Garibaldi, Vol. 2 (of 2) : (1860-1882)

By Giuseppe Guerzoni

The Project Gutenberg eBook of Garibaldi,  Vol. 2 (of 2)
    
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Title: Garibaldi,  Vol. 2 (of 2)

Author: Giuseppe Guerzoni

Release date: January 18, 2025 [eBook #75139]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Barbera, 1889

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                               GARIBALDI


                                   DI
                           GIUSEPPE GUERZONI.


                                VOL. II
                              (1860-1882)

                     CON DOCUMENTI EDITI E INEDITI
                        E 7 PIANTE TOPOGRAFICHE.

                            Terza edizione.



                                FIRENZE,
                          G. BARBÈRA, EDITORE.
                                 1891.




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               riproduzione e traduzione sono riservati.




   [Illustrazione: Carta d’insieme della Sicilia]




GARIBALDI.




CAPITOLO OTTAVO.

DA MARSALA AL FARO. [1860.]


I.

Il 20 gennaio 1860 il conte di Cavour riafferrava il governo, e
l’Italia risentiva tosto la mano del nuovo timoniere. Non conviene
tuttavia piaggiar nessuno, nemmeno il genio fortunato. Fra la
situazione politica trovata dal gran Ministro al cominciar del
nuovo anno e quella da lui lasciata a’ suoi successori correva per
l’appunto la stessa differenza che tra una nave in alto mare, sbattuta
dalla tempesta, e una nave, lottante bensì cogli ultimi colpi della
traversía, ma già in vista della terra e prossima a toccare il
porto. Dell’eredità di Villafranca al Ministero La Marmora-Rattazzi
toccarono tutti i rischi e tutti i fastidi; al conte di Cavour
tutti i frutti e tutti i trionfi. Ad essi, se fosse lecito dire,
la parte penosa ed oscura della liquidazione; a lui l’attuosa e
brillante dell’accettazione. Sia giusta la storia: se il conte di
Cavour fosse stato al potere dal luglio al dicembre 1859, non avrebbe
potuto comportarsi diversamente dai suoi eredi; e gli sarebbe stato
giuocoforza o temporeggiare e barcamenarsi com’essi; o volendo osar
troppo, porre ogni cosa a repentaglio. Il Ministero La Marmora-Rattazzi
non compì grandi cose; ma, come suol dirsi di certi medici, aiutò la
natura ad operare: diede cioè tempo ed agio all’Italia d’aspettare
che tutto quel cumulo di difficoltà, d’ostacoli, di triboli che
facevan barriera d’ogni dove al nostro cammino, si assottigliasse e
s’indebolisse da sè, per sola forza delle cose, sì che non restasse più
che scavalcarlo con un passo, o rovesciarlo con una spinta.

E così infatti era accaduto. L’annessione dell’Italia centrale al Regno
sardo era, se non consacrata nella forma, compiuta nella sostanza; la
chimera napoleonica d’una federazione austro-italiana presieduta dal
Papa già ita in dileguo; tutti i progetti di congressi, di conferenze,
di vicariati, di regni autonomi svaporati; tutte le promesse di
restaurazioni, papali, ducali, granducali, scritte ne’ capitolari di
Villafranca, cassate dalla manifesta volontà degl’Italiani, e ridotte
lettera morta. Napoleone III, dopo cinque mesi di politica ambidestra,
una pubblica e avversa, una segreta e propizia all’Italia, liberatosi
dal reazionario Walewsky, dettato o ispirato l’opuscolo: _Il Papa
e il Congresso_,[1] si chiariva di giorno in giorno più favorevole
alle nostre sorti; mentre l’Inghilterra, subentrati i _Whigs_ ai
_Torys_, dichiarava apertamente la sua simpatia per la causa italiana,
s’associava al Napoleonide nell’idea del non intervento armato, e ne
faceva uno de’ cardini della sua politica nella Penisola. L’Austria
sola continuava naturalmente ad atteggiarsi o stile e minacciosa;
ma tanto la Prussia, quanto la Russia, sebbene diffidenti della
rivoluzione e gelose del diritto divino, non sapevano risolversi a far
causa comune l’una colla prepotente rivale, l’altra colla fedifraga ed
ingrata alleata, e chiaramente lasciavano intendere che non avrebbero
mai tratta la spada per lei: unica cosa che importasse. E intanto il
savio contegno dell’Italia centrale continuava a far l’ammirazione
di tutti i popoli civili; forzando i suoi stessi avversari a parlare
con rispetto d’una rivoluzione che procedeva con sì pacata e ordinata
costanza, ed a discuter seriamente di quel nuovo diritto fondato
sulla volontà popolare e sui caratteri indelebili delle nazioni,
che la vecchia Diplomazia non voleva ancora riconoscere, ma che avrà
sconvolto, prima che il secolo finisca, tutta l’Europa.

A tale essendo le cose, restava solo che una mano vigorosa desse
l’ultimo colpo; e il Cavour ricomparve nell’arena. Salito appena al
potere, annunciò ai Gabinetti d’Europa che oramai era impossibile una
più lunga aspettativa; che le popolazioni italiane, dopo avere atteso
lungamente indarno che le Potenze d’Europa mettessero ordine a’ loro
affari, avevan diritto di passar oltre, e che «il solo scioglimento
pratico consisteva nell’ammissione legale dell’annessione, già
stabilita in fatto, dell’Emilia, come della Toscana.[2]»

Chi però vedesse in queste ardite dichiarazioni l’atto irriflessivo
d’un giuocatore disperato che rischia l’ultima sua posta,
s’ingannerebbe a partito. Il conte di Cavour aveva già calcolato
tutte le sorti del giuoco, ed era certo oramai che la partita decisiva
sarebbe stata per lui. Che l’Austria strepitasse o la Germania e la
Russia tenessero il broncio, poco gli caleva. Sapeva d’aver seco, più
che queste non volessero confessare, Francia e Inghilterra; sapeva
meglio ancora d’aver per sè il diritto, il fatto, l’opinione civile,
e ciò gli bastava. Non andò guari infatti che l’Inghilterra inviava
ai Gabinetti delle maggiori Potenze queste quattro proposte: non
intervento armato; diritto ai popoli dell’Italia centrale di decidere,
con un nuovo voto de’ lor Parlamenti, circa i loro destini; garantita
la sovranità papale, ma sgombra Roma dai Francesi; soltanto la
questione di Venezia taciuta e messa in disparte. Rispose sdegnosamente
l’Austria; non piegarono tosto le Corti nordiche; ondeggiò ancora
per poco lo stesso Napoleone, tentando introdurre nelle proposte
inglesi altre condizioni: ma poichè egli consentiva nella massima
fondamentale del non intervento, e richiedeva solo che al voto
de’ Parlamenti si sostituisse il suffragio universale; il conte di
Cavour, vinte o deluse tutte le nuove eccezioni, lo prese in parola,
e mandata copia delle proposte inglesi, così come le aveva modificate
l’Imperatore, ai Governi della Toscana e dell’Emilia, li invitò senza
più a pronunciarsi. Era quanto dir loro (se già non era stato detto in
privato): procedete subito ai plebisciti e confermate le annessioni;
e va da sè che nessun invito poteva riuscire più aspettato e più
gradito. Così tre giorni dopo l’ultima Nota francese, mentre ancora i
potentati erano affaccendati a librare, analizzare, stillare le famose
quattro proposte, l’Emilia e la Toscana votavano per voto universale
la loro unione alla Monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele; e la
rivincita di Villafranca era presa.


II.

Se non che nessuna gioia senz’amarezza; l’imperatore Napoleone metteva
alle annessioni dell’Italia centrale un prezzo; quel medesimo ch’egli
aveva prima richiesto per la cacciata degli Austriaci: Savoia e Nizza.
Nè era da pretendersi che l’opera sua fosse tutta gratuita. Nemmeno
la Francia era la _gran nazione_ che potesse far la guerra soltanto
_per un’idea_. Ciò si scrive volentieri nell’ebbrezza del trionfo, sui
proclami; ma rare volte si ratifica co’ fatti. Quand’anche Napoleone
l’avesse voluto, non era in di lui balía chiedere il sangue della
nazione ond’era capo, per una guerra non sua, senza procacciarle
almeno un compenso rimuneratore dei rischi corsi e dei sacrifici
patiti. Oltre di che la cessione della Savoia e di Nizza era la
conseguenza, per dirla collo stesso conte di Cavour, «della politica
che ci aveva portati a Milano, a Bologna, a Firenze;» ed era certamente
un’applicazione di que’ medesimi principii di volontà nazionale e
di voto popolare che noi stessi avevamo invocati siccome fondamento
giuridico alla nostra rivoluzione, e sul quale dovrà consistere
l’intero edificio d’Italia.

Piuttosto era ad esaminarsi se tutto quel compenso era dovuto; se di
quel tanto sacrificio richiesto all’Italia, una parte almeno non poteva
esser risparmiata. Per la Savoia nessun dubbio: poteva essere doloroso
abbandonare que’ monti, antemurale di nostra casa e cuna de’ nostri Re;
ma proclamato il diritto delle nazioni, diveniva necessario e doveroso.
Per Nizza, invece, il discorso mutava: ivi tutto era Italia; e la
miscèla di idiomi, propria a tutte le regioni confinanti, non bastava
a cancellarne i grandi e solenni caratteri scritti dalla storia, dalla
natura e da Dio.

Però che l’imperiale alleato chiedesse con pari durezza le due spoglie,
nessuno contende; rimane solo a chiarirsi se l’una non poteva essere
più validamente e più tenacemente contrastata dell’altra. Il conte di
Cavour, disse uno de’ suoi più valenti cooperatori,[3] aveva perduto di
fronte all’ingrata questione la consueta sua serenità, e facilmente si
crede; ma che abbia posto a risolverla tutto il nerbo dell’anima sua;
ch’egli abbia tentato la salvezza di Nizza con quel medesimo sforzo
di destrezza e di energia da lui adoperato a disfar Villafranca, e
unificar mezza Italia, questo in nessun libro e in nessun documento è
attestato: eppure questo sarebbe stato un serto di più alla sua gloria.
Si direbbe che il gran Ministro, assorto nell’unico fine «di rendersi
complice[4]» la Francia, non ne vedesse alcun altro. Tuttavia se al
conte di Cavour fosse balenato il pensiero che quella complicità era
per Napoleone ormai fatale, e che in ogni caso non avrebbe mai fatto
guerra all’Italia per Nizza, come non gliela fece, nè la potè fare
per Bologna e Firenze,[5] forse avrebbe risparmiato agl’Italiani quel
gentile e caro brano di patria, e a sè sospetti, rancori, inimicizie,
di cui tra non molto egli e la parte sua sentiranno, primi, le
difficoltà ed i danni.

Oltre a ciò avevano offesi i modi. Nizza era inondata da emissari
napoleonici; bandi pubblici firmati dai magistrati del Re, o tollerati
o non abbastanza puniti, apertamente propugnavano la dedizione alla
Francia; nessun’arte di pressione e di broglio era risparmiata; la
libertà del voto, unica scusa e salvaguardia di quel triste plebiscito,
sfrontatamente conculcata.

Qual maraviglia pertanto che un soldato, un nizzardo, Giuseppe
Garibaldi, infiammato d’amore per la terra nativa e d’odio per ogni
signoria straniera; inasprito da quello spettacolo nauseabondo di
frodi e di violenze, si levasse per il primo contro un Governo che, per
usare il linguaggio suo, «mercanteggiava come armento la città sua;» e
vedesse da quell’istante un nemico in colui che era stato a’ suoi occhi
l’artefice e lo stromento principale del mercato?


III.

Prima conseguenza della felice annessione era l’ampliamento e la
rinnovazione del Parlamento. Lo stesso conte di Cavour aveva richieste
le elezioni generali come precipua condizione al suo ritorno al
Governo; e infatti dal 25 al 29 marzo i Collegi delle antiche e nuove
province convenivano all’urne per eleggere i loro deputati.

E naturalmente tra gli eletti fu anche Garibaldi. Molti Collegi gli
furono profferti, tra gli altri Brescia, Stradella, Varese; ma egli
ringraziò tutti, dichiarando di non poter accettare che per Nizza
«posta in pericolo di cadere nelle ugne del protettore padrone,[6]» e
che a lui incombeva difendere. Nizza infatti lo elesse;[7] ond’egli
appena conosciuto il voto lascia Caprera, corre nella sua città, vi
raggruppa i suoi amici e devoti, tenta avvivare (e la sola sua presenza
bastava) la fede nella patria antica; e illuso che il sentimento suo
sia pur quello di tutti i suoi concittadini; ignaro che intorno a
quel po’ di popolo schietto ed onesto, che si sentiva e voleva essere
italiano, brulicava una plebe famelica, pronta al miglior offerente,
e una borghesia ingorda, impaziente di subiti guadagni, che avrebbe
venduto dieci patrie; parte per Torino accompagnato dal suo amico
Robaudi, col proposito d’interpellare il Governo sulla sorte della sua
città natale e di fare un ultimo sforzo per scongiurarne la perdita.

Del suo arrivo a Torino, delle commozioni provate dalla città, son
pieni i giornali del tempo; ma in ciò nessuna maraviglia. Presentata
col Robaudi la sua interpellanza fin dal 7 aprile, soltanto nella
tornata del 12 fu ammesso a svolgerla. Era la prima volta che Garibaldi
compariva nel Parlamento subalpino; grande quindi l’impazienza di
conoscere l’oratore e di giudicare il politico; «generale, siccome dice
il resoconto ufficiale, il movimento d’attenzione.»

Parlò calmo e breve; ma è dubbio se con parole e concetti tutti
suoi.[8] Reclamò l’osservanza dell’articolo 5º dello Statuto, che
pei trattati importanti cessione di provincie richiede la perentoria
sanzione della Camera: rammentò la storia di Nizza datasi a Casa di
Savoia nel 1391 a patto di non essere ceduta a straniera potenza:
dichiarò ogni traffico di gente repugnante al diritto ed alla coscienza
delle nazioni civili: denunziò sommariamente i fatti di pressione
elettorale, sotto la quale era soffocata la libertà di voto de’ suoi
concittadini: chiese infine che, sino all’approvazione del trattato, il
voto di Nizza fosse sospeso.

Rispose il Cavour temperato e cortese; negando l’incostituzionalità,
giustificando il trattato colla necessità politica e l’interesse
d’Italia; attenuando, non smentendo, i fatti di pressione. La
discussione s’avvivò. Per Nizza, in vario tenore, parlarono i nizzardi
Laurenti-Robaudi e Bottero, sostenuti dal Mellana e dal Mancini; per il
trattato i ministri Farini e Mamiani e il deputato Pier Carlo Boggio;
e la conclusione fu l’approvazione d’un ordine del giorno di questi,
mercè il quale «espressa la fiducia che il Governo del Re provvederebbe
efficacemente che le guarentigie costituzionali e la sincerità
e libertà del voto nelle provincie di Savoia e Nizza sarebbero
rispettate,» la Camera non chiedeva di più.

E di più forse, al punto cui eran le cose, non si poteva nè sperare
nè conseguire; ma Garibaldi non era uomo d’intenderlo, e uscì da
Palazzo Carignano coll’anima ribollente d’ira e d’amarezza; nauseato
di quella politica barattiera, a senso suo, e codarda, e guardando
da quell’istante il conte di Cavour collo stesso occhio, con cui si
guarderebbe colui che vi ha strappato dal braccio vostra madre, e l’ha
gettata al mercato.

Ma per ventura sua e d’Italia altri e ben più gravi avvenimenti eran
già venuti a divertirlo da quei turbolenti pensieri, e ad aprire al
vorticoso torrente della sua passione patriottica uno sfogo più degno e
più vasto.


IV.

La rivoluzione italiana era proceduta a sembianza d’un corpo leggiero,
che, in una grossa battaglia, un po’ trasportato dal suo ardore, un
po’ sospinto dalle circostanze, marcia avanti, senza badare nè a destra
nè a manca, occupa alla baionetta un’eccellente posizione; ma, giunto
colà, si trova circuito da nemici, che di fronte, ai fianchi, alle
spalle gli fanno siepe da ogni lato; sicchè non può più nè avanzare nè
retrocedere. Dovunque l’Italia si rivolgesse, incontrava una barriera
di ferro che le sbarrava il cammino e la forzava a ristare. Ai fianchi,
accampata sul Quadrilatero, l’Austria; di fronte, meglio che dalle
spade mercenarie, difeso dalla sua ibrida natura, il Papato; dietro
a lui, nemico imbelle, ma protetto dall’egida dei trattati, il Re di
Napoli; dietro a tutti il vecchio diritto, le vecchie tradizioni, la
vecchia Europa; caparbi avversari avvezzi a non piegare mai che alla
forza ed ai fatti compiuti.

Ora come l’Italia potesse trovar da sè stessa la via d’uscir da
siffatti frangenti, nessuno, nemmeno il genio del conte di Cavour,
lo sapeva. Pertanto egli pure s’accontentava di stare alla specula
degli eventi, e più che a muovere innanzi badava a temporeggiare con
frutto e ad assodarsi sull’occupato terreno. Il concetto dell’unità
italiana non s’era ancora affacciato alla sua mente, come cosa pratica
ed effettuabile, e frattanto gli pareva saggio volgere le prime cure
a due scopi più prossimi e conseguibili: rafforzare il nuovo Stato,
ed apparecchiarsi a nuova guerra coll’Austria.[9] A questo intento
però, oltre al lavorío diplomatico che continuava a condurre con mano
infaticabile, reputava ottimo mezzo premere sul Re di Napoli, tentando
attrarlo nell’orbita del moto italiano e associarlo alla politica del
Piemonte pel conquisto dell’indipendenza nazionale. Ma nè il pusillo
Francesco era uomo da seguirlo per cotali altezze, nè gli uomini che
l’attorniavano, o inetti o codardi, da sospingervelo. A Napoli si
credeva sempre alla rivincita legittimista e la si preparava. La Reggia
borbonica era divenuta il centro della gran congiura principesca, che
doveva restaurare su tutti i troni rovesciati d’Italia il diritto
divino. Si arruolavano mercenari; si concentrava l’esercito negli
Abruzzi; si fantasticava un’occupazione delle Marche; si patteggiava
che contemporaneamente il Papa invaderebbe le Romagne, e il Duca di
Modena i Ducati; si aspettava ad ogni istante di veder l’Austria
rivarcare il Mincio, e Germania e Russia calar dalle loro selve e
dalle loro steppe alla crociata dell’oppressa legittimità. Quanto
all’interno, si derideva ogni consiglio di riforme, si sfidava, o
fingevasi, ogni minaccia di rivoluzione; e in ogni evento fidando
sull’esercito devoto, sulla sbirraglia innumerevole, sulla magistratura
servile, e più che tutto sull’Ajossa, dittatore della Polizia di
Napoli, e sul Maniscalco, emulo suo a Palermo, si dormiva fra due
guanciali.

A riscuoterli dal sopore squillò la campana della Gancia: la soluzione
che indarno il conte di Cavour cercava; la soluzione che forse l’Italia
avrebbe dovuto attendere dalla lenta opera del tempo, usciva a un
tratto dal seno misterioso della rivoluzione, e un pugno di popolani,
decisi di morire per la patria loro, recideva quel nodo, che nè la
forza legale della nuova Monarchia, nè la destrezza politica del suo
grande Ministro, sarebbe bastata a risolvere.


V.

L’insurrezione siciliana non fu, come ben s’immagina, una eruzione
vulcanica e subitanea. Astrazion fatta dall’odio per la tirannia
borbonica, tre grandi cause n’avevano preparato e affrettato lo
scoppio. L’indomita energia d’una falange di patriotti e di proscritti
che da tutte le terre dell’Isola, da tutti gli angoli d’Europa
soffiavano da anni nella fiamma e l’alimentavano. L’apostolato
infaticabile di Giuseppe Mazzini, che dal 1856 in poi aveva indirizzati
al Sud tutti gli sforzi del partito d’azione da lui capitanato, e
fatto del moto siciliano la leva suscitatrice dell’unità di tutta la
Penisola. Infine, e con maggior efficacia per fermo, gli avvenimenti
dell’Italia superiore e centrale, i quali dimostrando possibile
quell’unità, che poco dianzi agli occhi de’ più pareva un’utopia;
attestando la devozione d’una Casa guerriera e d’un Re galantuomo alla
causa nazionale; dando all’Italia un nome, un esercito, un governo,
una diplomazia; aprivano anche ai Siciliani un orizzonte di speranze
novelle, spegnevano nell’Isola le viete discordie, confondevano in un
solo tutti i vecchi partiti, porgevano infine ai patriotti sinceri e
spassionati di tutti i colori un vessillo di rannodamento ed un grido
di battaglia.

E di questo fermento latente degli animi non tardarono ad apparire
i segni manifesti. Le dimostrazioni succedevano alle dimostrazioni;
i Consigli locali rifiutavano i consueti indirizzi di sudditanza al
nuovo Re: i nomi di Vittorio Emanuele e di Napoleone III suonavan su
tutte le labbra, apparivano su tutte le pareti; gli animi pendevano
dalle notizie di Lombardia, come da altrettanti messaggi di vita e di
morte; le vittorie di Magenta e di Solferino, a malgrado le minaccie
della polizia, erano festeggiate con luminarie ed acclamazioni; passava
infine per lo stretto la flotta degli alleati diretta all’Adriatico,
e Messina tutta versavasi sulle sue spiagge a salutare le armate
liberatrici.[10]

Una vasta trama avvolgeva l’Isola e Comitati segreti ne tenevano le
fila e la governavano. Si propagavano e affiggevano scritti incendiari;
si allestivano armi e munizioni; si ordinavano squadre, e tutto ciò
sotto gli occhi del truce Maniscalco che indarno ne cercava gli autori
e nella cecità della furia colpiva a casaccio, confiscando, torturando,
percuotendo spesso i più innocenti, e affrettando per tal modo lo
scoppio dell’uragano che presumeva scongiurare.

Anche la Sicilia, è ben vero, aveva sentito il contraccolpo di
Villafranca; ma fu buffo passeggiero, e i propositi un istante
rattiepiditi si rianimarono con novello vigore. L’esempio fortunato
dell’Italia centrale cominciava a persuadere anche i più restii, che
oramai la prima arbitra de’ propri destini era la Sicilia stessa e
che l’ora di rompere gli indugi s’avvicinava a gran passi. Soltanto
i _Comitati Lafariniani_ e della _Società nazionale_, male ispirati
interpreti della politica del conte di Cavour, assai più rivoluzionario
di loro, persistevano a sconsigliare ogni moto da essi chiamato
intempestivo, «promettendo la salute della Sicilia a patto che non
fosse insorta nel periodo delle annessioni.[11]»

Verso la metà di settembre però, Francesco Crispi, anima in quei
giorni della parte più avanzata degli esuli siciliani, accordatosi da
un lato con Giuseppe Mazzini e con tutti gli amici suoi, dall’altro
incoraggiato dalle facili parole dello stesso Dittatore Farini, che
a quei giorni pareva inclinato a tutti gli ardimenti, s’imbarcava
nascostamente per la Sicilia, dove già con pari rischio e audacia era
stato dal 1856 in poi altre due volte, per gettar sulla bilancia degli
oscillanti il peso della sua ascoltata parola e dar l’ultimo tratto al
partito dell’insurrezione.

E i più fervidi dei patriotti siciliani, parvero disposti ad
ascoltarlo; e serrate le fila, assegnati i posti, distribuite le poche
armi e munizioni, la sollevazione fu deliberata pel 4 ottobre; poi, per
difficoltà sopravvenute, differita all’11 di quello stesso mese.[12] Ma
anche in quel giorno l’impresa, chi scrisse perchè già scoperta dalla
Polizia, chi affermò per effetto delle lettere di alcuni Lafariniani
venute a raccomandare novelli indugi,[13] dovette essere differita a
più propizia occasione. Differita, diciamo, non abbandonata e soltanto
in alcune parti del suo disegno modificata.

Così i patriotti siciliani, come Francesco Crispi, come in generale
tutti quanti lavoravano a quell’opera, avevan finito col convenire
che un moto nell’Isola non poteva scoppiare, e scoppiato espandersi e
trionfare se non l’iniziava o almeno non lo soccorreva immediatamente
una spedizione armata di fuori, capace di divenire il nerbo
dell’insurrezione e di governarla. Però fu intorno a questo nuovo
concetto che s’appuntarono tutti gli sforzi del partito d’azione
dal novembre del 1859 fino alla spedizione di Quarto che ne fu
l’incoronazione.

Il Crispi, che a stento era scampato da Sicilia, pellegrinava dal
Farini al Rattazzi e dal La Farina a Garibaldi chiedendo a tutti:
armi, danaro, aiuti per la vagheggiata impresa; Nicola Fabrizi, che da
Malta per oltre venti anni era stato l’anello di congiunzione tra la
Sicilia e il partito d’azione, tornava colà per riannodarvi le trame
già allentate; Giuseppe Mazzini moltiplicava le lettere, i proclami,
gli emissari, cercando nella _Falange sacra_ di Genova, dove già avea
trovato i seguaci del moto del 1856, il nucleo della spedizione di cui
proponeva il comando, se Garibaldi ricusava capitanarla, al Bixio, al
Medici, a chicchessia, e racimolando a spizzico schioppi, polveri e
moneta, goccie a innaffiare un deserto, ma che facevan testimonianza
non solo della sua incrollabile fede, ma quella volta almeno d’un senso
profondo e quasi fatidico delle necessità d’Italia. Infine nella notte
del 20 marzo Rosolino Pilo, dei Conti di Capaci, elettissima anima
d’eroe e di martire, d’intesa col Mazzini e col Crispi, incuorato da
Garibaldi stesso, salpava su fragile paranza in compagnia di Giovanni
Corrao con poche armi e poco peculio alla volta della sua isola natía,
deliberato a chiamarvi alle armi i suoi compaesani e a dar egli, per
primo, l’esempio della magnanima rivolta.

Ma questa scoppiò per forza propria anche prima del suo arrivo.[14] La
brutalità del Governo aveva cospirato più di tutte le propagande. Le
fila da lui spezzate si riannodarono da sè stesse; ad ogni patriotta
incarcerato o spento, ne subentravano cento; un ignoto pugnalava in
pien meriggio sulla porta della Matrice lo stesso Maniscalco, che dava
così egli pel primo col proprio sangue il segnale della riscossa.

Il disegno era: far del Convento della Gancia, i cui frati sapevansi
devoti alla causa nazionale, base d’operazione; preparare, nascosti
ne’ suoi sotterranei, colle poche armi già introdotte in città, un
manipolo di animosi disposti a trattarle; all’alba del 4 aprile al
suono delle campane a stormo sbucare dal Convento, chiamando la città
alle armi; altre schiere di patriotti frattanto, già appostati in
Via Scopari e nella chiesa della Magione, uscirebbero a lor volta ad
appoggiare il movimento: simultaneamente le squadre del contado, già
preste, sforzerebbero le porte, e mettendo il nemico fra due fuochi
compirebbero l’opera.

E così fu fatto. Capo degli animosi che dovevan cominciare il fuoco
dalla Gancia si profferì un popolano, certo Francesco Riso, fontaniere
d’arte, anima candida di patriotta e di eroe, che fu il vero iniziatore
della rivoluzione palermitana, e il cui nome va ormai proferito in
Italia accanto a quelli de’ suoi martiri più gloriosi.

Se non che il Maniscalco, per una delle consuete e fatali imprudenze
inseparabili da siffatte imprese,[15] ebbe vento della trama, e sebbene
in una perquisizione, fatta la sera del 3 al Convento, non gli fosse
riuscito di scoprire nulla di più, fece tuttavia occupare durante
la notte tutti gli approcci della Gancia da picchetti di truppa e di
sbirraglia, e si tenne preparato ad ogni evento. Infatti all’alba del
4 fu pronta la campana di Santa Maria degli Angeli a dare il segnale;
pronto Francesco Riso ad uscir al cimento; pronti i due drappelli
di Via Scopari e della Magione a far la parte loro; ma sorpresi e
questi e quelli e colti dalle soldatesche già appostate a tutti i
varchi; sopraffatti in breve da altre sopravvenienti da ogni banda;
furono parte dispersi, parte costretti a ricoverarsi nel Convento
della Gancia, che divenne così l’estrema rôcca de’ patriotti. Ma non
tardarono ad assalirli, superbi del numero, i Borbonici, e atterratane,
senza grande sforzo, la porta, ricacciati di scala in scala, di piano
in piano, i disperati difensori, ferito a morte l’eroico Francesco
Riso, freddato d’un colpo il Padre Angelo di Montemaggiore, in brev’ora
rimasero padroni del campo sanguinoso. Allora i vincitori non conobbero
più freno; e trucidando alla cieca quanti incontravano; scorrazzando,
manomettendo, guastando l’intero Convento; non arretrandosi nemmeno
dinanzi alla santità degli altari, spogliando le immagini sacre de’
loro arredi e sperdendo al suolo persino le particole consacrate,
coronarono con quest’ultima prodezza la vittoria del trono e
dell’altare.

E fu crudele disdetta; chè le bande del contado fide alla promessa
si erano già da ogni parte appressate ai sobborghi ed alle porte,
richiamando verso sè stesse molta forza de’ Regi e appiccando in
più luoghi, come ai Porrazzi, zuffe ardimentose, le quali potevano
anco volgersi in vittoria, se l’insurrezione cittadina avesse potuto
dilatarsi e dar loro la mano.


VI.

E tuttavia l’insurrezione poteva dirsi sbaragliata, non vinta. Le
squadre ritiratesi nei dintorni continuavano bravamente la resistenza,
e ne erano principali: quella di Piana de’ Greci comandata da Luigi
Piediscalzi; quella di Corleone guidata dal marchese Firmaturi;
quella di Termini condotta dal Barrante e da Ignazio Quattrocchi;
quelle di Ventimiglia, di Ciminna e Villafrati organizzate da
Luigi La Porta; infine quelle dei distretti d’Alcamo e di Partinico
capitanate dai fratelli Sant’Anna; le più numerose di tutte. Quanto
al rimanente dell’Isola poi, appena corse l’annunzio del 4 aprile,
tutte le maggiori città si apparecchiarono, secondo le forze e la
possibilità, a secondare il moto, e quali con protesta solenne, come
Messina; quali levandosi in aperta rivolta, come Girgenti, Noto,
Caltanissetta, Trapani; non conseguendo, è vero, in alcun luogo alcun
successo decisivo; ma dove scacciando o bloccando i piccoli presidii,
dove inviando la più belligera gioventù a ingrossare le squadre alla
campagna, dove organizzando, come a Trapani, le guardie nazionali,
persino col consenso dell’Intendente borbonico, alimentavano, se non
potevano afforzarlo, il fuoco dell’insurrezione, al quale mancava
bensì la forza di divampare in incendio struggitore, ma s’appiccava con
cento fiammelle in cento luoghi, molestando gli oppressori e facendo
testimonio della vitalità degli oppressi.

E Palermo stessa quantunque spopolata de’ suoi più animosi, dagli
arresti e dalle stragi e soffocata dallo stato d’assedio, e minacciata
dai Consigli di guerra permanenti, e tenuta d’occhio da ventimila
soldati e da una sterminata sbirraglia, non voleva permettere che i
Salzano ed i Maniscalco potessero impunemente spacciare nelle loro
gride: «la popolazione palermitana estranea ed indifferente al moto
sfortunato del 4 aprile;» talchè, a smentire l’artificiosa calunnia,
il 13 aprile versavasi tutta quanta nelle vie e nelle piazze a
testimoniare con migliaia di voci i suoi sentimenti d’odio al Borbone,
a gridare Italia e Vittorio Emanuele, a sfidare con ogni maniera di
scherni e di sfregi il superbo vincitore, il quale, sbalordito da tanta
solennità di manifestazione, nè osando inferocire contro una sì grande
moltitudine inerme, dovette rassegnarsi a patire in pace la fiera
disfida.

Ma superfluo il dire che proteste, manifestazioni, pronunciamenti a
nulla valevano, se o prima o poi non li seguiva o non li afforzava
una vittoria militare qualsiasi, che desse all’insurrezione un punto
d’appoggio ed una promessa di durata.

Disgraziatamente, nè le forze soverchianti dell’esercito regio, nè la
natura e lo stato delle squadre permettevano di sperare che il giorno
di quella vittoria fosse vicino.

Quel che fossero quelle squadre l’abbiamo detto altrove.[16] Un cento
di giovanotti, o come dicon là di _picciotti_, raccolti o condotti
dal signore della terra, o da qualche noto e stimato patriotta;
armati, quando lo erano tutti, della paesana _scopetta_; forniti al
più di tre o quattro cartuccie, tenute care come _onze_ d’oro; scalzi,
laceri, la maggior parte, ed affamati: ecco una squadra. Di siffatte
se ne potevano contare, è vero, alcune diecine, e non difettavano
certamente di alcune delle doti più preziose del soldato: il valore
ne’ combattimenti, la tolleranza delle fatiche, la pazienza delle
privazioni; ma la povertà d’armi e di munizioni, la inesperienza de’
condottieri, la dissuetudine della guerra, la mancanza di disciplina,
la perpetua mobilità, sicchè da un giorno all’altro sparivano o
ricomparivano, ingrossavano o si diradavano, senza che mai si potesse
far calcolo sulla loro forza precisa, ne sfruttavano la virtù e ne
isterilivano i sacrifici.

Però dopo aver tenuto altri sette giorni sulle alture circostanti
Palermo e conseguíto persino, in uno scontro alla Bagheria, di bloccar
nella loro caserma due compagnie di Regi, incalzati da ogni dove da
soverchianti colonne mobili, perduta Bagheria, cacciati da Gibilrossa,
minacciati da Monreale, alle bande non restò altro partito che
abbandonare quella linea troppo inoltrata e ritirarsi in Misilmeri,
dove le gole di Portella di Mare e di Belmonte potevano offrire un buon
baluardo ai difensori e un nuovo centro di riscossa all’insurrezione.

Se non che difettose le forze, povera l’arte e avversa la fortuna.
Scacciati tra il 12 e il 13 da Misilmeri (chi incolpa l’incuria delle
guardie, chi il tradimento de’ paesani, chi la sfortuna); fallito
un assalto di Sant’Anna contro Monreale; rovesciati poco dopo anche
dalle alture di Monte Cuccio; ecco gl’insorti costretti a cedere nuovo
terreno e a ripiegare su Piana de’ Greci, dove li conduceva la speranza
di potersi unire, appoggiando ad occidente, alle squadre del Sant’Anna,
che dopo l’infausto successo di Monreale andavano a lor volta
ritraendosi, ed erano venute a darsi la posta presso Carini. E a Carini
li aspettava una prova decisiva.

I Regi non avevano mai perduto la pista delle squadre, molto meno
di quella del Sant’Anna, e appena saputo del loro concentramento,
mossero in tre colonne: l’una pel mare a destra (generale Wytemback,
mille uomini), una per Baida al centro (duemila uomini, generale
Cataldo), una da Monreale a sinistra (mille uomini, colonnello Bosco),
col proposito di circuirle e di distruggerle. Se gl’insorti però
avessero deciso di concentrar la difesa in Carini occupandone la rôcca
e sbarrandone le vie, avrebbero potuto, se non ributtar l’assalto,
protrarre a lungo la resistenza; ma impietositi dalle strida degli
abitanti che non volevano una battaglia fra le loro case, scelsero
il partito di uscire all’aperto, e fu la loro rovina. Resistettero
tuttavia imperterriti al primo fuoco della colonna proveniente
dal mare; ma attaccati in breve di fronte e di fianco dalle altre
colonne, schiacciati dal numero, esauste le cartuccie non tardarono
ad esser vôlti in rotta precipitosa, abbandonando Carini al furore de’
vincitori, che ubriachi dalla facile vittoria vi si precipitano dentro,
saccheggiando, uccidendo, stuprando, consumandovi una di quelle immani
carneficine, onde il nome borbonico va famoso.

E coll’infausta giornata di Carini, l’insurrezione siciliana agonizzò.
Restavano qua e là dispersi sui monti alcuni frammenti di squadre;
ma traccheggiati da ogni parte, stremati di forze, privi di viveri
e di munizioni, sarà gran mercè se i più costanti fra loro potranno
trascinare di rupe in rupe una vita precaria, e se di quando in quando
la debole eco di qualche rara fucilata potrà annunciare ai Siciliani
che l’Isola loro non era ancor morta e combatteva sempre.


VII.

Al primo grido dell’insurrezione siciliana grande fu la commozione in
tutta Italia. I nemici per dispetto o paura, gli amici per affetto o
speranza, nessuno poteva riguardare con occhio freddo e non curante
un avvenimento, che apriva una via sì inaspettata all’interrotto moto
italiano. Però man mano che risuonava l’annunzio d’un nuovo fatto,
svisato, come accade, dalla lontananza e amplificato dal desiderio,
una la voce che usciva dai petti patriottici, uno il proposito: bisogna
aiutare i fratelli. E la magnanima idea, caldeggiata, prima che dagli
altri, dai fuorusciti così di Sicilia come di Napoli, accolta dalle
città più importanti, bandita dai Comitati e dalle rappresentanze
di tutti i partiti, acclamata colla passione dell’età dalla gioventù
più animosa, e finalmente già tradotta in un principio d’esecuzione
mediante pubbliche collette d’armi e di danari, divenne in breve il
convincimento, la volontà, diremmo quasi il decreto della nazione
intera.

Se non che s’affacciava a tutte le menti un’incognita, e susurrava
su tutte le bocche una domanda: Che cosa farà il generale Garibaldi?
Che cosa farà il conte di Cavour? Consentirà egli, l’Eroe, a recare
all’Isola combattente l’aiuto poderoso del suo braccio e del suo nome?
Vorrà egli, il Ministro, impegnare nella zarosa impresa la politica
del suo Governo, e dare egli stesso, o almeno permettere che si diano,
i soccorsi invocati? Quanto al Cavour, vedremo tra poco quel ch’egli
ne pensava: quanto a Garibaldi, ecco, sceverato dalle piacenterie
partigiane come dalle calunnie, l’animo suo.

Non era quella la prima volta che egli era invitato a capitanare
un’insurrezione siciliana. Anco senza rimontare più addietro,
glien’avevano scritto e parlato fin dal settembre del 1859 a Bologna;
gliel’avevano ripetuto nel marzo del 1860 a Genova; non c’era, può
dirsi, patriotta ed esule siciliano che accostandolo e portandogli un
saluto dai suoi concittadini, non gli annunziasse imminente una levata
della sua Isola, e non sollecitasse la promessa del suo soccorso.

Ma a tutti questi Garibaldi aveva sempre risposto: — «Non assumere
su di sè di promovere insurrezioni: se i Siciliani spontaneamente si
leveranno in armi, egli, se non sia impedito da altri doveri, accorrerà
in loro aiuto. — Frattanto, soggiungeva, risovvenitevi che il mio
programma è _Italia e Vittorio Emanuele_.[17]»

Era infatti un dir troppo e nulla; e i Siciliani ne sapevan quanto
prima. Gli è che Garibaldi non fu mai nè un iniziatore, nè un
cospiratore. Egli era, prima e sopra di ogni cosa, un soldato. Il
lavorío paziente, coperto, sedentario delle cospirazioni, non era fatto
per lui. Che gli si offrisse un terreno anche angusto, ma franco, e un
manipolo d’uomini anche inagguerriti, ma armati e pronti a marciare, ed
egli non misurerà il terreno, nè conterà gli uomini, e farà miracoli;
ma obbligarlo a prepararsi da sè nel chiuso d’un gabinetto, a forza di
lettere, di bollettini, di proclami, il campo, le armi e l’esercito,
era un pretendere ch’egli si snaturasse e non fosse più Garibaldi. Egli
non aveva la tempra mazziniana.

Utopista in tante altre cose, in fatto d’insurrezioni preparate era
un po’ scettico. Andare, come i Bandiera, i Pisacane, i Calvi, seguíto
da poche diecine d’uomini a suscitare per primo un paese sconosciuto,
inerme, addormentato nella pace, non fu mai affar suo. La sentenza
del Maestro: «Il martirio è una battaglia vinta,» lo capacitava fino
a un certo segno. Uomo di guerra, era pronto alla morte, ma a patto di
vender cara la vita; e quanto alla vittoria, non ne conosceva veramente
che una: quella in cui si atterra il nemico e si dorme sul campo. Per
questo nessuno de’ grandi tentativi rivoluzionari d’Italia fu iniziato
da lui; molto meno quello di Sicilia. Garibaldi non ambì mai la corona
del martire precursore, e non l’avrà.


VIII.

Tuttavia le notizie della Sicilia tornavano quella volta troppo gravi
ed insistenti perchè Garibaldi non dovesse impensierirsene. Il 7
aprile era a Torino, condottovi, come vedemmo, dall’interpellanza sulla
cessione di Nizza, quando si presentavano, quasi improvvisi, nella sua
stanza Francesco Crispi e Nino Bixio. Venivano entrambi da Genova;
avevan recenti novelle dell’insurrezione; chiedevano a nome degli
amici comuni, per l’onore della rivoluzione, per carità della povera
Isola, per la salute della patria intera, che Garibaldi si mettesse a
capo d’una spedizione d’armati e la conducesse egli stesso in Sicilia.
L’eroe sfavillò al magnanimo invito, ma il condottiero esitò; e quando
finalmente, vinto dalle pertinaci istanze de’ suoi amici, rispose
d’accettare, fece ancora una riserva: che la rivoluzione fosse tuttora
viva e tenesse fermo fino al suo arrivo.

Partirono paghi della risposta i due amici, e reduci a Genova si
accontarono tosto co’ più intimi della parte loro, con Agostino Bertani
principalmente, per la scelta e l’allestimento de’ mezzi. Occorreva
uno, e forse due piroscafi, e di questi si tolse l’assunto Nino Bixio;
occorrevano armi e danari, e per questi fidavano soprattutto nel
Comitato del _Milione di fucili_, fattura, a dir così, di Garibaldi,
che chiudeva già in cassa una discreta somma e nascondeva in certi
arsenali di Milano alcune migliaia di carabine colle rispettive
cartuccie.

Quanto poi a’ soldati, nessun timore che difettassero. Da mesi migliaia
di giovani non facevano che attendere un segnale; bastava che Garibaldi
mandasse una voce, facesse un cenno, perchè vedesse balzar dal suolo
legioni. E tuttavia, nel primo suo concetto, non era con un Corpo
irregolare e improvvisato di Volontari che la spedizione di Sicilia
avrebbe dovuto iniziarsi. Anco qui di sotto all’eroe traspariva il
capitano. Non che avesse perduto la fede nell’armi popolari, molto
meno ne’ suoi vecchi commilitoni; ma unico, forse, fra quanti lo
consigliavano, a giudicar con occhio esperto tutte le difficoltà
dell’impresa, non gli pareva troppo il tentarla con un’agguerrita e
ordinata milizia.

Però, cosa fin qui non risaputa, appena ebbe impegnata co’ Siciliani
la sua parola, Garibaldi presentossi al re Vittorio Emanuele, e
confidatogli tutto il disegno, gli chiese se avrebbe permesso ch’egli
si togliesse seco una delle brigate dell’esercito; precisamente la
brigata Reggio, un reggimento della quale era comandato dal Sacchi, e
contava così nelle file come ne’ quadri numerosi avanzi delle antiche
falangi garibaldine. E Vittorio Emanuele, il quale probabilmente non
aveva ancor consultato il conte di Cavour, nè ben ponderate tutte le
ragioni della domanda che gli era rivolta, non assentì, ma non dissentì
nemmeno apertamente; onde Garibaldi, chiamato con gran diligenza il
Sacchi e riferitogli il colloquio avuto col Re, fidando senz’altro
sulla devozione del suo più antico luogotenente di Montevideo, gli
disse di tenersi pronto a seguitarlo col suo reggimento. Esultò il
Sacchi; e tornato ad Alessandria e confidato il segreto a’ più intimi
suoi ufficiali, il Pellegrini, il Grioli, l’Isnardi, il Chiassi, il
Lombardi, n’ebbe da tutti la stessa risposta ch’egli aveva data a
Garibaldi. Se non che, era sogno troppo dorato. Scorsi pochi giorni,
Garibaldi richiamava a Torino il Sacchi, e gli annunziava che il
re Vittorio non solo negava il suo consenso al noto progetto, ma
raccomandava che l’esercito stesse più serrato e disciplinato che
mai, pronto a fronteggiare tutti gli eventuali nemici che gli stessi
avvenimenti del Mezzodì potevano suscitare.

E così fu che il posto assegnato, nella mente di Garibaldi alla brigata
Reggio, toccò ai Mille. Certo che quell’idea rasentava l’utopía; nè
era presumibile che Vittorio Emanuele, re prudente ed accorto se mai
ve ne fu, e conscio de’ suoi doveri costituzionali, avrebbe impegnato
la sua regia parola in un complotto che gettava il suo Stato novello
nell’ignoto d’un’avventura, ed equivaleva ad un’aperta dichiarazione di
guerra.

Valga piuttosto il fatto, quale sulla fede di non disputabile
testimonianza l’abbiamo narrato,[18] a chiarire sempre più in quale
confidente abbandono d’ogni più riposto loro pensiero vivessero a que’
giorni il Re Galantuomo e il Condottiero popolare, ed a riattestare
in faccia alla storia, se pur ve n’ha mestieri, quanto fosse grande la
complicità della Monarchia in quella congiura fortunata, che ebbe per
prologo Marsala e per lieta catastrofe l’unità nazionale.

E sia pur vero che quella complicità sia stata, in sulle prime
segnatamente, peritosa, ambigua, negativa: chiunque abbia senso delle
necessità d’uno Stato, e memoria de’ pericoli che attorniavano a que’
giorni l’Italia, intende che non poteva essere diversa. La rivoluzione
poteva azzardar tutto su una carta; la Monarchia no. L’alleanza
della Monarchia colla rivoluzione non poteva essere effettuabile e
fruttuosa che a due patti: che entrambe operassero a seconda della loro
natura, e che l’una non usurpasse le parti e non intralciasse l’azione
dell’altra. Un partito rivoluzionario che si fosse proposto procedere
coi riguardi, le cautele, gli scrupoli d’un governo costituito, si
sarebbe esausto nelle sterilità; un Governo che avesse voluto seguir
gli andamenti, imitare le audacie e affettare la irresponsabilità d’un
partito rivoluzionario, si sarebbe infranto contro la lega di tutti gli
altri governi costituiti, e avrebbe trascinato nella propria rovina la
causa stessa che voleva difendere. Era lecito a Garibaldi ed a’ suoi
tentare il magnanimo giuoco, poichè al postutto si arrischiavano bensì
molte vite preziose, ma non la patria tutta; il Governo del nuovo Regno
d’Italia, responsabile non solo dell’esistenza sua, ma dell’avvenire
della nazione intera, non poteva, senza abiura della sua stessa
missione, correre la medesima sorte.

Queste pertanto e non altre le ragioni della politica all’aspetto
obliqua, dubbiosa e talvolta bifronte del conte di Cavour alla vigilia
di Marsala. Il problema che per Garibaldi era semplicissimo, per lui
era terribilmente complesso ed aggrovigliato. Egli non poteva certo,
senza offendere il sentimento della universalità degl’Italiani, guardar
con occhio indifferente la sommossa siciliana, molto meno lasciarla
strozzare disperata d’ogni soccorso; ma non poteva nemmanco farsene
aperto campione, nè recare ostensibilmente un aiuto che avrebbe svelato
anzi tempo il fine ultimo della sua politica, e attirato sopra il
giovine Regno italiano la collera sino allora delusa e blandita di
tutta l’Europa conservatrice. Poteva però permettere che l’aiuto si
recasse, o fingere di non poter impedire che fosse recato; ma perchè
questa tattica, non grande per fermo, ma certo utilissima, sortisse
tutto il suo pieno effetto, gli era mestieri appunto di quell’arte
occulta, sottile, prestigiosa, lesta di mano e larga di coscienza che
offende le anime rettilinee e cavalleresche, e spiace in sulle prime ad
amici e nemici; ma vien poi sempre perdonata, tanto è umana essa pure,
in virtù dello scopo e in grazia del successo.

E così fece. Che il conte di Cavour avesse scorto fin da’ primi giorni
la grande importanza del moto siciliano, lo accerti questo solo: che
prima ancora di conoscere gl’intendimenti di Garibaldi, egli fece
chiedere al generale Ribotti[19] (quel medesimo che aveva comandato
i primi corpi volontari di Modena e di Parma), se, venendo il caso,
avrebbe consentito d’andare a capitanare anco gl’insorti di Sicilia.
Poscia ebbe egli pure, come li avrà più tardi Garibaldi, alcuni giorni
di dubbiezza e d’indecisione: le novelle di Sicilia non venivano
più così propizie; già correva voce che l’insurrezione agonizzasse
nei monti; e naturalmente l’uomo di Stato prima di dar un passo e di
scoprire i suoi intendimenti esitava.

Tuttavia, quando intese che la lotta nell’Isola persisteva e che
Garibaldi s’era impegnato a soccorrerla; quando udì intorno a sè gli
esuli di Napoli e di Sicilia preganti per la loro terra nativa; quando
vide tra i complici e i fautori dell’insurrezione i suoi stessi amici
e più fidati seguaci; quando s’accorse che il grido per la Sicilia
non era artificio d’un sol uomo o d’un sol partito, ma eco schietta
e profonda d’un sentimento dell’intera nazione; allora non vacillò
più, e concesse a’ soccorritori tutto quello che a governante di Stato
ordinato era lecito concedere: la balía di prepararsi, d’armarsi, di
salpare all’ombra del suo Governo e sotto l’egida del suo Re.[20]

Così quando il Comitato del _Milione di fucili_ fece intendere che le
armi raccolte a Milano dovevano essere trasportate a Genova, finse
di non saperlo; che se poi quell’armi furono negate e sequestrate,
l’autore del diniego e del sequestro è noto; una appunto di quelle
anime rettilinee e cavalleresche che non sapevano seguire la politica
molto curvilinea del conte di Cavour; nè intendere si «potesse avere
un rappresentante presso il Re di Napoli e mandar de’ fucili in
Sicilia.[21]»

Così quando tra il 18 e il 19 aprile Giuseppe La Masa si presentava al
conte di Cavour per chiedergli in nome de’ suoi compagni d’esiglio di
voler concedere alla insurrezione un aiuto un po’ più efficace della
semplice astensione e di risarcire almeno i fucili staggiti a Milano;
ecco il Conte fare un altro passo ancor più decisivo, e ordinare al
La Farina di somministrare a Garibaldi quante armi avesse disponibili
ne’ suoi depositi la Società nazionale. Che se poi quelle armi
parvero scarse e pessime, e furon date con avarizia e mala grazia, e
rinfacciate poi con acrimonia e superbia, la colpa ricade sull’uomo che
il Cavour s’era tolto a Ministro della sua politica segreta, un uomo
di nobile mente, di infaticabile e fervido patriottismo; ma invasato
di passione partigiana, infatuato nell’idea d’aver egli solo preparato
la spedizione siciliana, e morto col rancore male dissimulato[22] di
aver rappresentato sulla scena italiana una parte poco vistosa e poco
applaudita.

E così finalmente, quando la spedizione fu in procinto di partire,
inviava nelle acque di Sardegna l’ammiraglio Persano, coll’ordine di
catturare i volontari se toccavano qualche porto dell’Isola,_ ma di
lasciarli procedere nel loro camminino incontrandoli per mare_; ordine,
a dir vero, che non imponeva all’Ammiraglio alcuno sforzo straordinario
d’acume, nè alcuna prova singolare di coraggio per essere nel suo vero
senso interpetrato.[23]


IX.

Intanto Garibaldi, visitato nuovamente a Torino dal Crispi, dal Medici,
dal Finzi, dal Bertani, e presi con loro gli ultimi accordi, partiva
il giorno 20 aprile per Genova, e dalla casa del suo amico Coltelletti
passato tostamente nella Villa Spinola presso Quarto, offertagli
dall’altro suo amico Candido Augusto Vecchi, piantava colà il Quartier
generale della spedizione.

Questa infatti pareva irrevocabilmente deliberata. Il Bixio, cercato
indarno un bastimento che assumesse il viaggio periglioso, pel puro
noleggio, era riuscito più fortunatamente a persuadere Raffaele
Rubattino a lasciarsi rapire, con un simulacro di pirateria, e mercè la
sola malleveria della firma di Garibaldi, due de’ suoi piroscafi, e al
più era provveduto.

Le carabine di Milano si potevan dire perdute; ma i mille cinquecento
fucili e le cinque casse di munizioni, promessi dal La Farina, e
qualche diecina di carabine e di rivoltelle raccolte a Genova, parevan
bastare al bisogno. I danari penuriavano, ma si contava sulla cassa
del _Milione di fucili_ e intanto si suppliva alle prime spese con
ottomila lire mandate dai Pavesi e con qualche dono venuto a Garibaldi
da Montevideo.

La gioventù abbondava e passeggiava anche troppo rumorosamente le
strade di Genova: l’accordo infine tra i capi delle varie parti, o
meglio dire tra i membri dei varii Comitati patriottici (quello di
_Soccorso degli Esuli siciliani_; quello della _Società nazionale_;
quello del _Partito d’azione_), pareva più o meno affettuosamente
stabilito; e una voce già correva da Villa Spinola per tutte le fila
che la notte del 27 aprile si sarebbero salpate le àncore.

Se non che le Bande siciliane toccavano appunto in que’ giorni la rotta
di Carini; e un telegramma in cifra spedito da Malta da Nicola Fabrizi
a Francesco Crispi venne interpretato così:

                                            «Malta, 26 aprile 1860.

  Completo insuccesso nelle provincie e nella città di Palermo. Molti
  profughi raccolti dalle navi inglesi giunti in Malta.[24]»

Era quanto dire tutto finito; e se i più, gli esuli principalmente, non
potevano ancora confessarlo, Garibaldi, il quale fin da principio aveva
posto per condizione del suo soccorso la durata dell’insurrezione,
e si era mostrato più d’ogni altro impensierito della gravità del
cimento, appena udito l’infausto annunzio dichiarò che l’impresa era
ormai impossibile, e ne disdisse egli stesso gli apparecchi. Con quale
animo i principali attori e cooperatori della spedizione accogliessero
l’inattesa risoluzione del loro Capitano, non si potrebbe con una
sola parola ridire. I consigli e i propositi furono diversi secondo
i caratteri e i temperamenti, gl’interessi e le parti. Chi esclamava,
come il La Masa: Garibaldi non necessario, e lui essere sempre pronto
a prenderne il posto; chi sconsigliava severamente la spedizione
come il Sirtori, ma diceva: «se Garibaldi parte io lo seguo;» chi
la dava addirittura per fallita e se ne ritornava rassegnato a
Torino, come il La Farina; chi infine, come il Crispi, il Bertani,
il Bixio persistevano a crederla sempre effettuabile, e con questa
nobile ostinazione nell’animo si stringevano intorno al Generale,
scongiurandolo a non desistere dal magnanimo voto, a non privare quella
povera Isola combattente del poderoso soccorso della sua spada, a
pensare a tanta gioventù accorsa d’ogni dove per combattere o morire
con lui: a pensare all’Italia.

Generosi consigli, ma vani: Garibaldi ne’ solenni cimenti non li
prende mai che da sè stesso. Però ascoltava cortesemente tutti; ma
non dava risposta concludente e decisiva a veruno. Fin dall’arrivo di
quell’infausto telegramma aveva mutato d’aspetto. Fattosi anche più
pensoso e taciturno del consueto, andava solitario lungo la spiaggia
del mare e vi restava lunghe ore immobile, silenzioso, cogli occhi
fissi ad un punto dell’orizzonte, come se vi scorgesse tra le ultime
brume la immagine dolente e insanguinata della Sicilia, e ognuna di
quelle ondate che veniva a frangersi a’ suoi piedi gli portasse dal
deserto infinito il responso del suo destino.

Così era fatto Garibaldi! Il consiglio decisivo egli non lo chiedeva
più oramai ai sillogismi della ragione; ma lo aspettava da que’ moti
istintivi, da quelle ispirazioni inconscie, da quei presagi fatidici
che sono il sesto senso, la coscienza privilegiata, il Dio ignoto de’
poeti e degli eroi.

Però ripetiamo qui ciò che scrivemmo in altre pagine, per risposta ai
tanti che si vantarono d’avergli persuaso Marsala: nessuno lo persuase;
nessuno lo dissuase. Garibaldi non può essere misurato al metro comune,
e chi lo dimentichi rischierà quasi sempre di sbagliare la giusta
grandezza così delle sue colpe, come delle sue virtù. La Poesia,
fatidica interprete della storia umana, attribuì sempre ad una volontà
divina le gesta solenni degli eroi; e solo al celeste lume della Poesia
convien cercare la spiegazione suprema di Marsala. È l’Araldo di Giove
che strappa il Dardanide dai molli talami della Cartaginese, e gli
rammenta il grande fato di Roma; è l’Angiolo del Signore che scuote
in sogno il pio Goffredo e gli addita il Sepolcro di Cristo; son voci
arcane dall’alto che suscitan la Vergine di Domrémy e l’armano per il
riscatto della patria sua; e fu certo una gran voce echeggiata dentro
le profondità più ascose dell’anima sua, quella che troncò tutti i
contrasti, vinse tutte le dubbiezze di Garibaldi, e all’improvviso,
imperiosamente, inappellabilmente, come un cenno di Dio, gl’intimò
la partenza: «Partiamo,» disse il 1º maggio agli amici raccoltisi
ancora intorno a lui a iterare le preghiere e supplicare la risposta:
«Partiamo, ma purchè sia domani.» E domani non era possibile; ma quel
grido subitaneo d’impazienza, quella fretta quasi febbrile, dopo tanti
giorni d’indecisione, attesta una volta di più che l’eroe agiva oramai
sotto l’impero d’una volontà arcana, e che scendendo nell’arena egli
sentiva intorno a sè, come Achille e Rolando, l’egida d’una protezione
divina.


X.

La sera del 4 maggio Genova ferveva d’insolito moto. Le vie brulicavano
d’una folla straordinaria; capannelli di cittadini si componevano
e scomponevano rapidamente in tutti i canti, e la voce: «Partono
stanotte,» volava con accenti alterni di ansietà e di gioia su tutte
le labbra. Intanto drappelli di giovani, all’aspetto forastieri,
traversavano taciti e affrettati la città e si dirigevano tutti
insieme, come mossi da un solo pensiero, fuori di Porta Pila. Poche
ore dopo il Bixio, finto pirata, saltava con pochi seguaci a bordo del
_Piemonte_ e del _Lombardo_ (i due vapori concessi dal Rubattino) e
se ne impadroniva, e Garibaldi in camicia rossa e _puncio_ americano,
il sombrero sugli occhi, la sciabola sulle spalle, il _rewolver_
e il pugnale alla cintura, scendeva sul far della mezzanotte da
Villa Spinola alla spiaggia di Quarto, e colà attorniato tosto da’
suoi volontari giunti prima di lui al convegno, e tornato sereno e
quasi ilare, vi attendeva in placidi ragionari l’arrivo dei predati
bastimenti. Il Governo solo in tanto tramenío sembrava dormire
profondamente.

Era però succeduto un piccolo incaglio. L’operazione de’ bastimenti era
stata più lunga del supposto; la macchina del _Lombardo_ non funzionava
bene, talchè era stato mestieri che il _Piemonte_ se lo attaccasse alla
poppa e lo traesse a rimorchio; onde Garibaldi, dubitando di qualche
inatteso sinistro, fu preso subitamente da una tal quale impazienza,
e buttatosi in un canotto faceva vogare a forza di poppa verso Genova
per verificare co’ suoi occhi la causa dell’indugio. Fortunatamente
i bastimenti erano già in cammino; e Garibaldi balzato a bordo del
_Piemonte_ e preso da quel momento il governo della piccola flottiglia,
comandò egli stesso la manovra per accostar la spiaggia di Quarto.
Colà tutto era pronto: da Villa Spinola eran già stati calati i mille
fucili, non più, dati dal La Farina[25] (i viveri, le munizioni e
il resto dell’armi dovevano esser presi in mare); il Bertani aveva
già consegnato a Garibaldi trentamila franchi in oro, terzo della
somma offerta del _Milione di fucili_;[26] i Legionari «battevano
il piede sulla spiaggia, come il corsiero generoso impaziente delle
battaglie;[27]» e in brev’ora, senza strepito e senza disordine, tutto
fu imbarcato.

Già biancheggiava l’alba del 5 maggio: le camminiere fumavano; la
rotta era segnata; tutti gli ordini erano dati; il Bixio al comando del
_Lombardo_, il Castiglia a quello del _Piemonte_, non attendevano più
che il segnale; Garibaldi tuonò un sonoro: _Avanti_; le àncore furono
salpate; le ruote si scossero; le prue si drizzarono verso sirocco, e
in brev’ora le due navi non furono che due masse nere, sormontate da un
pennacchio grigio, sulla glauca conca del Golfo ligure.

_O nimis optato sæclorum tempore nati — Heroes salvete_.[28]» Voi
portate l’Italia e la sua fortuna; voi state per scrivere una delle
più stupende pagine del secolo nostro; voi apparecchiate alla patria
l’unità, alla poesia la leggenda, al valore latino una novella
apoteosi, e felici o sfortunati siete immortali. Però scegliere tra
voi la schiera de’ più eletti sarebbe ingiusto: vi accomuna la fede
nella virtù, vi uguaglia la religione del sacrificio, e Omero dovrebbe
scrivere il vostro eroico catalogo coll’intero Albo dei _Mille_.


XI.

Garibaldi non poteva cimentar sè e la causa d’Italia a sì perigliosa
avventura senza chiarire alla nazione ed al suo capo i propri
intendimenti e, soprattutto, senza stringere co’ suoi amici lasciati
sul Continente tutti gli accordi che valessero ad assicurargli alle
spalle una base d’operazione ed una fonte durevole di soccorso.

Al Re aveva scritto: non aver consigliato l’insurrezione dei Siciliani,
ma dacchè essi s’erano levati in nome dell’unità italiana non poter
più esitare a correre in loro aiuto. Sapeva la spedizione pericolosa,
ma confidava in Dio e nel valore de’ suoi compagni. «Suo grido sarebbe
sempre: Viva l’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele, suo primo e più
prode soldato. Non avergli comunicato il suo progetto, perchè temeva
che la grande devozione che nutriva per lui l’avesse persuaso ad
abbandonarlo.[29]»

All’esercito, memore della promessa fatta al Sacchi, raccomandava di
non sbandarsi, di sovvenirsi che anche nel Settentrione avevamo nemici
e fratelli, di stringersi sempre più ai suoi valorosi ufficiali ed a
quel Vittorio, la di cui bravura «può essere rallentata un momento da
pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà a condurli a definitivi
trionfi.[30]»

Finalmente ad Agostino Bertani, creato da lui suo proministro per tutta
Italia, lasciava questi amplissimi incarichi:

                                            «Genova, 5 maggio 1860.

      »Mio caro Bertani,

  »Spinto nuovamente sulla scena degli avvenimenti patrii, io lascio
  a voi gli incarichi seguenti:

  »Raccogliere quanti mezzi sarà possibile per coadiuvarci nella
  nostra impresa;

  »Procurare di far capire agl’Italiani, che, se saremo aiutati
  dovutamente, sarà fatta l’Italia in poco tempo, con poche spese;
  ma che non avranno fatto il dovere, quando si limitano a qualche
  sterile sottoscrizione;

  »Che l’Italia libera d’oggi, in luogo di centomila soldati deve
  armarne cinquecentomila, numero non certamente sproporzionato
  alla popolazione, e che tale proporzione di soldati l’hanno gli
  Stati vicini, che non hanno indipendenza da conquistare; con tale
  esercito l’Italia non avrà più bisogno di stranieri, che se la
  mangiano a poco a poco col pretesto di liberarla;

  »Che ovunque sono Italiani che combattono oppressori, là bisogna
  spingere tutti gli animosi e provvederli del necessario per il
  viaggio;

  »Che l’insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutarla,
  ma nell’Umbria, nelle Marche, nella Sabina, nel Napoletano, ec.,
  dovunque sono dei nemici da combattere.

  »Io non consigliai il moto della Sicilia, ma venuti alle mani quei
  nostri fratelli, ho creduto obbligo di aiutarli.

  »Il nostro grido di guerra sarà: _Italia e Vittorio Emanuele_;
  e spero che la bandiera italiana anche questa volta non riceverà
  sfregio.

  »Con affetto

                                   »vostro GIUSEPPE GARIBALDI.[31]»

E questo mandato troppo per sè solo vago e indeterminato, combinato
con altre lettere e discorsi di Garibaldi, diverrà poi il primo germe
maligno di dissidi che minacceranno più d’una volta di turbar la
concordia del partito nazionale e saranno origine di alcuni non lieti
episodi che avremo a narrare fra poco.

Se non che la fortuna parve fin dai primi passi corrucciarsi
dell’audace disfida, e suscitò ai navigatori una imprevista difficoltà.
Una parte delle armi, e tutte le munizioni erano state caricate sopra
due paranze, che dovevano aspettare con un fanale alla prua i due
vapori all’altezza di Bogliasco e in essi trasbordare il loro carico.
E difatti poco lontano dal punto indicato un fioco lume tremola sulle
acque e par che navighi esso pure verso i piroscafi; quando, a un
tratto che fu, che non fu,[32] il lume dà volta, s’allontana, dilegua,
lasciando tutta la costa nella silenziosa oscurità di prima. Indarno
Garibaldi fa rallentare le macchine, indarno fruga, quanto gira
l’occhio, la costa ed il mare; il mare e la costa non gli danno altra
risposta. Era una terribile verità: quella barca portava a bordo la più
necessaria parte dell’arsenale della spedizione; senza quella barca
anche quel migliaio di grami fucili del La Farina diventava affatto
inservibile; i Mille non erano più che una turba di viaggiatori inermi,
ed ogni altro capitano avrebbe giudicato la spedizione ineffettuabile
e deciso il ritorno. Non Garibaldi. Ordinato ai suoi Luogotenenti,
partecipi del segreto, di nascondere a chicchessia il contrattempo,
ormai fidente nella sua stella, e avendo probabilmente già trovato
nella fervida mente il rimedio del male: «Non importa, esclama,
facciamo rotta per il canale di Piombino;» e le due navi ripigliarono
all’istante l’interrotto cammino, e i Volontari, che s’erano tutti
levati a commentar quella sosta inattesa senza nulla capirne, tornarono
inconsci e tranquilli ad accucciarsi sul ponte, a spandersi nelle
cabine, a dondolarsi sui bordi; taluno a scriver le prime linee delle
sue Memorie; tal altro a battagliare, come Don Giovanni, tra i ricordi
della bella lasciata al paese, e gl’ingrati effetti del rollío e del
beccheggio.

Poichè v’era tutto un mondo su quel naviglio: la recluta ed il
veterano; l’avventuriere e l’eroe; l’artista ed il filosofo; il
settario ed il patriotta; il lafariniano intollerante ed il mazziniano
arrabbiato: «il Siciliano in cerca della patria, il poeta d’un romanzo,
l’innamorato dell’obblío, l’affamato di un pane, l’infelice della
morte: mille teste, mille cuori, mille vite diverse; ma la cui lega
purificata dalla santità dell’insegna, animata dalla volontà unica di
quel Capitano, formava una legione formidabile e quasi fatata.[33]»


XII.

Oltrepassato il Canale di Piombino la mattina del 7 maggio, la piccola
flottiglia andò a gettar l’ancora innanzi a Talamone, a breve tratto da
Porto Santo Stefano, a poche miglia da Capo Argentaro e dalla fortezza
d’Orbetello. Nè fu certo per riposarvi.

Parecchie potevano essere le ragioni di quella fermata, ma principale
fra tutte quella di cercare su quella costa solitaria, ma spesseggiante
di fortilizi e di arsenali terrestri e marittimi, un mezzo, un
espediente qualsiasi per risarcire la grave perdita delle munizioni,
o predate o smarrite colla paranza di Portofino. E però fu anche
questo il primo scopo, cui Garibaldi converse i suoi pensieri.
«Talamone (narra egli stesso) aveva un povero porto poveramente armato,
comandato da un ufficiale e da pochi veterani. I Mille avrebbero potuto
facilmente impadronirsene anche scalandolo; ma non sembrò conveniente,
e perchè si sarebbe fatto troppo chiasso, e perchè non si era certi di
trovarvi quanto abbisognava.»

Conveniva dunque fidare in qualche stratagemma, e Garibaldi, già, lo
sappiamo, non ne fu mai a corto.

Sovvenutosi d’aver seco nel poco bagaglio la sua uniforme da Generale
piemontese del 1859, appena sceso a terra la indossò, e fatto chiamare
a sè il vecchio Comandante di Talamone, gli fu facile ottenere da
lui, parte col prestigio del nome e l’affabilità de’ modi, parte
coll’autorità di quell’assisa, tutto quanto gli occorreva. Se non
che il Castellano era più volenteroso che ricco; nella sua vecchia
bicocca non v’erano più che pochi fucili arrugginiti e un’antiquata
colubrina; buoni pur quelli, pensò il Capitano de’ Mille, ma non
certo bastevoli alla sua grande miseria. Fortunatamente però il
Comandante di Talamone nel consegnargli que’ poveri rimasugli fece
intendere che le scorte di guerra di tutto quel tratto di costa
erano raccolte nel forte di Orbetello, e che colà certamente la
spedizione avrebbe trovato quanto le poteva occorrere. Bastò. Pochi
istanti dopo il colonnello Türr riceveva da Garibaldi l’incarico di
chiedere al Comandante d’Orbetello quante armi e munizioni aveva in
serbo ne’ suoi arsenali; e due ore dopo, munito di questo biglietto
di Garibaldi: — «Credete a tutto quanto vi dice il mio Aiutante di
campo, il colonnello Türr, ed aiutateci con tutti i vostri mezzi per
la spedizione che io intraprendo per la gloria del nostro re Vittorio
Emanuele e per la grandezza d’Italia;» — il Colonnello stesso si
presentava al maggiore Giorgini, tale era il nome del Comandante, e
gli esponeva l’oggetto del suo mandato. Il Giorgini in sulle prime,
sgomento della grave responsabilità cui andava incontro, ne rifuggì
apertamente; ma poi il Türr seppe tanto dire e fare e così destramente
dimostrargli l’impresa esser voluta dal Re, andarne della Sicilia non
solo, ma dell’Italia, ogni ritardo poter riuscire esiziale, infine
la responsabilità del concedere essere in quel caso un nulla al
paragone di quella del rifiutare, che il buon Giorgini, ascoltando
certo più le voci del patriottismo che quelle della rigida disciplina
militare, finì col darsi per vinto, e col concedere tutto quanto gli
era richiesto. Nè infatti quel giorno era ancora tramontato, che lo
stesso Giorgini conduceva a Garibaldi (tenersi dal vedere egli stesso
il magico eroe non avrebbe potuto) centomila cartocci, tre pezzi da
sei e milleduecento cariche, le quali, unite ai vecchi schioppi e alla
barocca colubrina di Talamone, compirono l’armamento ben degno di quei
Mille _pezzenti_ alla conquista di un regno.[34]

Ma di pari passo a questa, un’altra operazione, importantissima fra
tutte, era stata compiuta. La gente imbarcata a Quarto non era fino
allora che una turba informe e confusa; conveniva darle al più presto
una forma ed un aspetto militare. Però anche a questa bisogna poche ore
bastarono. Scesi a terra i Legionari, e passata una prima rassegna,
millesettantadue risposero all’appello. In seguito, divisa la gente
in nove compagnie, ed eletti: a Capo dello Stato Maggiore Giuseppe
Sirtori, del Quartier generale Stefano Türr, dell’Intendenza Giovanni
Acerbi, del Corpo sanitario il dottor Ripari; fu letto un Ordine del
giorno, nel quale, dopo aver stabilito che il corpo riprenderebbe
il nome di _Cacciatori delle Alpi_, e raccomandata l’abnegazione
e la disciplina, era proclamato che il suo grido sarebbe sempre
quello, rimbombato già sulle sponde del Ticino: _Italia e Vittorio
Emanuele_.[35] L’organizzazione poi, soggiungeva l’Ordine del giorno,
sarebbe stata «in tutto simile a quella dell’esercito italiano a cui
apparteniamo, ed i gradi, più che al privilegio, _sono dati_ al merito,
e sono gli stessi già coperti su altri campi di battaglia.[36]»

A questo solo però non s’eran fermate le cure di Garibaldi. Il pensiero
vagheggiato fin dai giorni della Cattolica di un’invasione nelle
provincie romane, egli l’aveva sepolto in fondo al cuore, ma deposto
non mai; e la riscossa siciliana non aveva fatto che ridestarlo e
richiamarlo a vita novella. Nella mente sua un concetto non escludeva
l’altro, anzi a vicenda s’integravano e insieme compievano quel disegno
d’insurrezione generale di tutta Italia, che era il suo eroico sogno,
e di cui i «cinquecentomila volontari e il milione di fucili» dovevano
essere i fattori e gli stromenti.

Poichè l’eroe aveva promesso il suo braccio ai Siciliani, e’ non
intendeva ritrarlo; ma pensava sempre che la Sicilia potesse essere
soccorsa in due modi: recandole un rinforzo d’armi e d’armati; e
suscitando nella restante Italia, rimasta schiava, segnatamente nelle
Marche, nell’Umbria e nel Napoletano, una vasta sommossa che mettesse
in fiamme tutta la Penisola, e finisse una buona volta, per dirla con
lui, «le nostre miserie di tanti secoli.» Da ciò le parole al Bertani
«che l’insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutarla, ma
dovunque sono nemici;» da ciò la lettera al Medici (Genova, 5 maggio
1860), nella quale consigliandolo a serbarsi per altre imprese ed a
fare ogni sforzo per inviare soccorsi di armi e di gente in Sicilia,
gli aggiungeva di fare «lo stesso nelle Marche e nell’Umbria, ove
presto sarà l’insurrezione, e dove presto conviene promuoverla a
tutta oltranza.[37]» Da ciò infine l’appello agl’Italiani bandito da
Talamone: «Che le Marche, l’Umbria, la Sabina, Roma, il Napoletano,
insorgano per dividere le forze de’ nostri nemici;» e quale ultimo
portato di quest’idea, quella diversione o spedizione nell’Umbria, che
fu detta di Talamone.

Di questo fatto inesattamente si scrisse, e male si giudicò fin
d’allora; ma alieni dall’occupare, con litigiose digressioni, il posto
sacro alla Storia, ci restringeremo a dire del fatto, quanto a noi
stessi, testimoni e attori involontari, consta in modo non discutibile,
nè confutabile.

Nella mattina stessa del 7 maggio, Garibaldi faceva chiamare nella
casa del Gonfaloniere, dove aveva posto il Quartier generale, il
colonnello Zambianchi e gli proponeva di mettersi a capo d’una schiera
di Cacciatori delle Alpi per tentare un’invasione nell’Umbria dal lato
di Orvieto. Gli avrebbe dato, diceva, armi e danari; l’affidava che a
poche miglia avrebbe trovato una colonna già in marcia di Livornesi che
s’unirebbe a lui; lo lusingava che una spedizione si stesse preparando
a Genova dal Cosenz e dal Medici, e ch’egli stesso, Garibaldi, potesse
comparire nell’Umbria e pigliare il comando dell’impresa.

E questo fu il primo capitale errore del Duce dei Mille. Lo Zambianchi,
colonnello nel 1849 de’ Gendarmi della Repubblica romana, aveva
lasciato dietro a sè una fama piuttosto di brutalità che di prodezza;
e non possedeva certo alcuna delle doti necessarie a governare una
siffatta impresa. Appunto perchè grosso di cervello, quanto spavaldo di
cuore, non si rese alcun conto della difficoltà e della responsabilità
del mandato, e l’accettò. Garibaldi gli diè facoltà di scegliersi, fra
i Mille, una schiera di cinquanta o sessanta volontari, gli assegnò
egli stesso due o tre ufficiali (buoni, diceva il Generale), i quali,
indarno supplicato di non essere staccati dai camerata coi quali
eran partiti, ma non volendo in quell’ora solenne dar l’esempio d’una
indisciplinatezza, si rassegnarono al sacrificio; gli pose nelle mani
sessanta buone carabine, quaranta _revolver_ e seimila franchi; gli
consegnò un Manifesto da bandirsi ai Romani, e un foglio d’Istruzioni
tutto di suo pugno e lo mandò con Dio.

Il Manifesto già noto diceva:

      «Romani!

  »Domani voi udrete dai preti di Lamoricière che alcuni _Mussulmani_
  hanno invaso il vostro terreno. Ebbene, questi _Mussulmani_ sono
  gli stessi che si batterono per l’Italia a Montevideo, a Roma, in
  Lombardia! quelli stessi che voi ricorderete ai vostri figli con
  orgoglio, quando giunga il giorno che la doppia tirannía dello
  straniero e del prete vi lasci la libertà del ricordo!

  »Quelli stessi che piegarono un momento davanti ai soldati
  agguerriti e numerosi di Buonaparte, ma piegarono colla fronte
  rivolta al nemico, ma col giuramento di tornare alla pugna, e con
  quello di non lasciare ai loro figli altro legato, altra eredità
  che quella dell’odio all’oppressore ed ai vili!

  »Sì, questi miei compagni combattevano fuori delle vostre mura,
  accanto a Manara, Melara, Masina, Daverio, Peralta, Panizzi,
  Ramorino, Mameli, Montaldi, e tanti vostri prodi che dormono presso
  alle vostre catacombe, ed ai quali voi stessi deste sepoltura,
  perchè _feriti per davanti_.

  »I vostri nemici sono astuti e potenti, ma noi marciamo sulla terra
  degli Scevola, degli Orazii e dei Ferrucci; la nostra causa è la
  causa di tutti gl’Italiani. Il nostro grido di guerra è lo stesso
  che risuonò a Varese ed a Como: _Italia e Vittorio Emanuele!_ e
  voi sapete che con noi, caduti o vincenti, sarà illeso l’onore
  italiano.

                                                      »G. GARIBALDI

                            »Generale romano promosso da un Governo
                                  eletto dal suffragio universale.»

Le Istruzioni, ignorate sino ad ora e che per la prima volta si
pubblicano, aggiungevano:[38]

                 _Istruzioni al comandante Zambianchi._

  «1º Il comandante Zambianchi invaderà il territorio pontificio
  colle forze ai suoi ordini, ostilizzando le truppe straniere
  mercenarie di quel Governo antinazionale con tutti i mezzi
  possibili.

  »2º Egli susciterà all’insurrezione tutte quelle schiave
  popolazioni contro l’immorale Governo, e procurerà ogni modo
  per attrarre con lui tutti i soldati italiani che si trovano al
  servizio del Papa.

  »3º Egli, campione della causa santa italiana, reprimerà qualunque
  atto di vandalismo col maggior rigore, e procurerà di farsi amare
  dalle popolazioni.

  »4º Chiederà, come è giusto, dai Municipi ogni cosa, di cui possa
  aver bisogno in nome della Patria, che compenserà alla fine della
  guerra ogni spesa sopportata da particolari e Comuni.

  »5º Egli propagherà l’insurrezione dovunque negli Stati del Papa
  ed in quelli del Re di Napoli, evitando, per quanto è possibile, di
  percorrere gli Stati italiani del re Vittorio Emanuele, il nome del
  quale e d’Italia saranno il grido di guerra d’ogni Italiano.

  »6º Eviterà più che possibile d’accettare soldati dell’esercito
  nostro regolare, anzi raccomanderà a questi di non abbandonare le
  loro bandiere, e che non tarderà il loro turno in combattimenti
  maggiori.

  »7º Trovandosi con altri corpi italiani nostri, procurerà di
  accordarsi circa le operazioni. Se alla testa di quei corpi
  si trovassero i brigadieri Cosenz o Medici, egli si porrà
  immediatamente ai suoi ordini, e se vi fosse guerra tra Vittorio
  Emanuele e i tiranni meridionali, allora si porrebbe agli ordini
  del comando superiore del Re o chi per lui.

                                          »(_Firmato_) G. GARIBALDI

     »Generale del Governo di Roma, eletto dal suffragio universale
                                        e con poteri straordinari.»

Ora come Garibaldi potesse dar per cosa quasi certa la prossima
entrata del Cosenz e del Medici[39] nelle provincie romane, e molto
più come potesse credere che l’esercito regio li avrebbe o preceduti
o spalleggiati, è problema che forse Garibaldi stesso non saprebbe
risolvere; uno dei tanti enigmi di cui tutte le congiure son piene, e
quella del risorgimento italiano è riboccante.

Comunque, lo Zambianchi, radunata la sua piccola schiera, la sera
stessa del 7 maggio spiccò la marcia verso Fontebranda, e incontrata la
mattina vegnente la colonna promessagli de’ Livornesi,[40] continuò,
attraverso tutta la Maremma grossetana, senza mai incontrare su
suoi passi l’ombra d’un ostacolo. Soccorso dai Municipi di viveri,
di vesti, e talvolta, come a Scansano, di armi; non molestato dalle
Autorità governative, e spesso segretamente secondato, arrivò dopo
dodici giorni di viaggio agiato e tranquillo a Pitigliano sul confine
della provincia orvietana. Colà ospitato, mantenuto, al solito,
festeggiato dagli abitanti, sostò comodamente altri tre giorni; e tra
il 20 e il 21 sconfinò. I troppi saggi di volgarità e d’imperizia dati
dallo Zambianchi non consentivano più alcuna illusione sull’esito
finale dell’impresa, e i pochi che nelle file ragionavano ancora,
lo prevedevano e ne tremavano. Ma che fare? Non avrebbero potuto
denunciare l’inettitudine del Comandante senza taccia di sediziosi;
non sottrarsi al destino de’ loro camerata senza taccia di disertori, e
convenne loro rassegnarsi, tacere e marciare sino alla fine. Infatti,
giunti alle grotte di San Lorenzo, tra Valentano e Acquapendente, la
catastrofe, preveduta, precipitò. Il Colonnello, disposti a rovescio
gli avamposti e trascurate le più elementari norme di cautela militare,
aveva lasciato i volontari disperdersi tra le case e le cantine,
dove col dolce vin di Orvieto gli abitanti medesimi li attiravano;
e abbandonatosi egli stesso a copiose libazioni, era caduto, briaco
fradicio, in pesantissimo sonno.

Intanto, scorsa poco più d’un’ora, uno squadrone di Gendarmi,
condotti da quello stesso colonnello Pimodan che lasciò poi la vita
a Castelfidardo, entrava di sorpresa nel villaggio e lo traversava
ventre a terra in tutta la sua lunghezza. Se non che non tutti erano
venuti a patti coll’_Orvietano_: una mano di valorosi oppose da un
caffè una disperata resistenza; al rumore della zuffa accorrono via via
i più vicini e i meno assonnati: la pugna si accende alla spicciolata
in più luoghi: una barricata improvvisata dinanzi al caffè sbarra la
via ai cavalli nemici; una scarica bene aggiustata, penetrando nei
loro fianchi, ne abbatte alcuni, e sgomina gli altri; e in men di
due ore gli assalitori sono costretti a dar volta precipitosamente,
lasciando dietro a sè non pochi feriti e prigionieri. I Garibaldini
dunque non furono sconfitti, siccome i Pontificii spacciarono e molti
ripeterono:[41] essi restarono padroni del terreno; essi stettero
ancora accampati sul territorio pontificio circa tre ore, e soltanto al
calar della sera in ordine minaccioso, trascinando seco lo Zambianchi
più come un ostaggio che come un capitano, ripassarono il confine a
Sovano, dove il Governo di Ricasoli, che quindici giorni prima li aveva
lasciati armare de’ suoi fucili, li disarmò.

E così nacque, procedette e finì la spedizione delle Grotte. Commessa
a forze inadeguate, guidata da capo imbelle ed inetto, tentata in ora
inopportuna fra popolazioni intorpidite ed avverse, essa doveva fallire
al suo fine; ma se non fu vittoriosa nel suo campo, non ne recesse
nemmeno disonorata; e fruttò almeno un’utile diversione all’impresa
siciliana,[42] tenne incerti e confusi più giorni i governi nemici
d’Italia sui veri passi di Garibaldi e agevolò, col sacrificio di
sessanta dei Mille, la vittoria de’ loro compagni.


XIII.

I Cacciatori delle Alpi erano già tornati a bordo; i cannoni di
Talamone già imbarcati; i vapori passati nella mattina dell’8 dal
Porto di Talamone in quel vicino di Santo Stefano, vi prendevano
il resto delle provvigioni da guerra e da bocca, e nel pomeriggio
del giorno stesso il naviglio sferrava nuovamente con mare placido
alla volta di Sicilia. E per due giorni e due notti nessun accidente
notevole. Sulla prua del _Piemonte_ erano stati posti in batteria la
colubrina e sul casseretto della sua poppa il cannone da quattro; i
Legionari pigliavano le armi e le munizioni: l’Orsini, nominato capo
dell’Artiglieria, piantava in un camerino un laboratorio pirotecnico;
c’era un po’ di maretta e qualche volontario pagava il tributo; ma nel
rimanente tutto andava a seconda. Soltanto a una cert’ora del giorno:
«Un uomo, un uomo in mare,» si udì gridare a prua del _Piemonte_; ed
infatti un volontario, chi disse caduto per caso, chi buttatosi per
accesso subitaneo di pazzia, dal bastimento, compariva e scompariva
sull’onde, sì che fu mestieri che il _Piemonte_ sciasse e mettesse
in acqua una lancia per pescare, non si seppe mai di certo, se il
naufrago o il suicida. Episodio insignificante, e che certo avremmo
taciuto, se Garibaldi, combinando insieme il ritardo cagionato da quel
salvataggio col perditempo occorsogli per la paranza delle munizioni
e colla conseguitane deviazione per Talamone, non avesse tratto da
tutti quegl’indugi la conseguenza che essi, anzichè nuocere, giovarono
provvidenzialmente all’impresa; sia continuando l’incertezza del nemico
sulla vera rotta dei due piroscafi, sia facendo in guisa che essi
arrivassero allo scoperto di Marettimo proprio nel momento, in cui la
crociera borbonica lasciava i paraggi di Marsala e correva a levante
verso Capo San Marco.

Garibaldi invece non nota nemmen di sfuggita altro più grave caso
avvenutogli tra la notte del 10 e 11 maggio, e che per poco non cagionò
un cozzo rovinoso fra i due legni fratelli. Infatti era accaduto che
il _Lombardo_, filando due nodi meno del _Piemonte_, aveva perduto
tanta strada sul suo compagno, che al calar della notte era scomparso
affatto dalla sua vista. Era un grave inconveniente tanto più che nelle
tenebre il viaggiar di conserva diveniva indispensabile. Garibaldi
però decide di aspettare lo smarrito; ma poichè era già nelle acque
di Marettimo e poco lunge probabilmente dalla crociera nemica, così
aveva fatto spegnere a bordo tutti i fanali e intimato il più rigoroso
silenzio. Ma il _Lombardo_, che intanto aveva fatto strada, «giunto a
poche miglia da Marettimo vide a un tratto davanti a sè una massa nera,
immobile con tutto l’aspetto d’un nemico in agguato. Chi può essere,
che cosa può volere a quell’ora in quelle acque un bastimento a vapore
senza lumi, senza segnali, senza voci? Però è già da un quarto d’ora
che Bixio è fisso con tutti i sensi su quell’inerte e cieco fantasma;
ma più guarda, più ascolta e più il legno s’avanza e più gli cresce
nell’animo il sospetto, che sin dal primo istante gli era balenato.
Certo è una fregata nemica alla posta della preda. Che fare? Che fare?
Bisogna risolvere, e presto, finchè ne avanza il tempo. Madido di
freddo sudore, tremante di rabbia, ma coll’animo sacrato ad ogni più
mortale cimento, il Bixio ha deciso. Si rammenta che Garibaldi fin da
Genova gli mormorò all’orecchio: — Bixio, se mai.... all’arembaggio,
— e credendo giunta l’ora di eseguire l’ordine del suo Generale, urla
al macchinista di spingere a tutta forza, al pilota di drizzar la prua
sul supposto incrociatore, e sveglia con un disperato ululo d’allarmi
tutto il bastimento. In un baleno la voce corre che si è caduti nella
crociera borbonica; i volontari, che dormivano sicuri, si svegliano in
sussulto, danno di piglio alle armi, si schierano instintivamente lungo
i parapetti, si preparano a combattere contro chi, perchè, come, non
lo sanno; ripetendo macchinalmente quella parola _all’arembaggio_, che
molti non sanno nemmeno che cosa voglia dire, che i più, capaci appena
di tenersi ritti su un bastimento, non avrebbero nemmen saputo come si
tenti. Ma hanno fede in Bixio, e la disperazione opera l’usato effetto
di dar valore anche ai più imbelli.

»E Bixio, dal canto suo, continua a camminare in tutta furia
sull’immaginario nemico, che immobile sempre pare che l’attenda e lo
sfidi. A un tratto una voce sonora, piena, calda come un bramito,
parte dal legno misterioso e rompe la silenziosa tenebra del mare:
— Oh capitano Bixiooo! — Garibaldi! — scoppia in una voce sola il
_Lombardo_. E Bixio già curvo all’estrema punta di prua per esser primo
all’assalto, tremante ancora del disperato passo che era per dare,
tremante anche più per l’irreparabile disastro che stava per cagionare,
Bixio trova tuttavia la forza di rispondere:

» — Generale!

» — Ma cosa fate, volete mandarci a fondo?

» — Generale, non vedevo più i segnali.

» — Eh! non vedete che siamo in mezzo alla crociera nemica?... Faremo
rotta per Marsala.

» — Va bene, Generale.[43]»

Marsala infatti era il punto che fin dalla sera del 10 era stato scelto
per lo sbarco. In sulle prime Garibaldi aveva titubato tra Porto Palo
e Sciacca; ma poi un esame più diligente della costa e degli andamenti
della crociera, e soprattutto i consigli pratici d’un bravo pescatore
trovato nelle vicinanze di Marettimo, lo indussero a preferire, fra
quei tre punti, il primo. Sciacca infatti era troppo lontano; Porto
Palo non aveva pescaggio sufficiente; mentre Marsala, oltre alla bontà
dell’ancoraggio ed all’abbondanza di battelli da sbarco, offriva questo
importantissimo vantaggio, che navigando tra Marettimo e Favignana vi
si poteva accostar più facilmente al coperto e trovarvi men pericoloso
l’approdo.

Oltre a ciò, spiando Garibaldi nella sera del 10 le mosse dei legni
borbonici, li aveva veduti incamminarsi placidamente verso scirocco
e levante, sicchè n’aveva argomentato che, quand’anche al suo uscire
dall’Arcipelago delle Egadi fosse stato subito scoperto, egli si
trovava però sempre assai più vicino a Marsala che gli incrociatori,
quindi nella possibilità di afferrarvi molto prima che al nemico fosse
bastato il tempo di traversargli il passo.

Tutto ciò ben ponderato e considerato, le navi corrono per la rotta
indicata; scivolano tra Marettimo e Favignana, e girato il Capo della
Provvidenza, mai come in quell’istante meritevole del suo nome, ecco
apparire dalla cima dell’Erice alla punta del Lilibeo tutta la costa
siciliana, e tra breve, entro una cerchia di mura merlate le bianche
case di Marsala, il _Porto d’Alì_.[44]

Se non che quasi nel punto medesimo emersero alla vista, ancorate
innanzi a Marsala stessa, due grosse navi. Erano, senza tema d’inganno,
navi da guerra; ma di qual bandiera, con quali propositi? Un gran
silenzio si fa a bordo. Tutti gli occhi son fissi sui due legni
sospetti; il dubbio d’essere incapati nella crociera nemica accende
la fantasia de’ più inesperti, e fa battere i cuori de’ più intrepidi;
sullo stesso volto di Garibaldi passa una nube. Quando uno _schooner_
inglese, che veniva facendo la rotta opposta al nostro naviglio,
risponde al capitano Castiglia, che l’aveva interrogato, nella lingua
sua: _They are two vassel of the british squadron_. — «Son due legni
della squadra britannica.» — Un respiro allarga tutti i petti: le
macchine sono spinte a tutta forza; l’onda fugge sotto le rapide
ruote; l’ambito lido si disegna: _crebrescunt optatæ aures portusque
potescit_; giù verso scirocco tre incrociatori nemici, richiamati dai
telegrafi ottici della costa, rimontano col massimo della loro velocità
verso i legni ribelli, ma è ormai troppo tardi: il _Piemonte_, già
sorpassata la punta del molo, infila il porto; il _Lombardo_, sforzando
la vaporiera fin ad investire la costa, lo segue a breve tratto; e al
tocco dell’11 maggio 1860, i novelli Argonauti afferrano gloriosamente
la lor Colchide agognata.

Nè l’opera dello sbarco fu tardata un istante: numerose barche, quali
prese a forza,[45] quali volontarie, s’affollano intorno alle due
navi, e prima ancora che i legni nemici, sempre accorrenti a tutto
vapore, sian giunti a tiro de’ loro cannoni, il grosso della truppa,
delle armi, delle provvigioni è già trasportato a terra. Anche gli
incrociatori però ebbero tempo di sopraggiungere, e lo _Stromboli_,
lasciata la Partenope che si trascinava al rimorchio, per nulla
_impedito_, come fu novellato,[46] dai legni inglesi, rimastisi
neutrali, veniva a postarsi traverso, cominciando tosto a fulminare
l’acqua, i bastimenti, le barche, la rada, il molo, di furiose e
disordinate bordate.

Vano rumore! Spreco impotente di polvere e di ferro! Ogni colpo, fosse
la fretta, l’imperizia o la trepidazione de’ tiratori, muore nell’acqua
o passa innocuo per l’aria, e le _Camicie rosse_ sfilano in perfetta
ordinanza fino alla città, salutando di viva, di motteggi, di risate la
vana mitraglia.

La prima prova era vinta. Otto secoli prima,[47] i Normanni di Ruggiero
sbarcavano in Sicilia a fondarvi sullo sfacelo della dominazione
mussulmana una monarchia cristiana, ma feudale; ora altri Normanni
guidati da un eroe, non men famoso del nipote di Tancredi, scendevano
nella medesima Isola non più conquistatori, ma liberatori, a fondarvi
una monarchia civile e redentrice, pietra angolare dell’Unità d’Italia.


XIV.

      «Siciliani!

  »Io vi ho guidato una schiera di prodi accorsi all’eroico grido
  della Sicilia — resto delle battaglie lombarde. — Noi siamo con voi
  — e noi non chiediamo altro che la liberazione della vostra terra.
  — Tutti uniti, l’opera sarà facile e breve. — All’armi dunque;
  chi non impugna un’arma, è un codardo o un traditore della patria.
  Non vale il pretesto della mancanza d’armi. Noi avremo fucili, ma
  per ora un’arma qualunque ci basta, impugnata dalla destra d’un
  valoroso. I Municipi provvederanno ai bimbi, alle donne ed ai
  vecchi derelitti. — All’armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora
  una volta come si libera un paese dagli oppressori, colla potente
  volontà d’un popolo unito.

                                                    »G. GARIBALDI.»

Con queste parole annunziava ai Siciliani la sua calata nell’Isola,
e il gagliardo appello diffuso prestamente da mani fidate in tutte le
terre circostanti, correva come caldo soffio sulle ceneri semispente
della rivoluzione, e ne sprigionava una vampa novella.

Intanto però una cosa urgeva: marciare avanti al più presto. Marsala
tanto propizia all’approdo, non lo era del pari alla dimora. Confinata
in un angolo estremo dell’Isola, segregata dai maggiori centri
dell’insurrezione, esposta ad essere circuita in brev’ora così dalla
terra come dal mare, ogni buona cagione politica e militare consigliava
a levarne senza indugio le tende.

Oltre a ciò Garibaldi aveva compreso che, se v’era impresa in cui
confidarsi alla celerità delle mosse, era quella; e provetto di
quell’arte, fu risoluto di usarla da par suo. Comandò quindi che alla
prima alba dell’indomani fosse suonato a raccolta e tutta la Colonna
pronta alla partenza. Non aveva ancora fermo in mente alcun disegno
preciso; ma vedeva però già chiara questa necessità: camminare diviato,
per la più retta, su Palermo, salvo a prender più tardi consiglio dai
casi e dalle fortune. Ora la via più retta era quella appunto che da
Marsala va per Salemi, Alcamo, Partinico, Monreale, e che correndo fra
due altre strade conducenti con giri più tortuosi al medesimo scopo,
gli lasciava aperto il campo a quei volteggiamenti ed a quelle finte,
di cui era maestro.

Con questa semplice idea nella mente, la mattina del 12 fece dare
nelle trombe. Nessuna marcia di esercito potente e vittorioso fu più
allegra, come la prima di que’ poveri Mille, cui poteva attendere tra
poco l’ultimo sterminio. Gli è che per essi il solo esser sbarcati
su quella terra, era già una conquista, e il passeggiarla co’ loro
piedi un trionfo. Alla lor testa camminava Garibaldi stesso. A Marsala
erano stati presi alcuni cavalli, e il Generale aveva ricevuto in
dono un’eccellente puledra; tuttavia dopo averla montata per breve
tratto fuori della città, ne era sceso per marciare a piedi co’ suoi
commilitoni e dividere con essi la fatica gioconda di quella prima
tappa. E i Mille seguivano, alacri e giulivi quali mai non erano
stati, ballando, avreste detto, più che camminando, burlandosi della
canicola, non avvertendo la sete, cantando in dieci dialetti diversi le
loro vecchie canzoni di guerra; osservando, paragonando, illustrando
più come una brigata di viaggiatori artisti che come una colonna
di soldati, gli spettacoli dell’insolita natura; apostrofando ogni
Siciliano, e più, s’intende, ogni Siciliana, che incontrassero per
via, di cui ammiravano e commentavano, secondo i gusti, il vernacolo
melodioso, i grand’occhi neri, la tinta olivigna, i fieri aspetti de’
maschi, la selvaggia bellezza delle donne, l’orrendo sfacelo delle
vecchie, la innocente nudità dei bambini.

Così la Colonna era giunta a Rampagallo, feudo di un barone Mistretta,
a mezza via tra Marsala e Salemi, e colà fu ordinato il _grand’alto_.
Se non che, considerato l’ora tarda, la stanchezza già incipiente della
truppa, l’inopportunità di arrivare in Salemi di notte, la scarsezza
di notizie del paese circostante, Garibaldi deliberò di fermarsi nel
luogo stesso dove era giunto e di pernottarvi. E fu a Rampagallo
che cominciarono a comparire i primi segni di quella insurrezione
siciliana, di cui sino allora, a dir vero, eran corse più le novelle
che apparse le prove. Infatti i due fratelli Sant’Anna e il barone
Mocarta, che campeggiavano coi resti delle bande del Carini sui
monti del Trapanese, appena udito lo sbarco del Liberatore, si erano
affrettati, con una mano dei loro, sulle sue traccie, e raggiuntolo
al bivacco di Rampagallo gli si eran presentati. Non eran più di
cinquanta; coperti la più parte di pelli di caprone, e armati di
vecchie scoppette e di pistole arrugginite; ma se Garibaldi avesse
veduto arrivargli il soccorso d’un intero esercito, non sarebbe stato
più radiante. Questi abbracciava, a quelli stringeva la mano, per tutti
trovava qualcuna di quelle sue maliarde parole, di quelle sue note
carezzevoli, di quei suoi sorrisi fascinatori che furono dovunque,
ma saranno principalmente fra i Siciliani, il maggior segreto del suo
trionfo.

Occupato pertanto il rimanente della giornata a riordinare la Legione,
che fu ripartita in otto compagnie e due battaglioni ai comandi del
Bixio e del Carini, e ad organizzare coi marinai del Piemonte e del
Lombardo una compagnia di cannonieri; la mattina appresso la Colonna
riparte per Salemi, e dopo una marcia alquanto più faticosa della
precedente, in sulle prime ore del meriggio vi arrivò. E colà i Mille
cominciarono ad avere una prima idea delle ovazioni siciliane. Intanto
che da tutti i campanili della città le campane volavano a gloria,
una turba di popolo, accompagnato da una musica, moveva incontro ai
liberatori, dando loro un primo saggio di quel pittoresco linguaggio
tutto meridionale, fatto insieme di mimica e di suoni, più dipinto,
direste, che parlato e che nei momenti delle grandi ebbrezze scoppia
in un tumulto bacchico di urla selvaggie, di gesti vertiginosi, di
contorsioni quasi epilettiche, che ora direste un’eco lontana delle
orgie dionisiache, ora vi dà l’immagine d’un ballo di Dervisch urlanti
e danzanti al suono della _darbouka_, testimonianza a tutti sensibile
che una ricca vena di sangue greco ed arabo scorre sempre sotto le
carni infocate del Siculo nativo.

«Quando poi giunse il Generale (scrive uno dei Mille),[48] fu proprio
un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che
braccia alzate e armi brandite; chi giurava, chi s’inginocchiava, chi
benediceva; la piazza, le vie, i vicoli erano stipati, ci volle del
bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente e
lieto, salutava e aspettava sorridendo.»

Entrato in città, dato quel resto di giornata al riposo, ed alla
pulizia della sua truppa, raccolto il Consiglio de’ suoi maggiori
Luogotenenti e dei capi delle Deputazioni inviategli a fargli omaggio,
emanava due solennissimi decreti. Coll’uno assumeva, per la volontà
dei principali cittadini e dei liberi Comuni della Sicilia, e in nome
di Vittorio Emanuele re d’Italia, la Dittatura; coll’altro bandiva
la leva in massa di tutti gli uomini atti alle armi dai diciassette
ai cinquant’anni, partendoli in tre classi di milizie: attiva,
distrettuale e comunale, ordinamento che più tardi l’Italia crederà
di apprendere dagli eserciti germanici, e le era antico e naturale.
Che se quel secondo decreto, infrangendosi contro l’inveterata
dissuetudine de’ Siciliani da ogni milizia obbligatoria, restò lettera
morta, non affrettiamoci per questo a giudicarlo, come parve a taluno,
sragionevole ed improvvido. Poteva essere, quanto a’ modi ed al tempo,
meglio elaborato ed apparecchiato; ma quanto al concetto attestava,
per dirlo con uno storico,[49] «della mente del Dittatore» e fa il
suo miglior elogio. Garibaldi aveva compreso quant’altri che primo
fondamento all’impresa d’Italia era una grande, stabile ed ordinata
milizia. Che se più tardi fu costretto dalla necessità d’una guerra,
che non permetteva tregua, a combattere con bande tumultuarie ed
eserciti improvvisati, egli può gloriarsi d’aver saputo vincere con
quelli, non essere accusato di non aver saputo ordinarne di migliori.
E non vogliamo accusare nemmeno la Sicilia. Educata dalla funesta
signoria borbonica a non vedere nelle milizie stanziali che gli
stromenti della sua oppressione, era naturale che essa non discernesse
subitamente la differenza che correva tra un pretoriano della tirannide
e il difensore d’una libera patria, e si spiega senza colpa d’alcuno,
fuorchè della triste eredità del passato, come essa non intendesse
il grande diritto che il suo Liberatore le conferiva, chiamandola
all’adempimento di quel supremo dovere.

A modo suo però, conforme le sue forze e il suo costume, la Sicilia
aveva risposto all’appello. La rivoluzione si rianimava. Se le città
ferreamente compresse da forti presidii non ardivano ancora rialzar
la testa; le campagne, specialmente nelle provincie più occidentali
dell’Isola, cominciavano a riscuotersi; e se altro non potevano,
allargavano intorno alla Colonna liberatrice il terreno, su cui vivere
e combattere. Il La Masa, popolarissimo in Sicilia pei ricordi del 48,
inviato a sommuovere i distretti di Santa Ninfa e Partanna, correva
quelle terre annunziando Garibaldi, rovesciando e istituendo governi,
fugando i birri borbonici, raccogliendo i primi nuclei di quelle nuove
bande che tra poco egli stesso comanderà.

Una banda di circa seicento, comandata da Giuseppe Coppola, era già
calata dai ricoveri di Monte San Giuliano, e fin dalla sera del 13
arrivata a Salemi per offrire il suo braccio al Dittatore; un’altra
squadra di un centinaio, la conduceva il giorno seguente quel frate
Pantaleo, divenuto per brev’ora famoso, incontrato dai Mille presso a
Rampagallo, che era ben lunge dal meritare il titolo di «novello Ugo
Bassi,» da Garibaldi conferitogli; ma che però in quel momento colla
simpatica figura, la scorrevole parlantina, il carattere non per anco
sconsacrato e il bizzarro accoppiamento della cocolla e della camicia
rossa, giovava ad apostolare quegl’ingenui Isolani ed a persuadere loro
che Garibaldi non era quel Saracino che era stato loro dipinto, e che
egli veniva non a spiantar la croce, ma a rassodarne nella giustizia e
nella libertà il santo stelo.

Da lontano poi arrivavano non meno promettenti novelle. Rosolino Pilo
(riuscito finalmente, dopo lunghe peripezie, ad unirsi agli insorti)
teneva sempre con una mano di prodi le alture di San Martino nei
dintorni di Monreale; e formava da quel lato un’estrema avanguardia
utilissima; nel contado di Ventimiglia, di Ciminna, di Misilmeri, il
La Porta, il Firmaturi, il Piediscalzi, il Paternostro, battevano
ancora la montagna; infine, cosa nuova per Garibaldi e per vero
significantissima, il Clero faceva quasi dovunque causa comune colla
rivolta; anzi in molti luoghi ne era il principale istigatore e
condottiero egli stesso; tanto profondo, universale, superiore ad ogni
precetto di rassegnazione e ad ogni legge di perdono, era l’odio del
nome borbonico.

E fu sotto l’impressione di quello spettacolo che Garibaldi bandì da
Salemi stesso quel suo proclama ai «buoni preti» (un arguto disse:
«Sarebbe stato meglio dire, _ai preti buoni_»), nel quale, «consolatosi
che la vera religione di Cristo non fosse perduta,» li incoraggiava
a perseverare nella loro santa crociata, «fino alla totale cacciata
dello straniero dal suolo d’Italia.» E non solo tentava affezionarsi
quei buoni preti coi proclami; ma li cercava, li voleva d’attorno,
li festeggiava, li seguiva nelle loro chiese, s’inginocchiava ai loro
altari; azioni codeste che in tutt’altri che Garibaldi si potrebbero
dire volgari furberíe politiche; ma che in lui erano una riprova, un
documento di più che una sola fede dominava veramente nel suo spirito:
la patria; e che chiunque gli paresse disposto a dargli mano per
redimerla, Papa o Re, zoccolante o soldato, angelo o demone, egli era
pronto a celebrarlo, e, se occorreva, ad adorarlo.


XV.

Il Governo borbonico conosceva fin da’ primi suoi apparecchi la
spedizione garibaldina; ma pur movendone qualche lagno al Governo
sardo, l’aveva superbamente disprezzata, credendo che la sua crociera
sarebbe bastata a colarla a fondo. Quando invece la vide sbarcar
felicemente sotto gli occhi delle sue fregate, non potendo più negare
il fatto, si provò a svisarlo, dipingendo gli sbarcati come una
mano di filibustieri, annunciando come una vittoria la cattura de’
loro bastimenti, già abbandonati, consolandosi colla illusione che
li avrebbe tutti esterminati, se non fosse stato l’impedimento de’
due legni inglesi. Finalmente quando i filibustieri presero terra, e
malgrado i telegrammi de’ suoi Luogotenenti che li davano per distrutti
e annichilati, li vide avanzare e ingrossare più vivi e baldanzosi
che mai, allora scosse il letargo, e intanto che la sua Diplomazia
protestava contro la perfidia del Gabinetto piemontese ed empiva di lai
tutte le Corti dell’Europa; dava ordine a Palermo di inviare contro
gl’invasori il nerbo delle sue truppe migliori, e di schiacciarli
rapidamente in un sol colpo.

Per effetto di questi ordini, una colonna di tremila fanti, cento
cavalli e quattro pezzi di artiglieria, agli ordini del generale
Landi, marciava tosto per Partinico ed Alcamo alla volta di Salemi;
mentre altre truppe navigavano per Trapani o salivano da Girgenti col
proposito di mettere i filibustieri tra due fuochi e toglier loro ogni
scampo.

Come però il Landi fu giunto, in sul pomeriggio del 14, a Calatafimi,
vista la gagliardía del sito, deliberò di appostarvisi e di aspettare
a quel varco inevitabile il nemico. Nè la postura, dato il concetto
di una difensiva, poteva essere migliore. Essa offriva in un punto
il doppio vantaggio tattico e strategico. Calatafimi, vecchia città
saracena, giace sul dorso di un colle, dal quale mediante un’agevole
sella se ne spicca un altro che serve quasi di spalla al primo, e
scendendo a terrazze, degradanti fino ad un’aperta e brulla pianura,
domina le due strade di Palermo e di Trapani, e come un bastione
bifronte la serra. Tutto quel luogo porta ancora il funebre nome di
_Pianto de’ Romani_, in memoria della rotta inflitta dagli Egestani
al console Appio Claudio, nel 263 avanti Cristo, ed ora attende che un
altro pianto lo ribattezzi _Pianto de’ tiranni._

Un cozzo adunque appariva inevitabile; tuttavia il Capitano de’
Mille, non sperando di poter espugnare colle scarse sue forze quella
formidabile altura, fermò da principio di tenersi in sulla difensiva
sulle colline di Vita, provandosi, se gli riusciva, di tirar il nemico
al piano per combatterlo quivi con maggior probabilità di fortuna.

Concepito pertanto questo disegno, stese in catena i Carabinieri
genovesi, sostenuti da una compagnia del Carini, coll’ordine di non
rispondere al fuoco nemico che assai da vicino, e assaliti da presso,
di ripiegare scaramucciando; pose al centro il restante del battaglione
del Carini; tenne in riserva quello del Bixio; lasciò l’Artiglieria
sulla strada; spinse sulle estreme alture di destra e di sinistra le
squadre siciliane dei Sant’Anna e del Coppola, e stette a sua volta ad
aspettare.

Intanto verso le 10 del mattino anche la Colonna garibaldina era giunta
a Vita a un’ora incirca da Calatafimi, e pochi istanti dopo le Guide
del Missori, spinte innanzi ad esplorare, riportavano d’aver scoperto
su per quelle cime il luccicare delle baionette nemiche. All’annunzio
Garibaldi spronò avanti per riconoscere egli pure il nemico, e vide
chiaramente che fitte colonne di Napoletani uscivano da Calatafimi per
coronare il colle vicino e scaglionarvisi in battaglia. Nel frattempo
però anche la catena dei Cacciatori borbonici era già discesa verso
le falde del monte, e di là, colle sue eccellenti carabine rigate
bersagliando la nostra avanguardia, aveva cominciato a farle patire
qualche perdita. Per alcuni istanti i bravi Genovesi si ricordarono
dell’ordine ricevuto e ressero, pazienti ed inerti, ai molesti saluti;
ma poi, a poco a poco infastiditi e irritati, principiarono a ribattere
colpo per colpo, fino a che, infocandosi l’azione, si gettarono a testa
bassa, traverso la nuda vallata, contro l’inimico.

Non era quella l’intenzione di Garibaldi; però scrive egli stesso:
«Chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul
nemico? Invano le trombe toccarono: _Alto!_ I nostri o non le udirono
o fecero i sordi, e portarono a baionettate l’avanguardia nemica
sino a mischiarla col grosso delle forze borboniche che coronavano le
alture.[50]»

Allora il Generale vide che non c’era più tempo da perdere, o «perduto
sarebbe stato quel pugno di prodi,» e ordinò una carica generale di
tutte le sue forze. Il Bixio da sinistra, le rimanenti compagnie da
destra; i Carabinieri, le Guide, lo Stato maggiore, Garibaldi stesso,
s’avventano a baionetta calata sulla catena borbonica; traversano
senza balenare un istante l’arsa pianura tempestata dalla moschettería
e dalla mitraglia nemica; e nel solo tempo richiesto al tragitto,
sforzano il nemico a riparare sulle prime falde del monte. Era il
prologo della battaglia; ma il dramma e la catastrofe eran lontani,
in alto, molto in alto, là sulla cima di quel monte che il nemico
occupava, e per giungere alla quale era mestieri salire per sette
ardui scaglioni, custoditi da forti battaglioni squisitamente armati
e da quattro bocche d’artiglieria, e ai quali que’ poveri Mille non
potevano opporre che le punte arrugginite delle loro baionette, il loro
ardimento e i loro petti.

Lo vide Garibaldi, ma intendendo che la vittoria era a quel patto,
e che in quel giorno, su quel monte, si decidevano le sorti della
Sicilia, deliberò di tentare il cimento.

Concesso pertanto un po’ di riposo a’ suoi Legionari; prescritto lo
stesso ordine di battaglia; avvisate le bande di appoggiare dalle
loro cime il movimento; fece dar nuovamente nelle trombe, e si slanciò
contro il primo scaglione. Era il tocco e mezzo! incominciava allora la
vera battaglia.


XVI.

Noi non presumiamo descriverla. In siffatti combattimenti, dove tutta
l’arte riducesi a chi primo avanza o retrocede, e tutto lo spettacolo
in un succedersi alternato di assalti e di fughe, di singolari certami
e di epiche mischie, lo storico militare non ha più voce; la tavolozza
d’un Meissonier, la fantasia d’un Victor Hugo dovrebbero parlare per
lui.

«Ad ogni terrazza una scarica, una corsa fremebonda sotto la mitraglia
nemica, una mischia rapida, muta, disperata, un momento di riposo a’
piedi della terrazza conquistata, e daccapo un’altra scarica, un’altra
corsa, un’altra mischia, altri prodigi di valore, altro nobile sangue
che gronda, altri Italiani che uccidono Italiani;[51]» finchè viene
un punto, in cui il coraggio avendo ragione del numero, e la costanza
della morte, il nemico, scacciato da altura in altura, abbandona il
campo: ecco Calatafimi.

Svariati, invece, e mirabili gli episodi del valore personale. Qua
il Bixio che urla, tempesta, fiammeggia, galoppa contra il nemico
colla furia del Telamonio; là il Sirtori, montato su uno squallido
cavalluccio, tutto vestito di nero, abbottonato fino al mento come
un quacquero, che s’avanza in mezzo alla mischia, lento, impassibile,
melanconico, più somigliante ad un sacerdote che benedica que’ bravi,
o all’apostolo che cerchi il martirio, anzichè ad un soldato; mentre
poco lunge, a render più vivo il contrasto, «un frate francescano
caricava un trombone con manate di palle e di pietre, si arrampicava
e scaricava a rovina.[52]» Altrove Deodato Schiaffino, da Camogli,
leonardesca figura di Genovese, più biondo di Garibaldi, ma più alto
e tarchiato di lui, presa in mano una piccola bandiera, s’avventa,
seguito dal Menotti, dall’Elia e da altri pochi nel fitto de’
battaglioni napoletani; ma ad un tratto eccolo spalancare le braccia,
abbandonare la bandiera e stramazzare crivellato il largo petto da una
scarica intera, fra una cerchia di nemici. A quella vista il Menotti si
precipita per ricuperare la bandiera e vendicar l’amico; ma una palla
gli fracassa la destra, e lo costringe a sua volta a lasciare al nemico
la contrastata insegna; preda male decantata dai Regi, poichè quella
pretesa bandiera non era che un umile cencio tricolore improvvisato da
qualche gregario, e di cui lo Schiaffino s’era fatto in quel momento
dell’assalto volontario alfiere. Incontrastabile invece, glorioso
il trofeo del cannone da montagna, centro per parecchi minuti d’una
zuffa accanita, strappato finalmente ai Regi a prezzo delle vite più
preziose.

E girando per il campo avreste incontrato ancora, ora il Bandi di
Siena, grondante da più ferite; ora il Majocchi di Milano, fracassato
un braccio; ora l’elegante Missori, l’occhio livido da una sassata;
e qua e là stesi a terra, placidi, composti, colla faccia vòlta al
nemico, il Sartori di Sacile, morto; il Pagani di Borgomanero, morto;
il Montanari, veterano di Montevideo e di Roma, morto.

E non parliamo di Garibaldi. In quella pugna, dove il Capitano
s’identificava all’eroe, egli era gigante. A piedi colla sciabola
inguainata sopra una spalla, il mantello ripiegato sull’altra,
inerpicandosi su per que’ greppi coll’agilità d’un montanaro e l’ardore
d’un gregario; gridando di quando in quando uno squillante _Avanti_,
che echeggiava nel petto dei Mille come un clangore di trombe;
incoraggiando con amorose parole i feriti che trovava per via; pagando
d’un sorriso i forti e invitandoli a riposarsi, egli seguiva, sereno,
imperturbato, infaticabile, tutte le peripezíe della pugna; ed ora
partecipandovi, ora dominandola, attento a tutti i casi, esposto a
tutti i pericoli, e pronto a tutti i consigli, ne era davvero, per la
sola sua presenza, l’anima invisibile e il Genio tutelare.

Finchè egli era vivo, la speranza viveva; lui morto, tutto era perduto.
E lo sentivano i suoi Mille; lo sentivan così quelli che da lontano
vedevano sparire e ricomparire nella zuffa il suo mantello grigio,
come quelli che l’attorniavano e gli facevano scudo de’ loro corpi;
l’aveva sentito il suo Bixio che fin dai primi assalti lo scongiurava a
ritirarsi, per amor d’Italia; l’aveva sentito l’Elia, quando al vederlo
preso di mira da un Cacciatore regio balzava davanti a lui e riceveva
egli nella bocca la ferita quasi mortale, destinata forse al cuore del
suo Generale.

Ma egli un’altra cosa anche più grande sentiva: che in quel giorno, su
quel monte, bisognava vincere o morire; e che qual si fosse la sorte,
egli doveva correrla tutta coll’ultimo de’ suoi. E fu anche quella
l’idea salvatrice della battaglia. A un certo punto, dopo il secondo o
il terzo assalto, affranti, sfiniti gli assalitori; sempre rinnovati,
sempre più forti gli assaliti; parendo ormai impossibile la vittoria,
e disperata la giornata, il Bixio stesso s’arrischiò a susurrargli:
«Generale, temo che bisognerà ritirarsi.» — «Ma che dite mai, Bixio!»
rispose, sereno e solenne, Garibaldi: «Qua si muore.» Sul campo
d’Hastings, la Calatafimi normanna, Guglielmo il conquistatore gridava
a’ suoi: «Qui fuira sera mort, qui se battra bien sera sauvé.[53]»
Garibaldi esprimeva con diverse parole lo stesso pensiero; il pensiero
di tutti i grandi Capitani,[54] il pensiero vincitore di tutte le
battaglie: la più difficile delle vittorie appartiene sempre ai più
costanti.

E l’ultimo sforzo della loro costanza i Mille non l’avevano fatto
ancora. Sei terrazze erano conquistate, restava la settima. I nostri,
decimati dalle perdite, dalla stanchezza, dal diradamento naturale
che avviene su tutti i campi di battaglia, eran ridotti a poco più che
tre o quattro centinaia; ma restava pur sempre quell’ultima terrazza,
ed era forza espugnarla. «Ancora quest’assalto, figliuoli (disse loro
Garibaldi), e sarà l’ultimo. Pochi minuti di riposo; poi tutti insieme
alla carica.»

E quel pugno d’uomini, trafelato, pesto, insanguinato, sfinito da tre
ore di corsa e di lotta, trovata ancora in quelle maliarde parole
la forza di risollevarsi e tenersi in piedi, riprese, come gli era
ordinato, la sua ascesa micidiale; rigando ancora ogni palmo dell’erta
terribile d’altro nobile sangue; scrollando ancora senza vacillare il
nembo infocato della moschettería nemica; risoluto all’estremo cimento,
risoluto all’ecatombe. Ma come l’eroe aveva preveduto, la fortuna
fu coi costanti. Incalzati nuovamente di fronte da quel branco di
indemoniati che pareva uscissero di sotterra, sgomenti dall’improvviso
rombo dei nostri cannoni che il bravo Orsini era finalmente riuscito a
portare in linea, turbati dal clamore crescente delle squadre sui loro
fianchi, i Borbonici disperano di vincere, e voltate per la settima
volta le spalle, abbandonano il monte combattuto e non s’arrestano più
che dentro Calatafimi.

Il miracolo era compiuto; la giornata era vinta; e all’indomani
Garibaldi stesso lo annunciava ai suoi Mille, da Calatafimi già vuota
di nemici, con quest’Ordine del giorno:

  «Con compagni del vostro valore posso tentare qualunque impresa, e
  ve lo mostrai ieri conducendovi ad una vittoria, ad onta del numero
  dei nemici ed attraverso le loro forti posizioni. Feci un giusto
  conto delle nostre baionette ben taglienti, e vedete che non mi
  sono ingannato.

  »Mentre deploro la triste necessità di dover combattere contro
  soldati italiani, debbo nullameno confessare di aver trovato una
  resistenza degna di una causa migliore. E tal fatto ci mostra
  quello che noi potremmo operare nel giorno, nel quale l’intiera
  famiglia italiana si radunerà intorno la gloriosa bandiera della
  redenzione.

  »Domani la Terraferma italiana sarà tutta in festa per celebrare la
  vittoria dei suoi figli liberi e dei nostri valorosi Siciliani.

  »Le vostre madri e le vostre amanti cammineranno per le strade alta
  la testa e con la faccia ridente, superbe di voi.

  »Il combattimento ci ha costato molti cari fratelli che cadevano
  nelle prime file. Nei fasti della gloria italiana risplenderanno
  eternamente i nomi di questi martiri della nostra santa causa.

  »Paleserò al vostro paese i nomi dei bravi che con sommo valore
  conducevano alla lotta i soldati i più giovani, i più inesperti, e
  che domani li guideranno alla vittoria sopra un campo più ampio;
  essi sono destinati a rompere gli ultimi anelli delle catene che
  tengono avvinta la nostra cara Italia.

                                              »GIUSEPPE GARIBALDI.»

Nel qual Manifesto però noteremo noi pure con uno storico,[55] che
tanto erano dovuti gli elogi ai vincitori, quanto immeritati quelli
dispensati ai vinti. Magnificare il valore de’ nemici per accrescere
la gloria del proprio esercito è antico costume d’ogni Capitano,
e Garibaldi fece ottimamente ad imitarlo; ma contro alla sentenza
dettata dalla generosità o dalla convenienza, la verità storica tosto
o tardi protesta e pronuncia in appello. Non è vero che la resistenza
dei Napoletani a Calatafimi sia stata degna d’una causa migliore.
Militarmente parlando, essa non fu degna d’alcuna causa. Combattere
al sicuro, trincerati su posizioni quasi inespugnabili; accogliere gli
assalitori finchè eran lontani con furiosi fuochi di fila nutriti colla
precisione d’una piazza d’arme, ma appena che il ferro delle baionette
garibaldine balenava sui loro occhi, ripiegarsi sopra una posizione
più alta, e poscia sempre, colla stessa tattica, sopra una seconda,
una terza, una quarta fino all’ultima, ecco tutto il valore, ecco la
tattica loro. Non un contrassalto energico, non una diversione ardita,
non una mossa qualsiasi che potesse far costar cara la vittoria agli
avversari, e meritare il nome, a quella ininterrotta ritirata, di vera
resistenza.

Nè con ciò vogliamo dire che ai vinti mancasse ogni prodezza: erano
Italiani essi pure, e ci graverebbe il confessarlo, se anche fosse
vero. Ma non è: i soldati sono dal più al meno uguali in tutti gli
eserciti del mondo; quello che li fa diversi, è il diverso valore
degli ufficiali, de’ generali principalmente; è sopra ogni cosa il
diverso grado di quella forza morale, prodotta insieme dall’indole,
dalle tradizioni, dalla educazione, dal paese, dall’essenza della causa
difesa, e dal color della bandiera drappellata, e che si chiama spirito
militare. Ora diciamolo qui per non averlo a ridire mai più; ciò che
mancava all’esercito borbonico erano appunto quelle siffatte doti, che
sole potevan renderlo eccellente. Generali che non videro mai un campo
di battaglia; ufficiali invecchiati nelle caserme, impigriti nelle
guarnigioni, carichi di famiglia, schiavi del pane, senz’altra fede
che la carriera, senz’altra speranza che la pensione; soldati, infine,
cresciuti in una lunga tradizione di violenza e di servitù, serbati
alternamente agli uffici di scaccini e di sgherri d’una dinastia feroce
e bacchettona, e condannati alle parti di pretoriani del più abbietto
fra i dispotismi, non daranno mai la vita per il loro Re e pel loro
Paese; non vinceranno mai una battaglia; non salveranno mai nemmeno
l’onore; fuggiranno come i Napoletani a Calatafimi, o capitoleranno
come i Lanza, i Briganti, i Ghio, a Palermo, a San Giovanni, a Soveria,
trascinando nella immeritata vergogna anche lo stuolo eletto dei
valorosi.

Però quanto la sentenza di Garibaldi: «La vittoria di Calatafimi fu
incontestabilmente decisiva per la Campagna del 1860» è contestabile
nel rigoroso senso militare, altrettanto ne sembra vera e indiscutibile
nel senso morale. Dal giorno di Calatafimi la superiorità della camicia
rossa sul cappotto bigio fu inconcussamente stabilita. D’ora in avanti
ogni Garibaldino sapeva che, vinta alla baionetta una posizione,
nessuno tornava più a contrastargliela; mentre ogni soldato borbonico
era certo che, appena si trovava petto a petto con un Garibaldino,
toccava a lui a cedere, e i suoi stessi ufficiali sarebbero stati
i primi a comandargli la ritirata. E poichè la fede della vittoria
nell’uno corrispondeva esattamente alla certezza della sconfitta
dell’altro, così la ragione del numero, l’unica che ancora militasse
pei Regi, non aveva più valore, e non contava più che ad ingrossare
le torme dei fuggenti, dei disertori e dei prigionieri: miserabile
ingombro ai vincitori.


XVII.

«Aiuto e pronto aiuto,» aveva scritto a Palermo, la sera stessa
del 15, il general Landi; ma poi temendo che assai più dell’aiuto
degli amici, fosse pronta una nuova visita dei nemici, alla prima
alba del 16, in grandissima fretta, con raddoppiate cautele, diede
le spalle anche a Calatafimi, e per la strada d’Alcamo e Partinico
s’incamminava alla volta di Palermo. La sua partenza però ebbe ben
presto più somiglianza di fuga che di ritirata. I Mille, spossati
dalla cruenta fatica della vigilia, non avevan potuto inseguirlo; ma
quello che essi tralasciarono, lo compierono i paesani. Gli abitanti
di Partinico, infatti (fierissimi fra i Siciliani), esaltati dalle
novelle di Calatafimi, s’erano accordati con alcuni sbrancati delle
squadre di appostarsi fuori della città e al primo apparire della
schiera aborrita piombarle addosso e finirla. Il disegno era temerario,
e il successo prevedibile. I battaglioni regi ebbero presto ragione
di quei contadini quasi inermi, e chi pagò per tutti fu la povera
Partinico, che, abbandonata dallo stesso general Landi al ferro ed
al fuoco, patì per tre ore tutti i flagelli del furore soldatesco.
Ma il sangue frutta sangue; e appena il grosso della colonna nemica
fu sfilata, guai agli sbandati, guai ai feriti, guai ai tardigradi! I
Partinichesi sbucano dalle case ancora crepitanti dal recente incendio,
tornano dai campi, ridiscendono dai monti dove li aveva dispersi il
terrore, e avventandosi colla voluttà d’un lungo odio che si disseta
su quanti Borbonici cadono loro fra le mani, ne fanno orrendo macello.
Nè soltanto sui vivi infuriò la immane vendetta, i cadaveri stessi
non ottennero perdono; e due giorni dopo i Mille passando per di là
videro ammucchiati nei fossati cataste di corpi borbonici arrostiti,
e strascinati per le vie, putrido pasto a’ cani, frammenti d’ossa e
lacerti di carni umane.[56]


XVIII.

Intanto anche Garibaldi s’era rimesso in cammino. Scritto a Rosolino
Pilo per annunziargli la vittoria del 15 e «la speranza di rivederlo
presto;[57]» inviato nuovamente il La Masa[58] a far nuova gente nei
distretti di Misilmeri e di Corleone; spediti messaggi sul Continente
per annunziare la vittoria, e chieder soccorsi d’armi e munizioni;[59]
il 17 di buon mattino riprese la marcia per Alcamo, dove,
festeggiandosi l’Assunta, fu dal Pantaleo condotto in chiesa a ricevere
la benedizione; il 18 continuò per Partinico; il 19 infine salì per
Borgetto al Passo di Renna, d’onde s’offerse agli sguardi attoniti de’
Mille tutto lo splendido panorama della Conca d’Oro, e in quella gloria
di cielo e di mare, Palermo.

Colà però era mestieri arrestarsi: Ercole era al bivio: qualunque passo
fuori di quella gola di Renna poteva essere decisivo. Appunto perchè
la mèta appariva sì attraente e sì prossima, tanto più conveniva non
lasciarsene ammaliare e guardarsi da tutti gli agguati che potevano
circondarla. Molte erano le vie che conducevano a Palermo; ma non
era per anco dimostrato che la più breve e la più diretta fosse la
più sicura. Nulla di più ovvio a primo tratto che scender rapidi da
Renna, calar improvvisi su Monreale, e di là, ripetendo le cariche
di Calatafimi, entrare, commisti al fiotto de’ nemici sgominati,
nell’agognata città; ma chi assicurava che la tattica eroica sarebbe
sempre la più fortunata, e non fosse invece da saggio e accorto
Capitano scemare colla prudenza e coll’arte le difficoltà d’un cimento
che poteva essere decisivo?

Questo il problema; e il solo avere ordinato quella sosta di Renna,
dimostra che Garibaldi ne aveva presentito fin dalla prima tutta la
gravità. Però non gli occorse gran tempo a risolverlo. Un rapido esame
delle posizioni nemiche, un’occhiata alla carta ed al terreno l’avevano
già fatto accorto di questi due fatti: che i Borbonici appostati
a Monreale lo aspettavano da quella banda, sicchè ogni speranza di
sorpresa dileguava; e che prendendo quella strada, all’aspetto più
corta, egli andava a chiudersi in una specie di angiporto, nel quale,
perduta una battaglia, tutto sarebbe perduto.

Era evidente infatti che, se il colpo di mano su Palermo falliva,
i Mille venivano a trovarsi rinserrati tra il mare da un lato ed
i forti presidii di Palermo e di Trapani dall’altro, senza alcuna
possibilità di scampo e di salvezza veruna. Ora Garibaldi non era uomo
da cadere in siffatto errore; e prontamente risolvendo come prontamente
aveva giudicato, abbandonava ogni pensiero d’assalire Palermo dal
lato occidentale, e deliberava di tentarla dal lato di mezzogiorno,
trasportandosi celeremente a cavaliere delle due strade di Piana de’
Greci e di Misilmeri, e manovrando su quello scacchiere. Ad effettuare
però l’ardito disegno una condizione era indispensabile: che il nemico
non avesse sentore della sua marcia di fianco, e perdurasse fino
all’ultimo istante nell’inganno che egli mirasse sempre ad attaccare la
capitale dalla banda di Monreale, scendendovi direttamente dal campo di
Renna. Necessario perciò mascherare di molte finte e accorgimenti la
mossa vera; al che Garibaldi si apprestò con tutta l’arte, di cui era
maestro.

Mandato avviso a Rosolino Pilo di accendere molti fuochi, e di simulare
grandi movimenti sulla sua montagna affine di attirare sempre più da
quel lato l’attenzione del nemico, ogni cosa predisposta in Renna per
la levata del campo, scende egli stesso a capo d’una forte ricognizione
fino al villaggio di Pioppo, col duplice fine di scoprire più davvicino
gli andamenti dei Regi, e di ribadirgli nella mente ch’egli meditasse
sempre di tentar Palermo per quella via. E ci riesce. I Borbonici,
colti al grosso zimbello, escono a loro volta da Monreale ad affrontare
il temerario nemico; le due avanguardie si scontrano, barattano alcune
fucilate: ma non appena l’accorto Condottiero le vide bene alle prese,
lascia l’ordine all’avanguardia sua, divenuta retroguardia, di ripiegar
combattendo; risale rapidamente col grosso della colonna a Renna;
spianta il campo, smonta i cannoni e li affida alle spalle di robusti
montanari; alleggerisce quanto può i carriaggi, e sul calar del giorno
piega a destra per una via asprissima di montagna, cammina l’intera
notte, entro una tenebra fittissima, sotto un uragano diluviale, sopra
un terreno stemperato da pioggie quatriduane, e riesce tuttavia ad
afferrare colla intiera colonna, miracolosa di costanza, come là,
era stata a Calatafimi di valore, le opposte alture di Parco e a
fronteggiar Palermo dal lato di mezzogiorno.

«Io non ricordo (scriveva quindici anni dopo Garibaldi stesso), io non
ricordo d’aver veduto una marcia simile e tanto ardua nemmeno nelle
vergini foreste dell’America,[60]» e certo egli avrebbe potuto contare
la giornata del 21 maggio come una delle sue più fortunate, se non
gli fosse stata amareggiata da un crudele annunzio: nel giorno stesso
Rosolino Pilo, mentre dalle alture di San Martino stava scrivendogli,
era colto in fronte da una palla borbonica e stramazzava freddo sul
colpo. Onore perpetuo alla magnanima sua ombra!


XIX.

Della mossa del 21 però i vantaggi non potevano essere immediati:
essa era un passo preparatorio, la condizione indispensabile al
conseguimento dello scopo finale; ma non poteva ancora dirsi per sè
sola decisiva. Garibaldi, con quella marcia, s’era sottratto, a dir
così, alla vista del nemico, ponendosi «in più facile comunicazione
coll’interno e la parte orientale dell’Isola;[61]» aveva guadagnato un
terreno più acconcio alle utili manovre e che gli avrebbe permesso fin
all’ultimo la scelta tra l’offensiva e la difensiva, tra l’attacco e la
ritirata; ma l’ora e il modo della difesa o dell’offesa, anzi la stessa
decisione tra l’assalto e la ritirata erano altrettanti termini nuovi
d’un problema nuovo, e di cui soltanto gli eventi potevano suggerirgli
la soluzione. Gli eventi però a que’ giorni correvano veloci.

Dopo avere per ben ventiquattro ore perduto ogni traccia di Garibaldi,
anco i Regi s’erano raccapezzati, e scoperto alla fine il suo nuovo
rifugio, parevan risoluti a non lasciargli più un sol giorno di
tregua. Il general Lanza (inviato a Palermo Commissario _alter ego_
del Re a surrogare il Castelcicala revocato) aveva ordinato infatti
che due colonne muovessero simultaneamente dalla capitale, la prima da
sinistra per Monreale, la seconda di fronte per La Grazia, ad assalire
il filibustiere nel suo campo di Parco, procacciando di chiudervelo
dentro e di schiacciarlo d’un colpo. Ma il filibustiere vegliava, e
scoperta egli stesso dalla cima del Pizzo del Fico la duplice mossa
del nemico, n’aveva indovinato l’ultimo fine. Sulle prime però, o non
avesse ben calcolato le forze del nemico, o confidasse nella forte
postura, o sperasse soccorso dalle bande del La Masa che campeggiavano
sui monti di Gibilrossa alla sua destra, parve deciso ad accettare la
battaglia, e ne fece tutti gli apparecchi. Ma alla mattina del 24,
meglio contati i nemici e avvistosi soprattutto che la colonna di
sinistra, capitanata dai colonnelli Von Meckel e Bosco, camminando
per le scorciatoie dei monti, minacciava di cader sulla sua via di
ritirata; composta prontamente una forte retroguardia coi Carabinieri
genovesi e due compagnie, e imposto loro di contrastar più a lungo che
fosse possibile le alture di Parco, ripiega col grosso della colonna su
Piana de’ Greci. I nemici tuttavia avevan già guadagnato molto terreno;
i Carabinieri eran già stati forzati a cedere da Parco; i Cacciatori
del Bosco comparivano già sulle cime di sinistra a piombo della
strada di Piana. Urgeva il pericolo, e Garibaldi fu pronto ancora al
riparo, rimandando quegl’infaticabili Carabinieri a coronar le alture
fiancheggianti la via e ponendosi egli stesso sulla difesa all’entrata
di Piana; ma confidando assai più sulla probabile stanchezza de’
persecutori e sull’appressarsi della sera, che sulle sue forze. Nè
s’ingannò. Durava da alcune ore l’avvisaglia sulla montagna, e già i
Carabinieri, estenuati dalla fatica e dalle perdite, più non reggevano
al disuguale cimento; quando il Comandante borbonico, visto che
annottava e stimando forse opportuno di attendere l’arrivo delle altre
colonne, deliberò, nella certezza di chi tiene ormai la preda in pugno,
di differire all’indomani l’assalto. Appunto domani era tardi.

Garibaldi, approfittando della breve tregua, traversa Piana de’ Greci
senza sostarvi; bivacca alcune ore della notte in una boscaglia
vicina; poi innanzi giorno ripiglia di nuovo la ritirata per la
strada di Corleone. Giunto però al punto dove si stacca la strada di
Marineo, affida le artiglierie, gli impedimenti e una compagnia di
scorta all’Orsini, ordinandogli di continuare, senza spiegargli di
più, la marcia per Corleone;[62] mentre egli svolta rapido col forte
della colonna per la traversa di Marineo, dove, riposatosi poche ore,
contromarcia celerissimamente per Misilmeri, e si trova prima che la
giornata del 25 tramonti, liberi i fianchi e le spalle da ogni nemico,
sulla strada di Palermo.

All’alba del 25 però anche i Napoletani furono pronti alle armi; ma di
quale maraviglia restassero colpiti nel veder Piana de’ Greci e tutti i
dintorni vuoti di nemici, lo scrivano essi. Convinti però che oramai la
sola paura sospingesse Garibaldi, si pongono risoluti sulle sue orme,
e raccolto da paesani che cannoni, cannonieri e bagagli si son visti
sfilare per la strada di Corleone, giustamente sillogizzando che con
essi debba pure essere il maggior nerbo de’ ribelli, quindi il loro
capo, ripigliano ad occhi chiusi la loro caccia spensierata, spacciando
allegramente a Palermo ed a tutta l’Isola: «Garibaldi fuggiasco fra le
montagne; prossima la sua totale disfatta.»

Era l’inganno, di cui Garibaldi aveva bisogno: era il compimento
del suo disegno. Il qual disegno non nacque già tutto intero per
miracolosa fecondità di genio, d’un sol getto e in un solo istante;
ma fu lentamente covato, preparato, compíto, perfezionato; il che ne
accrescerà agli occhi degl’intendenti il pregio e la meraviglia.[63]

Fino alla marcia da Renna al Parco, Garibaldi non ebbe ben ferme in
mente che queste due idee: portarsi sopra un terreno più propizio;
tirare il nemico fuori di Palermo per batterlo divisamente, potendo,
stancheggiarlo o scivolargli in mezzo, secondo l’opportunità e la
forza.

Quando però la mattina del 24 si vide piombare addosso, per due vie
convergenti, una mole di nemici anche più grossa della preveduta,
e conobbe non restargli pel momento altro scampo che una subita
ritirata, cammin facendo, meditando alla distretta in cui si trovava,
e compiendo rapidamente l’analisi e la sintesi dei molti partiti che
gli si affacciavano, allora gli balenò l’ardito concetto di farsi
della ritirata lo strumento della vittoria, e intanto che il nemico
allucinato inseguiva la sua ombra sulla strada di Corleone, marciare
per l’opposta via all’assalto di Palermo.


XX.

Ma i mezzi? Per l’opera, a dir vero, infaticabile di Giuseppe La Masa,
s’eran venuti raccogliendo sulla vetta di Gibilrossa, centro dei monti
che serrano Palermo da sud-est, un grosso campo di squadriglie, armate
e istruite come sappiamo, ma che per le loro marcie irrequiete, i loro
fuochi numerosi, e gli innumerevoli e altisonanti proclami coi quali il
loro capitano ne magnificava il numero e la fierezza, erano riuscite
fino allora a tenere in allarme il presidio di Palermo, ed a coprire
l’estrema destra del corpo garibaldino da subitanei assalti. A dir
il vero la prima volta che queste bande ricevettero il battesimo del
fuoco, non fecero buona prova: al Parco anzi la mattina del 26 chiamate
in sostegno della minacciata destra garibaldina, avevan dato volta ai
primi spari, gridando per giunta (insania della paura!) «al tradimento
di Garibaldi,[64]» e spargendo la loro fola e il loro terrore fin
dentro Palermo. Tuttavia erano intorno a tremila; rappresentavano
l’eletta militante del paese; confusi nella turba battevano i cuori
più intrepidi della Sicilia, e non sarebbe stato giustizia, oltre che
prudenza, trascurarli. Garibaldi inoltre ne aveva bisogno; sicchè
salita la mattina stessa del 26 Gibilrossa (da Misilmeri distante
poche ore) e passato a rassegna tutto il campo, ne ritrae così buona
impressione, che promette al La Masa di porre a capo della colonna
destinata alla marcia imminente su Palermo i suoi «bravi Picciotti.»

Sceso però da Gibilrossa, ebbe uno scrupolo e volle adempiere una
formalità. Chiamati a consiglio, cosa insolita, i suoi principali
Luogotenenti, Sirtori, Türr, Bixio, La Masa, Crispi, quando li vide
tutti raccolti, diresse loro questa breve parlata: «Voi sapete che
non ho mai radunato Consigli di guerra, ma le circostanze in cui siamo
mi vi inducono. Due vie ci stanno davanti: l’assalto di Palermo, o la
ritirata nell’Isola. Scegliete.»

Taluno dicesi fu per la ritirata, i più per l’assalto,[65] che era in
quel caso, non solo il più eroico, ma anche il più prudente partito,
per non dirlo senz’altro l’unico effettuabile. Allora Garibaldi, fedele
sempre al _tolle moras_, riunita la sua colonna al campo di Gibilrossa
e quivi raccolte tutte le sue forze, dà nella sera stessa gli ultimi
ordini per la deliberata battaglia. L’assalto nel primo concetto doveva
effettuarsi nel cuore della notte, la partenza quindi essere suonata
per le prime ore della sera. Composte le ordinanze colle squadre del
La Masa e uno stuolo de’ Mille per guida ed esempio alla testa; i
battaglioni del Bixio e del Carini al centro; le squadre del Sant’Anna
alla retroguardia; la colonna doveva scendere da Gibilrossa pel
sentiero dei Ciaculli che va a cadere sulla strada di Porta Termini,
poco lungi da San Giovanni, e passato l’Oreto al Ponte dell’Ammiraglio
camminar diritta sulla città. L’ordine era: marciar serrati e
silenziosi; avvicinarsi quanto più era possibile al nemico; giuntogli
dappresso, rovesciar alla baionetta ogni ostacolo e penetrare al più
presto, comunque, in Palermo.

Se non che, come accade sovente anco agli eserciti meglio ordinati, la
marcia non cominciò per l’appunto all’ora designata; il sentiero preso,
soggiorno quasi aereo di caproni selvatici, era oltre al preveduto
aspro e malagevole; i Picciotti posti alla fronte, inesperti di marcie
militari, molto più delle notturne, s’arrestano ad ogni tratto per
ombre ed allarmi immaginari; talchè al sommar di tutte queste ragioni
la colonna assalitrice non potè sboccare sulla strada di Palermo che
allo spuntar dell’alba. Tuttavia non era per anco stata avvertita
da alcuno, e la sorpresa era sperabile sempre, quando i Picciotti
dell’estrema avanguardia, giunti ai così detti _Molini della Scaffa_ e
scambiandoli forse per le prime case di Palermo, alzano, probabilmente
per darsi coraggio, tale un clamore di grida, con accompagnamento
di fuochi, non sapremmo dire se di paura o di gioia, che i Regi di
guardia, appostati al Ponte dell’Ammiraglio, ne sono riscossi in
sussulto e corrono, tutt’ora assonnati, alle armi.

Di colpo improvviso non era più a parlarne, e non restava che supplire
colla subitaneità dell’assalto e la forza dell’impeto alla fallita
sorpresa.

Lo comprese tosto Garibaldi; lo comprese Nino Bixio, suo braccio
destro; lo compresero quanti in quella falange avevan anima di soldati
e senso della terribilità del momento. E prima di tutti l’avevan
compreso il prode Tükery e i suoi compagni dell’antiguardo; i quali
al primo grido, alla prima ombra può dirsi del nemico, s’avventano
su di lui a testa bassa, e prima ch’egli abbia tempo di conoscere gli
assalitori, lo sforzano ad accettare la pugna.

E da quel punto «avanti, addosso, alla carica tutti.» I Regi,
fortemente asserragliati dietro il Ponte dell’Ammiraglio, spazzano
con un turbine di moschetteria e di mitraglia la via ed i campi:
i Picciotti, nuovi a quei cimenti a petto a petto, balenano, si
sparnazzano, scompigliano col rigurgito le schiere sopravvenienti
degli amici; ma non monta: il Bixio e il Carini colle coorti di
Calatafimi sopraggiungono al rincalzo; i più animosi delle squadre
stesse si mescolano agli agguerriti compagni e fanno valanga; i
Regi già vacillano, già danno le spalle e il Ponte dell’Ammiraglio è
conquistato.

Era un fausto preludio, ma non ancora la vittoria. Restava ancora
Porta Termini, chiave della città; restava una seconda linea di
nemici gagliardamente appostati dietro case e barricate, protetti da
numerose artiglierie, fiancheggiati da una forte squadra, liberi di
piombare sui fianchi degli assalitori per le due strade che dalla Porta
Sant’Antonino e da Porta de’ Greci convergono sulla via di Termini,
e dentro una cerchia di fuoco schiacciarli. Ma non era sfuggito il
pericolo a Garibaldi, il quale, provvedendo a un punto all’attacco ed
alla difesa, mandava quanti branchi di squadre poteva raccogliere a
custodire quelle due vie, mentre ordinava un ultimo disperato assalto
alla Porta. E «al concitato imperio» non seguì mai sì pronto «il celere
obbedir.»

Serrati, concordi, non contando i nemici, disprezzando la morte,
gareggianti solamente a chi prima arriva, si slanciano di fronte i
Mille: alla destra, avanzando arditamente tra vigneti e giardini, li
fiancheggiano, condotti dall’intrepido Fuxa, manipoli di Siciliani;
da sinistra altri Picciotti e Cacciatori misti insieme, guidati
dal Sirtori e dal Türr, tengono in iscacco i difensori della Porta
Sant’Antonino: procombono sul fulminato terreno, della bella morte de’
prodi, Tükery, Rocco La Russa, Pietro Inserillo e Giuseppe Lo Squiglio;
giacciono feriti Benedetto Cairoli, Enrico Piccinini, Raffaello Di
Benedetto, Leonardo Cacioppo; Bixio stesso, ferito al petto da una
palla, se la estrae da sè; ma i Napoletani, quasi sopraffatti da
superstizioso terrore, più non reggono alla diabolica irruzione. Nullo,
il Fieramosca della schiera, a cavallo, ritto, intrepido, stupendo
nella sua marziale eleganza di cavaliere antico, ha già varcato, primo
de’ primi, la Porta, e dietro a lui, come torrente che rompa le dighe,
penetra da cento bocche la piena procellosa degli assalitori, i quali
dilagando rapidi per tutte le vie, scacciando da ritta e da manca i
residui dei nemici resistenti, e portando in trionfo, più che seguendo,
il loro fatato Capitano, mondano Fiera Vecchia, il cuore di Palermo.
Eran forse le 6 del mattino; due ore eran bastate alla prodigiosa
vittoria, e il sole del 27 maggio, il sole di San Fermo, illuminava
un’altra volta uno de’ più memorabili portenti del valore italiano.


XXI.

Palermo dormiva ancora. Sorpresi essi pure dall’inaspettato assalto,
già tratti in inganno da falsi allarmi perfidamente simulati dalla
Polizia, e minacciati di morte coloro che al tuonar del cannone fossero
trovati per le vie, i Palermitani avevano alquanto esitato prima
di prestar fede ad un risveglio tanto fortunato; e come gente non
libera ancora dal sospetto d’un’insidia o dal timore d’un’imprudenza,
si tennero chiusi e celati nelle loro case ad attendere che gli
avvenimenti colla stessa luce del giorno si rischiarassero. Ma a poco
a poco una finestra si socchiude; un uscio si apre; una, dieci, cento
persone cominciano a far capolino; i più curiosi o i più animosi
s’avventurano nella strada; altri corrono a’ campanili a dar nelle
campane; la gran nuova si spande, il grande fatto si conferma, e
finalmente tutta la più gagliarda e patriottica parte della popolazione
(dir tutta la città sarebbe ancora troppo presto) si precipita festante
sui passi dei liberatori, offre loro i primi conforti e i primi
soccorsi e si mesce al gran fiume della rivolta.

   [Illustrazione: Piano delle Operazioni sotto PALERMO]

E non v’era un istante da perdere. Alle 6 del mattino la situazione
dei due belligeranti, per dirlo alla moderna, era questa: i ribelli
occupavano precariamente Fiera Vecchia, e il tratto della città
compreso tra la Porta Sant’Antonino e Porta Termini, meno alla destra
la caserma di Sant’Antonino e, più a sinistra, i dintorni dell’Orto
botanico; i Regi invece: Porta Montalto, Palazzo Reale, Porta Macqueda,
il Castellamare, tutta la Marina; quanto dire quattro quinti della
perifería.

E alla tattica bontà delle posizioni rispondeva la forza del numero
e la ricchezza de’ mezzi di guerra. Per la rivolta ottocento camicie
rosse[66] stremate, indigenti d’ogni cosa, e da tre ai quattromila
Picciotti armati e agguerriti come sappiamo; per il Borbone ventimila
soldati ben istrutti, ben pasciuti, straricchi d’artiglierie, di
munizioni, di viveri, d’ogni ben di Dio, fiancheggiati da quattro
fregate, protetti da due forti e da numerose caserme, massiccie quanto
i forti, padroni di tutte le loro comunicazioni, liberi d’essere
soccorsi dal mare e dalla terra, quando che sia.

Però nulla di più precario, di più incompiuto, di più periglioso
della vittoria garibaldina. Tutta la loro conquista poteva dirsi la
conquista d’una mina, che da un istante all’altro poteva saltare e
seppellirli sotto monti di rovine. Conveniva dunque strapparne subito
al nemico le miccie o, per uscir di metafora, metter Palermo in istato
di difesa, allargarvi quanto più era possibile la rivolta, rompere la
cerchia nemica, occuparne i principali punti strategici, assicurarsi
infine quelle tre condizioni indispensabili ad ogni guerra: posizioni
per combattere; comunicazioni per manovrare; base d’operazione per
rifornirsi.

E a tutto ciò fu, con maravigliosa rapidità, provveduto. Garibaldi,
appena raccolta la sua gente, si inoltrava fino al Palazzo Pretorio
e vi piantava il suo Quartier generale; occupava i quattro Cantoni,
centro delle due grandi vie che segano in croce la città, e vi si
asserragliava; istituiva un Comitato provvisorio, di cui faceva capo
il dottor La Loggia e poco dopo una Commissione delle barricate,
di cui eleggeva presidente il duca Della Verdura; chiamava di nuovo
tutti i Palermitani alle armi, ed abbozzava un primo nucleo di guardie
nazionali; spingeva, non senza combattimenti, i suoi avamposti verso
Palazzo Reale fino a Piazza Bologna, e verso Porta Macqueda fino alla
Villa Filippina; faceva nella giornata stessa attaccare la caserma
di Sant’Antonino rimasta in potere dei Regi, e prima di sera se ne
impadroniva; infine trasfondeva in tutti i petti un raggio della sua
serenità e una favilla della sua fede, forze inespugnabili.

E ciò non ostante il generale Lanza era sempre arbitro, purchè l’avesse
voluto, del campo. Un istante d’energia, un contrassalto ben combinato,
uno sforzo appena volonteroso di que’ ventimila uomini, e Palermo
tornava sua. Ma era chieder troppo a siffatto Capitano ed a siffatto
esercito. Però l’unica prodezza, di cui l’uno e l’altro furono capaci,
fu il bombardamento; e già fin dalle 10 del mattino, dai forti di
Castellamare e dalla Squadra ancorata di faccia a Toledo, cominciò a
piovere sulla città, principalmente ne’ dintorni di Palazzo Pretorio,
un nuovo diluvio di granate e di bombe; sprezzato, a dir vero, dai
combattenti, e in sulle prime poco dannoso alla città, ma preludio di
rovina maggiore.

L’indugio invece fu la fortuna dei ribellati. Giuseppe Sirtori, a capo
d’una mano di Legionari e di Picciotti, fatta base il convento de’
Benedettini, riusciva ad impadronirsi del bastione di Montalto, punto
avanzato sulla sinistra del Palazzo Reale; quasi contemporaneamente
un’altra compagnia de’ Mille, Bergamaschi quasi tutti, guadagnava, non
senza fiera lotta, la Piazza della Matrice e i dintorni del Burrone,
del Papireto e di Porta Sant’Agata; sicchè per queste conquiste
venivano tagliate le comunicazioni tra il Castello ed il Palazzo
Reale, e gli approcci della rivolta avvicinati sempre più agli estremi
baluardi della resistenza nemica. E quel che accresceva la maraviglia,
era che ogni barricata sorgeva sotto il diluviare delle bombe; ogni
palmo di terreno era guadagnato fra il crepitar degl’incendi, il
crollar delle case, le urla delle vittime sepolte sotto le rovine, o
trucidate nella fuga dalla ferina vendetta soldatesca.

Infatti il bombardamento dopo alcune ore di sosta aveva ripreso, nel
28 mattina, continuando fin nel cuore della notte con frenetica rabbia
e facendo della miseranda, ma invitta città, un immane sterminio. Il
vasto e ricco monastero di Santa Caterina ardeva tutto intero, assieme
al lungo tratto di botteghe e di case che rispondevano sulla Strada
Toledo: il Palazzo arcivescovile era saccheggiato, i ricchi monasteri
dei Sette Angioli e della Badia Nuova saccheggiati e incendiati, il
palazzo del principe di Carini distrutto; quelli del principe di Cutò
e del marchese d’Artale smantellati. «In un remoto chiassuolo della
città (scriveva un egregio Palermitano, spettatore della terribile
tragedia[67]), presso alla Via del Pizzuto, la esplosione d’una sola
bomba cagionava lo scempio di ventidue innocenti, ed erano in maggior
parte donne e bambini: orrendo spettacolo quello di corpi oscenamente
mutilati e squarciati, spettacolo commovente e pietoso quello d’intere
famiglie, nude, raminghe, con vecchi e infermi che trascinavansi a
stento e fuggivano gli abbattuti lor tetti. D’un subito, nella zona
superiore della città, a dritta del Palazzo regio, sollevasi un vortice
caliginoso di fiamme: ed è il bruciamento e la distruzione di tutto
un quartiere. Dal Palazzo le napoletane milizie procedono verso la
Piazza Grande e la Piazzetta de’ Tedeschi: la insurrezione ha preso
appena a minacciar da quel lato; ed ecco i soldati trapassare di casa
in casa, scassinare le porte, saccheggiare e disperdere quanto vi si
trovasse per entro, macellarvi i sorpresi e sbigottiti abitanti ed
appiccarvi l’incendio. A chi fuggiva sì traea co’ moschetti; a chi
chiedeva mercede s’insultava, poi si dava la morte: s’inducevano i
miseri a ricattarsi svelando le preziosità e le masserizie nascoste,
e, appagata la rapace ingordigia, seguivano le ferite e il sangue; si
stupravano donne e fanciulle, poi scannavansi, e dopo loro i padri, i
mariti, i fratelli: il nome del Re suonava da’ manigoldi acclamato fra
le strida che sfuggíano alle vittime: e di quelle immanità e di quei
fatti potrebbero allegarsi senza fine gli esempi, e non era guerra,
ma eccidio efferato e vilissimo eccidio, non da uomini, ma da bestie
crudeli. Il fuoco infuriava quel giorno per vasto recinto di edifici
e di strade; infuriava nella notte e ne’ due giorni seguenti; e in
quell’accesa fornace cuocevano e soffocavano umane creature, senza
difesa e senza scampo immolate.»

Mille e trecento furono le bombe lanciate dal Castello e dalla Squadra
senza contar le palle e la mitraglia: cinquecento trentasette i
cadaveri ufficialmente numerati fino al 12 giugno.[68] Orrendo scempio
che Lord Brougham nel Parlamento inglese pareggiava al neroniano e
Lord Palmerston aggiungeva: «indegno del nostro tempo e della nostra
civiltà.[69]»


XXII.

La mattina del 29, con gran stupore dei bombardati, il bombardamento
taceva; ma dell’inattesa tregua varie le cagioni, nessuna di pietà.
Nella notte dal 28 al 29 due piroscafi della Squadra regia portavano da
Termini a Palermo un reggimento di Bavaresi, col rinforzo de’ quali il
Generalissimo borbonico aveva contato di tentare una sortita generale
di tutte le sue forze, onde ricuperare i posti perduti la vigilia.
Ora così per non molestare il passaggio dalla Marina al Palazzo Reale
de’ nuovi arrivati, come per evitare il rischio di colpire i propri
soldati durante il premeditato assalto, il generale Lanza aveva dato
l’ordine che il bombardamento rallentasse per alcune ore, limitandosi
a battere i dintorni di Castro Pretorio, nido della rivolta.[70] Ma
invano. Per tutta quella giornata si combattè nuovamente al bastione
di Montalto, all’Annunciata, ai Benedettini, al Duomo: in quest’ultimo
punto anzi i Regi, sorpresi i Picciotti del Sant’Anna, ebbero alcune
ore di sopravvento; ma poi sopraggiunti gli ormai terribili Cacciatori,
riannodatesi le squadre, apparso Garibaldi, tutti i posti furono o
conservati o ripresi, ed ai Regi toccò nuovamente di riparare a’ loro
quartieri, più che vinti disperati di vincere; e riadorni soltanto di
quei sanguinosi allori, a cui oramai sembravano aspirare: il saccheggio
di nuove case e l’eccidio di nuove vittime.

Gli è che i soldati del Borbone non si battevano più. Quei tre fatti
miracolosi della vittoria di Calatafimi, della ritirata del Parco
e della sorpresa di Palermo avevano ispirato ne’ loro petti tale
un superstizioso terrore, che era oggimai più forte d’ogni legge
di disciplina e d’ogni punto d’onore. Per essi Garibaldi era ormai
invincibile; vedevano in lui un essere privilegiato, protetto da
una potenza sovrumana, contro la quale ogni forza terrestre doveva
soccombere. Si spacciavano sul suo conto le più strane fole: chi
lo diceva stregato; chi aggiungeva che fin da bambino fosse stato
inoculato con un’ostia consacrata; e poichè gli ufficiali stessi per
onestare la loro dappocaggine accreditavano queste insensatezze, non
era più a sperarsi da siffatto esercito alcun atto, non che di energia,
di decorosa resistenza.

Il Lanza però non aveva confidato soltanto sulla forza: un po’ di frode
ad assodar l’opera gli era parsa giovevole. Infatti fin dal 28 mattina
egli si era rivolto, per mezzo d’un ufficiale della regia Marina,
all’ammiraglio Mundy, comandante in capo della Squadra inglese,[71] per
pregarlo d’un favore, all’apparenza innocentissimo: di voler soltanto
ricevere al suo bordo due Generali dell’esercito regio incaricati di
conferire con lui; procacciando unicamente che, durante le conferenze,
i ribelli sospendessero le ostilità e i due Generali potessero aver
libero passo traverso le linee nemiche sotto la protezione della
bandiera britannica.

L’agguato era ben preparato, e se gli riusciva, il Generale borbonico
otteneva in un colpo solo parecchi scopi: metteva in tutela della
bandiera britannica l’assisa, quanto dire, la causa borbonica; otteneva
dai ribelli, mercè una mediazione potente, una sospensione d’armi, e
ciò senza essere costretto a richiederla egli stesso al disprezzato
avventuriero. Ma quanto il laccio era sottile, altrettanto era acuto
l’occhio dell’Inglese, e scivolandogli in mezzo con destrezza e
prudenza, faceva al Commissario del Re questa risposta: «Prontissimo
alla conferenza, lietissimo di ricevere a bordo della sua ammiraglia
i due Generali che gli erano annunziati; ma quanto al loro passaggio
traverso le linee degl’insorti, necessario richiederlo al generale
Garibaldi che solo aveva diritto di darlo.[72]» Non era questa la
conclusione che il Borbonico s’aspettava, anzi era precisamente
quella che più di tutte aborriva; ma ciò non ostante, per quanto egli
tornasse all’assalto con nuove missive anche più ambigue e capziose,
l’Ammiraglio non si smosse d’una linea dalla prima sua risposta,
sventando così colla sua accorta tenacia una trama che intendeva a fare
lui complice, e l’Inghilterra stromento della politica borbonica.[73]

Astretto da questa repulsa a non confidare più che nell’armi; ma
nell’armi, dopo i falliti assalti del 29, non avendo più fiducia, il
Generale borbonico si sentì a un tratto mancare quell’ultimo residuo,
non diremo certo di coraggio, che non ebbe mai, ma di dignità umana
e di pudore soldatesco che ancora gli era rimasto, e senza nulla dire
al Mundy, all’improvviso, come preso da subitaneo terrore, scrisse al
filibustiere, fino a ieri schernito, questa lettera quasi incredibile:

           «_Il generale Lanza a S. E. il general Garibaldi._

                                          »Palermo, 30 maggio 1860.

  »Avendomi l’Ammiraglio inglese fatto sapere che riceverebbe con
  piacere a bordo del suo vascello due de’ miei Generali, affine di
  aprire con Lei una conferenza, della quale l’Ammiraglio stesso
  sarebbe il mediatore, purchè Ella consenta a conceder loro un
  passaggio traverso le sue linee; io la prego di farmi conoscere se
  vuole consentirvi, e in caso affermativo (supponendo le ostilità
  sospese da ambe le parti), io la prego di farmi sapere l’ora in
  cui la detta conferenza dovrà cominciare. Sarebbe allo stesso tempo
  utile che Ella accordasse una scorta ai summenzionati due Generali,
  dal Palazzo Reale alla Sanità, dove essi s’imbarcheranno per andare
  a bordo.

  »In attesa d’una sua risposta, ec.

                                            »FERDINANDO LANZA.[74]»

«Quale non doveva essere l’avvilimento dell’esercito regio (scrive
lo stesso ammiraglio Mundy), perchè l’_alter ego_ d’un Sovrano
acconsentisse a scrivere una lettera sì umiliante. L’uomo che fino
a quel momento era stato stigmatizzato cogli epiteti più vituperosi
dell’umana natura e denunziato nei proclami come un pirata, un ribelle,
un filibustiere, eccolo elevato al titolo ed al rango di Generale e
d’Eccellenza! Ciò equivaleva ad una ricognizione del suo carattere
d’uguale, e ad una confessione d’impotenza di sottometterlo colla
forza.[75]»

E questo pure dovette sentire Garibaldi; ma disprezzando in cuor suo le
antiche e nuove codardíe del suo avversario e pensando solo a trarne
profitto, rispose all’istante al Commissario di Francesco II esser
pronto alla propostagli conferenza; fissarla per le due pomeridiane
del giorno stesso; avrebbe fatto immediatamente sospendere il fuoco de’
suoi, e accordato il passo e la scorta a’ due Generali regi.


XXIII.

Se non che verso le 10 antimeridiane dello stesso giorno (30 maggio),
dopo cioè che Garibaldi ebbe mandato a tutti i suoi posti l’ordine di
cessare da ogni ostilità, un inatteso avvenimento rischiava di mettere
in forse con un sol colpo tutta la conquistata fortuna. La colonna
di Von Meckel e del Bosco, in maggior parte composta di Bavaresi,
dopo aver per tre giorni perseguíto vanamente l’Orsini (il quale,
inchiodati i cannoni e bruciati gli affusti, era riuscito a scamparla,
sperdendosi per le campagne al di là di Giuliana), quella colonna,
dicevamo, risaputa alla fine la notizia[76] che quel Garibaldi, da essi
sognato fuggiasco sulla strada di Corleone, accampava già in Palermo,
era tornata quanto più veloce aveva potuto sui suoi passi, e appunto
la mattina del 30 maggio compariva innanzi a Porta Termini[77] e ne
assaliva la barricata che la custodiva. Le squadre di guardia al posto
ributtarono, com’era debito loro, l’inatteso nemico; questi incalzò più
risoluto che mai, e la fucilata si accese vivacissima da ambe le parti.
Indarno il luogotenente Wilmot, _ufficiale di bandiera_ dell’ammiraglio
Mundy, che per caso di là passava diretto al Castro Pretorio,
sventolava il suo bianco fazzoletto e gridava agli assalitori: una
tregua essere pattuita; fedifrago l’assalto; doverosa la ritirata; que’
Bavaresi, o avessero meditato un’insidia o la temessero, non vollero
intendere ragione. Allora il combattimento si accanì più che mai: e a
chi contava il numero soverchiante degli aggressori non era difficile
prevederne il risultato. I Picciotti resistevano del loro meglio; una
compagnia de’ Mille, guidata dall’intrepido Carini, tratteneva ancora
per alcuni istanti quella piena irrompente; ma ferito gravemente
ad un braccio lo stesso Carini, caduti molti de’ suoi, crescente
l’irruzione nemica, la barricata sarebbe stata certamente perduta e
la via aperta fino a Fiera Vecchia, se la fortuna non avesse voluto
che presso il generale Garibaldi stesse in quel momento, inviato dal
Lanza, l’ufficiale di Stato Maggiore regio, Nicoletti, il quale, udito
l’evento e invitato con acerbe parole dallo stesso Garibaldi a cessare
quella perfidia, accorse sul luogo del conflitto e colla sua assisa ed
autorità riuscì a persuadere quei, non sappiamo se testardi o astuti
Tedeschi, se non a ritirarsi, come avrebbero dovuto, a restar nei posti
indebitamente conquistati.[78]

Superato anche questo nuovo periglio, indossata ancora la sua vecchia
uniforme di Generale piemontese (divenuta buona un’altra volta),
accompagnato dal solo Crispi,[79] poco prima delle due pomeridiane si
mosse per recarsi al convegno fissato. Al Molo della Sanità l’aspettava
la lancia dell’_Hannibal_: quivi il caso volle che arrivassero nello
stesso punto il generale Letizia ed il generale Chretien; sicchè la
medesima barca li tragittò insieme al bordo dell’Ammiraglio inglese.
Colà giunti, i Generali borbonici lasciarono il passo a Garibaldi;
l’Ammiraglio, così a lui, come a’ suoi avversari, fece rendere i dovuti
onori militari e li invitò ad entrare nella sua cabina.[80] Non appena
radunati però, quasi preliminare al trattato che stava per cominciare,
sorse un singolare litigio, che qualificò subitamente agli occhi
dell’Inglese il diverso carattere de’ negoziatori da lui ospitati al
suo bordo.

L’ammiraglio Mundy per rendere più solenne la conferenza e porne la
fede sotto il suggello di autorevoli testimonianze, aveva invitato
ad assistere alla conferenza anche i Comandanti dei legni da guerra
Francese, Americano e Sardo ancorati nello stesso porto, ed essi,
accettato l’invito, stavano già sul ponte all’arrivo de’ negoziatori
ed eran loro stati presentati. Quando però il generale Letizia li
vide entrare assieme a tutti gli altri nella cabina dell’Ammiraglio
e disporsi ad assistere alla conferenza, si fece innanzi e dichiarò
ch’egli non era preparato ad intraprendere alcun negoziato alla
presenza di quei Capitani stranieri, sicchè richiedeva formalmente che
si ritirassero. Nè a questo si fermò. Soggiunse, «che quantunque egli
avesse consentito a incontrare il generale Garibaldi a bordo della
nave britannica, egli non intendeva riconoscergli alcuna officiale
capacità, nè molto meno conferire con lui sopra qualsivoglia soggetto.
Ogni mediazione, continuava egli, doveva aver luogo tra l’Ammiraglio
inglese, lui ed il suo collega; e al generale Garibaldi non restava
che confermare o disapprovare le parole del trattato che si fossero per
usare. Queste le istruzioni da lui ricevute dal generale Lanza e dalle
quali egli non poteva nè voleva dipartirsi.[81]»

A questa inattesa parlata, il cui senso era aggravato dal tuono
dittatorio con cui era proferita, la sorpresa fu generale. L’Ammiraglio
però, rotto per il primo il silenzio e raccomandata la calma e la
temperanza, stimava suo debito chiedere prima d’ogni cosa, se anche
il generale Garibaldi aveva da muovere qualche obbiezione circa alla
presenza dei Comandanti stranieri. A cui Garibaldi rispose che ogni
concerto preso dall’Ammiraglio inglese gli sarebbe stato gradito, e che
quanto ai signori Comandanti era lieto di vederli rimanere. Ma nemmeno
a questa lezione di tolleranza e cortesia il generale Letizia volle
darsi per vinto, e arzigogolando cavillosamente sulle parole della
lettera scritta la mattina dal generale Lanza, ribadì la sua tèsi che
«i negoziati dovevano correre tra l’inglese Ammiraglio e gli incaricati
napoletani, e il generale Garibaldi non dover prendervi alcuna parte.»
Alla caparbia malafede del Napoletano proruppero indignati, tanto il
capitano francese Lefebre, quanto l’americano Palmer; «solo il marchese
D’Aste, antico ufficiale sardo, restò silenzioso;[82]» finalmente lo
stesso ammiraglio Mundy interveniva a cessare l’alterco, protestando
apertamente che, «se il generale Letizia non consentiva a trattar
personalmente col generale Garibaldi e in presenza dei Capitani esteri,
egli sarebbe obbligato di rimandare tutti a terra, e dichiarare rotti i
negoziati.[83]»

A sì aperto e risoluto linguaggio il generale Letizia finì col
rassegnarsi, e riconosciuta al generale Garibaldi la parte che gli
spettava, le trattative s’avviarono. I quattro primi articoli della
convenzione proposta passarono senza contraddizione o discussione
di sorta; giunti al 5º: «Che la Municipalità rassegnasse un’umile
petizione a Sua Maestà il Re, esprimendogli i reali bisogni della
città.» — «No!» proruppe con veemenza Garibaldi; e alzandosi di scatto
soggiunse: «Il tempo delle umili petizioni o al Re, o a chicchessia,
è passato; inoltre non ci sono più Municipalità.... La Municipalità
sono io. Io rifiuto il mio consenso. Passiamo alla sesta ed ultima
proposta.»

All’udir queste parole sdegno e stupore si dipingono sul volto del
generale Letizia, e sgualcendo la carta che stava spiegata sulla
tavola, esclama: «Allora se questo articolo non è concesso, ogni
comunicazione cessa fra di noi.[84]»

Garibaldi, il quale fino all’enunciazione del quinto articolo avea
sempre serbato un calmo e imperturbato contegno, a quell’ultima
albagiosa dichiarazione del suo avversario non seppe più frenarsi.
«Egli denunciò in termini eccessivi[85] la mancanza di buona fede, anzi
l’infamia della Reale Autorità nel permettere che truppe mercenarie,
mentre una bandiera di tregua sventolava, attaccassero le italiane, le
quali avevano avuto l’ordine di cessare il fuoco. Ed altre cose anche
più appassionate soggiunse Garibaldi; a cui replicò con violenza non
disuguale, ma certo con minor giustizia il suo antagonista. Sicchè
l’Ammiraglio fu costretto di nuovo ad interporsi non solo per rimettere
la calma fra i disputanti, ma per raddrizzare le torte argomentazioni,
con cui il negoziatore napoletano continuava a sillogizzare.»

A tal punto Garibaldi, credendo ormai compiuta la rottura de’
negoziati, si levò dalla sua sedia e fece atto di disporsi alla
partenza; «ma tale non appariva in alcuna guisa l’intenzione del
Generale borbonico.[86]» Anzi dopo essersi consultato alquanto col suo
collega, si rivolse di nuovo al suo avversario, annunziandogli che
egli consentirebbe a cassare il quinto articolo della convenzione,
quantunque sapesse che per quella concessione egli incontrerebbe il
disfavore del suo Generale in capo.

E dopo questa dichiarazione tanto maravigliosa ed inattesa, quanto
lo erano state fino allora tutte le parole del negoziatore regio,
l’armistizio fu prolungato fino alle nove del mattino seguente, al solo
fine di concordare definitivamente i punti controversi e di ottenere
dal Commissario _alter ego_ del Re la ratifica dei già patteggiati.
Prima di lasciar l’_Hannibal_ però il generale Garibaldi, cogliendo il
momento in cui l’ammiraglio Mundy s’era stretto in privato colloquio
co’ due Inviati regi, si traeva in un canto col capitano Palmer e col
marchese D’Aste, e susurrò loro in tutta fretta e in gran secretezza:
essere allo stremo di munizioni; questo il suo pensiero più tormentoso;
lo soccorressero, se potevano, in quella necessità; avrebbe pagato
un pacco di cartuccie a peso d’oro. Il capitano D’Aste non volle dare
neanche un grano di polvere; il Capitano americano crediamo che desse
la poca che aveva; al resto pensò la Provvidenza!

Ma sia che l’ultima impressione ricevuta da Garibaldi fosse che il
pattuito armistizio non potesse durare oltre il vegnente mattino; sia
ch’egli mirasse a trar profitto delle pretese esorbitanti del nemico, e
della sua sdegnosa risposta per infiammare vieppiù gli animi già accesi
de’ Palermitani, giunto a Palazzo Pretorio fece tosto pubblicare questo
Manifesto:

      «Siciliani!

  »Il nemico mi ha proposto un armistizio. Io ne accettai quelle
  condizioni che l’umanità dettava di accettare; cioè: ritirar
  famiglie e feriti; ma fra le richieste, una ve n’era umiliante per
  la brava popolazione di Palermo, ed io la rigettai con disprezzo.
  Il risultato della mia conferenza di oggi fu dunque di ripigliare
  le ostilità domani. Io ed i miei compagni siamo festanti di poter
  combattere accanto ai figli del Vespro una battaglia, che deve
  infrangere l’ultimo anello di catene con cui fu avvinta questa
  terra del genio e dell’eroismo.»

