I Mille

By Giuseppe Garibaldi

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Title: I Mille

Author: Giuseppe Garibaldi

Release Date: January 17, 2010 [EBook #31002]

Language: Italian


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GARIBALDI


I MILLE


      Virtù contra furore
    Prenderà l'armi; e fia il combatter corto,.....
    Chè l'antico valore
    Negli italici cor non è ancor morto.

              (PETRARCA)


TORINO

TIP. E LIT. CAMILLA E BERTOLERO MDCCCLXXIV.


I diritti d'autore di quest'opera e delle traduzioni della medesima in
lingue straniere sono rigorosamente mantenuti.

Di quest'edizione non è stato tirato che il solo numero di copie per i
sottoscrittori, nazionali e stranieri.

Qualunque copia mancante del numero d'ordine e del bollo sarà
assoggettata ai rigori della Legge sulla Proprietà letteraria.




PREFAZIONE


_Alla Gioventù Italiana_

Eccovi un altro mio lavoro--questo lo dedico a voi, non perchè sia
migliore degli antecedenti, ma perchè voi troverete dei fatti compiuti
dai vostri antesignani e fedelmente narrati da me, testimonio oculare.

Il male che dico del governo, credo sia inferiore ai meriti dello
stesso, e desidero si creda che non per sistema io lo maledico, ma per
puro convincimento di far bene, accennando al male.

Che la Monarchia per interesse proprio abbia secondato le aspirazioni
nazionali nell'unificazione patria credo assurdo il negarlo, siccome
assurdo sarebbe il negare aver la Democrazia seminato i campi di
battaglia coi suoi martiri nell'intento solo generoso dell'unificazione
dell'Italia e della sua emancipazione dal dominio straniero e
teocratico.

Alcuni pochi che nelle fila della Democrazia pugnarono per il proprio
avvenire, oggi si trovano nel Consorzio Monarchico, e quindi divisi
dalla stessa, ed obbligati a continuar col governo la via di perdizione.

Il governo italiano modellato su quello imperiale di Francia, in tutto
lo somiglia, ne segue esattamente le traccie, ed avrà le stesse
conseguenze.

Non credano i moderni Machiavelli d'Italia d'esser più furbi dell'uomo
di Sédan; essi lo ponno uguagliare in malvagità, non in malizia.

Come quello, questi edificano su fondamenta putride della sacerdotale
menzogna, e come quello saranno sepolti nelle immondizie da loro stessi
accumulate.

Perseguitino pure l'Internazionale, cioè la miseria da loro creata e
mantenuta--spargano pure sulla superficie dell'Italia, colla solita
intenzione di corromperla, i soliti agenti del corruttore supremo di
Roma--ed invece di costruire degli Ospizi d'asilo per i tanti condannati
a morir di fame in questo inverno di carestia, comprino pure delle nuove
tenute di caccia per divertirsi--e nuovi palazzi vescovili--vedremo come
se la intenderanno colla fame della moltitudine.

In Germania, tutti lo dicono, non v'è più un solo individuo che non
sappia leggere e scrivere. La Francia grida: istruzione ad ogni costo. E
l'Italia prodiga il suo erario a pagare dei vescovi e simili agenti
delle tenebre.

Ripeto: ve la intenderete colla fame--!

Dei preti dico poco male, me lo perdoneranno i miei concittadini,
considerando che pur qualche cosa dovevo mollare alle paterne
ammonizioni dello Spigolatore Bolognese all'_Unità Italiana_ (giornale)
sulle mie _antifone_ contro i preti.

Sui meriti della gioventù Romana, per cui ho una predilezione speciale,
alcuni mi troveranno esagerato. Ebbene, se sono largo di elogi agli
odierni discendenti dei Quiriti, ciò sia un pegno per il loro contegno
avvenire.

Essi, sin ora sotto la diretta educazione del prete, ed in presenza
delle sue carceri, de' suoi birri, e de' suoi istrumenti di tortura,
dovevano essere ciò che erano veramente.

Oggi però, abbenchè poco meglio governati, essi non sono più sudditi o
schiavi del clero--e devono sottrarsi intieramente da quel vergognoso
servaggio, abiurarlo, maledirlo, distruggerlo sino alle ultime
vestigia--ricordandosi che dal clero, essi, dall'apice delle Nazioni
furono precipitati all'infimo grado della scala umana.

E che non vengano qui gli uomini a dottrine che puzzano di sagristia e
di ceppi a dottoreggiare, che non conviene agli operai (come si
preconizza in Roma oggi) di trattare di politica.

Se io, povero _mozzo_, non m'inganno, politica significa affare dei
molti--ed intendo i _molti_ dover essere coloro che menan le braccia
nella società quando ben costituita--ed i molti naturalmente interessati
a sapere se la barca va negli scogli o a salvamento.

La gioventù Romana--operai od altro--deve quindi occuparsi di
politica--e convincersi che il suo contegno calmo, dignitoso, ma
energico nello stesso tempo nella insofferenza d'oltraggi od esigenza di
diritti--il suo contegno, dico, deve servire di stella polare alle città
sorelle, per ottenere un'Italia prospera e rispettata nel mondo.

Posta così a capo del progresso nazionale--e partecipando alla buona ed
alla cattiva fortuna del resto della Penisola, la vecchia matrona--sarà
impossibile esser la nostra bella patria trascinata indietro
nell'anfiteatro del fanatismo e della tirannide.

Emancipata dall'idolatria, e spinta col suo culto del vero e della
giustizia verso la fratellanza universale, Roma potrà salutar finalmente
l'alba d'un terzo periodo intellettuale nell'immortale ed impareggiabile
sua esistenza.

La nazione ha quindi il diritto di sperare nel buon andamento che il
popolo dell'illustre Capitale saprà dare alla Vita Italiana.

Vecchio--e poco più atto, o nulla, all'azione materiale--devo limitarmi
a consigliare i giovani che ponno utilizzare la mia esperienza.

Accennerò alle esagerazioni.

Non credete voi che le esagerazioni dell'ultima rivoluzione di Parigi
l'abbiano perduta? Io lo credo--e credo le esagerazioni dei dottrinarii
manterranno ancora per molto tempo l'Internazionale in uno stato
spaventoso per le classi agiate--ciocchè servirà di puntello e di
propugnacolo alle monarchie ed al clero per combatterla.

Dall'altra parte noi diremo ai governi:

«Combattete il male di cui siete artefici, e non l'Internazionale, se ne
siete capaci.

«I creatori dell'Internazionale e delle rivoluzioni siete voi.--Giacchè
se voi combattete il vero e la fratellanza umana, non valete più dei
preti abbagliati dalla luce, e che condannano alle fiamme chi non crede
alle loro menzogne.

«Se continuate nella via del privilegio, voi rinnegate il diritto e la
giustizia, e l'Internazionale--complesso della classe soffrente--finirà
per rovesciarvi e distruggervi--E se mal diretta, per precipitare il
mondo in uno di quei cataclismi da far tremare la terra.

«Istigatori del malcontento e delle miserie, voi siete i creatori del
brigantaggio sempre crescente--e siccome siete la malizia e la
fallacia--profittate degli stessi disordini suscitati da voi per
accrescere il numero dei vostri puntelli. E vediamo quindi ogni giorno
un aumento di preposti, di questurini e di benemeriti, di cui la nazione
vi dà vistoso contingente, perchè povera e depravata da voi.

«Correggete tutti cotesti cancri, se lo potete, e non cercate di
distruggere l'Internazionale--opera vostra e composta di vostre
vittime--di cui non potete passarvi perchè poltroni e lussuriosi.
L'Internazionale, dico, è emanazione dei vostri vizii!»

Troppo aspri i miei detti troveranno molti, ma scendano un istante
costoro nella loro coscienza, e mi dicano se normale sia il presente
stato d'Italia.

A che impoverire la maggior parte della Nazione per mantener la parte
minore nell'agiatezza e nelle lussurie?

E non è forse questo stato anormale, che mantiene la rivoluzione in uno
stato latente, ma inevitabile?

Le lezioni dell'Impero Napoleonico a nulla han servito dunque! Poichè si
vedono i governanti, alunni di quello, marciare come prima alacremente
verso l'abisso seguendo il sentiero tracciato dall'uomo che rovinò la
Francia.

Io non capisco come si chiamino _conservatori_ gli uomini che
appartengono a tale sistema.

Cosa diavolo conservano? il marciume, ma questo--entrando
nell'appannaggio dei vermi--porta già l'impronta d'uno schifoso passato.

Cotesti conservatori siedono perennemente sul cumulo di un vulcano, i di
cui crateri tempestano sotto i loro piedi, e finiranno, riunendosi in
uno solo, coll'esplodere la montagna ed inghiottirli nelle latebre della
terra.

Io ho la coscienza di non appartenere a setta nè a partiti--vorrei
vedere il mio paese prospero e rispettato--vorrei vedere gli uomini del
capitale conformarsi ai progressi dei tempi presenti--e persuadersi che
le masse d'oggi non devonsi guidare cogli espedienti del passato.

In tutti i tempi, quasi, i popoli si son governati coll'ignoranza e la
violenza--cioè coi preti e coi soldati.

«Porque tal es mi voluntad--yo il Rey!» era la firma del re di
Spagna.

«L'Etat c'est moi» diceva Luigi XIV.

La Spagna e la Francia provano oggi che quei tempi son passati--e se si
pensa alle convulsioni cagionate dalla cecità ed ostinatezza di quei
signori--credo i conservatori moderni, che somigliano certamente agli
antichi--si persuaderanno di conservar nulla alla fine--e le nazioni
pure procureranno di non ritentar le prove spaventose.

Perchè dunque non evitar il pericolo?

Sarebbe cosa facile: i tanti che mangiano per cinquanta, contentarsi di
mangiare per venticinque.

Per persuadersi che i tempi sono cambiati, date un colpo d'occhio
all'Austria. Chi non preferisce oggi la condizione d'un onesto contadino
a quella ormai ridicola di cotesto imperatore e re?

Non vi par di vedere un cacciatore, cui una caduta ha mandato la gabbia
in pezzi, faticantesi a correr dietro agli uccelli fuggiti e ben
contenti di seguir ognuno la loro via liberissima nello spazio?

Poveri imperatori! Ed è strano vederne dei nuovi che--per la sventura
umana--si aggraffano a troni putridi e maledetti.

Il lavoro presente avrà certo l'impronta della trascuratezza--per tanti
motivi, ai più conosciuti--e per esser stato ripreso tante volte.

Finisco contando sulla vostra simpatia nel credere ch'io avrei
desiderato d'esser capace di far meglio.

  Caprera, 21 e 22 gennaio 1873.

            G. GARIBALDI.




CAPITOLO I.

I MILLE.

    Quel che giurâr ottennero,
      Han combattuto, han vinto,
      Sotto il tallon del forte
      Giace lo sgherro estinto.

              (BERCHET).


O Mille! in questi tempi di vergognose miserie--giova
ricordarvi--l'anima si sente sollevata pensando a voi--rivolta a
voi--quando, stanca di contemplar ladri e putridume pensando che non
tutti--perchè la maggior parte di voi ha seminato l'ossa su tutti i
campi di battaglia italiani--non tutti ma bastanti ancora per
rappresentare la gloriosa schiera--restante--avanzo superbo ed
invidiato--pronto sempre a provare ai boriosi nostri detrattori, che
tutti non son traditori e codardi--non tutti spudorati sacerdoti del
ventre in questa terra dominatrice e serva!

«Ove vi sono dei fratelli che pugnano per la libertà Italiana--là
bisogna accorrere» voi diceste.

«Essi combattono per liberarsi dalla dominazione d'un tiranno; per
affratellarsi alla grande famiglia Italiana».

E non trovaste il codardo pretesto--se la loro bandiera era più o meno
rossa.--Anzi--Repubblicani veri--voi faceste non solo il sacrifizio
della vita, ma delle convinzioni politiche vostre. Come Dante
repubblicani--come lui diceste: «Facciam l'Italia anche col diavolo!»

E ben faceste, perchè ai dottrinarii che predican principii che non
praticano, voi vittoriosamente potrete sempre rispondere: «Noi non
conosciamo altri principii se non che i due, del bene e del male.--E per
l'Italia sarà sempre principio del bene quello di volerla
unificare.--Far il bene della patria è la nostra Repubblica».

Voi cercaste il pericolo in soccorso di fratelli senza chiedere s'eran
molti i nemici, se sufficiente il numero dei volenterosi--se bastanti i
mezzi per l'impresa.

Voi accorreste sfidando gli elementi, i disagi, le privazioni, i
pericoli con cui ne attraversavano la via nemici e sedicenti amici.

Invano il Borbone, con numeroso naviglio, stringeva in un cerchio di
ferro la Trinacria, gloriosa, insofferente di giogo, e solcava in tutti
i sensi il Tirreno, per profondarvi nei suoi abissi. Invano!

Vogate! Vogate pure Argonauti della libertà--là sull'estremo orizzonte
di Ostro splende un astro, che non vi lascierà smarrire la via, che vi
condurrà per la mano al compimento della grande impresa--l'astro che
scorgeva il grandissimo cantore di Beatrice, e che scorgevano i grandi
che gli successero, nel più cupo delle tempeste--la Stella d'Italia!

Ove sono i piroscafi che vi presero a Villa Spinola e vi condussero
attraverso il Tirreno salvi nel piccolo porto di Marsala? Ove? Son forse
essi nuovi Argo, gelosamente conservati, e segnati all'ammirazione dello
straniero e dei posteri, simulacro della più grande e più onorevole
delle imprese italiane? Tutt'altro; essi sono scomparsi.--L'invidia e la
dappocaggine di chi regge l'Italia, hanno voluto distruggere quei
testimoni delle loro vergogne.

Chi dice: Essi furon perduti in premeditati naufragi.--Chi li suppone a
marcire nel più recondito d'un arsenale,--e chi venduti agli ebrei per
pochi soldi, come vesti sdruscite.

Vogate però, vogate impavidi--_Piemonte_ e _Lombardo_[1], nobili veicoli
d'una nobilissima banda--la storia rammenterà i vostri illustri nomi, a
dispetto dell'invidia e della calunnia.--E voi, giovani che mi leggete,
lasciate pur gracchiare il dottrinarismo. Ove in Italia si trovino
Italiani che pugnano contro tiranni interni e soldati stranieri, correte
in aiuto dei fratelli, e persuadetevi che il programma di Dante «Fare
l'Italia anche col diavolo» vale ben quello dei moderni predicatori di
principii che millantano il titolo di partito d'azione, avendo passato
tutta la vita in ciarle.

Quando l'avanzo dei Mille, che la falce del tempo avrà
risparmiato--seduti al focolare domestico, racconteranno ai nepoti la
quasi favolosa impresa a cui ebbero l'onore di partecipare--oh! essi ben
ricorderanno alla gioventù attonita i gloriosi nomi che formavano
l'intrepidissimo naviglio, e la santa soddisfazione provata d'esser
corsi alla riscossa degli schiavi.

Vogate! Vogate! voi portate i Mille a cui si aggregheranno i milioni, il
giorno in cui queste masse ingannate, capiranno esser il prete un
impostore, e le monarchie un mostruoso anacronismo.

Com'eran belli, Italia, i tuoi Mille! in borghese--pugnando contro i
piumati, gl'indorati sgherri--spingendoli davanti a loro come se fosse
un gregge.--Belli, belli! e vario-vestiti come si trovavano nelle loro
officine quando, chiamati dalla tromba del dovere! Belli, belli! erano
coll'abito ed il cappello dello studente, colla veste più modesta del
muratore, del carpentiere, del fabbro[2]. E davanti a quella non
uniformata, pochissimo disciplinata gente, fuggivano i grassi,
argentati, pistagnati, spallinati venditori della coscienza.

Belli i tuoi Mille, Italia! Essi rappresentavano il tuo esercito
dell'avvenire. Non più mille allora, ma milioni, ripeto--ed allora?
Allora spariranno dalla tua terra, bella infelice! i boriosi tuoi
dominatori--e con loro chi infamemente speculava sulle tue miserie e le
tue vergogne!

I Mille, ricordatelo, giovani Italiani, devono essere sostituiti dal
Milione, e dieci eserciti indorati fuggiranno davanti a voi, come fumo
spinto dal vento!...

Allora il frutto del vostro sudore sarà vostro.--Tutte quelle
benedizioni di cui vi fu prodiga natura, saranno vostre, ed allora la
vergine a cui avete consacrato un amore italiano--caldo come le lave dei
vostri vulcani--la vergine a cui avete consacrato una vita intemerata,
sarà vostra--e vostra pura dal contatto appestato d'uno sgherro.

Ma non fate i sordi il giorno della chiamata, e ricordatevi, che per
esser pochi molte generose imprese furono fallite!

Mentre il sacro suolo ove nasceste è calpestato dal soldato straniero,
accorrete--ed accorrete qualunque sia lo squillo di tromba che vi
chiami--sia esso dell'Esercito Italiano o dei Volontarii--basta ch'essi
si trovino alle mani contro l'oppressore. Non ascoltate, come a Mentana,
la voce di certi traditori che fecero defezionare migliaia di giovani
col pretesto di tornare a casa a proclamare la Repubblica ed innalzar
barricate.

NOTE:

[1] I due piroscafi che trasportarono i Mille in Sicilia imbarcandoli a
Villa Spinola, residenza dell'illustre C. A. Vecchi, che tanto fece in
favore della spedizione.

[2] Di cuore avrei voluto aggiungere _del contadino_, ma non voglio
alterare il vero. Questa classe robusta e laboriosa non appartiene a
noi, ma al prete, col vincolo dell'ignoranza. E non v'è esempio di
averne veduto uno tra i volontari. Essi servono, ma per forza, e sono i
più efficaci istrumenti del dispotismo e del clero.




CAPITOLO II.

IL CINQUE MAGGIO.

    Mieux vaut mourir
      Que vivre misérable!
      Pour un esclave
      Est-il quelque danger?

              (_Muta di Portici_).


O notte del 5 maggio rischiarata dal fuoco dei mille luminari con cui
l'Onnipotente adornò lo spazio!

Bella, tranquilla, solenne, di quella solennità che fa palpitar le anime
generose che si lanciano all'emancipazione degli schiavi! Io ti saluto!

E vi saluto, o miei giovani compagni, oggi provetti, e la maggior parte
mutilati o segnati con gloriosissime cicatrici.

Salve a voi--forse la parte migliore della schiera--che seminaste le
nobili ossa su dieci campi di battaglia per la redenzione patria o per
la redenzione d'altri oppressi, ma sempre contro la tirannide, fosse
essa avvolta nella tiara o nella clamide imperiale!

Brulicando sul litorale dell'orientale Liguria, silenziosi, cupi,
penetrati dalla santità dell'impresa, ma fieri d'esservi caduti in
sorte--aspettavano impazienti i Mille--succedan pure i disagi o il
martirio!

Bella! notte del gran concetto! tu rumoreggiavi nelle fila di quei
superbi, di quell'armonia indefinita, sublime, edificante, con cui gli
eletti della specie umana sono beati contemplando l'Infinito
nell'infinito[3].

Io l'ho sentita quell'armonia in tutte le notti che si somigliano alle
notti di Quarto, di Reggio, di Palermo, del Volturno!

E chi dubita della vittoria, quando essa, portata sulle ali del dovere e
della coscienza, questi ti sospingono ad affrontare i perigli e la
morte, dolci allora come il bacio delizioso della donna del primo amore?

I Mille battono il piede sulla spiaggia, come il corsiero generoso
impaziente della battaglia. E dove van essi a battagliare? Han forse
ricevuto l'ordine d'un sovrano per invadere, conquistare una povera,
infelice popolazione, che, rovinata dalle tasse di dilapidatori, ha
rifiutato di pagare il macinato? No! Essi corrono verso la Trinacria,
ove i Picciotti, insofferenti del giogo d'un tiranno, si son sollevati
ed han giurato di morire piuttosto che rimaner schiavi.

E chi sono i Picciotti? Con questo modestissimo titolo, essi altro non
sono che i discendenti dell'illustre popolo dei Vespri, che in una sola
ora trucidò un esercito di sgherri senza lasciarne un solo vestigio.

«Ma questi piroscafi non si vedono» diceva Nullo ad un impaziente
crocchio di volontarii, composto dai Cairoli, Montanari, Tucheri ed
altri, che anelavano di lanciarsi sul seno di Teti, e volare in soccorso
dei combattenti fratelli.

Nullo, Cairoli, Montanari, Vigo, Tucheri, del vostro nobile sangue è
rossa la terra degli schiavi, ma il sublime esempio del vostro eroismo
non è perduto per questa gioventù destinata a compiere ciò che voi sì
gloriosamente iniziaste!--Voi prodighi d'una vita preziosa, siete
impazienti di gettarla là come uno straccio, mentre migliaia
d'ignavi--che non valgono una rapa e che pure profitteranno del santo
vostro sacrifizio--restano indietro, o paurosi come pecore, o calcolando
i vantaggi che potran raccogliere dall'arditissima impresa.

«Spero saranno piroscafi, non legni a vela: sarebbe troppo noioso il
viaggio--soggiungeva il maggiore dei Cairoli colla sua calma
angelica--Bixio, Schiaffino, Castiglia, Elia, Orlando, incaricati di
condurli via dal porto, non sono uomini da lasciarsi intimorire da
minacce o da ostacoli».

«Però--ripetea l'eroe della Polonia coll'orologio alla mano--già siamo
al tocco, ed alle 3 albeggia in questa stagione: se i legni da guerra
ancorati nel porto di Genova giungono a scoprirci, potrebbe andar male
per la spedizione.»

«Per Dio! che fossimo obbligati anche questa volta a tornarcene a casa»
urlava il focoso e prode Montanari.

«Sangue della Madonna!» e lì si disponeva a continuare alcune
imprecazioni con una voce da far impallidire (se non fosse stato di
notte) quante spie ed agenti di polizia ronzavano intorno ai valorosi
Argonauti italiani.

«Sangue della!....--e non arrivò a ripetere--Madonna» quando un «Zitto»
di Vigo Pelizzari che si teneva sul promontorio di Quarto (ove si
trovavano i nostri amici) adocchiando verso Genova «Zitto, non vedete
quelle masse nere che celeremente s'avanzano verso di noi?»

«Sì, sì, per Dio! son dessi, sono i nostri piroscafi che vengono ad
imbarcarci.» Ed un fremito di soddisfatta impazienza s'innalzò in un
momento tra quella superba gioventù da non più udire il rumore delle
onde che si frangevano contro le scogliere.

Eccoli, eccoli, e maestosi s'avanzavano i due piroscafi, e i gozzi[4],
già preparati, cominciavano ad imbarcare militi, armi, munizioni; e la
gioia dei giovani volontari, che avrebbero voluto manifestarla almeno
con un canto patriottico, era moderata dai più provetti con un «Per Dio!
ci fermano se fate chiasso!». E quei prodi religiosamente tacevano per
non essere sviati dalla santa impresa! Fra dieci giorni molti di questi
generosi cadranno feriti per davanti, caricando il Monte del _Pianto
dei Romani_ (Calatafimi) coronato dai forti cacciatori borbonici, ben
armati, uniformati e boriosi d'aver insanguinato i loro ferri contro i
patrioti siciliani.

Anni della mia gioventù, ove siete iti?--Bei tempi! in cui l'entusiasmo
era la vita! il pericolo, la ricompensa più deliziosa!--Anch'io provavo
la _gentil voluttà_ delle nobili imprese! l'ambizione sublime d'esser
utile! E spesso nella solennità d'una tempesta desideravo la catastrofe
per abbrancarmi una men forte creatura e metterla in salvo col solo
guiderdone della mia coscienza, pago d'aver fatto il bene.

Siam tutti a bordo, tutti! nessuno di quella Legione di eletti è
rimasto. Alcuni hanno già provato gli effetti dell'instabile elemento,
ma niuno si lagna. Essi sono sulla via d'un dovere sacrosanto.

Domani daran la vita per l'Italia, ilari e giocondi come nel banchetto
nuziale.

E che importano loro alcune nausee, i disagi, la morte? I piroscafi sono
diretti sopra una luce verso l'ostro--là su d'una paranza sono imbarcate
le provviste della spedizione--bisogna prenderle.

Si cerca un'altra luce d'altra barca su cui s'imbarcarono armi minute,
munizioni, capsule, ecc., ma con minor fortuna, ed i fedifraghi che
dovevano rimettere tali preziosi oggetti hanno preferito profittar della
circostanza per eseguir un vile contrabbando, e così compromettere la
riuscita della spedizione.

E veramente la spedizione dei Mille fu compromessa da quel turpe
mercato. E come non doveva essere? Essa doveva sbarcare su d'un'isola, i
di cui abitanti sono forse unici per patriottismo e per risoluzione. Ma
la Sicilia non aveva meno di cinquantamila scelti soldati, una squadra
formidabile che ne difendeva le coste, e i valorosi che s'erano
innalzati contro il tiranno, eran decimati dai combattimenti e ridotti
agli estremi. Approdar con tutto ciò senza munizioni da guerra e coi
mille catenacci che la benevolenza governativa avea concessi, in
sostituzione di 15 mila buone carabine, che erano di proprietà nostra, e
dal governo sequestrate!

Però--vogate--nobili piroscafi, i Mille non sono gente da tornare
indietro--e chi ardisse di consigliarlo, mi starebbe fresco.--Vogate! Vi
sono Italiani che si battono contro birri, nostrani o stranieri--che
importa! _Purissimi_ o men _puri_, con più o meno _principii_; essi
vanno in soccorso di pericolanti fratelli.

Principii! Essi Repubblicani veri, ne conoscono due soli:--il bene ed il
male--e marciano sul sentiero del bene, del dovere, contro il male!
Vogate! giacchè il furore dei malvagi, che preferirono l'infame guadagno
all'onore, che monta? Troveremo delle munizioni.

Talamone, S. Stefano, non sono sulla via di Sicilia, ma vi sono
fortezze, presidii, e quindi depositi di munizioni da guerra, e le prore
del _Piemonte_ e _Lombardo_ si dirigevano verso Talamone. Non v'è
dubbio che l'imprevista mancanza di munizioni, e quindi lo sviamento dal
cammino diretto sulla Sicilia cagionò un'alterazione sulla durata del
viaggio, e forse salvò i Mille dall'incontro delle due flotte, Sarda e
Borbonica.

NOTE:

[3] Per Infinito intendo Dio come lo spazio.

[4] Palischermi genovesi.




CAPITOLO III.

TALAMONE.

      Gli ho veduti--raccolti in Pontida
    Provenienti dal monte e dal piano--
    Gli ho veduti, si strinser la mano
    Cittadini di cento città.

              (BERCHET).


Nella mattina del 6 maggio Talamone fu salutato dai rappresentanti delle
cento Sorelle, e lo ricorderò quel giorno! Rappresentanti delle cento
sorelle, sì! Ma non rappresentanti del genere dei 229 che in quella
stessa epoca vendevano la più bella delle gemme italiane, Nizza!--Oggi
coronata di fiori e stuprata negli abbracciamenti del più vile dei
tiranni!--Non rappresentanti di quella turpe genía che provvede i
consorti e cointeressati, ma rappresentanti della dignità Italiana,
insofferenti d'insulti stranieri, e di soprusi nostrani.--Maestri
gloriosi della generazione ventura libera dai preti e dai dominatori!

Talamone, uno dei più bei porti della costa Tirrena, è situato tra il
monte Argentaro e l'isola d'Elba, coronato di belle colline coperte di
macchie, cioè deserte.

E che serve all'Italia d'aver dei bei porti e delle terre ubertose,
quando i suoi governi ad altro non pensano che a far dei soldi per
pascere le classi privilegiate, ed obbligar colla forza, coll'astuzia e
col tradimento alla miseria ed al disonore le classi laboriose?

Talamone, nel tempo della visita dei Mille, aveva un povero forte,
poveramente armato, comandato da un ufficiale e da pochi veterani. I
Mille avrebbero trovato cosa facile impadronirsene, anche scalandolo. Ma
non sembrò conveniente, perchè si sarebbe fatto del chiasso, e poi non
s'era certi di trovare in quel sito quanto abbisognava, mentre nel
vicino S. Stefano, ove esisteva altro forte ed un battaglione di
bersaglieri, v'erano più probabilità di trovarvi il necessario.

Ostilmente, dunque, no; conveniva adoperare un po' di tatto, ed
all'amichevole. E qui valse un bonetto da generale che per fortuna il
Comandante della spedizione aveva aggiunto al suo bagaglio. Quel bonetto
da generale, agli occhi dell'ufficiale veterano, ebbe un effetto
stupendo, e metamorfosò in un momento il Capo rivoluzionario in
Comandante legale. Si ottenne in Talamone quanto vi fu disponibile, ed
il generale Türr, inviato a S. Stefano, potè procurarsi il resto del
bisognevole.

In quest'ultimo porto si fece anche provvista di carbon fossile[5].

Il bonetto generalesco, a cui si dovette in parte la riuscita della
nostra impresa, nei porti toscani, non garbò ad uno dei capi del
_purismo_, che si trovava nella spedizione. Egli trovò infranti i
_principii_ ed i Mille poco puri--e non mancò di manifestare il suo
malcontento ai compagni.--Ma, lo ripeto: I Mille non eran gente da
tornare indietro per fare delle dottrine, quando si trattava di menar le
mani contro gli oppressori dell'Italia.

E, mortificato l'_incorruttibile puro_, se ne tornò a casa solo a fare
la guerra colla penna.

Da Talamone, comandati dal colonnello Zambianchi, si staccarono una
sessantina di giovani per sollevare le popolazioni soggette al papato, e
coll'oggetto di distrarre i nemici e cagionare una diversione. Tale
spedizione, benchè poco fortunata, non mancò di confondere i governi
Italiani sulle reali intenzioni dello sbarco dei Mille[6].

NOTE:

[5] Il comandante Giorgini, facilitando ogni cosa, si acquistò il titolo
di benemerito della patria. Il governo però non mancò di punirlo per la
sua condiscendenza.

[6] In proposito di codesti giovani, che poi non si vollero considerare
come facienti parte dei Mille, il generale Garibaldi, in data 25 maggio
1869, scriveva una lettera la quale conteneva la seguente dichiarazione.
«Fu per ordine mio che la spedizione Zambianchi in Talamone si staccò
dal corpo principale dei Mille per ingannare i nemici sulla vera
destinazione di detto corpo.

«Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni,
Leardi e tutti sarebbero stati degni, come sempre, dei loro compagni,
ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi combattimenti
di Calatafimi e di Palermo».




CAPITOLO IV.

DA TALAMONE A MARSALA.

    Felice te, che il regno ampio di venti
      Ippolito a tuoi verd'anni corresti.

              (FOSCOLO).


Abbiam munizioni, capsule, ed alcuni vecchi cannoni senza fusto. Che
monta? li faremo.

E non sono tutte simili le fazioni di popoli contro i tiranni? Ma là v'è
la coscienza del diritto e quella risoluzione che agevola le più
difficili imprese.

Il Dispotismo ha dei mercenarii disciplinati, è vero, ben nutriti, ed
uniformati. Ma guai a voi, padroni, se siete lenti a somministrar grassi
stipendi. Essi vi fucileranno colla stessa sanguinaria indifferenza,
come fucilano oggi gli sventurati che si lamentano delle vostre
depredazioni.

Vogate, nobili piroscafi! Vogate, voi portate tal gente che fa
l'orgoglio d'una nazione oppressa, calunniata, ma con una storia,
accanto a cui si inchinano le storie dei più grandi popoli della terra.

Questa gioventù brillante è accompagnata dai palpiti e dalle
benedizioni delle madri, delle spose, delle amanti, e da quanti cuori
generosi sentono la dignità della patria e l'insofferenza di dominio
straniero.

L'onde azzurre del Tirreno, increspate dal zeffiro, dondolavano
dolcemente i piroscafi, che vogavano a tutta velocità verso il loro
destino, e pochi eran gli Argonauti afflitti dal mal di mare. Male che
non ben si definisce, poichè fortissime nature vi son soggette, mentre
persone gracili non ne risentono i nauseanti effetti.

Come autorità incontestabile si dice: il grandissimo tra gli Ammiragli
moderni, Nelson, soffrisse di tale disagio.

Sulla tolda del _Piemonte_ un alterco non sanguinoso certamente,
succedea tra il pacato maggiore Bassini ed il focoso tenente Piccinini,
il primo di Pavia, e figlio il secondo delle valli Bergamasche, ambi
valorosi. E ciò che prova non esser essi affetti dal male di mare, si è
che la disputa proveniva dalla distribuzione del rancio.

Era proprio curioso veder l'eccellente Bassini inarcar le ciglia con
un'aria d'autorità che gli dava il grado, ma che non sentiva in fondo,
essendo di natura amorevole ed affettuoso anche coi minimi suoi
subordinati.

Il Piccinini, più nerboruto ed ardente del suo superiore, aveva
tutt'altro che intenzione di perdergli il rispetto, ma iniziata la
controversia, e credendo aver ragione, ripugnava di cedere in presenza
de' compagni affollati a contemplarli.

Più curioso ancora era osservare quella massa di giovani, fra cui molti
studenti e professori, appartenenti a più cospicue famiglie, osservarli,
dico, colla loro scodella alla mano, divorando cogli occhi la caldaia,
ed aspettando impazienti e silenziosi che finisse la questione tra i due
veterani ufficiali. E devo confessare, a scapito della disciplina
volontaria, che l'alterco non si disponeva a terminare molto presto, se
non succedeva il fatto seguente che vi pose fine.

«Un uomo in mare! un uomo in mare!» si udì dalla prora del _Piemonte_, e
si ripetè in un momento fino alla poppa.

E veramente un corpo umano vedevasi scorrere lungo il fianco sinistro
del piroscafo, passar fuori delle ruote e lasciato indietro in un
momento. Si fermò la macchina, si _sciò_[7] _indietro_ e cinque dei
nostri marini furono in un istante sull'ammainato palischermo di
sinistra e salvarono il pericolante compagno.

Quand'io penso a quella classe privilegiata d'uomini di mare, sì svelti,
sì coraggiosi che si dondolano graziosamente su d'un pennone nelle
tempeste e qualche volta al più alto dell'alberatura, mi torna il
prurito dell'antica professione, e ricordo con compiacenza l'ammirazione
e l'affetto che in tutta la vita ho nutrito per il buono ed ardito
marinaro italiano.

Per la sventurata condizione del suo paese, il marinaro italiano è
obbligato di cercare impiego sui legni stranieri d'ogni nazione. Dalla
Francia alle Indie voi lo trovate dovunque, e dovunque stimato e portato
_in palma di mano_ (come diciamo noi marini), perchè a nessuno la cede
in abilità, laboriosità e coraggio.

Il Perù, il Chilì, e tutta la costa americana del Pacifico, è zeppa dei
nostri arditi navigatori.

Nel Rio della Plata, dal palischermo che vi sbarca, al piroscafo ed alla
palandra che vi conducono nell'interno di quei fiumi immensi, son quasi
tutti italiani.

Ed il Governo italiano sa esso di avere il fiore dei nostri marinari
sparsi sulla superficie del globo? Dico _fiore_, poichè sono veramente i
migliori, coloro che insofferenti di miserie e di depredazioni si
lanciano nelle avventure di vagante vita in lontane contrade.

Il governo sa d'aver molti marinari, e per le sue belle imprese li trova
anche eccellenti. Io sono comunque d'avviso, che sebbene non sianvi i
migliori marini a bordo dei nostri bastimenti da guerra, la colpa delle
nostre sconfitte sarà sempre unicamente per direzione pessima.

O Carambollo! perchè non ti ricorderò ai nostri concittadini! Forse
perchè, semplice marinaro? E che importa! tu eri tanto buono, tanto
agile, e coraggioso da servir di tipo al vero marinaro italiano.

Carambollo, compagno mio a bordo di una fregata francese destinata a
Tunisi nel 1835, aveva fatto parte dei marinai della guardia, nella
campagna del 1812 in Russia quando gl'Italiani erano legati al carro del
primo Bonaparte. E in tutte le sue parodie il 3º Impero è pervenuto
anche oggi ad assoggettare questo infelice nostro popolo!

Non era dunque più giovane Carambollo; ma quando si divertiva a volare
da un albero della fregata all'altro, appena tenendosi colle mani o coi
piedi, egli levava tutti in ammirazione.

Il salvato dalle onde manifestò alcuni segni di pazzia, e forse egli si
gittò col proposito di raggiungere il _Lombardo_ che veniva dietro il
_Piemonte_; la freschezza del mare però tornandolo a più savi consigli,
egli mostrossi espertissimo nuotatore lottando per raggiungere il
palischermo che vogava alla di lui direzione.

Il contrattempo delle munizioni, nella prima notte del nostro viaggio
che ci obbligò di andare a Talamone e quello del pazzo che ci ritardò
alquanto, influirono certamente al buon esito della spedizione. E
veramente avendo toccato nel porto suddetto fuori d'ogni previdenza ci
sviammo dalla retta che va da Genova all'Occidente della Sicilia. Il
benefizio del ritardo, cagionato dal pazzo, lo vedremo al nostro arrivo
a Marsala. La traversata si compie senza altri incidenti, e l'alba
dell'11 maggio ci trovò all'atterraggio del Marittimo.

NOTE:

[7] Espressione usitatissima, che significa vogar indietro, e che
richiude un pleonasmo, poichè _sciare_ significa retrocedere, senza
bisogno dell'_indietro_.




CAPITOLO V.

MARSALA.

    L'immacolato tricolor dolenti
    Sì noi macchiammo per veder risorti
    Della Romana Italia i macilenti
    Nipoti a un fascio e a un camminar consorti.

              (_Autore conosciuto_).


Eccola! l'isola dei portenti; la patria di Cerere, d'Archimede e dei
Vespri, cioè dell'intelligenza e del valore.--Archimede, prototipo dei
favoriti dell'Onnipotente, trovava il globo da lui abitato cosa
insignificante, paragonato all'infinito, e chiedeva una leva, il manico
d'una scopa, per smuovere questo domicilio d'insetti.

I Vespri! E qual popolo della terra ha i vespri?--Roma cacciò i
Tarquinii; Saragozza i Napoleonidi; Genova e Bologna gli Austriaci, ma
chi, come questo invitto popolo, esterminò in poche ore un esercito
formidabile d'oppressori senza lasciarne vestigio? Fatto unico nella
storia del mondo!

La direzione dei Mille era pur Sciacca[8], ma l'ora tarda consigliò
d'approdare al porto più vicino di Marsala.

La pesca è per il laborioso popolo di Sicilia un mezzo d'industria non
indifferente, e l'isola in tutte le sue coste è solcata da molte barche
pescherecce.

I Mille avean bisogno di conoscere se v'erano legni da guerra in
Marsala, e quindi si corse sopra un pescatore per aver informazioni. Il
pescatore che servì anche da pratico, informò che soltanto una corvetta
inglese giaceva all'áncora su quella rada; che però varii bastimenti da
guerra n'eran partiti alla mattina con direzione a levante verso Capo S.
Marco.

E veramente verso Capo S. Marco si scorgevano due vapori ed una fregata
nemici che si diressero su di noi subito scoperti.

Qui corse all'idea di molti che il ritardo in mare per ricuperare il
pazzo fu giovevole.

Giunti a Marsala i due piroscafi, s'incominciò subito lo sbarco, aiutati
dai palischermi di varii legni mercantili ancorati nel porto.

Il Generale Türr, con una compagnia di avanguardia, marciò
immediatamente verso la città, ove non vi fu resistenza. Intanto i Mille
sfilavano coperti dal molo, e poco curando una pioggia di granate e
mitraglie che il naviglio Borbonico inviava a profusione, e che per
fortuna non cagionò feriti.

A Marsala si parlò di dittatura, che poi venne proclamata a Salemi nel
giorno seguente, e si confermò il motto: Italia e Vittorio Emanuele.
Savia deliberazione che, non ostante l'opinione contraria dei _puri_
(manifestata in seguito), giovò non poco a facilitare la spedizione.

Il 12 maggio si giunse a Salemi, ove si cominciò ad aver la riunione
d'alcune squadre di Siciliani.

Il 13 si giunse ad una tenuta campestre, il di cui proprietario credo
fosse un Mistretta.

Il 14 a Vita, ove s'ebbero notizie trovarsi il nemico a Calatafimi.

Il glorioso 15 maggio decise della sorte della campagna.

NOTE:

[8] Città.




CAPITOLO VI.

CALATAFIMI.

        Vittorioso!
    Non catafratto un popolo
    Dalla battaglia uscir!

              (BERCHET).


L'alba del 15 maggio trovò i Mille disposti a battaglia sulle alture di
Vita, piccolo villaggio di quel nome, e dopo poco il nemico usciva in
colonna da Calatafimi alla nostra direzione.

I colli di Vita sono fronteggiati verso tramontana dalle alture chiamate
_Pianto dei Romani_; distanti un miglio circa dalla città di Calatafimi,
ove esiste la tradizione: esser stati i Romani disfatti in quel sito dai
Siciliani, collegati alla potente popolazione di Segeste, di cui si
scoprono le ruine non lontane al settentrione.

Dalla parte di Calatafimi le alture suddette hanno un dolce declivio: il
nemico le ascese facilmente e ne coronò i vertici tutti. Così rimase
colla fronte appoggiata alla parte scoscesa che guardava verso i Mille.

Occupando noi le alture opposte a mezzogiorno era forse più conveniente
di aspettarlo che iniziare l'attacco. E veramente spiegammo i
Carabinieri Genovesi, in catena, sull'ultimo ciglione della posizione
nostra verso il nemico.

Le compagnie restanti dei Mille scaglionate indietro ed in colonna, e la
nostra povera ma valorosa artiglieria sullo stradale alla nostra
sinistra.

Il nemico credendo d'aver a fare forse colle sole squadre, essendo i
Mille al coperto, inviò baldanzoso alcune catene di tiratori con
adeguati sostegni e due pezzi di montagna.

Giunto a tiro, esso cominciò a far fuoco, e continuò ad avanzare su di
noi. L'ordine tra i Mille era di non sparare ed aspettare il nemico
vicino; quantunque già i prodi Liguri avessero un morto e varii feriti.

Come foriero di vittoria, uno squillo di tromba nostra suonò una sveglia
americana, e l'avanguardia nemica come per incanto fermossi e forse i
suoi capi si pentirono d'aver avanzato tanto.--I Borbonici capirono di
non aver a che fare colle sole squadre, e le loro catene cominciarono un
movimento retrogrado.

I Mille toccarono allora la carica--i Carabinieri Genovesi in testa e
con loro un'eletta schiera di giovani non appartenenti alle compagnie ed
impazienti di menar le mani.

L'intenzione della carica era di fugar l'avanguardia nemica e
d'impossessarsi dei pezzi--ciocchè fu eseguito con un impeto degno dei
campioni della libertà italiana--non però di attaccare di fronte le
formidabili posizioni occupate dal nemico con molte forze.

Però chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati
sul nemico?--Invano le trombe toccarono: _Alto!_ I nostri o non le
udirono o fecero i sordi, e portarono a baionettate l'avanguardia nemica
sino a mischiarla col grosso delle forze Borboniche che coronavano le
alture.

Non v'era tempo da perdere, o perduto sarebbe stato quel pugno di
prodi--e subito dunque si toccò a carica generale, e l'intiero corpo dei
Mille accompagnato da alcuni coraggiosi delle squadre, mosse a passo
celere alla riscossa.

La parte più pericolosa dello spazio da percorrersi era nella vallata
che ci divideva dal nemico. Ivi pioveva una grandine di moschetterie e
mitraglie che ci ferirono un bel po' di gente.

Giunti poi a piede del Monte Romano, si era quasi al coperto delle
offese, ed in quel punto i Mille, alquanto diminuiti di numero, si
aggrupparono alla loro avanguardia.--La situazione era suprema! Il
nemico più forte di noi in numero, era lì sulla testa nostra in
posizioni fortissime!--Eppure bisognava vincere!--E con tale risoluzione
si cominciò ad ascendere la prima banchina.

Non ricordo il numero, ma certo eran varie le banchine che ci dividevano
dai Borbonici.

Ed ogni volta che si avanzava dopo aver preso fiato, da una banchina
all'altra, era una grandinata di palle.--E noi!--Mi fa ribrezzo il
ricordarlo! i catenacci che ci aveva regalati il Governo Sardo, ci
negavano fuoco, e si scorgeva il dispetto sull'eroiche fisonomie di quei
giovani, che spero saran presi ad esempio dalla generazione che segue,
destinata a compiere l'opera santa.

Qui pure fu grande il servizio reso dai figli della Superba[9] che
armati delle loro buone carabine, sostenevano l'onore delle armi.--Tutti
poi corrispondendo all'intemerata risoluzione di andar avanti, finirono
coll'affidarsi al freddo ferro delle loro baionette.

Calatafimi! Io, avanzo di tante pugne, se all'ultimo mio respiro--i miei
amici vedranmi sorridere l'ultimo sorriso d'orgoglio--esso sarà
ricordando--Tu fosti il combattimento più glorioso di popolo!

I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti d'una nazione
oppressa, assaltavano, col sangue freddo dei Trecento di Sparta o di
Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione--e formidabile--ed i
soldati della tirannide brillanti di pistagne e spalline fuggivano
davanti a loro!

Come potrò io scordare quel gruppo di giovani, che tementi di vedermi
ferito, m'attorniavano, facendomi del loro prezioso corpo un baluardo
impenetrabile!

Se io scrivo commosso a tali memorie, ne ho ben donde! E dover mio non è
forse di ricordar, fra i molti, almeno i nomi di quei valorosi caduti:
Montanari, Schiaffino, Poggi, Elia?[10].

NOTE:

[9] Genova.

[10] Merita d'essere ricordata la gloriosa morte dello Schiaffino e
l'orribile ferita che ebbe Elia nella battaglia di Calatafimi. Ecco come
l'Elia stesso la racconta in una lettera al Dott. Riboli. «Io non era
aggregato a compagnia nè a battaglione. Fra Menotti Garibaldi,
Schiaffino e me, si era stabilito un patto di non accettare pel momento
alcun servizio, ma tutti e tre rimanere al fianco del Generale. Allorchè
i Cacciatori napoletani, che provarono ad assalire i nostri, si
dovettero ritirare inseguiti dai Carabinieri genovesi, Menotti,
Schiaffino colla bandiera, ed io ci slanciammo dietro ai fuggenti, ma
tanta fu la nostra foga entusiastica, che arrivati su l'erta posizione
nemica, ci accorgemmo d'esser soli, ed era naturale che dovessimo pagare
il fio della nostra arditezza. Diffatti il bravo Schiaffino cadeva
trafitto da numerosi colpi, e lo stesso sarebbe avvenuto a Menotti che,
nel raccogliere la bandiera, fu ferito in una mano, se io abbracciatolo,
non mi fossi lasciato cadere con lui da un rialzo, che formava una
specie di trincera. Quivi rimasti un poco a prender fiato, io nel
volgermi per rispondere al capitano Frescianti che mi chiedeva cartucce,
vidi che il generale Garibaldi, distante un buon tratto dalla colonna
garibaldina, s'avanzava solo a piedi contro l'inimico. Immediatamente mi
slanciai verso di lui, e raggiuntolo, mi sovviene avergli indirizzato
queste parole: _Generale, perchè esporvi così? Una palla che vi colga
siam perduti noi e con noi l'Italia nostra_. Egli rispose col grido di
_avanti_ e roteando la sua spada ad incoraggiamento, invitava
all'assalto le nostre colonne. Io avea appena pronunciate le suddette
parole, che, volta la faccia al nemico, vidi che un cacciatore
napoletano, avanzatosi verso di noi, spianava la sua carabina alla
direzione del Generale. Ebbi appena tempo di fare un passo avanti, e un
colpo terribile mi colse alla bocca, e mi stramazzò a terra col ventre
in alto. Pareva che soffocassi, e nel mentre cercava di rivolgermi, il
generale Garibaldi s'inchinò verso di me e mi indirizzò queste parole:
_Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore_. E stese la mano per
istringere la mia». E difatti il bravo Elia non morì; rimase colà finchè
la battaglia fu vinta dai garibaldini; poi, dopo mille stenti, fu
portato a Vita col volto sì fattamente sformato, che il suo amico Dott.
Ripari non lo conobbe; quivi gli fu estratta la palla, poscia fu curato
a Palermo nella residenza del Generale, divenuto dittatore, indi, quando
questi entrò nelle Calabrie, fu condotto a Bologna, ove guarì sotto la
cura del ben noto Prof. Rizzoli.

          (_Nota del Comitato_).




CAPITOLO VII.

LINA E MARZIA.

      E tu i cari parenti e l'idïoma
    Desti a quel dolce di Calliope labbro
    Che amore in Grecia nudo e nudo in Roma
    D'un velo candissimo adornando
    Depose in grembo a Venere celeste.

              (FOSCOLO.)


Ma chi furon quei due giovinetti che nel gruppo dei più arditi tra gli
Argonauti volevan precederli verso il nemico gareggiando a chi doveva
affrontarlo pel primo?

Essi son diversi di forme, l'uno pare un figlio della Germania, colla
sua capigliatura bionda, che non potea esser nascosta da un bonetto cui
s'attortigliava graziosamente una fascia di seta; l'altro bruno di volto
e di capelli, somigliava piuttosto ad un meridionale italiano. Ambi
imberbi, ciocchè li mostra giovanissimi. La foggia del vestire è quasi
identica, alquanto più accurata del resto dei Mille, ma modesta. E
veramente non v'era sfarzo nella famosa schiera.

Giovanissimi sì, ma il moschetto lo maneggiavano da veterani, e siccome
tali armi eran pure armi regie, di cui accennammo più sopra, i crik dei
colpi falliti eran numerosi e la speranza della vittoria riposava
sull'innestata baionetta.

Tra i numerosi giovani studenti v'eran pure imberbi, bellissimi di volto
e della persona, ma nessuno certamente pareggiava la squisita bellezza
dei nostri due dell'avanguardia. Il loro volto, come abbiam detto, di
colore diverso, colpiva lo sguardo colla nobile beltà della robusta
Cinzia, indomabile cacciatrice. I contorni dei loro fianchi però
accusavano, più d'alcune svolazzanti treccie, qualche cosa esclusiva del
sesso gentile.

E veramente mentre, in un momento di sosta sotto una delle banchine
descritte nel capitolo anteriore, io contemplava quella bellissima e
valorosissima copia davanti a me--P..... diretto a Nullo diceva: «È
inutile! queste ragazze non vogliono stare indietro».

Io informato sino a quel momento che una sola del sesso gentile[11]
faceva parte della spedizione, venni così a sapere esser esse di più.


Nel turbinìo dell'assalto, della fuga, e della persecuzione, io vidi
avvolgersi sempre fra i primi le due incantevoli creature.--E per un
momento trasportato dal calore della pugna, e dal fascino della
bellezza, mi sembrò d'esser lanciato in quei tempi eroici ove i genii e
le dee presiedevano agli eventi delle battaglie.

Le due eroine, giacchè le conosciamo donne, avevano perduto nella
mischia i loro _fez_ (bonetti) e turbanti; dimodochè una capigliatura
d'oro ed una d'ebano avean per un momento svolazzato sull'altipiano del
_Pianto del Romani_.--Esse indispettite d'essere state svelate, misero
le ali ai piedi, e perseguirono disperatamente il nemico.--Le due
coraggiose sarebbero forse giunte a Calatafimi la stessa sera, se P....
e Nullo, l'eroe della Polonia--ferito in un piede, correndo sopra il
sano solo--non le avessero fatte tornare indietro.

La sera di quel glorioso giorno, io stanco, mi riposavo nella vallata
che divide _Calatafimi_ dal _Pianto dei Romani_; quando P.....
presentossi a me con quelle due belle figure che tanto m'avean colpito
nella giornata.

«Lina, mia sorella, mi disse, viene colla sua compagna Marzia, a
chiedervi perdono, d'aver trasgredito l'ordine di non potersi imbarcare
donne nella spedizione».

«Lina è dunque figlia delle belle valli lombarde», io risposi: non
potendo decidermi ad un rimprovero, ed un poco sorpreso da tale visita;
poi alquanto rinfrancato: «quando per una trasgressione si acquistano
tali valorose come sono vostra sorella e la compagna, io, che non sono
un modello d'ordine, posso bene accomodarmivi».

Un momento di silenzio seguì l'interessante colloquio, e vedendomi fiso
al volto di Marzia, P.... riprese: «Marzia è Romana, e non possiamo
dirvi altro di essa, poichè ella stessa non ci ha fatto sapere di più».
E senza aspettare la mia risposta, P..... continuò: «Non vogliamo
tediarvi, poichè dovete essere stanco».

«Lina vuol presentarvi un mantello incerato, tolto ad un ufficiale
nemico, e che vi servirà, sprovvisto come siete, per coprirvi dalla
rugiada», e senza darmi tempo di ringraziare, i tre si dileguarono nelle
tenebre.

Io m'addormentai, sognando di battaglie, di dee, di genii, d'Italia
intiera risorta, e la sveglia, con cui il mio tromba avea petrificato il
nemico nel giorno antecedente, mi destò colla piacevole notizia: che il
nemico avea abbandonata Calatafimi.

E fu veramente grata tale notizia, poichè tenendo il nemico Calatafimi,
noi avremmo dovuto ben sudare per impossessarci di quella formidabile
posizione.

NOTE:

[11] La signora Crispi.




CAPITOLO VIII.

DA CALATAFIMI A RENNE.

      La vittoria
    È sul brando del forte.

              (_Autore conosciuto_).


La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la
brillante campagna del 1860.

Era un vero bisogno d'iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto
d'armi. Esso demoralizzò gli avversari che colla loro fervida
immaginazione meridionale, raccontavan portenti sul valore dei Mille, e
sulla impenetrabilità della loro pelle a qualunque proietto, e rinfrancò
i prodi Siciliani che, per esser pochi, erano stati scossi dagl'immensi
presidii di soldati, e di mezzi accumulati dai Borbonici nell'isola.

Palermo, Melazzo, il Volturno, videro molto più feriti e cadaveri.--Vi
furono certamente delle pugne più lunghe ed accanite.--Per me però il
combattimento decisivo fu Calatafimi.--Dopo il Pianto dei Romani, i
nostri sapevano che doveano vincere; e quando s'inizia una pugna con
quel prestigio, si vince!

Novara, Custoza, Lissa, e forse anche Mentana, nullostante tanta
disparità di mezzi e di numero, sono una sventura per l'Italia, non
tanto per le perdite nostre d'uomini e di mezzi, quanto per la boria dei
nostri nemici che certamente non valgono più degli Italiani; e che
dovendo combatterci, verranno a noi come su preda facile, su gente che
si spinge avanti coi calci dei fucili.

E non dubito: gli oppressori nostri s'inganneranno, ove la gente italica
sia guidata da un uomo ben convinto che bisogna vincere.

Le battaglie suaccennate di Novara, Custoza, Lissa, non furono
disputate.--In tutte, le nostre forze pugnarono parzialmente, e la
maggior parte rimase inoperosa, e ad altro non servì che ad accrescere
la confusione della ritirata.

Io ho conosciuto in America un valorosissimo generale che dopo d'aver
iniziato brillantemente una battaglia, a qualunque rovescio parziale
comandava la ritirata, e ne conseguiva certo che, ritirandosi di giorno
davanti a un nemico impegnato, la ritirata si cambiava in sconfitta.

Ridotto oggi a consigliare i giovani che guidavo una volta, io non
cesserò di ammonirli sulla necessità di _costanza_, sia nel durare alle
fatiche e disagi, nelle guerre che pur troppo dovranno ancor fare; sia
nelle giornate di pugna grandi o piccole.

A Melazzo i Mille furono perdenti fin verso sera, avendo cominciato il
combattimento all'alba, ed un ultimo sforzo fatto sul fianco sinistro
del nemico, decise della giornata.

Al Volturno, iniziata la battaglia prima dell'alba, il nemico era ancora
padrone del campo di battaglia alle 3 pomeridiane; quando giunsero
alcune riserve da Caserta che influirono a cacciarlo dentro Capua in men
d'un'ora.

Non dirò di Palermo, ove vi fu non solo _costanza_ da parte dei pochi
militi nostri e della inerme popolazione, ma _sfacciataggine_ di cacciar
via dalla città ventimila soldati che potevan far l'orgoglio di
qualunque generale.

Alle prime prove dell'Italia contro i suoi eterni nemici, vi vorrà un
Fabio che sappia temporeggiare: ed il nostro paese è tale da poter
guerreggiare come si vuole; accettare o no una battaglia quando
convenga, gettando frattanto alle spalle del nemico e su tutte le sue
comunicazioni tutta la parte virile della nazione, non in guanti bianchi
come soglionsi ricevere gli invasori--ma col ferro e col
fuoco--fucilando il traditore che ha dato un bicchier d'acqua ad un
assassino. Poichè è assassino chi invade proditoriamente la casa di un
vicino e se ne fa padrone.

Allora verrà presto la parte di Marcello della _spada di Roma_, che
potrà senza cerimonie attaccar di fronte il borioso nemico, e finalmente
Zama, ove un nuovo Scipione torrà ad esso la voglia di venir ancora a
mangiare i nostri fichi.

Anche in questo mi tormenta l'idea del prete, che vuol fare degli Itali
tanti sagrestani.--E se l'Italia non vi rimedia, è un affare serio! I
gesuiti non ponno far altro che: ipocriti, mentitori, e codardi! Vi
pensi chi deve che, per marciare e dar delle splendide baionettate vi
vuol gente forte.

Calatafimi sgombro dai nemici fu da noi occupato. La maggior parte dei
nostri feriti era stata trasportata a Vita.

A Calatafimi trovammo i più gravi dei feriti nemici, e furon trattati da
fratelli.--Avean qualche rimorso queste dominatrici famiglie
dell'Italia, nell'aizzare le nostre popolazioni infelici, siccome
mastini, le une contro le altre?

Rimorsi! Ma che rimorsi! Tutto il loro studio non era forse
d'inimicarle, e tutto il loro interesse?--acciocchè continuasse ad esser
difficilissimo, se non impossibile, l'unificazione della patria
Italiana?

Sarebbe lunga la storia delle corruzioni e dei tradimenti di codesti
signorotti per il diritto divino, oggi felicemente mendicanti per la
maggior parte; tuttora però, traditori e pervertitori della nazione.

Le genti della Trinacria frattanto accorrevano ad ingrossar le fila dei
Mille. Alcamo accoglieva i vincitori con tutto l'entusiasmo di cui sono
capaci quei fervidi Meridionali.--Partinico fece di più: vedendo i
nemici che sì crudeli eran stati cogli abitanti, ora sbandati e
fuggenti, quella popolazione diede loro addosso, e sino le donne
trucidarono di quei disgraziati.

Miserabile spettacolo! noi trovammo i cadaveri dei soldati Borbonici per
le vie divorati dai cani!!!

Eran pure cadaveri d'Italiani che, se educati alla vita dei liberi,
avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese, ed
invece come frutto dell'odio suscitato dai loro perversi padroni, essi
finivano straziati e mutilati dai loro proprii fratelli con tale rabbia
da far inorridire i Torquemada.

Dalle belle pianure d'Alcamo e di Partinico la colonna ascendeva per
Borgetto sull'altipiano di Renne, da dove dominava la conca d'oro e la
Regina dei Vespri--che confesso--se fra le sue cento città, Italia
avesse una mezza dozzina di Palermo--da molto tempo lo straniero non
calpesterebbe questa nostra terra.--E certo il Governo dei birri e delle
spie o marcerebbe diritto o il diavolo se lo sarebbe portato via.

Renne sarebbe una posizione formidabile, se nello stesso tempo ch'essa
domina lo stradale da Palermo a Partinico non fosse dominata dalle
alture immediate a mezzogiorno e tramontana che appartengono ai monti
irregolari che circondano la ricca vallata della capitale. Renne è
famosa nella campagna dei Mille per due giorni di copiosa pioggia,
passati senza il necessario per affrontare le intemperie, ove fu assai
incomodata la gente, ma ove quel pugno di prodi provò: esser disposto ai
disagi siccome a disperate battaglie.




CAPITOLO IX.

I PRECURSORI.

      E tu onore di pianto Ettore avrai
    Ove fia santo e lagrimato il sangue
    Per la patria versato, e finchè il sole
    Risplenderà sulle sciagure umane.

              (FOSCOLO).


Prima del 5 maggio partivano da Genova due giovani con destinazione alla
Trinacria. L'uno bellissimo e castagno di capigliatura, apparteneva a
nobile famiglia dell'isola; l'altro avea la bellezza del plebeo
meridionale, con una capigliatura d'ebano, un volto regolare ma
bronzato, tarchiato e robustissimo.--Egli era, a non ingannarsi, uno di
quella casta che la fortuna condanna a menar le braccia per la
sussistenza, e che qualche volta stimolati da istinti generosi o
dall'ambizione d'innalzarsi, si lanciano al di fuori dell'area in cui la
sorte sembrava volerli circoscrivere; e, se coadiuvati dal genio, si
vedono transitare dall'infimo della condizione umana ai gradini
superiori.--Tali i Cincinnati, i Mario ed i Colombo.

L'Italia incontrastabilmente--paese di non comune intelligenza in tutte
le classi--ha forse troppi di questi nobili plebei ambiziosi di
migliorare od innalzare la propria condizione: ciocchè, senza dubbio, è
causa d'aver essa in proporzione un'esorbitanza di cittadini repugnanti
alle manuali occupazioni.

Per esempio, ho veduto in America dei giovani Italiani letterati,
ridotti a non trovar impiego e quindi alla miseria; mentre i nostri
operai, contadini, carpentieri, ecc., appena giunti eran cercatissimi,
impiegati subito con splendidi salari, e vivevano perciò una vita
agiatissima.

Nella propensione nostra quindi di salire nella scala umana, v'è bene e
male--dipendendo dalla fortuna, accertare o no, l'uno o
l'altro.--Comunque io consiglierò sempre a' miei concittadini d'imparare
un'arte manuale qualunque--ove troveranno sempre più robustezza che
nelle occupazioni di scrivanie--e più sicurezza di guadagnar la vita in
ogni parte del mondo--sopratutto poi, non dimenticar la massima di
spender nove quando si possiede dieci.

Nell'anima dei due però, che si lanciavano a morte quasi sicura, v'era
la devozione eroica dei Leonida e dei Muzio Scevola.--Rosolino Pilo e
Corrao ponno giustamente chiamarsi i precursori dei Mille; e noi li
trovammo in Sicilia dopo di una traversata portentosa, facendo
propaganda emancipatrice, e solleticando i coraggiosi figli dell'Etna a
sollevarsi colla promessa di pronti soccorsi dal continente.

Due individui e non più sbarcavano sulla loro terra--proscritti e
condannati a morte--spargendo la loro santa propaganda, e senza esitare
dirò: con tanta sicurezza come sulla terra d'asilo!

Sappilo, tirannide! e sappi che questa non è terra da spie! Tu hai
perduto il tuo tempo, impiegando ogni specie di corruzione! Qui--su
questi frantumi di lava--il tuo potere, brutto di sangue e di vergogna,
è effimero!

Butta giù quella tua maschera di Statuto, a cui nessuno più crede, e
mostrati col tuo ceffo deforme da Eliogabalo o da Caracalla--qui altro
non è che questione di tempo--d'anni--che dico? forse di giorni.--Che
s'intendano questi ringhiosi discendenti della discordia e della
grandezza, e come nel Vespro, in poche ore, verun vestigio resterà più
delle vostre sbirraglie.

Rosolino Pilo in una scaramuccia coi Borbonici--mentre i Mille facevano
alcune fucilate nelle vicinanze di Renne--fu colpito da un piombo
nemico, mentre si accingeva a scrivermi dalle alture di S. Martino, e
stramazzò cadavere.

Italia perdeva uno dei più forti di quella brillante schiera, che col
loro coraggio e nobile contegno menomano alquanto le sue umiliazioni e
le sue miserie.

Corrao, men fortunato di Rosolino, dopo d'aver pugnato valorosamente in
ogni combattimento del 60, morì di piombo italiano per gare individuali.

Il generoso popolo della Sicilia, io spero, non dimenticherà quei suoi
due prodissimi concittadini.




CAPITOLO X.

LE DUE EROINE.

      La donna bella, buona e coraggiosa
    È un vero portento della natura.

              (_Autore conosciuto_).


Nel campo di Renne, ove i Mille eran sequestrati da piogge
dirotte, v'era mestieri di notizie certe sulla situazione di
Palermo.--Quell'invitta popolazione fremente, di quel fremito che fa
tremar la tirannide corazzata d'acciaio ed assiepata da baionette, era
tenuta dopo l'eroico tentativo del 4 aprile nel più assoluto e rigoroso
stato d'assedio.

Poche eran le comunicazioni colla campagna, e quelle poche persone a cui
era permessa l'uscita dalla città dovevano garantire il Governo che
nulla da loro avea da temere di congiure o d'intelligenza coi patrioti
di fuori--al solito chiamati briganti.

Ma mal si governa colla tirannide e peggio ancora con popoli che hanno
tradizioni come quella dei Vespri--la più terribile delle lezioni data
dai popoli ai loro oppressori--e che non trova paragone in nessun tempo
ed in nessuna delle storie delle Nazioni.

Italia! _terra dei morti_--secondo uno di quei grandi che vengono
nominati tali, perchè nacquero tra generazioni di piccoli.--Italia,
dico, depressa oggi, umiliata--e detto in onor del vero--anche
disprezzata--conta dei fatti che nessun popolo della terra uguaglia.

1º Giunio Bruto, condannando a morte i proprii figli perchè creduti
implicati in una congiura contro lo Stato.

2º Manlio, dittatore, facendo decapitare in sua presenza il valoroso suo
figlio vincitore d'un gigante latino che avea sfidato a pugna singolare
i migliori dell'Esercito Romano, perchè avea trasgredito il divieto
dittatoriale di non uscire dalle fila. Questi due fatti d'insuperabile
disciplina sono forse la chiave di quella severissima disciplina romana
che condusse le Legioni su tutto l'orbe conosciuto, e di cui si trovò un
saggio sotto le ceneri di Pompei, d'un legionario che coll'arma al piede
lasciossi coprire dalle ceneri senza muoversi.

3º E i Vespri? Un popolo che conta i Vespri ne' suoi annali, può durar
poco nel servaggio.--E ricordatelo bene voi che nei tempi presenti
(1870) cercate di imbavagliarlo con delle concessioni e delle carezze
più o meno scellerate e sempre gesuitiche.--Voi che nascondete le ugne
d'acciaio degli antichi signorotti sotto uno straccio di carta che
presto, speriamolo, per il decoro dell'Italiana famiglia, vedremo
svolazzare nel letamaio delle genti rigenerate.

Lina e Marzia abbandonando la loro assisa maschile, aveano indossato le
vestimenta più confacenti alle loro bellissime forme, cioè la sottana ed
il farsetto, così graziosamente allacciato dalle vezzose forosette della
conca d'oro. Due rossi fazzoletti di seta che per caso si trovarono nel
vicino borgo di _Misero i cannoni_, furono fantasticamente avvolti a
quelle teste da modello, nascondendo non totalmente le ricchissime
capigliature, giacchè il sesso gentile ama, com'è naturale, di mostrare
i tesori che natura profuse sulla creatura prediletta.

Solo i calzari delle due eroine avevano militare, o piuttosto,
cacciatrice fisionomia, poichè nel borgo suddetto non si trovarono
calzature fatte da donna.

I volontari contemplavano meravigliati le superbe donzelle che sì fiere
avean veduto sul campo di battaglia, ora orgogliose d'essere prescelte
ad ardua e pericolosa impresa, e poi si guardavan l'un l'altro
stupefatti.

Nullo, perdutamente innamorato della Lina--da lui conosciuta nelle natíe
ed alpestri valli--supplicava invano il comando dei Mille, di lasciarlo
andare in compagnia della bella coppia.

E P... non meno di lui invaghito della Marzia manifestava lo stesso
proponimento. Alla vigilia di serii combattimenti però, non si volle
privare il corpo di due sì valorosi ufficiali.

Una contadina del borgo anzidetto fu destinata ad accompagnarle come
guida.--E così munite di adeguate istruzioni Lina e Marzia
s'incamminarono verso la capitale della Sicilia, le di cui altiere torri
scorgevansi alla distanza di poche miglia, dominando la superba
metropoli dei Vespri ed il littorale Mediterraneo.




CAPITOLO XI.

ITALIA.

      Italia, Italia, tu, cui feo la sorte
    Dono infelice di bellezza.....
    ..... Nè te vedrei del non tuo ferro cinta
    Pugnar col braccio di straniera gente
    Per servir sempre, o vincitrice, o vinta.

              (FILICAJA).


Ed eccomi ancora a trattare del pugnale, quantunque mi ripugni
ricominciare con tale terribile argomento.

E perchè dunque vi costituite tiranni? Perchè da secoli questa mia terra
deve servire di lupanare a quanti malandrini porta l'Europa?

Perchè essi vengono a mangiarci i frutti, a beverci il vino, che
costarono il sudore della nostra fronte?

Perchè? Perchè? arrossisco nel pensare a tanti altri perchè, che solo il
pugnale può vendicare!

E voi, amabili ed umani dominatori dell'Occidente e del Settentrione,
qual'armi avete concesso ai vostri Iloti italiani, perchè non dovessero
servirsi d'un ferro, per vendicare un oltraggio od un disonore?

Oggi ancora, ladroni spudorati, voi infestate le nostre terre che tenete
a ruba da varii secoli,--sotto il falso pretesto di religione che non
avete, e di diritto divino con cui burlate il mondo.--Ditemi voi: se più
legali sono i vostri furti e le vostre violenze, od il ferro italiano
che qualche volta--segna le vostre schifose fisonomie?

Ditemi, s'eran legali i vostri assassinii, commessi contro i Messicani,
tra cui l'italiano generale Ghilardi fucilato proditoriamente dal servo
del 2 Dicembre, Bazaine, contro i Romani del 49 e del 67, contro i
Veneti, i Bassi, i Ciceroacchi con due figli e nove compagni, i martiri
di Belfiore, ecc. ecc., tutti onesti, tutta gente di cui più valeva un
capello che tutta l'anima vostra, carnefici del genere umano!

E verrà un giorno in cui l'Italia purgata dei suoi Tersiti, e dei suoi
impostori che l'addormentano e la corrompono, vi tratterà non più coi
guanti bianchi--come siete usi ad esser trattati in questo sventurato
paese, ma da assassini vi tratterà, come siete, impiegando i mezzi che
adoperano i popoli per redimersi da tiranni e da ladri, cioè: pugnale,
fuoco, veleno.

E non fate cipiglio--signori vermi della società umana--a tali felici
augurii per il mondo, poichè grassi, pistagnati, indorati come siete,
siete più nocivi dell'insetto che rode le radici della pianta
alimentaria, e dell'avvelenatore rettile, che uccide quasi
istantaneamente l'umana creatura.

Sì! voi oppressori delle genti e sostenitori della menzogna, siete la
peste del mondo!

È duopo rammentar sovente tutto ciò ai dormenti nostri concittadini:
acciò smentiscano i soddisfatti, perchè con pancia piena spacciano
massime che son tutte menzogne e paroloni di libertà, di indipendenza e
di unità italiana con solo di vero: miseria e degradazione!

E finalmente: non è il Buonaparte con complici il Governo italiano ed i
preti, il mantenitore del brigantaggio nell'Italia meridionale?

E non sono i despoti, i fomentatori delle rivoluzioni nel mondo?

Io sfido che si provi il contrario.




CAPITOLO XII.

MANISCALCO.

      L'immacolato tricolor, dolenti
    Sì, noi macchiammo, per veder risorti
    Della Romana Italia, i macilenti
      Nipoti a un fascio e ad un cammin consorti.
    Or dimmi: hai tu dell'Italo fidente
    Appagata la speme--e le proterve
      De' suoi tiranni, soldatesche hai spente--
    Birri un dì noi vedemmo e genti serve
    Su quest'afflitta terra--e fatalmente
      De' servi e birri, noi vediam caterve.

              (_Autore conosciuto_).


Ammiratore della rigida, non uguagliata da nessun popolo della terra,
antica disciplina romana, io, sono quindi amante dell'ordine,
cioè--vorrei vedere i popoli prosperi, liberi, felici--ed i loro
reggitori, occupati non d'altro che del loro benessere--garanzie sicure
queste della quiete pubblica.

Non reggitori simili agli odierni d'Italia, speculando sulle miserie
della nazione, rovinandola per soddisfare a depravati capricci, non più
tollerati dalla società moderna--e per impinguare numerosa caterva di
satelliti che lor fan corona.

Sì! ordine vogliam noi, uomini della libertà e del progresso--cioè:
Repubblicani.

Ordine! ordine! e chi lo disturba quest'ordine che l'umanità
richiede--siete voi, persecutori delle genti! perturbatori della
condizione normale dei popoli--voi! per gozzovigliare alle spese
altrui--e far infelici le nazioni che speravano da voi un governo umano
e riparatore.

Sì, voi potenti per astuzia e per l'imbecillità altrui, millantate
ordine, colla coscienza di mentire--rovesciando, distruggendo ogni più
sacra cosa; e facendo della famiglia umana una caterva di sventurati e
di spie!

L'ordine che voi volete è la quiete--quella quiete che brama l'assassino
nel godimento della roba depredata.

E Maniscalco era uno di quei vili istromenti che la tirannide poltrona,
paurosa e codarda, spinge fra le moltitudini per spiarle, torturarle,
assassinarle, quando fia duopo, per mantenere _l'ordine_ che disturbano
alcuni affamati servi.

Essi, istrumenti, hanno il genio della corruzione, della perversità, e
sanno scegliere nella folla i loro seguaci, che distinguono a cert'aria
di famiglia, agli inerenti vizii inseparabili di tale bordaglia: vizii
ch'essi vogliono soddisfare al prezzo di qualunque infamia, e
riconoscibili poi a certa peculiare impronta famigliare alla gente dello
stesso marchio.

In Palermo, Maniscalco munito di pieni poteri, ed accrescendo di potenza
in ragione inversa del credito de' suoi padroni--credito da tiranni,
che sulla terra dei Vespri si scioglie tanto presto, quanto la neve al
contatto della rovente lava de' suoi vulcani--un perverso come
Maniscalco--su cui posava tutta la fiducia del Borbone in Sicilia--s'era
certamente permesso ogni specie di dissolutezza, di delitti e crudeltà:
la purezza delle vergini, la santità dei matrimonii, tutto andava in un
fascio davanti alle libidini dello scellerato. La cuffia del silenzio, e
quante torture avevano inventato i Torquemada, erano impiegate per
strappare dagli sventurati prigionieri i segreti delle congiure dal
dispotismo suscitate.

Un giorno in via Maqueda, tutte le classi della splendida capitale della
Sicilia tornavano dal passeggio della Favorita;--tutte le classi,
sì,--perchè quantunque poco menomata in potenza la famiglia dei feudali,
i popoli, sono fuori da quel servilismo, che nel Medio Evo, non
permetteva ad un plebeo di passeggiare accanto ai favoriti dal
privilegio.

Nella folla accalcata in quella seconda strada di Palermo,
pavoneggiavasi il sanguinario Ministro del Re di Napoli, con scorta
numerosa de' suoi satelliti, armati fino ai denti.--Tali non
compariscono in pubblico gli agenti dell'autorità, ove la libertà non è
vana parola.

Il _policeman_ dell'Inghilterra, o degli Stati Uniti ispira fiducia
all'onesto cittadino, e non timore come il sinistro cagnotto della
tirannide--il _bravo_ dei signorotti moderni.

Maniscalco dunque, attorniato da' suoi, scoteva l'altero suo capo, e
gettava sulla moltitudine uno sguardo di disprezzo, e la moltitudine,
come se raccogliesse la sfida dell'insolente, calcavasi sulla siepe di
sgherri che corazzava il malvivente, premevala, e dal seno di quell'onda
di popolo scaturiva una di quelle figure, che la poesia dipinge
dominatrici delle tempeste, sieno esse di genti o di elementi.

Tale Colombo--dopo di aver dominato il pelago che divide i due
mondi--dominava gl'indisciplinati suoi seguaci in una tempesta
d'insubordinata diffidenza al suo genio.

Come lo scopo del grandissimo navigatore fu realtà, la manifestazione
d'odio dei discendenti del Vespro e la lama d'un pugnale, sguizzava
nell'aere come una fiamma e si conficcava nel petto del disprezzatore
delle genti, e lo rovesciava nella polve.

Maniscalco cadeva, ed il suo sangue irrigava una terra che non era degno
di calpestare.

Il feritore poi, che alcuni dissero essere un fantasma, ma che
certamente era uomo che sprezzava il pericolo, non fuggì, non accelerò
il passo; ma in un orgasmo che fece stupire gli astanti, e paralizzò,
ammutolì gli sgherri, pria sì baldanzosi, il feritore, dico, strappò da
sè l'involto di carta che lo copriva da capo a piedi, ne sparse i
brandelli sul terreno, e come per miracolo si confuse nella folla, ove
fu impossibile di rintracciarlo per quante indagini se ne facessero.

I Governi ed i preti adoperano ogni mezzo perverso per corrompere le
genti, e riescono sovente ad attrarre nelle loro reti qualche
sciagurato, ma la massa delle popolazioni in Italia abborre la
delazione, ciò sia detto in onore del nostro popolo, e se la miseria od
il vizio precipitano alcuno nell'infamia, certo il delatore nel nostro,
benchè infelice paese, sarà sempre generalmente in orrore.

Io ho veduto il popolo di Palermo nella gloriosa rivoluzione del 60
correr in cerca dei _sorci_ (spie) con un accanimento indescrivibile.

Chi sa quanto il coraggioso _assassino_ avea lavorato per tagliare,
cucire, pitturare cotale abbigliamento di carta somigliante ai panni da
poter comparire in pubblico senza essere riconosciuto.

Era una vendetta, meditata, certamente.

E fin ora non si conosce la causa dell'attentato, nè chi lo perpetrava.

Era lo sconosciuto qualcuno dei torturati da Maniscalco? qualcuno dei
feriti nell'onore? Poichè i cagnotti dei tiranni sono generalmente gente
lasciva, ed il capo degli sgherri, come già abbiamo accennato, avea fama
di tale--od era alcuno di coloro che preferiscono la morte al vergognoso
servaggio del loro paese?

Assassino: lo chiamarono i giornali borbonici e tale lo chiamerebbero
pure altri giornali non borbonici.

Assassino! e veramente io non vorrei che si uccidesse l'uomo dall'uomo,
e sono contrario alla pena di morte sotto qualunque forma.

Assassino, dunque, fu il feritore di Maniscalco e Torquemada ed Arbues
ed i bruciatori delle creature umane sono santificati! ed il dominatore
del Tirolo che appiccò Mantovani, Ungheresi, Piemontesi! il Reggitore
della Polonia passando la vita alla distruzione di quel popolo,
sottoponendo al _knouth_ sino i bambini e le donne!--ed il _Magnanimo_
che crede oggi di coprir colla sua veste d'Agnello le macchie di sangue
di tre popoli, sono Maestà!

Assai più coperti d'omicidii dell'assassino di Maniscalco, ma infine
Maestà!




CAPITOLO XIII.

IL 4 APRILE.


                                 Palermo!
    Son le tue zolle sante ed i tuoi colli
    Templi ove l'uom che ne respira l'aura
    Se non risente dignità--la creta
    Sortiva dello schiavo!

              (_Autore conosciuto_).


Come si ponno narrare i fatti del 60 senza un ricordo all'infelice, ma
eroico tentativo del 4 d'aprile, in cui un pugno d'uomini risoluti sfidò
la potenza Borbonica nella capitale della Sicilia e fu comunque sia il
primo episodio della gloriosa epopea?

Io lascio ai meglio informati di me l'incarico di rammentare per la
Storia i nomi dei forti che vi presero parte, confessando di ricordare
solo il nome di Riso, uno dei martiri dell'impresa portentosa.

Il convento della Gancia servì di ricettacolo ai cospiratori--e fu in
quel memorabile giorno il campo di battaglia ove gli stessi sostennero
una disugualissima pugna contro gli oppressori della patria.

Il convento della Gancia, sì, in cui i frati, benchè frati, ricordavano
d'esser uomini ed Italiani, contrariamente a quelle iene di Roma, di cui
la storia è una serie d'assassinii, di prostituzione, di tradimento.

I preti dei Messicani al tempo di Cortez, i sanguinarii druidi dei Celti
al tempo dei Romani ed i Papas Greci ai nostri tempi, tutti si
consacrano ai più orribili martirii sostenendo le cause del loro popolo.

Ed il prete italiano? Sempre traditore al suo paese, fosse esso invaso
dai Turcomanni!

Il contegno dei poveri frati della Gancia fu lodevolissimo.

Essi non pugnarono, non macchiaronsi di sangue, ma identificaronsi colle
aspirazioni d'un popolo generoso ed oppresso, lo favorirono e ne
divisero i pericoli e le miserie.

L'inviolata quiete di cui godè il Clero in tutte le peripezie tempestose
di quella prolissa campagna del 60 si dovè senza dubbio al patriottismo
di quei pochi religiosi che--ad esempio di Cristo--si schierarono nelle
fila degli schiavi[12].

L'impresa del 4 aprile mosse gli uomini di cuore che dopo la fallita
impresa della capitale presero la campagna, congiungendosi alle squadre
di quegli ammirabili picciotti sempre pronti a misurare i loro poveri
fucili colle armi perfezionate dei soldati della tirannide, sempre
pronti, senza dimandarne la causa, a correre in sostegno dei
concittadini impegnati contro mercenari nostrani o stranieri.

E qui in onore del vero devo accennare che in nessuna parte d'Italia ho
trovato tanta accostevolezza da uomo a uomo, da campagna a città, quanto
nella Trinacria.

Sono certo che non vincendo, i Mille, dopo di aver bruciato ed
abbandonato il naviglio, essi avrebbero scelto la sorte dei Leonida o
dei Fabi. Ma dovunque nella penisola, essi non avrebbero trovato
l'incrollabile fedeltà, ed il sostegno che a loro sacrarono i nobili
discendenti del Vespro.

