Garibaldi, Vol. 1 (of 2) : (1807-1859)

By Giuseppe Guerzoni

The Project Gutenberg eBook of Garibaldi, Vol. 1 (of 2)
    
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Title: Garibaldi, Vol. 1 (of 2)
        (1807-1859)

Author: Giuseppe Guerzoni

Release date: January 16, 2025 [eBook #75122]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Barbera, 1889

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GARIBALDI, VOL. 1 (OF 2) ***


                               GARIBALDI


                                   DI
                           GIUSEPPE GUERZONI.

                                 Vol. I
                              (1807-1859)

           CON DOCUMENTI EDITI E INEDITI, PIANTE TOPOGRAFICHE
                           ED UN FAC-SIMILE.

                            Terza edizione.



                                FIRENZE,
                          G. BARBÈRA, EDITORE.
                                 1889.




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                      e traduzione sono riservati.




                         ALLA VENERATA MEMORIA

                                   DI

                                C. V. B.

                  PRIMA ISPIRATRICE DI QUESTE PAGINE.




PREFAZIONE.


Amai Garibaldi con affetto di figlio e fedeltà di soldato: lo seguii
nelle sue imprese da Varese a Milazzo, dal Volturno a Condino, da
Aspromonte a Mentana; vissi con lui in Caprera circa nove mesi nella
dolce intimità della vita domestica, ed ebbi l’immeritata fortuna
di accompagnarlo nel suo gran Trionfo d’Inghilterra; fui sovente il
depositario e l’interpetre de’ suoi più nascosi pensieri, e, onore
anche più grande, non mi fu negato di fargli sentire, talvolta, i
consigli di quella che a me pareva la Verità; subii, come tutti coloro
che l’accostarono, il fascino della sua eroica bellezza; piegai, come
i più, all’impero della sua grande anima dittatoria, ma, liber’uomo
in faccia al Liberatore, ne sostenni i fulgori, e seppi scorgerne le
ombre; e spero che tutte queste ragioni mi giustificheranno presso ogni
discreto lettore dell’audacia di scriverne la vita.

«Una delle mille!» esclamerà qualche frettoloso. Pur troppo! Anzi fra
pochi giorni si potrà soggiungere: una delle migliaia! E in verità se
non avessi dovuto ripensare ad altro che a quanto fu scritto in passato
e si scriverà ancora in avvenire, nei secoli più lontani, intorno a
Garibaldi, la tentazione di presentarmi anch’io a questo universale
torneo di penne, non mi sarebbe passata pel capo. Soltanto non bisogna
dimenticarsi che se la bibliografia di Garibaldi è già grande, e sarà
tra poco immensa, Garibaldi lo è ancora più. Egli può dirsi, come
il Shakespeare immaginato da Vittor Hugo: infinito come l’Oceano.
Invadetelo da tutti i porti: navigatelo, corretelo, frugatelo in tutti
i sensi, e vi resterà sempre qualche seno nascosto, qualche banco
sottacqueo, qualche scogliera inavvertita, dove anche la navicella del
più umile ingegno potrà ormeggiarsi e gettar lo scandaglio.

Lo so! non correranno molti anni e ci sarà una _Letteratura
Garibaldina_, come ci è una Letteratura Omerica, Dantesca,
Shakespeariana e via dicendo; ma affinchè quella letteratura possa
sorgere degna del suo grande tema, ed acquistare un valore reale nella
storia della nostra patria e del nostro secolo, occorre anzitutto che
il pubblico dei lettori e dei critici non guardi soltanto alla mole dei
libri pubblicati sullo stesso soggetto, non li misuri tutti in fascio a
occhio e croce, non faccia il viso dell’arme ad ogni libro nuovo, solo
perchè viene ad ingrossare la catasta de’ vecchi. Abbiamo ed avremo
la farraginosa compilazione indigesta, e l’utile compendio popolare;
abbiamo ed avremo la pesante orazione accademica, e lo svelto bozzetto
giornalistico; abbiamo ed avremo il partigiano panegirico tribunizio
e la rabbiosa invettiva clericale; abbiamo ed avremo la scialba
fotografia borghese o la pettegola cronica aneddotica, e la sintesi
ardita coniata in bronzo, o la greca effigie incisa in cammeo: non
abbiamo ancora, ma forse l’avremo un giorno, la Vita Plutarchiana, il
Poema Omerico, o il Dramma Sofocleo; e confido che in questa mondiale
biblioteca non si vorrà rifiutare l’entrata anche a questo mio modesto
volume, che non è ancora, s’intende bene, la storia; ma che pure
aspira, senza jattanza come senza ipocrisia, a tentarne il primo saggio
ed a scriverne la prima sillaba.

E forse con ciò ho già detto che questo non è un libro d’occasione.
Egli segue di poche settimane la scomparsa dell’eroe; ma esso fu
meditato e preparato da tempo. Frutto sudato di quasi tre anni di
ricerche, di studi, di fatica, esso potrà meritare tutte le taccie
fuorchè quelle della estemporaneità e della fretta. Il culto stesso,
che tanto io quanto i miei giovani editori, professiamo alla memoria
venerata del grande Patriotta, ci avrebbe sempre preservati da questo
sacrilegio. Nè io avrei mai voluto deporre ai piedi della tomba recente
di Caprera il vile tributo d’una compaginatura abborracciata, nè gli
eredi dell’onorato nome di Gaspero Barbèra avrebbero mai consentito a
prestar mano ad un’opera bastarda che, sfruttando una grande popolarità
ed una grande sventura, mirasse soltanto ad occupare il già troppo
stipato mercato librario e ad impaniare in una frasconaia di pagine
rapinate il pubblico dabbene.

Ben altro fu il mio scopo; ben altra è la mia speranza. Ripensando
spesso, e come non pensarvi!, a Garibaldi; riguardando a quella
nova e portentosa figura di gigante, rifacendo nel mio pensiero il
poema di quell’epica vita, poscia leggendo o rammentando quanto si
era scritto di lui in verso e in prosa, m’era accaduto, in più d’un
caso, di consentire o d’ammirare; ma poi, riepilogando le cose lette
e confrontando il Garibaldi del mio pensiero con quello stampato
fin allora ne’ libri, chinavo il capo con un senso di scontentezza e
conchiudevo: Eppure in tutti questi volumi c’è del bello e del buono,
ma il Garibaldi vero, il Garibaldi della storia, non del romanzo; della
patria, non della parte; dell’amore, non dell’idolatria, è molto, ma
molto lontano di qui.

E va da sè ch’io non m’impanco in alcun modo a censore di coloro che
mi precedettero in questa medesima impresa, ed a molti dei quali io
stesso vado debitore di non pochi ed utilissimi sussidi. Incitati
dall’occasione, incalzati dall’ora, preoccupati principalmente di
portare, come corre il detto, il loro «sasso all’edificio,» lavorarono
co’ primi materiali che loro caddero sotto mano, scrissero come l’amore
dettava, e sarebbe davvero imperdonabile indiscretezza il chieder loro
di più.

L’ingratitudine di chi viene ultimo non sarà certo, per parte mia,
il compenso di chi ebbe il merito di essere primo. Soltanto non è far
torto a chicchessia il dire che per ragioni affatto indipendenti dalla
volontà e dall’ingegno degli scrittori anteriori, i falli trascorsi e
i vuoti rimasti ne’ loro libri sono ancora sì numerosi ed importanti,
che diventa impossibile accettar quelle opere per fondamento certo e
per modello compito d’una vera storia critica e ragionata dell’uomo
che hanno rappresentato. E rinviando al testo ed alle sue note l’esame
dei particolari, ecco in riassunto i difetti capitali e le lacune più
evidenti che scòrsi in quelle opere e più vivamente mi colpirono:

Una trascuranza ingiustificata dell’ambiente in cui Garibaldi crebbe
e si sviluppò; quindi un esame molto leggero ed una rassegna molto
affrettata di tutti quegli elementi domestici, sociali e politici,
che dall’arte paterna all’educazione materna, dai primi suoi amici
ai primi suoi viaggi, dalle sue lunghe consuetudini colla sconfinata
libertà del mare alla sua dimora decenne tra le solitudini della pampa,
contribuirono a svolgere il germe della sua vita eroica ed a plasmare
il suo carattere;

Una conoscenza scarsa ed una esposizione inadeguata della storia e
delle costumanze, delle fazioni e delle rivoluzioni appunto di quei
due Stati dell’America meridionale, il Rio-Grande e l’Uruguay, tra i
quali Garibaldi si formò; epperò una rappresentazione troppo vaga e
fantastica della parte che egli vi ebbe, degli influssi che vi subì,
del patrimonio di idee e di abitudini che ne riportò;

Un’analisi troppo superficiale od una sintesi poco fedele di tutte
quelle antinomie, quelle contraddizioni, quelle mutazioni rapide
ed assidue che frastagliano come fasci di vapori nembosi la serena
splendidezza del suo volto, e lo convertirebbero in una specie di
Proteo mostruoso, se allo storico armato della fiaccola della filosofia
mancasse l’ardire di scendere fino all’ultimo fondo gli abissi di
quell’anima, e scrutarne l’alto mistero;

Una narrazione delle sue imprese dal 1859 al 1870, specie delle
maggiori, di Marsala, Aspromonte e Mentana, veridica e piena nel
suo complesso; ma in molti particolari scarsa, in molte affermazioni
gratuita, in molti giudizi erronea, e che svisando alcuno dei tratti
più caratteristici dell’Eroe nelle tre azioni più importanti della sua
vita, svisano insieme ne’ suoi aspetti più solenni la storia del nostro
Risorgimento;

Infine, ed è forse il più, una narrazione parziale ed angusta delle
sue gesta militari, ed una sconoscenza o grossolana o meschina delle
sue doti geniali di vero e grande Capitano; parzialità, angustia e
sconoscenza che traggono origine in gran parte dai pregiudizi e dalle
gelosie della vecchia scolastica militare, che questo mio libro non
riuscirà certamente a debellare, ma che forse sforzerà ad ammutolire od
a provare il contrario.

Ora, scemare, per quanto sia da me, questi difetti e colmare, fin
dove possa, queste lacune; tentare la prima prova di una storia
ragionata e documentata di Garibaldi, nè frigida nè passionata, nè
piazzaiola nè scolastica, che prepari almeno le fondamenta della
storia futura e cominci il giudizio della posterità; ricostruire
al lume della critica e della ragione tutta intera la maravigliosa
figura del gigante, rifondendola coi frammenti più preziosi offerti
dalle opere precedenti e rassodandola sul suo eccelso piedestallo,
col sussidio dei documenti più autentici e delle testimonianze più
autorevoli che mi fosse dato raccogliere; rimontare fino alle origini
della sua grandezza, cercandone nei primi ambienti in cui si svolse
la sua gioventù, le cause ed i fattori; rifare con maggiore ampiezza
e precisione la sua vita di marinaio e cospiratore; correggere, per
ingrandirla e nobilitarla, la sua leggendaria odissea d’America,
rifacendogli d’attorno, in una storia più veridica ed accurata di quel
paese, una scena più pittoresca e più viva; difenderlo dalle partigiane
contumelie, difenderlo ancora più dalle cortigiane piacenterie;
cingere, se fosse possibile, d’aureola più luminosa il suo volto,
ma segnarne al tempo stesso i chiaroscuri, notarne le disarmonie,
confessarne le imperfezioni; affrontare, trepido ma non sgomento,
l’enigma forte della sua anima, e senza lasciarmi intimidire dalla
incantevole sfinge, nè arrestarmi ai primi aspetti del fenomeno,
cercare di penetrarlo fino al fondo, fino a quella causa prima e
a quell’idea madre che concilii gli opposti ideali in una sintesi
suprema; rinnovare con maggior larghezza e precisione tecnica la storia
delle sue campagne, fin qui immiserita o svisata, rivendicando da tutti
i preconcetti di casta e di scuola le sue geniali qualità di capitano,
e sfatando la badiale sentenza: «Fu un ardito guerrillero, non un
generale;» questi sono gli scopi principali ed accessori, temerari,
ma non superbi, di questo libro, che vorrebbe essere, se la materia
rispondesse «all’intenzion dell’arte,» un ritratto ed un quadro,
un saggio critico ed un racconto, una storia politica ed una storia
militare.

Sarò io riuscito? È l’eterna domanda di chi fa, alla quale raramente
soddisfa la risposta di chi giudica. In ogni modo questo so di certo,
che dall’istante in cui la tentazione di mettermi a questo cimento mi
colse, non ebbi più posa. Scrissi in America per aver libri; viaggiai
mezza Italia per raccogliere documenti; tempestai di lettere e di
quesiti centinaia di persone; ammucchiai nel mio studio monti di
manoscritti e di volumi, da parecchi dei quali non trassi altro frutto
che il perditempo e la noia di leggerli; misi a contributo di notizie
tutti gli amici e commilitoni del Generale; osai persino salire, nella
mia questua di documenti, le scale della Reggia, ridiscendendone,
è vero, a mani vuote (e non certo per volontà di re Umberto), ma
commosso e confuso dalle parole altamente benigne con cui il figlio di
Vittorio Emanuele volle accogliere il mio annunzio e incoraggiare il
mio libro.[1] Ma ohimè! Se lo scovare i documenti della storia passata
nella polvere degli archivi e fra le tarme dei codici è cosa difficile,
strappare le testimonianze della moderna alle mani ed alla bocca de’
contemporanei, lo è ancora più. Nessuno concede tutta la verità, o
la concede pura, o la concede in tempo. Interrogate dieci persone,
testimoni auricolari ed oculari dello stesso fatto: dieci risposte
diverse. Chi fraintende il quesito; chi annega una briciola di notizia
in una fiumana di ciancie; chi per la biografia dell’eroe vi dà la sua;
chi risponde tardi, quando il capitolo è già scritto e l’informazione è
divenuta inutile; chi non risponde affatto. Il giornale politico scrive
pel suo Delfino, il documento ufficiale dice la verità ufficiale,
il personaggio importante si tiene prudentemente abbottonato, il
vecchio cospiratore continua a cospirare, il commilitone si vanta e lo
sbarazzino inventa!

E ciò non ostante, convinto, malgrado tutti questi inciampi e questi
sconforti, che gli elementi per avviare una intrapresa consimile a
quella che io andavo vagheggiando esistessero e che anco i pochi da
me raccolti potessero bastare; convinto anche più che per condurre a
termine un’opera qualsiasi bisogna pure che qualcuno la incominci;
trassi coraggio dal pensiero di Voltaire: _que du moins j’aurai
encouragé ceux qui me feront oublier_,[2] e mi gettai allo sbaraglio.

Quali siano frattanto quegli elementi, a che si riducano i materiali di
cui potei giovarmi, le fonti a cui attinsi, gli ausilii in cui potei
confidare, è questo, se non m’inganno, il momento di dirlo e lo farò
brevemente.

Le _Vite_ e le _Storie_ stampate sino ad ora intorno a Garibaldi,
si dividono in due categorie: opere di seconda mano, compilazioni,
rifacimenti, compendi, ec., delle quali non accade occuparsi: opere
in parte o in tutto originali, tolte a sorgenti genuine, suffragate da
testimonianze solide e da autentici documenti, sulle quali soltanto si
può fare un assegnamento e che non esitai di mettere a contributo.

E fra queste, intralasciate le opere di carattere generale o le memorie
di soggetto più particolare, che si troveranno citate nel testo, ecco
ad una ad una le principali:

Prima di tutte le _Memorie_ stesse di Garibaldi confidate nel 1859 ad
Elpis Melena (signora Schwarz) colle parole: «_Bologna 29 settembre
1859. — I manoscritti da me rimessi, ad Elpis Melena sono scritti di
mio pugno_;» tradotte e pubblicate dall’Autrice in tedesco col titolo:
_Garibaldi’s Denkwurdigkeiten nach handschriftlichen Aufzeichnungen
desselben und nach autentischen Quellen_, etc., Hamburg, Hoffmann und
Campe, 1861, che vanno dalla nascita dell’eroe sino al 1849 e debbon
ritenersi il primo e fondamentale documento della sua vita. Il primo,
ma non il solo nè indiscutibile, perchè l’Autore stesso, tradito dalla
memoria o dalla fretta, cadde più volte in involontarie confusioni
di date e di fatti, e mirando in alcuni punti a descrivere più la
propria vita interiore che la esteriore, lasciò nel suo lavoro molte
dimenticanze e desiderii.[3]

E dopo le _Memorie autobiografiche edite_, vengono in ordine di
cronologia e d’importanza:

La _Biografia di Giuseppe Garibaldi_ compilata da G. B. CUNEO, Genova,
R. Tipografia Ferrando di proprietà Martini (senza data di stampa);
libretto di sole ottantaquattro pagine, ma prezioso di particolari,
specie sulle gesta dell’eroe nell’Uruguay, e che essendo scritto
da uno de’ più antichi e fidi amici di Garibaldi, dimorante con
lui a Montevideo nei giorni stessi della memorabile guerra contro
l’Argentina, è degno della massima fede.

_Montévideo, ou une nouvelle Troie_ par ALEXANDRE DUMAS, Paris,
Imprimerie Centrale de Napoléon Caix et fils, 1850; libro che sebben
porti un nome alquanto sospetto all’esattezza storica, pure ha il
valore indiscutibile d’essere fondato sopra molti documenti uruguajani
citati nel testo; compilato sulla più grossa istoria del Wright, _Le
Siége de Montévideo_, e in gran parte o dettato o riveduto dallo stesso
generale Pacheco y Obes, ministro della guerra e capo della difesa di
Montevideo, durante l’assedio, e autore a sua volta della

_Réponse aux détracteurs de Montévideo_, Paris, 1849; opuscolo ricco di
documenti ufficiali e di testimonianze gloriosissime, onorevolissime
al condottiero italiano; raccolte poi nella _Lettera_ di G. B. CUNEO
al _Corriere Livornese_ del gennaio 1847; e nei _Documenti intorno a
Garibaldi e la Legione italiana a Montevideo_, pubblicati per cura del
colonnello E. DE LAUGIER, Firenze, Tip. Fumagalli, 1846.

Infine, tacendo per ora di altri opuscoli e giornali sulle vicende di
quel periodo, che più tardi a suo luogo si troveranno, la

_Reseña Historica Estadistica y Descriptiva con Tradiciones orales de
las Repúblicas Argentina y Oriental del Uruguay desde el descubrimiento
del Rio de la Plata, hasta el año de 1876_, por FLORENCIO ESCADRO,
Montevideo, Imprenta de la _Tribuna_, Calle 25 de mayo, 124, 1876, dove
si trova più d’un capitolo dedicato alle prodezze del nostro Eroe.

E passando con lui in Italia:

_L’Écho des Alpes Maritimes; La Concordia_ di Torino; _L’Italia
del Popolo_ e _Il 22 Marzo_ di Milano, tutti giornali del 1848 che
abbondano, quali più, quali meno, di particolari e aneddoti sul ritorno
di Garibaldi in patria.

_La Italia_, Storia di due anni (1848-1849) di C. AUGUSTO VECCHI,
Torino, Tip. Scolastica di Sebastiano Franco e figlio, 1856, 2ª
edizione; libro in cui Garibaldi campeggia, e scritto dall’autore
con candidissima fede; ma, tranne che nei fatti di cui il Vecchi
fu testimonio, o nelle parti documentate, da accettarsi con qualche
cautela.

_La Storia dell’Intervento francese in Roma nel 1849_, del
colonnello FEDERICO TORRE, Torino, Tip. del _Progresso_, 1851;
_La Repubblica Romana del 1849_, di G. BEGHELLI, Lodi, Società
Cooperativo-Tipografica, 1874; _L’Assedio di Roma_, di F. D. GUERRAZZI,
Livorno, Tip. A. B. Zecchini, 1864; variamente pregevoli, ma soltanto
nelle pagine documentate, o avvalorate da testimonianze oculari,
fondamenti di storia.

_Garibaldi in Rom, Tagebuch aus Italien 1849_, von GUSTAV HOFFSTETER,
già maggiore nell’esercito romano, Zurich, Schulbers, 1860. Diario
indispensabile alla storia della celebre ritirata da Roma.

_I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi nella guerra
del 1859 in Italia_ di Francesco Carrano, capo di stato maggiore
di Garibaldi, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1860. Racconto
popolare. Libro fondamentale per la campagna di quell’anno.

_Varese ed Urban nel 1859 durante la guerra per l’Indipendenza
Italiana_; notizie storiche raccolte e compilate su documenti dal
sacerdote GIUSEPPE DELLA VALLE, Varese, Tip. Giuseppe Carughi, 1863.
Preziosissima cronica.

_I Mille_, di GARIBALDI, Torino, Tip. e Lib. Camilla e Bertolero, 1874;
dove la storia s’intreccia al romanzo, e nelle stesse parti storiche
l’autore non osserva abbastanza l’esattezza delle date, o confonde
alcune particolarità; ma di cui basta il nome per testimoniare la
importanza.

_La Vita di Giuseppe Garibaldi_, narrata dal P. GIUSEPPE DA FORIO,
Napoli, St. Tip. Perrotti, 1862; compilazione laboriosissima in due
volumi in-8º, e nel secondo, repertorio affastellato, ma fitto di
articoli di giornali, di lettere di Garibaldi, o a Garibaldi, di
squarci di libri, di documenti e materiali d’ogni data, nel quale
frugando con tatto e accortezza, si può accattare una messe di
notizie.[4]

Le Memorie dell’ammiraglio inglese SIR RODNEY MUNDY, _«Hannibal»
at Palermo and Naples during the Italian Revolution 1859-1861. With
notices of Garibaldi, Francis II and Victor Emmanuel_, London, Murray,
1863; opera indispensabile.

_Diario privato politico militare_, dell’ammiraglio C. DI PERSANO,
nella campagna navale dell’anno 1860-1861, Torino, Roux e Favale. Un
vol. in-8º, notissimo, indiscretissimo, utilissimo.

ABBA GIUSEPPE CESARE, _Noterelle d’uno dei Mille_, edite dopo venti
anni, Bologna, Zanichelli, 1880; gioiello di ricordi personali, legato
in una forma di finissimo lavoro.

_Aspromonte_, ricordi storici militari, del marchese RUGGIERO
MAURIGI, ec., Torino, 1862; e _Verità sul fatto di Aspromonte_, per
un testimonio oculare, Milano, 1862, pubblicato da A. Dumas; aiuti
pregevolissimi, il primo più del secondo, alla conoscenza di molti
particolari del triste episodio del 1861.

_Politica segreta italiana_ (1863-1870), Torino, Roux e Favale, 1880;
abbondante di documenti e di notizie, non sempre esatte, sul viaggio
di Garibaldi in Inghilterra, e sul breve periodo d’Ischia, e però da
usarsi con molta critica e cautela.

_Garibaldi_, di ALBERTO MARIO; ritratto vigorosamente schizzato, che
direi tra i più somiglianti, se in molti tratti non si risentisse
troppo della nota fede e del noto entusiasmo dell’autore; ma per tutti
quegli episodi del 1860, del 1866, del 1867, di cui il Mario stesso fu
partecipe e spettatore, autorevole come una storia.

_Storia della Insurrezione di Roma nel 1867_, per FELICE CAVALLOTTI,
continuata da B. E. MAINERI, Milano, presso la Libreria _Dante
Alighieri_, 1869; _L’Italia nel 1867_, storia politica e militare, ec.,
per GUSTAVO FRIGGESY, comandante la seconda colonna nelle giornate di
Monterotondo e Mentana, Firenze, 1868; per giudizi molto discutibile,
per copia di documenti e valore di testimonianze assai autorevole.

_Garibaldi et l’armée des Vosges_. Récit officiel de la campagne, avec
documents etc., par le général Bordone, chef d’état major de l’armée
des Vosges, Paris, Librairie internationale, 1871; e il titolo solo
ne dice la importanza. — E per quanto poi sia difficile vincerne la
ripugnanza, utile a consultarsi.

_Garibaldi, ses opérations en l’armée des Vosges_, par Robert
Middleton, Paris, Garnier frères, 1872; non foss’altro come documento
del furore d’ingratitudine a cui il rimorso d’un beneficio immeritato
può trasportare la bestialità umana. — Dal laido libro ne ristorerà per
la festiva vivacità.

_La Camicia rossa in Francia_, di G. BEGHELLI, Torino, Civelli,
1871; e _I Garibaldini in Francia_, di JESSIE WHITE MARIO; florilegio
delicatissimo di esempi di carità e di valore dato da quei generosi
che, sotto le insegne del Capitano dei Mille, andarono a restituire
alla Francia agonizzante il sangue di Magenta e di Solferino.

E quando io abbia aggiunto a tutto ciò i Documenti e le Lettere che
si possono cavare dalle grandi Raccolte e dagli Epistolari politici
più noti; quali: l’_Archivio Storico triennale delle cose d’Italia_; i
_Documenti della Guerra Santa_; la _Storia documentata della Diplomazia
Europea_, di NICOMEDE BIANCHI; i Documenti ufficiali pubblicati dal
Governo, specialmente nei due momenti d’Aspromonte e di Mentana;
gli _Atti della Camera dei Deputati_; i _Discorsi Parlamentari del
conte di Cavour_, editi da Giuseppe Massari; gli _Epistolari_, del
LA FARINA, dell’AZEGLIO, del PANIZZI, del PALLAVICINO; e infine le
innumerevoli lettere del Generale, gettate, spesso per isconsiderato
zelo di imprudenti amici, ai quattro venti della pubblicità, e dal
1859 stampate in tutti i maggiori giornali contemporanei; e poscia si
compia questa già troppo lunga rassegna, col ricordo delle principali
e più accreditate storie generali politiche e militari; notevoli tra
le prime la _Storia in continuazione del La Farina_, dello ZINI, e
la _Cronistoria dell’Indipendenza_, del CANTÙ;[5] indispensabili tra
le seconde, oltre i Rapporti ufficiali dei quattro stati maggiori,
italiano, francese, austriaco e prussiano, le istorie del Rustow, del
Lecomte, del Pecorìni-Manzoni, del Chiala, del Corsi, del Ferrari, il
lettore potrà formarsi un’idea approssimativamente esatta del materiale
stampato sul quale io ho condotto questo mio lavoro, e dei principali
criteri coi quali ne ho fatto la scelta e l’ho messo in opera.

Ma come io agognava a qualcosa di più d’un semplice lavoro di rifusione
e di critica, nè potevo accontentarmi di ritessere soltanto sull’ordito
altrui, così mi posi tosto, come dianzi accennai, a cercare vicino
e lontano, tra gli archivi pubblici e privati, dalla viva voce e dai
ricordi manoscritti de’ principali cooperatori e confidenti del mio
grande Protagonista, tutto quell’altro maggior soccorso di notizie,
di testimonianze e di documenti, che mi fosse dato raccogliere e mi
paresse atto a sindacare e correggere, schiarire ed integrare le opere
già stampate.

Confesso però che la mèsse fu assai meno abbondante di quella che io
aveva immaginata, e che certamente giace tuttora sepolta, non saprei se
più per l’inabilità mia che non seppe dissotterrarla, o per l’inerzia
di coloro che promisero e non diedero, furono interrogati e non
risposero, per essere poi domani probabilmente i primi censori della
mia fatica.

Tuttavia, ecco il fiore della raccolta:

Centosettantanove pagine autografe, scritte a matita, di _Memorie_
di GARIBALDI,[6] datemi da Giovanni Basso, vecchio amico e segretario
del Generale; reliquia sacra del pensiero e del cuore, che non oserei
gittar tutta in pascolo alla pubblica curiosità, e che custodisco
religiosamente.

Le sue lettere a me, delle quali due o tre sole importanti a questo
libro.

Alcuni _Documenti_ importantissimi sulla vita del Generale a
Montevideo, con isquisita cortesia e generosità raccolti per me da
Don P. Antonini y Diez, ministro dell’Uruguay a Roma, e da suo zio
il signor Giacomo Antonini, vissuto a lungo a Montevideo ed uno degli
amici di Garibaldi sin da quei giorni.

Un _Documento storico_ sul quarantasette confidatomi, nel suo
originale, dal generale Giacomo Medici.

La copia d’una _Lettera_ di Garibaldi ad Anita, datata da Subiaco,
gennaio 1849, cortesemente regalatami dall’ingegnere Clemente
Maraini.[7]

Un estratto dalla _Cronaca di Varese_ del signor A. MORONI, diario
fedelissimo del 1848, cortesemente concessomi dalla famiglia.

Molti _biglietti, lettere, ordini del giorno, decreti_, ec. di
Garibaldi, laboriosamente raccolti durante l’assedio del 1849, e
liberalmente favoritimi dal mio buon amico e compagno d’armi, il
colonnello Guglielmo Cenni, uno dei Mille, prode seguace del Generale
dal 7 aprile al 1º ottobre 1860.

Un fascicolo di _Memorie_ corredate di documenti del luogotenente
colonnello Gioachino Bonnet, che illustrano molte particolarità sin qui
oscure della fuga di Garibaldi per le valli di Comacchio, e gettano una
luce nuova e inattesa sulla tragica catastrofe di Sant’Alberto.

Un fascicoletto di _Ricordi autografi sull’assedio di Roma e il
battaglione dei Volteggiatori Lombardi_ del luogotenente colonnello
CADOLINI, uno dei prodi difensori e feriti del Vascello.

Un grosso quaderno di _Ricordi_ del generale Gaetano Sacchi,
riguardanti principalmente gli anni di Garibaldi in America,
coll’aggiunta di molti particolari poco noti sul 1848, l’assedio di
Roma, la campagna del 1859, la spedizione di Sicilia, vero tesoro
per me, e dopo gli autografi del Generale, la gemma più ricca che dia
qualche pregio a questo libro.

E finalmente passando dai documenti inediti alle testimonianze, molti
appunti da me presi sotto dettatura: dal signor cav. Antonini y Diez
predetto, circa Montevideo; dal signor Andre nizzardo, circa i primi
anni di Nizza; da Giovanni Basso, sui viaggi marittimi; da Menotti
Garibaldi, sulla sua famiglia, da Francesco Crispi e dal generale Türr,
sulla spedizione del 1860; dal dottor Ripari, sopra alcuni particolari
del 1861; e da molti altri amici e commilitoni, che anche in brevi
parole, o mi porsero uno schiarimento, o mi ravvivarono un ricordo, o
mi indicarono una fonte, ed ai quali tutti, qualunque sia la forma e la
misura della loro cooperazione, attesto qui dal più vivo dell’animo la
mia sincera e profonda gratitudine.

Ed ora che ho candidamente esposto il disegno, i mezzi e gli stromenti
di questa mia qualsiasi opera, vegga il lettore se io era degno di
intraprenderla e la giudichi. La giudichi con severità, se vuole, ma
con larghezza. Vegga se in queste pagine vi trova per avventura un
Garibaldi più umano e più storico, ma per ciò appunto, se fosse stato
colto nella sua vera luce, più bello e più grande, e si pronunci.
Non perdoni ad alcun errore essenziale, non assolva alcun giudizio
arbitrario, non mi licenzi alcun tratto capriccioso; ma non mi passi
al lambicco e al microscopio, non mi danni al foco eterno pel primo
peccatuccio veniale, non s’arresti qua ad una data forse non bene
accertata, là ad una variante forse non interamente testimoniata,
altrove ad una sfumatura di tinte forse non perfettamente indovinata:
m’avverta e mi corregga anche di questi falli; ma non mi sentenzi e non
mi decapiti per questi. Però se mi troverò in faccia al primo sistema
di critica, ascolterò con attenzione le accuse, piegherò il capo a
tutte le motivate sentenze e cercherò di fare ammenda delle colpe. Se
mi capiterà tra’ piedi il secondo, tirerò via scrollando le spalle e
disprezzando. E il disprezzo d’un galantuomo fa poco rumore, ma picchia
lo stesso nella coscienza di chi l’ha meritato.

E non mi si ridica quel che già mi son sentito dire a proposito del
mio _Nino Bixio_, che per Garibaldi l’ora della storia non è ancora
suonata. Curioso orologio codesta Istoria che per disporsi a suonar la
sua ora sta sempre fermo e non comincia mai a battere i primi minuti!

Ma io sospetto forte che codesta frase fatta non sia mai stata altro
che il sotterfugio di qualche furbo, il quale non avendo i suoi conti
ben chiari colla storia non trova mai il tempo d’aggiustarli. Devo
averlo detto altrove, ma è il caso di ripeterlo: la storia è l’eterno
_divenire_ hegeliano. I contemporanei la incominciano, i posteri la
continuano e la rifanno perpetuamente. Ciascun secolo la impronta
del proprio suggello arrecandovi il tributo di nuove idee e nuovi
fatti, ma insieme l’ingombro di nuovi errori, di nuovi pregiudizi, e
nuove passioni. Però coloro che sperano l’intera verità storica dalla
posterità, non sono più saggi di coloro che attendono la rivelazione
dell’essere dalla ragione umana. Per essi il Macaulay diceva:
«Ritratti o Istorie che possano offrire la verità tutta intera non
se ne danno; ma i migliori ritratti, i migliori racconti sono quelli
in cui certi lati della verità sono presentati in maniera tale da
produrre, con quanta maggiore approssimazione sia possibile, l’effetto
dell’insieme.[8]»

E concediamo facilmente che la verità storica posseduta dai viventi sia
minore di quella accumulata dai pronipoti; ma a chi appena riguardi
vedrà la maggiore ricchezza di questi non essere altro ancora che il
frutto e l’eredità del lavoro di quelli. Oltre di che, se la storia
contemporanea non può sempre per ragioni d’opportunità o di prudenza
tutto dire e tutto svelare, quelle medesime ragioni, quando siano
espressamente dichiarate, sono di per sè sole un fatto della storia.
Il riserbo che uno storico, coetaneo ai fatti da lui narrati, deve
professare per un partito o per una persona tuttora potenti; il
pericolo di cadere sotto le forbici d’una Censura dispotica, o la tema
di offendere un pregiudizio legittimo od un sentimento popolare, tutti
questi ed altri motivi di silenzio o di dissimulazione sono altrettanti
indizi delle condizioni di un tempo e d’una civiltà; e quando Tacito
ritornava desiderando in quella _rara temporum felicitate ubi sentire
quæ velis et quæ sentias dicere licet_,[9] tratteggiava con un tocco
solo l’età dei Claudi e dei Neroni, meglio che avrebbe potuto fare con
una intera cronaca di fatti. Lasciamo dunque ai pusilli, ai mediocri ed
ai tristi la paura della Storia; gli atleti come Garibaldi, che l’hanno
sfidata viventi, che l’hanno scritta col loro sangue e glorificata
colla loro vita, non la temono morti.

Ma prima di prendere commiato dal benigno lettore, mi preme di
sbarazzare a me il terreno, a lui forse la mente da una ultima
obbiezione; un’obbiezione che non mi fu fatta, è vero, direttamente, ma
che mi parve risonare con una nota dominante e un ritornello preferito
nell’universale epicedio che la terra tuttora sbigottita e commossa non
è stanca di sciogliere sulla tomba del suo maraviglioso figliuolo.

Si dice che Garibaldi non è una persona, ma una personificazione; non
è un uomo, ma un mito; laonde chi lo aggrava di una cappa storica, e lo
costringe nelle seste della critica e lo rapisce ai liberi cieli della
leggenda e della poesia, lo offusca e lo impiccolisce. Io non lo credo:
io sento quanto altri tutto ciò che vi è in lui di straordinario, di
fenomenale, di difficilmente riducibile, starei per dire, al comun
canone umano; ma d’altra parte, come nessuno vorrà obbligarmi a credere
al miracolo ed a contribuire ad una deificazione, così persisto nel
ritenere che quanto più avremo studiato l’uomo portentoso nelle cause
e nelle leggi naturali e storiche che l’originarono, e tanto più il
portento ci apparirà grande e raggiante di quella luce meno fantastica
e abbarbagliante, ma più intensa e più durevole che irradia soltanto
dall’inestinguibile focolare della verità.

L’Etna è forse il più favoloso e mitologico di tutti i monti della
terra: pure soltanto l’alpinista ardito che, di girone in girone,
su per le sue spalle di lava, n’abbia raggiunto il cratere, può
comprenderne la terribilità maestosa ed evocare nella fantasia i
giganti fulminati che vi stanno sepolti. Così di Garibaldi, la sua
leggenda parrà tanto più meravigliosa e sarà tanto più indistruttibile
quanto più s’imbaserà largamente nella Storia, e il Critico futuro
sentirà palpitare, sotto la spoglia granitica del nuovo Titano italico,
le carni d’un uomo.

Nè la Storia nocque mai alla leggenda; spesso ha sfatato la spuria,
fiore artificiale della rettorica letteraria, del fanatismo politico,
o della superstizione religiosa; ma ha rispettato quella legittima,
frutto della ingenua e calda fede popolare, anzi più d’una volta ha
aiutato ad allargarla, a schiarirla, e interpretarla.

Quanto non si è scritto di critica storica, e per tacere degli
eroi leggendari di Grecia e di Roma, intorno a Carlomagno e a’ suoi
Paladini; al Tell ed a Giovanna d’Arco; al Re Arturo e a Federico
Barbarossa! Ebbene, hanno essi perduto alcuna parte della loro poetica
vita? V’è egli, non dirò poeta e romanziere, ma storico e filosofo, che
neghi o rifiuti, e non adoperi sovente come simbolo e personificazione
della nobiltà cavalleresca, della fede, della patria, dell’autorità,
della forza, dell’amore, della sventura, quelle romantiche creazioni
della medioevale fantasia?

Nè bisogna scordarsi che una trasformazione totale dell’uomo storico
nell’eroe favoloso, quale avvenne nella culla del mondo greco o negli
albóri del mondo cristiano, non è più possibile. Per sostenerlo
converrebbe immaginare non solo un regresso della civiltà fino
all’infanzia e quasi alla barbarie, ma una scomparsa universale di
tutti i ricordi, di tutti i documenti, di tutti i monumenti della
Storia, il che per lo meno è tanto lontano quanto la scomparsa della
terra stessa.

Ma finchè l’incivilimento, con tutti gli strumenti e le forze da
lui accumulate, esista; fino a che la stampa, formidabile divinità,
signoreggi nel mondo, e possa con milioni d’occhi scrutare, e milioni
di bocche denunziare, e milioni di pagine perpetuare le azioni anco
de’ più ascosi mortali, non ci sarà fede creatrice di popoli, nè genio
inventivo di poeta che possa sviluppare un uomo della Storia dalla
realtà che da capo a piedi lo fascia, sottrarlo al sindacato della
ragione critica che da ogni parte lo assale, svellerlo totalmente dalla
terra per sublimarlo alle nubi e farne una costellazione del cielo.

Orlando o Maometto, Spartaco o Cesare, la forma e il grado di
trasfigurazione che le età nuove consentiranno oramai ai loro
grandissimi, non potranno oltrepassare i confini d’una contemplazione
commossa della loro umanità e d’una glorificazione entusiasta della
loro virtù.

Guardate Washington e guardate Napoleone. Quali figure, in diverso
e quasi inimico aspetto, più colossali e più degne delle apoteosi
dell’epica! Eppure non ostante il culto consacrato all’uno dagli eredi
beneficati d’un sublime retaggio di Libertà, all’altro dai superstiti
d’una gigantesca epopea, nessuno di loro potè sfuggire alle leggi
della sua civiltà e del suo tempo, e pur restando entrambi sul loro
piedistallo maravigliosi, nessuno riuscì a divenir leggendario. Così,
senz’alcun proposito di istituir confronti, che la fortuita vicinanza
di questi tre nomi potrebbe far sospettare, così Garibaldi.

Egli torreggia già sull’Olimpo e salirà, salirà ancora, ma sciogliersi
interamente nelle nebbie della leggenda, gettare la sua personalità e
responsabilità d’uomo non lo potrà mai. La Storia lo ebbe, e la Storia
lo terrà. Dica pure Dante a Virgilio:

    Mai non pensammo forma più nobile
    d’eroe...........

Livio giustamente risponderà sorridendo:

    È de la Storia, o poeti,
    de la civile Storia d’Italia
    è quest’audacia tenace ligure,
    che posa nel giusto, ed a l’alto
    mira, e s’irradia nell’ideale.[10]

  Padova, 15 giugno 1882.

                                                   GIUSEPPE GUERZONI.




   [Illustrazione: FAC-SIMILE DI DUE PAGINE DELLE MEMORIE DI
   GARIBALDI]




GARIBALDI.




CAPITOLO PRIMO.

DALLA NASCITA AL PRIMO ESIGLIO. [1807-1836.]


I.

La _Gazzetta Piemontese_ del 17 giugno 1834 pubblicava la seguente

                               «SENTENZA.

                                              Genova, 14 giugno 1834.

»Il Consiglio di Guerra divisionario sedente in Genova convocato
d’ordine di S. E. il signor Governatore Comandante Generale della
Divisione

»Nella causa del Regio Fisco militare contro _Mutru Edoardo_ del
vivente Giovanni, d’anni 24, nativo di Nizza Marittima, marinaro
di 3ª classe al R. servizio. — _Canepa Giuseppe Baldassare_ del fu
Giov. Battista, d’anni 34, nato e domiciliato in Genova, commesso
in commercio, sottocaporale provinciale nel 1º Reggimento Savona. —
_Parodi Enrico_ del vivente Giovanni, d’anni 28, marinaro mercantile,
nato e domiciliato in Genova. — _Dalus Giuseppe_ detto _Dall’Orso_
del fu Francesco, d’anni 30, nato a Praja dell’isola di Terzeïra
(Portogallo), marinaro mercantile di passaggio in Genova. — _Canale
Filippo_ del vivente Stefano, d’anni 17, nato e domiciliato in
Genova, lavorante libraio. — _Crovo Giovanni Andrea_ del vivente Giov.
Agostino, d’anni 36, nativo di Carreglia (Chiavari) e domiciliato in
Genova, sostituto segretario del Tribunale di Prefettura. — _Garibaldi
Giuseppe Maria_ del vivente Domenico, d’anni 26, capitano marittimo
mercantile e marinaro di 3ª classe al R. servizio. — _Caorsi Giov.
Battista_ del fu Antonio, detto il figlio di Tognella, d’anni 30 circa,
abitante in Genova. — _Mascarelli Vittore_ del vivente Andrea, d’anni
24 circa, capitano marittimo mercantile, dimorante nella città di
Nizza;

»I primi sei detenuti e gli altri contumaci, inquisiti di alto
tradimento militare, cioè:

»Li Garibaldi, Mascarelli e Caorsi di essere stati i motori d’una
cospirazione ordita in questa città, nei mesi di gennaio e febbraio
ultimi scorsi, tendente a fare insorgere le Regie truppe, ed a
sconvolgere l’attuale Governo di Sua Maestà; di avere li Garibaldi
e Mascarelli tentato con lusinghe e somme di denaro effettivamente
sborsate d’indurre a farne pur parte alcuni bassi uffiziali del
Corpo Reale d’Artiglieria, e di avere il Caorsi fatto provvista a sì
criminoso scopo d’armi, state poi ritrovate cariche, e di munizioni da
guerra. E gli altri sei di essere stati informati di detta cospirazione
e di non averla denunciata all’Autorità Superiore, e di essersi anzi
associati;

»Udita la relazione degli Atti, gli inquisiti presenti nelle loro
rispettive risposte, il R. Fisco nelle sue conclusioni, ed i difensori
nelle difese degli accusati presenti

»_Il Divino aiuto invocato_

»Reietta l’eccezione d’incompetenza opposta dai difensori di alcuni
accusati — Ha pronunciato doversi condannare, siccome condanna, in
contumacia i nominati _Garibaldi Giuseppe Maria, Mascarelli Vittore_ e
_Caorsi Giov. Battista_, alla pena di morte ignominiosa e dichiarandoli
esposti alla pubblica vendetta come nemici della Patria e dello Stato,
ed incorsi in tutte le pene e pregiudizi imposti dalle Regie Leggi
contro i banditi di primo catalogo in cui manda gli stessi descriversi.
— Ha dichiarato li Mutru Edoardo, Parodi Enrico, Canepa Giuseppe
Baldassare, Dalus Giuseppe e Canale Filippo non convinti allo stato
degli Atti del delitto ad essi imputato, ed inibisce loro molestie dal
Fisco. — E finalmente ha dichiarato e dichiara insussistente l’accusa
addebitata all’Andrea Crovo, e lo rimanda assoluto. — Genova, 3 giugno
1834.

»Per detto Illustrissimo Consiglio di Guerra

  »BREA, segretario.

                                                  »Visto ed approvato
                       »_Il Governatore Comand. gen. della Divisione_
                                                 »Marchese PAULUCCI.»

Era questa la prima volta, dice Giuseppe Garibaldi nelle sue
_Memorie_,[11] che leggeva stampato nei giornali il suo nome: era
questa la prima volta che lo leggevano gl’Italiani.

Chi mai avrebbe detto che l’oscuro marinaio di 3a classe, _il bandito
di primo catalogo_, il condannato nel capo per disertore e ribelle,
avrebbe presentato un giorno al Figlio di quel Re che lo mandava
al capestro una delle più belle corone d’Italia; parteciperebbe
con un gran Principe e un gran Ministro alla gloria di rivendicare
l’indipendenza e fondare l’unità della patria sua; «empirebbe del suo
nome (per dirla colle parole di Vittorio Emanuele) le più lontane
contrade;» diverrebbe uno degli uomini più popolari e delle figure
più meravigliose dei tempi moderni; invecchierebbe in una specie
d’inviolabilità, sotto l’egida della sua passata grandezza; morrebbe
con onori regali, e sopravviverebbe a sè stesso nell’immortalità della
storia?

Eppure quel giovane che l’Italia vedeva per la prima volta sui passi
dell’esiglio, inseguíto da una pena capitale, portava fin d’allora in
sè stesso tutte le promesse di un non volgare destino.

Quantunque ancora perduto nella folla, chiunque avesse potuto
conoscerlo e studiarlo da vicino, nella sua indole, ne’ suoi costumi,
ne’ suoi atti, nelle sue parole poteva fin d’allora presagire che
tosto o tardi egli sarebbe uscito di schiera e avrebbe fatto parlare di
sè. In qual modo egli n’avrebbe fatto parlare, era questo il segreto
dell’avvenire; ma certo l’avvenire aveva dei segreti per lui, e lo
aspettava.

Da quell’ignoto poteva uscire, secondo gli eventi e le fortune, così
un ardito corsaro come un glorioso ammiraglio, tanto un bandito famoso
quanto un candido eroe, così un avventuriere fortunato come un grande
capitano; ma non poteva più uscire oramai un uomo comune.

Già a ventisei anni egli aveva provato che, se la sua vita poteva
restare oscura, non lo poteva la sua morte. Anche arrestato per via
dal laccio del carnefice si sarebbe scritto sulla sua tomba: qui giace
un martire. Anche sparito nella tenebra d’un naufragio il marinaio
ligure ne avrebbe lungamente ripetuto il nome a’ suoi figliuoli come un
esempio d’intrepidezza e di virtù.

Giuseppe Garibaldi era un predestinato; e la Provvidenza (perchè dirla
il cieco destino?), temperandolo fanciullo nell’ampia palestra dei
mari e delle tempeste, aprendogli nella giovinezza e nella virilità
una scena adatta alle sue attitudini ed alla sua forza, scampandolo da
tanti pericoli e persino da sè stesso, aveva tutto predisposto in lui
e attorno a lui perchè riuscisse degno della singolare missione che gli
aveva affidata.

Che se essa non apparve sempre tutta buona, tutta provvida, tutta
grande, fu però ottima, provvidissima, grandissima un giorno, e ciò
basta alla posterità ed alla storia.


II.

Un novelliere francese lo fece nascere in alto mare, in una fragile
barca, tra i lampi e i tuoni d’una notte di tempesta, e non sembra
davvero che la vita di Giuseppe Garibaldi avesse mestieri d’essere
infrascata d’un romanzo di più.

Nacque, assai più tranquillamente, in Nizza Marittima, il 4 luglio
1807, un anno prima di Mazzini, in una casetta del _Quai Lunel_, oggi
_Quai Cassini_, da Domenico Garibaldi e da Rosa Raimondi.[12] Che poi
in quella medesima casa, anzi nella medesima camera sia venuto al mondo
49 anni prima Andrea Masséna, Garibaldi lo credette e lo scrisse, e
ai dilettanti d’oroscopi potrà dare nel genio; ma non è. Se ancora fu
leggenda viva per qualche tempo fra Nizzardi, oggi la lapide memoriale
che il Comune nizzardo pose sulla casa del _Quai Cassini_, la quale
ricorda solo il nome di Garibaldi, e l’altra posta sulla casa del
_Quai Jean Baptiste_ che afferma asseverantemente quella essere stata
il tetto natale del «prediletto figlio della vittoria,» tolgono ogni
dubbiezza.

La famiglia dei Garibaldi era oriunda di Chiavari e non si trapiantò
in Nizza che intorno alla fine del secolo XVIII. Come a Napoleone
dopo Marengo, così a Garibaldi dopo Marsala la compiacente Musa
dell’Araldica fece sorger dal suolo un completo albero genealogico, le
di cui radici si perdono nel profondo dell’età longobarda; ma ognuno
vorrà credere che, se anco non ci mancassero argomenti per entrare in
siffatto litigio, ci mancherebbe pur sempre l’ozio. Non v’ha dubbio che
il nome (_Gar_ o _Garde-bald_) l’accusa d’origine tedesca e antica; ma
se egli procedette davvero in retta linea da Garibaldo duca di Torino,
e da tutta quella non interrotta progenie di capitani di mare, di
uomini d’armi e di magistrati, che il dotto genealogista gli regalò,
questo non sapremmo davvero nè affermare nè negare.

A noi paghi, come il nostro eroe, di antenati meno illustri e più
certi, basti tenerci sicuri di questo: che verso la metà del secolo
scorso viveva in Chiavari un Angelo Garibaldi di vecchia e onesta
casata di capitani di mare ed armatori, capitano ed armatore egli
stesso: che quell’Angelo venne intorno al 1780 per trapiantarsi con
tutta la famiglia a Nizza; che in quella famiglia c’era un figliuolo di
nome Domenico e che questo Domenico, sposata Rosa Raimondi, divenne il
padre di cinque figliuoli, tra cui il nostro Giuseppe.

A Nizza poi la storia dei genitori e dei fratelli di Garibaldi è
notissima; e se è probabile che assai pochi sieno i superstiti di
coloro che li conobbero di persona, sono però molti e vivi ancora
quelli che la udirono raccontare da’ loro vecchi e la ripetono così:

Domenico Garibaldi, o, come lo chiamavano i suoi colleghi del Porto,
_Padron Domenico_, non fece studi di sorta; imparò la nautica sui
bastimenti del padre, e a forza di navigare, più per pratica che per
teoria, crebbe abile ed esperto marino. Rimasto orfano e padrone
di qualche ben di Dio, non lasciò per questo l’arte paterna; armò
bastimenti di suo, ne prese il comando egli stesso e li portò
con alterna fortuna, ma sempre con onore, per tutti i porti del
Mediterraneo. Non oltre però: chè per cimentarsi alle lontane
navigazioni transatlantiche e persino ai più vicini scali di Levante
gli fecero difetto sempre la portata de’ bastimenti, le cognizioni del
navigatore, e fors’anche più l’audacia e l’ambizione.

Era quindi e restò sempre un modesto capitano di cabotaggio, pratico
di tutti i paraggi del mar ligure da girarvi a occhi chiusi; sulla
poppa della sua tartana, la _Santa Reparata_, sicuro come in casa sua,
ma incapace d’uscire dal giro tradizionale della sua vita, ed alieno
dal rischiare tutta la sua fortuna sopra tavolieri troppo vasti e
cimentosi. Infatti dopo tanti anni di corse, di traffici, di sudori,
se non aveva intaccato il modesto patrimonio paterno, non l’aveva
neanche accresciuto, e non era giunto, malgrado tanti sforzi, che a
consolidarsi in quella mezzana agiatezza borghese, la quale, finchè la
famiglia è riunita o i figliuoli son piccini, pare soverchia, ma che
appena i figliuoli ingrandiscono e la famiglia si divide, assomiglia
molto davvicino alla strettezza e quasi alla povertà. Del resto,
brav’uomo, testa angusta, cuor largo, probo, servizievole, benevolo,
quindi beneviso: questo è il padre di Garibaldi, come ci fu ritratto
da persone che lo viddero e lo conobbero; quale è tuttora vivente nella
memoria dei Nizzardi.

Ma ancora più viva e venerata dura la ricordanza di sua moglie Rosa
Raimondi, o per chiamarla essa pure col nome pieno di riverente
affetto con cui la conobbe sempre il popolo di Nizza: _la signora
Rosa_. Discendeva da una casa popolare, ma benestante, di Savoia;
era donna di bellezza non comune, di costumi semplici e modesti, e di
straordinaria pietà. Nessuno però avrebbe potuto accusarla di melensa
bacchettoneria; osservava senza farisaismo come senza vergogna le
pratiche del suo culto; ma sapeva, e lo dimostrava coi fatti, che la
vera religione di Dio è essenza del bene, amore de’ simili e fiamma
di carità. E come il cuore così non aveva volgare la mente. Fin da
fanciulla aveva potuto tesoreggiare qualche istruzione; amava molto le
letture, intendeva, meglio forse che il marito, i segni del suo tempo e
le secrete vocazioni del suo secondogenito, di cui sentiva maturare con
amore atterrito la perigliosa grandezza. Del resto passava le ore che
le domestiche cure le consentivano al letto degli ammalati; distribuiva
con sapiente larghezza gran parte del suo ai poveri, e diveniva per
la sua gentilezza e carità tanto popolare, specialmente negli umili
quartieri del Porto, che bastava nominare la _signora Rosa_ perchè
tutti corressero col pensiero a colei che n’era, in certa guisa, la
fata benefica.

Ma nessun maggiore elogio di Rosa Garibaldi delle parole che il
figliuolo stesso già adulto le consacrava nelle sue _Memorie_. Anche
del padre rammenta con gratitudine la vita laboriosa ed onorata, gli
sforzi fatti per la sua educazione, col rammarico d’aver retribuito
di sì scarsi frutti tante cure e tanti sagrifici; ma quando viene a
parlare della madre gli erompe dal cuore tale un grido d’affetto e
di riconoscenza, che pochi figli saprebbero ripetere l’uguale: «Mia
madre, lo dichiaro con orgoglio, mia madre era il modello delle madri,
e credo con questo avere detto tutto. Uno de’ miei maggiori rammarichi
sarà quello di non poter far felici gli ultimi giorni della mia buona
genitrice, la di cui vita io amareggiai tanto coll’avventurosa mia
carriera. Soverchia fu forse la di lei tenerezza; ma non devo io
all’amor suo, all’angelico di lei carattere il poco di buono che si
rinviene nel mio? Alla pietà di mia madre, all’indole sua benefica e
caritatevole, alla compassione sua verso il tapino, il sofferente,
non devo io forse la poca carità patria che mi valse la simpatia e
l’affetto de’ miei disgraziati, ma buoni concittadini? Oh.... abbenchè
non superstizioso, certamente non di rado, sul più arduo della
strepitosa mia esistenza, sorto illeso dai frangenti dell’Oceano, dalle
grandini del campo di battaglia, mi si presentava genuflessa, curva al
cospetto dell’Altissimo, l’amorevole mia genitrice implorandolo per la
vita del nato dalle sue viscere!... ed io credevo all’efficacia della
preghiera!...[13]»

Belle e sante parole, che diresti ispirate dalla Musa stessa della
figliale eloquenza, e che rivelandoci a un tratto quanto fosse
squisita in quel cuore leonino la fibra dell’amor figliale, ci fanno
già presentire quanto sarà, un giorno, appassionato, cieco e quasi
improvvido il cuore del padre.

E quel che è più, egli suggellò queste parole scritte in un impeto di
religioso entusiasmo col culto dell’intera sua vita.

In Caprera il solo ritratto di donna che si veda sopra il capezzale
del Generale è quello d’una bella vecchina, avvolto il capo da un
fazzolettino rosso, che sorride dolcemente: il ritratto di sua madre.

Nella casa Garibaldi da trent’anni non si festeggia più l’onomastico
del Generale, perchè quel giorno coincide coll’anniversario della
morte di sua madre (19 marzo 1852), ed è giorno sacro alla sua
memoria. D’onde si vede che l’amor vero può suggerire le più signorili
raffinatezze della pietà anche ai lupi di mare!

Ma, come dicemmo, _Peppino_ (era questo il vezzeggiativo col quale il
nostro Giuseppe era chiamato per la casa, finchè verrà il giorno in cui
i Nizzardi lo chiameranno _Monsù Pepin_) non era il solo frutto d’amore
che la signora Rosa aveva dato a padron Domenico. Egli veniva in mezzo
a quattro altri fratelli, Angelo, che l’aveva preceduto, Michele,
Felice ed una sorella, di cui non sappiamo il nome, che l’avevano
seguíto. Angelo, la testa quadra della famiglia, il braccio destro del
padre finchè stette in casa, fu uomo di molta perizia e riputazione
negli affari mercantili e marinareschi, e finì negli agi, console di
Sardegna agli Stati Uniti d’America. Michele si dedicò più specialmente
al navigare; divenne capitano marittimo, non uscì quasi mai dalla
modesta penombra dell’arte sua, e morì il 21 luglio 1866. Felice
lasciò dietro a sè la nomina di elegante zerbino, gran cacciatore di
donne; esercitò con qualche fortuna il commercio; fu agente per molti
anni della casa Avigdor a Bari, e cessò di vivere non ancora vecchio
nel 1856. La sorella finalmente fu, bambinetta ancora, non sappiamo
per quale caso funesto, avvolta dalle fiamme, e vi morì orrendamente
bruciata.

Questo è tutto quanto ci fu dato spigolare, non senza fatica, sulla
famiglia di Garibaldi; altri potrà soggiungere di più; ma anche il
poco che noi abbiamo potuto dirne dovrebbe bastare a fermarne i tratti
principali ed a scolpirne l’immagine.

Non era, come s’è visto, una famiglia di signori, ma non la era neanche
di spiantati pescatori, come taluno sognò. La casa era modesta, ma
vi regnava il benessere, vi rideva l’amore, vi splendeva l’onestà. Il
padre la nutriva col lavoro, la madre la santificava colla pietà; la
gaia brigata dei figliuoli l’allegrava de’ suoi strilli, del suo moto
romoroso, de’ suoi innocenti trastulli; tutti insieme diffondevano
attorno al domestico focolare quell’aura di pace serena e di pura
letizia, che non era forse troppo omogenea alle spirituali ginnastiche
del pensiero, ma che certamente era più d’ogni altra propizia a
custodire e fortificare colla salute del corpo quella altresì più
preziosa ed importante, la salute del cuore, che è la più vitale
condizione d’ogni vera grandezza.


III.

Come crescesse in quella casa, da quei parenti, sotto quel cielo, lungo
quel mare, il secondogenito dei Garibaldi, è facile l’immaginarselo.
Il nostro eroe si studiò a tratteggiare in alcuni tocchi, a dir vero
troppo scarsi e fuggitivi, la propria infanzia; ma se egli ne avesse
anche interamente taciuto, chi ha visto l’albero può assai di leggeri
indovinarne il germoglio.

Un bel ragazzo dai capelli biondi, dalle gote incarnate, dallo sguardo
azzurro e profondo, dalle membra snelle e tarchiate, che cresce libero
e selvaggio ai venti e al sole della sua costiera natía, che passa le
sue giornate ad arrampicarsi su per le sartie dei bastimenti paterni,
a sguazzare e tuffarsi nell’acqua, a ruzzare e fare alle braccia coi
monelli del Porto, a correre la montagna alla caccia d’uccelli e di
grilli, ed a frugare la scogliera alla pesca di ricci e di granchi;
ecco quale doveva essere in sull’alba de’ suoi dieci anni il futuro
capo dei Mille.

Suo padre, ce l’assicura egli stesso, non pensò a dargli alcuna
«lezione nè di ginnastica, nè di scherma, nè d’altri esercizi
corporei,» e noi gli crediamo facilmente.[14] Con quell’indole e quella
tempra il ragazzo era maestro a sè stesso. «Imparai (egli soggiunge) la
ginnastica arrampicandomi su per le sartie o lasciandomi sdrucciolar
giù pei cordami: la scherma tentando di difendere da me la mia testa
e di spaccare quella de’ miei avversari; l’equitazione prendendo a
modello i migliori cavalcatori del mondo e studiandomi di far come
loro. Quanto al nuoto, dove e quando l’imparassi non mi sovviene; mi
sembra d’averlo sempre saputo e d’essere nato anfibio. Però quantunque
tutti quelli che mi conoscono sappiano che sono sempre stato restío a
fare il mio elogio, dirò molto schiettamente e senza crederlo un vanto,
che io sono uno dei più gagliardi nuotatori che esistano. Non bisogna
dunque attribuirmi merito alcuno, se, mercè questa gran fiducia che ho
sempre avuto in me, non ho mai esitato a buttarmi all’acqua per salvare
la vita d’uno de’ miei simili.[15]»

Ed a queste mirabili disposizioni del corpo rispondevano, già adeguate
e conformi, le qualità dell’animo; non tutte forse le qualità; ma
quelle due principalmente che più gli erano necessarie per sollevarsi
dal volgo e drizzare la nativa gagliardia delle membra a nobile mèta:
il coraggio e la bontà. Il coraggio gli veniva dalla natura che fin da
bambino gli aveva cinti i nervi d’una corazza impenetrabile a tutte
le impressioni della paura e radicato nell’animo quella, non saprei
dire se provvida o improvvida, inconsapevolezza del pericolo, che pare
talvolta colpevole follía ed è l’inconscia virtù dei fanciulli e degli
eroi.

Della bontà poi, egli stesso, ripeteva il dono da Dio e da sua madre, e
non ne pretendeva per sè merito alcuno.

Sino da primi anni tutto ciò che era piccino, debole, disgraziato, lo
toccava e lo impietosiva. E non di una pietà inerte, passiva, quasi
femminea; ma sì di quella virile, operosa, pugnace, che si sdegna
dell’ingiustizia, si ribella alle prepotenze, fa sua risolutamente la
causa degli afflitti e degli oppressi, e dà lietamente il sangue e la
vita per essi.

A otto anni aveva già tratto dalle acque d’un fosso una lavandaia
che vi annegava. A tredici salvava, gettandosi a nuoto, una barca
di compagni prossimi a naufragare. Non poteva veder soffrire nè gli
uomini nè gli animali, e l’uomo strano che nel bel mezzo d’una marcia
contro il nemico s’arrestava ad ascoltare il canto d’un usignuolo; che
balzava di letto prima dell’alba per correre a cercare tra gli scogli
di Caprera un agnello smarrito, e recarselo sulle spalle alla madre;
che s’accendeva di sdegno tutte le volte che sorprendeva un soldato a
maltrattare senza ragione il suo cavallo: era quello stesso fanciullo
che a sette anni, fatto prigioniero un grillo e strappategli le ali
fu preso poi da tanta pietà del povero animaluccio, e da tale rimorso
della propria crudeltà, che ne pianse amaramente.


IV.

Ma Peppino entrava già nel suo dodicesimo anno, ed era tempo che si
mettesse di proposito agli studi. Questo capitolo però della prima
educazione intellettuale di Garibaldi è pieno per noi, e non crediamo
sia diverso per altri, di grande oscurità e di molte lacune. Che padron
Domenico non abbia trascurato nè cure nè dispendi per dare al suo
secondogenito una istruzione anche superiore alle sue forze ed al suo
stato, ce ne assicurò con parole di viva riconoscenza il figlio stesso
e non è lecito dubitarne. Ma in che quella educazione sia propriamente
consistita, a quale carriera quel padre destinasse quel figliuolo,
e però a quale ordine di studi lo volesse incamminare, ciò non è da
alcun documento attestato, e il biografo che non voglia dare per fatti
le ipotesi non dev’essere restío a confessare la propria ignoranza.
Che tanto padron Domenico, quanto la signora Rosa ripugnassero ad
avventurare su quell’arena fortunosa e infida del mare un figliuolo
così temerario e spericolato, e n’avessero perciò fin dai primi anni
combattuto con ogni possa l’aperta vocazione, vagheggiando per lui
uno stato più sicuro e tranquillo, è indubitabile, e trapela, a dir
così, dalle stesse parole onde Garibaldi dipinge lo sgomento, quando lo
videro imbarcarsi e salpar da Nizza la prima volta.

Ma che poi essi, il padre principalmente, avessero nell’animo, siccome
fantastica il vecchio Dumas, di fare addiritura di quel figliuolo un
medico, un avvocato e persino un prete, nè Garibaldi lo scrisse, nè
altri lo affermò, ed è manifestamente una delle tante fiabe, di cui il
romanziere francese infarcì il suo racconto. E non la diremmo nemmeno
una ragionevole ipotesi; chè il fatto solo del silenzio di Garibaldi
intorno a quegli studi classici, che pur sono necessario avviamento a
quella carriera, anticipatamente la smentisce. La smentisce, ma non
le surroga per questo un fatto più certo; poichè, se è da tenersi
per indubitato che il nostro eroe non vide mai neppure da lontano un
cartone di libro latino o greco o d’altro classico qualsiasi, non c’è
poi modo di discernere a quale ordine debbano andare ascritti tutti
quegli altri studi che pur egli ammette d’aver fatti e fece certamente.

Garibaldi stesso è, su questo punto, d’un laconismo sconfortante per
chi pur vorrebbe scoprir la traccia della prima coltura che dirozzò la
sua mente. Tutto quello che egli sa dircene in proposito è racchiuso in
questo breve periodo:

«Tra i maestri conservo cara rimembranza del padre Giaccone[16] e
del signor Arena. Col primo trattai pochissimo, più intento allora a
divertirmi che ad imparare, e mi rimane quindi il rimorso di non aver
studiato l’inglese, rimorso risuscitato in ogni circostanza della mia
vita in cui mi sono trovato con Inglesi. Poi essendo il padre Giaccone
di casa nocevami la troppa famigliarità. Al secondo, eccellente
militare, io devo il poco che so, soprattutto riconoscenza d’avermi
avviato nella lingua patria colla lettura della storia romana.»

Ora ognun vede che queste parole sono più fatte per moltiplicare i
quesiti che per diradarli, più per invogliare alla curiosità che per
sodisfarla.

Infatti se il padre Giaccone non riuscì nemmeno a insegnargli
l’inglese, che cosa gl’insegnò egli? Se il signor Arena non l’istruì
che nella lingua italiana e nella storia romana, dove e da chi apprese
egli tutte quelle altre nozioni, chiare od oscure, superficiali o
profonde, digeste o indigeste, che pure balenano, come lampi, tramezzo
a fitte nebbie, dalle parole e dagli scritti della intera sua vita?

Noi udimmo narrare da un suo amico e commilitone che Garibaldi,
giovane, sapeva a memoria teorema per teorema tutti gli elementi di
geometria; ora non vogliamo attribuire a questa felicità di memoria
maggiore importanza che si meriti; ma insomma egli fu capitano
marittimo, e per conseguirne la patente dovette possedere almeno nella
scarsa misura degli elementi non poche cognizioni di matematica,
d’astronomia, di geografia fisica, di diritto commerciale, e via
dicendo; e il fatto delle sue lunghe e difficili e felici navigazioni
provano che le possedette.

Ora come, quando, dove apprese tutto ciò?

Così noi leggeremo più tardi che egli fu per due volte costretto a
guadagnarsi il pane dell’esiglio insegnando qui la matematica, altrove
la storia e la letteratura e simili.

Ed anche qui per quanto la voce _maestro_ non sia mai stata sinonimo
di _dotto_, pure una certa infarinatura delle cose che si fan mostra
d’insegnare altrui sappiamo tutti che ci vuole, e il sapere dove
e quando un siffatto maestro se la sia procacciata, resterà sempre
curioso e interessante.

E non basta. Una tal quale coltura letteraria, confusa, balzana,
indigerita, incondita, nessuno potrà mai negargliela. A ventisette anni
sulla tolda del suo bastimento faceva dei versi, che non erano tali
certamente da promettere un nuovo alunno all’italo Parnasso, ma che pur
camminavano su tutti i loro piedi; e nella passione dei versi sappiamo
tutti che invecchiò, sicchè più d’uno fu ammesso ad udire lunghi brani
d’un suo poema endecasillabo che doveva celebrare l’epopea della sua
vita. Più tardi, noi stessi, ospiti suoi a Caprera, l’abbiamo sentito
declamare a memoria tutti i _Sepolcri_ di Foscolo e squarci interi in
francese della _Zaïre_ di Voltaire, e ricordarsi poi come uomo che li
ha letti nei testi, non pochi episodi dell’_Iliade_, della _Commedia_,
della _Gerusalemme_. Infine fanno ormai quarant’anni ch’egli innonda,
può dirsi, l’Europa de’ suoi manifesti, de’ suoi appelli, delle sue
lettere (ahimè! la fiumana delle lettere), finchè verrà il giorno, in
cui il mondo lo vedrà darsi «per vivere» (parola che troncherebbe il
sorriso ai più beffardi) all’arte del romanziere, e aggiungere alla
mole delle cose, che la storia deve dimenticare di lui, tre romanzi.

Ora per leggere una carta idrografica, per levar un punto di stima,
osservare un barometro, tenere un Libro di bordo, governare un
bastimento dal Pacifico al mar delle Indie; per misurare de’ versi
anche mediocri, ma che pur rompono qua e là in accenti di fiera
armonia; per gustare Ugo Foscolo, per intendere Voltaire, per sapere
che esistessero Dante, Tasso ed Omero, per cucire assieme de’ romanzi
anche pessimi, per gettare sulla terra una piena di lettere come
le sue, rozze e bizzarre fin che si voglia, ma nelle quali pur vedi
sormontare tramezzo al denso limo delle stramberie e degli spropositi
qualche fiore di selvatica bellezza; per sapere, dicevamo, per
intendere, e per fare tutto ciò, qualche cosa qui e colà bisogna aver
letto e studiato, e la conseguenza naturale a cui si è tratti, è di
chiedersi dove e quando l’abbia potuto leggere e studiare.

Altro però è sentire la necessità di un quesito, altro la possibilità
di risolverlo. Chi presumesse di cercare i principii dell’istruzione
intellettuale di Garibaldi (quale che sia stata) nella sua giovinezza
piuttosto che nella sua virilità, in un periodo piuttosto che in un
altro della sua vita, fallirebbe. Garibaldi s’è fatto tutto da sè,
per via, camminando, navigando, combattendo. Come una landa fertile
da natura, ma abbandonata dall’incuriosa mano dell’uomo, e che il
seme portato dal vento feconda di qualche erba e qualche arbusto,
così la mente di Garibaldi. Il vento delle sue fortune fu il suo
primo educatore e maestro, ma la mente restò come la landa una vasta
sodaglia, interrotta da qualche oasi fiorita e da alcune rare piante
salvatiche.

E non vorremmo per questo sminuire la gratitudine dovuta a’ suoi primi
maestri; consentiamo anzi che qualche buon seme l’abbiano sparso essi
pure, e che ad essi principalmente torni il merito d’avere per i primi
dissodato e aperto il vivace ingegno del fanciullo. Ma o perchè questi
fosse reluttante agli studi e più amico dei _banchi di quarto_ che
dei banchi di scuola, o perchè ne’ suoi precettori non andassero di
pari passo lo zelo ed il sapere, o perchè infine non apparendo chiaro
nella mente de’ genitori la mèta a cui dovevano dirigerlo, anche gli
studi si risentissero di questa incertezza e difettassero di ordine
e d’indirizzo, il fatto certo è questo che Peppin Garibaldi ebbe dei
maestri, sedette ad una scuola, scartabellò e scarabocchiò anch’esso
dei quaderni come tutti i fanciulli suoi pari, sfiorò anche, se si
vuole, gli elementi di molte cose utili per fermo a sapersi; ma un vero
e proprio e regolare corso di studi anche elementari, che gli potesse
servire di fondamento all’istruzione futura, non lo fece, nè lo potè
fare; aggiungiamo anzi, per la verità, che allora non lo volle.

E non lo volle, perchè nel momento in cui padre Giaccone e il capitano
Arena erano più affaccendati intorno a lui, e padron Domenico e la
signora Rosa più si allegravano nel pensiero di vederlo attendere
con profitto agli studi, e già vagheggiavano la speranza che l’amore
dei libri l’avrebbe a poco a poco guarito dalla passione del mare,
in quel punto stesso, diciamo, il ragazzo ordita con altri tre amici
una congiura di rompere quella fastidiosa disciplina della scuola e
di correre sul libero mare la ventura, rapito, non sappiamo nè a chi
nè come, un battello di pesca, s’imbarcava furtivo con tre compagni,
Cesare Parodi, Raffaello Deandreis e Celestino Berman, prendeva
arditamente il largo e navigava per Genova.

Un prete scopriva e denunziava la trama, il padre, affannato, mandava
ad inseguirlo, ed era fermato all’altezza di Monaco, e ricondotto, più
indispettito che contrito, sotto il tetto paterno: ma la vocazione del
figliuolo era decisa; non valevano ormai nè persuasioni nè rimproveri;
egli sarebbe stato marinaio come i suoi avi; e forse una segreta voce
mormorava già nel cuore del fanciullo: non marinaio soltanto!


V.

Poichè contrastare a una sì manifesta e deliberata vocazione
sarebbe stato peggio che follía, a padron Domenico non restava più
che alleviare al figliuolo i disagi e i pericoli del noviziato,
procacciandogli un buon imbarco; e alla signora Rosa che preparargli,
piangendo in silenzio, il fardello di viaggio.

E l’imbarco fu presto trovato e migliore sarebbe stato difficile.
Allestiva nel porto di Nizza per Odessa il brigantino _Costanza_,
capitano Angelo Pesante: il brigantino aveva reputazione di solido e
svelto veliero; il capitano passava per uno dei più provetti e arditi
marinai della Riviera ligure; fu dunque deciso che Peppin farebbe con
essi la sua prima campagna di mozzo.

Con che cuore lo vedesse partire il suo vecchio padre, con che lagrime
l’abbracciasse la sua povera madre, è facile immaginarlo; quanto a
lui, li amava troppo per staccarsene senza dolore; ma l’idea di poter
slanciarsi finalmente su quel «regno ampio de’ venti» ch’era stato
l’anelito segreto e il sogno costante della sua anima giovanile, la
gioia di poter anche lui salire un gran bastimento, guizzar tra le
sue alte gabbie, imparare come si maneggi una mura, come si governi
un timone, come si legga una bussola, come si cansi o si domi un
fortunale; quell’idea e quella gioia suprema, staremmo per dire
dell’animale che si tuffa nell’elemento per cui è nato, dominavano in
quell’istante persino il dolore del distacco ed ogni altro suo affetto.

«Com’eri bella (esclama trent’anni dopo, caldo ancora dei ricordi
di quella sua prima navigazione) com’eri bella, o _Costanza_, su cui
dovevo solcare il mare per la prima volta! Gli ampi tuoi fianchi, la
snella tua alberatura, la spaziosa tua coperta e sino il tuo pettoruto
busto di donna rimarranno per sempre impressi nella mia immaginazione.
Come dondolavansi graziosamente que’ tuoi marinari sanremesi, vero tipo
de’ nostri intrepidi Liguri![17]»

E queste parole d’entusiasmo dopo tant’anni prorompenti ancora dal
cuore del marinaio già indurito dalle tempeste e dai perigli, ci
dicano quale grande fortuna sia stata per la patria nostra che padron
Domenico non si sia ostinato a negare il fondamento che natura aveva
posto nel suo figliuolo, e che cuore di marinaio avesse quel giovane
che parlava del suo primo viaggio di mare come d’un viaggio di nozze,
e tratteggiava le bellezze della nave su cui navigò la prima volta
coll’amore d’un fidanzato.

Malauguratamente di quel primo viaggio in Odessa, nè di altri che fece
poi, noi non sappiamo, nè egli volle dire di più. «Sono diventati sì
comuni, diceva, che superfluo sarebbe lo scriverne;» e aveva torto, e
io spero ancora che in quelle _Memorie_ che si assicura abbia lasciato
dietro di sè come un retaggio alla storia, vorrà dar compiuta la
descrizione di quel periodo, in cui il marinaio fece il suo tirocinio e
il giovine subì la prima tempera del suo carattere.

Reduce dall’Oriente, il padre, il quale, non potendo più pensare
a cambiare la carriera del figliuolo, andava cercando i mezzi per
rendergliela meno grave e meno perigliosa, lo pigliò seco sulla sua
tartana, e costa costa, come soleva, lo condusse fino a Fiumicino,
ch’era allora, pur troppo come oggi, il porto di Roma.

Roma! — Chi avrebbe detto che fra i milioni di pellegrini che da secoli
visitano la città eterna, e quali attratti dai ruderi di Roma pagana,
quali dalle feste di Roma cristiana, gli uni ispirati dalla scienza e
dalla poesia, gli altri guidati dalla pietà o dalla superstizione, la
contemplano, l’adorano, la scavano, la frugano, la glorificano; uno de’
più fervidamente innamorati, de’ più ingenuamente entusiasti, sarebbe
stato quell’incolto mozzo di bastimento che si chiamava Giuseppe
Garibaldi!

Eppure egli lo scrisse! e ci pare di vedere quel biondo ragazzotto di
diciassett’anni vagare per le vie di Roma e senz’altra scorta che quel
po’ di storia romana favolosa che gli aveva insegnato il buon Arena,
senz’altra guida che suo padre più indotto e più semplice di lui,
passare stupito e quasi trasognato in mezzo alle rovine ed ai monumenti
di quei due mondi confusi insieme, arrestarsi estatico innanzi ai fòri
ed ai circhi, alle terme ed alle basiliche; inoltrarsi trepidante fra
le arcate del Colosseo; piegare il capo sopraffatto sotto le vôlte di
San Pietro, ritentando invano colla sua povera scienza di ricomporre
quella storia, d’interpretare quelle pietre, ma sentendosi turbinare
nella mente legioni di eroi, di martiri, di santi fra un tumulto di
pugne, di baccanali, di tormenti; e in mezzo a questi giganteggiare
assopita sul letto di marmo delle sue glorie, ma vivente ancora fra la
polvere e le macerie, l’immagine della città fatale.

E non è questa poesia nostra. Garibaldi andò più innanzi di noi,
e riassumendo le impressioni di quel suo viaggio ne scriveva così:
«Roma allora mi diventava cara sopra tutte le esistenze mondane, ed io
l’adoravo con tutto il fervore dell’anima mia! non solo nei superbi
propugnacoli della grandezza di tanti secoli, ma nelle minime sue
cose, e racchiudevo nel mio cuore, preziosissimo deposito, l’amor mio
per Roma, non isvelandolo se non che per esaltare caldamente l’oggetto
del mio culto. Anzichè scemarsi, il mio amore per Roma s’ingagliardì
colla lontananza e coll’esiglio. Sovente, e ben sovente, io chiedevo
all’Onnipossente di poterla rivedere. Infine Roma è per me l’Italia,
poichè io non vedo l’Italia altrimenti che nell’unione delle sparte
membra, e Roma è il simbolo dell’unione d’Italia, comunque sia.[18]»

Ora si dica pure che qui non è il giovane che parla, ma l’uomo, e che
questi travestì senz’avvedersene gli arcani presentimenti e le vaghe
impressioni di quell’ora della sua giovinezza nei pensieri dell’età
matura; non è men vero che le emozioni, quali che fossero, provate dal
giovane, lasciarono un’impronta sì viva e incancellabile nello spirito
dell’uomo, che questi non potè più parlare nè scrivere di Roma senza
risalire colla memoria a quel lontano giorno, in cui ne calpestò per la
prima volta le sacre pietre, e più cogli istinti del cuore che colla
scienza dell’intelletto lesse nelle sue reliquie la storia della sua
passata grandezza e i vaticinii della sua redenzione futura.


VI.

E non fu quella la sola emozione che il giovine Garibaldi provò in quel
suo viaggio. Egli stesso, allorchè quasi settuagenario venne da Caprera
a Roma condotto da quella sua, non sapremmo dire se idea od utopia (ma
utopia certamente romana), di deviare e incanalare il Tevere, confidò
ad un amico suo e nostro[19] che il primo lampo di quel concetto gli
balenò nella mente appunto in quella sua prima visita all’eterna città.

E non è affatto incredibile che quel giovinotto, pieno il capo di
prodezze marinaresche e di fantasie romane, vedendo quella Roma così
prossima e pur così segregata dal mare, quel glorioso porto d’Anzio
ridotto ad una squallida rada di pescatori, e quella storica bocca
d’Ostia scomparsa sotto un’alluvione d’arene e di fango, e quel Tevere
divino tramutato in un melmoso e maligno torrentaccio, danno e vergogna
della città di cui era un tempo ricchezza e decoro; non è affatto
incredibile, diciamo, che egli farneticasse di poter mutare tutto ciò
in pochi tratti di penna e pochi colpi di mano, e sognasse fin d’allora
la risurrezione di Roma marittima, come sognava forse la ben più certa
risurrezione di Roma civile.

Gli è che i sogni de’ vecchi non sono il più delle volte che i sogni
dei fanciulli colla sola barba di più; e chi leggerà questa Vita vedrà
che nessun uomo fu più tenace de’ suoi sogni di Giuseppe Garibaldi.

Con quelle larve d’idee per il capo, con quei germi di affetti nel
cuore, ripigliò la via del mare e per sette anni continui, eccettuati
alcuni fugaci riposi, vi perdurò. Ingaggiato di nuovo per marinaio
sul brigantino Enea, capitano Giuseppe Gervino, che veleggiava
per Cagliari, gli toccò nel ritorno d’essere passivo ed impotente
spettatore del naufragio d’un bastimento che faceva rotta col suo; e
della scena straziante gli restò nell’animo incancellabile memoria.
«Ritornando da Cagliari,» poichè lo stile qui non è solo l’uomo, ma
il marinaio, lasceremo parlare lui stesso: «Ritornando da Cagliari
eravamo giunti sul capo di Noli e con noi altri bastimenti, fra’
quali un _felucio_ catalano. Da vari giorni minacciava il Libeccio e
grossissimo era il mare: quindi si scagliò il vento con tanta furia
da farci appoggiare in Vado sotto il trinchetto. Il _felucio_ dapprima
galleggiava mirabilmente e sostenevasi, da far dire ai marinari nostri,
essere preferibile trovarsi a bordo di quello. Ma dolorosissimo
spettacolo doveva presentarsi ben presto. Un orrendo maroso lo
rovesciò, e non vedemmo che alcuni infelici sul suo fianco stenderci le
braccia, e sparire travolti nel frangente d’un secondo più terribile
ancora. Aveva luogo la catastrofe verso il nostro giardino di destra;
impossibile soccorrere i miseri naufraghi. I barchi di dietro furono
nella stessa incapacità, e miseramente perivano alla nostra vista nove
individui d’una stessa famiglia. Alcune lacrime sgorgarono dagli occhi
de’ più sensibili al miserando spettacolo, esauste presto dall’idea
del proprio pericolo. Da Vado passai in Genova, quindi in Nizza, dove
principiai una serie di viaggi in Levante a bordo de’ bastimenti della
casa Gioan.[20]»

«Nel corso poi di que’ viaggi (aggiunge altrove[21] l’Autobiografo)
fummo (intende con lui la nave e l’equipaggio) tre volte sorpresi
e spogliati dai pirati; accadde anzi che, avendo ricevuto la stessa
visita per due volte durante il medesimo viaggio, gli ultimi pirati non
trovassero più su di noi cosa che valesse la pena d’essere predata,
e se n’andarono a mani vuote.» E del resto null’altro di noto e di
certo circa a quelle sue corse, che pure sarebbero di tanto interesse
per la storia del marinaio. Certissimo invece: che l’ultimo di quei
viaggi lo fece a bordo del brigantino _Cortese_, capitano Carlo
Semeria: che sbarcato a Costantinopoli v’infermò, ed ospitato nella
casa della signora Luigia Sauvaigo,[22] sua generosa concittadina, vi
trovò ogni maniera di cure e di conforti: che risanato, ma chiusi i
porti dell’Egeo e del Mar Nero dalla guerra guerreggiata tra Russia
e Turchia, toltogli perciò il navigare, fu costretto a prolungare
il suo soggiorno a Costantinopoli nella più angustiosa strettezza:
che finalmente costretto a cercar lavoro per vivere accettò come una
fortuna di dar lezioni di storia, geografia, francese e matematica
ai tre figliuoli d’una signora Timoni; risoluzione temeraria quando
si pensi al leggiero fardello con cui l’improvvisato precettore si
presentava in quella casa, ma quando si consideri l’onesto motivo che
la ispirava, altamente commendevole. Non confondiamo: si può sorridere
finchè si vuole della singolar figura di quel maestro, ma l’uomo in
quel caso impone rispetto.

Era infatti un sentimento virtuoso, era il nobile orgoglio di non
dovere il proprio pane che a sè stesso quello che spingeva quel giovane
tanto bisognoso d’aria e di moto, nato al tumulto de’ campi ed alla
libertà dell’Oceano, a serrarsi in una stanza, a configgersi ad uno
scrittoio, a vegliare forse per studiare la notte il poco che doveva
insegnare di giorno; ed egli ha il diritto di contare quella sua prima
vittoria sulla povertà guadagnata colle sole armi della dignità e del
lavoro fra le più gloriose della sua vita. Così gli fosse durato quel
coraggio della miseria, che fu la corazza splendidissima della sua
virilità, fino all’estrema vecchiezza!!

Finalmente i porti si riaprono; il maestro può buttare dalla
finestra la sua provvisoria giornea, il marinaio respirare ancora
dal lucido piano d’una tolda, fra il dolce cigolío delle sarchie e
la grata altalena del rollío e del beccheggio, la libera aria del
nativo elemento, e correre verso i lidi della patria. Infatti fa
vela per Nizza; appena a terra, abbracciati in fretta i suoi vecchi,
si mette alla cerca d’un nuovo imbarco e trovatolo di suo genio, e
con un nome gentile per giunta, _La Nostra Signora delle Grazie_,
e un vecchio capitano, Antonio Casabona, vi si arruola per secondo,
naviga qualche tempo con quel grado, finchè viene il giorno in cui
l’eccellente Casabona, rotto dagli anni e dai reumatismi e bisognoso
ormai di riposo, gliene cede il governo ed egli ne diventa il capitano
effettivo.

Ed era tempo: il giovinetto s’era fatto uomo, il mozzo era venuto
su per tutti i gradi della gerarchia marinaresca, navigando, cioè
combattendo; non s’era molto seduto sui banchi della scuola, ma aveva
la faccia arsa, le mani incallite, l’occhio esercitato da dodici anni
di manovre, di vigilie e di fortunali, ed era naturale ch’egli salisse
finalmente il ponte del comando, segnando lui al timoniere la rotta del
suo bastimento.

Infatti nel I vol., pag. 392, della _Matricola marittima del 1832_, si
legge:

  Garibaldi Giuseppe Maria, figlio di Domenico e di Rosa Raimondi,
  nato il 4 luglio 1807 a Nizza, Provincia di Nizza, iscritto alla
  Matricola dei Capitani della Direzione di Nizza il 27 febbraio 1832
  al Nº 289.

E chi fosse, che valore avesse, quale reputazione si fosse acquistata
qual capitano, lo dica meglio d’ogni documento il fatto che da
testimoni oculari ci venne attestato. Garibaldi non poteva più tornare
da uno de’ suoi viaggi, senza che una folla di marinai, di pescatori,
di popolo d’ogni fatta accorresse sul molo a dargli il benvenuto, a
mirarlo, a festeggiarlo, a interrogarlo, a commentare i suoi gesti,
a compiacersi insomma di quel compaesano che faceva suonar così
rispettato tra i marinai di Liguria e di Provenza il nome della sua
città. Il Capitano marittimo era già una piccola celebrità paesana,
in attesa che la fortuna gli apparecchiasse la scena e l’occasione di
divenire una celebrità mondiale. E la fortuna lavorava da tempo per
lui, più che egli non pensasse.


VII.

Da anni nereggiavano sul cielo d’Europa i nembi precursori d’una
nuova tempesta. L’arca della Santa Alleanza tenevasi a stento sul mare
fortunoso che aveva presunto dominare, e perdeva ogni giorno un tronco
d’ormeggio e un brano di vela. La monarchia de’ Borboni di Francia
era stata travolta dal torrente di luglio; quella di Spagna, già
imbavagliata dalla costituzione del 12 e scrollata dalla rivoluzione
del 20, salvata soltanto dall’invasione straniera, non era più che una
larva di principato in preda a tutti i venti delle pretese dinastiche
e delle discordie civili. La Grecia di Temistocle e di Milziade,
rediviva un istante nell’anima di Botzaris e di Canaris, insegnava
sotto le mura di Suli e nelle acque di Ipsara come si conquista una
patria, e sfuggiva mutila, ma gloriosa, dalle ugne dell’Infedele. La
Polonia di Kosciusko sempre agonizzante, sempre combattente, ripigliava
per la terza volta l’ineguale duello contro il suo colossale nemico
e aggiungeva una pagina di più al suo secolare martirio. Il Belgio
strappava un altro foglio dai protocolli del 1815, rivendicando la
propria indipendenza. L’Inghilterra sorda ad ogni politica che non
fosse quella di Bentham, partigiana della pace ad ogni costo, quindi
complice all’esterno d’ogni fatto compiuto, gettava tuttavia sui
tappeti diplomatici la questione della Tratta dei Negri, agitava dalla
tribuna, consacrava nelle leggi i principii della libertà religiosa,
della libertà politica, della libertà commerciale, sommoveva colla
parola la terra, che colla mano comprimeva.

L’Italia infine, sebbene la più oppressa, quindi la più temuta e
vigilata di tutte, lungi dal deporre la speranza di ricomporre le
sparse sue membra e di risorgere una e grande nella famiglia delle
nazioni, si cacciava anzi per la prima in quella mischia di popoli e
di tiranni; ed ora aspettando la salute dalle sommosse popolari e dalle
sedizioni soldatesche, ora chiedendo la vendetta alle congiure ed alle
sètte; oggi combattendo all’aperto colla voce de’ suoi poeti e la penna
de’ suoi scrittori, domani affilando nei sotterranei delle sue loggie
e delle sue vendite il pugnale dei carbonari; fidente nel 21 alle
promesse dei Principi e vinta; credula nel 31 alle lusinghe del non
intervento straniero e vinta: ma da ogni disinganno e da ogni disfatta
rialzandosi più credente, più ostinata, più indomita di prima, questa
povera Italia, dico, turbava, se altro non poteva, colla ostinazione
del martirio i sonni de’ suoi sette oppressori, ed attestava almeno
all’Europa che la carta geografica del principe di Metternich era
abitata da un popolo di vivi, poichè egli li uccideva. Eccettuato la
Germania, obesa di metafisica e di cervogia, troppo satolla di libertà
di coscienza per sentire bisogno della libertà d’azione; affaccendata
a ballare nelle quaranta corti de’ suoi principini, ed a pipare nelle
mille birrerie delle sue metropoline, quando non era assorta a cercare
nell’azzurro le incarnazioni dell’idea; eccettuato, ripeto, codesta
Germania effigiata sul vivo dall’ironia immortale di Heine, rimasta
per cinquant’anni in mezzo al fiottar dell’Oceano europeo come un’isola
caliginosa popolata da spettri di sognatori e d’illuminati, non angolo,
può dirsi, della terra in cui non fumasse un vulcano e non serpeggiasse
una mina; da cui non partisse un gemito d’oppressi, un grido di
libertà, un tumulto di congiure e di sommosse.

Quale impressione dovessero produrre quei fatti sullo spirito di
Giuseppe Garibaldi, non è veramente scritto in nessun luogo, ma è
facile indovinarlo. Tempra d’animo gagliarda come di corpo; posseduto
fin da’ primi anni dalla passione dell’eroico e del meraviglioso; già
invasa la mente dai fantasmi d’una Roma che portava nella grandezza
delle sue rovine i presagi della sua risurrezione; educato nella
libertà dei mari a quel fiero sentimento d’indipendenza che nella
gente dell’arte sua è seconda natura; nato e cresciuto in quella
regione d’Italia che prima aveva dato il segnale della riscossa, ed
echeggiante tuttora delle maledizioni dei vinti di Novara e dei martiri
d’Alessandria a Carlo Alberto «traditore,» pochi uomini dei viventi
nella Penisola potevano offrire alle tante scintille di quell’incendio,
che avvolgeva mezza Europa, una materia più pronta ed infiammabile.

Tuttavia se poteva dirsi che in fondo all’anima del Nizzardo covassero
fin d’allora tutte le collere dell’Italiano, tutte le passioni del
patriotta e tutti i propositi dell’eroe, la favilla decisiva, che
da quel braciere sprigionasse la fiamma, non v’era peranco piovuta.
Infatti fino a quel giorno egli aveva bensì prestato ascolto a tutte
le voci che la patria lontana martire o combattente mandava a’ suoi
figli: seguiva bensì ne’ pochi libri e giornali che gli cadevano tra
mano tutte le vicende di quella multiforme battaglia che non l’italiano
solo, ma tutti i popoli d’Europa pugnavano contro i loro oppressori; ma
i lontani viaggi, le prolungate assenze, le molteplici cure dell’arte
sua gli avevano impedito di penetrare più addentro in quel mondo
politico, ancora in gran parte sotterraneo, che fremeva intorno a lui;
e nell’impossibilità di conoscere davvicino le idee, gli attori, i
mezzi della vasta impresa che si preparava, spiava attento l’occasione
e temporeggiava.

E non è qui tutto. Garibaldi a quei giorni non pensava solo all’Italia:
un sogno più splendido aveva attraversato la sua mente; una passione
più magnanima faceva battere il suo cuore. Un giorno del 1832 sua madre
fu udita esclamare: «I Sansimoniani mi hanno guastato mio figlio;[23]»
e la brava donna, che probabilmente confondeva nella sua mente coi
«Sansimoniani» ogni specie di rivoluzionari, diceva il vero più che non
pensasse.

Quando sulla fine del 1832 i Sansimoniani della seconda generazione
furono scacciati dal tempio di Ménilmontant e sbanditi dalla Francia,
taluni di loro, come il Rodriguez, il Chevalier, il Duveyrier,
restarono in patria a cercare altre occupazioni ed altra sorte; altri
invece, come l’Enfantin e il Barrault, emigrarono per l’Oriente, il
quale, dice Luigi Blanc, «già era sommosso da audaci tentativi di
riforme e sembrava allettare alle conquiste dell’intelletto, e offrire
terreno più propizio alle loro dottrine.»

Ora il caso volle che Garibaldi rifacendo nello scorcio di quell’anno
uno de’ suoi consueti viaggi in Levante, incontrasse, non sappiamo in
che porto, appunto la comitiva di quei proscritti, di cui il Barrault
era in certa guisa la guida, e come sospinto subitamente verso di essi
da un’arcana simpatia, li accogliesse al suo bordo e continuasse il
viaggio con loro.

Ora quali potessero essere su quel bastimento i discorsi di quegli
uomini esaltati dalla passione della loro fede proscritta e di quel
marinaio ingenuo e fantasioso; quale fáscino dovessero esercitar sul
suo spirito le splendide utopie di quei profeti sacrati a’ suoi occhi
dalla sventura e dall’esilio, e annunzianti sotto la vôlta stellata del
cielo, sulla stesa del mare infinito, nel silenzio delle notti luminose
d’Oriente il prossimo avvento della Pace e dell’Amore sulla terra, la
esclamazione della signora Rosa ce l’ha in parte svelato, e l’avvenire
lo chiarirà.

Certo Garibaldi non avrà nè tutto capito, nè tutto creduto.
Probabilmente il senso intimo di tutte quelle mistiche formole,
e di quegli economici filosofemi, onde componevasi il verbo del
_Nuovo Cristianesimo_, gli sarà sfuggito; probabilmente l’ufficio
dell’«Uomo-coppia,» il dogma della «Donna-Messia,» la missione del
«Tempio-teologico-industriale» del padre supremo Enfantin, e del suo
diacono Bazard, l’avranno lasciato incredulo o insensibile; ma intanto
tutte quelle dottrine di fratellanza universale, di estinzione del
proletariato, di livellamento di tutte le classi sociali, s’insinuavano
ad una ad una nella sua mente più atta ad innamorarsene che capace di
giudicarne, e vi deponevano i primi semi di quelle larve socialistiche
e umanitarie, che, covate poscia dai nativi istinti del suo carattere e
invigorite nella solitudine dei Pampas e dell’Oceano, gli nasconderanno
un giorno il senso pratico delle cose, ombreggeranno di contradizioni,
di controsensi, di eccentricità la sua eroica figura, e gli daranno
quel proteiforme aspetto di patriotta arrabbiato, di umanitario
fanatico, di apostolo della pace universale, e di soldato cosmopolita
di tutte le guerre, che confonde tuttora i giudizi della storia, e
stanca talvolta l’ammirazione de’ suoi più devoti interpreti.


VIII.

Però conviene dir tutto. Anche allora, a ventisette anni, nel caos di
quel cervello, nel tumulto di quel cuore c’era un’idea chiara, fissa,
imperiosa, che ad un dato punto pacificava tutte le contradizioni,
vinceva tutte le incertezze e imponeva silenzio a tutte le utopie:
l’Italia.

Bellissima la fratellanza dei popoli, ma al patto antico: «Ripassin
l’Alpi e tornerem fratelli;» stupenda la pace universale, ma colla
riserva d’una guerra, d’una sola; implacabile se farà di bisogno,
al coltello se occorresse, la guerra santa contro lo straniero, che
profanava il suolo della patria e proteggeva con la sua ombra tutte le
minori tirannidi che la dilaniavano.

Che se questi sentimenti, nati da tempo, come dicemmo, nell’animo
del nostro eroe, vi erano rimasti fino a quel giorno assopiti ed
incerti, venga una voce che li susciti, si presenti un’occasione che
li sprigioni, ed essi romperanno in tutta la lor nativa fierezza, e
guideranno la sua vita. Per ventura sua, la voce parlò, l’occasione
venne, e fu decisiva.

Un giorno del 1833 Garibaldi, navigando nel Mar Nero, entrava in una
locanda di Taganrok, dove intorno ad una tavola stavano seduti in
animati colloqui alcuni marinai e mercanti italiani. In sulle prime il
nostro Capitano, il quale aveva preso posto in disparte, non pose mente
a quei discorsi. Ma ad un tratto alcune parole uscite dalla bocca d’uno
di que’ suoi compatrioti ferirono il suo orecchio, e gli fecero voltar
la testa verso il giovane che le pronunziava. Infatti l’argomento,
di cui questi intratteneva i suoi interlocutori, era importantissimo,
il più importante certamente di quanti potessero fermare l’attenzione
di Garibaldi: parlava d’Italia. Parlava d’Italia, e ne ricordava con
accento appassionato la passata grandezza e la presente vergogna,
ne dipingeva gli errori e i martirii, i disinganni e le speranze.
La diceva vinta, ma pronta a ripigliare la lotta; svelava che una
vasta associazione creata dalla fede amorosa di un apostolo ligure,
consacrata dal nome auguroso di _Giovine Italia_, non più legata
ai morti simboli delle vecchie sètte, non più avvinta alle promesse
dei Principi, ma credente soltanto nell’aiuto di Dio e nel braccio
del popolo (Dio e Popolo), raccoglieva in un fascio tutti _i buoni_,
apparecchiava i cuori ed affilava le armi per una suprema e non lontana
battaglia. Esclamava infine ch’era dovere di tutti entrare in quella
società, seguir quell’apostolo, serrarsi intorno al sacro vessillo da
lui inalberato, e dar la vita e gli averi per esso. Ed altre cose forse
egli soggiunse ed altre ne voleva soggiungere, quando Garibaldi più non
sapendo dominare la tempesta d’affetti che durante tutto quel discorso
gli si era scatenata nel petto, si slancia verso quello sconosciuto che
gli aveva irraggiata l’anima di una luce sì inattesa e discoperto il
nuovo mondo de’ suoi sogni e delle sue speranze, e stringendoselo al
cuore gli giura che da quel giorno egli è suo per sempre.

Giuramento d’Annibale, ripetuto, forse la notte medesima nell’impeto
della prima emozione, nei tronchi versi d’una strofa:

    Nell’età giovanil.....
    Là sui ghiacci del Ponto giurava
    Per la terra natale morir;

suggellato coll’intera sua vita nella storia.

Chi fosse quel credente che, per usare le parole stesse di Garibaldi,
«lo iniziò ai sublimi misteri della patria,» è oggi notissimo.

Era lo stesso Cuneo narratore dell’episodio.[24] Quel Giovanni Battista
Cuneo di Oneglia che in gioventù aveva esercitata l’arte del mare e
navigava appunto in quell’anno nel Mar Nero; ascritto fin d’allora
fra i più ardenti seguaci della _Giovine Italia_; divenuto da quel
giorno uno de’ più fidi e devoti amici di Garibaldi, come lo era già
di Mazzini; caro più tardi a tutti gl’Italiani emigrati al Plata,
siccome uno de’ loro più infaticabili ed utili protettori; eletto dalla
Repubblica Argentina suo rappresentante nel nuovo regno d’Italia, e
dopo una vita lunga, tutta spesa in pro della patria e dell’umanità,
morto in Firenze nel compianto universale sulla fine del 1875.[25]

La inattesa rivelazione del Cuneo fu a Garibaldi il «terra, terra»
dei seguaci di Colombo. «Certo (egli scriveva) non provò Colombo
maggior contento alla scoperta d’un mondo, di quel che ne provavo io al
trovare chi s’occupasse della redenzione italiana.[26]» Epperò da quel
momento egli non ebbe più che un pensiero: correre in Italia, cercare
di quell’associazione che raccoglieva in una trama tutte le fila dei
più ardenti patriotti; trovare quell’uomo che n’era l’anima e il duce;
offrire il suo braccio, chiedere il suo posto di combattimento, agire;
agire soprattutto e presto, poichè la sola parola che egli intendeva
fin d’allora, il solo modo con cui egli concepisse il cospirare e il
servire la patria, era l’azione.

Ed eccolo infatti verso la fine di luglio arrivare a Marsiglia,
presentarsi a Mazzini, che da parecchi mesi aveva piantato colà il
focolare della sua propaganda, rinnovargli il giuramento di Taganrok,
dargli il proprio nome e prenderne un altro di guerra giusta il rito
sociale, scriversi nel gran ruolo degli affigliati, e ricevere la sua
parola d’ordine per l’impresa creduta imminente.

«Da quel giorno (scrive Mazzini in una nota delle sue _Memorie_)
data la mia conoscenza con lui: il suo nome nell’associazione era
Borel.[27]»

Parole, a dir vero, un po’ troppo brevi e asciutte per indurre la
credenza che fino da quel giorno il già celebre profeta presentisse lo
straordinario destino, a cui quel suo nuovo «fratello» era chiamato.

E poichè nemmeno il discepolo si curò di dirci quale impressione
producesse sull’animo suo il primo contatto con quel maestro, a cui
nessuno poteva accostarsi senza grande emozione, così spunta nella
mente un dubbio. Che anche il marinaio nizzardo abbia subito il
fáscino dell’agitatore genovese, e che questi l’abbia accolto con
quell’affettuoso abbandono e quella famigliare benevolenza, con cui
egli soleva festeggiare tutti i giovani che andavano a lui, non è
a dubitarne; ma che sia corsa fra di loro quell’elettrica scintilla
che accende nell’anima la fiamma dell’amore reciproco, accomuna in un
istante e identifica i pensieri e gli affetti di due vite, e muta le
effimere fratellanze politiche in vera e durevole amicizia, questo, a
dir vero, non ci sembra bastevolmente accertato; e il laconico cenno
fatto da entrambi del primo incontro, le gare, i dissidi, le gelosie
scoppiate più tardi fra di loro e infine la profonda disformità e quasi
opposizione dei loro caratteri mi sembra giustifichino sufficentemente
il sospetto che nel ritrovo di Marsiglia l’eroe abbia promesso
all’apostolo il suo braccio, e l’apostolo abbia svelato all’eroe il suo
verbo, ma che nessuno dei due abbia dato interamente il suo cuore.


IX.

Se non che quando Garibaldi sbarcava a Marsiglia la _Giovine Italia_
aveva ricevuto un fierissimo colpo. Spiata, traccheggiata da tempo da
tutte le polizie della Penisola, tradita da fanciullesche imprudenze
o da scellerate denunzie, sorpresi i suoi ritrovi, sgominate le sue
file, spento sui patiboli, sepolto nelle carceri, disperso nell’esiglio
il fiore de’ suoi adepti, sembrava venuta per essa l’ultima ora. In
Piemonte, soprattutto, il governo di Carlo Alberto aveva bandito contro
i Mazziniani una caccia sì feroce, che le vendette di Carlo Felice,
del Borbone e dell’Austria nel ventuno, le stragi dell’Estense e del
Papa nel trentuno, possono essere dette al paragone atti di moderata
e legittima difesa. Non più leggi nè magistrati, non più solennità di
giudizi nè regolarità di procedure: unici titoli d’accusa e mezzi di
prova le denunzie, la corruzione, i tormenti: unici giudici i Consigli
di guerra, unica legge l’arbitrio militare e poliziesco, ispirato
dal capriccio e dal terrore. Si voleva, dicevasi, che il giovine
Re «gustasse il sangue,» e il sangue infatti scorreva a fiotti. Il
militare che possedesse uno scritto della _Giovine Italia_, o lo desse
a leggere, o non denunciasse i lettori, o fosse creduto consapevole
d’una trama vera od immaginaria qualsiasi e non la rivelasse, fucilato
nella schiena; il civile accusato d’altrettanto, fucilato, somma
grazia, nel petto. Così perivano: a Chambéry il tenente Effisio Tola,
il sergente Angelo De Gubernatis, il caporale Giuseppe Tambarelli;
a Genova il maestro di scherma Gavotti e il sergente Biglia; in
Alessandria i sergenti Ferrari, Minardi, Rigasso, Costa, Marini,
l’avvocato Vochieri; mentre eran serbati alla medesima sorte gli
avvocati Scovassi e Berghini, il luogotenente Arduino, il sottotenente
Maccarezza, i sergenti Vernetta, Enrici, Giordano, Crina, il chirurgo
Scotti, il marchese Cattaneo, il marchese Rovereto, il possidente
Gentilini, lo scultore Giovanni Ruffini e lo stesso Giuseppe Mazzini,
se quelli non fossero fuggiti a tempo al supplizio che li attendeva,
e questi non l’avesse già prevenuto coll’esiglio in cui da due anni
errava.

Era il Terror bianco in tutta la sua ferocia. Chi sfuggiva al piombo
ed al capestro, se non aveva cercato in tempo salvezza nella fuga,
languiva nelle galere dei ladri e dei malfattori.

E la morte non era per molti il peggiore dei supplizi. Iacopo Ruffini
per fuggire agli agguati de’ suoi interrogatori, e tremante soltanto
che dal corpo affranto dai tormenti uscisse una parola denunziatrice
de’ compagni, si forava in prigione la gola.

Vochieri, neroniana raffinatezza di martirio, era trascinato alla
morte per la via stessa, in cui abitavano sua madre e le sorelle, e al
generale Galateri parve eroico d’assistere, seduto su un cannone, al
suo supplizio.

Orrenda pagina che Novara ed Oporto hanno espiato, ma che la storia non
può cancellare.

Questa catastrofe, che, fin dai primi anni, sperdeva le fila della
nascente associazione, resa anche più grave dai processi già aperti
in Lombardia e nei Ducati, avrebbe da sè sola dovuto bastare, se non
a levare di speranza, almeno a consigliare l’indugio e la prudenza a
qualsiasi anima più temeraria; non a Giuseppe Mazzini.

A lui parve invece che crescesse la necessità di rompere gl’indugi, di
rianimare gli spiriti abbattuti, e com’egli diceva, «moralizzare il
partito» con un fatto che ne attestasse la fede e la forza. E colla
subitaneità di quella fantasia che s’illuse sempre di potere con un
atto di volontà sollevare a giorno e ora fissa i popoli, e sommergere i
troni, ordiva la spedizione di Savoia e ne comunicava agli amici vicini
e lontani il disegno.

Il quale disegno, siccome è noto a tutti, compendiavasi ne’ suoi
concetti generali in questo: raccogliere tutti i fuorusciti italiani,
polacchi, tedeschi agglomerati in Svizzera nei cantoni di Berna,
Zurigo, Neufchâtel, Vaud e Ginevra; ordinarli militarmente; dividerli
in due colonne, le quali, movendo una da Ginevra e l’altra da Lione,
si congiungessero a Saint-Julien, e di là marciassero insieme
su Annecy, e per la Savoia, sollevando le popolazioni e contando
sull’affratellamento dell’esercito, penetrassero in Piemonte.

Questo movimento però non doveva essere isolato; all’invasione esterna
doveva rispondere simultanea l’insurrezione interna, e fra le città
destinate ad insorgere quella, su cui il Mazzini faceva maggiore
assegnamento, era la sua patria: Genova.

Veniva così la volta di Garibaldi.

Qual luogo e qual parte il maestro gli avesse assegnata nell’impresa,
non sapremmo affermare; certo è che prima della fine di luglio
Garibaldi scompare da Marsiglia, torna in Italia, entra al più presto
in intima corrispondenza con quanti patriotti di Liguria e di Genova
gli è dato incontrare, interviene alle loro serali conventicole,
partecipa alle loro trame; poi, a un tratto, si presenta al
Dipartimento marittimo, e s’arruola nella regia marina come marinaio di
3ª classe col nome di guerra di _Cleombroto_.[28]

Perchè? Come mai il capitano marittimo consentiva di ridiscendere
al grado di semplice marinaio, e il patriotta s’acconciava a servire
nella flotta di quel Re, a cui aveva giurata la guerra? Per qualcosa
la _Giovine Italia_ doveva entrare in quella risoluzione, e il motivo
doveva essere quell’unico e supremo che governava ormai tutti i
pensieri e tutte le azioni del novello iniziato: la patria. Infatti
l’arruolamento di Garibaldi si collega direttamente e alla spedizione
di Savoia e al moto di Genova che doveva secondarla. Nel concetto
dei rivoluzionari genovesi il moto della loro città doveva essere
fiancheggiato e sostenuto in mare da una rivolta della flotta, o
almeno da qualche legno di essa; e per questo era necessario che
qualche marinaio accorto e ardito s’insinuasse tra gli equipaggi, e
segretamente li catechizzasse e attirasse nella congiura.

Ora a questi uffici nessuno parve più idoneo di quel Garibaldi, che
già tra la gente di mare era popolarissimo; ed ecco come il cospiratore
_Borel_ divenne sui ruoli d’una marina regia il marinaio _Cleombroto_.

Intanto l’ora dell’azione s’avvicinava a gran passi. Mazzini, vinti
alla fine i temporeggiamenti del Ramorino, cui per un inconcepibile
acciecamento (fatale in quell’anno ai repubblicani come lo sarà
quindici anni dopo ai regi) era stato affidato il comando supremo
della spedizione di Savoia, la fissava immutabilmente per i primi di
febbraio, e ne rendeva edotti tutti i caporioni perchè si tenessero
pronti.

Ora come rispondesse a quell’appello il Piemonte, l’evento lo chiarì;
come vi rispondesse da parte sua Garibaldi, l’udimmo da lui stesso
narrare così.[29] Riuscito a farsi imbarcare il 3 febbraio sulla
fregata _Des Geneys_, la quale per essere ancorata nel porto a Genova
e servita da gran numero di marinai suoi amici sembrava una delle
prede più facili ai patriotti, vi stette aspettando tutto quel giorno,
deliberato e sicuro, l’ultimo cenno. E l’ultimo cenno venne; era di
agire per la sera del 4 febbraio; i marinai impadronirsi delle navi;
i cittadini assaltare la caserma di Piazza Sarzana e insignorirsi
della città. Sennonchè, poco prima del tramonto, Garibaldi, o perchè
disperato di non potere agire con buon successo sul _Des Geneys_, o
perchè all’ultimo istante gli fosse entrata nell’animo la ripugnanza
di voltar le armi contro i suoi camerati e ufficiali (i motivi per
cui lasciò il _Des Geneys_ restarono sempre un po’ oscuri), il fatto
è che intasca due pistole, diserta da bordo, scende in città e corre
alla Piazza Sarzana, pronto ad unirsi ai primi gruppi d’insorti che
certo non potranno tardare a comparire. Ah! Garibaldi non sapeva ancora
che cosa sieno le insurrezioni decretate dal fondo d’un gabinetto, a
ora fissa di cronometro, con battaglioni di combattenti scritti sulla
carta, affidate a giuramenti di segretezza che la storditaggine e la
perfidia avevano violati prima di pronunciarli. Noi lo sappiamo. Son
due ore infatti ch’egli aspetta: due lunghe ore ch’egli gira e rigira
per quella piazza, e palpa impaziente le sue pistole, e appiattato nei
canti interroga cogli occhi i rari viandanti nella speranza di trovare
in essi gli attesi compagni; che tende l’orecchio per udire se qualche
colpo di fucile, almen qualche eco lontana di sommossa gli arrivi
dall’altra parte della città. Indarno: non un uomo sulla piazza; non un
moto per le vie; non un amico dei tanti giurati; non un grido per tutta
Genova.

Già da ogni parte arriva fino a lui la voce che tutto è fallito, che
il corpo di Ramorino è disciolto, che l’altra banda di Chambéry è
dispersa, che nessuna città ha risposto all’appello, che il governo
consapevole della congiura ha già cominciato le persecuzioni e gli
arresti; pure egli non sa rassegnarsi a crederlo, esita ad abbandonare
il posto di battaglia che gli è assegnato; vorrebbe attendere ancora.
Che mai? Fitti pelottoni spuntano da tutti gli sbocchi della piazza
e cominciano ad asserragliarla: ancora pochi istanti, e Garibaldi
sarà chiuso in un cerchio di ferro senza uscita: l’indugiarsi più
oltre sarebbe stata follía. Allora, ormai convinto dalla innegabile
testimonianza de’ suoi occhi, si slancia fuori della piazza; si
rifugia nella bottega d’una fruttivendola e raccontatole il suo caso
la impietosisce; cambia nei panni d’un contadino la sua camicia di
marinaio; esce ardito dalla casa ospitale, s’avvia franco come andasse
alla passeggiata verso Porta Lanterna e la varca insospettato; fatti
pochi passi, lascia la via maestra, traversa campi e giardini, salta
muri e siepi e infila la montagna; marcia tutta la notte, guidandosi
colle stelle, nella direzione di Sestri Ponente; mangia e dorme alla
meglio nelle osterie fuori di mano, nelle capanne de’ contadini, sotto
le tettoie de’ campi; arriva il decimo giorno a Nizza; sta nascosto un
giorno nella casa di una sua zia, dove rivede ed abbraccia sua madre;
riprende nella notte seguente, accompagnato da due amici, il cammino
verso il Varo; trovatolo ingrossato dalle pioggie, lo traversa parte
a guado, parte a nuoto; dice addio a’ suoi compagni; tocca il suolo
francese; è in salvo.


X.

Almeno lo crede; anzi è tanto lontano dal pensare che la Francia
di luglio respinga o mandi a confino i profughi politici, che,
date appena le spalle al fiume, cammina diretto verso il posto dei
doganieri di custodia al passo, e si mette volontario nelle loro mani.
Mal glien’incolse, che i doganieri ubbidienti alla loro consegna lo
dichiarano in istato d’arresto, e se lo conducono in mezzo di là a
Grasse, e da Grasse a Draghignan, ove aspetteranno, dicevano, nuovi
ordini da Parigi.

Nè il prigioniero oppose resistenza di sorta. Soltanto avvistosi che
s’era un po’ troppo affrettato a fidare nella ospitalità del governo
di Luigi Filippo, ed essendo in ogni caso troppo uccello di bosco per
accomodarsi in una gabbia qualsiasi, delibera in cuor suo di ottenere
colla destrezza quello che sarebbe vano tentare colla forza; e come
un uomo sicuro che o prima o poi l’opportunità di schizzar dalle
mani di quegli inaspettati custodi non gli può fallire, si lascia
tranquillamente condurre. E non ebbe ad attendere molto. Giunto
infatti a Draghignan e condotto al primo piano di non so quale caserma,
Garibaldi s’affaccia alla finestra, coll’aria noncurante di uno che
contempli il paesaggio; s’assicura in un baleno che ogni dintorno è
deserto; misura d’un’occhiata la distanza dal suolo (una miseria di
quindici piedi, quanto basta, a dir vero, per fiaccarsi il collo); e
colto l’attimo in cui i doganieri voltano l’occhio, spicca il salto,
si trova in un giardino, ne scavalca la muraglia, è in un balzo nei
campi; e prima che quei valenti guardiani delle dogane francesi, non
abbastanza acrobati per seguitarlo per quella via aerea della finestra,
abbiano scossa la sorpresa, e poi presa la scala, girata la casa e
girato il giardino, egli è già una macchia confusa tra le giravolte
della montagna, e li saluta tanto.

La mira del nostro profugo è Marsiglia, e come aveva fatto da Genova
a Nizza, viaggiando la notte, guidandosi colle stelle, tenendo la
montagna, cansando i grossi paesi, mangiando come poteva, dormendo
dove capitava, s’avvicina a grandi giornate alla mèta. Sennonchè, più
a rompergli la monotonia del viaggio che a conturbarlo seriamente, ecco
un’altra avventura.

Giunto non sa nemmeno lui in quale villaggio, entrato per un po’
di cibo e di riposo in una locanduccia, incoraggito dall’affabile
accoglienza dell’oste e dell’ostessa, commette l’imprudenza di
raccontar loro tutta la storia della sua fuga. L’oste, al contrario,
tutt’altro che rassicurato dall’aspetto di quel cliente che aveva due
polizie alle calcagna, passava i fiumi a nuoto, aveva così in uggia le
strade maestre, saltava le finestre di quindici piedi e probabilmente
saldava allo stesso modo lo scotto delle osterie; l’oste, dico, gli
si volta con un viso tutto annuvolato, e gli annuncia, con grande suo
dispiacere, d’essere nella dura necessità di arrestarlo.

Arrestarlo? Un uomo solo arrestare un altro uomo, che aveva il pugno,
il garretto e il cuore di Giuseppe Garibaldi? Non era cosa da pigliarsi
sul serio. E la prima risposta che egli fece alla bizzarra uscita fu
una solenne risata; poi sempre in tuono di motteggio e colla maggior
calma del mondo continuò: «Se proprio vorrete arrestarmi, ci sarà
sempre tempo. Lasciate almeno che finisca questa buona cena, che
sarei anche capace di pagarvi il doppio;» e commentando coll’atto la
parola, fece saltellar nel taschino quei pochi che gli erano rimasti, e
continuò tranquillamente il suo pasto. Fosse la calma risolutezza della
risposta, fosse l’argomento persuasivo di quel suono argentino, l’oste
non trovò replica; ma poichè egli continuava a guatar di sottecchi il
nostro viaggiatore, questi non si sentì ancora del tutto rassicurato,
e, senza parere, si tenne in guardia.

Tanto più che da qualche minuto l’osteria si veniva riempiendo
dei soliti avventori del villaggio, i quali, sebbene si andassero
sparpagliando di qua e di là per le tavole a bere, a giuocare, a
pipare, senz’altra cura apparente che di darsi buon tempo, non era
però tra i casi improbabili che al primo appello dell’oste, amico e
compaesano, si mutassero tutti in suoi alleati, e si dichiarassero
pronti a dargli man forte contro il sospetto forestiero.

Conveniva dunque manovrare, e Garibaldi che andava facendo in quella
fuga le prime prove di quell’arte dei piccoli stratagemmi che sarà un
giorno tanta parte della sua scienza e della sua fortuna militare, ne
trovò per la circostanza uno felicissimo.

Attorno ad una delle tavole una brigata di giovanotti, più chiassona
delle altre, cantava allegramente, alternando le canzoni ed i cantori
con grande sollazzo di tutta la compagnia. Ora che fa Garibaldi? S’alza
di scatto, va diritto alla tavola dei cantori, impugna un bicchiere:
«Ed ora, esclama, permettete una canzone anche a me;» ed intuona il
_Dieu des bonnes gens_, la più popolare delle canzoni di Béranger.
L’aria gradita, la voce limpida, sonora, intuonatissima del cantore,
l’accento, il piglio, l’aspetto, tutto quell’assieme di gagliardia
fiorente, di franchezza marinaresca, di eleganza popolare che doveva
essere Garibaldi giovine, fanno montar talmente il buon umore della
gioiosa brigata, sprigionano tra i vecchi avventori e il nuovo
compagnone tale una magnetica corrente di viva simpatia, che questi
ormai non solo potrebbe burlarsi delle minaccie dell’oste, se mai erano
fatte sul serio, ma essere in grado di arrestare coll’aiuto di quei
suoi nuovi amiconi l’oste in persona e i gendarmi per giunta, se tanto
occorresse.


XI.

Passato quel rimanente di notte fra i bicchieri ed il chiasso
(avventura poco abituale, come si vedrà, nella vita del Nostro), si
rimette in cammino per Marsiglia; il ventesimo giorno dacchè aveva
dato le spalle a Genova (25 febbraio) vi arriva; appena in città entra
per ristorarsi in un caffeuccio, prende in mano il primo giornale che
gli capita, _Le peuple souvrain de Marseille_, e che cosa vi legge? La
sentenza che lo condanna a morte come «bandito di primo catalogo» e lo
espone alla pubblica vendetta; la sentenza che abbiamo pubblicata nella
prima pagina di questo libro.

Non dovette essere un’improvvisata piacevole! Garibaldi, come vedemmo,
notò con un tal quale accento di compiacenza che fu quella la prima
volta in cui lesse il suo nome sui giornali; e noi concediamo che il
sentirsi in un tratto divenuto uomo celebre e importante, il vedersi
onorato da una sentenza capitale, l’occupare un posto in quel libro
nero dei perseguitati, che era pure il libro d’oro dei patriotti,
dovesse a primo tratto far correre una vampata d’orgoglio alla fronte
del giovine proscritto. Però si può essere Garibaldi fin che si vuole,
ma non si legge una sentenza di morte, che anco ineseguita rizza tra la
patria e la terra d’esiglio una barriera insormontabile, e vi condanna
ad una vita lunga se non perpetua di patimenti, di sacrificio e di
guerra, senza una forte commozione, senza pensare per lo meno molto
seriamente a’ casi suoi.

E Garibaldi mostrò di pensarci, cambiando issofatto il suo nome,
ormai troppo pericoloso, in quello di Giuseppe Pane. Era così, oltre
il suo, il terzo nome che barattava in quell’anno: _Borel_ per la
Giovine Italia: _Cleombroto_ per la marina di Carlo Alberto: _Pane_ per
Marsiglia e il Governo francese.

Bisognava però pensare a vivere; laonde, patito un mese d’ozio
forzato nella casa ospitale del suo amico Giuseppe Paris, riuscì ad
accaparrarsi un posto di secondo sul brigantino _Unione_, capitano
Bazan, che doveva far vela per il Mar Nero. Intanto però, così per
non perder l’abitudine, salva, buttandosi all’acqua, un giovanetto
che annegava nel Porto, e sottrattosi alle lagrime di gratitudine
della madre del salvato, la quale se vivesse continuerebbe ancora a
ringraziare il marinaio Pane, salpa indi a pochi giorni per Odessa.

Ma tornato di là sul finire del 1834, e già tocco dai primi assalti di
scontento della vita prosaica e monotona del marinaio mercantile, gli
frulla di assoldarsi nella flottiglia di Hussein, bey di Tunisi, che
era stato preso dal frugolo di riformare all’europea il suo esercitino
e la sua armatetta; poi uggito e fors’anche vergognato da quella assisa
d’ufficiale barbaresco, pianta anche il Bey, e fa ritorno verso la metà
del 1836 a Marsiglia. Trovatala sotto il flagello del colèra, udito che
negli ospedali si cercavano volonterosi, e come dicevano _benevoli_ ad
assistere gl’infermi, pare bella alla sua fantasia di eroe filantropo
anche quella parte; passa quindici giorni e quindici notti al letto di
quegli ammalati, che uccidono il più delle volte i loro infermieri, e
scampato da quel pericolo, e calmata la moría, si mette di nuovo alla
cerca d’un imbarco; e la fortuna lo favorisce, quella volta, oltre le
sue speranze. Scopre che un certo brick, il _Nautonier_,[30] capitano
Beauregard, allestisce per Rio Janeiro; la vaghezza di vedere nuove
terre lo seduce; l’Oceano non mai solcato, ambito cimento de’ forti
navigatori, lo attira; dovunque volga lo sguardo non vede per tutta
Italia alcun segno di prossima riscossa; laonde, chiesto ed ottenuto
il comando in secondo di quel bastimento, dà un lungo addio a quella
vecchia Europa, che non aveva più per lui nè promesse nè inganni, e fa
vela per il Nuovo Mondo.

E qui si chiude la sua prima giovinezza. L’America diviene per
dodici anni la sua seconda patria, la culla della sua vita nuova, il
terreno in cui tutte le native energie del suo animo vigoreggiano e
fruttificano; la forma insomma in cui si gettano tutti i moltiformi
lineamenti della sua figura, fino allora sbozzati, e si plasma
definitivamente il carattere dell’uomo.

Là in quell’America meridionale, posta tra le Amazzoni e la Plata, al
cospetto di quella possente e pittoresca natura, lungo le oceaniche
correnti dei fiumi smisurati, traverso le deserte praterie dei
_pampas_, in mezzo alle nomadi scorribande dei _gauchos_, nella
consuetudine quotidiana d’un popolo diverso e variopinto, miscuglio
secolare di barbarie indiana, di fierezza spagnuola, di ardimento
portoghese, di superstizione cattolica, impastato col sangue degli
avventurieri, dei banditi e degli eroi di tutto il mondo; là dove la
guerra è un trastullo, il getto della vita una voluttà, l’ospitalità
all’inoffensivo pellegrino un culto, ma l’odio allo straniero
dominatore una religione; là in quell’America, dico, degli eroismi
favolosi, delle fazioni feroci, delle rivoluzioni subitanee, delle
dittature sanguinarie, dei governi d’un giorno, si svelò l’eroe,
s’iniziò il capitano, si educò, quale che egli sia, il politico; e chi
vorrà conoscere un giorno il Garibaldi vero, e salire alle origini
della sua celebrità e della sua fortuna e spiegarsi nelle loro più
riposte cagioni, così le sue virtù come i suoi errori, e possedere
insomma tutto l’intimo segreto di codesta leggendaria esistenza,
apparente tuttora alla nostra civiltà come un enigma ed un anacronismo,
o deve seguirlo passo per passo, di pensiero in pensiero, d’avventura
in avventura di là dall’Oceano, o rinunciare a comprenderlo.




CAPITOLO SECONDO.

DA RIO GRANDE DEL SUD A MONTEVIDEO. [1837-1841.]


I.

Sbarcato a Rio Janeiro, trovò subito una grande fortuna; rara
certamente per ogni uomo, inestimabile per un esule: un amico. E quel
che è più un amico compatriota, parlante la medesima lingua, partecipe
ai medesimi sentimenti, innamorato del medesimo amore per la patria
lontana; della patria stessa ricordo vivente.

Nella piccola colonia d’Italiani che aveva scelto per asilo il
Brasile, contava in quell’anno 1836 fra i più stimati ed importanti
Luigi Rossetti di Genova, marino esso pure di professione, fuoruscito
dalla patria pei rovesci del 1831, uomo d’alti sensi, di non comune
intelletto e di fortissimo cuore.

«Io non l’avevo mai veduto (dice Garibaldi), ma l’avrei distinto
nella moltitudine. Incontratolo al Largo do Passo, gli occhi
nostri si trovarono e non sembrò per la prima volta; ci sorridemmo
scambievolmente, e fummo fratelli per la vita, per la vita
inseparabili. Io ho descritto altrove tutto il valore di quella
bell’anima. Io morrò forse senza il contento di piantare una croce
sulla terra americana, ove riposano le ossa di quel generoso.[31]»

In attesa pertanto di suggellare con prove maggiori il patto della
loro amicizia, s’accordarono di mettere in comune le loro braccia e di
lavorare insieme.