Alla lettura del fiero bando la città intera, può dirsi, si versò
a Palazzo Pretorio per udire dalle labbra del Dittatore, quasi per
leggere sul suo viso, la conferma della grande nuova. E Garibaldi,
apparso al balcone di Palazzo Pretorio, parlò come sapeva parlare
lui tutte le volte che il cuore lo ispirava, e la grandezza degli
avvenimenti s’accordava alla lirica intuonazione della sua tribunizia
eloquenza. Però quando disse: «Il nemico mi ha fatto delle proposte
che io credei ignominiose per te, o Popolo di Palermo, ed io sapendoti
pronto a farti seppellire sotto le ruine della tua città le ho
rifiutate....» un urlo, un urlo solo fu la risposta di quel popolo
divenuto delirante: «Guerra, guerra;» e le donne stesse con parola
anche più espressiva: «Grazie, gridavano al Generale, grazie;» e gli
inviavano baci e benedizioni.... «E dal fondo della piazza (soggiunge
uno de’ Mille testimonio alla gran scena) gli mandai un bacio anch’io.
Credo che Garibaldi non sia mai stato visto sfolgorante come in quel
momento da quel balcone; l’anima di quel popolo pareva tutta trasfusa
in lui.[87]» Nè furono parole soltanto: ogni uomo armato corse a
prendere il suo posto di combattimento: quante braccia erano atte
lavorarono l’intera notte al compimento delle barricate; e per supplire
alla mancata luminaria delle bombe e delle granate, Palermo illuminò
tutte le sue case, se non è meglio dir le sue rovine, come fosse alla
vigilia di una festa.

Risapute però queste nuove, anche i Generali borbonici vennero a
miglior consiglio, e nella mattina del 31 lo stesso generale Letizia
tornava al Dittatore per ripigliare gli interrotti negoziati e
chiedergli un armistizio indefinito. Tanto non poteva concedere
Garibaldi; consentì bensì ad una tregua di tre giorni, e fu in questi
capitoli stipulata:

  «1º La sospensione delle ostilità resta prolungata per tre giorni,
  a contare da questo momento che sono le 12 meridiane del dì 31
  maggio: al termine della quale S. E. il Generale in Capo spedirà
  un suo aiutante di campo onde di consenso si stabilisca l’ora per
  riprendersi le ostilità.

  »2º Il Regio Banco sarà consegnato al rappresentante Crispi
  segretario di Stato, con analoga ricevuta, ed il distaccamento che
  lo custodisce andrà a Castellamare con armi e bagaglio.

  »3º Sarà continuato l’imbarco di tutti i feriti e famiglie, non
  trascurando alcun mezzo per impedire qualunque sopruso.

  »4º Sarà libero il transito dei viveri per le due parti
  combattenti, in tutte le ore del giorno, dando le analoghe
  disposizioni per mandar ciò pienamente ad effetto.

  »5º Sarà permesso di contraccambiare i prigionieri Mosto e Rivalta
  con il primo tenente Colonna ed altro ufficiale o capitano Grasso.

                                             »_Il Generale in Capo_
                                        »Firmato: FERDINANDO LANZA.

      »_Il Segretario di Stato
      »del Governo Provvisorio di Sicilia_
      »Firmato: FRANCESCO CRISPI.»

Taluno censurò il vincitore di aver concesso al nemico una tregua
troppo lunga; noi pensiamo altrimenti. Per fermo i Regi potevan
ricevere nuovi rinforzi; ma che importavano oramai alcune migliaia
di nemici di più, se mancava tra di loro la mente che governasse e il
cuore che combattesse? Per la rivolta invece ogni ora che passava era
un passo alla vittoria: lo scoramento nelle file avversarie cresceva,
le diserzioni moltiplicavano, la città s’agguerriva, e s’abituava
all’idea della lotta disperata; e frattanto i Mille si ristoravano,
le munizioni si risarcivano, le difese si perfezionavano, i soccorsi
sperati o promessi dal Continente o arrivavano o potevano arrivare,
come sarebbe stato debito loro.[88]

Oltre a ciò nella generosità di Garibaldi s’ascondeva un grande
concetto non meno politico che umanitario. Nessuno più di lui sentiva
che quella era guerra civile, e quel pensiero fisso di renderla
quanto più fosse possibile umana e pietosa sarà, nella calma sentenza
de’ posteri, non ultima gloria della sua eroica vita. Quei soldati,
lo diceva ad ogni istante, eran nostri fratelli; lo diceva a’ suoi
seguaci consigliandoli ad essere miti; lo diceva a’ nemici stessi, se
qualcuno gliene compariva dinanzi o prigioniero o disertore; e solo
dicendolo faceva proseliti e diradava le file nemiche. La generosità
in quel caso era virtù ed arte insieme; e quando vedremo l’esercito
borbonico squagliarsi e quasi sfumare innanzi ai passi di Garibaldi
che li incalzava col sorriso sulle labbra e l’offerta del ritorno alle
loro case, intenderemo quanto quella virtù fosse utile e quell’arte
profonda.

Nè quei tre giorni li passò inerti. Intanto che i suoi Luogotenenti
attendevano al riordinamento delle milizie, e i Palermitani al
perfezionamento delle barricate, e il Crispi a prender possesso del
Palazzo di Finanza, dove trovava cinque milioni di ducati, insperato
tesoro per quei cenciosi conquistatori partiti da Quarto con trentamila
franchi; Garibaldi pensava a dare all’improvvisato Governo di Palermo
una forma più regolare e compíta, istituendo un Ministero, in cui
il Crispi riteneva il portafoglio dell’interno e delle finanze, il
barone Pisani gli esteri, il canonico Ugdulena il culto e la pubblica
istruzione, un Raffaele i lavori pubblici, un Guarnieri la giustizia, e
l’Orsini, riuscito miracolosamente a traforarsi il giorno 2 in Palermo,
con tutti i suoi cannoni e i suoi uomini, il Ministero della guerra.

I Napoletani, all’opposto, non riuscirono che a rendere sempre più
manifesta la loro impotenza. Non appena infatti fu conchiuso il primo
armistizio, il generale Letizia partiva per Napoli per comunicarne il
testo al suo Re ed al suo Governo, dipinger loro il vero stato delle
cose, e richiederne le istruzioni per la condotta avvenire. Ruppe
in amari rimbrotti il Re, e sola sua risposta fu che si riprendesse
Palermo a viva forza, anche a costo di raderla al suolo; ma tale non fu
il consiglio nè la risposta de’ suoi Ministri, i quali già affaccendati
ad ottenere la mediazione delle estere Potenze, fecero capire al
Letizia che quel mezzo del bombardamento sarebbe stato esiziale a tutto
il Regno, e che, se altra via non s’apriva per ricuperar Palermo, era
minor danno abbandonarlo. Se lo tenne per detto il Letizia; e convinto
oramai che il Governo di Napoli non aveva più nè volontà, nè speranza
di vincere, riportò queste notizie e impressioni al regio Commissario
in Palermo. Il quale, sperimentata già vana la forza delle bombe, non
sapendo, nè osando confidar in quella delle baionette, delle quali,
se voleva vincere, gli conveniva mettersi alla testa; sconfidando
sempre più nella fedeltà delle truppe e temendo una sedizione della
flotta;[89] ma tremando forse più per sè stesso, si decise a chiedere
un prolungamento all’armistizio d’altri tre giorni, prodromo evidente
della resa finale. E Garibaldi accondiscese ancora; ed ancora il suo
naturale accorgimento non l’ingannò.

Infatti il 6 giugno i negoziati furono ancora ripresi, e senza molta
difficoltà condussero alla Convenzione seguente:

  «1º Gl’infermi (dell’armata regia) che giacciono in ambedue
  gli ospedali od in altri luoghi dovranno essere imbarcati colla
  maggiore sollecitudine.

  »2º Le truppe regie che si trovano in Palermo avranno la scelta di
  abbandonare la città per terra o per mare con equipaggi, materiali
  da guerra, artiglieria, cavalli, bagagli, famiglie e tutto ciò che
  loro spetta, comprese le munizioni rinchiuse in Castellamare. A S.
  E. il tenente generale Lanza viene concesso di abbandonare Palermo
  per mare o per terra a sua scelta.

  »3º Qualora si scegliesse la via di mare, si darà principio allo
  sgombramento caricando i materiali da guerra, gli equipaggi e parte
  dei cavalli e delle altre bestie da soma; le truppe rimarranno
  ultime.

  »4º Tutte le truppe s’imbarcheranno sul Molo, e quindi prenderanno
  provvisoriamente alloggio nel quartiere dei Quattroventi.

  »5º Il generale Garibaldi lascierà Castelluccio, il Molo e la
  batteria del Faro senza atti di ostilità.

  »6º Il generale Garibaldi consegnerà tutti gl’infermi ed i feriti
  (delle truppe regie) che si trovassero in suo potere.

  »7º I prigionieri saranno scambiati da ambe le parti senza
  distinzione di grado o di numero, e non uomo per uomo.

  »8º Sette prigionieri (non militari) rinchiusi in Castellamare
  saranno messi in libertà tosto che sia compíto l’imbarco delle
  truppe e totalmente sgomberato il forte Castellamare. Questi
  prigionieri verranno condotti dalla guarnigione sul Molo e quivi
  consegnati.

  »Ritenuti tutti i sovraccennati articoli, si aggiunge in una
  clausola addizionale che la guarnigione sarà spedita per la via di
  mare ed imbarcata sul Molo di Palermo.

      »6 giugno 1860.

                                                     »G. GARIBALDI.

  »Con procura di S. E. il Luogotenente generale LANZA, Comandante
  del Corpo delle truppe regie:

      »V. BONOPANE,
      »_Colonnello e Capo dello Stato Maggiore._

  »L. LETIZIA, march. di Mompellieri, _generale_.»


XXIV.

La nuova dell’entrata di Garibaldi nella capitale aveva precipitata la
sollevazione di tutta l’Isola. Le principali città, quali senza grave
sforzo, come Trapani, Girgenti, Noto, Caltanissetta, Modica, Sciacca,
Mazzara; quali dopo aspra lotta di popolo e fiero martirio di saccheggi
e di stragi, come Catania, s’erano vendicate in libertà; e di tutta la
Sicilia al mattino del 7 giugno non restava più in mano del Borbone che
Messina e le cittadelle di Milazzo, Augusta e Siracusa.

In Palermo frattanto lo sgombero dei Regi era cominciato e l’aspetto
della città si rasserenava. All’ansietà angosciosa della lotta
succedeva d’ora in ora il respiro più libero e il moto festivo e
chiassoso della vittoria. La gente, come suole accadere ne’ giorni
di pubblici commovimenti, viveva più nelle strade che nelle case;
le grida, gli assembramenti, le manifestazioni rinascenti per ogni
nonnulla non posavano ancora; il variopinto brulicame delle squadre,
delle camicie rosse, dei frati in coccarda e cartucciera, dei preti in
piuma ed archibugio, continuava tuttavia a mascherare d’una tal quale
veste quarantottesca la città; ma intanto le barricate si sfacevano,
le rovine degl’incendi si sgomberavano, ai morti tratti dalle macerie
si dava onorata sepoltura, ai feriti ricoverati nelle case o negli
ospedali si apprestavano cure più ordinate e più sollecite; migliaia di
mani lavoravano ad ammannire vesti, scarpe, cartuccie; tutto dimostrava
che Palermo respirava a polmoni dilatati la nuova aura di libertà, e
guardava con serena fede all’avvenire.

Al tempo stesso il Dittatore provvedeva del suo meglio, come le
opportunità consentivano e i suoi Ministri sapevano suggerire, alle
più urgenti necessità dello stato novello. Volgendo il primo pensiero
ai morti per la patria, decretava ricoveri e pensioni alle loro vedove
e ai loro orfani; rivolgendo il secondo all’imperioso problema della
forza, si rassegnava a riporre in fondo al cuore la sua bella utopia
della leva in massa, ma consentiva tosto all’Orsini una leva più
limitata di quarantamila uomini: beato ancora se tutti accorressero!

Frattanto congedava con parole affettuose le squadre divenute più un
ingombro che un aiuto, ma invitava ancora una volta quanti Siciliani
fosser disposti a restar nell’armi, a prender ferma regolare nei quadri
de’ suoi Mille coi quali pensava di formare due brigate, destinate a
percorrere l’Isola per impiantarvi il Governo nazionale, reclutar nuova
gente e far atto di signoria.

Non meno importanti, se non tutte ugualmente saggie, erano le
provvisioni che i suoi Ministri gli _facevano firmare_ (ogni altra
parola sarebbe impropria) per l’ordinamento politico e amministrativo.

Il Crispi ceduto il portafoglio delle finanze a Domenico Peranni, e
tenutosi per sè l’Interno e la Segreteria della Dittatura, divideva
l’Isola in ventiquattro Distretti, ponendo a capo di ciascuno un
Governatore; intraprendeva l’organizzazione della Polizia e della
Pubblica Sicurezza con questori, delegati, milizie a cavallo; tentava
ricostruire le vecchie Municipalità, restaurando in carica i deposti
o gli sbanditi del 1848; commetteva il giudizio de’ reati comuni a
Commissioni speciali, parte civili e parte militari. Dal canto suo
l’Ugdulena otteneva dal Dittatore lo scioglimento delle compagnie de’
Gesuiti e de’ Liguorini;[90] il Peranni, l’abolizione del macinato,
dei dazi d’entrata sui cereali, e di qualunque altra gabella decretata
dal Governo borbonico dopo il 15 maggio 1849; indi l’assegnamento d’una
quota sui beni pubblici dei Comuni ai soldati della patria e il divieto
di pagare qualsiasi tassa al Governo caduto, e l’obbligo di versarle
tutte nelle casse del nuovo. Di quando in quando in mezzo a questi
decreti di scopo politico e finanziario, parti esclusivi della mente
dei Ministri, ai quali Garibaldi non faceva che apporre il suo nome, ne
compariva qualcuno di veramente pensato e voluto da lui, che portava
manifestamente l’impronta del suo animo generoso e delle sue idee
filantropiche, e che si poteva dire, senza tema di fallire, tutto suo.

Ora aboliva il titolo di _eccellenza_, e l’usanza del baciamano,
vergognose reliquie della servitù; ora si volgeva «al bello e gentile
sesso di Palermo,» perchè soccorresse della sua carità l’Ospizio dei
lattanti e degli orfani di Palermo, «dove novanta su cento lattanti
perivano di fame;[91]» ora infine decretava la demolizione del forte
di Castellamare, «conservando soltanto le batterie che difendono il
porto e battono la rada;» alla qual’opera si videro accorrere, per più
giorni, uomini, donne, nobili, plebei, laici, frati, il popolo intero,
lieto di offrire quel tributo, quasi direste quella giornata di fatica
servile alla patria tornata signora.[92]


XXV.

Certo ben pochi di questi Decreti passeranno alla posterità come
esemplari di sapienza politica o legislativa. Quello che richiamava in
ufficio i proscritti del 48, ridesta alla memoria la follía di Vittorio
Emanuele I di Sardegna, il quale, ristaurato ne’ suoi Stati, si pensò
bastasse ripubblicare l’_Almanacco reale del 1815_ per riavere tutta
la sua vecchia magistratura. La istituzione dei tribunali speciali
era un’offesa alla giustizia della libertà rinascente; l’abolizione
tumultuaria del macinato e d’ogni altra gabella fruttuosa era, per
non dirne peggio, una solenne imprudenza; ma per quanto severa voglia
essere la storia, essa finirà coll’ascoltare le molte circostanze
attenuanti, e conchiuderà con una mite sentenza. Non si dimentichi che
la Dittatura era uscita dal seno d’una rivoluzione; che il Governo,
privo della consacrazione del tempo e della tradizione, era costretto
a cercare il suo principal fondamento sulla popolarità; che infine il
paese, inasprito da lunghi dolori, era avido di novità e di riforme,
le quali era assai dubbio fino a qual punto fosse saggio il concedere
o il rifiutare. Oltre a ciò, nulla di quanto il Governo borbonico
lasciava dietro di sè poteva più essere conservato. Magistrati, leggi,
consuetudini, tutto era fradicio, e tutto conveniva spazzar via e
rinnovare: impresa ardua in tempi calmi anco ai più esperti, ma che
ad uomini cresciuti fino allora o nei sogni delle congiure, o nelle
speculazioni della dottrina, e affatto nuovi alla pratica dei governi,
doveva riuscire difficilissima e quasi invincibile.

Ma nè la loro apologia, nè la loro censura è dell’ufficio nostro. A
noi si aspetta soltanto giudicar anche in questo l’opera di Garibaldi;
e ne pare che il giudizio si riassuma in queste parole: egli nulla
ne intendeva, nè poteva intenderne. Nè la vita del mare, nè quella
de’ campi, nè la tebaide di Caprera, nè gli esempi di Bento Gonzales,
del Ribera e dell’Oribe, l’avevano per fermo preparato ad essere un
reggitore di Stati. Qual fosse per lui l’ideale più eccelso delle
società umane, noi lo sappiamo: lo stato di natura; epperò anche il
governo patriarcale era il più perfetto modello di governo, cui egli
sapesse aspirare. Finanze, polizia, imposte, tribunali, congegni
amministrativi, erano per lui meccanismi artificiali, superfetazioni
oppressive, inventate dalla nequizia o dall’astuzia umana, delle quali,
potendo, avrebbe fatto tavola rasa; non potendolo, si rassegnava a
subirle, ma in cuor suo sprezzandole ed abborrendole. Ora con queste
idee pel capo, non solo non si governano gli Stati, ma si resta inetti
a discernere chi possa meglio governarli per voi; e fu questa la
sorte di Garibaldi. Creato dalla meritata fortuna Dittatore di nove
milioni d’uomini, egli non sarà mai in effetto che un regolo dimidiato,
metà genio, metà automa: nel campo di battaglia sovrano possente ed
invincibile; nella corte, nel foro, nel reggimento civile, pupillo e
stromento di chi lo attorniava e consigliava. E però ognuno di que’
Decreti che egli aveva già firmati o firmerà, portava a’ piedi il
suo nome; ma il suo spirito poteva dirsene assente e la sua coscienza
irresponsabile. Nè ciò fa la sua lode; aggiunge solo un chiaroscuro
caratteristico alla sua figura. Una cosa sola egli vide, e ben chiara,
nella sua Dittatura, dallo sbarco a Marsala all’arrivo in Napoli:
differire l’annessione del Regno alla Monarchia di Vittorio Emanuele
fino a che la rivoluzione, che doveva gettare le prime basi all’unità
dell’Italia, non fosse compiuta. E ciò chiarirà meglio chi non voglia
stancarsi di leggere queste pagine.


XXVI.

Frattanto il favore della causa siciliana cresceva nell’opinione
europea, ed ogni giorno le arrecava nuovi conforti e nuovi soccorsi.

Fin dal 6 giugno gettava l’àncora nella rada di Palermo l’ammiraglio
Persano, il quale, scambiate con Garibaldi visite e cortesie pubbliche
ed ufficiali, pareva assumesse la rivoluzione sotto l’egida della
bandiera sarda, e accresceva colla sola sua presenza la forza
morale del nuovo Governo. Parimenti, il 22 del mese stesso sbarcava
a Castellamare Siculo la seconda spedizione capitanata da Giacomo
Medici; ordinata più apertamente sotto il patrocinio del Governo sardo,
scortata da’ suoi legni di guerra per tutta la traversata, e che ora
veniva a recare a Garibaldi il gagliardo soccorso di tremilacinquecento
volontari, ottomila carabine rigate (_rifles_ inglesi) e
quattrocentomila cartucce.[93] Cosa infine altrettanto importante, il
Governo di Francesco II andava stendendo la mano a tutte le Potenze
d’Europa, non escluso l’abborrito Piemonte, per mendicare da queste la
mediazione, da quelle l’alleanza, senza ottenerne altra risposta che
di parole evasive, di sterili compianti o di vergognose proposte, le
quali tutte parevan ripetergli in vario metro che l’ultima sua ora era
suonata.

Garibaldi intanto pensò a trar profitto dei ben venuti soccorsi per
dare un passo avanti e preparare la conquista totale dell’Isola.
Raccolta colle due brigate del Bixio e del Türr, di cui già dicemmo
intrapreso l’ordinamento, e con la novella brigata del Medici, la
meglio ordinata ed armata fra tutte, una forza di circa seimila uomini,
esercito formidabile per il guerrillero vincitore di Palermo, pose
in esecuzione il disegno, fino allora soltanto per mancanza di forza
ritardato, di occupare militarmente i centri principali dell’Isola,
serrando sempre più dappresso l’estreme trincee dell’esercito
borbonico.

A tal uopo manda la brigata Türr per la via di Villafrati, Santa
Caterina, Caltanissetta e Caltagirone ad occupare Catania; la brigata
Bixio per la via di Corleone a Girgenti, per risalire poi di là
la costa orientale; e quella del Medici ad invadere per la strada
littoranea di Termini la provincia di Messina, ed a portarsi quanto
più vicino le fosse concesso alle linee borboniche. Ora, per la sua
posizione più inoltrata, la colonna Medici doveva essere la prima a
scontrarsi col nemico, forte ancora di otto in diecimila uomini, assiso
in una gagliarda postura militare, padrone del forte di Milazzo, chiave
della via che conduce a Messina.

Ma prima di narrare del combattimento di Milazzo, che compì la
liberazione dell’Isola, ci è d’uopo dire brevemente una parola d’un
accidente, che poco mancò fosse origine di dolorosa discordia; ma di
cui se a qualcuno risale la responsabilità e la colpa, non fu certo a
Garibaldi.


XXVII.

Era sbarcato a Palermo, coll’ammiraglio Persano, Giuseppe La Farina.
Era partito per volontà sua, senza mandato positivo ed ufficiale,
in apparenza per osservare, studiare, portare il tributo della sua
opera e del suo nome; in realtà per mestare ed intrigare. Appena
giunto, cominciò a trovare tutto malfatto e spregevole: il Governo, la
negazione d’ogni governo; i Ministri, o ribaldi o inetti; Garibaldi
quasi uno scemo. Errori parecchi, lo dicemmo noi pure, erano stati
commessi; ma il La Farina, anzichè alleviarli coi consigli amichevoli
e leali, coll’aspra e superba censura li ribadiva e peggiorava.
Ostentando l’amicizia del conte di Cavour, atteggiandosi a suo unico
interprete e rappresentante, anticipava in Sicilia lo scoppio di
dissidii partigiani, che ancora non erano nati. Stimando panacea
a tutti i mali la subita convocazione d’un’Assemblea siciliana che
votasse a precipizio l’annessione dell’Isola alla Monarchia di Vittorio
Emanuele, non adoperava nella predicazione di questo suo concetto, per
tanti rispetti disputabile, alcuna cautela e misura. Fattosi centro
d’una camarilla di nobili e di dottrinari, impazienti di porsi in
tutela d’una Monarchia, e più pensosi certamente, in quel momento, del
trionfo della lor parte che della redenzione d’Italia e della salute
dell’Isola loro, in luogo di dar loro consigli di tolleranza e di
prudenza, li pungolava, li aizzava, prestava la mano a tutte le mène
o occulte o palesi, colle quali essi tentavano isolare il Dittatore da
tutti i suoi amici, e renderlo stromento de’ loro disegni.

Il Crispi, vuoi per la naturale asprezza dell’indole sua, vuoi per
l’infelice genía di persone di cui aveva inondati i pubblici uffici,
vuoi per la politica fin troppo rigidamente unitaria con cui sfatava
le speranze e rompeva le trame dei regionali, partito antico e sempre
potente nell’Isola, era infatti divenuto inviso a moltissimi e quasi
impopolare. Però non tardò il giorno in cui i Palermitani, soffiando
il La Farina, ne chiesero il congedo al Dittatore. Questi in sulle
prime riluttò, repugnandogli giustamente di staccarsi da colui ch’egli
reputava uno de’ più energici fattori della spedizione di Sicilia, e
nella questione suprema della redenzione ed unità nazionale sapeva fido
interprete ed esecutore delle sue più care idee. Tuttavia, per amor di
concordia, s’era alla fine rassegnato a togliere a lui ed ai principali
suoi compagni il portafoglio, eleggendo in lor vece un nuovo Ministero
d’uomini creduti o neutrali o conciliativi, e sui quali per la dignità
del nome e del carattere primeggiava il marchese di Torrearsa. Se
non che, indi a pochi giorni avendo anche il Torrearsa rassegnato
l’ufficio, questo passò subito al barone Natoli, probo Siciliano,
appena tornato dall’esilio, ma amicissimo del La Farina. Poteva questi
esserne soddisfatto; ma poichè Garibaldi, perdurando a confidare nel
Crispi, l’aveva nominato Segretario della Dittatura, ecco riscoppiare
anche più accese le ire del La Farina, cagione d’altre agitazioni e
di nuove trame. A sentirlo, il Crispi era la rovina della Sicilia;
imminente lo scoppio della collera popolare; fra una settimana, fra
quindici giorni al più, certa la caduta della Dittatura e la fine di
Garibaldi.[94]

Indarno parlava per questi la fedeltà da lui tenuta fino a quel giorno
al programma di Marsala; indarno la ragione categorica che, proclamando
subito l’annessione, il moto fino allora felicemente avviato arenava e
l’Italia, a cui un varco sì insperato s’era dischiuso, veniva arrestata
nuovamente al Faro; indarno, infine, lo stesso conte di Cavour faceva
raccomandare al La Farina di non affrettarsi ad agire «e di aver
pazienza, dovendosi ad ogni costo evitare urti col Generale:[95]» il
fervente emissario non sapeva nè avere nè dar pace, fin che venne il
giorno in cui Garibaldi, stanco di quel fanatico cadutogli fra i piedi,
perduta la pazienza, lo sfrattò dalla Sicilia in 24 ore.

Nè la piena giustizia del bando potrà essere contrastata. Il La Farina
non era più che un cospiratore arrabbiato e pericoloso, e il governo
nascente d’un paese in guerra non lo avrebbe potuto soffrire più a
lungo senza mettere a repentaglio la salvezza dello Stato, di cui gli
era stata commessa la Dittatura. Ma se la pena era meritata, il modo
aveva offeso. I confini della incolpata tutela erano stati inutilmente
violati; le dure necessità della guerra con un brutale oltraggio
superfluamente inasprite.

L’articolo del Giornale Ufficiale di Palermo, col quale il bando del La
Farina era annunciato assieme a quello di due spioni côrsi,[96] fu una
selvaggia rappresaglia, un lusso grossolano di durezza, che Garibaldi
non doveva permettere se lo conosceva prima, e conosciutolo dopo doveva
sconfessare e punire.[97]

Ciò detto, però, il torto del La Farina non cessa d’essere
inescusabile; e chiunque abbia scorso quel suo triste _Epistolario_, in
cui gli atti ed i pensieri del suo soggiorno in Sicilia sono riflessi
come in uno specchio, potrà farne testimonianza. Volere l’annessione
della Sicilia prima della sua compiuta liberazione, era un’insania;
volerla quando da due mesi non v’era atto o parola di Garibaldi che
non bandisse, affermasse, glorificasse il nome di Vittorio Emanuele,
era ingiuriosa diffidenza e grossa gratitudine che conchiudeva alla
peggiore delle politiche. La poteva giustificare un argomento solo:
che l’Isola fosse in piena anarchia; ma quest’anarchia non era che
un sogno del La Farina. La confusione era più alla superficie che
al fondo; nessun arbitrio scandaloso, nessuna discordia pubblica era
accaduta, e il prestigio del nome di Garibaldi era ancora sì grande,
che bastava esso solo, come in quei primi mesi bastò, a tener luogo
di governo e di leggi. Lo stesso conte di Cavour, che pure ingannato
dalle amplificazioni lafariniane non vedeva dapprincipio altra salute
che nell’annessione immediata, aveva finito per non reputarla più
così urgente e necessaria come da prima aveva stimato, e il 30 giugno
scriveva esplicitamente al Persano che, «se il generale Garibaldi
non vuole l’annessione immediata, sia lasciato libero di agire a
suo talento.[98]» Il La Farina adunque non poteva dirsi nemmeno
l’interprete fedele del pensiero del suo alto committente; egli lo
esagerava, lo svisava, e dicasi pure per innocente zelo, da segnacolo
di concordia che doveva essere, ne faceva un’arme di guerra, un tizzone
di discordia, un lievito di partiti; rischiando egli per il primo di
ritardare o guastare quell’unione, che tutti, e prima d’ogni altro
Garibaldi, fermamente volevano.


XXVIII.

Frattanto il Medici aveva continuato la sua marcia; se non che giunto a
Termini e di là udito che il presidio di Messina muoveva su Barcellona
per guadagnarvi quell’importante postura e punire la città di non
sappiamo quale riotta liberale, delibera accelerare il passo nella
speranza di occupar Barcellona prima del nemico e di contrastargliela.
E così accadde. Il Medici, giunto a Barcellona quando appena la
vanguardia borbonica appariva a Milazzo, tolse a questa ogni voglia e
ragione di procedere oltre; talchè al Comandante garibaldino avanzarono
ancora alcuni giorni per dar riposo alle sue milizie e apparecchiar più
pensatamente le mosse ulteriori.

A mezza tappa da Barcellona, a poche miglia da Messina, sorge una
piccola terra detta Meri, che prende il nome dal torrentello dello
stesso nome, il quale calando da’ monti di Santa Lucia mette foce nel
mare. Il fiumiciattolo, asciutto molti mesi dell’anno, non oppone,
specialmente nell’estate, alcun ostacolo d’acque; ma per il suo letto
incassato, rotto e sassoso, e le ripe costeggiate da muraglie di orti
o da siepi di aloe, può far le veci in caso di estremo bisogno d’un
simulacro di difesa.

Oltre a ciò, di là da Meri correva dinanzi al villaggetto di Coriolo
un rio dello stesso nome che veniva a tracciare, meglio che a formare,
un’altra linea più avanzata, la quale avrebbe potuto aiutare non diremo
ad arrestare, ma a ritardare d’alcun poco un’aggressione nemica. In
questa posizione, la migliore che il terreno consentisse, decise
di appostarsi il Medici, e barricata la strada presso il Coriolo;
piantativi in batteria due pezzi d’artiglieria accattati a Barcellona;
colla destra a Santa Lucia; il centro e la sinistra lungo il Meri; gli
avamposti tra Coriolo e San Filippo, si tenne, scarso di forze com’era,
e conoscendo le soverchianti del nemico, nella più circospetta e
serrata difesa.

I Borbonici invece accennavano a voler ripigliare l’offesa, non a
dir vero per espresso comando del Governo napoletano, ma per occulta
volontà dello stesso Francesco II. Infatti a Napoli erano accaduti,
dal giorno della perdita di Palermo, alcune novità che importa
brevemente rammentare. Re Francesco, impaurito dal montar sordo della
rivoluzione, istigato da’ suoi consiglieri, o inetti o traditori,
aggirato dalla Diplomazia, pressato da’ suoi stessi parenti, aveva
finito col concedere una Costituzione, a cui nessuno, e primo di
tutti il largitore, credeva. Cedendo poi così ai consigli dei suoi
nuovi Ministri,[99] come agl’inviti capziosi del conte di Villamarina,
ministro di Sardegna e manipolatore in Napoli di tutte le trame del
conte di Cavour, s’era già indotto ad entrare in negoziati colla
Corte di Torino, accettando per base alle trattative l’abbandono della
Sicilia, se Garibaldi rinunciava ad invadere il Regno, l’alleanza col
Piemonte e l’accordo con lui nella politica nazionale. A quale poi
fra questi giuocatori di vantaggio, che di negoziatori leali avevan
perduto ogni titolo, s’aspetti il primato della mala fede, sarebbe
difficile il dire. Fra il conte di Cavour, che mentre negoziava con Re
Francesco cospirava a subornargli l’esercito e la flotta, armeggiando
contemporaneamente contro Garibaldi onde levargli di mano l’impresa,
e Liborio Romano, abbietto cittadino di Gand, che accettava il potere
dalle mani del suo Re per tradirlo più al sicuro; fra il generale
Nunziante, che oggi prometteva di farla finita col _Filibustiere_,
e dimani nell’ora del pericolo abbandonava la bandiera che l’aveva
fatto nobile e ricco, e non sapendo essere nè apertamente ribelle, nè
religiosamente fedele, cospirava ad involgere nella sua perfidia i suoi
antichi camerata,[100] e l’ammiraglio Persano che faceva l’assisa della
Marina italiana mezzana e complice di tutte codeste frodi e di codesti
mercati, la storia sarà incerta a cui dare la palma, ma certo l’ultima
fronda non toccherà a Francesco II. Anch’egli, ingannato da tutti,
sperava tutti ingannare; e mentre blandiva di promesse il popolo, gli
aizzava contro segretamente la sua Guardia del Corpo; mentre giurava
la Costituzione, sollecitava aiuti dall’Austria, dal Papa, dalla
Russia; infine, mentre inviava i suoi Ministri a Torino per trattare
dell’alleanza nazionale, e dicevasi pronto a rinunziare alla Sicilia,
eccitava, all’insaputa de’ suoi Ministri, i suoi Generali alla ripresa
dell’Isola e li soccorreva per questo di nuove armi ed armati.

Codesto suo desiderio sarebbe rimasto forse inadempiuto, se non avesse
trovato un fautore ardente, e un esecutore devoto ed intraprendente
nel colonnello Beneventano Del Bosco, che già incontrammo a Salemi, al
Parco, a Corleone; più vantatore forse che prode; ma certo uno degli
ufficiali più popolari dell’esercito borbonico, il quale, indettatosi
col Re, gli promise non solo di conservargli Milazzo, ma di passare sul
corpo del Medici alla riconquista di Palermo.

Sbarcato infatti da più giorni a Messina, e compostasi una colonna di
circa cinquemila uomini, fra i quali il suo ottavo Cacciatori, muoveva
di là alla volta di Milazzo; e lasciato un battaglione di custodia
alle importanti posizioni di Gesso, in sul mattino del 17 arrivava
col grosso presso Archi, a breve tratto dagli avamposti garibaldini.
Siccome però anche il Medici non era stato colle mani alla cintola, e
fin dal mattino aveva spedito una delle sue compagnie a riconoscere
al di là di Coriolo l’annunciato nemico, accadde che appunto presso
Archi l’avanguardia regia e gli esploratori garibaldini si scontrassero
e venissero alle mani. Il combattimento fu breve e di poco momento:
molto, come al solito, il numero de’ Borbonici; molto il valore de’
Garibaldini; ma nè da una parte nè dall’altra alcun decisivo vantaggio.


XXIX.

Dopo questo però il Comandante borbonico, sia che volesse riconoscere
più a fondo le forze e le posizioni dell’avversario; sia che sperasse
con un subitaneo assalto sorprenderlo e sgominarlo (ciò è ancora
controverso), deliberò di deviare per poco dalla via presa e di
attaccarlo nel giorno stesso, col grosso delle sue forze, nel centro
delle sue linee. Ma o ricognizione o attacco, nulla di quanto il Bosco
aveva premeditato gli riuscì. Assaliti quasi contemporaneamente dalla
destra e dal centro, nessuno dei posti garibaldini indietreggiò d’un
passo. Spiegatosi più furioso l’attacco contro la barricata della
strada di Coriolo, questa tenne fermo; accostatosi il nemico e venuto
l’istante della baionetta, la carica fu sì concorde, sì impetuosa,
che i Regi andarono cacciati colla punta alle reni fino al di là di
Coriolo, rischiando di perdere un cannone, che a stento salvarono. Il
Medici però non poteva illudersi; era evidente che il Bosco, qual che
fosse stato il suo scopo, non aveva impegnato che una parte delle sue
forze; e il giorno in cui le avesse spiegate tutte, il rischio poteva
esser grave. Telegrafò quindi al Comandante in capo il buon successo
del 17, ma insieme i pericoli da cui era minacciato.

Ed all’annunzio Garibaldi deliberò di partir immediatamente pel
campo. Fin dal 7 luglio, la terza spedizione del Cosenz, forte di
ben millecinquecento uomini, ben armata ed istrutta, era giunta a
Palermo e già incamminata per Messina; un altro battaglione, comandato
dall’inglese Dunn, grosso non più che di quattrocento uomini, stava
pronto alla partenza; il caso volle che proprio nella mattina del 18
quel battaglione, comandato da Clemente Corte, che era stato preso
dai Regi in mare e tradotto a Gaeta, ora liberato dalla tediosa
prigionía approdasse egli pure a Palermo; infine il 12 luglio il
capitano Anguissola, comandante della corvetta regia la Veloce,[101]
dando per il primo l’esempio della rivolta, conduceva al Dittatore
in Palermo il proprio legno e gliene faceva dedizione. Tutto sommato
pertanto, Garibaldi possedeva già un principio di marina da guerra, e
poteva portare al Medici un soccorso di circa duemila baionette, forza
straordinaria al paragone di quella con cui aveva vinto fino allora.

Lasciata quindi la prodittatura al general Sirtori; avvisata la
colonna del Cosenz di affrettare la marcia; presa seco sulla Veloce,
ribattezzata col nome di Tükery (quel prode Magiaro, morto nella presa
di Palermo), la gente del Dunn e del Corte, salpa il 18, mattina, per
Patti; colà preso terra, continua in vettura col Cosenz, che l’aveva
raggiunto, per Meri, dove arriva la sera del giorno stesso. Il suo
arrivo suonava battaglia, lo intesero e glielo fecero intendere colla
loro entusiastica accoglienza i volontari del Medici, e il presagio
s’avverò.

Spesa la giornata del 19 ad esplorare co’ suoi Luogotenenti le
posizioni del nemico, e ad attendere l’arrivo delle truppe in marcia,
decise per l’indomani l’attacco di Milazzo.

_Qu’est ce que c’est que Milazzo?_ chiedeva Napoleone I a suo fratello
Giuseppe, quando meditava egli pure una spedizione in Sicilia. Quel
che fosse allora esattamente, non sapremmo dire; quel che sia oggi,
eccolo. Milazzo sorge alla base d’un istmo sottile, congiunto alla
terra mediante tre strade principali, quella d’Archi e Spadafora
all’oriente, che lo allaccia a Messina; quella di San Pietro Meri
a mezzogiorno, e quella di Santa Marina Meri a occidente, che lo
annodano alla strada consolare di Barcellona, quindi all’interno
dell’Isola. La città, di circa diecimila abitanti, è cinta da vecchie
mura, costrutta in pendío e coronata alla sua estremità settentrionale
da un castello a due piani di fortilizi, capace di alcune migliaia
d’uomini e di parecchie batterie. Il terreno che lo circonda più arido
a levante, più ubertoso a ponente, è, in generale, basso, coperto,
privo d’orizzonte, intersecato da acque frequenti, frastagliato di case
e di molini, irretito, a dir così, entro una maglia di viottole che
corrono, nella parte coltivata, tra continue muraglie di giardini e di
vigneti, e nell’incolta tra folti canneti, che cessano soltanto dove
comincia la nuda e sabbiosa spiaggia del mare, detta di San Papino,
dominata da tutte le feritoie del Castello. Ora non è chi non veda
che siffatto terreno quanto è propizio a chi debba difenderlo di piè
fermo, altrettanto è avverso a chiunque tocchi traversarlo palmo a
palmo e conquistarlo di viva forza. Tuttavia Garibaldi confidò ancora
nel valore de’ suoi, nel suo genio e nella sua stella, e decise la
battaglia.

Semplicissimo come al solito, ma logico, chiaro, antiveggente il
disegno. Giustamente prevedendo che il Bosco avrebbe rivolto il maggior
suo sforzo contro la destra garibaldina, per tentare di sfondarla e
piombare sulla sua linea di ritirata; non che temerla, delibera di
invogliarlo a quella mossa; ma intanto che il nemico concentrerà il
grosso delle sue forze sulla sua sinistra, attaccarlo col maggior nerbo
della propria gente sulla destra e pel centro, camminando direttamente
su Milazzo. A tal uopo ordina che il Malenchini si porti, per la strada
di Santa Marina, contro la sinistra del nemico e appena scopertolo lo
assalti; commette al Medici e al Cosenz di avanzare col reggimento
Simonetta e il battaglione Gaeta per la strada di San Pietro,
spingendosi pel centro e per la destra contro la città; affida a
Niccola Fabrizi di occupare con un’improvvisata legione di Siciliani la
strada di Spadafora per antivenire una eventuale sortita del presidio
di Messina; delibera infine che il battaglione Dunn e la colonna
Cosenz, già partiti fino dall’alba da Patti, col battaglione Guerzoni,
lasciato a guardia di Meri, formino la riserva.

Alle 5 del mattino tutti furono in moto: alle 7, il Malenchini aveva
già aperto il fuoco presso San Papino; poco dopo anche il Medici
incontrava al di là di San Pietro il nemico; e il combattimento
s’accendeva su tutta la linea. Se non che il Bosco che, come Garibaldi
aveva preveduto, teneva in serbo il massimo delle sue forze sulla
sua sinistra, accoglie l’assalto del Malenchini con tale furia di
mitraglia, che il prode Colonnello, malgrado i più gagliardi sforzi per
contenere e riordinare le sue giovani milizie, è costretto a ripiegare
rotto e disordinato sulla strada di Meri. Ciò eccedeva il desiderio di
Garibaldi; egli voleva bensì impegnare in serio combattimento il nemico
da quel lato; ma non certo lasciarlo padrone del terreno, e molto meno
della sua linea di ritirata. Occorreva dunque riparare tostamente
all’inatteso rovescio, e lo soccorse ancora il suo prodigioso colpo
d’occhio. Ordinato al Cosenz di spingere il battaglione Dunn, arrivato
per fortuna in quel punto, in sostegno del Malenchini, si caccia egli
stesso, alla testa de’ Carabinieri genovesi e delle poche Guide, sul
fianco del nemico per arrestarne la foga irrompente. Ma i _bianchi_
del Dunn non sono in sulle prime più fortunati de’ _neri_ del
Malenchini:[102] chè uno squadrone di cavalli lanciato a tempo contro
di loro, li mette in rotta, sperdendoli fra i canneti e le siepi che
lungheggiano la via. In quel punto però Garibaldi co’ Carabinieri
riusciva sul fianco nemico, sicchè gli Usseri reduci dalla carica, poco
dianzi vittoriosa, si trovarono fra due fuochi in faccia a Garibaldi,
che intimava loro la resa. E accadde allora la famosa lotta a corpo
a corpo di Garibaldi, sceneggiata a penna ed a matita in tante guise
diverse; ma che sfrondata dalle frasche romanzesche avvenne veramente
così.[103]

Il generale Garibaldi era a piedi, in un campo di fichi d’India,
seguíto e attorniato dal Missori, dal capitano Statella dello
Stato Maggiore, da due o tre altre Guide e da qualche quadriglia di
Carabinieri appiattati qua e là dietro le siepi. All’arrivare della
cavalleria, quanti erano presso il Generale cercarono di coprirlo
del loro meglio; ma il Capitano borbonico galoppò direttamente su di
lui, e senza sospettare qual nemico gli stesse di fronte, gli menò
un terribile fendente, che l’avrebbe certamente tagliato in due se
Garibaldi, parando con maravigliosa agilità e freddezza e ribattendo
subito colpo con colpo, non avesse spaccato egli la testa del Capitano.
Intanto anche il resto della scorta non si era rimasta inerte: il
Missori con alcuni ben appuntati colpi di revolver rovesciava due o
tre cavalieri; lo Statella, rimasto poco dopo ferito, ne atterrava
un altro; i Carabinieri, le Guide si precipitarono per partecipare
alla zuffa; sicchè di tutto quel bello squadrone di Usseri pochissimi
rientrarono in Milazzo; la più parte rimasero sul terreno feriti o
prigionieri.

Questo episodio aveva arrestato l’irrompere del nemico sulla sinistra;
dal canto suo il Medici e il Cosenz, rinforzati da nuovi soccorsi,
guadagnavano a prezzo di preziosissime vite (pianta fra tutte la morte
del maggiore Filippo Migliavacca, uno dei prodi di Roma e di Varese)
nuovo terreno; ma la battaglia era tutt’altro che vinta. Il ponte del
Coriolo, gli sbocchi dei canneti, le case dei sobborghi erano ancora
in potere dei nemici; e non appariva chiaro nè con quante forze vi
stessero, nè con quali avrebbero potuto esserne sloggiati.

A quel punto Garibaldi divinava il segreto della vittoria. Indispettito
contro quelle bassure paludose e assiepate che gli impedivano di
vedere gli andamenti della giornata, andava cercando intorno a sè un
punto culminante d’onde dominare il campo; quando l’occhio gli cadde
sulle antenne del _Tükery_, che sbarcata la sua gente a Patti arrivava
per l’appunto nelle acque di Milazzo. Ora veder quel bastimento
e fabbricarvi sopra un intero stratagemma di guerra, fu un punto.
Raccomandata al Cosenz quell’ala della battaglia, si butta con pochi
aiutanti in una barca, voga fino al _Tükery_; salitovi, arrampica sulla
gabbia dell’albero maestro e di là scoperto finalmente tutto il teatro
della battaglia, scende, fa accostare il _Tükery_ a tiro di mitraglia,
e aspettato che una colonna sortisse di Milazzo per riassalire
la sua sinistra, la fulmina di fianco, l’arresta come tramortita
da quell’inatteso attacco, e la costringe poco dopo a rientrare
scompigliata in Milazzo.

Il colpo felice ridà tempo e lena ai Garibaldini; il Medici e il
Cosenz hanno riordinato le loro truppe e le preparano ad un nuovo
assalto. Garibaldi, fatto sbarcare dal _Tükery_ un manipolo d’armati,
probabilmente la scorta del bastimento, e mandatili a scaramucciare
sul lato settentrionale del forte, ridiscende egli stesso a terra
a rianimare il combattimento sulla sinistra; le ultime riserve sono
impegnate: il Guerzoni arriva al passo di corsa sul campo di battaglia;
un ultimo assalto quindi è ordinato; i canneti a sinistra, il ponte
di Coriolo di fronte, le case di destra, terribili strette, son tutte
superate: i Cacciatori del Bosco mandano fuori dai loro ripari un fuoco
infernale; le perdite degli assalitori sono numerose e dolorosissime;
il capitano Leardi morto; il Corte, lo Statella, il Martini, il Cosenz
stesso, feriti; ma il nemico è in fuga, la porta di Milazzo è presa; i
Garibaldini sono in Milazzo.

Però non è ancora la vittoria: la pianta della città è tale, che un
valido difensore ne può rendere esiziale il possesso. L’unica strada,
lunga, erta, tagliata a mezzo da una vasta caserma, che potrebbe
tener luogo d’un forte, mette, passando sotto un volto della caserma
stessa, al Castello che la domina, quindi la spazza a suo beneplacito.
Alcune compagnie risolute a difendersi in quella caserma, un fuoco
ben nutrito dal Castello, e una nuova battaglia diveniva inevitabile.
Fortunatamente il Bosco aveva già rinunciato a vincere. I difensori
della caserma, dopo alcune scariche, cercano riparo nel Castello;
i cannoni del forte non rallentano ancora, ma i Garibaldini con due
rapide corse si son già portati fuori del tiro; già investono, già
serrano il Castello da ogni parte, e prima del mezzogiorno piantano le
loro sentinelle a’ piedi delle sue mura.

La battaglia di Milazzo fu la più sanguinosa tra le combattute dalle
armi garibaldine nel Mezzogiorno. Degli assalitori sopra non più che
quattromila combattenti, settecento tra morti e feriti restarono sul
campo; più d’un sesto quindi della forza, proporzione enorme nelle
guerre moderne. I Regi invece si gloriarono di non aver perduto che
centosessantadue uomini sopra milleseicento: ridevole menzogna e
incauto vanto insieme! Menzogna ridevole, poichè a tutti è noto che il
solo Bosco condusse in Milazzo un cinquemila uomini; vanto incauto, più
degno di commiserazione che di plauso, poichè se così scarse furono le
perdite dei vinti, non ha più giustificazione l’abbandono, in men di
tre ore, di posizioni formidabili; e la sconfitta che potrebbe essere
giustificata dalla gravità dei danni patiti, non si spiega più se non
colla dappocaggine dei vinti.


XXX.

Il 21 passò in entrambi i campi a contarsi e riposare; il 22 apparvero
inaspettati nel porto di Milazzo, prima due grossi legni mercantili
francesi, poi un avviso da guerra, _La Muette_, della stessa bandiera,
i quali venivano, noleggiati dallo stesso Governo di Napoli, per
imbarcarsi le truppe del Bosco e trasportarle sul Continente. Quando
però seppero della giornata antecedente e videro il Bosco bloccato
nel suo forte, tre di quelle navi partirono, e solo il _Protis_ restò
per farsi mediatore, insieme al Capitano del Porto, d’un trattato di
resa. E i Comandanti delle due parti non si ricusarono al negoziare; ma
Garibaldi chiedeva la resa a discrezione, minacciando far saltare il
Bosco e la sua truppa dalle rupi del Castello; il Bosco pretendeva la
sortita libera coll’onore delle armi, preferendo, diceva, ad una resa
disonorata saltare in aria con una mina; talchè l’accordarsi, se le
parole dicevano il vero, pareva impossibile.

   [Illustrazione: PIANO della BATTAGLIA DI MILAZZO]

Nella mattina del 23, altra e più grande sorpresa: quattro fregate
napoletane entravano nelle acque di Milazzo e si schieravano in
battaglia dinanzi alla città. A che venivano esse? Forse ad aiutare i
bloccati? Forse a ricominciare la lotta? Tale fu per alcuni istanti
il sospetto anche di Garibaldi; ma non andò guari che ogni cagione
d’allarme cessò. Quelle quattro navi venivano come quelle del giorno
precedente per imbarcare il presidio del Castello, e di più portavano
a bordo il colonnello di Stato Maggiore Anzani per trattare della
cessione del forte e di tutte le altre condizioni relative all’imbarco
ed alla resa.

Ora questo fatto, di cui occorrerà tra breve la spiegazione, vinse
tutte le incertezze. Il Bosco, da un lato, non aveva più nè motivo
nè diritto di ostinarsi in una difesa che il suo stesso Governo
non approvava; Garibaldi doveva benedire quelle quattro fregate che
venivano a liberarlo da un grande fastidio, se già non dovesse dirsi
da un serio pericolo; poichè se il Comandante borbonico resisteva,
prendere a forza di baionette, senza una sol bocca d’assedio, un
Castello cortinato e terrapienato, era cosa, anche a Garibaldi, più
facile a minacciarsi che a mantenersi.

Ne conseguì che la sera stessa del 23 i negoziati furono ripresi collo
stesso colonnello Anzani, e al mattino vegnente una Convenzione era già
sottoscritta, per la quale la truppa napoletana abbandonava il Castello
di Milazzo in armi e bagaglio e con tutti gli onori della guerra;
e il forte veniva consegnato al generale Garibaldi «con cannoni,
munizioni, attrezzi da guerra, cavalli, bardature degli stessi e tutti
gli accessorii appartenenti al forte, come all’atto della stipulazione
della Convenzione si trovavano.[104]»

E si badi che nessuno de’ cavalli, nemmeno quelli degli ufficiali,
molto meno quelli del colonnello Bosco, furono eccettuati. Che se
a taluno questa condizione a nemico patteggiato sembra insolita e
dura, eccone la spiegazione. Avendo i patriotti messinesi presentato
il colonnello Medici d’un superbo cavallo, il Bosco, fedele alla sua
indole millantatrice, s’era fatto sentire co’ donatori che tra poco
sarebbe rientrato in Messina proprio su quel cavallo da essi regalato
al suo compatito avversario. Ora come le sorti dell’armi posero il
colonnello Bosco tra i vinti, parve giusta rappresaglia ch’egli dovesse
cedere al vincitore precisamente quel medesimo onore ch’egli s’era
vantato di prendersi da lui, e che invece del Bosco sul cavallo del
Medici, i Messinesi dovessero salutare trionfante nella loro città il
Medici sul cavallo del Bosco.


XXXI.

E così avvenne. La risoluzione presa dal primo Ministero di Francesco
II, di rinunciare alla Sicilia per salvare il rimanente del Regno,
stornata un istante, siccome dicemmo, dagli occulti complotti della
Corte e dall’inane tentativo del colonnello Bosco, era stata ripresa
con più fermo proposito da un secondo Ministero,[105] e quelle quattro
navi che vedemmo apparire nelle acque di Milazzo e portarne via i
difensori, non erano in fatto che le prime esecutrici di quella nuova
politica di sottomissione o rassegnazione che il Gabinetto di Napoli
inaugurava. Ora quelle medesime navi avevano portato lo stesso ordine
al generale Clary, governatore di Messina, il quale dopo alcune finte
di resistenza finiva col sottoscrivere egli pure col generale Medici
la resa della città, salva soltanto alle truppe regie la cittadella,
la quale però non poteva compiere alcun atto di ostilità fino a che i
Garibaldini rispettassero la condizione di non assalirla.

Liberata così tutta la Sicilia, padrone di Messina, Garibaldi affissò
tutti i suoi pensieri in un punto solo: la passata dello Stretto e
l’invasione delle Calabrie.

Nè da questo scopo nulla valeva a distoglierlo; non le suggestioni
politiche, non le difficoltà militari. Alcuni giorni dopo la sua
entrata in Messina, il re Vittorio Emanuele gli aveva inviato, per
mezzo del conte Giulio Litta, la lettera seguente:

      «Generale,

  »Voi sapete che io non ho approvato la vostra spedizione, alla
  quale sono rimasto assolutamente estraneo. Ma oggi, la posizione
  difficile, nella quale versa l’Italia, mi pone nel dovere di
  mettermi in diretta comunicazione con voi.

  »Nel caso che il Re di Napoli concedesse l’evacuazione completa
  della Sicilia dalle sue truppe, se desistesse volontariamente
  d’ogni influenza e s’impegnasse personalmente a non esercitare
  pressione di sorta sopra i Siciliani, dimodochè essi abbiano
  tutta la libertà di scegliersi quel Governo che a loro meglio
  piacesse, in questo caso io credo che ciò che per noi tornerebbe
  più ragionevole sarebbe di rinunziare ad ogni ulteriore impresa
  contro il Regno di Napoli. Se voi siete di altra opinione, io mi
  riservo espressamente ogni libertà d’azione, e mi astengo di farvi
  qualunque osservazione relativamente ai vostri piani.»

Ora, fino a qual punto questa lettera potesse ingannare la
sonnacchiosa, ma non istupidita Diplomazia, è dubbio assai; certo ella
pareva fatta piuttosto per raffermare il proposito del Dittatore che
per iscrollarlo. Vecchia d’un mese, essa aveva perduto ogni valore
d’opportunità. Il Re vi dava un consiglio a Garibaldi, movendo da fatti
che erano totalmente cambiati. Ciò che, in un certo rispetto, poteva
esser vero quindici giorni dopo la presa di Palermo, non lo era più
dopo la battaglia di Milazzo e l’entrata in Messina. La condizione
imposta da Vittorio Emanuele al passaggio del Faro era già in gran
parte adempita. I Borboni avevano oramai sgombrata la Sicilia, ed essa
era arbitra de’ suoi destini. Garibaldi adunque poteva trovare nella
lettera regale piuttosto un nuovo argomento per affrettarsi che per
arretrarsi. Restava, è vero, quella clausola che i Siciliani fossero
liberi di eleggersi il Governo che loro tornasse più gradito, la
quale poi si traduceva ancora nel vecchio programma dell’annessione
immediata; ma senza dire che anche questa condizione era annullata
dagli stessi argomenti che infirmavano tutta la lettera, sappiamo che
su quel punto dell’annessione Garibaldi era incrollabile, e sappiamo
altresì che non gliene mancavano le ragioni. Rispose quindi al Re con
questa lettera altrettanto celebre:

      «Sire,

  »La Maestà Vostra sa di quanto affetto e riverenza io sia penetrato
  per la sua persona e quanto brami d’ubbidirla. Però Vostra
  Maestà deve poi comprendere in quale imbarazzo mi porrebbe oggi
  un’attitudine passiva in faccia alla popolazione del Continente
  napoletano, che io sono obbligato di frenare da tanto tempo, ed a
  cui ho promesso il mio immediato appoggio. L’Italia mi chiederebbe
  conto della mia passività, e ne deriverebbe immenso danno. Al
  termine della mia missione io deporrò ai piedi di Vostra Maestà
  l’autorità che le circostanze mi hanno conferito, e sarò ben
  fortunato d’obbedire per il resto della mia vita.»

Ora, questo è notabile, che la risposta di Garibaldi non solo
corrispondeva ai desiderii mal celati del Re Galantuomo, ma in quel
momento s’accordava col pensiero più intimo dello stesso conte di
Cavour. Egli infatti fino dal 25 luglio, udita la vittoria di Milazzo,
scriveva al Persano:[106]

  «Dopo sì splendida vittoria io non vedo come gli si potrebbe
  impedire di passare sul Continente. Sarebbe stato meglio che i
  Napoletani compissero, od almeno iniziassero l’opera rigeneratrice;
  ma poichè non vogliono, o non possono muoversi, si lasci fare a
  Garibaldi. L’impresa non può rimanere a metà. La bandiera nazionale
  inalberata in Sicilia deve risalire il Regno ed estendersi lungo le
  coste dell’Adriatico, finchè ricopra la regina del mare.[107]»

Soltanto circa un punto il conte di Cavour non aveva mutato parere, e
s’immagina quale: la pronta annessione. Sentendo però quanto fosse vano
il tentare la posizione di fronte, pensava come al solito a girarla di
costa, sperando che a ciò l’avrebbero aiutato, oltre che l’ingegno e
le circostanze, lo stesso Prodittatore che Garibaldi s’era chiamato al
fianco. Avremmo infatti dovuto dir prima che il generale Garibaldi fino
dalla metà del giugno aveva ceduto al consiglio di chiamare in Sicilia
un uomo di grido e di autorità politica, il quale assumesse la grande
bisogna dell’ordinamento dello Stato e lo rappresentasse come suo
Vicario o Prodittatore in tutti gli attributi del reggimento civile.

Nella scelta della persona ondeggiò alquanto. Egli avrebbe preferito, o
Giorgio Pallavicino, o Carlo Cattaneo; il Persano gli suggeriva invece
Agostino Depretis; il Re ed il Cavour gli profferivano Valerio; ma
infine, essendosi Garibaldi deciso per il Depretis, ogni opposizione
alla sua nomina cessò, e verso la metà del luglio questi partì
Prodittatore per la Sicilia.

Il conte di Cavour aveva torto di diffidare di lui. Agostino Depretis
non era de’ suoi amici, ma circa al problema dell’annessione era
pienamente d’accordo con lui; non la voleva, è vero, precipitata e
violenta; meditava prepararla a poco a poco, renderla necessaria,
ottenerla amichevolmente dalle mani di Garibaldi, non strappargliela:
ma infine la voleva quanto il Cavour stesso, e più che ad un Ministro
di Garibaldi si convenisse. Però quando il 22 luglio si presentò a
Garibaldi in Milazzo il Prodittatore non svelò tutto il suo pensiero;
si dimostrò anzi impaziente di dare un assetto stabile allo Stato,
promulgandovi al più presto lo Statuto e gli ordinamenti piemontesi (il
che fece tosto con molta lode sua); ma delle sue idee annessioniste
non fece motto; crescendo così subito nella fiducia del Generale, ma
preparandosi a perderla fra breve.




CAPITOLO NONO.

DAL FARO AL VOLTURNO. [1860.]


I.

Se la passata nel Regno era caldeggiata da quei medesimi che prima
l’avevano sconsigliata, l’eseguirla era impresa assai meno facile
di quanto, anche ai credenti nel genio e nella fortuna di Garibaldi,
potesse apparire.

L’esercito borbonico, non ostante le defezioni e le perdite, poteva
sempre mettere in linea un centomila uomini, e Garibaldi, sommati
insieme i Mille, le tre spedizioni Medici, Cosenz e Sacchi, la brigata
Türr di stanza a Catania e la brigata Bixio staccata a Taormina,[108]
non riusciva a rassegnarne diecimila. La flotta nemica teneva sempre
il mare con dieci fregate e cinque corvette a vapore, due vascelli e
quattro fregate a vela, senza contare i legni minori; e a tutte quelle
moli era già molto se la nascente marina siciliana poteva contrapporre
quattro o cinque piroscafi armati per ripiego, ed assolutamente
incapaci, non che a misurarsi col potente avversario, di recare, ad
una impresa tanto fortunosa qual è sempre uno sbarco di truppe, alcun
valido soccorso. E v’ha di peggio. La posizione dei Regi sullo Stretto
era formidabile. Dodicimila uomini protetti da una fitta linea di
forti guardavano da Bagnara a Reggio la costa calabrese; due grosse
fregate, il _Fieramosca_ e la _Fulminante_, fiancheggiate da legni
minori correvano il Canale e vi spadroneggiavano, infine sulla stessa
costa sicula possedevano nella cittadella di Messina un posto avanzato,
il quale, se altro non poteva, s’insinuava pur sempre come una spia
insidiosa nel campo garibaldino e nuoceva al segreto ed alla libertà
delle sue mosse.

Primo pensiero di Garibaldi perciò fu di uscire dalla città al
più presto e di trapiantarsi a Punta di Faro. E fu ispirazione
provvidenziale. Nessun luogo più opportuno all’impresa che Garibaldi
apparecchiava, di quella specie d’Istmo che costituisce la estrema
punta settentrionale dello Stretto e che, ora dalla sua forma e
giacitura, ora dalla torre che l’illumina, si chiama alternamente,
_Punta, Capo o Torre di Faro_. Posta tra l’alto mare e la parte
più angusta dello Stretto, essa era al tempo stesso un agguato, una
sfida ed uno zimbello. Un agguato, perchè nascondeva sempre la doppia
opportunità, o di traversare all’improvviso il Canale o di gettarsi
al largo per rischiare uno sbarco sopra un altro punto della costa
napoletana; una sfida, perchè minacciava, come un’opera avanzata, la
riva nemica, e opportunamente armata poteva ribattere i fuochi de’ suoi
forti e delle sue batterie; uno zimbello, perchè costringeva i Regi a
tenervi fissi gli occhi, ed a perdere di vista, per quel solo, tutti
gli altri punti.

Nessuno pertanto di questi vantaggi era sfuggito all’occhio esperto
del nostro Capitano; e senza aver in mente alcun concetto definito e
compiuto deliberò frattanto di fare di quella lingua di terra, obliato
nido di pescatori, la base delle sue operazioni e il campo delle sue
forze.

Eccolo quindi trasferire colà il suo Quartier generale: riunirvi le
due brigate Medici e Cosenz, tenendo pronta a raggiungerle quella del
Sacchi; farvi costruire batterie, ordinando all’Orsini di montarvi i
cannoni di grosso calibro presi a Milazzo ed a Messina; raccogliervi
infine, sotto gli ordini del Castiglia, un centinaio di barche da
pesca, che dovevano nella mente sua comporre la flottiglia da sbarco, e
tener il posto delle fregate da guerra di cui il nemico andava superbo.

Convintosi però che uno sbarco in massa, di viva forza, lungo lo
Stretto, era impossibile, Garibaldi deliberò sperimentare in sulle
prime il sistema dei colpi di mano, delle sorprese, degli assalti
alla spicciolata, mercè i quali afferrare un caposaldo sulla riva
opposta e preparare un colpo più decisivo. Infatti, nella sera dell’8
agosto, commetteva al calabrese Musolino di tentare, con una scelta
mano di volontari (lo secondavano come ufficiali, Missori, Alberto
Mario, Vincenzo Cattabeni), la sorpresa del forte Cavallo, e la
sommossa dell’ultima Calabria; e tre sere dopo, ordinava a Salvatore
Castiglia di sbarcare presso Alta Fiumara con altri quattrocento
uomini, che dovevano andare in rincalzo de’ primi e impadronirsi con
essi di qualche punto della costiera. È vero che nessuno di questi
tentativi riuscì: Musolino al primo colpo di cannone del forte, veduta
impossibile la sorpresa, non tentava nemmeno l’assalto e si rifugiava
nei forestali dell’Aspromonte; le barche del Castiglia, fulminate
dai fuochi incrociati delle fregate e delle batterie di terra, erano
costrette a virar di bordo e a ricorrere più che frettolose sotto la
tutela del Faro; ma ciò non ostante chi reputasse questi conati tutti
del pari infruttuosi, s’ingannerebbe a partito. Se altro buon effetto
non erano atti a produrre, questo di certo fruttavano: stancheggiavano
con allarmi e marcie continuate il nemico; ne dividevano le forze e
ne confondevano le idee, e sopra ogni cosa lo confermavano e quasi
indurivano nell’errore che unico disegno degl’invasori fosse la
traversata diretta del Canale: errore che Garibaldi aveva veduto
nascere con gioia, ch’egli stesso s’era studiato di nutrire e di
crescere, e che gli aprirà tra breve le porte del Regno.

Quando infatti vide i Borbonici ben bene sprofondati nell’illusione,
e fu certo ormai che tutti i loro sguardi e tutte le loro forze erano
converse all’unico punto del Faro, Garibaldi commette al Sirtori il
comando supremo dell’esercito, gli raccomanda di continuare come prima
in quelle finte e in quegli apparecchi che avevano tanto giovato fino
allora, e la notte del 12 scompare.

Dov’era andato?


II.

In sullo scorcio di giugno Agostino Bertani spronato dal Mazzini,
ma assenziente Garibaldi, aveva posto mano all’ordinamento d’una
spedizione destinata ad invadere gli Stati pontificii, e se la fortuna
secondava a spingersi anche nel Regno.

Il corpo (novemila uomini al più), commesso al comando supremo di Luigi
Pianciani, uomo più politico che guerresco, era diviso pomposamente in
sei brigate: una delle quali, agli ordini di Giovanni Nicotera, veniva
ordinandosi a Castelpucci poco lunge da Firenze e doveva da quel lato
penetrare nell’Umbria fino a Perugia; un’altra si raccoglieva nelle
Romagne ed aveva per obbiettivo le Marche; mentre le altre quattro
erano già radunate tra Genova e la Spezia col disegno di sbarcare sulla
costa pontificia in vicinanza di Montalto e là per Viterbo rannodarsi
alle altre colonne.

Che una siffatta impresa non potesse essere tollerata dal Governo di
Vittorio Emanuele, s’intende da sè. Ogni istituzione vive della logica
sua. La Monarchia non poteva abbandonare il Papato alle mani della
rivoluzione senza esporsi o ad esautorare sè stessa, se la rivoluzione
trionfava, o a rovinare l’Italia, se la rivoluzione soccombeva.
Oltre di che era da cansare il pericolo sommo che la rivoluzione
trascorrendo, com’è natura sua, andasse a dar di cozzo contro Roma,
scatenando dalle violate mura la collera della Francia, e i fulmini
dell’intera Cattolicità. Importava dunque che una siffatta spedizione
fosse comunque impedita, e il Gabinetto di Torino deliberò che la
fosse ad ogni costo. Diverso però, secondo la diversa mente degli
esecutori, il metodo d’esecuzione. Mentre il barone Ricasoli, sempre
governatore di Toscana, ubbidendo alla sua rigida, ma schietta natura,
scioglieva senz’altro la brigata di Castelpucci, sostenendo per alcune
ore lo stesso Nicotera, il Farini deliberava appigliarsi piuttosto al
sistema dei temporeggiamenti e degli artificii, e recatosi a Genova si
studiò persuadere il Bertani stesso a rinunciare all’ideata impresa.
In sulle prime il delegato di Garibaldi resistette; ma il Ministro
di re Vittorio avendo alla fine smascherato il suo fermo proposito
d’impedire la divisata spedizione anche colla forza, le due parti
vennero pel minor male ad un compromesso, mercè del quale tutte le
truppe predisposte all’impresa di Roma s’imbarcherebbero in più riprese
per la baia di Terranova, nell’isola di Sardegna, e di là non appena
radunate continuerebbero per Sicilia, onde mettersi quivi agli ordini
di Garibaldi.

Fino a qual punto però un siffatto componimento fosse sincero, sarebbe
prudente non scandagliare. Certo nessuno de’ due contraenti svelò
chiaramente il suo pensiero: vecchi cospiratori entrambi, entrambi
convinti di giovare alla patria, facevano probabilmente a chi
meglio gabbava l’altro. Il Farini intanto che concedeva la radunata
in Sardegna, spiccava bastimenti da guerra perchè obbligassero i
volontari, mano mano che arrivavano al convegno, a continuare per la
Sicilia; il Bertani, mentre s’era impegnato a proseguire per Palermo,
faceva intendere ai Comandanti la mèta vera della spedizione esser
sempre le coste romane, verso le quali appena radunato il naviglio
dovevano essere drizzate le prue. Ciò stabilito pertanto, ciascuno
a seconda del suo disegno si mise in moto. Al finire del luglio la
sciolta brigata di Castelpucci, passata al comando di Gaetano Sacchi,
sbarcava tranquillamente a Palermo, e passava tosto ad ingrossare le
schiere del Faro: poco dopo Agostino Bertani arrivava a Messina ad
annunziare al Dittatore l’avvenuto compromesso; ai 13 di agosto il
Farini pubblicava un bando inutilmente provocatore, in cui, sconfessate
tutte le passate spedizioni, vietava le presenti e le future, e
proclamava l’Italia dover essere degl’Italiani, non delle sètte; una
cannoniera della marina sarda, la _Gulnara_, navigava per Terranova
onde aspettarvi al varco i volontari e forzarli a proseguire per
Palermo; le due brigate infine, nominate dai loro comandanti Eberhardt
e Tharrena, grosse non più che di duemila uomini ciascuna imbarcati sui
due piroscafi il _Franklin_ e il _Torino_, approdavano nel pomeriggio
del 13 agosto nel Golfo degli Aranci, dove però, trovata la _Gulnara_
e da essa ricevuta l’intimazione di continuare la rotta volenti o
nolenti, mormoranti o rassegnati, ubbidirono.

Ed ecco la cagione della scomparsa di Garibaldi dal Faro. Toccata
con mano, dopo quindici giorni di vani sperimenti, la difficoltà del
passaggio dello Stretto, misurata l’esiguità delle proprie forze e
persuaso che in essa stava il maggior ostacolo all’impresa; udito
dal Bertani che in Sardegna stava aspettando una bella ed agguerrita
legione di circa ottomila armati, co’ quali poteva d’un colpo solo
addoppiare il suo esercito; convinto anche più che la spedizione
romana, utile un tempo, era divenuta intempestiva e che a Roma
si poteva marciar più spediti e sicuramente per la via di Napoli,
delibera, quasi all’improvviso, di correre egli stesso nel Golfo degli
Aranci a prendere quel prezioso soccorso e portarselo seco in Sicilia.

Di tutte le azioni di Garibaldi questa fu quella che i repubblicani gli
perdonarono meno; ma pochi converranno nella loro sentenza. Certamente
egli, non che approvata aveva consigliata e affrettata la spedizione
negli Stati pontificii; talchè fa meraviglia che nel suo libro de’
_Mille_, dopo d’averla dichiarata _inutile_, anzi _nociva_, la rinfacci
poi con amare parole a coloro che pur la ordinarono e apparecchiarono
col suo esplicito consenso, stimolati e spinti fino all’ultimo istante
da lettere e telegrammi suoi, che lo scrittore dei _Mille_, più labile
di memoria del loro Capitano, può aver dimenticato, ma che la storia
non può scancellare.[109]

Ma ciò detto, il torto di Garibaldi si ferma qui. Generalissimo di
tutte le forze popolari in Italia, Dittatore d’uno Stato, garante
in quell’ora delle sorti della patria che a lui principalmente si
affidava, egli non solo aveva il diritto di muovere le sue insegne e
mutare i suoi disegni a seconda delle opportunità, e giusta il criterio
ch’egli via via se ne formava; ma n’aveva il preciso dovere. Pessimo
de’ Capitani colui che ad una male intesa fedeltà a formole preconcette
e convenzioni partigiane sacrifica la vittoria, prima e suprema
sua norma. I Mazziniani che consideravano di quella spedizione più
l’aspetto politico che militare, potevano credere sufficiente trionfo
della parte loro, anche la sola iniziativa; ma di questo Garibaldi,
uomo di guerra, non poteva appagarsi.

Più che alla gloria d’un partito egli guardava alla grandezza d’Italia,
e in ciò stava la sua eccellenza.

Che fossero primi a entrare nelle Marche e nell’Umbria le camicie rosse
o i cappotti bigi: che di far l’Italia egli dovesse dividere l’onore
con Vittorio Emanuele nulla gli caleva, se non è anche più giusto il
dire che gli caleva questo solo: di veder tutti gli Italiani uniti e
concordi affinchè la grand’opera si compisse più presto. Oltre di ciò
era naturale che giunto vittorioso al Faro, e in procinto di tentare
un altro passo decisivo, egli reputasse assai più saggio afforzarsi
nel suo campo per fornire prestamente la ben incominciata impresa,
anzichè sperdere le sue forze in un’avventura nuova, lontana e piena
tuttora d’alea e di difficoltà, osteggiata dal Governo nazionale,
temuta da buona parte degl’Italiani, e conducente ad una mèta, se pur
vi conduceva, alla quale per una via più lunga, ma più certa, poteva e
voleva arrivare quando che sia egli stesso.


III.

E il successo gli diede ragione. Lasciato nella notte del 12 il Faro,
delude prodigiosamente la crociera borbonica e dà fondo, sul mattino
del 14, nel Golfo degli Aranci. Colà ode che le due brigate (quella
Eberhardt e Tharrena, di cui dicemmo) son già in viaggio per Palermo;
ma ci trova invece il grosso di altre due (Gandini e Puppi) raggiunte
nella giornata stessa dai loro distaccamenti e dall’intero Stato
Maggiore della spedizione col Pianciani in persona. Allora si presenta
improvviso a quella gioventù già devota a lui più che non volesse
parere; vince col fáscino della parola e anche più dell’aspetto gli
scrupoli degli uni, la repugnanza degli altri, e preso, colla sicurezza
di chi non teme di vederselo contrastato, il bastone del comando, fa
prima un’escursione a Caprera, saluto del Leone alla diletta sua tana,
e tornatone, ordina senz’altro che tutta la squadriglia lo segua a
Cagliari e di là prosegua per Palermo, dove egli stesso nel mattino del
17 approda.

Nè a Palermo perde il tempo. La brigata Eberhardt era già stata avviata
sul _Torino_ a raggiungere il Bixio a Taormina; ora s’imbarca egli
stesso scortato dal battaglione Chiassi sul _Franklin_: fa egli pure
il giro dell’Isola; arriva il 19 mattina a Taormina; comanda al Bixio,
che aveva sospirato quel comando per lunghi giorni, d’imbarcare tutta
la gente raccolta, circa quattromila uomini, su due vapori venuti da
Palermo; udito però che le navi hanno bisogno di urgenti raddobbi, si
fa per alcuni istanti carpentiere e si mette egli stesso coll’ascia
e col martello a tappare falle e piantar chiavarde, e quando tutto è
lesto, pigiati in quei due piroscafi, pieni di avaríe e di magagne,
quei quattromila uomini, nella notte del 19 sferra da Taormina;
corre tutta quella notte, non visto, non sospettato, nella direzione
di greco, e ai primi albori del 20 afferra presso Melito, tra Capo
dell’Armi e Capo Spartivento, l’estrema spiaggia calabrese.

Il _Torino_ s’era arenato; Garibaldi dapprima aveva tentato di
liberarlo facendolo tirare a rimorchio dal _Franklin_, ma non gli era
riuscito. Allora non volendo lasciar quella preda ai nemici, s’era
deciso ad andar egli stesso al Faro in cerca d’un soccorso qualsiasi;
quando fatti pochi nodi vide arrivargli addosso due vapori della flotta
borbonica, l’_Aquila_ e la _Fulminante_, i quali appena scoperte sul
far del giorno le antenne delle due navi garibaldine accorrevano a
tutto vapore contro di loro coll’intento e la speranza di catturarli
assieme a tutti gli imbarcati.

A Garibaldi allora non restò che retrocedere e buttarsi a salvamento
sulla costa calabrese abbandonando alla sua sorte il _Torino_, che
infatti bombardato prima dai legni, poi saccheggiato e dato alle fiamme
dagli equipaggi borbonici, colò lentamente a fondo.

Tutti gli armati però ne erano discesi; il Bixio s’era già impadronito
del telegrafo; il Missori subentrato al Musolino nel comando militare
della banda d’Aspromonte, richiamato al tempo stesso da un biglietto
di Garibaldi e dal fragore della cannonata borbonica, s’era accostato
di monte in monte a Melito; la strada littoranea era tutta sgombra fin
presso a Reggio; non restava che impadronirsi di Reggio medesima, e il
Generale volle che nella notte stessa ne fosse tentato l’assalto.


IV.

Reggio è munita al mare da un forte, al monte da un castello, ed era
a que’ giorni difesa da circa duemila uomini comandati dal vecchio
generale Gallotti. Avendo però gli abitanti chiesto al Comandante
borbonico di risparmiare alla città un combattimento nelle vie, egli
pietosamente consentì, chiudendo parte de’ suoi nel Castello e andando
ad appostarsi col rimanente, non più d’un migliaio, lungo una fiumara
asciutta, scorrente a mezzogiorno della città, ma che non gli poteva
servire di schermo alcuno. Infatti essendo stato deciso che l’Eberhardt
attaccasse per la sinistra e il Bixio per la destra, questi potè
girare gli avamposti del nemico, prima che egli se ne fosse avveduto,
e spiegatosi l’assalto costringerlo a riparare frettolosamente
nell’abitato. Qui però la resistenza degli assaliti fu più gagliarda;
e avrebbe anche fatto costar più cara la vittoria degli assalitori,
se il Chiassi, a capo di due compagnie della brigata Sacchi, non fosse
piombato di costa sul nemico, e non ne avesse affrettato lo scompiglio
e la ritirata. Restava però ai Regi il Castello; e quivi infatti si
ritrassero, disposti, pareva, a nuova e più lunga resistenza; il
che, a Garibaldi, bisognoso d’impadronirsi di Reggio prima che le
colonne del Briganti e del Melendez, accampate tra San Giovanni e
Piale, arrivassero al soccorso, dava non poco pensiero. Fortunatamente
la comparsa del Missori sulle alture sovrastanti al Castello, e
alcuni colpi ben appuntati de’ suoi, persuasero i difensori d’essere
totalmente circondati; e nel pomeriggio del giorno stesso li indussero
ad innalzare bandiera bianca. Garibaldi, com’era sua arte e suo
proposito, fu nei patti liberalissimo: alle truppe libera l’andata alle
lor case o dove gradissero; agli ufficiali salva la spada e le robe
private; solamente il materiale del forte, cinquantotto pezzi di vario
calibro e cinquecento fucili, senza dire delle buffetterie e delle
munizioni, in mano del vincitore.

Ma la vittoria di Reggio era ben presto coronata da un’altra più
importante e decisiva. Nella notte dal 21 al 22 il generale Cosenz
imbarcata sopra la flottiglia del Faro parte della sua divisione, i
Carabinieri genovesi e la Legione estera, riusciva ad afferrare la
sponda calabra poco lontano da Scilla, ed a trovarsi così alle spalle
della brigata Briganti, accampata, come dicemmo, nei dintorni di San
Giovanni.

A questo annunzio Garibaldi, che s’era già mosso con tutte le forze
contro il Briganti, non esita un istante; lo serra più dappresso,
ai fianchi e di fronte, e quando è ben certo d’averlo circuito, gli
intima senz’altro la resa a discrezione. Avrebbe forse resistito il
Generale borbonico, se la soldatesca, ormai svogliata di combattere,
diffidente de’ suoi ufficiali, e dagli ufficiali stessi corrotta,
disamorata d’una bandiera che pareva portasse fatalmente nelle sue
pieghe la sconfitta e l’ignominia, carezzata soprattutto dall’idea di
tornare a’ suoi focolari, come il presidio di Reggio, non avesse fatto
sedizione e costretto il suo Generale a subire il patto umiliante.
Allora si videro novemila uomini d’ogni arma, ricchi d’artiglieria,
protetti da batterie d’acqua e di terra, abbassare l’armi innanzi a
seimila scamiciati; e quali patteggiati, quali no, andarsene ciascuno
a beneplacito suo, a stormi, a branchi, a coppie; facendo di sè lunga
riga per tutte le vie del Regno; qua trafficando, là gettando le armi;
vivendo di ruba e di limosina; stendendo talora la mano agli stessi
Garibaldini che li cacciavano innanzi; dove passando umili ed innocui,
dove lasciando traccia di prepotenze e di delitti: più atroce di tutti
quello perpetrato a Melito, dove abbattutisi in quel misero generale
Briganti, a cui essi pei primi avevano imposto il disonore, non seppero
meglio nascondere la vergogna del proprio tradimento che gridando lui
traditore (solita accusa delle soldatesche vinte contro i Capitani
infelici); e giubilanti d’aver nelle mani una vittima espiatrice
dell’onta comune, selvaggiamente lo trucidarono.


V.

Da quel giorno lo sfacelo continuò colla celerità spaventosa d’una
putrefazione. Padrone delle due rive del Faro e di lungo tratto
della sponda tirrena, raccolti ormai nelle Calabrie da venti a
venticinquemila uomini, e libero di farli avanzare per terra e per mare
secondo i casi e le opportunità; acclamato, festeggiato, portato sulle
braccia dalle popolazioni accorrenti in armi sui suoi passi, Garibaldi
s’innoltrava verso Napoli colla rapidità d’una folgore e la maestà d’un
trionfo.

_Bellum ambulando perfecerunt_, fu detto dei Cesariani nella Gallia,
e così poteva dirsi di Garibaldi. La sua non era una guerra, era una
passeggiata militare. La rivoluzione non lo scortava soltanto, lo
precedeva. Fino dal 17 agosto, prima ancora dello sbarco di Garibaldi a
Melito, Potenza cacciava i pochi Gendarmi che la custodivano, e tutta
la Basilicata si vendicava in libertà. All’annunzio della vittoria di
Reggio tutte le Calabrie insorgevano; Cosenza costringeva il generale
Caldarelli a capitolare con una brigata intera ed a ritirarsi a Salerno
col patto di non più guerreggiare contro Garibaldi; a Foggia le truppe
facevan causa comune col popolo; a Bari altrettanto: sicchè il generale
Flores, comandante militare delle Puglie, era costretto a riparare
cogli avanzi dei fedeli nel Principato; fuga da un incendio in un
precipizio. Il generale Viale posto con dodicimila uomini a guardia
della Termopile di Monteleone, minacciato da una sedizione pari a
quella che aveva forzato il Briganti, non osando attendere Garibaldi,
batteva in precipitosa ritirata, abbandonando agl’invasori una delle
chiavi della Calabria. Succedutogli nel comando il generale Ghio,
egli pure continuò la ritirata; ma pervenuto a Soveria-Manelli, tra
Tiriolo e Cosenza, fosse stanchezza della lunga corsa, fosse disperato
proposito, pensò di prendervi campo e di attendere di piè fermo
l’instancabile persecutore. Fu la sua rovina.

Quando egli arrivava a Soveria, le alture, che da oriente e da
settentrione la dominano, erano già occupate dalle bande calabresi
dello Stocco, ed egli si trovava già prima di combattere quasi
aggirato. Garibaldi frattanto lo incalzava di fronte, e vista
l’infelice posizione del suo nemico, non gli lasciò un istante di
posa. Egli che faceva quella guerra correndo le poste, precedendo di
sette giorni la sua stessa avanguardia, esploratore degli esploratori,
era giunto in faccia al Ghio, quasi solo; ma non per questo pensò
d’indugiarsi. Ordinato a tutte le truppe che lo seguivano di convergere
tutte a marcia forzata per Tiriolo, appena ha sottomano l’avanguardia
della divisione del Cosenz, forte non più di millecinquecento uomini,
la spinge, ancora trafelata, sulla strada di Soveria-Manelli; fa calar
dalle alture le bande dello Stocco e intima al generale Ghio la resa.
Questi tenta guadagnar tempo e negoziare; ma gli fu accordata un’ora
sola, e dopo un’ora sola altri dodicimila uomini andavano sperperati
e disciolti in varie direzioni come quelli del Briganti, lasciando in
mano del fortunato Dittatore tutte le Calabrie.

E quel che era accaduto da San Giovanni a Cosenza, ripetevasi dovunque.
Non era una rivoluzione, era una grande diserzione. Il trono borbonico
non cadeva tanto per l’assalto de’ suoi nemici, quanto per l’abbandono
e l’infedeltà de’ suoi difensori. I soldati disertavano: i Generali
capitolavano: i cortigiani si nascondevano: i funzionari fuggivano: i
Napoletani non scacciavano il proprio Re, gli voltavano le spalle.


VI.

E lo stato delle provincie riflettevasi coll’intensità d’un vasto
focolare nella capitale. Il conte di Cavour, ostinato a volere che
una sommossa scoppiasse in Napoli prima dell’arrivo di Garibaldi,
ne aveva affidata la suprema cura al marchese di Villamarina ed
all’ammiraglio Persano e sotto di loro un vario stuolo di emigrati,
cui la nuova Costituzione aveva riaperte le porte della patria, e di
emissari d’ogni provincia e d’ogni fatta s’affaticavano alla tanto
travagliosa quanto inutile trama. Il barone Nisco, per mezzo del
Persano, introduceva nella città migliaia di fucili: il generale
Nunziante, compro dal Cavour, diffondeva fra l’esercito proclami
corruttori: a bordo della squadra piemontese infine stavan nascosti due
battaglioni di Bersaglieri, pronti a scendere a terra al primo segnale
di rivolta;[110] e quantunque non fosse da aspettarsi che il popolo
napoletano volesse dipartirsi da quel sistema di resistenza passiva e
di inerzia ostile che era nell’indole sua, e in parte imposta dagli
avvenimenti che camminavano più celeri della sua volontà; tuttavia,
questi soli due fatti d’un popolo che aspettava da un’ora all’altra
la caduta de’ suoi Re, e d’un esercito che non pareva più disposto a
sparare un sol colpo per scongiurarla, bastano ad accertare che il fato
de’ Borboni era consumato.

Nè la reggia era più sicura della piazza. Sorpreso da un turbine
che avrebbe dato le vertigini a’ più gagliardi, aggirato da opposte
correnti, circuito da consiglieri o fiacchi o stolti o infidi, col
sospetto e la discordia nella stessa sua famiglia, Francesco II
era la foglia in preda alla tormenta. Le Potenze lo abbandonavano;
l’Inghilterra gli era ostile; la Francia lo trastullava di vane
promesse; la Russia, la Prussia, l’Austria lo confortavano di sterili
proteste; il Papa era impotente; il Piemonte, lo sappiamo, teneva in
mano tutte le molle della tagliola in cui doveva cadere. Dovunque
si volgesse, non udiva che amari rimproveri, o consigli vani ed
impraticabili. Il conte di Siracusa, suo zio, lo consigliava ad
abdicare;[111] il Ministero di Liborio Romano lo invitava formalmente
ad uscire temporaneamente dallo Stato e ad affidare il governo ad una
reggenza; solo il conte Brenier, ministro di Francia, e il generale
Pianell ed altri pochi gli davano l’unico consiglio, degno d’un Re, di
mettersi a capo del suo esercito e di cadere o vincere con esso; ma era
consiglio troppo alto per l’animo suo e ormai forse inutile e tardivo.
In tanta tempesta di pensieri egli non s’appigliava a partito alcuno; o
piuttosto li tentava tutti senza coerenza e senza energia. Ora faceva
chiedere alle Potenze la neutralizzazione di Napoli e del territorio,
colla speranza di arrestare Garibaldi e di restaurare, indugiando,
le sorti del Regno; ora mandava segrete lettere a Garibaldi stesso
per offrirgli cinquantamila uomini e la flotta per la guerra contro
l’Austria, a condizione che s’arrestasse e gli salvasse il restante del
Regno;[112] ora infine, rifiutata dalla Diplomazia la neutralizzazione
e da Garibaldi, sdegnosamente, l’alleanza, si buttava in braccio alla
reazione, tramando colla madre, la moglie, il generale Cutrofiano,
l’Ischitella ed altri arnesi di Corte, un nuovo colpo di Stato, una
specie di 15 maggio, che avrebbe dovuto fare man bassa di tutte le
libertà e di tutti i liberali, se, come tutte le congiure, non fosse
stato anzi tempo scoperto e i congiurati stessi non si fossero chiariti
impotenti a tentarlo soltanto.


VII.

Frattanto Garibaldi camminava. Fra Salerno ed Avellino erano raccolti
oltre a quarantamila uomini, la più parte di truppe straniere,
risolute, dicevano, ad attraversare ad ogni costo il passo al
Filibustiere e a dargli una battaglia decisiva. E Garibaldi pure lo
credette; onde affaccendandosi a concentrare quanto più presto poteva
le sue forze intorno ad Eboli, s’andava a sua volta preparando alla
giornata finale.

Ma inutile allarme. Anche l’esercito di Salerno era affetto dal
contagio comune e sacrato al medesimo destino de’ suoi compagni. Corsa
appena la notizia che la rivoluzione s’era propagata ad Avellino e nel
Principato Ulteriore, saputo che quel Caldarelli, che aveva capitolato
a Cosenza, era passato con Garibaldi e marciava con lui contro gli
antichi camerata, anche le truppe di quel campo cominciarono a dar
que’ medesimi segni di indisciplina e di ammutinamento, che già avevan
sciolte le fila del Briganti e del Ghio, ed a levare ogni speranza ai
Comandanti di tentare, con qualche probabilità di buon successo, la
prova estrema a cui si erano impegnati.

L’arrivo di queste notizie a Napoli fu decisivo. Nella sera del 5
settembre, il Re, radunato il Consiglio dei Ministri, chiese il da
farsi, e una sola fu la risposta loro: impossibile la resistenza; il Re
si ritirasse a Gaeta colla famiglia; le truppe ripiegassero dietro il
Volturno; Napoli fosse lasciata in tutela della sua Guardia nazionale.
Il Re s’arrese al consiglio, e la sera del 6 settembre, intanto che
le sue truppe cominciavano il loro movimento, dato un addio, non
privo di dignità, ai suoi antichi sudditi, s’imbarcava colla moglie
e i parenti sopra il _Colon_, nave da guerra spagnuola, e scortato da
un’altra della stessa bandiera, poichè la sua flotta aveva rifiutato
di seguirlo, salpava alla volta di Gaeta. La partenza di Francesco II
fu pei Napoletani il lieto fine inaspettato d’un dramma che minacciava
ad ogni scena di finire in tragica catastrofe. Tutti respiravano come
sollevati da un incubo. I patriotti che conseguivano la libertà senza
il dolore di macchiarla di sangue civile; il popolo che poteva mutar di
padrone senza nemmeno darsi la fatica d’una sommossa; i cortigiani cui
era concesso di voltar livrea senza passare per ingrati; i magistrati
cui era lecito di barattar giuramento senza esser tacciati di
fedifraghi; gli ammiragli, i generali, le assise dorate dell’esercito
e dell’armata, cui s’offriva la rara fortuna di passar sotto le
bandiere del vincitore senza la vergogna di disertare quelle del vinto;
Liborio Romano, infine, cui era riuscito di far sparire Francesco
II e comparire Garibaldi, rendendosi ministro possibile dell’uno e
dell’altro: tutti avevan sul volto quell’aria di soddisfatta sicurezza
che esalò dal petto di Don Abbondio quando udì che Don Rodrigo era
morto. Infatti la nave che portava in esiglio perpetuo Francesco II
era ancora in vista del Golfo, che il Presidente de’ suoi Ministri
proponeva ai colleghi fosse tosto annunciato a Garibaldi il felice
evento, e invitato a venire a prendere possesso della metropoli. Non
era ufficio che spettasse a’ Ministri d’un Re che non aveva ancora
abdicato, e il Manna, il De Martino, lo Spinelli, rispettosi di sè
medesimi, lo ricusarono; ma il Romano era preparato a ben altro, e
quando gli fu detto esser necessario comporre un indirizzo di devozione
da presentarsi al Dittatore: «Eccolo,» disse, e lo trasse di tasca
bell’e fatto.

All’udir pertanto la gran nuova, Garibaldi che era già arrivato
ad Eboli parte difilato per Salerno; colà ricevuta la Deputazione
del Ministero che lo invitava d’affrettare il suo ingresso nella
capitale, risponde saviamente esser pronto a partire appena vengano
a lui il Sindaco e il Comandante della Guardia nazionale della
città; raccomandare frattanto l’ordine e la calma; ma poichè anche
il Romano, divorato dalla febbre di ricevere egli per il primo il
trionfatore, replica con enfatica parola l’invito, Garibaldi lasciando
ogni esitazione prende a Vietri la ferrovia; arriva a mezzogiorno
alla stazione di Napoli, dove Liborio Romano lo riceve e gli declama
l’indirizzo preparato; e al tocco, in carrozza, accompagnato dal
Cosenz, dal Bertani dal Nullo e da due altri ufficiali, entra in
Napoli, e passando sotto il fuoco de’ forti tuttora occupati dai
Borbonici, traversando i drappelli delle soldatesche nemiche sparse per
la città, protetto soltanto dall’amore entusiasta d’un popolo e dalla
serenità radiosa del suo volto che incute al pericolo e disarma il
tradimento, va a posare alla _Foresteria_ (Palazzo del Governo), e ne
prende possesso. Modo di conquista unico nella storia: prodigio quasi
divino d’un’idea, cui basta la fede d’un eroe ingenuo e sorridente per
disperdere gli eserciti, atterrare le fortezze ed abbattere i troni!


VIII.

Primo atto di Garibaldi in Napoli fu di aggregare tutta la marina da
guerra e mercantile delle Due Sicilie alla squadra del re Vittorio
Emanuele, comandata dall’ammiraglio Persano.[113] Questo Decreto
era già un principio d’annessione, e doveva bastare esso solo a
testimoniare della fede del Dittatore e a disarmare a un tempo tutti i
sospetti e tutte le diffidenze. Quella flotta, oggetto da un mese delle
bramosíe e delle trame del conte di Cavour, per aver la quale egli ed
il Persano avevan tanto armeggiato e congiurato, ecco che Garibaldi
spontaneamente, tre ore appena dal suo ingresso in Napoli, al solo
vedere l’ammiraglio di Vittorio Emanuele, la consegna egli stesso nelle
di lui mani. Dal punto di veduta della politica rivoluzionaria era il
più madornale degli spropositi; ma dal punto di veduta della politica
unitaria italiana, era il più sublime degli olocausti.

Pure non bastò. Il conte di Cavour aveva detto alla rivoluzione: _non
plus ultra_; e ciò non per tema che Garibaldi tradisse la Monarchia,
ma per repugnanza che la Monarchia gli dovesse troppo. E su questo
pernio ruotava da tre mesi tutta la sua politica. A Palermo aveva
cercato arrestare il vincitore coll’annessione immediata; al di
qua dello Stretto s’era provato a prevenirlo col fargli scoppiare
dinanzi per iniziativa e con forze monarchiche una sommossa che lo
costringesse o a tornarsene a Caprera, o a divenire un luogotenente
di Vittorio Emanuele; dileguata poi anche la chimera dell’insurrezione
monarchica, non cessa per questo dal macchinare: ora perchè Persano si
assicuri della flotta; ora perchè s’impossessi dei forti di Napoli;
ora perchè si tolga in mano la dittatura. Udito infine che Garibaldi
è alle porte di Napoli, risolve con Vittorio Emanuele l’invasione
delle Marche e dell’Umbria, «resa necessaria, scriveva al La Marmora,
dalla conquista di Napoli;» — «unico mezzo, soggiungeva al Persano,
per domare la rivoluzione e impedire che entrasse nel Regno.» E qui
non s’ingannava. Lo scopo finale «di coronare Vittorio Emanuele re
d’Italia in Campidoglio,» lunge dal nasconderlo, Garibaldi lo gridava
colla sua ingenua franchezza a’ quattro venti. Lo proclamava ne’ suoi
bandi; lo diceva ne’ suoi colloqui; lo ripeteva al ministro inglese
Lord Elliot, quando questi lo pregava a nome del suo Governo di non
toccare la questione della Venezia;[114] lo confermava all’ammiraglio
Persano ed al conte di Villamarina, quando l’uno dopo l’altro andavano
ad annunciargli la deliberata impresa degli Stati pontificii.

«All’udire (dice un autorevole scrittore)[115] che i soldati piemontesi
si apparecchiavano a entrare nell’Umbria e nelle Marche, il Dittatore
manifestò gioia schiettissima. Ma poi, fattosi pensieroso, dopo
alcuni istanti di silenzio, disse: — Se questa spedizione è diretta a
tirare un cordone di difesa attorno al Papa, farà un pessimo effetto
sull’animo degl’Italiani; — Villamarina con franca e calorosa parola
si pose a dimostrare, che, se tra la politica sarda e quella seguíta
dal Dittatore v’era qualche screzio in ordine ai mezzi, v’era perfetta
concordia di fine, e che quindi bisognava che l’una aiutasse l’altra.
— A me poco importa, riprese Garibaldi, che il Papa rimanga in Roma
come vescovo, o come Capo della Chiesa cattolica; ma bisogna togliergli
il principato temporale, e costringere la Francia a richiamare i suoi
soldati da Roma. Se il Governo sardo è capace di conseguire tutto ciò
per negoziati diplomatici, faccia pure, ma presto; giacchè, se tarda,
niuno mi potrà trattenere di sciogliere la questione colla sciabola
alla mano.»

Di fronte a queste dichiarazioni dell’eroe la risoluzione del conte
di Cavour diventava legittima e quasi necessaria. E però la spedizione
delle Marche e dell’Umbria può dirsi, dopo la guerra di Crimea, la più
ispirata e fatidica azione del grand’uomo di Stato. Con quel passo
egli salvò al tempo stesso la Monarchia e l’Italia; frenò il corso
precipitoso della rivoluzione, per riaddurla poscia più sicuramente
alla mèta.[116] Se un giorno, esaurito ogni altro mezzo, fosse per
divenire necessario di recidere colla sciabola il nodo di Roma, nessuno
poteva, nel 1860, nè affermare, nè negare: certo in quell’istante
pareva, anche ai più impazienti, intempestivo; e il Mazzini stesso nel
suo proclama di risposta alla circolare di Pier Luigi Farini, non si
peritava a confessare che «la questione di Roma sarà sciolta, spero
provarlo, pacificamente più tardi.[117]»

Ma se l’andare incontro a Garibaldi per prevenirlo e compiere più
ordinatamente l’impresa ch’egli aveva rivoluzionariamente iniziata,
era concetto ardito e saggio al tempo stesso; il vessare di sospetti,
di pressure, di spinte l’uomo che aveva liberato mezza Italia, perchè
s’affrettasse a deporre un potere ch’egli non aveva alcuna intenzione
di ritenere, era affatto inopportuno ed improvvido, e poteva, a lungo
andare, riuscire funesto. Certo Garibaldi, a Napoli, non aveva più
le ragioni che in Sicilia per differire l’annessione, e s’intende
che i patriotti napoletani intorno ad una questione di sì capitale
importanza dovessero esporgli sin da principio i loro voti colla
più aperta franchezza. Quello tuttavia che non s’intende è che vi
fossero annessionisti così impazienti da pretendere che il Dittatore
scrivesse il decreto dell’annessione appena messo il piede in Napoli,
incerte tuttora le sorti della guerra, non chiari per anco gli effetti
dell’impresa negli Stati pontificii, non esaurita ancora, nè di qua
nè di là dallo Stretto, la fase della rivoluzione. L’annessione era
ormai nella forza delle cose, e come Garibaldi non avrebbe potuto,
anco volendolo, impedirla, così non s’addiceva a coloro, che insomma
dovevano a lui la libertà di discuterla, l’imporgliela ad ora fissa,
lo strappargliela quasi a forza di mano. Nessun diritto aveva egli dato
fino allora agli annessionisti di dubitare delle sue intenzioni; molti
argomenti invece per rassicurarli. A Napoli si annuncia, proclamando
Vittorio Emanuele: _Vero Padre della Patria_.[118] Giunto, consegna
la flotta borbonica all’ammiraglio Persano; il giorno stesso nomina
Ministri i capi più eletti della parte moderata e cavouriana; poco
dopo prega il Persano a volergli mandare in città i Bersaglieri per
custodire gli arsenali ed i porti; infine al settimo giorno promulga
lo Statuto del Regno sardo come legge fondamentale di tutto il
novello Stato. Come insospettire dunque e diffidare di lui? Certo gli
stavano al fianco altri consiglieri dell’annessione non zelanti, e
della politica del Cavour tutt’altro che amici; ma fino a qual punto
li ascoltava egli? Lo spettro pauroso degli annessionisti era il
Bertani, segretario generale della Dittatura, dell’impresa di Roma
fautore aperto, in fama di mazziniano, anima rivoluzionaria al certo
ed in ogni suo proposito audace e tenacissima. Ma senza dire che il
Bertani non era veramente avverso all’annessione, ma soltanto la voleva
differita e condizionata, i suoi avversari non dovevano ignorare che
il suo ascendente sul Dittatore era assai debole; che anzi di tutti
gli uomini che attorniavano Garibaldi, quello che più gli era in
sospetto e quasi in uggia era appunto il celebre medico; vuoi per i
suoi rapporti occulti col Mazzini, vuoi per i contrasti avuti, e non
per anco interamente quetati, per la spedizione di Terranova; vuoi per
la disformità dei temperamenti e dei caratteri: l’uno rigido, loico,
tenace, e sopra ogni cosa partigiano; l’altro mobile, subitaneo,
intollerante delle opposizioni metodiche e ombroso dei consigli
dottrinari; facile alle simpatie ed alle antipatie; accessibile
da cento parti, ma sopra alcuni punti, formanti il suo _credo_,
incrollabile e quasi inabbordabile.

Tutto ciò per altro non fu nemmanco sospettato dai partigiani a
oltranza dell’annessione immediata; e così a Napoli come in Sicilia
cominciarono tosto ad assediare il Dittatore di indirizzi e di
deputazioni, di cicalate di gabinetto e di manifestazioni di piazza,
che in sulle prime ottenevano da lui l’effetto precisamente contrario.

Però se a Napoli la sola sua presenza bastava a moderare le impazienze
ed a tenere in rispetto le opposizioni; in Sicilia, lui assente,
presente invece il suo Prodittatore, dell’annessione segreto istigatore
dapprima, poscia pubblico favoreggiatore, le voglie annessioniste
erano divenute smaniose, e fino a un certo punto anco pericolose. Il 4
settembre, il comandante Piola, capo della Marina siciliana, raggiunto
il generale Garibaldi a Fortino, presso Sapri, gli porgeva una
lettera del Depretis, colla quale questi lo sollecitava a decretare il
plebiscito dell’Isola.

«La scena (scrive il Bertani)[119] accadeva in una povera osteria.
Türr e Cosenz, presenti al colloquio, secondavano la proposta del
Depretis, e già Garibaldi, non sapremmo se più persuaso o infastidito,
aveva detto: — Basso, scrivete: _Caro Depretis, Fate l’annessione
quando volete_; — allorchè il Bertani, entrato poco prima, esclamò:
— Generale, voi abdicate; — e capacitato ben presto dalle opposte
ragioni del Bertani (capacitato, perchè secondavano l’inclinazione
del suo animo): — Avete ragione, — rispose, e rivoltosi a Basso, che
stava sempre colla penna in mano, soggiunse: — Basso, stracciate la
lettera. —

»E poi con calma riprese a dettare: _Caro Depretis, per l’annessione
parmi che Bonaparte possa ancora aspettare alquanti giorni.
Sbarazzatevi intanto di mezza dozzina d’inquieti, e cominciate dai due
C....._[120]

»E la scena finì;»..... ma non finirono del pari le lotte per
l’annessione siciliana. Gli annessionisti, capitanati principalmente
dal Cordova, e spalleggiati dal Depretis, non volevano desistere dal
loro proposito; anzi in un Consiglio di Ministri ventilarono persino
se non si dovesse bandire il plebiscito anche malgrado la lettera
di Garibaldi. Il Crispi invece colla parte più rivoluzionaria e
garibaldina insisteva perchè la volontà del Dittatore fosse rispettata;
onde tumulti in piazza e conflitti in Palazzo, che mantenevano Palermo
in uno stato d’agitazione assai presso all’anarchia e scrollavano
sempre più la poca autorità al Prodittatore. Quando però corse la
nuova che Garibaldi era entrato in Napoli, tanto il Crispi, quanto il
Depretis, decisero, l’uno dietro l’altro, di partire pel Continente,
onde rendere giudice un’altra volta il Dittatore della perpetua
controversia. E il Dittatore fu ancora del parere di Fortino; sicchè il
Crispi continuò a stargli al fianco Ministro degli affari esteri, ed
al Depretis, fallitogli ormai il principale scopo della sua missione,
non restò che rassegnare l’ufficio. La rinuncia del Depretis però
lasciava la Sicilia senza Prodittatore e senza governo, e all’urgente
bisogno Garibaldi pensò di provvedere egli stesso in persona. La
sera del 16 settembre, infatti, s’imbarca quasi di nascosto; approda
l’indomani a Palermo; radunati tostamente i Ministri e trovatili fermi
nella loro idea, con parole fin troppo dittatorie li congeda; elegge a
Prodittatore Antonio Mordini, allora Auditore generale dell’esercito
garibaldino, e lo fiancheggia di Ministri a lui graditi; fattosi al
balcone del Palazzo arringa il popolo impaziente di acclamarlo dopo
i recenti trionfi, lo ringrazia d’aver avuto fede in lui e di aver
respinto un’annessione ch’egli credeva intempestiva, l’incuora a
persistere finchè vi siano fratelli da liberare;[121] e dopo aver
protestato nuovamente della sua amicizia per Vittorio Emanuele,
«l’unico rappresentante della causa italiana,» si accommiata colla
lusinga di aver per alquanto tempo restaurata la pace e l’autorità in
Sicilia, e ritorna a Napoli, dove le faccende della guerra s’erano già
troppo risentite della sua mancanza.


IX.

Appena potè aver sottomano un nucleo di forze, Garibaldi aveva
spedito in tutta fretta il generale Türr ad Ariano per soffocarvi una
sommossa borbonica suscitata dal Vescovo di colà, e spalleggiata dal
generale Bonanno che presidiava con una brigata l’Abruzzo Ulteriore.
E il valoroso Ungherese se n’era sbrigato presto e bene; costretti i
reazionari a piegar la testa, il Bonanno a render l’armi con tutta la
sua brigata, il Vescovo, divenuto da quel giorno fervente patriotta,
a ringraziarlo della sua umanità e cortesia. Questo felice successo
però nè cansava nè ritardava per nulla l’estrema prova, a cui la
rivoluzione, non ostante la sua corsa vittoriosa, era chiamata.
L’esercito, ritiratosi dietro il Volturno, contava ancora tra Capua
e Gaeta circa cinquantamila[122] uomini, era provveduto d’un ricco
materiale, protetto da un fiume di cui signoreggiava le due sponde,
appoggiato infine, senza dir dell’estremo propugnacolo di Gaeta, da una
fortezza di prim’ordine, quale Capua; e se, come certi indizi facevan
credere, l’appello di Francesco II, il quale da Gaeta invitava i suoi
fedeli alla riscossa, era ascoltato, la partita giuocata allora con
tanta fortuna poteva ridiventare molto combattuta ed incerta.

Garibaldi però ne era impensierito più di quello che volesse
confessare; ma obbligato ad attendere che le sue truppe, disseminate
dal Golfo di Policastro a quelle di Salerno, si rannodassero, molestato
ai fianchi dall’insorgere della reazione e costretto egli stesso dalla
controversia annessionista ad allontanarsi da Napoli ed a partire per
Sicilia, non potè nei primi giorni consacrarsi alle cose della guerra
con l’intera energia del suo spirito, o se anche tutto lo spirito,
non avrebbe potuto consacrarvi soldati. Però soltanto tra il 12 e
il 13 di settembre aveva potuto mandare la divisione Türr, forte non
più di quattromila uomini, ad appostarsi tra Caserta e Santa Maria;
raccomandando però così al suo Comandante, come al generale Sirtori,
capo di Stato Maggiore, di tenersi in sulla difesa, spiccando tutt’al
più delle bande volanti sui fianchi ed alle spalle del nemico, onde
tentare di sollevargli dattorno le popolazioni e turbarne le mosse.

Ma bastò ch’egli fosse lontano, perchè la fortuna, schiava fin allora
del maliardo eroe, scuotesse la chioma e tentasse fuggire dalle sue
insegne.

Il generale Türr (se d’accordo col Sirtori o di suo capo, è
controverso; ma certo frantendendo od oltrepassando gli ordini precisi
del suo Generale) s’era proposto di tentare una grande operazione
strategica; nientemeno che di impadronirsi delle due sponde del
Volturno, e di occuparvi sulla destra il forte luogo di Caiazzo che
domina uno dei suoi passi. Infatti il 19 mattina mentre la brigata
Rustow fingeva un attacco contro la fronte di Capua, spinto poi troppo
a fondo o dall’imprudenza dei capi o dalla foga dei combattenti;
il battaglione Cattabeni marciava per il passo di Limatola sopra
Caiazzo e con poco sforzo se ne impossessava. All’apparenza il colpo
pareva riuscito; molto sangue di prodi era stato versato, ma insomma
i Garibaldini potevan credersi padroni delle due rive del Volturno e
felicemente piantati come una punta aguzza sulla costa sinistra del
nemico. Illusione d’inesperti coraggiosi che sole ventiquattro ore
basteranno a dileguare!

Già reduce da Sicilia e precisamente nella sera del 19 al campo di
Caiazzo, Garibaldi aveva tosto compreso il grosso fallo del generale
Türr, e se n’era accorato; ma o perchè gli repugnasse abbandonare nel
pericolo il battaglione del Cattabeni, uno dei suoi vecchi soldati,
o perchè temesse il triste effetto che sulla accendibile fantasia
dei Napoletani poteva produrre una ritirata; per ragioni insomma di
umanità o di politica, quelle ragioni che furono sempre le peggiori
nemiche dei migliori concetti di guerra, comandò che il Cattabeni,
minacciato d’imminente attacco, fosse soccorso prima con una brigata
del Medici; poi, la brigata non essendo pronta, con un reggimento,
quello che comandava il colonnello Vacchieri. E il preveduto accadde.
Il Cattabeni e il Vacchieri, assaliti il 21 mattina da forze quattro
volte superiori, furono, malgrado la prodezza dei capi e dei soldati,
interamente sbaragliati; ferito e prigioniero col grosso del suo
battaglione lo stesso Cattabeni; salvatosi a stento coll’avanzo dei
suoi il Vacchieri; molti che, cercando scampo nel fiume, tentarono
guadi mal noti, miseramente affogati.

Era il primo errore commesso durante quella campagna; era il primo e
l’unico rovescio. Però se gli ordini lasciati da Garibaldi ai suoi
fossero stati osservati, e l’errore ed il rovescio sarebbero stati
evitati.

Garibaldi aveva certamente ordinato al Türr di lanciar scorribande al
di là del Volturno; ma non gli aveva dato facoltà di prendere posizioni
fisse, molto meno poi di dare battaglia per prenderle. Non si tengono
con iscarse forze le due rive di un fiume privo di ponti, dominato da
una fortezza; e il nostro Capitano l’aveva tosto compreso. Il difficile
non stava tanto nel prendere Caiazzo, quanto nel conservarlo; e poichè
a conservarlo occorrevano una e forse più teste di ponte sul Volturno e
forze pari ai borbonici, così la rotta del 21 settembre era prevedibile
ed inevitabile[123]


X.

Persuaso anche prima del 21 settembre dell’impossibilità di conservare
una posizione offensiva-difensiva sulle due sponde del Volturno,
deliberò di tenersi nella più stretta difensiva sulla sinistra del
fiume stesso. Disgraziatamente anco la difesa, per la esiguità delle
forze e l’estensione del terreno, rendevasi molto problematica e
difficile. Perocchè non bastava difendersi dalle sortite di una piazza
forte come Capua, ridotta un campo trincerato di circa quarantamila
uomini, ma conveniva guardare, per il corso di sedici miglia, i passi
di un fiume tortuosissimo, come il Volturno, e che forma una delle
linee più bizzarre e insidiose che la topografia strategica conosca. I
meandri e gli avvolgimenti di questo fiume son tanti, che un esercito
costretto a campeggiare sulla sinistra del suo tronco inferiore, se lo
trova, comunque si giri, di fronte, ai fianchi e alle spalle nel tempo
medesimo. Non ha, è vero, che un sol ponte stabile, quello di Capua; ma
in iscambio, una serie di ponti volanti a barche, detti, nel vernacolo
del paese, _scafe_, che danno il mezzo a chiunque ne sia padrone, e
i Borbonici lo erano, di tragittarsi da una sponda all’altra con una
facilità di poco minore a quella che offrirebbe un sistema di ponti
fissi.

E non basta. Posto che l’obbiettivo dei Regi fosse Napoli, essi
potevano marciarvi per sette grandi vie collegate tra di loro da un
dedalo di strade minori, che di tanto agevolavano ad essi le offese,
di quanto accrescevano le difficoltà della difesa. Da Capua infatti
essi potevano arrivare alla capitale, così per la doppia via Santa
Maria-Caserta, o Sant’Angelo-Caserta, come per la strada più lunga, ma
non meno insidiosa, San Tammaro-Aversa. Dal Volturno poi gli sbocchi
erano tanti quante le _scafe_. Dalle _scafe_ di Formicola e di Caiazzo
si spiccavano due vie, che congiungendosi al bivio del Gradillo
venivano a cader traverso la colonia di San Leucio, sul gran parco
di Caserta; dalla _scafa_ di Limatola un’altra via, passando rasente
Castel Morone, riusciva più a oriente alla medesima mèta; infine da
tutti i passi del Volturno superiore si poteva sboccare sulla strada
di Piedimonte-Dugenta, che piombava diritta sui Ponti della Valle e
Maddaloni, a nove miglia da Napoli.

Ora il difensore, forzato a manovrare su questo scacchiere, non
aveva libertà di scelta: o guardarne tutti i passi del pari, o,
concentrandosi in pochi punti, correr rischio di vedersi aggirato e
tagliato fuori della sua base d’operazione. Il suolo gli offriva qua e
là qualche buon punto d’appoggio; come la catena del Tifata alle spalle
di Sant’Angelo, i poggi di Briano ed i boschi di San Leucio innanzi al
bivio di Formicola e di Caiazzo; la vetta di Castel Morone di contro
alla _scafa_ di Limatola: le alture di Monte Caro, di Villa Gualtieri
e del Longano a guardia di Maddaloni; ma tutti questi baluardi essendo
interrotti e separati da grandi intervalli scoperti, non bastavano a
bilanciare la lunghezza della linea e la sottigliezza del numero, col
quale l’esercito garibaldino era costretto a difenderla.

Ora nessuno vorrà credere che il difetto d’una siffatta linea sia
sfuggito al nostro Capitano: molti anni dopo, in un suo libro lo
denunziava egli stesso;[124] ma da vero uomo di guerra, anzichè
perdersi in vani conati per cambiare ciò che la natura aveva creato, e
la forza delle cose gl’imponeva, prese il suo partito di far fronte al
nemico su tutti i punti, salvo a distribuire le forze a seconda delle
naturali difese del suolo, ed a tenersi sotto mano una forte riserva
per accorrere sul punto più minacciato.

Ciò deliberato, stende fra Santa Maria e San Tammaro la divisione
Cosenz,[125] comandata dal Milbitz (quattromila uomini e quattro
pezzi), e vi stabilisce la sua sinistra; colloca a Sant’Angelo,
in comunicazione colla prima, la diciassettesima divisione Medici
(quattromila uomini e quattro pezzi), e ne fa il suo centro; apposta
a San Leucio la brigata Sacchi (duemila uomini), ed a Castel Morone il
battaglione Bronzetti (dugentosettanta uomini); affida alla divisione
Bixio, la più forte di tutte (cinquemilaseicento uomini e otto pezzi),
la difesa dei Ponti della Valle e Maddaloni, e vi assicura la sua
destra; mette a guardia della strada d’Aversa la nascente brigata
Corte; accampa a Caserta, sotto il comando del Türr, la sua riserva
(quattromilasettecento uomini e tredici pezzi) e insedia, nella celebre
Villa del Vanvitelli, prediletto svago dei Borboni, il suo Quartier
generale.

Ventunmila uomini, la più parte de’ quali male armati e peggio
istruiti, seminati sopra un terreno di oltre venti chilometri, dovevano
contrastare il passo a quarantamila vecchi soldati, il fiore dei
fedeli del Borbone, protetti da una fortezza di primo ordine, armata di
sessanta bocche da fuoco, fiancheggiati da un fiume tutto in mano loro,
ai quali la vicinanza, e tra poco la presenza, del Re loro trasfonderà
uno spirito novello, e che tenendosi incolpevoli delle vergogne
di Palermo, di Reggio e di Soveria parevano tanto più deliberati a
vendicarle.


XI.

Una battaglia era imminente; molti indizi l’annunciavano, Garibaldi la
presentiva. «Tornato da Palermo (scrive egli stesso) presi stanza a
Caserta, e visitando ogni giorno Monte Sant’Angelo, da dove scorgeva
bene il campo dei nemici, a levante della città di Capua e nei
dintorni, dai loro movimenti sulla sponda destra del Volturno, che
non potevano sfuggire al mio osservatorio del Monte suddetto, e dalle
loro disposizioni, io congetturava essere i Borbonici in preparativi
d’una battaglia aggressiva.» E non s’ingannava. Fin dal 26 settembre il
generale Ritucci, nuovo comandante supremo dell’esercito regio, aveva
già fermato il suo disegno, modello di primitiva semplicità: attaccare
la linea garibaldina su tutti i punti, con maggior sforzo alle due
ali di Santa Maria e di Maddaloni, e, sfondatala, marciare su Napoli.
E da ciò questa distribuzione di parti: il generale Tabacchi colla
divisione della guardia, settemila uomini, doveva assalire Santa Maria,
fiancheggiato alla sua destra dalla brigata Sergardi, tremila uomini,
che spuntando l’estrema sinistra garibaldina a San Tammaro aveva per
iscopo di minacciare la strada d’Aversa. Al centro, invece, dando
la destra al Tabacchi e sostenuto a manca dal generale Colonna, cui
era commesso di passare con cinquemila uomini la Scafa di Triflisco,
doveva marciare su Sant’Angelo con diecimila uomini, maggior nerbo
degli assalitori, il generale Afan de Rivera: ad oriente il colonnello
Perrone, con milledugento combattenti spalleggiati però da una riserva
di altri tremila rimasti a Caiazzo, doveva sboccare da Limatola, e
per la strada di Castel Morone mirare diritto a Caserta: all’ultima
destra, infine, il Von Mechel con una divisione di ottomila uomini, la
più gran parte Tedeschi, doveva, per la strada di Ducenta, avventarsi
sul Bixio ai Ponti della Valle, e di là, dando la mano al Perrone,
come questi doveva darla al Colonna, al Rivera, al Tabacchi, a tutti
quanti marciare a bandiere spiegate su Napoli. Il gran colpo era stato
deciso per il 1º ottobre, onomastico di Francesco II; il Re stesso,
coi fratelli, doveva seguire, a convenevole distanza, le sue legioni, e
coll’augusta presenza incoraggiarle, da lontano, alla sacra riscossa.

Fino dalla vigilia Garibaldi aveva notato sotto le mura di Capua
un grande tramenío, sicchè, come uomo che ha letto fino al fondo
il pensiero del suo avversario, diceva o mandava a dire a’ suoi
Luogotenenti: «Fate buona guardia, domani saremo attaccati.»

In sull’alba del 1º ottobre, infatti, un crescente colpeggiare di
moschetteria, echeggiante da Sant’Angelo a Santa Maria, annunziava che
la zuffa era cominciata. Poco dopo il Milbitz era già alle prese col
Tabacchi, e il Medici con Afan de Rivera; laonde Garibaldi, accorso al
fragore de’ primi colpi a Santa Maria, aveva subito indovinato che la
giornata sarebbe stata, come suol dirsi, assai calda, e che conveniva
rinforzare senza indugio Santa Maria, che era, tra i punti principali
della sua linea, il più debole e per postura e per numero di difensori.
Mandò quindi a chiedere a Caserta la brigata Assanti della riserva, e
confidatosi interamente al Milbitz, uno de’ suoi vecchi commilitoni di
Roma, partì in carrozza per Sant’Angelo, altro dei punti che più gli
stavano a cuore.

Potevano essere le sei del mattino. Circa all’ora medesima gli
avamposti del Bixio si scontravano con l’avanguardia di Von Mechel, e
il Perrone passava il Volturno a Limatola. Se non che, giunta verso la
metà della strada che da Santa Maria mena a Sant’Angelo, la carrozza di
Garibaldi è all’improvviso tempestata da una grandine di fucilate, e
al tempo stesso involta in un nugolo di nemici sbucati da certe fosse
asciutte che tenevan luogo di vere strade coperte. E già quella prima
scarica aveva morti il cocchiere ed un cavallo della carrozza; talchè
Garibaldi stesso, in presentissimo pericolo, fu costretto a balzare a
terra ed a mettersi co’ suoi aiutanti in sulla difesa. «Ma (narra egli
medesimo) mi trovavo in mezzo ai Genovesi di Mosto ed ai Lombardi di
Simonetta. — Non fu quindi necessario di difenderci noi stessi; quei
prodi militi, vedendoci in pericolo, caricarono i Borbonici con tanto
impeto, che li respinsero un buon pezzo distanti e ci facilitarono la
via verso Sant’Angelo.[126]»

Pure anco l’arrivo a Sant’Angelo non fu senza pericolo. Intanto che la
prima catena del Rivera per quelle fosse o strade coperte, che dicemmo,
s’insinuava non vista dentro il fianco sinistro del Medici e stava
per tagliargli ogni comunicazione col Milbitz, dal lato opposto le
avanguardie del Colonna, tragittata nella notte la Scafa di Triflisco,
aggiravano favorite dalle tenebre la destra di Sant’Angelo, e per
sentieri ascosi di monti arrivavano in sul fare dell’alba sui poggi
di San Vito, uno dei contrafforti del Tifata. Poco mancò pertanto
che Garibaldi, il quale appunto verso quella medesima ora arrivava su
quell’altura, cascasse in mezzo a quella nuova imboscata di nemici; e
sarebbe certamente accaduto se appena scortili non li avesse arrestati,
cacciando loro incontro il drappello della sua scorta, facendoli al
tempo stesso pigliar di costa da una compagnia del Sacchi che chiamò in
tutta fretta da San Leucio.

Liberato, con tanta fortuna sua e della giornata che stava
combattendo, da quel nuovo pericolo, Garibaldi potè abbracciare dal
suo osservatorio di Sant’Angelo tutto il quadro della battaglia. E gli
apparve formidabile. Il Milbitz e il Medici resistevano prodemente,
ora contrastando, ora riacquistando con infaticabili contrassalti i
punti capitali delle loro posizioni; ma il nemico, forte delle sue
grosse riserve, rinnovava di continuo con truppe fresche gli assalti,
mentre i Garibaldini, diradati dalla strage e dalla stanchezza, erano
all’estremo della loro possa. Si combatteva da una parte e dall’altra
da oltre sei ore; ma verso il tocco pomeridiano un nuovo e generale
assalto del Tabacchi contro il Milbitz, e di Afan de Rivera contro il
Medici, addossa i difensori agli ultimi ripari delle loro linee. Il
Milbitz a Santa Maria è ridotto alla difesa di Porta Capuana; il Medici
a Sant’Angelo è forzato a disputare con un pugno di gente il crocivio
Capua-Sant’Angelo, Santa Maria-Sant’Angelo, centro delle sue, e chiave
di tutte le posizioni a occidente di Caserta. Ancora un passo de’
Borbonici e la giornata è perduta. Garibaldi lo vede, ed afferrando a
volo l’istante, scende a galoppo dal Tifata, rincora, rampogna, raduna,
risospinge al combattimento quanti fuggiaschi o sbandati incontra per
via: raccomanda al Medici, cui ogni raccomandazione era superflua, di
tenersi a Sant’Angelo fino all’ultimo fiato; spicca ordine al Sirtori
di mandare incontanente a Santa Maria tutte le riserve, e pei sentieri
bistorti e ruinosi della montagna, poichè la strada diritta era in
potere del nemico, corre egli stesso a Santa Maria per attendervi le
riserve e ristorare la pugna.

Le riserve infatti, verso le due pomeridiane, parte per la consolare,
parte per la ferrovia, arrivarono. Non v’era più un solo istante
da perdere; ogni altro capitano le avrebbe cacciate, senza dar
loro un secondo di riposo, nella mischia: Garibaldi no. Composto
il viso all’abituale placidezza, non tradendo alcun segno d’interna
trepidazione, rassicura col solo aspetto le truppe sopravvenienti,
comanda agli ufficiali che siano lasciate riposare, dice ad alta voce
al generale Türr, in guisa che tutti possano sentirlo: «La vittoria
è certa, manca solo il colpo decisivo;[127]» poi, senza fretta,
senza trambusto, con ordine e calma mirabili, piglia egli stesso la
brigata Milano e parte della Eber e la caccia sulla strada di Santa
Maria a Sant’Angelo; intanto che il Türr col rimanente della Eber e
gli avanzi della Milbitz va a rinforzare la difesa di Porta Capuana
e a fronteggiare il nemico su tutta la sinistra. Nel suo concetto le
riserve mandate alla riscossa sulla destra dovevano attaccare il nemico
in due colonne e con due obbiettivi affini, ma diversi: l’uno, cioè,
urtare diagonalmente la destra del Tabacchi in modo da spuntarlo e
separarlo da Afan de Rivera; l’altro marciar perpendicolarmente sul
fianco sinistro di questi, in guisa da minacciarne la ritirata e da
liberar a Sant’Angelo il Medici che eroicamente agonizzava. E tutto
riuscì a seconda. Pochi colpi, alcune cariche a fondo brillanti,
soprattutto quelle della Legione ungherese e del battaglione Milano, e
i Generali borbonici, sconfidati da tanta resistenza, se non stremati
di forze, fatta coprire la loro fronte, spezzata da un’ultima carica
di cavalleria, male guidata e presto risospinta, suonarono a ritirata.
Alle 5 della sera tutte le posizioni garibaldine erano riconquistate.
Il Medici tornava signore indisputato del suo quadrivio. Il Türr e
il Rustow (il Milbiltz era rimasto ferito) inseguivano le schiere
disordinate del Tabacchi e del Rivera, fin sotto le mura di Capua.
Alla stessa ora il Bixio, dopo avere per tutta la giornata ributtati
gli assalti di Von Mechel, lo ricacciava colle baionette alle reni
di là dai Ponti della Valle fin presso a Ducenta; al Perrone infine,
trattenuto sei ore sotto Castel Morone dall’eroico petto di Pilade
Bronzetti e de’ suoi trecento, sacratisi a certa morte per la salvezza
comune, era tolto di tentare per quel giorno il divisato colpo su
Caserta; sicchè in quell’ora stessa, 5 pomeridiane, Garibaldi poteva
telegrafare a Napoli: «Vittoria su tutta la linea.[128]»

   [Illustrazione: PIANO DELLA GIORNATA DEL VOLTURNO]


XII.

E vittoria era, piena, compiuta, gloriosa e, checchè altri abbia
novellato, tutta dell’armi volontarie, tutta garibaldina. All’indomani,
come suol spesso accadere dopo i grandi fatti d’arme, la battaglia ebbe
uno strascico che poteva arricchire e quasi allietare la vittoria, ma
non avrebbe mai potuto, non che metterla in forse, turbarla un istante.
Dicemmo che Pilade Bronzetti, anzichè cedere il passo di Castel Morone,
a lui affidato, aveva tolto di morire col fiore più eletto de’ suoi.
Da ciò era conseguíto che il Perrone, perduto intorno a quella vetta
il suo tempo migliore, e ritardato novamente da un contrassalto ardito
di alcune compagnie della brigata Sacchi, era stato sopraggiunto
dalla sera e non aveva più potuto proseguire per Caserta, come era suo
disegno. Tuttavia, o perchè ignorasse (strana cosa invero) la ritirata
dell’esercito suo, o perchè fosse d’animo temerario e sconsiderato, non
volle rinunziarvi per l’indomani, e all’alba del giorno mosse per la
via di Caserta Vecchia alla sua mèta. Il generale Sirtori, che tutta
la giornata del primo aveva vegliato con grande alacrità all’invio
dei rinforzi e delle munizioni, e insieme alla sicurezza del Quartier
generale, fu il primo ad avvertir l’avanzarsi del corpo del Perrone e
nella notte stessa n’aveva mandato l’annunzio a Garibaldi, che spossato
dalla grande fatica della vigilia era rimasto a prendere un po’ di
riposo a Sant’Angelo. Egli però fu più noiato del sonno interrotto,
che conturbato dalla gravità del messaggio. Anche senza vederlo aveva,
per istinto, compreso che si trattava d’un corpo isolato, rimasto
spensieratamente di qua dal Volturno e che non poteva in alcuna guisa
rimettere in dubbio la vittoria della vigilia. Montato tuttavia
a cavallo, corre nella notte stessa a Caserta, dove concorda col
Sirtori le disposizioni necessarie, non tanto per combattere, quanto
per irretire e prendere il nemico. Il Sirtori con una frazione della
brigata Assanti levata da Santa Maria, e un battaglione di Bersaglieri
dell’esercito settentrionale chiamato il dì innanzi da Napoli, quando
più ondeggiava la fortuna, doveva stare alla difesa di Caserta, quindi
del centro; il Bixio ebbe ordine di attorniare il nemico dal lato di
Monte Viro e Caserta Vecchia, cioè dalla sua sinistra; mentre Garibaldi
in persona con un manipolo di Carabinieri genovesi, alcuni frammenti
della brigata Spangaro razzolati a Sant’Angelo, un battaglione
regolare della brigata Re e l’intera brigata Sacchi, si era assunto di
accerchiarlo dalla destra, togliendogli così ogni scampo.

Se non che, intanto che le truppe destinate all’azione si ordinavano
e mettevano in marcia, l’avanguardia del Perrone, che già nel mattino
era stata scoperta dalle guide del Missori a Caserta Vecchia, si
avanzava alla sprovveduta sino alle prime case di Caserta,[129] talchè
il Sirtori, costretto ad accorrere alla difesa con quanta gente si
trovava fra mano, diè modo a quei bravi Bersaglieri dell’esercito
settentrionale, chiamati la vigilia, di barattare coi Borboni
alcuni felici colpi di carabina, e di suggellare anche sui campi del
Mezzogiorno la fratellanza non mai smentita tra i soldati di Vittorio
Emanuele e le camicie rosse della rivoluzione.[130] Intanto però
che il Sirtori respingeva l’attacco di fronte, le truppe destinate
all’aggiramento giungevano a’ loro posti, sicchè non restò più che
a dar sul nemico l’ultimo colpo. Infatti verso le tre pomeridiane,
attaccata dai Calabresi dello Stocco, e dal battaglione della brigata
Re, lanciati alle spalle ed ai fianchi di Caserta da Garibaldi stesso,
attorniata e serrata da due brigate del Bixio, perseguitata dal
battaglione Isnardi della brigata Sacchi, opportunamente accorsa a
chiudere il passo ai respinti da Caserta, tutta la colonna del Perrone
o restò prigioniera, o andò dispersa di là dal Volturno, assicurando
con nuovi trofei la vittoria della giornata precedente.

La battaglia del Volturno, e per l’estensione del campo e pel numero
de’ combattenti e per la durata della pugna e per la grandezza
dei risultati, fu una delle più grosse che l’armi italiane abbiano
combattuto. Ventimila giovani volontari, disseminati sopra un terreno
tortuoso e capricciosissimo di circa venti chilometri, resistettero ad
un esercito di quarantamila vecchi soldati agguerriti, ed alla fine
lo sbaragliarono. Le perdite dei Garibaldini sommarono all’incirca a
cinquecento morti, a milletrecento feriti e milletrecento sbandati
o prigionieri; fuori del conto i codardi che passeggiavano le vie,
biscazzavano nei caffè, o sbevazzavano nelle taverne di Napoli,
intanto che i loro camerati combattevano e morivano. Dei morti e feriti
borbonici invece incerto il numero, quantunque sia probabile che per
la imperfezione delle armi garibaldine non abbia uguagliato quello
dei vincitori; certissimo però quello dei prigionieri e delle prede:
tremila e più tra soldati ed ufficiali e sette bocche da campagna
di grosso calibro. Come in tutte le grandi fazioni campali, così in
questa i fattori della vittoria furono tre: il genio del Capitano
supremo, la prodezza de’ suoi Luogotenenti e soldati, gli errori del
nemico. «Il generale Garibaldi (dice un ufficiale tedesco storico e
testimone) fu inarrivabile prima, nel corso e dopo la battaglia.[131]»
Preparato da molti giorni ad un assalto generale, prese in tempo le
opportune misure per respingerlo, raddoppiò colla sua la vigilanza dei
suoi Luogotenenti e si premunì da ogni sorpresa. Non appena accesa
la pugna, ne estimò l’importanza, ne fermò il disegno, ne divinò
l’obiettivo. Salito fin dal mattino al suo prediletto osservatorio del
Tifata, vi potè abbracciare d’uno sguardo l’intero campo di battaglia
e seguirne davvicino tutte le principali vicende. Veduto il balenare
delle sue linee e il soverchiare del nemico, non dubitò un istante
della vittoria. Apparso il momento del colpo decisivo, l’afferrò
al volo; chiamò in tempo le riserve e le capitanò egli stesso; egli
stesso le diresse contro il punto più offensibile del fianco nemico
e decise della giornata. Nella prima fase dell’azione fu l’occhio,
nella seconda la mente e l’anima dell’esercito suo. Comandò e combattè
insieme; osservò con acutezza, ragionò con logica, agì con rapidità e
precisione; dovunque apparve serenò, col solo aspetto, i combattenti,
fugò la paura e sovraneggiò la fortuna.

Il dubbio, tenace tuttora nella mente di molti, che Garibaldi non
sia mai stato che un abile partigiano, inetto al comando di numerosi
eserciti ed alle fazioni della grossa guerra, non merita più, dopo il
1º ottobre, di essere seriamente discusso. Nella battaglia del Volturno
erano impegnate tante forze quante a Rivoli, sopra un terreno non meno
esteso di quello di Marengo, e se il vincere una siffatta battaglia
non conferisce al vincitore il titolo di Capitano, Bonaparte fino
alle Piramidi non avrebbe potuto dirsi che un guerrigliero.[132] Certo
anche Garibaldi non avrebbe potuto vincere senza Generali e soldati; ma
avrebbe forse Napoleone trionfato in tante battaglie senza i Massena,
i Soult, i Ney, i Lannes, i Marmont, i Davoust? E invero la condotta
dei divisionari di Garibaldi al 1º ottobre è degna d’esser citata ad
esempio. Posti a difendere con forze inadeguate posizioni tutt’altro
che gagliarde, e il cui primo difetto era di essere tutte ugualmente
importanti, adempirono l’arduo assunto con grande abilità e valore;
disputarono palmo a palmo il terreno, tenendosi concentrati nei punti
decisivi e soprattutto usando a tempo e con energia dei contrassalti
offensivi, che sono la salvezza di tutte le difese. È vero che furono
a lor volta mirabilmente secondati. Il Bixio disse: «Quando dei corpi
saranno comandati da ufficiali come Dezza, Piva, Taddei, Spinazzi,
ed avranno a capo di Stato Maggiore un ufficiale come Ghersi, se la
vittoria non coronerà sempre i loro sforzi, certo sapranno incontrare
ai loro posti una morte gloriosa.[133]»

Ora lo stesso avrebbe potuto dirsi a Santa Maria, di Faldella, di
Malenchini, di Eber, di De Giorgis, di Assanti, e a Sant’Angelo di
Simonetta, di Ferrari, di Guastalla, di Cadolini, di Spangaro, e
a Caserta di Bonnet, di Bruzzesi, di Majocchi; e serbata la debita
misura di tutti i gregari. Le azioni di valore in quella giornata
furono innumerevoli; ma a tutte sovrasta, come una gloria, quella del
Bronzetti a Castel Morone, il cui generoso sacrificio salvò, ben può
dirsi, l’esercito garibaldino dal più terribile colpo che il nemico gli
serbasse, poichè a nessuno è dato affermare quel che sarebbe avvenuto,
se il 1º ottobre un corpo, anche relativamente piccolo, fosse piombato
su Caserta, nell’ora decisiva, costringendo Garibaldi ad usar contro di
esso quelle riserve che gli erano necessarie a ristorare la battaglia
sugli altri punti più minacciati.

Ma, siccome dicemmo, una parte non ultima della vittoria va dovuta agli
errori de’ nemici. «Per fortuna nostra (scrive Garibaldi stesso), fu
pur difettoso il piano di battaglia dei Generali borbonici. Essi ci
attaccarono con forze considerevoli su tutta la linea, in sei punti
diversi, a Maddaloni, a Castel Morone, a Sant’Angelo, a Santa Maria, a
San Tammaro, ed in un punto intermediario di cui non ricordo il nome,
ove comandava il general Sacchi.

»Diedero così una battaglia parallela, cozzando col grosso del loro
esercito contro il grosso del nostro, ed assalendo posizioni da noi
studiate e preparate.

»Se avessero invece preferito una battaglia obliqua, cioè minacciato
cinque dei punti summentovati, con avvisaglie di notte, e nella stessa
notte portare quarantamila uomini sulla nostra sinistra a San Tammaro,
o sulla nostra destra a Maddaloni, io non dubito essi potean giungere a
Napoli con poche perdite.

»Non sarebbe stato perciò perduto l’esercito meridionale, ma un grande
scompiglio ce lo avrebbero cagionato. Con un’ala rotta, ed il nemico
padrone di Napoli e delle nostre risorse, diventava l’affare un poco
serio.[134]»

E di più non ci occorre aggiungere. Garibaldi con questo giudizio,
tanto modesto quanto esatto, ha dimostrato una volta di più che nessuno
degli elementi del cimentoso problema incontrato il 1º ottobre nella
pianura capuana gli era rimasto ignoto; ch’egli agì con piena coscienza
della situazione sua e degli avversari; che la vittoria non premiò in
lui soltanto il valore, e non servì soltanto la fortuna; ma ubbidì alla
sagacia, all’arte, alla prodezza, a tutte le doti che formano il buon
Capitano, e lo rendono degno delle marziali corone.[135]


XIII.

Le due giornate del Volturno avevano tolto ai Borbonici ogni
probabilità di prossima rivincita, ma non ogni possibilità di lunga
resistenza. Francesco II, non ostante le perdite, poteva ancora
allineare circa a quarantamila combattenti; le principali fortezze del
Regno, Capua e Gaeta, erano sempre in suo potere; tutto il territorio
dal Volturno al Tronto era signoreggiato dal suo esercito; gran
parte della popolazione rurale degli Abruzzi gli rimaneva fedele e in
taluni distretti, come in quello d’Isernia, i contadini respingevano
apertamente la rivoluzione e pigliavan le armi in sua difesa; talchè
egli poteva protrarre per lungo tempo la lotta e se non voltare la
fortuna, differire ancora la finale caduta.

Pel contrario l’esercito garibaldino cominciava ad assottigliarsi
e svigorirsi. I rinforzi non bilanciavano più da parecchio tempo
le perdite: le grandi spedizioni del Continente erano arenate: la
Sicilia, dati al passaggio dello Stretto dai quattro ai cinquemila
Picciotti, pareva come esaurita; e peggio devesi dire delle Calabrie,
delle Puglie, di tutte le provincie del Regno. Indarno Garibaldi
ripeteva i suoi belligeri appelli in nome di Roma e Venezia; da
qualche avventuriero in fuori nessuno rispondeva più alla chiamata.
Dei ventunmila uomini del 1º ottobre non ne restavano oramai che
diciottomila; e quando si eccettui una legione inglese, masnada di
beoni e di saccomanni,[136] non una insegna di soccorso spuntava
sull’orizzonte.

E come andava scemando la quantità, così peggiorava la qualità. I
bei giorni di Calatafimi e di Milazzo erano passati. Nelle schiere
cominciavano a serpeggiare quei primi sintomi di stanchezza, che
sono quasi sempre i precursori della dissoluzione. Una parte reggeva
ancora al dovere; ma la molla dell’entusiasmo, che aveva fino allora
rese dolci le privazioni e belli i pericoli, era fiaccata. La vanità
dei brevetti e dei gradi, i mercenari calcoli della carriera,
già subentravano, nel cuore di molti, ai puri stimoli dell’amore
della patria e della gloria. Gli ufficiali esuberavano in misura
insolita[137] anco fra gli eserciti rivoluzionari, ed acceleravano essi
pei primi, coll’ingombro degl’inetti e lo scandalo degli oziosi, la
corruzione dell’intero esercito.

Anche i migliori principiavano ad essere disamorati d’una guerra
che dopo l’annunciato sopraggiungere dell’esercito sardo perdeva la
sua ragione principale, e null’altro prometteva che un’incresciosa
vigilanza attorno ad una uggiosa fortezza in una più uggiosa pianura.
Che se a tutto ciò s’aggiunga l’intristire della stagione, le lunghe e
piovose notti del morente autunno, il difetto di riparo e di vesti, il
crescere conseguente delle sofferenze e delle malattie, si intenderà di
leggieri come l’esercito garibaldino potesse tener ancora la difensiva
sulla linea occupata, ma non mai pensare ad alcuna decisiva operazione
offensiva, molto meno poi all’impresa di Roma. E Garibaldi lo sentiva,
e talvolta nei confidenti abbandoni dell’amicizia gliene fuggiva di
bocca l’amara confessione. «Leggete questa lettera di Mazzini (diceva
ad Alberto Mario, qualche giorno dopo la vittoria del Volturno); egli
mi sprona alla spedizione di Roma. Sapete se io non ci abbia di lunga
mano pensato. Il 1º ottobre abbiamo sconfitto il nemico a tal punto,
che non sarà più in grado d’affrontarci; ma non potrò mai andare a
Roma, lasciandomi addietro sessantamila uomini trincerati fra due
fortezze, i quali intanto si ripiglierebbero Napoli.[138]» E se quei
sessantamila uomini erano un’amplificazione, tutto il resto era pura
verità. Dopo il 2 ottobre l’esercito garibaldino bastava appena a
salvar Napoli da un colpo di mano, se pure bastava.

Ma a distoglierlo dalla temeraria impresa, più ancora della ragione
militare poteva la politica.

Disfatto a Castelfidardo il Lamoricière, espugnata Ancona, riuscita
oltre la speranza l’impresa delle Marche e dell’Umbria, il conte di
Cavour deliberò di farsi perdonare l’audacia coll’audacia e di spingere
l’esercito, già sulla via, all’invasione del Regno. Così con un colpo
solo lo strappava a Garibaldi ed al Borbone insieme; rompeva gli ultimi
indugi all’annessione, rivendicando alla spada del suo Re l’onore di
compiere e assodare l’opera dalla rivoluzione iniziata.

Sfidata ancora la collera delle Potenze d’Europa, di cui presentiva
le strida, ma insieme presagiva l’inerzia;[139] annunziata con
brutale laconismo al Ministro napoletano presso la Corte di Torino la
sua risoluzione; chiesta dal Parlamento subalpino,[140] non ancora
italiano, l’approvazione della sua politica e la balía di annettere
tutte le provincie italiane, che liberamente dichiarassero di voler
far parte integrante della Monarchia; spinge il Re stesso a mettersi
a capo dell’esercito vincitore ed a passare il Tronto. E Vittorio
Emanuele, cui nulla era più gradito della parte di re guerriero, e
che degli ardimenti del suo Ministro era piuttosto l’istigatore che il
moderatore, lasciata la reggenza al Principe di Carignano raggiunge il
3 ottobre l’esercito ad Ancona; d’onde bandito ai Napoletani, in un
Manifesto, a dir vero, nè sobrio nè modesto,[141] ch’egli stava per
arrivare, invitato, tra loro, a «chiudere l’èra delle rivoluzioni,»
s’incamminò a grandi giornate verso i confini del Regno.

Ciò stante a Garibaldi non faceva mestieri di grande acume politico per
comprendere che egli non poteva più oramai muovere le insegne contro
Roma senza urtare o prima o poi nelle schiere di Vittorio Emanuele, e
peggio ancora nella volontà di quel Parlamento che era a quei giorni
il supremo rappresentante morale, se non per anco legale, della
nazione intera; senza incorrere perciò nella terribile responsabilità
d’una guerra civile. E poichè nulla era più profondo nel cuore del
patriottico eroe che l’orrore della discordia fraterna, così molto
prima d’accorgersi che gliene mancava la forza e molto prima che
Vittorio Emanuele venisse a capitanare l’esercito d’Ancona, egli aveva
deliberato in cuor suo, mormorando, imprecando, fors’anco, a chi ve
lo sforzava, ma pure senza restrizioni nè riserve, di rinunciare, pel
momento almeno, ad ogni tentativo su Roma.

E di questo fanno fede due documenti noti, ma per avventura non
abbastanza notati, nè dirittamente finora interpretati. Il primo
è l’_Ordine del giorno_ del 28 settembre, nel quale, bandita con
esultanti parole ai Volontari la disfatta del Lamoricière, precorreva
colla speranza gli eventi, compiacevasi della resa d’Ancona e della
passata dell’esercito del Settentrione nel Regno anche prima che ciò
avvenisse, e conchiudeva giubilando: «Fra poco avremo la fortuna di
stringere quelle destre vittoriose.[142]» L’altro ancora più espressivo
è la lettera ch’egli stesso dirigeva a re Vittorio Emanuele in data del
4 ottobre, e che preferiamo riprodurre testualmente:

                                          «Caserta, 4 ottobre 1860.

      »Sire,

  »Mi congratulo colla Maestà Vostra per le brillanti vittorie
  riportate dal vostro bravo generale Cialdini e per le felici
  lor conseguenze. Una battaglia guadagnata sul Volturno ed un
  combattimento alle due Caserte pongono i soldati di Francesco II
  nell’impossibilità di più resisterci. Spero dunque poter passare il
  Volturno domani. Non sarebbe male che la Maestà Vostra ordinasse a
  parte delle truppe, che si trovano vicino alla frontiera abruzzese,
  di passare quella frontiera e far abbassare le armi a certi
  gendarmi che parteggiano ancora per il Borbone.

  »So che V. M. sta per mandare quattromila uomini a Napoli, e
  sarebbe bene. Pensi V. M. che io le sono amico di cuore, e merito
  un poco d’esser creduto. È molto meglio accogliere tutti gli
  Italiani onesti, a qualunque colore essi abbiano appartenuto per il
  passato, anzichè inasprire fazioni che potrebbero essere pericolose
  nell’avvenire.

  »Essendo ad Ancona, dovrebbe V. M. fare una passeggiata a Napoli
  per terra o per mare. Se per terra, e ciò sarebbe meglio, V. M.
  deve marciare almeno con una divisione. Avvertito in tempo, io vi
  congiungerei la mia destra, e mi recherei in persona a presentarle
  i miei omaggi, e ricevere ordini per le ulteriori operazioni.

  »La V. M. promulghi un decreto che riconosca i gradi de’ miei
  ufficiali. Io mi adopererò ad eliminare coloro che debbono essere
  eliminati.»

Chi consideri pertanto di questa lettera, il tempo, il contenuto, la
forma, ne vedrà risplendere vieppiù il significato. Essa fu scritta
il 4 ottobre, prima dunque che Garibaldi potesse conoscere il bando
di Vittorio Emanuele ai Napoletani, prima che l’esercito sardo si
fosse levato d’Ancona, prima assai che il Parlamento avesse votato
l’annessione dell’Italia meridionale, e sanzionato con siffatto voto la
politica del conte di Cavour.

Checchè dunque scriva a lode o vitupero lo spirito di parte, questo
rimane incontrastato, che Cavour e Garibaldi, lo statista e l’eroe,
quasi nel tempo stesso, ad insaputa l’uno dell’altro, s’accordavano
a dare al Re quel medesimo consiglio, intorno al quale pareva
dovessero restar divisi implacabilmente! _Ecco il giudicio uman come
spesso erra_. I monarchici superlativi credevano d’essere costretti,
o prima o poi, a dar battaglia «alla rivoluzione personificata in
Garibaldi,[143]» e Garibaldi apriva loro le porte di quello che ancora
era suo Stato, di null’altro ansioso che di incontrarli e schierarsi
sotto le loro insegne.

Nè si dica che la sua lettera parla di «una passeggiata;» è questa
un’attenuazione metaforica per scemare l’importanza del fatto e farne
parere più facile l’esecuzione; ma s’intende da sè che «la passeggiata»
d’una divisione, capitanata da un Re, fiancheggiata da un’altra
divisione, entro i confini d’uno Stato forestiero, è invasione bella
e buona, è guerra in tutte le forme. E con quali intendimenti egli
affretti la venuta di Vittorio Emanuele, è palese: vuol essere il primo
a rendergli omaggio, desidera «ricevere i suoi ordini per le ulteriori
operazioni,» ambisce, in una parola, di combattere al suo fianco, come
suo luogotenente, contro il comune nemico.

Il linguaggio della lettera è semplice e schietto, ma reverente e
affettuoso insieme; in essa il soldato dà consigli al Re; ma consigli
saggi, di moderazione e di temperanza, che re Vittorio, il quale
chiamerà un giorno l’antico mazziniano Medici a suo primo aiutante di
campo, e il vecchio repubblicano Crispi a suo primo Ministro, non si
pentirà d’aver ascoltati. Tutto persuade, adunque, che allorquando più
si strillava a Torino perchè Garibaldi si ostinasse nell’avventura di
Roma, egli n’aveva già deposto, almeno per quell’anno, il proposito,
e che ad altro non pensava se non a finir gloriosamente, in compagnia
dei suoi fratelli dell’esercito sardo, sotto gli ordini del suo Re, la
guerra contro il Borbone.

Ma perchè indugiava dunque ancora l’annessione, quell’annessione voluta
ormai dalla quasi totalità del paese, decretata dal Parlamento, da
Garibaldi stesso, indirettamente offerta a Vittorio Emanuele, e contro
la quale, colla rinunzia alla marcia su Roma, cessava ogni ragione
ed ogni pretesto? In verità, giunti a questo punto, il concetto del
nostro eroe ci sfugge. Abbiamo compresa e difesa la sua resistenza
all’annessione sino al giorno del suo ingresso in Napoli; l’abbiamo
scusato d’averla differita anche dopo l’entrata dell’esercito sardo
sul territorio ecclesiastico; ma ora, appressandosi quell’esercito,
vietata dall’espressa volontà del Governo e del Parlamento la via di
Roma, certo l’incontro ed il conflitto, nè l’intendiamo, nè sappiamo
difenderla più. E fortuna volle che non la sapesse intendere a lungo
nemmeno Garibaldi, siccome il seguito di questo racconto sta per
dimostrare.


XIV.

Fino dall’11 settembre il Dittatore chiamava presso di sè Giorgio
Pallavicino coll’intenzione di offrirgli la Proditattura delle
provincie napoletane. E l’onorando patriotta accorreva all’invito; se
non che, giunto a Napoli, non assunse subito l’ufficio; ne ripartiva,
invece, immediatamente per adempiere un altro confidenziale mandato
commessogli dal Dittatore e del quale ecco la ragione. La ruggine
frappostasi tra il conte di Cavour e il generale Garibaldi fin dalla
cessione di Nizza, s’era, per gli attriti del Mezzogiorno, dilatata e
approfondita al segno da degenerare in aperta e implacabile inimicizia.
Insusurrato da incauti o maligni consiglieri, il Generale aveva finito
coll’accogliere il sospetto, che colui il quale era stato capace
di mercanteggiare una volta una terra italiana, lo sarebbe stato la
seconda. Ignaro o dimentico di quanto il conte di Cavour aveva operato
per soccorrere l’impresa di Marsala, non ricordava, del rivale, che gli
intoppi, le insidie, le trafitture; finchè venne il giorno, in cui, in
buona fede, credendo che quegli solo, il Ministro, fosse d’inciampo
al compimento della sua missione nazionale, ebbe l’infelicissima
ispirazione di chiederne al Re il congedo, insieme al Farini ed al
Fanti, che giudicava, ed erano, suoi complici.[144]

Nè Vittorio Emanuele era re da piegare a siffatta intimazione, nè
il conte di Cavour ministro da consigliarlo. E ciò tanto più che la
lettera del Dittatore, arte o imprudenza che fosse, era stata divulgata
su pei giornali, e la dignità del Governo, non che quella della Corona,
pubblicamente ferita. Su questo proposito il conte di Cavour fece
in Parlamento alcune dichiarazioni, che non vanno dimenticate. «Fin
dall’agosto, diss’egli, quando il dissenso del generale Garibaldi
era probabile, ma non ancora conosciuto, io non aveva esitato,
per olocausto alla concordia, di offrire al Re la mia rinuncia e
dell’intero Gabinetto; ma dal momento, egli aggiungeva, che quella
lettera era stata propalata, che quel dissenso era divenuto pubblico,
non era più lecito a noi l’offerta delle nostre dimissioni, giacchè,
o Signori, io lo ripeto, se la Corona sulla richiesta di un cittadino,
per quanto illustre egli sia e benemerito della patria, avesse mutati
i suoi consiglieri, essa avrebbe recato al sistema costituzionale una
grave e, dirò anzi, una mortale ferita.[145]»

E, per fermo, così la condotta sua, come quella del Re, non poteva
essere nè più decorosa, nè più corretta. Chi sgarrava in tutto ciò era
Garibaldi; ma poichè anche al conte di Cavour non pareva vero d’aver
un’arma in mano per iscreditare e indebolire l’avversario fortunato,
i mutui rancori, caritatevolmente soffiando gli zelanti d’ambo le
parti, eran venuti di giorno in giorno siffattamente inturgidendo da
minacciare non lontano qualche scoppio violento.

Ma appunto in que’ giorni giungeva in Napoli il Pallavicino, il quale,
appena seppe il segno pericoloso a cui era giunto il dissidio, si
offerse di comporlo, facendosi mediatore a Torino di proposte, com’egli
le reputava, conciliatrici. E poichè Garibaldi consentì tosto, munito
d’una seconda sua lettera pel Re il Marchese si rimise in viaggio.
Se non che le condizioni, ond’egli era apportatore, non erano quelle
per l’appunto che meglio potessero condurre ad un accordo. Garibaldi
insisteva ancora nel pretendere il congedo del Cavour; in compenso
prometteva l’annessione immediata. La risposta fu quindi quale era da
attendersi: una disputa di più tra il Conte ed il Marchese, e una nuova
e più ricisa ripulsa. Al Prodittatore perciò non restò che il ritorno
a Napoli; ma dicasi a lode del suo animo patriottico, lasciando per via
ogni risentimento della fallita missione e non d’altro preoccupato che
d’affrettare, come cittadino e come governante, quel patto d’unione,
che era anco a’ suoi occhi la pietra angolare della finale unità
d’Italia.


XV.

Nel frattempo però la questione dell’annessione erasi pericolosamente
inasprita e complicata. E per ben intendere quanto fossero diverse
le favelle che garrivano in quel piato, è mestieri rammentarsi
chi e quanti erano coloro che, più o men dappresso, attorniavano
Garibaldi. V’era anzitutto il Ministero, presieduto dal Conforti,
cui eran colleghi il Pisanelli, il D’Afflitto, lo Scialoja, il
Ciccone, il Crispi, tutti, meno quest’ultimo, Cavourriani infocati e
dell’annessione zelatori impazienti ed intolleranti. V’era di contro
a quello, rivale nata, antagonista necessaria, la Segreteria della
Dittatura, gabinetto aulico del Bertani, grande macchina celerifera
di leggi e decreti, fucina di tutte le discordie e di tutti i guai
del Governo dittatoriale, la quale nella questione del plebiscito,
dopo essersi sforzata d’indugiarlo fino all’estremo, ora professava
apertamente di volerlo circuito di tutte le condizioni e garanzie di
un vero contratto. Infine v’era quella che potrebbe dirsi la Sezione
politica del Quartier generale, rappresentata principalmente da Alberto
Mario, del prolungamento della Dittatura e del plebiscito condizionale
partigiano ardentissimo, e per la prodezza dell’animo, la illibatezza
del carattere, la gentilezza della parola e dell’aspetto, caro al
Generale e da tutti rispettato. All’infuori poi del contorno abituale
e del consorzio ufficiale del Dittatore, ma più vicini a lui di quanto
non paresse, v’erano Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo; l’Apostolo
degli Unitari, e il Filosofo dei Federalisti: il primo, venuto a Napoli
di volontà sua nella fiducia di giovare, nella lusinga di potere, il
quale, sebbene non avesse veduto che una sol volta e clandestinamente
il Dittatore, non tralasciava di insufflargli di continuo, mediante
quegl’innumerevoli biglietti ond’era prodigiosamente fecondo, il suo
antico verbo del _se no, no_, cioè a dire di non cedere alla Monarchia
di Savoia un solo palmo delle provincie liberate, se non a patto
che essa s’impegnasse a gridar subito l’Italia una dal Campidoglio;
l’altro, venuto per espresso invito del Generale, il quale molinava
di farne ora un ambasciatore a Londra, ora un suo prodittatore, e che
pur con diverso intento arrivava alle stesse conclusioni del Mazzini,
volendo che le condizioni del plebiscito fossero prima discusse e
sancite da un’Assemblea, specie di Costituente, per impedire, diceva,
che la Monarchia violasse la integrità dell’Italia, e mercanteggiasse
le nuove provincie annesse, come aveva già mercanteggiato Nizza e
Savoia.

Ora, quando si aggiunga a tutto ciò il quotidiano supplizio
degl’indirizzi e delle orazioni, il vociar della stampa, il tumultuar
della piazza, si vedrà fra quante correnti diverse fosse abballottata
la mente del Dittatore, e come, non avendo l’animo temprato a siffatte
bufere, rischiasse più d’una volta d’andarne travolto. E di questo
ondeggiare faticoso della sua volontà si risentono dal mezzo settembre
in poi tutti i suoi atti. Il 25 settembre accetta la rinuncia de’ suoi
Ministri, querelantisi per l’annessione; ma tre giorni dopo incarica di
nuovo il Conforti della composizione d’un altro Gabinetto, che riesce
poco dissimile al primo. Al fin di settembre, noiato dalle perpetue
querele della Segreteria, congeda in cortese forma il Bertani, ma gli
sostituisce pochi giorni dopo il Crispi, non meno inviso di lui. Lascia
che Pallavicino, suo prodittatore preconizzato, scriva al Mazzini,
«con buono intendimento e povero consiglio,[146]» una lettera in cui,
fattogli intendere che la sua persona creava inciampi al Governo
e pericoli alla nazione, sì che _anche non volendolo divideva_, lo
invitava a bandirsi da quelle provincie, quanto dire d’Italia;[147] e
si tiene accanto Carlo Cattaneo, repubblicano e federalista insieme,
che frugandogli continuo nella ferita di Nizza, empiendogli l’animo di
sospetti contro il Piemonte, il suo Re e il suo Ministro, _divideva
davvero volendolo_, ed era il più pericoloso di quanti Consiglieri
l’attorniavano allora.

Il 5 ottobre, infine, insedia nella Prodittatura il Pallavicino stesso,
dell’annessione schietta ed immediata fautore aperto e deliberato, e
permette che, a Palermo, l’altro suo prodittatore Mordini, bandisca
nel giorno stesso i Comizi per l’elezione dell’Assemblea siciliana, che
dovrà stabilire il tempo e le condizioni del plebiscito.[148]

Non fu quello il miglior periodo del governo di Garibaldi, nè manco
il più lieto della sua vita. Egli non anelava che al bene della
patria sua; ma l’occhio debole ed inesperto non ne travedeva che un
barlume nel cielo procelloso di quei giorni, e spesso scambiava il
fosco balenar delle nubi per la luce da lui desiderata. Una così fatta
condizione di cose non poteva, senza manifesto pericolo della patria,
più a lungo durare, e il Pallavicino tolse su di sè la responsabilità
e l’onore di farla cessare. L’8 ottobre, posto in mora per l’ultima
volta Garibaldi a decretare il plebiscito, e udito, o creduto di
udire da lui una risposta favorevole,[149] propone e fa approvare al
Consiglio de’ Ministri il decreto che convoca pel 22 il popolo delle
provincie meridionali ad accettare o respingere il seguente plebiscito:
«Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele
Re costituzionale e suoi legittimi discendenti,» e si prepara a
promulgarlo.

Grande, naturalmente, la meraviglia in Garibaldi, che non aveva mai
creduto di autorizzare siffatto decreto; grandissimo lo sdegno in
tutti gli antiannessionisti, i quali, stimandosi giuocati dal novello
Prodittatore, si prepararono a prendere la rivincita. Indotto il
Dittatore a convocare presso di sè, a Caserta, per l’11 ottobre i
principali d’ambe le parti, e intervenuti per l’una col Pallavicino
il Caranti suo segretario ed il ministro Conforti, per l’altra col
Cattaneo il Crispi, il Mario, il Parisi, ministro dell’interno per la
Sicilia, la discussione si fece tosto ardente e pugnace. «Garibaldi
(scrive lo stesso signor Caranti[150]), Crispi, Cattaneo, il Ministro
dell’interno della Sicilia, e, se non erro, Mario e qualche altro
peroravano per l’assemblea, Pallavicino solo la combatteva. L’ora erasi
fatta tarda assai; Pallavicino, convulso dallo sdegno e dal dolore,
dichiarò che egli non voleva avere alcuna partecipazione a questo
tradimento dell’unità nazionale, che era ben dolente di dover vedere
che colui che con una mano aveva tanto operato in suo pro, coll’altra
la atterrasse, che egli all’istante rassegnava i suoi poteri, e che il
domani avrebbe abbandonato Napoli.»

Ma non appena le notizie della deplorevole scena corsero per la
Capitale, ecco la città intera commoversi: le vie, quantunque alta la
notte, affollarsi come per incanto d’un popolo imperioso; i pubblici
ritrovi risuonar di dispute infiammate; un analizzare, un chiosare,
un giudicare in varie guise le novelle del Consiglio di Caserta;
ma altresì un concordare di tutti, della grandissima maggioranza
almeno, in questa unica sentenza: la nuova risoluzione del Dittatore
poter esprimere forse la volontà d’un partito, non certamente quella
del popolo napoletano; questi invocar sempre l’annessione pronta e
incondizionata; importare quindi alla dignità del popolo stesso, alla
salute d’Italia intera che questo voto fosse al più presto, ma in modo
perentorio e solenne manifestato.

«Infatti (aggiunge il citato scrittore[151]) il domani mattina pareva
che per un incanto in Napoli fossevi stata una grande nevicata di Sì.
Essi stavano affissi su tutte le porte, le finestre, le mura delle
case, sulle vetture, sui cappelli degli uomini, sui loro abiti, sui
vestiti delle donne, nelle vetrine dei negozi, nei poetici tempietti
degli acquaiuoli. Ovunque vi foste rivolto, dappertutto avreste trovato
un Sì, con cui quella nobile popolazione sanzionava il dogma dell’unità
nazionale.»

Nè a questo si fermavano le dimostrazioni. La Guardia Nazionale,
rimasta in quei frangenti l’unica tutrice dell’ordine, si accordava
nello scrivere un indirizzo al Dittatore, in cui con figliale,
ma schietta parola lo supplicava a non cimentare la sua gloria,
disdicendo quel plebiscito che già era dal suo Prodittatore bandito:
consimile indirizzo andava correndo fra i varii ordini de’ cittadini
e coprendosi di migliaia di firme; turbe di popolo infine percorrevano
la città, accampavano sulle piazze, assediavano il palazzo del Governo,
alternando agli evviva per Vittorio Emanuele, Garibaldi e Pallavicino,
grida di morte al Mazzini, al Cattaneo, a tutti gli antiannessionisti;
profondamente turbando la pubblica quiete, minacciando gli eccessi a
cui le folle scatenate sogliono giungere.

Nè possiamo in tutto aderire a quanto scrittori di parte
antiannessionista vanno tuttora asserendo, che quelle manifestazioni
non altro siano state che spettacoli allestiti dai loro medesimi
avversari. Vi avranno, forse, messa una mano; ma non si suscita una
città di mezzo milione per solo artificio di sètte o di cricche. Era
quella palesemente la volontà di Napoli e del Reame intero, volontà
determinata, nol negheremo, da molti e opposti motivi, ispirata così
dell’amor puro d’Italia e dal desiderio onesto d’uscir dal provvisorio,
come dall’impazienza servile di adorare il novello astro; così dallo
schietto affetto alla Casa di Savoia, come dall’interessata speranza
di una più lauta mèsse di stipendi e d’impieghi; ma volontà pur sempre
chiara, ferma ed universale.


XVI.

E però la situazione era gravissima. Garibaldi, chiamato in tutta
fretta dal Türr, di recente eletto Comandante della provincia e città
di Napoli, accorse alla Capitale e potè da sè medesimo accertarsene.
Infatti, accompagnato egli pure da grande moltitudine, che applaudiva
a lui ed al Pallavicino, ma gli intronava le orecchie degli _abbasso_
e dei _morte_ ai fautori dell’Assemblea, ed empiva a lui stesso la
carrozza di _Sì_, fu costretto a farsi al balcone della Foresteria
ad arringare il popolo tumultuante,[152] il quale però abbonacciato
ben presto dal caro aspetto, dall’affascinante parola, e più forse
dall’annunzio del non lontano arrivo del Re, non tardò a quietarsi e
disperdersi.

Ma l’impressione prodotta in Garibaldi da quella solenne manifestazione
fu profonda. Decise perciò di riconvocare pel giorno medesimo (13
ottobre) i suoi Ministri e Consiglieri, e si recò egli stesso alla
Foresteria per invitare il Pallavicino ad esser parte dell’adunanza.
Questa doveva aver luogo al Palazzo d’Angri, dove il Dittatore soleva
prendere stanza. Erano presenti, oltre a lui, il Prodittatore, i
ministri Conforti e Crispi, Aurelio Saliceti, Carlo Cattaneo, Francesco
De Luca. Il Generale cominciò, chiedendo che tra i due opposti partiti
dell’Assemblea e del Plebiscito si cercasse un mezzo di conciliazione.
Il Pallavicino e il Conforti risposero che non sapevano vederne alcuno,
e propugnavano novamente con caldo accento la necessità del plebiscito
schietto ed immediato. Il Cattaneo, a sua volta, ribattè combattendo
per la sua teoria dell’assemblea. Il Conforti replicò di nuovo; il
Saliceti introdusse una sua proposta, per la quale Garibaldi doveva
proclamare per decreto la sovranità nazionale di Vittorio Emanuele,
salvo a farla sancire da un plebiscito e regolare da un Parlamento:
altri diceva altre cose; talchè la discussione facendosi sempre più
aspra e confusa, il Pallavicino stanco di quel lungo ed affannoso
dibattere erasi già alzato dicendo: «Vedo che io sono inutile qui,
permettetemi che io mi ritiri,» quando il generale Türr, che era stato
incaricato di presentare al Dittatore i voti della Guardia Nazionale
e della cittadinanza, testè citati, e che era giunto poco dianzi alla
riunione, si rivolse al Dittatore e gli disse: «Prima che prendiate
una decisione, dalla quale può dipendere la sorte d’Italia, vi prego
di esaminare il desiderio della popolazione di Napoli;» e gli sciorinò
sotto gli occhi gli indirizzi che aveva portati seco.

Il Dittatore li lesse, vide le numerosissime firme onde erano segnati,
stette un istante profondamente concentrato, poi, ripresa quella
serenità che gli era consueta nei momenti delle solenni risoluzioni:
«Non voglio assemblea, esclamò, si faccia l’Italia.... E voi, caro
Giorgio (riprese, volgendosi al Pallavicino), voi non siete inutile
qui; e vi prego di rimanere al vostro posto e cercate di meritarvi
anche d’ora innanzi la stima della popolazione di Napoli.[153]»

L’annessione era deliberata. Non diremo col signor Caranti «che il
Leone avesse trionfato delle Volpi,» poichè a nessuno di quanti in
que’ giorni lo consigliavano s’addice la volgare similitudine; ma il
Leone aveva trionfato certamente di sè stesso, de’ suoi ricordi di
Nizza, de’ suoi rancori contro il Cavour, delle sfide del Farini, delle
impertinenze del Fanti, della sua medesima ignoranza, illuminando colla
fiamma del cuore le tenebre involontarie della mente, e dal solo amore
alla patria traendo le ispirazioni al più sapiente atto politico della
sua vita.

E, cosa singolare in quest’uomo singolarissimo, nel giorno stesso[154]
ch’egli deponeva la Dittatura d’un regno, e i Napoletani tentavano
una grossa sortita da Capua che poteva mettere un’altra volta in serio
cimento le sue linee, e s’impegnava sotto i suoi occhi una battaglia,
egli, il Capitano di ventura, il filibustiere, l’uomo del sangue,
dalle alture di Sant’Angelo, al rombo del cannone, al fragore della
mischia, dettava un Manifesto, o _Memorandum_ che vogliasi dire,
in cui predicava, colla fede d’un Apostolo e l’accento d’un Vate,
la Confederazione europea, la fratellanza dei popoli, la fine della
guerra, il disarmo universale delle nazioni, conchiudendo con queste
parole degne dello spirito di Gentile e dell’eloquenza di Canning:

                  «_Memorandum alle Potenze d’Europa._

  »È alla portata di tutte le intelligenze, che l’Europa è ben
  lungi di trovarsi in uno stato normale e convenevole alle sue
  popolazioni.

  »La Francia, che occupa senza contrasto il primo posto fra le
  Potenze europee, mantiene sotto le armi seicentomila soldati, una
  delle prime flotte del mondo, ed una quantità immensa d’impiegati
  per la sua sicurezza interna.

  »L’Inghilterra non ha il medesimo numero di soldati; ma una flotta
  superiore e forse un numero maggiore d’impiegati per la sicurezza
  de’ suoi possedimenti lontani.

  »La Russia e la Prussia, per mantenersi in equilibrio, hanno
  bisogno pure di assoldare eserciti immensi.

  »Gli Stati secondari, non foss’altro che per ispirito di
  imitazione, e per far atto di presenza, sono obbligati di tenersi
  proporzionalmente sullo stesso piede.

  »Non parlerò dell’Austria e dell’Impero ottomano, dannati per il
  bene degli sventurati popoli che opprimono a crollare.

  »Uno può alfine chiedersi: perchè questo stato agitato e
  dell’Europa? Tutti parlano di civiltà e di progresso?... a me
  sembra invece che, eccettuandone il lusso, non differiam molto
  dai tempi primitivi, quando gli uomini si sbranavano fra loro per
  strapparsi una preda. Noi passiamo la nostra vita a minacciarci
  continuamente e reciprocamente, mentre che in Europa la grande
  maggioranza non solo dell’intelligenza, ma degli uomini di
  buon senso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la
  povera nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di
  ostilità degli uni contro gli altri, e senza questa necessità che
  sembra fatalmente imposta ai popoli da qualche nemico segreto
  ed invisibile dell’umanità, di ucciderci con tanta scienza e
  raffinatezza.

  »Per esempio, supponiamo una cosa:

  »Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato.

  »Chi mai penserebbe a disturbarla in casa sua, chi mal si
  avviserebbe, io ve lo domando, turbare il riposo di questa sovrana
  del mondo?

  »Ed in tale supposizione, non più eserciti, non più flotte,
  e gl’immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni ed
  alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di
  sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in
  uno sviluppo colossale dell’industria, del miglioramento delle
  strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali,
  nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell’erezione delle
  scuole che tornerebbero alla miseria ed alla ignoranza tante
  povere creature che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il
  loro grado di civiltà, sono condannate dall’egoismo del calcolo e
  dalla cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti
  all’abbrutimento, alla prostituzione dell’anima o della materia.

  »Ebbene! l’attuazione delle riforme sociali che accenno, appena
  dipende soltanto da una potente e generosa iniziativa. Quando mai
  presentò l’Europa più grandi probabilità di riuscita per questi
  benefizi umanitari?

  »Esaminiamo la situazione: Alessandro II in Russia proclama
  l’emancipazione dei servi;

  »Vittorio Emanuele in Italia getta il suo scettro sul campo di
  battaglia, ed espone la sua persona per la rigenerazione di una
  nobile razza e di una grande nazione;

  »In Inghilterra una Regina virtuosa ed una nazione generosa e
  savia che si associa con entusiasmo alla causa delle nazionalità
  oppresse;

  »La Francia finalmente, per la massa della sua popolazione
  concentrata, per il valore dei suoi soldati e per il prestigio
  recente del più brillante periodo della sua storia militare,
  chiamato ad arbitra dell’Europa.

  »A chi l’iniziativa di questa grand’opera?

  »Al paese che marcia in avanguardia della rivoluzione! L’idea
  di una Confederazione europea che fosse posta innanzi dal capo
  dell’Impero francese, e che spargerebbe la sicurezza e la felicità
  del mondo, non vale essa meglio di tutte le combinazioni politiche
  che rendono febbrile e tormentano ogni giorno questo povero popolo?

  »Al pensiero dell’atroce distruzione che un solo combattimento,
  tra le grandi flotte delle Potenze occidentali, porterebbe seco,
  colui che si avvisasse di darne l’ordine dorrebbe rabbrividire
  di terrore, e probabilmente non vi sarà mai un uomo così vilmente
  ardito per assumere la spaventevole responsabilità.

  »La rivalità che ha sussistito tra la Francia e l’Inghilterra
  dal XIV secolo fino ai nostri dì esiste ancora; ma oggi, noi lo
  contrastiamo a gloria del progresso umano, essa è infinitamente
  meno intensa, di modo che una transazione tra le due più grandi
  nazioni dell’Europa, transazione che avrebbe per iscopo il bene
  dell’umanità, non può più essere posta tra i sogni e le utopíe
  degli uomini di cuore.

  »Dunque la base di una Confederazione europea è naturalmente
  tracciata dalla Francia e dall’Inghilterra. Che la Francia e
  l’Inghilterra si stendano francamente, lealmente la mano, e
  l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Ungheria, il Belgio, la
  Svizzera, la Grecia, la Romelia verranno esse pure, e per così
  dire, istintivamente, ad aggrupparsi intorno a loro.

  »Insomma tutte le nazionalità divise ed oppresse, le razze slave,
  celtiche, germaniche, scandinave, la gigantesca Russia compresa,
  non vorranno restar fuori di questa rigenerazione politica, alla
  quale le chiama il genio dei secolo.

  »Io so bene che una obbiezione si affaccia naturalmente in
  opposizione al progetto che precede.

  »Che cosa fare di questa innumerevole massa d’uomini impiegati ora
  nelle armate e nella marina militare?

  »La risposta è facile:

  »Nel medesimo tempo che sarebbero licenziate queste masse, saremmo
  sbarazzati delle istituzioni gravose e nocive, e lo spirito dei
  sovrani non più preoccupato dall’ambizione, dalle conquiste, dalla
  guerra, dalla distruzione, sarebbe rivolto invece alla creazione di
  istituzioni utili, e discenderebbe dallo studio delle generalità a
  quello delle famiglie ed anche degl’individui.

  »D’altronde coll’accrescimento dell’industria, con la sicurezza del
  commercio, la marina mercantile reclamerà dalla marina militare sul
  momento tutta la parte attiva di essa; e la quantità incalcolabile
  di lavori creati dalla pace, dall’associazione, dalla sicurezza,
  ingoierebbe tutta questa popolazione armata, fosse anche il doppio
  di quello che è oggi.

