Novelle

By Giovanni Visconti Venosta

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Title: Novelle

Author: Giovanni Visconti Venosta

Release date: October 17, 2024 [eBook #74597]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Le Monnier

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NOVELLE ***


                                NOVELLE


                                   DI

                       GIOVANNI VISCONTI VENOSTA.



                                FIRENZE.
                         SUCCESSORI LE MONNIER
                                 1871.




                        Proprietà degli Editori




AVVERTENZA.


Ecco un libro, che, speriamo, si potrà dir popolare, nel senso più sano
e più schietto della parola. Per lungo tempo i libri fra noi furono
scritti da chi studiava perchè fossero letti solo da chi studiava. La
letteratura era lusso, passatempo o mestiere. I tempi nuovi domandano
una letteratura nuova, che ritragga le idee operative della società
moderna, risponda alle aspirazioni più vivacemente sentite, e insegni
il modo di adempierle, noti i vizi dei contemporanei e si studi di
correggerli; sia scuola, educazione, apostolato.

Quando nella nazione, non viva ancora, si svegliò potente il desiderio
e la volontà determinata di essere, l’Italia cominciò ad avere una
letteratura più pratica. Manzoni, Grossi, Azeglio dipinsero il passato
per educare l’avvenire. Ora che abbiamo un presente, cominciano gli
scrittori ad esercitarvi intorno l’opera loro.

Giovanni Visconti Venosta è fra questi. Le vicende ch’egli racconta
sono di ieri, e saranno pur troppo anche di domani: i personaggi che
vi hanno parte, voi gl’incontrate tutti i giorni, e ciascuno di voi
potrebbe dare a ciascuno di essi un nome proprio. Non angosce di grandi
passioni, non pompa di declamazioni, non sfoggio di stile: non usciamo
mai dalla vita quotidiana, dall’eloquio e dai costumi casalinghi; ma
dalla bonomia ironica e tutta manzoniana del racconto scaturiscono
spontanei gli alti insegnamenti, e al riso sano ed allegro provocato
dalla barzelletta ingenua, talora si mesce una lagrima involontaria
spremuta dai più nobili movimenti del cuore.

Questi pregi, che ci hanno raccomandato il libro del Visconti Venosta,
confidiamo che lo raccomanderanno del pari ai lettori.

                                                         GLI EDITORI.




UNA SCAPPATA FUORI DEL NIDO.

MEMORIE DI ALBERTO.


                                             R.... nella valle di....
                                                      1 gennaio 1864.

Le due cose più brutte che ho vedute nella mia infanzia sono proprio
quelle che non solo non mi uscirono mai dalla memoria, ma che ci
rimasero anzi più scolpite e più vive. Le cose belle e ridenti trovano
una via facile e armonica nella fantasia infantile, e l’attraversano
rapidamente lasciandovi spesso poca traccia di sè. Queste due brutte
cose erano una vecchia sorella del curato e un suo passero, e formavano
nel mio pensiero una cosa sola; tanta era l’abitudine di vedere questi
due esseri in compagnia. La sorella del curato infatti diceva d’avere,
dal canto suo, circondato questo passero di tutti i suoi affetti,
ch’erano quelli d’un celibato severo. Che cosa dicesse l’altro non so.
Parmi che vivesse nel celibato esso pure; ma anche qui non so se fosse
un celibato spontaneo, o un celibato imposto dalla sua amica per non
introdurre alcuna disparità. Questo passero era zoppo e mezzo spennato;
si faceva di solito tutto raggruppato e grosso; lasciava cadere un’ala
a terra, e non teneva aperto che un occhio. Faceva le viste di non dar
retta e di non accorgersi di nessuno; ma la sorella del curato diceva
che capiva tutto, e che era un mostro di talento. Ella si era privata
per lui del cocuzzolo di un celebre cappellino, che in sua gioventù
aveva fatto fare apposta per andare alla città a vedere l’entrata di un
vescovo. Se n’era privata, e l’aveva riempito di bambagia per farne un
letticciolo, ordinaria dimora del passero. Fu questo uno di quegli atti
di entusiasmo e di annegazione, di cui se ne riscontrano tanti nella
vita della donna.

La bruttezza di quel passero esercitava, non so perchè, un gran fascino
sulla mia fantasia. Ogni momento, io correvo in casa del curato a
contemplare il passero, e non me ne sapevo staccare, per quanto non ci
trovassi proprio niente di nuovo. La sorella del curato, per mettere
a profitto il mio tempo, mi enumerava frattanto tutte le virtù del
passero, e me le proponeva ad esempio. Mi diceva però nello stesso
tempo, come, prima d’essere diventato così tranquillo, obbediente e
studioso, ne avesse fatta una grossa, la quale gli aveva procacciato il
castigo d’andarne malconcio per tutta la vita. «Perchè bisogna sapere
che quando egli era ancora nel nido sotto la gronda, ed era _grande_
poco più di te,» continuava la sorella del curato, «era ostinato,
capriccioso, e non dava retta a nessuno. Aveva messe appena quattro
pennuzze alle ali, e si era già fitto in capo di scappare fuori del
nido, e di andarsene per il mondo. I suoi genitori, ch’erano pieni di
esperienza, gli dicevano cose d’oro; ma lui si tirava in un cantuccio,
alzava le spalle, non diceva una parola, e masticava con dispetto una
pagliuzza del nido. Un giorno poi, mentre padre e madre avevano appena
svoltato l’angolo della gronda, cosa fa il nostro bellumore?... Si tira
sull’orlo del nido, e apre le ali. I suoi fratellini ebbero un bel
pigolare, e tenerlo a tutta forza; egli lasciò loro una penna della
coda, e spiccò il salto. Finì diritto sul fondo della corte; e fu un
miracolo se non si ruppe il naso. Nella corte poi c’era un pilastro, e
dietro il pilastro un gatto; il quale, pratico di queste cose, spiava
da un pezzo il nido, e se ne stava accoccolato e tranquillo. Quando il
passero ebbe spiccato il salto, lo spiccò anche il gatto....»

«E allora?» esclamavo di solito io, quando la storia era arrivata a
questo punto.

«Allora» ripigliava la sorella del curato «in un attimo il passerino fu
in bocca al gatto. Si dibatteva il poverello, e forse era pentito di
cuore; ma il gatto intanto si studiava di mandarlo giù in un boccone.
E ci sarebbe riuscito, se non fossi capitata io a salvarlo, perchè era
proprio l’ora, per combinazione, in cui porto da beccare ai polli. Ma
in che stato lo salvai! Mezzo biascicato, e sì malconcio che pareva
proprio lì lì per spirare. Capisci, figliolo, cosa succede ai ragazzi
disobbedienti! E dopo ce n’è voluta della pazienza, e poi.... e se non
c’ero io....» E la filastrocca non finiva così presto.

Più tardi, presso a poco sui quindici anni, quando presi a sdegnare
queste inezie, e mi diedi tutto ai gravi pensieri, misi anche la storia
del passero tra le cose di cui non mi era più lecito il ricordarmi.
A furia di pensieri gravi, finii un giorno a fare anch’io qualche
cosa che doveva rassomigliare di molto alla scappata fuori del nido.
In allora, e voglio dire dopo che fui scappato anche dalla bocca
del gatto, ripensai subito alla storia della sorella del curato, e
mi parve che la mi andasse così a taglio da poterne riprendere il
filo narrando per conto mio. Questa idea mi ronza per il capo da un
pezzo, e a placarla piglieremo la penna. Incomincerò coi ricordi di
quando ero sotto la gronda; poi verrò al salto, alla corte, al gatto,
e al letticciolo di bambagia.... ma sarò breve, come dicono quegli
oratori che vogliono additare essi medesimi qualcosa di buono nel loro
discorso.

                                 * * *

Il curato del mio paese, che, pover’uomo, morì l’anno passato, aveva il
ticchio dei nomi eroici. Non gliene scappava uno; chi nasceva nella sua
parrocchia, nasceva nell’antichità. Da trent’anni le comari sostenevano
una lotta infelice a favore dei _Carl’Antonio_ e dei _Giovanni
Battista_, e da trent’anni non si battezzavano più che dei _Timoleone_
e degli _Epaminonda_. I miei compaesani ne susurravano un poco, e si
dolevano di non avere ciascuno il suo santo protettore; si dolevano che
non ci fosse nell’anno un giorno anche per loro da berne legittimamente
un boccale di più. Pareva loro che il non avere un avvocato in paradiso
fosse una disgrazia per lo meno eguale all’averne uno su questa terra.
Il mio buon curato cercava allora una via di mezzo, e di tanto in tanto
accomodava le faccende con qualche _Ciriaco_ o con qualche _Aniceto_.
Ciò però non bastava a tranquillarli tutti, e ce n’era di quelli che
dubitavano alquanto di non essere abbastanza cristiani. Talchè, in seno
alla famiglia, e intorno alle scodelle della minestra, questi _uomini
grandi_ ricevevano, il più delle volte, il secondo battesimo d’un
nome un po’ più da galantuomo, come dicevano i miei compaesani, d’un
nome alla buona, che servisse negli usi domestici come la giacchetta
da lavoro. Ma non si lasciavano intendere dal curato; e, appena fuori
dell’uscio, se chiedevate a qualcuno: «Come si chiama questo vostro
bamboccio?» vi sentivate rispondere, con voce rassegnata, per lo meno
«_Pisistrato_.» E il buon curalo gongolava tutto nell’accarezzare
per strada qualche piccolo Ercole che perdeva le brache, o qualche
Demostene che lo fissava con la bocca aperta e con un dito nel naso.
«E tu come ti chiami?» domandava talora il curato, e l’altro si faceva
tutto rosso per non poter rispondere: «Giovannino;» e non ricordandosi
il nome vero, o imbrogliandosi a metà, metteva fine alle domande con
una lunga piagnucolata.

Di questi bambocci che piangevano in grazia del loro nome, dovevo un
giorno ricordarmi paragonandomi a loro, quando anch’io ebbi a trovarmi
gli occhi gonfi di lacrime: e pensavo che il mio nome c’era pur entrato
per qualche cosa.

Il curato cercava i suoi nomi tra i greci e i latini; spennacchiava
Plutarco e i classici maggiori e minori. Poi saltava nei tre secoli
della persecuzione della Chiesa, e ci faceva anch’egli le sue stragi.
Qualcosa gli offrivano anche i tempi di mezzo; un po’ meno i tempi
nostri, a cui forse non giungeva che per un certo riguardo a Napoleone
I. A quali tempi fosse il mio curato, quando io venni al mondo,
precisamente non lo so. Egli mi diede il battesimo, e mi chiamò
Adalberto. Mi poteva capitar di peggio. Eppure io avrei ben di cuore
cangiato di nome col mio curato, il quale si chiamava semplicemente
_don_ Carlo: nome di cui certo il buon uomo si affliggeva nel profondo
dell’animo suo. Gli è ben vero che di questa sua afflizione egli
non ne aveva fatto motto mai con alcuno; ma io che, abusando della
dimestichezza che avevo con lui, tante volte spinsi gli occhi sugli
scartafacci del suo tavolino, tra le minute dei conti e dei ricordi,
tra le asticelle e i ghirigori, avevo pur letto il suo nome ripetuto
in cento guise, a modo di sperimentare la penna, e avevo veduto ch’egli
scriveva _don Karl_, come un re franco della prima razza.

I miei di casa, per amore di brevità, mi chiamavano praticamente
Alberto, ad eccezione di mio zio, lo speziale, che era il luminare
della famiglia, e che, non solito a transigere, mi chiamò sempre
Adalberto fin dai miei primi vagiti. Io dunque non ignoravo il mio
nome, e frugando per tempo tra i libri dello zio (dacchè lo zio me li
aveva tutti severamente proibiti), avevo trovate delle vecchie storie
piene di tarli e di nomi simili al mio. Così, a dodici anni, nella
mia cameretta, e di nascosto dallo zio, a cavallo d’un bastone, io ero
Adalberto che partiva per la Palestina, e che salutava, col cappello
di carta a tre punte, una _bella_, il ritratto della nonna appeso al
muro. Altrettanto faceva un guerriero, dipinto sul paracammino del
mio camminetto. Egli partiva; e le piume del suo cimiero toccavano
il naso della sua bella, che in quel momento spuntava dalle vetrate
socchiuse d’un alto verone del castello. Il cielo era buio: la luna,
che conosce i suoi doveri, spuntava tutta rossa, per finger forse le
sue maraviglie, tra nubi candide di bucato; e pareva il torlo d’un ovo
sul tegame in mezzo alla chiara. Per farle velo, e conciliare la sua
presenza con la sua modestia, le si avvicinavano alcuni neri nuvoloni
e le piume del guerriero. Questa scena io l’avevo rimirata più volte, e
la mia fantasia ne era stata vivamente colpita.