Rossetti riuscì a combinare una piccola società di navigazione che
doveva fare periodicamente un traffico di cabotaggio da Rio Janeiro
a Cabo Frio, e Garibaldi vi ebbe naturalmente la parte principale,
prendendo il comando di uno di quei bastimenti; e così senza
privazioni, ma anche senza fortune, campò tutto quell’anno.

Peraltro quella vita non era più fatta per lui; quel va e vieni
monotono per le medesime acque, quella navigazione obbligatoria e
mestierante, priva di varietà e d’emozioni, non si confaceva più alle
aspirazioni eroiche, allo spirito avventuriero, all’irrequietezza
procellosa d’un uomo che veniva a chiedere alla terra d’esiglio meglio
che un rifugio, una libera arena, in cui cimentare le sue forze
ed agguerrirle per le remote, ma certe battaglie, a cui si sentiva
chiamato; onde pochi mesi eran corsi che già meditava di lasciarla.

«Di me ti dirò soltanto (scriveva il 27 dicembre di quell’anno
all’altro suo amico G. B. Cuneo, che l’aveva preceduto a Buenos-Ayres)
che la fortuna non mi favorisce, e ciò che mi affligge si è l’idea
di non potere avanzare nulla per le cose nostre: sono stanco, per
Dio, di trascinare un’esistenza tanto inutile per la nostra terra; di
dover fare questo mestiere; sta’ certo: _noi siamo destinati a cose
maggiori_; siamo fuori del nostro elemento.[32]»

E il suo elemento lo trovò ben presto.


II.

Il Brasile comincia da qualche anno ad essere fra di noi meglio
conosciuto ed estimato: l’uso intelligente e moderato ch’egli fa da
quasi mezzo secolo di una delle più liberali costituzioni del secolo;
le riforme introdotte dal suo dotto e benefico Imperatore in ogni ramo
della pubblica legislazione ed economia; la emancipazione dei negri
compíta senza i conflitti sanguinosi che misero in forse la vita degli
Stati Uniti del Nord; le maggiori scoperte della civiltà applicate
con celerità, che misurata alla stregua degli ostacoli opposti
dalla vastità del suolo e dalla tenacia delle tradizioni direste
meravigliosa; la parte sempre più operosa che esso prende al lavoro
scientifico ed economico dei due mondi; l’asilo infine più sicuro
forse e più produttivo d’ogni altra parte d’America che vi trovano gli
emigranti del vecchio continente, tutto ciò costringe da qualche tempo
l’Europa a volgere uno sguardo più attento e più simpatico alla storia
d’un paese, che paga un sì largo tributo alla civiltà presente e ne
promette uno maggiore alla avvenire.

E quella storia, se i limiti di questo studio lo consentissero, noi la
narreremmo volontieri; non potendolo, ne toccheremo di volo le somme
vicende.

Nei primi mesi del 1500, il portoghese Pietro Alvarès Cabral, mandato
dal re Emanuele il Fortunato a rifare sulle orme di Vasco di Gama
la strada delle Grandi Indie, sviato dalle correnti, sbattuto dalla
tempesta contro un capo di quel nuovo continente che ancora si chiamava
delle Indie occidentali, vi pianta colla bandiera del suo Re una croce,
e battezza la terra incognita, per caso scoperta, col nome di Vera
Cruz.

Fu questo il primo punto occupato stabilmente da Europei in quella
immensa regione, che più tardi dal rosso ardente d’una sua pianta
prenderà il nome di Brasile. È ben vero che pochi mesi prima anche lo
spagnuolo Pinzon n’aveva intraveduta più a settentrione un’altra punta,
onde il litigio insorto tra Spagna e Portogallo per la primazia della
scoperta e della conquista; ma re Emanuele tagliò corto, inviando una
spedizione armata, di cui era parte il nostro Amerigo, la quale, corsa
ed occupata tutta quella parte di costa che va da Pernambuco a Porto
Allegre, l’assicurò definitivamente al dominio portoghese.

Del felice possesso però il Portogallo non sentì in prima tutto il
valore; si accampò sulle marine, abbandonò l’interno delle terre
alle cento tribù indiane che da secoli l’abitavano, e s’accontentò
di farne uno scarico de’ suoi galeotti e un asilo aperto ai corsari
ed ai contrabbandieri che fossero tentati di convenirvi. Solo più
tardi, seguendo l’esempio del leggendario Caramuro, il primo a dedurre
nella baia di Todos los Santos una vera colonia, colonizza le terre,
dividendole in tante capitanerie ereditarie; assoggetta, più ancora
coll’opera della Compagnia di Gesù che mediante le armi, le orde
indigene e le risospinge sempre più verso l’interno; concentra nelle
mani di Tomaso da Susa il governo generale di tutta la contrada, e
ne fonda a San Salvador la prima capitale, intanto che una colonia
d’Ugonotti francesi poneva la prima pietra di quella che diverrà la sua
capitale moderna, Rio Janeiro.

Ma quando nel 1580 per la tragica scomparsa di re Sebastiano e
l’estinzione della sua casa, il Portogallo andò inghiottito nella
mondiale monarchia di Filippo II, anche il Brasile seguì per
sessant’anni la medesima sorte. Era però ben naturale che anche
la grande colonia sperimentasse le conseguenze degli odii e delle
rappresaglie che la demente politica di Filippo II suscitava per
tutto il mondo; non scoppiava una guerra in Europa che il Brasile
non ne sentisse il contraccolpo. Il conflitto coll’Inghilterra gli
rovescia contro un nugolo di arditi corsari inglesi che ne devastano
le coste, mentre gli Olandesi, già potenti in terra ed in mare, dopo
aver spogliato Filippo III delle più ricche gemme dell’Indie orientali,
vanno ad assalire Filippo IV ne’ suoi possedimenti brasiliani; e in
una guerra di dodici anni (1624-1636), malgrado la eroica resistenza
dei Portoghesi, gli strappano a palmo a palmo tutta la costiera che va
dalle rive del San Francisco fino al Rio Grande del Nord. Così sulla
terra del Brasile si assidono due diverse signorie, che si toccano e
si urtano ad ogni passo, ed espongono quel paese a nuovi e non lontani
conflitti.


III.

La conquista olandese però non fu nociva al Brasile.

Mentre la Spagna, smarrita dietro la chimera del favoloso Eldorado,
trascurava il massimo interesse della fertilizzazione del suolo, e non
scuopriva nuove regioni che per depauperarle a beneficio de’ suoi avidi
governatori, e abbandonarne le tribù indigene alla caccia selvaggia
di quei feroci coloni di San Paolo, che furono detti i _Mamelucchi
d’Occidente_, il Governo olandese, nella mano prudente e liberale
di Maurizio di Nassau, tentava cattivarsi l’amore e l’obbedienza dei
nativi coi beneficii d’un regime più umano e civile. Invano! Tra il
Brasile portoghese e la signoria olandese si frapponeva una barriera
insormontabile: la questione religiosa.

Infatti non appena il Portogallo, colla congiura che portò sul trono
la casa di Braganza, si sottrae alla dominazione spagnuola e ricupera
con ciò le sue antiche colonie d’America, il conflitto tra le due
razze e le due religioni, che si contendevano il possesso del Brasile,
si riaccende più vivo che mai; ne dà il segnale colla rivolta degli
_Independents_ la provincia di Pernambuco (1645), e dopo una guerra
ostinata di nove anni gli Olandesi, battuti in terra ed in mare, sono
costretti a lasciare le coste americane (1654), e il Brasile ritorna
tutto quanto nel dominio de’ suoi primi colonizzatori.

Per tutto quel secolo XVII le colonie brasiliane continuano a
popolarsi, ad espandersi, a prosperare; ma fiere discordie, frutto
naturale dell’antagonismo tra i nuovi coloni e gli antichi, tra
Portoghesi nativi e i nuovi immigrati (_Paulistas e Forestieros_),
tra i Gesuiti aspiranti al governo temporale dello Stato, come già
tenevano quello spirituale delle coscienze, e il popolo allarmato della
loro invadente preponderanza, ne indugiano e ne turbano la nascente
floridezza.

Nel secolo veniente, al contrario, rinascono le guerre straniere.

Luigi XIV, per vendicarsi del Portogallo che s’era lasciato trascinare
contro di lui nella guerra della successione di Spagna, manda due
flotte ad assalire il Brasile, ed una di esse s’impadronisce di Rio
Janeiro, che soltanto a prezzo d’oro riscatta la libertà.

Pacificato colla Francia, ecco però la quistione degli sbocchi della
Plata, sulla sinistra della quale il Portogallo aveva eretta per
antemurale la colonia del Sacramento, intricarlo in una vicenda di
conflitti dannosi e di accordi poco utili colla Spagna e colle di
lei colonie finitime di Buenos-Ayres e della Banda Orientale, seme di
guerre future.

Ciò nonostante i progressi del Brasile non rallentarono.

La capitale, per consiglio del conte di Pombal, grande ministro di
piccolo re, è trasportata da San Salvadore a Rio Janeiro (1759). Nuove
capitanerie sono istituite, tra cui quella di Rio Grande del Sud e di
Santa Caterina, che avremo a rivedere tra poco; l’ultima delle tribù
indiane che ancora resisteva all’Europeo è domata; i maritaggi tra
indigeni e Portoghesi sono favoriti; i Gesuiti, principali istigatori
delle discordie tra la Spagna e il Portogallo, vengono finalmente
espulsi; il paese si va coprendo di scuole, di strade, d’istituti di
beneficenza e di educazione; l’introduzione dell’indigo, della canape,
del caffè, prepara all’agricoltura la dovizia di nuovi prodotti; i
commerci, le industrie, la navigazione, prendono per tante cagioni
nuovo elaterio; ma disgraziatamente nel 1777 il re Don Giuseppe muore,
il suo favorito ministro cade, e la Spagna ne approfitta per imporre al
regno rivale il disastroso trattato di Sant’Idelfonso, che spoglia il
Brasile del suo unico porto sulla Plata, e d’una parte del territorio
dell’Uruguay e del Rio Grande del Sud.


IV.

Frattanto erano maturati i due più grandi avvenimenti del secolo XVIII:
la guerra d’indipendenza degli Stati Uniti dell’America del Nord e la
rivoluzione francese. Quella accendendo il desiderio e dimostrando
la probabilità dell’indipendenza, e questa sollevando i popoli
alla speranza della libertà, mettevano in fermento anche le colonie
dell’America del Sud, e ne preparavano la non lontana emancipazione.

Quanto al Brasile, lo spirito d’indipendenza vi si era manifestato fino
dal 1789 con sommosse e congiure presto soffocate nel sangue; allorchè
Napoleone invadendo la penisola iberica precipitò la crisi. Nel 1808
il principe reggente di Portogallo, Don Giovanni, fuggendo innanzi al
Cesare francese, ripara nelle sue antiche colonie; pianta la sede della
monarchia a Rio Janeiro; favorisce la nuova capitale di privilegi; apre
tutti i porti brasiliani alla navigazione, e finalmente nel 1815 eleva
il Brasile alla dignità di regno. Questo fatto fu decisivo.

I Brasiliani non avevano ancora l’indipendenza, ma ne possedevano il
pegno più valido e il titolo più legittimo, e nessuno avrebbe potuto
ritoglier loro un dono, che era un riconoscimento indiretto della loro
autonomia nazionale.

Il reggente, divenuto re Giovanni VI, tutto assorto nel conquisto
della Banda Orientale (1815-1819), non lo comprese subito; ma quando
nel 1821 egli fu richiamato in patria da quella rivoluzione che aveva
tratto la sua principale ragione dai privilegi accordati al Brasile, il
dilemma gli si parò dinanzi inevitabile: o abbandonare il Portogallo
per conservare il Brasile, o perdere questo per salvar quello. Il Re
si decise saggiamente pel vecchio regno; ma si vuole che, nel partire,
al figlio Don Pedro, rimasto reggente del nuovo, pronosticasse la
rivoluzione imminente delle provincie brasiliane, e lo consigliasse a
farsene capo, ed a guidarla egli stesso per trarne profitto.

Provocato dalle esorbitanze della madre patria, in sul principio del
1822 il movimento brasiliano scoppiò; allora Don Pedro prima tentò
combatterlo, poi lo subì, prendendo il titolo di _Difensore perpetuo
del Brasile_; indi convocò in assemblea costituente i notabili del
paese; finalmente, rompendo gli ultimi legami col governo di suo
padre, ripetuto sulle rive dell’Ispirangua il grido nazionale di
_Indipendencia o morte!_, il 12 ottobre dell’anno stesso fu proclamato
Imperatore costituzionale del Brasile. Ebbe però quasi tosto paura
dell’opera sua; e disciolta la Costituente pensò gettare in offa al
malcontento pubblico una Costituzione di sua fattura, liberale, a vero
dire, ma che essendo stata preceduta da un atto di violenza e sottratta
alla discussione dei rappresentanti della nazione, anzichè assicurare
pace e stabilità al nuovo governo, lasciò un lievito di rancori ed uno
strascico di sommosse che fu mestieri soffocare nel sangue o antivenire
col terrore.

Che se a tutte queste cagioni di scontento s’aggiungano il disegno
più volte manifestato dall’Imperatore di togliere la Costituzione; il
conflitto rinascente tra i nuovi Portoghesi costituenti il partito
della Corte, e i vecchi Brasiliani onde componevasi in gran parte
il partito liberale; l’indebolita influenza dell’Imperatore per
l’assunzione del suo nemico Don Miguel alla corona di Portogallo;
infine la guerra disastrosa vanamente combattuta per la conservazione
della Banda Orientale e finita nel 1828 coll’indipendenza di quella
provincia, s’intenderà che il trono di Don Pedro dovesse essere
profondamente scrollato.

E invero, avendo il partito liberale reclamato il cambiamento di
Ministero, l’Imperatore sulle prime lo concede; poi,

    Pentito sempre e non cangiato mai,

si libera dei nuovi ministri per sciogliere l’assemblea. Allora il
popolo in armi si raduna il 7 aprile 1831 nel campo di Sant’Anna,
e, spalleggiato dallo stesso esercito, costringe l’Imperatore ad
abdicare a favore di suo figlio minorenne, Don Pedro II, ed a partire
per l’Europa. La minorità del novello Imperatore richiese una nuova
Reggenza, e primo decreto di questa fu l’aggiunta alla Costituzione di
un _Atto addizionale_, che garantiva al popolo le più ampie libertà;
pure nemmeno questo bastò a placare le provincie ed a soddisfare i
partiti. I quali d’ora innanzi da due che erano divengono tre: il
conservatore o reazionario, dal nome del celebre colonizzatore, detto
_Caramuro_, che aspirava di tornare alla Costituzione di Don Pedro I e
a rafforzare il potere centrale dello Stato; il _moderato liberale_,
che voleva lo sviluppo progressivo della Costituzione novella; il
_repubblicano_, che sognava una federazione sul modello degli Stati
Uniti del Nord, e più veramente combatteva per una risurrezione
delle autonomie locali. Ma tutto ciò complicato da quell’intreccio di
passioni e di cupidigie personali, di gelosie di razze e di provincie,
di utopie moderne e di superstizioni antiche, che sono il naturale
portato d’ogni popolo nuovo od immaturo alla libertà, che lo erano
tanto più di quello che, non ancora intieramente redento dalla prisca
barbarie, si trovava quasi all’improvviso sbalzato ai primi onori della
civiltà.


V.

Ora tra le provincie che non furono paghe nemmeno dell’_Atto
addizionale_ di Don Pedro II, e levarono prime il vessillo della
rivolta, fu quella di Rio Grande del Sud. E non senza qualche ragione.
Tra le ultime ad entrare nella famiglia delle colonie brasiliane,
ultima perciò a spogliarsi delle sue tradizioni di selvatichezza e
d’indipendenza, perduta quasi nell’estremità meridionale dell’impero,
quindi meno prossima all’influenza della capitale ed alla vigilanza
del governo; confinante con quella capitaneria di San Paolo che dava
al Brasile i suoi più intraprendenti _Mamelucchi_; ricca di pascoli e
di mandrie; abitata da un popolo educato dall’infanzia a correre sulla
groppa dei nativi cavalli le vaste pianure, e superbo di fornire agli
eserciti brasiliani una delle cavallerie più famose del Nuovo Mondo;
gittata come una marea contro le invasioni spagnuole da un lato e le
incursioni gesuitiche dall’altro, quindi obbligata all’esercizio d’una
guerra perpetua, si comprende di leggeri come la provincia di Rio
Grande potesse apprestare un terreno più d’ogni altro propizio ad un
partito autonomo e repubblicano, ed essere atta a difenderne le ragioni
coll’armi in pugno.

A dare poi il tracollo alla bilancia toccò ai Riograndesi la pessima
amministrazione del presidente imperiale Giuseppe Aranjo Ribeira,
sicchè il 20 settembre 1836 il popolo di Porto Allegre, capitale della
provincia, si getta in armi contro il governatore che si salva a stento
colla fuga, e ben presto secondato dalle altre comarche (_Comarcas_) di
Rio Grande grida la Repubblica, e ne proclama presidente Bento Gonçales
de Silva.


VI.

Ora segretario di questo era quel Livio Zambeccari di Bologna, figlio
dell’infelice areonauta, patriotta ardentissimo, il quale fuoruscito
d’Italia nel 1823, riparato prima in Ispagna, poi di là nel 1825
emigrato alla Plata, prese le armi per l’indipendenza di Montevideo
contro il Brasile, combattè più tardi colle bande del Lavalle la
tirannia di Rosas e passò finalmente nel 1831 a Rio Grande, dove era
divenuto uno dei più caldi banditori delle idee repubblicane e dei più
energici attori della rivoluzione del 1836. La vittoria degl’insorti
però fu breve; non andò guari infatti che il Governo imperiale di Rio
Janeiro, rotto nei campi di Fanfa il piccolo esercito riograndese, potè
mettere le mani sul presidente della neonata repubblichetta e sul suo
segretario, e tradurli prigionieri nel forte di Santa Cruz presso Rio
Janeiro.

Gli è allora che il patriotta bolognese e l’esule nizzardo s’incontrano
per la prima volta, e che il primo serve di mediatore, forse
inconsapevole, alla fortuna del secondo.

Come avvenisse, se pensatamente o per caso, se pubblicamente o di
nascosto, il fatto è che Garibaldi e Rossetti visitano nel suo forte
il Zambeccari, e questi propone loro di fare la guerra di corsa contro
il Brasile. La proposta del segretario della Repubblica dava troppo nel
genio ai due amici, perchè pensassero a rifiutarla. Tutt’altri avrebbe
potuto restare indifferente a quella rivolta d’una piccola provincia
contro un colossale impero, mossa da interessi ignoti e da ragioni
ambigue, ribelle in nome d’una fantastica repubblica ad un governo
benemerito dell’indipendenza e della libertà del suo paese; tutt’altri,
fuorchè Garibaldi e Rossetti.

Alle loro menti affratellate dal medesimo nobile ardore, l’insurrezione
riograndese rappresentava la riscossa del debole contro il forte,
dell’oppresso contro l’oppressore, della libertà contro il dispotismo;
adombrava quasi in simbolo la lotta che l’Italia doveva combattere un
giorno per la medesima causa. Oltredichè, quante attrattive in quella
insurrezione! Essa schiudeva un campo più adatto e più gradito alla
loro operosità, rispondeva alle loro più segrete vocazioni di soldati e
di marinai, occupava il loro braccio e soddisfaceva al tempo stesso il
loro cuore.

Accettarono quindi; e presentati dallo Zambeccari al presidente
Gonçales, e ottenuto da lui le _lettere di corsa_ e aiuti di armi e di
denari per eseguirla, armano in guerra il _Mazzini_, una delle barche
colle quali facevano il cabotaggio e prendono il mare.


VII.

Ed ecco Garibaldi corsaro!

«Con sedici uomini (egli esclama[33]) ed una fragile _garapera_[34] io
portavo la guerra ad un impero, e piantava al mio albero di maestra la
bandiera di una libera repubblica.»

Uscito dal porto, governa verso mezzogiorno; filati pochi nodi, avvista
all’altezza dell’Isola Grande una goletta brasiliana che se ne viene
inconscia e tranquilla verso di lui: l’abborda, le intima la resa e
senza battaglia nè sforzo veruno se ne impadronisce; e visto che la
nave predata si prestava alla corsa assai meglio della sua sconquassata
_garapera_, cola a fondo questa e trasborda con tutto il suo equipaggio
su quella.

Ma dice Garibaldi: «I miei compagni non erano tutti Rossetti;» val
quanto dire tutti fiori di gentilezza e d’onestà, sicchè quando la
banda pose il piede . sulla _Luisa_, tale era il nome della goletta,
e gli assaliti videro da vicino i ceffi sinistri degli assalitori,
da non so quali teatrali abbigliamenti resi ancora più spaventevoli,
furono così certi d’essere caduti nelle mani di veri ladroni, che un
di loro, un Brasiliano mercante di gioie, credendo ormai venuta la sua
ultima ora, trasse da una sua cassetta tre diamanti, e li offerse,
tremante, al feroce capo della masnada in riscatto della sua vita.
Ma quale sorpresa! Il «feroce capo» non solo rifiuta il dono del
gioielliere assicurandolo che la sua vita non corre alcun pericolo;
non solo intima ai suoi compagni di rispettare la vita e la roba delle
persone, ritenendo il solo carico di caffè, stimato, secondo tutte le
norme della guerra marittima, di buona presa; ma corse altre poche
miglia, giunto presso l’isola Santa Caterina dà la libertà ai negri
componenti la ciurma della goletta, che consentono poi a seguirlo come
marinai; piglia tutti gli altri passeggieri e le cose loro; li fornisce
di viveri; li cala nella lancia della _Luisa_ e li manda liberi a terra
regalandoli della lancia per giunta.

Garibaldi rammenta con altiera compiacenza le particolarità di quella
sua prima impresa, e n’ha ben d’onde. Egli vuole far ben capire ai
lettori della sua vita che era un corsaro, non un pirata; che la sua
era una guerra, non un brigantaggio: guerra rivoluzionaria finchè si
voglia, ma autenticata dalle patenti di un governo creduto legittimo;
intrapresa per una causa stimata buona: combattuta con tutte le armi
lecite dell’umanità e della cavalleria. Ed ha ragione; e chi non
vedesse nel corsaro del Rio Grande che un capobanda di Barbareschi
o d’Uscocchi, o per benigna concessione, uno di quegli avventurieri
del mare mezzo cavalieri erranti e mezzo masnadieri, di cui rimasero
fantastici tipi i _Pirati_ di Walter Scott e i _Corsari_ di Byron,
commetterebbe ingiustizia verso lui e verso la storia. Il paladino
eroico e disinteressato della libertà dei popoli non si smentirà nè
sulla terra nè sui mari.

Egli apparteneva alla grande famiglia dei Pizzarro, dei Guglielmi
Lamarck, dei Jean Barth, dei Duguay Trouin, dei Dundas, e se una
differenza esiste tra i più famosi corsari della storia e lui, è
tutta a vantaggio suo. Molti in eroismo lo uguagliarono; taluno
per grandiosità di fortune e vastità di conquiste lo superò; ma
per temperanza nelle pugne, per umanità nella vittoria, per altiero
disprezzo de’ lucri e degli onori, per virtù infine di disinteresse e
di sacrificio egli vinse tutti e non somiglia che a sè solo.

Continuato pertanto il suo viaggio verso il sud, tocca felicemente
le coste dell’Uruguay; getta l’áncora nel porto di Maldonado a poche
miglia da Montevideo, e accoltovi amichevolmente dalle popolazioni, per
la memoria della recente guerra d’indipendenza avverse al nuovo Impero
brasiliano, manda innanzi il Rossetti a Montevideo per convertirvi in
denaro il predato caffè e lo raggiunge di lì a poco egli stesso.

Se non che il generale Oribe, presidente a quei giorni della Repubblica
orientale, premuroso di non disgustare il potente Stato vicino, spicca
l’ordine d’arrestare l’incomodo corsaro e il suo legno; sicchè a
Garibaldi non resta che salpare in tutta fretta e prendere il largo.


VIII.

Non vuol però lasciare le coste dell’Uruguay, e la notte stessa, messa
la prua sul Rio della Plata, lo risale dirigendosi alla Punta di Gesù,
poche miglia al di sopra di Montevideo. Ma quale non fu la sua sorpresa
nel trovarsi di lì a poche ore in mezzo ai frangenti del Las Pedras,
attorniato da scogli che gli precludono da ogni parte il cammino e
minacciano ad ogni moto della nave di sfracellarla e sommergerla.

Che cosa era accaduto? La più naturale cosa del mondo, non infrequente
ai navigatori. Garibaldi, nel sospetto di dover presto combattere,
aveva fatto portar sopra coperta le armi; i marinai, a sua insaputa, le
avevan gettate spensieratamente presso l’abitacolo; per la vicinanza
d’una massa sì grande di ferro l’ago aveva deviato e il pilota, non
avendo nel buio pesto di quella notte altra guida che la bussola, vi
si era sviato dietro. Intanto però il pericolo era urgente e molti
de’ marinai, perduta la testa, piangevano. Non la perdette Garibaldi.
Lanciatosi alla verga di trinchetto, traccia la rotta egli stesso al
timoniere, scivola tramezzo a scogli da inorridire, e quando Dio volle
tocca Jesus-Maria.

Ma colà nuovo incidente. Il bastimento era in salvo, ma i viveri
mancavano; il pericolo del naufragio era cansato, sorgeva la minaccia
della fame. Anche qui apparve la mente sempre ricca d’arditi espedienti
del nostro corsaro. Bordeggiando lungo la costa in cerca di qualche
abituro, egli scopre, a quattro miglia dentro terra, una fattoria; non
può nè approdare a cagione dei venti _pamperi_ (soffianti dalla Pampa)
che lo battono di traverso, nè staccare alcuna barca, poichè la lancia
della _Luisa_, come è noto, l’aveva ceduta ai suoi primi padroni.
Conviene dunque immaginare un ripiego ed eccolo. Ormeggia a due áncore
il bastimento; improvvisa, con una tavola legata sopra due botti
e una pertica piantata nel centro, una specie di zattera; vi balza
sopra accompagnato da un solo marinaio (che si nomina, vedi il caso,
senza alcun vincolo di parentela, col nome di suo fratello, Maurizio
Garibaldi), e rotolando più che navigando fra i marosi; mulinato dalle
correnti e allagato a ogni tratto dalla raffica; facendo miracoli
d’equilibrio sulla zattera, e la zattera prodigi di nautica sulle
acque, riesce ad afferrare la sponda, e di là, affidata la zattera al
compagno, s’incammina verso la fattoria.

Fu allora che vide per la prima volta, sebbene possa dirsi in iscorcio,
la Pampa. Il quadro però che egli ne fa è un po’ di fantasia, e più che
una pittura esatta del tratto di paese che aveva davanti, si potrebbe
dire un compendio poetico dei ricordi e delle sensazioni che l’aspetto
della contrada, in cui era vissuto per dodici anni, aveva lasciato
nell’animo suo.

Egli scrive: «Lo spettacolo che si offrì alla mia vista per la prima
volta, è veramente degno di menzione. Gl’immensi ed ondulati campi
orientali[35] presentano una natura affatto nuova ad un Europeo, e
massime ad un Italiano assuefatto e cresciuto ove palmo di terra non
si presenta vuoto di case, o di altra opera qualunque di mano d’uomo.
Là nulla di questo! Il Creolo conserva la superficie di quel suolo
come gliela lasciarono gl’indigeni dallo Spagnuolo distrutti. I campi
sono coperti di fieno, e non variano che nelle valli e sulle sponde
dell’Arroyo,[36] ove s’innalzano, più o meno alti, bellissimi boschi.
Il cavallo, il bue, il venado,[37] lo struzzo sono gli abitatori di
quella terra. L’uomo, rarissimo, vero centauro, la passeggia soltanto
per annunziare un padrone agl’innumerevoli e selvaggi suoi servi. Non
di rado il bellicoso stallone e l’indomito toro si avventano sul suo
passaggio, disprezzandone l’alterigia con vigorosi e non equivoci segni
d’indipendenza. Io ho veduto sulla misera terra ove nacqui un Tedesco
solcante e calpestante le moltitudini; e i servi aprivano un varco ed
abbassavano lo sguardo per paura di compromettersi.

»Dio mio, sin a quando permetterai tanto vilipendio della tua creatura!
Quanto bello è lo stallone de’ campi orientali! Le sue labbra non
sentiranno giammai il freddo ribrezzo del freno, e la lucida sua
schiena, battuta da bellissima criniera, non sarà mai calcata dal
fetido sedere dell’uomo!... Il superbo, raccogliendo le sparse giumente
e fuggendo la persecuzione dell’uomo, avanza la velocità del vento.
Vero sultano del deserto si sceglie la più vaga delle sue odalische
senza il servile ministero della più vile e schifosa delle creature,
l’eunuco! Come esprimere le emozioni del corsaro di venticinque anni in
mezzo a quella fiera natura, vista per la prima volta.»

Non c’è pagina forse in tutto il voluminoso archivio degli scritti
di Garibaldi, in cui egli abbia confessato l’intimo suo pensiero più
di questa. L’uomo allo stato di natura, libero, indomito come il toro
selvaggio, incontaminato dal freno e dalla sella come lo stallone della
Pampa, signore de’ suoi pascoli, sultano delle sue donne, re pel solo
diritto della forza e della bellezza della sua torma, ecco, scrutato in
fondo, l’ideale umano verso cui Garibaldi, senza forse confessarlo a sè
stesso, si sentiva trasportato ed a cui conformerà tanti atti e costumi
della sua vita.


IX.

Arrivato all’_estancia_, invece del fattore (_Capataz_), trova
una donna; una bella donna, a quanto pare, e per di più poetessa.
S’immagini la meraviglia del nostro corsaro nello scoprire là, in mezzo
al deserto, una donna che parlava l’italiano, che sapeva a memoria
squarci di Petrarca, di Dante, di Tasso, che faceva dei versi essa
stessa. L’incendio fu subitaneo: ella gli leggeva i suoi versi, egli
li ammirava; ella sfoggiava la sua perizia nell’italiano, egli metteva
in mostra tutto il po’ di spagnuolo che possedeva; ella gli donava un
volume delle poesie di Quintana, egli forse.... ma il marito arrivò, ed
era tempo.

Nè l’aneddoto mi sarebbe parso meritevole di memoria, se non fosse un
primo indizio del grande potere che la donna esercitò sull’appassionata
fantasia dell’eroe nizzardo. La storia aneddotica degli amori di
Garibaldi non la conosciamo, nè la vogliamo conoscere. Lasciamo a
cui piace il raccontarla; ma il concetto ch’egli ebbe della donna
e dell’amore, la storia ideale del suo cuore amante, è lineamento
essenziale del suo carattere, e prima o poi ci sarà mestieri
consacrarle un capitolo di questo libro.

Allora, stretto in poche parole il contratto, il _Capataz_ gli dà
bell’e squartato e spellato il bove, di cui aveva bisogno; Garibaldi
ne sciorina a guisa di tenda sul palo della sua zattera i quarti, e si
avventura nel fiume.

Ma naturalmente il ritorno sarà ancora più periglioso dell’andata.
Al flagello dei marosi s’unisce ora l’avversità della corrente, e a
un certo punto essa è tanto furiosa, che porta la fragile tavola a
deriva e minaccia travolgerla. Fortunatamente però la goletta mossagli
incontro riesce a gettargli una cima, e il nostro corsaro giunge alla
fine a riafferrare il suo bordo fra le grida di giubilo e i battimani
de’ suoi affamati compagni, forse più ansiosi, dirà egli, con insolita
ironia, della sorte del bove che di quella del loro capitano.

«Sazio del cibo il natural talento,» passata la notte alla Sonda, circa
sei miglia a mezzodì della punta di Jesus-Maria, i guardieri della
Luisa segnalano in sul far del giorno due barche verso Montevideo. In
sulle prime Garibaldi le crede amiche e non ci bada; poi avvedutosi
che non portavano bandiera rossa, segno convenuto fra i rivoluzionari,
entra in qualche sospetto, e ad ogni buon conto comanda di mettere alla
vela e di far portare le armi in coperta.

E la precauzione fu provvida. La maggiore delle due barche veniva
innanzi coll’andatura quieta e grave d’un bastimento mercantile;
quando, giunta a pochi passi dalla _Luisa_, getta, per così dire, la
maschera; una voce squillante s’innalza dal suo bordo che intima al
legno corsaro la resa, mentre il ponte si copre, come per incanto, di
uomini armati, che senza aspettar risposta commentano l’intimazione
della voce con una salva di moschetteria. La cosa era ormai palese. Il
governo della Repubblica Orientale aveva comandato di perseguitare i
corsari, e le due barche misteriose erano due lancioni della Repubblica
mandati ad eseguire l’ordine. Non c’era dunque che una risposta.
«All’armi,» grida Garibaldi; e mentre spara egli stesso il primo colpo
di fucile, ordina di _bracciare in vela da prua_ col manifesto disegno
di scivolare, bordeggiando, fra i due lancioni. Allora un combattimento
accanito s’impegna fra i due legni, il primo, veramente il primo,
ed è deplorevole che ne manchi la data, in cui si provò Garibaldi. I
negri e i marinai stranieri, zavorra dell’equipaggio, si rimpiattano
nella stiva, ma i sette italiani che aveva a bordo, Fiorentino, Luigi
Carniglia, Pasquale Lodola, Giovanni Lamberti, Maurizio Garibaldi e
due Maltesi, fanno, dietro al suo esempio, prove di disperato valore.
A un certo punto uno de’ lancioni, fidente nella superiorità del
numero, tenta un arrembaggio; e già alcuni de’ suoi più arditi sono
montati sulle impavesate di destra della brava goletta, ma invano;
pochi colpi di moschetto e di sciabola li rovesciano e li fanno
saltare in mare. Intanto però Garibaldi s’era accorto che la goletta
non aveva risposto alla manovra da lui ordinata, e voltatosi per
ripetere l’ordine al timoniere, vede il timone abbandonato e a pochi
passi il bravo Fiorentino, stato fin’allora al governo, steso morto da
una palla nel petto. Garibaldi indovina l’accaduto e si slancia egli
stesso al timone; ma ne ha appena afferrata la barra, che un’altra
palla gli traversa il collo, e lo stramazza, fuor di sensi, sul ponte.
Per la _Luisa_ poteva essere quella l’ultima ora, se i cinque Italiani
superstiti, guidati dall’intrepido Carniglia, un genovese gigantesco,
non avesser continuato a combattere e tenere in rispetto i nemici;
onde i lancioni assalitori, disperati oramai di poter vincere una sì
ostinata resistenza, virarono di bordo e la goletta corsara fu salva.

Lo era il suo capitano? La ferita è gravissima: il ferito aveva
ricuperati i sensi, ma era incapace di ogni movimento. Il fido
Carniglia, il primo a corrergli accanto per soccorrerlo, l’ultimo
a staccarsene, gli chiese dove si dovesse dirigere la prua,
essendo manifesto ormai che le rive della Repubblica erano tutte
ugualmente malfide; e Garibaldi, fissati i moribondi occhi sopra
una carta, additò Santa-Fè nel Parana, nello Stato di Entre-Rios,
provincia dell’Argentina. E la nave, favorita da un vento fresco
di levante, descrisse il rombo tracciato dal capitano. Prima cura
però dell’equipaggio della _Luisa_ fu di dare sepoltura alla salma
dell’infelice compagno. Ma quale triste sepoltura le acque d’un fiume!
Oh non era quella la tomba che Garibaldi desiderava! La morte non lo
spaventava; ma se non gli era concesso morire in un angolo di terra
della sua diletta Italia, che il suo corpo non sia pasto ai pescicani,
che almeno «un sasso (diceva al fedele Carniglia) distingua le mie,
dalle infinite ossa, che per terra e per mar semina morte.[38]»


X.

In una vita seminata d’avventure straordinarie tralasceremo le comuni.

Raccolto all’imboccatura dell’Ibiqui (affluente del Parana) da un
bastimento brasiliano,[39] viene sbarcato a Gualeguaj, capoluogo d’un
distretto dell’Entre-Rios: accolto benignamente dal governatore della
provincia, Don Pedro Echague, che troveremo un giorno fra i partigiani
di Rosas. Ivi un bravo chirurgo, il dottor Rammon, gli estrae la
palla; un altro dottore, Giacinto Andreus, gli offre in casa sua
un’ospitalità quasi fraterna; il Governo stesso gli somministra per il
suo sostentamento un _duro_ al giorno (fr. 5), ricchezza in quei paesi,
ponendogli unica condizione di non allontanarsi da Gualeguaj e di
restar prigioniero sulla parola fino a che il dittatore di Buenos-Ayres
(Rosas) abbia deciso della sua sorte.

In sulle prime Garibaldi, sostenuto dalla speranza d’un pronto
mutamento di sorte, sopportò rassegnato, se non contento, la non dura
cattività, tentando ingannare le lunghe ore del forzato riposo ora
colla lettura di libri che l’ospite gli prestava; ora col versare in
copiose lettere agli amici gl’intimi pensieri del suo cuore;[40] ora
finalmente coll’inviare alla patria lontana, creduta più ignava che
infelice, canti d’amore indignato, in cui senti tutte le passioni
dell’uomo e del patriotta gorgogliare in mezzo agl’ingenui falli del
ritmo ed all’insospettata scorrettezza della parola, simile a flutto di
lava che sgorghi tra le scorie ed il fango.

È dei giorni di Gualeguaj quella, non sapremmo dire se ode o ruggito
di selvaggio ferito, le cui strofe abbiamo udito noi stessi tornare
più volte sulle sue labbra, e che riportiamo qui per intero, non tanto
come saggio delle facoltà poetiche del nostro eroe (quistione che vorrà
essere esaminata a parte), quanto come testimonio dei sentimenti che
ribollivano allora nell’anima sua e della forma con cui ne erompevano:

      Non fra pomposi ed aurei
    Vaghi giardin simmetrici,
    Non sotto immensi aerei
    Archi e portenti artefici,
    Ma tra l’ombrose selve
    Piacesi il mio pensier.
      Non quando il Ciel sereno
    E dei Zeffiri il lambito
    All’ente fausto in seno
    Diffondan dolce palpito,
    Ma quando rugge il nembo
    E scuote l’orbe intier.
      Non quando Teti argentei
    I flutti suoi mi estolle;
    Non quando ardenti agl’ignei
    Monti il bitume bolle,
    Ma tempestuose l’onde,
    Sconquassato il crater.
      E che m’importa il gaudio
    E de’ popoli la pace?
    Che m’importa del Sabaudio
    Il prosperar mendace,
    E del Samnita immemore
    Il codardo giacer?
      Che m’importa d’Italia
    I lirici concenti,
    Se di Germania e Gallia
    I bellici istrumenti
    Nel sen di quell’imbelle
    L’onta fan rimbombar?
      Io la vorrei deserta,
    I suoi palagi infranti;
    Ed io, dell’Alpi allerta,
    Le sue città fumanti
    Scorger, e con sardonico
    Sorriso contemplar.
      Pria di vederla trepida
    Sotto il baston d’un Vandalo.
    Già prostituta e squalida
    Delle nazioni scandalo,
    Il suo destin cospicuo
    Stolida rinnegar.

Però che un uomo come Garibaldi potesse reggere a lungo a quella vita
che non era nè la libertà nè la servitù, nessuno vorrà pensarlo.
Oltredichè avendogli taluno susurrato, forse per vile agguato, che
la sua evasione sarebbe stata non interamente sgradita al Governo
argentino, a cui probabilmente non spiaceva di liberarsi da un’incomoda
e costosa custodia, egli, facilmente credulo a ciò che più desiderava,
si stimò come prosciolto dalla data parola, e si decise a fuggire.
Colta infatti una sera d’uragano, esce non visto da Gualeguaj,
raggiunge a passi di lupo l’_estancia_ più vicina, vi trova una guida e
un cavallo e si dirige a gran galoppo verso il Parana colla speranza di
poterlo tragittare. Ma, tradito dalla guida, sorpreso da una pattuglia
di cavalleria, toltagli ogni possibilità così di fuga come di difesa, è
ripreso, e colle mani legate alle reni e i piedi cinghiati alla sella
viene ricondotto a Gualeguaj e tradotto davanti al governatore della
città.

Era costui un cotal Millan, il quale, non sospettando certamente che
stampa d’uomo gli stesse dinanzi, gl’intimò senz’altro di palesare
i suoi complici. Garibaldi, naturalmente, rispose con uno sdegnoso
rifiuto; allora il degno magistrato di Rosas, traendo sicuramente
coraggio dalle ritorte che rendevano impotente il prigioniero, brandì
una sua frusta e si diede a flagellarlo furiosamente. Non ottenne per
questo una parola di più; sicchè, vedute oramai riuscir vane così le
minaccie come le percosse, comandò, procedura non insolita in quella
Repubblica, che fosse inflitta al testardo Italiano la tortura.

Lo presero quindi, gli girarono attorno ai polsi sempre legati al dorso
un’altra fune, lo sospesero con questa ad una trave, e ve lo lasciarono
due ore.

«Il mio corpo (urla ancora più che non scriva Garibaldi) ardeva come
una fornace, e lo stomaco mio disseccava l’acqua che io trangugiavo
continuamente come una rovente lamina.... Tali patimenti non si ponno
esprimere! Quando mi sciolsero, io più non mi lamentavo.... ero
diventato un cadavere, e così mi incepparono. Io avevo traversato
cinquantaquattro miglia di paese paludoso, legato mani e piedi. Le
zanzare, moltissime in quella stagione, avevano fatto strage di me.
Avevo sofferto molto. Ora mi trovavo in ceppi allato d’un assassino.
Andreus, il mio benefattore, era imprigionato. Gli abitanti tutti del
paese erano atterriti, e senza l’anima generosa d’una donna io sarei
morto. La signora Alleman, angelo virtuoso di bontà, calpestò ogni
timore e venne in soccorso del torturato. Io non mancai di nulla nella
prigione, grazie alla benefattrice mia.[41]»

Finalmente, stanco di martoriarlo invano, dopo averlo ridotto presso
all’agonia, e temendo forse di dover rispondere della sua vita, il
bestiale Millan fa tradurre il prigioniero da Gualeguaj alla Bajada,
capitale dell’Entre-Rios, dove, tenuto altri due mesi in custodia,
viene alla fine dal mite Echague liberato.

Che a Garibaldi dovesse tardare di togliersi a quella terra in cui anco
l’ospitalità era pericolosa, s’intende da sè; però imbarcatosi sopra
un brigantino italiano, capitano Ventura, scende con esso fino alla
Plata, e di là, raccolto da una barca da pesca (_balandra_), riafferra
felicemente Montevideo. Colà, è vero, durava la sua proscrizione; ma
il Cuneo, il Castellini, il Pesante, uno stuolo d’amici gli si fanno
d’attorno, lo ospitano, lo nascondono, lo proteggono; tra poco il
Rossetti stesso, reduce da Rio Grande, dove era stato a rinfocolare la
rivoluzione, viene a raggiungerlo ed a proporgli di condurlo seco al
campo dei sollevati.

E qui si chiude il primo periodo delle avventure di Garibaldi sulla
Plata. Della tortura di Gualeguaj egli serbò ricordo perenne sul suo
corpo, l’artritide alle mani che lo tormentò tutta la vita, ma non la
più lieve ombra di rancore nel suo animo.

Corsi appena dieci anni, guerreggiando egli per la Repubblica di
Montevideo contro l’Argentina, un caso, che poteva parere giustizia,
fece cadere nelle sue mani, tra gli altri prigionieri, anche il
Millan. E in un paese, dove l’intingere la lancia (_mocar_) nel corpo
del nemico ferito era buon dritto di guerra, s’intende che la vita
d’un prigioniero fosse legittima cosa del vincitore; pure Garibaldi,
quando seppe dal Sacchi che l’aguzzino di Gualeguaj era in sua mano:
«Non voglio vederlo, esclamò, lasciatelo libero!» e fu quella l’unica
vendetta ch’egli si tolse.


XI.

La proposta del Rossetti secondava troppo il genio di Garibaldi perchè
questi potesse rifiutarla; oltre di che Montevideo, dopo la giornata
dei lancioni, non era più un asilo troppo sicuro per lui.

Non trascorreva il mese adunque che i due amici erano già sulla
strada di Rio Grande. Fecero il viaggio a cavallo, anzi ad _escotero_,
maniera singolarissima di viaggiare laggiù e che, a detta di Garibaldi,
vince in velocità le più celebri poste del vecchio mondo. Branchi di
cavalli sono talmente assuefatti a vivere assieme, che, quando uno è
preso e montato da un cavaliere, tutto il branco lo segue; sicchè il
viaggiatore affrettato, quando la sua cavalcatura è stanca, non ha
che a buttare la sella e montare sul primo cavallo del branco che gli
capita alle mani, e così di cavallo in cavallo fino al termine del
viaggio: questo è l’_escotero_.

In tal modo, traverso un paese pittoresco ed ospitale, che il nostro
eroe non rifinisce mai di magnificare, i due Italiani giunsero a
Piratinin, villaggio meglio che città del Rio Grande, sorgente a poca
distanza dalla sponda occidentale della laguna _de los Patos_ (delle
Anitre), e dove il presidente Bento Gonçales, dopo la perdita di Porto
Allegre, aveva trapiantata la capitale della sua nomade repubblichetta.

Festose furono le accoglienze e lieto era il soggiorno di Piratinin;
ma udito che il Presidente campeggiava sul San Gonzales contro una
divisione dell’esercito imperiale, comandata da un tal Silva Tavares,
Garibaldi non volle tollerare dimora, e lo raggiunse subito al campo.

Era quella la prima volta che il Nizzardo vedeva il campione
dell’indipendenza riograndese, e ne toccò una impressione
incancellabile. Veneranda la testa per gli anni e la canizie; alto
e snello di corpo; pittoresca la foggia del vestire; nell’esercizio
del cavalcare espertissimo; prode di mano, intrepido di cuore; sobrio
fino a non conoscere altro cibo che un po’ di carne arrostita, nè
altra bevanda che l’acqua pura delle sorgenti; cortese, cavalleresco,
famigliare, il Gonçales rappresentava agli occhi di Garibaldi il
modello dell’eroe popolare; e nessuno meraviglierà se i principali
lineamenti di siffatto tipo si stamperanno così profondamente
nell’animo del gran Nizzardo, da rinascere un giorno ne’ suoi costumi
e nelle sue gesta come rinascono le fattezze del padre in quelle d’un
figliuolo. In un punto solo l’Italiano differiva dal Riograndese; che
questi fu tanto sfortunato nelle sue imprese, quanto sarà fortunato
quello: «Il che mi ha fatto sempre credere (soggiunge il nostro
eroe) essere la fortuna non per poco negli eventi della guerra.» E
la confessione ci parrà tanto più onesta e preziosa nella bocca di
un uomo che, nell’ebbrezza di tanti trionfi, poteva essere di sovente
trascinato a scambiare per conquiste del proprio genio i favori della
sorte, ed essere facilmente ingrato alla Dea che lo aveva siffattamente
beneficato.

Rimasta senza effetto, per la ritirata delle truppe imperiali, la
spedizione del Gonçales, questi tornò con tutti i suoi a Piratinin, e
Garibaldi naturalmente fu nel numero. Colà però il governo del Gonçales
pensò subito a trar profitto del giovane italiano, che aveva già dato
tante prove di valore e devozione alla causa repubblicana, e avendo
sperimentata principalmente la sua perizia nelle cose di mare, gli
commise l’organizzazione e il comando della piccola flotta riograndese.
Era per Garibaldi un regno. Don Giovanni d’Austria che riceveva il
comando della flotta cristiana; Nelson che guidava il naviglio inglese
a disperdere la marina napoleonica, non esultarono forse di una gioia
sì superba come il marinaio nizzardo nel sentirsi comandante dei due
lancioni destinati a far la guerra all’Impero brasiliano sulla laguna
delle Anitre. Però non frappose indugio di sorta; coll’opera de’
suoi antichi marinai venuti a raggiungerlo da Montevideo, tra’ quali
il fedele Carniglia, e d’alcuni carpentieri indigeni, preparando,
segando, fucinando sul luogo stesso il legname, i ferramenti, perfino
i chiodi, costruì in men di due mesi due lancioni della portata da
15 a 20 tonnellate; li varò nel Camacua, confluente della laguna; li
armò di due cannoncini di bronzo, e, tra neri, europei e mulatti, di
settanta uomini d’equipaggio; e preso egli stesso il comando del più
grosso, detto il _Rio Pardo_, affidò il governo del minore, battezzato
il _Repubblicano_, all’americano John Griggs, e si slanciò nella laguna
contro la squadra imperiale forte di trenta navigli da guerra e di un
battello a vapore.

Qui comincia la vera vita eroica di Garibaldi. Finora di questa epopea
noi non abbiamo veduto, a dir così, che il proemio, ora viene il poema,
ora s’apre quel volume di prodezze favolose, di virtù temerarie, di
errori fortunati e di fortune insolenti che a grado a grado sollevarono
il nome del mozzo nizzardo dalla oscura arena di Piratinin all’onore
d’una scena europea e quasi mondiale, e ne fecero una delle più
fantastiche e meravigliose figure della storia moderna. Narrarle
tutte ad una ad una col minuto intreccio dei loro particolari, non
sapremmo; oltredichè sarebbe soverchio e superfluo insieme: superfluo,
perchè Garibaldi stesso nelle sue _Memorie_ ne parla a distesa;
soverchio, perchè il più delle volte si rassomigliano e si ripetono;
e accrescono bensì la mole dei fatti, ma non aggiungono alcun nuovo
tratto alla fisonomia dell’eroe, nè suscitano alcuna nuova sensazione
nell’animo del lettore. Diremo però le principali, le eccezionali,
le caratteristiche, quelle che più scolpiscono l’uomo ed il tempo,
l’attore e la scena.

Combattere per terra e per mare; oggi sottrarsi alla caccia d’una
flotta venti volte superiore, domani affrontare con un pugno d’uomini
nugoli di cavalieri; oggi lanciarsi all’arrembaggio d’un vascello
nemico e predarlo, domani lottare disperatamente contro l’uragano e
scampar per miracolo da un naufragio; essere al tempo stesso marinaio,
cavaliere, calafato, boaro; vivere alla ventura e in perpetuo allarme;
ambire, vincitore, unico premio alla vittoria, i sorrisi delle belle
ed ottenerli; conseguire, vinto, l’ammirazione di tutti i generosi e
meritarla; trovarsi ad ogni istante a faccia a faccia colla morte e
sentirsi beato; non possedere che una striscia di terra su cui posare
il capo, ed una tavola di barca su cui piantare il piede, e ciò non
ostante avere il corpo fiorente di salute e l’anima piena di fantasie
giovanili e di sogni d’amore, questa fu la vita di Garibaldi per oltre
quattro anni, questa fu la prima scuola del futuro duce dei Mille.

Lungo la sponda occidentale del Los Patos correvano larghi e
continui banchi di sabbia, che erano diga insuperabile alle grosse
navi imperiali, e via di scampo e di rifugio ai due piccoli legni
repubblicani. Però, quando Garibaldi si vedeva minacciato dalla
squadra nemica o aveva bisogno di vettovagliarsi o di restaurare i suoi
lancioni, non aveva, com’egli diceva, _che a far l’anitra_; spingere,
cioè, i lancioni sui banchi, e saltando coi suoi nell’acqua, tirarli a
terra a forza di braccia.

Una volta adunque che i nostri Garibaldini, nulla vieta di chiamarli
fin d’allora così, avevano «fatto l’anitra» e preso terra sui possessi
medesimi del Presidente, precisamente nei dintorni d’un _saladero_
(specie di capannone per salarvi le carni) detto il _Galpon de
Chargucada_, e proprio nel momento in cui, rassicurati dai rapporti
degli esploratori, se ne stavano abbandonatamente, quali terminando il
loro rancio, quali a tagliar legne o a raccomodar vele e sartie, odono
risuonare sul loro capo un terribile squillo di carica e di _deguillo_,
o, come tradurremmo noi, di sgozzamento. Erano gl’Imperiali: era un
grosso corpo di cavalieri, capitanati da un certo colonnello Moringue,
famoso, assicurano, per furberia e coraggio, che sbucando a un tratto
dal fitto sipario di nebbia che li aveva sino allora nascosti,
si precipitavano sull’accampamento repubblicano e minacciavano
sterminarlo. La sorpresa dell’inaspettato assalto fu tanta, la
furia degli assalitori era tale, che Garibaldi, il quale se ne stava
tranquillamente centellando il suo _mate_,[42] e il cuoco, che gli
era seduto dappresso, ebbero appena il tempo di balzare in piedi e di
rifugiarsi nel Galpon; anzi uno dei cavalieri nemici giunse sì presso
a Garibaldi stesso, che, mentre questi entrava nella porta del Galpon,
riesciva a forargli il _poncio_ con un colpo di lancia. Tuttavia i due
Italiani furono ancora in tempo a sbarrare la porta del capannone, e
poichè fortuna volle che tutte le armi degli accampati fossero cariche
e schierate in ordine intorno alla porta stessa, poterono anche aprire
istantaneamente contro il nemico un fuoco micidiale. Garibaldi sparava
e il cuoco riporgeva le armi e le ricaricava, e ogni colpo feriva
giusto e atterrava un nemico. Intanto alcuni Garibaldini sparsi nei
dintorni, chiamati dalle trombe e dalle fucilate, accorrevano in
soccorso dei loro compagni, e rasenti le muraglie, strisciando tra
le macchie, sfidando il fuoco degl’Imperiali, riuscivano a penetrare
nel Galpon. Via via arrivarono Carniglia, Ignazio Bilbao biscaglino,
Edoardo Mutru nizzardo, Raffaello e Procopio, l’uno mulatto l’altro
nero, Francesco Sylva spagnuolo ed altri cinque, di cui Garibaldi
stesso lamenta di non ricordare il nome. Così i difensori del Galpon
diventarono tredici, e apparivano cento. La disperazione somministrava
le armi e il furore; ma una disperazione fredda, calcolatrice,
impavida, che pareva rendere più acuto l’occhio, più fermo il polso dei
difensori, e faceva nello stormo degli assalitori irreparabili vuoti.
Il Galpon era stato in pochi istanti coperto di feritoie, e da ogni
feritoia partiva la morte. A un certo punto gli assalitori, stanchi
di vedersi decimati senza potere offendere, immaginarono d’incendiare
il Galpon. Salirono perciò sul tetto, lo scoperchiarono e si diedero a
gettare sull’improvvisata cittadella fasci di legne accese. Fu quello
pei difensori il momento più terribile; molti di loro, colpiti da
quella breccia aperta nell’alto, caddero mortalmente feriti. Pure non
smarrirono un istante l’animo invitto: guidati da Garibaldi, mentre gli
uni attendevano a spegnere il nascente incendio, gli altri puntavano,
freddi e calmi, contro ogni nemico che s’affacciasse dal tetto e lo
fulminavano. La difesa si protrasse così ancora per qualche tempo,
ma venne un punto in cui gli assaliti si contarono, e non erano più
che tre. Cinque erano morti, cinque gravemente feriti. Gli Imperiali,
quantunque decimati, superavano ancora il centinaio, e la rabbia
dell’inattesa resistenza li rendeva ancora più feroci. Oramai non
restava più ai difensori che l’ultima ragione della baionetta e una
morte gloriosa. In quel punto Garibaldi, trovando nel sublime delirio
dell’imminente agonia un impensato stratagemma, intuona in faccia ai
nemici esterrefatti l’inno di Riego:

      Soldados, la patria
    Nos llama a la lid:
    Coriemos, coriemos
    La patria a salvar.

E i due compagni tengon bordone, e i feriti cui resta un filo di voce
ancora accompagnano, e tanto è l’effetto di quelle patriottiche note
elevate da quel coro d’eroici morenti, che gl’imperiali, tra stupiti
e commossi, ristanno alcun poco interdetti e sospendono per alcuni
istanti l’assalto. Fu la salvezza degli assediati: che in quel medesimo
punto il negro Procopio essendo riuscito a fracassare con una ben
aggiustata palla il braccio del colonnello Moringue, i suoi cavalieri
si turbano e si scompigliano, il colonnello stesso ordina la ritirata,
e in poco d’ora il Galpon è libero e tutto il piano circostante sgombro
di nemici. Era quello il primo combattimento di terra che Garibaldi
sosteneva. Per cinque ore tredici uomini ressero all’assalto di
centocinquanta agguerriti cavalieri, comandati da uno dei più valorosi
e astuti capitani del Brasile.

Due anni dopo il capitano Lelièvre con centoventitrè uomini difendeva
la Torre di Mazagran contro dodicimila beduini; ma Mazagran era una
fortezza e il Galpon di Chargucada una bicocca.

Le «anitre» erano tornate all’acqua. Il governo di Piratinin, visto
come l’assedio posto a Porto Allegre si trascinasse troppo per le
lunghe e non promettesse alcun prospero fine, deliberò di dar la
mano ai rivoluzionari della finitima provincia di Santa Caterina,
ove si erano già manifestati molti segni di ribellione all’Impero, e
poteva, una volta soccorsa, mettere l’esercito di Don Pedros tra due
fuochi e seriamente minacciarlo. Ordinò quindi una doppia spedizione
_auxiliadora_. Il general Canavarro dovea agire per terra ed il
capitan-tenente Garibaldi per mare. Ma agire per mare era una parola.
La Repubblica aveva bensì aggiunti al Rio Pardo ed al Republicano
che tenevano la laguna altri due più grossi lancioni, uno dei quali
(dell’altro non si trova scritto il nome) era chiamato il Seival; ma
sull’Oceano essa non possedeva nè porti, nè flotta, e la laguna del Los
Patos era separata dall’Atlantico da oltre venticinque leghe di terra
e le sue foci erano tutte in mano degl’Imperiali. Come fare adunque?
Caricare due lancioni sopra carri e trasportarli dalla laguna in mare:
fu questo il suggerimento di Garibaldi e fu senza indugio accettato.
Presi pertanto il vecchio Rio Pardo ed il nuovo Seival, e commesso
ad un abile carradore dei dintorni la costruzione di due lunghi carri
sostenuti da quattro altissime ruote, si mise all’opera. Da un’insenata
a greco della laguna sgorga entro un burrone un torrentello detto il
Capivari, il quale dopo un corso di oltre venti leghe andava a finire
colle sue povere acque in un altro lago chiamato Taramanday, che a
sua volta sboccava per mezzo a vorticosi frangenti nell’Atlantico.
Ora Garibaldi scelse per il trasporto dei suoi lancioni queste due
vie. Fatti entrare i carri nel Capivari fin presso al suo sbocco dalla
laguna, vi fece scorrer sopra, senza grandi sforzi, i due lancioni:
attaccò a ciascun carro venticinque paia di buoi: discese, non dice
in quanti giorni, tutto il letto del fiume: giunse, con meraviglia
degli abitanti accorrenti a quell’insolito spettacolo, fino alle sponde
del Taramanday, ivi scaricò i due legni, li gettò in acqua, li armò e
li allestì d’ogni occorrente e drizzò la prua verso l’Oceano. Il più
pareva fatto, ed era il meno.[43]

Il fondo di foce del Taramanday è bassissimo e soltanto nelle ore
d’alta marea praticabile; oltre a ciò, la costa dell’Atlantico in quel
punto scopertissima e per le correnti alluvionali che la solcano e
gli spessi marosi che la flagellano, oltremodo ardua e perigliosa. A
Garibaldi quindi e a’ suoi arditi compagni si convenne attendere fin
quasi a sera il ritorno dell’alto flusso; ma quando questo arrivò e
si prepararono a tentarne il passaggio, s’avvidero che l’acqua non
bastava ancora. Era dunque giocoforza ricominciare da capo; faticare e
sudare ancora, manovrare di destrezza e di coraggio, balzare di nuovo
in acqua, spingere e trascinare di nuovo i bastimenti a forza di remi e
di braccia, scivolare nel buio della notte tra le secche e i frangenti;
dare una battaglia all’Oceano anche prima di potervi entrare.

E la battaglia prima delle tre ore del mattino era vinta, e Garibaldi
poteva dire che eran quelli i primi bastimenti che superassero quelle
sirti fin allora intentate; ma l’Oceano se ne vendicherà. Non appena
infatti i lancioni ebbero salpata l’áncora, un fortunale di mezzogiorno
si scatenò con tanto furore, che il capitano, posto tra il pericolo
imminente e quasi certo di veder i suoi legni andar sommersi al primo
colpo di vento e l’altro ancor lontano ed incerto di cader prigioniero
nelle mani degl’Imperiali, scelse tuttavia questo e comandò di accostar
terra il più presto, comunque, dovunque. Ma anche per questa manovra
era tardi. Il _Seival_, comandato dal Griggs, come il più forte
e il più snello potè ancora reggere all’urto e afferrare, sebben
sconquassato, la costa. Il _Rio Pardo_, più piccolo e più carico,
dopo avere lungamente e valorosamente lottato, battuto di fianco da
un’ondata più furibonda delle altre andò capovolto sotto i flutti e non
si risollevò mai più.

Allora apparve uno spettacolo terribile. Garibaldi, buttato come tutti
gli altri in preda alle onde, non ebbe nell’istante del disastro
che un solo pensiero: provvedere alla salvezza de’ suoi compagni.
Gagliardissimo nuotatore, andava da un naufrago all’altro, a questi
porgendo la mano, a quelli stendendo un boccaporto o un remo, a tutti
recando un aiuto ed un consiglio; ma invano.

Luigi Carniglia fu il primo a perire sotto i suoi occhi. Il destino
volle che nel momento del naufragio egli portasse indosso un pesante
giacchettone di _calmuck_, che serrandogli fortemente le membra
gli impediva di nuotare. Si tenne egli aggrappato ai sartiami dello
sbattuto bastimento finchè gli bastò la forza; ma venutagli meno si
mise a gridare al soccorso. L’intese Garibaldi e accorse in due lanci;
e mentre si reggeva egli pure con una mano al bastimento, coll’altra
tratto di tasca un coltello si diede a tagliare, febbricitante, il
collo ed il dosso della tenace giacchetta; e già questa cadeva a lembi,
già il bravo timoniere ricuperava il fiato ed il moto, quando una
furiosa ondata percuote e divide d’un colpo i due amici, manda in brani
il bastimento e sommerge tutti. Ritornò a galla stordito, ma lottante
ancora Garibaldi; il suo fido Carniglia, colui che gli aveva salvata la
vita sulla Plata, non vi tornò mai più.

Allora oppresso da ambascia mortale, più come automa spinto da un
involontario impulso che come uomo guidato dall’amore della vita,
Garibaldi s’avvia lento e triste verso la spiaggia. Quando toccatala
appena vede boccheggiare sull’onde, agitando le braccia con gesti
disperati, l’altro suo amico Edoardo Mutru. Il Nizzardo era a terra,
al sicuro, affranto da una lotta disperata di più ore; pure il
pensiero della salvezza de’ suoi lo domina sempre, torna a slanciarsi
in mare, arriva in pochi passi presso l’amico agonizzante, gli porge
un boccaporto; ma nel punto in cui il povero Mutru tenta allungare
le braccia ed afferrarlo, l’ultima lena gli vien meno e l’onda lo
arrotola, lo capovolge e lo ingoia per sempre. Era l’ultimo sforzo,
di cui anche Garibaldi poteva essere capace. Raggiunta di nuovo la
riva, fatta la triste rassegna de’ naufraghi, sedici erano periti:
quattordici soli erano salvi, e tra di essi, mortale certezza al
cuore del nostro patriotta, nemmeno uno italiano. «Carniglia, Mutru,
Staderini, Navone, Giovanni, un altro di cui non rammento il nome
(scrive dolorosamente Garibaldi), erano tutti morti. Forti e buoni
nuotatori perirono. Alcuni giovanotti americani che non sapevano
nuotare erano salvi. Pare incredibile, ma è vero. Io vaneggiava: mi
pareva il mondo un deserto.[44]»

E tuttavia anche la vita de’ superstiti pendeva ad un filo. Balestrati
su una spiaggia deserta, fradici fino alla midolla, assiderati
dalla lunga immersione, privi da molte ore d’alcun ristoro, spossati
dalla lotta disperata contro la tempesta, se un pronto soccorso non
sopravveniva sarebbero morti certamente di freddo e d’inedia sul
palmo di costa in cui l’onda li aveva gettati. Per fortuna il soccorso
venne; e fu un consiglio. «Corriamo,» suggerì una voce, «corriamo:»
assentirono tutti. E quei quattordici naufraghi, ignudi e tremanti,
raccolto l’estremo delle loro forze si diedero a correre macchinalmente
sulla sabbia della riva fin che ebbero lena. Fu la loro salvezza. Al
tornar del calore tornava la vita, almeno quel tanto di vita che era
loro necessario per potersi trascinare alla prima casa abitata, dove
pervennero infatti e trovarono ogni maniera d’ospitali conforti.


XII.

Ma ben altre prove lo aspettavano. Quel generale Canavarro che doveva
operare per terra, accolto come liberatore dagli abitanti della
città di Laguna, ed ivi piantato il governo repubblicano, di cui fu
eletto segretario il Rossetti, s’apparecchiò a marciare avanti ed a
riprendere anche sul mare le ostilità. Di queste affidò la piena balía
a Garibaldi, ammiraglio nato di quelle guerre, il quale, raccolta
nelle acque della laguna[45] un’altra flottiglia, ossia due golette,
una col nome storico di _Rio Pardo_ da lui comandata, l’altra con
quello di _Cassapara_ comandata dal Griggs, e il vecchio _Seival_ sotto
il governo dell’italiano Lorenzo, si slanciò una notte, malgrado la
crociera imperiale, nell’Oceano.

Da principio le sorti della piccola flottiglia repubblicana corsero
prospere: all’altezza dell’isola di Santos sfuggì alla caccia d’una
corvetta imperiale, presso all’isola di Abrigo catturò due _sumaques_
brasiliane cariche di riso ed un’altra più tardi. Ma alcuni giorni
dopo, perduta in una oscura notte di tempesta la _Cassapara_, ridotta
la squadriglia ai soli _Rio Pardo_ e _Seival_ e affrontata all’altezza
di Santa Caterina da un grosso _patacco_ brasiliano, sostenne bensì per
alcun tempo il combattimento, ma una cannonata nemica avendo smontato
un pezzo del _Seival_ e forata la sua chiglia, per giunta le _sumaques_
impaurite avendo ammainata la bandiera, Garibaldi fu costretto a cercar
rifugio nel porto di Imbituba.

Colà un vento avverso di mezzoggiorno lo teneva quasi prigioniero, e
allora la squadra brasiliana, forte di tre grossi bastimenti, prese
ella l’offensiva. Inutile dire che il nostro capitano s’apparecchiò a
riceverla da par suo. Collocò il cannone smontato dal _Seival_ dietro
una batteria gabbionata, sopra il promontorio che proteggeva la baia
dalla parte di levante; imbossò il _Rio Pardo_ traverso il porto e
attese l’attacco. Le bordate degl’Imperiali erano spesse e terribili,
i cannonieri dei Repubblicani si studiavano a compensare la poca forza
dei loro pezzi colla giustezza dei tiri e coll’intrepidezza; ma, come
accade sempre nei combattimenti disuguali, ogni perdita che facevano
gli assaliti era rovinosa e decisiva; le perdite degli assalitori, per
quanto grandi, quasi insensibili. Oramai il _Rio Pardo_ era stremato;
la sua coperta era ingombra di cadaveri; i suoi fianchi, la sua
alberatura, laceri e mutilati. Solo il pezzo della batteria di terra
continuava la difesa e teneva in rispetto il nemico. Da un istante
all’altro Garibaldi s’attendeva l’arrembaggio ed in cuor suo quasi lo
pregustava. Ma a un certo punto, che è, che non è, i colpi dal mare
diradano, il fuoco va via via cessando, la squadra nemica si ritira.
Fu detto che la cagione dell’improvvida ritirata fosse la morte del
comandante di uno dei legni brasiliani, ma nessuno l’accertò. Garibaldi
restò una volta ancora con forze disuguali, e per il solo ostinato
coraggio suo e de’ suoi, padrone del campo; e girato sul far della sera
il vento, potè la notte medesima, tardi scoperto e invano inseguito,
rientrare sicuro e vittorioso nella laguna di Santa Caterina.


XIII.

I vincitori di Imbituba non furono soltanto uomini. Fin dal cominciare
della zuffa si sarebbe potuto vedere sulla tolda del _Rio Pardo_ una
donna, la quale impavida al fuoco, sprezzante la morte, ora soccorrendo
i feriti, ora incorando i combattenti, ora sparando ella medesima il
suo bravo colpo di carabina, porgeva a tutti un singolare spettacolo
d’intrepidezza e di gagliardía virile. Era Anita. Si trattasse d’uno
di quegli amori di ventura e di capriccio tanto frequenti al nostro
eroe, e dir si potrebbe a tutti gli eroi, o vi scivoleremmo sopra
o ne taceremmo affatto. Ma di questa donna che fu la più durevole
e fors’anco l’unica passione vera di Garibaldi, la di cui istoria è
tanto immedesimata in quella dell’uomo del suo cuore, che molti gesti
e trionfi di lui rimarrebbero incompiuti e inesplicabili senza la
presenza e partecipazione di lei, e la cui vita fu tutta un romanzo
d’amore, di fede e di eroismo, e la morte una tragica catastrofe
d’eroico poema; di questa donna, dico, strana forse di costumi, ma
ingenua di cuore, volgare di sangue, ma nobilissima d’animo, la storia
non potrebbe tacere senza smezzare Garibaldi stesso. Quanto egli
fosse sensibile al fáscino potente dell’eterno femminile, lo vedemmo
nella capanna del _Capataz_ innanzi alla donna poetessa. E non sarebbe
stato eroe altrimenti. Come non si potrebbe concepire Achille senza
Briseide, Rolando senza la bella Alda, il Cid senza Chimene e Ruggiero
senza Bradamante; così non si concepirebbe Garibaldi senza la donna.
Le avventure delle armi traggono seco quelle dell’amore; e il sangue
ricco, la salute fiorente, il gusto della vita sciolta e perigliosa che
fanno il soldato, fanno l’amante paladino.

Bello, giovane, ardente, gagliardo, facilmente amava ed era facilmente
amato. Romantico in azione, figlio armato di Byron e di Walter Scott,
amare occultamente una vergine violentata da padre crudele, una sposa
vittima di marito brutale, consacrarle un eterno amore e portarne seco
l’immagine

    Tra il furor delle tempeste,
    Fra le stragi del Pirata,

strapparla a’ suoi oppressori e rapirla in una notte burrascosa sulla
groppa del suo cavallo, farne l’amazzone del suo campo e la sultana
della propria nave, era il suo sogno, la sua poesia, la forma ideale
con cui egli concepiva l’amore. Così si spiega il romanzo d’Anita; ma
si spiega anche come questo romanzo dovesse avere parecchie prefazioni.

Poco dopo il suo arrivo sul Camacua, accolto ospitalmente in casa da
una delle sorelle del Presidente, v’incontra una Manuella, bellissima
vergine, dice lui, ma destinata sposa ad un figlio del Presidente:
perciò appunto se ne infiamma fulmineamente; diventa il suo cavaliere,
il suo navalestro, il suo tacito amante; gli consacra mentalmente le
sue fatiche, le sue prodezze, la sua vita; sogna, sospira, si adorna,
si pavoneggia per lei; e quando torna vittorioso dal combattimento del
Galpon, e saputo che la fanciulla aveva chiesto tutto il giorno sue
nuove, e tremato e impallidito più volte per la sua vita, esclama «che
quest’annunzio gli era stato anche più dolce della vittoria;» e ancora
dodici anni dopo, associando nella sua mente i ricordi di Manuella e
di Anita, esclamava: «Bellissima figlia del continente, tu destinata
donna ad un altro!... A me riserbava la sorte altra brasiliana....
ch’io piango oggi e piangerò tutta la vita.... Dolce madre de’ miei
figli, mi conobbe nella sventura, naufrago!... Più che il mio merito,
la vincolarono a me le mie sciagure, e me la sacrarono per la vita!»

Scampato dal naufragio dell’Atlantico, Garibaldi raggiunse a Laguna
il generale Canavarro, a cui gli abitanti stessi rovesciato, al suo
avvicinarsi, il governo imperiale, avevano aperte le porte. Anche
Garibaldi, quindi, trovata una città amica là dove aveva temuto
trovarne una ostile, vi fu ricevuto con ogni maniera di festose
accoglienze e onorato immediatamente del comando della goletta
_Itaparika_, forte di sette cannoni. Era però mesto e abbattuto.
La perdita di tanti cari compagni, specialmente del Carniglia e del
Mutru, l’aveva piombato in una profonda tristezza. Si sentiva solo
sulla terra: un vuoto immenso pesava sul suo cuore: la vita gli pareva
insopportabile. Fu allora che gli balenò alla mente per la prima volta
l’idea del matrimonio. Fino a quel giorno la vita coniugale gli era
parsa tanto disadatta e contraria all’esistenza nomade e avventuriera
toccatagli in sorte, che l’aveva riguardata sempre come un evento
impossibile; ma dopo il naufragio dei lancioni la corrente de’ suoi
pensieri mutò: sentiva il bisogno di surrogare in qualche modo gli
amici perduti, di trovare un’anima fedele ed amante che dividesse con
lui le battaglie del destino e gli rendesse men dura la solitudine
dell’esiglio. Aveva il Rossetti, è vero, amato da lui come un fratello;
ma il Rossetti per i doveri del suo ufficio era costretto a stargli
lontano e tornavano rarissime le occasioni in cui potesse vederlo.
Oltre a ciò, l’amicizia d’un uomo, per quanto forte, non gli bastava
più; era il cuore d’una donna che gli abbisognava, d’una donna tutta,
soltanto, indissolubilmente sua: e quando la trovò, se la prese.

Una sera se ne stava con questi pensieri contemplando dal suo bordo la
riva, quando notò sul molo vicino un gruppo di donne e di fanciulle. In
sulle prime le loro figure passavano e ripassavano in confuso innanzi
a’ suoi occhi; poi a poco a poco il suo sguardo, forse il suo cuore, ne
fissò una e s’arrestò a contemplarla. Era una giovane nella pienezza
dell’età e della forza, dotata di una irregolare, ma virile bellezza:
l’ideale femminile che Garibaldi cercava. Però prima d’averle parlato
e d’averla udita parlare, per il solo effetto di quella invisibile e
magica scintilla donde è sempre nato l’amore, il Nizzardo l’amò. Ed
ella pure doveva aver notata la bionda e leonina testa del marinaio
straniero che da giorni la spiava: ella pure aveva sentito il fáscino
di quello sguardo e il tocco di quella scintilla, e dato nel suo
segreto il cuore a colui che gli offriva il suo. Però un’altra sera
Garibaldi non si contenne più; formò il suo disegno, scese a terra
e s’avviò difilato verso la casa della giovane. Il suo cuore batteva
violentemente, ma chiudeva una risoluzione incrollabile. Sulla soglia
incontrò un uomo, il quale forse per la conoscenza che aveva fatto
del prode Italiano, forse obbedendo alle costumanze di quel paese, lo
invitò ad entrare ed a prendere con lui una tazza di caffè. Garibaldi,
dice egli stesso, «sarebbe entrato anche senz’essere invitato.»
L’invito gli agevolò la parte che s’era proposta. Appena in casa, colto
il momento propizio, s’avvicinò alla giovane e le susurrò, calmo e
formidabile insieme: «Fanciulla, tu sarai mia.» Ella non rispose che un
cenno, ma conteneva un patto d’amore infrangibile.

Egli tornò, non visto, alcune sere dopo, la prese, più che non la rapì,
sotto il suo braccio, la fece salire, come a talamo inviolabile, il
bordo del suo Rio Pardo, la pose sotto la tutela formidabile de’ suoi
cannoni e de’ suoi marinai, e in faccia al cielo e al mare la giurò sua
sposa.

Ella si chiamava Anita Riberas ed era nativa di Merinos, villaggio
di quel medesimo distretto di Laguna. L’uomo che Garibaldi incontrò
sulla soglia era suo padre, e chi lo disse suo marito errò. Anita era
bensì fidanzata per volere del padre ad un uomo che non amava; ma non
era, come fu creduto, maritata. Cedendo al fato d’amore, lacerò il
cuore del padre, non ruppe fede ad alcun altro uomo. «Se vi fu colpa
(esclama Garibaldi) fu tutta mia. Se l’anima d’un innocente ha patito,
io solo devo risponderne, e ne ho risposto. Ella è morta e suo padre è
vendicato. Là presso le bocche dell’Eridano, il giorno in cui sperando
disputarla alla morte, serrai convulsamente i suoi polsi per contarne
gli ultimi battiti; raccoglieva sulle mie labbra il suo respiro
fuggitivo; stringeva un cadavere. In quel giorno conobbi tutta la
grandezza del mio fallo.[46]»


XIV.

Quando Garibaldi rientrò a Laguna, le cose dei Repubblicani
cominciavano a volgere alla peggio. I Riograndesi non avevano saputo
cattivarsi l’affetto della provincia sorella. Il regime violento e
dispotico del generale Canavarro; il contegno duro ed oltraggioso
de’ suoi luogotenenti; i maltrattamenti, le vessazioni, le rapine
delle sue soldatesche, avevano seminato in poco tempo nell’animo dei
Sancaterinesi cagioni di malcontento da mutare il primo loro entusiasmo
per la causa repubblicana in aperta avversione; anzi la piccola città
d’Imeruy, posta sul lago dello stesso nome, aveva dato per la prima
il segnale della rivolta, e, scagliatasi in armi contro il piccolo
presidio, risollevate le insegne dell’Impero.

E ciò mentre l’esercito imperiale, rinforzato di nuove truppe,
marciava in più colonne, grosso e agguerrito, contro la capitale della
provincia, e secondato dalla squadra sempre signora della costa, quindi
degli sbocchi del lago, investiva di fronte e di fianco il debole
esercito repubblicano, e minacciava di troncargli ogni scampo.

In tali frangenti il generale Canavarro, pensando di soffocar prima
nel sangue la nascente ribellione, ordinava a Garibaldi di riprendere
a viva forza Imeruy e di abbandonarla al saccheggio. Nulla poteva
riuscire più repugnante all’indole ed all’animo di lui che quest’ordine
selvaggio; ma l’ordine era perentorio; egli era soldato e doveva
obbedire. Lo eseguì però con tutta la mitezza e, staremmo per dire, la
pietà di cui era capace. Impadronitosi, con una rapida manovra, della
città, spese tutto sè stesso per rendere meno terribile il flagello
che la minacciava. Permise il sacco delle cose, vietò rigorosamente
l’offesa alle persone; e quantunque simili divieti sia più facile
darli che farli eseguire, e frenare una soldatesca sguinzagliata,
ebbra di rapine e di vino, tocchi quasi il miracolo, pure Garibaldi vi
riuscì. Correndo di gruppo in gruppo e quasi di casa in casa, usando
cogli uni le minaccie, cogli altri le preghiere, con alcuni anche le
percosse, immaginando persino lo stratagemma di un ritorno improvviso
del nemico, dopo sforzi incredibili di energia e di pazienza ottenne
ancora non solo di far rispettare, quanto alle persone, il suo ordine,
ma di rendere assai men grave anche la devastazione delle cose e di
ricondurre quel branco di belve umane, sozze, è vero, di vino e di
furto, ma tuttavia monde di sangue innocente, a Laguna. Però di quel
giorno e di quel fatto serbò la ricordanza amara finchè visse. E benchè
egli abbia combattuto in luoghi e in tempi in cui il saccheggio era
ancora arma lecita di guerra, nè egli nè i suoi soldati si bruttarono
più di simile macchia.

Ma a Laguna trovò ciò che il suo cuore da tempo gli presagiva:
gl’Imperiali incalzanti, i Repubblicani che facevano i primi apparecchi
della ritirata. E la ritirata cominciò ben presto lenta, contrastata,
minacciosa, gloriosa anche, ma senza tregua e senza speranza di
ritorno. Non posizione o passo militare che i Repubblicani non
difendessero con ardimento, o stratagemma che lasciassero intentato;
non palmo di terra che valorosamente e spesso disperatamente
non contrastassero. Ma incalzati per acqua e per terra da forze
soverchianti; attorniati da popolazioni indifferenti od ostili; guidati
da capitani più valorosi che esperti e sotto il comando di quel Bento
Gonçales che Garibaldi stesso continua a chiamar sfortunato, forse
per non dirlo incapace, i Repubblicani non videro più un sol giorno di
completa vittoria.

Perduta Laguna, protrassero ancora nei distretti alpestri e selvosi di
Lages e Vaccaria la resistenza; ma scacciati anche da quelle alture,
tentata invano la presa di San Josè del Norte, cittadella sulla riva
settentrionale del Los Patos in mano degl’Imperiali, e che doveva dar
loro la base d’operazione, circuiti, traccheggiati, decimati dalle
morti e dalle diserzioni, andavano dispersi su nelle serre di Missiones
e di Cruz-Alta, dove restò sepolto coll’ultimo avanzo del loro esercito
il breve sogno della loro repubblica.

Quanta parte avesse Garibaldi in quella campagna, è facile indovinarlo.
Primo, se non al comando, al pericolo; ultimo solo nelle ritirate;
accettando o scegliendo in ogni combattimento la parte più rischiosa;
passando nel giorno stesso dall’acqua alla terra, dal governo di una
flottiglia al comando di uno squadrone o di un battaglione; ricco
di coraggio e fecondo di stratagemmi; a tempo arditissimo, a tempo
prudente, egli fu l’anima di quella ritirata d’oltre dieci mesi; e a
quanto appare dalle sue _Memorie_, meglio che il braccio ed il cuore,
l’unica mente che intuisse e ragionasse.

Fin dal primo giorno della ritirata, incaricato di fronteggiare sulla
laguna stessa di Santa Caterina la flottiglia nemica e di proteggere il
passaggio dell’esercito repubblicano sulla sponda meridionale, resiste
un giorno intero con tre bastimenti contro una squadra di ventidue vele
fiancheggiata di truppe di terra. Anita stessa ritta al suo fianco
colla miccia al cannone, impavida sotto la mitraglia, dà a tutti
l’esempio del valore che non conta i nemici; e quando tutti i suoi
pezzi sono smontati e i suoi legni fracassati e le coperte seminate di
morenti e di morti, fra i quali orrendamente mutilato il prode John
Griggs, manda a terra, sotto il comando d’Anita stessa, le armi, le
munizioni e gli uomini superstiti; appicca il fuoco egli medesimo ai
suoi bastimenti e si salva sopra un canotto alla riva.

Un’altra volta a Coritibani sulle rive del Pelotas, sorpresa e
sgominata la colonna colla quale egli marciava, difende con settantatrè
uomini contro cinquecento eccellenti cavalieri la ritirata, e sfilato
il grosso della colonna si ritira egli stesso traverso le fitte foreste
del Lages, combattendo due giorni e due notti, incolume, invitto.

Al combattimento di Santa Vittoria decide della giornata; alla fazione
del Taquary guida il nerbo dell’infanteria; nota da provetto capitano
i falli «dell’eroico, ma sfortunato Gonçales» e tenta invano di
ripararli; in fine all’assedio di San Josè del Norte monta tra i primi
all’assalto, s’impadronisce, in men che non si dica, di tutti i forti,
e ne sarebbe anche rimasto padrone, se l’indisciplinatezza dei soldati
sbandatisi a sbevazzare e a bottinare, lo scoppio d’una polveriera e il
sopravvenire della squadra nemica che dal lago infilava e spazzava le
vie, non l’avessero costretto a battere in ritirata.

Fu quello però l’ultimo importante combattimento di quella campagna
a cui Garibaldi partecipò. Dopo l’infelice esito di San Josè,
Garibaldi, nominato di nuovo capitano della marina repubblicana, si
fermò presso una fattoria detta San Simon, coll’intento di costruirvi
alcune di quelle barche fatte d’un sol fusto d’albero, e che colà
chiamano _canoe_, colle quali tentare di poter riprendere il lago,
su cui aveva fatto le sue prime prove, e molestarvi i nemici. Se non
che la costruzione di codeste _canoe_ essendogli andata fallita, e i
pascoli di San Simon essendo ricchi di poledri, pensò bene farne una
distribuzione, a dir vero un po’ socialista, ai suoi compagni, e dove
non aveva potuto comporre una flottiglia di barche, organizzare almeno
uno squadrone di cavalli.

Ma in mezzo a questi avvenimenti e a queste cure, un avvenimento e
una cura più importante vennero ad occuparlo e ad assorbirlo. Anita
incinta, forse dal giorno del combattimento di Santa Vittoria, dopo
aver portata a cavallo la sua creatura per nove mesi, traverso tutti
i pericoli, le privazioni, gli stenti, le fughe di quella campagna
disastrosa, il 16 settembre 1840 partorì a Mustarda presso San Simon il
suo primogenito.

Era un maschio fiorente e gagliardo, a cui il padre, sostituendo (io
credo per il primo) ai consueti santi della Chiesa, un martire della
patria, impose il nome di Menotti; e sulla cui fronte una piccola
cicatrice, riportata per una caduta da cavallo della madre, sigillava
lo stigma della sua origine tempestosa.

Ma Garibaldi aveva appena cominciato ad assaporare le gioie di padre,
che uno dei tanti accidenti onde componevasi la sua vicenda quotidiana,
venne a mettere a serio pericolo tanto la sua, quanto la vita di sua
moglie e di suo figlio, minacciando distruggere in un colpo solo il
nido della sua felicità.

Essendosi egli recato a Settembrina, villaggio distante da San Simon
alcune giornate di cammino, per provvedersi di biancheria e di vesti
per sua moglie e suo figlio ridotti quasi ignudi, e avendo occupato
nel viaggio, attraverso un paese maremmano e paludoso, maggior tempo di
quello che aveva pensato, al suo ritorno alla fattoria non trovò più nè
Anita, nè Menotti, nè alcuno. Quali si fossero la sorpresa, l’affanno,
qui potremmo dire anche lo spavento di Garibaldi, l’immaginerà chi ha
cuore. Non tardò, è vero, a scoprire tosto la cagione della scomparsa
de’ suoi cari e l’asilo in cui si erano rifugiati; ma finchè non li
ebbe riveduti ed abbracciati non ebbe pace.

Ecco pertanto come il caso era succeduto. Quello stesso colonnello
Moringue che l’aveva sorpreso al Galpon di Chargucada, riportando,
perenne ricordo del guerrigliero italiano, un braccio fracassato,
campeggiava sempre nei dintorni di Los Patos, e appunto in quei
giorni era piombato addosso, con astuzia più felice, ad un posto di
cavalleggieri repubblicani comandati da un certo Massimo, e facilmente
massacrati i soldati e il capitano, s’era spinto con una forte colonna
di cavalli nei dintorni di San Simon, spargendo il terrore in tutta la
contrada.

Ora i quaranta uomini lasciati da Garibaldi a presidio della fattoria,
erano troppo scarsi di numero per resistere ad un nemico tanto più
forte, e lontano il solo capo che poteva guidarli alla disperata
difesa, stimarono non restasse loro altro scampo che fuggire e
inselvarsi nelle foreste vicine fino al dileguarsi del nembo. E
naturalmente anco Anita dovette fuggire con loro.

Ecco dunque la novella madre, puerpera appena da dodici giorni,
costretta a balzar in groppa al cavallo e in una notte tempestosa,
coperta della semplice camicia, col suo figliuolo traverso la sella,
gettarsi alla ventura per macchie e burroni, esposta ad ogni guisa
di stenti e di pericoli, noncurante di sè, ma trepida della vita
del caro suo portato, tremante anche per la sorte di suo marito che
forse correva rischio peggiore. Fortuna volle invece che Garibaldi
la scoprisse, con tutta la sua scorta, al margine di un bosco, e
che tutta la famiglia di San Simon, un istante dispersa, potesse
ricongiungersi incolume nell’asilo da poco abbandonato. Non vi potè
per altro dimorare a lungo; chè Garibaldi, non sapremmo dire se per
ordine della Repubblica o di volontà sua, attirato sempre dall’idea di
armar in guerra le sue canoe, che gli rappresentavano in embrione un
simulacro di flotta, s’era trapiantato sulla riva del Capivari, quel
fiume, emissario del Los Patos, sul quale aveva eseguito il famoso
trasbordo dei lancioni; e colà si era dato, forse in attesa di meglio,
a trasportar gente e corrispondenze dalla riva orientale del lago
all’occidentale; operazione che, fatta sotto il tiro delle squadre
imperiali, sempre signoreggianti le acque della laguna, non doveva
essere priva nemmeno essa di emozioni e di pericoli.


XV.

Intanto però le cose della Repubblica precipitavano a rovina. Fallito
l’assalto di San Josè e costretti a levarne l’assedio; divelti perciò
da ogni base d’operazione; stremati, più ancora che dalle sconfitte,
dalle defezioni, dalle discordie, dalle malattie; stretti sempre più
nella cerchia di ferro dagli eserciti imperiali, dei quali per colmo
d’improvvida alterezza avevano rifiutati i non disonorevoli patti, ai
Repubblicani non restava più ormai altro scampo che ritirarsi senza
frammettere indugio nei distretti montuosi e silvestri del centro
e del settentrione, in mezzo ai quali, se non ristaurar le sorti e
riafferrare la vittoria, era almeno possibile prolungare l’agonia e
differire la catastrofe.

Concentrati tutti i piccoli distaccamenti sparsi nei dintorni, la
ritirata cominciò. Era l’inverno del 1841. Il generale Canavarro,
al quale era andato a riunirsi anche Garibaldi, doveva formar la
testa della colonna e aprire la marcia, forzando innanzi a sè i passi
delle Serre che il generale dell’impero Labattue (francese d’origine)
minacciava sbarrargli; il generale Bento Gonçales doveva chiudere la
colonna guardandone, quanto era possibile, i fianchi e le spalle.

Fin però dalle prime mosse l’esercito rivoluzionario e più ancora il
cuore di Garibaldi erano stati funestati da dolorosissimo lutto. Il
Rossetti, che marciava colla guarnigione di Settembrina all’estrema
retroguardia, sorpreso dall’infaticabile Moringue, ferito e caduto da
cavallo, avendo preferito alla resa la morte, era stato brutalmente
trucidato.

La perdita era per la causa repubblicana gravissima, ma per Garibaldi
irreparabile; con il Rossetti spirava il fratello del suo cuore,
colui che nella gerarchia de’ suoi amici teneva il primo posto. Però
il suo dolore fu pari al suo amore e il compianto di Patroclo degno
d’Achille. Pure una cosa è tuttavia notabile, come nella passionata
elegia che egli consacrò alla memoria dell’estinto amico l’immagine
che più campeggia sia ancora l’Italia. Più che il prediletto de’ suoi
amici, diresti ch’egli pianga il forte cittadino, e ch’egli non senta
la propria sventura se non nella grandezza della sventura toccata
all’Italia: tanto vero che in codesti uomini fatali gli affetti
individuali, per quanto grandi, vengon sempre secondi, e che essi non
amano davvero se non l’indipendenza per cui vivono e combattono.

La ritirata intanto intrapresa nel più rigido inverno, sotto pioggie
continue, traverso laberinti senza sole e senza orme di sterminate
foreste, fu una delle più disastrose che Garibaldi abbia mai veduto.
E poichè egli ne fu insieme testimonio e narratore, e la pittura
ch’egli ne fa, malgrado la rozzezza del pennello e il disordine della
composizione, o forse appunto per questo, ci appare piena di verità e
di vita, così la lasceremo narrare a lui stesso:

«Noi conducevamo per tutta provvista alcune vacche al laccio, non
trovandosi animali negli ardui sentieri che dovevamo percorrere. Per
le pioggie quasi perenni in quelle montagne, gonfi oltremodo erano i
fiumi, e molti bagagli si perdevano, trasportati dalla corrente nel
passaggio. Marciavasi con pioggia e senza alimenti; accampavasi senza
alimenti e con pioggia. Tra un fiume e l’altro coloro che rimasti erano
colle vacche ebbero carne, gli altri nulla. La fanteria specialmente
pativa, mancandole pure il miserando pasto della carne di cavallo.
Furonvi scene da inorridire. Molte donne, secondo l’uso del paese,
seguivano la truppa, e con esse i bambini. Pochi bambini uscirono dalla
foresta. Alcuni erano stati raccolti da’ cavalieri, che pochi tra i
fortunati avevano potuto salvare il cavallo e con esso una creatura
abbandonata dalla madre, morta o morente di fame, di fatica, di freddo.
Anita abbrividiva all’idea di perdere il nostro Menotti, che salvammo
per un miracolo. Nel più arduo della strada e nel passo de’ fiumi io
portava il mio povero figlio di tre mesi in un fazzoletto a tracolla,
procurando di riscaldarlo coll’alito. D’una dozzina d’animali tra
cavalli e muli, che servivano per cavalcatura e pel mio equipaggio,
e che con noi erano entrati nella selva, con due soli cavalli ero
rimasto e due muli; il resto era caduto per stanchezza. Le guide per
colmo di sciagura avevano sbagliato la strada, e questo fu uno dei
motivi per cui più difficilmente varcammo quella terribile foresta
delle Antas.[47] Siccome si procedeva avanti senza trovar mai il
fine di quella maledetta piccada,[48] io rimasi nella selva coi due
muli pure stanchi, coll’intenzione di salvarli facendoli avanzare a
poco a poco ed alimentandoli con foglie di taquara.[49] Mandai Anita
con un domestico e col bambino, perchè cercassero l’uscita del bosco
ed alimento per ambi. I due cavalli che ci rimanevano, cavalcati
alternativamente dalla coraggiosa, salvaronmi il tutto. Essa giunse
fuori della _piccada_, e per fortuna trovò alcuni de’ miei soldati
con un fuoco acceso, cosa non facile per la pioggia continua e per la
povera condizione a cui eravamo ridotti.

»I miei compagni, a cui era riuscito asciugare alcuni de’ cenciosi
loro panni, presero il bambino, l’involsero, lo riscaldarono e lo
tornarono in vita, quando la povera madre già poco ne sperava. Con
amorevole sollecitudine si diedero que’ buoni militi a cercare pure
dell’alimento, con cui ambedue si riconfortarono. Io faticai invano
per salvare i due animali, e terminai per abbandonarli spossati, e già
molto deteriorato io stesso, varcai il resto della selva a piedi. Al
nono giorno della nostra entrata nella _piccada_ appena trovavasi fuori
la coda della nostra divisione, e pochissimi cavalli d’ufficiali eransi
potuti salvare. Il nemico, che ci aveva preceduti fuggendo, aveva
lasciato nella stessa foresta delle Antas alcuni pezzi d’artiglieria,
di cui non ci occupammo per mancanza di mezzi di trasporto, e
rimasero perciò sepolti in quelle spelonche chi sa per quanto tempo. I
temporali sembravano stanziati in quella selva, poichè usciti ne’ campi
dell’altopiano, Cima di Serra o Vaccaria, vi trovammo il buon tempo.
Il tempo buono ed alcuni animali bovini, trovati in que’ dintorni, ci
fecero alquanto dimenticare le fatiche passate. Nel dipartimento di
Vaccaria permanemmo alcuni giorni per aspettare la divisione di Bento
Gonçales, che vi giungeva frazionata ed assai malconcia. L’infaticabile
Moringue, informato della ritirata nostra, erasi messo ad inseguire
la retroguardia di quella divisione, incomodandola in ogni modo,
coadiuvato dai montanari, sempre accanitamente ostili ai Repubblicani.
Tutto ciò diede a Labattue il tempo sufficiente per ritirarsi e
congiungersi all’esercito imperiale. Giunsevi però quasi senza gente
per gli stessi inconvenienti incontrati da noi. Ebbe di più il nemico
uno di quelli straordinari accidenti, che racconto per la strana sua
natura. Dovendo Labattue attraversare sul suo cammino i due boschi,
conosciuti col nome di Mattos[50] Portoghese e Castillano, trovavansi
in quelli alcune delle tribù indigene, delle più selvagge che si
conoscano nel Brasile. Esse, sapendo del passaggio degl’Imperiali, li
assalirono in varie imboscate, e li danneggiarono non poco.

»Ci fecero queste sapere in seguito che erano amiche ai Repubblicani,
e veramente non c’incomodarono affatto al passaggio nostro. Vedemmo
passando i _foges_[51] ma nessuno coperto. In quei medesimi giorni
comparì fuori della foresta una donna, rubata nella sua giovinezza dai
selvaggi, e che in quell’occasione approfittò della vicinanza nostra
per salvarsi: era questa poverina nel più deplorabile stato. Intanto,
non avendo più nemici da fuggire, nè da perseguire in quelle alte
regioni, procedemmo nella nostra marcia con lentezza, mancanti quasi
totalmente di cavalli, ed obbligati a domar puledri cammin facendo. Il
corpo de’ lancieri liberti, rimasto smontato per intiero, fu obbligato
di rifarsi con puledri. Era bel vedere allora, quasi ogni giorno, una
moltitudine di quei giovani e robusti negri, domatori tutti esperti,
arrampicarsi sul dorso di selvaggi corsieri e tempestare per la
campagna, e il bruto fare ogni sforzo per isvincolarsi e gettar lontano
il carco di un tiranno, e l’uomo, ammirabile di destrezza, di forza, di
coraggio, ingambarsi siccome tanaglia, battere, spingere, e stancare
alfine il superbo figlio del deserto. In quella parte dell’America il
puledro, giunto appena dal campo, s’inlaccia, s’insella, s’imbriglia, e
lo cavalca il domatore. In pochi giorni è capace di ricevere il morso.
I più renitenti riescono buoni cavalli come qualunque altro in poco
tempo, salvo poche eccezioni. Ma difficilmente riescono ben domati dai
soldati, massime nelle marce, ove non si può avere comodo nè cura per
ben domarli.

»Passati i Mattos Portoghese e Castillano, scendemmo nella provincia
di Missione, dirigendoci sopra Cruz-Alta, capoluogo di quella piccola
città su d’un altopiano, ben costrutta ed in bella posizione, siccome
bella è tutta quella parte dello Stato di Rio Grande. Da Cruz-Alita
marciammo a San Gabriel, ove si stabilì il quartier generale, e si
costrussero baracconi per accampare l’esercito.

»Sei anni d’una vita di disagi[52] e di avventure non mi avevano
sgomentato quando ero solo; ma l’avere una famigliuola, l’essere così
lontano da tutte le mie relazioni antiche e da’ parenti, di cui non
sapevo nulla da anni, mi fecero nascere il desiderio di avvicinarmi ad
un punto onde sapere alcuna cosa, massime de’ genitori, il cui affetto
avevo potuto dimenticare un momento, ma che vivamente pur sempre
esisteva nell’anima mia. Poi nulla sapevo dell’Italia! Poi abbisognava
migliorare la condizione della mia cara e del bambino. Mi decisi
adunque di passare a Montevideo, almeno temporariamente, e ne chiesi
il permesso al Presidente, come pure di fare una piccola truppa di buoi
per le spese.»

Ed eccolo così _truppiere_ o conduttore di buoi. Ottenuto facilmente
dal Ministro della guerra di fare una razzía di quanto bestiame
selvatico gli cadesse nelle mani (poichè siamo in paese, dove la
proprietà dell’animale errante è di chi lo toglie), gli vien fatto di
radunarne all’_estancia_ del Coral de Pedras novecento capi, e con
questa enorme mandria s’incammina, scendendo il corso dell’Uruguay,
per Montevideo. Ma nel traversare il Rio Negro comincia a perdere
una gran quantità di buoi; poi un’altra buona parte gliela frodano i
_Capataz_, sicchè fatta la rassegna s’avvede che non gliene restano più
di cinquecento; onde minacciato dalla probabilità di perdere anche il
rimanente, si decide a macellarli per venderne le cuoia: magro negozio
pur quello, poichè non arrivò ad intascare che un centinaio di scudi,
appena bastevoli alle necessità del lungo viaggio.

A San Gabriele però ha una felice ventura; incontrato Francesco Anzani,
di cui più volte gli era suonato all’orecchio il nome, come d’uno dei
più valorosi Italiani che abitassero l’America, si esalta al racconto
delle sue avventure; ammira la nobiltà del suo animo, si innamora del
suo carattere, e gli fa nel suo cuore il posto che il Rossetti aveva
occupato. L’Anzani dal canto suo si compiace di quel giovane bello,
prode, entusiasta, e ne presentisce l’alto destino; i due eroi poco
prima estranei, sono in un’ora amici: continuano il viaggio assieme;
assieme dividono il pane, il letto, le vesti: l’Anzani ha una camicia
sola, ma due paia di pantaloni; Garibaldi invece un sol pantalone in
cenci e due camicie, e barattano a vicenda la camicia ed il pantalone
superflui. Al Salto dell’Uruguay però sono costretti a dividersi, ma
per riunirsi fra breve. Garibaldi continua il viaggio e al cominciare
del 1842 rientra con Anita in Montevideo, dove il mutato governo gli
sta garante d’un asilo sicuro, e in breve gli si aprirà un campo più
vasto di nuovi cimenti e di nuove glorie.




CAPITOLO TERZO.

DA MONTEVIDEO AL RITORNO IN ITALIA. [1842-1848.]


I.

Quando Garibaldi entrò a Montevideo, la guerra tra l’Uruguay e la
Repubblica Argentina, o per dir più esattamente, tra il partito del
presidente Ribera, rappresentante dell’indipendenza orientale, e il
partito del generale Oribe, emissario del dispotismo del Rosas, ardeva
da circa tre anni. Ora per intendere e le cagioni di siffatta guerra, e
i moventi delle fazioni che la combattevano, e la parte che il nostro
protagonista vi prese, importa risalire un po’ lontano e ripercorrere
rapidamente la storia dei due paesi.

La quale, appena la si consideri idealmente, può dirsi la storia
del fiume materno, che li divide e li unisce ad un tempo, d’onde
tolsero insieme al Paraguay il nome generico di Stati della Plata,
e col quale sono da oltre tre secoli conosciuti nel mondo. Vasti
frammenti di quell’India occidentale, nelle cui profondità si perde
forse una delle culle del genere umano, l’epopea della loro scoperta
e della loro conquista è forse meno leggendaria e meno portentosa di
quella di tante altre contrade d’America, ma non meno interessante ed
istruttiva. Svelati all’Europa nel 1515 dallo spagnuolo Juan Diaz de
Solis, il primo che scoprisse l’estuario della Plata e vi penetrasse;
riesplorati quattro anni dopo da Fernando Magellano, quel desso che,
udito esclamare da uno de’ suoi marinai in vedetta, _Monte-vid’-eu_,
diede il nome di _Montevideo_ al promontorio su cui sorgerà un giorno
la capitale dell’Uruguay; visitati di nuovo nel 1526, per mandato
della Spagna, da Sebastiano Caboto, che rimontando la Plata fino
al Paraguay vi pianterà la prima pietra del forte di San Salvador;
occupati più tardi, in nome di Carlo V, dal primo governatore Don Pedro
de Mendoza, che vi getterà nel 1535 le fondamenta di _Santa Maria di
Buenos-Ayres_; strappati infine via via ed a prezzo del sangue più
generoso alle cento tribù indiane che ne contrastano con fiera costanza
il possesso, gli Stati della Plata vanno ad accrescere il patrimonio
di quei possedimenti spagnuoli in America che la monarchia di Carlo
V dovette, assai più che a sè stessa, all’ardimento della più eroica
generazione di navigatori che il mondo abbia prodotta e in capo alla
quale grandeggia il fatidico spirito del nostro Colombo!

Narrare le vicende della dominazione spagnuola negli Stati della
Plata, non è del nostro assunto; essa fu come al Perù, come al
Messico, come dovunque tanto benefica nei risultati (poichè ogni
passo in avanti del colono europeo era pur sempre una vittoria della
civiltà sulla barbarie), quanto improvvida, insensata spesso brutale
nei mezzi. Accesa febbrilmente dalla sete dell’oro e dell’argento,
la Spagna non vidde nella sua nuova colonia americana che un immenso
campo da sfruttare, e, per usare la frase d’uno Spagnuolo, «simile al
re Mida verrà un giorno, nel quale il metallo prezioso, di cui era
stato tanto ingordo, le si muterà in arida pietra fra le mani.» Che
se questa sentenza non s’attaglia a tutto rigore alle colonie della
Plata, dove altri prodotti, oltre a quelli dell’oro e dell’argento,
potevano allettare l’avidità dei conquistatori, tuttavia il regime
da essi adottato, specialmente rispetto all’agricoltura, al commercio
ed alla navigazione, sortì anche colà il medesimo effetto: spolpare,
dissanguare il suolo a solo profitto del presente senza cura alcuna
dell’avvenire. Irritando la natía selvatichezza delle popolazioni
indiane con inutili crudeltà e stolte rappresaglie; abbandonando
in balía di governatori rapaci e di capitani brutali così i frutti
della terra come la libertà e la vita de’ suoi abitanti; chiudendo i
porti ad ogni navigazione forestiera, vietando l’esportazione d’ogni
prodotto fuorchè per la Spagna, ed applicando ad ogni sorgente della
vita economica le più esose e viete proibizioni; dividendo per insana
arte di regno le molteplici razze del territorio, ed alimentando così
un perpetuo focolare d’odii privati e di guerre civili; finalmente,
supremo errore, abbandonando alla Compagnia di Gesù non solo
l’apostolato morale e religioso delle popolazioni, ma la proprietà di
vaste ricchezze, quindi l’uso e l’abuso d’uno sterminato potere; la
Spagna preparò a sè stessa l’immancabile giorno, in cui sarebbe stato
incerto se le colonie sentissero più il peso della madre patria o
questa l’impedimento, la minaccia e il danno di quelle.

Ma già lo dicemmo: prima che finisca il secolo XVII, la Spagna doveva
incontrare anche sulle rive orientali della Plata quell’intraprendente
vicino e ardito rivale che da oltre cent’anni scontrava su tutti i mari
del mondo, e dividere con esso la gran preda dell’America meridionale:
il Portogallo.

Il maggior difetto del Brasile fu sempre la incertezza dei confini.
Naturale però che i Portoghesi, già padroni di Rio Grande e delle
sorgenti dell’Uruguay, tentassero di spingersi fino alle sponde di
quell’immenso fiume, il quale, oltre all’essere il più certo e stabile
confine ch’essi potessero desiderare alla loro sterminata colonia,
metteva nelle loro mani una delle più grandi vie fluviali del Nuovo
Mondo. Ma naturale altresì che gli Spagnuoli contrastassero con ogni
lor possa un tanto acquisto, e che i due fratelli latini si trovassero
di fronte colle armi in pugno sulla penisola americana, come pochi
anni prima s’erano trovati sulla iberica. E fu lotta quasi centenne,
cominciata il 1680 dai Portoghesi colla fondazione, sul margine stesso
della Plata, della Colonia del Sacramento; finita soltanto nel 1777 per
il trattato di Sant’Idelfonso.

Ogni guerra, ogni avvenimento europeo, in cui per l’uno o per l’altro
motivo, a lato o di fronte, fossero involti la Spagna e il Portogallo,
aveva il suo contraccolpo sulle sponde della Plata. Ripresa Colonia del
Sacramento dagli Spagnuoli, il Portogallo s’accampa, nella guerra di
successione di Spagna, contro di essa, ed il trattato di Utrecht gli
restituisce Colonia; Ferdinando VI sposa una infante di Portogallo, e
questi guadagna, per il trattato del 1750, tutte le missioni gesuitiche
poste lungo il margine orientale dell’Uruguay; scoppia nel 1762 la
guerra tra la Spagna e l’Inghilterra, e il Portogallo fa causa comune
con questa, ed ecco il Ceballos, governatore di Buenos-Ayres, trarre
partito dalle rotte ostilità, riprendere Colonia, invadere Rio Grande
e minacciare a sua volta il Brasile. Non si danno vinti per questo
i Portoghesi, e veggono ancora per terra e per mare due giorni di
vittoria; ma il Ceballos li va ad assalire sull’Oceano fin nel cuore
della provincia di Santa Caterina, e impone loro il trattato di
Sant’Idelfonso che obbliga il Portogallo a rinunciare a Colonia, e
chiude la guerra.

Ma che la chiudesse è inesatto; il vero è che la sospese appena. Se
non osiamo dire con un Francese, «che il possesso della riva sinistra
della Plata è per il Brasile una questione di vita o di morte,[53]» è
manifesto però ch’esso ha sempre rappresentato a’ suoi occhi uno dei
bisogni più vitali, e delle conquiste più preziose.

Chiuso nella cerchia ardente della zona torrida, diseredato del
beneficio d’un clima temperato e omogeneo alle razze bianche, padrone
delle origini e del corso superiore dei tre fiumi che compongono
la Plata, ma escluso dalla signoria del grande estuario per cui
sboccano in mare, manchevole di terre idonee alla coltura delle piante
alimentari, privo infine a mezzogiorno d’una frontiera precisa, sicura
e accessibile insieme, che lo distingua, lo tuteli e lo espanda ad un
tempo, è ben naturale che il Brasile abbia fatto dell’acquisto della
Banda Orientale platense una delle mète fisse della sua politica, e per
dirlo colle parole d’un vicerè di Buenos-Ayres, «il suo punto di mira
fin dal secolo XVI;» e le guerre che lo vedremo combattere ancora per
questo scopo lo dimostreranno.

Il conflitto però per la Banda Orientale non partorì soltanto frutti
di sangue e retaggio di rancori, ma fu anche cagione di due fatti
importanti per la storia, sebbene diversamente benefici per le colonie
platensi: la fondazione di Montevideo per opera del governatore
Maurizio Zabala nel 1724,[54] e la istituzione del vicereame di
Buenos-Ayres nel 1776. Con Montevideo la Banda Orientale acquistava
non solo un porto sicuro, una fortezza munita, la capitale d’un governo
distinto; ma l’anima della sua patria nascente, il cuore ed il braccio
della sua indipendenza futura.

Separando gli Stati della Bolivia, del Paraguay, dell’Argentina e
dell’Uruguay, dall’antico vicereame del Perù, e svincolandoli così da
un potere lontano, ignaro e noncurante, incorporando quattro territori
in un unico Stato quasi autonomo, la Spagna non solo rendeva più facile
l’amministrazione, più vigile il governo, più rapido lo sviluppo di
quelle sue colonie; ma senza volerlo, senza saperlo, ridestava in esse
la coscienza dell’origine e della storia comune, agevolava col più
stretto accordo dei loro interessi il più intimo scambio delle loro
idee, faceva sentir loro le prime seduzioni d’una vita indipendente e
affrettava ella stessa il giorno della loro emancipazione.

Ma prima che quel giorno spunti, la Spagna dovrà ancora sostenere
un’altra guerra con una delle sue più antiche e formidabili rivali
d’Europa, e mettere a prova un’ultima volta la fedeltà e il valore de’
suoi figli d’oltre mare.

Sdegnata d’averla vista passare fra gli alleati di Napoleone, nè
paga ancora della sanguinosa vendetta di Trafalgar, l’Inghilterra
va nel 1806 ad assalire la Spagna nelle sue colonie della Plata. E
riesce infatti all’ammiraglio inglese Popham di cogliere per sorpresa
Buenos-Ayres; ma l’intrepida Montevideo chiama all’armi tutta la Banda
Orientale; improvvisa un corpo di milizie, e affidatone il comando
al capitano Liniers (un Francese al servizio della Spagna), lo invia
alla riconquista della capitale. La contrasta, con tenacia inglese,
il generale Berresford, ma Liniers riesce con furioso assalto ad
impadronirsene, e Berresford è costretto a sgombrare. Però ristorati
di nuove forze, il naviglio e l’esercito britannico riprendono
l’offensiva; pongono l’assedio a Montevideo, e, malgrado la sua eroica
resistenza, riescono a penetrarvi; indi si volgono a Buenos-Ayres.
Comanda le armi di S. M. britannica l’ammiraglio Whitelocke; difende
la città il prode Liniers con 7000 uomini di milizie improvvisate, ma
dietro ad essi i cittadini, gli schiavi, le donne, il popolo intero.
L’assalto fu tremendo, ma la difesa invincibile. _Cada casa_ era una
_fortaleza, cada calle un atrinchieramiento_. Gl’Inglesi ricevuti:
_Mitralia en las esquinas de todas las casas, fusileria, granados de
mano, ladrillos y piedras tiradas desde los tejados_,[55] lasciano
mille cadaveri per la via, e il Whitelocke pesto, decimato, è costretto
a sottoscrivere una capitolazione, colla quale si obbligava a sgombrare
tutto il territorio ispano-americano, e a reintegrare la piazza di
Montevideo nello stato medesimo in cui si trovava nel giorno della sua
resa.[56]

Ed anco questa guerra non fu senza influenza sugli avvenimenti futuri;
riunì le popolazioni della Plata in una lotta a oltranza contro lo
straniero, e ne esperimentò il valore e la forza; accrebbe l’importanza
di Montevideo, che si meritò il glorioso titolo di _Reconquistadora_;
manifestò i primi sintomi della debolezza della Spagna, la quale
dovette la salvezza del territorio coloniale più al braccio de’
suoi abitatori che alle proprie armi, e per la prima volta si trovò
dirimpetto ad essi piuttosto nella condizione di protetta che di
protettrice.


II.

L’ora pertanto della indipendenza ispano-americana stava per suonare.
L’avevano preparata gli errori e gli stessi beneficii della Spagna;
la precipitavano le idee del secolo e il turbine medesimo degli
avvenimenti che sconvolgevano l’Europa; la rendeva inevitabile e fatale
la stessa legge che governa i destini delle colonie, le quali dopo
essersi nutrite del latte della madre patria, quando son fatte adulte e
gagliarde mordono il seno alla nutrice e le volgono le spalle.

Sul finire del 1808, una dietro l’altra giungevano in America queste
notizie: che Ferdinando VII, prigioniero in Francia, aveva venduta per
una pensione l’avita corona a Napoleone; che questi aveva insediato
sul trono di Spagna suo fratello Giuseppe; che una Giunta centrale
s’era costituita a Cadice per rivendicare i diritti del legittimo
Re; che le Asturie avevano cominciato contro l’invasore una guerra
di coltello; che tutta la Spagna era in fiamme ed in iscompiglio. Ora
questi avvenimenti gittavano anche le colonie in una specie d’anarchia,
ed era ben naturale che, poste tra un sovrano legittimo, ma imbelle
e disgraziato, e un principe straniero intruso ed abborrito, e due o
tre Giunte rivoluzionarie che si disputavano il governo senza avere
nè autorità nè forza per mantenerlo, esse vedessero spuntare da quel
caos i primi albóri d’un’èra novella, e coltivassero seriamente da
quell’istante il pensiero della loro indipendenza. La commozione
pertanto suscitata anche sulla Plata da quelle novelle fu, quale doveva
essere, grandissima; tanto più che i due Re contendenti avevano inviato
a Buenos-Ayres legati per indurre quei coloni a riconoscere le loro
rispettive sovranità; e che il vicerè Liniers, lo stesso che aveva
riconquistato Buenos-Ayres, inclinava, memore della stirpe, a favorire
le parti francesi, le più abborrite di tutte.

Ma quando nei primi giorni del 1810 passò l’Oceano l’annunzio che
l’ultimo esercito di Ferdinando VII era stato disfatto sui campi
d’Ocaña, e che oramai la Spagna andava ingoiata nella monarchia
universale del Cesare francese, trascinando nella medesima voragine
le sue colonie, queste non si contennero più e pensarono a provvedere
senza indugio alle loro sorti.

Da principio il movimento ebbe piuttosto un carattere riformatore
che rivoluzionario.[57] La pluralità degli Ispano-Americani
sembrò accontentarsi d’una semi-indipendenza, e le Giunte sortite
dall’elezione popolare si limitarono a deporre o scacciare i vicerè ed
i governatori, ed a costituire governi locali sotto l’alta sovranità
di Ferdinando VII. Così Caracas (19 aprile 1810) la prima ad iniziare
il moto; così Buenos-Ayres (25 maggio 1810); così, a distanza di poche
settimane, la Venezuela, la Nuova Granata, il Chilì e l’Alto Perù.
Ma da un lato la resistenza ben legittima delle autorità spagnuole,
e dall’altro la legge naturale delle rivoluzioni, fanno sorgere
ben presto e prevalere un partito più radicale, il quale proclama
l’assoluta indipendenza da ogni dominio europeo e rompe in aperta
rivolta.

A questo punto però la storia degli Stati della Plata, una fino agli
ultimi giorni, si sdoppia, anzi si tripartisce, e in molti punti
diverge siffattamente, che seguirla sopra una linea sola non è più
possibile.

Mentre Buenos-Ayres, postasi risolutamente a capo della rivoluzione,
rompe l’ultimo anello che l’avvinceva alla madre patria, e inviando
spedizioni armate a dar mano agl’insorti della Bolivia e del Perù,
si sforza a trascinare nella medesima via gli Stati della Plata ed a
raccogliere nelle sue mani tutte le fila del movimento; nel Paraguay
e nella Banda Orientale continua a prevalere il partito medio della
semi-indipendenza, e l’uno e l’altra assai più diffidenti della
supremazia argentina, che paurosi della lontana sovranità spagnuola,
rifiutano di riconoscere la Giunta rivoluzionaria di Buenos-Ayres, e
ne respingono entrambi le proposte e le armi. Non ci occupiamo più del
Paraguay, che nel 1811 si decide esso pure a liberarsi dalla signoria
spagnuola, ma che poscia, ispirato dal genio tetro e quasi misantropico
del dottor Francia, si chiude fra le rive de’ suoi due fiumi, e non
ambisce più che di essere la China dell’America spagnuola.

Circa poi all’Uruguay ed a Montevideo, il fatto della resistenza
all’egemonia argentina era spiegato e giustificato da parecchie ragioni
antiche e recenti. Anzitutto v’erano tra i due paesi differenze di
suolo, di clima, d’abitanti, di costumi, di interessi, che il tempo
e la civiltà avevano piuttosto accresciute che scemate. Mentre il
territorio sulla destra della Plata, poche leghe al di là delle sue
rive non era che una sterminata steppa, battuta dalle vampe assidue
d’un clima tropicale, corsa da torme di cavalli selvatici e da bande
di feroci _gauchos_, divisa tra pochi _estancieros_, veri feudatari
della Pampa; quello sulla riva sinistra offriva, da alcune parti in
fuori, tutte le varietà d’un clima e d’un suolo europeo e tutte le
condizioni a’ suoi abitatori d’una vita civile. Il clima, temperato
lungo il littorale dalle brezze marine, vi è de’ più dolci; ed anche
nell’interno non sale mai nel più grande estate oltre il 35mo grado, nè
discende nei più crudi inverni al 3º sotto zero; onde non si conoscono
in quelle latitudini che due stagioni: la calda da ottobre a giugno, e
la fresca da giugno a settembre.[58] Il suolo vi è tanto pittoresco,
quanto salubre e ferace; parecchie catene di montagne, dalle forme
trincianti delle lor punte dette _cuchillas_, lo solcano da nord a
sud; maggiore fra esse la _Cuchilla Grande_ (che non s’innalza però
oltre i 2000 piedi), dalla quale si diramano numerosi piani digradanti
di colline, di terrazze, di poggi, o come li dicono là di _cerri_
e di _cerriti_, che vanno a morire fino intorno a Montevideo e ad
anfiteatro lo chiudono. Innumerevoli acque defluenti ed affluenti dei
due massimi fiumi, il Rio Grande e l’Uruguay, lo scorrono per ogni
parte, lo abbelliscono e lo fecondano. Le pianure stesse di Colonia,
di Canelones, di Salto, sono praterie verdeggianti che perdono il
nome di Pampas e acquistano quello di campagne. La popolazione vi è,
al paragone dell’Argentina, più densa; il _gaucho_ più raro, e dalla
natura stessa del suolo agricolo e suddiviso reso innocuo. Se nel folto
delle selve secolari balza il leopardo, urla il coguar e strisciano il
crotalo ed il corallo,[59] innumerevoli mandre di buoi, di merinos, di
cavalli moltiplicano sui vasti pascoli e nelle frequenti estancias, e
fruttano al paese la triplice ricchezza delle carni, dei cuoi, delle
lane. Ricche miniere d’oro, d’argento, di rame, di piombo, d’ogni
varietà di minerali serpeggiano nelle viscere dei monti; nel fondo
delle valli, sui margini dei fiumi, nel cavo delle roccie, fiorisce
tutta la variopinta famiglia delle erbe medicinali e delle piante
coloranti.

Finalmente poco lungi dalla palma e dal cedro allignano il pesco e
l’arancio; accanto a vaste foreste, dove si spiega tutto il lusso della
vegetazione tropicale, maturano il frumento, il mais, quasi tutte le
frutta e gli erbaggi del nostro continente, il quale, ben a ragione,
invia il soverchio de’ suoi figli a cercare nella terra felice il pane
e la fortuna, e trova nella ridente baia di Montevideo uno de’ porti
più ospitali e sicuri del Nuovo Mondo.

Ora in siffatto paese era naturale che i coloni europei s’espandessero
più prontamente, serbassero con maggiore tenacia i loro costumi
nativi, predominassero senza grande sforzo su tutta quella popolazione
mista d’Indiani puri, di negri, di meticci e di creoli, ancor presso
alla barbarie, e sulla quale si sentivano chiamati a dominare per la
superiorità del sangue, dell’intelletto e del valore.

Oltre di che, c’era quel gran fiume, cagione antica e perpetua di
prosperità a’ suoi ripuari, ma altresì di rivalità e di discordia, e
i coloni della Banda Orientale non avrebbero mai potuto sopportare
tranquillamente ch’esso divenisse l’esclusivo dominio dei popoli
dell’altra Banda.

Infine l’esercito spagnuolo, forzato ad abbandonare l’Argentina, aveva
fatto di Montevideo l’estrema sua cittadella, e cooperava colla sua
presenza ad afforzare l’opposizione che gli Orientali facevano ai
disegni rivoluzionari della riva opposta. Conseguenza di tutto ciò fu
che gli Argentini si videro costretti a porre l’assedio alla capitale
dell’Uruguay, ed è allora che compare per la prima volta sulla scena un
uomo singolare, chiamato ad esercitare un potente influsso sui destini
della patria sua: Artigas.


III.

Gaucho di nascita, contrabbandiere di professione, cumulata, colle
frodi e colle rapine proprie alla sua arte ed alla sua stirpe,
un’immensa fortuna, divenne per il triplice prestigio dell’astuzia,
del valore e della ricchezza, così popolare e potente, che il Governo
spagnuolo, a somiglianza di tutte le tirannie deboli, scese a patti con
lui e gli accordò immunità e privilegi, a condizione che l’aiutasse a
combattere e diradare la numerosa famiglia di contrabbandieri, che era
la figliuolanza naturale del sapiente sistema proibitivo adottato dalla
Spagna.

Ma la prima volta che un magistrato tentò opporsi a non so quale sua
pretesa, ecco il prepotente contrabbandiere dar le spalle al Governo
che aveva fin allora protetto, e giurargli un odio mortale.

Era appunto il 1811; la guerra per l’indipendenza delle colonie durava
da circa un anno, e nessuna occasione più propizia all’Artigas per
compiere la sua vendetta. Sparisce per qualche tempo nel profondo delle
campagne orientali, vi propaga l’odio della signoria spagnuola, chiama
a raccolta i suoi gauchos, i suoi contrabbandieri, quanti han fede nel
suo nome; copre di _guerrillas_ l’Uruguay e lo trascina nella lotta
dell’indipendenza comune.

Era per la rivoluzione un soccorso tanto insperato, quanto poderoso.
Buenos-Ayres manda in rinforzo dell’inatteso alleato le truppe reduci
dall’infelice spedizione del Paraguay; l’Artigas così rafforzato
traversa quasi in trionfo tutta la Banda Orientale, e dopo aver battuto
insieme al generale Rondeau[60] gli Spagnuoli a Las Piedras, si unisce
all’esercito argentino che assediava Montevideo.

A questo punto però la storia così dell’Uruguay come dell’Argentina
immiserisce in tanti conflitti di fazioni e litigi di persone e
puntigli d’ambizioni, da confondere e stancare gli stessi storici dei
due paesi.

Nella «Giunta governativa» argentina un partito Moreno demagogico
s’accapiglia col partito Saavedra autoritario o monarchico che
sia,[61] e le loro dissensioni penetrano nell’esercito che campeggia
nell’alto Perù e ne cagionano la rotta; intanto quattromila Portoghesi,
clandestinamente assoldati dalla principessa Carlotta di Borbone,
invadono l’Uruguay e marciano su Montevideo in soccorso degli
assediati. L’Artigas, offeso che il comando in capo dell’esercito
d’operazione sia stato affidato al Rondeau, abbandona con tutti i
suoi l’assedio e si rivolge a combattere per conto suo i Portoghesi.
A Buenos-Ayres il Saavedra è deposto e i partiti si succedono ai
partiti, i governi ai governi; tuttavia il Rondeau rinforzato da nuove
truppe continua vigorosamente a battere Montevideo, sinchè il vicerè di
Spagna, Elios, perduta la speranza del soccorso portoghese, si rassegna
a cedere la piazza, sottoscrivendo una capitolazione (novembre 1811)
per la quale gli Spagnuoli dovevano sgombrare l’Uruguay, che veniva
in tal modo a restar libero e padrone dei propri destini. Nessuno
però mantiene i patti; nè i Portoghesi si ritirano dall’Uruguay, nè
l’Artigas cessa dallo scaramucciar contro di loro, e per legittima
conseguenza nemmeno il vicerè spagnuolo Vigodet, succeduto ad Elios,
consente ad abbandonare Montevideo. Invano il Governo di Buenos-Ayres
intima all’Artigas di sospendere le ostilità; ai Portoghesi ed agli
Spagnuoli di sgombrare; le armi soltanto potranno decidere ancora la
lite. Ecco perciò Buenos-Ayres infaticabile nel proseguire il suo
disegno d’unificazione, levare e spedire nuove milizie, le une per
combattere i Portoghesi e contenere insieme il ribelle _caudillo_
uruguayano, le altre per ricominciare l’investimento di Montevideo.

Fortunatamente però i Portoghesi, allarmati dalle forze soverchianti
spedite loro incontro, si decidono a ripassare l’Uruguay senza
battaglia, e l’Artigas consente di riunire le sue bande rivoluzionarie
all’esercito argentino e a riprendere con esso l’assedio della tante
volte contrastata fortezza. Ma qui tutto non finisce, nè tutto si
chiarisce ancora, per la semplice ragione che nè i voltafaccia,
nè i puntigli, nè le pretensioni dell’Artigas finivano mai, nè
quel qualsiasi concetto che lo guidava era pur anco riuscito a
farsi strada per mezzo alle tenebre del suo grosso cervello ed a
prendere forma concreta ed intelligibile così ai suoi seguaci come
a’ suoi avversari. Era cortezza di mente, volubilità di carattere
o dissimulazione profonda d’arcani disegni? Era soltanto, come fu
detto, la meschina invidia dei generali a lui superiori che guidava
la sua condotta balzana; o non era anche un presentimento istintivo,
un sospetto oscuro, ma patriottico, che aiutando egli il Governo di
Buenos-Ayres a liberare la patria sua dagli Spagnuoli, contribuiva a
metterla nelle mani degli Argentini? Noi abbiamo indarno chiesto agli
storici della Plata la soluzione di questo doppio problema: forse essi
medesimi lo cercarono invano; forse nessuno potrà trovarla mai; forse
nemmen l’Artigas avrebbe saputo darla. Certo è questo solo (certo
e strano ad un tempo), che l’Artigas diserta una seconda volta dal
campo degli assedianti, e va a continuare per conto suo la guerra
nelle native campagne; poi, a un tratto, quando ode che il generale
Alvear è finalmente riuscito ad impadronirsi di Montevideo e a dare
così l’ultimo colpo alla signoria spagnuola sulla Plata, ricompare
sulla scena, si presenta arditamente al generale argentino, e in nome
dell’indipendenza dell’Uruguay gli intima di sgomberarne la capitale,
che a lui solo, Uruguayano, spetta di occupare.

