del taglio della testa si fanno in luogo
pubblico, come un duello fra un armato e un inerme, e spesso accade che
fallendo almeno in parte il primo colpo, che le lame non sono delle più
fine, nè delle più taglienti, si ha una vera lotta fra il carnefice e
l'altro mezzo tagliuzzato, fra un circolo di curiosi.

Il venerdì 4 aprile corre la festa del Salvatore, per cui andiamo ad
assistere alle grandi funzioni che si celebrano nella chiesa di questo
nome.

Per vero dire il tintinnio dei turiboli e dei campanelli, il canto di
una infinità di preti e inservienti, e il loro andirivieni continuo
entro e fuori i diversi cerchi del santuario, mi hanno tanto sbalordito,
che ben poco potei raccapezzare sull'ordine delle funzioni. Ho visto che
si presentavano dei gran messali, in lingua del paese, ai preti che ne
leggevano delle preghiere, rivolgendosi di quando in quando al pubblico
in atto di benedire, ed ho ammirato alcune stupende e grandi croci in
argento, dei _bornus_ in seta azzurra ricamati a colori e adorni di
originalissimi ornamenti d'argento, portati dai sacerdoti: dei
baldacchini in forma d'ombrello in stoffe damascate pure con ornati in
argento, e un originale berretto portato dai chierici, costituito da un
cerchio d'argento che abbraccia la testa, finito a visiera, portante
alcune fettucce d'argento che si raccolgono al vertice, sormontato da
una palla adorna di piccoli campanelli e di una croce pure in argento.

    [Illustrazione: Antica chiesa del Salvatore in Adua]

Abbiamo frequenti visite dei delegati dello Scioa che sono gente per
bene, molto affabile e cortese, e hanno un principio di educazione e di
sentimenti di delicatezza, come, mi è forza dirlo, non abbiamo ancora
incontrato in questo paese. Tengono nota di tutto quanto vedono e di
ogni particolare delle strade e del paese, ciò che unito a quanto alle
volte trapela dai loro discorsi, mi fa supporre che meglio che gli
acquisti, lo scopo del loro viaggio è di impratichirsi di queste regioni
che in un giorno forse non lontano, il loro sovrano pensa di occupare.
Sono fini e intelligenti e fanno le cose per bene, ma non hanno ancora
imparato che per esser diplomatici bisogna saper fingere di non esserlo,
parlar poco e spesso mentire.

Noi siamo sempre in attesa del ritorno del corriere spedito al re, ed
oltre alla noia di questo soggiorno si aggiunge ora l'inquietudine,
perchè l'epoca delle piogge si avvicina, e se questa ci sorprende
all'interno resta chiusa la via al ritorno, e non deve esser certo
divertente passar qualche mese in una capanna senza occupazioni e senza
potersi divagare con escursioni e caccie. Il piccolo _cherif_ è già
cominciato e spesso verso sera ci troviamo chiusi fra tuoni, lampi e
dense nubi che si risolvono in acquazzoni torrenziali, passando da un
sole cocente e piccante ad un vento freddo più che fresco. Finestre,
porta e tetto della nostra abitazione non sono certo tali da difenderci
dalle furie degli elementi, e spesso abbiamo l'incomoda visita della
pioggia che ci viene a trovare nei _nostri appartamenti_.

I pretesi _grandi signori_ in Abissinia sono generalmente possidenti di
vaste estensioni di terreni e di bestiame, che non essendovi in paese
industria, nè gran commercio, non v'ha capitale circolante ed è ignoto
l'interesse che da questo si può cavare, per cui quando realizzando i
prodotti insaccano dei talleri, li impiegano aumentando le loro
proprietà, oppure li sotterrano. Vengono generalmente nominati capi, non
governatori però, della provincia in cui vivono, e dal re sono
autorizzati alla riscossione delle imposte dei minori tenenti nella
provincia stessa. Le imposte sono poca cosa, ma non mi riuscì sapere a
quanto ammontino: riscosse, le depongono nelle mani del re e ne
percepiscono un tanto che parmi circa il dieci per cento: se qualcuno
ricusa di fare la dovuta consegna, gli si mandano dei soldati che
pensano a farsi mantenere, finchè il danno arrecato sia pari alla somma
dovuta, più la multa inflitta. Dai proprii coloni si usa ritirare tutti
quanti i prodotti e distribuire poi il necessario al sostentamento di
ogni famiglia, restando quanto avanza totalmente al proprietario. Le
abitazioni di questi signori sono un po' meglio costrutte delle comuni,
e nel recinto in cui stanno ne sorgono altre minori per ricoverare i
servi, macinarvi il grano, prepararvi il pane, tenervi le provviste. Del
resto ben poco più distinto dalla massa in fatto di comodità: il loro
gran lusso è di avere molti servi armati, delle mule, qualche cavallo,
degli _angareb_, tappeti, bottiglie in cristallo per bevervi il tecc,
del quale tengono in pronto grandi vasi. La cucina non annovera molta
varietà di intingoli, neppure per le tavole principesche. Ai figli
nessuna educazione, e tutt'al più imparano a leggere e raramente a
scrivere da un prete. Morendo non si usa di far testamento, ma solo agli
ultimi istanti il padre dice: lascio i miei poderi a dividersi fra miei
figli; e questi in seguito si dividono l'eredità in parti uguali, maschi
e femmine.

Un uso strano hanno nel mangiare la carne cruda. Staccano solo a metà il
pezzo che vogliono mettere in bocca, poi preso questo fra denti e
tenendo il grosso pezzo in mano, finiscono di staccarlo con un taglio
dal basso all'alto rasente le labbra. Se si pensa che spesso il coltello
è la sciabola, si potrà immaginare quanto sia poco rassicurante trovarsi
fra due che mangiano con questo sistema.

L'Abissinese mangia la vera carne muscolosa del bue e ne getta quasi con
ribrezzo il cuore e il fegato, mentre, per esempio, il Patagone e il
gaucho della pampa preferiscono queste parti a tutto il resto, e spesso
ammazzano un bue semplicemente per soddisfare questa ghiottoneria.

Passiamo la Pasqua in Adua, e quattro cose sono a rimarcarsi a
quest'epoca: il baccano infernale che si fa la notte in tutte le chiese:
l'uso che i preti vanno a deporre in tutte le case dei mazzetti di fusti
di un'erba palustre, che poi ognuno si mette attorno al fronte come lo
spago di un ciabattino: gli anelli molto ingegnosamente fatti con foglie
di palma intrecciate, e tutti ne vanno fabbricando, tutti ne regalano
reciprocamente e tutti ne hanno coperte le dita: la fine del digiuno
quaresimale, fa che ogni casa quasi diventa macelleria, e per la sera
tutti _indistintamente_ sono pieni di brondò e di tecc, e se ne vedono e
sentono dovunque le conseguenze.

Per carattere l'Abissinese querela facilmente, ma, quantunque sempre
armato, difficilmente viene al punto di far uso serio delle sue armi.
Quando uno s'intesta a sostenere un argomento, o lancia un'offesa ad un
compagno, la parte avversaria non ricorre a mezzi troppo energici in sua
difesa, ma fa un nodo sullo _scemma_ e battendovi un pugno esclama:
scommetto tanto che non puoi provarmi la verità di quanto sostieni,
_Yohannes imut_: per la morte di Giovanni. Se l'altro disfa il nodo, è
segno di ritrattazione, se lo lascia è accettata la scommessa, e il
patto è sacro.

Sempre perseguitati dal governatore che un giorno esprime stupore,
vedendo delle forchette e dei cucchiai coi quali noi stiamo facendo
colazione: le sue domande, le sue osservazioni sono fatte con tale
insistenza e con tanta fanciullaggine che davvero mette pietà, pensare
che un individuo simile possa avere un'autorità in paese. Sempre già
finisce col domandare qualche cosa, finchè un bel giorno manda un suo
servo a farci la confessione che dopo i lunghi digiuni quaresimali s'era
permesso un po' troppo di baldoria e le sue funzioni naturali s'erano un
po' alterate nel loro regolare corso. Gli mandammo buona dose di pillole
rinomate pei pronti effetti, ma dopo solo mezz'ora mandò ancora un servo
a dire che stava in aspettativa, ma non si era ancora dichiarata nessuna
azione.

Il Nebrid di Axum è venuto in Adua per le feste di Pasqua e gli andiamo
a fare una visita. Ci accoglie colla sua solita cordialità e lo facciamo
felice, regalandogli qualche oleografia di soggetti sacri, che colle
lagrime agli occhi dalla consolazione, baciò e ribaciò, mentre
ripetutamente andava ringraziandoci. Voi siete buoni cristiani, ci
disse, e il vostro popolo è grande e potente, ma la via di Gerusalemme a
noi è chiusa dai Turchi. Anche noi siamo cristiani, e perchè dunque non
pensate a difenderci e aprirci quella via sacra? Ci fece servire il
_tecc_, poi volle assolutamente che accettassimo un piccolo banchetto e
un bue fu sgozzato in nostro onore fuori dalla capanna. Ci risparmiò la
carne cruda, sapendo che non è la cosa più gradita da noi, ma ci fece
servire grossi pezzi di bue, nei quali si fanno delle incisioni
trasversali piuttosto profonde, poi si abbrustoliscono sulle bragie. Il
sapore è molto gustoso e il solo inconveniente è la cenere e qualche
pezzetto di carbone che di quando in quando capitano come intingolo.

Noi stavamo seduti in circolo attorno un paniere con pane e berberia, e
i servi allungando le braccia sopra le nostre teste tenevano sospesi al
centro questi _roast-beef_ di nuovo genere, dai quali ognuno andava
staccando le proprie porzioni con un coltello. Altri servi intanto
preparavano dei piccoli pezzi che ci venivano ad offrire con delle mani
che Dio sa da quando non videro acqua e cosa toccarono nel frattempo, e
Naretti ci assicura che il rifiutare è una vera offesa.

La sera intanto s'era avvicinata e il _tucul_ non brillava per troppa
luce, che chi ne spandeva di molto fioca era uno stoppino infitto in una
pallottola di grasso conservata in un avanzo di vaso. In complesso la
scena era alquanto originale; e più che un banchetto da sacerdote lo
avrei detto un festino da falsi monetarii.

Abbiamo frequenti emozioni di notizie, che fu visto a poca distanza il
nostro corriere, che gente venuta dal campo reale ve lo vide e le disse
sarebbe partito qualche giorno dopo, che il re venga a svernare in Adua
e che pensi di riceverci qui; tutta una massa di fiabe che al momento ci
danno qualche speranza, ma poi ci lasciano subito ricadere
nell'avvilimento.

L'Abissinia poi è il paese delle fiabe, e dove non si può mai sapere
nulla di vero. Credo assolutamente che la verità vi sia ignota o
proibita. Qualunque cosa domandate al primo che vi capita fra piedi, mai
questi vi risponderà: non so o dubito, ma sempre con tutta fermezza, e
quello che non sa, inventa.

La mancanza di interesse a quanto si passa nella vita e l'ignoranza di
qualunque strumento od osservazione che possa dar idea di misura e di
tempo, fanno poi che i giudizii sono differentissimi e impossibile vi
riesce avere informazioni, non precise, ma tali almeno da raccapezzarne
qualche cosa. Domandate, per esempio, la distanza di un villaggio dove
volete andare; chi ve la dirà di poche ore, chi di parecchie giornate, e
tutta gente che ha percorso quel cammino o che abita quei dintorni. Ne
abbiamo fatta esperienza nel nostro viaggio, che non una sola volta ci è
riuscito di farci un giusto criterio di quello che si doveva fare
l'indomani, o della durata di un dato tragitto.




CAPITOLO IX.

  Nuovamente in carovana.--Passaggio del Taccazé.--Folta
  vegetazione.--L'ipopotamo.--L'Amara.--Incontro del Cighiè.--Strana
  struttura del terreno.--La salita di Wogara.--I principali corsi
  d'acqua d'Abissinia.--I talleri.--Gondar e lago Tzana visti da
  lontano.--Arrivo al campo reale.--Primo ricevimento del re.


Quando le prime gocce di pazienza cominciavano a traboccare dal calice,
il giorno di rimetterci in carovana venne finalmente e fu deciso per
lunedì 28 aprile. Il nostro Tagliabue è un po' meglio, ma non potrebbe
affrontare gli strapazzi di un lungo viaggio, per cui lo affidiamo ad un
negoziante amico di Naretti che fra qualche giorno parte per Massaua.

Fin dal mattino facciamo trasportare il nostro bagaglio sulla piazza del
mercato, e caricate le mule, le mandiamo ad aspettarci la sera ad Axum.

Fu un momento ben triste quello di salutare il povero Tagliabue che
lasciavamo solo e in malferma salute, e ben triste dev'essere stato quel
momento anche per lui. Speriamo che Dio lo assista nel viaggio, e
possiamo al ritorno ritrovarlo completamente rifatto.

Al tramonto arriviamo noi pure in Axum, dove troviamo le tende piantate
e il resto della carovana. Due giovani svedesi, della missione
protestante, che da più di un anno stanno attendendo in Adua il permesso
del re di presentarglisi, approfittano della nostra occasione e seguono
le nostre orme, mantenendosi però completamente indipendenti.

Ghedano Mariam ci fece sapere che diede ordini perchè nei villaggi ci
diano pane, _tecc_, carne e tutto quanto l'occorrente, ma cominciando da
qui ci dicono che Axum è territorio sacro e riservato al potere
ecclesiastico, non al civile, che quindi non hanno nessun obbligo verso
di noi, e ci rifiutano persino un po' di legna per cuocere il pane dei
servi che dovettero così rinunciare al loro pasto.

_Martedì 29._ Grandi noie colle mule che si rifiutano al carico e cogli
abitanti che ci seccano e ci soffocano di domande e di consigli.
Finalmente verso le nove si parte. Proseguiamo verso ovest e sud-ovest
sempre fra alture e altipiani, dove le prime piogge hanno per lo meno
tolto l'impronta di assoluta aridità. Dapprincipio euforbie e acacie,
parecchi arbusti, qualche _ficus_ e in alcuni punti dei peschi
selvatici, il cui frutto è verde, piccolo, lanoso, quasi immangiabile. A
sud vediamo nelle nebbie la catena del Semien che si eleva a guglie
acuminate: le alture che ne circondano sono generalmente arrotondate ed
alcune volte hanno l'originale profilo orizzontale interrotto da coni e
pareti verticali delle formazioni basaltiche. Alle due circa troviamo il
nostro accampamento formato a _Maiscium_, a 2250 metri di elevazione, in
un piccolo altipiano e poco lontano dal villaggio dello stesso nome. Il
giorno appresso ci incamminiamo alle sette in coda al bagaglio. Aumenta
la vegetazione, qualche grosso _ficus_ e folti gruppi di palmizii dove
v'è dell'acqua. La natura sempre la stessa, la direzione sud-ovest.
Mentre pensiamo fare una breve sosta per rifocillarci, scorgiamo le
nostre tende piantate. Siamo vittime di un intrigo dei nostri servi che
hanno già tutto scaricato per non continuare più oltre, e sì che quando
le mule sono cariche, il proseguire per loro non è poi gran fatica: ma
l'indolenza è molta e il bene dell'intelletto è poco. Siamo a 2100
metri, in un ampio vallone circondato da monti abbastanza verdeggianti
ma poco popolati da villaggi; la posizione è detta _Selahlaha_.

Abbiamo grandi divarii di temperatura: di giorno sole cocente e di notte
assolutamente freddo.

_Giovedì 1.º maggio._ Prima di giorno si suona la sveglia e così per le
sei il bagaglio è partito e noi ci incamminiamo in coda a lui. Ci
eleviamo passando di altura in altura dove la vegetazione non è
gigantesca ma abbondante. Ulivi, euforbie, _ficus_ predominano, poi
molti cespugli ed arbusti fra cui eleganti gelsomini che coi loro fiori
profumano l'atmosfera. In alcuni punti la via è molto erta e ingombra da
pietre e rami che la attraversano. È un continuo muover di gambe e
inchinarsi per non rompersi le ginocchia o lasciare un occhio infilato a
qualche spino. Giunti all'estremo di un breve altipiano ci si presenta
sotto una vastissima pianura che raggiungiamo, costeggiando le alture
che da est ad ovest la circondano, e vi facciamo l'incontro di una
grossa carovana che dalla provincia di Wolkait porta in Adua seme di
_cusso_, cotone e scemma fatti, avvolti in stuoie o in pelli da bue.
Alle otto passiamo il piccolo villaggio di _Bellés_ che prende o dà il
nome alla pianura nella quale sorge. Proseguiamo in direzione sud-ovest,
scendiamo e risaliamo una fenditura ad uso crepaccio da ghiacciaio, nel
fondo della quale scorre un torrente, e verso mezzogiorno troviamo ferma
la carovana all'estremità opposta della pianura, rimpetto al villaggio
di _Addo-Anfito_, a 2000 metri di elevazione. A sud la pianura si
protende fino all'orizzonte frastagliato delle acuminate vette del
Semien.

Il capo del villaggio dove accampammo ieri venne a farci mille scuse per
non averci dato il pane e una vacca, e ci offre in compenso sei talleri.
Ci pare poco dignitoso l'accettarli, ma Naretti lo vuole, dicendo che in
caso diverso la voce corre subito di villaggio in villaggio, e per tutto
il viaggio non otterremo più niente. È uso che quando si viaggia sotto
la protezione del re e scortati da un soldato, i villaggi devono dare
tutto quanto è necessario alla sussistenza dell'intiera carovana. Si
hanno però sempre mille noie e litigi ad ottenerlo, quantunque dicano
che i contadini non ci perdono nulla venendo questo dedotto sul
pagamento delle imposte; d'altronde non regge la coscienza di portar via
il pane a questi miserabili che si vede ne hanno realmente poco.
Consiglio dunque a chiunque voglia intraprendere un viaggio simile di
non assogettarsi a questa generosità imposta, di portarsi delle
provvigioni, comperare quanto necessita e accampare anzi possibilmente a
qualche distanza dai villaggi.

Viene un individuo ferito al dorso, dove dice di aver ricevuta una
fucilata e ci promette, se sappiamo estrargli la palla, una meschina
gallina che merita piuttosto il titolo di pulcino. L'arte medica non
farebbe certo fortuna in questo paese.

Verso sera, con un baccano infernale, arriva una carovana di forse 150
individui che cantano, gridano, suonano ghitarre e flauti di canna, per
festeggiare il matrimonio del fratello del governatore che mette il suo
campo a pochi metri dal nostro. Vanno così girando e gozzovigliando per
parecchi giorni, e sono un vero flagello pei poveri paesi dai quali
passano.

Il giorno seguente facciamo sette buone ore di marcia attraverso pianure
comode per le cavalcature, ma monotone per noi, e ci fermiamo al
villaggio di _Zembellà_ a 1800 metri.

Sabato 3 ci incamminiamo alle sei e si continua per due ore
nell'altipiano stesso, poi si comincia una ripida discesa fra vallate
coperte da vegetazione fra cui primeggiano grossi alberi di gardenia dai
fiori grandissimi, che quasi rendono l'atmosfera troppo carica del loro
delicato profumo. Più ci abbassiamo, il caldo aumenta, fino a diventare
soffocante. A mezzogiorno, sortendo da un folto bosco ci troviamo
dinanzi il Taccazè che colle sue acque fangose scorre tranquillo e quasi
imponente; lo passiamo a guado essendo meno di un metro di profondità
al centro, e una sessantina di larghezza. Eccoci entrati nella provincia
dell'Amara, ed eccoci forse chiusa la sortita per parecchi mesi, se il
forte delle piogge ci sorprende prima che possiamo incamminarci pel
ritorno. Scorre piuttosto incassato fra un vero ammasso di alture, ed ai
lati è fiancheggiato da vegetazione folta, rigogliosa, gigantea; gli
alberi secolari sono legati fra loro da una vera rete di liane, e
centinaia di scimmie li popolano e ci divertono coi loro gridi, salti e
modacci. Mettiamo il campo sotto colossali acacie e adansonie, poco
sopra il livello dell'acqua che scorre a 950 metri di elevazione.
L'incanto della posizione avrebbe bastato a farci passare intere
giornate, ma per le poche ore che vi restiamo troviamo invece ad
aggiungervi caccia di antilopi nelle colline, di anatre e oche nel fiume
e dell'ipopotamo, che sollevando la testa fuori l'acqua e sbuffando, ci
fece consumare buon numero di cartucce.

In questa stagione l'aria è buona presso i fiumi, ma dopo le piogge è
altrettanto pestilenziale, e ciò deriva dalla grande vegetazione che
impedisce la corrente d'aria, e dalla piccola vegetazione annuale e
dalle masse di foglie che cadono e che vanno in putrefazione, dando così
origine ai miasmi che sono un vero veleno.

La domenica mattina per tempo ci avviamo per una salita ertissima, dove
in alcuni punti si arrampica materialmente di roccia in roccia,
accompagnati da un'afa soffocante e da un sole infuocato. Dopo un paio
d'ore siamo al ciglio dell'altipiano, voglio dire siamo usciti dalla
grande infossatura in cui scorre il Taccazè, e siamo tornati alle aure
più pure di 1500 metri d'elevazione.

Proseguiamo verso sud, in direzione della catena del Semien che ha
l'aspetto di un vero caos di dirupi, castelli diroccati, aguglie, torri
monche e simili. Le mule sono alquanto affaticate e quasi digiune da
ieri l'altro, chè presso il fiume v'erano delle piante, ma non
dell'erba, per cui, appena scorgiamo un pascolo nel quale, fra un gruppo
di grandi alberi, sta una sorgente d'acqua, ci fermiamo, quantunque
siano di poco passate le dieci. La località è detta _Salamatu_. E dietro
consiglio dei servi, certo per capriccio loro più che per necessità,
sostiamo qui tutto il giorno dopo, sempre a preteso beneficio delle
mule. Ce la passiamo cacciando nei dintorni, dove sono gazzelle, pernici
e faraone. Ci raggiunge un soldato del re che fu guida al nostro
corriere, il quale, ci si dice, è per altra via andato a cercarci in
Adua con _un grande_ che S. M. mandava ad incontrarci e accompagnarci.
Certo non vogliamo perdere delle giornate per aspettarlo, molto più nel
dubbio che ci possa raggiungere, e quindi la mattina di _martedì 6_ per
tempo ci rimettiamo in strada verso sud e sud-ovest, girando valli e
passando alture; in generale tendiamo a scendere e ci fermiamo infatti
alla una in località detta Angrè, a 1300 metri, presso il torrente Buja.
In generale la vegetazione è piuttosto abbondante, foltissima poi presso
i torrenti, dove sono affratellate palme, acacie, lauri, gelsomini e
cento altre varietà di piante, di arrampicanti, e di parassiti. Due
volte ebbimo oggi incontri di scimmie, ed una volta grossissime e si
allontanarono di poco al nostro sopraggiungere, per disporsi sulle rocce
del ciglio di un burrone a mirare il nostro passaggio.