_Adalberto!_ esclamavo quand’ero solo, panneggiandomi nel mio nome,
alzando la fronte, e misurando la mia cameretta a passi lunghi e gravi.
_Adalberto!_ e spingevo un’occhiata dietro la schiena, per vedere che
effetto facesse il mio nome sopra di me. Ma c’era un guaio: il guaio
che dietro il nome veniva un cognome, il quale aveva pochissimo a fare
con le crociate. Il mio cognome, che è pur quello d’un centinaio forse
de’ miei compaesani, è modestissimo, e non ricorda nulla, proprio nulla
di strepitoso. A me ricorda le virtù modeste di mio padre e di mio zio:
ai più vecchi di me quelle di mio nonno, e la illibata rettitudine
della loro coscienza e del loro onore. Ma più in là non ne so nulla.
È probabile che abbia anch’io degli antenati, e che i miei vecchi non
sieno sbucati dalla terra come i funghi dopo una pioggia d’estate.
È probabile che i miei antichi abbiano fatto anch’essi quel tanto di
bene e quel tanto di male, di cui si compone la storia dell’umanità: ma
le carte vecchie hanno taciuto di loro, il che vuol dire che in loro
non hanno trovato mai nè virtù così alte, nè bricconerìe così basse,
da mandarne illustri per sempre i figlioli e i nipoti. Ma il solito
paracammino mi toglieva in allora a queste riflessioni tranquille.
Decisamente io rifiutavo il mio cognome. Buon per me che anche i
miei, come quasi tutti quelli del paese, avevano un soprannome; un
soprannome, in cui potevo trovare quel rifugio e quei conforti che
m’erano negati dal cognome.

Cinquant’anni prima ch’io venissi al mondo, da un ciglione della
montagna, alle cui falde giace il mio paese, staccossi una frana che
mise a nudo un largo tratto di roccia. Se di quell’evento se ne parla
ancora nel mio paese, figuratevi quanto chiasso ne avranno fatto i
nostri buoni vecchi! E figuratevene poi la paura! Poichè mi si conta
che fosse opinione generale di tutti quelli che in simili faccende _ci
vedono_, che quella prima fetta di montagna venuta giù non fosse altro
che un primo saggio: ma quanto prima, si diceva, sarebbe capitato il
rimanente, sarebbe venuta la _vera_ frana, la quale avrebbe sepolto
tutto il paese, e fattane scomparire perfino la ricordanza. Che cosa
si fa? Sui due piedi dunque si decreta, si acclama di innalzar su quel
monte una cappelletta dedicata al santo protettore del paese; i più
agiati fanno voto di tirar di penna sui debitucci dei più poveri, e di
chiudere un occhio sui fitti di quell’anno.

Ma passa un mese, ne passano due, ne passano tre, e pare che la
_vera_ frana voglia pigliare le cose con comodo. Allora quelli che
_ci vedono_, proclamano e ripetono «quel che han sempre detto» che la
montagna per circa due secoli non si moverà più. La cappelletta e i
fitti sono mutati in una processione, e molti la rendono più solenne
andandoci scalzi; così risparmiano anche le scarpe. Mio nonno, che
faceva l’oste, intanto che i suoi compaesani con la bocca aperta, e
le mani dietro le reni, speculavano sulle crepature del monte, sulla
cappelletta, sui fitti e sui due secoli di agio, con le mani dietro
le reni anche lui osservò che da una larga fessura della roccia,
lasciata a nudo, tirava un’aria fresca e tutta nuova, quale non si
era mai sentita in quel posto. Ci fece da solo le sue visite e i suoi
scandagli; s’avvide che la natura, provvida sempre, gli aveva dischiuso
una deliziosa grotticella capace di due botticini e d’una credenza per
il salame. Una voce in cuor suo gli disse subito che delle frane non
ne sarebbero cadute più, e divenne il conforto de’ suoi compatriotti!
Chiuse in parte la fessura della roccia; ci mise un uscio; tirò su un
bel muro e, per non far le cose a mezzo, l’affidò al pennello d’un
artista, l’autore credo del mio paracammino. L’artista lo dipinse
a mattoncelli antichi, a screpolature secolari, e a erbacce d’una
vegetazione di tempi ignoti, in modo da farne un venerabile avanzo di
un evo discretamente remoto. Ma non gli bastò. Compiuta l’opera, per
renderla sempre più antica, ci aggiunse una medaglia a chiaroscuro,
che fingeva in bassorilievo una testa di Diogene, con le screpolature
anch’essa, e con le erbe. Ma anche il Diogene non bastò al nostro
pittore, il quale dichiarò al nonno che ci voleva ancora qualcosa
di più antico; che ci volevano i merli. Il nonno, sazio di spender
quattrini, per quanto rispetto avesse per il pittore, fu sulle prime
inflessibile contro i merli. Ci furono dei grossi guai. Alla fine si
venne a un compromesso: il mio avo si arrese, ma non ne concedette che
sei; e il pittore li foggiò diroccatissimi, e avvolti anch’essi nella
solita antichissima erba. Il pittore s’incaricò anche dell’insegna, che
rimase fino ai miei tempi, e che diceva così: _Alla ròcca merlata, vino
fresco che pare impossibile_.

La fama della _ròcca merlata_, dove il vino si faceva squisito per
naturale virtù del luogo, divenne così gigante e così generale nei
dintorni, da offuscarci in allora perfino i fasti e le geste di
Giuseppe II contro i Turchi. La _ròcca merlata_ diede il nome a tutta
la falda del monte; diede il nome a tutto il vino che vendeva mio
nonno; e diede il nome a mio nonno stesso, che d’allora in poi fu
chiamato in tutto il distretto _l’Andrea della ròcca merlata_. Mio
nonno morì: la fama della _ròcca merlata_ andò scemando, a dir vero, e
lasciò parte del suo posto alle nuove rinomanze dei tempi: ma i vecchi
del paese, conservandosi devoti al culto delle passate memorie, non
vogliono berne che di quello della _ròcca_, e alle nuove generazioni
insegnarono con l’esempio a chiamare la gente di casa mia col nome
dell’antica grotticella.

Tale era dunque il soprannome nel quale io mi rifugiavo ogni qualvolta
mi accingevo a partire per le crociate. L’avessi almeno lasciato in
Palestina!; ma lo tirai fuori in altre spedizioni ancor meno felici;
me ne vestii non solo quand’ero a cavallo della granata, ma lo ripresi
anche dopo aver messo il dente della sapienza. Ho camminato con esso,
superbo di tanto paludamento, finchè esso mi si attortigliò per le
gambe, e io diedi del naso in terra, come un eroe da teatro diurno. Ora
non lo riprendo più; e nel riandare queste mie prime memorie ne vorrei
ridere di cuore, se, in fine della commedia, l’eroe burlato non fossi
stato proprio io!

                                 * * *

Quand’ebbi toccati i dieci anni, un congresso di famiglia decise de’
miei destini. Il maestro del mio paese dichiarò ch’io ero il Napoleone
dell’_analisi_, e l’Alessandro il Grande dell’_aritmetica_; ch’egli
mi aveva ormai insegnato _tutto_; ch’ero un mostro di talento, e che
sarei morto quanto prima. Per quanto mi rincresca il distruggere la
premessa del mio maestro, mi è forza confessare che sono ancor vivo. La
qual cosa io devo senz’altro al maestro che ebbi subito dopo, il quale
invece non seppelliva così presto la sua scolaresca, e ci dava a tutti,
e a tutto pasto, dell’_asino_.

Io ero dietro l’uscio il giorno in cui mio zio, dopo avermi detto con
molta gravità che mi ritirassi, fece risolvere mio padre sul conto
mio, e trionfò degli ultimi dubbi che lo facevano pensieroso. «S’io
non avessi la fortuna o la disgrazia, direi meglio, d’essere troppo
profondo conoscitore degli uomini,» diceva mio zio, «esiterei; direi
fors’anche, fate voi.... Da qual cosa credete voi che provengano tutti
i mali della società? Provengono da ciò, che gli uomini non trovano
quel profondo conoscitore che dica loro: tu sei nato per questo, e tu
per quest’altro; e così i poveretti sbagliano strada, ed è allora che
tralignano, che si perdono.... Credete voi che se io non avessi fatto
lo speziale, sarei ora quel che sono? Io oscillerei come un pendolo,
cercando il mio vero centro di gravità, e sarei, come tant’altri,
un uomo da nulla.... Era ancora in collo alla balia Adalberto, e non
faceva che picchiare con le sue manine su tutti i miei vasi e su tutte
le mie ampolle. È un segno, vedete, questo! è un segno!... Egli vi
rompe tutti i bicchieri dell’osteria, ma guardate un po’ s’egli ruppe
mai una sola delle mie storte! Sono segni, vedete! sono segni!...
Sta bene che il figliolo, come dite voi, ha da seguire di regola il
mestiere del padre; ma ci sono le eccezioni per quelli che devono
battere le grandi vie loro segnate dalla Provvidenza. Vostro figlio
deve fare lo speziale!... Poco monta a tant’altri che la loro bottega
vada un giorno chiusa e venduta: lo capisco. Ma.... la polvere che
distrugge la _Mantis religiosa_ di Linneo fu scoperta, chi non lo
sa! nel mio laboratorio; e questo, capirete, impone dei doveri alla
famiglia....»

Non udii che questo. Ma poco dopo, mio zio uscito di camera mi fece
un sorriso, e, piantatosi dinanzi a me, mi guardò con una insolita
benevolenza e mi accarezzò. Non c’era più dubbio: in quel sorriso io mi
sentii diventato un farmacista.

Per qualche tempo non bollirono nella mia fantasia che storte ed
ampolle, e dal campo dei crociati trapiantai i miei castelli in un
avvenire di pillole e di decotti. Io ero uno _speziale_! e guardavo
i miei compagni d’alto in basso, come quando dicevo loro: io sono un
_guerriero_. Imitavo il fare grave di mio zio, e come lui mi ravvolgevo
talora mezza la faccia in una cravatta bianca; tiravo il berretto giù
fino al naso, e di nascosto mi inforcavo gli occhiali. Correvo nella
cucinetta, che mio zio chiamava il suo laboratorio, e componevo con
un po’ di tutto degli empiastri ch’io chiamavo le mie scoperte, e
che dovevano rigenerare la società, e far diventare poi me principe,
millionario, generale d’armata, e fors’anche secretario comunale. La
mia ambizione non aveva confini, e la mia fantasia non si fermava che
tratto tratto, per qualche giorno, quando m’accadeva di mandare in
frantumi qualche vaso o qualche ampolla. Ruppi anche le famose storte,
che mio zio aveva dichiarate al sicuro d’ogni guasto per fatto mio: ne
accusai ingenerosamente un gatto, e fui creduto dallo zio, che vedeva
nel nuovo colpevole una conferma della sua teoria. Lo zio però, che,
come dissi, non era uso a transigere, compose subito un empiastro,
e lo divise in ventiquattro parti. Arrotondatele, le sparse per il
laboratorio, con la missione di propinare il veleno a quel gatto, che,
per quanto fosse un individuo della casa, pure se ne mostrava degenere.
Eravamo da capo con Filippo II e Don Carlo. Alla voce del rimorso,
raccolsi di soppiatto quelle pillole insidiatrici, e ne posi al loro
posto altrettante di midolla di pane. Il gatto se le mangiò più volte
tranquillamente, e mio zio ne farneticava. Quando un giorno.... io
forse ne dimenticai una, e il povero gatto lo si trovò, dietro l’uscio,
lungo disteso. Ne fui afflitto; e ne fu ben afflitto anche lo zio, il
quale aveva già annunziata una scoperta, e incominciato uno scritto,
_sul nesso tra i gatti e i principali veleni_.

                                 * * *

Spuntò presto l’alba d’una vigilia del san Carlo, e con gli abiti nuovi
e tutto intirizzito, fui messo in una vettura con sei seminaristi,
e spedito al capoluogo della provincia in un collegio, per esservi
allevato, diceva mio zio, dalle Muse; primo passo verso il cammino
della spezieria. Da un mese io ero tutto sossopra dietro questa grande
novità del collegio, e la mia fantasia trovava nuovi sogni dorati tra
cui aggirarsi finchè voleva, trattandosi di cosa che non sapevo che
mai si fosse. Il giorno poi che feci la prova generale del vestito
da collegio, e che mi trovai sotto a un cappello quale lo portava
l’imperial regio Delegato in giro per la provincia, avvolto in in una
cravatta bianca e in un abitone, dalle cui falde non mi spuntavano che
i piedi, pensatelo voi, come mi sentissi in rivoluzione! Non mi tenevo
più nella pelle; non m’accorgevo che le mani fossero imprigionate
nelle maniche e le orecchie nel bavero: precorrevo gli anni con
l’immaginazione, e già mi sentivo all’altezza e all’ampiezza del mio
vestito.