Naturalmente il Governo di Buenos-Ayres non poteva accomodarsi ad una
pretesa sì temeraria, e s’apprestò a rintuzzare coll’armi l’audace
guerrillero. Ma questi non era più solo o accompagnato da poche masnade
di gauchos e di contrabbandieri: lo scortava ormai un seguito di oltre
dodicimila combattenti; lo spalleggiava tutto l’Uruguay. Oltre di che,
ogni oscurità era ormai dileguata dal suo pensiero; quello ch’egli
volesse era finalmente manifesto: la piena ed assoluta indipendenza
della Banda Orientale da qualsiasi dominazione americana od europea,
spagnuola, portoghese od argentina che fosse. E questa idea poteva
essere, considerato il tempo e le circostanze, uno sproposito, ma era
l’aspirazione più antica, il sogno più costante degli Uruguayani; il
solo concetto che rispondesse alle tradizioni ed alle necessità della
patria loro, e sarebbe vano discuterlo.

L’antico contrabbandiere pertanto gridato liberatore fa valanga; il suo
luogotenente Fruttuoso Ribera sconfigge a Guajabò l’esercito argentino;
lo stesso Artigas entrato in Montevideo proclama l’indipendenza della
Banda Orientale e vi stabilisce il suo governo; indi, presa a sua
volta l’offensiva, invade per il Nord l’Argentina, penetra fin nella
provincia di Buenos-Ayres e col concorso del partito federalista
argentino, riuscito ad insediarsi al potere, si fa riconoscere capo o
_Protector_ di una Confederazione, nella quale, secondo il suo disegno,
dovevano entrare non solo la Banda Orientale, ma tutte le provincie e i
popoli dei due margini del Parana, compresi Santa-Fè e Cordova.[62]

Ma simile in questo ad un altro eroe di nostra conoscenza, il
_guerrillero_ uruguayano era tanto atto a combattere, quanto inetto a
governare. Mentre le sedizioni militari e le fazioni civili funestavano
le provincie dell’Argentina, l’Uruguay cade in preda all’anarchia.
Il bestiale Ortoguez, governatore di Montevideo, disonora con feroci
supplizi e selvaggie rappresaglie la nascente libertà orientale, e
soltanto il suo successore Ribera riesce a porre un confine a tanta
immanità; le provincie in balía alle fazioni provano tutti gli strazi
della guerra civile, e la Confederazione dell’Artigas si sfascia appena
composta. E allora i Brasiliani (1816) non mai dimentichi dell’antica
loro terra promessa, approfittano di quell’anarchia, se ne formano anzi
un diritto, e col tradizionale pretesto di ristabilire l’ordine e la
pace, invadono quella Banda Orientale che era _el blanco á que hacen su
tiro desde principios del siclo XVI_.[63]

Così l’anno stesso in cui tutti gli Stati componenti le antiche colonie
spagnuole suggellavano nel Congresso di Tucuman il patto della loro
comune indipendenza, solo l’Uruguay era minacciato di perderla per
sempre. Accorre alle difese l’Artigas; guidati dal suo esempio, il
Ribera, l’Oribe, il Lavalleja (importa ricordare questi nomi) oppongono
su tutti i punti del territorio una disperata resistenza, ma indarno;
i Portoghesi sono già sotto le mura di Montevideo. L’Artigas allora
chiede il soccorso del Governo di Buenos-Ayres, il quale tornato in
mano degli unitari lo concedè a condizione che sia riconosciuta la
sua autorità e supremazia. Ma il _Protettore_ della Banda Orientale
rifiuta il patto, chi vuole per ispirazione di genio, chi crede per
grettezza di spirito e vacuità d’intelletto. Per gli unitari infatti
e per gli schietti nemici d’ogni signoria straniera, la risoluzione
dell’Artigas fu peggio che un errore, una colpa; per i federali e
per quelli che al predominio degli abborriti _Porteños_ (così son
chiamati a Montevideo quei di Buenos-Ayres) anteponevano qualsivoglia
dominazione, un miracolo d’antiveggenza politica, l’idea madre della
futura indipendenza orientale.

Noi staremmo cogli unitari, quantunque sappiamo che è assai facile
l’errare applicando agli avvenimenti d’un paese e d’un tempo
interamente diversi le idee del proprio. Ne avvenne però questo, che
i Brasiliani prima che finisse il 1819 erano padroni di quasi tutto
lo Stato orientale; che l’Artigas dopo una eroica campagna di quattro
anni, osteggiato da’ suoi luogotenenti, era costretto a cercare un
asilo nel Paraguay; che finalmente nel 1821 l’Uruguay era incorporato
definitivamente al Brasile col nome di _Stato Cisplatino_, sì che
dopo tanti anni di lotta esso non aveva ottenuto che di mutare la sua
catena.


IV.

Tuttavia la dominazione brasiliana sulla Plata, quantunque riconosciuta
in sulle prime dai _cabildi_ (consigli) delle varie città, e dagli
stessi antichi luogotenenti dell’Artigas, non durò lungamente
tranquilla. La trasformazione del Brasile da regno in impero
indipendente (1822) anzichè accrescere la sua autorità e la sua forza,
parve turbarle e sminuirle. Obbligato a difendersi dalle congiure
interne e persino dalle sedizioni de’ suoi stessi governatori, ed a
schermirsi insieme dalle intimazioni di Buenos-Ayres, che afforzato
dal voto degli stessi Orientali reclamava la loro riunione allo
Stato avito, il Brasile non godette certamente le beatitudini della
possidenza. Regnò nonostante qualche tempo ancora, se non amato,
temuto; quando nel 1824 un importante avvenimento precipitò la rovina
della sua breve conquista. Il 9 dicembre 1824 i riuniti eserciti
repubblicani della Colombia e del Perù sotto il comando del generale
Suchrè disfanno nei piani di Agacuchos l’ultimo esercito spagnuolo e
annientano per sempre la signoria iberica nell’America del Sud. Ora
la solenne vittoria fu non solamente decisiva per la Spagna e le sue
colonie, ma esercitò altresì sulle sorti della Banda Orientale e de’
suoi recenti dominatori un’influenza capitale. La battaglia d’Agacuchos
partorì, per tacere dei maggiori, questi tre effetti: collo spezzare
gli ultimi frammenti del giogo che opprimeva l’America spagnuola fece
sentire all’Uruguay più acuto il dolore, più ardente la vergogna di
quello che il Brasile gli aveva imposto; assicurando la indipendenza
allo Stato Argentino gli offrì nel tempo stesso l’occasione, gli
agevolò il modo di provvedere all’emancipazione dell’altra riva della
Plata; isolando finalmente il Brasile in una cerchia di Stati autonomi
e bellicosi, lo pose ben presto nella necessità di scegliere fra
una guerra implacabile e rovinosa, e la rinuncia d’una preda che gli
costava tanto.

E gli eventi lo chiarirono ben tosto. Nella primavera del 1825
trentatrè animosi Orientali, soldati quasi tutti dell’Artigas e
capitanati da Juan Antonio Lavalleja,[64] giurata solennemente la
liberazione della patria loro, irrompono nella Banda Orientale; che
infiammata dal loro generoso ardimento si solleva tutta quanta sui
loro passi, e incomincia contro il nuovo straniero una di quelle
tremende campagne di _guerrillas_ onde quei paesi vanno famosi.
Il Brasile rinfaccia al Governo di Buenos-Ayres d’aver promossa ed
aiutata la ribellione; ma questo, lungi dallo scusarsi, abbraccia
manifestamente la causa orientale e si prepara a sostenerla coll’armi.
La guerra allora non è più soltanto fra l’Impero e gl’insorti d’una
sua provincia, ma tra esso e tutti i popoli della Plata, ridesti
novellamente all’antico sentimento della loro fratellanza, riuniti
ancora sotto il vessillo dei loro giorni gloriosi: _O Libertad o
Muerte_. Ormai la lotta è impegnata per terra e per mare. Alla forte
armata dell’Impero, l’Argentina non può opporre che una piccola
squadra di tre legni; ma la comanda uno dei più intrepidi marini
dell’Inghilterra, l’ammiraglio Brown. Contro il numeroso e agguerrito
esercito brasiliano, i Confederati della Plata non possono mettere in
campo che milizie improvvisate e bande indisciplinate; ma le guidano
il Rondeau, l’Alvear, il Ribera, l’Oribe, il Lavalleja: tutti i prodi
della prima guerra d’indipendenza, e il valore bilancia il numero e la
forza.

Però dopo una varia vicenda di combattimenti terrestri e navali,
di fortune e di rovesci, di prodezze e di carnificine, il Brown
sconfigge la flotta brasiliana e si impadronisce dell’isola di Martin
Garcia, la più forte stazione navale della Plata; l’Alvear distrugge
l’esercito spagnuolo sui campi d’Ituzaingo (20 febbraio 1827); onde
il Brasile ê costretto a chiedere la pace, e dopo un intrico di lunghi
e insidiosi negoziati a sottoscrivere il trattato di Rio Janeiro, del
25 agosto 1828, mercè il quale la Repubblica argentina e l’Impero del
Brasile riconoscevano mutuamente, sotto la garanzia della Francia e
dell’Inghilterra, la indipendenza della Banda Orientale, obbligandosi
entrambe a difenderla in caso di necessità.

Ecco dunque la Banda Orientale liberata un’altra volta, e vorremmo
poter dire per sempre. Ratificato e riconosciuto dalle Potenze il
trattato di Rio Janeiro; votata la Costituzione del 24 maggio 1830,
per la quale _el Estado oriental de l’Uruguay adopta para su gobierno
la forma rapresentativa republicana_ e due Camere con un presidente
rieleggibile ogni quattro anni, venne eletto primo presidente, non
senza contrasti, quel Fruttuoso Ribera, che abbiamo veduto primeggiare
sulla scena dell’Uruguay fino dal 1811, il cui nome rivedremo mescolato
di nuovo ad altre lotte non lontane. Per intenderle però ci conviene
ripassare per alcuni istanti sull’altra riva della Plata.


V.

Anche l’organizzazione dello Stato Argentino era stata difficile
e laboriosa, nè era compita ancora. Quei due partiti, _Unitario_ e
_Federalista_, che vedemmo apparire fin dai giorni dell’Artigas, non
avevano posato mai, e, sotto un certo rispetto, può dirsi che vivano
tuttora. E ciò perchè non il caso li aveva formati o il capriccio degli
uomini, ma le condizioni stesse del paese. Gli Unitari volevano l’unità
e l’indivisibilità di tutti gli Stati della Plata, sotto un governo
forte ed accentrato, ma liberale e civile insieme. I Federalisti
volevano bensì l’unione, ma fondata sull’autonomia dei singoli Stati,
rispettosa delle costumanze antiche e delle consuetudini locali;
vincolata soltanto più di nome che di fatto all’autorità centrale della
metropoli. Era in sostanza la lotta delle campagne contro le città,
dei _gauchos_ contro i _ciudadanos_, e disse bene un Argentino: «della
civiltà contro la barbarie.[65]»

Certamente questi due partiti fra alcune cose giuste ne volevano
entrambi una impossibile. L’unità assoluta d’uno Stato per tante
guise disforme, congiunta ad un governo largamente liberale e civile
in un paese in gran parte barbarico, era un’utopia; dal canto opposto
l’unione senza la forza e il potere unificatore, il fascio senza il
legame, era un assurdo. Ma impossibilità, utopíe, assurdità portavano
tutte in sè stesse una fatale giustificazione; erano il frutto delle
viscere stesse del paese. Nè i cittadini di Buenos-Ayres o di Santa-Fè
potevano rassegnarsi ad un regime politico idoneo ai _gauchos_ del
Gran-Chaco, ed agli _estancieros_ del Corrientes, più che questi
potessero adattarsi alle costumanze ed alle leggi di quelli. Però
gli uomini politici che si fecero interpreti e rappresentanti di
queste due opposte tendenze, le esagerarono forse e le sfruttarono
anche a profitto de’ loro personali interessi; ma in fondo subirono
l’influsso dell’ambiente in cui essi medesimi respiravano, e obbedivano
a necessità storiche e geografiche che non era in loro arbitrio
modificare d’un colpo.

Seguire pertanto i due partiti in tutti gli accidenti della loro
acerrima lotta sarebbe lungo e increscioso insieme. In generale può
dirsi che, eccettuato il breve periodo dell’invasione dell’Artigas
nell’Argentina, la prevalenza restò alla parte unitaria.

Era forse la meno pratica, ma certamente la più nobile, la più colta
e civile. Fin dal 1820 n’aveva prese le redini il Rivadavia, uomo di
larga mente e di puri costumi e che, educato in Europa al culto delle
idee liberali e delle istituzioni civili, sperava poterne inoculare
nella sua patria i principii. E fu questo, dicono, il suo errore,
ma un nobile errore che fruttò all’Argentina la libertà di stampa,
la libertà individuale, le prime scuole, le prime banche, le prime
franchigie agli emigranti e coloni; infine quella Costituzione del 24
dicembre 1826, unitaria nell’origine e nello spirito, all’ombra della
quale la Repubblica Argentina vive ancora. Ma il partito unitario aveva
governato fin troppo. Nel 1827 le campagne mosse dai loro principali
_caudillos_, capitanate dal Quiroga, il più famoso _gaucho malo_
dell’Aroja, insorgono, in nome della perfetta libertà ed eguaglianza di
tutte le provincie, contro l’autorità del Rivadavia e lo costringono ad
abdicare.

Gli succede naturalmente un governo federale, e a presidente della
Repubblica viene eletto il colonnello Dorrego, in voce di federalista
moderato. S’intende però che nemmeno siffatto governo ebbe lunga
vita. Il colonnello argentino Lavalle si mette (nel 1829) a capo d’un
pronunciamento militare, sconfigge il Dorrego, e coltolo prigione lo
fa, con atrocità inutile, fucilare; ma il sangue frutta sangue, il
cadavere del Dorrego si rizza oramai come una barriera insormontabile
fra i due partiti, e nemmeno il Lavalle può godere a lungo del suo
trionfo. Infatti prima che quel medesimo anno finisca, Don Juan Manuel
Rosas, rimaso fino allora in fondo della scena, radunate le milizie
delle campagne ond’era capo, ritorna contro il Lavalle, lo mette in
rotta al Puente-Marquez, entra in Buenos-Ayres, assume con mano di
ferro la somma del potere, si fa eleggere presidente della Repubblica
(1830) e diviene in poco d’ora padrone dello Stato.


VI.

Chi era codesto Rosas? Quale giudizio può fare la storia di quest’uomo,
stimato dagli uni un grande statista, dagli altri un tirannello
brutale; paragonato a volta a volta a Nerone ed a Washington, a
Cromwell ed a Cesare Borgia; rimasto dittatore per venti anni della
patria sua, amico per qualche tempo della Francia e dell’Inghilterra,
riconosciuto e rispettato da tutte le Potenze d’Europa; imbrattato
di sangue dal capo alle piante, accompagnato per tutta la vita dalle
maledizioni di migliaia di vittime, eppure morto tranquillamente sul
suo letto in un rispettato esiglio? Se dovessimo dare una risposta
pronta, lo diremmo l’incarnazione suprema dell’americanismo spagnuolo.

Accanto al tipo più tradizionale e comune del _gaucho_ inseparabile
dal suo cavallo, dal suo pugnale e dal suo _lasso_, nomade, selvaggio,
ma onesto a suo modo, la Pampa produce tre altre varietà d’uomini
singolari.

E primo in riga, il _gaucho malo_, fratello corrotto del primo, che
avendo un bel giorno assestata una coltellata a qualche suo rivale, e
presa in seguito l’abitudine di campar la vita con quel suo strumento,
va, come un _outlow_, errando per le profondità inaccesse del suo
deserto, ottenendo talvolta l’asilo delle _estancias_ e l’ospitalità
delle _pulperias_,[66] ed aspettando una rivoluzione in cui trovare
un impiego. Poi accosto, e quasi sulle orme del _gaucho malo_, viene
il _rastreador_, una specie di can bracco umano che fa professione
di scoprire alla pesta così un animale smarrito, come un bandito
nascosto; un che di mezzo tra il bracconiere e la guardia campestre,
il vero _policeman_ della Pampa. Infine vi è il _capataz_, conduttore
o capo delle carovane, investito dell’autorità di mantenere la quiete
tra le mandre e la disciplina tra i mandriani, e che al primo atto di
capriccio o di recalcitranza degli uni o delle altre, armato come un
negriero d’una grossa frusta, la mena senza pietà sulla schiena così
degli uomini come delle bestie, e ottiene quasi sempre, mercè questo
semplicissimo regime, il ristabilimento dell’ordine.

Ora mettete insieme gl’istinti sanguinari del _gaucho malo_, la
furbería sbirresca del _rastreador_ e le abitudini di governo del
_capataz_; unite queste doti alla ricchezza ed alla potenza d’un
_estanciero_, padrone di vasti possedimenti e capo a sua volta di molti
_gauchos_, di molti _rastreadores_ e di molti _capataz_, e stendete
sopra un siffatto impasto la polvere d’un galateo signorile e la
vernice di una educazione cittadina, e avrete il Rosas.

Nato a Buenos-Ayres, di buona famiglia, ma scacciato a vent’anni
dalla casa paterna per turpe condotta, si rifugia nelle campagne
dell’Argentina e si fa in brev’ora il compagnone e l’amico dei
_gauchos_, di cui apprende le costumanze; accettato per carità d’amici
amministratore di due vaste _estancie_, arricchisce dei loro migliori
frutti; fa dell’_estancia_ sua l’asilo di tutti i _gaucho-malos_ e di
tutti i vagabondi dei dintorni, e ne diventa insieme il protetto e
il protettore. Venuta la rivoluzione, muta l’_estancia_ in caserma,
organizza i suoi _peones_, i suoi servi, i suoi banditi in uno
squadrone che chiama _colorados del Monte_, e si mette in campagna
alla cerca della fortuna. Indifferente ad ogni opinione, nè unitario
nè federalista, e pronto in sulle prime a servire tutti i partiti,
esordisce difatti armeggiando nelle file unitarie del Rivadavia;
però più mercante che soldato, comincia con un’impresa da fornitore,
nella quale guadagna al Governo 200,000 _duros_. Succeduta però la
rivoluzione federalista del 1827 e la presidenza del Dorrego, s’avvede
che il partito federalista è il più forte, e che governo federale
non altro significa che governo di quelle campagne, predominio di
quell’elemento donde egli stesso emana; e uscendo finalmente da quella
accorta penombra in cui stava fino allora nascosto, riunisce le milizie
della campagna, di cui si era fatto eleggere comandante, a quelle del
Dorrego, e spiega apertamente la bandiera federalista.

A questo punto la via dell’astuto Argentino è chiaramente segnata;
la stessa vittoria del Lavalle, la stessa morte del Dorrego fanno la
sua fortuna. L’Argentina è in preda all’anarchia. Tutti si volgono
ansiosi d’attorno a cercare una mano poderosa che la soffochi; una
volontà senza scrupoli che imponga a qualsiasi patto la pace, ed ecco
Manuele Rosas assumere in sè le parti di vendicatore del Dorrego, di
restauratore dell’ordine, di pacificatore della patria, e riuscire
egli solo a fondare il governo più durevole, che dal giorno della sua
indipendenza la Plata abbia veduto.

Ma quale fosse quel governo, a quale prezzo pagassero gli Argentini la
sua durata, è orribile a dirsi.

Il Rosas non promise a’ suoi elettori che «di governare secondo sua
scienza e coscienza,» e mantenne la parola; solamente la sua coscienza
era quella di una belva, la sua scienza quella d’un manigoldo. Appena
salito al potere, pubblica un manifesto di stile così rodomontesco che
tutti ne ridono; egli prende una dozzina di unitari, li fa fucilare
e il riso cessa immantinente. Sopprime immediatamente ogni libertà di
stampa e di parola, proibisce ogni giornale che non canti le sue lodi,
e burlone, come lo sono spesso i feroci, obbliga la _Gaçeta Mercantil_,
diario ufficiale, a ristampare per mesi il medesimo articolo che
fa il suo panegirico. Avoca nelle sue mani il potere giudiziario e
giudica a beneplacito; abolisce istituti d’insegnamento; destituisce
in massa magistrati ed ufficiali; brucia e spezza tele e statue credute
colpevoli d’allegorie ribelli; impone a tutti l’obbligo della milizia,
anche agli stranieri; decreta persino che uomini e donne, quegli
all’occhiello, queste al capo, portino un nodo rosso che distingua
i federalisti dagli unitari; «che marchi, dice un Argentino, il suo
armento.[67]»

Ma tutto ciò è nulla al paragone della persecuzione cominciata fin
dal primo giorno contro gli unitari, e proseguíta per oltre vent’anni
col medesimo accanimento. _Mueran los selvages unitarios_, fu il
grido del Rosas, e il grido ripetuto dalle campagne alle città,
dalle mille bocche d’un popolo inferocito, si tramuta in leggi di
sangue all’istante ubbidite. Le esecuzioni capitali con apparenza di
un giudizio sembrano, al confronto degli assassinii proditori e dei
massacri in massa, atti di mite e regolare legalità. Per suggerimento
e sotto la protezione dello stesso Rosas, viene costituita una società
sanguinaria detta _Mas-Horca_,[68] che riceve dal dittatore stesso
l’autorità di segnare a dito gli unitari, o quanti siano sospetti
d’esserlo, e di sterminarli. I governatori delle provincie, degni
seidi del tiranno, pubblicano decreti di questo tenore: «Tutti gli
Argentini sono autorizzati a togliere la vita agli unitari in qualunque
luogo della Repubblica;[69]» e i bandi feroci sono eseguiti. Non è una
guerra, è una caccia all’uomo, ferina e selvaggia. Gli unitari cadono a
migliaia pugnalati per le vie e per le taverne, di notte e di giorno,
nelle città e nelle campagne; e fortunati ancora i pochi che salvano
la vita colla perdita degli averi e coll’esiglio. Nè il dittatore
pensa solo a disfarsi dei nemici, ma di quanti amici abbia ragione di
sospettare rivali o di temere potenti. Così il Lopez, il Cullen muoiono
avvelenati o coltellati d’ordine suo, e persino il Quiroga, il primo
sostegno della sua fortuna, il più fedele alleato delle sue imprese, la
_tigre della Pampa_, emulo degno della sua rinomanza feroce, scompare
di una morte misteriosa, di cui il Rosas è accusato; ma che il Rosas
audacemente festeggia.

Quando finalmente, provocata dall’immane tirannide, scoppierà la
sollevazione, non degli unitari soltanto, ma di tutta la Plata, nessun
prigioniero di guerra avrà salva la vita; i vinti saranno decollati,
le loro teste infitte sulle lancie portate in trionfo, i loro stessi
cadaveri diseppelliti, mutilati, seminati a brani per i campi.
Quattordicimila, secondo le _Tavole di sangue_ dell’Indarte, è il
numero delle vittime di questo Terrore quadrilustre, e forse il pietoso
cronista non le ha potute numerare tutte. E ciò nonostante, un simile
uomo fu eletto sei volte dittatore colla forma più legale; potè anzi
rappresentare la commedia di rifiutare egli pure la croce del potere,
e di farsi pregare per accettarlo; gli riuscì infine di trattare da
paro a paro gli ambasciatori delle estere Potenze, di farsi beffe delle
loro rimostranze e persino delle loro minaccie. Lo si vide infatti
nel 1838, quando inviati dal Governo di Luigi Filippo, l’un dietro
l’altro, due agenti per reclamare contro il decreto che sforzava al
servizio militare i cittadini francesi, il Rosas cominciò col rifiutare
di ricevere il primo, col pagare di motti e di scede il secondo,
coll’infischiarsi di tutti. Fu peggio poi quando la Francia, desta
alfine al sentimento della sua dignità, spedì una squadra nella Plata
a sostenere coll’armi i suoi reclami. Allora il Rosas, lungi dallo
sgomentarsi dell’imponente minaccia, fa appello all’onor nazionale per
difendersi contro lo straniero; si lascia bloccare in Buenos-Ayres, ma
non cede alcuno de’ suoi diritti, e quantunque assalito insieme dagli
unitari del Lavalle e di Montevideo, sa stancheggiare così bene la
Francia a forza di resistenze passive, di negoziati interminabili e
d’astuzie volpine, che finisce collo strappare all’ammiraglio Mackau
il trattato del 1840, mercè il quale è lasciato come prima, despotico
padrone in casa sua, e la bandiera della grande nazione si ripiega
umiliata dinanzi al brigante della Pampa.

Perchè tutto ciò? e d’onde traeva il _gaucho_ tanto potere e tanta
forza? Lo diremo colle parole stesse di un Argentino, perchè a noi
mancherebbe la perizia e l’autorità di esprimerlo più efficacemente:

«Il Rosas non si sarebbe mai insediato sul primo scanno della
Repubblica, mai avrebbe commessi gli eccessi che hanno scandolezzato
il mondo, se nelle tradizioni coloniali, nelle condizioni fisiche
del suolo, nell’ambizione dei _caudillos_, nella profonda ignoranza
delle masse, negli odii di razza, nei ciechi e feroci istinti della
parte incolta e viziosa del popolo dei campi e delle città, nei
forviamenti dei partiti, negli interessi cozzanti d’ogni località e
nello sfasciamento dei vincoli sociali prodotto dalla guerra civile
e dall’anarchia, non avesse incontrati già pronti i ferrei anelli
di quella catena che egli seppe ribadire colla sua energia, la sua
costanza e i suoi delitti; catena tanto forte che l’Europa più d’una
volta tentò, ma non potè spezzare, e che tanto sangue, tante lacrime e
sacrifici costò ai popoli della Plata.[70]»


VII.

Ma i tristi effetti della dominazione del Rosas si erano fatti sentire
già da parecchi anni anche sull’altra sponda della Plata, e vi avevano
riaperte le piaghe non per anco rimarginate della discordia e delle
guerre intestine.

Il Ribera aveva governato sino al 1835 con poca abilità amministrativa,
ma con molta onestà politica, ospitando i proscritti unitari di
Buenos-Ayres, serbandosi equanime tra le parti, sforzandosi a
pacificare il paese. Oltre di che, scaduto il termine legale del suo
potere, aveva favoreggiato egli stesso la elezione presidenziale del
generale Manuele Oribe, che pure sapeva suo rivale fin dalla guerra
d’indipendenza, che ebbe competitore nella prima nomina presidenziale,
e non fu mai suo amico. Però della soverchia generosità ebbe ben presto
a pentirsi.

L’Oribe non conosceva quella debolezza, che fu detta la memoria del
cuore. Tanto acuto di mente, quanto era grosso il suo antagonista, ma
egoista, calcolatore, freddo, all’uopo crudele, l’Oribe poteva dirsi
un Rosas in minuscolo, e il suo governo lo dimostrò immantinente.
Afferrato il potere, scacciò e perseguitò i fuorusciti argentini,
depose gli amici ed i parenti del Ribera, rifiutò a questi il governo
delle campagne per darlo ad una sua creatura; inaugurò insomma sulla
sinistra della Plata la politica federalista, intendi tirannica, che il
suo amico e protettore praticava da anni sull’altra riva.

Il Ribera non tardò ad offendersi ed allarmarsi di questa condotta
inattesa del suo successore, e quando una notte una mano di banditi
tentò assassinarlo nella sua estancia, ed egli potè credere che gli
assassini fossero stati prezzolati dal Presidente, non contenne
più la sua collera, e proclamatolo «traditore alla patria e alla
costituzione,» insorse apertamente contro di lui. Chiamati alle armi
i suoi fedeli partigiani della campagna, e ordinatili in milizie colla
prestezza con cui in quel paese basta dar un convegno agli uomini già
armati ed a cavallo per farne un esercito, si spinge contro l’Oribe,
che certo non aveva indugiato a muovergli incontro, e dopo un seguito
di sanguinosi combattimenti, lo sbaraglia completamente a Las Puntas
des Palmas (15 giugno 1837), lo rinchiude nelle mura di Montevideo, e
finalmente lo costringe, nell’ottobre del 1838, ad abdicare il potere e
ad esulare.

Conseguenza di questo fatto fu la rielezione del Ribera a capo
del governo; ma la Repubblica orientale ebbe da quell’istante due
presidenti: uno detto _costituzionale_, perchè il Ribera si gloriava
d’aver salvata la Costituzione dagli attentati dell’Oribe; l’altro
_legale_, perchè legittimamente eletto, e deposto unicamente in forza
d’una ribellione.

Due presidenti, dicemmo, ed avremmo dovuto soggiungere due partiti,
i quali ancora non avevano nome e sembianze certe, fuorchè quelle di
fazioni personali, ma che tra poco prenderanno e l’una cosa e l’altra;
e col nome di _Blancos_, o sostenitori di una maggiore autonomia
delle provincie, ma dell’assoluta indipendenza della Repubblica, e
di _Colorados_, o fautori d’un governo più accentrato, ma insieme
d’una federazione fra gli Stati della Plata, continueranno, tra molta
confusione d’idee e sterilità di opere, a combattersi ed a lacerarsi
fino ad oggi.

S’intende pertanto da sè che l’Oribe riparasse presso il Rosas, e
che resolo partecipe de’ suoi risentimenti e de’ suoi propositi,
ne ottenesse facilmente la protezione e l’aiuto. Il Rosas infatti
aveva due possenti ragioni per far sua la causa del proscritto
Presidente dell’Uruguay: anzitutto vendicare la lunga offesa che
il Ribera avevagli fatta di raccogliere e proteggere quei selvaggi
unitari ch’erano riusciti a scampare alle sue ugne feroci; poscia
effettuare l’antico e non mai celato suo disegno, proseguíto da tanta
parte de’ suoi concittadini, di annettere anche la Banda Orientale
alla Repubblica Argentina, o per lo meno di sottometterla al suo
protettorato.

Intanto però che il Rosas s’apprestava a fornire d’armi e d’armati
l’Oribe per una spedizione nell’Uruguay, era egli stesso bloccato
in Buenos-Ayres dalla squadra francese dell’ammiraglio Leblanc, e
minacciato al tempo medesimo dall’altra Banda della Plata da una
crociata federalista. La capitanava quello stesso Lavalle che il Rosas
aveva sconfitto e costretto ad andare in bando nel 1830; l’avevano
promossa tutti gli Argentini esuli con lui a Montevideo; l’aiutava
di sottomano il presidente Ribera; eran pronte a parteciparvi alcune
provincie argentine, principalmente il Corrientes e l’Entre-Rios; la
sosteneva infine lo stesso incaricato di Francia, che sperava con tal
mezzo forzare il Rosas a dar ragione ai reclami che aveva fin allora
invano presentati.

In sulle prime il Lavalle sbarcato con centotrenta uomini
nell’Entre-Rios ebbe qualche fortuna; ma il Rosas non si smarrì per
questo d’animo, e mentre teneva testa risolutamente all’invasione
inviava l’Echague (quello stesso governatore d’Entre-Rios ch’era
stato benigno a Garibaldi) ad invadere con settemila uomini la Banda
Orientale che l’Oribe assaliva e sollevava per altre vie. Ma il
Ribera, che in quella guerra diretta oramai più contro la tirannide
dell’Argentino che contro l’Oribe aveva con sè tutta la grande
maggioranza del paese, mette in rotta a Chagancia, 29 decembre 1839,
l’esercito dell’Echague, sbaraglia e fuga in altri combattimenti
l’Oribe, sbratta di nemici tutto il territorio orientale, ma resta
quasi due anni improvvidamente inoperoso.[71]

In questo frattempo il Lavalle, rinforzato di nuove bande, copertamente
spalleggiato dalla flottiglia francese aveva aperto nel marzo 1840 una
nuova campagna, e dopo battuto in più scontri l’Echague, e lasciandosi
sui fianchi il Campo di Santo Lugares, dove il Rosas si era concentrato
con tutte le sue forze, s’avanza arditamente contro Buenos-Ayres.
La città, a dir vero, era difesa da poche truppe, chiusa dal mare
dai Francesi, abitata da una popolazione impaziente di scuotere il
giogo ignominioso di dieci anni; sicchè, come fu detto, il Lavalle
avrebbe forse potuto con un colpo di mano impadronirsene. Scelse
invece ritirarsi, e chiunque consideri che poco lungi dal suo fianco
stava accampato tutto l’esercito del Rosas, non potrà fargliene colpa:
nessuna scusa invece può trovarsi al Ribera, che se ne stette due anni
inerte; che lasciò passare i più bei giorni della fortuna del Lavalle
senza andare in suo soccorso; doppiamente biasimevole, poichè questo
soccorso lo promise e lo patteggiò, e non lo diede mai. Punto davvero
oscuro nella vita di codest’uomo, le cui azioni sembrano un’alternativa
di eroiche temerità e di tentennamenti senili.

Ma non fu soltanto alla ritirata del Lavalle e all’inerzia del Ribera
che il Dittatore dovette la sua salvezza. Egli ne va debitore anche
più alla Francia, la quale essendo impegnata dal suo onore a sostenere
la rivoluzione da lei stessa fin allora favorita e sussidiata, e ad
ottenere la dovuta soddisfazione ai suoi giusti reclami, si lascia
invece per due anni baloccare dall’astuto masnadiero; diserta la causa
del partito col quale aveva fino all’ultimo congiurato, e ratificando
l’umiliante trattato dell’ammiraglio Mackau cospira a rafforzare il
prestigio e la potenza di quel despota incivile che pareva dovesse
ad ogni istante annientare. E immagini ognuno se il Rosas non seppe
trar profitto da queste circostanze! Favorito dall’indugio dei suoi
nemici, reintegrato dal trattato Mackau nel favore popolare, libero
oramai di rovesciarsi con tutte le sue forze contro gli insorti, lancia
l’Echague a domare le provincie, l’Oribe a perseguitare il Lavalle, e
intraprende contro i Federalisti quella guerra di coltello senza pietà
e senza giustizia, che doveva fare degno riscontro sui Campi, alla
_Mas-Horca_ delle città. Il Lavalle tuttavia continua ad opporre per
oltre un anno la più disperata resistenza; ma dopo una serie alternata
di vittorie e di rovesci, stremato di forze, addossato all’estremo
confine settentrionale dell’Argentina è sorpreso e disfatto a Famalla
(19 settembre 1841) e non resta a lui stesso che cercare salvezza nella
fuga.

Pure il suo triste destino non era compiuto ancora. Sorpreso pochi
giorni dopo in una casa dove s’era rifugiato, è proditoriamente
assassinato, e i suoi ultimi e fidati amici non ponno che a stento
salvare il suo cadavere, difendendolo colle armi dalla ferocia dei
vincitori.

E perchè appaia in un punto solo l’odio che l’eroico soldato, due
volte campione dell’indipendenza della patria sua, aveva accumulato
sul proprio capo, e la brutale ferocia di cui erano briachi gli uomini
che lo perseguitavano, basti aggiungere sol questo, che l’Oribe mandò
a frugare tutti i luoghi dove sospettava fosse stato sepolto, affinchè
diseppellitolo gliene portassero innanzi il capo reciso; e quando seppe
che gli era stata data sepoltura in Bolivia, osò ancora reclamare la
estradizione della sua spoglia; il che, a dir vero, non poteva essere
da alcun Governo, appena umano, concesso.[72]

Franco ormai da ogni nemico interno, spente in un mare di sangue le
ultime faville dell’insurrezione federalista, al Rosas restò piena
balía di consacrarsi tutto intero all’adempimento dei disegni, a lungo
covati, contro Montevideo; e sotto la maschera di restaurare il governo
_legale_ del suo proconsole Oribe, annientare l’avanzo dei nemici
che ardivano ancora resistergli di là dalla Plata. Lasciata perciò
la cura all’Echague ed all’Urquiza, nomi che gli avvenimenti futuri
ingrandiranno, di tenere in iscacco il Ribera sull’Entre-Rios, affida
all’Oribe un esercito di quattordicimila uomini e nell’estate del 1842
lo manda ad invadere, per il Paranà, la Banda Orientale.


VIII.

Gli è allora che vediamo riapparire in campo il nostro Garibaldi.
Dal giorno del suo arrivo in Montevideo si era tenuto in disparte
da ogni briga politica, e penetrato dalla sua nuova condizione di
padre di famiglia, non ebbe in quei primi momenti altra cura che di
procacciarsi un pane onorato con cui sostentarla. Oltre di che le
poche centinaia di pataconi, ricavate dalla vendita dei buoi, avevano
preso ad una ad una il volo, e le più urgenti necessità cominciavano a
battere alla sua porta. È vero che non gli mancavano amici ospitali e
generosi; a siffatto uomo non mancarono mai, ed egli stesso, nelle sue
_Memorie_, ricorda con riconoscenza e Napoleone Castellini, che primo
gli spalancò le porte di sua casa, e i fratelli Antonini, e Giovanni
Rizzo, e Giambattista Cuneo, che gli furono larghi d’ogni maniera di
favori e cortesie; ma appunto per ciò a lui ripugnava abusare di tanta
generosità, e ad ogni patto voleva avere alle mani un’arte, purchè
sia, da campare la vita. In sulle prime però non trovò di meglio
che darsi al sensale di mercanzie; ma poichè i lucri dell’avventizia
industria non bastavano a sbarcare la giornata, giunse ben presto il
sussidio d’un altro mestiere a lui non ignoto, che l’aveva aiutato già
altre volte a lottare colla fame: il mestiere, o professione che sia,
del maestro di scuola. Così smezzandosi tra il mercato e la scuola,
dedicando una parte del giorno a mostrar campioni e combinar negozi,
e l’altra parte a dar lezioni di algebra e geometria nel Collegio
Semidei, potè tirare innanzi parecchi mesi colla sua famiglia in una
quieta e modesta penombra, finchè gli avvenimenti del 1842 vennero a
strapparnelo ed a rigettarlo di nuovo nel procelloso elemento a cui era
nato.

L’invasione infatti del Rosas era cominciata; le avanguardie dell’Oribe
avevano già passato il Paranà; la Repubblica era minacciata nel cuore e
urgeva ch’ella corresse senza indugio ai ripari, nè lasciasse inoperoso
alcun valido braccio atto a difenderla. Ora Garibaldi era tra questi.
Gli Orientali avevano imparato a conoscerlo fin dal giorno del suo
duello coi lancioni dell’Oribe, e il grido delle sue gesta nel Rio
Grande, prontamente riecheggiato sulle rive della Plata, non aveva
fatto che accrescerne la fama. Come uomo di mare principalmente era
parso meraviglioso, e gli Orientali guardavano a lui con tanta maggiore
invidia ed ammirazione, in quanto sapevano bene che, se il loro paese
era stato in ogni tempo fin troppo fecondo di generali di terra, non
aveva ancora veduto sorgere alcun capitano di mare atto a governarne la
nascente marina. Finalmente gli amici di Garibaldi in particolare, e la
colonia italiana in generale, facevano a chi più magnificava quello che
oramai poteva dirsi la «leggenda de’ suoi gesti;» e vuoi per l’orgoglio
ben legittimo di veder riconosciuto il merito ad un loro compatriotta,
vuoi perchè fossero essi medesimi interessati all’esito d’una guerra
in cui erano in giuoco i loro più preziosi interessi, andavano con
insistenza propagando e accreditando l’opinione che Garibaldi fosse
ormai necessario; nessuno meglio di lui poter condurre alla vittoria
la giovane flottiglia orientale; il Governo incontrare una grande
responsabilità, se non assicurava prontamente alla Repubblica l’opera
d’un uomo capace di renderle tanti servigi.

E il Governo non volle incontrarla; e quantunque il ministro della
guerra Vidal non fosse molto propizio alla flotta, che giudicava
inutilmente onerosa, nè, a quanto pare, molto amico del marinaio
italiano, tuttavia non seppe resistere al voto pubblico, e si decise ad
offrirgli, prima il comando della corvetta _Costitucion_, e poi di due
altri legni, il _Pereira_ ed il _Procida_, che componevano infatti la
parte più attiva della squadra repubblicana.

Garibaldi in sulle prime esitò, e diremmo quasi, rifiutò. Non tanto
forse perchè si sentisse stanco di avventure, o lo sgomentassero le
amarezze che la permalosità de’ suoi nascenti rivali gli preparava,
quanto perchè gli era rimasta nell’anima la dolce illusione che il
giorno della riscossa d’Italia non fosse lontano; ed egli voleva
tenersi affatto libero d’impegni per poter accorrere in di lei aiuto
alla prima chiamata. Poichè non conviene dimenticarsi che sotto il
poncio del _filibustiere_ batteva sempre il cuore dell’Italiano; che
l’Italia era la mèta suprema di tutti i suoi passi e la molla segreta
d’ogni sua azione; che insomma i campi d’America non erano a lui che
palestra temporanea dove esercitar il braccio e addestrare il cuore per
le battaglie, sperate non lontane, della patria sua.

Tuttavia la pertinace insistenza degli amici, i reiterati inviti del
Governo, le istanze che da ogni parte gli venivano, finirono col
vincere la sua riluttanza. Anzitutto il signor Stefano Antonini,
armatore italiano stabilito a Montevideo, gli aveva fatto formale
promessa che al primo cenno d’insurrezione in Italia gli avrebbe
fornito il bastimento col quale recarvisi; e questo argomento valse
per tutti. Oltre di questo, egli stesso s’era venuto a poco a poco
persuadendo, che se v’era causa giusta da difendere era quella di
Montevideo; se tirannia esosa da abbattere, quella del Rosas; se
impresa degna della fede d’un paladino e del braccio d’un eroe, quella
onde il popolo lo voleva suo campione. Quel che i Gabinetti diplomatici
nella volontaria loro cecità fingevano non comprendere, egli l’aveva
inteso chiaramente: sulla Plata non si combatteva soltanto per la
libertà d’una piccola Repubblica, ma per le ragioni dell’umanità
tutta quanta, e nessun uomo di cuore aveva il diritto di dire: questa
guerra non mi riguarda. Ai suoi occhi la questione era semplicissima:
si trattava di liberare la terra da un mostro, e chiunque aveva cuore
doveva tentarlo. Libere la grande Francia, la illustre Inghilterra, la
vecchia Europa e la giovine America di tollerare in pace e all’uopo di
carezzare la belva in sembiante umano, che da dodici anni desolava le
due rive della Plata; a Garibaldi siffatta libertà era negata. La sua
nobiltà lo obbligava, il sangue eroico che gli scorreva nelle vene, lo
sforzava a camminare dritto sul mostro ed a misurarsi con lui; Ercole
doveva affrontar l’idra, e Teseo non poteva sfuggire al drago.

Infine quale seduzione più imperiosa per un Italiano, che la lusinga di
far rivivere sui campi glorificati dalle battaglie dell’indipendenza
ispano-americana il nome quasi spento in Europa della patria sua;
quale tentazione più potente per l’eroe, al cui orecchio risuonavano
ad ogni istante le favolose prodezze degli Artigas, degli Alvear, dei
Saint-Martin, dei Lavalleja, che la speranza di rinnovare i medesimi
prodigi e mescolarsi nelle pagine della storia al loro stuolo glorioso!


IX.

Accettò quindi, e quando prese il comando della _Costitucion_ trovò la
situazione militare della Repubblica a questi termini.

L’Uruguay aveva in campo due corpi d’esercito forti, tutt’al più, di
undici o dodicimila combattenti: uno dei quali accampato intorno a San
Josè di Canelones sorvegliava insieme la riva sinistra della Plata e
gli approcci della capitale; mentre l’altro, il più forte, campeggiava
nel Corrientes sotto gli ordini del Ribera, occupato, non sapremmo dire
se a contemplare od a fronteggiare i corpi dell’Urquiza e dell’Echague
che gli manovravano dattorno e lo tenevano a bada.

Nel campo degl’invasori invece, l’Oribe occupava già i dintorni
di Boyada, e stava per operare la sua congiunzione coll’Echague e
l’Urquiza, mentre la squadra del Brown padroneggiava la Plata dalla
foce a Martin Garcia e teneva pressochè bloccata tutta la riva
orientale. Ora, quale delle parti belligeranti fosse in peggiori
condizioni, ognuno lo vede. Mentre l’esercito orientale era spezzato
in due tronchi, separati tra di loro da uno spazio di circa trecento
leghe, e inetti così a difendersi da sè soli come a soccorrersi;
l’esercito del Rosas, appoggiato alla base del Paranà, poteva quando
che sia marciar unito e compatto al suo obbiettivo, e manovrando a suo
agio nel largo intervallo che divideva i due corpi inimici, assalirli
ad uno ad uno e schiacciarli a sua posta.

E tuttavia un tale stato di cose, per sè stesso già pericolosissimo,
fu da un nuovo sproposito del Ministro della guerra reso irreparabile.
Anzichè provvedere, come insegnava la più volgare esperienza militare,
al pronto concentramento delle forze, il generale Vidal pensa a
disperderle anche più, ordinando a Garibaldi di lasciare colla sua
squadra la Plata, e rimontando il Paranà andare a suscitare e rianimare
quella insurrezione di Corrientes, che si annunciava sempre e non si
vedeva mai.

Siffatto ordine parve così insensato a Garibaldi stesso, che vi
sospettò sotto poco meno che un tradimento. Per eseguirlo doveva fare
seicento miglia d’ardua e pericolosa navigazione, per mezzo ad ostacoli
e nemici d’ogni sorta; aprirsi una via nell’Estuario sotto il fuoco
incrociato della squadra argentina, doppia della sua, e quello delle
batterie di Martin Garcia, isola che guarda il confluente dell’Uruguay
e del Paranà nella Plata; risalire quindi il Paranà, le cui rive erano
in mano dei nemici, prive di scali, d’approdi e di punti di riposo; e
finalmente, quando tutto questo gli fosse riuscito, gettarsi con pochi
uomini allo sbaraglio in una provincia lontana, che non gli poteva
prestare soccorso alcuno.

Ma follía o tradimento che fosse, era un ordine, e Garibaldi volle
provare che sapeva tanto ubbidire, quanto combattere, e che non v’era
per lui cimento periglioso, da cui non sapesse almeno salvare l’onore.


X.

Prima però di partire per la rischiatissima impresa volle adempire ad
un dovere e sciogliere un voto: consacrare solennemente le sue nozze
colla donna che gli era stata sposa fino a quel giorno soltanto innanzi
al Dio del suo amore. Infatti il 26 marzo 1842 nella chiesa, ora
distrutta, di San Francisco d’Assisi in Montevideo, Giuseppe Garibaldi
di Nizza e Anita Ribeira de Silva di Laguna si unirono col vincolo
del matrimonio ecclesiastico: l’unico legittimo nell’Uruguay, dove
il civile, non esisteva ancora.[73] Del rimanente pochi i testimoni,
nessuna la pompa; ma poichè sembra che Garibaldi non possa far nulla
al mondo, nemmeno la comunissima cosa del matrimonio senza singolarità,
ecco un aneddoto de’ suoi sponsali che merita essere ricordato.

Quantunque colonnello della Repubblica uruguayana, Garibaldi non
riscuoteva altro stipendio che la razione de’ viveri del soldato;
ond’eran mesi che egli non vedeva la croce d’un quattrino, e Anita
quanto lui. Siccome però nessuna Chiesa ha mai prestato il servizio
divino senza salario (i Pagani lo chiamavano l’olocausto, i Cristiani
lo dicono tassa; ma il loro Dio non fu mai gratuito); così anche il
curato di San Francisco, fedele alla massima del chi serve all’altare
vive dell’altare, dichiarò nettamente ai promessi sposi che: niente
quattrini, niente sacramento.

Ora che viso facesse il nostro eroe a quella pretesa, nessuno lo sa;
probabilmente pensò a modo suo, che la divina natura prescrivendo i
connubii non aveva accompagnato il precetto d’alcuna gabella; comunque,
certo è che, se volle sposare, dovette levarsi di tasca l’orologio
d’argento, ultimo scampolo d’un lungo naufragio, e consegnarlo al degno
Ministro di Cristo in pagamento della sua benedizione.

E fu così che Garibaldi conquistò il diritto di dare il suo nome
alla madre de’ suoi figli. Il modesto orologio d’argento fu l’unico
regalo di nozze d’Anita: ma quanta ricchezza d’amore nel sacrificio di
quell’umile arnese; quante illustri spose, trafficate come merce nanti
notaro, avrebbero preferito, alle splendide gemme della loro cesta
nuziale, quel povero pegno del bandito Nizzardo!

Ma l’ora d’imbarcarsi era suonata; e Garibaldi non ne attese
il rintocco. Preso il comando egli stesso della _Constitucion_,
accompagnato dal _Procida_ e dal _Pereira_, salpa verso i primi di
luglio da Montevideo e arriva senza intoppo presso a Martin Garcia;
costretto dal solo canale navigabile a passare sotto alle sue batterie,
ne patisce per più ore il fuoco micidiale, ma vi risponde vigorosamente
e passa oltre.

A tre miglia più su la marea abbassa, la _Constitucion_ dà in secco
in uno dei tanti banchi che frastagliano il fiume, e mentre tutto
l’equipaggio è occupato ad alleggerire la nave arenata, trasportandone
sul _Procida_ le batterie, ecco comparirgli di fronte, a vele spiegate,
tutta la squadra argentina composta di sette grosse navi, comandate dal
noto Brown, la più grande celebrità navale dello Stato. Col maggior
legno incagliato, coll’altro reso inutile dal soverchio carico, con
una sola goletta contro sette bastimenti da guerra, bersagliato da
due fuochi, resa impossibile la ritirata e mortale la resistenza; la
posizione dell’ammiraglio italiano era terribile. Se la disperazione
avesse potuto capire in quell’anima di ferro, l’avrebbe annientata: il
disprezzo della vita, il sentimento dell’onore, la religione del dovere
l’ingigantirono. All’ammiraglio nemico invece tutto arrideva: la forza
del numero, il vento in poppa, la certezza della preda, gli applausi
delle popolazioni che da tutte le rive dell’isola vicina lo incoravano
alla facile pugna e gli prenunziavano la vittoria. Ma anche in quel
giorno la fortuna, a cui Garibaldi aveva sempre creduto, vegliava
per lui. Nel punto stesso in cui il Brown si prepara all’assalto,
anche la sua nave ammiraglia arena, e la stessa confusione, lo
stesso disordine, lo stesso travaglio ch’era prima sulla flotta
orientale passano sull’avversaria, e fiaccano di tanto la baldanza
degli assalitori, di quanto risollevano il coraggio degli assaliti.
Intanto che gli Argentini sono affaccendati a disincagliare la loro
ammiraglia, la _Costitucion_ rimonta a galla e riprende le sue batterie
ed i suoi materiali, e in poche ore tutta la piccola flottiglia
repubblicana è pronta alla manovra ed al combattimento. Ma, nota il
medesimo Garibaldi, «le fortune al pari delle disgrazie non vengono
mai sole.» Infatti, forse nel momento stesso in cui anche la maggior
nave argentina stava per rigalleggiare, e le due squadre, libere da
ogni impaccio, venire al cozzo decisivo, ecco una fitta nebbia stendere
un velo impenetrabile su tutta la plaga, e come la nuvola inviata da
Apollo fra Ettore ed Achille, rendere l’uno all’altro invisibili i due
combattenti.

E fu la salvezza del più debole, chè, mentre questi potè sgusciare non
visto fra le navi nemiche, e spinto da buon vento infilare il Paranà e
correrne buon tratto, il più forte ne smarrì intieramente la traccia e
corse a cercarlo per oltre tre giorni su per l’Uruguay, dove il Brown
aveva tutta la ragione di supporlo diretto.

Grande fu il pericolo, a cui il nostro eroe poteva dirsi scampato;
minimo tuttavia al paragone di quelli che l’attendevano ancora.

Entrato nel Paranà, cominciano a mancargli i piloti pratici del fiume,
o se ve n’ha alcuno nelle fila del suo equipaggio, si nasconde o si
schermisce, ond’è costretto a ricorrere all’argomento persuasivo della
sua sciabola per forzarlo a prestar l’opera sua.

Giunto a San Niccola, prima città argentina della riva destra,
s’impadronisce di alcune navi mercantili che trascina seco come
onerarie, e trova il pilota che gli abbisognava; ripreso il viaggio
fra due rive ostili e vigilate da tanti armati, è costretto, tutte le
volte che scende per vettovagliarsi, a sostenere piccole scaramuccie,
che lo infastidiscono, ma non lo arrestano; onde arriva senza dannosi
incidenti fin sotto a Boyada. Ivi però la città, munita di batterie
e guardata da un forte presidio argentino, appena lo vede affacciarsi
lo saluta d’un vivissimo fuoco; ma egli aiutato dal vento può filare
rapidamente a grande distanza e continuare incolume fino a Las Concas,
dove sbarca per vettovagliarsi e d’onde riparte sotto una nuova salva
d’artiglieria. E non ha finito ancora; poche miglia più in su, in
un luogo detto il Cerrito, sessanta bocche da fuoco in batteria lo
attendono per vomitargli contro la morte; e quel che è peggio, le
sinuosità del fiume e i giri del vento l’obbligano a bordeggiare
sotto la grandine nemica per oltre due miglia. Pure nemmeno questo
lo sgomenta o lo trattiene; ribatte valorosamente colpo per colpo,
marcia, combatte e manovra insieme, e ridotto al silenzio, dopo un
combattimento di più ore, il fuoco nemico, e catturate alcune navi
mercantili che s’erano rifugiate sotto le di lui batterie, allegro e
trionfante, come reduce da una festa, ripiglia la sua rotta.

La sua mèta era Corrientes, chiave del Paranà e base principale
dell’impresa, e Corrientes infatti gli aveva già spedito in aiuto una
piccola flottiglia di barche; ma presso Nueva Cava la maggior siccità
del fiume, che da mezzo secolo si fosse veduta, lo sorprende, e gli
toglie ogni possibilità di navigare più oltre. E poichè sapeva che il
nemico s’affrettava minaccioso sulle sue orme, risolve di voltargli
la fronte e prepara sul luogo stesso la sua difesa. Sulla sinistra del
fiume, dove l’acqua era più bassa, schiera una fila di piccole barche
armate di cannoni, che gli serve così di trincea galleggiante come di
ponte alla terra; nel centro áncora il _Pereira_, sulla destra colloca
la _Costitucion_, che ammarra fortemente, per impedire che la rapida
corrente la trasporti. Il nemico intanto s’avanza superiore di numero,
baldanzoso d’animo, sempre comandato dal famoso Brown, confidente
nella facilità di poter esser soccorso ad ogni passo d’armati e di
vettovaglie; mentre agli Orientali, isolati in mezzo ad un paese
nemico, nessuna speranza restava d’aiuto o rinforzo qualsiasi. Pure la
pugna non si poteva rifiutare; le circostanze la rendevano inevitabile,
e per la vita e per l’onore bisognava combattere.

A questo punto però sentiamo che lo storico dell’eroico conflitto può
essere il solo Garibaldi; e poichè il racconto fu svisato da molti, e
a noi dorrebbe l’ometterne o l’alterarne la minima parte, così lasciamo
la parola a lui stesso:

«Era il 15 agosto 1842;[74] il vento benchè debole spirava favorevole
al nemico; ma per mezzo della nostra ala sinistra, che appoggiavasi
alla stessa banda del fiume, dominavamo interamente il passo e potevamo
sbarcare una parte della nostra gente per contrastare passo a passo
il terreno al nemico e impedirgli di rifornirsi di _zavorra_.[75] Così
riuscì ai nostri di ritardare i progressi dell’avversario, il quale fu
costretto ben presto a tornare sotto alla custodia de’ suoi bastimenti.
Il maggiore Pedro Rodriguez, posto comandante alle truppe di terra, lo
stesso che si era salvato con me dal naufragio di Santa Caterina, si
comportò in questo scontro con molta prodezza ed abilità.

»Predisposti verso sera i suoi avamposti, il nemico si preparò
alla battaglia dell’indomani. Il sole non era sorto ancora, che gli
Argentini aprivano il fuoco da tutte le bocche, messe, durante la
notte antecedente, in batteria, e il combattimento durò, d’ambe le
parti col massimo accanimento, fino a notte calata. La prima vittima
caduta a bordo della _Costitucion_ fu un ufficiale italiano di nome
Giuseppe Barzone, del quale non potei prendermi cura, immerso com’era
nell’ardente tumulto della battaglia.

»Le perdite furono grandi da ambe le parti: i nostri legni erano, dal
tempestar incessante dei colpi, quasi disfatti. La corvetta mostrava
una sì enorme spaccatura, che, malgrado l’infaticabile nostro pompare e
tutti i nostri sforzi per rattopparla alla meglio, si reggeva a stento
sull’acqua. Il comandante del _Pereira_ era stato morto a terra da una
palla nemica, e in lui perdetti il migliore e più valoroso dei miei
commilitoni. Quantunque però avessimo molti morti e feriti, e il nostro
equipaggio fosse ormai sfinito, non potevamo ancora concederci alcun
riposo. Finchè ci restavano ancora a bordo polvere e palle, dovevamo
continuare a combattere, non solamente per vincere, ma, lo ripeto, per
salvare l’onore.

»Durante la notte dal 16 al 17 l’intero equipaggio fu occupato a
fabbricar cartuccie già esaurite, a frantumare le catene d’áncora per
surrogarle alle mancanti munizioni, ed a pompare l’acqua minacciante
da ogni parte. Manuele Rodriguez con un manipolo d’uomini scelti era
occupato a trasformare in brulotti alcune piccole barche mercantili,
per spingerle colla maggior quantità di materie combustibili contro il
nemico. E questo trovato riuscì bensì allo scopo d’inquietare tutta la
notte il nostro avversario, ma non potè produrre tutto il desiderato
effetto, stante la grande spossatezza della nostra gente, peggiore
nostro danno.

»Però fra tutte le avversità di quella notte infernale, nulla mi accorò
di più che l’abbandono della flottiglia di Corrientes. La componeva
una squadriglia di piccole barche, sulle quali avevo fatto grande
assegnamento, sia per risarcire le nostre perdite, sia per trasportar
viveri e feriti; la comandava un Villegas, gradasso se mai ve ne fu,
ma che al primo apparire del nemico voltò la prua, e, per quanto lo
richiamassi e l’inseguissi io stesso, non ricomparve più.

»Allora coll’animo amareggiato da quel nero tradimento che troncava
in un punto le ultime mie speranze, ma ancora deliberato a sfidare
il destino, tornai al mio bordo. L’alba non era spuntata ancora.
Dovevo combattere, e non scorgevo a me d’intorno che gente sfinita
di stanchezza; non sentiva che il gemito dei feriti. Tuttavia feci
suonare la sveglia, lasciai raccogliere la gente, e dalla poppa d’un
bastimento diressi loro alcune parole di conforto e d’incoraggiamento.
E non furono vane; un residuo di disperata energia animava tuttora
i miei compagni; un grido concorde di battaglia uscì dai loro petti;
ciascun di loro andò al suo posto. Ma, non ostante la breve illusione
di qualche vantaggio, dovevamo trovare in quel giorno la catastrofe.

»Le nostre nuove cartuccie erano di polvere scadentissima; le nostre
palle di forte calibro erano terminate e state surrogate con altre più
piccole e peggiori; cosicchè la nostra nave di diciotto cannoni, che al
primo giorno aveva tanto danneggiato il nemico, non lanciava più oramai
che deboli ed incerti colpi. Il nemico pertanto, accortosi della nostra
condizione, ridiventò tanto ardito da stendere in linea tutti i suoi
legni, ciò che non gli era riuscito il giorno precedente. Mentrechè
la sua posizione migliorava ad ogni momento, la nostra peggioravasi di
altrettanto, e seriamente dovemmo pensare alla ritirata; e non già alla
ritirata dei bastimenti, oramai impossibile, ma alla nostra personale
salvezza. A questo scopo ordinai che tanto i feriti, quanto le armi, le
munizioni ed i viveri fossero trasbordati sopra alcune piccole barche
che ancora ci erano rimaste, e quantunque la battaglia non avesse
posato un istante, e la tempesta delle bordate nemiche si andasse
facendo sempre più furiosa e micidiale, l’operazione riuscì.

»Allora, quando i feriti, le munizioni, i viveri furono in salvo, e
l’ultimo uomo fu sbarcato, e dei nostri bastimenti non restò più in
faccia al nemico che il nudo scheletro, appiccai loro io stesso la
miccia, e intanto ch’essi saltavano in aria tra un nuvolo di faville e
di fiamme, mi buttavo in salvo alla riva.»


XI.

La campagna del Paranà è una delle più gloriose di Garibaldi, e
militarmente risguardata anche più prodigiosa di quella dei _Mille_.
Lanciato con mezzi inadeguati in una impresa insensata, la fece parere,
a forza di abilità e di eroismo, quasi effettuabile. Sottrattosi
con fortuna degna del coraggio al fuoco incrociato d’una piazza
forte e d’una crociera navale, corse per cinquecento miglia, fra due
rive seminate d’insidie ed irte di nemici, e navigando per circa
due mesi sotto una tempesta incessante di mitraglie, e in mezzo a
una rete, sempre rinnovata, d’ostacoli, combattendo per aprirsi la
via, combattendo per riposare, combattendo per fornirsi di viveri:
combattendo, manovrando, correndo sempre giunse fin presso alla mèta.

E quando da ultimo, arrestato più dall’avversità degli elementi che
dall’arte dell’avversario, fu costretto ad accettare, in condizioni
disuguali, una battaglia decisiva, si difese tre giorni e tre notti;
pesto, sfracellato, decimato, continuò a combattere; coi legni
ridotti uno sfasciume, e innondati da cento bocche d’acqua, cogli
equipaggi diradati dalla strage e affranti dalla stanchezza, continuò a
combattere; malgrado il tradimento degli alleati, continuò a combattere
ancora; esaurite finalmente tutte le munizioni, gettò nelle logori
fauci de’ pochi cannoni superstiti le catene delle sue áncore, e quando
ebbe vomitato contro il nemico, certamente non superbo, l’ultimo pezzo
di ferro de’ suoi bastimenti, vi appiccò le fiamme, e non lasciò in
preda al tramortito vincitore che le ceneri d’un incendio e le acque
fumanti d’un fiume.

L’alto fatto di Nueva Cava parve degno dei più illustri fasti navali
e lo proclamarono insieme amici e nemici. Lo stesso ammiraglio Brown,
passando dopo alcuni anni da Montevideo, volle stringere la mano
all’eroe del Paranà ed esprimergli la sua ammirazione che sì giovane
d’anni avesse saputo dar prova, assieme al focoso ardimento proprio
dell’età sua, di tutte le doti de’ più provetti e consumati comandanti
di mare.

L’Italia infatti il 15 agosto 1842 aveva acquistato un ammiraglio, e
non lo seppe allora, come non lo comprese più tardi; e non le resta,
anche oggi, che mormorare melanconicamente: Oh! perchè non ebbi
quell’uomo a Lissa!

Toccando terra però il pericolo aveva mutato forma; ma non era del
tutto scomparso. Le milizie provinciali del Corrientes, che ancora
tenevano pel Rosas, si posero tosto sulle orme della piccola schiera
fuggente, e la obbligarono più volte a far testa e a difendere la
sua vita. Tuttavia di mano in mano che essa s’internava nel paese la
persecuzione rallentava, e gli avanzi di Nueva Cava poterono arrivare,
affranti bensì da una lunga marcia traverso sabbie e paduli, ma sani e
salvi, ad Esquina, cittaduzza del Corrientes in mano degl’insorti e che
poteva perciò offrir loro un temporaneo, ma sicuro asilo. E in Esquina
Garibaldi dimorò in un riposo relativo parecchi mesi, fino a che gli
giunse da Montevideo l’ordine d’incamminarsi con quanta gente poteva
raccogliere a San Francisco dell’Uruguay per congiungersi all’esercito
del Ribera, il quale, lasciato il Corrientes, si proponeva di disputare
il passaggio del fiume all’Oribe che gli marciava incontro a grandi
giornate.

Nè Garibaldi frappose indugio, e traversato da occidente ad oriente
tutto il territorio del Corrientes, e viaggiando parte per terra, parte
per acqua, giunse a San Francisco, ma non vi trovò più il Ribera.
Questi infatti ne era già partito da parecchi giorni, e aveva già
ritraversato l’Uruguay per andare a dar battaglia all’Oribe sulla
sponda sinistra: ultima follía colla quale l’antico luogotenente
dell’Artigas, sempre valoroso, ma sempre inetto, coronava la lunga
serie de’ suoi errori militari.

E invero Garibaldi non s’era ancora mosso da San Francisco, che il
Ribera aveva incontrato sull’Arojo-Grande l’esercito dell’Oribe, e ne
era stato completamente disfatto (6 novembre 1842).

Fu quella una delle giornate più nefaste del popolo orientale. Colla
disfatta del Ribera era annientato il solo esercito che potesse tenere
la campagna e fronteggiare il nemico; la Banda Orientale restava quasi
senza difesa; l’Oribe, padrone delle due rive dell’Uruguay, poteva
penetrare nel cuore del paese e correre difilato sulla capitale;
e Oribe voleva dire Rosas, cioè la perdita dell’indipendenza, il
trionfo della più nefanda tirannia, il principio delle più sanguinarie
carneficine: la _Mas-Horca_ a Montevideo.

«Il sole di dicembre (scriveva or sono pochi anni un Orientale),
sommergendo i suoi raggi nell’Oceano ci lasciò sconfitti all’esterno,
senza esercito, senza milizie, nemmeno per l’interno, senza materiale
da guerra, senza denari, senza rendite, senza credito.[76]» E il quadro
poteva dirsi lugubre, ma non esagerato. Guai se il popolo si fosse
in quei momenti accasciato e non fossero usciti dalle sue fila uomini
nuovi, capaci, se non di vincere, di arrestare l’insolente fortuna del
nemico, e di guadagnare col tempo quella vittoria morale del sacrificio
e della virtù che, tosto o tardi, riesce quasi sempre a trionfare della
brutale vittoria dell’armi!

Nè tutto, a rigore di termini, era perduto: restava ancora in piedi
Montevideo, il primo nido della patria e l’ultimo suo baluardo; ed a
Montevideo si volsero, quasi per tacito consenso, tutti gli uomini e
tutte le forze. A presidente della Repubblica viene eletto lo stesso
presidente del Senato, l’integerrimo Joachin Juares; allo screditato
Ribera subentra nel comando in capo dell’esercito il generale Paz,
valoroso Argentino, antico ufficiale del Lavalle; il Vidal cede il
portafoglio della guerra al colonnello Pacheco Y Obes, figlio di
un antico patriotta di Mercedes, generoso carattere di soldato e di
poeta che continuava ancora alla partigiana la difesa del suo natío
distretto, quando l’esercito dell’Oribe straripava da ogni parte;
finalmente Santiago Vasques per gli affari interni e stranieri,
e Francesco Muños per le finanze, componevano un Governo d’uomini
risoluti e concordi a continuare la guerra ad ogni costo, a chiudersi
nelle mura della capitale, ed a convertirla, se tanto occorreva, in una
novella Troia.

E come i propositi, apparvero tostamente energici i fatti. Montevideo
non era più dal 1833 una fortezza, chè i suoi bastioni erano stati fin
d’allora smantellati. Era però forte di natura, cinta tutta all’intorno
da una catena di _cerri_ e _cerriti_, che la proteggevano da occidente
a settentrione, mentre all’est ed al sud la guardava il mare. Il
rafforzarla perciò anche d’opere transitorie non era nè arduo nè lungo;
e a questo intese soprattutto il colonnello del Genio, Eceveria,
restaurando l’antico forte del Cerro, custode del lato occidentale
della città; elevando intorno agli altri lati un doppio ordine di
trincee; munendo infine il porto del Buceo di opere che lo tutelassero
da un assalto improvviso. Nello stesso tempo il ministro Pacheco
bandiva la leva in massa; decretava la libertà degli schiavi e li
armava; concentrava nella capitale tutte le milizie sparse all’intorno,
lasciando al Ribera poche bande e pochi squadroni con cui batter la
campagna; chiamava Garibaldi, quasi dimenticato a San Francisco, e gli
affidava l’ordinamento e il comando d’una nuova flottiglia; proclamava
la patria in pericolo; trasfondeva in tutto il popolo il suo eroico
spirito.

Stando così le cose, l’Oribe, ritardato nella sua marcia dalla ostinata
resistenza dei distretti, compariva il 16 febbraio 1843 innanzi a
Montevideo. Lo precedeva la fama di antichi e nuovi massacri; lo
accompagnava un esercito di circa quattordicimila uomini; lo seguiva
poco dopo un feroce proclama, con cui annunziava: non avrebbe dato
quartiere a nessuno, tratterebbe come selvaggio unitario ogni straniero
sospetto di favorire i ribelli. Gli animi però all’accostarsi del
pericolo rimbalzarono anche più forti; e il proclama dell’Oribe,
il quale, a detta dell’inglese ammiraglio Parvis, «avrebbe fatto
vergognare gli stessi selvaggi,[77]» anzichè intimidire gli stranieri,
non fece che eccitare il loro sdegno, e persuaderli anche più della
necessità di accettare la spavalda disfida e di rintuzzare colle armi
la brutale minaccia. Ond’ecco al manifesto del proconsole di Rosas
ordinarsi prima in legione i Francesi; poi rispondere un manifesto
dello stesso Garibaldi, col quale invita tutti gli Italiani a prender
le armi in difesa della loro seconda patria d’esiglio. E poichè la
causa di Montevideo era causa comune a tutta la colonia straniera,
gli uomini di cuore per sentimento di gratitudine alla terra che li
ospitava, i ricchi e gli agiati per benintesa sollecitudine dei loro
interessi, gli spiantati e gli avventurieri per vaghezza di fortuna o
bisogno di guadagno, tutti favorivano, qual più qual meno, un’impresa,
in cui ciascuno giocava una posta e scorgeva la compiacenza d’un
affetto, o la speranza d’un affare. Tre legioni straniere di Francesi,
di Spagnuoli, d’Italiani si organizzarono tosto. La spagnuola, composta
in gran parte di Carlisti, disertò pochi mesi dopo al fraterno campo
dell’Oribe, e non importa discorrerne più.

La francese, grossa in sulle prime di duemila cinquecento uomini,
passò al comando del colonnello Thiebaud. L’italiana non più forte, da
principio, di cinquecento volontari, ebbe per comandante, suggerito da
Garibaldi stesso, un certo Mancini, e per maggiori dei due battaglioni,
in cui era stata divisa, i piemontesi Ramella e Danuzio, antichi
sott’ufficiali dell’esercito sardo.

L’Oribe frattanto aveva continuato a stringere la piazza, ed occupato
con un colpo di mano il Cerrito, centro de’ contrafforti che girano
intorno a Montevideo, spingeva i suoi posti avanzati fin sotto
al Cerro, la chiave delle posizioni, la Malakoff, si direbbe, se
Montevideo potesse uguagliarsi a Sebastopoli. Tuttavia nelle sue prime
mosse fu lento ed incerto; spese le forze in vane dimostrazioni e
sterili schermaglie, dando così tempo agli assediati di agguerrire le
genti e di perfezionare la difesa.

In una però di quelle scaramuccie la Legione italiana fece mala
prova; presa da un timor pánico voltò alle prime fucilate le spalle,
rientrando in Montevideo fra le risate del popolo, che si credeva ormai
in diritto di farsi beffa del decantato valore italiano. Ne moriva
di vergogna, per usare l’espressione sua, Garibaldi, e cedendo alle
istanze degli stessi Italiani, i quali dicevano: «Con Garibaldi, se
non si vince si muore onorati,» risolvette di prendere egli stesso il
comando della Legione, conservando però nel tempo medesimo il governo
della flottiglia.


XII.

E naturalmente la Legione non tardò a sentire l’impulso della nuova
mano che la dirigeva. Il 28 marzo 1843 fu ordinata una sortita, che
aveva per iscopo di arrestare l’avanzarsi degli assedianti verso il
Cerro, e la Legione italiana, di turno in quel giorno agli avamposti,
ne fece necessariamente parte. Comandava la spedizione il vecchio
generale Panza, bravo soldato un tempo, ma infiacchito dagli anni,
il quale giunto in faccia al nemico cominciò a perdersi in manovre
ed andirivieni senza mai decidersi a muovere innanzi, e a cominciare
da qualche banda l’azione. Garibaldi non tardò molto ad infastidirsi
di quel vano temporeggiare, e si provò anche a suggerire al suo
impacciato generale il come e il dove dell’assalto; ma il brav’uomo non
aveva orecchi per siffatti consigli e avrebbe continuato, Dio sa fin
quando, a girovagare e tentennare, se non fosse sopraggiunto a tempo
il generale Pacheco a far sentire l’impero del suo comando, e a dar
all’opera il moto desiderato.

La più forte posizione degli Oribeani era l’ala destra, dove occupavano
un’altura protetta da largo fossato che poteva servire di trincera, e
guardata più innanzi da una casa che poteva dirsi un avamposto.

Garibaldi scorse subito che là era la chiave delle posizioni nemiche,
e l’accennò al Pacheco; il quale, consentito tostamente nel giudizio
del colonnello italiano, volle anche affidare a lui e alla sua Legione
l’onore di sloggiare dalla minacciosa postura il nemico.

Garibaldi non se lo fece ripetere due volte; ordinata in colonna
serrata la Legione, le si pone alla testa e le dice queste sole parole:
«Bisogna andare a baionetta calata, senza tirare un colpo, a quella
casa; seguitemi.» E la Legione va; e calma, silenziosa, ordinata, senza
rispondere un colpo alla grandine delle palle nemiche, senza balenare
un istante, va come il colonnello aveva ordinato, e s’impossessa della
casa.

Ed ora, dice Garibaldi, dopo aver lasciato qualche momento di riposo,
bisogna andare di nuovo e allo stesso modo anche a quella fossa; e la
Legione va come prima, come prima supera il vallo infuocato e lo bagna
del sangue de’ suoi migliori, arriva, come Garibaldi aveva voluto, al
ciglio della fossa, e già sta per toccar colla baionetta il nemico,
quando questo, sbalordito dal nuovo e furioso assalto, dà le spalle,
volta in precipitosa fuga, e inseguíto colla punta alle reni ricorre
fino a’ suoi trinceramenti.

Il fatto d’arme non aveva per sè importanza alcuna; ma aveva rianimato
lo spirito dei legionari e reintegrato il loro credito nell’animo de’
Montevideani. Tornata la Legione a Montevideo, il ministro Pacheco
la passò all’indomani in rassegna sulla piazza della Matriz, e la
ringraziò del suo valore e la rimeritò de’ più caldi elogi; il cui
suono echeggiato dalle grida di trionfo, dalle salve di battimani della
popolazione, scese sul cuore di Garibaldi come la musica più dolce
ch’egli potesse ascoltare, come il maggior premio a cui potesse ambire.

Da quel giorno il Cerro fu chiamato il Campo afortunado, e più tardi
la Legione fu presentata della sua bandiera: un drappo nero dipinto
del Vesuvio in eruzione; emblema della rivoluzione fremente nel seno
d’Italia, di cui Gaetano Sacchi, quel medesimo che oggi comanda un
corpo dell’esercito italiano, fu il primo alfiere.

Ciò non ostante la Legione covava alcuni germi di corruzione, che
urgeva assolutamente sradicare. E che in un’accolta così improvvisata
d’uomini raunaticci si fosse insinuato alcuno de’ tanti elementi
impuri che sono il portato naturale di tutte le emigrazioni e di tutte
le rivoluzioni, non è meraviglia. Il Mancini, per esempio, s’era
manifestato inetto, il Ramella pusillanime, alcuni altri ufficiali
s’erano imbrattati di laide concussioni; non pochi militi avevano
mostrato di amare più il ladroneggio ed il bottino, che le armi e le
battaglie. Garibaldi dall’altra parte fidente ed ingenuo di natura, ed
occupato più spesso dalle cure della sua flottiglia, non aveva potuto
in sulle prime nè tutto vedere, nè tutto riparare. Però non volendo
sopportare più oltre uno stato di cose che poteva riuscire di disdoro
a lui stesso, pensò di affidare la Legione alle mani d’un uomo onesto
e sicuro che potesse sorvegliarla da vicino e sbrattarla dalle male
erbe che la infestavano. Risolvette quindi di scrivere a quel Francesco
Anzani che aveva incontrato sull’Uruguay nel suo viaggio a Montevideo,
e nel quale aveva scoperto fin d’allora tutte le qualità convenienti
all’ufficio a cui lo destinava.

Francesco Anzani infatti, brianzuolo d’origine,[78] proscritto
d’Italia dalle persecuzioni del 1821, combattente delle guerre e delle
rivoluzioni di Grecia, di Spagna, di Portogallo, di Francia, vissuto
più anni in America in un onorato esiglio, accoppiava in sè le più
splendide doti del soldato alle più rare virtù dell’uomo, ed a giudizio
universale, se pareggiava Garibaldi in gagliardía ed eroismo, lo
superava di senno e di prudenza e non gli era forse inferiore che di
fortuna. L’Anzani pertanto non seppe rifiutare l’invito dell’amico; e
arrivato nel luglio del 1842 a Montevideo, vi assunse tosto il comando
in secondo della Legione. Nè questa tardò a sentire l’influsso del suo
occhio vigilante e del suo regime severo. I concussionari furono ben
presto messi a dovere; i ladri ed i vigliacchi sfrattati; i maggiori
disordini repressi.

Ciò non ostante tutto il marcio non potè essere in un subito espulso;
e, compresso, per dir così, dalla mano gagliarda del nuovo comandante,
si nascose per scoppiare più tardi. Infatti poco dopo l’arrivo
dell’Anzani si susurrò d’una congiura, che aveva per iscopo di uccidere
lui e Garibaldi, e di vendere all’Oribe la Legione italiana; e poche
mattine dopo si udì che una mano di cinquanta legionari, guidati
da due ufficiali,[79] erano passati, disertando dagli avamposti, al
nemico, con perpetua ignominia loro, ma senza produrre altro effetto,
come disse l’Anzani, che di purgare più presto la Legione della lue
che l’infettava. Così purificata e riordinata, la Legione italiana
fu pronta a nuovi e maggiori cimenti. Ogni due giorni di servizio
alle trincere ed ogni otto di presidio al Cerro, era naturale che le
occasioni di segnalarsi le si presentassero di frequente, e che in
quella palestra quasi quotidiana s’agguerrisse sempre più.


XIII.

Il 28 novembre 1843, agli avamposti di Las Cruces, il colonnello
Nera, accostatosi di troppo alle linee nemiche, è colpito da una
palla mortale e cade in potere degli Oribeani. Garibaldi si pone alla
testa di alcune compagnie della Legione e si precipita sul nemico per
strappargli la nobile preda; una mischia corpo a corpo s’accende: da un
lato la Legione corre in aiuto de’ suoi; dall’altro nuovi corpi nemici
giungono in rinforzo di loro; la zuffa si muta in vero combattimento;
la Legione tocca gravi perdite, ma il nemico è scacciato dalle sue
posizioni e il corpo del colonnello Nera è ricuperato.[80] In quel
fatto d’armi però si potranno lodare la generosità dell’intento e le
prodezze de’ combattenti, ma non altrettanto la prudenza del capo. Come
d’un altro celebre eroismo si potrebbe dire anche di questo: «tuttociò
è bello, ma non è la guerra;» e Garibaldi stesso divenuto maestro di
guerra consentirà non essere lecito a buon capitano provocare, per
sola pompa di coraggio o impeto di generosità, un combattimento, di
cui non è prevedibile la fine e può trascinare nel conflitto, contro
ogni volontà ed aspettazione dei capi, l’intero esercito, e fors’anco
comprometterne le sorti.

Meritevole invece d’incondizionata ammirazione è il fatto della Boyada
avvenuto il 24 aprile 1844. Il Ribera con alcune migliaia di cavalieri
correva sempre la campagna, sforzandosi a tener in iscacco l’Urquiza
e ad impedirgli di congiungersi all’esercito dell’Oribe. Ora questi
decise, secondo noi a sproposito, di dar un ultimo colpo al suo antico
avversario, staccando contro di esso una parte delle truppe d’assedio
con lo scopo d’assalirlo alle spalle, intanto che l’Urquiza l’avrebbe
battuto di fronte. Trapelò tuttavia fra gli assediati la mossa del
nemico, e si prepararono ad approfittarne andando ad assalire lui
stesso ne’ suoi accampamenti.

Fermato pertanto il concetto, i generali Paz e Pacheco concordarono
così il modo d’esecuzione: sortire col presidio del Cerro e attaccare
il corpo d’osservazione nemico, e intanto che l’attenzione e le
forze degli Oribeani sarebbero attirate da quella banda, assalire
colla guarnigione di Montevideo il campo del Cerrito, centro, come è
noto, delle forze assedianti. E il disegno era buono, ma richiedeva
precisione, accordo, prontezza, qualità tutte che alla prova fallirono.
Infatti nel momento che il presidio del Cerro doveva sortire, una
disputa insorse fra i due ufficiali, che non sappiamo per quale ragione
comandavano assieme il forte, onde ritardato, anzi fallito l’attacco di
fianco, l’Oribe si trovò in grado non solo di ributtar l’assalto degli
avversari, ma di riassalirli egli stesso con tutte le sue forze. Da
ciò conseguì facilmente che quella, che poteva essere ai Montevideani
sicura vittoria, si mutò in sconfitta, la quale sarebbe anco divenuta
totale disfatta, se la retroguardia non fosse stata commessa alla
Legione italiana, e Garibaldi e l’Anzani non l’avessero comandata.

Fra il Cerrito ed il Cerro corre tra due rive fangose un rio melmoso,
detto la Boyada, che i fuggenti dovevano a forza attraversare, e
contro il quale perciò gli Oribeani avevano piantato una batteria e
diretto tutto il fuoco delle loro moschetterie. Oltre a ciò, quasi alle
spalle di questa pericolosissima linea di ritirata, sorgeva un vecchio
edificio, chiamato il Saladero, di cui gli Oribeani avevano subito
apprezzato l’importanza e verso il quale s’erano già incamminati a
passo di corsa.

Garibaldi indovinò subito il doppio pericolo di siffatta posizione,
ma non ondeggiò un istante, e col suo nativo colpo d’occhio vide
immantinente il da farsi. Prese alcune compagnie della Legione e
rinfiancatele d’alcune squadre di negri, le dispone, col fango fino
al ginocchio, lungo la Boyada, ingiungendo loro di aspettare il nemico
a piè fermo e di non colpirlo che a bruciapelo, mentr’egli coll’altra
parte della Legione si lancia a testa bassa contro il Saladero, dove
già stava per entrare il nemico, e d’onde lo scaccia colle baionette
alle reni. Da quel momento la via della ritirata potè dirsi franca.
L’esercito montevideano, protetto dalla trincea vivente della sua
intrepida retroguardia, sfila in salvo fin sotto i bastioni del Cerro;
il nemico, tentato invano di sfondare colle mitraglie il baluardo
di petti umani che gli contrasta il passo, si arresta; e la Legione
italiana, pesta, sanguinosa, scemata, tra morti e feriti, di ben
sessanta combattenti, ma balda ed ordinata, entra in Montevideo, dove
fa risuonare novellamente fra grida di ammirazione e di riconoscenza il
nome italiano.


XIV.

Le cose dell’assedio procedevano, sebbene a rilento, piuttosto
seconde agli assediati; quando ai primi di giugno del 1844 accadde
un fatto, che attirò su Montevideo un nuovo pericolo, e rischiò di
comprometterne le sorti. Fra gli equipaggi della piccola flottiglia,
sempre comandata da Garibaldi, s’erano infiltrati, ad insaputa sua,
due disertori dell’esercito brasiliano, onde il Governo di Rio
Janeiro ordinò al comandante la squadra imperiale nella Plata di
reclamarne l’estradizione. L’ammiraglio brasiliano però in luogo
di rivolgere la sua domanda al Governo di Montevideo, come era suo
debito, andò ad ancorarsi a un tiro di pistola dalla squadriglia
orientale, intimando minacciosamente a Garibaldi la consegna dei due
fuggitivi. Aveva trovato, come suol dirsi, il suo uomo. Garibaldi
per risposta fece chiamare un mozzo e in pretto genovese gli disse:
«Inchiodami questa bandiera alla punta dell’albero di maestra, e poi
vediamo chi ce la farà abbassare!» Ne sorse naturalmente un litigio
diplomatico, che poteva in seguito rompere in aperto conflitto. Il
ministro Pacheco, geloso dell’onore nazionale, stava per respingere la
violenta intimazione e ribattere, occorrendo, la forza colla forza; gli
altri suoi colleghi del Governo, timorosi di aggravare con una nuova
inimicizia la situazione già tanto critica della patria, inclinavano
alla sommissione, e deliberavano collegialmente di acconsentire alla
domanda. Al Pacheco pertanto fu mestieri piegare il capo e dar egli
stesso l’ordine della estradizione dei due disertori, ma nello stesso
tempo rassegnò il suo ufficio di ministro della guerra e si ritrasse a
Rio Janeiro.

Nessuno però vorrà credere che soltanto il dissidio per l’affare
brasiliano sia stato la cagione della sua rinuncia. Quello ne fu
tutt’al più l’occasione; le cause vere risalivano più in alto e
più lontane. Il Ribera non aveva mai saputo rassegnarsi a fare in
quella guerra, quasi combattuta per cagion sua, la seconda parte,
e copertamente per mezzo di molti aderenti che gli restavano in
Montevideo, minava il Governo in cui vedeva quasi un usurpatore de’
suoi diritti, e specialmente il generale Pacheco, rivale tanto più
invidiato, quanto più glorioso. E come dal canto suo il Pacheco colla
severità del suo carattere e il rigore del suo governo aveva offesi non
pochi, quali nella vanità, quali nell’interesse, ed ingrossato perciò
di rancori volgari lo stuolo degli odii politici; così in capo a due
anni di gloriosi servigi resi alla patria dovette avvedersi che il
solo modo di giovarle ancora era di risparmiarle la guerra civile e di
allontanarsi.

Colla sua partenza l’anima stessa della difesa di Montevideo venne
meno. Il nemico non fece alcun notabile progresso; ma la cronaca
delle brillanti sortite si chiuse, l’entusiasmo popolare raffreddò,
la discordia dei partiti rinacque ed il Governo si chiarì impotente a
contenerla.


XV.

A tale essendo le cose nella capitale, giunse dalle campagne l’annunzio
di un irreparabile disastro.

L’esercito del Ribera, se tale poteva dirsi un’accozzaglia di uomini
e cavalli, accodata, come le orde barbariche, da interminabili file di
carri carichi di donne e di fanciulli, sorpreso dall’Urquiza ad India
Muerta era stato il 24 marzo 1845 completamente disfatto e costretto a
rifugiarsi co’ suoi laceri avanzi nel Brasile. Il colpo era fiero, ma
forse nelle sue conseguenze meno esiziale di quel che poteva temersi.
La battaglia d’India Muerta pose, è vero, tutte le campagne in balía
del Rosas e aperse all’Urquiza le vie della capitale; ma in compenso
paralizzò, almeno per qualche tempo, l’influenza del Ribera, produsse
il richiamo del Pacheco, ravvivò il semispento ardore dei Montevideani,
affrettò l’intervento delle Potenze straniere.

Per la sola presenza del Pacheco la difesa riprese l’antico vigore. Il
27 maggio 1845 era ordinata una nuova sortita contro l’ala nemica in
osservazione al Cerro; gli Oribeani caduti da un lato in una imboscata
della Legione italiana, assaliti dall’altro vigorosamente dalla
guarnigione, eran volti in precipitosa fuga, salvi soltanto da completa
disfatta pel propizio scoppiare d’un uragano che sospese la battaglia.

Garibaldi dal canto suo, che partecipava col Pacheco alla direzione
superiore della difesa, ideava altri colpi di mano col suo piccolo
naviglio, ed alcuni ne tentava. Un giorno proponeva d’imbarcare sulla
flottiglia la Legione, di sbarcare di notte a Buenos-Ayres e rapirvi il
Rosas; e se il Governo avesse consentito alla temeraria proposta, era
uomo da eseguirla. Spesse volte si trastullava a catturare, sotto gli
occhi dell’ammiraglio Brown, qualche legno mercantile, o ad inquietare
con assalti notturni la squadra nemica. Un mattino finalmente esce
a vele spiegate con tre de’ migliori suoi legni, e va a sfidare nel
suo ancoraggio la squadra del Rosas, composta di tre grossi navigli e
armata di quarantaquattro pezzi. L’annunzio dell’audace disfida mette
in moto tutta la popolazione di Montevideo; le terrazze delle case,
gli alberi dei bastimenti sono coperti di spettatori. Garibaldi è già
arrivato a portata de’ cannoni del nemico, e tutti attendono trepidi ed
impazienti il cominciare del navale duello, quando l’ammiraglio Brown
giudica più prudente voltare la prua e prendere il mare.

Ma nè questa, nè altre tali prodezze, nè le frequenti, ma piccole e
parziali fortune degli assediati avrebbero potuto salvare a lungo la
città dall’inevitabile caduta, se la Francia e l’Inghilterra non si
fossero decise ad intervenire a favore di Montevideo, intimando al
Rosas lo sgombro della Banda Orientale. E le obbligavano al passo
energico il sentimento dell’umanità e della giustizia; la perfidia
del Rosas, sfacciatamente fedifrago a tutti i patti promessi; la
cura dei molti interessi che i loro nazionali avevano sulla Plata; la
indipendenza della Repubblica orientale da esse medesime guarentita.

Non per questo il dittatore di Buenos-Ayres si lasciò intimidire.
Dopo aver traccheggiato due mesi deludendo uno dopo l’altro cinque
_ultimatum_, rispose infine che rifiutava ogni concessione, e
s’apparecchiò nuovamente a sostenere il suo potere coll’armi. Ed è
allora soltanto che la squadra anglo-francese, ricevuto l’ordine di
usare la forza, corre spazzando d’ogni nave argentina il Plata ed il
Paranà; sbaraglia la squadra del dittatore a Obligado e lo blocca nella
sua capitale (agosto 1845).

Ed è allora altresì che il Governo di Montevideo rinasce alla speranza
di poter riavere un esercito di campagna che lo aiuti a combattere gli
assedianti, e che trovando libero ormai l’Estuario da ogni nave nemica,
ordina a Garibaldi di risalire colla sua flottiglia e parte della
Legione la Plata e di entrare nell’Uruguay col doppio fine di ravvivare
l’insurrezione nei distretti, e di dar la mano ai dispersi avanzi
dell’esercito del Ribera rifugiati nel Brasile.

Garibaldi, lieto di tornare al suo doppio ufficio di capitano di
terra e di mare, mosse, senza indugiarsi, all’impresa. S’impadronì
facilmente, e senza colpo ferire, di Colonia, di Martin Garcia, di
Mercedes; passò intrepido sotto le batterie di Paysandu, respinse
un attacco del generale Lavalleja[81] all’Hervidero, sorprese
Gualeguaychu, dove catturò il famoso Millan suo torturatore; infine
arrivò al Salto, luogo forte sulla sinistra dell’Uruguay, distante
dodici leghe soltanto dalla frontiera brasiliana, il cui nome
corrisponde al nostro di _cateratta_, e dove il fiume perciò non è
più navigabile che alle piccole barche. Colà stabilì il suo quartier
generale, si fortificò, mandò avviso del suo arrivo ai rifugiati del
Brasile, scacciò dal Tapevi, affluente dell’Uruguay, le truppe del
Lavalleja, e si assicurò così i fianchi e le spalle; quindi (il 5
decembre 1845) assalito egli stesso al Salto dal generale Urquiza,
che spavaldamente andava dicendo di non aver di fronte che «cuori di
polli,» lo costrinse a dar le spalle vergognosamente e a ripassare
l’Uruguay pesto e malconcio.

Frattanto i rinforzi attesi andavano arrivando; il colonnello Baez
era già entrato nel Salto con duecento cavalli; il 7 febbraio 1846 il
generale montevideano, Anacleto Medina, spediva un messo a Garibaldi
per avvisarlo che il giorno susseguente si sarebbe riunito a lui
con circa cinquecento uomini di cavalleria, male armati e peggio
equipaggiati; richiedendolo nel tempo stesso di notizie sulle posizioni
e sulle forze del nemico e d’aiuti in caso di bisogno. Garibaldi mandò
a rispondere che all’indomani si sarebbe trovato con un rinforzo sulle
alture del Tapevi, presso il quale appunto il Medina doveva passare;
e come promise eseguì. Soltanto gli esploratori avendolo assicurato
che il nemico campeggiante ne’ dintorni del Tapevi non era più forte
di quattrocento uomini, stimò più che bastevole uscir con sole quattro
compagnie della Legione, e duecento cavalieri del Baez, lasciando il
resto sotto gli ordini dell’Anzani alla guardia del Salto.

E da questo punto comincia la prima fase di quella giornata di
Sant’Antonio, che fu la più gloriosa di quante la Legione italiana
abbia combattute; la sola che abbia riecheggiato in Europa; la prima
che abbia fatto sapere all’Italia, quasi disavvezza alle armi, che di
là dall’Oceano v’era una mano di fratelli italiani che sapeva ancora
trattarle, e cresceva un Capitano prodigioso serbato forse a rinnovare
nella terra nativa i miracoli che lo rendevano famoso sui campi
stranieri.

E poichè di tanti racconti letti od uditi dell’epico gesto, il più
schietto, il più semplice, il più compiuto insieme ci parve quello
fornitoci dal generale Sacchi, così affidiamo a lui, testimonio ed
attore del fatto, l’ufficio di celebrarlo.[82]


XVI.

«Nella mattina, dalle 8 alle 9 e mezza, sortiva Garibaldi dal paese,
alla testa di circa centonovanta soldati italiani, divisi in quattro
piccole compagnie, e circa duecento cavalieri comandati dal colonnello
Baez che da pochi giorni s’era a noi riunito. Costeggiando la sinistra
dell’Uruguay un po’ prima delle 12, si arrivò alle alture del Tapevi,
fiancheggiati sempre dal nemico che fu tenuto in soggezione dalle
nostre catene di cacciatori.

La fanteria prese posizione sotto tettoie di paglia (_taperas_), che
altro vantaggio non ci offrivano fuorchè ripararci dai cocenti raggi
del sole; la cavalleria si spinse fino al Tapevi in esplorazione.
Una mezz’ora si passò senza nessuna dimostrazione ostile per parte
del nemico: ma questo da tempo covava un inganno e ci aveva tratti
nell’agguato, occultando accuratamente le sue forze nei boschi del
Tapevi per trarci all’aperta campagna onde ottener ciò che non gli
fu mai dato sotto la protezione della nostra batteria. La nostra
cavalleria fu attaccata da forze molto superiori e travolta verso la
parte nostra; Garibaldi precedeva tutti nella corsa, ed arrivato a
noi ci dirigeva queste parole: — I nemici son molti, ma per noi son
pochi ancora, non è vero? Italiani, questo sarà un giorno di gloria pel
nostro paese; non fate fuoco se non a bruciapelo! —

Grandi masse di cavalleria si avanzano intanto su di noi, e per poco
ci lusingammo di aver a fare con sola cavalleria; ma fummo ben presto
disingannati nel veder scender dalla groppa dei cavalli i fanti, ed
ordinarsi in numero di circa trecento: mille e più erano i cavalieri,
tutti sotto il comando del generale Servando Gomez. Le nostre piccole
compagnie furono ordinate in battaglia sotto le tettoie per trar
profitto di una scarica generale e caricar quindi alla baionetta; la
cavalleria si tenne pronta ad agire ove più occorresse. La fanteria
nemica ci assaliva di fronte; la cavalleria ci prendeva ai fianchi
ed alle spalle; ma quando la fanteria fu a trenta passi da noi,
l’accogliemmo con una scarica così concorde e aggiustata, che s’arrestò
di botto; e poichè anche il suo comandante era caduto da cavallo, lo
scompiglio del nemico crebbe a tal segno, che noi pensammo di trarne
profitto immediatamente. E ben n’era tempo, perchè anche la cavalleria
ci era sopra e pochi istanti di titubanza ci potevano riuscir fatali.
Dietro l’esempio e la voce di Garibaldi, ci scagliammo dunque sulla
fanteria impegnando una lotta corpo a corpo, che terminò colla quasi
totale distruzione sua. Ed anco la nostra cavalleria ci giovò in quel
frangente, divergendo da noi una parte delle truppe nemiche e caricando
forze tre volte superiori quando già stavan per piombare su noi; se non
che avviluppata dal numero fu costretta a cercar la propria salvezza
nella velocità dei cavalli, e così restammo soli sul campo! Diciassette
soltanto preferirono divider le nostre sorti; voltata la briglia,
s’apersero un cammino fra il nemico, e lasciando i cavalli vennero a
combattere con noi; il restante continuò la sua rapida corsa verso il
paese, traendo dietro a sè un buon nucleo di forza che gli inseguiva
facendone macello. Fu un bene per noi la diversione di una parte delle
forze nemiche nel momento più critico, sebbene l’abbandono dei nostri
cavalieri ci abbia grandemente addolorati.

Troppo lungo sarebbe l’enumerare tutte le valorose azioni individuali,
di cui fecero mostra gl’Italiani in quel giorno; la lotta colla
fanteria durò circa venti minuti e pochi fanti nemici scamparono alla
morte. Era dolorosa necessità il dovere uccidere solo per scemare il
numero dei nemici, ma la nostra salvezza dipendeva dalla distruzione
della fanteria; altra speranza per noi non vi era, avendosi a che fare
con un nemico che non dava quartiere. L’anima di Garibaldi era trasfusa
in tutti noi; ove appariva Garibaldi si centuplicavano le nostre forze,
ed egli era dappertutto; in tutti i gruppi la sua voce confortatrice,
il suo esempio rincoravano, rianimavano quasi gli estinti, perchè furon
veduti giovani, coperti di otto o dieci ferite da taglio, combattere
senza posa quasi fossero ancora sani e robusti, e spirare appena
terminata la lotta.

La cavalleria nemica fu spettatrice della distruzione della propria
fanteria, senza potervi porre riparo; i suoi ripetuti assalti
furono sempre respinti dai nostri, che in un attimo si aggruppavano
ed obbligavano interi squadroni a dar volta, lasciando il terreno
seminato di cadaveri. Fra i tanti un solo esempio citerò di valore
pressochè feroce, di cui fui testimonio. Un trombetto, giovane appena
di quindici anni, piccolo, tarchiato, rosso di capelli, che durante
il combattimento ci aveva continuamente animato coi suoni della sua
cornetta, fu da un cavaliere nemico ferito di vari colpi di lancia.
Allora gittar la cornetta, sguainare il coltello e avventarsi contro
il feritore fu un punto. Indarno questi tentava liberarsene spingendo
a carriera il cavallo; il prode trombetto, avviticchiato alla gamba
destra del suo nemico, l’andava percotendo con furiosi colpi di
coltello; fino a che lo vidi io stesso abbandonar la sua preda e cader
col capo spaccato da un fendente. Nel tempo stesso però il cavaliere
precipitava a sua volta trapassato da una palla de’ nostri; ed
esaminandone dopo il combattimento il cadavere gli trovai io stesso la
gamba lacerata da parecchie pugnalate, e coll’impronta dei denti del
giovinetto.

Distrutta la fanteria, restammo padroni del campo; il nemico si ritirò
a rispettosa distanza atterrito dalla nostra difesa; non abbandonò
però il pensiero di considerarci come cosa sua, e dispose tutta la sua
cavalleria, una metà della quale era armata di carabina, all’intorno
del nostro campo, sicuro che la fame e la mancanza di munizioni
ci avrebbero costretti alla resa! Cessato il combattere, emozioni
ben diverse dalle già provate subentravano nel nostro animo! In un
ristretto spazio di terreno giaceva una quantità di corpi estinti od
agonizzanti, amici e nemici confusi in uno! Ci straziava l’animo la
voce degli agonizzanti che chiedevan acqua e non se ne aveva una sola
goccia. E questo bisogno era sentito da tutti; a tutti la febbre,
prodotta dall’agitazione del combattere e dai cocentissimi raggi del
sole, ardeva le viscere; per una goccia d’acqua molti avrebbero data
la vita; basti che alcuni supplirono alla mancanza bevendo le orine che
raccoglievano nelle scarpe.

La nostra posizione era ben critica: scemati di numero; feriti la
maggior parte dei superstiti; circondati da un nemico imponente e
minaccioso; la nostra energia era pressochè esaurita. In molti dei
nostri alla forza d’animo mostrata nel combattimento era subentrata
un’apatica noncuranza per tutto ciò che accadeva loro d’attorno;
parecchi si gettavano al suolo nella speranza di non più rialzarsi....
guai a noi se il nemico ci avesse attaccati un’altra volta in quei
momenti! La grandezza d’animo di Garibaldi rifulse in quell’occasione
di tutta la sua più pura luce! Per lui si operarono prodigi
combattendo; a lui era serbato rialzare gli animi abbattuti dopo il
combattimento, e vi riescì. Colla solita sua facondia amorevole ed
insinuatrice, ci fece un quadro della nostra situazione; ci persuase
di quanto allora più che mai era necessario, il conservare la fortezza
d’animo che ci aveva animati dapprima onde uscire dalla scabrosa
posizione; parlò della certezza di una ritirata appena potesse essere
protetta dall’oscurità; della gloria che ne ridondava all’Italia ed
a noi pei fatti di quel giorno; finalmente tanto disse, che tutti si
sentirono un’altra volta animati dall’alito di quell’uomo, a cui i
destini serbano per certo le più grandi azioni a pro del suo paese!
Con mucchi di cadaveri d’uomini e cavalli si formò una trincera di
riparo alle moleste palle del nemico, ed in quella posizione si attese
la notte, usufruttuando il tempo a sollevare e curare, per quanto ci
fu possibile, i nostri feriti; ed alle bende e filaccie supplirono le
nostre camicie! Si parlò a lungo dei fatti della giornata, e qualche
volta la voce di Garibaldi intuonava l’inno nazionale uruguaiano, a cui
facevano eco le voci di tutti, non esclusi i feriti.[83]

Era tanto il terrore del nemico, che i suoi capi non riuscirono
a condurlo all’attacco una seconda volta, sebbene lo tentassero
ripetutamente. Più volte vedemmo radunarsi gli squadroni e muover verso
di noi; ma al primo nostro fuoco dar volta, non ostante la voce dei
loro capi e le piattonate che loro piovevano sulle spalle.

Il nemico tentò pure di farci accettare un parlamentario, ma non ci
riuscì.... ci avrebbe portate condizioni di resa, e di renderci non
ne volevamo sapere. A un certo punto un cavaliere nemico ben montato
si spinse audacemente fin presso il nostro campo, e passando come il
fulmine fra l’una e l’altra tettoia da noi occupata tentò gettarvi un
tizzone acceso per incendiarla. Il colpo gli fallì; ma l’audace ebbe
salva la vita soltanto per la generosità di Garibaldi, che gridò a noi:
_Non fate fuoco su quel bravo_.

Dal canto nostro si economizzava la munizione per la ritirata e non si
faceva fuoco che a colpo sicuro. Le ore di aspettazione furono secoli,
principalmente pei poveri feriti; ma finalmente venne la desiderata
oscurità; taluni de’ nostri inviati, strisciando sul terreno, verso il
nemico, ritornarono col grato avviso che solo alcune vedette rimanevano
a cavallo, e che il rimanente se ne stava coi cavalli a pascolo:
bisogno a cui non avevan potuto attendere in tutto il giorno. Ad un
miglio circa da noi avevamo il bosco che costeggia l’Uruguay, porto di
salute al quale tante volte nel giorno avevamo rivolti gli occhi e che
l’indolenza o l’ignoranza del nemico, sicuro ormai della sua preda, ci
lasciava aperto.

In gran silenzio si formò una piccola colonna; i feriti atti a
camminare nel mezzo, gl’impotenti sulle spalle, meno due che, doloroso
il dirlo, dovemmo abbandonare agonizzanti ed impotenti affatto ad
essere trasportati!... Ad un dato segnale si partì compatti, a passo
accelerato, decisi a tutto; presimo la direzione del bosco e passammo
silenziosi in mezzo al nemico, che stupefatto del nostro ordine, senza
opporre resistenza, ci lasciò libero il varco, e prima ch’egli si
fosse riavuto, avesse messo le briglie a’ cavalli, e si fosse posto
a inseguirci, noi avevamo già guadagnato il bosco. Una truppa meno
affezionata al suo capo, meno agguerrita, dopo una giornata così
disastrosa, arsa dalla sete, si sarebbe sbandata appena giunta al
bosco, cercando la propria salvezza individuale ed il soddisfacimento
di quel possente bisogno che fu il nostro martirio in tutta la
giornata; poche parole che Garibaldi preventivamente ci aveva diretto
ovviarono a quello inconveniente; nessuno si sbandò, nessuno corse a
dissetarsi al fiume, bensì, ubbidienti all’ordine, tutti si gettarono a
terra distesi in una lunga catena e in attesa, silenziosi, del nemico,
che non molto si fece attendere. Il suono delle sue trombe ci avvisò
del suo avvicinarsi, e poco stante comparvero i suoi squadroni, che
noi, silenziosi sempre e nascosti, attendemmo fino alla distanza di
venti passi circa per indi salutarli con una salva che li colpì nel più
fitto e riescì micidialissima, mettendoli in scompiglio e persuadendoli
a dar volta a briglia sciolta!

Un grido di Garibaldi allora ci avvisò che era tempo di bere!
Soddisfatta la sete, riprendemmo la ritirata verso il Salto, parte
seguendo la riva del fiume, altri il bosco. Il nemico ci molestò fino
quasi all’entrata del paese, ma i suoi tiri non ci cagionarono più
alcuna perdita. A poca distanza dal Salto, al passo di un guado che a
causa della sua strettezza dovevasi eseguire a uno a uno, incontrammo
il bravo Anzani, nostro tenente-colonnello e comandante la Legione
italiana, che ci era venuto incontro fino a quel luogo onde poterci
abbracciare tutti. Or due parole su questo bravo: egli era rimasto nel
Salto a causa di una piaga in una gamba; con lui eran pure rimasti
pochi de’ nostri ammalati e dodici uomini di guardia alla batteria,
unica difesa del forte! Il nemico, inseguendo la nostra cavalleria sin
entro il paese, intimò all’Anzani la resa della batteria annunciandogli
la morte e la prigionia di noi tutti, compreso Garibaldi, ed offrendo
salva la vita a lui ed ai suoi. L’Anzani rispose da forte qual’era:
disse che avrebbe difesa la posizione fino all’estremo; che avanzavagli
abbastanza polvere per farlo, e che avrebbe fatto saltare la batteria
in uno coi suoi compagni prima di arrendersi; pertanto aspettava
l’attacco! Il nemico non credè conveniente cimentarsi a quell’impresa,
e così l’Anzani salvò a noi la ritirata, procacciò all’Italia una nuova
gloria, e ben altre prove a favore del suo paese avrebbe dato, se una
morte immatura non lo avesse colpito mentre poneva il piede sul suolo
d’Italia!

Nella notte poi entrarono nel paese i cinquecento del generale Medina,
che per incidenti diversi non aveva potuto operare la sua congiunzione
in tempo utile. Quantunque tutta la sua gente fosse disarmata, il
nemico demoralizzato dai fatti del giorno non lo molestò menomamente.

Gli abitanti del paese presero amorevole cura dei nostri feriti. La
nostra perdita ammontò a quarantatrè morti, dei quali trentasette
sul campo di battaglia e sei in conseguenza delle ferite; del
rimanente pochi furono gli illesi da ferite: la perdita del nemico
fu di cinquecento uomini e più fra morti e feriti; nei primi diversi
ufficiali superiori! Appena seppimo libera dal nemico la campagna,
sortimmo a raccogliere i corpi dei nostri fratelli e li deponemmo
in una fossa all’uopo preparata poco lungi dallo stesso terreno ove
caddero valorosamente pugnando: un’alta croce colla modesta iscrizione:
— _Trentasette Italiani — morti combattendo — l’8 febbraio 1846_ —
indica il luogo ove quei valorosi riposano per sempre!»


XVII.

A questo racconto non manca per esser compito che l’Ordine del giorno,
in cui Garibaldi ringrazia i suoi legionari della vittoria, e il
Decreto, con cui la Repubblica orientale decretava ai vincitori di
Sant’Antonio imperitura onoranza. Ecco pertanto nella loro integrità
i due documenti; dolenti soltanto di non poterli raccomandare a più
durevoli pagine:

                                          «Salto, 10 febbraio 1846.

      »Fratelli,

  »Avanti ieri ebbe luogo ne’ campi di Sant’Antonio, a una lega
  e mezzo da questa città, il più terribile ed il più glorioso
  combattimento. Le quattro compagnie della nostra Legione, e forse
  venti uomini di cavalleria rifuggitisi sotto la nostra protezione,
  non solo si sono sostenuti contro mille e dugento uomini di
  Servando Gomez, ma hanno sbaragliato interamente la fanteria
  nemica che ci assaltò in numero di trecento. Il fuoco cominciò
  a mezzogiorno e durò fino a mezzanotte: non valsero al nemico le
  ripetute cariche delle sue masse di cavalleria, nè gli attacchi
  de’ suoi fucilieri a piedi; senz’altro riparo che d’una casupola
  in rovina (_tapera_), ove non erano in piedi se non alcune travi,
  i legionari hanno respinto i ripetuti assalti del più accanito
  de’ nemici; io e tutti gli uffiziali abbiamo fatto da soldati in
  quel giorno. Anzani che era rimasto nel Salto, ed a cui il nemico
  aveva intimato la resa della piazza, rispose colla miccia alla
  mano e il piè sulla Santa Barbara della batteria, quantunque lo
  avesse il nemico assicurato che tutti eravamo caduti o morti o
  prigionieri. Abbiamo avuto trenta morti e cinquantatrè feriti:
  tutti gli uffiziali sono feriti, meno Scaroni, Saccarello il
  maggiore, e Traverso, tutti leggermente. _Io non darei il mio nome
  di legionario italiano per tutto il globo in oro._

  Alla mezzanotte entravamo in ritirata nel Salto, poco più di
  cento legionari italiani con settanta e più feriti, compresi
  i leggermente, che ci precedevano, contenendo, quando troppo
  c’incalzava, un nemico di milledugento, e repellendolo impaurito.
  Oh! questo merita d’essere scolpito. — Addio, vi scriverò più a
  lungo un’altra volta.[84] Il vostro

                                                     G. GARIBALDI.»

  «_DS_. — Gli uffiziali che erano con me e che rimasero feriti sono:
  Cassana, Marrocchetti, Beruti, Ramorino, Saccarello minore, Sacchi,
  Grafigna e Rodi.»

Ed ecco il:

                               «DECRETO.

  Desiderando il Governo dimostrare la gratitudine della Patria ai
  prodi che combatterono con tanto eroismo nei campi di Sant’Antonio
  il giorno 8 del corrente; consultato il Consiglio di Stato,
  decreta:

  Art. I. Il signor generale Garibaldi, e tutti coloro che lo
  accompagnarono in quella gloriosa giornata, sono benemeriti della
  Repubblica.

  Art. II. Nella bandiera della Legione italiana saranno inserite a
  lettere d’oro, sulla parte superiore del Vesuvio, queste parole:
  Gesta dell’8 febbraio del 1846, operate dalla Legione italiana agli
  ordini di Garibaldi.

  Art. III. I nomi di quelli che combatterono in quel giorno, dopo
  la separazione della cavalleria, saranno inscritti in un quadro,
  il quale si collocherà nella sala del Governo, rimpetto allo Stemma
  nazionale, incominciando la lista col nome di quelli che morirono.

  Art. IV. Le famiglie di questi, che abbiano diritto a una pensione,
  la goderanno doppia.

  Art. V. Si decreta a coloro che si trovarono in quel fatto, dopo
  di esserne stata separata la cavalleria, uno scudo che porteranno
  nel braccio sinistro, con questa iscrizione circondata d’alloro:
  _Invincibili combatterono l’8 di febbraio del 1846._

  Art. VI. Fino a tanto che un altro corpo dell’esercito non
  s’illustri con un fatto d’arme simile a questo, la Legione italiana
  sarà in ogni parata la diritta della nostra fanteria.

  Art. VII. Il presente Decreto si consegnerà in copia autentica
  alla Legione italiana, e si ripeterà nell’Ordine generale tutti gli
  anniversari di questo combattimento.

  Art. VIII. Il Ministro della guerra resta incaricato della
  esecuzione e della parte regolamentare di questo Decreto, che sarà
  presentato all’Assemblea de’ Notabili: si pubblicherà e inserirà
  nel R. N.

   SUAREZ. — JOSÈ DE BEJA. — SANTIAGO. — VASQUEZ. — FRANCISCO. — I.
                                                        MUGNOZ.[85]

Nè l’epico gesto esaltò soltanto gli Orientali; gli stranieri stessi,
quelli almeno il cui animo non era offuscato da odii partigiani, o
da miserabili invidie, gareggiarono nel celebrarlo. «Io vi felicito
(scriveva a Garibaldi stesso l’ammiraglio francese Lainé),[86] io vi
felicito, mio caro Generale, d’avere così potentemente contribuito
colla intelligente ed intrepida vostra condotta al compimento di fatti
d’arme, dei quali si sarebbero inorgogliti i soldati della grande
armata, che per un momento contenne tutta l’Europa. Io vi felicito in
egual modo per la semplicità e la modestia che rendono più cara la
lettura della relazione, in cui ci date i più minuti ragguagli d’un
fatto, del quale potreste senza timore attribuirvi tutto l’onore. Del
resto questa modestia vi ha cattivato le simpatie di persone atte
a meritamente apprezzare ciò che voi siete venuto operando da sei
mesi in qua, tra le quali noterò in primo luogo il nostro Ministro
plenipotenziario, che onora il vostro carattere, e nel quale avete un
caldo difensore soprattutto allorquando si tratta di scrivere a Parigi
coll’intento di distruggere le impressioni sfavorevoli, che ponno aver
fatto nascere alcuni articoli di giornali, redatti da persone poco use
a dire la verità anche quando raccontano dei fatti avvenuti sotto i
propri loro occhi.[87]»

Tosto infine che la notizia varcò il mare e giunse in Italia,
i patriotti se ne impadronirono come d’un annunzio di vittoria
nazionale, e il narrar la giornata del Salto, il decantarne i prodi,
il glorificarne il condottiero, divenne in un subito parte di quella
congiura di manifestazioni politiche, all’apparenza tutte letterarie
ed accademiche, colle quali gli Italiani si studiavano a ravvivare le
già accese scintille del patrio incendio, e punzecchiavano, non potendo
di meglio, con invisibili, ma tormentose trafitture la settemplice
maglia de’ loro oppressori. Così a Bologna il Felsineo dava un esteso
ragguaglio del fatto, e le Letture di famiglia di Torino, e il Diario
del Congresso scientifico italiano e altri giornali, lo riproducevano;
a Livorno G. B. Cuneo stampava nel Corriere Livornese[88] una serie
d’articoli per sbugiardare i calunniatori della Legione e celebrare le
virtù del suo capo.

A Firenze erano raccolti per cura del colonnello De Laugier, il futuro
eroe di Curtatone, i documenti relativi all’impresa di Garibaldi a
Montevideo, e in una pubblica radunanza era annunziato un libro che li
avrebbe distesamente narrati. Per tutta Italia infine si apriva, quasi
pubblicamente, una sottoscrizione per una spada d’onore al colonnello
Garibaldi, che era per incanto coperta di firme, e il giovine Bertoldi
incuorava con un inno al patriottico dono.

      Chi sono quei fortissimi,
    Che vinto il lungo assalto
    D’un oste innumerevole
    Entran festanti in Salto?
    Per chi quel serto intrecciano?
    Di chi parla quel cantico guerrier?
      Itali sono, ed italo
    È il Condottier dei forti;
    Un giogo iniquo a frangere
    Si sfidan mille morti,
    Ogni terreno è patria,
    Nessun popolo a noi vive stranier.
      Chi ne’ tuoi chiusi oracoli
    Può penetrar, gran Dio?
    Tu dei più eletti spiriti
    Vedovi il suol natío;
    Tu lasci qui nell’ozio
    Tanta gagliarda gioventù morir:
      E va Gioberti, vindice
    Dell’italo pensiero,
    Ad erger su gli elvetici
    Dirupi un trono al Vero;
    È Garibaldi un fulmine
    Che fa l’americane acque stupir.[89]


XVIII.

Garibaldi restò ancora alcuni mesi al Salto, continuando a battagliare
colla flottiglia e colla Legione fino a che il Governo stesso lo
richiamò a Montevideo, dove ritornò difatti in sul cominciare di
settembre. Nella Banda Orientale però erano accaduti nel frattempo
dolorosi, ma importanti avvenimenti.

Il general Ribera, che era rientrato, pochi mesi prima, nella capitale,
si mette a capo, il 1º aprile 1846, d’una sedizione militare; assale
e rovescia il Governo e s’impadronisce del potere. Da quel giorno,
nota Garibaldi stesso, la guerra cessa d’essere nazionale, e diventa
una meschina lotta di fazioni personali che indeboliscono la difesa e
insanguinano la città, la quale di certo sarebbe caduta nelle mani del
Rosas, se la Francia e l’Inghilterra coi loro negoziati non avessero
ritardata la catastrofe. Nemmeno il governo del Ribera durò a lungo,
che ripreso dalla sua incurabile manía di capitanare eserciti in
rasa campagna e di dar battaglie, pochi giorni dopo la sua uscita da
Montevideo nel gennaio 1847, è nuovamente disfatto e per la seconda
volta forzato a riparare nel Brasile, da dove non ritorna più che uomo
privato ed impotente.

Ciò nonostante Garibaldi non s’era lasciato sfuggire occasione veruna
per rendere ancora alla Repubblica quanti servigi erano da lui, e col
disegno di secondare le operazioni del Ribera in campagna risaliva
con una nuova flottiglia e nuove truppe l’Uruguay fino a Las Vacas,
correva fino all’influente del Dajman; vi sbaragliava, il 20 maggio,
in un brillante combattimento di cavalleria le truppe riunite del
Lama e Vergara, luogotenenti del Gomez, spazzando per alcun tempo
d’ogni nemico tutto il territorio attorno al Salto; quando il generale
Pacheco, risalito, per la caduta del suo rivale, al potere, lo chiama
in Montevideo, e gli offre il comando della piazza.

Garibaldi però, a cui era parso eccessivo onore persino il grado
di Generale, avrebbe volontieri rifiutato l’arduo incarico, se
la deferenza al rispettato amico, e il desiderio di prestare fino
all’ultimo l’opera sua alla Repubblica, non l’avessero indotto a
sobbarcarsi ad un ufficio, in cui il cuore gli presagiva di non
incontrare che difficoltà ed amarezze. E non s’ingannò. Fin che
Garibaldi dava gratuitamente il sangue e la vita per la causa
orientale e s’accontentava dei secondi onori e dei posti subalterni,
era un fratello, era un eroe, e gli ambiziosi, anzichè adombrarsene,
potevano sperare di farsene sgabello e per la stessa degnazione con cui
l’onoravano ingrandire sè stessi; ma quando lo videro salire ai primi
onori ed occupare, anche forzato, quei posti, a cui essi avevano, forse
senza merito, agognato, non gli perdonarono più.

Il fratello divenne uno straniero, l’eroe un avventuriere, il vincitore
di Nueva Cava e di Sant’Antonio un inetto, tutta la congiura delle
piccole e grandi gelosie, dei pregiudizi locali, delle permalosità
spagnuole scoppiò contro di lui e lo costrinse a deporre l’ufficio.

Non prima però d’aver reso alla Repubblica un ultimo e segnalato
servigio. Ammutinatosi, forse per istigazione de’ suoi stessi nemici,
un reggimento di Negri, e nessuno dei capi osando affrontarlo per
rimetterlo all’obbedienza, «Rimanete adunque se avete paura,» esclamò
Garibaldi; e seguíto dal solo Sacchi si presenta a cavallo innanzi
al reggimento ribelle, penetra nelle sue file, lo arringa con alcune
di quelle toccanti e incisive parole che solo i grandi capitani sanno
trovare in simili occasioni, e lo riconduce al dovere.

Fu quello l’ultimo pericolo corso da Garibaldi a pro della Repubblica,
per cui aveva da sei anni combattuto.


XIX.

Ma ormai i bei giorni di Montevideo sono passati. La città è piena di
fazioni, l’esercito di sedizioni, il Governo di rivalità; la difesa
si trascina innanzi languida e inonorata; i migliori, come il Sosa, il
Battle, l’Estaban, il Diaz, son morti o fuggiaschi; l’assedio dura per
la sola forza d’inerzia degli assedianti e degli assediati, e le sorti
della Repubblica pendono assai più dai negoziatori diplomatici, che
dalle battaglie e dalle armi.

Oltre di che un’altra patria, ben più cara e più sacra, richiama ed
attende Garibaldi; e se il suo braccio continua a combattere ancora per
la causa di Montevideo, la sua anima è altrove.

Il 1847 stava per finire; e ogni bastimento che da mesi approdasse
alla Plata, portava dal vecchio continente l’annunzio d’un avvenimento
importante.

Un nuovo Pontefice benediva l’Italia, perdonava ai ribelli, accoglieva
i proscritti e poneva in tutela della Croce la causa dei popoli.

Un fremito di vita nuova correva da un capo all’altro della Penisola;
i suoi popoli già ardivano squassar le catene in viso ai loro tiranni,
e chiedere ad alta voce quella libertà che avevano sino allora
sommessamente sospirata. In alcune città l’agitazione legale poneva
gli oppressori all’aspro bivio o d’incrudelire, o di cedere; in altre
le prime avvisaglie erano già cominciate, e il sangue era pegno di
conflitti maggiori. Ogni angolo d’Italia era un braciere di congiure,
e i Principi stessi, o sinceri o atterriti, promettevano riforme e
costituzioni; la Polonia, la Gallizia, l’Ungheria reclamavano dalle
antiche dinastie nuovi statuti sociali; la Francia, l’Austria, la
Germania stessa parevano alla vigilia d’una rivoluzione.

L’impressione che le novelle d’Italia facevano sull’animo di Garibaldi
è più facile immaginarla che descriverla. «La sua fisonomia (scrive
il Cuneo, che doveva vederlo ogni giorno) aveva preso un’espressione
nuova, i suoi modi erano divenuti più concitati; sovente ei s’arrestava
sopra pensieri, e gli sfuggiva un leggiero sorriso, come a chi attende
una lieta fortuna.» Pio IX soprattutto l’aveva esaltato; onde colto
dal farnetico comune per quel Pontefice, in cui la fantasia degli
Italiani s’era creata un novello Giulio II, s’accorda coll’Anzani a
indirizzargli, per mezzo di monsignor Bedini, nunzio apostolico in Rio
Janeiro, la seguente lettera:

      «Illustrissimo e rispettabilissimo signore,

  Dal momento in cui ci sono arrivate le prime nuove dell’esaltazione
  del sovrano pontefice Pio IX e dell’amnistia che egli concesse
  a’ poveri proscritti, noi abbiamo con attenzione e con sempre
  crescente interesse seguite le orme che il capo supremo della
  Chiesa imprime sulla via della gloria e della libertà. Le lodi, il
  di cui eco arrivò sino a noi dall’altra parte del mare, il fremito
  col quale l’Italia accoglie la convocazione dei deputati e vi
  applaude, le saggie concessioni fatte alla stampa, l’istituzione
  della guardia civica, l’impulso dato all’istruzione popolare e
  all’industria, senza contare le tante sollecitudini tutte dirette
  al miglioramento d’una nuova amministrazione, tutto infine ci
  ha convinti che uscì finalmente dal seno della nostra patria
  l’uomo, che comprendendo i bisogni del suo secolo aveva saputo,
  secondo i precetti della nostra augusta Religione, sempre nuova,
  sempre immortale, e senza derogare alla loro autorità, piegarsi
  frattanto alle esigenze dei tempi. E sebbene tutti questi progressi
  non avessero alcuna diretta influenza sopra di noi, gli abbiamo
  nondimeno seguiti da lungi, accompagnando coi nostri applausi e
  coi nostri voti l’accordo universale dell’Italia e di tutta la
  Cristianità. Ma quando da pochi giorni apprendemmo l’attentato
  sacrilego, col quale una fazione fomentata e sostenuta dallo
  straniero, non ancora stanca dopo tanto tempo di straziare
  la nostra povera patria, si propose di rovesciare l’ordine di
  cose attualmente esistente, ci è sembrato che l’ammirazione e
  l’entusiasmo per il Sovrano Pontefice fossero un troppo debole
  tributo, e che un dovere più grande ci fosse imposto.

  Noi che vi scriviamo, o illustrissimo e rispettabilissimo signore,
  siamo di coloro, i quali, sempre animati dal medesimo pensiero che
  ci ha fatto subire l’esilio, abbiamo prese a Montevideo le armi per
  una causa che ci sembrò giusta, e riunite poche centinaia d’uomini
  nostri compatriotti qua venuti colla speranza di trovarvi giorni
  meno dolorosi di quelli che subivamo nella nostra patria.

  Ora nei cinque anni dacchè dura l’assedio delle sue mura,
  ciascuno di noi più o meno ha dovuto far prova più d’una volta di
  rassegnazione e di coraggio; e grazie alla Provvidenza ed a quello
  spirito antico, che infiamma ancora il nostro sangue italiano,
  la nostra Legione ha avuto occasione di distinguersi; ed ogni
  volta che questa occasione si è presentata, essa non ha lasciato
  fuggirsela, di maniera che (io credo sia permesso dirlo senza
  vanità) ha sul cammino dell’onore sorpassato tutti gli altri corpi
  che erano suoi rivali e suoi emuli.

  Adunque se oggi le braccia che hanno qualche uso delle armi sono
  accette a Sua Santità, è superfluo il dire che più volentieri che
  mai noi le consacreremo al servigio di colui, che fa tanto per la
  patria e per la Chiesa.

  Noi ci chiameremo adunque fortunati, se potremo venire in aiuto
  dell’opera redentrice di Pio IX assieme a’ nostri compagni, a nome
  dei quali ve ne facciamo parola, e noi non crederemo di pagarla
  troppo cara con tutto il nostro sangue.

  Se la vostra illustre e rispettabile signoria pensa che la nostra
  offerta possa essere accetta al Sovrano Pontefice, che Ella la
  deponga a’ piedi del suo trono.

  Non è già la puerile pretensione che il nostro braccio sia
  necessario che ce lo fa offrire; sappiamo benissimo che il trono
  di san Pietro riposa su basi che non possono nè crollare, nè
  confermare i soccorsi umani, e che di più il novello ordine di
  cose conta numerosi difensori, i quali saprebbero vigorosamente
  respingere le ingiuste aggressioni dei suoi nemici; ma poichè
  l’opera deve essere repartita tra i buoni, e la dura fatica data ai
  forti, fate a noi l’onore di contarci tra questi.

  Attendendo, ringraziamo la Provvidenza d’aver preservato Sua
  Santità dalle macchinazioni dei tristi, e facciamo voti ardenti
  perchè le accordi lunghi anni per il bene della Cristianità e
  dell’Italia.