  »La guerra non essendo quasi più possibile, gli eserciti
  diverrebbero inutili. Ma quello che non sarebbe inutile è di
  mantenere il popolo nelle sue abitudini guerriere e generose, per
  mezzo di milizie nazionali, le quali sarebbero pronte a reprimere
  i disordini e qualunque ambizione tentasse infrangere il patto
  europeo.

  »Desidero ardentemente che le mie parole pervengano a conoscenza
  di coloro, a cui Dio confidò la santa missione di fare il bene, ed
  essi lo faranno certamente, preferendo ad una grandezza falsa ed
  effimera la vera grandezza, quella che ha la sua base nell’amore e
  nella riconoscenza dei popoli.»


XVII.

Il 21 finalmente il plebiscito[155] era votato, così al di qua che
al di là dello Stretto. La formola: «Il popolo vuole l’Italia una
e indivisibile sotto lo scettro di Casa Savoia,» era assai più
comprensiva della semplice annessione al Piemonte, ma forse ne
esagerarono la portata coloro che videro in esso il vincolo della
Monarchia, la garanzia dell’Unità, il pegno di Roma. L’unità d’Italia
era già nel fatto dell’unione di ventidue milioni d’italiani; il
vincolo della Monarchia stava nella storia d’una Casa, che da vent’anni
aveva confuse le sue sorti a quelle dell’intera nazione; il pegno stava
nell’evoluzione naturale del risorgimento italiano, e il Cavour stesso,
molto prima che il plebiscito fosse bandito, lo dava al Parlamento
nelle solenni parole: «Noi vogliamo fare di Roma la splendida capitale
del Regno d’Italia.»

Col plebiscito e l’entrata di Vittorio Emanuele nel Regno l’opera di
Garibaldi e della rivoluzione nel Mezzogiorno poteva dirsi finita.
Pure, nè il Dittatore nè il suo Prodittatore lo credevano: il
Pallavicino s’affaticava a profittare di quegli ultimi istanti per
riordinare e migliorare l’amministrazione della cosa pubblica, quasi
direbbesi, per rassettare la casa che doveva consegnare a’ novelli
signori; Garibaldi sentivasi obbligato a qualcosa più che montar la
guardia al Volturno; egli lusingavasi davvero di poter dare una mano
non invalida a quelli che, non per una blandizia rettorica, egli
chiamava «i fratelli del Settentrione;» e non nascondeva ad alcuno
la nobile ambizione di combattere sul medesimo campo di battaglia al
loro fianco. Quando infatti per la vittoria del Cialdini al Macerone
(21 ottobre),[156] Francesco II decise di abbandonare Caiazzo e la
destra del Volturno, e serbando la sola Capua di ritirarsi prima verso,
poi dietro il Garigliano, Garibaldi, passato il fiume a Formicola,
con circa cinquemila[157] uomini, commesso alla divisione Medici di
difendere da una eventuale sortita di Capua la sua marcia di fianco,
s’incamminò per la strada di Venafro sulle traccie de’ Borbonici.
Da Venafro, all’incontro, scendevano le avanguardie dell’esercito
settentrionale, e il 26 ottobre a Caianello, poco lungi da Teano,
le due schiere s’incontrarono.[158] «Erano le 6 del mattino (scrive
Alberto Mario, testimonio all’episodio); Garibaldi e noi del suo
seguito eravamo già discesi da cavallo. Garibaldi vestiva l’abito
leggendario, e a cagione dell’umidità erasi coperto il capo e le
orecchie col fazzoletto di seta annodato sotto il mento. Di lì a poco
le musiche intuonando la _Marcia reale_ annunciarono il Re, il quale
arrivò sopra un cavallo arabo stornello. Garibaldi andò incontro a lui,
ed egli venne verso Garibaldi fra la strada e la stradella. Garibaldi,
cavatosi il cappellino, gridò: _Salute al Re d’Italia_, e il Re
rispose: — Grazie. — Il Re soggiunse: — Come state, caro Garibaldi? —
E Garibaldi fece: — Bene, e Vostra Maestà? — E il Re: — Benone. — Indi
stettero a colloquio in presenza nostra un quarto d’ora. Dopo di che
si partì per Teano. Il Re a destra, a sinistra Garibaldi, e, dietro, il
seguito dell’uno e dell’altro alla rinfusa.[159]»

E fu allora che Garibaldi, sentendo che una battaglia al Garigliano
era imminente, chiese al Re l’onore del primo scontro. Ma il Re: «Voi
vi battete da lungo tempo: tocca a me adesso; le vostre truppe sono
stanche, le mie fresche; ponetevi alla riserva.»

Il bel sogno di Garibaldi di affratellare sullo stesso campo le camicie
rosse e i cappotti grigi era ito in dileguo. Reduce la sera stessa
da Calvi, disse mestamente alla signora White Mario: «Ci hanno messi
alla coda;» e la frase scolpiva un’intera politica. Per metterlo alla
coda era stata deliberata la spedizione dello Stato ecclesiastico, e
per metterlo alla coda arrischiata l’entrata nel Regno; poteva forse
parere crudele che subito, al primo incontro, Vittorio Emanuele glielo
rammentasse; ma era logico. Garibaldi aveva vinto troppo: bisognava
che la partita di quell’indiscreto donatore di regni fosse chiusa;
bisognava dimostrare che si poteva vincere senza di lui, dovesse
la vittoria costare a cento doppi più cara;[160] bisognava, e qui
intendiamo l’altezza del concetto, che il futuro Re d’Italia potesse
presentarsi a’ suoi nuovi popoli, non già nelle umili sembianze
d’un sovranello protetto e patteggiato, ma di un vero Re soldato e
conquistatore.


XVIII.

Garibaldi aveva finito davvero. Arrivata sul Volturno la divisione del
generale Della Rocca e stabilito di serrar Capua con regolare assedio
e di espugnarla con bombardamenti, Garibaldi, o perchè gli ripugnasse
di cannoneggiare una città italiana, o perchè stimasse la parte sua
oramai accessoria e quasi superflua, lascia il comando de’ suoi, ancora
campeggianti intorno a Capua, al Generale sardo, e si ritira a Napoli.
Di là il 29, quasi segno di commiato, scrive al Re un’affettuosa
lettera, nella quale, dopo «rimesso in sua mano il potere sopra dieci
milioni d’Italiani bisognosi d’un regime riparatore,» lo assicurava che
in quelle contrade avrebbe trovato un popolo civile, amico dell’ordine,
quanto desideroso della libertà, pronto ad ogni sacrificio, se
richiesto nell’interesse della patria e di un governo nazionale;
affermava che l’Isola di Sicilia, malgrado le difficoltà suscitatevi
da gente venuta di fuori, ebbe ordini civili e politici pari a quelli
dell’Italia superiore, e godeva tranquillità senza esempio. Supplicava
infine «mettesse sotto la sua tutela tutti coloro che egli aveva avuti
a collaboratori in quella grande opera di affrancamento dell’Italia
meridionale, e accogliesse nel regio esercito i suoi commilitoni che
bene avevano meritato della patria.[161]»

E così gli ultimi giorni della sua Dittatura si avvicinavano. Il 31
ottobre consegnava solennemente alla Legione ungherese una bandiera
ricamata per essa dalle signore napoletane; il 2 novembre Capua segnava
la resa; il 4 faceva ai _Mille_ la solenne distribuzione delle medaglie
loro decretate dal Comune di Palermo; il 6 passava in rassegna sulla
piazza di Caserta il suo stracciato, ma glorioso esercito, dopo aver
atteso invano che il Re venisse ad onorare d’un suo sguardo i prodi
che da Marsala a Sant’Angelo avevano combattuto in suo nome.[162]
Al dì vegnente, 7 novembre, giorno prefisso al solenne ingresso di
Vittorio Emanuele in Napoli, lo accompagnava in carrozza, seduto alla
sua sinistra, nella consueta sua assisa, dirimpetto i due Prodittatori,
sotto una proterva pioggia che sciupava gli archi, dilavava i parati
e infracidiva i fiori, ma non poteva intiepidire l’immenso entusiasmo
dei Napoletani, ebbri di quel giorno tanto aspettato. E fu l’ultima
comparsa pubblica del Dittatore. Gli furono offerti il collare
dell’Annunziata, il grado di Maresciallo, altri onori e stipendi:
rifiutò ogni cosa. L’8 di novembre consegnò a Vittorio Emanuele, nella
gran Sala del trono, il plebiscito delle Due Sicilie; poscia, diretto
a’ suoi compagni d’armi un ultimo belligero addio,[163] in sull’alba
del 9, tacitamente, clandestinamente, quasi un fuggitivo, seguíto dal
Basso, dal Gusmaroli, dal Coltelletti, dal Nuvolari e da qualche altro
famigliare, s’imbarcò sul _Washington_ alla volta della sua Caprera.

Le ultime parole da lui dette ai pochi che l’avevano scortato a
bordo, furono quelle del suo addio ai Volontari: «A rivederci a Roma.»
Quando tutto fu lesto alla partenza, sciolse egli stesso la fune del
bastimento, quasi volesse simboleggiare che scioglieva così le ritorte
del potere, nel quale era stato fino allora avvinto e ricuperava la sua
libertà. L’eroe però non partiva a mani vuote: Basso, il segretario,
nascondeva nelle sue valigie alcune centinaia di lire, ed egli stesso
aveva fatto imbarcare sul _Washington_, spoglie opime della conquista,
un sacco di legumi, un altro di sementi e un rotolo di merluzzo secco!

Il _Giornale Ufficiale di Napoli_ ostentò per tre giorni di ignorare
la sua partenza; il Farini nell’annunciare la sua Luogotenenza ai
Napoletani si scordò di nominarlo; altrettale cortesia fu suggerita
al Re nel suo bando ai Palermitani, talchè fra il Liberatore che
trionfa da Marsala al Volturno e il Dittatore che parte povero, oscuro
e insalutato da Napoli, resterà dubbio nella storia quale sia il più
grande.




CAPITOLO DECIMO.

DA CAPRERA AD ASPROMONTE. [1861-1862.]


I.

Garibaldi è sparito per alcuni istanti dalla scena del mondo, ma il
suo spirito è dovunque presente; egli non è più che un’ombra romita
sopra un’isola deserta, ma l’eco del suo nome risuona fra i popoli
più lontani, e il poema delle sue gesta empie la terra. Nessuna
impresa era parsa più maravigliosa della sua. Ben altri prodigi
di guerra aveva veduti il secolo nostro; di ben altre catastrofi
di regni e rivolgimenti di popoli era stato testimone e narratore;
ma lo spettacolo d’un uomo che seguíto da una falange quasi inerme
varca incolume i mari, conquista isole e continenti, rovescia in
poche settimane uno de’ più antichi troni d’Europa, ma per donarlo,
s’impossessa d’una delle più felici contrade del mondo, ma per
redimerla, dà terribili colpi se combatte, ma vince più coll’amore che
coll’armi, disperde col solo apparire gli eserciti nemici, s’arma e
ingrossa per via camminando e combattendo, vola con rapidità cesarea
dall’estremo capo d’un Regno alle porte della sua Capitale, e colà
giunto, basta il rosseggiare del suo fantasma, basta il rumore ancor
lontano del suo passo perchè il Re nemico gli abbandoni la reggia
de’ suoi padri e la metropoli de’ suoi Stati, ed egli, il taumaturgo,
vi entri solo e sereno come ad un convegno festivo, sorridendo alle
soldatesche nemiche rimaste a vano presidio, non curando i cento
cannoni puntati sul suo cammino, e trionfando più glorioso e sicuro
che se l’avessero seguito le legioni di Cesare dopo Ilerda e dopo
Farsaglia; uno spettacolo simile, diciamo, la storia non lo vide e
non lo raccontò mai, o l’avrebbe esigliato, quasi incredula, nell’età
eroica de’ miti e delle leggende.

E dicasi pure che veduti dappresso la leggenda si sfata e il prodigio
dilegua; dicasi pure che l’albero della tirannide borbonica era ormai
fradicio, e che Garibaldi non ebbe che urtarlo col dito per atterrarlo:
varrà, ancora, per risposta quella che già diede un celebrato diario
inglese:[164] «Chi se non lui conobbe che il momento della maturità era
giunto; chi se non lui ebbe occhio per vedere che l’ora di colpire era
venuta, discernendo il punto in cui l’impossibile diventa possibile,
nel che, secondo il De Retz, sta la prima dote dei grandi uomini di
Stato?»

E quando lo si accetti con la debita discrezione, nemmeno quest’ultimo
attributo reputiamo improprio. Anco Garibaldi fu, in un dato momento
e in un certo senso, un grande uomo di Stato. Lo fu in una guisa tutta
sua ed originale; lo fu più per quell’istinto che tien luogo di genio,
che per coscienza; lo fu come lo poteva essere un Capitano che non
ha altro Stato fuor che quello misurato dalla sua lancia, e pianta
e spianta il suo governo colla sua tenda; ma, rispetto alla missione
ch’egli s’era assunta, lo fu. Due fini gli erano imposti nell’Italia
meridionale: liberar quei popoli; consegnarli liberati alla legittima
Podestà ch’essi invocavano; e chi sappia sorvolare all’inezia de’
particolari, riconoscerà che a quei fini egli adempiette nel più breve
tempo, colla maggior concordia e col minor danno possibile.

Che a lui sian mancate le doti dell’Amministratore e del Legislatore,
fu abbastanza ridetto, e l’Italia, se appena conosceva la di lui vita,
poteva aspettarselo; ma che quelle doti colaggiù, in quelle condizioni,
gli potessero grandemente giovare, dubitiamo assai forte. Fosse stato
pieno la mente di sapienti concetti legislativi, gli sarebbe pur sempre
mancato il tempo ed il modo di effettuarli. Sfasciare uno Stato per
ricostruirlo a un tempo, dettar buone leggi sotto il cannone, e meglio
che dettarle farle obbedire, aver mestieri di governare col popolo e
tenerlo a dovere, inducendolo a sopportare i freni e i carichi degli
Stati ordinati, è cosa da pochi; non riuscita, che sappiamo, ad alcuno
in Italia, e che, molto meno, poteva riuscire a Garibaldi.

Oltre di che, è egli vero che tutte le provvisioni e le leggi prese o
scritte in suo nome nel Mezzogiorno siano state del pari improvvide
o stolte? A dire il vero un siffatto quesito si converrebbe meglio
in una storia della Dittatura che in una vita di Garibaldi, e ciò per
quella ragione, già altrove toccata, ma che giova il rammentare, che
dei tanti decreti firmati da Garibaldi Dittatore ben pochi sono quelli,
di cui egli abbia avuto chiara coscienza, e gli spetti perciò la piena
ed intera responsabilità. Consiglio e fattura de’ suoi Prodittatori
e Ministri, ad essi il risponderne! Tuttavia chi voglia accomodarsi
d’una finzione legale, e nel Dittatore impersonare tutta la Dittatura,
troverà che personificatori e personificati hanno a temere il giudizio
dell’equa posterità men di quanto fu scritto.

E non si parli della promulgazione dello Statuto sardo e delle altre
leggi che ne sono adempimento; atto lodevole, per fermo, ma assai più
politico che amministrativo, di cui furono ottime le intenzioni, ma
assai remoti gli effetti. Parliamo soltanto di quelle provvisioni che
rendevano testimonianza d’un concetto e d’un indirizzo governativo, che
miravano ad un fine pratico e vicino, di cui si poterono vedere sin da
principio i frutti o almeno i germogli.

In paese dove la magistratura era apparsa troppe volte strumento
servile della tirannide, la purificò dagli elementi più screditati
ed aborriti, riordinò i Tribunali, rintegrò, dopo il breve interregno
delle Commissioni speciali, le Corti ordinarie, avviò il corso regolare
della giustizia, ne ravvivò la fede ed il decoro.[165] E in quelle
medesime contrade dove la Polizia non aveva lasciato nella mente altra
immagine che quella di un’occulta veheme di delitti e di sangue, e dove
nessuno de’ suoi vecchi arnesi era stato risparmiato dalla vendetta
popolare, restaurò colla stessa legge sarda la pubblica sicurezza;
istituì i corpi delle Guardie e de’ Carabinieri, e li rese rispettati;
ottenne una tregua ai reati che parve portentosa.

Fallitogli il nobile tentativo di estendere alla Sicilia, ineducata al
debito dell’armi, la legge uguagliatrice della coscrizione, introdusse
nel suo esercito le ordinanze e persino avrebbe voluto le assise
piemontesi;[166] e frattanto diè vita così al di qua come al di là
dello Stretto alle prime Legioni di quella Guardia Nazionale, che
fu, specialmente a Napoli, esemplare tutela d’ordine e di sicurezza.
Riaprì ed avviò a nuovo indirizzo le Scuole, i Licei, le Università;
riordinò il Museo napoletano; fondò a Palermo una Scuola militare
per gli adolescenti, ed a Napoli un Collegio gratuito pei figli dei
popolani poveri.[167] Aprì in Napoli dodici Asili infantili;[168]
assegnò mille scudi annui agli scavi di Pompei; spegnò i piccoli pegni
del Monte di Pietà;[169] decretò il miglioramento delle Carceri[170] e
la scarcerazione dei prigionieri politici; abolì il nefando privilegio
della Comune di Pizzo,[171] benemerita ai Borboni della morte di
Murat; accordò pensioni alle famiglie dei morti o mutilati per la
patria; perdonabile anche quella alla madre ed alle sorelle di Agesilao
Milano; come perdonabile che un uomo siasi creduto in diritto di dare
la propria testa per liberare la terra da quel mostro, che passò nella
storia col nome di «Re Bomba.»

Abolì le decime e le manimorte; incamerò i beni reali ed ecclesiastici,
assegnando però una pensione ai Vescovi ed una cassa di sussidio al
Clero minore; soppresse infine l’ordine dei Gesuiti, ma ne tolse il
diritto dalla storia e l’esempio da tutta l’Europa civile.

In fatto poi di Finanza camminò sulle orme di tutti i Governi
rivoluzionari; annullò l’odiosa gabella del macino, come l’aveva
annullata la rivoluzione del 48; abolì, anzi bruciò pubblicamente
la carta bollata; decretò, sogno onesto, la soppressione graduale
del lotto, surrogandovi le Casse di Risparmio; atterrò ogni barriera
doganale tra Sicilia e Napoli; fece prestiti e convertì la Rendita
pubblica;[172] ma quando il bilancio siciliano fu sottoposto all’esame
del Parlamento, restò bensì controverso se avesse lasciato risparmi, e
fu disputabile se quei prestiti potevano essere contratti a condizioni
più laute; ma nessuno, nemmeno il più acuto e facondo economista
della Camera,[173] potè tassare l’Amministrazione della Dittatura,
non che d’abusi e di malversazioni,[174] di gravi irregolarità. Il
maggiore addebito che potè essergli rivolto fu d’aver ecceduto nella
largizione degl’impieghi e nel dispendio de’ salari. Ma se il Farini
potè dire, difendendo dalla medesima accusa il bilancio dell’Emilia:
«Non nego siansi collocati in impiego uomini nuovi. Fu principalissimo
intendimento del Governo di chiamare ne’ primi posti di fiducia que’
cittadini che per causa di libertà avevano sofferto persecuzioni
ed esiglio. Ed infra i dolori che tormentano chi in tempi nuovi è
chiamato ad amministrare la causa pubblica, rammenterò sempre fra’
più acerbi quello di non poter esaudire tanti uomini sventurati, che,
in nome delle loro famiglie, in nome della fede politica, invocano un
collocamento, cui credono aver loro dato diritto le sventure patite;»
perchè non si meneranno buone le stesse ragioni alle Dittature di
Napoli e di Sicilia, dove la febbre degl’impieghi e delle pensioni
scoppiò con tutti i sintomi d’un fiero contagio; dove i patriotti,
che nel 1848 avevano «salvato la patria,» che nel decennio avevano
patito nelle prigioni e negli esigli, pullulavano a sciami dal suolo;
dove certamente lo strazio d’onest’uomini, che aveva fatto il governo
«negazione di Dio,» era stato sì lungo ed immane?

Non è questa un’apologia, è pura difesa della verità. Errori la
Dittatura di Garibaldi ne commise e non pochi; ne commise colla
Prodittatura Depretis e colla Prodittatura Mordini, colla Segreteria
Crispi-Bertani e colla Prodittatura Pallavicino; coi Ministri
cavourriani e coi Ministri rivoluzionari; ma qual Governo non ne
ha commessi? Quella stessa Luogotenenza regia che s’annunziava
medicatrice di tutti i mali, e riparatrice di tutti i torti, succeduta
alla Dittatura in giorni relativamente calmi, già queta la marea
rivoluzionaria e ormai ridotta a un torneo innocuo la guerra, nuova
di prestigio, di forza e d’autorità, quanti errori non commise ella in
breve spazio di tempo? Quanto malcontento di popolo non suscitò; quante
speranze non deluse, quanti pericoli non rinnovò? Fallirono a Napoli,
l’uno dopo l’altro, il Farini e il principe di Carignano; a Palermo il
Montezemolo e il Della Rovere, e non correranno molti mesi che Deputati
di parte loro si leveranno nel Parlamento italiano[175] ad incolpare
le Luogotenenze di torti e d’abusi anche maggiori di quelli ond’era
stata incolpata la Dittatura; con questa sola, ma sensibile differenza,
che mentre il Governo di Garibaldi era rimproverato d’aver troppo
ciecamente favorito i rivoluzionari ed i repubblicani, il nuovo Governo
di Vittorio Emanuele era accusato dello stesso favore a tutto beneficio
dei Borbonici e dei reazionari.


II.

Il primo atto di Garibaldi, rimettendo il piede nella sua Caprera, fu
di levare le briglie e mandar sciolti per l’Isola i suoi due cavalli
di battaglia, affinchè ad essi pure non fosse tardata quella libertà
ch’egli veniva impaziente a cercare. E ciò fatto tornò senz’altro al
suo consueto tenore di vita, come se tutta quella splendida pompa di
potere, di trionfi, di gloria, in che aveva vissuto sette mesi, non gli
avesse lasciato nell’anima che sazietà e stanchezza. Deideri, il suo
fedele amico e compaesano di Nizza, gli aveva fatto costruire, accanto
all’antica, parte con danari suoi, parte col tributo d’altri amici,
parte cogli stessi risparmi del Generale, una nuova casa più comoda e
più signorile; pure l’antico mozzo gradì la sorpresa e ringraziò del
dono, ma non volle abbandonare la sua vecchia casetta, costrutta in
tanta parte col sudor della sua fronte; e continuò a dormire in quella
medesima stanzetta a pian terreno, la prima a sinistra di chi entra, in
cui aveva abitato la prima notte che ebbe un tetto nell’Isola.

Nel rimanente, si levava come per lo passato all’alba, il primo di
tutta la colonia, e alternava le sue ore tra la pesca e la caccia (rese
talvolta necessarie dalla mancanza del companatico quotidiano), e la
coltura di que’ pochi frastagli di terreno che la roccia concedeva
e ch’egli, con ingenua pomposità, decorava col nome di campi e di
vigne. E il luogo più favorito di que’ giorni era il _Fontanaccio_, un
quarto forse dei celebri quattro iugeri del Romano, tutto frastagliato
e scaccheggiato per giunta di roveti e di scogli, e da cui Garibaldi
s’era fitto in capo di cavare il suo podere modello. Ed era laggiù che
voi potevate vederlo più di sovente, ora affaccendato a sterpare, a
potare, a innestare, e qui a piantare un filare di magliuoli siciliani,
là a zappare un quadrato di fave napoletane, più sotto a riparare
dalle prime sferzate del grecale una buttata d’aranci novelli, più
sopra a vegliare allo scavo d’un futuro pozzo artesiano; ora seduto
sopra un certo gradino, naturale rialzo del terreno, col cappello
sugli occhi e il sigaro spento nella mano, lo sguardo fisso sul mare,
tutta la persona immobile e quasi abbandonata, a guatar nel vuoto, a
fantasticare, a nuotare nel pelago infinito delle sue ricordanze e dei
suoi sogni, tuffandovisi dentro colla voluttà del poeta:

    E ’l naufragar m’è dolce in questo mare.

Non eran quelle sole le sue fatiche, un’altra men geniale gli era
imposta dalla stessa celebrità cresciuta, ed era, o avrebbe dovuto
essere, lo smaltimento della mole di giornali e di lettere che
ad ogni corriere gli arrivava. È ben vero che dei giornali finiva
a non leggerne più che tre o quattro (preferito a quei giorni il
_Movimento_ di Genova), e che delle lettere lasciava quasi tutta la
briga al suo segretario Basso, od al primo amico che volesse rendergli
quell’ufficio, il quale poi lettogliene sommariamente il contenuto, e
separate quelle condannate al paniere, dalle poche ammesse all’onore
d’una risposta, la scriveva ora sotto dettatura del Generale stesso,
ora di suo capo, e poi, usanza tradizionale e tuttora inviolata in
Caprera, la spediva irremissibilmente a chiunque si fosse «senza
francobollo postale.»

E come le lettere, cominciavano a piovere da ogni parte le visite.
Avreste detto che Caprera fosse divenuta la Mecca della Democrazia
europea. Non passava venerdì che il postale di Sardegna non sbarcasse
alla Maddalena una brigata più o men grossa di pellegrinanti a quella
Medinat-al-Nabi dell’eroe; e come è facile immaginare, era un brulicame
di tutte le razze e di tutti i colori. Col vecchio amico e commilitone
veniva il curioso importuno e il piacentiere sguaiato: coll’innocente
idolatra, alla conquista d’una firma o d’una fotografia, accompagnavasi
lo scroccone volgare alla cerca d’un’elemosina o d’una commendatizia:
le Deputazioni patriottiche, cariche d’indirizzi o di regali,
gareggiavano colle ambasciate politiche, o politicanti, portatrici di
piani di guerra o di abbozzi di programmi: la filantropessa inglese
incontravasi colla emancipatrice americana e la socialista russa:
gli emissari occulti di Mazzini s’incrociavano agli agenti segreti
del Re: una carovana di emigrati veneti, trentini, istriani, romani,
mescolavasi di continuo ad una processione interminabile di proscritti
ungheresi, polacchi, spagnuoli, greci, russi, tedeschi, serbi,
valacchi, insomma di tutto il mondo dove si sognava, si soffriva o
si congiurava per una patria, e Garibaldi tutti accoglieva coll’usata
cortesia ed ospitalità; un’ospitalità che poteva parere talvolta assai
magra e quaresimale a chi la riceveva, ma che riusciva, per il gran
numero, dispendiosissima e soverchiante a chi la dava.

Ma ognuno intende che siffatta pace non era che apparente. «Cincinnato»
(il soprannome, divenuto poi volgarmente sazievole, gli fu imposto a
que’ giorni) era tornato suo malgrado all’aratro, e ben diverso dal
romano, non avrebbe accolto sospirando gli oratori del Senato che gli
offrivano la Dittatura. Le parole del suo ultimo bando ai Volontari:
«Se il marzo del 61 non trova un milione d’Italiani armati, povera
libertà, povera vita italiana!...» non erano, sulle sue labbra, una
figura rettorica; non è retore mai chi è pronto a confermare la frase
col sangue; ma voto ardente e convincimento profondo dell’animo suo.
Sinceramente egli credeva che la prossima primavera del 1861 non
potesse passare senza una grande conflagrazione di popoli; vedeva già
l’Ungheria e i Principati Danubiani insorti: non dubitava un istante
che, gettata una scintilla, tutta l’Europa, da Mantova a Galatz,
andasse in fiamme: affermava che era un sacro dovere l’Italia farsi
antesignana e aiutatrice del grande riscatto, e capitanarlo.[176]

Nè a questo pensiero frammischiavasi alcun intendimento di ribellione.
Non solo Garibaldi tenevasi stretto per debito di lealtà alla bandiera
di Marsala; ma credeva più che mai che in quella sola stesse la salute
d’Italia. Soltanto voleva, e qui rincomincia il suo dissidio col conte
di Cavour, che il Governo scrollasse il giogo umiliante delle alleanze
straniere, della napoleonica principalmente, raccogliesse in un fascio
solo tutte le forze vive combattenti dell’Italia, e, senza riguardo
a colore e partito, le avventasse tutte insieme all’ultima battaglia
della redenzione d’Italia. «Che il conte di Cavour armi (diceva un
giorno a Caprera a due suoi amici[177]), ed io sono politicamente con
lui,» e in questo concetto stette prima, stava allora, starà poi tutta
la sua politica. E dicasi pure che un simile linguaggio nascondeva una
condizione imperiosa, e, se vuolsi, anche una minaccia; ma non poteva
dirsi ancora un cartello di sfida e una manifesta ribellione. Garibaldi
era sempre nella legalità. Voleva spingere, spronare il Governo; ma
il proposito di forzargli la mano e di trascinarlo a forza non gli era
spuntato ancora nell’animo, o almeno da nessun suo scritto o discorso
traspariva. E di ciò fanno principale testimonianza quei _Comitati
di provvedimento per Roma e Venezia_, progenie diretta di quelli che
il Bertani aveva già fondati per la Sicilia, e che Garibaldi aveva
consentito a ricostituire siccome gli organi destinati a dar vita e
disciplina a quel concetto di armamento universale della nazione, che
era, a’ suoi occhi, lo stromento ed il simbolo insieme d’ogni vera
rigenerazione. Nella mente sua siffatti Comitati dovevano essere aiuto,
non impedimento, al Governo: propagare le idee, preparare gli animi,
ordinare le forze, apprestare i mezzi, come già erano stati apprestati
per Marsala, ma senza sconfinar per anco dalla legge; procedendo
sempre d’accordo col Governo che la nazione s’era dato, rammentando il
giuramento fatto al suo Re, e attendendone il cenno, che non parevagli
poter essere lontano.

«Io desidero[178] (scriveva al segretario de’ Comitati, Bellazzi)
l’apertura concorde di tutti i Comitati italiani per coadiuvare al gran
riscatto. Così Vittorio Emanuele, con un milione d’italiani armati,
questa primavera chiederà giustamente ciò che manca all’Italia.»
E due settimane dopo, agitatosi e deliberato dalla Presidenza de’
Comitati il programma definitivo dell’Associazione, scriveva anche più
esplicitamente:

  «Accettando la presidenza dell’Associazione dei Comitati di
  provvedimento e dando la mia adesione ai tre articoli formulati
  dall’Assemblea generale il 4 di questo mese, nomino come mio
  rappresentante presso il Comitato centrale il generale Bixio,
  autorizzandolo a farsi sostituire, occorrendo, da una terza persona
  di sua piena fiducia.[179]

  Il Comitato centrale, invocando il patriottismo degli Italiani,
  insisteva tenacemente presso tutti i Comitati di provvedimento,
  eccitandoli a promuovere nuove oblazioni tra i nostri concittadini,
  e a riunire tutti i mezzi necessari ad agevolare a Vittorio
  Emanuele la liberazione della rimanente Italia.

  Altra delle precipue cure del Comitato centrale dovrà essere
  quella di istituire Comitati in tutti i punti della Penisola, ove
  non esistessero ancora, onde al più presto da un capo all’altro
  d’Italia, non esclusa la Venezia nè Roma, si trovi l’associazione
  organizzata, ed operi simultanea, concorde e rapidamente, obbedendo
  a un medesimo impulso.

  Il Comitato centrale dovrà, come parola d’ordine di tutti i giorni,
  d’ogni momento, ripetere incessantemente a tutti i Comitati e
  cercare per ogni altra via di farlo penetrare nell’animo di tutti
  gl’italiani: — che nella prossima primavera di quest’anno 1861 deve
  irremissibilmente porre sotto le armi un milione di patriotti,
  unico mezzo a mostrarci potenti e farci veramente padroni delle
  nostre sorti e degni del rispetto del mondo che ci contempla.

  »Credo debito mio rendere avvertiti i Volontari che nessun
  arruolamento è stato da me promosso, nè consigliato per ora.

  »Un giornale col titolo di _Roma e Venezia_ (il quale, ispirandosi
  ai concetti enunciati, predichi la necessità della _Guerra santa_
  a far cessare una volta la vergogna che pesa sull’Italia, e che in
  pari tempo inculchi agli elettori, come uno dei mezzi più efficaci
  a raggiungere l’intento, la scelta dei deputati, che mirando
  anzitutto al totale affrancamento ed integrità d’Italia _impongano
  al Governo il generale armamento della nazione_) deve essere
  fondato in Genova senz’altro indugio.»

Questi e non più erano i pensieri di Garibaldi nel gennaio del 1861;
che se mutarono in appresso, prepariamoci a seguirne le fasi ed a
penetrarne le cagioni, cominciando però a notare attentamente le
date, ed a rispettare la cronologia, che mai, come in questo periodo
della vita dell’eroe, così copiosa di contraddizioni e di evoluzioni,
meriterà il suo nome di «occhio della storia.» Non abbiamo negato mai,
riconfermiamo anzi, che un siffatto programma poteva contenere in germe
quel diritto dell’iniziativa individuale che fu per parecchi anni nel
Parlamento e fuori la divisa della parte rivoluzionaria, o garibaldina
che vogliasi dire; ma a’ giorni di cui discorriamo, quel germe non era
ancora venuto a maturanza, nè l’idea, vagamente adombrata nelle sonanti
frasi dei proclami, tradotta in una formola precisa, e soprattutto
cimentata al paragone de’ fatti. Però di Garibaldi allora non disdice
ripetere quel che un giornale massimo di parte moderata scriveva ancora
con benignità di lui: «Se i Comitati cammineranno come desidera il
Generale, il paese l’asseconderà ed applaudirà, così come applaude
ai generosi sentimenti, coi quali il generale Garibaldi desidera la
concordia di tutti i partiti.[180]


III.

Uno dei più intricati problemi, legati dalla rivoluzione al Governo
italiano (gli spettava questo nome, dacchè il Parlamento, nella
persona di tutti i rappresentanti della Penisola, aveva proclamato il
Regno d’Italia e Vittorio Emanuele suo Re), era quello dell’esercito
meridionale. Garibaldi nell’ultima sua lettera a re Vittorio[181] gli
aveva detto: «Io imploro dalla Maestà Vostra che accogliate nel vostro
esercito i miei commilitoni che hanno bene meritato della patria e
di Voi;» ma egli ignorava probabilmente che non era in arbitrio di Re
costituzionale il cedere o resistere a siffatta preghiera.

Infatti, due giorni dopo della partenza di Garibaldi, usciva un
_Ordine del giorno_ del Comando supremo dell’esercito, tradotto poi in
Decreto,[182] in cui, proclamati i Volontari benemeriti della patria,
li dichiarava però Corpo separato dall’esercito regolare, offriva
ai gregari la scelta tra due anni di ferma o il congedo con tre mesi
di soldo, ed agli ufficiali l’alternativa tra uno scrutinio de’ loro
titoli fatto da apposita Commissione e la rinuncia della spada, mercè
sei mesi di stipendio.

Questa provvisione, come era da attendersi, anzichè contentare, ferì
nel vivo tutta la parte garibaldina, così la frazione militare come la
politica, e la fece scoppiare in altissimi lai. Nè gli argomenti alle
querele difettavano. O come, dicevasi, gridate benemerito l’esercito
del Mezzodì e nell’ora stessa lo colpite di sospetti e d’ostracismo!
Promettete che la milizia de’ Volontari sarà conservata e poscia collo
spaventacchio della ferma di due anni in una mano e l’offa del congedo
salariato nell’altra, la fate fuggire e la sciogliete! Accogliete
senza tanta ritrosia nè inquisizione nelle file dell’esercito gli
ufficiali ducali, granducali, borbonici, avanzi la maggior parte di
corti servili e di caserme oziose, strumento fino all’ultima ora delle
tirannidi domestiche, più corruttrici delle straniere, e codesti di
Garibaldi, reliquie di tutte le battaglie italiane, li sogguardate
con sospetto, li ponete al duro bivio o d’un sindacato umiliante, o
d’una rinuncia prezzolata, e pareggiandoli alla bassa condizione di
mercenari, li avvilite e li corrompete insieme?! Infine non è lecito,
soggiungevano coloro che riguardavano le cose dal più alto punto della
politica, disperdere in momenti così solenni tanto prezioso tesoro di
giovani forze: il Governo, sacrificando il supremo fine dell’armamento
nazionale a misere gelosie di parte o convenienze di persone, si
chiarisce dimentico del primo fra i suoi doveri; e tenendo divisi i
figli della stessa patria destinati a formare un solo esercito, sotto
una sola bandiera, alimenta egli pel primo quel funesto antagonismo,
che a parole tanto depreca, e prepara colle sue mani l’armi della
discordia civile.

Ma nemmeno alla parte contraria facevan difetto le buone ragioni.
L’armamento della nazione, ripeteva, è nei propositi del Governo;
tanto vero che il decreto dell’11 novembre conserva il Corpo dei
Volontari e lo riordina. A due soli patti però era possibile dare una
forma organica e durevole a una milizia siffatta: rendendone stabile
la forza, mediante una ferma purchessia; depurandone i quadri, previa
un sindacato. E come una lunga ferma obbligatoria repugnava alla
natura ed al nome stesso di volontari, così quella facoltà, tanto
censurata, di scegliere tra l’assoldamento e il congedo, diveniva una
imprescendibile necessità. Nè diversamente poteva comportarsi quanto
agli ufficiali. Una cerna era indispensabile, così per scemarne la
quantità che per migliorarne la qualità. Non si dimentichi mai che
erano settemila, circa un ufficiale ogni sei soldati;[183] che in mezzo
a loro, tra non pochi egregi per singolari virtù militari e civili,
parecchi non avrebbero saputo come giustificare le loro «favolose
promozioni,» e moltissimi come chiarire la loro fosca origine e la
lor dubbia vita; che perciò nessuno avrebbe potuto accoglierli alla
cieca nelle file d’un esercito di specchiato carattere e di pure
tradizioni, come il piemontese, dove i gradi erano sudato frutto non
che del valore, dell’anzianità, dello studio, della esperienza, senza
offendere l’esercito stesso e rischiare di corromperlo e scompaginarlo
profondamente.

E ciò basti alla cronaca dell’increscioso litigio; chè il giudicarne
sarà ufficio di più tarda e più fredda posterità. A parer nostro (è
parere, non sentenza), si errava da entrambi le parti. Avevano torto
i Garibaldini di presentare il conto, e torto il Governo di tirare di
prezzo: torto i primi di querelarsi di una legge, della quale, o per un
verso o per l’altro, gli uni intascando il soldo e andandosene liberi,
gli altri restando nelle file e aspettando a lor agio la conferma,
tutti si avvantaggiavano; e torto il secondo di non avere, intorno a
sì importante questione, un’idea netta e una volontà recisa, lasciando
estendere e divampare, mercè una fiacca altalena di ripulse irose e
di concessioni avare, un braciere di discordie che poteva riuscire
funesto; torto infine tutti quanti permettendo che un alto problema
di difesa nazionale immiserisse in un meschino piato di salari e di
stipendi; talchè paresse che l’amor d’Italia fosse il pretesto, e
il fine ultimo e vero, le spalline, le pensioni, la carriera di due
eserciti rivali.[184]


IV.

E com’è naturale, ogni parola della gran contesa ripercuotevasi a
Caprera: non passava corriere che Garibaldi non fosse costretto a
riudire, dalle innumeri lettere e gazzette che da ogni dove gli
fioccavano, l’eco delle lamentazioni de’ suoi compagni d’armi,
accompagnata dalla pittura, più o men fedele, degli strapazzi e delle
persecuzioni di cui il Governo li angariava; e non passava corriere che
sulla fronte del Generale non calasse una nuova nube, e sull’anima, non
per anco purgata dalla ruggine antica, non piovessero nuove e più acri
stille d’amarezza. E non perchè egli desse ragione in cuor suo a tutte
quelle querimonie, ma perchè colle sorti de’ suoi commilitoni, che non
avrebbe mai potuto abbandonare senza parer egli medesimo improvvido
ed ingrato, vedeva identificata la causa dell’armamento nazionale,
dell’armamento, s’intende, quale lo concepiva egli, che era ormai il
solo verbo della sua politica, il solo regolo delle sue azioni, l’unica
corda vibrante nell’anima sua.

Quando però a quella dei Volontari venne ad intrecciarsi la questione
delle provincie meridionali, e nella stampa cominciò a rumoreggiarne
e nello stesso Parlamento a penetrarne la discussione, ed ai richiami
de’ suoi vecchi camerata vennero ad aggiungersi gli appelli de’ suoi
amici di Palermo e di Napoli, che lo pregavano a riassumere nel suo
patrocinio la causa delle loro provincie sgovernate, egli, che non
aveva voluto accettare, sino allora, alcuna candidatura,[185] accetta
quella del Collegio di Napoli offertagli come protesta; vi è eletto
il 30 marzo alla quasi unanimità: parte il 1º d’aprile da Caprera;
sosta poche ore del 2 a Genova, e riparte la sera stessa per Torino,
deliberato a entrare egli pure in Parlamento ed a partecipare alla
lotta.

La inattesa apparizione aveva sorpreso amici ed avversari.[186]
Tuttavia, mentre i primi s’affrettavano a trarne profitto pei loro
fini, i secondi non seppero con alcun onesto artificio e lieta
accoglienza prevenirne gli effetti. I più importanti fra i Cavourriani,
lungi dall’accostare il Generale per tentar d’illuminarne e correggerne
le idee, affettavano di cansarlo; la stampa moderata lo apostrofava
di superflue paternali e di alteri consigli; il Governo stesso,
infine, aspettava proprio l’indomani del suo arrivo sul continente
per far perquisire in Genova le stanze del _Comitato centrale di
provvedimento_, cercandovi, invano, indizi di arruolamenti, gettando in
faccia al Generale ed alla parte sua una inutile od almeno intempestiva
provocazione, aggiungendo nuova esca alle tante materie predisposte
all’incendio. Conseguenza pertanto di questi due fatti furono le
interpellanze del deputato Brofferio per chiedere ragione al Ministero
della perquisizione di Genova e la interpellanza del deputato Ricasoli
per invitare con indiretta, ma chiara intimazione il generale Garibaldi
a scolparsi di certe parole, irriverenti al Re ed al Parlamento,
attribuitegli dalla stampa e sollecitare al tempo stesso il Ministero
a rispondere della di lui intenzione circa all’esercito dei Volontari.
E poichè il Ministero non volle dare al Brofferio soddisfazione alcuna,
anzi rincarò con parole, nè tutte giuste, nè tutte opportune, il torto
di Garibaldi e de’ suoi; e al Ricasoli invece, quasi il suo invito non
fosse che il frutto d’un tacito accordo, si dimostrò premuroso, anzi
impaziente, di dar ragione; così la prima battaglia parlamentare tra
la parte garibaldina e la cavourriana, quella battaglia preparata da
dodici mesi di ostilità, di sfide, di scaramucce, desiderata forse più
dai gregari, ma non saputa evitare con abbastanza prudenza dai capi, si
annunciò ad un tratto imminente ed inevitabile.


V.

Ed eccoci alle memorabili Tornate dei 18, 19 e 20 aprile. Fin
dal 14 il Generale aveva inviato al Presidente della Camera una
lettera ed un progetto di legge: nella lettera respingeva, sdegnando
giustificarsene, le parole irriverenti al Re ed alla Rappresentanza
nazionale, appostegli da’ giornali;[187] nel progetto di legge, ombra
pallida del suo pensiero, consiglio e fattura de’ suoi amici, specie
del Depretis, proponeva come rincalzo all’esercito l’istituzione delle
Guardie nazionali mobili; chiamando a parteciparvi tutti i validi da’
diciotto ai trentacinque anni.[188] Ma il Governo, pure ammettendo la
discussione della proposta, la fece rimandare agli Uffici e aspettò a
piè fermo il giorno della interpellanza.

Il 28 aprile Garibaldi fece la sua prima entrata nel Parlamento
italiano; e pari alla celebrità dell’uomo ed alla straordinarietà
dell’evento fu l’aspettazione. Vestiva la stessa foggia che da Quarto
in poi non aveva più abbandonato: _sombrero_ spagnuolo in mano,
camicia rossa, _poncio_ grigio; abbigliamento, se vuolsi, strano assai
per un Parlamento, e nel quale si può anche convenire che talvolta
si pavoneggiasse, ma che egli aveva fatto suo per quello spirito
di originalità e d’indipendenza quasi selvaggia, che era l’essenza
vitale del suo carattere; abbigliamento che egli preferiva alle
sgarbate uniformi ed alle complicate bardature delle nostre mode per
la ragione medesima, per la quale preferiva il suo scoglio di Caprera
a tutte le metropoli del mondo, una zuppa di fave ai più elaborati
manicaretti di Brillat-Savarin; che portava insomma perchè gli piaceva
ed era cresciuto, ragazzo male avvezzo dal destino, facendo sempre il
piacer suo, ma senza metterci, come fu detto, alcun recondito fine
di teatralità, e certo senza sospettare di mancar di reverenza a
chicchessia.

Lo accompagnavano, uno per fianco, quasi lo menassero prigione, il
letterato Macchi e il professore Zuppetta, accompagnatura a ver dire
poco marziale: quando comparve al sommo dell’ultimo settore di sinistra
un uragano d’applausi scoppiò anche dalle ultime gallerie; e non poteva
parere onore straordinario, se la stessa accoglienza era stata fatta
all’ammiraglio Persano, e sarà tra poco ripetuta al generale Cialdini.

Cessate le salve festive, il fuoco vero cominciò. Anco un breve sunto
di quelle tre giornate parlamentari esorbiterebbe da questo libro:
bastino a ritrarne la fisonomia i tratti più caratteristici. Aperse il
dibattimento il Ricasoli con un esordio, più solenne che necessario,
conchiudendo colla domanda già annunziata circa ai Volontari in
particolare ed all’armamento in generale, e invitando il Governo a dar
spiegazione del suo ultimo decreto dell’11 aprile, pel quale erano
istituiti i quadri di tre divisioni di Volontari, ma posti i loro
ufficiali in disponibilità. Toccò a rispondere al Fanti, e fu, come
al suo solito, infelice; lesse, con lena affannata e accento sbiadito,
un lungo discorso infarcito di particolarità, di cifre, di citazioni,
di raffronti non sempre appropriati; nel quale ricantate le note
argomentazioni dell’impossibilità di tenere sotto le armi Volontari in
pace, del soverchio numero degli ufficiali, delle promozioni favolose,
della necessità d’una cerna, finiva dichiarando che nulla aveva da
mutare, perchè in nulla aveva fallito, e invocava tranquillo la fiducia
dalla Camera.

Fu allora la volta di Garibaldi. Ringraziò il Ricasoli d’aver posta
quella importante questione; preludiò alla concordia; respinse da
sè ogni imputazione di colpa in quel dualismo, cui il Barone aveva
accennato, perocchè «tutte le volte che quel dualismo potrà nuocere
alla gran causa del paese, egli piegò e piegherà sempre;» chiedendo
soltanto «ai rappresentanti della Nazione, se come uomo egli avrebbe
mai potuto porgere la mano a colui che lo fece straniero in Italia.»
Se non che, a un certo punto, entrato a discorrere del suo esercito,
senza alterazione, senza transizione di sorta, senza lasciar presentire
ad alcuno la procella che stava per scatenare, esclama che i «prodigi
dell’esercito meridionale furono offuscati solamente quando la fredda
e nemica mano di codesto Ministero faceva sentire i suoi malefici
effetti,» e come se ciò fosse poco ancora, punto badando all’agitazione
che quelle prime parole avevan già suscitata in tutta la Camera,
scaraventa in mezzo all’Assemblea, in faccia ai Ministri nient’altro
che questo colpo di folgore: «quando l’amore della concordia e l’orrore
d’una guerra fratricida, provocata da questo stesso Ministero....»
e più forse avrebbe detto, se un tuono di grida indignate non avesse
tronca a mezzo l’atroce ingiuria. Il conte di Cavour, pallido d’ira,
balza dalla sua scranna e grida con quanto ha di voce: «Non è permesso
insultarci a questo modo; signor Presidente, faccia rispettare il
Governo ed i rappresentanti della Nazione;» il Presidente ammonisce,
scampanella, si sgola a sua volta: la Destra e il Centro strillano,
ululano, si dimenano come ossessi: la Sinistra è muta, stordita, quasi
mortificata dalla sortita del suo Capitano; ma Garibaldi, con quella
medesima ostinazione che sul campo di battaglia e quando più imperversa
la bufera nemica lo faceva invincibile, ripete ancora con voce tonante:
«Sì la guerra fratricida....» Talchè nuova e più fragorosa stroscia
di proteste e di richiami; la Destra urla: All’ordine; la Sinistra
ribatte: Libertà di parola; il tumulto è al colmo: «Molti Deputati
(trascriviamo il Resoconto parlamentare) abbandonano i loro stalli....
rumori da tutte le parti della Camera. Il Presidente si copre il
capo; gran numero di Deputati è sceso nell’emiciclo, dove si disputa
vivamente. La seduta rimane sospesa per un quarto d’ora; cessata
l’agitazione dolorosa, la seduta è ripresa alle ore 4 in profondo
silenzio.»

La parola toccava novamente al Generale: il Presidente gliela dà
coll’ammonizione che gliel’avrebbe tolta se avesse trascorso ancora;
egli se la ripiglia imperturbato, come se nulla fosse accaduto e senza
un motto, non che di scusa, di schiarimento o di spiegazione, continua
il suo discorso. E per un po’ tutto pareva rimesso sulla buona via.
Garibaldi leggendo più che parlando, dappoichè era evidente che una
parte del discorso gli stava scritta davanti, continua a far la censura
dei provvedimenti del Fanti: questi a difendersi, quegli a replicare:
a primo aspetto sarebbesi detto che la calma era tornata, se una nube
vagante su tutti i banchi dell’Assemblea non avesse avvertito che il
nembo non era sciolto per anco e che poteva riscoppiare. E lo sentì
per primo Nino Bixio, e fu allora che gli uscirono dall’anima grande,
sfolgoranti come una spada, alternate di gemiti e di bestemmie, grido
di eroe che combatte e angoscia di figlio che prega, le più potenti e
ispirate parole che sian mai state proferite in un Parlamento italiano:
«Io sorgo in nome della concordia e dell’Italia (_Bravo, bravo_).
Quelli che mi conoscono, sanno che io appartengo sopra ad ogni cosa al
mio paese.... (_Segni d’approvazione_). Io sono fra coloro che credono
alla santità dei pensieri che hanno guidato il generale Garibaldi in
Italia (_bravo!_); ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel
patriottismo del signor conte di Cavour (_Applausi_). Domando adunque
che nel nome santo di Dio si faccia un’Italia al di sopra de’ partiti
(_Applausi vivissimi e prolungati dalla Camera e dalle tribune_). Io
faccio un discorso che non sarà del tutto parlamentare. Ma quanto
agli uomini come il generale Garibaldi e come il conte di Cavour,
debbo dire che c’è la disgrazia (e tutto al mondo non può andar bene)
che si cacciano in mezzo un’infinità d’altri uomini che mettono la
discordia (_bene_); questo non posso astenermi dal dirlo (_Applausi_).
Ebbene, io ho una famiglia, e darei la mia famiglia e la mia persona il
giorno che vedessi questi uomini e quelli che con il signor Rattazzi
hanno diretto il movimento italiano stringersi la mano (_Segni di
approvazioni_). Per l’amor di Dio non pensiamo che ad una cosa. Il
paese nostro non è ancora abbastanza compatto, queste discussioni
ci pregiudicano nell’opinione dell’estero. Il conte di Cavour è
certamente un uomo generoso; la seduta d’oggi nella prima sua parte
dev’essere dimenticata, è una disgrazia che sia succeduta, ma vuol
essere cancellata dalla nostra mente. Ecco quello che io volevo dire
(_Applausi vivissimi e prolungati_).»

Non poteva essere sordo al nobile appello il Conte; e rimossa da sè
l’accusa d’esser stato nemico de’ Volontari, rammentando al Generale
ch’egli primo aveva pensato ad istituirli chiamando lui a comandarli,
dichiarò, fra gli applausi dell’Assemblea, che la prima parte di
quella seduta tenevala per non avvenuta; opponevasi solo alla proposta
del Generale per alte ragioni politiche, pel timore soprattutto che
gli arruolamenti da lui voluti potessero essere interpretati come
provocazione di guerra; ma quanto ai Volontari ripeteva le sue proteste
di stima e simpatia, desiderando che quelle sue parole «fossero
accolte dall’onorevole Generale e da’ suoi amici politici collo
stesso sentimento di concordia e di schiettezza, colle quali egli le
pronunciava a nome del Ministero.»

E Garibaldi, soggiunte alcune spiegazioni sui Cacciatori delle
Alpi,[189] le accolse, restituendo al conte di Cavour tutte le sue
cortesie, e dichiarandogli, cosa a ver dire nulla più che onesta, «che
non aveva mai dubitato del suo patriottismo;» le accolse, conviene
dirlo, anche meglio che con vacue parole, mutando radicalmente la sua
prima proposta, tanto radicalmente che, mentre dianzi sollecitava
il Ministero a ricostituire immediatamente l’esercito meridionale,
ora lasciava al Ministero di «ordinare la chiamata dei Volontari
quanto prima lo trovasse opportuno.» Era un gran pegno che la parte
garibaldina dava alla concordia, e non era soverchia la lusinga che il
Ministero l’avrebbe accettato. Ma il Ministero, o perchè si reputasse
vincolato alla formola concordata col Ricasoli, o perchè gli paresse
atto di buona politica il dimostrare che il Governo non aveva mestieri
di venire a patti col suo popolare avversario, e che sentiva in sè
tanta forza da resistergli e domarlo, ricusò ogni accordo ed ogni
transazione.

La discussione pertanto riprese e continuò, ma non più intorno al
tèma veramente interessante e disputabile della chiamata immediata
o differita de’ Volontari, poichè oramai di questo anche la proposta
di Garibaldi lasciava la balía al Ministero; ma sul misero punto se
quei «quadri» che eran disegnati sulla carta si avessero a tenere
per effettivi, e quegli ufficiali che il decreto dell’11 aprile aveva
posti in disponibilità, dovessero essere chiamati, dopo uno scrutinio,
in attività di servizio. Epperò s’intende che ridotta a siffatti
termini la questione poteva bensì appassionare ancora i partiti, e dar
di quando in quando occasione a sottili argomentazioni od a vivaci
scaramucce; ma non poteva più interessare Garibaldi. Non era quello
ch’egli chiedeva: non era per lo stipendio o la carriera di alcune
centinaia di ufficiali ch’ei s’era mosso, e tutto quanto si veniva
dicendo di sofistico o di generoso, di propizio o d’avverso intorno
a quell’argomento non lo toccava più. Invano il conte di Cavour,
nuovamente da lui interpellato, gli promette di prendere in maturo
esame la sua proposta circa la Guardia mobile; invano gli soggiunge
che alla prima seria minaccia di guerra chiamerebbe i Volontari e ne
darebbe a lui il comando; Garibaldi oramai non vuole più ascoltare
che una sola parola: armamento generale della nazione, chiamata subita
dei Volontari; e poichè il Conte quella parola non poteva o non voleva
proferirla, il dissidio, fino a quel momento contenuto e dissimulato
fra le ambiguità e le cortesie reciproche, irrompe in tutta la sua
violenza.

Non appena infatti il Presidente del Consiglio ebbe cessato di parlare,
che il Generale s’alza di nuovo e fra lo stupore, lo sbalordimento
anzi di tutta la Camera, non eccettuati gli stessi suoi amici, dichiara
che tutto quanto gli era venuto dicendo sino allora il conte di Cavour
lo ha _pienamente insoddisfatto_; che per sola condiscendenza a’ suoi
amici egli aveva consentito a «modificare in senso malva,» parole sue,
il suo Ordine del giorno; ma che oramai essendo anche questo repudiato
dal Governo, egli pure tornava al suo antico programma, l’unico in
cui avesse fede: armamento generale della nazione e guerra immediata;
conchiudendo alla fine che non essendo soddisfatto nè dell’Ordine
del giorno Ricasoli nè del proprio, non ne avrebbe votato alcuno e
sarebbesi astenuto.

E Garibaldi dal suo punto di veduta era logico: il solo veramente
logico fra tutta la Sinistra: l’unico che vedesse la questione
dell’armamento nazionale dalla sua vera altezza; l’unico che
contrapponesse alla politica del conte di Cavour un’altra politica,
errata forse, temeraria certo, ma lucida e grande.

Pochi istanti dopo 194 sì approvarono la proposta ministeriale, 92 _no_
la respinsero; il Ministero avea stravinto, il volgo misto dei fatui e
dei piacentieri poteva menare il trionfo; ma chi avesse bene esaminati
i frutti di quella vittoria, sarebbesi prestamente accorto che eran
«stecchi con tosco.» La questione dei Volontari era insoluta più
che mai; poichè una mostra di quadri senza soldati e senza ufficiali
non era una soluzione. L’irritazione della Sinistra garibaldina era
cresciuta, perchè aveva veduto respinte tutte le sue più oneste e
conciliative proposte. Sulla conciliazione di Garibaldi non potevasi
più contare, perchè ormai egli era nella condizione del vinto, a cui fu
negato quartiere. La concordia infine, quella concordia che era stata
eretta in Parlamento come la Divinità tutelare della Patria, a cui ogni
oratore s’era creduto in obbligo di sciogliere un inno e di bruciare
un grano d’incenso, era caduta fragorosamente dal suo provvisorio
piedistallo, aprendo fra i contendenti un nuovo e più profondo solco di
discordia.


VI.

E ne apparvero tosto i certissimi segni. Il 21 aprile, non dileguata
peranco l’eco della recente battaglia parlamentare, il generale
Cialdini, tradito, conviene pensarlo, dalla più infelice ispirazione
della sua vita, arrogatosi a un tratto l’ufficio di vindice e campione
dell’esercito, del Parlamento, del Re e dell’Italia, indirizzava, sui
giornali, al generale Garibaldi questa inaspettatissima lettera: «Voi
non siete, dicevagli, l’uomo che io credeva, nè il Garibaldi che ho
amato. Voi osate mettervi a paro del Re, parlandone coll’affettata
famigliarità d’un camerata; al di sopra del Governo, dicendone
traditori i Ministri; al di sopra del Parlamento, vituperandone i
rappresentanti; al di sopra degli usi parlamentari, presentandovi
alla Camera in un costume strano e teatrale; al di sopra infine di
tutto il paese, che vorreste sospingere dove e come meglio v’aggrada.
Collo sparire dell’incanto è scomparso l’affetto che a voi mi legava.
Voi operaste grandi cose; ma il merito di aver liberato l’Italia
meridionale non spetta a voi solo. Voi eravate sul Volturno in pessime
condizioni, quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina, Civitella non
caddero per opera vostra e cinquantaseimila Borbonici furono battuti,
dispersi, fatti prigionieri da noi, non da voi. È dunque inesatto
che il Regno sia stato liberato dalle armi vostre. Voi ordinaste al
colonnello Tripoti _di ricevere i Piemontesi a fucilate_: voi dunque
provocatore vero della guerra civile; ma io, nemico d’ogni tirannia o
rossa o nera, saprò combattere anche la vostra.»

Se il generale Cialdini agisse soltanto di suo capo o sospinto dalle
suggestioni di nascosti e zelanti consiglieri, fu disputato, ma non
potè esser chiarito.[190] Certo non è presumibile che un Generale
dell’esercito ardisse scrivere ed inviare un simile cartello di sfida,
se in qualche modo non l’affidava il consenso o la tolleranza tacita
del Governo, o per lo meno della podestà militare a lui immediatamente
superiore. Guai pertanto se l’altro Generale raccoglieva il guanto
collo stesso sentimento, con cui eragli stato gittato. Uno scontro fra
i due soldati avrebbe potuto dirsi il minor danno; il pericolo grande
era che dietro i capitani si movessero i gregari, che da un duello
ne rampollassero mille, che il mattino del nostro risorgimento fosse
funestato dallo scandalo dei _pronunciamenti_ e dal sangue della guerra
cittadina.

Fortunatamente però il più rozzo fu il più saggio, e Garibaldi, guidato
soltanto da’ suoi generosi istinti e dal suo profondo amore patrio,
trovò tale una risposta, che attutì tutte le ire e soffocò nel nascere
la lite:

  «Anch’io, Generale, fui vostro amico ed ammiratore delle vostre
  gesta. Oggi sarò ciò che voi volete, non volendo scendere
  certamente a giustificarmi di quanto voi accennate, nella vostra
  lettera, d’indecoroso per parte mia verso il Re e verso l’esercito:
  forte in tutto ciò, della mia coscienza di soldato e di cittadino
  italiano.

  »Circa alla foggia mia di vestire, io la porterò sinchè mi si dica
  che non sono più in un libero paese, ove ciascuno va vestito come
  crede.

  »Le parole al colonnello Tripoti mi vengono nuove. Io non conosco
  altro ordine che quello da me dato: — Di ricevere i soldati
  italiani dell’esercito del Settentrione come fratelli; — mentre si
  sapeva _che questo esercito veniva per combattere la rivoluzione
  personificata in Garibaldi_. (Parole, di Farini a Napoleone III.)

  »Come deputatolo credo avere esposto alla Camera una piccolissima
  parte dei torti ricevuti dall’esercito meridionale dal Ministero, e
  credo di averne il diritto.

  »L’armata italiana troverà nelle sue file un soldato di più, quando
  si tratti di combattere i nemici d’Italia — _e ciò non vi giungerà
  nuovo_.

  »Altro che possiate aver udito di me verso l’armata sono calunnie.

  »Noi eravamo sul Volturno al vespero della più splendida vittoria
  nostra, ottenuta nell’Italia del Mezzogiorno prima, del vostro
  arrivo, e tutt’altro che in pessime condizioni.

  »Da quanto so, l’armata ha applaudito alle libere parole e moderate
  d’un milite Deputato, per cui l’onore italiano è stato un culto di
  tutta la sua vita.

  »Se poi qualcheduno si trova offeso dal mio modo di procedere,
  io parlando in nome di me solo, e delle mie parole sono garante,
  aspetto tranquillo che mi si chieda soddisfazione delle stesse. —
  _Torino, 22 aprile 1861._»

La nobile lettera apriva essa stessa la via alla conciliazione; e
onesti amici d’ambe le parti, il Fabrizi, il Pallavicino, il Depretis,
s’interposero per affrettarla. Il Re stesso, già fin dalle prime
conturbato dal doloroso dissidio, volle intervenire coll’alta sua
influenza; nè solo per conciliare i due Generali; ma, ciò che più
importava, i capi delle due parti, la mente e il braccio della sua
politica, Cavour e Garibaldi.

E la regia volontà fu obbedita: alle 7 pomeridiane del 23 aprile, i
due avversari, invitati a convegno dal Re, venivano in presenza sua
a franche spiegazioni ed aperta conciliazione;[191] e poco dopo i due
Generali abbracciaronsi fraternamente nel palazzo Pallavicino.

L’autore di queste pagine, però, scrivendo a quei giorni in un
autorevole diario, e desiderando di dare a’ suoi lettori, intorno alla
riconciliazione di Cavour con Garibaldi, più sicure e circostanziate
notizie, scrisse al Generale stesso, pregandolo, per solo interesse
della storia, a volergliele fornire. E il Generale gli rispose da
Majatico, villa del Pallavicino, questa lettera, la quale, come si
vedrà, dava un suono assai diverso dai cantici di pace, che la troppo
credula speranza aveva già fatto intonare:

                                         «Majatico, 29 aprile 1861.

      »Caro Guerzoni,

  »Io non ho stretto la mano di Cavour, nè cercato riconciliazioni.
  Ho bensì consentito ad un abboccamento, i cui risultati sono stati
  da parte mia: — Armamento e giustizia all’esercito meridionale. Se
  così riesce — io porgerò la piccolissima opera mia all’opera del
  Conte. — Diversamente io seguirò il sentiero che ci siam tracciato
  da tanto tempo — per il bene della causa nazionale — anche contro
  la volontà di chicchessia.

  »Trecchi, che servì d’intermediario alla conferenza, s’incarica
  di far tacere le millanterie dei ministeriali. — Vedremo — in ogni
  modo non si deve pubblicare nulla di mio per ora. — In caso poi —
  cosa molto probabile — che non si ottenga nulla, e che quei signori
  continuino a gracchiare, allora ripiglieremo il tralasciato.

  »Ho incaricato il generale Medici d’un mio programma
  sull’occorrente.

  »Mi resta a ringraziarvi.

                                                            »Vostro
                                                    »G. GARIBALDI.»

La qual lettera dimostra all’evidenza tre cose: che tutto quel
discorrere e scrivere e affannarsi d’amici, di avversi, di Ministri,
di Deputati, di Re, per indurre l’eroe a modificare in qualche parte
soltanto il suo pensiero, era stato fiato e tempo sprecato; che il
dissidio del Generale col Conte non aveva radice in alcun rancore
personale, ma in ragioni politiche, che soltanto il mutuo pegno
delle opere poteva conciliare; che infine Garibaldi scese la reggia
di Vittorio Emanuele, mormorando ancora il _se no, no_ del primo suo
Maestro, e covando, forse inconsciamente, in cuore il germe di Sarnico
e d’Aspromonte.


VII.

Il 1º maggio Garibaldi era già tornato a Caprera: il 6 giugno moriva
il conte di Cavour. L’Italia aveva perduto il suo grand’uomo di Stato;
la libertà, uno de’ suoi più devoti amici; la dinastia di Savoia, uno
de’ suoi più validi sostegni; la rivoluzione, uno de’ suoi più abili
moderatori, e (stupiscano pure i superficiali, chi pensa sarà con
noi) Garibaldi stesso, il migliore de’ suoi interpreti ed alleati. Si
narrò[192] che il nobile Conte nell’uscire, la sera del 20 aprile,
dalla Camera dei Deputati, vibrante tuttora delle emozioni provate
in quelle tre memorabili giornate, al La Farina che lo abbordava
scalmanato: «Eppure, dicesse, eppure se venisse il momento della
guerra, prenderei sotto il mio braccio il generale Garibaldi e gli
direi: andiamo a vedere che cosa si dice dentro Verona.» Queste parole
parlan meglio d’ogni documento. Lo Statista aveva capito l’Eroe; egli
era penetrato nel più intimo segreto della sua anima e ne teneva le
chiavi. Cavour vivo, molte pagine della storia d’Italia sarebbero
state diverse, e quelle della vita di Garibaldi del pari. Cavour vivo,
la guerra dell’indipendenza non sarebbesi protratta di cinque anni
(la gran trama rivoluzionaria a cui lavorava lo dimostra), e Sarnico
ed Aspromonte non sarebbero accaduti. Cavour vivo, il valore vero
di Garibaldi sarebbe stato più utilmente e più degnamente estimato;
non sarebbe stato inviato, come nel 1866, a dar di cozzo contro le
rupi trentine; e se al governo della flotta, avrebbe signoreggiato
l’Adriatico; se a capo d’un esercito di Volontari, avrebbe preceduto
o fiancheggiato il regolare e forse risparmiate all’Italia Lissa e
Custoza. Vivo Cavour, finalmente, Garibaldi non avrebbe più trovato
nelle contraddizioni e nelle ambagi di Governi fiacchi, presi dal
prurito malaticcio delle grandi gesta, un incoraggiamento e quasi
una ragione a mettersi sulla via della ribellione: la gagliarda e
prestigiosa mano del grande Ministro l’avrebbe saputo a tempo blandire
e frenare, a tempo lanciare e trattenere, e nessuno può affermare, ma
nemmen negare, che un giorno la mente soggiogando il cuore, il cuore
infiammando la mente, Cavour e Garibaldi si modificassero a vicenda, e
l’uno finisse più rivoluzionario, l’altro più moderato: legge naturale
di selezione e d’evoluzione.

Garibaldi frattanto era tornato alle sue consuete abitudini, e in
tutto quel 1861 non vi furono di notevoli nella sua vita che questi due
episodi. Ai primi di luglio corse pei giornali la voce d’un attentato
alla vita del Generale. Dicevasi che quattro mercenari, prezzolati da
una segreta congrega reazionaria annidata in una città di confine,[193]
eran partiti per Caprera onde compiere il reo disegno; che il Generale,
avvertito del pericolo, l’aveva, come altra volta,[194] disprezzato;
che i famigliari di lui non solo, ma tutta la popolazione di Maddalena
era nella più grande ansietà; che il Governo, già istruito della trama
da alcuni complici pentiti, aveva già posto la Caprera sotto la più
stretta sorveglianza ed altri particolari.

E forse si esagerava; ma tutto non era favola, come attesta questa
lettera di C. Augusto Vecchi, che appunto a que’ giorni era ospite del
Generale nell’Isola:

                                           «Caprera, 8 agosto 1861.

  »Ieri sera vennero qui tre cavalleggieri. Avevano avuto sentore
  che due uomini di male affare erano sbarcati in Caprera. Noi la
  credemmo un’ubbía. Essi si licenziarono e noi andammo a cena.
  Stagnati ed io passeggiammo fumando su e giù pel piazzale sino
  alle undici, e poi andammo a coricarci. Verso le tre udii i cani
  abbaiare ed escire a starno dal chiuso. Poco dopo mi addormentai.

  »Alle cinque era in piedi. E vidi i gendarmi, i quali narravano
  l’accaduto nella notte. Quando noi andammo a cena, essi si
  ridussero sugli scogli che prospettano sull’alto il nostro piazzale
  e vi si adagiarono a distanza determinata. Alle tre udirono rumore
  di passi, e nelle tenebre videro due uomini passare parallelamente
  ai loro posti ad un tiro di pistola. Il Maresciallo esclamò: — _Chi
  va là?_ — Fu risposto con un’archibugiata.

  »Allora i tre trassero loro addosso e discostandosi, il Maresciallo
  replicò: — _Fermi in nome del Re._ — Una voce gli ingiuriò con
  un’oscena parola. I gendarmi scaricarono di nuovo il moschetto ed
  udirono uno dei ribaldi gridare: — _Madonna!_ — Ed ambedue a gambe,
  a precipizio. Accorsi dov’erano i tristi, trovarono le loro palle
  confitte sullo scoglio; sopra il granito, tre stampi di una mano
  insanguinata; per la terra, una breve gora di sangue; e più in
  giù tracce sanguigne sulla via percorsa: un fazzoletto di cotone
  macchiato di sangue ed un fiaschetto di corno con polvere dentro.

  »I Sardi feriti guaiscono: — _Gesù, Maria, Giuseppe!_ — Dunque i
  gendarmi argomentarono, quei due non essere banditi dell’Isola, ma
  assassini venuti di fuori.

  »Poichè il Generale ebbe preso il suo bagno a vapore, lo
  avvertirono dell’accaduto. Ed egli, colla solita indifferenza,
  disse d’aver veduto dalla sua finestra, ieri, prima di passeggiare
  con me, due uomini ignoti passar su per gli scogli. Parlò
  coi gendarmi e cercò di persuaderli del malinteso, onde non
  allarmassero la popolazione della Maddalena. Poi andò col Carpeneti
  a visitare una vignetta lontana.

  »Ma i cavalleggieri col loro rapporto alle Autorità hanno
  impensierito il paese. Le esagerazioni si accrescevano sulle bocche
  del popolo. Le donne urlavano dalle finestre che era stato ucciso
  il loro Generale. E tutti all’accorrere sul porto e gettarsi nelle
  barche. Le donne si fermarono alla Moneta. Le Autorità — meno la
  ecclesiastica — i gendarmi, i bersaglieri marittimi, i doganieri, i
  cittadini di ogni classe — persino i ragazzi — sbarcarono in armi a
  Caprera e accorsero sul piazzale. Mi parve lo spianato del palazzo
  di Caserta, quando noi avevamo l’onore di proteggervi l’unità della
  patria. Le squadre partirono per la via del monte, per la parte
  opposta. E tutti avevano nel cuore una sola idea — far salva la più
  nobile e la più necessaria esistenza all’Italia.

  »Due golette governative facevano intanto il giro dell’Isola.
  Una di esse disse d’aver visto una barca staccarsi a pieno vento
  dall’isola del Giglio colla prua vòlta a Capo Ferro. Si sono
  spediti ordini per indagare chi fossero gli individui che ne
  sbarcassero.

  »Nè più. — Vi ho scritto, perchè si sappia il vero di ciò che è
  avvenuto.

                                          »C. AUGUSTO VECCHI.[195]»

La minaccia infatti non si rinnovò; ma scampato da un pericolo, ecco
invitarlo un altro cimento, perpetua sua vicenda. Ardeva fra gli
Stati Uniti del Nord e del Sud la guerra così detta di secessione,
e il presidente Lincoln, o fosse grande fiducia nel prestigio
oramai mondiale del Liberatore di Sicilia, o fosse penuria, in
quell’improvviso irrompere della rivolta, di buoni e reputati Generali
(gli allievi di West-Point eran pochi, la più parte secessionisti; e i
Grant, i Sherman, i Sheridan non s’eran rivelati ancora), fece chiedere
a Garibaldi per mezzo del Console della Federazione a Bruxelles se
avrebbe accettato il comando in capo dell’esercito federale. Nessuna
offerta poteva riuscire più geniale e lusinghiera all’eroe: aggiungere
alla gloria d’una vita spesa ne’ due emisferi per la libertà de’ suoi
fratelli di razza, quella di capitanare a nome d’una grande Repubblica
la guerra d’emancipazione dei Negri, voto della sua giovinezza, onore
del suo secolo, era tale tentazione da vincere ogni modestia e tal
premio da compensare ogni pericolo.

Pure gradì, ma non accettò tosto l’invito. Pensoso più d’Italia che di
sè stesso, non sapeva risolversi ad abbandonarla alla vigilia forse di
quella nuova riscossa da lui tanto invocata, e frattanto temporeggiava,
ponendo condizioni che erano clausole dilatorie; consultando il
Governo, che gli faceva dire: «Andasse pure, non aver per ora alcun
bisogno di lui;[196]» interrogando gli amici più divisi e perplessi di
lui e incapaci d’un concorde consiglio.

Prevaleva tuttavia anco fra i principali, il partito dell’accettazione,
non tanto per gli onori e gli allori che la bella avventura prometteva,
così al Capitano come a’ suoi seguaci, quanto perchè, parendo a
tutti lontana la possibilità d’una guerra in Italia, conveniva assai
meglio alla stessa fama dell’eroe ch’egli traversasse quel periodo di
tregua forzata, tra le lotte d’una vasta e gloriosa palestra anzichè
nell’angusta arena delle fazioni nazionali, o nell’ozio increscioso e
nella solitudine amareggiata di un’isola deserta.

Se non che al divulgarsi della nuova anche il paese cominciò a
commuoversene; gli avversi alla partenza si fecero essi medesimi
istigatori o consiglieri di manifestazioni popolari: a Napoli si
andava sottoscrivendo un indirizzo al Generale che lo scongiurava
a non abbandonare l’Italia, ed a recarsi nel Mezzogiorno a sanare
le piaghe che il Governo di Torino vi aveva riaperte; talchè egli,
incapace di distinguere, in quelle dimostrazioni, la parte artificiale
dalla sincera, e credendo di udire in quelle voci la voce della patria
stessa, finì col dichiarare al Console americano d’esser dolente di
non poter aderire all’invito, soggiungendo «che dubitare del trionfo
della causa dell’Unione non poteva; ma che, se per mala sorte la
guerra dovesse continuare, egli avrebbe vinto tutti gli ostacoli per
affrettarsi alla difesa d’un popolo che gli era tanto caro.[197]»

E la guerra durò ancora quattro anni e l’invito fu ripetuto, ma
Garibaldi, anche volendo, non avrebbe più potuto accettarlo: un
ostacolo ch’egli non avrebbe mai potuto prevedere, ma più forte d’ogni
volontà, gliel’avrebbe vietato: la palla d’Aspromonte.


VIII.

In sullo scorcio di febbraio il senatore Giacomo Plezza, presi seco
il suo schioppo ed i suoi cani da caccia, s’imbarcava per Caprera.
E che unico scopo della sua gita fosse una partita alle pernici ed
alle beccaccie, i giornali spacciarono e il pubblico credette. Ma
non appena il Senatore fu nell’Isola, svela a Garibaldi l’arnese da
caccia non essere che una maschera; mandarlo in segreto il barone
Ricasoli (primo successore del conte di Cavour) onde assicurarlo in
suo nome che il Governo non aveva rallentato, nè rallenterebbe un
istante dagli apparecchi dell’impresa nazionale; affrettarne anzi, ma
non esserne ancora maturata l’opportunità; pregar quindi il Generale a
non voler con moti intempestivi guastare l’opera bene avviata; giunta
l’ora, sarebbe fra i primi avvertito; tenesse frattanto come pegno
dei buoni intendimenti del Governo l’imminente apertura dei Tiri a
segno nazionali e l’invito che gli faceva per mezzo suo di venire sul
continente a presiederne l’inaugurazione e a diffonderne l’istituzione.

Che il Plezza abbia tradotto esattamente, oppure no, il pensiero
del suo mandante; che a lui sia stato commesso soltanto di
invitare il Generale «a rimanersi tranquillo in aspettazione
dell’opportunità;[198]» che quell’idea di trastullare l’irrequieto
Capitano con quella distrazione dei Bersagli sia stata suggerita prima
dal Plezza, e dal Ricasoli soltanto assentita, tutto ciò poco monta;
il fatto è che Garibaldi aveva il diritto di credersi invitato da
un’ambasciata del Governo, e poichè quell’invito s’accordava coi mille
che da ogni parte i suoi amici gli inviavano, e colle sue più segrete
speranze e vivaci impazienze, così l’accettò tosto, e il 2 marzo in
compagnia del Plezza medesimo sbarcava improvviso, come al solito, in
Genova.

Se non che tre giorni dopo il Ministero Ricasoli non era più. Meglio
ancora dell’aperta ostilità degli avversari l’avevan ucciso la
tolleranza ostentata, e la malcelata freddezza de’ suoi amici. Certi
suoi atteggiamenti più altezzosi che fieri verso Napoleone III ed i
suoi Ministri, ond’era venuto in fama di poco devoto e poco gradito
all’imperiale protettore; certe sue professioni di fede liberalesca,
più mistiche a ver dire che pratiche, ma ad orecchio moderato troppo
puritane; la stessa rigidezza baronale colla quale soleva trattare
uomini e cose, l’avevano da lungo tempo indebolito nel favore della
sua parte; ma quando gli fu chiesto, quasi per metterlo alla prova, di
sciogliere i garibaldini _Comitati di provvedimento_, ed egli in nome
della libertà d’associazione, mallevata dallo Statuto, sdegnosamente
rifiutò, fu evidente, nonostante l’ombra d’uno stentato voto di
fiducia, che ogni consenso d’idee e di affetti fra lui e la Destra
era rotto, e che altro non gli restava che deporre il governo. E così
fece; e poichè il Rattazzi ne febbricitava di voglia da più mesi, e il
Re lo prediligeva, e i Centri lo invocavano, e la Sinistra prometteva
tollerarlo, e la Destra doveva subirlo, così egli ne fu il naturale
successore; senz’altro contrasto che de’ più arrabbiati delle varie
consorterie moderate, le quali non avendo saputo fino allora nè
combattere con lealtà, nè sostenere con franchezza il Ricasoli, si
lagnavano ora ch’egli cadesse in un punto ed in un modo da lasciarne
l’eredità al loro più aborrito avversario.

All’udire pertanto questa nuova, anche Garibaldi s’allietò. Egli non
conosceva il Deputato d’Alessandria che di nome, e non era certo in
grado di giudicare della sua politica, molto meno di distinguere quella
sottile linea che appena lo discerneva dai moderati; ma da ogni parte
glielo dipingevano per vecchio avversario del conte di Cavour, diletto
a Vittorio Emanuele, beneviso a gran parte della Sinistra, democratico
d’origine e di costumi; e ciò bastava perchè egli si felicitasse del
cambio e si illudesse di trovare in lui un alleato più compiacente
e più maneggevole. Nè alcuno si curò, a quel che parve, di trarlo
d’illusione; chè ridottosi il Generale a Torino e ristrettosi a intimo
colloquio, prima col Re, poi col Rattazzi medesimo, partì da entrambi
quasi entusiasta, a tutti magnificando le idee del nuovo Ministro,
esortando i suoi amici a sostenerlo, ripromettendosi di compiere con
lui le più grandi cose. E fino a qual punto fossero arrivate da un lato
le promesse o le lusinghe del Presidente del Consiglio, e dall’altro
la bonomia o la credulità del Generale, sarà difficile il documentare;
certo da quel giorno si diffuse la voce che in quei colloqui fossero
stati fermati importantissimi disegni; che Ministero e Garibaldi
agissero ormai d’accordo; e che l’Italia fosse alla vigilia di grandi
avvenimenti.[199]


IX.

Ma intanto che questi avvenimenti, più o meno probabili, maturavano,
Garibaldi era chiamato a Genova da un’altra cura. Le antiche discordie
della parte rivoluzionaria erano rinate. Essa pure era da molto tempo
partita in due fazioni, o frazioni che vogliansi dire, l’una procedente
più direttamente da Mazzini, che accettava condizionatamente la
Monarchia, rimetteva bensì al tempo, ma non nascondeva il suo ideale
repubblicano, teorizzava il diritto dell’iniziativa privata, predicava
l’azione immediata e continua, poneva al Governo il dilemma: lasciarla
fare e seguirla, o cadere; l’altra, capitanata più visibilmente da
Garibaldi, che pur avendo con la prima molti punti di somiglianza,
pure ne dissomigliava in tre essenzialissimi: era schiettamente
monarchica; credeva, senza dottrineggiare della sua legittimità, alla
utilità dell’iniziativa rivoluzionaria e alla potenza della guerra
popolare; serbavasi ferma tuttavia a non staccarsi dal Governo, pronta
anche, se egli precedeva, a marciare dietro a lui; infaticabile solo a
sospingerlo se indugiava; ma, fino al giorno in cui discorriamo, aliena
pur sempre dal disconoscerlo ed esautorarlo. Ora, com’è ben naturale,
ciascuna di queste due frazioni aveva la sua speciale organizzazione;
e come la garibaldina era disciplinata, e quasi militarmente
instrutta nei _Comitati di Provvedimento_, così la mazziniana per
opera principalissima dell’infaticabile Bertani (che nel Bellazzi,
già suo creato ed ora segretario de’ Comitati, trovava un fomite di
più alle sue antipatie) era venuta prendendo nome e persona in tante
_Associazioni unitarie_, che a primo aspetto si sarebbero dette un
plagio e un pleonasmo dei _Comitati_, che in realtà ne differivano
per quei punti che abbiamo posti in rilievo, e coi quali combatteva da
parecchi mesi una sorda guerra fraterna, immagine riprodotta per mille
membra della suprema discordia de’ capi.

Parve quindi urgente ai principali delle due parti che il periglioso
dissidio cessasse; e cercandone il modo, nessun migliore espediente
seppero immaginare che un’Adunanza generale, quasi un Concilio
ecumenico, di tutti i rappresentanti dei _Comitati_ e delle
_Associazioni_ auspice da Londra l’Apostolo del pensiero, da Caprera il
Pontefice dell’azione.

Convocata infatti da Garibaldi stesso, l’Assemblea si raccolse in
Genova nel teatro Paganini il 9 di marzo. Eran presenti tutti i
caporioni e caporali della democrazia, non meno di quattrocento
persone; presiedeva Garibaldi per ciò appunto venuto da Torino; il
quale, dopo aver nell’usato stile, scongiurato per la concordia,
additato nuovamente Roma e Venezia, riaffermata la necessità di
formare il fascio, o com’egli diceva, «il fascio romano di tutte le
forze,» aperse la discussione, quanto dire tutte le cataratte della
patriottica eloquenza. Pure fu notabile che in un’adunata d’uomini
sì diversi, nessuno esorbitò. Parve anzi che l’Assemblea ci mettesse
una tal quale ostentazione ad imitare l’ordine e la gravità dei
dibattimenti parlamentari, sicchè fra il dispetto e l’ironia fu
battezzata di _secondo Parlamento_. E d’un Parlamento ebbe, a dir vero,
tutto l’aspetto e tutta la solennità, tanto che se fu doveroso che il
Governo la rispettasse, perocchè così l’impedirla come il discioglierla
sarebbe stato del pari illegittimo, certamente fu molto significativo
che un’Assemblea di quattrocento persone, non munite d’alcun mandato
legale, assegnasse termini alla pace ed alla guerra; accettasse e
respingesse alleanze; passasse in rassegna armi ed armati; facesse
e rifacesse l’Italia, e il Governo fosse costretto a restare inerte
spettatore di tutto ciò, quasi in sembianza di tacito complice.

Per ventura però le deliberazioni furono meno paurose delle
discussioni. I _Comitati di Provvedimento_ si fusero colle
_Associazioni unitarie_ in un nuovo sodalizio che prese nome di
_Società Emancipatrice_; un Comitato di ventiquattro membri, cibreo
di tutte le tinte, fu eletto a rappresentarla; si auspicò al fausto
connubio; si inneggiò a Roma e Venezia; si indusse Garibaldi ad
invocare come pegno della restaurata concordia il richiamo di Mazzini,
e tutto passò come iride, lasciando i nembi di prima.


X.

Ma il Governo era impegnato a concedere ben più. Reduce Garibaldi a
Torino, Rattazzi perfezionando il disegno del Barone Ricasoli gli
commette la direzione dei Tiri a bersaglio, colla balla di girare
Italia per propagarne l’effettuazione: poco dopo gli consente la
istituzione di due battaglioni di _Carabinieri mobili_ comandati
da suo figlio Menotti;[200] apparentemente destinati a combattere
il brigantaggio nel Mezzogiorno, ma presti, occorrendo, per altre
imprese; infine, complotto trapelato soltanto più tardi, ma non men
vero, gli promette un milione di lire per provvedere all’armamento
d’una spedizione in Grecia, insorta allora contro il re Ottone, e che
Garibaldi aveva promesso soccorrere[201] se non gli si apriva altra via
in Italia.

Così il Dittatore cacciato da Napoli pareva risorgere a Torino.
Si invocava il suo consiglio, si ambiva il suo aggradimento, si
interpretavano i suoi discorsi come responsi d’oracolo. Ospite del
senatore Plezza, la sua casa pareva un ministero; una processione
perpetua di Garibaldini, di patriotti, di Ministri, di Deputati d’ogni
colore, di ammiratori e sollecitatori d’ogni fatta, passava e ripassava
a visitarlo, a onorarlo, a consultarlo. I principi reali di Savoia lo
convitavano alla loro mensa quasi ingloriando dell’onore; finalmente
l’ultima settimana di marzo scortato dai figli e da numeroso corteo
di luogotenenti e di commilitoni, sopra treni appositi, in carrozze
separate, a spese dello Stato, s’incamminava alla volta di Lombardia.
Per contrapposto in quei medesimi giorni Vittorio Emanuele moveva colla
Corte e coi Ministri a visitare per la seconda volta il Mezzogiorno; ma
la cronaca narrò che il viaggio del mozzo nizzardo fu più trionfale.

I Sindaci gli muovono incontro, i Municipi lo albergano a loro spese, i
Prefetti lo banchettano, il clero lo ossequia, l’esercito lo acclama,
le Guardie nazionali gli presentano l’armi, i Garibaldini in camicia
rossa montano la guardia alla sua porta, le donne lo corteggiano, lo
abbracciano, lo baciano, ne portan via per reliquia i capelli e le
vesti, gli offrono in dono le gemme ed i figli: infine dovunque arriva
una turba immensa di popolo lo attende impavido alla pioggia ed al
sole, monta sui tetti e sugli alberi per vederlo, si precipita, appena
lo scorge, intorno a lui, lo avviluppa, lo serra, lo trasporta, lo
tien prigione del suo affetto e del suo delirio, lo spia in ogni atto,
lo segue in ogni passo, assedia da mane a sera gli approcci della sua
casa, lo chiama e richiama al balcone, lo fa parlare e lo apostrofa,
gli promette tutto quello ch’egli domanda, gli grida ad ogni istante:
«Roma e Venezia;» a cui il Generale risponde quasi invariabilmente:
«Sì, Roma e Venezia son nostre, e se saremo forti, le avremo.»

A Milano, murato da un serraglio vivente, non gli basta un’ora per
arrivare dalla Stazione all’albergo: dalla terrazza della _Ville_
saluta «il popolo delle cinque giornate capace di venticinque,»
raccomanda la carabina; promette al solito Roma e Venezia. Inaugurando
con pompa solenne il bersaglio provinciale, spara egli il primo colpo,
che i giornali trovano stupendo. Dovendosi distribuire le medaglie
commemoratrici delle ultime campagne, ne è commesso l’ufficio a lui, e
molti, pigliando le medaglie da quella mano, piangon di gioia e tentano
baciarla. Il Sindaco lo arringa; le Guardie nazionali e le Associazioni
operaie gli sfilan davanti a bandiere spiegate; i membri dell’Istituto
Lombardo s’affrettano a visitarlo; il prefetto Pasolini lo invita
a pranzo, e all’udire il racconto delle sue gesta esclama: «Questa
sera divento garibaldino anch’io.[202]» Manzoni infine, visitato per
omaggio dall’eroe, dice: «Sono io che devo prestar omaggio a voi: io
che mi trovo ben piccolo dinanzi all’ultimo dei _Mille_, e più ancora
dinanzi al loro Duce, che ha redento tanta parte d’Italia e nel modo
migliore, offrendola a Vittorio Emanuele;» e avendogli il Generale
nell’accommiatarsi fatto presente d’un mazzettino di viole, «lo
conserverò, esclama il Poeta, lo conserverò in memoria d’uno de’ giorni
più belli della mia vita!»

A Monza, a Como, a Lodi gli stessi deliramenti; a Parma, presiedendo
un Comizio d’operai al teatro San Giovanni, molte voci gli gridano:
«Viva Mazzini, ed egli replica: «Viva Vittorio Emanuele.[203]» A
Casalmaggiore bandisce la «Religione della santa Carabina.» A Cremona è
una epifania di donne, di ufficiali dell’esercito, di preti: monsignor
Vescovo Novasconi, malato, si leva di letto per ricevere la sua
visita: il clero gli manda una deputazione e pende dal suo labbro,
come da un nuovo Messia: dodici donne, madri, spose, figlie di morti
per la patria, gli presentano un indirizzo firmato da un migliaio
di signore e popolane cremonesi, nel quale promettono «che al nuovo
appello del Capitano dei Mille esse ridaranno ai loro uomini il brando
che spezzerà per sempre le catene delle loro sorelle ancora schiave.»
Era un’ebbrezza che dava il capogiro alle teste più salde e non sarà
meraviglia se tra poco ne sarà preso lo stesso Garibaldi. Perocchè
respirare tanto tempo in un’atmosfera sì infocata e non esserne
infiammato; sentirsi per quindici giorni intronati gli orecchi dalle
parole di «Roma e Venezia» e non crederle sincere; vedersi portato in
trionfo, udirsi glorificato e quasi incielato da un popolo intero e
non credersene il Dittatore; sapersi segretamente spalleggiato dallo
stesso Governo e non supporlo consenziente e complice, poteva essere
saggezza non difficile alla fredda mente d’un filosofo e d’un uomo di
Stato; ma all’anima ribollente d’un eroe diventava virtù pressochè
impossibile. Garibaldi sta per commettere i due più grandi errori
della sua vita; ma quando pure non bastasse a riscattarli la nobile
prepotenza dell’amor patrio, starebbero sempre a loro scusa questi
tre argomenti: la imprevidente e ambidestra condotta del Governo,
che pur di godere un riflesso della popolarità del Generale gli aveva
sacrificato una parte della propria autorità; la obbedienza passiva
dei di lui amici e commilitoni che tenendosi vincolati da una specie di
giuramento militare non seppero nè parlargli con verità, nè resistergli
con fermezza; finalmente la spensierata e quasi fanatica apoteosi che
i Lombardi prima, i Siculi poi, fecero d’un uomo che pure s’atteggiava
ad arbitro della nazione e li invitava a seguirlo in una avventura che
aveva tutte le apparenze d’una follia e d’una ribellione.

A ciascuno la sua responsabilità. Per aver il diritto di dire tutta
la verità ai grandi bisogna prima saperla dire ai popoli. Sarnico ed
Aspromonte li fecero in gran parte anche gli Italiani. Stia pure a loro
discolpa che il magico Capitano li stregò col suo fascino; il Governo
li confuse colle sue ambagi; la parte rivoluzionaria li sorprese
colle sue audacie; non è men vero che se Garibaldi non avesse trovato
fin dai primi passi tanto incoraggiamento d’applausi, di promesse e
di offerte, non avrebbe mai potuto pensare, nonchè avviare, le due
temerarie imprese a cui nel 1862 s’accinse. Gl’Italiani gli urlavano:
«A Venezia,» ed egli, seguendo la sua natura, rispondeva: «Andiamo.»
Essi gli giuravano sulla spada e sulla croce, nelle piazze e nelle
chiese: «Roma o morte;» ed egli li invitava a confermare i giuramenti
coi fatti; essi continuarono per un mese a rappresentare sotto i suoi
occhi la commedia dell’eroismo disperato e del patriottismo indomabile;
ed egli, ignorando quanto di rettorico, di melodrammatico e di
carnevalesco s’ascondesse ancora, per antica legge ereditaria, nelle
vene de’ suoi concittadini, egli, l’eroe dabbene e sincero, li prese
sul serio e scontò la pena per tutti.


XI.

La storia di Sarnico è breve. Garibaldi, visitate ancora Brescia,
Castelgoffredo, Asola, Desenzano, Pavia, adducendo il bisogno di
curarsi della sua vecchia artritide si riduce in sul finire d’aprile
presso le Terme sulfuree di Trescorre, nella villa del suo vecchio
amico Gabriele Camozzi. Chiunque però sapeva che Trescorre giace
come al centro delle valli che mettono al Tirolo, e osservava gli
andamenti del Generale e de’ suoi seguaci non poteva tardare ad
avvedersi che la salute e i bagni erano un comodo pretesto; ma la
ragione vera, ben altra e più grave. La villa Camozzi sembrava divenuta
un Quartier-generale. Un andirivieni incessante di Garibaldini, di
profughi veneti e trentini, di Deputati dell’estrema Sinistra; un
discorrere sommesso, un appartarsi guardingo, un apparire e scomparire
misterioso, dicevano abbastanza che qualcosa di nuovo si macchinava.
Il 5 maggio i membri della _Emancipatrice_, convenuti a Trescorre
per festeggiare la partenza di Quarto, confermavano l’alleanza e
la concordia giurata a Genova, e davano a Garibaldi nuovo stimolo a
compiere il concepito disegno.[204]

Era una congiura condotta press’a poco colla stessa noncuranza del
segreto con cui due anni prima lo era stata la più grande congiura
di Marsala. I più noti luogotenenti di Garibaldi, i più celebrati
agitatori del partito d’azione[205] giravan apertamente di città
in città ad incettare armi, a commettere vesti, a comprare scarpe,
a negoziar prestiti di danaro; e bastava aver occhi ed orecchi per
conoscerne i passi ed udirne i discorsi. Garibaldi stesso, infine,
aveva già dato al Governo di Torino il più chiaro di tutti gl’indizi,
inviando agli ultimi d’aprile il dottor Ripari a richiedere al signor
Capriolo, segretario dell’interno, plenipotenziario del Rattazzi
assente, tutto o parte di quel milione che già era stato promesso per
la Grecia, e che era assai facile sospettare dovesse servire a impresa
più vicina. Insomma la trama ordivasi con tanta sicurezza e pubblicità
che a Parigi ed a Vienna sapevasi già quello che il Ministero a Torino,
e, cosa ancor più strana, i suoi governatori di Brescia e di Bergamo
sul teatro stesso dell’azione ignoravano. Ma un caso inatteso venne ad
illuminarli. A Genova una banda di audaci, svaligiato in pien meriggio
il banco Parodi, tenta la fuga sopra una tartana che mesi prima era
stata noleggiata a nome di Garibaldi dal colonnello Cattabene, appunto
per quella spedizione di Grecia di cui tanto si discorreva e che mai
si effettuava. La polizia italiana, frattanto, scoperta la via tenuta
dai ladri, riesce ad arrestarli in mare sulla tartana medesima; ma
quivi, trovando fra le carte del Capitano il primo contratto del
Cattabene, sospetta questi pure complice del furto, e saputolo a
Trescorre presso il Generale, senza badar più che tanto, nella notte
del 13 aprile, arresta lui pure e lo traduce come un malfattore ad
Alessandria. Proteste del Generale; strida del partito; invano; chè
al Tribunale soltanto spetta decidere la lite. Se non che l’autorità,
frugando la casa del Cattabene per iscoprire maggiori tracce della
sua colpabilità nel furto Parodi, viene inaspettatamente ad avere tra
le mani gl’indizii d’un’altra impresa non sospettata fino allora: gli
appunti, gli ordini, i piani dell’imminente invasione del Tirolo. A
tal punto anche il Governo si desta, e mentre bandisce illegittimi
tutti quegli apparecchi e falsa la vociferata connivenza del Governo, e
ferma la risoluzione d’impedire e reprimere quei tentativi, occorrendo
anche colla forza,[206] spedisce truppe a sbarrare tutti i passi di
Valcamonica e di Valsabbia; ordina che quanti s’avviano per quelle
valli siano arrestati; pone sotto rigorosa sorveglianza Trescorre
stesso e i suoi abitatori.

Ed era tempo. Il 14, sera, un manipolo di giovani conveniva da ogni
parte nei dintorni del lago d’Iseo, manifestamente avviati per la
Valcamonica: il 15 il colonnello Nullo e il capitano Ambiveri, seguíti
da una più grossa squadra, stavan per raggiungerli: tutto dimostrava
che si era alla vigilia d’un’entrata in campagna. Allora anco i
Prefetti di Brescia e di Bergamo si riscuotono in sussulto: Nullo,
Ambiveri e cinquantacinque de’ loro compagni sono presi a Palazzolo:
altri quarantaquattro tra Sarnico ed Alzano Superiore: e i prigionieri,
con l’imprudenza che segue sempre le risoluzioni precipitate, sono
tradotti parte a Bergamo e parte a Brescia, patria di quasi tutti
gli arrestati, le due città più infiammabili d’Italia. E ne apparvero
tosto le conseguenze: il popolo bergamasco si accontentò d’un tumulto
presto sedato; ma il bresciano più sulfureo s’avventa alle prigioni
per tentare di liberare i prigionieri: il picchetto di guardia resiste;
spiana l’armi, fa fuoco: un cittadino è ferito, un altro morto: grande
lutto e maggior scompiglio in tutta la città.

A questa nuova Garibaldi schizza fuoco e fiamme: scaraventa contro
i difensori delle prigioni di Brescia una violenta invettiva,
pareggiandoli «a sgherri mascherati da soldati,» e proponendo una spada
d’onore all’ufficiale russo Popof, che favoleggiavasi avesse spezzato
la sua piuttosto che usarla contro l’inerme popolo di Varsavia; nè pago
di ciò, chiede imperiosamente al Prefetto di Bergamo la liberazione de’
suoi prigionieri, proclamando «aver essi agito per espresso suo ordine
e sè solo in ogni evento responsabile.» Dove fosse per trascorrere
l’accecato Achille era pauroso il pensarlo; pure avendogli il dabben
Prefetto comunicato la cortese, ma ferma risposta del Ministero:
«rincrescere al Governo, ma non poter ammettere il modo di vedere
del generale Garibaldi circa le conseguenze de’ fatti avvenuti;»
eccolo a un tratto, come se tutto quel furore non fosse stato che un
fuoco d’artificio, mutar parole e contegno; ridivenir ragionevole
e sereno; temperare in una nuova lettera le acerbe frasi dirette
all’esercito:[207] promettere a quanti l’avvicinano d’aver deposto
ogni pensiero di spedizione; reduci i ministri da Napoli, abboccarsi
tranquillo col Rattazzi e il Depretis; tranquillo partirsi da Torino;
tranquillo ritirarsi a Belgirate, ospite di Benedetto Cairoli, d’onde
dichiara pubblicamente: «Che ogni arruolamento che si potesse fare,
sarebbe a sua insaputa ed avrebbe la sua disapprovazione.[208]»

E non basta: riapertosi in quei medesimi giorni il Parlamento, il
Generale consigliavasi di inviare al Presidente della Camera dei
Deputati una lunghissima lettera, la quale, riassunta ne’ suoi capi
principali, diceva: esser venuto sul continente chiamato dal Ministro
Ricasoli, che dicevasi disposto ad occuparsi seriamente dell’armamento
nazionale: il nuovo Ministero avergli confermato il mandato dei Tiri a
segno, e più «data larga speranza» che sarebbesi adoperato alacremente
alla definitiva costituzione d’Italia: pegno dei patti convenuti
doversi riguardare la istituzione di due battaglioni di Carabinieri
Genovesi; venuta meno anco questa promessa, aver egli rimandato alle
loro case i giovani accorsi a parteciparvi; ma poichè parte di loro
riluttava a rimpatriare, egli «li consigliò a raccogliersi in alcuni
luoghi della pacifica Lombardia nei quali si doveva provvedere al
loro mantenimento con ispontanee oblazioni di buoni cittadini, mentre
essi si sarebbero esercitati viemeglio alle armi in aspettazione di
futuri avvenimenti.» Il Governo quindi equivocò fatalmente sullo
scopo di quei depositi: niente di più falso che si trattasse d’un
tentativo d’invasione nel Tirolo; dolorose tutte le persecuzioni di
cui i suoi compagni furono fatti segno: suo grido sempre _Vittorio
Emanuele_, e guai a chi tocca il concetto salvatore: necessario però
a fecondarlo l’armamento universale della nazione. Questa tende alla
sua unificazione come i gravi al centro della terra: irrefrenabile
l’agitazione della gioventù: chi vuole opporsi al generoso movimento
assume tutta la responsabilità delle disgrazie che ci possono
minacciare.[209]

Non rifaremo la discussione, o meglio il diverbio, che per questa
lettera s’accese in Parlamento. Il Crispi la difese passo passo,
spiattellando in faccia al Rattazzi anche la storia del milione, o,
come volgarmente dicevasi, del _milioncino_ promesso per la Grecia; il
Rattazzi armeggiò abilmente a contraddirla in tutti quei punti che lo
prendevano di mira; la Camera, più per tutelare l’autorità del governo
che per fiducia nel Ministero, votò un Ordine del giorno che prendeva
atto delle di lui dichiarazioni e lo incoraggiava a far rispettare la
legge; ma un’opinione s’accordò nelle menti, che la verità non si disse
nè si seppe intera da alcuno; e che poche giornate meritarono come
quella il proverbiale titolo di _journée des dupes_.

E questo giudizio tocca per primo Garibaldi. Quale imperiosa ragione
abbia potuto indurre il Generale a firmare quella lettera (a firmare,
diciamo, non a scrivere, poichè lo stile prolisso e il sillogizzare
curialesco la dimostrano evidentemente fattura d’altra mano), a noi
non fu dato chiarire; il segreto è morto probabilmente coll’eroe.
Per certo quel messaggio non diceva tutta la verità e ne dissimulava
la principalissima parte. Che la spedizione del Tirolo non dovesse
aver luogo immediatamente; che tra la raccolta delle armi e degli
armati, e il momento dell’invasione potesse o dovesse trascorrere
ancora un certo tempo, e che in questo intervallo fosse possibile
una resipiscenza e un contr’ordine, ciò si comprende di leggieri; e
in questo senso la lettera del Generale diceva il vero; ma che tutta
quella gioventù si radunasse ai piedi dello Stelvio e del Tonale,
sulle soglie del confine austriaco, solo per esercitarsi alle armi,
o molto meno, come nell’eccesso del suo zelo apologetico volle dare
a credere il deputato Crispi,[210] o molto meno per apparecchiarsi a
tragittare il Mediterraneo e combattere in Grecia, ciò oltrepassa i
confini del credibile e dell’intelligibile, e ciò non è.[211] E non
andremo in cerca per questo di superflue prove; non faremo appello
alla testimonianza di centinaia dei nostri antichi amici e compagni
d’armi; non pretenderemo nemmeno che si creda alla nostra;[212] ci
basta rammentare un fatto solo: Bixio, alla Camera dei Deputati, nella
tornata dell’8 giugno 1862, studiandosi a dimostrare che il Ministero
non poteva avere alcun sentore di quella impresa di cui eran piene le
bocche, adoperò questo singolarissimo argomento: «Tanto vero, esclamò,
che Garibaldi interrogò me se conveniva renderne partecipe il ministro
Depretis ed io ne lo dissuasi.» Ora è troppo ovvio che nè Garibaldi
avrebbe stimato necessario di consultare il Depretis, nè Bixio reputato
sì pericoloso il farlo, se quei disegni che allora mulinavano per la
mente del Generale fossero stati embrioni ancora non nati; o, come egli
scriveva, si fossero arrestati all’innocente idea di esercitar alle
armi qualche giovanetto ramingo e sfaccendato.

La verità è che Sarnico doveva essere la prima tappa di Trento; e
sarebbe stato più degno di Garibaldi confessare apertamente il proprio
generoso errore, anzichè sforzarsi a mascherarlo di avvocateschi
sotterfugi e di pie menzogne. Certo più che a lui la responsabilità
della lettera del 3 giugno spetta ai malavvisati consiglieri che gliela
dettarono; certo egli non s’indusse ad apporvi il proprio nome se
non per l’ingenuo convincimento di salvare per tal modo i suoi amici
compromessi da lui e per lui; ma non è men increscioso il pensare che
egli per una male intesa convenienza politica abbia dovuto lasciar
cadere sull’immacolata fama della sua lealtà una stilla d’inchiostro e
siasi esposto a veder sorridere della sua parola, sacra fin ora, la più
benigna posterità.


XII.

Anche quello strascico di mar vecchio che aveva lasciato dietro di sè
la burrasca di Sarnico pareva del tutto quietato. Garibaldi era sempre
a Belgirate nella villa dei Cairoli; ma vi menava da due settimane
una vita sì privata e tranquilla che persino quei diari, che erano in
voce di suoi più intimi, non sapevan che si dire di lui. La sola nuova
un po’ importante che da qualche tempo fosse corsa dal Lago Maggiore
fu che a cagione di nuovi dissidi insorti tra il Generale e la parte
mazziniana (quella che voleva l’azione a ogni costo) egli aveva dato
la sua rinuncia di Presidente della _Società Emancipatrice_; e, com’è
ben naturale, anche questo fatto parve ai più buono augurio che l’eroe
andasse a poco a poco mettendo il cuore in pace, e deponendo, almeno
pel momento, ogni proposito di fortunose avventure.

Se non che, a un tratto, una dietro l’altra, coll’incalzare staremmo
per dire d’un nembo che s’avanzi, rumoreggiarono queste notizie:
Garibaldi è giunto a Torino dov’ebbe un segreto abboccamento col Re
e un alterco con Rattazzi; Garibaldi seguíto da un manipolo de’ suoi
fidati è ripartito per Caprera: Garibaldi è sbarcato improvvisamente a
Palermo.

Ma a che fare a Palermo? Perchè quel viaggio precipitato e misterioso?
Quale nuovo disegno covava il Generale? Quale nuova sorpresa preparava
egli all’Italia? Eran queste le domande ansiose che susurravan
su tutte le labbra e s’agitavan in tutti i cuori ed ai quali nè
oggi, nè mai, forse, sarà concesso dare precisa e certa risposta.
Tuttavia, rifrugando fra quei _frammenti a matita_ di cui altrove
abbiamo parlato, ci venne fatto di trovare questa pagina di tutto
pugno del Generale che getta un raggio di luce inattesa sulle origini
d’Aspromonte, e decifra almeno la prima sillaba dell’«enigma forte:»

  «Disgustato delle cose di Sarnico — e tornato in Caprera — io non
  avrei abbandonato la mia solitudine — se le notizie dell’Italia
  meridionale fossero state men tetre. — I miei amici di quelle parti
  — massime dalla Sicilia — mi narravano il malcontento crescente ed
  il pericolo d’un movimento autonomista — coadiuvato certamente da
  tutti gli altri partiti che col mal governo di Rattazzi avevano
  alzato la testa. — L’opinione generale era, che al richiamo (qui
  minacciato) del Pallavicino un’insurrezione sarebbe scoppiata
  in Sicilia. Tali considerazioni mi fecero decidere a visitare la
  capitale dell’Isola.

  »Io sapeva che i Principi erano stati a Palermo — ma confesso che
  se avessi saputo che essi si trovavano ancora là — io avrei scelto
  un altro luogo di sbarco.

  »Avendoli però trovati a Palermo — ed essendo sempre stato ben
  accolto da loro, mi affrettai a dire al mio amico Pallavicino che
  mi sarebbe stato carissimo l’incontrarli.

  »Giunsi in città al principio della notte — e subito che quella
  cara popolazione seppe del mio arrivo — volle vedermi e mi accolse
  come un caro della famiglia.

  »Noi avevamo passato insieme momenti così solenni, tanti pericoli e
  divise insieme tante glorie, ch’era naturale il rivederci oltremodo
  commossi.[213]»

Ora vi è in questa pagina autobiografica un punto che importa rilevare.
Fino ad ora fu detto e creduto che il disegno di far della Sicilia una
base all’impresa di Roma fosse già fermo e compiuto nella mente di
Garibaldi prima della sua partenza da Caprera. Ecco invece che egli
ci disinganna e con grande asseveranza ci assicura nelle più intime
sue carte come unico motivo di quel suo viaggio fosse l’idea, tuttora
vaga ed oscura, di ravvivarvi colla sua presenza lo spirito unitario,
quietarvi il pubblico malcontento, e combattervi le fazioni autonomiste
e borboniche che tentavano rialzare la testa. Nè di dubitare della sua
parola vi sarebbe ragione; in ogni caso, a noi suoi compagni d’azione
non mancherebbero argomenti per confermarla.

Nessuno infatti di quanti, invitati da lui, lo accompagnarono da
Caprera a Palermo seppe mai dal suo labbro nè dove s’andasse, nè
perchè s’andasse! Soldati, seguivamo il Capitano: credenti, seguivamo
l’Apostolo.[214] Soltanto in alto mare nella notte del 7 luglio in
vista della costa siciliana, taluno essendosi arrischiato a chiedere
timidamente se si facesse rotta per la Sicilia: «Sì, rispose....
andremo a Palermo e là vedremo.» E tuttavia questa indeterminatissima
parola «vedremo» era ancora la parte più definita e più certa del
programma di Garibaldi in quel momento. Nessuna mèta fissa guidava
i suoi passi; nessun proposito chiaro animava la sua volontà; e,
a guisa d’uomo che intraprenda un viaggio d’esplorazione in una
terra incognita, attendeva dalle scoperte che andrebbe facendo
per via la norma del suo cammino ulteriore. Però, lo si tenga per
fermo, il concetto di muovere dalla Sicilia al conquisto di Roma,
lunge dell’essere stato, come fu scritto, la causa del suo viaggio
in Sicilia, non ne fu che l’effetto. Che quel concetto dormisse
in embrione in fondo al cervello dell’eroe è più che probabile; ma
affinchè quell’embrione si animasse e prendesse forma viva e concreta
nel disperato dilemma _o Roma o Morte_, fu prima mestieri che sentisse
i vulcanici influssi del clima e del suolo siciliano, e trovasse in
quel medesimo maleficio di insanie, di debolezze, di equivoci d’onde
nacque l’aborto di Sarnico, la forza d’ingrandire e di minacciare.


XIII.

Come accogliesse Palermo il suo primo liberatore lo narrò testè
egli stesso, e a chi conosce la forza d’espansione degli entusiasmi
siciliani è facile immaginarlo. Incontrato fra i primi dal prefetto
Pallavicino-Trivulzio, condotto al Palazzo Reale e ospitato in quella
medesima stanza da lui abitata nel 1860, visitato a gara da ogni ceto
di cittadini e da ogni ordine di magistrati, applaudito, baciato,
benedetto da una moltitudine di popolo delirante che cangiava sempre e
non scemava mai; unico nome su tutte le labbra, unico tema a tutti i
giornali, gli stessi figli di Vittorio Emanuele parvero dimenticati.
Però, quantunque il Generale fosse stato sollecito di rendere loro,
appena arrivato, il debito omaggio, essi sentirono il falso della
loro posizione, e affrettarono, senza parere, la partenza. E da
quell’istante il vero padrone della città fu lui; i partiti pendevano
dalle sue labbra; le Autorità facevano a gara ad ossequiarlo; gli
Istituti pubblici sollecitavano l’onore d’una sua visita, come
quella d’un sovrano; la Guardia Nazionale, fiore della cittadinanza,
novellamente comandata dal generale Medici, sembrava trasformarsi
in una sua guardia del corpo; il prefetto Pallavicino, supremo
rappresentante del Governo, pareva tornato suo prodittatore. Tuttavia
per alcuni giorni il Generale non profferì verbo, nè fece un passo che
uscisse dalla stretta legalità. Che cosa fosse venuto a fare a Palermo,
continuava ad essere un mistero anche pei suoi intimi; e probabilmente
non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui. Soltanto la domenica del
15 luglio assistendo al Foro Italico, da una tribuna eminente, in
compagnia del Sindaco, del Prefetto e dei primari Magistrati della
città, ad una rassegna della Guardia Nazionale; punto badando al luogo,
alla cerimonia, al contorno ufficiale (fors’anco in cuor suo avendo
pensato giovarsene) saetta in mezzo alla milizia ed al popolo accalcato
a’ suoi piedi questa terribile invettiva:

      «Popolo di Palermo,

  Il padrone della Francia, il traditore del 2 dicembre, colui
  che versò il sangue de’ fratelli di Parigi, sotto il pretesto
  di tutelare la persona del Papa, di tutelare la religione, il
  cattolicismo, occupa Roma. Menzogna! menzogna! Egli è mosso da
  libidine, da rapina, da sete infame d’impero, egli è il primo che
  alimenta il brigantaggio. Egli si è fatto capo di briganti, di
  assassini.

  Popolo del Vespro, Popolo del 1860, bisogna che Napoleone sgombri
  Roma. Se è necessario, si faccia un nuovo Vespro.»

All’inattesa folgore gli stessi amici impallidirono; giuntane la nuova
a Torino, il Parlamento si commosse; il Ministro Rattazzi, incalzato
d’interpellanze, negò, arruffò, disdisse, deplorò le insensate parole,
censurando apertamente il prefetto Pallavicino d’averle ascoltate senza
protesta; ma poichè il Pallavicino pareva non darsene ancora per inteso
e Garibaldi non udiva intorno a sè che voci di plauso e di consenso,
e vedeva quell’idea di Roma accolta dall’inconsapevole entusiasmo
popolare più ch’egli non avesse sperato, così s’afferra a quella e ne
fa oramai la stella fissa del suo cammino.

Risoltosi infatti a visitare i luoghi della epopea del 1860, tocca
Alcamo, Partinico, percorre, esaltandosi a quei ricordi gloriosi, il
campo di Calatafimi, fa una punta a Corleone, a Sciacca, a Mazzara,
e di là ripiega su Marsala, dove parendogli bello riprendere da
«quella terra di felice augurio il tronco cammino,[215]» annunzia,
più categoricamente che fino allora non avesse fatto, il suo fermo
proposito di marciare all’impresa di Roma, ed apertamente invita i
Siciliani a dar di piglio alle armi ed a seguirlo. E poichè, a quel
bellicoso appello, una voce ignota dalla folla plaudente sclamò: _Roma
o Morte_, «Sì,» ripetè più volte il Generale, «_o Roma o Morte_;» e
questo grido, uscito forse dalle labbra inconscie d’un Picciotto o
d’un pescatore marsalese, diventò da quell’istante, per il fato delle
parole, il segnacolo in vessillo d’una delle avventure più cimentose a
cui mai Garibaldi siasi accinto ed abbia tentato strascinare l’Italia.


XIV.

Da quell’istante Garibaldi non s’arresta più. Appena reduce a Palermo
affretta colla nativa energia, incuriosa de’ particolari, sempre
diretta al fine, gli apparecchi della bandita impresa: manda i suoi
più fidati ufficiali a correre il continente, ad avvertirvi gli amici,
a fare incetta d’armi e di danaro: ad altri commette lo stesso ufficio
nella Capitale: spedisce nei comuni limitrofi il Corrao e il Bentivegna
(compagno il primo di Rosolino Pilo, fratello l’altro dell’infelice
Capo della insurrezione del 1856) a chiamare a raccolta i Picciotti;
e tutti lo ubbidiscono, tutti argomentando dalla palese acquiescenza
del prefetto Pallavicino che si fosse a una ripetizione del sessanta,
e che il Governo tacitamente assentisse, tutti lo secondano e gli
prestano aiuto. Soltanto tre de’ suoi più intimi, tra tanti che
lo circondavano,[216] raccolto tutto il loro coraggio, tentano di
far sentire al Generale consigli di prudenza, dimostrandogli la
impossibilità di transitare armata mano la Sicilia, senza incontrarvi
o prima o poi l’esercito regio, e soggiungendo, allo stremo d’ogni
altro argomento, che se la spedizione di Roma era invariabilmente
deliberata nell’animo suo, fosse il minor dei mali tentarla, come nel
sessanta, per l’ampia via del mare, dove il rischio di esser colati
a fondo sarebbe stato sempre minor danno d’una guerra civile, quasi
inevitabile per terra. E, fosse la bontà dei ragionamenti, fosse
un rimasuglio d’incertezza ancora tenzonante nella sua mente, il
Generale, cosa insolita, consentì ad ascoltare e discutere; cosa poi
veramente straordinaria e quasi unica, parve anche disposto a seguire
il consiglio. Infatti fu notato da chi gli era più vicino che il giorno
dopo egli diede ordine di raccogliere le armi e le munizioni in qualche
casa presso la costa; e spedì il suo segretario Basso a Messina in
cerca di vapori mercantili.

Se non che avendogli taluno de’ più esaltati Siciliani, specie il
Corrao ed il Bentivegna, dato l’annunzio che nel bosco della Ficuzza
erano già raccolte in armi alcune migliaia di Picciotti, e dipinta la
Sicilia tutta pronta a insorgere, il Generale si lasciò trasportare
da quelle novelle, e deliberando piede stante, secondo il suo costume,
all’insaputa della maggior parte de’ suoi amici, seguíto dai pochissimi
che in quel momento gli si trovavan d’attorno, parte per la Ficuzza,
dando la posta colà a quanti volessero raggiungerlo. Allora nuovo e
più strano spettacolo; Palermo brulica d’armi e d’armati, come alla
vigilia d’una campagna; squadre di giovani a piedi, in carrozza, a
cavallo, in completo arnese garibaldino traversano a tutte le ore la
città; un nerbo di loro, in una casetta a poche miglia dalle porte,
piglia le armi e le buffetterie, s’organizza in compagnie e in colonna
al suon delle trombe, sfilando a pochi passi da un battaglione di
truppe regie, mandate non si sapeva se per fiancheggiarli o sbarrar
loro il cammino, s’avvia sicuramente, allegramente al campo designato.
Ora dire o far credere al popolo testimonio di quelle scene che non
fosse negozio inteso; che quelle mostre di proteste e di proibizioni
del Governo fossero altro che commedia, era impossibile. E lo provò
subito il prefetto De Ferrari, mandato a surrogare il Pallavicino, dopo
che questi, più non potendo reggersi nell’equivoca posizione, aveva
rassegnato l’ufficio; lo provò, diciamo, quando essendosi stimato in
dovere di pubblicare un suo manifesto, che il Governo disapprovava
quella mossa ed era deliberato ad impedirla, si vide strappati, tra le
beffe e le minaccie, i suoi bandi e posti in mora tanto egli quanto
il generale Righini, Comandante militare della città, o di venire ad
aperta battaglia per le vie o di starsene inerti.


XV.

La mattina del 1º agosto infatti erano assembrati nei boschi della
Ficuzza circa tremila Volontari; talchè il Generale tutto lieto
esclamò: «Non ne ebbi tanti nel sessanta.» Eppure la qualità n’era
tanto diversa! Quando se ne eccettui il battaglione de’ Palermitani,
eletta della cittadinanza, e con esso una piccola mano di continentali
e poche reliquie di veterani e di patriotti seminati per le file,
il grosso componevasi d’un’accozzaglia di vagabondi e di ragazzacci
razzolati a caso fra quel vario elemento che in Sicilia forma, a
seconda dei tempi, così il ripieno delle squadre patriottiche, come
il fondo delle bande brigantesche, e che diede subito saggio di sè
stessa gridando al Generale per primo saluto: «pane pane....» Pure il
Generale li accolse tripudiando, compiacendosi quasi di que’ cenci e di
quelle faccie con quel sentimento medesimo con cui un altro e ben più
grande entusiasta lungo le rive dei laghi galilei compiacevasi delle
lacere turbe che lo seguivano. Però dopo averli arringati in un suo
Ordine del giorno che cominciava[217] colla formola «Italia e Vittorio
Emanuele, Roma o morte» e finiva colla speranza «di dare, riuniti al
prode esercito, un ultimo saggio del valore italiano,» partisce la sua
gente in tre colonne: una, la più grossa, sotto il suo comando diretto;
l’altra sotto gli ordini del Bentivegna, destinata a percorrere, per
Girgenti, la costa meridionale della Sicilia; la terza guidata da un
Trasselli, diretta per Termini, su Messina; e ciò fatto la mattina
del 2 agosto per Corleone, dove un picchetto della truppa regolare gli
monta la guardia, s’avvia a Mezzojuso.

E colà soltanto gli giunge la nuova che era messo fuori della legge. Il
ministro Rattazzi, veduta l’ostinata impenitenza del Generale, e vani
ormai così i mezzi della persuasione, come quelli della repressione
ordinaria, si scuote alla fine; propone apertamente al Re di porre la
Sicilia in istato d’assedio; manda Commissario a Palermo, con pieni
poteri militari e civili, il generale Cugia, e il Re stesso, sancendo
la proposta de’ suoi Ministri, pubblica un proclama agli Italiani,
nel quale ammonitili «a guardarsi dalle colpevoli impazienze e dalle
improvvide agitazioni,» e assicuratili che «giunta l’ora della grande
opera la voce del loro Re si farà udire,» dichiara «ogni appello
che non sia il suo, appello alla ribellione ed alla guerra civile,»
minaccia del rigor della legge quanti non daranno ascolto alle sue
parole, e chiude solennemente: «Re acclamato dalla nazione, conosco
i miei doveri. Saprò conservare integra la dignità della Corona e del
Parlamento per avere il diritto di chiedere all’Europa intera giustizia
per l’Italia.[218]»

Primi portatori a Mezzojuso di queste novelle, come del bando regale,
furono il duca Della Verdura e il dottor Gaetano La Loggia, vecchi
e cari amici del Generale; ma nè i loro affettuosi consigli, nè la
voce augusta di Vittorio Emanuele, nè la minaccia della legge, nè i
pericoli della guerra civile valsero a smuovere il proposito, ormai
incrollabile, dell’indomito Capitano. E n’adduceva le ragioni, o
quelle almeno che a lui parevano tali: non credere il Ministero giusto
interprete della volontà nazionale; non sgomentarsi, memore d’avervi
felicemente disobbedito altra volta, del divieto regio, probabilmente
imposto da prepotenza straniera o da intrighi diplomatici: l’esercito
poi, lungi dal temerlo nemico, attenderlo aiutatore e alleato, e
in ogni evento lasciassero a lui la cura d’evitarlo; finalmente il
disputare era tardi; l’alea era tratta; egli aveva giurato a Roma
per la vita e per la morte; campione sacro a quella causa, non poteva
retrocedere più.

E non retrocesse; e per venticinque giorni precisi egli proseguì la sua
via con tanta sicurezza e tanta fortuna che gli Italiani non seppero
più se il Governo parlasse per celia o per davvero; se quell’esercito
che lo scontrava ad ogni passo e non l’arrestava mai fosse destinato
ad una indiretta complicità o ad una comparsa teatrale; se infine in
tutto quell’ingarbugliato dramma, che da mesi si svolgeva sotto i loro
occhi, essi fossero giuoco d’un occulto protagonista che dirigesse a
sua posta la macchina, e di cui Garibaldi non fosse, a dir così, che il
confidente e lo stromento.


XVI.

Udito il _Te Deum_ nella chiesa di Mezzojuso (a compiere quella
shakespeariana tragicommedia d’equivoci non mancava più che preti
cattolici in chiesa cattolica benedicessero a Dio per la caduta del
poter temporale), Garibaldi leva il campo il 6, mattina; la sera del
dì medesimo è ad Allia; il 7 a Valledolmo; l’8 a Villalba, dove gli
perviene la notizia che a Santo Stefano la colonna Bentivegna era
venuta alle mani a cagione di due disertori con un battaglione di
regolari che colà presiedeva; ma aveva evitato più sanguinoso conflitto
principalmente per l’ardito e pronto accorrere di Enrico Cairoli, il
quale, cacciatosi fra i combattenti, aveva ottenuto si cessasse dal
sangue fraterno a patto di lasciare i disertori e sgombrare al più
presto la terra.

Ripresa la marcia, traversa il 9 Santa Caterina; il 10, incontrato
dalle Guardie nazionali del paese, accampa a Marianopoli; l’11 entra
in Caltanisetta, d’onde la truppa regia, udito il suo avvicinarsi, si
ritira quasi fuggiasca, a Girgenti, la città gli dà un banchetto in cui
il Prefetto medesimo beve «alla fortuna della sua impresa;» ed egli
saluta Vittorio Emanuele in Campidoglio, e parte regalato d’armi, di
danari, di vesti. L’indomani a Villarosa lo raggiunge, con ottocento
uomini, il Bentivegna; il 14 a Castrogiovanni un barone varesano si
arruola sotto la sua bandiera con una grossa squadra soldata da lui,
talchè, ascesa la colonna a quattromila armati, viene divisa in due
_Legioni romane_, agli ordini, la prima del Menotti, la seconda del
Corrao. A Piazza, a Leonforte, a San Filippo le stesse accoglienze.
A Regalbuto sopraggiungono i deputati Mordini, Fabrizi, Calvino e
Cadolini, venuti di terra ferma per esplorare davvicino il vero stato
delle cose ed a seconda dei casi, o ripregare il Generale a desistere
dall’impresa, o associarvisi. E fu, se ci apponiamo, in que’ dintorni
(non sapremmo tuttavia precisarne il punto) che il Generale stesso
ricevette una lettera dell’ammiraglio Albini,[219] nella quale questi a
nome del Governo proponevagli di trasportarlo su una fregata regia in
quel qualsiasi porto del Regno che meglio gli fosse piaciuto; pronta
la fregata ad attendere i suoi ordini fra Acireale e Catania. Offerta
benigna, ma imprudente, come quella che dava al Generale un pretesto di
più per marciare su Catania, e ch’egli perciò s’affrettò ad accettare.

E così di tappa in tappa era giunto a Centorbi, presso alle rive del
Simeta, dove cominciò a riavere notizie dell’esercito regio, di cui da
ben otto giorni aveva perduto ogni sentore.

Infatti il generale Mella, comandante il presidio di Catania, era
venuto ad appostarsi coll’intera Brigata _Piemonte_ tra Adernò e
Paternò, a cavaliere delle due strade che menano a Catania ed a
Messina, risoluto, a quanto pareva, a sbarrargliene i passi; mentre
il generale Ricotti, spintosi da Girgenti alle spalle della colonna
ribelle, arrivava in que’ medesimi giorni a Castrogiovanni e serrava
sempre più dappresso il retroguardo garibaldino. Per Capitano deciso
a combattere, il cimento sarebbe stato poco temibile; per Capitano
deciso a sfuggire ogni battaglia, il frangente era minaccioso. Però
Garibaldi non pensò altro mezzo per uscirne che affrettare la marcia,
guadar notte tempo il Simeta, traversare a passi celeri e silenziosi
Paternò e deludere così la vigilanza de’ suoi custodi. Ma l’intento
gli fallì: l’avanguardia del Corrao fu indugiata per via; il Simeta
più grosso dell’usato rese difficile il guado; sicchè la colonna non
potè arrivare in faccia a Paternò che a giorno già alto. E siccome a
Paternò stava di guardia un battaglione regolare, il quale, al primo
apparire delle camicie rosse, corse subito a schierarsi in difesa,
così tutti pensarono, i più col cuore serrato, che uno scontro fosse
ormai inevitabile. Ma, il lettore l’ha già compreso, noi viaggiamo
da un pezzo nel mondo ariostesco dei sortilegi e degli incantesimi, e
conviene essere apparecchiati a tutte le sorprese. Garibaldi manda in
cerca del Maggiore Comandante di quel Battaglione, non si può dire se
amico o nemico, e il Maggiore s’affretta all’invito, stavamo per dire
all’ordine, del Generale avversario. Questi a sua volta esce dal suo
campo incontro al Maggiore e sotto gli occhi dei loro soldati, presti
a combattere, si salutano, si stringono la mano ed amichevolmente
conversano.

Quel che siansi detto non si seppe; taluno vide il Generale mostrare al
Maggiore una lettera con un gran suggello rosso;[220] letta la quale
l’ufficiale s’inchinò riverentemente e partì. E non è inverosimile;
probabilmente la lettera era quella medesima che l’ammiraglio Albini
aveva scritto pochi giorni innanzi al Generale, nella quale gli dava
convegno nel porto di Catania; d’onde il consenso del Maggiore regio
a concedere il passo. Certo è che, appena separatisi, i Volontari
poterono mandare i loro furieri a provvedersi di viveri in Paternò; che
il battaglione regio non fece un passo fuori della linea già occupata;
che infine, verso le quattro pomeridiane, dopo almeno sei ore di sosta,
Garibaldi potè levare tranquillamente il campo, e, preso prima per
viottole traverse, poi per vigneti e giardini, girare attorno Paternò
e riescire franco da ogni molestia sulla strada maestra di Catania,
dove, per giunta, un picchetto di Regi, di guardia alla porta, gli
presenta l’armi. E tutto gli sarebbe riuscito ancora più a seconda, se
una parte della legione Corrao, la meno disciplinata tra tutte, o per
capriccio o per errore, non avesse tentato traversare il paese; per il
che i Regi furono costretti a far fronte ed a vietare loro il cammino.
E certo un conflitto ne sarebbe scoppiato, se, altra e più grande
meraviglia di quella favolosa giornata, Garibaldi avvisato del pericolo
non fosse tornato sui suoi passi e non avesse ottenuto sempre da quel
Maggiore, mercè una sua dichiarazione scritta, il libero passo degli
arrestati.[221]

Strana guerra, invero, in cui il Comandante d’una parte stava ai cenni
del Comandante dell’altra: il nemico prestava i viveri al nemico; i
prigionieri erano liberati sulla parola del Capitano avversario; e
coloro che avrebbero dovuto, a rigor de’ termini, passarlo per l’armi,
gliele presentavano.


XVII.

E tuttavia il genio di quella fantastica tregenda non aveva esaurite le
sue gherminelle. Nella sera stessa essendosi il Generale avanzato con
pochi seguaci verso Misterbianco, vede a un tratto illuminato il paese
da una gran luce e pochi istanti dopo una folla festante armata di
fiaccole uscirgli incontro, e annunziatagli Catania già libera di Regi,
sobbarcarsi alla sua carrozza, e per parecchie miglia portarlo, quasi
di peso, come in una sedia gestatoria, nella città.

Tralasciamo le accoglienze, non dissimili, più fervide forse, di quante
n’aveva ricevute fin allora. In Catania non c’è più ombra di governo
regio: governa Garibaldi. Una o due compagnie di linea sono chiuse in
castello quasi prigioniere, e quella volta è Garibaldi che concede la
libertà. Il prefetto Tholosano s’è ritirato a bordo della _Vittorio
Emanuele_, una delle fregate che ancoravano nel porto; e Giovanni
Nicotera, fatto Comandante civile e militare della città, tiene il
suo luogo. E il più notevole si è che non un partito solo coopera
a quella strana rivoluzione, ma la cittadinanza intera. Garibaldi è
ospitato nel _Casino della Società degli Operai_, di cui eran membri
cittadini d’ogni colore politico. Il marchese di Casalotto, deputato
di parte moderata, Comandante in capo della Guardia nazionale, gli
manda una compagnia d’onore; una legione cataniese si recluta fra
l’eletta della città: insomma l’inganno che Garibaldi, se pure discorde
col Governo, agisse in segreto accordo col Re, confermato in quegli
ultimi giorni dalla fiacchezza del generale Mella e dall’inazione
della squadra, continua il suo giuoco e travia tutte le menti. Ed a tal
segno le travia, che sparsasi, il 22 sera, la novella che il Mella ed
il Ricotti marciassero con forze unite e mosse combinate ad assalire
Garibaldi, la città si leva in tumulto; le vie e le porte si coprono di
barricate; gran parte della Guardia nazionale si mette in armi, pronta
a respingere l’assalto; sicchè può dirsi che chi lo teme di più sia lo
stesso Garibaldi.

Fortunatamente, a scongiurare il pauroso evento ed a levarlo
dall’atroce distretta, apparvero in vista del porto due piroscafi,
uno con bandiera francese, l’altro con italiana; laonde Garibaldi, che
dall’alto del Convento dei Benedettini era stato il primo a scoprirli,
«È un’occasione, sclamò, che non bisogna lasciarci sfuggire;» e in men
d’un’ora quelle due navi erano in suo potere.

Ma qui è il tempo di lasciar parlare egli stesso. Nei già noti
_Frammenti a matita_ troviamo di tutto suo pugno la narrazione
d’Aspromonte, e quantunque l’autobiografo sorvoli a non pochi
particolari, e lasci qua e là qualche lacuna;[222] siam certi che
il lettore preferirà sempre queste pagine autografe, scolpite dalla
interna stampa dell’eroe, a qualsiasi più veridico e diligente
racconto.


XVIII.

  «Catania s’era mostrata degna di Palermo e della Sicilia. In
  Catania trovammo un vulcano di patriottismo. — Uomini, denaro,
  vettovaglie e vesti per la nuda mia gente.

  »La Provvidenza c’inviò due vapori ed io, amante del mare,
  dall’alto della torre del Convento dei Benedettini che domina
  Catania salutai la venuta de’ due piroscafi collo sguardo
  appassionato d’un amante. — Uno era italiano, roba nostra — l’altro
  francese.[223](?) — Buonaparte non ci aveva rubato Roma — che
  teneva da tredici anni? — e perchè non potrò io disporre d’un suo
  piccolo legno per una notte? Due fregate italiane custodivano il
  porto e s’accorsero naturalmente dell’intenzione nostra. — Dovendo
  traversar lo Stretto di notte bisognava fare i preparativi di
  giorno. Le fregate vigilavano accuratamente e quasi chiudevano
  l’entrata del porto di Catania. Esse nella notte — o sarebbero
  all’àncora, e in quel caso potevano tenersi molto vicine; ma non
  pronte a proseguirci nella nostra uscita — oppure si terrebbero
  esse sulla macchina — ed allora impossibile di star così vicini
  agli scogli — in una notte oscura — poichè tutto intorno al porto
  di Catania è scoglio e d’una lava che incute timore anche di
  giorno. Di notte quella costa è d’un oscuro — d’un tetro d’inferno.
  Ostile l’esercito che circondava Catania, e che aumentava di numero
  ogni giorno. Ostile la squadra che senza dubbio sarebbe aumentata
  pure. Non v’era miglior espediente che di profittare de’ due
  provvidenziali vapori e tentare il passaggio.

  »Se le fregate crociavano — non potendo esse tenersi vicino agli
  scogli, a noi gli scogli — e stringerli quanto più si poteva.

  »Se le fregate ancoravano sulla bocca del porto — diritto su di
  esse — e passar tanto sotto le loro batterie da non poter colpire —
  con tutta l’inclinazione data ai cannoni.[224] Io avevo calcolato
  dall’alto e l’altezza delle batterie delle fregate e l’altezza
  de’ due piccoli piroscafi — ambi esposti alla mia vista ed a poca
  distanza.

  »Presa cotal risoluzione — io scesi dalla torre del Convento e
  m’incamminai verso il porto per sollecitare l’imbarco ordinato
  da varie ore. Erano tremila e più i miei compagni — che meco
  dovevano traversare il mare — ed appena mille ne poterono ricevere
  i due piroscafi. Quello fu un momento penibile.[225] Nessuno
  voleva rimanere, eppure molti lo dovevano. Vi era un’assoluta
  impossibilità di fare altrimenti.

  »Col cuore lacerato io vidi rimanersi quella cara gioventù, che
  altro non voleva che precipitarsi nella impresa la più ardua e
  la più pericolosa, senza chiedere ove si andava — e qual’era il
  loro guiderdone? Oh! Chi può disperare dell’avvenire d’una patria
  con uomini tali — eppure quegli stessi uomini che si cercò di
  schiacciare, di distruggere — erano poco tempo dopo trascinati
  come malfattori nelle prigioni dello Stato — coi nomi di ribelli,
  briganti e camorristi!

  »I piroscafi che non potevano ricevere più di mille uomini — ne
  ricevettero più di duemila — ma erano stracarichi d’un modo, come
  non ho mai veduto.

  »Chi poteva impedire l’imbarco a quella buona, ma disperata
  gioventù? Non ne entravano più sui bastimenti quando materialmente
  nè un solo vi poteva più mettere il piede, dalla gran calca. Era
  cosa spettacolosa!

  »Così si uscì dal porto di Catania — verso le 10 pomeridiane. Le
  fregate — come avevo previsto — non tenendosi all’àncora, dovevano
  tenersi alquanto scostate — e l’espediente fu allora di costeggiare
  vicinissimo gli scogli al settentrione del porto.

  »Anche questa volta la fortuna marciò colla spedizione dei Liberi
  — e prima di giorno noi toccavamo la sponda meridionale della
  Calabria a pochissima distanza del punto ove sbarcammo nel 60 — ed
  ove rimaneva lo scheletro del _Torino_,[226] che per molto tempo si
  scoprirà ancora, testimonio della rabbia ridicola e sterminatrice
  dei Borboni. Il _Torino_ era uno dei più bei piroscafi che io
  m’avessi veduto. Proprietà nazionale ed individuale italiana —
  quel bel vapore si sarebbe potuto salvare al paese non essendovi nè
  necessità, nè gloria militare nel distruggerlo.

  »Ancora una volta noi salutammo il continente italiano, pieno il
  cuore di speranze e colla mèta di scuotere a libertà gli schiavi
  fratelli di Roma. Ma il continente italiano non rispondeva
  degnamente alla chiamata del risorgimento. Il Moderantismo aveva
  gettato tra le moltitudini la sua ghiacciata parola — e per
  sciagura que’ moderati d’oggi erano i corifei della rivoluzione del
  60 — e quindi possenti ad ingannare i popoli.

  »Lo stesso giorno dello sbarco in Calabria si occupò Melito. Da
  Melito v’erano tre vie da prendere. L’orientale per Gerace — la
  centrale per San Lorenzo ed i Monti — e l’occidentale per Reggio.
  Per Reggio fummo fortunati nel 60 e si scelse quella.

  »Da tutte le notizie raccolte io non dubitava che in quella
  estremità del continente italiano non si facessero quanti
  preparativi si potevano per fermarci — e veramente colla direzione
  su Reggio io avevo poca speranza di penetrarvi.

  »Ciononostante — il fortunato nostro passaggio e la celerità di cui
  erimo capaci — ci mettevano nella possibilità d’entrare in Reggio
  — non avendo potuto ancora i nostri avversarii radunare in quella
  città forza sufficiente per chiudercene l’entrata. Con un colpo
  di mano come quello del 60 — e colla simpatia della popolazione di
  cui non dubitavo noi saressimo entrati in Reggio. Ma molto dubbioso
  era, se potevamo entrare senza combattere e contrariamente al 60
  noi dovevamo evitare i combattimenti.

  »Tali considerazioni mi obbligarono d’accennare a Reggio — ma poi
  deviarci — e presimo a destra nella direzione d’Aspromonte.[227]

  »Il letto del torrente[228] fu la via che si seguitò per
  raggiungere le alture. Ad onta però di celere marcia la
  retroguardia nostra fu attaccata da una compagnia di truppa.[229]
  Io ero già un pezzo sulla montagna quando fui avvertito di tale
  avvenimento — tornai indietro e vidi che tutto era terminato.

  »La strada dei monti che avevamo presa ci faceva evitare i corpi
  di truppa — ma ci lasciava in quasi assoluto difetto di viveri.
  Il primo giorno si passò con alcune pecore comperate dai pastori,
  e che furono insufficienti. Bisognava con tuttociò marciare
  fortemente, sia per trovare de’ viveri — come per oltrepassare
  Reggio ove si sapevano ingrossare ad ogni momento le truppe.

  »Quei due giorni di marcia per i monti[230] furono veramente
  disastrosi. La gente aveva mangiato pochissimo ed alcuni nulla.
  Grande difetto di calzatura, per cui si doveva rallentare la
  marcia. Poi si consideri che la maggior parte de’ giovani che mi
  accompagnavano — oltre all’essere poco assuefatta alla fatica —
  perchè gente agiata — erano giovanissimi — ed io avevo l’anima
  straziata di vederli così in misero stato — trascinarsi piuttosto
  che camminare.

  »Qui mi accade ricordarmi di quei bei mobili di preti, che ci
  tolgono quasi assolutamente la gente della campagna. Indi la
  mancanza di gente nerboruta e forte per le marcie — quei miei
  poveri giovani in tutte le epoche hanno fatto marcie forzate e
  non poche — ma sostenuti più dalla forza morale che dalla fisica e
  penetrati dall’indomabile amor di patria.

  »Non è da stupirsi se i sedicenti briganti che con tanta
  ostinazione tengono testa alle nostre truppe regolari nelle
  provincie napoletane hanno potuto sostenersi fin oggi e vi si
  sosterranno forse per un pezzo ancora — se dura loro la protezione
  del Papa e di Buonaparte.

  »Tutti questi briganti sono uomini del campo e della montagna — la
  suola naturale dei loro piedi non si consuma mai. Io ricordo un mio
  compagno di caccia contadino con cui cacciavo sui monti di Nizza
  — che quando entravamo in caccia toglieva le scarpe e le poneva in
  cintura.

  »Con uomini simili si può fare facilmente trenta miglia in una
  notte — sorprendere il nemico, batterlo e dopo d’aver bottinato
  ritirarsi in luoghi sicuri.

  »Senza preti quella gente svelta, coraggiosa, robusta delle
  popolazioni sarebbe con noi, ed agevolerebbe immensamente a
  raggiungere la mèta prefissa dalla nazione italiana.

  »Io marciavo avanti — e — singolare — l’eletta della mia gente,
  in numero di circa cinquecento, marciava meco non solo, ma era
  obbligato di fermarla sovente perchè non passasse avanti, spinta,
  povera gente, anche dalla fame e dalla speranza di trovare più
  avanti qualche cosa da mangiare. Si giunse finalmente alla casetta
  forestale d’Aspromonte ove si credeva trovare alcuni viveri — ma
  nulla — e vi trovammo porte chiuse.

  »Un campo di patate sfamò i primi giunti — che avevano pure avuto
  la previdenza di portare seco loro alcune fascine secche atte ad
  arrostire le patate, ciocchè fu eseguito in un momento. Per parte
  mia mangiai quelle patate arrostite deliziosamente.[231]

  »Il 28 agosto, credo, giunsimo in Aspromonte in numero di circa
  cinquecento, ed accampammo intorno alla casetta — io dentro. I miei
  poveri compagni giungevano alla spicciolata in uno stato da far
  pietà — affranti dalla fatica e dalla fame, e sprovvisti la maggior
  parte del necessario vestimento. Così stesso[232] tra quella brava
  gioventù non si sentiva un lamento. Nel decorso della giornata
  giungevano sempre piccoli drappelli de’ nostri — e nello stesso
  tempo viveri che si erano mandati cercare — ed altri che la brava
  popolazione dei paesi circonvicini ci offriva spontaneamente. Così
  passammo quel giorno.

  »Mi pare d’aver detto — che l’ultima marcia alquanto forzata —
  aveva il doppio oggetto di porci presto a settentrione di Reggio
  — e cercare da mangiare. Quest’ultimo motivo mi poneva nel caso
  di sollecitare la marcia — inquieto ed impaziente di trovar
  presto cibo per la gente, quindi immenso allungamento di colonna
  — e certamente la coda rimaneva indietro. In marcia cotale era
  impossibile trovare guide per ogni frazione della colonna. Indi
  deviamenti di direzione. Nella notte poi la scabrosità dei sentieri
  di montagna ed oscurità de’ boschi. Poi molti, dalle informazioni
  prese conoscevano ch’io non seguivo sulle traccie de’ paesi, ma
  bensì verso un campo situato al limitare d’una foresta, e prendendo
  consiglio dalla fame si dirigevano di preferenza verso i paesi ove
  si presentasse loro più probabilità di trovare de’ viveri.

  »Tali e tanti motivi fecero sì che alla fine del giorno 28 ci
  mancarono ancora più di cinquecento dei nostri. La maggior parte
  di quei nostri mancanti caddero in potere della truppa che si
  avvicinava ad Aspromonte — e gli altri che rimasero liberi si
  traviavano per non essere colti dalla truppa a Santo Stefano alcune
  miglia distante e seppero quasi subito ch’essa s’incamminava per
  Aspromonte.[233] Feci subito toccare a riunione e marciare verso
  una posizione più conveniente ch’io già aveva riconosciuta. La
  posizione era magnifica — e se avessimo dovuto combattere de’
  nemici anche in numero doppio di quanto era la truppa italiana io
  non dubitavo della vittoria.

  »E qui commisi un errore che per deferenza non è citato da nessuno
  di quanti scrissero sul fatto doloroso d’Aspromonte; ma che in
  ossequio della verità io devo confessare. Non volendo combattere —
  perchè aspettare la truppa? Avrebbe dovuto il capo che la comandava
  mandarmi un parlamentario prima d’attaccare? Ma non dovevo io
  supporre che finalmente si voleva rompere, e che _un po’ di sangue
  fraterno non farebbe male_, e che per non dar tempo ai soldati di
  riconoscere chi avevano in fronte si farebbero cominciare il fuoco
  da lontano e subito giunti al passo di trotto — come fecero.

  »Io dovevo supporre tutto questo e non lo feci. Io dovevo marciare
  prima dell’arrivo della truppa — lo potevo e non lo feci.

  »Avrei molti motivi da anteporre[234] a mio favore: per esempio
  — la distribuzione dei viveri ch’erano giunti, e che stavano per
  giungere. Veramente mentre io vedeva giù la truppa avanzare alla
  nostra volta, delle file di donne e d’uomini si scorgevano in
  lontananza carichi di provvigioni per noi.

  »Non è questo sufficiente motivo perchè la gente qualche cosa
  aveva mangiato — e si poteva fare almeno una piccola marcia sino
  a Santa Eufemia — distante due ore — ed ove la popolazione con
  varie deputazioni mi aveva caldamente invitato. Oppure marciare
  io, con parte della gente a Santa Eufemia, e mandare il generale
  Corrao in altra direzione. Avrei potuto ancora frazionare di più
  la gente. Tutte queste misure che potevano almeno momentaneamente
  allontanare la catastrofe io avevo nella mente di eseguire, ma ciò
  doveva essere eseguito colla celerità che mi aveva servito in tante
  occasioni. E non lo feci.

  »Un altro motivo era quello di aspettare la gente nostra che
  marciava ancora, e che poteva giungere da un momento all’altro.
  Motivo anche questo insufficiente poichè chi non s’era riunito a
  quell’ora, o aveva poca voglia di riunirsi, od era stato arrestato
  — od era traviato, e si sarebbe riunito in altri luoghi.

  »Infine un po’ d’irresoluzione da parte mia — posso dire insolita
  — fu per gran parte colpa di quanto avvenne. Ora devo confessare
  che quando vidi la forza (e certo nessuno la scoprì prima di
  me) alla distanza di circa tre miglia che marciava su di noi con
  sollecitudine, non mi passò nemmeno per idea la ritirata — quando
  fosse stata quella forza doppia di quello che era.

  »Solamente ordinai al Capo di Stato Maggiore di rettificare
  la linea occupata dai nostri — e prendere alcune convenienti
  posizioni. La foresta d’Aspromonte formava nella posizione in
  cui ci trovammo un contrafforte di piante che s’avanzava verso
  la pianura. A ponente del contrafforte il bosco si limitava, in
  linea retta scendendo dal monte, verso la pianura, ed al di fuori
  del bosco verso ponente pure, il colle era privo d’alte piante e
  ricoperto di felce — formando un piano interrotto e convesso che
  terminava alla nostra destra nella pianura ed al fronte nostro nel
  letto di un torrente.

  »Io avevo fatto formare la nostra linea sull’alto del bosco, la
  sinistra al Monte ove mi collocai io stesso per esser la parte più
  alta ed ove appoggiavano la loro sinistra alcuni dei battaglioni
  del corpo di Menotti.

  »Menotti essendo alla destra del suo corpo si trovava al centro.

  »La destra comandata dal generale Corrao si stendeva oltre
  l’estremità.

  »Avevo ordinato che si schierassero alcune catene al fronte della
  linea, e che il resto fosse tenuto in colonna nei vuoti che si
  trovavano nella linea del bosco. Due compagnie furono staccate a
  crocchietto[235] sulla nostra sinistra formando una perpendicolare
  colla nostra linea e colla direzione del torrente che dominavano.
  Una terza compagnia fu inviata pure sulla nostra sinistra ad
  occupare un’eminenza che dominava tutta la linea — ed ove si temeva
  che verrebbero a comparire alcune compagnie di bersaglieri — che
  staccati dalla truppa minacciavano di fiancheggiarci.

  »Ho già detto: che alla vista della truppa non mi sarei ritirato
  ancorchè avessi saputo che ci succederebbe peggio di quanto ci
  successe.

  »Avevo commesso l’errore di non marciare appena scoperta la truppa
  — non dovevo più marciare alla vista di essa. Ciò sarebbe stata una
  fuga — e poca voglia v’era di fuggire.

  »Dimodochè noi contemplammo tranquillamente il celere avvicinarsi
  de’ soldati italiani — i quali giunsero al passo di trotto
  sulla collina che fronteggiava la nostra al di là del torrente —
  stendersi in linea e cominciare un fuoco d’inferno. Fu cosa d’un
  momento. Io passeggiavo al fronte delle nostre catene — e certo
  addolorato dalla piega che prendevano le cose — massime che udivo
  sulla destra — essere stato risposto continuatamente alle fucilate
  degli assalitori — continuavo colla raccomandazione di non far
  fuoco — ed i miei aiutanti percorrendo la linea raccomandavano
  lo stesso — ed ordinavo alle trombe di comandare il _cessare il
  fuoco_.

  »Io fui ferito al principio della fucilata — ed accompagnato
  all’orlo del bosco — ove fui obbligato di sedermi — rimasi quasi
  nell’impossibilità di più poter distinguere ciò che succedeva sulla
  linea. Ove avessimo avuto da fare con dei nemici — la cosa andava
  certo diversamente. Avrei potuto collocare, coperte dalle prime
  piante, le nostre catene dei bersaglieri e con loro potevo rimanere
  io stesso. Lasciare avanzare la truppa al di qua del torrente —
  e dopo d’averla fucilata a bruciapelo — caricarla di fronte — col
  vantaggio dell’altura, e di fianco sulla sua destra spingendovi,
  collo stesso vantaggio, le compagnie che si trovavano a crocchietto
  nella nostra sinistra. Tutto ciò poteva operarsi molto prima
  che le compagnie de’ bersaglieri che marciavano per il bosco per
  fiancheggiarci sulla nostra sinistra potessero comparire e prender
  parte alla pugna.

  »Io non ho mai dubitato che per valorosi che fossero i soldati che
  avevamo di fronte — essi non potevano mancare d’essere sbaragliati.

  »Io ho fatto gli elogi del colonnello Pallavicini — e sono oggi
  della stessa opinione. In primo luogo — noi potevamo cadere in
  peggiori mani. In secondo, egli eseguiva gli ordini che aveva,
  con valore e risoluzione. Ciò nonostante — ripeto — se nemici
  dell’Italia noi avessimo avuto in faccia da combattere — l’Italia
  in quel giorno contava una splendida vittoria di più.

  »Già dissi in un altro luogo che alcuni picciotti dell’ala destra
  avevano risposto al fuoco della truppa. Io ciò aveva veduto nel
  momento in cui fui ferito. Ma ciò che non vidi — e seppi dopo — fu
  che li stessi picciotti e Menotti nel centro — avevano eseguito una
  scarica.[236]

  »È positivo però che da tutte le parti della linea dal centro alla
  sinistra — ove si trovavano in maggioranza i veterani di tutte
  le pugne — dei volontari italiani, e che più immediati erano alla
  posizione da me occupata — nessuno si mosse nè fece fuoco.

  »Seduto — attorniato da’ miei prodi fratelli d’armi — io ebbi
  la prima medicatura al mio piede destro — alla coscia sinistra
  un’altra palla mi aveva contuso, ma fu poca cosa.

  »Frattanto giungevano alcuni della truppa — e tra essi varii di
  coloro che con me avevano servito nei tempi passati — e vidi il
  cordoglio sulla fisonomia di tutti — meno alcuni giovani ufficiali
  dell’esercito — che senza dubbio — nuovi nei combattimenti
  credevano di aver riportato una strepitosa vittoria. Io ebbi ad
  incomodarmi con alcuni di questi pei spropositi loro — ma fu cosa
  di momento.[237]

  »Giungendo la truppa sulla linea nostra — e non sapendo di me —
  molti de’ nostri si ritiravano per il bosco — dimodochè si rimase
  in pochi e ciò accelerò il disarmo della gente.

  »I miei ufficiali di Stato Maggiore col colonnello Pallavicini
  stipulavano alcune condizioni — fatica inutile — poichè fummo
  trattati come prigionieri di guerra — come tali accompagnati a
  Scilla e come tali imbarcati a bordo della fregata il Duca di
  Genova e condotti alla Spezia.

  »Da Aspromonte alla Spezia — io devo ricordare con gratitudine il
  trattamento del colonnello Pallavicini — del maggior Pinelli — del
  comandante, Whright, del _Duca di Genova_ — del colonnello Santa
  Rosa, e del comandante Ansaldi al Varignano — e del capitano di
  Porto, Rossi (uno dei mille), alla Spezia.[238]»


XIX.

La commozione suscitata dall’annuncio d’Aspromonte fa grandissima,
e non in Italia soltanto, ma in quante contrade era giunto il nome
del mondiale condottiero e l’eco della catastrofe. Strano destino di
quest’uomo: egli raccoglieva dalla sua disfatta una mèsse di gloria che
mai sì grande dai trionfi di Palermo e di Napoli! Finchè fu in piedi
col vessillo della rivolta in pugno, egli non era, agli occhi dei più,
che un ribelle dissennato, che pareva lecito anzi doveroso combattere
e schiacciare al più presto; appena fu atterrato, egli diventò a quegli
occhi medesimi il martire d’un’idea, reso dalla sventura inviolabile e
sacro.

Perseguitato, temuto, da molti esecrato fino a ieri come un bandito
pericoloso, oggi è ricerco, glorificato, staremmo per dire, adorato
come un santo. Un incessante pellegrinaggio di devoti assedia il suo
carcere; una gara d’affetti circonda il suo capezzale; un concento
di compianti e di voti vola a lui da ogni angolo della terra, e ne
dice l’apoteosi. E quel che è più meraviglioso, prima in quel torneo
di pietà la fredda, compassata, calcolatrice Inghilterra. A Londra,
a Birmingham, a New-Castle, a Dundey, a Birkenhead i _meetings_ si
succedono ai _meetings_, nè solo per esprimere all’eroe la simpatia
del popolo britannico, ma per protestare insieme contro la Potestà
temporale de’ Papi e l’occupazione francese di Roma. Uno de’ più
celebri chirurghi inglesi parte a pubbliche spese per visitare il
ferito; una colletta popolare d’un _penny_, destinata a costituire
un fondo di soccorso a Garibaldi, raccoglie in pochi giorni 40,000
franchi; i giornali d’ogni parte riboccano di notizie del ferito, di
particolari della sua vita, d’apologie della sua causa; da tutti i
porti del Regno Unito partono per la Spezia lettere, telegrammi, doni,
visitatori e visitatrici; un Comitato permanente di notabili governa
nella metropoli le onoranze a Garibaldi; ad Hyde Park in un _meeting_
di quarantamila persone si combatte tra Irlandesi ed Inglesi pro e
contro Garibaldi, pro e contro il Papa più che non si fosse combattuto
ad Aspromonte; la questione garibaldina par divenuta una questione
inglese.

Diverse di forma, non di sostanza, sono le manifestazioni degli altri
popoli. A Lipsia si getta in oro per sottoscrizione pubblica una
corona d’alloro al Campione della libertà umana; a Stocolma per lo
stesso fine, per il medesimo uomo, si tiene nel palazzo della Borsa un
immenso Comizio popolare; in America rinasce il pensiero di affidare
a Garibaldi il comando dell’esercito federale, e il Console degli
Stati-Uniti a Vienna ha l’incarico di ripetergliene la proposta.[239]
In Francia finalmente, quantunque il regime imperiale non tolleri
manifestazioni politiche, gli operai sottoscrivono indirizzi e mandano
deputazioni; i diari dell’Opposizione esaltano le virtù dell’eroe e
chiedono la sua liberazione; e quel che più sorprende, taluno fra gli
stessi organi napoleonici ne consiglia l’amnistia.[240]

E codesta dell’amnistia era il più intricato de’ problemi che il
prigioniero del Varignano imponesse ai suoi custodi. Che si faceva
di lui? Graziarlo? Processarlo? Condannarlo come un reo volgare e un
ribelle comune? Certo i pareri erano divisi a seconda delle passioni
e delle idee, ma una sovrastava manifestamente a tutte le altre e
veniva sempre più raccogliendo il suffragio degli uomini moderati
di tutte le parti: Garibaldi non si tocca.[241] E i più espliciti in
questa sentenza erano ancora i giornali stranieri. Il _Daily News_,
appena udito il fatto d’Aspromonte, esclamava: «Se Napoleone è stanco
di regnare e di vivere, basta ch’egli tocchi un capello della testa
di Garibaldi;» il _Morning Post_, di tendenze napoleoniche, chiedeva
che «gli fosse permesso di ritirarsi in un paese di sua scelta:»
l’_Opinion Nationale_ più esplicitamente diceva: «Garibaldi infatti non
è un ribelle ordinario. Quand’anche non si voglia tener conto dei suoi
immensi servigi, della sua devozione senza limiti alla causa italiana,
del suo disinteresse assoluto, del suo coraggio, di tutto ciò ch’egli
ha fatto col suo prestigio e colla sua popolarità; è tuttavia permesso
di dire a suo discarico ch’egli colla sua rivolta ha espresso, in un
modo illegale, irregolare, e sia pure inammissibile, il sentimento di
tutta l’Italia.»

Tale non fu in sulle prime il pensiero del Governo. Come non aveva
saputo arrestare a tempo il ribelle, così ora pareva risoluto a tutte
le audacie per annientarlo. Però con infelice consiglio elevava al
grado di generale il Pallavicini, decorava i suoi ufficiali, tollerava
che un Maggiore in Sicilia fucilasse, senza processo, veri e supposti
disertori; inaspriva, coi vani rimbrotti de’ suoi portavoce, la piaga
del ferito, annunziava finalmente il suo proposito di abbandonarlo
al rigor della legge; discuteva soltanto se tradurlo innanzi ad un
Tribunale ordinario o innanzi al Senato convocato in Alta Corte di
giustizia. Di mano in mano però che i fumi della facile vittoria si
dileguavano e i voti della pubblica opinione si facevano più manifesti,
e i pericoli di quello straordinario processo politico più certi,
anche il Governo cominciò a piegare a più miti e prudenti consigli,
fino a che, stimando cessata la causa della severità, e restaurato
l’impero della legge, e domo Garibaldi, e «risorta la fiducia
della Francia,[242]» facendosi interprete del voto del Parlamento,
sottoponeva alla firma del Re Vittorio Emanuele un decreto d’amnistia,
e, colto il destro delle fauste nozze della principessa Maria Pia col
re di Portogallo, lo promulgava.[243]

Il decreto di amnistia però, aveva fatto grazia a Garibaldi della
libertà, non del suo piede. La palla d’Aspromonte era certamente
annidata nella profondità dell’arto, ma non era stato finora possibile
ai più valenti chirurghi d’Italia e d’Europa[244] il determinarne la
posizione precisa. Da ciò la gravità sempre pericolosa della ferita; da
ciò una tortura quotidiana di specillazioni, di tagli, di esplorazioni,
che il martoriato sapeva sopportare con spartana fortezza, ingannando
quelle lunghe giornate di decubito e di inerzia colla lettura di
pochi libri e la scrittura de’ suoi ricordi; sorridendo e conversando
placidamente sotto il bisturi e lo specillo; tollerando con serena
cortesia il fastidio delle interminabili visite, più tormentose,
sovente, della sua piaga; mostrandosi talora più sensibile a un raggio
di sole che scherzasse per la sua camera, o ad un alitar di brezza
marina che gli carezzasse la fronte, che a tutti gli strazi della mano
chirurgica, ed esclamando un giorno, durante una di quelle dolorose
medicazioni, che facevano impallidire i suoi infermieri: «Che magnifica
bonaccia![245]»

Finalmente però, mercè lo specillo del dottor Nélaton (dotato della
proprietà di tingersi in nero al contatto del metallo), l’ubicazione
della palla potè con sicurezza essere accertata (stava incuneata a
quattro centimetri e mezzo, sotto l’estremità inferiore della tibia),
e la mattina del 22 novembre, senza sforzo, senza lacerazioni, senza
grave dolore dell’infermo, l’esperto dottor Ferdinando Zannetti riuscì
ad estrarla.

Ed era questo, dopo ottantasei giorni di cura incerta e
temporeggiatrice, la prima vittoria certa, condizione indispensabile
della guarigione; ma la guarigione appariva tuttora assai lontana.
Prima che l’opera restauratrice della natura sia compiuta, che la piaga
sia rimarginata, che il malato abbia ricuperate le sue forze, molti
mesi dovranno trascorrere, ed anche quando i medici lo licenzieranno
per il ritorno a Caprera, non potranno tacergli il pronostico che egli
rimarrà zoppo per tutta la vita. S’ingannerebbe però chi, giudicando
dalle sole apparenze, conchiudesse che l’unico frutto raccolto da
Garibaldi sulla vetta di Aspromonte, sia stato un piede di meno e
un disinganno di più! Si torni al finire del 1862, si paragoni, in
quell’anno, Garibaldi che si trascina sulle gruccie pei greppi di
Caprera, al Papato che troneggia e minaccia da Roma, e si dica quale
dei due fosse allora più ferito e più zoppicante! La palla del 29
agosto 1862 abbattè il corpo del temuto Capitano, ma l’idea animatrice
del suo pensiero percorse in quell’ora un cammino che forse la più
splendida sua vittoria non avrebbe potuto. Aspromonte non soccorse
alla soluzione della questione romana che in un modo indiretto, ma pur
decisivo; la liberò dalle ambagi della diplomazia e la ripropose, in
tutta la sua fiera nudità, al tribunale delle nazioni civili. Il _Roma
o morte_ di Garibaldi aveva detto al mondo che la Penisola non avrebbe
posa, nè la rivoluzione tregua, nè l’Europa pace, finchè la mostruosa
lega dei due Reggimenti non fosse spezzata, e Roma rivendicata alla
sua terza gloria di capitale d’Italia; e non vi sarà oramai prepotenza
principesca o astuzia clericale, che possa sfuggire all’implacabile
dilemma.




CAPITOLO DECIMOPRIMO.

DA LONDRA A BEZZECCA. [1863-66.]


I.

Garibaldi è a Caprera e la sua ferita rimargina con lentezza, ma
con regolarità; il piede imbustato in un apparecchio inamidato va
acquistando ogni giorno elasticità e vigoria; non può abbandonarsi
ancora con grande confidenza all’appoggio delle gruccie, sicchè quando
esce per l’Isola è costretto a farsi trascinare in un carrozzino a
seggiola, dono ed industria elegante d’Inglesi; ciò malgrado, i medici
son persuasi che la guarigione non sia più che una questione di tempo e
che di tutto il danno temuto non resterà più che una zoppicatura appena
sensibile.[246]

Pure mai forse come in quell’anno egli sentì il cruccio dell’impotenza
e il tedio dell’inerzia. La Polonia era novamente insorta: spinta alla
disperazione dall’ukase che le strappava in una notte il fiore dei
suoi figli[247] per mandarli sotto l’assisa del pretoriano moscovita
a servire tra le rupi del Caucaso, o le nevi della Siberia, dava di
piglio alle sue lancie, si inselvava ne’ suoi boschi, e ricominciava
per la quarta volta, contro il suo colossale oppressore, uno di quei
duelli ineguali a cui la vecchia Europa da oltre ottant’anni assisteva,
le braccia al sen conserte, incoraggiando la indomita combattente
de’ suoi applausi sentimentali e de’ suoi petrarcheschi conforti per
abbandonarla poi sempre a nuovo e più crudo martirio.

Però con qual cuore udisse l’infermo di Caprera i primi annunzi
dell’eroica lotta l’immagini chi lo conobbe. Egli avrebbe voluto
accorrere, volare, ritentare sulle rive della Vistola le disperate
prove da lui compiute nelle campagne dell’Uruguay e della Sicilia,
pagare almeno col sangue suo il debito di gratitudine che l’Italia
doveva ai tanti Polacchi morti per lei; ma il leone è confitto alla
sua rupe; l’eroe non è più che un apostolo inerme ed impotente, che
può ancora dare i suoi figli, spronare i suoi amici, fustigare se non
scuotere, con infiammati appelli e acerbe rampogne, l’infingarda apatia
dei popoli e de’ governi; ma il soccorso vero, poderoso, efficace, il
soccorso del suo braccio di soldato e della sua esperienza di capitano,
egli non può darlo più: Aspromonte l’ha rapito alla Polonia.

Intanto, null’altro potendo, parlava e scriveva. A Mariano Langievicz,
Dittatore degli insorti, scriveva: «Che Dio vi benedica: tutti saremo
con voi e presto;[248]» ai popoli dell’Europa gridava: «Non abbandonate
la Polonia;[249]» al popolo inglese soggiungeva: «Volgiti all’Oriente,
o generoso; là si dibatte in un lago di sangue sotto il _knout_
sterminatore lo schiavo bianco.... Britanno, chiama a te i popoli ed i
popoli ti seguiranno.[250]» All’Emigrazione polacca rispondeva: «Voi mi
chiedete una parola, ed io vorrei porgevi dei fatti:[251]» all’esercito
russo finalmente, quasi glossando un enfatico manifesto che poco prima
Vittor Hugo gli aveva diretto, pregava a «considerare i Polacchi come
fratelli ed a meritare le benedizioni della specie umana, stringendo la
mano alla più sventurata ed alla più degna delle nazioni.[252]» Ma eran
parole; più sincere e generose per fermo di quelle che a quei medesimi
giorni schiamazzavano nelle concioni de’ tribuni, cinguettavano nelle
pagine delle gazzette, o arzigogolavano nelle note delle Cancellerie
diplomatiche, ma ne’ loro effetti poco dissimili; parole anzi non bene
accette a quei medesimi pei quali erano profferite, perchè il Governo
insurrezionale di Varsavia, timoroso che l’intervento di Garibaldi
potesse imprimere al moto polacco un carattere troppo rivoluzionario
e alienargli per tal modo lo sperato favore delle Potenze europee
(dell’Austria principalmente, che in sulle prime era parsa secondare
sottomano gli insorti), faceva intendere al famoso Capitano[253] che la
Polonia eragli grata della sua magnanima offerta e contava sul di lui
morale patrocinio, ma che per il momento non reputava opportuno che la
sua persona apparisse sul teatro della lotta.

Ed anche in Italia la causa polacca raccoglieva aiuto più d’orazioni
che d’opere. E non parliamo del Governo costretto dalla condotta
incerta degli Stati occidentali e più dalla posizione ambigua presa
dall’Austria ad una grande circospezione; ma nella stessa democrazia,
fra i più devoti commilitoni di Garibaldi, gli animi erano perplessi
e i pareri divisi. Perocchè se tutti consentivano nella santità della
causa e nel debito di aiutarla, i più non ne vedevano nè il mezzo
nè la via; e pochissimi soltanto, primo fra tutti l’anima eroica ed
impaziente di martirio di Francesco Nullo, cui attendeva la bella
morte dei prodi sugli argini di Olkutz, pochissimi erano quelli
che si mostrassero deliberati ad ogni sbaraglio.[254] Tuttavia un
Comitato erasi costituito in Genova sotto la direzione di Clemente
Corte che andava un po’ a stento, per ver dire, accattando armi e
danari, soccorrendo gli esuli polacchi che volevan rimpatriare e
apparecchiandosi alla meglio all’eventualità d’una spedizione. E non
andò molto infatti che parve offrirsene l’opportunità.

In sul finire di maggio due emissari polacchi[255] erano arrivati a
Caprera apportatori di questo audacissimo progetto: attaccare la Russia
anche da mezzogiorno; raccogliere in Costantinopoli quante armi e
volontari fosse possibile; sommovere la Rumenia, rovesciar coll’aiuto
del partito nazionale, capitanato dal Rossetti e dal Bratiano, il
principe Couza; e fatto base del Principato, penetrare, con legioni
miste d’italiani e Polacchi, guidati da Menotti, in Bessarabia, e di là
per la Podolia e la Gallizia dar la mano agli insorti del centro.

Non ci arrestiamo a discutere l’attuabilità di siffatto progetto;
eran progetti di esuli disperati e basta: aggiungiamo questo solo:
che Garibaldi diè il consenso; che Menotti[256] partiva pochi giorni
dopo da Caprera con un piroscafo che nascondeva nella sua stiva
tutto il piccolo arsenale dell’Isola, compresovi un cannoncino; che
a Genova il Comitato per la Polonia, presieduto dal Corte, accettò
l’idea, soltanto fece intendere così al Generale come ai Polacchi che
trattandosi d’impresa sì fortunosa nella quale andava avventurata non
solo la vita di tanti giovani, e le poche sostanze del Comitato, ma il
credito della stessa democrazia italiana e del loro capo, era per lo
meno prudente inviar qualcuno a Costantinopoli ed a Bukarest affine di
scandagliare il terreno, esaminare fino a qual punto il disegno fosse
effettuabile, prendere gli accordi coi Comitati polacchi esistenti colà
e rapportare ogni cosa agli amici d’Italia. E ciò convenuto, Giacinto
Bruzzesi e Giuseppe Guerzoni, scelti di comune accordo a quell’ufficio,
s’imbarcarono per l’Oriente. Se non che poche settimane di dimora a
Costantinopoli, una visita fatta dal Bruzzesi a Bukarest bastarono ai
due esploratori per conoscere tutto il vero. In primo luogo il Governo
turco poteva fino a un certo segno chiudere un occhio sui disegni della
Emigrazione polacca, ma protestavasi fermamente risoluto ad impedire
qualsiasi accolta d’armi e d’armati sul suo territorio; in secondo
quantunque il trono del principe Couza apparisse assai vacillante, nè
il Rossetti nè i suoi amici stimavano giunta l’ora di dargli l’ultimo
crollo, tanto meno arrischiando la patria loro in una avventura il cui
primo frutto sarebbe stato di inimicare alla causa dell’indipendenza
rumena la potente Russia, sua naturale tutrice; finalmente v’era bensì
a Costantinopoli un manipolo di Polacchi deliberati a tentare, non
foss’altro perchè l’avevano promesso, la impresa, ma per l’esiguità
del numero e la povertà dei mezzi sfiduciati essi pei primi di
poterla condurre a compimento. E tanto è vero che in sul cominciare di
luglio essendosi un centinaio di loro raccolti ne’ dintorni di Galatz
furono dal Governo di Bukarest immediatamente perseguiti, e prima che
riuscissero a varcare il Pruth, disciolti e disarmati. Però riportate
queste notizie a Genova, l’impossibilità della divisata impresa apparve
a’ suoi più accesi zelatori evidente, e Garibaldi pel primo si rassegnò
a rinunciarvi.

Quasi contemporaneamente anche la insurrezione polacca, stremata
da oltre un anno di lotta disperata, mandava gli ultimi aneliti.
Sempre cullata dalla speranza che la platonica tenerezza e la verbosa
commiserazione delle Potenze occidentali si convertissero finalmente
in aiuti efficaci d’opere e d’armi; sempre credente alla voce de’ suoi
esuli che, illusi a lor volta dalle lunghe promesse de’ capitani veri o
presunti della rivoluzione europea, le facevan balenare ad ogni giro di
luna il miraggio d’una spedizione, d’uno sbarco, d’una crociata;[257]
oggi confortata dall’aspettazione d’un congresso europeo, domani
rianimata dal sogno d’una insurrezione rumena o galliziana, o d’una
ripresa della quistione d’Oriente; la grande martire riusciva bensì a
protrarre per tutto l’inverno del 1864 la sua prodigiosa agonia, ma
ahimè! senz’altro frutto che di veder ingrandire giorno per giorno
la già immane ecatombe de’ suoi figli, e rinnovare sulla pietra
risuggellata del suo sepolcro la funebre epigrafe del primo suo
campione: _Finis Poloniæ_.


II.

Ed eccoci a quel viaggio d’Inghilterra che per il modo onde fu
avviato e condotto, il clamore che menò, gli spettacoli che offerse,
i sentimenti che suscitò, i commenti a cui porse occasione divenne non
per Garibaldi e l’Italia soltanto, ma per buona parte d’Europa, un vero
avvenimento.

L’idea di veder Garibaldi nel loro paese non era nuova nei cervelli
inglesi, e fin dal 1862, e prima e dopo Aspromonte, a voce e per
iscritto, vecchi e novelli amici gliene avevan più volte ripetuto
l’invito. Il Generale però, pur protestandosi desiderosissimo di
ringraziare in persona il popolo inglese per il grande patrocinio
prestato in ogni tempo alla causa italiana, s’era sempre schermito
dal prendere alcun impegno definitivo. E ciò non tanto per l’argomento
della sua infermità, divenuto dopo Aspromonte, achilleo davvero, quanto
perchè non si sentiva in fondo all’animo abbastanza tranquillo circa
all’opportunità di quel viaggio che poteva vestire le apparenze d’una
vanitosa questua d’onori, e risolversi, anche contro sua volontà, nel
clamore d’un trionfo senza alcun beneficio per l’Italia.

Tuttavia, quando in sul finire del 1863 corse la notizia che il
Generale poteva coll’appoggio d’un tenue bastoncello passeggiare
francamente per l’Isola e che perciò quell’impedimento della salute,
l’unico riconosciuto dagli Inglesi, era cessato; i fautori del viaggio
gli furono novamente addosso con tanta concordia e tanta insistenza che
non gli fu più possibile pagarli di risposte evasive, e gli convenne
prendere un partito.