Mi pareva che il giorno in cui l’avessi indossato, e per sempre, io
avrei toccata a un tratto la realtà di tutti i miei sogni, e mi sarei
trovato un uomo fatto, un cavaliere antico, un re, uno speziale,
o che so io. Venne il giorno: eppure, per quanto lo avessi indosso
quest’abito di tutte le felicità, come misi il piede sul montatoio
della vettura provai un novissimo sentimento di mestizia, che mi serrò
il cuore e mi fece venire voglia di piangere. Lasciata la casa, e
dentro in quella vettura, mi parve quasi di non esser più figliolo di
nessuno. Io avevo veduti partire altri fanciulli per il collegio, tra
i baci e le paroline delle loro mamme, e mi pareva che non dovesse
essere poi tanto brutto un distacco in mezzo a tante carezze. Ma io
partivo senza un bacio, senza una parola; e in quel momento, forse
per la prima volta, ebbi coscienza d’un fatto, su cui la mia mente
così giovanile era trascorsa fino allora, senza quasi comprenderlo:
io avevo perduta, e quasi nemmen conosciuta mia madre. In quella prima
tristezza che mi scendeva per istinto nel cuore c’era tutta la storia,
fino allora inavvertita, delle mie sventure infantili. Non eran solo
i baci di quella mattina che mi fossero mancati: erano le mille cure
amorose e previdenti, era una guida sicura, carezzevole e buona, che, a
differenza degli altri fanciulli, io non avevo trovata a compagna della
mia prima giovinezza. Quale fortuna sarebbe stata per me, se tutte le
fantasie della mia mente avessero sempre trovata vicina quella bontà
che piega e non spezza, che persuade e non costringe, e si fa amare
quando ammaestra! Lo zio, a cui dovevo succedere nell’arte, reclamò
per tempo da mio padre la mia educazione; e per lo zio l’educazione
era un empiastro fatto di certi principii e di certe dosi da comporre
e spedire, come una ricetta. Così la prima, e la più dura esperienza
della vita, la feci tutta a mie spese.

Io fui dunque consegnato al vetturale e ai sei chiericotti, i quali
per tutto il viaggio non fecero altro che mangiar noci, senza che uno,
neppure in fallo, ne offrisse una sola a me. Non gli ho dimenticati
quei chierici per un pezzo. Tempo fa ne ritrovai uno, e facendo con
lui una gran baruffa per il potere temporale, di cui non voleva cedere
una briciola, mi risovvenni ancora di quelle noci. Mio padre mi aveva
congedato con un bacio la sera innanzi e mi aveva detto: _sii sempre
buono_: poi, quasi gli fosse passato un brutto pensiero, s’era a un
tratto tutto rannuvolato. So che a mio padre doleva assai il vedermi
partire, e che solo ci si era rassegnato per i grandi ragionamenti
dello zio. E mio zio, che quella mattina era tutto in faccende intorno
a un decotto che bolliva, non mi accompagnò nemmeno alla vettura, ed
ebbe appena testa da potermi dire: «Svelto, svelto, che son sonate le
sette.»

Il vetturale, come fummo giunti ed ebbe stropicciati con la paglia i
suoi cavalli, mi consegnò al portinaio del collegio, e il portinaio mi
condusse poi dinanzi al rettore, che era un abate e che mi fece subito
un centinaio di domande. Io non risposi alla prima; e, non so perchè,
rimasi duro coi denti chiusi fino all’ultima. Allora il rettore mi
fece condurre nel dormitorio dicendomi: «Voi siete un asino.» La mia
educazione era incominciata. Un po’ per quella malinconìa del mattino,
un po’ per il piglio brusco del rettore, il cuore mi traboccò, e diedi
in un pianto dirotto.

Qui incomincia la storia del collegio, la storia degli anni chiamati i
più belli della vita, e su cui passo di galoppo e facendomi il segno
della croce, come si passa per una strada dove si è incappati ne’
malandrini. Tale è la bella pagina che i miei educatori hanno impressa
nella mia tenera mente, che aspettava da loro l’impronta maestra di
tutta la vita! Dopo tre mesi di educazione, io ero già qualificato
dal rettore come _epicureo_, per l’appetito che avevo portato dai miei
monti; come _falsario_, per avere scritto il còmpito d’un compagno che
non aveva saputo farlo; e come _propalatore di principii pericolosi_,
per aver detto che il brodo della minestra era tutto acqua.
Immaginatevi che cosa fossi in fin d’anno! Fors’anco divenni un po’
cattivo in verità. Mi ricordo che, quantunque novizio e piccioletto,
fui presto amico dei più grandi, i quali di tanto in tanto mi facevan
persino l’onore di incaricarmi di qualche mariolerìa per loro conto.
Intanto il rettore andava sempre più persuadendosi ch’io avevo bisogno
d’esser tenuto con una mano di ferro. Scoperse che in me c’erano i
germi di tutti i delitti; e per un pugno che diedi a nome d’un amico,
mi appese al collo per un mese un cartellone su cui stava scritto:
_sicario_. Scoperse parimenti ch’io ero uno zotico, un montanaro,
uno spaccalegne, e che non conoscevo neanche i primi rudimenti della
creanza. Così intraprese a insegnarmela da capo: ma, se ho a dirla,
il mio buon rettore, a furia di insegnar creanza, decisamente l’aveva
insegnata tutta, e non gliene era rimasta più nè per lui, nè per me.
Il peggio fu che andava frattanto scrivendo allo zio cose di fuoco sul
mio conto, e lo persuadeva a non richiamarmi per le vacanze d’autunno,
perchè non avessi a perdere il frutto di quelle prime sementi di cui,
con tanta fatica, mi aveva messo a coltura.

S’io ne fui furente! Da quel giorno mi dichiarai in istato di guerra:
guerra delle più accanite, che io cominciai col fingere un appetito
insaziabile per far dispetto al rettore, e farlo perdere a lui;
gettando per giunta dalla finestra quanti pani mi capitavano in mano,
e che non riuscivo a mangiare. Io non sapevo rassegnarmi. Avevo poi in
cuore un’ansia, un’inquietudine, quale non avevo provata mai; mi pareva
che una voce secreta mi dicesse: «corri a casa tua.»

In quell’autunno morì mio padre. Io non lo seppi che molti mesi dopo.
Mio zio non aveva avuto coraggio di scrivermelo, e aveva incaricato
il rettore di darmene a poco a poco la triste novella, e i tristi
conforti. Il rettore ne incaricò il _prefetto_, il quale me lo annunziò
un giorno come un castigo del cielo per le mie sbadataggini, e per non
so quali sgorbi sul quadernuccio del latino.

                                 * * *

_Spartaco!_... e nient’altro che _Spartaco_! Ecco la gran conclusione
a cui ero arrivato dopo quattro anni di latino. Altro che i decotti! I
classici, che dovevano guidarmi in grembo alle ricette, tradirono mio
zio: quattro anni soli di latino m’avevano già condotto a Spartaco! Sì;
io sognavo di spezzare le catene del collegio, di dichiarare liberi
tutti, e, sulla base delle vacanze universali, stabilire un ordine
di cose più giusto. Il mio disegno, che nella pratica avrebbe forse
incontrato delle difficoltà, dopo avermi reso per qualche tempo felice,
incominciò anch’esso a lasciarmi di nuovo solo, stanco, stizzoso. La
mia giovane fantasia, irrequieta, ardente, aveva trovato chiuso il
campo gentile degli affetti domestici, e sbarrato l’alveo diritto d’una
educazione autorevole e soda. Condannata a schiudersi da sola una via,
prese a correre, a ingrossarsi, a straripare. Così se dallo stagno
modesto ove ora mi ridussi, guardo il cammino percorso, di me non trovo
che un po’ di schiuma e un po’ di chiasso.

Spartaco se n’era andato! Le catene del _banco dell’asino_, e del
galateo del mio rettore, si erano fatte pesanti più che mai. Il campo
delle cattiverie, dei dispettini, delle scappate, ormai era mietuto.
M’ero fatto grandicello, e cominciavo a disprezzare il rettore, e
a sentirmi molto al di sopra del prefetto. Ma il mio animo, invaso
sempre da un vago sentimento di inquietudine e di stizza, si crucciava
in cerca d’un modo di azione, d’una formola sotto cui protestare e
agitarsi, d’un altro Spartaco, insomma, che non mi piantasse così
presto. E il nuovo Spartaco venne!

Tra gli alunni più grandicelli e anziani del collegio, che mi
favorivano, come dissi, la loro protezione, c’era un certo Marcello
B..., uno dei primi della scola, tanto negli studi che nelle risse;
capo di tutte le combriccole, ma di un gran cuore, e che ci teneva
tutti in una certa soggezione. A Marcello io avevo chiesto molte
volte qualche savio consiglio, che m’aveva poi fruttato il pane e
acqua; e nelle principali questioni lo avevo sempre avuto dalla mia.
Marcello, da un anno, trascurava un po’ le baruffe; aveva preso un
fare misterioso; e ogni mese, quando andava a pranzo dai suoi, per
alcuni giorni era tutto intento a leggicchiare di nascosto, con tre o
quattro tra i suoi più fidi, dei libruzzi e dei foglietti stampati. Io
non ne capivo gran che, nè m’ero arrischiato di parlargliene. Quando
un giorno Marcello mi tirò da parte, sul finire della ricreazione, e,
fissandomi tutto serio, mi dice all’orecchio, mentre mangiavo pane e
ciliege: «Quali sono le tue opinioni politiche?» Io rimasi di stucco,
come a una domanda di lingua greca. Le _opinioni_ e la _politica_ non
m’erano parole affatto nuove; le avevo udite, ma senza curarmene: nè
sapevo precisamente che cosa volessero significare. Marcello, vedendo
ch’io tacevo, mi replicò all’orecchio, e questa volta ancor più
misteriosamente: «Sei tu repubblicano?» — «No;» risposi allora franco,
parendomi di leggere negli occhi di Marcello che dovessi rispondere
così. «No?» riprese Marcello, «me ne duole; ciò vuol dire ch’io non
potrò mai accettare un portafoglio con te.» E bruscamente mi volse le
spalle.

Anche il portafoglio! Decisamente non m’era capitato mai, fuorchè
nello studio del greco, di non capir niente, niente da capo a fondo,
come questa volta. Un portafoglio da dividere con Marcello!... e
quelle altre parole!... Marcello che mi leva la sua protezione!...
e io non capirne niente! Mi sentivo umiliato, confuso; e più ci
pensavo, e meno ci trovavo modo di imbroccarne una. Delle cose del
quarantotto, avvenute due anni prima, a dire il vero, io ne avevo
capito poco. Mi ricordavo che il rettore in sulle prime aveva date
delle ammonizioni severe ai più grandi, per certe ariette che questi
zufolavano pei corridoi; poi si era parlato di guerra; poi ci si
fece cantare tutti delle canzoncine sull’Italia e Pio IX. Si studiava
poco; il rettore s’era fatto mansueto come un agnello; e alla fin di
luglio ci lasciarono andare tutti a casa. Al san Carlo, il rettore era
tornato brusco come prima; e un giorno ci disse nella scuola, «che dei
guazzabugli dell’estate non se ne parlasse più; che Cesare aveva vinto
Pompeo; e che tutto era finito bene.» Così, se prima ne avevo capito
poco, molto meno dopo. Mio zio non era uomo da grandi confidenze coi
ragazzi, e, se mi faceva qualche parola, era per parlarmi dei doveri
dello _speziale_. Una volta però io avevo scoperto che lo zio era
andato di notte, e con gran mistero, al casino della _ròcca merlata_;
e il famiglio di casa diceva in secreto d’averci portato, nascosto in
un barile, un antico berretto di velite del regno d’Italia, che lo
zio aveva cavato fuori _durante i mesi del Provvisorio_. E qui a un
dipresso finivano le mie nozioni in politica.

A queste cose andai ripensando, dopo le parole di Marcello, e le
richiamavo alla memoria come le larve d’un sogno. Eran pure le sole
a cui potessi connettere la parola _politica_, forse la meno nuova
tra quelle dettemi da Marcello. E se fosse tutt’altro? Insomma non me
ne potevo dar pace. Alla fine, dovetti pur venire a una risoluzione.
«Confesserò ingenuamente a Marcello che io non ne so nulla di tutte le
cose che mi ha domandate; me le spieghi, e io sarò del suo parere.»