Verso mezzogiorno incontriamo gente e mule portanti carichi con tappeti
e spade dalle impugnature d'argento, ciò che ci fa supporre che qualche
_grande_ sia poco lontano da noi. Domandiamo, ed è infatti il Cighiè,
capo civile ed ecclesiastico di Axum, che viene dal campo del re. Dopo
poco lo incontriamo, seguito da moltissima geme in parte armata, in
parte portante i suoi effetti, tende, cuscini, croci, vasi pel tecc,
ecc. È un bel vecchio dalla barba bianca e dal tratto simpatico; cavalca
una mula con bardatura a ricami in pelle a diversi colori e gualdrappa
ricamata con filo e lavori in argento. Amico di Naretti, ci fece a tutti
quanti festosa accoglienza, volle scendessimo tutti dalle mule, ci
sedemmo in circolo, alcuni servi stesero uno _scemma_ sulle teste per
difenderci dal sole e ci fu servito dell'eccellente tecc. Si improvvisò
così un accampamento molto originale e fantastico, circondati come
eravamo da tanti servi, soldati, muli e cavalli.

_Mercoledì 7._ È un continuo succedersi di alture che rendono
faticosissimo il cammino non essendovi strade tracciate e dovendo sempre
salire la vetta di una per ridiscendere e risalire sull'altra. Si
direbbe uno sconvolgimento di materia liquida che d'un tratto si
solidificò, un vero mare in burrasca, e non si può raccapezzarvi un
seguito di valli nè di monti, se non la catena del Semien,
parallelamente alla quale camminiamo, attraversando di quando in quando
qualche torrente che da esso scende. Dopo cinque ore di faticosa marcia
ci fermiamo a _Adercai_, presso il torrente _Mailaliet_, a 1600 metri.
Lungo la via il suolo è spesso nero, di aspetto desolante, che per
disporlo alla coltivazione fu incendiato tutto quanto di flora lo
copriva, e solo sporgono dallo strato di ceneri i mozziconi carbonizzati
delle piante che vi vivevano. Dove ancora si conserva, l'erba secca è
alta e forte da sembrare canneto; frequenti grossi mucchi di terra, nidi
e abitazioni di formiche.

Per noi Italiani non si potrebbe trovare parola che meglio di Abissinia
qualifichi il paese che rappresenta, il vero paese degli abissi. Non
parliamo delle alte catene che sono di costituzione spaventosa e
frequentissimi nascondono i punti inaccessibili, ma prescindendo da
questo, l'Abissinia va considerata da un punto di vista tutt'affatto
opposto agli altri paesi; cioè, mentre in qualunque altra regione, dal
livello medio su cui si cammina, la natura offre alla nostra ammirazione
delle catene di montagne, qui bisogna considerare come piano elevato
l'altipiano stesso che costituisce il suolo del paese, ed ammirare i
burroni e le vallate che si sprofondano sotto questo livello. Così
abbiamo viaggiato per intere giornate nella media di 1500 metri di
elevazione, siamo discesi a 950 per passare un fiume e risalimmo subito
ancora a 1500, e lo stesso si ripete per tutti i torrenti. E persino nei
piccoli altipiani secondarii, spesso si incontrano larghe e profonde
fenditure dalle pareti di nuda roccia e dal fondo coperto da
vegetazione, che è forza girare all'origine o passare scendendo al
fondo, se possibile, perfettamente come si opera all'incontro di un
crepaccio in un ghiacciaio.

Abbiamo nella notte l'incomoda visita di una dirottissima pioggia.
Ripartiti la mattina seguente incontriamo dopo due ore il torrente Ansia
e dopo quattro ore l'altro torrente Enzo, che scendono piuttosto
impetuosi e che è forza passare a guado. Sulla via incontriamo la
carovana di Degiatch Area, governatore di questa provincia, che ci
presenta dei vasi di tecc e di miele. Sempre il noioso e faticoso
saliscendi di una sequela di alture, e dopo il passaggio dell'ultimo
torrente una ertissima salita ci porta in posizione detta Golima, dove
ai piedi di una parete di rocce basaltiche verticali, troviamo la
carovana ferma verso le quattro. La direzione sempre sud-ovest,
l'elevazione 1750 metri.

_Venerdì 9._ Costeggiamo il monte fino ad incontrare sulla destra un
avvallamento che ci permette di passare sull'altro versante per scendere
nel fondo della valle e guadare il torrente Zerima che ha un letto
larghissimo, ma ora vi scorre poca acqua. Verso mezzogiorno raggiungiamo
l'accampamento di Naretti, ma i nostri servi per un puntiglio nato fra
loro, hanno voluto proseguire.

Ci riposiamo fino alle due, poi proseguiamo e dopo una leggiera salita
ridiscendiamo per seguire il corso di un torrente asciutto e tortuoso
che attraversiamo almeno una dozzina di volte. Non abbiamo guide, e
nessuno cui domandar consiglio quando ci troviamo ad una biforcazione
della vallata; seguitiamo quindi dove ci pare più ragionevole dover
essere la nostra direzione, ma il dubbio ci accompagna dello sbagliar
strada. Passa un'ora, ne passano due e più, il cammino si fa sempre più
cattivo e a cento doppii aumenta ad ogni passo il timore d'essere su
falsa strada; la vallata ci appare chiusa e davanti ci sta un'ertissima
salita che è pur forza superare, e a divagarci abbiamo parecchi incontri
di grossissime scimmie. Dal colmo dell'altura si stende dietro noi un
estesissimo panorama di tutto il territorio che attraversammo da Adua in
qua; un vero ammasso di coni e di avvallamenti, perfettamente l'effetto
di una carta geografica in rilievo. A sud la catena imponente del Semien
che si protende verso ovest, dove ci sta dinanzi la parete quasi
verticale del monte di Wogara che dovremo oltrepassare, e del quale ci
fecero pitture così nere, dicendolo tanto erto che le mule cariche non
lo possono salire, ed è forza farvi trasportare il bagaglio a dorso
d'uomo. Discendiamo di pochi metri in un altipiano in gran parte
coltivato, sparso di acacie e di enormi gruppi di gelsomini affratellati
alle rose, e in fondo al quale sorge un'altura la cui vetta è coronata
da piante e sul cui versante, a diversi gruppi è sparso un villaggio. Lì
presso è piantata la nostra tenda che vediamo con somma gioia, perchè il
sole volge al tramonto, e sempre abbiamo compagna l'ansia dell'esser
fuori strada. Il villaggio è detto Dibbi-bahar, a 2200 metri. La
posizione è bella, il pascolo abbondante, e ciò ci rallegra, perchè
prevediamo che domani si dovrà fermarsi qui in attesa dell'altra
carovana. È stata oggi una vera giornata campale pel cammino e
quaresimale pel pasto, chè la via fu lunga e faticosa, la colazione di
un po' di _chissera_ o pane del paese e il pranzo la stessa cosa con un
po' di miele. Non si ha pericolo, almeno, di soffrire imbarazzi allo
stomaco. La sera però possiamo comperare un bue che domani ci
rifocillerà del digiuno d'oggi. Oltre al resto, dalle due alle tre,
abbiamo avuto, come da parecchi giorni, l'accompagnamento di forti
acquazzoni.

_Domenica 11._ Appena fatto giorno ci mettiamo in moto ed oltrepassata
un'altura che ci stava alle spalle, ci troviamo sul ciglio d'una costa
che per originalissima natura si innalza a fare quasi diga, che taglia
un profondo vallone che sotto ci si distende.

Oltre questa la salita comincia e si va facendo sempre più dura, finchè
raggiunto il pendìo del monte che ci stava di contro, si sale per tali
gradinate di roccia che meglio che camminarvi bisogna arrampicarvi, e in
molti punti è forza scaricare le mule e far portare il bagaglio a dorso
d'uomo. Quanto faticassero uomini e mule non è a credere, e
fortunatamente tutto passò senza tristi incidenti, chè un passo fallito
poteva avere ben serie conseguenze. Verso le undici arriviamo al termine
della salita più terribile, e ci troviamo in un piccolo altipiano, in
bellissima posizione, con verdi pascoli sparsi di gruppi d'alberi, un
vero parco inglese a 2750 metri. Proseguiamo poi per un sentiero che
sale fra boschi in cui predominano mirti, tuie, piante dalle foglie
della magnolia, ma più scura e meno lucida, rose, gelsomini e molti
arrampicanti. Il sentiero è molto erto ancora, e ci porta alla vetta a
2950 metri, da dove si stende dietro noi l'esteso ed originale, ma
monotono panorama delle montagne che veniamo d'attraversare dal Taccazè
in poi; alla nostra sinistra sempre l'irta catena del Semien di cui
calpestiamo uno sprone, e rimpetto a questo, l'infinito orizzonte che va
a confondersi con una miriade di alture che si succedono decrescendo
verso le pianure del Sudan; avanti a noi una distesa di colli
verdeggianti, gruppi d'alberi e tratti completamente bianchi per le
masse di fiori simili a gigli che vi stanno sparsi. Siamo in provincia
di Wogara e alle due piantiamo le tende rimpetto al villaggio di
Dewark. Il capo ci fa sapere che, ammalato, non può visitarci, ma spera
vederci; andiamo a trovarlo nel suo affumicato tucul dove sta
accovacciato accanto al fuoco con un braccio fasciato perchè fracassato
da una palla ricevuta or fa un anno nello Scioa; e così se ne sta inerte
e soffrente da tanto tempo.

Fu cordialissimo, ci trattò di tecc, volle regalarci un montone e del
miele e chiese qualche medicamento.

Stanche le mule di questa giornata campale, siamo consigliati di fare il
giorno appresso una tappa piuttosto corta. L'aspetto della campagna è
molto cambiato dai giorni scorsi, e qui abbiamo lunga distesa di terreni
ondulati, solcati di quando in quando da fenditure in cui scorre un po'
d'acqua; verdeggiante il suolo, e sparso di grosse macchie di acacie dal
fiore bianco; aspetto bello, grandioso, vero parco popolato da piccoli
villaggi sulle creste delle alture e da molto bestiame pascolante. Dopo
circa quattro ore di marcia, mettiamo il campo presso il villaggio di
Doquà a 2750 metri. Questi villaggi sono tutti costrutti su di uno
stampo, e tolta la prima impressione d'originalità, hanno per vero dire
poco di artistico; i più grandi hanno la chiesa al centro, nel punto più
elevato e spesso circondata da tuie pendule. La sera, dal villaggio ci
portano una vacca, quattrocento pani e sessanta uova; si capisce che ci
avviciniamo al campo del re, e la paura frutta generosità.

Grande è l'importanza della catena che abbiamo passata ieri per
l'orografia d'Abissinia. Presa infatti a considerare questa in blocco,
vi troviamo il gruppo del Semien e la catena del Lasta che formano da
spartiacque, dando origine verso sud ai torrenti che vanno ad unirsi
all'Havasch che va a scendere nelle provincie dello Scioa, e verso nord
ai torrenti che vanno ad ingrossare il Nilo; questi poi possiamo
dividere in due categorie, la cui distinzione è appunto dovuta alla
cresta di Wogara che ieri attraversammo, e questa cioè dà luogo al
versante che scende a nord-est, le cui acque vanno a raggiungere il
Taccazè, che nato nelle più alte regioni del Semien, ne gira verso nord
e nord-ovest il gruppo principale, riceve nel suo corso tutti gli
affluenti del versante occidentale, si unisce all'Atbara che scende dal
Galabat, si fonde col Mareb, e col nome di Atbara si versa nel Nilo poco
superiormente a Berber. L'altro versante che è delineato dalla costa di
Wogara volge invece a sud-ovest, e le sue acque vanno a versarsi nel
lago Tzana, da dove sortendo per il Nilo Azzurro, dopo non breve corso
si uniscono a Cartum a quelle del Nilo Bianco, e presso Berber ritrovano
le compagne che cadute forse a pochi metri di distanza sulle vette dei
monti Etiopici, percorse vie quasi opposte, vengono a ritrovarsi nel più
storico dei fiumi, dopo centinaia di chilometri di percorso.

    [Illustrazione: Chiesa di Doquá costrutta entro mura portoghesi]

_Martedì 13_ ci rechiamo a visitare la chiesa, interessante perchè sorge
entro una costruzione antica portoghese, rettangolare, merlata, con
torri agli angoli, aperture ad arco ed internamente divisa in specie di
corridoi a volta. Il tutto però in rovina e credo che fra non molto si
ridurrà ad un mucchio di avanzi e nulla più.

Alla partenza siamo circondati da tutte le vecchie megere del villaggio
che piangono e strillano, pregandoci lasciare la vacca che ieri sera ci
hanno offerto e che per loro è preziosa; ma Naretti impassibile non
cede, malgrado i nostri suggerimenti, e il magro animale segue la
carovana bastonato ad ogni passo da un servo. Proseguiamo verso ovest,
poi giriamo a sud-ovest; ritorna il carattere delle alture abissinesi a
profilo orizzontale e scendenti a scaglioni simili a fortificazioni;
poca vegetazione, pascoli meno verdeggianti e poche acacie. In un
immenso bacino, sui pendii delle alture che lo determinano sono sparsi
parecchi villaggi, e al centro sorge un'altura isolata, quasi un cono
tronco. Al vertice scorgiamo un insolito movimento, molte persone
incontriamo per via, molti gruppi troviamo fermi sotto le acacie
ombrellifere, artisticamente disposti con donne accovacciate, buricchi
carichi coi soliti involti di pelle, cavalli originalmente bardati,
servi con fucili e lance e scudi.

È il mercato settimanale che si tiene qui sopra, come punto centrale ai
villaggi del bacino nel quale ci troviamo. Attraversiamo il mercato che
non ha che sale, pelli, bestiame, qualche tessuto del paese, e ai piedi
del versante opposto dell'altura troviamo fatto il nostro accampamento.
Il posto è detto Ciambilghé, a 2700 metri. Vengono parecchi capi e
grandi dei villaggi circostanti a fare discussioni e offerte che poi
all'atto pratico si riducono, come di solito, a ben poca cosa o a nulla
affatto.

Richiedono gli Abissinesi che i talleri abbiano le perle del diadema e
del fermaglio alla spalla nell'effige di Maria Teresa, molto visibili,
più pretendevano nel Tigrè che fossero nuovi, lucenti. Qui mandiamo i
servi al mercato per fare qualche acquisto, ma se ne tornano a mani
vuote, dicendo che si credono i talleri falsi e fabbricati da noi perchè
troppo puliti.

Non ebbimo che accendervi vicino un po' di polvere per renderli forse
non apprezzabili da un nostro antiquario, ma accettabili da questa brava
gente che si trovò pienamente soddisfatta degli stessi talleri che
rimandammo dopo due minuti.

_Mercoledì 14._ Il capo del villaggio non volle ubbidire alla guida del
re che ci accompagna, per cui questi lo lega con una corda e lo trascina
minacciandolo di condurlo così fino in presenza di S. M. Proseguiamo
verso sud e sud-ovest, a seconda delle divergenze che ci obbligano di
fare le alture.

Il terreno è in generale ondulato, e passiamo come una sequela di bacini
circolari rinserrati da lievi alture, ma aperti verso sud-est, dal qual
lato hanno i loro scoli nelle lontane vallate del Semien. Molti pascoli,
ma poco bestiame, paese ricco per natura, ma spopolato e povero per
mancanza di braccia e per ignoranza. Verso le due ci fermiamo al
villaggio di Coraggit, a 2950 metri. Abbiamo compagni dei venti di
nord-est che ci risparmiano le piogge che da lontano si vede tentano di
avanzare. La notte e la mattina molto freddo e molta umidità.
Proseguiamo il giorno appresso volgendo a sud, su di un lungo altipiano
fatto a lingua, dalle posizioni più alte del quale si scorgono ad est le
profonde vallate che vanno al gruppo del Semien, e ad ovest le posizioni
del Gondar e delle vaste pianure che dietro questo si distendono, e dopo
cinque ore di tappa ci fermiamo a Mariamoaha (acqua di Maria) a 2720
metri, in posizione assai romantica e isolata. Una massa di aquile e di
avoltoi piombano attorno al campo e fendono l'atmosfera colle loro
lunghe e ardite spire sopra le nostre teste; un'enorme aquila dal becco
arcuato e dalle gigantesche zanne, uccisa con un colpo di fucile, misura
da un estremo all'altro delle ali, poco meno di tre metri.

Il venerdì si continua sullo stesso altipiano che va restringendosi fino
a diventare un vero dorso di mulo, finchè ci si presenta, quasi a
tagliarci la via, un'altura dal ciglio orizzontale, sulla quale ci
troviamo a 2900 metri, e ci si presenta ad ovest il Gondar steso su un
colle, alla vetta del quale si distinguono degli edificii rettangolari,
le rovine dei palazzi portoghesi; e a sud-ovest una striscia biancastra,
luccicante pel sole che vi riflette i suoi raggi, ci indica il lago
Tzana. Ecco due punti che formavano buona parte delle mie aspirazioni, e
che già posso distinguere coll'occhio mio. A rivederci fra poco più
davvicino, e intanto proseguiamo per assistere all'altro spettacolo, il
ricevimento e l'accampamento del re dei re, l'imperatore d'Etiopia.

A volte attraversiamo ridenti pascoli, a volte folta vegetazione con
acacie, ulivi, euforbie, gelsomini, grossi cespugli di rose dal fiore
semplice e bianco. Più avanziamo, meglio si distende sotto noi il lago
che appare assai vasto e sparso di isole. Ci fermiamo per la notte a
Ambaciarà, meschino villaggio di poche capanne, e continuiamo il sabato,
presso a poco collo stesso paesaggio che va però assumendo carattere
più alpestre, per circa quattro ore, per fermarci ad Amba-Mariam, a 2920
metri, nel centro di un vasto altipiano tutto coltivato ed assai
fertile, e sparso di molte abitazioni che sono tutte capanne come quelle
del Tigré, ma forse più meschine, chè difettano maggiormente quelle col
muro circolare, e quasi tutte hanno per parete una semplice siepe di
rami secchi, tutt'al più impastati con fango. Nei cortili si vede
qualche _musa ensete_; e sparso nei campi un grosso albero dal
portamento elegante e dal legno purissimo, detto _querc_, il _cusso_ che
nelle masse ricorda il nostro castano, ma ha un verde più chiaro, il
tronco rossastro, e porta grossi grappoli dai quali si fa il decotto
usato contro il tenia.

La _domenica 18_ attraversiamo in direzione sud-est il vasto bacino che
ci sta davanti, poi principiamo una discesa entro un vallone orrido e
pittoresco; è profondo, massi conici di nuda roccia sporgono qua e là,
le pareti dei monti sono alternate da strati a lieve pendìo su cui
alligna vegetazione, e strati verticali di prismi basaltici. Noi
corriamo sul pendìo di uno di questi monti, la vegetazione è abbastanza
fitta senza essere grandiosa; frequenti piccole sorgenti di acqua,
sempre circondate da belle palme e muse. Cominciamo nuovamente a salire,
giriamo più a sud, ed oltrepassato un enorme masso dalle pareti
basaltiche, scorgiamo alla nostra destra, in fondo ad un vallone, il
lago Tzana che lambe la catena sulla quale camminiamo. A 2900 metri
troviamo ancora un altipiano che attraversiamo per trovarci poi dinanzi
una forte e tortuosa discesa, percorsa la quale raggiungiamo le nostre
tende piantate vicino al villaggio mussulmano di Derita a 2250 metri,
entro un bacino assai vasto, circondato specialmente ad est da monti
piuttosto alti.

Come prima influenza del cambiamento di religione, i capi vengono subito
ad offrirci del caffè, cose non mai usata dai cofti.

Un povero pazzo, completamente nudo, gridando a squarciagola corse
attorno al nostro campo mettendo lo scompiglio nelle mule, poi, vedendo
che di un montone ammazzato si erano gettate le interiora, si slanciò
come jena su queste e si mise a rosicchiarle.

Mentre contempliamo questo compassionevole spettacolo, un altro se ne
aggiunge; un grosso falco, che forse vecchio abitatore di queste
vallate, sapeva con chi aveva a fare, per ben due volte ebbe tanto
ardire da lanciarsi a prender la preda fra mano e bocca del disgraziato.

Lungo la via da Adua in qua, incontrammo spesso piccole compagnie di
povera gente che la miseria consigliò di traslocare da un villaggio
all'altro, e che torna nel Tigré da dove sfuggì la carestia. Sono tutti
miserabili, macilenti, coperti da pochi cenci, coll'impronta della fame
e delle sofferenze scolpite nelle carni. Le donne sono cariche dei loro
bambini che portano sospesi sul dorso con pelli ricamate con conchiglie,
e di panieri e zucche; nei primi portano gli avanzi del pane fatto la
mattina o il giorno innanzi, nelle seconde, burro, berberia, acqua ed
ogni altra cosa. Le lavorano bene, adattandovi un coperchio e maniglie
di liste di pelle; sostituiscono insomma quello che da noi si fa con
vetro, terra cotta, metallo o porcellana. Le piccole, tagliate a metà
servono inoltre da bicchiere. Credo che proprio da questo frutto si sono
sperimentati tutti gli usi possibili e immaginabili.

Oggi incontrammo pure una carovana che veniva dal Goggiam con caffè. I
carichi erano portati in parte da boricchi e in parte da giovani alte,
nere, seminude, dal tipo schiacciato. Sono schiave sciangalla, per modo
che arrivati in Adua si fanno le due vendite, del caffè e di chi lo ha
portato...

_Lunedì 19_: in direzione sud-ovest andiamo discendendo per una bella
vallata, larga, verde, in alcuni punti fitta di ricca vegetazione, e
raggiunto il vasto piano in cui va a spegnersi, giriamo dolcemente a
sud, per proseguire su d'un piano inclinato sparso di acacie, fra cui
alcune gommifere, e grossi ficus.

Passiamo un torrente che ai tempi dell'Abissinia fiorente, pare
scorresse impetuoso, perchè i Portoghesi vi costrussero un ponte di
cinque arcate, e alle tre circa ci fermiamo ad Amoraghedé, a poche ore
dal campo reale. Dove raggiungemmo la pianura, avevamo 1950 metri di
elevazione, e dove abbiamo stabilito l'accampamento, siamo risaliti a
2120 circa.

_Martedì 20._ Abbiamo avuto nella notte uno di quegli acquazzoni
equatoriali, che pareva volesse sprofondarci colla tenda. La mattina
tutti i servi sono messi a nuovo colle loro camice pulite e con quel po'
di roba che si ebbero da noi in regalo; chi un paio di pantaloni, chi
una camicia di flanella, chi un fazzoletto in testa, chi un paio di
scarpe rotte, chi un gilet; in complesso una scena variata, originale e
ridicola, e il ridicolo maggiore lo dava Francisco, un servo del Sudan,
colla sua faccia mista da buffone e da idiota, nera come ebano, con
scarpe, pantaloni, giacchetta e cappello all'europea, la cintura da
revolver e una lunga lancia in mano; un vero tipo da buttafuori da
compagnia di saltimbanchi. Tutto è pronto, ma dobbiamo ancora aspettare,
che nella lunga tappa di ieri alcune bestie rimasero in strida, e fra
queste quella che porta la cassa colla croce da cavaliere di Salomone
del nostro Naretti, e senza il distintivo non vuol presentarsi a sua
Maestà.