In nessuna parte del mondo fuori della Sicilia sarebbe stata possibile
una marcia come quella dalla Piana dei Greci a Marineo, da Marineo a
Missilmeri; da questo a Gibiltossa e finalmente dall'ultimo punto a
Palermo nella notte dal 26 al 27 maggio all'insaputa del nemico.

Si ricordino quindi i reggitori moderni, che invece di tanto occuparsi
nel rovinare le popolazioni con tasse, imposte, macinati e il
diavolo--per gozzovigliare nel vizio e nella lussuria--essi non
dovrebbero accrescer l'odio che han seminato a piene mani tra coteste
energiche popolazioni del mezzogiorno. Odio, che aumenta in ragione
geometrica. Odio, che non domeranno con tutti i birri della terra, che
riuscirà forse impotente una o dieci volte per ora, ma che trascinerà
finalmente il paese in uno di quei cataclismi che le venture generazioni
ricorderanno con raccapriccio.

E non crediate, signori oppressori ed impostori, che tutte le
rivoluzioni le avrete a passar liscie e immacolate di sangue come quella
del 60.

Troppe sono le colpe vostre e troppo l'odio che giustamente vi portano
le popolazioni da voi ingannate, umiliate, depredate, tradite!

NOTE:

[12] Qui m'è caro ricordare il Padre Pantaleo, che col suo coraggio ed i
suoi talenti, come letterato e libero pensatore, diventò caro a tutti e
gettò nelle fila dei giovani sacerdoti quello spirito d'emancipazione
dalla menzogna che nobilita l'uomo, e che tanto bene avrebbe fatto già a
non essere l'Italia governata da cupido gesuitismo.




CAPITOLO XIV.

LA PRIGIONIA


    Les cloîtres, les cachots ne sont point son ouvrage.
      Dieu fit la liberté, l'homme a fait l'esclavage.

              (CHENIER).


Il 4 aprile era trascorso, e la tirannide avea trovato il mezzo di far
delle vittime sempre grate a Lei, perchè con ciò crede di frenare i
popoli e mantenerli nel timore. Ma di quelle vittime che sono i martiri
d'una causa santa, i coraggiosi raccolgono il sangue, vi tingono le
fasce delle sorgenti generazioni, ed a loro ne consacrano la
memoria--e... la vendetta...--E Dio alle volte paga tardi, ma paga
giusto.

Gettando nella bilancia lo stato selvaggio dell'uomo da una parte e
l'incivilimento dall'altra, dovrebbe certamente risultare per il bene
dell'umanità il peso maggiore nel piatto civile. Eppure qualche volta
l'uomo angosciato da reggitori perversi--occupati solo a tiranneggiarlo
ed impoverirlo--si trova costretto a desiare la vita primitiva delle
foreste, ove mangiava frutte di selva, è vero, ma non avea la schifosa
presenza del prete, del dottrinario, del birro, di quella caterva
d'arpie che col nome di moderati, cointeressati ministri, pubbliche
sicurezze, ecc., lo spolpano, lo corrompono e lo prostituiscono allo
straniero.

Tutta gente che vogliono lautamente vivere alle spalle sue accusandolo
di rivoluzionario quando si lamenta di essere stracarico, e quando
vorrebbe respirare un tantino, scaraventando tutta l'odiosa turba
reggitrice all'inferno!

I Governanti sono generalmente cattivi, perchè d'origine pessima e per
lo più ladra. Essi, con poche eccezioni, hanno le radici del loro albero
genealogico nel letamaio della violenza e del delitto.

Al loro sorgere--tempi feudali--essi, dopo d'aver cacciato l'aquila
dall'alpestre nido, l'occupavano--e di là piombavano sulle inermi
popolazioni, rubando quanto a loro conveniva: messe, frutta, donne e
sostanze d'ogni specie per provvederne i loro covili che chiamavan
castelli.

Ai tempi nostri (1870) non meno feudali di quelli, più potenti i
signori, più numerosi i birri, e più servili e prostituiti i satelliti,
benchè i _bravi_, si chiamino Pubbliche Sicurezze--e i _signori_, Re o
Imperatore--credo si stia in peggiori condizioni, essendo gli ultimi più
potenti dei primi--e con una sequela di legali cortigiani, sempre pronti
a sancire colla maggioranza dei loro voti ogni più turpe mercato delle
genti o delle loro sostanze.

Al Governo della cosa pubblica, poi, giacchè i padroni regnano od
imperano e non governano, vi si collocano sempre coloro che ne son men
degni od i più atti a sgovernare, non volendo, i despoti, gente onesta a
tali offici, ma disonesti com'essi, striscianti e corruttori parassiti
coll'abilità della volpe o del coccodrillo.

Ciò non succede soltanto nelle monarchie dispotiche, più o meno
mascherate da liberali--ma spesso anche nelle repubbliche, ove
gl'intriganti s'innalzano sovente ai primi posti dello Stato, ingannando
tutto il mondo con ipocrisie e dissimulazioni; mentre uomini virtuosi e
capaci, perchè modesti, rimangono confusi nella folla a detrimento del
bene pubblico; e sovente pure nelle immense Società popolane succede lo
stesso inconveniente; d'archimandriti immeritevoli.--I popoli son così
facili ad essere ingannati!

Il principio repubblicano ha certamente fatto dei progressi in questi
ultimi tempi, e non si deve disperare di vederlo finalmente prevalere.
Ma ciò che succede nelle piccole società succede pure dovunque nella
grande società umana, ove similmente l'intrigo e le esagerazioni fanno
inciampare ad ogni passo cotesto bello andamento del progresso umano.

Parlate di Repubblica--Governo normale e naturale delle nazioni--e
propagatela con successo--vi sortono subito i socialisti, i comunisti,
gli agraristi, ecc., che spaventano il mondo e ritardano i risultati del
vostro lavoro.

Parlate del vero e della ragione--non difficili a seminarsi nelle masse
a dispetto della tirannide e del negromantismo--e compariscono gli atei,
i materialisti, a menomare le vittorie del buon senso.

Aggiungete a tutto ciò le gloriuzze di certi individui che vogliono
essere chiamati grandi a qualunque costo--e vogliono far parlar di loro
i giornali, fosse anche per un incendio del tempio d'Efeso alla
Erostrato.

Tali considerazioni mi conducono alla conseguenza d'esser possibile nel
mondo, non so per quanto tempo ancora, certi governi mostruosi, come
quello del Borbone--che la tempesta rivoluzionaria del 60 rovesciò nella
polve--e la peste pretina--compimento delle miserie e delle degradazioni
umane.

Le prigioni del despota eran zeppe a Palermo ed i fatti di Maniscalco e
del 4 aprile le avean colme--giacchè la prigionia serve alla tirannide
per reprimere non solo le aspirazioni dei popoli ma per spaventarli.

Lascio pensare in che orgasmo di diffidenza e di paura si trovarono le
autorità borboniche nella capitale della Sicilia--allo sbarco dei Mille
a Marsala.--Se vi si fosse potuto imprigionare i dugentomila abitanti,
sono certo, i Borboni non vi avrebbero ripugnato.

E dopo Calatafimi e la marcia dei filibustieri sulla Metropoli? Dio me
ne liberi! In tali frangenti entrarono in Palermo Lina e Marzia e
Lia--la graziosa contadina dell'Agro Palermitano--le tre vestite a
foggia del paese, e favorite dalla prima oscurità d'una notte di maggio.

Ho già detto: la terra del Vespro non è terra da delatori, ed era
probabile che tre ragazze del paese, appartenenti al ceto rurale,
potessero entrare senza eccitar sospetti nella popolosa capitale.

Mentre però passavan le tre sotto il primo riverbero di Piazza reale,
due occhi somiglianti a quei del serpente[13] si fissarono sul bel volto
di Marzia, e vi cagionarono l'effetto della scintilla elettrica--ma
malefica, ma funesta come quella vibrata dalla cupa, nera partoriente
delle tempeste sulle dominanti torri del feudo o della bottega pretina.

La coraggiosa fanciulla--che abbiam veduto alla testa degli eroi di
Calatafimi in quella solenne pugna--fu padroneggiata da tal brivido in
tutte le membra, le luci le si ottenebrarono in tal modo, che non
sentiva più il terreno sotto i piedi, traballò come in uno stato
d'ubbriachezza, e senza il sostegno di Lina--a cui s'appoggiò subito--si
sarebbe rovesciata sul macigno del marciapiede su cui transitavano.

«Celeste dote è negli umani--la corrispondenza d'amorosi affetti», dice
Foscolo, che segue le anime elette, sacerdotesse dell'amore celeste
sino oltre tomba.

L'occhiata d'un perverso che vi fa l'effetto di una punta di stile, sarà
dunque l'antitesi di quella dote e la potremo chiamar: dote infernale.

E tale fu veramente l'effetto di quell'occhio sulla bellissima fanciulla
romana.

Riconfortata alquanto da quel primo scompiglio dell'esser suo--e tornata
alla virile sua natura, Marzia era lì per consigliar l'amica di tornare
verso il campo--ma voltandosi e scorgendo lo stesso individuo con altri,
senza dubbio della stessa risma, che le seguivano, disse a Lina, senza
rispondere al «cosa hai?» dell'amica, «sollecitiamo».

Scivolavano quindi le tre giovani sul selciato del marciapiede di Piazza
reale colla velocità e leggerezza della Silfide--ma nella popolosa
Toledo a quell'ora facea mestieri rompere la folla per poter proseguire
celeremente, e la folla trovavasi sempre più densa a misura che
s'inoltravano verso il centro della città.

Tutto ciò dava vantaggio ai persecutori, sulle giovani perseguite, che
di più inciampavano nel non indifferente ostacolo che incontrano le
belle donne nelle città grandi, quando non accompagnate da uomini, cioè:
lo esser bersaglio alle occhiatine, ai motteggi, e sovente alla
persecuzione de' cicisbei.

Comunque, le tre compagne non eran ragazze da lasciarsi spaventare per
poco, e la stessa Marzia sul di cui volto era improntata abituale
malinconia--e che forse s'era aumentata col sinistro incontro--Marzia,
dico, avea ripreso quel fiero contegno cui dava diritto l'indomito suo
coraggio.

Passati i _Quattro canti_[14] e continuando per via Toledo verso il
mare, esse giunsero finalmente ove quella via principale forma una
piazzetta regolare, ed ove verso levante trovasi l'ingresso del vicolo
che conduce all'_Albergo d'Italia_, e nell'entrare nel portone dello
stesso, esse s'accorsero che sin lì eran state seguite.

A gente più assuefatta a mene poliziesche delle belle fanciulle, sarebbe
forse venuto in mente di non fermarsi in quell'albergo di prim'ordine,
oppure giungendovi, fare in modo di uscire subito da un andito
posteriore che conduceva alla splendida passeggiata sul mare, e di là
cercare una più modesta ed appiattata dimora. A Lia però, che la faceva
da guida, non occorsero tali considerazioni, e forse anche qualche
motivo particolare la induceva a prender stanza in detto albergo. La
noncuranza poi delle nostre eroine per qualunque pericolo coadiuvò la
scelta di tale dimora--non sicura certamente per esse in quel tempo di
parossismo rivoluzionario da una parte e di paura governativa
dall'altra.

Il fatto sta che appena le tre fanciulle avean messo piede nella stanza
richiesta ed a loro assegnata dal padrone di casa, questo si presentò ad
esse con un commissario di polizia e tre birri dicendo loro: «Signore,
io era venuto per chiedere ciò che desideravano per cena; la comparsa
però e l'intimazione di questi signori (la seconda parte del discorso fu
a voce bassa ed arrugando le labbra), mi duole dirlo, farà inutile la
mia richiesta».

Quelle parole aveano un accento di simpatia, e si capisce con quel colpo
d'occhio intelligente che distingue i nostri meridionali, il padron di
casa avea indovinato che le belle viaggiatrici eran gente di conto--e
bastava per ciò gettar uno sguardo sul distinto, nobile e vezzoso volto
delle due compagne dei Mille.--La Lia, di bellezza non comune, pure era
conosciuta in quella casa.

Anche si capisce l'istantaneo apparir della polizia borbonica in quei
giorni di terrore, ove in Palermo si era concentrata quasi tutta quella
del Regno, coadiuvata da quanto il gesuitismo avea di più astuto e di
più diabolico.

L'uomo dall'occhio sinistro la di cui vista avea sì stranamente e
malignamente magnetizzato la nostra Marzia, avea quindi durato poca
fatica a raccoglier sgherri sufficienti per la cattura delle fanciulle
sospette.

L'_Albergo d'Italia_ attorniato dalla birraglia, quei birri che col
commissario aveano invaso la stanza delle donne e tre carrozze già
occupate da custodi pronti al portone, furono gli apparecchi idonei per
il trasporto delle tre donne a Castellamare, ove le lasceremo per un
pezzo, dolenti del mal esito della loro impresa--ed indispettite.

«Cozzo» fu la sola parola che Lia potè articolare al padrone di casa in
un momento in cui i poliziotti stavan concertandosi sulle grandi misure
da prendere per assicurare la famosa preda.

NOTE:

[13] Mi è successo in America, coricandomi sul campo colla testa su di
un cespuglio erbaceo, di esser costretto a cambiar di giaciglio per
l'apparizione di due luci nello stesso, che appartenevano certo ad un
serpe.

[14] Punto centrale di Palermo, ove s'intersecano le due principali
strade.




CAPITOLO XV.

IL TENTATORE.


      Les prêtres ne sont pas ce qu'un vain peuple pense.
    Votre crédulité fait toute leur science.

              (VOLTAIRE).


Quando le scritture--che gli stupidi ed i furbi chiamano sante o
sacre--collocarono allato della coppia primitiva il serpente per tentare
la prima debole donna, esse avrebbero dovuto a tante invenzioni
aggiungere l'invenzione d'un prete invece del rettile, essendo il prete
il vero rappresentante della malizia e della menzogna--più atto assai
alla corruzione e al tradimento che non lo schifoso e strisciante
abitatore delle paludi.

E qui mi pongo ancora la mano sull'immane piaga! Un prete! e di più un
gesuita--il sublimato del prete--mi si presenta, con mio ribrezzo in
tutta la laidezza della sua natura per nausearmi--rabbrividirmi--e per
nauseare coloro che avranno la sofferenza di leggermi!

Il sole del 26 maggio nascondevasi dietro i pittoreschi monti che
circondano la Conca d'oro a ponente, fosco, rossiccio, come se macchiato
di sangue--e col crepuscolo d'un giorno infocato cominciavano a vedersi,
nelle pubbliche passeggiate, alcune carrozze con dentro il bellissimo
sesso della stupenda capitale. Non numeroso però, abbenchè le donne,
colla loro educazione presente, non si curin quanto dovrebbero delle
miserie ed umiliazioni della patria: v'era nell'atmosfera naturale e
politica qualche cosa che inaridiva ogni voglia di divertimento.

Era scirocco? Credo non fosse. Col scirocco, le popolazioni meridionali
agiate chiudonsi soventi dentro casa--trovando insopportabile l'afa che
si respira al di fuori.--Il bracciante la trova meno insopportabile
della fame, e lavora anche spossato dal soffocante scirocco.

Il sole del 26 maggio era al tramonto e tra le poche carrozze che
circolavano sulla deliziosa sponda del Mediterraneo una se ne scorgeva
che all'occhio indagatore presentava un aspetto diverso dalle altre.

Perchè coperto quel veicolo? perchè vuoto?--poichè ben difficile
scoprire in quel fondo oscuro un coso a sembianza umana, che dico? a
sembianza d'un demonio!

Quella carrozza coperta aggiravasi come le scoperte, occupata da gente
più o meno oziosa e che in quella sera, più per consuetudine che per
gusto, faceva il solito andirivieni.

L'occupante però di quella--come il gufo--nascondevasi dalla luce, ed
aspettava le tenebre, per attuare i suoi divisamenti sinistri.

E ne avea ben donde Monsignor Corvo--il più astuto e scellerato dei
gesuiti--di nascondersi all'umano sguardo. Se, come m'è successo
qualche volta d'esser solleticato a far una buona azione--tale prurito
fosse venuto ad alcuno dei generosi palermitani presenti--esso potevasi
precipitare in quella carrozza di cattivo augurio, strapparne fuori il
malvagio, e schiacciarlo col tacco del suo stivale per non contaminarsi
le mani, come si fa del velenoso rettile.--Egli avrebbe compito opera
santa e liberato l'Italia da uno de' suoi più perversi e nocivi nemici.

E lì, nelle vicinanze del sinistro augello, si aggirava uno: giovane,
bello, forte, tipo di quella gioventù palermitana sì propensa
all'eroismo del martirio.--Cozzo, il valoroso amante di Lia con altri
compagni della stessa tempra da lui guidati, avean giurato di liberar i
patriotti prigionieri nel forte di Castellamare. Ed eran molti i
detenuti--appartenenti per la maggior parte al fiore dei propugnatori
della Libertà Italiana.

Essi passeggiavan divisi e lontani dall'ergastolo borbonico--per coprire
il loro disegno--e Cozzo, or sapendo che la prigione racchiudeva il suo
tesoro, la sua Lia era d'un'impazienza indescrivibile di cominciar a
menar le mani.--Poi si sapeva delle due bellissime forestiere compagne
della palermitana la di cui fama s'era duplicata sotto il velo del
mistero.--Solo sapevasi ch'esse provenivano dai Mille.

E Cozzo coi compagni che avrebbero potuto liberar il mondo da un demonio
tentatore, non se ne occuparono credendo vuoto il veicolo--e penetrati
com'erano dalla santità della loro impresa.




CAPITOLO XVI.

COZZO E I CINQUANTA PALERMITANI.

      Les cloîtres, les cachots, ne sont point son ouvrage.
    Dieu fit la liberté--l'homme a fait l'esclavage.

              (CHENIER).


Quand'io considero quella serie di mostruosi governi che da secoli
reggono la meridionale Italia--con popolazioni energiche come son
quelle--cresciute sulle lave dei nostri vulcani--io concludo: che non
basta l'energia per fare un popolo libero e grande.--Dirò di più, che
non basta l'energia e l'intelligenza, poichè a dovizia possiede il
nostro popolo l'una e l'altra qualità.

E qui devo ancor mettere la mano sulla piaga della nostra patria
infelice: il clericume--ossia l'impostura.

E chi potrà negarmi che sia il pretismo la base su cui poggiano tutti i
governi perversi?

E mentre si millanta progresso, incivilimento dovunque--in questi giorni
stessi trionfa nelle elezioni al Parlamento Belgico, il clericume!--E
chi può sottrarre all'influsso malefico del 2 dicembre protettore della
menzogna, i piccoli Stati che attorniano la Francia, quali l'Italia, la
Spagna e il Belgio?

Manca certamente al nostro popolo la disciplina--che tanto grandi fece i
nostri padri--la disciplina da cui lo distolgono una mano di dottrinari
per la gloriuzza d'esser chiamati grandi, mentre sono piccolissimi.

E ciò mi spinge sempre più all'idea d'una Dittatura onesta e temporaria.

Il «Siate tutti soldati, tutti ufficiali, tutti generali» del Mazzini,
significa «Siate tutti una Babilonia!»

Cozzo! Pare impossibile; la terra dei gesuiti e dei
preti--l'Italia--partorisce anche i Cozzi--quelle antitesi così
pronunciate del malvagio!

Io l'ho veduto Cozzo--bello come una fanciulla e giovanissimo.--Cozzo
che non s'è mai presentato che al momento del pericolo--e nel pericolo
sempre tra i primi, io l'ho veduto a Caserta--morente--col petto rotto
da una palla borbonica--e baciai cogli occhi umidi quella fronte
d'angelo!

Egli sorrise vedendomi--d'un sorriso che terrò scolpito nell'anima fino
alla morte--e pronunciò le ultime solenni parole: «Io sono felice d'aver
dato la vita al mio paese!».

E tutte le provincie italiane possedono i loro Cozzi da non esser
superati da nessuna casta nel mondo.

Cotesti superbi rappresentanti dell'abnegazione, del decoro, del
martirio, della dignità umana scaturiscono dalla folla di quella
moltitudine corrotta che serve di piedestallo alla menzogna ed alla
tirannide--e qualche volta la dominano e la guidano verso il bene--ma
spesso vi rimangono travolti, superchiati, sinchè i cilicii e le
battiture la riconducono ancora sulla via tracciata dai liberatori.

Ogni provincia possiede alcuno dei prototipi della nobile Legione--e
l'Italia ne può andar orgogliosa.--Essa mai è meno dei Mille, ma il
giorno in cui la gioventù italiana capisca, quanto sia grande il titolo
di militi di quella incomparabile Legione--in quel giorno: Addio
menzogna e tirannide.--La libertà riscalderà, vivificandola, questa
terra delle grandi glorie, e delle grandi sventure!

Era la mezzanotte, quando Cozzo, dopo di aver riunito i cinquanta
coraggiosi figli di Palermo, marciava risoluto all'assalto di
Castellamare, presidiato da cinquecento uomini--da molta artiglieria--e
colla parte del mare protetta dalla flotta borbonica, schierata a poca
distanza.

I Borbonici apprezzavano giustamente la posizione di Castellamare--sia
per la facilità di poter sbarcare al sicuro ogni specie di sussidio
d'uomini, armi e vettovaglie--sia per facilitare la ritirata delle
guarnigioni di Palermo sulla base dell'imponente flotta.

E perciò mantenevano quel propugnacolo della loro tirannide, molto
provvisto dei migliori soldati, d'armi, di munizioni, e d'ogni specie
di cose necessarie.

«Che importa!» aveano esclamato i cinquanta campioni della libertà
italiana «più ardua è l'impresa, e più gloriosa».

E qui mio malgrado devo ancora fermare i liberatori per un inaspettato
evento.

Un'illuminazione a giorno, pria a Palazzo Reale, poi a Castellamare, ed
in seguito ne' pubblici stabilimenti e nelle case di quanti impiegati
borbonici si trovavano in Palermo--e di quanti non poterono esimersi
dall'ordine d'illuminare--fermò i nostri mentre s'accingevano ad
attraversare la piazza che divide Castellamare dalla Città.

Un rovinío di cannonate dai forti e dalla squadra assordava la gente, e
più ancora le grida selvagge di tutta la ciurmaglia borbonica, con gli
_evviva_ a quel modello di monarca e _morte_ ai filibustieri!

In sostanza era giunta in Palermo la notizia che i valorosi generali
Bosco e Van Michel avean raggiunto i Mille presso Corleone, li avean
distrutti, preso l'artiglieria e fugati i pochi resti verso il mare
africano, ov'eran aspettati dai prodi della flotta per esser condotti in
quei certi ergastoli di S. Stefano e Favignano, che i patriotti
dell'Italia Meridionale ben conoscono, oppure per essere appiccati ai
pennoni di detta valorosa flotta: ricompensa generalmente assegnata ai
pirati o filibustieri, simili ai Mille, che si occupano di disturbar
l'ordine sì ben mantenuto dalle monarchie in generale e dalle italiane
in particolare.

Fra poche ore noi avremo un cenno certo della veritiera loquacità dei
dispacci governativi, che per la decima volta avean mangiato i Mille od
annientati.--Bosco e Van Michel avean bensì raggiunto, verso Corleone,
l'artiglieria nostra comandata dal generale Orsini, che con pochi
invalidi la difese valorosamente, ed a cui tolsero, credo, un pezzo
inutile. Ma la colonna principale dei Mille, prendendo a sinistra per
Marineo e Misilmeri, giunse a Gibilrossa, ove il generale La-Masa avea
riunito buon nerbo di squadre siciliane, e di là tutti riuniti si attuò
la famosa marcia di notte per sentieri asprissimi sulla capitale dei
Vespri presidiata tuttora da quindici mila soldati delle migliori truppe
dell'esercito borbonico.




CAPITOLO XVII.

ANCORA IL TENTATORE.

    Quel sottile velen--che nel virgineo
    Cuore s'instilla--e paradiso umore
    Ti sembra--E poi micidïali e tetre
    Le miserie del mondo a te dischiude.

              (_Autore conosciuto_).


Era la una della mattina, nel fatale 27 maggio del 60, e qualche cosa di
fatale veramente pesava nell'atmosfera.--Tu ne sentivi la soma e ne
andavi irrequieto.--Non era, come abbiam detto, l'alito appestato del
Simoùn[15], giacchè venti non se ne sentivano.--Afa?--non la so
descrivere!--Io l'ho sentito però quel fatale mal essere, perchè anch'io
in quella notte che precedeva un giorno di tempesta popolare contro la
tirannide, anch'io respiravo l'atmosfera di Palermo e l'ho respirata
coll'ansia di scorger l'alba che io bramavo--come la presenza della
fanciulla amata--e che presentivo liberatrice.

Se soffocati dal malore noi, all'aria aperta, e marciando a dovere
santo--a liberazioni di schiavi--che non soffrirebbero in quella pesante
notte i rinchiusi nell'afa micidiale di un carcere?

In Palermo certo i dormenti eran pochi. E i detenuti?--molti!
Gl'infelici precipitati nel fondo delle loro bolgie--senza colpe--e
sostenuti solo dall'intemerata coscienza, languivano privi d'alimenti e
d'un soffio d'aria libera!

Tiranni! a che tanto chiasso coi vostri cagnotti, se lo
schiavo--raramente, ma però qualche volta--dopo di aver tastato i solchi
troppo profondi che incisero i vostri ferri nelle sue carni, vi
scaraventa sopra un palco che si chiama guigliottina o nei fossi delle
casematte di Queritaro? Voi!... che tanto faceste e fate soffrire
l'umana famiglia di umiliazioni, di torture e d'omicidii!

Ed eran rinchiusi nelle celle della tirannide le nostre eroine, che
lasciammo nelle mani della polizia all'Albergo d'Italia.--Rinchiuse
nelle carceri più recondite dell'ergastolo di Castellamare--esse
morivano di quella morte lenta, lenta, che appassisce, appassisce sino
ad inaridire e troncare l'esistenza più florida e più robusta.

Esse furono prive del consorzio e divise ciascuna nella sua cella.
Gl'interrogatorî di queste famose delinquenti dovevano essere presi a
parte. Il despotismo nulla ignora di questa morte morale delle anime:
l'isolamento e le torture dello spirito.

Il selvaggio cavallo delle Pampas, i suoi primi passi verso
l'addomesticamento li fa con due giorni di corda corta e nessun alimento
od acqua. Tali sono tutte le specie di padroni, e la tirannide ben
conosce esser l'avvilimento dell'anima compagno dell'avvilimento del
corpo.

Era dunque la una della mattina del 27 maggio 1860, quando la cella
della Marzia fu semiaperta e l'orrida figura del tentatore--che già
abbiamo fiutato in Piazza Reale nel peristilio dell'Albergo d'Italia ed
in fondo di una carrozza alla passeggiata pubblica sulla sponda del
Tirreno--mostravasi alla derelitta.

Orrida figura, dico, perchè sapeva scendere nei penetrali di quell'anima
di Lucifero--e come Lucifero adorna di belle esterne forme.

Tale era questo demone a cui natura era stata prodiga di favori per
sventura dei suoi simili.

E qui col ginocchio piegato davanti alla bellezza umana, io, vecchio e
senza pretensione, devo un rimprovero o piuttosto un avvertimento alla
donna: essa sarebbe assai meno infelice, se si occupasse un po' più di
discernere sotto l'involto d'un bell'uomo, l'anima di un Lucifero!

Marzia trasalì, ebbe dei brividi--come le successe sul marciapiede di
Piazza Reale--riconobbe nell'ombra le sembianze del suo tentatore, e
sull'impeto primo essa fu per lanciarsi contro di lui e sbranarlo.

«Marzia!» esclamò il Gesuita. «Marzia» ricominciava il prete, e quella
voce risvegliando forse nella memoria della fanciulla chissà quali
reminiscenze, essa ricadde sul suo lettuccio con immobilità disperata,
«io sono venuto a liberarti, e tu sarai libera in questo momento, se
vorrai seguire i miei consigli.

«I tuoi sono consigli di Satana» rispondeva la giovine rinvenuta dalla
prima impressione e ritornando al suo essere eroico, «via, tentatore
nefando, l'esistenza mi pesa solo per aver avuto la sventura di
conoscerti. E la libertà, per cui io darei cento vite, datami da te la
calpesterei come orribile dono, e me ne servirei soltanto per uscir da
una vita che tu hai reso infame.

«Eppure io t'ho salvata da una fede di perdizione, Marzia, e t'ho posta
sulla via del Signore e della santa sua Religione.

«Sappi, impostore, per confusione tua, ch'io tornai col pentimento alla
fede d'Israele, alla fede dei miei padri. Solo alla mia innocenza io non
potrò tornare--scellerato!--E tu ben lo sai; e sai quanti raggiri,
quante menzogne e seduzioni tu adoperasti per ingannare una giovinetta
tredicenne--prostituirla, e, quando sazie le tue libidini, chiuderla in
uno di quei postriboli da voi chiamati conventi, per isbarazzartene.

«Via, assassino dell'anima! la tua presenza mi è mille volte più
insopportabile di questo duro carcere».

A queste parole Marzia s'era rialzata, e l'occhio suo scintillava
nell'oscurità come quello della tigre.--Il Gesuita, con una lanterna
sorda nella sinistra, teneva colla destra la posterla semiaperta,
pronto a chiuderla in caso che la fanciulla si fosse precipitata su di
lui--azione di cui la credeva capace.

E veramente, dopo aver misurata la distanza collo sguardo, concentrate
le spossate sue forze, Marzia fu d'un balzo contro la porta, che trovò
chiusa dalla robusta mano del prete, ed il malvivente fu sollecito a dar
un giro di chiave per non esporsi una seconda volta all'assalto della
fanciulla.

Egli però aprì poco dopo una graticola da dove probabilmente si
conferiva coi prigionieri pericolosi, e da dove vi si faceva passare il
miserabile alimento.

«Marzia!» ripigliò la voce stridula del loiolesco, «il vecchio tuo
padre...»; qui si udì uno di quei lamenti che non si ponno descrivere, e
che l'antico fondatore della lingua italiana si contenta di accennare
con quei suoi versi immortali:

    E se non piangi, di che pianger suoli!

Non era il rantolo del morente, ma uno di quegli accenti di dolore che
noi uomini non conosciamo, o di cui non racchiudiamo il tesoro. Solo la
donna e forse solamente la madre, il di cui cuore è il vero santuario
dell'amore, è capace di sì incomparabile dolore!--Ed il tonfo del corpo
di Marzia stramazzante si udì nel fondo della cella.

Un sepolcrale silenzio seguiva, e solo quando l'impassibile ministro
dell'inferno s'accorse che la vittima sua non era preda della morte,
esso ricominciò: «Marzia! il vecchio tuo padre, lo sai, giace tuttora
nei sotterranei dell'Inquisizione, sottoposto a giornaliere torture, e
basterebbe una tua parola per liberarlo, e renderlo alla sua primitiva
agiatezza».

Singhiozzi d'un'anima veramente travagliata erano la risposta
dell'infelice.

«I tuoi Mille, Marzia, su cui speri ancora per liberarti, sono
annientati. Essi furono distrutti dai generali Bosco e Van Michel:
questa notte istessa avrai intesa le salve d'artiglieria, e le grida di
vittoria, che echeggiarono dovunque in Palermo».

«Bugiardi! Bugiardi!» urlava la giovine profetessa, «i Mille
passeggeranno vittoriosi sui cadaveri dei vostri mercenarii, sino alla
distruzione della fucina infernale che mantenete in Roma, nel cuore
d'Italia, per la sventura di questo infelice paese, e del mondo».

L'ultima parte della profezia potea avverarsi, ove i nostri concittadini
fossero stati più solerti ad accorrere in sostegno dei Mille.

Nuovo silenzio seguì le ultime parole di Marzia, e raffreddato il
parossismo di sdegno, di collera, e di dolore che sinora l'aveva invasa,
essa ricadde spossata sul miserabile pagliericcio dominata dalle più
sinistre riflessioni.--Suo padre! suo padre nei sotterranei del
Sant'Officio! Questo pensiero l'uccideva!--Coi Mille che essa avrebbe
accompagnati a Roma, la liberazione del genitore era possibile. Ma ora,
rinchiusa in questa malefica bolgia, ove pochi giorni avrebbero bastato
a distruggerla!

«Dio mio! che m'importa morire! non son io capace di affrontar la morte
le mille volte come a Calatafimi!--La morte!--cos'è la morte? Ma la
tortura! Dio mio! il mio povero padre sì amoroso, sì buono! alla
tortura! colle sue carni strappate! la veneranda sua chioma insozzata,
aggrumata da mortale sudore, e da sangue! in patimenti indescrivibili!»

Povera giovane!--tale era il soliloquio che ti straziava.--Ed il tuo
tentatore?.....

Eppure avea delle belle forme, quel mostro--quel parto dell'inferno!--Il
tuo tentatore? come se avesse tenuto la mano sul tuo cuore, egli ne
contava le pulsazioni egli, come nel giorno in cui ti prostituiva il
corpo, non disperava a forza di diabolica pertinacia, di prostituirti
l'anima!

Piangi--singhiozza--struggiti--che importa a gente di tal tempra! Tu
commoverai le iene, ma costui! non rinnegò egli i sensi più squisiti
della natura--ogni affetto di figlio, di padre, di congiunto?--Costui,
che vedrà con sangue freddo distruggere dalle fiamme un'infelice
creatura, chi deve sperare di vederlo intenerirsi, commuoversi alla tua
disperazione?

Maledetti coloro che non ripugnano di vivere su questa terra venduta!
nel consorzio di questi corruttori, barattieri di popolo! Maledetto chi
non si risente degli oltraggi e delle umiliazioni a cui abbassano
l'Italia, questi impostori in connivenza colla tirannide!

«Io chiedo poco, Marzia: dimmi soltanto ciò che tu sai di quei
disgraziati che si chiamavan Mille, e che ora son morti per la maggior
parte, o fuggenti verso l'Africa».

Spossata la sventurata fanciulla dalle privazioni, dalla scellerata
scena, e più dall'aura mefitica dell'angusto e putrido suo carcere, non
rispondeva alle infami insinuazioni del Gesuita, che con alcune mal
articolate maledizioni. Poi tacque assolutamente per ciarlar che facesse
lo iniquo.

Il prete--colla perseveranza che distingue questa razza di
lupi--credendo Marzia sopita, o svenuta, riapriva; e diretto il chiarore
della lanterna, verso il volto di lei, credè veder gli occhi chiusi da
sonno, o da sincope, e si avventurò nella cella--non certo con onesto
divisamento.

Ma il fulmine non colpisce con più velocità l'altiera quercia od il
campanile della bottega, quanto colpì la nostra eroina il malvivente
tentatore.--Essa volò sulla parte superiore del gesuita, lo squilibrò,
rovesciollo, e come se fossero d'acciaio, conficcò le sue dita nel collo
del giacente.

Era bello e spacciato monsignor Corvo, se un baccano che successe quasi
contemporaneamente, non gettava l'allarme tra la dormente guarnigione
di Castellamare.--E veramente una grandine di fucilate udivasi in tutte
le parti del castello, dal di dentro però al di fuori. E chi ha fatto la
guerra sa che ove basterebbe una fucilata, di notte se ne tirano mille.

Un diavolío poi, un correre con lanterne, e senza per ogni dove. E ciò
valse al gesuita, poichè anche nella cella di Marzia capitarono birri
che liberarono quello scellerato, con gli occhi già fuori dell'orbita.

Marzia da quella svelta e coraggiosa che era, non si smarrì di mente, ma
presentendo che qualche cosa di nuovo dovea accadere al di fuori, con
tale finimondo di fucilate, cannonate, grida, ecc.--e fiutando l'odor
della polvere--come i generosi della sua specie--elettrizzata,
precipitossi sulla posterla semiaperta, e frammischiossi nella turba
confusa, che correva in ogni direzione.

NOTE:

[15] Vento del gran deserto Africano.




CAPITOLO XVIII.

L'ASSALTO DISPERATO.

      Alle donne Italiane, che noi
    Vinceremo, o morremo, direte!

              (_Autore conosciuto_).


A Mentana non abbiamo vinto, nè rifiutata la vita! Vi ponno essere dei
popoli più _steady_, direbbero gl'inglesi, e ch'io tradurrò forse male,
con _impassibili_, cioè che marciano in colonna serrata al passo verso
delle batterie, che ne fanno macello e quelle colonne si serrano a
misura che il ferro ed il piombo nemico le dirada. E sventuratamente per
noi, ve ne sono varii, classificando certamente tra i primi i Britanni.
Una volta erano i nostri padri di Roma, _steady_ come le loro colonne di
bronzo.

Ho detto: vi ponno essere dei popoli più fermi, più impassibili degli
Italiani; ma certo nessuno più intraprendente.

Anche in tempi di depressione italiana, tra i più grandi scopritori di
mondi nuovi primeggiano certamente Colombo, Americo e Caboto.

Una sola provincia dell'Italia, la Liguria, vessata in tutti i modi, da
uno dei governi più abbietti del mondo--mantiene la marina mercantile
nostra, fra le prime.

Camogli, paese di cinque mila anime, senza porto, e con poco favorevole
posizione nautica, possiede seicento bastimenti d'alto bordo--ciocchè
non può millantare paese al mondo.

Il nostro popolo si getta con alacrità inarrivabile a qualunque
pericolo, e non smentisce il proverbiale suo valore. La causa ch'ei
propugna è santa! Ei va--ne potete esser sicuro. Ma ciò che vorrei dai
miei giovani concittadini, sarebbe un po' più di costanza nei disagi
della vita del campo, e nel portare a compimento definitivo questa
rigenerazione patria, già per noi vergognosa, lasciata così a metà
strada.

Cattivo Governo, infingardía nostra, e massime educazione pretina, sono
i motivi del nostro abbassamento fisico e morale. Ma per Dio! ci vuol
poi la scienza d'Archimede per capire che un prete è un impostore e che
non si deve soggiacere a tanta infamia d'esser il ludibrio del mondo!

Cozzo e i suoi cinquanta assaltavano il forte di Castellamare--la
posizione più importante del nemico, perchè proteggeva la comunicazione
della flotta col quartiere generale--e lo assaltavano come i Genovesi
nel 1746--i Bolognesi nel 49--e come i Bresciani assaltavano gli
Austriaci dietro i loro baluardi--col pugnale!....

E non avendo altra arma, anche col pugnale ponno assalirsi i mercenari
della tirannide!

Ed i cinquanta Palermitani eran giovani degni dei loro antenati--da non
indietreggiare davanti a qualunque pericolo.--Ma troppo ineguale era la
pugna!

Il fosso e la prima trincea furon varcati dai valorosi figli di Palermo,
verso le due del mattino, e le sentinelle colla guardia esterna eran
cadute sotto il loro ferro.

Chiuso però il gran cancello, che metteva nell'interno del forte, il
procedere avanti divenne impossibile, e ripigliato coraggio, i Borbonici
grandinarono sui cinquanta eroi tale una furia di palle, da uccidere la
maggior parte, e metter quasi tutti i restanti fuori di combattimento.

Giungevano le fucilate direttamente dal cancello di ferro, dalle
feritoie laterali, e da qualunque punto, o finestra, ove potevansi
collocare tiratori.

E che potevano i nostri senza armi da fuoco?

In un momento lo spazio occupato dai cinquanta tra la trincea esterna ed
il cancello, fu un mucchio di cadaveri e di feriti.--E i mercenari
borbonici non cessavan dal fuoco.

Noi abbiam lasciato, nel capitolo anteriore, Marzia furibonda, correndo
per i corridoi del castello, ed aprendo, con tutta la sveltezza di cui
era capace, tante celle quante ne trovava, e così pervenne a veder i
volti amati della sua Lina e di Lia: molti furono pure i detenuti
patriotti in tal modo liberati.

Poche furono le parole d'intelligenza tra i liberati, ma quelle poche
bastavano per intendersi, e formando un gruppo compatto, precipitaronsi
sui difensori del cancello, li assaltarono alle spalle, li disarmarono,
ed aprirono al residuo dei compagni di fuori.

Era veramente molto piccolo il residuo dei nostri prodi assalitori.
Comunque, non essendo gravemente ferito, Cozzo, ed alcuni dei rimasti,
al grido di: Viva l'Italia! che partiva dai liberatori capitanati dalle
nostre eroine, si precipitarono sul cancello, riunironsi ai nostri, e
tutti insieme, lanciaronsi nell'interno, sulla guarnigione, la quale,
benchè numerosa, fuggiva spaventata in tutte le direzioni.

I liberati in quel trambusto eran pervenuti ad armarsi tutti--chi con
armi da fuoco, chi con sciabole, e chi con altre armi tolte ai caduti ed
ai fuggenti--e la partita diventava assai sfavorevole ai Borbonici, già
disposti di abbandonare il forte, e gettarsi in mare, cercando la
protezione della flotta.

Il sinistro genio d'Italia vegliava però sulla sorte della tirannide, e
le conservò con le sue malizie per pochi giorni ancora, quel baluardo
importante che, perduto il giorno 27 maggio, avrebbe sommamente servito
all'impresa dei Mille su Palermo.

Il lettore ricorderà d'aver lasciato il gesuita rovesciato, ed in
deplorevole condizione, nella cella di Marzia. Per la sventura del
mondo, questa razza di vipere ha la pelle dura, e fattosi riconoscere
dal birro che invase la cella, al rumore della lotta che vi era seguíta,
questi lo aiutò a sollevarsi e lo accompagnò alla sponda del mare, ove
il Monsignor--pezzo grosso--avea sempre un palischermo da guerra a sua
disposizione.

Il settario di Loiola, per quanta poca pratica avesse delle cose
militari, avea capito che un assalto era stato dato dalla parte di terra
al castello, e conoscendo quanta importanza avea lo stesso, come
veicolo, e protezione delle comunicazioni tra la flotta ed il quartier
generale, corse immediatamente dall'ammiraglio, per prevenirlo del
pericolo, e sollecitarlo a non abbandonare Castellamare.

Un avviso del Gesuita valeva un ordine, e ben lo sapeva il comandante
della flotta; quindi tutte le compagnie di sbarco di tutti i bastimenti,
furono con ogni celerità gettate sul forte per proteggere il presidio.

E ben era tempo! quando le prime barche da guerra approdavano, i
fuggenti della guarnigione eran già affollati sul mare per precipitarsi,
e tale confusione e trambusto succedeva tra questi mercenari, da far
paura.

L'uomo di mare è un essere curioso: assuefatto a disprezzare il pericolo
sull'onda, gli sembra che alacremente egli possa affrontar qualunque
pericolo, e vi si getta il più delle volte con una gaiezza tutta sua,
poi legato dal dovere tra quattro pareti di legno--a lui divenute
monotone--egli è sempre contento d'esser inviato in terra, sia anche
col pericolo della vita. Dal bordo della sua fregata, o vascello ove
trovasi agglomerato con centinaia di compagni poco fortunati come lui,
il marino vede sempre in terra un paradiso.

Fatale fu ai nostri valorosi tale propensione marinaresca,
e le compagnie di sbarco--colla celerità propria di quella
gente--internaronsi nel forte, incontraronsi coi vittoriosi, e per
sventura nostra fecero cambiar la sorte delle armi.

Cozzo, ruggendo come un leone, con allato le tre guerriere, e seguito da
un pugno di coraggiosi, assalì i nuovi sbarcati, e per più volte li
ricacciò indietro; ma questi continuamente sostenuti da gente fresca,
finirono per soperchiare i nostri e quasi distruggerli.




CAPITOLO XIX.

L'ASSALTO FORTUNATO.

    Datemi l'arme, all'insidioso acume
    Delle volpi di corte, i miti accenti,
    A me l'acciaro! dell'oppresse genti
    Dal furor dei tiranni è questo il nume.

              (PALMI D'AREZZO).


Dopo alcune scaramuccie coi Borbonici a Renne, i Mille impresero quella
famosa marcia di notte verso Parco, che li mise in facili comunicazioni
coll'interno, e la parte orientale dell'Isola--marcia che io non ricordo
d'aver veduto simile, e tanto ardua, nemmeno nelle vergini foreste
dell'America.--Marcia che, senza la cooperazione di quei magnifici
picciotti delle squadre siciliane, sarebbe stato impossibile di
eseguire, o almeno di trasportare i pochi cannoni nostri e le munizioni.

L'alba del 22 maggio trovava i Mille a Parco, grondanti d'acqua
piovana--e molli di fango dalla più disastrosa delle marcie di fianco--e
se avessero avuto da fare con un nemico più diligente, quel giorno
poteva essere funesto ai nostri Argonauti.

I cannoni erano smontati, e forse i loro affusti trovavansi a varie
miglia di distanza. I cattivissimi moschetti infangati, e molti fuori di
servizio, e la spossatezza della gente, avrebbero agevolato ai Borbonici
la distruzione dell'egregia schiera.

Il 22 però passò senza novità.--I Mille ebbero tempo di rinfrancarsi,
asciugar le loro scarse vestimenta, metter in ordine le loro armi, e
prepararsi a qualunque avvenimento.

Solo il 23 mossero da Palermo i nemici, in due colonne: l'una
direttamente al Parco per attaccarci di fronte; l'altra girando il
nostro fianco sinistro, tentava di impadronirsi delle alture, e
minacciava la nostra retroguardia e linea di comunicazione.

Il movimento combinato dal nemico non poteva esser migliore per esso, e
mise i Mille nella necessità di abbandonare la posizione di Parco, e
ritirarsi per lo stradale verso Piano dei Greci--ciocchè dovettero
celeremente eseguire, dovendo fare un circuito assai grande--mentre la
colonna nemica di cacciatori, sulla nostra sinistra, senza artiglieria,
marciava per i monti, direttamente alla nostra linea di ritirata.

I Carabinieri Genovesi mandati sulla sinistra, per disturbare il
progresso di tale colonna, vi pugnarono colla solita bravura, e
perdettero alcuni dei loro prodi, tra cui Mosto--uno fra i
migliori--fratello del Maggiore dello stesso nome, valoroso milite di
cento combattimenti, ed uno dei martiri di Monterotondo.--Mosto ferito
gravemente a Monterotondo, fu men felice di Uziel--il prodissimo della
colonna Genovese--che vi morì da forte ed ebbe quindi la fortuna di non
sorvivere alla sventura di Mentana.

Un distaccamento dei Mille con passo celere avendo preceduto la colonna
sullo stradale, guidato dai patriotti della Piana, s'impossessò delle
forti posizioni che dominano quel paese, e fermò la colonna dei
cacciatori nemici la quale, credendo di soperchiare i Mille e
disordinarli, ne fu invece soperchiata e resa incapace di avanzare un
passo.

Quella sera s'accampò nelle vicinanze della Piana e s'inviò il generale
Orsini sulla via di Corleone, coll'artiglieria, bagagli ed
infermi--disposizione che principiata al crepuscolo, ingannò i nemici
sulla direzione della colonna principale.

La notte stessa si lasciò il campo della Piana, e c'innoltrammo colla
colonna senza impedimento nel bosco Cianeto che divide detto paese da
Marineo.

Il 24 di maggio il nemico vedendo che tutta la forza dei Mille si
ritirava verso Corleone, la perseguiva con circa cinque mila uomini
delle migliori sue truppe, ed ebbe nelle vicinanze di quel paese un
impegno col generale Orsini, in cui quest'ultimo si comportò
egregiamente, sebbene con numero molto inferiore di uomini.

Qui mi è grato il ripetere: che solo in Sicilia potevasi effettuare un
movimento coperto come quello che eseguirono i Mille dalla Piana a
Palermo all'insaputa del nemico, il quale aveva il suo quartier generale
a poche miglia di distanza.

Il 24 i Mille accampavano a Marineo.

Il 25 a Missilmeri--e tutte queste coraggiose popolazioni acclamavano
l'arrivo dei fratelli, come se certi della vittoria.

E veramente il popolare entusiasmo ne era ben il precursore.

Quando si pensa che tutte queste belle popolazioni dell'Italia sono oggi
così depresse ed umiliate--25 milioni d'individui che hanno i ladri in
casa--senza aver nemmeno il coraggio di lamentarsene!--Vergogna!

E si millanta valore italiano--capi guerrieri, prodi eserciti.--Via!
via! nascondete quella fronte macchiata dagli sputi stranieri!

Il 26, noi raggiungemmo il campo del generale La Masa a Gibilrossa, ove
s'erano riunite alcune migliaia d'uomini delle squadre Siciliane. Ed a
Gibilrossa si decise di assaltar Palermo nella notte.




CAPITOLO XX.

IL 27 MAGGIO.

      Si spandea lungo nei campi
    Di falangi un tumulto, e un suon di tube
    E un incalzar di cavalli accorrenti,
    Scalpitanti sugli elmi ai moribondi
    E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

              (FOSCOLO).


La battaglia di Maratona fu una ben gloriosa vittoria di popoli contro
la tirannide; ed i valorosi di Milziade ebbero una santa, terribile e
liberatrice vittoria.

I Greci--come gli altri popoli che han la disgrazia di aver dei
preti--son questi gli anniversari che dovrebbero ricordare e
santificare, non i Domenichi, gl'Ignazi, gli Arbues e compagnia brutta
di sangue!

Come la Maratona per i Greci, la battaglia di Palermo, quasi dimenticata
e avversata dall'eunuco sistema che regge in Italia, sarà ricordata
dalle generazioni venture con entusiasmo e con rispetto!

Sorgi, aurora del 27 maggio!--men sanguigna, men cupa del precedente
tramonto--tu vai a rischiarare il giorno più glorioso ch'io mi conosca
in Italia.--S. Fermo, Palermo!--i nostri nepoti vi rammenteranno con
orgoglio, e quando seduto al focolare, ed attorniato dalla gioventù
bramosa, il veterano volontario starà narrando ad essa quelle superbe
pugne, grandirà d'un palmo ed il suo volto venerando risplenderà
ringiovanito.

Vittorie di popolo! del diritto sulla prepotenza, del vero sulla
menzogna, e della giustizia sulla tirannide!

E perchè con tante splendide vittorie, l'umanità rimane sempre
schiacciata sotto il peso dei pochi furbi, che la corrompono, la
derubano e la fanno infelice?

Ditelo voi, archimandriti Bizantini, che assordate il mondo di
ciarle--voi eletti a legislatori colla frode, o dalla dabbenaggine del
popolo, o dalla parte di popolo comprato, voi, dottrinari e dottori di
tante specie: molti di voi un giorno repubblicani arrabbiati--oggi!.....
ho vergogna di dirlo, cosa siete? Comunque, legislatori, che a forza di
leggi ci fate desiderar la vita primitiva.

Una scelta schiera di prodi dovea aprire la strada nella capitale dei
Vespri.

Tucheri dovea condurla, e per compagni egli aveva nientemeno che Nullo,
Cairoli, Vigo, Taddei, Poggi, Uziel, Scopini, Perla, Cucchi, ed altri
valorosissimi, i di cui nomi, io raccomando vengano pubblicati dal prode
Stato Maggiore dei Mille e dai condottieri nobili delle otto famose
compagnie, come pure dal capo delle guide, le quali primeggiavano fra i
più coraggiosi[16].

Quella schiera scelta tra i Mille, non contava il numero, le barricate
ed i cannoni che i mercenari dei Borboni avevano assiepati fuori di
porta Termini.--Essa tempestava e fugava al ponte dell'ammiraglio gli
avamposti nemici, e proseguiva.

Le barricate di porta Termini furono superate volando--e le colonne dei
Mille, e le squadre dei Picciotti calpestavano le calcagna della
valorosa avanguardia, gareggiando d'eroismo.

Non valse una vigorosa resistenza dei nemici su tutti i punti, nè il
fulminare delle artiglierie di terra e di mare, massimamente d'un
battaglione di cacciatori indigeni[17] collocato nel dominante convento
di S. Antonino che ci fiancheggiava sulla nostra sinistra a mezzo tiro
di carabina.--Nulla valse: la vittoria sorrise al coraggio ed alla
giustizia, ed in poco tempo il centro di Palermo fu invaso dai militi
della libertà italiana.

Trovandosi la popolazione della capitale della Sicilia completamente
inerme, essa non poteva il primo giorno esporsi ai fuochi tremendi che
avean luogo per le strade.--Giacchè non solo sparavano le artiglierie
della truppa concentrata in Palazzo Reale, Castellamare, ecc., ma la
flotta Borbonica infilando le strade principali, le spazzava coi suoi
forti proietti e distruggeva non pochi edifizi con granate e bombe.

Ed ognuno sa che quando i bombardatori[18] ponno bombardare una povera
città senza esserne molestati, la loro bravura da cannibali si accresce
in ragione geometrica.

Ben presto però il popolo di Palermo accorse all'erezione di quei
propugnacoli cittadini, che fanno impallidir la tirannide--le
barricate--e vi si distinse come direttore il colonnello dei Mille,
Acerbi, milite valoroso di tutte le battaglie italiane.

I popolani, armati d'un ferro in qualunque guisa dal coltello alla
scure, presentavano nei giorni susseguenti, quelle imponenti masse,
irresistibili in una città, a qualunque truppa, per ben organizzata che
sia. E quando un'intimazione di deputati borbonici fece significare ai
Palermitani: di dover ricorrere alla clemenza del Re, un ruggito di
sublime sdegno--somigliante a quello dei terribili nostri vulcani quando
scuotono la superficie del globo--si udì nelle illustri vie che
risuonano ancora l'eco sterminatore di un esercito di tiranni.

Allora potè vedersi cosa vale una città di dugento mila anime disposta a
seppellirsi sotto le macerie dei suoi focolari, pria di piegar il
ginocchio sotto la prepotente tirannide.

Da quel momento le barricate sortivan da terra come per incanto--e che
barricate! da poter sfidare anche le più forti artiglierie. Palermo
n'era stipata.--Ogni finestra di casa presentava un'alta barricata di
materassi, cuscini, mobilia d'ogni specie, e le più pesanti
suppellettili vedevansi sospese, pronte ad esser precipitate sulle teste
dei mercenari, in caso essi avessero tentato di assalire i figli della
libertà.

Salve! città dalle grandi memorie--anche questa volta l'eroica tua
iniziativa valse la quasi unità della patria italiana, che sarebbe
compiuta oggi, senza la prevalenza della menzogna, del dottrinarismo e
degli adoratori del ventre!

NOTE:

[16] Non potendo, com'è ben naturale, ricordare i nomi di coloro che
fecero parte di quella sacra Legione, ho pensato d'introdurvi quei
gloriosi martiri dei Mille che mi si presentano alla memoria, sebbene
non tutti appartenenti a detta schiera.

[17] V'erano varii corpi stranieri.

[18] I bombardatori di città e quei bulli che fucilano individui inermi
come i Ciceruacchio ed i volontari fucilati dopo Aspromonte, son gente
che non dovrebbero più vivere nei paesi civili, ma come Aynau essere
gettati nei fiumi o presi a bastonate.




CAPITOLO XXI.

LA CAPITOLAZIONE.

    Les Républicains sont des hommes,
    Les esclaves sont des enfants.

              (CHENIER).


Io ho sempre inteso per repubblicani i propugnatori dei diritti
dell'uomo contro la tirannide; e tali eran certamente i Mille ed i loro
valorosi commilitoni del 60. Ciò sia detto, spero, per l'ultima volta, a
confutazione di quei dottrinari che voglion oggi far monopolio dell'idea
repubblicana, come se fossero essi gl'inventori--come se non fossero mai
esistite repubbliche--e che hanno sempre l'aria di non volermi perdonare
la spedizione di Marsala, per non avervi proclamata la repubblica e di
non averla proclamata in altre occasioni, in cui mi sono trovato in
comando.

Dopo la Fieravecchia, occupato il palazzo Pretorio col quartier
generale, i nostri militi rinforzati sempre dai robusti abitatori delle
campagne, armati di cattive carabine--ma audacissimi--i nostri militi,
dico, a poco a poco, cacciarono da tutti i punti centrali della città i
soldati borbonici verso il Palazzo Reale a mezzogiorno, e verso
Castellamare a tramontana. Le comunicazioni tra il quartier generale e
la flotta divennero impossibili, ed i primi indizi d'una capitolazione
furono: la richiesta del permesso di condurre i feriti nemici sulla
flotta, per esser trasportati a Napoli, e quello di seppellire i morti
che ammonticchiati nei siti delle pugne, cominciavano ad infettar
l'aria.

Ciò richiese un armistizio di 24 ore--e Dio sa se noi ne avevamo
bisogno, obbligati come eravamo di fabbricar la polvere e cartucce di
cui fummo privi durante delle ore!

E qui giova ricordar pure che nessun soccorso d'armi o di munizioni ci
venne dai legni da guerra ancorati nel porto e sulla rada, compresa una
fregata italiana, su cui il comandante cacciò un mio messo, senza
volerlo ascoltare. In quei giorni solenni in cui avremmo pagato a peso
di sangue alcuni mazzi di cartucce!

Se ben mi ricordo, si comprò un vecchio pezzo di ferro da un bastimento
greco.

Comunque, la fortuna arrideva al coraggio ed alla giustizia. Si
fabbricava una cartuccia e si tirava. Le fucilate nemiche all'opposto
sembravan grandine, ma i militi della libertà non le temevano, ed
impavidi progredivano colle barricate verso il covile dei mercenari.

I generali nemici spaventati da tanto eroismo cercavan di capitolare, ed
una prima conferenza a bordo dell'_Annibal_, ammiraglio Mundy, ebbe
luogo tra il capo dei Mille e loro.

Qui vi è da osservare pensando che il capo dei Mille--trattato da
filibustiere sino a questo punto--divenne ad un tratto Eccellenza,
titolo ch'egli ha sempre disprezzato come uno dei simboli dell'imbecille
orgoglio umano. Tale è la bassezza dei potenti della terra,--quando
colpiti dalla sventura.

La conferenza a bordo dell'_Annibal_ ebbe per risultato la proroga
dell'armistizio. Ma le altre condizioni proposte dai generali borbonici
erano state inaccettabili. Facendosi però più trattabili ogni giorno i
suddetti generali, si conchiuse finalmente una capitolazione, con cui
l'esercito borbonico obbligavasi d'imbarcarsi fra un numero determinato
di giorni, abbandonar la Sicilia e non tenervi che le cittadelle di
Messina, Agosta e Siracusa.

Si rimaneva quindi padroni dell'Isola intiera, meno le tre fortezze
suaccennate, ed a ciò avea contribuito anche molto l'adesione quasi
simultanea di tutte le città della Sicilia alla splendida rivoluzione.




CAPITOLO XXII.

IL RISCATTO.

    Sulle tue cime di granito--io sento
    Di libertade l'aura, o mia selvaggia
    Solitaria dimora--e non nel fondo
    Corruttor delle reggie.


Quand'io, nell'avventurosa mia carriera sulle coste americane
dell'Oceano, ho potuto dire a degli schiavi «Voi siete liberi!» quello
fu certamente il più bel momento della mia vita.

E voi bianchi! padroni e carnefici dello schiavo nero--voi!....
teneteveli i diamanti vostri--io non li curo. A me, _pirata_--come
m'avete chiamato tante volte--basta d'aver messo un termine ai vostri
delitti ed al servaggio dei vostri schiavi.

Marzia, che abbiam lasciata fuggente dalla sua cella--dopo d'aver
atterrato e quasi strangolato il gesuita--dominata ancora dal parossismo
di disperazione in cui l'avea condotta il perverso colle diaboliche
insinuazioni, avea conservato però presenza di spirito sufficiente per
impadronirsi del mazzo di chiavi attenenti alla chiave della propria
cella, e profittando della confusione suscitata da Cozzo e compagni nel
loro assalto, si accinse ad aprire quante celle le capitarono nel
corridoio--piene tutte di prigionieri--e per fortuna indovinò nelle
stesse quelle delle sue compagne.

Ricorderà il lettore come finì sventuratamente la lotta ineguale
impegnata tra il pugno di prodi, di cui facean parte Cozzo e le tre
eroine, e la guarnigione del castello, sostenuta dalle compagnie di
sbarco della marina.

Ora la capitolazione dei Borbonici era firmata, l'Isola dovea essere
evacuata, e certo i primi a liberarsi dovevano essere i detenuti
politici di Castellamare.

La liberazione di quei cari e valorosi compagni, la maggior parte
feriti, uscendo dall'ergastolo e risalutando il sole della libertà,
acclamati da immensa popolazione, fu un vero giorno di festa per la
capitale della Sicilia.--Ognuno abbracciava i suoi che avea creduto per
sempre perduti--e lascio pensare con che giubilo Lina e Marzia furono
accolte dai Mille, e massime da P. e da Nullo.

Lia era rimasta a custodire Cozzo, incapace di muoversi per le ferite,
sino verso sera in cui fu trasportato in una bussola alla propria casa.

Giubilate pure, uomini e donne che contribuiste alla liberazione della
patria! A che vale la vita dello schiavo! Non è meglio morire? Palermo
libera e cacciando i tiranni, vale ben la pena di esser fieri di
giubilarne!

La superba capitale dei Vespri, come i suoi vulcani, manda ben lungi le
sue scosse--e crollano al gagliardo suo ruggito i troni che posero le
insanguinate fondamenta sull'impostura e sulla tirannide.

Ma non solo i buoni giubilavano, anche i perversi maestri
camaleonti--sempre pronti a svestire la pelle del lupo e frammischiarsi
tra gli agnelli divenuti leoni.--Si! anche i schiakal dell'italiana
famiglia, oggi tutti seduti alla greppia dell'erario pubblico,
giubilavano!

Drizzando alquanto il collo torto ed atteggiando il ceffo al sorriso,
spuntavano dai loro covili, ove s'eran tenuti nascosti tutto il tempo
che durò la pugna, stringendo la destra a tutto il mondo ed inneggiando
più degli altri alla libertà ricuperata.




CAPITOLO XXIII.

IL RIPOSO.

    Malheur aux coeurs ingrats, et nés pour les forfaits,
    Que les peines d'autrui n'ont attendri jamais.

              (_Autore sconosciuto_).


Ne avevan ben bisogno di riposo i Mille, poveri giovani!--la parte
eletta di tutte le popolazioni italiane, ma non avvezza ai disagi, alle
privazioni--figli di famiglie distinte, eran gran parte studenti--molti
laureati--e tutti, con poche eccezioni consacrati all'eroismo e al
martirio, per la liberazione di questa nostra terra, un dì padrona del
mondo.--E fu gran colpa veramente la conquista del mondo conosciuto che
dovea necessariamente aver per conseguenza l'odio universale.

I Mille, per la maggior parte non marini, avean lasciato le nausee di
mare, per ingolfarsi nelle stragi delle battaglie, e per sentieri quasi
impraticabili eran pervenuti in Palermo, ove cacciando davanti a loro un
esercito di ventimila uomini delle migliori truppe borboniche,
liberavano la Sicilia intiera in solo venti giorni. Ed in sette
sanguinosi combattimenti, coadiuvati dai loro fratelli del mezzogiorno,
compivano l'opera sognata dai grandi italiani di tutte le epoche.

Dopo la ritirata dell'esercito borbonico, i Mille poterono organizzarsi,
e formaronsi nello stesso tempo varii piccoli corpi, comandati da
esperti ufficiali, e Palermo, da una piazza d'armi del dispotismo,
divenne in pochi giorni un semenzaio di militi della libertà italiana.

Che bel vedere nelle ore fresche della giornata quei vispi giovani figli
della Trinacria, all'esercitazioni militari, con uno slancio, una
volontà da consolar l'animo del veterano per cui l'Italia redenta fu il
sogno di tutta la vita.--E l'Italia, ripeto, avrebbe potuto redimersi
intieramente in quell'epoca gloriosa, se l'inerzia degli uni e la
malizia degli altri non avessero inaridito il germe potente dell'eroismo
nazionale.

La sosta in Palermo dopo l'evacuazione dei nemici fu pure impiegata ad
opere giovevoli. Il gran numero di ragazzi, vagando per le strade, ove
per lo più trovano una scuola di corruzione, furono raccolti, riuniti in
stabilimenti idonei, ed educati alla vita dell'onesto cittadino, o
milite.--Si migliorò la condizione degli stabilimenti di beneficenza, e
si supplì di viveri tutta la parte della popolazione indigente, e tutta
quella danneggiata dal bombardamento e dalla guerra in generale.

L'organizzazione del Governo Dittatoriale fu pure attuata, e vi
contribuirono varii esimii patriotti della Sicilia--tra cui primeggiava
l'illustre avvocato Crispi, uno dei Mille.

Distribuite le forze nazionali in tre divisioni, esse presero il nome
d'Esercito meridionale, che mosse verso l'oriente per compiere l'assunta
missione emancipatrice.

Una divisione comandata dal generale Türr (surrogato per causa di
malattia dal generale Eber) s'incamminò per il centro dell'Isola. La
divisione di destra comandata dal generale Bixio per il littorale a
mezzogiorno; e quella di sinistra comandata dal generale Medici per la
costa settentrionale, con ingiunzione di riunire quanti volontari si
sarebbero presentati ad accrescere le forze nazionali; e tutte
coll'ordine di concentrarsi nello stretto di Messina.

Più che dai contingenti isolani, i Mille furono aumentati da varie
spedizioni posteriori, partite dal continente.

La prima spedizione comandata da Agnetta[19] giunse col _Veloce_,
piroscafo piccolo, e prese parte agli ultimi combattimenti di Palermo.
Le altre più o meno numerose, seguirono ed accrebbero il numero
dell'esercito meridionale con forti militi del settentrione e del
centro.

Il generale Sirtori, capo di Stato Maggiore dei Mille, rimase in Palermo
Prodittatore della Sicilia--ed ogni cosa in generale camminava in favore
della fortunata rivoluzione.

A Roma però, in intelligenza con Torino e Parigi, focolari d'ogni
malizia, tramavasi contro la stessa, e preparavansi tutti i mezzi per
arrestarla ed annientarla.

NOTE:

[19] Il drappello condotto dall'Agnetta era misto di Italiani e di
Ungheresi, e non sorpassava il numero di 100. L'Agnetta è quello stesso
che, finita la campagna del 1860, ebbe un duello col Generale Bixio al
quale si presentava per ordine di Garibaldi, in conseguenza di un
violento diverbio che ebbe luogo il 30 maggio nella chiesa di S.
Giuseppe.




CAPITOLO XXIV.

ROMA.

    Son le tue zolle sante, ed i tuoi colli
    Templi, ove l'uom che ne respira l'aura
    Se non risente dignità--la creta
    Sortiva dello schiavo!.....

              (_Autore conosciuto_).


Io m'inchino davanti alla grande metropoli del mondo, davanti..... alla
grandissima meretrice!

Panteon delle maggiori grandezze umane, ed oggi fatta lupanare d'ogni
schiuma di ribaldi dell'universo.

E tale doveva esser la sorte dell'_orbe_!

Calpestando sotto i suoi piedi d'acciaio le nazioni, e dalle nazioni
precipitata all'ultimo grado della scala umana.

Papi ed imperatori altro non furono che carnefici della giustizia
suprema!

Eppure m'inchino davanti a te, Roma!... perchè in te spero, in te che
lavata dall'immondizia di cui sei insudiciata, oggi riapparirai
risplendente dell'aureola della libertà come a' tempi de' tuoi
Cincinnati, non più per aggiogar le nazioni, ma per chiamarle alla
fratellanza universale.

Nel tuo seno sono convenuti, è vero, i due genii malefici all'umanità,
l'impostura e la tirannide, ma che monta? cadranno davanti alla fatale
spada della giustizia.

I popoli camminano a passo di testuggine, è vero, ma progrediscono[20];
quei signori che un giorno non avrebbero degnato la plebe d'uno sguardo,
oggi l'accarezzano per timore che si ricordi dell'insanguinato loro
albero genealogico e della propria potenza.--Potenza! ma..... potenza
del bue o del cammello.

In una delle aule del Vaticano, ove il generale dei Gesuiti (generale,
eh!..... non c'è male per i modesti sedicenti discepoli del Giusto!)
teneva il suo ufficio, eran adunati in tre: il generale, il suo primo
segretario, pezzo grosso, ed il nostro conosciuto monsignor Corvo che li
valeva tutti e due per malvagità ed astuzia.

I tre si sedettero e misuraronsi coll'occhio volpino, da capo a piedi,
senza un sorriso, perchè cotesta è gente che non sorride, nemmeno
coll'amante, o se sorride qualche volta, quello è sorriso del
coccodrillo. Essa non ama, non compiange, ma odia con tutta l'intensità
di cui è capace il cuor umano, e sacrifica, se fosse nelle sue mani,
l'intiera umana famiglia, per soddisfare vizii ed ambizione.

«Il fine giustifica i mezzi.» Misurate tutto l'enorme cinismo di questa
massima del gesuitismo, d'una setta la cui aspirazione è il cretinismo
ed il servilismo dell'uomo che non è gesuita, ed avrete un'idea della
sua nefandezza. Infine: dominare i potenti massime con la confessione, e
con loro il mondo.

Il gesuitismo e la tirannide rappresentano il male nella famiglia umana.
Essi sono quelle piante parassite, che vogliono vivere e mangiare a
spese delle altre, e non si contentano di mangiar per uno, vogliono
mangiar per cento: e per sostener la loro ingiustizia, cercano con ogni
mezzo atroce di dominare le plebi, da loro chiamate canaglia.

«Ebben, monsignore,» principiò il generale diretto a Corvo «che nuove
della Sicilia?»

«--Pessime, eminenza! pessime: pare che la fortuna arrida in ogni modo
ai filibustieri, oggi trattati da eccellenze dai generali borbonici.
Essi sono tosto padroni dell'isola intiera, meno le quattro orientali
fortezze, e probabilmente non tarderanno ad incamminarsi verso lo
stretto di Messina per passare sul continente. Ed allora io non so che
pesci si piglieranno anche per la nostra Roma--che V. E. sa essere il
boccone più squisito per quei maledetti eretici».

All'ultima parte di quel discorso gesuitico, il generale impallidì, e
lasciando cadere ambe le mani sulla smisurata pancia, era lì lì per
mandare uno di quei sospiri dolorosi che mostrano la depressione
dell'animo. Ma si trattenne, e siccome il pericolo era tuttor lontano, e
anch'egli non mancava di dissimulazione, si fece animo, e così
ricominciò:

«Ma come va? Tutti quei nostri emissari inviati da noi, dall'imperatore,
e raccomandati da Cavour e dalla corte di Napoli, non sono stati capaci
di liberarci da quel pirata?--

«--Favole, eminenza, favole! o quegli emissari non sono arrivati, o se
arrivati, sono stati infetti dal morbo generale d'insurrezione e si sono
gettati nelle fila dei Mille, ormai tenuti come esseri superiori davanti
a cui tutto deve piegare.

«Un solo, Talarico, calabrese, mandato da Napoli con nave da guerra, fu
messo a terra di notte, e prometteva di compier l'opera a qualunque
costo. Ma successe a lui, come al Cimbro di Mario. Nella stessa notte si
vide giungere al nuoto a bordo della flotta, pieno di spavento, e
confessando di non sentirsi capace a ferire quel capo di masnadieri,
perchè ciurmato. Eppure Talarico è il più famigerato brigante
dell'Italia meridionale, ed a lui si promisero ricompense
spropositate.--

«--Ecco, esclama l'eminenza, in questi casi mai si deve facilitare, e se
avessero seguito i miei consigli, non si sarebbero lasciati partire
dalla Liguria quei rompicolli. Il serpe si schiaccia subito che
comparisce. Il male si sana nel suo principio; cronico, diventa
incurabile.

«Tutti questi grandi politiconi volevan mangiar i rivoluzionari in
insalata. Lasciateli partire, dicevano, ed essi non potranno sfuggire
alle numerose crociere nostre e del Governo sardo che li aspettano nel
Mediterraneo. E se per disgrazia non fossero incontrati dalle flotte, le
coste della Sicilia sono così assiepate da soldati, che saranno
esterminati in qualunque parte essi approdino.--

«--Altro che sterminio, urlava il primo segretario che divideva la paura
del suo padrone! Esterminati! per S. Ignazio, se non fermano quei
manigoldi al Faro, siamo belli e spacciati! Chi diavolo li ferma più
quando abbiano messo il piede sul continente con tutta questa febbre di
rivoluzione che s'è impadronita dei nostri italiani, un dì sì devoti e
mansueti!».--

E l'eminenza e il suo segretario, cogli occhi spalancati, esalavano a
vicenda tutta la paura e la soma di delitti affastellati nell'anima
perversa e scellerata.

Non così il monsignore; esso non era tranquillo quando entrò dal
generale per dar parte della difficile sua missione. Ma la paura dei due
per un pericolo ancor lontano, manifestato non ostante una provetta
dissimulazione, in cui erano ambi maestri, lo rinfrancava, e con voce
rassicurata, diretto al generale, così si espresse:

«--Vostra eminenza sia tranquilla, tutto non è perduto ed abbiamo i
sovrani di Parigi e di Torino che se non fossero ambi svisceratissimi
per la S. Sede ed il gesuitismo ch'è la stessa cosa, il loro proprio
interesse li farà cauti, che devono combattere la rivoluzione a
tutt'oltranza, e so da fonte degna di fede che navi da guerra
bonapartesche sono già nello stretto di Messina per impedire il
passaggio degli avventurieri sul continente[21], e che nell'alta Italia
si prepara un poderoso esercito per combatterli se passassero[22].--

«--Voi siete la più solida colonna dell'ordine nostro, monsignore,
esclamava l'eminente un po' rassicurato, e qualunque cosa vi piaccia
chiedermi, ve la concedo con tutto compiacimento.--

«--Avrei veramente bisogno che quel vecchio ebreo, di cui parlai tempo
fa a vostra eminenza, fosse consegnato a mia disposizione, rispose il
Corvo. Egli è diventato inoffensivo a forza di torture corporali e
morali--_per la maggior gloria di Dio_ (assassini) io l'ho fatto ridurre
al punto in cui noi vogliamo. Esso trovasi nel più completo idiotismo
ora, e potremo, quando V. E. nella sua saviezza voglia ordinarmi la
pubblica conversione, presentarlo ai romani come un vero miracolo dello
Spirito Santo».--

Maledizione! Quando sparirà dalla faccia della terra questa tetra,
scellerata, abbominevole setta che prostituisce, deturpa, imbestialisce
l'essere umano? E i popoli vanno a messa, a vespro, a confessarsi, a
comunicarsi, a baciar la mano a quest'emanazione pestifera dell'inferno!
E ciò costituisce il potere della tirannide.

Io mi nascondo, colle mani, il volto dalla vergogna d'appartenere a
questa schiatta d'imbecilli, che si chiamano spudoratamente popoli
civili!

«--Altro, esclama il generale dei birbanti! al più presto noi faremo
conoscere al mondo cattolico la misericordiosa potenza del divino nostro
maestro. E questa sarà una luminosa disfatta della millantatrice eresia
che in questi ultimi tempi con tanta malizia ha cercato di abbassare la
santa nostra istituzione».

NOTE:

[20] Non si esageri però--e si stia cauti contro la gramigna-prete.
Nizza avea un convento nel 1860; oggi ne ha ventinove. Al prete basta un
letamaio monarchico qualunque per ingrassare gl'infernali suoi semi e
farli prosperare.

[21] Fu vano il veto di lord John Russel.

[22] Provato da documenti officiali.




CAPITOLO XXV.

MELAZZO.

                          Il navigante
    Che veleggiò quel mar sotto i vulcani[23]
    Vedea nell'ampia oscurità scintille
    Balenar d'elmi e di cozzanti brandi.

              (FOSCOLO).


Fu ben maliziosamente ingiusto colui, che trattò le vittorie del 60 di
_facili vittorie_, vinte dai liberi italiani sulle truppe borboniche
indigene e straniere!

Io vidi alcune pugne nella mia vita, e devo confessare che le battaglie
di Calatafimi, Palermo, Melazzo, e primo ottobre, fanno onore ai militi
che vi presero parte, e furon disputate con molto valore.

Quando su cinque o sei mila uomini nostri che pugnarono a Melazzo, circa
un migliaio furon posti fuori di combattimento, ciò prova che non fu
tanto facile vittoria. E le odierne battaglie ove s'azzuffano centinaia
di mila uomini delle prime truppe del mondo non presentano perdite più
considerevoli in proporzione.

Il generale Medici, come abbiam detto, avea marciato per la costa
settentrionale della Sicilia, da Palermo verso lo stretto di Messina,
colla sua divisione, ed il generale borbonico Bosco con uno scelto corpo
delle tre armi, superiore al nostro per le posizioni ed il numero,
intercettava la strada principale appoggiandosi alla fortezza e città di
Melazzo.

Già alcuni piccoli scontri erano accaduti nelle vicinanze di detta
città. I nostri vi si eran condotti colla solita bravura, ed i
cacciatori di Bosco non avean mancato alla loro riputazione.

Informato dal generale Medici della situazione, io profittai dell'arrivo
a Palermo d'un corpo di volontari giunti in quel giorno dal continente e
condotti dal generale Corte. Non permisi lo sbarco di quel corpo, e
dalla capitale lo feci dirigere subito verso Melazzo.

M'imbarcai io stesso, e giunto al campo del generale Medici a Barcellona
(mi sembra), si combinò di attaccare i nemici all'alba del giorno
seguente.

L'alba del 20 luglio trovò i figli della libertà italiana impegnati coi
Borbonici a mezzogiorno di Melazzo, ed impegnati in modo molto
favorevole pei mercenari.

Praticissimi del terreno, i nemici aveano con molta sagacia profittato
di qualunque accidentalità di quei ricchissimi campi. La loro destra
scaglionata davanti alla formidabile fortezza di Melazzo, era protetta
da quelle grosse artiglierie, ed aveva la sua fronte coperta da varie
siepi di fichi d'India--trincee non indifferenti per chi deve assalirle
e superarle.

Il centro delle rispettive riserve, sullo stradale che conduce in
Melazzo, era coperto da un muro di cinta fortissimo, a cui s'eran
praticate molte feritoie, e lo stesso muro coperto da folti canneti che
ne rendevano l'assalto pericolosissimo. Dimodochè il nemico, ben
riparato, con armi buone, osservava, scopriva e fucilava i nostri poveri
militi armati d'armi pessime, e fallacemente coperti dai suaccennati
canneti--impiccio per noi, trattenendo lo slancio dei nostri senza
ripararli assolutamente.

La sua sinistra in possesso d'una linea di case a levante di Melazzo
formava martello, e quindi fiancheggiava con un fuoco micidiale i nostri
all'assalto del centro.

L'ignoranza del terreno, su cui si pugnava, fu la causa principale di
perdite considerevoli per parte nostra, e molte cariche che si fecero
sul centro nemico, quasi inespugnabile, potevano risparmiarsi.

Invano io era salito sul tetto di una casa per poter scoprire qualche
cosa--invano avevo fatto caricare sullo stradale per lo stesso motivo.

Molti morti e molti feriti erano il risultato delle nostre cariche sul
centro, ed i nostri poveri giovani erano respinti, senza aver potuto
scoprire il nemico che di dietro il terribile muro dalle feritoie li
fulminava.

Si durò così in una pugna ineguale ed accanita sin dopo il meriggio. A
quell'ora la nostra sinistra avea ripiegato alcune miglia indietro e si
rimaneva così scoperti da quella parte.

La nostra destra e centro, che si erano riuniti al comune pericolo,
tenevano, ma con molte difficoltà e con perdite ben considerevoli.

Bisognava però vincere--e tale era il fatale animatore di quella
stupenda campagna.--Bisognava vincere! e di ciò si persuada l'italiana
gioventù.

Si tenti la vittoria cento volte, e se le cento volte manca al
desiderato effetto, si provi la centunesima.--Pertinacia, tenacità,
costanza vi vogliono nella guerra.

Le nostre perdite eran maggiori, quali non lo furono in qualunque pugna
del mezzogiorno. La gente era stanca, il nemico avea comparativamente
perduto pochissimo. Le sue genti fresche, intatte, e le sue posizioni
formidabili. Eppure bisogna vincere! E lo ripeto! lo rammentino bene i
nostri giovani concittadini--assuefatti a stancarsi con campagne di
quindici giorni,--rammentino che noi, d'una generazione che passa, tanto
lasciam da fare a loro, perchè non avemmo costanza, e che la redenzione
di questa patria infelice dipende dal volerla tutti, e tutti
contribuirvi, e sopratutto aver fiducia in noi stessi e nella vittoria
quando sapremo farla piegare ad una volontà di ferro.

I Macedoni, gl'Inglesi, i Francesi, i Germani, gli Svedesi, gli
Spagnuoli ebbero i loro periodi di supremazia militare.--Ricordiamo però
che nessuno fece più dei Romani antichi, e che se i preti giunsero alla
corruzione della nostra razza, noi nascemmo sulla terra ove nacquero i
Romani, e che lavati dalla bruttura dei preti, torneremo a valer qualche
cosa.

Io ho sorriso di disprezzo alle meraviglie dei _chassepot_[24] con cui
Bonaparte voleva spaventare tutto il mondo, ed il valore tedesco ha ben
provato la millanteria dei servi della menzogna e della tirannide.

Ciò ci serva, e ci serva l'odierno esempio della Germania, il di cui
entusiastico patriottismo caccia in questi giorni davanti a sè il
creduto primo esercito del mondo.

Con dei conigli ladri come coloro che reggono oggi le sorti dell'Italia,
ogni esercito può comparire il primo del mondo, giacchè essi non li
vogliono i due milioni di militi che può dar la nostra Penisola;--a loro
bastano pochi preposti, pubbliche sicurezze, benemeriti, ecc., per
guardar loro la pancia.

Ripeto: gl'Italiani devono vincere finchè sotto il calcagno straniero
gemono i popoli che diedero vita ai Bronzetti ed ai Monti[25]. Ed il
giorno in cui vi sia un uomo a reggerla--questa Italia--milite sarà
ogni uomo capace di portare le armi; non più volontari, ma la patria
servita da chi vuole e da chi non vuole.--Ed i mercenarii stranieri
debbono trattarsi quali assassini, non coi guanti bianchi, come si
trattarono sinora.

Or son pochi giorni, il Re di Prussia rifiutò di ascoltare le insolenti
proposte del tiranno della Francia e cacciò il suo inviato. Ciò, ed
altri pretesti dell'imperatore francese, sono il motivo della guerra.--E
se l'Italia avesse un uomo che tenesse alla dignità nazionale, egli
dovrebbe, per cominciare a lavare tanti oltraggi di quel masnadiero,
dovrebbe mandar in galera il suo rappresentante Malaret, che la fa da
padrone a Firenze, ed accoppiarlo con uno dei primi malfattori.