Attesi con impazienza la mattina del giorno seguente, la colazione, e
la mezz’ora di riposo che le teneva dietro. Il mio animo si era tutto
rasserenato. «Sì,» dicevo tra me, «domattina dopo la colazione sarò
_repubblicano_ anch’io; Marcello sarà ancora mio amico, e mi avrà
insegnata anche quella diavolerìa del _portafoglio_!»

                                 * * *

Due mesi dopo le spiegazioni di Marcello, quell’affaruccio degli
Austriaci in Italia non era più per me che una questioncina di poco
momento, un atomo impercettibile destinalo a scomparire colla vicina
caduta del _capitale_ e dell’_io_. Marcello me le aveva spiegate
queste cose semplicissime, in un modo chiaro e lampante. Io però
le ripetevo a buon conto tutto il giorno tra me, perchè avevano una
singolare tendenza a sfumare come le nubi. «Peccato» dicevo io, nel
fare la mia valigia in fin d’agosto; «peccato che mi deva dividere
così presto da Marcello! I libri però dove ha imparato tutto quello
che sa, gli ha promessi anche a me. Intanto non vorrei dimenticarmi
le cose cardinali.... questi foglietti li nasconderò tra le calze....
L’importante dunque è che scompaiano gli _individui_ e che non
rimangano che le _masse_.... poi, che traverso all’emancipazione della
donna e del pensiero, si costituiscano gli Stati Uniti d’Europa....
il cui governo sarà un triangolo formato dall’eguaglianza, dalla
fratellanza e dalla libertà....» E così riandando i punti principali
della scienza di Marcello, mi avviavo al mio paese per le vacanze
d’autunno, in quella solita vettura ove era già messa in pratica la
teoria di sopprimere l’individuo in favore della massa.

Per chiarirmi un po’ le idee, mi misi a leggere l’_Organisation du
travail_, uno dei libri datimi da Marcello. Non ne potei capire una
parola. «E dev’essere tanto bello!» pensavo tra me. «Ecco come si
insegna il francese in collegio! È la cospirazione dell’oscurantismo;
è il rettore che si frappone tra una gioventù _alitante_ di fede e i
trovati dell’avvenire!» Così detto stupivo di me stesso, trovandomi
salito in così poco tempo a tanta altezza di parole e di pensieri.
Per quell’autunno dovetti quindi accontentarmi dei foglietti sottili
a caratteri fitti, e di certi opuscoli in lingua italiana, i quali
pure mi fecero nascere il sospetto che anche della lingua nostra me ne
avessero in collegio celata una parte.

Lo zio intanto, persuaso ch’io fossi speziale fin nel midollo delle
ossa, non capiva talora come avessi mutato d’abitudini; come non
soffiassi più nel fornello con tanta lena; come girassi il pestello
nel mortaio con così poco entusiasmo. «Ma siccome nei casi dubbi io
vado diritto al metodo analitico,» diceva egli un giorno al curato
sull’uscio della bottega, «così scoprii che mio nipote legge di giorno,
e legge di notte. Esce poco di casa, e ha di già sul tavolino il decimo
volume del mio dizionario botanico. Lo misi per tempo al fornello, ed
è là che ha capito d’essere nell’empirismo. Ora la sua impazienza lo
porta a un assaggio precoce della teoria; la teoria lo trasporterà di
galoppo nella pratica, e la pratica nella teoria. Son cose che io ho
predette fin da quando l’ho destinato a questa professione.» E io che
l’avevo udito dalla finestra, ritornavo alle meditazioni profonde, ai
solitari giri della mia cameretta; e crollando il capo dicevo tra me:
«No! io non sarò mai un venduto nè della spezieria, nè dell’_io_! Io
non appartengo che all’umanità!»

Così passavo, leggendo e fantasticando, i giorni interi nella mia
cameretta. Era l’antica cameretta, che mi aveva veduto salutare la
_bella_ imitando, a cavallo d’un bastone, il guerriero del paracammino.
Al paracammino ritornava qualche volta il mio sguardo, ma non vi
leggeva più nulla; non ci ritrovava più i sogni, le emozioni d’una
volta. «Come c’invecchiano» dicevo tra me «gli studi pratici, i
_trovati_ dell’avvenire!» E a ogni nuovo pensiero era una passeggiata
per la camera e una fermata alla finestra. Che se poi vedevo spuntare
da lontano un elmo che mi annunziava il gendarme del paese, subito mi
ritiravo, gustando la voluttà del sentirmi compromesso. E tornavo ai
miei studi, alla mia scienza, agli opuscoli e ai foglietti di Marcello.
Leggerli e rileggerli; fantasticarci sopra, e capirne poco, era tutto
il mio grand’affare. Ma i forti pensieri mi avevano così alienato dai
decotti e dalle malve, che il mio maggiore studio era di lasciarmi
trovare men che potessi dallo zio, cambiando il supplizio dei fornelli
con un esilio nella mia cameretta. La noia però veniva piano piano a
sedersi vicina alle mie nuove meditazioni, e cercava sedurmi fin col
tintinnìo degli aborriti pestelli: poi, mi conduceva e riconduceva alla
finestra, a farmi fare le cento volte capolino in strada, o a tenermi
intento a spiare dalle stecche della persiana.

Di là cominciai a guardare e riguardare la bionda testolina d’una
fanciulla del fornaio, che aveva la bottega presso la nostra farmacia.
La fanciulla usciva il dopo pranzo col panchetto sull’uscio a lavorar
di maglia o a cucire, non saprei dire con qual punto, ma con punti
che mi parevano piuttosto lunghi. Che strani capelli aveva quella
fanciulla! Erano biondi; ma così lucidi, così chiari, così fitti che
ti parevano un piccolo pagliaio, o una matassa di seta scompigliata.
Non valevano a tenerli a dovere nè il pettine, nè le trecce, nè la
dirizzatura: la rivolta era generale e permanente. «È un indizio!»
pensavo tra me: «sotto quei capelli deve battere un cuore libero,
indipendente!» Il fascino di quei capelli andava crescendo a ogni
occhiatina ch’io mandavo loro dalla finestra. Le cose un poco strane
mi seducevano sempre. La fanciulla che non s’era mai accorta di me,
di tanto in tanto alzava gli occhi in su, e guardava le rondini che,
passando, pareva la salutassero col loro acuto pigolio. Io mi facevo
indietro, e mi sentivo montare il rosso al viso, quasichè ella mi
avesse veduto e avesse udito i miei pensieri. Rimanevo un poco in
agguato, zitto e senza battere palpebra; poi, piano piano, ritornavo
a far capolino. Cos’era questa nuova agitazione, che non mi lasciava
lontano un pezzo dalla finestra, e mi faceva spiare le rondini,
sperando che tutte passassero per di là?... «Spiare le rondini, che
ragazzata!» dicevo io, e pieno di vergogna ritornavo al tavolino
degli opuscoli e delle forti cartoline. Ma anche nelle cartoline
c’era un’insidia, e quei foglietti pieni di sorelle e di amanti,
al cui grembo dovevamo correre a riposarci subito dopo la vittoria,
conciliavano a maraviglia i capelli biondi con la nazione armata. Io
sentii il dovere urgente d’avere una sorella o un’amante.

La mia fantasia fece in breve una lunga strada, come era suo costume.
Ci furono dei soliloquii sull’amore nello stile di quelli sulla
politica. Mi pareva già che l’esperienza delle due cose fosse in
me profonda del pari; e a ragione. Non aspettai più le rondini per
guardare in giù. Quali visacci facessi a quella fanciulla per rapirla
in estasi, non lo so; certo non dovevano essere i più belli, perchè
la poverina finì, io credo, col prenderne paura, e non si lasciò
più vedere. E allora? Allora il san Carlo s’era fatto vicino, e
addio capelli biondi.... bisognava ritornare alle Muse. Il tempo
volava: che cosa dovevo far io?... Scrissi; scrissi una lettera alla
figliola del fornaio, sfoggiando tutto quel poco che avevo letto sulla
emancipazione della donna, sul suffragio universale, sull’imposta
unica e progressiva.... una lettera amorosa insomma, destinata a far
colpo, dacchè non ci ero riuscito con la mimica. La vettura, i bauli,
gli addii della mia partenza avrebbero fatto chiasso; la figliola
del fornaio sarebbe ricomparsa sull’uscio, e il fatal foglio avrebbe
toccato il suo destino.

La mattina venne, e questa volta mio zio, più tenero del solito, non
mi abbandonò un minuto. «Studia, figliolo,» andava dicendomi, «e l’anno
venturo ti farò fare un passo da gigante.... ti metterò alle pillole!»
Tutto era pronto; il vetturale non tollerava altri indugi; io mandai
tutto all’ingiro un’ultima occhiata, ma i capelli biondi non erano
comparsi. E io giunsi in collegio con la mia lettera in tasca.

                                 * * *

Napoleone intanto, senza dirlo nè a me, nè a Marcello, aveva fatto il
colpo di Stato. Marcello però lo seppe; ma dopo. Una sera, Marcello che
aveva passata la giornata a casa sua, rientrato in collegio, radunò i
suoi amici politici, ch’eran cresciuti di numero; e, caldo delle cose
udite, ci narrò gli ultimi avvenimenti e la _rivoluzione_ del Bonaparte
contro il popolo francese. Il caso era grave: le parole di Marcello
erano piene d’ira, e noi «che cosa si fa?» pensavamo: e siccome la
risposta non veniva, mandavam fuoco dagli occhi, in mancanza di meglio.
Finalmente io ruppi il silenzio, ed esclamai: «Bisogna agire!» Tutti mi
guardarono, lieti d’avere questo peso giù dalle spalle, e che l’idea
fosse venuta a me. «Sì, bisogna agire....» replicai, ma il difficile
stava nel continuare. Feci una pausa: nessuno fiatava. «Agitiamoci!»
ripresi.... e, per fortuna, suonò in quel momento la campanella che
ci mandava tutti a dormire, e che a me apriva una scappatoia. «A
domani» dissi allora, senza perder tempo, accorgendomi di tutta la
responsabilità che m’ero tirata addosso, per avere aperto bocca per il
primo. Come fui a letto, incominciai a fantasticare su questa maledetta
idea che i miei compagni si aspettavano da me; e me la pigliavo con
loro, perchè fossero stati così sciocchi da non averla saputa trovare
essi medesimi. Finalmente l’idea buona capitò: quell’idea, voglio dire,
che in tali frangenti pare sempre la migliore; l’idea di chiudere gli
occhi per il momento, e di pensarci all’indomani.

Venne l’indomani, ma io non ci avevo pensato. All’ora della ricreazione
ci fu il ritrovo promesso. Io tacevo; e, con mia sorpresa, m’accorsi
che nessuno si curava ch’io parlassi. I miei compagni avevano trovata
una insolita parlantina: a ciascuno premeva di metter innanzi le
proprie idee, nella previsione che sarebbero state meno avventate
e pericolose delle mie. I discorsi e i progetti politici cadevano
sul modo di finirla con l’Europa e col collegio; cadevano sul colpo
di Stato e sul rettore, che era il nostro Napoleone visibile. I
più fregavan le mani, e dicevano: «Addio collegio, chi sa che cosa
va a nascere!» A qualche altro pareva già di udire il rumore d’una
rivoluzione per le strade. Quelli che vedevano gli affari un po’ meno
color di rosa, e avevano la pazienza un po’ più lunga, speravano in un
movimento slavo. Qualche altro, ancor più moderato, pur ammettendo che
dovevano succedere dei grandi avvenimenti, limitava per il momento le
sue aspirazioni a tramare di soppiatto qualche cosa contro la credenza
o la cucina. Marcello taceva; gli altri evidentemente non erano maturi.
Toccava a me: non si era concluso nulla di energico, e già gli occhi di
tutti mi erano addosso, aspettando che dessi io il motto, per venirne
a una. Se la riflessione non aveva saputo dirmi nulla, l’ispirazione a
un tratto venne a levarmi d’impiccio. Mi passò per la fantasia, come un
lampo, l’ultimo bigliettino dell’_amico X_, e la musa fu trovata.