Nè si creda, come a taluno parve, che quei promotori o fautori fossero
pochi ed oscuri. V’erano persone di tutti i ceti e di tutte le parti,
_Whigs_ e _Tories_, nobili e popolani, commercianti ed avvocati,
segretari di Stato e membri del Parlamento, lordi scritti da secoli
nel _peerage_ e dame accolte ne’ penetrali più rigidi della società
inglese; v’era tutto ciò che in un paese di libertà e di discussione
forma, illumina e dirige l’opinione pubblica, se pure in quel caso
l’opinione pubblica non era anticipatamente formata dal consenso
istintivo del popolo intero.[258] Nè si vuol dire che queste persone
fossero mosse da un solo pensiero; come suole accadere, i motivi
personali si frammischiavano anche allora ai pubblici, ed è assai
probabile che i sentimenti di simpatia all’Italia e d’ammirazione
pel suo eroe non fossero le sole molle eccitatrici di tutto
quell’entusiasmo. Così, a mo’ d’esempio, mentre i _Whigs_ caldeggiavano
il viaggio, perchè vi scorgevano un mezzo di accrescere la popolarità
del Governo; i _Tories_ lo favorivano per il motivo precisamente
opposto, che il Ministero vi avrebbe trovato una certa cagione di
triboli e di guai: così intanto che i radicali, i socialisti, i
rivoluzionari, gli agitatori e i congiurati di tutte le cause e di
tutte le patrie, di cui la metropoli era il grande asilo, sollecitavan
la venuta di Garibaldi più per la speranza di farne uno strumento delle
loro idee e un vessillifero delle loro imprese che per il desiderio di
festeggiare la sua persona e rendere omaggio alle sue virtù, il popolo,
scevro di secondi fini, lo desiderava ed aspettava ansiosamente solo
per mirare in lui uno dei più nobili frutti del suo sangue; povero,
semplice, ingenuo, figlio delle sue opere come lui: il marinaio
divenuto redentore di popoli, e creatore di re.

Un dubbio solo restava a chiarire: fino a qual punto il Governo,
rappresentato a que’ giorni dal Gabinetto Palmerston, gradisse
quel viaggio e fosse disposto a favorirlo. Lord Palmerston infatti,
richiesto a nome del Comitato per il ricevimento di Garibaldi (poichè
un Comitato s’era già formato e lo presiedeva quello stesso signor
Richardson che aveva istituito il Comitato per le manifestazioni
garibaldine ai giorni d’Aspromonte), aveva manifestato intorno a quel
disegno un aperto scontento, non già perchè fosse o amasse apparire
freddo ammiratore del Generale, del quale pensava «che non avrebbe
mosso un dito per recar disturbi all’Inghilterra;[259]» ma perchè
non sapeva fino a qual segno l’agitazione popolare suscitata dalla
sua venuta potesse trascorrere, nè in qual modo un’accoglienza anche
semiufficiale potesse essere interpretata dai potentati, specie da
Napoleone III, del quale, ardendo la contesa dano-germanica, apprezzava
più che mai l’amicizia. Però resistette, traccheggiò, chiese proroghe,
suscitò inciampi; e sol quando i membri del Comitato per il ricevimento
gli fecero intendere che Garibaldi sarebbe venuto anche contro il suo
consenso, mutò tattica e volse tutto il suo ingegno a fare in guisa
che l’avvenimento ormai inevitabile gli tornasse più innocuo o meno
pericoloso.

Fra i più entusiasti di quel viaggio v’erano certi signori Chambers
di Liverpool, marito e moglie, entrambi devoti al Generale e per le
cure prodigategli durante la sua infermità al Varignano ed a Pisa a
lui singolarmente cari: egli, il marito, rispettabile _tory_, maggiore
della milizia e colonnello dei _Rifles Volunteers_ della sua contea,
ma per l’indole flemmatica e aliena dalle brighe pubbliche assai più
inclinato a secondare le voglie della moglie che a dirigerle; ella
donna di scarse attrattive femminili, ma dotata in cambio di tutta la
energia che mancava al marito, invasata da quello ardore d’apostolato
che in molte donne della sua razza fa singolar contrasto collo
spirito di famiglia e il culto della _home_, e che essendosi fitta
in capo di condurre il Generale in Inghilterra s’era fatta oramai di
quest’impresa, lo scopo supremo della sua volontà tenace e della sua
febbrile operosità.

Ora, come tutto ciò era noto in Inghilterra, ad essi principalmente il
Comitato del ricevimento affidò il mandato di riannodare la pratica
del viaggio e di concertare tutto quanto fosse necessario alla sua
effettuazione.

Però s’intende che essi, la signora principalmente, non si fecero
pregare; giunsero in sullo scorcio di gennaio a Caprera, vi si
insediarono senza cerimonie e posero tosto il Generale in un vero
stato d’assedio. La signora Chambers non gli lasciava, staremmo per
dire, un istante di tregua; gli entrava in camera, lo seguiva alla
passeggiata, ne interrompeva i lavori, ne turbava le ore a lui più
care della meditazione e della solitudine, e sempre e dappertutto per
parlargli d’un argomento solo: il viaggio d’Inghilterra. Ora gli recava
i giornali che pronosticavano il suo arrivo, ora gli mostrava lettere
di questo o quell’Inglese che l’invitavano al viaggio, ora disputava,
ora pregava, ora per convincerlo dipingeva con enfatici colori le
accoglienze che lo attendevano: le contentezze della nobiltà; le gioie
della _city_; l’entusiasmo del popolo. Il Generale però esitava sempre;
sicchè può affermarsi che poche risoluzioni furono da lui più dibattute
e ponderate di quella. Due dubbi principalmente gli battagliavano
nell’animo e lo tenevano perplesso. Qual era il pensiero del Governo
britannico intorno a quel suo viaggio; quale profitto avrebbe potuto
ritrarne l’Italia? E poichè da un canto le esitanze del Palmerston
duravano sempre, e dall’altro la parola d’ordine mandata alla signora
Chambers era di togliere al viaggio qualsiasi colore politico e molto
più rivoluzionario, così le due principali obbiezioni del Generale
continuarono a restare lungamente intatte e i negoziati a non
progredire d’un passo.

Sui primi di marzo però arrivarono all’infaticabile plenipotenziaria
decisivi soccorsi. Dicemmo che Lord Palmerston, veduta l’impossibilità
di scongiurare un avvenimento che ormai l’Inghilterra tutta voleva,
aveva da quell’accorto uomo che era finito coll’acconciarvisi,
riserbandosi soltanto di studiare co’ suoi amici il modo onde
cansarne o almeno scemarne i probabili pericoli e i certi fastidi.
E il modo fu ben presto trovato. Anzitutto per levare viemeglio dal
viaggio ogni ombra d’intento politico si doveva propalare la voce, e
non mancavano giornali all’uopo,[260] che il Generale, non per anco
ristabilito dalla sua ferita, venisse solo in Inghilterra per cercare,
in un clima diverso, un ristoro alla sua malferma salute; poscia
importava fare in guisa che il Generale appena messo piede sul suolo
britannico fosse circondato da tali persone e cadesse in tali mani che
gl’impedissero, senza parere, qualsiasi scarto e, assopendolo tra le
carezze e cingendolo di catene di rose, lo tenessero, a sua insaputa,
prigioniero. Così fermato il disegno, l’esecuzione fu un portento
di abilità e di esattezza. Il signor Seely, membro del Parlamento e
insieme del Comitato promotore, cominciò ad accaparrarlo per la sua
villa di Brook-House nell’isola di Wight, dove avrebbe potuto, diceva,
rimettersi dai disagi del viaggio prima d’accingersi alla maggior
fatica dell’ingresso in Londra; ma dove infatti era convenuto dovesse
passare una specie di quarantena, la quale desse modo a’ suoi ospiti
di scrutarne le intenzioni, catechizzarne lo spirito ed apparecchiarne
il contorno. Nello stesso tempo il Duca di Sutherland gli scriveva per
offrirgli la principesca ospitalità del suo palazzo di Stafford-House,
più volte insistendo perchè non gli fosse negato tanto onore. Infine
il signor Thornton Hunt, segretario, o uno dei segretari privati di
Lord Palmerston, parlando in proprio nome, ma lasciando intendere che
era certo d’interpretare i propositi del suo Ministro, toglieva su
di sè di vincere quella che fin allora era stata una delle più forti
obbiezioni del Generale, assicurandolo che il governo della Regina
non poteva nutrire alcun sentimento avverso ad un fatto che non solo
era voluto dalla grande maggioranza del popolo britannico, ma tendeva
ad onorare una delle più schiette personificazioni del patriottismo
e della virtù; certo, soggiungeva, non era quello il caso di parlare
di accoglienze ufficiali; ma qualora tanto il Generale quanto i suoi
amici si fossero studiati a spogliare la visita desiderata da ogni
carattere politico, impedendo sopratutto che potesse mai degenerare
in pretesto di agitazioni e di tumulti, egli, il signor Hunt, poteva
quasi star mallevadore che così Lord Palmerston come i suoi colleghi
sarebbero stati lietissimi d’incontrare dove che sia l’ospite onorato
dall’Inghilterra, e associarsi come cittadini inglesi al meritato onore
che la loro patria gli tributava.[261]

Al ricevere di questi iterati inviti, alla lettura di queste lettere,
il Generale si diede per vinto; e non già perchè le offerte del signor
Seely, o del Duca di Sutherland lo avessero sedotto o le dichiarazioni
del segretario Hunt appagato: ma perchè dopo due anni di negoziati, di
dispute, di lotte, egli pure era all’estremo delle sue forze; perchè
una volta assicurato che al desiderio del popolo inglese s’associava
il consenso del suo Governo, non avrebbe più potuto senza taccia di
selvatichezza rispondere a tanta cortesia con un rifiuto; perchè se
anco gli fosse impedito di bandire ai quattro venti quale fosse il
vero ed ultimo scopo della sua visita e quali aiuti sperasse ritrarre a
profitto della sua Italia, si lusingava tuttavia che non gli sarebbe o
prima o poi mancata l’occasione di farlo intendere in segreto; perchè
infine se non poteva propriamente definire in che quell’ultimo scopo
avesse a consistere ed a quale impresa quegli aiuti dovessero servire,
sperava sempre che da cosa nascesse cosa, e che in ogni caso le
circostanze l’avrebbero ispirato e la fortuna come sempre soccorso.

Ed è questo un punto che nella storia di quest’episodio non va
dimenticato. Garibaldi non aveva intorno al suo viaggio in Inghilterra
alcun fermo e chiaro concetto: avrebbe voluto che non isterilisse
in una vana mostra; ma in qual modo renderlo fecondo, egli pel primo
sarebbe stato incapace ad affermare. Più volte infatti, interrogato
da chi l’attorniava,[262] che cosa si farebbe in Inghilterra? dava
risposte diverse e contradittorie: ora accennava in confuso all’idea
di armar in qualche porto inglese uno o più bastimenti per muovere
una disperata guerra di corsari contro l’Austria allora impegnata
nel litigio danese; ora delineava vagamente progetti di spedizioni
in Grecia o in Polonia; ora carezzava il disegno di raccogliere in
Inghilterra denari ed armi per una futura impresa veneta; ed altre
siffatte fantasticaggini. Delle quali fantasticaggini però era utile
toccare per mettere in sodo fin da principio che nessuna libidine di
popolarità, nessuna vanità di pompe e di trionfi spingeva l’eroe a
quel pellegrinaggio; ma soltanto la speranza, vaga, annebbiata, finchè
si voglia, di poter giovare un’altra volta, come si fosse, alla causa
della patria sua, alla causa di tutti i popoli oppressi, per la quale
andava, da circa trent’anni, apostolo armato pel mondo predicando e
combattendo.


III.

Deciso il viaggio, in poche settimane ne furono apprestati i mezzi.
Giusto un accordo preso tra i signori Chambers e il Comitato di Londra,
un bastimento della _Peninsular Oriental Company_ doveva passare a
Caprera per prendere il Generale e tragittarlo a Malta, d’onde un altro
della stessa Compagnia l’avrebbe poi trasportato in Inghilterra.[263] E
così avvenne.

Il 21 aprile la _Valletta_ gettava l’àncora nelle acque della
Maddalena; poche ore dopo il Generale vi s’imbarcava. Lo accompagnavano
il signor Chambers, i figli Menotti e Ricciotti, il dottor Basile,
il signor Sanchez spagnuolo (destinato però a sbarcare a Gibilterra),
Giovanni Basso e Giuseppe Guerzoni. Prima dell’imbrunire il piroscafo
sferrò e nella sera del giorno 22 approdava nel porto della Valletta.
E com’era a prevedersi, non appena corsa la nuova di quell’inaspettato
arrivo, la città fu tutta a rumore; e Garibaldi cominciò tosto a
saggiare le prime delizie di quelle ovazioni di cui tra poco il
popolo inglese lo sazierà. Fortunatamente il _Ripon,_ quel secondo
vapore della _Peninsulare_ che doveva portarlo in Inghilterra,
arrivò; egli potè imbarcarvisi con tutti i suoi, e nella notte
stessa del 23 ripigliare il suo viaggio. Il quale sino alla fine fu
felicissimo, senz’altro di notevole che una fermata a Gibilterra,
dove il Governatore del Capo, appena saputo l’arrivo del Generale,
gli manda incontro ufficiali di terra e di mare, in grande uniforme,
per ossequiarlo in suo nome ed invitarlo a scendere a terra. Ma il
Generale, adducendo che il piroscafo era sulle mosse, si schermì
cortesemente; e infatti prima che il sole di quel medesimo giorno 26
aprile fosse tramontato, il _Ripon_ aveva già varcato lo stretto e dopo
altri sei giorni di prospera navigazione gettava l’àncora nel porto di
Southampton.

Quantunque piovesse a dirotto e fosse domenica, ciò nonostante
un’immensa moltitudine di popolo, alla cui testa primeggiava il
_Mayor_ della città, stava ad attendere fino dalla mattina l’annunziato
visitatore. Le campane suonavano a festa: i bastimenti ancorati nel
porto avevano issato ai più alti pennoni le loro bandiere, e tutta la
città era pavesata dagli intrecciati colori d’Italia e d’Inghilterra.
Gran numero di cittadini erano accorsi da Londra e dalle terre vicine;
e non appena il _Ripon_ apparve all’imboccatura del Solten,[264] il
Duca di Sutherland, il signor Seely, il signor Negretti ed altri
Italiani, sopra un agile vaporetto di rimorchio gli erano mossi
incontro. Pochi istanti dopo il _Ripon_ entrava nel _dock_, e il
Generale montato sul ponte salutò più volte col cappello la folla
aspettante, la quale indovinatolo allo storico suo costume gli rispose
con salve triplicate di fragorosissimi _urrà_. Intanto però che il
_Ripon_ manovrava per accostar lo scalo, il Duca di Sutherland, il
signor Seely, e il signor Negretti montavano al suo bordo, impazienti,
dicevano, di dare il benvenuto al Generale, che doveva essere loro
ospite; in fatto premurosi di dare un principio d’esecuzione al disegno
prestabilito d’isolarlo al più presto da ogni consorzio pericoloso e
impadronirsene. Garibaldi non cercò più che tanto, e deliberato ormai
a non far cosa che potesse sgradire a’ suoi ospiti, e in ogni caso
a cattivarseli e vincerli colla dolcezza e la sottomissione, accettò
senz’altro la graziosa offerta e si preparò a scendere a terra.[265]

Qui però confidiamo che il lettore non ci vorrà muovere rimprovero
se gli risparmiamo un’altra volta la circostanziata narrazione delle
accoglienze. In una storia in cui codesta sorta di trionfi occorre ad
ogni passo e sovente con monotona somiglianza si rinnova, la parsimonia
delle descrizioni ne par quasi un preciso dovere e tanto più in questo
viaggio dove il gigantesco romano trionfo di Londra sta per riassumerli
e vincerli tutti.

Accolto allo scalo dal Lord Mayor; condotto in una carrozza a quattro
cavalli al _Town-Hall_ e quivi convitato dal Mayor stesso a sontuoso
banchetto, ricevute nel corso della giornata innumerevoli visite,
udito al mattino vegnente l’indirizzo del Consiglio di città e
rispostogli in uno stentato e lento, ma chiaro inglese che «la nazione
britanna meritava la riconoscenza degli Italiani,» ricevute poco
dopo le Deputazioni delle città di Bristol e di Newcastle, e d’altre
Corporazioni e Comitati, passò finalmente nelle mani del signor Seely,
il quale, rapitoselo sopra uno degli eleganti vaporetti che fanno il
servizio dell’isola di Wight, se lo trafugò per viottole segrete nel
suo Brook-House,[266] spaziosa e dorata muda, dove il leone prima
di comparire in pubblico dovrà addestrarsi, per alquanti giorni, ad
addolcire la voce ed ammorbidire le ugne.

A Brook-House il Generale doveva restare sinchè i preparativi del
ricevimento di Londra fossero compiuti. Nè egli sembrava premuroso di
abbreviare il termine del suo ritiro. L’ospitalità infatti del signor
e della signora Seely, oltrechè splendida era sì amabile, e il recesso
così ameno, e quel riposo così grato, che ogni uomo anche di gusti
meno semplici e solitari di Garibaldi vi si sarebbe obbliato. Era
però un ozio relativo. Il solo rispondere alle innumerevoli lettere
d’invito, d’offerte, di augurii, di domande di ritratti, d’autografi
e di capelli che da ogni angolo del Regno gli fioccavano, era una
faccenda laboriosissima. Così le visite che era obbligato a fare
nelle principali terre dell’Isola (notevole tra tutte l’accoglienza
di Newport), s’alternavano con quelle che riceveva a Brook-House egli
stesso; e quindi oggi il poeta Tennyson[267] e Lord Shafterbury; domani
il signor Gladstone, Cancelliere dello Scacchiere, e Carlo Blind il
celebre patriota tedesco; posdomani i signori Kinnaird ed Ashley membri
del Parlamento, e Alessandro Herzen, l’ardente agitatore russo: un
altro giorno infine Giuseppe Mazzini in persona, che il Generale stesso
aveva desiderato vedere prima del suo arrivo in Londra, col quale
s’abbracciava affettuosamente e restava in lungo segreto colloquio.

La più geniale però di tutte quelle occupazioni fu la rivista
all’arsenale di Portsmouth. Invitatovi dallo stesso ammiraglio Seymour,
comandante di quella stazione navale, trasportato da Cowes a Portsmouth
sul _yacht_ ammiraglio _Fire Queen_, comandato dal capitano Scott, un
avanzo di Trafalgar; incontrato all’ingresso del porto dalle lancie di
tutti i comandanti della squadra e da grandissima folla di cittadini;
condotto a visitare minutamente ogni punto del grandioso stabilimento e
cantieri, e officine, e scuole di marina, gli è alla fine, sul _Royal
Sovereign_, offerto il grandioso spettacolo di una gara al bersaglio
con cannoni Armstrong di 300 libbre, nuovissimi allora, seguíto tosto
da evoluzioni e manovre a fuoco di tutta la squadra.[268]


IV.

Frattanto il giorno destinato al solenne ingresso in Londra era
giunto, e la mattina dell’11 aprile, giusta il convenuto, Garibaldi
s’imbarca col signor Seely, i signori Chambers, i figli e gli altri
suoi compagni di viaggio per Southampton, d’onde in sul mezzogiorno un
treno apposito, al tuonar del cannone, allo squillar delle campane, lo
trasportava con velocità inglese verso la grande metropoli.

Anche Londra però erasi degnamente preparata a riceverlo. Era stato
stabilito che il Generale smonterebbe alla stazione di _Nine Elms_,
ove sarebbe ricevuto dai membri del Comitato promotore, dai Delegati
degli operai e della Colonia italiana; che fuori della stazione lo
attenderebbero schierate per scortarlo, ciascuna colle sue musiche
e i suoi gonfaloni, le corporazioni principali della città, tra le
altre quelle della _Soutwark Temperance_, dei _Foresters_, degli
_Old Fellows_; dei _Temperance Sons of Phenix_, degli _Old Friends_,
e della _Legione inglese Garibaldi_ nel 1860; che di là monterebbe
nella carrozza a tiro a quattro del Duca di Sutherland e per
Wandsworth Road, Miles, Brough, New Bridge-Street, Upper-Kennington,
Lane, Kennington-Road, Westminster-Bridge-Road, Westminster-Bridge,
Parliament Street, Charing Cross e Pall-Mall, procederebbe,
processionalmente, fino a Stafford-House. Quantunque però fosse stato
annunziato che egli non arriverebbe a Nine Elms se non verso le due
del pomeriggio, tutte le strade d’onde doveva passare brulicavano, fin
dalle prime ore del mattino, d’una folla immensa, multiforme, rumorosa,
che veniva crescendo, ad ogni istante, incalzando, accavallandosi,
allagando le piazze e le vie, stipando i palchi eretti espressamente
lungo il passaggio, rigurgitando dalle finestre, spuntando dagli
abbaini, arrampicandosi sui tetti, penzolando dagli alberi, vivente
oceano di teste che faceva ondeggiare all’occhio, case, monumenti,
torri, ponti, giardini, e pareva quasi subissarli.

Finalmente, poco dopo le due, un lungo fischio e un subitaneo e più
violento mareggiare della folla annunziava che il treno tanto aspettato
entrava in stazione. Garibaldi ne scese tosto, e uditi gl’indirizzi
delle Deputazioni, ricevuti gli omaggi d’un’eletta di spettatori e
spettatrici, raccolta sotto un ricco padiglione, che l’apostrofava
co’ più teneri ed eroici nomi e «Dio vi benedica, benvenuto nel paese
della libertà» e «Benvenuto l’eroe italiano,» riuscì finalmente, non
senza stento per la fitta calca che ne assiepava le porte, a uscir
dalla stazione ed a montare nella carrozza designatagli. E qui accadde
un fatto straordinario, il più straordinario forse fra i mille di
quella giornata. Tutta quella moltitudine che dianzi fiotteggiava
e sordamente mugghiava come un mare gonfiato dai primi soffi della
bufera, all’apparire di Garibaldi sulla carrozza, fosse il pittoresco
ed insolito costume, fosse la nuova meraviglia di quella superba testa
leonina, nella quale la natura pareva essersi compiaciuta a fondere
insieme tutti i tratti della forza e della bellezza; tutta, dicevamo,
quella tempestosa e sterminata moltitudine, s’abbonacciò a un tratto
e per alcuni secondi restò davanti a quella inattesa apparizione,
estatica, muta, quasi pietrificata, come se avesse veduto balzar di
sotterra all’improvviso, il biondo e capelluto fantasma d’uno de’
leggendari eroi d’Engisto e d’Horsa, cari ad Odino ed a Thor. Ma fu,
come dicemmo, un attimo, chè subito dopo, scossa la istantanea malía,
quella stessa moltitudine esalò dall’immane petto tale un ruggito, tale
un iato, non sapremmo dire, se di tripudio, d’ammirazione o d’amore,
da far correre un brivido per le vene ai più, e lasciar a sua volta lo
stesso Garibaldi sbalordito per un istante ed esterrefatto.

Allora cominciò lo sfilare delle corporazioni e delle rappresentanze;
finita la sfilata, il corteo si mosse e si vide un nuovo
spettacolo.[269] Migliaia di braccia s’agitavano; migliaia di
fazzoletti sventolavano; migliaia di cappelli salutavano; migliaia
di mani applaudivano; migliaia e migliaia di bocche gridavano co’
più svariati accenti, co’ più fantastici attributi, un nome solo:
Garibaldi. La processione delle corporazioni che aprivano la marcia,
arrestata a ogni passo dalla piena, avanzava lentamente; ancora più
lentamente la carrozza del Generale. In taluni luoghi la stipa era
tale che la carozza, incastrata entro un serraglio di corpi umani,
non poteva nè avanzare nè retrocedere. E in mezzo a tutto ciò due
meraviglie, una per gl’Inglesi: la serenità olimpica di Garibaldi;
un’altra per il forestiere: l’ordine perfetto, nel disordine immane
di tutta quella folla babilonica, mantenuto da pochi _policemen_
senz’armi. Dire i saluti a cui ha risposto, i baci che ha restituito,
le strette di mano che ha barattate il Generale sarebbe impossibile:
basti che dopo poche ore le sue mani, il suo volto, il suo mantello
erano tutti tigrati di macchie nerastre come fosse uscito appena da
una fucina o da una miniera. A un certo punto, presso Westminster,
una subitanea rotta della fiumana popolare divide il Generale dalle
corporazioni, ond’eccolo tagliato fuori dal suo corteo e prigioniero
d’un popolo nuovo, ma non meno infanatichito, che a somiglianza del
primo lo assale, lo serra, lo pigia, vuol parlargli e farlo parlare; lo
assorda colle sue voci, lo soffoca ne’ suoi amplessi, lo ucciderebbe
fors’anco, se l’opportuno intervenire di due o tre _policemen_ non
lo liberasse a tempo da quelle strette d’amore delirante, e non
aprissero, in quel gigantesco ginepraio di mani e di braccia, un
breve spiraglio per cui potere proseguire. Quando a Dio piacque
infatti il convoglio potè ravviarsi: passò Westminster-Bridge, passò
Trafalgar-Square, dove la base della colonna di Nelson, fitta di
spettatori, sembrava un piedestallo di statue viventi, ed entrò in
Pall-Mall; ma in quel punto, circa le sette e mezzo, l’ultimo raggio
di sole si nascondeva nel lenzuolo di nebbia delle sere britanniche,
e pochi istanti dopo carrozze, bandiere, rappresentanze, spettatori e
Garibaldi non erano più che una torbida fantasmagoria d’ombre confuse
che s’agitavano nella caliginosa opacità della notte imminente. Ma
ciò non ostante il popolo continuava ancora a seguire, a gridare, a
segnare a dito Garibaldi, indovinandolo coll’istinto, salutando il suo
mantello grigio che solo spiccava ancora nelle tenebre. Finalmente
l’architettonica massa di Stafford-House spuntò: la folla raccolta
sullo _square_, tra preghiere, ammonimenti, spinte, fece quel tanto
di largo che permettesse alla carrozza d’entrare la grande cancellata
del palazzo e colà finalmente il Generale potè mettere piede a terra.
Un tappeto di porpora era steso dall’atrio allo scalone, a’ piedi del
quale attendeva con gran corteo di gentiluomini e di dame la bella
Duchessa di Sutherland; Garibaldi s’avanzò verso di lei con passo
lento ma fermo; ne ricevette il benvenuto, ne sfiorò colla sua destra,
affumicata dal contatto di tutto il catrame di Londra, la candida mano,
e lasciando delusa la moltitudine che ancora s’ostinava a volerlo
rivedere, sparì nei penetrali della principesca dimora. Sei ore da
Nine-Elms a Stafford-House; sei ore per cinque miglia: un mezzo milione
di spettatori accalcati sulla via del passaggio; una piena di popolo
quale non vide l’esercito inglese reduce da Crimea, erano le parole che
correvano su tutte le labbra alla fine di quella memorabile giornata e
ne riepilogavano la meraviglia.


V.

All’indomani Garibaldi parve riposato, ma cominciarono allora le sue
dodici fatiche. Come però non è questa una storia aneddotica e il
descriverle tutte, episodio per episodio, particolare per particolare,
richiederebbe, senza iperbole, un volume, così ne restringeremo il
racconto in rapidissimi tocchi.

Il 12 di buon mattino ascolta un indirizzo degli abitanti del quartiere
di San Pancrazio, santo a lui memorabile; visita più tardi a Chiswick
la Duchessa madre di Sutherland; dove incontra Lord Russell, Lord
Granville, il duca e la duchessa d’Argyll, il conte e la contessa di
Clarendon, il signore e la signora Gladstone e durante la colazione la
banda del secondo reggimento delle _Life Guards_ gli suona il suo inno.
Sul pomeriggio altra visita a Lord Palmerston, col quale si trattiene
in segreto oltre un’ora, e la sera banchetto, ricevimenti e discorsi
ancora.

Il 13 mattina rivista all’arsenale di Woolwich, dove impennatisi i
cavalli gli operai dello stabilimento trascinano la sua carrozza a
forza di braccia; nella sera banchetto di quaranta coperti dal duca
di Sutherland, e subito dopo solenne ricevimento, durante il quale
il Generale, seduto sopra una specie di trono nella gran sala degli
Staffords, vede sfilargli davanti la più antica e più pura nobiltà di
Brettagna e di Scozia.

Il 14 mattina udienza alle Deputazioni della città di Manchester;
poco dopo rivista della brigata dei pompieri, di cui è colonnello
il Duca di Sutherland, e la sera comparsa al Covent-Garden dove si
rappresenta la _Norma_ e in suo onore un atto della _Muta di Portici_;
ed egli è letteralmente coperto di fiori dalle più belle mani del Regno
Unito.[270]

Il 15 escursione agricola a Bedford e davanti a nuova moltitudine di
popolo, convenuto da tutte le parti del distretto, esperimenti delle
macchine Howard; alla sera desinare intimo da Antonio Panizzi, il
celebre restauratore del _British Museum_ e vecchio amico suo.

Nella mattina del 16 visita alla birreria Berkley e Perkins; verso
il tocco gran concerto al Palazzo di Cristallo, datogli dagli
Italiani; trentamila spettatori lo accolgono, una Deputazione di suoi
compatriotti gli presenta una bandiera col motto «Roma e Venezia;»
Arditi dirige l’orchestra, e un coro di mille voci gli canta:

    O Garibaldi nostro salvator,
    Te seguiremo al Campo dell’onor.

Dal _Crystal Palace_ passa a Piccadilly[271] dove Lord Palmerston lo
convita a solenne banchetto.

Il 17 è domenica, e come è noto il rigoroso rispetto che gl’Inglesi
professano od ostentano per il giorno festivo, così il russo Alessandro
Herzen riunisce in casa sua a fraterna mensa, fra una scelta d’amici,
Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini.[272]

L’agape però nulla aveva di politico. Certo in quel cenacolo di
apostoli e di soldati di tutte le patrie e di tutte le libertà
un discorso doveva ricorrere e dominare su tutti gli altri; ma
nessuno prestabilito disegno di complotti rivoluzionari, nessun
occulto pensiero presiedeva il nobile simposio. Gli stessi brindisi,
commoventissimi per chi li profferiva come per chi li udiva, non furono
che reciproche testimonianze d’onore e d’affetto, scevri interamente
da ogni ascoso fine politico, se non forse l’altissimo di riaccostare
almeno un istante due grandi spiriti affratellati un giorno dalla
medesima idea, e che non avrebbero potuto passarsi vicini senza
seppellire in un amplesso ogni ricordo della passata discordia. Mazzini
con ispirate parole bevve alla «libertà de’ popoli, all’associazione
de’ popoli, a Garibaldi vivente incarnazione di questa idea, alla
povera, santa Polonia, alla giovine Russia.» Garibaldi con caldo
accento rispose: «Al mio amico e maestro Giuseppe Mazzini;[273] alla
Polonia, alla Russia, all’Inghilterra.» E al toccar de’ bicchieri
una lacrima brillava nell’occhio di tutti i commensali; ed Herzen,
strozzato dall’emozione, non potè pronunciare che poche e rotte parole.

Al lunedì vegnente ricevimento a Stafford-House di privati e di
Deputazioni;[274] visita a Ledru Rollin, e Louis Blanc; al tocco un
secondo concerto popolare al Palazzo di Cristallo, dove un popolo
misto di Corporazioni, di Rappresentanze, di Deputazioni, sfila
davanti al Trionfatore, che sa trovare per tutti il contegno e la
parola opportuna, notevole e notata da coloro che cominciavano ad
impensierirsi di quei trionfi, quella da lui gridata ad alta voce alla
Deputazione degli esuli polacchi: «Chiedo che la nobile nazione inglese
non voglia abbandonare la nazione polacca.»

Il martedì invece è giornata di riposo, se riposo può dirsi leggere o
firmare serque di lettere e di ritratti, discorrere con centinaia di
persone e posare ora per un busto, ora per una fotografia, risedersi
a tavola tre o quattro volte il giorno, per non far torto all’usanza
degli ospiti, meravigliati che un eroe mangiasse così poco e bevesse
anche meno, e finito il pasto, all’ora rituale in cui le signore
lasciano i lor cavalieri in intimi colloqui col _Sherry_ e col
_Brandy_, si ritirasse con loro.

Così però era arrivato il 20 aprile; il giorno solennissimo destinato
al conferimento della cittadinanza di Londra, che è, come ognuno sa,
il più grande onore che la vecchia _city_ possa dare, invidiato e
raramente ottenuto dagli stessi Sovrani; e che a Garibaldi era stato
decretato, senza contrasto, appena ebbe messo il piede sul suolo
britannico. E come la storica cerimonia fu anche il compendio simbolico
di tutte le onoranze tributate all’eroe italiano, così ne toccheremo
meno fugacemente.

Assistito ad un asciolvere dal duca d’Argyll, in un tiro a quattro
alla _Daumont_ da Prince’s Gate, dimora del signor Seely dove il
Generale era passato, s’avviò in sul mezzogiorno verso Guild-Hall.
Lo accompagnavano, giusta il rito, il signor Richardson e l’Alderman
Scott, ciambellano del Town-Hall, cui spettava quest’onore, il primo
per aver proposto, il secondo per aver secondato la mozione del
_Freedom_: lo seguivano in altra carrozza il signor Seely e i figli, e
in altre ancora un lungo corteo di membri del Parlamento e di nobili
invitati. Le botteghe erano chiuse, i lavori sospesi come nel giorno
dell’ingresso. Turbe di popolo assiepavano le strade per le quali
doveva passare il corteo; ma all’ingresso della _city_ e più ancora nei
pressi del Palazzo di città la calca è sì densa, la piena sì procellosa
da pareggiare quasi quella impareggiabile dell’11 aprile. Arduo perciò
come in quel giorno il transito; arduo ai _policemen_ contenere il
torrente; arduo e pericoloso insieme per il Generale lo scendere
di carrozza. Vi pervenne tuttavia, e allora, accolto nell’atrio di
Guild-Hall dalla deputazione del Comitato di ricevimento, passando fra
due ale di _gentlemen_ e di _ladies_ che lo salutano e s’inchinano come
ad un re, è condotto nel gran salone del Consiglio, in mezzo ad una
fiorita corona d’invitati, e quivi, sotto un ricco baldacchino, sopra
seggiolone dorato, fra il signor Seely e suo figlio Ricciotti,[275]
fatto sedere.

Entrarono allora gravi e solenni nel loro storico costume, roboni
di velluto nero, parrucche bianche a zazzera, grandi lattughe allo
sparato, il Lord Mayor, gli Aldermen, i Clerks, e fattosi un solenne
silenzio il Town’s Clerk venne innanzi e lesse il seguente decreto:

«Che l’onorevole titolo di cittadino sia conferito al generale
Garibaldi come segno di riverenza al più magnanimo e valoroso dei
patriotti e gli sia presentato in una scatola d’oro del valore di cento
ghinee.»

Una salva d’applausi era già scoppiata alle parole _most generous
and magnanimous man_, un’altra ancora più fragorosa seguì la chiusa
del decreto. Allora il Generale si alzò e il signor Scott gli lesse
un lungo indirizzo, nel quale, dopo avergli significato come Londra
andasse superba d’avere tra’ suoi cittadini un uomo che a nessun
altro poteva essere paragonato, «perchè in nessun uomo si trovarono
insieme accoppiate come in lui la semplicità d’un Cincinnato,
l’incorruttibilità d’un Dentato, il cuore di Leonida, la tenerezza
d’una donna, la confidenza d’un fanciullo;» conchiuse ringraziandolo
d’aver destata in Inghilterra la fiamma della libertà, ed augurando
all’Italia di compiere la sua unità ed indipendenza.

Il Generale, che aveva ascoltato con profondo e decoroso raccoglimento,
fece in inglese, con accento stentato e troppo apertamente meridionale,
ma con perfetta correzione di sintassi e di lingua, questa risposta:

  «Non mi è possibile esprimere a voi, come rappresentanti di questa
  gloriosa città, la gratitudine che io provo dell’onore che mi avete
  oggi conferito. Ne inorgoglisco più che dell’avere il primo onore,
  il primo grado in guerra, perchè non so qual cosa possa tenersi più
  onorevole che l’esser libero cittadino di questa città. Nè io dico
  questo per adularvi. Ho veduto che questo è il vero centro della
  libertà del mondo, è il foco della civiltà di tutte le nazioni.
  Qui niuno è straniero, perchè in Inghilterra ogni uomo è in casa
  sua. Vi ripeto che non potrei esprimere la mia riconoscenza, ma
  ve ne ringrazierò, non potendolo per me stesso, in nome della mia
  patria, che aspetta dall’Inghilterra quell’aiuto ch’essa può dare
  in guerra.

  »Certo l’Italia non potrà mai dire abbastanza quanto è grata a
  questo paese pel gran favore con cui ha accolto la sua causa, e per
  gli aiuti che le ha dato in tempi di gran bisogno. Nè è questa la
  sola volta che io sono stato beneficato dal popolo inglese. Lo fui
  in America quando dovetti alla protezione inglese se fui salvo da
  gran pericolo. — Ebbi anche aiuto da Inglesi in Cina. Tutto questo
  non potrei mai dimenticare; ma dovunque sarò, il mio affetto, la
  riconoscenza verso il popolo inglese sarà imperitura. — Ripeto che
  sono gratissimo per me e per la mia patria al popolo inglese.»

Certo questo discorso non aveva nulla di peregrino, ma il Generale
che al toccar del suolo inglese pareva aver acquistato il senso, a
lui tanto innaturale, della convenienza e della misura, ed essersi
trasformato in un attore provetto, a cui nessuno dei lenocinj dell’arte
sia ignoto; il Generale, dico, seppe dare a quelle sue parole, studiate
più che non si pensi, tale un’impronta di verità e di naturalezza, e
trovare recitandole un atteggiamento così artisticamente equilibrato
tra la modestia e la dignità, un gesto così giustamente misurato tra
la vivacità italiana e la rigidezza anglo-sassone, un’intonazione così
abilmente indovinata tra la rozzezza eroica e la cortesia signorile,
e sopratutto tali modulazioni, tali blandimenti e incanti di voce da
suscitare in tutto l’uditorio un vero delirio. Una triplice tonante
salva d’applausi, quali forse quella sala non aveva mai uditi, accolse
la fine del discorso e soltanto la maestà del luogo e della cerimonia
parve trattenere da più clamorose manifestazioni. Quando però il
Generale, salutato il Mayor e la Mayoressa, si mosse per uscire, il
pubblico, rotta ormai quella diga di tradizionale rispetto che l’aveva
fino allora contenuto, dimenticò ogni gravità, e scavalcando sedie
e barriere si rovesciò letteralmente su di lui, per ottenere, con
mille voci, l’onore d’un suo _shake hands_. Nè forse l’eroe sarebbesi
rifiutato anche a quel capriccio se taluno de’ suoi amici non si fosse
opposto, dicendo che ciò avrebbe nociuto alla sua salute; il che bastò
perchè tutta quella folla tumultuante si ritraesse e diradasse in
silenzio.

Allora il Generale uscì da Guild Hall per passare a Mansion-House, dove
il Lord Mayor dava in suo onore lo storico banchetto della _Loving
Cup_, nel quale il Generale, ignaro del rito, bevve alla salute del
Popolo inglese fra le acclamazioni de’ convitati.

Non fu quella però l’ultima impresa di quella giornata campale. Alle
6 il Generale dovette intervenire ad un altro banchetto, il terzo in
un giorno, offertogli dal Cancelliere dello Scacchiere e trattenervisi
fino a tarda ora sempre sulla scena, sempre in sull’all’erta per
ascoltare e rispondere, sempre meraviglioso a tutti di semplicità, di
cortesia, di tatto e di pazienza.


VI.

Ma nel medesimo giorno che Londra scriveva nell’Albo de’ suoi cittadini
il nome di Giuseppe Garibaldi, una voce, susurrata pochi giorni
prima come una vaga ipotesi ed una remota eventualità, prendeva a
un tratto nei giornali la forma asseverante d’una positiva notizia:
«Garibaldi interrompeva il suo viaggio e si preparava a ripartire per
l’Italia.» Naturale pertanto che un simile annunzio destasse in tutte
le classi della vasta metropoli (eccettuati forse i pochi consiglieri
e preparatori di quella partenza) il più grande stupore ed il più
vivo malcontento. Indarno i diari amici del Ministero si studiavano
di onestare e spiegare quella repentina risoluzione con semplici e
naturali motivi; dicendola imposta da ragioni di salute, consigliata
dai medici, suggerita dalla pietosa sollecitudine di risparmiare al
Generale, già affranto dalle fatiche de’ suoi primi trionfi, nuovi
e più gravi travagli; la città, le classi popolari principalmente,
non sapevano appagarsi di queste ragioni; e messe già in sospetto da
tutta quella estemporaneità di passione amorosa onde l’aristocrazia
britannica era stata presa per il mozzo nizzardo, fiutavano sotto
quelle mostre di zelo per la salute d’un uomo, che stava forse
benissimo, le fila d’una trama aristocratica o politica, cominciando
già a dimostrare apertamente la loro incredulità e diffidenza,
agitandosi nei pubblici _meetings_, e forzando il governo stesso a
rispondere in Parlamento.

Per intendere frattanto fino a qual punto quei sospetti fossero
giustificati, e fra le tante e contradittorie ragioni di quella
partenza, sceverare, non diremo la vera, ma la più prossima al vero,
importa rimontare alcuni giorni addietro e penetrare un po’ più
addentro nel retro scena della storia.

Il lettore non ha dimenticato che il Governo inglese non aveva mai
veduto di buon occhio il viaggio di Garibaldi. Presago dei disturbi
che la inopportuna visita gli avrebbe, o prima o poi, arrecati, Lord
Palmerston s’era studiato fino alla fine di scongiurarla, e solo
quando la vide ormai inevitabile fece buon viso, come suol dirsi,
all’avversa sorte, e s’adoperò, nel modo che sappiamo, a menomarne
le conseguenze. In sulle prime però tutto parve andargli a seconda.
Garibaldi s’era abbandonato, senza resistenza alcuna, alle braccia
dei Geni tutelari che dovevano, durante il suo passaggio per Albione,
custodire la sua innocenza e preservarlo dai diabolici contatti
della rivoluzione; Garibaldi mansueto, quale mai non fu, passava
di banchetto in banchetto, di cerimonia in cerimonia, di teatro in
teatro, rappresentandovi, appuntino come una brava bestia feroce
bene ammaestrata, la parte che meglio gradiva a’ suoi custodi e al
suo pubblico, senza dare mai il più piccolo segno di ribellione, o
mandare il più lieve ruggito di collera. Non v’era dunque a pentirsi
troppo d’averlo lasciato venire. È ben vero che egli aveva messo
sottosopra mezza Inghilterra, e in combustione tutta Londra; ma infine
era sperabile, era presumibile che a poco a poco il fanatismo si
stancherebbe, l’entusiasmo svamperebbe, la vecchia freddezza inglese
riprenderebbe il sopravvento; lo stesso attore a forza di essere veduto
e sentito si logorerebbe, e tutto rientrerebbe in breve, con poco
fastidio, nella calma e nell’ordine di prima. Accadde invece tutto il
contrario. Passavano i giorni, le ovazioni succedevano alle ovazioni,
e gli spettacoli agli spettacoli, ma il saturnale garibaldino non dava
alcun segno di cessare. Garibaldi continuava da oltre una settimana
a mostrarsi, a concedersi, a distribuirsi a quanti volevano vederlo,
udirlo e toccarlo; ma il farnetico non accennava a calmarsi; Londra
tornava ogni mattina e ogni sera a mirare, a contemplare ad adorare il
suo nuovo idolo in tutte le pose e su tutti gli altari, ma non ne era
sazia ancora.

Eppure Londra non era che una stazione, ed il trionfatore non si
trovava ancora che alla prima pietra miliare della sua via trionfale.
Ma che sarebbe accaduto se egli avesse mantenuto la promessa di
visitare una ad una tutte le principali città d’Inghilterra e di
Scozia, Manchester, Birmingham, Bristol, Newcastle, Liverpool, Glascow,
Edimburgo, che l’attendevano impazienti di rinnovargli tra le loro mura
i trionfi della Capitale?

Questo era il pensiero che principalmente turbava gli uomini di Stato
inglesi, e in generale quanti pregiavano, sopra ogni cosa, l’ordine
e la quiete del loro paese. Perocchè se tanta, dicevano essi, era
l’agitazione che quel fatato Italiano era riuscito a suscitare in
Londra dove pure le masse popolari erano guidate e contenute dalla
presenza del governo e del Parlamento, dagl’influssi d’una stampa
autorevole e dall’azione moderatrice di numerose classi superiori
illuminate e potenti, quale non sarebbe stata in quelle grandi città
manifattrici, alveari giganteschi d’operai e d’industriali, focolari
naturali delle idee rivoluzionarie e socialiste, miniere profonde e
insidiose cariche insieme d’oro e di dinamite, d’onde l’Inghilterra
traeva da secoli la sua ricchezza, ma che troppo arditamente esposte al
contatto d’una scintilla fulminea, avrebbero anche potuto cagionarne la
rovina!

Certo non era a temersi che Garibaldi vi andasse a suscitare una
rivoluzione sociale; ma il solo dubbio ch’egli riuscisse a trascinare
quelle popolazioni in manifestazioni di politica internazionale ed
a renderle complici più o meno dirette de’ suoi appelli e de’ suoi
disegni patriottici, bastava ad obbligare un governo appena consapevole
della propria responsabilità alla più grande cautela e vigilanza. Nè
queste apprensioni eran del tutto infondate. Garibaldi era stato fino
allora, non all’occhio degli Inglesi soltanto, un miracolo di saggezza
e di temperanza; ma fino a quando il miracolo fosse per durare nessuno
poteva affermarlo. L’eroe non poteva rinnegare a lungo la propria
natura, e con lui era prudenza star pronti a tutte le sorprese. Anche
in que’ primi dieci giorni egli aveva fatto più d’una scappata fuori
del morbido serraglio in cui i suoi guardiani lo tenevano custodito;
e il brindisi a Mazzini, le visite a Ledru Rollin e Luigi Blanc, le
parole ai Polacchi, parevano segni abbastanza eloquenti che v’erano
idee, amicizie, relazioni, alle quali egli, sotto pena di snaturarsi,
non poteva rinunciare.

Oltre di che i Mentori blasonati, che s’erano tolto il carico della sua
tutela in Londra, non lo potevano accompagnare dappertutto, e il giorno
in cui egli fosse uscito dalle loro mani per cadere in quelle, a mo’ di
esempio, dei Taylor, degli Stuard, dei Cowen, conosciuti in Inghilterra
per le loro opinioni rivoluzionarie, la loro intimità con Mazzini, e
la loro influenza sulle popolazioni artigiane delle città industriali,
nessuno poteva prevedere fino a qual punto il mutato ambiente avrebbe
influito sul mobile spirito del Patriotta italiano, nè a qual eccesso,
una volta lasciato in balía di consiglieri o complici o compiacenti,
avrebbe potuto trascorrere.

E ciò tanto più che il vero ultimo scopo della sua visita in
Inghilterra non traspariva ancora. Egli andava bensì dicendo, e i suoi
seguaci ripetendo, che l’unico motivo di quella sua visita era stato
il ringraziare il popolo inglese di quanto aveva operato per l’Italia;
ma questa spiegazione, buona forse, non appagava abbastanza gli uomini
politici inglesi, avvezzi a non credere troppo alla gratitudine,
e a diffidare un tantino anche delle parole degli eroi. Infatti i
suoi incessanti rapporti col Mazzini, col Saffi, l’arrivo continuo
dall’Italia di ufficiali garibaldini, di deputati, di personaggi
politici che apparivano un istante, s’abboccavano col Generale e
sparivano,[276] se non costituivano ancora un indizio certo di congiure
latenti, erano però sintomi poco rassicuranti, i quali, sommati a tutti
gli altri segni, accrescevano naturalmente le inquietudini del Governo
inglese e ne acuivano i sospetti.

Nè qui finivano le inquietudini che quella visita troppo prolungata
cagionava ai Ministri di Sua Maestà Britannica. L’indomani della
entrata di Garibaldi in Londra era il giorno destinato alla
riunione della Conferenza diplomatica per l’accomodamento della
lite dano-germanica; e la coincidenza di questi due fatti poneva il
gabinetto di Lord Palmerston in una posizione singolarmente difficile
e delicata. Era infatti per lo meno strano che la Diplomazia europea
fosse convocata a negoziar della pace, in quella città che era in quel
momento la più agitata del vecchio mondo, e ripeteva da mane a sera
l’apoteosi di colui che passava per il campione giurato di tutte le
rivoluzioni e di tutte le guerre.

E più di tutti dovevano sentire il dispetto di quei trionfi l’Austria
e la Francia. Per Francesco Giuseppe, Garibaldi era sempre l’uomo
di Luino e di Sarnico; per Napoleone III, quello del Gianicolo e
d’Aspromonte; per entrambi l’Annibale implacato che quando non poteva
guerreggiarli coll’armi, li combatteva colle parole, colla penna e col
nome.

Ora come l’amicizia della Francia e dell’Austria era a quei giorni uno
dei perni della politica inglese, così veniva da sè che il governo
della Regina fosse il primo a riguardare con ansietà il perdurare
d’un fatto che era cagione di disgusto a’ suoi più utili amici e
poteva, lungamente protratto, fruttare alla stessa Inghilterra noie
e contrarietà imprevedibili. Nè, per far intendere il loro sentimento
circa la presenza di Garibaldi in Londra, era mestieri che i Gabinetti
europei ricorressero al mezzo estremo delle proteste. Quando Lord
Palmerston nella Camera dei Comuni,[277] diceva che «qualunque governo
forestiero si fosse fatto lecito di intromettersi nelle interne
faccende dell’Inghilterra avrebbe avuto da qualsiasi governante del suo
paese una urbana sì, ma franca e ferma risposta,» diceva cosa da tutti
saputa, sottintesa e creduta.

Ma ognuno sa che tra la diretta intromissione e l’indifferente
astensione ci corre tanto spazio che basta per contenere insieme la
indiretta disapprovazione e il tacito dissenso, la triste scontentezza
e il broncio amichevole, tutte le gradazioni del malcontento e
del malumore. È noto che la politica ha parecchi vocabolari: che
in diplomazia ciò che non si vuol dire ufficialmente si susurra
ufficiosamente; che il più delle volte basta un segno, un monosillabo,
un silenzio tempestivo ed un sussiego calcolato per dir più di tutti
i discorsi e di tutte le note. Ora tale era appunto il linguaggio
che conveniva a quel caso. Nessuno dei governi interessati avrebbe
osato esprimere al Gabinetto di Londra il proprio dispiacere per gli
onori straordinari che il popolo inglese aveva stimato di rendere a
quell’avventuriere fortunato; ma pochi di loro avevan saputo nascondere
il proprio scontento.

Era stato notato infatti che a nessuno dei grandi ricevimenti dati al
Patriota italiano, meno l’ambasciatore di Turchia e il Ministro degli
Stati Uniti, nessun altro diplomatico, nemmeno in forma privata, era
intervenuto; che il conte Appony, ambasciatore d’Austria, s’era chiuso
fin dall’arrivo in uno sdegnoso ritiro non comparendo più nemmeno al
Palazzo del governo; che l’Austria e la Prussia tardavano ad inviare i
loro rappresentanti al Congresso, senza dire apertamente che la cagione
ne fosse la sgradita vicinanza di quello spadroneggiante trionfatore,
ma facendolo con abbastanza chiarezza trapelare; che infine la stampa
governativa ed officiosa così di Francia come d’Austria e di Germania,
canzonando quella nuova frenesia garibaldina onde il serio popolo
britannico era stato colto, non perdevano mai il destro di tirare una
botta contro i ministri della Regina che si lasciavano pigliare dallo
stesso delirio e adoravano lo stesso feticcio.

Combinati questi fatti, sommate tutte queste cagioni;[278] considerato
da un canto la necessità di tagliar corto ad un’agitazione fino
allora soltanto inquietante che poteva tralignare in più pericolosi
disordini, e dall’altro la convenienza di evitare alle potenze amiche,
in un momento di negoziati diplomatici, una cagione di fastidio e
di disgusto, il Governo inglese deliberò di indurre Garibaldi ad
abbreviare il suo viaggio e ad affrettare il suo ritorno in Italia.


VII.

E fermato il disegno, il modo d’esecuzione, e gli esecutori furono
presto trovati. Quei medesimi fedeli del governo che s’erano fino
allora assunto di guidare i primi passi dell’eroe sul suolo britannico,
quei medesimi s’impegnerebbero a condurnelo fuori. La sera del 16
infatti il duca di Sutherland, il signor Seely, il dottor Fergusson,
medico della Regina, il generale Eber, il colonnello Peard, il signor
Gladstone, e pochi altri amici del Generale si raccolsero a consiglio
in Stafford-House e convennero prestamente sul da farsi: Il Generale
doveva esser un ammalato: il dottor Fergusson l’avrebbe attestato;
i suoi ospiti amici, compresi dall’obbligo di risparmiare al grande
patriota i danni e i pericoli d’un viaggio più disastroso, si sarebbero
tolto l’assunto di consigliargli il ritorno desiderato: il Duca di
Sutherland, ottenuto l’assenso, l’avrebbe fatto a poco a poco dileguare
portandoselo via sul suo velocissimo _yacht_; e tutto sarebbe riuscito
al suo fine senza scandali e senza compromissioni.

Con quest’accordo la mattina del 17 il dottor Fergusson cominciò a
fare al Generale, ignaro ancora di quella parte d’ammalato immaginario
che gli era preparata, la sua prima visita, e notò in lui tracce così
profonde di stanchezza, e lo trovò così sofferente anche nella gamba
sana costretta a sostenere parte del lavoro della ammalata che non
potè a meno di dichiarare al Duca di Sutherland, «i suoi timori sugli
effetti che ne potevano derivare dalla permanente eccitazione prodotta
da quelle ripetute ovazioni, che gli stessi uomini più robusti non
avrebbero potuto affrontare.»

Come restasse a questa lettera inattesa il nobile Duca, inutile ridire:
tutta Stafford-House fu piena in poche ore della dolorosa notizia, e
l’argomento della malattia del Generale su tutte le labbra de’ suoi
ospiti e frequentatori.

Il dottor Fergusson però, da medico coscienzioso, non poteva fidarsi al
giudizio di una sola visita, e volle ripeterne una seconda: ma ahimè
il pronostico non poteva essere diverso! Non solo il Generale era
stanco, non solo «ne conveniva egli stesso;» non solo era manifesta
la sua fisica debolezza, ma cominciava già a trasparire la mentale.
Infelice eroe, stanco, debole, sofferente nella gamba destra per
contraccolpo della sinistra, e quasi scemo di mente! L’Archiatro di
Sua Maestà la Regina Vittoria non poteva più esitare; e presa tosto
la penna non più soltanto al duca di Sutherland, ma anche al suo
collega il signor Seely, scrisse risolutamente che, viste le miserande
condizioni del generale Garibaldi, «riteneva ormai pericoloso per lui
l’adempiere a tutti i presi impegni;» e consigliava perciò «sì l’uno
che l’altro e tutti i suoi amici d’Inghilterra di cercare un mezzo
qualsiasi per distoglierlo dalle imprudenti emozioni delle sue visite
progettate.[279]»

La parola era detta; il dado era tratto e conveniva tosto giuocare
l’ultima posta. Ecco infatti il Duca di Sutherland, il signor Seely, il
generale Eber, il colonnello Chambers, il signor Negretti, tutti quanti
gli artefici ed i complici della trama stringersi attorno al Generale e
tentare di persuaderlo con tutti gli argomenti che loro occorrevano, al
passo desiderato. Indarno. Il Generale, o troppo ingenuo per sospettare
l’intrigo o troppo furbo per mostrar d’accorgersene, rispondeva a tutti
invariabilmente: «che non s’era mai sentito così bene come da quando
era venuto in Inghilterra;» in ogni caso pochi giorni di riposo gli
sarebbero bastati a rimetterlo dalla momentanea stanchezza; non potere
però in alcun modo deludere l’aspettazione di tanti cari amici, di
tante illustri città, e mancare alla propria promessa. Innanzi a questa
non preveduta resistenza, i manipolatori della partenza si trovarono
un po’ sconcertati e stimarono necessario di invocare l’autorevole
intervento dello stesso Cancelliere dello Scacchiere. E questi accettò,
e nella sera medesima del 18, in presenza del Duca di Sutherland,
del dottor Fergusson, del signor Seely, del colonnello Peard, del
generale Eber, del signor Negretti e di due o tre altri amici[280] del
Generale, ebbe con questi un lungo colloquio. L’assunto era arduo: la
veste ufficiale onde il signor Gladstone era rivestito ne accresceva le
difficoltà; ma egli seppe tirarsi d’impiccio con mirabile delicatezza e
maestria. Accortosi prestamente che quell’argomento ormai logoro «della
salute» non aveva più alcuna presa sull’animo d’un uomo che credeva
e protestava di sentirsi benissimo, vi scivolò sopra lievemente e
volse tutta l’arte a toccare altri tasti più graditi o meno stridenti.
Dichiarò che parlava come amico, non come membro del governo; respinse,
sprezzandolo come indegno di confutazione, ogni sospetto di ingerenza
forestiera e di secondo fine politico: assicurò il Generale che
qualunque fosse la sua risoluzione nessun Inglese si sarebbe permesso
di mancare ai doveri dell’ospitalità; desiderava soltanto fargli
considerare come ormai, visitata Londra, lo scopo principale del
suo viaggio fosse raggiunto, e come quelle stesse splendide ovazioni
che erano uno dei più mirabili avvenimenti del nostro tempo, anzichè
crescere, potessero, colla continuata ripetizione, scemare della loro
dignità e bellezza: in ogni caso nessuno poter pretendere che gli
impegni da lui presi dovessero tenersi per incondizionati e assoluti;
sì che quando non credesse di sciogliersi da tutti restavagli sempre
l’espediente di limitare le sue visite ai luoghi più vicini e più
importanti, facendo valere verso gli altri la ragione indiscutibile
della salute e della necessità di riposo che avrebbe tagliato corto a
tutte le querele e a tutte le pretese. Ed altre cose disse e avrebbe
potuto soggiungere l’eloquente ministro, se il Generale n’avesse avuto
mestieri.

Ma egli, che fino allora non aveva voluto o saputo capire, vide come
in un lampo tutta la situazione. Più il signor Gladstone si studiava
a girar attorno alla ragione principale che l’aveva mosso a parlare,
e più questa ragione, come per effetto di chiaroscuro, risaltava; più
adoperava a tener lontano dal suo discorso l’ombra del governo e più
quell’ombra ricompariva e il suo pensiero erompeva. Il solo fatto del
suo intervento in quel negozio era un fatto politico; il solo trovarsi
a fianco agli uomini che da tre giorni peroravano per la causa della
partenza, parlava più eloquentemente d’ogni discorso. Il Generale
dunque capì, e alzandosi di scatto dalla sedia con quel suo fulmineo
risolvere che tante volte scompigliava i calcoli più studiati de’ suoi
avversari: «No! disse, con voce secca e imperiosa, credo impossibile
fare una scelta fra città e città, e dare la preferenza piuttosto
all’una che all’altra, sarebbe scortesia ch’io non commetterò mai.
Piuttosto, se credete che debba partire, partirò domani.[281]»

Alla sortita inattesa, così il signor Gladstone come i suoi colleghi
restarono alquanto sconcertati.

Non era infatti una partenza precipitata e quasi clandestina che essi
s’eran proposto di ottenere dal Generale: un siffatto modo avrebbe
avuto l’aspetto o d’una fuga o d’uno sfratto, e destate anche più
vive quelle agitazioni che essi miravano a spegnere. Essi chiedevano
soltanto un lento ritiro; un allontanamento a piccole giornate; un
dileguarsi insensibile che togliesse ogni sospetto di violenza e
vestisse tutte le sembianze d’un atto volontario e spontaneo del
Generale stesso. Però quando udirono quelle due parole: «partirò
domani,» misurarono tosto il pericolo e corsero tutti insieme al riparo
adoperandosi con ogni miglior argomento a smuovere il loro ospite da
una risoluzione che rischiava di guastare i loro disegni assai più
d’un reciso rifiuto. Ma il Generale fu in quella sera irremovibile; e
soltanto la mattina dopo (19), assalito nuovamente dalle insistenti
preghiere di quasi tutti i suoi consiglieri della vigilia,[282]
irretito, fors’anco sedotto, dalle provette blandizie della Duchessa
madre di Sutherland e dalle rosee grazie della giovane sua nuora, finì
col cedere e col dichiarare che sarebbe partito come e quando ai loro
amici fosse piaciuto. Era la vittoria desiderata, e non restava più
che bandirla nei giornali per rendere impossibile colla pubblicità
qualsiasi pentimento. Infatti nello stesso pomeriggio del 19, i signori
Duca di Sutherland e Seely inviavano al _Times_ le tre lettere del
dottor Fergusson, da noi già compendiate, facendole precedere da questa
loro dichiarazione che annunciava la prossima partenza dell’eroe,
precisandone persino il giorno ed il modo:

      «All’Editore del _Times_.

  »Il Duca di Sutherland ed il signor Seely presentano i loro omaggi
  all’editore del _Times_ e gli trasmettono copia delle lettere
  ricevute dall’illustre professore Fergusson sullo stato sanitario
  del generale Garibaldi.

  »In conseguenza di ciò, il Generale si trova costretto a rinunciare
  al suo progetto di visitare le provincie, e partirà da Londra
  venerdì mattina. S’imbarcherà sul _yacht_ del Duca di Sutherland,
  il quale lo accompagnerà alla sua residenza dell’isola di Caprera.»


VIII.

Quale effetto producesse nel popolo inglese questo annuncio, già
accennammo: di amaro sospetto ne’ più; d’intera contentezza in pochi;
di sorpresa in quasi tutti. Però l’opinione pubblica si divise quasi
tosto in due campi. Gli amici del governo, gli uomini politici, le
classi superiori e in generale tutti coloro che, per un motivo o
per l’altro, erano inquieti o tediati di quella prolungata baraonda
garibaldina, lodavano il Generale d’esservisi arreso; gli avversi
al Ministero, gli idolatri dell’eroe, la gente più di sentimento che
di ragione, e tutti coloro in generale cui quella baraonda piaceva o
giovava, non sapevano persuadersi che la malattia fosse reale (tanto
più dopo una attestazione del dottor Basile che la smentiva[283]), nè
quella partenza spontanea e sospettandovi sotto un oscuro complotto
aristocratico e diplomatico, a cui non parevano estranei nè il Governo
inglese, nè Napoleone III, nè l’Austria, s’apparecchiavano con tutti i
mezzi che la legge loro concedeva a sventarla.

Già infatti tra il 20 e il 21 la più parte dei giornali liberali e
radicali[284] denunziava, esagerandolo, il misterioso complotto:
innumerevoli cartelli affissi per le vie avvertivano il popolo
che Garibaldi era forzato a partire: alla _Taverna di Londra_ per
iniziativa del Comitato di Ricevimento convocavasi un meeting nel
quale si deliberava «non essere desiderabile che il generale Garibaldi
venisse indotto ad abbandonare l’Inghilterra, tanto più che non erano
stati sufficientemente chiariti i motivi della sua partenza.» Un
altro _meeting_ pubblico e più numeroso preparavasi per istigazione di
Mazzini a Primrose, sotto la Presidenza del signor Beales; infine il
Ministro degli Esteri, il Presidente del Consiglio, e il Cancelliere
dello Scacchiere erano invitati a dar spiegazione nelle due Camere di
quell’inatteso rimpatrio, e sopratutto a dichiarare quanto vi fosse
di vero nella voce persistente che il governo della Regina, spinto da
suggestioni straniere, vi avesse partecipato.

Ma le risposte erano prevedibili. Lord Clarendon si dichiarò persino
inconsapevole della progettata partenza, e quanto a Napoleone III
non solo lo purgò da qualsiasi taccia d’avversione a Garibaldi, ma
assicurò che caduto il discorso su quel tema, l’Imperatore gli disse
di comprendere benissimo come un uomo sì straordinario, quale era
Garibaldi, dovesse toccare l’animo agli Inglesi e trasportarli fino
all’entusiasmo. Nè sostanzialmente diverse furono le parole di Lord
Palmerston e del signor Gladstone. Solo il primo soggiunse anche più
esplicitamente che qualunque governo forastiero facesse all’inglese,
sopra un consimile argomento, una rimostranza qualsiasi, «riceverebbe
una urbana sì, ma ferma ed aperta risposta;» mentre il secondo, senza
sconfessare la sua intromissione nell’affare e narrati press’a poco i
fatti come li narrammo noi stessi, si studiò soltanto a rimuovere da
sè e dal governo ogni sospetto di indebita ingerenza e d’inospitale
pressione, ed a gettare la colpa dell’avvenimento su quella disgraziata
salute del Generale, del cui stato sofferente, dopo le attestazioni
d’un medico come il signor Fergusson e d’amici così affezionati e
devoti, come il signor Seely e il Duca di Sutherland, non era più
possibile dubitare.[285]

Contemporaneamente le Deputazioni dei _meetings_ si presentavano a
Garibaldi, il quale, fluttuante ancora tra le promesse fatte agli uni
di visitarli ed agli altri di partire, si tirava alla meglio d’impaccio
dicendo agli inviati del _London Tavern_, che desiderava ardentemente
di visitare i suoi vecchi amici di Newcastle e del Nord, ma che
avrebbe meglio considerato se dopo la promessa data poteva cambiare di
determinazione;[286] e scrivendo anche più esplicitamente al signor
Beales, presidente del _meeting_ che si stava preparando a Primrose,
ed a tutti i suoi amici «che accettassero i suoi ringraziamenti per
l’affetto dimostratogli: che sarebbe felice di rivederli in circostanze
migliori e quando potesse a tutto agio godere del loro nobile paese;
ma pel momento essere obbligato a lasciare l’Inghilterra.[287]» E
queste ultime parole valgono un documento. Garibaldi poteva essere
o più generoso o più coerente tralasciandole; ma infine se la verità
suo malgrado gli scappò dalla penna, raccogliamola e scriviamola come
l’unica conclusione chiara di tutto questo torbido negozio: Garibaldi
fu obbligato a partire d’Inghilterra; graziosamente, soavemente
obbligato; ma «obbligato.»


IX.

Fissata la partenza pel 22, Garibaldi adopera i due giorni che gli
avanzano a fare a precipizio tutte quelle visite che per dovere o
per affetto non poteva assolutamente tralasciare. Però il 21, di
buon mattino, sciogliendo un voto da lui fatto sino dal suo arrivo in
Inghilterra, va in compagnia di Panizzi e d’altri Italiani, a visitare
la tomba di Ugo Foscolo a Chiswick; resta alcuni istanti assorto in
una mesta contemplazione dinanzi all’avello del poeta, indi vi depone
una corona d’alloro in bronzo sul cui nastro aveva fatto scolpire egli
stesso la leggenda:

                              AI GENEROSI
                 GIUSTA DI GLORIA DISPENSIERA È MORTE.
                      DEPOSTA OGGI 21 APRILE 1864
                              DAL GENERALE
                          GIUSEPPE GARIBALDI.

Al tornare dal suo pellegrinaggio, si reca senza perdere un istante
al _Reform-Club_, dove subíto, non sapremmo dire se più il tormento o
l’onore d’uno de’ soliti banchetti, il presidente, Lord d’Elbury, lo
arringa chiamandolo «lo strumento di Dio,» e soggiungendogli, parole
significative su quel labbro ed in quel luogo, che «le accoglienze
ricevute dal popolo inglese dovevano essergli largo compenso per
l’apparente ingratitudine che viene da un luogo d’onde l’ingratitudine
era meno da aspettarsi.» Licenziatosi poi anche di là con opportune
parole di ringraziamento, si fa condurre a Richmond per prendervi
commiato da Lord Russell; quindi, reduce nuovamente in Londra senza il
respiro d’un istante, passa a visitare, introdottovi da Lord Clifford,
la Camera dei Lordi, i quali al suo apparire si distraggono e si
agitano al segno che Lord Chelmsford, che in quel momento parlava, può
a stento continuare il suo discorso, finito il quale tutti s’accalcano
intorno all’eroe, e quanti fra di loro l’hanno conosciuto, specialmente
i _Whigs_, si disputano l’onore di salutarlo pubblicamente, il Vescovo
d’Oxford fra i primi. Finalmente verso sera, sempre senza sosta e senza
riposo, passa al _Fishmonger Club_ (Circolo dei pescivendoli), uno de’
più antichi, e, non ostante il nome, de’ più aristocratici circoli di
Londra, dove l’attende a uno de’ loro pranzi tradizionali, famosi per
luculliane ghiottornie di pesci, il fiore più eletto della nobiltà,
della ricchezza, dell’armi, della eleganza e della cultura britanniche;
dove il primo _Warden_ (il primo Guardiano) gli accorda il titolo di
membro onorario del _Club_, ambito quanto il _Freedom_, e d’onde parte
a tarda notte pensando forse, con segreta compiacenza, che era quella
l’ultima delle sue sterili fatiche londinesi, e che toccava oramai alla
vigilia di quel rimpatrio che egli più d’ogni altro sospirava.

Nel giorno vegnente, infatti, fatta colazione dal Console Generale
degli Stati Uniti, visitato nella sua casa Giuseppe Mazzini,
congedatosi da Lord Shaftesbury, ricevute a Prince’s Gate quante
persone vogliono dirgli addio, incontrato a Stafford-House il Principe
di Galles che avea espresso il desiderio di conoscerlo in quel luogo
ed a quel modo, lasciati al Popolo inglese i suoi addii, i suoi
ringraziamenti e le sue scuse di non poter andar per ora dovunque avea
desiderato, accompagnate dalla promessa di tornar forse fra non molto a
veder, nella quiete della vita domestica inglese, gli amici che allora
non poteva,[288] verso le 3 del pomeriggio, in carrozza a quattro
cavalli, accompagnato soltanto dal Duca e dalla Duchessa di Sutherland
e dal signor Seely, passando in mezzo a un fitto stuolo di popolani
che fin dalla mattina l’attendevano e gli gridavano: «Non partite,
Generale, non partite,» s’avviò alla volta di Clifden Park, una delle
principesche villeggiature della madre dei Sutherland, nei dintorni di
Maidenhead.

E di quella sosta in villa, le ragioni erano parecchie: si
allontanava subito da Londra il Generale senza portarlo via di colpo
dall’Inghilterra, il che sarebbe stato pericoloso: si mettevano tra lui
e i suoi più intimi e devoti un tratto di ferrovia e i cancelli d’un
castello feudale, e lo si separava così da consiglieri sospettati a
torto avversi al rimpatrio:[289] si abituava insensibilmente il buon
popolo inglese alla sgradita separazione, e mostrandogli il suo eroe
contento della quiete della campagna, e vivente co’ primi suoi ospiti
nei termini della più cordiale famigliarità, di tanto si avvalorava la
credenza ch’egli fosse realmente sofferente e bisognevole di riposo,
di quanto si svigoriva il sospetto che la sua partenza fosse l’effetto
d’un intrigo e d’una violenza.

Trascorsi infatti tre giorni nelle delizie di Clifden (un giardino
d’Armida a cui non mancava la fata), il 26 mattino, in ferrovia, sempre
accompagnato dal Duca e dalla Duchessa di Sutherland, si mosse alla
volta del Cornwall; giunto a Bristol, devia per Weimouth dove visita la
squadra, vede manovrare il _Warrior_, e pranza a bordo dall’ammiraglio
Dacres; di là, continuando per Exeter e Plimouth, ossequiato sempre
dai Mayors delle città, da svariate Deputazioni e da sempre nuova
moltitudine di popolo, smonta finalmente a Penquite Par, dimora di quel
suo vecchio commilitone, il colonnello Peard, che aveva avuta tanta
parte nell’imbroglio di quella partenza. Quivi però non passa che la
notte e una parte del giorno successivo; chè inviato di colà un nuovo
e più lungo manifesto alla nazione inglese, nel quale raccomandava
più apertamente che fino allora non avesse fatto la causa della patria
sua,[290] sul cadere del giorno stesso, sempre in compagnia del Duca di
Sutherland e del costui fratello, del figlio Ricciotti, di Basile e di
Basso, ne ripartiva per Fowey, dove l’_Ondine_ l’attendeva, lesta alla
partenza, e sulla quale in fatti pochi istanti dopo metteva alla vela.
Costretto però da un forte vento di levante a poggiare nella notte
stessa a Weimouth, non poteva ripartirne che il giorno successivo,
sicchè soltanto nel mattino del 28 aprile può veramente dirsi ch’egli
abbia lasciato le spiaggie d’Inghilterra.[291]

Il 5 maggio, data a quel viaggiatore memorabile, ritraversava
lo Stretto di Gibilterra, e dopo altri quattro giorni di fausta
navigazione, il 9 dello stesso mese, egli afferrava finalmente il
porticciuolo della sua diletta Caprera, d’onde quarantaquattro giorni
prima era salpato pieno di illusioni e di speranze, dove tornava non
sapremmo più dire se scontento dei disinganni patiti, o felice della
pace e della libertà che stava per riacquistare.

Da quel viaggio, in verità, Garibaldi aveva raccolti onori quali e
quanti nessun uomo aveva mai conseguiti in quel paese, ma un frutto
sostanziale, un aiuto anche indiretto, un beneficio anche remoto non
l’aveva raccolto.

Aiutare la Polonia, sommovere il Veneto, intraprendere una guerra di
corsa contro l’Austria, con danari, armi e bastimenti inglesi, erano
stati i tre fini nascosti, vaghi ancora quanto ai mezzi, fermi quanto
all’intento, che l’avevano spinto a quel faticoso pellegrinaggio, e
sappiamo oramai che nessuno di quei tre fini gli riuscì. Un giornalista
francese scrisse a quei medesimi giorni che «gli Inglesi impinzarono
Garibaldi di _plum puddings_ di _turtle’s soups_ e di _sandwiches_, ma
che quanto al suo milione di fucili non gli diedero un soldo,[292]» e
non sapremmo negare che la frase contenga, malgrado la forma triviale,
gran parte di vero. Garibaldi ottenne tutto dal popolo inglese;
tutto fuori di quello che più gli stava a cuore; sebbene convenga
soggiungere ad onor suo che egli non chiese nulla. Fin dai suoi primi
passi sul suolo britannico, aiutato da quell’istinto che spesse volte
s’addormentava nel suo spirito, ma che svegliatosi gli teneva luogo di
genio, s’accorse immantinente che qualunque parola anche remotamente
allusiva a imprese rivoluzionarie non solo non avrebbe trovato ascolto
in quel paese, per indole e per istoria positivista e utilitario, ma
gli avrebbe, quasi di colpo, alienata quella pubblica opinione che
era del massimo suo interesse serbarsi amica. Però ingoiò ogni parola
ardente che gli potesse ricorrere alle labbra, chiuse in fondo al
petto le sue patriottiche speranze e i suoi belligeri disegni; imparò
subito la parte di ospite soddisfatto, di commensale compiacente, di
Eroe cerimonioso, che gli veniva con tanto garbo imposta, e lasciò
anche quella volta che la vecchia sua fortuna decidesse di lui. I suoi
ospiti, d’altra parte, prima lo assordarono d’applausi, lo ingozzarono
di pranzi, lo soffocarono di doni, lo tempestarono di brindisi, di
indirizzi e di poesie, lo menarono di qua, di là, di su, di giù,
dove loro piacque, mostrandolo su tutti i palchi e in tutte le fiere,
come il fenomeno vivente, e la _great attraction_ dell’ultima moda;
poi, quando ne furono satolli e ristucchi, lo pregarono gentilmente
d’andarsene, ed egli se n’andò.

Se n’andò; e noi, confessiamo il vero, preferiamo ancora questo
Garibaldi che s’adatta docilmente alla maschera dell’ingenuo e del
compiacente, e pur vedendo le grosse panie tese intorno a lui, le
rispetta e le compatisce, ad un altro Garibaldi qualsiasi che per
raggiungere fini impossibili avesse usato del suo prestigio e della sua
popolarità a mandar sossopra il paese che lo accoglieva, il quale poi,
e a dir tutto, se aveva il dovere di parlar più schiettamente all’eroe
che andava con tanto abbandono ad assidersi a’ suoi focolari, non ne
aveva però alcuno di farsi paladino della sua politica e di seguirlo
nelle sue avventure.


X.

Garibaldi però non rimaneva a lungo nella sua isola. Il 19 di giugno
collo stesso vapore con cui era giunto d’Inghilterra e che il Duca
di Sutherland, dopo un giro in Oriente, aveva rinviato nelle acque di
Caprera a disposizione del Generale, questi approdava improvvisamente
nell’isola d’Ischia, prendendo stanza in Casamicciola presso un
suo amico.[293] Pretesto, come al solito, il bisogno di curare in
quelle terme salutari la sua artritide: ragion vera un progetto di
spedizione in Oriente, di cui erano state segnate, durante il viaggio
d’Inghilterra, testè lungamente narrato, le prime linee.

Ma qui pure ci troviamo tra le mani un’aggrovigliata matassa della
quale non ci è possibile sbrogliare i fili senza rifarci parecchi
mesi addietro e ripassar nuovamente la Manica. È noto che Vittorio
Emanuele non ebbe mai grande tenerezza per la formola «il Re regna
e non governa.» Scrupoloso de’ suoi doveri, ma geloso de’ suoi
diritti; infiammato dell’alto orgoglio di non essere soltanto nella
grande impresa commessagli dalla Provvidenza un simbolo vano od un
gonfaloniere passivo, ma un artefice operoso ed un utile combattente;
unico forse tra i Principi costituzionali, se non lo uguaglia il
Taciturno, che in tempi procellosi abbia saputo conciliare la tutela
delle prerogative regie colla osservanza delle libertà popolari; egli
non credeva venir meno alla costituzione giurata, se partecipava un po’
più che astrattamente alla politica del suo Stato e dentro i termini
della legge faceva sentire l’influsso del suo pensiero e qualche volta
il peso della sua volontà. Da ciò quindi quella che fu chiamata la
politica segreta o personale di Vittorio Emanuele; da ciò quella nomea
di Re cospiratore a cui ogni nuova lettera che si pubblichi di lui
aggiunge un documento; da ciò infine quell’ordito sottile d’intrighi,
di complotti, di congiure mazziniane, garibaldine, regie, italiane,
polacche, ungheresi, rumene, serpeggiante come una vegetazione spuria
nelle pagine della storia palese, che sorprende il più delle volte ed
arresta lo storico, e gli impedisce di scrutare e conoscere fino al
fondo la verità, od anco conosciutala di scoprirla e proclamarla tutta
quanta. E così dicasi ora dell’episodio d’Ischia.

Vittorio Emanuele, dopo aver fino al 1862 cospirato a modo suo con
tutti coloro che accettavano di far l’Italia con lui, nel 1863 fa
l’ultimo passo a cui un re possa giungere, e si risolve a cospirare
anche con colui che gli diceva apertamente di volerla fare contro di
lui: con Giuseppe Mazzini. In un libro recente[294] questa pagina
dei rapporti segreti tra Vittorio Emanuele e Giuseppe Mazzini fu,
non potremmo dire se fedelmente, certo diffusamente scritta, e il
lettore potrà attingere di colà più ampi particolari. Al nostro
racconto basta il rammentarne questo solo: che per oltre un anno
Re e Tribuno continuarono a carteggiare segretamente fra loro, ed
a dibattere in vario senso, per mezzo di confidenti e di cifrari,
progetti d’insurrezioni nella Venezia, nella Polonia, nella Gallizia,
nell’Ungheria, nei Principati, senza però riuscire ad intendersi mai.
Nè lo potevano. Mentre infatti il Mazzini voleva che la rivoluzione
veneta precedesse, come scintilla all’incendio, tutte le altre, e
che il Governo italiano se ne facesse complice e aiutatore; Vittorio
Emanuele rifuggiva da idea siffatta; dichiarava che qualsiasi
tentativo di simil genere l’avrebbe non solo abbandonato, ma represso,
e consentiva soltanto a secondare copertamente i moti progettati
della Gallizia, dell’Ungheria e dei Principati, dei quali però non
s’impegnava a profittare «se non quando prendessero tali proporzioni
da tenere fortemente occupata l’Austria e da permettere all’esercito
italiano di tentare l’impresa comune con probabilità di riuscita.[295]»

Erano, come ognun vede, due concetti totalmente opposti e destinati a
non incontrarsi mai. Mazzini mirava a farsi stromento della monarchia,
e Vittorio Emanuele della rivoluzione: entrambi volevano la stessa
impresa, ma nessuno de’ due intendeva rinunciare all’altro il diritto
e l’onore di compierla; entrambi eran guidati dallo stesso fine, ma nel
mentre il tribuno, responsabile soltanto del credito d’un partito, era
pronto a giuocare tutto su una carta; il Re, mallevadore della sorte
d’un’intera Nazione, era deciso a non rischiare nulla all’azzardo;
disposto bensì ad accettare od affrettare l’opportunità come e d’onde
che sia; ma col fermo proposito di tenersi sempre libero di giovarsene
o di ripudiarla a sua posta, e di respingerne da sè e dall’Italia la
responsabilità.

È vero che in una seconda fase delle trattative[296] Mazzini aveva
acconsentito anche a posporre il moto veneto al galliziano a patto
soltanto che gli si fosse lasciata preparare una introduzione d’armi
pel Veneto; ma il Re, risoluto più che mai a non impegnarsi in cosa
alcuna che potesse compromettere l’Italia e scemare la libertà d’azione
del suo governo, ricusò anche questo patto; sicchè non corse molto
tempo che ogni negoziato fra i due illustri cospiratori andò rotto per
sempre.[297]

Rotti i negoziati, ma non abbandonata l’idea. Vittorio Emanuele
non voleva rinunciare a quella sua chimera, forse troppo favorita,
dell’insurrezione galliziana; e, sia che la credesse un mezzo, come
pensò taluno, d’allontanare dall’Italia i più torbidi elementi; sia
che vi intravedesse davvero una opportunità ed una leva, la leva
tanto desiderata della nuova riscossa italiana, n’aveva fatto da due
anni uno dei punti di mira della sua politica segreta. Però mentre ne
carteggiava col Mazzini, ne trattava insieme col Klapka e col Türr,
capi del Governo insurrezionale ungherese, ne cospirava con altri
suoi agenti secondari a Costantinopoli, a Belgrado, a Bukarest, e
finalmente, verso la metà d’aprile, proprio ne’ medesimi giorni in
cui il Generale arrivava in Inghilterra, risolveva d’aprirsene anche
con lui. Infatti verso il 15 d’aprile arrivava a Londra certo signor
Porcelli, uno degli emissari segreti del Re, coll’incarico da lui
di esporre al Generale il progetto galliziano, e promettergli, se
acconsentisse, tutti gli aiuti che potesse desiderare. Il Generale
però cansò dal dare una risposta immediata e decisiva, e ciò tanto più
che per un progetto quasi consimile era già impegnato col Comitato
insurrezionale polacco residente in Londra presieduto da certo
Borzilawski e in relazione col Mazzini. Scorsi però quattro o cinque
giorni arrivò d’Italia, con un mandato quasi consimile, un messaggiero
anche più importante, il generale Klapka in persona, e poichè Garibaldi
era già a Clifden Park, la visita tra i due famosi soldati avvenne
colà. Quel che siansi detto, nè noi, nè alcun altro saprebbe affermare,
poichè restarono chiusi in camera e soli;[298] ma non è difficile
l’indovinarlo. L’argomento del loro discorso fu certo l’insurrezione
galliziana, della quale il Klapka, per desiderio del Re, era destinato
ad essere uno dei capi.[299] Anche in quel giorno però crediamo che
nulla da veruna parte siasi definitivamente stabilito; e in questa
credenza ci rafferma il fatto che il Klapka non era beneviso alla parte
rivoluzionaria degli Ungheresi e dei Polacchi, coi quali Garibaldi
teneva sempre corrispondenza e che stimava imprudente, almeno per
allora, lo scontentare.[300]

Intanto al partire del Generale dall’Inghilterra ecco press’a poco
la situazione; press’a poco, perchè in tutte le congiure, massime
in quella che aveva per campo mezza Europa, v’è sempre una parte
misteriosa, cangiante e, ci si perdoni la frase, volatile, che nessuno
può cogliere con sicurezza e fissare.

Mazzini, in rotta momentanea col Re, ma in pace momentanea con
Garibaldi, anima del Centro rivoluzionario polacco-ungherese
del Borzylawski e in rapporto con tutti i Comitati rivoluzionari
immaginabili, che predica, e, come dice egli, prepara la sommossa
veneta, prima se possibile, dopo se non lo è, di quella galliziana; ma
in ogni caso, insurrezione entro l’anno dappertutto, ad ogni costo, col
Re, con Garibaldi, col Klapka, con tutti.

Il Re, che vuole il moto serbo-ungherese-galliziano anteriore al
veneto, cospira per questo col Klapka, col Türr, con Garibaldi, pronto,
come vedremo tra poco, a cospirare di nuovo col Mazzini e co’ suoi, se
convenivano nelle sue idee, e accettavano la sua disciplina.

Klapka, che promette il moto galliziano-ungherese a patto che non sia
guastato con conati intempestivi, nè caschi in mani rivoluzionarie.
Il Comitato rivoluzionario magiaro-polacco, che promette la stessa
cosa a patto che non ne sia affidato il comando a Klapka; Garibaldi
finalmente pronto a tutto, amico di tutti, legato insieme con Vittorio
Emanuele, con Mazzini, col Borzylawski, con chicchessia, indifferente
a cominciare dalla Venezia o dall’Ungheria, dalla Serbia o dalla
Gallizia, purchè si cominciasse; e compendio e conclusione di tutto
quest’agitarsi di tanti cuori generosi e di tanti nobili spiriti,
un’ombra trattata come cosa salda; un tesoro negli spazi immaginari
speso per realtà; una enorme cambiale d’eroismo e di sangue tratta
sulla vita di ben dieci milioni d’uomini, ma che nessuno ha fino allora
accettata; insomma una rivoluzione, certa, infallibile, europea, a cui
nulla oramai mancava, fuorchè una cosa insignificante: i popoli che la
facessero.


XI.

Ma in sullo scorcio di maggio l’intrigo cominciò ad arruffarsi
ancora più. Il Re si metteva in corrispondenza col Comitato
rivoluzionario polacco di Londra (quindi indirettamente col Mazzini)
e ne approvava tutte le proposte; conveniva con lui di sollecitare
il moto ungherese-galliziano, escludendone affatto il Klapka e il
Türr, fermo il comando supremo a Garibaldi; metteva in comunicazione
il Plenipotenziario del Comitato (signor Bulewsky) col suo ministro
dell’Interno (allora Ubaldino Peruzzi); s’impegnava a fornire l’erario
dell’impresa e intanto ne sborsava i primi fondi; consentiva che
in Italia si ordinassero i primi quadri del Corpo spedizionario e
prometteva d’inviarlo a sue spese in Moldavia, ed altre concessioni e
soccorsi.[301]

Intanto però che il Re stringeva questi accordi, coll’Emigrazione
polacco-ungherese, quindi, giova ripeterlo, col Mazzini stesso, che
n’era la mente, fosse diffidenza de’ suoi nuovi soci, fosse istinto
di autorità o bisogno di far da sè, fosse il gusto di cospirare
anche nella cospirazione, il fatto è ch’egli, all’insaputa così del
Mazzini, come del Bulewsky, avviava segretamente col Garibaldi un’altro
complotto che invece di assicurare l’esito della progettata impresa,
riuscì, come vedremo tra poco, al fine precisamente opposto, di farla
tramontare per sempre.

Infatti quel signor Porcelli che vedemmo comparire a Londra, incaricato
di aprire a Garibaldi le prime intenzioni del Re intorno al moto
galliziano, eccolo circa alla metà di maggio riapparire a Caprera,
abboccarsi in segreto col Generale, ripartirne tosto, ma per tornar
subito dopo col postale successivo, e così di seguito per due o
tre volte, e sempre con aria, fin troppo, di mistero e di congiura.
Contemporaneamente il Re, questo pure bisogna notare, incaricava Bixio,
allora comandante il campo di San Maurizio, di interrogare il signor
Accossato di Genova se, dati certi eventi, avrebbe potuto tenere a
disposizione del Re uno o due de’ suoi vapori;[302] mentre poi, quasi
ne’ medesimi giorni, si vedeva il Duca di Sutherland, reduce dalla
sua corsa in Oriente, approdare a Caprera, lasciarvi il suo _yacht_,
ripartirne per Torino, dov’era ricevuto dal Re, correre al Campo di San
Maurizio, esservi onorato dal Bixio d’onori fin anco eccessivi,[303]
e come epilogo e chiave insieme di tutti questi fatti il generale
Garibaldi imbarcarsi, come dicemmo, sul piroscafo del Sutherland e
partire per Ischia.

Tuttavia per alcuni giorni, nè della cagione di tutto quel sordo
andirivieni, nè della mèta ultima dell’escursione ad Ischia nulla era
trapelato per anco. Il Generale fin dal primo nascere di quell’arruffio
austro-orientale s’era chiuso nel più geloso silenzio, e, tranne
qualche parola sfuggitagli con Menotti, non aveva svelato ad anima viva
la novella trama a cui, insieme con Vittorio Emanuele, stava lavorando.

Se non che sul finire di quel mese il Generale, credendo giunta forse
l’ora d’agire, fu obbligato ad aprirsi, almeno con quelli tra’ suoi più
devoti e fidati che si era predestinati per compagni; epperò chiamato
a sè il Guerzoni, che gli faceva sempre da Segretario, gli svelò a
larghi tratti tutto il disegno. Diceva press’a poco tutto quello che
noi abbiamo narrato: il Re d’accordo con lui, imminente l’insurrezione,
il principe Couza disposto ad appoggiarla, il colonnello Frigesy
pronto, a Bukarest, ad entrare in Ungheria con una mano d’Ungheresi
e Polacchi, egli prossimo a partire per Costantinopoli, d’onde poi
a tempo opportuno entrerebbe nei Principati: aspettare per questo
un vapore da Genova che lo portasse in Oriente, intanto partissi
anch’io per Torino affine di chiamare a raccolta gli amici comuni, e
me ne indicava i nomi, e farli convenire ad Ischia. Come restasse il
Guerzoni a quella inattesa rivelazione non ridiremo: basti solo ch’egli
misurando subitamente e senza grande sforzo di acume tutti i rischi
d’una siffatta avventura, incoraggito dalla fiducia che gli accordava
il Generale e dalla coscienza d’adempiere ad un alto dovere, non si
peritò a rispondere anche a quel Garibaldi col quale era cosa sì ardua
il solo discutere, e pel quale egli nutriva una venerazione quasi
figliale, non si peritò, diciamo, a rispondergli: «che egli l’avrebbe,
come sempre, ubbidito e seguito in capo al mondo; ma che ponderasse
se quella impresa era possibile; se le notizie che riceveva da quei
paesi lontani erano certe; se i soccorsi promessi parevano bastanti;
se infine Vittorio Emanuele, re costituzionale, era autorizzato a
promettergli un aiuto che solo d’accordo col Parlamento e col Ministero
avrebbe potuto arrecargli. Infine soggiunse non intendere come anche
giunto a Costantinopoli, il Generale potesse sperare di penetrare di
là, tanto più con un seguito d’ufficiali e in atteggiamento guerresco,
fino in Gallizia, e credere che il Governo ottomano o il principe Couza
non l’avessero ad arrestare per via anche prima che l’arrestassero al
confine transilvano i battaglioni austriaci. Infine pregò, scongiurò
il Generale a pensare alla risoluzione che stava per prendere: andarne
della sua vita tanto preziosa; andarne della salvezza della patria
medesima.»

«Che cosa importa la vita,» interruppe con uno de’ suoi più fieri
accenti il Generale: «è ora di finirla: l’Italia non si libera che
colla rivoluzione. Se volete partire, partite, se no manderò un altro.»

Il Guerzoni chinò la testa e partì. Giunto a Torino dava convegno a
tutte le persone indicategli dal Generale; Benedetto Cairoli, Giovanni
Acerbi, Clemente Corte, Enrico Guastalla, Giuseppe Missori, Giacinto
Bruzzesi, Giovanni Chiassi, Francesco Cucchi, Agostino Lombardi,[304]
e manifestò loro i propositi, se non è meglio dire, la volontà del
Generale, e li invitò, come n’aveva ricevuto l’incarico, ad Ischia,
dove avrebbero ricevute più compiute istruzioni. Al messaggio del
Guerzoni unanime fu il sentimento di tutti i suoi commilitoni, unanime
il dolore di quella risoluzione del loro Generale, e il proposito di
sconsigliargliela con tutte le loro forze. Lasciatigli pertanto in
questa disposizione d’animo, fatta una visita al generale Bixio al
Campo di San Maurizio, il Guerzoni il 6 di sera (gioverà rammentarsi
di questa data) ripartiva per Ischia; dove cinque giorni dopo, tra il
12 e il 13, lo raggiungevano pure il Cairoli, il Bruzzesi, il Corte,
il Guastalla, il Lombardi, l’Acerbi; insomma quasi tutti gli ufficiali
garibaldini dianzi accennati. Se non che sullo stesso vapore col
quale avevano viaggiato gli amici di Garibaldi erasi imbarcato pure il
signor Porcelli, e come vedremo, apportatore d’una novella totalmente
inaspettata. Giunta infatti tutta questa varia comitiva a Casamicciola,
il primo ad essere ricevuto dal Generale fu Benedetto Cairoli, il
secondo il signor Porcelli, col quale il Generale volle restar solo e
si trattenne lungamente. Ma quale non fu la meraviglia di tutti gli
astanti e convenuti nel sentire, poco dopo, dalle labbra stesse del
Generale: ogni idea di partenza abbandonata, l’impresa abortita e
libero ciascuno di tornare alle proprie case?

Perchè mai? Che cosa era accaduto? Quale era la nuova cagione di quel
mutamento così repentino e inopinato?

Il _Diritto_ del 10 luglio pubblicava a titolo di documento questa
sedicente protesta.

  «Domenica, 10 luglio 1864.

  »Avuta certa notizia che alcuni fra’ migliori del partito
  d’azione sono chiamati a prender parte ad imprese rivoluzionarie e
  guerresche fuori d’Italia, i sottoscritti[305] convinti:

  »Che noi stessi versiamo in gravi condizioni politiche;

  »Che nessun popolo e nessun terreno sia più propizio ad una
  rivoluzione per gl’interessi della libertà che l’italiano;

  »Che le imprese troppo incerte e remote, quali sono le indicate,
  ordite da principi, debbano necessariamente servire più a’ loro
  interessi che a quello dei popoli;

  »Credono loro dovere e per isgravio della loro coscienza
  dichiarare:

  »Che l’allontanarsi dei patrioti italiani in questi momenti non può
  che riuscire funesto agli interessi della patria.»

Come ognun vede, questo scritto senza data, senza firma, buttato là
dal giornale stesso che lo pubblicava senza una parola di conferma e
di schiarimento; che vagamente parlava di progetti generici in paesi
ipotetici, non poteva avere in sè stesso alcun valore, e sarebbe
probabilmente passato nel pubblico o inosservato o incompreso, come una
delle cento novelle de’ giornali che nascono al mattino e la sera son
morte.

Tale non fu il pensiero di Vittorio Emanuele. Sia che egli si fosse
avveduto del mal passo in cui s’era impigliato[306] e stesse spiando
uno scappavia per districarsene; sia che fosse sinceramente persuaso di
non poter più dopo quella pubblicazione del 10 luglio condurre colla
dovuta segretezza la trama avviata (anche i Re galantuomini quando
cospirano non dicono mai tutto intero l’animo loro), il fatto sta che
egli vede, o immagina, o finge vedere in quella anonima protesta una
denunzia pensata, una perfidia calcolata, una ostilità deliberata di
tutto quel partito d’azione col quale aveva fino allora congiurato e
trovando in questo solo fatto un motivo a’ suoi occhi plausibile per
giustificare la sua ritirata, annunzia a Garibaldi (per una lettera
recata da quello stesso Porcelli) che visto oramai il disegno propalato
da’ suoi stessi amici, e se compromesso col governo, si scioglieva da
ogni impegno e disdiceva l’opera intrapresa.

Grande fu naturalmente l’indignazione di Garibaldi a questo inaspettato
messaggio, e nella prima concitazione dell’animo, vedendo egli pure
nella protesta del 10 luglio la cagione prima della fallitagli impresa,
corse egli pure, sospinto da maligne suggestioni, a sospettarne autori
coloro che più erano in voce di avversi alla spedizione e primo di
tutti il suo segretario Guerzoni, che n’era invece più di tutti non
che innocente affatto inconsapevole.[307] Pochi giorni di riflessione
però bastarono a riaprirgli gli occhi, ed a fargli discernere di
nuovo i veri dai falsi amici. Quanto più grande era la sconvenienza,
diciamo senz’altro, la colpa della protesta del 10 luglio, tanto più
appariva impossibile che alcuno degli ufficiali garibaldini convenuti
o chiamati ad Ischia vi avesse partecipato. Nè Cairoli, nè Acerbi, nè
Corte, nè Guastalla, nè Missori, nè Cucchi, nè Chiassi, nè Bruzzesi,
nè Lombardi, nè Guerzoni erano uomini da dissimulare il loro pensiero,
o da rimpiattarsi dietro i nascondigli dell’anonimo per esprimerlo.
Essi non approvavano quella scorreria austro-orientale, e non lo
nascondevano; essi potevano anche tentare d’opporvisi manifestando
schiettamente il loro dissenso; ma chi appena li conosceva li sapeva
assolutamente incapaci di abusare d’un segreto che il loro Generale
avesse loro confidato, e molto meno di cospirare di soppiatto contro di
lui per farne abortire i disegni. Non era certo da coloro che l’avevano
sino allora seguito in silenzio e ad occhi chiusi da Varese a Marsala e
da Sarnico ad Aspromonte, che Garibaldi poteva temere un atto, non che
di slealtà, di defezione o di rivolta. Anzi tanto era, a que’ giorni,
tenace il loro attaccamento, e cieca la loro devozione, che se egli si
fosse ostinato a partire e avesse detto loro come l’udimmo altre volte
«chi vuol restare resti: andrò anche solo;» mettiamo pegno che nessuno
di que’ suoi fedeli, pur credendo di perdersi con lui, avrebbe avuto
cuore d’abbandonarlo.

Fortunatamente a cessare per lui e per l’Italia questo pericolo
venne la lettera di Vittorio Emanuele, e il dì appresso, 14 luglio,
Garibaldi, cupo, triste, aggrondato, ripartiva sullo _Zuavo di
Palestro_ per la sua Caprera, null’altro portando seco del gran fuoco
artificiale di Londra e del tizzone passionatamente covato d’Ischia,
che un pugno di cenere; la cenere amara di due sogni distrutti.


XII.

Giungemmo così a quell’anno 1866 che doveva essere la prova di fuoco
del nostro valore e non fu che la superflua conferma della nostra
fortuna. Le origini della guerra che sta per iscoppiare, i negoziati
diplomatici che la prepararono, gli interessi e le alleanze che ne
furono il fondamento, sono noti e non sarebbe di questo libro il
riandarli punto per punto e nemmeno il compendiarli. Soltanto ci sia
lecito rammentare, a onore della generazione che governò i primordi del
nostro risorgimento, come i primi a scoprire, quasi divinare, quella
comunanza di interessi e d’intenti che segretamente stringeva l’Italia
e la Prussia, e grado grado le preparava a trovarsi un giorno sui
medesimi campi, contro il medesimo nemico, furono gli uomini di Stato
italiani.

Questo concetto, che trent’anni fa poteva parere poco meno che una
utopía, fu, staremo per dire, vaticinato nel 1848 da Pellegrino Rossi
in una delle sue tre celebri lettere da Roma, che morte repentina
gli impedì di pubblicare;[308] ripreso nel 1858 dal conte di Cavour,
che tentava pel primo farne oggetto di diplomatiche trattative, fu di
nuovo enunciato da lui nel Parlamento del 1861 come un’eventualità non
lontana e nell’anno stesso, mercè la fida e ascoltata parola di Alfonso
La Marmora che n’era sempre stato caldo favoreggiatore, insinuato
per la prima volta nella Corte di Berlino, dove il solo nome d’Italia
metteva tuttora il ribrezzo d’una befana.[309]

Quanto poi al 1866, nessuno che abbia letto i documenti di quell’anno
potrà negare oramai che una gran parte del merito della conchiusa
alleanza non ispetti al generale La Marmora. Il Bismarck fu il primo
a concepirne il disegno e intavolarne i negoziati, e non gli torremo
questo vanto; a patto però che non si neghi al La Marmora l’altro non
minore d’aver prontamente afferrata la mano che, ancora esitando, gli
era stesa, e soprattutto d’essere rimasto fedele ai patti stipulati
anche quando l’alleato col suo contegno, e l’avversario colle sue
offerte, lo tentavano a violarli.

Furono la sua coerenza, la sua fermezza, la sua lealtà, non disgiunta
in taluni istanti da molta prudenza ed accortezza, che condussero
in porto quella nave respinta, in sulle prime, da tanti venti, e che
abbandonata un giorno dallo stesso suo maggior pilota, per poco mancò
di naufragare. Se il generale La Marmora col mettere risolutamente
l’Imperatore de’ Francesi nelle confidenze del trattato non ne avesse
assicurata all’Italia ed alla Prussia l’amichevole neutralità, non
sappiamo se il conte di Bismarck sarebbe riuscito da solo a condurre a
termine un disegno di cui la Francia aveva tanta ragione d’adombrarsi;
se quando l’Austria propose il disarmo simultaneo (21 aprile) e
la Prussia l’accettò, e Napoleone III lo consigliava, l’Italia non
avesse risposto accelerando i suoi armamenti, non è ben certo con
quale altra carta il conte di Bismarck avrebbe potuto rimettere la
partita pericolante; se infine, anche essendone giustificato dalle
ambiguità del suo alleato,[310] il La Marmora avesse consentito alle
proposte di cessione della Venezia, fattegli dall’Austria per mezzo
di Napoleone III, a sola condizione di restare neutrale nella lotta
imminente fra i due Potentati tedeschi, ognuno intende che non solo
della lega italo-prussiana non restava più nemmeno la memoria, ma
assai probabilmente la vittoria di Sadowa si sarebbe compiaciuta di
volare sotto altre bandiere. E dicasi pure che il rifiuto del generale
La Marmora non fu, insomma, che il semplice adempimento d’un volgare
dovere; resta tuttavia a sapersi quali interpretazioni avrebbe dato ad
un siffatto dovere il Machiavelli prussiano se per avventura l’Austria
gli avesse fatto offrire di ritirarsi in perpetuo dalla Confederazione
germanica, a patto solo di lasciarla scapriccire in Italia. Assai
probabilmente l’uomo che ci offriva la sua amicizia, e ratificava poco
dopo i preliminari di Gastein, che interpretava il Trattato dell’8
aprile obbligatorio soltanto per l’Italia e si rifiutava di impegnare
la Prussia a soccorrerci nel caso che l’Austria ci assalisse; che
aveva sempre considerato la questione di Venezia «come una carta
da giuocare,» buona a puntarsi così contro l’Austria per amicarsi
l’Italia, come contro l’Italia per ingraziarsi l’Austria; assai
probabilmente, diciamo, un uomo siffatto si sarebbe intascato il lauto
e gratuito compenso, lasciando solo nelle peste il dabbene alleato, fra
l’ammirazione ancora più probabile di tutti i volghi cui non sarebbe
parso vero di gridare lui genio portentoso della politica e il gabbato
ministro italiano un povero gonzo!... Onore ad Alfonso La Marmora, che
preferì per sè il rischio d’una reputazione perpetua di dabbenaggine e
per la patria sua le alee cimentose ma onorate d’un’amicizia non bene
saldata e d’una guerra sempre ardua, al marchio, che nessuna gloria
avrebbe scancellato e nessun guadagno riscattato, di mancatore di fede.


XIII.

Gli avvenimenti frattanto erano corsi colla rapidità delle cose che
hanno in sè stesse il loro impulso e la loro ragione. Il 6 marzo
pervenivano a Firenze le proposte dell’alleanza prussiana; il 7 il
generale Govone partiva per Berlino, latore delle controproposte
del La Marmora: l’8 d’aprile il Trattato offensivo e difensivo era
conchiuso: dal 12 al 27 aprile tutte le disposizioni preparatorie della
mobilitazione erano state prese: il 27 veniva incorporata la seconda
categoria della classe 1844: il 28 decretato il richiamo delle due
classi in congedo, e la formazione dei depositi: in sui primi di maggio
l’esercito veniva ordinato e mobilitato in sedici divisioni attive
e quattro Corpi d’armata, che andavano concentrandosi tra Cremona,
Piacenza, Bologna: finalmente il 6 maggio era decretata la formazione
di cinque reggimenti di Volontari, il comando dei quali era commesso al
generale Garibaldi; stabiliti i depositi a Como ed a Bari, aperti nel
14 dello stesso mese gli arruolamenti.

La lode schietta però che la storia deve tributare al generale La
Marmora ed al suo Ministero della Guerra per la rapidità con cui in
breve tempo, e malgrado la necessità di serbare in sul principio il
segreto, fece passare l’esercito (indebolito dalla smania intermittente
delle economie e mancante persino dell’ultima sua classe) dal
piede di pace al piede di guerra, portandolo in poche settimane,
sufficientemente istruito e provvisto, sulle prime linee d’operazione,
quella lode, diciamo, non gli potrà esser concessa, nè per il modo con
cui provvide all’armamento della flotta, nè per l’indugio che frappose
all’ordinamento dei Volontari.

E lasciando a cui ne spetti il doloroso assunto di parlare dell’armata,
ecco quale fu la condotta del Governo verso i Volontari.

Nell’opera ufficiale la _Campagna del 1866 in Italia_, si legge:
«L’idea della formazione dei Corpi volontari si presentò al Ministero
sino dai primi indizi di guerra come questione risolta di sua natura.
Se non che le considerazioni che lo avevano trattenuto da qualunque
misura d’armamento manifesto, gli impedivano di porre per tempo mano a
qualsiasi provvedimento di tale fatta, che avrebbe potuto essere segno
di guerra decisa.[311]»

Queste ultime considerazioni se giustificano, fino a un certo punto,
il ritardo della chiamata pubblica dei Volontari (e anche questa
poteva essere anticipata di parecchi giorni), non ci pare abbiano lo
stesso valore per iscusare il troppo lungo indugio frapposto alla
loro formazione ed ordinamento. Appunto perchè la istituzione de’
Corpi volontari era «già questione risolta di sua natura;» appunto
per ciò importava che ne fossero da tempo apparecchiati i quadri, il
vestiario e l’armamento. Nè contro siffatte provvisioni preparatorie
poteva stare la ragione della prudenza politica accampata giustamente
contro gli arruolamenti. Questi erano per necessità pubblici; quelli
potevano anche essere segreti, o almeno larvati e dissimulati in guisa
da togliere ogni appicco legittimo alle rimostranze diplomatiche, e
da poter essere poi in ogni evento, senza grande compromissione, o
negati, o attenuati, o disdetti. Come si preparavano negli arsenali
armi e vesti per trecentomila soldati, nulla vietava se ne preparassero
alcune migliaia di più per i Volontari, che già si sapeva di non poter
rifiutare; come i Comitati di Stato Maggiore lavoravano pubblicamente
da circa due mesi alla mobilitazione dell’esercito, nulla avrebbe
impedito di affidare a Comitati segreti di ufficiali superiori
garibaldini la composizione ed epurazione dei quadri, opera fra tutte
ardua, lenta ed importante. Nè soltanto circa al tempo si sbagliò; ma
altresì circa al numero della milizia cui si doveva provvedere; anzi
il primo errore derivò manifestamente dal secondo. Il Ministero, lo
confessò egli stesso, non aveva calcolato che su quattordici o al più
quindicimila Volontari.[312] Ma davvero non si sa intendere su quale
criterio questo calcolo fosse basato. Nel 1860 Garibaldi tra utili ed
inutili rassegnò circa quarantamila Volontari, ond’era ragionevolmente
presumibile ch’egli ne avrebbe contati altrettanti nel 1866; più anzi
se si tenga conto che la sanzione reale, dando all’istituzione dei
Volontari un carattere prettamente monarchico e governativo, avrebbe
spinto sotto le insegne garibaldine molti che nel 1860 per ritrosia
o diffidenza politica ne avevano rifuggito, e che infine la guerra
all’Austria era la guerra più popolare di tutte; la guerra nazionale
per eccellenza.

Ma per credere ai quarantamila Volontari, per apparecchiarne in tempo
opportuno l’agguerrimento, per adoperarli con fiducia e con profitto,
occorreva una fede che al generale La Marmora era disgraziatamente
sempre mancata. L’uomo che in Parlamento aveva dichiarato d’aver per la
sola parola _rivoluzione_ un’antipatia invincibile, non poteva essere
un amico sincero e cordiale di quella milizia e di quel Capitano che a’
suoi occhi rappresentavano l’incarnazione armata dell’esecrata parola.
Tutto ciò che sapeva di popolare, di improvvisato, di exlege, gli era
istintivamente sospetto. Però i Volontari egli poteva subirli come
fece nel 1859, ma non amarli; reputarli in qualche caso non inutili,
non mai necessari. Nei suoi _Ricordi_ rammenta con certa compiacenza
d’aver proposto egli il _mezzo termine_ di _Cacciatori delle Alpi_;
ma quel _mezzo termine_ era la estrema concessione a cui gli fosse
dato arrivare: il di più lo poteva concedere, molto a malincuore, alla
opinione pubblica, al pregiudizio popolare, alla opportunità politica,
non mai alla sua coscienza. A’ suoi occhi un corpo grosso di Volontari
era militarmente un imbarazzo e politicamente un pericolo. E tanto più
in quell’anno 1866, in cui colla guerra veniva a coincidere la partenza
de’ Francesi da Roma! Perocchè, domanda a’ lettori uno de’ suoi più
devoti biografi: che cosa poteva accadere se Garibaldi alla testa di
quaranta o cinquantamila Volontari rifiutava di deporre le armi fino
a che i Francesi avessero sgombrato, o fosse marciato direttamente
su Roma? «L’Imperatore non aveva mancato di mostrarsi inquieto di
questa eventualità e per quanto il Ministro a Parigi avesse tentato di
rassicurarlo, questi non si lusingava di esservi riuscito.[313]»

Date pertanto queste idee, che dal punto di vista strettamente
monarchico e conservatore in cui il La Marmora si poneva erano
logiche, le conseguenze furono immancabili ed immediate. I presunti
quindicimila Volontari diventarono in meno d’una settimana trentamila,
talchè non bastando più i due depositi di Como e di Bari a capirli,
non che ad acquartierarli, fu mestieri sospenderne per alquanti giorni
gli arruolamenti, stabilire in fretta e furia altri quattro depositi:
Varese, Gallarate, Barletta, Bergamo; portare i battaglioni da venti a
quaranta, raddoppiare e triplicare di conserva i mezzi d’armamento e di
corredo, i quali, però, nonostante tutto il buon volere dei Reggitori
della guerra, restarono sempre, fino alla fine della campagna, e per
numero e per qualità inadeguati al bisogno.

E più grave ancora apparve la insufficienza de’ quadri. Le Commissioni
di scrutinio non posavano nè dì nè notte; ma strette dall’urgenza,
sopraffatte dal lavoro, dovettero ben presto abbandonare ogni proposito
di cerna rigorosa, prendendo gli ufficiali come venivano loro alle
mani, spesso e malgrado loro fra i meno idonei, e mandandoli poi,
a sorte ed a casaccio, a questo o quel reggimento; taluno de’ quali
veniva così a sovrabbondare d’inetti ed altri a mancare de’ necessari.
E poichè la confusione del centro non poteva a meno d’irradiarsi,
moltiplicando, alla periferia, i comandanti di corpo incalzati pur
essi dalla fretta, «che l’onestade ad ogni atto dismaga,» obbligati
a provvedere al tempo stesso con pochi e spesso inesperti ufficiali
all’arruolamento ed all’epurazione, ai quadri ed all’amministrazione,
alle distribuzioni ed alle proviande, erano di necessità forzati a
trascurare, o almeno a non curare quanto avrebbero dovuto o voluto la
istruzione e la disciplina, che erano il supremo e più urgente bisogno
di quelle improvvisate milizie.

Tuttavia e malgrado questi difetti, anzi staremmo per dire vizi
organici, l’opera preparatoria procedeva senza sosta, e Garibaldi,
null’altro potendo, si sforzava d’agevolarla col consiglio e
coll’esempio. Pregato a non muoversi da Caprera, pel timore che la sua
venuta sul continente potesse accrescere gl’imbarazzi del Governo,
aveva subito obbedito; ricevuto l’annunzio della sua nomina, vi
aveva risposto pubblicamente con fervide proteste di gratitudine e
di devozione al Re ed a’ suoi Ministri;[314] interpellato da amici,
da commilitoni, da società politiche sul da farsi, rispondeva a tutti
una sola parola; «Guerra e concordia.[315]» Infine quando sulla fine
di maggio il colonnello Vecchi si recò a Caprera, incaricato dal
Governo di concertare con lui le ultime provvisioni per il comando e
l’ordinamento dei Volontari, ed esporgli insieme il piano di guerra
stabilito per la imminente campagna, egli pose uno studio singolare
nel mostrarsi arrendevole su tutti i punti, riducendo al più stretto
necessario le sue domande, e protestandosi contento di qualunque parte
gli si volesse assegnare.

Circa ai Volontari approvò quasi senza discutere tutto quanto era
stato predisposto; chiedendo soltanto che al corpo fossero aggiunti
uno squadrone di guide, un battaglione di Bersaglieri volontari, e,
se dovesse operare in Tirolo, alcune batterie da montagna: nominò
egli, poichè glie n’era lasciata la facoltà, i Comandanti di corpo, e
gli ufficiali dello Stato Maggiore, esprimendo però il desiderio, che
non fu poi soddisfatto, di poter accettare nei quadri gli ufficiali
che avevano disertato per lui ai giorni d’Aspromonte e che perciò
erano stati cassati dai ruoli dell’esercito. Interpellato circa
all’Intendenza, rispose: «Datemi Acerbi e del danaro, e basta;»
consultato circa al concetto di ordinare i venti reggimenti in quattro
divisioni, esternò qualche dubbio, natogli principalmente dal timore
che un siffatto ordinamento potesse nuocere alla mobilità e speditezza
del corpo; ma rimettendosi anche in questo al giudizio de’ suoi capi.
Soggiunse, tuttavia, che qualora la propostagli formazione fosse
deliberata, egli proporrebbe per comandanti delle quattro divisioni,
Nino Bixio, suo figlio Menotti, Nicola Fabrizi, e, questo solo
basterebbe a nobilitare l’uomo, il generale Pallavicini, quel medesimo
che l’avea ferito ad Aspromonte. Nè questo gli bastò, chè discorrendo
della eventualità di combattere sopra un terreno più vasto, dichiarò
che avrebbe tenuto a onore e fortuna singolari l’avere sotto i suoi
ordini una divisione dell’esercito regolare, la quale ben pensava
che a fianco dei suoi Volontari avrebbe rappresentato la più nobile
incarnazione dell’unità della patria.

E tutto ciò, meno gli ufficiali disertori, gli fu prontamente e
largamente promesso; ma in qual misura al lungo promettere sia
seguito l’attendere lo vedremo in appresso. Quanto poi al disegno
generale della guerra, espresse, poichè erane richiesto, il suo
parere, lasciando però anche intorno a siffatto argomento chiaramente
trasparire che nessuno più di lui era alieno dall’imporre le proprie
idee, e che unico suo pensiero in quella guerra era di servire il
proprio paese e di combattere. A’ suoi occhi il concetto sul quale lo
Stato Maggiore generale italiano pareva essersi già fermato, di agire
sul Po allo scopo di girare il quadrilatero, distraendo l’attenzione
del nemico con alcune dimostrazioni sul Mincio, era buono in massima;
solamente alla sua felice riuscita credeva indispensabili due
condizioni: che sul Po, d’onde doveva partire lo sforzo principale,
fosse concentrato il grosso dell’esercito e che alla dimostrazione sul
Mincio fossero assegnate poche divisioni, le quali più che a combattere
dovessero pensare a muoversi e manovrare. Quanto poi a sè stesso,
non negò di mirare ad una impresa più vasta ed arrischiata, meditata
a lungo e del cui buon successo sentiva quasi di poter rispondere.
«L’intendimento suo (lo diremo colle stesse parole della Storia
ufficiale) non era già di tentare una punta della Dalmazia attraverso
alle provincie slave del mezzodì verso l’Ungheria e porre piede
nell’Istria alle spalle di Pola; ma sbarcare presso Trieste, occupare
quella città e manovrare verso nord sul rovescio delle Alpi Giulie
e Carniche per impadronirsi dei passi che dal Veneto conducono nelle
valli della Sava e della Drava.[316]»

Se non che avendo il colonnello Vecchi fatto considerare a Garibaldi
che il Governo italiano non avrebbe potuto impegnarsi in quel progetto
«se non a guerra cominciata, quando la situazione politica e militare
si fosse rettamente disegnata,» (quando cioè l’esercito italiano fosse
riuscito a postarsi gagliardamente nel Veneto, e la Confederazione
Germanica, che la Prussia aveva interesse a non disgustare, avesse
chiarito meglio i suoi propositi circa Trieste e l’Istria), il Generale
si persuase subito della gravità di queste ragioni (specie della
prima, che era la sola valida), e diede al suo interlocutore questa
testuale risposta, che basta di per sè sola a qualificare i sentimenti
con cui egli s’accingeva a quell’impresa: «Certamente ho anch’io,
come gli altri, il mio piano di campagna. Espongo le mie idee, se
sono consultato, e naturalmente ho piacere di vederle messe in opera;
ma non farò mai difficoltà ad eseguire i comandi del capo supremo
dell’armata.[317]»

Siccome però il colonnello Vecchi aveva pure dovuto soggiungergli
che, nel primo periodo della guerra, il Governo l’aveva destinato ad
operare in Tirolo, donde soltanto nel momento in cui la spedizione
transadriatica fosse matura avrebbe potuto essere richiamato, il
Generale accettò tosto l’offertagli impresa e volgendosi senz’altro a
studiare i mezzi che potessero agevolargliene la riuscita, «richiamava
fin d’allora l’attenzione sulla necessità di provvedere alla difesa
del Lago di Garda, consigliando di armare batterie potenti, anche
fino a venti o trenta pezzi, su zattere da rimorchiarsi col mezzo di
vapori o di canotti a remi, assicurando aver egli stesso impiegato
un tale espediente con successo nel Plata. Consigliava pure, e
vivamente raccomandava, che si riunissero sulle rive del Garda molte
imbarcazioni, quand’anche si fosse dovuto trasportarle colla ferrovia
da punti lontani, e ciò per transitare attraverso il Lago grosse forze,
e prendere piede sulla sponda sinistra, nello scopo di facilitare il
passaggio del Mincio all’esercito e di assicurare il possesso di quella
regione collinosa, che forma il punto più debole del Quadrilatero.»

E soggiunge il dotto ufficiale, da cui abbiamo tolto a bello studio
queste parole: «e a nessuno sfuggì la saggezza di tale consiglio; ma
la mancanza di tempo, la ressa, e tant’altre cagioni note e malnote
impedirono di effettuarlo, sicchè (notevoli parole) mentre l’Austria
signoreggiava il Lago di Garda colle fortificazioni di Peschiera e
di Riva, ed una flottiglia di sei cannoniere e di due vapori a ruote,
armate le prime di due pezzi ciascuna ed i secondi di sei pezzi, noi
non avevamo sul Lago che cinque cannoniere male in arnese, armate
ciascuna di tre pezzi; una sola di esse in buono stato, le altre
inabili al movimento.[318]»

Nè con questo vogliamo dire che seguendo quei concetti le fortune del
1866 sarebbero state diverse; pur troppo gli spropositi commessi e i
difetti apparsi nella preparazione e nella condotta di quella guerra
furono tali che non si sa più quale disegno, per eccellente che fosse,
avrebbe potuto dar la vittoria; a noi basti dire che le idee colle
quali si combattè nel 1866 non furon quelle di Garibaldi, che nessuno
de’ suoi consigli fu ascoltato, e nessuna delle sue proposte accolta e
messa in atto.

La campagna del 1866 fu in realtà la negazione di ogni concetto. Fra
la dimostrazione sul Mincio e l’irruzione dal Po, fu scelto un mezzo
termine che aveva i difetti di entrambi i sistemi, senza alcuno de’
vantaggi che la scelta risoluta e l’attuazione compiuta d’un solo
avrebbe portati seco. Le parti furono invertite: l’accessorio divenne
il principale, e il principale l’accessorio; il passaggio del Po fu
subordinato alla dimostrazione sul Mincio, la quale poi si mutò in
un’irruzione; ma perchè anche la irruzione non era stata nè seriamente
pensata, nè risolutamente voluta, nè convenientemente predisposta,
si tramutò a sua volta in un’azione, anzi in una sequenza d’azioni
imprevedute, estemporanee, sconnesse, che avrebbero reso difficile la
vittoria anche ad un esercito più prode e più numeroso di quello che
fu mandato a dar di cozzo ciecamente contro i colli di Sommacampagna
e di Custoza, la mattina del 24 giugno. Che se a questo fondamentale
errore si aggiunga la funesta dualità del comando e la discordia dei
capi, con tutto il corteo degli equivoci, dei malintesi, dei puntigli,
dei ripicchi che ne furono il naturale portato, si spiegherà ancora più
facilmente, senza bisogno di acute disquisizioni strategiche, come una
campagna che pareva vinta prima che intrapresa, cominciata con tanta
superiorità di forze, e ardore di milizie, ed entusiasmo di popoli,
esordisse da una sconfitta, indarno palliata col barbarico eufemismo
d’_insuccesso_, e dopo una ritirata precipitosa senza ragione, e un
lungo ozio senza scusa, finisse in una passeggiata militare senza
gloria e in una conquista senza merito.


XIV.

Il 10 giugno, il generale Garibaldi, chiamato finalmente dal Ministero,
s’imbarcava a Caprera sul _Piemonte_ (quello stesso auguroso piroscafo
della spedizione di Marsala), e da Genova correva diritto in Lombardia
a passarvi la prima rivista de’ suoi Volontari. L’11 era a Como; il 12
a Monza, ove si ordinavano le guide, indi a Varese e Gallarate; il 13
a Lecco; il 17 a Bergamo, dove s’era stabilito il deposito del primo
battaglione Bersaglieri; e con quale entusiasmo d’amore l’accogliessero
quei giovani che vedevano in lui la gemina personificazione della
patria e della vittoria, lo si immaginerà di leggieri. I Volontari
erano ancora nello scompiglio della prima formazione. I quadri erano
tuttora incompiuti, scarseggiavano il vestiario e le buffetterie, un
battaglione aveva le camice rosse e non i berretti, un altro le uose e
non i calzoni: a tutti poi mancavano le armi; pure Garibaldi, anzichè
crucciarsene, si compiaceva di quel disordine e vedendosi sfilar
davanti quel carnevale bizzarro e pittoresco di tinte e di foggie che
ormai era la veste abituale e caratteristica del garibaldino, esclamava
gioiendo: «Non erano diversi i _Mille_.» A tutti però raccomandava la
disciplina, l’esercizio al bersaglio, la scherma della baionetta; a
tutti lasciava di quelle sue parole colle quali era solito da tant’anni
a trascinarsi dietro la gioventù italiana; e a trasformare anche i
più fiacchi e restii in anime d’eroi, pronti ad ogni cimento e ad ogni
sacrificio.[319]

Ma oramai, come egli stesso diceva, l’ora delle parole era passata
e suonava quella de’ fatti. Il 19, cessate in Germania le incertezze
che fino allora avevano tenuto in sospeso anche l’Italia, la guerra
era deliberata: il generale La Marmora lasciava il Ministero per
recarsi ad assumere il comando dell’esercito: le dieci divisioni del
Mincio e le sette del Po si avvicinavano alle sponde de’ due fiumi
apparecchiandosi al passaggio; e il generale Garibaldi da Brescia,
dove aveva già stabilito il suo Quartiere generale, moveva col 1º
reggimento (colonnello Corte), col 2º (colonnello Spinazzi) e col 1º
battaglione de’ Bersaglieri (maggiore Castellini), i soli armati fin
allora, moveva, dico, alla volta di Salò; allineandosi così all’estrema
sinistra dell’esercito e prendendo in sua custodia i valichi della
Valsabbia e della sinistra del Garda, primo passo alle operazioni in
Tirolo. Ed anche Salò non era che una tappa. Esplorate egli stesso
nella giornata del 21 giugno le posizioni intorno al Caffaro,[320]
appena è raggiunto dal secondo reggimento ripiglia la sua marcia
avanti; sicchè tra il 23 e il 24 viene a trovarsi con tutte le milizie
di cui poteva pel momento disporre nei dintorni del Lago d’Idro,
tra Hano, Vestone e Rocca d’Anfo, e all’indomani, nel giorno stesso
di Custoza, spingere le sue teste di colonna al Ponte del Caffaro e
a Monte Suello, prime chiavi di quel confine che era impaziente di
varcare.

Se non che nella sera stessa giungeva al Quartier generale di Salò,
dove Garibaldi dimorava ancora, l’inaspettato annunzio dell’infelice
giornata combattuta tra il Mincio e l’Adige, e nel mattino vegnente
l’ordine di proteggere Brescia, anzi per dir la frase usata dal
Quartier generale del Re, «di proteggere l’eroica Brescia.» E
l’annunzio e l’ordine erano per il nostro Capitano due volte
dolorosi: poichè alla trafitta ch’egli pure al pari d’ogni altro
cittadino dovette sentire per quel primo infelice esperimento delle
armi italiane, si associava nell’animo suo il rammarico di dovere
abbandonare quelle due posizioni di Monte Suello e del Caffaro; la
prima fortunatamente occupata senza colpo ferire, l’altra valorosamente
difesa in quella stessa mattina del 25 contro un furioso assalto di
nemici;[321] e perdute le quali non si sapeva quanto sangue sarebbe
occorso a riconquistarle. Tuttavia non v’era luogo ad esitare, e
Garibaldi s’apprestò ad eseguire l’ordine coll’usata sua energia
e rapidità. Richiama in gran fretta le truppe accampate intorno
ai confini, e le fa scendere a marcia forzata lungo la riviera del
Lago; fa avanzare da Brescia a Lonato il 3º reggimento (colonnello
Bruzzesi), che vi era appena giunto e appena vi aveva preso le armi;
chiama contemporaneamente da Bergamo, per ferrovia, il 4º (colonnello
Cadolini), di cui già aveva spedito il primo battaglione a custodia
della Valcamonica minacciata da un’incursione austriaca, corre egli
stesso nella sera del 25 a Lonato, e scorto a colpo d’occhio il partito
che si poteva trarre da quella cerchia di contrafforti che girano
dall’estrema punta occidentale del Garda ai poggi di Castiglione,
scagliona colà tra Padenghe, Lonato e l’Esenta tutte le forze che può
avere sottomano e si prepara a disperata battaglia.

L’allarme fortunatamente fu vano. Il Generalissimo austriaco non aveva
alcuna intenzione di rischiare in conflitti spicciolati la facile
gloria del 24; e, da qualche scorribanda d’esploratori in fuori, si
tenne serrato nel suo Quadrilatero, intento assai più a spiare le mosse
del Cialdini che sperava avrebbe passato il Po e si sarebbe ingolfato
nel dedalo d’acque del Polesine. Ma indarno: l’esercito del Mincio
era già in ritirata sull’Oglio, disposto, pareva, a continuarla fino a
Cremona; l’esercito del Po, per naturale conseguenza, contromarciava
a sua volta per prendere posizione tra Bologna e Modena, e coprire
Firenze; talchè tra il 27 e il 30 giugno non restarono più difaccia
agli Austriaci che dieci o undicimila Volontari; più alcuni squadroni
dell’esercito regolare volteggianti tra il Chiese e il Mincio, e, non
si deve dimenticarlo, i petti dei Bresciani, risoluti, se lo straniero
avanzasse fin sotto le loro mura, a rinnovare le fiere prodezze del
1849.

Al 1º luglio però erano giunti in Lombardia dal mezzogiorno tre dei
cinque reggimenti che si organizzavano colaggiù; e poichè da un lato
appariva manifesto che l’Arciduca Alberto non aveva alcuna intenzione
di passare il Mincio e dall’altro contro simili scorrerie potevano
bastare le nuove Legioni sopraggiunte, Garibaldi, d’accordo col
Quartier generale, lascia una parte delle sue forze (terzo, sesto e
nono reggimento) a guardia delle sue spalle, e a protezione di Brescia,
tra Salò e Lonato; invia il quarto reggimento col primo battaglione
Bersaglieri a rinforzare le difese della Valcamonica; e incamminasi
egli stesso col primo e secondo reggimento e il 2º battaglione
Bersaglieri (maggiore Mosto) verso il confine trentino per ripigliarvi
le posizioni che Custoza, con tanto suo cruccio, l’aveva costretto ad
abbandonare.


XV.

Ma anche il nemico non era stato inerte. Nel giorno stesso in cui
Garibaldi si preparava a risalire la Valsabbia, l’Arciduca Alberto
pensava ad un movimento generale di tutto l’esercito imperiale,
talchè il dì appresso, 1º luglio, mentre i tre corpi del Quadrilatero
passavano il Mincio sui quattro ponti di Peschiera, di Monzambano, di
Borghetto e di Goito, il generale Kuhn, comandante il corpo austriaco
di operazione in Tirolo, spingeva innanzi le teste delle sue colonne
al di qua dello Stelvio, del Tonale e del Caffaro, preparandosi a
riprendere l’offensiva ed a capitanare egli stesso col grosso delle sue
forze una punta in Valcamonica.

E in quale posizione sarebbero venute a trovarsi le milizie garibaldine
non è chi non veda. Se l’esercito imperiale del Mincio avanzava ancora
d’una tappa; se le colonne del generale Kuhn compivano la loro mossa,
Garibaldi sarebbe stato o prima o poi inevitabilmente schiacciato.

Fortunatamente l’Arciduca Alberto s’arrestò. In quel 1º di luglio
pareva che tutti i campi fossero stati colti dalla febbre del
movimento; e in quello stesso giorno anche il generale La Marmora,
che comandava ancora la sinistra dell’esercito italiano, ordinava
all’intero corpo del generale Della Rocca di ripassare l’Oglio ed
il basso Chiese e di spingere una ricognizione, senza però impegnar
alcun combattimento, fino al Mincio. Questa mossa, che nella mente
del generale La Marmora doveva ridursi ad un semplice esercizio di
gambe, anzi per usare la celebre frase, ad una mostra «tanto per
far qualcosa;» questa mossa salvò Garibaldi. L’Arciduca Alberto,
infatti, il quale a sua volta aveva varcato il Mincio senza scopo
ben determinato e soltanto per muover campo e foraggiare alquanto sul
territorio lombardo, veduta da un lato quella avanzata dell’esercito
italiano sul Mincio, e dall’altro avuto sentore del riavvicinarsi
di Cialdini alle sponde del Po, insospettito, non senza ragione,
d’un ritorno offensivo che poteva coglierlo nel fianco e scalzarlo
dalla sua base, deliberò subitamente di ritornar sui suoi passi, non
solo riconducendo nei suoi alloggiamenti sulla sinistra del Mincio
l’esercito del Quadrilatero, ma ordinando a Kuhn di fare altrettanto
sulle Alpi, ripassando cioè il già varcato confine e riprendendovi le
sue prime posizioni difensive.[322]

Il generale Kuhn tuttavia, pur obbedendo agli ordini del suo
Generalissimo e cominciando nel pomeriggio del 2 il suo movimento
retrogrado, lasciò a guardia dello Stelvio a Sponda Lunga, del Tonale
a Ponte di Legno, e del Caffaro a Bagolino e Monte Suello forti
retroguardie che dovevano non solo proteggere la sua ritirata, ma
disputare, se il destro si porgeva, con energici contrassalti il
terreno e impedire l’avanzare degli assalitori.

E nacquero da ciò i combattimenti del 3 e 4 luglio di Monte Suello e
Vezza, che stiamo per raccontare brevemente.

Infatti nel pomeriggio del 2 luglio, intanto che la Brigata Corte, 1º e
3º reggimento, marciava alla volta del Caffaro, due colonne austriache,
di cui ancora non era dato misurare la forza, scendevano in senso
contrario, l’una da Moerno per Hano su Treviso, l’altra da Bagolino
per Presegno su Lavenone, rendendo così inevitabile per l’indomani uno
scontro. Nè il colonnello Corte pensò a fuggirlo; anzi rinforzate le
sue avanguardie che già erano giunte a Ponte d’Idro, e mandate quattro
compagnie col maggiore Salomone a girare per le pendici del Monte Berga
le alture di Bagolino, si preparava cautamente al conflitto, quando
Garibaldi, giunto nel frattempo a Rocca d’Anfo, venne a precipitarlo.

Siccome le due colonne nemiche s’erano ripiegate l’una a Moerno e
l’altra a Monte Suello, Garibaldi deliberò di non lasciar loro alcuna
tregua, e inviate altre due compagnie di Bersaglieri da Rocca d’Anfo,
guidate dai capitani Evangelisti e Bezzi, ad aggirare per la destra
Monte Suello, senza nemmeno attendere che l’aggiramento fosse compiuto,
ordinò al colonnello Corte di assalire di fronte la postura nemica e
di espugnarla. Nè si può dire che ai Garibaldini scarseggiassero le
forze; il colonnello Corte, non ostante i molti distaccamenti, aveva
sempre sotto mano diciassette compagnie e una batteria da campagna; ma
la postura nemica era gagliardissima; il Suello sbarra quasi a picco le
due vie di Bagolino e del Caffaro; quattro compagnie di _Kaiser-Jäger_
(800 uomini) lo custodivano, altre quattro compagnie di fanti ne
guardavano i dintorni, e snidarli di lassù a punta di baionetta era
difficile impresa. Ma Garibaldi, impaziente quel giorno e nervoso
fuor dell’usato, non volle persuadersene, e se ne ebbe a pentire
ben presto. Ordinato l’assalto, i Volontari si slanciarono animosi;
impotenti a rispondere coi loro sfocati ferravecchi alle eccellenti
carabine dei Tirolesi, non indietreggian per questo, e non ostante la
grandine di fuoco che li fulmina e li dirada, avanzano, avanzano sempre
e costringono ad ogni carica il nemico a cedere il passo, a risalire
ancora più in alto per cercare una nuova trincea sulle vette del monte.
Ma a tal punto anche le ultime forze degli assalitori vengono meno.
Indarno Bruzzesi e Corte rianimano colla voce e coll’esempio la lena
affranta dei loro valorosi; indarno gli ufficiali prodigano al fuoco
le vite fiorenti; e Bottino muore, Vianello muore, Trasselli e Piazzi e
Carlo Mayer e tant’altri cadono feriti sull’erta sanguinosa; indarno lo
stesso Garibaldi urla, rampogna, tempesta; ferito egli stesso al sommo
della coscia, è costretto a riconoscere la necessità della ritirata.
Ritirata però compiuta col massimo ordine, colla faccia al nemico,
e che avrebbe dovuto levargli dal capo ogni velleità d’inseguimento.
Egli invece, illuso da quel movimento retrogrado, pensa scendere sulla
strada del Caffaro, e, formandosi in colonna, passare a sua volta dalla
difesa all’offesa. Fu il suo passo falso: chè sfolgorato di fianco dai
quattro pezzi posti in batteria sui poggi di Sant’Antonio e ributtato
di fronte dalle compagnie del terzo reggimento, fu costretto a riparare
di nuovo, sanguinolento, dietro le roccie del Monte Suello, seminando
il terreno di molti de’ suoi morti o feriti.

La sera intanto era calata; i due campi stavan di fronte incapaci, sì
l’uno che l’altro, di dare un passo avanti, quando le quattro compagnie
del Salomone, mandate sin dal mattino a circuire la sinistra nemica,
essendo apparse sulla cima del Berga, gli Austriaci temendo, a ragione,
di vedersi all’indomani chiusa ogni via, abbandonarono nella notte
stessa la forte posizione e raggiunsero su per le Giudicarie il loro
Corpo principale.[323]

Ma se il combattimento di Suello non fu per le armi garibaldine che
uno scacco passeggiero, lo scontro di Vezza fu una vera sconfitta.
Nel pomeriggio del 3 luglio i sei battaglioni confidati al colonnello
Cadolini per la difesa della Valcamonica erano così distribuiti: il 1º
battaglione Bersaglieri (maggiore Castellini), un battaglione del 5º
reggimento (maggiore Caldesi) e due compagnie del 44º di Guardia mobile
a Vezza sopra Edolo, a pochi chilometri dal Tonale; tre battaglioni
del 5º reggimento, sotto gli ordini diretti dello stesso Cadolini, a
Campolaro di fronte al passo di Croce Domini, sulla via che congiunge
la Valcamonica alla Valtrompia.

Ora la retroguardia austriaca rimasta di guardia al Tonale saputa la
scarsa forza che le stava di fronte, obbedendo essa pure all’ordine
di proteggere il concentramento generale della difesa del Tirolo
con opportuni ritorni offensivi, deliberò di assaltare in Vezza
l’accampamento garibaldino non tanto per aprirsi un varco a imprese
maggiori, quanto per dare una scossa (frase prediletta del generale
Kuhn) al suo nemico e togliergli la volontà di avanzar troppo
sollecito. La mattina del 4 perciò una colonna di milledugento
imperiali, scortati da due pezzi d’artiglieria, piomba su Vezza,
e giovata dalla posizione infelicemente scelta dai difensori,
dall’assenza del comandante in capo, dal dissenso dei due ufficiali che
ne tenevano le veci[324] e infine dalla cieca avventatezza del maggiore
Castellini, che a petto scoperto si precipitò sull’inimico; posti fuori
di combattimento in men di tre ore, tra morti (14) e feriti (66) ben
ottanta gregari, morto lo stesso Castellini che sconta eroicamente
il temerario ardimento, morti il capitano Frigerio e il tenente
Prada, costringe il rimanente, malgrado sforzi disperati di valore, a
ripiegare su Edolo, per tornarsene poi nella sera medesima a Ponte di
Legno assai malconcia essa pure, ma paga del piccolo e forse insperato
trionfo.

E con questo ultimo scontro, il periodo dei combattimenti difensivi
delle milizie garibaldine in Lombardia era chiuso per sempre. Il 5
luglio Garibaldi portava il suo Quartier generale da Rocca d’Anfo a
Bagolino, e da quel giorno la campagna del Tirolo potè dirsi veramente
cominciata. Prima però di narrarne le vicende ci conviene esaminare
brevemente in quali condizioni Garibaldi la intraprendeva.

Nella seconda settimana di luglio disseminati da Brescia a Lodrone e da
Salò ad Edolo ubbidivano a Garibaldi quaranta battaglioni di fanteria;
due battaglioni di Bersaglieri riuniti in dieci reggimenti e cinque
brigate; tre batterie di artiglieria da campagna ed una da montagna;
due squadroni di guide a cavallo; quattro compagnie di Zappatori,
i quali sommati ai relativi corpi del treno, dell’intendenza,
dell’ambulanza,[325] componevano un totale di trentottomila uomini,
ventiquattro cannoni, dugento cavalli; non contati due piroscafi, dei
quali uno solo poteva navigare, e sei barche cannoniere prive fino al
6 luglio di cannoni e d’artiglieri, e ai quali era commesso non già di
fare, ma di simulare la difesa del Lago di Garda.

Ora nessuno negherà che una simile forza stimata alla sola stregua del
numero e paragonata a quella del nemico non potesse dirsi soverchiante
e quasi strapotente; soltanto a fare una forza non basta una massa,
e il valore d’un numero non è determinato dal solo esponente. Che
cos’erano in realtà quei trentottomila uomini? Come armati, come
vestiti, come ordinati, come agguerriti? come comandati? Chi sa come
sono nati i Volontari ha già sulle labbra la risposta.

Per armi, i macchinosi schioppettoni d’ordinanza del 1866, inferiori
anche al fucile ordinario austriaco, pressochè inservibili nella guerra
alpestre, se già non poteva dirsi altrettanto in ogni sorta di guerra;
incapaci poi di gareggiare nè da vicino, nè da lontano colle celebrate
armi di precisione del nemico contro il quale perciò ogni garibaldino
veniva a trovarsi in una necessaria e quasi organica inferiorità:
quella stessa inferiorità a cui lamentò d’aver soggiaciuto l’austriaco
contro il fucile ad ago del suo nemico di Sadowa.

E pari all’armi veniva la perizia di chi doveva trattarle. Nè per
colpa loro. Soldati improvvisati, sbalzati dopo un mese di caserma e
una settimana di piazza d’armi, al campo; ignari moltissimi del come
si caricasse uno schioppo; ignari parecchi di quel che uno schioppo
si fosse; armati la più parte per via, spesso alla vigilia d’andare al
fuoco; non esercitati al bersaglio, non addestrati alle marcie, nuovi
affatto alla montagna, quei trentottomila uomini non rappresentavano
una forza militare proporzionata al loro numero; essi erano tutt’al più
un gran campo di reclute; il rudimento d’un mirabile esercito, atto a
crescere e perfezionarsi più rapidamente di qualsivoglia altro, ma che
fino al termine del suo tirocinio restava pur sempre fra le mani del
suo Capitano uno strumento imperfetto, una lama mal temprata che egli
era obbligato a trattare tanto più riguardosamente, quanto più delicata
e gentile era la materia onde si componeva.

E non si discorra degli ufficiali. Il modo usato nella loro scelta
dà la norma della qualità loro. Scarsi di numero, lo erano ancora
più di capacità. Non mancavano i buoni e nemmeno gli ottimi; ma la
valanga dei mediocri, non senza mistura di pessimi, li soffocava.
Sentivasi soprattutto (fatte qui pure le debite eccezioni) il difetto
di ufficiali generali e superiori; più benemeriti la maggior parte
per servigi resi alla patria che ragguardevoli per gesta militari.
Come nei gregari così ne’ comandanti sovrabbondava il valore,
scarseggiavano l’arte e l’esperienza. Molti non avevano mai tenuto
un comando effettivo di truppe in campagna, e la stagion campale
più lunga che avesser veduta era quella di Sicilia del 1860. Non si
parli poi della guerra di montagna; era per essi un mondo nuovo; un
continuo viaggio d’esplorazione in terra incognita, in mezzo alla quale
avanzavan brancolando, interamente persi e disorientati. Nessuno, o,
per non esagerare, ben pochi coloro che sapessero come coprirsi nelle
marcie, guardarsi negli accampamenti, piantar un avamposto, misurare
approssimativamente una distanza, leggere con certa sicurezza una
carta. Anche ai migliori falliva in sulle prime il senso dell’insolito
terreno sul quale eran chiamati a guerreggiare, e soltanto più tardi,
dopo alcune settimane di lezioni, spesso dolorose, cominciavano
ad acquistarlo. «Fate l’aquila,» diceva loro Garibaldi; ma quando
principiarono a impararlo la guerra finì.

E non eran queste sole le cagioni che scemavano il valore di quelle
milizie in cui pure grandeggiavano tante nobili virtù; un’altra ve
n’era, forse la più grave di tutte: la infelicissima composizione dei
reggimenti, interamente disadatta alla guerra che dovevano combattere.
Anche qui l’imprevidenza aveva cagionato la precipitazione e la
precipitazione il disordine. A Garibaldi occorreva una formazione
svelta, leggiera, elastica, atta alle marcie, ai volteggiamenti,
alle sorprese della montagna; gli fu consegnata invece una compagine
abborracciata di corpi mastodontei, taluno de’ quali toccava, tal
altro superava i quattromila uomini, difficili a maneggiarsi in rasa
campagna, ma che tra i picchi delle Retiche, in quella guerra quasi
aerea di falchi e di camosci, diventavano per chi doveva comandarli
un problema ed un impaccio incessante; una cagione quotidiana di
quella lentezza, di quei ritardi, di quei contrattempi che, nei monti
principalmente, o costano la sconfitta o fanno pagar più sanguinosa la
vittoria.

E a rendere più evidente quanto siamo venuti sin qui discorrendo, si
volga uno sguardo al teatro nel quale Garibaldi era stato obbligato ad
agire. A’ suoi occhi l’impresa del Tirolo non poteva esser condotta con
rapidità e sicurezza, se non da chi avesse saputo a tempo assicurarsi
la signoria del Garda. Però il consiglio da lui dato fin dal 10 maggio
a Caprera di stabilirvi senza indugio una flottiglia di combattimento
e di trasporto capace non solo di tener spazzato il Lago dalle navi
nemiche, ma altresì, e più ancora, di tragittare sulla riva veneta
quante forze fossero stimate espedienti così a penetrare nel Trentino
per la valle del Sarca, come a dar la mano all’esercito italiano che
vinta la linea del Mincio si fosse incamminato verso l’alto Adige.

E in entrambi questi casi, sia che il buon consiglio fosse stato
seguito, sia che l’eventualità fortunata si fosse verificata, i
quarantamila Volontari non sarebbero stati più di troppo. Libero di
spiegarli e di muoverli per le tre grandi vie dell’Oglio, del Chiese
e dell’Adige, collegate tra di loro dalle squadriglie del Garda,
Garibaldi avrebbe potuto trarre dal suo esercito numeroso tutto il
frutto di cui era capace e marciare più rapidamente alla vittoria.
Invece quel che accadde è noto. Il Garda abbandonato alla difesa di
quattro o cinque squallide carcasse su le quali doveva essere gran
mercè, non di cacciare, ma di fuggire alla caccia del nemico, fu
in realtà e per tutta la durata della campagna un lago austriaco;
dal Mincio, anzichè l’annuncio della vittoria, suonò il grido
spaventato «d’un disastro irreparabile;» e per l’effetto combinato di
quell’imprevidenza e di questa sventura, ogni possibilità di operare
per la sponda orientale del Garda e per le due rive dell’Adige venne a
fallir per sempre.

Allora naturalmente non restò a Garibaldi che un partito:[326] tentare
l’irruzione di fronte e prendere la strada più diretta e vicina,
invadere il Tirolo per le valli del Chiese e di Ledro, e girati secondo
i casi, o sforzati i forti che le sbarrano, salir in tre colonne per le
Giudicarie la convalle di Conzei e la valle del Sarca nella direzione
di Trento, sotto la quale avrebbe potuto dare una battaglia finale e
decisiva con tutte le sue forze collegate.

Però chi abbia percorso una volta sola quelle Alpi, od anche volga
soltanto un’occhiata rapida alla loro Carta, comprenderà di leggieri
che penetrare con quarantamila uomini nelle anguste gole di quelle
vallate era quanto voler penetrar di colpo colla folla di Serse nella
bocca delle Termopili.

Nel primo istante, fino a che l’imbocco delle valli non fosse superato
e gli invasori non avessero guadagnato tanto terreno da potervisi
distendere e manovrare, l’avanzare per essi non poteva essere che assai
lento e penoso, e piuttosto un tentar a destra e a manca mille sentieri
e mille varchi, che un vero avanzare. Naturalmente in quelle strette
non ci potevano capire che le teste di colonna; epperò si può affermare
con tutta asseveranza che soltanto nel giorno in cui da un lato ebbe
posato saldamente il piede all’imbocco delle Giudicarie e dall’altro
colla presa d’Ampola afferrata la chiave della valle di Ledro; soltanto
cioè tra il 17 e il 18 luglio, Garibaldi potè spiegare in linea tutte
le sue forze e adoperarle utilmente.

Ma se Garibaldi era assai men forte di quello che appariva, il suo
avversario non era tanto debole quanto egli stesso voleva far credere.
Il generale Kuhn non poteva disporre, è vero, che di diciassettemila
uomini, trentadue cannoni e duecento cavalli; ma chi consideri come
quei diciassettemila uomini erano comandati, istruiti ed armati, e
quale rinforzo trovavano nel terreno stesso che dovevano proteggere,
nell’indole stessa della guerra difensiva che dovevano combattere,
vedrà la pretesa superiorità delle forze italiane scemare d’assai, e
la partita de’ due contendenti, per un reciproco compenso di vantaggi e
svantaggi, quasi pareggiarsi.

Composti in gran parte di quei Cacciatori imperiali che l’Austria
leva dal seno stesso del Tirolo, e i quali contendono agli Svizzeri la
fama di migliori tiratori d’Europa; formati abilmente in quattro mezze
brigate leggiere, di cui l’unità tattica predominante era la compagnia;
spalleggiati e collegati tra di loro da due grosse brigate di riserva;
armati di quei loro _Stutzen_ di precisione, che tra gli alpigiani
tirolesi sono quasi un’arma tradizionale e domestica; protetti oltre
che dai baluardi naturali del suolo, che è di per sè solo un grande
campo trincerato, da un sistema di forti asserraglianti le principali
arterie del paese (Lardaro nelle Giudicarie, Ampola e Ponal in Val
di Ledro, Riva in quella della Sarca, Buco di Vela e Doblino presso
Trento), quei diciassettemila combattenti potevano dirsi nel fatto
raddoppiati e fino a che non li avesse raggiunti sulle loro rupi la
baionetta garibaldina tenersi pressochè invincibili. Nè ciò basta
ancora: li comandava uno de’ più abili uomini di guerra dell’Austria;
quel generale Kuhn, che passa oggi ancora per uno de’ più dotti maestri
della guerra di montagna,[327] il quale, accoppiando alla prodezza
ed all’ingegno uno studio lungo e approfondito dello scacchiere che
era chiamato a difendere, diventava anche per Garibaldi un avversario
veramente temibile; il solo, forse, fra tanti che n’aveva scontrati in
trent’anni di guerra, il solo degno di lui.

E tuttavia la sorte preparava al Generale austriaco un altro immenso,
inestimabile vantaggio: Garibaldi era ferito! Conviene aver veduto
Garibaldi in campagna, conoscere il suo modo di guerreggiare,
ricordarsi quale partito egli sapesse trarre dalla sua prediletta
abitudine di salire ogni mattina il punto più culminante e sovente più
avanzato della sua linea per esplorare le mosse e le posizioni nemiche,
per comprendere tutto il valore di quella parola. La ferita era più
molesta che grave; ma dapprima configgendolo in letto, poscia, durante
la convalescenza, vietandogli l’uso del cavallo e non permettendogli
altro modo di locomozione che la carrozza, si risolveva difatto per
quell’uomo e quel Capitano in una vera e grossa infermità che lo
paralizzava in uno de’ punti più vitali della sua energia.

Ridotto a far la guerra, come suol dirsi, a tavolino, ed a fidarsi alle
relazioni de’ suoi luogotenenti, che non sempre erano i più fedeli ed
abili interpreti del suo pensiero; posto nell’impossibilità di essere
egli il primo esploratore o la prima vedetta del proprio esercito, che
tutto vede co’ suoi occhi, dirige colla sua voce, ravviva colla sua
presenza, il Capitano del 1866 non era più in realtà che un Garibaldi
dimezzato, uno spirito prigioniero del proprio corpo, privo degli
strumenti principali del suo genio: il moto e la vista.

Certo, che anche ferito e chiuso fra quattro pareti, l’occhio più
vigile del suo campo era sempre lui. Quel che Garibaldi vedeva,
concepiva, divinava anche dal fondo della sua cameruccia di Storo,
è inenarrabile e forse incredibile. Col solo aiuto d’una Carta
topografica egli passeggiava su per le creste e dentro i valloni
del Tirolo meglio di quegli stessi ufficiali che pur v’andavano e ne
venivano ogni mattina. Quante volte non lo udimmo noi stessi indicare
un sentiero, rilevare una posizione, scoprire una scorciatoia che i
suoi migliori luogotenenti non avevano talvolta nemmeno sospettata! Era
una meraviglia incessante; e non esitiamo ad affermare che tra tutte
le campagne combattute fino allora, quella in cui emerse maggiormente
la potenza geniale del nostro Capitano fu quella del Tirolo. Soltanto
era, come dicemmo, una potenza i cui effetti non potevano più farsi
sentire colla rapidità ed efficacia con cui si fece sentire altra volta
ad altri nemici, allorquando Garibaldi, in pieno possesso di tutte
le sue membra e di tutte le sue forze, era il primo nelle marcie, il
primo alle avanguardie, il primo alle scoperte, l’ultimo alle ritirate,
e poteva col sussidio del suo colpo d’occhio maraviglioso confermare
le ispirazioni della mente e vegliarne l’applicazione. Però ringrazi
il generale Kuhn, il suo bravo _Kaiser-Jäger_ di Monte Suello: quella
palla così bene aggiustata nella gamba del suo avversario gli vinse la
migliore sua battaglia.


XVI.

Ed ora vediamo i due campioni alla prova. Il 6 luglio la posizione
dei belligeranti era la seguente: Garibaldi col Quartier generale,
il 1º reggimento ed il 2º battaglione Bersaglieri a Bagolino, e posti
avanzati verso il Monte Brufione; il 3º reggimento al ponte del Caffaro
con avamposti a Lodrone; il 2º tra Tremosine e Limone con avamposti
verso il Monte Notta sul confine meridionale della Val di Ledro; il
7º e l’8º scaglionati lungo il Garda tra Salò e Gargnano; il 6º e il
9º in marcia da Salò a Vestone; il 5º e il 10º ancora in formazione
ai due depositi di Varese e di Barletta; il 4º finalmente col 1º
Battaglione bersaglieri e un battaglione di Guardie nazionali tra Edolo
e Incudine a custodia della Valcamonica. Nel campo opposto invece il
generale Kuhn col suo quartiere e la brigata di riserva Kaim (6921
uomini, 12 cannoni) a Bad Comano; la mezza brigata Metz (950 uomini,
4 cannoni) allo Stelvio, coll’appoggio al forte Gomogoi; la mezza
brigata Albertini (1700 uomini, 4 cannoni) al Tonale coll’appoggio al
forte Strino; la mezza brigata Höffern (1800 uomini, 4 cannoni) nelle
Giudicarie col grosso nei dintorni di Daone; l’avanguardia tra Cimego
e Condino, appoggiata al forte Lardaro; la brigata Thour (1500 uomini,
4 cannoni) a Tiarno, al punto d’incidenza della Valle di Conzei in
quella di Ledro, appoggiata a destra dal forte d’Ampola, ed a sinistra
da quello del Ponal; infine la brigata di riserva Montluisant (3500
uomini, 4 cannoni) scaglionati in seconda linea tra le Arche e Fiavè,
postura centrale tra le Giudicarie, Val di Ledro e la Valle del Sarca,
e collegata a sua volta all’altra più grossa brigata di riserva Kaim,
accantonata, come dicemmo, nei dintorni di Bad Comano, colle spalle
ai forti di Buco di Vela e di Doblino, e che veniva a costituire una
specie di terza linea o riserva generale in grado di proteggere o
rinforzare al bisogno tutte le altre.[328]

Per alcuni giorni i due campi stettero guardandosi senza dare un passo
innanzi nè l’uno, nè l’altro. Evidentemente nessuno dei due Generali
aveva formato il proprio definitivo disegno, e intanto andavano
tasteggiandosi con scorrerie e ricognizioni; l’austriaco per iscoprire
da qual parte gli potesse venire l’assalto principale; l’italiano per
istudiare in qual punto gli convenisse meglio tentarlo.

Il 7 luglio però avendo il 3º reggimento respinto una ricognizione
della mezza brigata Thour che s’era inoltrata a Lodrone, e tre giorni
dopo, sotto gli occhi stessi di Garibaldi, ributtato ancora più
brillantemente un secondo assalto della stessa brigata inseguendo
i fuggenti fino al di là di Darzo; il generale Kuhn ordinò alla
brigata Höffern di abbandonare interamente la destra del Chiese e di
concentrarsi tra Lardaro e Tione, perno della difesa nelle Giudicarie.
In conseguenza di ciò Garibaldi non ebbe più ad esitare: e spinti da
un lato i suoi posti avanzati fin presso Condino; dall’altro fatto
occupare l’ingresso del vallone d’Ampola, andò a piantare il 13 sera
il suo Quartier generale a Storo al bivio delle due vallate principali
per cui doveva operare. E con questa mossa la campagna del Tirolo entrò
nella sua fase più operosa e decisiva.

Ma nemmeno il generale Kuhn era uomo da restare lungamente inerte;
e però appena vide il rapido, troppo rapido forse, avanzare della
brigata Nicotera sulla strada delle Giudicarie, divisò di andarle
incontro a sua volta e con un energico attacco darle una buona
scrollata e costringerla ad arrestarsi. E ad incuorarlo nell’impresa,
oltre la massima troppo da lui predicata ne’ suoi libri per non
essere confermata coll’esempio, che la migliore delle difese sta in
un energica offesa, cospiravano in quel caso le sviste tattiche dei
suoi avversari. Infatti mentre il colonnello Nicotera commetteva lo
sbaglio di allungar troppo la propria linea in fondo alla valle senza
occupare di pari passo le alture che la fiancheggiano, l’ufficiale
incaricato di custodire gli sbocchi di Val d’Ampola[329] aveva
dimenticato nientemeno, non ostante le istruzioni precise di Garibaldi,
di assicurarsi il possesso di Monte Giovo e Rocca Pagana, il nucleo più
eccelso dei passi che da Ampola per Val di Buono menano nella valle del
Chiese dominante insieme le strade di Condino, di Storo e di Ampola,
e fino a quel giorno la chiave delle posizioni occupate dall’esercito
garibaldino in Tirolo.


XVII.

Nella sera del 14 pertanto il generale Kuhn aveva già riunito nelle
alte Giudicarie tra Roncone e Lardaro il grosso delle sue forze, e
dato verbalmente a’ suoi luogotenenti le istruzioni per la battaglia
dell’indomani. Il colonnello Montluisant, composta una colonna di
dieci compagnie, doveva attaccare il centro garibaldino di fronte
per la strada principale Lardaro-Condino ed ai fianchi per Val di
Buono e Cologna sulla sinistra, e Prezzo e Castelert sulla destra del
Chiese. Il colonnello Höffern, forte esso pure di dieci compagnie e
una batteria, marciando obliquamente da Daone verso Narone-Clef doveva
assalire l’estrema sinistra italiana scaglionata da Brione ai varchi
del Brufione. Il maggiore Grünne (subentrato al colonnello Thour
nella valle di Ledro) preso seco sei compagnie della sua brigata,
lasciato il rimanente a rinfranco del forte d’Ampola e a guardia della
Valle di Conzei, doveva afferrare i passi di Monte Giovo e di là tra
Condino e Storo compiere l’avviluppamento della destra garibaldina.
Infine la brigata di riserva Kaim, chiamata essa pure fino dal 14 a
Stenico, doveva scendere colla sua avanguardia verso Prezzo e Cotogna e
appoggiare, occorrendo, l’azione generale.[330]

E, lo vede ognuno, non si trattava, come fu detto, di una semplice
ricognizione; si trattava d’un attacco in piena regola, eseguito con
tutto il nerbo delle forze di cui gli imperiali potevano disporre
nel Trentino meridionale; e che riuscendo a seconda poteva avere per
effetto di ricacciare Garibaldi fuori delle Giudicarie e strappargli di
mano il prezzo di dodici giorni di fatiche e di lotte.[331]

Fortunatamente il disegno gli fu guasto, non oseremmo dire dall’arte,
ma dalla costanza e prodezza degli avversari. Nel frattempo avendo
il brigadiere Nicotera ripetuto l’errore di spingersi troppo innanzi,
facendo occupare il ponte di Cimego senza munire di conserve le alture
che lo dominano, avvenne che lo scontro fu anticipato di qualche ora,
e in posizione, per l’Austriaco, più vantaggiosa di quello che per
avventura avesse sperato. Infatti tra le 7 e le 8 del 16 mattina,
il fuoco era cominciato; ma anche i Volontari, finchè non l’ebbero
che di fronte, vi risposero bravamente. In brev’ora però assaliti da
ogni parte, stipati in una specie di pozzo, dall’alto del quale li
saettava una grandine di palle; posti nell’impossibilità di muoversi,
nell’impossibilità di ribattere, anche i più valorosi principiarono
a balenare. Fu allora che il maggiore Lombardi, anima bresciana
d’eroe, visto che il nemico poteva da un istante all’altro chiudere la
ritirata, si slancia, con quanti hanno cuore di seguirlo, nel Chiese
colla speranza di arrestare l’avanzare del nemico che dalle vette di
Cologna s’innoltrava continuo serrando sempre più dappresso il ponte di
Cimego. Nè il sagrificio grande fu del tutto sterile. Molti travolse
la corrente; molti abbattè la carabina de’ Cacciatori; lo stesso
Lombardi, già superata la sponda, colpito alla fronte suggella col
sacrificio della nobile vita il magnanimo ardimento;[332] ma intanto la
mossa attorniante del nemico è rallentata; la strada della ritirata è
aperta: i Volontari possono ripiegare, in iscompiglio, ma non in fuga,
sopra Condino, dove, spalleggiati dai rinforzi accorrenti da Storo e
da Darzo, e più ancora rinfrancati dalla presenza di Garibaldi stesso,
accorso in carrozza al primo fragore delle fucilate, ponno ancora far
testa e ristorare la pugna.

Intanto però anche la colonna austriaca venuta di Val di Ledro aveva
compiuto il suo movimento; e mentre una frazione di essa, capitanata da
quello stesso Gredler che aveva fatto così bella difesa a Monte Suello,
s’innoltrava per le balze del Giovo fino alla chiesetta di San Lorenzo,
d’onde poteva bersagliare al coperto la strada di Condino e il Ponte
di Darzo; un altro distaccamento s’inerpicava fino al sommo di Rocca
Pagana tempestando de’ suoi proiettili le vie di Storo e persino il
cortile del Quartier generale di Garibaldi. Il momento era critico: per
fortuna Garibaldi era là; una mezza batteria, opportunamente appostata
e validamente sostenuta da alcune compagnie del 9º reggimento, arresta
la colonna di San Lorenzo: un’altra colonna di Volontari del 7º si
avanza a cerchio contro Rocca Pagana e ne risospinge gli occupatori;
finchè dopo alcune ore di contrasto, il nemico che di fronte aveva
guadagnati appena pochi palmi di terreno al di qua di Cimego, visto
il fallimento del premeditato aggiramento; udita la notizia che anche
la brigata Höffern, attardatasi fra i gioghi dei monti, era stata
anche meno fortunata delle sue compagne; il nemico, diciamo, checchè
abbia potuto dire e scrivere in appresso per giustificare la sua
risoluzione,[333] comandò la ritirata su tutta la linea.

Non per questo il 16 luglio andrà scritto ne’ fasti garibaldini. Esso
fu una di quelle dubbie giornate in cui ciascuna delle due parti si
appropria con pari ragionevolezza la vittoria. I volontari trovaronsi
signori del combattuto terreno, ma lo pagarono con sacrifici di sangue
maggiori del compenso: gli Austriaci non ebbero a dolersi che di
pochissime perdite, e videro per alcuni istanti le spalle de’ loro
avversari; ma non poterono conservare il campo di battaglia e furono
costretti di rinunziare al principale disegno pel quale s’erano mossi.


XVIII.

Oltre di che il combattimento di Condino non ritardò d’un giorno
solo, una sola delle operazioni garibaldine.[335] Non a settentrione
della Val di Ledro, dove il forte d’Ampola investito gagliardamente
dall’artiglieria italiana fin dal 17 mattina, dopo due giorni di
valida, ma inutile resistenza capitolava a discrezione;[336] non
a mezzodì della Valle, dove il colonnello Spinazzi dopo un breve e
felice scontro s’impadroniva del passo di Monte Notta e si sgombrava
il cammino fino al Lago di Ledro; non nelle Giudicarie, dove Garibaldi
aveva già fatto riprendere Cimego, ed occupare, mercè un’ardita
sorpresa dei due battaglioni del 9º reggimento, Friggesy e Cairoli,
quel Monte Giovo, che egli fino al risveglio del 16 aveva sempre
creduto in mano de’ suoi e che costituiva, siccome dicemmo, il pernio
delle comunicazioni tra la sinistra, la destra e il centro garibaldino
e il loro baluardo più forte e più avanzato.

E poichè questi tre fatti quasi simultanei, l’occupazione di Monte
Giovo, la presa di Monte Notta, e la caduta d’Ampola, aprendo ai
Garibaldini gli sbocchi principali di Val di Ledro avevano obbligata
la brigata Grünne ad abbandonare tosto Bezzecca, epperò anche l’imbocco
della Valle di Conzei, e la strada del Ponal e di Riva; così Garibaldi
ne approfittò tostamente ordinando alla brigata Haug di occupare col 5º
e 7º reggimento le posizioni testè sguernite dal nemico, facendone al
tempo stesso appoggiare il movimento in avanti dal 9º reggimento sceso
dal Giovo ad occupare Tiarno e dal 2º reggimento Spinazzi invitato a
scendere verso Ledro.

Ma tra l’antico Guerrillero e il Maestro della guerra di montagna il
duello era infaticabile. Nel giorno stesso in cui Garibaldi pensava ad
avanzare da un lato, il generale Kuhn molinava d’assalirlo dall’altro.
Saputo infatti che quella spedizione di Val Sugana che gli era fatta
presentire fin dal 16 luglio era ancora lontana, e che in ogni caso non
avrebbe potuto essergli addosso prima di tre o quattro giorni, concepì
il disegno, non privo d’audacia, di giovarsi di quel frattempo per dare
prima un’altra delle sue batoste a Garibaldi, eppoi voltarsi con tutte
le sue forze contro il suo luogotenente che s’avanzava dalla Brenta.
Però staccate alcune truppe e artiglierie a rinforzo delle piccole
brigate destinate a custodia degli sbocchi di Val d’Arsa e Val Sugana,
compose nuovamente col resto delle sue truppe due colonne mobili; l’una
delle quali, forte di seimila uomini sotto gli ordini del generale
Kaim, doveva per le Giudicarie attaccare la sinistra e il centro
garibaldino, mentre l’altra, grossa di quattromilacinquecento uomini e
quattro pezzi, capitanata dal Montluisant, piombando per Val di Conzei
tra Tiarno e Bezzecca, doveva sfondarne la destra, e di là convergendo
su Ampola e Storo dar la mano alla colonna scendente per Val di Chiese
e con forze riunite schiacciare il nemico.

Il giorno prestabilito al nuovo assalto fu il 21 luglio. Il corpo
Montluisant, al quale spettava evidentemente lo sforzo principale,
doveva scendere in due colonne (Krynicki alla sua destra, Grünne alla
sinistra) su Val di Conzei, e appoggiato da una terza colonna che
aveva l’ordine di sboccare da Riva, pigliare Bezzecca da tre parti
e sgominarne i difensori. Ed anche in quel giorno accadde quel che
vedemmo nella giornata di Condino.

Il generale Garibaldi non aveva preveduto l’attacco; il generale Haug,
che aveva l’ordine di arrestarsi a Bezzecca, volle spingere il 5º
reggimento a Locca dentro la Valle di Conzei; il colonnello Chiassi si
credette a sua volta in dovere di proteggere la sua fronte avviando
innanzi un battaglione d’avanguardia fino a Lensumo, e proprio nel
momento in cui quel battaglione stava per prendere posizione al di
là di Lensumo era colto di sorpresa dalla colonna di sinistra del
Montluisant (maggiore Grünne) e in parte fatto prigioniero, e in parte
ributtato in grande disordine sopra Locca.

Ma anche Locca era una posizione infelicissima, e se n’avvide tosto il
bravo Chiassi, il quale, assalito di lì a poco e avvolto da ogni parte
da entrambe le colonne di Montluisant, dopo non lungo e assai disuguale
combattimento fu ricacciato a sua volta sopra Bezzecca lasciando per
via, morti, o feriti, o prigionieri, alcune centinaia dei suoi.

Non per questo il prode Colonnello smarrì l’animo invitto, chè presa
posizione all’ingresso di Bezzecca tra la chiesa e il cimitero,
sostenuto soltanto da due pezzi dell’artiglieria regolare e da
alcuni manipoli dei Bersaglieri di Mosto, si accinse ad una seconda
e più disperata difesa. Indarno. Le armi di precisione, le posizioni
dominanti, la conoscenza dei luoghi, lo scompiglio introdottosi nelle
file garibaldine sin dal principio dell’azione, davano al nemico tale
vantaggio che la resistenza non poteva esser lunga.

I Garibaldini facevano prodezze; ma cannoneggiati da ogni parte da una
numerosa artiglieria, costretti come al solito a guardar con le inutili
armi al braccio un nemico quasi invulnerabile, che dall’alto delle sue
roccie li bersagliava come selvaggina al fermo e li decimava, circuito
in breve dalla colonna Krynicki il poggio della Chiesa estremo baluardo
della difesa, e minacciata da quella del Grünne la stessa via di
Bezzecca, tornarono nuovamente in fuga precipitosa fin dentro le case
del villaggio, sul quale già calavano urlando vittoria i Cacciatori
nemici.

Chiassi però, travolto suo malgrado dall’onda rigurgitante de’ suoi,
non vuol disperare ancora; ma nel punto in cui tenta far argine colla
voce e coll’esempio alla rotta e raccogliere intorno a sè un manipolo
de’ più risoluti per tentare un ultimo disperato contrassalto, una
palla lo coglie al petto e lo stramazza morto sul campo.[337]

In quel momento, circa le otto, arrivava da Tiarno il generale
Garibaldi. Era, s’intende, in carrozza, costretto perciò a restar
sulla strada, posto nell’impossibilità di abbracciare da un punto
eminente tutto il campo di battaglia. Pure quello che non poteva
vedere indovinò, e diede immantinente i suoi ordini come se tutta la
situazione gli stesse spiegata innanzi sopra una carta. Menotti con
quanto ha sottomano del 9º reggimento piombi da Tiarno sulla destra del
nemico; il colonnello Spinazzi sbocchi da Molina e lo avvolga per la
destra; il 7º reggimento e i rotti avanzi del 5º e dei Bersaglieri si
slancino di fronte e tutti insieme riprendano ad ogni costo Bezzecca,
chiave della posizione, premio supremo della vittoria.

Menotti, impedito dai sentieri torti e malagevoli, tarda a comparire
in linea; Spinazzi, o ricevesse tardi o fraintendesse l’ordine, non
compare affatto: gli Austriaci frattanto non solo si son resi padroni
incontrastati di Bezzecca, ma già sboccano fuori del villaggio, già
coronano le alture circostanti di artiglierie e si preparano ad un
terzo e finale attacco contro l’estrema linea garibaldina. Stringeva
il pericolo: la strada di Tiarno è tempestata dai proiettili nemici,
e Garibaldi vi è il più visibile e cercato bersaglio. Le palle
sibilano, guizzano, rimbalzano, ravvolgono in un nembo di polvere
la sua carrozza; uno de’ cavalli è già ferito: una delle guide a
cavallo (Giannini) che la scortano è morta; i suoi aiutanti Cairoli,
Albanese, Damiani, Miceli, Cariolato, Civinini gli fanno scudo de’
loro corpi, tentano strapparlo da quel posto mortale e salvar lui, se
non è possibile salvar la giornata. Ma Garibaldi ha sul volto la calma
delle tragiche risoluzioni: la calma del Salto, e di Calatafimi: «Là
si vince o si muore.» Sordo ai consigli, insensibile al pericolo, tutto
assorto nelle peripezie della pugna, fa avanzar al galoppo la batteria
di riserva ed ordina al maggiore Dogliotti, eroico in quel giorno,
di convergere i suoi fuochi principalmente su Bezzecca, additandogli
egli stesso, con colpo d’occhio maestro, la posizione più propizia
all’appuntamento dei pezzi. «Però mi ci vorrà più di mezz’ora!...»
grida il bravo Dogliotti...: «Fate più presto che sia possibile,»
esclamò Garibaldi: «mi troverete qui vivo o morto.» E le otto bocche
stupendamente dirette dal Dogliotti producono tosto il loro terribile
effetto; il nemico sfolgorato dentro Bezzecca, ributtato sulla via dai
bravi del 7º reggimento, ben presto colto di fianco dal 9º reggimento,
è costretto ad arrestarsi, a ripiegar su Bezzecca ed a provvedere a
sua volta alla difesa. Ma nulla è fatto se Bezzecca non è ripresa, ed
è quello l’ultimo sforzo della battaglia. Garibaldi lo vuole: ogni
bravo lo ascolta. Ed ecco Menotti, Canzio, Ricciotti, Bedeschini,
Rizzi, Mosto, Antongini, Pellizzari, improvvisata una falange coi
più volonterosi di tutti i corpi, lanciarsi tutti insieme, intanto
che il cannone del Dogliotti manda in fiamme Bezzecca, a testa bassa,
al passo di corsa, al grido d’Italia e di Garibaldi, sul villaggio,
e scacciarne, dopo una lotta corpo a corpo, gli ultimi difensori,
inseguirli colla baionetta alle reni fino al di là di Enguiso e di
Lensumo alle falde del Monte Pichea d’ond’erano discesi.

E poichè nell’ora stessa anche la colonna Kaim, che doveva scendere
in Val di Chiese, avea trovato i Garibaldini pronti a riceverla e dopo
breve avvisaglie era stata respinta su tutti i punti, così la vittoria
del 21, facile a Condino, contrastata e sanguinosa a Bezzecca, fu
compiuta su tutta la linea.[338]


XIX.

E però resterà sempre inesplicabile come gli storiografi austriaci
persistano a negarla.

   [Illustrazione: Schizzo topografico delle operazioni di
   Garibaldi nel Trentino — 1866]

La battaglia cominciò avversa ai Garibaldini; le loro perdite furono
gravissime; il numero de’ prigionieri fu dura e non immeritata
lezione.[339] Nessuno pensa a contrastare nè il valore degli Imperiali,
nè, sia pur detto, l’inferiorità del loro numero (largamente compensata
però dalla superiorità delle armi); ma infine ogni battaglia è un
succedersi alternato di rovesci e di trionfi, dei quali il trionfo o il
rovescio finale rimane l’arbitro supremo. E il successo finale fu (come
negarlo?) avverso agli Austriaci. Essi volevano scacciar Garibaldi
dalle soglie della Valle di Conzei e di Ledro, e non vi riuscirono:
essi volevano romperne le due ale, sfondarne il centro, ributtarlo al
di là di Storo, e non vi riuscirono: ad essi il vanto d’aver preso alle
nove Bezzecca; a Garibaldi la gloria d’averla ripresa a mezzogiorno per
non perderla più.[340]

Fu quella l’ultima prova dei Garibaldini in Tirolo. Al 23 mattina il
generale Kuhn, avvertito del rapido avanzar di Medici, volgeva contro
il nuovo suo avversario il grosso delle sue forze non lasciando in
faccia a Garibaldi che i presidii dei forti e pochi distaccamenti di
sostegno, e nel giorno stesso il condottiero dei Volontari tuttora
ignaro di questo movimento spingeva innanzi tutta la sua linea,
occupando sopra Val di Conzei, Campi, serrando più dappresso Riva,
trasportando nelle Giudicarie il Quartier generale a Cologna, e
cominciando l’investimento di Lardaro. Se non che, il 25 mattina,
quando tutto era pronto nel campo garibaldino per il bombardamento
di quel forte e per un altro passo in avanti verso la Sarca, giungeva
l’annunzio del primo armistizio di otto giorni, prodromo manifesto di
tregua più lunga e forse della pace.