Dunque, bisognava vincere a Melazzo--e sin dopo il meriggio, tutte le
condizioni della battaglia erano in favore del nemico, ed i figli della
libertà italiana, non solo non avevano avanzato un passo, ma avean
perduto terreno all'ala sinistra.

«Procura di sostenerti come puoi» diceva uno al generale Medici che
comandava nel centro «io raccolgo alcune frazioni dei nostri e cercherò
di portarle sul fianco sinistro del nemico, per girarlo».

Quella risoluzione decise della giornata.--Il nemico, incalzato di
fianco dietro ai suoi ripari, cominciò a piegare, si caricò e gli si
tolse un cannone che ci aveva fatto molto danno.--Esso reagì con una
brillante carica di cavalleria, che il colonnello Missori respinse alla
testa dei distaccamenti suddetti.

Piegando il nemico attaccato di fianco, il nostro centro potè superare i
ripari, e la vittoria fu completa.

Invano la ritirata dei Borbonici era protetta dalle grosse artiglierie
della piazza, e dai pezzi volanti di fuori--i nostri militi,
disprezzando il grandinare dei moschetti e delle mitraglie, assaltarono
Melazzo, e prima di notte erano padroni della città, avevano circondato
il forte da tutti i lati ed innalzato barricate nelle strade esposte ai
tiri della fortezza.

Il trionfo di Melazzo fu comprato a caro prezzo; il numero dei morti e
dei feriti nostri fu immensamente superiore a quello del nemico.--I
generali Cosenz, Corte e Corrao--allora colonnelli--furono tra i
feriti.--E qui giova ricordare le armi pessime di cui han dovuto sempre
servirsi i nostri poveri volontarii.--_Colpa principale, il Governo
Sardo._

Il destino del Borbone però era segnato, e perciò la capitolazione di
Melazzo dopo quella di Palermo--Melazzo, che sostenuta dalla flotta
nemica, poteva valere una Gibilterra.

Tale è il destino della tirannide boriosissima, quando potente, ed il
popolo, cammello inginocchiato;--ma codarda, tremante quando il popolo
leone invia i suoi ruggiti.

Bosco capitolava (mi pare il 23 luglio) rendendo la fortezza,
artiglieria, munizioni, ecc.; e la divisione Medici marciava su Messina,
di cui s'impadronì, ritirandosi la guarnigione borbonica nella
cittadella.

A poco a poco comparivano all'appuntamento dello Stretto le altre
divisioni Bixio e Türr[26] venute dall'interno, e si formava una quarta
divisione, Cosenz.

Tra i valorosi caduti a Melazzo, noi perdemmo i valorosissimi Poggi,
genovese, ed il milanese Migliavacca.

NOTE:

[23] L'Etna ed i vulcani di Lipari e Stromboli.

[24] Prima della guerra, cioè prima dell'ottobre 1870.

[25] Bronzetti, trentino--Monti, romano.

[26] Il generale Türr, assente per malattia, aveva lasciato
temporariamente il comando al colonnello Eber, altro pregiato ufficiale
ungherese, corrispondente del _Times_.




CAPITOLO XXVI.

LA BORBONA.

     Dondola, graziosa Naiade, i lucenti tuoi fianchi sull'onde
     increspate del Tirreno. Lontana col ricordo, o vicina, colle
     eleganti tue forme mi ringiovanisci, e mi riconduci coll'anima ai
     pericoli d'un'età poetica pur troppo spazzata dal tempo.

     (_Autore conosciuto_).


La _Borbona_!--I francesi chiamaron Borbone le patate al tempo di Luigi
XVIII, essendone ghiotto quel monarca.

_Borbona!_--Eppure eri una bella fregata anche con questo nome poco
simpatico.--Non appartenevi più a quella classe elegante della fregata
inglese o americana da vela--vera aquila dell'Oceano, che all'occhio
esperto ed innamorato d'un figlio d'Anfitrite, rappresentava il bello
ideale della sua fantasia.

Nelson, padrone degli Oceani, dominava nel Mediterraneo dall'ampia baia
di Agincourt, di rimpetto all'Isola della Maddalena sulla Sardegna,
tutti i littorali di quel mare, ed inviava le sue fregate sulle coste
Italiane, Africane e Francesi, informandosi con esse di qualunque
occorrenza e di qualunque mossa delle flotte francesi.

Era bel vedere due fregate inglesi alla vista di Tolone, ove ancoravano
cinquanta navi da guerra francesi, dal brigantino al vascello a tre
ponti, e qualunque movimento importante di quelle navi veniva, dopo
pochi giorni, segnalato da una delle due fregate all'Ammiraglio.

L'altra fregata, agile come l'Albatros[27], si manteneva alla vista
della flotta nemica, veleggiando verso Agincourt, se perseguíta da forze
superiori, ma sempre pronta a combattere ove la partita non fosse molto
ineguale.

Vi era della vera e maschia poesia in quelle fregate a vela coi loro
cinquecento lupi di mare per cui le tempeste e la morte erano un gioco.

La _Borbona_ apparteneva ad un periodo di decadenza per la vela, ma di
progresso nell'arte della distruzione, perfezionata poi dalle odierne
corazzate: essa era fregata ad elice di 1ª classe ed anche molto
elegante.

Io l'ho veduta dall'alto di Villa San Giovanni cannoneggiando una povera
batteria che le povere camicie rosse avean edificato sulla punta del
faro, con due cannoni borbonici, e l'ho contemplata con orgoglio, per
esser legno italiano, da poter comparire con decoro al cospetto delle
fregate suddette.

Era il 24 luglio, quando per la prima volta in questa campagna la
_Borbona_, destinata inutilmente alla difesa di Melazzo, approdava nel
porto di Messina, e sbarcava nella cittadella un conosciuto nostro, il
più astuto corifeo del negromantismo, il gesuita Corvo; e siccome dopo
la battaglia di Melazzo, le camicie rosse cominciavano a segnalarsi
sulle alture di Messina, il discepolo di Lojola credè meglio impartire
le sue istruzioni al Comandante della cittadella, e tornarsene a bordo
sulle ali dei venti e del vapore. Egli diceva: «meglio uccello di bosco,
che uccello di gabbia».

Il Comandante della _Borbona_ era, come tutti i servitori di Re, uomo
col cuore nella pancia, e bastava perciò che non l'avessero disturbato
nei suoi quattro pasti diurni, e dal suo favorito caffè, due volte al
giorno, perchè egli potesse passare per un buontempone.

Il comandante d'una fregata come la _Borbona_ a bordo è un sovrano, e
non abbisogna per ciò essere un Nelson.

La rigorosa disciplina, ancor più facilmente attuabile sui bastimenti da
guerra che nell'esercito, fa sì che ognuno deve ubbidire al capo,
inesorabilmente. Di qui non si diserta, non si fugge, non v'è
nascondiglio nei combattimenti e per poco coraggio che abbia un
marino--ciò che succede raramente--la sua vita stava un dì come la
ruggine annessa ad un proietto lanciato dal nemico, oggi essa fa parte
dell'acciaio del terribile sperone.

Il contr'ammiraglio Banderuola era dunque, poco più, poco meno, ciò che
dev'essere un ufficiale imperiale o regio; cioè: Onnipotente a bordo
della sua nave, ma umile servitore del padrone e pronto a bombardare la
casa natía con dentro il padre e la madre, al comando di quello.

E con tutta la sua onnipotenza, Banderuola sapeva benissimo quanto più
onnipotente di lui e del suo padrone era il Gesuitismo, e quindi il
rappresentante di esso, il tentatore della nostra valorosa ed infelice
Marzia.

«Non vanno le cose molto bene» diceva Corvo a Banderuola, la stessa sera
del 24 luglio 1860 nella camera del comandante della _Borbona_, mentre
questa incrociava a ponente dello stretto di Messina.

«I generali nostri assuefatti ad una vita imbelle ed inoperosa, non si
son mostrati all'altezza dei tempi e delle circostanze, e temo molto che
nell'anima di alquanti di loro si nasconda il tradimento, e quindi il
culto al Sole che leva».

«Che al valore dei soldati, non abbia corrisposto la bravura dei capi,
lo credo anch'io» rispondeva il marino «ma tradimento non lo crederei»
(mentre egli stesso aveva cercato di patteggiare cogli agenti Sardi,
allora numerosi ed attivissimi nel Napoletano). «Ed io dirò, circa
all'amato nostro giovane sovrano, come diceva il Metastasio:

    «Lo seguitai felice quand'era il ciel sereno,
    «Delle tempeste in seno, voglio seguirlo ancor.»

Un pieno bicchiere di Marsala aveva suscitato l'estro poetico
nell'Ammiraglio, ma un colpo d'occhio scrutatore del gesuita, che lo
penetrò sino nell'intimo dell'anima di fango, gli fece abbassare lo
sguardo, e senza dubbio il suo interlocutore che la sapeva più lunga
assai del marino in materia massime di dissimulazione e di tradimenti,
avrà detto fra se stesso:

«Mi sta fresco Franceschiello con questi fedeli.»

Avendo però bisogno per i suoi fini particolari del comandante, il
prete, da maestro com'era, ripigliò:

«Oh! sicuro, di tradimento non credo capaci i nostri capi dell'esercito
e della marina particolarmente.»

E senza dar tempo al cicaleccio del Banderuola ch'ei scorse pronto a
sostenere con calore il decoro della marina, egli proseguì:

«Ammiraglio, ricordatevi che noi dobbiam lasciare in Messina la signora
contessa N., tanto raccomandata da S. Santità, e giuntaci or ora a bordo
per una importantissima missione, e questa notte stessa essa deve esser
trasbordata nel faro a bordo della _Formidabile_ per esser sbarcata con
tutta sicurezza».

«Immediatamente, Monsignore» era la replica del marino, forse
soddisfatto di non trovarsi obbligato a sostenere una questione esosa,
«Immediatamente! ed il miglior palischermo della fregata sarà destinato
a tale missione».

Chi sarà codesta signora raccomandata dal Capo dei corruttori
d'Italia?--Lo vedremo nel seguente capitolo; ci basti per ora osservare
e deplorare che il maggior sostegno del prete è la donna! La donna, la
più perfetta delle creature, quando buona, ma un vero demonio quando
dominata dai tentatori e traditori delle genti--i chiercuti.

NOTE:

[27] Uccello dell'Oceano.




CAPITOLO XXVII.

MESSINA.

    Sei pur fatata, o bellicosa e bella
      Del Jonio Regina!

              (_Autore qualunque_).


I Dardanelli, il Bosforo, Genova, Napoli, il Rio Janeiro, appartengono a
quei punti della superficie del globo su cui natura profuse i suoi
incantesimi, e l'arte aggiunse le sue magíe, prodigate dal lusso e dalle
ricchezze alle superbe bellezze della natura.

Da giovinetto, dopo le ruine di Roma, nulla mi commosse quanto quegli
scherzi naturali che vi gettano nell'animo un indescrivibile piacimento
ed un'ammirazione somma,--e nella fortuna che io ebbi di veder tanta
parte di mondo, confesso esser stato più colpito alla vista dello
stretto di Messina che di qualunque altro.

Stromboli, faro del Faro[28] colle sue eruzioni eterne, visibile alla
distanza di sessanta miglia, che stupisce d'ammirazione, di rispetto e
di gratitudine il navigante battuto dalle tempeste, e che può alla sua
vista cercar con sicurezza un rifugio, fuggendo alle terribili divoranti
scogliere di Scilla.

Il vulcano di Lipari, minore dello Stromboli, ma anch'esso fumaiuolo
della terra, ed i vulcani Alicudi-Felicudi, Salina, alti come il primo,
ma spenti;--ma piramidi stupende vomitate dall'igneo centro del nostro
globo, al disopra d'Anfitrite.--Entrando nel Faro da maestro a sinistra,
le magnifiche falde dell'Aspromonte, certamente fratello dell'Etna, e
l'aprica costa di Reggio col piede nell'onda, a destra le bellissime
colline della Trinacria, servendo di contrafforti al padre dei vulcani
italiani il Mongibello[29], lo stretto abbellito da Reggio, da Messina,
da centinaia di pittoreschi casolari e da quella stupenda vegetazione di
aranci, olivi, e quanto può vantare l'agricoltura meridionale è
veramente incantevole.

Reggio promette un avvenire splendido, ma Messina è destinata certamente
ad essere uno dei primi emporii del Mediterraneo.

Il sorprendente fenomeno della Fata Morgana che dipinge (non ricordo
bene) la città di Reggio o quella di Messina, od ambidue nelle
cristalline onde dello Stretto, è unico tra i fenomeni del mondo.

Infine, al giovine nauta italiano, amante della natura e delle sue
bellezze, lo stretto di Messina veduto per la prima volta, fa un effetto
magico ed egli lo rivede sempre con amore.

Eran le 11 della sera, quando un palischermo partito dall'incrociatore
borbonico la _Formidabile_, sbarcava sulla spiaggia orientale della
città di Messina una donna, che chiameremo Signora--giacchè le sue vesti
eran piuttosto pompose--e siccome un segnale era stato fatto da bordo
sulla spiaggia, si trovò chi ricevette la Signora, già antecedentemente
annunciata, e che l'accompagnò negli appartamenti principali del
Castello.

Lo ripeto: la donna angelo, quando buona, diventa un demonio, quando
padroneggiata dal Lucifero dell'Italia e del mondo--il prete!--

E tale era la contessa N..., una delle più cospicue gesuitesse che la
società contasse in quell'epoca. Favorita, prediletta di monsignor
Corvo, ed una delle sue prime vittime. Figlia d'un'illustre famiglia di
Roma, e di rara bellezza, essa era caduta nelle reti del Gesuita, ancor
giovane, ed una volta nelle ugne di quel tentatore, il di cui talento
per la seduzione non era secondo a quello del primo serpente della
favola, essa divenne uno dei personaggi più importanti della setta.

«Voi manderete, generale, per quella ragazza, non è vero? Guardate
ch'essa è immensamente desiderata dal S. Padre, per solennizzare la più
splendida delle vittorie cattoliche, la conversione di due anime ebree,
cioè dannate e ritornate al santo grembo di Dio, che è la sua Chiesa».

«Madonna» rispose il generale Comandante la cittadella di Messina, «Voi
non dubitate certamente dell'immenso mio desiderio a compiacervi, ma voi
mi proponete un'impresa ardua. La Marzia è molto amata e stimata sul
campo dei rompicolli; se il minimo barlume trasparisse dell'impresa
nostra per impadronirsene, non solo sarebbero sterminati coloro che
tentassero di rapirla, ma forse succederebbe la sorte stessa a quanti
parteggiano per noi in Messina.»

«Già lo sapevo, ripigliò l'altera contessa, che poco o nulla s'ha da
sperare dai generali di Francesco II, quando essi si lasciarono carpire
la Sicilia intiera da pochi filibustieri nudi e male armati». E la bella
malvagia donna, così dicendo, ritirò la sua sedia dalla vicinanza del
generale, e si mise a squadrarlo alzando il bellissimo capo, e
dondolandolo,--che avrebbe potuto servir di modello a Michelangelo,
quando concepiva l'idea di far una statua dell'Italia d'uno dei più alti
picchi degli Apennini[30]. Essa lo fissava nello stesso tempo con due
occhi, ove non so se imperasse più la seduzione della superba figlia
d'Eva o il disprezzo che generalmente hanno le donne per i codardi.

«Pace! pace!» urlava l'amante[31], «Pace, madonna, io mi lancierò a
qualunque pericolo per compiacervi, dovess'io stesso capitanare
l'impresa e lasciarvi la vita».

E con un generale borbonico di meno, diceva tra sè la proterva, la terra
continuerà la sua rotazione, ed il Figlio maggiore, per noi,
dell'Infinito apparirà a levante per coricarsi a ponente, dopo d'essersi
nauseato ad illuminare questo gregge di schiavi che si dicono
discendenti dal più grande dei popoli del mondo, e che non si vergognano
d'esser il ludibrio de' loro servi da tanti secoli.

Vittima, come abbiam detto, era stata la contessa del più astuto dei
gesuiti, e col suo spirito e la sua bellezza, era divenuta il Beniamino,
e quasi il pezzo maggiore della terribile setta.--Tuttavia era Italiana,
calpestava col disprezzo questa generazione d'eunuchi degli _harem_
dello straniero, ma il suo cuore romano palpitava a qualunque bel fatto
degli Italiani, e confessava a se stessa con compiacenza l'ammirazione
per i militi di Calatafimi, e ne andava superba.

Un sentimento prepotente nella donna però la dominava, e questo era una
sterminata gelosia per Marzia, più giovane di essa e non men bella--che
sapeva poi, esser stata, e forse esser ancora la prediletta di Corvo.

Vedendo il generale prostrato a' suoi piedi, la sua bocca accennò un
sogghigno di sprezzo, ma ritornando al carattere gesuitico da lei
assunto, e ricordando l'odiata rivale, la contessa concesse la mano al
mercenario, ed anzi, lo aiutò a rialzarsi, unico favore che egli mai
avesse ricevuto dalla superba romana.

«Io non sperava meno da voi»--ripigliò l'astuta--«e S. Maestà il Re ne
saprà di certo tener conto dietro le raccomandazioni supreme di S.
Santità».

«--Con tutto il rispetto che io devo agli eminenti personaggi da voi
nominati, è a voi, Madonna, che io voglio piacere ed ubbidire in
quest'impresa».--

E queste parole furono pronunciate con accento energico e risoluto,
poichè anche un mercenario è suscettibile di sentimenti di bravura in
presenza della bellezza.

«--Comunque, voi servirete degnamente la causa della legittimità,
dell'ordine e della religione».--(Solite menzogne non delle sole
gesuitesse).

Con inchini striscianti, ma divorandola cogli occhi, il generale
accompagnò la Signora nell'appartamento a lei preparato, e tornò nel suo
a meditare sull'esecuzione dell'impresa tremenda.

NOTE:

[28] Lo stretto di Messina.

[29] Nome indigeno dell'Etna.

[30] Una delle Garfagnani.

[31] Non per la prima volta egli vedeva quella seducente creatura, di
cui la seduzione era tutto lo studio della vita.




CAPITOLO XXVIII.

TALARICO.

    Jamais vaisseau parti des rives du Scamandre
    Aux champs Thessaliens osèrent-ils descendre,
    Et jamais sans Larisse un lâche ravisseur
    Osa-t-il m'enlever ou ma femme ou ma soeur.

              (_Achille a Troia_).


I briganti in tutte le epoche, hanno avuto delle eminenti rappresentanze
come le eminenze.--Nella forza, per esempio: Milone di Crotona, che
ammazzava un toro con un pugno e se lo mangiava;--nella scienza,
Archimede, che chiedeva un punto d'appoggio per sollevar la terra, che
inventava gli specchi ustorî con cui bruciava la flotta romana; Galileo,
che trovava la legge della caduta dei corpi, base della grande scoperta
di Newton e che scopriva nell'infinito miriade di mondi fin allora
ignoti; e Kepler che tracciava nello spazio le orbite percorse dai
pianeti.

I briganti, ripeto, ebbero le loro eminenze tremende per certo, ma non
meno di quei settantadue eminenti massi di brutture che attorniano il
Papa, nocivi al mondo.

Noi abbiamo Gasparone, che sconta oggi ancora (1870) nelle prigioni di
Civita Castellana il tradimento del Papa.--I Francesi contano Cartouche;
e gl'Inglesi Robin Hood.--Gli ultimi ed i più atroci li avemmo in questi
ultimi tempi, come i Crocco, i La Gala, i Fuoco.

Nei tempi di cui scriviamo (1860) l'individualità brigantesca più famosa
era Talarico il Calabrese, temuto in tutta l'Italia meridionale, e che
percorreva da padrone, ora solo ed ora accompagnato da bande.--Noi già
lo conoscemmo in Palermo incaricato d'assassinare il Capo dei Mille, ed
ora lo ritroviamo nella cittadella di Messina, ricevendo istruzione per
un colpo di mano.

Il brigantaggio, figlio dell'ignoranza e della miseria, fu fomentato dai
preti, dai Borboni e dal capo di tutta questa ciurma, il
Buonaparte.--Caduti gli ultimi, e regolati i primi, non vi sarà più
brigantaggio in Italia.

Annegato nel sangue che fece versare a torrenti il Buonaparte, nel nulla
il Borbone, e Roma resa all'Italia, non vi sarà altro motivo di
brigantaggio, se non che le depredazioni del Governo Italiano, che
avranno fine siccome ogni altra malvagità.

Devo ripetere qui pure: che educati all'onestà, all'amore del loro
paese, codesti robusti contadini, dei quali i preti fanno dei briganti,
i di cui delitti inorridiscono il mondo, potrebbero riuscire dei militi
stupendi, essendo essi dotati di forza, agilità e coraggio insuperabili.
Serva d'esempio il seguente fatto di Talarico.

In una casipola di montagna nelle Calabrie, le truppe borboniche erano
pervenute ad assediarlo con una forza imponente e rinchiuderlo in un
cerchio di ferro.--Talarico, avvisato dall'amante sua abitatrice di
quella casa, del suo pericolo, per prima disposizione si accese il
sigaro, poi passando ad una finestra opposta alla porta di casa, sparò
sei colpi di revolver, ed immediatamente fasciando colla veste il
braccio sinistro, e mettendo la daga alla destra, volse indietro,
slanciossi fuori della porta caricando col ferro chiunque si presentava,
si aprì strada, e uscì a salvamento senza una sola ferita.

Tale era l'uomo a cui il generale C. dava incarico di catturare Marzia.




CAPITOLO XXIX.

IL PESCE SPADA.

    Pour un esclave est-il quelque danger?

              (_Muta di Portici_).


Garrulo, svelto, coraggioso è il pescatore siciliano.

E chi può raggiungerlo nella millanteria? Carattere speciale di quanti
isolani nostri ho conosciuto e che credo appartenga a tutti i popoli
meridionali dell'Europa, come l'Andaluso, il Guascone, ecc.

«Io sono quello» è il preambolo ordinario con cui si presentano questi
nostri superbi figli del Vespro.

«Io sono quello» e continuano poi la storia del loro operato.--Tale
millanteria, non tollerabile in ogni caso, certamente porta gli uomini
alle più arrischiate imprese, alle più splendide scoperte ed
all'insofferenza di oltraggi, come lo provarono ai Francesi nella loro
impareggiabile rivoluzione; come lo provano ogni volta che si trovano
stanchi di governi iniqui.

Pensando poi al modo anormale e spesso scellerato con cui furon
governate queste meridionali popolazioni, io sono perplesso
nell'investigarne la causa.--Dirò di più: mi ha stupito la facilità con
cui esse passarono da una dominazione all'altra in tutte le circostanze,
a cominciare dai Cartaginesi sino ai giorni nostri.--Popoli forti ed
intelligenti, come cotesti, hanno forse mancato di quella costanza
settentrionale che distingue massime gl'Inglesi.

Dobbiamo sperare con fondamento che nell'agglomerazione di tutte le
provincie italiane in un sol corpo politico, esse godranno almeno di una
condizione più stabile e potranno scuotere, coll'aiuto morale reciproco,
il corruttore dominio del cattolicismo che ci trattiene agli ultimi
gradini della civiltà umana.

Eccolo! qua, là, avanti, a destra, a sinistra, urla il pescatore
messinese collocato in una specie di gabbia, all'estremità di
lunghissima pertica, posta in situazione obliqua sul davanti della prora
di palischermo leggiero e svelto come il pesce spada perseguito.--E dal
suo gesticolare si capirebbe perfettamente dal pratico padrone della
barca senza bisogno di assordanti grida.

Quando il pesce spada però è scoperto dal robusto cacciatore che lo
segue già coi movimenti della micidiale sua lancia, sempre diretti verso
l'innocente vittima, allora il gabbiere cessa dalle grida, ma sarebbe
inutile esigere da lui che cessasse dal gesticolare.--Egli non urla,
non fiata, trattiene il respiro, ma se voi lo fissate vi accorgete non
esser fermo un muscolo del suo corpo.--Non fa rumore, poichè davanti a
lui, nella morte del povero pesce, sta la vita della famigliuola che lo
attende per un tozzo di pane. Non fa rumore, ma un galvanismo irrequieto
scorgesi in tutta la persona, dai piedi nudi ed anneriti al crine irto,
e sconvolto, e mobile come rappresentano l'anguicrinita testa di Medusa.

Cessa i tuoi palpiti, le tue impazienze, la tua sete di sangue d'un
nemico che non ha altro torto oltre quello di aver le sue carni gradite
al palato dell'animale uomo--altro delitto fuor di quello di appartenere
a razza men volpina, men maliziosa, giacchè egli, di te più forte, guai
se si attentasse di difendersi.--

La tua barca, la tua vita e quella de' tuoi compagni andrebbero in un
fascio. Ma consolati, non aver rimorsi, egli senza malizia assapora la
carne di pesci minori, e se vittoriosamente combatte colla balena, non è
per proteggerli, ma per gelosia di mestiere. Tali son le odierne
monarchie in guerre così continue od in pace armata per la grandezza
della propria nazione, la difesa nazionale, per una causa giusta, anzi
giustissima, santa! per la protezione infine di sudditi che si pappano
per la maggior gloria di Dio da cui emanano direttissimamente.--Lasciamo
dunque entrare il pesce spada nel novero delle vittime, giacchè egli
conta tra i predoni.--E ben lo coglie il lanciere messinese forandolo
da parte a parte e conducendolo cadavere a bordo dopo d'averlo lasciato
dissanguare.

La pesca del pesce spada, che si fa nello stretto di Messina, è tanto
più cospicua in quanto che essa ha quasi sempre luogo nelle vicinanze
delle sponde. La qui descritta si effettuava vicino al litorale siculo
tra il faro e la città di Messina, e su quella bellissima spiaggia
trovavasi riunita una folla di contemplatori della pesca.

«Oh! povero pesce, guarda quanto sangue ha versato dalla ferita»--e
veramente un lago di sangue arrossava i dintorni della barca, mentre il
pesce spada dibattevasi miseramente colla morte, inchiodato
all'inesorabile ferro che lo trapassava.

Quella voce di compassione, forse l'unica che uscisse dalla folla, era
articolata da bellissima fanciulla e diretta ad un'altra non men bella
di lei.--Era Marzia che in uno sfogo d'anima gentile, compativa la
situazione atroce del povero pesce spada, dirigendosi a Lina.

Frattanto i pescatori avevano raccolta nella barca la magnifica preda
(naturalmente magnifica per i predoni), e siccome si disponevano a
continuar la pesca essendo quello un giorno propizio per la stagione e
per il tempo favorevole, nacque alle nostre eroine il desiderio di veder
da vicino il pesce che appena appena aveano avuto il tempo di
adocchiare.

«Se avessimo un palischermo» disse Lina «io sarei curiosa di andar a
vedere il pesce spada, che mai non vidi.»

Era la proposta formaggio sui maccheroni per la compagna accesa dalla
stessa curiosità donnesca, ed un'affermazione subitanea fu la risposta.

«Un palischermo? ma non sarà difficile trovarlo» disse la vezzosa figlia
di Roma.--E veramente non fu difficile, giacchè vicino alla sponda
stessa una barchetta, con quattro robusti rematori ed un signore al
timone avvicinossi; e, come se avesse indovinato il desiderio delle
fanciulle, dopo un cortese saluto, il signore offrì gentilmente il
palischermo a disposizione delle signorine. Guardaronsi in volto le due,
ed un presentimento di mal augurio agghiacciò per un momento la
risoluzione di Marzia.

Lina, però, alquanto più spensierata e men diffidente, disse all'amica:

«Andiamo, miglior occasione e più pronta non potevamo trovare.»

Marzia ristette un momento.--Vedendo però l'arditezza della compagna,
che già movea verso la sponda, e vergognandosi di mostrar timore, seguì
pure verso il legnetto, ed ambe imbarcaronsi in un'impresa di cui si
pentiranno amaramente.




CAPITOLO XXX.

IL RATTO.

                                Intanto
    All'onta ed al disprezzo è condannata
    Lei, che fu la stella di mia vita,
    Il dolce paradiso sulla terra!

              (_Autore conosciuto_).


Eran le sei d'una bella serata d'agosto, non v'era soffio di vento, e la
superficie dello stretto era inargentata. Le città di Reggio e di
Messina come su d'uno specchio riflettevansi in quelle onde fatate,
quando le nostre eroine misero il piede sulla graziosa gondola che dovea
condurle sulla barca peschereccia ove giaceva il malcapitato cadavere
del pesce spada ancora caldo della vitalità scomparsa, e la barca colla
trionfale sua ciurma cantarellando vogava trasportata dalla marea verso
la cittadella di Messina.

«Ma che con questi quattro robusti rematori, la _Sirena_ che gareggia
coi venti, non raggiungerà quegli stupidi pescatori?»

Quella millanteria era vociferata da tale che se fosse stato ben
osservato dalle fanciulle pria d'imbarcarsi, esse non si sarebbero
certamente affidate a tale guida.

Il comandante della _Sirena_, posto al timone con Marzia alla destra e
Lina alla sinistra, era una di quelle figure che colpiscono ed impongono
l'ammirazione in tutti i loro movimenti fisici. Pettoruto e largo di
spalle, sulle quali posava una di quelle meridionali teste adornate
d'ebano tanto negli occhi che nella capigliatura.--Era di statura
mediana, ma svelto quanto il capriolo dei monti.

Non era marino Talarico, non cavaliere[32], ma su un cavallo o su un
palischermo egli dondolavasi graziosamente quanto un marino italiano, un
figlio _de las Pampas_, od un _Monarca_ della cuchilla del Rio
Grande[33]; infine era un tipo di razza gagliarda, non tutta spenta in
Italia, malgrado gli sforzi del prete e della tirannide per corromperla.

Dunque è Talarico, eh!--E voi le mie buone fanciulle l'avete fatta
grossa d'affidarvi a lui, o non avete saputo distinguere sulla maschia
figura del figlio d'Aspromonte l'occhio aquilino e micidiale del
bandito.--E Talarico non solo, ma tutto quanto voi avete veduto di
pesca, di pescatori e di _Sirena_ sotto le finestre della vostra
abitazione, tutto era stato premeditato ed ordito per involare la
Marzia.

Lina, altrettanto preziosa preda, non entrava nel ratto che come un
accessorio.

La barca peschereccia vogava sempre verso la cittadella, trasportata
dalla marea e dai remi, e la _Sirena_, benchè sveltissima, accorciava di
poco la distanza che la separava dal pesce spada. La curiosità delle
nostre belle cangiossi presto in timore, e gettato un colpo d'occhio
verso la sponda sicula da dove eran partite e che già oscuravasi colle
ombre della notte, esse richiesero al timoniere d'esser ricondotte verso
la loro dimora.--Tutt'altro che Talarico avrebbe potuto usare un po' di
diplomazia, cioè d'inganno--confortar le donne, ingiunger loro di star
quiete ed infine canzonarle ancora per un pezzo, ma tale non era il modo
del calabrese brigante; e quando s'avvide che gli occhi delle due eroine
lampeggiavano di sdegno, e che forse potevano, dopo d'aver riconosciuto
l'inganno, scagliarsi su di lui, le prevenne, ed abbandonando il timone,
pose una mano su d'ogni braccio delle donzelle, e le strinse come se
fosse graffa di leone, mentre i rematori, assoldati come il loro capo,
avanzaronsi a prestar man forte, nel caso che la potenza di Talarico non
avesse bastato.

NOTE:

[32] Qui per Cavaliere non intendo quella caterva di servi che coi
cavalli altro non hanno di comune che la greppia ove s'ingrassano a
spese dei popoli che disonorano.

[33] Monarca della collina: così si chiamano i famosi cavalieri della
provincia più meridionale del Brasile.




CAPITOLO XXXI.

LA DITTATURA ONESTA.

    Non ciarle, ma fatti.

              (_Autore conosciuto_).


Vi sono molti birbanti del mondo, massime tra i popoli ove domina la
corruzione del prete e della tirannide.--Ivi si perviene ai gradi, agli
onori, all'agiato vivere, a forza di bassezze, di umiliazioni e di
servilismo; quindi l'onestà non è merito, ma lo è l'adulazione e la
flessibilità della schiena e della coscienza.

Fra codesti birbanti, alcuni onesti, o sono impercettibili nella folla,
o sono tenuti in diffidenza per lo scetticismo che invade le moltitudini
sì sovente ingannate.--Eppure io conosco degli onesti che potrebbero
migliorare la condizione umana, se non vi fossero tanti pregiudizii e
tante dottrine.--Ma come si deve aver fede in cinquecento individui, la
maggior parte dottori[34] e la maggior parte venali, uomini che vengono
su dalla melma ove li condannarono la dappocaggine e sovente il vizio;
vengon su, dico, a forza di cabale e di favoritismo, e si siedono
sfacciatamente tra i legislatori d'una nazione, coll'unico interesse
individuale e disposti sempre a sancire ogni ingiustizia monarchica,
coonestando così gli atti infami di governi perversi che senza quella
ciurma di parassiti avrebbero responsabilità dei loro atti, mentre con
parlamenti servili essi sono dispotici, e compariscono o si millantano
onesti.

Questi cinquecento, fra cui vi è sempre qualche buono, disgraziatamente
si usano come governanti nelle monarchie non solo--governi imposti--ma
pure nei paesi ove la caduta delle monarchie, come in Ispagna e in
Francia, ha lasciato le nazioni padrone di loro stesse. La vecchia
abitudine dei comitati, delle commissioni e dei parlamenti getta negli
anzidetti casi di nazioni padrone di loro stesse una turba d'aspiranti
alla direzione della cosa pubblica, che sventuratamente riescono sempre
con una minoranza buona o mediocre, ma con maggioranza pessima, e quindi
annientato il po' di buono che vi si trova.

E perchè non scegliere un onesto solo per capitanare la nazione e con
voto diretto? Non è più facile trovarne uno che cinquecento?

Il maggiore dei popoli della terra, il Romano, chiamò quell'uno
Dittatore.--Chiamatelo voi come diavolo volete. Insignitelo del supremo
potere per due mesi, per due anni, se meglio vi pare. Non successori
nella stessa famiglia, non eserciti permanenti.--Dieci onesti cittadini
per littori, e l'esercito Nazione se la patria è minacciata.--Supponete
ch'egli sia solamente onesto, e questa è la qualità che voi dovete
cercare.--Non è amministratore, militare, finanziere, ma saprà trovare
della gente idonea per ogni provincia. E non avrete il bisantismo, con
quella turba di ciarlieri che assordano il mondo e mantengono l'Europa
in una vera Babilonia.

Con degli onesti ai governi potranno avverarsi tutte le questioni
politiche e sociali, e sopratutto si potrà provvedere subito alla
soppressione di quel macello umano che si chiama guerra.

Il macchiavellismo è oggi una parola esecrata; eppure Macchiavelli è uno
dei grandi di cui si onora l'Italia. Così avvenne alla dittatura. Perchè
vi furono dei Cesari, dei Buonaparti, pare non vi possano essere più
delle dittature oneste. Ed io sono certo che se la Francia e la Spagna,
padrone di loro stesse, avessero, dopo la caduta d'Isabella e di
Buonaparte, scelto un uomo solo con pieni poteri per governarle, esse
non sarebbero cadute nello stato deplorabile in cui oggi si trovano. Lo
rammenti la Democrazia europea; essa è sempre conculcata per non sapere
combattere il dispotismo colle proprie sue armi, cioè la concentrazione
del potere nelle mani d'un solo, sinchè (come in America ed in
Isvizzera) la situazione non divenga normale da non più aver bisogno di
poteri straordinari al governo concentrati nelle mani d'un solo.

NOTE:

[34] Non si creda che io sia sistematicamente nemico dei dottori (non
teologi, che credo impostori), anzi io conto molti dottori tra i miei
amici, ma essi han fatto prova sinora tanto cattiva nei governi e nei
parlamenti da far disperare di loro.




CAPITOLO XXXII.

AGLI ARANCI.

    Non la siepe che l'orto v'impruna
    È il confin dell'Italia, o ringhiosi,
    Sono l'Alpi il suo lembo, e gli esosi
    Son le turbe che vengon di là.

              (BERCHET).


Era verso la fine d'agosto, quando il Dittatore della Sicilia, radunate
le vittoriose sue legioni nel Faro, disponevasi a passare sul continente
italiano.

Il numero di forze dell'esercito meridionale[35] poteva ascendere ad una
decina di mila uomini, aumentando ogni giorno però per l'arrolamento di
meridionali e per i contingenti venuti dalle altre provincie d'Italia,
con buona mano di veterani di tante battaglie.

Cotesto accrescimento di forze dei liberi dispiaceva certamente alla
Corte Sarda, al Papato ed al padrone Buonaparte, e fra i mezzi impiegati
per impedirlo, non mancarono ogni specie d'ostacoli all'imbarco dei
volontari nel settentrione.

Era naturale temessero l'invadente bufera nel mezzodì i monarchici ed i
suoi satelliti. Chi ha la coda di paglia, teme il fuoco.--Ciò che non
era naturale, che non doveva essere, e che mi ripugna scrivendolo, si è
l'opposizione a noi fatta dal dottrinarismo, dagli uomini che oggi
ancora sono tenuti quali archimandriti della democrazia italiana.

Essi hanno del merito, non glie lo contesto, e se al merito
incontestabile avessero potuto aggiungere la capacità di far l'Italia da
soli senza la cooperazione d'altri--essi sarebbero senza dubbio i sommi
dei sommi.--Comunque, da loro fummo attraversati anche nella spedizione
del 60, apparentemente, non colla volontà di nuocere; ma in realtà
pregiudicavano.

L'organizzazione di un corpo di volontari in Toscana capitanato da
Nicotera nocque, e se quelli stessi volontari si fossero inviati in
Sicilia, sarebbe stato assai meglio.

La spedizione al Golfo degli Aranci, ordinata, credo da Bertani, e da
lui diretta coll'oggetto d'un'operazione diversiva nello stato
pontificio come la prima, fu anche nociva, perchè ritardò l'arrivo di un
corpo considerevole di volontari di cui avevamo gran bisogno, e mi
obbligò di abbandonare l'esercito sul Faro, imbarcarmi a bordo del
_Washington_, ed espormi al pericolo d'incontrare gl'incrociatori
borbonici, per andar a cercare a tramontana della Sardegna il suddetto
forte contingente di bellissimi militi che si volevano sottrarre ai miei
ordini (per una spedizione inutile, giacchè essi nulla avrebbero fatto
a fianco dell'esercito sardo invadente) e forse anche per non
contaminarli al contatto degli elementi _poco puri_ dei _Mille_.

Era dunque verso la fine d'agosto quando pronto l'Esercito Meridionale
sulla sponda sicula dello stretto di Messina, si disponeva a
traversarlo.

La vigilanza dei legni borbonici a vapore era immensa: le loro batterie
sulla costa calabra, ben guernite di cannoni e d'uomini, protette da
varii corpi di truppe sparsi nelle campagne circostanti.

Una quantità di piccole barche, raccolte nei diversi porti della
Sicilia, erano state dirette a Punta di Faro, per effettuare il
passaggio.--Vi furono alcuni tentativi infruttuosi.--In uno però,
condotto dai valorosi Missori, Nullo, Musolino, Mario ed altri prodi
compagni, si assaltò uno dei forti principali della costa suddetta, e
senza il timore d'una guida che s'impaurì alle prime fucilate, i nostri
s'impadronivano del forte, e con questo si sarebbe agevolato grandemente
il passaggio dell'esercito.

La fortuna però doveva continuare a proteggere la giusta impresa, ed al
ritorno del _Washington_ dagli Aranci, il Dittatore s'avviò verso
Taormina, ove il generale Sirtori aveva diretto due piroscafi per il
Mezzogiorno della Sicilia--il _Torino_ ed il _Franklin_.--Imbarcossi col
generale Bixio la di lui Divisione e felicemente giunsero a Melito sulla
costa meridionale della Calabria.

NOTE:

[35] Nome che presero i Mille accresciuti di numero.




CAPITOLO XXXIII.

ROMA.

    De' vivi inferno!
      Un gran miracol fia
      Se Cristo teco alfine non s'adira.

              (PETRARCA).


Era il primo di settembre del 60, e verso le dieci antimeridiane una
immensa folla brulicava dalla superba Basilica di S. Pietro, il maggiore
dei templi del mondo.

Sino al ponte Elio, oggi di S. Angelo, e dallo stesso in tutta
l'estensione della Lungara--quella moltitudine per la maggior parte
devota, non lo era al punto di sfidare i raggi solari, cocenti in quella
stagione, ed in quell'ora, in cui la brezza marina non ha rinfrescato
ancora l'atmosfera corrotta della capitale dell'Orbe Cattolico; tutti
tendevano verso l'ombra delle case, ciò che a tutti non riesciva, per la
qual cosa verso la parte del Tevere v'era proprio da soffocare, tanta
era la calca.

Ma che importa di soffocazioni, di calori, di febbri? Oggi i chercuti
danno una solennissima festa ed il popolo degenerato che cresce sulle
ruine del più grande dei popoli, non abbisogna di dignità, di decoro, di
libertà, ma di feste, e colle feste ed una scodella di brodo si
contentano i discendenti dei Manli e dei Scipioni.

Un giorno questo popolo si affollò dietro al carro trionfatore
trascinato dai re della terra, quindi negli anfiteatri a contemplar le
sanguinose giostre dei gladiatori, e gli urli de' suoi schiavi morenti,
lacerate le loro carni dal leone o dalla pantera. Poi discese ancora più
nell'imo delle sue cloache, barattò per pane e giuochi la sua libertà e
dignità. Infine non contento ancora della sua abbiezione, e delle
brutture imperiali, egli curvossi, si genuflesse, s'accovacciò ai piedi
della più lurida, più umiliante e più sfrenata delle tirannidi--quella
del prete--dell'impostore--del corruttore per eccellenza della razza
umana.--E lì sen giace ancora, pronto al primo squillo di campana, a
correre, prostrarsi e baciar la pantofola d'un idolo di fango.

I preti scorgevansi nel vasto peristilio del tempio; ne uscivan di tanto
in tanto per respirare più liberamente, per mostrare al volgo ed alle
bigotte i loro abiti sacerdotali di gala; e tergevansi con bianchi lini
la fronte, sudante per le _fatiche_--poveri preti!--e sorridevano alle
innamorate ammiratrici--e scotevano graziosamente i candidi piviali, e
le inanellate chiome.

Crittogama dell'uman genere!--Barattieri dei popoli!--A voi, che
importano le sventure delle genti!--Predicatori d'immoralità, vantatori
di un paradiso celeste con cui beffate il popolo, mentre ne avete
costituito uno terrestre a spese ed a scorno suo, e mentre
quell'inferno, di cui voi ridete, lo avete accatastato coi vostri roghi
e le scelleraggini vostre, a pro degli infelici che hanno il torto di
non bastonarvi.

Sì, preti!--era quella una solennissima festa, con cui le bugiarde
vostre campane, le bugiarde vostre sinfonie, ed i bugiardi vostri
apparati di stupendissimo lusso, cercavano di chiamare a voi le
moltitudini ingannate e colpevoli di non volersi servire di quella
religione colla quale natura adornò anche i più cretini.--Vi vuol poi,
per Dio, molta scienza per capire che un prete è un impostore?

Quella festa, con cui si assordava il mondo, era la conversione del
vecchio Elia e della sua Marzia, che dalla giudaica religione,
generatrice del cristianesimo, dicevansi dover passare alla religione
del Papa.

Due anime salvate!--Eh preti!--Gran festa!--Lo Spirito Santo richiesto
dall'infallibile, ha toccato il cuore delle due smarrite pecore!--Ed
esse, al cospetto del mondo devono abiurare la fede dei loro padri, ed
aggregarsi alla vostra.--Eh preti! voi sapete che io so, non aver voi
altra fede che nel ventre, e nella libidine!--Aggregarsi alla vostra
fede, eh!--Credere alla verginità della madre di Cristo, come voi
credete a quella delle vostre Perpetue! E mangiar l'Ostia con dentro
l'Infinito! Ah birbanti! voi non le credete queste fandonie colle quali
infinocchiate le vecchie peccatrici, e gettate le nazioni
nell'abbrutimento, nel servaggio, e nella sventura.

Voi non le credete, io lo so; ma nello stesso tempo voi potete scusarvi:
chè in questo secolo di ladri, anche voi, avete trovato il modo di viver
grassamente alle spalle delle carogne!

«Non fate ciò che io fo, ma fate quel che io dico». Ma bravi li miei
preti! ecco una vera scuola di logica, di morale. A che diavolo serve
l'esempio!

«Mortificatevi, digiunate, astenetevi» dite voi, per la maggior gloria
di Dio! (bestemmie di cotesta impudente canaglia).

«Al prete, bocconi squisiti e vezzose donzelle». E non sono essi
Ministri di Dio?--perchè dunque debbono essi privarsi delle dovizie del
mondo, come voi altri cretini!

«Sì, la conversione di due Ebrei alla religione di Cristo» rispondeva un
Romano ad un giovane d'aspetto marziale, e che dalla bionda
capigliatura, sembrava appartenere alle provincie settentrionali della
penisola.

«Sì, la conversione di due Ebrei» continuava il figlio di Roma--«e
questi pretacci dondolano il nostro povero popolo con tali menzogne, e
lo fan scordare del suo abbrutimento e del suo servaggio».

L'interlocutore guardando fisso il Romano, sembrò investigare
nell'abbronzato suo volto, la veracità del suo sdegno, e mormorava tra
sè: «sarà questo un insofferente del giogo pretino, od un delatore?».

Il suo dubbio durò però poco, e l'apparizione d'una bellissima coppia,
divisa per un momento dalla folla, e che accostossi ai due suddetti,
facendosi largo, valse a dileguarlo.

I nuovi arrivati erano P... e la sorella Lina, la di cui presenza in
Roma sembrerà straordinaria, mentre i loro compagni militavano
all'estremità dell'Italia Meridionale.

«Addio, Muzio» incominciò il Bergamasco dirigendosi al Romano, ed ambi
si strinsero famigliarmente la destra.

«Addio, mio caro» rispose l'altro--«Io mi vergogno di trovarmi qui
inoperoso, mentre i nostri prodi amici, dopo di aver fatto miracoli di
valore in Sicilia, stanno oggi marciando vittoriosamente su Partenope.
Con tutta la buona volontà del mondo noi fummo ingannati dai
temporeggiatori, dai Generali di combinazioni che ci hanno canzonati,
intimandoci di fermarci in Roma per colpire il nemico alle spalle, e
così abbiam dovuto marcire nell'ozio, e sprecare qui tanta bella e
briosa gioventù, anelante di volare a fianco dei militanti
fratelli.--Già l'ho sempre detto; la democrazia italiana come tutte le
altre dovrebbe persuadersi che vi vuole un capo solo, massime nei casi
d'urgenza.--Molti capitani portano generalmente la nave negli scogli.
Prima d'ogni schiarimento, permettimi di presentarti il nostro Nullo, e
mia sorella Lina».

Uno scambio di affettuose scosse di mano legarono in un momento e per la
vita il bravo figlio di Roma coll'eroe della Polonia, e la bellissima
fanciulla delle Alpi.

A Lina, Muzio non baciò la mano per verecondia, non potè a meno però, di
rimanere stupito a tanta bellezza, ed un po' confuso.

«Fu veramente sventura, per chi dei nostri non partecipò alla gloriosa
spedizione dei Mille» riprese P... «E tu, Muzio, col tuo drappello di
coraggiosi romani, avresti aggiunto nuovi allori ai tanti raccolti sui
campi Lombardi. Però, non disperarti, se hai mancato di pugnare contro i
soldati del Borbone a Calatafimi e a Palermo, qui, tu sarai immensamente
utile all'impresa disperata ma santa che ci siam prefissa».

«Oh! contate su di me e de' miei compagni per qualunque arrischiata
impresa» disse Muzio «Noi saremo superbi di combattere sotto ai vostri
ordini».

«Duolmi tanto» egli continuò «dovervi lasciare in questo momento e
confondermi nella folla; i segugi della polizia papale sono sulle mie
tracce, ed io ne scorgo diversi che mi perseguitano. Ove occorra, a
qualunque ora cercate di me ai mendichi del Foro Romano».

Terminate quelle parole, Muzio scivolò tra la moltitudine con una
celerità sorprendente, a considerare con quanta calca egli doveva
lottare.

I nostri tre amici, quanto l'amico interessati a non essere scoperti e
sorpresi, imitarono la di lui prudente ritirata e si mossero in
direzioni diverse com'erano previamente convenuti.

Frattanto continuavano i grandissimi preparativi per la solennissima
conversione dei due Ebrei, Elia, e Marzia; padre e figlia. E la bottega
di Roma, per non crollare sotto il putridume de' suoi vizii e delle sue
corruzioni, abbisogna di queste imposture: ora una Vergine di legno, che
apre gli occhi; un'altra, che piange lagrime di sangue; una terza, che
porta, tempestato di brillanti, sul petto il santo prepuzio di suo
figlio; ed un'altra finalmente non meno indecente, con appesa al collo
la propria matrice! E la canaglia crede, paga contenta d'esser
bastonata.

I preti se ne ridono e scialacquano, ed i reggitori del mondo, fingendo
di creder gli uni e di far gl'interessi degli altri, rubano a tutti e
fan giustizia del tapino, che prende un pane sul banco del prestinaio,
per sfamare la prole morente, e lo appiccano!




CAPITOLO XXXIV.

REGGIO.

    Felice te! che il regno ampio dei venti
      Ippolito a' tuoi verd'anni corresti,
      E se il pilota ti drizzò l'antenna,
      Oltre all'Isole Eolee, d'antichi fatti
      Certo udisti suonar delle Carridi
      I liti.

              (FOSCOLO).


Da Melito, ove la divisione Bixio, dopo d'aver tranquillamente ed
ordinatamente eseguito lo sbarco, sopportò un forte cannoneggiamento
della flotta nemica che ebbe per risultato l'incendio del magnifico
piroscafo, il _Torino_, da Melito, dico, si marciò per la spiaggia
occidentale delle Calabrie verso Reggio.

Nulla di molto importante successe in quella marcia, oltre alla riunione
dei prodi compagni, che con Missori avean assaltato il forte Orientale
del Faro, e non potendosene impadronire, come abbiam veduto per mancanza
di una guida, erano stati obbligati di prender l'Aspromonte, ove avevan
lottato con varia fortuna, contro i numerosi nemici che li
perseguivano.

Con Missori giunsero pure dei bravi Calabresi che ci giovarono assai
nell'espugnazione di Reggio, essendo praticissimi del paese.

Si assaltò di notte e per sorpresa quella città, e verso il meriggio del
giorno seguente, essa ed i suoi forti furono in nostro possesso. Al
passaggio della Divisione Bixio successe quello della Divisione Cosenz
verso Scilla e colla congiunzione delle due si ottenne la capitolazione
d'un corpo considerevole di Borbonici a Villa S. Giovanni con perdite
insignificanti da parte nostra. E padrone della sponda Calabra,
l'esercito meridionale, potè passar lo stretto senza ostacoli.

Torniamo un passo indietro verso le nostre eroine, che lasciammo in
preda a Talarico sulla spiaggia della Cittadella di Messina.--Appena il
capo dei masnadieri ebbe partecipato al Governatore l'esito riuscito
della sua impresa, questi si presentò alla contessa, che dal giubilo di
tener nelle unghie la rivale, abbandonò all'uomo, che essa disprezzava,
la bella mano la quale fu coperta di baci, che quasi servirono di
stimolo a qualche audacia più licenziosa; ma l'altiera romana, tornata
in sè da un momento d'oblio, ritrasse la mano, sollevò la bella fronte,
e retrocedendo d'un passo, balenò il generale innamorato con tale
sguardo da fargli subito abbassar gli occhi, e ritornare nell'umile
posizione sua al cospetto di lei.

«Bravo Generale!» gli disse essa con accento di sarcasmo, ma sorridente
nel viso. «Bravo! ora mi permetto di riabilitarvi nella mia stima e vi
chiedo perdono per aver dubitato dell'alta vostra capacità un momento».

Padrona della sua preda, essa sentì subito il bisogno d'allontanarsi
dall'esoso soggiorno d'una fortezza e di recarsi a Roma ove
l'aspettavano il trionfo della sua vittoria, e la soddisfazione di veder
una rivale odiata, trascinata nel fango delle cloache pretine.

Tale è la cecità in cui le passioni avvolgono l'essere umano: il che
però non manca giammai di lasciar traccia di rimorso per tutta la vita.

«Ma la compagna» pensò essa, e qui bisogna far giustizia a questa donna
colpevole, e straordinaria «la compagna è innocente, non entra nella mia
vendetta, e senza dubbio devo restituirla a quella libertà, che essa non
ha meritato di perdere.» Però, ripensando, essa credè bene di non
rinviarla sulla sponda sicula, ma di farla sbarcare a Reggio nella notte
seguente, per più distoglierla dal filo della trama sciagurata.

Presa tale determinazione, la contessa ingiunse al governatore di far
subito eseguire i preparativi per la partenza di lei, e di far sbarcare
Lina a Reggio nella notte seguente. E tale incarico fu nuovamente dato a
Talarico.

Un capo di briganti, per capo di briganti che sia, per cuore di leone
ch'egli abbia, quando capitano nelle sue mani creature vezzose come la
Lina, che per il nostro Talarico avea di più il pregio d'una magnifica
capigliatura bionda, non comune tra le trecciate d'ebano delle
calabresi, diventa generalmente mansueto come un agnello.

E tale diventò precisamente il feroce nostro figlio d'Aspromonte
trovandosi una seconda volta arbitro della bellissima Alpigiana; e
quindi cercò questa volta per suo proprio conto d'inoltrarsi nelle buone
grazie della fanciulla.

Come era bella, serena, la notte d'agosto in cui la nostra Lina
incamminavasi verso Reggio, nella poppa della Sirena, scivolando
sull'onda di quello stretto di Scilla e Cariddi, che gli antichi tanto
avean temuto, colla velocità della quaglia, quando questa senza bussola
o sestante, abbandonando le arene infuocate dell'Africa, traversa il
Mediterraneo cercando clima più fresco!

Somigliava il mare a uno specchio, tanta era la calma, ed i rematori con
una voga uniforme solcavano il seno d'Anfitrite, illuminato dal moto dei
remi e dalla striscia lasciata dalla sottilissima chiglia del
palischermo.

«Che bella notte, e che felice traversata avremo noi, signorina» disse
il protervo abitatore della montagna, raddolcendo sino a contraffarla,
la rozza e maschia sua voce «Che bella notte!» ripeteva accentuando più
il tono; e l'altra, zitta, stizzita e burbera, quantunque di notte non
fosse facile discernerla, era decisa di non rispondere.

Un periodo di silenzio seguì l'interrogazione od allusione di Talarico,
ed il brigante, che non era poi uno stupido, capì che si doveva toccar
altra corda per udir la desiata favella e far cessare il silenzio della
bella sua preda.

Ed ecco come vi riescì:

«I Mille» egli disse «entrarono in Reggio la notte scorsa e pare che
niente possa resistere a questi rossi demonii.»

«I Mille in Reggio!» esclamò Lina obliando aver essa risoluto di non
rispondere al suo predone.

«Sì! in Reggio! ed essi entreranno in Napoli un giorno o l'altro,
giacchè i vigliacchi e panciuti generali di Francesco altro non sanno
che far la guerra ai quattrini della nazione ed altro Dio non adorano
che il ventre.»

Lina rimase un po' stupita da questa foggia di discorso, ed essa avrebbe
diffidato del comandante della _Sirena_ se questi non si fosse spiegato
con un accento d'ira e di disprezzo che dava garanzia della veracità
delle sue parole.

Un momento di silenzio seguì l'ultimo discorso di Talarico, e vedendo
che la fanciulla non rispondeva, egli ricominciò con più fervore di
prima.

«Italiano lo sono anch'io, per la Madonna! e tengo primo fra gli onori
quello del mio paese.--Poi, è da molto tempo che in cuor mio» e si pose
la mano al cuore «io sono con codesti prodi propugnatori del patrio
decoro.--Da molto tempo pure io disprezzo questi mercenari servi, vili
strumenti di chi li paga, che coi preti hanno ridotti i nostri popoli ad
essere il ludibrio dello straniero. Ogni nazione è padrona in casa
propria, e perchè in Italia cotesti padroni--Austriaci da una parte,
Francesi dall'altra, che pare se l'abbiano comprata?--Le frutta
deliziose delle nostre terre e la bellezza delle nostre donne allettano
quei signori. Ebbene, noi darem loro del ferro nel cuore in cambio.--Voi
la vedete, signora, quella massa oscura che comparisce a tramontana da
noi: ebbene quella è una nave da guerra d'alto bordo del Bonaparte[36]
venuta nello stretto per dar leggi a tutti.»

Gli occhi del Principe della Montagna sfavillavano nell'oscurità della
notte come quelli del tigre che si è accorto dell'insidie del
cacciatore, ed egli movea quel suo elastico corpo come se, insofferente
di trovarsi rinchiuso in quella scorza di navicella, volesse
precipitarsi nel mare.

E quanti ve ne sono di questi forti figli della patria nostra che
potendo essere validissimi in una guerra contro lo straniero sono invece
pericolosissimi a noi perchè suscitati all'odio del libero reggimento da
quella bella roba che si dicono ministri di Dio!

Coll'infuocato discorso di Talarico, sparirono le diffidenze di Lina, ed
all'acuto suo spirito, balenarono subito vari sentimenti; quello
dell'acquisto alla parte nostra del valido appoggio di tal uomo
straordinario, quello di penetrare negli arcani di un evento di cui
essa era stata vittima, e più di tutto, il potere aver contezza
dell'amata sua Marzia.

La naturale curiosità donnesca la stimolava poi immensamente, già
placata com'era dalla notizia che i suoi Mille eran padroni di Reggio e
che presto sarebbe essa redenta all'amore de' suoi cari.

«E voi che vi millantate Italiano ed apprezzatore delle gesta dei Mille,
in cui tutto dev'essere generoso e decoroso per la patria italiana,
perchè v'incaricate di molestar la pace di due fanciulle che non vi
offesero e che appartengono a quella nobile schiera?»

«Io lo ammenderò questo mio fallo» rispose il brigante, e dopo un
momento di meditazione:

«Sì, lo ammenderò! ed uno ben maggiore di questo io devo ammendare![37]»

Queste ultime parole furono articolate con voce sommessa, ma con un
accento quasi di disperazione.

Poi energicamente soggiunse:

«Me le perdonate le ingiurie da me ricevute ed i danni, nobile donzella?
Vedete, io abbisogno del vostro perdono come dell'aria che respiro. E se
mi perdonate, questa miserabil vita che mi è divenuta insopportabile, ve
la consacrerò tutta intiera! Non come un amante, io ben so che il vostro
cuore ha scelto, ma come uno schiavo.--Io mi contenterò di baciar le
zolle da voi calpestate, di seguirvi nelle pugne da voi combattute.--E
certo voi mi vedrete dar l'ultimo respiro sorridendo, s'io sarò così
fortunato di poter dare per voi questa sciagurata esistenza! Ma non mi
negate di seguirvi, e sopratutto non mi negate di farmi ammettere
sconosciuto nelle fila di quei generosi vostri fratelli d'armi, gloria
ed onore d'Italia!»

Dopo un momento di truce posa, egli ripigliò:

«Sconosciuto, sì, sconosciuto, m'intendete, poichè come Talarico, nè i
vostri amici potrebbero accogliermi, nè il mondo compatirebbe un nome
infame in quella eroica schiera. Ma io la laverò quell'infamia nel
sangue dei nemici della libertà italiana! Laverò quei vent'anni d'una
vita di delitti e di vergogne in cui mi aggiogarono i malvagi
sostenitori dell'altare e del trono, ossia della menzogna e della
tirannide!»

«Ove trovasi Marzia?» chiese Lina non più decisa al silenzio, ma
disposta ancora al risentimento dagli anteriori procedimenti di
Talarico.

«Marzia è in Roma a quest'ora» fu la risposta del Calabrese. «Il più
agile dei piroscafi borbonici l'imbarcò la notte scorsa per tal
destino.»

Intanto la _Sirena_ solcava l'onda cristallina dello stretto, ed un
flebile raggio della luna spuntante dalla frondosa cervice
dell'Aspromonte, illuminava l'orientale meraviglia di quelle sponde
incantate.--Reggio, che sortendo dall'onde e frammischiando l'aroma
delle sue foreste d'aranci a quello della sorella Messene, involve il
navigante in un'ebbrezza di gaudio e d'ammirazione della natura tanto
benevole e prodiga a quelle bellissime contrade, sì travagliate in
compenso da pessimi governi!

«Non temete voi d'incontrare gente dell'esercito meridionale in Reggio?»
disse Lina a Talarico.

Un momento di silenzio e di meditazione seguì le parole della fanciulla.

«Io più nulla temo su questa terra!» rispose l'altero crollando il
maestoso e terribile capo. «Nulla! nulla! E voi dunque non mi accettate
come servo e come schiavo?»

Vi era tanta eloquenza nelle rozze e superbe parole del brigante! Egli
le avea pronunziate con tale accento di disperazione, che la bella
figlia di Bergamo ne fu commossa, e quasi senza avvedersene abbandonò la
mano a Talarico che la bagnò di baci e d'un torrente di lagrime di
gratitudine.

«Grazie, grazie» furono i soli accenti che singhiozzando potè articolare
quel protervo bandito, una volta terrore delle Calabre contrade ed oggi
divenuto più mansueto di un agnello.--Tale è la potenza della donna sul
sesso nostro per indurito e depravato che sia.

E quell'uomo, quel brigante che in causa di un'educazione pervertita era
stato prima d'ora capace d'ogni atroce delitto, trovavasi in oggi
trasformato in altro, capace d'innalzarsi all'eroismo sotto il
magnetismo di semplice donzella.

Vi era dunque, come in tutti gli altri esseri della stessa famiglia, una
parte buona in Talarico che, coltivata da un uomo che non fosse un
prete, poteva dare un cittadino onesto od un milite capace di onorare
l'Italia.

Ritornato in sè, e quasi vergognato dal suo pianto, aggiunse:

«Comunque, io voglio seguire la buona o la cattiva fortuna dei
coraggiosi che tanto innalzarono la riputazione guerriera del nostro,
pria, disprezzato popolo.»

I compagni di Talarico, a lui devotissimi, si aggregarono pure alle
liberali milizie, e l'Italia acquistò cinque campioni, che ne valevan
ben dieci per valore e massime per la loro pratica del continente
meridionale della penisola.

NOTE:

[36] E veramente v'era in quell'epoca un vascello francese nello stretto
all'oggetto d'impedire il passaggio.

[37] Egli alludeva all'assassinio premeditato e non riuscito a Palermo
contro il Dittatore.




CAPITOLO XXXV.

LA CONVERSIONE.

    Non v'accorgete voi che noi siam vermi,
    Nati a formar l'angelica farfalla
    Che vola al suo Fattore senza schermi.

              (DANTE).


La conversione! La conversione di due ebrei che dalla stupida fede
d'Israele passano alla non meno del cattolicesimo. Che trionfo per la
Santa Stalla![38]

Potete rallegrarvi, cattolici, massime quelli che i preti hanno venduto
allo straniero, settantasette volte; ed oggi, non avendo compratori tra
i potenti cattolici, si raccomandano a Lutero, e mancando Lutero, a
Maometto, per tener loro bordone alle insaziabili libidini di potere e
di lussurie.

Una conversione solennissima, sì! per la maggior gloria di Dio
(sacrileghi!). Ed i quiriti ed i discendenti di Scipione, vestiti a
festa, preparansi ad assistere degnamente a cotesto trionfo! Che
differenza tra gli antichi che trascinavano i monarchi ai loro carri
trionfatori e questi moderni Romani affittatori di stanze e mercanti di
corone, di scapulari, d'_Agnus-Dei_, pezzi della _vera croce_, di
prepuzii e di santissime _matrici_, tutta roba che puzza come l'abito
sudicio di cotesti buffoni, ciarlatani che la danno ad intendere alle
abbrutite popolazioni!

Ma ve ne saranno molti in Roma, veri discendenti del popolo gigante? Tra
questi servi di preti, cuochi di preti, lacchè di preti, figli di serve
di preti, artisti ed operai di preti e figli infine di monache e di
Perpetue di preti!

Qui mi passano per l'insofferente mio pensiero tanti altri epiteti, per
lo più diffamatori, e siccome amo il popolo romano, non vorrei
amareggiarlo vergando delle infamie, e mi contenterò di maledire i
chercuti corruttori d'ogni bellezza! d'ogni grandezza umana!

Nullo, dunque, con P...., Lina ed il loro servo Torquato (nome assunto
da Talarico), riunitisi a Reggio dopo la resa di quella città
all'esercito meridionale, profittarono del passaggio nello stretto d'un
vapore inglese per recarsi a Civitavecchia e di là a Roma onde vigilare
sulla sorte della Marzia, e sottrarla, se possibile, dalle ugne dei
preti.--Noi li lasciammo al termine del colloquio con Muzio;--P... e
Lina soli rimasero insieme. Nullo e Torquato erano convenuti di stare
alla vista dei suddetti, ma a qualche distanza per non destare colla
riunione di quattro i sospetti della vigilantissima polizia papalina.

Eppur i ministri di Dio di che dovrebbero aver paura, col loro amore del
prossimo, la loro mansuetudine, infallibilità, carità e tante altre doti
che devono distinguerli e farli rispettare ed amare dal loro gregge?

Ah vipere! emanazione dell'inferno! verrà quel giorno in cui i popoli vi
conosceranno e di voi purgheranno la terra!

La folla aumentava sempre e l'immensa piazza di San Pietro n'era colma
siccome le due grandi vie della Lungara e di Castel Sant'Angelo. Il
calore era soffocante, ragazzi e fanciulle che non si trovassero
sollevati dai parenti od amici, rischiavano di restare schiacciati.

Quante tisichezze produrranno queste solennissime feste cattoliche e
quanti tifi prodotti dalla agglomerazione di fiati, massime nelle sante
stalle!--Ma che importa agl'Italiani d'andar curvi col gobbo dai
baciamani e dalle genuflessioni cui li assoggettano i preti! Che importa
la razza deteriorata e le paure suscitate dagli stessi, e che
impiccioliscono ed avviliscono l'individuo! Quello che importa son le
feste, coi loro apparati, organi, musiche, i loro canti da
eunuchi.--Eppoi son così splendidi negli adornamenti, così incensati
tutti quanti quei graziosi ministri del Carpentiere di Galilea, dal
sagristano al papa! Ed il paradiso apertissimo a tutta cotesta canaglia
lo contate per nulla? Il paradiso, veh! ove eternamente cantano gli
angioli (non ridete, vi prego), ed ove eternamente vi bea il sorriso di
Dio senza bisogno nè di mangiare nè di bere--ed ove per tali ragioni
devono trovarsi pochi preti, unica fortuna del beatissimo soggiorno!

Quando si pensa a tutta quella massa di menzogne che sì spudoratamente
spiattellano ai gonzi i sacerdoti dell'impostura, vien proprio voglia di
rinnegare gli uomini di questa razza che non accolgono il prete a sputi,
pugni o, meglio, anche a bastonate.

Era circa il meriggio quando le artiglierie di Castel Sant'Angelo
annunziavano alle fedeli pecore esser la gran processione in procinto di
muovere da Porta Pia per Borgovecchio verso la massima basilica.

Uno squadrone di dragoni, truppa scelta, bellissima gente, formava
l'avanguardia, e mentre difilava il lunghissimo seguito di sacerdoti, di
confraternite, di beghine, di graduati pontificii, ecc., lo stesso
squadrone staccava dei singoli militi sui fianchi che coadiuvavano gli
alabardieri in livrea a mantenere la moltitudine accalcata a destra e a
sinistra e ad impedirle d'invadere lo spazio della strada che dovea
percorrere la processione.

Il centro della lunga fila di ceri era occupato da due battaglioni di
fanteria ordinati in colonna colle loro musiche in testa, e tra un
battaglione e l'altro marciava un carro di trionfo riccamente addobbato
e tirato da sei bianchi cavalli adorni di superbi arnesi. Il superbo
padiglione che copriva il carro era sostenuto da quattro colonne
inghirlandate con squisite dorature, ed i sedili dello stesso ricoperti
di finissima e candida seta, abbarbagliavano nel fissarli. E su quei
sedili? sedevano a destra e a sinistra due preti, ambi conosciuti da
noi; a destra il generale dei gesuiti, ed a sinistra il più astuto di
quella setta--monsignor Corvo--sul davanti un vecchio a bianca
capigliatura sul volto del quale scorgevansi i segni dell'atroce
tortura. Al posto d'onore stavan due donne coperte da bianco velo, e
candidissimo era tutto il resto dell'abbigliamento. Dalla statura, dal
portamento della persona e dalla corvina capigliatura, esse parevan
sorelle; gli occhi e l'impronta degli anni era difficile discernere da
lungi sotto il velo sottile. Ma da vicino, anche attraverso le maglie
del mussolino, chi avrebbe potuto sostener la scintilla che sfavillava
dagli occhi nerissimi delle due giovani trionfatrici? Chi eran desse? Lo
sapremo presto.

La processione procedeva maestosa, solenne, com'al solito si eseguiscono
le pompose mascherate della negromanzia, e siccome credo gl'impostori
sian sempre stati gli stessi e colle stesse propensioni in tutti i
tempi, mi figuro essere stato il mondo composto sempre di cretini e di
furbi, dagli oracoli dei Greci agli aruspici dei Romani e sino ai roghi
degli odierni chercuti. Diviso il mondo, dico, tra carogne e birbanti.

Ma che diavoleria è succeduta nell'ordinata, solenne maestosa
processione dei preti! Che baccano nella moltitudine! baccano tale che
nella folla, come energumeni, si precipitavan gli uni sugli altri,
dimodochè, grandissima essendo la calca, i primi verso i processionanti
spinti da quei di dietro si rovesciavan sui ceri, ed i ceri gli uni
sugli altri, e questi sulle beghine, delle quali alcune accesero le
gonne, altre le cuffie, infine un finimondo!

I preti poi, che per le beghine hanno la calamita, massime se giovani e
belle, si lanciavan al soccorso delle loro predilette con un eroismo
veramente degno dei tempi antichi di Roma.--E si raccontarono poi dei
fatti di coraggio non mai intesi nelle storie sacre dai Maccabei a
Ignazio di Loiola e Domenico di Guzman.

La catastrofe era stata cagionata dal grido di una delle due donne nel
carro trionfale, e la voce che come un fulmine colpì la moltitudine, fu
«Lina! Lina!» e questa voce era stata contraccambiata nella folla con
quella di: «Marzia!»

E veramente, povera Marzia, essa avea riconosciuto l'amica quasi sorella
ed accanto a questa il diletto del suo cuore, unica speranza
nell'esistenza sua sventurata, non nominato da lei, ma compreso nel nome
della bella alpigiana.

Lo arrovesciarsi poi della calca sugl'incappucciati e le povere beghine,
aveva avuto origine dallo slanciarsi della Lina verso il carro,
movimento che, seguìto dal robustissimo P..., avea spinto la moltitudine
sulla processione.

Per colmo di disordine, vedevansi altri individui, all'apparenza ben
maneschi, che cercavano di avvicinare il nostro P... colla sorella e
probabilmente per aiutarli a menar le mani ove occorresse; questi altri
non erano se non quella bagatella di Nullo e Torquato, da cui non
lontano trovavansi Muzio con non pochi Romani; di quella gente che i
fogli ufficiosi ed ufficiali chiamano amanti del disordine e che non
sono in sostanza che insofferenti del privilegio e delle lussurie dei
sedicenti grandi o ministri di Dio.

E guai! se quel movimento dei nostri fosse stato preparato
preventivamente. Ne sarebbe risultato almeno un'insalata di chercuti, di
beghinume, di sgherri che procedevano al sacrificio di due sventurate
creature per la maggior gloria di Dio.

Maggior gloria di Dio! assassini del genere umano--e peggio che
assassini, pervertitori e corruttori!

E le monarchie che sorreggono cotesti scarafaggi perchè li sorreggono?
Non è forse per esser i preti gl'istromenti più idonei per lo spionaggio
e la corruzione delle genti? E voi salariati lodatori e millantatori del
consorzio monarchico-chercuto--ben lo sapete essere quelle le due lebbre
dell'umanità. Ma quando la miserabile vostra coscienza, se mai ne avete
una, vi accenna il servilismo schifoso degli atti vostri, voi allora
posate la brutta di fango vostra penna sul ventre ed abbandonate l'anima
al suo appetito.

L'avvenimento dell'entusiasmo mutuo delle due fanciulle, e la loro santa
manifestazione d'affetto non ebbe altro seguito, tranne il grido
disperato d'un prete francese, che, per motivo d'essersi un po'
indecentemente calcato sulla Lina, ebbe da Torquato tale un pugno sui
fianchi che si lasciò cader svenuto dopo un «ahi!» dei più commoventi.

In altra circostanza sarebbe stato fresco il monarca della montagna,
poichè oltre ad esser prete, la sua vittima apparteneva a quel clero
insolente ultramontano, artefice della sventura della Francia ed
onnipotente in Roma nell'epoca in cui scriviamo.

Però Torquato aveagli amministrato il pugno con tanta destrezza, e la
folla era tanto folta che nessuno s'accorse del colpo, o se qualcuno,
non bisogna poi credere che tutti sieno amici dei preti in Roma.
Comunque, l'ex-brigante con alcune spinte di gomiti, ebbe presto il suo
corpo non molto distante, ma fuori almeno dal campo di battaglia.

Birri a piedi, a cavallo, in militare, in borghese, spie nella stessa
foggia, e agenti di polizia, preti, sagrestani, frati e simile canaglia,
ebbero presto ricondotto _l'ordine_ dopo una gran dose di paura.

L'ordine!--Un milione d'uomini scaraventati al macello nella guerra
franco-germanica, per la _gloire_ e l'equilibrio europeo, non l'han
turbato l'ordine!--I loro scheletri, biancheggianti sul suolo della
Francia, sono in ordine.--Cinque o sei milioni di famiglie precipitate
nella miseria, nel lutto e nella prostituzione non turbano l'ordine!

Chi turba l'ordine, e lo gridan tutta la sequela dei gaudenti a
squarciagola--sono pochi parigini mal intenzionati che rovesciano nella
Senna una spia riconosciuta.--Gli operai di Londra che vogliono far
prendere un bagno nel Tamigi a Haynau, il carnefice di Brescia e
dell'Ungheria.--Chi turba l'ordine sono alcuni romani, che resa Roma
all'Italia dopo diciotto secoli di abbominazione, chiedono che sia
vietato ad uno scarafaggio di maledire l'Italia redenta.--Chi turba
l'ordine è la società internazionale che ha l'audacia di voler la
fratellanza di tutti gli uomini a qualunque nazione essi appartengano,
che non vuole preti, non eserciti permanenti, non caste privilegiate!

E la processione proseguiva in ordine verso il maggior tempio
dell'orbe--ed il popolo, come l'onda del mare affollavasi per
accostarvisi--molti per curiosità e forse i più, e tanti per partecipare
alla benedizione del Massimo degli impostori.

Non ostante l'immensa folla, a P... e a Lina che servivano come punto
centrale ai nostri amici in quella tempesta umana, poterono questi
avvicinarsi. Ciò però non servì che a sistemare alcune intelligenze sul
da farsi nella notte, essendo di tutta impossibilità operare in tale
giornata.

«Al Foro! al Foro!» fu la parola di convegno dei prodi campioni della
libertà italiana, «al Foro, a due ore di notte», e con tali concerti
presi si divisero nuovamente, essendo sui dintorni strabocchevole il
numero di birri vigilantissimi sui disturbatori dell'ordine, ch'essi
adocchiavano e che avrebbero arrestati in circostanza meno pericolosa.

Le superbe porte egizie del grandissimo tempio erano spalancate, come
suolsi nelle feste solenni e dall'immenso colonnato perittero, si poteva
scorgere il modesto erede del povero pescatore di Palestina, assiso sul
suo trono d'ebano, tempestato di diamanti e d'oro, e vestito con tanto
lusso, quanto ne potè inventare l'orientale magnificenza.

Civettava, il massimo dei sacerdoti, squadrandosi nella ricchissima sua
tenuta con donnesca compiacenza, sorrideva alla stupida moltitudine,
massime quando lo sguardo lascivo posavasi su qualche bella figura.

Polpute eminenze e monsignori formavano la destra e sinistra, su tre di
fondo e seduti pure su banchi riccamente adorni in anfiteatro.

All'aria compunta e solenne di tutti questi magnati della malizia,
avresti creduto esser eglino nell'atto di decidere qualche opera
benefica a profitto dell'umanità sofferente--quando invece quei perversi
eran lì riuniti per consacrare nuove menzogne, ed insidiare nuove
sventurate creature, nell'intelligenza di far male, e beffandosi della
vile canaglia che non li prende a sassate.

La processione procedeva verso il maggior altare, e verso il maggiore
dei furbi.--I dragoni schieravansi in ala all'entrata del tempio, e gli
alabardieri facean lo stesso nell'interno, dimodochè i servi di Dio,
ministri dell'Onnipotente, sono sempre sotto l'egida di una provvidenza
di ferro, sia essa nostrana o straniera.--Sarà anche per la maggior
gloria di Dio, che i preti hanno tanta paura della pelle? E le legioni
d'arcangeli colle loro spade di fuoco, pare preferiscano star lontani da
questi puzzolenti chercuti.

Nell'emiciclo, alla sommità di cui stava il Papa, e proprio appiedi del
suo trono, scorgevasi un inginocchiatoio con ricchi cuscini coperti da
raso bianco, e questo inginocchiatoio, si capisce, era destinato per le
due vittime--che al canto d'un _Veni Creator_ e alla sinfonia d'un
organo che faceva rimbombar i sette colli, discese dal carro trionfale,
avanzavasi verso lo stesso, con in mezzo la contessa N. N. ed ai lati il
generale dei gesuiti e Corvo.

Lo sventurato vecchio portava sulla sua canizie tracce incontestabili di
terribili patimenti sofferti nelle torture, per avviar anche lui, povero
diavolo, alla gloria del paradiso, e strapparlo al fuoco eterno
dell'inferno, ove tutti gli ebrei e tutti i nati fuori del cattolicismo,
devono piombar senza che ne possa scappar uno solo.

Nel fuoco eterno! mi capite, lettori--Eterno! eterno! sì! ed a cotesti
inventori del purgantissimo ritrovato, se voi presentate un zolfanello
acceso sotto la punta del naso, essi vi staranno con quell'aria
sorridente, con cui si contengono al cospetto d'un fiasco d'Orvieto, ed
a lato delle loro amabili Perpetue--provatelo e vedrete.--I bianchi
capelli del canuto, benchè fossero stati pettinati con cura, s'eran
sconvolti al punto di sembrar l'anguicrinita testa di Medusa, in
agitazione perenne. La fronte sua rugata come non si vide mai in
creatura umana, era plumbea, e plumbee le sue guancie e smorte. Le
labbra livide, e l'occhio, chi avesse potuto fissarlo da vicino, vi
avrebbe trovato un miscuglio d'idiotismo e di disperazione.

E Marzia? povera Marzia! sì buona, sì bella, sì valorosa! costretta a
mantenersi quieta in mezzo a quel branco di scellerati ch'eran pervenuti
ad impadronirsi di lei!

Chi considerava attentamente il padre e la figlia, non poteva a meno di
dire tra sè: Pare impossibile ch'esso possa esserle padre.--Saranno i
patimenti, la prigionia, che tanto hanno contraffatto i lineamenti del
povero vecchio. Ma essa, la giovane conversa, ha pochissima somiglianza
col genitore.--Piuttosto essa sembra esser stata modellata dalla natura
su quel bellissimo originale di donna che le sta accanto e che tanta
cura si prende di lei, di cui sembra maggior sorella. E qui il lettore
deve sapere che causa principale della quiete della nostra eroina, era
una catenella, anche questa adorna dagli stessi colori del vestiario
della fanciulla, e che la malizia dei suoi persecutori avea fatto
maestrevolmente adattare alla cintura nella parte posteriore per mezzo
d'un fermaglio.

Ora, quando successe l'inconveniente del riconoscimento delle due
amiche, Marzia avendo promesso alla contessa che sarebbe stata savia,
che non avrebbe cioè dato sfogo al ribrezzo ed allo sdegno che
cagionavale l'atroce condotta de' suoi carnefici:--Marzia, dico, era
stata lasciata libera, e perciò avea potuto innalzarsi sulla bella
persona scoprendo la Lina.

Dopo tal fatto fu affibbiata la catenella, e sino alla discesa nel
tempio, l'infelice non potè più muoversi liberamente.--Ella mordevasi le
labbra dal dispetto, e l'anima sua trovavasi in una situazione
d'inferno. Le sue sofferenze, essa le avrebbe sopportate con quella
fortitudine che corrispondeva al suo coraggio, ma la sorte del genitore,
l'idea dei patimenti sofferti nei sotterranei dell'inquisizione, e lo
stato di demenza e di disperazione in cui l'avean precipitato coteste
iene chercute, ah! ciò dilaniava il suo cuore buono e generoso!

Si scese dal carro trionfale, ed i due futuri conversi furon trascinati
verso il maggior degli scarafaggi, tra due lunghe file d'alabardieri e
preti schierati a' piedi dei magnati della bottega.

Qui mi fermo. Del racconto di quanto successe nella chiesa di S. Pietro
alla conversione di Marzia e di suo padre, i devoti di tali stomachevoli
cerimonie avran veduto un campione nella conversione del fanciullo
Mortara, rubato dai preti ai parenti ebrei per farne un cattolico.

Usciamo dunque da questo fango dell'umana famiglia, e torniamo sul campo
glorioso, e sul sentiero tracciato dai Mille coll'impronta della
vittoria, ove la tirannide poteva contemplare que' suoi indorati,
pistagnati e piumati sgherri, fuggendo davanti a un pugno di prodi figli
della Libertà italiana.

NOTE:

[38] Ho pensato bene di adottare _stalla_ in luogo di _bottega dei
preti_, perchè significantissimo e di più suggeritomi da un contadino.