Tornando indietro un passo, come spesso occorre quando si contano le
novelle, dirò di volo chi fosse l’_amico X_. Chi fosse? Veramente io
non lo sapevo: non l’avevo nè udito, nè veduto mai; ignoravo perfino
come si chiamasse. Però avevo per lui un’adorazione cieca, profonda.
Io mi sarei fatto appiccare, se ne avessi ricevuto l’ordine firmato
_X_. Il fratello maggiore di Marcello era in comunicazione diretta
e continua con costui; ma neppure lui sapeva bene chi si fosse. Gli
opuscoli, i foglietti, che Marcello portava in collegio, venivano
da costui: a costui si mandava l’obolo mensile per gli _Stati Uniti
d’Europa_; e c’era, in ricambio, la parola d’ordine per la quindicina,
le notizie, le istruzioni in parole brevi, ma che trascinavano nelle
più alte sfere della perfezione umana. In un momento d’entusiasmo
per l’amico _X_, Marcello gli aveva direttamente inviata, per mezzo
del solito contrabbandiere, una lettera in cui gli parlava della
sua ammirazione per lui, della sua fede, de’ suoi propositi, e dei
compagni di collegio che, discepoli ieri, erano in oggi apostoli
fatti. Gli domandava la sua amicizia, e gli metteva a disposizione la
propria testa, come tenue contraccambio di tanto onore. L’amico _X_
rispose: rispose poche righe, ma nientemeno che tutte di suo pugno.
«Un autografo!» diceva Marcello. Quelle righe le imparammo subito a
memoria, ed eccole qua:

  «Giovine amico!

»Sì, giovine amico, gli eletti ascrivono voi e gli amici vostri tra i
loro correligionari; la Fede vi ascrive tra i suoi apostoli armati.
Voi siete la nuova gioventù; gioventù piena di candore e di fuoco;
poema vivente, che ricongiunge la coscienza dell’oggi alla tradizione
di secolare pensiero. Benedette le madri, che si incinsero in voi!
Benedette le fanciulle del vostro amore, che comprimono sotto un
pensiero di patria i palpiti del cuore, per salutare d’un sorriso il
sacrificio del vostro apostolato!

«L’ora è sonata! L’udite voi, o giovani, questa novissima voce di
turbine, innanzi a cui si schiantano e le querce e le dighe secolari?
L’udite? È l’alba della rivoluzione sociale! Sì, giovani amici!
All’annunzio d’un fatto, fate arma d’ogni cosa che ha ferro! È capo
chi guida: guidate! Guai a chi si arresta; guai a chi vi parla di
localizzazione di moti! Sdegnate i consigli prudenti; sdegnate quei
moderatori vostri, che, diseredati della tradizione del vero, vi
porgeranno il veleno di una esperienza fallace.

                                                                 »X.»

«E voi ci pensate ancora?» esclamai io dunque ai miei compagni,
i quali appunto perchè mi avevan veduto pensarci più di loro, si
aspettavano la risposta da me. «Ancora ci pensate? Per pensarci più a
lungo, bisogna essere diseredati della tradizione del vero! Che cosa
diranno le fanciulle del nostro cuore? _L’ora è sonata!_ ci fu detto:
le istruzioni le abbiamo avute: _all’annunzio di un fatto sorgete!_
Il fatto è avvenuto: a quest’ora la rivoluzione europea è scoppiata.
Udii questa notte un lontano rumore verso i monti, un rumore cupo,
indistinto, come di voci, di comandi, di gente che si affolla. È
la rivoluzione che occupa a quest’ora le gole e i grandi passi dei
monti. Luigi Bonaparte, e il suo preteso colpo di Stato, i despoti
e le diplomazie che cosa sono mai! A quest’ora. Polacchi, Rumeni e
Montenegrini sono in armi, e scendono dai monti! Sa il cielo come
è vasto a quest’ora il movimento sociale! Agire entro le mura del
collegio, cospirare contro il rettore, sarebbero tutte localizzazioni
di moto. Osiamo! La rivoluzione è incominciata: noi siamo attesi: noi
siamo in ritardo....»

«Ma.... e come si fa?» interruppe uno di quelli della localizzazione
del moto.

«Discendenti di Spartaco! Vi arrestereste voi dinanzi all’antiporta del
collegio? Che cosa dirà l’Europa di noi!...»

Io avevo vinto. Da un subito mutarsi delle facce de’ miei compagni,
m’accorsi d’aver finalmente toccata la corda giusta. Raggiante del mio
trionfo, e compreso della mia superiorità, incominciai a dare ordini
e a formare disegni. _È capo chi guida_, aveva detto l’amico X, e io
avevo in quel momento la coscienza, se non il brevetto, d’essere per
lo meno colonnello. Cresciuto alla scuola militare de’ miei foglietti
di contrabbando, potei in quattro parole riassumere ai compagni i
cardini d’una strategia molto più comoda dell’antica, per la quale ci
volevano eserciti e battaglie campali, e rimaneva tuttavia il rischio
di perdere. Le istruzioni a stampa ch’io tenevo, mi avevano insegnato a
distruggere i più grandi imperi e le più inveterate tirannie, con mezzi
sicuri e semplicissimi. «Voi troverete forse» dicevo misteriosamente
ai miei compagni «chi vi parlerà ancora delle migliaia di battaglioni
e degli eserciti regolari. Utopìe del passato! Voi vi dovete ricordare
che un uomo di buona volontà può moltiplicarsi all’infinito, e
ingrossare come una valanga. Questa valanga è l’uomo-milione; l’eroe
collettivo! Troverete chi vi parlerà di denaro, o di finanze, come
dicesi nel vecchio linguaggio. Rispondete che se a loro le angherìe e i
cento balzelli non bastano, voi con due soldi al giorno, pagati da ogni
italiano spontaneamente, avrete quasi mille milioni all’anno!»

Dinanzi a queste prove matematiche di strategia e di finanza, nessun
ragionamento in contrario avrebbe potuto reggere: ogni dubbio, se pur
ce n’era alcuno, svanì ne’ miei compagni. L’entusiasmo fu generale, le
deliberazioni furono prese all’unanimità. Si deliberò nientemeno che di
svignarsela tutti, sull’imbrunire, dal collegio, per non far attendere
più a lungo i nostri fratelli della rivoluzione europea. Marcello
taceva. Le mie parole avventate non l’avevano punto persuaso; ma
c’era un progetto ardito da compiere, un pericolo da affrontare, e ciò
bastava perchè Marcello accettasse la sua parte senza discussione. Ci
demmo ritrovo all’antiporta del collegio; e là, se avessimo trovato il
portinaio in uno di quei brevi intervalli in cui, per sbraciare colla
palettina il caldano, dava sosta al sonno, là si sarebbe deciso, se
conveniva farselo amico con un po’ di quattrini, o metterlo in disparte
con un po’ di pugni. Dataci la mano, fatto un giuramento solenne, ci
lasciammo, impazienti che venisse l’ora del tramonto per compiere
l’impresa. Per giunta, ciascuno promise di condurre qualche altro
compagno di quelli che non erano della congiura.

L’ora del tramonto venne. Il cuore mi batteva forte, e mi diceva
che questa era la più grossa di quante mai ne avessi fatte. Data
un’occhiata di intelligenza ai compagni che mi dovevano seguire,
quatto quatto uscii dal camerotto della ricreazione. A salti fatte
le scale e i corridoi, fui in un attimo all’antiporta, e ci trovai
Marcello. Spiammo il portinaio.... Dormiva. Ma non eravamo che noi
due. «Siamo i primi,» dissi a Marcello: e fummo anche gli ultimi. Il
silenzio profondo, la tranquillità della strada, mi lasciavano qualche
dubbio sulla insurrezione universale. Si poteva udire il ronzìo d’una
mosca, ma non si udiva voce alcuna di insorti. Un’altra voce piuttosto
udivo dentro di me, una voce che in tutta confidenza mi diceva di
tornare indietro e di andare a cena. Ma l’agitazione, il dispetto, il
puntiglio mi cacciavano innanzi; così, tra queste due forze contrarie,
io rimanevo immobile, e per primo, contro le mie stesse ingiunzioni,
_localizzavo il moto_. Quando a un tratto, la voce del rettore che
ci chiamava tutti e due rintronò per i corridoi del collegio, e in un
accento che già ci annunziava essere perduto, se non l’onore, il pane
e il formaggio per quella sera. Marcello allora mi scosse e mi gridò:
«Avanti!» In due salti attraversammo lo stanzone del portinaio; io
giunsi fuori dell’uscio per il primo e misi piede nella strada. Ma
intanto il portinaio, che dormiva e non dormiva, aveva già pigliato
per le falde del vestito Marcello, e iniziata una lotta che doveva
finire col trionfo del potere. Al primo accorgermi di quel tafferuglio,
io m’ero fermato, e stavo per slanciarmi in soccorso di Marcello.
Quando, due mani colossali e vigorose d’un anonimo, che mi colsero
alla schiena, mi fermarono di botto, e mi costituirono prigioniero.
Non mancai di dibattermi alla meglio, facendo arma di tutto, come
dicevano le mie istruzioni militari, fin dei denti e dei tacchi. Udendo
il passo di qualcuno che capitava, cominciai a gridare, sperando, a
dispetto questa volta delle istruzioni, un alleato. Era un soldato
austriaco, che tutto d’un pezzo, colla pipa in bocca, e il passo
flemmatico, tirava diritto, senza neppure voltare la faccia dalla parte
ove io gridavo a tutta gola. Gli Slavi non erano insorti! Quest’ultimo
disinganno venne a compiere la mia sconfitta; e poco dopo tra un viavai
di prefetti e di camerieri, io e Marcello eravamo dinanzi al rettore.

Chi era quell’anonimo che mi ricondusse in collegio, lasciandomi il
segno delle sue dieci dita nelle braccia? Era il cuoco del collegio,
quel cuoco col quale avrebbero voluto intendersela i moderati! Così,
io e Marcello fummo chiusi in camera per una settimana: Napoleone potè
incominciare tranquillamente il suo regno; e in collegio il brodo della
minestra rimase lungo come prima.

                                 * * *

Da sessant’anni, la politica aveva solo due volte leggermente
increspate le acque tranquille del mio paesello. La prima volta fu
quando un giacobino del capoluogo venne a piantare sul sagrato l’albero
della libertà. I curiosi erano corsi in frotta, credendolo l’albero
della cuccagna; ma, quando si accorsero che non c’erano i polli, se
ne andarono per i fatti loro: così contano alcuni di quel tempo. La
seconda volta fu nel quarantotto, quando mio zio tirò fuori il berretto
da velite, e lo tenne in capo per quattro mesi, giorno e notte. Questi
due avvenimenti erano per il mio paese le colonne d’Ercole della
politica: non si andava più in là.

Finiti gli anni del collegio, e da un anno staccatomi dal mio Marcello,
dopo avergli giurata però fedeltà fino alla morte, mio zio mi richiamò
a casa per fare pratica di farmacia, e quindi avviarmi all’Università.
Io mi aspettavo, in buona fede, di ritrovare anche il mio paesello
commosso dai grandi problemi sociali, persuaso com’ero che ogni nuova
pagina delle mie letture, ogni teoria, ogni idea nuova per me, fossero
tutte luminose scoperte che corressero ed agitassero il mondo intero
in quel momento, come agitavano ed esaltavano me stesso. Ma sia che
i grandi problemi sociali avessero presa altra strada, o fossero
tuttora in cammino, per quanto mi facessi a interrogare e a cercare,
nessuno si _agitava_, nessuno _dubitava_ con me. Dubitavano alcuni
che, per il lungo asciutto, i fieni sarebbero stati scarsi; ed altri,
che l’oste avesse tagliato il vin vecchio con quel nuovo. «_Queste
sono aberrazioni d’uomini, ma non di popoli_,» dicevo sulle prime,
col mio autore, e continuavo nelle mie ricerche. Parlai dell’imposta
progressiva, e mi fu risposto che si preferivano le imposte
stazionarie. Nessuno pensava a distruggere il capitale; nessuno ne
aveva ribrezzo! Nessuno insorgeva contro il salario; anzi, chi ne era
senza, faceva di tutto per averlo. Nella mente di quei villici non si
agitava nessun vasto problema; e, se correva qualche scappellotto, non
era mai in nome dei grandi principii dell’avvenire.... nemmeno in nome
di quelli dell’ottantanove! Mi persuasi che questi villani non erano
_popolo_, e che il _vero popolo_ doveva essere tutt’altra cosa.