Alle nove finalmente lasciamo il bagaglio, come di prammatica nelle
circostanze solenni, e noi partiamo soli. Francisco inforca un magro
cavallo bianco, e questo completa la macchietta. Si finisce di salire il
piano inclinato, poi si comincia un'erta salita entro una valle per
raggiungere un vasto altipiano nel quale continuiamo la nostra via. Sono
vaste distese di pascoli, di terreni coltivati, di alture che si
innalzano coperte da folta vegetazione, e noi andiamo continuamente
attraversando or degli uni or delle altre. Il grande movimento che
incontriamo lungo la via ci mostra sempre più che andiamo avvicinandoci
alla meta. Sono truppe di buoi, che pagati quale tributo, si spediscono
ai mercati o alle province per ricompensa, vendita, dono od altro; sono
soldati licenziati che se ne vanno ai villaggi loro assegnati per
farvisi mantenere, o che fanno ritorno alle case loro; sono contribuenti
che tornano coi somari, muli o cavalli vuoti dopo aver pagato le
imposte, sono capi di villaggi che furono dal re per presentare omaggi o
reclami, sono gente fortunata che torna libera da un giudizio reale.
Sulle vette di un'altura scorgiamo una gran chiesa; è la grandiosa
chiesa del Salvatore che aveva cominciato a costrurre re Teodoro; non
siamo dunque tanto lontani dalla meta, e facciamo una fermata sotto
un'acacia, dove il buon Naretti indossa la sua camicia rossa a fiori
gialli, vi appende la croce del prezioso cavalierato e si avvolge nello
scemma ricamato dell'ordine; la sua signora mette pure il suo manto e
l'elegante bornus da gran dama. La carovana acquista importanza e ci
avviciniamo al supremo momento.

Molti villaggi sparsi, molto terreno coltivato, in complesso bel
paesaggio; in un punto vediamo contemporaneamente seminare e raccogliere
frumento in due campi attigui. Giriamo un'altura, coronata da folta
verdura, e sui pendii della quale siede un grosso aggruppamento di
capanne, e ci si presenta uno spettacolo senza confini, di moto, di
originalità, di estensione.

Avanti a noi, sparso in ogni direzione, il campo dell'esercito reale.
Sono ammassi di capanne grandi e piccole, vecchie e nuove, di tende
bianche e nere; un formicolìo di gente, un avvicendarsi di gruppi a
piedi, a mulo, a cavallo, di piccoli accampamenti separati che pare
vivano di vita propria, un luccicare di armi e uno sventolare di toghe
bianche e rosse, un susurro e un gridìo, un vero vortice sfrenato di
moto e d'animo che si spande a perdita di vista sulle lievi alture e nei
larghi avvallamenti che da ogni lato si distendono e circondano
un'altura elittica, pure tutta sparsa di attendamenti, e la cui vetta è
cinta da una muraglia sulla quale si innalzano alcune acacie e qualche
tetto conico. È questa la reggia; è là che fra pochi minuti ci troveremo
al cospetto del re dei re. Attraversiamo il forte dell'accampamento;
tende e capanne meschine, ma a migliaia; soldati che se ne stanno
rannicchiati a crocchi, altri che ci vengono incontro per curiosità,
donne che lavorano alla farina, al pane, al tecc, altri che stanno
costruendo il loro tugurio. Il movimento e l'originalità non sono certo
gli elementi che fanno difetto; peccato che gli occhi nostri non bastino
ad abbracciare tanta immensità di cose belle, nuove, grandiose, e tanto
meno la penna possa ritrarle in modo da rendere solo una lontana idea di
quanto ci si parava dinanzi. A pochi passi dalla vetta ci fermiamo e
scendiamo da cavallo; una folla immensa ne circonda e mille commenti si
fanno su noi; siamo invitati a proseguire. Un imberbe, dall'occhio
vivace e dal naso arcuato ne viene incontro, saluta con enfasi Naretti e
ci annuncia che eravamo aspettati solo domani; è il _primo cerimoniere_
di Sua Maestà. Per una piccola porta custodita da soldati entriamo nella
cinta; attraversiamo un gran tucul in cui stanno molti soldati seduti a
discutere e giuocare e custodire le artiglierie che scorgiamo in un
angolo; passiamo in altro vasto tucul in cui stanno cavalli e mule del
re e il trono delle udienze coperto con tela, ma del quale mi è dato
scorgere qualche lembo di stoffa di seta e ricami in argento. Il momento
sublime è imminente e l'emozione prende una gran parte alla freddezza
che sarebbe necessaria, quando per osservare si vorrebbe essere
tutt'occhi e tutt'orecchi. Usciti da questo secondo tucul, a pochi passi
se ne presenta un terzo in cui siamo immediatamente ammessi; piccolino,
ma di una eleganza originale; il suolo coperto da tappeti d'Europa:
sopra un divano fra cuscini di seta, accovacciato all'abissinese,
avvolto nel suo scemma, che con una mano rialza fino a coprirsi metà
del viso, il capo scoperto e divisi i capelli in cinque larghe trecce,
sta il grande re dei re. Su un cuscino il revolver, appeso alla parete,
dietro lui, il suo fucile e il suo scudo di guerra ornato di placche
d'argento. Entriamo, facciamo un inchino, ci stende la mano che ognuno
stringe, poi ci disponiamo in semi-circolo avanti al reale angareb.

Per mezzo di _ras_ Alula, suo grande amico, domandò della nostra salute,
del nostro viaggio, e dopo poche parole ci licenziò invitando Naretti ad
un'udienza per l'indomani, offrendoci ancora la mano. Mi parve avesse
l'aria preoccupata, fisonomia sofferente, parlava a bassa voce, una
freddezza glaciale; la mano, solo offerse, ma non strinse la nostra, ed
era scarna e gelida.

Usciti da qui ci fecero girare la cinta, finchè confinante con questa,
dal lato di levante, trovammo uno steccato nel quale entrammo; era il
recinto a noi destinato; grande onore e prova di fiducia, perchè proprio
confinante coi _reali palagi_. Vi troviamo un gran tucul ed uno in
costruzione, che gli ordini non erano stati ancora completamente
eseguiti, per cui riservando la capanna ai Naretti, vennero subito a
piantare una gran tenda che ci venne destinata; nientemeno che la tenda
particolare del re quando sta in campagna; è assai vasta, ma semplice,
di stoffa di cotone bianco del paese, fatta a fettucce e sostenuta da un
palo al centro e molte corde alla periferia.

I due protestanti s'erano accollati a noi e ci seguirono dal re e nel
nostro campo, con una impudenza eccezionale, mi è forza dirlo, dacchè
seppi che volevano abusare di noi e non avevano nessun permesso del re
per presentarglisi. Come colla religione si fa presto a compromettersi
in questo paese, Naretti ne parlò subito a qualcuno della Corte,
dichiarando che non avevano nulla a fare nè con lui nè con noi, e fu
quindi subito fatta piantare un'altra tenda per loro.

Cominciarono i dignitari di Corte a venir a visitare Naretti,
congratulandosi pel suo ritorno, e dragomanno, e tesoriere, e
cerimoniere stavano con noi quando udimmo cinque colpi da cannone.
Sarebbe ridicolo l'appropriarcene l'onore, che non avendo noi veste
ufficiale, anche il re d'Abissinia non consuma la sua polvere per
festeggiare l'arrivo di gente che non sa chi sia; ma amici di Naretti e
da lui introdotti alla presenza reale, ci fece gran piacere questo segno
di distinzione a suo riguardo e ci confortò dell'impressione fredda del
primo ricevimento, che ognuno aveva provata, ma che nessuno osava esser
primo a confessare. Abbiamo poi subito saputo che la freddezza è nel
carattere di re Giovanni, che d'altronde era preoccupato e per la
sorpresa del nostro arrivo inaspettato, e per una sentenza che suo
malgrado aveva dovuto dare la mattina, e che si eseguiva appunto quando
noi arrivavamo, tagliando mano e piede ad un ladro. Ci aggiunsero anzi
che pel nostro arrivo erano già destinati cento soldati ad incontrarci e
riceverci con salve di moschetteria.

Il prete di un villaggio ove accampammo uno dei giorni scorsi, viene a
domandarci mille scuse, perchè sapeva che i suoi parrocchiani non ci
avevano trattati come si conveniva, e in segno di perdono ci offre due
vacche; viene l'incaricato dal re pei nostri viveri e ci porta pure tre
vacche, trenta coltelli di ferro da restituirsi alla partenza, trenta
candele del paese, vasi di tecc, berberia, burro, miele, pani in grandi
cesti; e ogni recipiente portato da un servo e coperto da un cencio
rosso. La scena, per sè, il saperci ospiti del temuto re dei re,
l'originalità dell'ambiente erano tutto quello di più solenne e di più
fantastico che si possa immaginare, e certo il momento sarebbe stato
anche commovente, se la forza alle lagrime non avesse mancato pel grande
appetito che tutti ne abbatteva in mezzo a tanta abbondanza.

    [Illustrazione: Il nostro accampamento presso Re Giovanni, a
    Debra-Tabor]




CAPITOLO X.

  Il nostro trattamento offerto dal re.--Gli
  schiavi.--Presentazione dei doni al re.--Risposta
  arguta.--Debra-Tabor.--Corsa di cavalli.--Ritratto del re.--Una
  refezione da Sua Maestà.--Partenza pel lago
  Tzana.--Corata.--Accoglienza poco cordiale.--Il lago.--Il Nilo
  Azzurro.--Ponte portoghese.--Ritorno al campo reale.--Un tribunale
  presieduto dal re.--Decisioni pel ritorno.


_Martedì 21._ Giornata di riposo dalle fatiche e dalle emozioni di ieri.
Naretti è ricevuto dal re che si mostra piuttosto ben disposto a nostro
riguardo e fissa a domani il nostro ricevimento ufficiale con
presentazione dei doni. Nella giornata è un continuo andirivieni di
visite, delle quali parecchie sono seguite da doni per Naretti, di vasi
di tecc o vacche. Abbiamo già una massa di queste bestie che da noi
rappresenterebbero un capitale. La razione fissata per noi dal re,
consiste ogni giorno in due o tre vacche, 300 pani, tre vasi di tecc,
tre di miele, di burro, di berberia, trenta candeline, pelli piene di
farina, di grano, di biade per le mule, fieno, fasci di legna. E tutto
questo portato da una sequela di miserabili schiavi maschi e femmine,
che lavorano pel servizio del re e del suo seguito e ricevono nutrimento
e qualche cencio di quando in quando per coprirsi.

Sono poco meno che nudi e i pochi panni che li coprono sucidi e cenciosi
da far ribrezzo, nerissimi, perchè provenienti dai paesi gallas, e forse
fatti schiavi da questi all'interno, e generalmente scarni e avviliti.
In Abissinia non è permessa la schiavitù, ma sono tollerati gli
schiavi; questi, ad esempio, sono regalati dai vassalli dello Scioa e
del Goggiam; il re li tiene come servi che attendono ai più bassi
mestieri e non sono ammessi in sua presenza. Questa lunga fila di
miserabili che con passo grave entrano portando ognuno sulla testa il
proprio fardello coperto da panno rosso, lo depongono al suolo, e,
mentre il loro capo fa la consegna, stanno avidi aspettando il pane che
ad ognuno di loro si regala, formano uno di quei quadri, imponenti
quando riprodotti sulle scene di certi teatri, e che qui ha la grandezza
e la vita della realtà. Grandi chiacchiere faccio con Maderakal, il
dragomano del re, suo segretario e sedicentesi ministro degli affari
esteri. Quando Lefèvre viaggiava l'Abissinia, Ubiè che allora era re gli
diede questo giovane per guida, e gli permise poi di portarselo in
Europa, dove visse parecchi anni in Francia e in Inghilterra. Tornato al
suo paese, parlando passabilmente il francese e un pochino l'inglese, fu
addetto alla Corte di Teodoro, ed uno dei dodici fatti prigionieri a
Magdala a fianco al cadavere del suo Sovrano; poi passò al servizio di
re Giovanni.

_Giovedì 22._ Verso le nove siamo chiamati a Corte e ricevuti, dove lo
fummo anche l'altra volta; il re stava ancora seduto sul suo divano, e
nella capanna erano una diecina dei suoi fidi e dipendenti. Entrati,
facciamo un inchino, ci porge ancora la mano, ci fa dare il _buon
giorno_, poi cominciamo la presentazione dei doni che il comitato
milanese gli invia: un fucile della nostra armata con cartucce, due
revolvers, un letto da campo in ferro, cuscino in seta rossa con corona
reale ricamata, veluti, damaschi, panno di vario colore, fazzoletti di
seta, saponi variati, candele, fiammiferi, diversi oggetti in gomma,
briglia con striglia e spazzole pei cavalli, bottiglie di cristallo
lavorato, alcune piene di liquori che ci invitò ad assaggiare noi,
perchè _fidarsi è bene e non fidarsi è meglio_. Durante tutta la
presentazione, con Maderakal che faceva da interprete per le
spiegazioni necessarie, il re stette freddo e impassibile, e sempre con
mezzo viso coperto dallo scemma; solo mostrò un po' di sorpresa e forse
anche di soddisfazione allo spiegare il letto da campo e il cuscino che
si gonfiava soffiandovi. Con poche parole ci ringraziò e licenziò per
far entrare i due svedesi protestanti, che regalarono una pendola e un
ombrello di seta rossa, privilegio del re in questo paese. Maderakal mi
tradusse il dialogo che ebbe luogo e che qui riporto, perchè mostra il
tatto e la finezza di re Giovanni. «Cosa veniste a fare, o signori, in
queste terre?» così fece loro domandare.

«A spiegare il Vangelo,» risposero.

«Il Vangelo è uno, Dio è uno, la fede è una; io ho chiese, io ho
vescovi, io ho preti, e questi sanno benissimo insegnare da loro il
Vangelo al mio popolo. E a chi dunque vorreste più propriamente
insegnare il Vangelo?»

«Agli ebrei, ai musulmani...»

«E non avete ebrei nel vostro paese?... e venendo qui non vi siete
accorti di attraversare un paese tutto di mussulmani?... come mai non
pensaste di fermarvi fra loro a spiegare il Vangelo? Io accetto
volontieri negozianti, viaggiatori, lavoranti in tappeti, in sete, in
armi, operai che lavorano il legno, ma non gente che vuole immischiarsi
nella religione del mio popolo...»

Non so quale effetto avrà loro fatto questo dialogo, ma credo ne devono
esser rimasti poco soddisfatti.

Il villaggio di Debra-Tabor è a poca distanza dal campo reale, che
assunse questo nome come quello del più vicino paese, ma il nome
propriamente del colle sul quale è piantato il reale accampamento è
Gafat, e si eleva 2700 metri sul mare.

Il re Ali fu quegli che scelse questa posizione quasi a capitale del
regno, come il punto più centrale delle tre provincie principali,
dell'Amara, dello Scioa e del Goggiam.

Non vi fu mai fatto per altro nessun edificio che possa in certo modo
materialmente stabilirla come capitale del regno, la quale credo che il
giorno che la pace parrà dominare in Abissinia, se pure quel giorno
verrà, tornerà a stabilirsi a Gondar.

Vediamo un giorno in un punto della pianura una massa di gente e di
cavalli, un insolito movimento; è il re che sta facendo le corse, per
cui scendiamo subito. L'ambiente è molto pittoresco; una massa di
spettatori delineano come il contorno dell'arena; sulla sinistra, sotto
alcune acacie, diversi gruppi di _grandi_ artisticamente avvolti nei
loro manti e circondati da servi e seguaci armati; rimpetto a questi il
re, all'ombra di un ombrello rosso con frange d'oro sorretto da un
servo, e seguito dal numeroso suo stato maggiore; un paesaggio vasto,
incantevole, un sole splendido, un cielo del più puro azzurro.

Le corse consistono in sfide parziali di cinque, sei, sette o più
cavalieri che galoppano contro una schiera di altrettanti nemici, e
giunti all'altezza opportuna, gettano con meravigliosa destrezza un
bastone che tien luogo di lancia, e rivoltano precipitosamente il
cavallo in ritirata; la parte avversaria cogli scudi si difende dalla
grandinata di lance, che vede venire in sua direzione, e quindi insegue
il nemico che a sua volta fuggendo è obbligato con destri movimenti del
cavallo o collo scudo suo a difendersi dagli attacchi.

È veramente ammirabile la destrezza colla quale girano il cavallo a
corsa sfrenata, e intanto si difendono col rivolgersi a vedere da qual
parte sopraggiunge il nemico, portando lo scudo da destra a sinistra,
dall'avanti all'indietro, dal basso alla testa.

Il re di quando in quando monta a cavallo e fa un giro gettando la sua
lancia che molti si fanno premura di raccogliere, cui però nessuno osa
rispondere. Belli i cavalli, belli i cavalieri, belle le manovre,
pittoreschi quanto mai questi scemma elegantemente gittati sulle spalle
e che svolazzano correndo, questi scudi ornati da placche d'argento,
queste camicie o manti di distinzione in seta a colori diversi e vivaci,
queste bardature ornate con pelli, stoffe o metalli, questi collari a
fettucce scendenti in pelle di leone, di leopardo o d'altro, a seconda
del grado di distinzione, queste teste brune e ardite, cui aggiunge
ancora maggior tipo la pettinatura propria ai guerrieri. Un misto di
selvaggio, d'orientale e di medioevale, qualcosa che ricorda la
descrizione della sfida di Barletta e il quadro che ad illustrazione ne
fece lo stesso d'Azeglio. Scene grandiose che volendole descrivere
portano confusione, ma che lasciano un'impressione indelebile.

Alla partenza fu pure fantastico il seguito del re di centinaia di
cavalieri e di migliaia di soldati che confusamente lo seguivano
galoppando, correndo, gridando. Salutammo S. M. che gentilmente ci
rispose portando la mano al fronte.

Le distinzioni concesse dal re ai suoi soldati per fatti militari,
consistono in collari con lunghe fettucce scendenti, oppure larghe
strisce che si portano unite allo scudo, in pelli d'animali diversi, e
dalla qualità di queste dipende il grado di distinzione. Così primo è il
leopardo nero, riservato alle teste coronate, poi il leone, il leopardo
comune, la capra bianca o nera.

I giorni passano presto e interessanti, chè girando l'accampamento, ad
ogni passo si entra a far visita a qualche _grande_ o capo religioso o
militare, e sempre vi sono quadri nuovi, sempre nuovi costumi ad
osservare. Anche noi riceviamo spesso visite e queste sono piuttosto
monotone e noiose, chè tutti vogliono medicine o regali di qualche
camicia od oggetto qualunque, e sempre bisogna fare esposizione di tutto
quanto abbiamo. Quello che desta maggior interesse e ammirazione sono le
armi e fra queste una bella carabina americana, semplice ed elegante, a
ripetizione, sistema Winchester, che avevo portato per mio uso. Ne fu
parlato al re e fui pregato mostrargliela, anzi, mi si fece capire che
avrei dovuto fargliene dono. Mi doleva privarmene, ma bisognava
rassegnarsi, d'altronde il dolore del distacco era mitigato dalla
compiacenza di presentarla a chi m'aveva ispirato un certo senso di
simpatia. Aggiunsi allora al dono un revolver molto bello che tenevo
appunto per una simile occasione, e la mattina della domenica 25 fummo
invitati a presentarci a Sua Maestà. Ci riceve nella capanna grande;
rimpetto all'entrata, a sinistra, sta il re sul suo solito divano posto
davanti al trono; a pochi metri su un tripode quadrangolare di ferro
ardono legne odorose; a destra, lungo la parete, colle teste rivolte al
centro, sono i cavalli e le mule di S. M.; attorno tutti quanti i
dignitari di Corte e i grandi ufficiali; il suolo è tutto sparso di erbe
fresche.

Si fa la presentazione delle mie armi che parvero molto gradite; presa
la carabina fui invitato a mostrarne i movimenti che il re ammirò e
subito comprese; la caricò e mi pregò andare sulla porta e sparare il
primo colpo; vedendo il revolver disse: questo è lavoro italiano,
perchè, come mostrò, ne teneva un altro dello stesso sistema donatogli
da re Menelik che lo aveva avuto dal nostro capitano Martini. Dissi una
bugia, ma lasciai che ritenesse questa buona opinione delle industrie
nostre.

Il re era questa volta più animato del solito e ne potemmo distinguere
tutti i lineamenti; la testa pettinata a trecce in cui è conficcato uno
spillone d'argento; pochi baffi corti e poca barba sotto il mento,
fronte molto fuggente, occhio penetrante, naso leggermente aquilino,
sorriso benevolo, ma serio; zigomi assai pronunciati; in complesso i
tratti piuttosto caratteristici e fisonomia cordiale, ma severa; ha 44
anni ed apparentemente tanti ne mostra.

Fra i suoi fidi spiccavano la simpatica figura di _ras_ Alula,
governatore in capo del Tigré, e quella di Woldi Michael, il famoso
rivoltoso che per tre anni tenne la rivoluzione nell'Amassena, ed ora da
pochi mesi si è sottomesso al suo sovrano.

È vecchietto, affabile, apparentemente aperto di modi, ma l'occhio
tradisce in lui la coscienza di meditare quello che non confessa. Quando
re Giovanni se ne impossessò, invece di castigarlo volle essere
generoso, gli perdonò il passato per le promesse di un avvenire di
fedeltà e di devozione, e lo nominò governatore della provincia che lui
stesso tenne sollevata e in armi per tanto tempo, ma lo confidò alla
sorveglianza di _ras_ Alula, e come pegno della sua sincerità ne tenne
il figlio addetto alla Corte.

Il re ci fece sedere a fianco al suo divano, e sparsi nella capanna si
disposero a gruppi tutti gli altri presenti. Entrò una sequela di servi
con grandi panieri di pani, vasi di tecc, bottiglie, e ad ogni gruppo fu
destinato un paniere e distribuito ad ogni individuo un coltello; col
solito sistema servirono poi la pasta di berberia, una prima portata di
carne cruda e una seconda di bue abbrustolito, e di abbondanti libazioni
di tecc, usandoci il riguardo di servirlo a noi nelle bottiglie che noi
stessi avevamo regalate. Ognuno colle proprie mani principiò a staccare
i pezzi di carne che meglio gli confacevano, e una massa di servi
intanto andava e veniva rinnovando sempre bibite e portate. Il re non
mangiò, ma continuò a discorrere coll'uno e coll'altro, esaminando e
compiacendosi delle nuove armi.

Era bella la scena e stupendo il contrasto di questo ricevimento in una
capanna di paglia, reggia del re dei re che con un cenno tutto può nel
suo regno, misti alle sue mule e ai suoi cavalli, seduti a terra su
dell'erba o dei tappeti europei, mangiando colle mani della carne cruda,
ai piedi di un trono coperto con sete, damaschi, e ricami in argento, in
presenza dei più grandi dignitari di Corte e del paese, frammischiati ad
una massa di servi tutti quanti scalzi, tutti quanti coperti dal
semplice scemma, spesso piuttosto sdruscito, sempre molto sudicio.