Quel che sarebbe avvenuto se la guerra avesse continuato a nessuno
è dato profetare. Probabilmente il Medici, che era ad una marcia
da Trento, vi sarebbe entrato prima e senza Garibaldi; se no, e
nell’ipotesi che il Kuhn avesse potuto protrarre la resistenza,
Garibaldi in pochi giorni avrebbe dato la mano al suo Luogotenente;
e nell’uno e nell’altro caso stretto in un anello di ferro il loro
nemico, e compiuta in pochi giorni la conquista del Trentino.

Certo da quel fatale 25 luglio cominciava per Garibaldi il periodo
più brillante e fruttuoso. Padrone oramai delle due valli principali
che dal Garda rimontano a Trento e delle convalli finitime; libero
di spiegare di fronte, sopra uno scacchiere tutto suo le proprie
forze e di marciare in battaglia contro un nemico inferiore di numero
e che veniva a perdere la sola superiorità fino allora goduta del
terreno propizio, Garibaldi avrebbe certamente dovuto dare o sostenere
contro il suo intraprendente nemico un’altra e più grossa battaglia;
ma sarebbe stata finale e decisiva, e a quali braccia si sarebbe
concessa la vittoria non è difficile il prevedere. Tutto fino allora
gli era stato contrario: l’imperizia degli ufficiali, l’inesperienza
delle milizie, l’inefficacia delle armi, persino la soverchianza del
numero, nel quale aveva trovato assai più un inciampo che un aiuto. E
nulla ridiciamo di quella ferita che gli rubò metà della sua forza e
costrinse lui, il più attivo forse e onnipresente dei Capitani moderni,
a far la guerra sopra una carta topografica, o dal fondo d’una carrozza
accomodata a lettiera.

Pure se non stupì novellamente il mondo con strepitose vittorie,
non allegrò nemmeno i suoi nemici con alcuna sconfitta. Lentamente,
ma assiduamente fece ogni giorno un passo innanzi e dal terreno
conquistato nemmeno l’arte del suo valente avversario valse a
sradicarlo. Non corse come Joubert nel 1797; ma non ebbe neanche, come
Joubert, le spalle sicure da ogni minaccia, la larga valle dell’Adige
per linea d’operazione, i vincitori di Millesimo, di Castiglione e di
Rivoli per soldati, la floscia inettitudine dei Kerpen e dei Laudon
per avversaria, le vittorie di Bonaparte e di Massena per esempio ed
incitamento. Non corse, perchè, come disse egli stesso, «su per le
montagne non si corre;» ma in quindici giorni s’era posto già in grado
di prendere con maggior energia l’offensiva su tutta la linea, e in
meno di venticinque sarebbe stato probabilmente padrone di Trento.

«Noi conveniamo (dice uno storico militare)[341] che la campagna
garibaldina del 1866 rassomiglia poco a quella del 1860, non solamente
rispetto ai frutti raccolti, ma eziandio rispetto alle operazioni in sè
stesse. Tuttavia essa ebbe un merito che forse nessuna delle operazioni
più brillanti di Garibaldi potè vantare: fu più ordinata e, nonostante
la massa considerabile delle forze, più metodica di qualsivoglia sua
impresa. Sembra invece che alla maggior parte de’ suoi subalterni
sia mancata la conoscenza del mestiere e soprattutto la pratica di
quelle tre colonne con avanguardia e riserva, così ben conosciuta
dai Prussiani, necessaria in montagna anche più che in pianura, e
che convenientemente usata avrebbe risparmiato alle sue masse, il più
delle volte rinserrate entro strette angustissime, il fuoco micidiale
dei fiancheggiatori nemici, lasciati troppo liberi nei loro movimenti
d’aggiramento sulle alture circostanti.

»Quando pertanto si tenga conto di questa circostanza, lieve
all’aspetto, ma importantissima a spiegare le gravi perdite toccate;
quando si tenga conto altresì dell’inferiorità relativa dei Corpi
volontari rispetto al materiale; dello scarso appoggio loro prestato,
contro ogni aspettazione, dalle popolazioni trentine; del formidabile
avversario da essi trovato nel corpo del generale Kuhn; nel difetto
d’una flottiglia dominante sul Lago di Garda; infine del subitaneo
troncarsi della campagna, si deve riconoscere che le operazioni di
Garibaldi, sebbene all’apparenza non abbiano conquistato che poche
leghe di territorio nemico, son ben lontane dall’offrire alcun appiglio
di biasimo o di sprezzo. Esse diedero dei risultati sostanzialmente
utili e non certamente ingloriosi: esse fecero testimonianza in ogni
caso della stessa virile tenacità, del medesimo eroico slancio di
cui avevano dato tante volte prova i Volontari, dietro l’esempio
dell’illustre loro Capitano.»

E con questo giudizio del dotto ufficiale chiudiamo il nostro. Il 3
agosto la sospensione d’armi era prolungata d’un’altra settimana, e
il 10 dello stesso mese il generale Garibaldi riceveva dal generale
La Marmora il seguente telegramma: «Considerazioni politiche esigono
imperiosamente la conclusione dell’armistizio per il quale si richiede
che tutte le nostre forze si ritirino dal Tirolo, d’ordine del Re.
Ella disporrà quindi in modo che per le ore quattro antimeridiane di
posdimani 11 agosto le truppe da lei dipendenti abbiano lasciato le
frontiere del Tirolo. Il generale Medici ha dalla sua parte cominciato
i movimenti.»

Quale scossa abbia provato in quel momento il cuore dell’Eroe, lo
storico può indovinarlo, ma affermarlo con certezza non può. Forse
le vergogne immeritate di Custoza e di Lissa; la Venezia accettata
come una elemosina dalle mani straniere; il Trentino perduto; Trieste
abbandonata; il confine orientale d’Italia aperto da tutte le parti;
tanto eroico fiore di giovani vite inutilmente sacrificato, tutto
ciò passò come nembo di foschi fantasmi sull’animo di Garibaldi e vi
suscitò in tumulto i pensieri da anni soffocati dell’antica rivolta;
ma al tempo stesso un pensiero più alto, uno spettro più terribile si
levò contro lo stuolo delle maligne tentazioni e le fugò in un istante.
Garibaldi non tradì nemmeno ai più intimi la sua interna tempesta;
tranquillo prese la penna e rispose egli stesso al La Marmora questa
sola parola: «Obbedisco.» E con quell’ultima vittoria sopra sè stesso
chiuse la campagna.




CAPITOLO DECIMOSECONDO.

DA MENTANA A DIJON. [1867-1870.]


I.

Pagato il debito a Venezia, Garibaldi si preparò a sciogliere il voto
a Roma. E Roma, lo sappiamo, era la idea fissa, la stella polare, il
termine ultimo della sua missione patriottica. La palla d’Aspromonte
aveva potuto arrestarlo in cammino, ma non isviarlo dalla meta.
Un giuramento sacro lo legava alla redenzione dell’eterna città, e
conveniva che il giuramento s’adempisse: _O Roma o morte_! Di tutto
quell’aggrovigliato intreccio di problemi politici, religiosi, morali
onde componevasi allora, e sempre, forse, si comporrà il gran nodo
della questione romana, egli non vedeva chiaro che due cose: un
mostruoso potere che opprimeva e corrompeva a un punto coll’aiuto
dell’armi straniere la metropoli d’Italia, la regina del mondo: il
diritto e il dovere degli Italiani di levarsi concordi e di cessare
d’un sol colpo la doppia tirannide. Egli accomunava in un odio solo il
protetto e il protettore; sicchè a lui stesso sarebbe stato difficile
il discernere quali dei due abborrisse di più. Che gl’importava se il
guardiano del Papato era uno degli arbitri d’Europa, il capo di una
potente nazione, sorella di sangue e di civiltà all’italiana, il solo
fra tanti principi forastieri che avesse porta una mano soccorrevole
alla patria sua, e aiutatala a rialzarsi da un sepolcro di secoli?
E non era egli altresì l’Uomo del 2 Dicembre, il «tiranno» della
Francia? Non aveva egli riscosso il prezzo di Magenta e Solferino con
Nizza e Savoia? Non cancellava egli ogni giorno la memoria de’ suoi
beneficii puntellando, solo in Europa, quel tarlato poter temporale che
abbandonato da lui crollerebbe in un punto?

Nè gli si opponga come spauracchio la potenza della Francia. L’Eroe
era forse il primo di quella lunga schiera d’allucinati che, traendo
da una distinzione ragionevole una conseguenza erratissima, reputavano
il popolo francese più liberale e più amico dell’Italia di quello che
lo fosse, a danno della Francia stessa e della sua propria corona,
Napoleone III.

Ingannato pertanto da questa illusione, Garibaldi rifiutavasi a credere
che la Francia avrebbe seguito a lungo il suo oppressore in una guerra
liberticida; anzi, trascorrendo colla facile fantasia, vedeva già
affratellarsi nell’impresa comune i figli delle due nazioni, e per
provvidenziale disegno, dalla liberazione di Roma uscire la vendetta
del 2 Dicembre e la redenzione della Francia stessa.

Inutile poi parlargli della Convenzione di Settembre. Un Trattato pieno
di tante ambiguità, capace di interpretazioni così diverse, e che dalle
stesse parti contraenti poteva essere inteso in due sensi totalmente
opposti, non era certamente fatto per rassicurare la sua anima semplice
e schietta sulle sorti di Roma e persuadergli quella serena e fiduciosa
aspettazione dell’avvenire che i negoziatori del Trattato s’erano
impromessa.

Fosse anche erronea l’interpretazione del Governo francese che la
Convenzione significasse rinuncia perpetua a Roma, questo era pur
sempre evidente e indiscutibile che l’Italia concedeva al Papato una
tregua indefinita, subentrando essa in luogo della Francia nell’obbligo
di tutelarlo, ed impegnandosi persino a custodirgli il mal definito
confine, intanto che una _Grande Compagnia_ di mercenari cosmopoliti
gli avrebbe montato la guardia nella capitale.

Ora se v’era Italiano che non potesse acquetarsi a simili patti,
quegli era certamente Garibaldi. La Convenzione era stata subita con
ripugnanza da parecchi degli stessi uomini di parte moderata, che
l’avevano stipulata; a maggior ragione doveva esserlo da lui. Ciò che
in essa v’era di equivoco offendeva la sua coscienza; ciò che v’era di
chiaro offendeva il suo patriottismo. Molto meno però avrebbe potuto
acquietarvisi quando vide la Francia stessa non osservare nemmeno i
patti stipulati e farsi beffe dell’Italia.

E alludiamo a quella _Legione d’Antibo_, reclutata sfacciatamente
tra le file dello stesso esercito francese; comandata da ufficiali
francesi; passata in rassegna, arringata da generali francesi:
miserabile commedia, intervento male mascherato, violazione grossolana
e sleale della lettera e dello spirito della Convenzione, che sdegnò
in Italia i più devoti del Governo napoleonico, fece scoppiare in alte
grida di protesta tutta la parte rivoluzionaria e diede il trabocco
alla misura di collera da cui l’anima dell’Eroe era ricolma.

Che se a tutto ciò si aggiunga l’agitarsi della parte più avanzata
dell’emigrazione romana, il sorgere in Roma specialmente per opera
sua d’un _Centro d’insurrezione_, rappresentante la frazione
più rivoluzionaria della città, frazione infinitesimale, come
chiarirà l’evento, ma che si riprometteva combattere la propaganda
addormentatrice del _Comitato Nazionale_, organo del partito moderato,
e di apparecchiare il popolo romano alla riscossa, si vedranno, in
compendio ma esattamente, riassunte tutte le ragioni che spinsero
Garibaldi alla sua seconda crociata per Roma e prepararono Mentana.


II.

L’11 febbraio il Ministero Ricasoli, disapprovato egli pure nella
perpetua lite del diritto di riunione, aveva sciolto la Camera e
bandito nuove elezioni generali. Dal canto suo la Sinistra parlamentare
si apparecchiò a sostenere la lotta dichiarando in un manifesto agli
elettori il proprio programma, e invitando al tempo stesso Garibaldi
a venir sul continente a prestargli l’appoggio del suo nome e del suo
prestigio. Il Generale non si sentiva molto disposto a quella parte; ma
un mezzo impegno già contratto coi Veneti di andarli presto a visitare,
il desiderio di far cosa gradita a’ suoi amici, la speranza di trovar
in quel viaggio una propizia occasione per cominciare la sua propaganda
per Roma; lo indussero ad accettare l’invito e il 22 sera arrivò
inaspettato, fuorchè da pochi, in Firenze.[342]

Giunto colà però non volle indugiarsi. All’indomani aveva già fatto
adesione al programma della Sinistra,[343] e il 23 s’era già messo
in viaggio per la Venezia. Superfluo il dire le ovazioni. Era quella
la prima volta che i Veneti lo vedevano e da ciò solo s’argomenti il
loro entusiasmo. Come però dei due fini pei quali egli s’era mosso, la
campagna elettorale e l’apostolato per Roma, quella non era per lui
che l’accessorio e questo soltanto il principale; così i suoi amici
che s’erano lusingati di trovare in lui un destro e potente procolo
delle loro candidature, dovettero ben presto persuadersi quanto fosse
stato grande errore affibbiargli quell’ufficio così disadatto alle
sue spalle e cominciarono piuttosto a tremare del suo patrocinio che a
rallegrarsene.

Dovunque arrivava, dal terrazzo della casa o dell’albergo che
l’ospitava, era costretto dagli stessi inviti della folla a pronunciare
un discorso; ma ogni discorso, dopo un esordio il più delle volte
freddo e stentato sul tema obbligato delle elezioni, si conchiudeva
sempre in una perorazione, ancora più obbligata: Roma. Anche gli
argomenti che adoperava per raccomandare questo o quel candidato
ricascavano tutti nel ritornello: «Eleggete degli uomini che vi
conducano presto a Roma.» A Bologna diceva: «Mandate al Parlamento
degli uomini che ci facciano andare a Roma come a casa nostra, e che
abbiano più a cuore gli interessi del popolo che quelli dei preti.» A
Ferrara, proponendo a deputato il dottor Riboli, soggiungeva: «Bisogna
prepararsi a difendersi dai preti, a combattere il clericalismo,
perchè è tempo che cessi la di lui preponderanza in Italia.» A Venezia
ancora più chiaramente, dal balcone di casa Zecchini dove era ospite,
esclamava:

«Abbiamo ancora un bocconcino che non manca di avere la sua importanza:
Roma. Dunque Roma, che quei signori mitrati non vogliono cedere
all’Italia, e che pure è nostra capitale!... colle buone o colle
cattive faremo in modo che ce la diano.

»Quei signori preti, che per tanti secoli l’hanno goduta, deturpata,
trascinata nel fango, e del primo popolo ne han fatto una cloaca,
sarebbe tempo che finissero d’insudiciarci, che ci lasciassero la
nostra capitale.... Io sono persuaso che l’Italia ha abbastanza
valorosi per prendersela colle armi. Ma non credo che sia il caso.
Roma è nostra, è nostra legalmente. In conseguenza andremo a Roma come
andiamo nella nostra stanza, in casa nostra.

»Spero che non vi sarà bisogno di prendere le armi! troppo facile
sarebbe andarvi colle armi — noi siamo assuefatti a imprese ben più
ardite!...

»Dunque oggi gli Italiani devono ottenere Roma coi mezzi legali;
chiederla al Governo italiano, e per conseguenza mandare rappresentanti
al Parlamento che non patteggino coi preti, nè coi complici dei preti,
nè coi protettori dei preti.» E una voce dalla folla rispondeva: _El
parla come un Dio!_[344]

Partito da Venezia andava a ripetere press’a poco le medesime cose a
Chioggia, Treviso, Udine, Palmanuova, Belluno, Feltre, Vicenza, Verona,
dappertutto; e dappertutto conchiudendo con una sentenza strana davvero
sulla sua bocca: che Roma bisogna prima chiederla coi mezzi pacifici e
legali; soltanto esauriti questi, coll’armi. Ora che cosa voleva egli
dire con quelle insolite parole? Ubbidiva egli ad una raccomandazione
fattagli a Firenze da’ suoi amici, ma nell’esprimere il concetto
suggeritogli, confondeva i «mezzi morali» coi quali il Parlamento aveva
dichiarato di voler andare a Roma, coi «mezzi legali» coi quali si
poteva chiedere al Parlamento stesso che affrettasse la soluzione del
grande problema? In verità crediamo che non avrebbe saputo spiegarlo
egli stesso, tanto era evidente che quella frase era un artificio
oratorio insufflatogli da qualche nascosta Egeria, il quale non
rispondeva ad alcuno degli abituali concetti della sua mente, nè molto
meno agli eroici impulsi del suo cuore.

Ma in quel suo viaggio anche più delle sue parole parvero strani gli
atti. O fosse stato colto da uno di quegli accessi di misticismo, dei
quali nessun uomo di ardente fantasia va immune, o a forza di scavare
il problema che aveva sotto mano fosse arrivato alla conclusione
che a rendere compiuta la emancipazione dal Vaticano era necessario
principiare da una rivoluzione religiosa; o gli fosse anche balenata
l’idea (con uomini siffatti tutte le ipotesi sono permesse) d’esser
egli il Maometto, la voce e la spada di siffatta rivoluzione, fatto
è che egli non poteva ormai pronunciare una concione politica senza
mescolarvi insieme la buona novella di una certa sua religione
naturale, un quissimile di quella di Giangiacomo, senza preti, senza
culto e senza altari, e che, secondo lui, doveva redimere l’umanità
intera, a patto però, s’intende, di cominciare dalla redenzione di
Roma.

E l’effetto di quella sua predicazione fu tale che un giorno in
Verona un sarto, certo Amadio Somma, convertito, a quanto pare, al
suo evangelio, avendogli portato innanzi un suo bambino di nove mesi
non battezzato per anco, perchè gli desse il battesimo della sua nuova
religione civile, egli, Garibaldi, alla presenza di due testimoni,[345]
imposta sul catecumeno la mano, colla formola: «Io ti battezzo in nome
di Dio e del legislatore Gesù. Possa tu divenire un apostolo del vero;
ama il tuo simile; assisti gli sventurati; sii forte a combattere i
tiranni dell’anima e del corpo: sii degno del bravo Chiassi di cui ti
impongo il nome,» — lo battezzò.

La quale scena sarebbe bastata a seppellire sotto una valanga di
ridicolo qualsiasi uomo più famoso, ma non Garibaldi. I suoi amici ne
sorrisero; i suoi avversari ne borbottarono un po’; ma egli restò, come
prima, intatto sul suo piedistallo, l’idolo delle moltitudini.

Lasciato il Veneto, passò in Lombardia e in Piemonte, dovunque
ricevendo le stesse accoglienze, e dovunque ripetendo le stesse
raccomandazioni, le stesse prediche e le stesse cerimonie. A Mantova
diceva: «Avversate i preti, ma non i preti come Tazzoli, Grioli e
Grazioli, veri sacerdoti di Dio.» A Torino, festeggiato dall’intera
cittadinanza, ossequiato oltre che dai capi delle corporazioni operaie
e democratiche, dai principali dell’antico partito moderato, quali
i Rorà, i Ferraris, i San Martino, dopo la Convenzione di settembre
divenuti ardentissimi per Roma; confortava, dal balcone del palazzo
Pallavicino, quel popolo «fortissimo, che aveva dato la prima spinta,
a dare l’ultima e portarci verso la nostra capitale, Roma;» ad
Alessandria battezzava colla stessa formola, «in nome di Dio e di Gesù
liberale,» altri figli di popolani, imponendo loro i nomi di Bottino,
Lombardi e Cappellini, martiri i primi due del Tirolo, l’ultimo di
Lissa!

E finito anche quel giro si riduceva nella fine di marzo a San Fiorano,
nella villa dello stesso Pallavicino, dove colle lettere e coi discorsi
privati continuava la propaganda che in pubblico aveva cominciata.

Intanto la nuova Camera era stata convocata, e poichè essa non appariva
affatto diversa da quella che il barone Ricasoli aveva disciolta,
e persino in quella maggioranza, che egli aveva sperato ritemprare
al battesimo delle urne, rispuntavano gli stessi screzi, gli stessi
attriti, gli stessi germi di sorda opposizione, che l’avevano indotto
a congedarla, così rinnovando il poco lodevole esempio del 1861, senza
attendere alcun voto che lo giudicasse, rassegnò il potere. E come nel
1861 un uomo era già designato a raccoglierlo, e lo raccolse difatti:
Urbano Rattazzi.

Se non che il ritorno al governo del deputato d’Alessandria aveva,
segnatamente rispetto alla questione romana, un significato che a
nessuno poteva sfuggire. Anzitutto il Rattazzi era pur sempre l’uomo
d’Aspromonte; colui, è vero, che aveva fracassato un piede a Garibaldi,
ma colui altresì che l’aveva lasciato scorrazzare in armi un terzo
d’Italia, poi tenutolo prigioniero come un sovrano vinto in battaglia e
alla fine amnistiato.

In secondo luogo le sue opinioni intorno a Roma erano note. Aveva
proclamato per mezzo del suo ministro Durando l’urgenza del gran
problema; aveva censurata la Convenzione di settembre; s’era opposto
al Contratto Langrand Dumonceau; sorrideva della libertà della Chiesa,
non intendendo farle alcuna concessione «se non quando fosse cessato
il poter temporale dell’autorità ecclesiastica ed il Governo italiano
fosse insediato in Roma.»

Infine egli non era ancora la Sinistra, ma ne era il precursore. I
suoi rapporti coi capi più autorevoli della parte avanzata non erano
un mistero per alcuno. Essi non sedevano nella sala del Consiglio, ma
ne occupavano le anticamere; non salivano al palazzo Riccardi per le
grandi scale, ma tenevano le chiavi di quelle segrete: Rattazzi li
conteneva e moderava, e, occorrendo, non ristava dallo sconfessare
pubblicamente le loro idee; ma era manifesto che non avrebbe potuto
reggersi a lungo su quel sottile pernio tra la Destra e la Sinistra
sul quale si studiava bilicarsi, e che il giorno s’avvicinava a gran
passi in cui per necessità di cose, non potendo cadere tra le braccia
de’ moderati, sarebbe caduto di nuovo tra quelle de’ rivoluzionari suoi
fatali amici.

Ora quanto questa condizione del Governo giovasse ai progetti
rivoluzionari che mulinavano pel capo di Garibaldi e de’ suoi amici non
è chi nol vegga: possiamo anzi affermare che solo dal giorno in cui
il Rattazzi salì al potere, le idee del partito d’azione, vaghe fino
allora, incominciarono a disegnarsi con qualche chiarezza ed a prendere
una forma rilevata e concreta in un principio d’azione.

E i primi segni di questa maggiore alacrità apparvero ne’ Romani
stessi. Quel medesimo _Centro d’insurrezione_, al quale più su
accennammo, pubblicando nel 1º d’aprile il primo suo Manifesto ai
Romani, annunziava trascorsa ormai l’ora delle tacite proteste e
delle imbelli manifestazioni; bandiva la necessità dell’insurrezione
e riconoscendo Garibaldi col titolo di Generale romano, lo pregava ad
assumere la direzione della patriottica impresa e a darle esecuzione
per mezzo degli uomini che a lui fosse piaciuto designare. E Garibaldi,
cui nessun eccitamento poteva essere più caro a quei giorni, non
cercando chi e quanti fossero coloro che gli parlavano sì alto in
nome di Roma, non curandosi di scandagliare fino a qual punto la
realtà delle cose, la volontà dei Romani, le ragioni dell’opportunità,
consuonassero a sì magnifiche promesse, rispondeva quasi subito,
dichiarandosi superbo, diceva, del titolo che gli era rinnovato di
Generale romano; accettando senza più l’incarico commessogli; eleggendo
per coordinare il lavoro di Roma e quello della restante Italia un
_Centro d’emigrazione_, il quale allacciato a sua volta ad una rete
di _Sub Centri_ provinciali e locali, doveva fare il censimento degli
idonei alle armi, raccogliere l’_Obolo della Libertà_, contrapposto
all’_Obolo di San Pietro_, e apparecchiare quanti mezzi fossero in suo
potere per la nuova levata che s’annunziava vicina.

E tutto ciò così scopertamente, con tanto rumore di proclami e di
programmi, e pubblico via vai di emissari e di agenti, che il barone
Malaret, ministro di Francia a Firenze, egregiamente informato d’ogni
più minuto particolare dalla doppia polizia del suo Governo e del
cardinale Antonelli, si trovò nella necessità di presentare i suoi
reclami al Rattazzi e di obbligarlo ad ufficiali assicurazioni.[346]
Le quali, a dir vero, non avrebbero potuto essere nè più oneste nè
più accorte: scarsi i mezzi di Garibaldi per essere temibili; sacri al
Governo italiano gl’impegni assunti colla Convenzione del settembre,
e risoluta la sua volontà di farla rispettare; soltanto non poter egli
starsi garante che pochi individui isolati non riuscissero a schizzare
nel Pontificio per la frontiera; avvenendo il caso però, tener per
certissimo che il Governo di Sua Santità avrebbe saputo averne ragione
da sè.

E il Rattazzi, giova ridirlo, fino a quel giorno, anzi per molti
giorni e mesi ancora parlava sincero. Egli disapprovava ogni conato
intempestivo verso Roma e non lo nascondeva; egli non voleva nè
denunziare nè perseguitare gli agitatori; ma non aveva alcun vincolo
con essi: s’illudeva, come altre volte, sulle forze di Garibaldi, e
sperava che il nuovo nembo da lui addensato si scioglierebbe da sè
in un acquazzone d’estate; ma in ogni ipotesi egli si credeva forte
e destro abbastanza per sorprenderlo ed arrestarlo a tempo. Solo
quando sopraffatto dal turbine non vedrà più modo di scongiurarlo, si
nasconderà anch’egli tra le nubi e vi soffierà dentro per la disperata
speranza di poterne usufruttare lo scoppio a beneficio della sua
politica e dell’Italia.


III.

In sui primi di maggio Garibaldi passava di Lombardia in Toscana.
Sostato un giorno a Firenze, andava a prender stanza nella villa del
deputato Cattani-Cavalcanti, a Castelletti presso Firenze. Ora, che
questo tramutamento si collegasse ai disegni su Roma era visibile a
chicchessia, e il fatto non tardò a dimostrarlo.

Nella prima settimana di giugno il Generale riceveva in Castelletti una
visita inaspettata. Due incaricati dal _Comitato Nazionale Romano_, di
quel Comitato che era l’antagonista nato del partito d’azione e che per
la sua propaganda eternamente temporeggiatrice s’era acquistato il non
immeritato titolo d’addormentatore, si presentarono a lui, dicendosi
a nome de’ loro mandanti pronti a entrare in accordo col _Centro
d’insurrezione_ e desiderosi di intendersi con lo stesso Generale,
circa al programma d’azione. Il come e il quando di quest’azione pare
non dicessero: forse si restrinsero a generiche dichiarazioni ed a
vaghe profferte; ma Garibaldi, ignaro delle ambagi e delle sfumature
del linguaggio, avvezzo a veder dietro ogni detto un fatto, non si
cura di chieder di più, e tenendo subito per conchiusa l’alleanza,
e per decisa indifferibilmente l’azione, spaccia ai due Comitati di
Terni, il _Nazionale_ e l’_Insurrezionale_, certi Galliano e Perelli
col mandato di prendervi alcune centinaia di fucili che sapeva nascosti
colà fin dai giorni d’Aspromonte, armare con questi quanti giovani o
fuorusciti romani si potessero raccogliere, e fatta irruzione nello
Stato Pontificio, gettarvi la prima favilla dell’incendio. Trasognarono
all’inatteso messaggio i patriotti ternani: il rappresentante del
Comitato moderato, certo Mauri, protestò di nulla potere senza espresso
ordine de’ suoi capi (riprova codesta che il _Comitato Nazionale_
non aveva promesso nulla di positivo), e ricusò di ubbidire; il
rappresentante del _Comitato d’azione_, certo Frattini, caldo patriotta
e vecchio cospiratore, persuaso dalle molte parole del Perelli e
del Galliano che la mossa fosse combinata coi Comitati di Roma sì
_Nazionale_ che _Insurrezionale_, e tutto pronto al di là del confine
per aiutarla; vinto ancora più dal nome di Garibaldi, di cui i due
emissari presentavano un’amplissima credenziale, consentì a secondarli
e dar la sua mano all’impresa. Nè furon lunghi gli apparecchi: appena
due giorni dopo, il 19 giugno, il Perelli e il Galliano raccoltisi con
altri centoquattro giovani nel convento di San Martino, tragittata
sopra una barca del Frattini stesso la Nera e ricevute colà presso
le armi, s’incamminarono diviati verso la Sabina. Se non che quasi
sul punto di sconfinare, nei pressi di Ponte Catino e Castelnuovo, un
pelottone del 7º Granatieri, imboscato da più giorni in quelle macchie,
circuì in un battibaleno la colonna e fatta per intimorirla una scarica
all’aria, le intimò la resa.[347] Infatti il Rattazzi, eccitato, anzi
pungolato senza posa, dalla polizia francese, più vigilante forse e
informata della sua, era da oltre una settimana sulle orme di tutta la
congiura, impartendo ordini rigorosissimi a tutte le autorità così di
terra come di mare, affinchè le custodie della doppia frontiera fossero
raddoppiate, e ad ogni costo s’impedisse il passaggio di qualsiasi
banda d’armati; e, come ognun vede, era stato fedelmente e zelantemente
ubbidito.

Pari però all’ingrata sorpresa, il clamore dei delusi. Nessuno voleva
assumere la paternità del fallito tentativo, e ogni parte se ne
scaricava sull’avversa. Garibaldi indignato imprecava al Governo,
«birro del Papa;» il partito d’azione incolpava di tradimento il
_Comitato Nazionale_, accusandolo persino d’aver egli spinto il
Generale a quella scorreria coll’intenzione di pubblicarne le trame e
comprometterlo; il _Comitato Nazionale_ invece apertamente sconfessava
l’intempestivo conato e persisteva a raccomandare ai Romani la pazienza
e l’aspettazione. Era insomma il consueto palleggio di accuse, di
recriminazioni e di vituperii che suol seguitare tutte le imprese
fallite, di mezzo al quale sarebbe bensì facile trarre una prova di più
delle passioni partigiane; ma non la verità.

Non dobbiamo però tacere che tra mezzo al tumulto delle voci contrarie
quella che ci sembrò allora, e ci sembra tuttodì la meno vera, la
meno probabile, la meno dimostrata, fu quella che appose al _Comitato
Nazionale_ d’aver tradito per cieco livore di parte l’impresa da lui
medesimo suggerita e apparecchiata. Fino a prova contraria noi non
abbiamo alcuna ragione per credere a tanta scelleraggine. Aggiungiamo
anzi, che tutte le ragioni ci sforzano a discrederla. E ciò non solo
perchè la onestà privata, fino ad oggi indisputata, dei componenti
del Comitato Romano ci sta garante della loro probità politica; ma
anche perchè se fosse stata soltanto probabile la perfidia apposta al
Comitato, Garibaldi, che non era certo sulla via dei riguardosi riserbi
e dei temperati discorsi, non l’avrebbe taciuta, ed in ogni caso il
Comitato stesso, per ispudorato che si potesse supporre, non avrebbe
mai osato di infliggere un biasimo pubblico ad un’azione della quale
ognuno avrebbe potuto dirgli ad ogni istante: «Tacete, voi stessi ne
foste complici.»

No: l’enormezza stessa dell’accusa attesta per la sua incredibilità.
Reputiamo superfluo cercare l’autore responsabile di quel tentativo,
che potrebbe dirsi il prologo sbagliato d’un dramma male abbozzato; ma
se quell’autore si volesse cercare, lo si cerchi in Garibaldi stesso.

Egli ideò e volle e fece eseguire la scorreria; egli scambiando le
indeterminate profferte del Comitato moderato per impegni positivi
d’azione, e fidandosi alle notizie dubbie ed ai suggerimenti fallaci
di agenti innominati ed oscuri, e sprezzando ogni consiglio di
preparazione e d’opportunità e dimenticandosi persino di prevenire
de’ suoi disegni il Centro di Roma e il Centro di Firenze e tutti i
suoi principali amici e cooperatori, egli pel primo rese inevitabile
il fallimento d’un’intrapresa che aveva già in sè tanti rischi e tante
difficoltà.

Già dicemmo che Garibaldi non fu mai cospiratore, e il modo con
cui egli condusse la Campagna preparatoria di Mentana lo proverà
luminosamente. Ciò non scema la sua grandezza; ma aggiunge un
lineamento più originale e caratteristico alla sua straordinaria
figura.


IV.

Ma come ognuno immagina, l’infelice successo della Sabina non aveva
rallentato un solo istante l’opera di Garibaldi, nè quella de’ suoi
amici. Trasferitosi sull’aprirsi di luglio alle Terme di Monsummano,
dove lo conduceva la necessità, tutt’altro che fittizia, di curare la
sua implacabile artritide, diceva subito ad alcuni suoi commilitoni,
accorsi a visitarlo: «A Roma ci si andrà; e se hanno impedito a
quei duecento valorosi di entrarvi, i duecento diverranno duemila,
e i duemila ventimila.» E a Pescia, arringando il popolo raccolto
sulla piazza a festeggiarlo, soggiungeva: «Dobbiamo andare a Roma a
snidarvi quel vivaio di vipere;» così a Montecatini, a Castelfranco,
a Lucca, sempre e dovunque ribattendo il medesimo chiodo e predicando
il medesimo verbo, con quel suo linguaggio ignaro di eufemismi,
fiammeggiante d’amor patrio, ma che troppo spesso urtando nella corda
delicata delle credenze religiose non era sempre, specialmente tra le
popolazioni delle campagne, il più opportuno e convincente.

Nè oramai si trattava più di sole parole. Uno dei maggiori ostacoli
alla felice riuscita della meditata riscossa era quell’antagonismo
più volte accennato del _Comitato d’insurrezione_ e del _Comitato
Nazionale_, che dividendo i patriotti romani in due campi (e quando si
volesse contare la frazione mazziniana del _Comitato d’azione_ in tre)
formava la cagione principale della loro mutua debolezza.

A Garibaldi però era sempre parso che la prima e più urgente necessità
fosse quella di cessare, a qualsiasi patto, quel funesto dissidio,
adoperando ogni maniera di sforzi affinchè tutti coloro che nelle due
parti ponevano al disopra delle astiosità partigiane il pensiero della
patria, stringessero in un sol fascio le loro forze e procedessero
concordi al conseguimento del fine comune. E a così onesto desiderio,
partecipato dalla eletta dei fuorusciti romani, sembrò rispondere,
quasi senza contrasto, l’adempimento; sembrò, diciamo, perchè si vedrà
in appresso che la festeggiata concordia era più apparente che reale;
più tra i gregari che fra i capi; più tra pochi individui che nella
pluralità de’ due partiti.

Comunque, il patto fu sancito, e il _Comitato Nazionale Romano_ e il
_Centro d’insurrezione_, scontenti però sempre quelli del _Comitato
d’azione_, si fusero in un nuovo ed unico Comitato e lo annunziarono ai
loro concittadini in questo manifesto:

      «Romani!

  »Il voto comune, il voto di tutti quelli a cui batte il cuore
  per l’onore e la libertà della patria, si è realizzato. Non più
  dissensi, non più divisioni; tutte le frazioni del partito liberale
  si sono data la mano, hanno unite le forze per abbattere per sempre
  questo resto del governo papale e dare Roma all’Italia.

  »Il Comitato Nazionale Romano ed il Centro d’insurrezione fanno
  quindi luogo ad una Giunta Nazionale Romana, la quale assume la
  suprema direzione delle cose.

  »Rallegriamoci di questa santa concordia, e diamo opera a
  fecondarla con unità di fede e di disciplina, con unità di
  propositi e di sacrifizi. Il fascio romano è ora veramente formato:
  facciamo che non si sciolga mai più, e che presto ci dia la
  vittoria.

      »Romani!

  »I cittadini rispettabili che fanno parte della Giunta a cui
  rassegniamo l’ufficio, sono degni dell’alta missione; ma a nulla
  riuscirebbero senza il vostro concorso.

  »Secondateli adunque fidenti ed animosi, e l’impresa non fallirà.
  Vogliamolo tutti, e ben presto venticinque milioni di fratelli
  saluteranno Roma capitale d’Italia.

      »Roma, 13 luglio 1867.

                                     »IL COMITATO NAZIONALE ROMANO.
                                        »IL CENTRO D’INSURREZIONE.»

Queste parole, a dir vero, suonavano tutt’altro che promessa di azione
immediata; ma Garibaldi, credulo sempre a quello che più desiderava,
non curandosi di indagare quanto quella lega fosse salda e sincera,
e se dietro quei Comitati, diremmo quasi, quegli stati-maggiori,
stesse la milizia d’un popolo veramente deliberato ai cimenti cui era
invitato; ingannato, come ai giorni di Sarnico e d’Aspromonte, dalle
manifestazioni in gran parte artificiali delle città italiane;[348]
fidente, come sempre, nella propria forza e incrollabile nella
sua volontà, stimò giunta l’ora di raccogliere i frutti della sua
predicazione e di passare dalle parole ai fatti.

Trasferitosi a Vinci (nella villa del conte Masetti, al Ferrale),
riepiloga di là in un lunghissimo manifesto le idee che era venuto fin
allora sparsamente predicando;[349] convoca presso di sè quelli tra
i suoi amici che in quel momento stimava più devoti o meno renitenti
a’ suoi concetti, e coll’usato stile, più da Generale che impartisca
degli ordini a’ suoi luogotenenti che da capo politico, il quale
proponga delle risoluzioni a’ suoi seguaci, li lega a’ suoi disegni;
commette a Francesco Cucchi di andare a Roma ad annodare in sua mano
le prime fila della trama avviata: manda suo figlio Menotti a tastare
il terreno e stringere le prime relazioni nel mezzogiorno; delega
Giovanni Acerbi, l’Intendente dei Mille, alla raccolta dei giovani
e delle armi alla frontiera umbro-toscana e lo manda in suo nome a
scandagliare le intenzioni di Rattazzi; indi passa egli stesso a Siena,
a Montepulciano, a Orvieto, a Rapolano scuotendo fin sulle porte del
Gran Nemico la fiaccola incendiaria della sua parola, colla quale senza
posa da tre mesi lo minacciava.

Ed appariva tanto evidente che oramai l’impresa era non solo deliberata
nel suo animo, ma imminente, che ad un banchetto offertogli in Siena
dalla storica Accademia de’ _Rozzi_, rispondendo al professore Stocchi,
il quale pareva indirettamente consigliarlo a differire il segnale
della magnanima riscossa a tempi più maturi, esclamò: «No, no, questo
non è il mio pensiero: _alla rinfrescata_ moveremo.»

E _alla rinfrescata_ diventò, da quel giorno, la segreta parola
d’ordine di tutti i Garibaldini. Invano il Rattazzi aveva risposto
all’Acerbi severe parole, non solo togliendogli ogni speranza che il
Governo avrebbe aiutato l’avventura, ma esplicitamente dichiarandogli
che l’avrebbe con tutte le sue forze impedita; invano i principali
del partito avanzato e gli stessi suoi più devoti amici, quali il
Crispi, il Cairoli, il Miceli, il Guastalla, si mostravano o avversi
all’impresa, o sgomenti delle difficoltà e dei pericoli onde essa era
piena: Garibaldi, o non accettava discussioni o le troncava con uno
de’ suoi soliti motti dittatoriali, e camminava imperturbato per la sua
via.


V.

Se non che accadeva a quei giorni un fatto singolarissimo. Un gruppo
de’ più avanzati socialisti europei, fra i quali il Barny francese,
il Fazy svizzero, il Bakounine russo ed altri, s’era dato l’intesa di
convocare a Ginevra pel mese di settembre un _Congresso internazionale
della pace_ (per chieder cioè la pace universale perpetua, la
soppressione degli eserciti stanziali, la federazione dei nuovi Stati
d’Europa ed altre siffatte bazzecole), e naturalmente al Congresso
fra i famosi campioni della democrazia cosmopolita era stato invitato
il famosissimo fra tutti Giuseppe Garibaldi. Si poteva credere però
che quell’invito a discorrere e sentir discorrere di pace, per un
uomo tutto affaccendato in apparecchi di guerra non potesse, in quel
momento almeno, tornare il più opportuno ed accetto; ma non così
per l’Eroe nostro. Nulla anzi a’ suoi occhi di più propizio di quel
Concilio ecumenico dei sacerdoti della libertà aperto nella «Roma
dell’intelligenza» per dare solennità alla Crociata da lui bandita
contro l’altra «Roma bugiarda del Papato;» talchè lasciato a Menotti
il mandato di continuare il lavoro incominciato, parte improvviso
per Belgirate dove prende seco Benedetto Cairoli, e accompagnato
da Giuseppe Missori, Alberto Mario, il professor Ceneri, Vincenzo
Caldesi, Mauro Macchi, il dottor Riboli ed altri che non sapremmo dire,
continua per Ginevra. E questa volta pure perdoneremo al lettore la
cronica delle accoglienze; Ginevra in questo non fu diversa da Londra
nè ad alcuno dei tanti luoghi in cui la maliarda figura di quell’uomo
comparve. Ivi pure riuscito a gran stento ad aprirsi un varco nella
calca, fino alla casa che doveva ospitarlo e presentato dal signor
Fazy al popolo ginevrino che dalla piazza lo acclamava, il Generale lo
arringa in lingua francese, con un discorso che fu certo uno de’ più
nobili che gli uscissero dal labbro in quei giorni e del quale basti il
saggio di questi due periodi, ad attestare la eloquenza.

                             . . . . . . .

  »La magnifica accoglienza fattami nella vostra città m’inorgoglisce
  e forse mi dà troppa baldanza. In ogni modo, essa m’incoraggia a
  dire la verità; e se io avessi la disgrazia di travisarla, crederei
  di aver commesso un sacrilegio, in un paese donde la libertà del
  pensiero si va spandendo in tutte le pianure di Europa, a quel
  modo che vi diffondono le acque sgorgate dalle sue ghiacciaie.
  (_Applausi strepitosi._)

  »Qui i vostri antenati ebbero animo di assalire tra i primi
  cotesta pestilenziale istituzione che si chiama: il Papato. A voi,
  cittadini di Ginevra, che vibraste i primi colpi alla Roma papale,
  non è più l’iniziativa ch’io domando; ma vi domando di compir
  l’opera dei vostri padri, quando noi recheremo gli ultimi colpi
  al mostro. Vi ha nella missione degli Italiani che lo custodirono
  così a lungo nel loro seno una parte espiatoria; noi faremo il
  debito nostro. A quell’uopo il vostro consenso potrebbe esserci
  necessario; io lo spero.» (_Applausi._)

Nè dissimile fu l’accoglimento che all’indomani ricevette al Congresso
di cui teneva la presidenza Giulio Barny ed in mezzo al quale
spiccavano variamente illustri i nomi di Edgardo Quinet, di Pietro
Leroux, di Stefano Arago, di Luigi Bückner e di altre celebrità della
democrazia mondiale. Non dissimile l’accoglimento alla persona, ma
assai diverso quello alle idee. Anco in quell’assemblea battagliavano
troppi partiti: i socialisti puri della scuola manchesteriana, avversi
a qualunque guerra per qualsivoglia pretesto o ragione: gli atei e
miscredenti ad oltranza, nemici deliberati d’ogni religione e del nome
stesso di Dio e convenuti colà col semplicissimo assunto di chiederne
la soppressione: i clericali cattolici zelanti della pace evangelica
e sotto quella maschera infiltratisi anche in quel Congresso, ma,
quando mai, propizi a quella sola guerra che restituisse alla Chiesa
romana il tolto potere; infine i dottrinari della democrazia svizzera,
professanti la libertà panacea di tutti i mali; ma soprattutto
gelosi della neutralità del loro paese e paurosi di arrischiarne con
sovversive dottrine la pace.

Ora Garibaldi in mezzo a costoro era, senza saperlo, come un disperso
nel campo nemico: e lo vide ben presto, quando levatosi a rispondere al
signor Schmidlin oratore dei clericali, e al signor Fazy oratore dei
democratici svizzeri, tentò ribattere in un discorso le loro opinioni
per affermare la propria, negli otto articoli di questa proposta:

  «1º Tutte le nazioni sono sorelle.

  »2º La guerra tra di loro è impossibile.

  »3º Tutte le querele che sorgeranno tra le nazioni dovranno essere
  giudicate da un Congresso.

  »4º I membri del Congresso saranno nominati dalle Società
  democratiche dei popoli.

  »5º Ciascun popolo avrà diritto di voto al Congresso qualunque sia
  il numero dei suoi membri.

  »6º Il Papato, essendo la più nociva delle sètte, è dichiarato
  decaduto.

  »7º La religione di Dio è adottata dal Congresso e ciascuno de’
  suoi membri si obbliga di propagarla. Intendo per religione di Dio
  la religione della verità e della ragione.

  »8º Supplire al sacerdozio delle rivelazioni e della ignoranza col
  sacerdozio della scienza e della intelligenza.

  »La democrazia sola può rimediare al flagello della guerra.

  »Lo schiavo solo ha il diritto di far la guerra al tiranno; è il
  solo caso in cui la guerra è permessa.»

A questo colpo inatteso, che dava nel petto a tutte, può dirsi, le
idee predominanti nel Congresso, il rimbalzo dello sdegno e della paura
collegati insieme fu irrefrenabile. Indarno il Quinet coll’autorevole
parola, e il Ceneri e il Macchi colla persuasiva si studiarono
difendere le proposte del Generale; i clericali suscitandovi contro
la reazione del sentimento cattolico, gli Svizzeri facendo appello al
sentimento ancora più forte ne’ loro concittadini della tranquillità
e sicurezza della Confederazione, riuscirono a far tale pressione
sul Congresso ed a raggruppar intorno ad essi tale maggioranza, che
tutte le proposte di Garibaldi furono scartate e surrogate da una di
quelle mozioni verbose e vuote di cui gli archivi del dottrinarismo
democratico sono così ricchi, ma che nulla contenendo di sostanziale e
di sodo non ci sembrano meritare la fatica d’essere trascritte.

Garibaldi però non attese nemmeno la votazione de’ suoi articoli, e
già fiutato il vento infido, pago d’aver gettato in faccia all’Europa
democratica ivi congregata la sua bomba incendiaria, tornava l’11
mattina, per la via del Sempione in Italia, e sostato brevemente
a Belgirate, metteva capo a Genestrello, altra villa del suo amico
Pallavicino presso Voghera.

Colà però lo raggiungevano tosto importanti notizie da Roma che lo
consigliarono ad affrettare il suo ritorno in Toscana.

Quelle notizie dicevano certa la insurrezione purchè il braccio di
Roma fosse armato: facile l’impadronirsi di due porte e la sorpresa
delle ferrovie conducenti a Roma: utile con un colpo di mano occupar le
due stazioni d’Orte e di Ceprano; necessario soltanto armi e danaro:
tutta la Carboneria, numerosa a Roma, pronta a secondare il moto
appena Garibaldi facesse appello. La _Giunta romana_ poi rincarando
su queste speranze dichiarava, venuta l’ora dell’azione, ogni indugio
pericoloso, urgente la costituzione d’un fondo di cassa, al quale, in
forma di prestito gratuito o rimborsabile, invitava nuovamente tutti
gli Italiani a contribuire.

E come ognuna di queste parole scendeva soave all’animo già
febbricitante dell’Eroe, così da Genestrello stesso, senza frapporre
un’ora, rispondeva confermando l’appello della _Giunta romana_ con
questo nuovo manifesto:

                    «_Alla Giunta Nazionale Romana._

                                   »Genestrello, 16 settembre 1867.

  »Il vostro appello agli Italiani non andrà perduto.

  »In Italia sonvi molti paolotti, molti gesuiti, molti che
  sacrificarono sull’altare del ventre. Ma, è pure consolante il
  dirlo, vi sono molti prodi di San Martino, molti eroici bersaglieri
  del Re d’Italia, molti soldati della prima artiglieria del mondo,
  molti nepoti dei trecento Fabii ed un avanzo dei mille di Marsala,
  i quali, se non m’inganno, hanno prodotto centomila giovani che
  temono oggi di esser troppi a dividere la misera gloria di cacciar
  dall’Italia mercenari stranieri e negromanti.

  »Circa ai mezzi, l’Italia ebbe sempre la disgrazia d’essere troppo
  ricca per mantenere eserciti stranieri, e fra i suoi ricchi non
  mancano patriotti che tosto porgeranno, ne sono sicuro, le loro
  splendide offerte.

  »Avanti adunque, o Romani, spezzate i rottami dei vostri ferri
  sulle cocolle dei vostri oppressori, e d’avanzo saranno gl’Italiani
  che divideranno le vostre glorie.

                                                            »Vostro
                                                       »GARIBALDI.»

E ciò detto, partiva al dì vegnente (17) per Firenze.


VI.

Colà giunto però erano tali ancora gli ostacoli e tanti i motivi di
indugio e di prudenza, che qualunque altro uomo ne sarebbe stato
scosso; non Garibaldi. Roma non era armata ancora, nè per quanto
si fossero studiati fin allora tutti i passi di terra e di mare per
introdurvi quei pochi fucili che stavan sempre nascosti nei pressi
di Terni e di Follonica, nessuno n’aveva ancora trovato la via. I
principali fra gli amici del Generale persistevano sempre presso di lui
nel concetto di lasciare a Roma l’iniziativa del moto, apparecchiando
bensì in silenzio i mezzi per accorrerle in soccorso; ma evitando
ogni apparenza di una importazione artificiale e facendo in ogni caso
seguire l’irruzione delle bande all’insurrezione della capitale; non
questa a quella.

Infine il ministro Rattazzi, dopo aver dato qualche segno e qualche
promessa di tacita acquiescenza, forse nella speranza di guadagnar
tempo, e aver persino condisceso a lasciar continuare in segreto
gli apparecchi dell’invasione, purchè il Generale acconsentisse a
ritirarsi ed a scomparire nella sua Caprera;[350] spinto ora e sempre
più dai richiami e dai ministri della Francia, rappresentata allora in
Firenze dal signor De la Villestreux, tornava ai suoi primi propositi,
protestandosi deliberato ad impedire anco colla forza qualsiasi
violazione della Convenzione di settembre e dandone la prova col
raddoppiare le guardie alla frontiera e col rinnuovare gli ordini della
più severa vigilanza.

A tutto ciò però Garibaldi non movea collo nè piegava sua costa: le
armi in un modo o nell’altro sarebbero entrate: a’ suoi amici faceva le
mostre di consentire ai loro consigli, ripetendo anzi a taluno di loro
che l’iniziativa romana la teneva indispensabile;[351] ma non cessava
per questo dall’avviare quanti Volontari gli capitavano verso i confini
e dal concentrarvi come ad un campo ormai prestabilito l’attuazione
e la forza: al Governo infine rispondeva sdegnosamente rifiutando
la condizione del ritiro in Caprera; e dichiarandosi a sua volta
deliberato a qualunque cimento. Tutt’al più piegando all’argomento
sempre più evidente che Roma non era ancora preparata, consentiva a
differire la mossa fino agli ultimi di settembre; non però a sospendere
e molto meno a mascherare alcuni degli apparecchi avviati.

Epperò, prima che l’agosto finisse, tutte le parti erano nella sua
mente assegnate e tutti gli ordini distribuiti come alla vigilia
d’un’entrata in campagna. Il Cucchi, munito d’un’amplissima sua
credenziale che lo eleggeva suo rappresentante in Roma, partiva
un’altra volta per la città eterna a prendervi la direzione del
moto creduto imminente; Menotti ed Acerbi doveano tenersi pronti a
sconfinare colla gente già raccolta, il primo da Terni coll’obbiettivo
su Monterotondo; l’altro da Orvieto coll’obbiettivo su Viterbo, mentre
Nicotera e Salomone dovevano fare altrettanto da Aquila e Pontecorvo
verso Velletri; a Canzio era commesso di allestire una spedizione
marittima che andasse a gettarsi sulle coste pontificie tra Montalto e
Corneto, compiendo così l’invasione da tutte le parti. Nè il Generale
arrestavasi a questi ordini guerreschi, ma colla consumata abilità del
guerrillero prevedeva tutti i casi possibili, distribuendo a tutti i
capi delle colonne designate queste particolareggiate istruzioni:

  «1º Punto di concentrazione delle colonne invadenti il territorio
  romano — Viterbo.

  »2º Si raccomanda ad ogni comandante di colonna di non impegnare
  combattimenti colle truppe pontificie, senonchè con molta
  probabilità di riuscita. Ed ove le forze nemiche sieno superiori,
  manovrare di modo da concentrarsi su Viterbo ove si troverà
  probabilmente la colonna principale.

  »3º Ove un comandante di colonna si trovasse nella assoluta
  necessità di combattere, egli deve ricordarsi e ricordare ai suoi
  che il mondo intiero ha gli occhi su di noi e sa che noi siamo
  assuefatti a vincere.

  »4º A qualunque costo i comandanti delle colonne non devono
  impegnarsi in combattimenti colle truppe dell’esercito italiano.

  »5º Scopo del movimento è il rovesciare il governo dei preti,
  proclamare Roma capitale d’Italia e lasciare il popolo romano in
  piena libertà sulle proprie condizioni di plebiscito.

  »6º Credo superfluo il raccomandare molto un lodevole contegno
  verso le popolazioni. I militi della libertà, nostri fratelli
  d’armi, sono assuefatti a trattare il popolo da fratelli e giammai
  vi fu esempio che si macchiassero di brutture.

  » 7º Si darà alle colonne l’organizzazione ch’ebbero in tutti i
  tempi i corpi volontari — acciocchè essi si presentino al paese
  ispirandovi la fiducia — e la paura ai nemici d’Italia.

  »8º I comandanti delle colonne hanno il diritto d’impossessarsi
  d’ogni cosa appartenente alle autorità nemiche a profitto della
  rivoluzione.

  »9º Abbisognando di viveri od altro, ne faranno richiesta alle
  autorità municipali o locali, rilasciando loro idonee ricevute.

  »10º Una colonna che si trovi nell’impossibilità di concentrarsi
  alla colonna principale — manovrerà di modo da non combattere con
  isvantaggio, inquietando il nemico quanto è possibile — e procurerà
  frattanto di mettersi in comunicazione col quartiere generale.

  »11º In quest’impresa gl’Italiani devono ben penetrarsi d’avere su
  di loro gli occhi del mondo intiero — e che quindi il nome italiano
  deve uscirne bello, radiante di gloria, salutato con entusiasmo e
  rispetto da tutte le nazioni.

  »12º Fra le eventualità possibili, vi è quella di essere io
  arrestato. In quel caso, il movimento deve continuare colla stessa
  impavidezza — come se fossi libero. E deve pur continuare anche che
  arrestassero la maggior parte dei capi.

  »13º In caso non riuscisse una colonna nell’intento, le altre
  devono continuare il moto come se nulla fosse successo.

                                                    »G. GARIBALDI.»


VII.

A tal punto però anche il Ministero, perduta ormai ogni speranza
di contenere coi privati consigli e le blande minaccie il patriotta
agitatore, deliberava di lasciar quel riserbo che s’era fino allora
imposto, e di accettare il guanto che gli era gettato. Però nel 21
agosto comparve nella _Gazzetta Ufficiale_ una dichiarazione del
Governo, la conclusione della quale era che «se alcuno si attenterà
di venir meno alla lealtà de’ patti e violare quella frontiera da cui
ci deve allontanare l’onore della nostra parola, il Ministero non lo
permetterà in niun modo e lascerà ai contravventori la responsabilità
degli atti che avranno provocato.»

Ma «un po’ tardi,» notava il signor De Moustier[352] nel ricevere
notizia di questa dichiarazione; un po’ tardi pel Governo, un po’ tardi
per Garibaldi stesso.

Egli oramai aveva tratto il dado, nè anco volendolo poteva più
retrocedere. Anzi quella pubblica minaccia gli parve come un
avvertimento di rompere gli ultimi indugi; talchè già coperti
vari punti della frontiera di Roma di Volontari, pronti a seguirlo
il Menotti e l’Acerbi; la mattina del 23 settembre s’incamminava
accompagnato soltanto dal fedele Basso e dal signor Del Vecchio,
alla volta d’Arezzo, diretto, secondo diceva, e voleva far credere, a
Perugia (per ingannare la vigilanza della polizia aveva fatto spedire
colà i suoi bagagli); ma proseguendo ratto nella sera stessa di quel
giorno per la strada di Orvieto, e andando quella notte a pernottare a
Sinalunga a circa cinquanta miglia dal confine orvietano.

Il prefetto di Perugia però non s’era lasciato allucinare e aveva
provveduto in guisa che qualunque strada il Generale fosse per
prendere, al primo tocco di telegrafo, potesse essere arrestato. E
così fu. Garibaldi, ospitato in Sinalunga dal signor Agnolucci, s’era
appena coricato, che una compagnia di soldati e carabinieri, venuti da
Orvieto, invadeva il paese, circuiva la sua casa, e un luogotenente
de’ carabinieri salito da lui, gli intimava senz’altro l’arresto. Il
Generale non chiese che il tempo di fare il suo solito bagno: gli fu
concesso; e di lì a mezz’ora in biroccino fino a Lucignano, poscia
in ferrovia fu tradotto col Basso e il Del Vecchio nella direzione
di Firenze. Nemmeno Firenze però era l’ultima meta che gli era stata
imposta; il treno ne traversò rapido la stazione, e soltanto a Pistoia
sostò per alcuni istanti per deporre il Basso e il Del Vecchio, e
continuare di là, senza resta, fino ad Alessandria, dove il Governo
aveva deciso che il Generale passerebbe i primi giorni della sua
cattività.

A Pistoia però nemmen l’occhio vigile de’ suoi custodi aveva potuto
veder tutto. Infatti il Generale era riuscito in quei pochi momenti di
fermata a scrivere a matita un biglietto, e prima che il Del Vecchio
s’allontanasse a ficcarglielo nelle mani. Il biglietto era un nuovo e
più fiero appello all’insurrezione, e diceva testualmente così:

                                                     «24 settembre.

  »I Romani hanno il diritto degli schiavi, insorgere contro i loro
  tiranni: i preti.

  »Gli Italiani hanno il dovere di aiutarli — e spero lo faranno — a
  dispetto della prigionia di cinquanta Garibaldi.

  »Avanti adunque nelle vostre belle risoluzioni, Romani e Italiani.
  Il mondo intiero vi guarda, e voi, compiuta l’opera, marcerete
  colla fronte alta e direte alle nazioni: Noi vi abbiamo sbarazzata
  la via della fratellanza umana dal più abominevole suo nemico: il
  Papato.

  »Caro Del Vecchio — voi non verrete in prigione con me — e farete
  stampare queste linee.

                                                    »G. GARIBALDI.»

La lettura pertanto di queste linee e ancora più l’annuncio
dell’arresto del Generale suscitò in tutte le maggiori città d’Italia
fierissimi tumulti. In Firenze i deputati della Sinistra, raccoltisi in
Palazzo Vecchio, firmavano una protesta per l’illegale arresto del loro
collega; i giornali avanzati schizzavano fiamme; il popolo inferocito
percorreva le vie cercando a morte il Rattazzi, il quale solo al
caso di essere entrato per il mal tempo in una vettura pubblica,
dovette di non essere subito riconosciuto e d’aver salva la vita. E
a Bologna, a Modena, a Milano, a Torino, a Pavia, a Genova, le stesse
manifestazioni; a Genova soprattutto, dove la collera per l’arresto del
Generale, inasprita dal sequestro delle armi destinate alla spedizione
marittima del Canzio, era giunta a tale che la folla diede un vero
assalto a Palazzo Tursi.

Nè in Alessandria l’aria era più quieta. Al primo giungere di Garibaldi
nella fortezza, anche quella popolazione, comechè spettatrice abituale
di tanti prigionieri politici, s’era commossa; e i soldati stessi del
presidio, affollati sotto le finestre della cittadella dove il Generale
era stato rinchiuso, gli gridavano «A Roma, a Roma!» il che gli fece
dire più tardi:[353] «Se avessi detto una sola parola che suonasse
lavacro delle vergogne italiane, uffiziali e soldati mi avrebbero
seguíto ovunque.»

Intanto l’agitazione crescente della Penisola, i doveri della pubblica
tutela, le insistenti e quasi insolenti pressioni della Francia
ponevano il Governo in terribili frangenti.

Anzitutto che cosa fare di quel prigioniero? Era ancora il medesimo
problema d’Aspromonte, ma più intricato forse; giacchè sostenere che
Garibaldi fosse stato colto in flagrante non era sì facile assunto, e
l’accusa di violazione della immunità parlamentare poteva tornare assai
pericolosa. Però dopo molto ondeggiare tra il processo, la libertà
incondizionata, la libertà condizionata, Rattazzi si risolveva ad
inviare in Alessandria il generale Pescetto, Ministro della Marina,
coll’incarico di commuovere l’animo del Generale, e di indurlo, se
fosse possibile, a ritornare a Caprera sotto la sola condizione che
non avrebbe fatto alcun tentativo per uscirne. Ma il Generale diede a
questa proposta un così aperto e secco rifiuto che il Pescetto, dopo
aver chiesto e atteso invano per oltre dodici ore nuove istruzioni,
s’indusse, sotto la propria responsabilità, a consentirgli il ritorno
a Caprera senza condizione alcuna, provvedendo soltanto che non
s’indugiasse a Genova e fosse trasferito immediatamente alla sua isola
da un piroscafo della R. Marina.

E così avvenne.

Il 27 mattina, in sull’alba delle 4, il Generale usciva da Alessandria
e circa due ore dopo smontava nella casa del signor Coltelletti
all’Acquasola di Genova. Quivi il popolo ebbro di rivederlo, ma
credendolo tuttavia prigioniero, minacciava di liberarlo egli stesso
colle proprie braccia; quando il Generale con una lettera ad A. G.
Barrili, Direttore del _Movimento_, nella quale diceva che «a scanso
d’equivoci tornava a Caprera libero e senza condizioni,» e con molte
altre consimili parole dirette ora in italiano, ora in genovese alla
folla, riuscì a quietare ogni tumulto e nella sera del giorno stesso
condotto amichevolmente a bordo del regio Avviso l’_Esploratore_,
ricevuto con tutte le mostre d’un illustre viaggiatore, in realtà
custodito come un deportato, salpava per Caprera.


VIII.

Ma dietro al corpo di Garibaldi prigioniero restava la sua anima;
restava nell’eco infocata de’ cento manifesti e de’ mille discorsi,
restava in quelle demosteniche parole: «I Romani hanno il diritto
d’insorgere; gl’Italiani hanno il dovere di aiutarli, e spero lo
faranno a dispetto della prigionia di cinquanta Garibaldi:» e, se
un dubbio fosse ancora possibile, restava in quest’ultima lettera a
Francesco Crispi, scritta sulla nave stessa che lo portava a Caprera,
e nella quale non sapresti se più ammirare il senso fatidico dell’Eroe
che presentiva in un atto di suprema energia la soluzione del grande
problema, o la virtù del patriota che non fa della salvezza della
patria un misero piato di vanità o di primazia, ed è sempre pronto
ad ecclissarsi dietro chiunque inalberi prima di lui il vessillo
redentore.

      «Caro Crispi,

  »Dopo ben maturo esame della situazione, io vedo un solo modo di
  rimediarla a soddisfazione della nazione e del governo.

  »Invadere Roma coll’esercito italiano e subito.

  »Non creda il governo di contentare l’Italia in altro modo. Essa
  perdonerà le sue miserie, ma non la sua degradazione. Ed oggi
  non solo la nazione italiana si sente oltraggiata, ma si sente
  oltraggiato l’esercito; e se in Alessandria, quando ero acclamato
  dall’intiera guarnigione, io avessi detto una parola che suonasse
  lavacro delle vergogne italiane, uffiziali e soldati mi avrebbero
  seguíto ovunque.

  »Per cotali considerazioni il governo si persuada che, con pochi
  giorni d’energia, esso tutto accomoda, si concilia la nazione
  intiera e dove vi fosse minaccia esterna di volerlo inceppare, noi
  solleveremo fino alle donne, ai bambini, e certo il mondo vedrà
  risoluzione di popolo, come forse non ha veduto ancora.

  »Rispondetemi subito.

                                                            »Vostro
                                                     »G. GARIBALDI.

      »27 settembre 1867.»

Ora in cospetto d’una causa così santa e di una fede sì ardente, e
dopo tante ripetute manifestazioni della medesima volontà, al punto in
cui erano giunte le cose, un dilemma si presentava chiaro ai vecchi
garibaldini e a tutto in generale il partito democratico italiano: o
sconfessare il loro Capo, rinnegando con lui tutto il proprio passato
rivoluzionario e dando una mentita a tutte le idee sin allora espresse
in Parlamento e fuori circa al modo di risolvere la questione romana;
o continuare l’opera da lui avviata, giovandosi soltanto della sua
forzata e temporanea assenza per compierne meno precipitosamente
gli apparecchi e sceglierne con maggior ponderatezza l’opportunità e
l’istante.

Se non che, come accade sovente, alla concordia nel fine non andava di
pari passo l’accordo dei mezzi. Crispi, ormai buttatosi corpo e anima
nella congiura, Fabrizi, Cucchi, Cairoli, Guastalla, Miceli, La Porta,
Oliva, Guerzoni, tutta in generale la frazione politico-militare del
partito garibaldino opinavano sempre che il segnale della riscossa
dovesse partire da Roma, e che qualsiasi anticipato moto di bande,
mettendo sull’allarme il Governo pontificio, non potesse che nuocere
alla riuscita dell’impresa principale. Menotti, invece, Canzio, Acerbi
e qualcun altro, tenendosi più ligi alle istruzioni del Generale,
persistevano a credere che le due mosse dovessero andare parallele;
che la insurrezione di Roma non accadrebbe mai, o difficilmente, senza
l’esempio e l’eccitamento della insurrezione della campagna, e che
questa non potrebbe mai ottenersi se non per mezzo di una irruzione di
Volontari che la suscitasse.

Tuttavia il dissidio non era tra amici e commilitoni impacificabile,
e già pareva che l’idea dell’iniziativa romana, caldeggiata, più
che da tutti, dal Cucchi, che la dava, se il tempo non mancasse
alla preparazione, per sicura, e dal Crispi, che oltre a tant’altre
ragioni tentava dimostrare non renitente il Rattazzi col quale
aveva frequenti convegni, pareva, dico, che quell’idea cominciasse a
prevalere; quando ad un tratto, all’improvviso per tutti, una mano di
forse centocinquanta giovani, dei quali soltanto un terzo armati di
pessimi fucili, capitanati dal trentino Luigi Fontana, uno dei Mille,
appiattati fino a quel giorno nelle macchie d’una _Bandita_ viterbese,
chi dice spinti dalla fame, chi dalla paura d’essere smacchiati e presi
dalle truppe italiane spedite alla loro caccia, passano il confine,
si buttano sopra Acquapendente e dopo una zuffa accanita vi fanno
prigionieri trentadue gendarmi pontifici e s’impossessano della terra.

Fu il trabocco della bilancia: Acerbi e Menotti si credettero impegnati
d’onore ad accorrere in aiuto degli arditi che pei primi eransi
gettati allo sbaraglio; e tra quei medesimi che fino allora erano
stati piuttosto avversi a qualsiasi intempestiva invasione armata,
cominciava a farsi strada l’idea che fosse mestieri soccorrere i
combattenti e che in ogni caso non si potesse abbandonarli. Ecco
perciò Acerbi dar l’ordine alle altre sue genti, che aveva raccozzate
nei dintorni d’Orvieto, di sconfinare; ecco Menotti partire per
Terni col proposito di fare altrettanto; ecco Nicotera prepararsi ad
imitarli. Fra il 2 e il 5 ottobre tutto l’agro viterbese e la Sabina
formicolavano di bande. Il 4 era passato Menotti con soli venti
uomini; ma il 7 ne aveva seicento, ed occupato Nerola, sul confine
sabino, aveva già respinta una prima ricognizione di Pontifici. Il 3, i
Garibaldini d’Acquapendente rinforzati da alcune centinaia di camicie
rosse, guidate dal maggiore Ravini, occupavano prima San Lorenzo, poi
Bagnorea, da dove il 5, dopo un eroico ma sfortunato combattimento,
eran ricacciati in disordine su Castiglione; alcune squadriglie
stormeggiavano presso Bolsena, ed altre nei dintorni di Viterbo;
e finalmente Acerbi, dopo lungo e non bene giustificabile indugio,
compariva in mezzo a’ suoi e annunziata la sua prodittatura, piantava
il Quartier generale a Torre Alfina.

Che faceva ora innanzi a questa marea crescente il Governo? Urbano
Rattazzi fino a quel momento, fino cioè alla passata delle bande,
aveva parlato ed agito chiaramente. Tutt’al più qualche eccessivo
gli poteva rinfacciare un po’ di lentezza nella caccia de’ Volontari
accorrenti a Garibaldi, e qualche reazionario di non aver fino dalle
prime fatto man bassa su tutte le libertà, e posta mezza Italia in
istato d’assedio; ma insomma gli uomini equi ed imparziali dovranno
convenire che un governo liberale in una monarchia costituzionale,
in una questione nazionale d’indole così delicata e complessa, come
quella suscitata dalla crociata garibaldina, non poteva fare di più.
Egli aveva protestato apertamente che disapprovava quel moto e che
l’avrebbe, occorrendo, impedito anco colla forza: aveva confermato
il fatto col detto, sequestrando, disperdendo, incarcerando: anche
i più esigenti conservatori non potevano chiedergli di più. Se non
che, quando il torrente malgrado tutti gli sforzi dilagò e parve
manifesto che l’arrestarlo non era più possibile senza opporgli dighe
di cadaveri umani; quando il fatto si chiarì più forte d’ogni consiglio
e il sentimento patriottico soverchiava anche ne’ più prudenti ogni
considerazione politica;[354] quando infine la repressione del conato
garibaldino poteva parere una sconfessione dell’idea nazionale ed
essere interpretata come un atto di paura o di soggezione all’Impero
Francese, unico protettore rimasto al Papato, allora il gabinetto
Rattazzi non poteva più esitare: o cedere ad altri immediatamente
il governo della pubblica cosa (e non sarebbe stato nè onesto nè
coraggioso), o secondare arditamente, anzi governare egli stesso il
moto che non aveva potuto impedire.

Ma come tutti i deboli e i mediocri, prese non diremo nemmanco una
via di mezzo, ma cento viottole torte che non conducevano ad alcuna.
Oggi sequestrava i fucili de’ Volontari e domani metteva in mano
dei Comitati garibaldini quelli degli arsenali governativi:[355]
non permetteva che i Volontari sconfinassero in grosse bande, e li
lasciava passare alla spicciolata; conveniva che una insurrezione in
Roma sarebbe stata il taglio macedone di tutti i nodi, e largheggiava
di danari in suo soccorso e forniva di passaporti coloro che volessero
entrarvi ad aiutarla, ma non aveva il coraggio di confessarlo, e
soprattutto d’aiutarla pubblicamente; minacciava ripetutamente al
Governo francese di occupar Roma al primo annuncio d’insurrezione,
e alle troppe parole non faceva mai seguire il fatto. Il solo
audace partito di cui si sentì capace fu la istituzione d’una certa
_Legione Romana_, che doveva a’ suoi occhi imprimere il suggello
d’un’insurrezione veramente paesana e spontanea a quella che fin
allora era stata accusata di importazione forestiera, e forzare anche
la più incredula diplomazia a riconoscerne la autentica romanità. Il
qual disegno, piccino in sè stesso, ordito ad insaputa dei principali
capi garibaldini, e pregiudicato fin dal nascere dal sospetto d’una
cospirazione nella cospirazione, finì poi, per le mani indegne cui fu
affidato, a degenerare in un vero pericolo ed in un danno reale per
l’impresa stessa cui mirava giovare.

Infatti il ministro Rattazzi, fidatosi, con una cecità che riesce
tuttora inesplicabile, a certo Filippo Ghirelli, emigrato romano e già
maggiore prima di Garibaldi, eppoi dell’esercito, commise a lui non
solo l’ordinamento ed il comando della _Legione_, ma persino il titolo
e le facoltà di Commissario regio nel distretto d’Orte; dei quali
titoli e facoltà quel nobil campione del valore romano seppe usare
così bene che per saggio della sua onestà svaligiò in compagnia del
famigerato barone Franco Mistrali la Posta d’Orte; per documento della
sua accortezza politica impose una taglia di 25,000 franchi al clero
della stessa città; per riprova infine de’ suoi talenti militari tagliò
la ferrovia tra Orte e Corese, base delle comunicazioni ferroviarie
della rivolta; per la quale ultima prodezza, prima ancora che il
Fabrizi lo destituisse, fu cacciato via da’ suoi stessi soldati col
grido di traditore.

Ciò non ostante, l’insurrezione si sosteneva, e quantunque breve,
ognuna delle colonne invadenti aveva fatto un passo avanti. Il 13
ottobre, Nicotera, dopo un ritardo, a dir vero, poco giustificabile,
riusciva a sconfinare a Vallecorsa con oltre ottocento uomini (dei
quali peraltro soltanto alcune centinaia armate alla meglio) e
s’avviava l’indomani per Falvaterra. Nel giorno stesso Menotti si
spingeva fino a Montelibretti, che contrastava all’indomani per tutto
il giorno al nemico, abbandonandolo senza plausibile ragione la sera;
ma per ricuperarlo al mattino vegnente.[356] In fine il 15 ottobre
l’Acerbi, rimastosi immobile tutti quei giorni a Torre Alfina, moveva
con tutte le sue forze sopra San Lorenzo, ne sloggiava il nemico e si
preparava a marciare su Viterbo, che si diceva pronta ad insorgere al
primo apparire delle camicie rosse.

Solo Roma non dava ancora alcun segno di vita, nè lo poteva. Una
sollevazione generale, uno di quegli impeti spontanei e irresistibili
di popolo, che, senza bisogno di disegni e d’apparecchi, coll’armi
sole dello sdegno e dell’amor patrio, fa crollare in poche ore le
più antiche tirannidi, in Roma non era possibile. L’infiacchimento
degli animi e de’ corpi, naturale effetto della centenaria educazione
sacerdotale, e l’idea propagata dalla funesta scuola del _Comitato
Nazionale_, e infiltratasi anche nelle fibre de’ più energici, che
unica soluzione sperabile alla questione romana fossero il consenso
delle maggiori Potenze cattoliche e l’opera lenta dei mezzi morali,
avevano doma, se non ispenta, l’antica virtù del popolo romano, e
toltagli la fede di poter da sè solo vendicarsi in libertà. Però
sola cosa sperabile e conseguibile in Roma era una sommossa parziale;
un colpo di mano degli elementi più rivoluzionari e gagliardi della
città (e non abbondavano), preparato artificialmente nel segreto d’una
congiura, epperò soggetto ai mille eventi ed ai mille pericoli di tutte
le congiure. Affinchè però anche un siffatto colpo di mano potesse
riuscire in una città quale Roma, due condizioni erano indispensabili:
che il lavoro preparatorio potesse essere condotto con una certa
libertà e sicurezza: che in ogni caso le braccia pronte a tentarlo
fossero armate. Ora al 16 ottobre Roma non aveva ancora una sola arma
da guerra; e quanto a cospirare, la sveglia data alla polizia papale
dalla invasione garibaldina, l’aveva reso così pericoloso e difficile
che poteva dirsi un vero miracolo se la trama non era dieci volte
al giorno scoperta e disfatta. Appena infatti la prima banda ebbe
sconfinato, il Governo pontificio lasciò ogni ritegno; e raddoppiati i
posti militari; chiuse o vegliate più gelosamente le porte; frugando
case ed alberghi; espellendo i forestieri sospetti; mettendo alle
calcagna d’ogni patriotta un birro; perlustrando notte e giorno la
città; minacciando con pubbliche gride i cittadini, pose Roma, senza
dirlo apertamente, in un vero stato d’assedio. Ora introducete armi
e cospirate in siffatta città! Cucchi, Guerzoni, Adamoli, Bossi,
Cella, stretti in lega coi membri più operosi della Giunta Nazionale,
lavoravano arditi e indefessi; ma, senza che nessuno osasse confessarlo
all’altro, tutti sentivano gli influssi di quel nemico che fin da
principio aveva più d’ogni altro cooperato ad accrescere le difficoltà
dell’opera loro: la sollevazione intempestiva e forse sterile delle
province, che aveva reso pressochè impossibile la sorpresa della
capitale.


IX.

Ma torniamo a Caprera. La _Gazzetta Ufficiale_ del 27 settembre
stampava: «Il generale Garibaldi avendo manifestato il desiderio
di ritornare a Caprera, il Governo, trovando questa intenzione
conforme alla sua, vi ha tosto aderito;» ma in queste parole l’organo
governativo mentiva a una metà del vero, e ne dissimulava l’altra
metà. Mentiva quando diceva che il Generale aveva chiesto egli stesso
di tornarsene a Caprera; come vedemmo, posto al bivio dal generale
Pescetto o di restar prigione nella fortezza d’Alessandria, o di
tornarsene senza condizioni al suo eremo, egli non aveva fatto che
appigliarsi a questo partito come al minor male; dissimulava poi la
parte più importante della verità, quando taceva che appena toccata
terra il generale Garibaldi era stato posto sotto la custodia d’una
squadra prima di quattro, poi di cinque, finalmente di nove[357]
legni da guerra, e rinchiuso nella sua isola se non veramente come un
prigioniero, come un relegato a confino.

Il Generale tuttavia ricusò in sulle prime di credere ad una sì aperta
mancanza di fede, e continuando a reputarsi libero de’ suoi passi e
delle sue azioni tempestava di lettere e di telegrammi il Cucchi ed il
Crispi perchè alla lor volta mantenessero la data parola e mandassero
un vapore a prenderlo.[358] Il che nè il Cucchi, nè il Crispi potevano
fare: il Cucchi perchè era in Roma; il Crispi perchè sapeva bene quali
erano gli ordini del Governo e non poteva sperare di mutarli se non
col mutare della politica generale del Governo stesso. E per questo
egli scriveva al Generale: «State tranquillo: ottime disposizioni e
spero non tarderete a vederne conseguenze;» e per questo il Generale
continuava ancora per alquanti giorni a pazientare ed attendere.

Venne però il momento in cui l’inganno non fu più possibile. Agli 8 di
ottobre infatti avendo voluto far la prova d’imbarcarsi sopra il vapore
postale che tocca periodicamente la Maddalena, un legno della crociera,
la Sesia, tirò replicatamente su di lui e forzatolo a montare al suo
bordo lo ricondusse a Caprera. Allora finalmente aperti gli occhi
all’evidenza, mandò quella specie di ruggito di leone incatenato che
suonava così:

                                         «Caprera, 10 ottobre 1867.

      »Amici carissimi,

  »Sono veramente prigioniero, e vi lascio pensare con che spirito,
  sapendo Menotti ed i miei amici impegnati sul territorio romano.

  »Impegnate il mondo perchè non mi lascino in questo carcere.

  »Un saluto a tutti dal

                                                     »sempre vostro
                                                    »G. GARIBALDI.»

Ma gli amici erano tuttora divisi in due; alcuni, quali il Crispi, il
Fabrizi, il Cairoli, il Guastalla, fidenti sempre negli accordi col
Rattazzi, opinavano che il Generale avrebbe assai meglio giovato a sè
ed alla causa sua attendendo in Caprera l’esito de’ negoziati: altri
invece, tra questi principalissimo Stefano Canzio, diffidente di tutte
quelle ambagi, non ammetteva dimore; e non vedendo altra salute che
nel ritorno del Generale sul continente, prima ancora che la signora
Mario recasse da Caprera il biglietto testè citato, lavoravano a
tutt’uomo alla sua liberazione. Non passavano infatti tre giorni che
Stefano Canzio, noleggiata colla mediazione di Andrea Sgarallino e col
danaro d’Adriano Lemmi, l’instancabile e inesauribile tesoriere della
rivoluzione, la paranzella _San Francesco_, e avuto seco a bordo Andrea
Viggiani, espertissimo marinaio della Maddalena, salpava da Livorno,
e dopo tre giorni di traversíe e di rischi d’ogni fatta, ingannata
felicemente la crociera in mezzo alla quale fu costretto a passare,
approdava alla Maddalena, poco lunge dalla punta della Moneta, e per
mezzo della signora Collins, una Inglese dimorante da lunghi anni in
quel paraggio, riusciva a rendere avvertito del suo arrivo il Generale
e a comunicargli il fine che l’aveva condotto.

E il Generale, che a guisa dell’uomo del Vangelo era sempre pronto,
inviava tostamente il Basso con la figlia Teresita alla Moneta, e
concertava col genero questo disegno di fuga.

Egli, il Generale, tragitterebbe di notte da Caprera alla Moneta,
e di là in una barca da pesca tenterebbe di afferrar la Sardegna, o
nel porto di Liscia o in quello d’Arsachena; il Canzio e il Viggiani
colla _San Francesco_, girata la Maddalena, andrebbero a lor volta a
prender terra sulla costa orientale sarda e nel porto di Brandinchi
l’aspetterebbero.


X.

Ma tutto ciò era molto facile a dirsi, e forse per il Canzio ed il
Viggiani, intraprendenti e audaci, non straordinariamente difficile
ad effettuarsi; ma per il Generale, guardato a vista nell’isola,
addirittura portentoso e quasi impossibile.

Una squadra di nove legni da guerra senza contare i minori[359]
guardava Caprera da tutti i lati, visitando qualsiasi barca salpasse
dall’isola, od anche solo la costeggiasse, ricacciando indietro tutte
quelle i cui andamenti fossero appena sospetti e tirando a palla,
come fu fatto sul Generale stesso e sulla figlia, su quanti navigatori
di quelle acque non si mostrassero pronti ad obbedire al comando. La
vigilanza era dunque rigorosissima e dato lo scopo non poteva essere
minore in quello stretto di Bonifacio, tutto frastagliato, come
un arcipelago di scogli e bassi fondi, intorno ad un’isola, quale
Caprera, tutta seni, calanche, porticciuoli innumeri e di cui Garibaldi
conosceva come un pesce i più misteriosi recessi.

«Per guardare un’isola simile — esclamava ancora il comandante Isola —
non c’era che legare una barca ad ogni scoglio.... e per essere sicuri
che Garibaldi non fuggisse imbarcarselo a bordo d’un legno da guerra e
portarselo a fare un viaggio all’estero.»

Pure il capo della crociera, non pago delle prese precauzioni,
raddoppiava ogni giorno d’astuzie e di vigilanza. Ora mandava a terra
con studiati appigli i suoi ufficiali a spiare le mosse del Generale in
casa sua: ora gli si presentava egli stesso col pretesto di chiedere
nuove della sua salute, in fatto per accertarsi della sua presenza;
ora infine poneva sotto guardia speciale di un’apposita squadriglia di
barche da guerra tutti i legni grandi e piccoli del Generale, cioè il
canotto, il _Yacht_, dono d’Inghilterra, un’altra barca, e tutto quanto
insomma galleggiava nel porto dello Stagnarello, che era il principale
asilo della piccola flottiglia di Caprera.[360]

Allora adunque la fuga poteva dirsi quasi disperata, e allora Garibaldi
la tentò.

A lui di tutto quell’arsenale non era rimasto, perduto in un magazzino
tra gli altri rottami marinareschi, che un canottino, una chiatterella,
uno di quei gingilli, diremo così, sottili, leggieri, fragili, capaci
appena d’un uomo e d’un remo, che i cacciatori pisani usano per
la caccia delle anitre e delle beccaccie nelle morte gore de’ loro
paduli, e che appunto dal nome della caccia son chiamati _beccaccini_.
Mai più sospettare che Garibaldi si sarebbe avventurato a traversare
uno stretto di mare su quella tavola che un buffo di vento poteva
capovolgere ed un’ondata ingoiare; mai più sospettare che il gingillo
fosse uno strumento bellico, e che il _beccaccino_ del cacciatore
dovesse portare la guerra al Papato! Fu dunque non visto, dimenticato,
trascurato, che so io, non calcolato e non contato. Lo contò per altro
Garibaldi, che nell’anima chiusa covava la fuga colla fissazione del
forzato nell’Ergastolo; lo contò sì bene che, colta una notte oscura,
lo fece, a spalle d’un suo fido, trasportare e rimpiattare ben bene
in una delle più ascose insenature del così detto Passo della Moneta,
punto che, per essere più prossimo all’isola della Maddalena, serviva a
meraviglia al disegno che già molinava in mente e di cui quel trasporto
poteva dirsi la prima mossa esecutrice. Fatto ciò, si disse ammalato, e
chiuso in camera, invisibile per parecchi giorni ad anima viva, stette
ad aspettare l’occasione. E l’occasione, come dicemmo, navigava già
alla sua volta, e gliela conduceva la _paranzella_ di Stefano Canzio.

Durante tutta la giornata del 16 era regnata una fitta nebbia,
frequente in que’ paraggi, e la notte perciò prometteva d’essere
oscurissima. Garibaldi scelse quella; e verso le 10, calato solo al
nascondiglio del suo _beccaccino_, si spiccò da terra e s’avventurò al
tragitto. Bisognava possedere l’occhio felino, veggente nelle tenebre,
di Garibaldi; essere vissuto in que’ mari da quindici anni, saperne
a memoria pietra a pietra tutti gli scogli e quasi indovinare dove
vegliano a fior d’acqua e dove dormono insidiosi; essersi provato dieci
altre volte a passare illeso in mezzo ad una flotta nemica, conoscere a
prova tutte le leggi, tutte le manovre, tutti gli strattagemmi, tutte
le abitudini della gente di mare, da quelle del mozzo a quelle del
nostromo, da quelle dell’ammiraglio a quelle del corsaro, per concepire
anche solo la speranza di poter approdare a quel modo, in quell’ora,
con cento occhi e cento fanali puntati su di voi, in un porto o ad una
riva qualunque.

Tanto più che le barche della crociera non solo potevano vedere, ma
udire; e il più lieve batter di remo, persino un insolito frangere
d’onda, bastava a destarne l’allarme.

Il problema era dunque doppio: avanzare senza farsi vedere e vogare
senza farsi sentire; ridurre a un punto impercettibile la barca, e a un
fiato quasi insensibile il remeggio ed ogni altro rumore. E Garibaldi
lo risolse. Disteso allungato immobile dentro il suo guscio, in guisa
da formare con esso e colla superficie del mare quasi una linea sola,
maneggiando coll’agilità del _piroghiere_ indiano la spatola che
gli tien luogo di remo, studiando la rotta, spiando ogni ostacolo,
misurando ogni colpo, vogando leggiero e costante, inoltrando guardingo
e veloce, come uno smergo che strisci sull’acqua, scivola via.

Le storie narrano di molti aiuti prestati dai piccoli ai grandi; da
quella notte del 16 ottobre esse dovranno anche registrare l’aiuto
prestato dal piccolo navicello maremmano al grande vincitor di Palermo,
al grande vinto di Mentana.

Ci fu anzi un momento in cui Garibaldi passò così rasente ad un barcone
di guardia che poteva persin sentire le parole delle sentinelle;
pure anche in quel momento nessuno sospettò di lui ed egli continuò
felicemente, fino alla Maddalena, il tragitto. Sbarcato poi, la signora
Collins lo ricoverò in casa sua, e là, sotto la duplice tutela della
santità della donna e della inviolabilità d’una bandiera che non
tollera insulti, passò il resto della notte.

Alla mattina del 17, nessun movimento insolito, nessuno indizio di
novità importante nelle acque di Caprera e della Maddalena; soltanto
una barca di pescatori fu veduta passare tra l’isolotto San Stefano e
la Punta Rossa, colla prua verso Liscia o verso Arsachena. Per sola
formalità, la barca giunta in vicinanza di un legno di crociera,
probabilmente il _Ferruccio_, ebbe il _Chi va là?_ — _Pescatori!_
fu risposto. Infatti pescatori maddalenesi d’aragoste e _corallini_
di Torre del Greco rifanno ogni mattina quella strada e per quella
direzione, ed era già cosa convenuta di lasciarli liberamente passare.
Nella barca, tinta la barba, camuffato da pescatore, insieme con Basso,
il servo Maurizio e il marinaio Cuneo, v’era Garibaldi.

Sbarcò in una insenata della Punta di Sardegna e quivi in una _conca_
(specie di caverna) passò la notte. Al mattino seguente montato sopra
uno di que’ ginnetti sardi che ballano sulle roccie, per valli e per
monti, su per sentieri dove appena s’inerpica il caprone selvatico, per
diciassett’ore di seguito, arrestandosi appena per lasciar rifiatare le
bestie, giunse presso Porto San Paolo, dove riposatosi alcune ore nello
_stazzo_ del pastore Jaceddu, continuò di lì a poco per Brandinchi; e
colà trovati Canzio e Viggiani, colto un vento fresco di poppa in sulle
tre e mezzo pomeridiane del 18 mise alla vela per la costa toscana.

E così il vecchio Corsaro tornava signore del regno ampio de’ venti
e sarà bravo chi lo arriva. Superato all’alba del 19 il Canale di
Piombino, giunse in poche ore in vista della rada di Vado, a poche
miglia da Livorno e verso le nove del mattino vi atterrò. Colà però
nuovo e non meno fastidioso ostacolo. Tutta quella spiaggia vadese è
un impasto così appiccaticcio di rena e di alghe, che mettervi il piede
senza restarvi invischiati dentro è quasi impossibile.

Ecco dunque tutta la brigata de’ fuggitivi, ma più Garibaldi cui
la ferita d’Aspromonte rendeva penosissimo il camminare, costretta
ad aprirsi faticosamente un sentiero tramezzo quei paduli, spesso
affondando fino a mezza gamba e avanzando a piccoli passi, talvolta
non potendo nè avanzare nè retrocedere; ma pure a forza di volontà
e di costanza riuscendo a sfangare da quella melma ed a guadagnare
finalmente le case di Vado.

E da quel punto tutto va a seconda. Canzio noleggiati in Vado due
baroccini monta egli stesso sul primo col Generale, che aveva ripreso
per precauzione il suo vecchio nome di guerra di «Giuseppe Pane;» sul
secondo vengon dietro gli altri tre compagni, e via allegramente tutti
insieme alla volta di Livorno. E quivi pure il Generale non arrivava a
tutti inaspettato. Entrato per vie remote in città, riposatosi alcune
ore in casa degli Sgarallino, monta verso la mezzanotte sul legno da
posta, che Adriano Lemmi aveva già apparecchiato, e a trotto serrato,
senza voltarsi indietro, correndo senza posa quel resto di notte e
tutta la mattina successiva, in sul mezzogiorno del 20 arrivava in
Firenze.

Ad Empoli gli erano mossi incontro, già edotti del suo arrivo, Enrico
Guastalla e Benedetto Cairoli; e tant’era la gioia che sfavillava
dall’animo del Generale che buttandosi tra le braccia di Benedetto
esclamò: «Di tante rischiate imprese che ho tentato in vita mia la più
ardua e la più bella, e di cui sentirò un certo vanto fino che campi, è
codesta mia fuga da Caprera.»


XI.

Descrivere la sorpresa, la scossa, la gioia e lo sgomento insieme,
cagionati da quell’inaspettata apparizione, noi non lo sapremmo.
Governo, Parlamento, cittadini, erano tutti sossopra. I telegrammi
della vigilia avevano per l’appunto assicurato che Garibaldi era sempre
a Caprera, non solo ben sorvegliato e custodito, ma anche un po’
ammalato e quindi costretto a rimanere in camera; e la mattina dopo
eccotelo, come uno spettro balzato di sotterra, a Firenze. Fu detto
subito che il Governo l’aveva lasciato scappare, e quanto non fosse
vero lo sappiamo! Chi non l’aveva veduto non voleva crederlo. Vedutolo,
il fáscino della sua persona riguadagnava tutti i cuori. Il popolo
lo contemplava col superstizioso stupore con cui si contemplerebbe
un redivivo: gli amici lo consultavano con ansietà: gli avversari lo
interrogavano con rispetto: tutti gli si affollavano dintorno trepidi
ed inquieti, come se egli portasse nelle pieghe del suo _puncho_ i
destini d’Italia.

E quel che è più, nessuna forza poteva pel momento opporglisi. Il
Governo non esisteva più che di nome. Fin dal 18 ottobre ad Urbano
Rattazzi, dopo aver respinto uno ad uno i partiti che il Governo
francese pretendeva imporgli, ora dell’intervento momentaneo sul
territorio pontificio per disarmarvi i Volontari; ora dell’intervento
misto in Roma, francese e italiano, per tutelarvi il Pontefice e
proporvi d’accordo la questione romana ad un Congresso europeo, non era
rimasta aperta altra via che quella dell’intervento puro e semplice in
Roma, non già coll’intento, dichiarava il Rattazzi medesimo, di tagliar
colla spada il nodo della questione romana, ma di tutelare insieme
alla indipendenza spirituale del Santo Padre gli interessi de’ Romani
rimettendo nelle loro mani l’arbitrio delle loro sorti politiche.
Come, però, al solo annuncio di questo disegno il Governo francese
s’era tosto inalberato minacciando a sua volta di rioccupare Roma,
e se avesse fatto un sol passo innanzi di intimar guerra all’Italia;
così il Gabinetto Rattazzi, ridotto al bivio estremo, o di raccogliere
il guanto di sfida della Francia, o di sottomettersi a’ suoi voleri,
non avendo potuto trovarsi concorde nè sull’uno nè sull’altro partito,
rassegnò i suoi poteri indicando al Re il generale Cialdini come
l’unica persona politica che in quell’istante potesse succedergli.[361]
Ma poichè d’altra parte il Cialdini, giunto in Firenze soltanto
nella giornata del 21, era più lontano che mai dal riuscire nella
composizione del Gabinetto, così il Rattazzi perchè non era più
Ministro, il Cialdini perchè non lo era ancora, nessuno de’ due si
sentiva l’autorità e la forza di porre le mani sul grande ribelle, il
quale in poche ore era ridivenuto più potente che mai, e oramai padrone
di tutti i suoi passi.

Il Cialdini, è vero, tentò nella mattina del 22, prima per mezzo
del Crispi, poi direttamente egli stesso, di persuaderlo a fermarsi
e a ritirarsi nuovamente nell’ombra, assicurandolo che la questione
romana non sarebbe abbandonata, nè l’intervento straniero permesso;
ma le scariche a polvere sulle corazze producono lo stesso effetto.
Fermo, tenace più che mai nel suo proposito, banditi l’un dopo l’altro
due nuovi appelli di guerra,[362] nel secondo de’ quali, credulo
immantinente ad una fola, sparsa non si sa come, in Firenze, che i
Romani fossero insorti, diceva: «A Roma i nostri fratelli innalzano
barricate e da ieri sera si battono cogli sgherri della tirannide
papale. L’Italia spera da noi che ognuno faccia il suo dovere;»
arringato due volte dal suo albergo in Piazza Santa Maria Novella
il popolo fiorentino, scompare improvviso come era venuto; e in sul
pomeriggio del giorno stesso con un treno straordinario procacciatogli
dal Crispi parte per Terni, dove saputo che il Cialdini ed il Rattazzi,
postisi per un istante d’accordo, avevano dato ordine d’inseguirlo
(inseguirlo fu detto, ma non raggiungerlo), sconfinò, in sul primo
albeggiare del 23, da Passo Corese.


XII.

Nella sera stessa in cui Garibaldi arrivava a Terni, la tanto promessa
e invocata e sudata insurrezione romana scoppiava;... ma ohimè! eterno
apologo delle montagne partorienti!

A tutto rigore, nonostante i prodigi d’operosità e d’ardire del Cucchi
e de’ suoi compagni, gli apparecchi dell’impresa non erano ancora
compíti; e non foss’altro, le armi, quelle armi, senza le quali i
congiurati romani si protestavano impotenti a qualunque sforzo, non
erano per anco potute penetrare in Roma; e gli unici duecento fucili
su cui gl’insorti potevano contare, dopo essere rimasti sepolti per
alquanti giorni sotto la pozzolana della riva sinistra del Tevere,
era parso grande fortuna disotterrarli e nasconderli in certa Vigna
Matteini, a circa un miglio da Porta San Paolo. Però tutto l’arsenale
dell’insurrezione consisteva in alcune serque di bombe Orsini e di
_rewolvers_ e in qualche barile di polvere. Ma il Comitato di Firenze
a nome del Rattazzi stesso, il generale Fabrizi da Terni, tutti
scrivevano o facevano dire al Cucchi: «una schioppettata, una sola
schioppettata, per carità,» e la schioppettata fu tirata.

Nel disegno de’ congiurati, troppo a dir vero complicato, il più grosso
drappello, guidato dal Cucchi stesso, doveva assalire il Campidoglio,
e se gli veniva fatto d’impadronirsene, asserragliarvisi; un’altra
squadra, comandata dal colonnello Bossi, tentare lo stesso colpo
sul corpo di guardia di Piazza Colonna: Guerzoni con cento uomini
condurre, sforzando la Porta San Paolo, il carico delle armi dalla
Villa Matteini entro la città, e presso Campo Vaccino distribuirle:
Giuseppe Monti minar la caserma Serristori: Francesco Zoffetti ed altri
sette cannonieri inchiodare le artiglierie di Sant’Angelo: i fratelli
Cairoli infine (benchè il loro magnanimo tentativo non potesse dirsi
concertato, almeno quanto al tempo e al modo, col Comitato Romano)
dovevan scendere pel Tevere fino a Ripetta, apportando ai Romani parte
delle armi di Terni, e, quel che più montava, l’aiuto d’un manipolo
di valorosi, le cui forze potevansi dire centuplicate e dalla prodezza
singolare dei Capitani e dall’apparire inopinato.

E tutto ciò a giorno e ora fissa: il 22 ottobre alle ore sette della
sera.

Se non che coteste fila erano troppe, perchè potessero essere tutte
forti del pari e qualcuna spezzandosi non producesse lo sfasciamento
dell’intera trama. La polizia era già in sull’all’erta: tutti i
particolari forse non conosceva; ma pareva certa del giorno e dell’ora,
e frattanto il generale Zappi, governatore di Roma, faceva murare
sei delle dodici porte della città; raddoppiava i posti di Piazza
Colonna e del Campidoglio; tratteneva in quartiere le truppe ed
altre siffatte precauzioni. Però il Guerzoni (che in luogo dei cento
promessi, compagni n’aveva sette), sorpreso quasi tosto nella Villa
Matteini e assalito da una compagnia di Zuavi rinfrancata da Gendarmi e
Dragoni, era costretto, dopo breve lotta, ad abbandonare le armi agli
aggressori; l’assalto del Campidoglio, alla cui difesa stava nascosto
il De Curten con due compagnie, fallì; quello di Piazza Colonna,
dispersi i congiurati anche prima dell’ora, non potè nemmeno essere
tentato; la caserma Serristori saltò in parte; ma gli Zuavi, quei
medesimi che erano andati ad assalire Vigna Matteini, ne erano usciti;
sicchè fu assai più il rumore che il danno; i Cairoli infine, del cui
arrivo nè Cucchi nè alcun altro era stato avvertito in tempo, pervenuti
nella notte del 22 con settantasei compagni all’altezza di Ponte Molle,
e udito di là il fallimento della sperata sollevazione, eran stati
costretti a tenersi rimpiattati nella notte fra i canneti della riva
ed a cercarsi, alla prim’alba, un rifugio meno periglioso nella Villa
Glori sui Monti Parioli. Scoperti anche colà, assaliti nel pomeriggio
da un nemico tre volte soverchiante, piagato a morte Enrico, rotto
da ben dieci ferite Giovannino, l’un fratello spirante nelle braccia
dell’altro esangue, decimata in breve la più bella schiera di prodi che
l’Italia da molto tempo avesse partorito, il campo restò al numero ed
alla forza, miserabile conquista dei vincitori, ara perenne di gloria
al sacro stuolo dei vinti.[363]

E tuttavia non fu quella la catastrofe più tragica di quell’infelice
conato. Nel lanificio Ajani in Trastevere, alcuni patriotti avevano
raccolte poche armi col proposito di usarle, se, come speravasi,
Roma era decisa a ritentare la riscossa. Se non che scoperto per
l’imprudenza d’un fanciullo il ricovero, circuita e battuta da ogni
lato la casa, gli assaliti infiammati dallo spartano esempio di
Giuditta Tavani-Arquati si preparano a disperata difesa. Combattono
prima dagli abbaini, dalle finestre, dalle porte; poscia, penetrata
l’onda degli aggressori, invase le scale, sfondati gli ultimi serragli
che il furore aveva innalzati, il combattimento si muta in zuffa
feroce, al pugnale, coll’ugne, co’ denti; dominante in mezzo a tutti
la eroica Giuditta, che incuora, comanda, combatte, fino a che, già
cadutole al fianco il marito e il figlio giovanetto, essa medesima
ai replicati colpi soccombe, ingombrando con altri nove cadaveri la
memorabile casa, fumante di orrida strage.

E il magnanimo fatto bastò esso solo a scontar l’inerzia di Roma nel
1867. Nè più operose e risolute s’eran mostrate le provincie. Viterbo,
che da tanto tempo andava promettendo all’Acerbi, già grosso di mille
uomini, di insorgere, non ne aveva ancora trovato, fino al 22, nè la
forza nè la opportunità, sicchè il Prodittatore era sempre alla sua
famosa Torre Alfina: Menotti, da parte sua, dopo il combattimento del
14 ottobre, sospettoso di nuovi assalti, costretto a cercarsi una
stanza più propizia al vivere e all’ordinarsi, dopo aver errato un
po’ alla ventura da Nerola a Monte Calvario e da questo a Pericle,
finiva col riparare a Scandriglia nel territorio del Regno; similmente
il Nicotera tra il 23 e il 24 mattina non s’era ancora mosso da
Veroli; talchè quando Garibaldi giunse sul teatro della guerra trovò
la insurrezione delle provincie paralizzata, quella della capitale
soffocata, le bande scoraggite e disordinate; e insomma l’insieme
della situazione anco peggiore di quella in cui l’aveva lasciata al suo
partire per Caprera.

E tuttavia al suo giungere sul teatro della guerra uomini e cose
risentirono tosto l’impulso della sua mano poderosa. Tutte le colonne
del centro, tanto quella che Menotti aveva riportata a Scandriglia
come le altre che stavano organizzandosi a Terni od erano già in
cammino per passare il confine, ricevevano tutte insieme e nel giorno
stesso (22 ottobre) l’ordine di muovere senza ritardo e di venirsi
a concentrare a Monte Maggiore e Passo Corese. Però la sera del 25
Garibaldi stesso poteva telegrafare al Comitato Centrale di Firenze:
«Occupo Passo Corese e Monte Maggiore con le forze riunite di Menotti,
Caldesi, Salomone, Mosto e Friggesy.» Concentramento, diciamolo subito,
ammirabile, favorito di certo dalla inerzia de’ Pontifici, ma che per
la rapidità di pensiero con cui fu concepito e d’azione con cui fu
eseguito, merita nota come quello che assicurava al piccolo esercito
insurrezionale la prima condizione della vittoria: l’unità delle forze.

Ma che cos’erano codeste forze di cui parla il telegramma di Garibaldi,
com’erano formate, ed a quanto salivano?

Che fossero colonne, quali di due, quali di tre o quattro battaglioni
formanti, come i Bersaglieri dell’esercito, unità tattica ed
amministrativa da sè, ma riuniti sotto il comando dei colonnelli
già nominati, lo possiamo dire; ma conoscere ed accertare a quanto
ascendessero i loro uomini, cioè, per dirla militarmente, a quanto
sommasse la loro _forza_, fu impossibile cosa a noi, ma crediamo lo
sia stato, e lo sarà sempre ai comandanti stessi, allo Stato Maggiore
e a tutti quanti ebbero tra le mani alcune delle fila di quel _lavoro
di Penelope_[364] a cui s’era ridotto, per le ragioni già discorse,
l’organismo dell’esercito insurrezionale. Pure non temiamo dilungarci
troppo dal vero tenendoci intorno ai settemila uomini.

Garibaldi intanto andava molinando come prendere di notte e per
sorpresa Monte Rotondo. È desso l’antico _Eretum_, poi feudo degli
Orsini, dei Barberini, dei Grillo ed ora dei Montefeltro, una delle
solite cittaduzze della Comarca, lanciata sopra un’altura se non
inaccessibile, molto ardua di certo, ricinta da mura non a prova di
cannone ma tali da scoraggiare le scalate; ha due porte massicce e
gagliardamente sbarrate; ha nel centro, ultimo ridotto, un castello
quadrato, solido, fitto di finestre e di feritoie d’ogni guisa: è
posizione forte per sè, non solo, ma chiave di posizioni; guarda e
domina, a occidente la grande via Salara e la ferrata; a mezzogiorno,
per mezzo di Mentana, la Nomentana e Tiburtina, e tutte insomma le
principali vie strategiche che dalla sinistra del Tevere sboccano in
Roma; munito d’artiglieria, può essere buon punto di ritirata e di
difesa a chi lo possiede, un cimento per chi deva impadronirsene, una
minaccia per chi l’abbia alle spalle, e finchè si parli o si scriva
d’arte militare, resterà sempre arduo il comprendere come lo Stato
Maggiore pontificio o non l’abbia guernita anticipatamente di tutte
le forze capaci d’una lunga difesa, o, quello che tornava ancora
più opportuno appena Garibaldi vi apparve dattorno minaccioso, non
siasi tenuto pronto a spedirvi da Roma un nerbo di truppe sufficienti
a sostenere gli assediati ed attaccare sul fianco gli assalitori.
Lasciarono invece che Garibaldi facesse a sua posta un giorno ed una
notte, nè si decisero a partire da Roma che la mattina del 26, due ore
dopo che Monte Rotondo aveva già capitolato.

Fallita però, per le consuete ragioni per cui falliscono quasi sempre
tutte le imprese notturne, la sorpresa ordinata per la notte del 24,
non restò che l’attacco di fronte e fu ordinato per l’alba del 25.

A difesa di Monte Rotondo stavano circa trecento uomini, tutti della
Legione d’Antibo, ed ora può ben dirsi, tutti dell’esercito francese,
alcuni gendarmi e dragoni a cavallo e due pezzi di artiglieria da
sedici. Avevano asserragliate le porte, aperto nelle mura un ordine
di feritoie, occupate le finestre delle case che sovrastavano, e non
sappiamo se ignorando la presenza di tutto l’esercito di Garibaldi o
per alto sentimento d’onore militare, s’apprestarono a vigorosa difesa.

Le colonne di Valzanía, Mosto, Friggesy e Caldesi, erano destinate
all’assalto; quella di Salomone fu lasciata a guardia della stazione
della ferrovia e della Salaria, d’onde era buona regola attendersi da
un istante all’altro un attacco di fianco. Il lato scelto all’attacco
fu il meridionale e la Porta San Rocco, ma pare che la scelta non fosse
bene ponderata. Se la posizione nemica fosse stata meglio riconosciuta,
si sarebbe scoperto che dal lato occidentale, dove le mura cessano e
le case cominciano, gli approcci erano assai più agevoli e la presa
più facile e meno costosa. Assalita invece di fronte, nel suo punto
più forte, dovea essere pagata al caro prezzo di diciannove ore di
combattimento e del sangue più prezioso.

Valzanía e Caldesi attaccarono con parte delle loro genti dalla destra,
appoggiandosi al convento di Santa Maria; Mosto co’ suoi Genovesi
veniva di fronte; da sinistra, sboccando dal convento de’ Cappuccini,
Friggesy; Menotti dirigeva, sotto gli ordini del padre, l’azione
generale. Malgrado che i nostri soperchiassero di numero, era sempre
un combattimento disuguale. I nemici al sicuro dietro le feritoie e
armati di squisite armi di precisione; i nostri a petto nudo, scoperti,
veri bersagli viventi ai tiri nemici, armati di quegli arnesi che
tutti sanno, affranti per giunta dagli stenti per le rapidissime
marcie di due giorni, gittati a cozzare contro pareti inaccessibili che
vomitavano la morte! pure andavano e morivano al grido di Garibaldi e
d’Italia, lietamente. Gli ufficiali, è vero, brillavano tra i primi
nello sbaraglio, e molti di loro, i Mosto, i Martinelli, gli Uziel,
i Sabbatini, i Giovagnoli cadevano quali morti e quali feriti. Ma
tutta la giornata era trascorsa, la sera stava per calare e il nemico
continuava il suo fuoco micidiale e non dava alcun segno di resa.

«Ma pur bisogna vincere, grida Garibaldi, bisogna vincere stanotte,»
e ordinava che si raccogliessero in fretta tutti i mezzi per
incendiare la porta. Ed ecco subitamente ufficiali e soldati formare
una mobile catasta di legne e zolfo, e fattasi di quella al tempo
stesso una barricata e un brulotto, sospingerla, sotto il grandinar
incessante delle fucilate, contro la porta e appiccarvene le fiamme.
La porta verso le otto cominciò ad ardere, ed a mezzanotte cascava
già carbonizzata e sfasciata da tutte le parti. Però anche questa
operazione era costata molte vite generose, tra le quali il capitano
Sabbatini di Sogliano, perocchè il nemico non aveva mai smesso un
momento dal trarre contro gl’incendiari. Alla fine appena scavato un
pertugio i Volontari, proprio come onda che abbia trovato la stura,
vi si precipitarono dentro. I Dragoni nella loro caserma esterna si
arresero; ma gli Antiboini serrati nel castello non vollero udir parola
di dedizione, e appena albeggiato ricominciarono a moschettare, e
con fuoco più terribile, i Garibaldini stipati per le strade, onde fu
forza rizzare una barricata e appiccare l’incendio anche alla porta
del castello. Allora minacciati essi pure dalle fiamme, veduto ormai
svanire l’ultimo raggio di quella speranza di soccorso che forse li
tenne in vita, verso le nove del mattino stesso alzarono bandiera
bianca, e la resa fu stipulata.

Caddero tutti, senza onore d’armi, prigionieri di guerra, lasciando i
due cannoni con poco più di settanta cariche e tutte le altre munizioni
da bocca e da guerra che possedevano. Una compagnia li scortò a Passo
Corese e li consegnò alle truppe italiane, primo ed ultimo trofeo
della campagna. Ai nostri questa giornata costò centoquaranta feriti e
quaranta morti, cifra che ci venne confermata dal Medico Capo del corpo
sanitario dell’esercito insurrezionale, e che possiamo ritenere esatta.

Verso le undici antimeridiane del giorno stesso una colonna di
Pontificii di circa duemila uomini di tutte le armi, zuavi, antiboini,
cacciatori esteri, mezzo squadrone di dragoni, e mezza sezione
d’artiglieria, con tutto comodo, con tutta placidezza, usciva da
Porta Pia per andare in soccorso dei difensori di Monte Rotondo, e
arrivava verso le quattro del pomeriggio presso alla stazione. Ivi
gli avamposti di Salomone accolsero la testa di colonna a fucilate,
ond’essa, avvedutasi che tutto era finito su a Monte Rotondo, con molto
disordine, quasi tornasse da una rotta (noi stessi ne fummo testimoni
oculari) rientrò il giorno dopo in Roma.


XIII.

La giornata di Monte Rotondo produsse lo sgombro di tutto il territorio
pontificio e la ritirata dell’intero esercito dietro i ponti del Tevere
e del Teverone, onde facevasi omai evidente che tutto lo sforzo papale
andava a concentrarsi nella difesa delle mura di Roma, le quali in
tutta fretta erano state guernite di batterie e di fortilizi d’ogni
natura.

E libera per tal modo la campagna, Acerbi, cui era fallita due giorni
prima (24 ottobre) una sorpresa di Viterbo, se ne impadroniva nella
giornata stessa di Monte Rotondo senza colpo ferire, insediandovi la
prodittatura e proclamandovi i plebisciti; altrettanto faceva a mezzodì
il Nicotera, il quale, dopo l’eroico sacrificio di Raffaele Benedetto
e de’ suoi ventidue compagni a Monte San Giovanni, campeggiato altri
due giorni nei dintorni di Veroli, saputa sgombra di nemici tutta
la provincia di Velletri vi si gettava tosto con tutte le sue genti;
trionfando il 28 a Frosinone, il 30 a Velletri, dove egli pure, colla
proclamazione dei plebisciti, dissipava i maligni sospetti insorti sul
colore della sua bandiera.

Stando così le cose, Garibaldi, regalato un giorno di riposo a’ suoi
Volontari, lasciato un battaglione a Monte Rotondo, un altro a Mentana,
e speditone un terzo col colonnello Pianciani a Tivoli, ordinato alle
colonne dell’Acerbi e del Nicotera di raggiungerlo, mosse difilato con
tutte le sue forze verso Roma. La sera del 27 pernottò a Fornuovo: il
29 portò il suo quartier generale a Castel Giubileo, spingendo i suoi
avamposti oltre a Villa Spada in vista del ponte Salario, a pochi tiri
dall’inimico. I Pontificii pare l’attendessero da questo lato, giacchè
Porta del Popolo, Porta Salara e Porta Pia e tutte le ville attigue,
la Torlonia, la Patrizi, la Ludovisi, erano state guernite di pezzi
coperti e occupate da compagnie imboscate. Monte Mario, contrafforte
formidabile che munisce l’entrata di Porta del Popolo, era pure stato
posto in istato di difesa, ed una specie di campo trincierato vi si
andava alacremente costruendo.

Garibaldi vide le difficoltà e passò tutta la giornata del 29 a
studiarle. Tuttavia una falsa notizia, recatagli da un bugiardo
messaggiere, «che Roma fosse pronta a ritentare nella notte dal 29 al
30 una seconda riscossa,» lo indusse a persistere nel primo divisamento
di attaccare Monte Mario, e pensando rincorare colla promessa di un
vicino aiuto i Romani, ordinò si accendessero molti fuochi lungo tutta
la linea del campo e si preparassero quante barche potevasi, per il
passaggio del Tevere. A chi scrive queste linee toccò l’amaro ufficio
di far sentire a Garibaldi, addormentatosi nella forte speranza della
battaglia, la sgradita sveglia della delusione. Tutto era spento in
Roma. I Romani non potevano fare e non avrebbero fatto di più; chi gli
aveva portato quel messaggio era od un ingannato od un ingannatore.
Garibaldi ci diede ascolto, e gli eventi risposero se noi avevamo detto
il vero.

Allora il Generale si volse ad altri pensieri. Stare accampato lungo
le umide rive d’un fiume, senza avanzarsi nè retrocedere, a nulla
approdava e molto poteva nuocere, specialmente alla salute de’ soldati,
e tutto consigliava a prendere stanza in qualche luogo sicuro e
difeso, centrale tra le due colonne di destra e sinistra che dovevano
raggiungerlo, aspettando l’occasione propizia per riprendere più
decisamente le offese.

Gli restava per altro a riconoscere la postura e il contegno
dell’inimico dall’altra parte della città, vedere fino a qual segno
fossero guardati i ponti sul Teverone, e infine scandagliare lungo la
via il punto più debole per l’assalto futuro.

A tal uopo, la mattina del 30, scortato da due battaglioni di
Carabinieri genovesi sotto gli ordini di Burlando e Stallo, da una
dozzina di guide e dal suo Stato Maggiore, guidò egli stesso la
divisata ricognizione su Ponte Nomentano. Menotti con tutte le sue
genti, meno un battaglione rimasto a Castel Giubileo, dovea marciare
più tardi in sostegno della ricognizione. E in questa breve e quasi
oscura operazione, parve ancora una volta quell’acume militare e quella
famigliarità col campo di battaglia, onde Garibaldi terrà mai sempre,
contrastato o no, il primo posto tra i primi capitani del mondo.

Egli stesso in un bullettino, che noi scrivemmo sotto la sua dettatura
nel suo quartier generale di Monte Rotondo, faceva con brevi e scolpite
parole la storia di quella giornata.

                                        «Monte Rotondo, 31 ottobre.

  »Ieri, alle sei antimeridiane, giunse una scoperta nostra di
  pochi uomini a cavallo al Castello dei Pazzi, ed una guida nostra
  assieme ad un ufficiale di Stato Maggiore, entrati per i primi,
  s’incontrarono petto a petto con una pattuglia di Pontificii,
  l’attaccarono co’ _rewolvers_ e la misero in fuga. La guida nostra
  ebbe una palla nel petto che lo sfiorò felicemente, e fu ferita di
  poco momento.

  »La scoperta era seguita dal primo battaglione di bersaglieri
  nostri che occuparono il castello suddetto ed il Casale Ceccina.
  Dopo un’ora circa di soggiorno in quel sito, due colonne di Zuavi e
  di Antiboini sboccarono una dal Ponte Nomentano e l’altra dal Ponte
  Mammolo.

  »I nostri, collocati in posizione dal Casale suddetto al Castello,
  ebbero ordine d’aspettare il nemico a bruciapelo.

  »I nemici avvicinandosi a destra e sinistra della posizione ci
  fecero molti tiri da destra a cui non fu risposto; solamente verso
  sera avvicinandosi alcuni Pontificii per la destra, furono sparati
  alcuni tiri, i quali uccisero quattro uomini e non si sa quanti
  feriti.

  »Noi abbiamo tre feriti leggermente. Così passò la giornata e si
  tennero le posizioni fino alla notte, a un tiro di carabina dal
  Ponte Nomentano.

  »Non essendo l’obiettivo se non che di riconoscere la posizione
  del nemico sul Teverone, quella notte si diede ordine di ritirarla
  su Monte Rotondo, lasciando una quantità di fuochi accesi sulla
  linea. La ritirata si fece in buonissimo ordine, e questa mattina
  il nemico, credendo che occupassimo ancora le nostre posizioni, vi
  fece una quantità di cannonate al vento.

  »I nostri Volontari scalzi ed affamati si stanno rifocillando in
  Monte Rotondo e contorni. Il loro contegno di ieri in presenza del
  nemico fu ammirabile.

                                                    »G. GARIBALDI.»

Se Garibaldi si fosse lasciato tentare a rispondere con una sola
fucilata alle tante che il nemico c’inviava, o se un solo volontario
lo avesse disubbidito, noi avremmo dovuto accettare il combattimento,
trecento contro le migliaia, in un terreno scoperto e in parte
sconosciuto, separati dalle nostre linee (almeno fino all’arrivo di
Menotti) mediante un vasto tratto di campagna, e non solo la giornata,
ma Garibaldi stesso sarebbe stato posto a grave pericolo. E già poco
mancò non lo fosse nel mattino stesso, giacchè fra i primi entrati
nel cortile de’ Pazzi v’era Garibaldi in persona! Una palla di un
mercenario, e Garibaldi spariva oscuramente sotto le volte d’un
castellaccio abbandonato della Comarca romana! Ma il colpo d’occhio di
quell’uomo e la fede in lui salva tutto. Gli stette sempre al fianco,
interprete intelligente e risoluto de’ suoi ordini, un altro veterano
di battaglie rivoluzionarie, il generale Fabrizi, arrivato al campo dal
mattino soltanto a riprendere il suo posto di capo di stato maggiore,
che Garibaldi gli aveva meritamente conservato.

Questa marcia avanti e indietro, quella ritirata su Monte Rotondo
_non piacque_ ai Volontari; e se la parola ai militari sembra strana,
chi fu volontario la comprenderà. Il piacere o non piacere, il
benedire o maledire, il discutere i movimenti, i disegni, i comandi,
il _rerum cognoscere causas_ è uno dei bisogni invincibili e degli
abiti incurabili delle baionette intelligenti. Perchè si fosse andati
fino a Ponte Nomentano ognuno press’a poco presumeva comprenderlo; ma
perchè senza sconfitta, quasi senza combattimento, si desse addietro,
e addietro fino a Monte Rotondo, questo nessuno poteva metterselo in
capo. E il non intendere rendeva grave e svogliato l’ubbidire. Quindi i
commenti, le interpretazioni, le censure, le querimonie infinite. Chi
voleva che la ritirata ci fosse imposta dal Governo italiano, e che
il ritorno a Monte Rotondo significasse dissoluzione; chi sosteneva
che Garibaldi stesso, riconosciuta l’impossibilità di prender Roma
con quelle forze, abbandonava l’impresa; e chi andava più innanzi e
faceva già sparito, già arrivato a Firenze il Generale, il quale per
smentire la puerile diceria, era costretto a mostrarsi e a parlare; chi
ci vedeva una tregua, chi un acquartieramento, pochissimi una manovra,
ed infine, cosa assai più grave, chi gettava in mezzo ai crocchi dei
novellieri e dei disputanti la notizia, vera pur troppo, dell’arrivo in
Roma de’ Francesi, e portava così al colmo il malumore, la confusione e
lo scoramento.

Pure finchè non erano che ragionari di giovani, o queruli, o curiosi,
ma onesti, si potevano presto quetare; una parola di Garibaldi, un
ordine del giorno, una promessa qualunque, li avrebbe persuasi: ma in
mezzo al fiore degli schietti ed ingenui v’era la mondiglia dei tristi,
dei maligni, dei corruttori, degli spacciatori di bugiarde notizie,
degli agenti segreti e prezzolati della dissoluzione; peste che
aveva ammorbato fin dal loro nascere quelle avveniticcie milizie. Lo
sfasciamento pertanto cominciò da costoro e si propagò in breve anco a’
meno peggio; laonde al toccar Monte Rotondo era già visibile e grande.
I Volontari, quali col fucile, quali senza, a lor beneplacito, senza
chiedere nè accettare licenza, se ne andavano a coppie, a squadre, e
per far più presto, giunti alla svolta della strada di Monte Rotondo,
non la salivano nemmeno e continuavano su per via Salaria verso il
confine. L’onesto partiva dicendo: «Poichè a Roma non si va più, stia
ne’ quartieri chi vuole;» il mariuolo partiva pensando: «Poichè non
v’è più nulla da bottinare costà, a Roma, ci pensi chi vuole,» e quali
istigando, quali scimmiottando, tutti persuadendosi a vicenda che la
era finita, e non restava altro da fare, a drappelli, a frotte, se la
svignavano. Lo sfacelo durò così vasto e crescente fino alla mattina
del 2. In quel giorno però, la voce sparsa d’una marcia in avanti, una
rivista passata da Garibaldi, lo sforzo de’ buoni ufficiali rimasti
fedeli al posto, lo arrestò. Frattanto potè ben dirsi che circa 2000
uomini erano sfumati a quel modo.[365]

Però finchè la defezione non era che dei tristi, anzichè impedirla era
da incuorarla; ma il male era che nè i tristi se n’andavano tutti, nè i
buoni restavano tutti; onde si era minacciati dei danni dello sfacelo
senza i vantaggi che sarebbero derivati da uno spurgo generale, fatto
con criterio e con energia, degli elementi morbosi che infracidavano il
corpo anche nelle sue parti più sane. In altre parole, la diserzione
complicava anzichè risolvere il problema della riorganizzazione, e lo
rendeva sempre più urgente e pericoloso.

A questo problema però quanti avevano coscienza dello stato vero delle
cose, da Garibaldi all’ultimo ufficiale, s’erano dati gravemente
a pensare. Il generale Fabrizi, aiutato da Alberto Mario, lavorava
alacremente a ordinare il suo stato maggiore, e la prima opera a cui
mostrava intendere era la riorganizzazione. Un tribunale militare con
poteri eccezionali era improvvisato, e se non gli fosse venuto meno il
tempo, avrebbe fatta rigorosa giustizia; la ferrovia tra Orte e Corese
già interrotta, era restaurata, e l’arrivo de’ più indispensabili
oggetti d’equipaggiamento, elemento principalissimo d’ogni
organizzazione, affrettato. Si tentava inoltre di formare una scelta
e numerosa guardia del campo, posta agli ordini d’un capo energico
ed autorevole che avrebbe dovuto fare la polizia dell’esercito, che
ne avea tanto bisogno, e marciando col quartier generale proteggere
la persona di Garibaldi, ad ogni momento esposto a’ più rischiosi
sbaragli.

E tutto ciò era un nulla, a petto del vero, del supremo problema
dominante tutti gli altri. Che si faceva a Monte Rotondo? Che si faceva
oggimai nello stesso Agro romano? Al Cialdini, cui la composizione
di un Gabinetto di conciliazione era fallita, subentrava il generale
Menabrea con un Ministero così detto di _resistenza_, il cui primo
atto era stato un bando del Re che apertamente sconfessava il
conato garibaldino e del quale furono ben tosto chiaro commento lo
scioglimento del _Comitato centrale di soccorso_, la fermata al confine
dei viveri diretti al campo garibaldino, il consenso all’intervento
francese in Roma, e la sottomissione infine a tutti i voleri
dell’imperatore Napoleone III e alle disfide oltraggiose de’ suoi
ministri.[366]

Infatti tra la sera del 30 e la mattina del 31 la voce era cominciata
a propagarsi che i Francesi fossero sbarcati a Civitavecchia, anzi già
entrati in Roma, e quantunque al generale Garibaldi nessuno avesse
pensato a darne l’annuncio ufficiale, la sola probabilità del fatto
era anche per l’eroe più temerario d’una importanza capitale. Infine
contemporanea a quella notizia ne era corsa subito un’altra, che le
truppe italiane avessero varcato la frontiera pontificia occupandovi i
punti più prossimi, col mandato, dicevano i dispacci del Menabrea, di
tutelarvi l’ordine, di evitare ogni cozzo colle truppe francesi e di
procedere, potendo, d’accordo con esse.

Ora la gravità di questi fatti era manifesta a chicchessia. La impresa
garibaldina veniva a trovarsi interamente abbandonata a sè stessa,
posta da un giorno all’altro al cimento di dover combattere, insieme al
pontificio, l’esercito francese e fors’anco scontrarsi coll’italiano,
giacchè le intenzioni del Governo di Firenze non erano su questo
proposito ben chiare. Che fare? Garibaldi non era mai stato così cupo
e cogitabondo! In quella mattina del 31 parecchi amici, tra i quali
Cairoli e Guastalla, venuti da Firenze a visitarlo a Monte Rotondo,
l’avevano consigliato a desistere da una lotta, il cui ultimo resultato
non poteva essere oramai che un infruttuoso e cruento sacrificio;
ma ciò che appariva semplice e chiaro ai più volgari, non lo era
altrettanto agli occhi dell’Eroe! Cedere in faccia allo straniero
fino allora sfidato; cedere senza aver tentato un supremo sforzo per
riafferrare la vittoria, o almeno glorificare la sconfitta, non era
da lui! E non era nemmeno il parere degli amici militari che l’avevan
seguito fino allora. Anche per essi, come per Garibaldi, l’impresa non
per anco era disperata, la resistenza poteva essere ancora possibile,
tanto più che a nessuno era dato prevedere quale sarebbe stato il
sentimento dell’Italia innanzi ad una guerra combattuta da’ suoi
figli, anco con mediocre fortuna, contro uno straniero invasore! Però
Garibaldi, concorde con tutti i principali suoi Luogotenenti, deliberò
di continuare la lotta a oltranza; e nel 31 stesso provvide al da
farsi.

Se non che prendere quella risoluzione e veder che Monte Rotondo non
era più stanza adatta ad una campagna di guerriglie, di volteggiamenti,
di meditati indugi e di accorte ritirate, quale era quella cui
bisognava prepararsi, fu per Garibaldi un punto.

Posizione forte contro la fanteria Monte Rotondo non lo è più quando
abbia di contro un nemico munito d’artiglierie, che possa coronare
le alture circostanti e batterlo in breccia da ogni punto. Però i
veri pericoli della dimora a Monte Rotondo, senza dire che le lunghe
scorrerie militari l’avevan dissanguato d’ogni cosa necessaria al
vivere quotidiano, eran principalmente queste: la troppa vicinanza
al confine che apriva una comoda via al flusso già cominciato delle
diserzioni; la sua posizione isolata e facilmente aggirabile, la quale
non lasciava ai difensori altra scelta che di seppellirsi uno ad uno
sotto le sue pietre o di capitolare a discrezione.

L’abbandonarlo dunque era più che saggezza, necessità; e poichè
d’altro canto Tivoli era città prossima a Roma quanto Monte Rotondo,
in posizione ancora più forte, con un fiume davanti, una catena di
contrafforti a’ fianchi, due o tre strade di ritirata in caso di
rovescio; più lontana da Acerbi, ma più vicina a Nicotera; un vasto
territorio alle spalle; popolosa, ampia, fornita di vettovaglie, così
Garibaldi prescelse Tivoli.


XIV.

Tuttavia, convien confessarlo, il Generale prima di risolversi al
partito che da ogni parte gli veniva proposto, ed egli stesso aveva
chiaramente indovinato, esitò. Qual pensiero lo trattenne? Noi
nol potremmo mallevare: appena ci periteremmo a supporre che egli
sperasse ad ogni istante di veder l’esercito italiano marciare contro
il nuovo invasore e chiedergli così ragione del violato suolo della
patria. Nessuno stupisca: son pensieri di Garibaldi! Il condottiero
di Volontari che lietamente si sarebbe messo alla coda dell’armi
nazionali, non voleva con una mossa apparentemente ostile aggravare
la situazione politica, nè guastare quelle che per lui erano buone
intenzioni del Governo italiano e nelle quali ancora confidava.
Comunque, l’esitazione di Garibaldi, fosse pur figlia d’un’alta e
patriottica ragione, pesò sulla bilancia degli eventi che il futuro
prossimo maturava.

Nel dopo pranzo del 2 novembre parecchi messaggeri al quartier generale
recarono che le truppe pontificie, non si diceva ancora le francesi, si
apparecchiavano ad uscir da Roma per venire ad attaccare i Garibaldini
a Monte Rotondo. Queste notizie, sebbene non certe, tolsero Garibaldi
ad ogni incertezza, e tutte le disposizioni per la marcia su Tivoli
furono prese, caute e sapienti come l’arte più rigorosa poteva
suggerire.

Il movimento che stava per intraprendere, era una marcia sul fianco
sinistro; e ognuno sa i rischi e i pericoli di siffatte manovre. Però
Garibaldi era di fronte a due ipotesi ugualmente probabili: che il
nemico, già in marcia su Monte Rotondo, ci incontrasse nella nostra
marcia su Tivoli: che il nemico, avvertito della nostra partenza,
sboccasse da Roma, e scegliendo il luogo e il tempo, ci assalisse
sul nostro fianco. Importava quindi parare a queste due eventualità,
potrebbesi già dire probabilità, ed ecco come Garibaldi provvide.

A levante della via Nomentana, da Mentana a Tivoli, si spiega un
sistema di piccoli poggi popolati di frequenti villaggi, i quali
paiono gettati là dalla natura per guardare quella strada fino al
suo punto d’incontro colla strada Tiburtina. Qualora perciò fossero
state occupate quelle alture, coll’ordine di spingere avamposti
e ricognizioni sulle diverse vie che da esse sboccano sulla via
Nomentana, si sarebbe stati per lo meno sicuri di queste due cose: o
che il nemico sarebbe stato scoperto molto prima che potesse incontrare
la colonna marciante, la quale perciò avrebbe avuto tempo di spiegarsi
come e dove voleva; o che il nemico anche sfuggendo alle scoperte,
comunque e dovunque attaccasse la colonna, avrebbe sempre avuto sul suo
fianco destro od alle spalle la minaccia, ed occorrendo anche il peso
dei battaglioni stesi lungo tutte quelle posizioni avanzate, e cadendo
fra due fuochi si sarebbe inevitabilmente esposto al pericolo di una
rotta là dove sperava trovare una vittoria.

Fermo in questi concetti, il generale Garibaldi fin dal 1º novembre
avea mandato il colonnello Paggi con tre battaglioni (900 uomini)
ad occupare i villaggi di Sant’Angelo in Capoccia e Monticelli e le
alture più avanzate di Monte Lupari e Monte Porci con tutte quelle
prescrizioni d’avamposti, di sorveglianza e di precauzioni che abbiamo
indicate. Date queste disposizioni, Garibaldi stesso, nel pomeriggio
del 2, andava a riconoscere le posizioni nuovamente occupate da Paggi e
lo stradale da percorrersi, e tranquillo da questo lato tornava a Monte
Rotondo per dare in un ordine del giorno, tutto scritto di suo pugno,
le disposizioni finali della partenza, che importa trascrivere:

      «Colonnello Menotti Garibaldi,

  »Le colonne da voi comandate marceranno per la sinistra sulla via
  di Tivoli.

  »Nella marcia esse si terranno compatte il più possibile ed in
  ordine.

  »Sulla destra delle colonne in marcia e sulle strade che conducono
  a Roma si dovranno spingere delle pattuglie a piedi e degli
  esploratori a cavallo bastantemente lontani, per essere avvisati
  a tempo a poter prendere posizioni, in caso dell’approssimarsi del
  nemico.

  »Sulle alture di destra della linea di marcia si dovranno pure
  tenere delle vedette allo stesso scopo.

  »Una vanguardia precederà le colonne ad una distanza per lo meno
  di millecinquecento a duemila passi, ed essa sarà preceduta pure da
  esploratori e fiancheggiatori competenti.

  »Una retroguardia pure molto importante, con rispettive guide
  indietro a considerevoli distanze, per avvisare di qualunque cosa
  utile.

  »Questa retroguardia non deve lasciare dietro di sè un solo
  individuo delle colonne ed un solo carro o bagaglio.

  »L’artiglieria e munizioni marceranno nel centro.

  »I bagagli, i viveri, ec. potranno marciare in testa od in coda
  delle rispettive colonne.

  »Si raccomanda ai comandanti le colonne il buon ordine che col
  valore dei nostri Volontari deve acquistarci la stima delle
  popolazioni.

      »Monte Rotondo, 2 novembre 1867.

  »Il Capo di Stato Maggiore

      »N. FABRIZI.

                                                    »G. GARIBALDI.»

L’ordine di marcia dapprima era fissato per l’alba del 3; se non che
il colonnello Menotti, opponendo la necessità di una distribuzione di
oggetti di vestiario e specialmente di scarpe, arrivate poco prima,
pregava il padre a sospendere la partenza fino alle 11 del giorno
stesso.

Garibaldi, pieno di paterna fede nella voce del figlio, si arrese,
e quel che gli abbia costato quella condiscendenza l’evento lo
dimostrerà. Che cosa era mai il bisogno, fosse pur sentito, di
scarpe, davanti alla suprema necessità d’una marcia manovra di quella
importanza e natura, gravida di tanti pericoli e di tanti effetti,
e fallita la quale, tutto era perduto? Come si poteva posporre il
principale all’accessorio? Come intraprendere una marcia, che doveva
esser fatta di soppiatto, in pieno mezzogiorno? Basti il dire che alle
11, marciando anche senza scarpe, tutta la colonna sarebbe stata a
Tivoli; e che i Pontifici, giungendo in faccia a Mentana, l’avrebbero
trovata vuota. Quale scacco per i generali francesi! Quale trionfo per
Garibaldi!

Non si potè naturalmente partire che a mezzogiorno. Garibaldi poco
prima aveva spedito un altro messo all’Orsini, subentrato al Nicotera,
perchè sollecitasse la sua marcia su Tivoli, e quando vennero ad
avvertirlo che tutto era pronto per la marcia, si mosse senza dir
verbo, pensieroso e triste, zufolando per le scale una sua vecchia
canzone d’America,[367] quasi volesse dai ricordi di quei giorni
gloriosi trarre gli auspicii del destino al quale andava incontro. Indi
montò a cavallo ed al galoppo, cosa insolita in lui, passò via, rapido
e silenzioso davanti ai battaglioni schierati in battaglia lungo la
strada di Mentana, e poco dopo dietro a lui tutta la colonna si pose in
cammino.

Il servizio d’esploratori e fiancheggiatori, oltre ad un manipolo di
guide mal montate e per la maggior parte nuove a quel delicatissimo
servizio, fu affidato al 1º battaglione dei Bersaglieri genovesi,
comandati dal maggiore Stallo. Dietro dovevano seguire, sempre
come avanguardia, i due altri battaglioni di bersaglieri, il 2º de’
Genovesi, comandato da Burlando, e il 3º dei Lombardi e Romagnoli
comandato da Missori, e con essi la compagnia de’ Carabinieri
livornesi, forte non più di 70 uomini, sotto gli ordini del capitano
Mayer. Ora senza rivangare qui le molte ragioni che possono avervi
influito, ma incontrastabilmente per la principalissima che la
distribuzione del mattino avea disturbato le ordinanze, il fatto sta,
e importa notarlo, che tra l’avanguardia e il corpo principale sparì,
appena staccata la marcia, ogni intervallo, talchè persino l’estrema
punta del maggiore Stallo non potè che assai malamente adempiere
all’ufficio suo di scoprire il nemico e di proteggere la testa e il
fianco della colonna marnante. D’altra parte il colonnello Paggi, che
avea spedito al comando generale a prendere nuove istruzioni, riceveva
firmato dal signor Berna, capo di stato maggiore del colonnello
Menotti, l’ordine di lasciare Monte Porci e Monte Lupari e di andare
colle stesse forze ad occupare Palombara (se il Paggi aveva letto
bene), paese a settentrione delle posizioni prima occupate, rivolto a
tutt’altra direzione e che nulla avea a che fare nè colla via Nomentana
nè con nessun’altra via onde il nemico potesse sboccare. Quest’ordine
accrebbe nella mente del Paggi la confusione, laonde la sorveglianza
che egli stesso dovea esercitare sulla via Nomentana, divenne disforme
interamente dalle istruzioni del Generale in capo, e affatto illusoria.
A sommar tutto, gli ordini chiari, accurati e precisi dati da Garibaldi
non furono che imperfettamente eseguiti e negligentemente sorvegliati,
onde non sarà gran meraviglia se il nemico potrà quasi improvviso
piombare sulla testa della colonna garibaldina e prima ancora che ella
si fosse riavuta dalla sorpresa costringerla a duro cimento.


XV.

Garibaldi collo stato maggiore e il quartier generale erano appena
entrati in Mentana, che le guide a cavallo venivano ad annunziare
la comparsa de’ Pontificii. Nello stesso tempo le fucilate degli
avamposti confermavano la notizia. Garibaldi ordinò tosto alla colonna
di arrestarsi, ma indarno cercava un luogo onde poter riconoscere
l’inimico. Mentana è quasi incassata in un avvallamento, e tutti i
poggi circostanti la dominano. Questo solo fatto mostrava già fin dalle
prime che la posizione era sfavorevole, e che la difesa di Mentana
sarebbe stata difficile. O bisognava avere il tempo e la possibilità di
spingersi ad occupare le posizioni davanti il villaggio, o abbandonarlo
interamente per difendere le posizioni indietro, tra Mentana e Monte
Rotondo, a noi d’altronde già note e in parte non ancora abbandonate.
Ci fu allora chi si peritò a profferire al Generale quest’ultimo
consiglio.[368] Garibaldi rispose: «Udite quel che ne dice Menotti,
e se crede che le posizioni davanti siano tenibili.» Menotti assicurò
«che davanti stava benissimo,» e.... un quarto d’ora dopo eravamo tutti
ricacciati nel villaggio.

Tuttavia ogni segno rendeva manifesto che il nemico, benchè abilmente
coperto dalle macchie e dalle pieghe del suolo, avanzava dalla destra,
e Garibaldi non titubò un istante. Ordinò ai battaglioni di Burlando,
di Missori ed ai Cacciatori livornesi di spiegarsi prontamente
sulle alture di destra; mentre il figlio Menotti portava avanti
a sinistra e sul centro altre forze in sostegno dei combattenti.
Allora il combattimento si propagò vivo ed energico su tutta la linea
dell’avanguardia. In sulle prime però parve che il nemico mirasse
a concentrare l’attacco sulla destra e sulla fronte di Mentana, e
soltanto dopo avere seriamente impegnati i Garibaldini in questi punti
si decise ad assalire anche la sinistra, sulla quale rovesciò il nerbo
principale delle sue forze. Frattanto la sua manovra era smascherata:
l’attacco di destra e di fronte, benchè gagliardo, non era che una
finta per coprire il vero attacco di sinistra e ingannarci sulle sue
intenzioni. Ma nessuno cascò nell’inganno, meno poi Garibaldi. A destra
e di fronte i battaglioni di Missori, di Burlando, di Carlo Mayer,
ai quali si erano venute a riunire le genti di Stallo risospinte,
furono lasciati soli a sostenere l’urto, certi che l’avrebbero fatto
bravamente, e non furono più rinforzati. D’altronde la strada era
stata quasi subitamente perduta, e non restava altro che arrestare
l’impeto de’ nemici, asserragliando alla meglio l’entrata del paese.
Così fu fatto: e lì dietro poche tavole tarlate e qualche frantume di
mobilia, simulacro squallido di barricata, i più volenterosi tenevano
testa intanto che col grosso delle forze si provvedeva alla sinistra
del villaggio, sempre più gravemente minacciata. Non v’era un attimo da
indugiare. Coperti dalle ortaglie e dai vigneti della villa Santucci,
dove era venuto a piantarsi il quartier generale del nemico, fitti
gruppi di Zuavi e Carabinieri esteri s’erano spinti fin presso alle
prime case, avvolgendo in un arco di fuoco i pochi Garibaldini che
al riparo de’ pagliai e delle fronteggianti finestre cercavano di
arrestarne la marcia. Ma il numero de’ nemici soperchiava: ufficiali e
soldati non s’erano ancora riscossi dalla prima sorpresa dell’inopinato
attacco; tutti consigliavano, comandavano, strafacevano: v’erano quelli
che gridavano «avanti» rimpiattati dietro le muraglie; v’erano gli
altri che stavano soli in mezzo alle palle a sfidare i battaglioni:
era un vocío, una confusione, un tumulto, sul quale, anche chi non
aveva perduta la testa mal riusciva a dominare. Mentana parve per un
istante perduta. Indarno ogni valoroso, soldato od ufficiale che fosse,
cercava far testa colla voce, col comando, coll’esempio, colla vita;
l’onda de’ nemici invadeva e sospingeva innanzi a sè l’onda non meno
rapida dei fuggenti. Molti si rifugiavano nelle case, ma pochi per
continuarvi la difesa, i più, doloroso a confessarsi se meritassero
pietà, per nascondersi e peggio. Tuttavia i nemici non avevano ancora
vinto, e purchè si fosse potuto rimettere un po’ d’ordine, di calma e
di silenzio — oh di silenzio soprattutto! — così negli allarmanti come
negli allarmati, e formare punta con una schiera di risoluti, le forze
fresche erano molte ancora, e le parti potevano essere mutate.

Lo pensò Garibaldi, e sapendo quanto possa e sui nemici non solo,
ma sull’anima facilmente elettrizzabile de’ suoi Volontari il tuono
del cannone, corse egli stesso a postare e puntare contro il centro
nemico i due pezzi predati a Monte Rotondo, onde appena partirono i
primi colpi, giusti come in un bersaglio, se ne vide subito il magico
effetto. Il nemico si arrestò: i Volontari fra grida di gioia parvero
pronti a ripigliare l’assalto. Era il momento decisivo, e Garibaldi
slanciò quanta gente avea d’intorno alla baionetta. Fu davvero una
carica stupenda. Si rientrò in Mentana, si risalì ai perduti pagliai,
si ricaricò il nemico di siepe in siepe, di dosso in dosso, fin dentro
la cinta degli orti Santucci. Ancora uno sforzo, e la villa, chiave
della posizione, è presa e la giornata è nostra. Ad animare e dirigere
questo sforzo, Fabrizi, Menotti, Mario, Bezzi, Canzio, il Generale
non sono di troppo; ma una moschetteria diabolica partiva dalle file
nemiche sempre rinnovate, che ributtava sul terreno morti e feriti i
più audaci. Tuttavia si avanzava, e per un istante la fucilata nemica
parve allentare. Che era? Pur troppo non era che una sostituzione di
linee.

Ad un tratto, all’estrema nostra sinistra, due zone nere nere apparvero
traverso le ondulazioni dei colli di San Sulpizio: erano i due freschi
battaglioni del 1º di linea francese che entravano in battaglia.
Ma nessuno allora ci pensò, nessuno lo credette. La stragrande
uniformità delle assise e la somiglianza di linguaggio e di comando li
confondevano cogli Antiboini, e le minute distinzioni non erano in quel
momento permesse. Del resto un sentimento, una voce interiore più che
una ragione politica, facevan credere quella cosa impossibile. «Io non
avrei mai creduto — scriveva Garibaldi a Edgardo Quinet — che i soldati
di Solferino sarebbero venuti a combattere i fratelli, che avevano col
loro sangue liberati, e questa credenza mi valse una disfatta.»

Comunque erano nemici, e trovarono sulle prime degna resistenza. I
Francesi avanzavano su due ordini: davanti una catena di bersaglieri;
dietro, in sostegno, un battaglione per divisioni, descrivendo, di
mano in mano, una conversione a sinistra sempre più pronunciata,
coll’evidente intenzione di avviluppare l’esercito ribelle, di
tagliarlo interamente dalla sua ritirata. Garibaldi allora corse di
nuovo a puntare i due pezzi contro i nuovi nemici, ma ahi! que’ poveri
settanta colpi, unico tesoro del parco, erano esauriti. I nostri,
finchè ebbero cartucce, tennero fermo; Menotti tentò una carica, ma
fu ributtata, e il bravo maggiore Cantoni vi lasciò la vita. Alberto
Mario, che fu sempre in tutta la giornata dove più incalzava il
pericolo, tentò girare con un battaglione l’estrema destra francese, ma
era tardi: per difetto di forze, di munizioni, di fiato, in una parola,
nessun movimento approdava e nessun eroismo valeva più.

I Francesi avanzavano sempre. Villa Santucci, ristorata da nuove forze,
non avea ceduto; dalla destra un battaglione del 29º di linea francese
subentrava ai Pontificii e serrava dappresso gl’indomiti difensori di
quel fianco: non c’era più una compagnia disponibile; la giornata vinta
alle due, alle quattro era di nuovo perduta.

E non pareva vero. Fabrizi, il vecchio Fabrizi, sereno ed impassibile
in mezzo alle palle, quasi solo talvolta a un trar di pistola dal
nemico, implorava, dimentico di sè, quasi pregando ancora, pochi
istanti di resistenza; Bezzi, rimasto tutto il giorno con Cella ed
altri prodi contro Villa Santucci, e tratto anch’esso nel fiotto
de’ fuggenti, si strappava i capelli; Mario, Friggesy, Menotti,
Missori (parliamo di quelli che ci passarono davanti in quell’ora)
si spingevano dove più ardeva la mischia a contrastare il terreno.
Garibaldi, pallido, rauco, cupo, invecchiato di vent’anni, seguíto
dall’indivisibile Canzio, ululava ai fuggenti: «Sedetevi, chè
vincerete.» Invano! tutto rigurgitava, correva, precipitava sulla via
finale della ritirata.

E non parea vero! — Triste ritornello che ci torna sulle labbra
e ci riempie ancora di tutta l’amarezza di quell’ora! I Francesi
inoltravano così lentamente, con tanta cautela, con tale peritanza da
non riconoscergli più; non diciamo poi degli Zuavi, degli Antiboini e
di tutta la restante masnada. Non una carica, non una mossa risoluta da
que’ superbi soldati dell’Impero! Volevano avvilupparci e non osarono;
intendevano pigliarci tutti, compreso Garibaldi, e non seppero. Padroni
del campo, baionettarono i feriti; questo sì; ma bravura no! Erano
diecimila contro quattromila, e se quando incominciò la nostra rotta,
un solo sottotenente avesse cacciato su di noi il suo pelottone,
ci avrebbe con pochi uomini presi tutti prigionieri! Ma dov’erano
gli ufficiali francesi? dove le cariche decantate di Malakoff e di
Solferino! In quel supremo istante un’amara parola ci uscì dalle
labbra, e la ripetiamo ancora perchè dipinge Mentana a quattro ore
pomeridiane: _È un combattimento fra gente che fugge e gente che non
s’avanza_.

Perocchè, vogliamo dire anco questo a onore della verità e per
lasciare ai valorosi una gloria senza mistura, anche fra i Volontari
ci furono le centinaia di bravi che pagarono per tutti, ma il grosso
del corpo _non si battè_. E infatti come si sarebbe battuto? Il
coraggio è dovere, onore, patriottismo, ordine, disciplina, e non era
certo da quell’immondo lezzo che potevano scaturire queste virtù.
Finchè a vincere bastarono i pochi, i pochi ci furono e ammirandi:
quando occorsero tutti, i più mancarono e travolsero nella disfatta i
migliori.

Non restava ormai altro partito che la ritirata su Monte Rotondo, e fu
operata sotto la sinfonia _merveilleuse_ dei fucili _Chassepot_. Però,
sia ridetto per isbaldanzire ancora una volta un nemico che non seppe
aver rispetto nè pei vinti, nè per la verità, i tiratori francesi erano
circa a dugento passi dalla via che percorrevamo, vedevano noi a occhio
nudo, come noi essi, e non osarono scendere sulla strada.

In Mentana però tutto non era finito: un millecinquecento uomini circa
vi restavano sempre; e quali per paura d’uscirne, come coloro che fin
da principio corsero a rimpiattarsi nelle case; quali per non saperne
trovare la via, come i tardivi o gli sbandati: quali per vender cara
la libertà e la vita, come i Bersaglieri di Burlando, che, dopo aver
bravamente combattuto tutta la giornata, si buttarono con un centinaio
d’altri compagni nel castello e vi si rinchiusero; quali infine per
non voler disperare della vittoria, come i Carabinieri livornesi, che
già caduto il sole, ultimo quadrato di Waterloo, combattevano ancora;
venivano tuttavia per ragioni e con propositi diversi a formare una
massa che a prima giunta, a nemico non bene certo della vittoria,
poteva parere temibile.

E infatti di fronte a questa folla di feriti, di dispersi, di nascosti,
di impotenti, i generali franco-papali s’arrestarono; e non solo non
ardirono entrare in Mentana, ma, vedi sapienza! sospesero persino una
ricognizione che avevano ordinato per quella sera, accontentandosi di
mettere le gran guardie a un mezzo tiro di fucile dal paese.[369] E
questo lo scrive proprio il generale francese, e il fatto conferma,
almeno in questo punto, il suo rapporto. Una cosa sola inesatta
sfuggì al signor De Failly, «che egli dormì sul campo di battaglia.»
Il valente Generale dimenticò che il campo di battaglia era Mentana
stessa, e che egli per quella notte dormì fuori.

Garibaldi non l’avrebbe mai immaginato, e convinto che Mentana sarebbe
stata nella sera stessa in potere del nemico, vedendo omai vana, e più
per le ragioni politiche che per le militari, ogni altra resistenza,
ordinò per la sera stessa la ritirata di tutto il corpo (circa tremila
uomini) su Passo Corese. Egli sapeva, come noi tutti, che a Passo
Corese l’attendeva la catastrofe, ma non sarebbe stato da uomini,
poichè la era inevitabile, il differirla con un infecondo spargimento
di sangue, o con un ludo teatrale di gladiatori, mascherarla.

Al mattino seguente, 4 novembre, al primo apparire del 59º reggimento
francese, che, sotto gli ordini del tenente colonnello Bresolles,
marciava in ricognizione sopra Mentana, una bandiera bianca issata
sul castello annunziava che i Garibaldini ivi rinchiusi intendevano
capitolare, e furono tosto intavolate le negoziazioni. Il maggiore
Burlando per i suoi stipulò che _tutti i Volontari chiusi in Mentana_
avrebbero deposte le armi e sarebbero stati ricondotti al confine
italiano da una scorta francese. I generali franco-papali mostrarono
intendere, ed amiamo ancora crederlo, per l’onore di Francia,
incolpevole equivoco, che pei soli _rinchiusi nel castello_ fosse
pattuito il partire così, laonde tutti quelli che trovarono per le vie
di Mentana, circa ottocento, li ritennero prigionieri di guerra e li
portarono, trofeo non legittimo, in Roma.

Ridire poi tutte le prove di valore e di sacrificio sarebbe
impossibile: empirebbero un poema. I settanta Carabinieri livornesi,
la vecchia guardia della giornata, lasciarono circa la metà de’ loro
sul terreno, fra i quali dodici morti, dei quali troviamo in un album
pietoso registrati i nomi che ci par sacro ripetere.[370] Era stato
degno di comandarli fino all’ultimo istante, fino a che gravemente
ferito ad un braccio cadde egli stesso, Carlo Mayer, nome in Livorno
onorato, già soldato e ferito d’altre campagne, colto intelletto e
nobile cuore, fra i rari superstiti di quella generazione di veri
volontari, di veri patriotti, e, sia pur detto, di veri uomini, che le
battaglie della vita, più ancora che le battaglie del campo, vennero
decimando. Cantoni di Bologna, il conte Bolis romagnuolo, bravamente
morirono. Egisto Bezzi, di cui basta il nome, Adami livornese, Stallo
genovese, Erba e Vigo Pellizzari di Milano, molti altri de’ quali il
nome non si conosce, caddero feriti e con uno stuolo non meno ammirando
di usciti illesi per prodigio da ogni più disperato sbaraglio,
confermarono al nome italiano l’immortalità del valore.

Che cosa faceva intanto il colonnello Paggi co’ suoi tre battaglioni?
Aveva egli scoperto il nemico, aveva visto il combattimento, aveva
sentito la fucilata ed il cannone? Tanto Menotti Garibaldi quanto
il generale Fabrizi gli mossero ne’ loro rapporti grave censura per
non aver prima d’ogni altra cosa avvertita la marcia dell’esercito
franco-papale per via Nomentana, e non essere disceso, una volta
impegnato il combattimento, ad attaccare il nemico alle spalle.

Ma il colonnello Paggi in un suo rapporto, edito da’ giornali, s’è
giustificato adducendo che il nemico, girando per le posizioni di
Casale e Romitorio su Mentana, passò lontano da’ suoi avamposti otto
miglia: che Monte Porci e Monte Lupari, oltre che essere anch’essi
assai lontani e fuor d’ogni vista dalle accennate posizioni di Casale
e Romitorio, erano stati il giorno prima per ordine di Menotti stesso
abbandonati: che egli era stato mandato ad occupare _Palombara_ fuori
affatto di linea, mentre dovea occupare il monte _Palombino_ dominante
la strada; che infine egli avea udito il cannone soltanto verso il
tocco e mezzo, ma che non avendo ricevuto alcun ordine di muoversi,
stimò di non poterlo fare sulla sua responsabilità.

A noi mancano tuttavia argomenti bastevoli per pronunciare un giudizio.
È certo però che il generale Garibaldi contava molto sulla vigilanza
e sull’intervento della colonna del Paggi, tanto vero che durante il
combattimento spedì guide ed ufficiali di stato maggiore a chiamarlo,
ed è altresì certo che se un solo battaglione di quella colonna fosse
comparso anche verso le tre alle spalle del nemico, l’effetto ne poteva
essere grande e forse decisivo.

Tale fu la giornata di Mentana. In essa si trovarono di fronte,
secondo i nostri ed i rapporti dello stato maggiore dell’esercito
alleato, 11,000 Franco-papali contro 4652 Garibaldini. Tutto l’esercito
pontificio sì mercenario che indigeno era uscito da Roma, ed il
generale Fabrizi calcolando ai 5000 uomini si tiene molto al disotto
del vero. Dell’esercito francese erano in linea tutto il 1º, il 29º e
il 59º reggimento di linea, un battaglione di cacciatori di Vincennes e
un’intera batteria d’artiglieria.

Le perdite de’ nostri, secondo le informazioni raccolte dal corpo
sanitario, ammontarono a circa 240 feriti e 150 morti, oltre a circa
900 prigionieri. I morti del nemico ascesero a 256, sui quali, fatta
la proporzione, si può calcolare il numero dei feriti. La differenza è
dunque tutta a danno de’ Franco-papali; i Garibaldini non ebbero altro
privilegio che di lasciare un maggior numero d’ufficiali sul campo di
battaglia.[371]


XVI.

La notte era grigia e tetra, la campagna squallida e muta: buffi di
vento soffiati dal Tevere penetravano nelle ossa, intirizzendovi quelle
ultime ceneri d’energia che l’ambascia e la fatica di quell’aspra
giornata non aveano consumate. La colonna seguiva, lunga, serrata,
taciturna: non un canto, non un grido, non un colloquio. Garibaldi
precedeva a cavallo, silenzioso anch’esso, col cappello sugli occhi,
le braccia abbandonate, lugubre, spettrale. Pareva il _Napoleone_ di
Meissonnier, che batte in ritirata dopo la sconfitta di Laon. Egli non
badava ad alcuno, e nessuno a sua volta avrebbe osato interrompere il
sacro colloquio di quell’uomo con la sua sventura.

Un istante tuttavia parve accorgersi che qualcuno gli cavalcava più
dappresso, guatando ansioso tutti i moti della sua fronte; onde, rotto
per poco il silenzio, gli disse: «È la prima volta, Guerzoni, che
mi fanno voltare le spalle così, e sarebbe stato meglio....» qui un
profondo sospiro gli troncò nella strozza la parola, e spinto avanti il
suo cavallo, arrivò poche ore dopo insieme a tutta la colonna a Passo
Corese.

Voleva forse dire: «Sarebbe stato meglio morire?» L’evento e l’ora
consigliavano siffatti pensieri, e molti forse li covavano come lui.

Ivi il primo ad affacciarglisi fu il volto franco ed ospitale del
colonnello Caravà, già suo soldato, ora comandante il 4º Granatieri al
confine, e che fin dove glielo avevano concesso i suoi rigorosi doveri,
era stato durante tutta la campagna sollecito in ogni guisa de’ nostri
sbandati e de’ nostri feriti. Garibaldi gli porse la mano e gli disse:

«Colonnello, siamo stati battuti, ma potete assicurare i nostri
fratelli dell’esercito che l’onore delle armi italiane fu salvo.»

E fu quella la più eloquente epigrafe di tutta quella campagna.

Il dì appresso il Generale montava in ferrovia, col proposito di
ricondursi diritto alla sua Caprera, quando, «giunto a Figline (lo
diremo colle parole stesse della protesta che i seguaci del Generale
stesero in quella circostanza),[372] il convoglio fu fatto arrestare
e presentossi al generale Garibaldi il luogotenente colonnello dei
Carabinieri, signor cavalier Camozzi, il quale chiese conferire da
solo col Generale stesso. La stazione era occupata militarmente da una
divisione di Bersaglieri, comandata dal maggiore Fiastri, e da un forte
drappello di Carabinieri.

»Dopo pochi istanti il Generale scese dal convoglio, e tutti noi che lo
accompagnavamo con lui.

»A un tratto si udì il generale Garibaldi dire ad alta voce al
colonnello Camozzi le seguenti parole:

» — Avete il regolare mandato d’arresto? —

»Il Colonnello rispose: — No. Ho l’ordine d’arrestarla. —

»Il Generale replicò: — Voi sapete di commettere una illegalità. Io non
sono colpevole d’alcuna ostilità contro lo Stato italiano, nè contro le
sue leggi. Sono deputato italiano, generale romano eletto da un governo
legalmente costituito e cittadino americano. Come tale, non essendo
colto in flagrante di nessun delitto, non posso essere arrestato, e
voi e chi vi manda, violate la legge. Però vi dichiaro che non cederò
che ad un atto di violenza, e che, se volete arrestarmi, vi converrà
trasportarmi a forza. —

»A queste sue parole noi tutti (s’intendano i sottoscrittori della
protesta) eravamo risoluti a difendere anche colle armi, nella
persona del Generale, la legge e il diritto. Ma egli ci dichiarò «che
alla violenza, che si intendeva usare contro di lui, non voleva si
rispondesse con altra violenza; che non avrebbe mai consentito ad
un conflitto con soldati italiani, e ci impose di tralasciare ogni
pensiero di resistenza armata.»

» — Perchè (soggiunse) se avessi voluto resistere colle armi, io pel
primo avrei usato di quelle che aveva sotto i miei ordini. —

»Noi ubbidimmo.

»Accorsa molta gente, la quale poteva far temere una collisione, e nel
desiderio di evitare uno spettacolo così umiliante per il paese, il
deputato Crispi telegrafò due volte al Presidente del Consiglio dei
ministri, chiedendo una revocazione degli ordini in nome d’Italia, ed
affermando replicatamente che il Generale voleva andare a casa sua,
a Caprera. Perciò fu chiesta al colonnello Camozzi la breve dilazione
necessaria per ottenere da Firenze una risposta telegrafica, come era
stata domandata.

»Nello stesso tempo molti fra noi insistevano presso il colonnello
Camozzi, perchè anch’egli, da parte sua, telegrafasse al Governo,
significandogli la risoluzione del generale Garibaldi e chiedendogli,
per la nuova e impreveduta circostanza, nuove istruzioni.

»A questo nostro consiglio il colonnello Camozzi oppose il più reciso
rifiuto.

»Scorsa un’ora, senza che fosse arrivata da Firenze alcuna risposta al
telegramma del deputato Crispi, il colonnello dei Carabinieri dichiarò
che doveva far eseguire gli ordini.

»Nemmeno la dichiarazione fatta più volte dal generale Garibaldi
d’essere stanco, sofferente, affranto da molti giorni di privazioni
e di fatiche, e di non poter sopportare il nuovo e grave disagio d’un
lungo viaggio, valse a trattenerlo.

»Allora quattro carabinieri si avvicinarono al Generale, il loro
maresciallo lo invitò, in nome de’ suoi superiori, a seguirli. Il
Generale, mantenendo ferma la sua prima risoluzione, fu sollevato dai
suddetti carabinieri, tolto da dove era seduto nella sala d’aspetto,
e così trasportato di peso in mezzo al silenzio più solenne de’ suoi
amici sino alla carrozza a lui destinata.

»Solo il deputato Crispi, in nome di tutti, protestò con energiche
parole contro la violazione della legge e contro l’oltraggio inflitto
al più grande cittadino d’Italia.

»Fu concesso soltanto alla sua famiglia ed a’ suoi domestici
d’accompagnarlo, ma solo il genero Canzio rimase con lui.

»Nello stesso compartimento andò a sedersi il colonnello Camozzi; molti
vagoni di Bersaglieri precedevano e seguivano il treno.[373]»

E di là continuò fino al Varignano, dove sostenuto tre settimane, il 26
di sera fu imbarcato per Caprera, e quivi colla sola condizione di non
uscirne sino al marzo vegnente e di presentarsi al Tribunale, caso mai
il processo dovesse aver luogo, posto in libertà.

Le ultime parole da lui scritte, uscendo da quel secondo carcere patito
per Roma, furono: «Addio Roma, addio Campidoglio! Chi sa chi e quando a
te penserà!»

Ci pensò la Nemesi della Storia, che ai vinti di Mentana preparò la
triste, ma giusta, ma fatale rivincita di Sédan!

   [Illustrazione: SCHIZZO TOPOGRAFICO dell’Insurrezione Romana —
   1867]


XVII.

L’Eroe aveva più che mantenuta la sua parola; dal 1868 al 1870, non
solamente non s’era più mosso da Caprera, ma, cosa portentosa, aveva
scritto poche lettere, e fatto parlare raramente di sè.[374]

Che cosa fa il Generale?; — era la domanda quasi obbligata e periodica
de’ suoi amici in quegli anni; — che cosa pensa, che cosa mulina, che
cosa apparecchia? — Nulla! pota le viti del Fontanaccio, scrive de’
romanzi,[375] e fa la corte alla signora Francesca Armosino, che non
sembra ritrosa a quell’onore.

Se non che, a un tratto, l’una dietro l’altra, col crescendo d’un
uragano, scoppiano le notizie dell’_anno terribile_: l’antico duello
tra Francia e Germania ripreso; il primo esercito francese disfatto a
Wörth e a Gravelotte; il secondo annientato, coll’Imperatore stesso
prigioniero, a Sédan; l’Impero caduto e la Repubblica gridata: gli
eserciti di Germania alle mura di Parigi: la Francia boccheggiante
sotto il piede del vincitore, troppo orgogliosa, vorremmo dire, troppo
grande, per darsi vinta ancora.

Ora in mezzo a questo cataclisma che spostava da un istante all’altro
il fulcro dell’equilibrio mondiale, quale sia stato il contegno
dell’Europa, il contegno dell’Italia nostra, non è mestieri ridirlo.
L’Europa gridò: «Beati i neutri;» l’Italia esclamò: «Quest’è l’ora di
riprender Roma:», più d’uno forse pensò se non era il caso di riavere
anche Nizza; e continuando a lasciar che la Francia si liberasse come
poteva dalle strette del colosso che le stava sul petto, ciascuno badò
soltanto a trarre quel qualunque profitto che potesse dalla vittoria
dell’uno, dalla sconfitta dell’altro, dallo spossamento d’entrambi.
Ciascuno, eccettuatone un solo: colui che fu, sotto ogni rispetto,
l’eccezione vivente del nostro secolo, Giuseppe Garibaldi. Intanto
che gl’Italiani si preparavano tripudiando alla facile conquista
dell’eterna città, intanto che taluno de’ suoi concittadini nizzardi
lo sollecitava a entrare nel moto _revisionista_ che doveva restituire
la sua terra nativa all’Italia, egli solo pensava alla Francia; egli
solo forse sentiva il pericolo di veder sparire dal consorzio delle
nazioni latine quella madre presunta, ma agitatrice certa di tutte le
grandi idee moderne; ed egli solo le offerse, con semplice e commovente
parola, «quanto restava di lui.»

La sua lettera però al _Governo della Difesa Nazionale_ in Tours
restò senza risposta; e forse la sarebbe rimasta per sempre se il
francese colonnello Bordone, uno de’ suoi ufficiali del 60, fattosi
zelatore ardentissimo di quel viaggio, non fosse riuscito a strappare
al signor Crémieux, Guardasigilli della _Difesa Nazionale_ una specie
di aggradimento o d’incoraggiamento ufficioso che non aveva nulla,
a dir vero, dell’invito ufficiale e categorico d’un Governo; ma che
bastò al Bordone stesso per credere e far credere al Generale che egli
sarebbe stato accolto a braccia quadre da tutto il popolo francese
e salutato come un salvatore.[376] Ma fu disingannato ben presto. A
Marsiglia il popolo lo accolse coll’usato entusiasmo; ma a Tours era
così poco aspettato[377] che lo stesso Crémieux fu udito esclamare
in suon lamentoso: «Ah mon Dieu; il arrive! Il ne nous manquait plus
que cela;[378]» e il Gambetta, disceso per l’appunto in quei giorni
in aerostata alla capitale provvisoria della nascente repubblica, non
seppe ringraziarlo in altro modo che facendogli offrire il comando di
due o trecento Volontari, di cui il Governo non sapeva che farsi.

Il fatto era che, eccettuati quei pochi amici ed ammiratori che
l’Eroe aveva in tutti gli angoli della terra, nessuno in Francia
aveva desiderato la sua venuta. Il Governo pel primo l’aveva subíta,
ma non l’avrebbe mai invocata. Aborrito da tutte le frazioni del
partito retrivo come il campione più pericoloso della rivoluzione;
dipinto alle ignare contadinanze come un anticristo nemico a tutte
le religioni e a tutti gli altari; inviso alla borghesia bottegaia
e pacifica, come un impedimento di più alla conclusione della pace,
che era in fondo l’anelito segreto e il desiderio più sincero del
popolo francese, Garibaldi si trovò in Francia fin da’ primi giorni
nella falsa posizione d’un intruso che arreca in casa d’altri un
aiuto non richiesto, ed è tanto più increscioso agli aiutati, quanto
più sono costretti a confessare che di quell’aiuto avrebbero bisogno.
L’esercito pel primo non avrebbe mai potuto tollerarlo. «Mai, esclamava
il Gambetta, mai io metterò un Generale francese sotto gli ordini di
Garibaldi.[379]» Ed era un proponimento ingrato, ma in quel momento e
per quel paese, politico. Nessun Generale si sarebbe mai rassegnato
ad aver per uguale, molto meno per capo, quel soldato di ventura.
I Capitani dell’Impero erano stati troppo solennemente battuti per
ammettere che altri venisse loro ad apprendere il modo di non esserlo
più. Vittoriosi, avrebbero forse tollerato di dividere con lui i resti
della loro gloria; vinti, non avrebbero patito di dovere a lui gli
onori della rivincita sperata. Checchè facesse Garibaldi, ponendo il
piede in Francia egli era già predestinato a questo fine: portare
la soma di tutti gli errori altrui; perdere il frutto di tutti i
meriti propri; non raccogliere altro premio del suo beneficio che
l’ingratitudine implacabile de’ beneficati.

Tuttavia il governo di Tours se non poteva desiderarlo, non poteva
neanche osar di respingerlo; e quando il Generale, indignato
dell’oltraggiosa offerta che gli era stata fatta, annunziò che
sarebbe ripartito dalla Francia col primo treno diretto, il Gambetta,
impensierito dell’interpretazione che si sarebbe data a quella
partenza, e soprattutto forzato dal programma di guerra a oltranza
da lui stesso bandito, che gli impediva di trascurare qualsiasi più
piccolo soccorso, finì coll’offrire al Generale «il comando di tutti i
Corpi franchi della zona dei Vosgi compresi da Strasburgo a Parigi, e
d’una brigata di Guardie mobili.»

E come ognun sente, il titolo era troppo risonante per non sospettarvi
sotto più vento che sostanza; tuttavia Garibaldi ormai disposto a
sacrificare tutto sè stesso al fine che lo conduceva, l’accettò subito,
e nell’indomani diede convegno a tutte le forze reali ed immaginarie
poste a’ suoi ordini, nei dintorni di Dôle, dove andò egli stesso il 15
ottobre a porre il suo Quartier generale.

La scelta di quel primo punto di concentramento, dato l’obbiettivo
prescritto al generale Garibaldi, e le posizioni del nemico, non poteva
essere migliore. La piccola città di Dôle, capoluogo del Giura, domina
dall’alto le due valli della Saona e del Doubs; allaccia intorno a sè
le quattro strade di Dijon, di Langres, di Besançon, e di Lione, ed
offre a qualunque esercito abbia l’ufficio di proteggere il Giura ed il
Lionese da un nemico sboccante dai Vosgi, un pernio d’operazione e di
difesa per ogni rispetto gagliardo ed opportuno.

E tale era infatti il problema dei belligeranti nel sud-est della
Francia. Il generale Werder vinta Strasburgo era sceso con tutto il suo
Corpo d’armata (XIV) nella regione meridionale dei Vosgi, e lasciata
una divisione all’assedio di Belfort, s’era disteso colla sua ala
destra nelle convalli della Saona e dell’Ognon, spingendo già le sue
scorrerie fino a Vesoul, Langres e Montbeillaird in faccia a Dijon,
Dôle e Besançon.

Ora contro queste truppe, sommanti a più che quarantamila uomini,
non istettero fino ai primi d’ottobre che il Corpo del generale
Cambriels, forte tutt’al più di ventimila soldati, tra Besançon e
Beaume-les-Dames, e alcuni battaglioni di milizie mobili sotto gli
ordini del dottore Lavalle, a guardia di Dijon. Tra questa città e
Besançon v’era dunque un largo spazio vuoto, già minacciato dalle
scorrerie nemiche, che importava e si pretendeva infatti coprire col
così detto _Esercito dei Vosgi_ del generale Garibaldi.

Il qual esercito però non cominciò che al 20 ottobre a parere almeno
l’embrione di quello che sarebbe stato in futuro. E non parliamo del
numero, che fino a tutto ottobre non superò mai i quattromila uomini
e per quasi l’intero novembre i settemila, ma tocchiamo qualcosa
soltanto della qualità. Un cibreo cosmopolita di Francesi, Spagnuoli,
Polacchi, Greci, Algerini, miscuglio a sua volta di guardie mobili, di
soldati stanziali, di volontari, di reclute forzate, e decorato de’
nomi più strani e diremmo quasi quarantotteschi: _Francs-tireurs du
Rhône, de Gand, de l’Isère ec.; Alsaciens de Paris, Explorateurs de
Gray, Compagnie de Colmar e d’Oran, Enfants perdus de Paris, Guerrillos
d’Orient, le Bataillon l’Egalité de Marseille_ ec.; i _Cacciatori
delle Alpi, di Marsala, di Genova_, ec.; camuffati nelle foggie più
strane, militari, brigantesche, eroiche, borghesi; armati di tutte
le armi, dalla _tabatière_ al _Chassepot_, dal _Remington_ alla
carabina svizzera, dall’antiquato fucile a percussione al nuovissimo
_Spencer Rifle_; comandati da ufficiali, la cui gerarchia morale andava
dall’avventuriere mestierante, lanciaspezzata di tutte le cause, al
candido paladino dell’idea, accorso a morire per la repubblica; dal
veterano incanutito nelle battaglie, al tribuno popolare improvvisato
generale; dal vigliacco degno di fucilazione,[380] all’eroe degno
d’apoteosi: ecco l’esercito dei Vosgi.

Che se a tutto ciò si aggiunga, fino quasi al finire della campagna, la
mancanza di cavalleria, la povertà d’artiglieria, la freddezza, se non
era qualche volta avversione, delle popolazioni e delle magistrature
locali; la lentezza, se pur non poteva dirsi ritrosia del Governo a
soddisfare ai più stringenti bisogni del nuovo esercito, e infine la
perpetua incertezza del comando, sicchè in quella zona dei Vosgi, o
del Giura, o della Costa d’Oro, non si seppe mai chi comandasse in
capo; se Garibaldi, o Cambriels; se Michel, o Cremer; se Crousat o
Bressolles; si avrà una pallida idea delle condizioni in cui Garibaldi
dovette fare quella guerra, e quanta virtù di pazienza, di costanza, di
coraggio, dovesse racchiudersi nel petto di quell’eroe per resistere
a tante contrarietà, ben più moleste del fucile ad ago prussiano, e
non piantare su due piedi un paese che gli lesinava persino i mezzi di
combattere e morire onoratamente per lui.


XVIII.

E se ne videro ben presto le prove. Le avanguardie del Werder
scorazzavano già nei dintorni di Gray, laonde Garibaldi, accortosi
della necessità di far argine all’invasione crescente, mentre con
abili manovre tra la Saone e l’Ognon tentava di arrestare la marcia
del nemico o di guastarne i disegni, insisteva col Cambriels, affinchè
cooperasse con lui, sia colle mosse combinate delle sue truppe, sia
coll’inviargli rinforzi, a contenere il nemico sempre più minaccioso.