CAPITOLO XXXVI.

LA VITTORIA.

    La vittoria è sul brando del forte
    Insoffrente di ceppi e d'oltraggio.

              (_Autore conosciuto_).


Nella guerra bisogna vincere, e certo il più grande dei generali è
quello che più vinse. Sarebbe meglio la pace, ed io ne sono un
discepolo. Ma quando si hanno i ladri in casa, ed i preti, puossi stare
in pace con loro?

Dacchè cominciai a pensare, io mi feci il seguente ragionamento: Non
sarebbe meglio che gli uomini cercassero d'intendersi fraternamente
sulle loro controversie senza uccidersi?

Ma potevasi ciò in Italia, chiamata giardino di Europa, mentre questo
giardino, ove i suoi abitanti sudavano per vivervi, doveva servire di
villeggiatura a quanta canaglia produceva l'universo, che vi si metteva
di casa, e senza nessun lavoro voleva vivere splendidamente a spese dei
poveri italiani? E tutti vi trovavano vita doviziosa, mentre chi
lavorava il giardino col sudore della fronte, aveva oltraggi,
bastonate, e vi moriva dalla fame!

Guerra dunque per metter i ladri fuori di casa! Guerra! E qualche volta
sconfitti--ma finalmente beati dal sorriso della vittoria, e da quello
preziosissimo delle nostre donne, non contaminate al contatto di
mascalzoni stranieri! Sconfitti!.... sì, quando i mali semi della
tirannide e del prete, dopo d'aver pervertito, corrotto la nazione, la
dividevano in tante parti, ciascuna delle quali troppo debole contro i
prepotenti, ed incapace di sostenere l'onor nazionale calpestato.

Così divise le popolazioni nostre, lo eran poi ancora nelle singole loro
frazioni, tra volenterosi, indifferenti e birbanti.--Trovandosi i primi
in numero minimo, sicchè calunniati, traditi, venduti, finivano per
essere espulsi o schiacciati dai ladri.

E quando dico ladri, io non intendo soltanto i ladri di un pane, o d'un
grappolo d'uva, ma i grandi ladri, quelli che rubano i milioni collo
specioso pretesto di difesa nazionale, i chercuti che rubano al povero
popolo l'obolo di S. Pietro per saziare i loro vizi ed assoldare
mercenari stranieri; infine i grandissimi ladri che dopo di aver rubato
una provincia od uno stato, ne coonestano il furto colla durata del
dominio, e colla _grazia di Dio_, commettendo così il doppio delitto del
furto e del sacrilegio!

Amico della pace, è vero, io sono, e me ne vanto.--Comunque, una
vittoria sui mercenari del dispotismo, è una gran bella cosa!--La
campagna è cospersa di membra; le zolle sono vermiglie di sangue, le
grida dei feriti ed il rantolo dei morenti vi assorda.--I cadaveri
insepolti, o coperti da strato insufficiente, appestano l'aria, ed il
morbo uccide popolazioni intiere.--Meglio sarebbe un banchetto
fratellevole.--Ma chi la corregge questa stirpe di Caino?--Non ha dessa
i suoi culti alle sue divinità schifose più o meno, dalla cipolla al
vitello?--le sue maestà, i suoi principi, il suo patriottismo che
equivale all'egoismo massimo, le sue glorie, l'onore della sua
bandiera?--e tante altre miserie fittizie oltre alle naturali?--Ma pera
il mondo! siam beati della vittoria!

Usciamo da quest'altro letamaio umano, un po' meno puzzolente di quello
dei preti, ma pur sempre letamaio!

L'esercito meridionale procedeva verso la Partenopea Metropoli, sulle
ali della vittoria.

I centomila soldati agguerriti del Borbone non osavan più tener fermo al
cospetto degli imberbi avventurieri, capitanati dai superbi Mille
Argonauti e fuggivano e le lor masse scioglievansi davanti alle giovani
schiere dei liberi, come la nebbia davanti al sole.

Nella nostra storia noi eravamo rimasti sulle alture di Villa S.
Giovanni, dopo la resa d'una divisione borbonica che ci lasciò molto
materiale da guerra, cannoni, fucili, munizioni, cavalli, ecc.; lo
stesso successe a Soveria con altra divisione.

Da Villa S. Giovanni alla capitale della meridionale Italia fu una
marcia trionfale.--Le popolazioni stanche dell'abbominevole dominio
borbonico, acclamavano e benedicevano i valorosi liberatori.

Alcuni incidenti lungo la strada come quelli di Soveria e di Sorrento
altro non mostrarono che lo spavento dei nemici d'Italia, e l'aumento di
possanza dei nostri in armi, munizioni, gente e prestigio.




CAPITOLO XXXVII.

IL 7 SETTEMBRE.

        In quelle stesse vie, già solcate dal trionfo
      ove i regi eran dal mondo trascinati ai carri
      dei superbi Quiriti!

    Quand plus heureux jadis
      Aux champs de Partenope
      Mes jeunes miliciens ont étonné l'Europe
      Essuyant leurs pieds nus sur les tapis des rois.

              (_Autore conosciuto_).


Il 7 settembre 1860! E chi dei figli di Partenope non ricorderà il
gloriosissimo giorno? Il 7 settembre cadeva un'abborrita dinastia e
sorgeva sulle sue rovine la sovranità del popolo, che una sventurata
fatalità rende sempre poco duratura.

Il 7 settembre un proletario accompagnato da pochi suoi amici che si
chiamavano aiutanti col solo distintivo della rossa camicia, entrava
nella superba capitale del focoso destriero[39] acclamato da cinquecento
mila abitanti, la di cui scossa potrebbe muovere l'intiera penisola dal
Mongibello al Cenisio--il di cui ruggito basterebbe a far mansueti e
meno ingordi i reggitori insolenti ed insaziabili, od a rovesciarli
nella polve!

Eppure il plauso ed il contegno di quel grande popolo valsero nel 7
settembre 1860 a mantenere innocuo un esercito numeroso che trovavasi
ancora padrone dei forti e delle migliori posizioni della città, di dove
avrebbe potuto distruggerlo.

Il Dittatore facea la sua entrata in Napoli, mentre tutto l'esercito
meridionale malgrado le marcie forzate, trovavasi ancora ben distante
verso lo stretto di Messina, ed il re di Napoli nella notte dal 5 al 6
abbandonava il suo seggio per ritirarsi a Capua. Il nido monarchico
ancor caldo venne occupato dagli emancipatori popolani, ed i ricchi
tappeti delle reggie furon calpestati dal rozzo calzare del proletario.
Esempi questi che dovrebbero servire a qualche cosa, almeno al
miglioramento della condizione umana; ma che non servono per l'albagia e
la cocciutaggine degli uomini del privilegio, che non si correggono
nemmeno quanto il leone popolare spinto alla disperazione, li sbrana con
ira selvaggia, ma giusta, esterminatrice!

I Napoletani come i Siciliani, non secondi a nessun popolo per
intelligenza e coraggio individuale, furon quasi sempre mal governati, e
sventuratamente molte volte con sul collo dei governi stranieri, che
solo cercavano di scorticarli e mantenerli nell'ignoranza.

Ai pessimi governi devesi quindi attribuire il poco progresso in ogni
ramo di incivilimento e di prosperità nazionale.

E questo governo sedicente riparatore, fa egli meglio degli altri? Egli
poteva farlo! doveva farlo! Ma che! nemmen per sogno; coteste ardenti e
buone popolazioni che con tanto entusiasmo avean salutato il giorno del
risorgimento e dell'aggregazione alle sorelle italiane, sono oggi.....
sì, oggi ridotte a maledire coloro che con tanta gioia un giorno
chiamaron liberatori!

I giorni passati in Napoli dopo l'ingresso furono consacrati ad
organizzar una prodittatura con a capo il venerando Giorgio Pallavicino,
quindi a preparare l'esercito meridionale all'offensiva ed alla
difensiva, poichè i Borbonici coadiuvati dalla reazione europea,
ingrossavano al di là del Volturno.

Frattanto ogni sollecitudine era spinta sino al ridicolo dagli aspiranti
al merito di propaganda e d'intrighi per la monarchia-messia, cioè
sabauda, i quali avean usato i più ignobili e gesuitici espedienti per
rovesciare Francesco II e sostituirlo.

Tutti sanno le mene d'una tentata insurrezione che dovea aver luogo
prima dell'arrivo dei Mille, e per togliere loro il merito di cacciar i
Borboni, cosa che poteva benissimo eseguirsi, se la codardia non fosse
l'appannaggio dei servi.

Non ebbero il coraggio d'una rivoluzione i sabaudi fautori, ma ne avean
molto per intrigare, tramare, sovvertire l'ordine pubblico con delle
miserabili congiure, e delle corruzioni tra i mal fermi servi della
dinastia tramontante.--E quando nulla avean contribuito negli ardui
tempi della gloriosa spedizione, oggi che si avvicinava il compimento
dell'impresa, la smargiassavano da protettori nostri, sbarcando truppe
dell'esercito Sardo in Napoli (per assicurare la gran preda s'intende),
e giunsero a tal grado di protezionismo da inviarci due compagnie dello
stesso esercito il giorno dopo la battaglia del Volturno, cioè il 2
ottobre.

Era bello veder i regi settentrionali usar ogni specie di fallace
ingerenza, corrompendo l'esercito borbonico, la marina, la corte,
servendosi di tutti i mezzi più subdoli, più schifosi, per rovesciare o
meglio dare il calcio dell'asino a quel povero diavolo di Francesco--che
finalmente era un re come gli altri, con meno delitti, senza dubbio per
non aver avuto il tempo di commetterne, essendo giovane ancora--e
rovesciarlo e sostituirvisi e far peggio!

Sì, era bello il barcamenare di tutti que' satelliti, diplomatizzando
col re di Napoli, facendola da alleati suoi, cercando di condurlo a
trattative _paterne_, con promettergli forse, che ci avrebbero proibito
di passare il Faro, d'accordo col Bonaparte, come già accennavamo, con
un vascello francese nello stretto, e la marcia celere dell'esercito
settentrionale verso il mezzogiorno[40], ed infine attorniandolo
d'insidie e di tradimenti.

Oh sì! se non avessero tenuta per tanto preziosa la loro brutta pelle,
essi potevano facilmente compiere una rivoluzione e presentarsi
all'Italia come liberatori.

Che bella cosa se potevano far stare con tanto di naso i Mille, e la
democrazia italiana tutta!

Ma sì! sono i bocconi fatti che vi piacciono, signori liberatori
dell'Italia a grandi livree! e quanti fastidi non dovete aver avuti in
quello splendidissimo 7 settembre, di udire la più grande delle
moltitudini italiane, acclamare altri e non voi--e se la voce di qualche
ingannato o di creatura vostra, vociferava il vostro nome, voi certo
sentivate nella miserabile vostra coscienza di non averlo meritato.

Anche a Palermo, com'era naturale, tramavano i fautori della monarchia
sabauda e gettavano contro i Mille la diffidenza tra la popolazione,
spingendola ad un'annessione intempestiva.

Essi mi obbligarono di lasciar l'esercito sul Volturno alla vigilia di
una battaglia per recarmi nella capitale della Sicilia a placare quel
bravo popolo, suscitato dai cavouriani agenti.

Assenza che costò all'esercito meridionale la sconfitta di Caiazzo,
unica in tutta quella gloriosa campagna, che scosse alquanto il
prestigio dell'esercito vincitore e rimontò non poco il morale dei
borbonici.

NOTE:

[39] Emblema di Napoli.

[40] Non scordi il lettore il dispaccio di Farini a Buonaparte: «Noi
marciamo con quarantamila uomini, per combattere la rivoluzione
personificata, cioè i Mille».




CAPITOLO XXXVIII.

LA LIBERTÀ.

    Libertà mal costume non sposa,
    Per sozzure non mette mai piè.

              (BERCHET).

    È libero chi lo merita.

              (TUCIDIDE).


«Libertad para todos-y si no espara todos-no es tal libertad!» questa è
l'epigrafe di un giornale democratico spagnuolo, redatto da amici miei,
e sono veramente dolente di trovarmi lontano dal loro parere.

Credo non vi debba esser libertà per le zanzare e per le vipere, per gli
assassini, per i ladri, per i tiranni e per i preti, ch'io tengo tanto o
più nocivi dei primi.

E voi, popoli corrotti, volete esser liberi? Scendete nella contaminata
vostra coscienza, e ditemi se vi sentite capaci da tanto;--ditemi se gli
occhi vostri sono capaci di fissare il sole della libertà senza
abbagliarsi!

La libertà poi è un ferro a due fendenti.--L'autocrate è il più libero
degli uomini, e della libertà si serve generalmente per nuocere--il
proletario, che più d'ogni altro ha bisogno di libertà, quando giunge a
possederla, la prostituisce, oppure la trasforma in licenza.

Voi mi direte che foste ingannati, uomini del popolo, quando vi
corruppero, quando vi fecero gridar: viva la morte!--e quando vi
condussero a gettar nell'urna il vostro voto per un ladro, un servile,
od un tiranno! Ma voi vi lasciaste condurre--perversi! Vi lasciaste
ingannare con conoscimento di causa per aver una mercede, o per esser da
un perverso protetti!

«Ma fu un sacerdote, il mio curato, un ministro di Dio che mi condusse
all'urna».--Sì, e ci vuol molta matematica per conoscere che un prete è
un impostore?

No, non vi è discolpa: per esser libero, bisogna esser onesto--meritare
di esserlo, in poche parole!

Trascinato qualche volta da scetticismo o da misantropia, io maledirei
d'esser nato, d'appartenere a questa famiglia di scimmie, sì poco degne
di libertà! e che tanto libertà millanta anche quando incatenata per il
collo! Ma considerando poi che sono anch'io della famiglia, che ho
commesso degli errori anch'io, e che ho la mia dose di presunzione, per
amor proprio sono alquanto più condiscendente cogli altri.

Comunque, difettoso come sono anch'io, non ho mancato di ascoltar la
voce della ragione, e seguirne i dettami.

Io l'ho capito che il consorzio del dispotismo e del prete, ambi basati
sul godimento delle sostanze altrui, non potea sostenersi che con la
menzogna e la corruzione.--Il dispotismo mascherato da liberale o no, e
attorniato di avidi satelliti comprime le aspirazioni dei popoli colla
forza; ed i preti, suoi protetti, coadiuvano il consorte pervertendo le
masse. Libertà (come Giano) è una dea bifronte, ed in ciò somiglia alle
sorelle giustizia e legge.--In Italia, per esempio, voi avete una
caterva di servi che con aria di buona fede mi millantano la libertà, le
leggi, la giustizia, come benefizi sacrosanti in questa nostra venturosa
penisola.

Ebbene: guardatemi il primo articolo della legge fondamentale dello
Stato: una menzogna!

Per libertà, chiedetelo ai giornali che ardiscono dirla: giustizia!
Domandatene notizie al prode colonnello Lobbia: giustizia!--Io ho veduto
un povero milite passato per le armi, per aver rubato una pistola da
servirsene per una causa santa.--E Badinguet (Bonaparte) acclamato dal
gran popolo della Bretagna, egli che rubò soltanto alcuni milioni, e
fece uccidere milioni d'innocenti!

Giustizia! Leggi!--L'Europa ha una massa di legislatori, che ciarlano da
mane a sera, ed assordano il mondo; ed il mondo non ha mai avuto un
bordello simile a quello che presenta l'odierna colta e legislativissima
Europa.

E Marzia? Povera Marzia! sì bella, dotata di un cuore d'angelo e di
leone, un'eroina da illustrare un grande popolo, preda sventurata degli
scarafaggi umani, che hanno torturato il canuto genitore, che la
torturarono e la prostituirono! Anatema! Maledizione!

E vi è un popolo che si tenne per il maggior di tutti i popoli, i di cui
individui apprezzavano il titolo di cittadino romano, non quello di
monarca.

Una matrona di quel popolo si teneva maggiore d'una regina, ed avrebbe
avuto per disdoro lo esser chiamata tale!

E quel popolo oggi si strugge, si calpesta, muore soffocato per
contemplare il grande spettacolo, la solenne conversione, ed infine per
ottenere la santa apostolica benedizione dal padre degl'impostori e dei
cretini!

Libertà, giustizia, leggi! Io mi copro il volto dalla vergogna di
appartenere a questa razza di micchetti che gridano libertà colla
museruola alla bocca, o colla cuffia del silenzio sul cranio.--Povera
Marzia! dopo la solenne, buffona, infame cerimonia della conversione, il
suo carnefice che l'avea vituperata bambina, la fece ricondurre nel
convento di S. Francesco da quelle stesse monache, da cui aveva avuto la
fortuna di fuggire, e che per vendetta non solo la custodiranno
gelosamente, ma gelose della squisita di lei bellezza, la martorieranno
con tutta la raffinatezza di cui sono capaci coteste megere che mai
conobbero l'amore di madre, o se lo conobbero, lo seppellirono
nell'ossario, ove dormono ammonticchiate e confuse le vittime della
lussuria e della libidine pretina!

Povera Marzia! La sveglia guerriera di Montevideo non ti desterà più per
respirare le deliziose e balsamiche aure dell'aurora, per fiutare il
marziale clangore dei campi di battaglia, ove armata del tuo moschetto,
svelta come la gazzella dei campi Argentini[41] tu colpivi col calcio,
sdegnando il ferro, le curvate spalle dei servi della tirannide.

NOTE:

[41] Di Buenos-Ayres.




CAPITOLO XXXIX.

L'AMORE.

    Che amore in Grecia nudo e nudo in Roma
    D'un velo candidissimo adornando
    Depose in grembo a Venere celeste.

              (FOSCOLO).


Sacerdotessa dell'amore! Immagine squisita dell'Infinito[42]--se
l'Infinito potesse avere un'immagine! Capo d'opera dell'umana famiglia
ed educatrice che ingentilisce questa rozza creta!--e che sarebbe senza
di te il mondo, o donna? il mondo sconoscente a tanta grandezza
dell'essere tuo? E tu!..... sciagurata nella tua bellezza, o
dominatrice? Ingrata alla prodiga di te innamorata natura--ti prostri ai
piedi d'un rettile ed a lui sacrifichi patria, marito, figlio, e sovente
diventi una prostituta negli amplessi avvelenati del tentatore! Tale,--o
donna,--del prete!

E tale fu la contessa Virginia N... precipitata nella via di perdizione
dal gesuita Corvo.--Bella, spiritosa, piena di nobili sensi; da
giovinetta essa era una delle più splendide e preziose fra le bellissime
figlie di Roma, e perciò condannata nella corruttissima metropoli alle
brame disoneste dei porporati.

Da quel giorno la venustà della contessa appassiva come il fiore sullo
stelo al soffio malefico dello scirocco.

Era ancor bella nei tempi da noi descritti, e felice il mortale che
n'era beato d'un sorriso, ma le sue guance eran pallide, le una volta
folgoranti sue luci eran languide, ed ogni atto della vezzosa persona,
portava l'impronta del tedio, e segnava le tempeste della travagliata
anima sua.

Amore! quell'amore celeste che innalza la creatura al disopra delle
sozzure umane, che la spinge all'eroismo, che la santifica! essa lo
presentiva, ma il serpe che l'avea tentata, sedotta, trascinata nel
fango, l'avea bensì ingolfata nella lussuria di godimento brutale, ma il
chercuto non era stato capace d'infondere la celeste scintilla. E come
l'avrebbe potuto un prete? Un prete, la di cui esistenza s'inizia colla
menzogna, segue con essa irrevocabilmente e col delitto, e termina
finalmente col sacrilegio!

Povera giovine! inaridita nell'alba della sua vita ogni fonte della
poesia, dell'ideale umano, l'essere avea perduto ogni dolcezza per lei,
e le diventava ognor più insopportabile! Di natura forte, capace di
generosi propositi, ad essa veniva sovente la smania di togliersi la
vita.

Essa avea creduto di amare il Corvo da principio, quando ingannata, era
stata involta nell'atroce setta, ove le furon strappati terribili
giuramenti.--Ma progredendo nella vita, potendo per sè stessa apprezzare
tutte le nefandezze loiolesche, e l'indole profondamente scellerata del
suo seduttore, sparivano le illusioni usate per ammaliarla, e l'ardore
con cui avea servito la nera falange, cambiossi a poco a poco in odio
mortale.

Un giorno degli ultimi d'agosto del 60 l'atmosfera insalubre di Roma
s'era impregnata di sì letale umore da farti cercare un ricovero e
fuggire da quella pestilenza.--Gli affaccendati correvan per le strade
scappellati, fiatando davanti a loro come in cerca d'aria più pura, e
correvan sollecitando i proprii affari per presto giungere in casa e
ripararsi dall'afa micidiale. Degli sfaccendati non ne scorgevi, essi
eran nascosti nel più recondito dei loro palazzi, ordinando l'ermetica
chiusura delle imposte e assaporando sorbetti ghiacciati, chè ogni altro
appetito era scomparso.

Eran le 4 pomeridiane, e dall'Apennino si scorgeva innalzarsi quel
tetro, plumbeo, intenso nembo, precursore infallibile della tempesta.--E
per minacciosa e terribile che fosse questa, essa era inferiore alla
densa tempesta che travagliava l'anima della contessa.--Tutti avean
chiuse le imposte, ed essa aprì quelle della sua stanza da letto,
guardando a levante, cioè verso il nembo.

Tutti fuggivano dall'imminente temporale che si faceva minacciosissimo,
e dall'afa. A lei le strade deserte, i lampi che già cominciavano a
solcare il firmamento, i tuoni che già rimbombavano, e lo stato orribile
del suo cuore, mossero la voglia di uscire al passeggio.

Da molto tempo sdegnando le femminili eleganze, essa raccolse in una
reticella una bellissima chioma, si avvolse in un ampio sciallo, e
accompagnata da una sola fantesca, s'incamminò quasi fuggendo la foga
dei pensieri che la torturavano.

Il palazzo della contessa Virginia N... era occupato da essa e dalla
madre attempata e bachettona, con numerosa servitù, giacchè la nostra
eroina non solo apparteneva a cospicua famiglia, ma ricchissima, uno dei
motivi principali delle sollecitudini degli avoltoi del
sanfedismo.--Codesto superbo edifizio, come lo sono generalmente i
palazzi del patriziato romano, ergevasi sontuoso sulla piazza S.
Grisogono in Trastevere (non so ove diavolo i chercuti abbiano
dissotterrato questo santo: sarà senza dubbio qualche parente di quel
Griso che arrestò D. Abbondio).

La contessa uscì dal portone marmoreo della sua abitazione, ed avviossi
celere per la Longaretta verso il Tevere a Ponte Rotto.--A quel ponte,
metà in ferro, trovansi generalmente dei navicelletti; essa accennò ad
un barcaiuolo conosciuto, ed avvicinata la barca alla sponda vi discese
dentro frettolosamente indicando all'uomo coll'indice «in giù».

La fantesca, amante della sua signora, non l'aveva veduta sì agitata
giammai;--e quando il nocchiero disse alla padrona «Guardi, signora, che
noi presto avremo una tempesta», la ragazza in atto supplichevole la
guardò, senza ardire di articolar una parola, con tanta eloquenza negli
occhi da impietosire uno _scarafaggio_.

La contessa però, come abbiam veduto, era buona e generosa, ma altiera
ed ostinata nelle sue risoluzioni, quasi avesse ereditato il carattere
delle antiche matrone di Roma;--essa non manifestò dispetto impaziente,
ma il suo silenzio equivaleva a un comando.

Il motivo della passeggiata era per distrarsi, per fuggire ai rimorsi
della solitudine--e chi sa non balenasse nella mente della bella
infelice il pensiero della distruzione!

Il nembo da levante s'era limitato a qualche grosso gocciolone di
pioggia, e siccome a quella direzione il vento veniva a traverso del
fiume, poca agitazione vi aveva suscitato;--comunque come negli uragani,
il forte del temporale, dopo d'aver girato i tre quarti della bussola,
erasi spaventosamente condensato a libeccio, e da quella parte scatenò
una bufera..... una bufera da far impallidire il più coraggioso
navigatore.

Colla direzione da libeccio, il vento incontravasi e contrastava colle
onde veloci del Tevere, scorrendo in una direzione opposta, e
coll'urtarsi innalzavano marosi tali da non cederla ai rabbiosi ruggiti
e sconvolgimenti di Scilla e Cariddi.

Manlio, il nocchiero della Contessa, che tale si stimava, avendola
servita in ogni circostanza e sin da bambina, aveala prevenuta della
tempesta e del pericolo, ma siccome è solito negli uomini coraggiosi di
ripugnare nel mostrar paura, così il valoroso nauta mordevasi le labbra,
ma non ardiva più consigliare la distratta signora.

Si era giunti alle rovine dell'antico ponte Sublicio, pur non volendo
pericolare la vita e quella della generosa protettrice, Manlio cercò di
ripararsi dalla bufera nell'angolo formato da una pila del ponte e dalla
sponda destra del Tevere.--Poveraccio! ei non calcolò che riparato dal
soffio impetuoso dell'ostro, la corrente del fiume padroneggerebbe il
leggero palischermo sì, da spingerlo con violenza fuori della pila, e
quindi nell'urto rabbioso dell'onda tra i marosi ed il Tevere ambi
accaniti ad infrangersi, piuttosto di cedere il passo. Appena la
barchetta incontrossi in quel frangente, non fu più possibile a Manlio
di governarla, e presentando essa il traverso alle onde fu in un momento
sommersa.

Il nocchiero coraggioso come lo sono generalmente la gente di mare,
lanciossi al soccorso della Contessa, ma Lisa, la fantesca, gli vietò il
successo di tale generosa risoluzione, abbrancandosi in modo al corpo di
Manlio da non poter esserne staccata da forza umana. Poverina! essa
amava molto la buona padrona, e forse in altra circostanza avrebbe
rischiato la propria vita per salvarla, ma qui il caso era troppo
terribile e al disopra del coraggio e del sangue freddo della giovinetta
avvolta in tali frangenti, e da far raccapricciare i marini più
valorosi. Il fatto sta che Manlio e Lisa in un solo gruppo nuotarono nei
gorghi del fiume, scomparendo e ricomparendo alla superficie in modo
lamentevole e fatale.

Alla Contessa vi volle la catastrofe, la freschezza dell'onda ed il
prospetto della morte, per distrarla dallo stato di disperato stupore e
maledizione della vita in cui l'avevano immersa i ministri del demonio.

Essa mai disse se si pentiva in quel momento d'aver abbandonato la casa
materna, e cercato il pericolo e la morte;--e dall'abbandono, dalla
rassegnazione con cui essa si avvolse nel suo sciallo, e si abbandonò
all'orrendo suo fato, senza un grido od uno sforzo per salvarsi, si
poteva congetturare, esser essa disposta a finire una sventurata
esistenza.

Ma non era giunta l'ora finale della bella infelice. Mentre travolta nei
gorghi, la sua salma ora abbandonata ai capricci dei flutti, ed il suo
spirito forse già rivolgevasi a quell'Infinito che tutto racchiude, e
che probabilmente tutto regge--quell'Infinito da sostituirsi
ragionevolmente alle menzogne dei preti, il di cui culto può solo,
propagato dalla scienza, illuminare ed affratellare tutte queste razze
d'insetti che brulicano sulla superficie d'uno dei mondi minori--in
quel mentre, dico, una mano d'acciaio la stringeva sul destro braccio e
la sollevava come una bambina dall'onda, per riposarla sul marciapiede
d'una scalinata di granito alla sponda destra dei Tevere.

Nel forte della tempesta, quel sito era rimasto deserto, ma siccome i
nembi estivi non sono durevoli, presto la calma successe al temporale, e
la gente ricominciò a circolare anche nel luogo della catastrofe; per
cui la bella naufraga fu presto trasportata al coperto.

La prima casa vicina accolse la vezzosa svenuta, ed alcuni cordiali la
resero alla vita.--Un giovane di marziali fattezze stava al suo
capezzale, e per sorte, nella folla che circondava il suo letto, colui
fu il primo su cui fissaronsi gli occhi della contessa quando tornò in
sè. Aprir gli occhi, fissarli sul suo salvatore, scuotersi e tentar di
spingersi verso di lui, fu tutto un momento. E chi avea detto alla
sedotta dal gesuita che colui l'avea tratta dall'onda, da morte certa,
col pericolo della propria vita? L'avea essa scorto mentre travolta nei
frangenti? Impossibile! O forse _quella corrispondenza d'amorosi sensi,
celeste dote degli umani_, di cui ci narra Foscolo, avea penetrato, o
trovavasi senza dubbio nell'anima della sventurata nobile romana?--Forse
in quei sogni di felicità che cullano ogni creatura, essa avea sognato,
veduto nel delirio della immaginazione esaltata, tale bellissima e fiera
figura, e s'era fatto un idolo di colui che ora è realmente davanti ad
essa?

Comunque, quando Muzio (perchè altro non era che il nostro prode romano)
fu certo che la donna salvata era fuori di pericolo, e si mosse verso la
porta della stanza per partire, la contessa lo seguì cogli occhi, e vi
volle tutta la verecondia femminile perchè non chiamasse e non
scongiurasse a stare presso a lei il suo salvatore. L'arrivo di Lisa,
salvata anch'essa dal coraggioso Manlio, ed in uno stato consimile a
quello della sua signora, contribuì pure a distrarre ognuno dalla scena
descritta. Da quel momento l'esistenza della contessa fu completamente
trasformata. La lacuna la più interessante della vita donnesca s'era
riempita, le brutali libidini gesuitiche caddero davanti all'amore
celeste suscitato in lei da un uomo. Sì, da un uomo, e non da un
gesuita, da un sacerdote della menzogna! E dico suscitato, e non creato,
perchè quel celeste, amoroso senso esiste nell'anima nostra, se
coltivato, se spinto verso la sua natura gentile, ma viene deviato,
prostituito, distrutto, quando la graziosa creatura cade sotto il soffio
appestato del tentatore.

Il nuovo stato dell'anima sua contribuì non poco a ristabilirla. Essa
smaniava di trovarlo, di vederlo, di saper chi era il suo liberatore;
quella bella bronzata, maschia sua fisonomia che dovea certamente
albergare l'anima d'un generoso, d'un eroe! tale come lo aveva veduto
sognando.

Essa smaniava, delirava, temeva di non più incontrarlo, ed avrebbe
voluto precipitarsi dal letto nella sua impazienza malgrado le
ammonizioni di coloro che la custodivano.

Solo un sentimento di ribrezzo, più forte di ogni altro, che quasi
superava il primo, la tratteneva, la disperava, le faceva nascondere il
volto tra le coltri per non esser degno di luce. Essa!... era stata
l'ancella d'un nemico del genere umano! E tali sembravano a lei oggi i
settari del Sanfedismo!

NOTE:

[42] Ricordi il lettore che per Infinito io intendo lo spazio, lo
universo, Dio, ecc.--Accenno, ma non insegno.




CAPITOLO XL.

IL CONCLAVE DEI RUBATI.


    Birri un dì noi vedemmo e genti serve
        In quest'afflitta terra; e fatalmente
        Di servi e birri noi vediam caterve.

              (_Autore conosciuto_).


È a tutti noto esser la corruzione e la delazione le armi principali di
cui si serve il clero, per dominare le moltitudini, per spingerle alla
ubbidienza di Cesare e poi farsi bello presso di lui per i servigi
immensi che gli rende. La setta gesuitica, che si potrebbe chiamare il
sublimato del pretismo, in altri tempi era potente al punto di dominare
anche i Monarchi e le Corti. Oggi però, credo, solo le beghine, cariche
d'ogni _peccato mortale_, ed alcuni cretini, sono il ludibrio della
setta. Gl'imperatori e i re la fan da devoti per meglio corbellare i
gonzi; essi mantengono e sorreggono il prete per ragioni di convenienza,
ma sanno come me benissimo: un chercuto essere un impostore.

Il credito del gesuitismo va in ragione inversa del progresso umano.
Generalmente quando uno stato diventa libero o quasi, la prima cura
delle persone intelligenti si è quella di proporre la cacciata dei
gesuiti, e quando il paese ricade sotto le unghie d'un'aquila, cotesta
gramigna ripullula di nuovo maravigliosamente.

«Manteneteli poveri» È questo il precetto della tirannide e del prete,
cioè, manteneteli miserabili e quindi sudici.--I paesi cattolici sono
generalmente famosi per il sudiciume.

Correva il tempo in cui l'esercito liberatore[43] di Cavour, dopo i
fatti strepitosi d'Ancona e di Castelfidardo, marciava sul mezzogiorno
d'Italia per combatterne la rivoluzione, ed in caso la rivoluzione non
avesse voluto accettare la sfida, eseguire ciò che eseguisce
generalmente la sedicente giustizia umana, quando possiede grossi
battaglioni: dividere l'ostrica, darne una valva od una bastonata ai
contendenti, e mangiarsi il buono.

In una sala del Quirinale da noi conosciuta, ove usavan adunarsi i capi
del sanfedismo, trovavansi in concistoro il generale dei gesuiti, il suo
segretario generale ed il cardinal Volpe, capo della polizia pontificia.

La conversazione trascorreva animata sugli avvenimenti del giorno, e
Volpe adiratissimo, dopo di aver narrato di Ancona e di Castelfidardo,
disse:

«Una volta si contava tra le più astute, come astutissima la nostra
corte, e massime poi la più furba ancora, consigliera della stessa la
Compagnia di Gesù, tenuta per stupenda ed universale nel sapere ogni
cosa di questo mondo e sventarla, quando tale cosa poteva nuocere
agl'interessi di santa Madre Chiesa.--Oggi noi siamo lasciati molto
indietro dalla Corte dei galantuomini (e qui un solenne sogghigno) in
ogni specie di furberia e di malizia. Il moderno Macchiavello di Torino
ha saputo far capire allo Imperatore che l'esercito sardo moveva
nell'interesse generale dell'ordine Europeo, per combattere la demagogia
invadente le due Sicilie; quando esso calpestando ogni diritto umano e
divino, scagliasi sull'esercito santo (non più composto di legioni
d'angeli però) e s'impadronisce, come lo fecero le orde dei Vandali del
santissimo Patrimonio».

E qui parlando del santissimo Patrimonio, l'Eminentissimo appoggiò
ambedue le mani sul vertice d'un potentissimo ventre, ove gli
scarafaggi, grandi e piccoli, hanno edificato il loro santissimo e
bruttissimo tutto.

«Ah! i bei tempi delle passate nostre glorie!» esclamò il generale
«quegli aurei tempi Borgiani ove sì temuta era la possanza delle sante
chiavi! ove quando non valeva il pugnale a curare certe prepotenze, là
era pronto il veleno» e guardossi attorno «infallibile mezzo per
ricordare ai protervi il rispetto a noi dovuto».

«Più efficaci ancora erano i roghi» gridò con accento rabbioso il
Segretario: e la voce avvelenata del minor scarafaggio fu interrotta dal
suono di un campanello, dal comparire d'un servo in livrea, e finalmente
da monsignor Corvo, introdotto con segni di rispetto nell'aula.

Seduto che fu in una poltrona damascata il nuovo venuto che--se bene
inferiore in grado ai due principi della Chiesa (che modestia!) non
mostrava perciò verun imbarazzo od umiltà, tanta era l'importanza
acquistata dal seduttore della bella Contessa--seduto che fu, dico, e
dopo di aver squadrato da capo a piedi i presenti da lui ben conosciuti,
esclamò come Archimede al famoso ritrovato del quadrato dell'ipotenusa,
uguale alla somma di quelli dei cateti: «L'ho trovato!--Sì l'ho trovato
l'enimma che da tanti giorni cercavo sulle distrazioni e procedimenti
della Contessa... Essa è innamorata d'un perduto!... d'uno di quegli
esseri perversi, che per principii, per dovere (come essi lo intendono
per i loro atroci giuramenti, per ogni propensione insomma) sono i
nemici nostri mortali!»

--«Innamorata d'un Repubblicano!»

Repubblicano!... ed il protervo campione della malizia umana, forse il
più astuto, non ardì aggiungere un epiteto degradante a quel nobile
titolo, che equivale a quello di onesto, forse anche nella coscienza dei
reprobi.

«Ma che monta!» esclamò il Cardinale Volpe, «se una donna è innamorata
più d'uno che dell'altro, è cosa tanto naturale! una donna cambia di
amanti come di vestiti» (Morale veramente dei preti).

E qui scorgendo il dispetto sulla fisonomia di Corvo, il capo della
polizia chercuta caricò sulle ultime parole, pronunciandole pacatamente
ed in modo solenne.--Volpe era ingelosito della grande influenza
esercitata nella Corte pontificia dalla setta gesuitica, e massime di
quella del Monsignore che riconosceva d'assai superiore a lui stesso in
intelligenza e furberie, per cui colla quantità di vittime sedotte, più
della stessa polizia era informatissimo d'ogni cosa importante in Roma e
nel mondo.

«Che monta! (esclamò il seguace di Loiola)--voi non sapete che quella
donna conosce i più reconditi secreti di questa Corte e della potente
società nostra, che n'è la più solida colonna».

Un cenno di approvazione del generale gesuitico e del suo segretario,
all'onorevole menzione fatta da un membro sì rispettabile dell'Ordine,
fece rintuzzare alquanto l'alterigia del Cardinale, mentre ringalluzzì
l'ardimento del Monsignore, il quale più francamente di prima riprese:

«Noi siamo in circostanza di dover temere più dai nostri nemici di
dentro che da quei di fuori. Quella volpe di Monarchia sabauda, mentre
si protesta umilissima figlia della santa Sede, distrugge il nostro
esercito, si fa padrona delle nostre province e delle nostre sostanze; e
siatene certi, essa non si fermerà nelle sue depredazioni se non che
dopo d'essersi seduta padrona sul trono del Vaticano, come fece a Parma,
Modena, Firenze, Milano e Napoli. Comunque, l'impudente suo ardimento
mai giungerà a distruggere la Chiesa, che ad essa conviene, nè il potere
spirituale del santo Padre.--Non così i nostri nemici interni, essi non
si contenteranno di distruggere una cosa e l'altra, ma getteranno le
loro mani sacrileghe sui sacerdoti di Dio, e sul santissimo di lui
rappresentante sulla terra, rovesciando nella polve e nel sangue dei
fedeli ogni cosa sacra esistente in Roma!--Roma Capitale d'Italia!--Essi
si senton piccini quei miserabili Macchiavelli della Dora a tanta
grandezza.--Il peggio si è, che oggi non son più padroni di loro stessi,
e sono obbligati di ubbidire a chi più di loro vale, benchè sempre
stupida, sempre ingannata, la nazione, ch'essi taglieggiano, come fanno
di noi, e come noi, sono in obbligo di adulare rubando».

Un momento di silenzio seguì la mordente favella del Corvo, e tutti
sembraron meditare sulla veracità delle sue asserzioni, e sulla delicata
e pericolosa posizione della bottega.

Incoraggito dal silenzio dei compagni, così proseguì il gesuita:

«Osteggiati barbaramente al di fuori da chi si manifesta pubblicamente
servo della santa Sede, noi stiamo su d'un vulcano nell'interno di
Roma.--La setta dei perduti, profittando delle sventure del nostro
esercito, e dell'entusiasmo suscitato in tutta Italia dalla vittoriosa
spedizione dei Filibustieri del mezzogiorno, tenta in questo momento un
colpo decisivo sul santo Padre, ed il suo governo, per farla finita una
volta (come dicono quei malviventi) coi chercuti.--E ciò che mi fa
supporre tanto più terribile tale infernale congiura, si è: di veder
sedotta da uno dei capi la contessa Virginia N....--tanto influente
sulla società nostra, e padrona dei nostri segreti--».

--«Che si congiuri in Roma, è cosa vecchia» esclamò il Volpe spaventato
dalle tremende rivelazioni, e poi stizzito, nel vedere ed udire, che un
semplice mortale ne sapesse più dello stesso Capo di polizia--«ma che la
contessa N.... creatura nostra, sì zelante sempre, siasi lasciata
sedurre dal serpente, è ben straordinario, e duro fatica a crederlo».

«Io proverò coi fatti a V. S. che quanto dissi è vero, e chiedo anzi
tutto l'appoggio possibile per far sventare la tremenda congiura che si
prepara a distruggere fino alle fondamenta il santissimo tempio del
Signore».

Come già cominciano a mutar tuono cotesti ministri di Dio; non sono più
le porte dell'inferno, nè le legioni degli Arcangeli che essi invocano,
ma spie, birri, ben pagate polizie, e non bastando tutto ciò invocano
anche il soccorso di Maometto. Poveri impostori! sono veramente da
compiangere, dopo d'aver trovato un mondo di stupidi, che sì grassamente
li manteneva, esser essi minacciati d'esterminio dalle stesse loro
pecore!

Dopo alcune intelligenze prese col Volpe e col suo generale, il gesuita
congedossi; Volpe rimase ancora colla volontà di ciarlare, millantare i
suoi servigi al potente suo ospite e persuaderlo che il Corvo operava
finalmente sotto le sue ispirazioni. Il generale però, ben persuaso
della capacità del monsignore, lasciò il poliziotto con tanto di naso, e
con un pretesto futile, se la svignò nel suo gabinetto.

NOTE:

[43] Ripeto: non si scordi la nota di Farini a Bonaparte; «Noi marciamo
coll'esercito per combattere la rivoluzione personificata in Garibaldi.»
(Che liberatori!)




CAPITOLO XLI.

I TRECENTO.


                  Il navigante
    Che veleggiò quel mar sotto l'Eubea
    Vedea nell'ampia oscurità scintille
    Balenar d'elmi e di cozzanti brandi.

              (FOSCOLO).


Roma! e che scriverei io, se non m'ispirassi nell'immenso tuo nome,
nelle immortali tue memorie!

Tu suscitasti nel petto mio di diciott'anni, l'amore del generoso, del
bello, del grande, l'insofferenza d'oltraggi e l'affetto mio sviscerato
a questa terra natìa, allora calpestata da mercenari. Oggi non
fortunata, ma crollando la ricca ed altiera cervice, e non invano,
all'insolente straniero consueto ad umiliarla.

O Roma! tu fosti la mia stella polare nell'avventurosa mia vita, e
prendendo ad emuli i tuoi grandi, io ebbi la presunzione di meritarmi la
tua stima. Anche canuto, tu susciti nell'anima mia qualche cosa che mi
ringiovanisce, che mi spinge a far tuttora il mio dovere di milite e di
cittadino, a fiutare ancora quei campi di battaglia, ove deciderannosi
le sorti di buon numero dei tuoi figli, schiavi dello straniero.

Rovistando fra i cantori delle grandezze umane, io trovo un Britanno che
cantò degnamente di te, ed a cui l'Italia deve veramente eterna
gratitudine. Byron! Il gran vate, e l'eroe delle Termopili, ricordò che
accanto alle meraviglie dell'Ellade, potevano stare le maschie virtù del
tuo grandissimo popolo.

Non così i grandi nostri favoriti dalle muse, tranne il colosso
Astigiano: la maggior parte dimenticarono alquanto che Italia era stata
la dominatrice dell'orbe, l'istitutrice delle generazioni presenti,
quando Repubblicana.--E quando il cantore dei _Sepolcri_, negl'immortali
suoi versi eternò Milziade ed i suoi valorosi di Maratona, egli non
pensò certamente alle legioni vincitrici della falange macedonica.

Eran trecento--Sì! trecento i giovani romani che agli ordini di Muzio
tramavan la liberazione di Roma. Trecento! I posteri italiani
ricorderanno i Mille di Marsala, e ne conteranno le gesta: io voglio
rammentare i trecento, numero magico anche questo, e nulla di più
grandioso dei trecento di Leonida e dei trecento Fabii[44].

Ed i trecento Romani che si consacrano alla liberazione della grande
Metropoli, mi piace di contemplarli in una catacomba pronti ad
affrontare il demonio sotto la schifosa assisa d'un birro o d'un prete.
Armati di un solo ferro a guisa di quella daga con cui gli antichi
militi della Repubblica entravano tra le formidabili file delle falangi
di Perseo, tra i torriti elefanti di Pirro, ed aprivano il petto ai
conquistatori dell'Asia.--Con quelle daghe con cui abbattevano ai loro
piedi tutte le autocrazie del mondo conosciuto, non col cannone Krupp, o
con mitragliatrici, ma col ferro, e a petto a petto.

L'Arco di Settimio Severo, una delle più severe ed importanti ruine che
adornano il Foro Romano, copriva una catacomba, ed in quella conferivano
i trecento prodi, e congiuravano per la liberazione della patria, in una
sera di settembre del 1860.--Giovani tutti, ma di austero sembiante,
come sono in generale i discendenti del gran popolo che non han
degenerato e che poterono sottrarsi al contatto pestilenziale degli
scarafaggi; i romani venendo da diverse direzioni, concentravansi tutti,
favoriti dalle tenebre, per diversi anditi nel sotterraneo. Appena il
respiro d'alcuni venuti da lontano, udivasi in quel consesso di giovani
sacrati alla morte per la più santa delle cause. Sacrati alla morte! Ed
i tiranni di Roma lo sapevano, ed impazzivano di rabbia di non poter
distruggere fino alle radici quella pianta di generosi, da loro chiamati
con nomi orrendi, come solo possono trovarsi sul vocabolario de' preti.

Ma eran cambiati i bei tempi degl'Inquisitori; ed in Italia a dispetto
dei retrogradi che proteggono per conto proprio i chercuti, già potevasi
chiamare un birbante ed un impostore con il proprio nome. L'opinione
della gente onesta cominciava a plaudire ai coraggiosi, che innalzandosi
al disopra dei pregiudizi del passato, calpestavano con fronte alta il
vecchio e putrido diritto divino, poggiato sull'altare della
negromanzia. E quantunque sette anni dopo si trovasse ancora un
disprezzevole tiranno della Senna, capace d'inviare in Italia i suoi
sgherri, e sostenere la baracca pretina, la forza degli avvenimenti
rovesciava nella polve il triregno, e trascinava il concime nella
cloaca.

Una lanterna sorda come per incanto illuminò lo speco, ove immobili e
silenziosi stavano i prodi campioni della libertà italiana. Essi
portavano tutti la destra sul cuore, cenno di ricognizione, e di
devozione illimitata alla loro patria infelice. Spettacolo sublime che i
grandi artisti odierni potrebbero ben distendere sulla tela, incidere
sul marmo e sul bronzo, per rimpiazzare certe mitre buffonesche ed
immorali che disdorano il grandissimo tempio.

«Fratelli!» vibrava la maschia e melodiosa voce di Muzio: «Roma seguirà
l'esempio dei nostri valorosi delle province, che sacrati alla
liberazione degli schiavi, stanno compiendo una di quelle imprese che
costituiscono il carattere d'una nazione insoffrente d'oltraggi, che
imprimono a caratteri di sangue nella sua storia una pagina ben
gloriosa! Sventuratamente ingannati sin ora da titubanti o presuntuosi,
noi sin ora invano aspettammo il segnale della pugna. Ora, tregua alle
timide aspettative, noi non vogliam più starcene colle mani alla
cintola, e se la spedizione dei superbi militi di Marsala rovesciò nella
polve un tirannuccio, dannato a pagar le colpe degli avi, e col solo
delitto, per ora, d'esser nato sul marciapiede d'un trono, noi getteremo
i nostri ferri tra gl'interstizi di questo catafalco delle malizie e
delle corruzioni umane.--Noi sì! rovescieremo la più nefanda, la più
pestifera delle Autocrazie.--Autocrazia che non si contenta di fare
degli schiavi, ma li vuol depravati, corrotti, curvi, disprezzati,
indegni di comparire al cospetto degli uomini.

«E noi, fratelli, che non abbiamo altra chiesa che lo spazio, cioè,
l'Infinito, altri luminari che le stelle infinite, altro Dio che la
ragione, la scienza, e l'intelligenza infinita che regola i movimenti,
le combinazioni, e la trasformazione della materia infinita,--noi siamo
condannati da codesti nemici dell'Umanità a rimanerci qui in un
sotterraneo, ove puzzano ancora gli scheletri di tante vittime della
tirannide e del fanatismo.»

Un ruggito di sdegno rispose alle eloquenti parole del capo dei
trecento, e tutti sguainando simultaneamente la daga, giurarono di
liberar Roma e l'Italia dal putrido chercume.

Ringuainate le daghe, Muzio presentò ai compagni Nullo, P... e la
bellissima Lina, che debolmente potea nascondere sotto le virili sue
vesti e sembiante la squisitezza delle femminee forme.

«Voi vedete qui, o fratelli, tre dei più valorosi militi di Marsala.
Abbiam la fortuna d'averli tra noi, per le solite scelleraggini dei
preti.--La Marzia con cui i chercuti hanno fatto tanto bordello è stata
rubata nello stretto di Messina mentre disponevasi a traversare il Faro
coi primi militi della schiera sacra che si disponevano di por piede sul
continente italiano, per aprir la via ai corpi dell'esercito
meridionale, vittorioso in tutti gli scontri, ed oggi in possesso di
Napoli e Caserta, sino alle sponde del Volturno. Essi, i coraggiosi
figli del settentrione e del mezzogiorno, hanno per obbiettivo la città
eterna, e noi, spero, saremo degni di loro, e procureremo di accogliere
quei nostri fratelli, in Roma libera, lavata dal sudiciume straniero e
papale. Noi compiremo l'opera nostra, e per cominciarla degnamente,
questa notte stessa, tenteremo la liberazione della Marzia».

«Che Dio vi benedica» esclamarono ad una voce i tre guerrieri dei Mille,
e l'eroico figlio di Bergamo, Nullo, sollevando la marziale sua fronte,
e tendendo orizzontalmente la palma della destra, disse colla potente ed
eccitata sua favella: Io giuro, sino all'ultimo sospiro, di sostenere la
causa dei popoli oppressi, contro i preti e la tirannide». (E ben
mantenne il suo giuro, spargendo il sangue generoso sui campi della
Polonia, per la redenzione di quel nobile popolo).

A quel giuro solenne, tutti distesero la destra e gridarono unanimi:
«Giuriamo!»

Fra i trecento, posta dietro a Muzio, v'era una figura difficile a
discernere, perchè avvolta in un mantello somigliante all'antica toga
romana.--Essa avea nascosto il volto dal principio della conferenza sino
al punto in cui si favellò di Marzia;--ma da quel momento, chi l'avesse
bene osservata, avrebbe scorto una irrequietezza indomabile, un muoversi
continuo, una smania potente di favellare. Gettando sulla sinistra
spalla la grande toga e ponendo in libertà la destra, la persona che
sembrava albergarsi sotto l'usbergo del valoroso capo dei trecento,
esclamò, facendo un passo avanti, e mostrando uno di quei volti che,
veduti una volta, rimangono per sempre scolpiti nell'anima
«Ascoltatemi!»

La Contessa Virginia N..., perchè essa altro non era che la vittima del
gesuitismo, la salvata da Muzio, avea la fronte e le guance leggermente
solcate dalla sventura e dal pentimento, ma il suo volto
malinconicamente bellissimo infondeva ancora ammirazione tale, da
meritarsi il culto di qualunque uomo.

«Ascoltatemi!» essa esclamò, «o nobili figli della mia Roma infelice!
Voi qui vedete la vittima di quell'infame setta nera, a cui l'Italia
deve tutte le sue sventure! Ieri io era ancora nemica vostra, ma la
destra di questo vostro valoroso capo mi strappò dalle ugne della morte
ch'io bramavo, e mi redense dal vilissimo servaggio in cui la perversa
corruzione di codesta canaglia m'avea precipitato».

«Io qui in ginocchio (e si genuflesse) vi prego di credermi e di
perdonarmi! Vi prego di permettermi di condividere le gloriose vostre
fatiche, e di cancellare con una vita di devozione e di sacrifizio alla
patria tutta la nefandezza della mia vita passata».

«Io vi accompagnerò, ed accompagnerò questo mio salvatore, non perchè mi
senta degna di voi e di lui: troppo macchiata, troppo infamata fu la
passata mia esistenza.--Ma tanto santa, tanto umanitaria, è la causa da
voi impugnata, ch'io non dispero di redimermi! Non dispero del perdono,
e voglio in ogni modo consacrare questo infamato mio essere a servirvi,
ed a servire l'emancipazione degli schiavi, sino alla morte! Marzia, la
degna compagna di Lina, l'eroina dei Mille, fu da me travolta in inganno
ed in servitù! Io ho servito d'istrumento ai persecutori della sua
innocenza--e per prima prova del mio ravvedimento, io stessa vi condurrò
alla liberazione dell'esimia guerriera!»

Terminate queste parole, la bella testa della Contessa rialzavasi a
contemplare il consesso degli uomini da cui aspettava una sentenza di
vita o di morte. Tutta questa brava gioventù, però, non era altro che
commossa per l'abbiezione di tanta bellezza, e per tanta possanza della
romana patrizia. Stupefatto ognun contemplava ai suoi piedi la temuta
patronessa della terribile società di Loiola, ed ubbidendo ad un senso
di gentilezza comune nella gioventù, ognuno sentì nell'anima l'umile
posizione della bella infelice, e s'udì una tempesta d'esclamazioni da
tutti quei generosi: «Alzatevi! alzatevi!»

A quella voce lo sguardo della Contessa rianimossi, negli occhi
bellissimi si leggeva la contentezza, ma benchè dolcemente violentata
dalla Lina, essa non volle alzarsi, e con uno sforzo estremo, esclamò:

«Perdono! perdono! fatemi degna di seguirvi nella santa vostra
missione!»

«Alzatevi e conduceteci alla liberazione dell'eroina dei Mille»
ripeterono i valorosi. La nobile e generosa Lina, spinta dalla
gentilezza del suo carattere e più d'ogni altro commossa dalla scena
interessante, solcò la folla, si avvicinò alla genuflessa, le porse la
mano e l'aiutò a rialzarsi. Da quel momento la Romana fu consacrata per
la vita alla vezzosa figlia delle Alpi.

Muzio, commosso, e cogli occhi umidi, porse anche egli la sua destra a
quella donna già cara al suo cuore, e ritemperandosi nella virile sua
natura, disse ai compagni: «È tempo che ci moviamo, e siccome pericoloso
o imprudente sarebbe di uscire in massa, noi andremo alla spicciolata, e
per diverse vie ci riuniremo nelle vicinanze del convento di S.
Francesco per la liberazione di Marzia: ciò che deve eseguirsi prima
delle 2 antim. per aver tempo di prendere la campagna».

Ad uno ad uno uscirono i fieri campioni della libertà romana, dalla
catacomba; e, giunti tutti all'aperto, e congedate le sentinelle, Muzio
disse ai quattro compagni, le due donne, Nullo, e P...:

«Ora a noi, senza bisogno di dividerci di più, noi possiamo camminare
per coppie, ad una certa distanza, perchè non si smarriscano coloro che
meno di me sono pratici di Roma».

NOTE:

[44] Mi piace qui ricordare anche i miei giovani trecento
dell'Università Romana del 49 che tanto si distinsero nel glorioso 30
aprile di quell'anno.




CAPITOLO XLII.

LIBERAZIONE.

      Il rumore d'infrante catene
    Sulla fronte di truce tiranno,
    D'ogni suono è il più grato.....

              (_Autore conosciuto_).


I trecento erano gente a tutta prova, e certo per essi il rischio
sorrideva come il bacio d'un'amante. Tutti però essendo giovani e non
pratici d'ardue imprese, Muzio, che voleva assicurarsi il successo della
liberazione, volle incaricare Nullo e P.... della parte ove abbisognava
maggior perizia e sangue freddo. I due bellicosi figli delle Alpi,
avanzi di cento pugne, palpitarono di soddisfazione e di gioia
all'annunzio dell'onorevole incarico e della fiducia del capo, e senza
millanteria, lo accettarono volenterosi.

«L'impresa ch'io vado a compiere, disse Muzio, di liberare la Marzia dal
Convento, sarà la più facile, e con un terzo della nostra gente, spero
portarla a buon fine:--la parte più aspra sarà la vostra, che dovrete
proteggere la nostra uscita dal chiostro, ed aver da fare con più
numerosi sicari del Papato».

«Mantenetevi quindi divisi il più possibile, per ispirare meno sospetto.
Le due centurie a voi affidate sono comandate da ufficiali intelligenti,
su cui potete contare come sulle vostre daghe, ed essi hanno ordine di
tenersi alla vista, ed ubbidire al vostro minimo cenno. I miei cento ad
un fischio si concentreranno all'ingresso principale e lo forzeranno».

Ogni cosa combinata, e comunicati gli ordini ad ogni capo delle
centurie, e decurie, quei veri figli di Roma, disciplinati come le
vecchie avite legioni, prendevan posto lunghesso la via Giulia, e la
maggior parte sulle sponde del Tevere, tenendo come centro il convento
che racchiudeva la valorosa eroina dei Mille.

Lina bruciava di assaltare il convento, e contribuire per la prima alla
liberazione dell'amatissima compagna, ma Nullo e P... avrebbero ceduto
il mondo, piuttosto che la vezzosissima guerriera, e così la gentile e
bollente Alpigiana, dovette cedere alle ammonizioni de' suoi cari.

Un convento! ma che? mi si dirà, assaltare un convento di monache, non
dev'esser poi la fine del mondo. Un convento!..... Ma quando considerate
un convento essere una fortezza, e massime in Roma, la cosa non è poi
così facile[45].

La vicinanza del Tevere lo facea quasi inespugnabile da quella parte, e
dalle altre parti v'erano altissime mura, guernite di torri ad uso
castello del Medio Evo, in cui le monache tenevano una sentinella in
ogni direzione, fornite da una compagnia di guardia, composta di
mercenari stranieri, stanziati nel perittero del convento[46].

Da via Giulia e sponda sinistra del Tevere i romani avviavansi a poco a
poco, passando i ponti Gianicolense e Fabrizio, sulla sponda destra per
la Lungara, la Lungaretta, via S. Francesco, sino a tutta Ripagrande, e
per la una, ora destinata all'assalto, essi tutti stavano al loro posto,
divisi, ma pronti a concentrarsi al primo segnale.

I preti, da quegli astuti e birbanti che sono, avean preso ogni
precauzione, per prevenire la fuga od il ratto della bella prigioniera,
ed oltre a una guardia di birri nei giardini immensi dei padri
francescani, a cui aveva appartenuto il convento prima[47], una
compagnia intiera stanziava nel perittero dell'edificio, una di soccorso
sulla piazza del teatro di Marcello, ed un battaglione in riserva al
Campidoglio: queste ultime forze dovendo marciare sul convento al
segnale d'allarme.

Alla una antimeridiana Muzio aveva i suoi cento alla mano sulla piazza
S. Francesco, Nullo, al comando della schiera sacra più numerosa, aveva
raccolto una centuria intiera nell'Isola di S. Bartolomeo, P... con
cinquanta giovani dovea servire di sostegno a Muzio, ed Orazio
comandante d'una centuria fu da Nullo destinato alla custodia del Ponte
Rotto, per ove doveva l'intiera brigata aprirsi il passo verso la
campagna romana dopo la liberazione.

Si è trepidi, si è commossi in certe occasioni. E chi non lo è alla
vigilia di ardue imprese, quando per la prima volta si affrontano e si
getta la vita sul tappeto della sorte? Ma che monta? il vero valore
soffoca le commozioni, e davanti al compimento d'un dovere santo,
padroneggia ogni sentimento di dubbio, e si vola all'opera.

Tale fu il contegno di questi superbi figli di Roma, alla liberazione
dell'innocente vittima dalle zanne dei scellerati sacerdoti del S.
Uffizio.

L'acquisto della contessa Virginia fu di giovamento immenso all'impresa
generosa. Avendo abbandonato la toga maschile, essa presentossi sola in
abito donnesco al comandante di guardia, e chiese di dover comunicare
affari d'importanza alla superiora del convento.

Il comandante di guardia, legittimista francese, certo marchese di
Pantantrac, colla galanteria che distingue codesti antichi
privilegiati, e vedendosi davanti al chiarore della lampada certo volto
di donna, da far impazzire qualunque uomo, il comandante, dico,
dimenticò la consegna ricevuta, di non permettere l'introduzione di
chicchessia, e con mille smorfie, si compromise di annunziare nel
convento l'arrivo della bella incognita.

L'apertura del portone che dava nel peristilio del convento, era il
segnale convenuto per l'invasione e l'attacco; e Muzio, da esperto
capitano, profittando delle tenebre della notte e del chiarore della
lampada appesa nel perittero, che permetteva di distinguere l'interno
movimento delle genti, collocossi sulla piazza in posizione da poter
tutto scoprire.

Quando in seguito all'insistenza di M. de Pantantrac, le monache
aprirono la porticina attenente al portone, per introdurre la protetta
del marchese, Muzio, coll'agilità del cervo lanciossi nel perittero e
prese il mercenario per il collo, rovesciollo, e s'impadronì della sua
sciabola.

Non meno agili i suoi giovani compagni di misurarsi con sgherri, furono
in un lampo sulle sue tracce, e dando addosso alla guardia semidormente,
la disarmarono, e com'è naturale, si armarono essi stessi.

Vi era veramente l'ordine nel convento di non introdurre persone di
notte, e la nostra bella contessa, malgrado la di lei potenza non ancora
scemata, avrebbe finito per esser messa fuori della porta.--Ciò non
successe, grazie all'energia della patrizia romana, e mentre la
portinaia sforzavasi di chiudere, gridando: «Dite che volete, ma non
potete entrare», Virginia, ricacciavala nell'interno, e manteneva aperta
la porta.

Poco durò la valorosa contessa in tale fatica, giacchè Muzio, consegnato
il Pantantrac ai suoi, inoltrossi nel peristilio, e tenendo la portinaia
colla sinistra, mantenne colla destra la porta interna aperta, e la
comunicazione col convento libera.

Tiranni e preti, conventi e carceri, carceri e sgherri, vi è tale
affinità di famiglia tra cotesti flagelli del genere umano, da non
distinguerli, e da considerarli la stessa emanazione dell'inferno.

La portinaia del convento era stata forse più sollecita del solito, per
trovarsi così prontamente alla chiamata di M. di Pantantrac, e la causa
n'era uno stretto colloquio tra essa e un sergente de' birri, di guardia
negli orti francescani, al momento di detta chiamata. Ciò valse pure a
svelare più presto l'assalto nel convento, poichè il sergente essendo
rimasto zitto nell'interno, in aspettativa del termine della missione
della Dulcinea, si accorse facilmente dell'attacco alla guardia e della
violenza alla sua donna, e ne conseguì quindi un allarme tra la guardia
dell'orto, e poi fuori alle truppe di sostegno e di riserva, dimodochè
la battaglia presto infierì su tutta la linea.

Tale circostanza poteva esser fatale alla riuscita dell'impresa, se
questa fosse stata in mano di gente meno risoluta; ma Muzio, Nullo e
compagni non erano uomini da facilmente spaventarsi. Muzio, colla
portinaia per la mano, fu in un momento condotto da essa e dalla
Virginia alla cella dell'abbadessa, e questa, al luccicare d'una
sciabola, condusse ben presto il capo dei trecento nell'abituro
dell'infelice eroina dei Mille, da cui Virginia con simpatia febbrile la
trasse e la condusse presso l'amato suo P...., ch'erasi avanzato coi
suoi cinquanta all'entrata del convento in sostegno di Muzio.

Lascio pensare la gioia di Lina, nel vedere la carissima compagna di
tante fatiche e di tanti combattimenti, e come la buona Marzia si
lanciasse al collo della sorella e la soffocasse di baci! Non era tempo
però di abbandonarsi a tenerezze.

A ponte Fabrizio, Nullo ebbe alquanto più da fare; le forze papaline
stanziate al teatro Marcello, al primo allarme dato dalle trombe dei
birri, negli orti francescani, mossero verso il convento, e dopo di
queste il battaglione che si trovava in Campidoglio.--Tali eran gli
ordini e tali le precauzioni prese per impedire la fuga d'una donzella
ebrea, ispirata dallo Spirito Santo dei preti, e che questi buffoni
volevano mandare in paradiso suo malgrado.

Il prode Bergamasco però non avea dormito nel poco tempo passato
nell'isola di S. Bartolomeo; egli avea fatto eseguire una formidabile
barricata sul ponte, che fu innalzata come per incanto da' suoi robusti
compagni, con barchette rovesciate e con panche di pescivendoli che
abbandonavano nell'isola.

La massa di soldati del Papa che si avanzava era imponente, ma nello
stesso tempo impavido era il valore dei romani, alcuni dei quali oltre
alle formidabili daghe, erano pervenuti ad armarsi con delle fiòcine[48]
trovate nelle vicine case di pescatori.--I primi papalini che si
presentarono alla barricata, furono infilzati dalle fiòcine, come tanti
pesci, gli altri insospettiti dalle grida dei fiocinati, dal riparo e da
pericoli a loro ignoti, per nulla poter discernere nelle tenebre, e per
lo ingigantirsi che fanno i pericoli ed i ripari nella notte, non
ardivano avanzarsi.--Ma incoraggiti dai loro ufficiali, alcuni salirono.
Poveracci! eran ricevuti a colpi di fiòcina, arma, di notte, in una
barricata, più terribile d'una mitragliatrice.

Le grida dei feriti, coll'arma inusitata, erano spaventevoli, essendo la
fiòcina arma che entra, ma non esce, dimodochè alcuni eran tratti a
bordo, cioè dalla parte dei romani, altri, se riesciva di rompersi
l'asta, cadevano o si ritiravano malconci, col ferro nelle viscere,
altri, poi, dal colpo o dalla disperazione, erano precipitati nel
Tevere.

Siccome fra i mercenari, di notte, si può essere impunemente codardi, le
sciabolate degli ufficiali erano insufficienti a far superare la
barricata; comunque, malgrado che molti se la dessero a gambe, il
capitano d'una compagnia per nome Merode, giovane Belga, nipote del
cardinale dello stesso nome, inoltrandosi tra una fiòcina e l'altra, era
pervenuto a superare la barricata, e precipitossi gridando: Avanti! sui
difensori!

Capitò però malissimo, giacchè l'individuo su cui egli cadeva, altri non
era che il nostro nerboruto Nullo, che non si curò nemmeno di ferirlo
colla daga, ma passandovi la destra tra le gambe, lo fece descrivere una
curva nell'aria, e lo scaraventò nel Tevere.

Poco dopo, un messo di Muzio avvertì Nullo esser la liberazione
compiuta, e tempo di ritirarsi per ponte Rotto.--E n'era tempo: la
compagnia dei papalini, spinta avanti dal battaglione di riserva, che
giungeva a passo celere dal Campidoglio, s'era schierata a destra e a
sinistra del ponte, facendo un fuoco d'inferno.--Per fortuna dei nostri,
i fuochi di notte suscitano confusione, e così successe. I Romani per
quel motivo, poterono ritirarsi comodamente, e quando i pontificii,
facendo uno sforzo guerriero, si accinsero a sormontare l'ostacolo, i
nostri eran già lontani.

La ritirata dei trecento per ponte Rotto si eseguì in buon ordine, e
prima delle 3 antimeridiane essi eran tutti sulla sponda sinistra del
fiume, marciando verso la campagna.

Un incidente, però, fermò un momento la coda della Colonna romana.
Mentre la mezza centuria d'Orazio dopo d'aver lasciato sfilare la forza,
ponevasi in moto di retroguardia, un grido uscito dal Tevere: «Aiuto!
Aiuto!» colpì l'orecchio dei nostri giovani, e temendo fosse uno dei
loro, fermaronsi, fecero corda con alcuni cappotti, e ne porsero
l'estremità al naufrago.

Tiratolo su in salvo, conobbero i Romani alla favella, esser il salvato
uno straniero, ed al chiaro d'un zolfanello, scoprirono vestir egli
l'assisa del mercenario.

«Accidenti!» esclamò Orazio «potevate ben lasciarlo affogare quel mostro
di pesce-cane--Ora però, egli deve marciare con noi, perchè naturalmente
svelerebbe la direzione nostra».--E Merode, era egli stesso, fu
consegnato a due militi per presentarlo a Muzio, che lo accoppiò a M. le
_marquis_ de Pantantrac, anche questo condotto fuori come ostaggio, in
caso che i preti avessero voluto, secondo il loro costume, sacrificar
qualche innocente alla lor rabbia, per il felice avvenimento.

I due cattivi fecero di necessità virtù, e contentissimi di non perder
la pelle, si posero alacremente in marcia, custoditi da una guardia.
Pantantrac, senza parlare, ma Merode, fradicio, col fresco d'una notte
di settembre, si faceva sentire, di quando in quando con alcuni «_sacré
nom de Dieu!_» e con non poche battiture di denti. Povero Merode!
ravvolgendo le memorie d'infanzia, egli ricordossi con compiacenza
della scuola di nuoto fatta nella Schelda, e che tanto gli valse in
quella notte, poi finiva le reminiscenze con un «_sacré_»....... ed
alcuni salti per riscaldare il corpo, che non mancavano di seminar
l'ilarità tra cotesti _brigands d'Italiens_.

Poche ore dopo, il Governo pontificio fece perseguire i trecento da
pochi dragoni, essendo la maggior parte di quel corpo in campagna con
Lamoricière.--E siccome pochi e con poca volontà di osteggiare i
concittadini[49], questi poterono liberamente giungere all'Apennino, e
seguirne le cime verso Napoli, non trovando a proposito i....... capi di
mantenere la rivoluzione in Roma.

NOTE:

[45] Il convento è quello di S. Francesco a Ripagrande, già convento da
frati, e trasformato al tempo del nostro racconto.

[46] Nella mia ritirata da Roma nel 49, dovendo alloggiare la gente nei
conventi, come siti più forti e convenevoli, i frati tenevano delle
sentinelle sui campanili e nascondevano ogni cosa quando ci scorgevano.

[47] Nel 1825, stando io a Ripagrande a bordo d'un bastimento di mio
padre, veniva a visitarci un padre francescano di Nizza, abitante del
convento suddetto. Io non ricordo il nome del frate, ma dai concittadini
nizzardi si sapeva benissimo, esser stato lo stesso, quando era laico,
una cima di dissoluto e di birbante.

[48] Tridenti, o con più denti ed un'asta.

[49] I Dragoni del Papa erano composti quasi in totale d'Italiani, e
buoni soldati, come gli artiglieri dello stesso esercito.




CAPITOLO XLIII.

NAPOLI.

      Quand plus heureux jadis aux champs de Partenope
    Mes jeunes miliciens ont étonné l'Europe
    Essujant leurs pieds nus sur les tapis des rois
    Donnant à leur pays ce qui fut tant de fois
    Le rêve, le soupir, l'espoir de nos ancêtres,
    Ce n'était point--crois-moi--pour servir à des maîtres
    Ils marchaient sous l'élan que la justice donne
    Et servaient l'Italie mais ne servaient personne.

              (_Autore conosciuto_).


Abbiam lasciato i Mille, divenuti esercito Meridionale, nella bella
Partenope, coi loro avamposti a S. Maria, S. Angelo e Maddaloni, e con
una rispettabile riserva a Caserta.--Caserta, splendidissima villa della
cacciata Dinastia, ove i pezzenti militi di Calatafimi e di Melazzo si
divertivano alla caccia dei fagiani ed alla pesca delle trote,
abbondantissimi in quella regia tenuta.

Che scandalo! che licenza! Cotesti impudenti straccioni con fagiani,
trote, davanti a loro, sulle reali mense e lavandosi poi la gola con del
Montepulciano, del Lacrima-Cristi, del Falerno, senza morire
d'indigestione! Si potrebbe proprio dire col Casti:

    O mondo insano! O popolo corrotto!
    E intanto, tracannarne un altro gotto!

Tali licenze però ci furono acerbamente rimproverate da certo
commissario regio, un principe di cui non ricordo il nome, delegato alla
custodia delle reali caccie, e giunto in Caserta quando i regi
liberatori cominciarono a gettar le ugne sulla preda.

Dalla Verminaria d'Italia, ove abbiam contemplato l'impostura in tutto
il suo sudiciume, ed in tutta la sua corruzione nella vecchia Capitale
del mondo, giungiamo in questa allegra Partenope, redenta, e giubilante
della sua redenzione, nel suo stile gentile, grazioso e sublime.

Redenta! intendiamoci bene, per aver veduto fuggire degli esosi padroni.
Redenta, colla speranza d'aver a fare con un governo migliore.--Redenta,
perchè sanata una delle sette piaghe d'Italia, e reintegrata nel seno
della grande famiglia Italiana, che abbisogna di stare unita, serrata,
per far testa a certi nostri prepotenti vicini, amanti delle nostre
frutta e del nostro cielo, che offuscarono già tante volte per nostra
sventura.

Cotesti tracotanti stranieri sono _cevados_ (direbbero gli Spagnuoli),
parola che non so tradurre in italiano, e che significa assuefatti, e
perciò disposti invincibilmente a ripetere il pasto.

_Cevados_ si dice generalmente di fiere, che già assaggiarono carne
umana o di animali domestici. Dunque _cevados_ sono, sì, cotesti signori
d'oltremonte, ai godimenti del bel paese, e sarebbe tempo che noi
millantatori di certa genealogia e di certo valore, facessimo intender
loro, che nostri sono questi frutti del sudore della fronte, e nostre
queste bellissime figlie d'Italia.

Ogni volto, nella popolazione della grande metropoli, brilla di gioia, e
chi vorrà turbare un istante di gioia di quest'animatissima gente,
spiritosissima, che un segno de' neri suoi occhi vi racconta una storia
di felicità e di sventure? Io no!..... Eppure, benchè io m'abbia l'aria
di scrivere romanzi, io scrivo storia qui, e storia che non mi fu
contata. Storia, sì! del mio popolo, della mia terra! da cui gli stolti
vollero cacciarmi, e che mi caccerebbero a brano se a caso.....

Mai dimenticherò nella vita, quel segno uno fatto coll'indice, con cui i
due grandi popoli di Palermo e di Napoli, accennavano all'Unità della
patria Italiana.

Italia una!..... era scritto su quell'indice del popolano delle due
capitali, che potevan dar sole, cento mila armati, per sostenere
l'attuazione del desiderio sacro! E comunque si dica, Palermo e Napoli,
la prima in maggio, e la seconda in settembre, hanno imposto coll'indice
a cento mila Borbonici di ritirarsi, e furono ubbidite.

Sì! veramente redento poteva essere questo povero popolo, se non avesse
trovato sotto diversi colori gli stessi e più affamati mangiatori delle
genti.--E redento, con più profitto di codesti privilegiati, se
volessero anteporre la _gentil voluttà d'esser pii_, la maggior di tutte
le mondane voluttà, alle miserabili libidini del ventre e delle
lussurie!

Lo ripeto: povero popolo! perchè non toglierlo dalla ignavia, in cui
l'educarono venti generazioni di tiranni e di preti, l'una peggiore
dell'altra? Esso depravato, esso corrotto, esso cresciuto all'infamia, e
da chi? E qui devo tornare per la millesima volta, al fetido scarafaggio
dell'umana famiglia, che tanto serve al dispotismo coll'inganno e colla
corruzione del popolo.

Napoli, la maggiore delle metropoli italiane, è ridotta, come carattere
generale della sua plebe, a ben mediocre stato. Eppure, chi negherà
spirito, intelligenza, valore, a quei nostri meridionali concittadini?

Non mancan di valore, intelligenza, spirito: ne han da vendere.--Ciò che
manca loro è un governo, che sia governo per la nazione, e non della
classe di coloro che per la grazia di Dio sono destinati a mangiare
quella robaccia che si chiama popolo. Pasto, che diventa possibile col
pervertimento d'una metà, colla fame e colla miseria dell'altra!

In una bella serata di settembre, di quelle con cui il cielo italiano
bea codeste condannate popolazioni, poco prima della battaglia del
Volturno, passeggiavano sulla piattaforma di Castel S. Elmo due
individui, uno dei quali in assisa militare, vecchio maggiore, che avea
principiata la sua carriera sino dal regno di Carlo III, e che
millantava non so quanti anni di servizio in compagnia della sua vergine
durlindana, che per fortuna dell'umanità, era tirata ogni giorno dal
fodero per essere pulita soltanto.

Era di costituzione robusta, e ciò si scorgeva dall'ampio suo petto e
ricca quadratura delle spalle: solo il suo volto avea un non so che di
ributtante, giacchè del color rosso-peperone, esso largheggiava d'una
fioritura di bottoni, certo men piacevoli alla vista de' bottoni di
rosa; il suo naso poi avea perduto ogni forma originale ed era diventato
una rossa germogliante patata. Sotto l'assisa del soldato egli
millantava il marziale, nelle parole e nel contegno, e senza quella sua
mutria da osteria, si sarebbe potuto credere che egli avesse anche
solcato qualche campo di battaglia. Ciò però non era, e la vita
dell'avvinato maggiore s'era passata tranquilla nel tranquillo Castello
S. Elmo, ove quarant'anni prima era entrato semplice soldato, e vi avea
guadagnato a forza di devozione e di servilismo alla dinastia, le
spalline granate.

L'altro era un conosciuto nostro, elegantemente vestito, avvenente della
persona, ma con tutto ciò, puzzando di prete a qualunque olfato, un po'
pratico di questi nemici del genere umano.

«Non dubitate, maggiore,--disse monsignor Corvo al secondo comandante
del forte, maggiore Fior di Bacco--non dubitate, fra giorni l'esercito
di S. Maestà stanziato a Capua e sulla sponda destra del Volturno,
ascenderà a circa cinquanta mila uomini delle migliori truppe del regno,
e comandate da famigerati capi. E che potranno questi quattro pelati,
che per far ridere presero il titolo di esercito meridionale e che si
trovano senz'ordine e senza disciplina disseminati sull'immensa
estensione di paese che da Napoli va a Maddaloni, e da questa a S. Maria
e S. Angelo?».

«L'esercito nostro certamente farà a pezzi codeste masnade, ma fa d'uopo
che nello stesso tempo, i leali difensori della religione e del trono
prendano alle spalle questi scomunicati, acciò nessuno di loro possa
fuggire alla giustizia di Dio!» (Che merli! È da notare sopratutto la
veracità del vaticinio).

«Monsignore può assicurare S. M. che per parte mia farò il possibile pel
maggior bene del reale servizio, e per la maggior gloria di Dio». (Stava
fresca la maggior gloria di Dio, con messer Fior di Bacco!--se invece
fosse stata la gloria d'un fiasco d'Orvieto, se ne poteva sperare ampio
successo).

«Io procurerò di far introdurre qui, a notte scura, quanti leali
servitori sarà possibile, acciocchè il forte S. Elmo si trovi in
nostro potere all'apparizione delle prime truppe nostre vittoriose.
Ciò mi riescirà tanto più facile, in quanto che il comandante del
forte nominato dal prodittatore (e qui Fior di Bacco fece un sogghigno
di scherno, come se avesse voluto disprezzare il venerando martire
dello Spielberg), marciò anche lui per il Volturno con quanti
avventurieri potè raccogliere (avventura non del gusto di Fior di Bacco
che volea conservar la pelle intatta, per certi usi a lui conosciuti),
giacchè essi presentono la tempesta che si sta formando per
annientarli».--«Bene, maggiore! La causa di Dio presto trionferà, e gli
Amalechiti cadranno sotto la spada di fuoco de' suoi Arcangeli». (Gli
abbiam veduti veramente gli Arcangeli alla difesa del Borbone,
dell'Infallibile).

«Bene! vi lascio perchè devo vedere alcuni de' nostri capi in città,
conferire con S. M. al campo, e recarmi poi ad Isernia, ove altre
faccende interessantissime per me e per la causa santa mi chiamano».

Gl'interlocutori si porsero la destra, ma per abitudine, ed una
reciproca occhiata di diffidenza squadrò da capo a piedi reciprocamente
i due agenti del Sanfedismo.

Fior di Bacco corse a prenderne un gotto per modificare la sete
cagionata dal lungo discorso, e Corvo s'incamminò verso il ponte
levatoio, uscì dal forte e precipitossi per le vie di Napoli, onde
abboccarsi coi magnati dei partitanti del Borbone, e preti e frati, e
stimolarli a dar addosso agli eretici, nel gran giorno di vittoria
dell'esercito liberatore.--Dico precipitossi, giacchè dal giorno della
fuga di Marzia e dei trecento, egli non avea riposato, e di virulente
natura com'era, Corvo trovò i piroscafi e le vie ferrate lentissime,
perchè non lo portavano colla celerità del suo desiderio a vendicarsi di
quei suoi nemici, che percorrevano in questo stesso periodo le cime
dell'Apennino per dividere i pericoli e le glorie de' loro fratelli
dell'esercito meridionale.




CAPITOLO XLIV.

LA CAMORRA.

    Robbers all!


Gl'inglesi sono una gente graziosa: fra tante loro scoperte, troviamo
anche il _Robbers all!_--Mi capitò in questi giorni un libro inviatomi
da un amico d'Inghilterra, con tale titolo: _Robbers all!_--che tradotto
nella bella lingua del sì, suona: _Tutti ladri!_

E se devo confessare ciò che vado imparando ogni giorno di più, credo
che l'epigrafe del presente capitolo vada a capello al periodo che noi
percorriamo. Dagl'imperatori ai soldati di finanza e dal papa al
sagristano non sono essi tanti ladri?

Per governar bene, essi non abbisognano di tanti milioni, quei primi
signori per la grazia di Dio: il loro superfluo è non solamente un furto
ma un mezzo di corruzione.

I secondi signori, cioè dal marciapiede del trono in giù, e che servon
di cariatidi allo stesso, non sono forse per la maggior parte birbanti
che ingrassano alle spalle dei minchioni?

Nelle classi alte, mi limiterò a queste due principalissime di ladri, e
toccherò soltanto una delle loro succursali.

I finanzieri, per esempio, vulgo _preposti_.--Io abito in un paese ove
la dogana è una potenza.--Tale potenza! che una missiva della gente più
raccomandabile ed onesta della Maddalena--mi diceva ieri: Le elezioni
nell'isola nostra vanno sempre a piacimento dell'ispettore di dogana.
Egli marcia all'urna co' suoi preposti serrati, e cotesta falange
sostenuta da quella del vicario-prete fanno sempre rimaner nel nulla
quella parte buona della popolazione che potrebbe eleggere un buon
sindaco ed un buon deputato.

Vi è un banchetto alla spiaggia del mare, adornato dalle bellezze del
_demi-monde_?--Sono i preposti!