«Ma la vita è missione!» dicevo tra me. «Costituitevi sacerdoti,
agitate!» Solo non sapevo da qual parte incominciare; non sapevo chi
dovessi agitare per il primo. Agitare mio zio?... il curato?... il
fornaio?... Dopo maturo esame, incominciai il mio apostolato giocando
a briscola, nella bottega del tabaccaio, con due spiantati che ci
passavano la giornata a bicchierini d’acquavite. Trovai in questi due,
che la sorte fece poveri e dimenticati, una così pronta intuizione
delle più ardue questioni sociali, da sperar bene dell’umanità.
Inflessibili nei principii, ed uomini pratici soprattutto, mi svelarono
fin dal primo giorno che il fornaio era un aristocratico, e che
bisognava dare un esempio. Orgoglioso di questo mio primo successo,
ripresi più alacremente il mio apostolato di agitazione, anche al di
fuori della bottega del tabaccaio. Sminuzzai il pane della scienza;
cominciai dalla costituzione dei valori e dall’organizzazione del
_buon mercato_. Ma quegli zotici, anzichè demolire l’idolo dell’_io_,
presero a ridere di me. In breve furono tutti convinti che avevo,
come si dice nel mio paese, dell’_estro_, cioè una vena di matto. Io
mi confortavo, ripetendomi che queste erano «aberrazioni d’uomini,
non di popoli,» e continuavo più che mai ad agitare, non fosse altro,
me stesso. A poco a poco tutti mi si facevano più lontani, fuorchè
il caporale dei gendarmi, il quale mi si faceva un po’ più accosto.
Deluso e sconfortato, feci ritorno alla bottega del tabaccaio, ove
almeno, dicevo tra me, c’è potenza di fede, c’è coscienza di popolo
e di azione. Il mio curato, di tanto in tanto, pigliandomi a braccio,
cercava d’acquietarmi un po’, confutando la mia scienza col buon senso,
o con esempii dell’antico Testamento. Ma tutto era inutile, e il buon
uomo di soppiatto mi indirizzava persino dei segni di croce, nel dubbio
che qualche demonio ci avesse la sua parte. Mio zio, per essere uomo
troppo severo, non mi ammoniva mai. Una prima mancanza non era un fatto
abbastanza grave per lui, da farne oggetto d’una sua ammonizione: e
l’ammonire per una seconda, era quanto il confessare d’averne lasciata
una impunita. Mio zio, in questi casi, per levarsi d’imbarazzo,
ricorreva alla sua teoria, che cioè «nelle contingenze difficili della
vita, bisognava innanzi tutto procedere all’analisi dei fatti.» E con
ciò aveva ogni volta l’opportunità di qualche grande discussione di
filosofia col curato, nella quale, coll’appoggio di molti autori e di
molti testi di chimica, riusciva di una incontrastabile superiorità.

Mio zio teneva dietro in silenzio a queste mie smanie di plasmare
e fondere tutti gli uomini della terra, di fare scomparire ogni
ineguaglianza, di rendere tutto di un medesimo colore; e presto s’era
accorto di tutta l’analogia che c’era tra le mie teorie e quella
del far le pillole. Nei grandi assiomi, ch’io tracciavo a brevi
linee su qualche fogliuzzo di carta, o che proclamavo come trovati
indispensabili per la salute della società, egli ravvisava una precoce
tendenza per le ricette, una fede indomita nella farmacia. Convinto
dunque mio zio, che tutto il male proveniva dallo squilibrio, in cui
si trovavano le mie forze intellettuali con la mia posizione sociale,
pensò di sciogliere la questione con un colpo decisivo, e mi mise alle
pillole.

Povere pillole! Bisognerà però che torni indietro un passo, per
spiegare ancor più chiaro in quale disposizione d’animo me le
pigliassi. Era ritornata da qualche tempo in paese la bionda figliola
del fornaio, che non avevo più riveduta, dopo la lettera che le avevo
scritta e che m’era rimasta in tasca. Era tornata da un paese vicino,
dove aveva passato qualche anno in casa d’una vecchia zia; ma non
era più la fanciulla in gonnellino corto, che dalla finestra, ove io
sospiravo per lei, vedevo correre saltelloni, lasciando sprigionati
per ogni verso i suoi biondi e fitti capelli, e che ricambiava i miei
palpiti con altrettanto affetto per le ciliege: era una giovanetta
tutta seria, timida, ravviata, e che per un nulla si faceva rossa
in viso, come spesso avviene alle anime buone e gentili. I suoi
capelli, fatti più docili e più oscuri, avevano preso il colore
lucido dell’oro; e i suoi due grand’occhi celesti, pieni di una serena
bontà, si abbassavano vergognosi a terra appena s’accorgevano d’essere
guardati. Il mio curato l’aveva battezzata per Cleopatra; ma i suoi di
casa avevano tirato il nome in diminutivo, e la chiamavano Luigina.
L’arrivo della Luigina aveva messo sossopra il garzone del ferraio,
il galoppino del comune, un chierico, un figliolo del maestro, tutta
insomma la gioventù brillante del paese. Io che avevo fatti gli studi,
e che ero il nipote dello speziale, dimenticai la democrazia e sentii
tutta la mia superiorità. Non so se in nome dell’amore antico o di
un amor nuovo, se per passatempo, per puntiglio, per vanagloria, o
per quell’istinto di tirannìa di cui sono calunniati i demagoghi,
decretai la conquista di _Cleopatra_, senza pensare ch’essa era la
Luigina. Ecco perchè a un tratto mi mostrai preso da un desiderio
irresistibile d’imparare i secreti dell’impastare, e la meccanica del
burattello e del frullone. Il fornaio non la finiva più nell’insegnarmi
l’arte, e andava in visibilio per il mio interessamento e anche per
la mia degnazione. A ogni minuto ero da lui, quantunque i miei amici
politici, quelli della bottega del tabaccaio, l’avessero segnato
come un aristocratico, e non gli pagassero nemmeno il conto per non
transigere con lui. Ci andavo però un pochino di soppiatto, e con
alcune precauzioni, perchè non mi tradissero le imbiancature della
farina, e un certo odor di pan fresco. La madre della Luigina s’era
subito accorta ch’io m’andavo infarinando in qualch’altra cosa; e
credendosi d’una furberìa senza pari, tutto il giorno era sul far
mosse strategiche per lasciarci soli, o per metter paglia sul fuoco:
io era un buon _partito_, e bisognava farmi _abbruciacchiare le ali_.
In pochi giorni io avevo dichiarato alla Luigina il mio amore, la mia
passione, il mio delirio, sfoggiando tutti i sentimenti classici della
mia antologia latina e tutto il linguaggio romantico della mia scuola
politica. La Luigina rimaneva come trasecolata; si faceva tutta rossa,
e, alzando il gomito, cercava nasconder la faccia: poi fuggiva. E io
allora, vedendomi incompreso, un po’ facevo l’infelice, non affatto
malcontento di fare una cosa nuova, un po’ mi stizzivo davvero, e
davvero sentivo certe prime punture che dovevano essere quelle.... chi
lo sa? dell’amore.

E fu allora appunto che mio zio, dopo i più maturi riflessi, era venuto
nella conclusione di mettermi alle pillole.

                                 * * *

Passavano i giorni e i mesi, ed io mi facevo sempre d’umor più nero,
più stizzoso, più annoiato. Gli andamenti di questo mondo non li vedevo
che attraverso la _Gazzetta ufficiale_, che me li faceva parere, come
la belladonna, sempre più gialli e nauseabondi. La Luigina si faceva
sempre più rossa, e scappava sempre. Il mio povero zio principiava
a parermi un tiranno; e le sue pillole, lavoro senza _coscienza
di azione_, mi parevano un agguato della cospirazione moderata e
dottrinaria. Fino allora non avevo mai parlato di Università, dove
avrei dovuto studiare una scienza che disprezzavo. Ma ormai, poco
contento del mio apostolato, della Luigina e dei cittadini delle
campagne, cominciai a tempestare lo zio, il quale mi rispondeva che un
po’ più di pratica m’avrebbe giovato per la teoria, tanto più che non
eran gli anni per una spesa così grossa; che la campagna andava male e
i paesani facevano senza medicine, o al più, comperavano un cerotto che
bastava per tutto l’anno, per tutta la famiglia e per tutti i mali.

Fu in mezzo a queste mie traversìe, che un bel giorno mi venne il
pensiero di cercar rifugio e conforto in un’antica e misteriosa
conoscenza, nell’amico dell’amico Marcello, in quella X che risplendeva
tuttora nella mia fantasia, con l’egual fascino e con l’eguale potenza.
Io non avevo mai scritto all’_amico X_, e questa prima lettera mi tenne
in faccende per un mese. Feci e rifeci; rubai qua e là qualcosina dai
miei autori, e misi assieme degli squarci che mi lasciarono per un
pezzo molto contento di me. Cercai salvare la minuta del mio scritto
dal pericolo dei tre gendarmi del paese, sotto una tegola del tetto;
ma le intemperie profane non la perdonarono che a queste poche righe.
«...._perocchè l’Austria non può essere vinta che fissando l’angelo
della vittoria con intrepida adorazione del Vero. Gli eserciti non
valgono se chi li affronta è popolo fatto Principio e pugna armato di
quella Fede collettiva, che è armonia di anime viventi nel Fine. La
sètta faziosa che chiamasi maggioranza, ribelle all’Idea in cui solo
risiede il diritto, cospira per un patto sociale che non è edificio,
ma rintonaco di sepolcro. Noi saremo militi e sacerdoti: militi e
sacerdoti di quel Vero che, spiccando il volo sull’ali della coscienza
progressiva, dai ruderi dell’io, concreterà la vita collettiva nella
patria delle patrie, l’Umanità_....» E qui, se ben mi ricordo, venivano
i miei convenevoli, poi il mio nome. Ma appena scritto il mio nome,
mi vennero in mente i tre gendarmi; e ripigliata la penna, tirai pian
piano sulle lettere altrettanti ghirigori. E di più, pensandoci, vidi
che quel mio nome, ad eccezione dell’_Adalberto_, era troppo volgare.
Più che per un programma del futuro, mi parve fatto per una spezieria
del presente; ne arrossii, e, dopo averci meditato, scrissi in fin
di pagina, con un coraggio da leone, _vostro Adalberto dalla ròcca
merlata_, e consegnai la lettera al contrabbandiere che mi vendeva i
libriccioli politici.

Per un mese fui sulle spine. Finalmente una sera il contrabbandiere mi
fece un cenno con l’occhio, per farmi capire di andargli dietro, e mi
condusse a casa sua. Fosse la lettera dell’amico? pensai tra me, e il
cuore mi batteva forte, come quando aspettavo una di quelle risposte
della Luigina, che non giungevano mai. In un cantuccio della cucina,
da una gerla piena di stramaglie, tra i pacchi di sigari falsificati,
di caffè di cicoria e di carte da giuoco senza bollo, mi cavò fuori
finalmente, il mio contrabbandiere, un foglietto sottilissimo piegato
a guisa di lettera, e su cui stava scritto _Adalberto_. Non c’era più
dubbio; pagai senza economia il porto, e corsi a rinchiudermi in camera
per assaporare, e meditare in pace il mio prezioso manoscritto. Apersi
il foglietto, ed eccolo qua:

  «Caro conte!

«Il nome di Adalberto me lo apprese Marcello, tra i nomi di quegli
ardenti e candidi giovanetti, che per angelica ispirazione del Vero
protestavano per tempo contro le false esercitazioni del pensiero.
Voi dunque volete essere tuttora coi buoni, a cui la tradizione
dell’Umanità collettiva diede l’intuizione dell’avvenire! Io già
vi amo come fratello! Voi sarete, caro conte, leva irresistibile di
azione intorno a voi, mentre col largo obolo del vostro censo, potrete
sorreggere anche altrove il lavoro di altri buoni. — Riceverete mano
mano le istruzioni dell’azione collettiva.

»Nel popolo, fanciullo dell’Umanità, vive e respira la spontaneità
dell’Innocenza, che la è Virtù inconscia; noi professiamo la Virtù, che
è lotta e fatica. Ma congiunti in forte armonia, avremo la melodia dei
popoli, che è murmure d’angeli e fragore di folgori.

»Abbiatemi sempre più che amico, fratello.

                                                                 »X.»

Rimasi per tutta quella sera, e per il giorno dopo, e per molti giorni
ancora, abbagliato e intronato, tante erano le emozioni e le nuove
fantasie che si facevano ressa nel mio capo, dopo la lettura di quella
lettera. Il signor X, mi chiamava nientemeno che _fratello_: io ero un
iniziato nell’azione collettiva; io ero un _buono_; i buoni avrebbero
saputo il mio nome; ero un eletto dell’intuizione dell’avvenire! C’era
da perdere la testa per la consolazione. Però, bisogna che lo confessi,
la cosa che mi fece maggiore impressione fu quel caro conte. Io non
avevo mai veduto un conte, ma gli avrei ammazzati tutti, tanto gli
odiavo. Ora il mio X, l’uomo perfetto, mi chiamava _conte_, per un
equivoco senz’altro, ma pure senza inorridirne, e dicendomi con tanta
compiacenza _fratello_. Dunque, pensavo tra me, in certi casi si può
essere anche un conte. Nel mio caso, per esempio, io sarei a un tempo
un conte e un galantuomo. E bisogna convenire, continuavo tra me, che
il chiamarsi Adalberto conte della ròcca merlata, non sonerebbe male;
e me ne verrebbe della dignità e del rispetto, di cui, ben s’intende,
userei per il trionfo della democrazia universale. Queste idee mi
andavano così a sangue, che in poco tempo mi feci mitissimo con le
contee, e mi sorpresi un giorno allo specchio, col volto composto alla
maggior dignità, contemplandovi il conte della ròcca merlata, che per
essere il primo conte che vedevo, mi pareva tale da riconciliarmi anche
con gli altri. Risposi all’amico X, e tacqui sull’affare del _conte_.
Ed egli da capo a darmi del _conte_, e io duro a pigliarmelo in santa
pace.