Ma indarno. Ora il Cambriels dichiarava di non poter dare nè un uomo,
nè un cannone de’ suoi; ora invece sognando d’essere attaccato egli
stesso, interrompeva le operazioni meglio avviate di Garibaldi per
chiedere soccorso a lui;[381] ora infine per l’impotenza di Garibaldi,
ora per l’incapacità e il malvolere del Cambriels, la cosa andò tanto
a seconda ai Prussiani da quel lato, che alla fine dell’ottobre, avuta
pronta ragione dei pochi mobili che guardavano la città, entrarono, per
dedizione del municipio, in Dijon.

Il fatto era grave. Colla presa di Dijon non solo tutte le gole del
Morvan, dietro le quali la Francia possiede nei grandi opifici del
Creuzot una delle maggiori sue ricchezze, erano esposte all’invasione
nemica, ma persino le strade di Lione e di Nevers, quindi la linea
della Loira, dietro la quale il generale Bourbaky ordinava il suo
ultimo esercito salvatore, poteva essere minacciata. Di fronte pertanto
a questo pericolo, il governo di Tours pensò di incaricare il Generale
della difesa del Morvan, ordinandogli di trasportarsi con tutte le sue
forze ad Autun. E il Generale, che fino a quel giorno avea reso alla
difesa del Giura importantissimi servigi, arrestando coi felici scontri
di Genlis e Saint-Jean de Losne (5, 6, 7 novembre) i Prussiani al di
là della Saona, accettò, ringraziando, il nuovo mandato, e tra il 14
e il 15 novembre mosse per il nuovo teatro della guerra che gli era
destinato.

Ma quivi pure la parte affibbiatagli era superiore alle forze.
Col sopraggiungere della legione italiana e d’altri corpi franchi,
Garibaldi aveva potuto accrescere e riordinare il suo piccolo esercito
in quattro brigate; la prima comandata dal generale Bossack, veterano
delle guerre polacche, con circa quattromila uomini; la seconda agli
ordini del signor Delpeck, testè prefetto di Marsiglia, prode, ma nuovo
alle armi, di circa millecinquecento; la terza, capitanata da Menotti
Garibaldi, comprendente i Corpi franchi italiani, di circa cinquemila
seicento uomini; una quarta infine, posta sotto il comando di Ricciotti
Garibaldi, composta in gran parte di _francs-tireurs_, ma che a quei
giorni era tuttora in formazione a Dôle e superava di poco il migliaio
di combattenti.

E conviene sempre rammentarsi che se questa massa di circa
quattordicimila uomini cominciava a prendere qualche forma e qualche
aspetto militare, non aveva ancora al suo arrivo in Autun che quattro
pezzi d’artiglieria di montagna; contava tutt’al più un centocinquanta
cavalieri miseramente montati; penuriava de’ più necessari oggetti
di corredo, principalmente di cappotti e di scarpe, divenuti, pel
crudo inverno che s’innoltrava, assolutamente indispensabili. Il
nemico invece presidiava con circa ventimila uomini Digione, e nei
dintorni ne teneva altri diecimila tra Auxonne e Dôle, ed era già
potentemente fiancheggiato dalla 14ª divisione, del 7º corpo (Zastrow),
staccato dall’armata del principe Federico Carlo, le cui avanguardie
stormeggiavano tra Auxerre e Montbard e minacciavano insieme il fianco
sinistro di Garibaldi e le sue comunicazioni col sud. Erano insomma
cinquantamila uomini, muniti di potente e numerosa artiglieria e
forniti a dovizia d’ogni ben di Dio, contro quindicimila soldati
improvvisati, sprovvisti d’ogni cosa più necessaria.

È ben vero che il generale Garibaldi non era solo, e che quasi a
contatto della sua destra, tra Beaune e Chagny, stava scaglionato
tutto l’esercito dell’est, passato allora sotto gli ordini del generale
Crousat, per ripassare tra poco sotto gli ordini del generale Cremer;
ma chi rammenti dall’un canto la funesta dualità di comando che
paralizzava le migliori intenzioni dei due eserciti e l’antipatia che
i generali francesi avevano d’accordarsi col Condottiero italiano; chi
consideri dall’altro il modo veramente singolare con cui que’ generali
intendevano e facevano la guerra, senza concetto, senza iniziativa,
senza fede, vedrà che Garibaldi non poteva fare assegnamento per
operazioni importanti che sopra sè stesso; e leggendo attentamente la
storia di quel tratto di campagna, si convincerà che se egli non fosse
stato, nulla avrebbe impedito all’esercito di Werder di marciare un
mese prima sopra Lione, e di sorprendere dietro la Loira il generale
Bourbaky in piena formazione.

Tuttavia, come al solito, egli disse: «i’ mi sobbarco,» e si mise
all’opera. Fino a quei giorni i prussiani avevano potuto scorazzare
impunemente il paese e con pochi ulani spadroneggiarlo. Da che entrò
in campo Garibaldi la scena mutò, ed essi pure dovettero pensare un
po’ più seriamente ai casi loro. Oramai in quell’arte delle scoperte,
dei volteggiamenti, delle sorprese in cui si eran chiariti maestri,
avevano trovato un emulo, e un emulo degno di loro. D’ora in poi non un
bivio, non un villaggio, non un bosco, in cui i formidabili scorridori
tedeschi non incontrassero, pronte a riceverli, anzi desiderose
d’incontrarli, le pattuglie dei franchi tiratori garibaldini. Il giuoco
delle allegre scorribande nel Morvan e sulla Costa d’Oro era finito,
quando non erano i superbi vincitori di Sédan e di Strasburgo che ne
pagavano le spese.

Munita alla meglio Autun, scaglionatosi arditamente da Epinac a
Soubernon, Garibaldi non s’accontenta di star sopra una inerte difesa;
attacca, sorprende, molesta egli stesso il nemico, e col moto perpetuo
sulla fronte, sui fianchi, alle spalle, gli nasconde i suoi disegni.
Così il 20 lancia a fondo la brigata Ricciotti sulla colonna Zastrow,
e il figliuolo fa così bene la sua prima prova di comandante che
sorprende, a Châtillon-sur-Seine, una delle avanguardie nemiche, le
uccide dugento uomini, le porta via centosessanta prigionieri,[382] e
quattro carri di munizioni.

Ma di ciò non s’appagava. Da lungo tempo Garibaldi mulinava di tentare
un colpo di mano notturno su Dijon, e nella sera del 24, lasciata parte
delle forze a guardia d’Autun, mosse colla 1ª e 3ª brigata Bossack
e Menotti, all’ardua impresa. Se non che la brigata Bossack essendo
incappata negli avamposti prussiani di Velars, che avrebbe dovuto
cansare, la sorpresa, come accade di sovente, fu sventata e il disegno
mutato. Non per questo Garibaldi indietreggiò. Presa posizione sulle
alture e nei dintorni di Lantenay, Garibaldi aveva concertato col
capo di stato maggiore del generale Cremer di attirare nella Val di
Suzon l’inimico, per lasciar modo ai Francesi di accostarsi a Dijon da
sud-est, e se era possibile penetrarvi.

Ai Prussiani però importava troppo di non avere un siffatto nemico,
potrebbe dirsi, a ridosso; sicchè intanto che egli meditava di
attaccarli nelle loro posizioni di Plombières, aggirandoli per
nord-ovest, essi si movevano ad attaccar lui nelle sue posizioni
di Lantenay aggirandolo per la strada di Prenois-Pasques, d’onde
lo scontro e quel che fu detta la battaglia di Pasques. Garibaldi
però, vigile sempre, aveva scoperto fin dal mattino (26 novembre),
la marcia del nemico, sicchè non appena egli cominciò a spuntar colle
avanguardie su Pasques, potè salutarlo colle sue artiglierie. Allora
il combattimento s’accese, e Garibaldi in persona, montato pel primo
giorno a cavallo, lo dirigeva. E quantunque il numero de’ Prussiani
fosse da quel lato minore (la sola brigata Degenfeld), la superiorità
della loro artiglieria era tale che la bilancia delle forze traboccava
ancora in loro favore. Tuttavia l’ardore dei Garibaldini è in quel
mattino grandissimo; la legione italiana, condotta dal Tanara, si
lancia alla baionetta; alcune compagnie di _franchi tiratori_, guidati
da Canzio, secondano il Movimento; la brigata Delpeck spuntando
da Ancey minaccia la destra di Pasques, talchè i Prussiani, in
presentissimo pericolo d’essere tutti avvolti, si ripiegano disordinati
su Prenois. Colà però trincerati dietro le case, e protetti dalle
muraglie dei giardini, ripiglian la resistenza; ma di là pure
intrepidamente assaliti da ogni fianco cominciano a vacillare ed a
cedere terreno. Egli è allora che Stefano Canzio, il quale in tutta
quella campagna manifestò doti d’intelligentissimo capitano, veduto il
balenar de’ nemici si pone a capo di quel distaccamento di _cacciatori
a cavallo_ e di quelle poche guide garibaldine, che facevan tutta la
cavalleria dell’esercito, raccozza quanti altri ufficiali e soldati
a cavallo gli cadon pel momento sotto mano, e formato così un gruppo
di forse centocinquanta cavalieri, si lancia ventre a terra, Murat
improvvisato, contro il fianco sinistro dell’inimico sulla strada di
Prenois-Darois, e ne compie la rotta.


XIX.

«A Dijon, a Dijon,» gridaron tosto ebbri della vittoria i Garibaldini.
«Ebbene a Dijon,» rispose Garibaldi, e cedendo ancora una volta al
cattivo genio degli assalti notturni, date poche ore di riposo alle
truppe, posti i carabinieri genovesi del Razzetto in testa, dietro i
legionari italiani e i _francs-tireurs_ di Ricciotti, in ultimo i tre
battaglioni dei _mobiles_, in sul cader della sera per la strada di Val
Suzon si pose in marcia.

La notte era già calata e tutto fin presso a Talant era andato a
seconda. Il Generale in una carrozzetta ferma sulla strada, rassegnava,
a mano a mano che passavano, le sue milizie e gridava loro: «Avanti,
figliuoli: alla baionetta, non un colpo di fucile,» accompagnando il
passo marziale de’ suoi con un suo inno patriottico, che egli aveva
composto in quei giorni e che suonava così:

            Aux armes! aux armes! aux armes!
              L’étranger veut nous envahir,
              Aux armes! aux armes!
              Nous saurons le punir.
    Vous osez menacer la France,
      Souverains pleins d’arrogance;
      Oubliez-vous qu’en cent combats
      Vos phalanges fuyaient
      Au seul bruit de nos pas,
      Et vos trônes brisés
      Tombaient avec fracas?
            Aux armes! etc.
    Pour asservir notre patrie
      S’est formée une ligue impie;
      Les rois nous préparent des fers.
      Vainqueurs de l’Univers,
      A nous des fers? A nous des fers?
            Aux armes! etc.

Ma all’entusiasmo latino stava per rispondere ben presto la solidità
tedesca. Sorpresi a Hauteville dai carabinieri del Razzetto, gli
avamposti di Degenfeld danno in volta disordinata, e dietro loro i
franchi tiratori di Ravelli e di Ricciotti si avanzano arditamente
fin sotto Talant; ma il nemico s’è già riavuto dalla prima sorpresa;
il 1º battaglione del 2º reggimento badese, fiancheggiato da batterie
a mitraglia, si spiega sulla strada accogliendo con rapide scariche
su quattro righe gli assalitori: i mobili, nuovissimi al fuoco,
nuovissimi a quelle imprese notturne, infilati dalla moschetteria e
dalla mitraglia, rompono, si scompigliano, rigurgitano in grandissimo
tumulto, trascinando nel loro vortice i più audaci e volonterosi.
Invano Garibaldi dalla sua carrozza, esposto egli pure alla grandine
dei colpi nemici, urla, prega, bestemmia, vuol farsi portare innanzi
a forza di braccia: non c’è genio o virtù di Capitano che imponga ad
un esercito vinto da un timor pánico; e quando il pánico lo prende di
notte, nessuna potenza umana che lo salvi.

Ma che cosa faceva, intanto che i Garibaldini attaccavano due volte
in un giorno il nemico, che cosa faceva il generale Cremer co’ suoi
dodicimila uomini scaglionati da Beaune a Chagny, a quattro ore di
marcia da Dijon? «Dobbiamo supporre, esclama il generale Bordone,
ch’essi siano stati battuti e schiacciati, poichè conoscendo il forte
conflitto, che durava dal mezzogiorno in poi, non diedero segno di
vita.[383]»

A Garibaldi frattanto fu giuocoforza battere in ritirata. Rioccupate
nella notte le sue posizioni di Lantenay-Commarin, al mattino vegnente,
27, mentre il generale Werder con due colonne convergenti si preparava
a circuirlo e tagliargli la via, riusciva a sgusciargli dalle mani col
grosso delle sue forze, e fatta fronte due giorni ad Arnay-le-Duc, il
30 novembre rientrava, senza lasciarsi dietro nè feriti nè prigionieri,
in Autun.[384]

Colà però il nemico non tardò a rendergli la visita di Dijon.
Solo Garibaldi la presentiva; e datone avviso al Cremer, che
prometteva ancora il suo aiuto, faceva munire d’artiglierie le due
strade di Saint-Martin e Saint-Symphorien, d’onde il nemico doveva
infallibilmente sbucare.

Se non che la guardia di Saint-Martin era stata affidata a certo
Chenet, comandante la _Guerrilla d’Orient_, che nella notte dal 30
novembre al 1º dicembre, senza ordine, senza perchè, come si lascia una
villeggiatura, scomparve, abbandonando nelle mani dei Tedeschi quella
posizione importantissima. Era una vigliaccheria inaudita, una patente
diserzione in faccia al nemico; il Chenet fu da un regolare Consiglio
di Guerra condannato alla degradazione ed alla morte (graziato poi
della vita per troppa generosità di Garibaldi); ma frattanto il
danno era avvenuto e il nemico, forte di tutta la brigata Kettler,
di un reggimento dragoni e di tre batterie, era già, prima che fosse
avvertito, ai sobborghi della città. Nulla di meno, trovò resistenza
degna di lui. Intanto che i _francs-tireurs_ di Ricciotti e i volontari
della Legione italiana, fiancheggiati da due battaglioni di _mobiles_,
ributtavano il nemico dai sobborghi e ricuperavano Saint-Martin,
le batterie garibaldine, collocate da Garibaldi, controbattevano
felicemente le prussiane, Menotti arrestava sulla destra la colonna
di Saint-Symphorien e frustrava il movimento girante d’un’altra
dalla foresta di Vesvres; talchè in meno di due ore, l’assalitore
era forzato a dar volta su tutti i punti. Ed a compiere la vittoria
che i Garibaldini per mancanza di cavalleria non poterono proseguire,
il generale Cremer riusciva a cogliere le retroguardie dei fuggenti
presso Châteauneuf, rimeritato per ciò da elogi eccessivi di Garibaldi,
il quale l’aveva fatto avvertire della rotta dei Prussiani e l’aveva
posto in grado, usando un po’ d’energia e di solerzia, di circuirli e
annientarli.[385]


XX.

Le marcie e i combattimenti di quell’ultima settimana di novembre
avevano gravemente danneggiato la debole compagine dell’esercito dei
Vosgi, e Garibaldi fu costretto ad occupar gran parte del dicembre ad
accrescerlo, riordinarlo e soprattutto fornirlo di quanto fino allora
l’avara mano del governo di Tours gli aveva fatto desiderare.

Infatti l’esercito s’era ingrossato fino a sedicimila uomini; una
seconda batteria di campagna le era stata aggiunta; una certa unità
d’armamento e d’assise cominciava ad ottenersi; soltanto difettava
sempre di cavalli e gl’intrighi del Frapolli a Lione che arrestava i
Volontari accorrenti a Garibaldi, i pettegolezzi del Quartier generale
e le animosità dei generali francesi duravano ancora.

Ad aggravar le disgrazie nella seconda metà di quel mese, Garibaldi fu
ripreso da uno de’ suoi consueti accessi di artritide, che lo inchiodò
per parecchi giorni in letto, obbligandolo ancora, come nel Trentino, a
far la guerra dalla sua camera, per divinazione.

E tuttavia la sua alacrità non rallentò un istante. Il gran disegno,
che, secondo il signor Gambetta e il suo ispiratore signor De Serre,
doveva salvare la Francia, la punta cioè di Bourbaky su Belfort con
l’intendimento di liberare quella fortezza, riafferrare l’Alsazia e
troncare gli eserciti germanici dalla loro base, sembrava maturo, e non
restava più che concertare gli ultimi particolari della sua esecuzione.
In vero Garibaldi non approvava quel disegno. A parer suo era un errore
da cima a fondo: «errore perchè di quanta gente staccavasi dalla Loira,
di altrettanta il nemico ringagliardiva le linee che stringevano la
capitale; errore perchè lasciava isolato Chanzy contro il Principe
Federico, che Bourbaky avrebbe dovuto assalire, e contro il Duca di
Mecklemburgo; errore perchè prima che Bourbaky, con la solita lentezza
francese, si fosse avvicinato a Belfort, Werder avrebbe spedito
rinforzi: errore soprattutto, secondo lui, perchè muovendo sul suolo
ghiacciato, sotto l’incessante fioccare della neve, una giovine truppa,
nuova ai disagi, sarebbe stata affranta dalle fatiche e dagli stenti,
prima di cominciare i combattimenti. Io (esclama la signora Jessie
Mario, angelo confortatore dei feriti e degli ammalati, in quella
campagna) l’udii favellare in questo senso con accento di profonda
afflizione e non c’è sillaba che i fatti non abbiano con precisione
confermato.[386]»

Tuttavia quando la impresa fu decisa, egli fu pronto a cooperarvi
con tutte le sue forze. La parte assegnatagli era di coprir il fianco
sinistro del Bourbaky dalla Saona fino ai Vosgi, al quale scopo gli era
stato promesso, non sapremmo se per la terza o quarta volta, di porre
sotto i suoi comandi la divisione Cremer; ma quantunque questa promessa
non fosse mai mantenuta, il Generale accettò il carico impostogli,
e prima ancora che il Bourbaky fosse giunto a Châlons-sur-Saone,
era già all’opera. Intento soprattutto a disturbare la congiunzione
del corpo di Zastrow con quello di Werder, lanciava in mezzo a loro
le due brigate di Ricciotti e di Lobbia (succeduto al Delpeck nel
comando della 2ª) coll’ordine di distruggere ponti, eseguir sorprese,
arrestar convogli; e i due valenti sanno destreggiarsi così bene che
il Ricciotti batte più volte il nemico nei dintorni di Montbard; il
Lobbia, dopo aver campeggiato vittoriosamente per oltre una settimana
nell’altipiano di Langres, riesce a penetrare in questa fortezza ed a
destarvi l’assonnata energia de’ suoi difensori.

Ma la marcia di Bourbaky era stata troppo strombettata a quei giorni
dagli stessi suoi ordinatori, perchè potesse più essere un segreto per
chicchessia; laonde il Werder, avvertito l’avvicinare del nuovo nemico,
fra il 28 e il 29 dicembre abbandonava Dijon, per ristringersi a Vesoul
e porsi in grado di proteggere gli assedianti di Belfort dall’assalto
che li minacciava. E allora fu ordinato a Garibaldi di occupare e
difendere _inébranlablement_ Dijon, e quantunque egli preferisse
appostarsi col grosso a Dôle, dove fin da principio aveva intravveduto
il pernio delle operazioni nel sud-est, e che inconsultamente
abbandonata dal Cremer sarà fra poco la porta per la quale Manteuffel
sbucherà sul dosso di Bourbaky, tuttavia obbedì ancora, e tra il 5 e il
6 fu con tutte le sue genti nella capitale della Costa d’Oro. E quivi,
afforzata di opere temporanee la città, occupate le forti posizioni
che da Plombières passando per Talant, chiave loro, si spiegano a
ventaglio fino a Saint-Apollinaire, spingeva scoperte in tutti i sensi,
sorprendeva talvolta gli avamposti nemici, ma non era certo da temersi
fosse sorpreso egli stesso.

Se non che il Quartier generale prussiano prendeva una risoluzione,
che mutava interamente anche nel sud-est lo stato delle cose. Un nuovo
esercito era formato sotto gli ordini del generale Manteuffel, il quale
aveva appunto per iscopo di gettarsi sull’esercito di Bourbaky e, a
seconda dei casi, o attraversargli la strada di Belfort, o metterlo tra
due fuochi e schiacciarlo. E già verso la metà di gennaio il generale
Manteuffel aveva cominciato l’esecuzione del suo disegno; marciando
rapido da Châtillon-sur-Seine sopra Vesoul, e facendosi coprire
dagli attacchi eventuali di Garibaldi colle due colonne Dannenberg e
Kettler, la prima delle quali stormeggiava già tra Bagneux-les-Juifs e
Darcey,[387] l’altra camminava dietro a lui tra Nuits e Montbard.


XXI.

Avvennero per tal modo le tre giornate di Dijon. La mattina del 21
la brigata Kettler compariva sulle alture di Hauteville in faccia a
Talant e apriva contro queste posizioni e contro quelle di Fontaine
un fuoco micidiale. Nel medesimo tempo numerosi battaglioni si
spingevano nella pianura che si stende tra Hauteville, Daix, Talant
e Fontaine, intanto che un’altra colonna nemica accennava una
diversione dal lato di Plombières sull’estrema sinistra francese. Ma
sei pezzi, posti in posizione e diretti da Garibaldi in persona sui
poggi di Talant, arrestavano tosto con tiri ammirabili l’avanzar del
nemico, smontando parecchi dei suoi cannoni; talchè dopo un breve e
felice duello d’artiglieria, Garibaldi potè lanciar all’attacco le
sue colonne. E allora da Plombières, da Hauteville, da Talant, da
Fontaine, Canzio, Tanara, Menotti, Ravelli (primi sempre gl’Italiani
e i _francs-tireurs_, oscillanti come al solito i _mobiles_),
irrompono con grandissimo impeto; gli approcci di Talant, dove stava
Menotti, sono più fieramente disputati; ma alla fine ripetute le
cariche, apparsi sull’estrema destra del nemico tra Darois e Messigny
gl’infaticabili volteggiatori di Ricciotti, il nemico fu ricacciato
fino a’ suoi accampamenti al di là di Messigny. Fu bella e meritata
vittoria, e Garibaldi superbo, non per sè ma pe’ suoi bravi compagni,
ne telegrafava l’annunzio a sua figlia Teresita in questo tenore;

«Attaccati vigorosamente dal nemico, l’abbiamo costretto a ritirarsi
dopo dieci ore di combattimento: l’esercito de’ Vosgi ancora una volta
ha ben meritato dalla Repubblica.»

Grande però la strage in ambi i campi, lamentata fra tutte l’ecatombe
degli Italiani: e Imbriani e Perla e Cavallotti e Pastoris e Bassi e
Gnecco e Settignani e Leonardi e Valdata e Cerruti e Ricci e Canova e
Cecchini e altri ed altri ancora, primo fra tutti per la nobile vita, e
per la fine miseranda, lo stesso generale Bossack, trovato cadavere due
giorni dopo sull’orlo d’un bosco verso Darois; forse abbandonato da’
suoi, probabilmente morto solo.

Non si rassegnò a questo scacco il nemico, e all’indomani si preparò a
rinnovare l’assalto. Ma Garibaldi era, s’intende, pronto a riceverlo;
non così per altro tutti i Digionesi. Narra il Bordone che nella notte
stessa dal 21 al 22 un notaio di Messigny accompagnato dal _Maire_ di
Dijon e da un generale Pellissier, cui il governo di Bordeaux aveva
confidato il comando delle _Guardie mobili_ concentrate in Dijon, fa
svegliare Garibaldi per annunziargli, tutto ansante, aver il generale
Kettler ricevuto nella notte grandi rinforzi, essere deliberato a
riattaccare al dì seguente la città ed a bombardarla se resisteva;
scongiurarlo quindi a salvar Dijon dal certissimo eccidio.

Il Generale prese allora dalle mani del notaio il foglio sul quale
era scritto il salvacondotto prussiano, guardò gli astanti con una di
quelle occhiate che soltanto coloro che gli erano famigliari potevano
comprendere, e disse: «Va bene, Signore: è questo tutto quanto avete a
dirmi?»

«Sì, Generale,» fece il notaio.... «Ebbene, replicò Garibaldi, potete
tornarvene, per non mancare alla vostra parola; ma dite a quello che
vi ha dato questo salvacondotto, che l’aspetto e che se egli non viene
andrò io a cercarlo: generale Bordone, fate accompagnare questo signore
agli avamposti e buona notte agli altri.[388]»

I Prussiani tornarono infatti, men numerosi però che il giorno
precedente e forse più per riconoscere e tener occupato il loro nemico
che per ritentare l’assalto; ma anche quel giorno i _mobiles_ cui
toccava l’onore della prima linea, capitanati dal colonnello Lhost,
che vi lasciò da prode la vita, ributtarono gli assalitori, e Garibaldi
potè ancora annunciare al governo di Bordeaux: «Oggi combattimento meno
serio di quelli di ieri, ma più decisivo, che obbligò il nemico alla
ritirata inseguito questa sera dai nostri franco-tiratori.»

Ma l’attacco finale e decisivo il generale Kettler l’aveva serbato
per il 23. Ristorato di truppe fresche e d’artiglierie, mosse per la
strada di Langres prendendo per obbiettivo il castello di Pouilly,
mascherando il suo movimento con una finta aggirante sulla strada
Saint-Apollinaire. Ma quel giorno a riceverli c’erano le genti di
Ricciotti e del Canzio, che raccolta a Lione un’altra schiera di
Volontari italiani e staccati qua e là i frammenti d’altri corpi,
era riuscito a formare una 5ª brigata, di cui era stato posto a
capo. Il castello di Pouilly, meta della battaglia, fu perduto dai
Franco-Italiani, riguadagnato e riperduto tre volte; ma alla fine
l’entrata in azione di Menotti Garibaldi sulla strada di Langres, il
valor disperato di Ricciotti e di Canzio, una carica di cavalleria
sostenuta con sufficiente valore dai _mobiles_ del Jura, ridiedero il
contrastato castello in mano ai loro primi possessori. Allora le veci
sono mutate, gli assalitori divengono assaliti; e il 1º battaglione
del 61º di Pomerania, incaricato di sostenere la ritirata, mirabile di
costanza e di solidità, ravvolto da un turbine di fuoco, perde circa
la metà de’ suoi, ma non cede il terreno che a notte alta, quando
la battaglia era perduta. Ed avvenne così che i franchi-tiratori di
Ricciotti entrando nella fattoria dove il 61º aveva fatto le ultime
prove, sotto un mucchio di cadaveri e di rovine, accanto al suo alfiere
morto, trovarono coll’asta spezzata quella bandiera prussiana, che fu
l’unico trofeo di quella campagna, entrato a tener compagnia a quelli
di Jena e di Auerstaedt nel _Duomo degli Invalidi_.

E Garibaldi che tutto il giorno era stato dove più infuriava la
mischia e che poco mancò non restasse crivellato da una scarica quasi a
bruciapelo, fattagli da una mano di nemici imboscati, Garibaldi salutò
la chiusa di quelle tre eroiche giornate con questo manifesto scritto
in francese e di cui crederemmo scemare il valore storico, voltandolo
in altra lingua.

      «Aux braves de l’armée des Vosges,

  »Eh bien! vous les avez revus les talons des terribles soldats de
  Guillaume, jeunes fils de la liberté! Dans deux jours de combats
  acharnés, vous avez écrit une page bien glorieuse pour les annales
  de la République, et les opprimés de la grande famille humaine
  salueront en vous encore une fois les nobles champions du droit et
  de la justice.

  »Vous avez vaincu les troupes les plus aguerries du monde, et
  cependant vous n’avez pas exactement rempli les règles qui donnent
  l’avantage dans la bataille.

  »Les nouvelles armes de précision exigent une tactique plus
  rigoureuse dans les lignes de tirailleurs; vous vous massez trop,
  vous ne profitez pas assez des accidents de terrain, et vous ne
  conservez pas le sang-froid indispensable en présence de l’ennemi,
  de sorte que vous faites toujours peu de prisonniers; vous
  avez beaucoup de blessés, et l’ennemi, plus astucieux que vous,
  maintient, malgré votre bravoure, une supériorité qu’il ne devrait
  pas avoir.

  »La conduite des officiers envers les soldats laisse beaucoup à
  désirer; à quelques exceptions près, les officiers ne s’occupent
  pas assez de l’instruction des miliciens, de leur propreté, de la
  bonne tenue de leurs armes, et enfin de leurs procédés envers les
  habitants qui sont bons pour nous et que nous devons considérer
  comme des frères.

  »Enfin, soyez diligents et affectueux entre vous, comme vous
  êtes braves; acquérez l’amour des populations dont vous êtes les
  défenseurs et les soutiens, et bientôt nous secouerons jusqu’à
  l’anéantir le trône sanglant et vermoulu du despotisme, et nous
  fonderons sur le sol hospitalier de notre belle France le pacte
  sacré de la fraternité des nations.

                                             »Signé: G. GARIBALDI.»

Intanto che Garibaldi, fedele al mandato ricevuto, difendeva a quel
modo Dijon, il Bourbaky, sbaragliato dal Werder alla Lisaine (18
gennaio), era ributtato su Besançon; dove incalzato da nord-est dallo
stesso generale che l’aveva vinto, serrato da sud-ovest dal 7º corpo
di Manteuffel, già penetrato per Dôle (come Garibaldi aveva preveduto)
fino a Mouchard e Salins, non vedeva dietro a sè altro scampo che la
via di Pontarlier e una ritirata precipitosa per i passi del Giura. Se
non che, chiusi in men di ventiquattr’ore dalla rete degli eserciti
vincitori anche quegli ultimi valichi, il misero Bourbaky disperò; e
dopo aver tentato invano di bruciarsi le cervella, rassegnò il comando
dell’ormai disfatto suo esercito al generale Clinchant, affinchè dove e
come potesse lo riducesse in salvo.

Garibaldi però non se ne stava inerte, e appena conosciuto il primo
rovescio del Bourbaky, del quale era rimasto fino al 27 senza notizie,
lanciava, senza abbandonare Dijon sempre minacciato, tutte le forze
di cui poteva disporre sui fianchi del Manteuffel, facendo occupare
Saint-Jean de Losme da Menotti e Mont Roland presso Dôle da Baghino,
e portando egli stesso il suo Quartier generale a Mondaine. Nè colà
s’arrestava; all’appello di Clinchant, ormai chiuso in Pontarlier, si
gettava con mosse arditissime colla 4ª e 5ª brigata sulle spalle dei
Prussiani verso Bourg e Lons-le-Saulinier, deciso comunque ad aprire
un varco all’esercito amico; ma il 29 mattina giungeva a lui pure la
notizia dell’armistizio di ventun giorni conchiuso a Versailles, e
l’ordine di fermarsi sui posti occupati.

Non era quello il voto di Garibaldi e de’ suoi seguaci, tuttavia
si riconfortò nel pensiero che la tregua gli avrebbe dato modo di
riordinare e agguerrire il suo esercito, ponendolo in grado di compiere
più segnalate imprese a servizio della Repubblica. Quale non fu invece
la sua meraviglia nel sentire che tutti gli eserciti militanti nel
Giura, nel Doubs e nella Costa d’Oro erano esclusi dalla tregua e che
tanto a lui quanto al Clinchant era imposto di correre ancora la sorte
dell’armi, e far fronte al nemico!

Nè il combattere l’avrebbe sgomentato; ma dietro quell’annunzio ne
seguiva quasi subito un altro, che l’esercito dell’Est oramai serrato
nelle tanaglie di ferro del Werder e del Manteuffel, già a mezzo
disfatto dagli stenti e dalle diserzioni, s’era buttato per perduto
oltre la frontiera svizzera, abbandonando così lui solo alle prese
co’ formidabili nemici da cui fuggiva. Vide tosto il pericolo l’Eroe
italiano; se indugiava un giorno solo, la tagliuola in cui era caduto
il Bourbaky avrebbe stritolato lui pure, condannandolo inesorabilmente
ad essere come la più parte de’ generali francesi «ingabbiato sui
vagoni del bestiame» e tradotto prigioniero in una fortezza tedesca.

Non perdette però un istante; corse a Dijon, e mentre Menotti sulla
strada di Saint-Apollinaire, Baghino a Mont Roland continuavano ancora
a respingere le scorrerie de’ nemici, che tentavano avvilupparli,
Garibaldi prepara dietro di loro la ritirata di tutto l’esercito,
che in ordine perfetto, senza perder nè un uomo, nè un carro, nè un
cannone, si compie per la strada comune di Autun e la ferrata di
Beaune-Chagny, e restituisce così intatto alla Francia l’esercito
ch’essa gli aveva confidato.

Ed oramai il destino aveva detto la sua ultima parola. Il Governo
aveva convocato in Bordeaux un’assemblea di rappresentanti, che aveva
principalmente per mandato di deliberare sui preliminari conchiusi
a Versailles; e Garibaldi, eletto, per Algeri, rimise il comando
dell’esercito nelle mani del figlio Menotti e si recò all’Assemblea.
Quivi pure due partiti tenevano il campo: i rivoluzionari di tutte le
tinte, per la guerra a oltranza: i conservatori in massa, mescuglio
di bonapartisti, legittimisti, borghesi, _rurali_, per la pace ad
ogni costo. I primi accolsero Garibaldi con ovazioni frenetiche, i
secondi con oltraggi bestiali. Calmo in mezzo al tumulto babelico,
l’Eroe chiese di parlare e non gli fu concesso. Allora uscì dalla
Camera, rassegnò l’ufficio di deputato, salutò con un altro proclama
i suoi fedeli dell’esercito de’ Vosgi, e triste, scorato, schivando le
pubbliche manifestazioni, fuggendo persino le visite degli amici, nulla
avendo accettato per sè, nulla avendo chiesto per i suoi, se ne tornò
nel romitaggio della sua Caprera.


XXII.

Fu quella l’ultima stagione campale dell’Eroe e non poteva chiudere
con azione più cavalleresca la sua cavalleresca epopea. Mille pensieri
potevano trattenerlo; ma nella Francia caduta egli non vide che un
grande e miserando infortunio, ed accorse a sollevarlo. Ciò basta
alla sua gloria. Non ridiremo per altro quello che pure è ritornello
obbligato di tutti i discorsi, ch’egli sia andato a quell’impresa
soffocando i ricordi di Roma, di Nizza e di Mentana, perchè ciò non è.
Noi vogliamo il nostro Eroe grande, ma lo vogliamo soprattutto vero.
Garibaldi distingueva due Francie: quella di Napoleone, e quella del
Popolo francese; la prima aveva rubato all’Italia Nizza e Roma, e
non le avrebbe perdonato mai; la seconda non era stata che la vittima
inconscia e lo strumento involontario del predatore, e per essa gli era
parso il più semplice dei doveri offrire il sangue e la vita.

Epperò non è vero ch’egli siasi offerto alla Francia soltanto quando
vi fu proclamata la Repubblica; ma è verissimo che se vi fosse durato
l’Impero, egli non vi sarebbe andato mai. Della sua andata in Francia
non avrebbe fatto mai una questione astratta di Monarchia e Repubblica
(non la fece nemmeno in Italia), e qualunque fosse il governo prescelto
dal popolo francese, egli non avrebbe consultato che i diritti della
sventura e i doveri della fratellanza, e sarebbe accorso; ma ne
avrebbe fatto sempre una questione di Bonapartismo. Convien prendere
l’uomo qual era. Il suo amore alla Francia aveva per confine l’odio al
Bonaparte: finchè essa tollerava quell’uomo, e volontaria o no se ne
faceva complice e satellite, non meritava più che un braccio si levasse
per lei, e conveniva che il suo destino si adempisse.

Libera invece del Bonaparte, ecco che la Francia si trasfigura: i
suoi vizi scompaiono; le sue virtù ingigantiscono; essa torna la
grande, la forte, la invincibile, la madre della libertà, la nutrice
dell’incivilimento, caduta un istante, per colpa non sua, sotto il
ferro d’un despotismo parente a quello onde s’è appena liberata, ma
che è dovere di quanti uomini liberi sono nati da quel seno, ed hanno
succhiato quel latte, di rialzare e redimere.

Magnanimo illuso! Nemmeno l’accoglienza fatta a lui medesimo valse ad
aprirgli gli occhi. Stimarono grande mercè concedere a quel Capitano
di ventura una condotta; gli avareggiarono prima gli uomini, poi le
armi, poi le vesti; sdegnarono ch’egli comandasse ad una sola compagnia
dell’esercito regolare; avrebbero reputato sacrilego che un solo de’
loro più ignoti generali ubbidisse a’ suoi ordini; lo tormentarono
infine per quattro mesi di angherie, di sospetti, di calunnie, ed
egli impavido e rassegnato a tutto, ingollò fino al fondo l’aceto e il
fiele di che lo abbeverarono; e quando suo figlio e suo genero, stanchi
ormai delle incessanti vessazioni, gli fanno dire che se durano ancora
avrebbero dato le loro dimissioni: «Ebbene, dice, vadano pure: faremo
la guerra anche senza di loro.»

E quella guerra, la fece come nessuno dei generali che si sarebber
creduti umiliati di ubbidirlo, seppe farla. Fra lui e i suoi
Luogotenenti, sempre però ispirati da lui, sostenne nel corto spazio
di quattro mesi oltre venti combattimenti, de’ quali le giornate di
Pasques e di Dijon vere battaglie, ed eccettuato il fallito colpo
notturno di Dijon non fu battuto mai. Soccorse i generali francesi suoi
vicini, e non ne fu soccorso: vide fin dal primo giorno l’importanza di
Dôle, e non fu per colpa sua se gli eserciti nemici la ripresero senza
colpo ferire.

Fu detto che egli ignorò la mossa del generale Manteuffel e che questi
lo tenne a bada con una sola brigata; ma basti rileggere con un istante
di spassionatezza la storia di quella campagna per vedere quanto, in
quella asserzione, vi sia d’ingiusto e di falso.

«Il passaggio dell’armata di Manteuffel al nord (dice Garibaldi
stesso)[389] per aiutare quella di Werder era noto a me come alle
mie quattro brigate: la seconda comandata dal colonnello Lobbia, e
la quarta da Ricciotti manovravano insieme a tutti i nostri corpi di
_francs-tireurs_, ed erano distaccate per contrariare la congiunzione
degli eserciti nemici.»

Che poi il Manteuffel abbia baloccato Garibaldi con una sola brigata
è ancora più falso. Anzitutto, e qui preghiamo i militari a guardare
la Carta e a leggere le storie ufficiali, fino al 17 o 18 di gennaio
Manteuffel fu incerto se prendere la strada di Dijon o quella di
Vesoul, sicchè fino a quel giorno le sue avanguardie avviluppavano
può dirsi Dijon alla distanza di una giornata di marcia, e certo in
quel momento non si vorrà pretendere che Garibaldi solo andasse a dar
di cozzo nell’intera armata del Generale prussiano. In secondo luogo
è affatto inesatto che quando il Manteuffel decise di continuare per
Vesoul egli si lasciasse addietro per ischermo soltanto la brigata
Kettler; fino dal 21 sera c’era la divisione Zastrow che manovrava
sempre nei dintorni di Montbard, e Garibaldi, che aveva nemici di
fianco, di fronte, da tutti i lati, sopra un’area di oltre cinquanta
chilometri, non poteva certo supporre, come non era, che quelle truppe
appartenessero ad una sola brigata.

Finalmente è vero che la brigata Kettler fu la sola ad attaccare Dijon,
dimostrando in quelle tre giornate un valore ed un ardimento veramente
mirabili; ma ciò non conduce a concludere che le sue forze fossero così
sproporzionate a quelle del nemico che assaliva; o che anche, data la
sproporzione, questi potesse far di più che respingere l’attacco. Non
era sì grande la sproporzione: poichè la brigata Kettler, rinforzata
da un reggimento di cavalleria, contava pur sempre i suoi diecimila
combattenti; mentre Garibaldi non poteva opporgli che il vecchio
esercito dei Vosgi scemato allora della brigata Lobbia, chiusa in
Langres, cioè circa sedicimila uomini, una metà dei quali _mobiles,
moblots_ e _mobilisés_, gente che si batteva intermittentemente, o non
si batteva affatto.[390]

Ma ammessa pure dalla parte garibaldina una tal quale superiorità
numerica (troppo pareggiata dalla inferiorità morale), chiediamo
a tutti gli uomini che in siffatte questioni vedono lume, che cosa
poteva far Garibaldi assalito così gagliardamente per tre giorni, se
non ributtare gli assalti, e conservare quella città che il governo di
Bordeaux gli replicava ogni giorno di difendere _inébranlablement_?
Forse si pretenderebbe che co’ suoi diciottomila uomini egli dovesse
al tempo stesso batter Kettler e assalir Manteuffel, forte di ben
sessantamila, il quale, sia detto per soprappiù, il 21 mattina non
aveva più nemmeno l’inquietudine di Bourbaky già disfatto il 18 alla
Lisaine?

Poteva, è vero, tentarlo dopo, quando respinto il Kettler e rinforzato
di nuove milizie e nuove artiglierie, la condizione disperata del
Bourbaky richiedeva uno sforzo disperato, e sappiamo che lo tentò. Lo
tentò; ma la nostra molta fede nel genio di Garibaldi non va sino al
punto di credere che il suo temerario tentativo[391] sarebbe approdato.
Lo sfacelo dell’esercito di Bourbaky era cominciato molto prima della
sconfinata di Pontarlier; e non c’era più forza umana che lo potesse
arrestare. Garibaldi avrebbe sacrificato inutilmente il suo esercito,
il suo nome, forse la sua vita, ma non avrebbe potuto mutare i decreti
della sorte.

Tutto quanto un uomo, un soldato, un cittadino poteva fare per la più
cara, la più diletta delle patrie, Garibaldi lo fece per la Francia;
e ciò spiega sempre più perchè gli imbastigliati di Gravelotte e di
Sédan, i capitolati di Metz e di Parigi non gli abbiano perdonato mai
l’oltraggio di quel beneficio. Soltanto dopo la sua morte una parte
della Francia parve voler cancellare l’ingratitudine dell’altra parte,
decretando espressioni di pubblico cordoglio; e noi ne siamo lieti, non
già per Garibaldi, che oramai «s’è beato e ciò non ode,» ma per l’onore
della Francia stessa.

   [Illustrazione: SCHIZZO TOPOGRAFICO della CAMPAGNA DI FRANCIA
   — 1870]




CAPITOLO DECIMOTERZO.

ULTIMI ANNI. [1871-1882.]


I.

Triste il narrare questi ultimi anni: triste, come lo spettacolo
d’una grandezza che decade e sopravvive a sè stessa. Garibaldi non
è oramai che il fantasma d’un gigante, costretto a strascinare sulla
terra il peso della sua passata grandezza e ad assistere lentamente,
faticosamente alla propria consunzione. Il leone manda ancora dal suo
antro solitario qualche ruggito d’amore e di collera; ma l’ugna, l’ugna
che lo rese terribile e glorioso nelle pugne del suo tempo, affievolita
dagli anni e dall’infermità, pende inerte dal suo tronco invecchiato, e
lo danna ad un ozio che è il più tormentoso de’ suoi mali e, forse, il
più funesto dei suoi nemici.

Perocchè la fortuna che fu larga al nostro Eroe di tanti favori, gli
rifiutò tuttavia il più grande: quello di giacere sull’ultima orma
delle sue vittorie e di morire a tempo. Parole crudeli a quanti lo
conobbero e lo amaron vivo, ma di cui i futuri sapranno estimare l’alta
pietà.

È giusto, infatti, è doveroso che a noi suoi contemporanei, commossi
tuttora dalla sua partita recente, ogni minuto di quella vita, ogni
soffio di quel respiro guadagnato alla morte, sembri una ineffabile
conquista; ma alla storia, che guarda l’uomo nell’immortalità, e
misura il proprio amore e la propria ammirazione non dal numero ma
dall’utilità degli anni vissuti, quest’appendice di giorni vuoti e
prosaici, appiccicati ad una vita così poetica e così piena, questo
lungo, freddo, decennale tramonto, imposto a forza ad un sì rapido
mattino e ad un sì caldo meriggio, sembreranno una superfetazione
capricciosa, uno strascico superfluo, un castigo crudele del destino,
inflitto ad uno de’ più nobili suoi figliuoli, ed ella, per la prima,
si studierà di affrettarne il fine condensandone in poche pagine la
sintesi dolorosa.

E ciò tanto più che a nessun uomo dovette increscere la troppo lunga
vita, quanto a Garibaldi; e non già per filosofico tedio, o per
intolleranza dei malanni comuni della vecchiaia; ma per fastidio
di quella che è certamente l’infermità più tormentosa dell’eroismo:
l’inerzia.

Perocchè sotto la scorza logora dagli anni e dagli acciacchi del
Garibaldi sessagenario, reduce da Dijon, c’era sempre il Garibaldi
giovane e virile di Montevideo e di Marsala; c’era cioè quel contrasto
tra la fiamma del cuore e la rigidezza delle membra, i voli della
mente e il peso del corpo, gl’ideali dello spirito e le realtà della
vita, che sono l’eterno tormento di tutte le grandi anime; e all’anima
novissima di quel novissimo Eroe, martirio incomportabile.

E ciò per una ragione che è la chiave di tutte le altre: Garibaldi non
credeva fornita la sua giornata.

Da giovane era partito troppo da lontano, verso una cima troppo
eccelsa, perchè ora anche la lunga via percorsa gli paresse termine
ultimo al suo viaggio. Vedeva, in gran parte per opera sua, la patria
una; ma era dessa forte, gloriosa, felice, quale l’aveva sognata?
E al di là della patria non v’erano altre patrie, ed altre patrie
ancora? E al di sopra di tutte le patrie non v’era dessa l’umanità?
Forse che colla indipendenza delle nazioni tutti i problemi politici,
sociali del suo tempo erano risolti? Ma le reliquie di Roma sacerdotale
chi le spazzava? E i privilegi sopravviventi chi li aboliva? E alle
plebi affamate chi provvedeva? E gli eserciti stanziali quando si
trasformavano? E la fratellanza dei popoli, e gli Stati Uniti d’Europa,
e la pace universale quando si proclamavano? Quanti mali da rimediare;
quante battaglie da combattere; quante mete da raggiungere ancora!

Ora si prenda un uomo simile, invecchiato in queste idee, avvezzo non
a bandirle soltanto colle parole, ma a confermarle coi fatti e segnarle
col sangue, e poscia lo si sforzi a ripassarle, ruminarle e rimuginarle
per dieci anni nel silenzio d’un’isola deserta, tra i soliloqui d’un
ozio forzato, chiudendogli colla vasta palestra de’ campi di battaglia
l’unica distrazione e l’unico sfogo, al troppo e al vano delle sue
utopie e delle sue chimere; si configga a un tratto il protagonista
operoso sullo scanno dello spettatore inerte; si costringa il più
battagliero de’ condottieri, il più infaticabile de’ cavalieri erranti
ad entrare nella giornea dell’apostolo verboso o del gazzettiere
polemista; si trasformi insomma l’uomo d’azione in uomo di parola,
obbligandolo a barattare i poderosi colpi di spada della giovinezza
nelle ventose figure rettoriche della vecchiaia, e il concitato
imperio e il celere obbedir delle battaglie, in prolisse concioni,
in elaborati programmi ed in sofistiche lucubrazioni, e si avrà un
concetto delle torture morali che Garibaldi dovette provare negli
ultimi suoi anni; e al tempo stesso la ragione più interiore e più vera
delle contraddizioni, degli errori, de’ difetti, che ombreggiano più
foscamente che mai quest’ultimo periodo della sua vita.

Non furono però nè errori ignobili nè contraddizioni spregevoli, nè
difetti volgari. La parola fu sovente condannabile; il pensiero stesso
talvolta confutabile; ma l’intento non cessò mai d’esser puro ed
elevato.

Anche l’epistolario di Garibaldi, specialmente il volume più
farraginoso del suo ultimo decennio, avrebbe mestieri d’un rogo
purificatore; ma quando la fiamma avrà compiuta l’opera sua, sopra le
scorie della veste informe e selvaggia, in mezzo agli atomi volatili
delle idee stravaganti e fantastiche, rimarranno sempre, ceneri pure
e inconsumabili, le reliquie d’un pensiero e d’un amore eterni: il
pensiero e l’amore della umanità.

Nel 1871, col sangue acre ancora degli influssi del partito
rivoluzionario francese, che, non ostante tutti i suoi torti, era stato
ancora il solo amico e difensore ch’egli avesse trovato in Francia,
scrive una lettera all’avv. Petroni, che si potrebbe dire un’apoteosi
della _Comune_; ma ecco che in fondo all’epistola, tornando come sopra
sè stesso, e chiedendosi che cosa sia l’_Internazionale_, la figura e
la presenta così pura d’intendimenti, così temperata di mezzi, così
diversa insomma dalla realtà, che nell’atto in cui sta per farne
l’apoteosi ne pronuncia la condanna.[392]

Quattro anni dopo, nel 1875, quasi lo crucciasse il pensiero di
non aver fatto abbastanza per Roma, gli balena l’idea, grandiosa
certamente, di convertire il Tevere in un canale navigabile da Roma al
mare, risanare l’Agro romano, restituire all’antica metropoli del mondo
la prisca prosperità, bandendo da essa alla terza Italia un intero
programma di nuova vita economica e sociale.

E non si ferma ad una vaga proposta; ma rattratto dall’artritide,
torturato da reumi, abbandona Caprera, arriva improvviso a Roma,
lasciando per alcuni giorni trepidi de’ suoi propositi amici e nemici;
e colà, dichiarato a tutti il fine che lo moveva, spiega ne’ suoi
minuti particolari il suo progetto; invoca ed ottiene per esso il
patrocinio di Vittorio Emanuele, il favore d’un grandissimo numero
di uomini tecnici e parlamentari e il consenso del Governo medesimo;
il quale però, o perchè non trovasse effettuabile il disegno, come
andava egli stesso dicendo, o perchè in suo segreto fosse poco propizio
alla proposta a cagione del proponente, tirò siffattamente in lungo
il negozio, che il Generale vessato, stanco, nauseato ormai di tutte
quelle lungherie e quegli andirivieni «di Commissioni che nominavano
le sotto Commissioni» per non approdare mai a nulla, abbandonò per
disperata l’impresa, portando seco l’ingiusto sospetto d’essere stato
canzonato, e un rancore di più contro il governo della parte moderata
che accagionava di tutti i mali.[393]

Salutò quindi egli pure come l’aurora d’un’èra novella l’assunzione
della Sinistra parlamentare al governo; e nei primi mesi plaudì ai
magniloquenti programmi, diede il pegno del suo nome alle lusingatici
promesse, distribuì ai novelli ministri, succedentisi con vertiginosa
vicenda, diplomi di genio e di patriottismo, inneggiò ai regni della
Riparazione: _Saturnia regna_.

Ma la Sinistra aveva troppo promesso per poter tutto mantenere;
d’altra parte i prodigi per accontentare Garibaldi neppur essa
poteva farli; talchè non correranno molti mesi che il principale suo
paladino ne sarà divenuto il principale avversario. Eccolo quindi nel
1879 piombare di nuovo come folgore a Roma, destandovi le consuete
alternative d’inquietudine e d’entusiasmo, e predicando a tutti, dal
Re che lo visitava pel primo in sua casa, al più modesto giornalista
e al più umile operaio, la necessità di disfarsi dell’_uomo fatale_,
e l’uomo fatale era per lui il Depretis; di riconciliare tutte le
frazioni discordi della Sinistra, cementandone con un Ministero che
ne comprendesse le sommità più pure l’auspicata concordia;[394] di
affrettar soprattutto l’adempimento delle fatte promesse, che per
Garibaldi non ammettevano indugi e non conoscevano confine.

Nè basta, come alla demolizione della Sinistra costituzionale tutti i
partiti radicali avevan interesse, così riuscì loro, giovandosi dello
stato di esaltazione in cui l’Eroe si trovava, d’averlo facilmente
complice d’un loro disegno: e complice, per Garibaldi, non poteva voler
dire che gonfaloniere e capitano.

Per la qual cosa eccotelo in brevi giorni a capo d’una così detta
_Lega della Democrazia_, la quale raccogliendo sotto una specie di
bandiera neutra tutte le gradazioni del partito radicale, dall’unitario
al federalista, dal Mazziniano al Garibaldino, dal repubblicano
_insurrezionista_ al repubblicano _evoluzionista_, ponesse in mora
la Monarchia, o di concedere il suffragio universale, la revisione
della Costituzione, la trasformazione degli eserciti permanenti in
nazione armata, l’incameramento di tutte le proprietà ecclesiastiche,
l’abolizione della legge delle guarentigie al Papato spirituale, e
un micolino di riforme sociali — o di cadere. Quest’ultima parola,
a dir vero, non era espressamente scritta, ma era nella maggior
parte dei compilatori del grande programma sottintesa; e per ciò
appunto, Garibaldi, organicamente impenetrabile ai sottintesi ed alle
anfibologie, non la capì e la sottoscrisse. Gli avessero detto chiaro:
oggi poniamo a Casa di Savoia il dilemma o di darci la repubblica
— o d’andarsene, Garibaldi, che al di sopra d’ogni repubblica aveva
posto sempre l’unità e la concordia della patria, che ebbe sempre un
religioso orrore anche del solo nome di guerra civile, che intendeva
per Repubblica la «Dittatura d’un uomo onesto» ed era sempre stato
alieno dalle sottigliezze dei dottrinari, come egli li chiamava, che
gli facevan corona, Garibaldi, lo crediamo fermamente, non avrebbe mai
sancito quel pericoloso dilemma, nè dato il suo nome al cartello di
sfida che lo intimava.

Ma così la sua passata per Roma, al pari della famosa _Lega_ da lui
cresimata, lasciò, come suol dirsi, il tempo che aveva trovato. La
Sinistra continuò a volgersi in sè stessa co’ denti: in luogo del
suffragio universale promise una riforma, di cui soltanto la prova de’
fatti potrà dimostrare la bontà e contro la quale i primi a ribellarsi
furono i medesimi radicali della _Lega_; mise quattro anni ad abolire
la gabella del macinato, che doveva sparire al tocco di bacchetta
magica; l’esercito stanziale è per fortuna d’Italia sempre in piedi;
la legge delle guarentigie riconosciuta dai replicati giuramenti di
fedeltà dei nuovi governanti par più sicura che mai; la riforma sociale
sembra piuttosto destinata a divenire un programma della nuova Destra
che della vecchia Sinistra; qualche bandieretta rossa a saliscendi fu
non vista, qualche grido non interamente ortodosso fu compatito; ma
la libertà piena di spiegar al vento i vessilli e di levare al cielo i
voti della repubblica non fu per anco concessa: finalmente i _Comitati
dell’Irredenta_, dopo essere stati per qualche tempo carezzati in
segreto, furono essi pure scomunicati e disciolti in pubblico, con uno
zelo da meritare la gratitudine dell’Austria stessa.

Ora tutto ciò non era fatto certo per strappare gli applausi dell’Eroe,
il quale tornato a Caprera, già _senex querulus_ egli pure, si pentiva
sempre più d’aver accordato il suo patrocinio a quella Sinistra così
fedifraga alle sue promesse; e ad ogni atto del governo che urtasse
nelle sue idee ripigliava a borbottare, a maledire, a sfolgorare de’
suoi anatemi anche coloro tra i Ministri che gli erano stati più cari;
non rispettando nella cecità dell’ira sua nemmeno il suo Benedetto
Cairoli (sol perchè gli fece sostenere il genero Canzio, condannato dai
Tribunali per discorsi sovversivi), coprendo d’un oltraggio plebeo,
che la penna sdegna ripetere, colui che poco prima aveva egli stesso
proclamato il «Baiardo della democrazia.»

Eppure dalla Sinistra accettò due favori, per varie cagioni non
dimenticabili. Fin dal 1875, il ministro Minghetti, edotto delle
angustie finanziarie del Generale che già confinavano colla povertà,
penetrato, al pari della nazione intera, da un alto sentimento di
riconoscenza verso l’uomo che tanto aveva operato e tutto sacrificato
per la patria sua, aveva ottenuto che il Parlamento approvasse e
il Re sancisse (Vittorio Emanuele non aveva mestieri che altri lo
istruisse delle quotidiane necessità del suo grande amico) una Legge
che accordava a Garibaldi una rendita di lire cinquantamila annue a
decorrere dal 1º gennaio 1875 ed inoltre un’annua pensione vitalizia di
altre cinquantamila lire colla stessa decorrenza.[395]

Ma Garibaldi in sulle prime scorse in quel dono un salario a’ suoi
servigi, un oltraggio al suo disinteresse, una vittoria de’ suoi
nemici, una perdita di quella indipendenza che fino allora era stata
la più preziosa delle sue ricchezze, ed aspramente rifiutò. E in verità
se egli avesse potuto respingere quel dono, l’aureola della sua fronte
avrebbe avuto una stella di più. Ma la vita ha realtà implacabili;
realtà che non perdonano nemmeno agli eroi, e Garibaldi pure dovette
piegarvi la fronte.

Finchè durò al potere la Destra persistette nel rifiuto; ma venuto
agl’Interni Giovanni Nicotera e conosciuto più dappresso tutte le
strettezze in cui il Generale si dibatteva, toccato egli stesso
con mano la prova che così egli come i suoi figli potevano essere
minacciati da un istante all’altro da una levata di creditori e dallo
scandalo d’un fallimento, trovò in un forte sentimento di dovere il
coraggio di dipingere al Generale tutta la gravità delle condizioni
sue, chiedendogli un’altra volta l’accettazione di quel dono, che non
era insomma se non il compenso inadeguato de’ suoi grandi servigi e un
tributo doveroso che l’intera nazione veniva volontaria a deporre a’
suoi piedi.

E tuttavia l’Eroe riluttò ancora, durando per parecchi giorni una
delle più fiere battaglie della sua vita. Ma posto finalmente tra la
sua fierezza d’uomo e il suo amore di padre, sbigottito dal pensiero
di non lasciare a’ suoi figli che un retaggio di miseria e forse di
disonore, premuto, incalzato da ogni parte, dai parenti, dagli amici,
consapevoli più di lui dei pericoli che da ogni parte stringevano,
piegò tristamente il capo a inesorabile fato ed accettò. E corse la
voce che nel dare il doloroso assenso, mormorasse sospirando cupamente
«anche questo mi fanno fare,» le quali parole dette o pensate soltanto
che siano, dovranno risuonare come un perpetuo rimorso nella coscienza
di coloro che lo posero nella disperata necessità di subire quel grande
sacrificio, e quasi sull’orlo del sepolcro gli rapirono quella che
sarebbe stata la gemma più sfolgorante della sua corona: la gloria del
morir povero.


II.

Quell’amarezza però gli venne raddolcita ben presto da una grande
consolazione. Sappiamo di toccar un delicatissimo tasto e vi
scivoleremo leggieri. Chi lesse quanto ne dicemmo noi stessi[396]
sa come il matrimonio di Garibaldi colla signora marchesa Giuseppina
Raimondi sia rimasto in quello stato che i legali chiamano: rato e non
consumato.

Dal giorno in cui i due coniugi si separarono a Fino, essi non
s’incontrarono, non si videro, possiamo soggiungere non si perdonarono
più, e il loro vincolo si mutò da quell’ora in quella specie di
catena lunga che la nostra sapiente legislazione civile inventò col
nome di «separazione,» e la quale non essendo nè la libertà nè la
schiavitù, nè il matrimonio nè il libero amore, pone i falsi coniugati
nell’alternativa perpetua o del celibato obbligatorio o del concubinato
forzoso e crea in mezzo alla nostra società quelle condizioni
famigliari scandalose e violenti di cui Giuseppe Garibaldi e Giuseppina
Raimondi furono uno degli esempi più celebri, ma non più dolorosi.

Se non che a quale de’ due partiti dell’alternativa si sia appigliato
Garibaldi, non è mestieri ridirlo. Alla castità si sentiva negato; e
un giorno conosciuta, come ogni mortale conosce, la signora Francesca
Armosino, n’ebbe da lei, a lunghi intervalli, tre figli: Clelia,
nata il 16 febbraio 1867; Rosita, nata il 10 luglio 1869, morta il 1º
gennaio 1871; Manlio, nato il 23 aprile 1873.[397]

Ora di fronte a questi fatti che cosa potevano desiderare e volere,
Garibaldi, la signora Raimondi, la signora Francesca; che cosa
avrebbero potuto desiderare e volere, giunti all’età del raziocinio
i figli stessi nati da lei? E che cosa, aggiungiamo noi, potrebbe
desiderare e volere non diciamo la legge scritta de’ codici, ma la
legge morale scritta nella coscienza di tutto l’uman genere?

Da un lato un’unione fittizia rimasta sterile; dall’altro un vincolo
reale saldato da diciannove anni d’amore e dal pegno di tre figli; di
qua la famiglia legale, ma immaginaria, di là una famiglia illegittima,
ma vera; di qua tre bambini innocenti a cui un atto di giustizia
può dare un nome, di là due donne, all’una delle quali la legge può
riscattare il fallo, e all’altra riconsacrare il suo amore; in verità
nè Garibaldi, nè la signora Raimondi, nè la signora Armosino, nè, a
parer nostro, i tribunali depositari della morale pubblica e privata,
potevano esitare più. I coniugi Garibaldi Raimondi se ebbero un torto
fu di aver troppo atteso: essi dovevano chiedere molto prima che la
legge regolasse la loro anormale condizione, e ciò tanto più che ai
molti e solenni argomenti morali se ne aggiunsero, a quanto sembra,
parecchi di stretto ordine legale che confermavano il loro diritto.

Comunque, sul principiare del 1879 deliberarono d’accordo di domandare
o la nullità o lo scioglimento del loro matrimonio, ma al primo passo
furono sfortunati: il Tribunale Civile di Roma con una sua sentenza del
6 luglio 1879 respinse la loro istanza.

Allora Garibaldi non ebbe più posa. Tempestava di lettere gli amici
e i giornali, consultava avvocati, scongiurava il giovane Re, se i
tribunali non lo potevano, a sciogliere egli stesso con un colpo della
sua autorità dittatoria il nodo iniquo (a queste teoriche garibaldine
siamo già avvezzi); voleva a forza che il Cairoli, Presidente del
Consiglio, proponesse al Re un decreto, o alla Camera una legge, che lo
liberasse dal giogo incomportabile e gli desse modo di divenir marito e
padre legittimo della sua donna e de’ suoi figli.

E va da sè che Re e Ministro si rifiutassero all’atto autoritario,
d’onde novelle sfuriate dell’Eroe, pacificate ben presto dalla notizia
che un celebre avvocato, il più celebre d’Italia, Pasquale Stanislao
Mancini, assumeva su di sè l’ardua causa, sicchè non era disperabile
che la Corte d’Appello revocasse la prima sentenza e facesse paghi i
reclamanti. E così avvenne.

La Corte d’Appello di Roma, considerato principalmente che il
matrimonio Garibaldi Raimondi avvenne sotto il regime del diritto
austriaco, emanante dal Concordato del 1855, il quale appunto ammetteva
la nullità dei matrimoni _rati e non consumati_, colla sua sentenza del
14 gennaio 1880 «dichiarava Giuseppe Garibaldi libero dal vincolo del
matrimonio celebrato in Como il 24 gennaio 1860 ed il matrimonio stesso
destituito d’ogni conseguenza giuridica.»

Ne fu beato il Generale e pochi giorni dopo la pronunciata liberazione,
il 26 gennaio, innanzi al Sindaco della Maddalena dava la mano di
legittimo sposo alla sua Francesca, e, cosa forse per lui anche più
dolce, il nome a’ suoi bambini che adorava. Non fu così piena e unanime
la soddisfazione del pubblico, e del forense in principal modo. Più
d’uno, riguardando la causa solo dal punto di veduta giuridico; reputò
il primo voto della Corte d’Appello romana un’aperta illegalità, un
diritto privilegiato creato per un uomo privilegiato, una violazione
insomma di tutti i principii della nostra legislazione civile.

Va da sè che noi non osiamo metter verbo in siffatta lite: noi,
indotti, consideriamo il problema nel rispetto più umile e più
comune della moralità e della naturale giustizia, e, confessiamo il
vero, nella nostra coscienza di giurati avremmo noi pure pronunciato
l’annullamento. Sia pur stata violata, in qualche punto delle sue
rigide forme, la legge; ma lo diremo con un egregio giureconsulto: «Noi
confessiamo di non poter soffocare un intimo e prepotente sentimento di
soddisfazione che le incongruenze giuridiche dei canoni e dei causisti
abbiano permesso di rimediare ad una condizione di cose, dolorosa ad un
tempo ed eccezionalmente immorale.[398]»


III.

Ma in sullo scorcio del 1880 le condizioni di salute del Generale
declinarono rapidamente. L’artritide si era fatta cronica e
invincibile, e gli sformava mani e piedi in modo miserando. Ogni
moto, eccettuato quello della carrozzella a mano, gli era interdetto.
Gli organi vitali funzionavano regolarmente, la mente era lucida,
la energia morale vivace, ma una paralisi incipiente delle membra
ed un catarro senile costringevano medici ed amici alla più grande
vigilanza. E ciò non ostante intendeva curarsi a modo suo; dai medici
non accettava che i consigli che gli garbavano; non voleva rinunciare
nè anche nella stagione men propizia ai bagni, ed era tanto difficile
governarlo da ammalato, quanto guidarlo da sano.

E tuttavia, anche in questo stato, appena udì che suo genero era stato
arrestato a Genova, volle a forza farsi portare colà per protestare,
almeno colla presenza, contro quello che a lui era parso una violazione
ed un arbitrio; e pochi giorni dopo, invitato a partecipare in Milano
alla commemorazione di Mentana ed allo scoprimento del suo monumento,
si faceva mettere in vagone e partiva. E il suo ingresso nella capitale
lombarda fu lo spettacolo più pietoso a cui la grande città avesse da
tempo assistito. Steso sopra un letto, trascinato a passi lenti da una
grande carrozza, bianca la barba, cereo il viso, immobile la persona,
le mani rattrappite involte in un fazzoletto, coperto il capo da una
papalina dorata e argentata, ammantellato in una specie di paludamento
pontificale, Garibaldi sembrava piuttosto la salma d’un santo portato a
processione da un popolo di devoti, che il corpo vivo d’un uomo! «Pare
sant’Ambrogio!» mormorava il popolino milanese, memore de’ giorni in
cui faceva passeggiare per la città il suo antico protettore, e forse
l’analogia che la fantasia popolare trovava tra quel vecchio Pontefice
armato della libertà latina e il belligero arcivescovo campione della
nuova fede romana contro la prepotenza gotica, non era fisica soltanto.
Pure quella reliquia d’eroe non s’arrendeva ancora; imperterrito
accettava tutti gl’inviti, si prestava a tutte le cerimonie, riceveva
a centinaia visite ed omaggi ed assisteva il 3 novembre da una
loggia apposita, all’inaugurazione del monumento per cui era venuto;
soltanto così egli che lo faceva come coloro che glielo permettevano
o consigliavano, non pensavano abbastanza che ognuna di quelle fatiche
era un giorno di più sottratto alla sua vita?[399]

Nel 1881, non soltanto per ragioni di salute, aggravatasi anche per
una caduta fatta dalla carrozzella sugli scogli di Caprera, d’onde
n’ebbe la testa ferita e qualche minuto di deliquio, si recava sopra
la riviera ligure e in certa villetta d’Alassio vi passava due mesi
d’inverno in una placida e forse ristoratrice solitudine.

Se non che aveva appena, può dirsi, riposto il piede nel suo eremo,
che scoppiò il conflitto italo-francese per la questione tunisina,
quindi l’una cosa dietro l’altra: il grido delle prepotenze del signor
Roustan, la invasione della Reggenza, l’estorsione del trattato del
Bardo, gli insulti alla nostra bandiera, gli eccidi dei nostri operai
a Marsiglia, le contumelie quotidiane della stampa francese buttateci
in viso a piene mani, e tutto insomma quell’insieme di fatti che misero
in chiara luce a qual caro prezzo la nostra vicina repubblicana ci
presterebbe la sua amicizia, e qual frutto usuraio d’umiliazioni e di
servitù ella pretenda ancora dal beneficio, principalmente imperiale,
di Solferino e di Magenta, pagato tuttavia abbastanza collo scotto di
Nizza e di Savoia, e col sangue di Mentana e di Dijon.

Ora s’immagini a queste notizie il vecchio Eroe! Pareva che tutti
quegli oltraggi fatti alla patria sua, penetrassero come lame di spada
nel suo petto, tanto erano acute le urla di dolore e di collera che
mandava. Schizzava fuoco e fiamme, e se avesse contato alcuni anni
di meno, è difficile pensar qual nuovo incendio avrebbe suscitato in
Italia. Avreste detto che al limitare del sepolcro, nel punto stesso
che la compagine del suo corpo si sfasciava, l’anima sua ringiovanisse
e sfolgorasse nuovamente di tutta l’energia de’ suoi giorni più
gagliardi.

Null’altro potendo, parlava e scriveva, ma eran scritti e parole che
valevano fatti. Egli solo parve a quei giorni la voce della nazione;
e quegli Italiani, la grande pluralità pur troppo, che avevan stimato
doveroso subire l’oltraggio con quel temperato risentimento e quella
dignitosa rassegnazione con cui si sopporta una insignificante
mancanza di galateo in una conversazione, quegli Italiani dovettero
sentire ognuna di quelle parole piombar loro sull’anima come tante
goccie roventi e destarvi almeno un istante di vergogna e di rimorso.
Prima aveva cominciato con una nota più temperata: «Io sono amico
della Francia e credo si debba fare il possibile per conservare
la di lei amicizia. Però siccome sono Italiano anzitutto, darò
lietamente questo resto di vita acciò l’Italia non sia oltraggiata
da chicchessia....[400]» Poi alzando il tono coll’incalzar degli
avvenimenti: «Il trattato della Francia col Bey fece crollare la
buona opinione che io avevo per la Francia.... e se i suoi ingiusti
procedimenti in Africa continuano, ci costringerà a ricordarci che
Cartagine e Nizza sono francesi come io sono tartaro, e che nell’antica
Cartagine gli Italiani hanno tanto diritto quanto la Francia, e che
devono tendere alla completa indipendenza della Tunisia.[401]»

E quasi tutto ciò non fosse ancora abbastanza esplicito, come uomo
cui tarda di dir tutto e nella forma più chiara il suo pensiero,
prorompeva:

                                       «Caprera, 22 settembre 1881.

      »Miei cari amici,

  »Lavare la bandiera italiana trascinata nel fango per le vie di
  Marsiglia — e stracciare il Trattato — tolto colla violenza —
  al Bey di Tunisi: solo a tal patto gl’Italiani potranno tornare
  a fraternizzare coi Francesi — lasciare a Bismarck accarezzare
  il Papato, e non oltraggiare la Repubblica coll’alleanza della
  menzogna — dalla quale si minaccia l’Italia.

  »I nostri vicini da ponente a levante devono capire esser finiti
  i tempi delle loro villeggiature _nel bel paese_. E se han paura
  i........, gl’Italiani sono disposti a non tollerare oltraggi.

  »Sono

                                                            »vostro
                                               »G. GARIBALDI.[402]»

Nè di sole parole si contentava. Udito che Palermo si prepara a
festeggiare il suo Vespro, vede in quella commemorazione della disfatta
angioina un risveglio del sentimento nazionale, e ad ogni costo, non
sappiam se sprezzando i consigli de’ medici e de’ parenti, perchè di
questi consigli non si vide la prova, ma certo sprezzando i consigli
della sua salute, deliberò di recarsi a Palermo. Solo concede a sè
stesso, non sapremmo se dire il riposo, o la fatica maggiore, di
arrivarvi a piccole giornate, posando prima a Napoli, rivedendo le
Calabrie, rifacendo a ritroso, come chi ricorda, la strada trionfale
del 1860. E parte, e il 21 gennaio è a Napoli: ricevuto con delirio
dalla città, che dal 60 in poi non l’aveva più riveduto, ma che
rispettando il suo stato lo lascia tranquillo per oltre due mesi nella
villa del signor Maclean a Posilipo, dove entrando, alla vista del
magnifico golfo, esclama col nostalgico affetto del vecchio marinaio:
«Oh bello questo mare!»

Colà però il corpo riposava, non lo spirito ancora. Egli non perde
d’occhio Tunisi, e ad un certo punto è tale la nausea che lo prende
delle rodomontate francesi e della dappocaggine italiana, che a
pochi giorni di distanza scrive al signor Leo Taxil: «È finita, la
vostra repubblica chiercuta non ingannerà più alcuno. L’amore e la
venerazione che avevamo per lei si son mutati in disprezzo.[403]» E ad
un ministro italiano andato a visitarlo, soggiungeva: «Lessi in qualche
giornale che trattate con la Francia, per trovar modo di accettare
senza scandalo il trattato del Bardo. Non lo fate. Una nazione non
può mai tollerare le offese. E, se lo farete, io, vecchio, che non
potrò correre l’Italia gridando vendetta contro di voi, io mi farò
trascinare qui alla Riviera di Chiaia e in via Toledo, e sputerò sul
viso alle guardie di pubblica sicurezza e alle sentinelle dell’esercito
italiano, finchè o una mi uccida con un colpo di baionetta, o mi si
porti a morire in prigione. Così, se voi farete quello, io farò che
voi mi ammazziate, sperando che la mia morte muova contro di voi il
popolo.[404]»

Tanta era ancora la fiamma vitale in quel settuagenario disfatto!

E dicasi pure ch’egli esagerava; a parer nostro, l’esagerazione era più
nella forma che nel sentimento; ma gli è sol quando un paese esagera a
questo modo, sente di sè e del proprio onore in siffatta guisa, che si
fa rispettare dagli amici e dai nemici, e diventa grande.


IV.

Da Napoli a traverso le Calabrie, posando una notte a Catanzaro, parte
in vettura, parte in ferrovia, pellegrinaggio micidiale a quell’uomo,
arrivò allo Stretto, e di là, salutata la sua Messina, entrò il 28
marzo, di mattina, a Palermo.

Ma qui pure, come a Milano, come a Napoli, sorvoleremo alle
accoglienze, poichè l’immaginarle è più facile che il descriverle.
Noteremo soltanto un episodio singolare. Si era fatta correre la voce
che il Generale, affranto dal lungo viaggio, avesse talmente bisogno di
riposo che persino le grida e gli applausi avrebbero potuto nuocergli.
Ond’ecco tutta la popolazione palermitana, concorde per incanto in un
solo sentimento, soffocare le voci, smorzar i passi, domar l’indole
espansiva ed entusiastica, e al Generale, cui aveva forse preparato uno
dei suoi più strepitosi baccanali di gioia, render l’omaggio, nobile,
delicato, figliale del silenzio.[405]

All’indomani Garibaldi, ospitato lungo la marina nel casino del signor
Ugo Delle Favare, Sindaco di Palermo, scriveva di tutto suo pugno,
con sforzo grandissimo della mano, ma lucido ancora di mente, questo
Manifesto ai Palermitani, che senza toccare della Francia, la quale già
pareva tornar verso l’Italia a meno violenti consigli, riepilogava il
supremo ideale ghibellino del Vespro, e insieme gli amori e gli odii
più antichi dell’anima sua.

  «A te, Palermo — città delle grandi iniziative, maestra nell’arte
  di cacciare i tiranni — appartiene il diritto della sublime
  iniziativa di cacciare dall’Italia il puntello di tutte le
  tirannidi, il corruttore delle genti che — villeggiando sulla
  riva destra del Tevere — sguinzaglia di là i suoi neri cagnotti
  alla adulterazione del suffragio universale, quasi ottenuto, dopo
  essersi provato a vendere l’Italia per la centesima volta.

  »Ricordati — o valoroso popolo — che dal Vaticano si mandarono
  benedizioni agli sgherri che, nel 1282, cacciasti con tanto
  eroismo.

  »Forma, quindi, nel tuo seno — dove palpitano tanti cuori
  generosi — una associazione che abbia il titolo di _Emancipatrice
  dell’intelligenza umana_, la cui missione sia quella di combattere
  l’ignoranza e svegliare il libero pensiero.

  »Occorre andare, per ciò, tra le plebi della città e delle
  campagne, per sostituirvi alla menzogna la religione del Vero.

                                              »GIUSEPPE GARIBALDI.»

E trascorriamo ancora sulle feste, sulle visite, sulle ovazioni, tutte
minori di quelle che avrebbe volute il popolo palermitano, maggiori
pur sempre di quelle che le condizioni minacciosissime del suo ospite
potevano comportare. Il 31 marzo, infatti, anniversario del terribile
eccidio, il Generale non potè assistere alla lunga cerimonia; ma
due giorni prima di partire volle visitare ad ogni patto la storica
chiesa di Santo Spirito e giunto sulla piazza del famoso «mora, mora,»
pronunciò con voce commossa, ma chiara: «Onoriamo la memoria dei nostri
padri palermitani che seppero scacciare i tiranni, e dico i nostri
padri perchè anch’io mi credo palermitano come voi.»

All’indomani suo figlio Menotti leggeva alla folla radunata sotto
le sue finestre, al chiarore d’una serenata, un affettuoso addio del
padre, nel quale egli si protestava ancora «figlio di Palermo,» e il
17 aprile, mattina, imbarcato sul _Cristoforo Colombo_ risalpava per
Caprera....


V.

Non doveva uscirne più. Tra l’aprile e il maggio le notizie del suo
stato di salute s’erano fatte sempre più rare e confuse; la notte dal
2 al 3 giugno corser l’uno dietro l’altro i telegrammi: Garibaldi è
agonizzante: Garibaldi è morto. Corre il detto: «che saetta previsa
vien più lenta;» infatti da parecchi anni l’Italia vedeva il suo Eroe
morire giorno per giorno, e vi era tristamente apparecchiata; tuttavia
come il colpo non fu preceduto da alcun segno prenunziatore, così
l’effetto ne parve ugualmente fulmineo e tremendo.

E l’Italia, com’era da attendersi, si scosse in sussulto e guardò
sbigottita la immensità della perdita che aveva fatto. Un sol pensiero
occupa in un subito tutte le menti, un sol nome corre su tutte le
labbra; una folla triste e come trasognata ingombra le vie; le bandiere
si abbrunano, le feste si sospendono, i negozi si differiscono: i
teatri, le scuole, le officine si chiudono: la concordia della sventura
affratella, come nel funebre giorno di Vittorio Emanuele, gli affetti
e le opinioni più discordi: quei medesimi che ieri ancora sprezzavano
ed aborrivano l’implacato nemico, s’arrestano riverenti innanzi al
cordoglio della nazione e sentono essi pure muoversi qualcosa nel loro
cuore, che se non è peranco dolore, è rispetto e pietà. E tuttavia,
l’ansietà che tutti preme, appena scosso il primo stordimento della
percossa, è il conoscere la storia degli ultimi momenti dell’eroe! Come
e quando morì? e chi l’attorniava e chi l’assistette, e quali furono
le ultime sue parole, e chi raccolse l’estremo suo respiro, e chi gli
chiuse gli occhi, e chi lo compose sul letto di morte?

Nel mattino del 1º giugno il Generale aveva cominciato a sentirsi male.
Il catarro bronchiale gli faceva ingorgo più del solito nel petto
e non potendo espellerlo gli rendeva sempre più lento e affannoso
il respiro. Non c’era presso di lui a Caprera altro medico che il
dottore Cappelletti, medico di bordo del _Cariddi_, ancorato in quelle
acque, ma egli avvertì tosto la gravità del caso, e d’accordo colla
signora Francesca e con Menotti, che da più giorni si trovava presso
il padre, telegrafò al dottor Albanese in Palermo, perchè accorresse
immediatamente.

Ma il male incalzava con rapidità terribile e nella notte dal 1º al 2
s’aggravò siffattamente che nel cuore di tutti gli astanti entrò lo
sgomento d’un pericolo urgente. Allora ne fu telegrafato a Canzio a
Genova ed a Ricciotti a Roma; ma oramai nè essi, nè Albanese potevan
più giungere a tempo.

La forte natura del Generale, prostrata da una decenne congiura
d’infermità, era alla sua ultima prova.

Nel pomeriggio del 2 la difficoltà crescente del respiro,
l’affievolimento della voce, l’abbandono delle forze, fecero a tutti
comprendere che la catastrofe era imminente.

Tuttavia il Generale, sebbene parlasse a stento, aveva ancora la mente
serena. Solo l’inquietava la tardanza d’Albanese, sicchè iteratamente
domandò se Albanese fosse arrivato; se il vapore fosse in vista;
ma nessuno potè dargli la consolante risposta! A un certo punto due
capinere, consuete visitatrici del Generale, vennero a posarsi sul
suo balcone aperto, cinguettando allegramente; la moglie, temendo
disturbassero l’ammalato, fece un gesto per allontanarle; ma il
Generale, con un fil di voce soave, susurrò: «Lasciatele stare, son
forse le anime delle mie due bambine che vengono a salutarmi prima di
morire. Quando non sarò più vi raccomando di non abbandonarle e di dar
loro sempre da mangiare.»

E pare siano state quelle le ultime parole che profferì. Solo più
tardi chiese ripetutamente del piccolo Manlio, infermiccio egli pure,
si asciugò con un moto convulso della mano la fronte, mormorando
«sudo....» cercò il suo cielo, il suo mare.... sorrise a’ suoi cari....
e colla placidezza d’un patriarca, fra le braccia della dolce famiglia,
alle 6.22 pomeridiane spirò.[406]

E da allora comincia il grande epicedio delle Nazioni. Re Umberto
scrive di proprio pugno al figlio Menotti:

  «Mio padre m’insegnò nella prima gioventù ad onorare nel generale
  Garibaldi le virtù del cittadino e del soldato.

  »Testimone delle gloriose sue gesta, ebbi per lui l’affetto più
  profondo e la più grande riconoscenza e ammirazione. Queste memorie
  mi fanno sentire doppiamente la gravità irreparabile della perdita.

  »Mi associo quindi al supremo cordoglio del popolo italiano, e
  prego d’essere interprete delle mie condoglianze condividendole
  coll’intera nazione.

                                                         »UMBERTO.»

La Camera dei deputati ed il Senato prorogano per quindici giorni le
loro tornate; il Governo propone e il Parlamento approva che la _Festa
Nazionale dello Statuto_ sia sospesa, le esequie dell’Eroe sieno fatte
a pubbliche spese, una pensione vitalizia di diecimila lire annue sia
assegnata alla vedova ed a ciascuno de’ figli.

In ogni terra d’Italia, da Roma al più umile borgo, si decretano statue
e lapidi, e si consacrano istituzioni benefiche in sua memoria; le
università, gl’istituti scientifici, le associazioni operaie, ogni
maniera di sodalizi gareggiano nel commemorare con pubblici discorsi
e solenni onoranze la sua vita e la sua morte; l’elettrico non basta a
sfogare la colluvie de’ telegrammi che da ogni angolo, può dirsi, della
terra, piove a Caprera.

L’Assemblea dei deputati della Repubblica francese sospende per un
giorno le sue sedute; la Sinistra del Senato vota un indirizzo di
cordoglio alla famiglia dell’estinto; il Municipio di Parigi delibera
di inviare rappresentanti a’ suoi funerali; Lione, Marsiglia, Dijon
attestano con pubbliche manifestazioni le loro condoglianze; lo
stesso urlo di protesta della lega napoleonico-legittimista vale
un omaggio di più. La Camera dei deputati e il Senato di Washington
approvano una mozione deplorante «la morte di Garibaldi ed esprimente
la simpatia degli Stati Uniti per l’Italia.» La Camera dei deputati
di Buda-Pest vuole scritto nel processo verbale il compianto della
nazione ungherese, per la scomparsa dell’Eroe; il Consiglio nazionale
di Berna, con voti 63 contro 20, «rende omaggio a nome del popolo
svizzero alla memoria di Garibaldi, si associa all’Italia nel lutto
causato dalla morte del grande patriotta.» Nel Consiglio municipale di
Londra Sir John Bennet propone «una mozione di profonda simpatia alla
nazione italiana in occasione della morte del cittadino Garibaldi e
condoglianze alla famiglia,» e la mozione è approvata all’unanimità.

Tutta la stampa mondiale dice in vario tenore il compianto del
grand’uomo.

Il Times, che non gli fu mai amico, scrive: «Ebbe tutte le qualità del
leone; non soltanto il coraggio senza confini, ma le doti più nobili,
come la magnanimità, la placidezza e l’abnegazione.»

La _France_ esclama: «Questa morte è un lutto dell’umanità. Garibaldi
era cittadino del mondo.» La tedesca _Vossische Zeitung_: «Dobbiamo
dimenticare il ricordo di averlo avuto nemico;» e il _Tageblatt_
conferma: «Egli nel suo idealismo vide solo l’infelicità della
Francia e non pugnò contro il popolo germanico, ma bensì in favore
della libertà del popolo.» La _Germania_, organo dell’ultramontanismo
tedesco, dichiara: «Vogliamo rendergli questa giustizia. Egli fu
generoso, patriottico, pronto al sacrificio.» L’austriaca _Neue Freie
Presse_ conchiude: «Simili figure sono i fari della storia. Non con
lunga calcolata previdenza, non con piani e concetti faticosamente
elaborati, essi muovono i loro passi; è con l’azione vivace, libera
che essi si imprimono nella memoria degli uomini, e a coloro che
paurosamente guardano il loro entusiasmo, risponde Guglielmo Tell con
le parole messegli in bocca da Schiller: — Se io fossi stato prudente,
non sarei stato Tell! — »

Due soli uomini nel secolo nostro migraron dalla terra accompagnati
da sì universale consenso di laudi e di dolore: Vittorio Emanuele
e Garibaldi; perchè essi soli parvero incarnare due delle più
straordinarie eccezioni della storia: un Re fedele alla Libertà,
che oblia le tradizioni della sua stirpe e arrischia il retaggio dei
suoi figli per la redenzione di un popolo; un popolano che si eleva,
per sola virtù propria, fino alla potenza di Re; ma per tornare
invitto dalle tentazioni dell’ambizione, nel suo modesto focolare, e
sacrificare gli affetti del suo cuore e gli ideali della sua anima alla
suprema felicità della patria.

Quali funebri pertanto potevano parere degni di un tant’uomo se non
quei medesimi resi al grande Re che l’aveva preceduto nella tomba?
più solenni ancora se fosse stato possibile! Quindi un grande lavorío
di fantasie, una subita faccenda di necrofori pubblici e privati
per risolvere l’arduo problema; quindi un vociferar di monumenti
e di mausolei, un presentarsi di imbalsamatori, di pietrificatori,
di conciatori d’ogni fatta; un progettare di onoranze e di cortei
di ogni specie; e la flotta che dovrà levare la salma da Caprera;
e le rappresentanze che dovranno scortarla; e i Principi del sangue
che dovranno accompagnarla; e il luogo di Roma (se il Gianicolo, il
Campidoglio o il Panteon era tuttavia controverso, ma in Roma pareva
certo) in cui doveva posare; quando da Caprera il dottore Albanese
inviò questo telegramma:

  «Garibaldi spirò iersera; lasciò un’autografa disposizione in
  data 17 settembre 1881, così concepita: — Avendo per testamento
  determinato la cremazione del mio cadavere, incarico mia
  moglie dell’eseguimento di tale volontà, prima di dare avviso a
  chicchessia della mia morte. Ove ella morisse prima di me, io farò
  lo stesso per essa. Verrà costruita una piccola urna in granito che
  racchiuderà le ceneri sue e le mie. L’urna sarà collocata sul muro
  dietro il sarcofago delle nostre bambine e sotto la acacia che lo
  domina. — »

Era insieme un pensiero sublime ed una volontà sacra. Garibaldi non
voleva nè essere sepolto, nè esserlo in Roma; voleva, prima ancora che
il mondo sapesse della sua morte, essere bruciato, colle piante odorose
della sua Caprera, e quivi, poca cenere chiusa in un’urnetta, tra i
sarcofagi delle sue bambine, sotto l’acacia che li consola di molle
ombra, dormire in pace per sempre.

E questo voto doveva parere tanto più intangibile e santo, in quanto
non era nè estemporaneo nè nuovo. Molto prima, può dirsi, che il
rito della cremazione tornasse di moda, Garibaldi ebbe quell’idea
di confidare la suprema cura della sua spoglia mortale alle fiamme.
L’aveva confessato fin dal 1870 al colonnello Bordone; l’aveva ridetto
al suo vecchio amico Giuseppe Nuvolari; lo ripetè poco dopo ad Achille
Fazzari; lo raccomandò ancora più esplicitamente nel 1877 al suo fido
medico, il dottor Prandina.[407] «Voglio essere bruciato: bruciato
e non cremato capite bene. In quei forni che si chiamano _Crematoi_
non ci voglio andare. Voglio esser bruciato come Pompeo, all’aria
aperta.... e voi, Fazzari, soggiungeva scherzando, sarete il mio
liberto..... Farete una catasta, soggiungeva al Nuvolari, di quelle
acacie della Caprera, che bruciano come l’olio; stenderete il mio corpo
vestito della camicia rossa sopra un lettino di ferro, mi deporrete
sulla catasta colla faccia rivolta al sole e così mi brucerete. La
cenere che resterà la metterete in un’urna.... anzi in una pignatta
qualunque, e la deporrete sul muricciolo dietro le tombe di Anita e di
Rosita. Così voglio finire.»

Ma chiese il dottor Prandina: «E se per disgrazia moriste sul
continente, lontano dalla vostra Isola?» — «Non importa, fece il
Generale, mi caricherete sopra una barca, mi condurrete alla Caprera, e
mi brucerete come v’ho detto.»

Nessun uomo espresse mai più chiaramente e replicatamente la
sua estrema volontà, e di nessun uomo avrebbe dovuto essere più
religiosamente osservata.

Ma altro fu il parere di coloro che l’Eroe aveva il diritto di credere
i più gelosi interpreti e più fidi custodi del suo testamento. I
politicanti dissero che le spoglie di Garibaldi non appartenevano a
lui, ma alla nazione, e che a questa sola, mediante i suoi legittimi
rappresentanti, spettava il diritto di decidere della loro sorte; i
medici, sgomenti del rapido progredire della corruzione, sostennero
la necessità di provvedere senza indugio alla imbalsamazione del
cadavere, il che era già un avviamento alla sua conservazione; altri,
quale il signor Crispi, affermava l’impossibilità di eseguire alla
lettera la combustione come il Generale l’aveva ordinata, affermando
che la mancanza in Caprera de’ mezzi adatti ad una perfetta cremazione
esponeva al certo pericolo di vedere «le ceneri della spoglia confuse
con quelle delle legne;» altri vociarono: Roma! Roma sola degna tomba
dell’Eroe: tutto deve piegare, anche Garibaldi, innanzi alla maestà di
quel luogo e di quel nome; e insomma quali per una ragione, quali per
l’altra, radunatosi in Caprera una specie di consiglio di famiglia,
al quale erano presenti, oltre la signora Francesca, Menotti, Canzio
e la signora Teresita, anche il dottor Albanese, Francesco Crispi,
Alberto Mario e Achille Fazzari, contro la volontà, fu detto, della
signora Francesca (e doveva farla valere più gagliardamente) e contro
il parere del Fazzari, la maggioranza deliberò di compiere senz’altro
l’imbalsamazione del cadavere e di seppellirlo frattanto in Caprera,
lasciando al Parlamento di decidere quale ultima dimora gli dovesse
essere destinata.

Noi non discuteremo qui quelle ragioni, nè riapriremo una polemica, che
falserebbe il carattere di questo libro. Alla storia interessa soltanto
che la deliberazione del Consiglio di Caprera suscitò in tutta, può
dirsi, l’Italia un grido unanime di riprovazione e di sdegno.

Le città e le associazioni radunarono comizi e votarono indirizzi
di protesta; la stampa, fatte poche eccezioni, echeggiò concorde
l’indignazione della coscienza nazionale; gli uomini più eminenti di
tutti i colori e di tutte le parti sfolgorarono talvolta in parole
eloquenti il sacrilegio minacciato, ma indarno. Garibaldi aveva voluto;
un Plebiscito della nazione aveva confermato, ma il conciliabolo di
Caprera aveva deciso altrimenti; _sic volo, sic jubeo, stat pro ratione
voluntas_.

L’8 giugno, presente il Principe Tommaso per il Re, i ministri Ferrero
e Zanardelli per il Governo, le Presidenze della Camera e del Senato,
le Rappresentanze della marina e dell’esercito, gli inviati delle città
e delle corporazioni, i superstiti dei Mille e dei Volontari, presente
in simbolo tutta l’Italia ufficiale e reale, Garibaldi, in un giorno
di uragano, protestando il cielo ed il mare, fu fatto scendere a forza
sotto l’umida terra, a forza vi fu chiuso e suggellato dentro sotto
una duplice lapide; la volontà dei vivi mise a giacere per sempre la
volontà del morto; la inviolabilità della pietra sepolcrale tagliò
corto a tutti i reclami e a tutte le querele; e il popolo italiano,
facile alle accidie perchè facile agli entusiasmi, piegò la testa al
fatto compiuto e lo subì.

Washington non volle altra tomba che un’aiuola del suo Mount Vernon,
e nessun Americano avrebbe nemmeno per un istante dubitato che quella
volontà potesse essere violata. Robert Peel lasciò scritto di voler
esser sepolto nella chiesa parrocchiale di Draylon Bassett, e il
Parlamento che gli aveva destinato gli onori di Westminster s’inchinò
al suo volere; il conte di Cavour volle posar per sempre nel domestico
sepolcreto di Santena, e nessuno della sua famiglia l’avrebbe ceduto a
Torino, o a Santa Croce.

Giuseppe Garibaldi non pretese dalla sua patria, per la quale aveva
tanto operato, non domandò alla sua famiglia, che aveva tanto adorata,
altro pegno di gratitudine, altro ricambio d’amore, che di dormire
pugno di cenere tra le fosse delle sue bambine, lontano dal fatuo
rumore del mondo, che aveva sempre sprezzato, nell’Isola solinga, sotto
il libero aere, presso l’immenso mare, che avea tanto amati; — e gli fu
negato.




CAPITOLO DECIMOQUARTO.

EPILOGO.


I.

_L’Eroe e il Capitano._

Tale fu l’uomo di cui ci siamo avventurati a narrare la vita. Molti
particolari vi potranno essere aggiunti, molti aneddoti intarsiati,
molti falli corretti; ma se l’amore dell’opera nostra non ci ha
fatto sin qui fitto velo al giudizio, confidiamo che i tratti più
caratteristici della sua figura vi siano tutti raccolti e bastevolmente
lumeggiati.

Giuseppe Garibaldi fu principalmente «l’Eroe», e sarà questo
l’antonomastico nome col quale vivrà nella storia. Il coraggio,
l’agilità, la forza, la fortuna, la vaghezza delle imprese ardue e
maravigliose, la famigliarità col pericolo, il disprezzo della morte,
la fede nella vittoria, una tal quale presunzione d’invulnerabilità
taumaturgica, tutte le doti essenziali all’eroe, egli le compendiò e
fuse in sè medesimo con una forma così eletta e così tipica, che non è
mestieri ridirne di più. Pure non basta: _Multi fuere ante Agamemnona
fortes_; quelli che siam venuti sin qui enumerando in Garibaldi son
pure gli attributi comuni dell’eroismo, e Achille, Orlando, Leonida,
Epaminonda, Aroldo, il Cuor di Leone, il Cid, Bajardo, quali li
concepirono insieme la leggenda e la storia, ponno vantarsi di averli
posseduti quanto lui, taluno forse, in talun caso, più di lui.

La virtù invece che lo distingue e lo solleva sulla falange di tutti
gli eroi fino ad ora conosciuti, e lo accomuna piuttosto a quella
speciale famiglia d’uomini di guerra che furono insieme guerrieri e
capitani, quali i Maratonomachi, l’Africano, il Barbarossa, Giovanni
delle Bande Nere, il Morosini, il gran Condé, Gustavo Adolfo, è la
calma imperturbabile, la serenità olimpica, la padronanza sovrana del
campo di battaglia, per la quale anche travolto nei vortici più furiosi
della pugna egli poteva seguirne e dominarne con occhio sicuro e freddo
giudizio le peripezie, e nel momento stesso in cui sembrava sparire
nella mischia come l’ultimo dei combattenti, giganteggiava sul campo
come un ispirato capitano.

Ed eccola detta la gran parola, quella che a molti sarà la più ostica
di questo libro, ma per la quale appunto l’abbiamo scritto: la parola
che tarderà lungo tempo ad essere accolta nei sinedri delle vecchie
cricche militari, ma che alla fine, non già per merito nostro, o
nemmeno di alcun più poderoso propugnatore di noi, ma per solo merito
intrinseco della sua verità, finirà a farsi strada e trionfare.

Garibaldi fu un gran Capitano e di terra e di mare; e se la _Campagna
del Parana_ (rammentiamo le azioni in cui principalmente il Capitano
rifulse) e la _Ritirata da Roma_, la _Presa di Palermo_ e la _Battaglia
del Volturno_, la _Campagna del Trentino_, fatta a tavolino o in
carrozza, e la _Campagna di Francia_, fatta infermo a sessantatrè anni,
tra gli ostacoli e le difficoltà d’ogni maniera che ci sono note, non
bastano a decretargli un siffatto titolo, non sappiamo più con quale
criterio si estimerà oggimai la capacità degli uomini, nè perchè si
dirà grande un poeta pei suoi poemi, e un artista pe’ suoi marmi e per
le sue tele, e non un capitano per le sue battaglie e le sue vittorie.

La natura lo aveva fatto capitano, ed è questo ancora il miglior
modo d’esserlo. Perocchè la guerra è arte; la scienza ne determina
i canoni e le appresta gli strumenti, ma l’atto supremo della sua
estrinsecazione è essenzialmente una creazione artistica; un pensiero
cioè sorpreso, divinato, tradotto in un baleno in un’azione viva, che
può essere il tocco d’un pennello, l’atteggiamento d’un periodo, la
mossa d’una divisione, e che in tutti i casi richiede quella medesima
potenza di ispirazione e di esecuzione che non si apprende nè da
maestri nè da libri, che la natura sola dà a taluni predisposti da essa
a riceverla, e che diede a Garibaldi.

Nè vogliam dire che la natura abbia dovuto concedergli molto.
Le doti per essere grande capitano sono rare, ma non sono le più
sublimi. La guerra è in fondo una gran caccia, nella quale capitano e
soldati fanno, volta a volta, la parte della fiera, del bracco e del
cacciatore. Ora date ad un uomo gli istinti della fiera che si trafuga
e si difende, del cane che la imposta e la stana, del cacciatore che la
circuisce e l’assale, e avrete nelle sue qualità essenziali il grande
uomo di guerra: avrete Garibaldi.

Gli si aggiungano poi come doti peculiari, se non veramente a lui
solo, a pochissimi come lui: un senso profondo e quasi fatidico del
terreno, tanto che indovinarne, dal punto di veduta militare, il
carattere, misurarne l’estensione, stimare quanta truppa vi possa
capire in colonna od in battaglia, era per lui, può dirsi, l’affare
d’un’occhiata: l’attitudine, perfezionatagli di certo dallo studio
delle matematiche, di leggere con tanta sicurezza e precisione
nelle carte topografiche da potere, come gli accadde nel Trentino,
far la guerra quasi esclusivamente su quelle: la facoltà acuitagli
dall’esercizio della navigazione, di essere orientato sempre e di
guidarsi, perduta ogni altra scorta, anco colle stelle, sicchè non gli
accadde mai di perdere la strada, spessissimo di trovarla dove nessuno
la sospettava: la virtù di non allarmarsi mai, sorella a quella di
non lasciarsi mai sorprendere, e figlie entrambi di altre due qualità
naturali: il sangue freddo e il fiuto del pericolo; sicchè nel 1859
presso Casale, essendosi alcuni de’ suoi esploratori precipitati nella
stanza dove desinava, gridando ansanti: «Il nemico! Il nemico!» —
«Ebbene,» disse, senza interrompere il pittagorico pasto, «lasciatelo
venire, dopo pranzo lo riceveremo;» la sua qualità d’anfibio, sicchè
poteva giovarsi a suo grado dell’uno e dell’altro elemento, e nella
terra, dove un ammiraglio avrebbe trovato un incaglio, egli trovare
uno sbocco, e nell’acqua, dove un generale avrebbe scorto un ostacolo,
egli vedere un veicolo: la potenza infine acquistata essa pure nelle
ginnastiche della gioventù nomade e marinaresca, di durare più di
chicchessia alla fatica ed alle privazioni della vita guerriera,
d’onde quella sua abitudine d’essere il primo alzato nel suo campo e
il primo a farne suonare la _Diana_, per andare, albeggiando appena,
ad esplorare egli stesso, molto al di là delle proprie linee, le
posizioni del nemico; si aggiungano, dicevamo, o meglio ancora, si
innestino sulla prima radice della sua natura eroica tutte queste
qualità omogenee ed affini a quella prima, e si avrà la spiegazione
perchè Garibaldi, avendo letti pochi trattati d’arte militare, e forse
nessuno, non avendo mai sostenuto esami in nessuna Accademia, nè fatto
manovrare una compagnia sopra nessun campo di Marte, abbia potuto sopra
quaranta combattimenti, tra i quali almeno sette giornate campali
(il 30 aprile e il 3 giugno a San Pancrazio, Milazzo e il Volturno,
Bezzecca e le tre giornate di Dijon), vincere almeno trentasette volte
il nemico,[408] e sconfitto veramente, disfatto in guisa da dover
abbassare le armi ed arrendersi alla mercè del vincitore, non lo sia
stato mai.

Gli mancò, è vero, per la guerra a cui fu condannato, l’occasione di
sviluppare grandi concetti strategici; ma tutti quelli che suggerì od
effettuò: la marcia manovra su Palermo; la occupazione difensiva della
sinistra del Volturno; il progetto di Campagna consigliato nel 1866,
concorde a quello proposto dal generale Moltke; la disapprovazione
data in Francia alla mossa del Bourbaky; il consiglio ripetuto e non
ascoltato di occupare in ogni caso gagliardamente Dôle; tutti questi ed
altri esempi provano abbastanza che l’intelletto strategico non mancava
certo al nostro Capitano, e che gli fallì soltanto l’opportunità di
sperimentarlo egli stesso sopra campi più vasti.

Certo il suo merito risalta più spiccatamente nelle operazioni
tattiche. Per la guerra di partigiano, marciar di notte, dormire
il giorno, spiegarsi possibilmente coperto; cansar la lotta, se
non è sicura la vittoria; costretto ad accettare il combattimento
in condizioni sfavorevoli, protrarre fino a notte la resistenza,
perchè di notte la ritirata è più sicura; caricati dalla cavalleria,
formare la massa in difesa, preferibile al quadrato vuoto che si muove
con difficoltà e presenta una fronte troppo debole e troppo estesa
all’assalitore. Per la guerra grossa poi «riunire il più di forze
possibili sul punto tattico o obbiettivo di campo di battaglia, massima
di tutti i grandi uomini di guerra; pericolose però le colonne serrate,
specialmente dopo il perfezionamento delle armi: in ogni caso lasciare
accostar il nemico: bersagliarlo di pochi colpi ben diretti, e quando
sia vicino, fidar sempre nella baionetta e caricarlo.

Questi i precetti principali, ch’egli riassunse in tanti scritti,[409]
e professò con l’esempio. «Lasciateli venire,» gridava al Volturno.
«Sedetevi, che vincerete,» urlava a Mentana. «Un soldato non deve
aver mai vergogna di coprirsi per colpir meglio il nemico,» esclamava
a Dijon; ed era la stessa voce che ordinava al momento opportuno le
cariche a _ferro freddo_ e le capitanava.

Che cosa mancava dunque a quest’uomo perchè gli si potesse contrastare
il titolo di gran Capitano? Di aver mai fatto la grossa guerra, nè
condotte le grandi masse degli eserciti moderni. Davvero, che questo
argomento sia ripetuto da un pubblico profano e ignaro di siffatte
questioni lo si capisce, ma che possa essere in buona fede adoperato
da’ militari, sorprende e attrista ad un tempo. E qual uomo di guerra
fu egli assunto al comando supremo delle grandi masse, se non dopo
aver fatto le sue prove comandando le minori? Oh come! Nella gerarchia
militare chi ha comandato un reggimento è presunto capace di comandare
una brigata, e chi una brigata una divisione, e così di seguito, e
questa presunzione di capacità non varrà per Garibaldi?

Voi, Tedeschi, eleggeste generalissimo de’ vostri eserciti il
Moltke, che prima di Sadowa non aveva mai guidato in guerra un
solo battaglione; voi, Francesi, deste il bastone di maresciallo a
Mac-Mahon, che prima di Magenta non aveva mai condotto al fuoco una
divisione; voi, Italiani, reputaste capaci il generale La Marmora e il
generale Cialdini, di comandare in capo tutto l’esercito italiano, sol
perchè il primo aveva capitanato 15,000 uomini in Crimea, e il secondo
ne aveva guidati altrettanti a Castelfidardo ed a Gaeta; e nessuno di
voi riconoscerà che Garibaldi, il quale cominciò a guidarne parecchie
migliaia fin dal 1849; che al Volturno ne comandava 30,000, e nel
Trentino 35,000, possa bastare all’ufficio, a cui pure i gallonati e
piumati suoi colleghi furono reputati meritevoli? Col criterio di non
reputar Capitano chi non ha comandato grandi eserciti, Napoleone I,
che non ne comandò, nella prima e più gloriosa sua campagna d’Italia,
più di 30,000, non sarebbe mai stato che un _guerrillero_, e Hoche,
Massena, Lannes, Augereau, che eran già salutati grandi generali quando
non avevano ancora condotto al fuoco che le minuscole divisioni della
Repubblica, non sarebbero rimasti che dei _cabecillas_.

Certo, a dirigere le grandi masse, Garibaldi solo non sarebbe bastato;
ma quale più sommo Capitano vi bastò? Anco a Garibaldi faceva mestieri
quello che occorse a Napoleone, all’Arciduca Carlo, a Wellington, a
Moltke, una corona d’interpreti intelligenti, e di cooperatori fidi;
uno Stato maggiore istrutto, e generali di divisione valenti; un
servizio organizzato di amministrazione, d’ambulanza, di provianda;
ma se a lui pure fosse stato concesso tutto ciò, con quanta maggior
libertà ed efficacia non avrebbe potuto attuare i suoi concetti e far
sentire alla macchina ben congegnata posta nelle sue mani l’impulso
del suo genio! Gli eserciti mancarono a Garibaldi, non Garibaldi
agli eserciti! Egli partì co’ Mille di Marsala; ma sarebbe partito
assai più volentieri, noi lo vedemmo, con una brigata dell’esercito
regolare,[410] e quando voleva esprimere il gran conto in cui
teneva l’esercito italiano, invocava l’onore «di combattere alla sua
sinistra.»

Strana logica invero!

Fino ad ora si era sempre creduto che chi fu capace di far bene
co’ pochi potesse essere presunto idoneo a far meglio co’ più; ma a
Garibaldi pare che questa maniera di ragionamento non sia applicabile.

Egli è escluso dalla legge del perfezionamento umano. Fosse stato, come
dicevano i Piemontesi d’una volta, una _vecchia giberna_ invecchiata
fra le piazze d’armi e le caserme, avrebbe potuto dire egli pure il
suo bravo «porto nel mio zaino il bastone di Maresciallo;» ma aver
guerreggiato per circa quarant’anni, nel vecchio e nel nuovo mondo,
portar sul corpo dieci ferite, presentare uno stato di servizio di
sedici campagne[411] e quaranta combattimenti; aver battuto in America
Oribe e Brown, in Italia Oudinot e Colonna, Landi e Bosco, Lanza e
Ritucci, Urban e Kuhn, e in Francia Keller, Danemberg e Kettler, tutto
ciò non dà diritto ad alcuna promozione.

Guerrigliero cominciò, guerrigliero visse, guerrigliero morì.

Diverso fu il giudizio di Abramo Lincoln, che gli fece offrire il
comando d’un esercito della grande repubblica americana; diverso quello
dell’austriaco D’Aspre, che nel 48 esclamava: «Un sol uomo avrebbe
potuto ancora salvar l’Italia, e non fu compreso;» diverso quello del
prussiano generale Manteuffel, che pochi anni or sono scriveva: «Se il
generale Bourbaky avesse operato secondo i suoi consigli, la campagna
dei Vosgi sarebbe stata la più fortunata combattuta nel 1870-71 dalle
armi francesi.[412]»

Diversi i pareri dei moderni storici militari, quali il Rustow e il
Lecomte, che studiarono un po’ più attentamente e spassionatamente
le sue campagne; ma ciò non conta. Non è un generale,» cominciò a
mormorare qualche professore d’arte militare, che non aveva letto mai
probabilmente una sola pagina delle sue guerre; «non è un generale,»
ripetè in coro la scolaresca, e «non è un generale,» fece eco il
pubblico pappagallo; e con questa sentenza pronunciata senza esame,
senza motivi e senza processo fu accompagnato al sepolcro.

E frattanto la prima vittima di questi errori e di questi pregiudizi,
propri a dir vero a tutto ciò che tiene ancora della casta e
dell’accademia, fu l’Italia. Pensino invece gl’Italiani, se il valore
reale di quest’uomo fosse stato giustamente estimato, quanti rovesci
di meno e quanti trionfi di più! Pensi il valoroso esercito nostro,
quanto corteo di novelle vittorie avrebbe scortato le sue bandiere, se
colui che vinse coi cento e coi mille, coi diecimila e coi trentamila,
nel piano e sui monti, cogli scamiciati e cogli inermi, avesse
potuto capitanare le agguerrite schiere di Palestro, di San Martino
e di Gaeta, e nella sera della fatale Custoza, dare, a chi l’avesse
interrogato sul da farsi, la classica risposta: «dormire sul campo.»

Ma anche per lui la giustizia verrà dal di fuori e comincerà dopo
morto. Fra pochi anni i giudizi degli stranieri, più intelligenti e più
spassionati dei suoi compaesani, saranno conosciuti, i preconcetti e le
gelosie che vietarono sin qui la conoscenza e la manifestazione della
verità saranno spenti, le storie militari del nostro tempo e del nostro
paese saranno meglio scritte, più lette e meglio apprezzate, e allora
forse l’Italia comprenderà a qual caro prezzo abbia pagato l’errore
d’aver partorito dal suo seno un grand’uomo di guerra e d’averlo
disconosciuto.


II.

_Il Patriotta e l’Umanitario._

Pura quanto quella del guerriero, incontestata più di quella del
capitano è la gloria del patriotta. Se fra gli eroi della spada è
difficile trovargli il simigliante, trovargli l’uguale nello stuolo
degli eroi della patria lo è ancora più. E ciò perchè quello che egli
offerse in olocausto all’Italia supera in valore tutto quanto fino a
lui, anche i più grandi cittadini, anche Washington, il grandissimo
fra tutti, avevano offerto alla patria loro. Tutti come lui diedero
alla loro terra natale il meglio di sè stessi: il sangue, la vita,
gli averi, le gioie del domestico focolare, persino, costosissimo fra
i sacrifici, le palme più meritate della gloria ed i risentimenti più
legittimi dell’ambizione; ma nessuno di loro le immolò, come lui, il
tesoro più sacro del suo petto, la fede dell’anima sua.

La patria creata dal genio e dalla virtù di Washington fu quella
vagheggiata da lui: fra il suo concetto politico e la volontà de’ suoi
concittadini nessun divario essenziale e nessun dissenso: il Virginiano
diede alle Colonie da lui redente e federate le istituzioni pensate ed
elaborate dalla sua mente, le suggellò, a dir così, dello stampo del
suo spirito e ottenne un frutto e un premio dell’opera sua che nessun
altro maggiore.

Di Garibaldi diverso il destino. Egli non sortì la mente pratica del
grande Piantatore; il genio della politica non era il suo e non v’è
mestieri di riprova. Discernere tra la verità ideale e la realtà
effettuale la distanza e la differenza non era da lui; veder ciò
che nel suo paese ed anche nel suo tempo fosse fattibile era al di
sopra o al di sotto, secondo il punto da cui lo si consideri, del suo
intelletto, e il solo trovarsi di fronte ad una questione pratica, se
non era militare, lo confondeva e paralizzava.

Epperò il contrasto profondo tra quello che i suoi coetanei preferirono
e quello ch’egli amò; tra gl’ideali del suo capo e quelli della sua
patria. Il suo ideale religioso fu la Religione naturale o il Deismo
filosofico, che dir si voglia, di Gian Giacomo; e l’Italia è per
due terzi cattolica, per l’altro terzo scettica o indifferente. Il
suo ideale politico fu una specie di Repubblica patriarcale con un
Dittatore temporaneo, assistito da un Consiglio di _probi viri_, «la
Repubblica della gente onesta,[413]» come egli la chiamava; e l’Italia
è e vuol essere monarchica. Il suo ideale sociale è un quissimile di
società pastorale, nè colta, nè barbara, vivente nella semplicità e
nell’innocenza, retta da un regime che sarebbe un che di mezzo tra il
comunismo sansimoniano, «a ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuna
’capacità secondo il suo lavoro,» e il nuovo socialismo della cattedra,
«governo largitore di tutti i beni e riparatore di tutti i mali;» e
l’Italia si dibatte ancora contro gli avanzi del passato e non osa
sbarbicare le ultime radici delle antiche caste e dei vieti privilegi.
Quale abisso adunque tra l’anima di quell’uomo e le aspirazioni del
suo paese; quanti conflitti dolorosi, quante tentazioni insidiose, o
di sciogliere il litigio coi colpi di spada dei Cesari, dei Cromwell
e dei Napoleonidi, imponendo alla patria ignara e riluttante la legge
della sua volontà, o di abbandonarla, come persona che si sprezza, alla
meritata servitù!

Ora Garibaldi non seguì nè l’uno, nè l’altro consiglio, gettò sull’ara
della Patria i suoi amori e i suoi odii, le sue più care speranze,
le sue più carezzate chimere, e senza chiederle alcun prezzo del suo
sacrificio la servì e la salvò.

Nel 1848 proclamava, primo fra i repubblicani, la necessità di
stringersi al re Carlo Alberto, e non dipese da lui se la sua spada,
che poteva essere forse la salvezza d’Italia, fu ricacciata nel fodero.

Nel 1857 è ancora il primo a sottoscrivere con Daniele Manin e Giorgio
Pallavicino il patto d’unione dell’Italia con Casa di Savoia ed a
fondare con essi quel nuovo partito nazionale, che fu la base popolare
dell’imminente risorgimento.

Nel 1859 non esita ad offrire il suo braccio al Re Galantuomo, e
trascinata dietro al suo esempio tutta la gioventù più gagliarda ed
attuosa d’Italia, suggella sui campi di battaglia l’unione auspicata
della rivoluzione con la monarchia.

Nel 1860 infine, quando il nodo del problema italiano sembrava
giunto a tale che la monarchia nè poteva tagliarlo colla spada,
senza compromettersi, nè lasciarlo in balía della rivoluzione, senza
abdicare, nè scioglierlo coll’artificio dei compromessi e delle
transazioni, senza nuocere al suo principio vitale, Garibaldi ancora
scioglie il nodo intricato e ponendosi a capo di un’impresa, che
adempiva insieme ai fini della rivoluzione ed agli obblighi della
monarchia, amplia il patto dei plebisciti e fonda sovra essi il nuovo
regno.

Nè a questo patto venne meno più. Aspromonte e Mentana furono
certamente, il primo un grande errore, il secondo una grande temerità,
entrambi una illegalità; ma astraendo anche da quel segreto viluppo
di equivoci e di ambiguità, che in tanta parte li giustificarono, essi
devono essere giudicati piuttosto un conato di insurrezione contro la
politica d’un governo, che un atto di ribellione contro le istituzioni
d’uno Stato.

Non si dimentichi mai che tanto sulla bandiera di Aspromonte, quanto su
quella di Mentana, il motto era pur sempre quello di Marsala; e l’aspro
dissidio insorto per questo fatto fra Garibaldi e Mazziniani, ne indica
meglio d’ogni altro argomento la capitale importanza.

Nè bisogna credere che tutte le conseguenze di Aspromonte e di Mentana
siano state malefiche. Non si scordi che l’Italia nel 1861 non era
ancora che un simulacro; le mancavano Roma e Venezia, le veniva meno,
cosa anche più triste, la speranza e l’ardire di presto acquistarle.
Roma era serrata nel circolo vizioso dei voti della Camera e della
Convenzione di settembre, che ne rimettevano la liberazione al doppio
miracolo dei «mezzi morali» e del consenso della Francia; Venezia
poteva, è vero, aspettare più fidente la fortuna d’una nuova alleanza;
ma era sempre l’aspettazione del fato.

Ora un uomo che sorgesse protesta viva della volontà nazionale contro
la lettera dei trattati e le ambagi della diplomazia, che fosse sempre
pronto a spingere il governo, se si arrestava, a scuotere la nazione,
se intorpidiva; che serrando insieme l’Italia e la Francia nel dilemma
implacabile: «Roma o morte,» rendesse sempre più accorti coloro che ci
contendevano la nostra capitale, dei pericoli d’un più lungo rifiuto;
un uomo simile non poteva mai dirsi senza un influsso benefico sui
destini della patria sua, nè egli stimare del tutto compiuta la sua
missione.

Oltre di che, e sta in ciò l’importante, quella propaganda,
quell’agitazione, anche quelle rivolte, non erano che uno sfogo
ed una distrazione offerta alla parte rivoluzionaria, la quale, o
abbandonata a sè stessa, o caduta in potere d’altri capi, avrebbe assai
probabilmente varcata quella barriera che il generale Garibaldi le
impedì sempre d’oltrepassare.

E in ciò veramente si assomma l’opera benefica del grande patriotta
negli estremi suoi anni. Egli gettò più volte in mezzo alla Nazione
parole terribili, che potevano essere pericolosissimi tizzoni
d’incendio, ma quando li vide prossimi a divampare in fiamme minacciose
al sacro edificio della patria, egli stesso accorse pel primo e sotto
il suo piede li soffocò.

Egli fu, finché visse, come un Dio Termine sulla strada della
rivoluzione, innanzi al quale anche i più esaltati e temerari de’ suoi
seguaci si sarebbero sempre arretrati. Tutto potevano dire, tutto
potevano tentare, ma lui vivo il grido ultimo della discordia, il
segnale irrevocabile della guerra civile non avrebbero osato darlo mai.

Il pensiero di Garibaldi è in questo rispetto limpidissimo. Prima
l’unità, la concordia, la volontà d’Italia; poi, se vi sia posto,
i sogni della sua mente. Si congiungano le parole che egli, reduce
dal primo esiglio, indirizzava nel 1848 ai Nizzardi: «Tutti quei
che mi conoscono sanno se io sia mai stato favorevole alla causa dei
re; ma questo fu solo perchè i principi facevano il male d’Italia;
ora invece io sono realista e vengo ad esibirmi coi miei al Re di
Sardegna, che s’è fatto il rigeneratore della nostra Penisola;» si
congiungano con quelle ch’egli scriveva alla vigilia, staremmo per
dire, della sua morte: «La Casa di Savoia ha fatto molto per la patria
e merita rispetto. Ma quand’anche avesse fatto meno, ha la grandissima
maggioranza degl’Italiani per sè, e il sentimento della maggioranza noi
dobbiamo rispettarlo, perchè è la continuazione dei plebisciti. Volerlo
disconoscere e combattere sarebbe accendere la guerra civile e quindi
distruggere colle nostre stesse mani l’opera nostra;» e nell’esordio
e nella conclusione di questo discorso, attraverso i contrasti, gli
sviamenti, le alternative, che sono il portato necessario di tutte le
grandi lotte, avrete riassunto da Garibaldi stesso il suo testamento
politico.


E ciò non ostante resterà sempre dubbio se più della patria sua abbia
amato le altrui. È questo il tratto più singolare e più radioso
della sua immagine. Il patriotta s’immedesimava talmente in lui
all’umanitario che era difficile il discernere quale dei due fosse il
più vero e il più grande. Primo precetto della sua «Religione del Vero»
egli stimava l’evangelico: «Non fare ad altri quel che non vorresti
fatto a te stesso;[414]» e con questa norma nel cuore, l’indipendenza,
la libertà, la felicità che voleva per la patria sua, le voleva
per tutte le altre. Su questo proposito la sua dottrina era di una
semplicità biblica. Dio avea creato tutti gli uomini uguali e tutti
i popoli fratelli, dividendoli in tante famiglie quanti i linguaggi,
ed imponendo loro per dimora tante regioni distinte, di cui la natura
stessa aveva, con linee eterne di mari e di monti, tracciati i confini.
Soltanto la cupidigia e la nequizia di pochi uomini, nequitosissimi
fra tutti i preti, violarono quei confini, tentarono confondere quelle
lingue, falsarono il disegno di Dio. Ad essi perciò guerra perpetua:
_guerra anzi alla guerra_, di cui essi pei primi gittarono il mal seme
nel mondo. Sopprimere gli eserciti stanziali, primi alimentatori e
provocatori della guerra, braccia sottratte al lavoro, sangue rapito
alla vita economica delle società moderne, trasformandoli in una
milizia volontaria, chiamata soltanto a difesa dei diritti e della
libertà dei popoli: fondare una Unione Europea delle Nazioni «con un
rappresentante per ciascuna, uno Statuto fondamentale, il cui primo
articolo fosse: la guerra è impossibile, ed il secondo: ogni lite
delle nazioni sarà liquidata da un Congresso:» proclamare l’unità
dell’umana famiglia, cementandola, se fosse possibile, coll’unità d’una
sola _lingua mondiale_;[415] ecco i sogni che l’Eroe incessantemente
perseguiva e da cui era egli stesso perseguito, e talvolta anche nel
tumulto delle sommosse e il fragor delle battaglie, ma che egli era
sempre pronto non solo a bandire e predicare, ma a suggellare col
sangue.

Non una causa umana cui fosse indifferente; non una giusta rivolta a
cui, anco non potendo colla spada, non partecipasse colla voce e colla
penna; non un appello d’oppressi a cui non abbia risposto: presente.

Nel mezzo secolo da lui vissuto nell’uno e l’altro mondo, congiurano,
insorgono, combattono, quali per la libertà, quali per l’indipendenza,
Brasiliani, Platensi, Spagnuoli, Portoghesi, Polacchi, Ungheresi,
Serbi, Rumeni, Greci, Jugo-Slavi, da ultimo anco i Francesi, e non uno
di questi popoli che non abbia ricevuto da lui, se non l’aiuto del suo
braccio, un soccorso di armi, o di danari, un consiglio utile, una
parola confortatrice ed amorosa, e spesso, inviati direttamente da
lui, o mossi dall’influsso del suo apostolato, manipoli di valorosi
che nelle più remote contrade propagano l’onore della camicia rossa
e combattono e muoiono per la libertà dei popoli fratelli al grido di
«Viva Garibaldi!»

Nè la sola causa dei popoli l’interessava. Il problema sociale
l’occupava anche più del politico. Convinto più che mai che le
disuguaglianze sociali fossero non già l’effetto d’una legge naturale,
irrevocabile e fatale, ma il prodotto della perversità di pochi uomini
o furbi o prepotenti, era contro la società in uno stato di guerra
aperta e continua.

E non era un filosofo che meditasse le cause e gli effetti, nè uno
statista che distinguesse i mali rimediabili dagl’irrimediabili, e
ne apprestasse i provvedimenti e le leggi: era un plebeo, un paria,
un diseredato che giudicava della società matrigna in cui si trovava
sbalestrato dietro le impressioni del momento, secondo l’effetto più
sensibile e più, staremmo per dire, drammatico che ne riceveva; secondo
i criteri assoluti di chi vive solitario nelle proprie idee ed ignora
la realtà.

La vista, a mo’ d’esempio, d’un signore in panciolle che passasse in
carrozza dinanzi a un contadino sudante alla canicola, curvo sulla
marra, gli strappava lo stesso gemito di rabbia, le stesso gesto di
minaccia che il contadino stesso lanciava alle spalle del superbo
gaudente. Credeva la società una lega dei forti contro i deboli, de’
furbi contro gl’ingenui, dei ricchi contro i poveri, e senza esitare un
istante, in qualunque causa, stava istintivamente cogli ultimi.

Aveva per vangelo la onestà impeccabile dell’operaio, la bontà
innocente del contadino, la brutalità feroce del padrone, la furberia
rapace del mercante, la boria ignorante del nobile; e su questi criteri
regolava i suoi giudizi. Credeva sul serio ai lauti stipendi della
burocrazia, alle ricchezze ammassate dai ministri, ai sordidi traffici
dei deputati, alle orgie sardanapalesche della Corte, a tutti i luoghi
comuni della eloquenza tribunizia, con questa differenza tuttavia che i
tribuni le ripetevano per convenzione e per mestiere; egli con tutta la
ingenuità della fede e la profondità del sentimento.

Aveva insomma della società il concetto pessimista di Gian Giacomo, e
come Gian Giacomo avrebbe voluto rinnovarla da cima a fondo per mezzo
d’una revisione del suo patto fondamentale, cominciando naturalmente la
riforma da sè stesso e dalla sua famiglia.

Come però queste idee non potevano essere accettate, od anche accettate
in parte non potevano subito nè tutte in una volta essere effettuate,
e il mondo continuava a girare sul suo vecchio asse senza curarsi
dei sognatori che l’avrebbero voluto far andare a modo loro, così
ad ogni nuova disdetta che la realtà dava alle sue dottrine, ad ogni
nuovo disinganno che la società in generale o l’Italia in particolare
gli facevano patire, il suo umore si faceva acre, il suo pessimismo
peggiorava, la sua misantropia filantropica (sentiamo il bisticcio,
ma a Garibaldi, che abborriva gli uomini perchè rifiutavano il bene
che avrebbe voluto far loro, s’adatta a capello), la sua misantropia
filantropica s’inaspriva, e, vero «burbero benefico,» sfogava la sua
atrabile sulle spalle di coloro che amava di più e per la cui felicità
s’affannava da mezzo secolo, ed era pronto ad ogni istante a dare la
vita.


III.

_L’uomo privato_.

Questo, se non c’inganniamo, l’uomo pubblico; ma e l’uomo privato?
L’uomo privato fu tale egli pure, che se anche non avesse compiuto
alcuna delle azioni famose per cui diventò storico, sarebbe stato
tuttavia un esemplare singolarissimo della specie umana, degno di
tutto lo studio dello psicologo e dell’artista. Il biondo fanciullo
che dipingemmo scorrazzante sulla riviera di Nizza; il bel Corsaro che
vedemmo ammaliare la povera Anita alla fontana di Laguna; il trionfante
Dittatore del 1860, che al suo apparire faceva squittire in coro le
picciotte siciliane: _Oh quant’è beddu!_ aveva serbato fino agli ultimi
anni la sua maschia bellezza, una bellezza però tutta sua, lontana dal
tipo comune della bellezza eroica e guerriera; originale e novissima
essa pure.

Perocchè Garibaldi non poteva dirsi un «bell’uomo,» nel senso più
usitato della parola. Era piccolo: aveva le gambe leggermente arcate
dal di dentro all’infuori, e nemmeno il busto poteva dirsi una
perfezione. Ma su quel corpo, non irregolare nè sgraziato di certo,
s’impostava una testa superba; una testa che aveva insieme, secondo
l’istante in cui la si osservava e il sentimento che l’animava, del
Giove Olimpico, del Cristo e del Leone, e di cui si potrebbe quasi
affermare che nessuna madre partorì, nessun artista concepì mai
l’eguale. E quante cose non diceva quella testa; quanto orizzonte di
pensieri in quella fronte elevata e spaziosa, quanti lampi d’amore e di
corruccio in quell’occhio piccolo, profondo, scintillante, che marchio
insieme di forza e d’eleganza in quel profilo di naso greco, piccolo,
muscoloso, diritto, formante colla fronte una sola linea scendente a
perpendicolo sulla bocca; quanta grazia e quanta dolcezza nel sorriso
di quella bocca, che era certo, anche più dello sguardo, il lume più
radioso, il fascino più insidioso di quel viso, e che nessuno oramai
il quale volesse serbare intera la libertà del proprio spirito, poteva
impunemente mirar davvicino.

A questa singolar bellezza poi, che era già per sè sola una potenza,
la natura, madre parzialissima a questo suo beniamino, aggiunse
l’agilità e la forza; non veramente la forza muscolare dell’atleta,
ma quella particolare forza nervosa che si rattempra e ingagliardisce
coll’esercizio e che, associata all’agilità, rende capace il corpo
delle più ardue prove e delle più arrischiate ginnastiche.

E che ginnasta fosse Garibaldi lo sappiamo da lui stesso. «Credo
d’essere nato anfibio,» soleva dire per esprimere la facilità con cui
fin dalla prima volta in cui si buttò in acqua si trovò naturalmente a
galla. Abbiamo notato infatti le persone da lui salvate dall’acqua, e
sono sedici: il che potrebbe bastare, anche non essendo Garibaldi, alla
rinomanza d’un uomo.

E come nuotava, cavalcava, saltava, s’arrampicava, tirava di carabina,
di sciabola, occorrendo di pugnale, senza che nessuno gliel’avesse mai
insegnato, e avendone trovato soltanto nella struttura delle proprie
membra e negli istinti della propria indole il segreto e la maestria.

Del suo corpo poi, come uomo che sa d’averne bisogno, era curantissimo.
Egli non vestì sempre il costume con cui il mondo s’abituò a vederlo
fin dal 1860. In America alternò, secondo i casi, il vestire paesano
del _gaucho_, la giacca del capitano di mare, e l’uniforme bianca,
rossa e verde della _Legione Italiana_; venuto in Italia, se non era
sotto le armi, nel qual caso tornava alla tunica rossa orlata di verde
(non camicia per anco), al cappello piumato a larghe falde, al mantello
bianco ed ai calzoni grigi instivalati; indossava un grosso soprabito
abbottonato sino al mento, e fu con quello che noi lo vedemmo per la
prima volta a Torino nel 1859.

Soltanto la mattina del 5 maggio comparve sullo scoglio di Quarto
colla camicia rossa e il _poncho_ sulle spalle; e sia stato amore di
quell’assisa fortunata o certezza che quella foggia si attagliasse
meglio d’ogni altra alla sua figura, non l’abbandonò mai più.

Ma anche più che all’eleganza del vestire, tenne alla nettezza della
persona. Usava frequente bagni e lavacri d’ogni sorte; aveva delle
sue mani, de’ suoi denti, de’ suoi capelli una cura attentissima; non
avreste trovata sulle sue vesti, spesso logore e strappate, una sola
macchia. Strano a dirsi come quel mozzo paresse un gentiluomo. Nel
primo abbordo aveva quel non so che di semplice e decoroso insieme che
è il primo incantesimo con cui tutti i grandi uomini pigliano di solito
i minori. Non dava che del _voi_; tenne il _tu_ per i figli e per i
più vecchi e più intimi amici; e fuori che al Re non l’abbiamo sentito
dare del _lei_ a chicchessia. Nel ricevere porgeva egli per il primo
famigliarmente la mano; alle signore, tanto più se onorande per età o
per lignaggio, gliela baciava con galanteria di cavaliere.

Nei colloqui preferiva l’ascoltare al parlare, segno questo pure di
cortesia aristocratica. Nelle cose minime, nelle questioni secondarie
d’etichetta o di forma, quando si trattasse di rendere un servizio,
di liberarsi da un fastidio, o di concedere un favore, fosse colui
che gli parlava ricco o povero, umile o potente, era d’un’amabilità
e d’un’arrendevolezza affascinanti. E da ciò la sua troppa facilità
nel concedere commendatizie ed attestati d’onestà e di patriottismo
anche ai meno meritevoli, e l’abuso che tanti indegni poterono fare
della sua parola e del suo nome. Ma in tutti gli argomenti a’ suoi
occhi importanti, quando fosse in giuoco alcuna delle sue opinioni
predilette, o degli affetti dominanti del suo cuore, allora il discorso
cominciava a diventar difficile, e se l’interlocutore s’infervorava
nelle obbiezioni, con una sentenza, un motto, talvolta una scrollata
di spalle, troncava la disputa. Nel 1864 quando visitò Lord Palmerston
in casa sua, avendo questi condotta la discussione sulla Venezia e
tentato di fargli capire che la questione veneta era da rimettersi al
tempo, alla Diplomazia, ai Trattati: «Ma che cosa mi dite, interruppe
di scatto, chè non è mai troppo presto per gli schiavi rompere le
loro catene,» e con una mossa subitanea piantò stupito e quasi a bocca
aperta il suo eloquente contradittore.[416]

E ciò sganni una buona volta coloro che, non sappiamo con quali fini,
si son sempre finto un Garibaldi automa senza idee e senza volontà, e
di cui i pochi furbi che l’accostavano potevano a lor grado guidare i
movimenti e far scattare le molle. Delle idee ne aveva poche, ma tanto
più tenaci quanto più avevano trovato libero il campo dello spirito
in cui abbarbicarsi. Discutere con lui era anche per quelli che più
stimava ed ascoltava, la più ardua e più erculea delle imprese. Era
una sfera d’acciaio brunito che non lasciava presa d’alcuna parte.
Francesco Crispi, nel di lui elogio funebre alla Camera dei Deputati,
disse: «Non ci fu uomo che sia stato come lui forte nelle sue volontà;
egli fece sempre soltanto quello che volle, ma non volle che il bene
d’Italia,» e questa affermazione d’un testimonio che gli fu al fianco
nei più gravi momenti della patria, ci dispensa dal dirne di più.

Le maniere gentili traevano risalto dai costumi semplici. Pochi
uomini più di lui furono nel bere più sobri, nel cibo più parchi.
Fino agli ultimi anni, in cui il vino gli fu ordinato quasi per
medicina, bevette sempre acqua e dell’acqua migliore si pretendeva
buon gustaio finissimo, e l’assaporava, e la decantava talvolta ai
commensali, che non erano sempre del suo gusto, come il più prelibato
de’ nettari. Quanto alle vivande, mangiava poca carne, anche per un
residuo di scrupoli pittagorici che non aveva mai saputo vincere;
prediligeva il pesce, i frutti e i legumi. Un piatto di fichi e di
baccelli lo metteva d’appetito meglio d’un fagiano tartufato! Il pesce
godeva, quand’era sano, pescarselo da sè; e allora due o tre volte
la settimana, al pallido lume di Venere-Diana, presi seco or l’uno or
l’altro de’ suoi figli e per turno questo o quello de’ suoi compagni di
Caprera (quasi sempre, nel 1854, anche lo scrittore di questo libro),
scendeva in canotto, ed ora al largo, ora nei seni più pescosi di
quella pescosissima marina, passava tal volta coll’amo, tal altra coi
filaccioni, quasi mai colle reti, l’intera mattinata, tornandone, rare
volte, a mani vuote, quasi sempre con tanto di preda da fornire il
desinare a lui e a tutta la colonia.

Ma la sua passione predominante fu l’agricoltura. «Di professione
_Agricoltore_,» scriveva egli stesso sulla scheda del Censimento del
1871, e non aveva mentito. Un terzo della Caprera fu ridotto fruttifero
per molta parte del lavoro sudato della sua fronte, o colla scorta de’
suoi precetti e per impulso della sua volontà.

La prima sua opera era stato un vigneto sopra un piccolo altipiano,
a metà via tra la sua casa e Punta Rossa, ma quantunque l’uva, tutta
bianca, ne fosse squisita, la vendemmia non compensò mai la fatica e
la spesa. Più tardi, già preoccupato del problema del pane quotidiano,
volle tentare la coltura dei cereali, e ridusse a frumento un quadrato
di forse quattro ettari; ma qui pure, per colpa non del cultore, ma del
terreno, il frutto non corrispose al dispendio.

Ma il suo vero amore, era il podere modello di Caprera, era il
Fontanaccio. Esso pure, fino al 1859 non era che dura roccia, e d’anno
in anno ci fece la vite, il fico, il pesco, il mandorlo, il fico
d’India, e, sebben più sensibili alle sferzate di grecaio, gli agrumi.

E colà ogni mattina, per lunghi anni, coperto il capo da un cappellone
a larghe falde, in camicia rossa sempre, armato di coltelli e di
forbici agricole, di cui gran parte portava appesi ad una cintura,
passava le lunghe ore a potare, sfrondare, innestare; lieto fin che
lo lasciavano solo, rannuvolato tostamente se un visitatore importuno,
se un telegramma malarrivato, venivano ad interrompergli il piacere di
quelle gradite occupazioni.

Nè agiva empiricamente. Nella sua biblioteca i Trattati d’Agronomia
abbondavano, e parte col sussidio dei libri, parte col consiglio
di questo o quell’agronomo, che metteva subito nel novero de’ suoi
amici, parte coll’aiuto del suo ingegno, naturalmente incline a tutti
gli studi fisici, s’era formato un corredo di idee scientifiche e
razionali, che certo molti de’ più grossi agricoltori d’Italia non
hanno mai posseduto.

Epperò fece venire d’Inghilterra macchine agricole, aprì fosse di
scolo per dar esito alle acque piovane, sanò dalle sotterranee i
terreni più plastici, sostituì alla rotazione dodicennale la coltura
più intensiva delle alberate e degl’ingrassi e agli ingrassi provvide
coll’allevamento del bestiame; (ebbe persino centocinquanta capi
di armento bovino e quattrocento d’ovino); a poco a poco fornì quel
suo podere, strappato zolla per zolla alla breccia ed al granito, di
tutto quanto la scienza ha indicato di più acconcio alla sua coltura;
e stalle e concimaie e capanni per marcimi e lettimi, e colombaie e
alveari e via dicendo; e si rovinò del tutto. Garibaldi non fu mai
ricco; ma i suoi pochi risparmi fatti in America, le eredità fatte dai
fratelli, i denari ricavati dai ricchi regali mandatigli, i denari
stessi donatigli o prestatigli dagli amici di tutto il mondo; tutto
andò a finire nel pozzo senza fondo di Caprera, che non restituì mai al
suo innamorato cultore nemmeno il salario quotidiano delle fatiche che
per circa venti anni le aveva spese d’attorno.


Ma non sempre poteva stare nei campi; e i giorni di pioggia e di vento,
o i più crudi dell’inverno, li passava in casa, seduto quasi sempre,
dopo il 60, di faccia alla terrazza della casa nuova che guardava il
mare, intento alla lettura e alla scrittura. Lesse molto e un po’ di
tutto; ma nessuno vorrà dirlo per questo un lettore portentoso. Dei
libri, già dicemmo quelli che prediligeva: gli storici principalmente
di Grecia e di Roma; i trattati d’Agronomia e di Matematica; e sopra a
tutti, i poeti; e fra questi, come è noto, Ugo Foscolo degli italiani;
Chenier e Voltaire fra i francesi. Negli ultimi anni s’era preso
d’amore per Guerrazzi e Vittor Hugo; due autori non fatti certamente
per temperargli la fantasia, e per la _Storia dell’Italia antica_ di
Atto Vannucci, di cui citava intere pagine anche ne’ suoi romanzi;
ma diletto fra tutti, compagno inseparabile delle sue veglie, primo
confidente del suo spirito, il Carme dei _Sepolcri_, di cui gli
trovaron presso il letto di morte aperto il volume.

Nello scrivere invece inesauribile, infaticabile, e rispetto a tante
altre cose che faceva, prodigioso. E non diciamo delle sue lettere,
testimoni troppo eloquenti della scorrevolezza della sua penna; ma egli
scrisse, in vecchiaia, tre romanzi: _Clelia o il Governo del Monaco_;
_Cantoni il Volontario_ e _I Mille di Marsala_; e da molti anni aveva
intrapreso a scrivere in versi sciolti la storia della sua vita, e
noi stessi, nel 1864, ne udimmo parecchi squarci dalla sua bocca.
Intralasciato poi, per qual ragione non sapremmo dire, questo lavoro,
riprese lo stesso tema in prosa, scrivendo le sue _Memorie_, dal giorno
in cui le lasciò nel 1850, fino, crediamo, alla campagna di Francia. E
queste _Memorie_, ci consta nel modo più certo, egli le affidò, or sono
quattr’anni, in una cassetta chiusa, al figlio Menotti, coll’ordine
espresso di non mostrarle finchè fosse vivo ad alcuno, e soltanto
trascorso un certo termine dalla sua morte, pubblicarle.[417]

Mescolate poi alle _Memorie_ autobiografiche, si trovarono fra
le sue carte, e si troveranno anche più quando si spoglino tutte,
pensieri staccati, frammenti di problemi, appunti, studi fisici e
matematici;[418] persino uno specchietto dei conti di casa, che non
oseremmo affermare tornassero perfettamente.

Infine, poeta nell’anima, cui non era forse mancato per esserlo anche
nell’arte, che il tirocinio degli studi e l’esercizio della tecnica,
e poesia vivente egli stesso, non seppe resistere mai alle tentazioni
d’una certa sua musa bizzarra e selvaggia che le si era annidata nel
cervello, ed empiva quaderni di versi, di cui talvolta l’udimmo noi
stessi recitarne lunghi brani, talchè non ci meraviglierebbe che un
giorno sbucasse fuori dalle sue carte anche un Canzoniere.

E non solo in versi italiani[419] scriveva, ma spesso in francesi, come
ne ha già fatto testimonianza l’inno di guerra composto in Francia
e recitato durante l’assalto notturno di Dijon; e ne fa conferma lo
squarcio di questo Carme, scritto a Vittor Hugo nel 1867, in risposta
della sua _Voix de Guernesey_, rovente ancora delle collere recenti
di Mentana e dove, in mezzo al rombar monocorde delle tribunizie
invettive, senti echeggiare qua e là, fieri e solenni, i giambi del
Barbier.

    Quand plus heureux jadis, aux champs de Parthénope,
    Mes jeunes miliciens ont étonné l’Europe,
    Essuyant leurs pieds nus sur le tapis des rois,
    Donnant à leur pays ce qui fut tant de fois
    Le rêve, le soupir, l’espoir de nos ancêtres,
    Crois-tu qu’ils ont servi, combattu pour des maîtres?
    L’amour de la patrie fut leur seule passion,
    Et de l’humanité libre la mission.
    Ce n’est pas vrai qu’aux rois nous ayons fait l’aumône;
    Nous servions l’Italie, nous ne servions personne.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Si de l’Europe alors la phalange d’élite
    Avait de son appui encouragé de suite
    Les nouveaux Argonautes en leurs braves élans,
    Le Lucifer de Rome avait fini son temps;
    Le monde était guéri de la lèpre infernale,
    Et l’horrible mensogne, à son heure fatale,
    Aurait du despotisme accéléré le sort!
    Mais les nations toujours ont le terrible tort
    De laisser une sœur seule dans la bataille,
    Seule des potentats affronter la mitraille!
    Eux, ils sont bien unis, à l’heure du danger;
    Et les peuples, jamais ne sauront partager
    Le péril en commun pour la cause commune?
    De l’humaine famille à la sainte tribune
    On entendit la voix de la noble Albion
    Imposant fièrement: «Pas d’intervention!»
    Seule! et l’on vit alors le superbe despote
    Reculant sans réplique au devant du grand vote,
    Aller chercher ailleurs des peuples à duper,
    Des tyrans à produire, et le monde à tromper.
    Mais la liberté sainte, au sein de l’Amérique,
    Oh! n’est pas un vain mot, et le sol du Mexique
    Sera longtemps fécond par le sang des Français.
    L’Américain, de maîtres, il n’en voudra jamais!
      Bons pour nous, surannés, remplis, pétris de vices,
    Serviteurs de nos rois, agents de leurs polices!
    Ils ont trouvé la voie de nous tromper toujours,
    Par leurs statuts masqués, par leurs prêtres, leurs cours,
    Des marches de l’autel, où le clergé-mensogne
    Nous montre le salut. C’est hideux, quand j’y songe!
    Nous courons aux tribunes, où nos sages parleurs,
    À force de grands mots, nous dorent nos malheurs.
    Le mouchard, l’alguazil, sont décorés, sont maîtres;
    Il faut, pour prospérer, être serviles ou traîtres;
    Le sang de nos enfants sert à river nos fers;
    La superstition, ce monstre des enfers,
    Plane encore sur le monde, et, comme l’hydre antique,
    Ressuscite toujours dans l’affreuse boutique
    Du prêtre, et le tyran, dont elle est le soutien,
    De sa fausse piété nous montre le maintien.
    De l’or des nations on construit la mitraille,
    Les instruments de mort: et le champ de bataille
    Est toujours des humains l’arène, où de leurs droits
    Au jugement du sabre ont appelé les rois.
    Ton pays et le mien, par un vil servilisme,
    Sont courbés lâchement sous l’impérialisme
    Par qui nos champs sont clos et nos sillons blanchis
    Des os des malheureux que le monstre a trahis
    Avec les vains appâts de conquête, de gloire.
    Le monde est un charnier dont il dore l’histoire.
    «L’empire c’est la paix,» dit-il, le vieux menteur,
    Tandis que de la guerre il est l’instigateur.
    Toujours, toujours poussant les peuples au carnage,
    L’Europe n’a suffi pour contenter sa rage.
    Oh! de l’humanité, quand ce cœur malfaisant
    Aura cessé de battre, on verra reparaître
    Le fraternel amour, les vertus, le bien-être;
    Et de la liberté le soleil radieux
    Des nations trompées dessillera les yeux.

  Caprera, décembre 1867.

                                                   G. GARIBALDI.[420]

                                 * * *

Ma il gusto della vita solitaria stringe l’uomo a tutto ciò che lo
attornia, e l’amore della natura lo inclina ad amare tutto ciò che
essa produce. Da ciò quella gentilezza d’affetto che il nostro Eroe
ebbe sempre per le piante, gli animali, per tutti gli esseri coi
quali per una ragione o per l’altra si trovò a contatto o convisse. E
l’estremo episodio delle due capinere è troppo recente e vivo nella
memoria, perchè sia mestieri addurlo per una prova di più. Soltanto
egli si rendeva conto di questo suo sentimento: nell’arcano fascino che
esercitava su di lui la natura, cercava una dottrina, anzi una fede;
nell’amorosa corrispondenza che sentiva correre tra lui e le cose,
scopriva una prova che le cose stesse fossero dotate d’un’anima pari
alla sua, raggio a sua volta dell’anima dell’universo, e nella quale,
traendo facilmente le ultime illazioni da questa specie di panteismo
sentimentale, sentiva e adorava Dio.

E perchè di questo non si dubiti, si legga questa pagina, crediamo
interessantissima, delle sue _Memorie_.

                                L’ANIMA.

  «Io ho veduto mia madre in sogno. — Io ho veduto mia madre —
  sveglio! — L’amore della mia genitrice non merita esso che in
  qualche momento della mia vita — il mio pensiero si rivolga
  ad essa? — Essa che fu così buona — così affettuosa per me —
  così indulgente! Dunque mia madre in molte circostanze mi si è
  presentata — anche sveglio! Sì, anche sveglio! — perchè pensando
  a quella carissima creatura anche in pien meriggio — mi par di
  vederla sotto quella sua semplice veste — sorridermi col sorriso
  degli angioli. — E l’immateriale corrispondenza degli occhi
  dell’anima non è forse prova sufficiente dell’immortalità della
  stessa? questo per la madre mia — potentissimo affetto! Ma non
  amo io pure il mio cavallo, il mio cane, le mie piante? Quando
  nella mia vita nomade dell’America — dopo una lunga marcia, e dopo
  un giorno di pugna — io spogliava de’ suoi arnesi il mio povero
  stanco cavallo — e lo palpava e lo asciugava del sudore — e rare
  volte io potevo regalare al mio fedele compagno — un pugno di
  biada, — poichè nei campi illimitati di quella parte del mondo, per
  l’abbondanza dei pascoli, ossia per la poca abbondanza di cereali
  non si dà ordinariamente biada ai cavalli, — e dopo d’averlo
  accompagnato all’acqua lo collocavo accanto al mio giaciglio —
  ebbene, dopo tutto ciò che non era altro che un dovere verso il
  mio compagno di fatiche e di pericoli — io mi sentiva soddisfatto.
  Se poi un nitrito del rinfrancato mio compagno si aggiungeva, e lo
  vedevo ravvolgere le stanche membra sulla verdura del campo — oh!
  allora _sentivo la gentil voluttà d’esser pio_.

  »Il mio cane _Castore_, che nel 1849 mi seguiva in Tangeri,
  ov’io ero proscritto — io lo amavo perchè nella sventura e
  nell’isolamento — ov’io ero rigettato dalla fortuna — e dalla
  codarda malvagità di certi uomini — mi sembrava di sentire più
  intenso l’affetto de’ miei superstiti. Il mio cane, dovendo partire
  per l’America, era mestieri lasciarlo — e lo lasciai al mio amico
  Murray, console inglese. Il mio povero _Castore_! pianse per varii
  giorni la separazione dell’ingrato amico — e senza voler prendere
  cibo morì di crepacuore. — Ebbene — io amo e ricordo il mio cane
  commosso. E le mie piante — quelle piante ch’io seminai — che
  ho veduto nascere — e che piccine ho trapiantato in collocazione
  migliore. Quelle piante nei calori estivi — sull’arida terra di
  Caprera languiranno di siccità — e così languide penderanno le loro
  foglie appassite verso il suolo.

  »Io con premura innaffiava le mie care piante e a poco a poco si
  rialzavano dal loro abbattimento e sembravano gettarmi un sorriso
  di gratitudine. L’anima delle povere piante era in corrispondenza
  colla mia, come lo sono quando gettato in questo pelago di miserie
  — lontano da esse — ad esse rivolgo il mio pensiero e mi sento
  deliziosamente sollevato.

  »Egli è il Signore dei cedri del Libano — come dell’issopo che
  cresce nelle più profonde convalli (Massillon)!

  »E perchè sarò io geloso della farfalla — assai più di me bella
  — se piacque all’Onnipotente di dotarla di un’anima? Non bastava
  la mia scintilla animatrice per costituirmi parte dell’anima
  dell’Universo — parte dell’Infinito — parte di Dio? — come lo è la
  scintilla che vivifica la formica ed il rinoceronte?[421]

  »Ignorati da mille passate generazioni — miriadi di mondi rotavano
  nello spazio — e l’occhio scintillante di Galileo li scopriva e
  li svelava all’uomo maravigliato. L’onda e l’aria esplorate dalla
  scienza hanno rivelato all’atterrito osservatore tale numero di
  esseri viventi ignorati sinora, da fare impazzire le maggiori
  intelligenze. L’elettrico solca lo spazio colla celerità del
  pensiero. E chi può limitare i tesori concessi da Dio all’uomo —
  nei portentosi suoi misteri?

  »E l’anima che noi presentiamo — che noi vediamo coll’occhio
  dell’immaginazione — che noi scorgiamo sino nell’impercettibile
  aereo abitatore — l’anima — è dessa forse al di là o al di qua
  della barriera innalzata dall’Eterno all’umana intelligenza?
  Comunque sia — l’anima mia — è un atomo dell’anima dell’Universo
  — e questa credenza mi nobilita — m’innalza al di sopra del
  miserabile materialismo — m’infonde rispetto per gli altri
  atomi, emanazioni di Dio, e mi spinge a meritare il plauso delle
  moltitudini degli atomi che mi somigliano — e che coll’esempio —
  più che colla dottrina — devono far bene — perchè appartengono per
  essenza all’Eterno Benefattore.»

In uomini siffatti gli affetti domestici sono potenti: e di quanta
religione abbia amato la madre sua, di cui portava dovunque nella sua
odissea l’immagine, che rivedeva in sogno come persona viva, nelle
preghiere della quale credeva come ad un talismano, lo sappiamo; e
da qual passione d’amore sia stato avvinto alla sua Anita narrammo a
lungo, per non aver mestieri di dirne più. Così avesse potuto serbar
fede a quel suo primo bello eroico amore; ma la natura non potè dargli
tutte le perfezioni; anzi gli pose nel sangue più acre e imperiosa che
mai l’imperfezione della sensualità.

E qui ripetiamo una parola detta fin da principio in questo libro:
la cronaca degli amori di Garibaldi non è tema per noi. Soggiungiamo
soltanto, poichè c’è in Caprera una lapide di cui tutto il mondo in
quest’ultimo mese ha ripetuto l’epigrafe, che l’Anita Garibaldi, sulla
di cui tomba si legge: «Nata il 5 maggio 1859, morta il 25 agosto
1875,» non è figlia della signora Francesca Armosino; essa è figlia
d’una signora nizzarda, conosciuta da Garibaldi in quel periodo tra
il 1856 e il 1857, in cui navigava ancora su e giù da Nizza a Caprera;
una signora nizzarda di civile condizione, che vive tuttora, e sembra
angustamente, nella sua città natale, e della quale, per questo
appunto, stimiamo dover nostro non gettare in pubblico il nome.[422]
Perchè poi abbia sposato la Raimondi e non quella signora da lui resa
madre, ed abbia creduto doveroso legittimare Manlio, Clelia e Rosita
e non l’Anita, figlia essa pure, al pari di tutti i suoi fratelli,
dell’amore, è uno di quei problemi che la storia non può risolvere, e
fa bene a non approfondire. Perchè si ami e non si sposi; si sposi e
non si ami; si cessi d’amare dopo aver sposato, sono enigmi del cieco
iddio, di cui nessun mortale tenne finora le chiavi.

Lasciamo Garibaldi col fardello de’ suoi peccati amorosi innanzi a
quel tribunale in cui si giudicano insieme i fatti e le intenzioni,
le attenuanti e le aggravanti, e facciamo noi stessi, noi uomini di
questo secolo XIX, _medicus aliorum, ipse ulceribus scatens_, facciamo
il nostro esame di coscienza. Garibaldi ebbe delle amanti! ma qual
meraviglia? Non tiriamo in campo il solito paragone escusativo dei
grandi uomini (donnaiuoli superlativi quasi tutti), perchè anche
parlando solo degli Italiani s’andrebbe all’infinito. Chiediamo
piuttosto al pudico lettore che si scandalizza, alla vereconda damina
che s’imporpora, se una scivolata fuori dalla diritta rotaia degli
amori legali non l’abbian fatta mai. Probabilmente entrambi, dopo una
abbassatina di testa che varrà una confessione, scapperanno fuori in
coro con questa risposta: sì, ma senza scandalo. Era da attendersi:
_si non caste, saltem caute_. Soltanto si potrebbe replicare: se lo
scandalo non sia avvenuto perchè essi seppero destreggiarsi con arte ed
astuzia maggiori di quelli che nello scandalo incapparono, o perchè,
non avendo intorno alla loro persona l’incomodo riverbero di alcuna
celebrità, nessuno s’è occupato dei fatti loro. E forse, posti innanzi
a questi due quesiti, tanto il benigno lettore, quanto la gentile
lettrice non saprebbero quale risposta profferire.

Garibaldi invece, cattivo cospiratore anche nelle congiure d’amore,
operò alla piena luce del sole; non nascose mai nè quello che sentiva,
nè quello che voleva: «Ti amo, mi piaci, ti voglio,» disse alla sua
donna, e se la donna assentì, animale di preda, mai di frode, la rapì
nelle sue braccia, e la fece sua.

E v’ha di più. Qualunque più franco e più ardito amatore avrebbe potuto
avere la probabilità di nascondersi; Garibaldi no.

Per quasi mezzo secolo, gli occhi del mondo restarono sbarrati su
di lui: egli non potè dare un passo, fare un gesto, pronunziare un
detto, comparire o scomparire da un luogo, essere accompagnato o no
da una persona, che migliaia di sguardi non fossero già appostati a
sorprenderlo, e migliaia di migliaia di voci a denunziarlo.

È la sorte degli uomini storici. Tutti sanno a mente le tredici mogli
di Cesare; nessuno sa quante volte al giorno il liberto entrava i
lupanari della Suburra.

Così di Garibaldi! Se egli fosse stato un ignoto, la storia delle sue
mogli e de’ suoi figliuoli, in mezzo alla grande babele erotica del
nostro secolo, sarebbe trascorsa inosservata; mentre è quasi certo che
il tempo, consumate le ultime scorie che ancora involgono la statua
dell’Eroe, la seppellirà nell’oblio.

Comunque, nessuno, per quanto faccia, potrebbe sostenere che Garibaldi
sia stato, nello stretto senso della parola, un libertino.

Un uomo che ebbe una gioventù affaticata e combattuta come la sua,
ed una vecchiezza, nonostante i tanti acciacchi, così resistente e
così prolifica, non può aver abusato della voluttà. Condannato egli
pure ai tormenti del deserto, non macerò le sue carni come i Padri
della Tebaide, ubbidì egli pure alla umana fragilità; ma non permise
a una tale ubbidienza di convertirsi in abito vizioso e molto meno
di degenerare in colpa. Egli non fu un volgare _Don Giovanni_. Figlio
schietto e tuttora indomito della natura, amò con tutta la subitaneità
fulminea e l’abbandono innocente del selvaggio, che non avverte i freni
e ignora le leggi onde la società civile modera e disciplina ad un
più alto fine gli istinti e le passioni umane; ma appena la satanica
scintilla divampò nel suo petto, non la nascose, non s’infinse, non si
mascherò, non sedusse con volgari inganni e con mendaci promesse alcuna
donna, non fece delle conquiste d’amore una gloriola o un mestiere; non
eccitò con turpi artifici le spossate satiriasi della sua senilità: amò
con tutto il foco naturale de’ suoi sensi, con tutto l’impeto del suo
cuore; promise alla donna da lui prescelta quello soltanto che sapeva
di poter mantenere, e mantenne; tre volte giurò di farla sua sposa
innanzi agli altari, o in faccia ai magistrati che la legge religiosa
e civile del suo tempo o del suo paese prescrivevano, e tre volte tenne
il giuramento.

E a dir vero, in questo secoletto di pudichi adulterii, di frolli
concubinati, di bastardini abbandonati, di nozze mercantili, di George
Dandin tolleranti e di monsieur Alphonse tollerati, non toccherà a
Giuseppe Garibaldi, che si affanna e lotta dieci anni per dare il nome
alla donna che amò, non toccherà a lui, innanzi alle Assisie della
Morale pubblica e privata, d’abbassare la fronte.


IV.

_Tutto l’uomo._

Ed ora chi è quest’uomo?

Nasce nella oscura casipola d’un porto da una famiglia di umili
marinai, e già immortale prima della morte, migra dalla terra cogli
onori d’un Re ideale, nella gloria d’un’apoteosi olimpica, lasciando
dietro a sè piuttosto la tristezza d’un astro che s’allontani per
salire ad una sfera più fulgida, che il dolore d’un uomo che muoia.

Trascina la giovinezza in una faticosa vicenda di monotone navigazioni
e di travagliati esigli; e ad un tratto irrompe dalla sua penombra coi
fulgori d’un’apparizione fantastica, e di grado in grado ascendendo
giganteggia nell’arena del nostro secolo come uno de’ suoi più
portentosi figliuoli.

Sbalestrato dall’Oriente all’Occidente, volta a volta pedagogo e
corsaro, mandriano e guerrigliero, agricoltore e capitano, candelaio
e dittatore, la sua vita si svolge nel ciclo di tre generazioni con
tutte le varietà e i contrasti, le sorprese e gli incantesimi d’un
poema ariostesco, mentre colla fusione della storia e della leggenda,
della realtà e della poesia sembra risuscitare la classica unità della
omerica epopea.

È un corsaro; ma comincia il suo byroniano romanzo liberando gli
schiavi neri trovati a bordo della nave predata e rifiutando dai
mercanti prigionieri gli scrigni di gemme che gli offrono per il loro
riscatto.

È un filibustiere; ma una volta, cadutogli nelle mani colui che sei
anni prima gli aveva inflitto l’oltraggio anche più che il dolore della
tortura, lo rimanda libero e perdonato.

È un avventuriere; ma, lo diremo colle stesse parole del generale
Pacheco, «se recavasi negli uffici del Governo era soltanto per
domandare la grazia d’un cospiratore, o per chiedere qualcosa a favore
d’un infelice.»

È un condottiere; ma non riceve altro soldo dal paese a cui consacra
da dodici anni la vita, che la razione del gregario: distribuisce fra
i feriti, gli ammalati e le vedove dell’esercito il primo regalo che
la Repubblica gli fa; rifiuta i gradi e gli onori che essa gli offre;
e di fatto, se non di nome, Generale Ammiraglio, quasi Dittatore, non
possiede che una camicia, i piedi gli sboccano dagli stivali sfondati,
e non ha tanto da pagare il lume del povero abituro in cui si ricovera.

Lo immaginano un fiero lupo di mare e di terra, ispido e coriaceo, vago
soltanto degli spettacoli sanguinosi delle cariche e degli arrembaggi;
eppure l’uomo che nel _saladero_ di Camacua con soli tredici compagni
sfidava, cantando, l’assalto di trecento cavalieri e accettava di
seppellirsi tra le fiamme e le rovine del suo fragile asilo piuttosto
che arrendersi, o che nelle acque del Paranà dopo tre giorni di lotta
«a ferro freddo,» piuttosto che ammainar la bandiera, faceva saltar
egli stesso l’ultimo legno della sua flottiglia; era lo stesso che
in un giorno di battaglia marciando contro il nemico s’arrestava,
dimentico, ad ascoltare il gorgheggio d’un usignolo innamorato, e che
udendo in una cruda notte d’inverno belar tra le rupi della sua Caprera
un’agnella abbandonata, s’alzava di letto per andare, tra il rigor del
libeccio ed il frizzar di brumaio a cercare la derelitta e ospitarla
nella sua medesima stanza.

Lo acclamano infine l’Ettore di Montevideo, il Camillo di Roma,
l’Argonauta di Marsala; ma l’uomo a cui poteva parer poca gloria
la statua di Giove Ultore che dall’alto del Gianicolo assicura il
Quirinale e sfida il Vaticano, non chiede all’Italia, non invoca
dalla sua famiglia altro pegno d’amore che di dormire poca cenere in
un’urnetta di granito, accanto al sarcofago delle sue bambine, sotto
l’acacia che l’ombreggia; novissimo fantasma d’eroe che non potendo
morire come Orlando sulla catasta dei nemici, muore come Washington,
decretando a sè stesso il «rogo di Pompeo.»

Chi è dunque quest’uomo? Costretto a vivere la vita nomade e quasi
selvaggia dei _gauchos_ e dei _rastreadores_; mescolato dalla sua
fortuna alla schiuma degli avventurieri e dei fuorbanditi di tutte le
stirpi, cresciuto suo malgrado alla scuola delle rivoluzioni e delle
guerre perpetue, travolto a controgenio nella mischia di fazioni feroci
e sanguinarie, conserva intatta in mezzo a tanto contagio la nativa
purità dell’anima sua, riportando dal forzato consorzio qualche difetto
e qualche stranezza, non un solo abito vizioso nè un solo sentimento
colpevole.

Braccio designato di tutte le congiure, campione atteso di tutte le
rivolte, alfiere desiderato di tutte le parti; si consacra a tutte, ma
non serve a nessuna, e nel tumultuante pandemonio delle chiese, delle
confessioni, delle sette del suo tempo, si innalza come un Pontefice a
cui tutti si volgono e s’inchinano, e che nessuno può dir suo.

Ama dell’amore geloso e intollerante del selvaggio la sua patria, e va
cavaliere errante di tutte le patrie e crociato di tutte le libertà.
Proclama la fratellanza dei popoli, ma ad ogni straniero che s’accampi
entro il sacro confine della sua terra, grida minaccioso lo sfratto del
poeta:

    Ripassin l’Alpi e tornerem fratelli.

Si protesta repubblicano, ed offre due volte la sua spada a due re.
Resta democratico rivoluzionario socialista; ma partendo per la più
maravigliosa delle sue imprese riconsacra sulla bandiera il patto
d’Italia con Vittorio Emanuele e la monarchia dei plebisciti.

È un Dittatore onnipotente per la gloria e la fortuna, e festeggia
egli stesso l’arrivo del Re e dell’esercito che vengono a spodestarlo;
e fatto nascostamente bottino d’un sacco di civaie, colla ricchezza
di questa preda, colla gioia di chi perdendo il potere ricupera la
libertà, dispare novellamente nella solitudine del suo mare.

È un ribelle, e scrive sulla bandiera il nome del Re a cui si ribella;
poi ferito e imprigionato da lui, continua a restargli fedele, e per la
causa per cui era caduto di palla italiana sul colle d’Aspromonte, cade
di palla austriaca a piedi di Monte Suello.

È un Belial, un Lucifero, un Dragone; sfolgora la grande simonia
del Poter Temporale colle invettive di Dante, e odia la Chiesa
Romana dell’odio di Lutero; a sentirlo si direbbe che sia pronto a
cominciar da un istante all’altro una Saint-Barthélemy di cattolici,
e se incontra uno di quei preti ch’egli chiama _buoni_, è il primo
a stendergli la mano, e crede ancora alla possibilità d’un clero
evangelico, amico della libertà e del progresso; e cerca nelle parole
di Cristo i precetti della _Religione del Vero_, e confida alle sue
_Memorie_ la sua fede in Dio e nell’anima immortale.

Chi è dunque quest’uomo?

Vittor Hugo, il Garibaldi della lirica, lo chiama «l’eroe dell’ideale,»
ma è un responso apollineo: Giulio Michelet esclama: «Degli eroi non
ne conosco che uno: Garibaldi;» ma l’iperbole tradisce la difficoltà
del giudizio: Giorgio Sand scrive: «Garibaldi non assomiglia a nessuno,
pure v’è qualcosa in lui di misterioso che fa pensare;» ma in tal
modo ripropone il problema, non lo risolve. Una delle più celebrate
effemeridi della Gran Brettagna l’_Athenæum_[423] tenta seriamente di
trovare in lui l’incarnazione del veltro allegorico:

    Questi non ciberà terra nè peltro
    Ma sapienza ed amore e virtute;

ma con ciò non fa che addensare sulla fronte del Proteo le nebbie del
più oscuro simbolo dantesco.

I partiti se lo palleggiano; i repubblicani lo contrastano ai
monarchici; i rivoluzionari lo levano al cielo; i reazionari lo
inabissano nel fango; i preti di Sicilia lo annunziano dai pergami
come un nuovo Messia, i preti di Roma lo folgorano d’anatemi come
un Anticristo; la rettorica consuma tutte le sue metafore; l’amore
profonde tutti i suoi inni; l’idolatria esaurisce i suoi incensi;
l’odio erutta tutte le sue bestemmie; la critica stanca i suoi occhi
e la filosofia i suoi ragionamenti; ed egli, al pari della favolosa
Jungfrau, di cui a tutti è concesso ascendere i fianchi e superare le
prime vette, ma a nessuno toccare la cima, ravvolta nell’intatto velo
delle nevi eterne; egli nasconde ancora la parte più alta e più pura di
sè stesso, e dalla sua solitaria rupe continua a sfidare i definitori e
gl’interpreti.

Ancora una volta: chi è quest’uomo?

Il lettore rammenta certamente quell’apparizione quasi fantastica del
secolo XVIII che fu chiamata l’uomo di Rousseau. Prediletto figlio
della natura, dotato delle più nobili facoltà, più ricco d’istinto che
di ragione, e più di sensibilità che di riflessione, uscito più che a
mezzo dallo stato di barbarie, ma ancora esitante sul confine della
civiltà, e portando sempre seco in tutti i passi della sua vita le
abitudini, i gusti e i ricordi della nativa selvatichezza; cresciuto
nella fede che la natura abbia creato l’uomo virtuoso e felice, e la
società sola l’abbia fatto colpevole e infelice; carezzato dal sogno
d’una età reditura di perfezione e di felicità, da cui non già le colpe
sue, ma la prepotenza di pochi malvagi l’abbiano sbandito; educato a
vedere in un ipotetico contratto sociale, quando e come scritto non si
saprebbe, il patto leonino del più astuto o del più forte imposto al
più dabbene e al più debole, l’uomo di Gian Giacomo, quantunque non
corrisponda ad alcuna realtà storica e sia manifestamente il portato
di un erroneo concetto, rappresenta ancora in una figura simbolica
quella lotta antica e perenne della società e della natura, dell’ideale
umanitario, e dell’ideale politico, d’onde uscirono ed usciranno in
perpetuo, insieme alle periodiche convulsioni del genere umano, i
periodici progressi del suo incivilimento.

Agli occhi dell’Adamo ginevrino la natura è la madre, e la società è la
matrigna; da quella la cornucopia di tutti i beni, da questa il vaso di
Pandora di tutti i mali.

Dio si rivela da sè stesso alla coscienza umana nelle opere della sua
creazione, nei beneficii della sua provvidenza, e la società ne oscura
il limpido concetto colla fola delle religioni, le superstizioni dei
culti, il mendacio de’ sacerdoti. La terra fu concessa dal Creatore
per stanza e nutrimento di tutti i suoi figli, e la società sancisce
l’usurpazione del più forte e il furto della proprietà. La natura creò
dal suo grembo tutti gli uomini uguali, e la società vi sostituisce la
superfetazione dei privilegi e delle caste. La natura largì a tutti
i cuori i diritti del libero amore, e la società li sconosce o li
violenta coll’imposizione delle nozze artificiali e indissolubili. La
natura donò alle arti pacifiche e benigne dell’uman genere il fuoco de’
suoi soli, i metalli delle sue viscere, la scintilla de’ suoi corpi,
tutte le arcane potenze de’ suoi elementi, e l’egoismo o l’ambizione
di pochi privilegiati convertirono tutte quelle forze benefiche
in istrumenti di distruzione e di rovina. La natura infine scrisse
nell’anima d’ogni suo figliuolo i sentimenti della giustizia, della
carità e dell’amore, e dacchè in un angolo di quest’aiuola si strinse
il primo consorzio umano,

    . . . . . . . . . . Una feroce
    Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
    Dritto!

Tutto in questo dorato ergastolo della civiltà, dove l’uomo della
natura si sente incarcerato, tutto gli è sospetto ed esoso. La scienza
è un pericolo, il lusso un oltraggio, i trovati dell’uman pensiero
un’insidia, le arti, le arti stesse divine, ponno mutarsi in scuola del
vizio ed in veleno della virtù.

Quale meraviglia pertanto se un uomo siffatto traendo a fil di logica
le ultime conseguenze delle sue premesse, conformando il fatto alla
dottrina, brandisse la fiaccola d’Erostrato e appiccasse egli stesso
le fiamme ai bugiardi templi di quella civiltà ch’egli gridò la
grande nemica dell’umana famiglia? Ma rassicuratevi. L’uomo che vi sta
dinanzi non fu mai un dialettico; il sentimento domina troppo il suo
intelletto, l’amore sovrasta troppo ai suoi odii, perchè egli possa,
coll’inflessibilità d’un Convenzionale e la brutalità d’un Comunardo,
giungere imperturbato alle ultime illazioni de’ suoi principii ed
erigere sopra monti di teste, al chiaror delle torcie petroliere, la
città nuova de’ suoi sogni.

Perisca pure la logica, ma sia salva l’umanità; e però la stessa voce
che poco prima nelle medesime pagine scrollava come vento impetuoso le
mura della vecchia società, risponderà a coloro che gli rinfacciarono
di non saper usare strumenti più efficaci e più pronti: «E che!
bisognerà dunque distruggere la società, annientare il tuo e il mio,
e tornar cogli orsi a vivere nelle selve? Pochi, cacciati dal rimorso
o chiamati da una popolare vocazione, lo potranno; ma i più, ma tutti
coloro che avranno udito la voce dell’Eterno e compreso la necessità
di cooperare colla virtù a’ suoi alti disegni, coloro rispetteranno i
sacri legami della società di cui sono membri, ameranno i loro simili,
serviranno scrupolosamente alle leggi ed agli uomini che ne sono gli
arbitri ed i ministri, e onoreranno sopra ogni cosa i Principi buoni e
saggi che sapranno prevenire o guarire la moltitudine crescente degli
abusi e dei mali che senza posa ci assalgono e ci percuotono.[424]»

Ora si riuniscano tutte le idee capitali di questa dottrina, e si
spiri loro un’anima; si raccolgano tutti i lineamenti sparsi dell’uomo
immaginario che ci passò davanti, e si gettino nella forma concreta e
salda d’un uomo vivo e vero; si dia quindi a quest’uomo reale e storico
lo stesso istinto del bene e intuito del vero, lo stesso concetto
della vita e del mondo, lo stesso amore appassionato della natura e la
stessa antipatia invincibile della società; si compia la sua figura
colla semplicità de’ costumi, il gusto della libertà campestre, il
fastidio della vita cittadina, il bisogno profondo e ineffabile di
solitudine e di pace; non si nascondano per questo alcune delle ombre
che frastagliano anco più scuramente la fronte del simbolico _Emilio_:
la sensibilità eccessiva, la mobilità impetuosa, la intemperanza
delle passioni, la crudezza del linguaggio; si collochi quest’essere
fantasioso e ardente, sdegnoso e pio, istintivo e geniale innanzi
alla civiltà d’un secolo non più, credo, ma non meno corrotto di
quanti l’hanno preceduto, in faccia alle religioni bugiarde non ancora
sfatate, alla clerocrazia tuttora prepotente, ai privilegi mutati, ma
non distrutti, alle caste trasformate, ma non annichilite, al grido
delle nazioni oppresse, all’urlo delle plebi affamate, al gemito dei
bambini venduti, al pane salato dalle lagrime di vergogna della donna
prostituita, e tuttavia saporito al dente dello Stato, e ciò fatto si
dia ad un uomo simile il cuore d’un eroe e il braccio d’un atleta, lo
si armi d’una spada, in luogo d’una penna; si converta ognuna delle
sue idee e delle sue passioni in un fatto, e ogni fatto in un prodigio;
gli si apra per arena il vecchio e il nuovo mondo, e lo si segua sopra
un’interminabile Via Sacra che va da Laguna a Montevideo, dal Salto a
Roma, da Varese a Marsala, dal Volturno a Bezzecca, da Mentana a Dijon;
si riepiloghi finalmente tutta questa epopea nell’egloga di Caprera;
si nasconda tutto questo mondo di gloria e di virtù in una povera urna,
fra due bambine, sotto un’acacia, — e si avrà Garibaldi.


  FINE DEL VOLUME SECONDO ED ULTIMO.




AVVERTENZA.