Si mangiò, e la conversazione proseguì ancora dopo che i cesti dei pani
furono levati, e si continuò a servire tecc, finchè un usciere gridò
alcune parole che fecero sortire tutti quanti, e per ultimi noi che con
un inchino ci licenziammo da questo interessante e cordiale banchetto.

Le piogge hanno incominciato, e prima che il forte ci sorprenda vorremmo
vedere quanto ancora ci interessa, per poi metterci sulla via del
ritorno. Si stabilisce quindi che chi deve interessarsi di affari
commerciali vi attenda per proprio conto, mentre Ferrari ed io andremo a
visitare il lago Tzana, e il Nilo Azzurro; Legnani ci sarà compagno, e
tutti ci riuniremo a Debra-Tabor ancora, per tornare dal Galabat
visitando sulla strada il Gondar.

La mattina del martedì 27 il re ci manda a chiamare, e tenendosi al
fianco uno dei capi della chiesa, ci riceve insieme ai protestanti:
vuole la presentazione di quelli fra noi che partono per affari
commerciali per la via del Goggiam, e di quelli che se ne vanno alle
rive del lago Tzana, ci augura il buon viaggio, aggiungendo che tutto
già pensò per le guide che ci devono accompagnare. Fa poi dire ai
protestanti che non mutò consiglio dalla prima udienza che loro
concesse, ed ingiunge che in giornata partano per raggiungere Massaua al
più presto possibile, con una fermata di non più di tre giorni in Adua,
assicurandoli che lungo tutta la via godranno della maggiore sicurezza.
Saputo da Naretti che gli oggetti che gli avevano regalati potevano
valere da cinquanta a sessanta talleri, ne diede loro cento, dicendo non
se ne offendessero, che non intendeva con questo pagare i loro doni, ma
solo compensarli delle spese di un viaggio fatto inutilmente.

Alle due, il cerimoniere di corte ci presenta la nostra guida
assicurandoci che provvederà a tutto quanto ci sarà necessario, e ci
raccomanda pazienza colle popolazioni se alle volte vorranno insultarci
dandoci del _turco_. Ferrari, Legnani ed io volgiamo a sud-ovest,
attraversiamo per lungo tratto l'accampamento, passiamo ai piedi
dell'altura sulla quale sta la chiesa del Salvatore con gran sfarzo
cominciata da Teodoro, proseguiamo, discendendo entro un vallone, più ad
ovest, ed alle cinque la guida ci consiglia fermarci presso alcune
capanne, dicendo essere lontani altri villaggi. La sera ci portano pani,
burro, uova, birra e una gallina.

_Mercoledì 28._ Discendiamo per vallate assai popolate e coltivate,
verdeggianti di pascoli e di folta vegetazione. Predominano acacie,
lauri, gelsomini, rose, muse e cento altre varietà che non so
qualificare. In molti punti il sentiero è cattivo sia per la ripidità,
sia per le pietre e i rami che lo ingombrano e non permettono di
passarvi sotto a cavallo. Alle due, in un punto ove la vallata si
allarga, vediamo molta gente radunata ad un mercato: ci fermiamo per
comperare del caffè, ma la nostra apparizione produce un tal panico che
tutti i venditori raccolgono le loro merci e se le portano via
lasciandoci pienamente padroni del terreno.

Mezz'ora ancora, e facciamo sosta al villaggio di _Dora_ a circa 2100
metri. Il capo ci si mostra cordialissimo e vuole che accettiamo una
capanna per la notte, amabilità troppo spinta, chè preferiamo la tenda,
ma il rifiuto sarebbe offesa. Notte infernale: abbiamo a compagni una
raccolta di donne, uomini, bambini, cani, gatti, galline, e una miriade
di insetti d'ogni specie che non ci lasciano chiudere occhio; io per di
più soffro immensamente all'indice della mano destra, che da qualche
giorno ha cominciato a tormentarmi.

La mattina seguente il capo del villaggio viene a complimentarci, e
dichiara di volerci accompagnare qualche poco: sarà in parte effetto di
cortesia, ma si deve un pochino anche attribuirlo al desiderio che ci
espresse d'avere della polvere da fucile. Dopo un'ora di discesa vuole
ci fermiamo all'ombra di un gruppo di palme per prendere del latte che
fa portare da pastori suoi dipendenti. Attraversiamo quindi una vasta
pianura, discendiamo per vallate attraversando diversi torrenti che
mandano le loro acque al lago; abbiamo buona caccia di oche e gazzelle.
Verso le quattro ci fermiamo presso alcune meschine capanne che non
ebbero forse mai neppur l'onore del battesimo.

_Venerdì 30._ Larghe vallate con moltissima vegetazione: _ficus_
giganteschi, sempre le eleganti acacie, tornano gli alberi di gardenie.
Scorgiamo il lago vastissimo, con qualche isola, attraversiamo
fittissime boscaglie, e poco dopo mezzogiorno ci si presenta Corata, la
capitale, per così dire, del lago Tzana. Essendo questa una città tenuta
in conto di mezza santità, per le etichette usate ci fanno scendere da
cavallo, consegnare i fucili ai servi ed aprire i nostri ombrelli, ciò
che pare accresca la grandezza e la dignità, e così avanziamo verso il
villaggio che si presenta grande, ben disposto fra folta verdura, su una
altura che quasi a penisola si protende nel lago e ne delinea un piccolo
golfo. Peccato che sia per bassi fondi, sia per le piogge del Goggiam,
da dove vi scolano le acque, queste non appaiono troppo limpide. Il lago
è assai vasto e sparso di parecchie isole fra cui alcune popolate e
tenute in conto di sacre. La sua lunghezza è di quasi cento chilometri,
per circa cinquanta di larghezza e quasi trecento di circonferenza. Il
villaggio è originalissimo: ogni capanna è rinserrata in un cortile e
circondata da folte boscaglie, e le viuzze tutte fiancheggiate da mura o
da verdi siepi e ombreggiate da alberi giganteschi: crescono spontanei
il caffè, la musa, le palme, il limone, il ricino che raggiunge
grandissime proporzioni, parecchie dracene, gli aranci e mille altre
varietà di piante rare per noi e che ben coltivate potrebbero esser
fonte di grandi ricchezze e benessere. L'elevazione è di 1900 metri sul
mare. Andiamo dal capo del villaggio che ci fa aspettare una buona
mezz'ora fuori la porta, poi ci riceve nel suo cortile, seduto con
grande importanza su una pelle da gazzella.

    [Illustrazione: Corata--Lago Tzana]

Accoglienza fredda; non vuol riconoscere l'autorità della nostra guida.
Lo riduciamo però a miglior consiglio, e come noi pensavamo stabilire
qui il quartier generale per fare delle escursioni sul lago, domandiamo
d'avere un _tucul_, disposti a pagarne l'affitto. Pareva le cose si
disponessero per bene, quando arrivano un paio di preti a mettere dei
bastoni nelle ruote; ci fanno perdere del gran tempo in discussioni, poi
ci invitano di seguirli alla chiesa dove si deciderà. Vi suonano le
campane e arriva una ventina di sacerdoti che cominciano a questionare
fra loro e colla nostra guida. Le cose vanno per le lunghe e la pazienza
scappa anche ai santi, per cui in modo risoluto faccio capire che sono
disposto a pagare, ma voglio e subito una casa, altrimenti farò le mie
lagnanze al re. Per tutta risposta mi dicono d'andarcene al lago a
cacciare l'ippopotamo, che nel frattempo loro decideranno. Siamo
stanchi, rispondo, e vogliamo riposare e non cacciare per ora, e
pretendo mi diate una casa. Ci fanno allora accompagnare ad una capanna
che ci dicono destinata, ma alcune donne strillano e non vogliono
permetterci d'entrare: c'era un morto. Indispettiti torniamo alla casa
del capo, piantiamo la nostra tenda nel suo cortile e dichiariamo che
non ci muoveremo se non ci sarà data una buona abitazione.

I preti tornano e gridano; ma noi gridiamo più di loro, e ci mostriamo
risoluti, finchè ci destinano un _tucul_, al quale andiamo senza fare
alcun saluto a nessuno dei presenti.

Il capo, forse intimorito, viene subito a farci una visita e ci porta
del pesce, galline, birra, pane e miele.

_Sabato 31._ Tanto antipatica e scortese è la popolazione, altrettanto
simpatico ed originale è il villaggio, nel quale si incontrano frequenti
avanzi di muraglie costrutte con grossi blocchi, ciò che mi fa supporre
siano resti di una piazza forte dei Portoghesi. Il lago aggiunge maggior
vita al paesaggio, e non possiamo abbastanza bearci della sua vista e
della sua frescura, dopo tanti mesi che l'occhio nostro non trova più a
riposare su una massa di questo simpatico elemento. Sono strane le
barche usate, a forma di pantofola ricurva alla punta, e costrutte con
grosse canne palustri strettamente legate fra loro con scorze d'alberi.
Dalla spiaggia si vedono frequenti ippopotami che sollevano le loro
enormi teste fuori dall'acqua per respirare.

Tutti si mostrano così inospitali e nel trattarci e nel provvederci di
quanto fu loro ordinato dalla guida nostra, che decidiamo la partenza
per domani, risoluti di fare al re un rapporto che guadagni il meritato
castigo a questi scortesi sacerdoti.

Quando il giorno dopo videro la nostra decisione di partire, temendo le
conseguenze del nostro malcontento, vennero in processione a dichiararci
la più profonda simpatia ed amicizia e prometterci che se restavamo, ci
avrebbero mandato ogni sorta di viveri, ma noi ci mostrammo fermi, e
caricate le mule, proseguimmo verso sud, lungo il lago, e piantammo le
tende in riva a questo, dopo due ore di cammino, presso alcune
meschinissime capanne basse, ristrette e totalmente coniche, costrutte
con erba e canne palustri e abitate da pochi miserabili pastori. La
natura è grandiosa, il paesaggio bello, ma le sofferenze pel dito malato
mi tolgono gran parte del piacere che proverei. Da parecchie notti mi è
impossibile dormire, si è terribilmente ingrossato, non sono più dolori,
ma spasimi; la natura stessa mi fa sentire il bisogno di aprire una via
al male che internamente corrode.

La farmacia e i pochi ferri chirurgici li lasciammo a Debra-Tabor,
dovendo tornarvi, quindi con un coltellaccio qualunque tento fare quanto
l'istinto mi suggerisce, ma la mano malata, ridotta doppiamente
sensibile dall'infiammazione, cede sotto l'altra, e solo dopo parecchi
tentativi mi riesce aprire un piccolo taglio.

    [Illustrazione: Dove il Nilo Azzurro sorte dal lago Tzana]

_Lunedì 2 giugno._ In direzione sud marciamo per quattro ore e piantiamo
le tende in un magnifico altipiano, precisamente all'altezza dove il
Nilo Azzurro esce dal lago. Questo comincia già un pochino a
ristringersi poco sotto Corata, e dove accampammo ieri principia a fare
imbuto, sparso di isolotti e lingue di terra che dalla spiaggia, basse
si protendono all'interno. Il cammino percorso oggi è sempre parallelo
al lago e in qualche punto lambe le sue acque. È sempre alternato fra
basse pianure a pascoli popolate da bestiame, ed alture che si stendono
lunghe verso il lago, quasi come radici della catena che ci sta sulla
sinistra. Attraversando queste la natura è selvaggia e grandiosa, e
popolata solo da fiere che non _osano_ mostrarcisi e da una massa di
caccia, specialmente faraone e gazzelle; alberi secolari d'ogni forma ed
altezza, tronchi caduti per vecchiaia o per forza di bufere ed
artisticamente rovesciati gli uni sugli altri, liane che tutte avvingono
fra loro le diverse varietà, fiori che coprono il suolo: la mano
dell'uomo non entrò certo mai a togliere nulla alle bellezze che natura
ha prodigato a questo cantuccio. Il capo del villaggio è cordialissimo e
ci manda ogni ben di Dio.

_Martedì 3._ Restiamo qui per la caccia all'ippopotamo cui prende parte
Ferrari: io non lo posso pel mio dito che va di male in peggio: non un
istante di riposo nella notte. Con un rasoio prestatomi dai servi tento
ancora di farmi da chirurgo, ma di poco riesco ad approfondire il taglio
già fatto. Nella notte abbiamo per due volte invasione di grosse
formiche nella tenda, che ci obbligano di trasportarla; mi sento sfinito
dalla stanchezza, provo necessità assoluta del riposo, sento la
sofferenza del bisogno di sonno, mi par di perdere la ragione, gli
occhi vorrebbero chiudersi, ma gli spasimi superano tutto e
assolutamente m'è proibito ogni riposo. Ora poi si aggiunge anche questo
trambusto. La mattina giunge, e davvero non avrei creduto di poter
sopportare tante sì terribili pene.

_Mercoledì 4._ Per un quarto d'ora ci andiamo innalzando per poi
scendere in una vastissima pianura poco più elevata del lago, che tutta
attraversiamo: durante la discesa seguiamo coll'occhio il corso del Nilo
che dal lato sud-ovest, in fondo alla pianura, va serpeggiando
fiancheggiato da due strisce di folta verdura, frutto delle terre che
egli lambe e fertilizza.

Appena abbiamo messa la tenda, siamo raggiunti dal fratello del capo del
villaggio di ieri, che giunge seguito da gran corteo di servi ed armati:
è tanto cordiale con noi, che subito sospettiamo, abituati come ormai
siamo che in questo paese c'è ben poca cordialità e spontaneità, e se
qualcuno ne mostra è per raggiungere altro fine che si è prefisso. Poco
dopo infatti ci fa chiedere delle munizioni.

Continuiamo il _giovedì 5_ col solito alternarsi di pianure e di alture;
attraversiamo diversi corsi d'acqua che vanno a portare il loro obolo a
papà Nilo; saliamo un'erta collina, e ridiscesi dall'altro versante ci
troviamo al ponte che i Portoghesi costrussero per unire il Goggiam
all'Amara, e che oggi potrebbe essere scuola ed invece è onta a questo
popolo.

    [Illustrazione: Antico ponte portoghese sul Nilo Azzurro]

La posizione è delle più tetre che si possano immaginare. Giace questo
testimonio dell'antico potere incassato fra alture dai profili quasi
orizzontali, sulle quali la vegetazione cessa a metà dell'altezza per
dar luogo a pareti di rocce nude e nerastre, in fondo alle quali il
fiume scorre accompagnato da un monotono rumoreggiare, che unito al
cielo bigio e all'atmosfera cupa del momento per minaccia di temporale,
aveva del sepolcrale. Il ponte poggia su roccie di diversa altezza:
l'arco maggiore sovrasta la maggiore profondità, quindi sempre vi
scorre acqua: i secondarii servono nei casi di grandi piene. Dal lato
dell'Amara è l'abitazione di un guardiano che non ne permette il
passaggio a chi non è munito di speciale permesso del re. Non volle
lasciarci piantare la tenda, per cui ripassammo l'ultima altura per
andarci ad accampare ad un paio d'ore di distanza.

Il venerdì restiamo qui fermi, e Ferrari in un giro di caccia trova ad
ammirare una stupenda cascata del Nilo poco superiormente al ponte. Io
non mi sento la forza d'andarvi, e tento invece un rimedio preparatomi
da un soldato con radici essicate e polverizzate, quindi impastate con
burro. Copertane la parte ammalata, dopo un paio d'ore mi cessano i
dolori, posso riposare la notte, e in poco tempo il taglio da me fatto
si è di molto allargato e due nuove aperture laterali si sono formate.
Il povero dito è spaventoso, rassomiglia un cavolfiore, ma io sento
sollievo, non penso tanto all'avvenire, e mi par rinascere per ora a
nuova vita.

Per qualche giorno proseguiamo a piccole tappe, per non stancarmi
troppo, e senza notevoli incidenti, tranne fortissimi acquazzoni contro
i quali non ci sono coperture nè tende che tengano, e una gherminella
delle guide che invece di farci tenere la via più breve come era nostro
desiderio, ci fanno deviare per passare da un capo villaggio che aveva
loro promesso abbondante _tecc_. Si percorrono sentieri impossibili
attraverso campi e boschi: la natura abbastanza grandiosa e selvaggia:
spesso alture coronate da folto verde fra cui giganteggiano le tuje,
indizio che vi nascondono qualche chiesa in cui i preti si beano nel far
niente, vivendo alle spalle dei poveri contadini. Al famoso villaggio
cui tanto tenevano le nostre guide troviamo il capo assente, ma
l'invisibile consorte ci usa ogni cordialità, destinandoci un buon
_tucul_ e regalandoci di _tecc_, uova, latte, galline.

Si credeva arrivare a Debra-Tabor il martedì, ma dopo cinque ore di
cammino le guide ci consigliano fermarci, pretendendo esservi ancora
parecchie ore e non essere conveniente arrivare verso sera e presentarsi
al re, come di prammatica.

_Mercoledì 11._ Per accorciatoio ci fanno fare un'ertissima salita per
un sentiero a grossi ciottoli e fra tali boscaglie, che le mule per poco
non si accoppano e noi siamo forzati andare a piedi. Attraversiamo così
un'altura che determina la vallata in cui dormimmo la prima notte di
questa escursione, e ridiscesi per poco dal versante opposto, ci
troviamo presso la chiesa del Salvatore. Ai piedi del colle sul quale si
trova, stanno parecchi avanzi di edificii che sentono della mano civile,
e sono infatti i resti delle abitazioni e officine degli Europei
chiamati da Teodoro a portare la civiltà in paese. Da qui per la strada
già percorsa siamo in poco più di un'ora a Debra-Tabor, dove il bravo
signor Giacomo Naretti e gli altri compagni mi spaventano col loro
spavento nel vedere la mia mano, e subito s'accingono ad applicarmi i
rimedii necessari.

_Giovedì 12._ Andiamo dal re per augurargli il buon giorno, frase
sacramentale in Abissinia, dargli rapporto della nostra escursione e
ringraziarlo delle guide forniteci, ma lo incontriamo che esce per
tenere pubblico tribunale. Sulla piattaforma avanti la porta d'ingresso
è improvvisata come una gradinata con quattro o cinque _angareb_ di
diversa altezza, tutti coperti con stoffe e tappeti: S. M. è
accovacciato sul più alto, ai suoi fianchi stanno in piedi i più fidi
della corte, dietro lui qualche soldato custodisce una bandiera regalata
un tempo dalla regina d'Inghilterra. Sul davanti la collina scende fino
alla piazza del mercato dove stanno migliaia di curiosi, e in prima
linea tutti i giudicandi che avanzano man mano che i pretesi uscieri li
chiamano. Si fanno salire sul versante dell'altura fino ad una ventina
di metri dal palco reale, e qui trovano i loro avvocati elegantemente
vestiti con camice rosse, depongono a terra alcuni vasi che portavano,
espongono la loro querela. Gli avvocati fanno la loro controscena, il re
ascolta, si consulta qualche volta coi suoi vicini, poi emette un
giudizio che è inappellabile e trasmesso ad alta voce in modo che possa
essere inteso da tutto quanto il numeroso uditorio. Non si trattano qui
che cause civili, e i vasi deposti contengono miele, tributo dovuto pel
trattamento della causa, che in parte è devoluto al re ed in parte agli
avvocati. Ben considerata la cosa per se è ridicola, se si pensa al
profondo sapere e alla serietà di questi giudici e all'equità delle
sentenze che possono emettere, ma come scena non potrebbe essere più
grandiosa, e l'immensità dell'ambiente, e la folla degli uditori, e il
loro silenzio sepolcrale, l'enfasi delle difese degli avvocati, la
parola calma e incisiva del re che col suo volere, con un suo cenno,
poteva in quel momento decidere fra la libertà e le catene, la vita o la
morte di quei disgraziati che gli si presentavano, tutto concorreva a
dare un tal carattere di imponenza che mi lasciò profonda impressione,
come certamente non ne può aver lasciata nessuna aula dei nostri
tribunali.

L'organizzazione della casa reale o di un gran capo qualunque, è in
questo paese affare grandioso e complicato, ma certo ridicolo più che
serio per chi pretendesse che avesse a corrispondere alla parola
organizzazione nel suo stretto senso. Presa dal lato apparato e
importanza, merita per altro qualche considerazione od almeno due parole
di descrizione. Comincio dal notare che nessuno fra tutti questi alti
dignitari ha fatto studii speciali od ha acquisita esperienza che gli
possa meritamente attribuire il grado che occupa: tutto è questione di
favoritismo, d'occasione, di spigliatezza più che di ingegno, e spesso
di intrigo riuscito. Tutti però occupano il loro posto e disimpegnano le
loro funzioni con una serietà, una importanza ed un affacendarsi, come
tenessero le redini della politica europea.

Nel costume abituale nessuna distinzione, solo nelle grandi occasioni
sono vestiti di camicie in seta con ornati tessuti o ricamati a diversi
colori, e questo generalmente è dono particolare del re. I gradi di
tutta la coorte, per non dire baraonda, che segue la corte sono così
distribuiti: comandante l'avanguardia, gran mastro di cerimonie, gran
sorvegliante l'andamento di casa o maggiordomo, tesoriere, segretario
particolare per le corrispondenze, dragomanno e ministro per gli affari
esteri, scrivani, custode al tesoro, custode alle guardarobe reali,
scudiere o sorvegliante i cavalli e le mule, sorveglianti alla carne,
alla farina, al pane, al _tecc_, ecc. Fra le donne, le direttrici alle
cucine, alle panattiere, alle fabbricatrici di _tecc_ e di birra, alle
portatrici dei vasi per queste bevande.

Ogni dignitario segue il re, forma parte del suo stato maggiore e
comanda un certo numero di soldati. In marcia seguono poi come addetti
alla corte, una massa infinita di portatori delle tende, del tesoro,
delle provvigioni, ecc.

Il re detta le corrispondenze o le fa scrivere dando a svolgere il suo
concetto, poi le rilegge e allora vi applica il sigillo reale etiope.

Si passa ancora qualche giorno al campo reale e intanto si fanno tutti i
progetti e i preparativi per la partenza, quantunque le piogge abbiano
già cominciato giornaliere e forti. Si tratta di decidersi freddamente a
passare due o tre mesi di inazione sotto una capanna, atrofizzando
persino il cervello, chè, non essendovi preparati, non abbiamo neppur
libri da leggere con noi, o partire, disposti a vivere nell'umido tutto
quanto il viaggio, e confidare nella buona stella sia per la salute, sia
per la possibilità di guadare i torrenti che scendono impetuosi. Se
fossimo stati guidati da un po' più di esperienza nel fare i preparativi
di questo viaggio, la cosa non si sarebbe presentata tanto disastrosa,
ma equipaggiati come eravamo noi, che mancavamo persino dello stretto
necessario, pareva quasi temerità l'intraprendere in questa stagione il
viaggio del ritorno. Ma tanto si volle tentare, e si decide di prendere
la via di Galabat, Kassala, Suakin. Il re ci prega però di tornare da
Massaua, dicendo essere l'altra via pericolosissima in questa epoca per
le febbri, ed assicurando che almeno un paio di noi vi avrebbe lasciata
la vita.