  Non ci resta più altro che pregar voi, illustre e venerabilissimo
  signore, di perdonarci il disturbo che vi causiamo, e di ricevere
  i sentimenti della nostra perfetta stima e del profondo rispetto,
  con i quali noi ci professiamo della sua illustrissima e
  rispettabilissima persona i più devoti servitori

                                                      G. GARIBALDI.
                                                    F. ANZANI.[90]»

La qual lettera, quando si pensi a quella specie di ubbriacatura
guelfa da cui le teste erano state prese nel 1848, e si ricordi che
il Mazzini stesso, pochi mesi dopo, ne scriveva direttamente al Papa
una consimile, non potrà parere strana ad alcuno. Essa, al contrario,
getta un raggio di più sul carattere di Garibaldi e ne rileva uno de’
tratti più espressivi. Dominato dall’idea fissa di fare l’Italia, unica
luce del suo cervello, unica fiamma del suo cuore, egli non conobbe
mai preferenza d’uomini o predilezione di parti; combattè a fianco
del Mazzini; combattè agli ordini di Napoleone e di Vittorio Emanuele;
avrebbe combattuto, diceva un giorno, «col demonio;» qual meraviglia
che egli fosse nel 1848 disposto a combattere sotto le insegne del
Vicario di Cristo? Franco condottiero della causa de’ popoli, era la
bandiera ch’egli guardava, non i capitani o gli alleati.

La lettera a Pio IX sarà il capostipite d’un interminabile epistolario;
ma chi vi frugherà dentro con senso di misericordia e intelletto
d’equità, troverà sempre sotto l’incondita congerie delle bizzarrie,
delle contraddizioni e delle volgarità la stessa schiettezza ingenua
di sentimenti, la stessa ignoranza bonaria della realtà, la stessa
credulità sconsiderata all’utopia, lo stesso concetto romanzesco ed
eroico della vita; ma altresì la stessa fiamma d’amor patrio, che
brilla, quasi gemma legata in similoro, nella prima lettera a Pio IX.

E a me non sembra strano che il nunzio Bedini ingannato, come tanti
altri, dalle mostre liberalesche del suo Signore, rispondesse ai due
patriotti per assicurarli, «che se la distanza di tutto un emisfero può
impedire di profittare di magnanime offerte, non ne sarà mai diminuito
il merito, nè menomata la soddisfazione nel riceverle;[91]» come non
deve punto stupire che egli nel 1849, prete, Legato nelle Romagne,
ministro d’un Pontefice che ripudiava ogni alleanza colla rivoluzione,
facesse bombardare dagli Austriaci la patriottica Bologna, divenisse
complice della fucilazione di Ugo Bassi e di Ciceruacchio, cercasse a
morte lo stesso Garibaldi. Pio IX aveva mutato, o se vuolsi, spiegato
meglio la sua politica, e il suo Legato la mutava o spiegava con lui, e
ben ingenui coloro che se ne maravigliano!


XX.

Le notizie pertanto d’Europa e d’Italia s’erano andate facendo di
giorno in giorno più gravi; la risposta di Pio IX non veniva, ma
venivano le lettere de’ patriotti, compagni di fede e di congiure, che
da ogni parte annunziavano inevitabile la rivoluzione ed imminente lo
scoppio. Il Mazzini soprattutto, che non aveva mai perduto di vista
il suo affigliato di Marsiglia, s’era posto in diretto carteggio
con lui per informarlo dell’andamento delle cose, infervorarlo a
tenersi pronto, accaparrare in certa guisa il braccio suo e de’ suoi
commilitoni per le attese battaglie della patria. Infine la Colonia
italiana, composta in gran parte di proscritti del 1821 e del 1831,
non poteva restare insensibile alle novelle che le venivano d’Italia, e
desiderosa di mostrare alla dolce madre lontana il loro cuore di figli,
andavano eccitando Garibaldi, se di eccitamento poteva aver bisogno,
affinchè persistesse nel magnanimo proposito, promettendogli tutti i
conforti e gli aiuti onde avesse bisogno.

La partenza frattanto per l’Italia era nel petto di Garibaldi cosa
ormai risoluta, quando l’annunzio della sollevazione di Palermo e
di Messina del 12 gennaio 1848 venne a precipitarla. Non v’era più
da indugiare; la lotta era cominciata; in Italia si combatteva e si
moriva: il posto di Garibaldi e della sua Legione era là. Una sola cosa
era incresciosa e al tempo stesso difficile: svincolarsi da Montevideo;
e non perchè Garibaldi fosse legato alla Repubblica da alcun patto
indissolubile, chè la sua condotta era sempre stata subordinata alla
condizione del ritorno in Italia; ma perchè gli riusciva doloroso
abbandonare prima dell’ora decisiva una causa giusta ed un popolo
amato.

Una pubblica sottoscrizione era stata già aperta fra gl’Italiani
per «la spedizione in Italia comandata da Garibaldi,» e il solo
Stefano Antonini aveva firmato per 30,000 lire. Un brigantino era
stato noleggiato ed allestito di tutto l’occorrente. Anita, appena
sgravata di Ricciotti, erasi già imbarcata fin dal dicembre per
l’Italia e tutto cospirava a credere la partenza inevitabile. Invano
il Governo di Montevideo, conscio della gran perdita che stava per
fare, tentava trattenere con preghiere, con lusinghe, con studiati
indugi l’impaziente Italiano; invano gli stranieri stessi, che vedevano
in Garibaldi una delle più sicure garanzie dei loro interessi, si
sforzavano a ritardarne, almeno, la partenza, offrendogli di assumere a
loro carico il più della _diaria_ d’affitto del bastimento noleggiato.
Garibaldi non si sentiva più padrone della sua volontà, e tutte quelle
preghiere, quelle insistenze, quegl’indugi, anzichè piegarlo non
facevano che inasprirlo, strappandogli spesso dalle labbra il detto
piena d’amarezza: _Duolmi che arriveremo gli ultimi, quando tutto sarà
finito_.

Affinchè però l’impresa riuscisse al suo fine, era mestiere precisarne
la mèta, divisarne i luoghi d’approdo, avvertirne gli amici ed
aderenti, prepararle in Italia stessa il terreno.

Pochi mesi dopo la giornata del Salto, era sbarcato a Montevideo e si
era arrolato nella Legione, Giacomo Medici. Era un giovane di maschia
bellezza, d’intrepido cuore, d’ingegno acuto e prudente insieme,
d’affabili modi; e Garibaldi, presentendo in lui l’uomo che ormai la
storia ha fatto suo, l’ebbe caro prontamente e ripose in lui tutta
la sua fiducia. Però egli fu anche il prescelto da Garibaldi come il
foriero e preparatore in Italia della divisata spedizione. Il Medici
doveva partir subito, vedere a Londra il Mazzini e accontarsi con lui;
percorrere, facendo propaganda, il Piemonte, penetrare in Toscana
e accordarsi col Fanti, col Belluomini, col Guerrazzi e con altri
molti; prepararvi nascostamente armi ed armati ed attendervi Garibaldi
colla Legione, che non avrebbe tardato a raggiungerli tra Piombino e
Viareggio.

Ma a rendere ben chiaro il concetto di Garibaldi e il mandato del
Medici, valga il documento che qui per la prima volta pubblichiamo:

                              «ISTRUZIONI.

  Terrai presente soprattutto che scopo nostro è di recarci in patria
  non per contrariare l’andamento attuale delle cose, e i Governi
  che v’acconsentono; ma per accomunarci ai buoni, e d’accordo con
  essi andare innanzi pel meglio del paese; ma che noi preferiremmo
  lanciarci ove una via ci fosse aperta ad agire contro il Tedesco,
  contro cui denno essere rivolte senza tregua le ire di tutti: e
  tanto più lo vorremmo, chè la gente che ci accompagna è mossa
  principalmente da questo ardentissimo desiderio, che ove non
  venisse soddisfatto potrebbe dar luogo allo sfiduciamento; scemare
  o infiacchire i compagni, che avvezzi alla vita attiva del campo
  male s’adatterebbero a vivere nei quartieri; perciò ti recherai:

  1º A consultare M.... (_Mazzini_) intorno ai passi da darsi onde
  preparare le cose nel senso indicato; e appena a ciò provveduto
  t’affretterai per alla volta di Genova, Lucca, Firenze e Bologna, a
  meno che con M.... non risolviate altrimenti. Per questi punti ti
  do lettere che consegnerai ai loro indirizzi, se pure lo crederai
  conveniente, dietro le intelligenze con M....

  2º Dagli amici ti procurerai commendatizie per tutti quei punti che
  crederai utili visitare, affine di dar moto e preparare gli uomini,
  e combinare elementi di cooperazione, quanto più ti sarà possibile.

  3º Scorsi quei paesi ti ridurrai in Livorno, come luogo più
  acconcio a sapere di noi; perchè nostro pensiero è approdare in
  uno dei porti seguenti: Viareggio, Cecina, Piombino, San Stefano,
  Port’Ercole. Soltanto ne devieremo, se ci perverranno notizie che
  ci consiglino farlo pel meglio; e in ogni caso tenteremo sempre
  ogni mezzo onde fartene avvertito.

  4º Una delle cose che dovrai tenere in vista, si è quella di
  indurre gli amici a tener pronti quei mezzi indispensabili a
  provvedere il bisognevole almeno pei primi giorni; mancando su
  questo punto tanto essenziale si correrebbe rischio di perdere il
  frutto di tante fatiche, e dei sacrifici fatti con tanta generosità
  dai nostri compatriotti in Montevideo.

  5º I venti, o altre cause, potrebbero obbligarci a toccare in
  Gibilterra. Se M.... ha ivi persona fidata le diriga lettere per
  me, informandomi della marcia delle cose e sul da farsi — e potrà
  appena tu arrivi cominciare a scrivere. La persona che incaricasse
  dovrebbe stare sempre all’erta, affine di farmi pervenire ogni
  cosa a bordo, e subito; senza aspettare che si scendesse a terra:
  potrebbe non convenire andarci; potrebbero le quarantene impedirlo.
  — Dal nome del bastimento, che è quello di _Speranza_, con bandiera
  orientale, sarebbe al momento avvertito del nostro arrivo — e
  perchè ne fosse più sicuro, e potesse riconoscerlo facilmente,
  alzeressimo all’albero di prora una bandiera _bianca_ attraversata
  orizzontalmente, per quanto è lunga e nel bel mezzo, da una
  striscia _nera_.

  Di quanto scrivesse a noi potrebbe darti avviso se ciò potesse
  farci mutare di direzione.

  Ai porti indicati puoi aggiungervi anche quelli di Talamone e di
  Livorno. Anche il bastimento è a _brigantino_.

      Montevideo, 20 febbraio 1848.

                                                      G. GARIBALDI.

  Le lettere che io ti scriverò dirette a Livorno saranno al nome di
  Mr James Gross — nella soprascritta — Signor Giacomo Medici.[92]»

Il Medici infatti tre giorni dopo s’imbarcava per la sua missione; e
il 15 aprile 1848 Garibaldi medesimo, accompagnato da ottantacinque
de’ suoi legionari, fra cui l’Anzani, ammalato, il Sacelli, ferito,
Ramorino, Montaldi, Marocchetti, Grafigna, Peralta, Rodi, Cucelli e
il suo moro Aghiar; soccorso dallo stesso Governo orientale di armi,
di munizioni, di cannoni sul brigantino _Bifronte_, ribattezzato
espressamente per quel viaggio coll’auguroso nome _La Speranza_,
comandato dal capitano Gazzolo, salpò da Montevideo per i lidi
d’Italia.[93]


XXI.

Nel 1836 l’America raccoglieva un oscuro marinaio e un disertore
proscritto; dopo undici anni ella restituiva all’Italia un ammiraglio
provetto, un capitano invitto, un eroe glorioso. In quegli undici anni
Garibaldi consacratosi alla causa di due Repubbliche, rappresentanti,
a’ suoi occhi, la causa stessa della libertà e della giustizia, aveva
per esse patita la tortura e toccata una ferita mortale; trionfato
d’un naufragio e additato un nuovo passaggio all’Oceano; costruito
flottiglie e organizzato legioni; fatta la corsa sui mari, sui fiumi
e guerreggiato a piedi ed a cavallo sui campi; sostenuto quattro
combattimenti navali e dodici terrestri; vinto, nella campagna di
Rio Grande, al Galpon de Chargucada, a Imeruy, sulle lagune di Santa
Caterina e di Los Patos, a Santa Vittoria ed a San Josè; e in quella
di Montevideo, a San Martin Garcia, a Nueva Cava, alle Tres Cruces,
alla Boyada, all’Hervidero, al Salto ed al Dayman; fronteggiato in
una ritirata d’oltre diciotto mesi un nemico soverchiante, e delusa
più volte la caccia di potenti crociere; capitanato per seicento leghe
una spedizione navale traverso un fiume seminato di batterie nemiche;
presa d’assalto una fortezza e diretta la difesa d’una piazza forte;
e sbaragliando sovente, emulando sempre i più famosi guerriglieri del
suo tempo, non lasciandosi nè insuperbire dalle fortune, nè abbattere
dai rovesci, inventando talvolta nuovi artificii e nuovi stratagemmi
di guerra, vincendo la forza coll’astuzia e colla prodezza il numero,
facendo umana, tra costumanze feroci, la guerra, avea reso temuto e
ammirando il suo nome agli stessi nemici, e risuscitato sui più lontani
lidi i ricordi del valore italiano.

Ciò non ostante le virtù del soldato e le vittorie del capitano sono
un nulla a paragone di quella virtù suprema, di quella vittoria che
mai, fino allora, gli fallì contro i più naturali istinti della natura
umana. Ond’è sotto questo rispetto che la frase tante volte ripetuta di
lui «uomo di Plutarco» diventa rigorosamente vera.

Entrato al servizio di Montevideo senza patteggiare nè per sè nè per la
sua Legione alcun salario, visse fin dal primo giorno, come l’ultimo
de’ suoi soldati, delle sole razioni militari. Ricevuta nel 1845 dal
generale Ribera l’offerta di vaste terre da dividersi fra lui e i suoi
legionari, le rifiuta a nome della Legione stessa, dicendo: «che tanto
egli, quanto i suoi compagni, chiedendo d’essere armati ed ammessi a
dividere i pericoli del campo coi figli di queste contrade, avevano
inteso d’ubbidire unicamente ai dettami della loro coscienza; che
avendo essi soddisfatto a ciò che essi riguardavano come un dovere,
essi continueranno da uomini liberi a soddisfarvi, dividendo, finchè
le necessità dell’assedio lo richiederanno, pane e pericoli coi loro
valenti compagni del presidio di questa metropoli, senza desiderare o
accettare rimunerazione o compenso delle loro fatiche.»

Promosso, col Decreto che abbiamo citato, al grado di Generale, non
gli parve aver fatto abbastanza per meritarlo, e con questa nobilissima
lettera, ch’egli scrisse al Ministro della guerra, vi rinunziò:

  «Nella mia qualità di comandante in capo la Marina nazionale,
  onorevole posto in cui piacque al Governo della Repubblica
  collocarmi, nulla ho io fatto che merti la promozione a colonnello
  maggiore (Generale). Come capo della Legione italiana quello che
  posso aver meritato di ricompensa io lo dedico ai mutilati ed alle
  famiglie dei morti della medesima. I benefizi non solo, ma gli
  onori anche mi opprimerebbero l’animo, comprati con tanto sangue
  italiano. Io non aveva seconde mire, quando fomentava l’entusiasmo
  de’ miei concittadini in favore d’un popolo che la fatalità
  lasciava in balía d’un tiranno; ed oggi smentirei me stesso
  accettando la distinzione che la generosità del Governo vuole
  impartirmi. La Legione mi ha trovato colonnello nell’esercito, come
  tale mi accettò suo capo, e come tale la lascerò, una volta compíto
  il voto che offerimmo al popolo orientale. Le fatiche, la gloria,
  i rovesci che possono ancora toccare alla Legione, spero dividerli
  con essa fino all’ultimo. Rendo infinite grazie al Governo, e
  non accetto la mia promozione del Decreto 16 febbraio. La Legione
  italiana accetta riconoscente la distinzione sublime che il Governo
  le decretò il 1º marzo. Una sola cosa chiedono i miei uffiziali, la
  Legione ed io, ed è questa: che siccome spontanea e indipendente fu
  l’amministrazione economica, la formazione e la gerarchia del Corpo
  fin dal suo principio, s’abbia a continuare sullo stesso piede, e
  chiediamo quindi a V. E. compiacersi di annullare la promozione, di
  cui tratta il Decreto del 16 febbraio relativamente agli individui
  che appartengono alla Legione italiana.

  Dio sia per molti anni con V. E.

                                               GIUSEPPE GARIBALDI.»

Finalmente il generale Pacheco, rispondendo ai detrattori di
Montevideo,[94] abbracciava nella sua apologia anche il generale
Garibaldi, e faceva delle sue virtù private e civili, poichè delle
guerresche nessuno aveva dubitato, questa pittura: «Nel 1843 il signor
Francesco Angeli, uno fra i più rispettabili negozianti di Montevideo,
indirizzandosi al Ministro della guerra, facevagli sapere che nella
casa di Garibaldi, del capo della Legione italiana, del capo della
flotta nazionale, dell’uomo infine che dava ogni giorno la sua vita per
Montevideo, non si accendeva di notte il lume, perchè nella razione
del soldato, unica cosa sulla quale Garibaldi contasse per vivere,
non erano comprese le candele. Il Ministro mandò pel suo aiutante
di campo, G. M. Torres, cento _patacconi_ (500 lire) a Garibaldi, il
quale, ritenendo la metà di questa somma, restituì l’altra perchè fosse
recata alla casa di una vedova, che, secondo lui, ne aveva maggior
bisogno. Cinquanta _patacconi_ (250 lire), ecco l’unica somma che
Garibaldi ebbe dalla Repubblica. Mentre rimase tra noi, la sua famiglia
visse nella povertà; egli non fu mai calzato diversamente da’ soldati;
sovente i di lui amici dovettero ricorrere a sotterfugi per fargli
cambiare gli abiti già logori. Egli aveva amici tutti gli abitanti
di Montevideo; giammai vi fu uomo più di lui universalmente amato, ed
era questo ben naturale. Garibaldi, sempre primo a’ combattimenti, lo
era egualmente a raddolcire i mali della guerra. Quando recavasi negli
offici del Governo, era per domandare grazia per un cospiratore, o per
chiedere soccorsi in favore di qualche infelice: ed è all’intervento
di Garibaldi che il signor Michele Haedo, condannato dalle leggi della
Repubblica, dovè la vita. Nel 1844 un’orribile tempesta flagellava
la rada di Montevideo; eravi nel porto una goletta, che, perdute le
áncore, stava affidata con evidente pericolo all’unica che le rimaneva;
in quella goletta si trovavano le famiglie de’ signori Canil. Il
generale Garibaldi, informato del pericolo, s’imbarcò con sei uomini,
recando seco un’altra áncora, colla quale la goletta fu salva. A
Gualeguaychu fa prigioniero il colonnello Villagra, uno dei più feroci
capi del Rosas, e lo lascia in libertà, come anche gli altri di lui
compagni. Nella sua spedizione all’interno egli si distinse per molti
tratti di cavalleresca generosità, che anche al dì d’oggi formano
argomento di conversazione nel campo de’ due partiti.[95]»

Innanzi a queste testimonianze potrebbe la storia degnar d’uno
sguardo i miserabili libelli di pochi stranieri, e coll’onore d’una
confutazione superflua scavare i loro nomi dal perpetuo oblío in cui
sono sepolti?

Nel 1847 quando il nome di Garibaldi era quasi ignoto, e le sue gesta
malnote, e parlar di Garibaldi era un parlar d’Italia; era bello che la
voce intemerata di G. B. Cuneo schiacciasse, coll’argomento decisivo
dei documenti, i botoli che addentavano Garibaldi e la sua Legione
là appunto dove la loro corazza era più tersa e inattaccabile; ma ora
l’opera sarebbe affatto vana ed accademica.

Nel luglio 1849 Lord Howden nella Camera dei Pari di Londra faceva di
Garibaldi questo elogio ancora più eloquente:

«Il presidio di Montevideo era quasi tutto composto di Francesi e
d’Italiani, ed era comandato da un uomo, cui sono felice di poter
rendere testimonianza, che solo era disinteressato tra una folla
d’individui che non cercavano che il loro personale ingrandimento.
Intendo parlare di un uomo dotato di gran coraggio e di alto ingegno
militare, che ha il diritto alle vostre simpatie per gli avvenimenti
straordinari accaduti in Italia, del generale Garibaldi!»

Ora nessuno meglio di Lord Howden poteva parlare così; egli che, avendo
proposto a Garibaldi di sciogliere la Legione mediante un compenso in
danaro, si era sentito dire: «Gl’Italiani in Montevideo avere impugnate
le armi per difendere la causa della giustizia, e questa causa non
potersi abbandonare mai da uomini onorati.[96]»

Ed è qui la vera grandezza originale di Garibaldi. Egli nobilitò il
nome di soldato di ventura, elevò a missione il mestiere dell’armi,
creò il tipo del condottiero disinteressato, che va per il mondo,
paladino gratuito della causa della giustizia, senza nemmeno la
speranza di condurre in isposa, come i compagni d’Artù, la bella
principessa per cui ha dato il sangue, pago sin troppo di riportare
alla terra natía il fiero orgoglio delle alte imprese compiute,
ravvivato di quando in quando dal ricordo delle gloriose ferite.

Pure al Garibaldi che tornava in Italia manca un ultimo tratto, e
disgraziatamente è un’ombra. L’America era stata per lui un’eccellente
palestra per l’educazione militare, ma non fu, nè poteva essere, una
buona scuola d’instituzione politica. Non era certo fra un popolo di
passioni veementi, di fazioni perpetue, di rivoluzioni periodiche,
dove ogni _caudillo_ che si mettesse a capo d’una masnada di _gauchos_
poteva usurpare la dittatura, salvo ad essere a sua volta rovesciato
da un _caudillo_ più fortunato, che un giovane come Garibaldi poteva
formare la sua mente politica ed educarsi al culto della legge,
all’amore dell’ordine, al giusto concetto della libertà. Ingenuo,
fantasioso, inesperto, era naturale che il suo spirito ricevesse come
cera l’impronta del paese in cui aveva trovato un asilo ospitale,
di cui amava la pittoresca natura e la razza valorosa, con cui aveva
stretto sui campi di battaglia un patto indissolubile di fratellanza,
e dove infine aveva udito per la prima volta, non più susurrar
timidamente ne’ crocchi o nascostamente nelle congiure come in Italia,
ma gridar altamente, ma difendere apertamente colle armi que’ nomi
di patria, di libertà e d’indipendenza, che erano l’unico patrimonio
politico della sua mente e l’unica religione del suo cuore.

Trascorsa metà della vita in una consuetudine ininterrotta di corsari,
di soldati, di marinai e di pastori, senza ritemprarsi quasi mai
nel contatto d’una società più colta e più civile; portato da’ suoi
istinti selvatici, dalle sue abitudini marinaresche, dai suoi gusti
solitari, e soprattutto dal suo prepotente bisogno d’indipendenza, a
vagheggiare quei vasti deserti della Pampa che a lui ripetevano sulla
terra un’immagine dei deserti dell’Oceano, e ad ammirare, fors’anco ad
invidiare, la sorte dei suoi fieri abitatori; qual meraviglia che a’
suoi occhi il _gaucho_ rappresentasse il miglior tipo dell’uomo libero,
ed egli s’abituasse a poco a poco a pensare, a operare, a vestire
perfino come quella parte dell’umana famiglia in cui era cresciuto,
e che un giorno ne portasse seco in Europa non solo le idee e le
credenze, ma le costumanze e le foggie?!

   [Illustrazione: CARTA DELL’URUGUAY]

Un _gaucho_ temprato da un innesto europeo e purificato da un alto
ideale umano; un Artigas, meno i puntigli e la vanità; un Ribera, più
il genio, il disinteresse e la fortuna: ecco il Garibaldi che l’America
rinviava in Italia, e che il tempo e la civiltà potranno, in qualche
parte, modificare, ma che resterà, ne’ suoi tratti caratteristici,
immutato.




CAPITOLO QUARTO.

DA NIZZA A MORAZZONE. [1848.]


I.

La _Speranza_ era ancora nell’Oceano, quando un imprevisto accidente
rischiò di seppellire in un punto Garibaldi e la sua fortuna. Una
lucerna accesa caduta sul barile dell’acquavite infiamma in un istante
la dispensa, e minaccia di comunicare l’incendio al bastimento. I
più arditi corrono alle pompe; il dispensiere Solari ripara la sua
negligenza d’un istante buttandosi a corpo perduto contro le fiamme,
ma non per questo l’allarme a bordo s’acqueta; i legionari, colti
da timor pánico per quel nuovo e non mai visto nemico, abbandonano i
posti, si rovesciano in disordine sul ponte, s’arrampicano su per le
sarchie, accrescono colle grida e col tumulto il pericolo del disastro.
Garibaldi solo mantiene l’imperturbabile suo sangue freddo, comanda la
manovra, impone la calma, rianima gli atterriti, dirige gli operosi,
riesce in brev’ora a domare l’incendio ed a salvare il bastimento, che
riprende la sua rotta.

I reduci da Montevideo non conoscevano d’Europa che gli avvenimenti
del gennaio. La notizia della rivoluzione di febbraio, le barricate
di Milano, la sollevazione di Vienna, l’entrata di Carlo Alberto in
Lombardia, le prime vittorie dell’esercito piemontese sul Mincio
non potevano essere ancora pervenute in America, ond’erano loro
interamente ignote. Da ciò ne seguiva che Garibaldi fosse sempre un po’
incerto della mèta precisa del suo sbarco, e l’animo suo ondeggiasse
naturalmente tra i consigli del Mazzini che l’avrebbe voluto spingere
a sbarcare in Sicilia, gli accordi presi col Medici che in certa guisa
lo impegnavano a scendere in Toscana, ed il suo antico e più profondo
concetto che lo portava ad andare dovunque fosse più pronta l’occasione
di menare le mani senza preferenza di luoghi, di capi e di bandiera.

Coi suoi pensieri intanto veleggiava verso l’Italia anche la sua nave,
quando, passato di non lungo tratto lo Stretto di Gibilterra, i marinai
di prua avvistano giù in fondo all’orizzonte una nave con una nuova e
non mai vista bandiera. Tutti gli occhi e tutte le lenti s’appuntano
curiosi sull’insolito vessillo, intantochè i due legni continuano a
navigare e lo spazio che li divide si vien ristringendo sempre più. Ma
che cos’è quella bandiera, a quale nazione può ella appartenere, quali
colori drappeggia ella? A prima vista, ancora da lontano, l’avreste
detta la tricolore francese; ma più la si riguarda più i due bastimenti
s’accostano e più i colori della misteriosa bandiera spiccano e si
rischiarano; ancora un po’ e il turchino sfuma e si perde in un’altra
tinta; un passo ancora e il rosso, il bianco, il verde del tricolore
italiano risplendono in tutta la loro pompa sull’ampia stesa dei mari.
«È la bandiera italiana,» urlò per il primo il capitano Pegorini! «È la
nostra bandiera,» ripeterono in coro cento voci commosse. A tal punto
Garibaldi più commosso di tutti ordina di accostare il legno fratello,
e imboccato il portavoce, gli chiede che cosa significhi quella
bandiera, e che nuove rechi d’Italia: «Milano è insorta (risponde dal
ponte dell’altro bastimento un’altra voce); gli Austriaci sono in fuga;
tutta l’Italia è in rivoluzione; viva la libertà!!»

Quale effetto producessero quelle parole pronunciate là nel vasto
silenzio del mare, sotto l’immensa vôlta del cielo, sull’animo di
quegli uomini, proscritti la più parte per l’amore di quell’Italia
di cui allora udivano il trionfo, veterani di quella libertà, che
avevano cercata e difesa su tutti i lidi della terra, e che s’erano
preparato quel giorno di ritorno e di gaudio con una vita intera di
battaglie e di sacrifici, lo descriva chi può. Noi siamo dinanzi
all’indescrivibile; Dante avrebbe detto: «all’ultimo di ciascun
artista.»

Marinai e legionari, soldati e capitani s’abbracciano, urlano,
piangono, ridono insieme, passano nell’istante medesimo fra i più
opposti sentimenti, non sanno se più esultare all’annunzio della patria
liberata, o affliggersi per lo sgomento di non giungere più a tempo
a combattere le ultime battaglie della sua liberazione: un tumulto
babelico di commenti, mille voci confuse di patria, di libertà, di
rivoluzione, di guerra, «e suon di man con elle,» corrono per la nave,
si levano per l’aria, trasportano per alcuni istanti su quel bastimento
l’ebbrezza del nostro 1848. Garibaldi fa ammainare la bandiera di
Montevideo, e con un lenzuolo, il panno rosso e le mostre verdi delle
casacche de’ legionari improvvisa una tricolore e la issa, fra salve
di battimani e urla di tripudio, all’albero di maestra. Uno strumento
ed un suonatore dove sono Italiani non mancano mai; e una danza folle,
sfrenata s’intreccia intorno a quell’albero portatore di quei tre sacri
colori, e il riso delle stelle e i susurri del mare s’accompagnano a
quella festa dell’Italia risorta.[97]

E la grande novella dell’alto mare è presto confermata. Approdati la
sera stessa a Palos presso Cartagine per farvi incetta di viveri per il
bastimento e d’aranci per l’Anzani sempre più ammalato, odono ripetere
dal Vice-console francese tutte le notizie che il bastimento italiano
aveva loro recate; onde l’ultima ombra di dubbio che poteva ancora
restare nell’animo de’ nostri reduci, scomparve.

Garibaldi poi dal canto suo lasciò ogni esitazione. Ormai la via era
tracciata, la mèta era chiara: conveniva senza perdere un istante
drizzar la prua verso l’Alta Italia, arrivare al più presto sul teatro
della lotta, offrire senza esitare il braccio a Carlo Alberto, se il
capitano dell’impresa era lui, e combattere al suo fianco.

Pertanto la Speranza salpa la sera stessa dal porto, e Garibaldi senza
chiedere, giusta il suo costume, alcun parere ai compagni, mette la
prua sul Nord-Est, e fa rombo più veloce che può verso il Mare di
Liguria. Egli tuttavia inclinava a prender terra a Genova o in qualche
porto vicino; ma i venti avendolo obbligato ad appoggiare, si decise
ad approdare a Nizza, e il 21 giugno 1848, alle ore 11 antimeridiane,
inalberata di nuovo la bandiera di Montevideo, che a lui, disertore
condannato a morte, era una tutela, getta l’áncora nel porto della
città natale.


II.

Era aspettato: l’attendeva dopo dodici e più anni d’assenza la vecchia
madre; l’attendeva coi tre figli Anita; l’attendeva, preannunziato dai
giornali, la città intera.[98] E fin dal primo spuntare dell’atteso
naviglio, la popolazione si versa come un’ondata verso il porto,
impaziente di festeggiare e ammirare il glorioso concittadino, e appena
ne apparve sulla tolda, in mezzo allo stuolo tricolorato de’ suoi
legionari, la bionda testa leonina, abbronzata dal sole delle battaglie
e come precinta dall’aureola della vittoria, un urlo d’entusiasmo,
una salva d’applausi lo saluta, facendogli suonare all’orecchio, per
la prima volta, nel dolce idioma natío quel grido d’ammirazione che
da tanti anni non udiva più se non in lingua straniera, sopra terra
straniera.

Soltanto verso sera scese a terra, e cominciarono subito anche per lui
le noie della celebrità; chè al quarto giorno dallo sbarco fu invitato
co’ suoi legionari a un banchetto di quattrocento coperti, di cui
l’_Echo des Alpes Maritimes_, dava in questo tenore il ragguaglio:

«_Cronaca politica_: Nizza, 26 giugno. — Ieri alle 2 pomeridiane
nella grande sala dell’albergo _York_ ebbe luogo il fraterno banchetto
che i Nizzardi offersero al valoroso generale Garibaldi e ai valenti
legionari suoi compagni di esiglio e di gloria. La sala era addobbata
di bandiere e adornata di fiori; circa duecento invitati, fra i quali
il signor Intendente generale, vi si trovavano riuniti per festeggiare
l’arrivo del celebre Capitano, che consacrò la sua vita alla difesa e
al trionfo della libertà.

»Dopo i discorsi e le felicitazioni, pronunciati da qualche convitato,
il Generale prese la parola in lingua francese e si espresse con una
certa facilità in questa lingua, quantunque siano quindici anni che
ha lasciato Nizza ed abitato il Brasile, ove lo spagnuolo dovette
diventare la sua lingua abituale; egli approfittò di questa occasione
per riassumere il suo passato e la sua attuale situazione:

«Voi sapete, egli disse, se io fui mai partigiano dei re, ma poichè
Carlo Alberto si fece il difensore della causa popolare, io ho creduto
dovergli recare il mio concorso e quello de’ miei camerati. D’altronde,
aggiunse egli, una volta che la libertà italiana sarà assicurata, ed il
suolo liberato dalla presenza _del nemico_, io non dimenticherò giammai
che sono figlio di Nizza e mi si troverà sempre pronto a difendere i
suoi interessi.[99]»

Trattenutosi alcuni giorni a Nizza per apparecchiare le cose sue
e riordinare la Legione, a cui i Nizzardi avevano recato un primo
rinforzo di settanta volontari, il 28 mattina salpa con circa
cencinquanta[100] legionari, bene equipaggiati ed armati, per Genova,
dove arrivò al pomeriggio del 29, accolto dai Genovesi con quello
stesso entusiasmo di popolo, con cui era stato accolto a Nizza e lo
sarà d’ora innanzi ovunque, e ricevuto dalle stesse Autorità, che
egli per il primo s’era recato a visitare, con ogni dimostrazione
d’onore.[101]

Ma i primi suoi passi erano stati verso il povero Anzani, che fattosi
trasportare da qualche giorno in Genova, si era quivi rapidamente
aggravato. Lo trovò infatti quasi moribondo; n’ebbe il cuore lacerato;
lo consolò degli alti conforti che l’anima eroica dell’uno era degna di
udire dalla voce eroica dell’altro; stette al suo capezzale finchè gli
fu concesso; ma alla fine chiamato dalla voce imperiosa della patria, e
costretto dalle necessità della sua impresa a recarsi al campo del Re,
dal quale s’attendeva aiuti e favori, si staccò coll’anima straziata
dalle braccia del venerato amico, e fu per sempre.

Prima però di lasciar Genova fu obbligato, parte dalla sua stessa
posizione, parte dalla febbre parolaia e festaiuola di quel tempo,
ad intervenire ad un’adunanza del Circolo Nazionale di quella città;
quindi ad udirvi dei discorsi ed a pronunciarne uno egli stesso.
Invitato difatti da un membro del Circolo a dire quale fosse il
suo giudizio sulle cose della guerra e sulle condizioni del nostro
esercito, si schermì dapprima modestamente, dicendo che a lui, giunto
appena dall’America, mancavano i criterii per sentenziare sopra
argomento sì grave; ma poi, eccitato dall’opportunità, e lasciando
libero il corso ai più intimi pensieri dell’animo suo, con molta misura
e molta franchezza insieme soggiunse:

«Il maggiore pericolo che ci sovrasta è quello che la guerra si
prolunghi e non sia terminata quest’anno. Noi dobbiamo fare ogni
sforzo possibile perchè gli Austriaci siano presto cacciati dal suolo
italiano, e non si abbia a sostenere una guerra due o tre anni. Ora
noi non possiamo ottenere questo intento, se non siamo fortemente
uniti. Si dia bando ai sistemi politici; non si aprano discussioni
sulla forma di governo; non si destino i partiti. La grande, l’unica
questione del momento è la cacciata dello straniero, è la guerra
dell’indipendenza. Pensiamo a questo solo: uomini, armi, danari, ecco
ciò che ci bisogna, non dispute oziose di sistemi politici. Io fui
repubblicano (esclama il Generale), ma quando seppi che Carlo Alberto
si era fatto campione d’Italia, io ho giurato di ubbidirlo, e seguitare
fedelmente la sua bandiera. In lui solo vidi riposta la speranza della
nostra indipendenza; Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro
simbolo. Gli sforzi di tutti gli Italiani si concentrino in lui. Fuori
di lui non vi può essere salute. Guai a noi, se invece di stringerci
tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in
conati diversi ed inutili, e peggio ancora se cominciamo a sparger fra
noi i semi di discordia. Uniamoci, uniamoci nel solo pensiero della
guerra; facciamo per la guerra ogni sorta di sacrificio. Pensiamo che
essi saranno sempre minori di quelli che ci imporrebbero i nemici se
fossimo vinti.»

E queste parole, scrive il giornale d’onde le togliamo, vennero
spesso interrotte e seguite da grandi applausi; onde il Presidente
disse che rispondevano esattamente ai sentimenti del Circolo, e
l’Assemblea chiuse la cerimonia nominando socio onorario del Circolo
stesso Garibaldi, che incominciò forse da quel giorno a conoscere la
beatitudine d’essere il Socio e Presidente nato e perpetuo di tutte
le Società concepibili ed inconcepibili, di cui in qualche parte il
bisogno e l’utilità, ma in grandissima l’ozio, il capriccio e la moda,
vanno seminando il secolo XIX.

Certo le parole del generale Garibaldi erano schiette, e traducevano
esattamente il concetto ch’egli si era sempre formato d’una guerra
nazionale, nella quale uno doveva comandare, e tutti gli altri obbedire
e combattere. Però la lettera a Pio IX del 1847, il discorso su Carlo
Alberto del 1848, il programma di Marsala del 1860, non fanno che
una cosa sola, non sono che l’applicazione del medesimo pensiero e
il contrassegno del medesimo uomo. È sempre lo stesso patriotta puro
e disinteressato che predica il suo verbo e si prepara a segnarlo
col sangue: far l’Italia con chicchessia e comunque, rimettendo
all’indomani le quistioni litigiose del suo ordinamento e della sua
costituzione.

Che se un giorno egli avrà il torto di metter bocca in quistioni
non sue, e disadatto d’ingegno, impreparato di studi, digiuno d’ogni
esperienza, volerle col taglio della sua retorica epistolare recidere,
come col taglio della sua spada eroica falciava le falangi nemiche,
consoliamoci e perdoniamogli ancora: chè quella retorica consumata
dalle sue stesse ripetizioni e contraddizioni passò sempre senza
lasciare alcuna traccia nociva, nè dare alla patria altro dolore
che di vedere il suo eroe, «nato a cingersi la spada,» capovoltare
il «fondamento che natura» aveva posto in lui, e tentar, invano per
fortuna, di sfabbricare coll’insania delle parole il monumento di
gloria ch’egli aveva eretto a sè stesso colla virtù delle opere.


III.

Frattanto nel giorno stesso che Garibaldi partiva per il Mincio
arrivava a Genova il Medici, reduce dalla sua escursione in Toscana,
scontento dell’esito, e irritato con Garibaldi che l’aveva piantato e
se n’era andato a sbarcare altrove.

Ora anche la sua prima visita era stata all’Anzani, e manifestatagli la
sua collera per la condotta, a’ suoi occhi poco leale, di Garibaldi,
si udì rivolgere dal morente questo profetico consiglio: «Medici,
non essere severo con Garibaldi: egli è un predestinato; gran parte
dell’avvenire d’Italia è nelle sue mani, e sarebbe un grave errore
abbandonarlo e separarsi dalla sua fortuna. Anch’io mi sono qualche
volta guastato con lui; ma poi, convinto della sua missione, mi sono
sempre riconciliato per il primo.»

All’indomani l’uomo che proferiva queste fatidiche parole non era
più; ma l’altro uomo che le aveva udite le portò stampate nel cuore
per tutta la vita. Raccolto l’estremo sospiro dell’amico, resigli gli
ultimi tributi, il Medici partì per Torino; ma scontratosi quivi alcuni
giorni dopo con Garibaldi, fu il primo a gettarsi nelle sue braccia,
riannodando con lui quel patto d’amicizia, cementata di poi su venti
campi di battaglia, che nemmeno i tardi dissensi politici poterono
infrangere, e che fin negli ultimi anni rimase quasi arra di pace fra
il Quirinale e Caprera.

Intanto il nostro eroe era giunto al termine del suo viaggio. Passato
in fretta da Novara, dove non l’arrestarono le solite ovazioni;
toccato Pavia per visitare il Sacchi, sempre infermo della sua ferita,
e che frattanto andava raccogliendo nella sua città natale un nucleo
di volontari, arrivò fra il 3 e il 4 luglio al quartier generale di
Roverbella, e si presentò immediatamente al Re. Questi lo accolse con
principesca cortesia, si mostrò edotto delle sue gesta d’America e le
commendò altamente; ma stretto a rispondere alla domanda dell’eroe, la
invincibile sua irresolutezza lo riprese; l’antica sua diffidenza delle
armi popolari e degli uomini rivoluzionari lo riassalse, e scusandosi,
assai male a parer nostro, co’ suoi doveri di Re costituzionale, lo
rinviò a’ suoi ministri.[102]

E Garibaldi amareggiato da quel nuovo indugio, ma non iscoraggito,
piegò al consiglio, e condottosi difilato a Torino si presentò
senz’altro al Ministero della guerra e vi ripetè la sua istanza.
Teneva quel portafoglio il generale Ricci, brav’uomo e colto militare,
ma impregnato di tutti i pregiudizi di quella che allora poteva ben
dirsi la sua casta, ed educato a veder subito un intrigante ed un
avventuriere in ogni uomo che pretendesse all’esercizio delle armi
senza averne presa l’ordinazione sacramentale in uno dei due santuari
della famiglia: l’Accademia o la Caserma. Egli cominciò a pagar
Garibaldi di quegli arzigogoli legali e di quella retorica evasiva che,
fanno sentire mille miglia lontano il rifiuto, sino a che pressato dal
condottiero a spiegarsi più chiaro, finì col consigliarlo a recarsi a
Venezia; «campo così degno di lui; e dove poteva prendere il comando
di qualche flottiglia tanto utile a quell’assediata città.» A questa
sortita è fama che Garibaldi rispondesse asciutto: «Signore, io sono
uccello di bosco e non di gabbia,» e che voltasse le spalle all’incauto
consigliere.

Nemmeno quella ripulsa l’aveva sconfidato. Quel che non poteva dal
Governo, Garibaldi sperava ottenerlo dagli amici, dagl’Italiani, dal
popolo, come dicevasi, e in questa nuova illusione sciupava il suo
tempo e i suoi passi. Ora stampavano che gli verrebbe confidato il
comando dei Volontari del Caffaro, richiamando il Durando a capitanare
la Divisione regolare lombarda; ora si ritornava al pensiero di unire
al manipolo de’ suoi legionari altri volontari; ora un progetto, ora un
altro; ma infatti i giorni passavano, e nulla si conchiudeva e a nulla
si approdava.

E diciamo qui tutto il pensier nostro: ogni conclusione ispirata
dall’angusto concetto di fare di Garibaldi il comandante d’una
guerriglia o d’un Corpo franco qualsiasi, poteva contentar lui e
salvare le apparenze, nel fatto era piccina e infruttuosa. O indovinato
l’uomo si aveva fede nel suo genio, nel suo patriottismo e nella
sua fortuna, e conveniva usarlo per quel che valeva, mettendo nelle
sue mani tanta forza e tanta autorità, quante potessero bastargli
ad arrestare l’incominciato rovescio; o l’uomo non si capiva e si
dubitava di lui, e il baloccarlo con lusinghe, o sciuparlo in sterili
schermaglie, era insano, indegno e sleale. Una vera ispirazione del
Cielo sarebbe stata quella di affidargli il governo della nostra
squadra nell’Adriatico, e in qualche giornale del tempo lo vedemmo
suggerito; ma quello che non si comprese nel 1866 si poteva egli
comprenderlo nel 1848?

Visto pertanto che i ministri erano anche più sordi del Re, e gli
avvocati, i tribuni, i ciarlatori dei Club più sterili d’opere del Re e
dei ministri, deliberò di togliersi da Torino e di tentare Milano, dove
giunse infatti la sera del 15 luglio e l’aspettava miglior fortuna.
Sorvoliamo, come al solito, su le feste, le luminarie, le parate. Si
era nel 1848 e tanto basta.[103] Tuttavia i passi del nostro cavaliere
errante in cerca d’un brano di terra su cui combattere per la patria
sua furono, questa volta, meno infruttuosi. Milano era pur sempre la
città delle Cinque Giornate, e dove il concetto della guerra popolare
e rivoluzionaria era scoppiato, a dir così, dal seno stesso delle
barricate; a Milano affluiva la più animosa gioventù, impaziente di
armarsi e di combattere; a Milano infine lo stesso Governo Provvisorio
s’affaccendava, confusamente sì, ma volonterosamente a reclutare
quante più milizie poteva, e non vincolato da obblighi politici e
da pregiudizi militari, accoglieva, fin troppo facilmente, quanti
venissero a profferirgli il loro braccio, senza guardare tanto
sottilmente d’onde venissero, nè quanto valessero, nè quali assise
vestissero; peccando piuttosto per eccesso di larghezza che per il suo
contrario.

A ciò si aggiunga che a Milano era già arrivato sin dal maggio il
Mazzini, il quale nel suo giornale l’_Italia del Popolo_ sosteneva,
con tutto l’apostolico calore della sua eloquenza, la necessità di
render quanto più popolare la guerra, ed aveva perciò immediatamente
patrocinato l’idea di affidare all’eroe di Montevideo una parte
importante. Molte eran dunque le ragioni che consigliavano al Governo
Provvisorio di procedere speditamente; e però il giorno stesso del suo
arrivo esso offerse al nostro Garibaldi il comando di tutti i volontari
raccolti fra Milano e Bergamo, i quali potevano sommare a circa
tremila.

Non eran certamente quelli che potessero salvare il paese; ma più di
quanto Garibaldi in quel momento potesse desiderare.

Quei volontari erano una mescolanza di tutte le razze e di tutti
i colori; ma ciò non guastava. Accanto a una legione di Vicentini,
dal nome del generale chiamata _Antonini_, discretamente armata ed
organizzata, schieravasi il battaglioncino dei Pavesi che il Sacchi
aveva formato a Pavia; dietro a un centinaio di giovani egregi, nati
dalle più distinte famiglie milanesi, e avanzi, la più parte, delle
Cinque Giornate, venivano gli scarti, i transfugi, gli erranti di tutti
i Corpi franchi che andavano dallo Stelvio al Caffaro; assieme a una
varia schiera di volontari lombardi marciava uno stuolo di Liguri e
Nizzardi; e con tutti questi il manipolo dei legionari condotti da
Montevideo.

E poichè il Governo Provvisorio aveva bensì dati gli uomini, ma non
aveva potuto dare nè tutte le vesti, nè tutte le armi, così buona parte
di quella gente aveva dovuto pensare ad armarsi ed equipaggiarsi come
e dove aveva potuto, e presentava perciò il più variopinto mosaico che
la fantasia d’un pittore di accampamenti potesse inventare. Chi era
alla borghese, chi alla militare; chi insaccato in un _ritter_, casacca
di fatica che i Croati nella fretta del 23 marzo avevano dimenticato a
Milano; chi drappeggiato nel così detto costume _all’italiana_, giacca
di velluto e cappello piumato alla calabrese; chi portava un fucile a
percussione e chi un _silder_ austriaco; chi una carabina svizzera, chi
uno schioppo da caccia, chi un catenaccio a focaia, e chi.... niente.
Ma Garibaldi a Montevideo doveva aver visto anche di peggio, e quel
pittoresco disordine anzichè sgomentarlo lo divertiva e lo esaltava.
Conviene anzi soggiungere che egli era il solo che sapesse servirsi
di siffatta accozzaglia e all’uopo cavarne un effetto qualsiasi.
Ordinatala pertanto in non so quanti battaglioni, dato al più scelto
di essi il nome venerato _Anzani_, e postolo agli ordini del Medici,
che dopo Torino non s’era mai staccato da lui, nel pomeriggio del
25 luglio, obbedendo a un ordine del _Governo Provvisorio_, lasciò i
quartieri di Milano e s’incamminò alla volta di Bergamo.[104]


IV.

Era già tardi. Si era delirato cinque mesi in un sogno carnevalesco di
vittorie senza pugna, di trionfi senza onore, di gloriole senza merito;
l’ora del risveglio era suonata. L’esercito piemontese in tre giorni di
lotta eroica disfatto; le linee del Mincio e dell’Oglio perdute; quella
dell’Adda insostenibile; tutta la Lombardia riaperta agli eserciti di
Radetzki; Milano stessa minacciata; ecco le notizie che dal 24 al 30
luglio con incalzante terribilità giungevano nella capitale lombarda.
Non spetta a noi narrare quei giorni sciagurati; se c’incombesse,
non ci sgomenterebbe, per quanto doloroso, il tèma, convinti che,
se l’ambascia di quei ricordi è grande, più grande ancora è il loro
ammaestramento. Gl’Italiani hanno più da imparare dal 48 che da tutti
i secoli della loro storia. Esso compendiò come in un microcosmo tutta
la vita italiana. Tutte le debolezze del nostro carattere, tutte
le colpe delle nostre discordie, tutti i danni delle nostre sètte,
tutti i frutti della nostra educazione rettorica e parolaia, tutte le
conseguenze delle nostre abitudini molli ed anti-militari, tutto il
marciume del nostro spirito tra scettico e superstizioso si videro
riassunti e rispecchiati nel giro di que’ pochi mesi, come Macbeth
vedeva nella fila degli specchi tutta la progenie di Banco. Il 1848
è il nostro grand’anno fatale; fatale nel senso greco della parola;
l’anno che doveva essere perchè l’Italia fosse. Esso riepilogò il
nostro passato, ma preparò insieme il nostro avvenire. Quella solenne
smentita inflitta ai nostri decantati _primati_; quell’amara esperienza
della nostra pochezza pagata a prezzo di tante lagrime e di tanto
sangue; quell’esame obbligato delle nostre forze; quel lavacro bollente
delle nostre vanità; quello sfogo tormentoso, ma igienico, dei guasti
umori raccolti da secoli nel nostro corpo, erano necessari, benefici,
provvidenziali, affinchè l’Italia vedesse alla fine l’anno della sua
salute, e risorgesse.

Pure tutto non si poteva nè si voleva credere perduto; e lo stesso
Carlo Alberto, nella generosa, ma incauta promessa di voler vincere o
morire coi «suoi Milanesi,» aggiunse ai molti altri anche quell’estremo
errore e quella estrema illusione. Errore, perchè ogni ragione
strategica lo consigliava a ritirarsi oltre il Po e a difendersi sotto
Piacenza; illusione, non perchè fosse, a parer nostro, impossibile
protrarre lungamente contro soli trentacinquemila nemici la difesa
d’una città guardata, tra regolari e volontari, da altrettanti
combattenti, protetta da un ricco parco d’artiglierie, abitata da
una popolazione numerosa, armata, energica, pronta, se avesse trovato
l’uomo capace d’inspirarglieli, agli estremi sacrifici; ma perchè a
render fruttuosa, almen di gloria, la resistenza, mancava quella forza
che sola produce i miracoli di Sagunto e di Saragozza: la fede. Fede
del Re nell’esercito e nel popolo; fede del popolo e dell’esercito nel
Re; fede di tutti se non nella vittoria, nella religione de’ forti:
soccombere con onore.

Tuttavia il magnanimo proposito di Carlo Alberto parve a tutti in
sulle prime il solo degno ed accettabile; e se chieder armi, rizzar
barricate, bruciar case, offrir vita e sostanze, gridar «guerra e
morte,» potevano esser presi per certi segni della deliberata volontà
d’un popolo di seppellirsi sotto le ruine della sua città, Milano li
diede tutti.

Intanto fin dall’annunzio dei primi disastri un _Comitato di Difesa_
s’era costituito, il quale, mentre re Carlo Alberto andava radunando le
membra sparte del suo esercito, assumeva di porre in istato di difesa
la città, decretava le fortificazioni e l’asserragliamento delle mura
e delle vie, cercava armi ed armati, ordinava le milizie popolari
raccolte nella città, mandava in Svizzera ad assoldar nuovi volontari,
provvedeva al vivere dell’esercito e della popolazione, richiamava
infine a Milano quanti Corpi franchi non erano stati tagliati fuori
dall’invasione nemica, e fra quelli necessariamente anche Garibaldi.

L’ordine lo raggiunse la sera del 3 agosto a Bergamo; e poichè egli
pure era consapevole del vero stato delle cose, e le avanguardie
austriache bivaccavano già a Cassano d’Adda, non esitò un momento;
e fatti nella notte stessa gli apparecchi della partenza, per la
via più corta e sicura di Pontida-Brivio-Merate, dopo trent’ore di
marcia forzata, verso le due pomeridiane del giorno 5 giunse a Monza.
Conduceva seco da cinquemila uomini, e fra essi, confuso co’ gregari
del battaglione Anzani, venuto a chiedere in quella suprema distretta
della patria il suo posto di combattimento, Giuseppe Mazzini;[105]
la truppa era poco agguerrita, ma volonterosa; Monza, finchè Milano
resisteva, poteva essere una buona posizione di fianco sulla destra
dell’esercito austriaco, e quand’anco gli fosse tolto di penetrare
nell’assediata città, l’audace condottiero sperava sempre di poter da
quella postura molestare il nemico e recare agli assediati anche dal di
fuori un non spregevole soccorso.

Troppo tardi. Sfasciato l’esercito; discordi, sfiduciati e istupiditi
i generali; riescite sterili o sfortunate anche le prime fazioni
combattute sotto le mura; stremati i viveri e le munizioni; smarrita
ogni speranza di soccorso; poche, disordinate, inesperte le milizie
cittadine; tumultuante, diviso il popolo; impossibile la resistenza,
impossibile persino l’eroismo della disperazione, certo l’eccidio della
città, e forse con essa inevitabile la ruina del Piemonte e della sua
libertà, Carlo Alberto ebbe il triste coraggio di far tutta sua l’onta
amara d’una resa che la giustizia della storia distribuisce su molti;
e la sera del 4 agosto mandò una proposta d’armistizio al nemico, che
l’accettò.

Ora quel che ne seguisse è noto. Come il popolo, prima incredulo
all’annunzio dell’armistizio, poi infuriato e demente gridasse Carlo
Alberto traditore, lo assediasse nel suo palazzo e lo minacciasse
della vita; come dopo una invereconda altalena di giustificazioni e
di smentite, l’armistizio fosse confermato, e Carlo Alberto, salvato
a stento dalla intrepida devozione de’ suoi più fidi, fuggisse notte
tempo come un malfattore, tuttociò è vivo ancora nella memoria della
nostra generazione, e a noi basta ricordarlo.

Ma l’annunzio dell’armistizio Salasco non aveva trovato increduli nella
sola Milano; tutta la Lombardia, quanti, può dirsi, avevano in petto
scintilla di amor di patria, lo rinnegarono collo stesso sentimento
d’incredulità sdegnosa, con cui l’aveva rinnegato la città che
n’era la prima vittima. E non parliamo di Garibaldi. In sulle prime,
sbalordito egli pure dalla terribile notizia, s’era apparecchiato a
ritirarsi da Monza, la quale dopo la caduta di Milano era una stanza
pericolosissima; ma appena un certo signor Villa gli scrisse una
lettera per assicurarlo che tutte quelle voci erano bugiarde, prende
colla credulità del desiderio quella lettera per vangelo, e anzichè
pensare alla ritirata delibera di marciare prontamente in soccorso di
Milano, e incuora i suoi compagni a seguirlo con un Manifesto che si
chiude con queste parole:[106]

  «Si rinfranchi pertanto lo spirito d’ognuno di voi, ed accorrete
  ad unirvi alla mia colonna che move sopra Milano a prestare a quei
  generosi abitanti l’aiuto per discacciarne l’abborrito nemico.

  »La salute della patria dipende dalla celerità con cui potrete meco
  sostenere Milano.

                                              »Generale GARIBALDI.»

Invano! tutto era consumato! l’esercito piemontese era già in ritirata
verso il Ticino; l’esodo dei patriotti e dei proscritti era già
cominciato; Radetzki, superbo come un conquistatore, passeggiava già le
vie di Milano; la Lombardia piegava il capo al duro destino; conveniva
che Garibaldi lo piegasse egli pure.

E considerata la posizione di Monza, priva, dopo la caduta di Milano,
di qualunque punto d’appoggio, preveduto il pericolo d’essere da un
istante all’altro assalito e ravvolto dagli Austriaci, Garibaldi decise
di ritirarsi su Como, dove almeno poggiava ancora le spalle ai monti e
aveva prossimo in ogni estremità il rifugio in Isvizzera.

Però egli voleva ritirarsi, non fuggire; molto meno deporre le armi
senza aver combattuto. Se l’Italia si rassegnava a credere tutto
perduto, egli non lo poteva; sperava sempre che la resistenza fosse
possibile; che il paese, scosso il primo sbalordimento del colpo, si
leverebbe come un sol uomo, per protestare contro quel che egli, colle
parole che erano sulle labbra di tutti, chiamava: _il tradimento del
Re_, e continuare da sè, co’ propri petti e le proprie armi, l’impresa
che la viltà regia aveva disertata. Forse gli pareva d’essere ancora
nell’America spagnuola, dove ogni accolta di bande si chiamava un
esercito, e simili eserciti s’improvvisano colla stessa rapidità con
cui si sciolgono; dove ognuno può far la guerra per proprio conto e
trovar comunque seguaci; dove la natura del suolo e l’indole degli
abitanti rendono possibile protrarre all’infinito la guerriglia di
partigiani; dove infine il sentimento dell’indipendenza dallo straniero
è una seconda religione, e una guerra nazionale non resta, come da
noi, abbandonata al solo esercito, martire forzato che deve morire
per tutti, ma la combatte senza tregua e senza quartiere, con tutta la
ferocia d’un fanatismo religioso, tutto il paese.


V.

Infiammato pertanto da questi ricordi e ispirato da questa fede,
Garibaldi arriva co’ suoi alla Camerlata; ivi prende posizione e
si trincera; spedisce frattanto messi al Griffini, al D’Apice, al
Manara, all’Arcioni perchè si uniscano e s’accordino con lui per
continuare la guerra santa; apre nuovi arruolamenti, invita alle armi
il paese. Illusioni: il Griffini per la Val Camonica, il D’Apice per
la Valtellina erano già in cerca del confine svizzero; il Manara,
il Dandolo, il Durando subendo l’armistizio s’incamminavano verso
il Ticino; la sua colonna, anzichè ingrossare di nuovi volontari,
perde anche quelli che ha, sinchè da cinquemila è ridotta a men che
tremila; il paese, tuttora istupidito dalla fiera percossa, lo guarda
trasognato, ed una cosa sola è sicura: che gli Austriaci s’avanzano,
e in poche giornate possono averlo avviluppato entro una rete senza
uscita.

Tuttavia Garibaldi non volle darsi vinto ancora. Levò bensì il
campo da Como, dirigendosi verso San Fermo; ma giunto sulla piazza
del villaggio, che un altro giorno dovrà render storico, arresta la
colonna, fa formare il quadrato e la arringa. Le dice che sarebbe vile
deporre le armi; che bisogna continuare la guerra di banda, più sicura
di tutte quando si ha fede ne’ capi, costanza e disciplina, ed altre di
quelle parole incisive e pittoresche che egli sapeva così ben trovare.
Un silenzio eloquente fu la prima risposta a quel discorso; nuove
diserzioni a stormi furono il commento di quel silenzio.

A quel punto anche il nostro eroe sentì la dura realtà prenderlo alla
gola; un sentimento indistinto di nausea e di scoramento si fe’ strada
per la prima volta nell’animo suo; e calatosi, come soleva sempre
negl’istanti più torbidi, il cappello sugli occhi, marciò senz’altro
col resto de’ suoi seguaci a Varese, d’onde, passata la notte del
9, ripartì al mattino seguente per il Lago Maggiore, e tragittato il
Ticino a Sesto Calende, approdò la sera del 10 agosto a Castelletto
presso Arona.

Colà giunto però, la sua natura, un istante soffocata, riprende
il sopravvento; la vergogna di ritirarsi, egli, Garibaldi, senza
aver combattuto, lo assale; un raggio di speranza di rianimare con
un’ardita iniziativa la fiamma dell’insurrezione lombarda, torna a
spuntargli nell’animo, e delibera senz’altro di ripassare il confine e
di riprendere comunque l’abbandonata impresa. E come se a confermarlo
nell’ardito proponimento fosse mestieri di maggiore eccitamento,
ecco pervenirgli un ordine del Duca di Genova, che a nome del Governo
subalpino gli intima di sciogliere le sue bande e di uscire egli stesso
dal territorio sardo. Non si contenne più l’indomito, e risposto
fieramente al Duca: «Essere libero cittadino, non riconoscere il Re
sardo, nessuno potergli togliere il diritto di cacciare lo straniero
dal suolo della patria;» inalbera il vessillo mazziniano _Dio e
Popolo_, e pubblica questo Bando agl’Italiani, nel quale troppo
naturalmente la violenza della passione spiega la confusione delle idee
e la virulenza del linguaggio:[107]

                             «AGL’ITALIANI.

  Eletto in Milano dal Popolo e da’ suoi rappresentanti a duce di
  uomini, la cui mèta non è altro che l’indipendenza italiana, io non
  posso uniformarmi alle umilianti convenzioni ratificate dal Re di
  Sardegna collo straniero aborrito, dominatore del nostro Paese.

  Se il Re di Sardegna ha una corona che conservò a forza di colpe e
  di viltà, io ed i miei compagni non vogliamo conservare con infamia
  la nostra vita; non vogliamo, senza compiere il nostro sagrificio,
  abbandonare la sorte della sacra terra al ludibrio di chi la
  saccheggia e la manomette.

  Un impeto solo di combattimento gagliardo, un pensiero unanime
  ci valse la santa civile indipendenza che gustammo, sebbene pochi
  fra i migliori l’avessero guadagnata ed uniti poscia coi più per
  inganno la vedessero scomparsa.

  Ma ora che il pensiero, sciolto l’iniquo freno alla sua
  manifestazione, ha già diffuso per tutte le menti quella suprema
  verità che suona a sterminio de’ tiranni; ora che l’opera da
  infiniti elementi rafforzata si può ordinare e la prestano
  già numerosi corpi emancipati dagl’interessi legali; ora che
  sono smascherati que’ traditori che pigliarono le redini della
  rivoluzione per annichilirla; ora che sono note le ragioni
  dell’eccidio a Goito, della mitraglia e delle febbri di Mantova,
  dello sterminio de’ prodi Romani e Toscani, delle codarde
  Capitolazioni, il Popolo non vuol più inganni.

  »Egli ha concepito la sovrana sua potenza, la provò e volle
  conservarla al prezzo della vita, ed io ed i miei compagni che ne
  ebbimo fiducioso mandato, che accogliemmo qual dono il più prezioso
  che potesse a noi largire il Supremo, noi vogliamo corrispondergli
  come ne spetta. Nè vagheremo sulla terra che è nostra, non ad
  osservare indifferenti la tracotanza de’ traditori, nè le straniere
  depredazioni; ma per dare all’infelice e delusa nostra Patria
  l’ultimo nostro respiro, combattendo senza tregua e da leoni la
  guerra santa, la guerra dell’indipendenza italiana.

      »Castelletto, 13 agosto 1848.

                                               »Firmato GARIBALDI.»

Ciò detto e pubblicato, s’impadronisce nello stesso porto d’Arona dei
due piroscafi _San Carlo_ e _Verbano_; imbarca in essi e in alcune
navicelle a rimorchio i millecinquecento uomini rimastigli; risale
tutto il Lago Maggiore e sbarca nella giornata del 14 a Luino, dove
s’accampa.

Era la prima sorpresa a cui Garibaldi abituava gli Italiani. Invano
lo dissuadevano l’esiguità della schiera, la povertà dei mezzi, il
crescente sopore delle popolazioni; invano lo osteggiava la natura
medesima, assalendolo il giorno stesso della partenza con una terribile
febbre: Garibaldi aveva deciso di non lasciare la terra lombarda senza
misurarsi collo straniero che la calpestava, e manteneva il voto.

Nè l’occasione di scioglierlo gli tardò molto. Fin dal mattino del 15
una colonna di Austriaci, forte press’a poco quanto la garibaldina,
partiva da Varese coll’intenzione di attaccarla e forse colla speranza
di sorprenderla. Garibaldi era ammalato colla febbre nell’albergo
della _Beccaccia_, posto a pochi metri da Luino, sulla strada stessa di
Varese. Il Medici però vegliava per lui; e barricata di là dall’albergo
la strada, collocati con diligenza gli avamposti, mandati esploratori
a scandagliare i dintorni, stava attentamente sull’arme. Difatti non
era scoccato il mezzogiorno, che gli esploratori vennero ad annunciare
l’avanzarsi del nemico. Il Medici corre tosto ad avvertire Garibaldi,
il quale, quasi dimentico del male che lo tormentava, balza di letto,
monta a cavallo, spiega una parte della colonna sulla strada e nei
campi circostanti, apposta sulla sinistra il Medici col rimanente
del corpo, lascia, secondo il suo costume, approssimare il nemico,
e scambiati pochi colpi, lo carica alla baionetta, prima di fronte,
poi colla colonna del Medici, di fianco, e in poche ore lo sbaraglia,
inseguendolo per lungo tratto di via e costringendolo a lasciare sul
terreno tra morti, feriti e prigionieri circa centottanta uomini.


VI.

Ora che la nuova campagna di Lombardia era cominciata, bisognava
vederne la fine. Speso il giorno 16 ad aspettare un nuovo assalto
del nemico, che non venne, partì il dì seguente per Ghirla e per la
Valgana, s’avvicinò a piccole tappe a Varese, dove entrò il 18 alle
cinque del pomeriggio. La patriottica città lo accolse in trionfo.
Egli vi passò in riposo la giornata del 19, sequestrando e multando
alcune persone sospettate, forse a torto, di complicità col nemico,
e la mattina del 20, probabilmente avvertito dell’avvicinarsi degli
Austriaci, tornò a ritirarsi sulle colline d’Induno, spingendo il
Medici ad Arcisate. Difatti nel giorno appresso alcune compagnie di
Austriaci accompagnate da pochi cavalieri presentavansi a riconoscere
il paese, e raccolte le notizie di Garibaldi ne ripartivano tosto. Ma
il 23 tutta la divisione D’Aspre comandata dal suo Generale, forte di
circa undicimila uomini, entrava in Varese, mentre due altre colonne
austriache, l’una da Luino e l’altra da Como erano già in moto per
occupare tutti i passi della Valcuvia e del Mendrisiotto.

Garibaldi però ne fu informato, e col suo nativo acume indovinò
prontamente che, se lasciava tempo a tutte quelle colonne di compiere
le loro manovre, ogni via di ritirata in Isvizzera gli era preclusa
ed egli restava irremissibilmente schiacciato. Non esitò un istante;
lasciò il Medici ad Arcisate con circa duecento uomini, coll’ordine
di tener a bada e molestare il nemico, resistergli più che poteva
e all’estremo di rifugiarsi in Isvizzera; egli risalì per un tratto
la Valgana per confermare gli avversari nella credenza che volesse
difendersi su quegli altipiani, poi a un tratto muta direzione, gira
per Valcuvia, scende rapidamente su Gavirate, costeggia il Lago di
Varese, e per Capolago e Gazzada, dopo due giorni di marcia forzata,
riesce a Morazzone alle spalle del nemico, che lo supponeva sempre di
fronte.

Il generale D’Aspre non durò a lungo nell’inganno; uno spione gli
scoprì l’ardita mossa del nostro condottiero, ed egli deliberò di
andarlo ad assalire immediatamente nella sua nuova posizione. Infatti
all’indomani stesso (26 agosto), verso le quattro pomeridiane, una
colonna di cinquemila Austriaci, taluno disse comandata dallo stesso
D’Aspre, compariva improvvisamente innanzi a Morazzone. Garibaldi,
convien dirlo, non se l’aspettava, e le sue truppe, spossate dalle
marcie de’ giorni precedenti, facevano mala guardia. Il cannone nemico
però fu per tutti una sveglia. Garibaldi ha appena il tempo di montare
a cavallo e di accorrere in capo alla via principale del paese alle
prime difese; in brevi istanti l’attacco è incominciato su tutta la
linea, e i Garibaldini, scossa la prima sorpresa, animati dalla voce
e dall’esempio del loro Capitano, sostengono intrepidamente l’urto
nemico e lo arrestano. Il numero però non avrebbe tardato ad aver
ragione del valore, se l’attacco degli Austriaci fosse stato più
ragionato ed accorto. Il lato debole della posizione garibaldina era
la destra; non solo perchè colà il terreno più basso offriva miglior
campo all’attacco, ma perchè dalla destra si spiccavano le strade di
ritirata sulla Svizzera, ultimo scampo che ai Garibaldini rimanesse.
Il Comandante austriaco invece non vide o non capì nulla di tutto ciò,
ed invece di dirigere un forte attacco di fianco da quella banda, e
di sbarrare colle sue forze soverchianti quei passi, si contentò d’un
assalto tumultuario di fronte, che non gli poteva fruttare che una
mezza vittoria. E così avvenne di fatto. Garibaldi riuscì a protrarre
la difesa fino a notte inoltrata; poi, apertasi colle baionette una via
tra i petti nemici, si butta col maggior nerbo de’ suoi, ancora serrati
e minacciosi, nell’aperta campagna, e quivi li scioglie, consigliando
loro di guadagnare alla spicciolata il confine svizzero.

Egli dal canto suo li imitò, e travestito da contadino, per strade
e per sentieri impervii, ospitato e nascosto dagli amici, protetto
dalla sua stella, giunge anch’egli a sconfinare presso Ponte Tresa in
Isvizzera, dove ad Agno nella casa del signor Vicari riceve la prima
ospitalità.

Nè molto diversa era stata la sorte del Medici. Assalito il 24 agosto
da circa cinquemila uomini che in più colonne movevano ad avvilupparlo,
con soli centodieci tenne fronte per oltre quattr’ore ai replicati
assalti; finchè, apparsa pericolosa ogni ulteriore difesa, si ritirò
anch’egli, ma in bella ordinanza, a bandiera spiegata, nella limitrofa
Svizzera, lasciando il generale D’Aspre nella illusione d’aver
combattuto l’intera Legione di Garibaldi e d’aver conquistata una
grande vittoria.[108]


VII.

E così finì la prima impresa di Garibaldi in Italia!

Chi la riguardasse come una campagna di guerra si dilungherebbe dal
vero; ma chi la giudicasse soltanto un tentativo pazzo, insensato, si
dilungherebbe dal giusto. Essa fu quello che solamente poteva essere:
una protesta armata contro l’armistizio Salasco; protesta che non
avrebbe potuto approdare ad alcun fine, e Garibaldi lo capiva quanto
chicchessia, se non la secondava la riscossa generale de’ Lombardi;
ma che anco abbandonata a sè stessa, restava sempre l’audace disfida
d’un eroe e la disperata rivolta d’un patriotta, di cui, al postutto,
soltanto l’eroe-patriotta e i pochi suoi seguaci avrebbero sopportate
le conseguenze.

Militarmente considerata, la mossa di Morazzone fu una delle più ardite
che la mente d’un guerillero potesse immaginare; ma la sola, nel suo
caso, possibile. Posto tra le branche di tre corpi nemici, che ad ogni
ora si rinserravano, s’egli avesse tardato un giorno solo a sfuggire
alle loro strette, sarebbe rimasto inevitabilmente strozzato. Chiunque
infatti getti una occhiata sulla carta del terreno, sul quale Garibaldi
si trovava la mattina del 23 agosto, e pensi che le strade di Luino,
Varese, Como erano occupate dagli Austriaci, vedrà che il condottiero
di que’ primi mille poteva bensì inebbriarsi della disperata speranza
di aprirsi a baionetta calata una porta nel serraglio nemico e
riparare, coi laceri avanzi de’ suoi prodi, su qualche punto della
Svizzera; ma una lusinga qualsiasi di protrarre d’un sol giorno di più
la guerra, non la poteva più nutrire. Garibaldi era innanzi al dilemma:
stando fermo, essere certamente schiacciato tra ventiquattro ore;
muovendosi, esserlo assai probabilmente fra alcuni giorni; e preferì
naturalmente quest’ultima sorte.

Oltre a ciò, è egli veramente dimostrato che la marcia
Induno-Morazzone, per temeraria che vogliasi dire, non offrisse
alcuna probabilità di un successo migliore, almeno della immobilità,
o levasse, perchè la questione è questa sola, ogni speranza d’un
fine più glorioso? Noi non lo crediamo. Se la mossa di Garibaldi non
era subito scoperta; se egli poteva lasciar riposare la sua truppa
ventiquattr’ore, nulla gli vietava di piombare addosso di sorpresa
alle spalle del nemico; fors’anco, poichè l’effetto delle sorprese è
sempre incalcolabile, di sgominarlo. Che se il nemico, cosa probabile,
riavutosi presto dall’inopinato assalto, si fosse gettato con tutte
le sue forze contro di lui, a Garibaldi restava sempre la soluzione
finale offertasegli pochi giorni innanzi in Valgana: armeggiare fin
che poteva, farsi largo colla baionetta, ritirarsi o in Isvizzera o in
Piemonte, e in ogni caso cadere molto più tardi e con terribile gloria.

Comunque, questo è certo, che Garibaldi riuscì a mettere in moto
per sè solo e a trarsi dietro per dodici giorni circa quindicimila
Austriaci; che egli seppe per tre giorni ingannare sulle sue mosse uno
de’ più accorti e provetti generali dell’Impero; che l’ultima cartuccia
bruciata su terra lombarda contro lo straniero fu bruciata da lui.

Il migliore riepilogo pertanto di quella campagna lo fece lo stesso
generale D’Aspre, il quale scoprendo in tutte le azioni del suo
avversario i lampi d’un genio militare, che gl’Italiani oggi ancora non
hanno finito di riconoscere, diceva pubblicamente ad un magistrato:
«L’uomo che avrebbe potuto esservi utile nella vostra guerra
d’indipendenza del 1848, l’avete disconosciuto: era Garibaldi.[109]»




CAPITOLO QUINTO.

ROMA. [1849.]


I.

Torbidi gli avvenimenti, oscura la mèta, incerto de’ suoi passi, e quel
che era più, confitto in letto dal ritorno periodico di quei febbroni
onde lo vedemmo assalito la mattina di Luino, e che non l’avevano
mai abbandonato durante tutta la campagna, Garibaldi fu costretto a
prolungare la sua dimora in Isvizzera, più che non avrebbe voluto.
Verso la metà di settembre però potè partirne, e per la via di Francia
(forse il passaggio del Piemonte non gli sembrava sicuro) ricondursi
a Nizza. Ivi rivede la moglie, i figli, la madre; gusta per alcuni
giorni con essi le gioie della famiglia; ma poi, non liberato per
anco dalla terzana, ma sensibile anche più alla febbre patriottica che
gli bruciava l’anima, si strappa alla quiete del focolare domestico e
corre a Genova a cercarvi il solo rimedio alle febbri del corpo e dello
spirito: la lotta.

Il suo tragitto lungo il littorale fu un continuato trionfo: le
popolazioni accorrevano a frotte, da punti rimoti sul di lui passaggio,
e i Circoli inviavano a gara le loro deputazioni a felicitare l’eroe di
Montevideo e il combattente di Luino. Non erano però viva e battimani
che l’eroe cercava: di quelli ne era saturo; erano opere, erano armi ed
armati per combattere; era la concordia degli animi che dà la vittoria,
la costanza che la assicura ed anche dopo la sconfitta prepara la
rivincita. A Genova non trovò tutto questo; l’Italia d’allora non
poteva dar tanto; ma almeno nuovi volontari pronti a seguirlo e ben
presto nuove occasioni e nuovi campi di prova.

Le condizioni d’Italia al finire del settembre erano quelle d’un
esercito male costituito dopo una prima rotta. Il disordine era nelle
file: tutti volevano comandare, pochi ubbidire. Ciascuno aveva il suo
piano di campagna, il suo trovato infallibile e il suo rimedio eroico.
Chi era per la rivincita immediata, chi per la lunga aspettazione,
chi per la resistenza passiva e chi per la sottomissione paziente;
e intanto il nemico si riordinava, si rafforzava, s’assideva. In
Piemonte, il Ministero Pinelli resisteva invano al vociare della
piazza, alla baruffa dei partiti, al clamore dei Circoli. In Toscana,
il Montanelli imponeva a Leopoldo II, che in cuore la malediceva,
la sua panacea della _Costituente italiana_; ma non preparava nè gli
animi, nè le armi per effettuarla. A Roma, Pellegrino Rossi sprecava
il suo ingegno ed il suo patriottismo a risuscitare la popolarità di
Pio IX, dopo l’Enciclica del 29 aprile, morta per sempre, ed a piantare
in mezzo a popoli divisi tra gli eredi dei Sanfedisti e i figli de’
Carbonari gli ordinamenti temperati d’un governo costituzionale in
Napoli, Ferdinando II aveva già assassinata la promessa libertà e
invasa con un nuovo esercito la Sicilia; la quale, discorde, priva essa
pure d’armi, di milizie, di capitani, nonostante la gagliarda difesa di
Messina, stava per soccombere; onde in mezzo a quel turbinare d’errori,
a quel diluviare di sventure, a quello scrosciare di rovine, Venezia
sola, decretata _la difesa ad ogni costo_, sormontava, arca invitta, al
naufragio.

E fu appunto in quei giorni che una Deputazione di Siciliani si
presentò in Genova a Garibaldi per chiedergli una spedizione di
soccorso alla loro Isola pericolante. Non diversi in questo dagli altri
loro fratelli italiani, essi stimavano Garibaldi un condottiero di
bande e nulla più, e si sarebbero ben guardati dall’offrirgli una parte
importante, molto meno il comando d’un esercito. Oltredichè correva
l’andazzo dei generali polacchi, e la Sicilia metteva più volentieri il
suo esercito nelle mani d’un Mierolaswsky, come il Piemonte lo metterà
in quelle d’un Chzarnowsky, piuttosto che affidarlo ad un uomo che
aveva fatto bensì la guerra dodici anni, ma non portava brevetti, non
vestiva uniformi gallonate e decorate, ed aveva il torto di parlare
italiano.

Ma sappiamo che Garibaldi non guardava a queste miserie, e, senza
prendere un impegno assoluto, promise ai Siciliani che avrebbe dato,
per quanto fosse in lui, l’aiuto richiesto. Infatti, già raccolti
ed ordinati intorno agli avanzi della sua vecchia Legione e dei
commilitoni di Lombardia circa cinquecento volontari, s’imbarca sulla
fine d’ottobre col proposito, per allora, di recarsi in Sicilia; ma il
25 d’ottobre, a Livorno, i democratici di quella città gli si mettono
d’attorno, lo premono perchè resti in Toscana, e riprenda il comando
di quel simulacro d’esercito senza ordini e senza capo, e spalleggi il
Ministero del Montanelli e del Guerrazzi, che si trovavano minacciati
così dalla Reggia, come dalla piazza e ormai impotenti a governare.
Garibaldi che nel 1848 a quanto pare, non aveva nell’impresa di
Sicilia la fede che vi prestò nel 1860, si lasciò persuadere da quel
concetto e da quelle preghiere, e consentì a sbarcare con tutti i
suoi ed a recarsi a Firenze. Ivi, come di consueto, predicò unione,
concordia, gagliardia; ma, sia che la prospettiva di far la guardia
alla _Costituente italiana_ de’ suoi amici Montanelli e Guerrazzi
lo seducesse assai mediocremente, sia che l’immagine di Venezia
combattente per mare e per terra contro lo straniero gli balenasse a
un tratto, e il suo doppio genio di soldato e di marinaio lo attirasse
verso quel lido fortunoso, il fatto è che, scorsi pochi giorni appena,
lascia colla sua colonna Firenze e s’avvia per Bologna col disegno di
scendere a Ravenna e di là passare a Venezia.

Giunto però alle Filigare, trova un inatteso intoppo. Il generale
Zucchi (che cominciava allora a macchiare la sua onorata assisa di
veterano napoleonico e di soldato della libertà), posto dal Rossi a
Commissario straordinario in Bologna, timoroso che Garibaldi mirasse
allo Stato pontificio coll’intenzione di agitarlo e sommoverlo, gli
aveva inviato incontro un battaglione di Svizzeri coll’ordine preciso
di sbarrargli il passo. Il nostro condottiero allora non vidde altro
espediente che quello di recarsi egli stesso in persona a Bologna
per spiegare allo Zucchi lo scopo del suo viaggio, e persuaderlo
a lasciargli proseguire il cammino fino all’Adriatico. Lo Zucchi
non volle in sulle prime ascoltar ragioni e rinnovò il divieto; ma
essendosi vociferata la cosa e il popolo tumultuando minacciosamente
perchè fosse lasciato libero il transito al famoso e già amato
Capitano, anche il Generale pontificio stimò bene d’arrendersi, e
Garibaldi potè traversare, sicuro, Bologna ed arrivare non molestato a
Ravenna.

Ma era da soli pochi giorni in quella città intento a reclutare nuovi
seguaci,[110] ed a spiare ogni passo ed ogni opportunità che gli
schiudesse l’agognata via di Venezia, quando sonarono per tutta Italia
i tragici annunzi di Roma: il 15 novembre Pellegrino Rossi assassinato;
quindi il Papa assediato nel Quirinale e rassegnato a subire un
Ministero Mamiani, ma risoluto a non concedere di più; infine il 21
novembre Pio IX fuggito a Gaeta, la _Consulta governativa_ lasciata
da lui rifiutata, il governo affidato alle mani d’una _Giunta Suprema_
eletta dal Parlamento, la _Costituente_ convocata.

Un sì inatteso e violento mutamento nella scena principale d’Italia
mutò anche tutti i piani di Garibaldi. Ora che gli si apriva sì vicino
il campo di Roma, non aveva più mestieri d’andarsi a cercare a Venezia,
traverso una via irta d’intoppi e di pericoli, un’altra arena. Eppoi
se le attrattive di Venezia erano grandi, il fáscino di Roma era
irresistibile. Era essa la larva più luminosa e la rimembranza più
sacra della sua giovinezza; là per la prima volta sotto la sua polvere
sentì palpitare il cuore d’una grande patria; là, tra quelle rovine,
aveva veduto passeggiare i fantasmi di gloria divenuti da quell’istante
le guide invisibili ed i compagni inseparabili della sua fortunosa
odissea; infine là, verso quelle mura eterne, quella città madre delle
nazioni, quel focolare inestinguibile della civiltà del mondo, volarono
sempre i sogni, i passi, le ambizioni di tutta la sua vita.


II.

Naturale pertanto che appena uditi gli avvenimenti di Roma vi corresse
senza indugio, e profferisse al di lei nuovo Governo l’opera sua e de’
suoi compagni.

Ma alla spontaneità dell’offerta non fu pari la cordialità
dell’accoglienza. Il soldato di Montevideo era stato preceduto negli
Stati romani da una riputazione orribile. Colui che pei Piemontesi, pei
Lombardi, pei Siciliani era al postutto un condottiero di partigiani,
per la più parte dei popoli romani, effetto probabile di favole
fratesche, era un capo di banditi addirittura; un predone feroce e
sanguinario, atto soltanto a incendiare case e svaligiar persone;
poco meno, o poco più, che un Gasparone politico e un Mastrilli
rivoluzionario.

E quanto la rea fama mentisse, noi lo sappiamo. Molti esempi contava
la vita del soldato di Montevideo di umanità e di cortesia; di
ferocia e di cupidigia nessuno. Forse non si poteva dire altrettanto
di tutti i suoi commilitoni, e concediamo facilmente che in un corpo
ragunaticcio come il suo, razzolato marciando per la strada, sovente
fatto la mattina e disfatto la sera, più d’un vagabondo e più d’un
mariuolo vi sarà sgusciato dentro; ma che tutta la Legione fosse un
cibreo di galeotti e scampaforche e che il loro capo li proteggesse
o li tollerasse, qualche storico settario l’avrà detto, ma da nessun
scrittore onesto sarà ripetuto. Qualche requisizione un po’ forzata
sarà stata commessa; qualche siepe e qualche muraglia scavalcate;
qualche porta di convento scassinata; ma erano fatti isolati,
sconosciuti al Capitano, o appena noti tosto repressi e puniti.[111]

La guerra è la guerra, e il soldato in campagna, tanto più se lo sforzi
la stanchezza o la fame, è sempre disposto a guardare un po’ come
cosa sua il paese per cui o contro cui dà la vita, e se i legionari
garibaldini dovessero rispondere di qualche pollaio diradato e di
qualche vigneto vendemmiato, converrebbe chiamare a loro confronto
tutti gli eserciti del mondo.

Con tutto ciò la fama era quella, e l’offerta di Garibaldi aveva messo
la Giunta Suprema di Roma, composta d’uomini tutt’altro che temerari,
in un tremendo impiccio. Dall’un canto non volevano tirarsi in Roma
quel famigerato, il quale se proprio non era il masnadiero che la
contrada gridava, certamente per le sue idee rivoluzionarie era uomo
pericolosissimo; dall’altro temevano, respingendolo duramente, di
suscitar lo scontento de’ di lui amici e protettori, principalmente
dello Sterbini potente e del Ciceruacchio strapotente, e in quel
frangente pensarono uscirne con un compromesso e uno spediente:
favorirono al generale Garibaldi un brevetto di Tenente Colonnello, e
lo mandarono a svernare a Macerata.[112]

Il brevetto era una burla, e Macerata era un confino; ma Garibaldi non
vide in tutto ciò che il fatto certo d’essere ormai soldato di Roma,
e presa la sua Legione, già cresciuta fino a quattrocento uomini, se
n’andò quietamente anche a Macerata.

Colà invece, contro ogni aspettazione, l’accoglienza fu buona e
il soggiorno migliore. Garibaldi non si occupava quasi punto di
politica; badava ad ordinare, ad agguerrire e rinforzare la sua gente,
soprattutto a provvederla d’armi e vestiti; e tanto entrò nella stima e
nell’amicizia dei Maceratesi, che più tardi, quando furono convocati ad
eleggere un deputato alla Costituente, elessero lui.

Intanto la rivoluzione di novembre aveva cominciato a produrre i suoi
frutti. Da un canto la Giunta Suprema, sospinta e quasi sopraffatta
dall’onda dei demagoghi, lavorava ad apparecchiare il terreno alla
Costituente, dalla quale doveva uscire armata di tutto punto la
Repubblica; dall’altro Costituzionali e Clericali, quelli per orrore
all’assassinio, per timore dell’anarchia o per vaghezza di dottrina;
questi per odio alla libertà, per cupidigia di dominio, per tradizione
di sètta, si studiavano, con speranze e intenti diversi, a seminare
d’inciampi il cammino di quella rivoluzione, lorda bensì nella sua
culla da una macchia orrenda, ma il cui andare era necessario e fatale.

Tuttavia se i Costituzionali si limitavano a combattere colle parole e
col voto per la loro ubbía impenitente d’un Papa costituzionale, alla
reazione clericale ogni mezzo, giusta la vecchia teoria, era buono; e
in attesa che le Potenze cattoliche muovessero all’invito di Pio IX,
copriva di trame, solcava di mine tutto lo Stato romano; e in alcuni
luoghi, specie nell’Appennino Ascolano e nel confinante Abruzzo,
spalleggiata dal Borbone e alimentata dalla prossima fucina di Gaeta
aveva coronate le creste di quei monti, antico e famoso teatro del
Sanfedismo, di numerose bande brigantesche.

Importava quindi che la Giunta Suprema parasse, prima che ad ogni
altro, a quel vicino e più urgente pericolo; laonde in sui primi
di gennaio deliberò di mandare il colonnello Rosselli a combattere
d’accordo col preside Ugo Calindri il brigantaggio dell’Ascolano,
e di chiamare il colonnello Garibaldi a Rieti perchè guardasse
principalmente quel confine verso Napoli, e s’accordasse col Rosselli
e col Calindri per soffocare la rinascente reazione in tutto quel
territorio. E Garibaldi come gli fu ordinato partì; e per Tolentino,
Foligno, Spoleto arrivò in sullo scorcio di gennaio a Rieti, dove
s’accinse senz’altro all’opera prescrittagli.

In sulle prime i Rietini (narrava egli stesso ridendo) pareva che
avessero più paura di lui e de’ suoi compagni, che dei briganti; ma
a poco a poco, conosciutili meglio, si ricredettero, e quantunque il
suo mandato fosse arduo ed odioso, e richiedesse di quando in quando
severe punizioni e crude rappresaglie, tuttavia il temuto condottiero
non lasciò in quei luoghi alcun ricordo di ferocia, alcuna striscia di
sangue innocente. Rese invece non spregevoli servigi al Governo romano,
perseguendo nel più rigido inverno, con gente male in armi e peggio in
arnese, un ostinato malandrinaggio, tenendovi atterrita e rimpiattata
la reazione, custodendo fino all’ultimo tutto quel territorio, aperto
per tante vie alle insidie nemiche.


III.

Prima però della sua partenza pel Rietino, Macerata lo elesse suo
deputato alla _Costituente_,[113] e fu quello il primo voto che lo
mandò in un’Assemblea politica. La tanto sognata, preconizzata e covata
Costituente romana s’era infatti, al 12 febbraio, riunita, e Garibaldi
dovette, pel mandato assunto, intervenirci. Fu però un intervento da
par suo, e solo chi non l’ha conosciuto nè prima nè poi, ha diritto di
meravigliarsene. Il 5 febbraio 1849 il Parlamento romano s’adunava per
la prima volta, e fu quello che suol dirsi un avvenimento. Assiepati di
popolo festante i dintorni del Campidoglio, riboccanti di spettatori
le gallerie, pieni gli scanni di deputati, tutta la Giunta di Governo
al suo posto, grande in tutti l’aspettazione, solenne il momento. Però
l’Armellini, ministro dell’interno, aveva appena finita la lettura
di quello che oggi direbbesi discorso inaugurale, e nel punto in cui
l’Assemblea, fatta la chiama, stava per procedere alla verifica de’
suoi poteri, ecco Garibaldi alzarsi di scatto dal suo banco e chiedere:
si lasciasse ogni formalità; l’Assemblea si dichiarasse in permanenza e
proclamasse senz’altro la Repubblica, «solo governo degno di Roma.»

La proposta sorprese, ma non convinse nessuno; un altr’uomo eccessivo,
il principe di Canino, la secondò; ma l’Assemblea la respinse, e
deliberò che la discussione procedesse con tutto il rigore delle
formalità prescritte. Fu quello il primo atto parlamentare di
Garibaldi, e gli si può applicare il detto: _Ab uno disce omnes_.
I Parlamenti non erano aria in cui egli potesse respirare. Quella
stessa incapacità a comprendere la santità delle forme, l’utilità
delle regole, la efficacia della discussione, da lui dimostrata allora
nell’Assemblea romana, lo accompagnerà come un abito incurabile per
tutta la vita, e lo costringerà a dibattersi nell’impotenza e nella
solitudine in tutti i Parlamenti futuri. Chi però nella proposta
del 5 febbraio scorgesse soltanto l’inettitudine o l’antipatia d’un
soldato alle procedure parlamentari, s’ingannerebbe a partito; essa
nascondeva qualcosa di più, che va notata; nascondeva la inconscia,
ma perciò appunto, profonda indifferenza del patriotta ad ogni forma
di governo. Di repubblica e monarchia egli intese sempre poco più che
i nomi, e nella repubblica voleva l’autorità dittatoria, come nella
monarchia amava la libertà sfrenata. Poichè a Roma la repubblica
era su tutte le labbra e in tutti i voti, e gli eventi la rendevano
fatale, ed essa sola pareva dar concordia agli spiriti e unione alle
forze, egli gridava: _Repubblica_. Se la monarchia gli fosse apparsa
altrettanto accetta, se un re popolare e guerriero si fosse presentato,
pronto a montare a cavallo per la guerra santa, egli si sarebbe levato
col medesimo impeto a gridare: _Monarchia_. La stessa fretta con cui
egli chiedeva il voto, attesta la poca importanza che in cuor suo
gli attribuiva; la stessa mobilità con cui, nel giro di pochi mesi,
s’era chiarito pronto a passare dalle insegne d’un papa a quelle di
un re, dimostra come di quelli e d’altri tali segnacoli egli faceva un
mediocrissimo conto, a come la sola bandiera ch’egli vedesse e capisse
era sempre quella sola: l’Italia forte, e libera dallo straniero.

L’8 febbraio, al tocco, la Repubblica romana era proclamata.
Garibaldi, il quale malato per dolori reumatici e per febbre erasi
fatto trasportare alla Camera per assistere all’importante tornata,
rammentava al deputato Augusto Vecchi, come nell’ora istessa tre anni
innanzi fosse entrato co’ suoi legionari al Salto, dopo la vittoria
riportata sui campi di Sant’Antonio. E il Vecchi soggiunge che un tanto
anniversario gli parve augurio lieto di altre vittorie.[114]

Pagato a Roma il suo debito politico, se ne tornò a Rieti a riprendere
il suo ufficio militare: ufficio uggioso, chè se v’era uomo disadatto
all’ozio torpido delle guarnigioni e a quelle cure birresche di
braccar briganti e spiare preti e frati, era di certo Garibaldi. Ma la
Repubblica l’aveva ordinato, e ubbidì e durò nella stanza incresciosa
fin verso lo scorcio d’aprile.

Nel frattempo gli avvenimenti avevano fatto il loro corso. Il 23 marzo
la catastrofe di Novara; il 27 la risposta dell’Assemblea veneta
all’Haynau: _Venezia resisterà ad ogni costo_; il 28 l’insensata
rivolta di Genova; il 30 l’ultimo giorno della decade bresciana; il 6
aprile Catania cade nelle mani sanguinarie del borbonico Filangeri;
il 12 la reazione lorenese restaura in Toscana il Granduca; il 20
Filangeri è alle porte di Palermo; finalmente il 21 aprile salpa
da Marsiglia la spedizione francese per Roma; date che raccolte in
un quadro fastidiscono e amareggiano, ma che gl’Italiani dovrebbero
portare impresse nella memoria per ammaestramento e ricordo perpetuo.

L’ultima di queste notizie sorprese Garibaldi ad Anagni, dove era
arrivato fin dal giorno antecedente. Ne sia prova questa lettera
inedita fin qui, e nella quale i magnanimi sdegni dell’eroe e i gelosi
amori del patriotta si confondono e s’accordano ai più soavi affetti
del figlio, del marito, del padre, e si senton risuonare come in una
scala armonica tutte le fibre dell’uomo:

  «_Comando della Iª Legione italiana_.

                                           Subiaco, 19 aprile 1849.

      Amatissima Consorte,

  Ti scrivo per dirti che sto bene, e che sono diretto colla
  colonna ad Anagni, dove forse giungerò domani, ed ove non potrei
  determinarti la durata del mio soggiorno. In Anagni riceverò
  i fucili ed il resto del vestiario della gente. Io non sarò
  tranquillo, sino ad avere una tua lettera, che m’assicuri esser
  giunta tu felicemente a Nizza. Scrivimi subito: ho bisogno di
  sapere di te, mia carissima Anita — dimmi l’impressione sentita
  agli avvenimenti di Genova e di Toscana. Tu donna forte, e
  generosa! con che disprezzo non guarderai questa ermafrodita
  generazione di Italiani — questi miei paesani, ch’io ho cercato
  di nobilitarti tante volte, e che sì poco lo meritavano. È vero:
  il tradimento ha paralizzato ogni slancio coraggioso; ma comunque
  sia, noi siamo disonorati, il nome italiano sarà lo scherno
  degli stranieri d’ogni contrada. Io sono sdegnato veramente
  di appartenere ad una famiglia che conta tanti codardi; ma non
  creder perciò ch’io sia scorato! ch’io dubiti del destino del
  mio paese. Più speranza io nutro oggi, che mai. Impunemente si
  può disonorare un individuo; ma non si disonora impunemente una
  nazione. I traditori ormai sono conosciuti. Il cuore dell’Italia
  palpita ancora — e se non è sano del tutto, è capace ancora di
  recidere le parti infette che lo travagliano. La reazione, a forza
  di tradimenti e d’infamie, è pervenuta a sbigottire il popolo — ma
  il popolo non perdonerà le infamie ed i tradimenti alla reazione.
  Uscito dallo stupore, egli si rialzerà terribile, ed infrangerà,
  questa volta, i vili strumenti del suo disonore.

  Scrivimi, ti ripeto; ho bisogno di sapere di te, di mia madre e
  de’ bimbi — per me non affliggerti, io sono, più che mai, robusto,
  e co’ miei milledugento armati mi sembra di essere invincibile.
  Roma prende un aspetto imponente. Attorno ad essa si rannoderanno
  i generosi, e Dio ci aiuterà. Presenta i miei saluti ad Augusto,
  alle famiglie Galli, Gustarini, Court, ed amici tutti. Io ti amo
  tanto, tanto! e ti supplico di non affliggerti. Un bacio per me ai
  ragazzi, a mia madre, che ti raccomando tanto.

  Addio, tuo

                                                G. GARIBALDI.[115]»


IV.

Il 24 aprile l’avanguardia, il dì appresso tutto il Corpo di spedizione
del generale Oudinot, portato da dieci navi, forte di ben diecimila
soldati di ogni arma, di sedici pezzi da campagna e di sei d’assedio,
gettava l’áncora nelle acque di Civitavecchia.[116]

Dei motivi, delle peripezie, del fine dell’intervento francese a Roma
son piene le storie; noi stessi ne toccammo in altre pagine;[117] e non
è tèma sì nuovo e sì gradito che ci invogli a riassumerlo.

Due verità però non saranno mai abbastanza ripetute: la prima, che
se la spedizione di Roma fu meditata e preparata dal Governo del
Cavaignac, come un mezzo per preservare il popolo romano dai pericoli
dell’anarchia, e di antivenire per tutela dell’Italia intera una più
pericolosa invasione straniera; essa fu poi immediatamente sviata dal
suo fine da Luigi Napoleone, il quale la voltò tosto in istrumento
della restaurazione del potere temporale ed in isgabello alle sue
lunghe ambizioni di regno.

La seconda verità poi più trista, ma anche più utile a ricordarsi è,
che se l’intervenzione della Francia nelle cose di Roma fu, comunque
interpretata e attenuata, un’aperta violazione del diritto delle
genti, pel modo subdolo e fraudolento con cui fu condotta ed effettuata
degenerò in proditoria aggressione ed in sfrontato misfatto. Perocchè
riesce sino ad un certo punto spiegabile, anco scusabile, che una
nazione cattolica, presunta erede del retaggio di Carlomagno e della
fede di Luigi IX, accecata dal malinteso interesse della religione e
della civiltà e forviata da un bugiardo concetto dell’ordine e della
libertà, mandi a restaurare colla forza un trono da lei reputato
necessario alla salute della Chiesa ed alla pace del mondo; ma non
si spiega nè si scusa che quella medesima nazione, sedicente grande,
assuma una siffatta impresa, mascherando il suo volto e celando le
sue armi come un malfattore, e strisciando tra le oblique ambagi
della vecchia diplomazia, cammuffata col vieto pretesto di instaurare
l’ordine nella libertà, mova a restaurare, fra un popolo confidente,
il perpetuo disordine d’una teocrazia aborrita, ed a strozzare, tra le
braccia d’una repubblica sorella, la nascente libertà. E fu soltanto
per queste sue sembianze oneste ed amiche che l’esercito francese potè
sorprendere la buona fede degli abitanti di Civitavecchia, e aiutato
dalla dabbenaggine del Governatore e del presidio, mettere impunemente
il piede sul suolo della Repubblica colla stolta lusinga di ricevere la
medesima accoglienza dovunque.

È ben vero che il Triumvirato romano non s’era lasciato cogliere
all’inganno, e fin dal primo apparire del naviglio straniero aveva
spediti ordini a Civitavecchia, affinchè lo sbarco fosse impedito, e
comunque l’aggressione respinta; ma sia che gli ordini arrivassero
tardi e dubitosi, sia che li svigorissero e fraintendessero la
dappocaggine delle Autorità e quella perplessità, non scevra di paura
e di egoismo, che aveva governato fin dal primo istante la condotta dei
Civitavecchiesi, la perdita della principale fortezza della Repubblica
fu irreparabile.

Oltredichè l’incanto era rotto. Indarno l’Oudinot si studiava di
larvare con nuove frodi e nuove frasi i suoi propositi; gli atti
suoi, le parole de’ suoi stessi oratori lo tradivano. E noi Italiani
dobbiamo essere grati a quel colonnello Leblanc, inviato a Roma dal
Generale francese, il quale, frivolo o millantatore che fosse, ebbe
il merito di parlar chiaro, apertamente confessando al Mazzini, scopo
della spedizione essere la restaurazione papale. Egli rese a Roma il
grande servigio di rischiararle tutta la gravità del pericolo che la
minacciava, ed uscendo in quella sua buffa, ma schietta guasconata:
_Les Italiens ne se battent pas_, fece risalire al cuore, anche de’ più
timidi, quel po’ di sangue caldo che stagnava nelle loro vene, e mise
gl’Italiani al cimento di provare che il Guascone aveva mentito per la
gola.


V.

Caduti pertanto gli ultimi veli, ormai certa l’aggressione,
inescusabile la violenza e manifesto il suo fine, alla Repubblica
romana non restava più che difendere, non tanto la vita, preda
designata al numero ed alla forza, quanto l’onore, che non era in
balía d’alcuna fortuna, e il cui seme, se inaffiato di sangue generoso,
rigenera sempre le nazioni. E la difesa di Roma fu pari al cimento e
degna de’ suoi giorni più gloriosi.

L’Assemblea commette al Triumvirato: «di respingere la forza colla
forza;» il popolo sancisce, correndo all’armi, il magnanimo decreto,
e i Triumviri sovraneggiati e quasi assorbiti dall’ardente spirito di
Giuseppe Mazzini, mirabili di concordia e di energia, e, quando mai,
colpevoli soltanto di soverchia generosità per gl’invasori, assumono
d’effettuarlo. Giuseppe Avezzana, forse più atto per cuore che per
mente all’arduo ufficio, è investito del Ministero della guerra e
del Comando supremo dell’esercito; la Guardia Civica viene armata e
mobilizzata; la linea di difesa tracciata, i principali punti muniti;
i Corpi stanziati di fuori richiamati, quindi da Anagni Garibaldi;
tutta infine quella massa eterogenea di truppe regolari ed irregolari,
di doganieri e di studenti, di emigrati e di reduci, di Romani e di
Italiani d’ogni provincia e colore, accoltasi a quei giorni in Roma,
ordinata in brigate attive e in corpi di riserva, così partita e
comandata.

La Legione Garibaldi, il battaglione dei Reduci, i quattrocento
Universitari, i trecento Finanzieri, i trecento emigrati, in totale
duemilacinquecento uomini, compongono la prima brigata, e ne riceve
il comando Garibaldi, giunto in Roma la sera del 28, riconosciuto
finalmente Generale.

Della seconda brigata, formata di mille uomini di Guardia Civica, e del
primo d’infanteria leggiero, è scelto comandante il colonnello Masi.

La Legione romana e il primo di linea, con due pezzi di campagna,
fanno, agli ordini del colonnello Bartolomeo Galletti, una colonna
di riserva; ottocento Carabinieri obbediscono al generale Giuseppe
Galletti; cinquecento Dragoni al colonnello Savini; le artiglierie
al Lopez ed ai fratelli Calandrelli; e si dovrebbero aggiungere
i Bersaglieri lombardi comandati dal Manara, i quali però, avendo
ottenuto dall’Oudinot di sbarcare a Porto d’Anzio, a condizione che
non avrebbero partecipato fino al 4 maggio ad alcuna fazione, erano
vincolati dalla promessa, data per loro dal Preside di Civitavecchia,
di serbare fino a quel giorno la neutralità.

Restava a fermare il piano di guerra; ma la topografia della città,
le condizioni dell’esercito difensore, le forze degli assalitori
chiaramente lo suggerivano.

Scartato il concetto di una offensiva in aperta campagna, e deliberato
quello d’una concentrata difensiva della Capitale, la difesa non
poteva essere stabilita che sulla destra del Tevere, e precisamente
lungo quell’arco esterno alle mura d’Urbano VIII, che da Porta Portese
per quelle di San Pancrazio e Cavalleggieri va a Porta Angelica; e
comprendente, come posizione avanzata, al centro la collina di Villa
Pamfili, come baluardo a settentrione il forte Vaticano, e come seconda
linea d’appoggio le alture del Gianicolo. Ciò posto, l’ordine di
collocazione delle truppe si porgeva da sè logico e naturale. La prima
brigata Garibaldi fu collocata tra Porta Portese e Porta San Pancrazio;
la brigata Masi distribuita tra Porta Cavalleggieri e Porta Angelica;
la riserva, composta della brigata Galletti, dei Dragoni Savini e dei
Bersaglieri Manara, schierata tra Piazza Navona, la Lungara e Borgo;
i bastioni furono coronati di nuovi pezzi, le batterie del Vaticano
rinforzate; e tutto ciò ben disposto ed apparecchiato, Roma si tenne
pronta a ributtare l’assalto.


VI.

La mattina del 30 aprile le vedette di San Pietro annunziavano lo
spuntar d’una colonna francese sulla via di Civitavecchia. Non eran
più che ottomila uomini, partiti in due brigate sotto il comando
dei generali Molière e Lavaillant; traevano soltanto due batterie da
campagna; erano per numero, per armi affatto disuguali all’impresa
a cui s’incamminavano. Ma li guidava la nativa intrepidezza, li
incoraggiva la fiducia del loro Leblanc: «Gli Italiani non si battono;»
li rassicurava la pertinace lusinga che Roma li aspettasse a gloria,
e poichè in quell’ora le campane di Montecitorio e del Campidoglio
suonavano a furia l’allarme, se lo prendevano per un suono di festa e
marciavano anche più allegri e fidenti nell’immancabile trionfo.

Però tutto quel miscuglio di pregiudizi, di illusioni e di prosunzioni
che gorgogliava nelle file dell’esercito francese fin dalla sua discesa
in Italia, traspariva come in un’acqua chiara, nel piano d’attacco
del loro Generale. Esso non avrebbe potuto essere più semplice, più
primitivo e più ingenuo: spezzare a un certo punto il Corpo in due
colonne, l’una inviarla ad assalire Porta Cavalleggieri, l’altra Porta
Angelica; prender di mira entrambe la Cupola di San Pietro e andarsi a
dar la mano nella sua piazza. E qui in verità convien proprio dire che
l’Oudinot fosse ancor più dabbene che maligno; chè a nessun Generale,
per ammattito che fosse, sarebbe frullato pel capo di andare, senza
parco d’assedio, senza lavori d’approccio, senza una breccia, a dar
di cozzo contro le mura d’una città bastionata e quasi fortificata,
protetta da numerose artiglierie e difesa da forze pari alle sue;
se non avesse covato nell’animo uno di questi due profondi forse, ma
punto maliziosi convincimenti: o che le mura fossero di mota fresca e
i cannoni di cartone dipinto e i difensori comparse da teatro; o che
la maliarda eloquenza della sua parlata avesse gettato sul Governo,
sull’esercito, sul popolo romano un sortilegio sì potente da trovarseli
al suo arrivo disfatti d’amore a’ suoi piedi.

Due o tre colpi egregiamente aggiustati dal Calandrelli vennero a
rompergli l’alto sonno. Balenarono al saluto inaspettato le schiere
assalitrici; ma poichè erano pur sempre Francesi, vantatori cioè, ma
prodi, proseguirono, secondo l’ordine divisato, l’attacco. Avanzavano
da ogni parte, protetti dalle case, dai vigneti, dall’arte, i nemici;
non restavano dal fulminarli, colla mitraglia e coi moschetti, i
nostri. Nuocevano ai Romani e più agli artiglieri le carabine dei
Cacciatori di Vincennes; ma i nostri cannoni egregiamente serviti e
diretti facevano nelle file avversarie vuoti sanguinosi.

Un solo vantaggio avevano ottenuto dal principio i Francesi, ma
notevole; chè il generale Oudinot avendo ordinato alla brigata Molière
di occupar la Villa Pamfili (ordine ben pensato come quello che gli
levava dal fianco sinistro una punta minacciosa), il battaglione
Universitario della brigata Garibaldi, troppo scarso a contrastar la
preziosa posizione, l’aveva dovuto ben presto abbandonare, ritraendosi
al riparo dietro il Casino de’ Quattro-Venti.

Ma da quella parte, calmo, impassibile, attento a tutte le peripezie
della lotta stava Garibaldi, e il trionfar dei Francesi non poteva
esser lungo. Infatti il nostro Generale, scorta l’urgenza del pericolo,
chiama a sè la Legione italiana, e la lancia a baionetta in resta
contro il nemico. Questi non teme l’affronto, e da quell’istante
intorno a Villa Corsini, per le aiuole e i prati del parco Pamfili,
dietro ogni muro e ogni siepe, s’impegna una lotta petto a petto,
palmo a palmo, a vita ed a morte, dalla quale ogni occhio appena
esperto travede che pende l’esito della giornata. In entrambi i campi
il coraggio: ma nei Francesi il vantaggio delle armi, il favore della
posizione, il nerbo della disciplina, l’esperienza dell’arte; tra
gl’Italiani la coscienza della giusta causa, la religione della patria,
la rabbia dell’iniqua aggressione, la fede nella baionetta e il comando
di Garibaldi.

Oramai il terreno è già troppo a lungo contrastato, e Garibaldi sente
venuta l’ora del colpo decisivo.

Chiesto pertanto l’aiuto della mezza brigata Galletti, accorsa
prontamente a recarlo, fatta massa di tutte le sue forze, spuntata,
quasi trascurandone gli ultimi difensori, la Villa Pamfili, si rovescia
per la valle sul fianco destro francese; lo rompe, lo sfonda, lo
incalza colla punta alle reni, costringe in brev’ora tutto l’esercito
assalitore, già ributtato di fronte su tutta la linea e già minacciato
alle spalle, a cercare in una precipitosa ritirata, molto somigliante
ad una fuga, l’unico scampo.

La giornata del 30 aprile (amiamo lasciarlo dire al Sacchi,[118]
comandante quel giorno una coorte della Legione italiana) farà epoca
nella storia, ed è una delle più belle pagine militari della nostra
indipendenza. Il Generale francese tentò, come è costume dei piccoli
vinti, scusarla con sognati agguati e immaginari tradimenti; ma
egli cadde nel solo agguato della sua presunzione, e non patì altro
tradimento che quello della sua ignoranza.

Trecento morti, cinquecentotrenta feriti, dugentosessanta prigionieri,
per l’eroismo quasi temerario di Nino Bixio,[119] nelle nostre mani e
tradotti a coronar il trionfo in Roma, fecero pagar cara alla Francia
l’insana aggressione, e dimostrarono al mondo se gli Italiani si
battono.

Le perdite degl’Italiani furono, ragguagliate al numero, lievissime;
sessantanove morti e poco più che cento feriti; un solo prigioniero,
Ugo Bassi; ma le preziose vite de’ prodi rapite ai futuri cimenti della
patria, sempre lacrimabili e memorande.[120]

Dopo i morti però il primo onore della gloriosa giornata va reso
a Garibaldi. Fu questa la voce unanime di tutta Roma nella sera
stessa della battaglia; è questo il ponderato giudizio che la storia
conferma.[121]

L’eroe pugnò tutto il giorno alla testa de’ suoi; ferito, nascose la
piaga e non la confessò che a sera, quasi violentato, al dottor Ripari.
Capitano, mostrò, unico fra tutti, senso di militare iniziativa;
affrontò il nemico in aperta campagna, ne scoperse il lato debole,
lo assalì nel punto e nell’istante opportuni, decise della giornata.
E avrebbe fatto anche di più, se in quel giorno avesse comandato lui
solo e fosse stato ascoltato il suo consiglio di compiere con un pronto
inseguimento la disfatta francese.

Ma indarno egli lo suggerì; indarno egli pregò iteratamente il
Triumvirato perchè gli fosse consentito l’ardito, ma infallibile
colpo; il Triumvirato, e dicasi pure il Mazzini, sia che diffidasse
del successo dell’impresa, sia che temesse rendere irreconciliabile con
una percossa troppo sanguinosa l’inimicizia della Francia, glielo vietò
nettamente.

E fu errore notato da quanti storici leggemmo e militari e politici: la
Francia era stata ormai troppo ferita, non fosse in altro, nell’amor
proprio, per perdonarlo ai feritori; mentre non era abbastanza
castigata per trarre dalla sconfitta un salutare avvertimento ad andare
più guardinga prima d’impegnarsi in una guerra, oltrechè ingiusta nel
fine e perfida nei mezzi, difficile anche e probabilmente lunga pel
nemico gagliardo che s’era trovato improvvisamente di fronte.

Comunque sia, il giorno dopo il generale Garibaldi colla scusa d’una
ricognizione si spinse colla sua brigata così presso agli avamposti
a Castelguido, che per poco il Governo indugiasse a richiamarlo, o i
Francesi s’affrettassero ad andargli incontro, la seconda battaglia che
il generale Garibaldi aveva vagheggiata la sera del 30 aprile sarebbe
inevitabilmente, e con qual esito Dio solo lo sa, avvenuta la mattina
del 1º maggio. Ma Garibaldi fu arrestato in marcia; l’Oudinot dal canto
suo pensò a levare il campo, e tutto finì da una parte e dall’altra
coll’ansietà d’un combattimento che non avvenne.

Dei replicati divieti però Garibaldi serbò memoria non scevra di
rancore finchè visse, e noi stessi l’udimmo più d’una volta, parlando
del 30 aprile, mormorare con amarezza: «Quel Mazzini che ha sempre
avuto la smania di fare il Generale, e non ne capiva.......[122]»


VII.

Intanto che l’Oudinot riparava, umiliato e febbricitante, a
Civitavecchia, e spacciava di là a Parigi bugiardi messaggi, male
dissimulanti la batosta del 30 aprile, e l’Assemblea romana lo
ripagava di tutte le sue slealtà, rinviandogli liberi e senza riscatto
i suoi prigionieri, un esercito austriaco minacciava dal Po le
Legazioni; un’armata spagnuola veleggiava per la medesima crociata
nel Mediterraneo; e finalmente re Ferdinando di Napoli, fatto leone
dalla certezza della facile vittoria, faceva occupare da una divisione
Velletri; nel mentre che due altre, l’una di regolari comandata dal
generale Winspeare, l’altra di briganti e di disertori guidata dallo
Zucchi, s’inoltravano per la provincia di Frosinone fino ai colli
Latini.

Per quanto la spavalda scorreria fosse pel momento più molesta
che pericolosa, il Governo romano non poteva lasciarla più oltre
trascorrere, e commise a Garibaldi che evitando i decisivi conflitti, e
cogli accorgimenti di cui era maestro, tenesse a bada e molestasse il
nuovo nemico. Ora, poichè Garibaldi non era uomo da stillare a lungo
i suoi piani, presa seco tutta la sua brigata, più il battaglione
testè aggregatogli dei Bersaglieri Manara, la sera del 4 maggio esce
tacitamente da Porta del Popolo, s’incammina per Ponte Molle, facendo
le viste di marciare a Palo; poi volta a un tratto per la Prenestina,
e dopo una marcia notturna faticosissima, ma silenziosa e ordinata,
arriva alla mattina dell’indomani a Tivoli, dove s’accampa.

Qui è il punto, dove quasi tutti gli storici e biografi del nostro
eroe si dilettano a descrivere con gran copia di particolari il campo
di Garibaldi; quasi facessero un concorso di pittura sul medesimo
tèma. Abbiamo quindi il quadrone a colori scarlatti, a tratti
michelangioleschi, per non dir vasariani, del Guerrazzi, ma, come
esige la scuola, manierato e fantastico; abbiamo il quadretto a tratti
sfumati, a tinte azzurre, a tocchi fini e direi quasi aristocratici
d’Emilio Dandolo, ma dominato da non so qual pessimismo partigiano
che ne scema la verità; abbiamo i bozzetti veri, ma freddi ed aridi,
dell’Hoffstetter; e infine, per coronar la gara, i pasticci del Dumas,
il quale mescolati insieme il rosso del Guerrazzi, l’azzurro del
Dandolo e il bigio dell’Hoffstetter, e impastatili con un pizzico di
_Memorie_ di Garibaldi udite o credute udire, e una buona dose delle
sua invenzioni, butta giù in quattro pennellate, alla «Luca fa presto,»
il più bell’affresco ad effetto che mai freschista del Seicento abbia
immaginato.

Quanto a noi pensiamo che un campo garibaldino non sia più una novità
per i nostri lettori, e risparmieremo l’oziosa fatica di ridipingerlo.
La fantasmagoria variopinta delle uniformi, delle durlindane e dei
cappelli piumati, noi l’abbiamo veduta; il parapiglia fiammingo delle
figure: qua le gote imberbi d’uno studentello che fanno da chiaroscuro
alla faccia barbuta d’un veterano; là un pallido viso di poeta,
fors’anche di prete scappato al seminario, che s’allinea col ceffo
sinistro d’un vagabondo, forse d’un galeotto scappato al bagno, lo
conosciamo; i cavalli sciolti, all’arrivo, sui pascoli e riacchiappati
alla partenza col _lazo_; i bovi o gli agnelli presi, in mancanza di
proviande, alla baionetta, squartati e affettati in un baleno, infilati
in grandi schidioni di legno, e appena rosolati, omericamente divorati,
sono storia vecchia: in ultimo Garibaldi stesso, profilo greco, capelli
prolissi, barba fulva, tunica rossa, un cappelluccio acuminato e
piumato sulla testa, un mantello bianco, foderato di rosso, infilato a
guisa di pianeta sulle spalle, squadrone al fianco, pistole e pugnale
alla cintola, che spiegando la sua sella americana si fa da sè stesso
il letto, e buttando sullo spadone e il fodero confitti in croce, il
suo poncio, si rizza la sua tenda; ed ora sbuca da un campanile, ora
spunta da un’altura, or visita il campo, ora precorre le avanguardie,
vigile, infaticabile, ardito e maraviglioso sempre; tutte queste
ed altrettali curiosità sono per noi anticaglie, la cui data risale
fino all’America, ed eravamo già tutti e presaghi e persuasi che il
Garibaldi di Montevideo non l’avremmo trovato diverso in Italia.

Una novità sola va aggiunta alla pittura della Legione italiana
accampata a Villa Albani, una compagnia di giovanetti italiani dai
dodici ai sedici anni; svelti, arditi, indiavolati, cari a Garibaldi,
a cui tra poco salveranno la vita; macchiette quarantottesche, se
vogliam dirle, esse pure, ma sempre preferibili, fatto il paragone,
alle quarantottate oggi rinascenti, nelle quali è vero che i _bimbi
d’Italia_ non fanno più le schioppettate contro gli stranieri, ma
concionano dai palcoscenici nei _meetings_.

La mattina del 7 Garibaldi aveva già levato il campo, e intorno alla
mezzanotte del giorno stesso, sotto un acquazzone torrenziale, giungeva
a Palestrina, a poche miglia dalle linee nemiche. Le avanguardie
borboniche infatti, appena saputa la sortita dei Romani, s’erano
concentrate fra Albano e Valmontone, e forti di seimila uomini, sotto
il comando del generale Lanza, si preparavano ad affrontare Garibaldi
e, come dicevano, ad annientarlo. Inutile dire che Garibaldi non se
ne sgomentava; anzi fin dal giorno 8 alcune scorrerie felicemente
riuscite, una delle quali capitanata dal prode Narciso Bronzetti, gli
avevano riportata la speranza che il nemico non sarebbe stato così
formidabile, come voleva far credere.

Prevaleva tuttavia troppo di numero per attentarsi con soli duemila
uomini ad assalirlo nelle sue forti posizioni; e risolvette di starsi
alla difensiva e di aspettarlo di piè fermo in Palestrina. E l’evento
non tardò a dargli ragione. Verso le 2 pomeridiane del giorno 9,
due reggimenti di guardie reali per le due strade che convergono a
Porta Sole apparivano dinanzi a Palestrina. Garibaldi s’accontentò
di stendere in cacciatori una compagnia della Legione, una di guardia
mobile, e due del battaglione Bersaglieri, e affidata al Manara la cura
della difesa della porta, tenne il resto delle sue genti in serbo,
e stette a spiare le mosse del nemico. Il quale, poveretto, veniva
innanzi lento, svogliato, trepidante, rispondendo fiaccamente al fuoco,
dando le spalle al primo assalto alla baionetta, e lasciando, nella
fuga, feriti e prigionieri nelle nostre mani.

Ma lo spettacolo che quei prigionieri offersero era più atto certamente
ad amareggiare il cuore dell’Italiano, che a inorgoglire la mente
del vincitore. In luogo di quei terribili crociati, che a detta del
generale Zucchi dovevano annichilire quel Satana di Garibaldi, questi
si vide trascinare innanzi un branco d’uomini inebetiti dallo spavento,
coperti di reliquie e di scapolari come santoni, tremanti a verga
al solo suo nome, e che al primo suo apparire si buttavano a’ suoi
ginocchi gridando pietà e misericordia, maledicendo la guerra a cui
erano spinti, e intercalando le loro giaculatorie di tanti «mannaggia
a Pio IX,» da lasciare incerti gli astanti se ridere di quella farsa
pulcinellesca, o gemere sul fondo d’abbiezione in cui tanti secoli di
tirannide e di superstizione avevano precipitato uno dei popoli più
generosi d’Italia.

Oramai però una più lunga stanza in Palestrina poteva divenire
pericolosa; oltre a ciò in Roma vociferavasi di un imminente attacco
combinato de’ Napoletani e de’ Francesi, e il Triumvirato ordinava
che Garibaldi rientrasse prontamente nella Capitale. Nè egli s’attardò
sotto la tenda; e la sera dell’11, per sentieri impraticabili, sfilando
in perfetto ordine nelle vicinanze del campo nemico, dopo vent’otto
miglia di marcia travagliosissima, ricondusse tutto il suo Corpo, non
superbo d’una grande vittoria, ma lieto d’un onorato successo, in Roma.


VIII.

Nel frattempo importanti avvenimenti militari e politici eransi,
in Roma e fuori, maturati. Bologna dopo quattro giorni di disperata
resistenza aveva gloriosamente capitolato nelle mani del bombardatore
Gorkowsky: Ancona, dove teneva il comando militare quel Livio
Zambeccari che già incontrammo a Rio Grande, minacciata della medesima
sorte, si preparava ad imitare il medesimo eroismo: a Fiumicino
s’ancorava, Sancio Panza che annuncia Don Chisciotte, l’avanguardia
della spedizione spagnuola: da Gaeta l’Antonelli s’affannava a
metter d’accordo i suoi quattro alleati, senza riuscirvi; la Francia
finalmente continuava la sua politica a due rovesci: quella delle
parole, favorevole a Roma; quella de’ fatti, favorevole al Papa.

Diguisachè, mentre l’Assemblea Nazionale, istruita, malgrado le
bugiarderíe dell’Oudinot, del vero successo del 30 aprile, decretava
che la spedizione francese fosse _ramenée à son premier but_; Luigi
Napoleone prima e l’Odillon Barrot dopo inviavano lettere e dispacci
occulti all’Oudinot, lodandolo dell’operato, promettendogli rinforzi,
ripetendogli l’ordine di entrare per qualunque via, fosse pur quella
della forza, in Roma.

Infine, come se tanto tessuto di perfidie non bastasse, inventava
quella maggiore di tutte, la missione Lesseps. Come un uomo
chiaritosi e allora e dopo acuto di mente, retto d’animo ed esperto
di pubblici negozi potesse accettare il mandato che il Drouyn de
Lhuys gli affidava, un mandato oscuro nella forma, obliquo nel
fine, ineffettuabile nella sostanza, nessuno ancora è arrivato a
comprenderlo. In apparenza l’Inviato francese doveva procacciare
un accomodamento e conciliare insieme la libertà del popolo romano,
i diritti della sovranità pontificia, e la dignità dell’intervento
francese (quadratura del circolo); in realtà doveva carpire ai Romani
la promessa di aprire fraternamente ai suoi le porte di Roma, affinchè
dietro ai loro passi potesse rientrar più comodamente il Papato
temporale. Missione nella quale un furfante sarebbe riuscito; un
galantuomo come il signor Lesseps doveva necessariamente fallire!

Ora come entrasse in Roma, con quali speranze vi fosse accolto, con
quali lusinghe egli esordisse, è materia diplomatica, e non sapremmo
dire quanto ci sia grato non averla a rimestare. Rammenteremo soltanto
una cosa che più direttamente si connette all’opera nostra, che il
primo effetto dell’arrivo del Lesseps fu una tregua di trenta giorni,
tregua verbale, male promessa, male definita, e come al solito
slealmente osservata dal Generale francese; ma che alla peggio porse il
destro al Governo romano di levarsi dal fianco quella punta fastidiosa
dell’esercito borbonico, e di finirla con uno almeno de’ tanti suoi
nemici.

Nè alla non ardua impresa difettavano le forze; chè l’esercito romano
tra il 1º e il 16 maggio s’era venuto via via ingrossando di tanti
piccoli corpi, che tuttavia componevano nel loro insieme un non
spregevole rinforzo. L’Oudinot aveva restituito, sebbene senz’armi, il
battaglione Melara prepotentemente catturato a Civitavecchia; i Corpi
distaccati nell’Ascolano erano rientrati; una Legione straniera, di
Francesi principalmente, si veniva organizzando; la Legione trentina
ed una compagnia del 22mo Reggimento, scappata dagli accantonamenti
forzati della Spezia, erano riuscite a penetrare tra l’8 e il 9
in Roma, e fuse insieme andavano a formare un altro battaglione di
Bersaglieri lombardi, che aggiunto al 1º, sotto il comando del Manara
promosso colonnello, prendeva e corpo e nome di reggimento. Finalmente,
venuta fin da Bologna, dopo quindici giorni di marce forzate entrava da
Porta del Popolo la divisione Mezzacapo forte di quattromila uomini,
e preceduta da quella compagnia di Studenti lombardi e toscani, che
il Medici aveva reclutato a Firenze e che formerà il nerbo dei futuri
difensori del Vascello.

Ora chi sommi queste nuove forze all’esercito già esistente il
30 aprile, vede che Roma poteva disporre di circa diciottomila
combattenti;[123] non certo bastevoli a far la guerra alla Santa
Alleanza accanitasi contro di lei e nemmeno a vincere la Francia; ma,
finchè durava l’armistizio, più che sufficiente a rivedere le spalle
al Re di Napoli e a proteggere Roma da qualsivoglia disordine interno o
sorpresa esterna.

Restava la scelta del Generale supremo, problema perpetuamente insoluto
di tutte le nostre guerre. Anche Roma contava falangi d’eroi e manipoli
di ufficiali d’ogni grado valentissimi, destinati certamente come i
Medici, i Bixio, i Sacchi, e se non fosser soccombuti anzi tempo, come
i Manara, i Daverio, i Pisacane, i Bronzetti, i Gorini, a divenire un
giorno eccellenti generali; ma un Generale in capo capace di comandare
un esercito in campo e di dirigere la difesa d’una città assediata,
atto a farsi amare, ma soprattutto a farsi ubbidire, pari insomma
all’ufficio suo, e quel che più monta, reputato tale e di cui tutti
riconoscessero senza competizione la perizia, il valore e la fortuna,
un Generale simile o non esisteva o si nascondeva, o non si sapeva
trovarlo. L’Avezzana s’era chiarito tanto inesperto capitano, quanto
il tempo andava manifestandolo inabile ministro; il generale Galletti,
bravo, ma vecchio, non era raccomandato da alcuna di quelle azioni
di grido che impongono la fiducia; il Calandrelli era un ammirabile
comandante d’artiglieria, ma non prometteva di più; sicchè al tirar de’
conti restava, unico e solo candidato, Giuseppe Garibaldi.