Nel primo volume trascorsero alcune sviste tipografiche, e alcuni
errori di fatto. Alle prime si ripara con l’_Errata-Corrige_ che viene
appresso; dei secondi siamo lieti di potere, mercè il consiglio di
qualche cortese che volle onorare de’ suoi appunti l’opera nostra, fare
ammenda con queste


                              _Postille:_

Nel primo volume, a pag. 389, in nota, parlando della pensione offerta
dal Governo sardo, per mezzo del generale La Marmora, al generale
Garibaldi, ci siamo un po’ maravigliati che il La Marmora, in certe
sue lettere al Dabormida, avesse tralasciato di notare che Garibaldi la
pensione l’accettò per la madre e la rifiutò per sè, traendo la prova
di questo fatto da una lettera di Massimo d’Azeglio ad Antonio Panizzi,
del 25 luglio 1864, e scorgendo quindi una certa contraddizione tra
l’asserto del generale La Marmora e quello del suo amico, allora
Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ma _Verax_ nel _Fanfulla_ del 30 giugno 1882 (e tutti sanno quale
devoto amico del generale La Marmora si nasconda dietro quel
pseudonimo) mi scrisse una lettera pubblica nella quale sostenne che
contraddizione non c’è: che le pensioni date a Garibaldi furono due:
una, quella di cui parla La Marmora, nel 1849; l’altra, quella a cui
allude Massimo d’Azeglio, accettata per la madre ed i figli nel 1851. E
noi, rispondendo al _Verax_, abbiamo espresso qualche dubbio su questa
seconda pensione; ma egli ci rispose ribadendo e affermando d’avere
visti i Documenti, e noi, senza credere per questo chiusa del tutto la
lite, ci rimettiamo per ora alle autorevoli parole del nostro stimato
amico.

Lo stesso _Verax_ poi.... cioè no.... Luigi Chiala ci scrive
additandoci un altro errore scappatoci a pag. 225, dove diciamo che
teneva il portafogli della guerra il generale Ricci: egli ci ammonisce
che reggente il ministero della guerra era allora Cesare Balbo,
Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale aveva per suo primo
ufficiale il colonnello Dabormida, e soggiunge: «Hai confuso alle volte
col maggiore Giuseppe Ricci, che fu poi generale di Stato Maggiore, e,
se non erro, era allora segretario generale, cioè primo ufficiale agli
esteri?»

E non abbiamo nulla a che ridire sulla rettifica. Soltanto ne giova
soggiungere che un Ricci generale o maggiore deve esserci entrato,
perchè il generale Medici nel brano di Memorie da lui confidate ad
Alessandro Dumas seniore, e delle quali il Medici stesso ci confermò
più volte la veridicità, narrando questo episodio di Garibaldi, dice
che Carlo Alberto lo rimandò a Torino «pour qu’il y attendît les ordres
de son Ministre de la guerre Mr Ricci.»

E il Medici e il Dumas, o forse anche Garibaldi, fecero la confusione
dalla quale fui colto io stesso. E non solo potrebbe essere che essi
abbiano scambiato il maggiore Ricci per un generale Ricci ministro
della guerra; ma che il Ricci di cui parla Garibaldi sia stato il
Giuseppe Ricci ministro dell’interno, appunto nel Ministero Balbo.

D’un altro sbaglio mi avvertì il signor Luigi Torre, di Casale (pag.
256): «Macerata lo elesse (Garibaldi) a suo Deputato alla Costituente
Romana;» soggiunsi: «e fu quello il primo voto che lo mandò in
un’assemblea politica.» Ora il signor Torre mi scrive: «Badi, il primo
Collegio che mandò Garibaldi ad un’assemblea politica fu Cicagna in
quel di Chiavari, nelle elezioni parziali del 30 settembre 1848. La
Camera convalidò la sua elezione nella tornata del 18 ottobre 1848.» Ed
io ringrazio il signor Torre della notizia, e, come vede, la confermo.

Il signor conte Alessandro Morando, che nel 1848 fu tra i primi ad
accogliere Garibaldi a Milano, guardato ancora con sospetto dalla
cittadinanza, dice: che l’albergo da cui arringò il popolo milanese,
di cui si parla a pag. 227 in nota, non fu già _La Bella Venezia_,
dove albergava il Mazzini, ma l’_Albergo del Marino_, e che insieme
e intorno a lui a riceverlo c’era l’ingegnere Geronimo Cantoni, e
l’ingegnere Antonio Anselmi. Anche le parole da lui dette, e da noi
tolte dai giornali del tempo, dovrebbero essere modificate così:
«Quello che avete fatto è un nulla a fronte di quello che dovete fare.
Il nemico che dovete combattere non è tutto fuori di voi: è in mezzo a
voi. Io sono venuto dall’America a dare il mio sangue: fate altrettanto
anche voi.»




ERRATA-CORRIGE.

Volume I.


  _Pag._    _lin._
       5,        7  l’anno stesso di Cavour  _va soppresso_
      27,       12  Ragiundo                 Raimondi
      84,       25  Tramandahy               Taramanday
     id.,     ult.      id.                      id.
      85,        4      id.                      id.
     id.,     ult.      id.                      id.
     170,        9  1842                     1843
     202,       13  14 gennaio               12 gennaio
     206,       22  Duyman                   Dayman
     233,        7  4 luglio                 4 agosto
     247,       27  24 aprile                29 aprile
     259,        7  22 marzo                 23 marzo
     280,       24  Giuseppe Rosselli        Pietro Rosselli
     398,       25  barca                    bara
     422,       24  fosse assalita           non fosse assalita
     424,       21  Migliavaca               Migliavacca
     437,       25  giornata stessa del 27   giornata stessa del 21
     450,       14  maggiore Bioll           tenente colonnello Bioll
     453,       17  colonnello Bioll               id.           id.

A pag. 193, riproducendo in nota l’ode a Garibaldi del signor Giuseppe
Bertoldi, corse un errore di disposizione.

Dopo la strofe sesta «Or leva dai marmorei ec.,» devono seguire
le ultime quattro strofe, che cominciano dal verso «Chi sono quei
fortissimi» e vanno al verso «Che fa l’americane acque stupir;» poi
l’ode continua colla strofe che nel volume sarebbe la settima: «Quando
su noi le barbare ec.»




INDICE DEI NOMI E DELLE COSE


        (Il numero romano indica il volume, l’arabo la pagina.)


Abba Giuseppe Cesare, I, XXI.

Acerbi Giovanni, II, 47, 403, 417, 481, 489, 498, 517, 523.

Acquapendente, II, 498.

Agnetta Carmelo, II, 116.

Agnolucci, II, 492.

Airoldi, I, 424.

Alassio, II, 601.

Albanese Enrico, II, 332, 609.

Albini (ammiraglio), II, 309.

Alcamo, II, 84, 302.

Alessandria, II, 492.

Alfieri, I, 424.

Allemann (signora), I, 75.

Allia, II, 308.

America, vi giunge Garibaldi, I, 48; considerazioni generali sulle
imprese compiutevi da Garibaldi, I, 206.

Amoy, I, 399.

Ampola, II, 440.

Anagni, I, 259, 299.

Andreus Giacinto, I, 71, 75.

Andrews (signor), II, 340, 348.

Anfossi, II, 47.

Anguissola, II, 137.

Anita, I, 90; si fa sposa di G. Garibaldi, I, 93; sua patria e
famiglia, I, 94; è compagna di valore di Garibaldi, I, 97; partorisce
Menotti, I, 99; sofferti coraggiosamente al fianco del marito i disagi
della ritirata dei Riograndesi, giunge a Montevideo, I, 100, 108;
consacra innanzi a Dio le sue nozze con Garibaldi, I, 152; dà vita a
Ricciotti e parte per l’Italia, I, 202; riabbraccia il marito, I, 218;
riceve da Subiaco una lettera dal marito, I, 259; segue il marito nella
ritirata da Roma, I, 332; a Sant’Angelo, I, 346: parte da San Marino,
I, 357; ripara sulla costa di Magnavacca, I, 360, 363; sua morte e
sepoltura, I, 366; aneddoti ed epilogo sulla sua vita, I, 371.

Antonini Stefano, I, 149, 202.

Anzani Francesco, incontra Garibaldi, I, 108; divide con Garibaldi il
comando della Legione di Montevideo, I, 168; notizie sulla sua vita,
I, 169; al combattimento della Boyada, I, 171; al Salto, I, 185; scrive
con Garibaldi una lettera a Pio IX, I, 197; s’imbarca per l’Italia, I,
205; vi giunge moribondo, I, 221; ultime sue parole, I, 224; sua morte,
I, 224, 229.

_Aquila_ (fregata), II, 160.

Archi, II, 136.

Arcioni, I, 235.

Arcisate, I, 240, 465.

Arditi, II, 359.

Arduino (colonnello), I, 424.

Arena (capitano), I, 15.

Arezzo, I, 342; II, 492.

Argentina (repubblica), sue vicende politiche e cagioni della sua
guerra contro l’Uruguay, I, 109.

Argyll (duchi di) II, 358, 362

Armosino-Garibaldi Francesca, II, 596, 598.

Arnay-le-Duc, II, 567.

Arona, I, 236, 438.

Artigas, I, 122.

Ashley, II, 340, 352.

Ashurth, II, 359.

Asola, II, 288.

Aspromonte, II, 153, 298, 314, 317.

_Associazioni unitarie_, II, 281.

Autun, II, 563.

Avezzana Giuseppe, I, 264.

Azzarini Paolo, I, 386.


Bagnorea, II, 498.

Bagolino, II, 434.

Bajada, I, 75.

Barcellona, II, 133.

Bari, II, 412.

Barletta, II, 415.

Barrault, I, 31.

Basile (dottor), II, 330, 332, 382.

Bassi Ugo, I, 269, 332, 349, 357, 360.

Basso Giovanni, I, 400, 403; II, 348, 492, 510.

Bazan (capitano), I, 47.

Beales, II, 340, 382.

Beauregard (capitano), I, 48.

Bedford, II, 358.

Bedini (monsignor), I, 197, 200.

Beghelli G., I, XXIII.

Belforte, I, 450.

Belgirate, II, 292, 483, 486.

Belluno, II, 468.

Belzoppi (capitano), I, 349.

Bentivegna, II, 303, 306, 308.

Bergamo, I, 229, 291, 475; II, 415, 424.

Berkley, II, 359.

Bertani Agostino, I, 401, 425; II, 25, 33, 35, 41, 154, 177, 548.

Bettoletto, I, 480.

Bezzecca, II, 452.

Bideschini F., I, XXI.

Biella, I, 429, 433, 435.

_Bifronte_ (brigantino), I, 205.

Birkenhead, II, 326.

Birmingham, II, 326.

Bixio Nino, a Villa Pamfili, I, 269; nei _Cacciatori delle Alpi_, I,
420, 424, 443, 449, 456, 459; all’impresa dei _Mille_, II, 25, 33, 35,
39, 47, 59, 67, 77, 93, 96, 127, 159, 161; al Parlamento il 28 aprile
1861, II, 261, 400, 418.

Blanc Louis, II, 361.

Blind Carlo, II, 352, 359.

Boggio P. C., I, XXI.

Bogliasco, II, 43.

Bologna, I, 249, 499, 501; II, 467, 493.

Bolzola, I, 431.

Bonnet Giovacchino, I, XXVII, 361.

Bordeaux, II, 579.

Bordone, I, XXII; II, 555.

Borel, I, 36.

Borgomanero, I, 436.

Bosco Beneventano Del (colonnello), II, 21, 136.

Bossi (colonnello), II, 515.

Bourbaky, II, 570.

Bourg, II, 577.

Boyada (torrente), I, 171.

Boyada (città), I, 155.

Brasile, compendio storico delle sue vicende politiche, I, 52; cause
che gli sollevarono contro il territorio di Rio Grande, I, 59.

Brescia, I, 478; II, 7, 288, 425.

Briganti (generale), II, 162.

Bristol, II, 351, 388.

Brodo, I, 338.

Bronzetti Narciso, I, 424, 460, 476, 482.

Brook-House, II, 344, 351.

Brown, I, 153.

Brozzolo, I, 427, 432.

Brusasco, I, 426.

Bruzzesi Giacinto, II, 403.

Bueno, I, 332.


Cabo Frio, I, 51.

_Cacciatori degli Appennini_, I, 432.

_Cacciatori della Stura_, I, 423.

_Cacciatori delle Alpi_, I, 421; II, 17.

Cadolini (colonnello), I, XXVII, 424.

Caffaro, II, 425.

Caianello, II, 229.

Caiazzo, II, 181.

Cairoli Benedetto, I, 424; II, 47, 403, 482, 483, 512, 593.

Cairoli Enrico, II, 516.

Cairoli Giovanni, II, 516.

Calatafimi, II, 72, 302.

Caldesi Vincenzo, II, 483.

Caltanissetta, II, 338.

Cambriels, II, 560.

Camerlata, I, 235.

Camozzi Gabriele, II, 288.

Canavarro (generale), I, 84, 88, 92.

Canton, I, 399.

Canzio Stefano, II, 456, 505, 565, 575, 609.

Capivari, I, 84.

Cappelletti Alessandro, II, 608.

Caprera, I, 394, 400, 401, 417, 504, 509; II, 8, 233, 271, 298, 332,
391, 407, 423, 495, 579, 589, 607.

_Carabinieri mobili_, II, 283.

Caravà (colonnello), II, 549.

Carini, II, 47, 67, 73, 93, 108.

Carlo Alberto, I, 37, 217, 225, 231, 233.

Carniglia Luigi, I, 70, 79, 87.

Carpaneti (console), I, 395, 397.

Carrano Francesco, I, XX, 424.

Casabona Antonio, I, 26.

Casa Bruciata, I, 37.

Casale, I, 430.

Casalmaggiore II, 285.

Casamicciola, II, 393.

Caserta, II, 183, 193.

_Cassapara_ (goletta), I, 88.

Castelfranco, II, 478.

Castel Giubileo, II, 524.

Castelgoffredo, II, 288.

Castelletti, II, 475.

Castelletto, I, 236, 439.

Castellini Napoleone, I, 76, 146.

Castiglia Salvatore, II, 39, 153.

Castiglion Fiorentino, I, 342.

Castore, II, 652.

Castrogiovanni, II, 309.

Catania, II, 312.

Catanzaro, II, 605.

Cattabeni Vincenzo, II, 153, 180.

Cattaneo Carlo, II, 216, 218.

Cattolica, I, 492.

Cavallasca, I, 455.

Cavallotti Felice, I, XXII.

Cavour (conte di), I, 412, 417, 432; II, 1, 9, 28, 149, 170, 206, 211,
260, 262, 269.

Cazzone, I, 451.

Ceccaldi, I, 332, 357.

Ceneri (professor), II, 483, 485.

Cenni, I, 332.

Centorbi, II, 309.

_Centro romano d’insurrezione_, II, 466, 472.

Ceprano, I, 297.

Cerrito, I, 155.

Cesenatico, I, 357.

Cetona, I, 339.

Chambers (signori), II, 340, 342, 353, 375.

Châtillon-sur-Seine, II, 563.

Chenet, II, 568.

Chiassi, I, 332; II, 159, 161, 370, 403, 452.

Chiavari, I, 5, 387.

China, I, 897.

Chioggia, II, 468.

Chretien, II, 109.

Chiswick, II, 385.

Chiusi, I, 339.

Chivasso, I, 426, 429, 432.

Cialdini Enrico, I, 423, 427, 430; II, 266, 511.

Ciceruacchio, I, 253, 332, 357, 360.

Cima-la-Costa, I, 456.

Cincia (isola di), I, 397.

Cipriani Emilio, II, 380, 548.

Citerna, I, 343.

Civitavecchia, I, 261.

Clarendon (conti), II, 358.

_Cleombroto_, I, 40.

Clifden Park, II, 387.

Collins (signora), II, 506, 510.

_Colombo_ (legno da guerra), I, 394.

Colonia, I, 177.

Coltelletti, II, 33, 495.

Comacchio, I, 361.

_Comitati di Provvedimento_, II, 281.

_Comitato Nazionale Romano_, II, 466, 475.

Como, I, 234, 453, 457, 465; II, 285, 412, 424.

_Commonwealth_ (brigantino), I, 399.

Condino, II, 446.

Confine, I, 335.

Coppola Giuseppe, II, 70, 73.

Coriolo, II, 133.

Coritibani, I, 98.

Corleone, II, 302.

Cornwall, II, 388.

Corrao Giovanni, II, 16, 303.

Corrientes, I, 151, 156.

Corte Clemente, I, 489; II, 137, 337, 403, 430.

_Cortese_ (brigantino), I, 25.

Cosenz Enrico, I, 408, 424, 449, 457, 481; II, 137, 153, 162, 177, 186.

Costantinopoli, I, 25.

_Costanza_ (brigantino), I, 19.

_Costitucion_ (corvetta), I, 148.

Covent-Garden, II, 358.

Cremer, II, 567.

Crémieux, II, 555.

Cremona, II, 285.

Crispi Francesco, II, 14, 25, 33, 34, 35, 93, 109, 117, 482, 495, 504,
551.

_Cristoforo Colombo_, II, 607.

Cruz-Alta, I, 97.

_Crystal Palace_, II, 359, 361.

Cucchi Francesco, II, 403, 481, 489, 504.

Cuneo Gio. Batt., I, XVIII, 31.


Dacres (ammiraglio), II, 388.

Dandolo Emilio, I, 298.

D’Apice, I, 235.

D’Aspre (generale), I, 240.

D’Aste, II, 111.

David, I, 289.

Della Verdura (duca), II, 307.

Del Vecchio, II, 489.

De Cristoforis, I, 424, 431, 439, 443, 446, 455.

De Negri (don Pedro), I, 397.

Depretis Agostino, II, 150, 176, 591.

Desenzano, II, 288.

_Des Geneys_ (fregata), I, 41.

Di Cossilla, I, 387.

Dijon, II, 571.

_Diritto_ (_Il_), giornale, II, 404.

Draghignano, I, 43.

Duca di Genova, I, 236.

_Duca di Genova_ (fregata), II, 324.

Dumas Alessandro, I, XVII, XVIII.

Dundey, II, 326.

Dunn, II, 137.


Eber (generale), II, 373, 375.

Eberhardt, II, 156, 161.

Eboli, II, 167.

Echague (don Pedro), I, 71, 75.

Elpis Melena, I, XVII.

Empoli, II, 512.

_Enea_ (brigantino), I, 24.

Entre-Rios, I, 71, 75.

Esenta, II, 427.

_Esploratore_ (L’), I, 400.

Europa (L’) nel 1831, I, 27.

Exeter, II, 388.


Fabrizi Nicola, II, 16, 34, 139, 418, 530, 542.

Fanti (Brigata), I, 424.

Fanti Manfredo, I, 491; II, 259.

Farini, I, 491; II, 14.

Faro, II, 152.

Fazy, II, 482, 483.

Fazzari, II, 614.

Feltre, II, 468.

Fergusson (dottor), II, 373.

Ferrara, II, 467.

Ferrari, I, 424.

Ficulle, I, 339.

Ficuzza, II, 304.

Figline, II, 549.

Filigare, I, 249.

Fino, I, 505, 508.

Finzi Giuseppe, II, 33.

Firenze, I, 249; II, 466, 475, 487, 511.

Foiano, I, 342.

Follonica, I, 386.

Fontana Luigi, II, 493.

Fontebranda, II, 54.

Forbes, I, 357.

Foresti Felice, I, 405.

Forio (Da) Giuseppe, I, XX.

Formicola; II, 229.

Fornuovo, II, 524.

Fortino, II, 176.

Foscolo Ugo, II, 385.

Fowey, II, 390.

Francesco I di Napoli, II, 166.

Francia, II, 328.

_Franklin_ (piroscafo), II, 157.

Frattini, II, 476.

Friggesy Gustavo, I, XXII; II, 518.

Froscianti, I, 403.

Frosinone, I, 297, 299.

_Fulminante_ (fregata), II, 160.

Fumagalli, I, 332.

Fuxa, II, 96.

Fuzzi Antonio, I, 386.


Gallarate, II, 415, 424.

Galles (principe di), II, 386.

Galliano, II, 475.

Galpon de Chargucada, I, 80.

Gambetta, II, 556.

Gancia (convento della), II, 17.

Garibaldi Angelo (iuniore), I, 10.

Garibaldi Angelo (seniore), I, 6.

Garibaldi Anita. Vedi Anita.

Garibaldi Anita (figlia), II, 596, 653.

Garibaldi Clelia, II, 596.

Garibaldi Domenico, I, 5, 6.

Garibaldi Felice, I, 10, 401.

Garibaldi Giuseppe, sue _Memorie_, I, XXV, 3; prima sentenza che
lo condanna nel capo, I, 1; sua nascita, patria e discendenza della
famiglia, I, 5; suo padre, I, 5, 6; sua madre, I, 5; suo onomastico,
I, 9; fratelli e sorella, I, 10; condizioni morali ed economiche della
sua famiglia, I, 10; sua infanzia, I, 11; prime prove di coraggio ed
abnegazione, I, 13; studi, maestri e coltura, I, 13; suo grande amore
per il mare, I, 18; primi viaggi marittimi, I, 19; visita Roma, I,
21; pensa all’incanalamento dei Tevere, I, 23; continua i viaggi ed è
spettatore al primo naufragio, I, 24; infermasi a Costantinopoli, I,
25; precettore di fanciulli, I, 25; diviene capitano di mare, I, 26; lo
stato politico d’Europa e d’Italia comincia a commuovergli l’animo, I,
27; incontrasi coi _Sansimoniani_, I, 31; a Taganrok scopre l’esistenza
della _Giovine Italia_, I, 33; presentasi a Mazzini, in Marsiglia, per
esservi aggregato, I, 35; tornato in Liguria, si mette in relazione
co’ principali patriotti e iscrivesi come semplice marinaio nella
flotta regia, per far propaganda fra gli equipaggi, I, 39; fallito
il movimento repubblicano in Piemonte, ripara in Francia, I, 41;
arrestato, riesce a fuggire, I, 43; volge i passi verso Marsiglia e
dopo una curiosa avventura vi giunge, I, 44; legge la sua condanna
di morte, I, 46; cambia nome, I, 47; gode dell’ospitalità di un amico
finchè trovasi un posto di secondo sopra un brigantino, I, 47; salva
un giovinetto che annega, I, 47; assoldasi nella flottiglia del Bey di
Tunisi, I, 47; tornato a Marsiglia e trovatala afflitta dal colèra, si
dà ad assistere gl’infermi, I, 48.

Fa vela per Rio Janeiro, I, 48; v’incontra Luigi Rossetti, I, 50; si
dà al cabotaggio, I, 51; dopo la sollevazione di Rio Grande, visita in
carcere Livio Zambeccari, che lo anima a far guerra al Brasile, I, 61;
va corsaro contro il Brasile, I, 62; prima sua impresa di corsaro, I,
62; tocca le coste dell’Uruguay, dalle quali è obbligato allontanarsi
per non essere arrestato, I, 64; non volendo abbandonare l’Uruguay,
giunge con molti pericoli a Jesus-Maria, I, 64; procura con ardito
espediente vettovaglie al suo equipaggio, I, 65; per la prima volta
trovasi nelle _Pampas_ e v’incontra una poetessa, I, 66; attaccato
da due lancioni dell’Uruguay, li respinge, rimanendo ferito, I, 69;
fa volger la prua verso Santa-Fè, nel Paranà, I, 70; raccolto da un
bastimento brasiliano, vien condotto a Gualeguay e quivi ritenuto
prigioniero, I, 71; confortasi coltivando lo spirito e poetando sui
pietosi casi d’Italia, I, 72; stanco del suo stato fugge, I, 74:
ripreso e ricondotto a Gualeguay, vien posto alla tortura da un feroce
governatore, I, 74; al quale più tardi, avendolo prigioniero, perdona,
I, 76; vien posto in libertà, I, 75; ripara in Montevideo, ospitato e
protetto da alcuni amici, I, 76; va con Rossetti a Piratinin, campo
dei Riograndesi, I, 76; raggiunge il presidente della repubblica
di Rio Grande, I, 77; il quale gli commette l’organizzazione ed il
comando di una flottiglia, I, 78; costruisce ed arma due lancioni e
spingesi nella laguna _de los Patos_, I, 78; con tredici uomini resiste
all’assalto di 150 cavalieri, I, 80; con mille espedienti conduce la
sua flottiglia in mare, I, 83; un naufragio gli toglie le navi e i
più cari compagni, I, 85; con altri legni riprende le ostilità, I,
88; dopo alcuni combattimenti ripara nel porto d’Imbituba, I, 87;
di dove respinto il nemico, rientra nella laguna di Santa Caterina,
I, 89; suoi amori, I, 68, 90; incontra Anita Riberas e la toglie in
moglie, I, 90; è obbligato far saccheggiare Imeruy, I, 95; cominciata
la ritirata dei Riograndesi, si adopera per renderla meno disastrosa,
I, 96; con tre navi resiste a ventidue e a molte truppe di terra, I,
97; protegge la ritirata con settantatrè uomini contro cinquecento, I,
98; a Santa Vittoria decide del combattimento, si trova alla fazione di
Taquary, all’assedio di San Josè rimane quasi padrone della città, I,
98; gli nasce il figlio Menotti, I, 99; la sua famiglia soffre stenti
e pericoli, I, 99; è funestato dalla morte di Rossetti, I, 102; sua
descrizione della ritirata dei Riograndesi, I, 103; decidesi portarsi
a Montevideo, e per via si fa truppiere, I, 107; incontra Francesco
Anzani, I, 108; giunge a Montevideo, I, 108.

Trova Montevideo impegnata nella guerra contro Rosas, I, 109; si dà
a trafficare e insegnare matematiche, I, 146; gli viene offerto il
comando della flottiglia della città, I, 147; accetta e gli è affidata
rischiosissima impresa, I, 151; avanti di accingervisi consacra
all’altare la sua unione con Anita, I, 152; partito per il Paranà, a
Martin Garcia sfida i primi pericoli, I, 153; può sfuggire a un attacco
dell’ammiraglio Brown, I, 153; entrato nel Paranà vince a Boyada,
a Las Concas, al Cerrito, I, 155; seguita la rotta per Corrientes,
catturando alcune navi mercantili, I, 155; a Nueva Cava, attaccato con
forze superiori, resiste tre giorni e tre notti e si salva co’ suoi
incendiando le navi, I, 156; suo valore nella campagna del Paranà, I,
160; conducesi invano a San Francisco per unirsi al generale Ribera,
I, 161; gli viene affidato da Montevideo l’ordinamento e il comando
di una nuova flottiglia, I, 164; prende anche il comando della Legione
Italiana, I, 166; divide con Francesco Anzani il comando della Legione,
I, 168: la conduce al combattimento della Boyada, I, 171; continuano
le sue animose avventure, I, 173; risale il Plata, s’impadronisce
di Colonia, Martin Garcia e Mercedes, respinge il general Lavalleja,
sorprende Gualeguaychu e giunge al Salto, I, 176; si porta a Tapevi,
ove vince la battaglia di Sant’Antonio, I, 178; ordine del giorno
dopo la vittoria, I, 187; continuato a battagliare per qualche tempo
al Salto, torna a Montevideo, I, 193; risale l’Uruguay e vince a Las
Vacas, I, 195; gli viene offerto il comando della piazza di Montevideo,
I, 195; accettatolo è obbligato rinunziarvi poco dopo, per le mene
di alcuni invidiosi, I, 195; rimette all’obbedienza un reggimento
di negri ammutinato, I, 196; giuntegli novelle della rivoluzione
d’Italia, scrive insieme ad Anzani una lettera a Pio IX, offrendogli
il suo braccio per la causa italiana, I, 197; preparasi a partire
per l’Italia, I, 201; gli nasce Ricciotti, I, 202; imbarca Anita per
l’Italia, I, 202; manda in Italia Giacomo Medici con istruzioni per
preparare la patria a riceverlo, I, 203.

Imbarcasi per l’Italia con un manipolo di legionari, I, 205; sua vita
tenuta in America: conclusioni generali I, 206; in alto mare salva
il bastimento da un incendio, I, 214; presso Gibilterra ha notizia
della scoppiata rivoluzione, I, 214; approda a Palos, I, 217; decide
offrire il suo braccio a Carlo Alberto, I, 217; giunge a Nizza, I, 217;
abbraccia i suoi, I, 218; il popolo l’accoglie festante, I, 218; recasi
a Genova, I, 220; assiste l’amico Anzani morente, I, 221; palesa i suoi
pensieri intorno ai casi della guerra, I, 222; parte da Genova, passa
da Novara e da Pavia per condursi a Roverbella a offrire il suo braccio
a Carlo Alberto, I, 224; rinviatolo questi a’ suoi ministri, si conduce
a Torino, I, 225; non concluso niente col governo del Piemonte, va a
Milano, I, 227; vi riceve il comando di tremila volontari, I, 228; con
questi si porta a Bergamo, I, 229; è chiamato a Milano, I, 231; accampa
a Monza, I, 232; caduta Milano, ritirasi su Como, I, 234; giunto a
Camerlata vi si trincera, I, 235; invita l’Italia alle armi, ed apre
nuovi arruolamenti, I, 235; levato il campo da Como si dirige a San
Fermo, I, 236; tocca Varese, parte per il Lago Maggiore, tragitta il
Ticino ed approda presso Arona, I, 236: intimatogli dal Duca di Genova
di sciogliere i suoi volontari, inalbera il vessillo mazziniano _Dio e
Popolo_, e fa un proclama agl’Italiani, I, 236; risale il Lago Maggiore
e si accampa a Luino, I, 238; sbaraglia una colonna austriaca, I, 238;
giunge a Varese, I, 239; si ritira sulle colline di Induno, I, 239;
riesce a porsi alle spalle de’ nemici a Morazzone, I, 240; attaccato, è
obbligato ripararsi in Isvizzera, I, 241; sua prima impresa in Italia:
conclusioni generali, I, 243.

Si riconduce a Nizza e di là a Genova, I, 246; di qui parte con
cinquecento volontari in soccorso della Sicilia, I, 243; accetta a
Livorno il comando dell’esercito toscano e si conduce a Firenze, I,
249; s’accinge a portare aiuto a Venezia, I, 249; il generale Zucchi
gl’impedisce il cammino alle Filigare, può proseguire e tocca Bologna
e Ravenna, I, 249; accorre a Roma, I, 250; non si accolgono troppo
cordialmente i suoi servigi, I, 251; vien mandato tenente colonnello
a Macerata, I, 253; gli viene ordinato di combattere il brigantaggio
nell’Ascolano, I, 254; a tal uopo per Tolentino, Foligno e Spoleto si
porta a Rieti, I, 255; di qui va a Roma per assistere all’apertura
del Parlamento come deputato di Macerata, I, 256; suo primo atto
parlamentare, I, 256; torna a Rieti, I, 258; condottosi a Subiaco
scrive ad Anita, I, 259; richiamato a Roma per la difesa contro i
Francesi, è riconosciuto generale, I, 264; vince co’ suoi a Villa
Pamfili, I, 266; gli è vietato compiere la disfatta dei Francesi, I,
270; tenta dare un nuovo combattimento I, 271; invaso lo stato di Roma
da’ Napoletani, gli vien commesso di molestarli, I, 272; a tal uopo va
a Tivoli, I, 272; poi a Palestrina a vista dei nemici, I, 274; respinge
un attacco di questi, I, 275; consigliato dai casi della guerra torna a
Roma, I, 276; vien promosso generale di divisione, I, 280; si accinge
col generale Rosselli a battere l’esercito borbonico, I, 281; vince a
Velletri, I, 283; nel caldo della mischia rischia perder la vita, I,
287; per cogliere i frutti della vittoria vuol entrare nel Napoletano,
I, 296; gli viene accordato dal governo di Roma, I, 297; partito per
l’impresa tocca Frosinone e Ripa, sconfina a Ceprano e prende ai nemico
Rocca d’Arce, I, 297; i casi della guerra lo richiamano a Roma, I,
299; da Frosinone scrive al Masina dandogli il comando della Legione
Italiana, I, 300; assalta eroicamente Villa Pamfili, I, 302; sua parte
nell’assalto, I, 309; assediata Roma ha la parte principale nella
difesa, I, 314; guida l’_incamiciata_, I, 316; presa dai Francesi
la breccia rifiuta al Triumvirato tentarne il riacquisto, I, 319;
consiglia invece altro modo di difesa, I, 321; propostagli da Pietro
Sterbini la dittatura, la rifiuta, I, 322; continua a dirigere la
difesa, I, 325; perduta l’ultima breccia, rafforza Villa Spada e la
difende, I, 327; perduta anch’essa spera arrestare il nemico a Ponte
Sant’Angelo, I, 328; è richiesto di consiglio dalla Costituente sullo
stato delle cose, I, 328; esce di Roma, I, 332.

Accompagnato dagli avanzi delle sue legioni pernotta a Monticelli,
s’accampa a Monterotondo, I, 332; è minacciato dai Francesi, dagli
Spagnuoli, dai borbonici e dagli Austriaci, I, 334; toccato Confine e
Poggio Mirteto incontra a Terni il colonnello Forbes con un rinforzo,
I, 335; si porta a San Gemini presso Todi, I, 336; lascia Todi, passa
il Tevere a Monte Acuto e s’incammina per Orvieto per la via di Brodo,
I, 337; da Orvieto va a porre il campo a Ficulle, I, 338; riposa a
Sole e giunge a Cetona, I, 339; scaramuccia tra Sarteano e Chiusi,
riposa a Sarteano, I, 339; entrato in Montepulciano fa un proclama ai
Toscani, I, 340; giunto a Torrita risolve d’andare a Venezia, I, 341;
passa per Foiano, Castiglion Fiorentino e giunge ad Arezzo, I, 342;
scaramuccia col nemico e riposa a Monterchi, I, 343; porta il campo a
Citerna e di là a San Giustino, I, 343; valica il monte della Luna, I,
344; riposa a Mercatello, I, 345; s’accampa a Macerata Feltria, I, 346;
per le alture di Carpegna si dirige a San Marino, I, 347; ove manda Ugo
Bassi a chieder passo e viveri, I, 349; sconfittagli dagli Austriaci
la retroguardia, ripara a San Marino, I, 349; fattosi mediatore
il governo di San Marino per ottenergli buoni patti dal nemico,
scioglie i suoi volontari, I, 350; fugge da San Marino con pochi dei
suoi, I, 356; a Cesenatico fa vela per Venezia, I, 357: attaccato
da incrociatori austriaci, si salva sulle coste di Magnavacca, I,
359; perseguitato, abbandona la spiaggia con la moglie morente, I,
360; incontra Giovacchino Bonnet, I, 361; dal quale riceve aiuti per
salvarsi, I, 363; fugge per Comacchio e giunge alla villa Guiccioli,
I, 365; gli muore Anita, I, 366; da villa Guiccioli va a Sant’Alberto,
di lì a Modigliana, I, 385; per quel di Prato, Poggibonsi, Pomarance
e Massa Marittima va a Follonica, I, 386; qui imbarcatosi approda a
Porto Venere, I, 386; giunto a Chiavari è fatto arrestare dal governo
piemontese, I, 387; posto in bando dal Piemonte va a Tunisi, I, 388; il
Bey di Tunisi gli ricusa ospitalità, I, 393; approda all’Isola della
Maddalena, I, 393; il governo piemontese lo ritrae di là e lo manda
a Gibilterra, I, 394; salva un canotto sardo naufragante, I, 394;
Gibilterra e la Spagna ricusano ricettarlo, I, 394; gli viene offerta
ospitalità dagli Stati Uniti d’America, I, 394; ripara a Tangeri
ove scrive le sue _Memorie_, I, 395; si conduce a Liverpool, di là a
New-York, I, 395; ove si dà a fabbricar candele per campare la vita,
I, 396; offertogli il comando di una nave mercantile lascia New-York,
I, 397; a Panama è ridotto in fin di vita, I, 397; guarito va a Lima,
I, 397; commessogli il comando di una nave va da Lima a Hong-Kong,
I, 397; riapproda a Lima, I, 399; a New-York prende il comando di
una nuova nave, I, 399; toccato New-Castle giunge a Genova, I, 400; a
Nizza abbraccia i suoi, I, 400; datosi al cabotaggio va a Marsiglia, è
intenzionato comprare Caprera, I, 400; si stabilisce a Caprera, I, 401;
prende l’incarico di liberare i prigionieri di Santo Stefano, I, 404; a
Genova parla con Foresti sui casi d’Italia, I, 405.

Visita Cavour a Torino, I, 411; a Voltaggio fa un proclama ai giovani,
I, 412; aderisce all’Associazione Nazionale, I, 413; conferisce col
Cavour intorno alla futura guerra, I, 417; torna a Torino chiamato
da Vittorio Emanuele, I, 419; annunzia la guerra a’ suoi amici, I,
420; è chiamato da Caprera per capitanare i _Cacciatori delle Alpi_,
I, 423; per Savigliano, Chivasso e Cavagnole giunge a Brusasco co’
suoi _Cacciatori_, I, 426; presidia Verrua e s’accampa sulle alture
di Bruzzolo, I, 427; prende posizione a Ponte Stura, Casale, Bolzola
e Rive, I, 430; a Ponte di Casale ributta il nemico, I, 431; va a San
Salvatore dal Re che gli dà ordini scritti, I, 431; contromarcia per
Brozzolo, invia la brigata verso Chivasso e va a Torino dal Cavour, I,
432; si pone a San Germano sotto gli ordini del general De Sonnaz per
la presa di Vercelli, I, 432: comincia la marcia per la Lombardia, I,
433; tocca Biella, Gattinara, Romagnano, Borgomanero, I, 436; muove
su Arona per Castelletto ed occupa Sesto Calende, I, 437; toccata la
Lombardia riceve deputazioni patriottiche, giunge a Varese, I, 441; è
minacciato dagli Austriaci guidati da Urban, I, 445; si dà alla difesa
di Varese, porta il quartier generale a Villa Ponti, I, 447; batte il
nemico a Varese e a San Salvatore, I, 449; muove su Como, I, 453; vince
a San Fermo, I, 454; entra in Como, I, 456; tenta sorprender Laveno,
I, 458; rioccupato Varese dall’Urban, prende posizione a Sant’Ambrogio
e Robarello, I, 461; ripiega su Como per Induno ed Arcisate, I, 464;
incontra la marchesa Giuseppina Raimondi, I, 465; rientra in Como,
I, 466; conclusioni intorno alla sua campagna di Lombardia, I, 467;
per Lecco, Caprino e Almenno, piomba su Bergamo, I, 474; è chiamato a
Milano da Vittorio Emanuele, I, 476; tornato a Bergamo va a Brescia, I,
478; a Rezzato e a Tre Ponti, I, 480; ultime sue operazioni, I, 483;
accetta il comando dell’esercito toscano, I, 487; divide con Manfredo
Fanti il comando dell’esercito dell’Italia centrale, I, 491; vien
mandato sul confine pontificio con due divisioni, I, 492; è chiamato
dal Re a conferire intorno agli Stati pontifici, I, 495; resta dinanzi
alla Cattolica a provocare l’insurrezione fra i Marchigiani, I, 499;
al governo di Bologna promette desistere dall’impresa d’invadere le
Marche, I, 499; ad Imola falsi messaggi gli dicono essere scoppiata
l’insurrezione nelle Marche, I, 500; da Rimini comanda alle sue truppe
di sconfinare, I, 500; impedito il movimento delle sue truppe va a
Bologna a rampognarne Fanti e Farini, I, 501; è chiamato da Vittorio
Emanuele che lo consiglia a rassegnare l’ufficio, I, 503; da Genova
annunzia con un proclama le sue dimissioni, I, 503; invita gl’italiani
ad una sottoscrizione per l’acquisto di un milione di fucili, I, 504;
passa qualche tempo a Nizza, I, 505; tocca Caprera, e da Fino indirizza
un appello agli studenti di Pavia, I, 505; passato da Milano va a
Torino a chiedere l’organizzazione della Guardia Nazionale e fonda
l’associazione _la Nazione Armata_, I, 566; va a Fino a sposare la
marchesina Raimondi, I, 508; la ripudia e si porta a Caprera, I, 509;
suo operato nell’Italia centrale: conclusioni, I, 510.

Nizza lo manda al Parlamento subalpino, II, 7; svolge a Torino
un’interpellanza sulla cessione di Nizza, II, 8; invitato a fare una
spedizione in Sicilia, accetta, II, 25; chiede a Vittorio Emanuele
milizie regolari per la spedizione, II, 26; non ottenutele va a
Quarto ove stabilisce il quartier generale della spedizione, II, 33;
soffocata l’insurrezione siciliana dichiara impossibile l’impresa,
II, 35; decide la spedizione, II, 36; salpa da Quarto coi Mille,
II, 37; scrive a Vittorio Emanuele lo ragioni dell’impresa, II, 40;
raccomanda disciplina all’esercito regolare italiano, II, 41; dà
istruzioni ad Agostino Bertani riguardo alla spedizione, lasciandolo
suo rappresentante sul continente, II, 41; a Bogliasco non trova le
armi che gli dovevano pervenire, II, 43; fa rotta per Piombino, II,
44; getta l’àncora a Talamone, II, 45; a Talamone ed Orbetello trova
armi e munizioni, II, 45; ordina la legione, II, 47; creduto opportuno
promuovere un’insurrezione nell’Italia centrale, divisa farvi una
piccola spedizione, II, 48; dà il comando al colonnello Zambianchi,
II, 50; fa un proclama ai Romani e dà istruzioni allo Zambianchi, II,
51; nelle acque di Marettimo, II, 58; sbarca a Marsala, II, 60; ove
pubblica un proclama ai Siciliani, II, 64; a Rampagallo e a Salemi
ha i primi soccorsi d’armati, II, 66; gli muove contro il generale
Landi, II, 71; vittoria di Calatafimi, II, 72; sosta ad Alcamo, e per
Partinico e Borgetto giunge al Passo di Renna, II, 83; a Piana de’
Greci, a Misilmeri, sulle alture del Parco, II, 86; a Palermo, II, 89;
dal borbonico Lanza è invitato ad una conferenza, II, 105; è attaccato
in Palermo dai borbonici, fedifraghi alla pattuita tregua, II, 107;
prende parte alla conferenza sulla nave inglese _Hannibal_, II,
109; accetta un armistizio dai borbonici, II, 113; dopo il resultato
della conferenza fa un proclama ai Siciliani, II, 113; consente al
nemico una tregua di tre giorni, II, 115; si adopra a dare una forma
regolare al governo di Palermo, II, 117; resta padrone di Palermo,
II, 117; provvede ai bisogni del nuovo governo, II, 120; scambia
visite con Persano, II, 125; pensa bene occupare militarmente i centri
principali dell’Isola, II, 127; dà lo sfratto al La Farina, II, 128;
resta padrone di Milazzo, II, 127, 133; occupata Messina, volge in
mente passare lo stretto, II, 147; intorno a ciò riceve una lettera
di Vittorio Emanuele, cui risponde, II, 147; elegge Agostino Depretis
suo prodittatore nel governo dell’Isola, II, 149; per facilitarsi il
passaggio dello stretto si porta al Faro, II, 151; primi tentativi di
sbarco, II, 153; commesso al Sirtori il comando dell’esercito, parte
dal Faro e si porta al Golfo degli Aranci, II, 154; preso il comando
di due brigate di una nuova spedizione, le conduce a Palermo, II,
159; di là va a Taormina a prepararsi allo sbarco sur continente, II,
158; a Melito tocca la spiaggia calabrese, II, 160; s’impadronisce di
Reggio, II, 161; la divisione Briganti gli si rende a discrezione,
II, 162; muove su Napoli, II, 163; i generali Caldarelli, Flores e
Viale gli lasciano libero il passo, II, 164; si sbarazza del general
Ghio, II, 164; minacciato dai borbonici concentra le forze ad Eboli,
II, 167; entra in Napoli, II, 168; aggrega la marina militare e
mercantile napoletane a quella del Piemonte, II, 170; gli annessionisti
lo stringono a dare il plebiscito, II, 171; vieta al Depretis far
l’annessione della Sicilia, II, 176, 177; rimasta senza prodittatore
la Sicilia, si porta a Palermo a ristabilire il governo, II, 178;
ordina al Türr di soffocare una sommossa ad Ariano, II, 179; a Caiazzo,
II, 180; si prepara alla battaglia del Volturno, II, 183; vince al
Volturno, II, 187; alla fazione di Castel Morone e Caserta, II, 193;
sua battaglia al Volturno: conclusioni generali, II, 195; il suo
esercito s’indebolisce, II, 200; dopo Castelfidardo ed Ancona felicita
con lettera Vittorio Emanuele per le vittorie riportate, II, 206;
offre a Giorgio Pallavicino la prodittatura, II, 211; il suo dissidio
con Cavour s’inasprisce, tenta comporlo il Pallavicino, II, 211; gli
si aggrava la questione dell’annessione, II, 214; allontana da Napoli
il Mazzini, II, 216; dà la prodittatura ai Pallavicino, II, 216; si
sdegna della promulgazione del plebiscito fatta dal Pallavicino, II,
217; Napoli gli chiede il plebiscito, II, 218; delibera l’annessione,
II, 220; respinge una sortita de’ nemici da Capua, II, 223; detta
un _Memorandum_ alle potenze d’Europa in cui fa voti per la pace de’
popoli, II, 223; fa un proclama alle Due Sicilie, in cui le dichiara
annesse all’Italia, II, 227; a Caianello presso Teano incontra Vittorio
Emanuele, II, 228; gli chiede di essere primo allo scontro nella futura
battaglia e gli è rifiutato, II, 229; si ritira a Napoli, II, 230;
scrive a Vittorio Emanuele declinando la dittatura, II, 231; consegna
una bandiera alla Legione Ungherese, distribuisce le medaglie ai
_Mille_ e passa in rivista il suo esercito a Caserta, II, 231; entra in
Napoli con Vittorio Emanuele, ricusando tutti gli onori offertigli, II,
232; lascia Napoli per la sua Caprera, II, 232; la sua impresa delle
Due Sicilie: conclusioni generali, II, 235.

Suo tenore di vita a Caprera, II, 242; è visitato da un continuo
pellegrinaggio, II, 244; preparasi a sciogliere il voto a Roma e
Venezia, II, 245; giungono a lui i lamenti dei suoi commilitoni
lagnantisi del trattamento del governo, II, 250; eletto deputato di
Napoli va a Torino, II, 255; sua prima seduta al Parlamento italiano,
II, 257; riceve una lettera dal Cialdini, II, 266; vi risponde, II,
268; Vittorio Emanuele lo invita presso di lui insieme al Cavour per
conciliarli, II, 269; si riconcilia col Cialdini, II, 269; torna a
Caprera, II, 271; si attenta alla sua vita, II, 272; è invitato dagli
Stati Uniti a prendere il comando dell’esercito federale, II, 275; è
visitato a Caprera dal senatore Plezza, che lo invita ad inaugurare i
Tiri Nazionali a nome del governo, II, 277; tocca Genova, e a Torino
parla col Re e Rattazzi, II, 278; torna a Genova per comporre i dissidi
del partito rivoluzionario, II, 280; avute offerte di armamenti dal
governo, parte per la Lombardia, II, 283; a Milano visita Manzoni, II,
284; continua il viaggio per Monza, Como, Lodi, Arona, Casalmaggiore,
Cremona, II, 285; visitata Brescia, Montechiari, Castelgoffredo, Asola,
Desenzano, Pavia, si riduce a Trescorre a preparare una spedizione, II,
288; la sua congiura è scoperta dal governo, II, 290; la sua spedizione
è arrestata a Palazzolo e a Sarnico, II, 291; da Torino si porta a
Belgirate, II, 292; scrive una lettera al Parlamento spiegando i fatti
di Sarnico, II, 293; toccato Torino e Caprera sbarca a Palermo, II,
297; invita il popolo alle armi per toglier Roma ai Francesi, II, 301;
visita i luoghi del 1860, a Marsala annunzia la spedizione contro Roma,
II, 302; affretta i preparativi della spedizione, II, 303; parte per
la Ficuzza ove sono assembrati i suoi volontari, II, 304; ordina la
sua gente e s’avvia a Mezzojuso, II, 306; il governo decide opporsi
alla sua spedizione, II, 306; passa da Allia, Valledolmo, Villalba,
a Santo Stefano una sua colonna viene alle mani co’ soldati regolari,
toccata Santa Caterina e Marianopoli entra in Caltanissetta, II, 309;
passa da Girgenti, Villarosa, Castrogiovanni, Piazza, Leonforte, San
Filippo, Regalbuto, II, 309; riceve una lettera dell’ammiraglio Albini,
che si esibisce di condurlo in qualunque porto del regno, II, 309; a
Paternò gli vien dato il passo da un battaglione di regolari, II, 310;
entra in Catania, II, 312; parte da Catania, II, 313; sua narrazione
dei fatti di Aspromonte, II, 314; tocca la costa calabrese ed occupa
Melito, II, 316; presa la strada di Reggio volge ad Aspromonte, II,
317: è attaccato dalla truppa italiana, II, 320; è ferito, II, 322;
imbarcato sul _Duca di Genova_, è condotto prigioniero a Spezia e di
là al Varignano, II, 324; in Inghilterra, a Stocolma ed a Lipsia gli
si decretano grandi onoranze, II, 325; è invitato nuovamente dagli
Stati Uniti ad accettare il comando dell’esercito federale, II, 327;
è amnistiato, II, 328; gli viene estratta la palla dal piede, II, 329;
torna a Caprera non bene ristabilito, II, 332.

Si cruccia di non potere aiutar la Polonia insorgente, II, 333; dà
il consenso per una spedizione in soccorso dei Polacchi, II, 335; è
invitato dagli Inglesi ad andare nel loro paese, II, 338; è visitato
a Caprera dai signori Chambers per deciderlo al viaggio, II, 342;
riceve splendide offerte di ospitalità, II, 344; una lettera del signor
Thornton Hunt lo avvisa non dispiacere al governo inglese s’effettuasse
il progettato viaggio, II, 344; riceve offerte di ospitalità, II,
346; decide il viaggio e va a Malta, II, 346; tocca Gibilterra e
sbarca a Southampton ricevuto splendidamente, II, 349; è ospitato dal
signor Seely all’isola di Wight, II, 351; suo soggiorno a Wight, II,
351; visita Portsmouth, II, 352; entra in Londra ospitato dal duca
di Sutherland, II, 353; suo soggiorno in Londra, II, 357; banchetto
con Herzen e Mazzini, II, 359; gli viene conferita la cittadinanza
londinese, II, 362; ragioni principali della sua partenza, II, 366; è
consigliato al riposo dal dottor Fergusson, II, 374; è consigliato a
partire, II, 375; non cede che alle parole del signor Gladstone, II,
376; la notizia della sua partenza scontenta le popolazioni, II, 381;
a Chiswick depone una corona sulla tomba di Foscolo, II, 385; parte da
Londra per Clifden Park, II, 386; tocca Bristol, a Weimouth visita la
squadra, e per Exeter e Plimouth smonta a Penquite Par, II, 388; manda
un proclama al popolo inglese, II, 388; a Fowey s’imbarca per l’Italia,
II, 388; giunge a Caprera, II, 390; conclusioni generali sul suo
viaggio, II, 391.

Lascia Caprera e si porta ad Ischia per preparare una spedizione sotto
gli auspicii di Vittorio Emanuele, II, 393; ragioni dell’impresa, II,
393; comincia i preparativi della spedizione, II, 400; gli fallisce
l’impresa, II, 403; si divide dal Guerzoni, II, 405; parte per Caprera,
II, 407: venuto il 1866 riceve il comando dei volontari, II, 411; i
quali gli vengono organizzati dal governo, II, 412; sue relazioni col
governo d’Italia intorno ai volontari e alla guerra, II, 416; lascia
Caprera e per Genova va in Lombardia a capo dei suoi, II, 423; tocca
Como, Monza, Varese, Gallarate, Lecco e Bergamo, ove ordina le sue
genti, II, 424; da Brescia muove verso Salò con parte delle truppe, II,
425; abbandona le posizioni del Lago d’Idro, del Caffaro e di Monte
Suello per protegger Brescia, II, 426; rimarcia verso il Trentino,
II, 427; al combattimento di Monte Suello, II, 430; è ferito, II,
431; al combattimento di Vezza, II, 432; conclusioni generali sulla
condotta del primo periodo della guerra nel Tirolo, II, 434; porta il
quartier generale a Bagolino, II, 443; scaramuccie di Lodrone e Darzo,
II, 444; porta il quartier generale a Storo, II, 445; a Condino, II,
446; s’impadronisce di Ampola, Monte Notta e Monte Giovo, II, 451; a
Bezzecca, II, 451; a Cologna si accinge alla presa di Lardaro, quando
gli giunge la nuova dell’armistizio, II, 458; conclusioni generali sul
suo operato nel Trentino, II, 459; si ritira dal Tirolo, II, 462.

Si prepara a sciogliere il voto a Roma, II, 463; dà opera a far
sorgere centri rivoluzionari a tal uopo, II, 465; va a Firenze, II,
466; prosegue per Venezia, II, 467; tocca Bologna e Ferrara, II, 467;
partito da Venezia passa per Chioggia, Treviso, Udine, Palmanuova,
Belluno, Feltre, Vicenza e Verona sempre con Roma sul labbro, II, 468;
battezza un bambino, II, 469; passa in Lombardia e Piemonte, tocca
Mantova e si riduce a San Fiorano, II, 470; il centro d’insurrezione
romano lo riconosce generale della futura insurrezione, II, 472; giunge
a Firenze e prende stanza a Castelletti, II, 475; riceve due delegati
del Centro Nazionale Romano che lo invitano all’azione, II, 475;
ordina il primo tentativo d’invasione negli Stati romani, II, 475; va
a Monsummano per Pescia, Montecatini, Castelfranco e Lucca, II, 478;
fusisi i Comitati romani d’insurrezione si prepara all’azione, II, 479;
a tal uopo va a Vinci, Siena, Montepulciano, Orvieto e Rapolano, II,
481; assiste in Ginevra al Congresso internazionale della pace, II,
482; torna in Italia per Belgirate e Genestrello, II, 486; invitato
all’azione fa un proclama ai Romani, II, 486; tocca Firenze ove trova
ostacoli alla sua impresa, II, 487; è invitato dal governo a ritirarsi
a Caprera, II, 488: ordina le sue genti ai confini pontificii, II,
489; ove volge i suoi passi, toccando Arezzo e Sinalunga, II, 491; qui
è arrestato dal governo italiano, e per Firenze e Pistoia condotto
prigione ad Alessandria, II, 492; manda un proclama agl’italiani
invitandoli ad aiutare l’impresa di Roma, II, 493; è ricondotto a
Caprera, II, 494; invia una lettera al Crispi intorno alla questione
romana, II, 495; i tentativi d’invasione de’ suoi volontari lo
crucciano di non poter esser fra loro, II, 496; a Caprera è posto
sotto la sorveglianza di una squadra di guerra, II, 503: Canzio si
accinge a liberarlo di prigionia, II, 505; fugge e ripara in Sardegna,
II, 508; giunge a Vado sul continente, II, 511; sotto finto nome va
a Livorno, di là per Empoli a Firenze, II, 511; non piegando nè ai
consigli nè alle minaccie del governo, parte e sconfina a Passo Corese,
II, 514; giunge a Terni, II, 514; ordina e mette in posizione le sue
genti, II, 518; a Monterotondo, II, 519; cadono in suo potere Viterbo,
Frosinone e Velletri, II, 523; tocca Fornuovo e Castel Giubileo, II,
524; marcia su Roma, poi volge fino a Ponte Nomentano, II, 525; alcuni
cattivi elementi mandano in dissoluzione il suo esercito, II, 527;
l’intervento francese cresce le difficoltà della sua impresa, II,
530: crede necessario marciare su Tivoli, II, 531; dà le disposizioni
per la marcia, II, 533; muove su Tivoli, II, 536: combattimento di
Mentana, II, 538; sua ritirata, II, 548; a Figline il governo d’Italia
l’arresta, II, 549; è tratto prigione al Varignano, torna a Caprera,
II, 552; rompe il suo lungo silenzio con un proclama agli Spagnuoli,
II, 552; offre il suo braccio alla Francia, II, 554; sbarca a Marsiglia
e giunge a Tours, II, 565; riceve il comando dei Corpi franchi, II,
557; dopo gli scontri di Genlis e Saint-Jean de Losne muove su Autun,
II, 560; i suoi battono il nemico a Châtillon-sur-Seine, II, 563;
muove su Dijon, II, 564; prende posizione a Lantenay, vince a Prenois,
II, 564; tenta infruttuosamente un attacco su Dijon, II, 565; rientra
in Autun, II, 567; batte il nemico alle fazioni di Saint-Martin
e Saint-Symphorien, II, 568; sue fazioni di concerto al generale
Bourbaky, II, 570; scontri fortunati di Montbard, II, 571; occupa
Dijon: le tre giornate di Dijon, II, 572; alla fazione di Pouilly
la sua gente s’impadronisce di una bandiera nemica, II, 575; fa un
proclama lodando i suoi soldati del valore dimostrato, II, 576; porta
il quartier generale a Mondaine, II, 577; ritirata su Autun e di là su
Lione, II, 578; si porta a Bordeaux all’Assemblea Nazionale, II, 579;
torna a Caprera, II, 579; sua campagna nei Vosgi: conclusioni generali,
II, 579.

Suoi ultimi anni, II, 585; scrive all’avvocato Petroni intorno
all’Internazionale, II, 588; si porta a Roma a proporre l’incanalamento
del Tevere, II, 589; è lieto dell’assunzione al governo della Sinistra,
II, 590; torna a Roma per avversar la Sinistra e il Depretis, II, 590;
si mette a capo della _Lega della Democrazia_, II, 591; accetta una
rendita dallo Stato, II, 593; è dichiarato nullo il suo matrimonio
colla marchesa Raimondi, II, 595; sposa la signora Francesca Armosino,
II, 598; va a Genova a protestare per l’arresto di Canzio, II, 599;
quindi a Milano per la commemorazione di Mentana, II, 599; va ad
Alassio a ristabilirsi in salute, II, 601; protesta energicamente
contro la politica francese nella questione di Tunisi, II, 601; a
questo proposito manda una lettera al giornale _La Patria_, II, 603;
per la commemorazione dei _Vespri Siciliani_ va a Napoli, II, 603; e
per le Calabrie, riposando a Catanzaro e passando per Messina, giunge
a Palermo, II, 605; fa un proclama alla città di Palermo, II, 606;
torna a Caprera, II, 607: sua morte, II, 607; onoranze tributategli
in Italia e all’estero, II, 610; ultime sue volontà, II, 613: l’Eroe
e il Capitano, II, 618; il Patriotta e l’Umanitario, II, 627; l’uomo
privato, II, 638; tutto l’uomo, II, 657.

Garibaldi Manlio, II, 596, 609.

Garibaldi, Maurizio, I, 65.

Garibaldi Menotti; sua nascita, I, 99; a Caprera, I, 403; a Palermo,
II, 300; ad Aspromonte, II, 322; a Londra, II, 348; ad Ischia, II, 401;
nel Trentino, II, 454, 456; a Mentana, II, 481, 498, 518, 525, 535;
alla campagna dei Vosgi, II, 561, 568, 577; a Palermo, II, 607; gli
muore il padre, II, 609.

Garibaldi Michele, I, 10.

Garibaldi Raimondi Rosa. Vedi Raimondi Garibaldi Rosa.

Garibaldi Ricciotti; sua nascita, I, 202; a Londra, II, 348, 390; nel
Trentino, II, 456; nei Vosgi, II, 561, 563, 571, 575; gli muore il
padre, II, 609.

Garibaldi Rosita (prima), I, 376.

Garibaldi Rosita (seconda), II, 596.

Garibaldi Teresita, II, 376.

Garigliano, II, 228.

Gattinara, I, 432.

Gemonio, I, 459.

Genestrello, II, 486.

Genova, I, 24, 39, 220, 246, 400, 405, 503; II, 33, 255, 278, 280, 424,
493, 495, 599.

Gervino Giuseppe, I, 24.

Ghio (generale), II, 164.

Ghirelli, II, 501.

Giaccone (padre), I, 15.

Gianuzzi, I, 232.

Gibilrossa, II, 92.

Gibilterra, I; 394; II, 349, 390.

Ginevra, II, 482.

Giorgini (maggiore), II, 46.

_Giovine Italia_, I, 34; suo stato quando accolse nelle sue file
Giuseppe Garibaldi, I, 37.

Girgenti, II, 308.

Giulay (generale), I, 428.

Gladstone, II, 352, 358, 373, 376.

Golfo degli Aranci, II, 157, 159.

Gomez Servando, I, 179.

Gonçales de Silva Bento, I, 60, 77.

Gorini, I, 424, 427, 455.

Granville (Lord), II, 358.

Grasse, I, 43.

Griffini, I, 235.

Griggs John, I, 79.

Gualeguaj, I, 71.

Gualeguaychu, I, 177.

Guastalla Enrico, I, 23, 403; II, 482, 512.

Guelfi, I, 386.

Guerzoni, II, 140, 359, 401, 405, 515.

Guiccioli (fattoria), I, 365.

Guild-Hall, II, 362.

Gusmaroli, I, 403


Hervidero, I, 177.

Herzen Alessandro, II, 352, 359.

Hoffstetter Gustav, I, XX, 332.

Hong-Kong, I, 398, 399.

Hyde Park, II, 326.


Imbituba, I, 89.

Imeruy, I, 92.

Imola, I, 500.

Induno, I, 240, 465.

Ischia, II, 393.

Isnardi, I, 332.

Isola (capitano), II, 504, 507.

Italia, suo stato nel 1821, I, 28; nel 1848, I, 196, 229, 247, 259; nel
1859, I, 415; nel 1860, II, 1; nel 1866, II, 408.

_Itaparika_ (goletta), I, 92.

Ivrea, I, 429.


Jesus-Maria, I, 65.


Kinnaird, II, 340, 352.

Klapka (generale), II, 397.

Kuhn, II, 428.


_La Carmen_, I, 397.

La Farina, II, 16, 35, 128.

Lago di Garda, II, 421.

Lago d’Idro, II, 426.

Lago Maggiore, I, 429.

Laguna, I, 88, 92, 95.

La Loggia, II, 307.

La Marmora, I, 387.

La Masa Giuseppe, II, 31, 35, 47, 69, 83, 91, 93.

Landi (generale), II, 72.

Landi, I, 424, 460.

Lantenay, II, 564.

Lanza (generale), II, 88, 103.

Lardaro, II, 459.

Las Concas, I, 155.

Las Cruces, I, 170.

Las Vacas, I, 195.

Lavalleja Juan Antonio, I, 129, 177.

Laveno, I, 459.

Leblanc, I, 263.

Lecco, I, 475; II, 424.

Ledru Rollin, II, 361.

Lefebre, II, 111.

_Lega della Democrazia_, II, 591.

Leggiero, I, 360.

Legione Italiana di Montevideo, sua organizzazione, I, 165; primi fatti
d’arme, I, 166; sua bandiera, I, 168; combattimenti di Las Cruces e
della Boyada, I, 170; eroica battaglia di Sant’Antonio, I, 177; onori
tributatile dal governo di Montevideo, I, 187; un manipolo dei suoi
passa in Italia, I, 205.

Lemmi Adriano, II, 506, 511.

Leonforte, II, 309.

Lesseps, I, 277.

Letizia (generale), II, 109.

Levante, I, 25, 31.

Liborio Romano, II, 169.

Lima, I, 397, 399.

Lincoln, II, 275.

Lipsia, II, 327.

Liveriero, I, 357.

Liverpool, I, 396.

Livorno, I, 248; II, 511.

Livraghi, I, 332, 357, 360.

Lobbia, II, 571.

Lodi, II, 285.

Lombardi Agostino, II, 403.

_Lombardo_, II, 37.

Lonato, II, 426.

Londra, II, 326, 353.

Lons-le-Saulnier, II, 577.

Los Patos, I, 77.

Lucca, II, 478.

Lucignano, II, 492.

Luino, I, 238.

_Luisa_ (goletta), I, 63.

Luna (monte), I, 344.


Macchi, II, 259, 4S3, 485.

Macerata, I, 253.

Macerata Feltria, I, 316.

Maddalena (isola della), I, 393, 400; II, 510.

Magnavacca, I, 359.

Maidenhead, II, 387.

Maineri B. E., I, XXII.

Majatico, II, 270.

Maldonado, I, 64.

Malenchini, I, 488; II, 139.

Manara Luciano, I, 235, 265, 272, 275.

Manchester, II, 358.

Mandriole, I, 365.

Mansion-House, II, 365.

Mantova, II, 470.

Manzoni Alessandro, II, 285.

Marettimo, II, 58.

Marianopoli, II, 308.

Marineo, II, 89.

Mario Alberto, I, XXII; II, 153, 483, 530.

Mario White Jessie, I, XXII; II, 230, 505, 570.

Marocchetti, I, 332, 424.

Marsala, II, 60, 302.

Marsiglia, I, 35, 46, 48, 400; II, 555.

Martin Garcia, I, 153, 177.

Martini Antonio, I, 356.

Masina (colonnello), I, 299, 306.

Massa Marittima, I, 386.

Masséna Andrea, I, 5.

Matteucci Ferdinando, I, 385.

Mauri, II, 475.

Maurigi Ruggiero, I, XXI.

Mazzara, II, 302.

Mazzini Giuseppe, I, 35, 38, 201, 228, 271, 322; II, 216, 359, 386, 394.

_Mazzini_ (barca da guerra), I, 62.

Medici Giacomo, sbarca a Montevideo e si arruola nella Legione
italiana, I, 263; è inviato da Garibaldi in Italia ad annunziare la
sua spedizione, I, 203; parte per l’Italia, I, 205; crucciatosi con
Garibaldi, riannoda con lui l’antica amicizia, I, 224; comanda a Milano
il battaglione _Anzani_, I, 229; combatte a Luino, I, 239; è inviato da
Garibaldi ad Arcisate, I, 239; con pochi uomini resiste a cinquemila
Austriaci e si ritira in Svizzera, I, 242; va alla difesa di Roma, I,
278; combatte alla Casa Bruciata, I, 307; difende il Vascello, I, 324;
è nominato colonnello nei Cacciatori delle Alpi, I, 424; a Varese, I,
450, 456; a Rezzato, I, 489; segue Garibaldi nell’esercito dell’Italia
centrale, I, 489; sbarca in Sicilia, II, 125; a Milazzo, II, 127, 133;
al Volturno, II, 186, 189; nel Tirolo, II, 458.

Medina Anacleto, I, 177.

Melito, II, 160, 316.

Mella (generale), II, 309.

Mentana, II, 538.

Mercatello, I, 345.

Mercedes, I, 177.

Meri, II, 133.

Messina, II, 146, 605.

Meucci, I, 396.

Mezzacapo Luigi, I, 491.

Mezzojuso, II, 306.

Miceli, II, 482.

Migliavacca, I, 421.

Milano, I, 227, 476, 505; II, 284, 493, 599.

Milazzo, II, 136.

Milian, I, 74, 76, 177.

Misilmeri, II, 90.

Missiones, I, 97.

Missori, II, 73, 141, 153, 160, 162, 370, 403, 483.

Mocarta (barone), II, 67.

Modena, I, 488; II, 493.

Mondaine, II, 577.

Monsummano, II, 478.

Montaldi Luigi, I, 269.

Montanari, I, 332, 366, 385.

Montbard, II, 571.

Montecatini, II, 479.

Montelibretti, II, 501.

Monte Maggiore, II, 518.

Montepulciano, I, 340; II, 481.

Monterchi, I, 343.

Monterotondo I, 33; II, 519.

Monte San Giovanni, II, 524.

Monte Suello, II, 426, 430.

Montevideo, I, 64, 76, 108, 109, 146. Vedi Legione.

Monti Giuseppe, II, 515.

Mont Roland, II, 577.

Monza, I, 232; II, 285, 424.

Morazzone, I, 240.

Mordini Antonio, II, 216, 359.

Moreschi Antonio, I, 385.

Moringue (colonnello), I, 81, 100.

Mosto, II, 47.

Müller, I, 332.

Mundy, I, XXI; II, 105, 358.

Musolino, II, 153.

Mustarda, I, 99.

Mutro Edoardo, I, 82, 87.


Napoli, II, 168, 254, 603.

_Nautonier_ (brick), I, 48.

Negretti, II, 340, 349, 375.

New-Castle, I, 399; II, 326, 351.

Newport, II, 351.

New-York, I, 396, 399.

Nicotera Giovanni, II, 489, 501, 518, 524, 594.

Nizza Marittima, I, 5, 26, 217, 246, 400, 505; II, 5, 7, 9.

_Nostra Signora delle Grazie_ (_La_), I, 26.

Novara, I, 225.

Nuova Cava, I, 150.


Odessa, I, 19, 47.

Ogareff, II, 359.

_Ondine_, II, 390.

Orbetello, II, 46.

Oribe (generale), I, 109, 140.

Orsini, II, 47, 57, 89, 107, 153.

Orvieto, I, 338; II, 481.

Oudinot, I, 261.


Pacheco y Obes, I, XVIII, 163.

Padenghe, II, 427.

Palazzolo, II, 291.

Palermo, II, 91, 298, 605.

Palestrina, I, 275.

Pallavicini (generale), II, 323, 325, 329, 418.

Pallavicino Giorgio, I, 405; II, 211, 216.

Palmanuova, II, 468.

Palmer, II, 111.

Palmerston (Lord), II, 341, 343, 358, 359, 371, 641.

Palos, I, 217.

Pampa, I, 66.

Panama, I, 397.

_Pane Giuseppe_, I, 47; II, 511.

Panizzi Antonio, I, 404; II, 340, 359.

Pantaleo, II, 70.

Paranà, I, 151.

Parco, II, 87.

Paris Giuseppe, I, 47.

Parma, II, 285.

_Partenope_, II, 62.

Partinico, II, 82, 85, 302.

Pasolini Giuseppe, II, 285.

Pasques, II, 564.

Passo Corese, II, 514, 518.

Paternò, II, 310.

_Patria_ (_La_), giornale, II, 603.

Pavia, I, 225; II, 288, 493.

Peard, II, 373, 388.

Penquite Par, II, 388.

_Pereira_ (legno da guerra), I, 148.

Perelli, II, 475.

Perkins, II, 359.

Persano (Di) C., I, XXI; 11, 32, 125.

Pesante, I, 76.

Pesante Angelo, I, 19.

Pescetto (generale), II, 494.

Pescia, II, 479.

Petroni (avvocato), II, 588.

Piana de’ Greci, II, 89.

Piazza, II, 309.

Piccadilly, II, 359.

Picozzi Antonio, I, 229.

_Piemonte_, II, 37, 423.

Pinelli (ministro), I, 337.

Pio IX, I, 197.

Piombino, II, 44.

Piratinin, I, 77.

Pistoia, II, 492.

Pitigliano, II, 54.

Plata (Stati della), loro storia, I, 109.

Plezza Giacomo, I, 277, 283.

Plimouth, II, 388.

Poggibonsi, I, 386.

Poggio Mirteto, I, 335.

Polonia, II, 333.

Pomarance, I, 386.

Ponte Acuto, I, 337.

Ponte Nomentano, II, 525.

Ponte Stura, I, 430.

Ponte Tresa, I, 241.

Porcelli, II, 397, 400.

Portsmouth, II, 352.

Prandina, II, 614.

Prato, I, 386.

_Procida_ (legno di guerra), I, 148.


Quarto, II, 33, 37.

Quattro-Venti (Casino de’). Vedi villa Corsini.

Quintini, I, 424, 456.


Raimondi Garibaldi Rosa, I, 5, 7 9.

Raimondi Giuseppina, I, 466, 508, 595.

Rammon (dottore), I, 71.

Rampagallo, II, 60.

Rapolano, II, 481.

Rattazzi, II, 16, 279, 283, 306, 482, 494.

Ravaglia, I, 366.

Ravenna, I, 219, 385.

Ravini (maggiore), II, 498.

Regalbuto, II, 309.

Reggio, II, 161, 316.

Renna, II, 85.

Repubblica romana. Vedi Roma.

_Repubblicano_, I, 79.

Reumont (De) Alfredo, I, 391.

Rezzato, I, 480.

Ribera (presidente), I, 109, 140.

Riberas Anita. Vedi Anita.

Riboli, II, 483.

Ricasoli, II, 259, 277.

Ricciardi Giuseppe, I, XXI.

Richardson, II, 340, 341, 362.

Ricotti (generale), II, 310.

Rieti, I, 255, 258.

Rimini, I, 495, 500.

Rio della Plata, I, 64, 176.

Rio Grande del Sud, cause che lo sollevarono contro il Brasile, I, 59.

Rio Janeiro, I, 48, 50.

_Rio Pardo_ (lancione da guerra), I, 79, 88.

Ripari (dottore), II, 47.

_Ripon_ (vapore), II, 349.

Riso Francesco, II, 17.

Rive, I, 431.

Rizzo Giovanni, I, 146.

Robarello, I, 462, 466.

Robaudi, II, 8.

Rocca d’Anfo, II, 430.

Rocca d’Arce, I, 297.

Rodney Mundy, I, XXI.

Roma, è visitata da Garibaldi giovinetto, I, 21; fuggito Pio IX,
elegge la _Giunta Suprema_, I, 250; Garibaldi va in sua difesa, I,
250; proclama la repubblica, I, 257; l’intervento francese, I, 261;
si prepara alla difesa, I, 262; vince a Villa Pamfili, I, 266; è
minacciata dagli Austriaci, dagli Spagnuoli e dal re di Napoli, I, 272;
la missione di Lesseps, I, 277, 301; elegge Rosselli comandante supremo
dell’esercito e Garibaldi a generale di divisione, I, 279; vince a
Velletri, I, 282; tenta invadere il Napoletano, I, 296; è minacciata
sempre più dagli Austriaci, I, 299: la giornata del 3 giugno a Villa
Pamfili, I, 302; è assediata, I, 314; estrema difesa, I, 326; caduta,
I, 328; ospita Garibaldi, II, 589, 591.

Romagnano, I, 436.

Rondinello, I, 455.

Rosas (don Juan Manuel), I, 133.

Rosolino Pilo, II, 16, 70, 83, 86.

Rosselli Giuseppe, I, 280.

Rosselli Pietro, I, 491.

Rossetti Luigi, I, 50, 76, 102.

Roverbella, I, 225.

Rubattino Raffaele, II, 33.

Russell (Lord), II, 358, 386.


Sacchi Gaetano, I, XXVII, 76, 178, 205, 225, 332, 420, 424; II, 26,
153, 268.

Saffi Aurelio, II, 359.

Saint-Jean de Losme, II, 577.

Saint-Martin. II, 568.

Salemi, II, 67.

Salò, II, 425.

Salomone, II, 489.

Salto, I, 177.

_San Carlo_ (piroscafo), I, 238.

San Dalmazio, I, 386.

San Fermo, I, 455, 466.

San Filippo, II, 309.

San Fiorano, II, 471.

_San Francesco_ (paranzella), II, 506.

San Francisco, I, 162.

San Gemini, I, 336.

San Germano, I, 432.

San Giustino, I, 344.

San José (del Norte), I, 98.

San Lorenzo, II, 54, 498, 502.

San Marino (Repubblica di), I, 347.

_San Michele_, I, 390.

San Pancrazio, I, 302.

San Salvatore, I, 431, 451.

Santa Caterina, I, 83, 97; II, 308.

Santa Fé (nel Parana), I, 71.

Sant’Ambrogio, I, 462, 466.

Sant’Angelo, II, 223.

Sant’Angelo in Vado, I, 346.

Sant’Anna (fratelli), II, 67, 73, 93.

Sant’Antonio, I, 178.

Santa Vittoria, I, 98.

Santo Stefano, I, 404; II, 308.

Santo Stefano (porto di), II, 57.

Sardegna, I, 400.

Sarnico, II, 288, 291.

Sauvaigo Luigia, I, 25.

Savigliano, I, 426.

Savini Giuseppe, I, 385.

Savoia, II, 5.

Schwarz. Vedi Elpis Melena.

Sciacca, II, 302.

Scilla, II, 324.

Scott (_Alderman_), II, 362.

Seely (signore), II, 340, 344, 349, 353, 362, 373, 375, 387.

_Seival_ (lancione da guerra), I, 84.

Semeria Carlo, I, 25.

Semidei (Collegio), I, 147.

Serafini Camillo, I, 386.

Sesto Calende, I, 439.

Settembrini Luigi, I, 404.

Seymour (ammiraglio), II, 352.

Sgarallino Andrea, II, 505.

Shaftesbury, II, 340, 352, 386.

Sicilia, I, 248; II, 12.

Siena, II, 481.

Simonetta Francesco, I, 425, 436, 457, 459.

Sinalunga, II, 492.

Sirtori Giuseppe, II, 35, 47, 93.

Sisco, I, 332.

_Società Emancipatrice,_ II, 282, 288, 298.

Somma Amadio, II, 470.

Sonnaz (generale), I, 432.

Soveria, II, 164.

_Speranza_ (_La_), brigantino, I, 206, 214.

Spezia, II, 325.

Stafford-House, II, 361.

Stagnetti, I, 332.

Stati-Uniti, I, 275.

Sterbini Pietro, I, 253.

Stocco, II, 47, 164.

Stocolma, II, 327.

Storo, II, 445.

Southampton, II, 349.

Stradella, II, 7.

_Stromboli_, II, 62.

Susini Millelire, I, 424, 455.

Susini Pietro, I, 393.

Sutherland (Lord), II, 340, 344, 349, 353, 358, 373, 375, 387, 401.


Taganrok, I, 33.

Talamone, II, 45, 48.

Talant, II, 565.

Tanara, II, 564.

Tangeri, I, 395.

Tapevi, I, 178.

Taramanday, I, 84, 85.

Tavani-Arquati Giuditta, II, 517.

Taxil Leo, II, 604.

Taylor, II, 340, 359.

Teano, II, 229.

Tennyson, II, 352.

Termini, II, 133.

Terni, I, 335, 514.

Tevere, I, 23; II, 289.

Thornton Hunt, II, 344.

Timoni (signora), I, 25.

Tivoli, I, 273, 332.

Todi, I, 336.

Torino, I, 225, 417, 420, 432, 495, 503, 506; II, 8, 255, 298, 470, 493.

_Torino_ (piroscafo), II, 157, 159.

Torricelli, I, 332.

Torrita, I, 341.

Tours, II, 555.

Trasselli, II, 306.

Tre Ponti, I, 480.

Trescorre, II, 288.

Treviso, II, 468.

Tükery, II, 94, 96, 138.

Tunisi, I, 47, 390.

Türr Stefano, I, 481; II, 46, 47, 93, 127, 177, 179, 180.


Udine, II, 468.

Ugo Delle Favare, II, 606.

Umberto I, II, 610.

_Unione_ (brigantino), I, 47.

Urban (tenente maresciallo), I, 417.

Urquiza (generale), I, 146.

Uruguay, I, 61; compendio storico delle sue vicende politiche, cause
della sua guerra contro la Repubblica Argentina, I, 109.


Vacchieri, I, 455; II, 181.

Vado, II, 511.

Valcamonica, II, 427.

Valcuvia, I, 461.

Valle (Della) Giuseppe, I, XX.

Valledolmo, II, 308.

Valletta, II, 348.

_Valletta_ (piroscafo), II, 348.

Valsabbia, I, 484.

Valtellina, I, 484.

Varese, I, 289, 441, 458, 461; II, 7, 415, 424.

Varignano, II, 552.

Vascello, I, 303, 323.

Vecchi (colonnello), II, 417.

Vecchi Candido Augusto, I, XIX; II, 33.

Velletri, I, 282.

_Veloce_ (corvetta), II, 137.

Venezia, I, 249; II, 468.

_Verbano_ (piroscafo), I, 238.

Vercelli, I, 432.

Verità (don Giovanni), I, 386.

Verona, II, 468.

Verrua, I, 427.

Vezza, II, 430, 432.

Vicari (signor), I, 241.

Vicenza, II, 468.

Viganotti, I, 438.

Villa Corsini, I, 268, 302.

Villa Glori, II, 516.

Villalba, II, 308.

Villa Pamfili, I, 267, 302.

Villa Ponti, I, 448.

Villarosa, II, 309.

Villa Spada, I, 324, 326.

Villa Spinola, II, 33, 37.

Vinci, II, 481.

Vita, II, 73.

Viterbo, II, 517, 523.

Vittorio Emanuele, I, 420, 431, 476, 494, 503; II, 26, 40, 147, 208,
229, 232, 269, 893, 590.

Voltaggio, I, 412.

Volturno, II, 179.


Wampoo, I, 399.

_Washington_, II, 233.

Weimouth, II, 388.

Wight (isola di), II, 344, 351.

Woolwich, II, 358.


Zambeccari Livio, I, 160.

Zambianchi (colonnello), II, 50.

Zanardelli, I, 479.

Zoffetti Francesco, II, 515.

_Zuavo di Palestro_, II, 407.

Zucchi (generale), I, 249.

Zuppetta, II, 259.




INDICE DEL VOLUME SECONDO.


  _Capitolo_
  VIII.  Da Marsala al Faro [1860]                        Pag. 1
           Carta d’insieme della Sicilia                     ivi
           Piano delle operazioni sotto Palermo               96
           Piano della battaglia di Milazzo                  144
    IX.  Dal Faro al Volturno [1860]                         151
           Piano della giornata del Volturno [1º
             ottobre 1860]                                   193
     X.  Da Caprera ad Aspromonte [1861-1862]                235
    XI.  Da Londra a Bezzecca [1863-1866]                    332
           Schizzo topografico delle operazioni di
             Garibaldi nel Trentino [1866]                   456
   XII.  Da Mentana a Dijon. [1867-1870]                     463
            Schizzo topografico dell’insurrezione romana
              [1867]                                         552
            Schizzo topografico della Campagna di Francia
              [1870]                                         584
  XIII.  Ultimi anni [1871-1882]                             585
   XIV.  Epilogo                                             618
           I. L’Eroe e il Capitano                           ivi
           II. Il Patriotta e l’Umanitario                   627
           III. L’Uomo privato                               638
           IV. Tutto l’uomo                                  657
  Indice generale dei nomi e delle cose                      671




NOTE:


[1] In quell’opuscolo scritto, come è noto, dal visconte A. de La
Guerronière, ma evidentemente ispirato da Napoleone, si proponeva la
creazione d’un Regno dell’Alta Italia, lasciando al Papa la sola città
di Roma.

[2] Nota-Circolare del conte di Cavour alle Legazioni sarde all’estero,
del 27 gennaio 1860.

[3] Il signor Artom, oggi senatore del Regno, allora capo del gabinetto
del grande Ministro. Vedi _Œuvre parlementaire du comte de Cavour,
Préface._

[4] _Maintenant nous voilà complices_, parole del Cavour al principe
Talleyrand, ministro di Francia a Torino, appena fu sottoscritto il
Trattato di Nizza e Savoia. Vedile in ARTOM, DE LA RIVE, MASSARI.

[5] Nel 1860 al barone De Martini, inviato di Francesco di Napoli
a Napoleone, questi diceva: «Scaltri sono davvero gl’Italiani; essi
comprendono a meraviglia che, dopo di aver dato il sangue de’ miei
soldati per l’indipendenza del loro paese, giammai non farò tirare il
cannone contro di essi. È stata questa convinzione che ha guidata la
rivoluzione a compiere l’annessione della Toscana al Piemonte contro i
miei interessi, e che ora la sospinge ai danni della Casa di Napoli.» —
N. BIANCHI, _Storia documentata della Diplomazia europea_, già citata,
pag. 298.

[6] La frase è d’una lettera diretta allo scrittore di queste pagine in
risposta ad una, colla quale, in nome del partito liberale di Brescia,
gli aveva offerto la candidatura di quella città.

Riporto la lettera per intero:

                                             «Caprera, 26 marzo 1860.

  »Mio caro Guerzoni,

»Mi duole di non poter accettare per Brescia, avendo accettato per
Nizza. — La città mia natale si trova in pericolo di cadere nelle
ugne del protettore padrone — ed il mio dovere mi chiama sulle sponde
del Varo. — Trent’anni al servizio della libertà dei popoli — avrò
guadagnato il servaggio della mia povera terra! Domani forse dovrò
arrossire di chiamarmi Italiano al cospetto de’ miei compagni d’armi
— e mi chiamerete suddito del Due Decembre — del protettore del Papa —
del bombardatore di Roma.

»Ringraziate i vostri bravi concittadini, e credetemi sempre

  »vostro

                                                      »G. GARIBALDI.»

[7] Non a primo scrutinio però. Il conte di Cavour nella tornata della
Camera del 12 aprile per dimostrare che anche in Nizza il partito
italiano avverso all’annessione non era tanto forte quanto si credeva,
fece notare che sopra 1596 elettori inscritti, Garibaldi non ottenne
che 444 voti, cioè solo il 28 per cento; pel che fu resa necessaria
una seconda votazione. La conseguenza tratta da quella cifra non ci
pare che corra a fil di logica, poichè nel novero di quegli elettori
mancavano appunto le classi popolari, che erano più di tutte avverse
all’annessione.

[8] Non crediamo, per esempio, farina del suo sacco tutta
l’argomentazione di costituzionalità; molto meno le parole usate a
svilupparla. Ne giudichi il lettore:

«_Garibaldi_. Signori, nell’articolo 5º dello Statuto si dice:

»I trattati che importassero una variazione di territorio dello Stato,
non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere.»

»Conseguenza di questo articolo della legge fondamentale si è, che
qualunque principio d’esecuzione dato ad una diminuzione dello Stato,
prima che questa diminuzione sia sancita dalla Camera, è contrario allo
Statuto. Che una parte dello Stato voti per la separazione prima che la
Camera abbia deciso se questa separazione debba aver luogo, prima che
abbia deciso se si debba votare, e come si debba votare pel principio
d’esecuzione della separazione medesima, è un atto incostituzionale.

»Questa, Signori, è la quistione di Nizza sotto il punto
costituzionale, e che io sottopongo al sagace giudizio della Camera.»
— _Atti del Parlamento italiano, Sessione del 1860_. Tornata del 12
aprile 1860.

[9] Vedi nella _Storia documentata della Diplomazia europea_, vol.
VIII, pag. 275, le _Istruzioni_ al marchese Pes di Villamarina,
ministro plenipotenziario di Sardegna presso la Corte di Napoli, e pag.
280, il _Dispaccio confidenziale_ del Cavour allo stesso colla data del
13 marzo 1860.

[10] Su queste dimostrazioni vedi _La restaurazione borbonica e la
rivoluzione del 1860 in Sicilia dal 4 aprile al 18 giugno; Ragguagli
storici_ di ISIDORO LA LUMIA. Palermo, 1860.

Per la parte avuta dai Siciliani del partito d’azione e da Giuseppe
Mazzini nell’opera preparatrice della rivoluzione, vedi principalmente
RAFFAELE VILLARI, _Cospirazione e rivolta_. Messina, tip. D’Amico,
1861; ed i _Cenni biografici e storici_ dettati da AURELIO SAFFI e da
lui premessi a proemio del testo al vol. XI degli _Scritti editi ed
inediti di Giuseppe Mazzini._

[11] VILLARI, op. cit., pag. 372.

[12] _Cenni biografici e storici, Proemio_ di AURELIO SAFFI sopra
citato, pag. 39. Anche sul viaggio di Crispi in Sicilia e sulla parte
da lui avuta ad apparecchiarne la riscossa, vedi nello stesso _Proemio_
molti documenti e particolari; tra gli altri una serie cronologica
di _Note storiche_ del Crispi medesimo ed uno scritto anonimo di un
Siciliano partecipe al lavoro di quegli anni. In quello scritto si
legge fra gli altri particolari che il Crispi pel primo insegnò ai
Siciliani a fare le bombe all’Orsini, modellandone egli stesso in creta
alcuni campioni.

[13] Il LA LUMIA, opera citata, l’attribuisce alla prima cagione; il
CRISPI nelle sue _Note storiche_ confidate al Saffi, alla seconda.

[14] Rosolino Pilo, patita una fiera fortuna di mare ed altre
peripezie, non potè approdare a Messina che il 9 aprile. Vedi sul
viaggio di Pilo, _Relazione esatta della spedizione di Rosolino Pilo e
Giovanni Corrao avvenuta nel 1860_, scritta da RAFFAELE MOTTO, pilota
della paranza, pubblicata per cura di Francesco Zannoni. Spezia,
novembre 1877.

[15] Fu scritto per delazione d’uno dei frati della Gancia: pura
favola. Il processo chiarì che l’involontario delatore fa uno degli
operai affigliati alla congiura che la confidò, credendolo fidato, ad
un altro operaio, il quale invece altro non era che un arnese occulto
della polizia.

[16] _Vita di Nino Bixio_, pag. 173 e segg.

[17] Vedi lettera di Garibaldi in risposta ai Siciliani nel _Proemio_
già citato di AURELIO SAFFI, pag. 39 e 46.

[18] La testimonianza è quella dello stesso colonnello, ora generale
Sacchi. Ecco come nel fascicolo de’ suoi _Ricordi_ egli racconta
l’episodio:

«La spedizione in Sicilia doveva prima farsi colla brigata Reggio,
45º e 46º reggimento, quest’ultimo da me comandato; Garibaldi da
Alessandria ove io stanziava mi chiamò a Torino; mi parlò di quest’idea
che aveva subordinata al parere del Re; mi diede istruzioni pel caso
si dovesse effettuare; io misi a parte del segreto Chiassi, Isnardi,
Pellegrini, Grioli, Lombardi e qualche altro ufficiale del reggimento;
dopo qualche tempo mi richiamò a Torino; in presenza di Trecchi, che
ritornava d’aver visto il Re, mi disse che non si pensava più a quanto
erasi prima ideato; e non solo non ci si pensava, ma bisognava anche
che rimanesse nelle fila chi eravi vincolato, salvo ad accorrer poi; ma
che intanto bisognava lavorare ad impedire che si sciogliessero forze
organizzate; tale era il parere del Re! Fu allora che io chiesi una
parola di Garibaldi perchè fossero conosciuti i suoi intendimenti al
proposito, e che egli prima di partire redasse l’Ordine del giorno che
ho trascritto.»

[19] Lettera del generale Fanti, ministro della guerra, al generale
Ribotti, Torino, 6 aprile 1860, citata nella _Storia documentata della
Diplomazia europea_, di N. BIANCHI, pag. 289.

[20] Il dottore AGOSTINO BERTANI nel suo opuscolo: _Ire politiche
d’oltre tomba_ (pag. 61), dice che il Sirtori al ritorno d’una visita
fatta al Cavour, alcuni giorni prima della spedizione, gli narrò che il
Conte stesso interpellato cosa pensasse della fortuna di quegli arditi
patriotti, rispose sorridendo e fregandosi le mani: «Io non penso che
li prenderanno.»

Non vogliamo mettere in dubbio la sincerità del dottor Bertani; ma come
si concilierebbe quel racconto del Sirtori con questa lettera da lui
stesso diretta nel medesimo giorno al conte Giulini di Milano:

«Partiamo per un’impresa risolta contro i miei consigli. Vedi
Cavour e fa’ che non ci abbandoni. La nostra bandiera è la vostra.
Aiuti efficaci non ci possono venire che da voi, cioè dal Governo.
I nostri mezzi sono troppo al di sotto dell’impresa; ma l’impresa
merita che il Governo ci aiuti, e lo può senza compromettersi. Giorni
sono vidi Cavour a Genova; gli parlai del nostro disegno, toccai
dell’insufficienza dei nostri mezzi; il suo discorso mi lascia sperare
aiuto. Egli è il solo che possa aiutare efficacemente, e credo che
abbia cuore e mente per comprendere quanto bene farà all’Italia
aiutandoci.» — Si trova nella citata _Storia documentata della
Diplomazia europea_, vol. VIII, pag. 290.

[21] Vedi l’ormai famosa Lettera di Massimo D’Azeglio a M. Rendu, del
15 maggio 1860.

Il D’Azeglio poi restituì le armi sequestrate, dodicimila carabine
_Enfields_, che servirono per le successive spedizioni.

[22] Tutto ciò attesta il suo _Epistolario_; ma avremo occasione di
riparlare di questo, quando incontreremo il La Farina a Palermo.

[23] Leggiamo in parecchi libri e giornali che il conte di Cavour,
al Persano che lo interpellava sul vero senso dell’ordine ricevuto,
rispondesse: «Navighi tra Garibaldi e gl’incrociatori napoletani;» al
che l’Ammiraglio avrebbe risposto: «Ho capito; se sbaglio mi manderà
a Fenestrelle.» Ma la verità vuole si dica che il PERSANO stesso,
nel suo noto _Diario politico militare_, racconta un po’ diversamente
l’aneddoto, e importa ricordarne il vero tenore:

«9. — .... Devo arrestare i volontari partiti da Genova per la Sicilia
su due piroscafi della Società Rubattino sotto il comando del generale
Garibaldi, ove tocchino in qualche porto della Sardegna, e più
particolarmente a quelli della Maddalena e del golfo di Cagliari, MA
DEVO LASCIARLI PROCEDERE NEL LORO CAMMINO INCONTRANDOLI PER MARE.

»Nella via percorsa mi fermo a Tortolì tanto quanto basta ad
impostarvi una lettera riservata a S. E. il conte di Cavour, dettatami
dall’ambiguità dell’ordine avuto. Gli dico che la spedizione che ho
mandato di arrestare non avendo potuto effettuarsi ad insaputa del
Governo, ne argomentava non avesse a toccare nè alla Maddalena, nè
dove mi si ingiungeva di fermarla; ma siccome potrebbe pur esservi
sforzata da eventualità di mare, chiedeva di telegrafarmi CAGLIARI,
quando realmente si volesse l’arresto; e MALTA nel caso contrario;
proferendomi in qualsiasi evento di salvare sempre colla mia persona
il Governo del Re col lasciargli facoltà di oppormi ogni operato
_della divisione che comando sebbene ordinatomi_, e di castigarmi ove
occorrano maggiori prove.

»10. — S. E. il conte di Cavour mi telegrafa: _Il_ MINISTERO HA DECISO
_per_ CAGLIARI. Questo specificarmi che la decisione era stata presa
dal Ministero mi fa comprendere che egli, Cavour, opinava diversamente;
quindi per tranquillarlo mi faccio premura di ripetergli: _Ho capito_;
e risolvo di lasciar procedere l’ardito condottiero al suo destino,
ove mai approdasse nei porti in cui erami ingiunto di arrestarlo;
facendo ogni mostra atta a far credere sul serio essere io stato
nell’intendimento di trattenerlo.» — Vedi _Diario_ citato, pag. 14, 15
e 16.

Ma come ognun vede, qui dell’ordine _di navigare tra i Garibaldini e
gl’incrociatori non ce n’è parola_; quindi la supposta protezione della
squadra sarda preparata dal conte di Cavour dilegua in fumo. Il conte
di Cavour non voleva impedire la prima spedizione, e faceva certamente
voti per la sua riuscita; ma fino al punto di volerla coprire e
difendere colle sue navi non era ancor disposto ad arrivare. Oltre
di che dicano i marinai, se un ordine dato a una squadra ancorata in
Sardegna di coprire dei legni partiti da Genova e diretti Dio sa per
quale rotta alla volta di Sicilia, poteva essere dato seriamente e in
ogni cosa efficacemente eseguito!

[24] Ripeto qui una Nota della mia _Vita di Nino Bixio_:

«Trascrivo testualmente questo telegramma dal _Diario_ di Bixio. E
così fu interpretato dal Crispi che lo ricevette, così fatto leggere
a Garibaldi e a quanti lo circondavano. A me pure, venuto in que’
giorni da Brescia con una schiera di cento Bresciani pronti a partire,
fu tradotto così. Ora invece il generale Fabrizi mi avverte che il
suo telegramma fu male interpretato, e che suonava invece così:
_L’insurrezione, vinta nella città di Palermo, si sostiene nelle
provincie_. L’equivoco nacque certamente dall’essere il telegramma in
cifra, e una di quelle cifre rivoluzionarie destinate a passare non
intese sotto gli occhi di tante Polizie nemiche, quindi più oscura
delle altre. Certo il generale Fabrizi non ebbe intenzione di mandare
alcuna notizia che avesse per effetto di sospendere una spedizione da
lui prima che da ogni altro aspettata e secondata.»

[25] Il La Farina aveva ricevuto millecinquecento fucili; ma per quante
preghiere gli fossero fatte, non ne volle mai dare più di mille. Ciò è
attestato tanto da GARIBALDI nei _Mille_, quanto dal BERTANI nelle sue
_Ire d’oltre tomba_, e riconfermato poi da questa lettera del signor
Enrico Besana, uno dei direttori del _Milione di fucili_, illibatissimo
patriotta, ma di parte moderata, e la cui testimonianza non può in
questa cosa essere sospetta:

     «Pregiatissimo sig. Direttore del Giornale _La Perseveranza_.

                                              »Milano, 12 gennaio....

»Nell’impossibilità di indirizzarmi al signor Ba.... mi rivolgo a lei,
perchè voglia rettificare alcune inesattezze inserite nell’appendice
del pregiatissimo di lei giornale del 12 gennaio corrente. Parlando
di Giuseppe La Farina, l’appendicista attribuisce al suddetto, come
presidente della _Società nazionale_, la somministrazione dei mezzi
necessari per la spedizione di Marsala; ma il fatto si è che il La
Farina, con tutta la più buona volontà del mondo, non potè contribuire
che pochi fucili; l’amministrazione del _Milione di fucili_, di cui io
era indebitamente uno dei due direttori, somministrò tutto il materiale
che fu imbarcato, non che centomila franchi in contanti. La spedizione
Medici poi fu completamente organizzata, vestita, armata e provveduta
persino de’ necessari bastimenti a vapore di trasporto dalla suddetta
amministrazione.

»Tutto ciò in onore al vero. Con tutta la stima

                                                     »ENRICO BESANA.»

(BERTANI, op. cit., pag. 126.)

[26] Circa ai denari che servirono d’erario alla prima spedizione, così
scrive il BERTANI nelle sue _Ire politiche d’oltre tomba_, pag. 53 e
54:

«I primi danari per la spedizione, cospicua somma che servì appunto
alla compra di armi, di munizioni, di viveri e per cento altri bisogni,
vennero da Pavia, città sempre esemplare nella iniziativa delle più
ardite e patriottiche imprese, altri e molti ne fornì, come dissi già,
la cassa del _Milione di fucili_. Altre migliaia di lire aveva ricevute
Garibaldi dall’America, raccolte da amici suoi.

»I denari _per poter salpare_ li recò a me il 5 maggio a sera,
coll’ultima corsa della ferrovia da Milano, l’avvocato Filippo
Migliavacca, già tenente de’ volontari del 1859, maggiore a Milazzo,
dove morì combattendo.

»Erano le sessantamila lire provenienti dalla cassa del _Milione di
fucili_, e rappresentate da un _buono_ sulla Banca di Genova. Ma l’ora
era già troppo tarda per averne il cambio. Che fare? l’imbarazzo era
grande quanto la premura.

»Mandai tosto, giacchè io era infermo, presso alcuni ricchi negozianti
miei clienti per avere il denaro; ma a quell’ora e con tanta fretta non
potei trovare presso di un solo la rilevante somma in metallo.

»Fu necessario che mi accontentassi di trentamila lire in marenghi, che
consegnai oltre le 11 ore di notte a bordo dei battelli a vapore già
venuti nelle mani dei volontari.»

[27] Parole dello stesso GARIBALDI nel suo libro _I Mille_, pag. 7.

[28] CATULLO, nell’_Epitalamio di Teti e Peleo_, versi 22-23.

[29]

                                              «Quarto, 5 maggio 1860.

  »Sire,

»Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie,
ha commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia dei miei vecchi
compagni d’arme.

»Io non ho consigliato il moto insurrezionale dei miei fratelli
di Sicilia; ma dal momento che si sono sollevati a nome dell’unità
italiana, di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la più
infame tirannide dell’epoca nostra, non ho esitato di mettermi alla
testa della spedizione.

»So bene che m’imbarco per un’impresa pericolosa, ma pongo confidenza
in Dio, nel coraggio e nella devozione de’ miei compagni. Il nostro
grido di guerra sarà sempre: _Viva l’Unità d’Italia! Viva Vittorio
Emanuele, suo primo e bravo soldato!_

»Se noi falliremo, spero che l’Italia e l’Europa liberale non
dimenticheranno che questa impresa è stata decisa per motivi puri
affatto da egoismo e interamente patriottici. Se riusciremo, sarò
superbo d’ornare la corona di Vostra Maestà di questo nuovo e
brillantissimo gioiello, a condizione tuttavia che Vostra Maestà si
opponga a ciò che i di lei consiglieri cedano questa provincia allo
straniero, come hanno fatto della mia terra natale.

»Io non ho partecipato il mio progetto a Vostra Maestà: temeva infatti
che per la riverenza che le professo non riuscisse a persuadermi
d’abbandonarlo.

»Di Vostra Maestà, Sire, il più devoto suddito

                                                      »G. GARIBALDI.»

[30]

  «Soldati Italiani,

»Per alcuni secoli la discordia e l’indisciplina furono sorgente di
grandi sciagure al nostro paese. Oggi è mirabile la concordia che anima
le popolazioni tutte dalla Sicilia alle Alpi. Però di disciplina la
nazione difetta ancora — e su di voi, che sì mirabile esempio ne daste
e di valore — essa conta, per riordinarsi, e compatta presentarsi al
cospetto di chi vuol manometterla.

»Non vi sbandate, dunque, o giovani! Resto delle patrie battaglie!...
Sovvenitevi che anche nel Settentrione abbiamo nemici e fratelli
schiavi, e che le popolazioni del Mezzogiorno, sbarazzate dai mercenari
del Papa e del Borbone, abbisogneranno dell’ordinato marziale vostro
insegnamento per presentarsi a maggiori conflitti.

»Io raccomando dunque, in nome della patria rinascente, alla gioventù
che fregia le file del prode esercito, di non abbandonarle.... ma di
stringersi vieppiù ai loro valorosi ufficiali, ed a quel Vittorio,
la di cui bravura può esser rallentata un momento da pusillanimi
consiglieri, ma che non tarderà molto a condurci tutti a definitiva
vittoria!

                                                      »G. GARIBALDI.»

[31] Questa lettera fu pubblicata ne’ giornali del 1860 con alcune
varianti ed ommissioni; ma noi abbiamo preferito il testo di quella che
dallo stesso Agostino Bertani fu spedita in copia ad Antonio Panizzi,
che si legge nelle _Lettere ad Antonio Panizzi_, e che reputiamo il
testo originale e genuino.

Nella lezione de’ giornali, precisamente nel periodo che dice: «....
l’insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutarla,
ma dovunque, ec.,» fu ommesso l’inciso: _ma nell’Umbria, nelle
Marche, nella Sabina, nel Napoletano,_ ec., di cui a nessuno
sfuggirà l’importanza. La ragione dell’omissione non sapremmo dire:
probabilmente originò da scrupoli o da ritardi politici: certo che
da quell’inciso risultava più chiaramente il concetto di Garibaldi
di collegare l’impresa di Sicilia colla insurrezione della rimanente
Italia e di aiutare l’una coll’altra.

[32] Si seppe dipoi che fu un vero tradimento. Il capo della spedizione
piantò in mare, fuggendo sopra un canotto, le paranze che doveva
dirigere nello scopo infame di giovarsi della confusione di quella
notte per contrabbandare entro Genova molti colli di seta. Vedi
_Relazione inviata al generale Garibaldi sul fatto delle armi sottratte
nelle acque di Genova alla spedizione dei Mille_. Sampierdarena, 2
novembre 1874. — _Firmati_: Stefano Lagorara, Giacomo Canepa, Pietro
Botto, Francesco Moro (detto Baxaicò), Giuseppe Oneto, Michele
Danovaro, Castello Lorenzo, Castello Girolamo. — Nomi dei superstiti
tra coloro che erano stati incaricati di scortare il carico delle armi,
e che furono le prime vittime del tradimento.

[33] _Vita di Nino Bixio_, pag. 160. — Ho scritto altra volta sullo
stesso tema e mi accadrà spesso di citare me stesso. Chi conosce
l’artificio di travestire con diverse parole i medesimi affetti e
pensieri, mi condanni.

[34] Il fatto è in diversi libri diversamente narrato; Garibaldi
stesso ne’ _Mille_, tradito dalla memoria, confonde Santo Stefano
con Orbetello, dice di non essersi messo che il berretto da
Generale, mentre noi stessi lo vedemmo in completa uniforme; ed
altre inesattezze. Noi ci siamo attenuti al racconto che ne fa il
maggiore PECORINI-MANZONI nella _Storia della 15ª Divisione Türr nella
Campagna del 1860_ (Firenze, 1876, pag. 17-18), sembrandoci che un
libro riveduto ed approvato dallo stesso generale Türr, in un fatto
memorabile che personalmente lo riguarda, debba essere più d’ogni altro
esatto e credibile.

La colubrina era da sei, montata su d’un affusto di marina; i
cannoncini erano: uno da quattro sull’affusto, gli altri due da sei
senza affusto.

[35] «La missione di questo corpo è, come fu, basata sull’abnegazione
la più completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi
Cacciatori servirono e serviranno il loro paese colla devozione
e disciplina dei migliori corpi militanti, senz’altra speranza,
senz’altra pretesa che quella della loro incontaminata coscienza.
Non gradi, non onori, non ricompensa allettarono questi bravi; essi
si rannicchiarono nella modestia della loro vita privata, allorchè
scomparve il pericolo; ma, suonando l’ora della pugna, l’Italia li
rivede ancora in prima fila, ilari, volonterosi e pronti a versare il
loro sangue per essa. Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è
lo stesso che rimbombò sulle sponde del Ticino, or sono dodici mesi:
_Italia e Vittorio Emanuele_; e questo grido, ovunque pronunciato da
noi, incuterà spavento ai nemici dell’Italia.

  _Comandanti delle Compagnie_:

  Nino Bixio,  comandante la  prima    compagnia
  Orsini            »         seconda      »
  Stocco            »         terza        »
  La Masa           »         quarta       »
  Anfossi           »         quinta       »
  Carini            »         sesta        »
  Cairoli           »         settima      »
  Mosto, comandante i Carabinieri genovesi.
  Sirtori, capo di Stato Maggiore.
  Türr, primo aiutante di campo del Generale.
  Acerbi, Intendenza.
  Ripari, capo del Corpo sanitario.

»L’organizzazione è la stessa dell’esercito italiano a cui
apparteniamo, ed i gradi, più che al privilegio, al merito, sono gli
stessi già coperti su altri campi di battaglia.

                                                »GIUSEPPE GARIBALDI.»

(ODDO, op. cit., pag. 187.)

[36] Il _sono dati_ l’aggiungiamo noi, fatti per necessità grammatici
e linguai. L’Autore dell’Ordine del giorno, che aveva il coraggio
d’andare innanzi senz’armi, saprà bene sbarcare a Marsala anche senza
un _verbo_!

[37] Vedila a pag. 5 dell’opuscolo: _Una pagina di storia del 1860_, di
GIACOMO MEDICI. Palermo, 1869.

[38] Di queste Istruzioni vidi io stesso a Talamone co’ miei occhi
l’originale tutto del Generale. Esse restarono qualche tempo nelle mani
dello Zambianchi; poi passarono in quelle del professor I. B. Savi di
Genova, il quale lo offerse al _Gran Bazar_ aperto in Londra nel 1863
da Giuseppe Mazzini a beneficio di Roma e Venezia. Ma il signor Michele
Tassara di Genova, allora incaricato dal Sotto-Comitato delle signore
genovesi delle operazioni del sopradetto _Gran Bazar_, ne tenne copia;
e fu da esso che i miei amici dottor Cantoni e capitano Pittaluga
poterono ricavare quello che qui si stampa.

[39] Che il generale Medici non ignorasse l’assegnamento che Garibaldi
aveva fatto su di lui, lo dimostra, oltre la lettera già citata, anche
la seguente, che egli dirigeva al Panizzi due giorni dopo la partenza
dei Mille:

                                              «Genova, 7 maggio 1860.

  »Caro Panizzi,

»Garibaldi con 1500 uomini corre il mare in due battelli a vapore da
ieri mattina, alla volta di Sicilia.

»L’impresa è generosa; Dio la proteggerà e la fortuna del fortunato
Condottiero.

»Io son rimasto per appoggiare l’ardita iniziativa con una seconda
spedizione, _o meglio con potente diversione altrove_; ma i mezzi ci
mancano. Bertani ha fatto miracoli di attività che molto hanno prodotto
e che la prima spedizione ha completamente esauriti.

»Caro Panizzi, non lasciarci soli, non lasciamo solo il nostro
Garibaldi e suoi generosi compagni, aiutaci ad aiutarlo, tu puoi
molto, procura di raccogliere tra pochi amici almeno per la compera
di un battello a vapore e di mandarcelo subito subito, con bandiera ed
equipaggio inglese: quanto più di marcia veloce, tanto meglio servirà
allo scopo.

»Addio; lascio la penna a Bertani.

                                              »_Tuo affezionatissimo_
                                                            »MEDICI.»

(Vedi _Lettere ad Antonio Panizzi_, pubblicate da LUIGI FAGAN. —
Firenze, Barbèra editore, 1880, pag. 424-25.)

[40] La comandava Andrea Sgarallino: eran circa duecento.

[41] Ci spiace doverlo dire, ma il signor Zini non fece che accogliere
nella sua _Storia_ le menzogne pontificie, senza nemmeno darsi la
cura di vagliarle e appurarle. Quando dal suo racconto si eccettui il
giudizio che egli dà dello Zambianchi, esagerato esso pure, poichè in
fondo quel pover’uomo era un _miles gloriosus_ che faceva colle sue
smargiassate credere di sè peggio di quello che faceva; non resta più
una sola parola di vero.

Dico che «lo Zambianchi passò speditamente il confine colla sua banda
ingrossata, Dio sa da quanti venturieri, e volteggiò alquanti giorni
attorno al lago di Bolsena e tentò l’Agro viterbese; ma indarno, chè
scorrazzando quelle terre e taglieggiando per sostenersi e peggio, ben
altro che suscitare quelle popolazioni ignare a levarsi, messe in loro
un grandissimo sbigottimento.» _Tante parole, tanti spropositi. Lo
Zambianchi, lungi dal passare speditamente, vi impiegò dodici giorni;
non volteggiò e non poteva volteggiare al lago di Bolsena e sull’Agro
viterbese, essendosi diretto su Orvieto; molto meno volteggiò alquanti
giorni, avendo passato il confine la mattina ed essendone ripartito la
sera. Però tutti quegli altri gerundii,_ SCORRAZZANDO, TAGLIEGGIANDO,
_sono borra rettorica del periodo e nulla più._

Il signor Zini prosegue: «.... nè guardandosi, improvviso da
Montefiascone vennegli addosso polso di Gendarmi e Zuavi pontificii.»
(_Vennero da Valentano, non da Montefiascone, e soli Gendarmi a cavallo
e un reggimento di fanteria svizzera, ma non Zuavi._) «.... La banda,
sorpresa al villaggio delle Grotte, andò subitamente fugata e dispersa
quasi senza combattere, lasciando parecchi morti nella fuga, li più per
mano dei villani infelloniti.» _La banda fu sorpresa, come dicemmo,
ma non andò subito fugata; fugò anzi, e in che modo, i Pontificii,
costringendoli a lasciare i loro morti e feriti sul terreno_. È
vero che i villani del paese ci erano avversi, e che molti di loro
avevano fatto fuoco dalle case; ma non perchè i Garibaldini avessero
fatto loro alcun male, ma perchè il villaggio dominato dal Vescovo di
Montefiascone era feudo di preti e vecchio nido di barbacani.

Del resto, le pagine del signor Zini non hanno oggi più mestieri di
confutazione. Dopo diciotto anni d’ingiusto oblío, anche agli sbarcati
di Talamone fu resa giustizia, e il Parlamento equiparandoli, colla
legge del 26 gennaio 1879, agli sbarcati di Marsala, ha sciolto al
tempo stesso una questione di diritto e di storia.

[42] Così giudicarono i principali storici, come il LECOMTE, _L’Italie
en 1860_, pag. 37, e il RUSTOW, _Storia della Campagna del 1860_;
così credettero i giornali del tempo.... così scrisse Garibaldi nella
lettera del 25 maggio 1869, che tronca ogni lite:

                                            «Caprera, 25 maggio 1869.

»Fu per ordine mio che la spedizione Zambianchi in Talamone si staccò
dal corpo principale dei Mille, per ingannare i nemici sulla vera
destinazione di detto corpo.

»Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni,
Leardi e tutti loro sarebbero stati degni, come sempre, dei loro
compagni, ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi
combattimenti di Calatafimi e di Palermo.

»L’onorificenza della medaglia dei Mille accordata dal Municipio
di Palermo senza mia richiesta, e la pensione conceduta agli stessi
individui fu decretata dal Parlamento nazionale. Io quindi nulla chiedo
pei miei fratelli d’armi di Talamone. Ma sarò contento se essi vengono
soddisfatti nel loro desiderio.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[43] Vedi mia _Vita di Nino Bixio_, pag. 165-166.

[44] La città ed il porto furono ricostruiti dagli Arabi, che vi
diedero il nome: _Marsa-’Alì_ (Porto d’Alì).

[45] Non siamo noi che le diciamo, sono i Siciliani. — «All’istante
Castiglia discese su d’uno de’ suoi battelli unitamente al bravo marino
signor Andrea Rossi; girando tutti i piccoli legni ancorati nel porto,
imponevano a quei marinari, col _revolver_ alla mano, di inviare gli
schifi a bordo del _Piemonte_ loro malgrado.»

Questo è il brano d’un opuscolo: _Memorie relative al marino
Castiglia_, scritto da un Siciliano, ripubblicato nel libro: _Alcuni
fatti e documenti della Rivoluzione dell’Italia meridionale del 1860,
riguardanti i Siciliani e La Masa_ (opera del LA MASA stesso). Torino,
1861, pag. 20.

[46] La diceria fu accolta da parecchi ed anche in molte parti
dall’acutissimo Zini. Pure bastava il semplice fatto della posizione
rispettiva dei bastimenti per chiarirlo _dell’errore_. I vapori
inglesi erano la corvetta _Argus_ e l’avviso _Intrepid_: il primo
era ancorato alla punta del molo; il secondo più entro terra verso
scirocco; lo _Stromboli_ si mise di traverso al porto; era dunque
materialmente impossibile, finchè i bastimenti inglesi stavano fermi
nei loro ancoraggi, che essi potessero impedire il tiro dei bastimenti
napolitani.

   [Illustrazione: Posizione dei bastimenti]

La fiaba poi fu smentita, prima da un rapporto del capitano Marryatt,
comandante dell’_Intrepid_; poscia da una esplicita dichiarazione di
Lord John Russel, ministro degli esteri di S. M. Britannica, fatta alla
Camera dei Comuni nella seduta del 21 maggio 1860:

«_Lord John Russel_. Il mio onorevole amico mi fece una domanda
relativa allo sbarco di Garibaldi ed a due vascelli inglesi, che,
secondo alcuni telegrammi, dicono avrebbero protetto lo sbarco
di quegli uomini. Ebbene, io ricevetti oggi dall’Ammiragliato il
dispaccio telegrafico dell’ufficiale comandante uno di questi vascelli,
l’_Intrepid_. Gli onorevoli signori devono sapere che in Marsala
vi sono molte case inglesi, e che da tempo, quando si attendeva
un’insurrezione nella Sicilia, e specialmente poi quando corse la voce
che Garibaldi vi sarebbe andato, erano spôrte dimande al Ministero
degli esteri ed all’ammiraglio Fanshawe, che comanda sul Mediterraneo,
di mandare vascelli per proteggere le proprietà inglesi nei luoghi
dove si trovassero sudditi britannici. Quindi è che l’ammiraglio
Fanshawe mandò l’_Intrepid_ e l’_Argus_ a Marsala. L’_Intrepid_
vi giunse, io credo, agli 11; ma non ebbe tempo a fermarvisi molto
prima che giungessero due vapori mercantili colle forze di Garibaldi,
che cominciarono tosto a scendere a terra. Mentre ciò succedeva,
due bastimenti da guerra napolitani, un vapore ed una fregata,
s’avvicinarono a Marsala. Ma questo ufficiale dice che, sebbene questi
bastimenti potessero far fuoco sui vascelli e sugli uomini durante lo
sbarco, nol fecero.

»Non dice, nulla sapendo della storia, che poi fu messa in giro, che i
bastimenti inglesi impedissero i Napolitani da fare fuoco; ma dice che,
sebbene questi avessero l’opportunità di far fuoco sui vascelli e sugli
uomini, nol fecero.

»Dice inoltre che, dopo che gli uomini furono sbarcati, e che i vapori
mercantili ebbero sbarcate tutte le truppe di Garibaldi, l’ufficiale
comandante il vapore napoletano venne da lui a richiederlo di mandare
un battello inglese a prendere possesso di quei vascelli. L’ufficiale
inglese, il capitano Marryatt, ben con ragione vi si rifiutò (_Hear,
hear_). Egli non aveva istruzioni che lo autorizzassero a prendere
quei vascelli, ed a partecipare in quella faccenda. Le sue istruzioni
erano, come sempre è stata la condotta del Governo inglese, di
osservare una perfetta neutralità nel conflitto ora insorto (_Hear,
hear_). Perciò, sebbene questo ufficiale non dia formale diniego (per
nulla conoscendone l’esistenza) all’allegazione che i suoi bastimenti
all’àncora impedissero il fuoco dei vascelli napoletani, possiamo
inferire dalla sua relazione che tale non fu il caso. Sembra che il
capitano napoletano lo richiedesse di richiamare da Marsala qualunque
dei suoi ufficiali fosse a terra, e che egli immediatamente innalzasse
un segnale per tal fine, e che quando i suoi ufficiali furono a bordo,
sia stato aperto il fuoco contro Marsala dai bastimenti napoletani. Ciò
potrebbesi ravvisare come un atto di cortesia internazionale per parte
del capitano napoletano, ma punto non implica che i bastimenti inglesi
si opponessero al suo fuoco. Non risulta che l’ufficiale inglese
eccedesse in modo alcuno il suo dovere. Egli si ritrova colà nello
scopo di proteggere gl’interessi britannici e nulla fece di più.»

[47] Otto secoli precisi. I Normanni di Ruggiero sbarcarono la prima
volta in Sicilia nell’inverno, e la seconda nella primavera del 1060.
Nessuno de’ vecchi cronisti siciliani accertò il loro numero: chi li
fa trecento, chi quattrocento, chi seicento e più; certo che i quaranta
sono pura leggenda.

[48] _Noterelle d’uno dei Mille, edite dopo vent’anni_, di GIUSEPPE
CESARE ABBA. Bologna, 1880, pag. 60.

[49] ZINI, _Storia citata_, pag. 605.

[50] Vedi _I Mille_ pag. 26.

[51] _Vita di Nino Bixio_, pag. 175.

[52] ABBA, _Noterelle citate_.

[53] _Vedi Histoire de la Conquête de l’Angleterre_, par Augustin
Thierry. Lione, vol. III, pag. 199.

[54] Ricordo che il Davoust ad Aerstaedt diceva: «Les braves mourront
ici; les lâches iront mourir en Sibérie.»

[55] RUSTOW, _La guerra d’Italia del 1860_, vol. II, pag. 189 e segg.

[56] Vedi _I Mille_ di GARIBALDI, pag. 36, e GIUSEPPE CAPUZZI
(bresciano, de’ Mille egli pure), _La spedizione di Garibaldi in
Sicilia_. — L’ABBA, _Noterelle_ già citate, conferma.

Un altro assalto di bande subirono pure i Regi a Montelepre.

[57] «Caro Rosolino. — Ieri abbiamo combattuto ed abbiamo vinto.
I nemici fuggono impauriti verso Palermo. Le popolazioni sono
animatissime e si riuniscono a me in folla. Domani marcerò verso
Alcamo. Dite ai Siciliani che è ora di finirla, e che la finiremo
presto; qualunque arma è buona per un valoroso, fucile, falce, mannaia,
un chiodo alla punta di un bastone. Riunitevi a noi ed ostilizzate il
nemico in quei dintorni, se più vi conviene; fate accendere dei fuochi
su tutte le alture che contornano il nemico. Tirate quante fucilate
si può di notte sulle sentinelle e sui posti avanzati. Intercettate
le comunicazioni. Incomodatelo infine in ogni modo. Spero ci rivedremo
presto.»

[58] Accompagnavano il La Masa i siciliani cav. Fuxa, Curatolo, Di
Marco, Nicolosi, i due fratelli La Russa e Rebaudo.

[59] Scriveva alla Direzione del fondo pel milione di fucili:

  «Stimatissimi Signori,

»Ebbimo un brillante fatto d’armi avanti ieri coi Regi capitanati
dal generale Landi presso Calatafimi. Il successo fu completo,
e sbaragliati interamente i nemici. Devo confessare però che i
Napoletani si batterono da leoni, e certamente non ho avuto in Italia
combattimento così accanito, nè avversari così prodi. Quei soldati, ben
diretti, pugneranno come i primi soldati del mondo.

»Da quanto vi scrivo, dovete presumere quale fu il coraggio dei
nostri vecchi Cacciatori delle Alpi e dei pochi Siciliani che ci
accompagnavano.

»Il risultato della vittoria poi è stupendo: le popolazioni sono
frenetiche. La truppa di Landi, demoralizzata dalla sconfitta, è stata
assalita nella ritirata a Partinico e a Montelepre con molto danno, e
non so quanti ne torneranno a Palermo, o se ne tornerà qualcuno.

»Io procedo colla Colonna verso la capitale, e con molta speranza,
ingrossando ad ogni momento colle squadre insorte, e che a me si
riuniscono. Non posso determinarvi il punto ove dovete inviarmi armi
e munizioni, ma voi dovete prepararne molte, e presto saprete il punto
ove dovrete mandarlo.

»Addio di cuore.

  »Alcamo, 17 maggio 1860.

                                                      »G. GARIBALDI.»

Quattro giorni prima aveva parimente scritto al dottor Bertani:

                                             «Salemi, 13 maggio 1860.

  »Caro Bertani,

»Sbarcammo avant’ieri a Marsala felicemente. Le popolazioni ci hanno
accolto con entusiasmo, e si riuniscono a noi in folla. Marceremo a
piccole giornate sulla capitale, e spero che faremo la valanga. Ho
trovato questa gente migliore ancora dell’idea che me ne fecero.

»Dite alla Direzione Rubattino che reclamino i vapori _Piemonte_ e
_Lombardo_ dal Governo, ed il Governo nostro li reclamerà naturalmente
dal Governo napoletano.

»Che la Direzione per il milione di fucili ci mandi armi e munizioni
quanto può. Non dubito che si farà altra spedizione per quest’Isola, ed
allora avremo più gente.

                                                            »_Vostro_
                                                      »G. GARIBALDI.»

(_Pungolo_ di Milano del 3 e 4 giugno 1860.)

[60] _I Mille_, pag. 90. Soggiunge per l’onor del vero: «Marcia che,
senza la cooperazione di que’ Picciotti delle squadre siciliane,
sarebbe stato impossibile di eseguire o almeno di trasportare i pochi
cannoni nostri e le munizioni.»

[61] Parole sue nei _Mille_, pag. 90.

[62] Non svelò nè all’Orsini, nè ad anima viva la ragione di quella
marcia. Solo nel vederlo partire, il Crispi l’udì mormorare: «Povero
Orsini, va al sacrificio.»

[63] ALBERTO MARIO nel suo _Garibaldi_ (pag. 35) in una descrizione
delle mosse di Garibaldi da Renna al Parco, piena, a parer nostro, di
molti errori di fatto e di non poche sviste topografiche, afferma che
il Capitano dei Mille pensò all’assalto di Palermo per la via di Porta
Termini, e quindi alla ritirata manovra per Piana de’ Greci, Marineo,
Misilmeri, fin dal suo arrivo al Parco. Ora che Garibaldi meditasse di
portarsi sulla via di Termini, è probabile, sebbene non ne abbia dato
alcun indizio; ma che egli nello stesso tempo, fin dal 22 o 23, avesse
concepita e fermata la finta ritirata, e lo strattagemma che gli aperse
dopo Piana de’ Greci la strada di Misilmeri e quella di Palermo, questo
ne sembra non solo improbabile, ma viene da tutte le circostanze del
fatto smentito.

[64] Nel libro: _Alcuni fatti e documenti della Rivoluzione dell’Italia
meridionale del 1860 riguardanti i Siciliani e La Masa_ (Torino,
tipografia Scolastica Franco e Figli, 1861), a pag. XLVI si legge:

«Lungo la via La Masa incontrò molte guerriglie sbandate che gridavano
al tradimento ed alla fuga dei Continentali, perchè, dicevano, era
stato ordinato loro di respingere gagliardamente l’attacco del nemico,
che i Cacciatori delle Alpi coll’artiglieria sarebbero accorsi ad
aiutarli al momento opportuno; ed invece quando essi erano impegnati
nel combattimento disuguale, quelli si ritirarono conducendo seco anche
l’artiglieria.

»La Masa ordinò la fucilazione per chi avesse ripetute le parole
_fuga_ e _tradimento_ — assicurò alle guerriglie che quella ritirata
era un’_astuzia strategica_, ch’esse non avevano saputo comprendere —
ordinò che gli sbandati s’incorporassero nella sua colonna, e proseguì
la marcia riconducendoli al punto da cui essi erano fuggiti.

»Quanto più inoltravasi, maggior numero di sbandati incontrava, —
ripeteva la scena stessa; — non vedendo nessun avviso nè contrordine,
ei proseguì il cammino.»

Ora ognuno sa che questo libro fu scritto dal La Masa stesso.

[65] Nè dalle istorie, nè dalle testimonianze orali ci fu possibile
raccapezzare intorno a cotesto Consiglio di guerra l’esatta verità. Il
La Masa nel suo libro (pag. XLIX e LI) attribuisce a sè solo il merito
del consiglio più eroico; il Crispi invece ed il Türr, da me in varii
tempi interrogati, affermano che il partito dell’assalto fu sostenuto
principalmente da essi, contro il Sirtori che stava apertamente per la
ritirata. Questi, al contrario, che interrogai del pari quando scrivevo
la _Vita_ del povero Bixio, negò recisamente d’aver mai espressa
quell’opinione. Insomma non si sa a chi credere! Forse colui che fu
meglio servito dalla memoria era il Bixio, il quale soleva dire «che
non ci fu discussione, nè ci poteva essere.»

[66] Più d’un centinaio era posto fuori di combattimento dalle morti,
dalle ferite, dalle malattie; circa altri cento correvano coll’Orsini;
dire ottocento dunque è già un dir troppo. Dallo _Stato numerico delle
Squadriglie siciliane passate in rivista dall’Ispettore generale Türr
il 1º giugno 1860_, il totale delle loro forze apparisce di 3229
uomini, ma supponiamo che anche il Türr non abbia potuto contarli
tutti.

[67] ISIDORO LA LUMIA, valente storico della sua Isola nativa; anima
rettissima e cuore gentile, rapito anzi tempo agli studi ed alla
patria, nel suo opuscolo: _La Restaurazione borbonica e la Rivoluzione
del 1860_, pag. 117, 118 e 119.

[68] Vedi: _Notamento dei cadaveri rinvenuti nella città di Palermo
dal 30 maggio 1860 in poi, ufficialmente constatati dall’Autorità
municipale, avvertendo che è stato impossibile di raccogliere più
precisi e circonstanziati ragguagli_.

[69] Lord Brougham alla _Camera dei Lordi_ nella seduta dell’8 giugno;
e Lord Palmerston alla _Camera dei Comuni_ in quella del 12 giugno
1860.

[70] In alcuni storici (RUSTOW, op. cit., pag. 214; ZINI, op. cit.,
pag. 612) troviamo che il Console inglese e l’ammiraglio Mundy
chiesero ed ottennero dal Commissario del re Francesco la cessazione
del bombardamento. Ma nel libro dell’ammiraglio Mundy, che abbiamo
sott’occhio (_H. M. S. «Hannibal» at Palermo and Naples during the
Italian Revolutions 1859-1861. With notices of Garibaldi, Francis II
and Victor Emanuel, by Rear-Admiral Sir_ RODNEY MUNDY. K. C. B. London,
John Murray, 1863), non abbiamo letto una sola parola che giustifichi
quell’affermazione. Tutto quanto l’Ammiraglio inglese ha operato per
impedire il bombardamento o diminuirne i danni, si riduce a questi due
fatti da lui stesso raccontati:

1º Nel 25 maggio, due giorni prima dell’entrata di Garibaldi,
l’ammiraglio Mundy scrisse al generale Lanza per pregarlo a risparmiare
alla città gli orrori del bombardamento. A questa domanda però, a cui
si associò naturalmente il console inglese Sir Podven, il generale
Lanza fece questa risposta: «Non credersi obbligato a risparmiare il
bombardamento a città ribelle; promettere soltanto che, scoppiando
la rivolta, non aprirebbe il fuoco se non due ore dopo cominciate le
ostilità, per lasciar tempo ai sudditi stranieri ed ai pacifici sudditi
di S. M. di riparare alle navi.» (Vedi nell’op. cit., dalla pag. 99
alla 103.)

2º Essendosi il generale Lanza nella mattina del 28 posto in
comunicazione coll’ammiraglio Mundy allo scopo di ottenere la di lui
mediazione, l’Ammiraglio aveva creduto bene avvertire il Comandante
della Cittadella delle intavolate trattative, richiedendolo nello
stesso tempo di sospendere, durante le stesse, il fuoco delle sue
batterie. Ma anche questa richiesta ebbe la sorte della prima; poichè
il Comandante del forte mandava a rispondere all’Ammiraglio, che era
impossibilitato di compiacere a’ suoi desiderii «as his orders were
imperative to continue the bombardment unless the answer which I
(cioè l’ammiraglio Mundy) should give was a full acquiescence in the
proposals which had been made.» (Vedi op. cit., pag. 134.) E in ogni
caso ognuno vede che il Mundy si era diretto non al Comandante in capo
dell’esercito napoletano, ma ad un ufficiale subordinato, e non con
una formale richiesta o protesta, ma con una specie di preghiera, che
doveva restare, come restò, inesaudita.

[71] Quell’ufficiale si chiamava il capitano Cossovich, comandante
della regia fregata _Partenope_, e corrispondeva col Lanza per mezzo
del telegrafo ottico del Castellamare collegato a quello del Palazzo
Reale.

[72] MUNDY, op. cit., pag. 124.

[73] Di codesta trama noi non abbiamo dato che i sommi capi. Chi
ne voglia vedere il lungo complicato intrigo, legga i capi XI e
XII dell’opera citata del Mundy. Soggiungeremo solo, per maggiore
chiarezza, che quando il generale Lanza udì che il Mundy, in luogo
della chiesta protezione dell’Inghilterra, gli offriva il salvocondotto
di Garibaldi, gli replicò secco e sdegnato che egli aveva chiesto la
protezione della bandiera inglese, e mancando questa, egli non aveva
più nulla a dire all’Ammiraglio. Allora questi ragionevolmente pensò
che ogni carteggio in proposito fosse chiuso; quando, con sua grande
maraviglia, nella mattina del 29 si vide arrivare quest’altro dispaccio
del Commissario regio: «Riferendomi all’ultima corrispondenza, mando
i due Generali a conferire con lei. Il fuoco sarà sospeso da ambe le
parti verso sera.» Che cosa significava questo sibillino dispaccio? Il
Lanza si riferiva all’ultima corrispondenza! Ma l’ultima corrispondenza
aveva precisamente conchiuso, che il Mundy credeva necessario
l’intervento di Garibaldi e che il Lanza non poteva accettare questa
condizione. Ora come mai poteva riferirvisi? Certo il Commissario regio
voleva traccheggiar sopra un equivoco, sperando con questo di strappare
all’Ammiraglio britannico una concessione che altrimenti non avrebbe
mai fatta. L’Ammiraglio cansò ancora il tranello e replicò per la terza
volta al generale Lanza la lettera seguente, che fu l’ultima e che
testualmente pubblichiamo:

                 «_Rear-Admiral Mundy to General Lanza_

                             (Translation.)

                          _Hannibal_, at Palermo, May 29, 1860, Noon.

»Sir — From your Excellency’s last communication al 7 P. M. yesterday,
in which you state it is not necessary to speak to me any more, I
concluded the correspondence was finished. But as you again earnestly
request my mediation, I consent to receive the two Generals on board,
provided general Garibaldi allaws them to pass through his lines. My
boat will be at Porta Felice to receive them.

                                          »(Signed) G. RODNEY MUNDY.»

[74] Ho ritradotto testualmente la traduzione in inglese
dell’ammiraglio Mundy, che varia in alcune parti da quelle che
corrono per le storie, ma che credo più genuina, come quella che venne
testualmente comunicata in copia dal generale Lanza all’Ammiraglio
stesso.

[75] MUNDY, op. cit., pag. 142.

[76] Non lo riseppe che nella sera del 28; tanto fu il segreto serbato
da quella brava popolazione sulle mosse del liberatore.

Il Lanza non aveva tardato di spedire ai due comandanti, nella giornata
stessa del 27, un corriere che li avvisava dell’accaduto e prontamente
li chiamava; ma il corriere fu spacciato, ed il plico, di cui era
latore, riportato, dopo la liberazione di Palermo, a Garibaldi.

[77] Stando ad un rapporto del luogotenente Wilmot (in Mundy, op.
cit., pag. 145), sembrerebbe che quella colonna fosse entrata da Porta
de’ Greci e venisse di fianco dall’Orto botanico; ma tutte le nostre
testimonianze ci ripetono che la colonna entrò per la Porta di Termini:
forse quella veduta dal Wilmot ne era un distaccamento.

Nel libro: _Storia della 15ª Divisione Türr nella Campagna del 1860 in
Sicilia e Napoli_, per il maggiore di fanteria CARLO PECORINI-MANZONI
(Firenze, 1876, pag. 63), si legge che fu il Letizia, il quale per
l’appunto traversava la città per recarsi a bordo dell’_Hannibal_, a
correre a Porta Termini a far cessare il combattimento. Ciò non è nè
poteva essere. Il convegno sull’_Hannibal_ era fissato per le due, e
il Letizia vi arrivò contemporaneamente a Garibaldi; non poteva dunque
traversare Palermo tra le 10 e le 11, ora in cui accadde lo scontro a
Porta Termini.

Lo stesso maggiore Pecorini fa intervenire al fatto di Porta Termini il
generale Türr. È probabile ch’egli pure sia accorso a veder che fosse
quell’inaspettato combattimento e si sia adoperato a farlo cessare;
come accorsero e s’adoperarono altri, fra i quali il Sirtori; ma gli
attori principali dell’episodio furono quelli da noi citati.

[78] Non ci arrestiamo a smentire tutti gli altri favolosi racconti
di questo episodio; diremo solo che ALBERTO MARIO nel suo _Garibaldi_
(pag. 38) lo fa accadere il 1º giugno!

[79] In molti libri si legge Türr. Lo stesso Generale ci assicurò che è
un errore.

[80] Il MUNDY, op. cit., pag. 147, dice: «Whether this arrangement was
an act of simple politeness on their part, or a premeditated scheme
for accertaining if he would be received with military honours, I
do not pretend to say, but as they did not immediatley follow him
up the accomodation ladder et struck me the delay was not entirely
accidental.»

[81] MUNDY, op. cit., pag. 148.

[82] MUNDY, op. cit., pag. 150.

[83] Ib., pag. 150.

[84] MUNDY, op. cit., pag. 153.

[85] Ib., pag. 153 e 154. — Del resto, la parola _unmeasured terms_ è
dell’ammiraglio Mundy, non nostra, e siamo ben lungi dal confermarla.
Quali che fossero i termini usati da Garibaldi (villani non saranno
stati certamente), non era mai _unmeasured_ dire in quel momento e a
siffatto nemico il fatto suo. Se anche, per generosità, non si voglia
scorgere nel fatto di Porta Termini alcuna perfidia premeditata, resta
sempre l’altro fatto ancor più irritante d’un nemico, che dopo aver
sollecitato dal proprio avversario la grazia d’una conferenza o d’un
armistizio, ricusava poi di riconoscere l’avversario stesso nella
persona del suo capitano supremo, e di trattare con lui! Pensiamo che
alla sortita del generale Letizia un Inglese avrebbe forse risposto,
effetto di temperamento, con più flemma, ma l’avrebbe anche assai
probabilmente fatto saltare nella lancia di bordo, e rimandato a voga
più che arrancata a terra.

[86] MUNDY, op. cit., pag. 156.

[87] ABBA, _Noterelle d’uno dei Mille_, ec., pag. 154.

[88] Fino dal 2 sul vaporetto _Utile_ erano già sbarcati a Marsala
altri cinquantasei volontari, parte Siciliani, parte Continentali. Li
guidava Carmelo Agnetta e portavano, oltre che il loro braccio, qualche
soccorso d’armi e di munizioni. Non poterono però penetrare in Palermo
che la mattina del 5 giugno.

[89] E non gliene mancava la ragione. Il conte di Cavour lavorava
già da tempo a promuovere un _pronunciamento_ fra gli ufficiali della
flotta borbonica; e all’uopo gli serviva d’intermediario l’ammiraglio
Persano, autorizzato a mettersi in corrispondenza cogli ufficiali
stessi «ed a spendervi qualche danaro occorrendo.» (_Diario_ citato,
pag. 22.) L’8 di giugno poi, narra lo stesso Persano (pag. 29) che
il comandante Vacca andò ad un convegno datogli da lui e disposto,
per solo vivo sentimento d’italianità, ad inalberare sul suo legno la
bandiera italiana. E tralasciando la parte non bella che facevano in
tutto questo così il conte di Cavour come l’ammiraglio Persano, si vede
che il Lanza aveva fiutato il pericolo.

[90] Decreto del 17 giugno 1860.

[91]

                 «_Al bello e gentil sesso di Palermo_.

»Colla coscienza di far bene, io propongo cosa gradita certamente ad
anime generose come voi siete, o donne di Palermo!... A voi che io
conobbi nell’ora del pericolo!... belle di sdegno e di patriottismo
sublime!... disprezzando nel furore della pugna le immani mercenarie
soldatesche, ed animando i coraggiosi figli di tutte le terre italiane,
stretti al patto di liberazione o di morte!

»Fidente a voi mi presento, vezzose Palermitane!... e per confessarvi
un atto mio di debolezza, io vecchio soldato dei Due Mondi, piansi....
commosso nell’anima!... e piansi.... non alla vista delle miserie e del
soqquadro a cui fu condannata questa nobile città!... non al cospetto
delle macerie del bombardamento e dei mutilati cadaveri; ma alla vista
dei lattanti e degli orfani dannati a morir di fame!... Nell’Ospizio
degli orfani novanta su cento lattanti periscono mancanti d’alimento!
Una balia nutre quattro di quelle creature fatte ad immagine di Dio!...
io lascio pensare il resto all’anima vostra gentile, già addolorata
dalla nuova desolante.

»Nei molti congedi della mia vita, il più sensibile sarà certamente
quello in cui mi dividerò da voi, popolazione carissima!... Io sarò
mesto in quel giorno!... ma spero la mia mestizia raddolcita da voi,
nobile parte di questo popolo, colla speranza, col convincimento, che
le derelitte innocenti creature, cui più la sventura che la colpa ha
gettato un marchio d’infamia!... ripulse lungi dal seno della società
umana!... dannate ad una vita di vituperio e di miserie.... quelle
infelici, dico, restino affidate alla cura preziosa di queste care
donne, a cui mi vincola, per la vita, un sentimento irremovibile
d’amore e di gratitudine!

                                                      »G. GARIBALDI.»

[92] Il Decreto era del 20 giugno.

[93] Ci atteniamo alle cifre date dal Medici nella sua lettera
a Garibaldi, scrittagli da Cagliari il 12 giugno, e che si legge
nel _Diario_ PERSANO (pag. 33), benchè il Resoconto del fondo del
Milione di fucili, che abbiamo potuto consultare, presenti, circa al
numero delle armi segnatamente, qualche differenza. Ma di ciò poco
monta. Importa forse più mettere in sodo che le spese della seconda
spedizione, checchè altri ne abbia scritto, furono tutte sostenute
dallo stesso fondo del Milione di fucili sopra ricordato, come risulta
da questo specchietto cortesemente favoritomi dal mio dilettissimo
amico Enrico Guastalla, segretario allora del fondo dei fucili,
ordinatore principale della spedizione Medici, in appresso Capo di
Stato Maggiore della stessa Divisione: patriotta e soldato valoroso
quanto modesto, che l’Italia presente degli arruffoni e dei ciarlieri
dimentica, ma che la futura ricorderà.

  _Seconda spedizione_.
  Colonnello GIACOMO MEDICI.
  _Battelli a vapore._

  Importo dei tre vapori _Washington, Oregon e Franklin_
    con approvvigionamenti e paghe agli equipaggi
    comperati in Marsiglia, comprese le spese di
    viaggi, telegrafi, corrispondenze e provvigioni.    L. 752,489.55

  _Oggetti d’armamento._

  Nº  4850   fucili francesi.
  Nº   200   carabine _Enfield_.
  Nº   200   fucili di Liegi.
  Sciabole, _revolwers_, cartuccie, capsule
    ed altri accessorii, per                               324,596.10
  _Oggetti di equipaggiamento_, per                         22,144.27
  _Oggetti di abbigliamento_, per                           60,266.64
                                           Totale     L. 1,159,496.56

[94] Vedi lettere sue al conte di Cavour del 10, 18, 25, 28 giugno e 2
luglio 1860.

[95] Vedi _Diario privato politico-militare_ dell’ammiraglio PERSANO,
parte I, pag. 47. Lettera scritta dal conte di Cavour all’Ammiraglio
stesso.

[96] Ecco quell’articolo:

«Sabato 7 corrente, per ordine speciale del Dittatore, sono stati
allontanati dall’Isola nostra i signori Giuseppe La Farina, Giacomo
Griscelli e Pasquale Totti. I signori Griscelli e Totti, côrsi di
nascita, sono di coloro che trovano modo ad arruolarsi negli uffici di
tutte le polizie del Continente.

»I tre espulsi erano in Palermo cospirando contro l’attuale ordine
di cose. Il Governo, che invigila perchè la tranquillità pubblica non
venga menomamente turbata, non poteva tollerare ancora la presenza tra
noi di codesti individui venutivi con intenzioni colpevoli.» — Vedi
_Epistolario_ di GIUSEPPE LA FARINA, tomo II, pag. 376.

[97] Di averlo ignorato lo disse all’ammiraglio Persano, al quale
soggiunse anche di non lo voler disdire. — Vedi _Diario_ citato, pag.
73.

[98] Il conte di Cavour, il 13 luglio, scrivendo all’ammiraglio
Persano, faceva l’ipotesi che Garibaldi si mettesse un giorno o l’altro
in opposizione col Governo del Re; ma s’affrettava a soggiungere che
questo non poteva accadere, se non quando si giudicasse dal Re giunto
il tempo di operare l’annessione di Sicilia e Napoli. Ora queste parole
provano che al dì 13 luglio, quel tempo il Conte non lo credeva ancora
venuto. Del resto quella lettera del 13 luglio onorerà la previdenza,
ma non certo la lealtà, del conte di Cavour, e basti la citazione di
questo brano a provarlo:

«In quest’ipotesi (nell’ipotesi della resistenza di Garibaldi
all’annessione), importerebbe sommamente che tutte le forze marittime
passassero immediatamente sotto il di lei comando. Io son certo che
noi possiamo fare affidamento assoluto sopra Piola. Ma ciò non basta;
bisogna che egli possa portar seco tutti i legni che comporranno la
squadra di Garibaldi, perciò sarebbe bene che questi legni fossero
comandati da ufficiali fidati. Io la autorizzo quindi ad accettare
le dimissioni di tre o quattro ufficiali della squadra, a cui Piola
affiderebbe il comando dei varii legni, di cui il Governo della
Sicilia dispone. Questi devono essere scelti in modo da non lasciare
il benchè minimo dubbio sulla loro devozione al Re ed alla Monarchia
costituzionale.

»In questo momento rispondo a Piola, che mi fece richiesta d’alcuni
ufficiali, di rivolgersi a lei per conoscere le mie intenzioni, e che
ha piena facoltà di mandarle ad effetto.»

Da questa lettera sarebbe difficile argomentare quale de’ tre
personaggi il conte di Cavour, l’ammiraglio Persano e il comandante
Piola facesse la più triste figura. Il conte di Cavour cospirava
con un Ammiraglio del Re e un Ministro di Garibaldi stesso, tentando
ammutinargli contro o portargli via la flotta. L’ammiraglio Persano
doveva farsi complice della trama, dando a Garibaldi degli ufficiali di
marina infidi, disposti, a un dato momento, ad abbandonarlo e tradirlo.
Il signor Piola, ministro della Marina di Garibaldi, chiesto da lui e
depositario della sua fiducia, doveva dar l’ultima mano al complotto,
mettendo a bordo quegli ufficiali e consegnando al momento anche la
squadra.

Fortunatamente quel disegno, nato certamente da un triste incubo del
conte di Cavour, non ebbe bisogno d’esser mandato a compimento; ma quel
disegno prova che, se Garibaldi credeva d’essere attorniato da insidie,
non aveva tutti i torti. (Vedi _Diario_ citato, pag. 41.)

[99] Presiedevali Don Antonio Spinelli: n’erano principali per gli
_Esteri_ Giacomo De Martino, per le _Finanze_ Giovanni Manno, per la
_Giustizia_ Gregorio Morelli, per la _Polizia_ Liborio Romano.

[100] Alessandro Nunziante, duca di Mignano, figlio del tormentatore
delle Calabrie, e stromento egli stesso delle ferocie di Ferdinando
II: dopo aver chiesto di capitanare una spedizione contro Garibaldi,
vistolo trionfante, tocco dalla grazia, chiedeva all’improvviso licenza
dal suo esercito; offertogli il ritiro, lo rifiutava, rinviando con
sdegno pomposo le sue decorazioni e indirizzando a’ suoi soldati un
_addio_, nel quale li esortava a militare per la patria, «quasichè
(dice bene lo Zini) egli avesse fino allora portato in petto la
patria in compagnia degli esuli e dei macerati negli ergastoli.» Poi
riparatosi a Torino e ricevuta colà la parola del conte di Cavour,
circa la metà d’agosto torna nascosto a Napoli, e vivendo clandestino
ora a bordo dell’ammiraglia del Persano, ora in casa d’amici, cospira
a ribellare coll’oro del conte di Cavour l’esercito, al quale pur ora
apparteneva; specialmente i Cacciatori, che, a sentirlo, si sarebbe
tirati dietro al solo presentarsi. Ma nè egli si presentò, nè i
Cacciatori si mossero; pure egli potè essere accolto nell’esercito
italiano e morirvi generale! (Vedi _Diario_ PERSANO, parte II, pag. 16,
35, 36, 44, 66, 73, ec.)

[101] Era un antico legno da guerra borbonico; preso dai Palermitani
nel 1848 e battezzato _Indipendenza_, ripreso dal Borbone e restituito
al suo primo nome di _Veloce_.

[102] Fra i volontari eran chiamati così dal colore della divisa: tutte
di tela bianca quelle del Dunn; con tuniche bigio-scure quelle del
Medici.

[103] Alberto Mario la racconta con verità. Il Rustow scrisse che lo
scontro avvenne nella prima carica, ma è un errore. Io udii narrare il
fatto da Garibaldi stesso.

[104] Parole del testo della Convenzione 23 luglio 1860, tra il
colonnello Anzani ed il generale Garibaldi.

[105] In questo, Liborio Romano passava al Ministero dell’interno e il
generale Pianell a quello della guerra.

[106] PERSANO, _Diario_ cit., pag. 92.

[107] Anche prima di quel giorno, nell’annunciare allo stesso
Ammiraglio la lettera di Vittorio Emanuele a Garibaldi, invitava
l’Ammiraglio a non cercare d’influire sulle determinazioni di
questi, confessando che _per poco esso sia ragionevole bisogna che il
Governo del Re cammini con lui_; e dicendosi pronto a ritirarsi onde
_facilitare_ lo stabilimento di una perfetta concordia tra Garibaldi e
il Ministero.

Lettera del conte di Cavour al contrammiraglio Persano, estratta dal
_Diario_ di questi, parte I, pag. 89.

[108] Al Türr ammalato e partito per ragione di cura per il Continente
era subentrato nel comando della brigata l’ungherese colonnello Eber.

[109] Vedi _I Mille_, cap. XXXII, pag. 151-152. Che Garibaldi abbia
ordinato egli stesso la spedizione romana, lo provano le lettere
pubblicamente scritte al Bertani ed al Medici prima di partire da
Quarto; l’approvazione tacita o espressa a tutti gli apparecchi fatti
dal Bertani al medesimo scopo, e stando ad un’affermazione di Maurizio
Quadrio, un telegramma che Garibaldi stesso avrebbe diretto dal Faro
tra il 10 e l’11 agosto ad uno dei capi della spedizione romana, e
che avrebbe suonato precisamente così: «Io scenderò in Calabria il 19
agosto, voi operate ad oltranza negli Stati romani.» Vedi il _Libro
dei Mille del generale Giuseppe Garibaldi_, Commenti di MAURIZIO
QUADRIO, pag. 47 e segg. Il Quadrio però non dice d’aver veduto egli il
telegramma: afferma solo che fu veduto da Mauro Macchi, e che una copia
autenticata da notaio ne fu consegnata per sua garanzia al colonnello
Pianciani.

[110] Vedi _Diario_ PERSANO, quasi tutta la parte seconda.

[111] Lettera del conte Leopoldo di Siracusa al re Francesco del 24
agosto 1860, e Indirizzo del Ministero Liborio Romano allo stesso Re
del 22 agosto.

[112] Vedi BIANCHI, _Storia documentata della Diplomazia europea_, vol.
VIII, pag. 322-323.

[113] Vedi il Decreto nel _Diario_ PERSANO, parte II, pag. 117:

                                           «Napoli, 7 settembre 1860.

                         »Il Dittatore decreta:

»Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato
delle Due Sicilie, arsenali e materiali di marina sono aggregati alla
squadra del Re d’Italia Vittorio Emanuele, comandata dall’ammiraglio
Persano.

                                           »_Firmato_: G. GARIBALDI.»

[114] L’ammiraglio PERSANO nel suo _Diario_ citato, parte II, pag. 135,
narra:

«Vedo a terra l’ammiraglio Mundy. Egli mi dice che il signor Elliot,
ministro d’Inghilterra, aveva avuto un abboccamento col generale
Garibaldi a bordo dell’_Annibale_, essendo stato incaricato da Lord
John Russell di dissuaderlo dal suo intendimento di attaccare la
Venezia, dacchè tutto induceva a far credere che tale atto sarebbe
tornato oltremodo dannoso all’Italia; per l’appunto come s’era detto
fra noi due alcuni giorni prima: che il Dittatore, alla comunicazione
fattagli dal signor Elliot, aveva risposto, essere egli risoluto di
proclamare, ma dal Campidoglio, Vittorio Emanuele Re d’Italia; e che
dopo ciò si sarebbe offerto uno de’ suoi luogotenenti per l’impresa
della Venezia.»

[115] NICOMEDE BIANCHI, _Storia documentata della Diplomazia europea in
Italia_ (1859-1861), vol. VIII, pag. 338-339.

[116] Consentiamo collo Zini (_Storia_ cit., pag. 702) che «l’arditezza
del conte di Cavour venne a contraccolpo della prima arditezza di
Garibaldi; onde questi, non quegli, fu il vero motore dell’impresa;»
ma non per questo possiamo tenerci dall’ammirarle entrambe. Se anzi
una censura può muoversi al conte di Cavour è di troppa temerità. Nel
giorno infatti in cui egli spingeva metà dell’esercito sardo al di là
della Cattolica, egli non era sicuro che l’Austria, che ingrossava
nel quadrilatero, non l’avrebbe assalito. Tanto vero che scriveva a
Persano: «Tenga la squadra pronta a partire per l’Adriatico. Faccia
una leva forzata di marinai in codeste parti.... Dica al generale
Garibaldi, da parte mia, che, se noi siamo assaliti, l’invito in nome
d’Italia ad imbarcarsi tosto con due delle sue divisioni per venire a
combattere sul Mincio, ec.» (_Istruzioni Cavour a Persano_, Torino, 22
ottobre 1860.)

Solo alcuni giorni dopo, essendo stato assicurato da Napoleone che
l’Austria non l’avrebbe attaccato, o che altrimenti egli, almeno
rispetto alla Lombardia, l’avrebbe impedito, il conte di Cavour
respirò. Quando poi, nel convegno di Varsavia, la Prussia e la Russia
accettarono il principio del non intervento, energicamente difeso dalla
Francia e dall’Inghilterra, ogni pericolo svanì, e Cavour potè correre
franco fino alla fine. Ma aveva giuocato un terribile giuoco. Per
salvare l’Italia dal mostro della rivoluzione aveva rischiato di farla
sbranare nuovamente dall’aquila austriaca. Ma poichè l’Austria in fin
de’ conti non si mosse, e Cavour vinse la partita, non gli può essere
negato l’applauso che ha sempre salutato il successo.

[117] Vedi la lettera del Mazzini nei _Mille_, di G. ODDO, pag. 708.

[118] Vedi il suo Proclama in data di Salerno, 7 settembre 1860:

                  «_Alla cara popolazione di Napoli_.

»Figlio del popolo, è con vero rispetto ed amore che io mi presento a
questo nobile ed imponente centro di popolazione italiana, che molti
secoli di dispotismo non hanno potuto umiliare, nè ridurre a piegare il
ginocchio al cospetto della tirannide.

»Il primo bisogno dell’Italia era la concordia per raggiungere l’unità
della grande famiglia italiana: oggi la Provvidenza ha provveduto
alla concordia con la sublime unanimità di tutte le provincie per
la ricostituzione nazionale; per l’unità essa diede al nostro paese
Vittorio Emanuele, che noi da questo momento possiamo chiamare il vero
padre della patria italiana.» (_Diario_ cit., parte II, pag. 115.)

[119] _Ire politiche d’oltre tomba_, di AGOSTINO BERTANI, pag. 74 e seg.

[120] Doveva alludere a Filippo Cordova e al barone Camerata Scovazzo.

[121] Pubblicava nello stesso senso un Manifesto, nel quale è notevole
questo periodo:

«Essi vi hanno parlato (ai Palermitani) d’annessione, come se più
fervidi di me fossero per la rigenerazione d’Italia — ma la loro mèta
era di servire a bassi interessi individuali — e voi rispondeste come
conviene a popolo che sente la sua dignità, e che fida nel sacro ed
inviolato programma da me proclamato:

                      »ITALIA E VITTORIO EMANUELE.

»A Roma, popolo di Palermo, noi proclameremo il Regno d’Italia — e là
solamente santificheremo il gran consorzio di famiglia tra i liberi e
gli schiavi ancora, figli della stessa terra.

»A Palermo si volle l’annessione, perchè io non passassi lo Stretto.

»A Napoli si vuole l’annessione, perchè io non possa passare il
Volturno.

»Ma in quanto vi siano in Italia catene da infrangere — io seguirò la
via — o vi seminerò le ossa.....»

[122] Il maresciallo Ritucci, eletto comandante in capo dell’esercito
borbonico, aveva sotto i suoi ordini tre divisioni di fanteria, una
di cavalleria, alle quali aggiunte le truppe accantonate qua e là a
guardia degli Abruzzi, i presidii di Gaeta e di Civitella del Tronto,
si vede che la cifra di cinquantamila uomini sta piuttosto al di sotto
che al di sopra del vero.

[123] Il Rustow, che pare sia stato uno dei consiglieri dell’operazione
di Caiazzo, vorrebbe far credere che l’abbia ordinata Garibaldi stesso
(Op. cit., pag. 892); ma ciò, siccome narrammo, non è. Garibaldi nel
suo libro dei _Mille_ (pag. 276-277) respinge da sè la responsabilità
dell’impresa tentata e contro ordine suo, con queste esplicite parole:

«Obbligato di lasciare l’esercito sul Volturno e di recarmi a Palermo
per placare quel bravo e bollente popolo nell’esaltazione in cui
l’avean spinto gli annessionisti, io aveva raccomandato al generale
Sirtori, degno capo dello Stato Maggiore dell’esercito meridionale, di
lanciar delle bande nostre sulle comunicazioni del nemico.

»Ciò fu fatto, ma pure chi ne avea l’incarico immediato stimò opportuno
di fare qualche cosa di più serio, e col prestigio delle precedenti
vittorie non dubitò qualunque impresa essere eseguibile dai nostri
prodi militi.

»Fu decisa l’occupazione di Caiazzo, villaggio all’oriente di Capua,
sulla sponda destra del Volturno.

»Il 19 settembre ebbe luogo l’operazione: si occupò Caiazzo, ed io
giunsi lo stesso giorno per assistere al deplorevole spettacolo del
sacrifizio dei nostri poveri volontari, che avendo marciato, secondo
il costume loro, intrepidamente sul nemico sino all’orlo del fiume,
furono poi obbligati, non trovandovi riparo contro la grandine di
palle nemiche, di retrocedere fuggendo, fulminati alle spalle. Il
giorno seguente, credo, il nemico inviò un forte nerbo di forze
ad attaccare i nostri in Caiazzo, che in pochi furono obbligati ad
evacuare, e ritirarsi precipitosamente verso la sinistra del Volturno,
dopo essersi valorosamente battuti ed aver perduto non pochi militi,
morti, feriti ed affogati nel fiume. L’operazione di Caiazzo fu, più
che un’imprudenza, una mancanza di tatto militare, da parte di chi la
comandava.

»E serva quell’esempio ai nostri giovani militi, tuttora obbligati a
studiare quella manía di macellar gli uomini, che si chiama arte della
guerra.»

S’aggiunga: il Pecorini-Manzoni, nella sua citata _Storia della XV
Divisione Türr_, ec., cercando di giustificare il Türr della mossa, si
limita a dire, che «egli pensava di lanciare dei distaccamenti al di
là del Volturno verso Piedimonte per verificare l’opinione del paese,
e trovandovi simpatia organizzare delle squadre di Guardia Nazionale,
e con esse tormentare alle spalle ed ai fianchi il nemico e simulare
quindi degli attacchi sopra Caiazzo e dietro Capua, per obbligarlo
a mostrare le forze che potrebbe spiegare in un fatto d’arme serio
contro le forze garibaldine, e non dargli tempo di mandare ad effetto
un tale fatto prima che tutta l’armata di Garibaldi fosse riunita sul
Volturno.» (Op. cit., pag. 182.)

Infine meglio d’ogni testimonianza valgano le istruzioni che Garibaldi
stesso dava in iscritto al maggiore Csudafy, incaricato appunto
di comandare una delle scorribande al di là del Volturno, e che
chiariscono tutto il pensiero del Generale in capo dell’esercito
meridionale:

                     «_Al signor maggiore Csudafy_.

                                         »Caserta, 16 settembre 1860.

  »Maggiore!

»Con tre distaccamenti, che confiderà a voi il generale Türr, voi
passerete il Volturno al di sopra di Capua ove vi convenga.

»Il principale oggetto della vostra missione è di mostrarvi nella
retroguardia al nemico dietro Capua e incomodarlo in ogni modo
possibile.

»Quindi mostrarvi alle popolazioni circonvicine, fra le quali voi
dovete spargere i buoni principii di libertà e d’indipendenza italiana,
e spingerle all’armamento contro il dispotismo. Soprattutto voi dovrete
ottenere dai vostri soldati che rispettino la gente, le proprietà, e
che procurino di farsi amare da tutti e temere dai nemici.

»Per mezzi di cui abbisognate, rivolgetevi alle Autorità locali che
munirete di competente ricevuta.

»Se potete spingere alcuno dei vostri distaccamenti (che cercherete
d’aumentare quanto possibile) alla frontiera e sul territorio
pontificio, farete bene di farlo e spingere pure le popolazioni
pontificie a scuotere il giogo.

»Infine voi darete notizie di voi e di qualunque cosa importante al
Quartier generale del generale Türr ed al mio.

                                           »_Firmato_: G. GARIBALDI.»

(PECORINI-MANZONI, op. cit., pag. 183-184.)

[124] «La nostra linea di battaglia era difettosa; essa era troppo
estesa da Maddaloni a Santa Maria.» (_I Mille_, pag. 280.)

[125] Abbiamo usato per brevità la parola _Divisione_; ma
s’ingannerebbe assai chi la prendesse alla lettera. L’esercito
meridionale essendo in formazione continua, nulla di più difficile di
dare la situazione quotidiana dei corpi. La divisione Türr comprendeva
cinque brigate: Sacchi, Eber, Spangaro, De Giorgis, La Masa; ma
essendo esse tutte sparpagliate in mezzo alle altre divisioni, può
dirsi che la divisione in fatto non esisteva. Così la brigata La Masa
era aggregata alla 16ª divisione Cosenz e Milbitz; quella Spangaro
alla 17ª Medici, e la brigata Sacchi stava da sè a San Leucio; le
brigate Eber e De Giorgis stavano nella riserva. La 18ª divisione Bixio
comprendeva tre brigate: quella Dezza, della forza di milleottocento
uomini; quella Eberhard, di millecinquecento, e una terza, Spinazzi,
di seicentosettanta, più una così detta colonna Fabrizi che non
apparteneva a nessuna divisione. La 16ª invece aveva un battaglione
Bronzetti nientemeno che a Castel Morone, e una brigata intera, quella
Assanti, nella riserva.

La riserva poi era un miscuglio curiosissimo. Essa comprendeva, oltre
le nominate:

  Brigata Eber                                       1600
  Brigata De Giorgis                                  850
  Brigata Assanti                                    1100
  Un battaglione Paterniti                            250
  Una brigata calabrese comandata dal colonnello
    Pace, grossa di oltre duemila uomini, ma di
    cui soltanto ottocento armati alla meglio
    e servibili                                       800
                                       _Totale_      4600

Centocinquanta uomini di cavalleria, quattrocento del Genio aggregati
la maggior parte alla 17ª divisione, e gli artiglieri necessari ai
servizio dei trenta pezzi summentovati, compivano l’esercito.

[126] _I Mille_, pag. 282.

[127] Il RUSTOW, pag. 436; il PECORINI, pag. 242, riferiscono queste
parole del Generale con alcune varianti. Al solito noi ne prendiamo
l’essenziale, lasciando l’accessorio.

[128] Altri disse che mandò la notizia della vittoria molto prima,
cioè quando giunse a Santa Maria. Nel suo libro dei _Mille_ egli tronca
ogni dubbio scrivendo: «In quel momento, 5 pomeridiane, io telegrafai a
Napoli: _Vittoria su tutta la linea_.» — (Vedi op. cit., pag. 297.)

[129] Quando diciamo puramente _Caserta_ intendiamo la città, ora
capoluogo della provincia.

[130] L’abbiamo detto altrove (_Vita di Nino Bixio_), lo ridiciamo
qui, questa e _questa sola_ fu la parte presa da quei Bersaglieri alla
battaglia del Volturno. Tutto quanto fu scritto sin qui nell’intento
di accrescere a’ regolari e scemare a’ Volontari una gloria, a cui
basta d’essere italiana, è assolutamente falso: falso che essi abbiano
partecipato in un modo qualsiasi alla giornata del 1º; falso che
abbiano contribuito alla vittoria del 2, la quale era già ottenuta
prima di combattere, che fu una razzía di truppe disperse, non un
combattimento, e che in ogni caso sarebbe stata decisa dai movimenti
aggiranti di Garibaldi e del Bixio, non dalle poche fucilate di quei
pochi Bersaglieri contro l’avanguardia sviata d’una colonna venuta a
cascare nel centro delle nostre linee.

[131] RUSTOW, op. cit., pag. 449.

[132] E non abbiamo mestieri di citare esempi più recenti. Il La
Marmora non comandò in Crimea più di quindicimila uomini, eppure
fu nominato Generale d’armata. Castelfidardo fu un combattimento di
posizione di otto o diecimila uomini contro cinque o seimila, eppure il
Cialdini fu nominato Generale d’armata, e nessuno dubitò mai che que’
due Generali non fossero capaci di condurre più grossi eserciti.

[133] Rapporto del generale Bixio sul fatto d’armi di Maddaloni, in
data di Caserta, 6 ottobre 1860.

[134] _I Mille_, pag. 292-293.

[135] È doloroso il pensare che la battaglia del 1º ottobre non abbia
ancora ottenuto nella storia delle armi italiane il posto che le
conviene. Storici anche autorevoli ne parlano con una leggerezza da far
dubitare della loro serietà. A mo’ d’esempio, nella _Storia militare_
del colonnello CARLO CORSI, professore di Storia militare alla Scuola
superiore di guerra (libro di testo anche per gli allievi della
R. Accademia militare), terza parte, pag. 295 e seg., ci sono tali
errori e di fatto e di apprezzamento da legittimare il sospetto che
lo storico abbia mai riflettuto un istante alle cose da lui narrate.
Noi riproduciamo qui il suo racconto, accompagnandolo di brevissime
osservazioni, lasciando giudice il lettore se a siffatti romanzi
convenga il nome di storia, e di storia destinata all’educazione della
mente o del cuore della gioventù militare della patria nostra:

Pag. 295. «_Battaglia del Volturno o di Santa Maria_ (_1º ottobre_). —
Lo scopo primo del radunamento delle truppe borboniche sul Volturno,
cioè rassodar le milizie e fermar Garibaldi, era stato ottenuto; ora
bisognava procedere alla riscossa, come Radetzky nel 1848, col massimo
vigore. Ma invece di tener riuniti attorno a Capua quei quaranta e
più mila uomini e adoperarli per una gran riscossa, i Generali del
re Francesco li divisero tra Capua e Gaeta in modo che non più di
un ventimila rimasero disponibili sul Volturno tra San Clemente e
Caiazzo....»

1º Errore. — _Non sappiamo d’onde lo storico abbia attinto questa
cifra. Essa è patentemente erronea. L’esercito del Volturno sotto il
comando del generale Ritucci componevasi di tre_ DIVISIONI COMPLETE
_di fanteria ed una di cavalleria, e quando si aggiunga a queste le
armi secondarie e il presidio di Capua, si supera di molto la cifra di
quarantamila uomini da noi stabilita_.

Pag. 295-296. «I Garibaldini s’erano distesi sulla sinistra del
Volturno; debole era la loro sinistra attorno a Santa Maria, aggirabile
la loro destra per l’alto Volturno e i monti sopra Caserta e Maddaloni.
La loro situazione era ancora più pericolosa di quella dei Toscani a
Montanara e Curtatone nel 1848.»

_Questo lo vide e lo disse anche Garibaldi. Ma perchè lo storico
non soggiunse che quella situazione, data l’esiguità delle forze
garibaldine, era la sola tenibile in quel caso?_

Pag. 296. «Dal lato dei Garibaldini la divisione Medici teneva
Sant’Angelo, la divisione Cosenz Santa Maria, Türr stava presso
Caserta, Bixio presso Maddaloni, Garibaldi aveva il suo quartiere in
Caserta. Il 1º ottobre quindicimila Borbonici con molta cavalleria,
sboccando da Capua sotto il comando del generale Ritucci, assaltarono
all’improvviso e con molto impeto la sinistra dei Garibaldini a Santa
Maria....»

2º Errore. — _Il primo errore è dimostrato dal secondo. Se l’esercito
borbonico sommava appena a ventimila uomini e quindicimila attaccavano
Santa Maria, bisognerebbe supporre che all’attacco di tutto il
resto della linea comprendente le posizioni di Sant’Angelo, Caserta,
Maddaloni, il generale Ritucci non ne avesse impiegati che cinquemila,
il che sarebbe stato semplicemente assurdo._

Pag. 296. «.... E di primo lancio s’impadronirono d’una gran parte di
quella città....»

3º Errore. — _I Borbonici, come narrammo, non s’impadronirono mai
d’alcuna parte, nè grande nè piccola, di Santa Maria. Essi non poterono
mai oltrepassare la linea di Porta Capuana_.

Pag. 296. «L’attacco si estese prontamente a sinistra su Sant’Angelo,
ove il combattimento fu vivissimo. La divisione Türr s’avanzò a
rinforzo. Un reggimento toscano, condotto dal colonnello Malenchini,
investì il fianco destro degli assalitori dal lato di San Tammaro....»

4º Errore. — _Il Türr condusse i rinforzi sol quando fu chiamato da
Garibaldi, il Malenchini ribattè gli assalti dell’estrema destra nemica
sul lato di San Tammaro, ma in principio non in fine della battaglia
e non in guisa da liberar San Tammaro, ma solo da contrastar la
posizione. Il contr’attacco decisivo fu diretto tra Sant’Angelo e Santa
Maria e capitanato, siccome scrivemmo, da Garibaldi in persona. Non
sono, a tutto rigore, errori, ma inesattezze che sfigurano l’aspetto
della battaglia_.

Pag. 296-297. «Par tuttavia tra quelle milizie tumultuarie, composte la
massima parte di gente eccessivamente sensitiva e affatto nuova alla
guerra, quel vigoroso assalto cagionò grande scompiglio, anzi fuga e
sbandata che portò lo spavento fin nel cuore di Napoli.»

5º Errore. — _Di fuggiaschi e di sbandati ce ne furono di certo, come
ce ne sono in tutti gli eserciti e in tutte le battaglie; ma parlare
«di fuga e sbandata che portò lo spavento fino a Napoli,» come se
tutto l’esercito garibaldino avesse dato le spalle al primo urto, è
peggio che errore. Non si può accusare di fuga e sbandata un esercito
inferiore di numero che contrasta il terreno per oltre sei ore e dà
tempo alle sue riserve di soccorrerlo._

«.... Ma Garibaldi, Medici, Türr ed altri capi minori con quelle poche
migliaia di valorosi che loro rimasero, sostennero e rintuzzarono
l’attacco, che impetuoso da principio, poi sul più bello languì e
sfumò indietro per mancanza di spinta, d’alimento, di buona direzione.
I soldati aveano fatto assai bene la parte loro, ma i Generali non
s’accorsero nemmeno dei vantaggi che aveano ottenuto, perchè erano
troppo lontani dal luogo ove le loro truppe combattevano, e sentito
che il nemico resisteva, invece di mandar rinforzi e spingere innanzi
comandarono la ritirata, e l’effetto fu come di una sconfitta....»

6º Errore. — _La frase ambigua: «e l’effetto fu come di una sconfitta,»
ci toglie di penetrare la vera intenzione dell’Autore. Se egli ha
voluto dire che la sconfitta de’ Borbonici fu più apparente che reale,
i particolari della battaglia da noi narrati lo smentiscono_.

Pag. 297. «Anche la cavalleria v’ebbe qualche parte, con isvantaggio
dei Borbonici, che furono ricacciati dagli Usseri ungheresi. I
Garibaldini inseguirono fin presso Capua. La perdita dei Borbonici
fu di circa duemila uomini, quella dei Garibaldini di circa
millecinquecento uomini.

7º Errore. — _La cifra delle perdite borboniche è arbitraria. Se tra le
perdite si devon computare i prigionieri, quelle de’ Borbonici superò
di certo i quattromila. Quanto ai Garibaldini dicemmo più sopra che
il danno loro fu di circa cinquecento morti, milletrecento feriti,
milletrecento sbandati o prigionieri; molto maggiore quindi da quello
affermato dallo storico._

Pag. 297. «Se nel concetto dei Generali del re Francesco quel fatto
dovea essere una ricognizione (inopportunissima), il risultato più
ragionevole avrebbe dovuto esserne una vera battaglia il dì seguente.
Ma così non fu. Dal canto suo Garibaldi, che in quel dì s’era veduto
quasi sfuggir di mano, insieme a tanta parte delle sue forze, la
vittoria e la fortuna....»

8º Errore. — _Come Garibaldi, che a capo di ventimila ribatte l’assalto
di quarantamila, prende loro circa tremila prigionieri e richiude il
rimanente in una fortezza, si sia veduto sfuggir di mano la «vittoria
e la fortuna,» davvero non sappiamo comprendere. Che far doveva
Garibaldi? forse dar l’assalto a Capua?_

Pag. 297. «.... Aveva chiesto al Ministro del re Vittorio Emanuele a
Napoli il sussidio di alcuni battaglioni di truppe regolari, che là
stavano nel porto sui navigli di S. M., e quegli avea fatto sbarcare il
primo battaglione Bersaglieri e lo avea avviato in fretta a Maddaloni e
Caserta....»

9º Errore. — _Non fu veramente Garibaldi a chieder rinforzo delle
truppe piemontesi, bensì il suo Capo di Stato Maggiore, il Sirtori;
ma tralasciando questo, fa maraviglia che un ufficiale dell’esercito
regolare ignori che le truppe dell’esercito settentrionale, venute da
Napoli a Caserta la sera del 1º ottobre, furono non solo un battaglione
di Bersaglieri, ma anche un battaglione del 1º reggimento della brigata
Re_.

Pag. 297. «_Combattimento di Caserta_ (_2 ottobre_). — Frattanto il
corpo aggirante di sinistra (generale Von Mechel), passato il Volturno
a Caiazzo, era stato ritardato dalle cattive strade nella sua marcia
alla volta di Caserta, sicchè la sua azione tattica nella giornata del
1º non s’era estesa più là che a tenere a bada Bixio. La mattina del
2, non avendo ancora notizia di ciò che era avvenuto il dì prima e dei
mutati intendimenti del Re, quel corpo scese su Caserta. Ma intanto che
un corpo di Garibaldini, rinforzato dal primo battaglione Bersaglieri,
lo tratteneva di fronte sulle alture di Caserta Vecchia, Bixio da
Maddaloni si portava a tagliargli la ritirata al Ponte delle Valli, in
conseguenza di che una parte di quella mal capitata colonna (duemila
uomini circa) posava le armi. V’era in tutto ciò motivo sufficiente
da crescer l’animo ai Garibaldini e scemarlo ai Borbonici, tra i
quali i malumori contro i loro ufficiali e Generali proruppero allora
più violenti nelle aperte accuse di viltà e tradimento. Garibaldi
rassicurato riprese il suo disegno di manovrare contro la sinistra del
nemico.»

10º Errore. — _Gli spropositi intorno a questa giornata sono tanti, che
davvero non ci è che una frase sola per confutarli: tutto falso. Falso
che il corpo aggirante di sinistra, Von Mechel, passasse il Volturno
a Caiazzo; falso che mirasse a Caserta; falso che attaccasse il Bixio
a Maddaloni solo per tenerlo a bada. Von Mechel era già da giorni di
qua dal Volturno; veniva dalla grande strada di Piedimonte d’Alife,
marciava direttamente su Maddaloni coll’intendimento di sfondare
l’estrema destra garibaldina e aprirsi di là la via per Napoli. Il
corpo che passò il Volturno presso Caiazzo diretto su Coperta era
quello del Perrone, spalleggiato dal Ruiz, e fu arrestato il 1º
d’ottobre a Castel Morone e fatto prigioniero il 2, non colla sola
opera del Bixio, ma con quella altresì, come dicemmo, di Garibaldi e
del Sacchi che lo circuirono dalla loro sinistra_.