Dovendo noi andarcene all'estremità nord del lago Tzana a visitare uno
zio del re, malato, e desiderando nel ritorno percorrere la via del
Semien, per vedere paesi nuovi, facciamo partire subito la carovana del
bagaglio che percorrerà la strada fatta nel venire, più lunga ma comoda
per le mule, e noi decidiamo che partiremo con pochi servi e nessun
carico per esser lesti a superare certi passi rocciosi che ci dipingono
orrendi.

L'incontro delle due carovane è deciso sarà in Adua.

Fissato il giorno della partenza andiamo a congedarci dal re che ci
saluta colla solita freddezza, nella quale bisogna leggere la
cordialità, sapendo essere effetto del carattere.

In Abissinia questo re è generalmente piuttosto amato, se si può
ammettere che questo popolo ami un sovrano od un capo qualunque. Io
credo che in questo paese si ama il re in generale perchè si ha
l'abitudine di temerlo, e si ama re Giovanni per l'ammirazione che si ha
per la sua abilità e fortuna colle armi. Ma se domani un altro individuo
qualunque sorgesse, trovasse proseliti, bandisse una crociata, fosse
tanto abile e fortunato da vincere le truppe reali e si proclamasse re,
tutto il popolo dimentica chi è caduto in disgrazia e plaude e fanatizza
pel nuovo che li guida alla vittoria e cinge la corona del re dei re.

Il gran merito che in generale si fa a re Giovanni è quello della
serietà, del non essere crudele, e dell'imparzialità, avendo dato prova
che quando un castigo è meritato non usa riguardo nè ad amici nè a
parenti: sono qualità che non dovrebbero essere meriti in nessuno
queste, ma fra un popolo come l'abissino, fresco ancora delle memorie di
Teodoro e delle più vecchie tradizioni, è permesso che se ne faccia gran
conto.




CAPITOLO XI.

  Doni del re.--Partenza dal campo reale.--Compagni di
  viaggio.--Villaggio poco ospitaliero.--Accoglienza poco cordiale
  di ras Area.--Gondar.--Traccia di strada.--Re Teodoro.--Le
  piogge.--Il Semien.--Emozioni.--Passaggio del Taccazé.--Arrivo in
  Adua.


Il re volle consegnarci una sua lettera da presentare al nostro sovrano
ed inviargli in dono due piccoli leoni che aveva ricevuti dal Goggiam e
stava addomesticando per tenerli a fianco al suo trono, come altre volte
faceva e come è tradizione dei re d'Etiopia, e desiderando dare a noi
una sua memoria, ed esserci utili nel nostro viaggio di ritorno, ci
mandò in regalo tre mule elegantemente bardate con selle di distinzione
che non si possono portare in paese se non date dalle sacre mani di Sua
Maestà. Sono in pelle rossa e verde, e la gualdrappa che scende a lunghe
punte ricamata con disegni originalissimi quanto primitivi che
pretendono rappresentare leoni, guerrieri, croci cofte ed altri
ornamenti.

La mattina del 21 giugno, lasciamo il colle di Gafat, questa residenza
reale dove provammo tante emozioni e tante soddisfazioni, e accompagnati
dai Naretti e da qualcuno della Corte che ci vogliono scortare per breve
tratto, proseguiamo verso ovest, rifacendo in parte la strada fatta nel
venire, e ci fermiamo un'ora prima del tramonto presso un villaggio
all'altezza di 2000 metri, dove malgrado gli ordini del re ci rifiutano
qualsiasi ospitalità, persino l'acqua.

Al momento della partenza fummo affidati ad un giovane soldato, logoro e
schifoso da destare ribrezzo e pietà, che doveva esserci di guida ed
ottenerci in nome del suo Sovrano, ad ogni villaggio che incontravamo
sulla nostra via, tanta roba da mantenere un reggimento. Una lettera
dataci dal re e diretta a tutti i governatori, capi dei villaggi, preti,
ci raccomandava e minacciava severe punizioni in caso di rifiuto
all'adempimento di questi ordini, ma sono così scarsi quelli che in
Abissinia sanno leggere, che anche questo documento finisce per
diventare inutile, oso dire, derisorio.

Nove prigionieri abissinesi, tenuti da un tronco d'albero che con una
forcella ad un'estremità serra loro il collo, e scortati da parecchi
soldati, sono destinati a fare il viaggio con noi fino al campo di _ras_
Area, lo zio del re dal quale siamo chiamati. La compagnia non era certo
la più simpatica, ma in questi paesi bisogna sorpassare a molte cose;
d'altronde noi siamo a mula e vogliamo fare marce forzate, per cui dopo
poco cammino li lasciamo e proseguiamo per conto nostro.

Il giorno appresso la guida lega per bene l'ostile capo del villaggio e
lo trascina per portarlo a scontare il fio della sua mancanza, ma i
preti si presentano in funzione, colle croci in testa e seguiti da molto
popolo ad implorare il nostro perdono che ci mostriamo risoluti a
rifiutare. Fatta poca via però siamo fermati da un baccano misto di
suoni e gridi; sono l'allarme che i ministri di Dio danno, e la raccolta
ai fedeli per inseguirci in massa e colla forza ottenere la libertà del
capo. Per evitare guai, nei quali certo saremmo sopraffatti dal numero,
e d'altronde avendo ben poco a guadagnare dalla compagnia del nostro
prigioniero, testimoni i preti, lo dichiariamo assolto dalla sua colpa,
purchè venga ad accompagnarci fino alla sera e ci ottenga dal nuovo capo
quello che desideriamo. Così fu pattuito, ma lungo la strada scomparve
fra boscaglie e fuggì. Dopo una traversata di diverse alture coltivate
e ben vestite da vegetazione, dalle quali godiamo sulla nostra sinistra
l'esteso panorama del lago Tzana, scendiamo in una sterminata pianura
nel mezzo della quale ci andiamo a fermare presso alcune capanne,
abitate da miseri pastori che non trovandosi in forza di reagire vengono
a supplicarci colle lagrime di risparmiar loro il tributo, perchè
mancanti persino del pane per vivere. Ci accontentiamo quindi di qualche
piccola cosa che ricompensiamo con moneta.

    [Illustrazione: Spade. 1. biscerina. 2. abissinesi. 3. Sella e
    briglia di distinzione regalateci de Re Giovanni. 4. Decorazione
    militare.]

Tutti i giorni verso le tre il cielo si copre e ci accompagnano pioggie
dirotte che ci preparano bene inzuppato il terreno sul quale dobbiamo
poi piantare la tenda e sdrajarci, salvo poi continuare la notte e colla
pendenza del suolo formarsi una corrente d'acqua, che mentre dormiamo ci
cura idroterapicamente il dorso.

_Lunedì 23._ Proseguendo a nord-ovest attraversiamo la vasta pianura a
poca distanza dal lago, con un caldo soffocante; alla nostra destra ci
maschera il Gondar una bella catena di monti, uno dei contrafforti del
gruppo del Semien che fra pochi giorni visiteremo. Usciamo dalla
provincia di Begemeder ed entriamo in quella di Dembea che è sotto il
governo del vecchio _ras_ Area che ci fu dipinto come affabile e di modi
cortesi cogli Europei, ma il più severo e crudele coi suoi; è il solo
che ancora abbia inflitta la pena dell'accecamento, malgrado il re vi
sia contrario. Lungo il lago masse di ardee, anatre, oche selvatiche e
cento altre varietà di selvaggina, da coprire letteralmente acqua e
spiaggia. Sono talmente ingenui sui tranelli che l'uomo può tendere
loro, che si lasciano assai facilmente avvicinare, ed al tiro del fucile
non fanno che sollevarsi in massa per rimettersi a pochi metri di
distanza. Giunti all'estremità del lago pieghiamo leggermente a nord, e,
attraversati molti campi coltivati, ci accingiamo alla salita del colle
di Genda, i cui versanti sono occupati dall'accampamento delle truppe e
il vertice dal solito ricinto entro cui sono le capanne del capo.

Ci facciamo annunciare, e dopo una mezz'ora di nojosa anticamera fuori
della cinta, circondati da centinaja di impudenti soldati che spingono
la loro curiosità all'indiscrezione, non sanno cosa sia cortesia e si
divertono a deriderci ed insultarci ripetendo fra loro _turco, turco_,
siamo invitati ad entrare. Attraversata, parte del recinto siamo
introdotti in un vastissimo tucul dove _ras_ Area sta accovacciato fra
una massa di grandi, di generali, di avvocati. La nostra guida ci
presenta, o meglio ci presentiamo da noi, ma la guida consegna uno
scritto del re. Tutti si alzano vedendo il suggello reale; commentano
frase per frase, ci fanno mille domande sul dove andiamo, da dove
veniamo, chi siamo, cosa contiamo fare, poi siamo licenziati e affidati
ad un individuo che si porta ad un piccolo tucul, in mezzo a tutti gli
altri delle truppe, già pieno di soldati che si fanno sgombrare. Non è
così che si trattano persone di riguardo, come, senza tema di peccare di
superbia, credo siamo noi in questo paese, dove se si fa
dell'ospitalità, almeno apparentemente si cerca di farla bene, ma
pensiamo saranno stati male eseguiti gli ordini dati, e ci adattiamo
alle circostanze, ci spogliamo delle nostre armi e ci sdrajamo in cerca
di riposo, sperando arrivi presto anche da soddisfare l'appetito.

Entra poco dopo un messo con un corno di _tecc_ e ci offre a bere, poi
ci invita per ordine del capo a portarci da lui. Certo è per darci da
mangiare, pensiamo, e pieni di speranze e d'ardire ci avviamo. _Ras_
Area è seduto nell'angolo di un piccolo ricinto e circondato da una
ventina dei più fidi compagni; salutiamo e ci disponiamo davanti a loro;
un forte battibecco comincia, si fa viva una querela fra loro, dai gesti
si vede che vogliono accusarci di qualche cosa; il nostro servo che fa
da interprete dice ci ritengono malfattori; pensiamo ci scambino pei
condannati che dovevano arrivare con noi e cerchiamo spiegarci, ma ad un
cenno del capo una massa di soldati invade, ognuno di noi è preso da
due per le braccia che ci tengono rivolte all'indietro; io porto il
destro al collo, perchè sempre malato, si insospettiscono nasconda
qualche arma, vogliono mostri il mio male. La questione si va facendo
più seria, più complicata; il nostro Agos, l'interprete, giovane timido,
grida: _vi legano, vi legano_; poi è preso da timore, piange, non sa più
spiegarsi; alcuni soldati entrano con delle catene. In questo frattempo,
anzi fin dal principio, il capo e parecchi dei suoi si armarono di
carabine, vi misero le cartuccie e pronti tenevano queste armi rivolte a
noi. Noi davvero non si sa che pensare; le nostre parole non sono
intese, la nostra innocenza non vuol essere ammessa; ci guardiamo l'un
l'altro, è inutile fare il forte, tutti son pallidi e come gli altri
devo essere anch'io. Ferrari è condotto nel mezzo del recinto,
inginocchiato col dorso rivolto alle carabine; in quel momento,
confesso, lo vidi finito e immaginai tutti noi stesi con lui. La morte
mi parve bella in quel momento e il pensiero correva triste all'idea di
non essere finito d'un colpo, delle sofferenze delle ferite, d'esser
forse destinati coi nostri patimenti a trastullo di quella canaglia. Nel
volgere di pochi secondi migliaia di pensieri mi si presentarono alla
mente e una vera lanterna magica dei miei cari, del passato, del mio
paese, mi passò davanti agli occhi. È paura questa? se lo è, confesso
d'averla avuta e non me ne vergogno; quando è dato mostrare di aver
coraggio, credo non sia tanto difficile persuadere che non si ha paura,
ma quando si vede la morte vicina e l'impossibilità di muovere dito per
respingerla, e senza scopo alcuno, e convinti della propria innocenza,
credo non sia gran merito rassegnarsi alla morte, nè demerito dolersi di
perdere la vita.

Qualcosa di sereno però siedeva ancora nel mio cuore, e si fece gigante,
e una voce interna mi parve dirmi: tua madre prega per te, tu devi
riabbracciarla, e mi sentii rassicurato. Le preci di mia madre avevano
infatti un eco in questi cuori da belve, e Ferrari fu solo primo ad
essere incatenato. Come la catena deve serrare al polso, l'ultimo anello
è più largo e aperto per farvi entrare il braccio, che poi si appoggia
ad una pietra qualunque, mentre con un'altra picchiando or su un estremo
or sull'altro dell'anello, lo si chiude tanto che serri e non possa
sortirne la mano. Per questa operazione Ferrari erasi dovuto
inginocchiare, anzi dopo quasi sdrajare a terra. Lo stesso fu fatto a
tutti noi, con permesso speciale di Sua Eccellenza per mettermi la
catena al braccio sinistro essendo il destro il malato, poi fummo
separati e condotti attraverso quell'orda selvaggia di vigliacchi che si
chiamano soldati e che ci scherzavano, ci insultavano, ridevano della
nostra disgrazia al nostro passare. All'altro estremo della catena è
legato un mascalzone qualunque pieno di rogna e di pidocchi che è
garante del delinquente che gli viene affidato. Così ognuno fu condotto
in una capanna e circondato da donne, ragazzacci e soldati che si
appropriarono quattrini, fazzoletti, orologi, quanto poteva soddisfare i
loro gusti: ci spiegarono come _ras_ Area era come Teodoro e noi gli
inglesi che questi aveva incatenato; chi con un fucile spianato mi
mostrava che fuori la capanna mi avrebbero fra poco finito, chi con una
spada voleva farmi capire che la mia condanna era il taglio del piede e
della mano. Intanto i pensieri volavano a casa mia, all'avvenire, ad una
lunga prigionia, a sofferenze, alla morte; e per buona sorte la noja
insistente di questi importuni non lasciava troppo tempo allo svolgersi
dei pensieri, e il succedersi di questi mi calmava l'indignazione della
posizione in cui mi trovavo condannato. Oso dire che la risultante fu
una buona dose di rassegnazione e mi tranquillai aspettando la mia
sorte.

Non saprei precisare quanto tempo durò questo stato di cose, e i minuti
devono certo essermi sembrati ben lunghi, ma parmi che dopo circa
un'ora e mezza, un soldato venne a dirmi mi portassi dal capo. Seguito
dal custode, e ancora attraversando tutti quei gruppi di mascalzoni
indegni d'esser uomini e di portare il titolo di cristiani, tornai da
_ras_ Area e vi incontrai i compagni. Si fece ancora qualche po' di
discussione, ma alla fine fummo liberati dalle catene appoggiando il
braccio su d'una pietra e legando un estremo dell'anello con cinghie ad
un grosso palo che si tien fermo e appoggiato alla pietra stessa, e
forzando a schiudersi l'altro estremo tirandolo con liste di pelle
parecchi soldati.

_Ras_ Area si mostrò allora mortificato, avvilito, disse che se volevamo
avevamo diritto a bastonarlo, e fingendone l'atto, dichiarò che a lui
non restava che presentarsi colla pietra al collo per implorare il
nostro perdono.

Quando arrivammo egli era completamente ubbriaco ed i suoi fidi in
parte. La nostra guida, un povero cretino, presenta la lettera del re in
cui dice: _ti invio nove prigionieri, metti loro le catene e mandali
alla montagna_; e non aggiunge altro a nostro riguardo.

Questo _qui-pro-quo_, i fumi dell'ubbriacatura che confondevano la mente
e offuscavano la vista, il desiderio degli altri ajutanti e seguaci di
mettere in catene dei bianchi, ciò che pareva loro gran merito, tutto
questo insomma fu la causa dello sbaglio e del fatto avvenutoci. Passata
un po' l'ubbriacatura, avuti maggiori ragguagli dalla guida, ricordatosi
che lui stesso aveva domandato questi bianchi che stavano al campo del
re, tornò a miglior consiglio.

Per buona fortuna nella lettera del re non era detto di fucilare i
prigionieri, chè altrimenti, nè la mente rinfrescata, nè gli
schiarimenti della guida avrebbero valso a rimediare alla pena che ci
sarebbe stata inflitta.

Fummo subito regalati di una vacca, un montone, pane, _tecc_, miele,
burro, ecc., e l'emozione in generale non aveva poi avuto grandissima
influenza sull'appetito.

Vorremmo partire la mattina dopo, ma il _ras_ ci prega restare, dicendo
ci vuole almeno una giornata suoi ospiti per mostrargli che non
conserviamo rancori per l'avventura di ieri; ma in fondo il vero motivo
è che teme che noi ritorniamo direttamente dal re a fare le nostre
lagnanze, ed egli vuole prima spedire un corriere con una sua lettera in
cui dà ragione dell'equivoco e implora la sovrana grazia. Per quanto
instare si faccia, mostrando che una giornata per noi è preziosa e può
avere grandi conseguenze, non ci è dato liberarcene e ci è forza
rassegnarci a restare. Passiamo la giornata visitando l'accampamento che
in piccolo è una ripetizione di quello di Debra-Tabor, e ricevendo
visite da diversi capi e ufficiali che fingono dolersi del fatto
accadutoci. La sera siamo invitati dal capo. Pronti ad una ripetizione
del ricevimento di ieri, lo troviamo invece nella stessa gran capanna,
ma steso su alcuni tappeti, avanti un gran fuoco, circondato dai soliti
grandi che per turno si rubavano l'alto onore di accarezzargli piedi e
gambe, leggermente ubbriaco di _tecc_ che ci fa servire in abbondanza,
non trascurando di continuare anche da parte sua a vuotarne delle intere
bottiglie. Ci rivolse mille domande sul nostro paese e sui nostri usi e
costumi, ma il discorso volse specialmente sulla poco cordiale
accoglienza fattaci al nostro arrivo, e disse che noi potevamo essere
paragonati a Gesù Cristo, e lui al diavolo, che era stato ben cattivo,
che si riconosceva per un vero bue, e così trascese ad appropriarsi
tanti e tali epiteti che, per quanto si riconoscesse peccatore e lo
confessasse, mostravano certo in lui maggiore mancanza di dignità che
vero buon cuore e schietto rimorso.

_Mercoledì 25._ Alle nove lasciamo questa poco simpatica residenza, e
volgiamo a nord-est, attraversando continuamente pianure coltivate,
alternate a colline, coperte da folta vegetazione; paesaggio in
complesso bello e grandioso. Alle due ci si presenta il Gondar disteso
sui versanti di un'altura, ai piedi della quale sorge una borgata
abitata da mussulmani, e il ciglio è coronato da un ammasso di
costruzioni alte e rettangolari, dall'aspetto di castelli, di torri, di
mura merlate; sono gli avanzi dei palazzi portoghesi.

Gondar, l'antica capitale dell'impero, sorge a 12°, 36' lat.
settentrionale e 35°, 11' long. est, e l'altura che gli è per così dire
base, è bagnata da due corsi d'acqua, l'Anguereb all'est e il Kaha
all'ovest, che a poca distanza si riuniscono e vanno a versare le loro
acque nel lago Tzana. L'attuale città non differisce punto da tutti gli
altri villaggi d'Abissinia, sia pel genere delle costruzioni, sia per
l'irregolarità e il sudiciume delle vie; solo la popolazione non è molto
agglomerata, le capanne divise a diversi gruppi, lasciando così molti
spazii liberi che potrebbero dirsi piazze, e permettendo che molte
piante vi possano così allignare. È la città della fede per eccellenza,
chè oggi vi si contano quarantaquattro chiese che come edificio non
offrono nulla di rimarchevole, ma riposano sempre all'ombra di grossi
alberi. Il quartiere più ordinato e pulito è quello che sta al basso,
riservato ai mussulmani e per questo chiamato _Bet-islam_; vi godono di
piena libertà e sicurezza, ma non hanno facoltà di erigervi moschee. La
cosa più attraente di Gondar sono certamente le rovine che si distendono
ad occupare tutta la parte superiore dell'altura. Le costruzioni sono
opera dei Portoghesi e datano dal secolo decimosesto; sono tutte
racchiuse entro una cinta ovale, in parte merlata, che di quando in
quando offre larghe aperture con arcate.

Gli edificii sono parecchi, in parte isolati e in parte collegati fra
loro; tutti rettangolari, cogli angoli spesso terminati a torri quadrate
o circolari. Il tempo e lo spirito devastatore hanno molto distrutto, ma
in alcuni, e in quello detto il palazzo dell'Imperatore che è anche il
più vasto, si conservano ancora perfettamente le scale, alcune porte,
soffitte, e vi si vedono le aperture dei trabochelli che nei pavimenti o
negli spessori delle mura portano dai piani superiori ai sotterranei.
Tutto porta traccie dell'incendio che fu uno degli ultimi sfoghi delle
pazzie e degli spiriti perversi di re Teodoro. Le principali mutilazioni
di questi monumenti storici sono però dovute alla madre di _ras_ Ali, la
rinomata _Iteghè Menéne_, che, furiosa dell'impopolarità della sua
famiglia, volle distruggere parte di questi edificii, dicendo: dacchè
non dobbiamo lasciare monumenti del nostro potere, è inutile che
lasciamo sopravvivere quelli degli altri.

La nessuna proprietà, in generale, dei terreni, la facilità del
costruirsi le abitazioni, la mancanza di suppellettili da trasportare,
forse il poco attaccamento alla casa paterna che è nel carattere delle
popolazioni, le continue guerre che trascinano vagabonda pel paese gran
parte delle sue genti, e cento altre cause forse, rendono difficile lo
stabilire una cifra di censimento per gli abitanti di una città. Così
per Gondar vediamo Bruce stimarne la popolazione fino a 30,000 anime,
D'Abbadie a circa 12,000, e Rüppel che vi fu a non grande distanza da
quest'ultimo a 6,000. A me dissero 8,000; lo ripeto senza farmene per
nulla responsabile, tanto più che un altro Abissinese è capacissimo di
dirvi la metà o il doppio. Gondar è sempre la città commerciale per
eccellenza in Abissinia, e per tradizione e per la sua posizione,
facendovi punto le carovane che provengono dal Goggiam coi prodotti
delle provincie Gallas, e da qui partendo per le diverse vie di Adua e
Massaua, oppure Metemma e quindi Cartum o Suakin per Kassala.

M'avrebbe interessato assai di fermarmi qualche tempo a vivere della
vita abissinese e visitare un po' minutamente le rovine portoghesi, ma
le maledette piogge parevano dirci: avanzate, avanzate, che siete agli
ultimi, e la mattina del giovedì 26 rimontammo quindi a mulo per
metterci seriamente sulla via del ritorno.

    [Illustrazione: Rovine degli antichi palazzi portoghesi a Gondar]

L'elevazione di Gondar mi risulta di 2300 metri.