Passavo i mesi in queste mie nuove beatitudini, che mi facevano quasi
dimenticare l’orrore della spezieria, e anche un po’ l’amore per la
Luigina: quando una notizia dolorosa e misteriosa venne a scotermi
profondamente, e a richiamarmi a quel po’ di serietà che pure c’era in
me. Leggendo un giorno dal curato la _Gazzetta ufficiale di Milano_,
trovai queste due righe tra le notizie delle province: «_Marcello
N., dottore in legge, noto per fatti e sentimenti antipolitici, venne
arrestato in.... la notte del 27 corrente._» Era la prima nuova che
avevo del mio buon Marcello, dopo che mi aveva salutato baciandomi
all’uscir di collegio.

                                 * * *

Il primo ordine che ricevetti dall’amico X fu di costituire un comitato
rivoluzionario per il mio paese e per i paesi vicini. «Dove vado
io a fare il comitato?» Volevo parlarne a quei due del tabaccaio,
ma da qualche tempo m’era nato il sospetto che bazzicassero dal
commissario, e che l’oro fatale me li potesse corrompere. Cercavo
bene di mantenerli nel campo della rivoluzione europea, a bicchierini
d’acquavite, ma la mia fiducia in loro non era più così serena come
per il passato. Alla fine mi decisi. Scrissi che il comitato era
fatto, e il comitato ero io. Il comitato fu richiesto del suo obolo
mensile per la cassa centrale, e di tanto in tanto di qualche prestito
straordinario; prestito di cui si avevano in ricambio i titoli di
credito inscritti sul gran Libro dell’avvenire. Per non dire che
al comitato non era riuscito di affigliarsi anima viva, e per non
smentire la mia contea, presto mi trovai al verde, e finii un bel
giorno col fare il mio primo debito con un cittadino delle campagne
che pizzicava un po’ dell’usuraio. Ogni quindicina ricevevo poi in
ricambio delle grandi novità: prossimi moti in Polonia, più prossimi
ancora in Calabria, vicine le barricate a Parigi, e vicinissimi i
soliti moti degli Slavi. Il comitato doveva tenersi pronto con la
sua vasta associazione a occupare i grandi passi dei monti, dove
avrebbe trovato altre vastissime associazioni. Occupati questi passi,
a un dato cenno, dovevamo rotolar sassi sul territorio nemico; chi
avesse avuta una picca poteva discendere a molestare ancora di più
lo straniero. Resa così vana ogni nuova calata di eserciti, quei del
piano e delle città, avrebbero in breve trionfato dei pochi satelliti
nemici, mentre un proclama scritto in due o tre lingue avrebbe
trascinati nel nostro campo interi battaglioni. Il mio comitato poi
ne rispondeva alla sua volta delle belle. Un muratore, che non aveva
avuto lavoro in certe opere di fortificazione, si sfogava in piazza
dicendo che quelle muraglie si potevano buttar giù con un soffio....;
e il comitato scriveva all’amico X che sorgevano dei fortilizii, ma
che l’associazione poteva fin d’ora far calcolo sui mezzi con cui la
rivoluzione se ne sarebbe resa padrona al primo segnale. Un gendarme
un po’ brillo aveva mormorato contro il sergente all’osteria.... e il
comitato scriveva: «Il malcontento nell’armata è al colmo, generale
ormai il pensiero di far ritorno alle proprie case; si organizzano
vaste diserzioni: il comitato ha su di ciò informazioni positive, per
rapporti coll’armata stessa: il comitato veglia e lavora.»

Come mai potevo credere con tanta buona fede tutto ciò che mi si
scriveva, e come mai alla mia volta potevo scrivere tante storie, quasi
con altrettanta buona fede? Non lo so, ma pure era così. Certe parolone
abbruciano il palato, e domandano ogni giorno delle parolone ancora più
grosse. La vanità infantile poi, del trovarsi partecipe e quasi arbitro
di grandi destini, è tale seduzione, che conduce a sostituire al vero
il fantasma. Oh i begli anni!... e come ero giovane allora! E l’amico X
era anch’egli giovane altrettanto? Lo incontreremo più tardi.

                                 * * *

Le alte imprese a cui credevo di attendere, il fumo delle grosse
parole, l’ingenua credenza che le idee ruvide e brusche fossero
forti pensamenti, avevano finito col farmi pigliare così sul serio
la mia parte, ch’io m’andavo mutando di carattere; tanto che, senza
avvedermene, l’umore mi si faceva triste e l’animo non buono. Io
mi credevo un repubblicano di Sparta, e non ero che un repubblicano
del villaggio. Venne anche un giorno in cui mi dissi stizzito: «la
Luigina non fa per me!» Ciò voleva dire ch’io non comprendevo più la
semplicità modesta, la bontà tranquilla, serena. «Cleopatra,» dicevo
io alla Luigina, «tu non mi ami: se tu intendessi l’amore, come io lo
intendo, tu insorgeresti contro i pregiudizi di questa vecchia società;
voleresti nelle mie braccia, e fuggiremmo insieme. Così io l’ho inteso,
così l’ho sognato l’amore! Rialza, o Cleopatra, la grande bandiera
dell’Eva!»

Povera fanciulla! Prima ancora che il comitato fosse venuto a
scompigliarmi maggiormente il cervello, una volta, fattomi ardito,
l’avevo trattenuta susurrandole qualche parolina. Da quel giorno,
con gli occhi a terra, e turbata, ella mi ascoltò più volte. Non
rispondeva parola; pure, quasi impietrita, non sapeva allontanarsi da
me. Ma quando più tardi cominciai a tormentarla con le mie follìe,
e a parlarle d’amore con le parole che imparavo sui libriccini di
contrabbando, la vidi di nuovo fuggire per non rivederla che a più
lunghi intervalli.

Questa benedetta rivoluzione universale, sulla quale andavo facendo
tanti calcoli, o s’era fermata per strada, o non aveva ancor prese le
mosse: fatto sta che non capitava mai. Impaziente, stanco di tutto,
mi sentivo sempre più agitato da quella irrequietudine che invade chi
fonda tutti i sogni dell’avvenire in un mondo vago, lontano, e fuori
d’ogni realtà. Bisognava oramai che mutassi, non foss’altro, d’aria,
di paese, di gente. Il pretesto poteva essere l’Università, di cui
da un pezzo non si parlava più, «_perchè le annate erano scarse_»,
diceva mio zio, forse per non confessare che disperava di far di me
quello speziale che aveva sognato. Il mio nuovo intento fu dunque
l’Università. A indurre lo zio, non c’era altro modo che attendere con
maggior compunzione alle sue ampolle, mostrarsi compreso di questa
missione sociale, e dargli prove migliori della mia irresistibile
vocazione, del mio delirio per la sua arte. Mi decisi; rimboccai le
maniche, ripresi il grembiale e il soffietto, e mio zio m’ebbe vittima
e complice dei suoi fornelli, delle sue storte e delle sue scoperte.

Ma se la materia era incatenata al pestello, lo spirito spaziava
sempre nelle regioni della protesta e della rivolta. Lo zio m’affidava
talora qualche ricetta, e se non avvelenai nessuno e non mandai
lo zio all’ergastolo fu un miracolo. Le malve ripugnavano ai miei
sentimenti risoluti, radicali; le sanguisughe mi evocavano il fantasma
dei potenti che succhiano il sangue dei popoli: gli _eroici_ soli mi
parevano all’altezza de’ miei pensieri; ma mio zio non voleva che ci
mettessi mano. Io agitavo le bibite nelle ampolle; ma frattanto pensavo
al giorno in cui sarebbe spuntata la _vera_ libertà, quella libertà
in nome di cui il popolo _vero_ avrebbe messo in prigione il popolo
falso. Pensavo al giorno dell’_eguaglianza_, in cui avremmo cacciate
al di sotto le classi che non erano con noi. E in nome poi della
_fratellanza_ universale, io passavo le mie ore ad odiare, sulla fede
de’ miei testi, uomini e cose, di cui non conoscevo che il nome.

Frattanto era venuto l’autunno del 1858, e, non so come, fin nel mio
paesello era giunta la voce che potesse nascere qualche grande novità,
che potesse scoppiare una guerra. Ne chiesi subito conto all’amico X,
il quale mi rispose che la rivoluzione era a buon porto, ma non ancora
affatto matura; che stéssi molto in guardia; e che «qualsiasi moto che
non veniva da noi, non poteva essere che un moto fazioso.» Potei quindi
sorridere con una profonda pietà di quelle notizie campagnole.

                                 * * *

Il mio disegno con lo zio non era riuscito male: l’inverno faceva
capolino dalle bianche cime de’ miei monti, e la mia partenza era
già all’ordine del giorno nei discorsi sotto la cappa del cammino.
Quand’ecco una lettera dell’amico X; una lunga lettera che viene a
mettermi sempre più in guardia su quelle tali voci di guerra, e sui
pericoli che si celavano in certe ingannatrici speranze. Perciò il
comitato doveva dichiararsi in permanenza, ed aspettare. Ed io che
ero già sulle mosse! Non è a dire quanta fosse la mia perplessità:
avrei voluto andarmene e rimanere a un tempo. Rimasi; e mio zio non
ne fece alcuna maraviglia, avvezzo com’era alla poca durata delle mie
risoluzioni. Egli piuttosto continuava a osservarmi in silenzio, non
essendo riuscito a capirmi bene, e volendo pure, anche sopra di me,
trovare la _teoria_.

Ma cominciò a stupirsi davvero, e a capirne sempre meno, quando, sul
finir dell’inverno, il turbine della guerra facendosi così vicino
da increspare anche la tranquilla superficie del mio paese, e non
parlandosi da tutti che di strategia, di francesi, e di cannoni
rigati, mi vide diventar sempre più chiuso e taciturno, proprio come
lo volevano le mie istruzioni recenti. Io, che altre volte avevo tanto
declamato, che avevo chiamato vile e imbelle chi non mutava in un’arme
la prima sedia che gli capitava tra mano, e non insorgeva tutti i
giorni dell’anno; ora che pareva vicina davvero quest’alba sacra della
riscossa nazionale, e un nuovo entusiasmo moveva l’intero paese; io
tacevo, io ero in disparte, come un nemico che vede una rovina nella
fortuna della patria.

Che il mio silenzio, alla vigilia del combattere, fosse paura?
Qualcuno avrebbe potuto sospettarlo! Il giorno che fui preso da questo
orribile pensiero, per la prima volta, nella piena del dolore, ebbi
un istante d’odio contro il tiranno misterioso che mi vietava la mèta
a cui correvano, pieni d’entusiasmo, i giovani miei pari. Ogni giorno
passavano per le vie dei miei monti brigate di giovani delle valli
vicine che correvano a farsi soldati, chiamati da nessuno, fuorchè
da un istinto sublime che loro diceva essere vicine le nostre sante
battaglie. Spioni e gendarmi erano dì e notte sulle loro tracce; ma li
metteva in salvo quella cospirazione tramata da nessuno, universale,
onnipossente, delle cause mature. Nel mio paesello, perfino il garzone
del fornaio, un povero ragazzotto, mezzo idiota, un bel mattino prese
con sè gli abiti da festa, e se ne andò. Lo incontrai per via, e
gli chiesi: «Che fai?» — «Vado ad arrolarmi;» mi rispose nella sua
semplicità, e tirò innanzi. Non gli chiesi altro, e, pieno di rossore,
chinai gli occhi, sentendomi indegno di fissarlo in viso. Il mio
contrabbandiere venne una sera con una lettera, e mi chiese quando
doveva venire per condurmi _di là_. «Domani,» gli risposi.