Malauguratamente su di lui pesava quella riputazione di valente
condottiero e di inetto generale che gli era stata buttata addosso
come una camicia di forza fin dal primo ritorno in Italia, e da cui
nemmeno la gloria del 30 aprile era valso a liberarlo. Oltre di che,
gli uni per apprensione della sua audacia, gli altri per invidia
della sua fortuna; questi per saccenteria, quelli per grettezza; il
Governo stesso per timore della sua indisciplinatezza e fors’anco per
gelosia della sua popolarità; tutti, qual più qual meno, se ne eccettui
qualche giovane entusiasta, qualche popolano ingenuo, e i suoi fedeli
d’America, tutti, diciamo, cospiravano a negargli quel bastone del
comando che evidentemente egli solo, non per eccellenza assoluta, ma
per superiorità relativa era capace di reggere.

Siccome però dall’un canto questa superiorità era innegabile, e
dall’altro un Generalissimo conveniva pur nominarlo, il Triumvirato
fece questa pensata: promosse Garibaldi generale di divisione,
componendogliela colla vecchia sua brigata, la brigata Galletti e
il reggimento Bersaglieri lombardi, ed elesse Generale in capo il
colonnello Pietro Rosselli; quel desso che vedemmo scaramucciare contro
il brigantaggio dell’Ascolano; uomo, a dir vero, che aveva studiato
la guerra più sui libri che sui campi, ma in voce di grande stratega
presso i dotti dell’esercito, beneviso al Mazzini, caro ai Romani e di
cui tutti pronosticavano mirabilia.

Ora se egli era il Generalissimo, a chi se non a lui commettere
il comando della spedizione contro il Borbone? E quale miglior
luogotenente e cooperatore gli si poteva dare che Garibaldi? Quello la
mente, questi il cuore: il Rosselli, la dottrina, diriga; Garibaldi, la
mano, eseguisca e la vittoria è infallibile. Trovato stupendo, a cui
non mancavano che due cose semplicissime; l’accordo simpatico della
mente e del cuore, e la superiorità reale della dottrina sulla mano.


IX.

Il Rosselli pertanto s’accinse immediatamente all’impresa. Pensava
attaccare i Napoletani accampati da Porto d’Anzio a Valmontone sulla
loro destra, spuntarli da questo lato e tagliar loro la ritirata:
capitanava diecimila fanti, mille cavalli e dodici pezzi d’artiglieria,
che andavano così distribuiti e ordinati:

La prima brigata, sotto gli ordini del colonnello Marocchetti e la
direzione del colonnello di stato maggiore Haug, composta della Legione
italiana, del terzo Reggimento di linea, del piccolo squadrone dei
Lancieri Masina, d’una compagnia di Zappatori del genio e due pezzi
d’artiglieria (duemilacinquecento uomini circa), dava l’avanguardia.

Il corpo di battaglia componevasi di due brigate, a cui erano addetti
il reggimento de’ Bersaglieri lombardi, un battaglione del primo di
fanteria, il secondo e il quinto reggimento, la Legione romana, due
squadroni di Dragoni e sei pezzi di artiglieria; circa seimila uomini;
e lo capitanava il generale Garibaldi in persona, assistito dal polacco
colonnello Milbitz dello stato maggiore generale.

«La riserva e retroguardia era la brigata del generale Giuseppe
Galletti che marciava alla testa del sesto Reggimento di fanteria,
d’un battaglione di Carabinieri a piedi, del battaglione Zappatori del
genio, di due squadroni di Carabinieri a cavallo, e di quattro pezzi
d’artiglieria; in tutto duemila e cento uomini.

»Comandante l’artiglieria il colonnello Ludovico Calandrelli; quello
della cavalleria il generale Bartolucci; capo dello Stato Maggiore
generale il colonnello Pisacane, e principava da generale in capo
Pietro Rosselli.[124]»

Fermato così il disegno e l’ordine di marcia, escono la sera del 16
da Porta San Giovanni; marciano tutta la notte per la via Labicana;
arrivano la mattina del 17 a Zagarolo, dove soggiornano; ripartono
il giorno appresso per Valmontone, dove il grosso e la riserva
s’accampano, mentre l’avanguardia si spinge fino a Montefortino, forte
posizione a cavaliere delle due vie che da Valmontone conducono l’una
a Velletri, e l’altra a Terracina: val quanto dire sulla fronte e sul
fianco dell’esercito napoletano.

Questo però non era rimasto così immobile, come forse il Rosselli
aveva, nel silenzio del suo studio, escogitato; chè appena avuto vento
dell’avanzarsi dei nostri, aveva frettolosamente abbandonato la linea
de’ colli Latini e s’era da tutte le parti ripiegato su Velletri. Era
una notizia importante: il piano di campagna del generale Rosselli
poteva dirsi fallito prima che tentato; conveniva farne un altro e si
poteva, ma occorreva prontezza d’occhio e celerità d’esecuzione; il
Rosselli invece non affrettò d’un passo la sua marcia, non svelò ad
anima viva gli arcani della sua mente; s’accontentò solo d’ordinare
all’avanguardia di spingere il 19 mattina ricognizioni fin sotto
le mura di Velletri; «mentre (parole stampate dal suo capo di stato
maggiore Pisacane[125]) l’armata in ordine compatto, _fiancheggiata_ da
tali perlustrazioni, avrebbe secondato il movimento.»

 questo punto però il generale Rosselli scompare, per così dire,
dietro la coda del suo esercito; e se noi vogliamo seguire lo sviluppo
dell’azione, siamo costretti ad accompagnarci di nuovo al generale
Garibaldi, il solo che in quella giornata pensasse (se bene o male lo
vedremo), capisse e combattesse.

E qui, prima d’intraprendere la narrazione della giornata di Velletri,
ci occorre un’avvertenza. Noi scriviamo, per dir così, sotto la
dettatura del general Sacchi e del colonnello Cenni, i quali, non solo
per aver partecipato come testimoni ed attori ai fatti che narrano,
ma per aver seguíto e veduto davvicino durante tutto quel giorno il
generale Garibaldi, il primo come comandante in secondo la Legione
italiana, il secondo come aiutante di campo, ci sono parsi le più
sincere e autorevoli testimonianze che in siffatto caso si potessero
desiderare.

Nè ci trattiene dal chiamarli tali, la considerazione che il loro
racconto discordi in alcuni particolari da quello degli storici che
scrissero sul medesimo argomento; essendo per noi indubitabile che
nessuno meglio di loro abbia potuto conoscere la verità e nessuno meno
di loro avuto motivi per svisarla o tacerla.

Nè con ciò vogliamo scemar fede alla diligenza ed alla lealtà degli
scrittori che ci hanno preceduto; soltanto vedendo nelle loro
pagine regnare le più grandi contraddizioni miste talvolta alla
più ligia imitazione: e il Torre, per esempio, scostarsi in molti
particolari dall’Hoffstetter;[126] e il Del Vecchio rappresentar i
fatti diversamente dal Farini; e il Guerrazzi, che pur ebbe in mano
gli appunti del Sacchi e i Ricordi di Garibaldi, ricantare, come eco
ignara, i giudizi del Mario o del Vecchi che non li ebbero, e tutti
contraddirsi o copiarsi a vicenda, e nessuno presentar un documento o
una prova purchessia del loro asserto; allora il sospetto che a tutti
questi storici egregi sia mancato il tempo e l’opportunità per vagliare
le cose narrate nasce spontaneamente, e posti da un lato tra relazioni
contradittorie, incompiute, confuse, e dall’altro tra attestazioni
concordi, precise, particolareggiate di due ufficiali che hanno veduto
ed udito, non potevamo più dubitar nella scelta. E non abbiamo posto
nel conto le _Memorie_ del Rosselli e del Pisacane, non certo per
scortese oblío de’ loro autori, meritevoli entrambi, l’uno per la
vita illibata e studiosa, l’altro per la fine eroica ed infelice della
gratitudine e del rispetto degl’Italiani; ma perchè essi, giudici in
causa propria, non scrissero storie, ma apologie e filippiche; apologie
di sè, filippiche contro Garibaldi; e non si potrebbe giurar sulla
loro parola più che non si potrebbe in un processo dal piato d’una sola
parte giudicar del torto o della ragione dell’altra.

E poichè dicemmo processo, lo ripetiamo. La storia della battaglia di
Velletri non è più da oltre trent’anni che un processo male istruito,
in cui Garibaldi ha la parte di accusato, il Rosselli ed il Pisacane
quella d’accusatori, gli storici onesti, ma assai male informati,
quella di giudici, e che noi, sulla fede di due nuovi testimoni,
veniamo a riaprire, sperando che i posteri vorranno scrivere sulla
tomba dell’accusato più giusta sentenza.


X.

Ecco pertanto i fatti. All’alba del 19 l’avanguardia si era già messa
in moto; ma fatte poche centinaia di passi il Marocchetti mandava ad
avvertire Garibaldi che scorgeva verso Velletri un confuso moto di
truppe nemiche, onde temeva di essere da un istante all’altro assalito.
A tale annunzio Garibaldi monta immediatamente a cavallo, manda
avviso al Generale in capo così dell’allarme come della sua partenza,
raggiunge a spron battuto l’avanguardia, e raccolti dal Marocchetti
gli ultimi rapporti cavalca ancora innanzi per breve tratto, e va
a cercare, come è suo costume, un posto elevato d’onde speculare le
posizioni e le mosse del nemico.

«Giunto difatti (scrive il Cenni stesso che gli era compagno alle
Colonnelle ed all’altezza della vigna Rinaldi) smonta da cavallo;
coperto dai canneti e dalle macchie della vigna, s’inoltra fino ad un
dosso d’onde l’occhio può correre fin sotto le mura di Velletri; e vede
abbastanza chiaro che i Borbonici, se a difesa od attacco, è tuttavia
dubbioso; ma per fermo si preparano ad azione imminente.»

Frattanto anche l’avanguardia sopraggiungeva; e Garibaldi accertatosi
da un secondo e più prossimo osservatorio che il nemico manovrava
veramente per l’attacco, spiega a destra e a sinistra della strada, che
corre tutta incassata fra poggi e vigneti, la Legione italiana e alcune
compagnie del terzo di linea; e montato sul tetto d’una casa in vigna
Spalletti, si rimette a spiare gli andamenti del nemico.

I quali d’altronde più manifesti di così non potevano essere. I
Borbonici avanzavano su tre colonne: il secondo battaglione de’
Cacciatori pei vigneti, a destra ed a sinistra; uno squadrone di
Cacciatori appoggiato da un altro corpo di fanteria, e da artiglierie
al centro sulla strada. Garibaldi non fece un passo per muover loro
incontro; ma li aspettò di piè fermo. Trascorsi infatti pochi minuti,
il colpeggiar delle sentinelle presso alla salita di Vallefredda
avvertì che il primo scontro era avvenuto.

Potevano essere le undici del mattino. Gli avamposti s’eran già
ripiegati sulle Colonnelle, dove già dicemmo appostate le fanterie
romane; l’attacco era già imminente su tutta la linea; la fucilata era
vivissima da entrambe le parti, quando Garibaldi, vista spuntar sulla
strada la testa della cavalleria nemica, spicca il Masina, il Murat di
quella guerra, coi suoi quaranta Lancieri[127] ad arrestarla. E parte
il Masina; e lo seguono, incuorati dall’arguta parola e dall’esempio
eroico, i suoi compagni: ma o perchè sopraffatti dal torrente sei volte
più gagliardo, come dice il Sacchi; o perchè i loro cavalli fossero
nuovi a quel vertiginoso giuoco delle cariche, come vuole il Cenni; il
fatto è che al primo cozzo voltano briglia tutti quanti, e abbandonando
il loro comandante alle prese col colonnello nemico (che ne riportò per
altro la testa spaccata), vanno in fuga precipitosa.

Ma lo spettacolo accadeva troppo vicino a Garibaldi, perchè egli
potesse starsene inerte spettatore. Scorto il voltafaccia de’
suoi, si butta a cavallo, scortato dal solo moro Aghiar, traverso
la via, tentando, col gesto imperioso, colla voce tuonante, colla
stessa persona d’arrestare la rotta sfrenata. Tutto invano; chè egli
stesso sbalzato di sella, travolto dall’onda commista degli amici
e de’ nemici, impigliato il corpo sotto il proprio cavallo e pesto
dall’unghie di cento cavalli altrui, stava per cadere certamente morto
o vivo nelle mani borboniche, se in buon punto quella compagnia di
ragazzi, di cui già discorremmo, appostata lì vicino non avesse con
una scarica bene aggiustata fatto un buco nella siepe di cavalieri
nemici che già si serravano intorno al caduto, e investendoli poscia
alla baionetta non avesse salva la vita del suo Generale. E non
pareva tuttavia ch’egli fosse scampato a mortale periglio. Quantunque
ferito e ammaccato in più parti del corpo, e coll’impronta d’un ferro
da cavallo sulla mano destra, balza rattamente in piedi, rimonta in
sella, riprende sereno e imperturbabile, come sempre, la direzione del
combattimento.

Nel frattempo però gli Ussari borbonici, portati dalla foga de’
cavalli, erano andati a cascar nel fitto delle linee repubblicane e
fulminati di fronte e dai fianchi da un fuoco micidiale, forzati a
dar volta, lasciando sul terreno feriti e prigionieri, e trascinando
nella lor fuga ruinosa la stessa fanteria che li spalleggiava. Ne
approfittarono naturalmente i Garibaldini, i quali, slanciatisi tutti
insieme alla carica, accompagnarono i fuggenti colle baionette alle
spalle fin sotto le mura della città.

Colà però era d’uopo arrestarsi. Velletri non è munita dall’arte, ma
dalla natura; poggia in alto, ha porte, bastioni, fossati, e il colle
dei Cappuccini le fa da sinistra un contrafforte gagliardissimo. Oltre
a ciò, era evidente che i Napoletani non avevano esposta fin allora che
la minima parte delle loro forze, e poteva parer naturale, a chi ancora
non sospettava la pusillanimità de’ loro capi, che essi uscissero di
nuovo con milizie fresche a tentare un nuovo e più decisivo assalto.
Si tennero invece sulla difesa; munirono di cannoni i Cappuccini,
ne puntarono altri ad ogni porta, si stesero da diritta a manca per
i vigneti intorno alle mura della città, e stettero a lor volta ad
aspettare.

Garibaldi vide che il momento era critico. Un assalto a Velletri
con forze sì scarse era impossibile; una ritirata, con gente già
scompigliata dalla pugna e più atta a caricar con furore che a
ritirarsi con ordine, sarebbe stata una follía; altro non restava
dunque che sollecitare il Comandante supremo a venire subitamente in
suo soccorso, e tenere frattanto in iscacco il nemico con manovre e
scaramuccie. E così fece, e nel mentre che spediva a tutta carriera
il Padre Ugo Bassi[128] a dar notizie al Rosselli dell’accaduto ed a
pregarlo, se aveva cara, non che la vittoria, la salute de’ suoi, a
correre senz’altro indugio in suo aiuto; copriva alla meglio le sue
truppe dietro tutti i frastagli e gli scoscendimenti del terreno, e
attendeva gli invocati rinforzi.

Il Bassi intanto riusciva a scovare il Rosselli a Valmontone, donde
non s’era più mosso, e dove lo trovò affaccendato a sorvegliare la
distribuzione del rancio alla prima brigata. Gli fece l’ambasciata, di
cui era incaricato; usò di tutta la sua fervida eloquenza a dipingere
la situazione dell’avanguardia; ma il Rosselli, severo e imbronciato,
dopo una sfuriata di lagni verso Garibaldi che aveva impegnato
battaglia contro i suoi ordini (e vedremo come non fosse vero),
rispondeva: «Dover prima aspettare che la truppa avesse consumato
il rancio, poi si sarebbe mossa.» Fortuna volle che alcuni Corpi
della seconda brigata, tra cui i Bersaglieri lombardi, accorressero
da sè stessi al tuonar del cannone, onde Garibaldi a mano a mano
che sopravvenivano li poteva condurre a risarcire le file, sempre
più stremate, dell’avanguardia. Così entrarono successivamente in
linea i Bersaglieri lombardi, la Legione romana, un battaglione del
secondo Reggimento, e quel che più contava, parte dell’artiglieria del
Calandrelli, che controbattendo gagliardamente le numerose batterie
del nemico lo contennero lungo tempo e gli levarono la tentazione,
certamente infestissima ai nostri, di ripigliare l’offensiva.

Ma tutto ciò a nulla approdava: i nostri non retrocedono, ma si
diradano; i Borbonici non avanzavano, ma restavano sempre forti e
minacciosi, e ogni istante che fuggiva, andava a loro profitto. Solo
uno sforzo concorde di tutto l’esercito poteva assicurare e compiere
la vittoria; laonde Garibaldi preso il capitano David, un bergamasco
animoso, così aitante di persona come caldo di parola, lo mandò a spron
battuto a pregare e a scongiurare di nuovo il Rosselli, affinchè per
tutti i suoi santi affrettasse il soccorso.

E il David «sferza, sprona, divora la via,» e arriva a sua volta a
trovare poco lungi il Generale in capo, che seguíto da tutto il suo
stato maggiore se ne viene a passi misurati in perfetta ordinanza,
a capo dei quattro o cinquemila uomini che gli eran rimasti. Le
precise parole che il David diresse al Generalissimo romano, i nostri
cooperatori non le hanno registrate; ma dovettero essere assai
energiche e vibrate, se a udirle ufficiali e soldati si scuotono,
s’infiammano, rompono le file, brandiscono le armi, chiedono con
alte grida di marciare avanti, partono a tutta corsa a rifascio per
Velletri, lasciando solo col suo stato maggiore e con pochi seguaci il
Generale romano. E noi non batteremo le mani. Un esercito che rompe i
freni della disciplina e si ribella a’ capi, anche se la indisciplina
sia giustificata da generoso motivo, e la ribellione finisca col
fruttar la vittoria, è sempre spettacolo che attrista; ma poichè non
era quella l’ora di indagare le cagioni del male o di arrestarne gli
effetti, e d’altronde quei soldati comunque venissero, chiunque li
inviasse, eran pur sempre amici accorrenti al rinforzo, Garibaldi li
prese per quel che valevano, e a mano a mano che sopraggiungevano
li avventava a rinforzar la battaglia. La loro venuta anzi gli
diede opportunità di tentar qualche mossa, che dapprima la tenuità
delle forze gli vietava. Veduto infatti un via vai, sulla strada
di Terracina, di truppe nemiche e giustamente sospettando in quel
moto un preparativo di ritirata, manda il colonnello Marchetti[129]
con un centinaio di fanti e mezzo squadrone di Dragoni a imboscarsi
nella selva che fiancheggia spessissima quella via, affinchè piombi
di sorpresa sui fianchi e alle spalle del nemico appena gli giunga a
portata; e predispone simultaneamente un ultimo e più vigoroso assalto
contro il convento de’ Cappuccini, che formava, come dicemmo, la chiave
delle posizioni borboniche alla loro sinistra.

Intanto però che Garibaldi intendeva a ripigliare l’offensiva,
ecco a un tratto il fuoco de’ Napoletani rallentarsi, le loro linee
concentrarsi, la strada di Terracina nereggiare sempre più di carri e
di soldati, tutto accennare a prossima e totale ritirata.

In quel punto arrivava sul luogo dell’azione il generale Rosselli. Era
già sera. Garibaldi, dopo aver ragguagliato il Comandante in capo di
tutti gli eventi della giornata, lo condusse nella casa Blasi,[130]
che aveva servito di specula a lui stesso durante il combattimento,
e accennatogli col dito il crescente addensarsi del nemico sulla
strada di Terracina gli improvvisò, come suol dirsi, sul tamburo,
questo piano: «Egli, Garibaldi, si getterebbe ai fianchi del nemico
fuggente; il Rosselli coll’artiglieria, la linea e i Carabinieri della
riserva, resterebbe a difender la posizione espugnata e appoggerebbe
l’attacco di Velletri.» Ma non era al dotto Rosselli che il manesco
Garibaldi poteva darla ad intendere. Per la sua sapienza quei nemici
che sfilavano in confuso sulla strada di Terracina erano reggimenti e
brigate in moto a predisporre un nuovo assalto per l’indomani; per la
sua metafisica militare, la ritirata dell’esercito borbonico era una
manovra.

«Ma che manovra! (ribatte seccamente Garibaldi); non vedete che quello
è un esercito che fugge?» — e lasciando al Generale in capo passar
tranquillamente la notte nei soffici letti della casa Blasi, se n’andò
a dormire digiuno sotto una siepe.

Al nuovo mattino non c’era più in Velletri un solo Borbonico.


XI.

Questa veracemente la giornata di Velletri; questo il fatto d’arme,
nel quale Garibaldi fu accusato d’aver colla sua temerarietà
e indisciplinatezza guastato i disegni del suo Generale e resa
impossibile la totale disfatta del nemico.

Però qual conto meritino siffatte accuse, chiunque ha seguíto a passo
a passo la battaglia lo può attestare. E prima di tutto si disse che
Garibaldi mancò al suo dovere due volte: abbandonando arbitrariamente
il grosso dell’esercito; impegnandosi nel combattimento contro gli
ordini del suo Generale in capo. Certo in un esercito bene ordinato,
dove tutti stanno al loro posto, sanno il loro mestiere e fanno il
loro dovere, questo non sarebbe avvenuto. In quell’esercito si sarebbe
bensì osservata la regola, che chi comanda un corpo in marcia ne
comanda necessariamente tutte le sezioni; ma non sarebbe stata violata
l’altra norma non meno importante, che il Comandante in capo marcia
alla testa della colonna tra il grosso e l’avanguardia, ond’essere in
caso di governarne da un punto centrale tutte le parti. Ora dov’era il
Rosselli la mattina del 19? Noi lo vedemmo alla coda della riserva!
In tutt’altro luogo dunque che al suo posto; in luogo tale, dove,
checchè accadesse, non poteva dirigere nè il grosso nè l’avanguardia,
nè vedere quel che accadeva davanti o intorno a lui, nè formarsi un
concetto qualsiasi delle intenzioni del nemico e delle condizioni sue.
Ciò essendo, che doveva fare Garibaldi quando sentì che l’avanguardia
stava per essere attaccata, e che perciò tutto l’esercito poteva da un
istante all’altro essere forzato a combattere? Quello che ogni buono e
vero Generale avrebbe fatto nel caso suo: montare a cavallo, spedire
un avviso del fatto al Generale in capo, e correre all’avanguardia a
giudicare cogli occhi suoi dello stato delle cose.

Se non che al suo arrivare vede che il nemico è in procinto d’attacco,
e giudicando pericolosa, oltrechè disonorevole, la ritirata, prende
una posizione difensiva e sta ad attendere. Che vi è in tutto ciò di
scorretto, d’irregolare, di contrario alle norme dell’arte e della
disciplina militare? Forsechè il generale Garibaldi doveva lasciar
assalire e magari massacrare l’avanguardia senza nemmeno darsene per
inteso; forse che egli poteva informare il generale Rosselli di quello
che accadeva avanti, se non lo vedeva e non lo giudicava da sè stesso?

Ma si replica: egli non doveva attaccare; e il generale Rosselli
glielo mandò a vietare espressamente. Abbiamo tante volte ridetto
che il generale Garibaldi _fu attaccato, non attaccò_; che il
ripeterlo sarebbe sazievole. Circa però all’ordine del generale
Rosselli, anzitutto il general Garibaldi affermò sull’onore di non
averlo ricevuto che tardi, quando oramai la lotta era impegnata ed è
probabilissimo; in secondo luogo l’ordine, per confessione esplicita
dello stesso general Rosselli, non era già di evitare ad ogni costo lo
scontro e quasi fuggire davanti il fuoco, ma soltanto «di andar cauti,
di fermarsi a quattro o cinque miglia da Velletri,» e di non impegnarsi
prima ch’egli fosse giunto in tempo da spalleggiarlo.

E capisce ognuno che le quattro o cinque miglia non erano oltrepassate;
che le cautele dell’arte non erano state violate; che venne meno
soltanto la condizione di non impegnarsi prima che il Generale in capo
fosse giunto, per la ragione semplicissima che il Rosselli non giunse
mai.

Pure non è questo il più grosso fallo di Garibaldi. Il vero peccato
mortale, la imperdonabile colpa sua è d’aver sciupato, come dicono,
lo stupendo piano di guerra del suo Generalissimo, e per usar
l’espressione d’Alberto Mario, «perduto il Regno, rendendo impossibile
il precogitato movimento di circuizione del nemico.» Davvero
trasecoliamo! Il solo disegno buono, ma per nulla stupendo, che il
Rosselli abbia manifestato, fu quello di assalire i Napoletani sui
colli Latini, girandoli per la destra; e noi abbiamo già veduto che la
sera del 17 quel disegno, per la ritirata precipitosa dei Napoletani,
era già sventato. Altro disegno, nè buono nè cattivo, il Rosselli non
partecipò ad alcuno; l’avrà covato, ma nol partorì. Durante tutto il
giorno 19 se ne stette dove l’abbiamo veduto, e da dove certamente
nessun piano di guerra, per napoleonico che fosse, nè potevasi porre
in atto, nè governare. Finalmente alla sera del 19 il Rosselli viene,
vede e non capisce ancora: scambia i preparativi di ritirata del
nemico per manovre di assalto; risponde a Garibaldi, che gli propone
di rinnovar la battaglia, piombando sulle spalle dei nemici fuggenti: a
domani; e l’indomani non c’è su tutto l’orizzonte un solo Borbonico; e
l’indomani, di tutti i piani rosselliani non resta più che l’eco della
battaglia sotto Velletri, combattuta per sei ore dal solo Garibaldi
e vinta solo da lui; eppure ci sono ancora degli amici di Garibaldi,
de’ bravi soldati, delle menti elette, come il Vecchi, il Mario, il
Guerrazzi, che scrivono e ripetono: la vittoria di Velletri essere
stata sciupata da Garibaldi; egli aver lasciato scappar i Borbonici,
che il Rosselli avrebbe presi; egli perduto il Regno, che il Rosselli
col «precogitato movimento di circuizione» avrebbe conquistato!

E di più non aggiungiamo: il buon senso giudichi. Se Garibaldi sia
stato o no un grande capitano, non è quesito cui vogliamo rispondere
ora; la fine della sua vita e di questo libro lo chiariranno. Quello
che per ora ci importa assodare è questo solo: che nessun argomento
potrebbe essere meno idoneo a dimostrare la sua inettitudine alla
grossa guerra, della giornata di Velletri. Che se quella giornata
poteva essere una grande vittoria e restò una incompiuta fortuna, a
tutti poteva esserne attribuita la colpa, fuorchè a Garibaldi. E non
basta nemmeno, a parer nostro, cercarne le cagioni nell’inerzia del
Rosselli che non combattè, o nella vigliacchería del Re borbonico
che fuggì. Per avere in mano tutto il segreto della fallita impresa
conviene risalire ancora a quella causa vera e prima, che accennammo
dapprima: l’antagonismo dei due capitani che comandavano nel medesimo
campo.

Non si mandano alla stessa impresa due generali pari di grado,
disuguali di valore, diversi di origine, antipatici di carattere, senza
che o prima o poi il disaccordo della loro eterogenea natura scoppi
violentemente e danneggi l’opera stessa per cui sono associati. V’era
tra il Rosselli e Garibaldi una incompatibilità irreconciliabile: l’uno
pretendeva alla superiorità della scienza, l’altro alla superiorità
della esperienza; l’uno ostentava i suoi studii, l’altro citava le sue
campagne; l’uno parlava di guerra come un Vegezio o un Jomini; l’altro
non sapeva, come i grandi pittori, dare compiuta ragione di quello che
faceva, ma ogni pennellata era una vittoria. Create ora, se vi riesce,
da quel disaccordo l’armonia; fate nascere, se potete, da quella
antinomia l’unità, e suscitate da quella antipatia l’amore. Il Governo
romano non capì prima il suo grande errore; non lo capì a Velletri,
non lo volle capire dopo; Roma continuava ad avere due generali in
capo, l’uno di nome e l’altro di fatto; e i Francesi, aiutati da quel
dualismo, saliranno la breccia un mese prima del tempo.


XII.

La mattina del 20 il Rosselli mandò sulla strada di Terracina qualche
squadra volante di fanti e di cavalli a perseguitare la coda de’
fuggenti; e il tentativo non dispiacque a Garibaldi; ma non gli bastò.
L’idea sua era di buttarsi nel Regno e accendervi le faville d’una
rivoluzione novella. Ne scrisse perciò il giorno stesso al Rosselli
in questa lettera, la quale per quel po’ di famigliarità che abbiamo
contratta coi modi e lo stile del nostro eroe, la diremmo tutta di suo
pugno:

                                         «Velletri, 20 maggio 1849.

      »Generale!

  »Io profitto della vostra compiacenza ad ascoltarmi e vi espongo
  il mio pensiero. Voi avete mandato ad inseguire l’esercito
  napoletano da una forza nostra; ed è molto bene. Domani mattina
  dobbiamo col corpo d’esercito tutto prendere la strada di Frosinone
  e non fermarci fino a giungere sul territorio napoletano, le
  popolazioni del quale bisogna insurrezionare. La divisione che
  seguita la strada di Frosinone deve impegnarsi con forze superiori
  e ripiegarsi sopra noi in caso d’urgenza; ciò che potrò farò anche
  traverso le montagne, non impedito dal peso dell’artiglieria.

                                                    »G. GARIBALDI.»

Il Rosselli trasmise, com’era debito suo, la proposta al Ministro
della guerra, contentandosi a esporre le difficoltà dell’impresa e
a dichiarare che, pur ubbidendo, ne rinunziava la responsabilità. E
questa volta aveva ragione lui e torto Garibaldi. E più ragione forse
nel rispetto politico che nel militare. Poichè era più probabile che
Garibaldi riescisse a battere l’esercito borbonico, numeroso sì, ma
inabile, ed a racchiuderlo nelle sue fortezze, che a far insorgere
popolazioni sbalordite ancora dai rovesci e dai disinganni dell’ultima
lotta, parte atterrite dalle persecuzioni, parte infralite dalla
corruzione, attorniate dallo spettacolo della reazione stravincente
in tutta Europa, e prive d’ogni speranza di aiuto e d’ogni lusinga di
vittoria. Oltre di che non era colle forze destinate a difender Roma
che doveva tentarsi una simile impresa. Oramai le cose erano giunte a
tale in Italia, che il partito più saggio era concentrar la difesa in
pochi punti dov’era ancora possibile e là cadere gloriosamente. Pensare
ad altra riscossa era sogno; divider le poche forze per seminarle a
ravvivare la favilla d’una rivoluzione era stoltezza. Il Governo romano
poteva di leggieri intender tutto ciò e dir chiaro a Garibaldi: tornate
in Roma. Posto invece tra i due generali creati da lui, prese il
partito solito di accontentarli entrambi: richiamò il Rosselli a Roma
col grosso delle forze; lasciò a Garibaldi una brigata coll’incarico
apparente di spazzar i confini dalle masnade dello Zucchi, col reale,
di tentare l’impresa del Regno. E Garibaldi partì.

Il 23, sera, era coll’avanguardia a Frosinone, da dove il vecchio
Zucchi era già partito; il 25 a Ripa; il 26 sconfinava a Ceprano,
e saputo che Rocca D’Arce, munitissimo luogo, era occupato dai
Napoletani, inviò tosto i Bersaglieri lombardi ad assalirlo. E i
Bersaglieri, scambiati pochi colpi cogli avamposti, si slanciano arditi
su per l’erta scoscesa, aspettandosi ad ogni passo d’essere salutati
dalle mitraglie nemiche e arrivando invece, senza dare nè ricevere un
colpo, fino al sommo del paese, dove con grande loro meraviglia, non
trovano anima viva.

«I soldati (scrive Emilio Dandolo testimonio) erano sdegnati di questa
diffidenza; ma mercè le calde ammonizioni di Garibaldi, arrivato allora
colla sua Legione, e particolarmente del Padre Ugo Bassi (che conobbi
allora quanto fosse fervente di carità e di patriottismo), non fu tocca
una busca in quel paese deserto, non abbattuta un’imposta. Sedemmo per
terra sulla piazza. Ma gli spauriti abitanti, quando dalle cime vicine
videro quest’ordine ammirabile, calarono in tutta fretta, corsero
ad abbracciarci, aprirono le case e le botteghe, e in pochi istanti
il paese tornò alla consueta attività. Ci raccontarono allora quante
superstiziose credenze avessero i soldati napoletani sparse fra loro.
A sentirli, noi eravamo tanti folletti inviati dal demonio a divorare
i bambini ed abbruciare le case. Il vestire bizzarro di Garibaldi
e de’ suoi accresceva singolarmente la paurosa ignoranza di quei
paesani.[131]»

Garibaldi frattanto aveva ordinato di riprendere la marcia per il
mattino vegnente; risoluto, se la voce che un corpo di Svizzeri
l’aspettasse a San Germano s’avverava, a misurarsi con loro e a farla
finita al più presto. Nessuno gli aveva levato di mente che vincere
una battaglia contro quell’esercito fosse facile, e che una vittoria
bastasse ad aprirgli le porte del Regno: «Qui (diceva a’ suoi ufficiali
raccolti sulla piazza d’Arce) qui si decidono i destini d’Italia. Una
battaglia vinta sotto Capua ci dà nelle mani l’Italia.[132]»

Altri però erano in quel momento i pensieri del Governo romano.
L’invasione austriaca s’innoltrava minacciosa; un esercito del Wimpfen
aveva già cominciato l’investimento d’Ancona; un altro agli ordini del
Lichtenstein marciava su Perugia; Roma poteva essere in pochi giorni
serrata tra branche di ferro, anche più tenaci di quelle francesi: far
argine a tanto pericolo era prudenza. E il Triumvirato si era lusingato
per un istante di poterlo, essendogli parso che durante l’armistizio,
e prossimi i negoziati Lesseps, giusta la pia sua credenza, a
conchiusione felice, nessuno, nemmeno l’Oudinot, avrebbe potuto
vietargli di mandare la parte disponibile dell’esercito a combattere
quelli Austriaci, che ingenuamente pensava aborriti, prima che da
altri, dagli stessi Francesi. Perciò, col capo dentro in questa fitta
d’illusioni, ordinava che una spedizione per le Marche s’allestisse in
Roma, e che frattanto Garibaldi fosse richiamato a marcia forzata dal
Regno. E Garibaldi, saputo il motivo del richiamo, ubbidì, può dirsi,
con gioia; e con somma diligenza ripassava il confine il 28; rientrava
in Frosinone il 29; era ad Anagni il 30; il 1º giugno a Roma.

Da Frosinone peraltro aveva scritto al Masina questa singolarissima
lettera, dalla quale traspaiono due cose poco sapute fino ad ora:
ch’egli affidava a quell’intrepido il comando in capo della Legione
italiana; e che gli rideva in cuore la speranza di poterla adoperare
ben presto contro il secolare nemico, di cui tutti sanno il nome.

Ed ecco la lettera: più degna certamente d’un _caicco_ di turbe
indiane, che d’un eroe civile; ma nella sua selvaggia inspirazione,
viva, pittoresca, terribile:

  «_Comando della 1ª Divisione._

  »_Repubblica Romana._

                                          »Frosinone, 29 maggio 1849.

  »Colonnello Masina,

»Io vi incarico sempre delle più ardue e disagiate imprese colla
coscienza del vostro coraggio e della vostra capacità a disimpegnarle.
Voi siete uno di quei compagni che la fortuna mi ha fatto felicemente
incontrare per l’adempimento dei destini dello sciagurato nostro Paese,
e per cui ogni impresa mi diventa facile. Io vi amo e vi stimo dunque
doppiamente, come amico dell’anima, poichè lo meritate personalmente
— come campione della santa nostra causa, per cui tanto avete fatto
e tantissimo farete ancora. Io vi raccomando la Legione. Credetemi.
Voi solo dovete comandare quei valorosi giovani, quel nucleo delle
speranze della Patria. Voi non dovete limitarvi a condurla sul campo
di battaglia, ma bensì, ciò che ben sapete fare, tenerla qual famiglia
vostra, vegliarla, custodirla, staccarvi da quella meno che sia
possibile. Voi avete sperimentato certamente come la fanteria è il vero
nucleo della battaglia; e la Legione italiana, vedete, vittoriosa tre
volte, sarà vittoriosa sempre.

»Voi avete bisogno pure del vostro Corpo de’ Lancieri e ne avete
veduta la necessità. Essi con Voi saranno inseparabili dalla Legione
e non saranno meno utili. Ma la fanteria abbisogna veramente di
tutta la vostra cura. State con essa, Colonnello, io ve la raccomando
intenerito. La vita della prima Legione italiana appartiene caramente
e indispensabilmente all’Italia. I Legionari, noi stessi non possiamo
valutarne l’importanza. L’onore italiano — e sapete se importa l’onore
ad una nazione caduta — l’onore italiano per la maggior parte è stato
salvo dai nostri bravi Legionari. Ed un popolo disonorato sarebbe
meglio che sparisse dalla superficie della terra. Voi avete combattuto
sempre alla fronte della Legione e la Legione vi conosce, vi stima. Il
valore, credetemi, è la prima qualità; almeno la più fascinante; quella
che serve al capo ad affezionarsi il subalterno; e Voi foste brillante
di valore. Dunque Voi reggerete e guiderete bene la Legione, e bramo ve
ne occupiate indefessamente. In Roma potremo supplire ai bisogni dei
nostri militari e non abbiamo tempo da perdere. Il più terribile, il
più abbominato de’ nostri nemici ci aspetta sulle vie delle Romagne ed
io.... mi suona un grido di vittoria nell’anima. Da questo momento Voi
preparerete la Legione ad uno scontro co’ Tedeschi. Dite ai Legionari
che si famigliarizzino con quell’idea, che ne facciano il pensiero
d’ogni minuto della giornata, il palpito d’ogni sonno della notte. Che
si famigliarizzino ad una carica a _ferro freddo_, e conficcare una
pungente baionetta (le affileremo a Roma) nel fianco di un cannibale.
Carica a ferro freddo senza degnarsi di scaricare il fucile. Date un
ordine del giorno alla Legione che obblighi i Legionari alla seguente
preghiera: — Dio, concedetemi la grazia di poter introdurre tutto
il ferro della mia baionetta nel petto di un Tedesco senza essermi
degnato di scaricare il mio fucile, la cui palla serva a trucidare
altro Tedesco non più lontano di dieci passi. — Dunque all’opera,
mio caro Colonnello, state sulla Legione come l’avaro sul suo tesoro.
Preparate i Legionari ad un giorno di trionfo. Forse dovremo combattere
più compatti. Si assuefacciano dunque a miglior disciplina, a marciare
uniti; a comparire il più decorosamente che sia possibile. Vinceremo
allora e profitteremo della vittoria.

                                                »GIUSEPPE GARIBALDI.»


XIII.

Quando la colonna di Garibaldi rientrava in Roma, le trattative Lesseps
erano già fallite. Nè poteva essere altrimenti. La missione di pace
dell’Inviato straordinario era apparente, gli ordini di guerra del
Generale in capo reali; il Governo romano agiva con lealtà più che
cavalleresca, il Governo francese con doppiezza peggio che volpina;
a Parigi come a Londra, a Gaeta come a Vienna, a Madrid come a
Napoli, si voleva la morte della libertà romana e la risurrezione del
Papato: impossibile che, esaurito l’ultimo sforzo delle armi, ciò non
avvenisse. Il 1º giugno l’Oudinot alla lettera ingenua del Rosselli,
il quale chiedevagli nientemeno che di prolungar l’armistizio fino a
che l’esercito romano avesse, con suo comodo, battuto gli Austriaci,
rispondeva: gli ordini del suo Governo prescrivergli di entrare in Roma
al più presto; aver già denunziato l’armistizio alle Autorità romane;
per solo riguardo ai Francesi residenti in Roma consentire a differire
l’attacco fino a lunedì mattina. Ciò voleva dire in tutte le lingue del
mondo fino al 4 giugno: nel calendario, non sappiamo se dire gesuitico,
del Generale francese, significò sino alla mattina del 3. E di questa
perfidia inaudita negli annali militari, la coscienza della storia
ha già gridato vendetta; e a noi parrebbe quasi femminile piagnisteo
ridirne di più. Sull’assisa dell’Oudinot, duca di Reggio, il figlio del
_Bajard de l’armée_, è stampato un marchio che nessuna acqua lustrale
di gloria potrà lavare; quanto al fosco riflesso che ne rimase sulla
bandiera francese, amiamo pensare anche noi che il sangue di Magenta e
di Solferino l’abbia deterso.

È noto adunque che all’alba del 3 giugno i Francesi, sorpreso quasi
nel sonno il sottile battaglione Melara, occupavano con due brigate la
Villa Pamfili, e ben presto, avviluppati da ogni parte i loro bravi,
ma pochi difensori, anche le posizioni adiacenti del convento di San
Pancrazio, e di Villa Corsini, chiamata pure Casino de’ Quattro-Venti,
e formanti colla Pamfili un solo altipiano, cadevano in loro potere.
Nessuno attendeva l’inopinato assalto; però il fragore della pugna
scosse la città intera come colpo di fulmine. Garibaldi stesso, così
vigile, dormiva nel suo modesto letto in Via delle Carrozze, e non
lo svegliò che il cannone. Ma non era sveglia sgradita. In un baleno
è in piedi, in pochi istanti è in sella; trae seco la coorte della
Legione italiana, acquartierata poco lontano; ordina alle rimanenti di
seguitarlo, parte al galoppo, arriva alla Porta San Pancrazio; misura
con un’occhiata tutta l’estensione del pericolo; distribuisce le truppe
man mano che gli giungono tra i bastioni, la Porta e il Vascello,
e slancia primi i Legionari alla riconquista di Villa Corsini. E la
Legione, comandata dal Sacchi, preceduta dal Masina, accompagnata dal
Bixio, va, traversa sotto una grandine di palle lo scoperto terreno
seminandolo de’ suoi migliori, e arriva sino al vestibolo della casa;
ma colà, fulminati di fronte e dai lati, dalle finestre, dalle siepi,
dalle muraglie, da migliaia di nemici appostati al coperto, e quasi
invisibili, son costretti a voltar le spalle ed a rifugiarsi nel
Vascello, che da quel momento diviene l’antemurale estremo e più tenace
dei difensori di Roma.

Le veci allora sono mutate. Gli assalitori di dianzi diventano
assaliti: i Francesi sboccano dai ripari, irrompono da ogni parte; ma
i Legionari, protetti dal massiccio edificio convertito in fortezza,
folgoravano da cento feritoie la morte: il Vascello è avvolto da una
bufera di fuoco, ma resiste impavidamente.

Ed ecco in quel punto, scoccavan le otto, giocondi, entusiasti,
impazienti di pugna, arrivare i Bersaglieri Manara. Era tempo:
Garibaldi appena li vede apparire ne prende la prima compagnia, e
la spinge ad arrestare l’avanguardia nemica. Ed anche i Bersaglieri,
capitano Ferrari, luogotenente Mangiagalli, preceduti dal loro stesso
Colonnello, si precipitano capofitti come i Legionari, rigano del loro
sangue il cammino mortale; onde i Francesi balenano, indietreggiano,
sono risospinti fino alla spianata della Villa. Ancora uno sforzo
ed il contrastato baluardo è nostro. Garibaldi lo vede (fu detto
non abbastanza in tempo), e manda la seconda compagnia di Enrico
Dandolo a spalleggiare i vittoriosi, mentre stacca parte del secondo
battaglione ad assalire, per il convento di San Pancrazio, l’estrema
destra del nemico. Ma era tardi. Il Dandolo tradito dalla voce, dal
gesto amichevole del capitano francese cade in un agguato, e trafitto
in mezzo al petto da piombo traditore soccombe; il giovinetto Morosini
lo assiste, lo difende, combatte disperato; ma sopraffatto dal numero,
anche la sua compagnia dà volta, mentre ai Quattro-Venti non restano
già più a fronteggiare i Francesi che il Manara, il Ferrari, il
Mangiagalli, capitani senza soldati.

Il secondo assalto era fallito: ripresa lena, bisognava ritentare il
terzo, il quarto, fino alla vittoria, fino alla morte. Le artiglierie
del Calandrelli non avevano mai cessato di battere le posizioni
nemiche, nè partiva colpo che non facesse breccia, e già San Pancrazio,
Villa Corsini, Villa Valentini erano foracchiate in più parti, quando
una granata cascò in mezzo alle stanze della Corsini e vi appiccò le
fiamme. Era quello il momento del terzo assalto, o nessun altro, e non
sfuggì a Garibaldi. Legionari, Bersaglieri, Studenti, fanti romani,
quanti erano venuti raccogliendosi via via tra Porta San Pancrazio e il
Vascello, fanno massa, si precipitano a rifascio, s’avventano furiosi
contro la Villa infernale, da tempio di delizie mutata in fucina di
morte, e ne ritentano la ripresa. E i Francesi per la terza volta
l’abbandonano, e per la terza volta tornano grossi e inferociti, e per
la terza volta la Villa è perduta. L’avreste detta l’ultima. Spento il
fiore dei prodi, decimate le file, stremate le forze, quasi consunte
le munizioni, i Francesi gagliardamente trincerati nelle riconquistate
posture, la giornata poteva dirsi perduta. Garibaldi solo non lo
volle credere, e verso sera fu udito ancora dire, come un sonnambulo,
a Emilio Dandolo: «Andate con una ventina de’ vostri più bravi a
riprendere Villa Corsini.» Il bravo ufficiale guardò trasognato l’uomo
che gli dava ordine sì strano; ma Garibaldi replicò: «Pochi colpi e
subito alla baionetta,» e il Dandolo prontamente: «Stia tranquillo,
Generale, m’han forse ucciso il fratello e farò bene.» E come gli fu
ingiunto, partì, e in men d’un ora, tornò con soli sei uomini, ferito
egli e il sottotenente Sartorio, ultimi combattenti di quella giornata.


XIV.

S’era fatto notte. Il destino aveva detto per quel giorno l’ultima
sua parola. Garibaldi non aveva più un uomo valido intorno a sè. I
Francesi, occupato a tradimento il campo, l’avevano difeso coll’usato
valore, pagando di largo sangue la non dovuta conquista; ora la ragione
invincibile del numero l’assicurava a loro. Quattro furono gli assalti
ordinati da Garibaldi; ma quelli tentati da manipoli isolati, ad
arbitrio, a capriccio, per sfoggio di bravura, o a sfogo di rabbia,
innumerati, innumerevoli. Non conosciamo, nella storia delle guerre,
giornata, in cui il valore individuale abbia fatto tanta copia di sè
come nel 3 giugno. Non fu una battaglia; fu un grande duello, una
giostra della prodezza col numero, una sfida dei petti ignudi alle
muraglie armate, un palio d’eroi alla mèta della morte; per questo
sublime, pur non lodevole sempre. Taluno più che a combattente devoto
alla patria s’atteggiò a gladiatore nell’arena, tal’altro parve più
ambizioso della morte che della vittoria; laonde tra l’ammirazione e
la pietà s’insinua, non so quale senso di amarezza, quasi rampogna a
quei valorosi d’aver sfoggiato in vana mostra il non dubbio valore, e
sprecato il nobile sangue sacro all’Italia.

Di quella pagina d’eroico poema, Francesco Domenico Guerrazzi tentò
un abbozzo; ma nemmeno a lui, signore della prosa terribile, riuscì
ritrarne la immortale bellezza. Omero solo, forse, non tremerebbe
all’assunto. Noi, pedestri cronisti, possiamo per debito di reverenza
e d’amore ricordare; un grande poeta soltanto potrebbe glorificare.
Il Masina, ferito al primo assalto, fasciata in fretta la piaga, si
lancia a cavallo su pei gradini di Villa Corsini, e avvolto di nemici,
rotando il ferro terribile, squarciato il petto da una palla, procombe
ruinoso, formidabile. Il Mangiagalli a Villa Valentini mena strage di
Francesi; spezzata la spada, combatte col troncone e tiene la Villa
con pochissimi fino a tarda sera. Lo Scarcele, gentile vicentino,
lega morendo tutto il suo alla patria. Il Monfrini, sergente dei
Bersaglieri, quantunque gravemente ferito, vuol riprendere il suo posto
nelle file; e al Manara che gli dice: «Vattene, qui non servi a nulla;»
— «Lasciatemi stare, Colonnello, almeno faccio numero,» e alla prima
carica il valoroso è morto. Il Rozà, ferito due volte, torna due volte
alla pugna, e alla terza soccombe. Angelo Bassini s’avventa, quasi
solo, contro Villa Corsini e ne torna pesto, insanguinato, sereno.
Il milanese Dalla Longa raccoglie sulle spalle il caporale Fiorani,
mortogli allato, e mentre va ritraendosi lentamente col caro peso, una
palla lo trapassa, e cade in un fascio col carico suo. Emilio Dandolo
erra ferito per tutto il campo in cerca della spoglia del lagrimato
fratello. Narciso Bronzetti va, notturno, traverso le scolte francesi
per rapire ai nemici il corpo del suo servo fedele. I Legionari
del Medici, avvistisi che una delle case da essi difesa tutto quel
giorno è preda alle fiamme, d’onde il nome di Casa Bruciata,[133] si
rammentano dei cadaveri dei compagni, e affrontano di nuovo la grandine
dei _Vincennes_ per sottrarli al rogo inglorioso e dar loro onorata
sepoltura.

Memoranda e gloriosa giornata, scrisse l’Oudinot; ma poteva
soggiungere: meno per sè che per noi. I Francesi, che avevano
combattuto quasi sempre dai ripari, contarono dugentoquarantadue feriti
e quattordici morti; noi diciannove ufficiali uccisi, trentadue feriti,
e circa cinquecento soldati tra feriti e morti; e ci sdegna il pensiero
che in tanta foga d’erudizione spigolistra, in tanta smania di scavar
dagli archivi le più rancide e tarlate pergamene, i nomi dei caduti di
Roma non sieno ancora tutti scoperti, scritti e incisi ne’ marmi.

Però, lieti di aggiungere ai nomi già noti alcuno fino ad oggi coperto
dall’oblío, tutti ad uno ad uno religiosamente li raccomandiamo.
Morirono, oltre i nominati: il vecchio colonnello Pollini d’Ancona,
veterano di molte battaglie; l’aiutante maggiore Peralta, il capitano
Ramorino, Emanuele Cavallero, Canepa, Sivori, Pedevilla, Anceo,
Caroni, Minuto, Gnecco, Pegorini, Gruppi, Costa, Rodi, Coglioli, De
Maestri, tutti ufficiali della Legione di Montevideo, poscia della
italiana; i tenenti Cavalieri, Bonnet e Grossi; i sott’ufficiali
Savoia e Bonduri, della Legione italiana; il capitano Meloni di
Imola, del reggimento _Unione_; i tenenti conte Loreta di Ravenna e
Gazzaniga di Roma, del terzo Reggimento, e i tenenti Bacci d’Ancona e
Marzari di Macerata, del sesto; il tenente Covizzi, dell’artiglieria;
il carabiniere Battelloni e il dragone Rambaldi di Lugo, morto d’un
colpo di cannone col grido sulle labbra: «Viva la Repubblica!» Furono
più o meno lacerati da ferite: Nino Bixio all’inguinaia, Goffredo
Mameli al ginocchio, il capitano Strambio alla gamba, poi Alessandro
Duzelisiaux francese, Binda di Cremona, Bini di Nepi, Marocchetti,
Bassini, Frattini, Graffigna, Sartorio, Boldrini, Bignami, Mambrini,
Zanetti, Magni, Zanucchi, Tassoni, Grioli, Zuccala, Vigoni, Sanpieri,
Righi e Tressoldi, tutti della Legione italiana; Silva, Colombo,
Mancini, Signoroni e Scarani, dei Bersaglieri lombardi; Marcucci, della
Legione Medici; gli ufficiali d’artiglieria Pierani, Tiburzi e Viviani;
Visanetti di Cesena, capitano; Luzzi, Mazza, Castaldini, tenenti
dei Bersaglieri romani; il colonnello De Pasqualis e il capitano Del
Pozzo, del primo Reggimento; Lucci, del sesto; il sergente Giorgieri di
Massa, ch’ebbe sfracellata la mano dal moschetto d’un Francese, mentre
in lotta a corpo a corpo tentava strapparglielo; e se v’ha chi possa
aggiungerne ancora, venga e scriva a onore dei morti, a conforto dei
viventi, ad esempio dei venturi.[134]

E nulla diciamo di Garibaldi, che già non s’immagini. In balía al
pericolo, forato il _poncho_ da cento palle, impassibile, invulnerabile
in mezzo alla strage, come il Dio della Guerra, comparendo quasi
onnipresente in tutti i punti del campo, ora slanciandosi egli stesso
alla testa degli assalitori, ora ponendo il suo cavallo attraverso
l’onda dei fuggenti e gridando loro la classica rampogna: «Voi
sbagliate strada, il nemico non è qui;[135]» infiamma ed alimenta se
non guida la pugna, ne è davvero l’anima, se non vuol dirsene la mente.
Fu più soldato in quel giorno che capitano!; noi pure lo riconosciamo,
nè sapremmo dargliene intera lode; ma il suo esempio tenne luogo
d’arte, il suo bianco mantello svolazzante nel più folto della mischia,
di guida e di bandiera.


XV.

E noi crederemmo averne detto abbastanza, se anche in quel giorno, il
solo accusato, il solo responsabile della fallita vittoria non fosse
stato ancora Garibaldi. Egli sprecò in spicciolati assalti il sangue
più generoso; egli assalì di fronte posizioni trincerate con forze
disuguali, anzichè batterle di fianco e circuirle; egli non seppe
tentar un solo assalto con ampiezza di disegno e accordo di movimenti;
egli non usò altra arte che l’impeto e l’ardire; egli «si mostrò in
quel giorno tanto inetto generale di Divisione, quant’era apparso
contro i Napoletani esperto guerrillero.[136]» E tutto non contestiamo.
C’è in questa accusa molto di vero; e a rigor di scienza, posto il
problema a tavolino e a tavolino risolto, Garibaldi generale poteva e
doveva far meglio.

Ma si pongano, i ripetitori di quest’accusa, una mano sulla coscienza!
non resta alcuna scusa a questi errori; non v’è nessuna circostanza
attenuante per quel colpevole? E anzi tutto dov’erano quelle grandi
forze, colle quali Garibaldi poteva manovrare di fronte e di fianco,
assaltare i nemici, e via dicendo? Sul teatro dell’azione fino a metà
della giornata non vedemmo comparire che la Legione e i Bersaglieri,
e soltanto nel pomeriggio arrivano, sempre però uno dietro l’altro,
spicciolati e divisi, gli altri Corpi. Ora a chi se ne debba attribuire
la colpa, se a Garibaldi che non richiese in tempo debito tutti i
necessari soccorsi, o ai Comandanti supremi che non seppero inviarli
prontamente, nessuno l’ha finora chiarito; ma è più ragionevole
supporre che Garibaldi li abbia chiesti, e che da Roma, per il timore
d’altri assalti, non siano stati mandati, che sospettare il contrario.
In ogni caso Garibaldi nemmeno verso sera riuscì ad avere sotto mano
più di quattromila uomini; e con questi doveva guardare le porte e
i bastioni, munire il Vascello e le adiacenze, custodire i propri
fianchi e combattere di fronte, per lo meno due divisioni francesi,
che non stavan soltanto sulla difesa, ma da ogni lato sovrastavano e
irrompevano.

Ora ognuno vede che la situazione non era sì semplice, come a’ censori
sembrò. Se egli impegnava tutte le sue forze, si privava di ogni
riserva e si esponeva al primo rovescio ad essere aggirato a sua volta
e forse disfatto; se invece pensava soltanto a guardarsi i fianchi e
le spalle, non poteva spingere all’assalto che poche forze disuguali al
cimento; e in ambo i casi egli si trovava serrato da un dilemma, da cui
soltanto l’impetuosità dell’assalto, l’ardimento de’ colpi e l’eroismo
de’ combattenti potevano scamparlo. E v’ha di più: l’altipiano Pamfili,
cinto da alte muraglie, fiancheggiato da quattro massicci edificii,
come da quattro maschii di fortezza, protetto da siepi, da frane, da
scoscendimenti, da macchie, è una posizione, a forze uguali, quasi
imprendibile. Avviluppare, girare, son belle parole; ma chi conosce
quella posizione sa che senza truppe numerose, cui resti il tempo di
fare un lungo giro e di manovrare caute e coperte, sa, dico, che non si
gira, nè si avviluppa. Bisognava non perderla Villa Pamfili: una volta
perduta, il riconquisto ne diveniva, per chicchessia, qualunque ne
fosse l’arte o la forza, sanguinosissimo.

Infine, e per tagliar corto, dov’erano i Generali, i Ministri, i
Consiglieri, gli accusatori, gli strateghi in quel giorno? Per quanti
libri abbiam consultato, dove al 3 giugno fosse il generale Rosselli
non ci venne fatto scoprirlo. Perchè non comparve mai a Porta San
Pancrazio, o comparsovi non corresse gli errori del suo divisionario e
colla sua sapienza non li riparò? Perchè non gli mandò almeno le truppe
disponibili in soccorso? Non era egli evidente che le sorti di Roma
si decidevano in quel giorno fuori di Porta San Pancrazio? E perchè
non concentrò egli pure colà tutte le sue forze? I Francesi, è vero,
minacciavano da più parti; è vecchio strattagemma di guerra; ma non è
ella arte altrettanto vecchia di non lasciarsi cogliere alle finte, di
scernere tra i tanti punti minacciati il punto decisivo e di convergere
su quello tutti gli sforzi? Il generale Rosselli contava in Roma circa
tredicimila uomini: n’avesse anche lasciati la metà a guardare Porta
del Popolo, Porta San Giovanni, Ponte Molle e Monte Mario; gli restava
ancora tutta l’altra metà, colla quale spalleggiare Garibaldi a Porta
San Pancrazio, e forse guadagnar la giornata.

E ci basti. Garibaldi poteva e doveva far meglio; poteva e doveva ad
ogni assalto, anche fatto da pochi (tuttavia i Prussiani nell’ultima
loro guerra usarono questa tattica), tener pronte più grosse colonne
che accorressero a rincalzare gli assalitori e ad occupare le posizioni
espugnate; poteva e doveva essere più economo del sangue de’ suoi e
far costar più sanguinoso il trionfo ai nemici. Ma egli solo infine,
di tutti i generali di Roma, il 3 giugno, combattè; egli solo pagò
di persona, ispirò gli ardimenti, sorresse la costanza, capitanò
per dieci ore un combattimento contro un nemico tre volte superiore
formidabilmente trincierato; e non hanno diritto d’accusarlo e
condannarlo coloro che non seppero nè secondarlo, nè illuminarlo, nè
correggerlo.

Tanto più che converrebbe condannare con lui il prode de’ prodi di
quella giornata, il primo eroe, dopo Garibaldi, del 3 giugno; come lui
più gregario che capitano; come lui sprezzante della vita propria e
de’ soldati; come lui credente più nel «ferro freddo» della baionetta,
che nell’arti e negli accorgimenti della tattica, Luciano Manara.
E ne valga a documento questa lettera, inedita sin qui, scritta al
Triumvirato nel tumulto della pugna, e nella quale, tramezzo alle
ansietà, alle speranze, alle ebbrezze di quell’ora, traluce in tutta
la sua chiarezza la fiera anima lombarda del campione delle Cinque
Giornate, che non ha idoli di nomi e di sistemi; che combatte come
che sia, dovunque, per la patria e la libertà; che monarchico di
core e aristocratico di costumi, grida: «Viva la Repubblica,» se in
quell’istante la Repubblica è l’Italia.

  «_Repubblica Romana._

      »_Triumvirato._

                                              »Roma, 3 giugno 1840.

      »Cittadini,

  »_Riceviamo in questo momento dal colonnello Manara le notizie che
  qui trascriviamo._

                            »ALL’ASSEMBLEA.

  »Dei nostri furono sensibili le perdite, perchè immenso lo slancio
  con cui si sono gettati sul nemico.

  »Più di dieci volte il nemico venne caricato alla baionetta.
  Del mio solo Reggimento duecento fuori di combattimento, fra cui
  dodici ufficiali, ma tutti morti da grandi, tutti spiranti col
  santo nome di Patria, di Libertà in bocca. I celebri tiragliatori
  d’Orléans dovettero fuggire più volte davanti a noi. I Francesi non
  entreranno in Roma, per Dio! Oggi devono essersi persuasi che hanno
  dinanzi a sè dei bravi che loro fanno pagar caro l’infame loro
  progetto.

  »Viva la Repubblica!

      »SAN PANCRAZIO.

                                             »Firmato MANARA.[137]»


XVI.

Non sta a noi rifare il diario dell’assedio di Roma: basta al nostro
assunto disegnare i sommi contorni del quadro, soffermandoci soltanto a
lumeggiare qua e colà quei punti ne’ quali il nostro eroe campeggia.

Padroni di Villa Pamfili, i Francesi intraprendono, quasi fosse una
piazza forte di prim’ordine, l’assedio di Roma. Nella notte dal 4 al 5,
milleduecento uomini di fanteria inquadrati fra centoventi zappatori,
tracciano, a trecento metri, una prima parallela destinata a scrollar
con due batterie i bastioni sesto e settimo; dal canto loro, scoperta
al mattino vegnente l’opera nemica, le batterie romane del Testaccio,
di Sant’Alessio, del bastione sesto, aprono un fuoco vivissimo,
controbattono con tiri aggiustatissimi le batterie degli assedianti, le
conquassano e le sfiancano.

E da quell’istante incomincia la penosa, triste e monotona vicenda
dell’assedio. Di fuori i Francesi forti di numero, di disciplina, di
valore, guidati da uno de’ più valenti ingegneri militari del secolo
(poichè il vero vincitore di Roma fu il generale Vaillant), potenti
di artiglierie e di munizioni, ricchi di qualsivoglia stromento
di offesa e di difesa, riforniti di continuo dalla gran via del
mare, s’avanzano lenti e metodici, tracciano ogni giorno una nuova
parallela, s’accostano senza posa alla piazza, scavano ad ogni ora un
palmo di breccia; di dentro gl’Italiani, i quali, sebben costretti a
difendere da un vero e regolare assedio una città che non fu mai una
fortezza,[138] e condotti da un genio militare, ardito, infaticabile,
ingegnoso, ma scarso di cannoni, di braccia, di materiali d’ogni sorta,
contrappongono intrepidi offesa ad offesa, trincea a trincea, scavano
vie coperte, alzano cortine, restaurano senza sosta le cannoniere
smontate, tentano, a dir vero, con poca arte e minor fortuna le loro
sortite, molestano, come ponno e come sanno, il nemico vigile ed
agguerrito; suppliscono infine colla fortezza de’ petti alla debolezza
delle muraglie, e prolungano colla sola virtù la loro gloriosa agonia.

Qual parte toccò a Garibaldi in quel secondo periodo? La principale
ancora. Scelto per quartier generale il Casino Savorelli, che da
una costa del Gianicolo presso San Pancrazio dominava tutta la
stesa dell’assedio, e presa tutta per sè la torretta che sovrasta
al Casino, Garibaldi se ne fa insieme la sua specula e la sua stanza
prediletta, e tutte le poche ore di quiete che il nemico gli concede
le passa a frugar coll’occhio tutti i più ascosi avvolgimenti del
campo assediante. I Francesi, naturalmente, appena seppero che lassù
era il nido del famoso guerrillero, se lo presero per uno dei punti di
mira più favoriti; ed era una gara tra i cacciatori di Vincennes e i
cannonieri di Villa Corsini a chi meglio imberciava nel segno.

Non per questo egli aveva mutato una sola delle sue abitudini: come
al solito tornava ogni giorno ad osservare dalla sua specula le mosse
nemiche, come al solito andava nei brevi riposi a fumare il suo sigaro
a cavalcioni della terrazza che contornava la bersagliata torretta.
Pareva anzi che così per lui, come per i suoi ufficiali, quel saltellío
di bombe, quel ronzío di palle, quel rovinar di pietre e di travi
fossero una festa.

Perciò aneddoti a josa tragici e comici. Un giorno una palla
piombando nella stanza terrena dove Garibaldi teneva l’ufficio,
mutila mostruosamente la gamba del Dragone di guardia, e poco manca
che il Generale stesso non ne resti stroncato. Un altro il Manara,
dopo la morte del bravo Daverio assunto all’ufficio di capo di Stato
Maggiore ed abitante perciò presso il Generale, si porta seco al Casino
Savorelli certo Bergamasco, burattinaio famoso, non sappiamo se per
mestiere o per spasso, e lo conduce a dare una rappresentazione a
Garibaldi nella sala frescata da Salvator Rosa; e s’immagini con che
risate di tutta la brigata. Se non che a un certo punto quando occhi e
orecchi son tutti intenti alla rappresentazione, una bomba casca con
gran rombo nel Casino, una gragnuola di palle entra per le finestre,
e tutti sono a un punto d’averne rotte le ossa; ma tutti altresì, vero
miracolo, sani e salvi.

Tuttavia nemmeno le delizie del Casino Savorelli eran tali da distrarre
Garibaldi dalle maggiori e più urgenti cure del suo ufficio. Non
passava giorno che egli non visitasse il campo, intento a ispezionare
trinciere, a dirigere lavori, a ordire colpi di mano, a capitanare
sortite, tra le quali va ricordata quella del 9, contro le trincee
della fronte, dove fu ucciso, sfidando la morte, il prode capitano
Rozat; e quella del 10, guidata da Garibaldi in persona, e distinta
col nome d’incamiciata. Se essa fosse parte di quella grande sortita
escogitata dal generale Rosselli, di dodicimila uomini, o cinque
brigate, che dovevano «formarsi in battaglia e con movimenti a scaloni,
per la diritta,» piombare sui fianchi e alle spalle degli assedianti,
o una sortita parziale e indipendente da quella, non ci fu dato, nè
dai libri stampati, nè dalle memorie manoscritte, rischiarare.[139]
Certo è che Garibaldi, riuniti la sera del 10 in Piazza San Pietro
circa seimila uomini e ordinato che ciascuno, per riconoscersi nelle
tenebre, tirasse sopra le assise la camicia, esce colla Legione polacca
all’avanguardia; l’italiana, i Bersaglieri lombardi, il reggimento Pasi
al centro; il reggimento Masi alla retroguardia, da Porta Cavalleggieri
e s’avvia per le viottole del Monte Creta, alle spalle di Villa
Pamfili, mèta della spedizione.

Se non che, fatta breve strada, cominciano i guai. Sorta la luna,
batte in pieno sugl’_incamiciati_ e riga di bianchi fantasmi tutta la
campagna, onde il Generale è obbligato a comandare che siano nascoste
le camicie, divenute non più segno di riconoscimento agli amici, ma
pericolosa insegna denunziatrice ai nemici. Poco dopo la testa della
Legione italiana, che doveva girare per una via, s’abbatte nella coda
dell’avanguardia che le converge incontro per l’altra, onde a vicenda
si scambiano per nemici e a vicenda s’allarmano; mentre che in altro
punto una scala a piuoli adoperata da alcuni Legionari a perquisire una
casa sospetta, si scavezza, cadendo con grande fracasso coi soldati che
porta, e accresce, col misterioso rovinío, lo spavento e la confusione,
nei già spaventati e confusi, i quali certi oramai d’avere addosso
tutta l’oste francese, vanno sossopra, s’accavallano, si moschettano
l’un l’altro nel buio, rigurgitano fino al centro della colonna.
Indarno il Sacchi, il Manara, l’Hoffstetter, il Ferrari, tutti i più
valorosi, si sforzano colle preghiere, colle minacce, colle percosse di
sfatare quel pánico e di far argine al rigurgito; indarno il generale
Garibaldi menava, bestemmiando, il suo scudiscio sopra i fuggiaschi,
apostrofandoli di «canaglia;» fu necessario che i Bersaglieri facessero
barriera e incrociassero le baionette per farli risensare e contenerli.

Pertanto il colpo era fallito ed era prevedibile. Garibaldi passando
la notte stessa vicino al Manara gli disse: «Abbiamo avuto torto di
non destinare i bravi vostri Bersaglieri all’avanguardia;» ed erano
fiducia e lode meritate; ma se con quelle parole volle dire che la
colpa dell’abortita impresa dovesse cadere tutta, e soltanto sul capo
dei soldati, sicchè bastasse mutarli per mutare l’evento, errava, a
parer mio, di molto, o per lo meno diceva cosa da una grande pluralità
di casi contraddetta e smentita. Siffatte spedizioni notturne,
_incamiciate_ o no, rarissime volte riescono con truppe veterane ed
agguerrite; con giovani ed inesperte quasi mai; e basta sempre il più
lieve accidente: lo scalpitar d’un cavallo, lo scoppio involontario
d’una fucilata, un grido, un’ombra a trarle in rovina.

All’indomani i Legionari, saputo quant’era grande contro di loro
la collera del Generale, inviarono deputati a supplicarlo perchè
volesse perdonarli della svergognata fuga della notte precedente,
chiedendo, per riscatto, d’essere d’allora innanzi mandati pei primi
a qualsivoglia più arrischiato cimento. E il Generale, come padre
irritato contro gli scapati figliuoli, li accolse accigliato e nulla
volle promettere per allora; ma si capiva bene che il perdono era già
nel suo cuore, e che al primo tonar del cannone la grazia sarebbe stata
concessa.[140]


XVII.

Intanto la cinta d’assedio era venuta d’ora in ora serrandosi, e il
duello tra le mura e il cannone, se così fosse lecito chiamarlo, si
andava facendo sempre più accanito. Gli assedianti in meno d’otto
giorni avevano rizzato sei batterie, compiuta la prima e aggiunta una
seconda parallela, e collegate tutte le trincee a’ loro _Depositi_:
gli assediati, a lor volta, afforzate le batterie sesta e settima,
bersaglio fisso del nemico; poi condotte due vie coperte, una al
Vascello, l’altra rasente i bastioni; indi restaurate cannoniere;
risposto, colpo per colpo, al nemico; difesa più d’una volta la
propria, assalita talora la trincea avversaria; pagato ogni giorno
nuovo e largo tributo di sangue generoso; operato tutto ciò che l’arte,
l’ardire, il santo sdegno dell’ingiusta aggressione suggerivano.

La mattina del 13 però i Francesi smascherano tutte le loro batterie
e con trenta bocche da fuoco battono per sette giorni e sette notti
i bastioni sesto e settimo, e la sera del 21 vi spianano in tre punti
la breccia. Ora non restava più ai Francesi che di salirla; ai Romani
di difenderla; e forse con maggior vigilanza lo potevano. Ma la notte
tra il 21 e il 22 i Francesi, taciturni, rapidi, ordinati, tentano
l’assalto; il battaglione del reggimento _Unione_, che vi stava di
guardia, si lascia prima sorprendere, poi intimidire, poi voltare in
fuga; e gli assalitori, solleciti a trar profitto del pánico, checchè
n’abbia novellato l’Oudinot,[141] son padroni quasi senza combattimento
delle mura di Roma.


XVIII.

A questo punto però il nostro eroe è chiamato a rispondere dell’opera
sua.

Presa la breccia, il Rosselli, divenuto audace a un tratto, propone
che ne sia tentata la ripresa, la notte stessa, immediatamente; il
Mazzini, che aveva in grande stima il dottrineggiare del Generalissimo,
creatura sua, lo seconda; l’Avezzana si mostra dello stesso parere,
e tutti insieme vanno da Garibaldi, il quale, smantellata e resa
inabitabile Villa Savorelli, s’era trapiantato pel momento al palazzo
Corsini, e gli propongono, quasi direbbesi lo pregano di mettersi
a capo dell’immaginata conquista, profferendogli, se acconsentisse,
quante forze gli fossero per occorrere. Garibaldi, cosa maravigliosa in
lui, dapprima si rifiuta alla prova, affermando stanche e scoraggiate
le truppe; poi, sollecitato di nuovo, promette di mala voglia di
cimentarsi per le cinque della sera; però, venuta anche quell’ora, si
disdice per la terza volta e dichiara ineseguibile l’impresa.

Il Mazzini se ne sdegna, vede nella risoluzione di Garibaldi la caduta
di Roma e ne scrive irritatissimo al Manara, quasi sperasse farsene
un alleato od un proselite. Pure Garibaldi, letta la lettera del
Triumviro, mormorò poche acerbe parole, ma non mutò divisamento. Egli
persisteva a credere che l’assalto alla breccia, specialmente notturno,
con truppe stanche, sfiduciate, insospettite dalle voci di tradimento,
orbate, pei ripetuti combattimenti, dei migliori loro ufficiali,
sarebbe inevitabilmente fallito; e che oramai la sola risoluzione
provvida e urgente da prendersi fosse quella di riparare dietro una
nuova linea, ch’egli aveva già ideato, e di ripigliare più ampiamente
dietro di essa la difesa.

Avesse torto o ragione, ci mancano i criterii per sentenziarne. Certo
chi consideri l’indole di Garibaldi e rammenti che tanto più un’impresa
lo allettava, quanto più gli appariva arrischiata, penserà come noi,
che se egli si arretrava dinanzi a quella, piena di tanta gloria,
doveva avere le sue buone e forti ragioni: nè si lascierà persuadere
sì di leggieri ch’egli volesse usare violenza alla propria natura,
e rischiare in un punto solo la sua popolarità e la sua fama per un
vano capriccio od un fanciullesco puntiglio. Ma la questione non è
qui: la questione è se Garibaldi disubbidì, siccome molti pretesero,
a ordini espressi, o rigettò puramente un consiglio, e contraddisse
una proposta. E posto in siffatti termini il quesito, la risposta non
è dubbia. Tutti gli storici parlano di _proposte_, di consigli, di
preghiere; nessuno di comandi precisi e categorici.[142] Il Rosselli
propone l’attacco e offre le truppe; l’Avezzana e il Mazzini appoggiano
la proposta; Garibaldi acconsente, poi dissente: ecco tutto quello che
ne dicono gli storici, anche i più avversi al Nizzardo. Ora non è così
che si procede in guerra; non è così che parlano i capitani d’esercito
e i governanti degli Stati. Il Rosselli, se era convinto del fatto suo,
doveva comandare, il Governo sancire coll’autorità sua il comando del
Generale in capo e il Generale subalterno ubbidire od essere deposto,
e l’impresa condotta a termine ugualmente. Ma per parlare e operare
così conveniva non avere nel cuore di Roma la piaga di due generali:
l’uno di nome, l’altro di fatto; conveniva che il Generale in capo
comparisse un po’ più di sovente sul campo di battaglia, e il Triumviro
si immischiasse un po’ meno di cose di guerra; conveniva sopra ogni
cosa che ognuno fosse al suo posto, che tutte le forze lavorassero
sotto l’impulso d’un solo motore; che una mente, una volontà sola
governassero e difendessero Roma, al fine di glorificarne la morte, se
più non era possibile salvarne la vita.

Ed eran questi i motivi che apparentemente scusavano, se non eran
quelli che in segreto animavano la mente di Pietro Sterbini la mattina
del 22. Dicendo «esser venuto il momento di concentrare nelle mani
d’un solo la somma delle cose,» e inetto il Rosselli e fiacco il
Triumvirato; va prima da Garibaldi a proporgli la dittatura; questi
disdegnosamente la ricusa; non per questo lo Sterbini si smarrisce, e
disceso presso Ponte Sisto arringa i soldati, acclamando dittatore il
generale Garibaldi; prosegue ripetendo il grido per Piazza Colonna,
applaudito dalle turbe e spalleggiato fin là dai facinorosi; quando un
ardito giovane fattosi incontro all’agitatore l’apostrofa acerbamente:
«Ai magistrati portasse le accuse e non sulle piazze, cessasse per
Dio dall’agitare la face della discordia anche in quelle ore supreme;
e perchè non cessava, gli appunta al petto un archibuso e lo pone
in fuga.» Ciò non ostante due o trecento sollevatori recaronsi alle
stanze dei Triumviri, ma il Mazzini ammonì severamente gli oratori
loro; e quando l’Assemblea ebbe a deliberare sulla proposta introdotta
in un’adunanza segreta per dare a Garibaldi la dittatura, ossia «il
Governo supremo della difesa» come lo Sterbini diceva, fu vinto il
partito contrario, «e fu meno male che Roma non saggiasse anche lo
Sterbiniano imperio.[143]»


XIX.

Abbiamo voluto narrare l’episodio quasi colle parole stesse di Luigi
Carlo Farini, affinchè si vegga che nemmeno il caldo avversario di
Garibaldi potè accagionarlo d’aver mestato nell’insano complotto. Fu
tutto pensiero ed opera dello Sterbini, che il Garibaldi ripudiò. La
dittatura era forse la sola forma di Governo ch’egli intendesse, e
l’aveva perciò proposta all’Assemblea romana fin dai primordii della
Repubblica; ma nel giorno in cui lo Sterbini, che pur l’aveva la prima
volta combattuta, veniva a proporgliela in quel modo, egli l’aveva
giudicata, peggio che inutile, ruinosa e come tale rigettata.

Perduta la breccia e la speranza di riconquistarla, ai Romani non
resta fuori di Roma che il Vascello; solo, ma formidabile sempre; e
dentro Roma che il tratto dei bastioni di Porta San Pancrazio e Porta
Angelica, e come seconda difesa la linea tracciata meglio che formata
dai logori avanzi del Muro Aureliano. Questa linea era sostenuta al
centro dalle batterie così dette del Pino; ad occidente dal bastione
ottavo, e dalla Villa Spada; ad oriente dai conventi di San Callisto e
di San Cosmate sulle falde dell’Aventino.

Gli è perciò intorno a queste posizioni che sta per rinnovarsi la
lotta. I Francesi, gagliardemente trincerati nella breccia conquistata,
avviano una terza parallela e bersagliano le posizioni nemiche,
scatenando notte e giorno sulla città una pioggia di bombe, che vanno
spesso a danneggiare i monumenti e i capi d’arte più famosi: i Romani
afforzano Villa Spada, affidano al valore d’una compagnia di Legionari
del Medici la ripresa della casa Barberini (colà ebbe fracassato
un braccio il capitano Gorini, e il corpo lacerato da diciassette
ferite Gerolamo Induno, e la spalla forata di baionetta il giovinetto
Cadolini), e non lasciano al nemico che un monte di rovine; armano di
nuovi pezzi le batterie del Pino, afforzano Villa Spada, tempestano
di colpi bene assestati le batterie francesi, sopportano con invitta
costanza i disagi dei lavori notturni, i guasti del bombardamento, i
vuoti della morte.

Tutti ingrandisce la coscienza d’un alto dovere. Il Medici, fatta
del Vascello una fortezza, con un manipolo di prodi, d’approccio
in approccio, di piano in piano, di pietra in pietra, lo difende.
Bersagliato notte e giorno dalle artiglierie di Villa Corsini,
tormentato senza posa dalle carabine dei famosi Cacciatori d’Affrica,
sfabbricato in gran parte l’edificio che gli serviva insieme di asilo
e di rôcca, nulla basta a scrollar la sua fredda, impassibile fermezza.
Squarciato il secondo piano, scende al primo; crollato anche il primo,
passa al pian terreno; diroccato questo pure, ripara nella cantina;
minata anch’essa, s’accampa all’aperto; ma non cede un sasso della sua
ruina e la rende immortale.

Nè meno maravigliosi i difensori delle batterie; e innanzi a tutti i
cannonieri. Disuguali d’armi, mal coperti da terrapieni improvvisati,
costretti a combattere con pezzi di campagna contro pezzi d’assedio,
più d’una volta fan tacere le batterie nemiche, ne conquassano
o ne demoliscono le opere, strappano, per la giustezza dei tiri
e l’intrepidezza della difesa, grida d’ammirazione agli stessi
nemici.[144]

Pure v’era un uomo che compendiava in sè tutti gli eroismi, e pareva
abbellire colla calma la morte e render credibile coll’invulnerabilità
il miracolo: ancora Garibaldi. Lasciata pure Villa Spada, s’era fatto
costruire un capanno di stuoie presso la batteria del Pino, la sua
prediletta; e là, fra il rombo assordante delle bombe francesi, passava
i giorni e le notti speculando attento le mosse del nemico, dirigendo
il fuoco della batteria, spacciando i suoi ordini a ogni parte del
campo, e trovando ancora il tempo di accordare qualche udienza, persino
al bel sesso, e modo di dormire tranquillamente come in casa sua.[145]


XX.

L’ora pertanto s’appressava. Dal 27 al 29 sette batterie francesi,
munite di trentuna grosse bocche da fuoco, avevano tirato con brevi
intervalli sopra tutte le posizioni romane, e malgrado la virtù de’
difensori fatto di esse mucchi di rottami e di sepolcri. Al mattino
del 29, il Casino Savorelli era distrutto, la Porta San Pancrazio
sfiancata, il bastione nono e la Villa Spada gravemente danneggiati,
la batteria del Pino conquassata, infine il bastione ottavo, punto di
mira dell’assediante, ridotto una maceria e la quarta breccia aperta
ne’ suoi fianchi. Quei tre giorni costarono ai difensori di Roma
centottantacinque uomini tra colpiti da morte e feriti; ma non per
questo smarrirono l’animo: la breccia era aperta; bisognava difenderla:
questo fu il giuramento, e fu tenuto.

La mattina del 30 due colonne francesi, sostenute da riserve, muovono
di fronte e da sinistra all’assalto della breccia; i Romani li
respingono disperati; assaliti e assalitori si trovano ben presto
corpo a corpo: un fiero combattimento _a ferro freddo_ s’impegna sul
terrapieno. Emilio Morosini, diciottenne eroe, gentil sangue ticinese,
fa colle sole armi sue eccidio di nemici, e sebben ferito due volte,
non resta dalla pugna: chè trasportato da’ suoi alle ambulanze, ma
abbandonato in cammino e sopraggiunto dai Francesi non s’arrende
ancora, e mena di sciabola finchè gli basta la lena; finchè una seconda
palla nel ventre gli trapassa il bel corpo e ne invola l’anima eroica.

Pure la breccia è salita, ma non vinta ancora; le batterie della
Montagnuola fanno strage degli assalitori: i Francesi pagano ogni
palmo di terreno col sangue de’ loro capitani; gli artiglieri si fanno
tagliare a pezzi sui loro cannoni, ma non s’arrendono;[146] esauste le
polveri, spezzate le baionette, fracassati anche i calci de’ fucili,
restano ancora a far barriera i petti dei superstiti e i cumuli dei
morti; fino a che, ahi gloriosa, ma vana ecatombe!, il numero ha
ragione un’altra volta; i Francesi irrompono da ogni lato; l’unica via
di ritirata è minacciata, e non resta ai sopravviventi altro riparo
che Villa Spada. E quivi Garibaldi, richiamata al Casino Savorelli la
Legione Medici, ormai dopo la perdita della seconda linea inutile al
Vascello, asserragliata Villa Spada, appoggiate le spalle a San Pietro
in Montorio, la sinistra a San Callisto, l’estrema destra al bastione
nono, tuttora in piedi, tenta improvvisare una terza linea di difesa.
La notte però sospende il combattimento; il dì vegnente sarà l’ultimo
di Roma repubblicana.

Preceduti e spalleggiati dal fuoco incrociato di tutte le batterie,
i Francesi montano da ogni parte all’assalto; ma il loro obbiettivo
è sempre Villa Spada. Colà si decide l’estrema sorte di Roma; colà
Garibaldi, il Manara, il Sacchi, i Legionari, i Bersaglieri, quanti
uomini son vivi e atti a impugnare un’arma, si preparano all’estrema
disfida. Il tetto, le mura, le porte della casa, bombardati come un
bastione, crollano da ogni lato sui difensori; e spesso le rovine
uccidono quelli che le palle risparmiano, ma nessuno parla di resa.
Il Manara infiammato d’ardore eroico, aspirando la strage e quasi
desiderando la morte, corre da un capo all’altro della casa, incoraggia
i combattenti, conforta i caduti, provvede dovunque alla difesa,
governa la lotta; ma nel punto in cui s’affaccia ad una finestra per
osservare le mosse d’un cannone nemico, una palla gli entra nelle
viscere, e lo stramazza agonizzante fra le braccia di Emilio Dandolo,
a cui poco dianzi aveva detto, come Ney a Waterloo: «Non ci sarà dunque
nessuna palla per me?»


XXI.

Un altro come lui aveva cercato, in quel baratro infocato di Villa
Spada, la morte; ma come se questa non osasse troncare a mezzo il
grande destino a cui era serbato, non volle ascoltarlo. Il Manara
in quel giorno fu grande; Garibaldi parve terribile. «Egli rivelava
(scrive, coll’autorevolezza di chi ha veduto, Augusto Vecchi) egli
rivelava in quel giorno qual’uomo si fosse. Ruotava d’ogni lato la
spada; faceva mordere la polvere ai mal venturosi che gli si spingevano
dinanzi. Pareva Leonida antico alle Termopili. Pareva Ferruccio nel
castello della Gavinana. Io tremava ch’egli avesse a cadere da un
istante all’altro; ma egli saldo ristette siccome il destino.»

A mezzogiorno tutto era finito: Villa Spada era perduta; Garibaldi
si ritirava coi laceri avanzi de’ suoi corpi per la Lungara,
sperando ancora di arrestare il nemico a Ponte Sant’Angelo; quando
un rappresentante del Popolo venne ad annunziargli che l’Assemblea
aveva bisogno d’interrogarlo sullo stato delle cose, e l’attendeva in
Campidoglio.

— Credete voi che in un’ora saremo di ritorno a Villa Corsini? — chiese
egli al Vecchi, che lo scortava.

— Lo credo....

— Allora partiamo, — e al galoppo, sordido di polvere, intriso di
sangue, fiammeggiante il volto per l’ardore della pugna recente,
salì il Campidoglio. Al suo apparire l’Assemblea ruppe in una salva
d’applausi. Informato che il Mazzini aveva proclamato: «Tre sole vie
rimaner aperte: capitolare; difendere la città a palmo a palmo; uscire
da Roma, Governo, Assemblea, Esercito, e portare la guerra altrove;» e
invitato a salire la tribuna onde esporre il parer suo, rispose:

«La difesa oltre Tevere impossibile: possibile ancora al di qua del
fiume la guerra di barricate; ma a patto che tutta la popolazione si
ritiri e s’interni nella città; e che tutto ciò sia effettuato entro
due ore. Dover suo soggiungere che anco siffatta difesa non avrebbe
potuto durare che pochi giorni. Solo la dittatura d’un uomo energico
(e tutti sentivano a chi egli alludeva) poteva salvar Roma. Egli la
propose fin dal 9 febbraio: non fu ascoltato; oramai era tardi. Quanto
a lui, null’altro restavagli che uscir di Roma col resto de’ suoi
prodi, e tener alta la bandiera della patria fino all’estremo.[147]»

Ciò detto laconicamente, tornò al suo campo; e l’Assemblea, respinta
ogni idea di resistenza, votò il Decreto ormai celebre:

«In nome di Dio e del Popolo

»L’Assemblea Costituente Romana cessa una difesa divenuta impossibile e
sta al suo posto.»

E poichè per effetto di questo Decreto il Triumvirato aveva rassegnato
l’ufficio, al Municipio romano, rimasta unica autorità legittima,
spettò negoziare col vincitore i patti della resa. Se non che avendo
il Generale francese rifiutate le più oneste condizioni, tra le altre
quella del rispetto delle persone e delle cose, Roma sdegnosamente
ruppe ogni negoziato, preferendo subire l’estremo arbitrio del
vincitore al disonore di sottoscrivere con lui una resa, che avrebbe
dato alla conquista brutale l’aspetto d’una vittoria civile; e tolto
a lei, vittima, di levare un’estrema protesta contro quella bugiarda
sorella, che dopo averla assalita con perfidia, combattuta talvolta
col tradimento, vinta colla sola virtù del numero, veniva a negarle in
faccia quel supremo diritto della incolumità delle vite e degli averi,
che persino l’austriaco Gorgowscky aveva riconosciuti a Bologna.




CAPITOLO SESTO.

DA ROMA AL SECONDO ESIGLIO. [1849-1854.]


I.

A mezzogiorno del 2 luglio, non per anco entrati i Francesi in Roma,
Garibaldi radunava sulla Piazza del Vaticano le milizie della sua
divisione, e fatto formare il quadrato le arringava press’a poco
così:[148]

«Soldati, io esco da Roma. Chi vuole continuare la guerra contro lo
straniero venga con me. Non posso offrirgli nè onori nè stipendi; gli
offro fame, sete, marcie forzate, battaglie e morte. Chi ama la patria
mi segua.»

Strepitose acclamazioni a Garibaldi e all’Italia risposero al laconico
appello; a seguirlo però non, si profferirono che al più tremila
uomini;[149] i resti cioè della Legione italiana, buona parte della
polacca e del battaglione Medici, grossi manipoli di finanzieri,
di studenti e d’emigrati, i superstiti Lancieri di Masina, circa
quattrocento Dragoni; ma dei Bersaglieri lombardi pochissimi.

Ma a lui, avvezzo alle _guerillas_ dell’Uruguay, paiono anche troppi.
La sera del giorno stesso esce furtivo da Porta San Giovanni; e
lasciando tutti incerti della sua mèta, s’incammina per la Tiburtina.
Gli cavalca al fianco, in vesti virili, già incinta del quarto figlio,
pronta a tutti i cimenti la sua Anita; gli fa da guida Ciceruacchio,
fuggente esso pure co’ figli l’abbominio della vista straniera;
l’accompagna Ugo Bassi, avido di martirio; ne seguono le sorti
Sacchi, Marocchetti, Montanari, Hoffstetter, Cenni, Livraghi, Isnardi,
Sisco, Ceccaldi, Chiassi, Stagnetti, Bueno, Müller, l’eletta de’ suoi
ufficiali superstiti. Giunto in sull’alba del 3 a Tivoli, divide la
sua truppa in due legioni, ripartita ciascuna in tre coorti, e affida
il comando della prima legione al Sacchi; pone la cavalleria agli
ordini del Bueno; dà l’unico cannone al Müller; compone il suo Stato
Maggiore di: Marocchetti capo, Hoffstetter ufficial di dettaglio, Cenni
aiutante di campo, Montanari, Torricelli, Stagnetti, e altri, ufficiali
di ordinanza; nomina Gianuzzi e Fumagalli commissari alle proviande;
fa sparger voce che mira al Napoletano. Al tramonto infatti, levato
il campo, marcia buon tratto verso mezzogiorno; indi volge improvviso
a settentrione, pernotta a Monticelli, e la mattina del 4 s’accampa a
Monterotondo.[150]

Qual era pertanto il suo disegno? dove andava? a che mirava? Degli
storici che abbiamo sott’occhi, l’uno gli attribuisce il pensiero
di chiudersi a Spoleto, munitissima altura, e di continuare colà la
resistenza; altri gli affibbia il proposito di sollevare le Marche
e l’Umbria; altri di gettarsi in Toscana, e assalirvi gli Austriaci;
questi di avviarsi a Venezia, quegli di rimeditare l’impresa del Regno;
e in verità se egli volgeva in mente tutte queste ed altrettali cose,
e se a tutte pareva ugualmente disposto, secondo le opportunità e gli
eventi, una sola ne voleva chiaramente e saldamente: cadere ultimo;
tener viva la fiamma finchè le bastasse soffio di vita; morire, se
era d’uopo, avvolto tra i laceri brani della sua bandiera; ma non
patteggiare collo straniero.[151]

Frattanto, facile a prevedersi, la persecuzione era già cominciata.
L’Oudinot gli sguinzaglia contro due colonne, l’una delle quali guidata
dal generale Molière gli dava la caccia fin sotto Albano; l’altra
comandata dal Morris l’andava a cercare sulla via di Civita Castellana;
il borbonico Statella gli moveva alle spalle dal Tronto; gli Spagnuoli
di Don Consalvo appostati a Rieti gli sbarravano la destra; e gli
Austriaci del D’Aspre, accampati nell’Umbria, l’aspettavano di fronte
a Foligno e gli chiudevano le due vie di Perugia e d’Ancona. Come
si vede, eran quattro eserciti che lo serravano da ogni parte entro
una maglia di ferro, e guai se l’inseguíto sbagliava una mossa: era
perso inevitabilmente. Ma l’inseguíto si chiamava Garibaldi; quella
guerra l’aveva fatta dieci anni in America; si può quasi dire che
l’aveva inventata lui; ed era bravo davvero chi lo coglieva. Levare
il campo quasi sempre di notte, e mai ad ora fissa; marciare con
pochi impedimenti; accampare nei luoghi nascosti; frugar senza posa il
terreno d’ogni intorno; spinger scorribande in tutti i sensi; accennare
ad una mèta e camminare improvviso per l’altra; partire ostensibilmente
per la via maestra e fuori di vista scappar per le traverse; calcolare
il tempo e studiare il passo come in un ballo; mangiar poco e in
fretta, ma incettar viveri oltre il bisogno per parer più numerosi;
aver per fede che con pochi valorosi si fa assai più che in molti
timidi e fiacchi: ecco l’arte colla quale egli sperava di uscire anco
quella volta dalla grande pania che gli era tesa; e forse lasciare
ai quattro nemici che lo braccavano come belva un ricordo imperituro
della sua arte. E questa arte egli non usò mai con tanta perfezione di
disegno e di opera come in quella ritirata, capolavoro del guerrillero.


II.

Nel pomeriggio del 3 stacca la marcia da Monterotondo; il 6 è a
Confine; il 7 a Poggio Mirteto; l’8 a Terni, dove s’incontra col
colonnello Forbes, che viene a portargli una colonna di ottocento
uomini, resti di molti corpi sbandati nella campagna, e due altri pezzi
di cannone.

Ma Terni è centro di cinque vie; per essa si può tanto salire a
Foligno, quanto ridiscendere a Rieti; come voltare per Narni e Viterbo,
come salire a Todi e Perugia; quale sarà la buona? Garibaldi non cerca
a lungo. Lancia in ogni passo scorribande per ingannare gl’inseguenti;
spinge un’avanguardia di cavalli fino a San Gemini sulla strada di Todi
e il dì appresso (9 giugno) vi si conduce egli stesso col grosso del
corpo. Colà però l’orizzonte comincia a intorbidarsi.

Troppo facile batter le mani da Piazza Vaticana, al programma «fame,
sete, battaglie;» ma eseguirlo giorno per giorno, punto per punto, qui
la difficoltà, hoc opus, hic labor, e s’intende che nemmeno a tutti
coloro cui bastava l’animo bastasser parimente le forze. Tanto più
che, sarebbe vano nasconderlo, della gente che Garibaldi traeva seco
non tutti certamente erano quel fiore d’eroi, e quella quintessenza
di galantuomini che il Capitano nella credula mente aveva sognato.
Molti aveva spinto sotto le sue insegne indomito amor di patria, o
innocente vaghezza di avventure, ma non pochi altresì la vita famelica
e disperata, la gola di bottino, la speranza di pescare nel torbido,
o perdersi nel fosco; se pur, a dir tutto, non v’era taluno cui non
era discaro di coprire col camiciotto del volontario qualche vecchia e
incomoda magagna di polizia.

Però nulla di più naturale che sintomi di scoramento, di stanchezza e
d’indisciplina fossero apparsi nelle file sin dai primi giorni; che
le diserzioni prima a frotte, poi in massa, fossero già cominciate
e andassero crescendo; che i reati di violenza, di ladroneccio,
d’insubordinazione sempre più spesseggiassero, e malgrado la espressa
volontà del capo di reprimerli energicamente, non fossero sempre
scoperti e puniti; che infine, per tutte quelle cagioni che erano
inseparabili da siffatta impresa, la colonna ne restasse ogni giorno
più assottigliata, indebolita e scompigliata.

Aggiungasi che le popolazioni sobillate da chierici venivano
manifestandosi sempre più ostili; sicchè grande la difficoltà di
procacciarsi viveri, ricoveri, guide, notizie, quanto ad una truppa
in guerra, specie a quella, sarebbe stato indispensabile; impossibile
poi ottenere checchessia da frati e monache, che sbarravano in
faccia ai Garibaldini le porte de’ loro conventi, li accoglievano
talvolta a schioppettate, sguinzagliavano contro di loro, come in
quel di Todi, persino i mastini di guardia; rendevano necessari
castighi e rappresaglie, che di contraccolpo inasprivano i conflitti
e assiepavano di nuovi triboli e maggiori perigli la via già tanto
tribolata e perigliosa. Infine, cosa più grave, due dei quattro
inseguenti s’avvicinavano a gran passi, e il terreno sul quale
Garibaldi poteva manovrare andava sempre più restringendosi. Concordi
notizie infatti recavano che da un lato i Francesi del Morris erano
già mossi da Viterbo in marcia per Orvieto, e che dall’altra gli
Austriaci concentrati a Foligno, come annunziava in un suo bando il
generale Stadion, si preparavano a marciare su Todi, «per ridurre al
dovere le masnade che infestano le terre occupate dalle vittoriose armi
dell’Impero.» Ora, chi pensi che Todi è quasi al centro del trivio
Orvieto-Perugia-Foligno, intenderà quanto fosse arduo il problema
che a Garibaldi veniva imposto. Se marciava per la via di Foligno o
di Perugia, dava di cozzo negli Austriaci; se per l’altra d’Orvieto,
andava ad urtar nei Francesi; se fermava il campo a Todi, rischiava
d’averli sulle spalle entrambi. Tutto considerato, non gli restava
sui nemici che un vantaggio di poche miglia e di poche ore; e avendo
indovinato che in quelle poche ore e in quelle poche miglia stava la
salvezza, se la conquistò da par suo. Manda a scorazzare la strada di
Foligno per far credere che egli mira di là; spedisce il Müller con
i suoi cavalli scortato da una compagnia della Legione a perlustrare
i dintorni d’Orvieto, coll’ordine di spingere esploratori fin sulla
strada Montefiascone-Viterbo; seppellisce i due cannoni del Forbes
e non serba che il cannoncino di montagna; e quando è assicurato dai
suoi scorridori che i due nemici sono tuttora tanto lontani da potervi
scivolare in mezzo, lascia Todi la sera del 12, passa il Tevere a
Ponte Acuto, e s’incammina per Orvieto non tuttavia per la maestra,
ma per la viottola più montuosa ed obbliqua di Brodo, dove nella
giornata del 13 pianta il campo. E Brodo, basta un’occhiata alla carta
per accertarsene, offriva ancora un altro grandissimo vantaggio: lo
allontanava d’una tappa così dai Francesi come dagli Austriaci, senza
scostarlo per questo dalla Toscana, sua mèta; verso la quale era sempre
libero di camminare, sia per la grande strada Orvieto-Siena, sia per
Val di Chiana, per mezzo della quale poteva sbucar sotto Arezzo.

Ma il 13 sera, essendosi per altre perlustrazioni accertato che il
generale Morris era ancora lontano, si decide a staccare la marcia per
Orvieto, presso la quale città giunge sul mattino del 14. Quivi però,
saputo che i Francesi avevano ordinato quattromila razioni di pane,
segno della loro vicinanza, e visto l’animo ostile degli Orvietani che
per prima accoglienza gli serrarono le porte in viso, decide saviamente
di tornare all’aperto, prendendo, per ogni evento, una buona posizione
a cavaliere della strada di Ficulle, verso cui s’incamminava. A sera
però gli Orvietani, ridesti da una scintilla di patriottico pudore,
apersero le porte, cedettero a Garibaldi il pane destinato ai Francesi,
e vollero essi pure festeggiare il famoso uomo che consentì a salire
in città. Ma non per questo egli s’indugia, e nel pomeriggio del 15,
mezz’ora prima che i Francesi entrassero in Orvieto, aveva già levato
il campo e marciava di buon passo verso Ficulle. Vi arriva a sera;
e a ciel sereno, in un bel prato, una fresca fontana poco lunge, la
moglie accanto, le stelle sul capo, i nemici d’ogni intorno, ma sempre
la speranza nel cuore, si accampa e riposa. Non perde però tempo: i
Francesi lo serrano alle calcagna da Orvieto; gli Austriaci gli muovono
novamente incontro da Perugia, e bisogna studiare il passo.

Parte la mattina del 16; fatte poche miglia, abbandona la strada
maestra e si butta a Sole, dove rifiata poche ore; la notte del 16, per
alpi disabitate e sentieri impervii, sotto una pioggia dirottissima e
in mezzo a tenebre fitte guadagna tuttavia il confine toscano e giunge
al mattino del 17 a Cetona; dove la popolazione, cosa rara, gli muove
incontro festosa, onde, nota l’Hoffstetter, «fu quella la prima volta
che la brigata, dacchè era uscita da Roma, dormì acquartierata.» Ma
_uno avulso non deficit alter_: liberatosi da uno dei persecutori,
perchè i Francesi non possono sconfinare in Toscana, gliene restano
sempre di fronte altri due: gli Austriaci che scendono da Perugia a
sbarrargli il passo; e i Toscani che tenevano presidii tra Sarteano
e Chiusi e potevano, se non arrestarlo, impacciare i suoi movimenti e
molestarlo.

Pure non se ne sgomenta. Fortificatosi a Cetona, circondati i suoi
fianchi d’imboscate, coperte le sue spalle di pattuglie, manda
celeremente una grossa squadriglia a battere la strada Sarteano
e Chiusi, e quando gli riportano d’averne snidati e messi in fuga
pochi Toscani[152] ivi appiattati, ripiglia la marcia; dorme il 17
a Sarteano; entra il 18 a Montepulciano, dove uomini, donne, frati,
fanno a chi più lo colma di cortesie, di carezze, di banchetti; e dove,
esaltato probabilmente da quelle accoglienze strepitose, pubblica un
ardente manifesto ai Toscani, col quale li invita ad insorgere contro
la tirannide domestica e straniera. Fu però l’illusione d’un istante:
l’appello si perdette nella profonda indifferenza delle popolazioni,
come un tizzone in un’acqua morta; e Garibaldi, presago oramai di
quello che l’attendeva in Toscana, ma parato ad ogni fortuna, continua
il suo fatale cammino.

Giunto però sull’albeggiare del 20 a Torrita, prende una grande
risoluzione! Visto l’effetto del manifesto di Montepulciano, e forzato
da troppi indizi a convenire, che se mai v’era cosa, in quei giorni,
impossibile era un’insurrezione toscana, delibera istantaneamente
di mutar obbiettivo e schacchiere, di abbandonare al più presto
il Granducato e il centro d’Italia e di prendere per nuova mèta
l’Adriatico e Venezia! A che pro infatti sforzarsi a galvanizzare de’
popoli morti, se Venezia viveva ancora? Perchè ostinarsi a suscitare
da ceneri estinte l’incendio? Là sulla Laguna ardeva sempre quel
grande focolare, in cui si concentrava ancora quanto di fuoco esisteva
in Italia! Venezia era tutto per Garibaldi! A Venezia l’Italia; a
Venezia la libertà; a Venezia l’onore; a Venezia la guerra; a Venezia
infine due campi: la terra per il soldato del 30 aprile, il mare
per l’ammiraglio di _Las Cruces_; due campi a lui famigliari come
all’anfibio i meandri del suo fiume e i recessi delle sue rive, e nei
quali egli poteva ancora, favorendo la fortuna, rinnovare i prodigi di
Montevideo, e colla duplice natura donatagli da Dio servire due volte
la patria.

Però fin da quel giorno Garibaldi ha già fermato il suo piano: salire
fin presso Arezzo; passare, riguadagnando qualche marcia sui Tedeschi,
dal Subapennino al grande Apennino; scendere tra Pesaro e Ravenna
all’Adriatico; imbarcarsi nel punto più opportuno e veleggiare per
Venezia.


III.

E con tale proposito parte per Foiano, dove sosta alcune ore; alle 5 di
sera del 21 luglio traversa la Chiana e arriva a Castiglion Fiorentino;
ivi, acchiappato un cacciatore tirolese travestito alla contadina, gli
scopre indosso un biglietto che il Comandante di Perugia scriveva al
Comandante d’Arezzo, per dirgli che in quella notte gli arriverebbero
in Arezzo altre quattro compagnie; non fucila perciò il messo, ma
fa tesoro dell’avviso e stende le sue reti per cogliere di sorpresa
l’annunciato nemico. Disgraziatamente il rinforzo austriaco si arresta
a Cortona; e Garibaldi, giudicando imprudenza aspettare di più, muove
con tutta la sua gente per Arezzo, in faccia alla quale arriva sul
mattino del 21 ed a cui manda a chiedere transito, viveri e quartiere
per un giorno. Ma gli Aretini, soffiati dal bernesco Guadagnoli che
dipinge i Garibaldini come un’orda di scampaforche e di saccomanni,
sbattono loro le porte sul viso; i contadini, ancora ossessi dallo
spirito reazionario d’Aprile, corrono alle armi per respingere i
diabolici invasori; la poca truppa austriaca di guardia, forse un cento
di uomini, sta di rinfianco; e Garibaldi, cui non conviene indugiarsi
a combattere, è costretto ad appagarsi de’ viveri e a serenar sotto
le mura. Pure non è ancora quello il pericolo maggiore; il pericolo
sta nelle colonne austriache che lo premono da ogni parte, e possono
in poche ore aver chiuso il loro anello di ferro e tolto ogni scampo.
Infatti da occidente avanza per la strada di Siena-Arezzo l’avanguardia
del Stadion; da mezzogiorno salgono quelle quattro compagnie che
vedemmo a Cortona; a settentrione occupa Anghiari con una seconda
colonna veniente essa pure da Toscana l’arciduca Ernesto; da oriente
infine altre colonne, spiccate da Rimini e da Pesaro, convergono tutte
verso il medesimo punto, e compiono il cerchio. Ma Garibaldi vegliava,
e affidatosi ancora al suo infallibile talismano del moto perpetuo,
abbaglia, stanca, confonde con innumerevoli andirivieni a destra, a
manca, alla fronte, alle spalle, il suo quadruplice nemico;[153] e
colto il tempo e la mossa, come uno schermidore, spianta le tende da
Arezzo, lascia che la sua retroguardia baratti alcune schioppettate
colle punte d’avanguardia del Stadion arrivata per l’appunto, volta
rapido per Monterchi, a metà cammino tra Arezzo e Città di Castello; vi
riposa tutto il 23; e la notte fa un celere fianco sinistro e va, per i
più aspri sentieri della montagna, a piantare il campo sulle alture di
Citerna.

Il luogo alpestre munito dalla natura, la sua postura al centro del
quadrivio pel quale s’avanzava il nemico, lo rendono adatto così ad
esplorare gran tratto di paese ed a difendersi da forze superiori,
come a dare alle colonne, decimate e affrante, un po’ di quel
riposo, di cui avevano tanto bisogno: e Garibaldi se ne fa un campo
trincerato e vi dimora parte del 24 e tutto il 25. Ma in sulla sera
del dì stesso, avvertito da’ suoi esploratori che l’arciduca Ernesto
era già coll’avanguardia a Borgo San Sepolcro e che le altre due
colonne gli si serravano addosso da Arezzo e da Città di Castello, non
s’indugia più oltre e risolve estemporaneamente il passo decisivo.
Lancia sulla strada di Città di Castello forti pattuglie per trarre
i nemici nell’inganno che egli volesse aprirsi il varco per quella
via; ne spinge altre verso Borgo San Sepolcro col medesimo intento;
e lasciando gli Austriaci scaramucciare colla sua retroguardia, che
essi scambiano per la sua avanguardia, ripassa, notte tempo, il Tevere
presso Borgo San Sepolcro, scende a San Giustino e vi riposa la notte
del 26; poi allo spuntar del giorno intraprende la salita del monte
Luna, in cima dell’Apennino centrale, il sommo dell’arco che egli
descriveva. «La strada (dice il Carrano, traducendo l’Hoffstetter[154])
la strada corre su pel monte per molte giravolte. Per queste andava
l’assottigliata schiera, quasi segnando grandi spire fino alla sommità.
Cavalcava innanzi il Garibaldi colla sua moglie e collo Stato Maggiore
in mantelli bianchi: seguivano i pochi Lancieri dell’estinto Masina;
poi l’altra cavalleria a due a due, i cui piccoli cavalli montavano
nitrendo e sbuffando; poi i saccardi[155] che si cacciavano innanzi
non meno di quaranta muli carichi di salmerie, gridando, bestemmiando,
scudisciando; veniva appresso una mandra di buoi bianchi dalle grandi
corna e ricurve; seguiva poco discosta la prima legione, condotta dal
Sacchi, che si distingueva per i cappelli puntuti alla calabrese; poi
veniva il piccolo cannone tirato da quattro cavalli; poi la seconda
legione, guidata dall’inglese Forbes, in camiciotti di tela; in ultimo,
uniti a pochi finanzieri, i superstiti Bersaglieri del Manara. In tutto
non erano più di duemila uomini, disposti a far fronte in dietro a
ogni momento per respingere i sempre aspettati assalti del nemico; e
serenarono sulla vetta del monte.»


IV.

All’alba del dì seguente la colonna comincia la discesa del versante
opposto e seguendo, giù sempre per profondi e selvosi burroni, il corso
del Metauro, andò a sostare, verso le dieci del mattino, nel villaggio
di Mercatello. Sennonchè alcuni scorridori inviati di colà, costume
solito, a perlustrare la strada, riportano che una colonna austriaca
proveniente da Pesaro è presso a Sant’Angelo in Vado; mentre altri
messaggi, da altre bande, recano che altre colonne occupano già Borgo
San Sepolcro, Pieve Santo Stefano e Sestino, vale a dire tutti i passi
di Toscana e di Romagna. Nuova stretta, nuova strategica per uscirne;
la prima idea di Garibaldi fu di assalire la colonna di Sant’Angelo
in Vado e di aprirsi la strada all’Adriatico colla baionetta; ma poco
stante, meglio esplorate le posizioni e la forza del nemico, mutò
divisamento. Dappoichè suo scopo non era tanto combattere quanto
arrivare, apposta un forte distaccamento a guardare Sant’Angelo in
Vado; un altro ne lascia a Mercatello a tener a bada il nemico che
s’avanza da Sestino; indi per un sentiero di montagna, poco prima
scoperto, spunta col grosso della colonna la posizione di Sant’Angelo
in Vado, trapassa dalla Valle del Metauro in quella del Foglia,
traversa questo torrentello, continua per Macerata Feltria, dove la
sera del 29 s’accampa. Era scampato da un altro frangente; aveva girato
a destra un’altra volta il nemico, in quella ultima con qualche perdita
materiale e con maggior danno morale.

Infatti il distaccamento Dragoni lasciato a guardia di Sant’Angelo,
sorpreso, per negligenza sua, da uno squadrone d’Ussari, va in
rotta così precipitosa, che Anita stessa, la quale cavalcava alla
retroguardia, frustava i fuggenti collo scudiscio e li apostrofava col
nome di codardi. E il fatto sarebbe stato per sè solo insignificante,
se l’effetto del brutto esempio non si fosse ripercosso in tutta
la colonna, e non avesse dato a quelle milizie già scorate, sfinite
e decimate ad ogni ora dalle diserzioni e dalle malattie, un colpo
mortale.

Oltre di che gli Austriaci ebbero il modo di scoprire più prontamente
la direzione della colonna principale e di ritornare novamente sulle
sue orme. E, come dicemmo, la colonna principale fin dalla sera del
29 era già a Macerata Feltria accampata in buona posizione colla
fronte a Sant’Angelo; i fianchi ben guardati; numerosi fuochi al
bivacco ostentati ad arte e tenuti vivi tutta notte, affinchè il
nemico s’addormentasse nella sicurezza che anche il campo garibaldino
dormisse. Ma i fuochi ardevano tuttavia, e Diana non era ancora apparsa
sull’orizzonte, che Garibaldi, fatti sfilare innanzi gli impedimenti,
spianta, in men che non si dica, l’accampamento; sempre pei calli
più dirupati e nascosti guadagna verso il mezzodì del 30 le alture di
Carpegna, ne riparte sul vespro, traversa la Valle del Conca, rifiata
alcune ore in un bosco, e al tocco dopo mezzanotte ripiglia la marcia
alla volta di San Marino.

A San Marino. E perchè? Qual fine lo guidava? Quali speranze aveva
egli fondate, Garibaldi, sopra la famosa Repubblichetta rimasta dai
giorni dell’Alberoni inviolata? Mirava egli soltanto a guadagnar tempo
ed a transitare per il suo territorio, o ne sperava qualcosa di più?
Ma non sapeva dunque che San Marino era Stato neutrale e che le leggi
della neutralità vietano il passo a gente armata, in guerra con Stati
amici? O si lusingava forse che, trattandosi di soldati perseguitati
e infelici d’una Repubblica sorella, il Governo di San Marino avrebbe
fatto uno strappo anche alla sua Costituzione, e non che aperto le
porte della sua capitale, aiutati, se occorreva, i fratelli che vi si
rifugiavano?

Forse sì! Chi conobbe Garibaldi sa che nessuna idea durò mai maggior
fatica a entrare nel suo cervello, dell’idea di legge. Egli è morto,
certamente, senza intendere, soprattutto senza essere persuaso, che la
legge è vincolo inviolabile, universale, uguale per tutti, e perenne,
finchè un’altra legge, allo stesso modo deliberata da un legislatore
altrettanto legittimo, non l’abbia abrogata e mutata. Per lui non vi
furono mai altre leggi che quella della sua coscienza; e tutte le volte
che egli trovò sul suo cammino la legge civile, se n’ebbe la forza
la infranse, se no ne subì il giogo; ma giudicandola in cuor suo una
violenza e una tirannía. Epperò la legge della neutralità di San Marino
che cos’era ella mai in faccia a quell’altra gran legge superiore,
che impone a tutti di soccorrere la virtù sventurata e di proteggere i
deboli perseguitati; od al cospetto di quell’altro dovere d’un ordine
meno alto, ma non meno imperioso, che prescrive a tutti gl’Italiani,
e i Sanmarinesi lo erano bene, di difendere i loro fratelli di patria
contro lo straniero? Per questo, senza affermarla recisamente,
ripetiamo l’opinione nostra che la prima idea, onde Garibaldi fu
mosso verso San Marino, fu quella di chiedere alla Repubblica, se
non propriamente un’alleanza pubblica, una complicità segreta; e che
soltanto più tardi, forzato dagli eventi, mutò i suoi propositi e
moderò le sue pretese.


V.

Ma che non gli restasse più oramai altro rifugio fuorchè il Titano,
lo dimostra da sè solo il fatto che se un altro ne fosse esistito,
egli l’avrebbe scoperto. Oramai la sua non era più una ritirata: era
una fuga; fuga di leone ferito che si rivolta di tratto in tratto,
e mostra le zanne al branco dei cacciatori che lo persegue, ma fuga
irreparabile. La colonna austriaca girata a Sant’Angelo in Vado, appena
scoperta la sua direzione, gli si era posta tostamente alle calcagna;
la colonna dell’arciduca Ernesto continuava ad inseguirlo dal lato
opposto; un’altra colonna era già in moto da Rimini; San Marino era,
può dirsi, circondato, e non lasciava più altro spazio di mezzo, se
non quello per l’appunto che occorreva alla colonna Garibaldi per
continuare a fuggire. Ed anche il fuggire diveniva d’ora in ora più
difficile. Le retroguardie garibaldine toccavano quasi l’avanguardia
degli Austriaci; e uno scontro era imminente. Garibaldi però studiava
il passo; e la sera del 30 luglio, giunto a poche miglia dal Titano,
spediva innanzi il Padre Ugo Bassi per chiedere al Governo della
Repubblica il passaggio della colonna sul territorio sanmarinese,
e i viveri occorrenti. Il Primo Capitano Reggente Belzoppi accolse
benignamente l’oratore; ma rispose che i doveri della neutralità gli
vietavano assolutamente di assentire alla prima sua domanda: «Quanto
ai viveri era questione d’umanità, e se le truppe di Garibaldi avevano
fame, la Repubblica le avrebbe fornite del necessario; all’indomani,
però, ed al confine, che non dovevano in qualsivoglia caso
oltrepassare.»

Il Bassi accettò per conto suo i patti; ma ripartito per riferirli al
suo Generale, lo trovò già in cammino. Gli Austriaci infatti, raggiunta
la retroguardia garibaldina, l’avevano attaccata, e poichè ormai lo
sconforto e la demoralizzazione avevano spento ogni valore, messala
facilmente in rotta, mietendone feriti e prigionieri e togliendo loro
l’unico cannoncino, che scaraventano, grande trofeo e grande vendetta,
in un vallone. Allora il Condottiero si persuase che tutto era finito,
e senza aspettare nemmeno la risposta del Bassi, si decise a varcare il
confine della Repubblica; e alle 7 antimeridiane del 31 luglio giunse
sotto le mura di San Marino. Grande al suo apparire fu l’allarme de’
Sanmarinesi; ed altro non potendo, inviarono a Garibaldi per intimargli
non oltrepassasse la porta della città. E di ciò furono paghi
incontanente, chè Garibaldi stesso si pose in faccia alla porta per
impedire alle sue truppe sopravvegnenti che passassero oltre, ordinando
loro s’arrestassero nel Borgo e nel Piazzale esterno, chiamato lo
Stradone. Ma circa alle 9 del mattino stesso avendo il Reggente mutato
consiglio e invitato Garibaldi a salire in città, questi non se lo fece
ripetere; e cavalcato più che frettoloso al palazzo della Reggenza, vi
trovò il Belzoppi disposto a qualsiasi transazione potesse conciliare
la dignità e la incolumità della Repubblica coi doveri dell’asilo e
dell’umanità. Però neppure il Condottiero fu esigente. «Solo una forza
maggiore della mia volontà, disse, mi costrinse a violare il territorio
della Repubblica; non chiedo per me e la mia gente che il vitto
quotidiano e un temporaneo rifugio. Quanto alle armi siamo pronti a
deporle, se il Governo di San Marino s’impegna a farsi nostro mediatore
presso i Comandanti austriaci, e ottenerci salve la vita e la libertà.»

E il Reggente assentì a tutti i patti; accettò il mandato della
mediazione, assicurò de’ viveri, e null’altro scambio richiese che una
rigorosa disciplina ai soldati e la sicurezza delle persone e delle
sostanze. «Ed io vi ringrazio (replicò Garibaldi), e vi prometto che
nella breve mia sosta, _se i Tedeschi non mi attaccano, io non li
attaccherò_.» Così accommiatatosi, andò a prender stanza nel convento
dei Padri Cappuccini, posto fuori della città in un luogo alto,
pittoresco e strategico insieme, d’onde poteva dominare tutti gli
accessi della città. Ivi Garibaldi, fatto sgombrare il convento dai
soldati che vi si erano arbitrariamente acquartierati, e raccomandato
loro con severe parole la disciplina, il rispetto alle persone e
alle cose, comminando la fucilazione a chiunque vendesse oggetti
d’equipaggio e d’armamento; si ritrasse a scrivere l’ordine del giorno
ormai noto, col quale scioglieva la sua colonna e lasciava libero
ognuno di tornar alla vita privata:

                                       «San Marino, 31 luglio 1849.

  Soldati (egli diceva), noi siamo giunti sulla terra di rifugio,
  e dobbiamo il miglior contegno ai nostri ospiti. In tal modo
  noi avremo meritato la considerazione che merita la disgrazia
  perseguitata. Da questo punto io svincolo da qualunque obbligo i
  miei compagni, lasciandoli liberi di ritornare alla vita privata,
  ma rammento loro che l’Italia non deve rimanere nell’obbrobrio, e
  che meglio è morire che vivere schiavi dello straniero.»


VI.

Intanto il Governo di San Marino faceva il primo passo per ottenere
dall’Autorità austriaca i patti da Garibaldi richiesti. E poichè noi
troviamo di que’ negoziati ampio ragguaglio nello scritto d’un Aretino,
reazionario nell’anima, ma che, per la sua qualità di consultore
militare della Repubblica di San Marino, potè attingere le prove de’
particolari narrati a fonti sicure, e come suol dirsi, ufficiali; così
cediamo a lui per breve tratto la cura del racconto.[156]

«Frattanto, la Reggenza aveva spedito al general maggiore De Hahne, a
Rimini, il segretario generale di Stato consigliere Giovanni Battista
Bonelli, e il tenente Giovanni Battista Braschi al generale maggiore
arciduca Ernesto, che inoltravasi nella direzione di Fiorentino,
con incarico di partecipare l’accaduto agli austriaci duci, di
scandagliarne le intenzioni e d’intercedere una capitolazione a favore
di Garibaldi. Il tenente Braschi, che per la fretta aveva lasciato
d’indossare l’uniforme, videsi arrestato dai Bersaglieri imperiali
della prima linea, e a stento, mostrando il dispaccio e declinando la
qualità di parlamentario, potè giungere sino al Vascone di Fiorentino,
ove incontrò l’Arciduca con duemilacinquecento uomini trafelati dal
caldo, esasperati dalle inutili marce, e impazienti di combattere e
terminare con una decisiva fazione la disagiosa campagna.

»Rassegnato il dispaccio al Principe, il nostro Inviato pregavalo
di avere commiserazione di quelle bande, accordando loro men dure
condizioni, ed a risparmiare il terribile flagello della guerra
all’innocente Repubblica. Rispondeva l’Arciduca che, operando in nome
del Sommo Pontefice contro i nemici del Governo legittimo, non poteva
concedere ad essi loro altre condizioni che la resa assoluta alla
grazia del loro Sovrano; e in questo senso scriveva su due piedi col
lapis alla Reggenza. Prometteva bensì che avrebbe risparmiato lo più
possibile la Repubblica, e che a di lei riguardo non avrebbe ingaggiato
mai per primo il combattimento.

»Interrogava poscia l’Ambasciatore dove fosse il confine sanmarinese, e
all’udire che lo aveva già passato mezzo miglio indietro, mostravasene
dolente, e scusavasene col dire: che non avendovi trovato nè guardie nè
segni (nella credenza che la Repubblica non si estendesse al di là del
monte Titano, ed inseguendo un nemico che andava sempre innanzi quasi
fosse in casa propria), non aveva nemmeno sospettato di calcar già il
suolo repubblicano. Però, onde evitare che la colonna, inoltrantesi
per Monte Maggio, incorresse in pari errore, faceva dar subito nelle
trombe, e quella fermavasi e non incedeva più oltre.

»La promessa ottenuta dal Braschi era tranquillizzante, ma il rifiuto
di accordar condizioni alle truppe garibaldine poteva spingerle a
qualche atto disperato, e questo renderla vana. Ciò temè la Reggenza,
allorchè conobbe la risposta del Principe, e più allorchè conobbe in
qual modo era stata accolta da Garibaldi. Egli infatti aveva respinto
disdegnosamente la resa a discrezione, ed erasi accinto alla difesa
piuttostochè sottomettervisi, disponendo le sue genti nell’orto dei
PP. Cappuccini, nella Murata dei PP. MM. Conventuali e negli altri siti
propizi all’ardito divisamento.

»In tanto frangente, a ore 4 pomeridiane spedissi di nuovo il Braschi
all’Arciduca, latore di una lettera, con cui la Reggenza informava
l’Arciduca stesso del rigetto della proposta dedizione incondizionata
da parte di Garibaldi, e dell’assunta minacciosa attitudine. — Questa
volta alla Cella del Sirone gli Austriaci bendarono il Braschi, e
così bendato il guidarono al Vascone davanti al Principe, il quale
cortesemente trattollo, e fecegli intendere che, se la città avesse per
brevi istanti tenuto fermo impedendo ai Garibaldini di rifugiarvisi,
egli in brevi istanti avrebbeli avviluppati e distrutti. Ma il Braschi
gli fece saviamente osservare, che la città mancava di difensori, che
le mura erano in varii punti di facile accesso, e che i Garibaldini,
astretti da lui ad abbandonare le posizioni esterne, vi si sarebbero
introdotti e avrebberle cagionato infiniti guai. L’Arciduca parve
soddisfatto dalle addottegli ragioni, e nel congedare il Parlamentario,
reiterò l’assicurazione di non attaccare quando non venisse attaccato.

»Poco mancò d’altronde che l’Inviato non restasse vittima del falso
allarme, che mise repentinamente in moto il campo garibaldino mentre
ei tornavasene in città, e poco mancò che l’assicurazione non cadesse
di subito a terra a cagione dell’allarme medesimo. È da sapere che i
Garibaldini, supponendosi assaltati, occuparono in un attimo tutte le
alture, rafforzarono i posti avanzati e si prepararono a respingere
la sognata aggressione, e che il Braschi ebbe a rimanere offeso dalle
palle di alcuni di loro, che tiravano non si sa a chi.

»L’affare diventava ognor più imbarazzante pel Governo, e da un
momento all’altro poteva avvenire uno scontro d’armi esiziale per
la Repubblica. L’unica speranza di salute era omai riposta nel
segretario Bonelli mandato a Rimini, nè tale speranza, la Dio mercè,
andò fallita. Imperciocchè il De Hahne mostrossi fin da bel primo meno
avverso dell’Arciduca a secondare le premure del Governo sanmarinese,
e finì coll’aderirvi, incaricando il primo tenente Adolfo De Fidler
di portarsi sul Titano insieme al nostro Diplomatico, e munendolo dei
poteri necessari onde stipulare coll’Eccelsa Reggenza una Convenzione
in proposito, salva l’approvazione del generale di cavalleria
Gorzkowsky comandante in capo.

»Era sul fare della sera, quando il Bonelli, il menzionato uffiziale ed
un’ordinanza giunsero presso al borgo di San Marino, e poichè quei di
Garibaldi allarmaronsi scorgendo delle uniformi bianche, il Segretario
si fe’ avanti, espose ad un uffiziale l’oggetto della venuta di quegli
Austriaci, e potè liberamente passar oltre ed entrare coi medesimi in
città. Ivi il reggente Belzoppi e il tenente De Fidler segnarono un
atto intitolato: _Condizioni per accettare la mediazione del Governo
legittimo della Repubblica di San Marino riguardo alla truppa comandata
da Garibaldi_, il quale venne tosto recato dall’Austriaco al proprio
Generale a Rimini, e dalla Reggenza partecipato all’Arciduca e a
Garibaldi.

»Giusta l’atto stesso, le armi e la cassa della Banda garibaldina
dovevan consegnarsi ai Rappresentanti della Repubblica e da essi
all’Autorità militare austriaca; — la Banda doveva sciogliersi, e i
di lei membri, divisi in piccioli drappelli, dovevano portarsi sino
alle rispettive provincie e quindi rimandarsi liberi e sicuri alle
loro case, non rimanendo soggetti che alle conseguenze dei delitti
comuni; — la Repubblica doveva indennizzarsi delle straordinarie spese
con cavalli ed altri oggetti alla Banda appartenenti: — Garibaldi, la
sua moglie e qualunque della famiglia doveva ricevere un passaporto,
coll’obbligo sulla parola d’onore di trasferirsi in America; — fino
alla sanzione della Convenzione per parte del generale Gorzkowsky
residente a Bologna, i Garibaldini non dovevano passare in nessun luogo
i confini repubblicani, nè dovevano farsi scambievolmente ostacoli od
attacchi; — e per garanzia del mantenimento di tali patti, dovevano
mandarsi al Quartier generale a Rimini, l’indomani a mezzogiorno,
colla risposta due rappresentanti sanmarinesi e due uffiziali superiori
garibaldini in qualità di ostaggi.

»Queste furono le condizioni che poteronsi ottenere, nè erano da
disprezzarsi affatto, considerata la spinosa situazione in cui
trovavasi il Garibaldi. Egli all’invece ne ascoltò la lettura in aria
piuttosto sdegnosa, ne chiese copia per sottoporla allo Stato Maggiore
e disse al Reggente: — Quando avrò udito il parere del Consiglio,
vi renderò noto se le accetto o le rifiuto; ma in ogni caso non mi
scorderò mai di ciò che avete fatto a pro di me e de’ miei sventurati
amici. — Sembra d’altro lato (da quanto si è ricavato dipoi) che
non gli piacesse il patto di tornare in America, nè la esclusione
dei delitti comuni dall’amnistia, perchè quelli tra i suoi uomini
che ne erano macchiati non avrebbero potuto goder completamente del
di lei beneficio; e sembra che peculiarmente temesse la niegativa
del Gorzkowsky di ratificare la Convenzione, e d’essere infrattanto
accerchiato per modo da doversi arrendere a discrezione. Fors’anche
Garibaldi non ebbe mai in animo di accettare condizioni, e forse ne
mostrò desiderio sol per acquistar tempo ed aver agio di sottrarvisi
colla fuga.»