Una sposa alquanto in ostilità col marito?--per motivo d'un preposto!

Una vezzosa giovinetta da marito che si sposerà fra diciassette anni
coll'uomo con cui s'è già accoppiata? (perchè tale è il
regolamento)--quell'uomo è un preposto!

Si chiede d'un giovinotto che avrebbe fatto un eccellente marinaro da
guerra, come sono generalmente i marinari di queste isole?--si è fatto
preposto!

M'arriva una cassetta di confetti, od altro, inviati da un amico, è
aperta, e ne mancano molti--sono i preposti.

Farei un volume di queste prodezze de' preposti, se non mi annoiassero,
e se non temessi di annoiare chi ha la pazienza di leggermi.

Ne terminerò la serie con un'arnia modello, regalo d'un illustre
professore. Credete voi, che per esplorare il gran contrabbando,
contenuto nell'arnia, di cui tutte le parti erano connesse a vite,
abbiano voluto, quei comodi signori, servirsi d'un giravite per non
guastarla?--Oibò! con uno scalpello han fatto a pezzi il coperchio per
farlo saltare, o forse con una mannaia.

In quindici anni ch'io sono in quest'isola, io non conosco un solo
arresto di contrabbando importante fatto da questi finanzieri; anzi,
corre voce che un po' di contrabbando lo faccian essi stessi, e si dice
di peggio ancora.

E quando si considera tanta povera gente, sottoposta a tasse d'ogni
specie, per mantenere grassamente codeste camorre di fannulloni, è roba
da dar i brividi.

I Borboni di Napoli, maestri anch'essi di ogni specie di camorra, ne
proteggevano una, e la stimolavano al loro servizio con ogni specie di
favori, concessioni e soldi. Camorra, veramente di genere particolare,
che contava come membri i più grandi scellerati del regno.

L'origine di quest'associazione di malfattori, proveniva dalle prigioni.
I più forti tra i prigionieri imponevano una tassa ai nuovi arrivati, e
la imponevano colla minaccia di busse, e qualche volta anche di
coltello.

Il nuovo arrivato, generalmente solo, e quindi più debole, non solo era
obbligato di pagare la tassa imposta, dovea pur far parte di codesta
bella e reale associazione.

Dalle prigioni l'associazione si estese nelle bettole, nei postriboli,
nelle osterie, nell'esercito, nella grande metropoli, e finalmente in
tutto il felice regno. Felice! poteva chiamarsi, giacchè con tutti i
vizi di cui era incancrenito il suo governo, occupavasi almeno che non
morissero di fame i sudditi[50], occupazione che disturba poco la
digestione di coteste cime che governano l'Italia.--Giù il cappello
però, esse, le cime, hanno fatto l'Italia, ed avranno fra giorni una
statua in Campidoglio, non so di che roba.

La camorra divenne una potenza, ed il Governo di Napoli, codardo come
quello dei preti che patteggiava con briganti, patteggiò colla camorra,
e dalla stessa estraeva le spie più astute e pratiche, ed i sicari più
sicuri, quando per ragione di Stato, dovevasi por fine all'esistenza di
un individuo.

Il consorzio, l'appoggio del governo, e la sua ingerenza sull'esercito,
la fecero potente non solo, ma per la Dinastia borbonica la camorra
diventò una vera e terribile guardia pretoriana. Composti però i
camorristi della feccia inferiore del popolo, e per la maggioranza pasto
da preti, essi abborrivano noi, rappresentati dal clero come eretici;
ma più di noi, i piemontesi, cioè coloro che dipendevano direttamente
dalla monarchia sabauda, tutta gente non popolo, come noi. E tale odio
inveterato menomò forse il danno che la camorra avrebbe potuto fare
all'esercito meridionale.

Dopo la ritirata di Francesco II il 6 settembre, e quella dell'esercito
Borbonico da Napoli, la fiducia principale dei Sanfedisti, nella
capitale, fondavasi sulla camorra, ed il maggiore Fior di Bacco su
questa faceva assegnamento.

Nelle carceri di S. Elmo esistevano varii dei caporioni dell'ordine e
fra loro il più formidabile era un calabrese nominato Tifone, che avea
fatto parte della banda brigantesca di Talarico, nella quale avea
servito come cappellano, circostanza non straordinaria, essendo i preti
gli eccitatori ed i compagni dei camorristi e dei briganti.

Avendo lasciato Corvo, Fior di Bacco avea fatto una visita in cantina,
ove per costume di questi venditori dell'anima alla pancia, facea d'uopo
rifocillarsi con buoni bocconi e con un boccale di quello che pittura la
guancia a musi più pallidi di quello del nostro maggiore, per affrontare
imprese difficili. Ora, essendo la barca in zavorra, si poteva, come
egli diceva, affrontare qualunque tempesta, e difilato, si recò negli
appartamenti di Tifone.

Avranno osservato i miei lettori, non esser il mio forte le descrizioni,
e quando avrò descritto il nauseante abituro d'un condannato, essi non
ne saran contenti. È vero, che Tifone, freschissimo d'omicidio, era però
uno dei paladini della camorra, e come tale dal 2º Comandante del forte
S. Elmo, trattato coi guanti bianchi, ed alloggiato in sito abitabile.

«Tifone» cominciava il maggiore al camorrista fatto condurre in un
gabinetto segreto del forte «hai già sofferto abbastanza di prigionia
per una misera pugnalata somministrata a quello stupido di
Gambardella[51] che ci tradiva assumendo l'aria di liberale. Per me, sei
libero! (e dopo alcuna pausa) e ti permetterò di andare in città quando
vorrai, anzi io stesso t'invierò in missione importante».

«Gnor sì» rispondeva il masnadiero al comandante, fissandolo in viso,
mentre questo da parte sua scrutinava pure la sinistra fisonomia del
primo per scoprirne l'effetto delle sue parole.

«Gnor sì.--E V. S. sa quanto io son devoto alla causa sacrosanta del re
e della chiesa: soltanto la prevengo di farmi restituire il ferro che mi
tolsero quando mi condussero qui».

«Non solo ti farò restituire il ferro, replicò Fior di Bacco, ma ti darò
molti mezzi onde poter adempire colla tua solita solerzia la delicata
impresa che voglio affidarti. Ti raccomando soltanto, essendo fresco il
tuo omicidio, di non comparire di giorno per le strade.--Mangiare, bere
e dormire di giorno, per poter circolare poi tutta la notte.

«Devi dunque sapere, che il nostro esercito, forte di cinquantamila
uomini, dopo d'aver debellato gli scomunicati a Caiazzo, padrone di
Capua, e di tutta la sponda destra del Volturno, si dispone ad attaccare
quei pochi miserabili che restano da questa parte.

«Il re in persona sai, comanda l'esercito nostro, e con lui vi sono
tutti i principi, la casa reale, ed i più famigerati de' nostri
generali».

Tifone, che come prete, non era poi tanto stupido, rimase soddisfatto
dei cinquantamila soldati, piuttosto di buona truppa, non così dei
famigerati generali, dei principi, della casa reale, ecc., tutta gente
più assuefatta all'espugnazione d'un _paté trufé_, che a quella dei
nemici della monarchia.

«La vittoria è quindi sicura» continuò Fior di Bacco, «ma noi, capisci
bene, non vogliamo starcene colle mani alla cintola, mentre pugnano per
la salvezza della patria tanti nostri valorosi!».

Questo discorso di Fior di Bacco--eccitato dal cordiale con cui egli
avea inaffiato la sua merenda con profusione--era pronunciato con tanta
energia, come se fosse stato un _bullo_ davvero.--E colla testa alta,
quadrando le poderose spalle, sguainò a metà la terribile scimitarra,
con cui si compiaceva di spaventare i sorci della sua stanza, anch'essi
dilettanti delle fortezze e carceri, e poi lasciolla cadere
rumorosamente nel fodero di metallo.

Tanto entusiasmo non potea mancare di eccitare l'anima più esaltata
d'assai del brigante, e dopo d'aver contemplato in estasi la fisionomia
illuminata del vecchio soldato, il figlio dei Vulcani esclamò più
impetuosamente del primo:

«Vergine santissima! basta! inviatemi, e per S. Gennaro, questo mio
ferro (che gli era stato restituito dal maggiore) somiglierà la spada di
fuoco con cui l'arcangelo percuoteva i condannati da Dio!».

«Bene così» ripigliava il maggiore, «ma conviene che tu m'ascolti sul da
farsi prima di far giocare il ferro».

Soddisfatto di sè stesso, e pettoruto per l'effetto prodotto dal proprio
eloquente discorso, Fior di Bacco, dopo d'aver dato un'occhiata intorno
la stanza, e prestato l'orecchio al famigliare rumore dei topi, che
riconobbe non esser di gente, dopo d'aver famigliarmente posta la mano
sul braccio di Tifone, e con dolce violenza trascinatolo lontano dalla
porta, continuò con voce più sommessa:

«Le buone notizie a te comunicate e la prossima vittoria del nostro
esercito, tu devi annunziarle a tutti i nostri nella città, nei
principali centri della camorra, che ben conosci, in tutti i conventi e
in tutte le chiese, che lì non puoi sbagliare, e finalmente devi
adoperarti perchè tutti propaghino in Napoli e nelle provincie il
grande evento».

L'occhio di tigre del brigante, fisso in Fior di Bacco, ed un profondo
inchino del capo, furono la più eloquente delle risposte, ed il maggiore
era sicuro di poter contare sul formidabile calabrese.

NOTE:

[50] Si sa quanto solerte era il Governo borbonico per far mangiar a
buon mercato il pane ed i maccheroni.

[51] Gambardella fa pugnalato dalla camorra poco dopo la nostra entrata
in Napoli. Era un pescivendolo, eccellente popolano.




CAPITOLO XLV.

GIORGIO PALLAVICINO.


    Or superbi, or umili,
    Infami sempre.

              (ALFIERI).


Il fiero e grandissimo Astigiano tali epiteti infliggeva alla sua casta,
quando sdegnoso ed _irato ai patrii numi_. E veramente le eccezioni sono
poche, e sventuratamente sempre vediamo servir di cariatidi al
dispotismo, sotto qualunque forma, i titolati antichi e moderni.

Giorgio Pallavicino Trivulzio è un'onorevole eccezione però, alla
regola; e quando l'Italia, scevra da certe miserie, che la tribolano
anche al dì d'oggi, farà l'enumerazione de' suoi martiri più benemeriti,
certo non conterà fra gli ultimi il nome del nostro Giorgio.

Rinchiuso nello Spielberg dall'Austria per quattordici anni, col solo
delitto d'aver amato la libertà del suo paese, egli s'è mantenuto
incrollabile ne' suoi principii di libertà ed unità nazionale.

A Pallavicino e a Manin, più che ad altri, si deve certamente
l'avvicinamento della Monarchia ai Repubblicani d'Italia. Fatto
importante per le sorti del nostro paese, e che comunque si dica, ha
prodotto, se non la libertà, certo la quasi unificazione nazionale,
primo bisogno della penisola.

Fatto importante, coadiuvato veramente da felici combinazioni, ma che
non tolgono all'Italia, anche con meschinissimi reggitori, di scuotere
l'antica sua cervice sovrana, e far intendere a certi suoi insolenti
detrattori, che questa non è poi la terra dei morti, e della gente che
non si batte.

Dovendo conciliare principii diametralmente opposti, essi dovettero
certamente accarezzare una parte e l'altra, e ne avvenne, com'è
naturale, sembrar dessi troppo repubblicani ai monarchici, e viceversa
ai repubblicani.

Ripeto: quando l'Italia sarà guarita da certe miserie, essa ricorderà
gli eminenti servigi di quei suoi grandi.

Pallavicino era prodittatore a Napoli ne' tempi da noi descritti. Egli è
pieno di capacità politica ed amministrativa, ma come succede
generalmente alla gente onesta, era poco diffidente.--Conosceva
l'esistenza della camorra, vi aveva mandato i segugi della polizia
locale a vigilarla, ma era lontano d'aver delle informazioni esatte
sulla terribile associazione, essendovi affiliati molti dei
poliziotti;--e quindi egli stesso era la prima vittima designata al
pugnale dei vendicatori, come si chiamavano allora i sostenitori
dell'altare e del trono.

L'assassinio del Gambardella, virtuoso popolano, e d'alcuni altri plebei
di parte nostra, era stato un saggio, o piuttosto una prova di ferri,
che doveva continuare dal basso all'alto, e finire poi coll'eccidio
generale nel giorno del giudizio, come lo chiamavano i preti, cioè nel
giorno della vaticinata vittoria.

Spinte le cose dalle impazienze monarchiche, insofferenti di stare a
bocca asciutta davanti alla splendida preda, quale è la ricca Partenope,
i sabaudi si misero a vociferare _annessione_, e mi obbligarono quindi,
come già accennai, a lasciare l'esercito sulla sponda sinistra del
Volturno in presenza d'un esercito superiore, ed alla vigilia d'una
battaglia, per recarmi a Palermo, ove il popolo, messo su da' cagnotti
cavouriani, voleva anch'esso annessione, ed in conseguenza cessazione
della brillante campagna da parte nostra, per _lasciar fare a chi
tocca_.

Come miglior partito, e più breve, io mi decisi d'imbarcarmi per
Palermo, ove non mi fu difficile persuadere quel bravo popolo, non esser
giunto il tempo di parlare d'annessione, ma bensì di proseguir l'opera
di unificazione nazionale, anche sino alla città eterna, se possibile. I
figli del Vespro m'intesero subito, ed in pochi giorni io potei essere
di ritorno all'esercito.

Comunque, la mia breve assenza avea stimolato i reazionari della
Metropoli Napoletana, e senza l'attività del Pallavicino e del generale
Türr, che in quei giorni facea da capo di polizia, non so come sarebbero
andate le cose.

Era nella seconda quindicina di settembre; la brezza del mare avea
soffiato tutto il giorno, e rinfrescata l'atmosfera.

La popolazione della grande città inondava, per prendere il fresco verso
sera, tutti i dintorni della stessa, ed una circolazione straordinaria
di carrozze e pedoni stipava una delle vie secondarie, che dal centro di
Napoli guidano verso la stazione di Caserta. In quella via piuttosto
angusta, e già quasi per uscirne ed abbordare la stazione della via
ferrata a destra andando trovasi uno di quei bugigatti di meschinissima
apparenza, ma in sostanza molto importante, come vedremo procedendo.
Lunga e stretta la stanza terrena, avea piuttosto l'aria d'un corridoio
che d'un appartamento d'albergo. Due lunghissime panche e strettissime
tavole, erano il solo adornamento del sudicio locale, e tali
suppellettili lasciavano un passaggio strettissimo nel mezzo. A destra e
a sinistra entrando, per compir l'apparato di casa, trovavansi due
cucine ambulanti, ove due untissime donne stavano eternamente occupate a
friggere, ciò che provava esser numerosi gli avventori.

Circa all'antichità poi dell'osteria della _Bella Giovanna_, si
raccontava con orgoglio dagli odierni tenitori (discendenti dagli
antichi), che la vigilia della famosa rivoluzione napoletana contro la
dominazione spagnuola, il prode Masaniello colla sua schiera di
coraggiosi pescatori Partenopei, avea mangiato le triglie fritte, e che
fra tutti avean vuotato due grandi fusti di lacrimacristi, e due barili
di Falerno.--Pare in quel tempo facessero miglior vita dei moderni, quei
pescatori, giacchè oggi, essi pescano bensì le triglie, ma mangiano
generalmente gattuzzi.

Nel fondo della stanza-osteria, sedeva dietro un banco guernito d'ogni
ben di Dio, alla distanza di circa tre metri dall'entrata, la dea
titolare del tempio, giacchè questo dal di lei nome e da quello d'una
sua nonna, nomavasi col modesto titolo di _Osteria della Bella
Giovanna_, e dagli avanzi rispettati da trentacinque anni compiti,
potevasi congetturare esser stata la Giovanna a vent'anni un boccone
plebeo sì, ma sempre un bel boccone e da preti. Speriamo tale
denominazione sarà presto posta tra le anticaglie dal buon senso de'
miei concittadini: non più bocconi da prete. Essa però avea cominciato
ad impinguare troppo, sia per la vita sedentaria, sia forse per
soddisfazioni e contentezze d'una esistenza fuori dei trambusti e delle
avventure.

Giovanna era gentile con tutti, e dovea esserlo facendo l'ostessa;
comunque, la sua riputazione di sobrietà e di pudicizia era
incontestata. Il 7 settembre però, colla cacciata dei Borboni, avea
cacciato pure la pace dall'anima della nostra ostessa, e l'entrata dei
rompicolli avea marcato un'era nuova nei sentimenti sin ora invariabili
della bella Giovanna.

Un furbaccione, ma proprio dei _bulli_ della compagnia o battaglione dei
Carabinieri Genovesi, col pretesto di andare a mangiar le trippe dalla
bella Giovanna, era pervenuto a destare un vesuvio d'affetti in quel
cuore fino allora inespugnato.

Per fortuna della Giovanna, _Bajaicò_ non era un depravato, e
corrispondeva santamente alla bella innamorata.

Nel fondo del fondaco che non abbiam finito di descrivere, innalzavasi
il tempio di Giovanna, e potevasi chiamare realmente così, poichè era il
solo punto nel locale che meritasse di fermar l'occhio, sia per
l'avvenenza dell'ostessa sempre pulita e risplendente d'abiti a colori
simpatici, sia per la profusione di frittelle, pesci fritti e tanti
altri manicaretti, che se non erano teoricamente e francesemente
preparati, potevano, senza rischio di essere rifiutati, presentarsi a
qualunque palato; massime poi dacchè la nostra Giovanna era innamorata
cotta di Bajaicò, il suo abbigliamento era più accurato, il banco più
adorno e più pulito ancora, ed una vera profusione di fiori completava
il gastronomico altaretto della nostra buona e bella popolana.--Ed a me,
plebeo sino alla midolla delle ossa, solletica cotale semplice ma
fervido innamoramento, ove l'amore presiede generalmente più sincero che
nelle regioni principesche.

Due lampade, una a destra e l'altra a sinistra del tempietto, quasi
eternamente accese, per l'oscurità del locale anche in pieno meriggio,
indicavano l'entrata d'altri due corridoi, conducenti nell'interno; e
quell'interno era veramente la parte più importante dello
stabilimento.--Congiungevansi i due corridoi laterali in un sotterraneo
spaziosissimo, capace di contenere migliaia di persone, e tale
sotterraneo era adorno di tavole, sedie e panche, e lateralmente di una
ragguardevole quantità di fusti, pieni di vino, acquavita e bibite
d'ogni specie.

Due robusti giovani, fratelli di Giovanna, avean la vigilanza
dell'interno, e distribuivano, aiutati da garzoni, ogni cosa richiesta
dagli avventori.




CAPITOLO XLVI.

OSTERIA DELLA BELLA GIOVANNA.

    L'ardue non temo e l'umili
    Non sprezzo imprese.

              (TASSO).


Osteria della bella Giovanna, sì! E perchè non potrei narrare anche
delle osterie?

Alcuni diranno: ma potevi, stupido che sei, adornare il tuo lavoro con
alcuno di quei titoli alto sonanti che di più solleticano gli oziosi e
le oziose, giacchè confesserai, esser quella la sola gente che può
leggerti, e non coloro che abbiano occupazioni. Per esempio: _Grand
Hôtel des princes_, _Grand Hôtel des empereurs_! come si vede in tutti i
canti della tua cara Nizza.--O almeno Albergo non fosse altro: _del Leon
d'oro_ o _del Tigre d'argento_, titoli che soli bastano a riempire lo
stomaco sino all'indigestione. Ma osteria! oibò! si vede bene che sei un
ex-Dittatore, proletario sino alle ugne.--Eppure, malgrado le opinioni
contrarie, io tornerò all'osteria della _bella Giovanna_ che palpita
d'amore per quel _battuso_ di Bajaicò, uno dei più originali tipi dei
Mille, e nello stesso tempo dei più valorosi, ed i nostri lettori
vedranno se ambi i miei protagonisti sieno indegni di menzione.

Nel sotterraneo a volte, che avea servito forse a Masaniello per
riunirvi ed arringare i suoi bravi pescatori, forse in tempi non lontani
ai carbonari, per ordire la trama che nel 21 dovea rovesciare il
borbonismo, in quel sotterraneo riunivansi abitualmente centinaia dei
caporioni della camorra, e com'è naturale, ai tempi andati, ove si
trattava nientemeno che di annientare gli scomunicati rompicolli, le
adunanze camorriste erano eseguite spesso, ma nel più profondo segreto,
e nessun profano sotto qualunque titolo poteva assistere alle importanti
riunioni.

Ad un tavolo, nella parte più remota del sotterraneo, sedevano una
dozzina dei più robusti avventori. Un potente doglio collocato nel
centro d'un tavolo, e questo ben guernito di bicchieri pieni o da
riempire, attestavano non voler gli astanti conversare a bocca asciutta.

I fumi del vino e l'atmosfera calda del locale, perchè poco aerato,
facean gradito ai nerboruti interlocutori, lo starsene in maniche di
camicia, e anche colle maniche rialzate sino all'ascella: licenze non
vietate nel locale, veramente plebeo, e che servivano pure a facilitare
una partita alla morra, ciocchè si eseguiva spesso, anche per nascondere
alla moltitudine, sotto il manto del divertimento alcuna deliberazione
importante. La terribile setta della camorra non ammetteva indugi.
Potevasi, per esempio, giungere al banco della bella Giovanna, essendo
profani, bevervi o mangiare qualche cosa seduti sulle panche e tavole
esterne di cui già narrammo, ma per penetrare nella catacomba
camorrista, nelle ore delle conferenze, dovevasi essere iniziati, o
morire. E molte atrocità eransi commesse verso imprudenti che, contro il
divieto delle sentinelle, volevano internarsi.

Conchiudiamo dunque: che camorristi erano i due fratelli di Giovanna e
camorrista essa stessa (per poter vivere), dicevano, ma in sostanza
trascinati in quella cloaca, dalla fatalità dei tempi, e massime, da
pessimi governi, che sembrano scaturire apposta dall'inferno per la
sventura d'una delle più belle regioni del mondo.

«Una volta eravamo tredici come gli apostoli» esclamò Tifone agli undici
compagni, «e noi siamo stati ingannati da Cristo divenuto Giuda, poichè
Talarico, il traditore, facea le funzioni di redentore tra di noi. Ed
ora quel miserabile si è dato anima e corpo a questi eretici
rompicolli». «Non te n'incaricare» rispondeva Agnello al capitano della
camorra «un traditore, è meglio per noi si sia allontanato--la causa del
re nostro e della Religione trionferà senza Talarico». «_Manaccia!_»
ripigliava il focoso calabrese «avrei voluto almeno che quell'uomo non
fosse della terra mia.--Eppure era valoroso come un demonio quel figlio
d'Aspromonte. E non sono favole, tutti noi l'abbiamo veduto all'opera,
quando si trattava di menar le mani davvero». Queste ultime parole
furono dirette ad un nuovo venuto che con aria di famigliarità e comando
erasi avvicinato al tavolo dei dodici.

«Lasciamo da parte le lamentazioni» sorgeva a dire quel tale da noi
conosciuto, «e pensiamo al serio, pensiamo che fra pochi giorni il re
nostro attaccherà ed annienterà questa masnada di malviventi, che perciò
bisogna tenersi pronti, non solo, ma operare una diversione qui in
Napoli, che obblighi il capo degli avventurieri a distrarre una parte
delle sue forze, per facilitare l'impresa del nostro esercito».

Chi avea articolato tali assennati propositi, altro non era che il
Monsignor Corvo, sotto le umili vesti d'un bazzaccone. Il gesuita era
maestro nell'arte di mascherarsi, e vero proteo o camaleonte, le sue
trasformazioni eran ben fatte, fatte a tempo ed a proposito, ed il
Sanfedismo non avea certo un altro che fosse sì attivo, sì idoneo e di
tanta capacità. I talenti di tal uomo, sarebbero stati un vero tesoro,
se applicati alla causa della giustizia.

Comunque, tra i rozzi capi della camorra, l'eloquente ed energica
osservazione del prete ottenne quell'ascendenza incontestabile che tanto
lo avea distinto in ogni circostanza.

«Dice bene il nostro amico» riprese ardentemente Tifone, cui era
preferibile un'azione immediata. «E _manaccia!_ questa notte stessa
bisogna operare qualche colpo a pro della religione santissima e del re
nostro--io lo giuro!» E così gridando trasse fuori la daga, diè col
pugno un fortissimo colpo sul tavolo, che fu seguito da una simile
dimostrazione dei compagni, per cui doglio, bicchieri e quanto trovavasi
sulla tavola, andarono rotolando sul sudicio selciato del sotterraneo.

La fervida manifestazione dei capi naturalmente mise in sussulto tutta
la comitiva, ed in un momento, centinaia di daghe brillarono nel
chiaro-scuro dello speco, accennando esser tutti pronti agli ordini dei
capi.

Corvo contemplò con compiacenza la focosa risoluzione dei soldati della
fede, e montando sopra una sedia, volto alla folla, fece intendere le
seguenti parole: «Che Dio vi benedica, figliuoli! e che vi conduca per
la mano allo sterminio de' suoi nemici! bruciate, svenate, uccidete!
annientate sino i neonati di quegli eretici perversi, che mettono la
mano sacrilega su tutto ciò che vi è di più santo, che vogliono
strappare ad uno ad uno i capelli santi del venerando Dio in terra che
siede in Vaticano; che commettono le loro orgie nella chiesa della
beatissima Maria, e che condiscono l'insalata coll'olio santissimo! a
loro maledizione! maledizione! Amen». E tutti in coro risposero: «Amen!
amen! amen!»--Ecco il prete! Eccolo col suo ascendente sulle moltitudini
ignoranti su cui le parole: Gloria di Dio! gloria del paradiso! che non
comprendono e che non sanno esser votissime di senso, fanno un effetto
magico!--Poi: bruciate, svenate, uccidete per la maggior gloria di Dio,
e sarete ricompensati colla felicità eterna? Che morale! che scuola! E
stupiremo di veder commettere ogni nefandezza, ai briganti, che altro
non sono se non docili alunni dell'impostura!

Volto a Tifone, il gesuita disse finalmente:

«Amico mio, con uomini di tal fatta si può tentar qualunque impresa.
Incaricatevi con questi vostri bravi della pro-dittatura, e
particolarmente del capo; io vado subito ad avvisare i nostri che
corrispondano degnamente alla grande opera».

Così dicendo, accomiatossi l'astuto, incamminandosi nell'interno ed
uscendo per porta segreta.--Tifone, dopo d'aver accompagnato Corvo collo
sguardo, dirigendosi a' suoi disse:

«Ora a noi, compagni, non si dica che siam millantatori, ma uomini
d'azione, e peran sotto le nostre daghe, come perì quel perverso di
Gambardella, quanti scomunicati si trovano in Napoli e nel regno».

Egli poi diè ordini ai capi di riunire le loro sezioni, ed impartì
ordini precisi da far invidia ad un generale d'armata.

Eran circa le 10 pomeridiane, quando il sotterraneo della bella Giovanna
presentava l'aspetto d'un campo militare, pronto a muoversi per dar
battaglia al nemico.--Era uno spettacolo imponente: quelle centinaia di
figli del popolo pronti ad assaltare e sterminare, se possibile, i loro
fratelli non solo, ma coloro che per il popolo davano volenterosi la
vita, coloro che venuti da lontano, avean superato le insidie della
tirannide, e mille disagi e pericoli sui campi di battaglia. Che
importa! i preti han detto loro che i Mille erano eretici, nemici del
re, della religione e scomunicati dal Santo Padre, e quindi la gloria
del paradiso era assicurata a chi li sgozzava, li bruciava, li
sterminava.

Eran tutte fisonomie abbronzate, robuste, quei popolani, lavoratori
d'ogni professione, uomini che educati convenientemente e stimolati
dall'amor di patria, della nostra patria, non di quella vana e bugiarda
dei negromanti, avrebbero potuto servir eroicamente l'Italia contro lo
straniero insolente e sottrarla dal fango e dall'abbrutimento ove la
tengono i preti ed i reggitori.

Oggi eran camorra la più sudicia, la più indecente delle società umane,
pronta a tuffarsi nel sangue e nei più orribili delitti, colla coscienza
d'esser perdonati non solo, ma ricompensati colla felicità eterna!
«Pronti!» risposero tutti all'interpellanza del capo; e già la massa
degli armati di daga movevasi verso l'interno della catacomba. Un rumore
però che si fece all'entrata d'uno dei corridoi, fermò la marcia ed
eccitò da quella parte l'attenzione della comitiva.--Ed eccone la
ragione.

Bajaicò, che già conosciamo come amante della bella Giovanna, era un
bravo giovane e valorosissimo--non apparteneva però alla società di
temperanza, o se vi apparteneva n'era sovente un trasgressore;--ed in
quella sera essendosi fermato più del solito presso al banco della sua
Giovanna, vi aveva alzato il gomito oltremodo.

Padrone del cuore della padrona, il nostro Bajaicò si credè nel diritto
di passeggiare il locale tutto, e ad onta delle ammonizioni e preghiere
della Giovanna che cercava con varii pretesti di allontanarlo dal
proposito d'internarsi, il focoso discendente di Balilla avventurossi
nell'andito del corridoio di destra, ove fu fermato dalla sentinella.
Peggio, allora, giacchè se aveva poca voglia di andare avanti, senza
opposizione, ora glie ne nacque moltissima, impedito materialmente e
bruscamente dalla sentinella nel suo disegno.

L'atto primo di Bajaicò, trattenuto con poco garbo da un individuo
qualunque, senza distintivi, fu di mandarlo gambe all'aria con un pugno,
ciocchè egli eseguì con facilità essendo svelto, nerboruto ed
audace;--ma in un momento egli venne attorniato da molti e condotto in
presenza di Tifone.--Il suo processo fu presto finito e la sua sorte
decisa.--Un'occhiata del capo bastò per condannarlo, legato colle mani
addietro, e condurlo nell'interno per esservi immediatamente
sacrificato.

In questo il giudizio di Tifone somigliava a quello d'un vecchio romano
che, consultato sul da farsi con molti prigionieri nemici che
ingombravano il campo, mentre questo stava per essere attaccato,
rispose: «Ammazzateli!»

È cotesto anche uno dei tanti spedienti che i monarchi ed i loro
satelliti adoperano in quel bel loro passatempo di stragi che si chiama
guerra. Tali furono i procedimenti degli Hainau, dei Villata, dei
Bazaine che, senza trovarsi spinti dall'eccidio, da terribile necessità
d'una posizione arrischiata, massacrarono i Bresciani, i volontari a
Fantina, ed il signor Bazaine, il nostro generale Ghilardi, prode
difensore di Roma, al Messico mentre era ferito. Ed Ugo Bassi dai preti
austriaci! E Ciceruacchio con due figli e sei compagni da un principe di
casa d'Austria! E le migliaia di vittime d'un popolo generoso, immolate
alla paura di quel saltimbanco politico, mascherato da repubblicano, che
il giornalismo salariato chiama salvatore della Francia!--E perchè
trovan strano allora che pochi briganti si sbarazzino d'un individuo
che, lasciato libero, avrebbe certamente svelato il loro
ricovero?--Orribile misura di quella giostra fatale che si chiama
guerra--orribilissima quando eseguita in dettaglio, ma che quando, per
esempio, si tratta d'un'ecatombe di milioni, allora diventa gloriosa,
fruttando alla prosperità, all'onor nazionale, e sopratutto all'onor
delle aquile o delle bandiere!

Era bell'e spacciato il nostro Bajaicò, ed i Mille perdevano uno dei
migliori militi; ma la provvidenza--non so se fosse la stessa
provvidenza invocata da Guglielmo di Prussia quando col compagno
Bonaparte mandavano al macello Tedeschi e Francesi--oppure la
provvidenza del papa-re quando facea decapitare i liberali e cercava di
vendere l'Italia anche al diavolo se la pagava meglio degli altri--la
provvidenza nol volle.

Comunque, solo la provvidenza potea salvare il nostro bellicoso ligure
dalle unghie della camorra, e tale provvidenza si presentò sotto le
forme dell'avvenente Giovanna.--Giovanna poco o nulla immischiavasi
nelle faccende interne del suo stabilimento; non ostante essa non
ignorava tutti gli orribili misteri di quell'antro, e bisogna confessare
ad onor suo e dei fratelli che l'informavano d'ogni cosa, ch'essi tutti
avean ribrezzo delle atrocità che si commettevano sì vicino a loro, e
che cercavano in ogni modo di allontanarsi da quel nido di demoni.

Non era però così facile. Essi avean bensì acquistato qualche cosa col
loro negozio, ma quel qualche cosa sovente abbisognava alla tirannica e
scellerata associazione, dimodochè la maggior parte delle loro economie
trovavasi sempre in potere dei camorristi, che rendevano così ben
difficile l'allontanamento di Giovanna e dei fratelli. Tali procedimenti
da parte della camorra entravan forse nella di lei politica per non
lasciar liberi e sciolti da ogni impegno con loro individui che potevano
nuocerla.

Sinora era dunque stato affare d'interesse per Giovanna di mantenersi
inoffensiva a cotesta società di masnadieri, ma oggi trattavasi
d'affare del cuore, ben altro affare, e qui tutto il brio della donna
concentrossi in quell'anima meridionale. E «pera il mondo» essa disse
«ma si salvi il mio Bajaicò!»

Inutile essa ben sapeva la propria intercessione, presso i selvaggi
frequentatori del sotterraneo, e sapeva pure che poco tempo passerebbe
tra l'arresto ed il sacrificio. Quindi, battendo dei piedi sulla
banchina che le serviva di marciapiede, Giovanna lanciossi come una
furia fuori della porta sulla via coll'intenzione di gridare al soccorso
alla folla dei transitanti.--La fortuna favorì la pia oltre le sue
speranze. Il Prodittatore di Napoli avea avuto sentore delle trame
borbonico-clericali, giacchè in quei giorni i reazionari, quasi sicuri
della vittoria promessa dal re e dal cielo, millantavano in pubblico le
loro gesta future con molta boria, e pattuglie dei nostri comandate da
ufficiali di fiducia percorrevano i punti della capitale ove maggiore si
manifestava il pericolo. La nostra Giovanna ebbe dunque la sorte di
trovare subito una pattuglia dei Mille che passava per la contrada,
comandata dal prode Vigo Pelizzari, uno dei più distinti ufficiali della
prima spedizione e conosciuto dalla Giovanna.

«Per amor di Dio! comandante, venite presto per salvar uno dei nostri!»

Vi era tanta eloquenza in quelle brevi parole e nell'occhio corvino
della bella figlia di Partenope, che Vigo gettò la mano sull'elsa,
sfoderò la sciabola e precipitossi sulle tracce dell'interessante
donna, seguíto dai suoi militi di Marsala, svelti come caprioli.

Entrare, percorrere la prima stanza e gettarsi pei corridoi, fu un
attimo. E n'era tempo;--e al chiarore d'una lampada che illuminava un
angolo del sotterraneo, scorgevansi tre uomini nerboruti che colle daghe
nella destra, e sollevate sul loro capo, stavan per lasciarle cadere sul
collo d'un inginocchiato, colle mani legate dietro il dorso ed
assicurato con corde ad una colonna di legno che sembrava collocata
apposta per tale ufficio e che veramente dai camorristi era chiamata
colonna d'Abramo.--Un frate avea l'aria d'assistere il condannato, e la
vita di Bajaicò fu veramente dovuta a cotesto servo di Dio, che per la
prima volta in sua vita commise una buona azione, senza volerlo però.
Comunque, le solite raccomandazioni cattoliche ai moribondi questa volta
salvarono la vita d'un prode. Rotando la formidabile scimitarra, Vigo si
aprì un varco verso la scena di morte, e come un'onda incalzante
seguivanlo i fieri militi di Melazzo e di Reggio, rovesciando a destra e
a sinistra i soldati del sanfedismo, a furia di baionettate e colpi di
calci di fucili.--Tardi però sarebbe giunto il soccorso senza la
risoluzione impavida del nostro superbo ligure.

Egli s'era creduto spacciato, quando s'accorse che nessuno degli astanti
poteva essergli amico, ma siccome l'ultima dea, la Speranza, lusinga
sino all'ultimo sospiro, Bajaicò avea allungata la preghiera
prescrittagli dal frate, non so se il _pater noster_, quanto avea
potuto, e ne borbottava le ultime parole, quando il rumore della
imminente tempesta ferì il suo orecchio, e Dio sa se piacevolmente.
Presentendo soccorso dagli amici, valoroso sempre, egli fece uno sforzo
supremo, che valse parte ad infrangere e parte a sciogliere i legami con
cui lo avevano avvinto. Inerme come era, abbrancossi ai suoi carnefici,
che armati cercavano di trafiggerlo in ogni senso.--Il suo sangue
correva a ruscelli senza scemare il coraggio della difesa.--Egli
pugnava, lottava disperatamente; si sa però, qual poteva essere il
risultato del conflitto tra un solo inerme e tanti armati.--Il più
robusto dei carnefici avea alzata la daga sulla testa dell'eroico ed
infelice Bajaicò--se il ferro cadeva, era finita, ma un manrovescio di
sciabola del prode ufficiale di Calatafimi recise il braccio del
camorrista e salvò la vita al compagno.

Il parapiglia che successe in quel sotterraneo lo lascio immaginare al
lettore. Colpi di daga da una parte e baionettate dall'altra fulminavano
in quel poco decente recinto, ma presto la bravura dei figli della
libertà ebbe posto in fuga i masnadieri.

L'inconveniente però era nell'andito per cui dovevano uscire i
perseguiti, che si trovava angusto ed affollato da' più codardi che
avean procurato di preceder i compagni, cosicchè molti furono i morti
dei camorristi, molti i feriti e i prigionieri da porsi in mano della
giustizia.

Giovanna, nella sua vita non avea mai sognato di possedere tanto
coraggio quanto ne dimostrò in quella sera. Essa dopo d'aver avvisato
Vigo del pericolo del suo Bajaicò, non lo lasciò più d'un passo, ed il
martire di Mentana[52] sotto la di lei guida, potè giungere sul luogo
del supplizio colla celerità indispensabile.--Bajaicò, ferito come era e
grondante sangue, fece strage dei camorristi, e l'amante gentile andava
superba di aver salvata la vita all'uomo del suo cuore.

Il rovescio toccato alla camorra e quindi ai borboni clericali
nell'osteria della bella Giovanna, sventò la grande congiura della parte
a noi avversa in Napoli e salvò forse la causa d'Italia, già compromessa
in alcuni piccoli insuccessi da parte nostra, e dalla sorda guerra e
sleale che non cessavano di farci gli aspiranti ai favori della
monarchia sabauda.

Invano erasi adoperato monsignor Corvo in tutti i conventi e chiese per
mantenere il fuoco sacro, come diceva lui, e per tentare nuove
prove.--Invano!...

La gloria del paradiso predicata alle carogne da preti e frati
solleticava poco i grassi prebendari. Trovandosi essi al pericolo della
pancia, accresciuto dal fatto della bella Giovanna, si rannicchiavano i
polputi, e molti pubblicamente millantavano liberalismo, anche
repubblicanismo e socialismo, se si voleva.

«Ma io non m'immischio di politica» dicevano i meno birbanti «così ci
ammonisce Madre Chiesa.--Poi, date a Cesare ciò che è di Cesare, ed i
sacerdoti del Signore, lo sapete, devono predicare fratellanza tra gli
uomini, non attizzarli, stimolarli alla distruzione».

Alcuni di questi neri semi di Dio accusarono di camorrismo certi uomini
onesti con cui avean gare personali.

«La sorte vuol proprio favorire questi rompicolli indemoniati» diceva
tra sè Corvo mentre incamminavasi fuori di Napoli ad altre imprese,
nulla più sperando sulla camorra sconquassata e sui grassi apostoli
della cuccagna.

NOTE:

[52] Il maggiore Vigo Pelizzari, uno dei più brillanti ufficiali dei
Mille, morto a Mentana nel 1867, giovane ancora, pugnando i mercenari di
Bonaparte.




CAPITOLO XLVII.

CAIAZZO.


     La guerra, vergogna dell'umanità, è fatta necessaria dalle
     monarchie e dai preti che sarebbero perduti, se gli uomini avessero
     il buon senso d'intendersi. Trovandosi però nella necessità di
     farla, ci vuol molto discernimento.

     (_Autore conosciuto_).


Obbligato di lasciare l'esercito sul Volturno e di recarmi a Palermo per
placare quel bravo e bollente popolo nell'esaltazione in cui l'avean
spinto gli annessionisti, io aveva raccomandato al generale Sirtori,
degno capo dello Stato maggiore dell'esercito meridionale, di lanciar
delle bande nostre sulle comunicazioni del nemico.

Ciò fu fatto, ma pure chi ne avea l'incarico immediato stimò opportuno
di fare qualche cosa di più serio, e col prestigio delle precedenti
vittorie, non dubitò qualunque impresa esser eseguibile dai nostri prodi
militi.

Fu decisa l'occupazione di Caiazzo, villaggio all'oriente di Capua,
sulla sponda destra del Volturno. Tale posizione piuttosto difendibile
naturalmente e meglio con alcune opere, e la gente sufficiente per
difenderla, distava dal grosso dell'esercito borbonico, accampato a
levante di Capua, di poche miglia. Quell'esercito contava circa quaranta
mila uomini, ed ingrossava ogni giorno. Per occupar Caiazzo si fece una
dimostrazione sulla sponda sinistra del Volturno, ove si perdettero
alcuni buoni militi nostri, massime per la superiorità delle carabine
nemiche e per esser detta sponda dominata dalla destra ed i nostri allo
scoperto.

Il 19 settembre ebbe luogo l'operazione: si occupò Caiazzo, ed io giunsi
lo stesso giorno per assistere al deplorevole spettacolo del sacrifizio
dei nostri poveri volontari, che avendo marciato, secondo il costume
loro intrepidamente sul nemico, sino sull'orlo del fiume, furon poi
obbligati, non trovandovi riparo contro la grandine di palle nemiche, di
retrocedere fuggendo, fulminati alle spalle. Il giorno seguente, credo,
il nemico inviò un forte nerbo di forze ad attaccare i nostri in
Caiazzo, che in pochi, furono obbligati di evacuare, e ritirarsi
precipitosamente verso la sinistra del Volturno, dopo d'essersi
valorosamente battuti, ed aver perduto non pochi militi, morti, feriti,
ed affogati nel fiume. L'operazione di Caiazzo fu più che un'imprudenza,
una mancanza di tatto militare, da parte di chi la comandava.--E serva
quell'esempio ai nostri giovani militi, tuttora obbligati a studiare
quella manía di macellar gli uomini, che si chiama arte della guerra.

L'ordine mio, nel lasciar l'esercito, era di gettar delle bande sulle
linee di comunicazione del nemico, non di prender posizione fissa a
poche miglia dall'esercito borbonico, con un fiume come il Volturno fra
mezzo agli occupatori poco numerosi di Caiazzo, ed i loro sostegni sulla
sponda opposta.

Il valorosissimo colonnello Simonetta, che comandava sulla sponda
sinistra del fiume, e che sostenne come potè la ritirata dei nostri
vinti di Caiazzo, piangeva di disperazione al miserando spettacolo,
giacchè i volontari non pratici dei passi del Volturno, e perseguiti da
vicino dal nemico, furon obbligati di gettarsi nel fiume, senza scelta,
e caddero in un sito rapido e vorticoso.

Intanto l'impresa infelice di Caiazzo imbaldanzì il nemico, demoralizzò
la parte nostra, ci obbligò dall'offensiva passare alla difensiva, e fu
per i borbonici un fortunato preludio della gran battaglia meditata, che
sarebbe stata differita senza dubbio, e che per ciò ebbe luogo pochi
giorni dopo, il 1º e 2 ottobre.




CAPITOLO XLVIII.

BATTAGLIA DEL VOLTURNO.

    Quel che giurâr ottennero
        Han combattuto, han vinto
        Sotto il tallon del forte
        Giace lo sgherro estinto.

              (BERCHET).


L'alba del 1º ottobre illuminava là nei piani della vecchia capitale
della Campania, una truce mischia! Una battaglia fratricida!--È vero:
dalla parte dei Borbonici, eran molti mercenari, bavaresi, svizzeri, e
molti di que' stranieri che da secoli sono assuefatti a considerare
questa nostra Italia, come una villeggiatura od un lupanare. E cotesta
ciurmaglia, sotto la guida e la benedizione del prete, ha sempre di
preferenza sgozzato gl'Italiani, dal prete educati a piegare il
ginocchio a tutti i malviventi della terra. Ma pur troppo la maggior
parte dei combattenti alle falde del Tifate[53] erano figli di questa
terra infelice, spinti a macellarsi reciprocamente: gli uni condotti da
un giovane re, figlio del delitto; gli altri propugnavano la causa
santa del loro paese.

Da Annibale, vincitore delle superbe legioni di Roma, ai giorni nostri,
le campagne Capuane non avevan certo veduto più fiero conflitto, ed il
bifolco passando l'aratro in quelle ubertosissime zolle, urterà per
molti secoli ancora nei teschi dalla rabbia umana seminati.

Tornato da Palermo, presi stanza a Caserta, e visitando ogni giorno
Monte Sant'Angelo, da dove scorgevasi bene il campo dei nemici, a
levante della città di Capua, e nei dintorni, dai loro movimenti sulla
sponda destra del Volturno, che non potevan sfuggire al mio osservatorio
del monte suddetto, e dalle loro disposizioni, io congetturai, essere i
borbonici in preparativi d'una battaglia aggressiva.--Da parte nostra si
fecero alcune opere di difesa a Maddaloni, a S. Angelo, e massime a S.
Maria, alla sinistra nostra, e la più esposta per trovarsi in pianura, e
senza ostacoli naturali.

La nostra linea di battaglia era difettosa; essa era troppo estesa da
Maddaloni a S. Maria.--Il centro nemico che dovevasi considerare la sua
massa più forte, era in Capua, da dove poteva sboccare a qualunque ora
della notte, e sorprendere a circa tre miglia di distanza la nostra
sinistra.

Sant'Angelo, centro della nostra linea, è posizione forte per natura, ma
nella quale sarebbe stato necessario poter eseguire molte opere di
difesa; molta gente vi voleva per difenderne tutti gli accessi, e poi è
dominata essa stessa dall'altissimo Tifate che la padroneggia, quando è
quest'ultimo in mano del nemico, e che la isola dalle sue comunicazioni
e sostegni indietro.

Maddaloni, posizione importantissima, e che dovevasi tenere con tutta la
divisione Bixio, poichè passando il nemico nell'alto Volturno, e
prendendo la via di Maddaloni per Napoli, sarebbe stato in poche ore
nella capitale, lasciando l'esercito meridionale a destra sul Volturno
Capuano.

Le riserve tenevansi in Caserta e non eran numerose certamente, dovendo
occupare una linea più estesa.

Eravamo per di più obbligati di tenere alcuni corpi di concatenazione al
fronte, per non permettere al nemico, più pratico assai di noi del
paese, in cui avea un numero grande di fedeli, d'inoltrarsi tra le
nostre ali.

Santa Maria, la più difettosa delle nostre posizioni, era stata occupata
in ossequio di requisiti della popolazione, che avendo alcune velleità
liberali alla ritirata del Borbone, ora tremava alla sola idea di
rivedere i suoi antichi padroni.

Occupata S. Maria, bisognava occupare i siti a destra e sinistra che ne
avrebbero facilitato l'ingresso, se in mano del nemico; dimodochè,
ripeto, la nostra linea era difettosa, e consiglio ai miei giovani
commilitoni, di non imitare la mia condiscendenza, quando si tratta
d'una battaglia che può decidere delle sorti della nazione.

Il difetto delle nostre posizioni e della linea nostra non mi lasciavan
tranquillo, siccome i sintomi d'un'imminente battaglia a cui preparavasi
l'esercito nemico più numeroso, più disciplinato e meglio fornito d'ogni
cosa, del nostro.

Circa alle 3 antimeridiane del 1º ottobre, io saliva in via ferrata a
Caserta, seguito da parte del mio quartier generale, e giungeva a S.
Maria, prima dell'alba; montavo in carrozza per recarmi a S. Angelo, ed
in quel momento, udivasi la fucilata verso la nostra sinistra.--Il
generale Mielbitz, che comandava le forze ivi riunite, venne a me, e mi
disse: «siamo attaccati verso S. Tammaro, e vado a vedere ciò che v'è di
nuovo». Io ordinai al cocchiere di marciare con tutta velocità.--Il
rumore delle fucilate ingrossava, e si estese, a poco a poco, su tutto
il fronte sino a S. Angelo. Al primo albore, io giungeva sulla strada
alla sinistra delle nostre forze del centro, già impegnate, e giungendo
fui accolto da una grandine di palle nemiche.--Il mio cocchiere fu
ucciso, e la carrozza crivellata; e con me, i miei aiutanti furono
obbligati a discendere, e sguainar la sciabola.--Ma mi trovavo in mezzo
ai Genovesi di Mosto, ed ai Lombardi di Simonetta.--Non fu quindi
necessario di difenderci noi stessi; quei prodi militi, vedendoci in
pericolo, caricarono i borbonici con tanto impeto, che li respinsero un
buon pezzo distanti, e ci facilitarono la via verso S. Angelo.

L'addentrarsi del nemico nella nostra linea ed alle spalle, movimento
d'altronde ben eseguito, e con molta sagacia, e di notte, provava essere
egli ben pratico del paese.--Tra le strade che dal Tifate e dal monte S.
Angelo, mettono verso Capua, ve ne sono alcune incassate nel terreno,
che posa su tufo vulcanico, alla profondità di più metri.

Tali strade furono probabilmente praticate a' tempi antichi, come
comunicazioni tattiche di un campo di battaglia; e le acque piovane,
scendendo velocemente dai monti circostanti, hanno senza dubbio influito
a scavarne maggiormente il fondo.

Il fatto sta che in qualunque di quelle strade incavate, ponno
transitarvi al coperto forze considerevoli, anche con artiglieria e
cavalleria.

I generali borbonici, nel loro meditatissimo piano di battaglia, aveano
accortamente approfittato di tali accidentalità del terreno, e
v'inviarono di notte alcuni battaglioni con ordine di attaccarci alle
spalle, mentre la battaglia s'impegnava al fronte.

Uscito dalla mischia, in cui casualmente m'ero trovato per un momento,
m'incamminai coi miei aiutanti verso S. Angelo, credendo essere il
nemico solo alla sinistra nostra, ma m'ingannavo, ed una furiosa
fucilata alla nostra destra, partita dalle falde dei monti, al nostro
indirizzo, mi persuase esservi nemici anche da quella parte. Era la
situazione imbrogliata. I miei aiutanti ed io, a piedi, poichè i nostri
cavalli eran rimasti con ordine di mandarli dopo di noi a S. Angelo;
dunque, difficile mandar ordini;--tutti i corpi impegnati contro forze
superiori del nemico; e nessuna riserva alla mano.

Qui ci valse il disordine inseparabile dei corpi volontari. Avviandomi
verso S. Angelo, m'imbatteva sulla via con dei militi nostri staccati,
che raggranellati a misura che comparivano, se ne formò un discreto
corpo, e s'inviò all'attacco dei borbonici, padroni delle alture alla
retroguardia nostra. Poi una compagnia poco numerosa di bravi Milanesi,
che marciava verso il campo della pugna, fu immediatamente mandata verso
il Tifate, per prendere a sua volta il nemico alle spalle.

Poco dopo giunse su quell'eminenza un distaccamento del generale Sacchi,
che trovavasi a levante di S. Angelo, e per quella parte ci trovammo
finalmente alquanto assicurati.

Dopo gli avvenimenti narrati, mi fu possibile salire sul monte S.
Angelo, per potervi distinguere lo stato del campo di battaglia, e
m'accorsi esser veramente un impegno serio.

Il nemico preparato da più giorni ad una battaglia decisiva, avea
riunito sotto Capua quanta forza egli possedeva in tutte le parti del
regno, al settentrione del Volturno.--Le due piazze forti di Gaeta e
Capua, non solo diedero un buon contingente di truppe, ma lo fornirono
di quanto materiale da guerra esso poteva abbisognare; dimodochè la
forza nemica, che uscì da Capua contro il nostro centro e la nostra
sinistra, era veramente formidabile.

Da una parte e dall'altra la battaglia fervea disperatamente; era un
flusso e riflusso di attacchi e di riscosse, una mischia generale su
tutta la linea.

Non potendo noi guarnire tutto lo spazio tra S. Maria e S. Angelo, s'era
lasciata una lacuna tra le due posizioni, di cui il nemico profittò
facendola occupare da fortissimo corpo bavarese.

Codesto corpo, ch'io dall'alto poteva esattamente distinguere, era
imponente. In colonna serrata per grandi divisioni, marciava verso la
nostra linea a passo ordinario. E chi diavolo potevo io inviare
all'incontro di quel formidabile corpo? Il prode Generale Medici avea il
suo da fare nel centro ove comandava, a sostenersi contro le forti
colonne che lo assalivano, e per fortuna egli contava tra i suoi
subordinati il Colonnello Simonetta, uno dei più brillanti ufficiali
dell'esercito meridionale. Di più, il veterano di cento battaglie,
l'eroe dei due mondi, il Generale Avezzana, era stato inviato con un
corpo di volontari in sostegno del nostro centro, e fu quindi di gran
giovamento in quella parte.

La nostra sinistra in S. Maria, comandata dal bravo generale Mielbitz,
respinse il nemico, ed egli riportò gloriosa ferita. Comunque, le
comunicazioni tra la sinistra ed il centro furono intercettate dai
borbonici, che in gran numero occuparono la strada maestra che conduce
da un punto all'altro.

Il più accanito dei combattimenti durava a S. Angelo. Là vi era una
vera marea di vincenti e di respinti.--Il nemico stimava l'importanza
della posizione, chiave del campo di battaglia, e fece degli sforzi
inauditi per impadronirsene. I soldati borbonici giunsero sui nostri
pezzi varie volte, e s'impadronirono di due, che non poterono però
conservare.

In tale accanita pugna io osservai il difetto «di far fuoco avanzando»
prediletto sistema dei nostri nemici, a cui fu fatale in tutti
gl'incontri dai volontari sostenuti; questi, all'incontro, coi soliti
catenacci e colle loro cariche a fondo, senza fare un tiro,
neutralizzarono la superiorità delle carabine nemiche, e vinsero sempre.

Mi si obbietterà: tale nostro sistema esser nocivo colle nuove armi di
precisione, ed io dico con convincimento, essere più necessario ancora,
col perfezionamento delle armi.--O non si deve caricare il nemico nelle
sue posizioni, o bisogna caricarlo celeremente sino alla mischia, colla
coscienza di sfondarlo, senza di che si perderà molta gente, il morale
dei restanti soldati sarà scosso, e si avrà il doloroso spettacolo di
vederli tornare fuggendo e disfatti.

La pugna durò un pezzo al piede del monte S. Angelo, obbiettivo
importantissimo, e varie volte i nostri valorosi capi dovettero
ricondurre al fuoco i nostri militi, sopraffatti da masse imponenti e
tenacemente decise.

Verso le ore 1 pom., non so per qual motivo, mancarono le munizioni, ed
una desolante voce degli usciti dal campo di battaglia, me ne fece
consapevole.

Se il nemico fosse stato informato di tale circostanza, stavamo freschi.

La situazione era delicata. Il nemico ingrossando sempre, oltre
l'attacco di fronte verso Capua, avea tentato di assalire il nostro
fianco destro passando il Volturno, e fummo obbligati di far testa
dovunque.

Verso le 2 pomeridiane, supponendo vicine le riserve che aveva chiesto
da Caserta al generale Sirtori, capo di stato maggiore, io avvisai il
generale Medici della mia intenzione di raggiungerle per rinforzare la
linea nostra. Non era però facile di eseguire il mio proposito, essendo
la strada di comunicazione occupata dal nemico.

Comunque, mi decisi di fare un lungo giro, evitare il nemico,
e felicemente giunsi in S. Maria dopo mezz'ora, e giunse
contemporaneamente il primo convoglio per via ferrata, delle aspettate
riserve.

A misura che arrivavano si facevan collocare in colonna d'attacco nella
strada che conduce da S. Maria a S. Angelo; disposte nell'ordine del
loro arrivo, per sezioni, il di cui fronte era eguale circa alla
larghezza della via.

Anche qui accennerò alla efficacia delle riserve nei fatti di guerra
d'ogni entità, ma massime nelle battaglie campali.

Le riserve, più numerose che possibile, e possibilmente tenute al
coperto dai proiettili nemici e dalla vista degli stessi, sono, quando
ben disposte ed adoperate in tempo, in mano d'un capo intelligente, quel
mezzo potente con cui egli decide della battaglia, sapendole lanciare a
proposito.

NOTE:

[53] Monte che domina le pianure Capuane.




CAPITOLO XLIX.

JESSIE WHITE-MARIO.

    Amicizia, del ciel prezioso dono,
        Io cederei per un amico un trono.

              (YOUNG).


Io ho sempre creduto alla fortuna, e non dubito ch'essa non sia per la
sua parte, nei fatti compiuti tra la famiglia umana, e massime nei fatti
di guerra.

Qui seduto sul mio letto di dolore, e reso invalido dagli anni e dai
malanni, io penso alle epoche fortunate della mia vita, in cui
primeggiano certamente quelle ove mi trovai a contatto dei generosi
figli della Britannia.

Un giorno, spogliati da pirati greci nell'Arcipelago, senza viveri,
senza vestimenta, senza bussola, il mio capitano m'inviò verso un
brigantino che si trovava a grande distanza da noi. Giunsi a bordo di
quel legno, vi fui accolto gentilmente. Era il brigantino inglese
_Marianna_, capitano Taylor. Egli si era accorto del nostro stato di
sventura da uno straccio alzato al picco[54] per mancanza di bandiera,
ma era nell'impossibilità di avvicinarsi, per essere il mare bianco
dalla bonaccia.

In cattivo inglese io feci comprendere al bravo capitano lo stato
nostro, per cui egli mi colmò di cortesia, mi fece parte de' suoi
viveri, di cui tanto abbisognavamo e ci accompagnò sino al porto del
Millo.

A Montevideo in un giorno di pugna navale, trovandomi io con un piccolo
legno impegnato contro forze dieci volte superiori, e già sopraffatto da
esse, il palischermo d'una corvetta da guerra inglese giunse e si
frammise fra il mio legno ed i nemici; imponendo loro di cessare il
fuoco. Alla vista della formidabile bandiera d'Albione, i servitori di
Rosas restarono muti come per incanto, ed io salvo.

Ancor oggi io bacerei la mano di quel comandante, che certo, non fu
spinto da ordini dell'ammiragliato, ma dalla squisita generosità
dell'anima sua.--Egli vide un conflitto di sangue, e lanciossi in
sostegno del debole.

Che bell'impiego della forza, per coloro cui la sorte la mise in mano!

Avrei molte circostanze da narrare, in cui la benevolenza inglese prese
a favorirmi, e per cui io sono giustamente pieno di gratitudine.

Il 1º ottobre, essendo stato impegnato prima dell'alba, nell'ardua
battaglia, io mi trovavo completamente digiuno verso le 3 pom., quando,
occupato ad ordinare le colonne d'attacco delle riserve giuntemi da
Caserta, per lanciarle sul nemico tra S. Angelo e S. Maria, in quel
punto mi comparve un angelo tutelare; era la graziosa ed intrepida
figura della Jessie;--la sua apparizione mi colpì e richiamommi alla
memoria la generosa e cavalleresca nazione, a cui immeritamente sono
debitore di tanta simpatia.--Essa me ne figurava l'emblema, tanto più
che mi si presentava accompagnata da un giovane marino della flotta
inglese[55] in uniforme, portando un canestro pieno d'ogni ben di Dio.

Se non è questa fortuna, bramo mi si accenni a delle migliori! E fra me
dissi: questo è buon augurio.--Io avrei forse ceduto alla tentazione ed
alla fame ch'era molta, ma un obice esploso a poca distanza mi richiamò
al dovere, e ringraziai la gentile signora, pregandola di ritirarsi,
cosa che la coraggiosissima donna eseguì con reluttanza. Io era stato
contuso da un pezzo di quell'obice alla coscia sinistra.

NOTE:

[54] Posto ove si alza la bandiera.

[55] La squadra inglese ancorata sulla rada di Napoli, ebbe in quei
giorni varii disertori, che volevano ingrossare le nostre fila. Tale era
la simpatia di quella brava nazione per la libertà italiana.




CAPITOLO L.

CONTINUA LA BATTAGLIA DEL VOLTURNO. BRONZETTI A CASTEL MORRONE.

    A egregie cose il fort'animo accendono
    L'urne de' forti, o Pindemonte!
    E bella! e santa fanno al vïator
    La terra che le ricetta.

              (FOSCOLO).


Accanto alla illustre e martire famiglia dei Cairoli, e di tante altre
per cui veste lutto l'Italia militante, l'Italia dei generosi! posiamo
alla venerazione di tutti, quella dei Bronzetti.

Il maggiore, caduto contro gli austriaci a Seriate. Il secondo, non meno
eroicamente, a Castel Morrone.

Ho già detto essere la nostra linea di battaglia difettosissima, per
irregolarità del terreno, e per troppa estensione. Ebbene, per fortuna
nostra, fu pur difettoso il piano di battaglia dei generali borbonici.
Essi ci attaccarono con forze considerevoli su tutta la linea, in sei
punti diversi, a Maddaloni, a Castel Morrone, a S. Angelo, a S. Maria, a
S. Tammaro, ed in un punto intermediario di cui non ricordo il nome,
ove comandava il generale Sacchi.

Diedero così una battaglia parallela, cozzando col grosso del loro
esercito, contro il grosso del nostro, ed assalendo posizioni da noi
studiate e preparate.

Se avessero invece preferito una battaglia obliqua, cioè, minacciato
cinque dei punti summentovati, con avvisaglie di notte, e nella stessa
notte portare quarantamila uomini sulla nostra sinistra a S. Tammaro, o
sulla nostra destra a Maddaloni, io non dubito, essi potean giungere a
Napoli con poche perdite.

Non sarebbe stato perciò perduto l'esercito meridionale, ma un grande
scompiglio ce lo avrebbero cagionato. Con un'ala rotta, ed il nemico
padrone di Napoli, e delle nostre risorse, diventava l'affare un poco
serio.

Mentre la pugna ferveva nelle pianure Capuane, il maggiore Bronzetti,
alla testa di circa trecento uomini, sosteneva l'urto di quattromila
borbonici, e li respingeva a varie riprese dalle posizioni da lui
occupate. Invano il nemico intimò la resa a qualunque patto. Invano! Il
prode Lombardo avea deciso di morire co' suoi compagni, ma non
arrendersi. E tale era l'eroica risoluzione di tutti!--Avanzo di dieci
assalti, pochi restavano del suo piccolo battaglione, e la maggior parte
giacevano morti o morenti sul campo della strage. I pochi restanti però,
trincerati nell'alto del rovinato castello, non vollero saper di resa,
animati dall'esempio del valorosissimo capo.

«Arrendetevi, ragazzi!» gridavan gli ufficiali borbonici, edificati da
tanta intrepidezza, e certamente orgogliosi di tali concittadini:
«Arrendetevi, non vi sarà tolto un capello: già faceste abbastanza per
l'onore!»--«Che arrendersi!» gridavano quei superbi e gloriosi figli
d'Italia: «fatevi avanti! se avete animo!»

Essi terminarono sino all'ultima cartuccia, sostennero l'attacco finale
colla baionetta, e caddero tutti!..... Alcuni pochi feriti furono
trasportati a Capua.

E dove giaciono le ossa di tanti prodi e dell'illustre duce
Bronzetti?.....

Italia le ricordi!




CAPITOLO LI.

ANCORA LA BATTAGLIA DEL VOLTURNO.

    I fratelli hanno ucciso i fratelli!
    Questa orrenda novella vi do!

              (MANZONI).


Io desidero: nelle venture battaglie contro lo straniero, poichè delle
batoste ve ne saranno molte ancora, con codesta condizione sociale di
rubati e di ladri;--nelle venture battaglie contro lo straniero, ripeto,
bramo gl'italiani combattano come lo fecero in questa sanguinosissima,
gli uni contro gli altri.

Nel centro, cioè tra S. Maria e S. Angelo, ove si andava a decidere
della giornata, il terreno era piano e coperto di olivi, ciocchè
neutralizzò in parte la superiorità della carabina nemica;--ed alle
successive cariche di questa, i nostri appiattati dalle piante, la
respingevano a fucilate con vantaggio. Il colonnello Assanti, con parte
della divisione Cosenz, fu posto in riserva sullo stradale, e seguitò il
movimento, mentre le colonne d'attacco procedevano avanti.

«Voi la vedete la linea nemica, dietro quei ripari» diceva io al
comandante d'una compagnia milanese che si trovava di avanguardia,
«Ebbene, spiegate in catena la vostra gente, e caricate senza fare un
tiro sino a raggiungerli, quei ripari, la colonna vi seguirà
immediatamente».

La stessa ingiunzione io feci ad una compagnia calabrese, che stava alla
mano, e tutta quella brava gente caricò intrepidamente il nemico.

La colonna che marciava dietro e che prese la stessa direzione, era
comandata dal generale Eben, che marciava alla testa con un nucleo di
valorosi ungheresi.

Questi prodi marciarono verso il nemico coll'arma al braccio, come in
piazza d'armi, e ricorderò sempre con orgoglio d'aver comandato a simili
militi.

Il fiero ed imponente contegno delle nostre colonne, marciando avanti
senza sparare un tiro contro una grandine di granate e di fucilate,
scompigliò il nemico, e lo sloggiò dalle sue posizioni.

Contemporaneamente caricato a destra dai generali Medici e Avezzana,
cioè da tutte le forze di Monte S. Angelo, e da sinistra da parte dei
corpi dei generali Türr e Mielbitz, il nemico fu posto in fuga dovunque,
perseguendolo i nostri sino sotto Capua.

La giornata fu completa, e verso quell'ora, circa le 5 pom., ricevo un
dispaccio dal generale Bixio, annunciandomi il trionfo dell'ala destra,
da lui comandata.

Dopo un combattimento accanito di varie ore, Bixio erasi posto alla
testa d'una piccola colonna scelta, e colla solita sua bravura avea
caricato i borbonici, e cacciati sino alle sponde del Volturno.

Io telegrafai in quel momento a Napoli:

«Vittoria su tutta la linea!»




CAPITOLO LII.

IL GESUITA.

    Quell'antipatica vostra figura
    Desta, scusatemi, rabbia e paura.

              (_Clara di Rosemberg_).


Quando io penso al potere dei preti, conservato malgrado ogni sorta di
scelleraggine, appena credibile e che l'umana natura dovrebbe essere
incapace anche d'ideare;--malgrado l'aver ridotto fino all'ultimo grado
la più grande delle nazioni, d'averle inflitto ogni specie d'umiliante
degradazione, averla venduta tante volte allo straniero e sopratutto
d'averla educata ai baciamani, alle genuflessioni, alla paura, alla
prostituzione e ad ogni specie d'oltraggioso abbrutimento, per cui una
delle più belle razze, è per loro rachitica, curva, inferiore moralmente
e materialmente a tutte quelle altre razze che le furono
alunne!--Pensando al potere dei preti, dico: in questo secolo che si
chiama civile, mi viene sovente il dubbio, che codesti cretini a cui
appartengo per le forme, altro non sieno che una delle tante famiglie
di scimmie da me vedute nel nuovo mondo.

Un prete è un impostore!--Chi può provare il contrario?--E vi vuol poi
tanta matematica per capirla?--Eppure la potenza di quell'essere
malefico continua. Le plebi ne sono affascinate ed il dispotismo si
serve di cotesto fascino per malmenare i popoli. E si grida da una
parte, e si fa i sordi dall'altra, ed intanto va avanti questo bordello,
chiamato costituzione di popolo libero, e questa povera Italia nostra
che potrebbe essere comparativamente felice, è scelleratamente più
martoriata delle altre nazioni.

Ciò prova a sufficienza non esser questa l'età dell'oro, e prova che il
male supera tuttora il bene nelle afflitte nostre contrade.--Chi sono i
sostenitori del pretume? I minchioni ed i birbanti. I governanti
presenti dell'Italia sono quindi o birbanti o minchioni,--piuttosto
arcibirbanti! E tutto questo gran popolo _libero ed indipendente_ a cui
s'impone tutta cotesta bordaglia, io mi vergogno di qualificarlo e di
appartenervi!

Sebbene vinto l'esercito borbonico al Volturno, il cherchume perciò non
cessava dalle sue reazionarie trame;--esso fu scosso, scompigliato,
atterrito dalla gloriosa vittoria della giustizia, ma rialzavasi presto,
e non frenava la sua libidine di congiure e di tradimenti contro la
terra che per sua sventura generava e nutriva cotesto mostro dalle mille
teste.

Corvo, il gesuita, il terribile agente della reazione
clericale-borbonica, sdegnato prima contro i correligionari della
camorra, e della bottega di Napoli, era poi sdegnatissimo contro i
generali di Francesco II che con un immenso e brillante esercito, s'eran
lasciati battere da un pugno di rompicolli.

Come abbiam veduto, egli avea lavorato in Napoli con un accanimento
straordinario per suscitare il partito ad un movimento d'insurrezione,
che avrebbe servito di potente diversione a favore dell'esercito di
Capua. Egli avea assistito a tutte le riunioni della camorra, avea
picchiato a tutte le porte dei conventi, dei prelati e dei parroci. Ma
vi vuol altro:--l'affare era arduo per i grassi ministri di Dio! Si
trattava della pelle--e benchè sicuri della gloria del paradiso (non
ridete), morendo per una causa santa,--essi, i candidi leviti che
appartengono ad un mondo superiore, amano un tantino le delizie di
questo. E perciò il nostro settario di S. Ignazio, maledicendo alla
codardia dei ben pasciuti coccodrilli, recossi al campo del re di
Napoli.

Corvo assisteva a tutta la battaglia del 1º ottobre; vero genio del
male, egli moltiplicavasi in tutti i punti più importanti, animando i
soldati alla zuffa;--e fu veduto col crocifisso alla mano nel più forte
della mischia, eccitando, col gesto e colla voce, e gridando con quanto
avea di polmone: «Avanti!» Ma là pure gli toccò ad indietreggiare, e si
contava d'un prete, che mentre tutta la truppa davasi alla fuga, esso
per l'ultimo, sempre col suo Cristo alla mano, disprezzando
gl'inseguitori, non v'era modo di farlo alzar le calcagna.

Che ostinazione nel male in quell'uomo sì avvenente, sì coraggioso e
d'un genio veramente superiore; io ne sono stranamente sconcertato, e
sovente pensando a tali esseri straordinari, io mi stupisco come non
crollino il fango da cui sono avvolti e dicano alle moltitudini che
abbisognano tanto di verità come di pane: «Noi siamo i sacerdoti del
vero!»

Che un cretino possa esser prete e possa creder a' preti, pazienza! Ma
che una delle più grandi celebrità moderne, come matematico e come
astronomo[56] possa rimaner gesuita, mi fa strabiliare.

I grandi d'ogni specie crederanno forse esser necessario che la canaglia
si ravvolga nella melma e vi rimanga per sempre?

Corvo, disperando del successo, prese la campagna, avviandosi verso
Isernia, uno dei centri del sanfedismo.

Le superbe popolazioni Sannite che abitano tutto quel pezzo scosceso
d'Apennino che limitano il Volturno ed il Sangro ad ostro, ed il Lazio a
settentrione, fiere ed indipendenti come i loro antenati, mantenute come
sono, nell'ignoranza dal prete, esse sono come le Calabre, la più ricca
messe della fellonia chercuta, e sono quelle che danno i più famigerati
briganti, di cui il clero dispone assolutamente.

Tra quelle orribili gole, ove capitolava e passava sotto le forche
Caudine l'esercito Romano, e fra codeste bellicose popolazioni
internavasi il gesuita, come se volesse nascondersi da tante vergogne, e
sicuro di trovar pascolo alle infernali sue disposizioni.

Il perverso avea più d'un incentivo nella sua impresa. Egli serviva la
causa a cui avea dedita la sua scellerata esistenza, ed abbiam veduto in
che modo, ma più di ciò egli era solleticato dalla speranza di potersi
vendicare dei rapitori delle sue donne;--per cui egli sentiva qualche
cosa dentro che non sapeva spiegarsi, ma qualche cosa che lo attraeva e
lo spingeva irrevocabilmente verso quelle sue vittime.

Nelle sue peregrinazioni reazionarie, l'astuto settario di Loiola non
avea mancato di occuparsi della marcia dei fuggenti da Roma e per mezzo
d'agenti sicuri egli avea seminato d'insidie e d'ostacoli il cammino dei
nostri cari.

L'Italia, nella cieca noncuranza in cui si dondola, non si capacita di
ciò che ponno i preti nelle campagne. Non esiste il benchè minimo
villaggio ove risiede un prete, che non sia un focolare di reazione, una
scuola d'ignoranza e di tradimenti alla patria.

Che lasci l'Italia i preti come sono oggi (1871) e che tenti di
sostenere una guerra contro lo straniero, ed essa vedrà ciò che le
succede con codesti assassini domestici. Nel periodo in cui scriviamo,
la congiura clericale lavorava nell'ombra, a Napoli, in Sicilia, ed in
tutti i paesi conquistati dalla rivoluzione, vicino ed a mezzogiorno
della Metropoli; ma al settentrione di questa, ove esisteva tuttora
l'autorità regia, e massime nelle vicinanze della frontiera romana,
ardeva fierissima propaganda contro di noi, e codesti forti, ma
ignoranti contadini, ovunque adunavansi per ostilizzarci.

Corvo posò il suo quartier generale ad Isernia, città importante del
Sannio, e di lì munito come era di pieni poteri da Roma e dal Borbone,
ramificò la sua rete reazionaria in tutti i dintorni.

NOTE:

[56] Il Padre Secchi.




CAPITOLO LIII.

I TRECENTO.

    L'han giurato! li ho visti in Pontida
      Convenuti dal monte e dal piano;
      L'han giurato! si strinser la mano
      Cittadini di venti città.

              (BERCHET).


Noi lasciammo i protagonisti del nostro racconto, scampati dalle ugne
pontificie ed incamminandosi verso l'Apennino coll'intenzione di
seguitarne le vette, per discender poi nelle pianure Campane, a dividere
coi prodi fratelli dell'esercito meridionale le gloriose battaglie che
dovean decidere la caduta d'uno dei puntelli del dispotismo--e la
rigenerazione sulle sue rovine di tanta parte di popolo italiano.

Il comando della valorosa brigata dei trecento fu all'unanimità affidato
all'intrepido colonnello Nullo, e questi scelse a suo capo di stato
maggiore Muzio--e Muzio con quell'abnegazione che distingue il vero
merito--fu lui primo a proporre il bellicoso eroe della Polonia per
capo, e volonteroso per il primo a chieder gli ordini con una modestia
ed una subordinazione ammirabili.

Elia, il padre di Marzia, era stato raccolto in Roma, e faceva parte
della comitiva.--Povero vecchio!--Le membra slogate dalla tortura
dell'Inquisizione pretina, ed il volto scarnato, e livido dai
patimenti--faceva compassione il vederlo! L'amore immenso per la figlia
del suo cuore solo lo teneva in vita--ed inteneriva chiunque lo
contemplasse, infelice! quando rivolto alla sua cara, egli beavasi nel
di lei sguardo. Fu necessaria una cavalcatura per lui, e per la bella
contessa Virginia--anch'essa poco assuefatta a marciare a piedi--ciocchè
non fu difficile trovare nella ricca campagna di Roma.

Le nostre due giovani eroine sdegnarono di marciare a cavallo--e vollero
dividere i disagi dei semplici militi, chiedendo però a Nullo di
condurle presto in sito, ove poter acquistare un moschetto, arnese molto
più confacente d'un ombrellino a codeste amazzoni della schiera dei
Mille.

Noi sappiamo già esservi nella colonna trecento armati di sole daghe,
eccetto una ventina di carabine tolte alle guardie del Comandante
Pantantrac, ed agli sgherri. La richiesta delle fanciulle mise in
pensiero il Capo.--E veramente che avrebbero potuto fare i prodi da lui
guidati se si dovea combattere contro gente armata di fucili?

Un individuo che seguiva Lina, come la propria ombra, aveva inteso il
desiderio delle donne, ed osservava l'aria mesta e distratta del
Duce--con certo piglio significativo.

Questi era Talarico, il brigante redento, che attratto dalla bellezza
della fanciulla, e forse dal dovere che ha ogni uomo che non sia un
prete, di servir la causa del suo paese, s'era convertito alla parte
della giustizia e dell'onor nazionale.

Talarico amava Lina come il leone la sua femmina, colla differenza, che
conscio dell'affetto di lei per Nullo, piegava il capo alla fatalità
della sua posizione, e conformavasi come il naufrago, che non potendo
dominar le onde, da esse si lascia travolgere nei gorghi, dopo la lotta
terribile della disperazione.

Lina non l'amava, essendo il vergine suo cuore tutto rivolto
all'incomparabile amante di cui tanto andava superba; comunque, la
fiera, maschia ed ingenua devozione di quel rozzo ma superbo principe
della montagna la solleticava, e nell'anima sua bellicosa, ma
gentilissima, essa non poteva albergare un senso che non fosse di
propensione e d'interesse per quel servo sempre pronto al minimo di lei
desiderio.

Guai a chi avesse tolto un capello alla dea del suo culto! Il ferro del
figlio d'Aspromonte avrebbe solcato il petto dell'insolente come una
lama di fuoco.

Egli, dacchè reso alla schiera dei forti campioni della libertà
italiana, avea trovato nell'anima sua redenta tanta generosità ed
abnegazione, da non esser nemmeno geloso del suo capo, sicchè,
innamoratissimo, senz'altra speranza che quella di una meritata simpatia
dal suo idolo, l'amore di Talarico era diventato di natura celeste, come
quello che ispira tanta ammirazione nella vita squisitamente gentile del
gran cantore di Laura, e che sì maestrevolmente narra il Foscolo:

    «Amore in Grecia nudo, e nudo in Roma
        «D'un velo candidissimo adornando,
        «Depose in grembo a Venere celeste».

L'anima ardente dell'antico principe dell'Apennino, di più, era salda
come l'acciaio, e la coorte dei liberi potea fare assegnamento su di
lui, come sulle proprie daghe.

--«Comandante, disse Talarico a Nullo, che già lo aveva scelto come
guida nelle montagne; Comandante, davanti a noi abbiamo Tivoli, distante
poche miglia, se vogliamo giungervi di notte--ciocchè mi sembra
conveniente--io vi condurrò nella città, per vie a pochi note, e
giungeremo nel centro della stessa, sorprendendo qualunque forza
papalina vi possa essere, e potremo quindi armarci di alcuni fucili».

«Bravo!» fu la risposta di Nullo a Talarico; ed immediatamente il
colonnello ordinò di obliquare a sinistra ed imboscarsi nella selva
sacra del Teverone, per aspettarvi la notte. Fra i militi della brigata,
pochi eran quelli che avean pensato a provvedersi per la campagna, ma
per fortuna in settembre, poche son le provincie d'Italia, ove non si
trovino abbondantemente delle frutta, e con queste, per uomini giovani e
disposti a tutto, poco o niente sentivasi la carestia.

Erano le 7 pom. quando la brigata cominciò a muoversi dal bosco sacro
con Talarico alla testa; essa traversò il Teverone, e ne seguì
silenziosamente la sponda destra, sino ad oltrepassare la famosa
cascata, poi torcendo a destra verso il fiume--che in quel punto
sembrava d'argento, per la calma dell'aria, per il poco declivio,--la
testa della colonna inoltrossi sopra un ponte di legno, e sfilando al di
là della sponda sinistra, trovossi proprio a levante della città, cioè
verso i monti.

La città di Tivoli trovasi in posizione fortissima per chi l'assale da
ponente, verso Roma, ma da levante essa è completamente dominata dai
monti che le stanno a tergo. I Tivolesi non s'aspettavano tale visita; e
siccome in questi tempi di rivoluzione e di congiure clericali, non
mancava il timore; lumi, se ne vedeano alcuni a quell'ora, circa le 9
pom., ma la gente per le contrade era pochissima.

Al primo individuo che capitò nelle mani di Talarico, questi con poche
cerimonie mise la mano al colletto--impose silenzio--e sommessamente
chiese ove trovavasi la truppa. «Ahi!»--fu il primo grido dell'innocente
paesano--quando sentì le graffe del tigre nel collo--poi: «Signor
Piemontese!.....» quando s'avvide esservi molta forza, e secondo pare,
sapevasi esser non lontano l'esercito settentrionale--«Signor
Piemontese!, io sono amico vostro». Ed il poveretto era giustamente uno
di quelli che intendevano per Piemontesi i liberatori, e non
s'ingannava, toltone che i bravi figli del Piemonte, essi stessi
credenti nella liberazione dei fratelli, non sapevano esser guidati
dalla magagna Sabauda-Napoleonica.

«Amico, o non amico, tu hai da condurci ove si trovano i papalini--e
subito!» era la risposta del fiero calabrese. E non v'era tempo da
riflettere, ma ubbidire.

Due compagnie di zuavi _pontifichaux_ formavano la guarnigione di
Tivoli, e siccome a questa bordaglia piace l'Italia per i suoi vini, per
le sue belle donne, particolarmente, a quell'ora ebbri per la maggior
parte, erano anche quasi tutti presso le loro conquiste da trivio.

Una guardia qualunque trovavasi sul magnifico piazzale che a ponente
fronteggia la vecchia capitale del mondo, ed i nostri Romani, sorpresa
la guardia, ne legarono sino all'ultimo individuo, s'impadronirono di
tutte le armi, e disperdendosi poi in tutte le direzioni, armati delle
armi papaline, fecero una razzìa generale di quanti innamorati soldati
del papa trovarono.