Il giovedì 26 facciamo i saluti al compagno Bianchi che da qui torna al
campo reale per passarvi col Naretti il cherif, e rappresentarvi in
certo modo il Comitato milanese di esplorazione, nella speranza di
potervi seriamente trattare col re qualche affare ed ottenere in seguito
di visitare e studiare commercialmente il Goggiam o lo Scioa, e noi
proseguiamo a nord-est attraverso montagne verdeggianti, e seguendo una
strada tracciata da Teodoro, quando voleva fare del suo paese una
nazione civile e del Gondar la gran capitale. Si direbbe che avuta da
natura una mente elevata, un carattere ardito ed un cuore che non
conosceva ostacoli a soddisfare la propria ambizione, tutta la parte che
era a lui destinata di bontà e malvagità si concentrarono, per
segregarsi l'una dall'altra e svilupparsi coll'impeto che doveva esser
proprio d'ogni sua azione. Così dapprima concepì idee civilizzatrici di
gran lunga superiori al possibile e volle tentarne l'effettuazione, ma
fu subito assalito dallo svilupparsi del secondo elemento, l'istinto
perverso, cui non potè esser freno ragione nè educazione, vestì il
carattere di pazzia e gli fece commettere quegli eccessi che rovinarono
il paese e furono causa della sua miseranda fine.

Verso le tre ci fermiamo ad un piccolo villaggio presso la chiesa
Georgis a 2950 metri.

Continuando il venerdì 27 in un vero parco inglese dove la grandiosità è
sconfinata e la natura non studiata nè inventata, ma quale solo il tempo
ha creata, incrociamo dopo circa quattro ore di cammino la via tenuta
nell'andare a Debra-Tabor, e volgendo più ad est attraverso estesi
bacini a pascoli e coltivo, saliamo verso le tre un colle che spicca fra
gli altri e alla vetta del quale è la residenza di _degiatch_-Semma
figlio di _ras_ Garamaden, giovane simpatico che ci usa mille riguardi
e mille cortesie, trattandoci come si usa trattare fra amici in Europa,
mostrandosi beato di vederci e di poterci ospitare. Tutto il resto della
giornata volle che stessimo con lui, ci destinò una capanna vicina alla
sua, volle prendessimo parte alla sua refezione. Entusiasta delle nostre
armi chiese poter fare qualche tiro, e più di una volta colpì
perfettamente a palla uno dei nostri cappelli messo come bersaglio a
discreta distanza. La contentezza di questo giovane e l'ammirazione dei
suoi non aveva più limiti e ci dichiarò che sarebbe il più felice dei
mortali se dall'Italia gli mandassimo un fucile simile. Il buon Ferrari,
intenerito dal trovare un'accoglienza veramente schietta e cordiale,
prese a due mani il suo cuore sempre grande e sempre aperto, e volle far
dono della sua fida arma. Vera eccezione fra gli Abissinesi, si dovette
insistere per farla accettare.

Dirò ora che la parola _ras_ tante volte usata significa _capo_, è araba
e fu introdotta e si usa sempre oggi in Abissinia. _Degiatch_
corrisponde a governatore con pieni poteri conferiti dal re.

Siamo pregati di restare ospiti per qualche giorno, ma ci è impossibile,
quindi il giorno appresso proseguiamo per la nostra via, ritroviamo
quella percorsa nell'andata, nelle vicinanze di Ciambilghé, che lasciamo
alla sinistra, per raggiungere il villaggio di Dewark, a circa 3000
metri di elevazione. Il villaggio è costituito da due aggruppamenti di
capanne poste a qualche distanza, ma distinte collo stesso nome. A poca
distanza dalla frazione più a nord, già accampammo nell'andata, ora
abbiamo preso stanza all'estremità opposta.

Per essere più lesti viaggiamo senza provvigioni nè tende, e solo
abbiamo presa una piccola tenda nera, come si fanno allo Scioa, pei casi
estremi. Siamo quindi costretti di ricoverarci tutte le sere ai
villaggi, e chiedere una capanna, e farci dare col mezzo della guida del
re o più spesso col mezzo dei nostri talleri, quel che si può trovare
non per mangiare, ma per vivere. Come si stia la notte in questi tuguri
con ogni sorta di compagnia, e cosa si debba ingojare, risparmio
descrivere per evitare un disgusto. La stanchezza e l'appetito rendono
però soffice qualunque giaciglio e gustoso qualunque cosa sia
materialmente mangiabile; la necessità fa trovare superflua la maggior
parte delle cose che si ritengono necessarie, e si capisce allora quanto
di inutile abbiamo nelle nostre abitudini, e quante pene e quante noje
ci procuriamo per soddisfarle.

La domenica 29 siamo svegliati dal grido di _el matera, el matera,
cavaga_, la pioggia, signori, che i nostri servi ci fanno intendere,
sapendo quanto ci stesse a cuore questa brutta compagna, perchè nojosa
nel viaggio e più che per questo, perchè gonfiando il Taccazè potrebbe
tagliarci la via al ritorno. Una fitta pioggia aveva infatti durato
tutta la notte e ancora continuava, ma bisogna prendersela con
disinvoltura, sellare le mule e come splendesse il più limpido sole,
mettersi in cammino. Ci avviciniamo alla gran catena del Semien, e diamo
scalata ad un'altura ertissima dove il terreno bagnato rende il salirvi
doppiamente faticoso e per noi e per le mule. Il cammino continua poi
molto accidentato in continue discese e salite; per lungo tratto corre
anzi su di una via dove la mano dell'uomo rese possibile il percorrere
il versante di un enorme vallone, da dove durante qualche lucido
intervallo in cui il vento ci libera per pochi istanti dalle moleste
compagne, la pioggia e le nebbie, si intravedono valli scoscese e pareti
rocciose di monti a profili orizzontali, interrotti da guglie. Siamo in
una regione veramente alpestre, dove un vero sistema costituito, per
così dire, di catene montuose surroga quel caos di natura sconvolta che
percorremmo nell'andata, più al basso parallelamente a questa altezza.
Frequenti corsi d'acqua gonfi in questa stagione abbiamo a guadare, e
dopo una giornata veramente campale ci fermiamo verso il tramonto
chiedendo ospitalità a poche misere capanne a 3450 metri d'elevazione.

_Lunedì 30._ Saliamo sempre attraverso terreni coltivati e pascoli, fino
a raggiungere lo spigolo di una catena che davanti a noi, dal versante
nord, si presenta scendere a picco, determinata da una di quelle pareti
verticali basaltiche, tanto caratteristiche di queste formazioni e di
questo paese. Per un sentiero da camosci discendiamo o meglio
precipitiamo fino a raggiungere un terreno meno ingrato; costretti di
marciare a piedi, anzi di ajutare qualche volta le mule che affievolite
dagli stenti e intimidite dal pericolo si rifiutano di continuare,
nell'acqua fin quasi alle ginocchia, chè il poco sentiero raccoglie lo
scolo del versante, e sotto una continua pioggia dirotta, avanziamo
taciti e pensierosi, preoccupati dal caso di non poter passare il
Taccazè e di dover quindi forse rifare questa strada fra pochi giorni, e
in condizioni ancora peggiori, ma animati dalle speranze del caso
contrario, e di poter quindi essere fra qualche giorno rassicurati che
ci sarà libera la via del ritorno. La fitta nebbia continua ci toglie
oggi quasi ogni vista sulle regioni più elevate, e solo di quando in
quando si scorge al basso il passo di Wogara e parte della via che
percorremmo per arrivarvi. Verso le quattro ci fermiamo ad un piccolo
villaggio a 3350 metri. Gli abitanti sono tutti pastori che coltivano
quel poco di grano che basta pel loro pane, ma il benessere, se
benessere conoscono in questo paese, lo ricavano dal bestiame. Sono
piuttosto poveri, ma cordiali ed abbiamo certo a lodarci di loro meglio
che di tutti gli altri abitanti d'Abissinia. L'elevazione non permette
vegetazione alcuna e solo vi allignano pascoli, per cui nemmeno pel
fuoco si può aver legna, e per l'uso degli abitanti essicano nell'estate
lo sterco vaccino, e lo conservano come combustibile. Questo non dà
fiamma, poca bragia e lascio pensare quale fumo puzzolente, e per noi
che si arriva la sera inzuppati d'acqua fino alle ossa, non è certo di
gran risorsa. Pure, così come siamo ci si sdraja per terra, e con una
pelle da bue per tutto letto, e poco meno che nel fango, si aspetta la
mattina: si riposa benissimo e la nostra stella ci preserva da qualunque
male.

_1.º Luglio._ Si sale sempre percorrendo i pascoli stesi su una
striscia di piano inclinato che forma quasi gradino fra due pareti
verticali di roccia. Sono sparse masse di piante simili ad _yuka_, dalla
foglia più larga e grigiastra. Il tempo è un po' migliore, chè il vento
ritiene di quando in quando la pioggia e siamo invece accompagnati da un
freddo intenso. Giunti a 3950 metri ci si presenta una precipitosa
discesa che è forza percorrere a piedi: bisogna alle volte lasciarsi
sdrucciolare su nuda roccia bagnata, dove è miracolo che le mule possano
reggersi. Raggiunto il fondo della valle seguiamo il torrente impetuoso
che replicatamente attraversiamo. La vegetazione è foltissima e
rivediamo, man mano si va scendendo, tutte le varietà di piante che
allignano alle diverse altezze e che già ci furono compagne; fra queste
abbondano gli esemplari del cusso e stupendi lauri. È tale l'intreccio
dei rami, che si cammina in una vera galleria di verde ed è impossibile
stare a cavallo, che anzi spesso siamo obbligati di sollevare tronchi
che sporgono orizzontalmente per lasciarvi passare i nostri quadrupedi.
Questi sono sfiniti dalla fatica e dal digiuno; non hanno tempo a
pascolare il giorno e non lo possono la notte, chè piove e l'erba è
troppo inzuppata d'acqua, per cui appena possono reggere con biade e
orzo che cerchiamo procurar loro quando se ne trova. Due già li
lasciammo sfiniti per la strada ed un terzo comincia ora a mostrarsi
impotente a proseguire; ad ogni passo cade. La notte arriva, un
acquazzone indiavolato ci sorprende; siamo in un fitto bosco e senza
sapere a quale distanza sia il primo villaggio. Nessun mezzo serve più a
ravvivare almeno momentaneamente ed apparentemente le forze della mula,
quindi la lasciamo a farsi finire dalle jene nella notte, diamo a
portare ai servi parte del carico e parte lo lasciamo pel primo che avrà
la fortuna di trovarselo, e a notte fatta raggiungiamo alcune capanne a
2600 metri. Di mangiare già non se ne parla, e basta qualche po' di
farina, del pane acido del paese e del berberia per far tacere le
esigenze dello stomaco. È fortuna rara quando si arriva a trovare una
capra, e si ha il tempo di ammazzarla ed abbruciarne un po' le carni per
divorarle, come fossimo diventati anche noi abissinesi.

Il due luglio continuiamo a discendere la lunghissima vallata;
grandiosissimo il panorama che si svolge alle nostre spalle, delle
montagne che veniamo d'attraversare e che hanno tutta l'apparenza
d'inacessibili. Al tramonto arriviamo laddove la gran catena che
fiancheggiamo muore, per dar luogo ad un vastissimo orizzonte. I profili
dei monti sono belli ed originali avendo sempre l'apparenza d'essere
coronati da torri e da castelli in rovina; la vegetazione scarsa, tranne
in qualche punto, e credo a causa delle sostanze minerali, specialmente
rame, che si vedono sparse nelle rocce. Il tempo ci favorisce, chè per
quanto circondati da continui temporali, pochi arrivano a regalarci le
ultime loro grazie.

Ci fermiamo a 1800 metri, dove il suolo è perfettamente arido e sabbioso
e solo vi allignano tristi acacie; le abitazioni differiscono dalle
solite d'Abissinia essendo basse, in pietra, circolari, col tetto quasi
piatto e coperto da terra sostenuta da travi. Lungo la strada bellissimi
marmi rossastri, giallognoli e verdastri. Gran battibecco per avere un
ricovero, e ci vien poi data una mezza stalla, dove ce la passiamo con
delle capre e tutto quello che si può trovare nel loro asilo notturno.

La mattina dopo però il capo del villaggio ci invita a bere del _tecc_,
ci usa mille riguardi e ci domanda mille scuse pel modo con cui fummo
alloggiati, essendo lui assente e arrivato solo durante la notte.
Dietro il villaggio è un erto colle che saliamo fino a 2200 metri da
dove scorgiamo da lontano il sospirato Taccazè che appare in una
svoltata, in fondo a profonde valli, e dopo una lunga distesa di alture
che dovremo pur troppo digerirci una ad una. Proseguiamo su e giù per
creste d'alture e dentro e fuori da vallate seminate sempre da stupendi
marmi e belle cristalizzazioni, e sparse di acacie e qualche _baobab_,
dove il suolo ha però apparenza arida, per fermarci verso sera a 1800
metri ad un villaggio dove risiede il preteso capo del Taccazè, quello
cioè che dirige il passaggio del fiume per le carovane, e che troviamo
briaco fradicio, talchè ci rifiuta qualunque asilo per la notte e
assistenza per l'indomani. Un galantuomo di prete però prende le nostre
parti e non curandosi dell'ostinato e poco cordiale seguace di Bacco, ci
assiste in tutto quanto ne occorre.

Il giorno quattro ci avviamo pieni di emozione chè la giornata può
essere decisiva per noi; per quanto ci si assicuri che il fiume è
guadabile, potrebbero esser cadute forti piogge la notte nell'alto
Semien o nel Lasta, il Taccazè esserne gonfio e quindi trovarci tagliata
la via al ritorno, costretti a passare qualche giorno in attesa di
decrescenza delle acque in questo poco simpatico soggiorno, poi forse
rifare la via fatta per andarcene un'altra volta a Debra-Tabor a
svernare. Il nostro bravo Legnani, preoccupato da questi pensieri e
rimasto a qualche distanza da noi, invece di seguire le orme nostre
scende per una vallata trasversale, ed anzi accelera il passo per
raggiungerci, mentre noi proseguendo in direzione quasi opposta ci
accorgiamo della sua mancanza, e ci volle buona forza di nostre voci e
di sue gambe per poterci ritrovare. Sali e scendi per alcune alture, ci
si presenta nel fondo il Taccazè che colle acque sue fangose va
tortuosamente seguendo il suo corso; mille commenti, nuove emozioni, i
cuori si allargano a nuove speranze per riserrarsi a tristi
presentimenti. Discesa vertiginosa e lunga, sempre sul ciglio di uno
sprone che scende fino al fondo della valle; il terreno di sedimento
poco compatto rende ancora più faticosa la marcia, il caldo si fa sempre
più soffocante. Eccoci finalmente a circa 1000 metri di elevazione, alle
acque che il nostro buon prete ci assicura che passeremo.

Risaliamo per breve tratto lungo le sponde per trovare una posizione
propizia al nostro passaggio; parmi il fiume abbia un centinajo o poco
più di metri di larghezza, ma la traversata dovendosi operare
trasversalmente, perchè la corrente trasporta, diventa assai più lunga;
alcuni indigeni entrano nell'acqua e felicemente li vediamo raggiungere
l'opposta riva. Quel che fa un abissinese lo sapremo fare anche noi,
gridiamo: i nostri spiriti si sono rianimati, in due minuti siamo
pronti, e ajutati da due indigeni che gridano e battono l'acqua con un
bastone per allontanare i coccodrilli, coll'acqua fino alla gola e
facendo ogni sforzo per vincere la corrente, raggiungiamo l'opposta
sponda.

Gli stessi uomini si incaricano a diverse riprese di far passare i
nostri effetti, le mule nuotano per conto loro, e persino il prete,
visto che v'era a guadagnare qualche tallero, smesso quel poco abito e
con esso la altrettanto poca dignità sacerdotale, ci apparve in costume
perfettamente adamitico per aiutare al passaggio nostro e della nostra
roba. Il cielo ci assiste in questo momento, il gran passaggio è fatto,
un sole splendido ci riscalda e ci serve ad asciugare la nostra roba,
che dal più al meno aveva tutta assaporata l'acqua del Taccazè.

Ci rimettiamo in via. I pasti poco succolenti di parecchi giorni, il
digiuno quasi completo e il bagno, fanno i loro effetti, e la debolezza
ci permette a stento di reggerci sulle gambe; camminiamo come ubbriachi,
e ci sta davanti una salita a fare colle ginocchia in bocca, con un
caldo soffocante, obbligati per di più a spingere le mule che per forza
brillano come noi. Ci guardiamo in faccia l'un l'altro, per un pane non
so cosa daressimo, ma tanto non ce n'è, dunque allegri, che anche
questa sarà da ricordare, e avanti. Il morale agisce sul fisico, dunque
se la forza manca, perchè la macchina non è alimentata, cerchiamo almeno
di non deprimerla ancor più col perderci d'animo.

Si ride dell'avventura, si siede ad ogni passo, si spera per la sera, e
intanto s'arriva a 1700 metri, dove si trova un piccolo villaggio.
L'accoglienza non è delle più festose, chè ci vuole il poco fiato che ci
resta a far capire che pagheremo, ma vogliamo un montone. A notte fatta
finalmente ce lo portano, e senza tanti rispetti all'arte culinaria ce
lo divoriamo.

Ci è forza la mattina dopo salire ancora fino a 2200 metri per seguitare
poi su un altipiano che conduce ad alcune cime, sulla costa delle quali
prosegue il sentiero. Dietro noi la distesa dei monti che veniamo di
attraversare, alla nostra destra altra distesa che si protende in
direzione sud-est, e avanti a noi riconosciamo dei vecchi amici nei
caratteristici profili dei monti di Adua. Un'ora prima del tramonto
lasciamo il sentiero per discendere in un vallone circondato da pareti
rocciose, quasi a picco, al fondo del quale vediamo buon pascolo e un
villaggio. Ci vien negata ospitalità, se non vogliamo dividerci ed
essere ricoverati ognuno in diversa abitazione, ciò che rifiutiamo e
passiamo piuttosto la notte coperti dalle fronde di una acacia.

Si continua da qui per vasti altipiani spesso fessi da larghi valloni
che, come già dissi, ricordano i crepacci da ghiacciai, e che obbligano
alle volte a lunghe deviazioni per evitarli. Un torrente, guadabile
pochi minuti prima, come ce lo provano dei boricchi carichi che
incontrammo e che venivano d'attraversarlo, scende tanto gonfio e
impetuoso per piogge improvvisamente cadute alla montagna, che ci è
forza aspettare più d'un'ora prima che le acque si calmino e vi si possa
azzardare.

Il soldato che ci fu dato come guida è dei più sucidi che si possano
vedere. Ad un lembo del suo scemma tiene un grosso nodo che rappresenta
nientemeno che la valigia di un corriere reale, avendovi avvolte le
lettere che il re, approfittando dell'occasione, invia a ras Alula.
Questi è suo amico intimo, ed ora muove col suo esercito per far guerra
agli Egiziani, per cui quelle lettere possono, anzi devono, essere ben
importanti, e vedere a quali mani sono affidate e in quali condizioni
hanno fatto tutto quanto il viaggio, è cosa che basta per dare idea di
questi cervelli e della loro organizzazione.

Il 7 luglio continuano larghe vallate, spesso coronate da pareti
rocciose granitiche: poco a poco vanno allargandosi e noi teniamo a
girare a nord di quel picco isolato che raffrontai al Cervino e che come
questo si eleva a dirupo. Raggiungiamo un altipiano sparso di villaggi e
coltivato: a nord-ovest in lontananza scorgiamo Axum, e noi proseguiamo
direttamente verso il gruppo dei monti di Adua che da qui si presenta
disteso e maestoso. Scorgiamo anche Adua stessa, che trovandoci noi a
2200 metri si presenta come infossata: discendiamo una delle pareti
rocciose quasi a picco, e proseguiamo nel fondo della vallata che
rinserra. Un acquazzone tanto forte ci sorprende, che venendoci di
fronte, accompagnato da vento, è impossibile avanzare e per istinto le
mule si rivolgono, abbassano la testa e se ne stanno così finchè non sia
cessato, od almeno di molto diminuito. Costeggiamo il versante di
un'altura che è convertito letteralmente in un letto da torrente, tanta
è l'acqua che vi scorre.

In uno stato veramente compassionevole raggiungiamo Adua verso le due e
ci andiamo a stabilire in casa di Naretti. I nostri servi che spedimmo
da Debra-Tabor col bagaglio per la via più comoda del Sirié non sono
ancora arrivati, e questa notizia ci sconforta assai, potendosi dare il
caso che qualche giorno di ritardo non permetta più loro di passare il
Taccazè, e quindi ne restiamo divisi Dio sa fin quando, e la nostra
roba vada perduta. La casa che occupavamo noi è abitata dal console di
Grecia in Suez che aspetta di poter partire pel campo del re. È persona
gentile e cordiale quanto mai, che appena saputo del nostro arrivo ci
manda in regalo vino, cognac e qualche scatola di conserve. È inutile e
impossibile dire con quanta festa le accogliemmo e con quanto gusto le
divorammo.

Passiamo qualche giorno in Adua in attesa del nostro bagaglio sulla
sorte del quale siamo molto inquieti, non avendosi notizia alcuna.
Finalmente il fido Baramascal, il capo dei servi, arriva e ci porta la
grata nuova che le casse sono in Axum e ci raggiungeranno l'indomani. A
due giornate da Debra-Tabor le mule sentirono ancora degli strapazzi del
viaggio di andata e non furono più in grado di portare il loro carico
che si dovette fare in gran parte trasportare a spalla d'uomini:
stettero quattro giorni accampati al Taccazé in attesa della possibilità
di passarlo. Legata ogni cassa ad un lungo bastone, due nativi che
tenevano questo alle estremità, nuotando le trascinarono nell'acqua, per
modo che tutte se ne riempirono e la roba nostra ci arriva tanto bagnata
e sudicia da far pietà: in parte anzi completamente rovinata, tanto da
doversi abbandonare. Due mule morirono per strada e le altre ci arrivano
in uno stato miserando per piaghe e magrezza, talchè siamo costretti a
subito procurarcene altre per proseguire il viaggio. Accompagnati come
siamo da una guida del re, avremmo diritto a pretendere che di villaggio
in villaggio ci si trasporti il nostro bagaglio a spalle d'uomini, ma
questo sistema offre molti inconvenienti, primo dei quali una massa di
perditempo.

Ad ogni paese c'è a questionare e ad aspettare delle ore e dei giorni
prima che si trovino portatori sufficienti; poi bisogna continuamente
andare a zig-zag, chè i contadini, se fuori strada v'è un villaggio più
vicino che non il primo sulla via, non risparmiano di allungare il
cammino vostro se possono accorciare il loro. È sempre meglio quindi di
emanciparsi da questa schiavitù.

In Adua non troviamo alcun che di nuovo, tranne i dintorni resi più
verdeggianti dalle continue piogge. Per non rifare la strada fatta
decidiamo prendere la via di Gura, così potremo visitarvi il campo di
battaglia ed incontrarvi ras Alula che col suo esercito marcia a quella
volta per tentare, a quanto si dice, un colpo di mano sulla costa,
mentre ras Woldi Michael andrebbe ad occupare i Bogos.

Un corriere arriva dal campo reale e ci porta notizie della triste
impressione avuta da Naretti per l'avventura toccataci da ras Area.
Tutta la Corte era sossopra per celarlo al re, temendo avesse ad usare
troppi rigori verso lo zio, e ci si dice che tutti i _grandi_ si
presentarono a Naretti con una pietra al collo, supplicandolo di non
farne rapporto al Sovrano.