VII.

E qui il cronista s’inganna; e l’Hoffstetter, che ci riferì i
pensieri del Generale nell’ultima ora, ce ne fa fede. Temeva,
bensì, che tutto quel temporeggiamento fosse un agguato; dubitava,
è vero, che il Gorzkowsky non fosse per ratificare la Convenzione;
ma il sentimento che sopra tutto lo dominava, era la ripugnanza di
scendere a patti collo straniero. Gli eroi son fatti così: è sempre
un affetto, spesso una chimera dell’anima loro che li muove; la
considerazione dei pericoli, dei danni, dei vantaggi non entra che
dopo, spesso assai tardi, nei loro giudizi, ma non ne è mai il primo
e precipuo movente. Però Garibaldi ha risoluto: verso le undici della
sera chiama i migliori suoi ufficiali e i pochi suoi fidi, e svela
loro l’incrollabile suo proposito di sottrarsi ancora una volta ai
patti dello straniero. «A chi vuol seguirmi, soggiunge, io offro
nuove battaglie, patimenti, esiglio; patti collo straniero mai.» Le
parole cadono come stille roventi sull’animo degli ascoltanti; ma a
pochi, ed è naturale, bastarono l’animo e le forze di ascoltare il
nuovo appello. Non sono più di duecento quelli che paiono disposti a
seguirlo; ma Garibaldi non li conta; lo segue inseparabile, indomita,
pronta a tutti i rischi, la sua Anita; l’accompagnano ancora Ugo Bassi,
Ciceruacchio, Forbes, Ceccaldi, Liveriero e Livraghi; ed egli allo
scoccar della mezzanotte, preceduto da tre guide paesane per l’unico
sentiero di montagna che ancora rimanga aperto, scende il Titano;
guizza non visto tra le scolte nemiche; traversa la Marecchia; passa
Montebello; e camminando tutta la giornata del 1º agosto, verso le
dieci di sera penetra improvviso a Cesenatico, sulla spiaggia di quel
mare che era da dieci giorni la mèta del suo cammino. E ben s’intende
che colà non perde tempo. Fatti prigionieri i Carabinieri e i pochi
soldati austriaci colà sorpresi, s’impadronisce di tredici bragozzi
chiozzotti, vi imbarca durante la notte la sua gente e i prigionieri,
e allo scoccar delle sei con vento in poppa veleggia arditamente verso
Venezia.[157]

La sorpresa, l’affaccendamento, l’affanno degl’Imperiali all’annunzio
della sparizione di Garibaldi da San Marino sono indescrivibili. Il
generale Hahne di Rimini ne accusa il Governo sanmarinese, che a stento
riesce a farsi riconoscere innocente. Il Gorzkowski dirama da Bologna
un bando selvaggio, in cui era minacciato di fucilazione immediata
chiunque soccorresse quei «masnadieri fuggiti alla galera ed alla
corda;» e aggiungevasi tra gli altri contrassegni per iscoprirli, «che
v’era con Garibaldi una donna incinta da sei mesi.[158]»

I Governatori di Cesenatico e di Rimini mandano rapporti su rapporti
in cui vedono il fantasma di Garibaldi dappertutto, ingrossano colla
fantasia il numero de’ suoi seguaci, narrano in suono lamentoso i
particolari della sua fuga e del suo imbarco; mentre nuove truppe sono
in moto da Rimini per riacchiapparlo a Cesenatico (vi arrivarono,
ahimè! un’ora troppo tardi), da Ferrara per impedirgli lo sbarco
nell’Estuario, da Forlì per vietargli la Romagna; infine da Brondolo
una squadra di quattro legni da guerra per affrontarlo in mare, e
averlo nelle mani o vivo o morto.

In sulle prime al fuggitivo arrise col vento la fortuna; ma verso
sera, rinfrescato il vento e ingrossando il mare, il navigare con più
battelli da pesca diventava arduo e cimentoso. Pure si va; quando le
vedette segnalano all’orizzonte la flottiglia austriaca che s’avanza a
vele spiegate e a tutto vapore contro i bragozzi. Ma per Garibaldi il
pericolo non ha più sorprese. Rinato a un tratto uomo di mare, ritto
sulla poppa del suo barco, concepito con rapidità fulminea il suo
piano, comanda ai bragozzi di sparpagliarsi per poco onde confondere
sul loro numero e la loro mèta le navi nemiche; e ciò fatto di orzare
rapidi, e con tutto il vento correre verso Punta di Maestra, dove le
basse acque li avrebbero protetti dall’inseguimento e le batterie di
Venezia dal cannone nemico. Ma i Carniglia ed i Griggs non sono più là
ad ascoltarlo: egli comanda a timidi pescatori ed a marinai forzati,
e alle prime bordate, alla prima minaccia delle scialuppe nemiche
che vengono loro incontro a voga arrancata, i bragozzi si sbandano,
si scompigliano, vanno in precipitosa rotta. Ripete, urla il comando
Garibaldi; prega, bestemmia, maledice: invano; otto barche scontano
tosto la paura cadendo prigioniere nelle mani degli inseguenti; e a
Garibaldi non resta che buttarsi sulle coste di Magnavacca, dove fu un
altro miracolo d’arte e di fortuna se potè afferrare.


VIII.

Ma la terra non era più sicura del mare: squadre di Gendarmi e di
Croati la frugavano per ogni verso, intanto che gli incrociatori
austriaci ne battevano le coste; la natura stessa del suolo, vasto
padule intersecato da canali, attorniato da boscaglie, frastagliato
da canneti, sparso di rari casolari, ne rendeva del pari difficile al
forastiero l’entrata e l’uscita, la dimora e la traversata.

Importava dunque apparecchiarsi con virtù nuova alla nuova caccia che
cominciava, e per prima necessità, poichè i fuggiaschi eran pochi
per combattere e troppi per nascondersi, separarsi. Ugo Bassi e il
capitano Livraghi presero per una via; Ciceruacchio e i suoi figliuoli
per un’altra; i rimanenti si disseminano a caso per altre direzioni,
e Garibaldi restò solo con Anita e il capitano Leggiero. Ma ohimè! la
povera Anita non era più la robusta Amazzone che per settimane intere
poteva correre a cavallo, col figlio al seno, le foreste del Brasile,
e caricar a fianco del marito entro il fitto delle schiere nemiche!
Di lei viveva ancora lo spirito, ma il corpo era consunto. Gravida di
sei mesi, attrita dagli stenti e dagli affanni dell’ultima odissea,
assalita fin da San Marino da una febbre insidiosa che lentamente
la struggeva, straziata da atroci crampi di stomaco, arsa di sete,
priva da giorni d’ogni cibo riconfortante, scalza, lacera, seminuda,
la misera donna era all’estremo della sua possa; e se un pensiero
la sorreggeva ancora e le dava la forza di dissimulare il suo male,
era quello di non cagionare inciampi alla salvezza del marito e di
dividere in ogni caso fino all’ultimo il suo destino. E certo il marito
l’intendeva e ne soffriva di contraccolpo; ma poichè unico mezzo di
salute a entrambi era il lasciare all’istante quella spiaggia scoperta,
già presa di mira dal nemico, Garibaldi abbandona alla sua sorte la
barca che lo aveva portato senza nemmeno levarne i miseri cenci e i
pochi soldi che vi aveva riposti, prende sulle sue braccia Anita, e
scortato da Leggiero e guidato da un contadino che il caso gli aveva
condotto dinanzi, traverso macchie e canneti, più trepidante per il
caro peso che per sè, ma pur da esso traendo la lena a proseguire,
arriva finalmente a una deserta capanna, dove la comitiva trova almeno
un nascondiglio e Anita, sopra un giaciglio di frasche, un po’ di
riposo.

Non era però scorsa un’ora dacchè i fuggitivi se ne stavano in quel
ricovero, incerti ancora del dove avrebbero nuovamente diretti i
loro passi, che Garibaldi vide comparire all’improvviso sull’uscio
della capanna un giovanotto in vesti signorili, che lo salutava
rispettosamente e gli faceva de’ cenni misteriosi. Garibaldi
portentoso ritenitore delle fisionomie, senza sospettare un istante
solo d’ingannarsi, nè curarsi dell’incognito che pur gli giovava di
conservare, «Bonnet!» esclamò, e si gettò, come naufrago che abbia
trovato improvvisamente la sua tavola, tra le sue braccia.

E il giovanotto era infatti Giovacchino Bonnet di Comacchio,
primogenito di una famiglia di patriotti,[159] e patriotta ardentissimo
egli stesso, volontario in Lombardia ed a Bologna, conoscente di
Garibaldi fin dal di lui soggiorno a Ravenna, e che avendo dalle
finestre d’una sua casa di campagna veduto prima l’approdare dei
Garibaldini, poi la caccia degli Austriaci, veniva ora, sfidando rischi
non pochi, a cercar Garibaldi in quel suo asilo e ad offrirgli nella
terribile distretta il suo soccorso. Pochi istanti dopo infatti il
Bonnet conduceva la raminga brigata nella casa, non lontana, d’un suo
amico fidato, e Anita dopo tanti giorni potè essere adagiata sopra
un letto e ricevere i primi soccorsi che il suo stato aggravatissimo
richiedeva. E là, intanto che l’inferma riposava, Garibaldi e il suo
salvatore, sdraiati su un carro rovesciato entro un rustico capanno di
canne, rinfrescavano le labbra arse con un cocomero, e s’intrattenevano
a parlare delle sorti d’Italia, rammentando con pia memoria le gesta di
quei bravi, vittime del loro amore di patria e del loro eroismo.

Ma anche quel primo ricovero poteva, abitato troppo a lungo, divenire
pericoloso, e il Bonnet insistette perchè passassero nella giornata
stessa nella casa d’un suo parente, fratello d’un suo cognato, dove
avrebbero trovato la stessa sicurezza e le medesime cure, e potevano
aspettar più tranquillamente l’esito dei nuovi tentativi che il Bonnet
si preparava a fare per provvedere alla loro salvezza futura. L’opera
del Bonnet non poteva dirsi perfetta se non quando egli fosse riuscito
a condurre i suoi protetti fuori delle valli di Comacchio, dalle quali
però, chiunque abbia le buone ragioni di Garibaldi per cansare le
strade maestre non può uscire, se non traverso il labirinto dei canali,
e avendo perciò dalla sua i molti guardiani che li sorvegliano. Con
questo disegno pertanto il Bonnet partì difilato per Comacchio, ed ivi
dando ad intendere che si trattasse d’un suo fratello e promettendo
lauti compensi, induce alcuni guardiani di sua conoscenza a traghettare
il finto suo fratello ed altri suoi compagni dalla villa di suo cognato
al posto ch’egli stesso avrebbe loro indicato.

Sennonchè tornato il Bonnet in compagnia d’un amico all’asilo de’ suoi
profughi, ode e vede tutti i suoi piani minacciati di rovina ed ogni
cosa rimessa nuovamente in forse. La padrona della fattoria, indovinato
che gli ospiti fino allora ricoverati erano Garibaldi e sua moglie,
gridava e smaniava che non voleva più tenerli in casa; l’amico mandato
a sorvegliare i guardiani veniva a dirgli, che scoperto l’inganno del
supposto fratello e spaventati dalle minaccie delle molte pattuglie
che battevano i dintorni, si rifiutavano al promesso tragitto. Fu pel
bravo Bonnet un momento angoscioso, e non vide altra speranza che in
una disperata audacia. Corre dai guardiani, confessa loro che colui che
trattavasi di salvare era realmente Garibaldi, ma li ammonisce che se
nol faranno ne va della loro vita; che nessuno degl’Italiani avrebbe
lasciato impunito un tanto misfatto, che essi possono guadagnare, se
lo aiutano, una bella somma, ma quando si ostinino nel rifiuto egli
non rispondeva più di quel che poteva loro accadere. Il discorso fatto
da un uomo autorevolissimo fra i Comacchiesi, corroborato da quei due
argomenti sempre validi pel cuore umano: la paura e l’avidità, fece
istantaneamente l’effetto suo, e i guardiani ripromisero che avrebbero
fatto quanto il signor Bonnet richiedeva.

Allora questi ritorna al Generale, lo traveste dei suoi abiti, gli
dà il passaporto di suo fratello Gaetano morto in Roma;[160] fa
trasportare sulla barca Anita, le compone sotto alla persona materassi
e guanciali e ve l’adagia, coll’aiuto del marito, come in un letto, e
sparsa ad arte la voce che il Generale si fosse imbarcato con una mano
d’armati al Po di Volano diretto a Venezia, appena s’è assicurato che
tutte le pattuglie nemiche sono incamminate a quella volta, ordina ai
guardiani di prendere l’opposta direzione di Ravenna, fissando loro
per prima tappa la fattoria del marchese Guiccioli posta alle Mandriole
presso Sant’Alberto.


IX.

Era la notte del 3 agosto, e quando il Bonnet vide in moto la barca
fatale partì per Comacchio, onde addormentare colla sua presenza i
sospetti della Polizia e prendere egli stesso un po’ di riposo. Ma
quale sorpresa! quale colpo di fulmine per lui nel vedere il mattino
dopo entrare in camera la sorella tutta conturbata e udirla dire: «I
guardiani essersi rifiutati a proseguire il cammino e aver gettato
Garibaldi sulla Costa di Paviero.» Balzò dal letto, mandò un suo
fidato alla barca sì per guidar Garibaldi, come per mettere al dovere
i guardiani, ed egli stesso, quantunque zoppo, salta in biroccino per
correre alla fattoria Guiccioli a riconoscere lo stato delle cose.
E il pensiero fu ottimo, poichè là potè accertarsi di più fatti: che
Garibaldi non era ancor giunto; che la fattoressa in assenza del marito
era ben disposta a ricevere gli ospiti annunciati; che infine dovunque
si trovassero in quel momento non correva voce che fosse accaduta loro
alcuna disgrazia. Rassicurato di nuovo, l’infaticabile uomo parte a
carriera per Ravenna, sguscia con arte e felicità somma in mezzo ai
perlustratori tedeschi che scontra sul suo cammino: a Ravenna concerta
con un suo amico, il maggiore Montanaro, il modo con cui Garibaldi
potrà penetrare in città e di là passare in Toscana; e ciò fatto, nel
mattino del 5 agosto torna nuovamente alla fattoria Guiccioli, dove ode
dal fattore Ravaglia questa lugubre novella: Garibaldi, condotto dai
noti guardiani sin presso a Sant’Alberto, aveva potuto procacciarsi,
non sapremmo dire con qual mezzo, un biroccino e trasportatovi sopra
la moglie agonizzante era giunto con essa alla fattoria. Colà però
il dottore Nannini, che per caso vi si trovava, esaminata l’inferma
capì che le restavano pochi minuti di vita. Infatti appena adagiata
in letto, ella chiese con voce semispenta un po’ d’acqua fresca,
ne trangugiò alcuni sorsi e spirò, come di colpo, nelle braccia del
marito.

«Fu sepolta?» chiese il Bonnet. «Ah no! (rispose il Ravaglia). La
povera Anita era appena spirata, che gli Austriaci comparivano in
faccia alla casa; onde il Generale ebbe appena il tempo di fuggire,
lasciandomi per ultima preghiera che dassi io onorata sepoltura a sua
moglie, fino a che potesse tornare egli stesso in ora più propizia a
riprendere i sacri resti mortali!»

Così morì il 4 agosto 1849 verso le 4 di sera Anita Garibaldi. Della
sua agonia e della sua morte fu scritto sino ad ora con poesia,
non con verità; ed era naturale che fino al giorno in cui questa
fosse interamente scoperta, la fantasia impietosita intessesse di
poetiche invenzioni la luttuosa catastrofe, e coltivasse sulla tomba
della martire il gentil fiore della leggenda. Persino il romanzo di
Garibaldi, che prima di riprendere la sua fuga trangosciata scava colle
sue mani la fossa e dà sepoltura alla donna del suo cuore, non è più
credibile. Come vedemmo, Garibaldi non potè adempiere a quell’ultimo
ufficio, che pur avrebbe sparsa di qualche balsamo la grande piaga del
suo cuore; ciò non vieta che lo spettacolo di quell’uomo costretto a
staccarsi dalle spoglie della sua donna appena morta, ed a lasciarla
insepolta in balía d’estranei, non sia tragedia ancora più pietosa e
terribile.

Quindici giorni dopo, alcuni contadini videro una mano sbucare da un
monte di sabbia: chiamata l’Autorità e scavata la terra, fu trovato il
corpo di una donna sfigurata dalla incipiente putredine, colla lingua
schizzata fuori dai denti sprangati, la trachea rotta, il collo segnato
da un cerchio livido, un feto di sei mesi nelle viscere.


X.

Era Anita Garibaldi. Ma perchè sepolta a quel modo? Perchè quel cerchio
livido intorno al collo? D’onde il deturpamento e il nuovo strazio di
quel misero corpo?

Il medico delegato dal Governo pontificio all’autopsia del cadavere
vide in quei segni altrettante prove di strangolamento,[161] onde
la voce che Anita Garibaldi fosse stata strozzata dalle mani stesse
che l’avevano sepolta, alimentata con infami artificii dalla polizia
pretesca, si diffuse e s’accreditò siffattamente nei popoli delle
Romagne, che il povero Ravaglia fu segnato a dito, per molti anni, come
l’unico autore del sacrilego assassinio, e poco mancò che il famigerato
Passatore, eroe teatrale del masnadierume romagnolo, erettosi
esecutore della vendetta popolare, non gli facesse scontare colla vita
l’immaginario delitto.[162] Era un errore: se pure non gli va dato un
più triste nome; e lo stesso Bonnet si studia, nelle sue _Memorie_, di
chiarirne le origini ed i motivi.

«Il fattore Ravaglia (egli dice), anzichè tener nascosto il cadavere
d’Anita e sparger la voce che non era morta, onde poterla trasportare
nella notte in luogo sicuro, spinto dal timore d’essere scoperto,
aveva creduto unico spediente di seppellirla come che fosse. Io non
approvai il fatto, e studiandomi d’acquietar la sua paura gli dissi,
che nella sera bisognava disotterrare il cadavere d’Anita e con un
biroccino portarlo nella Pineta, e colà in luogo nascosto e remoto
darle sepoltura, che a suo tempo poi sarebbe stata portata in tomba più
adatta e conveniente. Lo ammonii inoltre esser quella una funzione da
fare soli e senza alcun testimonio; che se non si sentiva capace me lo
dicesse francamente, che sarei rimasto io stesso per aiutarlo all’opera
pietosa. Il fattore promise, ma, a quanto pare, non potè mantenere; in
conseguenza di che essendo la morta malamente sepolta venne trovata,
e la Curia appena ne fu consapevole fece fare l’accertamento da
distinti professori che errarono nel giudizio e dissero che Anita era
stata strangolata per derubarla. Questa voce ben presto si propagò
nelle Romagne senza che nessuno pensasse che Anita morta in istato di
gravidanza poteva essere stata soffocata da un riflusso di sangue; onde
tutti quei segni di strangolamento che trassero in inganno il primo
medico visitatore. E si corresse bensì il giudizio, ma assai tardi;
e per molto tempo ne restò infamato il nome e minacciata la vita del
misero fattore, che aveva, come si vede, esposta a rischio la sua per
salvarla.»


XI.

Tale la fine miseranda di Anita Ribeira Garibaldi. Essa fu una martire
dell’amore. Oscura figlia del Continente brasiliano, destinata a nozze
pacifiche, ella sarebbe probabilmente vissuta felice senza neppure
conoscere che esisteva un’Italia, se un giorno, nel breve tragitto
dalla sua casa alla fontana, non si fosse abbattuta in quella maliarda
figura d’eroe che l’affascinò coll’inesprimibile sortilegio della sua
leonina bellezza, e ghermitala nel suo pugno poderoso la trasportò seco
nel fortunoso ciclone della sua vita.

Ed ella, come sappiamo, non discusse, non vacillò, non resistette. Come
Ernani a Doña Sol, Garibaldi le offerse di

      Dormir sur l’herbe, boire au torrent, et la nuit
    Entendre, en allaitant quelque enfant qui s’éveille,
    Les balles de mousquets siffler à votre oreille,
    Être errante avec moi, proscrite, et s’il le faut
    Me suivre............. à l’echafaud!

e come Doña Sol a Ernani, ella rispose semplicemente: _Je vous suivrai_.

Divenuta in un istante schiava felice di quel bello e terribile
Signore, la sua coscienza ammutì e la sua volontà s’infranse. Per
esso sostenne di lacerare il cuore del padre e di portarne sul capo
per tutta la vita la maledizione; per esso affrontò impavida la
tenebra d’un avvenire malfido, pieno di nembi e di procelle; per esso
si esiliò volontaria dalla sua contrada nativa e dal suo domestico
focolare, e con esso partì. Chiunque si fosse quell’angelico o satanico
sconosciuto, ella l’amava; dovunque la portasse, qual si fosse la sorte
ch’egli le preparava, ella s’era data a lui, non col sensuale capriccio
d’una ganza, ma col voto religioso e perpetuo d’una moglie, e si sentì
sua per sempre. Il fato d’amore,

    D’amor che a nullo amato amar perdona,

l’aveva presa nelle sue spire, e come Francesca si lasciò turbinare,
beata, nella sua rapina.

E non appena ella fu tra le braccia del suo eroe, s’incarnò con esso e,
come Giovanna d’Arco, da fanciulla casalinga e romita si trasformò per
lui in amazzone ed in eroina.

Per non abbandonarlo mai, per trovarsi sempre al suo fianco, qualunque
fosse la ventura e il periglio; per esser pronta ad ogni istante a
coprirlo col suo petto nelle pugne, a medicarlo colle sue mani nelle
ferite, a premiarlo prima del suo amore nelle vittorie, imparò a
trattare un moschetto come un cacciatore, a bracciar una vela ed a
sfidare un fortunale come un marinaio, a cavalcare nelle marcie, a
caricare nelle mischie come un cavaliere, a serenare ne’ bivacchi,
a durar nelle vigilie come un veterano, a disprezzar le delicatezze,
dissimular le necessità, domar talvolta i tormenti del suo corpo di
donna e del suo seno di madre per tornar più utile e più cara all’uomo
che adorava.

Gravida di Menotti, lo portò nove mesi in seno tra stenti e perigli
mortali, lo partorì in una capanna, lo scaldò del suo fiato, lo vestì
co’ suoi cenci, lo allattò a cavallo combattendo e marciando, gli
diede per cuna i tronchi delle foreste, per giocattoli il fischio
delle palle, lo scrosciar de’ torrenti e il bramir delle fiere. Al
combattimento navale di Santa Caterina mette ella stessa la miccia
al cannone; alla fazione di Santa Vittoria durante la battaglia è la
provvidenza de’ feriti, che va a curare sotto il grandinar delle palle;
a Coritibani guida ella stessa la scorta delle munizioni. Avvolta da
una squadra di cavalli nemici, sdegna d’arrendersi; ma atterrato da
una palla il suo cavallo, e tradotta prigioniera davanti al capitano
nemico, ne rintuzza colla fiera parola i sarcasmi, come poco prima
aveva rintuzzato l’assalto de’ suoi soldati col virile ardimento.

Disgiunta però dal marito e sparsasi fra i nemici la voce della morte
di lui, l’amore la rende umile e la pietà eloquente, e impetra unica
grazia dal vincitore di andare ella stessa sul campo a cercare, vivo o
morto, il corpo del perduto consorte.

E il vincitore incauto consente; ond’eccola come Argia errare
una giornata per la funerea campagna, frugandone tutti i recessi,
interrogandone ogni cadavere, tremando ad ogni vaga somiglianza di
vesti o di persona, rivolgendo i corpi dei caduti boccone per leggere
nei loro volti la sentenza del suo destino. Invano; ma poichè ogni
delusione ravvivava in quel caso una speranza, decide di andare a
cercare tra i vivi colui che non aveva potuto trovare fra i morti, e
colta una notte in cui i suoi custodi giacevano assonnati dal vino,
fugge dal campo nemico e ripara nella capanna più vicina, nella
speranza d’un momentaneo rifugio e di un soccorso.

Era Erminia che andava alla cerca del suo Tancredi, ma col cuore di
Clorinda. Se non che appena entrata la prima cosa che le si offre alla
vista è un mantello.... il mantello di suo marito. Quale tremenda
sorpresa! Quel mantello è egli un testimonio di vita o di morte? Fu
egli perduto per caso nel campo o strappato da un predone nemico dal
corpo d’un caduto? Cresce a quella scoperta piena di paurosi problemi
l’ambascia della fuggitiva e delibera di troncare all’istante ogni
indugio; non vuol partire però lasciando in mani straniere la preziosa
reliquia, e non avendo con che riscattarla, offre in cambio alla donna
che l’ospitava il suo proprio mantello. E poichè l’ospite non aveva che
a guadagnare nel baratto, l’accetta prontamente; e Anita senz’altra
dimora avvolta in quella cara spoglia, che forse aveva raccolto gli
ultimi battiti del suo Garibaldi morente e che la sorte le inviava
forse come un augurio e un talismano, si lancia alla ventura nella
direzione di Layes, dove sapeva che i Repubblicani s’erano ritirati, e
al cader della notte s’inselva nel folto della foresta che lungheggia
quella contrada. E là sola, digiuna, senz’armi, senza guida, senza
viatico, comincia per essa una terribile prova. «Colui soltanto
(scriveva suo marito) che ha veduto le immense foreste che coprono
la Serra dell’Espinasso, co’ suoi colossali _taquari_ che sembrano
sostenere il cielo e formare le colonne di quel magnifico tempio della
natura; può formarsi un concetto della virtù occorsa, delle difficoltà
vinte dalla valorosa Brasiliana per arrivare, traverso venti leghe di
cammino, tante ne corrono da Coritibani a Layes, al termine del suo
pellegrinaggio.»

E non era soltanto la natura inanimata che le moveva guerra; ma la
viva e l’umana. Poichè gli abitanti stessi avversi alla repubblica
nel perseguitare gli sperperati avanzi degl’insorti perseguivano lei
pure, onde più d’una volta si trovò avviluppata dalla muta feroce
degl’Imperiali, salvata soltanto dal suo meraviglioso ardire e dalla
sua fortuna. Vinto un pericolo, ne sorgeva un altro; anzi pareva che
l’uno pullulasse dall’altro colla fecondità d’un’idra. Passata la
foresta, sorgeva il monte; delusa la furia degli uomini, si scatenava
quella degli elementi.

E fu allora che gli abitanti di Layes e di Vaccaria ebbero uno strano
spettacolo. Per due giorni un fantastico cavaliere, montato sopra un
nero cavallo, fu visto saltar al galoppo dirupi, tragittare a nuoto
torrenti, traversare a volo come uno spettro di Bürger la tenebra d’una
notte tempestosa, comparire, scomparire tra i tuoni e le folgori, or
sulla vetta de’ monti, or nel fondo delle valli, lasciando esterrefatti
sul suo passaggio abitatori e viandanti, mettendo in fuga col suo
sovrumano fantasma gli stessi cavalieri imperiali mandati alla sua
caccia.[163]

Era Anita, che, procacciatasi, colla facilità consueta a que’ paesi,
un generoso cavallo, e sorpresa, ma non atterrita, da un uragano,
continuava la sua corsa fortunosa, e già pianta dallo stesso marito,
per il medesimo inganno ond’ella aveva pianto lui, riusciva dopo otto
giorni di disperata separazione a trovarlo nei dintorni di Layes, ed a
cadere beata nelle sue braccia.


XII.

Da quell’istante fino a Montevideo Anita e Garibaldi non si separarono
più, e per quali nuovi patimenti e perigli siano passati assieme
durante quella travagliatissima ritirata da Layes all’Uruguay, noi lo
sappiamo.

A Montevideo però, fosse la volontà del marito, fossero le cure
crescenti della maternità,[164] la vita guerriera di Anita ha una
tregua, e da eroina la vedete tornar di nuovo ritirata e casalinga.
E fu a Montevideo, come vedemmo, che Garibaldi volle consacrare coi
riti della Chiesa le sue libere nozze, e che Anita diventò anche
per le leggi del mondo, come lo era stato sempre per quelle del suo
cuore, sua legittima moglie.[165] Non fu per questo nè più tranquilla,
nè più felice. Quel vedere il marito partire per le lontane e
perigliose spedizioni, e non poterlo accompagnare; quell’udire dalla
sua casetta di Montevideo, quella casetta così povera che non aveva
lume, il fragore delle cannonate e il tumulto della battaglia, e non
potervi partecipare; quel sapere insomma il suo eroe in balía ad ogni
istante alla morte, e non poter essergli al fianco per proteggerlo e
soccorrerlo, erano all’innamorata donna, muta, ma inconsolabile doglia.

Oltre di che il troppo ardente amore aveva generato il suo serpe:
Anita era gelosa. La gelosia nasce generalmente da un sentimento
di inferiorità, ed ella povera creola non bella, non colta, quasi
selvaggia, si sentiva troppo inferiore a quel suo bellissimo e
celebrato amante, per non tremare ad ogni istante di perderlo.
Egoista, in questo, al pari di tutti gli innamorati, ella l’avrebbe
voluto brutto per essere sola ad ammirarlo, talvolta l’avrebbe persino
desiderato oscuro per non aver rivali a glorificarlo. La bellezza che
l’innamorava era il suo tormento, la gloria che l’inebbriava il suo
martirio. Quel nome del suo Garibaldi su tante labbra femminili, la
inquietava; tutte quelle donne che nei ritorni trionfali della Bojada
e del Salto s’affollavano sul di lui passaggio, e lo plaudivano e gli
sorridevano e lo coprivano di fiori, persino la cura singolare ch’egli
aveva della nettezza della sua persona e dell’eleganza della sua
acconciatura, la turbava e ingelosiva.

Un giorno Garibaldi fu visto comparire tra i suoi Legionari colla barba
e i capelli accorciati.

— O come va, Colonnello (chiese taluno), che s’è fatto tagliare i suoi
stupendi capelli!

— Cosa volete, _amigo_,[166] mia moglie è gelosa, e pretende che porto
i capelli lunghi per dar nell’occhio alle belle. Però mi ha tanto
tormentato per questi benedetti capelli, che io, per la pace di casa,
ho finito ad accontentarla. —

E quella gelosia l’accompagnerà anche negli anni più maturi e morirà
molto probabilmente con lei.

Un’altra volta durante la ritirata da Roma, giunta la colonna
garibaldina a Montepulciano, uomini e donne fanno a chi più festeggia
il famoso condottiero; ma quell’entusiasmo delle Montepulcianesi
non va punto a sangue alla nostra creola, e maledice la proterva e
lusingatrice bellezza delle Italiane; vede in ogni occhiata e in ogni
sorriso un tradimento; punge il marito di querele e di sarcasmi, e
non è contenta se non quando squilla il segnale della partenza, e può
trascinar seco lontano da quella Capua insidiosa il troppo vagheggiato
consorte.


XIII.

Venne così il 1848; venne il giorno in cui per volontà del marito
dovette lasciare il suo Continente nativo, e partir coi figli per
quell’Italia che si sforzava ad amare ed ammirare, poichè era la
patria del suo eroe; ma nella quale il suo istinto di donna le faceva
presagire che avrebbe trovato la più terribile delle rivali, e forse,
in un giorno non lontano, la fine del suo bel romanzo d’amore e la
tomba. E fu quella la sua sorte. Sbalestrata di repente fra gente e
costumanze straniere, separata dal consorte dall’immensità dell’Oceano,
torturata da un amore pieno di sospetti e di gelosie, Anita non ebbe
più, dal suo arrivo in Italia, una sola ora di pace. Penelope gelosa
ella attendeva il suo Ulisse, colla stessa fedeltà dell’antica; ma non
colla stessa rassegnazione.

E quando finalmente l’ora del ritorno suonò, e quella nave sospirata
spuntò sull’orizzonte, e s’accostò e gettò l’áncora ed ella potè alla
fine vederlo, abbracciarlo e sbramarsi di lui, oh come fu breve quella
gioia comperata a prezzo di tante lagrime e di tante angoscie!

Non eran scorsi tre giorni, divisi essi pure tra le cure dell’armi e
della politica, che Garibaldi si staccava nuovamente da lei e ripartiva
per quegl’infelici campi di Lombardia, dove l’attendeva Morazzone.
È ben vero che tre mesi dopo ella lo rivedeva ancora; ma per quanto
tempo e in quale stato! Triste, irritato, ramingo, colla grave ferita
d’Italia infissa nel petto: _infixum sub pectore vulnus_; risoluto
più che mai, finchè gli restava un’arma e gli si apriva un campo,
a ricominciare la lotta, venuto a dare un abbraccio fuggevole a sua
madre, a sua moglie, a’ suoi bimbi; ma impaziente di ripigliare da capo
la sua procellosa ventura.

Quella volta però le fu concesso d’accompagnarlo; sicchè dall’ottobre
del 1848 al marzo del 1849 la troviamo ancora con lui a Bologna,
a Ravenna, a Macerata, a Rieti, fino al giorno in cui il marito,
sollecito di risparmiarle i pericoli della campagna imminente e
desideroso che tornasse a rivedere i figli, decise di allontanarla e la
fece ripartire per Nizza.

Ed ecco Garibaldi a Roma, e Anita nuovamente sola. La rincoravano,
è vero, la bontà della suocera, le lettere del marito, le novelle
divulgate delle sue prodezze e de’ suoi trionfi; ma che importava se
egli era là solo, esposto ogni giorno a ignoti pericoli a faccia a
faccia colla morte, forse ferito, forse morente, e, pensiero non meno
angoscioso, incolume, ma in braccio d’un’altra donna e dimentico di
lei!

Però la lontananza e l’incertezza cospirano talmente ad accrescere le
smanie della solitaria, chè, giunto l’annunzio del terribile 3 giugno,
ella non regge più all’affanno e toltosi per guida e cavaliere Felice
Orrigoni,[167] un veterano di suo marito venuto d’America con lui,
parte per Roma.

Era la mattina del 14 giugno: Garibaldi, il quale, sfabbricato il
Casino Savorelli, aveva trapiantato il suo quartier generale a Villa
Spada, vi stava facendo colazione col Sacchi, il Bueno, il Cucelli ed
altri uffiziali, quando a un tratto la porta della sala si spalanca,
Garibaldi getta un grido; e si trova un istante dopo tra le braccia
d’Anita. Come fosse venuta, come avesse traversato tanto paese nemico
deludendo in Toscana le spie austriache, e intorno alle porte di
Roma le vedette francesi, e tant’altre interrogazioni e spiegazioni,
tutto ciò s’immagina e si tralascia. Quel che non si può facilmente
immaginare è la gioia di quelle due anime; ella estatica d’essersi
ricongiunta al suo eroe, egli lieto d’aver trovato la sua scudiera ed
amazzone di Laguna e di Coritibani, e superbo di mostrarla a’ suoi
nuovi compagni d’armi d’Italia come il modello delle spose e delle
madri; un’eroina degna di marciare al loro fianco.


XIV.

Da quell’istante non si separarono più. Le peripezie della ritirata
da Roma sono note; e già sappiamo che la intrepida donna se non fu di
stimolo ai pigri, di conforto agli abbattuti, d’esempio ai forti, non
fu mai di fastidio o d’impedimento ad alcuno.

Fame, sete, guerra furono le promesse del Capitano a’ suoi soldati, ed
essa le accettò tutte come l’ultimo dei gregari.

Quel che dovesse soffrire incinta di sei mesi, sotto quei sollioni di
luglio, in quelle notti senza sonno, in quelle marcie senza ristoro,
in quegli incessanti allarmi e quei perpetui batticuori, lo pensino le
madri; ma non un lamento usciva dalle sue labbra, non un segno tradiva
il suo martirio.

Beata del suo amore ringiovanito, pareva fatta insensibile a tutte
le sofferenze del corpo. Finchè poteva dividerli col suo amante, nè
i travagli nè i pericoli, che pure fiaccavano i più gagliardi, le
sembravano maggiori delle sue forze. Che se più d’una volta un malore
repentino l’aveva avvertita che era donna ed era madre, il primo suo
studio era stato quello di nasconderlo persino a sè stessa, affinchè
nessuno potesse crederla un inciampo all’impresa dei forti, e il marito
soprattutto non avesse mai alcun motivo, nemmeno quello pietoso della
sua salute, di fermarla per via e di allontanarla da sè.

Pure a San Marino la natura reclamò alla fine i suoi diritti, e la
febbretta, che da giorni le covava nel sangue, non le accordò più
tregua, e divampò con tutti i caratteri d’una violenta perniciosa.
Non le fu più possibile allora l’infingersi; pure quando Garibaldi
la consigliò d’arrestarsi in quel luogo ospitale e pronunciò quella
odiosa parola di separazione, essa non volle a nessun patto ascoltarla,
e simulando ancora una forza che ad ogni istante l’abbandonava, si
ostinò a voler proseguire il suo fatale cammino. Era un suicidio; e
non è troppo il dire che la soverchia arrendevolezza del marito ne fu
complice involontaria.

Pochi giorni dopo infatti, della forte Anita non restava più che un
corpo agonizzante; e il disperato marito, dopo averla portata sulle
sue braccia traverso l’acque e le boscaglie d’una contrada irta di
agguati e di pericoli, dovrà credere ancora somma ventura se la pietà
coraggiosa di alcuni amici gli porgerà un letto su cui adagiarla,
una stilla d’acqua con cui bagnarne le labbra spiranti, risparmiando
alla morente l’ultimo oltraggio del destino, di finir come belva
traccheggiata, dalla muta feroce, nel canneto d’una maremma.

Era pietà che la luttuosa tragedia finisse, e il 4 agosto 1849 Anita
Garibaldi non era più. Ella aveva invocato suprema grazia dal marito di
non essere separata da lui che morta, e il suo voto fu esaudito. Anita
morì come aveva sognato, tra le braccia del suo caro, specchiando fino
all’ultimo anelito i suoi occhi moribondi in quel volto tanto adorato;
ma chi potrebbe dire ch’ella sia morta felice? Chi può affermare che
il pensiero di lasciar solo sulla terra, bandito e cerco a morte,
l’uomo dell’anima sua, non abbia funestato i suoi ultimi istanti, e
che l’oscura visione del suo eroe, tradotto fra uno stuolo di soldati,
moschettato contro una muraglia, appeso ad una corda infame, non
sia passata come meteora sanguinosa, nella tenebra della sua agonia,
perseguitando fino all’orlo della fossa il suo spirito fuggente?

Innanzi a questo pensiero il cuore si stringe e la penna s’arresta.
Se la poesia tornerà alle eccelse sorgenti dell’ideale, e questa
Bradamante troverà il suo Ariosto, tutta l’intima bellezza di codesta
eroina dell’amore sarà conosciuta, e la mesta plejade di Francesca e di
Sofronia, di Tecla e di Margherita, avrà una stella di più.

Povera fanciulla strappata dal fato all’ombra della sua casa natía,
travolta nel turbine d’un arcangelo ribelle, trapassata sulla terra in
una vicenda incessante d’affanni e di perigli, consacrata volontaria ad
un olocausto perpetuo di fede, di devozione e d’amore, venuta infine
a morire in Italia per una causa non sua, un solo dolore, forse, le
fu risparmiato, ma il supremo: quello di vedere il suo eroe profanare
d’amori senili l’epica bellezza del suo amore giovanile, e il suo idolo
sgretolato dagli anni mostrare il torso di creta dell’Adamo volgare.


XV.

Al punto in cui Garibaldi lasciava la stanza mortuaria d’Anita e dava
le spalle alle Mandriole, le _Memorie_ di Gioachino Bonnet si fermano,
e a noi non restano delle vicende del fuggitivo, sino al suo arrivo in
Toscana, che poche e sommarie notizie.[168] Raccolto, a poca distanza
dalle Mandriole, dal Montanari e dal Soldi, fu condotto a Sant’Alberto,
dove nell’osteria di Ferdinando Matteucci trovò un primo ricovero.
Essendo corsa però la voce dell’avvicinarsi di due battaglioni
austriaci, parve maggior sicurezza nasconderlo nella casa del signor
Antonio Moreschi, d’onde poco dopo fu fatto passare nel bosco della
_Scorticata_, di proprietà dei signori Buffa di Ravenna. Il luogo
però non essendo apparso abbastanza sicuro allo stesso Garibaldi, si
deliberò di condurlo il giorno medesimo nella Pineta di Ravenna e di là
subito dopo alla Valle Guiccioli, detta Marubio. Colà venne a prenderlo
in consegna il popolano Giuseppe Savini di Ravenna, che tenutolo per
alcuni giorni rimpiattato in un casolare delle Paludi di Ravenna, dette
anche Valli di Canna, lo passò ad Antonio Fuzzi, ravennate esso pure,
che lo affidò a sua volta a Don Giovanni Verità, onesto e patriottico
sacerdote di Modigliana, mercè il quale, traverso il Passo della
Futa, sconfinò in Toscana. Da allora, passando sempre da mano amica in
mano amica, sgusciando sovente in mezzo alle ronde mandate alla sua
caccia, sedendo talvolta nelle osterie alla stessa tavola coi Croati
sguinzagliati alle sue peste, udendoli persino pronunciare, tra un
sorso e l’altro, il suo nome, e non ostante la sua testa singolare e la
sua barba caratteristica, che non volle radersi mai, passando dovunque
irriconosciuto, valica protetto fidamente dalla sua stella, che poteva
ben dirsi la sua provvidenza, i due versanti dell’Appennino, e verso
la fine dell’agosto può dirsi, se non interamente salvo, scampato dai
pericoli e dalle distrette maggiori.

Giunto però il 25 agosto al Molino di Cerbaja, presso Prato, un
assistente di strade lo riconosce e si fa riconoscere suo amico,
e da quell’istante tutte le stazioni del suo itinerario tornano a
divenire note e precise. Il 26 agosto un fidato dell’assistente lo
conduce nascostamente a Poggibonsi, di là un’altra persona lo porta a
Pomarance, dove Antonio Martini lo ospita. In appresso, sempre sotto
finto nome, Camillo Serafini lo tragitta a San Dalmazio, dove lo
raccomanda al Guelfi, il quale a sua volta condottolo prima a Massa
Marittima, poi a Follonica, lo commette finalmente alle mani di Paolo
Azzarini, marinaio di Rio, ma oriundo genovese, che si offre di portar
Garibaldi in terra di salute, e narra egli stesso le vicende del suo
viaggio così:

«Di buon mattino imbarcai l’eroico generale Garibaldi e il capitan
Leggiero, e mi diressi all’Isola dell’Elba. A Capo Castello sbarcai
mio padre, e un marinaro di Capoliveri, perchè vi fosse sempre il
numero. Il Deputato di sanità mi firmò abusivamente la patente, e la
sera feci vela per il Golfo della Spezia. All’indomani a mezzogiorno
si era giunti in vista di Livorno, ove si vedevano passeggiare le
sentinelle tedesche. Il giorno dopo giunsi felicemente a Porto Venere.
Colà sbarcai l’eroico Garibaldi con Leggiero. Garibaldi mi diede per
ricompensa un piccolo scritto di sua propria mano, che conservo come la
pupilla de’ miei occhi. Esso era così concepito:

»_Il padrone Paolo Azzarini, che la fortuna mi fece incontrare in terra
italiana, dominata dai Tedeschi, mi ha trasportato su questo luogo di
asilo e di salvamento, trattandomi egregiamente e senza interesse._»

Garibaldi era salvo, ma non tranquillo ancora. Fattosi portare da una
vettura a Chiavari, appena l’Intendente di questa provincia, conte
Di Cossilla, seppe il di lui arrivo, corse a lui, e pregatolo di non
dar molestie alla città lo fece tradurre sotto scorta di Carabinieri
a Genova, dove arrivò la sera del 7 settembre; e dove il La Marmora,
ubbedendo agli ordini del suo Governo, lo tenne «non prigioniero, ma in
arresto,» come dirà più tardi il ministro Pinelli, in realtà chiuso e
guardato a vista nel Palazzo ducale.

La notizia però dell’arresto del favoloso eroe, proprio nel punto
in cui dopo tanti travagli toccava il libero suolo di quello Stato,
dove egli era cittadino, destò nella parte più liberale del popolo
piemontese una viva impressione di scontento, e la Sinistra del
Parlamento subalpino se ne fece tostamente l’interprete. Presentata
dal deputato Sanguinetti una petizione dei Chiavaresi, colla quale
«reclamavano contro l’arresto del generale Garibaldi, suddito sardo,»
s’accendeva intorno ad essa una vivacissima discussione. Il Pinelli si
trincera malamente dietro una povera ragione di leguleio; il Rattazzi
vede nell’arresto di Garibaldi offeso il diritto di cittadino, violata
la legge, e una trasgressione patente dello Statuto; il Baralis
esclama, tra gli applausi della tribuna: «Il generale Garibaldi non
può esser reputato reo che delle sue prodezze;» il Lanza propone
quest’ordine del giorno, in cui proclama: «La violenza usata a
Garibaldi è un insulto fatto alla Nazione;» e la Camera finalmente
vota una mozione del Tecchio, ancora più esplicita ed energica:[169]
«La Camera, dichiarando che l’arresto del generale Garibaldi, e la
minacciata espulsione di lui dal Piemonte, sono lesioni dei diritti
consacrati dallo Statuto e dei sentimenti di nazionalità e della gloria
italiana, passa all’ordine del giorno.»

Ma è vecchia arte di tutti i Governi fiacchi, epperò ipocriti, che i
decreti de’ Parlamenti, quando non si possono prendere di fronte, si
eludono; onde il Pinelli, che aveva egli pure nel sangue il terrore
superstizioso del Diavolo rosso, s’accorda segretamente col La Marmora
perchè induca Garibaldi a espatriarsi, assegnandogli, se consentisse,
una pensione mensile di trecento lire; ponte d’argento a nemico
che fugge. E il La Marmora si tolse l’incarico, trattando, è vero,
con cavalleresca cortesia l’eroe; ma anch’egli, checchè se ne dica,
violando un ordine del Parlamento che aveva due soli giorni di data.
Comunque, egli riuscì perfettamente nel suo assunto; e la lettera, con
cui ne ragguaglia il Dabormida, è documento interessantissimo che fa
onore all’abilità ed alla penetrazione del Generale piemontese; ma che
onora anche più la lealtà del Capitano nizzardo.

«Garibaldi (scrive il La Marmora,[170] alludendo alla promessa
fattagli di tornare entro due giorni da Nizza) Garibaldi ha mantenuto
la sua parola, come ne ero certo. Gli feci intendere come il Governo
desiderasse il suo allontanamento, non perchè temesse di lui, ma
perchè i turbolenti avrebbero col pretesto suo compromesso molte
persone e lui stesso: che d’altronde stando in paese era impossibile
dargli un impiego, mentre andando egli all’estero poteva il Governo
accordargli un sussidio mensile. Piegò egli con garbo a persuadersi
alle mie proposte, e fummo facilmente d’accordo che egli se ne andrebbe
a Tunisi, e che il Governo gli farebbe una pensione di trecento lire
al mese, finchè egli colà rimane.[171] Infatti tutto è preparato
e ordinato perchè il vapore, che parte domani per la Sardegna, da
Cagliari prosegua fino a Tunisi.

»Garibaldi non è uomo comune, la sua fisionomia, comunque rozza, è
molto espressiva. Parla poco e bene: ha molta penetrazione; sempre
più mi persuado che si è gettato nel partito repubblicano per
battersi e perchè i suoi servigi erano stati rifiutati. Nè lo credo
ora repubblicano di principio. Fu grande errore il non servirsene.
Occorrendo una nuova guerra, è uomo da impiegare. Come abbia riuscito a
salvarsi quest’ultima volta, è veramente un miracolo.»


XVI.

E quel che Garibaldi promise attenne. Il 16 settembre 1849 egli
s’imbarcava sul _San Michele_, alla volta di Tunisi, per ricalcare
una seconda volta l’amara via dell’esiglio; proscritto con garbo, ma
proscritto da quello Stato d’Italia che, a que’ giorni, era l’unico
asilo de’ proscritti; sospettato d’essere una cagione d’inquietezza
e di molestia a quella patria, alla quale era venuto, traverso
l’Oceano, a dare il suo sangue senza chiederle se fosse repubblicana
o monarchica, senza levare altra bandiera che quella della sua
indipendenza e della sua unità, nè invocare, così dai Re come dai
Triumviri, altra grazia che quella di combattere e morire per essa.

Ma partendo, quante memorie non lasciava a quella patria; quante belle
pagine di valore, quanti nobili esempi di virtù non aveva scritto nel
primo volume del suo risorgimento! L’Italia l’aveva ricevuto famoso dal
primo esiglio, lo mandava nel secondo glorioso. La sua figura s’era
ingrandita, in que’ soli due anni, di molti cubiti; il suo nome noto
soltanto, prima del quarantotto, alla classe ristretta degli studiosi
ed all’Italia sotterranea dei patriotti e dei cospiratori, era divenuto
a un tratto popolare e solenne. I militari, i tecnici discutevano
ancora se egli fosse più condottiero o capitano; ma una vasta legione
di giovani soldati da lui istruita, e per lui sempre pronta a morire,
non conosceva altri generali che lui; lo nominava «il Generale»
senz’altro, il generale per antonomasia, l’unico generale vero per
essa, come i discepoli di Palestina chiamavano «Maestro» senza più il
figliuolo del fabbro nazzareno, che aveva saputo toccare i loro cuori e
accendervi la fiamma d’una fede novella.

Egli aveva aperta una nuova scuola di guerra; una schiera di valenti
ufficiali creati ed educati da lui ne continuava dall’esiglio la
tradizione, ne meditava gli insegnamenti, si preparava, quando la
tromba suonasse di nuovo, a rinnovarne, su altri campi, gli esempi
e la gloria. La leggenda cominciava già a sbocciare intorno alle
sue gesta: e la Storia medesima non sapeva scriverne senza chiedere
a prestito alla Poesia le sue immagini e i suoi colori. La breve
campagna di Lombardia non era parsa che un saggio di ardimento
generoso, ma sterile; la campagna di Roma era sembrata un poema,
e la sua ritirata un miracolo. E poichè questa ritirata riassume
tutta l’epopea garibaldina di quell’anno, e fu, a parer nostro, una
delle più maravigliose imprese di lui, e per giunta impresa tutta
sua, combattuta e vinta unicamente dalla sua perizia e gagliardía,
alla quale si direbbe che le sue milizie non parteciparono che per
guastarla; così vogliamo che ella sia giudicata da tale, sul cui
giudizio non possa cadere pur l’ombra d’un sospetto di tenerezza
per l’eroe nostro, e di parzialità per la causa che difendeva: da
Alfredo De Reumont, storico insigne e amante delle glorie italiane, ma
Tedesco, clericale, diplomatico, rappresentante della Prussia presso il
Granduca di Toscana, prima e dopo la ristaurazione: tutto quello che
di più antigaribaldino e antirivoluzionario l’Europa del 1815 abbia
generato:[172]

«Garibaldi tenne quasi il mezzo tra il Fra Monreale del 400, ed
Alfonso Piccolomini di Montemarciano del 600, servendo come quello una
effimera Repubblica romana, senza lodarne i capi; e come questi andando
inseguíto attraverso l’Umbria, la Toscana, le Romagne, colla sola
differenza con tutti e due che, più destro o più fortunato di essi, non
venne nè decapitato come l’uno, nè appiccato come l’altro.

»In modo veramente maraviglioso l’ultimo pugno dell’armata repubblicana
romana andò a finire sul territorio dell’infima Repubblica italiana,
mettendo a repentaglio l’esistenza di quel modestamente felice
San Marino, che dai tempi del cardinale Alberoni in poi non aveva
attraversato simile burrasca.

»Il modo con cui Garibaldi giunse fino a San Marino, confina col
miracoloso. Sarebbe fargli torto il porlo fra il comune degli uomini.
Si può giudicare come si vuole le sue opinioni politiche e persino
la sua moralità; ma come condottiero di bande libere ha mostrato un
raro talento, e la sua condotta in Roma, tanto prima, quanto durante
l’assedio, lo ha fatto conoscere sotto un aspetto più favorevole di
quello che si avesse motivo d’aspettarsi. Ha conservato la disciplina
nella sua truppa raccogliticcia, in cui v’erano anche avventurieri
della peggior specie; ha combattuto da coraggioso soldato, se
non sempre come comandante; quando s’accorse che si sagrificavano
infruttuosamente vittime umane, e che tutto era inutile, lo dichiarò
apertamente ai Triumviri, senza badare ai loro acerbi rimproveri.
Alla resa della città, si ritirò quietamente ed ordinatamente coi
suoi rimastigli o quei pochi che gli si erano aggregati negli ultimi
momenti, senza neppure essere ringraziato da coloro pei quali aveva
arrischiato la vita. La risolutezza ed il sangue freddo non si possono
negare neppure al nemico.»

   [Illustrazione: CARTA ITINERARIA della ritirata di Garibaldi
   da Roma — 1849.]


XVII.

Ma la pena dell’esiglio richiede, oltre la terra che vi sfratta,
un’altra terra che vi raccolga, e a Garibaldi mancò per lungo tempo
anche questa. Egli era anche più increscioso alla Francia repubblicana
che al Piemonte monarchico; e il Governo di Luigi Napoleone aveva già
fatto intendere al Bey di Tunisi, come avrebbe veduto assai di mala
voglia che egli desse ricetto al rivoluzionario condottiero, che dal
30 aprile al 15 luglio aveva dato tanta faccenda agli eserciti della
grande nazione. Il Bey, pertanto, che amava restare nella grazia del
potente vicino d’Algeria, tenne il monito imperiale per comando e vietò
che Garibaldi sbarcasse in qualsiasi porto di Barberia, costringendolo
a ripartire con un altro bastimento per Malta, o per dove meglio gli
piaceva.

Malta però non sorrideva al nostro proscritto, e ottenne dalla
condiscendenza del capitano d’essere sbarcato all’Isola della
Maddalena, la maggiore del gruppo d’isolette che fanno arcipelago nel
Golfo di San Bonifacio.

E fu ventura. Pietro Susini, sindaco della Maddalena, padre di quel
Susini Millelire che Garibaldi aveva lasciato capitano nella Legione
di Montevideo, tenne a singolare onore d’accogliere al suo focolare
l’uomo favoloso che di là dall’Oceano era stato meglio che capo, amico,
secondo padre a suo figlio; e Garibaldi passò nell’isoletta ospitale,
nel consorzio di quei poveri e semplici pescatori, i giorni forse più
riposati e tranquilli della sua vita procellosa. Viveva di nulla,
passava la giornata alla caccia e alla pesca, imparando a memoria
tutte le calanche e tutte le macchie delle isole circonvicine; e
cominciando probabilmente fin d’allora ad innamorarsi di quella Caprera
che preferirà un giorno alle più splendide dimore d’Italia, e renderà
celebre quanto il suo nome.

Ma era detto che nemmeno nel più oscuro e pacifico angolo d’Italia egli
potesse vivere oscuro e pacifico; com’era detto che il ministro Pinelli
non potesse godere un istante di sonno, finchè quel terribile orco
della rivoluzione errava sui lidi d’Italia.

Un giorno infatti del 1850, che è, che non è, si presenta nelle acque
della Maddalena il bastimento di guerra _Colombo_ coll’ordine di
prender Garibaldi a bordo e di portarselo a Gibilterra. E Garibaldi,
ormai rassegnato a tutto, lasciò fare e partì. Pochi giorni prima
s’era buttato a nuoto per salvare un canotto sardo che naufragava; e fu
quello il solo tributo di riconoscenza che potè pagare a’ suoi ospiti
generosi, e insieme la sola azione peccaminosa dopo la ritirata di San
Marino e la fuga di Comacchio, ch’egli compì in Italia.

Nemmeno Gibilterra però lo voleva. Il Governatore inglese gli permise
lo sbarco per alcuni giorni, ma non un soggiorno più lungo; il Console
spagnuolo, interpellato se la Spagna l’avrebbe raccolto, rispose
seccamente di no; per cui sbandito dall’Italia, perseguitato dalla
Francia, cercato a morte dall’Austria, congedato dall’Inghilterra,
respinto dalla Spagna, assai probabilmente internato dalla Svizzera, e
della Germania e della Russia non si discorre, è manifesto che in tutta
la vecchia Europa l’unico ospizio ancora aperto al nostro perseguitato
era la mussulmana e barbara Turchia.

Fu allora che il Console degli Stati Uniti d’America e seco lui gli
ufficiali della sua squadra, indignati della codarda persecuzione
onde l’eroe era fatto segno, gli offersero di prenderlo sotto l’egida
della loro bandiera e di trasportarlo gratuitamente nel loro paese. Ma
Garibaldi non sapeva ancora decidersi e mettere fra sè e la patria,
l’Oceano; forse un ultimo filo di speranza lo teneva ancora avvinto
all’Italia; e saputo che a Tangeri era console di Sardegna il signor
Carpaneti di Genova, suo vecchio conoscente, si risolvette di tentar
novellamente la terra d’Africa, e di recarsi da lui. E il Carpaneti
l’ebbe caro come un fratello; l’accolse in sua casa, lo protesse della
sua autorità; gli avrebbe fatto obliare che quella era terra d’esiglio,
se gli esuli potessero obliare. Garibaldi invece come pellegrino che,
giunto in luogo di sicurezza e di riposo, rifà colla mente il cammino
percorso e ne racconta a sè medesimo le vicende; provò per la prima
volta il bisogno di narrare «sè stesso ai posteri» e di scrivere i suoi
ricordi. A Tangeri infatti furono incominciate quelle _Memorie_, che
fino ad ora il mondo conosce nelle traduzioni di Dumas padre e di Elpis
Melena, che fino al 1848 furono a noi storici la scorta più fidata, che
un giorno, quando veggano la luce in tutta la loro interezza, saranno
forse uno dei più preziosi documenti e dei più curiosi monumenti della
nostra storia e della nostra letteratura.

Nemmeno a Tangeri però dimorò a lungo. Garibaldi non era pervenuto
ancora a quell’età, in cui, divenuto impossibile l’operare, il solo
ricordare le cose operate tien luogo d’azione. Garibaldi contava appena
quarantadue anni; aveva ancora le braccia sane, teneva un’arte nobile e
fruttuosa alle mani, sentiva sempre, come a’ suoi più giovani anni, il
virtuoso orgoglio di non dovere che a sè stesso la propria esistenza, e
non potendo appagarsi di quell’ozio larvato di scombiccherare quaderni,
nè volendo abusare più a lungo della generosità dell’ospite amico,
risolvette di lasciar Tangeri e di andar a cercare in altri lidi pane e
lavoro.

Congedatosi pertanto dal Carpaneti, sull’aprile del 1850 s’imbarca
per l’Inghilterra; approda a Liverpool; vi è assalito per la prima
volta da quell’artritide che lo accompagnerà fino alla sua morte; ma
appena riavuto, parendogli poco propizia a’ suoi progetti di lavoro
anco l’Inghilterra, veleggia per gli Stati Uniti e sbarca in quell’anno
stesso a New-York.


XVIII.

E colà il problema del pane quotidiano gli si presenta di nuovo in
tutta la sua crudezza. Aveva chiesto, cercato, aspettato più mesi un
comando di bastimenti (fosse stato anche in _secondo_ se ne sarebbe
accontentato), e il comando non veniva; aveva picchiato a tutte
le porte d’amici e conoscenti alla busca d’un mestiere purchessia,
ma il mestiere non si trovava; aveva bighellonato per settimane in
uno sciopero forzato per tutte le vie di New-York, e si era uggito
e vergognato insieme; quando il caso gli fece incontrare un altro
Genovese, certo Meucci, proprietario d’una fabbrica di candele, che
non potendo offrirgli nulla di meglio, gli offerse un posto nella sua
fabbrica. E doveva essere davvero uno spettacolo curioso: il vincitore
del 30 aprile contornato di sugna e di stoppini, affaccendarsi da mane
a sera a manipolare, ad impaccare e spedire candele ai due mondi, di
cui lo dicevano l’eroe: curioso e toccante insieme; chè nulla commove
di più della vista d’un uomo già grande, il quale, sdegnando vivere
parassita della sua passata grandezza, corregge l’errore dell’avversa
fortuna colla dignità del lavoro. Più l’opera sua par bassa, e più la
sua figura s’innalza; più le sue mani sono sudicie, più la sua anima
brilla di sublime candore.

Per ventura sua l’aspra prova non durò più d’un anno, ed alla fine potè
tornare novellamente al suo elemento e rivivere alla sua arte.

Eletto da una Società italo-americana a comandante di un bastimento
che doveva battere gli scali dell’America centrale, in sul finire del
1851 salpa da New-York; arrivato però a Panama, una febbre potente, che
lo riduce quasi in fin di vita, lo sforza a rinunciare il bastimento;
scampato tuttavia mercè la sua gagliarda tempra da quel nuovo pericolo,
incontra nel Porto stesso di Panama quel Carpaneti che l’aveva ospitato
a Tangeri, e che allora navigava con un altro bastimento, detto il
_San Giorgio_, per Lima; onde raccolto coll’antico affetto dall’amico,
s’imbarca con lui, e salpa ben presto per il Pacifico e la capitale
del Perù. Ivi però nuova fortuna. Il signor Don Pedro De’ Negri,
intraprendente genovese, arricchitosi al Perù, specialmente nelle
miniere d’argento del _Cerro_ e di _Pasqua_, simpatizza prontamente
col già famoso suo compatriotta e gli offre di fare per conto suo
un viaggio alla China con un doppio carico di grani e d’argento. Era
la prima volta che s’apriva a Garibaldi la possibilità di varcare il
Grand’Oceano. Il bastimento, battezzato _La Carmen_, non era più nuovo,
portava appena ottocento tonnellate, e aveva bisogno di molti raddobbi;
ma per quel capitano avvezzo alle garapere e alle tartane, poteva
parere un _Leviathan_. Fornito il carico all’Isola di Cincia (costa Sud
del Perù a trecento miglia dal Callao), tornato in brevi giorni a Lima
per compirvi le provviste e l’equipaggio, nei primi di gennaio del 1852
spiegò lietamente le vele per le coste d’Asia, e dopo novantaquattro
giorni di navigazione felice getta l’áncora nel Porto di Hong-Kong.

Di tutta quella traversata soltanto un sogno parve memorabile a
Garibaldi; ma un sogno sì strano e terribile, che soltanto narrato
dalla stessa penna di colui che lo ebbe, può parere credibile.

«Solo una volta (scrive Garibaldi stesso),[173] io raccapriccio
nel rammentarmela, sull’immenso Oceano Pacifico, tra il Continente
americano e l’asiatico, colla Carmen, ebbimo una specie di _tifone_,
non formidabile come quelli che si sperimentano sulle coste di China,
ma abbastanza forte per farci stare parte della giornata, 19 marzo
1852, colle basse gabbie — e dico tifone, perchè il vento fece tutto
il giro della bussola, segno caratteristico del tifone, ed il mare si
agitò terribilmente come suole in quel grande temporale.

»Io ero ammalato di reumatismi, e mi trovavo nel forte della tempesta
addormentato nel mio camerino sopra coperta. Nel sonno io ero
trasportato nella mia terra natale; ma in luogo di trovarvi quell’aria
di Paradiso ch’ero assuefatto di trovare in Nizza, ove tutto mi
sorrideva, tutto mi sembrava tetro come un’atmosfera di cimitero;
tra una folla di donne ch’io scorgeva in lontananza, in aria dimessa
e mesta, mi sembrò di scorgere una bara — e quelle donne, quantunque
movessero lentamente, avanzavano però alla mia volta. Io con un fatale
presentimento feci uno sforzo per avvicinarmi al convoglio funebre, e
non potei movermi, avevo una montagna sullo stomaco. La comitiva però
giunse al lato del mio giaciglio, vi depose la bara e dileguossi.

»Sudante di fatica, avevo inutilmente cercato di sorreggermi sulle
braccia. Ero sotto la terribile influenza d’un incubo — e quando
principiai a movermi, a sentire accanto a me la fredda salma d’un
cadavere, ed a riconoscere il santo volto di mia Madre, io mi era
desto; ma l’impressione di una mano ghiacciata era rimasta sulla mia
mano.

»Il cupo ruggito della tempesta ed i lamenti della povera _Carmen_
spietatamente sbattuta contro terra, non poterono dileguare interamente
i terribili effetti del mio sogno.

»In quel giorno ed in quell’ora certamente io ero rimasto privo della
mia genitrice, dell’ottima delle madri.»

Rammentiamoci infatti che il 19 marzo 1852 la signora Rosa non era più.

A Hong-Kong però avendo saputo che il corrispondente commerciale del
De Negri, Mr King, era partito per Canton, il Generale stimò opportuno
raggiungerlo colà; trovatolo di fatto e ricevuto l’ordine di riportare
il carico ad Amoy, salpa a quella volta, vi scarica e vi vende ad
ottimi patti, ritorna subito dopo a Hong-Kong, rimonta il fiume
omonimo fino a Wampoo, rifà un nuovo carico da trasportare a Lima, e
nell’autunno di quell’anno, battendo la stessa rotta, senza avventure
notevoli, riapproda colla stessa fortuna nel porto d’onde era partito.

Non restò per altro a terra lungo tempo, chè al cominciare del 1853
è rinviato dallo stesso Negri a New-York a prendervi il comando del
_Commonwealth_, un tre alberi di mille duecento tonnellate, destinato
a caricare carbone in Inghilterra e trasportarlo in Italia. E infatti
il nostro Capitano marittimo parte quasi subito per New-Castle e vi
fa il carico assegnatogli; appena lesto, spiega la vela; e dopo cinque
anni di lontananza, cominciando il 1854, viene a dar fondo nel Porto di
Genova, e rivede quell’Italia che era stata su tutti i lidi la stella
polare e la mèta suprema del suo cammino.[174]

Nè alcuno gli aveva contrastato lo sbarco. Il Governo piemontese era
guarito de’ suoi puerili terrori, la sua politica aveva già preso
colore più vivo di italianità: il Governo era passato nelle mani del
conte di Cavour, e basti. Il Capitano del _Commonwealth_ non fu dunque
molestato; ed egli potè liberamente metter piede a Nizza ad abbracciare
i suoi tre bambini che non rivedeva da cinque anni; a salutare, almeno
nella tomba, la sua povera madre, a cui aveva date sì torbide gioie e
sì scarse consolazioni.

E in Nizza stette tutto quell’anno 1854, tranquillo e quasi
dimenticato, contento d’avviare con un altro bastimentuccio,
detto l’_Esploratore_, un po’ di cabotaggio per i mari vicini;
arrischiandosi, una volta, fino a Marsiglia, dove pare che la Polizia
napoleonica fosse disposta a chiudere un occhio e a lasciare in pace il
suo antico perseguitato.

Le sue corse più frequenti però erano ancora per la Sardegna, dove già
andava mulinando di fissare la sua dimora; e fu appunto in una di esse
che sorpreso da un grosso fortunale nelle Bocche di San Bonifacio, e
resogli impossibile il continuare la rotta per Porto Torres, si gettò
a rifugio sulla costa della Maddalena; e colà dimorando alcuni giorni,
gli balenò per la prima volta l’idea di comperare una parte dell’Isola
di Caprera.

Aveva riscossi alcuni residui de’ suoi stipendi di Montevideo; nei
suoi ultimi viaggi marittimi aveva messo da parte qualche peculio;
una sommetta aveva raccolta dall’eredità del fratello Felice; onde gli
pareva venuto il momento di metter a profitto i suoi modesti capitali,
e che nessun impiego fosse migliore di quello.[175]


XIX.

La Caprera, come è noto, sorge tra il lato orientale della Maddalena,
e il capo settentrionale della Sardegna, dalla quale è divisa soltanto
dal piccolo golfo d’Arsachena. All’aspetto è un masso granitico oblungo
che s’avvalla ad occidente, s’innalza al punto opposto e scende da
quella banda a picco sul Mediterraneo. Un monte, detto il Teggiolone,
alto non più che trecento metri sul livello del mare, lo corre da nord
a sud, e cominciando da Punta Galera, sua estremità settentrionale,
va a finire, traverso valloncelli e frane e scoscendimenti, alla così
detta Punta Rossa, che forma a mezzodì uno de’ corni del golfo di
Arsachena. Misura tre chilometri di larghezza e cinque di lunghezza;
la nuda roccia dominante su tutta l’Isola è spalmata a intervalli
da sottili strati di terra vegetale, su cui verdeggia a stento fra
folte macchie di lentischi e di arbusti qualche oasi erbosa. Il clima
vi è, come in tutte le nostre isole, temperato e l’aere salubre; ma
scarsissima l’acqua, incessante il giuoco de’ venti e turbinoso il
Maestro. Pescose le rive, ma irte di punte, di secche, di scogliere;
innumeri perciò le anse, i seni, le calanche, ma di veri porti nessuno;
unici punti d’approdo, per barche mezzane il porto dello Stagnarello a
settentrione e l’insenata d’Arsachena a mezzodì.

Nel 1855 Caprera era divisa tra due soli proprietari: il Demanio sardo,
che vi occupava il lato settentrionale e l’aveva già partito in piccoli
lotti per metterlo in vendita, ed i signori Collins, inglesi stanziati
alla Maddalena, che vi possedevano il meridionale più ad uso di caccia
che per speranza d’un frutto qualsiasi. Nel rimanente due famiglie di
pastori, di cui si perdevano tra gli anfratti della valle le povere
capanne; qualche branco di capre e di pecore erranti tra gli scogli
in cerca d’una magra pastura; qualche volo di pernici e di beccaccie
migrate dalla vicina Sardegna annidiate tra le macchie; poche coppie di
caproni selvatici inerpicati su pei greppi del Teggiolone: ecco i soli
esseri viventi del luogo.

Nessuna amenità di sito adunque, nessuna feracità di suolo, nessuna
varietà di flora e di fauna; ma in cambio il mare profondo, la
solitudine immensa, la libertà imperturbata: tutto quanto bastava
agli occhi di Garibaldi per trasformare l’orrido scoglio in un orto
d’Esperia. Oltre di che l’aveva preso la passione dell’agricoltura,
cosa meno strana di quel che appaia, poichè l’amor de’ campi e l’amore
del mare sono fratelli e nascono entrambi dal bisogno della vita
libera, solitaria, e dal profondo sentimento della natura infinita.

Alleandosi pertanto le illusioni dell’agricoltore alla misantropia
dell’uomo ed alla fantasia del poeta, Garibaldi decise comperare la
maggior parte di que’ lotti vendibili, e di trapiantarvi stabilmente le
nomadi tende della sua vita.

Ma per far tutto ciò, una prima cosa era necessaria: rendere l’Isola
abitabile, costruirvi cioè una casa. E a questo pure Garibaldi aveva
pensato; ma a modo suo, quanto dire primitivo e singolare sempre.
E punto primo, la casa dovrà essere una riproduzione perfetta di
quelle di Montevideo: un semplice quadrato di quattro camere poste su
d’un piano solo, coperto da una terrazza bianca e liscia che serva
insieme di tetto e di vasca alle acque piovane, che vengono poi
raccolte per via d’un canale in un serbatoio interno, ecco la reggia
fastosa che Garibaldi edificherà da sè stesso nel suo nuovo regno di
Caprera. Quanto poi ai lavoratori, egli e quattro o cinque amici,
Basso, Menotti, Gusmaroli, Froscianti, si spartiranno le faccende
ed i mestieri, e coll’aiuto e la guida di qualche maestro muratore e
falegname basteranno alla bisogna. Di necessità, durante i lavori, si
vivrà accampati sotto le tende, alla militare; la caccia e la pesca
dei dintorni provvederanno al vitto quotidiano, e al difetto di pratica
supplirà l’ingegno, la lena e l’allegria.


XX.

E fu ancora in quell’anno ch’egli s’era tolta l’impresa della
liberazione dei prigionieri di Santo Stefano. Pochi anni or sono
il fatto era noto a pochissimi; le _Memorie_ del Settembrini e le
_Lettere_ al Panizzi, di recente pubblicate, l’hanno reso notorio.
Ventidue condannati politici, tra i quali Luigi Settembrini, Silvio
Spaventa, Gennaro Placco, Filippo Agresti, giacevano da quattro anni
nelle carceri di Santo Stefano; rei, come diceva la legge borbonica,
«del delitto di maestà;» rei d’amor patrio. Come è natura dei
prigionieri, degl’innocenti principalmente, il pensiero della fuga
era incessante; quindi i disegni, i conati, i tentativi innumerevoli,
arditi, strani talvolta, ma vani fino allora tutti. Sulla fine del 1854
però Antonio Panizzi, non mai dimentico della sua Italia e partecipe,
più che non paresse, d’ogni congiura diretta al suo bene, combina
col Settembrini a Santo Stefano e con Agostino Bertani a Genova un
nuovo e più arduo progetto. I prigionieri penseranno essi a scappare
dall’ergastolo forando con ferri, nascostamente introdotti, la vôlta
della loro camera, e calandosi di là per i tetti, e le muraglie
in una nascosta insenata a oriente dell’isola. Di fuori invece un
piroscafo noleggiato da amici, e «comandato da _un uomo unico_,»
passerà in una notte senza luna davanti a Santo Stefano, portando
per segnale all’albero, o agli alberi, _una fiamma bianca_, o _delle
fiamme bianche_, le quali s’abbasseranno per qualche momento, poi
giunto vicino all’ergastolo si rialzeranno; il bastimento di giorno
s’allontanerà, al tornar della notte s’avvicinerà di nuovo all’isola,
ed a mezza notte manderà una lancia o due al seno indicato; colà i
prigionieri porteranno una lanterna accesa rivolta alla parte della
lancia, questa s’accosterà pronunziando la parola d’ordine: _Panizzi_;
i prigionieri risponderanno colla parola: _Settembrini_; e ciò fatto
la lancia toccherà terra, imbarcherà i fuggitivi e il piroscafo li
rapirà con sè. E questo progetto tenne occupati, speranzosi, angosciati
per più d’un anno i poveri cattivi; finchè ai primi di settembre del
1856 fu scritta loro la notizia che il piroscafo destinato alla fuga
aveva naufragato sulle coste d’Inghilterra; e il disegno per allora
completamente fallito.

«L’uomo unico,» di cui parlava il Panizzi nella sua lettera al
Settembrini, era Giuseppe Garibaldi; e si converrà che se v’era uomo
adatto a rischiare e condurre alla fine quella nobile impresa era lui;
se non l’unico, il primo innegabilmente.


XXI.

Il 6 agosto 1856 Garibaldi era in Genova; e tra lui e Felice Foresti,
il compagno di Spielberg di Giorgio Pallavicino, succedeva questo
dialogo:[176]

_Garibaldi._ — Tieni tu un assiduo carteggio col marchese Pallavicino?

_Foresti._ — Ci scriviamo di quando in quando.

_G._ — Ma dunque scrivigli, Foresti mio, che io sono importunato e
messo continuamente alle strette da molti bravi giovinotti, che pur
vorrebbero ch’io mi mettessi alla loro testa per incominciare un ardito
movimento nazionale.

_F._ — D’onde vengono costoro?

_G._ — Dall’Italia centrale e dalla Sicilia; e parecchi appartengono
all’Emigrazione italiana qui stanziata.

_F._ — Ma cosa rispondi tu alle loro inchieste insistenti?

_G._ — Che perseverino nel loro divisamento nobile e patriottico; ma
in quanto ad attuarlo è forza che abbiano pazienza ancora un poco.
Perchè, a dirti il vero, io reputo che sarebbe mal fatto di mettersi in
campagna, o sull’Appennino con bande, prima della vegnente primavera.

_F._ — Ma io non comprendo come non si debba poter combattere anche
d’inverno. Napoleone ha ripetutamente provato che lo si può fare.

_G._ — Io ho anche delle ragioni particolari per indugiare fino alla
primavera: oggi non posso dirtele, ma te ne dirò una, e forse la
principale. Io veggo che dobbiamo fare tesoro delle forze piemontesi
regolari e volontarie: quindi la spinta al movimento, almeno indiretta,
dovrebbe venirci dal Governo. Ma io non so.... non capisco. Mi pare
che vi sia un’inerzia, un ritegno, un’indifferenza. Infine che cosa fa
questo Partito Nazionale?

_F._ — Davvero non lo so propriamente: congetturo che s’adoperi per la
causa italiana.

_G._ — Consenziente il Re?

_F._ — Non lo so.

_G._ — Ma, santo Dio, dovremmo pur saperlo! io offro il mio braccio, la
mia vita all’Italia, e per essa alla Corona sabauda; ma vorrei vedere
preparativi, udire assicurazioni d’appoggio, maneggi, movimento, vita.

_F._ — Lo desidero anch’io, ma non è che un desiderio.

_G._ — Giorgio Pallavicino e gli altri, che più facilmente avvicinano
il Re ed i Ministri, si dieno le mani attorno; che mettano insieme de’
mezzi; che non mi lascino così sull’arena.

_F._ — Sì, te lo prometto.

E ciò, superfluo a dirsi, non perchè nell’animo dell’eroe si fosse
intiepidita la fiducia nella rivoluzione e nelle armi popolari;
ma per quella ragione già espressa al Foresti: che vedeva ormai la
necessità di far tesoro delle forze piemontesi regolari e volontarie,
e di attendere dal Governo la spinta. Era in sostanza l’idea che
Daniele Manin e Giorgio Pallavicino si studiavano in quei giorni
d’incarnare nel nuovo partito nazionale da essi immaginato: sottoporre
ogni ragione di parte ed ogni questione di forma all’intento
supremo dell’indipendenza e dell’unificazione d’Italia; accettare
la Monarchia di Savoia, se essa accettava di fare l’Italia; fidare
al Governo di Vittorio Emanuele l’arbitrato e l’imperio dell’impresa
nazionale, spingendolo coll’agitazione, secondandolo, se era d’uopo,
coll’insurrezione, ma lasciando a lui solo la scelta del modo e
dell’istante.

Ora nessun documento, a parer nostro, rispecchia più fedelmente le idee
e le opinioni del nostro Garibaldi in quell’anno, del dialogo da noi
riferito. Era il momento in cui i conati d’insurrezione e i progetti
di spedizioni pullulavano da ogni parte. Il Mazzini apparecchiava
una delle sue solite scorrerie nell’Appennino apuano; il siciliano
Francesco Bentivegna chiamava alla riscossa, con ardimento infelice,
l’Isola natía; i patriotti napoletani, capitanati principalmente da
Enrico Cosenz, tramavano, colla Legione anglo-italiana, uno sbarco nel
Regno,[177] e tutti questi, e quanti altri com’essi covavano progetti
di sommossa o di congiure, mettevano capo a Garibaldi; e quali per
capitano, quali per iniziatore, quali per ausiliare, tutti facevano
assegnamento sulla virtù del suo braccio e sulla magía del suo nome.

E Garibaldi non si rifiutava, non poteva rinnegare la propria natura,
ma non incoraggiava nemmeno; prometteva di seguire, ma rifuggiva
dall’iniziare; suggeriva, stile insolito, cautele e temporeggiamenti, e
si teneva sciolto da ogni impegno. E qui si conviene esser giusti. Il
programma dell’egemonia piemontese, o come altri lo dice, dell’unità
sotto Casa Savoia, non fu un trovato esclusivo e privilegiato di
chicchessia; scaturì per virtù propria dalle viscere stesse della
nostra storia, si svolse naturalmente da tutte quelle serie di
avvenimenti che dal Quarantotto in poi corressero, se non mutarono,
l’indirizzo della rivoluzione italiana e ne apparecchiarono il trionfo.
La impotenza sempre più manifesta dei partiti puramente rivoluzionari,
la sfacciata complicità dei Principati domestici colle signorie
straniere, l’uso sapientemente moderato della libertà fatto dal popolo
subalpino, la politica schiettamente nazionale del suo Parlamento
e del suo Governo, e infine, più possente di tutte, la proverbiale
lealtà di Vittorio Emanuele ai patti giurati; queste furono le prime
e vere cagioni di quel grande e provvido primato della Monarchia
piemontese, d’onde sorse l’Italia. Senza l’accordo provvidenziale di
questi tre grandi fatti; senza la condotta antinazionale e liberticida
degli altri Principi d’Italia, che spegnesse nelle collere popolari le
ultime reliquie delle fazioni municipali; senza il fallimento ripetuto
della parte repubblicana, che faceva parer accettabile anche a’ più
radicali la Dittatura regia, certo l’assorbimento dei vecchi partiti
rivoluzionari in un grande partito nazionale, monarchico ed unitario
sarebbe stato assai più lento; e il risorgimento italiano, tra martirii
e strazi novelli, differito a un giorno imprevedibile.

E certo l’ultimo tratto alla bilancia lo diede la spedizione di Crimea.
Invano s’ostinavano a negarlo gl’increduli, a fraintenderlo i ciechi,
a schernirlo e ripudiarlo i settarii; l’alto fatto parlava da sè.
Quella schiera di prodi che il conte di Cavour spediva col vessillo
tricolore in pugno a combattere fra i primi eserciti d’Europa, portava
nelle pieghe del suo vessillo, l’Italia; quella modesta, ma onorata
vittoria di Traktir, era vittoria italiana; quelle alleanze, o quelle
amicizie, onde il grand’uomo di Stato afforzava e muniva il Piemonte,
erano forza e scudo d’Italia; quella voce ardita ch’egli faceva suonare
ne’ Consigli europei era per l’Italia; tutta, insomma, quella breve,
ma gloriosa pagina di storia del piccolo paese a piè dell’Alpi, era
storia ormai di tutta Italia; e la nazione in suo segreto non esitava
più a commettere le sue sorti a quel Re e a quel Ministro, che l’avevan
difesa a viso aperto e fatta rivivere fra le genti civili.


XXII.

Tutto ciò però ampiamente concesso, importa restituire a ciascuno il
suo. Grande il merito del Piemonte, grandissimo quello di Vittorio
Emanuele e del Cavour; ma non spregevole, non dimenticabile, quello
degli uomini, i quali indovinarono per i primi il segreto della loro
politica e ne propagarono l’idea. E tanto più meritevole, in quanto
che essi medesimi, cresciuti in una fede diversa della monarchica,
dovevano troncare il filo della propria tradizione e rompere in visiera
coi partiti, ai quali erano sino a quel giorno appartenuti. Però la
difficoltà vera dell’impresa assunta da Daniele Manin e da Giorgio
Pallavicino era non tanto di dare una formola ad un concetto per sè
definito e palese, quanto di evangelizzarlo fra genti diverse; di
farlo accettare insieme dai repubblicani, dai rivoluzionari e dagli
autonomisti di tutti i colori, di scomporre i fasci de’ vecchi partiti,
e di ricomporre coi loro frammenti il fascio d’un nuovo grande partito
nazionale. Ed al compimento di questo disegno potrà essere dubbio se
più abbia cooperato il patrocinio onde li fiancheggiava il conte di
Cavour, o l’adesione aperta che gli aveva data Giuseppe Garibaldi;
ma infine, nella misura delle forze e delle influenze loro, tutti
concorsero all’opera, e Garibaldi, pel primo, li secondò, poi li
precorse e fin’anco li superò.

Di Garibaldi anzi conviene mettere in sodo un punto. Egli accettò il
programma «della Dittatura sabauda,» come egli lo chiamava, senza
riserva e restrizione di sorta. Avrà avuto in petto egli pure come
il Mazzini un giorno, o come il Manin in quell’anno, il suo: «se no,
no;» ma non lo espresse mai; e tutto quanto egli concesse, fu con
incondizionata fiducia. Diverso in questo dagli stessi componenti il
_Comitato dell’Associazione nazionale_, che litigavano se il laborioso
programma dovesse dire: «_finchè_, o _purchè_, o _perchè_, la Monarchia
di Savoia sarà fedele ai patti promessi;» diverso dallo stesso Giorgio
Pallavicino, che non sapendo guarire da’ suoi vecchi sospetti contro
il Cavour,[178] ricompariva ad ogni istante a mettere condizioni, a
esprimere diffidenze, a richiedere pegni che facevan, senza fallo,
testimonianza del suo geloso amor patrio; ma che non erano certo buone
prove del suo acume politico.

Garibaldi invece è come donna innamorata; una volta che si è dato,
s’abbandona interamente. Il 13 agosto visita per la prima volta il
conte di Cavour, e il Foresti, che l’accompagnava, così descrive
l’incontro:

«Il nostro Garibaldi era a Torino il 13 corrente, ed io ve lo
accompagnai. Cavour l’accolse con modi cortesi e famigliari ad un
tempo, gli fece sperar molto, e l’autorizzò ad insinuare speranza
nell’animo altrui. Pare ch’ei pensi seriamente al grande fatto della
redenzione politica della nostra Penisola.... Insomma Garibaldi si
congedò dal Ministro come da un amico, che promette e incoraggia ad
un’impresa vagheggiata.[179]»

Più tardi, apertasi dalla stampa governativa la sottoscrizione pei
cento cannoni d’Alessandria, e dalla democratica, quella per l’acquisto
de’ centomila fucili, Garibaldi sottoscrisse, con patriottica
neutralità, per entrambi; scontentando molti de’ suoi vecchi amici, ma
più ancora sforzandoli col suo esempio ad imitarlo.

Alcune settimane dopo, essendo ai bagni di Voltaggio, e volendo
ringraziare gli abitanti che l’avevano accolto con dimostrazioni di
simpatia, scriveva loro, tra l’altre, queste significantissime parole:

  «Sì, giovani della crescente generazione, voi siete chiamati a
  compire il sublime concetto di Dio, emanato nell’anima dei nostri
  grandi di tutte le epoche: l’unificazione del gran popolo che
  diede al mondo gli Archimedi, gli Scipioni, i Filiberti. A voi,
  guardiani delle Alpi, vien commessa oggi la sacra missione; non vi
  è un popolo della Penisola che non vi guardi, e che non palpiti
  alla guerriera vostra tenuta, alle vostre prodezze sui campi
  di battaglia. Campioni della redenzione italiana, il mondo vi
  contempla con ammirazione, e lo straniero, che infesta l’abituro
  dei vostri fratelli, ha la paura e la morte nell’anima.

  »Gli Italiani di tutte le contrade sono pronti a rannodarsi al
  glorioso vessillo che vi regge, ed io giubilante di compiere il mio
  voto all’Italia, potrò, Dio ne sia benedetto!, darle questo resto
  di vita.

      »Dallo Stabilimento idroterapico
      dei signori Ansaldo e Romanengo.

                                         »GIUSEPPE GARIBALDI.[180]»

Finalmente quando nel maggio 1857 fu invitato, assieme al Pasi e
al Medici, ad aderire pubblicamente al programma dell’Associazione
nazionale, egli solo non esitò un istante a dare il suo consenso, e lo
espresse al Pallavicino così:[181]

                                          «Caprera, 20 maggio 1857.

      »Pregiatissimo amico,

  »Io imparai a stimarvi ed amarvi dal nostro Foresti, e dalle
  vicende dell’onorevole vostra vita. Le idee che voi manifestate
  sono le mie, e vi fo padrone quindi della mia firma per la
  dichiarazione vostra.

  »Vogliate contraccambiare co’ miei affettuosi saluti Manin,
  Ulloa e La Farina, ch’io vo superbo d’accompagnare in qualunque
  manifestazione pubblica.

  »Sono di cuore vostro

                                              »GIUSEPPE GARIBALDI.»

Però il Pallavicino aveva ragione di chiamare la solenne adesione
di Garibaldi «un fatto immenso.» Esso scioglieva in due il vecchio
partito repubblicano, non lasciando al Mazzini che il manipolo dei
dottrinari; raccoglieva sotto i segni della Monarchia gli erranti delle
vecchie fazioni municipali; trascinava sotto le insegne della Dinastia
di Savoia tutta la gioventù operosa e militante d’Italia; poneva il
suggello al patto d’alleanza tra la rivoluzione e la Monarchia. Certo
non era in potere di Garibaldi impedire che questa alleanza si facesse;
ma nessuno negherà che fosse in sua mano il ritardarla. S’immagini
per un istante Garibaldi avverso alla Monarchia di Savoia, e serrato
intorno a lui, come a Capitano e Dittatore, tutto il vario stuolo
de’ repubblicani, ingrossato dagli autonomisti e dagli scontenti di
tutte le specie, e si dica quel che poteva accadere in Italia dopo
Villafranca? Probabilmente una discordia fratricida, ed un’anarchia
quarantottesca in metà della Penisola; certo la spedizione di Marsala
o fermata dal conte di Cavour, o annientata dal Borbone, o sfruttata
dal Mazzini; e in qualsivoglia caso, lo stupendo moto del nostro
risorgimento o sviato, o impedito, o funestato.




CAPITOLO SETTIMO.

DA VARESE ALLA CATTOLICA. [1859.]


I.

Il grande anno intanto era spuntato. Napoleone III aveva già
apostrofato il barone Hübner colle celebri parole: «Duolmi che le
nostre relazioni col vostro Governo non siano più così buone come per
il passato;» Vittorio Emanuele aveva già pronunciato nel Parlamento
subalpino il fatidico motto dei «gridi di dolore,» e nessuno in Europa,
non che in Italia, poteva fraintendere il senso di sì eloquenti
responsi. Oramai ogni dubbiezza spariva, i frutti dell’alleanza di
Crimea venivano a maturanza, e il segreto delle escursioni autunnali
di Plombières cominciava a trapelare. Nessun fatto l’attestava
chiaramente, ma ognuno nella mente sua ne era certo: il Piemonte e
la Francia, meglio dire re Vittorio e l’imperatore Napoleone, avevano
patteggiato la cacciata dell’Austriaco dall’Italia; e solo restava a
«percorrere quello spazio oscuro (come dice Amleto), pieno d’incertezza
e d’ansietà, che corre tra la risoluzione d’un disegno e la sua
esecuzione.»

Nè l’Italia chiedeva a quali patti quell’alleanza fosse conchiusa. Come
nel 1848 non v’era tradimento, per quanto assurdo, a cui gli Italiani
non fossero disposti a credere; così nel 1859 non v’era generosità,
per quanto sovrannaturale, di cui non fossero pronti a lusingarsi. Per
essi il disinteresse della Francia era un dogma, al pari della lealtà
di Vittorio Emanuele. Indarno il moltiforme stuolo de’ repubblicani,
de’ radicali, de’ diffidenti per indole e dei malcontenti per progetto
andava susurrando: pericolosa l’alleanza forestiera, certi i compensi
promessi a Napoleone, unica mèta del conte di Cavour un regno dell’Alta
Italia, e l’unità rinnegata e la libertà pericolante: tutte queste
voci passavano senz’eco traverso l’anima credente della nazione e
non la turbavano un istante. Assennata da’ suoi errori, l’Italia
del 1859 aveva finalmente compreso: suprema necessità l’acquisto
dell’indipendenza; vana, accademica, insolubile ogni altra questione
prima che fosse risolta quella a tutte anteriore dell’essere; ogni
mezzo valere a siffatto fine; provvida perciò anche l’alleanza
forestiera, se le forze nazionali non bastavano all’opera, e tanto più
se di quell’alleanza stava garante quel Re galantuomo, che, oltre al
non poter tradire, era interessato per il primo a non barattare il suo
piccolo, ma sovrano retaggio in una più grande, ma tributaria corona di
vassallo.

Però il ricordarlo potrà spiacere a taluno, ma la verità è questa
sola: l’alleanza francese era nel 1859, e rimase fino alla scoperta
dei capitoli di Nizza e Savoia, popolarissima in Italia; e molti tra
coloro che oggi rifatti liberi mercè sua la ripudiano e la maledicono,
dimenticano d’averla in quell’anno festeggiata e benedetta. Nessun
ricordo del grande inganno del 1796; nessun rancore della più recente
aggressione del 1849. Così il Francese conquistatore e prepotente
del primo Bonaparte, come il Francese cocollato e liberticida del
terzo, s’erano interamente ecclissati nella memoria popolare, per
far luce al tipo, fantastico in parte esso pure, d’un terzo Francese,
cavalleresco, disinteressato, paladino di un’idea, mosso unicamente
dall’onesto orgoglio di dare egli il primo strappo ai trattati del
1815, e di vendicare nel nipote i torti fatti allo zio. Erano fratelli
che venivano a liberare fratelli; era la nuova rivincita della stirpe
latina contro il secolare nemico teutonico; e i calcoli della politica
e i sillogismi della ragione non potevano scrollare la bella fede.
Quindi quel giubilo, trepido tuttora e segreto, ma universale, al
primo annunzio del grande avvenimento; poi quell’entusiasmo aperto,
e crescente man mano che la promessa si faceva certezza; finalmente,
manifestazione più significativa di tutte, quell’accorrere della più
eletta gioventù italiana sotto la bandiera di quel Re, al cenno di quel
Ministro, che avevano ordita quell’alleanza e preparata quella guerra,
arre certissime della redenzion della patria.


II.

Fin dallo scorcio di dicembre del 1858 il conte di Cavour faceva
chiamare a segreto convegno il general Garibaldi, e questi, lasciata
in tutta fretta la Caprera, giungeva a insaputa di tutti a Torino,
e strettosi a conferenza col Conte riceveva da lui la confidenza di
questo disegno.[182] Una insurrezione era predisposta ne’ Ducati:
verso il 1º d’aprile Massa e Carrara darebbero la mossa; due bande di
volontari irromperebbero contemporaneamente da Lerici e da Sarzana a
spalleggiare la rivolta e Garibaldi stesso le capitanerebbe. Frattanto
una compagnia di Bersaglieri, composta de’ più validi e attuosi
elementi della Guardia Nazionale di Genova, si doveva organizzare in
quella città, e sarebbe il primo nucleo delle forze popolari destinate
a fiancheggiar colla rivoluzione l’esercito regolare. Giubilò Garibaldi
alla proposta e diede senza ritegno tutto sè stesso; e lieto di portar
seco la certezza che ormai la guerra d’Italia fosse imminente, si
ridusse di nuovo alla sua Isola, da dove non rifiniva di lodare il
gran Ministro, che chiamava «suo amico,» di predicare a tutti i suoi la
necessità della Dittatura regia, di patrocinare l’armamento nazionale,
e soprattutto di raccomandarsi perchè al primo segnale s’affrettassero
a chiamarlo, inviandogli, se occorreva, un apposito piroscafo per
levarlo da Caprera.

Ma la nuova piega degli avvenimenti e l’accalcarsi crescente dei
volontari in Piemonte consigliarono il conte di Cavour, se non ad
abbandonare, a porre in seconda linea quel disegno, ed a pensare un
mezzo, a parer suo più efficace ed espediente, per trar profitto di
Garibaldi e de’ suoi seguaci. Infatti il 2 marzo 1859 (quella volta
chiamato dal Re stesso) Garibaldi tornava in Torino, e il suo arrivo
improvviso parve a tutti indizio di prossime novità.[185]

Di quel dialogo tra il Re Galantuomo e l’eroe popolare, le parole
testuali andarono perdute; almeno a noi non fu dato scoprirle; ma il
senso ne fu ben presto palese. Tornato a Genova, Garibaldi convocò i
suoi più intimi, Medici, Sacchi, Bixio, e nell’usato suo stile diede
loro quest’annunzio: Ho veduto Vittorio Emanuele; credo che il giorno
di ripigliare le armi per l’Italia non sia lontano; state pronti; io
spero di poter fare ancora qualcosa con voi!

E le parole furono decisive. Dicemmo come molti de’ più radicali
si fossero rifiutati di ascriversi all’_Associazione nazionale_ del
Pallavicino, non per avversione all’idea, ma perchè preferivano tenersi
sciolti da ogni impegno, pronti sempre a gettarsi nelle fila del
primo partito che combattesse. Ora però la condizione da essi posta
s’adempiva; e poichè non un partito, ma un governo, un popolo intero
si metteva a capo di quell’impresa, per la quale essi medesimi s’eran
serbati, ogni ragione di esitanza o di dubbiezza scompariva, ed essi
promettevano a Garibaldi tutto il loro concorso, come Garibaldi l’aveva
promesso a Vittorio Emanuele ed al Cavour.

Ed era quella, tra le molte, una delle più preziose conquiste del conte
di Cavour. Che l’Italia fosse con lui, nessun dubbio; ma era mestieri
che tutti lo sapessero e lo credessero del pari; che lo credesse
e sapesse prima di tutti la vecchia Europa conservatrice, la quale
probabilmente non avrebbe tardato a domandargli con qual diritto egli,
piemontese, si arrogava di parlare in nome di tutti gli Italiani. Ora
la risposta a questa domanda egli voleva averla pronta; e l’aveva già
nel fatto. Tutti quei giovani d’ogni classe e condizione, che traverso
a rischi e travagli infiniti convenivano da ogni regione della Penisola
in Piemonte, impazienti di combattere e di morire sotto le insegne
di quel che che s’era fatto campione della causa nazionale, erano
l’Italia, e facevano anche agli occhi della più cieca diplomazia tale
un plebiscito unitario, che nessun altro più eloquente. Tuttavia v’era
un modo per rendere ancora più fruttuoso quel soccorso e più espressivo
quel suffragio: ordinare quella valorosa gioventù in corpi speciali,
che stessero a fianco dell’esercito come rappresentanti distinti di
quell’elemento popolare e di quell’Italia rivoluzionaria, che il conte
di Cavour s’era assunto di dimostrare metamorfosata, mercè la sua
politica, in una pacifica e ordinata milizia, giurata alla sua impresa,
obbediente al suo freno e soggetta al suo comando.

Nacquero da questo concetto i _Cacciatori delle Alpi_. L’idea d’un
corpo ausiliario dell’esercito, che operando alla partigiana suscitasse
o spalleggiasse l’insurrezione delle popolazioni, non fu indubbiamente
estranea alla loro istituzione; ma importa assodare che quell’idea non
ne fu nè la causa generatrice, nè il fine principale.

Certo il merito d’averli istituiti resta sempre; e foss’anche vero che
il conte di Cavour se ne sia fatto uno stromento della sua politica, fu
uno stromento utile e una politica patriottica, e nessuno ha diritto di
biasimarlo.

Solo conviene esaminare il fatto in tutti i suoi aspetti, e, nemmeno
per ammirazione dovuta ad un grand’uomo, alterarne il senso, o
magnificarne la proporzione. Dei Cacciatori delle Alpi doveva essere
più l’apparenza che la sostanza; più l’effetto morale che il vantaggio
materiale, e più il significato politico che l’importanza militare.
Simboleggiare la rivoluzione alleata alla Monarchia, offrire un pegno
prudente ai radicali e un trattenimento gradito a Garibaldi, dare una
mano, occorrendo, al grand’esercito italo-franco, questo l’ufficio e lo
scopo dei Cacciatori delle Alpi: tutto il di più fortuito ed eventuale,
come le sorti della guerra.


III.

Eravamo giunti così ai primi di marzo. Entrambi i contendenti,
l’Austria e il Piemonte, reiteravano proteste di pace, ed entrambi
gareggiavano in segreto a chi più s’armava e si premuniva. La gran
lite era apparentemente commessa all’arbitrato della Diplomazia, in
realtà stava tutta nelle mani del Cavour. Guai se in quell’armeggío
di proposte oblique, di concessioni ambigue, di transazioni capziose
egli avesse sbagliato una sola mossa: l’occasione d’Italia andava per
quell’anno certamente perduta.

Il soccorso francese era a condizione che l’Austria non fosse assalita
per la prima, onde al Cavour quest’arduo giuoco: alimentare co’ fatti
lo sdegno del grande nemico, e a parole chetarlo; provocare e aver
l’aria di essere provocato; accettare tutte le condizioni pacifiche che
le Potenze proponevano, sottomano congiurando perchè all’avversario
restasse tutto il torto di rifiutarle; far la parte della vittima
rassegnata, confidando che l’Austria si stancherebbe per la prima e gli
getterebbe quel guanto di sfida ch’egli era impaziente di raccogliere.
E il giuoco gli riuscì; ma per un istante fu tale lo spavento di
perderlo, che a guisa di tutti i giuocatori disperati pensò al
suicidio.

E poichè uno dei più efficaci mezzi di provocazione, la vera banderuola
rossa sugli occhi del toro infuriato, era la formazione dei Volontari
italiani, essa fu irrevocabilmente decisa, e proprio nei giorni stessi
in cui i Gabinetti di Torino e di Parigi accettavano la proposta del
Congresso europeo, Garibaldi fu richiamato da Caprera per capitanarli.

Ed egli venne, traendosi seco i suoi più fidi commilitoni; e senza
pretese, giova rammentarlo, senza riserve, senza condizioni di sorta,
proprio come un vecchio ufficiale richiamato in attività di servizio si
prese il posto che gli era assegnato, e si pose all’opera.

A lui tuttavia non fu lasciata nell’organizzazione grande balía;
non lo si credeva molto idoneo a quell’ufficio, si voleva che il
corpo ritraesse quanto più fosse possibile dell’ordinamento militare
piemontese, e parve conveniente che un Generale dell’esercito sardo
ne togliesse l’assunto. Però la scelta cadde su Enrico Cialdini,
che appunto tra i Generali di quell’esercito aveva caldeggiata più
d’ogni altro quella istituzione de’ Volontari, e per la mente larga
e spregiudicata, le origini rivoluzionarie, i vincoli d’amicizia con
parecchi tra i più eminenti uomini del partito d’azione, era additato a
maneggiare meglio di chicchessia quell’aspra e diversa materia e darle
la forma conveniente.

Nel primo pensiero i Volontari italiani dovevano chiamarsi, dal
fiume che bagna Cuneo, luogo del loro primo deposito, _Cacciatori
della Stura_; in appresso, pensando al teatro della loro probabile
azione, furono battezzati col fiero nome di _Cacciatori delle Alpi_.
Dovevano essere tre reggimenti; ma poichè non contarono mai più di due
battaglioni, restarono infatti mezzi reggimenti, forti tutt’al più
di mille cento uomini ciascuno. Ordinamento, disciplina, istruzione
rigorosamente piemontesi, quindi buone; i quadri scelti dagli avanzi di
Venezia, di Roma e del Tirolo, frammisti a pochi ufficiali licenziati
dall’esercito sardo, quindi eccellenti. Nello Stato Maggiore il
maggiore Carrano, dei difensori di Venezia; il capitano Corte, della
Legione anglo-italiana; il capitano Cenni, dei difensori di Roma. Al
comando del primo Reggimento, il tenente colonnello Enrico Cosenz,
allievo della Scuola d’artiglieria di Napoli, emulo di Rossarol a
Malghera; a quello del secondo, il tenente colonnello Giacomo Medici,
l’eroe del Vascello; a quello del terzo, il colonnello Arduino,
veterano del 21, soldato valoroso in Ispagna, comandante un reggimento
della brigata Fanti nel 49. Sotto di loro poi, a capi di battaglione,
Sacchi, Marocchetti, Bixio, Quintini; e ufficiali nelle compagnie,
Bronzetti, De Cristoforis, Ferrari, Gorini, Alfieri, Susini Millelire,
Chiassi, Cairoli, Migliavacca, Cadolini, Landi, Airoldi, Fanti, tutti
nomi noti, o che lo diverranno tra poco. Finalmente, disseminato nelle
file, un vivaio di studenti, di medici, di avvocati, di poeti, di
patrizi, di patriotti; il fiore dell’intelligenza, del cuore, e del
valore italiano.

Circa alle armi poi, mediocrissime, e circa all’assisa, sgraziatissima.
Prendete un bel giovanotto dalle spalle quadre, dalle membra snelle,
dal viso intelligente, insaccatelo nel cappottone turchino e nei
pantaloni grigi del fantaccino regolare infilati entro le ghette di
cuoio; calcategli sull’orecchio un gramo berrettuccio blù colla croce
sabauda proprio di fino; cingetegli sulla schiena uno zaino a pelo, e
attorno ai fianchi un cinturone nero colla sua brava giberna; girategli
a tracolla il sacco a pane, la boraccia e la gamella di munizione;
infine buttategli sulle spalle un vecchio fucilaccio a percussione che
diverrà ben presto nelle sue mani un catenaccio irriconoscibile, e, per
chiudere, se amaste i contrasti, mettetegli negli occhi l’allegria,
nel cuore l’entusiasmo, nello stomaco l’appetito, e sulle labbra la
perpetua canzone: _Addio, mia bella, addio_; e avrete il Cacciatore
delle Alpi.

Nel rimanente, punto Artiglieria, punto Genio, punto, fino a campagna
inoltrata, Intendenza. S’aggiunga un’ambulanza sceltissima, guidata
dal dottor Bertani; una squadra di cinquanta cavalieri decorati del
nome di Guide, capitanati da Francesco Simonetti, montati la più
parte su cavalli propri; un manipolo di quaranta Carabinieri genovesi,
tanto pochi quanto valenti, armati delle loro carabine svizzere, ed
ecco rassegnata tutta quanta la così detta brigata dei Cacciatori
delle Alpi: una brigata di tremila cinquecento uomini, quando fu
completissima, e che, senza cannoni, senza materiali, senza cavalleria,
male armata, male equipaggiata, doveva rappresentare la rivoluzione
italiana e precedere i grandi eserciti alleati sui fianchi del nemico;
o per usar l’espressione del conte di Cavour, «non ostante i difetti di
istruzione e di coesione, mercè l’esperienza e l’abilità del suo capo,
rendere utili servigi all’esercito, di cui sarà un aggregato.»


IV.

La fase diplomatica era esaurita; tutte le proposte di mediazione,
di congresso, e di disarmo generale, quali frustrate dall’abilità del
conte di Cavour, quali rigettate dal superbo disdegno della Corte di
Vienna, erano fallite, e l’Austria ormai allo stremo della pazienza,
consigliata, per fortuna nostra, più dalla collera che dalla saggezza,
decise di rompere colla spada quella maglia insidiosa di trafitture
e di ingiurie che il conte di Cavour gli aveva ordito d’intorno, e di
appellarsi un’altra volta all’ultima ragione del suo vecchio e certo
formidabile esercito.

La sera del 23 aprile due Inviati austriaci presentavano al conte di
Cavour l’_Ultimatum_ del loro Governo: o disarmo immediato, o guerra
inevitabile; e la risposta non poteva essere dubbia. Annunzio di
nozze non giunge più gradito a fanciulla innamorata di quello che al
Ministro sardo quell’intimazione di guerra. Finalmente quel cartello
di sfida tanto provocato, tanto desiderato, egli lo teneva nelle mani;
finalmente la guerra era certa, la Francia vi era impegnata, l’Austria
l’intimava essa stessa e non poteva sfuggirla. Infatti, prima ancora
che il conte di Cavour consegnasse ai messaggeri austriaci la sua
risposta, Garibaldi, risposta ancora più espressiva, riceveva l’ordine
di portar la sua brigata a Brusasco sulla destra del Po; e val quanto
dire in prima linea.

E, poichè chi doveva ubbidire era anche più impaziente di chi
comandava, i due primi reggimenti de’ Cacciatori (il terzo non era
ancora giunto) presa a Savigliano la ferrovia, arrivavano la mattina
del 26 a Chivasso e nella giornata stessa a Cavagnola e Brusasco, dove
s’accantonavano.


V.

Fino a quel giorno naturalmente era dubbio quale sarebbe stato il
teatro della guerra. Il nemico concentrato sul medio e basso Ticino,
da Abbiategrasso a Pavia poteva tanto operare al mezzogiorno, quanto
al settentrione della linea del Po; tanto mirare a Torino per le valli
della Dora Baltea e della Stura, quanto mirare a Genova per la valle
della Scrivia; ed all’esercito piemontese abbandonato ne’ primi giorni
a sè stesso e costretto con cinquantamila uomini a fronteggiarne
centocinquantamila, non restava miglior partito che tenersi in
osservazione lungo tutta quella linea, guardando i passi principali
e proteggendo da un colpo di mano la Capitale. E così fece; e fu
conseguenza di questo primo appostamento de’ due eserciti avversari
che la brigata dei Cacciatori delle Alpi fosse chiamata a Brusasco.
Suo mandato era guardare il Po da Brusasco a Gabbiano, difendere la
strada militare Casale-Torino, e chiudere gli intervalli vacanti tra la
divisione Cialdini che guardava la Dora Baltea, e le batterie di Casale
che proteggevano più a mezzogiorno i passi del Po.

Però sin dal primo giorno il Comandante in capo l’esercito regio
dovette accorgersi che il Comandante dei Cacciatori delle Alpi era uomo
che conosceva il suo mestiere, e pure ubbedendo agli ordini ricevuti li
sapeva all’uopo saggiamente interpetrare. Infatti avendogli il Ministro
della guerra comandato di porre un presidio nel castello di Verrua, il
generale Garibaldi avvertì tosto, e giustamente, che se quel presidio
aveva per iscopo di guardar la strada militare da Casale a Torino,
non lo raggiungeva affatto, perchè Verrua era discosto troppo dalla
detta via per poterne sbarrare il passo. Invece esplorando coll’usata
sua solerzia il terreno datogli in custodia, aveva osservato che allo
stesso ufficio provvedevano assai meglio le alture di Brozzolo; onde
inviando la compagnia del Gorini (la prima del secondo Reggimento)
a presidiar Verrua, mandò avviso al generale Cialdini, suo capo
immediato, ch’egli andava in quel giorno stesso ad occupare Brozzolo e
vi piantava il suo Quartier generale. E della risoluzione presa n’ebbe
la miglior lode che mai potesse lusingarlo; poichè lo stesso generale
Cialdini nell’ora medesima in cui il suo Brigadiere gli annunziava
di aver fatta quella mossa, gli spediva, ignorando d’esser stato
prevenuto, l’ordine di farla.

Però la disparità delle forze era tale che nessuna postura, per quanto
felice, avrebbe salvato Torino per lo meno da un assalto, e l’esercito
sardo da una percossa più o meno forte, se l’Austriaco avesse agito con
maggior prontezza ed energia, e fosse stato governato da un concetto e
da un uomo. Tutto ciò invece, per sventura sua e per ventura nostra,
gli mancava. Il generale Giulay aveva innanzi a sè due vie: operare
per il basso Po, sbucando da Pavia e da Piacenza, e assalita la destra
piemontese prima che i soccorsi francesi l’avessero raggiunta, voltarsi
a battere questi man mano che arrivavano in linea; o varcare il Ticino
tra Magenta e Bereguardo e lasciato un corpo sufficiente a osservare
Casale, rompere col rimanente le fragili linee della Baltea e della
Stura, e marciare su Torino. Certo fra queste due vie quella che poteva
condurre ad un risultato militare sicuro e completo, era la prima; la
seconda invece non offriva che il vantaggio politico, importante per
fermo, di impadronirsi della Capitale, e s’intende che un mediocre
generale, insuperbito dalla momentanea superiorità delle sue forze,
potesse vagheggiarlo. Ma in tal caso conveniva saper eseguire;
conveniva cioè marciar rapido e manovrare energico; aver passato il
Ticino fino dal 27 mattina, minacciare e, meglio ancora, sforzare
colla metà dell’esercito i ponti del Po tra Casale e Valenza, prima che
gl’Italo-Sardi vi si fossero concentrati d’attorno, e coll’altra metà,
per Novara-Vercelli sfondate le fragili linee della Baltea e della
Stura, correre sulla Capitale per rovesciarsi poi sull’esercito sardo e
metterlo tra due fuochi.

Il generale Giulay, all’opposto, aspettò di varcare il Ticino al
29 sera; andò vagando tre giorni tra Mortara e Vercelli in cerca
d’un nemico che non c’era; non fece alcun serio tentativo nè sul
Po, nè verso la Dora; e lasciando scorrere inutilmente tre giorni
preziosissimi per lui, si pose nell’impossibilità di trar profitto
così della lontananza de’ Francesi, come della debolezza numerica
degl’Italiani, e di vincere con poche difficoltà una prima grossa
battaglia.

L’esercito sardo invece, appena conobbe le mosse del Generalissimo
austriaco, s’appigliò al solo partito saggio e logico che gli restasse;
si concentrò tutto sulla destra del Po tra Casale e San Salvatore,
fiancheggiandosi con Alessandria, e lasciò che il Generalissimo nemico
avanzasse se l’osava. E non l’osò per ventura sua; chè ormai nella
giornata del 30 giunte a Torino ed Alessandria le avanguardie francesi,
se gli Imperiali si fossero cacciati avanti, pochi di loro, assai
probabilmente, avrebbero potuto ripassare il Ticino.


VI.

Compiuto pertanto questo provvido concentramento, il comando supremo
dell’esercito sardo reputò ormai superflua la presenza della brigata
Alpi sul Po, e ordinava al generale Garibaldi che levasse pel dì
seguente, 1º maggio, il campo, e per Chivasso, Ivrea, Biella spiccasse
la marcia verso il Lago Maggiore, campo assegnatogli fin dall’aprire
della campagna. E Garibaldi s’apprestava ad ubbidire; quando un
secondo ordine del generale Cialdini, scritto nella notte stessa dal
30 aprile al 1º maggio, veniva a revocare il primo, ingiungendogli
di trasportare nel giorno stesso la sua brigata a Ponte Stura; mentre
egli, il Cialdini, si sarebbe messo in marcia da Chivasso alla volta di
Casale. Nè il cambiamento d’ordine era privo di ragione. Gli Austriaci
si fortificavano a Vercelli, stormeggiavano intorno alla sinistra del
Po, e molti indizi facevano dubitare che essi, abbandonata l’ubbía di
correre su Torino, pensassero a sforzare il passaggio del gran fiume
tra Casale e Valenza; onde nessuna forza era superflua a frustrarne
il tentativo. Ed ecco come la brigata dei Cacciatori delle Alpi sostò
ancora diciassette giorni sulle rive del Po, e potè prendere parte
non piccola e non infeconda a tutta quella serie d’operazioni che la
sinistra dell’esercito sardo, ora per contrastare il passaggio del Po,
ora per tentare quello della Sesia, fece dal 1º al 18 maggio tra Casale
e Vercelli.

E poichè questa parte fu circostanziatamente descritta dal capo dello
Stato Maggiore dello stesso Garibaldi, noi vi sorvoleremo, bastandoci
di registrarne compendiosamente per sola memoria le azioni principali
e le date. Il 4 maggio i Cacciatori delle Alpi stanno a custodia
di Ponte Stura; il 5, richiamati da una lettera del Cialdini,[186]
marciano sotto un diluvio a Casale. Il 6, ordinata una sortita generale
da Casale per riconoscere il nemico, e incettare vena e paglia,
Garibaldi ha il comando della sinistra e alla testa di undici compagnie
di Cacciatori, di un battaglione del diciassettesimo di linea, di
una sezione d’artiglieria, si spinge sino a Bolzola e Rive; l’8 gli
Austriaci vengono essi in ricognizione fino alla testa di Ponte di
Casale, e i Cacciatori delle Alpi, specialmente la terza compagnia del
capitano De Cristoforis gareggia di valore coi Bersaglieri e ributta
alla baionetta il nemico. Nel giorno stesso Garibaldi parte per il
Quartiere generale principale di San Salvatore, e ne riporta questa
lettera autografa del Re, della quale, a dir vero, era più facile e
doveroso ammirare le intenzioni che eseguire le prescrizioni:

                                     «San Salvatore, 8 maggio 1859.

  »Il signor generale Garibaldi partirà nella doppia mèta di cercare
  d’impedire al nemico di marciare sopra Torino, e di recarsi
  a Biella per Ivrea, onde agire sulla destra austriaca al Lago
  Maggiore nel modo che meglio crederà. — Io ordino pertanto a
  tutte le Autorità civili e militari, a tutte le Amministrazioni
  comunali di prestare ogni sorta di facilitazioni al predetto signor
  generale Garibaldi, onde egli possa fare sussistere la sua truppa e
  ripararla dalle intemperie. — Il generale Garibaldi è autorizzato
  a riunire sotto li suoi ordini tutti i volontari che già siano
  riuniti a Savigliano, Acqui ed altrove, come ad arruolare volontari
  ovunque si presenteranno a lui, sempre quando egli creda poterli
  accettare.[187]»


VII.

Come ognuno vede, la balía data al generale Garibaldi non poteva essere
più ampia; ma i mezzi? Comunque, ubbidiente agli ordini sovrani, il
Generale contromarcia immediatamente per Brozzolo, dove giunge la sera
del 9; dirige su Gattinara tutte le reclute, i malati e magazzini
rimasti a Savigliano; invita il colonnello Boldone, comandante i
_Cacciatori degli Appennini_ organizzati ad Acqui, di marciare subito
per Chivasso; il che però non ottiene, avendo il Ministro della guerra
cassato ad arbitrio suo l’ordine del Re, e vietato a quel reggimento di
muoversi fino a che non fosse in tutto punto per uscire alla campagna.
Quali le conseguenze di questo contr’ordine, avremo a discorrere tra
poco; intanto il nostro Generale, prescritto alla brigata di proseguire
per Chivasso, parte al mattino del 10 per Torino, dove il Cavour
l’aveva richiamato; ne riparte la sera stessa pel suo campo; ma a
Chivasso vi è raggiunto da un nuovo ordine di pugno del Cavour stesso
in cui era invitato ad avviare la sua colonna verso San Germano ed a
mettersi a disposizione del generale Sonnaz per le operazioni dirette a
scacciare i Tedeschi da Vercelli. La lettera poi soggiungeva: «Liberata
quella città, potrà proseguire a seconda delle istruzioni ricevute da
Sua Maestà.»

E naturalmente Garibaldi ubbidisce sollecito; e la brigata portata
per la ferrovia da Chivasso a San Germano, vi arrivò nella giornata
del 12 e si pose senz’altro agli ordini del vecchio Sonnaz. Il 13 la
brigata udì il grato annunzio che avrebbe partecipato in prima linea
all’attacco di Vercelli, combinato tra il generale Sonnaz che doveva
assalire dalla sinistra, e il generale Cialdini che doveva irrompere
dalla destra; e già i nostri Cacciatori erano in posizione, impazienti
di combattere, quando un’ordinanza del generale Cialdini venne ad
avvisare essere sospeso per quel giorno l’attacco, avendo il nemico
preso una posizione di fianco sulla Sesia, pericolosa per l’assalitore.
Allora il generale Sonnaz si contentò d’una ricognizione, nella quale
stimò degno di lode il contegno de’ Cacciatori, e nel pomeriggio
rimandò tutte le truppe ai loro accampamenti intorno a San Germano.
E là, battuta giorno e notte da una pioggia sottile e ostinata,
sprofondata fino al ginocchio nelle risaie, il capo sotto una doccia,
il corpo dentro un bagno perpetuo, la brigata bivaccò ancora quattro
giorni, occupata in esplorazioni e in tasteggiamenti; finchè, ormai
entrato in linea da Novi ad Alessandria tutto l’esercito francese e
dileguato il timore d’un colpo di mano su Torino e sul Po, Garibaldi
ricevette l’ordine, e quella volta fu l’ultima, di muovere per Biella
alla divisata sua incursione in Lombardia; e infatti nel mattino del 18
potè incominciare la marcia.


VIII.

Prima di seguirlo però, ci sia lecito un’osservazione. In quei
venti giorni Garibaldi non aveva operato nulla di meraviglioso e di
straordinario; ma tutto quello che gli era stato comandato l’aveva
eseguito esattamente e puntualmente. Certo egli divide questo merito
co’ suoi tre principali luogotenenti, il Medici, il Cosenz, l’Arduino,
e questi con tutti i Cacciatori delle Alpi, i quali, nuovi quasi tutti
alle armi, avvezzi la maggior parte agli agi ed alle delicatezze della
vita, sopportarono le fatiche e le privazioni di quello scorcio di
campagna colla disciplinatezza, la costanza e la imperturbabilità
di veterani. Però nemmeno essi avrebbero potuto in così breve tempo
meritar questo giudizio, se il loro Generale non avesse saputo trar
partito così delle loro eccellenti qualità, come de’ loro inevitabili
difetti. Quel che Garibaldi fece in que’ giorni per istruire,
disciplinare, agguerrire i suoi volontari, potrebbe essere materia di
non poche pagine. Oggi con un ordine del giorno o una parlata, domani
con un esperimento o una manovra in piazza d’armi; il tal giorno
addestrandoli ad aspettare il nemico a brucia pelo, il tal altro a
battere in ritirata ultimi e ordinati; e dando sempre egli stesso
l’esempio dell’attività, dell’ordine e della disciplina, era riuscito
ad ottenere in quei pochi giorni di pratico tirocinio più che altri con
mesi di caserma e di piazza d’armi.

E questo dell’ordinatore: come capitano poi, nessuna delle posizioni da
lui prese ebbe bisogno d’esser corretta da’ suoi superiori; talvolta,
come a Verrua, corresse egli stesso le sviste altrui; e se il 13 maggio
fosse stato ascoltato, assai probabilmente Vercelli sarebbe tornato nel
giorno stesso in potere degl’Italiani.

Sottoposto per tre settimane al comando di capi diversi, abballottato
sovente tra ordini contradittori, li seppe conciliare e ubbidire tutti.
Quanti l’accostavano ne sentivano il fáscino. Come le popolazioni,
in mezzo alle quali passava, non rifinivano dal magnificare la sua
cortesia, la sua affabilità, il suo delicato rispetto alle cose ed
alle persone; così i suoi superiori restarono ammirati della sua
arrendevolezza, della sua sottomissione e della sua disciplina. Il
Cialdini, il De Sonnaz, il Cavour, il Re erano subitamente diventati
suoi amici. Infatti avrebbe potuto dolersi di tante cose, e nol fece.
Aveva bisogno di un Commissario di guerra, e non gli fu dato che tardi;
domandò replicatamente il materiale d’ambulanza, e non potè ottenerlo;
chiese due pezzi da montagna, e gli furono negati; pregò per i brevetti
de’ suoi ufficiali, e non li ebbe mai; il Re gli concesse i Cacciatori
degli Appennini, e il Ministero glieli portò via; era mandato a impresa
rischiosissima, e se ne vedeva lesinati con mano avara i mezzi; pure
non un lamento dalla sua bocca, non una difficoltà dal suo Quartier
generale, mai un segno di dispetto e d’indisciplinatezza.

E dicasi pure che la disciplina e la subordinazione sono i doveri
elementari d’ogni buon soldato; non è una lode che chiediamo per lui,
amiamo soltanto chiarire un fatto e assodarlo.

Passato repentinamente dalle più sciolte abitudini della milizia
irregolare alle rigide norme della regolare, egli si spogliò di quelle
e s’investì di queste senza dar segno di sforzo o di disagio veruno.
Il Garibaldi d’America e di Roma s’era nel 1859 totalmente trasformato.
Il _gaucho_ era divenuto per amor di patria una _vecchia giberna_; per
osservanza al Regolamento s’era persino fatto radere la barba, e se ne
eccettui la sella americana buttata sul suo cavallo, e nelle marcie
il fazzoletto rosso svolazzante sulle sue spalle, nessuno avrebbe
riconosciuto sotto la tunica gallonata del generale piemontese l’antico
partigiano di Montevideo.


IX.

Il 18 sera i Cacciatori delle Alpi entrarono in Biella, e collocati
gli avamposti nelle due strade di Vercelli e di Gattinara, attesero
alacremente a riordinarsi e rifornirsi dell’occorrente per il più lungo
viaggio che dovevano intraprendere. Il Carrano nota che fu quella la
prima città in cui Garibaldi fu popolarmente acclamato. «Il Vescovo,
che per molti anni aveva fatto il missionario in Oriente e del vivere
orientale si chiariva non leggiero gustatore,» volle ospitarlo e mancò
poco che il Generale non attraesse il buon Prelato e il Vicario e il
Segretario di lui a prendere un moschetto per l’indipendenza d’Italia.

Il pensiero però di Garibaldi era di rendere, quanto più lo fosse
possibile, leggiera e spedita la brigata, liberandola da tutti
gl’impedimenti soverchi, o da quelli che a lui parevano tali. Ordinò
quindi (se provvidamente è disputabile) che tutti i Cacciatori
deponessero in appositi magazzini il loro zaino, e che a sostituirlo
fosse cucita nel cappotto una gran tasca, nella quale i militi
avrebbero potuto riporre gli oggetti più necessari. E non appena
finita quell’operazione, Garibaldi, raccolti i varii posti sparsi nei
dintorni, comandò che per il mezzogiorno del 20 la brigata si mettesse
in marcia colla destra in testa per la volta di Gattinara, prima
stazione sulla strada del Lago Maggiore e della Lombardia.

Quantunque sino dal giorno antecedente gli Austriaci avessero già
sgombrato Vercelli e ripassato la Sesia, e tutto il loro sforzo ormai
si volgesse alla destra, tenuta dall’esercito francese, tuttavia una
marcia di fianco con un grosso nemico a una tappa di distanza non era
certamente scevra di pericoli. Occorreva per cansarli diligenza somma,
tanto più che la colonna s’era, in quel continuo andirivieni, di molto
assottigliata e non aveva cavalleria sufficiente per spazzar il terreno
d’attorno e guardarsi il lungo fianco.

Tuttavia le guide del Simonetta si centuplicavano, e, lanciate innanzi
a grande distanza, frugavano, spiavano, riferivano al Generale tutte
le voci, rendevano quasi impossibile la sorpresa. Così la brigata
giunse senza guai a Romagnano; vi passò, sopra un ponte di travi fatto
preparare dal Simonetta medesimo, la Sesia, e nel declinare del giorno
stesso entrò in Borgomanero. Quivi sostò ventiquattr’ore; e il Generale
provvide tosto perchè fossero adoperate a ripulire le armi, a risarcire
le cartuccie, ad alleggerire i bagagli, dandone l’esempio egli stesso
col farsi un leggerissimo fardello di biancheria, che involse in un
pezzo di tela cerata. La suprema cura di quel giorno però era preparare
l’entrata in Lombardia. Garibaldi non aveva esitato un istante a
scegliere per punto di passaggio quel tratto di terreno chiuso tra
Arona e Castelletto, dove il Ticino esce dal Lago Maggiore, e fassi
fiume giù per le aride brughiere. Più basso sarebbe incappato nella
estrema destra del grande esercito austriaco; più alto avrebbe dovuto
avventurarsi al tragitto del lago padroneggiato dai piroscafi nemici,
per grossa imprevidenza del nostro Ministero della guerra abbandonato
alla loro balía.


X.

Però, come sempre, la difficoltà cominciava dall’esecuzione. Fortuna
volle che fra i Cacciatori ci fosse Francesco Simonetta. Pratico de’
luoghi, possessore di case e di poderi così sul Lago che sul Ticino,
autorevole e quasi popolare in quelle rive, lungo le quali ad ogni
passo contava amici e conoscenti, ardito, accorto, intraprendente, egli
era l’uomo di quell’impresa. Però l’unico merito che nel passaggio
del Ticino spetti a Garibaldi è d’aver scelto ad apparecchiarlo il
Simonetta. Questi pertanto nella giornata stessa del 21, travestitosi
da borghese, lascia celatamente Borgomanero, scende fino alla sua casa
di Varallo lungo il Ticino, risale il lago fino ad Intra a esplorare
il terreno e scandagliare gli animi; ma accertatosi sempre più che
il tragitto del lago è impossibile, ritorna a Varallo e chiamatovi
a convegno il suo amico di Sesto-Calende, Viganotti, concerta con
lui (poichè la difficoltà somma stava nella mancanza di barche,
confiscate quasi tutte dagli Austriaci) che per la notte dal 22 al
23 si sarebbero trovati a Castelletto, presso la riva del giardino
Visconti, quanti barconi gli fosse dato radunare; e tutto ciò ben
prestabilito e concordato, torna a raggiungere Garibaldi a Borgomanero
e a ragguagliarlo dell’opera.