I _pontifichaux_ gridarono, urlarono: «à la trahison!» secondo il
solito, e l'alba d'una bella mattinata settembrina li trovava legati
come tanti polli, due per due, alla mercede di gente ch'essi erano
assuefatti a disprezzare, perchè sempre discordi, e che ben potevano
sgozzarli senza tema d'infrangere le leggi della giustizia. Perchè, a
che questi vampiri del sanfedismo, che come i preti hanno la loro
divinità nel ventre, vengono a saziare i loro indecenti appetiti a danno
d'un popolo infelice che li trasse dalle foreste, ove marciavano a
quattro gambe come i gatti, e li pose sui piedi di dietro dicendo loro:
«Siate uomini!»?

I trecento passeggiarono padroni per le vie di Tivoli provvedendosi
d'armi e d'ogni cosa bisognevole per il loro viaggio, mentre che la
popolazione in odio al papato li acclamava con ogni segno di simpatica
benevolenza.

Nullo, a cui non fuggiva la falsa posizione in cui s'ingolfava quel buon
popolo, credente nell'apparizione dell'avanguardia del grande esercito
italiano--ciocchè altro non erano che i pochi esuli dalla città eterna,
così ammonì quella parte della popolazione che s'era affollata intorno
ai nostri militi:

«Fratelli! io vi ringrazio per la manifestazione vostra d'affetto che
ricorderò co' miei compagni tutta la vita. Devo però prevenirvi che noi
non apparteniamo all'esercito italiano, oggi diretto verso il
mezzogiorno, ma bensì a quella schiera dei Mille che, favorita dalla
giustizia della sacrosanta causa d'Italia, oggi milita vittoriosamente
contro i Borboni, alleati dei vostri tiranni;--quindi io vi consiglio
di terminar le vostre acclamazioni per non esporvi alla rabbia pretina,
oggi nel massimo del suo orgasmo».

Il resto della giornata si passò in preparativi di partenza, e verso le
6 pomeridiane incamminossi la brigata verso Subiaco. Una testa di
colonna di cavalleria, formata di dragoni romani, spuntava dalla via di
Roma in quell'ora, ma la cavalleria non si teme, massime nelle montagne
e da gente che non ha paura. Poi, i dragoni romani eran uomini disposti
a non bruttarsi di sangue italiano, anche malgrado gli ordini feroci dei
chercuti. Ciò sapevano i capi, e si contentavano quindi di seguire i
figli della libertà senza raggiungerli e venir con loro a conflitto.

I dragoni romani sapevano per tradizione aver il corpo a cui
appartenevano contribuito gloriosamente alla difesa di Roma contro i
soldati di Bonaparte nel 49--e perciò eran sempre d'animo propenso a far
causa comune coi liberi che consideravan fratelli.




CAPITOLO LIV.

SUBIACO.

    .  .  .  .  .  .  .  .  .  . Firenze!
      Te beata, gridai: per le felici
      Aure pregne di vita e pei lavacri
      Che da' suoi gioghi a te versa Apennino.

              (FOSCOLO).


È Subiaco, come Firenze, chiave dell'Apennino, ha le convalli popolate
di case e di oliveti, e collocata nella gola d'una di quelle profonde
vallate che mettono alle alte cime della Sibilla, quasi eternamente
coperte di neve, riceve anch'essa i benefici e limpidi lavacri
dell'Apennino.

Solo la pianta prete appesta quelle magnifiche contrade ed inaridisce
quanto di bello vi prodigò natura. Là, come dovunque ove alligna il
veleno, l'uomo vi è ignorante ed abbrutito e curvo, malgrado l'essere di
robusta costituzione.

Uno degli oltraggi più dolorosi--a cui si va esposti nell'apostolato
umanitario--è quello certamente che viene dal popolo, per cui l'uomo
onesto è sempre disposto ad affrontare ogni specie di disagi e sovente
la morte.

Nel 1835, quando infieriva il cholera a Marsiglia, un giovine italiano,
che generosamente si era arrolato in un'ambulanza per la cura dei
cholerosi e che ogni notte doveva con un compagno--dividendosi per metà
il servizio--assistere gl'infelici colpiti dal morbo, quel giovine,
passando a caso per una via di Saint-Jean, fu preso per un avvelenatore
dalla plebe, che vedeva avvelenatori dovunque. Un berretto rosso,
ch'egli portava senza distintivi e senza significato, era stato forse
causa dell'equivoco. Era l'italiano svelto e robusto: ciò gli valse da
principio, ma cosa avrebbe potuto fare alla fine contro un torrente
d'uomini, di donne e fanciulli che si precipitavan su di lui? La
situazione diventava disperata, e già gli piombavan colpi da tutte le
parti, contro cui schermivasi come poteva, ma che avrebbero finito per
sterminarlo. Poco dopo si sarebbe vociferato per Marsiglia che il bravo
popolo di Saint-Jean aveva salvata la città da un avvelenatore.

Una donna scapigliata, e per fortuna robustissima, presentossi sulla
scena. Essa aveva osservato tutto dalla finestra. Avventossi come una
furia nel più folto della moltitudine, e con una voce stentorea
esclamava: «Quello è mio figlio!... mio figlio! mio figlio!» ed alle
parole accompagnando le busse, giunse fino al giovine, che strinse nelle
sue braccia e coprì col nerboruto suo corpo.

Essa era stata veramente la balia del giovine--lo amava come figlio--ed
ebbe la fortuna di salvarlo.

Che dolore sarà stato quello di Pisacane, uno degli eroici difensori di
Roma nel 49--quando sbarcato dopo un'impresa gloriosa sulla terra che
gli diè la vita, tra i proprii concittadini, ch'egli scendeva a redimere
dal servaggio con un pugno di prodi! Che dolore, dico, di vederseli
aizzati contro per sbranarlo! per distruggerlo!

La stessa sorte successe a Blennio nel 1867 a Subiaco.--Blennio! uno dei
più valorosi nostri ufficiali, la di cui missione era di coadiuvare da
quella parte alla liberazione di Roma.

Blennio fu fatto a pezzi dalla popolazione suscitata dai preti!... E voi
ridete, coccodrilli! chercuti! ammirando l'opera vostra di distruzione.
E ben lo sapete, in Italia voi non contate che per la corruzione,
l'ignoranza, la distruzione e la discordia da voi fatta perenne tra i
figli di questa famiglia infelice!

E perciò noi dobbiamo cessare nell'apostolato umanitario? No, non
cesseremo!--e se fia vero il miglioramento umano--come lo promettono i
progressi della scienza e della ragione--noi daremo l'ultimo crollo e
precipiteremo nella polve il putrido catafalco della menzogna!




CAPITOLO LV.

LA SIMPATIA.

    Non amore,
      Ma certo parente
      Dell'amore sei tu, simpatia.

              (_Autore qualunque_).


Chi è quel tale dal volto sereno e dalla fisonomia attraente? Non lo
conosco!.... Ma i miei cani non abbaiano scorgendolo, ed i miei
bimbi--così ombrosi alla vista d'uno straniero--non solo non lo fuggono,
ma lo lasciano avvicinare, ridenti, come se da molto lo conoscessero, e
ne accettano graziosamente le carezze; si siede e si gettano tra le sue
ginocchia, come se di consuetudine! Io stesso, non so perchè, sono da
lui attratto, e fissandolo cesso d'esser burbero, perdo la naturale mia
malinconia, e ne risento piacere: quasi, se non temessi d'esserne
ripulso, lo abbraccerei!

Che volete: è simpatia! Non so se l'occhio del perverso possa suscitarla
coll'arte di fingere! In quel caso io sarei preso nella rete
dell'inganno, poichè su di me è possente l'effetto simpatico del volto
di un uomo onesto.

«Dirai a Castelli ch'io l'amo» dicevo bambino ad un mio amico che
recavasi presso il summentovato, che avevo veduto una volta sola e che
mi aveva suscitato simpatia.

Un'altra volta per il figlio di un cocchiere, che i miei parenti non
volevano vedermi frequentare, io quasi divenni pazzo.

Ebbene! tra le nostre tre donne, che a Tivoli per l'abbondanza di
cavalli s'eran lasciate persuadere di cavalcare, regnava molta simpatia,
massime tra la contessa Virginia e Marzia. La contessa trovava forse la
Lina troppo bella? Nel cuor delle belle--con tutto il culto che ho per
esse--so regnarvi, qualche volta, dei germi di gelosia, così sottili,
così delicati, che nelle anime nostre più rozze sono, credo,
impercettibili.

Ma Lina era simpatica alla patrizia Romana! e non so se gelosia e
simpatia ponno albergare sotto la stessa scorza. E poi, Marzia, benchè
di bellezza diversa, era pure bellissima!

O sarà, che la bella fisonomia della fanciulla Romana, annuvolata
spesso, non so da qual senso di dolorosa reminiscenza, confacevasi più
al bruno, stupendamente bello e malinconico volto della Contessa.

La bionda figlia delle Alpi aggiungeva ai suoi vezzi, veramente, certa
giovialità che cercavasi invano nell'aspetto della compagna.

Comunque, Virginia portava alcuna preferenza di simpatia verso colei
ch'essa aveva mortalmente perseguitato come una nemica. Forse era il
pentimento allora, che spingevala a tale preferenza?

Il fatto sta: l'odio che si dovea desumere dagli antecedenti già narrati
delle due Romane, avea cessato, e poche parole di giustificazione della
Virginia l'avean di ciò persuasa. È cosa stranissima! Marzia l'aveva
assicurata che invano erasi provata d'odiarla, e che nella giornata
fatale della _conversione_, essa sarebbe stata più sventurata assai,
senza la di lei compagnia. Un raggio di felicità raddolciva il volto
malinconico della contessa, a quella confessione ingenua ed angelica
della giovane donna, ch'essa avea mortalmente offesa.

Virginia, più attempata delle sue compagne, aveva naturalmente il
diritto di correggerle qualche volta, ciocchè faceva con molta grazia e
con squisita gentilezza.

«Adagio!» essa esclamava qualche volta alla focosa figlia di Bergamo,
che si compiaceva sovente di far caracollare il suo destriero[57]
«adagio! la mia Lina, qui il terreno è molto duro, ed io sarei infelice,
se vi succedesse alcuna disgrazia».

E siccome esse cavalcavano generalmente accanto al comandante della
brigata, Nullo aggiungeva le proprie ammonizioni a quelle della
contessa per moderare gl'impeti dell'adorata sua compagna.

Marzia, più docile di Lina, dava pochi motivi a rimostranze. Comunque,
come al corsiero generoso, l'aria pura e libera della campagna l'avea
ravvivata, l'aveva resa a se stessa, le aveva ridato quel brio che
l'animava a Calatafimi, contro i soldati del Borbone.

Ma che serve!--l'anima sua era contristata da affanni da essa sola
conosciuti, e che si dipingevano mestamente sul bellissimo volto quando
era padroneggiata da codeste tediose reminiscenze.

Essa sorrideva alle dolci parole di Virginia e dei suoi amici, ma quel
sorriso sfiorava appena le labbra coralline, per far subito posto a
mesto, abituale atteggiamento, massime quando il suo sguardo cadeva
sullo sventurato genitore, che macchinalmente, e quasi istupidito dai
tormenti sofferti, accompagnava silenzioso la comitiva.

Un giorno, sulla strada da Tivoli a Subiaco, mentre la brigata aveva
fatto un alto, Lina, avendo scoperto, vicino al sito un bell'albero di
fichi, disse a Marzia: «Io monterò su quest'albero a mangiare dei fichi,
e te ne getterò la tua parte». Marzia, che non voleva esser da meno in
agilità della compagna, rispose: «ma monterò anch'io, e ne mangeremo
assieme sull'albero»--«Che sì! che no!» nacque un po' di diverbio tra le
due amiche. Lina, sollecitamente però, lasciò la compagna ed
arrampicossi sul fico. Usando troppa precipitazione, nel salire, mise un
piede in fallo, si ruppe il ramo a cui si teneva colla mano destra, lo
stesso successe alla sinistra, e la nostra bellissima fanciulla se ne
venne al suolo, distesa in tutta la lunghezza del corpo, senza ferirsi
però, ma svergognata d'aver mostrato ai presenti la sua poca capacità
ginnastica.

Per combinazione--o con intento--due degli ufficiali del papa,
prigionieri--galanti come lo sono generalmente quella classe di gente,
che altro non hanno al mondo da fare, che mangiar bene, bever meglio, e
passare il resto in seduzioni, anche fosse delle undici mila vergini, la
di cui castità sarebbero obbligati di difendere a spada tratta--gli
ufficiali del Papa, dico, Merode e Pantantrac, a cui era venuta l'acqua
alla bocca, contemplando le bellissime giovani italiane, avean
approfittato d'un momento di noncuranza della guardia loro--composta di
bravi giovani romani--e s'erano avvicinati alle due donzelle, con aria
graziosa e seducente.

I due stranieri giungevano precisamente al momento in cui Lina aveva
comprato tanto terreno quanto era lunga, e circostanza miracolosamente
favorevole fu questa per loro, di cui vollero naturalmente approfittare,
slanciandosi al rilievo di quel caro corpicino.

Il fortunato dei due fu Pantantrac, che giunse primo ad afferrare, con
ambe le mani, il cinto snello della vezzosa. Egli certamente adempiva a
quell'atto di galante cortesia, con grazia--dote incontestabile della
Nazione francese--ed un gentile ringraziamento della bella guerriera
avrebbe, senza dubbio, messo fine all'incidente. Così però non
l'intendeva Talarico, nella fiera, rozza, indomita sua natura.

Assorbito non so da qual distrazione od affare, egli non trovavasi, come
d'abitudine, vicino a Lina, al momento della caduta, e vi giunse dopo
che la sua dea era in piedi, ma non ancor libera dalla stretta
dell'ufficiale papalino.

«Ahi!»--fu il grido doloroso di Pantantrac, quando il brigante gli
piantò le unghie nella nuca--«Ahi!»... e non più micidiale sarebbe stata
la graffa del tigre. Talarico staccò con tale malagrazia l'ufficiale
prigioniero che lo mandò gambe all'aria a molti passi di distanza.

Alcuni minuti vi vollero all'ufficiale straniero per riaversi dalla
sorpresa e dalla caduta. Ritornato in sè, alla fine, egli cominciò a
scatenarsi, con un repertorio d'improperii da far arrossire anche i
soldati del Papa.

«_Sacré nom_ di qua--e _sacré nom_ di là, e _brigands
d'Italiens_!»--senza curarsi della Nazione a cui apparteneva l'uditorio,
e che avrebbe potuto risentirsi, se la presenza di Nullo non lo avesse
impedito.

«Eh se non m'aveste preso per di dietro!»--e qui un'altra infilzata di
_sacré nom_, e di allusioni anche alla circostanza del convento, in cui
era stato disarmato da Muzio.

Straniero e prigioniero, a Nullo rincresceva si maltrattasse
quell'individuo. E chi ha conosciuto la bell'anima del guerriero di
Bergamo, ricorderà quanto modesto era ed umano.

Ma Pantantrac non la voleva finire, sia per certa naturale boria, sia
per voler fare da gradasso in presenza delle dame, ed avrebbe fatto
perder la pazienza a Giobbe.

Invano i suoi compagni di prigionia (giacchè si avvicinarono anche tre
ufficiali fatti prigionieri a Tivoli) lo pregavano di far silenzio;
invano l'impazienza cominciava a dipingersi su tutti i volti, senza
eccettuare quello del Capo. Finalmente Talarico, che quantunque non
molto versato nelle lingue straniere, ne sapeva abbastanza per capire
che la maggior parte delle ingiurie eran dirette a lui, che aveva la
principal colpa di tale scena, avanzossi verso Nullo rispettosamente, e
disse:

«Quel signore si lamenta d'esser stato da me assalito a tradimento e per
di dietro; e confesso il mio torto, egli ha ragione. Volete permettermi
di combatterlo petto a petto, col mio pugnale soltanto, e lui armato di
sciabola o spada, come meglio gli aggrada?»

La proposta piacque poco a Nullo, su di cui la fedeltà ed il coraggio
del bandito già avevano suscitato molta simpatia, e naturalmente contava
su di lui, per la sua pratica, nell'arduo viaggio che si doveva
proseguire per i monti.

Ma Pantantrac continuando ad insultare e sfidare tutto il mondo, e
Talarico persistendo a volerlo combattere singolarmente, Nullo finì per
accondiscendere al loro desiderio, e di lasciarli battere.

Qui, in onor dell'ufficiale legittimista, devo confessare ch'egli non
voleva accettare la prevalenza della spada o sciabola sul pugnale, ma,
sia che il Calabrese poco sapesse di scherma nelle armi suddette, o che
avesse veramente un'illimitata fiducia nel suo ferro, egli non volle
accettare altr'arma--almeno se così concedeva il suo avversario.

Un pezzo di terreno piano fu scelto per arena; Muzio rimise la sciabola
a Pantantrac, a cui l'aveva tolta nel perittero del convento; questi la
salutò e la baciò come una vecchia amica--molto più preziosa, se, come
le spade degli antichi cavalieri, essa avesse servito alla redenzione
degli oppressi.

Muzio e P... da una parte, come testimoni di Talarico; Merode ed il
Maggior Ventre dei zuavi _pontifichaux_ dall'altra, testimoni di
Pantantrac, misurarono il terreno, e gli avversari vi presero posizione
alla distanza di cinque metri.

Il marchese quasi certo della vittoria, aspettò un momento il
competitore coll'arma in guardia per infilzarlo, ma vedendo che quello
non avanzava, si mosse lui stesso, cercandolo colla punta del ferro.

Talarico non s'era mosso; il suo aspetto sembrava impassibile, ma chi lo
fissava negli occhi li vedeva roteare nell'orbita, e farsi sanguigni
come quelli della pantera quando si dispone ad assalire un nemico.

Appena però il suo avversario cominciò a marciare contro di lui, il
feroce bandito, facendosi scudo del braccio sinistro, gli fu addosso,
lasciò sfiorarsi l'antibraccio dal fendente della sciabola, mise la mano
sinistra sull'elsa del marchese, e lo colpì, come con clava, sulla
cervice.

«Ahi!»--fu l'unica esclamazione del colpito, e tutti gli astanti videro
piegar sulle ginocchia l'ufficiale del Papa, e stramazzare.

Chicchessia avrebbe creduto la lama del pugnale di Talarico penetrata
sino all'elsa nel corpo di Pantantrac, ma non fu così. Il brigante,
svelto e destro com'era e coraggioso, nel colpire il suo nemico,
rovesciò il ferro, dimodochè il solo suo pugno piombò sul cranio del
marchese, e bastò per rovesciarlo svenuto.

«Meglio così» disse Nullo, quando lo accertarono che non v'era ferita
mortale. E Muzio, che era disposto a chieder soddisfazione a Pantatrac,
che lo aveva pure accusato di tradimento, in conseguenza del depresso di
lui stato, ne fece a meno, ed ordinò di prepararsi per la marcia.

Prima dell'alba i trecento giungevano a Subiaco, ove sorprendevano le
autorità pontificie ed alcuni gendarmi, non essendovi guarnigione di
truppa. Ebbero quindi quanto poteva dare il paese, senza necessità di
violenze.

In guerra, nelle marcie di notte, con un obbiettivo qualunque, vi è
sempre qualche vantaggio: principalissimo, la sorpresa. Nelle ritirate
la possibilità di scegliere le linee più convenienti, e suddividere la
forza in tante colonne divergenti, come piace. D'estate, gli uomini ed i
cavalli faticano molto meno di notte e marciano meglio. Una marcia ben
ordinata di notte, e tanto segreta quanto possibile, confonde anche le
spie, e quindi incerte le informazioni del nemico.

NOTE:

[57] Le fanciulle avevan accettato un cavallo per far compagnia alla
Contessa.




CAPITOLO LVI.

COMBATTIMENTO DI SORA.

    Non la siepe che l'orto v'impruna
      È il confin dell'Italia, o ringhiosi!
      Sono l'Alpi il suo lembo, e gli esosi
      Son le turbe che vengon di là.

              (BERCHET).


Ma come si fa! come non saranno ringhiosi gli abitatori di questa
infelice penisola, quando l'inferno vi vomitò il levita prete, maestro
potentissimo d'ogni corruzione, e massime d'ogni discordia, e che per
sventura tanto si è radicato, da diventarne lo svellimento, se non
impossibile, almeno difficilissimo, sia per la protezione dei potenti,
che se ne servono per santificare le loro scelleraggini, sia per
l'imbecillità dei popoli, allettati dal paradiso e spaventati
dall'inferno, frutti del loro idiotismo, sia infine per la manía del
dottrinarismo, che in questi nostri giorni ha vestito, sulla rossa
tunica del repubblicanismo purissimo ed esclusivo, la rancida sottana
del prete!

Sino a Subiaco i nostri amici ebbero discreta strada; ma da codesta
città a Sora, essi furono obbligati a percorrere dei sentieri quasi
impraticabili, e per disgrazia, anche deteriorati dalle piogge
settembrine. A misura che gli ostacoli naturali crescevano, essi ne
trovavano pure degli artificiali, che i preti facevano costruire dai
montanari, a cui dispoticamente comandavano. Piante rovesciate ed
attraversate sui sentieri; i sentieri tagliati da fossi profondi, ed in
certi luoghi gli stessi fossi ricoperti con rami sottili e verdi zolle,
su cui il viatore, mettendo il piede, profondava in un precipizio; e
ponti di legno tagliati o bruciati, con altri ponti in materiale,
distrutti.

Si aggiunga a tutto ciò i terribili torrenti delle montagne, ingrossati
dalle pioggie, e spumanti fra i massi dei loro letti, come i marosi in
una tempesta di mare, e che pur attraversare bisogna, per cercare dei
viveri, e proseguire la meta del viaggio.

I ministri del Dio di pace, poi, avevano ammaestrato i contadini a far
delle imboscate e fucilare i loro fratelli dietro da ripari, come se
fossero belve.

A Trevi, a Tilettino, a Civitella, a Rovetto e a Balserano, furono i
nostri ricevuti a fucilate da gente imboscata in posizioni quasi
inaccessibili. Il Capo che comandava i trecento, ed i compagni suoi,
erano gente, però, da non indietreggiare davanti alle insidie, alle
minaccie e alle imboscate dei chercuti.

Quando scorgevasi il primo fuoco d'un'imboscata, il nostro P..., figlio
di monti più alti degli Apennini, e che formava l'avanguardia colla sua
centuria, lanciavasi come un capriolo, gridando: «in carica!» ciocchè
eseguivano i militi, senza fare un tiro.

Si suppone certamente che i cafoni non aspettavano la tempesta dei
liberi, e se la davano a gambe fuggendo precipitosamente e raccontando
poi che sotto l'assisa della rossa camicia essi avevan scoperto la
simbolica figura del demonio;--codardia che solleticava i chercuti,
interessati a mantenere il popolo nell'ignoranza e nell'abbrutimento.

È certamente codesto il vero modo di rispondere alle imboscate:
caricarle al primo indizio, se ne esce sempre meglio--e caricarle senza
far fuoco, poichè commettendo l'imprudenza di tirare dallo scoperto,
contro gente coperta, è sempre fatale.

A Sora l'affare fu più serio, essendo la forza nemica maggiore, ed
essendosi questa fortificata a circa mezzo miglio dalla città in una
stretta formidabile.

Gli esploratori nostri, però, avendo avvertito il capo che molta forza
nemica nascondevasi dietro i ripari che si vedevano di fronte, Nullo
pensò saviamente d'inviare un terzo della forza a girare il nemico per
la sua sinistra--ciocchè fu eseguito, con grandissima difficoltà però,
da P... colla sua centuria.

La prima centuria, comandata da Muzio, capo di stato-maggiore, ed
all'ordine immediato del comandante, doveva attaccar di fronte, mentre
Orazio colla terza centuria stava di sostegno e pronto ad eseguire i
movimenti e gli ordini del capo.

Qui accennerò, per istruzione dei giovani militi, che la situazione
babilonica dell'Europa porterà ancora sui campi di battaglia, alla
necessità d'una forza disponibile per attaccare il nemico di fianco
mentre si attacca di fronte--disposizione sempre utile, quando
possibile, ma particolarmente in posizioni forti come quelle occupate
dai sanfedisti nella presente occasione.

Alle prime fucilate della sinistra nemica contro l'assalente, seconda
centuria, Nullo ordinò la carica, ed i suoi prodi, assuefatti ad
assalire a ferro freddo, furono in un momento sotto le barricate
nemiche, e poco soffrirono dalla grandine di palle che partivano da
quelle.

Soffrì di più la terza centuria che, caricando in coda, riceveva le
cariche sfioranti le teste di coloro che precedevano. Essa ebbe la
sensibile perdita di sei morti ed una dozzina di feriti, più o meno
gravemente, tra cui il valoroso capitano con una palla in fronte che
fratturò il cranio, ma non lo perforò, per fortuna, rimanendo il
proiettile conficcato a guisa di verruca tra la cute e la parte ossea.

Orazio cadde e lo si credette morto per un pezzo; solo dopo il
combattimento, raccolto dai suoi per seppellirlo, si riconobbe che
respirava ancora, e fu portato nella prima casa.

Benchè molto più numerosi i soldati dei preti, non sostennero a lungo la
mischia coi figli della libertà, ed incalzati a baionettate nelle reni,
essi fuggirono verso la città, che sgombrarono immediatamente all'arrivo
dei nostri.

Alla folla dei fuggenti sanfedisti seguì altra folla--spettacolo
veramente miserando--di fanciulli, donne e preti coperti di stole
portando il _Santissimo_--come lo chiamano gl'impostori--implorando ed
impetrando--lordi di sacrilegio--il concorso dell'Onnipossente
all'esterminio degli eretici, nemici del re e della santa religione (la
pancia di quei mostri).

Avevan però mancato all'appello le legioni di angioli che i preti
promettevano agl'imbecilli e che dovevano cacciare come nube al vento
gli eserciti maledetti. E qui ci facevan l'onore d'immedesimarci
coll'esercito condotto contro di noi da Farini.

Non giungendo le legioni d'angeli e fuggendo, a rompersi il collo,
quelle dei cafoni, i nostri rimasero padroni assoluti di Sora, ove prima
cura fu quella dei feriti e poi quella di seppellire i morti. In Sora
poterono i liberi rifocillarsi dovutamente e provvedersi di viveri e di
munizioni per continuare il faticoso viaggio, non essendo prudente di
soggiornare molto tempo in un paese ove da un momento all'altro essi
potevano essere assaliti da forze molto superiori.

Comunque, essi furono obbligati di rimanere due giorni essendovi dei
feriti gravemente, come il capitano Orazio, che a qualunque costo non
si volevano lasciar indietro perchè tutti sarebbero stati
inesorabilmente massacrati. Sembrerebbero esagerazioni, eppure sono
verità sacrosante; meglio cader nelle mani dei selvaggi antropofaghi del
nuovo mondo che in quelle dei preti o dei loro seguaci! Sventuratamente
ogni tardanza era fatale ai trecento e dava tempo al nemico d'ingrossare
sulla linea ch'essi dovevano percorrere.

Dacchè vi furono dei feriti nella colonna, Virginia si assunse la
custodia di essi, ora coadiuvata dalle belle sue compagne ed ora da
altre donne benefiche che non mancavano, malgrado la corruzione del
prete, e da chirurghi; imperocchè, essendo la casta dei volontari
composta per lo più di giovani agiati ed intelligenti, è sempre facile
di trovar tra loro dei medici-chirurghi e formare delle ambulanze.




CAPITOLO LVII.

ISERNIA.

    .  .  .  .  .  .  .  e all'orror di notturni
      Silenzi, s'intendea lungo ne' campi
      Di falangi un tumulto, e un suon di tube,
      E un incalzar di cavalli accorrenti,
      Scalpitanti sugl'elmi ai moribondi,
      E pianto ed inni, e delle Parche il canto.

              (FOSCOLO).


I campi celebri di Maratona co' loro tumulti notturni--che la fervida
poetica immaginazione de' pastori dell'Attica narrava anche in tempi
remoti alla stupenda battaglia dell'indipendenza greca--quei superbi
campi e quei fatti gloriosi ebbero la fortuna d'esser cantati da due dei
più potenti genii poetici che abbia prodotto il mondo: Byron e
Foscolo.--E perchè non troveranno i loro vati anche le forche caudine ed
i campi di battaglia dell'indipendenza sannita?

Milziade pugnava, è vero, contro un esercito immenso, ma composto
d'effeminati dementi e di schiavi condotti alla battaglia per forza. I
Sanniti, invece, avevano contro di loro le formidabili legioni che
finirono per passeggiare padrone sulla faccia conosciuta della
terra--le vinsero ed inflissero loro la più umiliante delle ignominie,
quella di farle passare curvate sotto le forche erette per oltraggiarle.

Se il Sannio fosse stato compatto come la potenza di Roma in quei tempi,
forse le ugne dell'aquila dei sette colli non avrebbero lasciato le loro
impronte sul mondo.--E dove sono le vestigia di quelle popolazioni
guerriere, di quei superbi vincitori dell'orbe, di quei robusti
discendenti dei Marzi? Essi si sedettero al desco dei dominatori, ne
divisero le prede e con essi furono inghiottiti dal vortice di
corruzione ove si tuffarono tutti i satelliti dell'universale tirannide!

Redenti dal risorgimento italico, perchè quelle belle razze d'uomini non
appariscono più al cospetto degli altri popoli conformi alla loro natura
agili, forti, intemerati, insofferenti di servaggio? Dimandatelo ai
preti per cui oggi si chiaman cafoni; ai preti ch'ebbero il talento di
farne popolazioni di sagrestani, curvi, gobbi, col collo torto a forza
di baciamani e di genuflessioni; ai preti che insegnarono loro l'odio
agli uomini liberi, alle libere istituzioni, alla scienza ed ai suoi
grandi cultori, all'indipendenza patria; ai preti infine che insegnarono
loro a disprezzar l'Italia e a tradirla!

Isernia, capitale dell'antico Sannio occidentale, potrebbesi intitolare,
come Palermo, la _conca d'oro_. Circondata dalle alte cime del
Matese--ove tesoreggiano sorgenti abbondantissime ed inesauribili da
una parte, fra cui dominano le cataratte del Volturno, dall'altra
completando la corona altre delle alte cime apenniniche, ne fanno
veramente un paese incantevole, ove il _touriste_, che fugge le aride ed
infocate contrade, può trovare quanto brama di verdure, aure fresche e
deliziose ed acque zampillanti e cristalline quanto quelle delle Alpi.
Paesi a cui natura fu prodiga d'ogni suo benefizio, e che perciò
attrassero il nero bipede che predica l'astinenza e si pasce di
lussuria. Sì! il prete come il _simoun_ isterilisce in quelle magnifiche
contrade ogni fonte di progresso e di prosperità. Là, ove potrebbero
sorgere dei Chicago e dei Manchester, sorgono invece delle città appena
note sulle carte geografiche, come Isernia e Campobasso, con popolazioni
robuste sì, ma annegate nella più crassa ignoranza.

In Isernia, come dicemmo, stabilì il suo quartier generale monsignor
Corvo, onnipotente per i pieni poteri che aveva dal governo borbonico e
dal papale, onnipotente per la maliziosa e maligna di lui sapienza,
facile ad imporsi su d'un clero ignorante e su popolazioni governate e
traviate dal clero.

Gli ordini di lui furono esattamente compartiti, e certamente il
generale d'un esercito non poteva essere più ciecamente ubbidito.
L'interesse della causa ch'egli serviva, e più l'odio mortale sempre
crescente concepito per i rapitori delle sue donne, lo tenevano in un
orgasmo indescrivibile. Guai per i nostri amici, se i dipendenti di
Corvo avessero avuto la metà del coraggio e dell'attività sua!

Comunque, sulla strada che doveano percorrere i trecento per giungere ad
Isernia, ogni specie di ostacoli furono innalzati e adoperati a
profusione. Taglio di piante e di strade, trincee, imboscate, mine,
distruzione di ponti e quante scelleraggini inventa la malissima umana
intelligenza, quando propensa o spinta all'esterminio della propria
specie; tutto fu messo in opera dai cafoni diretti da chercuti o non
chercuti reazionari.

Per fortuna Nullo ebbe sentore di tanti diabolici preparativi, ed invece
di prendere la strada diretta ad Isernia, fece obliquare la colonna a
sinistra, valicò i monti ad oriente e gettossi nella vallata del Sangro
che percorse sino ad Alfedena; varcò una seconda volta i monti, e per
Rionero incamminossi sullo stradale che conduce ad Isernia.

Da Rionero, avanti però, comincia una storia ben dolorosa per i nostri
prodi amici. Il loiolesco, poco fidandosi delle attitudini guerresche
de' suoi cafoni, avea chiesto un battaglione di cacciatori al re di
Napoli, e l'esercito borbonico dovendosi chiudere nelle fortezze di
Capua e di Gaeta, non fu difficile ottenerlo. Cotesti soldati, già
agguerriti in varii combattimenti, esperti tiratori ed armati
d'eccellenti carabine, cagionarono gran danno ai figli di Roma.

In tutti i zig-zag della strada che da Rionero va ad Isernia, v'erano
fossi, barricate e truppe nemiche imboscate. I prodi militi di Nullo
caricavano qualunque imboscata e la conquistavano a misura che si
scopriva, ma ogni volta, pei tiri accertati dei cacciatori borbonici,
essi lasciavano qualche vittima, ed il numero dei feriti cresceva, con
grande imbarazzo dei nostri, in un paese ove tutti fuggivano, e
portavano via gli animali ed ogni specie di veicoli. L'unico mezzo per
portare i feriti era dunque quello delle barelle, costrutte come si
poteva, e con grande spreco di gente per portarle--ciocchè menomava
orribilmente il numero dei combattenti.

Così si giunse sino alle porte d'Isernia, ove Nullo, credendo di trovare
seria resistenza, aveva prese tutte le precauzioni per l'attacco che ad
un capo come lui suggerivano la risoluzione e l'esperienza.

Quale fu lo stupore dei nostri quando gli esploratori vennero indietro
annunziando che la città era deserta di nemici e di popolazione! E
veramente tutta la brigata entrò senza verun ostacolo.

Se nei paesi ove si compiacciono di scialacquare gl'invasori--come
l'Italia, per esempio, ed oggi un po' anche la Francia--si facessero ai
nemici le accoglienze fatte da quei d'Isernia ai trecento, per ordine di
monsignor Corvo, io sono sicuro che succederebbe come successe in Spagna
ed in Russia agli eserciti del primo Bonaparte--lezione che ha fatto
inviolabili i territorii di quegli Stati ove la nazione era veramente
decisa di non piegare il collo.

Ma che succedeva nei felici e ricchi paesi d'Italia e Francia? Giungeva
il nemico--voi vedevate dal sindaco al sagrestano corrergli incontro con
musi ridenti--non dico volti, poichè quelle mutrie non appartengono a
razza umana--domandare di che abbisognava, ed a gara l'uno dell'altro,
rompersi il collo per soddisfare ai bisogni--sollecitudini il più
sovente pagate con bastonate o peggio.

Giungevano i connazionali--fossero essi _francs-tireurs_ o
volontari--stanchi, decimati dalle palle nemiche o dalla
fame.........--«Via! via presto che ci compromettete. I prussiani o i
turchi hanno portato via tutto: nulla più abbiamo»--e tante altre simili
cantilene.

Fortuna se si era in molti, allora qualche cosa da mangiare e da bere si
trovava; in pochi, anche le donne vi correvan sopra colle scope!

E qui lo spigolatore dell'_Unità Italiana_ mi ricorderà l'_antifona_ mia
favorita; e siccome, come ogni fedele, sono anch'io un po' di testa dura
e dò poca retta agli spigolatori del dottrinarismo, qui, dico, forse per
la centesima volta, devo ricordare agli Italiani che gli ho veduti
anch'io i preti col crocifisso alla mano, seguiti da una folla di popolo
plaudente, sventuratamente italiano, precedere la trionfale entrata
dello straniero nei paesi nostri.

Nelle strade d'Isernia non si vedeva un solo individuo; ed in alcune
case trovaronsi pochi vecchi infermi, che la popolazione non aveva avuto
tempo di trasportare. Fu cotesto provvedimento del gesuita, e ciò prova
quant'era l'astuzia e la capacità di questo nemico del genere umano.
Serva questo d'esempio ai nostri concittadini, sempre pronti ad
inchinarsi davanti allo straniero facendo così facilissime le invasioni.

Io spero che l'Italia non cadrà più in tali grossolani ed umilianti
errori; spero sopratutto che essa non avrà più mai invasioni straniere;
ma in caso di tanta sventura, per il pessimo stato delle sue
istituzioni, devono essere castigate coll'ultimo rigore e consacrate ad
infamia eterna quelle autorità che non comandano all'avvicinarsi del
nemico lo sgombro generale di tutto l'abitato ed il trasporto in luogo
sicuro, anche sui monti o nelle foreste, di ogni oggetto che gli possa
servire, massime il bestiame e gli alimenti per uomini ed animali,
abbruciando tutto quanto non si può trasportare.

Vorrei di più, che si castigasse rigorosamente chiunque ha potuto
sfuggire il nemico e non l'ha fatto, sotto l'imputazione di spia, e
chiunque ha provveduto, anche con un bicchier d'acqua, il soldato
straniero.

Poichè noi Italiani dobbiamo finalmente capirla, quegli invasori che i
preti accolgono col crocifisso alla mano per ingannare il povero popolo,
sono ladri, assassini spinti sotto falsi pretesti a derubarci del sudore
delle nostre fronti ed a prostituire i domestici focolari--si chiamino
essi francesi, austriaci, turchi od altro--e che dovere di
tutti--giacchè si tratta della causa di tutti--si è di distruggerli con
tutti i mezzi possibili. Operando in tal modo ed obbligando alle armi
chi vuole e chi non vuole, cioè due milioni di militi (10 per 100 come
in Svizzera), la nostra Italia è invincibile.

Il loiolita, con tutta la malizia che gli conosciamo, aveva saputo
adoperare tutti i mezzi e tutti gli stratagemmi di guerra in cui molti
dei generali borbonici avrebbero desiderato di eguagliarlo. Egli disse
tra sè: «Questi demonii di rompicolli, per argine che loro si opponga in
Isernia, finiranno per superarlo: e questi cafoni, anche dopo d'aver
distrutto la metà dei nemici, finiranno per darsela a gambe.--Quindi,
meglio far un deserto della città, ove nulla potrà più trovarsi, e
portare la guerra in una posizione vantaggiosa al di fuori, in cui, dopo
fuggiti i miei codardi, almeno i nemici non troveranno altro che feriti
e cadaveri».

Con tale ragionamento diabolico, e dopo d'aver ordinato quanti ostacoli
era possibile al progresso dei trecento, egli comandò la completa
evacuazione della città in nome del re e della religione.

L'evacuazione fu eseguita in modo da non lasciare nella città che
pochissimi vecchi infermi, non trasportabili. Le vicinanze delle
montagne e dei boschi presentavano dei nascondigli inaccessibili ai non
pratici; ed ogni specie di vettovaglie, bestiame, ecc., che avesse
potuto servire ai perduti, vi fu nascosto con cura particolare.

Tutti gli uomini validi, poi, diretti dal comandante del battaglione di
fanteria e da varii ufficiali del genio, venuti pure dall'esercito
borbonico, organizzaronsi indietro d'Isernia verso Taliverna, Venafro ed
i monti che costeggiano la strada a settentrione. Tale sistema di difesa
ed offesa era degno d'una causa migliore. E si intende che monsignor
Corvo volle mantenersi al comando supremo dell'esercito della fede. Ed
era veramente fede ciò che portava sui campi della morte tutta quella
massa d'infelici concittadini, poichè, se fossero stati guidati dalla
ragione, essi avrebbero capito che servivano chi li ingannava e li
vendeva, mentre pugnavano per l'esterminio dei valorosi campioni della
loro causa, cioè quella degli oppressi!

Nullo, da quell'esimio capo che era, concepì tutto il pericolo della
situazione; ma trovò nello stesso tempo nell'intimo dell'anima sua tutta
la energia che tale critica posizione richiedeva.--Molti davano per
motivo dell'abbandono d'Isernia lo spavento cagionato dai nostri alla
popolazione; ma egli non ingannossi, e, senza manifestare il suo
criterio, si attenne alla conseguenza che qualche stratagemma fosse
meditato dal nemico, oppure che si fosse trincerato in forti posizioni
sulla strada che si doveva percorrere; e così era veramente.

Il più terribile della situazione dei militi della libertà, era il gran
numero dei feriti--proporzionatamente all'esiguo numero degli avanzi dei
trecento--ed era cotesto il maggiore dei pensieri dell'illustre capo.

Abbandonarli quei prodi compagni feriti!--nemmeno per sogno, piuttosto
perire tutti che lasciare alla ferocia del prete e de' suoi fanatici
tante nobili vittime!--E così si fu obbligati di rimanere per alcuni
giorni in Isernia, ove nulla si trovava perchè portato via o distrutto;
ma almeno i sofferenti avevano un tetto da ricoverarsi dalle intemperie
ed alcuni giacigli ove riposare le membra stanche ed addolorate. Si
prepararono delle barelle in mancanza di veicoli; si sacrificarono
alcuni cavalli e si trovarono pochi polli nei dintorni per avere un po'
di brodo per gl'infermi. Difficilissimo, poi, fu trovare dei panni da
far fascie e filaccie per le ferite. Anche i sani trovarono
difficilmente da mangiare e fu quindi ben malinconico il soggiorno dei
nostri in Isernia.

Che importava fossero italiani, e della miglior specie! Essi erano
eretici! maledetti da Dio! e quindi condannati all'inferno! all'inferno,
capite!--in quella bagatella di fuoco eterno che i preti han trovato sì
comodo per arrostire coloro che non vogliono saperne della loro bottega
e che non vogliono pascere l'insaziabile loro ventre e le sante loro
lussurie!

Venne finalmente il giorno della partenza; e benchè molti nella colonna
credessero le maggiori difficoltà superate, non era questa l'opinione
del comandante. Egli non manifestava esteriormente i suoi timori, ma nel
fondo dell'anima sentiva un presentimento invincibile di sciagura.

Comunque, egli ordinò un sistema di marcia con tutte le precauzioni
richieste in circostanza di pericolo. P... colla sua centuria,
assottigliata dalle diverse pugne, continuò a fare l'avanguardia. La
centuria di Muzio, con cui trovavasi Nullo, occupava il centro;
seguivano i veicoli e le barelle dei feriti, e la retroguardia fu
affidata alla centuria d'Orazio, comandata dal tenente Ezio in
sostituzione del capitano ferito gravemente.

Alcuni veicoli, che prima si chiamavano dell'Intendenza, servivano pei
feriti, e se qualche briciolo d'alimento esisteva nella brigata, questo
era ben custodito nel sacco o nella saccoccia di alcuni militi.

Tra Taliverna e Venafro scorre il Volturno, ancora torrente e colle
sponde scoscese. Lo stradale traversa quasi perpendicolarmente il fiume
su cui esisteva un ponte che venne minato dai borbonici; e fu in questo
luogo ove il generale Corvo ammassò tutti i suoi mezzi di resistenza. E
veramente, per opporsi ai progressi dei liberi italiani, sito più
conveniente e più formidabile, era ben difficile trovare.

Lina, Virginia e Marzia marciavano nel centro in coda alla centuria di
Muzio, ove occupavansi anche della custodia dei feriti.--Esse avevano
partecipato alle antecedenti pugne, armate di carabina, e mettendo piede
a terra quando abbisognava. In Isernia però erano state obbligate di
cedere i loro cavalli per l'inesorabile bisogno di mangiare e di avere
del brodo.

A piedi o a cavallo, noi già conosciamo l'intrepidezza delle giovani
eroine, avanzi di venti combattimenti, e la romana Virginia, forse più
per disprezzo della vita, ma anche perchè dotata di natural coraggio,
seguiva valorosamente l'esempio delle compagne, quantunque meno adeguata
alle fatiche ed ai perigli della vita dei campi di battaglia.

Esse avevano affrontato il pericolo con ilarità sino a questo giorno,
dimenticando le due romane anche la consueta malinconia. Ma oggi (credo
28 ottobre 1860) certo presentimento, che si guardavano di manifestarsi
reciprocamente, annuvolava i loro volti raffaelleschi.

In un momento d'alto, Lina che non poteva stare nella pelle, scostossi
un poco a destra, salendo su di una piccola eminenza. Essa gettò lo
sguardo, acuto e penetrante come quello dell'aquila, verso le maestose
cime del Matese; ne contemplava la scoscesa catena adorna di piante
secolari di quercie e di castagni, formando boschi foltissimi in alcuni
punti; e mentre divagava la vista nell'imponente spettacolo, essa ad un
tratto, rivolta alle compagne, esclamò:

«Vedete! vedete!» segnando ad un punto non lontano al di là del
Volturno.

«Ma noi nulla scorgiamo» rispose Marzia incamminandosi al punto ove
trovavasi l'amica.

«Non vedete quanta gente si aggira dietro a quelle piante?» ed indicava
il punto coll'indice.

Le compagne rimasero attonite. Esse avevano veduto allora ciò che non
potevano prima discernere; cioè, una folla immensa che, sebbene volesse
nascondersi, non mancava di mostrare la sua massa imponente. Quella
folla componeva l'ala sinistra dei borbonici, destinata a caricare la
diritta dei nostri, di fianco, quando fossero impegnati al fronte contro
i quattrocento cacciatori dell'esercito regolare.

Alcune deboli scaramucce impegnaronsi tra gli esploratori di P... e gli
avamposti nemici. La resistenza di questi però doveva essere apparente,
e quando incalzati, avean l'ordine di ritirarsi sino a lasciare
impegnare nel ponte il grosso dei liberali.

L'eroico martire della Polonia in quell'istante pensò ai suoi feriti; ed
un tetro, malinconico, terribile pensiero, amareggiò l'anima sua
gentile. Oh! i feriti abbandonati in potere d'un nemico inesorabile! che
non dà quartiere! che giungerà con quel sorriso sardonico in cui l'uomo
somiglia alla belva assetata di sangue! i feriti che vedranno il
sarcasmo dell'omicida e che non potranno nemmeno coprirsi gli occhi
colle mani per nascondersi all'orribile vista dell'esterminio de'
compagni e del proprio! A tale idea non regge il cuore--se non sia
quello d'un prete!

Io gli ho provati tali sensi; e su queste spalle si sono posate le
membra grondanti di sangue de' miei fratelli d'armi. E ne vo superbo!
Ma quanti di loro non mi sono trovato obbligato di abbandonare sui campi
di battaglia! E certo, se invidio la robusta sveltezza della gioventù,
lo è anche perchè, decrepito, non posso più sollevare un fratello
caduto!

Egli non pensava, il generoso figlio delle Alpi, che tra breve, caduto
trafitto da piombo cosacco, ei bramerebbe la mano d'un amico per
sorreggergli la testa morente.

Rivolto a Lina--che, minacciando la tempesta, s'era avvicinata all'amato
del suo cuore--egli le disse:

«Torna dalle tue compagne e raccomanda i nostri poveri feriti;
sopratutto che non li lascino indietro».

La vezzosa, un po' stizzita d'essere rimandata indietro, compì
esattamente la missione, ma fu presto di ritorno accanto al capo. E
questi:

«Ordina a tuo fratello di passare il ponte, di prendere a destra e
proteggere il nostro fianco, mentre noi procederemo avanti».

«Avanti!» esclamava il bellicoso concittadino di Nullo, cui il pericolo
aumentava l'ardire. «Avanti!» ed ordinava di suonare la carica
all'ordinanza sua, che a Tivoli s'era fornita d'una tromba dei zuavi
_pontifichaux_, e nel gridare «avanti!» il nostro P..., colla sciabola
alla mano, lanciossi sui cacciatori che sembravano voler difendere il
ponte, ma che fuggirono all'avvicinarsi del nembo. Egli era sempre
accompagnato nelle pericolose imprese d'avanguardia dal coraggioso
Talarico che gli serviva da guida e da compagno.

Nullo seguì subito il movimento dell'avanguardia colla centuria del
centro. Egli marciava in colonna per sezioni a distanza intiera
all'oggetto di fare una maggior comparsa di forze che non esistevano
realmente. Ma quando il centro della sua colonna passava il ponte a
passo celere, il nemico, per via d'un filo, fe' saltare la mina, e per
fortuna l'esplosione ebbe luogo tra una sezione e l'altra.

Comunque, vi furono varii morti, feriti precipitati nel fiume e, peggio
ancora, il convoglio dei feriti e la retroguardia divisi dai loro
compagni. Il demonio del fanatismo e della guerra aveva veramente
inspirato il gesuita in quel giorno fatale, e tutto camminava secondo le
previsioni sue diaboliche. Egli aveva ridotto i trecento a terribile
frangente; e con tutta la fiducia che cotesti valorosi avevano nel loro
capo, non mancarono alcune parole ingiuriose tra loro: «Perchè non
s'erano fatte indagini più accurate prima di avventurarsi sul ponte; e
se non vi aveva pensato il duce, perchè non il capo di stato-maggiore?»

Non appena la mina ebbe scoppiato, una valanga di forsennati precipitò
dai monti sulla destra dei nostri. Urlavano come belve, mentre
fulminavano stando dietro le piante una grandine di fucilate. Fortuna
per i liberi che i cafoni non erano destri a sparare il fucile. Non
così i cacciatori borbonici.--Il loro battaglione, imboscato dietro
varii scaglioni di trincee e di fossi, aprì un fuoco infernale di
fronte, e questi soldati, addestrati ai tiri ed armati d'eccellenti
carabine, in poco tempo fecero un monte di cadaveri e di feriti ad
occidente del ponte del Volturno.

P... che aveva passato il ponte con circa cinquanta uomini della sua
centuria, era stato obbligato di ripiegarsi sulla centuria del centro;
ed in poche parole, con Nullo. Essi convennero di difendersi sul
posto--alquanto coperto dalla depressione del terreno, dalle sponde del
fiume e dai rottami del ponte--sinchè Ezio ed i feriti avessero potuto
varcare il Volturno--ciocchè costò molte vite e gran perdita di tempo.
La situazione del resto dei trecento diveniva ognor più disperata; ed il
nemico ingrossava sempre più; non ostante, sin quasi verso sera ogni
carica del nemico era stata respinta, ed i nostri padroni del campo di
battaglia.

Nullo, P..., Muzio, Ezio e le nostre eroine sembravano leoni feriti.
Menomati gl'individui, erano cresciuti i moschetti, i cadaveri fornivano
di munizioni coloro che potevano sparare; ed ognuno aveva scelto un'arma
buona, se non per vincere, almeno per vender cara la vita. Si era, fra
questi superbi campioni del diritto, nella voluttà della morte! Chi
cadeva gridava: «viva l'Italia!» Ed i nemici, verso sera, non ardivan
più di giungere su quel mucchio d'eroi la maggior parte feriti.

Orazio, malgrado la debolezza a cui l'aveva ridotto la ferita della
fronte, aveva impugnato un fucile, e fu rovesciato da una palla al cuore
mentre puntava.--Finì la vita gloriosa senza un lamento. Ezio cadeva
accanto a Orazio, e verso il tramonto, dei nostri conoscenti solo Lina
era rimasta illesa. Talarico nel più forte della mischia la copriva col
suo corpo e, sdegnando il fucile, quando i più arditi dei nemici nelle
loro cariche s'avanzavano a pugnare corpo a corpo, egli aveva trovato
una scure, e guai al cafone od al cacciatore su cui cadeva la terribile
lama! Anch'egli cadde finalmente!... contento d'averla difesa e beato da
uno sguardo di lei nell'ultimo respiro della vita.

Corvo, colla libidine della passione e della distruzione nell'anima,
malediva la notte, e malediva anche la bugiarda storia della Sacra
Scrittura che contava la favola di Josuè. Scettico e libero pensatore
nel fondo della coscienza, egli per un solo filo teneva ancora alla
formidabile società di cui era stato sino allora il più saldo sostegno.

Comunque, egli eccitava a tutta possa i borbonici all'assalto. Correva
dalle fila dei cafoni ai cacciatori esortandoli in nome del re, ch'ei
disprezzava, della religione, ch'egli irrideva, ed in nome del diavolo!
Prometteva onori, paradisi, ricompense, e qualche volta ricorreva anche
a dei rimproveri, a degli improperii e a delle bestemmie.

Egli capiva che colla notte sarebbersi raffreddati i suoi poco
agguerriti villici, e voleva tentare ad ogni costo il finale esterminio
del pugno di valorosi che gli stavano di fronte, che finalmente egli non
poteva nascondere a se stesso una profonda ammirazione per essi ed un
orgoglio d'avere concittadini tali!... A che fatale e tremenda
condizione conducono le vocazioni ed i giuramenti dei preti!...

«Caricate» egli gridava «caricate quei pochi scomunicati che restano!
Macellateli! voi avrete fatto opera gradita al Dio degli eserciti che
combatte con voi; non le vedete le legioni d'angioli, colle loro spade
di fuoco, che incendiano, abbagliano, distruggono i maledetti nemici del
re e della santa religione?»

Sapeva di mentire! ma era prete ancora!

I cafoni, che colla paura in corpo degl'intrepidi e valorosissimi
avversarii, vedevano tutto doppio, non scorgevano angioli certamente, ma
nella loro immaginazione esaltata non mancavano d'essere eccitati dalle
parole ardenti dell'energumeno! Avanzavano con grida furiose contro i
liberali; ma questi, impavidi, li lasciavano avvicinare per caricarli e
respingerli in confusione.

La notte favorevole ai ladri ed agli amanti, lo è anche qualche volta ai
coraggiosi che sanno aspettarla intrepidi quando, sopraffatti da numero
grande di assalitori, sarebbe pericolosissimo il ritirarsi davanti a
loro di giorno; chè la ritirata volgerebbesi certamente in sconfitta,
senza contare il gran numero di perdite che ne risulterebbe. E tale fu
il caso di codesto eroico avanzo della gioventù romana.

In un momento di tregua, concesso per motivo dell'imminenti tenebre
della notte, Nullo, riunito a Muzio ed a P... leggermente feriti, disse
loro: «Noi dobbiamo operare una marcia degna dei Mille e dell'Italia.
Gli ottanta uomini circa che ci restano illesi, noi dobbiamo ordinarli
in quattro sezioni ed in colonna serrata, assaltare il nemico di fronte
e proseguire per lo stradale, con marcia tanto celere quanto sarà
possibile, sino a raggiungere Tora ove, senza dubbio, noi troveremo il
nostro prode Chiassi con un battaglione dei nostri.--I feriti!»--e qui
un mortale sudore inondò il volto del guerriero ed un freddo brivido gli
corse per tutto il corpo.--«I feriti, coloro che possono marciare,
seguiranno la colonna, ognuno dei nostri cavalli porterà due dei feriti
nelle gambe; i mortalmente feriti!...» Qui Nullo non potè proseguire le
istruzioni.

Meglio distruggerli sarebbe stato! essi sarebbero morti lo stesso, ma
senza insulti, senza raffinatezza di tormenti, senza essere torturati
dalle iene fanatiche assetate del loro sangue.

Bello è l'uomo che si sacra alla morte per una causa santa! E fattone il
proponimento, egli la affronta con rassegnazione, colla tranquilla
ilarità d'uno sposo![58]

Che Dio (l'Infinito) benedica gl'italiani che nell'anima generosa
nutriranno il sacro proposito di non lasciare mai più la loro bella
patria ludibrio di soldato straniero!

Nullo aveva alla sua destra Lina che portava in anca Marzia gravemente
ferita in una spalla.--Egli portava Virginia ferita nel petto; Muzio e
P... avevano ciascuno un ferito. P..., che non volle abbandonare il
posto d'onore dell'avanguardia, aveva con sè il suo tromba con il
braccio destro rotto da una palla ed impugnando l'istrumento colla
sinistra. Al momento di principiare la marcia, un'ultima disperata
carica dei borbonici obbligò la piccola colonna dei liberi a fermarsi.
Ma trovati in ordinanza ed eseguendo l'ordine di non scaricar le armi
che a bruciapelo, le due fila di fuori--i nobili figli della libertà
italiana--cacciarono i soldati del prete come polve, e ciò permise loro
d'imprendere subito dopo la marcia meno molestati.

Un incidente, favorevole ai nostri, successe pure nell'ultima carica del
nemico. Il gesuita, disperato, furibondo di vedere fuggire le prede,
tanto fece da persuadere i capi del suo esercito di tentare un'ultima
carica. Ma i suoi soldati, già stanchi ed impauriti dall'intrepidezza
dei nostri, abbiam veduto come se la svignarono a gambe, e s'udirono
varii dei fuggenti, tanto acciecati dal terrore, che passando vicino ad
una pianta e prendendola per un nemico, gridavano: «Signor liberale: mi
arrendo, mi arrendo!»

Non fu la sola fuga degli avviliti cafoni, la fortuna del valoroso
avanzo dei trecento; ma Corvo stesso, che, come capo supremo, trovavasi
a cavallo, e che, rabbioso di non poter spingere i suoi all'assalto,
s'era avanzato primo, e venuto alle mani con P..., più forte e più
svelto di lui, fu rovesciato da cavallo da una sciabolata attraverso il
muso, e consegnato prigioniero nel centro della colonna.

Fu valevole cattura quella del Loiolita; ed alcuni dei villici, che, più
vicini a lui, l'avevano veduto cadere, lo diedero per morto; e colla
perdita del capo ebbero pretesto di ritirata tutti quei paesani, che
preferivano certamente una cena in seno alle loro famiglie--alle
avventure guerresche, nelle quali erano stati trascinati dai preti, ed
alla gloria del paradiso.

Non così i cacciatori dell'esercito borbonico: trincierati dietro alle
barricate, essi sostennero tenacemente l'urto della colonna dei liberi;
e solo dopo una mischia accanita, essi volsero le spalle e si
arrampicarono sulle falde dei monti, di dove danneggiarono ancora per un
pezzo i nostri, e ne turbarono la marcia.

NOTE:

[58] Nell'ultima guerra nord-americana un milite a cui dovevano amputare
una coscia, chiese un violino e si mise a suonare mentre
l'amputavano.--Il maggiore Brida al combattimento di Melazzo, ferito al
collo, cadeva gridando: «Viva l'Italia!»




CAPITOLO LVIII.

TORA.

                              A noi
    Morte apparecchi riposato albergo,
    Ove una volta la fortuna cessi
    Dalle vendette, e l'amistà raccolga,
    Non di tesori eredità, ma caldi
    Sensi, e di liberal carme l'esempio.

              (FOSCOLO).


Tora era veramente occupata dal colonnello Chiassi, lombardo, uno dei
migliori generati dal risorgimento italiano.--Chiassi, di cui l'Italia
andrà superba anche nelle generazioni future le più remote.

Chiassi era uno di quei pochi, che accoppiavano al merito di gran
cittadino e d'esimio guerriero, la modestia d'una vergine; e devo
confessarlo, l'Italia, fra le nazioni ch'io conosco, è certo una delle
meno povere in questo genere di tipi che onorano l'umana famiglia. Sì!
patria mia, consòlati nelle tue sventure.--Ogni nazione ha i suoi uomini
illustri, i suoi prodi, e forse popolazioni delle tue più robuste,--e ne
ripeterei la causa se volessi imbrattare di nero anche questo foglio.
Sì, consòlati! e rialza la maestosa tua fronte con orgoglio!

Nullo, Chiassi, Mameli, Cozzo, i Cairoli, Pisacane, Fabrizi, Ferraris,
Calvi, Masina, Cottabene, Montanelli, Elia[59], e tanti altri figli
tuoi, che diedero la gloriosa vita per il tuo riscatto, a nessun popolo
della terra è dato di generarli migliori!

Dai suoi esploratori, Chiassi, senza sapere chi fossero, seppe esservi
gente nostra che si batteva verso Venafro, ed uscì immediatamente per
proteggerla.--Ma avvisato tardi, ei giunse al principio della notte, a
distanza di poter udire le ultime scariche. Non partecipò al conflitto,
ma prendendo la retroguardia delle reliquie dei trecento, coll'imponenza
della sua apparizione, trattenne il battaglione di cacciatori borbonici
dall'inseguire i nostri e molestarli.

La riunione dei fratelli Romani, e dell'esercito meridionale, in cui
militavano giovani d'ogni parte della penisola, fu proprio commovente!
Si fecero avanzare quanti veicoli fu possibile rinvenire in Tora e nelle
vicinanze, e vi si adagiarono nel miglior modo i feriti.

Chiassi, dopo d'avere inviato le sue disposizioni in paese, continuò a
fare la retroguardia alla decimata e stanca colonna degli amici. La
marcia perciò non fu più molestata, verso mezzanotte tutta la forza fu
accomodata dentro al paese, e poco dopo accomodati tutti i feriti nelle
case particolari, per mancanza di adeguati ospedali.

Pochi giorni prima, parte dell'esercito meridionale aveva passato il
Volturno al di sopra di Capua, e l'esercito italiano del settentrione,
avanzando a grandi giornate, i borbonici si ritirarono verso Gaeta,
ultimo baluardo di Francesco II.

NOTE:

[59] Lombardo caduto a Condino: valoroso e modesto come Chiassi.




CAPITOLO LIX.

AMPLESSO DELLA MORTE.

    Sol chi non lascia eredità d'affetti
    Poca gioia ha dell'urna, e se pur mira,
    Dopo l'esequie, errar vede il suo spirito
    Tra il compianto de' templi Acherontei,
    A ricovrarsi sotto le grandi ali
    Del perdono di Dio. E la sua polve
    Lascia alle ortiche di deserta gleba,
    Ove nè donna innamorata plori,
    Nè passeggier solingo oda il sospiro
    Che dal tumulo a noi manda natura.

              (FOSCOLO).


Il gesuita, che forse, obbedendo allo spirito malvagio della setta a cui
apparteneva, e che sembrava avere per meta di snaturare la natura umana,
pervertirla, prostituirla, ingolfarla in ogni specie di culto del male e
d'inimicizia del bene, il gesuita, dico, aveva cercato la sola
soddisfazione della lussuria nella bellezza.

Egli, forse pria d'ora, per uno scetticismo brutale ed indecente, aveva
disprezzato le vezzose creature contaminate da lui, quando di loro
padrone; oggi che le vedeva fuggite alle sue libidini di prete, ed in
potere altrui, sentì in sè stesso l'uomo, e sentì quanta somma di
tesoro avea perduto. Ogni sentimento allora di dovere di setta, di
disprezzo, d'odio, sparì davanti al nobile senso dell'amore che avevano
meritato le sventurate sue vittime.

E fu amore selvaggio, il suo, amore, per cui egli avrebbe dato fuoco,
non solo alla mina del ponte, ma alla mina dell'orbe s'egli ne avesse
avuta la miccia alla mano! Amore! che, come abbiamo veduto, lo fece
precipitare sotto la lama omicida del guerriero alpigiano, e da capo
supremo d'un esercito, ridotto a vile prigioniero ferito d'una masnada
ch'egli detestava più della morte!

Condotto nel centro della colonna in marcia su Tora, e trascuratamente
vigilato dai militi stanchi, egli tentò la fuga, facilitato
dall'oscurità della notte, e pervenne ad uscire dalla colonna,
arrampicandosi a destra verso le falde dei monti.

Ma fatalità, o giustizia! Una palla dei cacciatori borbonici, forse
l'ultima degli ultimi tiri sparati sul fianco destro dei nostri, lo
colpì sul naso, fra i due occhi, quasi all'istesso punto, ove aveva
ricevuto la prima ferita; ambe ferite dolorose, ma non mortali per
disgrazia sua, che quasi lo acciecarono completamente. Egli cadde, ma
rialzossi subito, e cogli occhi appannati dal sangue e dalle tenebre,
cercando scampo colla fuga, precipitossi nuovamente nelle fila de' suoi
nemici, ove, riconosciuto, lo legarono colle mani di dietro, e lo
ricondussero con più vigilanza di prima.

Il villaggio di Tora è dominato da un castello, residenza degli antichi
signori del medio-evo; oggi palazzo municipale--ed è certamente il più
importante edifizio del paese. Chiassi ed il suo stato maggiore
l'occupavano prima dell'arrivo di Nullo; ma giunto costui con gran
numero di feriti, negli spaziosi appartamenti del castello, vi si
collocarono molti letti, e vi si poterono accomodare quasi tutti.

Un aneddoto curioso successe il primo giorno dell'arrivo di Chiassi in
Tora. I preti, disperati di veder occupato il loro paese dagli eretici,
inventarono la storia, che nel palazzo, di notte, _vi si sentiva_, cioè
si udivano dei rumori soprannaturali, e si raccontava di più, che un
sacrestano ch'ebbe l'ardire di volervi passare una notte, disparve, e
non se ne seppero più notizie, probabilmente portato via dagli spiriti
degli antichi signori del castello, che non tolleravano stranieri.

«Oh bella!» disse Chiassi al curioso annunzio «questa è prova che merita
d'essere tentata, e la voglio tentare da solo».

Egli fece quindi preparare una stanza per lui solo, e da cena, la stessa
sera, e pregò i suoi ufficiali di alloggiarsi per quella notte
nell'osteria del paese.

Cenò il nostro Chiassi con quella pacatezza e con quel sangue freddo che
tutti gli abbiamo conosciuto, anche nei maggiori pericoli; fumò il
sigaro e sdraiossi dopo sul letto per lui preparato. Non spogliossi
totalmente, non per timore, ma per abitudine contratta in quei tempi
grossi d'avvenimenti.

Toltisi però gli stivali dai piedi, ed assicuratosi al capezzale un
_revolwer_ e la sciabola, coricossi, e non tardò a prendere il sonno,
stanco d'una giornata laboriosa.

Era circa la mezzanotte--ora che credo generalmente preferita dagli
spiriti per eseguire le loro notturne peregrinazioni:--il colonnello
russava, e credo in modo da essere inteso anche dagli spiriti che hanno
l'udito fino.

Ad uno spirito armato di pugnale ed avvicinandosi a piedi scalzi ed
adagio al dormente, futuro eroe di Bezzecca, non sarebbe forse stato
difficile di troncargli la vita, e tale metodo sarebbe stato forse più
gradito ai preti di quello adoperato per spaventare l'intemerato milite
di tutte le battaglie italiane. Pare però, che i colpi arditi non
fossero usati dagli spiriti del castello di Tora.

Il colonnello Chiassi, l'udito del quale era tanto fino quanto quello
degli spiriti, udì in quell'ora un gran diavoleto di ululati, di rumori
di catene--come quando i marinai a bordo delle navi si dispongono a dare
fondo alle àncore--e tanti altri schiamazzi da assordare anche un
campanaro.

Egli in silenzio, aspettò alcuna apparizione--giacchè lo schiamazzío si
stava avvicinando.--E realmente, dopo poco, comparì un fantasma
spaventevole, d'un'altezza spropositata, gettando fuoco dagli occhi,
dalla bocca e dalle narici, ed accompagnato da una folla d'altri
spiriti, non così alti, ma anch'essi gettando fuoco da tutti gli
orifizii.

Tutt'altri che il nostro Chiassi avrebbe cominciato per regalare agli
spiriti la mezza dozzina di palle del suo _revolwer_. Egli però non
tenne l'apparizione da tanto: e scalzo com'era, quindi più svelto,
sguainò la durlindana, e precipitossi sul comandante degli spiriti.

Alla prima sciabolata--per di dietro, s'intende, poichè il formidabile
capo non aveva aspettato di fronte il milite dell'Italia--alla prima
sciabolata--dico--a gambe se la diede lo spirito, preceduto da tutta la
brigata di spiriti che sembravano ancor più svelti di lui.

Chiassi non volle lasciar l'impresa a metà; e siccome la sua
sciabola, cadendo sulla cervice del fantasma, lo aveva quasi
spogliato--infrantumandoli--d'una massa d'oggetti da mascherata, questi
trascicavano al rimorchio dello spirito capo, e ne impedivano la celere
fuga. Dimodochè l'agile nostro guerriero potè aggrapparlo per il
colletto, e trascinarselo dietro verso la sua stanza.

«Misericordia!» gridava lo spirito quando si sentì nelle unghie d'una
mano d'acciaio--«misericordia!» e Chiassi: «furfante! vieni che voglio
appiccarti al principale balcone del palazzo per divertire domani i tuoi
poveri ed ingannati concittadini».

«Dio mi perdoni! per il ventre di vostra madre che è l'effigie di Maria
Santissima!» E per di qui--e per di là, raccomandandosi a quanti santi
vi sono sul catalogo dei cherchuti! Ma, il nostro prode, che sapeva ciò
che sono i santi della bottega--da Domenico di Guzman al Loiola ed al
benemerito Arbues--storceva alquanto il colletto, acciò lo spirito
cominciasse ad assaggiare un tantino il gusto del capestro a cui era
destinato.

Dobbiamo osservare, che Chiassi, nel perseguire i fantasmi teneva come
loro la parete dei corridoi e delle stanze, lasciando a destra od a
sinistra i mezzi.

Egli aveva letto--non so in che libri--che questa storia di fantasmi nei
castelli finiva sempre colla vittima precipitata nei trabocchetti. E ben
gli valse tale studio, poichè in un momento di distrazione,
avventurandosi nel mezzo d'un corridoio, il capo degli spiriti gridò al
colonnello; «In qua! per l'anima di Dio!»--«Assassino»--esclamò Chiassi,
profittando però dell'avviso. E realmente il malandrino confessò esservi
due trabocchetti nello spazio che avevano percorso insieme.

Chi ha la pazienza di leggermi conosce forse ciò che sia un
trabocchetto. Figuratevi un pezzo di tavolato di legno non inchiodato
sul pavimento, e sorretto da un asse sul mezzo su cui gira liberamente.
Le sue dimensioni sono circa due metri di lunghezza ed altrettanto di
larghezza, dimodochè schiudendosi, l'individuo che vi si precipita, non
può sostenersi in nessun senso.

Il fondo di tali trabocchetti è generalmente ad una profondità da
rompersi il collo cadendo. I preti ed i signori feudali--tutta gente
famosa per tale sorta di divertimenti--avevano perfezionato l'opera,
sino a guarnirne il fondo con delle punte d'acciaio o di ferro, su cui
le sventurate vittime rimanevano inchiodate.

Dopo gli avvenimenti mentovati, e riconosciuto essere il capo degli
spiriti quel biricchino di sacrestano, sparito secondo la storia dei
preti, e che non fu appiccato perchè i liberi sono una classe di gente
che non somiglia agli autocrati ed alle loro spie, i satelliti sitibondi
di sangue; dopo aver constatato anche essere gli spiriti minori
altrettanti birbanti di cafoni che accompagnavano il sacrestano per la
mercede di poche lire, dopo tutto ciò, dico, il colonnello Chiassi abitò
il castello col suo stato maggiore, sino all'arrivo dei fratelli feriti,
a cui tutti gli appartamenti furono ceduti.

Alla richiesta loro, Virginia e Marzia, furono collocate nella stessa
stanza. Esse soffrivano molto per le gravi ferite, aggravate ancora da
una marcia disagiata. Comunque, tanto era l'affetto scambievole delle
due vezzose donne, che sembravano mitigare le loro sofferenze colla
vicinanza.

Pallidissime, colla nera capigliatura sciolta, i grandi loro occhi
nerissimi, torbidi dai lunghi patimenti, contemplavansi reciprocamente,
senza articolar parola. Marzia poteva veder la compagna senza muoversi,
perchè ferita nell'omero sinistro, essa appoggiavasi, per soffrir meno,
sul destro. Non così Virginia che, per vedere la sua Marzia, doveva
faticare cogli occhi soverchiamente inclinandoli, poichè ferita nel bel
mezzo del petto, era obbligata di stare supina, coll'ingiunzione
d'immobilità assoluta, posizione necessaria nelle ferite gravi, e
raccomandata dai chirurghi: terribile però, per chi deve soggiacervi
molti mesi. Essa la vedeva meglio, quando sollevata alquanto colla testa
per bere.--E beavasi, poverina, nella contemplazione di lei che le stava
di fronte.

In una circostanza, in cui medicavasi la ferita di Marzia, e si dovevano
scoprirle le spalle, un ahi! dolentissimo sgorgò dalle fauci della
contessa, la quale svenne, e per un pezzo si credette passata all'altra
vita. Marzia ne fu disperata, e molto lottarono Lina e le signore che
gentilmente l'assistevano, poichè a tutta forza essa voleva scendere da
letto per soccorrere Virginia.

All'oblivione si è condannati, quando si è vecchi! e noi per un pezzo
andammo avanti, dimenticando Elia, il padre di Marzia, il torturato del
Santo Ufficio!

Dacchè egli aveva raggiunto i trecento alla partenza da Roma, la sua
esistenza era stata macchinale al punto d'esser tenuto in generale per
demente. La sola vista della graziosa sua figlia, e le amorose cure e
carezze di lei, sembravano galvanizzarlo, lo richiamavano in sè, e da
essa sola egli accettava alcuno scarso alimento. Così l'infelice vittima
della più orribile delle istituzioni umane, continuò il suo viaggio,
dividendo i disagi dei compagni ed i perigli, per cui nessun timore egli
sentiva, divenuto impassibile ad una vita di dolori e di miserie.

Che importava al vecchio discendente d'Abramo d'essere colpito da una
palla! egli sapeva che bisognava finirla o in un modo o nell'altro, e
quando più penibili d'una palla nel cuore, si effettuano modi nella
transizione di questo nostro soggiorno sulla terra, per un'altra vita
che nessuno conosce, ma che pure è nuova materia sotto forme forse di
ceneri o di vermi. Solo un legame lo tratteneva in questo mondo--legame
indissolubile, prezioso, dilettevole--l'affetto per Marzia! Per quella
bellissima creatura amata da tutti, e da lui idolatrata. Benchè,
sventuratamente, nelle tribolazioni e negli ultimi aneliti
dell'esistenza, giungasi a tale scetticismo, in cui impallidisce,
affievolisce anche il più fervido dei sensi--l'amore!--davanti
all'inesorabile legge del destino, tuttavia tale indebolimento della
materia e dell'intelligenza non aveva potuto distruggere il senso
sublime, che solo teneva in vita il povero vecchio.

Si capisce facilmente quale poteva essere la situazione d'Elia
nell'ospedale improvvisato; servire la sua Marzia, sarebbe stata
l'intima aspirazione del suo cuore. Ma che poteva egli fare colle sue
membra slogate? Appena poteva, sorretto da un infermiere, muoversi da
una sedia all'altra; e così passava le sue ore, contemplando la giovane
ferita, essere unico, che, per poco ancora, lo vincolava in questa valle
di malanni.

L'esclamazione della contessa, però, così solenne, così straziante,
sembrò galvanizzare quel corpo inerte. Egli rizzossi, e dal volto di
Virginia, il suo sguardo portavasi sulle spalle nude della sua Marzia:
fissossi in un punto della spalla destra della fanciulla, ove, sopra la
cute d'una carnagione d'alabastro, scoprivasi un neo nero nero, proprio
del colore della capigliatura.

«È lei! è lei!» esclamò il vecchio, volgendo lo sguardo da Marzia a
Virginia; «è lei!» Egli solo aveva interpretato giustamente il grido
doloroso della donna svenuta,--e cadeva nell'abituale torpore,
rialzandosi però a tratti, come se avesse voluto iniziare una
confessione importante alla stessa,--ed una lacrima finalmente bagnava
quella guancia inaridita da tanto tempo dagli anni e dai patimenti.

Molto stette la contessa Virginia a ritornare in sensi; vi volle tutta
la perizia del chirurgo, chiamato per trarla dallo svenimento, e tutte
le cure gentili di Lina e delle compagne.

«Signora,» disse il medico alla più anziana delle donne che assistevano
le inferme; e con un segno additò a lei di seguirlo.--Giunti a poca
distanza, egli parlò sommessamente: «Bisogna evitare a quell'infelice
signora, qualunque motivo d'emozione.--Essa non è curabile; comunque,
per ragioni d'umanità, convien far men penosi che sia possibile gli
ultimi momenti di lei». Una lagrima, fu la risposta della generosa
abitatrice di Tora. E dobbiamo confessare che, malgrado l'essere cotesta
contrada anche infesta dalla mala pianta del chercume, i nostri feriti
furono molto ben trattati in generale, e massime le belle ed
interessanti figlie di Roma. E speriamo con ragione, che la razza
italica riprenderà il suo ascendente nel mondo, quando giungerà a
sradicarla--fino all'ultimo filo, s'intende--perchè, se no, si
riprodurrà sempre come la gramigna.

Le prescrizioni mediche, siano esse da attuarsi in casa particolare, o
negli spedali, sono, generalmente, non eseguite puntualmente: e qui non
fu veramente colpa delle signore infermiere, se tali prescrizioni
vennero pure infrante. Il vecchio Elia, che da parecchi momenti era
divenuto un energumeno da non poter più stare nella pelle, approfittò
d'un istante in cui le donne sollevavano la testa della contessa, per
darle da bere, e presentò agli occhi di lei una collana d'oro, con in
fondo una croce bellissima, dello stesso metallo, tempestata di diamanti
ricchissimi, che abbagliavano la vista col loro splendore. All'atto, il
vecchio aggiunse i seguenti nomi: «Virginia e Silvia!»--«Silvia!»
esclamò la contessa--ed i suoi occhi vitrei fissaronsi sul prezioso
gioiello, come se stato fosse un talismano,--e la bella testa
rovesciossi sul cuscino, qual fiore che al soffio ardente del vento del
deserto, si piega sullo stelo, per non più raddrizzarsi.

Eppure l'ora finale della bella tradita non era ancora suonata. Essa si
scosse in un momento dopo, come tocca da corrente elettrica, aprì gli
occhi, e li rivolse su Marzia con tale avida espressione d'amore, che
solo una madre può capirla ed apprezzarla!

«Mia figlia!» esclamò essa--e la spossatezza, l'emozione, non le
permisero altra parola. Essa ricadde!

Che pensieri tetri! che riflessioni non dovevano solcare l'anima di
questa donna sventurata!--«Dunque non era morta, come dicevami
quell'infame, il frutto innocente delle sue diaboliche depravazioni!»
diceva con se stessa: non era dunque morta questa figlia delle mie
viscere, tanto amata senza conoscerla--e tanto bella, e tanto buona,
tanto graziosa,--ch'io perseguitai come se fosse stata una belva!--Oh!
se nella derelitta mia esistenza l'avessi avuta per compagna!» Essa
prese la mano di Muzio, che mesto stava al suo capezzale contemplandola,
la portò alla bocca, e la bagnò di lagrime. Il pianto sembrò alquanto
raddolcire il suo cordoglio, e con uno sforzo di cui prima non si
sentiva capace, essa alzò un tantino la testa per meglio contemplare la
figlia dell'amor suo.

Lascio pensare qual era l'anima della povera Marzia a tale per lei
commoventissima scena, di cui essa certamente era una delle principali
attrici. Essa, abbrancossi al collo della sua Lina, per quanto lo
comportava la ferita, e pianse dirottamente, senza poter articolare una
sola parola.

La contessa Virginia era dunque sua madre: essa non era più
un'orfana;--e ben glie lo diceva il cuore, quando, non ostante la
persecuzione subíta, non aveva potuto a meno di nutrir affetto per essa.
Ed in tutto il decorso del disagiato viaggio, quanto erasi aumentato
l'amore reciproco, da non poter più esistere divise--ed ora!...
probabilmente un avello riunirà gli avanzi di due preziose creature,
nate alle delizie della vita, e condannate dalla lussuria pretina ad una
morte prematura, umiliata e dolorosa.

L'aveva, finalmente, trovata la sua madre, povera orfana! E
probabilmente come l'aveva sognata qualche volta: sì cara, sì bella, sì
amante! Il suo cuore ben le diceva prima d'ora, che quell'interessante
donna era più d'un'amica! La ritrovava sì, ma senza la consolazione di
poter prodigare su quella bocca, che l'aveva beata bambina, cento baci
di filiale amore! La ritrovava, ma, forse,... essa ritrovava un
cadavere!

«Dio! conservatemi la madre mia!» Tale fervida preghiera essa innalzava
in silenzio verso l'Infinito, mentre sentivasi bagnata dalle proprie e
dalle lagrime della sua compagna, intenerita dalla situazione dell'amata
sua Marzia.

Dopo un copioso sfogo di pianto delle due amiche, Marzia alzò la destra,
che non era ferita, segnò verso Virginia e gridò con un ingenuo,
infantile, affettuoso senso d'orgoglio: «Là vedi mia madre!»

Lina era stupefatta: non sapeva che decidere: ma indovinò qualche cosa.
Avvicinò celeremente il vecchio, e, scuotendolo per il braccio con
violenza, gli disse: «narratemi!»

Intanto Muzio e P... non abbandonavano il capezzale delle loro amate; e
Nullo, quando ebbe finito le cure d'obbligo verso la brigata, veniva
anch'egli a dividere la custodia e le angoscie dei suoi cari.

La contessa deteriorava sempre, ed alcuni segni di delirio cominciavano
a manifestarsi. Una sete cocente la tormentava, e già essa più non
articolava altro che «acqua!» Le sollevavano la testa per bere, e
qualche volta sollevata, lasciavasi ricadere sul cuscino, chiudendo gli
occhi con violenta e convulsa rapidità, come volendo sottrarsi alla
fissazione d'uno spettro che solo essa scorgeva.

--Sarà delirio, pensavano gli astanti--e compiangevano la bella
sofferente.--Non era delirio! e veramente il fantasma del suo tentatore
era cagione dello stato convulso, in cui si trovava. Essa, nè volendo,
nè potendo esprimersi, lo credeva spettro di lui. E chi aveva conosciuto
l'avvenente Monsignor seduttore, certo avrebbe avuto grande difficoltà a
riconoscerlo nello stato presente.--Corvo, come già narrammo, colpito
nel naso, tra i due occhi, da due ferite, era diventato deforme, dalla
gonfiezza e lividezza di quella parte del volto.

Per una di quelle combinazioni che succedono negli accomodamenti di
notte, massime in una notte di confusione, come quella in cui i feriti
erano giunti a Tora, e forse, anche per l'attrazione che avevano per lui
le due donne, erasi trovato posto in un camerino, allato alla maggiore
stanza delle ferite, e casualmente, con una porticina di comunicazione
di rimpetto al letto di Virginia.

Che il morale dell'individuo sia modificato dalla buona o cattiva
fortuna, dall'abbondanza o scarsità dei cibi, e dalla loro qualità, più
o meno buona, è cosa provata.