CAPITOLO XII.

  Si riparte per la costa.--Arrivo di un corriere con una
  lettera di re Giovanni.--Considerazioni sul paese.--Il campo di
  ras Alula.--Due nostri servi imprigionati.--Campo e forte di
  Gura.--I Sciohos.--Incontro di Tagliabue.--Arrivo a
  Massaua.--Hodeida.--Aden.--A bordo del Manilla.--Un morto in
  mare.--Arrivo in Italia.


Appena rifornita la carovana dei quadrupedi necessarî, si decide la
partenza che ha luogo infatti il giorno 14. Ci avviamo alle catene di
montagne verso nord-est, e circa un'ora dopo usciti da Adua siamo
richiamati da voci che si trasmettevano l'un l'altro gli avanzi della
retroguardia di Ghedano Mariam, che stavano disordinatamente sparsi
lungo tutta la via. Ci fermiamo, è l'arrivo di un corriere da
Debra-Tabor con lettere nostre e una del re relativamente al nostro
imprigionamento: è semplice, cordiale, schietta come usa re Giovanni, e
ne trascrivo la traduzione: la lettera autografa era in Amarico e
Maderacal vi aveva unita la traduzione in francese:

«Scritto del re dei re, Giovanni d'Etiopia, e tutta la sua dipendenza.

«Signor Matteucci, capo della spedizione commerciale italiana e suoi
compagni.

«Io vi presento i miei complimenti a tutti: dacchè ci siamo separati, io
e la mia armata fummo bene in salute, grazie a Dio.

«Ho inteso il male che ras Area vi ha fatto. Ciò non è contro tutti voi,
ma contro me stesso: egli lo ha fatto per scontentarmi di lui. Egli mi
scrisse, sono ammalato, mandatemi il dottore, ed io vi pregai nel vostro
ritorno di andarlo a vedere: voi mi rispondeste sì. Voi avevate la mia
lettera, malgrado questo vi ha fatto tal male: egli ha una malattia al
cervello o qualcosa altro di male nella sua salute: egli non è molto
bene. Io so che il pensiero dei cristiani è vasto e vi prego di lasciar
questo fatto nel profondo del vostro cuore.

«Voi avete sofferto per me, io vi ricompenserò.

  «_il 2 luglio 1879._»

Credo che re Giovanni non poteva essere più gentile con noi nè far di
più per farci dimenticare un cattivo quarto d'ora passato nel suo regno,
e diede così ancora una conferma alla stima ed all'amicizia, che
conoscendolo avevamo concepito per lui. Certo non può avere gran
istruzione, non conoscendo altre lingue che la sua e non avendo mai
messo piede fuori dai confini dei suoi Stati, ma ha un fondo di serietà,
di onestà, di delicatezza di sentimenti, una finezza di intuizione, una
dose di ingegno naturale, come è raro assai di trovare fra i suoi. V'ha
chi nasce col genio della musica, chi con quello delle matematiche, chi
con quello della letteratura, e Giovanni Kassa, bisogna pur dirlo,
nacque col genio d'esser re d'Etiopia, e da piccolo principe seppe
infatti diventarlo, sa reggersi bene sul trono ed è certo fra tutti gli
Abissinesi quello che più lo merita.

Potessero i suoi sudditi assorbire un pochino del suo buon senso,
tenersi in pace e capire qualcosa dei beneficii della civiltà, smettendo
cento pregiudizii inveterati, e il paese si vedrebbe in poco tempo farsi
fiorente.

Lo scopo cui più di tutto mira re Giovanni è quello di riconquistare le
provincie di Galabat e dei Bogos che gli Egiziani presero all'Abissinia,
poi di estendersi fin verso la costa, occupando lo spazio fra questa e
l'altipiano, spazio di cui le due nazioni si contendono la proprietà, e
che intanto se ne resta indipendente. Vorrebbe avere un porto sul Mar
Rosso per rendere libero il suo commercio di esportazione e di
importazione dalle tasse e dagli abusi delle dogane egiziane che
proibiscono l'introduzione di quello che agli Abissinesi maggiormente
accomoderebbe, le armi e le munizioni, ma non credo vanti, almeno per
ora, pretese su Massaua, e si accontenterebbe forse di una baia
qualunque che l'Egitto gli cedesse. Ottenuto questo, credo che re
Giovanni cercherebbe di favorire la civiltà nel suo paese, facendo però
sempre in modo che questa si infiltri poco a poco per non urtare d'un
tratto le idee del suo popolo che in complesso non vi è troppo
favorevole, perchè non crede averne bisogno, e perchè istigato dai preti
a non lasciarla penetrare.

Una colonia agricola, per esempio, potrebbe avere, io credo, ogni
concessione dal re, progredire a passi da gigante ed essere di buon
esempio al popolo. Ma chi vorrà fidarsi d'esserne iniziatore? Chi mi
garantisce che da un giorno all'altro sorga un _matto_ di _rivoltato_
che tenga in armi la provincia, rubi, saccheggi e commetta ogni eccesso
contro i poveri agricoltori? E quando ciò fosse avvenuto, da chi
ripetere soddisfazione, se pure per chi ha coscienza v'ha soddisfazione
da contrabbilanciare la vita perduta da miserabili emigranti, ed a chi
attribuirne la responsabilità?

Ma senza assumersi la responsabilità noi di introdurre in Abissinia
l'elemento europeo, nè re Giovanni di chiamarvelo, io credo che re
Giovanni potrebbe erigersi un monumento di gloria collo sviluppare in
paese due rami di industria. Migliori le vie di comunicazione e faciliti
i diritti doganali alle carovane commerciali: allora queste si faranno
frequenti, dal Goggiam e dai paesi Gallas, attraverseranno in gran
numero tutti i suoi Stati per portare le loro mercanzie a Massaua, e da
qui tornando alle loro case porteranno all'interno i prodotti europei
che verranno così conosciuti, se ne riconoscerà l'utilità, si imparerà
ad apprezzare chi li produce. Il consumo crescente vi chiamerà allora
gli stessi Europei ad importarvi la merce, e questi saranno non solo
tollerati in paese, ma già desiderati, e poco a poco si introdurrà così
una civiltà, della quale senza accorgersi il popolo sentirà quasi il
bisogno, mentre oggi vedendola avanzare tutta d'un blocco se ne spaventa
e cerca respingerla. In pari tempo lasci che le migliaia di braccia che
ora non fanno che tenere una lancia od una spada, se ne tornino alle
loro case, e le obblighi all'agricoltura: il paese potrà in breve tempo
diventare un gran produttore di grano: questo non mancherà negli anni di
carestia, e come oggi succede, non si spopoleranno provincie per la
fame, e in breve tempo si esporterà il grano alla costa: questo porterà
ricchezza in paese, quindi maggior spinta al lavoro e maggiore
probabilità che le merci importate dalle carovane trovino sfogo. Dalla
produzione del grano poi, l'agricoltura potrebbe estendersi ad altri
rami che porterebbero benessere nel paese ed utilità coll'esportazione.

Altra fonte di ricchezza per l'Abissinia sarebbe il bestiame, sia pei
latticinii, sia per le carni che si potrebbero conservare, sia
fors'anche per l'esportazione diretta del bestiame stesso, ma questo
porta già una certa complicazione, e sarebbe quindi da attuarsi in
seguito. Io sono convinto che collo sviluppare commercio e agricoltura
tutt'affatto semplicemente come accennai, in pochi anni l'Abissinia può
farsi ricca e fiorente e prepararsi il terreno a degnamente ricevere i
primi pionieri della civiltà. Ma questo deve fare da sè e senza che
nessuno cerchi di imporvisi. Se metterete l'Abissinese in condizioni da
gustare qualche frutto della civilizzazione e da trovarla quasi
necessaria alla sua esistenza, e finanziariamente lo porrete in
condizione da potersela procurare, forse vi asseconderà; ma se volete
imporviglisi o costringerlo al più piccolo sacrificio, resterà sempre
qual'è, cioè presuntuoso e indifferente alla civilizzazione, e quindi
oppositore costante di chi cerca di portarvela.

Così il commercio di esportazione, a mio credere, sarebbe almeno
prematuro il tentare di esercitarvelo ora gli Europei. Per volerlo
sperimentare bisognerebbe fare le cose piuttosto in grande, e questo
raddoppierebbe ancora le difficoltà. Innanzi tutto sui mercati si
pretende sempre un prezzo assai più elevato dal compratore bianco,
perchè si suppone che questi abbia sempre grosse somme disponibili, e
che colle merci che acquista faccia poi favolosi guadagni. D'altronde fu
sperimentato che quando il negoziante bianco si trova all'interno,
prevale il pregiudizio che per mettere a profitto il suo tempo e il suo
viaggio, si trovi costretto di comperare a qualunque prezzo, mentre
quando il negoziante indigeno è arrivato ai mercati delle coste, vi è
obbligato di vendere a prezzi ragionevoli per non rimanervi sulle spese
e per prepararsi al ritorno. Grave ostacolo al commercio in grande
sarebbero poi le continue rivoluzioni che in questo paese pullulano, e
tengono agitate intere provincie per mesi ed anni: una grossa carovana
derubata, o la via interrotta ad ogni comunicazione, sarebbe una vera
rovina per la speculazione che vi si tenta. E per questo non vi sono
garanzie, nè promesse, nè trattati col re che possano influire. Altra
considerazione che milita in favore della mia idea è pur questa: le
merci atte ad un commercio possibile provengono tutte dal Goggiam e dai
paesi Gallas, dai quali per portarsi alla costa con carovane di muli
carichi occorrono da due a tre mesi. L'Europeo in questo tragitto ha
bisogno certamente di vivere molto meglio dei pochi indigeni che
esercitano questo traffico, che vivono con farina, peperoni e cipolle,
dormono continuamente per terra, e sono i primi a dar l'esempio ai servi
coll'aiutare a caricare e scaricare. Sono poi gente paziente per la
quale è ignoto il detto che tempo è danaro, e un mese di più di viaggio
per loro è nulla, purchè si risparmino le mule o si facciano lunghe
soste per lasciarle risanare dalle piaghe. Il bianco che si adatta a
questa vita di fatiche, di pericoli, di privazioni, vuole certo in pochi
anni farsi una fortuna, e la società che lo incarica ne vuol pure
ricavare il suo utile, mentre gli indigeni non tentano tanto di
arricchire, chè hanno idee ben limitate sulla ricchezza, ma si
accontentano di vivere e di aumentare tutt'al più il loro capitale di
tanto da accrescere forse di una mula in ogni viaggio la loro proprietà
ambulante. Somma tutto, io ritengo, e sentii ripetere anche da persone
esperte, che per ora almeno convenga aspettare alla costa le piccole
carovane del paese, e farvi trovar pronte le nostre merci che possono
scambiare colle loro. Oltre tutto questo, i piccoli negozianti del
paese, ritornando riportano qualche poco di merci che sanno di poter
vendere, e soddisfanno le piccole commissioni che ricevono dall'uno e
dall'altro, e con questo quasi ritraggono le spese del ritorno. Ma son
cose queste che possono andare per piccole carovane, e non basterebbero
a compensare le carovane grandi, per le quali quindi tutto il viaggio di
ritorno sarebbe perduto.

Abbiamo inoltre incontrate sulla via piccole carovane che fanno
trasportare parte del loro carico da schiavi comperati sui mercati del
Goggiam e che poi rivendono verso la costa, traendone così profitto e
risparmiandosi le spese del loro viaggio di ritorno. Altri hanno invece
per servi degli schiavi loro, che comperati si mantengono con ben poco e
si retribuiscono delle loro fatiche con pochi talleri e qualche metro di
tela all'anno. Sono mezzi questi che portano una grande economia, ma ai
quali non potrebbe certo ricorrere l'europeo, che anche da questo lato
incontrerebbe quindi assai maggiori spese, e i prodotti da lui
trasportati alla costa avrebbero ben maggior valore che non gli stessi
trasportativi coi mezzi abituali.

Io non voglio con questo portare uno scoraggiamento, nè pretendere che
l'Abissinia sia un paese che non merita considerazione dal lato
commerciale. Tutt'altro, ma ripeto non hanno a farsi illusioni, che
dall'oggi al domani se ne possano succhiare ingenti ricchezze. Queste vi
stanno, ma per arrivarvi è necessario studii, esperienza e tempo: un
avvenire per chi vi vuol dedicare le proprie fatiche ci deve essere
certamente, ma non bisogna pretendere di raccogliere dei frutti
prematuri, e accontentarsi di seminare quello che può preparare ai
nostri nipoti abbondante raccolto, e per questo è doppiamente benemerito
chi vi si dedica con proprio disinteresse, ma colla fiducia di un bene
futuro per la propria causa e pel proprio paese.

Potrei citare esempii che avvalorano queste mie considerazioni, ma ne
risparmio la lungaggine, confidando che il tempo verrà a confermarle, ed
ho già la soddisfazione di averne una prova nella condotta che si è
prefissa il nostro Comitato di esplorazione commerciale, composto tutto
di persone, che oltre il sapere posseggono l'arditezza accompagnata
dalla prudenza necessaria in queste imprese.

Il nostro compagno Bianchi, giovane serio ed esperto, rimasto
all'interno, potrà studiar meglio il paese e fare un rapporto in
proposito assai più profondo e ponderato. Porteranno forse le sue
considerazioni a conclusioni opposte alle mie, e allora al frutto della
sua esperienza e de' suoi studii, non oserò certo opporre queste
semplici osservazioni che impallidiranno dinnanzi alla sua autorità.

Proseguiamo intanto per la nostra via, chè ben ansiosi siamo noi di
raggiungere la costa, e non meno desideroso sarà il lettore di ultimare
queste pagine.

In direzione nord-est, correndo nel fondo di larghe vallate o sulla
costa di alture, percorriamo un cammino continuamente tortuoso per
evitare monti che a picco isolatamente si elevano dal suolo. Dopo sei
ore raggiungiamo Ghedano Mariam e mettiamo l'accampamento vicino al
suo, presso il villaggio di Magara Tamri, a 2100 metri d'elevazione. Il
terreno è verdeggiante e sparso di acacie, euforbie e cespugli.

Il giorno 15 lasciamo la via diretta di Gura per piegare più ad est e
avvicinarci al campo di ras Alula. Ci portiamo su un vasto altipiano che
attraversiamo in direzione quasi nord, poi scendiamo in un profondo
burrone che da questo lato lo limita, per risalire dal versante opposto
e proseguire di altura in altura, finchè mettiamo il campo con Ghedano
Mariam, in compagnia del quale abbiamo fatto cammino. Altezza 2050
metri.

Attraversiamo il giorno dopo un vastissimo vallone per poi sorpassare,
se così può esprimersi, una distesa di alture verdeggianti, ma
spopolate, e fermarci presso un torrente che scorre a 1680 metri. Da
questa via passò or fa qualche giorno ras Alula col suo corpo
d'esercito, e passando riscuote imposte, infligge pagamenti di multe per
mancanze commesse e pretende il mantenimento per tutto il suo seguito,
senza contare che tutti i soldati poi entrano nelle case e si
impossessano di quanto trovano, spadroneggiando da veri briganti. Per
questo all'avvicinarsi delle truppe, tutti i contadini colle loro
famiglie, le loro scorte ed il bestiame si ritirano nelle montagne e vi
stanno nascosti, per cui troviamo tutti i villaggi spopolati e deserti,
le abitazioni completamente vuote, e anche i nostri stomachi risentono
di questa mancanza di abitanti, troppo giustificata, del resto, per non
trovarla perfettamente giusta, malgrado le privazioni che ci apporta.
Con una piccola provvista di farina e miele, noi ce la passiamo ancora
discretamente, ma pei poveri servi manca letteralmente di che far tacere
le domande dello stomaco, e sono ammirabili come sopportano il digiuno,
lavorando sempre e lamentandosi mai.

Il 17 partiamo prima di giorno, percorrendo un altipiano sparso di
immensi massi prismatici di roccia nuda rossastra. Curiose sono le
abitazioni tutte appoggiate al versante delle alture, in pietra,
rettangolari, lunghe, basse, con una specie di porticato sul davanti, il
tetto piatto, in terra, talchè spesso vi stanno pascolando le pecore.
Tutta la strada è continuamente ingombra dal seguito di ras Alula, del
quale verso l'una raggiungiamo il campo, che occupa uno spazio
estesissimo, al centro del quale, su un'altura, sorgono le tonde del
capo.

Ci riceve assai cordialmente, ci fa piantare una tenda e subito ci
regala di una vacca, pane, tecc, birra.

Qual baraonda sia un corpo d'esercito abissinese in marcia, è
impossibile dire e figurarsi. La minor parte sono quelli che si possono
chiamare soldati, i veri combattenti; del resto vecchi, donne, ragazzi,
che nel maggior disordine seguono le tracce del capo che marciando pel
primo indica la strada.

Quasi ogni soldato porta seco la propria famiglia, tutti poi
indistintamente sono seguiti da donne che macinano il grano e preparano
il pane. Il capo alla mattina leva le tende, e questo è segno di
partenza: tutti allora vi si apparecchiano e la gran sfilata comincia.
Lo stato maggiore in testa, poi una coda interminabile di ragazzi che
portano le armi, di vecchi carichi delle tende o di qualche utensile, di
donne che hanno sulle spalle bambini da latte, otri, pelli colle
provviste di farina, e persino le pietre per macinare.

Di questo modo non si possono fare che due o tre ore di marcia al
giorno, che ancora gran parte non arriva che la sera e alle volte la
mattina dopo. Appena giunti comincia il momento di grande attività, chè
ognuno pensa a piantarsi la propria tenda od a costrursi una piccola
capanna, e la donna a preparare il necessario per mangiare: una vera
processione si stabilisce presso i pozzi, in qualche punto si ammazza
qualche bue; una tenda maggiore delle altre, attorno alla quale si vede
un grande affacendarsi, è la sede scelta per un ufficiale.

La sera in cento diversi punti si accendono dei fuochi e questo dà
all'accampamento un aspetto doppiamente grandioso.

Nella notte siamo svegliati da suoni di tromba, canti, gridi, pianti: è
un _grande_ che se n'è ito al creatore, e così se ne dà l'annuncio e si
mostra il dispiacere della sua partenza per l'eterno viaggio. La mattina
dopo tutti si recavano in processione alla sua tenda per dargli l'ultimo
addio.

Nella giornata siamo anche noi continuamene visitati da una massa di
importuni, che non ci disturbano meno di un acquazzone tanto forte e
insistente, che l'essere sotto la tenda era divenuto perfettamente come
l'essere a cielo aperto.

Le mule col nostro bagaglio non hanno potuto fare ieri tutta la lunga
marcia che abbiamo fatto noi, per cui la mattina del 18 ci è forza
aspettare che ci raggiungano per proseguire assieme. Mentre stiamo
aspettando vengono ad annunciarci che due dei nostri servi furono
legati, e noi siamo invitati a presentarci al capo.

Ras Alula fece infatti introdurre in nostra presenza i due prigionieri:
Yavolet-ciarkos, un bravissimo giovane che da Massaua ci aveva
accompagnati durante tutto il viaggio, che lasciammo a Debra Tabor con
Bianchi e che ci raggiunse speditoci quale corriere a portarci la
lettera del re; il secondo altro buon giovane che da poco era al nostro
servizio. Tutti due nativi dello Scioa, e ras Alula fece dichiarare a
noi e giurare al capo dei nostri servi che non avevamo altri dello Scioa
addetti al nostro servizio. Si visitarono da capo a piedi, nelle pieghe
dello scemma, si tagliarono persino i sacchettini di pelle coi talismani
che portano al collo, si fece loro subire un interrogatorio, poi ci fu
dichiarato che non si potevano rilasciare, e che anche noi non
l'avressimo passata molto bella se ras Alula avendoci conosciuti dal re,
non avesse visto quanto gli eravamo amici. Unico motivo di questo
imprigionamento è che quei disgraziati erano dello Scioa; nel resto
mistero, come pur troppo è mistero per noi la sorte che avranno subito.
Io dubito sospettassero che potessero essere spie di re Menelik, e che
col pretesto d'essere nostri servi avessero ad osservare i movimenti
dell'armata di ras Alula, e forse portarne nuove in Massaua o recarle al
loro ritorno in patria. Comunque sia, in questo momento ci si
risvegliarono le memorie dell'accoglienza di ras Area, e per quanto si
fosse fatto tardi abbiamo voluto partire per andarci ad accampare a poco
più d'un'ora, accompagnati per di più da una pioggia torrenziale. Nel
villaggio dove trovammo asilo erano le più belle ragazzine che mai ho
vedute. Profili regolarissimi, forme snelle, eleganti, occhioni grandi
ed espressivi, pettinature stravaganti intrecciate a conterie che
cadevano sul fronte, vestite di semplici pelli adorne di piccole
conchiglie, collane e braccialetti di conterie o di metalli alle mani e
ai piedi. I più bei tipi selvaggi, delle vere piccole Selike.

Il _giorno 19_ prima che il sole sorgesse noi eravamo pronti per
toglierci dalla compagnia di questa soldatesca impertinente e screanzata
che ritiene spirito e vanto l'insultare chi passa coll'affibbiargli
l'epiteto di _turco_.

La via corre sempre su e giù per alture fatte verdi dalle recenti
piogge. Abbiamo uno stupendo effetto di eclissi che ci lascia in un buio
perfetto, e ci permette di ammirare uno stupendo e perfetto anello di
luce attorno all'ombra portata dalla luna sul sole. Dopo circa sette ore
di cammino arriviamo in una specie di altipiano al centro del quale
sorge un'altura, e su questa andiamo ad accampare, nel villaggio di Gura
a 2100 metri. Disteso dinanzi a noi sta il campo della famosa battaglia,
e domani lo visiteremo nel nostro passaggio. Qui è forza procurarci buoi
pel trasporto del bagaglio, chè avvicinandoci alla costa il caldo è
tanto intenso che le mule soffrono troppo, e d'altronde non trovano
nulla a mangiare, mentre il bue s'accontenta di qualunque cosa e resiste
assai più al digiuno. Torniamo dunque agli antichi amori delle questioni
per il prezzo e il peso delle casse, e finalmente si riesce di
combinare. Un saluto da qui all'Abissinia, chè questo è l'ultimo
villaggio prettamente abissinese che incontriamo: da qui innanzi
entriamo nei territori degli Sciohos, le tribù indipendenti che ci
dipingono come ladre, alle quali però aspetto di accollare questo
epiteto, per accertarmi se realmente se lo meritano.

Continuando direttamente a nord, il giorno appresso attraversiamo la
pianura sparsa ovunque di ossi degli Egiziani che vi furono massacrati.
Le piogge, trascinandole colla loro veemenza, ne radunarono qualche
volta delle vere masse nei punti più depressi o nei letti dei torrenti,
dove ad alleviare il triste senso che producono quei miserabili avanzi
umani, sorge il pensiero che almeno natura li radunò per l'eterno
riposo, mentre la malvagità degli uomini li lasciava sparsi a scherno e
trastullo dei passanti.