Garibaldi non perdette un’ora, e tra le due e le tre pomeridiane del
22, sotto pioggia dirotta, ormai compagna inseparabile de’ nostri
Cacciatori, s’avviò coll’intera brigata ad Arona. Lungo la via fece
spesseggiare le pattuglie e raddoppiare le cautele; presso Oleggio nel
timore che il _Radetzky_, vapore austriaco, potesse dal lago scoprir la
colonna marciante, la fece arrestare fino al calar della sera, e quando
le prime tenebre cominciavano a scendere ripigliò la discesa verso
Arona.

Nessuna marcia, fin allora, era mai stata sì celere e ordinata. Il
pensiero che tra poche ore avrebbero calcato il suolo di Lombardia, che
per molti di loro era lo stesso suolo natío, dava le ali ai Cacciatori
e trasfondeva nel sangue dei più fiacchi una lena novella. La canzone
prediletta dei coscritti:

    Addio, mia bella, addio,
    L’armata se ne va;

echeggiava con squilli insoliti d’allegria e di passione da un capo
all’altro della colonna, e l’ultima strofa:

    Andremo in Lombardia
    Incontro all’oppressor,

pareva uscir dalle gole tra mezzo a compressi singhiozzi di gioia! Pure
man mano che la colonna s’avvicinava al lago i canti volontariamente
smorivano, la gioia, come risospinta dalla paura di tradirsi, rientrava
ne’ cuori, i piedi parevano fatti di feltro, e ognuno si studiava di
smorzare il passo quasi gli Austriaci fossero appiattati ne’ dintorni e
dovessero sentirli.

Dal canto suo il Generale non aveva tralasciato di usare il vecchio, ma
sempre efficace strattagemma. Molte ore prima l’infaticabile Simonetta
era partito per Arona coll’ordine di requisirvi, tanto colà che a
Meina, viveri e alloggi e foraggi per tremilacinquecento Cacciatori
e cencinquanta cavalli; e poco dopo Garibaldi stesso smontava alla
stazione d’Arona come uomo che si prepari ad entrarvi. Così tutto
poteva far credere che i Cacciatori avrebbero pernottato ad Arona; e
però che lo scopo loro fosse di sconfinare per il lago.

A notte calata invece la brigata ripiglia la marcia; giunta alle
prime case d’Arona, fa un rapido mezzo giro a destra e infila, sempre
più serrata e silenziosa, la strada di Castelletto; ma intanto che
il primo e il terzo Reggimento, comandati dal Cosenz, sostano fuori
del paese a guardia de’ fianchi e delle spalle, il secondo si trafora
nelle tenebre, come un gran serpe nero, nel parco Visconti, e trovati
alla riva i barconi del bravo Viganotti, compagnia per compagnia,
in profondo silenzio e in ordine mirabile, vi s’imbarca, afferra
l’opposta riva, l’occupa militarmente; mentre la terza compagnia
del De Cristoforis, scelta d’avanguardia, si spinge franca dentro
Sesto-Calende, immersa nel sonno e impreparata alla sorpresa, e coglie
nel loro letto Commissario, Intendente, doganieri, gendarmi, croati,
tutta la tedescheria imperiale e regia colà annidata.


XI.

La mattina del 23 maggio la situazione degli eserciti belligeranti era
questa: gli alleati ancora di là dalla Sesia e dal Po, tra Vercelli e
Voghera; gli Austriaci in faccia a loro, padroni tuttavia delle due
rive della Sesia e del Ticino, e può ben aggiungersi, come vedemmo,
di tutto il Lago Maggiore, che gl’Italiani per inconsulta noncuranza
avevano loro abbandonato.

In questo stato di cose Garibaldi poteva dirsi come campato in aria,
e i suoi Cacciatori considerarsi come una scorribanda perduta nel
cuore del campo nemico. Divelto da ogni base d’operazione, tronca,
in caso di rovescio, ogni via di ritirata, tolta ogni speranza di
aiuto, al nostro Condottiero si parava dinanzi il dilemma: o vincere
subito e ad ogni costo, o andar disperso pe’ monti per rifugiarsi
quando che sia in Isvizzera. E a ragion militare veduta, ognuno
converrà che de’ due eventi il men probabile non era certo il secondo.
L’Austria signoreggiava sempre la Lombardia con circa dodicimila
uomini; poteva ricevere e riceveva di fatto soccorsi dal centro
dell’Impero; occupava con un forte presidio Milano; allacciava i suoi
distaccamenti e sorvegliava le sue comunicazioni con frequenti colonne
mobili che potevano all’uopo correre sui punti minacciati, e opporre
al Condottiero italiano una forza sempre maggiore della sua. A lui
invece unici ausiliari la perizia e l’audacia; unico punto d’appoggio
la speranza d’una rivoluzione incerta tuttora e problematica, e
sulla quale tanto egli quanto il Cavour facevano un assegnamento
sproporzionato alla probabilità. Pure se anco fosse stato dell’indole
sua l’indietreggiare, non era più in suo potere. Fermato pertanto
rapidamente il suo disegno, scartata, senza nemmeno discuterla, l’idea
di marciare per la pianura su Milano, fisso l’occhio sull’antico suo
scacchiere del 1848 tra il Verbano e il Lario e mirando al centro di
essi, delibera nel giorno stesso la marcia su Varese.


XII.

Intanto però la nuova del suo sbarco era volata; egli stesso, con un
fiero proclama, scritto di sua mano, ma diresti inciso colla sua spada,
l’aveva annunziato,[188] e non v’era umile terra de’ dintorni che vi
restasse insensibile. Da Laveno, Gallarate, Besozzo, Ispra, Varese,
quali spontanei, quali inviati da’ lor Comuni e da’ lor Comitati
patriottici, accorrevano festanti, imbandierati, tricolorati, i più
fervidi patriotti de’ luoghi, impazienti di accertarsi del fatto,
di mirar da vicino il famoso, di invocare una parola d’ordine, di
offrirgli l’opera loro per la lotta imminente. E a tutti l’eroe, con
quella voce, que’ gesti, quei sorrisi che direste un’arte sopraffina,
se non fossero natura, distribuiva parole d’incitamento e di conforto.

All’Inviato di Varese principalmente, che a nome del suo generoso
Podestà gli chiedeva istruzioni pel contegno da tenersi,[189]
rispondeva di suo pugno: «Qualunque cosa facciate contro il nemico
comune in pro della santa causa italiana, sarà da me approvata e vi
sosterrò validamente.» Parole che nella loro apparente indeterminatezza
servivano, per quell’ora, meglio di qualsivoglia istruzione,
e denotavano come a quell’uomo fosse famigliare la legge delle
rivoluzioni, le quali per riuscire non vogliono mai essere intimate a
un’ora fissa e dietro un disegno prestabilito, ma lasciate alla loro
spontaneità, ai loro impeti, alle loro forze, e come direste della
poesia, alla loro ispirazione.

E ciò fatto, s’apparecchiò alla partenza. La marcia da Sesto-Calende
a Varese non poteva essere attraversata di fronte; bensì essere
pericolosamente molestata alla coda ed al fianco o dal presidio di
Laveno, se pensava ad una sortita, o da quel qualsiasi corpo che
fosse già avviato da Milano su Gallarate e che poteva da un istante
all’altro comparire. Oltre di che, prima di inoltrarsi nel paese
importava afferrare sul Lago Maggiore un punto di sostegno qual si
fosse, e impadronirsi di uno almeno de’ tre piroscafi che il nemico vi
teneva. Guidato pertanto da questi varii concetti, il Generale ordinò
il suo movimento così: il Bixio con un battaglione del terzo Reggimento
marci per la strada lacuale di Sesto-Calende; toccato Angera, stacchi
una compagnia che tenti predarvi il _Ticino_, ivi ancorato: giunto ad
Ispra, sosti e si informi esattamente del presidio di Laveno e di tutte
le altre forze austriache del lago; ciò fatto, converga su Brebbia e
si spinga fino a Sant’Andrea, borgo che cavalca la via Laveno-Varese,
e vi s’accampi gagliardamente. A Sesto poi resti la compagnia del
capitano De Cristoforis; coll’istruzione di sorvegliare il passo del
Ticino, d’acchiappare, se gli si porgesse il destro, qualcuno dei
vapori nemici, e soprattutto di guardare la strada Sesto-Gallarate,
attirandovi e trattenendovi il nemico; ma battendo in ritirata su
Varese, se assalito da forze superiori.

Con queste cautele e questi accorgimenti, di cui ogni occhio appena
militare scorgerà la saviezza,[190] Garibaldi conseguiva, o almeno vi
mirava, tutti i molteplici scopi ai quali gli conveniva tener fissa
la mira: guardarsi alle spalle e ai fianchi, sviare il nemico da’ suoi
passi, e forse, se il colpo sul _Ticino_ riusciva, aprirsi il transito
del Lago Maggiore e principiare a possedere una flottiglia.

Tutto ciò esattamente prestabilito, spinta un’altra pattuglia a
Gallarate, così per esplorare il terreno, come per mascherare una
volta di più la sua mossa; verso le 5 di sera stacca la marcia, e per
le vie traverse di Corgegno, Varano, Bodio, Capolago, camminando entro
una tenebra fitta, egli attento a tutti i bivii e sollecito a tutti
i rumori, la truppa stanca, ma elettrizzata dal contatto di quella
terra tanto agognata, s’accosta a Varese, dove in sul far delle 11,
incontrato da musiche e da fiaccole, accolto da una calca di popolo in
delirio, entra in trionfo.

Chi vide Varese in quella notte non lo dimenticherà più. Di tutte le
terre di quell’angolo di Lombardia, Varese fu, in ogni tempo, delle
più patriottiche, e il pensiero d’essere la prima nel 1859 a sventolar
nuovamente quella bandiera, che era stata l’ultima a ripiegare nel
1848, infiammava la sua fede e il suo entusiasmo. Già vedemmo come
i Varesini fossero dei primi a muovere incontro allo sbarcato di
Sesto-Calende; ma ora, udito il suo fiero appello, rompono gl’indugi,
abbattono gli stemmi stranieri, sostengono i gendarmi e i magistrati
sospetti, diseppelliscono dai nascondigli i vecchi tricolori, gridano
il governo liberatore di Vittorio Emanuele, s’apprestano a dare al suo
Capitano non solo feste ed omaggi, ma braccia e soldati. E non bastò.
Sentito in sulla sera del 23 che una colonna austriaca mossa da Como
era pervenuta ad Olgiate, e dubitando d’una sorpresa notturna, Varese
non si smarrisce, non nasconde, giusta il costume degli eroi ormai
famigerati della sesta giornata, le bandiere e le coccarde; ma arma
tutti i pochi giovani che le restano in paese colle armi già acquistate
nella vicina Svizzera, asserraglia le sue vie, dirama pattuglie ed
avamposti e s’appresta a resistere al nemico, onde arrestarne, almeno
per quella notte, la marcia. Così Garibaldi entrava in città totalmente
italiana e deliberatamente sollevata.


XIII.

Avviatosi difilato al Municipio, come uomo che sa a memoria la strada,
vi incontra e vi abbraccia il Podestà; loda, infiamma, affascina come
al solito quanti l’ascoltano, e prima di ritirarsi pronuncia queste
testuali parole ch’egli invecchiando dimenticò, come tante altre, ma
che la storia non può dimenticare: «Qualunque bene diciate di Vittorio
Emanuele, non sarà mai troppo. Voi sapete che _io non sono realista_:
ma dopo che avvicinai Vittorio Emanuele, dovetti riconoscerlo per un
gran galantuomo. Egli non solo ha per l’Italia un amore immenso, ma un
culto, un’idolatria.[191]»

Ma quello che più importava era provvedere alla difesa. L’Austriaco,
scossa la prima sorpresa, serrava da ogni banda. Non appena conosciuta
l’invasione garibaldina, il generale Giulay dal suo quartiere di
Garlasco bandiva, quasi risposta a quello del generale Garibaldi,
un suo proclama feroce, nel quale, dopo aver annunziato prossimo
l’arrivo di imponenti soccorsi dagli Stati ereditarii del suo
Sovrano, soggiungeva, con accento meritevole di troppa fede: «Do
la mia parola che i luoghi, i quali facessero causa comune colla
rivoluzione, impedissero il passaggio ai rinforzi della mia armata,
distruggessero le comunicazioni, i ponti, ec., verrebbero puniti col
fuoco e colla spada. Emetto in questo senso le opportune istruzioni
ai miei sottocomandanti. Spero che non mi si obbligherà a ricorrere a
tali mezzi estremi, e che alle conseguenze della guerra, senz’altro
disastrose per il paese, non si vorranno aggiungere anche i terrori
della guerra civile.[192]»

Nè eran parole soltanto. Il giorno stesso si spiccava dal
grand’esercito una colonna che a marcia forzata accorreva sul nuovo
teatro di guerra; mentre da Milano il Governatore, generale Melezes
di Kellermes, spediva su Gallarate e Somma un altro corpo di circa
quattrocento fanti, due pezzi e uno squadrone; e fu quello per
l’appunto che il 25 mattina andò ad attaccare in Sesto-Calende il
capitano De Cristoforis, e che questi, con strattagemmi degni d’una
pagina di Vegezio, seppe illudere e deludere così bene, da tenerlo
in iscacco per più d’un’ora con forze quattro volte inferiori, e
sgusciargli di sotto gli occhi a mezzo tiro di moschetto, lasciandolo
solo a cannoneggiare le povere case di Sesto, dove fin dal mattino non
c’era più l’ombra di un garibaldino.

Ma se la colonna di Gallarate non si chiarì molto temibile, non
si sapeva ancora che pensare di quella che era venuta a formarsi,
frammista di varii corpi, attorno al nucleo della colonna partita
da Oleggio, e di cui i Varesini avevan visto spuntar ad Olgiate
l’antiguardo sino dalla sera del 23. Si componeva di circa
quattromila[193] uomini con due mezze batterie e due squadroni; la
comandava quel tenente maresciallo Urban, croato d’origine, salito in
voce di esperto partigiano nella campagna di Transilvania del 1849;
in Italia famigerato soltanto come luogotenente di Haynau e assassino
dell’innocente famiglia Cignoli di Casteggio.


XIV.

Varese giace come in una conca di colline, quali popolate da
splendide ville e da ameni giardini, quali vestite ancora di macchie
e di boscaglie, che formano al tempo stesso la sua delizia e il suo
baluardo. E tramezzo a siffatte colline nella direzione dei quattro
punti cardinali corrono cinque strade principali: a oriente quella
che dalle falde di Biumo conduce, per Malnate, a Olgiate e Como; a
mezzodì quella che, lambendo le pendici di San Pedrino e di Giubiano,
va per Gallarate e Tradate a Milano; a occidente quella che traverso i
poggi di Masnago e Comerio mena per Gavirate a Laveno; a settentrione,
infine, le due strade di Induno e di Sant’Ambrogio, che spaccando
le prealpi di Valcuvia e di Valgana portano al Lago Maggiore ed
alla Svizzera. Se non che a chi riconsideri questa topografia, due
cose sono notabili: la prima, che la strada di Induno o di Valgana
si allaccia, presso Biumo Inferiore, alla strada di Como, in guisa
da formar con essa un angolo retto; la seconda, che il poggio di
Biumo Superiore s’incunea a dir così nel quadrivio testè descritto,
Varese-Sant’Ambrogio-Induno-Como, e colla forte postura ne tiene la
chiave e lo domina.

Ciò posto, e per quanto fosse manifesto che l’attacco principale
sarebbe venuto dalla via di Como, non era da trascurarsi il supposto,
assai probabile, che l’Urban l’avrebbe compíto con un movimento
aggirante per la via di Induno; nè molto meno a rigettare come
improbabile il caso che i corpi lasciati a Gallarate dal De Cristoforis
e il presidio di Laveno si movessero a rincalzare di costa e alle
spalle l’assalto principale, tentando di mettere i Garibaldini fra tre
fuochi.

Importava dunque guardarsi da tutti i lati, e guardarsi in modo da
poter all’evenienza far fronte da ogni parte, senza assottigliare di
troppo la propria linea e disseminare le forze. Si sottintende che
Garibaldi non titubò. Immaginate due linee di difesa, una esterna
lungo l’arco Biumo-Giubiano-San Pedrino, e l’altra interna rasente gli
sbocchi delle principali vie di Varese, occupa coi Carabinieri genovesi
e un battaglione del terzo Reggimento la Villa Ponti, centro di Biumo
Superiore, e vi pianta il suo Quartier generale; mette a guardia di
Biumo Inferiore un battaglione del secondo Reggimento, ed erigendo due
barricate (una appoggiata alla Villa Litta Modignani a custodia della
strada d’Induno, l’altra tra la chiesetta di San Cristoforo e la casa
Merini a sbarrare la via di Como) assicura con queste disposizioni la
sua sinistra. Indi apposta un battaglione del primo mezzo Reggimento
in faccia a Giubiano, e intorno alle alture circostanti di Boscaccio
e vi appoggia il suo centro; colloca tra la Villa Pero e la Villa
Decristoforis a San Pedrino il rimanente del primo Reggimento sotto il
comando del Cosenz, e fatta asserragliare anche quella strada afforza
la sua destra dal lato di Milano; richiama il Bixio da Sant’Andrea,
giustamente pensando che il nemico meno temibile stava da quella
banda, ma non tralascia di far battere da frequenti pattuglie a grande
distanza la strada di Laveno; munisce di barricate coll’opera de’
cittadini tutti gli sbocchi di Varese e provvede così alla seconda
linea; infine, prescritte come eventuali linee di ritirata le strade
di Induno e Sant’Ambrogio, tutto visitato co’ suoi occhi, a tutti
comunicando la sua intrepidezza e la sua fede, attende di piè fermo il
nemico.


XV.

Ed egli non si fece aspettare lungamente. Già fin dalla sera del 25 gli
esploratori l’avevano segnalato a Olgiate; un breviloquente manifesto
del Commissario regio Emilio Visconti Venosta: «Varesini, voi foste i
primi a salutare la bandiera tricolore in Lombardia, voi sarete i primi
a difenderla,» n’aveva propagata la certezza. I Varesini erano pronti,
i Cacciatori impazienti; e al mattino seguente, sullo scoccar delle
otto, il nemico apparve innanzi a Belforte e il combattimento cominciò.
Del fatto d’arme di Varese (sarebbe ridevole iperbole chiamarlo
_battaglia_) discorse lungamente il capo di Stato Maggiore dello stesso
generale Garibaldi;[194] e noi, più desiderosi di raccoglierne gli
insegnamenti che vaghi di pennelleggiarne gli aneddoti, ne ridiremo
succintamente.

Dei quattromila uomini circa che il generale Urban traeva seco,
una parte, forse un battaglione, l’aveva lasciata in riserva a San
Salvatore, forte posizione tra Binago e Malnate; un altro battaglione
di Granatieri comandati dal tenente colonnello Bioll l’avea inviato
per Casanuova e Cazzone ad eseguire quel movimento aggirante sulla
strada d’Induno che il generale Garibaldi aveva preveduto; e cogli
altri, duemilacinquecento fanti circa, la cavalleria e quattro pezzi
veniva ad assalire direttamente Varese. Facilmente impadronitosi del
poggetto di Belforte, annunziò con alcuni razzi il suo attacco; e mosse
simultaneamente contro la sinistra e contro il centro garibaldino. Ma
nessuno balenò; i Cacciatori attesero, come Garibaldi aveva prescritto,
a mezzo tiro de’ loro grami moschetti l’assalitore e con pochi colpi
bene assestati l’arrestarono di botto. Tornò egli tuttavia colla
medesima tattica ad un secondo e più gagliardo assalto; due movimenti
risoluti e aggiustati, comandati a tempo dai colonnelli Medici e
Cosenz, lo frustrarono ancora. Infatti, non appena il nemico fu presso
alla barricata della grande strada di Como, e spuntò al centro sulle
alture di Boscaccio, il Medici con una brillante carica alla baionetta
di fronte, il Cosenz con un abile controattacco di fianco, con poche
forze, ma con grande valore, ributtarono insieme l’assalitore fin sotto
alle falde di Belforte e lo sforzarono a battere in ritirata su tutta
la linea.

«Il nemico si ritira!» esclamò Garibaldi dal belvedere di Villa Ponti,
donde aveva osservato, colla sua consueta serenità, tutte le vicende
della pugna: «Bisogna inseguirlo;» e scendendo di galoppo sulla strada,
si pone egli stesso a capo dell’inseguimento.

Il generale Urban intanto arrivava a San Salvatore, dove aveva lasciato
la sua riserva, ed ivi più nell’intento, crediamo noi, di proteggere la
sua ritirata e di aspettare novelle del corpo del tenente colonnello
Bioll, ingarbugliato tra le borre di Cazzone, che per velleità di
rinfrescare la battaglia, s’apparecchia a sua volta a sostenere
l’assalto.

Garibaldi non aveva con sè che un terzo delle sue forze: il battaglione
del Bixio mandato sulla destra, un battaglione del Cosenz sulla strada
e alcune compagnie del secondo Reggimento del Medici. Del rimanente,
parte era rimasto in riserva a Varese, e parte, condotto dal Medici
stesso, s’era avviato su verso Cazzone, dove un balenío di baionette
aveva fatto sospettare la presenza d’un corpo nemico. Tuttavia,
quantunque la postura di San Salvatore sia fortissima e serri la strada
quasi come un contrafforte, Garibaldi non esitò ad ordinarne l’attacco,
e occupato il poggetto Roera fronteggiante San Salvatore e fatto
ripiegare il Bixio che s’era troppo inoltrato, continua a barattare
col nemico un vivissimo fuoco di moschetteria, finchè sceso da Cazzone
il Medici, cui non era riuscito di raggiungere la colonna del Bioll,
certamente ritiratasi per Casanova, spinge ad una carica di baionetta
tutta la sua linea e costringe nuovamente l’Austriaco a lasciare a
precipizio anche quella seconda posizione e a non arrestarsi più che ad
Olgiate.


XVI.

Questa in compendio, così nel primo come nel suo secondo periodo, la
fazione di Varese: fazione vinta prima che combattuta, e di cui la
gagliardía delle posizioni garibaldine, i sagaci provvedimenti del
Capitano, il numero di poco disuguale, la tanto disuguale prodezza
de’ combattenti, e più d’ogni altra cosa, gli spropositi del Generale
austriaco avevano anticipatamente decisa la sorte. Per dir degli
spropositi soltanto, essi furono tanti e sì madornali, che nessuna
forza e nessuna fortuna li avrebbe potuti correggere. E non parliamo
della fiacchezza dell’assalto, della semplicità quasi puerile delle
manovre, dell’incoerenza, della lentezza dei movimenti; non dell’errore
di lasciare a San Salvatore una così forte riserva; non del più grosso
sbaglio di non far appoggiare la mossa dalla colonna di Gallarate
e dal presidio di Laveno; parliamo del fallo capitale di non avere
fatto attaccare a rovescio Biumo Superiore dalla via Induno; senza di
che nessuna forza avrebbe potuto sradicar Garibaldi da quella forte
postura.[195] Ma egli lo vide, si dice, e l’ordinò; ed a quel fine
doveva operare il battaglione di Granatieri del tenente colonnello
Bioll staccato ad Olgiate per Casanova. Peggio ancora, se dopo aver
concepita l’idea, d’altronde evidente, non seppe effettuarla. E certo
se non fu effettuata, a lui solo tutta la colpa. Infatti obbligando
il colonnello Bioll a partire da quel punto lontano, lo pose nella
quasi impossibilità di eseguire il movimento aggirante, di cui era
incaricato. E basti a dimostrarlo questo solo: che da Casanova a Induno
non v’era nel 1859 strada diretta, sì che per arrivare a quel punto
era giocoforza fare un lunghissimo giro per Olgiate, o inerpicarsi
per sentieri aspri e selvosi di montagne, traverso i quali non era
possibile che un corpo pesante (Granatieri) potesse camminare ordinato
e spedito per arrivare ad un’ora fissa, a uno scopo determinato. Però
il tenente colonnello Bioll, fatte poche miglia fuori di Cazzone,
fu costretto ad arrestarsi, ed ecco perchè l’assalto a Biumo, tanto
preveduto ed atteso dal generale Garibaldi, voluto, ma non saputo
preparare dal generale Urban, non avvenne mai; e fallito il quale,
la vittoria dell’uno e la sconfitta dell’altro furono certe ed
irrevocabili.


XVII.

Ancora più vergognosa fu la rotta toccata all’Urban sotto Como, e
davvero se era quegli il più famoso capo di partigiani che l’Austria
possedeva a que’ giorni, si può dire che il nostro non ne sarebbe
stato vinto mai. All’annunzio della vittoria di Varese l’agitazione
patriottica, che ancora non poteva dirsi insurrezione, delle
popolazioni circonvicine, s’era rinfocolata ed estesa, e i patriotti
di Como avevano immediatamente inviati oratori segreti a Garibaldi
per dirgli che la loro città lo aspettava fremendo; che molte pievi
del Lario s’eran già sollevate, ed alcune centinaia di giovani armati
avevano già occupati i vapori del lago, volontariamente passati alla
causa nazionale. E Garibaldi non penò molto a promettere che sarebbe
marciato alla volta di Como, non però col proposito d’impadronirsene
tosto, ma di occupare in faccia ad esso una buona posizione che gli
permettesse di dar la mano agl’insorti del lago e di riassalire di
conserva con loro l’Austriaco.

Date pertanto le sue disposizioni per la cura dei feriti, per la
provvigione dei viveri, per la sicurezza di Varese, all’alba del 27
col primo Reggimento in testa s’incamminò con tutta la brigata per la
via postale, più volte nominata, che per Olgiate e Cavallasca mette a
Como. Il generale Urban a sua volta, rinforzato da due nuove brigate
(Augustin e Schaffgotsche), onde la sua colonna venne a sommare a
circa diecimila uomini,[196] aveva preso una posizione difensiva fra
la strada medesima e l’altra più settentrionale che da Cavallasca
per San Fermo piomba su Como; e colla sinistra dietro il Lura tra
Brebbio e Brecchia, il centro a San Fermo, la destra al Prato di Parè
sul lago, si preparò a sostenere l’assalto. Se non che, male esperto
delle abitudini di Garibaldi, egli se l’aspettava principalmente nel
piano, alla sua sinistra; quindi rinforzato questo punto, indeboliti
malaccortamente tutti gli altri. Garibaldi invece aveva l’occhio
fisso ai monti; sicchè giunto ad Olgiate arresta la colonna, mette
in posizione tutto il primo Reggimento in aspetto di chi prepari un
assalto da quella banda, ristà e tiene a bada il nemico per alcune
ore, e allo scoccar del mezzogiorno, sempre coperto dal reggimento
Cosenz, volta repentino a sinistra per le erte viottole che salgono
a Geronico al Piano ed a Parè, e giunge a Cavallasca in faccia a San
Fermo. E quivi spiate attentamente dal campanile di Cavallasca le
posizioni nemiche, il generale Garibaldi ideò prontamente il suo piano
e ne ordinò con pari celerità l’esecuzione. Toccò la prima prova al
colonnello Medici ed al suo reggimento; la terza compagnia del De
Cristoforis sostenuta da un’altra attacchi di fronte la chiesa di San
Fermo; la quarta compagnia del Susini-Millelire l’attacchi di costa
per la sinistra; quella del Vacchieri fiancheggi per la destra; altre
compagnie condotte dal Gorini e dal Medici in persona calino sulla
strada San Fermo-Rondinello e minaccino la ritirata nemica.

Il primo cozzo fu tremendo; i Cacciatori austriaci armati delle loro
eccellenti carabine, appiattati intorno al parapetto del piazzale della
chiesa, che s’innalza sopra un poggio a guisa di bastione, e dietro
le finestre di due case circostanti, balestrano con un fuoco micidiale
di fronte e di fianco i primi assalitori; la compagnia De Cristoforis,
che forse s’era mossa troppo presto all’assalto,[197] riga del sangue
de’ suoi migliori la via infuocata; cade, colpito al cuore, il tenente
Pedotti; cade, lacerate le viscere, il capitano De Cristoforis; cade,
fracassata una spalla, il tenente Guerzoni; la compagnia decimata
balena, s’arresta un istante, ma non indietreggia: intanto l’assalto
ai due fianchi si spiega e incalza; un battaglione austriaco si
lancia alla corsa da Rondinello, ma incontra sui suoi passi il Medici
in persona che lo arresta, lo carica, lo rovescia; altre compagnie
subentrano a rinfrescare l’assalto, e il nemico ormai circuito, diviso,
sgominato, va in fuga precipitosa verso Camerlata e Como.


XVIII.

È questo però il primo periodo dell’azione. Garibaldi non indugia
un istante ad occupare fortemente le posizioni espugnate; il Medici
s’afforza tra Rondinello e Breccia; il Bixio col suo battaglione chiude
gl’intervalli tra San Fermo e Rondinello; il maggiore Quintini si
pianta col suo battaglione ed alcune compagnie del secondo Reggimento a
San Fermo; altre compagnie si stendono a sinistra verso Cima-la-Costa;
ma il nemico non si dà vinto ancora, e il generale Augustin, raccolte
le forze che teneva nei prati di Pasqué e a San Giovanni presso Como,
le spinge parte a destra su Cima-la-Costa per spuntarvi la nostra
sinistra; parte a manca per riafferrare l’altura di Sopra-la-Costa,
e di là controbattere San Fermo. E la mossa fu condotta con certa
rapidità; ma vegliava Garibaldi, vegliavano i suoi Luogotenenti; onde
appena l’assalitore giunge a mezzo tiro della nostra linea, il Cosenz
a sinistra da Cima-la-Costa, il Medici a destra da Sopra-la-Costa, lo
respingono, di svolta in svolta, di poggio in poggio, giù per la strada
dond’era venuto, fino a che Garibaldi, adocchiata da Cima-la-Costa
quella seconda più ruinosa ritirata, vede possibile quello che prima
non pensava, cioè la presa di Como, e si prepara a discendervi.
Prescritto infatti che fossero raccolte e riordinate le forze, spedito
il Simonetta con altre due guide ad esplorare la città, lasciate alcune
retroguardie a proteggere San Fermo, s’incammina a notte calata giù per
la tortuosa via di Borgo Vico, e ormai accertato dagli esploratori che
l’Austriaco ha abbandonato Como, vi penetra risolutamente.

Tralascio il descrivere la sorpresa della città; il destarsi in
soprassalto de’ cittadini riscossi nel sonno da quel grato suono
d’armi e d’armati; e lo spalancarsi istantaneo delle porte e delle
finestre; e il brulicar rapido delle vie inondate quasi per incanto da
una piena di popolo trasognato ancora, ebbro, farneticante. Tralascio
Garibaldi baciato, benedetto, toccato come un santo, portato in trionfo
sino al palazzo del Comune; e le campane a gloria e le fiaccole e le
bandiere, e i viva e gli abbracciamenti e le lagrime, e il tumulto e
il baccanale; perchè ormai codeste scene ricorreranno troppo frequenti
in questa Vita, e, vorrei anche dire, in Italia, perchè giovi il
descriverle e non sia troppo facile l’immaginarle. Diciamo piuttosto
che Garibaldi non smarrì un istante solo la mente, e che non era appena
in città che già pensava a custodire le sue spalle, inviando il Medici,
infaticabile quanto lui a vegliar la strada di Camerlata, dove ancora
s’accalcava minaccioso il nemico, ed a munirvisi.


XIX.

L’alba dell’indomani però chiarì che l’ultimo Tedesco era scomparso da
Camerlata; e che oramai tutta la colonna dell’Urban s’era riconcentrata
tra Barlassina e Monza sulla strada di Milano. Allora Garibaldi,
incapace d’immobilità, pensò di approfittare della ritirata del nemico,
e per usar una delle sue frasi predilette, «di far qualcos’altro.»
Affidata a Gabriele Camozzi, commissario regio per Bergamo,
l’organizzazione militare; lasciata la compagnia del Fanti a proteggere
Como, a reclutar volontari, a raccogliere armi; inviata collo stesso
ufficio la compagnia del Ferrari a Lecco; lodati, stimolati i suoi
Cacciatori e concessa loro per riposo tutta quella giornata del 28; la
mattina del 29, all’improvviso, senza svelare ad alcuno il suo disegno,
fa battere l’assemblea, e contromarcia col resto della brigata,
di molto assottigliata dai morti, dai feriti, dagl’infermi, dai
distaccati,[198] per Olgiate e Varese.

Dove si andava? a che mirava? s’affretta a chiedergli qualcuno del
suo Stato Maggiore. «Andiamo, rispose, a incontrare i nostri cannoni
a Varese.» Infatti il Ministro della guerra s’era finalmente deciso
ad inviare ai Cacciatori delle Alpi quattro obici di montagna, che
dovevano, nella mente sua, sostituire i quattro cannoncini che il conte
Francesco Annoni aveva regalati a Garibaldi fin da Torino e che s’erano
arrenati per via, non sappiamo nè come nè dove. Ma i cannoni erano
un pretesto, o tutt’al più un fine accessorio: altro era l’intento di
Garibaldi. Egli non aveva mai deposto il pensiero di assicurarsi una
base sul Lago Maggiore; quindi d’impadronirsi di Laveno, che ne era uno
dei punti dominanti. Marciava perciò a quello scopo, e fidando sulla
ritirata e lo scompiglio del nemico, sulla rapidità e segretezza delle
proprie mosse, sperava riuscirvi. Ora fino a qual punto quello scopo
fosse utile a conseguirsi, e se esso compensasse i pericoli di quella
contromarcia rischiosa, lo discuteremo in appresso; per ora seguiamo i
passi dei combattenti e vediamo i fatti.

Passata la notte del 30 a Varese, muove all’alba dell’indomani per
la gran strada di Laveno; giunto a Gemonio, sosta, studia il piano,
raccoglie notizie del forte a cui mira; quindi deciso di tentarne la
notte stessa la sorpresa, s’inoltra colla brigata fino a Cittiglio;
lascia dietro di sè a Brenta sulla strada di Valcuvia, sua linea di
ritirata, il secondo Reggimento, ed a Gemonio, sulla strada di Varese,
donde era possibile, se non probabile, una comparsa dell’Urban, il
terzo; manda segretamente il Bixio e il Simonetta sull’altra sponda
del lago, perchè vi raccolgano barche ed armati, con cui tentare
un abbordaggio contro qualcuno de’ vapori austriaci ancorati presso
Laveno; e ciò fatto volta a sinistra per Mombello e va a collocarsi a
due chilometri dal forte di Laveno, diramando tosto i suoi ordini per
attaccarlo.

E gli ordini erano stati buoni; i soli possibili forse: se a frustrarli
non avesse cospirato quel nemico quasi fatale di tutte le imprese
notturne, generatore inevitabile di confusione, d’equivoci, di
terrori: il buio. E invero, e tralasciando i particolari, il capitano
Bronzetti, che doveva con una compagnia cogliere di sorpresa il forte
di Castello dal lato settentrionale, viene abbandonato dalle guide,
perde la via e non arriva al posto; il capitano Landi, cui spettava
penetrare non visto con un’altra compagnia dal lato meridionale, è
scoperto prima del tempo dalle vedette, incontra un’inattesa strada
coperta, guernita di nemici là dove credeva trovare un orto indifeso,
combatte un’ora valorosamente, lascia sul terreno feriti i luogotenenti
Gastaldi e Sprovieri, sino a che, ferito egli stesso, è costretto a
ritirarsi nella fretta e nel disordine inevitabili a tutte le imprese
notturne fallite. E il forte, naturalmente, desto dall’inopinato
allarme, dà fuoco a tutte le sue batterie, tempesta di palle il
terreno circostante, comunica l’allarme ai vapori, i quali accortisi
delle barche condotte dal Bixio e dal Simonetta le ricevono a bordate
e mettono ben presto lo spavento nella ciurma inesperta, che urlando
«a terra a terra» si sgomina, e nonostante le preghiere, i comandi,
le minaccie de’ suoi intrepidi condottieri, volta precipitosamente le
prue.

Potevano essere le due dopo mezzanotte, e Garibaldi calato il berretto
sugli occhi, soffocando l’ira nel cuore, borbottando: _maledetta
paura!_ (e rispetto agli assalitori del forte abbiamo veduto che aveva
torto e che paura non ci fu), ordina la ritirata su Cittiglio, e colà
si ricongiunge in buon ordine ai corpi che aveva lasciati a Brenta ed a
Gemonio.


XX.

Il sole del 31 maggio doveva essere foriero di una non lieta novella.
Anzitutto il generale Urban s’accostava minaccioso e ringagliardito
a Varese, e Garibaldi, che aveva tutto predisposto per ritornarvi,
dovette prudentemente mutar pensiero e risalire la via di Valcuvia,
dove poteva, protetto dai monti, attendere gli eventi. Dal canto loro
i Varesini, sgomenti, ma non avviliti, dall’annunzio del pericolo
imminente, inviano a Garibaldi per richiederlo d’aiuto e di consigli;
ma a lui non restava altro che a rispondere: «Uscissero i cittadini
validi, portando seco le armi e le munizioni e riparassero ai monti.»
Consiglio disperato, ma l’unico effettuabile in quel caso.

Non tramontava difatti la giornata del 31, che il generale Urban
compariva con due colonne da Tradate e da Gallarate sulle alture di
Giubiano e di San Pedrino che da quel lato attorniano Varese, e vi
si accampava militarmente. Conduceva dodicimila uomini d’ogni arma
e diciotto pezzi d’artiglieria; sbuffava fuoco e fiamme; annunziava
alla ribelle città strage e rovina; la multava dell’assurdo tributo di
tre milioni e di proviande in pazza quantità; prendeva statici anche
fra i più innocenti e li minacciava ad ogni istante di morte; esigeva
per sè e pe’ suoi ufficiali strane leccornie di vini e di vivande;
e non soddisfatte le sue insensate pretese (nè potevano esserlo da
una città non ricca e vuota de’ suoi abitatori), apriva contro di
essa un furibondo bombardamento e l’abbandonava per parecchie ore al
saccheggio.[199]

Intanto che Varese fuggiva e si riparava alla meglio da quel flagello,
più per confortare di sua vicinanza la tribolata città e spiare
davvicino le mosse del nemico, che per deliberato proposito di
cercargli battaglia, Garibaldi scendeva da Valcuvia fino in faccia di
Santa Maria del Monte; e di là nella mattina del 1º giugno giù fino
a Sant’Ambrogio e Robarello, discosti un’ora di cammino da Varese. E
certo più bella occasione di vendicarsi di quel brigante di Garibaldi,
al Generale austriaco non si poteva porgere. Aveva tanto giurato e
sacramentato di volerlo appiccare con tutti i suoi; ed ecco che lo
teneva, può dirsi, nell’ugne; era tornato espressamente a Varese
con forze quadruplicate per schiacciare con un colpo magistrale
l’aborrito nemico, e la fortuna glielo faceva incontrare a un tratto
di cannone, in una posizione quasi disperata; o perchè dunque non
lo assaliva? Perchè se ne stava immobile dietro Varese, occupato
soltanto a bombardare una vuota ed inerme città, quando Garibaldi
scendeva a sfidarlo così da vicino? Perchè lasciò scorrere tutta quella
giornata del primo senza muovere un passo, senza tentare nemmeno una
ricognizione a fondo, e soltanto la sera del giorno stesso si decise
ad occupare la posizione di Biumo Superiore; quel Biumo, come dicemmo,
chiave di tre vie e baluardo bifronte che il Garibaldi italiano aveva
subito afferrato, appena entrato in Varese, e il Garibaldi austriaco,
come chiamava sè stesso, contemplò da lontano tre giorni prima di
conoscerne l’importanza? E si fu appunto perchè il Generale austriaco
non s’era accorto di Biumo, che Garibaldi rivolse in mente per alcune
ore l’idea di prender egli quell’offensiva, che il nemico più forte
non sapeva prendere; e soltanto verso sera, quando seppe occupata
quell’importante postura, ne depose il pensiero.


XXI.

Intanto più grossi avvenimenti erano accaduti sul maggior teatro
della guerra. Fra il 27 e il 28 l’esercito alleato iniziava quel
grande movimento di fianco dal Po sul Ticino, che fu l’unica manovra
strategica di tutta la campagna; il giorno 30 dello stesso mese
l’esercito piemontese sforzava i passi della Sesia e colla seconda
vittoria di Palestro se n’assicurava il possesso; in conseguenza
de’ quali fatti tutto l’esercito franco-sardo veniva a trovarsi
ammassato tra Mortara e Novara, pronto, vorremmo dire, a varcare il
Ticino, se la prontezza fosse stata la dote della mente direttrice
di quell’esercito. Ora questi avvenimenti erano affatto ignoti al
generale Garibaldi, poichè nessuno al Quartier generale principale
aveva pensato a mandargliene pur un cenno; ma non lo erano naturalmente
al generale Giulay, il quale, penetrato il segreto della mossa nemica
e accortosi oramai che lo aspettava una battaglia difensiva sull’alto
Ticino, aveva pensato a rinforzarsi su quel punto quanto più poteva,
e non attribuendo, giustamente, alcuna importanza alla diversione di
Garibaldi,[200] s’era affrettato a richiamare la divisione Urban da
Varese dandole per obiettivo Turbigo.

L’ordine, a quanto assicura uno storico,[201] giunse al Generale
austriaco in sulla sera del 1º maggio; e può essere; certo egli
non lo eseguì immediatamente, perchè la mattina del 2 era ancora
in battaglia sulle sue posizioni del giorno precedente. Comunque,
oramai da Garibaldi egli non aveva più nulla da temere; chè il nostro
condottiero, considerati i rischi d’un combattimento sì disuguale,
ignaro, come dicemmo, di tutte le mosse degli alleati, epperò anche
dell’ordine di ritirata ricevuto dal suo avversario, s’era a sua volta
deciso di ripiegare su Como; e nella stessa mattina aveva appoggiato ad
Induno ed Arcisate, che erano appunto le prime stazioni della via che
s’era proposto di percorrere.

Però, com’è suo costume, egli aveva mascherato sì bene il suo
movimento, che il generale Urban non ne ebbe sentore; anzi vedendolo
appostarsi fortemente nei dintorni d’Induno, lo prese piuttosto come un
preparativo di nuove operazioni offensive, che di ritirata; e sollecito
assai più di guardar sè stesso che di tentare il nemico, si accontentò
di far correre il terreno circostante da piccoli drappelli, che non
giunsero mai nemmeno a tiro delle vedette italiane.

In realtà erano due avversari che pensavano a ritirarsi: l’Italiano
obbligato dalla esiguità della forza e dalla debolezza delle posizioni;
l’Austriaco dagli ordini del suo Generalissimo e dal precipitar
degli eventi. Perciò, intanto che Garibaldi levava il suo nuovo campo
d’Induno, e per Arcisate, Rodero Casanova s’avviava su Como; l’Urban
lasciava una forte retroguardia di circa duemila uomini a guardia
di Varese e Como, e col grosso della sua divisione contromarciava su
Gallarate diretto al Ticino.


XXII.

Se non che Garibaldi, cui era mancato ogni indizio per supporre quella
ritirata, continuava a marciar molto circospetto, guardingo, come uomo
che non sia ben sicuro nè della sua testa, nè delle sue spalle.

Poichè convien sapere, e forse abbiamo tardato troppo a narrarlo, che
fino dal 31 maggio, cavalcando egli tra Sant’Ambrogio e Robarello,
incontrava per via una bella signorina, la marchesa Giuseppina
Raimondi, la quale, dicendosi arrivata allora allora da Como traverso
i monti della Svizzera, veniva a portargli l’annunzio che la sua città
era minacciata a un tempo dagli Austriaci di fuori e dagli austriacanti
di dentro, e bisognevole perciò d’un immediato soccorso. Qual effetto
producesse sull’animo, o sui sensi, di Garibaldi l’inattesa vista
dell’audace messaggiera, vedremo un giorno; intanto egli la invitò
a entrar con lui nella locanda di Robarello e le consegnò questo
biglietto:

                                        «Robarello, 1º giugno 1859.

      »Signor Visconti,

  »Io sono a fronte del nemico a Varese; penso di attaccarlo questa
  sera. Mandate i paurosi e le famiglie che temono fuori della città;
  ma la popolazione virile, sostenuta dal Camozzi nostro, le due
  Compagnie, i Volontari e le campane a stormo, procurino di fare la
  possibile resistenza.»

Pur tuttavia, come esser certi che quell’avviso fosse pervenuto al
Visconti Venosta, e che Como volesse e sapesse resistere, e che gli
ordini del Generale avrebbero potuto essere comunque eseguiti? Grande
dunque l’incertezza così in lui, come ne’ suoi Luogotenenti consapevoli
del segreto; tormentoso in ognuno il dubbio di trovar le strade di
Casanova sbarrate dai nemici: più frequenti perciò e più ansiose le
esplorazioni e le cautele man mano che la colonna s’avvicinava a Como.
Aveva bensì Garibaldi spedito due nuovi messi all’altro commissario
Camozzi per avvertirlo che marciava a quella volta e ordinargli di
occupar San Fermo; e del pari il Camozzi non aveva tralasciato di
inviargli l’annunzio che tutte le posizioni da lui indicate erano
occupate, e che l’aspettava; ma questa rassicurante risposta, sviatasi,
non sappiamo come, per via, non fu consegnata a Garibaldi che al
suo arrivare in Como; onde il fitto buio della notte aggiungendosi
all’oscurità de’ fatti, accresceva negli animi l’inquietezza ed il
sospetto. Quale consolante sorpresa però, quando, giunta la nostra
avanguardia presso San Fermo, si udì squillare un _alt-chi-va-là_ in
pretto italiano; e quale gioia di tutti nell’udire levarsi per l’aria
le grida di _Viva l’Italia_ e _Viva Garibaldi_, segno troppo eloquente
che si era in paese amico, tra braccia d’amici. E da quell’istante la
strada pareva sparire sotto i piedi; la marcia non fu che un continuato
tripudio sino a Como, la quale tremante quattro giorni di rivedere ad
ogni istante gli Austriaci, si vendicava con urla di gioia e suoni di
musiche e passeggiar di fiaccole dallo spavento passato.

L’indomani era la giornata di Magenta, e ne sono stampati nella memoria
degli uomini gli errori, le prodezze ed i beneficii. Ventiquattro
ore dopo l’intero esercito austriaco era in ritirata sull’Adda; le
avanguardie degli alleati entravano in Milano, ed anche il piccolo
obbliato corpo de’ Cacciatori delle Alpi poteva proseguire la sua
marcia fortunosa.


XXIII.

Prima però di seguirlo, volgiamoci un istante a riguardare l’opera
del nostro eroe in quel primo periodo della Campagna.[202] Noi siamo i
primi ad assentire che i risultati da lui ottenuti furono scarsi; ma
non si deve da essi misurare la grandezza dell’uomo che li ottenne.
Noi non vogliamo magnificarli più del ragionevole, ma non crediamo
siano stati ancora bastevolmente riconosciuti ed estimati. Certo se
riguardiamo l’impresa commessa a Garibaldi ne’ suoi effetti pratici,
principalmente militari, può dirsi sterile; ove la consideriamo nel
modo con cui fu condotta, deve stimarsi ammiranda. Passato il Ticino,
e nemmeno quella fu la più facile delle opere, gli ordini dati, gli
accorgimenti adoperati per coprire la sua marcia da Sesto-Calende a
Varese, sono degni di qualsiasi più provetto capitano: il combattimento
di Varese dovrebbe essere dato nelle nostre Scuole militari come
modello della tattica di posizione; la pronta decisione di riprendere
all’indomani stesso l’offensiva è più facile ammirarla che prenderla;
la dimostrazione su Olgiate diretta a mascherare l’attacco di San
Fermo, e tutti i particolari della marcia e del combattimento,
meriterebbero d’essere studiati da qualsiasi giovane ufficiale; infine
l’ispirazione venutagli sul campo di battaglia di San Fermo di calare
su Como, molti Generali la possono invidiare, ma a pochi è concessa.

È certamente disputabile la contromarcia su Varese e la spedizione
su Laveno; ma ogni ragione ponderata e vagliata, noi ci peritiamo
ad affermare che fra tutti i partiti era quello il migliore. Che
cosa restava infatti a Garibaldi dopo la presa di Como? L’immobilità
difensiva intorno alla presa città? Nessuno, speriamolo, l’avrebbe
consigliata. La marcia su Milano? Basti pensare a’ suoi tremila
duecento uomini, senza cavalli e senza cannoni, e a’ quindicimila
Austriaci d’ogni arma che gli stavan contro in paese raso e
scoperto,[203] per levarne a chicchessia il capriccio? La ritirata
su per la Valtellina? Certo era un partito sicurissimo; ma appunto
perchè troppo sicuro non si confaceva a Garibaldi, nè al suo mandato.
La Valtellina poteva essere un rifugio in caso di rovescio; ma non mai
una base d’operazione per un corpo destinato ad una missione attiva e
militante. Come avrebbero potuto i Cacciatori delle Alpi molestare ed
indebolire l’estrema destra dell’Austriaco, se andavano ad inerpicarsi
su pei monti a centinaia di chilometri da lui? Come sollevar la
Lombardia, se andavano a portar la rivolta dove non poteva avere nè eco
nè propagazione, nè soccorrere gli amici, nè infastidire i nemici?

La ritirata in Valtellina significava la paralisi per molto tempo di
tutta la colonna garibaldina; la spedizione di Laveno aveva i suoi
rischi, ma assicurava, se il colpo fosse riuscito, una base salda
all’intero corpo che gli avrebbe permesso di restare nello scacchiere,
Lago Maggiore-Milano-Varese-Como,[204] fino all’entrar in linea del
grande esercito, e di serrar sempre dappresso i fianchi del nemico;
che solo per tal modo poteva sentire la molestia della diversione
ordinata contro di lui. Il solo guaio fu che la sorpresa di Laveno
fallì; e ne diamo, se vuolsi, la sua parte, la maggior parte di torto,
a Garibaldi; ma poteva anche riuscire, e mancò poco non riuscisse: e
in ogni modo ogni scolaro c’insegna che non si deve mai giudicare d’un
concetto strategico dagli errori o dagli eventi dell’azione tattica
diretta ad attuarlo; come nessun storico di quell’anno cessò di lodare
la conversione strategica dell’imperatore Napoleone dal Po al Ticino,
solo perchè la battaglia di Magenta, per gli sbagli commessi prima e
durante, rischiò d’esser perduta.


XXIV.

Ma qui ci occorre aprir tutto l’animo nostro. A Garibaldi era stata
commessa un’ardua impresa senza la forza necessaria a compierla. La
sproporzione anzi tra il fine ed i mezzi parve a taluno sì grande, che
il Governo piemontese fu persino sospettato d’aver piuttosto mirato
ad orpellare la parte rivoluzionaria con una vana lustra e trastullar
Garibaldi con un gradito zimbello, che voluta seriamente un’opera
seria. E il sospetto era certamente ingiusto, e la lealtà di Vittorio
Emanuele ed il patriottismo del conte di Cavour ce ne stanno garanti.
Però se mal animo non ci fu, nè ci poteva essere, ci fu certamente
errore. Se davvero si credeva utile, se non necessaria, una diversione
nell’alta Lombardia, conveniva che i mezzi le fossero apprestati in
misura adeguata agli ostacoli che doveva superare ed ai nemici che
doveva vincere. E ciò non fu. Si trattò Garibaldi, come i padri feudali
del Medio Evo trattavano i figliuoli cadetti: mettevano loro nelle
mani un vecchio ronzinante, una vecchia lama ed una smilza borsa e li
mandavano a cercar fortuna pel mondo.

Così al capo de’ Cacciatori delle Alpi: gli diedero tremila cinquecento
giovani male armati, mal vestiti, senza artiglierie, senza cavalli,
e gli dissero: ingegnati. Ed egli s’ingegnò; ma non era nè provvido
nè fraterno attender tutto dai prodigi del suo genio e dal valore de’
suoi camerati. Egli sapeva d’esser debole; e però prima di partire dal
Po aveva invocato che la sua brigata fosse rinforzata e provveduta di
tante cose necessarie a qualunque guerra; ma, triste a ripetersi, o
gli furono negate, o non gli furono concesse che tardi, a spizzico,
a stento, quando n’era ormai passato il bisogno e scemata l’utilità.
Chiese infatti il reggimento de’ Cacciatori degli Appennini, volontari
venuti e organizzati per lui: negati; chiese una batteria di cannoni:
negata o concessa soltanto a metà, senza muli, senza artiglieri e d’un
calibro insufficiente; chiese cavalli, ambulanze, armi: negati o dati
così a rilento, in sì scarsa misura, da tornar pressochè inutili!
Nessuno può immaginare quel che avrebbe potuto fare Garibaldi, se
invece di quei tremila cinquecento uomini, ne avesse avuti anche non
più di cinque o seimila forniti di tutte le armi convenienti!

E fosse qui tutto; ma fu lasciato quindici interi giorni senza
un’istruzione, un ordine, una notizia, nè dell’esercito nemico, nè
dell’esercito amico; talchè egli non conobbe le mosse degli alleati,
e nemmeno il loro avvicinarsi al Ticino e i preludi di Magenta, se
non quando erano già vociferati dovunque dalle gazzette e dalla fama!
Ora dicasi pure che carattere di codesti corpi alla partigiana è
d’essere spediti e leggieri e di procedere sciolti e indipendenti dai
grandi eserciti, di cui sono in certa guisa le estreme avanguardie:
tutto questo sappiamo noi, e sapeva meglio Garibaldi; ma _sunt certi
denique fines_, anco a questa norma; e i confini doveva prescriverli
il dovere, oltrechè l’utilità: il dovere di metter in grado il corpo
staccato d’adempiere al suo scopo e di trarre dall’opera sua tutto
il vantaggio possibile. E se ciò si fosse osservato, non si sarebbe
potuto affermare, e con molta ragione, che la punta di Garibaldi in
Lombardia fu militarmente infruttuosa. Se gli fosse stato dato il poco
che chiedeva, se avesse potuto varcare il Ticino con forze almeno
raddoppiate, se non gli si fossero nascosti, quasi come a nemico, i
principali movimenti del grande esercito, nessuno può prevedere quel
che avrebbe saputo fare!

Probabilmente l’Urban non sarebbe stato battuto due sole volte, ma tre;
certo non avrebbe potuto, nè liberamente accorrere alla chiamata del
Giulay, nè recare il 4 giugno all’esercito imperiale il soccorso non
ispregevole che gli recò.

Il 24 maggio il conte di Cavour telegrafava a Garibaldi in Varese:
«Insurrection générale et immédiate;» e certo se v’era uomo da
intendere l’ardito laconismo di quel comando, era il capo dei
Cacciatori delle Alpi. Se non che il conte di Cavour scrivendolo
dimenticava due cose: che se non è mai facile intimare una rivoluzione
a giorno e ora fissa per cenno di telegrafo, lo era anche meno in un
popolo, come il lombardo, vigilato da un presidio di circa ventimila
soldati e serrato all’intorno da un esercito ancora invitto di
duecentomila, côlto inerme e sprovveduto, educato da anni alla fede
lunga e pacifica della rivoluzione diplomatica e dell’iniziativa
piemontese; e che al postutto vedendo la sua causa commessa alle mani
di due eserciti poderosi, non vedeva più alcuna ragione sufficiente per
buttarsi allo sbaraglio d’un’insurrezione, di cui eran certi i rischi,
affatto ignoti i vantaggi e superflui i sacrifici.

E v’ha di più. Acciocchè la rivoluzione lombarda potesse divenire
veramente «generale,» come la intendeva il conte di Cavour, era
necessario che essa o prima o poi s’impadronisse di Milano. Una
rivoluzione chiusa nelle prealpi del Varesotto e del Comasco poteva
essere sgradita e fastidiosa al Governo austriaco, ma danneggiare
o molestare seriamente il suo forte esercito non mai. Milano, se
l’insurrezione lombarda era davvero necessaria alla vittoria, doveva
essere il focolare dell’incendio, e una volta acceso nella capitale
tutte le provincie sarebbero divampate.

Ma come sperare tanta fortuna? E come, ammesso pure che i Milanesi
fossero predisposti alle disperate audacie del 48, come avrebbe potuto
Garibaldi o spingerli, o secondarli, o soccorrerli?

Il Carrano scrive che il Medici la mattina del 3 giugno consigliò il
suo Generale di marciare su Milano; e il consiglio riattesta l’animo
del prode che lo dava. Ma poteva Garibaldi con quei suoi tremila,
spossati, logori, decimati, avventurarsi contro le mura d’una città
non forte, ma pur sempre bastionata, guardata ancora da un potente
presidio, fiancheggiata sempre dall’Urban, lontano poco più d’una
marcia, e incerto ancora l’esito della battaglia di Magenta; anzi
incerto persino che battaglia vi sarebbe stata?

Da qualsivoglia parte la si riguardi, comunque la si rivolti, la
spedizione di Garibaldi in Lombardia fu tanto male apprestata ed
ordinata, quanto mirabilmente condotta e combattuta. Se la diversione
sull’estrema destra nemica, se «l’insurrezione generale ed immediata»
della Lombardia erano reputate parti utili e integranti del piano
generale di campagna, conveniva che Garibaldi arrivasse sul terreno
con forze adeguate al cimento. Se non lo era, meglio adoperare i
volontari e il loro Capo altrove e più utilmente; meglio non illudersi
nè illudere; meglio risparmiare tanto sangue prezioso e tante giovani
vite; e lasciar che la guerra fosse quel che era di fatti: un’impresa
nazionale, commessa dal popolo alla dittatura d’un Re leale, d’un
abile Ministro e d’un generoso alleato, e nella quale al popolo non
restava altra parte che combattere ubbidiente e allineato nelle file,
attendendo dalla fortuna delle armi e dalla virtù de’ suoi liberatori i
decreti del suo destino.


XXV.

Tuttavia nemmeno per la battaglia di Magenta la brigata garibaldina
cessò dal suo ufficio o rallentò dalla sua operosità. Come prima,
continuò a precedere il grande esercito alleato, a correre sui fianchi
del nemico, a occupar nuove terre, a piantar sempre più innanzi il
vessillo italiano; e come prima, fu lasciata (almeno fino al 9 giugno)
senza sussidi, senza comandi, senza notizie; abbandonata all’abilità
del suo Capo ed alla sua stella.

Noi ne traccieremo a rapidi passi l’itinerario, poichè per dieci giorni
tutto il merito suo fu di celerità e di lena.

Il 4 e 5 giugno Garibaldi li adopera a riordinare le sue forze,
a chiamare nuovi volontari, ad afforzarsi in Como, a perlustrare
in tutti i sensi le strade circostanti, a lanciare sulle orme del
nemico drappelli di scorridori che si spingono sui fianchi dell’Urban
ritirantesi da Gallarate, volteggiando sin presso le porte di Milano.

Nella notte poi dal 5 al 6, ormai certi gli effetti della battaglia di
Magenta, s’imbarca con tutta la brigata, meno alcune compagnie lasciate
a Como per tutela della città e nucleo di nuovi battaglioni, alla volta
di Lecco, e nel giorno stesso in cui l’esercito alleato varcava il
Ticino, tocca la destra sponda dell’Adda. Breve però la fermata: chè
il dì appresso tenendo sempre ai monti ripiglia la marcia per Caprino e
Almeno; e dopo breve sosta scende a passo di carica sopra Bergamo, dove
sperava abbrancare almeno la coda del reggimento di presidio, che due
suoi fidati, introdottisi furtivamente nella città,[205] gli avevano
annunziato fare apparecchi di precipitosa ritirata.

Arrivato però troppo tardi, chè il nemico era corso più di lui, pensa
immediatamente a inseguire i fuggenti sulla strada di Crema; se non
che, appena cominciata la marcia, ode alla stazione che un corpo
d’Austriaci s’avanza in ferrovia col proposito di giungere in aiuto del
presidio, di cui ignorava la partenza. Allora Garibaldi che si vede
tornar tra le ugne, inconscio e sprovveduto, quel nemico che aveva
fino allora indarno inseguíto, pregusta la voluttà d’una copiosa e
facile retata, e richiamata in fretta la brigata dalla strada di Crema,
distribuisce e rimpiatta in tutti i nascondigli della stazione i suoi
Cacciatori, che zitti, quatti, intenti, coll’ansia del cacciatore che
anela la preda, stanno ad aspettare. Disdetta! A pochi passi da Seriate
il battaglione viaggiante, avvisato da uno spione (fungaia di tutte
le guerre) che a Bergamo v’erano i Garibaldini, arresta il treno, ne
smonta frettoloso, e circondato da fiancheggiatori e da esploratori
s’inoltra con tutta la cautela verso la città. E poteva ancora essere
colto; se non che il Bronzetti, inviato con una compagnia a percorrer
la strada di Seriate, lo incontra; non contando i nemici li assalta
con impetuoso ardimento e li arresta, li sbaraglia, li costringe a
ricercare più celeri che mai la vaporiera, che li salva dall’agguato
mortale che li attendeva.


XXVI.

In quel medesimo giorno i Sovrani alleati entravano solennemente nella
Capitale lombarda, il generale Bazaine rompeva le retroguardie di Zobel
a Melegnano, e Garibaldi era chiamato in Milano da Vittorio Emanuele a
conferire con lui. Le accoglienze del Re al Condottiero furono degne
del grande animo di quello e della gloria di questi, e caldi gli
elogi a lui ed ai suoi, e copiose le promozioni e le decorazioni, e
iterati i conforti a continuare nella comune impresa; ma oltre a queste
cortesie, nulla più. E pure un accordo sarebbe stato tanto giovevole!
E doveva parer così naturale al Capo supremo dell’esercito, poichè
la vittoria gli aveva fatto ritrovar viva e gloriosa la sua estrema
avanguardia, l’affiatarsi col suo capo, fermare con lui il disegno
delle operazioni future, e trarre dall’opera sua il maggior profitto
possibile! Però ha ragione lo storico dei Cacciatori delle Alpi[206] di
dolersi che l’esercito nostro si sia lasciato sfuggire l’opportunità
di schiacciare, mercè un’operazione combinata col generale Garibaldi,
la divisione del generale Urban, che fino dal 7 aveva preso campo
sull’Adda, ne’ dintorni di Vaprio e vi si era trincerato.

Poichè la posizione del Generale austriaco poteva dirsi forte, finchè
non era minacciata che di fronte; ma dopo l’entrata di Garibaldi in
Bergamo non lo era più; e bastava che il generale Cialdini, il quale
formava l’avanguardia del nostro esercito, si fosse affrettato verso
l’Adda, e il generale Garibaldi fosse calato, con mossa combinata, da
Bergamo, perchè quella Divisione nemica, ancora staccata dal grosso
del suo esercito, fosse inevitabilmente disfatta. E quanti frutti non
si sarebbero colti da questa semplicissima manovra! La rotta di Vaprio
avrebbe precipitata la ritirata dell’esercito austriaco più della rotta
di Melegnano; gli eserciti alleati avrebbero potuto marciare più celeri
e spediti, e arrivando molto prima sulla destra del Mincio, avrebbero
troncato a mezzo il secondo concentramento del nemico e reso Solferino
impossibile.[207]

Ma non è da noi discutere delle operazioni degli alleati; ci basti
mettere in sodo che, se l’Urban potè restar sull’Adda impunemente
ancora tre giorni, e Garibaldi fu costretto a indugiarsi a Bergamo
altri tre, la colpa si deve cercare in quel complesso di ragioni chiare
ed oscure, piccole e grandi, per le quali l’esercito alleato aveva
fin dal 9 giugno perduto il contatto col nemico, sprecando quattordici
giorni per marciare, senza combattere, dal Lambro al Chiese.[208]

Comunque, la mattina dell’11 giugno l’Urban lasciava Vaprio ritirandosi
per la via di Crema, e la sera del giorno stesso Garibaldi abbandonava
Bergamo incamminandosi per Brescia. Marcia non senza pericoli per lui
che doveva correre su una strada parallela a quella di un nemico più
forte, col pericolo di trovarselo ad ogni ora sul fianco senza speranza
di pronto aiuto dal grosso dell’esercito. Tuttavia, destreggiando come
al solito, usando del sottile manipolo de’ suoi cavalieri con arte che
parve maravigliosa soltanto ne’ Prussiani, comparendo e scomparendo co’
suoi scorridori su tutti i punti della linea nemica, spingendo ad una
marcia forzata di notte i suoi Cacciatori affranti, ma indomiti, varcò
all’alba del 14 le porte di Brescia; la quale, memore del suo nome,
sprezzando il consiglio de’ pochi suoi timidi, incitata dall’infiammata
parola di Giuseppe Zanardelli, e dall’esempio de’ suoi più fervidi
patriotti, non aveva atteso colle mani al sen conserte, neghittosa o
rassegnata, il liberatore; ma appena l’avanguardia dei Cacciatori,
guidata dal bravo capitano Pisani, era comparsa nelle mura, s’era
stretta intorno all’audace drappello, aveva atterrati insieme con
lui gli stemmi della signoria straniera inalberando i vessilli della
redenzione nazionale; ed era già tutta in piedi colla fiera attitudine
d’un popolo deliberato a non lasciarsi ritogliere il bene conquistato,
pronto a dare all’eroe che veniva a liberarla soccorso non di sole
parole.

Però commoventi, trionfali le entrate di Garibaldi in Varese, in
Como, in Bergamo; ma quella di Brescia, epica. E che dieci anni di
oppressione non avessero fiaccata la fibra della città, sdegnosa
d’ogni vil pensiero, fu manifesto il giorno stesso, quando, corsa
all’improvviso la voce che gli Austriaci s’accostavano alla città dalla
strada di San Zeno, si vide il popolo intero versarsi come torrente
per le vie a chieder armi e battaglia; ed armarsi egli stesso di quanto
gli veniva alle mani; e serrarsi intorno all’invitto Capitano ed alla
sua Legione, invocando d’essere condotto alle mura incontro al reduce
oppressore. Il pericolo fortunatamente dileguò: la colonna austriaca,
frazione della divisione Urban accampata a Bagnolo, avviata su Brescia
per estorcerle non so che multa di guerra, non appena seppe che la
città era di Garibaldi, rifece a passi più che studiati la sua via;
ma non è men vero che, se l’incauto nemico si fosse cimentato ad un
assalto, Brescia avrebbe rinnovato una delle sue dieci giornate.


XXVII.

Dall’ingresso in Brescia la storia dei Cacciatori delle Alpi e del loro
Capitano cessa d’essere distinta e indipendente da quella dell’esercito
alleato e si perde, a dir così, semplice postilla, nelle grandi pagine
del suo libro. Non affermiamo per questo che le sia venuto meno ogni
valore; molti ancora i travagli, i sacrifici e i cimenti: ma la mente
che la dirige è un’altra; il concetto che la ispira scende dall’alto,
da sfera lontana e superiore; l’uomo che la comanda, sottomesso al
cenno d’altri capi, guidato in ogni passo dall’impulso d’altre volontà,
ingranato sempre più nel rigido meccanismo della gerarchia militare,
diventa un brigadiere qualsiasi dell’esercito, non è più Garibaldi.

E questo si deve dire del combattimento di Tre-Ponti o di Rezzato che
vogliasi chiamarlo.

Nella notte dal 14 al 15 giugno, standosi il generale Garibaldi in
Sant’Eufemia sulla strada Brescia-Lonato, riceveva dal Capo dello
Stato Maggiore dell’esercito italiano quest’ordine: «Sua Maestà il
Re desidera che domattina ella porti la sua Divisione[209] su Lonato,
dove sarà seguita dalla Divisione di cavalleria comandata dal generale
Sambuy, composta di quattro reggimenti di cavalleria di linea, con
due batterie a cavallo.» Verbalmente però il messaggiero soggiungeva,
esser ordine dello stesso Re che Garibaldi restaurasse il Ponte del
Bettoletto sul Chiese che sta a settentrione di Ponte San Marco.

Ubbidendo pertanto all’ordine regio, all’alba del dì successivo il
Generale metteva in moto la sua colonna verso la mèta designata. Se
non che, giunto a Rezzato, esploratori suoi e paesani gli annunziano
che sulla sua destra tra Castenedolo e Montechiaro scorrazzava un
corpo d’Austriaci, che era appunto la retroguardia dell’inevitabile
Urban, accampato a Montechiaro. Garibaldi allora, non volendo tollerare
quella molestia sul suo fianco, fece prudentemente ristare la colonna
tra Rezzato e Tre-Ponti, e quivi, schierati il primo Reggimento agli
ordini del Cosenz e un battaglione del secondo agli ordini del Medici
in guisa da occupar tutti gli sbocchi da Tre-Ponti a Castenedolo,
continua con altri tre battaglioni per Bettoletto, onde mettere ad
effetto la seconda parte dell’ordine ricevuto. Però non era scorsa
mezz’ora dalla sua partenza, che un colpeggiare di schioppettate
annunziava come i nostri avamposti di destra fossero alle prese col
nemico. Forse era da ricusar tosto il combattimento; ma poichè il
nemico incalzava da ogni parte, e il Cosenz appartiene a quella buona
scuola militare, che il miglior modo per respingere un attacco ritiene
il contrattacco; si spinse innanzi con tutte le sue forze ed accettò
la lotta. Non descriveremo tutte le fasi del combattimento di Rezzato;
rammentiamo soltanto ad onore di chi lo sostenne, che in sulle prime,
incalzato da brillanti cariche alla baionetta, il nemico cedette su
tutta la linea, e andò travolto fin sotto Castenedolo; che in appresso
l’ungherese colonnello Türr, venuto da pochi giorni al Quartier
generale di Garibaldi, avendo spinto con più valore che prudenza gli
scarsi nostri pelottoni ad attaccar lo stesso nemico nel centro della
sua posizione, anche il Cosenz fu costretto a secondarlo, onde il
combattimento si spostò affatto dal primo terreno, che gli serviva
di base; che infine, essendo accorsa da Montechiaro in sostegno de’
suoi combattenti un’intera brigata austriaca, e avendo questa ripresa
l’offensiva, non ostante il valore disperato degli assaliti, e l’eroico
sacrificio del prode de’ prodi[210] Narciso Bronzetti; non ostante la
intrepidezza sfortunata del colonnello Türr, esso pure ferito, e il
sangue freddo imperturbato di Enrico Cosenz, vero capitano di quella
giornata; i nostri sopraffatti dal numero furono costretti a dar le
spalle, non senza confusione e disordine, sino a Rezzato. Giungeva però
nello stesso punto, chiamato non tanto dal fragore della fucilata, che
sul Chiese si udiva appena, quanto dai reiterati messaggi del Cosenz,
Garibaldi in persona; il quale, riuscito d’accordo col Medici, col
Cosenz, co’ più valorosi de’ suoi Luogotenenti a ristabilire un po’ di
calma e d’ordine nelle file scompigliate de’ fuggenti, arresta la foga
dell’incalzante nemico; fino a che, essendo comparse a Castenedolo le
avanguardie del generale Cialdini, richiesto da Garibaldi e mandato in
soccorso dal Re, il nemico suonò a ritirata e i Garibaldini restarono
padroni del campo di battaglia.

Non fu dunque, come si scrisse, una sconfitta; i nostri non perderono
un palmo del terreno occupato la mattina; il nemico venne ad assalire
e fu respinto: co’ suoi quattromila poteva, nel comodo spazio di
quattr’ore, circuire, tagliare, stritolare i tre sottili battaglioni
italiani e non vi riuscì, e la vittoria, quando mai, non fu sua. Ma
sconfitta, o vittoria, o scacco, od _insuccesso_, come vogliasi dire,
il merito o il demerito non va ascritto a Garibaldi.

Egli ricevette un ordine d’avanzare sulla strada di Lonato, e
ubbidì; al primo sentore del nemico si arrestò e mandò ad avvertire
dell’evento il Quartier generale: se si dilungò a restaurare il Ponte
di Bettoletto, eseguì un ordine del Re, che non toccava a lui il
discutere; se la battaglia s’impegnò e si estese, la posizione l’aveva
resa inevitabile e fu onore del Cosenz e de’ suoi prodi l’averla
sostenuta.

Garibaldi dunque può rimuovere da sè ogni responsabilità della
giornata di Rezzato; se pure non ha diritto di chiedere che ne siano
rimeritati i suoi Luogotenenti, che ne resero a forza di virtù meno
dannose le conseguenze. E sappiamo bene che un secondo messo del Re,
il capitano Uberto Pallavicino, raggiunse Garibaldi a Bettoletto,
e gli portò un secondo ordine, nel quale era scritto: «Resti nella
posizione occupata.» Ma dice bene il Carrano: quale posizione? Quella
di Sant’Eufemia del mattino, o di Rezzato e Bettoletto del mezzogiorno?
L’ordine giunse tardi e non certo per colpa d’alcuno; la cavalleria
che doveva sostenere la nostra brigata non si mosse, ed a chi la
fermò non saranno mancate buone ed imperiose ragioni; ma tutto ciò non
poteva essere nè conosciuto nè indagato da Garibaldi, il quale, avendo
la saggia abitudine d’ogni uomo di guerra di eseguire o far eseguire
immediatamente gli ordini che dà o riceve, non poteva arrestarsi a
discutere, a interpetrare quello che gli mandava il Re in persona; nè
per la prima volta che il Quartier generale l’onorava d’un suo comando,
rischiare di apparire o pigro o disubbidiente sol perchè v’era un
rischio maggiore ad essere sollecito e disciplinato.

E basti: la parte eroica e brillante de’ Cacciatori delle Alpi è
finita. Passato l’esercito alleato sulla sinistra del Chiese, la
brigata è divisa in due parti: una sta con Garibaldi ad occupare gli
sbocchi di Valsabbia; l’altra sale col Medici a custodire le gole della
Valtellina. Ma via via che il campo si impicciolisce, ne diradano i
frutti e ne ammutisce, innanzi al gigantesco strepito di Solferino, la
memoria.

Per alcuni giorni, è vero, Garibaldi spera sempre di potere, per
mezzo di barche, tragittarsi dal lago sulla sponda veneta, e girato
il Quadrilatero portarsi ancora sui fianchi dell’esercito austriaco;
ma un ordine del Quartier generale viene a troncargli il disegno
e la speranza. Il Cialdini, improvvidamente staccato dal grosso
dell’esercito, passa a dargli lo scambio in Valsabbia; ed egli,
Garibaldi, va a fiancheggiare il Medici in Valtellina; più tardi però
di nuovo è richiamato; e la brigata dei Cacciatori delle Alpi, già
ingrossata coi terzi battaglioni, e coll’arrivo del reggimento dei
Cacciatori degli Appennini cresciuta a Divisione, riceve il mandato
di custodire le tre valli che da Bormio, dal Tonale e da Monte Suello
sboccano in Lombardia, e potevano portar sui fianchi degl’Italo-Franchi
veri od immaginari nemici.

E fu memorabile in quel breve periodo la campagna del Medici, il quale,
impadronitosi con rapido colpo di mano di Bormio, rimase signore temuto
e incrollato della Valtellina fino allo scoccar di Villafranca; nè
furono senza sapienza nè senza pena gli ordini dati da Garibaldi, per
render concordi e armoniche le mosse delle sue tre colonne; ma a che
pro? Nessun nemico serio minacciava quelle chiuse; tutto lo sforzo era
concentrato tra il Chiese ed il Mincio: Solferino tra poco ci schiudeva
i varchi fino all’Adige, e pareva il penultimo atto del dramma. Scoppiò
invece inattesa catastrofe, Villafranca; e la stessa mano che arrestava
innanzi al Quadrilatero la marcia trionfale d’Italia, arrestava sui
monti i nostri Cacciatori delle Alpi, e li sospingeva col loro Duce in
cerca d’altri campi e d’altre battaglie.


XXVIII.

Il conte di Cavour, sbollita l’ira del colpo inaspettato, scriveva da
Leri: «Bénie soit la paix de Villafranca,[211]» e l’Italia faceva come
lui: s’adirava, rompeva prima in alte grida di dolore e di sdegno, ma
poscia in cuor suo diceva: Benedetta sia la pace di Villafranca! Gli
è che, se Villafranca troncava la guerra sul Mincio, le apriva una via
più libera e più ampia dal Taro alla Cattolica, e la lasciava arbitra
del proprio destino.

Un altro Solferino avrebbe ricacciato l’Austriaco oltre l’Alpi,
liberato la Venezia, costituito un forte regno dell’Alta Italia; ma,
periglioso ricambio, ingrandito e rassodato altresì il predominio
francese, conservati o restaurati nella Penisola tutti i suoi regoli,
effettuata senza possibilità di contrasto l’idea napoleonica della
Confederazione presieduta dal Papa, costretto lo stesso Governo di
Vittorio Emanuele a subirla per prudenza, a rispettarla per lealtà e
per gratitudine.

Mercè Villafranca il problema dell’indipendenza restava insoluto,
ma era avviata la soluzione di quello dell’unità. Il non intervento
non era ancora dichiarato nè pattuito; ma il nativo buon senso
degl’Italiani l’aveva letto, come suol dirsi, tra le righe, facilmente
comprendendo che Napoleone poteva bensì dispettare il moto unitario
del centro, e strepitare e minacciare, ma certamente non sarebbe mai
ridisceso in Italia a disfare colle sue mani l’opera sua, nè avrebbe
permesso che l’Austria, sua rivale, la disfacesse a beneficio proprio.
Così dalle sventure nascono sovente le fortune; così un fiume regio se
incontra una diga improvvisa devía bensì dal primo suo corso, ma per
scavarsi un letto più vasto e più profondo e camminare più maestoso
alla sua foce.

Restava, è vero, che gl’Italiani sapessero trar profitto dalle
favorevoli circostanze; ma sappiamo che di quel senno furono capaci.
Affrettare e condurre a termine la gran trama dell’unificazione,
contenendo al tempo stesso gli eccessivi, acquetando i timorati
e attraendo gli avversi; combattere in un punto solo le velleità
municipali, le congiure dinastiche, le candidature forestiere, senza
offendere troppo crudamente il culto delle tradizioni locali, nè
manomettere la libertà, nè insanguinare la rivoluzione; resistere
alle querimonie della Diplomazia senza irritarla, ai rabbuffi della
Francia senza inimicarsela, alle strida del Papa e dell’Austria senza
porger loro alcun pretesto di guerra; e tutto ciò operando d’accordo
col Piemonte senza comprometterlo e obbedendo alla volontà di Vittorio
Emanuele senza scoprirla; questa era l’opera molteplice e delicata che
il fato aveva imposto ai popoli del centro, e la storia ha scritto
come seppero compirla. Li sorresse, è vero, l’inflessibile fermezza
del barone Ricasoli; li scorse da lontano il tacito patrocinio d’un
gran Re, e dall’ombra solitaria di Leri il genio d’un grande Ministro;
li secondò finalmente un manipolo d’uomini valenti e benemeriti;[212]
ma insomma il primo e vero autore di quella stupenda concordia di
sacrifici e di ardimenti, di accortezze e di costanza che al sorgere
del 1860 riunì in una sola famiglia dodici milioni d’Italiani, fu il
popolo; e senza la virtù sua nessuna forza di volontà o prodigio di
genio avrebbe potuto vincere quell’ardua guerra.


XXIX.

E uno de’ maggiori problemi imposti ai governanti dell’Italia centrale
erano le armi. La formazione d’un esercito era non solo necessaria
a quei nuovi Stati, come testimonio della loro vitalità e guardia
della loro esistenza; ma all’intera Italia, che poteva da un istante
all’altro essere forzata a difendere colla spada in pugno il nascente
edificio della sua indipendenza. Tuttavia ordinare in un sol corpo
tutte le membra sparse di que’ tre o quattro esercitini che eran
smontati dalla guardia delle bandite Signorie, vivificandoli del
novello spirito, depurandoli dai corrotti elementi e fondendoli insieme
con tutta quella massa eterogenea di milizie improvvisate, di volontari
inesperti e di soldati di ventura accorrenti da ogni dove al centro,
come ad un focolare, non era facile assunto; e s’intende come ad esso
intendessero le supreme cure dei reggitori di quelle provincie. Vi si
eran provati prima il Mezzacapo colle milizie bolognesi, il Ribotti
colle parmensi, l’Ulloa colle toscane; ma nè quelli avevano riscossa
sufficiente autorità, nè l’Ulloa, per la mala prova fatta nella
spedizione di Lombardia e per i suoi armeggiamenti napoleonici, era
parso adatto all’ufficio. Si fu allora che il Governo del Ricasoli,
sospinto dal voto pubblico, pensò di invitar al comando dell’esercito
toscano il Garibaldi, incaricando dell’imbasciata il valoroso
Malenchini, già da qualche mese ascrittosi al Quartier generale dei
Cacciatori delle Alpi, e al Generale carissimo.

Erano i primi d’agosto; il Generale era in Lovere sofferente della sua
artritide, ma d’animo sereno e tranquillissimo. Villafranca l’aveva
scoraggiato meno di chicchessia; credeva più che mai alla fortuna
d’Italia; ammirava lo stupendo moto dei popoli del Centro; parlava
sempre con fede entusiasta di Vittorio Emanuele, e persisteva nel
predicare a quanti l’accostavano la necessità della sua dittatura. In
un manifesto, anzi, da lui indirizzato agl’Italiani del Centro, non
solo ripeteva quel ch’egli chiamava sacro programma: «Italia e Vittorio
Emanuele;» ma proclamava il dovere degl’Italiani di serbare: «Eterna
gratitudine a Napoleone e alla nazione francese.»

Naturalmente con siffatta disposizione d’animo l’offerta del Malenchini
fu prima accolta che annunziata. Il Generale chiese immediatamente
d’essere dispensato dal comando dei Cacciatori delle Alpi e il 7
agosto il Ministro della guerra La Marmora segnava il suo congedo;
l’11 rivolgeva un affettuoso addio a’ suoi compagni d’arme di Varese
e di Como; e il 30 di quello stesso mese, seguíto da pochi amici ed
ufficiali, partiva per Modena, dov’era stanziato il Quartier generale
della sua Divisione.

Quantunque però la sua nomina fosse grandemente popolare, non tutti
gli ufficiali dell’antico esercito toscano l’avevano veduta con uguale
favore. Sparsasi la voce ch’egli avesse proposto al Governo una lunga
lista de’ suoi vecchi ufficiali, li inaspriva il pensiero d’essere,
a cagion di questi, o cassati, e messi in disparte, o frodati de’
loro diritti ed offesi nel loro amor proprio. Invasati essi pure dal
pregiudizio comune all’universa famiglia militare, che Garibaldi non
fosse che un guerrigliero rivoluzionario, sprezzante delle ordinanze
stanziali, ribelle ad ogni disciplina, ignaro d’ogni precetto militare,
temevano ch’egli capitasse loro addosso per scompigliare e disordinare
anche quel poco che s’era fino allora faticosamente venuto ordinando
e costituendo; e per questa e per quella ragione ognuno «in suo sogno
dubitava.»

Quando però lo videro arrivare scortato soltanto da cinque o sei
ufficiali, e di questi quattro soli aver posti importanti ne’ quadri
della Divisione toscana: il Medici comandante di Brigata; il Bixio
d’un Reggimento; il Corte capo di Stato Maggiore;[213] e avvicinato
l’orco s’accorsero che non divorava, e cominciarono a sentir l’incanto
di quella parola melodica e l’impero di quella dignità affabile, e lo
videro alla prova reggere con mano ferma la disciplina, raccomandare
l’istruzione e attendere all’ordinamento del suo corpo, quanto e
meglio d’un vecchio Generale di mestiere; allora anche le idee de’ più
increduli si vennero modificando; la fiducia tra gli ufficiali e il
Generale rinacque prontamente, e la Divisione toscana prese ben presto
quel piglio sciolto, e quel carattere guerriero e italiano che per
ragioni molteplici le erano fino allora mancati.[214]


XXX.

Verso la metà d’agosto i quattro nuovi Stati di Toscana, Romagna,
Modena e Parma, ubbidienti ad una felicissima ispirazione
dell’infaticabile Farini, conchiudevano tra di loro una Lega militare,
mercè della quale ognuno di loro obbligavasi a contribuire un
contingente di milizie, destinate alla tutela dell’ordine ed alla
difesa dell’indipendenza comune, e ordinate perciò in un esercito solo
sotto un sol Comandante.

Ora è noto che il capitano prescelto fu Manfredo Fanti, il quale,
riunendo in sè i molteplici requisiti di Generale sardo, di dotto
militare e di vecchio rivoluzionario, sembrava l’uomo più acconcio
al delicato e multiforme ufficio. E certo l’esercito della Lega sentì
ben presto il tocco della sua mano esperta e robusta; lo partì in tre
Divisioni, mettendovi a comandanti Pietro Rosselli, Luigi Mezzacapo
e Garibaldi; apparecchiò i quadri di nuovi reggimenti di cavalleria
e artiglieria; alacremente provvide alle armi, alle assise, alle
ambulanze, all’amministrazione; aprì in Modena una Scuola militare,
che tuttodì fiorisce; e, riforma più importante di tutte, prima ancora
che l’annessione fosse dichiarata, diede al nuovo esercito i numeri
progressivi del piemontese e ne fece con esso un esercito solo. Un
solo atto del Fanti diremmo più degno di encomio per la sua generosità,
che per la sua saggezza: pochi giorni dopo il suo arrivo, nominava il
generale Garibaldi _Comandante in secondo_ dell’esercito collegato; val
quanto dire suo primo Luogotenente e rappresentante. Ora la ragione
ispiratrice di questo atto fu per fermo nobilissima, ma nel rispetto
militare non altrettanto saggia ed accorta. Codesti comandi duali negli
eserciti nuocciono spesso, giovano quasi mai. Se reali, aprono una
sorgente inesauribile di equivoci, d’attriti, di urti sovente rovinosi;
se apparenti, mortificano l’amor proprio dell’inferiore di grado, ne
scemano l’autorità, ne paralizzano l’azione, seppure non ne formano
un vero inciampo ed un vero pericolo. E il fatto ci darà fra breve
ragione.

Verso la metà d’ottobre era corsa voce che i mercenari pontificii, da
tempo raccolti ne’ dintorni di Pesaro, apparecchiassero un’irruzione
al di qua della Cattolica; e nello stesso tempo, che i popoli delle
Marche e dell’Umbria, stanchi di mordere il freno aborrito, fossero
prossimi a rompere in aperta sollevazione. A queste novelle, certo
ingrandite dal desiderio e dall’arte, nè il Ricasoli nè il Cipriani
prestarono fede; ma non così il Farini ed il Fanti, i quali, nutriti
di latte rivoluzionario assai più di que’ due, lungi dall’impaurirsi di
quella eventualità, l’avrebbero salutata con gioia, siccome l’occasione
più propizia per provare la forza del novello Stato e al tempo stesso,
sotto la bandiera della legittima difesa, dilatar la rivoluzione ed
estendere i confini dell’Italia liberata.

Il Fanti perciò, d’accordo col Farini, concentrate intorno al confine
due Divisioni, la toscana e la modenese, le pone entrambi sotto il
comando supremo del generale Garibaldi e gli dà per iscritto queste
testuali istruzioni:

  «1º Tenersi in difesa sulla frontiera.

  »2º Resistere al nemico se attaccasse.

  »3º Dato questo caso e supposto di poterlo respingere, inseguirlo
  oltre il confine sin dove la prudenza consigli arrestarsi.

  »4º Quando ciò avvenisse, altre truppe della Lega accorrerebbero
  immediatamente in appoggio di quelle che avessero oltrepassata la
  frontiera.

  »5º Qualora una intera provincia, o anche una sola città si
  sollevasse e proclamasse volersi unire alle Romagne, e domandasse
  soccorso per essere protetta contro un nuovo eccidio, simile a
  quello di Perugia, e per mantenere l’ordine pubblico, in tale
  evenienza doversi spedire ai sollevati armi ed armati, in quella
  misura che le circostanze consiglieranno.

  »6º Finalmente se il nemico tentasse colla forza di riprendere
  quei luoghi, le truppe della Lega dovranno opporvisi difendendoli
  energicamente, nè desisteranno dalle ostilità contro i Pontificii,
  se non quando abbiano occupato tanto terreno, quanto riterranno
  necessario per garantire la loro sicurezza.»


XXXI.

Non appena però queste istruzioni furono conosciute, grande l’allarme
su tutta la linea: gli stramoderati, perchè, a parer loro, si
avventurava nell’ignoto tutto il bene conquistato; il Ricasoli,
perchè non tollerava di veder complicata di nuovi problemi l’opera
dell’annessione, sua nobile monomania; il Cipriani, all’opposto, perchè
temeva di sgradir all’idolo bonapartista e di guastar il suo disegnino
d’una Romagna separata; il Gabinetto di Torino, perchè si sentiva
venir addosso nuovi impicci e nuovi rabbuffi diplomatici; tutti, quali
per una ragione, quali per un’altra, biasimavano quella risoluzione,
facendo carico al Fanti ed al Farini d’averla presa di loro capo senza
nemmeno consultar gli altri due Governi della Lega (nel frattempo i
Governi di Parma e di Modena s’eran fusi in un solo detto dell’Emilia),
e violando i confini della loro legittima podestà.

Però non andò guari che la procella, lentamente addensatasi in segreto,
alquanti giorni dopo scoppiò. Verso gli ultimi di ottobre, il Cipriani,
il Ricasoli e Marco Minghetti per terzo, convenuti segretamente alle
Filigare, deliberarono d’accordo di sconfessare senza indugio quelle
pericolose istruzioni, tenendo tuttavia quanto al modo due vie diverse,
secondo i caratteri e gl’ingegni: al Ricasoli essendo bastato di
disdire recisamente l’opera tenuta illegale e pericolosa; il Cipriani
avendovi voluto aggiungere di suo l’ingiunzione al Fanti di recarsi a
Bologna ad una specie di _redde rationem_, e di rimandar tostamente le
truppe ai quartieri d’inverno.

S’impennò alla superba intimazione il Fanti, e fiancheggiato dal Farini
ribattè fieramente col noto telegramma: «Non ricevo ordini che dai tre
Governi riuniti;» risposta invero più superba che giusta; poichè se i
tre Governi riuniti gli parevano necessari a disfare, a maggior ragione
avrebbero dovuto parergli indispensabili a fare.

Comunque, durando il dissidio, e persistendo il Fanti a voler
rassegnare l’ufficio piuttosto che cedere; il re Vittorio Emanuele, al
quale nulla di quanto accadeva nella Penisola era nascosto, risolveva
d’intervenire colla forza dell’autorità sua, chiamando presso di
sè Garibaldi a sentire consiglio; e scrivendo contemporaneamente
un’affettuosa lettera al Fanti per invitarlo a desistere da’ suoi
propositi e piuttosto a deporre l’ufficio ed a tornare presso di
lui, lasciando a Garibaldi solo il carico ed il rischio d’una impresa
ch’egli, Re, non approvava.

All’augusto invito nessuno de’ due Generali riluttò. Garibaldi si
mise tostamente in viaggio; e il 27 ottobre giunto a Torino aveva
un abboccamento di quattro ore col Re, di cui molto si novellò, e si
novella tuttora; nulla di certo, di preciso trapelò. Che disse infatti
Vittorio Emanuele al favorito Capitano popolare? Che rispose questi
al suo Re? Vi sono degli storici fortunati che posseggono l’anello
d’Alcina, e possono penetrare invisibili nella Reggia, invisibili
ascoltare i colloqui delle stanze più segrete, e allo stesso modo
uscire per imbandire all’indomani il verbo delle cose udite alla
turba credula e beata. A noi questo dono non fu concesso, e però
non potendo nè volendo spacciare per verità le nostre divinazioni,
ci accontenteremo, più modesti, a proporre quelle congetture che ci
sembrino più ragionevoli.

Che Vittorio Emanuele abbia consigliato Garibaldi a sospendere o, se
anche si vuole, a rinunciare interamente alla meditata irruzione, è
assai probabile; che gliel’abbia espressamente ordinato, due ragioni
gravissime c’inducono a dubitarne. Il Generale, infatti, appena tornato
da Torino a Rimini, lungi dal differire, affretta così gli ordini
dell’insurrezione al di là, come gli apparecchi dell’invasione al
di qua del confine; ed ai suoi ufficiali che lo interrogavano sulla
possibilità della passata, presente fra gli altri lo scrittore di
queste pagine, diceva pubblicamente: «Credo che saremo attaccati noi
stessi; ma _forse non ci mancherà l’occasione di marciare avanti lo
stesso_.[215]

Ora, che Garibaldi, risuonanti ancora gli orecchi degli augusti
consigli di Torino, s’arrischiasse a pronunciare in pubblico quelle
parole, ed a contravvenire apertamente e con apparecchi di guerra agli
ordini di quel Re, ch’egli ostentava, fin troppo, non che di ubbidire
come un Sovrano, di ascoltare come un amico, lo creda chi vuole. Noi
fino a prova contraria, fino alla presentazione d’un documento che
faccia testimonianza del colloquio di Torino, persisteremo sempre a
credere che Vittorio Emanuele consigliò, non comandò; consigliò in
guisa da far capire al suo non duro interlocutore, che non avrebbe, per
questo, perduto il di lui regale favore, se per avventura sotto la sua
responsabilità avesse disubbidito.

Certo il re Vittorio non poteva assumere su di sè l’approvazione
d’un’impresa, come quella che il Farini ed il Fanti avevano concertato;
e in ogni caso non gli doveva piacere che un Generale dell’esercito
suo, come il Fanti, membro d’un Governo posto sotto il di lui
patrocinio, se ne immischiasse; ma una volta levato di mezzo questo
unico indizio compromettente, che gl’importava, a che s’arrischiava
egli, e a che il Piemonte, se una persona qualsifosse, estranea al
Governo, libera e al tempo stesso amica, ribelle nei modi e devota al
fine, vi si avventurasse a tutto suo rischio e pericolo, e salva sempre
la condizione di giovarsene o di sconfessarla, secondo l’opportunità ed
il successo?


XXXII.

E che siffatti pensieri passassero per la mente del gran Re, non
è maraviglia. Era quella la politica del tempo: mirare al fine,
nascondendone i mezzi; onestare di forme legali la rivolta; i
rivoluzionari tentare di render complice la Monarchia; i monarchici
farsi stromento della rivoluzione; tutti giocar a giova giova,
mascherando d’inimicizie pubbliche gli amori privati nel sacro
intento di fare l’Italia. Però nulla anche di più naturale che,
in quell’armeggío di sottintesi, d’ambiguità, di nasconderelli, il
semplice Garibaldi si smarrisse, e pigliando di colta le prime parole
si credesse in diritto d’interpretarle nel loro senso più naturale e
operare a seconda.

Quanto al Fanti il discorso è di poco diverso; chè non volendo
trasgredire all’augusto consiglio del Re, e non potendo rassegnarsi a
desistere dal suo proponimento, deliberò piuttosto rassegnare l’ufficio
e il comando. Ma poichè a nessuno bastava l’animo di accettare quella
rinuncia che avrebbe privato l’esercito collegato della sua vera
provvidenza, l’indugio, come spesso accade, portò consiglio; e rinata
colla calma la fede nella suprema necessità della concordia, il
Farini ed il Fanti finirono per persuadersi che quello sperato moto
delle Marche era o illusorio o immaturo: lasciando bensì Garibaldi a
continuare la sua guardia alla Cattolica, ma tacitamente sottintendendo
che egli non avrebbe dato un passo più innanzi, e che le sue
istruzioni, senza revocarle espressamente, sarebbero rimaste lettera
morta.

E questo solo fu l’errore. Se i Governi dell’Italia centrale,
d’accordo ormai col Capitano supremo della Lega, stimavano di dover
rinunziare a quell’impresa, per la quale dianzi avevan giudicati
necessari il braccio ed il cuore di Garibaldi, non restava loro che
un solo partito onesto e saggio: avvertirlo che i loro ordini erano
revocati e richiamarlo dal confine. Trastullar Garibaldi di lusinghe,
e credere ch’egli se ne acqueterebbe; abbandonargli nelle mani un
ordine bellicoso, come quello di Modena, e pretendere che senza saperlo
revocato non lo eseguisse; lasciarlo a cavallo d’un confine a capo
di circa dodicimila uomini, quasi a tiro di moschetto d’un nemico
provocatore e aborrito, innanzi a mezza Italia da liberare, e sperare,
ch’egli si acconcerebbe lungamente all’imbelle gioco ed all’inutile
comparsa, era un dar prova, per non dir di peggio, che non si conosceva
ancora Garibaldi, nè si era imparato a servirsene.

Garibaldi era allora, come sempre, la rivoluzione; ora un Governo
qualsivoglia era certamente nel pieno suo diritto di guidare, di
frenare, di repudiare e riprendere a sua posta la terribile alleata,
ma ad un patto: che non ponesse il tizzone vicino alla polveriera, nè
pretendesse adoperare Garibaldi per spegnitoio. Usar gli uomini per
quel che sono e per quel che valgono, è il primo precetto dell’arte di
Stato; e non pare che i governanti dell’Italia centrale se lo siano,
in quel caso, ricordato abbastanza. Forte delle sue istruzioni non
disdette mai, e risoluto, se vuolsi, a interpretarle liberamente, ma
a non oltrepassarle, reputando vergogna per un esercito italiano il
guardar colle armi al braccio un branco di mercenari, grondanti ancora
di sangue cittadino, e non vedendo alcun rischio se di sottomano
aiutava e affrettava quella sommossa delle Marche, che tutti, anche
i più cauti, stimavan pretesto necessario alla guerra premeditata,
Garibaldi fece quel che doveva fare egli; quel che era da aspettarsi da
lui; quello che era nella natura sua e nella tradizione dell’intera sua
vita; e che si doveva in ogni caso vietargli ed impedirgli prima, per
avere il diritto di rimproverarglielo dopo.


XXXIII.

Garibaldi infatti non s’era infinto: egli da più settimane non lavorava
visibilmente che ad uno scopo: provocare fra i Marchigiani quella
sommossa che tutti aspettavano od annunziavano e non iscoppiava mai.
Perciò spediva messi, introduceva armi, allestiva barche sul mare,
inviava piccoli drappelli per terra; sinchè venne il giorno in cui
anche il Governo non potè più nasconderselo, e decise di richiamarlo
a Bologna, onde prima persuaderlo coi consigli, intimargli poscia
coll’autorità, di desistere da tutti quegli apparecchi e di non muover
passo senza nuovi ordini del legittimo suo Comandante.

E Garibaldi accorse senza sospetti, e trovato pronto a riceverlo, oltre
al Farini ed al Fanti, il generale Solaroli, inviatogli incontro dal
Re per il medesimo scopo, li seguì a Palazzo e si richiuse con essi
a consulta. Quivi i tre valentuomini espressero cortesi, ma franchi,
le ragioni loro; egli, non meno cortese e tenace, espresse le sue; ma
persistendo i primi e facendo appello alla necessità della concordia,
ai doveri della disciplina, agli ostacoli della Diplomazia, finirono,
se non propriamente col convincerlo, collo strappargli la promessa che
avrebbe rinunciato, per allora, alla vagheggiata impresa, e non operato
cosa che potesse dispiacere ai reggitori dello Stato.

Se non che appena fuori di Palazzo, ecco farsegli attorno i suoi
più accesi partigiani, e susurrargli: tutta quella voltata sentire
d’intrigo napoleonico; il Fanti ed il Farini essersi burlati di lui; la
rivoluzione essere imminente oltre il Tavullo; le promesse di soccorso
già date; fedifrago e crudele il mancarvi. Nè bastò; che giunto nel
cuore della notte ad Imola, vi trova, chi disse un messo, chi una
lettera, chi un telegramma, ma insomma qualcosa, o qualcuno insieme,
che gli annunziava per cosa certa la rivoluzione scoppiata oltre il
Tavullo, tutte le Marche andare in fiamme, ed aspettare impazientemente
l’aiuto promesso.

Chi abbia portato quella lettera o quel telegramma; d’onde sia
nata quella bugiarda notizia, non si sa ancora. Forse l’immaginò
l’impazienza e il desiderio; probabilmente fu fabbricata nelle occulte
officine delle sètte, nel qual caso la verità vi rimarrà perpetuamente
nascosta e intera non si scoprirà mai. Il fatto è che Garibaldi ne
fu colto. E soggiungiamo che probabilmente in altra disposizione
d’animo non lo sarebbe stato; ma allora, in quella notte, l’idea di
esser stato per tutto quel tempo burlato gli si era fitta come un
chiodo nel cervello, e non gli pareva vero che un sì felice annunzio
venisse a porgergli l’occasione di sventar la trama de’ suoi rivali,
e compire al tempo stesso un disegno ch’egli sinceramente credeva lo
svolgimento naturale della rivoluzione nazionale e la sua salvezza.
Risolvendo quindi con procellosa concitazione, annunzia per telegrafo
al Fanti: «Sollevate le Marche, muovere in soccorso de’ fratelli;» e
prese le poste, riparte a trotto serrato per Rimini, dove comanda che
per la notte stessa del 12 novembre le avanguardie abbiano a varcare il
confine e tutta la Divisione seguitare il movimento.[216]

Il telegramma da Imola cessò nell’animo così del Farini come del Fanti
ogni dubbiezza, e giustamente ridesti al sentimento della loro autorità
e responsabilità, spiccarono pressantissimamente contr’ordini energici,
affinchè nessuno de’ corpi sotto il comando di Garibaldi lo obbedisse,
e muovesse dalle sue stanze, o procedesse oltre, se per avventura si
fosse già mosso. E poichè, se ne eccettui qualche isolata imprecazione
e qualche sordo mormorío, tutti furono pronti all’obbedienza della
legittima autorità, l’impresa restò, pel fatto solo della mancanza di
forze, troncata nel suo nascere e sventata. Scoppiò invece all’inatteso
contraccolpo l’animo già tumido d’ira e di sospetto di Garibaldi: e
risolvendo tosto sotto la prima vampa della passione, rinfocolata da’
suoi più intimi seguaci e partigiani, riparte ancora per Bologna, si
presenta al Farini ed al Fanti, li investe di irate rampogne, e intima
loro, con temerità quasi ingenua, di cedere a lui la Dittatura politica
e militare. Resistettero alla procella i due valorosi; è fama anzi che
il Farini replicasse: ben lo si potrebbe gittare dal balcone in piazza,
ma non piegarlo per sedizione militare; risposta a dir vero inutilmente
romana, poichè Garibaldi parlò bensì imperioso e violento, non minacciò
di ribellione o di sedizione chicchessia.

Comunque, il Generale non gittò, come dice lo Zini,[217] il grado e il
comando; molto meno partì immediatamente per Torino; ma ritiratosi a
consulta con sè stesso e i suoi amici, «lasciò il Dittatore incerto del
partito che presceglierebbe.[218]»

Lo premevano infatti due correnti: da un lato i rivoluzionari
schietti[219] lo spingevano ad afferrare anche colla violenza la
Dittatura ed a varcare il Rubicone, che, forse, non era in quel caso
una mera figura rettorica; dall’altro i governativi, i moderati,
i prudenti, e più che tutti le segrete voci della sua coscienza,
rimasta fino allora provvidenzialmente paurosa della guerra civile,
lo consigliavano a contenersi, e a contenere i suoi più audaci; a
rassegnare piuttosto un ufficio, che non poteva nè esercitare con
libertà, nè tenere senza violenza.

Naturale pertanto che l’aspettazione delle risoluzioni di Garibaldi
tenesse in sospeso gli animi, così de’ suoi amici come de’ suoi
avversari, e che la battaglia che si combatteva in lui e attorno a lui
avesse un’eco in tutto il paese. Poichè se la sua Dittatura non poteva
parer provvida che a pochi fanatici o idolatri, la sua ritirata brusca
ed improvvisa dall’Italia centrale poteva sembrare pericolosa anche
ai più saggi. Giuseppe La Farina, che pellegrinava in quei giorni per
le città dell’Emilia, si provò ad intromettersi paciere nel conflitto;
ma dimostrando egli pure, come tanti altri, di non conoscere dell’eroe
che la corteccia, non gli soccorse altra idea più sublime che quella di
proporre che a Garibaldi fosse dato il comando supremo dell’esercito
dell’Italia centrale e al Fanti lasciato il Ministero della guerra.
Garibaldi pel primo rifiutò netto; ed era da prevedersi; poichè non era
nè il suono d’un titolo, nè la lustra d’un grado che egli mendicava;
era un comando effettivo, una balía assoluta, ch’egli aveva certamente
torto di pretendere a quel modo, e gli altri numerose ragioni di
ricusargli; ma che pure chiedeva soltanto nella profonda e sincera
illusione che quello fosse il miglior mezzo di giovare alla patria sua,
e di adempiere alla missione provvidenziale onde si credeva investito.

L’agitazione tuttavia cresceva; conati di manifestazioni rivoluzionarie
erano succeduti in varii luoghi; la parte più garibaldina dell’esercito
centrale rumoreggiava; conveniva che una risoluzione fosse presa; e la
risoluzione venne anche quella volta da Torino. Il 12 novembre il conte
di Cavour scriveva da Leri al Rattazzi: _Unico mezzo per soffocare la
nascente discordia, invitar Garibaldi a deporre il comando._ Rattazzi
teneva buona l’idea, ma troppo aspro il modo, e suggeriva al Re di
esperimentare ancora una volta il consiglio. Perciò il 14 Garibaldi era
chiamato da Vittorio Emanuele a Torino; il 17 mattina s’abboccava con
lui, e la sera stessa correva per tutti i giornali la notizia ch’egli
aveva rassegnato l’ufficio tenuto fino allora nell’Italia del centro.
Infatti due giorni dopo l’annunziava agl’Italiani, da Genova, col
celebre Manifesto del 19 novembre 1859, che vuol essere integralmente
riprodotto, come il primo indizio di quel dissidio tra la politica
rivoluzionaria garibaldina e la politica rivoluzionaria cavouriana,
le quali procedendo ora emule ora rivali, ora complici ora concordi,
fecero l’Italia:

                            «AGLI ITALIANI.

  »Trovando con arti subdole e continue vincolata quella libertà
  d’azione che è inerente al mio grado nell’armata dell’Italia
  centrale, ond’io usai sempre sempre a conseguire lo scopo cui mira
  ogni buon Italiano, mi allontano per ora dal militare servizio.
  Il giorno in cui Vittorio Emanuele chiami un’altra volta i suoi
  guerrieri alla pugna per la redenzione della patria, io ritroverò
  un’arma qualunque ed un posto accanto a’ miei prodi commilitoni.

  »La miserabile volpina politica che turba il maestoso andamento
  delle cose italiane deve persuaderci più che mai che noi dobbiamo
  serrarci intorno al prode e leale soldato dell’indipendenza
  nazionale, incapace di retrocedere dal sublime e generoso suo
  proposito; e più che mai preparare oro e ferro per accogliere
  chiunque tenta tuffarci nelle antiche sciagure.

                                                    »G. GARIBALDI.»

Dopo ciò si poteva credere che il Generale s’apparecchiasse, irato
Achille, a ritornare sotto la tenda della sua Caprera, tanto che
l’annunziava con un affettuoso e riverente biglietto[220] al Re stesso,
quando mutava improvvisamente pensiero; e il 23 mattina, giorno da lui
fissato per la partenza, bandiva un nuovo proclama agl’Italiani, in
cui, confermata la sua fede in Vittorio Emanuele, gl’invitava di nuovo
a versare il loro obolo per la sottoscrizione nazionale del _Milione
di fucili_, già da lui iniziata fin dall’ottobre, affinchè ognuno
«_preparasse un’arma per ottenere, forse domani, colla forza ciò che si
tentenna ora a concedere colla giustizia_.[221]»

Partiva invece per Nizza, dove dimorava, occupato di sue faccende
private, fino ai primi di dicembre, e dove, stando a svernare
l’Imperatrice delle Russie, si divulgava la fiaba ch’egli la
visitasse per accordarsi con lei circa ad una immaginaria candidatura
d’un Principe russo al trono, non per anco tagliato, dell’Italia
centrale.[222]

Di là fece, è vero, una corsa a Caprera, ma breve; chè prima della metà
dello stesso mese era di nuovo sul Continente. Dal 14 al 25 dicembre
infatti lo troviamo a Fino, villa del marchese Raimondi, presso Como,
d’onde indirizza agli studenti di Pavia un infiammato appello;[223]
il 26 passa per Milano, ed alla folla, acclamante lui essere la
forza d’Italia, risponde: «Errore; la forza di una nazione non è in
un uomo solo, ma in sè stessa;[224]» il 29 lo incontriamo a Torino,
dove lo porta la speranza di ottenere l’organizzazione della Guardia
Nazionale mobile di Lombardia ed ha in proposito un lungo colloquio
col Re.[225] Nel giorno stesso lo vediamo rinunciare alla presidenza
dell’_Associazione nazionale_ e mettersi a capo d’una nuova società, la
_Nazione armata_, che però, cedendo agli allarmi della parte moderata,
e forse del Re medesimo, scioglie subito dopo (4 gennaio);[226] il 6
del mese stesso, infine, fastidito dalle ambagi di quella politica che
non poteva comprendere, attratto dalla larva d’una felicità sognata fin
da Valgana, scompare novellamente nell’ombra di Fino, dove il perfido
Dio, che si trastulla specialmente degli eroi, gli andava tessendo in
silenzio le più grosse bende e i più volgari agguati.


XXXIV.

Abbiamo ripetuto più volte che un solo degli amori di Garibaldi, quello
d’Anita, ci parve degno di poema e di storia, e avvertiamo nuovamente
il volgo dei lettori ingordi d’aneddoti erotici, che questo libro non
è per loro. Sul finire del 1859 però, un amore, o fantasia, o avventura
amorosa di Garibaldi, si conchiuse nel fatto pubblico d’un matrimonio,
e noi possiamo scivolargli accanto e coprirne di discreti veli i
particolari, ma non trapassarlo in silenzio.

L’ultimo di maggio, il lettore non l’avrà dimenticato, si presentava a
Garibaldi, in Sant’Ambrogio, la giovane marchesa Giuseppina Raimondi,
che gli portava le notizie di Como, e insieme la preghiera dei Comaschi
di accorrere in aiuto della loro città minacciata da un ritorno
degli Austriaci. La messaggera era bella, di quella bellezza ardita e
virile, che poteva tanto sulla fantasia del nostro eroe; di più narrava
d’essere venuta traverso disagi e pericoli maggiori del suo sesso, ora
rompendo, ora deludendo le fitte linee di nemici che imboscavano il
paese; e Garibaldi, colto a un punto dalle seducenti attrattive della
donna e dal miraggio fascinante dell’amazzone, ne restò ammaliato.
Gli eventi d’Italia lo separarono per alcun tempo da lei, ma non
poterono cancellarla dalla sua mente; e non appena il tumulto delle
armi e l’altro più grande amore della patria gli concederanno un’ora
di tregua, l’immagine della fantastica fanciulla rivivrà innanzi a’
suoi occhi, e sognando, illuso, di ritessere in Italia, con una seconda
Anita, gli eroici idilli d’America, giurerà nel suo cuore di selvaggio
innamorato di farla sua per sempre, come l’aveva giurato alla povera
creola di Laguna.

Ed era appunto per sciogliere quel voto ch’egli tornava a quei giorni
sul Continente, e che noi lo troviamo nella seconda metà del dicembre
nella villa di Fino, dove la marchesa Raimondi villeggiava coi suoi
parenti. Indotto d’ambagi galanti, come delle diplomatiche; dimentico
de’ suoi cinquant’anni, e ignaro che il cuore della donna è pelago che
non si naviga mai senza scandaglio; avvezzo a prendere d’assalto le
fortezze d’amore come le fortezze di guerra, e scordandosi che quelle
seppelliscono spesso sotto corone di rose i loro vincitori; Garibaldi
disse alla bramata fanciulla il suo amore, e la chiese in isposa.
Il padre assentì; ella, che aveva già dato il suo cuore ad un altro,
doveva ricusare, e non osò; e Garibaldi il mattino del 24 gennaio 1860,
nella stessa cappella domestica di Fino, la condusse all’altare.

Poche ore dopo però una lettera, tardamente pietosa, venne ad avvertire
il Generale ch’egli aveva un rivale felice; ella, interrogata dal
marito, chinò il capo confessando, e Garibaldi, trovando in un impeto
subitaneo della sua tempra eroica la sola catastrofe degna del triste
dramma, monta a cavallo e fugge la sera stessa da Fino, riparando indi
a pochi giorni nella sua Caprera, dove non porterà seco di quella breve
fiamma che poca cenere amara e la balza d’un matrimonio di nome, di cui
la donna che gli fu moglie per pochi istanti fu la prima certamente a
sentire il tormento ed il castigo.[227]


XXXV.

Così finiva anche per Garibaldi il 1859.

Delle cose da lui operate come Capitano nell’estate di quell’anno,
il giudizio non è controverso, nè dubbia la gloria. Diversa invece la
sentenza intorno alla parte da lui rappresentata nell’Italia centrale.
Come non si potè levare dalla mente de’ suoi contemporanei, così non
si potrà interamente cancellare dalle pagine della storia l’opinione
che il Comandante in secondo dell’esercito centrale, volendo a forza
un’impresa che il legittimo Governo disvoleva, abbia tentato, se non
compiuto, un atto di ribellione, e posto a repentaglio, non che la
disciplina dell’esercito, la quiete e la salute d’Italia.

Pure non è questa la conclusione che scaturisce dai fatti da noi
esposti, e chi vorrà persistere in quel giudizio dovrà o smentire con
autentiche testimonianze i fatti, od aspettarsi dal tempo un giudizio
molto diverso dal suo.

Garibaldi esorbitò certamente nei modi e patrocinò forse con troppa
violenza un’idea per lo meno disputabile, e di cui non era giudice egli
solo; ma insomma quell’idea egli aveva il diritto di crederla buona,
non solo per sè stessa, ma anche perchè era stata caldeggiata fino
all’ultimo da quei medesimi che l’avevano poi sconfessata.

Di tutto quanto egli fece per apparecchiare il passaggio della
Cattolica, nessuno potrebbe fargli torto; poichè nessuno fino al
principiar del novembre pensò ad avvertirlo che gli ordini a lui
impartiti erano abrogati, e il mandato a lui commesso sospeso.
Fino allora dunque nulla nella sua condotta che non fosse, anche
militarmente parlando, regolare e corretto. Che se a novembre il
Governo mutò disegno e Garibaldi promise che avrebbe desistito dalla
cominciata impresa, fu soltanto perchè gli venne dato per certo che
l’attesa rivolta nelle Marche, stimata condizione indispensabile
all’invasione, non accadrebbe, nè poteva più accadere.

Ora lo si potrà accusare d’avere con troppa precipitazione creduto al
messaggio d’Imola, che gli annunziava invece la rivolta già scoppiata;
lo si può, lo si deve biasimare d’essersi tolto l’arbitrio di comandare
da sè solo una mossa che in qualsivoglia ipotesi spettava al Governo
solo di ordinare; ma di volontaria e meditata ribellione, non mai. Egli
non fu allora più ribelle al Farini ed al Fanti di quello che il Fanti
ed il Farini lo sieno stati un mese prima al Cipriani ed al Ricasoli.
In quel tramestío rivoluzionario, in quella semi-anarchia di governi,
di opinioni, di politiche, che cangiavano, si confondevano, si urtavano
ad ogni piè sospinto; in quel parapiglia di ordini dati a Modena,
disdetti a Bologna, modificati a Firenze, corretti a Torino, stabilire
l’esatto punto in cui l’opposizione diventava ribellione, e la legalità
rivoluzione, è difficile assai; e in un paese, dove tutti, da Vittorio
Emanuele al Cavour, dal Ricasoli al Farini, dal Fanti al Boncompagni,
cospiravano un po’, e spesso ad insaputa, talvolta a rovescio l’un
dell’altro, il rimproverare a Garibaldi d’essere tocco dal male comune,
deve parere soverchio anche pei più accigliati custodi della rigorosa
dottrina governativa.

Garibaldi era un generale, e sta bene; ma un generale unico, _sui
generis_, in tale posizione anormale che non ha riscontro nella storia
degli eserciti. Era un generale, ma insieme un capo-popolo, un tribuno,
un apostolo armato; era un generale, ma un presidente, riconosciuto ed
onorato dallo stesso Governo, di una vasta associazione politica; era
un generale, ma a cui era lecito di aprire pubbliche collette d’armi,
di scrivere ogni giorno un nuovo Manifesto politico o guerriero,
di avere uno Stato Maggiore composto in parte d’uomini politici, di
formarsi dei corpi speciali a suo talento, quasi guardie del corpo, di
arringare dai balconi il popolo, e di cospirare in segreto col Re. Ora
come applicare ad un uomo simile i criterii d’una rigorosa disciplina
militare, quando gli si concedeva di violarla ad ogni passo col
consenso e colla tolleranza dei suoi stessi superiori? Per impedirgli
d’agire di suo capo l’ultimo giorno, conveniva metterlo al dovere
fino dal primo; per rimproverargli di agitare il popolo, bisognava
non giovarsi o non compiacersi della sua popolarità; per censurarlo di
portar nei consigli militari la sua politica, importava non farne con
lui; nè spesso applaudirla e seguitarla in pubblico per sconfessarla
in privato. Garibaldi era logico. Convinto, come tutti i veggenti e
gl’illuminati, d’aver ricevuto dall’alto una missione, l’adempiva.
Persuaso che fosse dannoso l’arrestare «il maestoso andamento della
rivoluzione,» e che sola politica degna dell’Italia fossero «un milione
di fucili e un milione d’armati,» non nascondeva il suo pensiero; lo
gridava anzi ai quattro venti; e poichè il suo concetto trovava un’eco
non solo nel fondo di quelle turbe popolari a cui la sua voce più
dirittamente arrivava, ma un seguito ed una adesione in quelle medesime
classi che per altre ragioni lo combattevano, egli era in pieno diritto
di persistere nella sua via, e di chiamarvi a seguitarlo l’Italia.

Garibaldi faceva la parte sua, ed era provvido che la facesse. Le
grandi evoluzioni della storia, al pari delle grandi evoluzioni della
natura, non sono mai l’effetto d’una forza sola. Al movimento italiano
era tanto necessaria la forza impellente della rivoluzione, quanto le
forze moderatrici e dirigenti dell’arte di Stato, dell’ordine e della
legalità.

Se immaginare la rivoluzione italiana senza il nome di Vittorio
Emanuele e il genio del Cavour è impossibile, non meno impossibile
è pensarla senza la mano di Garibaldi, che a un dato istante, appena
la ruota pareva sviarsi od inciampare, veniva ad imprimerle un moto
impreveduto ed a risospingerla verso la sua mèta.

Questo egli volle nel 1859, ed era troppo presto; rivolle nel 1860, e
indovinò l’ora del destino.


  FINE DEL VOLUME PRIMO.




INDICE DEL VOLUME PRIMO


  DEDICA                                                       Pag. V
  PREFAZIONE                                                      VII
  FAC-SIMILE DI DUE PAGINE DELLE MEMORIE DI GARIBALDI               1

  _Capitolo_
    I. Dalla nascita al primo esiglio [1807-1836]                 ivi
   II. Da Rio Grande del Sud a Montevideo [1837-1841]              50
  III. Da Montevideo al ritorno in Italia [1842-1848]             109
           Carta dell’Uruguay con le provincie del Rio
             Grande Do Sul, dell’Entrerios e del Corrientes,
             ad illustrazione dei viaggi e delle azioni
             di G. Garibaldi nell’America meridionale             213
   IV. Da Nizza a Morazzone [1848]                                214
    V. Roma [1849]                                                246
   VI. Da Roma al secondo esiglio [1849-1854]                     331
           Schizzo topografico illustrativo del combattimento
             di Morazzone [1848]                                  392
           Schizzo topografico illustrativo della battaglia
             di Velletri [1849]                                   ivi
           Carta itineraria della ritirata di Garibaldi da
             Roma [1849]                                          ivi
  VII. Da Varese alla Cattolica [1859]                            415




ERRATA-CORRIGE.

Volume I.


  _Pag._   _lin._
     5,       7   l’anno stesso di        _va soppresso_
                    Cavour
    27,      12   Ragiundo                Raimondi
    84,      25   Tramandahy              Taramanday
   id.,    ult.      id.                     id.
    85,       4      id.                     id.
   id.,    ult.      id.                     id.
   170,       9   1842                    1843
   202,      13   14 gennaio              12 gennaio
   206,      22   Duyman                  Dayman
   233,       7   4 luglio                4 agosto
   247,      27   24 aprile               29 aprile
   259,       7   22 marzo                23 marzo
   280,      24   Giuseppe Rosselli       Pietro Rosselli
   398,      25   barca                   bara
   422,      24   fosse assalita          non fosse assalita
   424,      21   Migliavaca              Migliavacca
   437,      25   giornata stessa del 27  giornata stessa del 21
   450,      14   maggiore Bioll          tenente colonnello Bioll
   453,      17   colonnello Bioll                id.         id.

A pag. 193, riproducendo in nota l’ode a Garibaldi del signor Giuseppe
Bertoldi, corse un errore di disposizione.

Dopo la strofe sesta «Or leva dai marmorei ec.,» devono seguire
le ultime quattro strofe, che cominciano dal verso «Chi sono quei
fortissimi» e vanno al verso «Che fa l’americane acque stupir;» poi
l’ode continua colla strofe che nel volume sarebbe la settima: «Quando
su noi le barbare ec.»




NOTE:


[1] Essendosi S. M. degnata di mettermi in corrispondenza, per mezzo
del Ministro della Real Casa, conte Visone, col cavalier Promis,
bibliotecario della Biblioteca del Re in Torino, io esposi allo stesso
signor Cavaliere una serie di domande e di quesiti, ai quali egli, dopo
altre lettere cortesi, finì col rispondere in questo tenore:

«Ella....., sono persuaso, non potrà a meno di approvare il mio
operato, tanto più che tutto il desiderato è sotto suggello. Credo però
di non mancare al mio dovere, dicendole che moltissimo non esiste più,
essendo stato sottratto, non so nè dove nè da chi; ma è cosa notoria:
che del 63 e 64 nulla affatto vi è, forse perchè tolto o regalato:
nulla vi è sulla chiamata del Generale nel 1859, e sul richiamo dalla
Cattolica; poco sul resto: nulla del Re: qualche copia di proclama e
qualche raccomandazione: pochi fogli del 59 e 60 e di qualche altro
anno, tutte cose in gran parte pubblicate.»

[2] Nell’_Epître dédicatoire à Madame de Pompadour, premessa al
Tancrède._

[3] Le stesse _Memorie_ son quelle pubblicate da Alessandro Dumas
seniore, in due volumi col titolo _Mémoires de Garibaldi_ (Paris,
M. Lévy Frères, 1862); e in parte, fino al 1848, edite da Francesco
Carrano, allora generale, nel suo libro _Garibaldi e i Cacciatori delle
Alpi nel 1859_. Circa però all’edizione del Dumas conviene stare in
guardia, poichè se non può veramente dirsi che il celebre scrittore
abbia inventati fatti di sana pianta, li travestì di tante ciarpe
romanzesche da diventare talvolta affatto irriconoscibili. Epperò circa
a quel periodo le sole _Memorie_ di Garibaldi da tenersi per autentiche
son quelle dell’Elpis Melena. Vedi anche sulla storia delle _Memorie_
di Garibaldi confidate ad Elpis Melena un articolo di Saint-René
Taillandier nella _Revue des Deux-Mondes._

[4] Altre Vite da consultarsi con frutto per alcuni documenti che vi
si trovano sono: P. C. BOGGIO, _La Vita politica aneddotica militare
del generale Giuseppe Garibaldi_, Torino, 1861; GIUSEPPE RICCIARDI,
_Vita di Giuseppe Garibaldi_ narrata al popolo e continuata sino
al ritiro nell’isola di Caprera (9 novembre 1860), Firenze, G.
Barbèra, 1860; _Vita di Giuseppe Garibaldi_ scritta sopra documenti
genealogici, storici, dalla sua partenza fino al recente ritorno in
Caprera, Firenze, Le Monnier, 1864. Anche l’opuscolo _Garibaldi dal
1860 al 1879_ per F. BIDESCHINI, Roma, Tip. del Popolo Romano, 1879,
ha particolari interessanti, di cui l’autore, testimonio e attore,
può star garante. Taccio le straniere, copiate o calcate quasi tutte
sulle italiane. L’ultima comparsa che io mi sappia è _The Life of G.
Garibaldi_ by T. THEODORE BENT, London, Longmans, Green etc., 1881.

[5] Fra le Storie generali non va dimenticata quella dell’ANELLI,
_Storia d’Italia_, e affinchè _audiatur et altera pars_, confrontisi
anche _La continuazione alla Storia universale della Chiesa Cattolica
dell’Ab. Rohrbacher dall’elezione al Pontificato di Pio IX nel 1846
sino ai giorni nostri_, scritta dal prof. D. P. BALAN ec., vol. II,
Torino, per Giacinto Marietti, 1879.

[6] Eccone l’elenco nell’ordine e coi titoli appostivi dal Generale
stesso:

  L’Uomo                         Pag.  1
  Il Governo                           3
  Il Prete                             4
  Esercito                             9
  Il Popolo                           11
  Il Giornalismo                      14
  La Contesa                          17
  Cristo                              18
  La Religione del Vero               21
  Disciplina                          23
  La Donna                            25
  Dignità                             28
  Terror pànico                       34
  Marina e Cavalleria                 40
  Menzogna e Corruzione               43
  La Coscienza                        45
  Sarnico                             47
  Palermo                             51
  Calatafimi                          54
  Marsala                             56
  Aspromonte                          58
  Il Trasporto                        75
  L’Anima                             77
  Il Beneficio                        80
  Il Bene e il Male                   86
  La Morte                            89
  Il Dolore                           92
  I Ministeri                         98
  La paura governa il mondo          100
  La Dittatura                       109
  I Briganti                         116
  Ordinamenti                        121
  Nizza                              124
  Roma                               138
  Palermo                            140
  Donne                              142
  Le Latitudini                      144
  Incertezze. Pag. 154, interrotto
    alla                             155
  Unità Mondiale                 156-160
  Frammento sull’Esercito            161
  Poche parole all’Italia
    (interrotto)                 162-163
  Studio sui Venti (incompleto)  164-168
  Lo stesso in francese          169-172
  Il Furto organizzato           173-175
  Massime                            176
  Il Re Galantuomo               177-178
  Parlamento e Ministri              179

Altri frammenti di pensieri e abbozzi di manifesti e lettere, ec. e fra
gli altri alcuni studi di matematica.

[7] Soltanto nel correggere la stampa di questa Prefazione vengo a
scoprire che la lettera del Maraini fu in questi ultimi giorni stampata
dalla _Riforma_. Lungi dal mio pensiero l’incolpare il mio buon amico
Maraini d’aver voluto pagare anch’egli il suo tributo alla memoria
del grande uomo col mettere in luce un sì prezioso tesoro, sul quale,
poichè m’era stato donato per la stampa, potevo sperare d’aver anch’io
un certo diritto di prelazione. Mi scuso soltanto se la do per inedita,
poichè fino a ieri era tale per me.

[8] _On History_, nei suoi _Criticals and Historicals Essays_.

[9] _Historiarum_, lib. I, cap. I.

[10] G. CARDUCCI, _A Giuseppe Garibaldi_.

[11] _Memorie di G. Garibaldi_ pubblicate da FRANCESCO CARRANO
nell’opera: _I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi_,
ec., pag. 16. Torino. Unione Tipografica Editrice, 1860.

[12] Il DUMAS nelle sue _Memorie_ la chiama «Ragiundo;» il BORDONE
nel _Garibaldi_ «Bogiado;» ma il vero nome è Raimondi, come si rileva
dall’_Atto di morte_ di suo marito Domenico del 3 aprile 1841, estratto
dai Registri della Parrocchia della Concezione di M. V. in Nizza e
dalla immatricolazione di suo figlio Giuseppe nella Marina sarda,
ricavata dalla _Matricola del 1832_, pag. 392.

[13] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 10.

[14] Vedi _Memorie_ citate, pag. 10.

[15] Queste parole le traduciamo dalle _Mémoires de Garibaldi_, di A.
DUMAS padre (Paris, Levy, 1862), le quali devono tenersi, come dicemmo
nella Prefazione, un ampliamento del testo primitivo e originale,
ornato poi dalla fantasia del Traduttore.