Il soldato inglese, per esempio, ch'io credo uno dei migliori del mondo,
ha la fortuna d'appartenere ad una nazione ricca, potentissima, e le di
cui tradizioni guerriere non sono certamente seconde a nessuna: quindi
benissimo pagato, equipaggiato, nutrito, e con un morale da affrontare
il diavolo.

Se i Monsignori di Roma, invece di copiose prebende, che godono
nell'ozio, e che gonfiano le loro potenze sensuali, fossero obbligati a
piegar la schiena sotto il piccone o la marra, molto più sobri
certamente essi sarebbero, e più temperanti.

Obbligati alla vita reale, guadagnando il pane col sudore della fronte,
essi non si occuperebbero di imposture, di corruzioni, e l'umanità,
invece di esser divisa tra gaudenti fannulloni, e sofferenti
lavoratori, vedrebbe i suoi figli marciare fraternamente al
progresso.--Il prete è un uomo come gli altri, lo capisco anch'io, ed in
lui non è l'uomo che osteggio, ma il carattere bugiardo e nocivo.

Oggi, poi, la colpa del malore-prete ricade intieramente sulle
monarchie, che potrebbero sanarne la società, e non lo fanno, perchè
sono perverse, perchè vogliono servirsi dell'agente prete per corrompere
i popoli, ch'essi desiderano mantenere nell'ignoranza e nel servaggio.

La trasformazione del gesuita, che noi vedemmo principiata da varii
giorni, erasi ingigantita, e le due donne infelici, di cui egli era
stato il corruttore ed il carnefice, erano divenute oggi indispensabili
alla sua esistenza, ed egli avrebbe dato mille volte la vita per farsi
perdonare la sua malvagia condotta, e reintegrarsi in quell'affetto che,
per loro sventura, egli aveva posseduto pur troppo.

Figuratevi qual era l'inferno che travagliava quell'uomo passionato! al
male, sì! ma passionato quanto può esserlo l'individuo che, tiranno
della propria natura, passa tutta la vita nel frenarla o prostituirla,
rovesciandone e calpestandone le leggi più sacre, colla più disonesta,
schifosa ipocrisia!

Quell'uomo! lì! vicino ad esse, ch'egli aveva oltraggiate, tuffate nel
vituperio, ed assassinate poi! Esse! creature sì squisite, sì gentili,
atte, sotto gli aspetti materiali e morali, a formare la felicità della
famiglia!..... se possibile fosse la felicità sulla terra!..... e se
possibile fosse la famiglia umana senza impostori!

Ora, che il suo cuore di prete era vicino a cambiarsi in quello d'un
uomo, cioè a farsi capace di sentire l'amore celeste, egli sentiva
ingigantirsi quell'amore, da padroneggiarlo intieramente. Ora, rialzato
dall'abbietta sua condizione di corruttore, alla sublimità dell'uomo che
ama con tutta la sua potenza, ora..... quelle impareggiabili creature,
morranno!.....--perchè tale era il suo presentimento--morranno! e
malediranno il fattore delle loro sventure, senza nemmeno l'ombra della
possibilità d'un perdono!

Così poco propenso come mi sento a compassionare qualunque di cotesti
nemici del genere umano, compatisco l'inenarrabile affanno di questo
sciagurato!

Lui vicino ad esse, deforme! non riconoscibile! e sì schifoso! sì
detestabile! Lo stato suo era quello d'un demente, e d'un demente
all'ultimo stadio della frenesia. Ciò spiega i varii tentativi da lui
fatti per introdursi nella stanza che racchiudeva ciò che per lui, oggi,
era tutto nel mondo--quel tutto in possesso di altri, e, presto, della
morte!--ed il furibondo rimorso che lo dominava e lo tratteneva
indietro.

Muzio, che, seduto al capezzale della donna amata, s'era accorto della
fissazione di lei verso la porticina, e dei tremiti convulsi, indovinò
finalmente, che qualcuno spiava da quella parte. Alzossi ed incamminossi
per vedere chi era. Non l'avesse mai fatto: la contessa, con un grido
straziante, chiamò: «Muzio!..... non andate da quella parte: un
fantasma!..... la morte!.....» e ricadde un'altra volta svenuta.

Molto stentossi per richiamare quell'avanzo di vita, che, gradualmente
si spegneva, e che si procurava di prolungare, con cordiali, per alcune
ore, e con un quasi continuo abbeverarlo, essendo le fauci aridissime.

Povera Marzia! qual era lo stato dell'anima tua gentile, in cotesti
dolorosi frangenti! Anche tu mortalmente ferita, non erano i fisici tuoi
dolori che più ti amareggiavano; ma bensì i patimenti della madre
tua.--Essa, dibattevasi negli ultimi aneliti della vita, ed avvicinavasi
a quello stadio d'insensibilità che preludia la morte. Il di lei delirio
appannavale la vista, al punto di non distinguere la falce sospesa su
l'essere suo--la condanna di morte sua; dipinta su tutte le fisionomie,
dal chirurgo che l'aveva abbandonata alle curatrici gentili, sino al
diventato stupido credente nella futura apparizione del Messia.--Ma tu,
povera Marzia! tutto discernevi: spasimi, dolori, convulsioni! E, tutto
discernendo, tutto sentendo, tu non potevi sollevare quell'amato capo,
quell'adorato volto che un bacio tuo avrebbe beato!

Una lagrima bagnava il bel volto della giovine guerriera! e certo, non
era timore di morte, quella lagrima. La morte, essa l'aveva affrontata,
con giubilo, venti volte sui campi di battaglia! accanto alla sua Lina,
ed al suo....., non ardiva nominarlo il bellicoso milite della libertà
italiana, che sedeva al suo capezzale, che aveva la guancia umida
com'essa, e che sembrava raccogliere tutti i sospiri di lei, e bearsene
come di etere sacro! E tutte le donne piangevano a tanto strazio di
patimenti delle due angeliche creature!

In quel mentre, un uomo col volto fasciato, ma a passi precipitati,
lanciossi nella stanza, inginocchiossi fra i due letti delle ferite, e
gridò disperatamente: «Perdono! Perdono!»

La contessa Virginia fu elettrizzata da quel grido, drizzossi sul busto
con una sveltezza straordinaria, e gettando il suo sguardo sul
miserabile prostrato, esclamò con voce straziante: «Marzia! Marzia! quel
scellerato è tuo padre!» Essa ricadde per non più rialzarsi; e Marzia,
presentendo la morte della genitrice, gettossi giù dal letto,
abbrancossi alla defunta, le prodigò mille baci, e rimase su di lei
svenuta!




CAPITOLO LX.

IL RACCONTO.

              Cassandra!
    E guidava i nipoti,
    E l'amoroso apprendeva lamento
              Ai giovinetti.

              (FOSCOLO).


Lina aveva richiesto schiarimenti al vecchio Elia, sugli avvenimenti
incomprensibili, che si effettuavano in presenza di loro. Ma tanta fu la
precipitazione degli avvenimenti stessi, che non fu possibile al canuto
di appagare il desiderio della fanciulla.

Ridotto però il Monsignore nella sua stanza, trasportata Marzia nel
proprio letto, e rifasciata la ferita, minacciante emorragia, e portato
fuori il cadavere della Contessa, Elia potè soddisfare la giusta
curiosità di Lina, non allontanandosi però dal letto della sua cara
Marzia, rinvenuta dallo svenimento, ma spossatissima.

«Io passavo tranquillamente l'esistenza colla mia Rebecca, nel ghetto di
Roma, con una piccola bottega da merciaio. Non ero ricco, ma potevo,
col mio commercio ed una vita sobria, essere indipendente da
chicchessia.

«Il mio matrimonio colla donna eletta dal mio cuore era stato beato
dalla nascita d'una fanciulla, e benchè ambi fossimo robusti, e robusta
la bambina, noi avemmo la disgrazia di perderla all'età di sei mesi.

«In quel tempo frequentava la casa mia una donna romana, per nome
Silvia, d'un'onestà che io ebbi occasione di sperimentare molte volte.
Moglie d'un artista, essa pure passava vita agiata, senza essere molto
ricca. Voi sapete, come noi ebrei, paria dei cristiani,--più di noi
numerosi--apprezziamo sempre un protettore nella classe più forte. E
Silvia, oltre d'essere pratica costante della mia bottega, era veramente
la protettrice nostra. Alla morte della mia bambina (e qui una lagrima
solcò la guancia rugata ed arida del vecchio figlio d'Israele), Silvia
mi disse: «Una signora, amica mia, ebbe in questi giorni una fanciulla,
e per mancanza di latte, desidera avere una balia. Vorrebbe la Rebecca
incaricarsene, non per bisogno certamente, ma per essere l'amica mia,
una preziosa persona, e la bambina di meravigliosa beltà?»

«Rebecca, aveva cuore eccellente, ed addoloratissima della perdita
fatta, accettò la proposta.

«Il giorno seguente, una ricca carrozza fermossi davanti alla mia porta,
ed una signora velata ne discese, poi Silvia, con una creatura di pochi
giorni, splendidamente adorna. Al collo vi aveva questa collana, ch'io
le rimetto oggi (e la consegnava nella destra di Marzia). Di più: la
signora scoprì la spalla destra alla bambina, e mi mostrò il neo che
cagionò oggi la commovente sorpresa alla madre--sorpresa che svelò
all'anima mia istupidita dalle torture tutta una storia ben interessante
e molto terribile.

«Pria di congedarsi, la signora prodigò tanti baci, piangendo, alla
bambina, e fu in quel momento, che, scostato il velo, io vidi il più bel
sembiante di donna, ch'io avessi mai veduto: splendido volto i di cui
lineamenti mi rimasero impressi sempre, tanto più che mi erano ricordati
da Marzia, crescendo essa con una somiglianza sorprendente della madre.

«Io vi ho tenuto luogo di padre, Marzia mia! e, certo, come figlia vi ho
sempre amata, e sempre vi amò teneramente quella mia cara compagna, che
le atrocità dei preti precipitarono nella tomba immaturamente».

E qui il povero vecchio spargeva calde ed amarissime lagrime, bagnando
la destra dell'amatissima sua figlia adottiva: e lo sfogo del pianto
sollevò quel cuore travagliato da tanti dolori morali e materiali. Egli,
finalmente, ripigliò il suo racconto.

«La morte m'aveva la prima volta portata la desolazione nel mio
focolare: un nero serpe mi gettò nella sventura, una seconda.--Quel
rettile, invaghitosi della mia Marzia, insinuossi con ogni ipocrisia nel
mio negozio, e voi sapete se si può, in Roma, respingere la visita
d'uno di cotesti demoni, dal sacristano al monsignore. Egli presentossi
da principio col pretesto di comprare qualche cosa nella mia bottega,
poi finse di volerla fare da protettore, e finalmente, malgrado le mie
paterne ammonizioni, egli finì per sedurre la mia cara e rapirla!

«Dopo rapita all'amor mio da quell'infame--che la madre vostra chiamò
scellerato or ora, e ch'io riconobbi pure, malgrado l'orribile sua
metamorfosi--io seppi del vostro ritiro in un convento, e poi più nulla,
sino alla vostra comparsa in Roma, per quella ridicola ed abbominevole
conversione con cui i chercuti vollero ingannare il mondo, per sostenere
la crollante loro baracca.

«Per me, l'esistenza ha cessato d'arridermi; e se un filo mi vi tiene
ancora, siete voi quello, mia amatissima figlia».

I singhiozzi interruppero nuovamente il veglio, per cui cessò la sua
narrazione, e P..., vedendo la fanciulla fortemente commossa e spossata,
lo prese per un braccio e lo allontanò colla sedia un po' distante dal
letto.

Un silenzio tetro succedette alle scene violenti, già descritte, e al
racconto del canuto, Marzia aveva ritrovato il padre, per saper ch'egli
era uno scellerato! E la madre!..... per vederla morire! Povera Marzia!
v'eran ben motivi d'essere addolorata, e di peggiorare lo stato già ben
grave della sua ferita! Gli astanti, nelle loro meste meditazioni,
erano silenziosi, e sul loro volto stava dipinto il profondo rammarico
che loro cagionava l'interessante e bellissima infelice. Lina piangeva
dirottamente, e cercava di nasconder le sue lagrime, immergendo il volto
nel seno dell'amica.

P... stesso, assuefatto a vedere mucchi di cadaveri e di feriti, non
aveva potuto trattenere il pianto, a tanta sventura d'una fanciulla
ch'egli idolatrava.




CAPITOLO LXI.

LA MORENTE.

                          E se, dicea,
    A te fur care le mie chiome, e il viso,
    E le dolci vigilie, e non consente
    Premio miglior la volontà dei fati,
    La morta amica almen guarda dal cielo,
    Onde d'Elettra tua resti la fama.
                  Così orando morìa.

              (FOSCOLO).


I circostanti si facevano illusione sulla vita di Marzia, e tutti
contavano sulla giovinezza e sul coraggio di lei.--Meno la
giacente.--Essa, sentiva vicina la mano della morte, e non s'illudeva.
Lo sforzo fatto per abbracciare la genitrice morente aveva, senza
dubbio, precipitata la crisi, e la ferita, penetrante vicino alla
clavicola, manifestava nell'interno un'emorragia lenta, ma che pur
troppo, doveva finire, in termine più o men lungo di ore, per troncare
l'esistenza della valorosa eroina dei Mille.

Lina, ed il fratello P... non abbandonarono un solo istante il capezzale
della morente, e, tanto l'una, quanto l'altro avrebbero dato la vita,
per salvare quella dell'amata donzella.

«Lina» disse Marzia, «la porterai in memoria mia, questa collana, dono
di mia madre!» ed una lagrima solcò la guancia della sofferente, che per
un pezzo, non potè articolare altra parola. «La porterai dovunque, non è
vero? e sempre, anche sui campi di battaglia, ove ti toccherà ancora di
pugnare per questa Italia infelice, ed ove, certo, ti ricorderai della
tua compagna di Calatafimi,--di colei che tanto andava superba di averti
più che sorella! Sì, sui campi di battaglia, ove certamente, io starò
vicino a te, coll'anima, ma ove, il clangore delle trombe guerriere non
spingerà più nella mischia queste membra ridonate alla polve!»

Lina, piangeva dirottamente, senza poter rispondere a lei che amava
tanto!

«E tu, mio fidanzato, mio sposo! me li concederai questi titoli per me
sì preziosi, e lo puoi: perchè la morte spazza fin le sozzure! Se no, ti
avrei confessato esser io contaminata, e di te indegna! Io.....
l'ancella d'un prete!..... Io la prostituta!.....»

E qui essa innalzossi sul letto, cogli occhi fuori dell'orbita, e con
un'energia come se fosse nella salute più florida, e con tale accento di
cordoglio e di disperazione da spaventare, esclamò:

«Sì! la prostituta di mio padre!..... »

Un rumore tremendo si udì nella stanza vicina, come d'una lotta accanita
tra gente, e grida, e colpi, e stramazzate per terra.

Muzio, indispettito che tanto baccano avesse luogo vicino ad una
morente, passò in quella stanza, e contemplò il miserando spettacolo del
gesuita, che si stracciava le vesti, e batteva il capo contro le pareti,
per cui, strappate le fasciature del viso, trovavasi tutto insanguinato.
Egli era diventato pazzo furibondo, e con fatica fu legato, per essere
condotto al manicomio.

Tutti piangevano, intorno al letto di Marzia, e dato sfogo all'odio
possente suscitato dai procedimenti dell'abbominevole chercuto, tutti
lamentavano la società italiana, cotanto ancora travagliata dalla
istituzione bugiarda del prete; e lamentavano tanto tesoro di bellezza,
di valore e d'intelligenza, contaminato e precipitato in un letamaio,
per la indecente lussuria di quella setta immonda.

Marzia sentiva vicinissima la morte, ma dotata di un supremo coraggio, e
di quell'eroismo filosofico capace di affrontarla come una conosciuta,
come una transizione naturale della materia, essa, in seguito
dell'orgasmo necessario ad una manifestazione vera e solenne verso gli
amati dal suo cuore, riprese alcuni momenti di calma, che le permisero
di articolare ancora le seguenti parole: «O Lina» essa diceva alla cara
compagna: «Lina! quante volte nei bivacchi della superba nostra
carriera, io sognava, od ardiva sognare alla vita beata, che avrei
vissuto presso di te e del fratello tuo, là, nelle belle vallate dei
nevati baluardi d'Italia. Ma era sogno, poichè, svegliata, io avevo la
coscienza di non meritarla tale felicità! d'essere indegna della
preziosa amicizia tua, e dell'amore d'un tanto prode! Un presentimento,
che si avvera oggi, però, mi faceva tranquilla ch'io non sarei giunta ad
infestare la santità della vostra dimora, e prostituire il letto
maritale di questo mio valoroso, a cui chiedo, coll'anima, perdono,
d'essermi lusingata della ventura di farmi sua.--Lina! stimolata dal tuo
coraggio, io t'ho seguita da vicino, e fedele, su venti campi di
battaglia; il tuo esempio, certo, mi solleticava, ma ora ti dirò ciò che
non sapevi.--Sappi, adunque, che non solo la causa santa del nostro
paese mi stimolava al pericolo, ma anche il desiderio di finire una vita
abborrita e contaminata. Se mi sono esposta, non v'è dunque merito, e
vado superba di morire della morte dei prodi! Non sdegnate, o miei
carissimi, di bearmi con un ultimo bacio d'affetto!»

Marzia accennò colle labbra un bacio verso Lina,--e avuto il
contraccambio da questa, imitata da P..., e dai cari presenti--non
articolò più parola, e passò tranquilla all'infinito!

L'esequie delle due carissime donne--madre e figlia--ebbero luogo senza
pompa. Ognuno degli avanzi dei trecento volle accompagnarle all'ultima
dimora--con Chiassi e tutta l'ufficialità sua. Un incidente inaspettato,
però, quasi tradusse in tragedia la pia cerimonia.

Mentre il convoglio passava sotto le finestre del manicomio, uno de'
suoi abitatori precipitossi da una delle più alte, nella strada, e per
fortuna cadde, senza offendere i passanti, fracassandosi il cranio
sopra il selciato.

Tanto potè il rimorso sul gesuita: ciocchè prova, che la perversa
istituzione, il di cui studio è quello di voler annientare l'uomo sotto
la duplicità della menzogna e della depravazione, rivestendolo della
cocolla e della sottana, è una maledizione per la umanità, che può da
essa esser traviata, ma che risorgerà infrangendone il putrido
catafalco.




CAPITOLO LXII.

BATTAGLIA DEL VOLTURNO.

2 OTTOBRE 1860.

      Corrispondenza d'amorosi sensi,
    Celeste dote è negli umani, e spesso
    Per lui si vive cogli amati estinti,
    E gli estinti con noi.

              (FOSCOLO).


A voi, caduti alle falde del Tifate, o miei giovani e prodi compagni, io
consacro queste mie ultime righe, sulla ultima nostra battaglia, nella
brillante epopea del 60, che voi avete illustrato colla vostra bravura e
col vostro sangue. Voi, finalmente, dopo dieci vittorie, gli
sbaragliaste quegli avanzi dell'esercito borbonico, là sulle alture di
Caserta Vecchia.

E voi, a cui l'Italia deve tanta parte del compimento delle sue
aspirazioni di tanti secoli; voi che già tante volte avete insegnato
allo straniero a rispettarla, ed a cui insegnerete ancora, come qui oggi
si accolgano gli invasori insolenti, potete voi sperare che Italia, sì
propensa a rammemorare delle miserie, si ricordi, che le vostre ossa
biancheggiano insepolte sulle falde dei monti e nelle pianure della
Campania?

Il 1º ottobre, verso le cinque della sera, si telegrafava a Napoli:
«Vittoria su tutta la linea» ed a quell'ora l'esercito borbonico
ritiravasi precipitosamente dentro Capua, e parte gettavasi a traversare
il Volturno.

Tutti i nostri dell'esercito meridionale avevano fatto il loro dovere,
con quel valore che distingueva i capi ed i militi a cui avevo l'onore
di comandare. Bixio alla destra,--Medici, Avezzana e Simonetta al
centro,--Mielbitz, Türr ed Eber alla sinistra,--e Sacchi tra il centro e
la destra; Sirtori, capo di stato maggiore, aveva inviato la riserva a
tempo. E se si aveva combattuto con valore ed accanimento, lo accertava
il gran numero di cadaveri, che copriva le pianure Capuane, e le falde
del Tifate, nonchè il gran numero di feriti.

In seguito alla carica delle riserve--narrata antecedentemente--le
comunicazioni di S. Maria e S. Angelo erano state sgombrate dal nemico,
ed io potei salire il monte per capacitarmi dell'esito finale della
battaglia.

Già dissi prima, essere il monte S. Angelo dominatore delle due sponde
del Volturno, e dell'intero piano di Capua, vantaggio immenso che noi
avemmo in quella giornata sui nemici, e che non cesserò di raccomandare
ai miei giovani concittadini che sono destinati alla milizia.

Quando si può, tenersi vicino al campo di battaglia, ed in alto per
poterlo vedere. I generali borbonici invece, situati nella pianura, poco
o nulla potevano scoprire.

Certo della vittoria, discesi dal monte nel villaggio, e mi ricordai
allora--già di notte--di non aver preso alimento nella giornata.
Qualcuno, mi disse essere i carabinieri genovesi dal parroco. Ciò mi
sollevò il cuore, certo di non morire di fame in tale casa, ed in
compagnia di quei miei prodi fratelli d'armi. E non m'ingannai: basta
dire che, non solo squisiti manicaretti mi presentarono, quei miei
incomparabili, ma persino il caffè.

Siccome, però, la felicità è un fantasma sulla terra, e che pare
stanziare solo nell'immaginazione umana, subito dopo il caffè, invece di
potermi sdraiare un'ora, e riposare le mie stanche membra, un messo mi
rimise un dispaccio da Caserta, in cui mi si diceva: «Caserta,
seriamente minacciata da un considerevole corpo nemico, scendendo per
Caserta Vecchia».

Addio riposo. E non v'era tempo da perdere. Ordinai al maggiore Mosto,
di far preparare i suoi carabinieri genovesi; si diedero alcune altre
disposizioni, e con alcune centinaia d'uomini mi avviai, verso la metà
della notte, alla volta di Caserta.

Giunto presso Caserta all'alba, inviai il colonnello Missori, con alcune
delle sue guide a cavallo, ad esplorare il nemico: ciocchè egli eseguì
da quel prode cavaliere che si conosce; ed io mi recai in città, per
intendermi col generale Sirtori, sul da farsi. Essendo in conferenza col
capo di stato maggiore, avemmo avviso: discendere i borbonici dai monti,
e già impegnati coi nostri avamposti.

Sirtori, alla testa di poche truppe, marciò risolutamente sul nemico, di
fronte, e lo respinse coll'ordinaria sua bravura.

Io raccolsi quanto mi fu possibile di gente nostra restante[60] e
marciai sul fianco destro del nemico per girarlo, ciocchè riuscì
perfettamente.

Il corpo borbonico, che stavamo attaccando, era di circa cinque mila
uomini, e lo stesso che aveva schiacciato l'eroico battaglione di
Bronzetti, composto di poche centinaia d'uomini, a Castel-Morone, ove
quel nuovo Leonida aveva preferito morire con tutti i suoi, piuttosto
che arrendersi.

Composto per la maggior parte di famosi cacciatori napoletani, già
assuefatti a combatterci a Calatafimi, a Palermo ed a Melazzo, quel
corpo attaccò furiosamente Caserta, lasciando sul vertice della collina
una numerosa riserva, che avemmo pur la sorte di sbaragliare e
perseguire sino a Caserta Vecchia.

Con noi, in quel giorno, avemmo la fortuna di avere commilitoni due
compagnie dell'esercito regolare italiano, e l'esercito nostro può
giustamente andar superbo del loro contegno nella battaglia. Duolmi di
non ricordare il nome del comandante e dei corpi a cui appartenevano
quei prodi militi. Una delle due compagnie era di bersaglieri. L'esito
del combattimento fu dei più felici, e ben pochi nemici poterono
salvarsi: ciocchè cagionò anche pochi morti e feriti dalle due parti.

Già nella notte avevo telegrafato al generale Bixio di portarsi colla
sua divisione verso Caserta Vecchia: e quel valoroso capo mostrava
all'alba la maggior parte de' suoi battaglioni sulle alture, alla
sinistra del nemico.

Il generale Sacchi, che occupava le posizioni verso il Volturno, tra
Monte S. Angelo e Caserta, collo stesso ordine e colla stessa solerzia,
comparì pure alle spalle del nemico, pronto a caricarlo. Dimodochè i
borbonici trovaronsi rinchiusi in un cerchio di ferro, e furono quasi
tutti obbligati ad arrendersi.

Nel 2 ottobre 1860, ebbe compimento la gloriosa spedizione dei Mille.
L'esercito regolare italiano, che secondo Farini[61] «aveva la missione
di combatterci--per impedire alle armi della giustizia di giungere
almeno sino a Roma» ci trovò amici; e comunque sia, io sono fiero di non
essermi lordato del sangue di quei miei concittadini, anch'essi,
finalmente destinati, per la maggior parte, ad abbassare l'insolenza
dello straniero, che le nostre discordie avevano assuefatto a
disprezzarci.

NOTE:

[60] Ricordo fra le frazioni di corpi, che marciarono con me, i bravi
calabresi di Stocco. Quel prode generale era stato ferito a Calatafimi,
e non ricordo se si trovasse in quel giorno a Caserta.

[61] Dispaccio di Farini a Bonaparte.




CAPITOLO LXIII.

COZZO, LIA ED I NOSTRI FERITI.

    E l'uomo, e le sue tombe, e l'estreme sembianze
    E le reliquie della terra e del ciel
    Travolge il tempo.

              (FOSCOLO).

    De questi affari no ve ne mescé,
    Lasciè fa i frati, che l'e o seu mestè.

              (_Genova_).


Dopo il 2 ottobre, il compito dell'esercito meridionale era finito, e
non potendo far meglio, convenne _lasciar fare a chi tocca_. Io
approfittai quindi della mia inutilità negli affari di guerra, per fare
una visita ai miei fratelli d'armi feriti.

Ne ho già veduti dei cadaveri e dei feriti--in questa mia tempestosa
vita--su varii campi di battaglia, e per fare un po' come gli altri, ho
cercato d'indurire il cuore alla vista delle stragi, delle mutilazioni,
dei macelli umani!

Comunque, se indurito dall'abitudine, ho potuto contemplare con
indifferenza i morti, anche numerosi, i sofferenti però m'hanno sempre
commosso, e, se ho potuto, ho cercato di alleggerirne i patimenti.

Tu, Italia! hai molti preti, molte malve, molti epuloni, che non
lavorano, e mangiano per cinquanta alle spalle dei poveri; tu hai molti
ladri, piccoli e grandissimi, e cotesti costituiscono il tuo
abbassamento e le tue miserie! Ma....... hai molti prodi! E se i primi
sono tenaci nelle loro bugiarde dottrine, nei loro furti e nelle tue
miserie, i tuoi veri figli progrediscono in idoneità per servirti, e non
soffrire di vederti oltraggiare da chicchessia.

Calpesta sotto i piedi le paure di chi ti governa; cotesta è gente a
pancia grossa e molto interessata, com'è naturale, a salvarla dalle
prepotenze straniere o dalla fame interna.

Nell'avvenire, però, non sarai insultata: ne rispondono le generazioni
che sorgono--bambine, nell'ultima metà di questo secolo, ma che non ne
aspetteranno la fine per essere giganti.

Io li ho veduti feriti, mutilati o morenti tutti quei superbi campioni
dell'onore e della libertà Italiana: Gradenigo, Rossetti, Risso, Masina,
Boldrini, Manara, Montaldi, Montanari, Ciceruacchio, Giovagnolli, Manin,
Taddei, Ferraris, Rossi, Cozzo, Denobili, Specchi, Debenedetti,
Cottabene, Bronzetti, Elia, Bandi, Mameli, Maiocchi, Cucchi, Sgarellino,
Bovi, Vigo, Franchi, Lombardi, Dandolo ed i martiri fratelli Cairoli,
Debenedetti e Bronzetti, che riassumono uno dei più splendidi
martirologi che mai abbia annoverato la storia. Accanto ai Bandiera, a
Pisacane ed a Imbriani, io collocherei altre migliaia di martiri, se vi
arrivassero la mia memoria ed il mio ingegno. Lascio quindi ad altri,
più di me capaci, la cara e patriottica commemorazione.

Io gli ho veduti morenti! e narro di loro cogli occhi umidi ed il cuore
commosso. Sì! morenti quei miei cari giovinetti! leoni sul campo di
battaglia, ora giacenti sul letto del dolore! Molti non giungevano ai
tre lustri! Le loro belle capigliature--bionde, nere, castagne--poichè
esse ponno additare alle varie latitudini di questa bella nostra
penisola--le loro belle chiome erano scapigliate, ed a molti intrise di
sangue!

Io piango scrivendo!.....

I loro occhi infantili--in cui han cessato di bearsi le genitrici
sventurate--i loro occhi, rivolti a me, animaronsi, come se volessero
rassicurarmi, consolarmi nel mio cordoglio e dirmi: «Non è nulla! il
dover nostro l'abbiamo fatto, e moriamo contenti, giacchè la vittoria
sorrise alle armi dei valorosi!»

A molti, il loro ultimo pensiero era rivolto a questa terra, che per
loro, per il nobile sacrificio della loro vita, non sarà più ancella di
prepotenti--e morivano esclamando: «Viva l'Italia!»--E l'Italia li ha
scordati: poveri giovani!.....

Le loro madri cercheranno invano ove caddero, ove morirono, ed ove
furono sepolti, forse, dalla commiserazione di qualche bifolco!

E l'Italia lascia in piedi il monumento eretto dai suoi barattieri,
corruttori e carnefici al mercenario straniero! Oh s'io potessi
ricordarmi di tutti i vostri nomi, miei cari, belli, giovani compagni!
Io, con questa mano già indurita dagli anni, inerte, li consacrerei in
queste povere pagine alla gratitudine di generazioni men ciarliere, ma
che sapranno dovutamente apprezzare il sublime olocausto dell'esistenza
vostra preziosa.

Sì, l'Italia rammenterà il vostro eroismo, quando, passati questi
schifosi tempi di miserie, di depredazioni e di garanzie alla
menzogna--che ridicolissimamente occupano tutti gli istanti di queste
cime regolatrici del mondo--essa potrà vivere dignitosamente e
liberamente senza offendere, ma senza temer nessuno.

In uno stanzino dell'ospedale di Caserta, lo trovai finalmente, quel
caro e simpatico Cozzo--quel prototipo della brillante gioventù
palermitana--oggi vispa, audace, valorosa come lo fu alcuni secoli fa,
quando esterminava sino all'ultimo i boriosi antenati dei moderni
_Chauvins_.--Cozzo, che vedevo raramente in tempi ordinari, ma che
m'appariva sempre nei giorni di battaglie, ove maggiore era il pericolo,
e vi assicuro che quell'aspetto suo, d'una risoluzione ferrea e calma
nello stesso tempo, mi era di buon augurio.

Anche Cozzo baciai coll'affetto di padre, ed a lui diressi alcune poche
parole di conforto, senza speranza nella mia coscienza..... Su
quell'angelico volto, la morte aveva già scolpito l'impronta della
terribile sua falce! Egli mi sorrise, con un sorriso..... ch'io porterò
impresso nel mio cuore tutta la vita! Era sorriso d'affetto.--Cozzo
sapeva ch'io l'amava tanto!--e lo trovò, quel caro sorriso, nelle
mortali sue angoscie.

Lia era al capezzale di Cozzo.--Lia, la contadina della _conca
d'oro_[62], la bella fanciulla dall'occhio nero e fulgidissimo come
quello dell'aquila. Essa procurava di sorridere al suo caro, quando gli
occhi loro s'incontravano; ma poi, da lui non vista, struggevasi in
dirottissimo pianto.

Cozzo aveva il petto rotto da una palla borbonica, e lesa
incurabilmente, una parte vitale.

Egli affrontò la mitraglia nemica, alla testa della colonna che decise
della vittoria nel 1º ottobre. Rimase sul campo esangue, colla sua Lia
accanto, sinchè, terminata la pugna, essa lo fece trasportare nella
stanza in cui lo baciai moribondo.

La sua effigie posa sul mio capezzale, in mezzo a quelle dei Bronzetti e
sotto quelle dei Cairoli e degli altri martiri i di cui ritratti ho
potuto raccogliere.--Felice me! che, nell'avventurosa mia carriera, ho
potuto servire il mio paese con tali compagni!

NOTE:

[62] Valle di Palermo.




CAPITOLO LXIV.

IL SOGNO.

    Pareami in sogno al sacro monte in cima
    Venir per l'aure a vol, sovr'ali snelle
    Tra il coro delle vergini sorelle
    Per cui l'uom tanto il viver suo sublima.

              (ALFIERI).

     Tornai sul luogo della mia nascita e gridai: «Gli amici della mia
     gioventù, ove sono?» E l'eco mestamente rispose: «Ove sono?» ...


Nella fortunata campagna del 60, quando i pezzenti della Democrazia
Italiana passeggiavano nei parchi regi, tra i fagiani ed i daini, e
tergevano i loro rozzi calzari sui reali tappeti--in una stanza del
sontuoso palazzo di Caserta, io sognai di Roma.

Roma! il più commovente, il più prezioso, il più stimolante sogno della
mia vita--sempre! perchè sempre innamorato della grandiosa sua storia,
ma massime dall'età di diciotto anni, in cui ebbi la fortuna di potere
tra le macerie delle immense sue rovine, ispirarmi al gran concetto
dell'emancipazione della mia patria e della famiglia umana:--Roma!
ch'io visitai imberbe, per mia ventura, e ch'io salutai per la prima
volta con affetto d'amante:--Roma! alle cui ispirazioni certamente, io
devo il poco operato nella tempestosa mia vita; Roma, infine, il cuore
dell'Italia, l'ideale dell'Italia! e che per essere la più preziosa
delle sue gemme, fu sì accanitamente conculcata, percossa, oltraggiata
da tutte le tirannidi, da tutte le imposture, che, per meglio
corromperla, trasformarla, contaminarla, vi posero il loro seggio di
serpe! E fecero del più grande dei popoli il più infimo! Roma! per cui
questo corpo, oggi cadente, fu forato tre volte. E quando sul Gianicolo
fui ferito in un fianco, alla sua difesa, io esultai con me stesso al
pensiero di morire su d'un colle sì glorioso e per la santa causa della
repubblica.

Era un bel giorno (così il sogno); dall'alto del Campidoglio io
assisteva al sorgere del figlio maggiore dell'Infinito[63] che spuntava
dalle cime dell'Apennino.

Italia aveva conquistato il suo capo nel nido di vipere che avvelenavano
Roma da tanti secoli; era caduto il fulmine, e vi aveva incenerito
persino gli acciai degli strumenti di tortura e di roghi. Vi era un
governo di tutti e per tutti, non so se lo chiamassero Repubblicano, ma
so che il tempio di Temi--della vera--funzionava egualmente per tutti.

Comunque, non era un governo bordello, come quello d'una repubblica
vicina nostra. Ognuno, indisturbato, andava per i fatti suoi; soltanto,
siccome il putridume e la depravazione di costumi erano menomati sì, ma
non scomparsi, essendo recente ancora la caduta dei tiranni, abbisognava
una mano forte e volontà ferma per ripulire a dovere la società, ed un
savio ed energico uomo era stato eletto dalla maggioranza del popolo con
votazione diretta, per aver il fastidio di reggere la cosa pubblica
temporariamente.

Egli non aveva leggi scritte: un mazzo di zolfanelli--senza petrolio,
come vedremo presto--aveva fatto ragione d'ogni parto di certi famosi
legislatori che hanno fatto del mondo una Babele.

La giustizia era da lui amministrata sulla piazza pubblica, e con tempi
piovosi, nel maggiore dei templi del mondo, non più consacrato
all'idolatria ed alla menzogna, ma ai capilavori dell'arte, ed agli
uomini grandi e valorosi, che avevano illustrato l'Italia e sparso il
loro sangue per essa.

Egli aveva un solo segretario, e li vidi io stesso ambedue mangiare un
pezzo di pane e formaggio, per non lasciar la cattedra, in cui si
conformavano di stare anche l'intiero giorno, se occorreva.--Tutto il
loro lusso era un bicchiere di vino buono all'ora del pasto, ed acqua
nel corrente della giornata.

Una centuria di militi cittadini serviva per fare ubbidire le
deliberazioni del savio, giacchè non c'era più in Italia di gente
armata, se non che circa due milioni di cittadini che supplivano a
qualunque specie di servizio, e le di cui occupazioni diurne erano le
officine e l'agricoltura, quando la patria non abbisognava di loro.

Tutta la sequela dei legislatori era stata inviata ad occuparsi di cose
utili, e gli sgherri ed i preti, grandi e piccoli, a bonificare le
paludi Pontine.

Accanto alle ceneri del nido di vipere e dei rottami ardenti vi si
vedeva un altro incendio di cartaccie, a cui i bimbi avevano appiccato
il fuoco, e con delle lunghe canne, gli stessi attendevano a spingere
nel fuoco i fogli renitenti. Vi si scorgevano le parole: Leggi
fondamentali dello Stato: 1º articolo: La religione cattolica apost....
e qui le irrompenti fiamme ne facevano giustizia. In un altro foglio
semi-spento, che i ragazzi con più ardore scaraventavano sul fuoco,
leggevasi: Imposta sul macinato; in altri: Imposta sul sale;
prerogative, privilegi, dotazioni, ordini della Corona d'It....., non so
più di che santi; e quei diavoli di fanciulli spingevano tutto ciò nel
fuoco con tanto ardore ed accanimento, quanto i reverendi del
Sant'Ufficio, in tempi andati, le sventurate vittime dell'Inquisizione.

Dal Capitolino io avevo assistito ad uno dei più solenni spettacoli
della natura: il levar del sole, all'aspetto venerando d'un vero
reggitore di popolo, sedente sull'antica sedia Curale, nel centro del
Foro Romano e dispensando la vera giustizia, non quella del privilegio e
del carnefice, come la intendono i moderni Soloni.

Tal quadro era forse impresso nella mia giovine immaginazione, dacchè
quarantacinque lustri avanti, io per la prima volta passeggiavo
rispettoso ed attonito in quel Foro, ove dettavansi dai nostri antenati
i destini del mondo, e vicino, lontano, nella buona o cattiva fortuna,
giammai si cancellarono nel mio spirito le impressioni raccolte in
quella visita avventurosa.

Dal Capitolino scesi verso il Tevere, passai il ponte che difese Orazio
Coclite, e che i preti chiamarono di San Bartolomeo, e m'incamminai
verso il Gianicolo in cerca dei tumuli dei nostri Achilli italiani che,
contro gli sgherri del Bonaparte sostennero l'onore italiano vilipeso e
calpestato da loro.--Tumuli! E chi doveva innalzare tumuli ai superbi
difensori dell'orbe? Chi? I preti? i preti, secolari traditori d'Italia,
innalzarono tumuli, mausolei ai soldati stranieri che avevano sgozzato
italiani, ma che avevano salvato la _religione_ (la pancia agli
scarafaggi).

Chi lo aveva da innalzare un sarcofago ai valorosi caduti del 30 aprile,
del 3 giugno, dei monti Parioli, di Mentana?--Chi?--I nuovi venuti[64],
i ministri del governo italiano?--gli uomini delle garanzie papali?--Ma
essi hanno paura di Roma, si sgomentano al solo suo nome, e poi hanno
ragione; i pigmei non arrivano a posarsi sulle sedie dei giganti, non si
sentono degni di atteggiarsi tra i monumenti della grandezza umana, ove
posarono in tutta la loro maestà sublime i padroni del mondo!--Sì, hanno
ragione cotesti piccinissimi ermafroditi seguaci d'ogni potere che loro
garantisca il ventre, caporioni della setta dei consorti che si ponno
paragonare al maiale del Casti:

    Qualunque sia governo al porco piace,
      Anche a furia che sia di bastonate
      Mangiar, bere e dormir lasciato in pace.

No! essi non son degni di sedere in presenza di quel Panteon che fu
centro del mondo conosciuto. Essi, tremanti sempre davanti a qualunque
prepotenza, non ponno pesare al cospetto di quelle macerie ove prestando
l'orecchio s'ode ancora l'eco delle maschie ed eloquenti favelle che
parlavano ai figli di Marte quando decidevano se un re dei Cimbri, uno
delle Gallie od uno della Mauritania doveva trascinare il carro del
trionfatore repubblicano.

Sul Gianicolo, sì! lo trovai un monumento coll'iscrizione: «Audinot ed
il valoroso esercito di Buonaparte vincitore degli eretici e salvatore
dell'infallibile Dio in terra!» Cotesti bestemmiatori e traditori
dell'Italia l'avevano eretto il mausoleo della maledizione! E migliaia
d'italiani passavano ogni giorno davanti a quel sacrilegio senza minarlo
e farlo saltare in aria.

Ma portento!... mentre era assorto in tante e sì dolorose meditazioni,
io contemplai una folla di Romani armati d'arnesi di distruzione che in
un momento atterrarono quella nostra vergogna! Poi altri Romani io vidi
occupati a disseppellire le ossa dei nostri martiri, e sulle rovine del
mausoleo maledetto innalzare un tumulo somigliante a quelli che adornano
le pianure di Morat e di Maratona, e lo vidi coprirsi d'una piramide di
bronzo che mi sembrò della forma di quella di Cecilia Metella. Sui lati
della piramide scorgevansi molti nomi, in lettere cubitali, degli eroi
caduti per l'Italia sul maggiore dei sette colli.

Fui ben felice nello scorgere i nomi di quei valorosissimi: Masina,
Manara, Montaldi, Mameli, Melara, Ramorino, Peralto, Carbonin, Daverio,
Davide, Ceccarelli, Cavallotti, Settignani, Minuto, Pelizzari, i
Cairoli, i Franchi, Oziel, Bronzetti, Debenedetti, Montanari,
Schiaffino, Ciceruacchio.--Che nomi! dicevo tra me, e mi pavoneggiavo
d'essere stato fratello d'armi di quello stuolo di prodi!

Sopra un altro lato della piramide scorgevansi i nomi non meno gloriosi
di Ugo Bassi, Mosto, Ferraris, Perla, Imbriani, Rossetti, Rossi, Risso,
Molinari, Taddei[65], Tukery, Coccelli[66] e tanti altri nomi di martiri
che le venture generazioni pronuncieranno con orgoglio e rispetto!

Salendo la scala marmorea, che adorna al settentrione il palazzo dei
Quattro Venti--scala famosa ove morì il prode dei prodi, il bolognese
Masina alla testa d'un pugno dei più valorosi assaltando petto a petto i
soldati del Buonaparte, già trincerati ed in gran numero nel
palazzo--salendo quella scala, io mi trovai su d'un belvedere ove la
vista spaziavasi meravigliosamente sulla vasta e deserta campagna
romana.

Ma miracolo!... in un istante, invece delle micidiali paludi Pontine,
presentavansi agli occhi miei magnifici campi coltivati che mi
ricordavano la ubertosa e ben coltivata valle del Po coll'incantevole
sua vegetazione.

Invece del deserto, graziosissime cascine con orti verdeggianti ed
alberi carichi d'ogni specie di frutta, pianure immense coperte di biade
color dell'oro.

E ciò che più mi stupiva nello stato mio di ammirazione, era il
brulichìo di gente tutta occupata ai diversi lavori della campagna.

Qui i carri carichi d'ogni ben di Dio e maestrevolmente guidati da
preti, dal sacrestano agli eminentissimi; e, ben fissando, scopersi
nella folla dei chercuti anche un santissimo padre, non più panciuto e
colle pantofole dorate, ma calzato con un buon paio di stivali, snello e
robusto che consolava il vederlo. Egli mi sembrava occupato a dirigere i
lavori ed a stimolare alcune schiene diritte di quei buoni curati che
avevano passato la loro vita tra il fiasco e la Perpetua.

Là altri servi di Dio, facili a distinguersi dalle chieriche, che colla
vanga, colla zappa o coll'aratro, lavoravano la terra ch'era una
delizia.

Le strade ferrate solcavano la vasta e ricca campagna in tutte le
direzioni, e mi sembrò di distinguere sulle locomotive, facendo le
funzioni di macchinisti, fochisti, ecc., una quantità di finanzieri
d'ogni classe, di pubblica sicurezza, di impiegati al lotto e tanta
altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima.

Ora, dicevo tra me, capisco la meravigliosa trasformazione della
campagna romana mettendo all'opera tutta cotesta schiera di
fannulloni.--E che sarà quando i quattro o cinquecentomila giovani che
formano oggi ciò che si chiama esercito regolare, saranno resi alle
officine ed alla campagna di cui sono i più robusti coltivatori?

Lì consiste il principal morbo dell'Europa--lì la causa vera delle
perenni sue guerre; e la pace potrà esser duratura soltanto quando gli
eserciti permanenti saranno sostituiti dalla nazione armata mettendo,
s'intende, i preti a bonificare le paludi Pontine.

«Non più imposti governi nè guarentigie all'impostura, ma governo scelto
da noi e culto del Vero» si udiva cantare da molti operai e contadini
(non dai preti e dagli altri fannulloni cresciuti all'ombra d'uno
stipendio vergognoso ed ora obbligati a piegar la schiena al lavoro).

«Vengano avanti al giudice supremo tutti cotesti uomini a nuove grandi
fortune senza fatica, e lo ragguaglino sul modo da loro usato per
accumularle».

Ed allora si scorgevano nella folla dei subalterni predoni gli uomini
delle regìe, i ministri che, oltre al loro stipendio, avevano accumulato
dei milioni appropriandosi un tanto per cento sui prestiti con cui
avevano rovinata la nazione; scorgevansi, dico, cotesti messeri che si
facevano piccini piccini e nascondevano l'antipatico ceffo dietro alcuni
inferiori della stessa risma ch'erano stati complici dei loro misfatti.

«Noi (son sempre i manuali che cantano) lo possiam provare l'acquisto di
questi cenci; possiam provare la fame patita dalle nostre povere
famiglie che, malgrado l'abbondanza presente, conservano ancora sulle
loro fronti sparute i solchi dei patimenti, e gli stenti, e le
desolazioni da noi sofferte.

«Noi le possiam provare le nostre miserie su cui si satollarono tutti
cotesti epuloni, lenoni e mascalzoni venduti corpo ed anima ai potenti».

Inaspriti e stimolati dal melanconico canto, tutti quei poveri
braccianti avanzavano in massa colle loro falci, zappe e vanghe in aria
per dar addosso ai preti e compagni..... Ma una voce potente come quella
del tuono, uscita dal Foro, ristabiliva la calma in un momento.

«Ite ai vostri lavori!» tuonava la favella del savio.

«Ai tiranni ed ai preti conveniva la vendetta e la strage, essendo la
loro potenza edificata sulla violenza e sulla menzogna; a voi, uomini
liberi, umanitari e che avete il culto del Vero, conviene la tolleranza,
e solo con essa potrete raggiungere la sublime meta di affratellare i
popoli tutti della terra».

E tutti tornavano alle loro occupazioni, e si udiva nella folla la
parola _tolleranza_ ripetuta da tutti e con rispetto.

«Tolleranza» gridavano altri «meno però per i lupi, le vipere ed i
preti, sinchè tornati alla condizione d'uomini onesti, se ne son
capaci».

NOTE:

[63] Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si
scrivono numerosi fascicoli per provare Dio gli uni, per negarlo gli
altri, e che finiscono per provare e per negare nulla; io credo sarebbe
conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse
convenire a tutti ed affratellare tutti. (Col dottrinarismo intollerante
per il mezzo, certo sarà un affare un po' serio).

Per parte mia accenno e non insegno.

Può il Vero, o l'Infinito, che sono la definizione l'uno dell'altro,
servire all'uopo? Io lo credo.

V'è il tempo infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza,
quindi incontestabile.

Resta l'intelligenza infinita.

È essa parte integrante della materia? Emanazione della materia?

La soluzione di tal problema è superiore alla mia capacità, e sinchè non
si risolva matematicamente, io mi attengo ad un'idea che nobilita il mio
povero essere, cioè: all'Intelligenza Infinita, di cui può far parte
l'infinitesimale intelligenza mia, siano esse emanazione della materia o
no.

Di più, devo confessare, che non capisco come sian la stessa cosa:
l'incudine, il ferro che batte il fabbro, e la sua idea di farne una
marra. Non capisco come sian la stessa cosa: il pianeta, l'orbita
elittica, in cui rota e traslata, la legge che ha circoscritto il suo
moto in quell'orbita, e la mente di Kepler che scopriva questa
legge....... Accenno!

Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L'intelligenza dorme o
si è divisa?.....

[64] Mi si perdoni un anacronismo--era un sogno.

[65] Taddei, brillante ufficiale dei Mille, morto poi alla battaglia di
Custoza.

[66] Il tenente Coccelli venuto da Montevideo coi 73 nel 48. Uno dei più
brillanti ufficiali di quella schiera.




CONCLUSIONE


I preti diventati uomini laboriosi ed onesti.

Tutte le cariatidi della monarchia--come i primi--consueti al dolce far
niente ed a notare nell'abbondanza, oggi piegando la schiena al lavoro.

Non più leggi scritte[67].--Misericordia! grideranno tutti i dottori
dell'universo, oggi obbligati anch'essi a menare il gomito per vivere.

Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente
chiamavasi civilizzazione--e le cose non andavano peggio! Anzi
scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti, e tale soddisfazione per
il nuovo stato sociale, ch'era un vero miracolo.

Era però un sogno!--Io mi svegliai beneficato certamente dalla
visione--amareggiato però subito dopo dalla nauseante realtà della
società odierna.

E cercai quindi, addolorato, di ripigliare la strada dell'isolata e
deserta mia dimora.


FINE.

NOTE:

[67] Circa la religiosa osservanza delle leggi scritte, si legga una
lettera del re d'Italia a Bonaparte;

  «Garibaldi è stato arrestato due volte contro le nostre leggi, e lo
  sarebbe stato una terza senza la crisi ministeriale.

      «19 ottobre 1867.»




INDICE DEI CAPITOLI

  Prefazione. Alla Gioventù Italiana                   Pag.   V

  Capitolo I.        I Mille                            "     1

     "     II.       Il Cinque Maggio                   "     6

     "     III.      Talamone                           "    13

     "     IV.       Da Talamone a Marsala              "    16

     "     V.        Marsala                            "    21

     "     VI.       Calatafimi                         "    24

     "     VII.      Lina e Marzia                      "    29

     "     VIII.     Da Calatafimi a Renne              "    33

     "     IX.       I Precursori                       "    38

     "     X.        Le due Eroine                      "    41

     "     XI.       Italia                             "    45

     "     XII.      Maniscalco                         "    48

     "     XIII.     Il 4 aprile                        "    54

     "     XIV.      La Prigionia                       "    58

     "     XV.       Il Tentatore                       "    67

     "     XVI.      Cozzo ed i cinquanta Palermitani   "    70

     "     XVII.     Ancora il Tentatore                "    75

     "     XVIII.    L'Assalto disperato                "    84

     "     XIX.      L'Assalto fortunato                "    90

     "     XX.       Il 27 maggio                       "    94

     "     XXI.      La Capitolazione                   "    99

     "     XXII.     Il Riscatto                        "   102

     "     XXIII.    Il Riposo                          "   105

     "     XXIV.     Roma                               "   109

     "     XXV.      Melazzo                            "   116

     "     XXVI.     La Borbona                         "   124

     "     XXVII.    Messina                            "   127

     "     XXVIII.   Talarico                           "   136

     "     XXIX.     Il Pesce Spada                     "   139

     "     XXX.      Il Ratto                           "   144

     "     XXXI.     La Dittatura onesta                "   147

     "     XXXII.    Agli Aranci                        "   150

     "     XXXIII.   Roma                               "   153

     "     XXXIV.    Reggio                             "   160

     "     XXXV.     La Conversione                     "   170

     "     XXXVI.    La Vittoria                        "   184

     "     XXXVII.   Il 7 settembre                     "   188

     "     XXXVIII.  La Libertà                         "   193

     "     XXXIX.    L'Amore                            "   198

     "     XL.       Il Conclave dei rubati             "   208

     "     XLI.      I Trecento                         "   216

     "     XLII.     Liberazione                        "   226

     "     XLIII.    Napoli                             "   237

     "     XLIV.     La Camorra                         "   245

     "     XLV.      Giorgio Pallavicino                "   254

     "     XLVI.     Osteria della Bella Giovanna       "   261

     "     XLVII.    Caiazzo                            "   276

     "     XLVIII.   Battaglia del Volturno             "   279

     "     XLIX.     Jessie White Mario                 "   289

     "     L.        Continua la Battaglia del Volturno "   292

     "     LI.       Ancora la Battaglia del Volturno   "   295

     "     LII.      Il Gesuita                         "   298

     "     LIII.     I Trecento                         "   304

     "     LIV.      Subiaco                            "   312

     "     LV.       La Simpatia                        "   315

     "     LVI.      Combattimento di Sora              "   325

     "     LVII.     Isernia                            "   331

     "     LVIII.    Tora                               "   352

     "     LIX.      Amplesso della Morte               "   355

     "     LX.       Il Racconto                        "   374

     "     LXI.      La Morente                         "   379

     "     LXII.     Battaglia del Volturno             "   384

     "     LXIII.    Cozzo, Lia ed i nostri feriti      "   389

     "     LXIV.     Il Sogno                           "   394

  Conclusione                                           "   405




ELENCO GENERALE DEI SOTTOSCRITTORI[68]

all'opera

I MILLE

del Generale G. GARIBALDI


A

  Abignente F., _Deputato_.
  Abondrazzato G. B.
  Acerbi Alfredo.
  Acerbi Bartolo.
  Aceti Giacomo.
  Aceto Emilio.
  Achbleites.
  Acchiardi Enrico.
  Adami F.
  Adami Filippo.
  Adami Francesco.
  Adami Oreste.
  Adamoli Domenico.
  Adamoli G.
  Adamosi Giuseppe.
  Addimandi Nicolò.
  Aducci Giosuè.
  Agabiti Avv. Francesco.
  Agarbati Tommaso.
  Agazzi Luigi Isaia.
  Aglizzi.
  Agnelli Antonio.
  Agnelli P.
  Agnesi Pietro.
  Agnini Gregorio.
  Agosti G.
  Agosti Dott. Leonardo.
  Agostini A.
  Agostini G.
  Agostini Luigi.
  Agostini.
  Agostini S.
  Aguzzi Annibale.
  Aguzzi Giovanni.
  Airoldi-Carrara Odoardo.
  Aita Ing. Luigi.
  Albani G.
  Albonico Romoaldo
  Albergo Bozzeni.
  Albergoni Cermes.
  Alberoni Ettore.
  Albertani Avv. Celso.
  Alberti Giovanni.
  Albertini F.
  Albrini Prof. Giuseppe.
  Albulla Valente.
  Alessio G.B., Med. Veter.
  Aldinghieri.
  Alfieri Eugenio.
  Alietti Attilio.
  Alietti Ignazio.
  Alimenti Pietro.
  Alimenti.
  Alinero.
  Aliprandi Giuseppe.
  Allasia Giovanni.
  Allievi Cav. Cesare.
  Allievi Gaetano.
  Allochio Giovanni.
  Almagia Graziadio.
  Almagia Sabato.
  Aloè Vincenzo.
  Alpron Giacomo.
  Amadei Giusto.
  Amadei Michele.
  Amadei R.
  Amalgia Giuseppe.
  Amarosi V.
  Ambrogio Med. Bartolom.
  Amendola V.
  Andolfato, Avv.
  Andreetta Domenico.
  Andreini E.
  Andreucci.
  Andreucci Luigi.
  Andreuzzi Dott. Antonio.
  Andronio Avv. Girolamo.
  Angelini Avv. Andrea.
  Angeloni G. A. _Deputato_.
  Angeloni Liborio.
  Angeloni Stefano.
  Angelucci F.
  Angiolini Ottavio.
  Angnier Alessandro.
  Annigoni Antonio.
  Ansaldo Michele.
  Ansano Sabadini.
  Anselmi, _Deputato_.
  Anselmi, Ingegnere.
  Antinori Dott. Giuseppe.
  Anlonacci Fortunato.
  Antonaz A.
  Antonelli Beniamino.
  Antongini Alessandro.
  Antongini Carlo.
  Antoni.
  Antoniani F.
  Antonini Adriano.
  Antonini Antonio fu Luigi.
  Antonini Francesco.
  Antonini Giacomo.
  Antonucci Rodolfo Ernesto.
  Appoloni B.
  Appoloni.
  Apuzzo Francesco.
  Aquillanti Francesco.
  Aquiluchia Luigi.
  Aragona Antonio.
  Arcangeli Isacco.
  Arcangelo D. Fortunato.
  Archetti Gio. Maria.
  Ardemaio Carlo.
  Ardisson F.
  Ariotti Giovanni.
  Arnaldi Bernardo.
  Arnoldo Mario.
  Arnone Pasquale.
  Arrigoni Avv.
  Arrivabene Ing. Ugo.
  Ascoli G. A.
  Ascoli G.
  Ascoli e Gaggiotti.
  Asquini Dott. Francesco.
  Asquini fratelli.
  Astori Felice.
  Attimis Conte P. Antonio.
  Avanti Cav. Antonio.
  Avena G.
  Aventi A.
  Aventi Conte Francesco.
  Avezzana Gen. Giacomo.
  Avotis Ingegnere.
  Aziz G.
  Azzati F.
  Azzolini Fulgenzio.


B

  B. A.
  B. G.
  Babini Giuseppe
  Baccalari Luciano.
  Baccarini Federico.
  Baccherini Giorgio.
  Bacchetta Dottore.
  Bacchetti Gaspare.
  Bacchi Francesco.
  Bacci Cecilia, Maestra.
  Bacci Gaetano.
  Bacci Gio. Paolo.
  Bacci Leon B.
  Bacci Not. Pietro.
  Bacci Pietro.
  Baccigalupo Giuseppe.
  Bacco Agostino.
  Bacco Avv. Giuseppe.
  Baffo Francesco.
  Bagini Ing. Francesco.
  Bagini Avv. Severino.
  Bagli P.
  Bagliani Angelo.
  Bagnali Ugo.
  Bagnoli C.
  Bagozzi Ferdinando.
  Baiguerra Giuseppe.
  Baiguerra Pietro.
  Balardi Ferdinando.
  Balbiani Antonio.
  Baldassarre Avv. Ferdin.
  Baldini Francesco.
  Baldinelli Ettore.
  Balducci Andrea.
  Balestra Carlo.
  Balestreri Ferruccio.
  Balleri Cesare.
  Ballesio Avv. G. B.
  Balloni.
  Balossi.
  Balsamo Pappalandro.
  Balzafiori G.
  Bampo Avv. Giovanni.
  Bampo Dott. Giovanni.
  Banbi-Morallo.
  Bandiera Anselmo.
  Bandini Dott. Vincenzo.
  Banfi Ing. Luigi.
  Banfi P.
  Banzolini Dott. Giovanni.
  Barabino G.
  Barabino L.
  Baragiola Prof. Giuseppe.
  Baratoni Avv. Pietro.
  Barattani Filippo.
  Barattieri, Capitano.
  Barattini Andrea.
  Barbanti L.
  Barbieri G. B.
  Barboni Napoleone.
  Barboni N.
  Barbotti Avv. Giovanni.
  Barbotti Giuseppe.
  Barbuti Dott. Francesco.
  Bargellini Francesco.
  Barghini G.
  Barilari D.
  Barili Dott. Luigi.
  Barini Luigi.
  Bariola Alberto.
  Barlini Vincenzo.
  Barmioli Cav. Luigi.
  Barnini Pietro.
  Barobbio Antonio.
  Barocci Angelo.
  Barone Giovanni.
  Baroni.
  Baroni Achille.
  Baroni Angelo.
  Baroni Giosafatte.
  Baroni Giuseppe.
  Barrattieri O.
  Barrera Don Giovanni.
  Barri Dott. Torello.
  Barricelli Michelangelo.
  Barsidi M.
  Bartoli Domenico.
  Bartoli Giuseppe.
  Baruffaldi Lorenzo.
  Baruffi Avv. Giovanni.
  Barzacchi Gaetano.
  Barzilai Donato.
  Barzini Ulisse.
  Basetti Dott. Lorenzo.
  Bassa P.
  Bassani Ugo.
  Bastianelli Arturo.
  Bastianelli Alfredo.
  Bastianello Paolo.
  Bastoni Pietro.
  Battaglia.
  Battaglia Gaetano.
  Battelli, _Deputato_.
  Battistella Antonio.
  Balliti Cav. Alessandro.
  Baviera Dott L.
  Bazzani Angelo.
  Bazzani Pietro.
  Bazzelli Luciano.
  Bearzi Pietro.
  Beccani Olinto.
  Beccari Adelaide.
  Bechini.
  Becchio Carlo.
  Beda F.
  Bedeschi Antonio.
  Bedeschi Gherardo.
  Bedotti Teofilo.
  Beducci.
  Beer e Vivanti.
  Beghelli Giuseppe.
  Belardi Vincenzo.
  Bellasi Ing. Pietro.
  Bellenghi Dott. Timoleone
  Belletti Dott. Erasmo.
  Belli Dott. Carlo.
  Bellini Battista.
  Bellini C.
  Bellini Giuseppe.
  Bellini Napoleone.
  Bellini Paolo.
  Bellini P. B.
  Bellisio Domenico.
  Bellisoni A.
  Belloni Bortolo.
  Belloni Francesco.
  Bellotti Donati.
  Bellotti G. B.
  Bellosio Giuseppe.
  Belluzzi Raffaele.
  Belrioni.
  Beltrami Ing. Enrico.
  Beltrami Ing. Leone.
  Beltrami Pietro.
  Benedetti Domenico.
  Benedetti Raniero.
  Bencini P.
  Benissi Giorgio.
  Benvenuti C.
  Benvenuti G.
  Benvenuto Adolfo.
  Beolchini Dott. Carlo.
  Berardi Giovanni.
  Berardi.
  Berchet P. Victor.
  Beretta A.
  Beretta. Avvocato.
  Beretta Luigi.
  Beretto S.
  Bergamini-Castellani.
  Bergesio Not. Luigi.
  Bergomi G.
  Bergoni Dott. Angelo.
  Beri Pasquale.
  Berlendi Giuseppe.
  Bernabei Avv. G.
  Bernardi Nob. Camillo.
  Bernardi Domenico.
  Bernardi Dott. Innocenzo.
  Bernardi Dott. Massimo
  Bernieri Cav. Cesare.
  Bertacchi Mauro.
  Bertagni Enrico.
  Bertani Agostino, _Deput._
  Bertetich Trune.
  Berti Luciano.
  Berti Luigi.
  Berti S.
  Bertieri Paolo.
  Bertinelli G.
  Bertini Geom. Antonio.
  Bertini Florido.
  Berton G. Mario.
  Bertonati. Ingegnere.
  Bertoni Em. e P. (Ditta).
  Bertozzi Sante.
  Bertucci-Salvatico Estense Marchese.
  Bertucci.
  Berutto Gio. Camillo.
  Berva Eugenio.
  Berzotti Castore.
  Besio Cav. Giuseppe.
  Bettelli Luigi.
  Bettinelli Giacomo.
  Beuf. Libraio (Casanova).
  Bevilacqua Giovanni.
  Bevilacqua Ing. Giustino.
  Bevilacqua Dott. Mariano.
  Bevilacqua Marino.
  Bevilacqua M.
  Bevilacqua Tommaso.
  Bezza Rinaldo.
  Bezzi Egisto.
  Biagetti.
  Biaggini Vincenzo.
  Biagini Davide.
  Biancardi I. D.
  Biancardi Dionigi.
  Biancheri, Dottore.
  Bianchetti, Avvocato.
  Bianchi Achille.
  Bianchi B.
  Bianchi Benvenuto.
  Bianchi Cav. Cesare.
  Bianchi Rag. Edoardo.
  Bianchi G.
  Bianchi G. B.
  Bianchi Mario.
  Bianchini I.
  Bianchini Nicola.
  Bianchini Raffaele.
  Bianchini Sante.
  Bibbiani Bravi.
  Bibbolino A.
  Bibbolino Giuseppe.
  Biblioteca Camera dei Deputati.
  Biblioteca Circolare di Gazzuolo.
  Biblioteca di Rimini.
  Biblioteca Popolare di Ancona.
  Biblioteca Popolare di Camerino.
  Biblioteca Popolare di Rimini.
  Bielli Dott. Ottavio.
  Bifano Giuseppe.
  Biffis Andrea.
  Bigaglia Lorenzo.
  Biglia Cesare.
  Bigliardi A.
  Bignami Giulio.
  Bignami Dott. Paolo.
  Bignamini Mario.
  Bilancioni Doti. Dom.
  Bilancioni Francesco.
  Bilancioni Luigi.
  Billi, _Deputato_.
  Bini Carlo.
  Biondani Augusto.
  Biondelli Massimo.
  Biondi A. P.
  Biotti Luigi.
  Biscottini Annibale.
  Bisio C.
  Bisutti Antonio.
  Bizzarri G. B.
  Bizzocchi Giovanni.
  Brigliadori S.
  Blengini Andrea Giuseppe.
  Blondi A.
  Bocca Fratelli.
  Boccarini.
  Boccarini Pasquale.
  Bocchi Francesco.
  Bocchini Ciriaco.
  Boccolini Angelo.
  Bodini Amilcare.
  Bodini Silvestro.
  Bodino Carlo.
  Boggi Ettore.
  Bogino G. B.
  Bois Augusto.
  Bolchini Avv. Giuseppe.
  Boldi Leopoldo.
  Boldin.
  Boldrini Aureliano.
  Boldrini Ferdinando.
  Bolena Luigi.
  Bolena Achille.
  Bolis Avv. Luigi.
  Bolleria Tullio.
  Bolli L.
  Bolmida E.
  Bologna A.
  Bolognesi Giulio.
  Bolognini Conte Ercole.
  Bolza Angelo.
  Bolzarini Dott. G. B.
  Bolzon Ingegnere.
  Bomfort M. B.
  Bona.
  Bona Antonio.
  Bona Avv. Eugenio.
  Bona Giorgio.
  Bona Luigi.
  Bonaldo G. B.
  Bonanomi Antonio.
  Bonanomi Dott. Giacomo.
  Bonardi Pietro.
  Bonardi.
  Bonardi Giuseppe.
  Bonardi Dott. Massimo.
  Bonardi Silvio.
  Bonarelli Pietro.
  Bonarelli S.
  Bonati Giov. Batt.
  Bonato Dott. Antonio.
  Bonazzi Giuseppe.
  Bonazzini Giuseppina.
  Bondimaj Agostino.
  Bondois G. B.
  Bonduri Angelo.
  Bonelli Luigi.
  Bonellini Francesco.
  Bonemazzi Angelo.
  Boneschi.
  Boneschi Ingegnere.
  Bonetti Benvenuto.
  Bonetti.
  Bonetti, Rag.
  Bonettini.
  Bonfalli Angelo.
  Bonfatti Ing. Guglielmo.
  Bonfigli Nazario.
  Boni Dott. Setimio.
  Bonino Carlo.
  Bonis Francesco.
  Bonivento Felice.
  Bonizzoni Giuseppe.
  Bonn.
  Bonomi Giuseppe.
  Bonora Carlo.
  Bontempelli Carlo.
  Bontempi Pacifico.
  Bonucci R.
  Bonvicini Federico.
  Bonvicini Ferdinando.
  Bonvicini Lorenzo.
  Bonvicini Marco.
  Borasa.
  Borbarino.
  Borchetto.
  Borchieri Ludovico.
  Bordini Pietro.
  Borduri.
  Borella Carlo.
  Borella Ing. Pietro.
  Borelli Comm. G. B.
  Boressi G.
  Borghesi Giuseppe.
  Borghesi Ignazio.
  Borghetti E.
  Borghi Carlo.
  Bonghini Dott.
  Borgiulli.
  Bornaccini Prof. B.
  Borsa Ing. E.
  Borsoli G.
  Bortignoni Angelo.
  Bortignoni Giovanni.
  Bortoluzzi Giovanni.
  Bortoluzzi.
  Bortoluzzi Urbano.
  Borzani G.
  Borzatti Ernesto.
  Borzazzi Ciro.
  Bosani Eligio.
  Bosatto Domenico.
  Boschero Ciriaco.
  Boscheri Dott. Lodovico.
  Boschini Antonio.
  Bosdori G. B.
  Bosi Domenico.
  Bosiloti Dott. Carlo.
  Bosio Luigi, Proc. Capo.
  Bossi Ing. Luigi.
  Bossini Carlo.
  Bossini Dott. Edoardo.
  Bossini Emilio.
  Bosso Luigi.
  Bossoni Alessandro.
  Bossoni Avv. Carlo.
  Bossono.
  Bonu.
  Bottagisi Luigi Enrico.
  Botti.
  Botti Albino.
  Botti Vittorio.
  Botti Alessandro.
  Bottini Cav. Domenico.
  Bottini Dott. Antonio.
  Bottoni A.
  Bottoni Lorenzo.
  Bovi Giuseppe.
  Bovi Colonn. P.
  Bozelli Stefano.
  Bozzani Eligio.
  Bozzetti Ing. Luigi.
  Bozzi Avv. Achille.
  Bozzini Alessandro.
  Bozzoni Angelo, Tenente.
  Braga Avv. Tommaso.
  Bragadini Dott. Giuseppe.
  Braida P.
  Brairi.
  Bramaleoni Ferdinando.
  Bramante Avv. Luigi.
  Brambilla Carlo.
  Brambilla Giuseppe.
  Brambilla Dott. Giuseppe.
  Branchi Prof. Gaetano.
  Branchinetti Gaetano.
  Brandini Pilade.
  Bratiano Giorgio, Deputato Principati Danubiani.
  Brasco-Amari Giuseppe.
  Brassey.
  Bravoco Nicolò.
  Breltaner E.
  Brenna Angelo.
  Brenni Rag. Paolo.
  Brentan Pietro.
  Bresciamorra Franc., _Dep._
  Bresciani G.
  Bresciani Dott. Giuseppe.
  Bricoli Cav. Emiliano.
  Brigliadori A.
  Brigliadori Enrico.
  Brigliadori Pietro.
  Brigola G.
  Brioli Emiliano.
  Brivio Luigi.
  Broglia Dott. Antonio.
  Broglio A.
  Broglio Alessandro.
  Broglio Giuseppe.
  Brugnoli Anselmo.
  Brondi Giuseppe.
  Bruccolesi Cav. Giuseppe.
  Bruggi Teobaldo.
  Brunelli Cesare.
  Brunelli.
  Brunelli Germano.
  Brunelli Dott. Pilade.
  Brunelli Simonetti.
  Bruni Innocenzo.
  Brunicardi Ing. A.
  Bruno Conte di Tornaforte.
  Bruno Domenico.
  Brunoli Luigi.
  Bruschettini Avv. Angelo.
  Bruzzesi Clelio.
  Bruzzesi-Noè Norina.
  Bruzzi Lorenzo.
  Buda P.
  Bufferli Conte Andrea.
  Buffoli Avv. Teodoro.
  Buglioni A.
  Buglioni D.
  Buldrini Stefano.
  Bulgarelli Andrea.
  Bulgheresi Angelo.
  Bullorini Bernardo.
  Buonananni Giuseppe.
  Buranelli Greg. Capitano.
  Burattini A.
  Burchiani Savino.
  Burelli Pietro.
  Busato Angelo.
  Busnelli Secondo.
  Bussi Francesco.
  Buti F.
  Buzzi Vitale.


C

  Cabellini C.
  Caccianiga Stefano.
  Caccio G.
  Cadani Cesare.
  Cadenazzi Giovanni.
  Cadenozzi A. Giovanni.
  Caffè Avv. E.
  Cafiero.
  Cafoli Angelo.
  Cagnella Domenico.
  Cagnola A. Fr.
  Cairoli Benedetto, _Deputato_.
  Cajo Giovanni.
  Cal Carlo Mario.
  Calabianchi Ant., Cons. d'App.
  Calderaj M.
  Calderaj O.
  Calderara.
  Calissoni Vitale.
  Calissoni Dott. Vittore.
  Calletti Isidoro.
  Calligaro Giosafatte.
  Calvi Guglielmo.
  Calzoni Antonio.
  Camera di Comm. di Ancona.
  Camerini Vitale.
  Camillini C.
  Caminale Avv. Pietro.
  Cammorota G.
  Campagna E.
  Camparini Angelo.
  Campobassi T.
  Camponori Novello.
  Campori Ing. A.
  Campra Antonio Angelo.
  Canali Angelo.
  Canavesio Cav. Sebast.
  Candeo Antonio.
  Candiani Antonio.
  Candiani Ferdinando.
  Candiani Avv. G.
  Candiani Vendramino.
  Canella Francesco.
  Canepa Alessio.
  Canepa Gaetano.
  Canessa L. D.
  Canevazzi Ettore.
  Canevazzi Ing. Eugenio.
  Canessa Guglielmo.
  Canin Angelo.
  Cannelli Luigi.
  Cantarelli Francesco.
  Cantatori.
  Canticello G.
  Cantieri Orlando.
  Cantoni Gioacchino.
  Capanna Gustavo.
  Capella Pietro.
  Capellani Ferdinando.
  Capello Silvio.
  Capitanio Giuseppe.
  Capizucchi Ezio.
  Capocchi Enrico.
  Capocotti.
  Capone Federico.
  Capone Francesco.
  Capone Michele.
  Capone Pasquale.
  Caponero Giovanni.
  Caponi F.
  Capordi.
  Capotti Luigi.
  Capozzi.
  Capozzi Michele, _Deputato_.
  Cappa.
  Cappelletto, Avvocato.
  Cappelli Augusto.
  Capponi Dott. D.
  Capranica Marchª Ristori.
  Capredani P.
  Capredoni Pietro.
  Capri.
  Caprili Ferdinando.
  Caprili Luigi.
  Caradia, Principe.
  Carafa di Noja Carlo.
  Carasso Gioanni.
  Caratti F.
  Carcani Fabio, _Deputato._
  Cardinali Cesare.
  Cariboni Dott. Augusto.
  Carini Ing. Agostino.
  Cariolato Filippo.
  Carioni Nob. Carlo.
  Carissimi.
  Carisinni.
  Carli Vincenzo.
  Carlini Giovanni.
  Carlotto Dott. Bartolo.
  Carminati Augusto.
  Carnevali P. E.
  Carnevali L.
  Carnielo Antonietta.
  Carnielo Antonio, _Dep._
  Carocci Avv. Olinto.
  Carovana March. Giuseppe.
  Carozzi Luigi.
  Carpanè G.
  Carpena Cesare.
  Carpenè, Dottore.
  Carra, Commendatore.
  Carrodori March. Gugl.
  Carrafa Saverio.
  Carrano Francesco.
  Carrozzi Oreste.
  Carta F.
  Casabianca Pilade.
  Casabianca P.
  Casagrande Francesco.
  Casalini Andrea.
  Casalini Cesare.
  Casalini Ulisse.
  Casamata Dott. Cesare.
  Casanova Annibale.
  Casanova Carlo.
  Casaretti Cristina.
  Casaretti Arch. S.
  Casaretto Giacomo.
  Casartelli Angelo.
  Casartelli Carlo.
  Casartelli Ing. Giuseppe.
  Casati-Sacchi Elena.
  Cascio E.
  Casegli.
  Caselli Ferdinando.
  Casino Dorico.
  Casino Udinese.
  Casoli.
  Casoli Enrico.
  Casoli Dott. Giuseppe.
  Casorati Carlo.
  Cassetti Federico.
  Cassini.
  Cassini Carlo.
  Castagnini Dott. Domenico
  Castellan Giuseppe.
  Castellani Alessandro.
  Castellani Egisto.
  Castellani Luigi.
  Castellazzi Avv.
  Castelli Alfredo.
  Castelli Angelo.
  Castelli.
  Castelli Domenico.
  Castellino Dott. Paolo.
  Castiglioni Pietro.
  Castorani Giovanni.
  Cataldi Antonio.
  Catalucci F.
  Catalucci Paolo.
  Cataneo conte Riccardo.
  Catena Torello.
  Caterini Nicola.
  Catilli P.
  Catrini Pietro.
  Catta Raffaele.
  Cattabiani G.
  Cattaneo Angelo.
  Cattaneo Ing. Antonio.
  Cattaneo Enrico.
  Cattaneo Francesco.
  Cattaneo Dott. Gaetano.
  Cattaneo Giovanni.
  Cattaneo Dott. Giuseppe.
  Cattatringa E.
  Catti Uberto.
  Cavadini Tirso.
  Cavagnari Uriele.
  Cavallera e Marsigli.
  Cavalleri Avv. Michele.
  Cavalli Dott. Luigi.
  Cavalli N.
  Cavallini Carlo.
  Cavallini Zaverio.
  Cavallo G. B.
  Cavallo Michelangelo.
  Cavichioni Luigi.
  Cavolieri Pietro.
  Cavriani Ippolito.
  Ceccarelli Prof. Achille.
  Ceccarelli Cajo.
  Ceccarelli Dott. Matteo.
  Cecchetti C.
  Cecchetto Dott. Emilio.
  Cecchi Oreste.
  Cecchi Silvestro.
  Cecchini Cesare.
  Cecchini Pietro.
  Ceccoletti Giovanni.
  Cecconi Francesco.
  Celeret Primo.
  Celetti D.
  Celini Bernardo.
  Cella Angelo.
  Cella Dott. Carlo.
  Cella G. B.
  Cella Pietro.
  Cella-Furlani Maria.
  Celle.
  Celli Annibale.
  Cellotti Pietro.
  Cenci Ercole.
  Ceneri Avv. Giuseppe.
  Cenni Napoleone.
  Centazzo Dott. Domenico.
  Centazzo Dott. Luigi.
  Centi Antonio.
  Ceoloni Dott. Francesco.
  Cerafogli Attilio.
  Cerbella Clemente.
  Cerchiani Avv. Capitolino.
  Cerea Celestino.
  Cereda Luigi.
  Ceretti Antonio.
  Ceretti Celso.
  Ceretti Guerino.
  Cerosa Carlo.
  Cerquetti Giorgio.
  Cerri Achille.
  Cerruti Pier Luigi.
  Cerutti G.
  Cervieri Gerolamo.
  Cervieri Giovanni.
  Cesaroni Luigi.
  Cesti Avv. Giuseppe.
  Cetti Pasquale.
  Chelli Ulisse.
  Cheracic A.
  Chevrier Mario.
  Chianese.
  Chianese L.
  Chiapparini.
  Chiappini Domenico.
  Chiappini G.
  Chiasso Dott. Giuseppe.
  Chiellini O.
  Chienti Giuseppe.
  Chiotti Francesco.
  Chittaroni G.
  Ciani Gherardo.
  Ciardulli Enrico.
  Cibele Dott. Pietro.
  Ciboldi Battista.
  Ciboldi Carlo di Soresina.
  Cicala Davide.
  Ciccone Modestino.
  Cicconi Silvio.
  Ciceri Pietro.
  Cini Angelo.
  Ciotti Marziano.
  Circolo Filologico d'Ancona.
  Circolo G. Mazzini, Genova.
  Circolo Pensiero ed Azione, Lecco.
  Circolo Pensiero ed Azione, Parma.
  Circolo Pensiero ed Azione, Torino.
  Circolo Popolare di Pavia.
  Circolo Repubblicano, Borgo S. Donnino.
  Circolo Tiratori Milanesi.
  Cirelli Federico.
  Ciriello Dott. Luigi.
  Citterio Gaetano.
  Clautili Luigi.
  Clavarino Felice.
  Clementi R.
  Clerici Leonardo.
  Clerici Luigi.
  Clerici Avv. V. D.
  Clerico Leopoldo.
  Club _Unione_.
  Cocchi avv. Filippo.
  Cocco Enrico.
  Cocozza-Campanile Carlo.
  Coda Giovanni.
  Coduri Bartolomeo.
  Coen-Cagli Giuseppe.
  Coen Donato.
  Coffi Bartolo.
  Coffi Daniele.
  Cogliati Sac. Carlo.
  Coiz A.
  Colandrelli Sigismondo.
  Coletti Isidoro.
  Coletti Dott. Luigi.
  Coliarchi Alessandro.
  Collano Francesco.
  Collevà Cesare.
  Colii A.
  Colombaioni Vincenzo.
  Colombatti Conte Pietro.
  Colombo Ing. Pasquale.
  Colombo Quintilio.
  Colombini Anacleto.
  Colonello A.
  Colonna Enrico.
  Colpi Dott. G. B.
  Combaldi G.
  Cometti Dott. Giorgio.
  Comi, Dott.
  Comini Emilio.
  Comitato Lega della Pace, Parigi.
            id.             Ginevra.
  Comizzoli.
  Comune di Godesco.
  Comune di Padova.
  Concelli.
  Concimi Dott. Lodovico.
  Condestaule Dott. Gius.
  Condulmari V.
  Confalonieri Luigi.
  Conforti Antonio.
  Conforti V.
  Consigli Giuseppe.
  Consiglio Prov. di Napoli.
  Consolani F.
  Console Franc. Domenico.
  Console Giuseppe.
  Consolo Avv.
  Contessi Vincenzo.
  Conti.
  Conti Carlo.
  Conti G.
  Conti Lino.
  Conti Luigi.
  Conti R.
  Conti Romolo.
  Copiz G.
  Coppadoro Giuseppe.
  Coppi L.
  Coppini Dott. Cesare.
  Corbella Clemente.
  Corbellini Giuseppe.
  Corbetta Stanislao.
  Corbucci Rodolfo.
  Corcos Felice.
  Cordero Cav. Felice.
  Cordero Conte Felice.
  Cordopatri Comm.
  Cornaglia D.
  Cornelio, Avvocato.
  Corrado Enrico.
  Corraducci Luigi.
  Corridi A.
  Corsi Oreste.
  Corsi Ulisse.
  Cortellessi Luigi.
  Cortesi.
  Cortesi Francesco.
  Corti, Avvocato.
  Corti Achille.
  Cortopassi E.
  Coscia Rosario.
  Cosentino, _Deputato_.
  Cosenz, Generale.
  Cossettini G. B.
  Cossettini Giacomo.
  Costa E.
  Costa Gaetano.
  Costa Ing. Giuseppe.
  Costantini, Avvocato.
  Costen Alfredo.
  Costo Prof. Giulio.
  Cosulich G. F.
  Cova Ing. Ettore.
  Cova Giovanni.
  Covioli Gius. Romeo.
  Crelici-Bagozzi.
  Cremonelli Angelo.
  Cresci Alessandro.
  Cresci Conte Ferdinando.
  Crescini Antonio.
  Cricco Giuseppe.
  Crippa, Ingegnere.
  Criscoli Michele.
  Crispolti Mario.
  Cristani Enrico.
  Cristofoli Antonio.
  Cristofoli Rag. Giacomo.
  Crivelli Eugenio.
  Croci G.
  Croci.
  Cucchi _Deputato_ Franc.
  Cubinello Vincenzo.
  Cunico Gerolamo.
  Curbis L.
  Curri Giacomo.
  Curti G. B.
  Cusani Alceste.