All'estremo nord dell'altipiano si eleva un vasto cono isolato che sta
come a sentinella dell'immensa vallata, che dietro lui si distende, e
determina quasi il confine geologico di quello che si può propriamente
chiamare altipiano etiopico. È questa l'altura che avevano occupata gli
Egiziani durante la guerra, fortificandone tutto il versante che guarda
Gura con trincee armate, e coronandone la vetta con un bellissimo forte
a casematte, fosse, polveriere, scavate nella nuda roccia, e fornito di
batterie terribili d'acciaio. E gli Abissinesi hanno avuto l'ardire di
darvi l'assalto colle lance e le spade!...

Da qui, seguendo una strada tracciata dagli Egiziani per portarvi i
cannoni, ma che è tutta lasciata andare in rovina, discendiamo fino al
villaggio di Kaiakor, a 1880 metri, che troviamo quasi spopolato, perchè
gli abitanti saputo dell'avvicinarsi del corpo di ras Alula, si sono
quasi tutti rifugiati nelle montagne.

Il 21 proseguiamo nella pittoresca vallata che sbocca in un vasto
altipiano ondulato, attraversato il quale troviamo una gran discesa che
ci porta nel fondo della valle presso dei depositi d'acqua, e qui ci
fermiamo per riposo nostro e delle bestie, all'ombra d'un gruppo di
giganteschi _ficus_. Circa le due ci rimettiamo in strada e dopo un paio
d'ore, mentre si cammina nel letto del torrente, vediamo venirci
incontro un arabo a mula, seguito da un buricco e da un servo.

Lo crediamo un impiegato di dogana, un ufficiale egiziano che viene ad
ispezionare, ma mentre facciamo queste supposizioni ci troviamo dinnanzi
il nostro bravo Tagliabue, completamente ristabilito, ingrassato, e
sotto mentite spoglie. Da Adua si era spedito un corriere a Massaua,
annunciando il nostro arrivo e pregandolo venirci incontro con qualche
provvigione, e lascio immaginare con quanta gioia lo riabbracciammo
tutti quanti. Si discende sempre lungo il torrente, spesso nel suo
letto, qualche volta attraverso piccole alture, attorno alle quali le
acque fanno le loro evoluzioni. Verso il tramonto ci fermiamo in un
largo spazio detto Derassò, ai piedi della salita del monte Bamba.
Tagliabue ci ha portato pane, vino, sardine, maccheroni, noi ammazziamo
un bue che facevamo seguire per provvista, e così in poco tempo si
prepara una cena come da qualche mese non avevamo più avuta.

Per evitare il caldo insopportabile del giorno e per accelerare,
sperando arrivare al vapore egiziano a Massaua, ripartiamo alle due di
notte: erta salita, poi forte e lunga discesa: strada pessima, poca luna
coperta da nubi, quindi buio quasi perfetto e pericolo continuo di
romperci il collo, ma l'orgasmo del rivedere il mare ci spinge e ci
sostiene. Si segue sempre la stessa vallata che gira in mille direzioni
per tendere in fine a nord-est. Verso le dieci ci fermiamo presso poca
acqua putrida, verde quale smeraldo, conservata in una infossatura del
letto del torrente. Le montagne si vanno facendo sempre più basse e
aride, coperte da piante delle quali letteralmente non restano che i
tronchi, e il suolo sparso d'erba gialla che con un fiammifero si
potrebbe tutta incendiare. C'è nelle tinte del paesaggio la vera
impronta della siccità, della flora bruciata. Lasciate passare le ore
del gran sole, ci rimettiamo in strada un paio d'ore prima del tramonto:
le nostre mule sono sfinite dalla fatica continua e dalla mancanza di
cibo, per cui è forza aiutarle meglio che cavalcarle: il caldo si fa
sempre più soffocante, terminano le alture e subentra un vasto piano
inclinato fesso di quando in quando da larghissimi letti da torrente.
Molti ne attraversiamo, e sempre ci dicono dobbiamo scorgere il mare, ma
mai non vi si arriva: il sonno e la stanchezza resi ancor maggiori
dall'afa terribile ci ammazzano, ma vogliamo giungere alla meta. Nei
letti dei fiumi troviamo scavati dei pozzi dai quali si ha acqua fangosa
e salmastra, ma che l'arsura ci fa bere, vincendone la ripugnanza.
Finalmente fra le due e le tre di notte battiamo alla porta di un greco
che in Omkullo tiene una piccola bottega d'acquavite. Ci rifocilliamo,
riposiamo qualche ora, poi ripartiamo per Massaua, dove ritroviamo tutti
i nostri buoni amici e la cattiva notizia che il vapore è partito il
giorno prima.

Eccoci dunque per due settimane condannati ancora a questo soggiorno.

Non dico della festa che abbiamo dal bravo Habib Sciavi e dagli altri
amici che avevamo lasciati in questo paese: è una gara per vederci,
felicitarci del nostro viaggio, che davvero conteremo per sempre fra le
migliori nostre soddisfazioni.

Come vita Massaua ci pare un paradiso dopo l'Abissinia, pure subito si
rimpiange la vita delle emozioni, la vita variata della carovana.

Il caldo è insopportabile, chè nelle posizioni e nelle ore più ventilate
si hanno da 38° a 40°, e in qualche ora del giorno il termometro sale
fino ai 46°.

Non un momento di tregua nè giorno nè notte, è un continuo soffocare e
traspirare, ciò che è molto noioso ma igienico per noi che abbiamo
assorbita tanta umidità. Nella giornata, il costume più che semplice
adottato anche per le strade, e la notte il portarsi a dormire sulle
terrazze sono, i soli rimedii contro questo molesto perseguitatore. Il
sole dardeggia i suoi raggi verticali, infuoca il suolo, e pochi passi a
capo scoperto bastano per caderne fulminati.

Il primo agosto arriva il vapore egiziano che continua la sua corsa fino
ad Hodeida per fermarvisi due o tre giorni, poi riprendere la via del
ritorno, impiegando almeno dodici giorni per arrivare a Suez. Passare
tutto questo tempo su una di queste sudicie carcasse non è certo
divertente, per cui ci decidiamo d'andare ad Hodeida nella speranza di
trovarvi un trasporto inglese col quale proseguire fino in Aden e qui
aspettare uno dei vapori della linea delle Indie. Partiamo infatti la
mattina del due e dopo una giornata di navigazione, all'alba del tre
siamo in vista di una costa che si crede la nostra meta, ma quando ci
avviciniamo maggiormente la si riconosce invece per tutt'altro punto.
Gran consiglio di tutto lo stato maggiore, e ritenuto che Hodeida deve
essere più a sud vi rivolgiamo la prua.

Coi cannocchiali non si scorge però traccia di abitato, quindi fronte
indietro e si va in cerca di Hodeida direttamente a nord. Finalmente
alcuni minareti si innalzano all'orizzonte, e verso le due mettiamo le
ancore davanti alla città, dalla quale però ancora ci separano parecchi
chilometri di bassi fondi.

La città è grande e interessante per lo stile prettamente arabo dei suoi
edificii e per la molteplicità dei costumi dei suoi abitanti, fra i
quali sono maggiormente degni di rimarco i beduini dell'Yemen,
bellissima gente artisticamente vestita d'un piccolo pantalone, una
giacca aderente e un turbante in tela azzurra, adorni di bellissime armi
riccamente lavorate in argento. Le donne portano una massa di monili al
collo, alle braccia, alle mani, alle gambe, pure in argento lavorato a
filigrana e misto a conterie o pezzi d'ambra. Al collo dei ragazzi
collane che ricordano quelle delle Abissinesi, che certamente ebbero
queste a modello.

Nella notte del quattro partiamo a bordo del vapore inglese; passiamo lo
stretto di _Bab-el-Mandeb_, porta del diavolo, rinserrato fra terra
ferma asiatica e l'isola di Perim su cui sventola la bandiera inglese, e
la mattina del giorno seguente diamo fondo dinanzi Aden. Vi trovate qui
un vero labirinto di aguglie i cui detriti hanno costituito un banco
lungo il mare. Su questo la città commerciale, detta _Steamer-point_, su
ogni vetta un piccolo forte o qualche antenna che col mezzo di bandiere
segnala ogni arrivo e partenza di bastimento; ovunque si guardi tutta
roccia nuda e sabbie, non un filo di verdura; d'acqua non se ne parla; e
qui si seppe piantare una città, e qui si potè attirare gli sguardi del
mondo intero e buona dose di commercio.

A otto chilometri, dopo uno strettissimo passaggio tagliato entro dura
roccia per raggiungere una larga vallata posta oltre una catena di
alture, sta la città, propriamente detta, che a Steamer Point non sono
che ufficii, agenzie, magazzini ed alberghi. Vi siamo accolti come
fratelli dal nostro bravo console signor Rolph, che a tutto uomo si
adopera sempre per tornare utile e gradito agli Italiani che visitano
questi paesi. Abbiamo lo spettacolo di un temporale di sabbia, che non
saprei meglio descrivere che dicendo di immaginare, invece di pioggia,
colonne di fitta e fina sabbia trasportate dal vento, seguite da qualche
goccia di vera acqua, cosa che da tre anni non si vedeva in Aden.

I temporali sono rari, ma così torrenziali che per radunare tutta
l'acqua che in pochi momenti scorre sui versanti delle montagne, si
costrussero delle vasche gigantesche che quasi rinserrano le vallate.
Sono lavoro ciclopico che si crede iniziato dai Persiani e ristabilito
poi dopo l'occupazione Inglese. Originali in Aden sono i tipi degli
Ebrei dell'Yemen, che vi fanno il commercio delle penne da struzzo e del
cambia-valute. Vestono una lunga zimarra, un piccolo calottino in testa
e due lunghi ricci che pendono davanti alle orecchie; e i somali che vi
fanno generalmente il facchino o il marinaio, quasi nudi, con enormi
parrucche di capelli arricciati, che per sgrassare coprono di calce, la
quale li riduce giallo-biancastri.

Il giorno 12 partiamo a bordo del _Manilla_, grosso vapore di Rubattino,
e volgiamo direttamente la prua verso l'Italia. È una vera soddisfazione
trovarsi a bordo di un legno come questo di 5000 tonnellate, e pensare
che è nostro, e per noi era doppia la gioia illudendoci già di essere su
un pezzettino del nostro paese. La cordialità degli ufficiali, tutti
quanti, valeva ancora ad accrescere il nostro contento e la nostra
illusione. Abbiamo la morte di un signore inglese a bordo, e nulla di
più triste delle funzioni per la sepoltura. A mezzogiorno il vapore si
ferma, una campana a prua annuncia ed accompagna con suono cadenzato la
triste cerimonia; il feretro è portato sopra coperta e coperto da
bandiera inglese; un vecchio legge qualche preghiera, tutti gli altri
religiosamente ascoltano e pregano, poi unitamente ad un grosso peso di
ferra-vecchie, quattro marinari sollevano la cassa e la buttano a mare,
dove si sprofonda nelle acque, mentre il bastimento riprende il suo
cammino.

La notte del 18 siamo a Suez, dove qualche buon amico venne da
Alessandria per abbracciarmi ed accompagnarmi fino a Porto-Said.
Entriamo nel canale, interessantissimo a percorrersi: rivediamo le
azzurre acque del Mediterraneo. Il 27 abbiamo uno dei più splendidi
spettacoli che al mondo si possano vedere, l'entrata al sorgere del
sole, nel golfo di Napoli. Il giorno dopo verso sera, provo una delle
più belle emozioni del viaggio, chè arrivando a Milano, mi ritrovo nelle
braccia di mia madre, e circondato da tutta quanta la mia famiglia.


FINE.




  INDICE.


  DEDICA                                                         Pag.   V

  AL LETTORE                                                      »   VII

  CAPITOLO I.--Origine della spedizione.--Partenza.--A
  bordo.--Alessandria e Cairo.--Ziber pacha.--A Suez.--Nel Mar
  Rosso.--Suakin.--Sul postale egiziano.--Arrivo a Massaua        »     1

  CAPITOLO II.--Massaua.--In cerca d'abitazione.--Conoscenza
  della famiglia Naretti.--Notizie sull'interno e consigli pel nostro
  viaggio.--Descrizione di Massaua.--Un sistema di cura.--Un forno
  assai semplice.--Gite di caccia.--Il pranzo di Natale.--Invasione di
  locuste                                                         »    17

  CAPITOLO III.--Partenza pei Bogos.--In carovana.--Incontro di
  scimmie.--Paradiso dei cacciatori.--Arrivo alla Missione.--Le
  propagande.--Il villaggio.--Usi e costumi della
  popolazione.--Ritorno.--Bellezze del paesaggio.--Fermata a
  Kalamet.--Nuovamente a Massaua.--Una festa originale            »    33

  CAPITOLO IV.--Arrivano le mule.--Partenza per
  l'interno.--Indolenza dei camellieri.--Sorpresi dalle
  piogge.--Equipaggiamento.--Emozione notturna.--Un funerale.--Trattative
  noiose pei buoi da carico.--Ballo fantastico.--Grandiosità delle
  scene.--Si raggiunge l'Altipiano etiopico                       »    56

  CAPITOLO V.--Tracce della rivoluzione.--Visita al villaggio
  di Asmara.--La chiesa.--Cambio dei buoi.--Sistema di fare il
  pane.--Godofelassi.--Un compagno ammalato.--Arrivo del corriere
  reale.--Lettera di re Giovanni.--Guda-Guddi.--Il campo di
  battaglia.--Il soldato abissinese.--Un accampamento della
  carovana.--Il Mareb.--Tipi che ci accompagnano.--Arrivo in
  Adua.--Prima impressione                                        »    71

  CAPITOLO VI.--Descrizione di Adua.--Squallore.--Visita al
  governatore.--Una seduta di tribunale.--Pene diverse.--La cattedrale
  di Adua.--Industrie abissinesi.--Il mercato.--I regali al
  governatore.--Un abissino che parla l'italiano.--Considerazioni
  sulla guerra di Teodoro.--Seconda campagna contro gli
  Egiziani.--Chirurgia abissinese                                 »    95

  CAPITOLO VII.--Posizione geografica dell'Abissinia.--Sua
  divisione in provincie.--Distinzione dei diversi terreni.--Storia
  del paese e degli abitanti                                      »   113

  CAPITOLO VIII.--Da Adua a Axum.--Panorama della
  città.--L'obelisco.--Avanzi antichi.--La chiesa.--Ritorno in
  Adua.--Costumi degli Abissinesi.--Rito religioso.--Caste
  sociali.--Carattere della popolazione.--Clima.--Visite noiose.--Un
  ordine reale.--Amministrazione.--Tradizioni.--Agricultura.--Carovana
  dello Scioa.--Una refezione all'abissinese                      »   131

  CAPITOLO IX.--Nuovamente in carovana.--Passaggio del
  Taccazé.--Folta vegetazione.--L'ipopotamo.--L'Amara.--Incontro del
  Cighiè.--Strana struttura del terreno.--La salita di Wogara.--I
  principali corsi d'acqua d'Abissinia.--I talleri.--Gondar e lago
  Tzana visti da lontano.--Arrivo al campo reale.--Primo ricevimento
  del re                                                          »   162

  CAPITOLO X.--Il nostro trattamento offerto dal
  re.--Gli schiavi.--Presentazione dei doni al re.--Risposta
  arguta.--Debra-Tabor.--Corsa di cavalli.--Ritratto del re.--Una
  refezione da Sua Maestà.--Partenza pel lago
  Tzana.--Corata.--Accoglienza poco cordiale.--Il lago.--Il Nilo
  Azzurro.--Ponte portoghese.--Ritorno al campo reale.--Un tribunale
  presieduto dal re.--Decisioni pel ritorno                       »   183

  CAPITOLO XI.--Doni del re.--Partenza dal campo reale.--Compagni
  di viaggio.--Villaggio poco ospitaliero.--Accoglienza poco cordiale di
  ras Area.--Gondar.--Traccia di strada.--Re Teodoro.--Le piogge.--Il
  Semien.--Emozioni.--Passaggio del Taccazé.--Arrivo in Adua      »   203

  CAPITOLO XII.--Si riparte per la costa.--Arrivo di un corriere
  con una lettera di re Giovanni.--Considerazioni sul paese.--Il campo di
  ras Alula.--Due nostri servi imprigionati.--Campo e forte di Gura.--I
  Sciohos.--Incontro di Tagliabue.--Arrivo a Massaua.--Hodeida.--Aden.--A
  bordo del Manilla.--Un morto in mare.--Arrivo in Italia         »   225




ELENCO DI OPERE RIGUARDANTI

L'ABISSINIA

VENDIBILI DA
ULRICO HOEPLI
MILANO-PISA


  =Abbadie (d') Arnaud=, Douze ans dans la haute Éthiopie
      (Abyssinie). Vol. 1.º in-8, con una carta geografica.
      Parigi, 1868                                             L.   9.--

  =Acton, R.=, Abyssinian Expedition and Life of King Theodore.
      Un volume in-folio, con 100 illustrazioni, 1868          »   34.--

  =Andree, R.=, Abyssinien, das Alpenland unter den Tropen und
      seine Grenzländer. Schilderungen von Land und Volk
      vornehmlich unter König Theodoros. Un volume in-8, con 86
      illustrazioni e 1 carta geografica. Lipsia, 1869; legato
      in tela                                                  »   7.50

  =Baker, S.=, The Nile Tributaries of Abyssinia. Un volume
      in-8. Londra, 1867                                       »  12.50

  =Blanc, H.=, Narrative of Captivity in Abyssinia. Un vol.
      in-8, 1868                                               »  19.50

  =Bruce, S.=, Travels and Discoveries in Abyssinia. Un vol.
      in-8, Londra, 1878                                       »   3.20

  =Dufton, H.=, Journey through Abyssinia. Un volume in-8,
      Londra, 1867                                             »  17.--

  =Ferret et Galinier=, Voyage en Abyssinie, dans les provinces
      du Tigré, du Samen et de l'Amhara. 2 volumi in-8, con un
      Atlante di 21 tavole litografate in-folio. Parigi, 1848  »  --.--

  =Gay, S.=, Les Abyssiniennes et les femmes du Soudan oriental,
      suivi d'une postface ethnologique. Un volume in-16º,
      Torino, 1876                                             »   6.--

  =Henty, G. A.=, March to Magdala. Un volume in-8, 1868       »  24.--

  =Heuglin, H. Th.=, Reise nach Abyssinien, den Gala-Ländern,
      Ost-Sudàn u. Chartúm i. d. J. 1861 u. 62. Un volume in-8
      gr., con 10 illustrazioni e 1 carta. Jena, 1868, in luogo
      di L. 23 per                                             »  12.--

  =Holland and Hozier=, Expedition to Abyssinia. 2 vol. in-4,
      1870.                                                    » 132.--

  =Hotten, I. C.=, Abyssinia and its people. Un vol. in-8,
      Londra, 1867                                             »  12.50

  =Hozier, H. M.=, British Expedition to Abyssinia. Un volume
      in-8, Londra, 1869                                       »  15.--

  =Hübbe-Schleiden=, Ethiopien. Studien üb. West-Afrika. Un
      volume in-8 gr., con 1 carta geografica. Amburgo, 1879   »  15.--

  =Isambert, E.=, Itinéraire descriptif, historique et
      archéologique de l'Orient. II partie: Abyssinie, Malte,
      Égypte, Nubie, Sinaï. Un volume in-12, con 6 carte
      geografiche, 19 piante et 4 incisioni in rame. Paris, 1878
                                                               »  35.--

  =Léfébure, Th.=, Voyage en Abyssinie exécuté pendant les
      années 1839-43 par une commission scientifique. 6 volumi
      in-8 e 3 Atlante di 141 tavole e 1 carta geografica
      in-folio. Parigi, 1848                                   » 600.--

  =Lejean, G.=, Voyage en Abyssinie, exécuté de 1862 à 1864. Un
      vol. in-4, con un Atlante. Parigi, 1873                  »  35.--

  =Markham, C. R.=, History of Abyssinian Expedition. Un volume
      in-8, 1869                                               »  22.50

  =Mayo=, Sport in Abyssinia, Mareb and Tackazzee. Un volume
      in-8, Londra, 1876                                       »  20.--

  =Parkyn's, H.=, Life in Abyssinia. Un volume in-8, 1868      »  12.--

  =Plowden, W. C.=, Travels in Abyssinia, Un volume in-8, 1868 »  28.50

  =Raffray, A.=, Afrique orientale. Abyssinie. Un vol. in-12,
      con 1 carta geografica e numerose incisioni nel testo.
      Parigi, 1876                                             »   4.75

  =Rassam, T.=, Narrative of the British Mission to Theodore
      King of Abyssinia. 2 volumi in-8, 1869                   »  45.--

  =Rohlfs, G.=, Im Auftrage d. Königs v. Preussen mit d.
      englischen Expeditionscorps in Abyssinien. Un vol. in-8,
      con 1 ritratto e 1 carta geografica in-folio, Brema, 1869
                                                               »   4.75

  ---- Von Tripolis nach Alexandrien. Beschreibung der im Auftr.
      des Königs von Preussen in den Jahren 1868 u. 69,
      ausgeführten Reise. 2 volumi, con 1 fotografia, 4 tavole
      litografiche, 2 carte geografiche, ecc. Brema, 1871      »  15.75

  =Sterne, H. A.=, Captive Missionary. The Country and People of
      Abyssinia. Un volume in-8, 1869                          »  34.--



    [Illustrazione: ITINERARIO del viaggio IN ABISSINIA
    fatto da PIPPO VIGONI nel 1879
    costrutto e disegnato da G. DALLA VEDOVA]





NOTA DEL TRASCRITTORE

Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi l'originale):

  e innalzano la mente, ma che non v'ha penna, nè pennello[penello], nè
  vuote, quando entra un nero con una catinella e un'anfora[un anfora]
  di
  qualche _baobab_[boabab] spoglio affatto di foglie, col tronco
  enorme e
  Le montagne si vanno facendo più alte, i _baobab_[boabab] e le
  euforbie
  aumenta, i baobab[boabab] sono giganteschi, non hanno in questa
  Oltre i grossi baobab[boabab] dai quali pendono numerosi frutti, vi
  ne principia subito un'altra[un altra] con altri protagonisti.
  vasto, ma meschino, senza nessuna[nesssuna] regolarità di vie. Ogni
  capanna
  un altro[un'altro] obelisco minore. Nei dintorni molti altri ne
  stanno di
  in due parti da un piccolo muro. Al centro sorge un
  edificio[un'edificio]
  Richiedono gli Abissinesi che i talleri abbiano[abbiamo] le perle del
  e accompagnati dai[dei] Naretti e da qualcuno della Corte
  basso, riservato ai mussulmani[mussulmanni] e per questo chiamato
  _Bet-islam_;
  mandassimo[mandissimo] un fucile simile. Il buon Ferrari, intenerito
  dal trovare
  v'è un villaggio più vicino che non il primo sulla via, non
  risparmiano[risparmiamo]





End of the Project Gutenberg EBook of Abissinia, by Pippo Vigoni

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Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]


Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://pglaf.org

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit: http://pglaf.org/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.


Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.


Most people start at our Web site which has the main PG search facility:

     http://www.gutenberg.org

This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.