E basti. Se così nei nostri Istituti militari si insegna la storia
delle battaglie italiane, che cosa sarà mai di quella delle altre
nazioni?

[136] La comandava il maggiore Carlo Smiles, e non il colonnello
Peard (accrebbe lo sproposito stampando _Pearce_), come scrive il
CANTÙ, _Cronistoria_, vol. III, parte II, pag. 509. Nel rimanente gli
spropositi, e usiamo mite parola, di questo libro sono tanti e tali,
nella parte militare principalmente, che ci è impossibile, non che
confutarlo, leggerla seriamente.

[137] Erano settemila, sopra un esercito (contando i depositi,
i presidii, i servigi d’amministrazione e d’intendenza) di
trentacinquemila.

[138] ALBERTO MARIO, _Garibaldi_, pag. 53.

[139] È però ammiranda, non saprei dire se più per schiettezza o per
abilità, la Nota da lui diretta il 9 novembre alla Prussia, la sola
che coll’Inghilterra non avesse ritirato il suo rappresentante; e
nella quale ribatteva con stupenda eloquenza tutte le censure mosse
all’occupazione delle Marche e dell’Umbria dal barone Schleinitz,
ministro di S. M. Prussiana nella sua Nota del 13 ottobre. Vedi
BIANCHI, _Storia docum_. citata.

[140] Non la ottenne però che nella seduta dell’11 ottobre, in cui fu
votato quest’Ordine del giorno:

«La Camera dei Deputati, mentre plaude altamente allo splendido
valore dell’armata di terra e di mare e al generoso patriottismo dei
Volontari, attesta la nazionale ammirazione e riconoscenza all’eroico
generale Garibaldi che, soccorrendo con magnanimo ardire ai popoli
di Sicilia e di Napoli, in nome di Vittorio Emanuele restituiva
agl’Italiani tanta parte d’Italia.»

E questo articolo di legge:

«Il Governo del Re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali
decreti l’annessione allo Stato di quelle provincie dell’Italia
centrale e meridionale, nelle quali si manifesti liberamente, per
suffragio diretto universale, la volontà delle popolazioni di far parte
integrante alla nostra Monarchia costituzionale.»

Fu in quel giorno che il conte di Cavour pronunciò uno de’ più
eloquenti ed ispirati discorsi della Tribuna italiana; e, per ardimento
di concetti, uno de’ più rivoluzionari che uomo di Stato abbia
pronunciato da cento anni a quest’oggi. Vedi _Il Conte di Cavour in
Parlamento_, Discorsi raccolti da I. ARTOM e A. BLANC. Un volume.
Firenze, Barbèra, 1868.

[141] È uno degli scritti più infelice del Farini, che pure ne dettò in
quegli anni di felicissimi.

[142] Vedi l’Ordine del giorno del 28 settembre 1860. PECORINI, op.
cit. pag. 218-219:

                                         «Caserta, 28 settembre 1860.

»Il Quartier generale è a Caserta: i nostri fratelli dell’esercito
italiano comandato dal bravo generale Cialdini combattono i nemici
d’Italia e vincono.

»L’esercito di Lamoricière è stato disfatto da quei prodi. Tutte le
provincie serve del Papa sono libere. Ancona è nostra: i valorosi
soldati dell’esercito del Settentrione hanno passato la frontiera e
sono sul territorio napoletano. Fra poco avremo la fortuna di stringere
quelle destre vittoriose.

                                           »_Firmato_: G. GARIBALDI.»

[143] Frase del Farini a sazietà ripetuta, a sazietà rimproveratagli.

[144] Questa, secondo la _Presse_ francese, fu la lettera di Garibaldi
al Re, portatagli dal marchese Trecchi:

  «Sire,

»Congedate Cavour e Farini, datemi il comando d’una brigata delle
vostre truppe; datemi Pallavicino Trivulzio per prodittatore, ed io
rispondo di tutto.»

Che in fatto di diritto costituzionale tutte le nozioni di Garibaldi
si fermassero alla dittatura, questa lettera lo dimostra. Egli aveva
del Re la stessa idea che ne ha il popolo. Il Re può fare e disfare
i Ministri; i Ministri soli sono i cattivi genii del Re: solo il Re è
buono, anzi bonario, come nei melodrammi, ec.

[145] Tornata della Camera dei Deputati dell’11 ottobre 1860.

[146] Sentenza dello ZINI, _Storia_ citata, vol. I, parte II, pag. 757.

[147] Si sa che il Mazzini rispose con altra lettera sdegnosa,
risolutamente ricusando di partire.

[148] Ecco la prima parte del decreto del prodittatore Mordini:

«In virtù dell’autorità a lui delegata,

»Considerando che i progressi delle armi italiane ravvicinano
sempre più il giorno, nel quale sarà costituito sotto lo scettro
costituzionale di Vittorio Emanuele II il Regno d’Italia;

»Considerando essere perciò conveniente che la Sicilia si trovi
preparata a pronunziare anch’essa il suo voto per entrare in seno alla
grande famiglia italiana;

»Volendo a tale oggetto stabilire le condizioni di tempo e di modo;

»Sulla proposta del Segretario di Stato per l’interno;

»Udito il Consiglio dei Segretari di Stato;

                          »Decreta e promulga:

»Art. 1º I Collegi elettorali, costituiti ai termini del decreto
dittatoriale del 23 giugno 1860, sono convocati per il giorno 21
ottobre corrente ad oggetto di eleggere i respettivi loro deputati nel
numero stabilito all’art. 4º del decreto.»

[149] Gli avversari suoi sostennero che la risposta era stata
sfavorevole addirittura. Ma finora il vero si nasconde per difetto di
documenti.

Il signor CARANTI però, nelle sue _Notizie intorno al plebiscito delle
Provincie napoletane_ (pag. 330), non s’arrischia ad affermare che il
Dittatore avesse autorizzato il Pallavicino a proporre in Consiglio dei
Ministri quel decreto, nè molto meno promesso di approvarlo.

[150] _Notizie sul plebiscito nelle Provincie napoletane_, pag. 334.

[151] CARANTI, _Notizie sul plebiscito_, ec., pag. 335.

[152] Ecco il Discorso pronunziato in quel giorno:

«In questa Capitale regna la discordia e l’agitazione. Sapete voi
chi l’ha eccitata? Quegli stessi che mi hanno impedito di combattere
gli Austriaci con quarantacinquemila Volontari; che nell’anno scorso
mi vietarono di accorrere con venticinquemila uomini alla vostra
liberazione; quegli stessi che spedirono La Farina a Palermo, e
chiesero l’immediata annessione, quelli cioè che volevano impedire a
Garibaldi di passare lo Stretto e cacciare Francesco II. Si è gridato:
morte a questo, morte a quello! Si è gridato contro i miei amici. Gli
Italiani non deggiono gridare morte l’uno contro l’altro, essi tutti
deggiono stimarsi ed amarsi, perchè tutti hanno contribuito a fondare
l’unità d’Italia. Quando sorge discordia, accorrete a me. Non venga
una deputazione di marchesi e di principi, ma di semplici popolani,
ed io disperderò i dissidii e tranquillerò gli animi. Ieri vi dissi
che sarebbe venuto il Re. Oggi ho lettera di lui. Il 9 le sue truppe
passarono il confine, e due giorni or sono Vittorio Emanuele si pose
alla testa del suo valoroso esercito. Laonde fra breve noi vedremo
il nostro Re. Durante questo stato di transizione fate che regnino
dovunque la tranquillità, la prudenza, la moderazione; si mostri il
popolo napoletano quel bravo popolo che è. Facciamo l’Italia una, a
dispetto di quelli che la vorrebbero scissa per tenerla schiava!» —
RUSTOW, op. cit., pag. 564.

[153] Abbiamo sott’occhio tre _Relazioni_ di quella importante riunione.

_Alcune notizie sul plebiscito delle Provincie napoletane_ di BIAGIO
CARANTI, segretario particolare del Pallavicino, che scrisse colla sua
approvazione, se non può dirsi sotto la sua dettatura.

Una _Relazione_ del generale TÜRR, pubblicata nel 1869, che parla
dei fatti, a cui fu parte e testimonio. Una _Relazione_ infine del
_Giornale Ufficiale di Napoli_, organo del ministro dell’interno
Conforti, e che si deve ragionevolmente pensare riveduta ed approvata
da lui. Se non che, mentre queste tre _Relazioni_, tutte ugualmente
fededegne, sono concordi nei fatti sostanziali, non lo sono punto
quanto ai particolari e mettono lo scrittore, costretto a prenderle
per fonti, nella più grande incertezza. Sulla impossibilità pertanto
di decidere quale sia la più completa e veridica, ci siamo appigliati
al partito di comporre un’epitome di tutte e tre, scegliendo in ciascun
racconto quelle parti che riferendosi a parole e fatti detti o compiuti
dal raccontatore medesimo, o dal suo diretto ispiratore, v’è fondata
ragione di credere che siano le più genuine. Il caso di veder narrato
diversamente il medesimo fatto dagli stessi testimoni o attori è, pur
troppo, frequentissimo, e fa correre per le vene dei terribili brividi
di dubbio sull’autenticità della storia.

[154] Il 15 ottobre fu anche il giorno, in cui pubblicava il decreto da
noi citato più innanzi a pag. 225. In quel giorno eran già entrati in
linea sotto Capua a sollievo dei Garibaldini estenuati un reggimento di
linea e tre battaglioni di Bersaglieri dell’esercito settentrionale.

[155] Il 15 ottobre Garibaldi scriveva e mandava da Sant’Angelo
quest’altro Manifesto:

           «_Per adempiere ad un voto indisputabilmente caro
                    alla Nazione intera determino:_

»Che le Due Sicilie — che al sangue italiano devono il loro riscatto,
e che mi elessero liberamente a Dittatore — fanno parte integrante
dell’Italia una ed indivisibile — con suo re costituzionale Vittorio
Emanuele ed i suoi discendenti.

»Io deporrò nelle mani del Re — al suo arrivo — la Dittatura
conferitami dalla nazione.

»I Prodittatori sono incaricati dell’esecuzione del presente decreto.

  »Sant’Angelo, 15 ottobre 1860.

                                                      »G. GARIBALDI.»

Che voleva egli dire? I Ministri ne furono allarmati e credettero
scorgervi una nuova voltata del Generale, una seconda disdetta del
plebiscito. Non tardarono però a ravvedersi. Garibaldi non aveva voluto
con quelle parole che ripetere il suo programma: unire a quello del
popolo napoletano e siculo il suo voto, e dichiarare che deponeva senza
rancore e senza astio il potere.

[156] L’aveva annunziata Garibaldi stesso all’esercito meridionale
con queste parole, che sembravano scelte accuratamente per dimostrare
sempre più che nessun antagonismo era possibile fra i due eserciti,
e ch’egli, Garibaldi, tenne la vittoria d’entrambi per vittoria della
sola nazione.

                 «_Ordine del giorno 21 ottobre 1860._

»Il prode generale Cialdini ha vinto presso Isernia. I Borbonici
sbaragliati hanno lasciato ottocentottanta prigionieri, cinquanta
ufficiali, bandiere e cannoni.

»Ben presto i valorosi dell’esercito settentrionale porgeranno la mano
ai coraggiosi soldati di Calatafimi e del Volturno.

                                                      »G. GARIBALDI.»

(PECORINI-MANZONI, op. cit., pag. 291.)

[157] Aveva seco due brigate della divisione Bixio; la brigata Eber e
De Giorgis della divisione Türr e la Legione inglese.

[158] Di questo incontro di Garibaldi col Re fu molto favoleggiato. Fra
le altre cose all’epico saluto di Garibaldi fu messa in bocca del Re la
condegna risposta: «Salute al mio migliore amico,» che il Re non diede.

Anch’io in altri scritti credetti al romanzo. Alberto Mario mi
disinganna. La risposta del Re fu assai più prosaica, ma vogliamo
ritenere non meno cordiale.

[159] ALBERTO MARIO, _Garibaldi_, pag. 78.

[160] Forse, accettata l’offerta di Garibaldi, non sarebbe toccato
all’esercito piemontese lo scacco del Garigliano (29 ottobre). Il
tragitto del Garigliano avrebbe potuto essere tentato o almeno
minacciato in più punti e avvenire prima e molto facilmente e
sicuramente. E vado più in là: se Garibaldi fosse stato avvisato
in tempo dell’avanzarsi de’ Sardi, avrebbe potuto passare prima in
qualche punto il Volturno, e impedire o almeno turbare in modo tale ai
Borbonici il passaggio del Garigliano da renderlo loro esiziale.

[161] Lettera di Garibaldi al re Vittorio Emanuele, 29 ottobre 1861.

[162] I commenti per quella mancanza furono molti, acerbi e lunghi. Noi
non possiamo credere ad una pensata scortesia; ma nessun impedimento
doveva trattenere Vittorio Emanuele dal rendere all’esercito
meridionale quel meritato onore. Se il giorno 6 il Re era impedito, la
rivista poteva differirsi, ma egli doveva assistervi.

Altre volte, in quei giorni, il Re, mal consigliato, mancò alle forme
della cortesia, che erano in quel caso anco le forme della buona
politica.

Così, per esempio, fece scrivere al generale Della Rocca un Ordine del
giorno di encomio all’esercito garibaldino, che poteva scrivere egli
stesso!

[163]

                       «Ai miei compagni d’armi.

»Penultima tappa del risorgimento nostro noi dobbiamo considerare il
periodo che sta per finire, e prepararci ad attuare splendidamente lo
stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il cui compimento
assegnò la Provvidenza a questa generazione fortunata.

»Sì, giovani! L’Italia deve a voi un’impresa che meritò il plauso del
mondo.

»Voi vinceste; — e vincerete, — perchè siete ormai istrutti nella
tattica che decide delle battaglie!

»Voi non siete degeneri da coloro ch’entravano nel fitto profondo
delle falangi macedoniche, e squarciavano il petto ai superbi vincitori
dell’Asia.

»A questa pagina stupenda della storia del nostro paese ne seguirà
una più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero
fratello un ferro arruotato che appartenne agli anelli delle sue
catene.

»All’armi tutti! — tutti; e gli oppressori — i prepotenti sfumeranno
come la polvere.

»Voi, donne, rigettate lontano i codardi: — essi non vi daranno che
codardi; — e voi, figlie della terra della bellezza, volete prode e
generosa prole.

»Che i paurosi dottrinari se ne vadano a trascinare altrove il loro
servilismo, le loro miserie.

»Questo popolo è padrone di sè. Egli vuol essere fratello degli altri
popoli, ma guardare i protervi con la fronte alta; non rampicarsi
mendicando la sua libertà — egli non vuole essere a rimorchio d’uomini
a cuore di fango. No! no! no!

»La Provvidenza fece dono all’Italia di Vittorio Emanuele. Ogni
Italiano deve rannodarsi a lui — serrarsi intorno a lui. Accanto al Re
Galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi! Anche una
volta io vi ripeto il mio grido: all’armi tutti! tutti! Se il marzo
del 61 non trova un milione d’Italiani armati, povera libertà, povera
vita italiana!... Oh! no: lungi da me un pensiero che mi ripugna come
un veleno. Il marzo del 61, e, se fa bisogno, il febbraio, ci troverà
tutti al nostro posto.

»Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona, di
Castelfidardo, d’Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra non
codardo, non servile; tutti, tutti serrati intorno al glorioso soldato
di Palestro, daremo l’ultima scossa, l’ultimo colpo alla crollante
tirannide!

»Accogliete, giovani Volontari, resto onorato di dieci battaglie, una
parola d’addio! Io ve la mando commosso d’affetto dal profondo della
mia anima. Oggi io devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L’ora della
pugna mi ritroverà con voi ancora — accanto ai soldati della libertà
italiana.

»Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri
imperiosi di famiglia, e coloro che gloriosamente mutilati hanno
meritato la gratitudine della patria. Essi la serviranno nei loro
focolari col consiglio e coll’aspetto delle nobili cicatrici che
decorano la loro maschia fronte di venti anni. All’infuori di questi,
gli altri restino a custodire le gloriose bandiere.

»Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatto dei
nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero, noi ci ritroveremo fra
poco per marciare insieme a nuovi trionfi.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[164] L’_Examiner_ citato dal _Giornale Ufficiale di Napoli_, quando
però Garibaldi era ancora Dittatore.

[165] Garibaldi tentò istituire a Napoli anche i giurati (decreto del
Dittatore, 11 settembre 1860); ma non avendo il Ministero Conforti
stimato opportuno di introdurre i codici che erano necessario
compimento alla Giuría, il decreto restò lettera morta.

[166]

                        «MINISTERO DELLA GUERRA.

         »_Circolare a tutti gl’Ispettori delle diverse armi._

»In ordine a quanto prescrisse il Dittatore a Palermo, io rendo noto
che l’uniforme da adottarsi per l’armata sarà perfettamente identico a
quello dell’armata del re Vittorio Emanuele.

»I modelli di ogni arma saranno esposti nelle sale di questo Ministero,
affinchè tutti possano uniformarvisi esattamente.

                                             »_Il Ministro:_ COSENZ.»

[167] Decreto. Palermo, 22 giugno 1860; e Napoli, 12 settembre 1860.

[168] Decreto. Napoli, 11 settembre 1860.

[169] Decreto. Napoli, 11 settembre 1860.

[170] Decreto. Napoli, 19 settembre 1860.

[171] Decreto. Napoli, 19 settembre 1860.

[172] Il primo prestito lo fece il Depretis all’82-1/2 ed al 5%,
accettando in pagamento anche le cartelle del prestito siciliano del
1848 fino al limite della metà del prezzo della rendita medesima.

Il Mordini ne fece un secondo, comperando tutta l’antica e nuova
rendita. Fu questa operazione che il Cordova accusò di svantaggiosa
(Camera dei deputati, seduta del 28 giugno 1860); ma che il Mordini
difese valorosamente, riassumendo così la sua argomentazione:

«Riassumendomi, dico che la sola o quasi sola mia risorsa fu
l’alienazione dell’antica e della nuova rendita. La prima fece
entrare nelle casse dello Stato lire 841,500, la seconda 7,743,500,
in tutto 8,585,000; somma che, unita a quella di 896,760 ricavata dal
prodittatore Depretis, dà un totale di 9,481,760.

»Queste furono le risorse straordinarie di una rivoluzione di sei mesi,
9,481,760.» (_Atti della Camera dei Deputati_, tornata del 1º luglio
1861, vol. II, pag. 1681.)

[173] Filippo Cordova, nel già citato suo discorso e in quello
successivo del 1º luglio 1861.

[174] L’unico abuso di cui fu accusata la Dittatura, in materia di
finanza, fu d’aver messo mano sui depositi dei privati, giacenti sul
Banco di Napoli.

Il deputato Crispi, nella tornata predetta, tolse a dimostrare: 1º Che
l’accusa di violazione dei depositi è male indicata, perchè il Governo
dittatoriale non fece che prendere il fondo di guarentigia ch’egli
aveva presso il Banco stesso; 2º Che quando mai un simile addebito va
rivolto ai Ministri di parte moderata, che sedevano presso Garibaldi
dal 28 giugno al 22 luglio 1860.

[175] Vedi Interpellanza sulle condizioni di Napoli e Sicilia dei
deputati Massari e Paternostro nella tornata del 2 aprile 1861.

[176] Queste cose le ripeteva spesso; lo ridisse anche ad una
Commissione d’Inglesi, fra cui il duca di Southerland, andato a Caprera
tra il 12 e il 13 gennaio coll’apparente scopo di visitarlo, col reale
di dissuaderlo dal pensiero d’una spedizione nella Venezia. A questa
proposizione il Generale rispose:

«L’Ungheria e le provincie danubiane sono pronte a sollevarsi, e il
moto si estenderà infallibilmente alle coste adriatiche. Venezia
freme sotto il giogo; e da Venezia la rivoluzione si estenderà al
Tirolo italiano. In quindici giorni si può mettere il fuoco da Mantova
a Galatz, e quando questa immensa rivoluzione in luogo d’essere
abbandonata alle sole sue forze, come suole avvenire in simili casi,
fosse sostenuta da un’armata italiana, capace non di vincere, secondo
il nostro avviso, ma di tenere in iscacco l’austriaca, non credete che
le probabilità a noi favorevoli siano meravigliosamente accumulate e
che noi azzardiamo assai meno che non sembri?

[177] Il generale Türr e G. B. Cuneo. Vedi una corrispondenza da
Caprera alla _Perseveranza_ del 23 gennaio 1861.

[178] Lettera di Garibaldi al Bellazzi del 29 dicembre 1860:

                                          «Caprera, 29 dicembre 1860.

  »Caro Bellazzi,

»Io desidero l’apertura concorde di tutti i Comitati italiani per
coadiuvare al gran riscatto. Così Vittorio Emanuele, con un milione
d’Italiani armati, questa primavera chiederà giustamente ciò che manca
all’Italia.

»Nella sacra via che si segue io desidero che scomparisca ogni indizio
di partiti, i nostri antagonisti sono un partito, essi vogliono
l’Italia fatta da loro col concorso dello straniero e senza di noi.
Noi siamo la nazione, non vogliamo altro capo che Vittorio Emanuele;
non escludiamo nessun Italiano che voglia francamente come noi.
Dunque sopra ogni cosa si predichi energicamente la concordia, di cui
abbisogniamo immensamente.

                                               »Vostro G. GARIBALDI.»

(_Pungolo_ di Milano, 9 gennaio 1861.)

[179] Il generale Bixio non accettò l’incarico, riservandosi di
conferire col generale Garibaldi a Caprera.

[180] _Perseveranza_, 23 gennaio 1861.

[181] Lettera del 29 ottobre di Garibaldi a Vittorio Emanuele, già
citata.

[182] Decreto in data di Napoli 11 novembre, e Ordine del giorno del
Comando supremo dell’esercito, firmato dallo stesso Vittorio Emanuele,
in data del 12.

[183] Fu il Fanti che nella tornata della Camera dei Deputati del
23 marzo 1861 li dichiarò 7013, e come l’esercito garibaldino, tutti
compresi, ondeggiò sempre tra i 35 e i 40,000, la proporzione sarebbe
di un ufficiale per 5 soldati e 5/8.

[184] Io pure, come ufficiale dimissionario dell’esercito meridionale,
partecipai a quel litigio e mi spetta quindi la mia parte di torto.
A quei giorni credeva alla possibilità della nazione armata; pur
conservando l’esercito permanente, volevo anch’io che un secondo
esercito di Volontari, modellato sui Volontari inglesi, lo integrasse
e rafforzasse. Però soltanto in questa istituzione vedevo la soluzione
della questione dell’esercito meridionale, e gridavo con quanto
fiato avevo in gola perchè il Governo s’affrettasse a decretarla.
Mi illudevo. Contavo sopra uno spirito militare che gl’Italiani non
hanno e non ebbero mai. I _Volontari_ sarebbero morti come la _Guardia
nazionale mobile e stanziale_, come i _Tiri a segno_. L’Italia ha
potuto dare a Garibaldi dai trentamila ai quarantamila Volontari
(tanti ne ebbe nel 1866) per uno scopo determinato e per un breve
periodo; ma un grande esercito di cento o dugentomila uomini, tali che
rispondessero veramente al nome ed allo scopo di _Nazione armata_, e
da uguagliare per numero ed organismo la forza dei _Rifles Volunteers_,
o delle _Landwehr_ e delle _Landsthurm_ tedesche, l’Italia non potè nè
volle allora, non potrà nè vorrà darlo giammai. L’Italia non è capace
d’altre istituzioni militari, che di quelle che la legge impone e lo
Stato fonda ed alimenta. Oltre di che, l’esperienza ha chiarito anche
me, tardi, ma in tempo, che un Corpo permanente di Volontari, comandato
da Garibaldi e dai Garibaldini, sarebbe degenerato immediatamente in
un corpo politico, antagonista nato dell’esercito stanziale, probabile
strumento di tutte le rivoluzioni, causa perpetua di guai, o almeno
d’allarmi alla nazione. Però la risoluzione del Petitti di sciogliere
il Corpo de’ Volontari e d’incorporarne gli ufficiali nell’esercito
fu la più saggia che Ministro della guerra abbia presa. Ebbe un solo
difetto, d’essere tardiva. Il Fanti è dubbio assai se l’avrebbe presa.
Egli nutriva contro l’esercito di Garibaldi un’avversione invincibile.
Come corpo separato e ausiliare dell’esercito, li avrebbe subiti;
come parte dell’esercito stesso non li avrebbe accettati mai. Ed anche
come Corpo di Volontari non sapeva decidersi nè a trasfondergli vita
organica e durevole, nè a discioglierlo. Qui stava il maggior suo
torto. Agiva come uomo che, fatta una incresciosa eredità, non osa
rifiutarla; ma pensa disfarsene lentamente, lasciandola consumare dal
tempo. E parlava anche peggio che non agiva. Infelice oratore, non
sapeva nè riscaldar la lode coll’affetto, nè ammorbidire la censura
colla cortesia. Però inacerbiva gli animi e rendeva sempre più aspro il
conflitto.

[185] Al Bellazzi aveva scritto sino dal 29 dicembre 1860:

                                          «Caprera, 29 dicembre 1860.

  »Caro Bellazzi,

»Per circostanze eccezionali io non posso accettare candidatura alcuna
a deputato. Desidero che ciò sia notorio a tutti i Collegi, onde
evitare l’inconveniente di dover addivenire ad altre elezioni.

»Sono

                                                                 »Suo
                                                      »G. GARIBALDI.»

(Pungolo di Milano, 8 gennaio 1861.)

[186] I giornali moderati avevano stampato che Garibaldi era venuto a
Torino per invito del conte di Cavour. Il Generale lo smentì con questa
lettera al Direttore del _Diritto_:

  «Signore,

»Un foglio di Torino pubblica che io venni qui chiamato dal conte di
Cavour.

»Questa notizia è del tutto inesatta.

  »Torino, 3 aprile 1861.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[187] Ecco testualmente la lettera:

  «Signor Presidente,

»Alcune mie parole malignamente interpretate hanno fatto supporre un
concetto contro il Parlamento e la persona del Re.

»La mia devozione ed amicizia per Vittorio Emanuele sono proverbiali in
Italia, e la mia coscienza mi vieta di scendere a giustificazioni.

»Circa al Parlamento nazionale, la mia vita intera, dedita
all’indipendenza e alla libertà del mio paese, non mi permette neppure
di scendere a giustificarmi d’irriverenza verso la maestosa Assemblea
dei rappresentanti di un popolo libero, chiamata a ricostituire
l’Italia e collocarla degnamente accanto alle prime nazioni del mondo.

»Lo stato deplorabile dell’Italia meridionale e l’abbandono in cui si
trovano così ingiustamente i valorosi miei compagni d’armi, mi hanno
veramente commosso di sdegno verso coloro che furono causa di tanti
disordini e di tanta ingiustizia.

»Inclinato però alla santa causa nazionale, io calpesto qualunque
contesa individuale, per occuparmi unicamente ed indefessamente di
essa.

»Per concorrere quanto io posso a cotesto grande scopo, valendomi
dell’iniziativa parlamentare le trasmetto un disegno di legge per
l’armamento nazionale e la prego di comunicarlo alla Camera secondo le
forme prescritte dal Regolamento.

»Nutro la speranza che tutte le frazioni della Camera si accorderanno
nell’intento di eliminare ogni superflua digressione, e che il
Parlamento italiano porterà tutto il peso della sua autorità nel dare
spinta a quei provvedimenti che sono più urgentemente necessari alla
salute della patria.

  »Torino, 12 aprile 1861.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[188] Ed ecco i principali articoli del suo progetto:

«Art. 1º La Guardia nazionale sarà ordinata in tutto il Regno giusta
le prescrizioni delle leggi vigenti nelle antiche provincie colle
modificazioni portate dagli articoli seguenti.

»Art. 2º I corpi destinati per far servizio di guerra prenderanno il
nome di Guardia mobile. Essa sarà formata in divisioni, in conformità
dei regolamenti dell’armata di terra.

»Art. 3º Sono chiamati a far parte della Guardia mobile tutti i
regnicoli che hanno compiuto il 18º e non oltrepassano il 35º anno di
età.

»Art. 4º Le armi, il vestito, il corredo, i cavalli e tutto il
materiale da guerra necessario alla Guardia mobile sarà fornito
interamente a carico dello Stato.

»Art. 5º Il contingente della Guardia mobile è ripartito per provincie,
per circondari, per mandamenti, a proporzione della popolazione. I
militi sono chiamati al servizio in base della legge sul reclutamento
dell’esercito e delle altre leggi vigenti. La durata del servizio è
regolata dall’art. 8 della legge 27 febbraio 1859.»

Con altri articoli erano dichiarati esenti i facenti parte
dell’esercito e dell’armata, gl’inabili, gli unici, i primogeniti
orfani, ec., e coll’ultimo aprivasi un credito di trenta milioni per
l’armamento della Guardia stessa.

[189] Furono superflue. La questione dei _Cacciatori_ era morta e
sepolta, e a nulla giovava il rivangarla. È vero che Garibaldi vi
fu provocato dalle parole del conte di Cavour; ma sarebbe stato più
generoso e certamente più abile lasciar cadere l’invito. Oltredichè
avevan ragione entrambi: ragione il Cavour, che primo istitutore e
protettore di quel Corpo fosse stato lui; ragione Garibaldi di dolersi
delle difficoltà suscitategli in cammino, e degli scarti dell’esercito
mandati a lui, e del Corpo degli _Appennini_ promessogli dal Re e
rifiutatogli dal Ministero, e di tant’altre angheríe. Nei discorsi
così di Cavour che di Garibaldi sono però notevoli due cose: la prima
che Garibaldi si sia dimenticato d’aver chiesto i _Cacciatori degli
Appennini_ non una, ma due volte: una a Treponti, e l’altra molto prima
a Chivasso nel momento di intraprendere la sua marcia in Lombardia; la
seconda che il conte di Cavour per iscusarsi di non avergli mandati
i _Cacciatori degli Appennini_, gli abbia dato poi ragione che,
avendo egli sempre stimata la Valtellina «un teatro disadatto alla
sua capacità,» quella forza su quei gioghi sarebbe stata perduta,
come già la furono i _Cacciatori delle Alpi_. Ottima ragione, e che
dimostra, oltre a tante altre cose, che il conte di Cavour ne capiva
delle faccende della guerra assai più di coloro che avevan l’ufficio di
governarle.

E finiremo la nota con un’altra osservazione. Il generale Petitti alla
fine della seduta del 20 aprile lesse un telegramma del La Marmora,
nel quale questi smentiva l’asserzione di Garibaldi, che i Volontari
più idonei fossero costretti a entrar nell’esercito e soltanto gli
scarti lasciati andare nei _Cacciatori_. Il generale La Marmora diceva
il vero, «nessun ordine costringeva i Volontari a entrare piuttosto
in un corpo che nell’altro»; ma in ogni ufficio d’arruolamento, me
testimonio, c’era uno o più ufficiali che consigliavano i più aitanti a
preferire l’esercito ai Volontari.

[190] I giornali di Sinistra vollero vedervi la mano del conte di
Cavour; ma basta la memoria della sua grande accortezza, non che del
suo forte ingegno e del suo nobile carattere, per purgarlo d’ogni
accusa.

Lo Zini invece «sospetta li caporali di parte sua, e principalmente di
quel manipolo che intorno al Minghetti s’avvoltacchiava.» (Op. cit.)

[191] Son testuali parole della _Monarchia Nazionale_ di Torino, organo
del _terzo partito_, e per i suoi intimi rapporti col Depretis, col
Rattazzi e gran parte della Sinistra, in grado d’essere bene informato.

[192] Vedi NICOMEDE BIANCHI, _Il conte di Cavour_, pag. 83.

[193] Nizza probabilmente.

[194] Alludiamo all’assassinio, di cui doveva essere vittima nel
1860. L’ammiraglio Persano nel suo _Diario_ (parte I, pag. 30 e 40)
ne parla distesamente. Certo Valentini, caporale della fanteria di
marina borbonica, era partito da Napoli col disegno di uccidere il
Generale. Il Persano ne fu avvertito prima dal conte di Cavour, poi dal
Villamarina, sicchè corse immediatamente ad informarne il Generale,
pregandolo a premunirsi; ma il Generale non se ne volle curare! e
solo per compiacere l’Ammiraglio ne fece parola sorridendo ad un suo
aiutante di campo.

Il Valentini tra il 15 e il 16 sbarcò a Palermo, ma essendosi accorto
d’essere tenuto d’occhio dalla Polizia, si gettò in mare e a nuoto
riparò sulla _Partenope_, una delle fregate della marina napoletana che
ancoravano a quei giorni nella rada di Palermo.

[195] Dal _Movimento_ di Genova, 18 agosto 1861.

[196] Egli mandò per avere il consiglio del Re e dei Ministri il
colonnello Trecchi, il quale ne ricevette quella risposta.

[197] La lettera si legge nei giornali americani, ed era del seguente
tenore:

               «_Al Console degli Stati Uniti d’America._

                                         »Caprera, 10 settembre 1861.

  »Caro Signore,

»Ho veduto il signor Sanford, e sono dolente d’esser costretto a dire
che non posso andare pel presente agli Stati Uniti. Non dubito del
trionfo della causa dell’Unione, e che avvenga presto; ma se la guerra
dovesse per mala sorte continuare nel vostro paese, io vincerò tutti
gli ostacoli che mi trattengono, e mi affretterò a venire alla difesa
di quel popolo che mi è tanto caro.

                                                      «G. GARIBALDI.»

[198] Parole di Celestino Bianchi, segretario generale del Ministero
dell’interno, in una sua lettera a Pier Carlo Boggio, deputato al
Parlamento, intitolata: _Il barone Ricasoli, Mazzini, Garibaldi e i
Comitati di provvedimento._ Torino, 1862, pag. 11.

[199] Una notizia dell’_Italie_ giornale ufficioso, telegrafata il
9 (sera) dall’Agenzia Stefani a tutta la stampa, diceva: «Secondo le
nostre informazioni, la conferenza di ieri tra Garibaldi e Rattazzi
avrebbe avuto importantissimi risultati, di natura da esercitare grande
influenza sui destini del paese.»

[200] Li dovevano comandare il maggiore Bideschini e il capitano
Baghino. Giuseppe Guerzoni doveva tenere le funzioni di Capo di Stato
Maggiore. I Carabinieri si organizzavano in Genova, onde il nome di
_Carabinieri genovesi_, e gli arruolati ai primi d’aprile sommavano già
a millecinquecento.

[201] Il fatto fu negato invano. Il Crispi l’affermò recisamente in
pieno Parlamento (_Seduta del 3 giugno 1861_) ed al Rattazzi stesso
mancò l’animo di smentirlo. Del resto noi abbiamo l’aneddoto dalle
labbra stesse del dottor Ripari, che fu appunto la persona incaricata
da Garibaldi di chiedere al commendator Capriolo, segretario generale
dell’Interno e _alter ego_ del Rattazzi assente, la consegna della
somma promessa.

[202] Vedi GIUSEPPE PASOLINI, _Memorie raccolte da suo figlio_. Imola,
tip. I. Galeati, 1880, pag. 297.

[203] Val la pena di riprodurre qui il discorso di Garibaldi
pronunziato nel teatro di Parma che venne dai giornali travisato.

Lo togliamo dalla _Gazzetta di Parma_ del 2 aprile:

«Io vi spiegherò le condizioni presenti. — Io sono repubblicano —
benchè molti credano farsi un delitto il dirlo, non lo nascondo. —
_Alle grida che s’innalzavano nella sala, soggiunse:_ Ricordatovi
che siamo forti, ma i forti sono tranquilli e calmi e colla calma
faremo fatti. Io voglio farvi un’ipotesi — supponete che siamo qui
in cento: se sono ottanta che vogliono un governo o venti un altro,
i venti che violentano la volontà degli ottanta sono despoti, sono
tiranni. Ma quegli ottanta sarà il governo del popolo, quello sarà la
mia repubblica. Ora dunque abbiate in mente la concordia, lasciamo da
parte i torti ricevuti per la causa italiana. — Io posso esser certo
che quando in nome della patria e del Re vi chiamerò, tutti verrete.
(_Sì, sì prolungati._) Ora tornando all’ipotesi, gli ottanta hanno
già accettato quel programma col quale dal Ticino ci accampammo alle
falde del Vesuvio; voi ben lo conoscete — _Italia e Vittorio Emanuele_
— e mentre noi esprimiamo il nostro principio, noi seguiremo quel
programma. Chi non segue quel programma deve essere considerato come
nemico della patria. Siamo leali; se l’abbiamo accettato, seguiamolo.
Ricordiamo la concordia.

_Al grido di viva Mazzini_ disse che incaricato di parlare a Rattazzi
e al Re per il richiamo di Mazzini, il fece e spera che non vi siano
serii ostacoli, non essendovi ormai che un punto legale da sciogliere
che egli non saprebbe spiegare. _Al grido di viva Mazzini egli ripete:_
Io vi accompagno, ma io ve l’ho detto: il popolo forte deve essere
calmo e concorde — _Viva Vittorio Emanuele_ — (Si ripeterono le grida:
_Viva Vittorio Emanuele_.) Ho fatto un discorso, esso conchiuse, che
passa di molto la mia capacità; ma colla vostra fisonomia marziale e
franca mi avete dato l’energia di parlare: vi saluto con affetto, o
degni figli del lavoro, vi raccomando la concordia: nella concordia
sta la salute della patria. Mantenetevi buoni — sarò con voi sino alla
morte.»

[204] Egli infatti scriveva:

                                           «Trescorre, 6 maggio 1862.

»Nel 5 maggio in Trescorre ho potuto corroborarmi nel concetto che si
meritano i miei correligionari politici — confermarmi che non ci può
essere democrazia senza onestà d’intendimento e rispetto alla volontà
nazionale.

»Non più diffidenze dunque in un paese che deve trovarsi compatto
nelle ultime battaglie dell’indipendenza. I membri del Consiglio
dell’Associazione emancipatrice, eletti nell’adunanza generale
di Genova, che si componeva dei delegati di tutte le Associazioni
liberali d’Italia, confermarono in questo solenne anniversario il
patto fondamentale, su cui posa l’avvenire della patria; il concerto
che lega questa nazione, che vuole risorgere tutta, al suo Re leale e
galantuomo.

»I nostri convincimenti furono trovati da noi tutti consentanei al
nobile plebiscito siculo-napolitano, al programma glorioso delle nostre
vittorie.

»_Italia e Vittorio Emanuele!_... Ecco la nostra bandiera, ecco il
voto consacrato dalle moltitudini, proclamato oggi dall’entusiasmo per
il Re guerriero di mezzo milione di popolo, a cui fanno eco tutte le
popolazioni. — Ecco la mèta a cui devono tendere tutte le aspirazioni.
— Ecco finalmente il vangelo politico su cui posero la destra, ieri —
uomini che mi onoro di chiamare fratelli, uomini che l’Italia ed il
Re troveranno sempre cooperatori sulla via che conduce alla intera
nazionale rigenerazione.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[205] Citiamo i colonnelli Nullo, Missori, Guastalla, Corte, Cattabene,
i maggiori Cucchi, Mosto, Lombardi, Bedeschini, il dottor Ripari,
Benedetto ed Enrico Cairoli, i trentini Ergisto Bezzi, Filippo Manci,
Pietro Martini; Paolo Francesco Savi di Genova, Alberto Mario, e
potremmo raddoppiare la schiera.

[206] Vedi Circolare del Ministero dell’interno, 15 aprile 1862.

[207] «Taluni male interpretarono la mia protesta sul _Diritto_.
Soldato italiano, non ebbi, nè poteva avere, intenzione di lanciare
contumelie contro l’esercito italiano, gloria e speranza della
nazione. Volli soltanto dichiarare che dovere dei soldati italiani
è di combattere i nemici della patria e del Re, e non di uccidere e
ferire inermi cittadini. — Se il Comandante di Brescia avesse potuto
provvedere secondo gl’impulsi del proprio cuore, non avremmo oggi da
maledire chi fu la causa della strage, nè lamentare vittime di quel
popolo generoso. Alle frontiere e sui campi di battaglia la milizia —
quello e non altro è il suo posto.

                                                         »GARIBALDI.»

Supplemento del _Pungolo_ di Milano del 23 maggio 1862.

[208] Vedi _Diritto_ del 4 giugno 1862.

[209] Vedi negli _Atti parlamentari_, Lettera di Garibaldi del 2 giugno
1862.

[210] Tornata della Camera dei Deputati del 3 giugno 1861.

[211] Ci conviene tuttavia essere più esatti. Per molto tempo nella
mente di Garibaldi l’impresa veneta e la greca andarono di conserva:
l’una a’ suoi occhi non escludeva l’altra, a vicenda forse si
aiutavano. Anzi fra il 7 e l’8 maggio avendo il Generale ricevuto una
visita del generale Di Saint-Front, aiutante di campo del re Vittorio
Emanuele, si notò che per due o tre giorni le idee e gli ordini del
Generale cambiarono totalmente; talchè la spedizione in Tirolo parve
messa in disparte e quella per l’Oriente ripresa più alacremente.
Tanto vero che il maggiore Bideschini ebbe l’ordine di scegliere tra
i giovani raccoltisi a Genova una grossa schiera, di unire ad essa
una mano di marinai e di tenerli tutti preparati ad un imbarco. (Vedi
_Garibaldi_, per F. BIDESCHINI, pag. 25.) Se non che, prevalendo
probabilmente l’impazienza generosa dei Veneti e dei Trentini, e
continuando ad affluire in Lombardia nuovi Volontari, Garibaldi lasciò
che la prima trama del Trentino fosse ravviata e condotta fino al
termine in cui la vedemmo troncata.

[212] Io era a que’ giorni segretario particolare capo del Gabinetto
del ministro dei lavori pubblici, Agostino Depretis; ma, come ognuno
sa, ero nello stesso tempo soldato ed amico di Garibaldi, col consenso
del quale soltanto mi ero indotto ad accettare il posto di fiducia che
l’onorevole Depretis mi aveva offerto. Ora io non appaio certamente
questi due fatti per dare a credere che io tenessi nel Governo alcun
importante e molto meno segreto ufficio politico; ma li ricordo
soltanto per chiarire come la mia origine, il modo della mia elezione,
la mutua confidenza di cui mi onoravano il generale Garibaldi e il
ministro Depretis, facessero di me qualcosa di diverso, per lo meno,
d’un burocratico qualsiasi e mi mettessero quindi in grado di essere
più addentro di molti altri miei colleghi in taluni negozi; in quelli
specialmente che concernevano la principale materia degli accordi a
quei giorni avviati tra il Governo e il Generale.

Ora dunque, essendomi recato nell’ultima settimana d’aprile a Desenzano
per vedervi il Generale e sentire da lui a che punto stessero le cose
circa a quei _Carabinieri genovesi_, dei quali ero predestinato a
diventare il Capo di Stato Maggiore, il Generale mi rispose col suo
ordinario laconismo: «Presto spero che faremo qualche cosa; fatene
un cenno anche a Depretis, e tenetevi pronto.» Tornato a Torino come
il Generale mi aveva detto, riferii il breve dialogo al Ministro,
che ascoltò quasi senza rispondere; e non mi lasciò in alcun modo
intravedere quello ch’egli pensasse di quella mia confidenza. Io non
dirò come de’ particolari fossi informato quasi giorno per giorno dagli
altri miei amici e commilitoni. Soltanto ai primi di maggio dovendo io
accompagnare il ministro Depretis a Napoli, scrissi al Generale anche
a nome di Bixio, che era a parte di tutta la trama (Vedi _Vita di Nino
Bixio_, pag. 306 e seg.), se potevamo fare impunemente il viaggio senza
pericolo di perdere il nostro posto nella impresa che tutto faceva
credere imminente. Ma egli mi rispose: «Partite pure: occorrendo vi
chiamerò.» Ed io, rassicurato come la cosa non fosse così prossima
come si vociferava, partii, e soltanto in mare, tornando da Sicilia,
seppi con qualche certezza le notizie degli arresti di Palazzolo e
di Sarnico. Allora, appena arrivato a Torino, e meglio conosciuti
tutti i particolari degli eventi, udito il consiglio de’ miei amici,
reputai di non poter più servire convenevolmente un Ministero che dopo
aver fino alla vigilia parte congiurato col Generale, parte tollerato
ad occhi chiusi ch’egli cospirasse con chi voleva, gli si avventava
contro all’improvviso e lo trattava come ribelle e poco meno che
nemico. E questa pertanto fu l’unica cagione della dimissione ch’io
diedi, in quei termini forse un po’ troppo vivaci che la giovinezza
dovrebbe scusare, al ministro Depretis. Se poi in Parlamento taluni
Deputati vollero farsi della mia nomina come della mia rinunzia un’arma
di partito e tirarne a forza illazioni esorbitanti dalla logica e
dalla verità, ciò poteva attristarmi, ma non era in me d’impedirlo.
Io m’ero risolto a quell’atto per un profondo sentimento di dovere;
ma ero il primo a dolermi del rumore che esso veniva facendo, e non
l’avrei certamente voluto ingrossare con nuove polemiche che avrebbero
richiesto di necessità nuove rivelazioni e generati scandali maggiori.
Però se anche oggi dopo venti anni ne parlo, gli è solo perchè la
necessità di questa storia mi vi trascina, e ciò nonostante resta
ancora una parte della verità che stimo debito mio il tacere. Spero
tuttavia che anche il poco che ne ho detto varrà a consigliare il
signor Zini ad una onorevole ammenda. Egli nella sua _Storia_ (vol. I,
parte II, pag. 1021) ha tassata la mia rinuncia di «triste vanità;»
ma confido che dopo le spiegazioni da me date vorrà dolersi della
sua frase e pronunciar di me più benigna sentenza. Quando nol facesse
saprei ben passarmene, ma egli m’avrebbe dato il diritto di dire che se
tutti gli uomini e tutte le cose, delle quali giudica e manda nella sua
_Storia_, sono trattati colla stessa conoscenza de’ fatti, ponderatezza
di giudizio e temperanza di stile con cui trattò il mio minuscolo
aneddoto, non c’è più in tutti i suoi quattro volumi una sola parola
degna di fede.

[213] _Frammenti_ citati, pag. 13 e 14.

[214] Lo accompagnarono a Palermo, oltre il figlio Menotti, Enrico
Guastalla, Giuseppe Missori, Giacinto Bruzzesi, Agostino Lombardi,
Giuseppe Guerzoni, Giovanni Basso e in qualità di segretario Giuseppe
Civinini.

[215] Troviamo la frase in un periodo dei citati _Frammenti_, pag. 16:

«Addio Marsala! terra di felice augurio. — Anche questa volta il tuo
bravo popolo mi spinse ad opera buona — e rispose con risoluzione ed
entusiasmo al mio grido di _Roma o Morte_ — che il dispotismo crede
d’aver sepolto con due palle di carabina; ma ch’io spero non passerà
molto — udremo risuonare ancora più terribile di prima. — E come
riveder Marsala senza concepire il progetto di ripigliare il tronco
cammino? Forse perchè Buonaparte lo vietava? Ed io ho mai temuto
Buonaparte?

»Oh! Italiani — penetratevi una volta delle mie ragioni e persuadetevi
che i tiranni hanno paura, se non si temono.»

[216] Giuseppe Guerzoni, Enrico Guastalla, Giovanni Chiassi. Accennai
il fatto anche nella mia _Vita di Nino Bixio_, pag. 309.

[217] Fu scritto da Giuseppe Civinini, che faceva allora da suo
segretario.

[218] Proclama del Re agl’Italiani, del 3 agosto 1862.

[219] Così la lettera dell’Albini come la risposta del Generale furono
vedute dal generale Cugia e dal deputato Miceli, che l’attestarono
nella tornata della Camera dei Deputati del 25 novembre 1862.

[220] Ciò è attestato, fra gli altri, dall’Autore della _Verità sul
fatto d’Aspromonte per un testimonio oculare_. Milano, 1862, pag. 26.
Che la lettera poi fosse quella dell’ammiraglio Albini è supposizione
nostra, ragionevole crediamo, ma pur sempre supposizione.

[221] Vedi su questo e molti altri particolari _Aspromonte, Ricordi
storici militari_ del marchese RUGGERO MAURIGI, già aiutante del
generale Garibaldi. Torino, 1862; fedele ed accuratissimo diario.

[222] Ci studieremo di colmar noi le principali, con postille cavate
dai nostri personali _Ricordi_ e dagli altri documenti che abbiamo fra
mano.

[223] L’interrogativo è di Garibaldi; forse egli non ricordava più i
nomi dei due bastimenti, eccoli: _Il Generale Abbatucci_ francese della
Compagnia Valéry francese, e il _Dispaccio_ della Florio, italiano.

[224] Così il manoscritto, ma il senso riesce alquanto oscuro;
dubitiamo che lo scrittore abbia omesso qualche parola che l’avrebbe
schiarito. Certo voleva dire: se le fregate incrociavano al largo, egli
(Garibaldi) sarebbe passato fra gli scogli dove le fregate non potevano
inseguirlo; se invece ancoravano vicino agli scogli, egli sarebbe
marciato diritto su di esse, passando tanto vicino alle loro batterie
da metterle nell’impossibilità di colpire.

[225] Voleva dire _penoso, angoscioso_, ec. Ma chi s’occuperebbe a
riveder la lingua a Garibaldi!

[226] Vapore con cui era passato il generale Bixio nel 60 colla sua
brigata.

[227] Qui il Generale tace o dimentica che una Deputazione reggiana,
composta dei signori Bolani, Ramirez, Bruno Rossi e Grillo, era venuta
a Sannazzaro per avvertirlo la città essere posta in istato di assedio;
il presidio, triplicato per soccorsi venuti da Messina, forte di
circa quattromila uomini, disposto a sbarrargli il passo; scongiurarlo
fervidamente a risparmiare alla città lo spettacolo e il danno d’una
guerra cittadina. Garibaldi rispose parole concilianti e pacifiche, e
sebben non lo promettesse esplicitamente agli oratori, avea già in cuor
suo fermato di lasciare in disparte Reggio e prendere il sentiero dei
monti.

[228] Il torrente San Nicolò.

[229] Devesi aggiungere che la marcia fu molestata da alcune scariche
di moschetteria sparate dalla corazzata regia _Terribile_, specialmente
contro il gruppo in cui marciava Garibaldi. L’avvisaglia poi di
retroguardia a cui qui accenna il Generale ebbe luogo la mattina del
secondo giorno di marcia, 27 agosto. Ci furono dei feriti e morti da
ambe le parti.

[230] E poteva bastare un giorno solo. La guida, o mal pratica o
traditora, aveva fatto fare ai Garibaldini doppio cammino. Da ciò la
facilità con cui i Regi poterono presto raggiungerli.

[231] Eppure le _fascine_ erano così poche e fradice dalla pioggia
che non bastarono a cuocere le patate per tutti; e i più le dovettero
mangiar crude.

[232] Intendi: _Malgrado ciò; Ciò non ostante_.

[233] La forza che il colonnello Pallavicini capitanava, come si
desume dal rapporto ufficiale del generale Cialdini, componevasi di due
reggimenti di linea, il 20º e il 1º, e due battaglioni di bersaglieri;
in totale sette battaglioni e tremilacinquecento uomini circa.
L’ordine che il Pallavicini aveva ricevuto dal generale Cialdini era
perentorio; «Raggiunto Garibaldi, attaccarlo senza più, schiacciarlo
e non accordargli che la resa a discrezione.» — Vedi nella _Gazzetta
Ufficiale del Regno_ dell’8 settembre 1862 i _Rapporti_ del generale
Cialdini e del colonnello Pallavicini.

[234] Anche qui intende a modo suo il senso del verbo _anteporre_. Vuol
dire _allegare, addurre, mettere innanzi._

[235] Crediamo voglia dire _in gruppo_. La formazione che ne risaltava
era quella che in linguaggio militare si dice _a potenza_.

[236] E questo fu il _vivo fuoco_ di cui parla nel suo rapporto il
colonnello Pallavicini; questo l’_accanito combattimento_ che magnificò
il generale Cialdini. Il fuoco durò poco più di dieci minuti; le
perdite d’ambe le parti furono di cinque morti e venti feriti tra
i Garibaldini; di sette morti e ventiquattro feriti tra i Regi, e
tuttavia le perdite di questi sarebbero state molto minori se non
avessero ricevuta la scarica garibaldina a brevissima distanza e quasi
a bruciapelo.

[237] Allude a questo fatto. Il colonnello Pallavicini aveva inviato
a parlamentare col Generale un suo ufficiale di Stato Maggiore. Questi
però essendosi presentato armato senza farsi precedere da un trombetta
o da un segnale qualsiasi, e di più avendo brutalmente intimato al
Generale la resa a discrezione, l’atterrato ma ancor fiero Capitano era
scoppiato in queste indignate parole: «Faccio la guerra da trent’anni
e ne conosco meglio di voi le leggi. Non è così che si presentano i
parlamentari. Disarmatelo.» E gli fu infatti tolta la spada, che gli
venne però poco dopo restituita. Allora lo stesso generale Garibaldi
chiese di vedere il Pallavicini, il quale s’affrettò a lui, ma in
atteggiamento ben diverso del suo parlamentario. Si presentò al grande
sconfitto in atto riverente col cappello in mano, gli s’inginocchiò
dappresso e gli disse, con cortese accento: «Aver l’ordine d’intimargli
la resa a discrezione, ma attendere che esprimesse i suoi desiderii.»
Al che il Generale avendo chiesto che fosse concesso ai disertori
dell’esercito regolare di mettersi in salvo, e per sè di essere
imbarcato cogli ufficiali che in quel momento l’attorniavano, su una
nave inglese, il colonnello rispose: che ai disertori avrebbe concesso
quarantotto ore, e quanto alla seconda domanda ne avrebbe interpellato
i suoi capi, non avendo egli autorità di assentirvi.

[238] Circa al trasporto vanno aggiunti questi particolari. Nella
notte, fu trasportato nella cascina dei Forestali della Marchesina.
All’alba vegnente, fatta con rami e frasche una barella (la migliore,
dice Garibaldi stesso, di quante s’adoperassero _negli ulteriori
suoi trasporti_), fu trasportato sulle braccia de’ suoi fedeli, che
gareggiavano a darsi la muta fino alla marina di Scilla, dove il
_Duca di Genova_ lo attendeva per tradurlo alla Spezia. Quando il
Generale vide la nave e ne seppe l’uso, rampognò sdegnato il colonnello
Pallavicini che avesse mancato alle sue parole; ma il Pallavicini potè
giustamente rispondergli «avergli soltanto promesso di esporre la di
lui domanda al Governo, e a questo non aver mancato; il Governo aver
risposto rifiutandola e ordinando che il prigioniero fosse tradotto
alla Spezia; suo dovere di soldato ubbidire.»

L’ultima e forse più penosa scena della tragica catastrofe fu quella
di cui fu infelice protagonista il generale Cialdini. Nel punto in
cui il ferito d’Aspromonte tragittava dalla spiaggia al mare, dal
cassero d’una nave vicina, eretto di tutta la persona, nella posa
d’un trionfatore, stava a contemplarlo il generale Cialdini. A che
quella mostra, per lo meno superflua? Voleva egli, il non invidiabile
vincitore, passare a rassegna quel lacero stuolo di prigionieri? Non
era cura da lui. Bearsi della vista del vinto nemico? Era indegno.
Ostentare impersonata in lui la maestà della legge vendicatrice e
vendicata? Era superbo e crudele insieme.

Quanto è più grande, in questo caso, il vinto che passa non vedendo
o non curando l’oltraggio, e nelle sue più intime _Memorie_ non
ricordandolo nemmeno! Ma egli poteva perdonare; non lo seppero i suoi
compagni, i quali, notata la bravata del Generalissimo regio, gli
inviarono, saluto e disfida insieme, il grido di _Roma o morte_, che
gli fu forza ascoltare in silenzio.

[239] Ecco la lettera del Console e la risposta del Generale:

               «_Al Generale Garibaldi_, Spezia (Italia).

                                          »Vienna, 1º settembre 1862.

  »Generale,

»Essendovi riuscito impossibile il compiere per ora la grand’opera
patriottica che avevate intrapreso nell’interesse della vostra patria
diletta, mi prendo la libertà d’indirizzarvi la presente per sapere se
non entrasse nei vostri disegni di offrirci il vostro valoroso braccio
nella lotta che sosteniamo per la libertà e unità della nostra gran
repubblica.

»Il combattimento che sosteniamo non interessa noi soli, ma interessa
tutto il mondo civile.

»La gloria e l’entusiasmo con cui sareste accolto nella nostra patria,
ove avete passata una parte della vostra vita, sarebbero immensi, e la
vostra missione che sarebbe quella d’indurre i nostri bravi soldati a
combattere per lo stesso principio al quale avete consacrato nobilmente
tutta la vostra esistenza, sarebbe pienamente conforme alle vostre
intenzioni.

»Mi stimerei fortunatissimo, o Generale, se potessi ricevere da voi una
risposta.

»Ho l’onore di essere, ec.

                                                            »CANISIUS
                               »Console degli Stati-Uniti d’America.»

                                 * * *

                   «_Al signor Teodoro Canisius_, ec.

                                       »Varignano, 14 settembre 1862.

  »Signore,

»Io sono prigioniero e pericolosamente ferito: per conseguenza m’è
impossibile di disporre di me stesso. Tuttavia credo che, se io sarò
restituito alla libertà e se le mie ferite guariranno, sarà giunta
l’occasione favorevole nella quale potrò soddisfare il mio desiderio di
servire la Gran Repubblica Americana, di cui io sono cittadino, e che
oggi combatte per la libertà universale.

»Ho l’onore, ec.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[240] _Patrie_ del 17 settembre 1862.

[241] Diversa era l’opinione di Massimo d’Azeglio. Ancora due anni dopo
Aspromonte scriveva ad Antonio Panizzi: «Dopo Aspromonte (Rattazzi
ministro) mi fecero l’onore di chiamarmi con altri al Consiglio
dei ministri, che doveva decidere la sorte di Garibaldi. Io dissi:
_Sottoporlo ad un giudizio come ogni cittadino. E dopo la condanna,
grazia del Re immediata_. Ma siccome nelle tasche della camicia rossa
doveva essere rimasto un certo pezzo di carta, ec. ec., si pensò meglio
di dargli l’amnistia, ch’egli rifiutò, dicendo che aveva fatto quel che
doveva, ec. ec., e così finì,» — Vedi _Lettere ad Antonio Panizzi di
uomini illustri e di amici italiani_. Firenze, G. Barbèra, 1880, pag.
480.

[242] Frase infelicissima, ma testuale, della _Relazione_ del ministro
Rattazzi al Re. Come la clemenza regia si potesse far dipendere dal
beneplacito della Francia spieghi chi può!

[243] Decreto del 5 ottobre 1862.

[244] Visitarono e curarono il Generale, il dottor Partridge di Londra,
Nélaton di Parigi, e fra i medici e chirurghi italiani: Porta, Bertani,
Cipriani, Zannetti, Tommasi, Albanese, Prandina, Ripari, Basile.

[245] Testuale. Io narrai questo ed altri episodii della malattia del
Generale al Varignano in una lettera al _Movimento_, in data del 14
ottobre, e riprodotta poi da altri giornali.

[246] Era rimasto a Caprera chirurgo ordinario del Generale il dottor
Basile. Altri medici suoi amici non tralasciarono di visitarlo
assiduamente, e primo fra tutti il dottor Enrico Albanese, tanto
valente chirurgo quanto prode soldato e generosissimo amico. Egli
in data del 23 gennaio scriveva della salute del Generale in questi
termini:

«Il Generale va meglio, e già son sei giorni che, coll’aiuto delle
gruccie, cammina qualche poco per la stanza; la ferita non è ancora
risanata, ma il pus diminuisce sempre, ed io ho fede che fra due
mesi, al maximum, sarà completamente guarito. La fasciatura inamidata,
ultimamente applicata, agisce potentemente a migliorare le condizioni
locali.

                                                   »ENRICO ALBANESE.»

[247] Nel 1862 era stata ordinata la leva generale in tutto l’impero,
ma per la Polonia prescritto che fossero esenti dal reclutamento
i contadini ed i grandi proprietari rurali, sicchè la legge veniva
a cadere soltanto sugli abitanti della città, quanto a dire sulla
popolazione più colta e civile. La commozione suscitata dall’iniquo
privilegio fu grandissima in tutta la Polonia. Il marchese Wielopolski,
governatore di Varsavia, per recidere fin da principio i nervi alla
rivolta, deliberò che tutti i designati al reclutamento fossero
presi in una notte, e, dove essi mancassero, arrestati in loro vece
i fratelli, i parenti, gli amici. A quest’atto di caccia selvaggia
i Polacchi non ressero più, e nella notte del 18 gennaio il Comitato
nazionale di Varsavia bandì la insurrezione.

[248] V. il _Diritto_ del 6 marzo 1863.

[249] Manifesto ai _Popoli dell’Europa_ in data di Caprera 15 febbraio
1863, pubblicato dal _Diritto_ del 21 febbraio.

[250] Manifesto al popolo inglese da Caprera, 4 febbraio 1863,
pubblicato dal _Movimento_ di Genova.

[251] Manifesto all’Emigrazione polacca da Caprera, 5 febbraio 1863,
pubblicato dal _Diritto_.

[252] Vedi l’indirizzo da Caprera _ai prodi dell’esercito russo_,
pubblicato dal _Diritto_ e riprodotto nel _Pungolo_ di Milano del 7
marzo 1863.

[253] La lettera del Langievicz a Garibaldi fu pubblicata da parecchi
giornali e tra gli altri dalla _France_. La troviamo ricordata anche
nell’opera: _Fatti della Polonia dal 1863 in poi_, Venezia 1863, pag.
161.

[254] Rammentiamo con uguale rimpianto il prode toscano Stanislao
Bechi, fucilato dai Russi a Wloclaweck, la mattina del 17 dicembre
1863.

[255] Crediamo il generale Wisoky e il signor Charnewsky.

[256] Ciò si legge nel citato opuscolo su _Garibaldi_ del Maggiore
Bideschini, pag. 35. Il piroscafo giunto a Genova fu staggito dalla
polizia.

[257] Si allude alle molte trame di insurrezioni, di spedizioni, di
sbarchi orditi a Londra dall’infaticabile genio rivoluzionario di
Giuseppe Mazzini, che era riuscito in tra il finire del 1863 e il
cominciare del 1864 ad avvolgere ne’ suoi disegni d’insurrezione in
Transilvania e Gallizia non solo il generale Garibaldi e il generale
Klapka, ma per qualche tempo lo stesso re Vittorio Emanuele, che
di congiurare un po’ a insaputa de’ suoi ministri s’era sempre
compiaciuto. — Vedi fra gli altri _Politica segreta italiana_
(1863-70). Torino, Roux e Favale, 1880: specie il cap. II e III.

[258] Citeremo i nomi dei principali, come in parte li ricordiamo noi
stessi e in parte li troviamo scritti nei giornali inglesi. E primo di
tutti il signor John Richardson, notabile nel ceto dei commercianti,
capo del Comitato delle dimostrazioni garibaldine nel 1862 ed ora
presidente dello stesso Comitato per ricevere Garibaldi in Inghilterra.
Indi il signor Peter Steward, ricco banchiere; il signor Andrews,
membro del Consiglio della _Peninsular and Oriental Company_; il signor
Roberto Taylor, proprietario di Glascow; il signor Cowen, industriale
di Newcastle; i signori Seely, Ashley, Kinnaird, Peter Taylor, membri
del Parlamento; Lord Shaftesbury e Lord Sutherland, membri della
Camera dei Lordi; il signor Stansfeld, già segretario di Stato nel
Gabinetto Palmerston; il signor Chambers, tenente colonnello dei
_Rifles Volunteers_; il prof. Balley, l’avv. Edmondo Beales; indi la
signora Sara Nathan, la signora Stansfeld, la signora Wight, la signora
Ashurth, la signora Schwabe; infine tutta la Colonia italiana, di cui
eran principali Panizzi, direttore del _British Museum_; l’ottico
Negretti; i maestri di musica Campana e Arditi; i signori Costa,
Semenza, Vivanti, Serena, Fabbricotti ed altri.

[259] «He know the General would never lift a finger to disturb the
England,» frase d’un libro recente su Garibaldi uscito in Inghilterra:
_The Life of Giuseppe Garibaldi_, by J. THEODORE BENT, B. A. Oxon.
Londra, Longmans, Green and Co. 1881, pag. 219; libro del resto
compilato sopra notizie inesattissime, di cui non si veggono nè i
documenti nè le fonti, e che soltanto in questa parte del viaggio
d’Inghilterra può prestare qualche lume e qualche sussidio.

[260] Il _Daily Telegraph_, amico a quei giorni del Gabinetto
Palmerston, scriveva così:

«Tutte le voci corse sulla completa guarigione di Garibaldi erano quasi
interamente false. La ferita ricevuta al piede fa pochi progressi verso
la guarigione, se pure ne ha fatti. Alcuni sintomi poterono essere
attenuati dal sollievo derivato dall’estrazione di una parte dell’osso
fratturato. Ma la ferita in sè non è guarita. La spossatezza, ancor
più che il male, ha grandemente influito sulla salute del Generale,
e malgrado il vigore della sua costituzione che non ha cessato di
manifestarsi nella potenza della sua voce, nella vivacità del suo
spirito, nell’energia del suo patriottismo, che è in lui un’affezione
personale ed appassionata, egli è tuttora in uno stato di notevole
debolezza. Sorse dunque naturalmente l’idea che il mutamento di clima
potesse avere un effetto benefico sulla sua salute e contribuire a
produrre la guarigione così a lungo ritardata.

»Si opinò eziandio che a Londra Garibaldi troverebbe cure mediche tali
da farlo guarire perfettamente. Pertanto il Generale accettò il privato
invito di venire in Inghilterra.

»Egli sbarcherà a Brook nell’isola di Wight, ove passerà un mese.»

[261] Io dimoravo allora a Caprera presso il Generale prestandogli per
preghiera sua e d’amici l’ufficio di segretario; onde ero in grado
di seguire giorno per giorno le vicende di quel progetto di viaggio
e per la confidenza di cui il Generale mi onorava, di conoscere su
quell’argomento i suoi più intimi pensieri. La signora Chambers invece,
credendomi avverso al progetto, diffidava di me e non me ne parlava
affatto. La buona signora s’ingannava; certo a me premeva che il
Generale non s’impegnasse in un intrigo di partiti stranieri e fosse
vittima o strumento degli interessi o delle vanità di chicchessia;
ma se il viaggio poteva farsi con tutte quelle condizioni che a me
parevano necessarie a salvare con la dignità del Generale quella
d’Italia, io lo desiderava quant’altri mai. Tutta la mia opposizione
consisteva dunque nel consigliare il Generale ad andar cauto; ad
informarsi bene chi fossero le persone che lo invitavano e quale
mandato avessero, e quale credito godessero; e soprattutto quali
fossero gl’intendimenti del Governo inglese, che sino allora almeno,
erano rimasti incerti. Non appena però giunse a Caprera la lettera
del signor Thornton Hunt, il Generale me ne parlò subito; e come
io m’arrischiai ad esprimergli il desiderio di vederla, egli se la
fece dare dalla signora Chambers, e il giorno dopo me la mostrò. Ora
avendola io letta e riletta, anzi analizzata col Generale stesso,
giacchè mi pareva che essa contenesse molte frasi ambigue, così ho
potuto ritenerne nella mente i principali concetti, e, senza tema
d’errare, riprodurli. Ne discussi anzi colla signora Chambers, la
quale ormai saputomi partecipe d’ogni segreto, temendo forse di far
peggio continuando a trattarmi ostilmente, cominciò prima a farmi
vedere quella famosa lettera di cui ella magnificava più del giusto
la importanza; poi a farmi via via molte confidenze, le quali non
contenevano certo che una piccola dose di verità; ma tutta quella
verità che una accorta diplomatica sua pari, era in dovere di confidare
ad un occulto ed astuto rivale della mia forza!

[262] Per non dire d’altri, lo scrittore di queste pagine.

[263] Parrà strano certamente e bisognevole di qualche spiegazione
che un bastimento d’una Compagnia postale potesse, senza legittima
causa e per servigio d’un privato, deviare dalla sua rotta, venendo
meno manifestamente ai propri doveri ed ai propri statuti. Ma dovunque
compaia Garibaldi, alle violazioni delle norme comuni bisogna essere
preparati. Eccone però la spiegazione. Fra i più caldi amici e zelanti
fautori del viaggio v’era pure, come già s’è detto, un certo signor
Andrews, ricco commerciante, _Mayor_ di Londra nel 1848, e della
_Peninsular and Oriental Company_ forte ed influentissimo socio. Ora,
essendosi questo signor Andrews tolto l’assunto di fornire al Generale
i mezzi di trasporto, potè anche ottenere dalla sua Compagnia di
navigazione una concessione che altri certamente non avrebbe potuto. E
la concessione fu questa: che uno dei bastimenti della _Peninsulare_
incaricati della valigia postale tra Marsiglia, Genova e Malta
appoggiasse per poche ore a Caprera e vi imbarcasse il Generale.

Siccome però quella deviazione sarebbe parsa una troppo flagrante
violazione degli statuti, della quale avrebbero potuto essere chiamati
a rispondere anche i governi delegati alla sorveglianza di quella
Società, così fu pensato e adoperato quest’espediente. A Marsiglia
c’era un vecchio vapore in riparazione, la _Valletta_; faccia essa
il viaggio; appoggi al momento opportuno nelle acque della Maddalena;
e se alcuno gli fa carico dello sviamento dia per scusa lo stato mal
sicuro del bastimento, e la necessità di nuove riparazioni. Così fu
escogitato, combinato, eseguito; così avvenne che un vapore postale
della più grande Compagnia di navigazione di quell’anno abbandonasse la
propria rotta e facesse aspettare per più di sei ore la _Valigia delle
Indie_, per fare il comodo di Giuseppe Garibaldi e de’ suoi amici.

[264] Il braccio orientale del Canale di Southampton.

[265] In conferma delle sue intenzioni, Garibaldi lasciò al signor
Negretti un biglietto, nel quale diceva che «non desiderava d’avere
dimostrazioni politiche, e soprattutto non eccitare tumulti.» Questo
biglietto fu subito pubblicato nei giornali.

[266] Fu da tutti notato che il signor Seely, sbarcato a Cowes, in
luogo di far tenere a Garibaldi la strada comune che passa per Newport
ed altri luoghi popolosi dell’Isola, lo fece poi passare per strade
traverse con gran delusione di quelle popolazioni che attendevano al
passaggio l’eroe, ansiose esse pure di vederlo. Ma il signor Seely
diede per ragione, di evitare al Generale altre dimostrazioni che
l’avrebbero stancato e forse nociuto alla sua salute. Ognuno intende
però che tutte quelle cure non erano che un eccesso di zelo del bravo
gentiluomo. Del rimanente il giuoco del signor Seely e soci era già
scoperto; infatti nella stessa mattina del 3 aprile un signor Walk
tenne a Southampton un _meeting_ di operai per protestare contro coloro
che volevano monopolizzare Garibaldi.

[267] Restituendo la visita al Tennyson, questi gli chiese e
ottenne che il Generale piantasse nel ricco giardino del poeta una
_Wellingtonia gigantea_, maniera di cortesia che gl’Inglesi tengono di
grande importanza e per chi la fa e per chi la riceve. Se non che pochi
giorni dopo la _Wellingtonia_ fu trovata ignuda di quasi tutte le sue
fronde, e cercandosi la cagione del sacrilegio, si seppe che taluni
idolatri l’avevano così spogliata per possedere, in alcune di quelle
foglie, un ricordo di cosa toccata da Garibaldi. I feticismi non sono
soltanto de’ popoli barbari.

[268] Nello stesso giorno il Generale, togliendosi a tutte le feste,
andava a visitare la signora White, sua amica ed ospite fin dal 1854, e
madre della signora Jessie White Mario.

[269] L’ordine della processione era il seguente: — Le bande a capo
della processione — La società dei calzolai — Dieci _marescialli_
con bandiere recanti il motto «Ben venuto Garibaldi» — I membri dei
Comitati riuniti a piedi — Dieci carrozze di visitatori — La società
di temperanza — Cinque _marescialli_ con bandiere col motto «L’Eroe
d’Italia» — Le società di commercio con la loro banda — Le minori
società amiche (_Friendly Societies_) — Le carrozze della società dei
_Foresters_ — La banda degli _Old Fellows_ — Cinque _marescialli_ con
bandiere «Il primo patriotta» — Dieci carrozze — La loggia di Memfi
dei Frammassoni — Venti _marescialli_ — Le carrozze della stampa —
Venti _marescialli_ — Bandiere «L’uomo del popolo» — La carrozza del
signor Plesmal — La carrozza del signor Giorgio Moore (tesoriere) —
La carrozza del dottor Massey — Il Comitato esecutivo — La carrozza
del signor Chinery — Quella del signor Nicholas — Quella del signor
Richardson — Le carrozze della nazionalità ungherese — Quelle della
nazionalità polacca e della nazionalità italiana — La banda italiana —
La carrozza del generale Garibaldi, col quale sedevano il signor Seely
ed il signor Negretti, circondata da un corpo di _marescialli_ delle
Corporazioni e da un manipolo della legione Garibaldi — Le carrozze dei
figli di Garibaldi, con la signora Seely — I segretari — Il seguito —
Il Comitato degli operai, a piedi.

[270] C’era in un palco l’ammiraglio Mundy, quel medesimo che comandava
la squadra inglese in Sicilia nel 1860; non appena il generale lo vide
si levò per andarlo a visitare; l’atto cortese, notato dal pubblico, fu
salutato da un vivissimo applauso.

[271] La casa di Lord Palmerston in Londra era a 94 Piccadilly.

[272] Assistevano al banchetto il russo Ogareff, il tedesco Blind,
gl’inglesi Ashurt e Taylor; gl’italiani Aurelio Saffi, Antonio Mordini
e Giuseppe Guerzoni.

[273] Diamo qui interi i brindisi pronunziati dai due celebri patriotti.

Mazzini pronunziò il seguente:

«Mon _toast_ comprendra tout ce que nous aimons et tout ce pour quoi
nous combattons:

»A la liberté des peuples!

»A l’association des peuples!

»A l’homme, qui, par ses actions, est l’incarnation vivante de ces
grandes idées!

»A Joseph Garibaldi!

»À la pauvre, sainte, héroïque Pologne, qui depuis plus d’une année
combat en silence et meurt pour la liberté!

»A la nouvelle Russie, qui, sous la devise _terre et liberté_, tendra
dans un jour rapproché, une main de sœur à la Pologne pour la défense
de la liberté et de l’indépendance et effacera le souvenir de la Russie
des Tzars!

»Aux Russes, qui, notre ami Herzen en tête, ont le plus travaillé à
l’éclosion de la nouvelle Russie!

»À la religion du devoir qui nous fera lutter jusqu’à la mort pour que
toutes ces choses s’accomplissent!»

Garibaldi rispose:

«Je vais faire une déclaration que j’aurais dû faire depuis longtemps;
il y a ici un homme qui a rendu les plus grands services à mon pays
et à la cause de la liberté. Quand j’étais jeune et que je n’avais que
des aspirations, j’ai cherché un homme qui pût me conseiller et guider
mes jeunes années; je l’ai cherché comme l’homme qui a soif et cherche
l’eau. Cet homme je l’ai trouvé; lui seul a conservé le feu sacré, lui
seul veillait quand tout le monde dormait. Il est toujours resté mon
ami, plein d’amour pour son pays, plein de dévouement pour la cause de
la liberté.

»Cet homme c’est mon ami Joseph Mazzini.

»A mon maître!»

Dopo una breve pausa proseguì:

«À la Pologne, la patrie des martyrs, au pays qui se dévoue à la mort
pour l’indépendance, au pays qui donne un sublime exemple aux autres
peuples!

»À la jeune Russie, au nouveau peuple, qui une fois libre et maître de
la Russie du Tzar, est appelé à jouer un grand rôle dans les destinées
de l’Europe!

»A l’Angleterre, ce grand pays de la liberté qui nous donne
l’hospitalité, à qui nous devons le bonheur de nous trouver réunis!»
— Vedi _Politica segreta italiana_ (1863-1870), Torino, Roux e Favale,
1880, pagine 145-146.

[274] Quella de’ Danesi fra le altre.

[275] Menotti, tagliato fuori dalla calca, non aveva potuto penetrare
in Guild-Hall.

[276] Erano venuti d’Italia il colonnello Chiassi, il colonnello
Missori, il deputato Mordini ed altri.

[277] Tornata del 19 aprile 1864.

[278] Nel citato libro la _Politica segreta italiana_, a proposito
delle cagioni che il governo aveva di desiderare l’allontanamento di
Garibaldi, si leggono a pag. 164-65 queste parole:

«Il governo italiano aveva mandato presso quello inglese un
agente segreto, il quale aveva fra altri il mandato di tentare
che l’Inghilterra come espressione concreta di quella simpatia che
dimostrava all’Italia negli omaggi resi a Garibaldi si decidesse
a cedere al nuovo regno l’isola di Malta, come aveva ceduto alla
Grecia le isole Ionie, la quale idea era stata comunicata e non aveva
dispiaciuto alle Tuilerie.... Ciò fece che il gabinetto di San Giacomo
desiderasse più vivamente anch’egli che il soggiorno di Garibaldi
venisse abbreviato, e che non avesse luogo il viaggio nelle provincie,
dove accrescendosi con incalcolabili proporzioni l’entusiasmo
popolare esso temeva che gettata in campo la proposta della cessione
di quell’isola, la pubblica opinione eccitata lo costringesse ad
acconsentire.»

Ora è questa una delle tante fiabe onde codesto libro è infarcito. A
noi consta in modo incontrovertibile che in tutto questo racconto _non
c’è parola di vero_.

[279] Riproduciamo per brevità soltanto le due ultime lettere del
18 aprile. Della prima del 17, scritta in forma privata al Duca di
Sutherland, abbiamo riassunto fedelmente il senso.

                                                          «13 aprile.

  »Milord Duca,

»Confermando la mia lettera di ieri, ho l’onore di parteciparvi il
risultato d’un colloquio avuto questa mane col generale Garibaldi. Egli
ammette di sentirsi stanco e di non essere nelle stesse disposizioni
fisiche come al suo giungere dall’isola di Wight.

»Mi ha parlato delle emozioni e dello strepito che lo circondano,
formando un forte contrasto cogli usi abituali della sua vita. Quando
parlava, osservai in lui una stanchezza mentale, forse più pronunciata
della fisica debolezza.

»Non potrei asserire essere impossibile lo adempiere agli impegni
assunti, ma non esito a dirlo pericoloso.

                                                       »W. FERGUSSON.

  »_A. S. G._
  »_il Duca di Sutherland_.»

                                 * * *

                                                          «18 aprile.

  »Mio caro Seely,

»Leggo nei giornali che il Generale impegnossi a viaggi in tutte le
direzioni. L’impresa è ardua e non v’ha uomo dell’arte che non la
riconoscerebbe piena di pericoli. Ho scritto in proposito al Duca di
Sutherland, e credo mio debito consigliare anche voi e tutti i suoi
amici d’Inghilterra di suggerir un mezzo qualsiasi per distoglierlo
dalle imprudenti emozioni delle sue visite progettate.

                                                       »W. FERGUSSON.

  »_Al signor Carlo Seely._»

[280] Fra quei due o tre amici c’era anche, in un angolo della sala,
l’Autore di questo libro. Io vedeva da parecchi giorni quello che si
tramava, ed ero deciso ad averne, come suol dirsi, il cuor netto. E ciò
non perchè m’importasse che Garibaldi abbreviasse o no il suo viaggio;
fallito anzi lo scopo politico pel quale l’avea intrapreso, non vedevo
più ragione di prolungarlo; ma solo perchè stimavo mio preciso dovere
per l’ufficio di fiducia che il Generale m’aveva commesso di vegliare
attentamente a tutto ciò che si ordiva intorno a lui, e d’impedire, per
quanto era in me, ch’egli fosse vittima d’un intrigo. Saputo pertanto
delle progettate riunioni, mi preparai alcuni minuti prima nel salotto
del Generale ben risoluto a non muovermi di là se il Generale stesso
non me lo ordinava. Ma come il Generale mi parve piuttosto contento che
io restassi, così non ostante il visibile dispetto che la mia importuna
presenza cagionava ai congregati, restai, fermo come una sentinella, e
potei quindi udire dal principio alla fine tutto il dialogo di quella
sera memoranda. Il qual dialogo ho riprodotto con tutta la maggior
fedeltà che mi fu concessa, certissimo d’averne serbate nella memoria
le parole più salienti, e in ogni caso il senso e l’andamento.

[281] Chi confronti la mia versione colle dichiarazioni del signor
Gladstone ai Comuni (seduta del 21 aprile) e del signor Seely al
_meeting_ del _London Tavern_ (la sera del 20) vedrà che le differenze
sono quanto alla sostanza insignificanti. Il solo particolare
dimenticato da quei due signori furono le parole «partirò domani,»
ma io tanto quelle parole, come l’alzata impetuosa dalla sedia che le
precedette, le vedo e le odo come se accadessero ora, e le riaffermo
qui in tutta la loro pienezza. Aggiungo anzi che quelle parole
caratteristiche si leggono tra le linee del discorso del signor Seely
e non è mestieri di grande acume per comprendere com’egli avesse
interesse ad attenuarne il senso.

Il signor Seely al _London Tavern_ disse «che Garibaldi avendo
promesso di visitare più di trenta città, i suoi amici credevano
che la promessa non potrebbe essere tenuta senza pregiudizio della
sua salute. Per conseguenza, domenica a sera, il Duca di Sutherland,
il Conte di Shaftesbury, il generale Eber, il colonnello Peard, il
signor Gladstone, il signor Negretti ed egli stesso si riunirono a
Stafford-House onde considerare se non fosse espediente di limitare le
visite del Generale a sei od otto delle principali città del regno. Il
Generale replicò essergli impossibile tirare una linea di separazione,
e che _preferirebbe abbandonare addirittura l’Inghilterra_.

»Quella stessa mattina (la mattina in cui il Seely parlava, cioè il
20 aprile) il Duca di Sutherland, il Conte di Shaftesbury, Saffi, il
generale Eber, il colonnello Peard, Negretti e il signor Stansfeld
avevano tentato far cambiare il Generale d’avviso, ma indarno.»

Ora ognuno intende che tra le parole «abbandonare addirittura
l’Inghilterra» e il «partirò domani» non c’è altra differenza che di
forma; e basta poi il fatto riaccertato dallo stesso signor Seely che
la mattina dopo il Duca di Sutherland, il Conte di Shaftesbury, ec.
ec. tentarono far cambiare d’avviso al Generale (cioè di non partire
subito) per confermare in ogni parte la nostra testimonianza.

Ed ora ecco le parole dette dal signor Gladstone ai Comuni:

«Sono tenuto al mio onorevole amico d’avermi mosso questa domanda
per ciò che riguarda me stesso. Il fatto ch’egli ha accennato tiene
molto commosso il popolo inglese, il quale da niente più rifugge che
dal mistero e segreto in simili cose. Or ecco quel che veramente è
avvenuto, e che ha fatto narrare diceríe false ed assurde. Il Duca di
Sutherland mi fece sapere, sabato passato, che egli ed altri amici del
Generale avevano concepito forti timori rispetto alla sua salute, e che
un insigne medico, il signor Fergusson, pensava che s’egli avesse messo
in effetto il disegnato giro per le provincie avrebbe assai patito.

»Il Duca di Sutherland m’invitò ad andare da lui, quella sera, per
consigliarci insieme intorno al da farsi.

»Io, pensando che il Duca aveva molti titoli di gratitudine per quello
che ha fatto pel governo, andai, com’ero stato invitato, e trovai
che i timori erano giusti, tanto più che il Generale aveva accettato
quasi cinquanta inviti di città vicine, e l’elenco ogni dì cresceva
rapidamente. Il signor Fergusson chiaramente disse non poter il
Generale sopportare le fatiche di tanti viaggi e dimostrazioni. Venuti
dunque a consiglio il Duca, il colonnello Peard, il generale Eber e due
o tre amici del Generale, si trovò esser nostro dovere consigliarlo a
restringere il numero delle sue promesse, e determinasse bene prima di
lasciar Londra.

»Questo fu fatto conoscere da due amici particolari al Generale,
e quindi fui io richiesto di parlare a lui medesimo. Così allora
m’avventurai a mostrargli quello che ognuno doveva vedere, come l’andar
incontro a tante fatiche non potesse essere che a danno della sua
salute. Aggiunsi ancora che mi pareva che le magnifiche accoglienze
avute in questa metropoli, che sono certamente uno dei più memorabili
avvenimenti dei nostri tempi, potevano perdere un poco della loro
dignità e bellezza, se fossero state ripetute ogni giorno in tanti
luoghi diversi. Queste furono le cose che io dissi al Generale, nè
mai dissi che era meglio partire, ma solamente di tenere entro a certi
limiti le sue promesse.

»Il Generale m’ascoltò con molta pazienza, indi mi rispose che
v’era gran verità in quel che io gli avevo esposto, ma parergli che
sarebbe assai difficile distinguere fra i desiderii e le domande
d’una e d’altra città; che egli pensava che il fine della sua venuta
in Inghilterra era conseguito, essendovi egli venuto, non per avere
quegli onori, di cui egli era ricolmo, ma per ringraziare il governo
ed il popolo inglese per quello che avevano fatto a pro della sua
patria. Disse che egli credeva che, visitando Londra, aveva visitata
tutta la nazione; che le promesse fatte erano tutte sotto condizione,
e non si teneva più obbligato, quando forti cagioni l’impedissero,
di adempierle. Soggiunse sperare di poter in altro tempo, ma senza
cerimonie di gran pubblicità, tornare in Inghilterra, e allora potrebbe
vedere molti più amici che non aveva ora fatto. Questo egli disse,
nè pensò mai che vi fosse alcuna cagione politica, nè sospettò certo,
come altri ha fatto, che qualche potentato straniero fosse mescolato in
questa pratica.

»Quanto all’Imperatore dei Francesi e al suo governo, il nobile Lord in
questa Camera ha già detto assai chiaramente ch’egli non vi ha nulla
a che fare. Ma molte volte avviene che una piccola verità è sorgente
di molti errori; e in questo caso l’essere io stato chiamato per dare
un consiglio, richiesto dal bene e dalla salute del Generale, ha fatto
credere cose che sono al tutto senza parte alcuna di vero.»

[282] In questo terzo colloquio della mattina del 19, v’erano il Duca
di Sutherland, il signor Eber, il signor Peard, il signor Negretti
e forse altri, ma nè Lord Shaftesbury, nè il signor Gladstone, nè il
signor Seely, nè il dottor Fergusson vi erano.

[283] Il dottor Basile, in una lettera al _Sun_ del 19 aprile, diceva:

«Come medico ordinario del Generale, mi credo in obbligo d’affermare
trovarsi la sua salute nel più soddisfacente stato e la ferita
del piede cicatrizzata da vari mesi, non aver più bisogno di cure
chirurgiche.... Sono dunque fermamente convinto che il Generale possa
intraprendere il progettato viaggio senza pericolo.»

Il Basile diceva la verità; ma non saprei affermare che egli fosse
stato autorizzato dal Generale a dirla, e molto più a scrivere questa
lettera.

Il dottor Partridge nel Times del 20 pubblicava un’attestazione quasi
consimile a quella del dottor Basile.

[284] Il _Sun_, il _Morning Star_, l’_Evening Standard_.

[285] Vedi Tornate della Camera dei Lordi del 18 aprile 1864, e dei
Comuni 19 e 21 aprile.

[286] Ecco la testuale risposta di Garibaldi:

«Sono profondamente grato al popolo inglese degli onori che mi ha resi,
ma di cui mi considero indegno. Le accoglienze che ho ricevute da ogni
classe di persone sono state tali che non le scorderò giammai.

»Desidero ardentemente di visitare i miei vecchi amici di Newcastle
e del Nord. Considererò se posso cambiare di determinazione dopo la
promessa data e farò conoscere la mia risoluzione al mio amico signor
Beales.»

[287] Ecco la lettera testuale:

  «Cari amici,

»Accettate i ringraziamenti del mio cuore per la vostra simpatia e pel
vostro affetto. Sarò felice se potrò rivedervi in circostanze migliori
e quando potrò godere con tutto agio della ospitalità del vostro nobile
paese. Pel momento io sono obbligato di lasciar l’Inghilterra. Ancora
una volta, la mia gratitudine sarà sempre viva per voi.

  »21 aprile.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[288] Ecco la lettera:

«Rivolgo le più vive grazie del mio cuore e i sentimenti di gratitudine
alla nazione e al governo inglese per l’accoglienza ricevuta su questa
libera terra. Il primo scopo della mia venuta era di compiere un dovere
per la simpatia dimostrata a me ed alla mia patria. Questo scopo è
raggiunto: ma bramavo eziandio di pormi a disposizione di tutti i
miei amici inglesi e recarmi in tutti i luoghi ove poteasi dimostrare
desiderio di me. Ora _non mi è lecito_ di soddisfare tutti gl’impulsi
del mio cuore.

»Se fui causa di qualche turbamento o di qualche disinganno, ne
chiedo perdono agli amici, i quali comprenderanno come io non potessi
stabilire una linea di demarcazione fra i luoghi da visitare. Accettino
perciò i miei ringraziamenti e i miei saluti.

»Tuttavia spero in un tempo non lontano poter fare ritorno, visitare
i miei amici nella vita domestica inglese, e mantenere quella promessa
che oggi, con mio immenso dolore, non mi è dato poter secondare.

                                                         »GARIBALDI.»

Giova notare che la lettera era scritta nel più perfetto inglese, e che
il Generale non fece che firmarla. La frase «non posso stabilire una
linea di demarcazione fra i luoghi da visitare,» già usata dal signor
Seely al _meeting_ di _London Tavern_, la fa sospettare dettata da lui.

[289] Infatti nè i figli, nè il dottor Basile, nè il segretario
Guerzoni erano stati invitati a Clifden Park. Oltre a ciò era stato
deciso dai manipolatori della partenza che il Generale s’imbarcherebbe
sull’_Ondine_ seguíto dal Basso, e forse dal dottor Basile e dal figlio
Ricciotti, e che l’altro figlio Menotti, il segretario Guerzoni e gli
altri suoi amici ritornerebbero in Italia per altra strada. Il Generale
tuttavia volle rivedere prima a Clifden, poi a Penquite Par, dimora
del colonnello Peard, il suo segretario Guerzoni e questi ubbidì come
diremo meglio in appresso.

[290] Il documento meriterebbe essere pubblicato per intiero, ma
ce ne trattiene la soverchia lunghezza. La prima bozza era stata
concertata tra il segretario Guerzoni, il deputato Mordini, e, se non
c’inganna la memoria, Aurelio Saffi. Il Guerzoni la portò a Penquite
Par nella sera stessa del 26, dove arrivò per la linea più diretta,
Londra-Bristol-Exeter-Plimouth; il Generale vi fece parecchie ed
importanti mutazioni, e fu pubblicato nei giornali inglesi colla data
di quella medesima sera.

Eccone pertanto i brani più salienti:

                          «Al popolo inglese.

                                  »Penquite Par, Cornwall, aprile 26.

»Al popolo inglese io non ho nulla a ricordare che esso non conosca.
Egli sa ciò che l’Italia desidera. L’Italia ha risoluto di esistere.
Essa ne ha il diritto, e se alcuno ne dubitasse, io aggiungerei che
essa esiste già di fatto, e che nulla le impedirà dal completar sè
stessa. L’Italia non desidera che di scuotere il giogo delle due
avverse potenze che la opprimono — lasciate che il mondo l’oda — essa
non può rimaner tranquilla finchè non avrà ottenuto questo scopo,
che è fra le questioni di vita o di morte. Il popolo inglese che
sprofonderebbe sotto il suo Oceano piuttosto che permettere che il
sacro suolo del suo paese sia violato dallo straniero comprenderà
quanto legittime siano le aspirazioni, e quanto irremovibili le
risoluzioni del mio paese.

»L’Inghilterra conosce che cooperando disinteressatamente in favore dei
destini dell’Italia nel 1860 contribuì a promuovere l’ordine e la pace
in Europa — quella pace e quell’ordine che soli riescono durevoli e
benefici perchè fondati sulla giustizia e sul progresso.

»L’Inghilterra, ne sono convinto, si confermerà sempre più in questa
opinione che se da una parte sta all’Italia a mostrarsi forte ed
essere realmente forte e indipendente da servili alleanze, affine di
cattivarsi fiducia dai suoi veri amici (fra i quali il primo posto è
dovuto all’Inghilterra), l’Inghilterra stessa vedrà dall’altra parte
in quanto l’alleanza d’una giovine incivilita e libera nazione come
l’Italia, sia preferibile alle eterogenee e mal sicure alleanze colle
potenze dispotiche. Tuttavia io non posso sperare — lo dico con dolore
— che l’Italia sarà atta a compiere i suoi destini senza correr di
nuovo la terribile prova dell’armi. La voce dell’Inghilterra è udita
e rispettata, essa è in alto grado arbitra dei destini dell’Europa,
ma sia pienamente persuasa che essa non può sciogliere la questione
italiana o quella di altre nazionalità, mediante alcuna immaginazione
di compensi e negoziazioni diplomatiche. Ma in faccia al gran
principio della solidarietà dei popoli, proclamato e sancito dalla
coscienza universale, io non posso parlare solo dell’Italia, molto
meno in un tempo in cui il presagio di questa vera sacra alleanza fu
irrevocabilmente confermato quando di recente io strinsi la mano dei
proscritti di tutte le parti dell’Europa. Lasciando questa spiaggia
ospitale non posso nascondere più a lungo il segreto del mio cuore,
raccomandando la causa dei popoli oppressi alla più generosa e sagace
delle nazioni. — Dacchè il loro sorgere è certo ed il loro trionfo è
fatale, l’Inghilterra saprà come stendere su di loro il poderoso scudo
del suo nome e sostenerli se bisogna col suo forte braccio.

»L’Inghilterra sa che essa non sarà sola in questa grande missione.
Di là dello Stretto v’è un altro popolo gigante, che è stato sovente
costretto dalle arti del dispotismo ad essere il rivale e il nemico
di questo paese, ma che la libertà riuscirà a volgere in pacifico
competitore e amico. — Libertà! questo è il sole che deve fecondare la
sincera e formidabile alleanza dei due popoli della civiltà contro la
barbarie, e per cui, senza sguainar la spada, la grand’opera della pace
del mondo sarà realizzata.»

[291] Nella citata _Politica segreta italiana_ (pag. 167-168) si narra
che il Duca di Sutherland aveva proposto al Re, per mezzo del conte
Maffei, allora consigliere di legazione a Londra, di far viaggiare
Garibaldi due mesi nei mari d’Oriente impedendogli così di sbarcare a
Caprera, d’onde si temeva che il Generale potesse slanciarsi in nuove
avventure. Il libro però aggiunge che Mazzini, scoperto il complotto,
lo sventò avvertendone per telegrafo il Generale, il quale ricevuto
il dispaccio a Gibilterra chiese ed ottenne che la rotta dell’_Ondine_
sarebbe stata in retta linea per Caprera. A noi mancano argomenti per
confermare o smentire questo racconto. Diciamo solo che non ne abbiamo
mai sentito a parlare. Che il progetto sia nato nel cervello del Duca
di Sutherland par certo poichè esiste il dispaccio del conte Maffei che
lo prova; ma non crediamo che il Re l’abbia approvato, nè che Mazzini
abbia avuto bisogno di sventarlo. Soltanto il fatto meritava essere
ricordato come indizio delle mille tranellerie da cui il Generale era
circondato.

[292] Il signor Assollant, nel _Courrier du Dimanche_ citato da Bent,
pag. 228, op. cit. E lo stesso Bent, dopo aver dato ragione al signor
Assollant, soggiungeva: «From first to last Garibaldi’s visit was
one long cheer; he was a veritable nine days’ wonder; but beyond good
wishes, and addresses from every imaginable town that could squeeze in
a word edgeways, Garibaldi got only a few handsful of presents from his
immediate admirers, and when he made his second rash attempt on Homo
in 1867 he found England no more inclined to help him than if he had
remained quietly at home.»

[293] Arrivava verso le 11 del mattino. Lo seguivano il dottore
Albanese, il segretario Guerzoni, i figli ed altri. Prendeva alloggio
nella casa del signor Luigi Mansi.

[294] _La Politica segreta italiana_ già citata.

[295] Il 2 maggio in un suo biglietto autografo il Re faceva al Mazzini
questa risposta:

«Non è da ammettersi la frase che si sia _tenuto a bada_ il partito
d’azione, mentre gli si fece sempre intendere in modo netto e preciso
che qualunque moto, sia interno, sia avente per iscopo un’iniziativa
verso il Veneto, sarebbe stato impedito con ogni mezzo energico di cui
si può disporre.

»Essere pertanto una prova insensata che si tenterebbe senza risultato
di sorta, che cagionerebbe guai a deplorarsi per parte dei motori.

»La Polonia mancò ognora nelle varie sue fasi insurrezionali della
forza vitale di espansione, e questa è la principale cagione della sua
rovina, forse potrebbe rinascere come la fenice dalle proprie ceneri,
estendendo le sue ramificazioni in Gallizia, Principati ed Ungheria,
dove il terreno sarebbe facile _à exploiter_ se vi fossero uomini
energici ed audaci che servissero di _trait-d’union_.

»Se i moti in Gallizia estesi alle citate contrade prendessero
le proporzioni di una _spontanea popolare_ insurrezione da tenere
fortemente occupata l’Austria, allora sarebbe necessario anzitutto
d’aiutarla con un nucleo d’Italiani determinati, e così riuniti vari
fecondi elementi, _tutti ostili al principale nemico_, si potrebbe
condurre a compimento il comune desiderio.

                                                              »V. E.»

(_Politica segreta_ ec., pag. 72-73.)

[296] «Ottenendo il moto galliziano _anteriore_, il moto veneto
dovrebbe seguire immediato.... Intendendo che il moto veneto _segua_
rapidamente, è necessario aumentare l’armamento _fin d’ora_. Quindi la
richiesta di restituzione dell’armi e del rinvio d’un uomo persecutore
(Spaventa), che d’altra parte è screditato per ogni dove e disonora il
governo.»

Nota-_memorandum_ Mazzini da rimettersi al Re. — _Politica segreta_
ec., pag. 77.

[297] Vedi risposta del Re a Mosto, incaricato di Mazzini. — _Politica
segreta_ ec., pag. 88.

[298] Il generale Klapka arrivò a Clifden il giorno stesso in cui,
chiamatovi dal Generale, vi arrivava da Londra io pure. Lo vidi restare
a lungo con Garibaldi e ne immaginai facilmente la cagione. — Vedi
anche _Politica segreta_ ec., pag. 87.

[299] Documento di pugno del Re letto ad Antonio Mosto in presenza del
conte Verasis di Castiglione e del signor D. Müller. Fra le altre cose
diceva: «Che per quanto riguardava la rivoluzione in Gallizia il Re e
il suo governo ne avevano lasciata la direzione al Klapka, ec.....» —
_Politica segreta_ ec., pag. 85.

[300] «Le parti d’action (ungherese) nous a donné la main à condition
que nous n’aurons rien à faire avec Kossuth et les généraux Klapka
et Türr.» Parole d’una nota del signor Bulewsky, agente del Centro
Rivoluzionario Polacco in Londra. — _Politica segreta_ ec., pag. 97.

[301] Vedi _Politica segreta_ ec., pag. 99.

[302] Nè più nè meno però. Di preparare armi ed armati, come altri
disse, Bixio non ebbe nessun incarico. Fu anzi per mettere in chiaro la
verità di questa novella che io nella notte dal 4 al 5 luglio mi recai
da lui al campo di San Maurizio.

[303] Radunò gli ufficiali a gran rapporto, e lo presentò loro come
amico di Garibaldi, del Re e dell’Italia. L’eccesso stava nella
presentazione d’un personaggio borghese non rivestito d’alcuna carica o
dignità ufficiale ad un corpo di ufficiali.

[304] Questi sono i nomi che ci occorrono alla memoria. Forse ne
dimentichiamo alcuno. Tutti invece non poterono venire, tra gli altri
Giovanni Chiassi.

[305] Come si vede, i _sottoscritti_ non si sottoscrissero, e la così
detta protesta restò quello che era in fatto, l’opera d’un solo e
anonimo autore. Come poi il _Diritto_ potesse chiamare _documento_ uno
scritto anonimo, è ciò che non riesciamo a comprendere!

[306] Questa è l’ipotesi più probabile. Dai Principati non venivano
da parecchio tempo che notizie sfavorevoli alla meditata impresa. Il
governo del principe Cuza, sul cui assenso tacito e segreto si era
contato, chiarivasi invece recisamente avverso ed arrestava il Frygesy,
quel colonnello ungherese che era in Rumenia il capo ed il centro della
congiura.

[307] Egli aveva lasciato Torino il 6 mattina e non poteva avere
conoscenza della lettera pubblicata il 10. A proposito del Guerzoni,
in quel libro più volte citato, la _Politica segreta italiana_, sono
spacciate tante fandonie che sarebbe impossibile smentirle tutte
anche scrivendoci intorno un intero capitolo. Come però da una parte
non vogliamo far servire un libro consacrato a Garibaldi alla nostra
privata difesa, e dall’altra di quella difesa non sentiamo alcun
bisogno, così passiamo accanto sorridendo alla povera cantafavola, e
aspettiamo che il tempo ne faccia la dovuta giustizia.

Solo un fatto è narrato in quelle pagine con poche varianti più maligne
che importanti, ed è il congedo che Garibaldi diede al Guerzoni quando
lo sospettò autore delle voci che a detta di taluni avevano mutata la
risoluzione di Vittorio Emanuele e fatto abortire la progettata corsa
in Oriente. Ora come di quel fatto il Guerzoni non si vergognò mai,
anzi andò sempre fiero come d’una delle azioni più oneste e coraggiose
della sua vita, così non ha alcun ritegno a narrarlo egli stesso più
veracemente per esteso. Ingannato da mendaci rapporti, sorpresa la sua
buona fede e nell’acciecamento del primo sdegno trasportato a pensare
che il Guerzoni fosse stato autore o istigatore della lettera del
10 luglio, il Generale lo fece venire a sè e gli disse con accento
tuttavia pacato e benigno: «Guerzoni, è necessario che per qualche
tempo ci separiamo.... La cosa però resterà fra di noi. Noi saremo
sempre amici come prima.»

Il Guerzoni alzò la testa alla immeritata ferita e rispose come ogni
uomo al suo posto avrebbe fatto: «Io non ho nulla da rimproverarmi,
Generale, — però non ho nulla da nascondere. Parli o taccia, io resterò
sempre quale mi parto di qui, suo amico devoto e suo fedele soldato.»

E il Guerzoni partì.... Da quel giorno non scrisse più al Generale che
sei mesi dopo per mandargli in brevi parole i suoi augurii pel buon
capo d’anno del 1865. Il Generale gli rispose con questa lettera:

                                                «Caprera, 2 del 1865.

  »Mio caro Guerzoni,

»Grazie per la lettera vostra gentile. Io vi contraccambio gli augurii
con augurarmi d’aver compagni che vi somiglino in una battaglia
che forma l’unica speranza della mia vita. V’invio la parola che mi
chiedete, e sono sempre vostro

                                                      »G. GARIBALDI.»

Scorsi altri sei mesi egli scriveva a Benedetto Cairoli, a proposito
della candidatura del Guerzoni a deputato:

«Vi raccomando Guerzoni per tutti i collegi.»

Il congedato d’Ischia poteva dirsi soddisfatto.

[308] Una fu pubblicata dal FARINI nel suo _Stato Romano_, vol. II,
pag. 253. Firenze, 1850.

[309] Anche Giuseppe Mazzini, scrivendo nel 1861 ad un Tedesco, diceva
alla nazione germanica: «Cancellate dalla fronte della Germania la
macchia che l’Austria vi ha messo.... Siate un popolo e c’intenderemo.
L’idea germanica e l’idea italiana s’abbracceranno sulle Alpi libere.»
— Vedi _Scritti editi e inediti_ di GIUSEPPE MAZZINI, vol. XI, pag.
262. Roma, 1882.

[310] Il Bismarck, interpellato dal La Marmora se in caso che l’Austria
attaccasse l’Italia la Prussia sarebbe stata pronta ad accorrere
in nostro soccorso, rispose che il Trattato dell’8 aprile non era
un Trattato bilaterale, e che la Prussia non vi era in alcun modo
vincolata ad aiutare l’Italia.

Del resto chi voglia sincerarsi di quanto abbiamo detto sin qui
intorno all’alleanza italo-prussiana veda principalmente: _Le général
La Marmora et l’alliance prussienne_, Paris, 1868. Opera del capitano
CHIALA, il più fedele e devoto interprete istoriografo del generale La
Marmora. — _Due anni di politica italiana_. Milano, 1868, di STEFANO
JACINI, nel 1866 ministro dei lavori pubblici del gabinetto La Marmora
e principale confidente e consigliere del Generale stesso. — _Un po’
più di luce sugli eventi politici e militari dell’anno 1866_, pel
generale ALFONSO LA MARMORA. Firenze, G. Barbèra editore, 1873. — _Il
generale Alfonso La Marmora, Ricordi biografici_ di GIUSEPPE MASSARI.
Firenze, G. Barbèra editore, 1880.

[311] _La Campagna del 1866 in Italia_, redatta dalla Sezione Storica
del Corpo di Stato Maggiore. Roma, 1875, vol. I, pag. 65 e 66.

[312] Vedi op. cit., pag. 67.

[313] Vedi _Cenni Storici sui Preliminari della Guerra del 1866_, ec.
del capitano LUIGI CHIALA, pag. 580.

[314] Al ministro della guerra, generale Pettinengo, scriveva:

                                            «Caprera, 14 maggio 1866.

  »Signor Ministro,

»Accetto con vera gratitudine le disposizioni emanate da S. M. in
riguardo ai Corpi volontari, riconoscente alla fiducia in me riposta
con l’affidarmene il comando. Voglia essere interprete presso S. M. di
questi miei sentimenti nella speranza di poter subito concorrere col
glorioso nostro esercito al compimento dei destini nazionali.

»Ringrazio la Signoria sua della cortesia colla quale si è degnata
farmene partecipazione.

»Voglia credermi della Signoria sua

                                                         »devotissimo
                                                      »G. GARIBALDI.»

[315] Questo scriveva in quei giorni ai signori Valzania, Caldesi,
Bagnasco, noti repubblicani. Per brevità citeremo solo la lettera a
quest’ultimo:

                                            «Caprera, 11 maggio 1866.

  »Caro Bagnasco,

»È cosa utile al paese che in ogni modo tutti siamo pronti e concordi.
E questione di vita o di morte perla patria, e sta all’Italia tutta il
problema.

»Io accetterò tutti coloro che vogliono combattere lo straniero
oppressore. Per le istruzioni dirigetevi ai nostri amici della
Commissione; e fra gli altri a Benedetto Cairoli. Bando alle gare ed
alle opinioni, e facciamo.

»Credetemi

                                                       »vostro sempre
                                                      »G. GARIBALDI.»

[316] _La Campagna del 1866 in Italia_, redatta dalla Sezione Storica
del Corpo di Stato Maggiore, tomo I, pag. 129.

Vi fu chi disse che il piano di guerra di Garibaldi era simile in
tutto a quello del generale Moltke e dello Stato Maggiore prussiano
dichiarato nella celebre Nota del signor D’Usedom, ministro del re di
Prussia a Firenze.

Chi abbia letto quella Nota e la confronti colle parole testè citate
della _Relazione Ufficiale_, vedrà che tra i due concetti corre
una capitale differenza. Entrambi, è ben vero, s’accordavano nel
pensiero di non arrestarsi intorno al quadrilatero, di girarlo o di
attraversarlo; entrambi credevano che compiuta questa prima operazione
e «quando la sorte fosse propizia sul principio ai due alleati»
(parole della Nota Usedom), l’Italia dovesse spingere un forte Corpo
di spedizione nel cuore dell’impero austriaco; ma circa alla strada
che quel Corpo dovesse tenere e al modo con cui doveva operare,
dissentivano grandemente. Garibaldi infatti, come fu già detto, voleva
sbarcare presso Trieste allo scopo di prendere a rovescio l’esercito
austriaco e tagliarlo da Vienna; lo Stato Maggiore prussiano voleva
uno sbarco nella Dalmazia, il quale appoggiandosi ad una ipotetica
insurrezione slavo-ungherese, desse la mano all’esercito prussiano e
marciasse su Vienna.

Il Generale italiano, rivoluzionario dalla nascita, non pensava che ad
una operazione prettamente militare; il Generale prussiano, militare
nel sangue, aveva in mente una operazione rivoluzionaria.

Quale dei due concetti fosse migliore sarebbe ormai superfluo il
discutere. Certo il disegno prussiano appare a prima giunta più audace
e più vasto; ma esso aveva, secondo noi, il grave difetto di fondarsi
sopra una rivoluzione di popoli che nessun indizio prometteva, e di
calcolare sopra una vittoria delle armi prussiane che era ancora nei
segreti del fato. Si supponga la insurrezione slavo-ungherese fallita;
si immagini una Sadowa favorevole all’Austria, che cosa avrebbe fatto
il Corpo di spedizione italiano? Che cosa sarebbe accaduto a Garibaldi
nel cuore dell’impero austriaco?

Non per questo crediamo che il progetto prussiano meritasse lo sdegnoso
disprezzo con cui lo trattò il generale La Marmora. Anzitutto l’accusa
da lui mossa a quel progetto, che volesse la spedizione transadriatica
prima che l’esercito italiano avesse preso posizione alle spalle del
quadrilatero è affatto gratuita; e le parole stesse dell’Usedom, che
pure nella sua qualità di diplomatico non era obbligato a spiegarsi
con tutta la precisione del linguaggio militare, la smentiscono
completamente. La Nota Usedom, infatti, muove dal supposto che
l’esercito italiano abbia già _attraversato e girato il quadrilatero
e vinto una battaglia in campo aperto_; ed evidentemente coordina
e subordina tutte le operazioni proposte al di là dell’Adriatico, a
quella ipotesi. Il generale La Marmora dunque, rimproverando allo Stato
Maggiore prussiano un assurdo, che davvero sarebbe stato enorme, non
faceva che pensarlo egli stesso e da sè solo. Ma non è qui il punto.

Il torto del generale La Marmora non consistette già nel respingere un
disegno che anche nella felice ipotesi d’una piena vittoria in Italia
sarebbe pur sempre stato temerario e pericolosissimo; il torto del
Generale stette, e starà sempre, nell’essersi rifiutato di esaminare,
di discutere quel disegno, nell’averlo nascosto a’ suoi colleghi del
ministero e dell’esercito; nell’aver perciò impedito che potesse di
comune accordo fra i due alleati essere corretto e modificato, reso più
utile e praticabile.

Ma a che pro esaminare i torti del generale La Marmora nel 1866? A che
mai fargli colpa di non aver nemmeno degnato di discussione i disegni
del suo alleato, se non eseguì quelli che aveva combinati col suo primo
luogotenente in Italia, col generale Cialdini, anzi che aveva sanciti
egli stesso, poichè nella sua qualità di _Capo dello Stato Maggiore
generale_ dell’esercito stava a lui il comandare?

Che se gli apologisti del La Marmora sorgono a dire che il piano
combinato col Cialdini era diverso; che il passaggio del Po doveva
essere l’accessorio e l’irruzione dal Mincio il principale, allora noi
chiediamo, e lo chiederà sempre, vivaddio, la storia, perchè questa
irruzione non fu almeno preparata cogli accorgimenti e le precauzioni
che l’arte suggeriva per assicurarne il trionfo, tanto più facile al
generale La Marmora quanto meno gli erano mancati quei due fattori
essenziali d’ogni vittoria: il tempo e la forza?

[317] Vedi L. CHIALA, _Cenni Storici sui Preliminari della Guerra_,
vol. I, pag. 584.

[318] CHIALA, op. cit., vol. I, pag. 585 e 588.

[319] A Lecco, per esempio, dal terrazzo dell’albergo _La Croce di
Malta_, diresse alla moltitudine de’ Garibaldini, stipata giù nella
piazza, queste parole:

«_Amici!_ — Voi sapete che in questo mondo ci vuol fortuna quasi in
ogni cosa; ci vuol fortuna pel marinaio che alcune volte in mezzo al
mare incontra uno scoglio, altre volte invece scopre un tesoro; ci vuol
fortuna per il soldato, che spesso stando tra l’ultime file trova una
palla, mentre un altro che trovasi tra i primi, rimane illeso.

»Ora voi siete una generazione fortunata, io vo declinando in età, e
mi chiamo felicissimo d’essere ancora con voi. Prima di voi furonvi
mille generazioni che vedevano i lor campi calpestati dallo straniero,
e le loro donne in preda di truppe mercenarie, e voi questa terra
la libererete, i vostri figli e nipoti alzeranno la fronte e si
glorieranno del vostro nome, io ve lo dico: voi siete destinati a
vincere e dire agli eserciti stranieri che hanno la boria di credersi
invincibili, perchè si chiamano organizzati, che diano un fucile a voi
altri che avete chi berretto, chi cilindro, chi fazzoletto bianco in
capo, e vedranno cosa saprete fare.

»Io sono contento d’essere con voi e per certo faremo qualche cosa....
Non è vero?» — (_Pungolo_ di Milano, 14 giugno, supplemento pag. 2.)

[320] Lo accompagnavano nella esplorazione il suo vecchio segretario
Basso e il capitano Ergisto Bezzi, uno dei prodi trentini che insieme
ai Bronzetti, ai Manci, ai Tranquillini, ai Martini, ai Fontana, ai
Bolognini, agli Zancani si incontravano dal 59 in poi su tutti i campi
di battaglia dell’indipendenza italiana ad attestare col valore, e
spesso col sangue e col martirio, l’indelebile italianità della loro
terra.

Il Generale s’avvicinò tanto agli accampamenti nemici che fu a occhio
nudo riconosciuto, sicchè i suoi compagni tremarono qualche istante per
lui.

[321] Non v’erano che due compagnie de’ nostri. Vi fecero prodezze il
trentino Bezzi già nominato e il friulano Celli, il quale sostenne un
vero singolar certame con un ufficiale austriaco, uscendo dal conflitto
tagliuzzato e pesto in più parti del corpo, ma lasciando morente sul
terreno il suo avversario.

[322] Molti scrittori militari affermano che l’Arciduca Alberto ritornò
sulla sinistra del Mincio udita la notizia di Königgrätz. Evidentemente
essi confondono le date. La battaglia di Königgrätz accadeva il 3
luglio, e soltanto alla notte di quel giorno l’Arciduca Alberto poteva
aver certa notizia della disfatta delle armi imperiali. Il movimento di
ritirata invece da lui fu ordinato la sera del 1º luglio e cominciato
la mattina del 2. Conviene dunque attribuirlo ad altra cagione, e la
sola cagione probabile e plausibile è quella da noi data. Si guardi una
carta e s’immaginino due eserciti l’uno de’ quali s’avanza su Piubega,
Gazzoldo e Castellucchio nei pressi del Mincio, e l’altro muove tra
Borgoforte e Sermide a sboccare dal Po, e si dica se il Generale
austriaco poteva continuare a restare sulla destra del Mincio, senza
esporsi al pericolo, se la mossa era seria, d’esser preso a rovescio e
svelto dalla sua base.

[323] Il combattimento di Suello fu variamente raccontato. Noi
attingemmo, oltrechè ai racconti più volte uditi dal colonnello
Bruzzesi, al Rapporto ufficiale del brigadiere Corte al generale
Garibaldi in data del 6 luglio; dal quale consta che l’attacco
subitaneo di fronte di Monte Suello non fu ordinato da lui, ma dallo
stesso generale Garibaldi.

[324] Il maggiore Castellini volle accettare il combattimento nella
posizione di Vezza; il maggiore Caldesi a cui era stato realmente
affidato il comando voleva indietreggiare nelle posizioni già
trincerate d’Incudine. Da ciò quel dissidio e quel contrasto d’ordini e
di contr’ordini che riuscì fatale alla difesa. Per tutti i particolari
del combattimento di Vezza vedi principalmente _Il Quarto Reggimento
dei Volontari ed il Corpo d’Operazione in Valcamonica nella Campagna
del 1866_ del tenente colonnello GIOVANNI CADOLINI, comandante lo
stesso reggimento. Firenze 1867, tip. del _Diritto_. In essi ci trovi
anche spiegata la ragione per cui il colonnello Cadolini tenne così
divise nella giornata del 3 luglio le sue forze. Egli temette per tutto
quel giorno un attacco dal passo di Croce Domini e dovette premunirsi
contro quell’eventualità che avrebbe posto a serio rischio le sue
comunicazioni, e l’esistenza stessa del corpo d’operazione.

[325] Le cinque Brigate erano così composte e comandate:

  1ª  Brigata  2º e  7º   Reggimento,  Maggior generale  Haugh;
  2ª     »     4º e 10º       »               »          Pichi;
  3ª     »     5º e  9º       »               »          Orsini;
  4ª     »     1º e  3º       »           Colonnello
                                          brigadiere     Corte;
  5ª     »     6º e  8º       »               »          Nicotera.

_Capo dello Stato Maggiore_, generale Fabrizi.

_Sotto capo_, colonnello E. Guastalla.

_Capo dell’Artiglieria_, Maggiore Doglietti. — _Capo dell’Intendenza_,
Colonnello Acerbi. — _Capo dell’Ambulanza_, Colonnello Bertani. —
_Comandante le Guide_, Tenente Colonnello Missori. — _Comandante la
zona delle operazioni sul Garda_, Generale Avezzana. — _Comandante la
flottiglia_, Tenente Colonnello Elia.

[326] Fu detto che Garibaldi poteva trarre maggior partito dalla
Valcamonica sia tentando per quella via l’attacco principale, sia
facendone appoggiare più efficacemente dai corpi mandati a campeggiarvi
l’irruzione delle Giudicarie. Noi opiniamo diversamente.

La via del Tonale, oltre che la più aspra e la più lunga, espone
l’assalitore che non possegga gli sbocchi laterali superiori ad essere
ad ogni passo circuito e stroncato dalla sua base. Circa poi all’idea
di trarre dalla Valcamonica un appoggio più efficace alle operazioni
delle Giudicarie, essa era certamente buona, ma non poteva essere
praticata che a condizione che l’invasore fosse già padrone della
chiave delle Giudicarie o almeno vi tenesse un piede tale da potervi
con sicurezza attendere i soccorsi e combinare le sue mosse colle
colonne laterali che dovevan cooperar con lui. Ed a questo sappiamo
che Garibaldi pensò inviando l’ordine al colonnello Cadolini fino dal
14 luglio, fino dunque dall’ingresso vero in Tirolo, di marciare col
suo reggimento per la valle di Roucon alle spalle di Lardaro. Che se il
Cadolini non riescì alla meta che assai tardi, fu perchè nel frattempo
Garibaldi si era rivolto alla Val di Ledro ed aveva posto in seconda
linea l’investimento di Lardaro e la conquista delle Giudicarie.

Tutt’al più può essere rimproverato a Garibaldi di non aver inviato in
Valcamonica una forza maggiore, che fosse in grado così di scuotere i
difensori del Tonale con abili assalti, come di tener desta e legata
l’attenzione del generale Kuhn per la sua estrema destra. Ma Garibaldi
può ancora rispondere: «E quando l’aveva io questa forza maggiore
disponibile?» Fino al 1º luglio dei suoi dieci reggimenti egli non
aveva in mano che la metà; mandò dunque quel che poteva.

[327] Vedi la sua opera magistrale _Gebirgeskrieg_ compendiata dal
capitano Chioffredo Hugues nel suo opuscolo: _La Guerra di Montagna_.
Modena, 1872.

[328] Superfluo il dire che così nella enumerazione, come nella
dislocazione delle forze nemiche noi abbiamo attinto soltanto ad
opere e documenti di fonte ufficiale ed austriaca; quali il rapporto
ufficiale sulla guerra del 1866: _Oesterreichs Kämpfe im Jahre 1866,
nach Feldachten bearbeitet durch das K. K. General Stabs Bureau für
Kriegs Geschichte_. — Wien, 1869. Verlag des K. K. General Stabs;
Fünfter Band: Die Vertheidigung Tirols.

E il libro stesso del generale Kuhn, _La Guerra di montagna_,
traduzione del capitano Hugues, da noi citato negli esempi che
illustrano la parte teorica.

Anche l’opera _Geschichte des Feldzuges 1866 in Italien_, ec. von
ALEXANDER HOLD, Hauptmann im K. K. General Stabs — Wien 1867, ha valore
quasi ufficiale, e certamente molto pregevole.

E di queste sole opere ci serviremo per conoscere e giudicare delle
operazioni degli Austriaci.

[329] Dobbiamo dir così non sapendo nè chi quell’ufficiale fosse,
nè a chi spetti la responsabilità di quell’errore. A custodia di Val
d’Ampola v’era il settimo reggimento; ma non potremmo dire che il torto
di non aver occupato Rocca Pagana sia imputabile al suo comandante.
Certo Garibaldi la credeva occupata, e restò quasi sbalordito dalla
sorpresa quando il 16 mattina vi vide comparire i Cacciatori austriaci.

[330] Così i movimenti di queste truppe, come le loro forze, le
desumiamo dal citato libro, _La guerra di montagna_ del barone generale
KUHN, versione di Hugues, pag. 90-91 e seguenti, come dalla _Relazione
ufficiale dello Stato Maggiore austriaco_, già citata.

[331] Vedi RUSTOW nella _sua Guerra del 1866 in Germania ed in Italia_.
Milano, 1867, pag. 332.

Del resto anche il generale Kuhn (op. cit., pag. 89) ammise che lo
scopo del combattimento del 16 era maggiore d’una ricognizione.

[332] Agostino Lombardi di Brescia, prode quanto gentile d’animo, fece
tutte le campagne d’Italia del 48, 49, 59, 60 e 66. Non aveva che 33
anni!

[333] Il generale Kuhn tentò spiegare la sua subitanea ritirata dal
campo di battaglia coll’arrivo di due telegrammi, l’uno dal Comando
di piazza di Verona, l’altro dallo stesso Arciduca Alberto; col primo
dei quali era avvertito che l’esercito italiano, già entrato nel
Veneto, stava per inviare due colonne, una per Val d’Arsa, l’altra per
Val Sugana, a invadere dal lato orientale il Trentino; e col secondo
invitato a nome dello stesso Imperatore a tenersi nella più stretta
difensiva.[334] Lunge da noi il pensiero di negare l’autenticità dei
due telegrammi, allegati dall’illustre Generale; quantunque possa
parere strano a chicchessia che il Comandante di Verona potesse aver
sentore d’una spedizione per Val d’Arsa e Val Sugana, che al 16 luglio
non era decisa, e nemmeno forse pensata al Quartier generale italiano,
e che ebbe un principio d’esecuzione visibile soltanto il 20 dello
stesso mese. Tralasciando però ogni discussione sul tenore delle
notizie e degli ordini ricevuti dal generale Kuhn, essi non bastano
ancora a spiegare la risoluzione da lui presa nel pomeriggio del giorno
16. Che infatti un Generale si risolva a troncare a mezzo una vittoria
già tenuta per certa, e abbandonare un campo di battaglia già creduto
suo, solo perchè riceve un telegramma che lo avvisa della possibilità
di essere assalito egli stesso, cinque o sei giorni dopo, è cosa
assolutamente inammissibile. Per esatto che potesse parere l’annunzio
del Comando di Verona, e perentorio l’ordine del Generalissimo
dell’esercito imperiale, il generale Kuhn sapeva meglio d’ogni altro
che gli Italiani non potevano volare, e che alla peggio gli sarebbe
sempre rimasto il tempo di battere prima i Garibaldini che aveva
dinanzi a Condino e di marciare poi con tutte le sue forze e con tutto
il suo comodo, contro l’altro nemico che gli veniva sul fianco.

Però ci meraviglia grandemente che il dotto e valente Generale abbia
potuto scegliere, per ispiegare la ritirata da Condino, una scusa così
magra ed irragionevole. Era assai più decoroso per lui l’ammettere
che fallito l’aggiramento della destra garibaldina, e riuscita ancora
più vana la mossa dell’Höffern sulla sinistra, egli non si sentì in
grado con tutte le sue forze di affrontare una seconda volta nelle
sue posizioni di Storo-Condino il grosso dell’esercito nemico. Il qual
grosso però non sommava a trentacinquemila uomini, come egli nel citato
suo libro affermò. In linea tra il Brufione, Brione, Condino non vi
erano che il 1º e il 6º reggimento e un battaglione di Bersaglieri; in
seconda linea tra Darzo e Storo che il 3º, il 9º e il 7º; poco più di
diciottomila uomini; gli altri erano troppo lontani per poter prendere
parte alla giornata.

[334] _Guerra di Montagna_ già citata, pag. 94-95, e nel Rapporto
ufficiale _Oesterreichs Kämpfe im Jahre 1866_. Viert Band.

[335] Anche il LECOMTE, _Guerre de la Prusse et de l’Italie contre
l’Autriche et la Confédération germanique en 1866_, pag. 87, è dello
stesso parere.

[336] Centosettantasei prigionieri, fra cui quattro ufficiali; tutte
le artiglierie e munizioni del forte oltre a qualche centinaio di
fucili furono i trofei della conquista. Gli Italiani ebbero perdite
dolorosissime; tra le altre quella del bravo luogotenente d’artiglieria
Tancredi Alasia che aveva diretto con rara precisione e intrepidezza
la sua batteria durante il cannoneggiamento, e col suo primo colpo
spezzata l’asta della bandiera nemica. Egli morì da prode ai piedi de’
suoi pezzi.

[337] Aveva soli 39 anni. Era nato a Mantova. Combattè nel 48 a
Governolo, nel 49 a Roma e seguì Garibaldi fino a San Marino; nel 1859
comandò in secondo la compagnia de’ Carabinieri Genovesi. Nel 1860
si distinse nella presa di Reggio, e lasciò l’esercito meridionale
tenente-colonnello. Era ingegnere; mente colta e severa. Idolatrava
la sua vecchia madre tanto che nel 1866 pel timore di darle un dolore
troppo forte si arruolò di nascosto con Garibaldi, e gli riuscì di
tenerglielo celato fino all’ultimo. Continuato poi il pietoso inganno
dagli amici, ella ignorò per parecchi mesi anche la morte del figlio.
«Quando però fu giuocoforza destarla dalla dolcissima illusione e
rivelarle l’atroce realtà, ella ancor più madre di Rachele, che rifiutò
d’essere consolata, rifiutò di credere. Non lasciò la vita sotto il
colpo, ma vi lasciò la ragione; e due anni dopo cogli occhi fissi sulla
porta d’onde aveva veduto uscire il suo Giovanni, dove lo vedeva sempre
ritornare, in questo bellissimo sogno spirò.»

I Castiglionesi eressero al loro virtuoso concittadino un monumento, e
le ultime parole che abbiamo testè trascritte sono tolte dal _Discorso_
che allo scoprimento della statua faceva l’Autore di questo libro, alla
memoria dei suo grande amico.

[338] Superfluo parlare delle operazioni della flottiglia sul Garda,
dalle condizioni del suo armamento e dalla soverchiante superiorità
dell’avversaria condannata all’impotenza. Due volte la squadriglia
austriaca potè bombardare quasi impunemente Gargnano e Bogliaco.
Un giorno le cinque cannoniere italiane riescono a circuirne una
austriaca; ma avendo il Depretis mandato sul Garda certi artiglieri di
marina, che non avevan mai sparato un cannone, la vanità de’ loro colpi
fu tale che la cannoniera austriaca non solo riescì a farsi largo, ma
a costringere alla ritirata i cinque assalitori. Il 17 poi la squadra
austriaca va a pigliare fin dentro il porto di Gargnano il vaporetto
italiano il _Benaco_ e se lo porta via prigioniero. Così ALBERTO MARIO
nel suo _Garibaldi_, pag. 122.

[339] Cento morti, dugentocinquanta feriti, millecento prigionieri.
Non diecimila però come spacciò il maggiore Haymerle in un opuscolo
detto dell’_Italicæ res_. Le mie cifre son tolte al _Rapporto ufficiale
austriaco_.

[340] Della sincerità dei Rapporti ufficiali di guerra di tutti i
paesi e di tutti gli eserciti fu sempre prudente diffidare; ma pochi
meriteranno una minor fede del _Rapporto ufficiale austriaco_ sul
combattimento di Bezzecca. Basti dire che esso non accenna nemmeno
al tentativo fatto dal Montluisant di sboccare da Bezzecca, e tace
poi interamente dell’ultimo contrassalto garibaldino diretto appunto
a riconquistare Bezzecca. Siccome però conveniva spiegare come mai
dopo esser rimasti padroni di Bezzecca, l’avessero abbandonata,
così il generale Kuhn nelle _Note_ al suo _Gebirgeskrieg_ diede la
ragione taciuta interamente nel _Rapporto ufficiale_, che il generale
Montluisant ordinò la ritirata per _mancanza di munizioni_. È strano
davvero che una colonna partita espressamente per dar battaglia si
trovi, dopo sole quattro ore di fuoco, senza munizioni; ma accettata
per buona la ragione (e il Kuhn stesso confessa che i suoi cannoni
avevano ancora quarantasette colpi e le riserve erano ancora provviste
di cartuccie), domandiamo noi: Come il Montluisant avrebbe potuto
sentire il difetto delle munizioni se i Garibaldini non lo avessero
attaccato? O è vera l’ultima carica dei Garibaldini, e allora il
generale Kuhn deve confessare che, munizioni o no, riuscì vittoriosa;
o non l’ammette (cosa impossibile), e allora resta inesplicabile come
un corpo che si credeva vincitore alle undici si ritirasse, senza
colpo ferire, a mezzogiorno, e cedesse senza contrasto al nemico una
posizione di sì capitale importanza, privandosi persino dell’onore, se
per altre cagioni era costretto a ritirarsi il giorno dopo, di dormire
sul campo.

Del resto valga di risposta a tutti il _Rapporto_ dello stesso generale
Garibaldi.

                    «_Combattimento del 21 luglio_.

»Ieri ancora la vittoria sorrise alle armi italiane.

»Il vantaggio delle posizioni da lungo tempo studiate, quello immenso
delle armi, ed il valore con cui si batterono i nemici, fecero l’esito
della giornata alquanto incerto fino ad un’ora pomeridiana.

»Il combattimento ebbe principio all’alba. Il prode generale Haug aveva
ordine di operare sulla nostra destra in Val di Ledro, ma la maggior
parte della sua brigata era ancora sulle alture per le operazioni
dei giorni precedenti. Avevo dato l’ordine al 5º reggimento e a due
battaglioni del 9º della 3ª brigata di preparare l’occupazione della
Valle di Ledro, finchè la 1ª brigata si riunisse e marciasse a rilevare
la 3ª.

»Io non prevedeva un attacco per parte del nemico, nonostante aveva
ordinato di spingere solamente sino a Bezzecca e di contentarsi di
esplorare al di là. Giunta la nostra testa di colonna a Bezzecca nella
sera del 20, all’alba del 21 mandò un battaglione in ricognizione sui
monti che a levante dominano la Valle di Conzei.

»Questo si trovò avviluppato da una forza superiore di Austriaci ed
obbligato di ripiegarsi in disordine sulla colonna principale. Ciò diè
luogo ad un combattimento accanito a Bezzecca e nei paesi alla bocca
della Valle di Conzei, ove, dopo caduto eroicamente il colonnello
Chiassi, il 5º reggimento fu obbligato di battere in ritirata.
Sostenuto però da un battaglione del 6º comandato dal maggiore Tanara,
pure gravemente ferito, da un battaglione del 9º, da alcune compagnie
del 2º, dai Bersaglieri e dalla valorosissima nostra artiglieria,
l’azione si ripigliò, non con vantaggio, ma conservando le posizioni,
massime sulla nostra sinistra, sostenuta efficacemente dal 9º. Avendo
più tardi il prode maggiore Dogliotti ricevuto una batteria fresca, la
collocò sulla nostra destra in vantaggiosa posizione; e gli Austriaci,
bersagliati e fulminati con una speditezza sorprendente dalla nostra
artiglieria, cominciarono a sgomentarsi. Allora una piccola colonna
di attacco composta di prodi di tutti i corpi, comprese le guide,
e comandata dal maggiore Canzio, sostenuta dal 9º a sinistra, si
precipitò, senza fare un tiro sul nemico, e lo cacciò colle baionette
alle reni in disordine da tutte le posizioni che occupava. Da quel
momento la ritirata del nemico fu generale, ed i nostri lo inseguirono
oltre Bezzecca ed Enguiso entro la Valle di Conzei.

»Un Rapporto più dettagliato verrà compilato in seguito; ora si stanno
compilando gli elenchi dei morti e feriti, e quelli dei soldati,
sottufficiali ed ufficiali che si distinsero in questo combattimento.

  »Cologna, 1º agosto 1866.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[341] Il colonnello LECOMTE nella sua citata opera: _Guerre de la
Prusse et de l’Italie contre l’Autriche_ ec., pag. 110, 111.

Anche l’Autore della _Guerra in Italia nel 1866_, Milano, 1867, che
si firma _Un vecchio soldato italiano_, emette press’a poco lo stesso
giudizio a pag. 335.

[342] Andò ospite di Alberto Mario che abitava allora in Piazza
Bellosguardo.

[343] Il _Diritto_, annunziandone l’arrivo a Firenze, pubblicava la
seguente dichiarazione del Generale:

                                               «Firenze, 22 febbraio.

»Non solamente io aderisco al manifesto dell’opposizione parlamentare
con tutta l’anima — ma spero che la gratitudine del paese non mancherà
a quel patriottico documento.

                                                              »Vostro
                                                      »G. GARIBALDI.»

[344] Togliamo questi proclami e discorsi dal _Diritto_ di Firenze
e dal _Pungolo_ di Milano (mesi di febbraio e marzo), che ne erano
esattamente informati dai loro corrispondenti.

[345] E non di centomila spettatori come scrisse Alberto Mario nel
suo _Garibaldi_. Il battesimo avvenne nelle stanze di Garibaldi alla
presenza di Francesco Marnelli, di Teresa Bellotti, testimoni, e di
pochi altri dei seguaci del Generale.

[346] Vedi nel _Libro Verde_ presentato alla Camera dal generale
Menabrea il 3 dicembre 1867 le Note dello stesso De Malaret al Ministro
degli affari esteri in Francia, in data 15 e 17 aprile 1867.

E poichè ne abbiamo il destro, diciamo una volta che i documenti citati
in questo capitolo, siano dessi lettere o manifesti di Garibaldi, e
atti del Governo o del Parlamento, gli abbiamo tolti, oltre che dal
citato _Libro Verde_, dalle opere seguenti: _Documenti_ presentati alla
Camera relativi agli ultimi avvenimenti 1867; _Discussioni della Camera
dei Deputati_, Sessione 1867, dal 5 dicembre al 22 dicembre 1867:
_Storia della insurrezione di Roma nel 1867_ per FELICE CAVALLOTTI,
continuata da B. E. MAINERI. Milano, 1869; _L’Italia nel 1867_ di G.
FRIGGESY. Firenze, 1868. E infine nei giornali più volte accennati.

[347] Vedi Documenti sui fatti di Terni fra i _Documenti sugli ultimi
avvenimenti_, pag. 5 alla 17.

[348] Dimostrazioni erano avvenute a Milano, Torino, Genova, ec.

[349] La sua eccessiva lunghezza ci obbliga a tralasciarlo. Lo si può
vedere in CAVALLOTTI, opera citata, pag. 173, 74, 75.

[350] L’Acerbi aveva in que’ giorni frequenti colloqui col commendatore
De Ferrari, direttore generale della polizia del Regno; e in uno
di essi si sentì dire dal De Ferrari medesimo «che il Rattazzi non
dissentiva dall’idea del Generale ed era pronto a fornire i mezzi
per coadiuvarlo. Solo dimostrava la necessità che il Generale, per
acquietare le rimostranze della Francia e stornare i sospetti del
Governo pontificio, _lasciasse per qualche tempo il continente e
tornasse a Caprera_.» Vedi anche CAVALLOTTI, op. cit., pag. 256, 257,
258.

[351] Fra gli altri, all’Autore di questo libro. Chiamato da lui nei
primi di settembre, ero, come sempre, accorso; soltanto, interrogato se
ero disposto a seguirlo, colsi il destro, non sempre facile, per dirgli
che se si trattava di eccitare o di aiutare i Romani ad insorgere ci
stavo; ma se invece si pensava ad una delle solite spedizioni di bande,
io la credevo inopportuna, anzi dannosa, e non mi sarei mosso.

«Ebbene,» mi fece il Generale bruscamente, «e voi andate in Roma!»

Ed io vi andai!

[352] Ministro degli Affari Esteri in Francia nella sua nota 23
settembre 1867 al signor De la Villestreux in Firenze.

[353] Vedi più sotto, a pag. 496, la lettera a F. Crispi in data 27
settembre.

[354] Noti e ricordati da tutti gli articoli della _Perseveranza_ e
dell’_Opinione_, che innanzi alle minaccie della Francia consigliavano
il Governo italiano ad un contegno risoluto.

[355] All’incirca ottocento fucili della Guardia nazionale di Perugia
furono dal prefetto Gadda, d’ordine del Rattazzi, consegnati al
deputato Crispi, me presente e testimone.

[356] Vedi nella _Nuova Antologia_ del giugno 1868 un mio esteso
racconto del combattimento. Il Menotti, dopo aver combattuto tutto il
giorno essendo sempre superiore di forze, credette d’essere circuito e
si ritirò su Nerola; il nemico a sua volta, che non si sentiva sicuro
a Montelibretti, ripiegò la notte stessa su Valentano, e all’indomani
Menotti riprendeva la terra. Vi fece prodezza il maggiore Fazzari
rimastovi ferito e per poche ore prigioniero.

[357] Prima la squadra si compose dell’avviso _Esploratore_, delle
pirocorvette la _Gulnara_ e la _Sesia_ e della pirofregata _Principe
Umberto_, nave capitana. Più tardi vi si aggiunsero il _Weasel_, il
_Tukeri_, l’_Indipendenza_, la _Confienza_ ed il _Ferruccio_. Comandava
tutta la crociera il capitano di vascello Isola.

[358] Al Cucchi telegrafava:

«Conforme avviso vostro e promesse, io sono qui. Vogliate inviare
vapore per condurmi continente.»

E al Crispi in data del 2 ottobre:

«Conforme ai vostri consigli, io sono qui e spero che penserete a tener
parola facendomi ricondurre presto continente.»

[359] Il comandante la crociera aveva noleggiato due o tre _latini_ per
aiuto alle navi regie.

[360] Vedi la _Deposizione_ del comandante Isola nel _Rapporto della
Commissione superiore d’inchiesta_ composta del vice-ammiraglio Serra,
presidente, contr’ammiraglio De Viry e contr’ammiraglio Riboty, membri.

[361] Vedi, sulle cagioni della dimissione del ministero Rattazzi,
_Documenti sugli ultimi avvenimenti_, pag. 148-149 e la fine del
secondo discorso del Rattazzi stesso sulle interpellanze Miceli e La
Porta sui fatti di Mentana, pronunciato nella seduta del 19 dicembre
1867. _Discussioni della Camera dei Deputati, Sessione 1867_, vol. III,
dal 14 luglio al 23 dicembre.

[362] Uno l’aveva scritto a bordo della paranza _San Francesco_, ed
aveva per motto: _Redimere l’Italia o morire_; per brevità l’omettiamo.

[363] Dolente che la economia di questo lavoro mi vieti di dare al
magnanimo gesto la meritata ampiezza, rimando il lettore a quanto
ne scrissi io stesso nella _Nuova Antologia_ del giugno 1868. Quelle
pagine non hanno alcun valore letterario, ma le scrissi colle lacrime
più calde del mio cuore, e soltanto come un fiore di più, deposto sulla
tomba di quei santissimi martiri, amo ricordarle.

[364] «In questo lavoro di Penelope, in questa vicenda d’invio e di
ritorno di Volontari, la forza maggiore presente al campo nel corpo di
operazione del centro fu quella raggiunta dopo l’arrivo del generale
Garibaldi dalla vittoria di Monte Rotondo in poi, cioè di ottomila
uomini, forza che riprese ben tosto decrescenza nonostante il ricambio
con nuovi arrivati.» FABRIZI, _Mentana_, pag. 15.

Anche Menotti somma ad ottomila uomini le forze dell’intero corpo dopo
Monte Rotondo. Ora se si calcola che alcuni battaglioni già formati e
molti Volontari isolati aveano raggiunto dopo quella vittoria il campo,
la nostra cifra di settemila uomini è la più prossima al vero.

[365] «...... Ad una giornata del più lodevole contegno per parte de’
Volontari, successe quella di una deplorabile ed estesa defezione,
che continuò sino alla mattina del 3, in cui i Volontari rimasti si
rianimarono pel movimento ordinato su Tivoli.» FABRIZI, _Mentana_, pag.
18.

[366] Fu in que’ giorni che il ministro Rouher disse all’Assemblea
francese il suo famoso _Jamais_.

[367] Quello che cantava nel Galpon de Chargucada:

    Soldados, la patria
    Nos llama á la lid.

[368] Lo scrittore di questo libro che gli cavalcava al fianco.

[369] Rapporti dei generali De Failly e Kantzler.

[370] Bertagni Vincenzo, Boni Egidio, Caillou Gustavo, Capaccioli
Natale, Cipriani Ubaldo, Costa Pietro, Franceschi Francesco, Grotta
Giovanni, Linau, Bellini, Giuliani Francesco, Paci Silvestro.

[371] I feriti di quella giornata, tranne i pochi che poterono sfuggire
assieme ai capitolati del castello, furono trasportati negli ospedali
di Roma, dove il duplice influsso dell’atmosfera pontina e pretina finì
coll’ucciderne il trenta per cento.

Il servizio sanitario, diretto dal professore Emilio Cipriani, avrebbe
fatto l’invidia di qualsivoglia esercito più ordinato. Quantunque
egli non fosse stato investito dell’ufficio se non ai 17 d’ottobre,
pure fino dal 26 aveva organizzato tutto il suo servizio, formati i
quadri, raccolti e distribuiti i materiali d’ambulanza, istituita da
Monte Rotondo una linea non interrotta d’ospedali, capaci di un doppio
numero di feriti se la campagna fosse continuata. Ospedali di prima
linea furono Monte Rotondo, di seconda Corese e Poggio Mirteto, di
terza Spoleto, Fuligno e Perugia. Sotto capo di servizio nominò il
bravo dottor Pastore, ed oltre al dottor Agostino Bertani, il chirurgo
nato di tutti i campi rivoluzionari, che non aveva alcuno speciale
uffizio, ma che fu la provvidenza di centinaia di feriti, un manipolo
di distintissimi giovani, Pierozzi, Cristofori, Lauri, l’aiutavano con
zelo indefesso. I Comitati, i Comuni, tutti gli ordini de’ cittadini
gareggiarono per mantenere provveduta l’ambulanza di tutto quanto
occorreva, e non vi fu richiesta, per quanto improvvisa, che non fosse
prontamente soddisfatta. Le donne, assidue vestali della pietà, vinsero
anche in questa prova gli uomini, e appresero a molti infingardi
gridatori da trivio come si ami e si voglia Roma.

[372] Tanto più che della scrittura di quella protesta fu incaricato lo
stesso Autore di questo libro; talchè le parole che usiamo sono ancora
le nostre.

[373] Erano firmati a questa protesta: F. Crispi, deputato; G.
Guerzoni, deputato; Alberto Mario, Numa Palazzini, colonnello Bossi
Luigi, Carlo Francesco Cucchi, deputato; E. Guastalla, Fabrizi Paolo,
Guarneri-Zanetti Giuseppe, Achille Panizza, Raffaello Massimiliano
Giovagnoli, romano; Enea Crivelli, Giovanni Costa, romano; Achille
Bizzoni, Giulio Adamoli, Domenico Adamoli, Missori Giuseppe, Giupponi
Ambrogio, Pisano Giovanni, dottor Carlo Tivaroni, Stanislao Carlevaris,
Vincenzo Carlevaris, Niccolò Marcellini, Leopoldo Gisonna, Gualterio
Scarlatti, Vincenzo Restivo, Giuseppe Bennici, Domenico Cariolato. —
Vedi _La Riforma_, 6 novembre 1867.

[374] Unico scritto notevole in quell’anno questa specie di programma
ai suoi amici di Spagna, nel quale dopo la rivoluzione repubblicana
federale del 1868 raccomandava agli Spagnuoli di nominare un Dittatore
per due anni, sua idea fissa e prediletta.

                                            «Caprera, 10 di novembre.

  »Miei cari amici,

»Io era deciso di tacere, non per indifferenza alla causa della nazione
spagnuola, che tanto amo e ammiro, non per mancanza d’interesse alla
gloriosa rivoluzione che voi ultimaste tanto eroicamente, ma per non
immischiar la mia voce al rumore che amici e nemici fanno intorno a
voi; mentre voi abbisognate di calma per costituirvi in un modo degno
della grande nazione che pose la sua sovranità sulle rovine d’un trono
esecrato. Oggi da voi richiesto, io dirò francamente l’opinione mia.

»Proclamate la repubblica federale, e immediatamente nominate un
dittatore per due anni.

»La Spagna non manca di uomini onesti che possano governarla meglio di
qualunque dei moderni feudalisti europei, che mantengono questa parte
del mondo in guerre continue, in desolazioni ed in miserie.

»Non cadano i vostri ammirabili e valenti capi nello stesso errore
del buono, ma credulo ed ingannato Lafayette, che lasciò alla Francia
l’eredità di due rivoluzioni e la tirannide.

»Lo spauracchio della repubblica, di cui si servono con tanta abilità i
despoti ed i gesuiti, nasce dalle esorbitanze della grande rivoluzione
dell’89, che, a forza di allontanare il despotismo e sublimare la
libertà, terminò col gettarsi nelle braccia di un tiranno avventuroso.

»Voi già avete provato colla moderazione la più esemplare che il vostro
sistema non è quello della ghigliottina, e quindi la vostra rivoluzione
può inspirare fiducia anche alle code di paglia, che disgraziatamente
non sono poche.

»La repubblica è il governo della gente onesta, e se ne vide la prova
in tutte le epoche. Esse durano mentre virtuose, e cadono quando
corrotte e piene di vizi.

»La Svizzera e gli Stati Uniti si sostengono senza dittatura, è vero;
quantunque i Washington ed i Lincoln fossero i dittatori morali, quando
lo necessitò la patria americana.

»La Spagna trovasi in una condizione speciale; molti e forti
pretendenti; influenze gesuitiche in casa e molto vicine; e infine un
carattere nazionale, generoso e cavaliero (_sic_), ma nello stesso
tempo molto inquieto; per cui si ha bisogno d’un governo giusto ma
molto energico.

»La sovranità nazionale acquistata passi alle Cortes costituenti col
suffragio universale, e queste non si occupino d’altro che di trovare
nel seno della nazione l’uomo capace di costituire la Repubblica
degnamente e di tornare ai suoi focolari dopo due anni, accompagnato
dalle benedizioni dei suoi concittadini riconoscenti.

»Ecco quanto auguro ad una nazione che io amo, e sono il

                                                              »vostro
                                                      »G. GARIBALDI.»

[375] A que’ giorni appunto scriveva il romanzo _Clelia, o il Governo
del Monaco_, pubblicato nel 1870.

[376] Il signor Crémieux disse: «Oh ce cher Garibaldi, que de plaisir
j’aurais à le voir! Ah si nous pouvions le faire entrer à Paris, quel
effet ça produirait!...» ec. — Vedi _Garibaldi et l’armée des Vosges,
Récit officiel de la Campagne, avec documents, etc._ par le général
BORDONE, chef d’État Major de l’armée des Vosges. Pag. 15. Paris, 1871.

[377] Il signor Gent, uno dei segretari del governo di Tours, telegrafò
al Prefetto di Marsiglia: «Faites à Garibaldi un accueil splendide,»
ma firmò egli solo; e più tardi nessun ministro volle assumere la
responsabilità di quel telegramma. Vedi BORDONE, op. cit., pag. 20.

[378] BORDONE, pag. 13.

[379] BORDONE, op. cit., pag. 244.

[380] Alludiamo al colonnello Chanet, che disertò sotto Autun come
vedremo più tardi.

[381] Vedi BORDONE, op. cit., tutto il capitolo V. Tra le altre cose
si legge in questo capitolo che il generale Cambriels vedendo, come
al solito, nemici dove non erano, mandò ad insaputa di Garibaldi a
tagliare i ponti del Doubs che erano, in caso, i soli punti di ritirata
e di approvvigionamento dei difensori di Dôle, e fu mestieri di tutta
l’energia di Garibaldi per impedirlo.

[382] Diede egli stesso al figliuolo le istruzioni particolareggiate,
modello di arte tattica. Dopo il fatto, pregato e ripregato, fece il
grande onore al figliuolo di nominarlo maggiore.

[383] Anzi il generale Cremer in un suo libro ebbe il coraggio
di scrivere che il generale Werder avea tratto Garibaldi in un
_guet-à-pens!_ Non si può spingere più oltre l’impudenza! Che i
Prussiani anzichè aver teso un tranello siano stati impensatamente
assaliti a Pasques e visitati a Dijon lo dice il loro Rapporto
ufficiale, parte II, fascicolo XV, pag. 563.

[384] Sosteneva valorosamente la ritirata la brigata Delpeck a Pasques.
Altri piccoli combattimenti di retroguardia avvennero più al sud, ma la
battaglia di Lantenay, descritta dal colonnello Corsi nel suo _Sommario
di Storia militare_, parte IV, pag. 299, e la disfatta della brigata
Menotti e la ritirata precipitosa su Autun è un sogno. Noi abbiamo
qui sott’occhio due libri in diverso modo ufficiali: il _Rapporto
prussiano_ più volte citato, parte II, fasc. XV, pag. 564, e il libro
del BORDONE, _L’Armée des Vosges_, ec. in tutto il XIV capitolo del
vol. II, e nessuno dei due libri parla di ciò.

[385] Il generale Garibaldi felicitò il generale Cremer con questi
telegrammi:

«Mes félicitations au jeune et vaillant général de la République. Votre
manœuvre est marquée au coin du génie de la guerre. J’en augure bien
pour l’avenir de la République.»

Il Cremer rispose:

«Merci au maître de ses compliments à l’élève. Demain je reprends mes
positions sur la ligne du chemin de fer de Nuits à Beaune, prêt à agir
de concert avec vous au premier signal.» Ma, come si vede, qui si parla
di concerto, mai di ordini. Quando il governo della Repubblica parlò di
mettere il Cremer sotto gli ordini di Garibaldi, il Francese offrì le
sue dimissioni che non furono accettate.

[386] _I Garibaldini_ in Francia per J. WHITE MARIO. Roma, Tip. G.
Polizzi e Comp. 1872, pag. 93.

[387] Vedi sulla parte avuta da questa brigata a tenere in iscacco
Garibaldi, _Opérations de l’Armée du Sud pendant les mois de janvier
et février 1871_ etc., par le comte Hermann de Wartensleben, colonel
d’État Major. Paris 1872, pag. 10 e 13.

[388] BORDONE, op. cit., pag. 332.

[389] Nella sua lettera al generale Fabrizi, stampata prima nella
_Riforma_ e riprodotta dal BORDONE, pag. 420-421.

[390] Non possiamo contare i diciottomila uomini di _gardes mobilisés_
del generale Pellissier, che non dipendevano direttamente da Garibaldi,
e nei giorni di Dijon non vollero uscire a combattere, anzi misero la
confusione tra i combattenti.

[391] Egli stesso lo giudicò una _temerarietà_ nella lettera succitata
al Fabrizi.

[392] «E l’Internazionale? Che necessità di attaccare un’associazione,
quasi senza conoscerla? Non è essa una emanazione dello stato anormale,
in cui si trova la società del mondo? _E quando essa possa essere
tersa da certe dottrine_, forse introdottevi dalla malevolenza de’
suoi nemici, essa non sarà la prima, ma certo non potrà non essere la
continuazione dell’emancipazione del diritto umano.

»Una società (dico l’umana) ove i più faticano per la sussistenza,
ed ove i meno con menzogne e con violenze vogliono la maggior parte
dei prodotti dei primi, senza sudarli, non deve suscitar essa il
malcontento e la vendetta di chi soffre?

»Io desidero che non succeda all’Internazionale, come al popolo di
Parigi, cioè di lasciarsi sopraffare dagli spacciatori di dottrine,
onde essere spinta a delle esagerazioni e finalmente al ridicolo; ma
che studi essa bene gli uomini che devono condurla sul sentiero del
miglioramento morale e materiale prima d’affidarvisi.

»Soprattutto si astenga dalle esagerazioni ove cercheranno di condurla
gli agenti della monarchia e del clero per perderla nell’opinione delle
classi agiate, sempre tremanti davanti al terribile spettro della legge
agraria. E le classi agiate si persuadano bene, che non sono i molti
_sergents de ville_ ed i grandi eserciti permanenti che costituiscono
la sicurezza d’uno Stato e della proprietà individuale, ma un governo
fondato sulla giustizia per tutti. E di ciò ne hanno un troppo
eloquente esempio nella Francia.

»Io vengo ad assidermi ad un banchetto, ove ho diritto come voi. Non
tocco il patrimonio vostro, benchè più pingue del mio, ma non toccate
questo poco, che stillo dalla mia fronte, cogli odiosi mezzi che avete
impiegato finora, di tasse sul macinato, sul sale e con tante altre
ingiustizie che gravitano sulla mia miseria.

»Soprattutto non mi venite colle speciose bugiarde ragioni di pubbliche
sicurezze e di _preposti_, di cui voi abbisognate, e ch’io debbo
pagare; di esercito per la difesa della patria, che difende voi, le
vostre prepotenze, e mi priva delle braccia valide, che potrebbero
migliorare la condizione del paese e la mia.»

[393] Garibaldi intervenne alla tornata del 25 novembre in cui
Benedetto Cairoli presentò la sua mozione di biasimo sugli arresti di
Villa Ruffi, e votò naturalmente con lui contro il Ministero.

Era la prima volta dacchè Roma lo elesse deputato che interveniva alla
Camera e così al suo apparire come al pronunciare del giuramento la
sala scoppiò in applausi fragorosissimi.

[394] Voleva un ministero Crispi, Cairoli, Zanardelli, Nicotera, Villa,
Mancini: coloro precisamente che in quel momento più si dilaniavano.

[395] Ecco il testo della Legge:

«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato: Noi abbiamo
decretato e decretiamo:

                           »_Articolo unico._

»In attestato di riconoscenza della nazione italiana al glorioso
concorso prestato dal generale Garibaldi alla grande opera della sua
unità e indipendenza, è autorizzato il Governo del Re ad inscrivere
sul gran libro del debito pubblico dello Stato una rendita di lire
cinquantamila annue del consolidato cinque per cento con decorrenza
dal 1º gennaio 1875, in favore di Giuseppe Garibaldi; ed è inoltre
assegnata al medesimo un’annua pensione vitalizia di altrettante
cinquantamila lire con la stessa decorrenza.

»Ordiniamo che la presente Legge, ec.

                          »VITTORIO EMANUELE.

                                                      »M. MINGHETTI.»

(_Gazzetta Ufficiale_, 11 giugno 1875.)

[396] Vol. I, pag. 508-509.

[397] Vi è un’altra bambina sepolta a Caprera, Anita, nata nel 1859 e
morta nel 1875, della quale riparleremo più tardi.

[398] L’avvocato A. Bussolini in nota alla Sentenza della Corte
d’appello. _Monitore de’ Tribunali_, 1880, vol. XXI, pag. 144.

Il professor Gabba invece, valente giurista, condannò apertamente in
una dottissima Memoria la Sentenza. — GABBA, _Questioni giuridiche_,
pag. 233.

[399] Io pure fui a visitarlo il 5 novembre. Lo dico perchè fu quella
l’ultima volta che lo vidi, e la sua vista mi ambasciò. Ragionava
abbastanza lucidamente; ma la lingua, parlando, gli si attorcigliava
nella bocca e la parola gli usciva stentatissima. Gli dissi che stavo
scrivendo la sua vita, non ostante ch’egli m’avesse sconsigliato, ed
egli sorridendo mi rispose: «Vi ringrazio. — Voi farete bene; ma quante
cose difficili a capirsi. Per esempio, sapete voi chi ci portò via la
gente a Monterotondo, la vigilia di Mentana? Furono i Mazziniani....»

Io l’aveva sentita dire più volte questa cosa e non l’aveva mai
creduta, anzi sapevo che non era vera.... ma non era quello il luogo
e il momento di discutere, e lo lasciai nel suo errore. Mi congedai io
stesso per non affaticarlo, ed egli mi disse: «Non posso darvi la mano;
datemi un bacio!» Fu l’ultimo suo.

[400] Nella sua lettera ad Achille Fazzari. Caprera, 12 giugno 1881.

[401] Lettera da Caprera, 17 maggio 1881.

[402] Al giornale _La Patria_.

[403] Riproduciamo per intero la lettera, pubblicata per la prima volta
dal _Piccolo_ di Napoli l’11 marzo 1882:

                                               «Napoli, 9 marzo 1882.

  »Mio carissimo Leo Taxil,

»È finita, la vostra repubblica chiercuta (_république à calotte_) non
ingannerà più alcuno. L’amore e la venerazione che avevamo per lei, si
son mutati in disprezzo.

»La vostra guerra tunisina è vergognosa. E se il governo italiano
avesse la viltà di riconoscere il fatto compiuto, sarebbe assai
spregevole, come codarda sarebbe la nazione che tollerasse tale
governo.

»I vostri famosi generali che si sono lasciati dai Prussiani
ingabbiare nei _vagoni_ da bestiame e trascinare in Germania, dopo aver
abbandonato e lasciato al nemico un mezzo milione di prodi soldati,
oggi fanno i rodomonti contro le deboli innocenti popolazioni della
Tunisia che nulla loro debbono e in nulla li hanno offesi.

»Conoscete voi i telegrammi che annunziano: il generale in capo
ha combattuto — il generale tale ha fatto una brillante razzía: ha
distrutto tre villaggi, abbattuto mille datteri, rubato dugento buoi,
sgozzato mille pecore, sequestrato duemila galline, eccetera eccetera?
Se avessero l’impudenza di mettere quei telegrammi nella bella storia
di Francia, bisognerebbe spazzarneli, spazzarneli con la granata di
cucina infangata nella poltiglia.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[404] Così raccontò Rocco De Zerbi nel suo giornale il _Piccolo_ di
Napoli.

[405] Garibaldi fece rispondere dal sindaco signor Ugo Delle Favare:
«Mai come oggi i Palermitani si mostrarono così sublimi...» e se
l’epiteto si risente della tendenza all’iperbole che era il difetto
dell’educazione di Garibaldi, non è però men vero che il contegno dei
Palermitani non sia stato singolarmente nobile e gentile.

[406] Ecco l’atto di morte del generale Garibaldi:

        »_Anno 1882, 5 giugno, ore 7 m. 2 ant. Casa Garibaldi._

»Avanti a me, Bargone cavaliere Leonardo, Sindaco ufficiale dello stato
civile del Comune di Maddalena, comparsi il professor Enrico Albanese,
di anni 48, medico-chirurgo domiciliato a Palermo, ed il dottore
Alessandro Cappelletti, di anni 26, medico-chirurgo della Regia Marina,
domiciliato a Torino, mi hanno dichiarato che alle 6 pomeridiane e
minuti 22 del 2 corrente, nella casa posta in Caprera è morto Garibaldi
generale Giuseppe, di anni 75, residente alla Maddalena, nato a Nizza
Marittima, figlio del fu Domenico capitano marittimo e della fu Rosa
Raimondi, donna di casa, residenti a Nizza Marittima, e marito alla
signora Armosino; presenti i testimoni: Bianchi Vincenzo e Pieramonti
Egidio, residenti alla Maddalena.»

                                 * * *

Il certificato dei medici dice:

                                             «Caprera, 3 giugno 1882.

  »Signor Sindaco,

»Ieri (2) alle ore 6 pomeridiane è morto in Caprera al suo domicilio il
generale Giuseppe Garibaldi in seguito a paralisi faringea. Dichiariamo
che la tumulazione del cadavere può farsi dopo 24 ore dalla morte.

»In fede ci sottoscriviamo.

                                                »PROFESSORE ALBANESE.
                                               »DOTTORE CAPPELLETTI.»

[407] Vedi lettera di G. Nuvolari, pubblicata in tutti i giornali, da
noi letta nel _Pungolo_ del 17-18 giugno.

Ecco poi testualmente la lettera del Generale al dottor Prandina:

                                         «Caprera, 27 settembre 1877.

  »Mio carissimo Prandina,

»Voi gentilmente vi incaricate della cremazione del mio cadavere; ve ne
sono grato.

»Sulla strada che da questa casa conduce verso tramontana alla marina,
alla distanza di trecento passi a sinistra, vi è una depressione di
terreno limitata da un muro.

»Su quel canto si formerà una catasta di legna di due metri, con legna
d’acacia, lentisco, mirto ed altre legna aromatiche. Sulla catasta si
poserà un lettino di ferro, e su questo la bara scoperta, con dentro
gli avanzi adorni della camicia rossa.

»Un pugno di cenere sarà conservato in un’urna qualunque, e questa
dovrà essere posta nel sepolcreto che conserva le ceneri delle mie
bambine Rosa e Anita.

                                                       »Vostro sempre
                                                      »G. GARIBALDI.»

(_Pungolo_ di Milano, 11-12 giugno 1882.)

[408] Battuto veramente dove egli comandava in persona, non lo fu che a
Morazzono, a Mentana, e nell’assalto notturno di Dijon.

[409] Vedi principalmente le _Questions pour les francs-tireurs et les
corps de volontaires_. BORDONE, Documents, pag. 123.

[410] Vedi vol. II, capitolo VIII, pagg. 26 e 27.

[411] Quattro anni di guerra guerreggiata nel Rio Grande, 1837-1840
— Sei anni idem nell’Uruguay, 1842-1847 — Cinque campagne in Italia,
1848, 1849, 1859, 1866, 1867, e la campagna di Francia.

[412] «La tattica del generale Garibaldi, dice il MANTEUFFEL nella
puntata XX della _Storia della guerra franco-germanica_, va segnalata
specialmente per la grande rapidità delle mosse, per sagge disposizioni
durante il combattimento a fuoco, e per un’energia e focosità
nell’attacco, che se dipende in parte dall’indole dei suoi soldati,
dimostra eziandio che il Generale non dimentica un solo istante
l’obiettivo del combattimento, ch’è appunto quello di sloggiare il
nemico dalle sue posizioni, mediante un attacco rapido, vigoroso,
risoluto.

»La prova di questa sua speciale valentia l’avemmo nel fatto d’arme
che fece rifulgere non solo l’eroismo dei nostri soldati, ma anche la
bravura dei Garibaldini.

»Il 61º fucilieri ebbe sepolta la sua bandiera sotto un mucchio di
morti e feriti, appunto perchè non gli fu possibile sottrarsi alla
celerità delle mosse di Garibaldi.

»Certamente i successi del Generale furono successi parziali e non
ebbero seguito; ma se il generale Bourbaky avesse operato secondo i
suoi consigli, la campagna dei Vosgi sarebbe stata la più fortunata
combattuta nel 1870-71 dalle armi francesi.»

[413] _Clelia_, ovvero _Il Governo del Monaco_ (_Roma nel secolo XIX_),
romanzo storico-politico di GIUSEPPE GARIBALDI. Milano, 1870, pag.
210-211:

«Quanto a lui crede che Repubblica sia: _il governo della gente onesta_
— e lo prova; accennando alla caduta delle repubbliche — quando i
cittadini sprofondandosi nel vizio hanno cessato di esser virtuosi.
— Non crede però alla durata del governo repubblicano composto di
cinquecento individui.

»Egli è d’avviso che la libertà d’un popolo consista nella facoltà
di eleggersi il proprio governo — e questo governo, secondo lui,
dev’essere dittatoriale — cioè d’un uomo solo. — A questa Istituzione
dovette la propria grandezza il più grande dei popoli della terra.

»Sventura però a chi in luogo di un Cincinnato elegge un Cesare!

»Vuole poi limitata a tempo determinato la Dittatura — e solo in un
caso straordinario, come quello di Lincoln nell’ultima guerra degli
Stati Uniti — consentirebbe la proroga, in nessun caso accorderebbe —
ereditario il potere.

»Egli però non è esclusivo: pensa che il sistema del governo veramente
voluto dalla maggioranza della Nazione — qualunque esso sia — equivalga
alla Repubblica — com’avviene per esempio del governo inglese.»

[414] Vedi nel _fac-simile_ del suo autografo pubblicato in principio
al 1º volume.

[415] Vedi il _Governo del Monaco_, pag. 242, e il suo _Memorandum
alle potenze d’Europa_, scritto dal Monte Tifata, poche ore dopo la
battaglia del 1º ottobre 1860.

Circa alle sue idee sulla _Lingua mondiale_, curioso il leggere questo
brano trovato fra le sue memorie manoscritte e ancora inedite:

«Il modo dunque più indicato ad un’Unità mondiale — e che più
coadiuverebbe all’Unità religiosa vera — Dio! — sarebbe una lingua
universale.

»Non è questa idea mia — ma vecchia e ne lascio l’esame cronologico a
chi vuol incaricarsene.

»Vado alla sostanza.

»Voler imporre una lingua qualunque delle esistenti per lingua
universale credo sarebbe questione alquanto simile a quella dei preti,
e l’abbandono. — Proviamo un altro espediente.

»Per esempio — vari complessi di lingue per formare un tutto — col
tempo.

»Il francese sarebbe uno dei complessi — esso ha agglomerato un gran
numero di dialetti delle diverse sue provincie ed ha una rispettabile
estensione al di fuori.

»L’anglo-germano — od anglo-sassone immensamente propagato.

»Per le lingue orientali lascio a’ più scienziati la cura d’occuparsene
— se così loro piace.

»Tu puoi occuparti del complesso — _Iberitalo_ — formato di tre lingue:
portoghese, spagnuola ed italiana, di cui conosci qualche cosa e
consultare perciò tutti quegli umanitarii di quei tre paesi e delle
colonie dell’America portoghese e spagnuola, che volessero essere
tanto buoni da cooperarvi. — Le tre lingue hanno molte voci comuni — si
può cercarle e riunirle in un principio di Dizionario, ove gettar la
base d’una lingua nuova, che potrebbe frattanto essere imparata dalla
gioventù dei tre paesi.

»Io non mi nascondo l’arduità dell’impresa — ma la sua importanza
sembrami meritare l’attenzione degli uomini cui il progresso umano non
è una chimera.

»Certo vi vorranno secoli per raggiungere il nobile scopo — ma è pur
vero che se i Caldei non avessero principiato, gettando uno sguardo
nello spazio — ad investigare i moti e le leggi stupende che regolano
gli eterni luminari — gli odierni astronomi — non sarebbero forse così
inoltrati nelle vie dell’Infinito.»

[416] Lo raccontò Garibaldi stesso a me nell’uscire dalla casa del
Palmerston. Io era rimasto con altri del seguito in una sala attigua al
gabinetto in cui il Generale era entrato; ma pochi momenti dopo vidi
uscire il Generale col viso tutto infiammato; ed io che lo conosceva,
capii subito che il colloquio non gli era andato pel suo verso. Però in
carrozza azzardai una domanda:

— Pare che vi abbiano fatto inquietare, Generale?

— Cosa volete, _amigo_.... — e mi raccontò il dialogo testè riferito.

[417] Alcune bozze a matita di queste memorie sono quelle che il
Generale regalò a Giovanni Basso e ch’egli diede a me perchè ne facessi
l’uso migliore che credevo.

[418] Come saggio di questi studi sui _Venti_ diamo questa lettera in
francese, inedita fino ad ora, diretta ad uno scienziato, di cui non ci
fu dato scoprire il nome:

«J’ai lu avec un bien vif intérêt votre magnifique ouvrage sur les
phénomènes de l’atmosphère — et je vous en suis reconnaissant. J’ai vu
avec un sentiment d’orgueil et de fraternité vos principes humanitaires
sur la solidarité des peuples.

»Certes tant que les Gouvernements emploieront les revenus des nations
à construire des bayonettes et des vaisseaux cuirassés, il sera
difficile que le monde atteigne cette unité de famille à laquelle il
aspire et jusqu’à ce que les armées ouvrières, comme celles qui aux
ordres de votre illustre compatriote Mr Lesseps creusent des canaux
et posent des rails de chemins de fer, ne substitueront les armées
guerrières maintenues pour destruction de l’homme, l’homme sera
toujours un misérable instrument du despotisme et de la dilapidation.

»Comme vous dites, la guerre d’Amérique — dans les malheureuses
conséquences porte l’inaction d’un de vos plus illustres
collaborateurs, le commandant Maury, que j’ai connu à l’Observatoire de
Washington — et duquel j’ai possédé les belles cartes inventées par lui
sur la théorie des vents. — A Boston, où j’avais obtenu des cartes, je
m’étais obligé de fournir ma quote d’observations maritimes au savant
Américain. — Mais ayant dû encore une fois abandonner ma profession de
marin — je ne pus tenir ma promesse.

»Peu initié dans la science, je me confesse incapable d’apprécier
toutes les beautés renfermées dans votre bel ouvrage. — Mais comme vous
y traitez d’une manière si savante la théorie des vents — je me permets
de vous présenter quelques observations faites dans mes voyages sur le
même sujet.

»Les observations dont je vais vous entretenir — et que je n’aurais
peut-être jamais ébauchées — me furent suggérées par la lecture
des ouvrages d’agriculture — dont je m’occupe presque uniquement
aujourd’hui.

»En général la cause des vents sur la surface du globe comme elle est
décrite par certains auteurs d’agriculture ne me satisfait pas.

»Par exemple — on dit toujours que la cause des vents est causée par
la condensation de l’air froid dans les zones glaciales — qui tend
naturellement à se précipiter dans les espaces d’air raréfié par la
chaleur dans la zône torride.

»Jusqu’ici nous sommes d’accord — ce que je voudrais seulement,
ç’est qu’on signalât un peu davantage l’action que causent sur l’air
atmosphérique les mouvements de rotation et de translation de notre
globe dans l’espace.

»Le mouvement de rotation de la terre effectuant une entière révolution
de 360° en 24 heures, donne aux objets qui se trouvent sur l’Équateur
une vitesse de 900 milles par heure.

»Le mouvement de translation de la même dans son orbite pousse les
mêmes objets qui se trouvent sur l’Équateur à midi, avec l’immense
vitesse — je crois — d’à peu près 65 mille milles par heure — et si
cette surprenante célérité n’était modifiée, je crois, par une force
de projection de notre planète qui nous lance dans la direction qu’elle
parcourt — et par le remous du fluide atmosphérique tendant à devancer
latéralement comme le remous d’un navire — sans cette compensation,
dis-je, l’air que rencontrerait un habitant de l’Équateur dans se
pérégrination aérienne le balayerait de dessus son cheval céleste plus
facilement qu’un ouragan ne livre dans les airs le moindre brin de
paille.

»Que les mouvements susdits aient une action sur la surface du globe le
prouvent les éternels vents alizés qui règnent dans la zône torride et
les courants qui trouvent la direction de ces vents.

»Une zône di 60° environ, comprise entre 30° de latitude Nord-Est et le
30° Sud-Est, est sillonnée éternellement par les vents venant de l’Est.
Dans l’émisphère Nord ces vents s’approchent du N.-E., dans le S.-E. Ou
plutôt dans cette zône l’air reste en arrière vers l’Ouest tandis que
le planète s’avance vers l’Est.

»Un corps solide quelconque, qui s’avance dans l’espace ou dans l’eau,
génère naturellement un remous derrière lui. — Ce remous suit le
corps — et dans les parties latérales il tend à le précéder. — On peut
observer cela sur un navire qui marche.

»Voilà, je crois, la cause des contr’alizés, qui soufflent de l’Ouest à
l’Est — dans les zônes en dehors de la zône torride.

»Ne pouvant rompre les alizés de la zône torride, le remous se dilate
latéralement — et au de là du parallèle de 40, tant dans un émisphère
que dans l’autre, on est presque certain de le trouver souvent plus
fort que les alizés, mais beaucoup plus inconstant.

»Il paraît que les vents d’Ouest dans les zônes torrides tendent vers
les pôles contrairement aux alizés qui tendent vers l’Équateur. — Ainsi
le S.-O. prévaut dans l’émisphère boréal et le N.-O. dans l’Australie.
Le diagramme de Mr Maury note ainsi, et dans ma traversée de Van Diémen
à la côte méridionale du Chili au Sud du parallèle de 50 courant droit
à l’Est, le vent descendait toujours sur babord.

»J’ai souvent entendu dire par les marins venant de l’Amérique du Sud:
— Nous avons remonté jusque vers les Açores pour trouver les variables,
et vraiment cela signifie qu’ils ont traversé la zône torride avec les
ancres à tribord et qu’ils sont ainsi arrivés vers le parallèle des
Açores pour trouver les vents variables qui soufflent irrégulièrement
entre les zônes des vents _alizés_ et _contr’alizés_. —

»C’est bien désirable que pour le progrès de la navigation le
commandant Maury puisse bientôt reprendre son premier recueil des
observations de toutes les mers du monde. On pourra alors mieux
connaître les vents qui se plaisent dans les zônes variables — et les
points surtout des zônes calmes qu’il faudra éviter.»

[419] Già ne citammo alcuni. Uno de’ suoi ultimi componimenti poetici
in italiano fu la Epistola metrica a Felice Cavallotti, scrittagli da
Roma nell’aprile del 1879: la sua lunghezza ci toglie il piacere di
ripubblicarla.

[420] Dal _Caffaro_ di Genova, 5 giugno 1882. Ne abbiamo riprodotto
soltanto i brani principali.

[421] Questo periodo non è ben chiaro, ma nel manoscritto è tal quale,
e lo rispettiamo.

[422] Potremmo, occorrendo, dire il nome della contrada e il numero
della casa in cui vive, tanto sono sicure le nostre informazioni.

[423] Vedi l’_Athenæum_ del 16 febbraio 1861 (n. 1738)

[424] ROUSSEAU, _Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les
hommes_. Deuxième Partie, Note neuvième, nella edizione d’Amsterdam
1772, a pag. 126, 127.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
fine libro, riguardanti il volume 1, sono state riportate nel volume
corrispondente.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GARIBALDI,  VOL. 2 (OF 2) ***


    

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