D

  D'Abenante Errico.
  Dacomo-Annoni Clodemiro.
  Da Costa Enrico.
  D'Adhemar Conte Ferd.
  Dagasso Domenico.
  Dagma D.
  D'Agostino Urbano.
  D'Agostino Vincenzo.
  D'Agostino Gennaro.
  Dal Bon Felice.
  Dal Fabbro Prof. Iacopo.
  Dal Fabbro Tommaso.
  Dalla Santa Giuseppe.
  Dalla Vecchia Ing. Luigi.
  Dall'Oglio Dottore.
  Dal Re C.
  D'Andrea Francesco.
  D'Andrea Giuseppe.
  Danieli di Spilimbergo.
  Dattilo Giovanni.
  Daverio Francesco.
  Davico Giuseppe.
  Davide Giuseppe.
  Davide Dottor Pietro.
  Da Zara Moise.
  Da Zara Paolo.
  D. B. Guglielmo.
  De Ambrogi.
  De Angeli Angelo.
  De Angelis Pasquale.
  De Angelis.
  De Barrau Emilio.
  Debernardi Cav. G. B.
  De Capite Donato.
  De Caris Donato.
  De Caro Paolo.
  De Caro Pietro.
  De Chiara Pasquale.
  De Fiore Beniamino.
  De Franceschi Cirillo.
  De Gaspari.
  Dei Augusto.
  Del Balzo Carlo.
  Del Balzo Giacinto.
  Del Balzo Girolamo.
  Del Bianco Domenico.
  Del Bigio Eugenio.
  Del Carlo E.
  Del Corana Ferruccio.
  Del Corona Rodolfo.
  Del Giudice G.
  Del Guerra E.
  Del Guerra Avv. Silvestro.
  Dell'Acqua G. B.
  Dell'Acqua Francesco.
  Dell'Acqua Luigi.
  Della Bianca Avv. Girol.
  Dellacasa Emanuele.
  Della Casa Giovanni.
  Della Longa Emilio.
  Della Rocca Francesco.
  Della Rovere G.
  Della Torre Andrea.
  Della Vida A.
  Dell'Eva Prof. Giovanni.
  Delli Gaetano.
  Dell'Isola Carlo.
  Dell'Isola Luigi.
  Dell'Orto Avv. Egidio.
  Del Mercato Gaetano.
  De Lorenzi Cav. G. B.
  De Luca G. B.
  De Luca Raffaele.
  De Luca Comm. N.
  De Lungo, Dottore.
  Del Prato Dott. Romano.
  Delvecchio Angelo.
  Delvecchio Felice.
  Delvecchio Giacomo.
  Delvecchio Michelangelo.
  Delvecchio Avv. Pietro.
  Del Zoppo P. Antonio.
  Demarchi Antonio.
  De Marchi Domenico.
  De Marco Vincenzo.
  De Matto F.
  De Medio Ippolito.
  De Meis Leopoldo.
  De Memme.
  De Mezzan Nob. Conte.
  Demicheli Alessandro.
  De Michelis.
  Denina Giovanni.
  Denotti Carlo.
  De Paoli Angelo.
  De Paoli Osvaldo.
  De Paoli Sante.
  De Pasquali.
  D'Eramo Bernardo.
  De Reali Cav. Antonio.
  Derosa Marietta.
  Derossi Matteo.
  Desanti Cav. A.
  De Santis M.
  De Santis Tito Livio.
  De Silvestri Pietro.
  De Simone Federico.
  De Simone Francesco.
  De Sordi Giacomo.
  Destefani Carlo.
  Destro Santo.
  Detesti Giuseppe.
  De Tommasi Paolo.
  De Tuoni Dott. Vettore.
  De Vecchi Annibale.
  De-Vicariis Raffaele.
  De Virte Baron. Luisa.
  De Virte Baron. Margherita
  De Zorzi Dott. Francesco.
  Dezza Giovanni.
  Didan Luigi.
  Didimi Prof Pietro.
  Di Francia Bernardo.
  Di Mignano, Duca.
  Diotalleri March. Francesco
  Di Stefano P.
  Doccioli Federico.
  Dodoli Corrado.
  Doggett M.
  Dogliotti Pompeo.
  Dolci G. F.
  Domenici Alessandro.
  Domenighelli Avv. Luigi.
  Donadoni Defendente.
  Donati Primo.
  Dondi, di Ferrara.
  Donegani Adolfo.
  Donegano G. B.
  Donini Anselmo.
  Donini Arturo.
  Donini Baldassarre.
  Donzelli.
  D'Orco.
  Doria Angelo.
  Doria Dott. G. B.
  Dorigo Isidoro.
  Dotto de' Dauli Carlo.
  Dragoni Angelo.
  Drocco P.
  Dudovich.
  Dumolard Pompeo.
  Durandi Camillo.
  Dusmè Carlo.
  Dussange.
  Dussot.

E

  E. S.
  Echambig.
  Elia Annita.
  Elia Colonn. A.
  Elia Mameli.
  Elia Maria.
  Elia Dott. S.
  Ellena Giacomo.
  Ellero Enea.
  Elmo Ercole.
  Elsico M.
  Erba Carlo.
  Erba Luigi.
  Ercolani Augusto.
  Ercolani Ezio.
  Ercolini N.
  Erede Andrea.
  Ermacora Dott. Domenico.
  Esposito-Merli Giovanni.
  Etro Andrea.
  Etro Avv. Franc. Carlo.
  Ettori Giuseppe.
  Eusebio Giovanni.
  Euzeby Giulio.


F

  F. G. R. N.
  Fabbri Emilio.
  Fabbro Dott. Augusto.
  Fabietti Pasquale.
  Fabrello Giovanni.
  Fabris Luigi.
  Fabris Placido.
  Facci Carlo.
  Faccini Ottavio.
  Faccioli Ing. Antonio.
  Faccioli Carlo.
  Facinetto Dott. Giovanni.
  Fadigati Francesco.
  Fadigati Mag. Paolo.
  Fadigati Paolo.
  Fadini Nob. Massimo.
  Faelli Dott. Pietro.
  Faiardi A.
  Falconetti G.
  Falconi Enrico.
  Falconi Dott. Giuseppe.
  Faller G. B.
  Fanelli N. F.
  Faninna G.
  Faraglia Fran. Clemente.
  Farina-Bolo.
  Farina Francesco.
  Farinacci Giacomo.
  Farlatti e Figli.
  Faroffini Avv.
  Fasoli Patrizio.
  Fattori E.
  Fattori Giuseppe.
  Fattorini Antonio.
  Faucci Antonio.
  Faustini Bernardino.
  Faustini Pietro.
  Favanella Giovanni.
  Favre I.
  Fazi Etenlogio.
  Fazi Macrobio.
  Fazio Eugenio.
  Fazio Avv. Filiberto.
  Fazio L.
  Fazioli Conte Michele.
  Fede Francesco.
  Federici Alessandro.
  Federighi Dott. Federico.
  Fenili.
  Ferniani Annibale.
  Ferraioli Silvano.
  Ferrannini Giuseppe.
  Ferrari Ing. Aristide.
  Ferrari B.
  Ferrari F. G.
  Ferrari Gaetano.
  Ferrari G. B.
  Ferrari Giuseppe.
  Ferrari Avv. Giuseppe.
  Ferrari Raulo.
  Ferrari Sebastiano
  Ferraris Avv. Angelo.
  Ferrati Avv. Cesare.
  Ferrero Dott. Maurizio.
  Ferrero Gola Avv. Andrea.
  Ferrero-Gola Greca.
  Ferretti Not.
  Ferretti Giuseppe.
  Ferri Dott. Anzillo.
  Ferri Gerolamo.
  Ferri Dott. Pietro.
  Ferrigni Cap. Giuseppe.
  Ferrigni.
  Ferrigni Avv.
  Ferrini Francesco.
  Ferroni Avv. Carlo.
  Ferroni Francesco.
  Ferroni Cap. R.
  Ferrua Cav. G. Edoardo.
  Ferruzzi Giuseppe.
  Ferzaghi Felice.
  Fidora Francesco.
  Fieschi Daniele.
  Figlietti Giacomo.
  Filippi Francesco.
  Filippi Cap. Ildevaldo.
  Filippi-Carrù Ferdinando.
  Filippini Giacobbe.
  Finelli Aniello.
  Finelli Giovanni.
  Fingotti Carlo.
  Finzi Leone.
  Fioravanti Girolamo.
  Fiorentini Enrico.
  Fiorentini P.
  Fiorentino Mariano.
  Fiorentino Vincenzo.
  Fioretti Raffaele.
  Fiorini Dott.
  Fioretti N.
  Fioroni Camillo.
  Fischer Dott. O.
  Flaner Dott. Giulio.
  Flianconi.
  Fobbio R. Luigi.
  Fobbricotrice.
  Fochi Dott. Camillo.
  Fochini Francesco.
  Foy G. B.
  Foldi Dott. Carlo.
  Folli Emilio.
  Fongi.
  Fongoli Alessio.
  Fongoli P.
  Fonsoli Giovanni.
  Fontana A. G.
  Fontana Cavagnoli.
  Fontana Giovanni, Magg.
  Fontana Guido.
  Fontana Leone.
  Fontanini Carlo.
  Fontebasso Andrea.
  Fontebuoni Emilio.
  Fontini Trom.
  Forabosci Giuseppe.
  Forcella Paolo.
  Forcellini Antonio.
  Formaglia G. B.
  Formentini Pietro.
  Formichella Luigi.
  Fornari Vincenzo.
  Forni Avv. Gerolamo.
  Forni Dott.
  Fornini P.
  Forti A.
  Forti Avv.
  Fortini Ettore.
  Fortis A.
  Fortunati Giulio.
  Fortunati Dott.
  Forzani Demetrio.
  Foschi G. B.
  Fossociecchi Antonio.
  Fossati Dott. Claudio.
  Fossati P. Ercole.
  Fracchia Agostino.
  Fradeloni A.
  Franceschi Egisto.
  Francescone Arsace.
  Francesconi Demetrio.
  Franchi Ing. Giuseppe.
  Franchi Luigi.
  Franchini-Tasini Cesare.
  Francica fu Pasquale.
  Francolini Domenico.
  Franz Margento.
  Franzini Ing. Pietro.
  Fratelloni Achille.
  Fratellanza Cittadina Recanati.
  Fratti Antonio.
  Frazzetti Antonio.
  Frigeri Dott. Francesco.
  Frippoli Pasquale.
  Frisiotti E.
  Frizzoni Teodoro.
  Frola A. G.
  Frolli Dott.
  Fronchetti.
  Frontali Costantino.
  Frontali Gualfardo.
  Frontini Anselmo.
  Fronzosi O.
  Frora Giuseppe.
  Froscianti Giovanni.
  Fruginele Francesco.
  Frusini Edoardo.
  Fulcheri G. B.
  Fumesi Ciro.
  Furlan Ing. Gaetano.
  Furlanetto Giuseppe.
  Fusconi Gerolamo.
  Fuselli Filippo.
  Fusi Angelo.


G

  G.
  G. B.
  Gabbanini Benedetto.
  Gabbrielli Silvio.
  Gabellini Cesare.
  Gabici Luca.
  Gaddini Giusto.
  Gaddini Serafino.
  Gaffuri.
  Gagliardi E.
  Gagliardi Enrico.
  Gagliardi Ferruccio.
  Gagliardi Fulco.
  Gajano Gennaro.
  Gajo.
  Galanti E.
  Galassi Anacleto.
  Galassi Domenico.
  Galasso Alfonso.
  Galateo Avv. Antonio.
  Galatoli F.
  Galcozzilo.
  Galeazzi Pasquale.
  Galiazzi Carlo.
  Galimberti Giuseppe.
  Gallarati Rag. Giuseppe.
  Galleani Ing. Vincenzo.
  Galli Dott. Avv. Michelangelo
  Galli.
  Gallizier M.
  Gallo Antonio.
  Gallo M.re.
  Gallo Luigi.
  Galloni Pietro.
  Gallossi Antonio.
  Gallossi Ing. Felice.
  Gallossi Francesco.
  Galosi Stefano.
  Galvani Valentino.
  Gamba Ernesto.
  Gamba Gaetano.
  Gambetti Prof. Pietro.
  Gambini Ing. Davide.
  Gandolfi Pietro.
  Gandossi Luigi.
  Garavani Oddone.
  Garavani Stattilio.
  Garavelli Carlo.
  Garberoglio Cav. Gius.
  Garbinati Dott. Guido.
  Garda.
  Garda Pietro Canella.
  Gardi Avv. Ugo.
  Gardini Achille.
  Gardomini Carlo.
  Gardosi Felice.
  Garne Enrico.
  Garrafa Paolo.
  Garroni.
  Garzolini Pietro.
  Garzon G.
  Garzone F.
  Gasparetti A.
  Gasparini.
  Gasparini Dott. Giovanni.
  Gastaldetti.
  Gastaldi Cesare.
  Gastaldo Pietro.
  Gatelli G.
  Gatti A.
  Gatti Angelo.
  Gatti Carlo.
  Gatto Gerolamo.
  Gatto Raffaele.
  Gattorna D. F.
  Gaudelli G.
  Gaudenti F.
  Gaudenzi Gualfardo.
  Gaudenzi Silvio.
  Gavazzi Antonio.
  Gavazzi Italo.
  Gavazzo S. R.
  Gazzaniga Avv. Federico.
  _Gazzettino Rosa_.
  Gelmini Rag. Luigi.
  Gemerra Giuseppe.
  Genasini Not. Emiliano.
  Genasio Agostino.
  Generosi, Dottore.
  Gennaro Prof. Vitaliano.
  Gentili Angelo.
  Gentili Fabio.
  Gentili Gaetano.
  Gentili Vincenzo.
  Gerardi Pietro.
  Gerelli Cesare.
  Germani Dott. Antonio.
  Germani Luigi.
  Germanetti, _Deputato_.
  Gerola Dott. Renato.
  Geromini Giuseppe.
  Gerosa E.
  Gervasoni Gervasio.
  Gessaroli G.
  Ghedini Cesare.
  Gherardi D.
  Ghetti Nicola.
  Ghezzi L.
  Ghisalberti Battista.
  Ghiscard Ettore.
  Ghisla.
  Ghisleni, Fratelli.
  Ghislotti Dott. Giovanni.
  Ghislotti Avv. Giuseppe.
  Giacchino Paolo.
  Giacomelli Nob. G. B.
  Giacometti Dott. Vincenzo.
  Giacometti Cav. Paolo.
  Giannuzzi Giulio.
  Gianoli.
  Gian Pietro Emilio.
  Gigli C.
  Gigli Eugenio.
  Gigli F.
  Gigliari G.
  Gimenez Emidio.
  Ginami Cristoforo.
  Ginani Luigi.
  Giona Luigi.
  Giordani Giacomo.
  Giordano Francesco.
  Giorgetti Pietro.
  Giornale _Il Presente_.
  Giorn. _Il Torrazzo_. Cremona.
  Giovagnoli G.
  Giovagnoli Odoardo.
  Giracca Carlo.
  Girano Carlo.
  Giuglini Giovanni.
  Giuliani Adolfo.
  Giuliani Ferdinando.
  Giuliani Francesco.
  Giuliani Giovanni.
  Giulietti Ciro
  Giulino Avv. F.
  Giungi Venanzio.
  Giunta Matteo.
  Giuriati Avv. Domenico.
  Giusta Giuseppe.
  Giustiniani Goffredo.
  Givone G.
  Gll Giulio.
  Gnochelli E.
  Gobbi Belcredi Domenico.
  Godaniza.
  Goegg Enrico.
  Goida Guido Serafino.
  Gola.
  Golli Amilcare.
  Golli Rosa.
  Gondola Giosuè.
  Gonzalez, Dottore.
  Gori Leopoldo.
  Gori Lodovico.
  Gorini, Professore.
  Gorio Avv. Carlo, Dep.
  Gostel Ing. Paolo.
  Gottardi Antonio.
  Gottardi Luigi.
  Governatori Q.
  Gradara Roggero.
  Gradi Olinto.
  Grana Avv. Andrea.
  Grancini E.
  Grandesso-Silvestri Dott. Olinto.
  Grani A.
  Grappa.
  Grasseli Dott. Vincenzo.
  Grassini Vincenzo.
  Graziani.
  Graziosi A.
  Gregorelli Gregorio.
  Gregorini Gio. Andrea.
  Grientini G. B.
  Griffoni Pacifico.
  Grigiolli Avv. A.
  Grigiolli Luigia.
  Grigiolli Brunetta.
  Grigiotti, Architetto.
  Grigiotti Avv. A.
  Grigiotti Dott. Marcello.
  Grigiotti Giuseppe.
  Griletti Emilio.
  Griletti Francesco.
  Griletti Francesco, Tenente.
  Grimaldi Michele.
  Grisero.
  Gritti Cav. Dott. Franc.
  Gritti Giovanni.
  Gritti Vincenzo.
  Grossi Alessandro.
  Grotto Ferdinando.
  Guacimanni Luigi.
  Gualandra Carlo.
  Gualdo Aicardo.
  Gualla Francesco.
  Gualtieri Luigi.
  Guandilui Antonio.
  Guangiroli Candito.
  Guaragni Giovanni.
  Guardabassi Cesare.
  Guardabassi Prof. Luigi.
  Guarneri Riccardo.
  Guarneri Zanetti Vittorio.
  Guarnieri Antonio.
  Guarnieri Dott. L.
  Guastalla M.
  Guastalla.
  Guenin Giacinto.
  Guerneri Archimede.
  Guerneri Bartolo.
  Guerneri Eugenio.
  Guerneri Lodovico.
  Guerneri Cav. Morani.
  Guernon Francesco.
  Guerrazzi Amelia.
  Guerrazzi F. D.
  Guerrazzi F. M.
  Guerrazzi Nicola.
  Guerrini Alessandro.
  Guerrini Olinto.
  Guestisecchi Nicola.
  Guffoni Fabio.
  Guida Vincislao.
  Guidi Evaristo.
  Guidi S. Campoverde.
  Guidicelli L.
  Guidolini Albino.
  Guiducci Luigi.
  Guillon, Nobile.
  Guillot Ing. Giovanni.
  Guintoli A.
  Guyon Luigi.
  Gusmeri V.
  Gusti.
  Guzzi B.


H

  Haab L.
  Haiman Ing. Guglielmo.
  Heller G.
  Hemmy Giovanni.
  Herren.
  Hirns.
  Horeda Edoardo.
  Hronisi N.


I

  Iacobelli Filippo.
  Iair Carlo.
  Iamos Baldes.
  Igi Giuseppe.
  Imbriani Matteo Renato.
  Incontro A.
  Ingegnatti Avv. Edoardo.
  Iporgaro G.
  Ippolito Domenico.
  Isnenghi Enrico.


J

  Jacob Pietro.
  Jacomini.
  Jacoviello Nicolangelo.
  Jeffery Joha Frederich.
  Jessy Mario.


K

  Kane.
  Kieffer Ottavio.
  Kutufà Luigi.
  Kutufà Nicola.


L

  Lacerenza Dott. A. R.
  Ladedas S.
  Laeffer C.
  La Francesca Francesco.
  Lai.
  Lamberti, Capitano.
  Lamberti M.
  Lambertini Giulio.
  Lami Alfredo.
  Lammi Pietro.
  Lamotte L.
  Lana Conte Gherardo.
  Lanari Natale.
  Landadio Raffaele.
  Landini Giuseppe.
  Landolfi Luigi.
  Lanzavecchia.
  Lanzilli Aug. Ant.
  Laocher Avv. Simone.
  Larioli Pompeo.
  Lasati Cristino.
  Lattuada Carlo.
  Lauro Dott. Gerolamo.
  Lavalle Pasquale.
  Lavezzi Celeste.
  Lavilli Ing. Gottofredo.
  Lazzari Dott. Luigi.
  Lazzari Stefano.
  Lazzarich Gustavo.
  Leci G.
  Lecci Egidio.
  Lega Bolognese per Istruz.
  Leggeri M.
  Legray Giuseppe.
  Legrenzi Antonio.
  Legrenzi D. Gio. Aurelio.
  Le Monnyer Carlo.
  Lencioni Adolfo.
  Lender Emilio.
  Lenner Dott. Iacopo.
  Lenovik Matteo.
  Lentati.
  Lentavolle Giuseppe.
  Lenti Giovanni
  Leone Vincenzo.
  Leoni Dott. Clodovaldo.
  Leoni Conte Carlo.
  Leoni Giacomo.
  Le Piane Mario.
  Le Piane Nicola.
  Lepere Raffaele.
  Lepri Antonio.
  Lerdes Emilio.
  Lesti Prof T.
  Letourm.
  Lettimi Conte Claudio.
  Leured Avv. C.
  Levi Dott. Alfonso.
  Levi Dott. Donato.
  Levi Cav. Giacomo.
  Levi Girolamo.
  Levetti Ing. Cesare.
  Liberti U.
  Lieta Scipione.
  Limena Basilio.
  Lion-Toi Angelo.
  Liotti.
  Lippi A.
  Locatelli Carlo.
  Locatelli Giuseppe.
  Locatelli Mariannina.
  Locatelli P.
  Lodi Cav. Emanuele.
  Lodigiani Luigi.
  Lodini, Fratelli.
  Loggia Massonica Garibaldi, Ancona.
  Loggia Pietro Micca, Ausonia.
  Loggia Valle del Chiento.
  Lohneur Maddalena.
  Lollio Carlo.
  Lombardi Notaio Antonio.
  Lomi Giovanni.
  Longarini Vincenzo.
  Longhi, Ingegnere.
  Longo Vincenzo.
  Longscedol Avv. G.
  Lops Giuseppe.
  Lorenzini Ercole.
  Loria Angelo.
  Loria Giuseppe.
  Loria N.
  Lory e Bollina.
  Lovati Serafino.
  Lubrano Giovanni.
  Lucarelli Francesco.
  Lucatelli Alfonso.
  Lucchesi Antonio.
  Lucchesi Giovanni.
  Lucchini Avv. Giovanni.
  Lucchini Battista.
  Luciani Giuseppe.
  Lucifero Barone Franc.
  Lugaresi A.
  Lumina Dott. Pietro.
  Lupinocci Eugenio.
  Lurà Agostino.
  Lurà Carlo.
  Luria.
  Luti G.
  Luzzago Giovanni.
  Luzzatelli Vittorio.
  Luzzati C.
  Luzzati Cristina.
  Luzzati Maria.
  Luzzato Prof. Iacopo.
  Luzzi Desiderio.
  Luzzi Vincenzo.


M

  M. Elisa.
  M., Dottore.
  M. F.
  M. L.
  Maberini Giuseppe.
  Maccaferri A.
  Maccaferri Antonio.
  Machnitz Gaetano.
  Maestrone.
  Magetti B.
  Maggi.
  Maggi G.
  Maggiolo Agostino.
  Maghenini Francesco.
  Maghini.
  Magini, Fratelli.
  Magnaguti E.
  Magnani Sante.
  Magni A.
  Magnino Carlo.
  Magnoni Ing. Francesco.
  Magnoni Michele.
  Magrini Giovanni.
  Mai G.
  Mainardi Achille.
  Mainardis Domenico.
  Maironi Cesare.
  Maironi Eugenio.
  Majocchi Achille.
  Majocchi Angelo.
  Majoli Augusto.
  Majroni Dott. Emanuele.
  Malacari Conte Alessandro.
  Malacrida Marco.
  Malle M.
  Malaman Ing. Giovanni.
  Maldarelli Ettore.
  Malgarini Lorenzo.
  Malmignati G.
  Mambredi Libera.
  Mancinelli Augusto.
  Mancinelli E.
  Mancinelli Francesco.
  Manciforte-Sperelli Gius.
  Mancini Enrico.
  Mancini Gaetano.
  Mancini Innocenzo.
  Mancini Mamo.
  Mandruzzato, _Deputato_.
  Manera Sebastiano.
  Manes Domenico.
  Manescalchi Gaetano.
  Maneschi Dott. Gioacchino.
  Manetti Lorenzo.
  Manetti Ranieri.
  Manferdini Cesare.
  Manfredi Aurelio.
  Manganotti, Avvocato.
  Mangiaretti C.
  Mango Carlo.
  Manhani.
  Manifattura Tabacchi di Bologna.
  Manni M.
  Manobruni Ing. Oreste.
  Mani Adriano.
  Manodise Giuseppe.
  Manprini F.
  Mantega G.
  Mantovani Dott. A.
  Mantovani Biagio.
  Mantovani Avv. C.
  Mantovani Ernesto.
  Mantovani G.
  Mantovani Ing. Giuseppe.
  Manzaroli Domenico.
  Manzini F.
  Manzoli Celestino.
  Manzoni.
  Manzoni Giuseppina.
  Mapensi.
  Maramoldo.
  Marangone Celeste.
  Marangoni Antonio.
  Marangoni Sebastiano.
  Marani A.
  Marasini Dott. Flaminio.
  Maraspin G.
  Marazzani Giacomo.
  Marchesi Andrea.
  Marchesi R.
  Marchesotti Agostino.
  Marchetti Bartolomeo.
  Marchetti Dott. Domenico.
  Marchetti L.
  Marchi Alberto.
  Marchi Avv. Alessandro.
  Marchi Avv. Alfonso.
  Marchi Antonio.
  Marchi Ferdinando.
  Marchi G.
  Marchi Lorenzo.
  Marchi Vincenzo.
  Marchiore Domenico.
  Marchisio Pietro.
  Marcora, Avvocato.
  Marelli Ing. Abele.
  Mareschino B.
  Margarini Clarenzo.
  Margarucci A.
  Marganti Dott. Alfonso.
  Margelenis Ferdinando.
  Margherini E.
  Margorillo Ernesto.
  Mari Arnaldo.
  Mari Dott. Giacinto.
  Mari G. B.
  Mari Ottavio.
  Marian G. B.
  Mariani, Fratelli.
  Mariani Giuseppe.
  Mariani Pietro.
  Marianti Claudio.
  Marin Avv. Alessandro.
  Marinelli A.
  Marinelli Avv. C.
  Marinelli Carlo.
  Marinelli Cesare.
  Marinelli Francesco.
  Marinelli Giuseppe.
  Marinelli Marino.
  Marini Ada.
  Marini G. B.
  Marini Prof. Sabato.
  Mario Alberto.
  Mario Ugolino.
  Mariotto Dott. Antonio.
  Mariozzi Luigi.
  Marlini Dott. Augusto.
  Maroni Dott. Carlo.
  Maroni Prof. M.
  Marotti Augusto.
  Marotti Dott. Antonio.
  Marpurgo G.
  Marrucci Sabatino.
  Marsh. George P.
  Marsoni Silvio.
  Martelli dott. Giacomo.
  Martellini.
  Martello Antonio.
  Martignon, Ingegnere.
  Martignone Gerolamo.
  Martignoni Vincenzo.
  Martinazzi D. B.
  Martinelli Luigi.
  Martini Antonio.
  Martini Emilio.
  Martini Giuseppe.
  Martinini Innocenzo.
  Martino V.
  Marzolini G.
  Mascheroni G.
  Mascheroni.
  Mascheroni Giovanni.
  Masi Avv. C. Alberto.
  Masi, Avvocato.
  Masnari Dott. Luigi.
  Massai C.
  Massei Pietro.
  Massini Ing. Luigi.
  Mastalli Alfredo.
  Mastellori Giuseppe.
  Mastica Dott. Luigi.
  Materasso C.
  Mattei Avv.
  Mattei Dott. A.
  Mattei Avv.
  Mattino Ambrogio.
  Mattioli Torello.
  Mattler Cristiano.
  Maturi Gioacchino.
  Maturi Marco.
  Mauretta E.
  Mauri Domenico.
  Mauro Raffaello.
  Mauroli G.
  Mauro-Macchi, _Deputato_.
  Mauroner Leopoldo.
  Mayer A.
  Mayerà Carlo.
  Mayerà Silvio.
  Mazzadi Avv. Giovanni.
  Mazzadi Avv. Giovanni.
  Mazzarolli G. B.
  Mazzei Gabriele.
  Mazzei Pietro.
  Mazzei Pasquale.
  Mazzinghi Federico.
  Mazziotti G.
  Mazzola Giuseppe.
  Mazzoldi Andrea.
  Mazzoleni Avv. A., _Dep._
  Mazzoleni Paolo.
  Mazzolenis.
  Mazzoli Antonio.
  Mazzoli.
  Mazzolini A.
  Mazzolini Giuseppe.
  Mazzoni M.
  Mazzoni F.
  Mazzucchelli Augusto.
  Mazzucchelli Avv. Luigi.
  Mazzucchelli Luigi.
  Mazzucco Domenico.
  Mazzulini Ing. Giuseppe.
  Medaglia Avv. Luigi.
  Meden Antonio.
  Medini Alessandro.
  Medori Angelo.
  Mei G.
  Melandri P.
  Meldini Cassio.
  Melino Prof. G. B.
  Mendozza Raffaele.
  Menegante Andrea.
  Menegazzi Dott. Giovanni.
  Meneghetti Lauro.
  Meneghini Pietro.
  Menegozzi Giovanni.
  Meneghini Fratelli.
  Mengoni Luigi.
  Mengoni Orlando.
  Mengoni V.
  Mengozzi Leopoldo.
  Mengozzi Dott. Pietro.
  Mennyey Francesco.
  Mentagna, Avv.
  Merenzi Giulio.
  Merizzi Giacomo, _Dep._
  Merluzzi Augusto.
  Messini Paolo.
  Mestre.
  Mettelisa Luigi.
  Mezzadrelli Gaetano.
  Mezzera Pietro.
  Micciarelli.
  Miceli Enrico, _Deputato_.
  Michelagni.
  Micheletti Vincenzo.
  Micheli A.
  Micheli Giovanni.
  Michelini Avv. Policarpo.
  Michelli Avv. A.
  Micheluzzi.
  Michieli Silvestro.
  Miglias Giulio.
  Miglio Ing. Giulio.
  Migliorini Vincenzo.
  Mignacco M.
  Milanesi Carlo.
  Milani A.
  Milani Salvatore.
  Milesi Gerolamo.
  Miletti Nicolò.
  Miller Guglielmo.
  Mina Dott. Alessandro.
  Mina Giuseppe.
  Minesso Dott. Leopoldo.
  Mingozzini.
  Miniggio E.
  Minoli Ottavio.
  Minoprio Dott.
  Minoti Natale.
  Mioli E.
  Mirabelli Gennaro.
  Mirandoli Milziade.
  Mirenghi Rocco.
  Missori, Colonnello.
  Mistrorigo Dott. Franc.
  Mò Francesco.
  Modanesi Francesco.
  Molfino Domenico.
  Molin Filippo.
  Molineri Prof.
  Mollena Giuseppe.
  Mollo Saverio.
  Molo Defendente.
  Molinari Francesco.
  Molinari Avv.
  Moltini A.
  Monari Leopoldo.
  Mondini Antonio.
  Moneta, Dirett. del _Secolo_
  Monetto.
  Mongiardini A.
  Mongini Avv. Luigi, _Dep._
  Montalti Luciano.
  Montani Prof. Ulisse.
  Montani A.
  Montanari.
  Montanari Conte Gherardo.
  Montanari Luigi.
  Montautti A.
  Montautti Augusto.
  Montautti Enrico.
  Montautti F.
  Montautti Rigoberto.
  Montebelli A.
  Montebelli Enrico.
  Montella Giuseppe.
  Montereale Conte Giac.
  Montesanti F.
  Monti Avv.
  Monti A.
  Monti Avv. Enrico.
  Monti Luigi.
  Monti Cav. Luigi.
  Monti L.
  Monti Lodovico.
  Monticelli Alessandro.
  Montini.
  Montini Rinaldo.
  Montini Vincenzo.
  Mora Avv. Cesare Lodov.
  Mora Avv. Lodovico.
  Morandi Carlo.
  Morandi Enrico.
  Morandi Ferdinando.
  Morandi Giuseppe.
  Mordini Prefetto di Napoli.
  Morelli Antonio.
  Morelli Gerolamo.
  Morelli Giacomo.
  Moreschi Dott. Luigi.
  Moresco Luigi.
  Moretti.
  Moretti Anselmo.
  Moretti A.
  Moretti-Adinardi Cav. A.
  Moretti G.
  Moretti Giuseppe.
  Moretti Secondo.
  Moretti Tranquillo.
  Morfori Giuseppe.
  Morgante Dott. Alfonso.
  Mori Francesco.
  Mori Giuseppe.
  Moricane V.
  Morini Dott. G. Antonio.
  Morini Giustino.
  Morlotti Beniamino.
  Morolett Carlo.
  Moroni-Pessenti Aless.
  Moronzoni.
  Morosini Luigi.
  Morpurgo Enrichetta.
  Morri Andrea.
  Morri Ferdinando.
  Mortari Andrea.
  Morteo Serafino.
  Morzari Luigi.
  Mosetig Pietro.
  Mosina N.
  Mosto Andrea.
  Mottironi A.
  Mottironi E
  Mucelli Dott. Michele.
  Mulazzani Raffaele.
  Müller Franz.
  Municipio di Ancona.
  Municipio di Camerano.
  Municipio dì Mirandola.
  Municipio di Pieve.
  Municipio di S. Maria di Capua.
  Municipio di Sirolo.
  Muoni Prof. Damiano.
  Musetti Luigi.
  Musolino B., _Deputato_.
  Mussi Giuseppe, _Deputato_.
  Mustico Giuseppe.
  Mustone Avv. Ettore.
  Mutti Avv. Giammaria.
  Muzzati Luigi.
  Muzi Enrico.


N

  N. N.
  N. N.
  N. N.
  N. N.
  N. N.
  Nacanni Salvatore.
  Nalesso Giuseppe.
  Nannicini E.
  Nardone Giacomo.
  Narratone Cesare.
  Natale Alessandro.
  Natale F.
  Natalucci D.
  Navi Dott. G. B.
  Navotti.
  Negretti Gaetano.
  Negri A.
  Negri G. G.
  Negrin Caregaro Cav. Ant.
  Negrini Andrea.
  Negroni Giuseppe.
  Negroni Leopoldo.
  Neri A.
  Neri Giovanni.
  Nicoletti Dott. Pietro.
  Nicolini G.
  Nicolini Avv. G. B.
  Nicotera C.
  Nicotera G.
  Nicotera P.
  Niego Adele Maria.
  Nigio Girolamo.
  Ninalderaj Ignazio.
  Nipoti Avv. Giuseppe.
  Nizzari Antonio.
  Nobili Luigi.
  Nocca G.
  Noci Adamo.
  Nodari Bernardo.
  Nodari Dott. Giuseppe.
  Noldrini Luigi.
  Noles.
  Nonsaz Giuseppe.
  Novali Enrico.
  Novara Luigi.
  Novelli Carlo.
  Novelli Goffredo.
  Novelli Nicola.
  Novi Rosa.
  Novi Lena, Avv.
  Nucci.
  Nullo Giovanni.
  Nunziante Carlo.
  Nunziante E.
  Nunziante F.
  Nunziante M.
  Nuprinlari Dott. Giov.
  Nuvolari Dott. Giovanni.
  Nuvalori Rinaldo.


O

  Obicini Ing. Francesco.
  Occari Amos.
  Occari Ferruccio.
  Offer Avv. Biagio.
  Oggioni Carlo.
  Oliani Alberto.
  Olicini G. B.
  Oliva del Turco D. Mauro.
  Oliveri Giovanni.
  Oliverio F.
  Olivo Gustavo.
  Ondei Avv. Gousildo.
  Onghero.
  Oniga-Farra Giulio.
  Oppizzi Prof. A.
  Oppizio Ugo.
  Orelli Luigi.
  Orgneri Michele.
  Orioli Biagio.
  Orlandi.
  Orlandi Dante.
  Orlandi, Fratelli.
  Orlandi G. B.
  Orlandi G. Maria.
  Orlandi Avv. Luigi.
  Orsi G.
  Orsini.
  Orsoni Dott. Luigi.
  Orsoni Federico.
  Orsoni Francesco.
  Orsoni Ing. Luigi.
  Ortali Luigi.
  Ottavi Calvinio.
  Ottaviani Francesco.
  Ottolenghi R.
  Oviglio Galeazzo Franc.
  Ozasena.


P

  Pacci Vincenzo.
  Pacciotti Arcangelo.
  Pacetti Luigi.
  Paci Alessandro.
  Paci Fausto.
  Paci Pietro.
  Paci V.
  Pacinotti Vincenzo.
  Padeschi.
  Padiglione Cav. Carlo.
  Padoan Dott. A.
  Padovani E.
  Padretti.
  Paduan P.
  Pagani Giovanni.
  Pagano Prof. Gentile.
  Pagano.
  Pages Arch. Antonio.
  Paggi Achille.
  Pagini Francesco.
  Pagini Avv. G. B.
  Pagliari Innocente.
  Pagliari Luigi.
  Pagliarini Illaro.
  Pagliarani Lorenzo.
  Pagliucchi Oreste.
  Pagnini P.
  Pagnoni Cesare.
  Pagnotta Ernesto.
  Pajello Nob. Pajello.
  Paladini Carlo.
  Palassi.
  Palazzini M. Giov.
  Palermi Ernesto.
  Palermo Luigi.
  Palestini Avv. Luigi.
  Pallavicini Annita.
  Pallavicini Giorgio.
  Pallesi Ulisse.
  Palli Michele.
  Palloni L.
  Palombo Lorenzo.
  Panaa Eugenio.
  Panassa.
  Pancrazi Emilio.
  Panfrichi Oreste.
  Panigardi Ing. Alfonso.
  Panizza.
  Panizza G.
  Panizza Dott. Giacomo.
  Panizza N.
  Panozzi Aldo.
  Panseri Giuseppe.
  Pantaleo Giovanni.
  Pantanetti F.
  Pantucci Gabriele.
  Panzini F.
  Paoli Tommaso.
  Paolillo Cesare.
  Paolinelli Luigi.
  Paolini Ugo.
  Paparotto Angelo.
  Papanti Giovanni.
  Papetti Achille.
  Papini G.
  Pappanico G.
  Parabbi Ferdinando.
  Paradisi Augusto.
  Paradisi Carlo.
  Paravia G. B.
  Paravicini P.
  Pardini G.
  Pardocchi, Dottore.
  Pardossi A.
  Pareto Giuseppe.
  Pari Salvatore.
  Pariccio.
  Parigi Aristide.
  Parigi Giulio.
  Parigi Giuseppe.
  Parini A.
  Parini Prof. Cesare.
  Parini Ing. Oreste.
  Parisani G.
  Parisini Filippo.
  Parmesan Luigi.
  Parpani Giacobbe.
  Partefello A.
  Pascoli G.
  Pascucci F.
  Pash Lulry Antonio.
  Pasquale Enrico.
  Pasquali Avv. Ernesto.
  Pasquali Felice.
  Pasquali Ubaldo.
  Passarelli Antonio.
  Passarelli Raffaele.
  Passaro Angelo Raffaele.
  Passerini Ing. Giuseppe.
  Pastacaldi Cesare.
  Pastacaldi Pietro.
  Pastori Carlo.
  Pastori Edoardo.
  Pate Carlo.
  Patella Prof. Filippo.
  Patrignani G.
  Pavan Cirillo.
  Pavan Francesco.
  Pavanelli A.
  Pavesi Giuseppe.
  Pavesi Ing. Urbano.
  Pazzini.
  Pearson.
  Pecci Francesco.
  Pecchio-Ghiringhelli Erc.
  Pecchioli Virginio.
  Pecorara Dott. Camillo.
  Pedani Dante.
  Pedercini G. B.
  Pederzolli Livio.
  Pedriali Raffaele.
  Pedrocchi.
  Pedroni Carlo.
  Pedroni Pietro.
  Pegoraro Francesco.
  Pellegrini Alessandro.
  Pellegrini Angelo.
  Pellegrini Canzio.
  Pellegrini Dott. Enrico.
  Pellegrini Fortunato.
  Pellegrini Gaetano.
  Pellegrini Ing. Gaetano.
  Pellegrini Pino.
  Pellerano Alcibiade.
  Pellini Ferdinando.
  Pelloli, Avvocato.
  Penarotti Ippolito.
  Penci Antonio.
  Penco Ersilio.
  Penco G.
  Pendola Giuseppe.
  Peneo D.
  Penoni Dott. Achille.
  Penty Vittorio.
  Penzo Emilio.
  Penzo-Olivo.
  Pepe Cesare.
  Pepe Domenico.
  Pepi Salvatore.
  Pepina Enrico.
  Peratoner Mariano.
  Perazzini Giovanni.
  Perella A.
  Perelli P.
  Perelli-Parodi Luigi.
  Pergolesi Corrado.
  Pericoli Adolfo.
  Perini A.
  Perlasia Angelo.
  Peroglio Prof. Celestino.
  Perona Dott. Achille.
  Perona Ing. Giuseppe.
  Peroni Ing. Giuseppe.
  Perozzo Leopoldo.
  Perozzo Massimiliano.
  Perrelli Luigi.
  Perrone A.
  Perselli Luigi.
  Persico Faustino.
  Persico Giacomo.
  Perti Avv. Antonio.
  Pertici Giuseppe.
  Perussia Leon Augusto.
  Peruzzi Luigi.
  Pescatori Erminio.
  Pesce Francesco.
  Pesci Giovanni.
  Pesci S.
  Pescucci Secondiano.
  Pessina Eugenio.
  Pessina Dott. Luigi.
  Pestalozza Beniamino.
  Petazzi Pietro.
  Petitibon Giovanni.
  Petitto Giuseppe.
  Petracco Andrea.
  Petrali Dott. Giuseppe.
  Petrassi Luciano.
  Petri P. E.
  Petrini Domenico.
  Petrini G.
  Petrovich.
  Peverelli Ing. Guglielmo.
  Pezzana-Gualtieri.
  Pezzini Carlo.
  Pezzoli Gaetano.
  Piazza Antonio.
  Piazza Dott. Federico.
  Piazza Ferdinando.
  Piazza Giuseppe.
  Piazza Avv. Leopoldo.
  Piazzoli Avv. Giacomo.
  Piccaluga Giacomo.
  Picciafoco C.
  Piccini Valentino.
  Piccinini Daniele.
  Piccio Vincenzo.
  Piccioli G. B.
  Piccioli Giuseppe.
  Piccioli Pietro.
  Piccioli, Prof.
  Piccioni Ottavio.
  Piccoli.
  Piccoli Comm. F.
  Piccoli Domenico.
  Piccolomini G.
  Picconi Giuseppe.
  Pichi.
  Pichi Conte Angelo.
  Pichler C.
  Picinini Giuseppe.
  Pierantoni, Dottore.
  Pieruzzini E.
  Pieruzzini P.
  Pietra Ing. Pio.
  Pietrasanta Luigi.
  Pignatelli F.
  Pignatelli L.
  Pignocchi P.
  Pignone Avv. Luigi.
  Pigoli Dott. Bortolo.
  Pigoli Giovanni.
  Pigoli Giuseppe.
  Pigozzi Giovanni.
  Pilati Ing. Pietro.
  Pillis Marietta.
  Piloto Angelo.
  Pinardi Dott. Ippolito.
  Pinazza.
  Pinto C.
  Piomarta Luigi.
  Piperno Daniele.
  Pisani Ing. Carlo.
  Pisani Saverio.
  Piscina Eugenio.
  Piscitelli Vincenzo.
  Pistilli G.
  Pistoi Giovanni.
  Pitti.
  Pizzani C.
  Pizzo Luciano.
  Pizzocolo Guerino.
  Pizzoni Tito-Livio.
  Pizzotti Averardo.
  Plana Giovanni.
  Plebani Luigi.
  Plevani Silvio.
  Plutino Agostino, _Deputato_.
  Podestà, sindaco di Genova, _Deputato_.
  Podon L.
  Podrecca Dott. Leonida.
  Podrecca Vittorio.
  Poggi Pasquale.
  Poggiana Avv. G.
  Poggiana Ing. Dario.
  Polaschi Bortolo.
  Polese R.
  Poletti Pio.
  Pollarolo R.
  Pollerolo G. B.
  Polvere Nicolò.
  Polverelli Roberto.
  Polverigiani.
  Polzi Eugenio.
  Polzi Giovanni.
  Ponch G.
  Pontani Filippo.
  Ponte Dott. Nicomede.
  Pontini Rocco.
  Ponviani Attilio.
  Ponzi Ing. Gerolamo.
  Ponzini Ildebrando.
  Porcelli Dott. Alessandro.
  Pordo Giacomo.
  Porro Ing. Giuseppe.
  Porta G.
  Portaleone Felice.
  Portinari Leopoldo.
  Portioli Avv. Antonio.
  Posi P. Carlo.
  Posteraro Costantino.
  Potente Gaetano.
  Pozzi Ing. Cesare.
  Pozzi Gaetano.
  Pozzi Avv. Ernesto.
  Pozzi Egidio.
  Pozzo Ing. Giacomo.
  Pozzoli Rinaldi.
  Prandina Vespasiano.
  Prandini Dott. G. B.
  Pratalungo Gio. Battista.
  Pratilli Not. Lorenzo.
  Prato, Cavaliere.
  Precis Giovanni.
  Preda Giuseppe.
  Presepi Luigi.
  Prex F.
  Prohano Francesco.
  Prini Alessandro.
  Procaccini Vincenzo.
  Proccacini Giovanni.
  Proda Demetrio.
  Prodella G.
  Profeti Emilio.
  Propizzi G. B.
  Prosperi Luigi.
  Provincia Ancona.
  Provinciali Ing. Amedeo.
  Provini P.
  Prukmayer Francesco.
  Pucci Fortunato.
  Pucci L.
  Puri Oreste.
  Puricelli Tommaso.
  Puricelli Andrea.
  Pusinich Giuseppe.


Q

  Quadrio Ercole.
  Quadrio Avv. Giuseppe.
  Quinto Stanislao.
  Quarleri Ing. A.
  Quartaroli Livio.
  Quistini Avv. Giovanni.
  Quaglierini Carlo.
  Quinet Edgard.
  Quarenghi Antonio.
  Quadrone Giuseppe.


R

  R. A.
  R. O.
  Raccogli Andrea.
  Radaelli G.
  Raffaeli Luigi.
  Raffetti Alessandro.
  Ragazzoni Innocente.
  Ragazzoni Dott. Leone.
  Ragoni Geremia.
  Raina Luigi.
  Rainis Dott. Nicolò.
  Raj Dott. Felice.
  Rambosio Elisa.
  Ramossi Avv. Carlo.
  Rampoldi Dott. Giuseppe.
  Rampone Salvatore.
  Rapazzini.
  Rascavich E.
  Rasiello Francesco.
  Rasiello Paolo.
  Rasponi Gioacchino, Prefetto di Palermo.
  Rassini Giovanni.
  Rasuri Ing. A.
  Ratto A.
  Raucci Domenico.
  Ravajoli Achille.
  Ravegnani Antonio.
  Raymondi Dott. C. Luigi.
  Reati Alessandro.
  Rebora E.
  Rebuselini, Ing.
  Recchi Dario.
  Redini Giuseppe.
  Reggiani Francesco.
  Regoldi Pilade.
  Reguardi Innocenzo.
  Remoli Augusto.
  Renolli Dott. Angelo.
  Renzi Ercole.
  Renzi Facondo.
  Renzi Luigi.
  Repossi Giovanni.
  Resi C. F.
  Resti A.
  Resti S.
  Riberi Avv. Spirito.
  Ribezzi F.
  Riboli Placido.
  Riboli Dott. Timoteo.
  Ribuppi E.
  Ricci Giovanni.
  Ricci March. Giacomo.
  Ricci March. Paolo.
  Ricciardi Conte G.
  Riccioni Nicola.
  Ricotti.
  Ridaelli Rodolfo.
  Riello Angelo.
  Rigamonti Prof. Ascanio.
  Righetti Carlo.
  Righetti Dott. Giovanni.
  Righetto Dott. Raffaele.
  Righi Antonio.
  Rigoli Dott. Lorenzo.
  Riminesi R.
  Rinaldini, Dott.
  Rinaldi Cav. Oliviero.
  Rinci A.
  Ripari Dott. Pietro.
  Ritter Luigi.
  Riva Luigi.
  Riva.
  Rivaldi.
  Rivelli G. P.
  Rivelli G.
  Rivera Alberto.
  Rizza Antonio.
  Rizzani Francesco.
  Rizzardini Galata Franc.
  Rizzi Gerolamo.
  Rizzini Carlo.
  Rizzo Antonio.
  Rizzotti Attilio.
  Robecchi Savino.
  Robecchi.
  Robecchi ing. Enrico.
  Roberti Conte
  Robiati Ambrogio.
  Rocca Avv. Francesco.
  Roccatagliata Paolo.
  Rocchi Lazzaro.
  Rochini Ing. Michele.
  Roda E.
  Rogadeo Eustachio.
  Rogel Giovanni.
  Rognoni Ernesto.
  Rolando Luigi.
  Romagnoli Cesare.
  Romanelli E.
  Romanelli G.
  Romani G.
  Romani Ing. Ugo.
  Romanini Sigismondo.
  Romano Giuseppe.
  Romeo Francesco.
  Romiti Oreste.
  Ronas Angelo.
  Ronchei Dott. Giovanni.
  Ronchi Cesare.
  Ronci Luigi.
  Ronconi Emilio.
  Rondanini Prof. C.
  Ronzini Angelo.
  Rosa, Fratelli.
  Rosa Giuseppe.
  Rosa Rag. Silvestro.
  Rosari Giovanni.
  Rosati Giosuè.
  Rosei Tommaso.
  Rosina Luigi.
  Rosmini, Dott.
  Rossan Giuseppe.
  Rossetti Francesco.
  Rossetti Avv. Giovanni.
  Rossetti Pietro.
  Rossi Dott. Antonio.
  Rossi Cesare.
  Rossi Avv. Enrico.
  Rossi Ferdinando.
  Rossi Giovanni.
  Rossi Giulio.
  Rossi Guglielmo.
  Rossi Cav. Guglielmo.
  Rossi Luigi.
  Rossi Michele.
  Rossi Silvestro.
  Rossiadi Alessandro.
  Rossignoli Domenico.
  Rossini Benedetto.
  Rossini Luigi.
  Rostari Pietro.
  Rosteghin C.
  Rota Angelo.
  Rota Giuseppe.
  Roussan Archimede.
  Rovere Pietro.
  Rovetta Francesco.
  Rovida Avv. Amadei.
  Rovighi Giulio.
  Rubattini Cav. Raffaele.
  Ruffi Ercole.
  Ruffi Pilade.
  Ruffini Paolo.
  Rugarli Claudio.
  Ruggeri G. B.
  Ruggiero Paolo.
  Rummo Luigi.
  Rusconi Ing. Giulio.
  Rutta Camillo.
  Ruva D.
  Ruzza T. C.


S

  Sabattini Pacifico.
  Sabattini Dott. Lorenzo.
  Sacchetti Cesare.
  Sacchi Achille.
  Sacchi Carlo.
  Sacchi Eleno.
  Sacerdote Donato.
  Sada Giuseppe.
  Saetta Antonio.
  Saffi Aurelio.
  Sajegh P.
  Salamini Luigi.
  Salazzaro Cav. Demetrio.
  Saldarini Angelo.
  Salmeri Ing.
  Salmoiraghi Luigi.
  Salmori G.
  Salsi Dott. Ferdinando.
  Saltara Carlo.
  Saltara Ugo.
  Salvadori Angelo.
  Salvati E.
  Salvetti E.
  Salvi Alessandro.
  Salviani Rodolfo.
  Salvini Enrico.
  Salvioni Ercole.
  Salvioni V.
  Salza Raffaele.
  Samadet Ernesto.
  Samosso R.
  Sampaoli Vincenzo.
  Sampieri.
  San Donato Duca (V. Consiglio Provinciale di Napoli).
  Sandri G.
  Sandri Nicolò.
  S. Giovanni.
  Sanguinetti Luigi.
  Sani F.
  Sani Giuseppe.
  Sani Severino.
  Sannelli Nicolò.
  Sanseverino-Vimercati Conte Carlo.
  Sanseverino-Vimercati Conte Giuseppe.
  Santarelli Augusto.
  Santarelli G.
  Santarelli Luigi.
  Santi Ettore.
  Santini G.
  Santucci Pietro.
  Sapelli Camillo.
  Sarak Hekford.
  Sardi Prof. Ciro.
  Sargenti Giuseppe.
  Sarognani L.
  Sarri Domenico.
  Sartirana.
  Sartorelli Dott. Francesco.
  Sartori Luigi.
  Sassi S.
  Sauri U.
  Savardi Pietro.
  Savi Luigi.
  Savio Ercole.
  Savini Antonio.
  Sbroca E.
  Scaglioni Carlo.
  Scajola.
  Scalabrini Enrico.
  Scaldella Alessandro.
  Scalera Avv. Pasquale.
  Scalognini Giuseppe.
  Scaramuzzino B.
  Scarobelli G.
  Scarpa C.
  Scarpa Dott. Francesco.
  Scarpa S.
  Scarpini Dott. Filippo.
  Scarpis Dott. Pietro.
  Scarlazzi Giovanni.
  Scattaglia G.
  Schelini Angelo.
  Schelini Gregorio.
  Schettini Michele.
  Schiaffino.
  Schiassi.
  Schiavi Avv. L. C.
  Schieroti R.
  Schiratti Dott. Gaetano.
  Sciarretti Enrico.
  Scimonetti G.
  Sciocchetti P.
  Scola Giuseppe.
  Sconocchia.
  Scoponi Angelo.
  Scotti.
  Scotti Achille.
  Scotti Dott. Carlo.
  Scotti Dott. Giberto.
  Scottini S.
  Scremia Afredo.
  Secondi Dott.
  Secondi Ferdinando.
  Sega Ferdinando.
  Sellaroli Angelo.
  Selley.
  Sellitti Giovanni.
  Sellitti-Cappone Enrichetta
  Selo Pietro.
  Semprini Ezio.
  Semprini Giacomo.
  Semprini Giovanni.
  Semprini Giuseppe.
  Semprini Mariano.
  Seppetti A.
  Serafini C.
  Serafini Leopoldo.
  Serelli Agostino.
  Serena Clemente.
  Sergio Ferdinando.
  Seri Gaetano.
  Seringi Giuseppe.
  Serpieri Eugenio.
  Serpieri Raimondo.
  Serpieri Roberto.
  Serra Eugenio.
  Sertori A.
  Servidori Alfonso.
  Servolini D.
  Sesti Ettore.
  Severini Eugenio.
  Severino Bernardino.
  Severino Pasquale.
  Sforzi Angelo.
  Sgarallino A., Maggiore.
  Sgarallino Alpinolo.
  Sgarallino Andrea.
  Sgarallino Giuseppe.
  Sgarallino Jacopo.
  Sgarallino Nullo.
  Sgarallino Teodoro.
  Siciliano Francesco.
  Sigismondi Michele.
  Signorini Dott. Francesco.
  Siliprendi.
  Siliotti Avv.
  Siliotto Dott. Antonio.
  Siliotto Domenico.
  Sillio.
  Silva Anna.
  Silva Guido.
  Silvagni Achille.
  Silvain Charles.
  Silvani C. de la Paix.
  Silvani Demetrio.
  Silvestri Achille.
  Silvioni Luigi.
  Simancini Lodovico.
  Sinigallia Ing.
  Sirtoli Melchiorre.
  Sirtori, Generale.
  Sisto Tancredi.
  Sitzia.
  Sivelli Giusto.
  Smutzicher Amedeo.
  Società Democratica francese.
  Società Operaia di Capua Vetere (Sindaco Mitena).
  Società Mutua Istruz. Caravaggio.
  Società Democr. Borgo S. Donnino
  Società degli Insegnanti Bolognese.
  Società del Casino.
  Società Negozianti.
  Società Mutuo Soccorso, Ancona.
  Società Liberale di Budrio.
  Società Cooperativa Bolognese.
  Società Savonarola.
  Società Operaia Bolognese.
  Società Alleotti.
  Società Reduci Bassano.
  Socielà Operaia Camerano.
  Società Operaia di Treviso.
  Società Operaia di Conegliano.
  Società Democratica di Camerino.
  Società Promotrice dell'Educazione Popolare.
  Sola Ing. Eugenio.
  Sola Giuseppe.
  Solamoni Giovanni.
  Soldi Achille.
  Soldi Angelo.
  Soldi Giacomo.
  Soldi Giovanni.
  Soldi Giuseppe.
  Soldi Paolo.
  Soleri Ing. Modesto.
  Soli Crispoldo.
  Solterio Lazzaro.
  Somenzi Dott. Alessandro.
  Sonzogno.
  Soppi Lodovico.
  Sorbatti M.
  Sorio Bortolo.
  Sorgoni Settimio.
  Sorio Gennaro.
  Sormani G. B.
  Sormani G. P.
  Sormani Avv. Giovanni.
  Sormani Innocente.
  Sormani Mozzetti Conte Ferdinando.
  Sorrisi Pietro.
  Sotti Adolfo.
  Sozzi Giacinto.
  Spadini A.
  Spadini E.
  Spadoni Tommaso.
  Spagnoli Giovanni.
  Spalla Dott. Angelo.
  Spangaro.
  Spasiano Francesco.
  Spelta Dott. Angelo.
  Speranza Avv. G.
  Sperbri Luigi.
  Sperone Guglielmo.
  Speroni Guglielmo.
  Spertoni Carlo.
  Speziali Pietro.
  Spinelli.
  Spinoglio G.
  Spodini Cesare.
  Stamile Pierangelo.
  Stanrenghi.
  Stanzani.
  Statti Barone.
  Stefani.
  Stefanini Domenico.
  Stefanoni.
  Steffani Stefano.
  Stella Comm. Tommaso.
  Stergiotti Dario.
  Stermini Antonio.
  Stevens Giorgio Angelo.
  Stocchi Dott. Giovanni.
  Storti Ercole.
  Stornati Vincenzo.
  Stupenengo C.
  Stradivari Avv. Libero.
  Straffoni Pellegrini.
  Stramazzoni Cesare.
  Strambio Luigi.
  Strambio Pietro.
  Strappa M.
  Strappini Dott. Ciriaco.
  Strazza Eugenio.
  Stronati Giovanni.
  Suardi Ing. Achille.
  Supplei Dott. Luigi.
  Suriani Cesare.
  Soriani Vincenzo
  Susini A. O.


T

  T. N. N.
  Tabacchi I.
  Tabellini Annibale.
  Taboga Guglielmo.
  Tacchi Giovanni.
  Tacchi Pietro.
  Tacco.
  Taddei Ferdinando.
  Tadiello Agostino.
  Tahi.
  Taiani A.
  Tallacchini Gaetano.
  Tallachini Paolo.
  Tamborini Ermono.
  Tamburini D. A.
  Tame avv. Giuseppe.
  Tanara Faustino, Colonn.
  Tangherlini A.
  Tarantini Filippo.
  Tarantini Paolo.
  Tarchi ing. Eugenio.
  Tarozzi dott. Eugenio.
  Tarsetti Alessandro.
  Tartaglia
  Tasca Vittore.
  Tassani Alfredo.
  Tassoni F.
  Taucci Michele.
  Taucci Tebaldo.
  Tavola Enrico.
  Tavoloni Arturo.
  Tebaldi G.
  Tedeschi dott. Giuseppe.
  Tellini Giuseppe.
  Tenca dott.
  Tenore Francesco.
  Tergaghi Felice.
  Terni cav. G.
  Terrani.
  Terzi Luigi.
  Tesci B.
  Tessari dott. Tito.
  Testa Giuseppe.
  Testa Paolo Luigi.
  Tibaldi Paolo.
  Tiberti Ulisse.
  Tiboldi Battista.
  Tiboldi Giuseppe.
  Tigri Giovanni.
  Tiomi Cam.
  Tiraferri Luigi.
  Tiribilli Arturo.
  Tivaroni avv. Carlo.
  Toadi dott. Antonio.
  Toaldi dott. Antonio.
  Tocci Belardino.
  Todeschini.
  Tognoli ing. Germano.
  Tomada.
  Tommasi Angelo.
  Tommasini A. P.
  Tommasini dott. Giovanni.
  Tompson Herdenson F.
  Tondi cav. Epimaco.
  Tondi Vito.
  Tondini Cesare.
  Tonelli medico-veterinario.
  Toni Espartero.
  Tonini Ettore.
  Tonon Giuseppe.
  Tononi Pietro prof. agr.
  Tonti conte Ferdinando.
  Torinanzi Ernesto.
  Torioni Leone.
  Tornaglio Capitano.
  Torraca M.
  Torre Domenico.
  Torre Michele.
  Torreggiani C.
  Torresini Dott. M. A.
  Torri Ing.
  Tosi A.
  Tosi Enrico.
  Tosi Gualfredo.
  Tosi Raffaele.
  Tosi Vincenzo.
  Tosi Volturno.
  Toselli.
  Toselli Dott. Enrico.
  Toselli Luigi.
  Tourner Giuseppe.
  Trabucchi Alessandro.
  Tradardi Pio.
  Travisani R.
  Trentani Carlo.
  Tretti Dott. Orazio.
  Trieste Leon Giacomo.
  Trinchera Luigi.
  Trittini Ing. Vincenzo.
  Trivellini Oscar.
  Trombekog Pietro.
  Tromboni A.
  Tronchelli.
  Troti Antonio.
  Trottero Domenico.
  Trozzolini Adeodato.
  Trozzolini Laerte.
  Truppi Francesco.
  Tucci Enrico.
  Tucci Raffaele.
  Tugorli Carlo.
  Tulli Carlo.
  Turati Giulio.
  Turchi Ettore.
  Turchi Ezio.
  Turchi Percile.
  Turchi Vittorio.
  Turr, Generale.


U

  Umiltà Angelo.
  Unia Pietro.
  Unis B.
  Unità Italiana (Vassallo).
  Urbani Ing. Gaetano.
  Urbani Carlo.
  Urbani Vitaliano.
  Urbani Cesare.
  Uso D.
  Usoni Dott. Domenico.


V

  Vaccariello Alessio.
  Vaccari Angelo e fratelli.
  Vaccari Giuseppe.
  Vaccari Pio.
  Vaccaroni Letizio.
  Vaccaroni Luigi.
  Vacellori.
  Vacchetti A.
  Vacchetti Giuliano.
  Valaperta Ubaldo.
  Valbusa Dott. Erminio.
  Valcarenghi Pietro.
  Valenti T.
  Valentino Gottardo.
  Valle-Spairani Gaetano.
  Vallini Paolo.
  Valmaggi Giuseppe.
  Valsecchi Antonio.
  Vandrini Michele.
  Vannucci Antonio.
  Vanzen Marcello.
  Vanzini Michele.
  Vanzotti Rag. Eugenio.
  Varesi Mosè.
  Varisco Dott. Antonio.
  Varisco Giuseppe.
  Varoli F.
  Varzalli.
  Vascellari.
  Vassura Pietro.
  Vatalaro.
  Vecchi Archimede.
  Vecchia.
  Vecchini Cav. Gaspare.
  Vecchini Gioacchino.
  Vecchini Giovanello.
  Vecchini Dott. Luigi.
  Veclovi Gracco.
  Vedani G.
  Vendrame G. B.
  Vendrame Pietro.
  Venelli Vincenzo.
  Venerando Giovanni.
  Veneziani E.
  Ventura Achille.
  Venturelli Ing. Ercole.
  Venturelli Giovanni.
  Venturi Filaredi.
  Venturini Achille.
  Venturini Avv. Aristide.
  Venturini Ernesto.
  Venuti Raffaele.
  Verdi dott. Raffaele.
  Verdi-Suzzana G. Favilla.
  Verdirosi Alessandro.
  Vergani Ing. Carlo.
  Vergani F.
  Verità L.
  Verli Giuseppe.
  Vermocchi Raffaele.
  Vernassa Angelo.
  Vernassa V.
  Vernazza Duca di Trani.
  Veronesi Aristide.
  Verrone Emilio.
  Verruglio Michele.
  Vesco G.
  Vescovi Carlo.
  Vesme Celesto Senatore.
  Vettori B.
  Vettori G.
  Viale Avv. Giacomo.
  Vianelli.
  Vianelli Cacciole Giovanni.
  Vicenti Dott. Ignazio.
  Vicentini Dott. Appollo.
  Vicentini C.
  Vida Paolo.
  Vidan Ernesto.
  Vieri Alessandro.
  Vietti, Controllore Viagg.
  Viggiani Salvatore.
  Vigliani Dott. Aurelio.
  Viglioli Marco.
  Vignetti Federico.
  Villa Agostino.
  Villa Ettore.
  Villa Ferdinando.
  Villabruna Conte Dante.
  Villani A.
  Villani Marchese.
  Vincenzoni Giuseppe.
  Vio Giuseppe.
  Visani Luigi.
  Vischi e Tacchini.
  Visconti Lorenzo.
  Visetti Virginio.
  Visintini Battista.
  Visioli Dott. Eucherio.
  Vismara Achille.
  Vitali Vincenzo.
  Vitoli Ing. Carlo.
  Vittadini Emilio.
  Viltorelli.
  Vittorelli Vittore.
  Vivaldi-Pasqua Giuseppe.
  Vivaldi Pasquale.
  Vivenzi Dott. Domenico.
  Volluschnis Antonio.
  Volpi Luigi.
  Vulsecchi.


W

  Weidman Carlo.
  Widmer G.
  Winter Anna.
  Witt Mario...
  Wolf. au A.
  Wolff Gustavo Adolfo.


Z

  Zaccagnini G.
  Zacchi Giovanni.
  Zucconi G.
  Zagaglia Emilio.
  Zagoffi Dott. Giacomo.
  Zaia Prof. Giovanni.
  Zamagni Oreste.
  Zambelli.
  Zambelli Rag. Carlo.
  Zambelli Ing. Ippolito.
  Zambonelli Ercole.
  Zambonelli Ing. Raffaele.
  Zamboni D.
  Zamboni Prof. Filippo.
  Zampari Francesco.
  Zanardelli Avv. Gius. Dep.
  Zancani Camillo.
  Zanchi Dionigi.
  Zanetti C.
  Zanetti Eugenio.
  Zanettopulo Giovanni.
  Zani Angelo.
  Zani F.
  Zanibelli Dott. Mariano.
  Zanier A.
  Zanini Beniamino.
  Zanni Dott.
  Zanoja Carlo.
  Zanoli Avv. Pietro.
  Zanzi P.
  Zappa Achille.
  Zapparoli Ettore.
  Zapponi Luigi.
  Zaschini A.
  Zavagli Gomberto.
  Zavoli Luigi.
  Zecchini Giuseppe.
  Zennaro Giuseppe.
  Zibondi.
  Zignani Mauro.
  Zignani U.
  Zinevri Gaetano.
  Zirotti Angelo
  Zocchi A.
  Zolezzi Giuseppe.
  Zorzi Dott.
  Zorzi (De) Ippolito.
  Zotti Luigi.
  Zovi Francesco.
  Zucchetta Giovanni.
  Zucchini Giulio.
  Zugni-Tauro Nob. Giov.
  Zunner L.

NOTE:

[68] Se si troverà qualche nome o casato scritto erroneamente, dovrà
attribuirsene la colpa alla poca chiarezza di alcune firme dei
sottoscrittori. Se poi qualche nome fosse stato ommesso, ne sarebbe
stata cagione il non essere ritornate in tempo utile le schede firmate.




SUPPLEMENTO

all'Elenco Generale dei Sottoscrittori[69]

  Accardi Giacomo.
  Algeri Sebastiano.
  Allegret A.
  Andrieux L.
  Angotti Domenico.
  Argentino Cav. Achille, Direttore della Succursale al Banco di Napoli.


  Bianchi Juniore Francesco.
  Bistondi Cesare.
  Bonsignore Vincenzo.
  Borella Antonio.
  Borrani Carlo.
  Bovio Prof. Giovanni.
  Bozonet M.r et M.me.
  Bracale Francesco.
  Broquier F.
  Brum Stefano, Dirett. dell'Opificio del Gas.
  Bruzzesi Filippo.


  Camizzuli Gioachino.
  Castelli Fragalà Francesco.
  Cecchini Giuseppe.
  Chazot Carlo.
  Coci Plaja Antonio.
  Colonna Prof. Salvatore.
  Conti Vincenzo.
  Covelli Avv. Emilio.


  D'agostino Avv. Alfonso.
  D'Amato, Prof. Raffaele.
  De Bourcard Francesco.
  De Flora Vincenzo.
  De Honestis Giovanni.
  De Lauro Francesco.
  De la Ville Ernesto.
  De Leo Avv. Andrea.
  Deputazione Provinciale di Salerno.
  Diana Geronimo.
  Dini Luigi.


  Ebhardt Giusto, Redattore della _Biblioteca Italiana_.


  Fantechi Ferdinando.
  Ferro Giovanni.
  Filose Catello.
  Fuortes Giuseppe.


  Gallifuoco Eugenio.
  Gatti Alessandro.
  Gaudino Giovanni.
  Gaudiosi Matteo.
  Gesualdi Davide.
  Giacchetti Gaetano.
  Giordano Matteo.
  Granozio Domenico.
  Grilli Vincenzo.


  Infranca Pietro.
  Isola Paolo.


  Le Pera Domenico.
  Lombardi Giovanni.


  Marceca Salvatore.
  Mastromatteo Francesco.
  Melillo Matteo.
  Mirovël Adèle M.lle.
  Morganti Rinaldo.
  Mori Filippo.


  Nicolini Melchiorre.


  Palumbo Augusto.
  Pantaleo Elvezia.
  Pantaleo Filippa e Cristina.
  Pantaleo Giovanni.
  Pantaleo Vahé Camilla.
  Pansini Avv. Piero.
  Paola Giovanni.
  Paoni Dott. Beniamino.
  Patrizi Luigi.
  Patroni Vincenzo.
  Pedone Alberto.
  Pentasuglia Ing. Tito.
  Piccioli Bernardo.
  Pollio Nicola.
  Portanova Notar Biagio.


  Rana Francesco.
  Ravelli Eduardo.
  Rigillo Giuseppe.


  Salzano Pietro.
  Scanni Avv. Michele.
  Silvain Thérèse M.lle.
  Spallino Giovanni.
  Sprovieri Francesco.


  Tancredi Giuseppe.
  Toscano Saverio.
  Trani Avv. Giovanni.


  Vahé Antoniette M.lle.
  Vahé Henri.
  Vahé M.r et M.me.
  Verrier Antoniette M.lle.
  Vitolo Domenico.
  Vollaro Avv. Saverio.


  Zani Gaetano.

NOTE:

[69] Schede giunte il giorno 20 quando già era stampato l'Elenco
generale.




QUADRO

DEGLI INCARICATI E DEI LUOGHI

che hanno dato maggior numero di firme.

  Elia colonn., Beducci, Saltara      |                      |     |
  Ugo, Mengozzi, Morollet,            |                      |     |
  ecc.                                | Ancona               | 364 |
  Tosi Raffaele                       | Rimini               | 222 |
  Sgarallino A.                       | Livorno              | 200 |
  Pantaleo Giovanni                   | Napoli e Sicilia     | 149 |
  Wolff avv. A., Tivaroni e           |                      |     |
  Sandri                              | Padova               | 145 |
  Griziotti avv. A.                   | Pavia                | 142 |
  Imbriani M. R.                      | Napoli               | 132 |
  Bertacchi e Cucchi                  | Bergamo              | 121 |
  Guarneri Zanetti                    | Pescarolo            | 120 |
  Vivaldi Pasqua                      | Genova               | 110 |
  Marchi avv. Alf.                    | Treviso              | 107 |
  Pescatori Erminio                   | Trieste              | 100 |
  Giornale _Il Secolo_                | Milano               |  82 |
  Marchi G. ed Augusto Dei            | Livorno              |  70 |
  Cons. Prov. (Duca S. Donato)        | Napoli               |  70 |
  Cavalli dott. Luigi                 | Vicenza              |  68 |
  Dell'Isola Luigi                    | Torino               |  65 |
  Robecchi Lavino                     | Milano               |  62 |
  Delvecchio avv. Pietro              | Mondovì              |  60 |
  Brattiano Giorgio                   | Bucarest             |  60 |
  Ceretti Celso, Serj, Bonettini      |                      |     |
    ed altri                          | Mirandola            |  59 |
  Guidi Campoverde                    | Londra               |  56 |
  Mattei avv. Ant.                    | Treviso              |  55 |
  Negretti Gaetano                    | Lucca                |  55 |
  Giornale _La Favilla_               | Mantova              |  52 |
  Mauroner Leop.                      | Trieste              |  50 |
  Pallavicino M.a Anna Triulzio       | Torino               |  50 |
  Roncalli e Benedetti                | Foligno              |  50 |
  Riboli dott. Timoteo                | Torino               |  50 |
  Adamoli Domenico                    | Varese               |  46 |
  Prandina dott.                      | Milano               |  46 |
  Castellani Aless.                   | Roma                 |  44 |
  Musolino _Dep._                     | Roma e Calabria      |  41 |
  Zanoia e Morandi C.                 | Torino e Pistoia     |  40 |
  Mayerà Silvio                       | S. Marco Argentaro   |     |
                                      |   (Cerreto)          |  39 |
  Tanara e Campanini                  | Parma                |  38 |
  De-Virte Luisa                      | Ripafratta           |  38 |
  Farlatti colonn. Luigi              | Genova               |  36 |
  Rocca avv. F.                       | Mantova              |  35 |
  Billi _Dep._ Pasquale               | Napoli               |  30 |
  Gattelli Giov.                      | Ferrara              |  26 |
  Zanardelli _Dep._                   | Brescia              |  25 |
  Bocca fratelli                      | Torino               |  25 |
  Belluzzi pr. Raff.                  | Bologna              |  23 |
  Bovi colonn. P.                     | Bologna              |  22 |
  Carnielo _Dep._ An.                 | Feltre               |  22 |
  Giornale _Gazzettino Rosa_          | Milano               |  22 |
  Le Piane Nicola                     | Napoli               |  20 |
  Rossi P. Ferdinando                 | Trieste              |  20 |
  Bizzarri rag. e Boniventi           | Torino               |  20 |
  Balbiani A. e Ghisla                | Tramezzo (Como)      |  20 |
  Brigola G.                          | Milano               |  20 |
  Bruzzesi colonn. G.                 | Milano               |  20 |
  Canevazzi ing. E.                   | Persiceto (Bologna)  |  20 |
  Faustini Pietro                     | Terni                |  20 |
  Villani M.se                        | Desio                |  20 |
  Borella ing. Pietro                 | Casalmaggiore        |  18 |
  Bonardi fratelli                    | Brescia              |  17 |
  Bellasi ing. Pietro, De-Michelis    |                      |     |
    e Faccioli Carlo                  | Como                 |  17 |
  Missori colonn.                     | Milano               |  16 |
  Aquilanti Franc.                    | Maddalena            |  14 |
  Angeloni _Dep._                     | Napoli               |  14 |
  Dotto Dauli pr. Carlo               | Napoli               |  14 |
  Lattuada Carlo                      | Intra                |  14 |
  Nunziante gen. Duca di Mignano      | Roma                 |  12 |
  Mario Ugolino                       | Lendinara            |  11 |
  Ferrari Gaetano                     | Sinigaglia           |  11 |
  Avezzana gener.                     | Napoli               |  10 |
  Anselmi _Dep._                      | Napoli               |  10 |
  Bernieri cav. Cesare e Di-Stefano   | Aless. d'Egitto      |  10 |
  Canella Fabio                       | Aquila               |  10 |
  Cairoli B. _Dep._                   | Groppello            |  10 |
  Carcani _Dep._ Fabio                | Trani                |  10 |
  Bresciamorra _Dep._                 | Napoli               |  10 |
  Guerrazzi F. M.                     | Livorno              |  10 |
  Germanetti D.                       | Ivrea                |  10 |
  Giacometti C. Paolo                 | Gazzuolo             |  10 |
  Mario White Jessy                   | Lendinara            |  10 |
  Morosini Flaminio                   | Gargnano             |  10 |
  Mordini Ant. Pref.                  | Napoli               |  10 |
  Micheli Giov.                       | Codogno              |  10 |
  Municipio di                        | S. Maria Capua       |     |
                                      |   Vetere             |  10 |
  Mazzoleni _Dep._                    | Milano               |  10 |
  Miceli Dep. L.                      | Cosenza              |  10 |
  Pozzi avv. Ernesto                  | Lecco                |  10 |
  Podestà bar. And.                   | Genova               |  10 |
  Rasponi conte Gioac.                | Ravenna              |  10 |
  Ruggeri G. B.                       | Roma                 |  10 |
  Rubattino comm. Raff.               | Genova               |  10 |
  Strambio fratelli                   | Belgioioso           |  10 |
  Racchi Achille                      | Mantova              |  10 |
  Daccò ing. Luigi                    | Roma                 |   9 |
  Pozzoli Rinaldo                     | Milano               |   9 |
  Bozzoni Angelo                      | Caserta              |   9 |
  Gaffuri                             | Tramezzo (Como)      |   8 |
  Antonini Giacomo                    | Firenze              |   8 |
  Macchi _Dep._ Mauro e sig.a Haab    | Roma                 |   7 |
  Riccabone Frane.                    | Torino               |   7 |
  Bonazzini Giuseppina                | Tramezzo (Como)      |   6 |
  Lazzati Cristina                    | Milano               |   6 |
  Quartaroli e Sassi                  | Forlì                |   6 |
  Winter Anna                         | Londra               |   6 |
  Abignente _Dep._                    | Roma                 |   5 |
  Bronicardi _ing._ Adolfo            | Firenze              |   5 |
  Castelazzi A. _Dep._                | Mortara              |   5 |
  Del Carlo avv. E.                   | Lucca                |   5 |
  Sottoscrizioni per un numero        |                      |     |
    minore di 5 copie, raccolte       |                      |     |
    da diversi                        |                      | 119 |
                                                             |-----|
                                                 Nº Totale   |4322 |




RENDICONTO


  Bollettari o Manifesti inviati fin dal settembre 1873
  a tutti i Senatori
            Deputati
            Conoscenti
            Amici                                    N.  1264
  portanti ciascuno dieci schede, pari a             N. 12640

  Schede ritornate sottoscritte a tutt'oggi 20 luglio 1874
    (meno le estere)                                     4322


Entrata.

  Schede sottoscritte                   N. 4322 pari a L. 21610
    "    esatte                  3806 pari a L. 19030,00
    "    da esigersi              516   "    "   2580,00
                                 ----           --------
                                 4322        L. 21610,00


Uscita.

  Per cinque copie manoscritte, una per l'edizione
    italiana, quattro per le traduzioni in
    lingue straniere, al fine di non sciupare l'autografo    L.   500 --

  In Bollettarii, Manifesti o Programmi                      "     48 --

  Bollo e Numeratore                                         "     42 --

  Ad uno scritturale per impianto di registri,
    invio dei bollettarii, copiatura di lettere
    per la corrispondenza cogli incaricati, sottoscrittori,
    ecc., ed assistenza alla trasmissione
    dei pacchi                                               "    300 --

  Trasmissione raccomandata dei manoscritti,
    e lettera al Ministro Russo a Pietroburgo
    per i diritti d'autore                                   "     13 80

  Dispacci, lettere assicurate e raccomandate,
    vaglia postali, giornali, mancie, ecc., dal settembre
    1873 sino ad oggi                                        "    193 70

  Rimborso di spese postali agli Incaricati, che
    le chiederanno, circa                                    "    300 --

  Ricopiatura e coordinazione dell'elenco generale,
    aggiunte, ecc.                                           "     60 --

  Spese di stampa per copie cinque mila, e venti
    in carta distinta                                        "   4812 50

  Trasmissione affrancata o raccomandata dell'opera
    ad ogni associato, circa                                 "   1400 --

  Al Generale _per ora_ in rendita consolidato
    italiano fino dal dicembre 1873 _Lire ottocento_,
    a 71,00 per %, pari a                                    "  11360 --

  Somma da esigere                                           "   2580 --
                                                                --------
                                                     TOTALE  L. 21610 --
  Torino, 20 luglio 1874.

            _Per la Commissione_
            _Dott._ TIMOTEO RIBOLI.




NOTA DEL TRASCRITTORE:


L'ortografia originale è stata mantenuta.

Minimi errori tipografici di punteggiatura sono stati corretti senza
annotazione.

Sono state effettuate le seguenti correzioni (il testo corretto è tra
parentesi):

  «Porque tal es mi voluntad--yo il Reyl [Rey!]»

  non totalmante [totalmente] le ricchissime capigliature, giacchè

  Aux champs Thessaliens oserent-ils [osèrent-ils] descendre,

  e gl'Inglesi Robin-Wood [Robin Hood].--Gli ultimi ed

  Civettara [Civettava], il massimo dei sacerdoti, squadrandosi

  ulime [ultime] parole, pronunciandole pacatamente ed in

  Marottti [Marotti] Dott. Antonio.

  Molin Eilippo [Filippo].

  Robecching [Robecchi ing.] Enrico.

  Serpieri Engenio [Eugenio].

  Vacchetti Gliuliano [Giuliano].

  Mario Wihte [White] Jessy





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Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
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including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
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Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
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remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]


Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
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array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
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status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
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considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
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While we cannot and do not solicit contributions from states where we
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