[16] E non _Giovanni_, come dice il Dumas; e non _Giaume_, come scrive
l’Elpis Melena.

[17] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 12.

[18] Vedi _Memorie_ citate, pag. 14.

[19] A Enrico Guastalla, suo soldato da Roma a Bezzecca.

[20] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 14.

[21] Diciamo altrove, cioè nel _Garibaldi’s Denkwürdigkeiten_, di
ELPIS MELENA (pag. 17); mentre il testo Carrano non accenna a questo
episodio. Il Dumas poi vi ricama sopra uno de’ suoi soliti romanzi;
immagina favolosi combattimenti, e mette in bocca a Garibaldi parole
che non ha mai proferite.

[22] L’Elpis Melena, nelle _Memorie_ già citate, dice _Trovaigo_, ma
deve essere errore di scrittura o di stampa. Il Carrano, che riproduce
esattamente le _Memorie_ originali, dice _Sauvaigo_. E Dumas lo segue.

[23] Di queste parole restò memoria viva fra i vecchi conoscenti
ed amici di casa Garibaldi, e ce le riferì un egregio Nizzardo, che
volle favorirmi, con questa, molte altre notizie circa il suo celebre
concittadino e la sua famiglia.

[24] _Biografia di Giuseppe Garibaldi_ compilata da GIO. BATTISTA
CUNEO, pag. 16. Genova, Regia Tipografia Ferrando.

Il Carrano suppone che il credente potesse essere Mazzini. Ma il
Mazzini stesso ci assicura di non aver conosciuto Garibaldi che l’anno
dopo a Marsiglia.

[25] I preti di Firenze gli negarono la sepoltura! Ora dorme in Oneglia
sua patria.

[26] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 15.

[27] _Opere_ di _G. Mazzini_. Milano, Daelli: _Politica_, vol. III,
pag. 334.

[28] Ecco il suo atto d’arruolamento quale venne estratto dalla
_Matricola del 1832_, vol. I, pag. 392:

«Marinaro di terza classe Garibaldi Giuseppe Maria per nome di guerra
_Cleombroto_, figlio di Domenico e di Rosa Raimondi, nato li 4 luglio
1807 a Nizza, provincia di Nizza, iscritto alla Matricola della
Direzione di Nizza il 27 febbraio 1832 al Nº 289.

»Assentato da Genova come marinaro di terza classe di leva li 26
dicembre 1833. Statura oncie 39¾. Capelli e ciglia rossicci, occhi
castagni, fronte spaziosa, naso aquilino, bocca media, mento tondo,
viso tondo, colorito naturale, segni apparenti....

»Imbarcato sul _Des Geneys_ il 3 febbraio 1834. A. S. L. (assentatosi
senza licenza) dalla suddetta regia fregata il 4 febbraio 1834.»

[29] Durante il mio soggiorno a Caprera non era facile indurre
Garibaldi a raccontare le sue avventure; ma su questa tornava egli
medesimo spesse volte e volontariamente, ed era uno degli esempi con
cui illustrava la vanità delle congiure mazziniane, delle quali non fu
mai ammiratore.

[30] E non il _Nantomis_, come stampava forse per errore il Cariano; nè
il _Nagens_, come dice il Bordone.

[31] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 17.

[32] _Biografia di Giuseppe Garibaldi_ compilata da G. B. CUNEO, pag.
18.

[33] Le _Memorie_ del Carrano dicono _12_; quelle dell’Elpis Melena e
il Dumas _16_. Anche queste parole sono riferite con lievi varianti; ma
il senso è questo

[34] Barca destinata alla pesca delle _garape_, pesce delicato del
Brasile.

[35] Intende della Banda Orientale, secondo nome dato all’Uruguay che
si trova sulla sponda orientale della Plata.

[36] Piccolo fiume.

[37] Specie di gazzella.

[38] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 25.

[39] Nè il nome del capitano, nè quello del bastimento ci fu dato
accertare. Il Dumas dice: _un navire commandé par un Mahonais nommé
Don Lucas Tartanlo_. L’Elpis Melena: Luca _Tartabal von der Goelette
Pintosesco_. Il Carrano: _Lucas Tartabul della goeletta Pintaresco_.

[40] A G. B. Cuneo appunto in quei giorni scriveva: «Circa ad evadermi,
ti basti che sono in questa condizione sulla mia parola d’onore. Passo
la maggior parte del giorno leggendo libri che l’instancabile bontà
del mio ospite mi provvede; talora nella sera d’un bel giorno vado
a passeggio, visito qualche conoscente, e guardo malinconicamente
le bellezze del paese, e mi ritiro a casa; altre volte esco a godere
d’una bella mattinata, e leggo, scrivo, e _sempre in cuore l’Italia_, e
parlando con dispetto io grido:

    Io la vorrei deserta
    E i suoi palagi infranti
    . . . . . . . . . . . . .
    Pria che vederla trepida
    Sotto il baston del Vandalo!

La mia sorte è legata alla tua; guidati da un solo principio,
consacrati ad una causa, abbiamo rinunciato alla tranquillità e
imposto silenzio a tutte le passioni: ad onta dei giudizi leggeri
ed inconsiderati della moltitudine, che non riguarda sovente il
nostro generoso proposito che sotto l’aspetto d’interessate mire e
d’ambizione, proseguiremo. Il testimonio della coscienza ci basta.»

[41] Il Cuneo aggiunge: «che lo strazio crudele era reso più osceno
ed atroce da una turba selvaggia che, affollatasi alla soglia della
prigione rimasta aperta, scherniva il sofferente e del martirio faceva
argomento di contumelie.»

Qua e là si legge che Garibaldi, quand’era impeso alla trave, si
vendicò sputando in faccia al suo carnefice. Può essere, ma nelle sue
_Memorie_ non troviamo cenno alcuno del fatto.

[42] Specie di thè brasiliano.

[43] Al Brasile rammentano ancora il fatto; e a proposito di un canale
progettato, tra la laguna e Porto Allegre, il Siglo di Montevideo del
dicembre 1879, nº 4452, usciva con queste parole:

«_Canalizacion_. — Varios ingenieros brasileros han publicado un
folleto que versa sobre la apertura de un canal navegable entre
el puerto de la laguna y la ciudad de Porto Alegre. Referiendose a
ese proyecto, recuerda _O Cruzeiro_ un episodio de la vida militar
de Garibaldi. Ese ilustrado caudillo hallandose al servicio de la
revolucion republicana riograndense, ejecuto la idea que hoy se agita,
colocando tres lanchones sobre ruedas y metiendolos en el Capivary: de
manera que con esa parte de _navegacion terrestre_, pudo entrar en la
laguna con un solo barquetillo pues los demos naufragaron en la costa
de Taramanday.»

[44] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 46-47.

[45] Non si confonda questa _Laguna_, vasto lago nella provincia di
Santa Caterina, e che dà il nome alla città di Laguna sopra nominata,
colla laguna _de los Patos_, posta nel Rio Grande, di cui si è discorso
finora.

[46] Dal _Garibaldi’s Denkwurdigkeiten_, di ELPIS MELENA, vol. I,
pag. 84 e 85. Il Carrano sopprime il brano, e il Dumas al solito lo
infrasca. Nel rimanente tutta la storia d’Anita, tanto quella narrata
fin qui, quanto quella che avremo a narrare in seguito, l’abbiamo
attinta a due fonti per noi inoppugnabili: le _Memorie_ di Garibaldi,
le attestazioni di parenti e amici suoi, o testimoni, o consapevoli per
diretta notizia, de’ fatti.

[47] _Anta_ è una bestia inoffensiva della mediocre altezza d’un
somaro, la cui carne è squisita, e il cuoio serve a vari lavori. Io non
l’ho veduta mai.

[48] _Piccada_, vale ancora _foresta_.

[49] Specie di pino gigantesco.

[50] Boschi.

[51] Buchi ricoperti accuratamente con erbe, nei quali precipitando
l’incauto viandante, ne profittano i selvaggi per assalirlo.

[52] Dal 1836 al 1842.

[53] _Les dissensions des Républiques de la Plata et les machinations
du Brésil_, pag. 2. Paris, E. Dentu libraire-éditeur, 1865.

[54] Non dispiacerà forse il risapere che fra le sette prime famiglie
che vennero da _Buenos-Ayres_ ad abitare la nuova città, una era tutta
di Genovesi, cioè Giorgio Borgès, sua moglie Maria Carrasco e quattro
di famiglia.

E che per _Borgès_ si debba leggere _Borghesi_, e questo nome sia fra
gli antichissimi di Genova lo dimostra il prof. G. B. BRIGNARDELLO
nella sua _Memoria delle vicende dell’America meridionale e
specialmente di Montevideo nell’Uruguay_, pag. 31 e seg. Genova, 1879.

[55] _Glorias militares de los Españoles desde la mas remota antigüedad
hasta el presente_, tomo II, pag. 197. Cadiz, 1808.

[56] _Estudios historicos, politicos y sociales sobre el Rio de la
Plata_, por D. ALESANDRO MAGARIÑOS CERVANTES, pag. 97. Paris, 1854.

[57] In alcune provincie anzi, come nella Nuova Granata, fu piuttosto
diretto contro i Francesi ed i loro partigiani (_afrancesados_) che
contro gli Spagnuoli.

[58] La posizione astronomica della Repubblica è fra il 55° e 61°
longitudine occidentale, e il 30° e 35° latitudine meridionale dal
meridiano di Parigi. Gli scrittori di Geografia fisica del paese
s’accordano però nel dire che le osservazioni meteorologiche vi sono
ancora molto manchevoli e imperfette.

Vedi _Elementi di Geografia fisica della Repubblica orientale
dell’Uruguay_, di PIETRO GIRALT, membro dell’Istituto d’istruzione
pubblica in Montevideo. Versione italiana pubblicata per cura del
Consolato generale dell’Uruguay in Italia.

Poi: _La République orientale de l’Uruguay à l’Exposition de Vienne_,
par A. VAILLANT.

  Estensione della Banda Orientale           Chilom. quad. 186,920.01
  Popolazione assoluta nel 1877                            440,000. —
  Popolazione relativa per ogni chilom.
    quadrato                                                     2.4

_Riassunto statistico per l’Esposizione Universale di Parigi, fatto
dalla Direzione di Statistica della Repubblica_. Montevideo, 1878.

  Estensione dell’Argentina                Chilom. quad. 4,195,519.84
  Popolazione assoluta nel 1873                          1,877,490. —
  Popolazione relativa per ogni chilom.
    quadrato                                                     0.6

Oggi la popolazione assoluta è calcolata di 2,400,000.

Queste cifre risultano da un calcolo planimetrico eseguito nel 1873
e nel 1880 (_Die Bevölkerung der Erde_) da M. M. BEHM ET WAGNER, VI,
_Gotha 1880_, all’Istituto geografico F. Perthes di Gotha.

[59] Serpente che prende il nome dal rosso vivo del corallo. Così il
_coguar_ è una specie di leone più piccolo di quelli d’Africa e d’Asia.

[60] Uno dei difensori di Montevideo contro gl’Inglesi nel 1807.

[61] Il Saavedra favoriva la monarchia con un principe europeo.

[62] Nel progetto di trattato da lui proposto il 16 giugno 1815 aveva
inchiuso quest’articolo:

«13º — Las Provincias y pueblos comprendidos desde la márgen Oriental
del Paraná hasta la Occidental, quedan en la forma inclusa en el
primier artículo de este Tratado, como igualmente las provincias de
Santa-Fé y Cordoba hasta que voluntariamte no querian separarse de la
proteccion de la Banda Oriental del Uruguay y direccion del gefe de los
orientales.» _Bosquejo histórico de la República oriental del Uruguay_,
pag. 76.

[63] Parole del vicerè di Buenos-Ayres, Don Nicola de Arredondo, tolte
dal libro: _Estudios históricos, politicos y sociales sobre el Rio de
la Plata_, por D. ALEYANDRO MAGARIÑOS CERVANTES, ec., pag. 90. Paris,
tip. Ad. Blondeau, 1854.

[64] Vi è un quadro rappresentante _El Juramento de Los 33_, opera del
pittore uruguayano Blanos (ora dimorante a Firenze). Ecco i nomi di
que’ valorosi, ai quali forse pensò il venturo capitano dei Mille:

   1. Ignacio Nuñez.
   2. Juan Acosta.
   3. Felipe Carapé.
   4. Juan Rosas.
   5. Celedonio Rojas.
   6. Manuel Melendez.
   7. Avelino Miranda.
   8. Agustin Velasquez.
   9. Manuel Freire.
  10. Joaquin Artigas.
  11. Gregorio Sanabria.
  12. Santiago Nievas.
  13. Santiago Gadea.
  14. Ignacio Medina.
  15. Jacinto Trapani.
  16. Luciano Romero.
  17. Juan Spikermann.
  18. Pablo Zufriategui.
  19. Simon del Pino.
  20. Manuel Lavalleja.
  21. Juan Antonio Lavalleja.
  22. Atanasio Sierra.
  23. Manuel Oribe.
  24. Andrés Spikermann.
  25. Ramon Ortiz.
  26. Basilio Aranjo.
  27. Juan Ortiz.
  28. Pantaleon Artigas.
  29. Andrés Areguati.
  30. Andrés Chebeste.
  31. Francisco Lavalleja.
  32. Dionisio Oribe.
  33. Carmelo Colman.

[65] SARMIENTO, _Civilisation et barbarie_. Vedine l’ampio sunto nella
_Revue des Deux-Mondes_, 1º ottobre 1846, fattone da CARLO DI MAZADE.

[66] Taverne di campagna.

[67] MAGARIÑOS CERVANTES, op. cit.

[68] _Horca_ vuol dire nell’istesso tempo _covone_ e _forca_. Laonde
_Mas-horca: più forca_ e _più unione_; o l’unione che si cementa nel
sangue de’ patiboli.

[69] Vedi i _Decreti dei Governatori di Tucuman de Calamarca e
Corrientes_, in MAGARIÑOS CERVANTES, pag. 223.

Il primo di que’ Decreti dice:

«Todos les Argentinos estan autorizados á quitar la vida á los
comprendidos en el anterior artículo, en qualquier lugar del territorio
de la República, etc.»

Il secondo più esplicitamente:

«Considerando que es un crímen el mirar á los malvados facinerosos con
clemencia, etc.

»Art. 1º — Quedan proscritos _para siempre y fuera de la ley_, todos
los individuos de uno y otro sexo que se hallan alistados en las
filas de las dos divisiones de bandidos y malvados salvages inmundos
unitarios.»

[70] MAGARIÑOS CERVANTES, op. cit., pag. 10.

[71] Un ufficiale francese, il signor FERDINAND DURAND, in un suo
pregevole lavoro intitolato: _Précis de l’Histoire politique et
militaire des Etats de Rio de la Plata_, nello _Spectateur Militaire_
(febbraio e marzo 1852), dice a questo punto, «che l’Echague marciava
contro Montevideo, ma che vistolo occupato dai Francesi (i quali per
confessione sua non erano più di quattrocento) rinunciò ad assediarli,
e mosse invece contro il Ribera a Chagancia.» Questo, se non è
una vanteria francese, è manifestamente un grosso errore militare:
l’Echague non poteva mai impegnarsi ad assediare Montevideo, quando
aveva sui fianchi a poche leghe tutto l’esercito del Ribera, intatto e
impaziente di combattere.

[72] Vedi ANDRÉS LAMAS, _Apuntes históricos de las agresiones de Rosas
contra la independencia de la República oriental del Uruguay_.

Nella Nota 34 si legge:

«Libres los despojos humanos del general Lavalle en tierra boliviana,
por el heroico sacrificio de los patriotas que los custodiaban, Oribe
en su despecho _reclamó la estradicion de aquellos restos_. El general
Urdimenea rechazó con horror tan atroz proposicion.»

[73] Ciò è attestato dall’_Atto matrimoniale_ che pubblichiamo più
innanzi a pag. 377-78, in nota.

[74] Dal _Garibaldi’s Denkwurdigkeiten_ di ELPIS MELENA, vol. I. Il
Carrano abbrevia, il Dumas inventa; la sola Elpis Melena si sforza a
tradurre alla lettera il testo delle _Memorie_ originali che aveva tra
mano. Noi però, ritraducendo, usiamo, rispetto alla forma, d’una certa
libertà, anche perchè non siamo ben sicuri se la traduttrice abbia
sempre intesa o riprodotta fedelmente la locuzione italiana.

[75] Traduciamo alla lettera la frase del testo Elpis Melena, ma
confessiamo sinceramente di non intenderla. Come una squadra che
navigava in acque basse avesse bisogno di accrescere la propria
zavorra, nessuno l’intenderà mai, molto meno che avesse bisogno di
fare quest’operazione nell’imminenza d’un combattimento. Forse la
traduttrice ha voltato male una frase di Garibaldi, o si è spiegato
poco chiaramente egli stesso.

[76] WRIGHT, autore del _Siège de Montevideo_, citato da A. DUMAS
padre, nel suo eccellente libro: _Montevideo ou une nouvelle Troje_
(Paris, Nap. Chaix, 1850), dettatogli può dirsi dal general Pacheco,
ministro allora dell’Uruguay a Parigi.

[77] Vedi _Spectateur militaire_, febbraio, marzo e aprile 1852. —
_Précis de l’Histoire politique et militaire des États de Rio de la
Plata_, par FERDINAND DURAND; studio militare che ci fu di utilissima
guida.

[78] Propriamente d’Alzate.

[79] Il generale Sacchi ci diede i nomi di quei due ufficiali; si
chiamavano Larini e Ferretti; e sta bene che la storia serbi loro il
posticciuolo d’infamia che si sono meritati.

[80] Il Dumas narra il fatto con molte frangie di particolari
romanzeschi; e noi, come sempre, ci atteniamo alla più genuina, cioè
alla tedesca, tanto più che, se fosse vera la versione del Dumas, il
fatto di Garibaldi si aggraverebbe.

[81] Lo stesso capo dei 33.

[82] In un manoscritto di _Ricordi_ inediti da lui gentilmente
favoritoci.

[83] Crediamo voglia intendere l’_Himno Nacional_ orientale, scritto
dal FIGUERROA, il miglior poeta dell’Uruguay. Lo riproduciamo qui per
intero.

      Libertad, Libertad, Orientales,
    Este grito á la Patria salvò,
    Que sus bravos en fieras batallas
    De entusiasmo sublime inflamò,
    De este don sacrosanto la gloria
    Merecimos.... Tiranos, temblad!
    Libertad en la lid clamaremos
    Y muriendo tambien libertad!
      Orientales, mirad la bandera
    De heroismo fulgente crisol:
    Nuestras lanzas defienden sa brilla
    Nadie insulte la imágen del Sol!
    De los fueros civiles el goce
    Sostengamos, y el código fiel
    Veneremos inmune, y glorioso
    Como el arca sagrada Israel.
      De las leyes al númen juremos
    Igualdad, patriotismo, y union,
    Immolando en sus aras divinas
    Ciegos odios y negra ambicion;
    Y hallaran los que fieros insulten
    La grandeza del pueblo Oriental,
    Si enemigos, la lanza de Marte,
    Si tiranos, de Bruto el puñal.

    CORO.

      Orientales, la Patria ó la tumba!
    Libertad ó con gloria morir!
    Es el voto que el alma pronuncia
    Y que heróicos sabremos cumplir!

[84] Questi e i seguenti sono tratti dai _Documenti intorno a Garibaldi
e la Legione italiana a Montevideo_, pubblicati per cura del colonnello
E. DE LAUGIER. Firenze, tip. Fumagalli, 1846.

[85] Al Decreto tenne dietro il seguente Ordine del giorno del Ministro
della guerra, in virtù del quale tutta la guarnigione doveva sfilare
in colonna d’onore davanti a tutta quella parte della Legione che era
rimasta nella capitale:

«Per dare ai prodi nostri compagni d’arme, che s’immortalarono nei
campi di Sant’Antonio, una rilevante prova della stima in cui si tiene
l’esercito, del quale hanno illustrato la gloria in quel memorabile
combattimento, il comandante delle armi dispone:

1º Il giorno 15 del corrente, giorno segnalato dall’Autorità per
consegnare alla Legione italiana la copia del Decreto che precede,
vi sarà una grande parata della guarnigione, che si schiererà, ad
eccezione della Legione italiana, nella strada del Menado, appoggiando
la diritta nella piazzetta della medesima, e nell’ordine che indicherà
lo Stato Maggiore.

2º La Legione italiana si schiererà nella Plaza de la Costitucion,
dando le spalle alla Cattedrale, ed ivi riceverà la copia suddetta, che
le sarà consegnata da una Deputazione presieduta dal signor colonnello
Francesco Vajes, e composta di un capo, un ufiziale, un sergente e un
soldato di ogni corpo.

3º Incorporata la Deputazione ai corpi rispettivi, la guarnigione si
dirigerà alla piazza indicata, sfilando in colonna di onore davanti
alla Legione italiana; e in questo mentre i capi dei corpi saluteranno,
con Evviva la Patria, il generale Garibaldi e i suoi prodi compagni.

4º Le schiere dovranno essere allineate alle 10 della mattina.

5º Verranno consegnate copie autentiche di quest’Ordine generale alla
Legione italiana e al signor generale Garibaldi.

                                                    Pacheco J. Obes.»

[86] Lo togliamo dal Cuneo, che dice avere in suo potere l’autografo.
Egli aggiunge poi con la nota:

«Queste parole dell’Ammiraglio francese non possono far allusione che
alle ripetute calunnie a carico degl’Italiani apparse ne’ giornali
francesi intorno all’occupazione della Colonia, e specialmente ad
articoli pubblicati nella _Presse_, generalmente attribuiti al signor
Page, comandante del brigantino _Ducoëidic_, il quale trovavasi dinanzi
alla Colonia all’epoca dell’occupazione suddetta, e traeva coi cannoni
sugl’Italiani sbarcati, in luogo di mitragliare i nemici. Il signor
Page è tenuto nel Rio della Plata come interessato partigiano di Rosas.
Era ministro di Francia in Montevideo il barone Deffandis.» — CUNEO,
_Biografia di Giuseppe Garibaldi_. Genova, Regia tip. Ferrando, pag.
35.

[87] Anche un uffiziale del _D’Assaz_, brigantino da guerra francese,
confermava col racconto di fatti particolari le maraviglie destate dal
fatto prodigioso.

«Le notizie dell’Uruguay sono che Servando Gomez è stato battuto
da Garibaldi e Baez. Di 1200 uomini di cavalleria e 300 fanti ne ha
perduti 500; 250 furono trovati morti sul campo nella prima sortita,
e 124 la seconda; quattro carri pieni di feriti furono presi due
giorni dopo. Garibaldi aveva 200 uomini; ebbe 33 morti e 53 feriti,
tra i quali ultimi quasi tutti gli ufficiali. Baez ebbe 18 uomini resi
inabili all’armi. Il generale Medina arrivò al Salto il 9 febbraio con
280 uomini.»

[88] Vedi i N.ri 23 e 30 luglio, e 3, 6, 10, 13, 17 agosto 1847 di quel
giornale.

[89] Giovane allora, ora è il commendatore Giuseppe Bertoldi, membro
del Consiglio superiore dell’Istruzione pubblica. Noi riproduciamo qui
tutto il suo Inno non tanto come saggio della sua facoltà poetica,
quanto come un documento storico, che fa al tempo stesso bella
testimonianza dell’antico e generoso amor patrio del poeta:

      Beato l’uom che al gemito
    Della sua patria oppressa,
    Poichè di molti secoli
    L’onta pesò sovr’essa,
    Si sveglia, e il formidabile
    Suo brando impugna in nome del Signor!
      E pien della magnanima
    Ira di mille petti,
    Là dove più fiammeggiano
    Gli acciari ed i moschetti,
    Fra il denso fumo e gli orridi
    Rimbombi, cerca dei nemici il cuor.
      Da noi perdono impetrino
    Gli oltraggi a noi sol fatti:
    Dei popoli le lagrime,
    I violati patti
    Quaggiù non si perdonano,
    E il ferro appena cancellar li può.
      Confida negli eserciti,
    Empio oppressor, confida;
    Prepara Iddio le folgori
    E a un braccio sol le affida;
    Cadde il gigante esanime
    Al primo sasso che un fanciul lanciò.
      Oh! ben festeggi, o Genova,
    La secolar vittoria,
    Che conquistava un Davide
    Alla tua bella istoria,
    E fece all’implacabile
    Aquila le battute ugne tremar.
      Or leva dai marmorei
    Palagi il capo altero;
    China lo sguardo all’Isole
    Che il tuo divin nocchiero
    Cercò sotto astri incogniti,
    Fra le procelle d’intentato mar.
      Chi sono quei fortissimi,
    Che vinto il lungo assalto
    D’un oste innumerevole
    Entran festanti in Salto?
    Per chi quel serto intrecciano?
    Di chi parla quel cantico guerrier?
      Itali sono, ed italo
    È il Condottier dei forti;
    Un giogo iniquo a frangere
    Si sfidan mille morti,
    Ogni terreno è patria,
    Nessun popolo a noi vive stranier.
      Chi ne’ tuoi chiusi oracoli
    Può penetrar, gran Dio?
    Tu dei più eletti spiriti
    Vedovi il suol natío;
    Tu lasci qui nell’ozio
    Tanta gagliarda gioventù morir;
      E va Gioberti, vindice
    Dell’italo pensiero,
    Ad erger su gli elvetici
    Dirupi un trono al Vero;
    È Garibaldi un fulmine
    Che fa l’americane acque stupir.
      Quando su noi le barbare
    Orde stendean gli artigli,
    E la demente Italia
    Col sangue de’ suoi figli,
    Con l’oro suo mercavasi
    Eterno vitupero, e servitù;
      Signore, il tuo giudicio
    Era tremendo allora;
    Ma se di pochi e splendidi
    Esempi ancor s’onora,
    A serbar vivo un popolo
    Basta il pensier d’un solo e la virtù.
      Della grand’alma prodigo
    Per la non sua contrada,
    Altro ei non chiede in premio
    Che un tetto ed una spada,
    Molte battaglie e vittime
    E degli ospiti suoi la libertà.
      A noi concedi, o libero
    Di Washington nipote,
    Il trionfale cantico:
    Bello di patrie note,
    Più dolce nella memore
    Alma del nostro Eroe discenderà.
      E noi scemiam gl’ignobili
    Trionfi dei conviti;
    Noi defraudiam d’un vacuo
    Concento i molli uditi;
    E dica al mondo un povero
    Don che la madre di quei prodi è qui;
      Sappiano i nostri parvoli
    Il nome del Campione
    Con le dipinte immagini
    Dell’itala Legione
    Di trastullarsi godano,
    Per sorger essi ad emularla un dì.
      Già fra le rotte tenebre
    Penetra un raggio e splende,
    I volti si conoscono,
    Lo sguardo si comprende:
    Nostre non son le fertili
    Campagne, e nostro questo ciel non è?
      Appiè dell’Alpi battono
    Polsi di vita ardenti,
    Sorgon concordi, indomiti
    Voleri ed alte menti;
    Come dell’arme il fremito
    Suoni il vero giocondo al cuor del Re.
      Non affrettiam precipiti
    Il giorno glorioso;
    Quel giorno è nella provvida
    Mente di Dio nascoso;
    Allor che la sua vindice
    Destra folgoreggiando accennerà.
      E noi sorgiam terribili
    Dai campi e dagli spaldi;
    In ogni seno palpiti
    Il cuor di Garibaldi:
    Beato l’uom che l’anima
    In quel santo conflitto esalerà!

[90] Mancandocene il testo originale, la togliamo dalla traduzione
italiana delle _Memorie_ di A. Dumas, fatta da VINCENZO BELLAGAMBI.
Firenze, Pietro Del Corona, 1862.

[91] Il Cuneo dice che la lettera del Bedini aveva la data 14 novembre,
e ne dà questo sunto per esteso:

«Sento il dovere di significarle senza indugio che quanto in essa si
contiene (nella lettera di Garibaldi) di devoto e di generoso verso il
Sommo Pontefice regnante è veramente degno di cuori italiani, e merita
riconoscenza ed elogio.

Col pacchetto inglese che partì ieri trasmisi l’indicato foglio a Roma,
onde siano eccitati anche in più elevati petti i medesimi sentimenti.
Se la distanza di tutto un emisfero può impedire di profittare
di _magnanime offerte_, non ne sarà mai diminuita nè menomata la
soddisfazione nel riceverle.» Conchiudeva con questo voto: «Quelli che
si trovano sotto la sua direzione, deh! che sian sempre degni del nome
che li onora e del sangue che li scalda! Con questo voto sincerissimo
accompagno l’augurio, ec. ec.»

[92] Dobbiamo il documento alla cortesia del generale Giacomo Medici,
che ci fa largo di molte altre carte e notizie.

[93] Nei giornali vedemmo spesso confusi i due nomi. Il signor
Giacomo Antonini, che abitava a Montevideo ne’ giorni della partenza
di Garibaldi, ci chiarì finalmente la causa della confusione. Il
_Bifronte_ venne ribattezzato _La Speranza_ col consenso del Console
sardo.

[94] PACHECO Y OBES, _Réponse aux détracteurs de Montevideo_. Paris,
1849.

[95] PACHECO Y OBES, op. cit.

[96] Così le parole di Lord Howden come quelle di Garibaldi sono
riferite dal CUNEO nella sua _Biografia_, e nelle _Memorie_ edite dal
CARRANO più volte citato.

[97] L’episodio ci fu narrato tal quale dal generale Gaetano Sacchi.

[98] Nella _Concordia_ del 19 giugno 1848 si leggeva:

«_Cronaca politica_. — Si legge nell’_Echo des Alpes Maritimes_: Un
naviglio sardo proveniente da Montevideo annunzia che partì da questa
città nello stesso tempo che una fregata di trentasei cannoni (?),
sulla quale si trova il generale Garibaldi colla Legione italiana. Il
capitano aggiunge che navigò con questa fregata sino al golfo di Lione,
dove i due navigli destinati per Genova si dovettero separare in causa
del cattivo tempo. Ciò vuol dire che non possiamo tardare a vedere il
valoroso Generale e complimentarlo.»

[99] Anche un carteggio del 27 giugno 1848, diretto da Nizza alla
Concordia di Torino, confermava, ampliandolo, il discorso tenuto da
Garibaldi al banchetto di Nizza, e noi lo riproduciamo per documento:

«Giungendo direttamente a Nizza da Montevideo, egli ignorava tutto
quanto era succeduto in Europa dappoi il mese di gennaio, ed era
talmente digiuno delle cose nostre, che, temendovi ancora il capestro
e le persecuzioni del 1833, entrò nel nostro porto inalberando sulla
di lui nave la bandiera di Montevideo; ma quantunque..... (_Qui il
manoscritto, da cui togliamo questi estratti della_ Concordia, _ha
una frase incompiuta e forse sbagliata dal copista, che omettiamo_)
col cuore ulcerato dall’esiglio, conobbe tosto quale giustamente
fosse l’attuale nostra condizione, e ne presentì i bisogni. Fu sempre
repubblicano, e s’avvide che pel bene d’Italia rinunciare pur doveva
alle inveterate sue convinzioni per francamente unirsi a Carlo Alberto,
ed alle sole forme di governo che sono in armonia colle necessità
della Patria, e proclamò altamente l’unione e la perseveranza nel gran
principio che l’Italia _deve fare da sè!_ Disse quindi in occasione
dell’offertogli banchetto: _Tutti quei che mi conoscono sanno se io
sia mai stato favorevole alla causa dei re; ma questo fu solo perchè
allora i Principi facevano il male d’Italia; ma invece io sono realista
e vengo ad esibirmi coi miei al Re di Sardegna che s’è fatto il
rigeneratore della nostra Penisola, e sono per lui pronto a versare
tutto il mio sangue; io sono certo che tutti gli Italiani la pensano al
pari di me; vorrei potervi provare, o miei concittadini, che non ho mai
dimenticato il mio suolo natale, e che la fraterna vostra accoglienza
mi sta impressa nel cuore. Viva l’Italia! Viva il Re! Viva Nizza!_

E quando poi questo nostro illustre concittadino sentiva alcuni di quei
pochi, i quali affermano che gl’Italiani nulla possono senza l’aiuto
della Francia, ne arrossiva per loro e con rabbia esclamava: _Se gli
uomini temono, radunerò le donne italiane che basteranno a cacciare
gli Austriaci_. Ed a coloro poi che accorrevano volontari sotto il
suo comando, diceva: _Non credetevi che io vi conduca a gozzovigliare;
chè vi toccherà invece patire la fame e la sete, e di dormire sul nudo
terreno, a cielo scoperto, e di reggere ad ogni sorta di fatiche e di
pericoli, giacchè la mia Legione non indietreggia; e non intendo, per
Dio, che abbia mai ad indietreggiare._»

[100] Dei giornali di Nizza e di Genova chi dice novanta, e chi
censessanta. La prima cifra è evidentemente sbagliata, perchè ne aveva
condotti seco soltanto dall’America ottanta, e n’avea già reclutati in
Nizza circa settanta. Dicendo circa cencinquanta, crediamo essere più
prossimi al vero.

[101] La _Concordia_, in una corrispondenza da Genova del 29 giugno,
parla del suo arrivo così:

«Ti scrivo in tutta fretta per dirti che il prode Garibaldi è giunto
ora in porto con novanta uomini della sua invitta Legione. Garibaldi
scenderà a terra incognitamente. In questo punto (ore 1 pom.) sono
discesi sul ponte reale i legionari e defilano a suon di tromba,
preceduti dalla bandiera italiana, collo scudo di Savoia, e dalla loro
propria. Sono tutti giovani alti, robusti e pieni di vita; la maggior
parte sono nostri, come Italiani. Strepitosi applausi vengono innalzati
sul loro passaggio, dal popolo che si accalca lungo le vie. Essi
verranno ospitati nei quartieri militari di San Leonardo.»

E un’altra notizia del 30 giugno aggiunge questi particolari:

«Il prode Garibaldi scese a terra ieri verso le due del pomeriggio,
e recossi difilato ad abbracciare il povero Anzani infermo. Si portò
poscia a far visita al Governatore ed ai sindaci, dai quali fu accolto
con tutti quei riguardi che meritano le eminenti sue virtù militari.
Il Garibaldi era in abito borghese; ed il popolo schieratosi sul
suo passaggio lo accolse con un sonoro batter di palme e di viva
strepitosi. Egli ha con sè centosessanta legionari, metà dei quali
appartengono alla famosa Legione italiana di Montevideo; gli altri sono
nuovi arruolatisi recentemente. Molti ufficiali incanutiti negli stenti
della guerra, infiammati dal santo amor di patria, hanno rinunciato al
loro grado ed ai loro onorarii per correre in Italia e militarvi nella
guerra santa da semplici soldati.»

[102] Il VECCHI (_La Italia, Storia di due anni_, vol. I, pag. 216)
mette in bocca a Garibaldi queste parole:

«Sire, ho combattuto in terra straniera per la libertà d’un paese
ospitale, e Dio benedisse alle armi nostre, illustrando il nome dei
legionari italiani. Con pochi de’ miei giunsi anche in tempo per la
impresa onorata. Ho qui dentro un cuore che ama l’Italia davvero, e
richiede a mercede di poter operare cogli altri ciò che ridondi in di
lei vantaggio e onore.»

Il Re rispondeva aprisse quel suo desiderio ai ministri, dolergli non
poterlo fare di per sè stesso, e accomiatollo con gentili testimonianze
d’affetto.

Non sappiamo dove le abbia tolte. Noi non le abbiamo vedute riferite
in alcun altro luogo. Se i sentimenti sono probabili, lo stile non è
certamente quello di Garibaldi.

Anche il Boggio fa addirittura una scena drammatica dell’incontro di
Garibaldi con Carlo Alberto.

[103] Garibaldi arringava il popolo dal balcone della _Bella Venezia_,
e diceva nell’usato suo stile: «Cari Milanesi! Vi son grato delle
vostre ovazioni, ma questo non è tempo da gridi e da ciarle; è tempo
da fatti. Pur troppo lo sgherro nemico ha ripreso lena e coraggio. Noi
dobbiamo sbarrargli la via al ritorno in queste belle contrade, ec.»

[104] La Legione si radunò per partire alla caserma di San Francesco
in piazza Sant’Ambrogio, che era il luogo delle sue consuete riunioni
per gli esercizi. Questi, ed altri particolari che verrò in seguito
indicando, li tolgo dal manoscritto di ANTONIO PICOZZI, _Episodio
storico concernente i fatti militari di Garibaldi e di Medici nell’anno
1848_.

Il Picozzi, mio carissimo amico e commilitone, fece parte in quell’anno
del _Battaglione Anzani_: le cose da lui narrate adunque meritano piena
fede, ed io m’auguro che il suo Manoscritto veda presto la luce.

[105] Giunta da un’ora la colonna garibaldina in Monza, ci fu un falso
allarme; e poichè il battaglione Anzani era agli avamposti, il Picozzi
narra d’aver «visto egli stesso il Mazzini, armato di carabina inglese,
schierarsi fra i militi della seconda fila disposto a fare ciò che era
compito d’ogni legionario italiano.» (_Manoscritto_ citato)

[106] Lo riportiamo dal CANTÙ, _Della indipendenza d’Italia,
Cronistoria_, vol. II, parte II, pag. 964. Torino, Unione
Tip.-Editrice, 1875.

[107] Il Manifesto restò nascosto parecchi anni; io lo tolgo dal citato
manoscritto: _Episodio storico_, ec., del PICOZZI, il quale lo ebbe dal
suo amico Pietro Perelli, che custodì il prezioso documento durante il
decennio 1849-59 della dominazione austriaca in Lombardia.

[108] Nella _Concordia_ del 4 settembre 1848, tolta dal _Pensiero
Italiano_, troviamo una relazione del combattimento del Medici, scritto
in persona prima e con tale esattezza di particolari che non esitiamo
a dirlo del Medici stesso. Noi lo riproduciamo, facendo una riserva
soltanto sul giudizio ch’egli porta circa il movimento di Garibaldi su
Morazzone; riserva di cui diamo ampia ragione nel testo:

                               «SVIZZERA.

              _Ultime relazioni della colonna Garibaldi._

                                                   Lugano, 31 agosto.

Non ho che scoranti notizie ad annunciarvi: tutti i nostri tentativi
ebbero infelicissimo esito, non vi so dire se per difetto di prudente
direzione, oppure per la generale demoralizzazione nata in conseguenza
di tradimenti e della diserzione di non pochi dei principali capi delle
forze lombarde da loro condotte nell’errore di ridursi in Piemonte,
anzichè combattere sul proprio suolo per la vera causa. Garibaldi
solo tentò mantenere attiva l’insurrezione; ma come egli fu debolmente
assecondato e da pochissimi seguíto, dovette finalmente cedere il campo
alla forza prepotente del nemico.

Avrebbe egli però potuto sostenersi più lungo tempo, se, meno ardito,
si fosse mostrato più sulla difensiva sui monti, invece di spingersi
troppo avanti verso la pianura; il nemico difatti colse in buon punto
l’occasione di portarsi egli con grosse colonne allo spalle ed ai
fianchi, e nella notte del giorno 26 Garibaldi colla sua colonna, forte
di milledugento militi, fu sorpreso dal nemico in Morazzone, luogo poco
distante da Varese; alcune bombe vi misero l’incendio, la colonna si
decise a ritirarsi, ma, appena mossa, colta da timor pánico cominciò
a disordinarsi e poco dopo a sbandarsi, e capi e soldati ognuno cercò
salvarsi come meglio potè attraverso i monti. Garibaldi giunse in
Isvizzera con non più di trenta uomini; a poco a poco ne giunsero altri
quattrocento circa; del resto ignoriamo, ma pur troppo dobbiamo temere
sia in gran parte caduto in potere del nemico.

Più fortunato fui io colla mia compagnia, poichè trovandomi distaccato
dalla colonna con missione di fiancheggiarla e di molestare il nemico
con qualche sorpresa, fui invece nella mattina del 24 d’improvviso
assalito da una forza di circa quattromila di fanteria, cinquecento
di cavalleria e due batterie, divisa in più colonne, che da ogni
lato tentavano avviluppare le posizioni che io occupavo. Il fuoco
di fucileria e d’artiglieria fu vivissimo, ma non sgomentò punto i
valorosi miei militi, che bene difendendosi e talvolta attaccando
resistettero quasi quattro ore al fierissimo assalto; per ultimo,
sopraffatto dal numero cotanto sproporzionato, prevedendo che la
ostinazione di pochi minuti di più avrebbe reso, se non impossibile,
difficilissimo il ritirarsi, ho raccolto la mia gente, e con perfetto,
ordine, colla mia piccola bandiera (Dio e Popolo) sventolante, mi
ripiegai sulla frontiera svizzera, sempre però molestato da quei
barbari che per due volte violarono il confine in persecuzione nostra.
La mia perdita in morti e feriti fu sensibile più per la qualità
degl’individui che per la quantità, quella dell’inimico fu dieci volte
maggiore. Non avevo che centodieci uomini con me, occupavamo una linea
di circa un miglio e mezzo disposti in posizioni fortissime con non
difficile ritirata sopra un punto centrico, in modo che era facile
il farci supporre assai più in numero; difatti il Generale nemico
credette d’aver da fare con tutta la colonna Garibaldi; e veramente mi
vien da ridere quando penso a tutte le mosse tattiche e strategiche di
tutta quella grande massa, al trasporto de’ cannoni sulle alture, alle
grida feroci, e con tutto questo lasciarsi contendere per tanto tempo
il passo da sì piccolo drappello di giovani ardimentosi di certo, ma
non anco avvezzi ai movimenti ordinati dei militari. Oh se veramente
gl’Italiani si decidessero a combattere davvero, s’accorgerebbero
tosto del quanto sia infondato il timore che si ha per tutta Italia dei
centomila vandali, se pur tanti sono.»

[109] Il CUNEO e il BOGGIO nelle loro _Vite_ ripetono l’aneddoto. La
fonte però manca.

[110] Lo raggiunsero colà i resti del battaglione degli Studenti
mantovani, poco più di duecento uomini.

[111] Valga di prova questo documento inedito ricavato dal _Cartone_ 9,
al 16 marzo 1849, degli _Archivi di Stato_ di Roma:

«In risposta ad un dispaccio del Ministero dell’interno, Nº 6453,
del marzo 1849, che lamenta d’essersi introdotti in Bologna alcuni
individui pregiudicati e scappati dalla galera di Civitacastellana per
arruolarsi nella prima Legione italiana, il generale Garibaldi scriveva
la seguente:

  «_Comando della Iª Legione italiana_, N. 9.

                                              Rieti, 15 marzo 1849.

      Cittadino Ministro.

      Risposta al Nº 6453 S. S.

  Di quelli venuti da Civitacastellana disertarono cinque, tre dei
  quali, Borghi Raffaele, Bussi Francesco e Trebbi Paolo, fino dal
  giorno 4; gli altri due, Martelli Luigi e Zani Luigi, il giorno 14.
  Dall’epoca in cui disertarono, vorrei dedurre che neppure i primi
  avrebbero potuto trovarsi in Bologna, quando accaddero quei fatti
  che mossero tanto terrore.

  Altri tre di Ravenna si evasero dalla Legione il giorno 5, e sono:
  Lombardi, Paoletti Michele e Morelli; neppure questi potevano
  trovarsi in Bologna all’epoca dei querelati fatti.

  Per gli uni e per gli altri ho date ovunque indicazioni e preghiere
  per arrestarli e ricondurli a subire la pena nella Legione, ma
  senza effetto.

  Io non so che altro avria potuto operare per impedire qualsiasi
  disordine.

                                         _Il Comandante la Legione_
                                                     G. GARIBALDI.»

[112] Dapprima, per verità, volevano mandarlo a Fermo; dopo mutarono
in Macerata. L’ordine però gli arrivò per via, quando la Legione era
già a Foligno ed egli a Terni; il che prova che Garibaldi era già stato
accettato ai servigi del Governo romano fino dai primi di dicembre, e
che l’idea di rinviarlo a Fermo od a Macerata non venne a’ governatori
di Roma che più tardi.

E di tutto ciò fa testimonianza una lettera di Garibaldi al Ministro
della guerra, romano, già pubblicata da Federico Torre nella pregiata
sua opera: _Storia dell’Intervento francese in Roma nel 1849_, vol.
I, documento LXIV, pag. 357 (Torino, tip. del Progresso): lettera che
vuol essere riprodotta per chiarezza dell’itinerario del Nostro a que’
giorni;

                                            «Terni, 22 dicembre 1343.

  Eccellenza,

Domani raggiungerò la colonna a Foligno, da dove mi dirigerò a
Rieti, punto che mi sembra molto più conveniente per organizzare il
battaglione e ricevere da Roma il vestiario, armamento ed altri oggetti
indispensabili. Mi permetto di raccomandare a V. E. il pronto invio del
vestiario, e massime dei cappotti e scarpe, trovandosi la gente in uno
stato deplorabile.

Onori de’ suoi comandi.

                                                        G. GARIBALDI.

_PS_. — Ho ricevuto il dispaccio di V. E. dopo d’aver scritto la
presente, e dirigerò la colonna a Fermo, siccome mi vien ordinato.
Ringrazio V. E. dell’accettazione del Corpo al servizio dello Stato,
e solamente reitero la sollecitudine dell’abbigliamento e dei suoi
ordini. Vale.

_A S. E. il signor Ministro della Guerra._»


Quando si consideri pertanto che Garibaldi era a Macerata il 1º gennaio
1849, come tra poco dimostreremo, si deve ragionevolmente arguire
ch’egli partì da Ravenna nella prima settimana di dicembre; arrivò
a Foligno per la via di Fano e il Passo del Furlo tra il 15 e il 16;
ripartì da Foligno per Fermo tra il 27 e il 28 (probabilmente vi stette
ad aspettare il vestiario), e fu a Macerata il 1º del 1849; dove forse
lo raggiunse un novello ordine di non proseguire più per Fermo e di
starsene dov’era.

[113] Fu eletto il 21 gennaio 1849. A proposito di codesta elezione e
del soggiorno di Garibaldi in Macerata, ecco quello che ce ne scrive un
antico patriotta e onorando gentiluomo di quella città:

«1º Il generale Garibaldi arrivò con la sua Legione in Macerata il 1º
gennaio 1849, e ne ripartì il giorno 24 dello stesso mese di gennaio
1849.

»2º Durante l’indicata permanenza della Legione garibaldina in quella
città si manifestò una qualche discordia tra i borghigiani di San
Giovan Battista ed i soldati della Legione da procedere a fatti. Ma
il Generale si diportò da prudentissimo capitano e si adoperò, per
quanto fu da lui, in vantaggio dei cittadini; mentre al principio d’una
contesa, che poi fu l’unica, tra borghigiani e soldati, bardato il
cavallo, ed inforcatone l’arcione insieme ad altri ufficiali del suo
seguito, corse in sul luogo, ed impose ai suoi soldati di ritornare
immediatamente in quartiere nell’ex-convento di San Domenico fuori
di città, e così ubbidito nel suo comando ebbero fine le baruffe, le
zuffe, le risse, senza che si dovesse deplorare alcun disastro.

»Da ciò argomentarono le Autorità essere cosa conveniente di
allontanare da Macerata la Legione garibaldina, la quale partì come fu
promesso il 24 gennaio 1849.

»3º Il Collegio elettorale per la nomina dei deputati all’Assemblea
Costituente Romana fu tenuto in Macerata, come in tutti gli altri paesi
dello Stato, il giorno 21 gennaio surripetuto, e per l’affluenza de’
votanti non essendo state sufficienti le sette ore stabilite dalla
legge in detto giorno, la votazione fu proseguita nel giorno successivo
22.

»Il generale Garibaldi fu uno degli eletti; ed a maggioranza
rimarchevolissima di voti. Il numero dei voti raccolti dal Generale non
può precisarsi, attesochè nell’ufficio rovistato dall’estensore della
presente non esistono gli atti relativi alla pratica, di quel Collegio
elettorale.»

[114] _La Italia, Storia di due anni_, scritta da C. A. VECCHI, vol.
II, pag. 38.

[115] Ci fu favorita dalla cortesia squisita del nostro egregio amico
ingegnere Clemente Maraini, che ne possiede l’autografo.

[116] L’esatta verità sulla forza dell’esercito francese spedito
a Roma non fu dato nè a noi, nè ad alcuno degli storici italiani,
saperla e dirla precisamente. Perocchè gli scrittori francesi, tanto
ufficiali che ufficiosi, l’hanno sempre imbrogliata e nascosta; come
imbrogliarono, nascosero e tradirono la verità de’ fatti. Da ciò
consegue che anche la forza del primo Corpo spedizionario bisogna
argomentarla. Ora è certo che esso era comandato in secondo da un
generale divisionario, il Saint-Jean D’Angely, e che al 30 aprile si
trovarono in azione due brigate. Il Corpo spedizionario adunque doveva
contare per lo meno una divisione, la quale se fosse stata completa
avrebbe dato circa dodicimila uomini. Supponendola non completa, ma
aggiungendovi le truppe di marina e le altre truppe complementari,
crediamo tenerci piuttosto al disotto che andar al disopra del vero
fissando la cifra di diecimila uomini.

Durante l’assedio poi l’esercito francese fu rinforzato di altre
due divisioni col proporzionato numero di truppe del Genio e
dell’Artiglieria, sicchè il Torre non esita a stabilirne la forza
a circa quarantamila uomini e settanta pezzi d’artiglieria, di cui
quaranta d’assedio. — Vedi TORRE, op. cit., vol. I, lib. VI.

[117] Nella _Vita di Nino Bixio_. Firenze, G. Barbèra, edit.

[118] In alcuni suoi _Ricordi_ manoscritti, di cui ci fu, come di
tant’altre notizie, generoso.

[119] Alludiamo al fatto del maggiore Picard e del suo battaglione,
che Nino Bixio prima da solo, poi coll’aiuto del maggiore Franchi di
Brescia e d’alcuni suoi soldati, riuscì a trarre prigioni in Roma. Lo
narriamo estesamente nella nostra _Vita di Nino Bixio_.

[120] Non tutti noti però. Così nelle storie pubbliche, come nei nostri
documenti privati, non troviamo memoria che dei seguenti:

Fra i morti, memorabile fra tutti, _Luigi Montaldi_ da Genova, capitano
della Legione italiana di Montevideo, da Garibaldi paragonato, per
le fattezze gentili, la mente colta e l’animo eroico, a Mameli ed a
De Cristoforis; e di cui il generale Sacchi ci lasciò questo ricordo
biografico:

«In Montevideo comandava una compagnia di Cacciatori. Dal Salto
Garibaldi lo mandava in missione a Montevideo, scendendo l’Uruguay
su di una piccola goletta mercantile. Le due rive dell’Uruguay, meno
il Salto, erano in potere del nemico. A Paysandù (sulla sinistra
dell’Uruguay), le di cui batterie battevano il canale navigabile, fu
attaccato da forze nemiche marine guidate da un Italiano (Gavazzi di
Genova). Il Montaldi preparò la difesa, ma la compiè solo; i suoi
marinai (che non erano soldati) lo abbandonarono, parte gettandosi
all’acqua, altri sotto coperta della goletta; da solo scaricò quindici
o venti fucili all’uopo preparati; da solo si oppose all’abbordaggio
con estremo valore e con prospero successo per qualche tempo, ma
finalmente ferito e sopraffatto dal numero dovette cedere; l’ultimo
colpo di pistola lo scagliò sul comandante delle forze nemiche che pel
primo montava all’abbordaggio, e gli fracassò il braccio destro, che
gli venne poi amputato. Il suo valore e le raccomandazioni del Gavazzi
gli valsero salva la vita. Il nemico ammirato da tanta prodezza lo
tenne prigioniero (caso unico, dacchè si aveva a fare con un nemico
che non dava mai quartiere!). Dopo infiniti patimenti sopportati per
un anno e più con dignità e costanza, fu liberato dalla prigionia in
un assalto dato al paese di Paysandù, che cadde in nostro potere. Di
questo giovane ignoto quasi ne è il nome, che pur è degno di essere
annoverato fra i migliori e più valorosi figli d’Italia.»

Garibaldi scrisse al Guerrazzi (_Assedio di Roma_, pag. 696) che
il Montaldi «esalò la sua grand’anima per diciannove ferite;» ma il
Sacchi più preciso dice: «Il maggiore Montaldi, dopo aver fatto prodigi
di valore, cadde colpito nel petto da palla francese; nella fuga i
Francesi passarono sul suo corpo e barbaramente lo crivellarono di
colpi di baionetta, rendendolo irriconoscibile.»

Dopo di lui sono ricordati: il tenente _Paolo Narducci_, romano;
_Enrico Pallini_, aiutante maggiore dell’artiglieria; i tenenti _Righi_
e _Zamboni_; il capitano _Leduch_, belga, del quinto reggimento; il
brigadiere _Della Vedova_.

Fra i feriti si leggono: il maggiore _Marocchetti_, il capitano
_Pifferi_, il chirurgo _Scianda_, il commissario di guerra _Ghiglioni_;
i tenenti _Belli, Dell’Oro, Rota, Tressoldi, Statella_ (morto poi a
Custoza tenente colonnello de’ Granatieri), il maresciallo _Ottaviano_,
il cadetto _Mancarino_, il caporale _Lodovich_.

[121] Nella seduta del 1º maggio il Presidente dell’Assemblea propose
che fosse dato un attestato di riconoscenza a Garibaldi per le tante
prove di valore che aveva date nel combattimento del 30 aprile.

L’Assemblea decise che tale attestato si sarebbe dato a tutti i
meritevoli a cose finite.

[122] Il Vecchi dice che l’Oudinot levò il campo al solo veder
Garibaldi. Non è così: Garibaldi non arrivò che in vista di
Castelguido, e l’Oudinot non si mosse da Castelguido che la sera.

È poi un’invenzione, non so di chi, a torto raccolta dal Vecchi, che
l’Oudinot mandasse, dopo quel giorno, a chiedere una tregua.

[123] Al 30 aprile il Torre (op. cit.) calcolava presenti circa
novemilacinquecento uomini: sommando ad essi i nuovi Corpi, si arriva
intorno alla cifra anche da noi calcolata.

Il DEL VECCHIO poi dice che Roma, dopo la sortita di Garibaldi, era
stata lasciata «alla guardia del popolo.» Se è una frase, passi; se
vuol significare qualcosa di preciso, la rassegna delle forze romane
che siamo venuti facendo sin qui dovrebbe smentirla. (Vedi DEL VECCHIO,
_Prefazione ai Documenti della Guerra santa 1849_.)

[124] Queste ultime sono parole testuali di FEDERIGO TORRE, nella sua
citata _Storia dell’intervento francese in Roma nel 1849_, vol. II,
pag. 128.

Il Torre, come è noto, fu nel 1849 ufficiale superiore al Ministero
della guerra, e il suo libro, specialmente rispetto alla enumerazione
delle forze, merita pienissima fede.

[125] CARLO PISACANE, _Guerra combattuta in Italia negli anni 1848 e
1849_, pag. 269-270.

[126] TORRE, op. cit. — HOFFSTETTER, _Garibaldi in Rom, Tagebuch
aus Italien 1849_. — DE VECCHI, _Storia di due anni, 1848 e 1849_.
— FARINI, _Lo Stato romano, ec._ — GUERRAZZI, _L’assedio di Roma_. —
MARIO, _Garibaldi_. — DEL VECCHIO, op. cit.

[127] E non novantasei, come scrive il Guerrazzi. I Lancieri non
furono mai novantasei, e arrivarono soltanto a ottantacinque sul finire
dell’assedio.

[128] Il Bassi era stato restituito nel cambio generale dei prigionieri
fatto il 7 maggio. Anche in quel caso però la condotta del Generale
francese fu perfida. Il Triumvirato aveva decretato la restituzione
totale e gratuita dei prigionieri con tutte le loro armi e bagagli.
L’Oudinot, all’apparenza, non tollerò di farsi superare di generosità
dal suo nemico; ma in realtà commise una delle sue solite baratterie,
restituendo il battaglione Melara (sostenuto proditoriamente a
Civitavecchia prima che la guerra cominciasse), ma senza armi.

[129] _Marchetti_, dice il Torre, ed altri lo ripetono. _Marocchetti_,
il Sacchi ed il Cenni.

[130] Vi fu posta una epigrafe, che rammenta la passata di Garibaldi e
la battaglia.

[131] _I Volontari e i Bersaglieri lombardi_, di EMILIO DANDOLO.

[132] Dai _Ricordi_ manoscritti del generale SACCHI.

[133] Era a sinistra del Casino de’ Quattro-Venti. Giovanni Cadolini,
soldato allora della Legione Medici e ferito il 30 giugno, così
racconta nelle sue private _Memorie_, che volle favorirci, l’episodio.

«Venne pertanto la sera, e il Medici, temendo di dovere più tardi
abbandonare quella casa, fece ammannire nella stanza del piano terreno
molta paglia ed altri combustibili a fine di incendiare quel fabbricato
al momento in cui fossimo costretti ad abbandonarlo. Quando tutto a
un tratto, senza che il Medici avesse ordinato di appiccare il fuoco,
vediamo la casa in fiamme. Fu capriccio, fu tradimento di alcuno?: la
casa era stata incendiata. Allora fu unanime fra noi il pensiero e il
grido: — _Ai nostri morti_! — Non volevamo che i cadaveri dei nostri
morti, rimasti al secondo piano, fossero consumati dalle fiamme. In un
attimo sorse allora una gara fra noi di accorrere, passando in mezzo
al fuoco, per sottrarre da quella maniera di distruzione i cadaveri dei
nostri compianti amici.

»Questo episodio fu una rivelazione ben singolare dei sentimenti e
delle nobili passioni che si agitavano in quelli animi; l’esporsi a
simili pericoli per salvare uomini viventi è istintivo in tutti, ma
per sottrarre dei cadaveri è religione per la memoria dei caduti per la
libertà e per l’onore della patria. Sottratti i cadaveri all’incendio,
ogni cura si adoperò ad estinguere le fiamme, che già arrivavano al
tetto; e si riuscì in ciò così rapidamente da poter salvare la maggior
parte della casa.»

[134] Questi nomi togliemmo parte dalle _Memorie_, op. cit., del TORRE,
parte dai _Ricordi_ manoscritti del generale SACCHI.

[135] Anche l’Adelchi ai Longobardi fuggenti:

    Per Dio! la via che avete presa è infame;
    Il nemico è di là....
                     (_Adelchi_, atto III, scena 3ª.)

[136] Giudizio di EMILIO DANDOLO nei suoi _Volontari e Bersaglieri
lombardi_.

[137] Estratte dagli Archivi romani, _Cartone_ 1849. Dal 1º al 10
giugno.

[138] Il che non toglie, checchè n’abbia scritto Garibaldi, che non
possa e non debba esserlo.

[139] Anche il TORRE (op. cit., pag. 201) dubita della felice riuscita
di quella impresa, ed è in dubbio se Garibaldi n’abbia voluto seguire
in tutto l’idea, o solo operare una sortita per manomettere i lavori
del nemico.

L’HOFFSTETTER non parla invece di quella generale sortita, e dice
solo che il Rosselli doveva raccogliere per Garibaldi cinque o seimila
uomini.

Il BARONI (_I Lombardi nelle guerre italiane 1848-49_, Memorie narrate
da CALOANDRO BARONI, già maggiore ne’ Bersaglieri lombardi, vol.
II, pag. 64) scrive che la spedizione di Garibaldi fu ordinata dal
Rosselli, ed è probabile che questi, smesso il pensiero della grande,
si sia accontentato della piccola.

[140] Anche la storia della sortita notturna la troviamo narrata in
tre modi diversi da tre scrittori ugualmente credibili; e chi voglia
persuadersene non ha che a leggere il TORRE (op. cit., vol. II, pag.
201), il BARONI (pag. 66-69) e l’HOFFSTETTER (pag. 181-187). Noi
abbiamo preso un po’ dall’uno e dall’altro quel che ci parve più
ragionevole e verosimile; ma non stiamo mallevadori che tutto sia per
l’appunto avvenuto così, e questo ci riconferma nel pensiero che la
storia dell’assedio di Roma abbia bisogno di essere ancora riveduta con
lume di critica e rifatta con nuovi e più scelti documenti.

[141] L’Oudinot si vantò di _combats acharnés_ nella sua _Relazione_
del 22 giugno 1849, inserita nel _Moniteur Universel_ del 29 dello
stesso mese.

[142] L’HOFFSTETTER anzi parla d’un consiglio di guerra. — Vedi
_Garibaldi in Rom, Tagebuch_, ec., pag. 181.

[143] FARINI, _Lo Stato romano_, vol. IV, pag.200.

[144] Generale VAILLANT, _Relation du Siège de Rome_, pag. 129: «Il
faut le dire, ce combat d’artillerie qui dura un jour et demi fut
soutenu de part et d’autre avec une remarquable vigueur, avec beaucoup
de persévérance et de bravoure.»

[145] Una volta appunto che alcune gentildonne romane erano in visita
da lui, una bomba schianta la tenda e seppellisce sotto un monte di
terra, gentildonne, Garibaldi e tutto. Un’altra, trovandosi nella
batteria del Pino l’Hoffstetter, il Ghilardi e l’Avezzana, un’altra
bomba cade tanto vicina al gruppo, che tutti si gettano a terra, e
Garibaldi che non s’era mosso dice all’Hoffstetter: «Grazie che vi
siete gettato sopra di me;» e se volessimo noverare le volte in cui
Garibaldi ebbe la persona coperta dalla polvere e avvolta dai frammenti
delle granate nemiche, non finiremmo più.

[146] Il capitano Casini fu portato all’ambulanza di Villa Pamfili col
cranio aperto da dieci colpi di sciabola, la coscia forata da dieci
baionettate e il braccio frantumato.

[147] Tutti raccontano questo discorso in modo diverso.

[148] Il testo preciso del discorso non fu fino ad ora stampato da
alcuno, perchè assai probabilmente non fu da alcuno raccolto. Però
ogni biografo se l’è confezionato a suo gusto, senz’altro torto, a
dir vero, che di non averlo confessato. Il Vecchi, per esempio, gli
mette sulle labbra un lungo discorso alla Tito Livio; il Farini lo
fa cruscheggiare; il Mario gli fa scrivere un proclama immortale, che
non scrisse mai, e così di seguito ognuno secondo la sua rettorica e
il suo capriccio. La sola frase nella quale tutti convengono, e che
è viva nella tradizione garibaldina, è: «Vi offro fame, sete, marcie,
battaglie e morte,» e questa l’ho serbata fedelmente. Il resto è uno
stillato delle varie lezioni fatte da me, giusta il criterio della
maggiore verosimiglianza e dello stile dell’uomo.

[149] Tutti parlano di quattromila uomini; l’Hoffstetter, che era con
essi, di duemilacinquecento fanti e quattrocento cavalli. — Così il
SACCHI nelle _Memorie_ manoscritte, e ci atteniamo a questa cifra.

[150] Per tutto ciò che riguarda la ritirata da Roma a San Marino
abbiamo seguíto il libro già ricordato (_Garibaldi in Rom, Tagebuch
aus Italien, 1849_, von GUSTAV VON HOFFSTETTER, damaligem Major
in romischen Diensten. Zürich, 1860), il solo fra molti che ci sia
apparso, quanto all’itinerario, specialmente ordinato e preciso; e
che sia stato trovato tale anche dal generale Sacchi e dal colonnello
Cenni, che furono compagni di Garibaldi in quel periodo.

[151] Quanta fosse la incertezza dei Generali austriaci sulle mosse di
Garibaldi, ne sia di testimonio questa lettera del D’Aspre all’Oudinot:

                                            «Firenze, 13 luglio 1849.

  »Signor Generale,

»In riscontro alla lettera che mi avete fatto l’onore d’indirizzarmi,
mi affretto di comunicarvi che il mio capo di Stato Maggiore ed
il signor capitano Falopp han chiesto di comune accordo i siti da
occuparsi dai due eserciti rispettivi, ed aggiungo qui un estratto.
Suppongo che questa linea avrà la vostra approvazione, e non dubito
affatto che in seguito c’intenderemo con la medesima facilità.

»I miei rapporti degli 11, da Perugia, pongono Garibaldi a Todi con
seimila uomini, trecento cavalli e tre pezzi d’artiglieria. Le mie
truppe occupando Perugia avrebbero potuto avere di già uno scontro.

»Siccome il partigiano o brigante Forbes si è unito a Garibaldi, riesce
difficile valutarne con precisione le forze; le proprie lo abbandonano,
altre bande gli giungono in rinforzo, e l’Italia centrale non sarà
pacificata prima che i partigiani non siano intieramente dispersi,
presi o almeno allontanati da questo continente.

»Ho dato su tal proposito degli ordini alle truppe che sono scalonate
da qui a Foligno; si trovano nel momento a Perugia quattro battaglioni,
uno squadrone e mezzo e sei pezzi d’artiglieria, ed a Foligno due
battaglioni e mezzo squadrone, da riunirsi in caso di bisogno.

»Se lo scontro avesse avuto luogo, avrebbe dovuto anche in questo
momento esser deciso; credo piuttosto che il progetto annunziato da
Garibaldi di penetrare in Toscana era un’astuzia di guerra, e che si
getterà piuttosto negli Abruzzi, o cercherà di guadagnar l’Adriatico
tra Spoleto, Norcia e Ascoli; quest’ultima città è occupata da un
distaccamento austriaco appartenente alla guarnigione d’Ancona.

»Permettetemi, Generale, di felicitarvi riguardo al fatto d’armi da
voi gloriosamente condotto a termine, nonostante le difficoltà di
ogni sorta che vi si opponevano. Assai sensibile a tutto quel che mi
dite di obbligante, spero che le nostre attuali relazioni mi porranno
nel caso di verbalmente indirizzarvi le espressioni della mia alta
considerazione.

                                                            »D’ASPRE.

»_Al signor generale Oudinot, comandante, ec_.»


TORRE, op. cit., vol. II, pag. 308-309.

In altra poi del 31 luglio dello stesso allo stesso, il generale
D’Aspre supponeva a Garibaldi l’intenzione di imbarcarsi a Santo
Stefano sulle coste della Maremma toscana.

[152] Alludeva a questo combattimento il Rapporto del Console generale
pontificio qui trascritto:

                         «Livorno, dal Consolato generale pontificio,
                                                   li 21 luglio 1849.

                         »_A Monsignore Bedini,
            Commissario straordinario pontificio — Bologna._

»Garibaldi. — Scontro colla truppa toscana a Chiusi.

  »Eccellenza Reverendissima,

»Porto a cognizione dell’Eccellenza Vostra Rev.ma essere stato
assicurato che Garibaldi co’ suoi abbia avuto il 18 corrente, a Chiusi
nel Granducato, uno scontro colla truppa toscana, la quale soffrì
la perdita del maggiore Bartolena, di due ufficiali e di alcuni
soldati. Sembra che in quel paese facesse degli ostaggi di persone
ragguardevoli, imponendo loro contribuzioni pecuniarie, conducendoli
seco a Montepulciano, dove dicesi sia rinchiuso con viveri e munizioni.
Molti volontari dei paesi a quello circonvicini si sono armati, e colla
truppa toscana ed austriaca lo hanno circondato.

»Questa mane, alle ore otto, è qui giunto col treno della strada
ferrata da Firenze un battaglione di truppa austriaca che recasi a
Porto Santo Stefano.

»Il comandante di questa Marina militare ha ordinato che sia messo in
perfetto ordine il regio _Barco_, il quale, condotto da un ufficiale,
si dirigerà a Viareggio, onde ivi ricevere S. A. R. I. il Granduca di
Toscana tosto che vi giungerà.

»E pieno della più alta stima e considerazione passo all’onore di
ossequiamente rassegnarmi

»Dell’Eccellenza Vostra Rev.ma

                                              »Umil. dev. obbl. serv.
                                    »_Il Console generale pontificio_
                                              »Pio march. ROMAGNOLI.»


Vedi _Il Governo pontificio e lo Stato romano: Documenti preceduti
da una Esposizione storica, e raccolti per Decreto del Governo delle
Romagne dal cav_. ACHILLE GENNARELLI, _avvocato nella Sacra Rota, già
Residente di Collegio della Pontificia Accademia Archeologica, ec. ec_.
— Parte prima, pag. CXV, 246.

[153] Il signor CARLO CORSI, ora colonnello di Stato Maggiore, che
viaggiava in quell’anno per que’ paesi e si trovò più volte avviluppato
tra le colonne austriache, narra ne’ suoi _Venticinque anni in Italia_
(vol. I, pag. 193-194) parecchi aneddoti di quella campagna non privi
d’interesse, e taluno de’ quali, come il seguente, può far prova del
gran d’affare che il famoso guerrillero dava ai suoi persecutori e
dell’alto concetto in cui essi lo tenevano.

Ad un tratto giunge l’avviso che una colonna d’Austriaci scende dalla
montagna. Ed eccone la vanguardia, e non molto dopo il resto. È un
battaglione del reggimento Baumgarten con un drappello d’Ussari. Lo
comanda un colonnello. Entrano nel paese, pongono le guardie, mandano
pattuglie. Erano così trafelati e stanchi che a fatica si reggevano in
piedi, da far pietà. Maledicevano a quei paesi, a Garibaldi e a chi
teneva per lui. Un capitano, che proprio non ne poteva più, diceva
in pretto italiano: — Questo diavolo ci condurrà così a spasso fino
all’inferno, o in Africa per lo meno. È un altro Abd-el-Kader costui!
— Ma pure li ufficiali erano compresi anch’essi d’ammirazione per
quell’ardito, lo giudicavano un _partigiano_ di gran vaglia, nè si
curavano gran fatto di metterlo alle strette, anzi desideravano che gli
rimanesse aperto qualche modo di scampo, purchè quella maledetta caccia
per monti e valli finisse.»

[154] Op. cit., pag. 413.

[155] L’HOFFSTETTER ha _die Trossknechte_ (op. cit., pag. 413), e
la traduzione in _saccardi_ è giusta. Soltanto la voce _saccardi_,
nel senso di Custodi o Conduttori delle bagaglie, è fuori d’uso e
nell’esercito principalmente non si capirebbe. Per usar la voce tecnica
nostra bisognerebbe dire _Conduttori del Treno_.

[156] Vedi _Le Bande garibaldine a San Marino_. Racconto storico del
capitano ORESTE BRIZZI, cavaliere di varii Ordini civili e militari,
decorato di varie RR. medaglie d’onore cittadino, uffiziale dei
Granatieri e consultore militare della Repubblica di San Marino, membro
di molte illustri Accademie italiane e straniere, ec. Arezzo, 1850.

[157] Leggasi per questi particolari il seguente Rapporto del
Commissariato di sanità in Cesenatico:

               «_Commissariato di Sanità di Cesenatico_.

  »Eccellenza,

»Ieri a sera alle ore 10 pomeridiane circa giunse in questo paese
Garibaldi, assieme al suo Stato Maggiore e varii altri suoi satelliti,
i quali in tutti potevano contare il numero di circa duecentocinquanta,
e dopo aver fatto prigionieri sette soldati tedeschi che qui
stanziavano, non che due ufficiali provenienti da Ravenna e Cervia
diretti per Rimini a quel Comando, facevano pure prigionieri il
brigadiere dei Carabinieri e due di linea sussidiarii alla brigata dei
Carabinieri.

»Requisì poi con la forza, minacciando della vita a chi non si
prestava, tredici legni pescatori chiozzotti, ove poscia si sono
imbarcati questa notte, e questa mattina alle ore 6 antimeridiane hanno
salpato dal porto prendendo la direzione di greco o levante, avendo
però tenuti seco tanto i militari austriaci, compreso i due uffiziali,
come pure la frazione dei Carabinieri. Che per quante raccomandazioni
si sono potute fare, non si è potuto ottenere, da questi barbari, la
grazia di essere liberi questi poveri infelici.

»Per sollecitare poi la evasione hanno preso a tutta forza varii
marinai da diversi bordi che avevano approdato al porto ieri a sera in
causa di mare burrascoso, restando così varii legni senza l’intero suo
equipaggio.

»Tanto mi credevo subordinare all’Eccellenza Vostra, per via
straordinaria, mentre con profondo ossequio e rispetto ho l’alto onore
di segnarmi

»Dell’Eccellenza Vostra

  »Cesenatico, li 2 agosto 1849.

                                        »Umil.mo dev.mo obbl.mo servo
                                   »CLEMENTE CAVALCHI, _comandante_.»


Vedi _Il Governo pontificio e lo Stato romano: Documenti, ec. ec._
Parte prima, pag. CXV, 246.

[158] Citato nel libro di P. C. BOGGIO, _Da Montevideo a Palermo, Vita
di G. Garibaldi_, pag. 17.

[159] Ed è dalle _Memorie_ manoscritte del BONNET, di cui egli volle
esserci generoso, che noi togliamo tutto il racconto della fuga di
Garibaldi traverso le valli di Comacchio, della morte d’Anita e del di
lui miracoloso salvamento. E poichè è il salvatore stesso che parla,
teniamo per errata od incompiuta ogni altra narrazione.

Della generosa parte avuta dal Bonnet in quel tragico episodio, fanno
testimonianza i due seguenti documenti:

  (_Municipio di Comacchio, Nº 553._)

                                      «Comacchio, li 6 febbraio 1869.

                           »_Regno d’Italia._

             »_Provincia di Ferrara. — Città di Comacchio._

»Dichiara il sottoscritto che il signor colonnello Nino Bonnet nel
1849, quando il generale Garibaldi, inseguíto sull’Adriatico da legni
austriaci che incrociavano dinanzi alla Venezia, approdava su queste
spiagge, senza temer pericoli si diede ogni cura per salvare quel Prode
come difatti vi riescì, ed è cosa pubblicamente notoria che accusato da
anonimi scritti di aver strappato di mano agli Austriaci il Garibaldi,
fu chiamato da quel Comandante che intimogli alla presenza dei Gendarmi
pontificii gli arresti. È pur noto che il Bonnet gli rispose, che
se avesse dato retta a quegli scritti avrebbe commesso ingiustizia,
e che egli impegnava la sua parola di Capitano d’onore che sarebbe,
ogni qualvolta l’avesse fatto chiamare, comparso a render ragione del
suo operato. Fu messo in libertà, ed invitato poscia a comparire di
nuovo innanzi al medesimo, non valsero le preci de’ suoi amici a che
non si presentasse perchè correva rischio di essere fucilato, ch’egli
volle presentarsi al predetto Comandante, dicendo che mai avrebbe
mancato alla sua parola d’onore, e difatti, presentatosi, venne fatto
arrestare, ed incatenato mani e piedi fu tradotto a Bologna.

»Certifica altresì che i giornali d’allora portavano la di lui
fucilazione: ma essendo giunto in Bologna quattro giorni dopo il Padre
Ugo Bassi e Livraghi, ed essendo stato rimpiazzato al Gorzkowski
il generale Strasoldo meno inumano, dopo trenta giorni fu posto in
libertà, però sempre sospetto ed inviso agli Austriaci.

»Tanto si depone per la verità.

                                                     »_Il R. Sindaco_
                                               »Firmato — L. FELETTI.

»La presente copia è conforme all’originale, col quale è stata
collazionata.

  »_L’Assessore municipale_
  »CARLI.»


                                              «Lovere, 7 agosto 1859.

  »Carissimo Amico,

»In nessuna circostanza della vagante mia vita io non vi ho mai
dimenticato. E come potevo scordare voi, che foste il mio Angelo
salvatore, nell’ora del pericolo, e di angoscie che non si potrebbero
nemmeno desiderare ad un nemico?

»Io sono contento d’aver con me vostro fratello, ed avvicinandomi verso
le vostre contrade io spero riunirmi anche con voi al conseguimento
della sacra missione che ci siamo proposta.

»Le reliquie della cara mia donna, che foste tanto gentilmente buono da
custodire, e per cui vi devo tanta gratitudine — che non si rimuovano
per ora — noi le traslocheremo quando fia d’uopo.

»Circa le vostre memorie — troppo onorevoli per i miei piccoli fatti —
io lascio a voi libera disposizione; spero non tarderemo a rivederci, e
sono intanto per la vita

                                                              »Vostro
                                             »Firmato — G. GARIBALDI.

»La presente copia è conforme all’originale, col quale è stata
collazionata.

  »_L’Assessore municipale_
  »CARLI.»

[160] Il 3 giugno.

[161] Ecco il Rapporto del Delegato di polizia di Ravenna:

  «GOVERNO PONTIFICIO.

  »_Direzione generale di Polizia in Ravenna._

                   »_Rinvenimento d’ignoto cadavere._

  »Eccellenza Reverendissima,

»Mi reco a premuroso dovere di rassegnare rapporto a Vostra Eccellenza
Rev.ma sul rinvenimento d’ignoto cadavere.

»Venerdì scorso, 10 corrente, da alcuni ragazzetti in certe larghe, di
proprietà Guiccioli alle Mandriole in distanza di circa un miglio dal
porto di Primaro, e di circa undici miglia da Comacchio, fu trovato
sporgere da una motta di sabbia una mano umana. Presso la ricevuta
notizia andette ieri la Curia in luogo, dove giunta fu osservata la
detta mano e parte del corrispondente avambraccio che erano stati
divorati da animali e dalla putrefazione. Fatta levare la sabbia che
vi era per l’altezza di circa mezzo metro, fu scoperto il cadavere di
una femmina, dell’altezza di un metro e due terzi circa, dell’apparente
età di trenta a trentacinque anni, alquanto complessa; i capelli già
staccati dalla cute, e sparsi fra la sabbia, erano di colore scuro,
piuttosto lunghi, così detti alla puritana,

»Fu osservato avere gli occhi sporgenti, e metà della lingua pure
sporgente fra i denti, nonchè la trachea rotta ed un segno circolare al
collo, segni non equivoci di sofferto strangolamento. Nè alcun’altra
lesione fu osservata nella periferia del di lei corpo; fu veduto
mancarle due denti molari nella mandibola superiore alla parte sinistra
ed altro dente pur molare alla parte destra della mandibola inferiore.
Sezionato il cadavere, fu trovato gravido di un feto di circa sei
mesi. Era vestita di camicia di cambrick bianco, di sottana simile, di
bournous egualmente di cambrick fondo paonazzo fiorato bianco, scalza
nelle gambe e nei piedi, senza alcun ornamento alle dita, al collo,
alle orecchie tuttochè forate. Li piedi mostravano d’essere di persona
piuttosto civile e non di campagna, perchè non callosi nelle piante. La
massa delle persone accorse dalle Mandriole di Primaro, di Sant’Alberto
ed altri finitimi luoghi non seppero riconoscere il cadavere. Non si è
potuto stabilire il colore della carnagione per essere il cadavere in
putrefazione, nel qual caso non rappresenta il color naturale. Nè si
credette trasportarlo in più pubblico luogo per la ricognizione, atteso
il gran fetore, per cui fu subito sotterrato anche per riguardo della
pubblica salute.

»Tutto ciò conduce a credere che fosse il cadavere della moglie o
donna che seguiva il Garibaldi, sì per le prevenzioni che si avevano
del di lei sbarco da quelle parti, sì per lo stato di gravidanza. Fin
qui è oscuro come sia giunta quella donna in quei siti, e come sia
rimasta vittima. Si stanno però praticando le opportune indagini, delle
quali sarà mia premura sottomettere all’E. V. Rev.ma all’opportunità
l’analogo risultato.

»Intanto con perfetta stima e profondo rispetto ho l’onore di ripetermi

»Di V. E. Rev.ma

  »Ravenna, 12 agosto 1849.

                                                    »Dev.mo servitore
                                          »A. LOVATELLI, _Delegato_.»


  «GOVERNO PONTIFICIO.
  »_Direzione provinciale di Polizia in Ravenna._

                    »_All’Eccellenza Reverendissima_
          »_di Monsignor Commissario straordinario — Bologna._

  »Eccellenza Reverendissima,

»In seguito al precedente mio rispettoso foglio del 12 corrente con
egual numero, _sottoponeva_ all’E. V. Rev.ma che col mezzo delle
indagini praticate dalla Polizia e con segreti confidenti da lei posti
in giro, ho potuto venire nella chiara e precisa conoscenza dei fatti
relativi al rinvenimento dell’ignoto cadavere di donna. Non vi ha
in oggi più dubbio che il suddetto cadavere non sia della donna che
seguiva Garibaldi. _Fu dessa condotta moriente su di un biroccino da
Garibaldi istesso alla casa colonica dei fratelli Ravaglia_, fattori
dei marchesi Guiccioli in una di lui proprietà alle Mandriole. _La
donna era invasa da febbre perniciosa_, siccome espresse il medico
Nannini di Sant’Alberto, che, trovatosi presente colà casualmente
all’arrivo di essa, le tastò il polso. Asportata in una camera ed
adagiata su di un letto, le fu apprestato il soccorso di un bicchiere
d’acqua, ma non appena ne sorbì pochi sorsi cessò di vivere.

»Eravi presente il Garibaldi, il quale si sfogò in atti di
inconsolabile dolore per tale disgrazia e poco dopo si diede alla fuga,
raccomandando a quella famiglia di dare onorata sepoltura al cadavere.
Questi fatti avvenivano il 4 corrente verso sera alla presenza di più
che venti persone, essendosi colà riuniti gl’inservienti di quella
fattoria per essere pagati della mercede delle opere prestate nel corso
della settimana.

»Ho subito spedito nel luogo un impiegato di Polizia per procedere
all’arresto dei fratelli Ravaglia, lo che è già stato eseguito;
ed il Tribunale sta ora costruendo l’analogo incarto. Si vede fin
d’ora che li suddetti coloni, compresi da timore di essere rimasti
esposti a grave responsabilità per il ricovero dato momentaneamente a
Garibaldi, e per la morte avvenuta in loro casa della di lui moglie,
si appigliarono al partito di occultare l’avvenimento e quindi si
indussero a sotterrare in campagna quel cadavere.

»Sarà mio dovere informarla delle risultanze del processo; ed intanto
con perfetta stima e profondo rispetto passo a confermarmi

»Di V. E. Rev.ma

  »Ravenna, li 15 agosto 1849.

  »Umil.mo dev.mo servitore »A. LOVATELLI, _Delegato_.»


Vedi _Il Governo pontificio e lo Stato romano_, ec., Documenti già
citati.

[162] «L’errore a primo giudizio del professor Foschini fu causa che
si credesse che il fattore Ravaglia fosse creduto autore di questo
misfatto, in conseguenza di che venne assalito dal famoso Pelloni,
detto _il Passatore_, che infestava le Romagne, pretendendo dal
Ravaglia i denari rubati a Garibaldi. Ciò fu la causa della morte di un
fratello del fattore cagionatagli dalle percosse avute, ed il Ravaglia
quasi strozzato, ebbe il cordino al collo, e finalmente lasciato dal
Pelloni in uno stato deplorevole.» — (_Nota del_ BONNET.)

[163] Non aggiungiamo nulla a quanto narrò Garibaldi stesso nelle sue
_Memorie_. Vedi in ELPIS MELENA, op. cit., vol. II.

[164] Solo adesso, già composte queste pagine, troviamo la notizia
che Garibaldi non ebbe soltanto tre figli, come fu creduto fin’ora, ma
quattro; cioè oltre a Menotti, Teresita e Ricciotti, anche Rosita, una
bambina partoritagli da Anita nel 1842, e morta a Montevideo nei giorni
in cui egli comandava la spedizione del _Salto_, nel 1846.

Ciò si desume da questi frammenti manoscritti in lapis tutti di pugno
di Garibaldi, che ebbi dalla cortesia del mio amico Basso:

«Un giorno io era al Salto a cinquecento miglia al settentrione
di Montevideo sul fiume Uruguay, confluente del Rio della Plata.
La fortuna s’era compiaciuta di favorirmi in ogni mia operazione.
Col mio piccolo contingente di dugento Legionari italiani, onore
dell’armi italiane, e pochi cavalli — posso dire pochi, poichè erano
sei soli i cavalli imbarcati al principio della spedizione — si erano
operati prodigi, e mi trovavo alla testa d’una rispettabile colonna
di fanteria, cinquecento cavalieri e circa duemila cavalli presi dal
nemico. Il dipartimento del Salto tutto in nostro potere, e la Colonia
militare in uno stato floridissimo.

»Io dico Colonia militare, poichè essendo spopolato il paese e tutta la
gente da noi liberata dai nemici, che l’avevano strappata a forza dalla
città del Salto e condotta sulle sponde del Tapevi ed ove intieramente
li sbaragliammo — dico dunque Colonia, perchè erimo noi obbligati di
custodire l’unico prodotto del paese: il bestiame.

»In quel giorno dunque io ero felice quanto lo può essere un soldato,
cui ogni cosa di guerra va a gonfie vele. Quando giuntami una lettera
dal generale Pacheco, allora ministro della guerra in Montevideo,
laconicamente diceva:

»_Vostra figlia Rosita è morta! In ogni modo dovrete saperlo._ — Dunque
tu non sei padre! non lo fosti! e non lo sarai giammai! — Tale era e fu
quell’uomo! — Perchè se padre, egli meglio avrebbe apprezzato l’amore
per una figlia. Io ero stato l’amico di quell’uomo, e da quel momento
la sua memoria mi faceva ribrezzo.

»Lo avrei saputo, sì; e come non saperlo; io amavo tanto quella mia
creatura; me ne sarei addolorato in qualunque modo — però mi sembrò sì
villano il modo di colpirmi, che mi scosse sì dolorosamente, e che non
ho potuto mai perdonargli.

»Io avevo amato e stimato il Pacheco; quando Montevideo, scevro
dell’animosità di parte, ricorderà con gratitudine gli uomini che
faticarono alla gloriosa sua difesa di dieci anni, certo il generale
Pacheco, col generale Paz, figureranno alla testa de’ suoi prodi
difensori, e meriteranno un ricordo dalla nuova Troia.

»L’uomo apprezza l’opera tua, e vorrebbe possibilmente fatta migliore
dell’altrui. E la donna, poverina, che soffre tanto nell’opera sua? non
ha essa il diritto di credere almeno d’aver partorito una bella, una
buona cosa — nel bimbo o nella bimba — ch’ella diede alla luce! Tale
era la mia povera Anita; e se dovessi raccontare tutte quante le doti
ch’ella aveva trovato nella nostra Rosita, sarebbe cosa incredibile.

»Comunque fosse, Rosita era una bellissima, una carissima bambina! Morì
dai quattro ai cinque anni: l’intelligenza sua era precoce, ed ella si
estinse nel grembo della madre, come si estingue agli occhi nostri,
nell’Infinito, la luce del primogenito della Natura, gradatamente,
dolcemente, affettuosissimamente. Morì senza lamentarsi, supplicando la
madre che non si addolorasse! che si troverebbero presto, per non _più
dividersi_! — era un mondo di cose gentili!

»Infine, io passerò per un visionario. Ma così sincere, così veridiche,
così scolpite nel suo spirito, mi sembrarono le ultime parole della
figlia alla madre raccontatemi dalla mia Anita, quando giunse al Salto
(ove la chiamai per paura che mi diventasse pazza), ch’io risposi
all’addolorata consorte. — Oh sì! noi rivedremo la nostra Rosita,
l’anima nostra è immortale!... e questa vita di miserie non è che
un episodio dell’immortalità! e divina scintilla, parte della fiamma
infinita che anima l’Universo. — »

[165] Del matrimonio di Garibaldi con Anita si dubitò fino agli ultimi
giorni; parecchi anzi, fondandosi sull’errore che Anita fosse già
maritata, lo negavano addirittura. Il seguente _Atto matrimoniale_,
ottenuto da Montevideo mercè la squisita gentilezza del signor Ministro
dell’Uruguay, P. Antonini y Diez, tronca ogni dubbio e chiude la
controversia:

  «(Hay très sellos) 031318.

»Martin Perez, Cura Rector de la Parroquia en San Francisco de Asis en
Montevideo,

»Certifico: que en el Libro primero de matrimonios de esta Parroquia al
folio diez y nueve vuelto, se lee la partida que trascribo: «En veinte
y seis de marzo di mil ocho cientos cuarenta y dos: Don Zenon Aspiazú,
mi lugar Teniente Cura de esta Parroquia de San Francisco de Asis
en Montevideo, autorizó el matrimonio que in facie Ecclesiæ contrajó
por palabras de presente Don José Garibaldi, natural de Italia, hijo
legitimo de Don Domingo Garibaldi y de Doña Rosa Raimunda; con Doña Ana
Maria de Jesus, natural de la Laguna en el Brasil, hija legitima de Don
Benito Riveiro de Silva y de Doña Maria Antonia de Jesus, habiendo el
Señor Provisor y Vicario General dispensado dos conciliares proclamas
y practicado lo demas que previene el derecho: no recibieron las
benediciones nupciales por ser tiempo que la Iglesia no las imparte.
Fueron testigos de su otorgamiento Don Pablo Semidei y Doña Feliciana
Garcia Villagran: lo que por verdad firmo yo el Cura Rector — Lorenzo
A. Fernandez.»

»Concuerda con el originai y á solicitud de parte interesada expide el
presente en Montevideo á veinte y siete de Enero de mil ocho cientos
ochenta y uno.

                                                       »MARTIN PEREZ.

»Buono per la legalizzazione della firma sovraposta del signor Martin
Perez, parroco della Matriz a noi ben cognita.

  »Montevideo, 8 febbraio 1881.

                                                     »Il Vice-Console
                                                            »PERROD.»

  (L. S.)

[166] _Amigo_ è quasi un intercalare nel discorso domestico di
Garibaldi; ricordo della lingua spagnuola. L’aneddoto l’avemmo dal
generale Sacchi, che fu anche, se la memoria non ci fallisce, colui che
interrogò Garibaldi.

[167] Felice Orrigoni di Varese, patriotta, soldato, marinaio, milite
negli ultimi anni della Legione italiana, combattente a Roma nel 1849
ed in Valtellina; partito per la Sicilia colla spedizione Medici;
capitano di corvetta del Dittatore; simpatica e onesta figura di
patriotta.

[168] Poche e sommarie rispetto alla materia e al desiderio nostro,
ma pure inedite in gran parte e crediamo tutte nuove e interessanti.
Le togliemmo parte da altre lettere del BONNET, parte dall’opuscolo:
_Da Prato a Porto Venere_, ossia _Un episodio della vita del generale
Giuseppe Garibaldi_, narrato al Popolo dal dottor RICCIARDO RICCIARDI.
Grosseto, 1873.

[169] Parlamento subalpino. Tornata 10 settembre 1849.

[170] _Commemorazione di A. La Marmora_, pag. 25. Firenze, G. Barbèra,
edit., 1879.

[171] Garibaldi accettò la pensione per la madre e la rifiutò per sè.
Nelle _Lettere ad Antonio Panizzi_ (G. Barbèra, edit., 1880) se ne
legge una di Massimo D’Azeglio del 25 luglio 1864, la quale dice: «Io
ho sempre amato ed ammirato Garibaldi. Quando fu rotto a Cesenatico,
trattavo la pace coll’Austria e incaricai i Plenipotenziari di salvarlo
potendo. Poi gli feci dare una pensione _che accettò per la madre e
rifiutò per sè_.» (Pag. 479.) Ora come mai il La Marmora dimenticò
questo particolare, che il D’Azeglio, allora Presidente del Consiglio
de’ Ministri, così bene ricorda?

[172] ALFRED DE REUMONT, _Appunti alla Storia d’Italia_, pag. 205.
Berlino, 1855.

[173] Dai frammenti di manoscritti datimi da G. Basso.

[174] Tutte queste notizie intorno ai viaggi di Garibaldi dall’America
alla Cina e di là in Italia, le raccogliemmo da una lunga lettera di
Giovanni Basso, uno de’ marinai della _Carmen_ e del _Commonwealth_;
e d’allora in poi amico, segretario, soldato, intimo per trent’anni di
Garibaldi.

[175] In una specie di _Bilancio_ scritto tutto di suo pugno da
Garibaldi, troviamo, che dall’America potè riscuotere 25,000 lire e
che 35,000 le ereditò dal fratello Felice. Udimmo noi stessi dire più
volte, che quando comperò la Caprera poteva avere di suo circa 60,000
lire.

Alludono poi così alla morte del fratello, come a’ suoi viaggi a
Nizza ed a Genova, le seguenti due lettere a quel Felice Orrigoni che
accompagnò Anita Garibaldi da Nizza a Roma:

                                             «Nizza, 31 ottobre 1855.

  »Caro Orrigoni,

»Ho inteso con piacere il tuo felice ritorno e mi rincresce della
perdita dell’aspettato vapore. T’invio un ordine per il signor
Mangiapan acciò ti rimetta l’incarico del Salvatore, e ti prego
di liquidare in luogo mio la differenza insorta tra il suddetto e
l’equipaggio.

»Io non potrò recarmi a Genova sennonchè tra alcuni giorni, avendo qui
mio fratello moribondo, che non posso lasciare.

                                                  »Tuo G. GARIBALDI.»


                                            «Nizza, 29 novembre 1855.

  »Caro Orrigoni,

»Ho la tua del 27: sono contento della vertenza Mangiapan ed
equipaggio. Partirò per Genova lunedì, benchè sono persuaso che il
_Salvatore_ non abbisogna di me essendo tu a bordo. — Comunque sia,
se fa mestieri starò in Genova; ma se si dovesse rimanere lungo tempo
nell’ozio, penso di far una passeggiata in Sardegna a veder come stanno
le beccaccie.

                                                   »Tuo G. GARIBALDI.

»Antonio Riva o Cenni sanno dove trovar specchi.»

[176] Lo riferisce in una sua lettera al marchese Pallavicino lo stesso
Foresti. — Vedi _Daniele Manin e Giorgio Pallavicino: Epistolario
politico 1855-1857_, con note e documenti di B. E. MAINERI, pag. 163.
Milano, tip. edit. Bertolotti, 1878.

[177] Ciò risulta manifestamente da questa lettera del Cosenz a Giorgio
Pallavicino inserita nel detto _Epistolario_, pag. 400:

                                             «Torino, 11 giugno 1856.

  »Pregiatissimo Signore,

»Ecco quanto mi viene assicurato da fonte sicura e da varii altri
canali, cioè che la parte _meridionale_ è disposta a muoversi, qualora
non fosse affatto deficiente d’armi. Certo, non fuvvi mai opportunità
migliore di questa, essendovi l’approvazione di tutti i patriotti
italiani, a qualsiasi partito politico essi appartengano. Qualora poi
si potessero introdurre armi, e, ciò ch’è meglio, un poderoso numero
d’armati, non è a dubitarsi che il paese tosto non insorga. Dal di
fuori non si potrebbe iniziare un movimento di qualche importanza
senza l’appoggio di una Potenza. Or ci si fa credere che l’Inghilterra
lascierebbe fare, facendosi cautamente; ed anzi permetterebbe che
la Legione anglo-italiana venisse imbarcata; su che vennero di già
iniziate le necessarie pratiche. Per poter meglio ciò eseguire, vi
abbisognerebbero due vapori; e siccome ne vennero proposti due, ed a
buon prezzo, così ci fa mestieri, prima d’inoltrarci nelle pratiche,
sapere se in tempo utile avremmo disponibile una certa somma. Garibaldi
sarebbe fra i caldi promotori di questa impresa; ha già visitati
i vapori, e li ha trovati adatti allo scopo. Egli si ripromette
molto nella riuscita, se le cose saranno realmente nelle condizioni
suindicate. Io poi vi posso assicurare che tutti quelli che hanno
a cuore il nostro paese, non mancheranno di prendere parte a simile
fatto. Oggi non è mestieri parlare di programma politico, che è nel
cuore di tutti, ed è l’indipendenza e l’unificazione della patria
nostra.»

[178] Giorgio Pallavicino a Daniele Manin (op. cit., pag. 197):

«Intanto si lusinga il bravo Garibaldi per corbellarlo in appresso. Mi
duole all’anima di quel valentuomo, il quale presta fede alle parole di
Camillo Cavour. Senza un cambiamento di Ministero in Piemonte, l’Italia
non si farà in eterno: abbilo per vangelo.»

E altrove, 23 settembre 1856 (pag. 204):

«L’Italia in questo momento non ha peggior nemico del Cavour.»

[179] _Daniele Manin_, ec., op. cit., pag. 172.

[180] _Daniele Manin_, ec., op. cit., pag. 533.

[181] _Daniele Manin_, ec., op. cit., pag. 312.

[182] Garibaldi era stato chiamato per mezzo di Giuseppe La Farina
coll’intesa che fosse a Torino per la fine di novembre; ma poi
avendo il conte di Cavour scritto al La Farina che il Generale poteva
aspettare a venire fino alla fine di dicembre, questi non arrivò a
Torino che il 20; e il 22 era già di ritorno a Caprera.

Così i particolari di questo viaggio, come i documenti riguardanti
il complotto dei Ducati, di cui si parla più sotto, si ritraggono
dall’_Epistolario_ di GIUSEPPE LA FARINA, vol. II, pag. 82, 83, 84,
91, 92, 97, 98, 99, 110 e 124. Nell’_Epistolario_ stesso si leggono
parecchie lettere di Garibaldi non prive d’interesse; due delle quali
non possiamo astenerci dal riprodurre:

                   «_A Giuseppe La Farina — Torino._

                                           »Genova, 22 dicembre 1858.

  »Carissimo amico,

»Parto oggi alle 9, ed in caso che le circostanze ci precipitino
all’azione (ciò che non sarebbe impossibile), mandatemi un vapore.
Chiunque de’ possidenti vapori in Genova può dare un vapore per
l’oggetto, in caso non si potesse mandare un vapore da guerra.

»Gli elementi rivoluzionari tutti sono con noi; è bene che Cavour
se ne persuada, in caso non lo fosse pienamente, e che vi sia
fiducia illimitata. Credo pure necessario che il Re sia alla testa
dell’esercito, e lasciar dire quei che lo trattano d’incapacità. Ciò
farà tacere le gelosie e le ciarle, che disgraziatamente fanno uno
degli attributi di noi Italiani. Egli conosce oggi di chi si deve
attorniare. La dittatura militare è nel convincimento di tutti: dunque,
per Dio! che sia senza limite. Io ho raccomandato in Lombardia, in
Toscana: _Non movimenti intempestivi a qualunque costo_. La venuta
delle leve nello Stato nostro, e quella degli studenti di Pavia,
è un fatto che voi potrete ingigantire a vostro piacimento. Io ho
raccomandato che ve ne avvertino.

»Vi prego tanto di scusarmi su quanto vi ho detto. Io non ho certamente
la pretensione di consigliarvi, ma di dirvi francamente la mia
opinione.

»Addio, comandate

                                                           »il vostro
                                                      »G. GARIBALDI.»


                   «_A Giuseppe La Farina — Torino._

                                           »Caprera, 30 gennaio 1859.

  »Carissimo amico,

»Avevo già risposto alle antecedenti vostre, quando mi giunse l’ultima
del 23. Io sono contentissimo del buon andamento delle nostre cose,
e non aspetto che un cenno vostro per partire. B.[183] credo che
finirà per venire con me, ad onta d’aver ancora certe mazzinerie;
in caso contrario, noi faremo pure senza. Circa alle suggestioni che
potrebbero venirmi da quei di Londra, state pur tranquillo. Io sono
corroborato nello spirito del sacro programma che ci siam proposti, da
non temere crollo, e non retrocedere nè davanti ad uomini, nè davanti a
considerazioni. Io non voglio dar consigli al Conte, nè a voi, perchè
non ne abbisognate; ma colla parola vostra potente sorreggetelo e
spingetelo sulla via santissima prefissa. Italia è ricca d’uomini e di
danari. Egli può tutto; che faccia tutto, e qualche cosa di più ancora.
I nostri nemici ed i suoi più ancora lo rimprovereranno di non aver
fatto, che d’aver mal fatto. Che l’organizzazione de’ Corpi Bersaglieri
già menzionati sia su scala spaventosa: noi non avremo mai fatto
troppo; ed io bacierò piangendo la mano che ci solleva dall’avvilimento
e dalla miseria. Scrivo al Presidente nostro pure.[184

»Sono per la vita

                                                              »vostro
                                                      »G. GARIBALDI.»
]

[183] Allude certamente al dottore Agostino Bertani.

[184] Cioè al Pallavicino, presidente della Società nazionale.

[185] Il _Diritto_ del 3 marzo 1859 diceva: «Il generale Garibaldi
è giunto a Torino;» vi doveva dunque essere arrivato fino dal giorno
antecedente.

[186] L’ordine del Cialdini suonava così: «Gli Austriaci avanzano
per la sinistra del Po dopo di aver passato la Sesia a Caresana;
giungeranno presto innanzi alla mia testa di ponte; non intendo di
dare ordini, ma sarei lieto se la vedessi giungere colla sua colonna
dei Cacciatori delle Alpi; la consiglio a sbrigarsi, perchè il nemico
persiste nel voler gettare un ponte a Frassineto, e allora sarebbe
quasi impossibile entrare in Casale.» — _I Cacciatori delle Alpi_, ec.,
di FRANCESCO CARRANO, pag. 194-195.

[187] FRANCESCO CARRANO, op. cit., pag. 206.

[188] Lo riproduciamo come documento storico e psicologico insieme.
Poche volte lo stile fu più esattamente l’uomo.

«Lombardi, voi siete chiamati a nuova vita, e dovete rispondere alla
chiamata, come risposero i padri vostri in Pontida e in Legnano.
Il nemico è lo stesso, atroce, assassino, depredatore. I fratelli
vostri d’ogni provincia hanno giurato di vincere o morire con noi.
Le ingiurie, gli oltraggi, le servitù di venti passate generazioni
noi dobbiamo vendicare e lasciare a’ nostri figli un patrimonio non
contaminato dal puzzo del dominatore soldato straniero. Vittorio
Emanuele, che la volontà nazionale ha eletto a nostro duce supremo,
mi spinge tra di voi per ordinarvi alle patrie battaglie. Io sono
commosso della sacra missione affidatami, e superbo di comandarvi.
All’armi dunque! Il servaggio deve cessare, e chi è capace d’impugnare
un’arma, e non l’impugna, è un traditore. L’Italia con i suoi figli
unita e purgata dalla dominazione straniera, ripiglierà il posto che
la Provvidenza le assegnò tra le nazioni.» — CARRANO, op. cit., pag.
249-50.

[189] L’inviato era l’ingegnere Cesare Piccinelli; ecco la lettera del
podestà Carcano:

                                             «Varese, 23 maggio 1859.
                                                          »Ore 6 ant.

»S’incarica il signor ingegnere Cesare Piccinelli per mandato
particolare di speciale confidenza di tosto recarsi a Sesto-Calende,
ed in qualunque altro paese abbia fermato il proprio Quartiere generale
la colonna dell’Esercito italiano che ha stamattina varcato il Ticino,
di presentarsi al Comandante della colonna stessa onde porgergli in
nome di questi cittadini un benvenuto di cuore, e chiedergli e ricevere
istruzioni sul contegno del Municipio di Varese per le occorrenze del
momento.

                                                        »_Il Podestà_
                                                »Ing. CARLO CARCANO.»


Vedi _Varese, Garibaldi ed Urban nel 1859_, ec., del sacerdote GIUSEPPE
DELLA VALLE. Varese, tip. G. Carreglio, pag. 31.

[190] È vero che la sera del 23 il nemico non era ancora comparso a
Gallarate, e che perciò la marcia Sesto-Varese poteva tenersi da quel
lato sicura; ma la compagnia De Cristoforis serviva sempre a mantenere
il nemico nell’illusione che Garibaldi fosse sempre a Sesto, e quindi
lo richiamava verso quel punto, distogliendolo dall’idea di voltare
direttamente per Gazzada o per Tradate su Varese, come avrebbe potuto
fare.

[191] _Varese, Garibaldi ed Urban_, ec., pag. 40.

[192] Proclama del generale Giulay da Garlasco, 24 maggio 1859. Curioso
che il Generalissimo imperiale chiami _civile_ la guerra tra i suoi
Tedeschi e noi Italiani. Proprio vero: con quei signori non ci siamo
intesi mai, nè credo c’intenderemo. Vedilo nell’opera succitata,
_Varese_, ec.

[193] Nella _Campagne de l’empereur Napoléon III en Italie 1859,
rédigée au Dépôt de la Guerre d’après les Documents officiels, étant
directeur le général_ BLONDEL, _sous le Ministère de S. E, le maréchal
comte_ BARDON, a pag. 102 si legge:

«Mais, dès le 12, le bruit du mouvement opéré par Garibaldi était
arrivé à Milan et au quartier général de la deuxième armée. Le
Gouverneur civil et militaire de Milan, feld-maréchal-lieutenant
Melezes de Kellermes, dirigea immédiatement sur Varèse des détachements
de la garnison de Milan, pendant que le général Urban recevait du comte
Giulay l’ordre de rejoindre la brigade Rupprecht et de marcher sur
Garibaldi.

»Cette brigade, qui faisait partie de la division de réserve, se
composait de:

  »1 Bataillon du régiment frontière de Szluin (nº 4).
  »3 Bataillons du régiment de Kellner (nº 41).
  »1 Batterie à pied, de 12.
  »1 Batterie de fusées.
  »2 Escadrons de hussards comte Haller (nº 12).»

Valutando i battaglioni austriaci a mille uomini, sarebbero stati
cinquemila fanti, centosessanta cavalli, sei pezzi d’artiglieria e
una batteria di razzi che il generale Urban aveva a’ suoi comandi. Ma
supponendo che n’abbia lasciati una parte a Como, portò sempre contro
Garibaldi quattromila uomini.

[194] Nell’opera più volte citata del maggiore G. CARRANO, _Garibaldi e
i Cacciatori delle Alpi_.

[195] Il generale Urban doveva far partire la colonna aggirante tra
Malnate e Belforte. Anche di là non poteva, è vero, andare che per
sentieri, ma aveva due terzi meno di cammino, e in un’ora al più poteva
essere in linea. Io penso poi che, anche spiegato da quella parte
l’attacco, il solo battaglione mandato ad eseguirlo non bastava a
snidare dalle forti posizioni Garibaldi, che vi si teneva concentrato
con sette od ottocento uomini. A parer mio soltanto con dimostrazioni
più forti sul centro e sulla sinistra, combinate con un vero e serio
attacco girante da sinistra, e il generale Urban era in forze da
tentarlo, la posizione di Varese poteva essere espugnata. Invece non fu
neanche seriamente minacciata.

[196] Ecco il quadro delle sue forze desunto dall’opera citata:
_Campagne de l’emp. Napoléon III en Italie_, pag. 104-105:

  _Generale Rupprecht._

  1 Battaglione reggimento frontiera di Szluin (nº 4).
  4 Battaglioni del reggimento Kellner (nº 41).

  _Generale Augustin._

  1 Battaglione frontiera di Titel.
  4 Battaglioni del reggimento Principe di Prussia (nº 34).

  _Generale Schaffgotsche._

  3 Battaglioni di Cacciatori.
  Il 14º battaglione di Cacciatori.
  1 Battaglione del reggimento Don Miguel (nº 39).
  1 Battaglione del reggimento Arciduca Ranieri (nº 59).

[197] Non però per cagion sua. Essa doveva attaccare quando sentisse
cominciato il fuoco alla sua sinistra, e siccome una squadra della
compagnia Susini sparò senz’ordine e prima del tempo, così anche il
De Cristoforis fu tratto in inganno da quella fucilata. Del resto,
gli ordini da lui ricevuti non gli permettevano di perdersi in indugi.
Fu il generale Garibaldi in persona che, passando dinanzi alla fronte
della compagnia pronta all’attacco dietro la Villa Amato, disse al De
Cristoforis: «Capitano, appena udite la fucilata e passato questo muro,
caricate alla vostra maniera.» Testuali parole udite da me stesso, e
che son ben lieto di scrivere qui a maggior giustificazione di quel
valente ufficiale e mio dilettissimo amico, ingiustamente accusato
d’aver troppo precipitata l’azione in quella giornata.

[198] A Varese aveva perduto tra morti e feriti circa ottantaquattro
uomini, e a San Fermo trentacinque; per cui, sottraendo ancora le
compagnie lasciate a Como ed a Lecco, la squadra rimasta a Varese e
i malati (in tutto circa quattrocento uomini), si può con certezza
affermare che la colonna in quel giorno (28) non arrivava a duemila
novecento combattenti.

[199] La citata opera (_Campagne de l’emp. Napoléon III en Italie_,
pag. 106) dice: «Pour atténuer l’horreur d’une pareille mesure le
général Urban a prétendu que le tir des pièces était dirigé de manière
a épargner la ville et a n’atteindre que quelques grands bâtiments
isolés et inhabités.»

Contro le parole del bombardatore attestano le vestigia del
bombardamento visibili ancora in molte case, certo non isolate nè
disabitate. E chi voglia saper la verità tutta, legga quel che ne
scrive uno degli ostaggi ritenuti dall’Urban, testimonio del feroce
spettacolo:

«Alle ore sei pomeridiane precise cominciò il bombardamento della
città. Sessanta e più furono i colpi di cannone scaricati nello
spazio di poco tempo. Alle nove circa fu ripetuta la scarica a
doppia dose. Per maggior colmo di barbarie, e perchè avesse a farci
maggiore impressione l’orrendo spettacolo, ci si aprivano le finestre.
Ogni colpo era come una stilettata al cuore per gli astanti che
si immaginavano il pericolo dei loro più cari. Si cominciava colle
artiglierie del Quartiere generale alla Villa Pero di casa Picinini,
comandate dal _valoroso_ tenente-maresciallo Urban; poco dopo vi
rispondevano quelle situate sulle alture di Giubbiano, sulla spianata
di Montalbano, di San Michele di Bosto, e da ultimo quelle di San
Pedrino, ove ci trovavamo noi stessi. In quel momento il suolo ci
ballava sotto i piedi, e non pochi vetri cadevano spezzati.»

Il libro poi da cui togliamo questo brano (_Varese, Garibaldi ed
Urban_, pag. 117), soggiungeva:

«Nel secondo bombardamento i colpi scagliati furono circa
duecentocinquanta. Vennero diretti specialmente al campanile, che si
voleva forse castigare perchè fu suonato a stormo la mattina in cui
gli Austriaci furono battuti a Biumo Inferiore, ed _a festa_ il dì
in cui s’inaugurò il Governo costituzionale ed italiano di Vittorio
Emanuele, la sera in cui giunse Garibaldi, e quando questi ritornò
dopo le riportate vittorie; alla cupola della Basilica, intanto che si
beffeggiava la Religione; ad alcune ville e case, che ne furono assai
malconcie e danneggiate; all’Ospitale stesso, dove, cogli ammalati e
coi feriti nostri, trovavansi anche i feriti austriaci.»

[200] «L’État-Major du commandant de la deuxième armée sembla voir une
grande portée politique et militaire dans l’entreprise de Garibaldi
sur Como. D’habiles officiers inclinaient à penser quelle devait être
le prélude de graves opérations et le présage d’une attaque sérieuse
sur l’aile droite autrichienne. Mais dans un Conseil de guerre tenu à
Garlasco le 27, le comte Giulay déclara qu’il n’attribuait aux courses
de Garibaldi dans le nord d’autre caractère que celui d’une simple
diversion, et persévéra plus que jamais dans sa première manière de
voir. Aussi se contenta-t-il de donner, le 28 mai, au général Urban,
l’ordre de reprendre l’offensive contre Garibaldi avec toutes ses
forces, et de tirer de la ville de Varèse une répression exemplaire.»
_Campagne de l’empereur Napoléon III en Italie_, già citata. —
Solamente, come stiamo raccontando, l’Urban non seppe eseguire l’ordine
del suo capo; gli fu facile bombardare Varese, ma quanto a riprendere
l’offensiva, abbiamo veduto che non gli bastarono tre giorni a
risolversi; e dopo quei tre giorni era tardi.

[201] Il RUSTOW, _Campagna del 1859_.

[202] Ci sarebbe difficile raccogliere e correggere tutti gli errori
di fatto che intorno a questa campagna di Garibaldi scrissero e
propagarono anche gli autori militari più reputati. Mi limiterò ad
alcuni esempi.

Il CORSI nel suo _Sommario di Storia militare_ (parte III, pag. 238)
dice «che Garibaldi partì da Biella con seimila uomini,» ed è noto
che la brigata dei Cacciatori delle Alpi, anche nei giorni della sua
maggior forza, non contò più di tremilaquattrocento uomini; che «il 26
maggio l’Urban mosse di nuovo ad assalire Garibaldi a Como,» mentre
tutti sanno che l’assalitore fu Garibaldi; che dopo il colpo fallito
sul forte di Laveno, Garibaldi stava per essere costretto a cercare
scampo in Isvizzera, quando l’apparizione dei Francesi sul Ticino
costrinse l’Urban a retrocedere; mentre noi abbiamo dimostrato che
Garibaldi stette in presenza dell’Urban tre giorni, e che nel momento
in cui egli intraprendeva la sua marcia di fianco da Induno-Como, il
Generale austriaco era ancora con tutte le sue forze a Varese, da cui
non partì col grosso che la sera del giorno 2 giugno.

Il LECOMTE (_Relation hist. et crit. de la Campagne d’Italie en 1859_,
tomo I, pag. 108, 104,105) immagina la scaramuccia sotto Como il 28, 29
e 30 maggio. Vede Garibaldi entrare in Varese il 3 giugno nel momento
in cui gli Austriaci ne sortivano, attaccarli subitamente _à quelque
distance de la ville_, e accelerare così la loro ritirata _tout en leur
faisant quelques prisonniers_, etc. — Non confutiamo.

[203] Oltre il corpo dell’Urban, bisogna calcolare il presidio di
Milano. Dire quindicimila uomini è dir poco.

[204]

                    Varese.
               ----------------
               |              |
               |              |
  Lago         |              |  Como.
  Maggiore.    |              |
               |              |
               ----------------
                    Milano.

[205] Erano il povero Francesco Nullo e Piero Bergamaschi, entrambi
guide di Garibaldi.

[206] CARRANO, op. cit., pag. 393.

[207] La più forte ragione data delle lentezze degli alleati fu il
disegno attribuito al Giulay di dare una nuova battaglia sul Chiese e
dell’anticipato concentramento che vi andava facendo.

È però evidente, che, se l’esercito austriaco avesse dovuto fare una
ritirata precipitosa dall’Adda in poi, o non avrebbe avuto più tempo di
apparecchiarsi alla supposta battaglia, o l’esercito alleato l’avrebbe
colto in flagranti di concentramento, quindi con molta probabilità di
sconfiggerlo.

E mi sembra del pari evidente, che, se i Franco-Sardi arrivavano sul
Chiese soltanto due giorni prima di noi, fra il 16 e il 17 giugno (e
lo potevano), avrebbero potuto riprendere il movimento in avanti fra il
19 e il 20, invece del 23, ed occupare così Solferino senza combattere
e prima che l’Austria avesse avuto tempo di riprendere la progettata
offensiva.

[208] Fece 140 chilometri in quattordici giorni.

[209] Come al Quartier generale principale si chiamassero Divisione tre
mezzi Reggimenti di mille uomini ciascuno, non sappiamo comprendere.

[210] Così lo chiamò in un suo Ordine del giorno Garibaldi: due volte
ferito sul Roccolo di Castenedolo, continuò a combattere; colpito da
una terza palla al petto, fu trasportato a Brescia e vi morì.

[211] Lettera del Cavour al principe Napoleone Girolamo Bonaparte,
23 giugno 1860, citata da NICOMEDE BIANCHI, _Storia documentata della
Diplomazia europea in Italia (1859-1861)_, vol. VIII, pag. 168.

[212] In Toscana, G. B. Giorgini, Ubaldino Peruzzi, Marco Tabarrini,
Cosimo Ridolfi, Vincenzo Malenchini, Ermolao Rubieri e Giuseppe Dolfi.
— Nelle Romagne, Marco Minghetti, Gioachino Pepoli, Pietro Montanari,
Carlo Pasolini, i fratelli Rasponi. — A Modena, Giuseppe Malmusi,
Camillo Fontanelli, Luigi Zini. — A Parma, Antonio Cantelli, Jacopo
Sanvitale, Giuseppe Piroli, e molti altri che la brevità mi forza a
tralasciare.

[213] Non furono quelli i soli ufficiali dei Cacciatori delle Alpi
passati nell’Italia centrale; ma Cosenz, Sacchi, Chiassi, Lombardi,
Grioli, Pellegrino entravano nelle Divisioni romagnola e parmense;
Migliavacca, Paggi, Leardi, Bonnet, Bruzzesi, Guerzoni nella Toscana.

[214] Lo confermano queste parole del colonnello Carlo Corsi, del
generale Garibaldi non certo entusiasta;

«Credevasi da molti che Garibaldi, non assuefatto alla regolare milizia
ed avvezzo invece a maneggiare genti raccogliticcie e fare e disfare
a piacere suo, non si sarebbe adattato a quelle pastoie di regola e
disciplina che vincolano le soldatesche stabili, e le avrebbe rotte
per sostituirvi modo di vivere più largo e più democratico, e che
non avrebbe saputo sopportare a lungo quel giogo di soggezione al
Governo di Firenze, cui da principio s’era lasciato indurre a piegar
volonteroso il collo. Egli è fatto per comandare, dicevano, e non per
obbedire. Maneggevole forse finchè le cose procedano secondo i suoi
desiderii, resisterà e drizzerà quella sua testa leonina sul capo di
tutti quando vogliasi trattenerlo o sviarlo. Lo giudicavano quindi
un amico _molto pericoloso_. I fatti che poi seguirono mostrano come
quel giudizio non fosse fallace in quanto concerneva la docilità
del Generale. Ma nel governo della milizia egli amò e coltivò la
regolarità e la stretta disciplina. La sua esperienza medesima lo
aveva persuaso dei pregi delle milizie stabili come istrumenti da
guerra. Era quindi manifesta la contentezza sua dell’avere in sua balía
mezzi tanto più perfetti e poderosi di quelli che sino allora avea
avuto. E non solamente non s’arrischiò a farvi mutazioni di qualche
rilievo per timore di guastarli, ma volle che fossero conservati tali
quali li vogliono le regole della milizia stabile. Insomma, contro
la comune aspettazione, egli apparve in ciò _conservatore_, come il
suo predecessore era apparso _rivoluzionario_. Fu supposto allora
che egli avesse dovuto prendere qualche impegno intorno a ciò o col
barone Ricasoli, o col Ministro della guerra toscano, generale De
Cavero, appartenente all’esercito sardo; tanto più che si seppe non
essergli stato concesso di portar secolui al servizio toscano se non
che pochi dei suoi principali compagni d’arme dei Cacciatori delle
Alpi, mentre egli ne aveva presentato una lunga lista. Ciò spiegasi
da questo che egli aveva avuto informazioni assai cattive circa gli
ufficiali toscani, le quali furono smentite prima dai governanti,
e poi più ancora dalla conoscenza ch’egli acquistò degli stessi
ufficiali. Egli ebbe a dire che li trovava diversi assai e migliori
molto di quello ch’egli avesse potuto figurarsi da quanto gliene era
stato detto. E presto vi fu sincero ricambio di stima e rispetto, e
miglioramento nelle condizioni disciplinari di tutta la Divisione.» —
Vedi _Venticinque anni in Italia_, per CARLO CORSI, vol. I, pag. 366.

E poco dopo:

«Errano coloro che credono che Garibaldi faccia guerra alla sventata,
come i condottieri del Medio Evo, o per semplici strattagemmi, da
momento a momento, come i guerrigliatori. Egli sa benissimo quanti e
quali aiuti le carte e i libri offrano ai capi degli eserciti odierni,
ne apprezza molto il valore, e ne fa suo pro, al pari di qualunque
buon capitano. Ogni sua impresa ha per base qualche buon concetto
strategico. Soltanto la sua tattica è piuttosto da guerrigliero che da
generale. Nè potrebbe essere altrimenti, considerato il suo carattere
e la via ch’egli ha seguito per giungere ai sommi gradi della milizia.
Se qualcosa gli manca, non è per fermo la naturale disposizione al
comando o lo studio, ma la pratica del maneggio delle grandi masse
regolari, invece della quale ha l’abitudine della piccola guerra delle
milizie ragunaticce.» — Vedi _Venticinque anni_, ec., pag. 372. — _Su
quest’ultimo giudizio però avremmo qualche cosa a ridire, ma di ciò più
tardi_.

[215] Doveva essere fra il 4 ed il 5 novembre 1859. Erano presenti
Clemente Corte, il Malenchini, il Montanari, il Cairoli, il Basso, il
Paggi ed altri che non ricordo. Le parole in corsivo sono testuali,
delle altre sto mallevadore del senso.

[216] Quella avanguardia era composta del battaglione, nel quale lo
scrittore di queste pagine era luogotenente. Se il contr’ordine del
Fanti tardava mezz’ora, noi eravamo già di là dal confine.

[217] _Storia d’Italia dal 1850 al 1866_, per LUIGI ZINI, vol. I, parte
II, pag. 474.

[218] Vedi NICOMEDE BIANCHI, _Storia documentata della Diplomazia
europea in Italia (1859-1861)_, vol. VIII, pag. 179. Egli cita una
lettera di Marco Minghetti a Urbano Rattazzi, del 7 novembre 1859.

[219] Lo Zini, il Bianchi e parecchi altri parlano qui di Mazziniani;
ma il vocabolo ci sembra improprio. Intorno a Garibaldi di Mazziniani
puri, e intendiamo anche autorevoli, non ce n’era uno solo; e ci
fossero stati, non erano quelli certamente che egli avrebbe preferiti
ed ascoltati.

[220]

                                                   «23 novembre 1859.

»Secondo il desiderio della V. M. io partirò il 23 da Genova per
Caprera, e sarò fortunato quando voglia valersi del mio debole
servizio.

»La dimissione mia, chiesta al Governo della Toscana ed al generale
Fanti, non è ottenuta ancora. Prego V. M. si degni ordinare mi venga
concessa.

»Con affettuoso rispetto di V. M.

                                                         »Devotissimo
                                                         »Garibaldi.»

[221] Vedi il Manifesto nel _Movimento_ del 23 novembre 1859.

[222] Vedi la lettera 14 dicembre, da Fino, scritta in francese
al giornale _L’Esperance_, nella quale smentisce e la visita
all’Imperatrice, e, cosa superflua, i pretesi accordi con lei per la
candidatura russa.

[223] È un violento e quasi selvaggio bando di guerra contro i preti,
non dissimile da quelli che uscivano tante volte sotto la concitazione
dell’ira dalla sua penna. Esso diede luogo a non poche proteste di
sacerdoti onesti e amanti della patria, contro i quali certamente
il Manifesto non era rivolto. Quanto agli altri avevan ragione di
risentirsi della forma; ma non so con quali argomenti avrebbero potuto
confutarne il pensiero. Noi ne riproduciamo, anche per brevità, le
ultime parti:

«..... Eppure quella razza reproba siederà domani, e protetta,
accanto ai rappresentanti delle nazioni più cospicue, e chiederà con
insistenza la continuazione, la conferma del suo _potere temporale_,
che vuol dire, in lingua umana, la continuazione, la conferma di
poter pesare sopra alcuni milioni di sventurati Italiani!... come una
sciagura, una maledizione!... la continuazione di un potere che non si
adopera ad altro che a rubare ai poveri nostri fratelli il loro oro
per gozzovigliare schifosamente, a comprare mercenari stranieri per
combattere Italiani!... la continuazione di un potere che non conta
amici, se non che tra i nemici d’Italia.... e tra quelli che vogliono
dividerla e manometterla e soggiogarla!... un potere che ha scagliato
l’anatema sul popolo e sull’esercito rigeneratore.... sul Re prode e
generoso che Dio ha dato agl’Italiani!...

                             . . . . . . .

»Nell’ora della pugna io sarò con voi.... giovani.... e siate
certi.... questa sarà una grand’epoca per l’Italia. Voi appartenete
alla generazione di liberi.... e liberatori del vostro paese!... Dio
non ha combinato invano tanta virtù in un Monarca!... tanto valore in
un esercito!... tanto fervore in un popolo!... ch’io ho già veduto
combattere degnamente accanto ai primi popoli della terra.... per
abbandonarci all’ignominia del servaggio!... per non redimerci a quella
vita nazionale, ridestata in noi con tanta potenza!

»Il vostro obolo deposto alla sottoscrizione nazionale è un augurio
felice per l’avvenire dell’Italia; ed essa conta — superba! — che
non fallirà il vostro braccio.... ove si debba tornare sui campi di
battaglia!

  »Fino, 24 dicembre 1859.

                                                      »G. GARIBALDI.»

(_Pungolo_ di Milano, 3 gennaio 1860.)

[224] Vedi _Pungolo_ di Milano del 26 dicembre 1859.

[225] Del colloquio col Re parlarono tutti i giornali di Torino. De’
suoi concetti circa alla Guardia mobile, all’opposizione incontrata,
ec., attesta questa lettera inedita al generale Medici:

                                             «Torino, 5 gennaio 1860.

  »Mio caro Medici,

»Anche questa volta ho predicato al deserto. Io credevo di aver
ottenuto di poter organizzare le Guardie mobili in Lombardia. — Ebbene!
Aspettavo oggi nomine, istruzioni, ec.; invece la Diplomazia straniera,
suscitata da Cavour, Dabormida, La Marmora (che chiesero in massa la
loro dimissione per lo stesso motivo), hanno significato al Re «che
non intendevano che vi fosse nello Stato: _Autre force, ou pouvoir,
ou personnes armées, que l’armée du Roi_.» Stupirai di più, quando
saprai che Hudson, ambasciatore d’Inghilterra, da me interpellato,
m’ha dato la suddetta risposta. — Ciò che prova che lui, come tutto il
resto della famiglia diplomatica in corpo, hanno imposto la suddetta
condizione a Vittorio Emanuele.

»Saprai di più che fui richiesto dai liberali di Torino di frappormi
conciliatore tra i loro dissidii; lo accettai con alcune difficoltà
— ed organizzarono la società _Nazione armata_, di cui mi nominarono
presidente.

»Il partito Cavouriano ha fatto il diavolo, perchè nulla di ciò si
effettuasse, ed ho avuto i risultati suddetti per ogni cosa.

»Partecipa questa poco buona nuova agli amici, e credimi sempre

                                                                 »tuo
                                                      »G. GARIBALDI.»

[226] Leggasi questo Manifesto agl’Italiani (_Pungolo_, 5 gennaio 1850):

                            «AGLI ITALIANI.

»Chiamato da alcuni miei amici ad assumere la parte di conciliatore
fra tutte le frazioni del partito liberale italiano, fui invitato ad
accettare la presidenza di una società che si chiamerebbe _Nazione
armata_. Credetti poter essere utile; mi piacque la grandezza del
concetto, ed accettai.

»Ma siccome la nazione italiana armata è tal fatto che spaventa
quanto c’è di sleale, corruttore e prepotente, tanto dentro che fuori
d’Italia, la folla dei moderni gesuiti si è spaventata ed ha gridato:
Anatema!

»Il Governo del Re galantuomo fu importunato dagli allarmisti e, per
non comprometterlo, mi sono deciso di desistere dall’onorato proposito.

»Di unanime accordo di tutti i soci, dichiaro dunque sciolta la società
della _Nazione armata_, ed invito ogni Italiano che ami la patria a
concorrere colle sottoscrizioni all’acquisto di _un milione di fucili_.
Se con un milione di fucili l’Italia, in cospetto dello straniero, non
fosse capace di armare un milione di soldati, bisognerebbe disperare
dell’umanità. L’Italia si armi e sarà libera.

  »Torino, 4 gennaio 1860.

                                                      »G. GARIBALDI.»

[227] Il matrimonio fu poi annullato dal Tribunale d’appello di Roma
con sentenza del 14 gennaio 1880.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
fine libro (Errata Corrige) sono state riportate nel testo.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GARIBALDI, VOL. 1 (OF 2) ***


    

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or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
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Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
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