Ma all’indomani io avevo letta la lettera, avevo arrossito di
quell’istante di debolezza, per cui poco era mancato che fossi rimasto
vittima anch’io dell’illusione generale. Avevo imparato che presto si
sarebbero bensì combattute delle battaglie, ma delle false battaglie:
che da quelle battaglie ne sarebbe venuta forse una falsa libertà, una
falsa indipendenza, e che i veri generosi, i veri combattenti sarebbero
stati quelli che non avrebbero combattuto. L’ora non era ancor giunta,
perchè ci facessimo apostoli armati. Dovevamo ancora rimanere apostoli
seduti, spiando il momento, che i casi potevano render vicino, per
impadronirci del moto. Intanto aspettassi gli avvenimenti e gli avvisi.

Mio zio era andato più volte alla ròcca merlata a dar forse un’occhiata
al suo berretto; era in chiacchiere dalla mattina alla sera col curato,
e da un mese non aveva fatta più nessuna scoperta. Era tutto lieto e
ringiovanito; lieto soprattutto d’averla vinta sul curato, col quale
tanti anni prima aveva fatto una scommessa che Napoleone avrebbe prima
o poi passato il San Bernardo e rifatto il regno d’Italia. Egli non
parlava più col curato che di volteggiatori, di veliti, di granatieri
della guardia, e di dragoni della regina. Se gli avessi detto, un
bel mattino, ch’io andavo ad arrolarmi nei veliti, gli avrei forse
prolungata la vita di dieci anni. Egli mi guardava di tanto in tanto,
quasi aspettasse che gliene domandassi la permissione; e tacevamo tutti
e due.

Mi guardava il curato, mi guardava il fornaio che era rimasto senza
garzone, mi guardavano tutti. Nessuno mi diceva una parola; che cosa
pensavano di me?... Pensavano che avevo paura! A sviare il pensiero
da questa vergogna, a farmi forte dinanzi a questi sguardi che mi
scendevano al cuore come punte avvelenate, mi chiudevo sempre più nel
mio proposito, con la sciagurata ostinazione di chi, avendo forse la
coscienza del meglio, si è appigliato al peggio. Prestavo il manto
dello stoicismo alla fiacchezza del mio animo; chiamavo chiaroveggenza
la mia cecità; facevo l’incompreso perchè non volevo capire. Mi fossi
almeno spiegato! Avessi almeno enunciata la mia teorica sublime!
M’avrebbero forse creduto pazzo, ma non vile.

Rimasi muto e chiuso nella mia camera anche il giorno in cui, alla
notizia di grandi avvenimenti, si trovarono in rivoluzione tutti gli
abitanti del mio paesello. «Gran battaglia al Ticino; fuggiti i tre
gendarmi; Vittorio Emanuele à Milano; Napoleone Dio sa dove....» Tutto
ciò fu contato un bel mattino da un carrettiere che veniva d’in giù, e
che aveva veduto coi propri occhi un zuavo. In un attimo mio zio ebbe
il berretto da velite in testa; costituì il comitato; proclamò il regno
d’Italia; strappò dalle vetrine della spezieria una tendina verde,
dal collo della serva il fazzoletto rosso, e, cucitili insieme con
una salvietta, ebbe fatta e piantata sulla bottega la bandiera; fece
gettare nel torrente l’insegna del tabaccaio, e mandò cinque uomini con
pali e forche a cercare una spia, che si diceva girasse in mezzo alla
segale.

Fedele alla consegna, non mi lasciai trascinare nè illudere da questi
falsi provvedimenti rivoluzionari, e il giorno dopo firmai una protesta
all’Europa, mandatami dall’amico _X_, contro la battaglia di Magenta.
Così ebbi anch’io l’emozione di compiere in quei momenti un atto
grande! E pur troppo non tardò il giorno in cui l’arrestarsi improvviso
della guerra parve dar ragione ad alcuna delle previsioni dell’amico,
ed io ci vidi la riprova ch’egli era l’oracolo infallibile del vero.
«La fazione ha finito, la nazione incomincia,» mi scrisse pochi giorni
dopo l’amico _X_; «noi siamo a Milano, e vi attendiamo.»

Ogni esitazione era dunque finita. Al desiderio che in me si agitava
da tanto tempo, si aggiungeva ora il fascino di una irresistibile
chiamata. Con lo zio fu presto intesa ogni cosa, e rimase deciso
che, all’aprirsi dell’Università, io sarei finalmente andato a Pavia
per essere iniziato ai misteri della farmaceutica. Pavia, nel mio
linguaggio, voleva dire Milano; come poi avrei aggiustala questa
faccenda non lo sapevo, e per allora non ci pensavo nemmeno. Milano!
Milano! Fu per tre mesi la mia sola parola, il mio sogno, il mio
tormento. Io non avevo mai veduto Milano. Noi altri della provincia
abbiamo l’occhio fisso, più di quanto ce lo vogliamo confessare,
verso quel grosso e lontano formicaio di gente che ha le pretese di
sentirsi non solo capoluogo, come i capoluoghi di tant’altre provincie,
ma un tantino di più. Que’ signori del formicaio, che valgono più di
quello che vogliamo ammettere noi, e meno di quanto credono loro, ci
fanno provare a un tempo un senso di repulsione e di attrazione, che
è quello, io credo, che finisce col farci girare come lune intorno a
loro, seguendoli a distanza nelle idee e nei costumi.

Ma allora non ne sentivo che l’attrazione, e bisognava che ci piombassi
nel mezzo. Milano era tutto per me. Là, io avrei trovato un popolo
poeta e umanitario, intento solo ai grandi problemi della questione
sociale; là, gli ingegni peregrini e gli apostoli venerandi, intenti
tutti al trionfo della mia fede; là, infine, la donna d’alti concetti
e di forti passioni, ravvolta in un mistero di vesti e di profumi,
la donna che rispondeva al mio ideale di quel momento! «No,» dicevo
tra me, «io non sono nato alle semplicità rusticane. La passione che
mi trabocca dal cuore dovrebbe chiudersi tutta in un’umile simpatia
campagnola? No; io sono nato per le grandi emozioni, e in queste solo
io posso trovare la mia felicità! Domani finalmente sarò partito.
Questa è l’ultima volta che....»

È l’ultima volta, volevo dire, che do mano al cencio da spolverare,
perchè questi pensieri mi assalivano nel ripulire il banco della
spezieria; cosa che avrei giurato non sarebbe accaduta mai più. Intanto
non m’ero accorto che dalla porta della spezieria era entrato qualcuno.
Era entrata la Luisa che, avendo una sorellina ammalata, veniva per la
prima volta in persona con una ricetta. Si fece rossa in viso lei, e mi
feci rosso io; ed io poi rimasi imbarazzato e goffo come non ero mai
stato in vita mia. Pigliai la ricetta e per eseguirla mi misi in gran
faccende passeggiando per tutta la bottega. Pure bisognava dir qualche
cosa, e sempre andando innanzi e indietro incominciai:

«Sempre ammalata la sorellina?... E che bel tempo!... cioè freddo sì,
ma asciutto....»

«Dicono che in giù sia venuta tanta neve....»

«Neve?... Oh, ma vedrà che con questa pozione la sorellina.... Abbiamo
molti ammalati. Cose della stagione.»

«Se ne guardi anche lei dall’ammalarsi; sento che si mette in
viaggio....»

«Oh, ma oggi il vento tira al bello. Quando lei vede la banderola del
campanile guardare in giù, dica pure: ecco il bel tempo.»

«Così, sono arrivata in tempo anch’io per darle il buon viaggio....»

«Cioè, viaggio veramente no! È così una corsa....»

«Conta dunque di tornar presto?»

«Oh presto, prestissimo!... Ecco fatto. E prima di darne un cucchiaio
alla sorellina, la agiti ben bene nell’ampolla, la pozione.»

«Mi dicono che in giù ci sieno tante belle cose, che s’è veduto molti
andarvi e dimenticare le loro montagne, il loro paese, e non ritornare
mai più....»

Non si fecero altre parole. Io diedi l’ampolla alla Luisa senza levare
gli occhi su di lei; essa la prese, e dopo un momento di esitazione
partì. Nelle sue parole c’era un accento di commozione che mi lasciò
profondamente turbato. Quell’accento aveva quasi ritrovata nel mio
cuore l’antica risposta: ma il turbine delle mie fantasie mi riprese
subito nelle sue spire; io fui da capo in pieno tumulto, e in esso andò
soffocata la voce modesta del sentimento. Mi scossi ed esclamai: «No,
il destino mi chiama altrove! Io partirò! L’_avvenire_ è incominciato
per me!»

                                 * * *

Un lungo e acuto fischio della locomotiva mi annunziò che ero a
pochi passi da Milano. Misi il capo fuori dello sportello per veder
subito la famosa guglia del Duomo; ma tutto era ravvolto in un vapore
denso e grigio. Il cuore mi batteva forte; credetti che l’emozione
mi facesse velo agli occhi. Io avevo lasciato il giorno innanzi il
bellissimo cielo delle mie valli, senza un saluto, con la sdegnosa
impazienza di chi muove verso il regno delle sette maraviglie. Tra una
nebbiaccia umida e fitta, che non lasciava vedere a un palmo dal naso,
urtato dalla folla, assordato da un chiasso inurbano di facchini e
di conduttori di carrozze, ma pieno della mia vergine venerazione, mi
accostai con tutto il rispetto a un cittadino vetturale, che mi cacciò
in un suo legno, mi condusse alla locanda, mi strapazzò un pochino, e
mi prese anche un po’ più di ciò che gli era dovuto. Gli feci le mie
scuse umilissime, persuaso d’aver io mancato in qualcosa; e s’anco mi
avesse dato dei pugni, non sarebbe riuscito per il momento a rompere
il mio incantesimo. Il mio primo pensiero fu quello di mettermi
in vestito da festa, e di correre nelle braccia dell’amico _X_. Il
nome dell’incognito amico mi era però noto da qualche tempo; egli
stesso me lo aveva scritto nella prima lettera che mi aveva mandato
da Milano. Il suo nome era Bartolommeo....; gli amici lo chiamavano
comunemente Bortolo, e i compatriotti poi Bortolino. Egli aveva avute
molte vicende nella sua vita. Dopo il quarantotto aveva peregrinato
per le città della Svizzera ora facendovi l’editore, il traduttore, o
il corrispondente di giornali, ed ora facendo in mancanza d’altro il
negoziante. Aveva qualche brevetto per invenzioni e privilegi; aveva
promosse società industriali ed agricole per allevamento di polli, per
terre nell’Oceania, per concimi economici, e per altre cose di pubblica
utilità; ma i tempi e gli uomini lo avevano male assecondato. Da ultimo
era stato corrispondente d’un droghiere di Milano e d’un giornale di
Genova.

Questi varii talenti dell’amico non li conobbi che più tardi. Il
giorno in cui lo vidi per la prima volta, egli era per me il filosofo
che precorre i tempi con gli ardimenti dell’ingegno; era il politico
umanitario, il patriota inflessibile e puro, il giusto, il martire;
era il mio ispiratore e maestro; era quell’incognita _X_ che aveva
misteriosamente dominata per tanti anni la mia esistenza, che m’aveva
forzato a fare miei i suoi odii e i suoi amori, e che aveva posseduto
tutto l’entusiasmo de’ miei giorni più belli. Io dunque mi presentai al
maestro commosso e quasi tremante. La confusione sulle prime, facendomi
velo agli occhi, me lo presentò circondato da quell’aureola, che la mia
fantasia ammiratrice gli aveva tante volte prestata.

Il signor Bartolommeo non era bello. Aveva il viso butterato dal
vaiolo, e gli occhi appiattati dietro un paio d’occhiali verdi. Era
basso e tarchiato; il suo vestito non tradiva con indizii palesi la sua
anima linda e pura. La ribellione de’ suoi capelli, contro gli ordini
moderatori del pettine, era generale e permanente. Si sarebbe detto
che l’abitudine del malcontento avesse sviluppato in lui una specie
d’idrofobìa, che gli faceva fuggire istintivamente, tra le altre cose,
anche l’acqua e gli specchi.

Appena ebbi balbettato il mio nome, _Adalberto_.... l’amico Bortolo mi
abbracciò con premura, e facendomi capire ch’egli era molto affabile,
mi chiamò il suo _amico conte_, e mi diede le ultime nuove di _noi_,
dell’_oggi_ e del _dimani_. Nella sua voce c’era una mellifluità che
allora mi parve una cosa sublime. Non parlava d’altro che di se stesso,
ma sempre con una grande modestia. Nei discorsi comuni era, come
tutti gli altri, un uomo di questo mondo; e di più avveduto, pratico,
positivo. Ma quando entravamo nella politica o nelle _scienze sociali_,
pigliava un tono lento, ispirato, vaporoso, come se avesse digiunato
per un mese in un deserto. Parlava con le note frasi e con lo stile
di quando scriveva; ripeteva le vecchie formole con quell’accento di
persuasione che pigliano le cose quando le si dicono sempre. Io ero più
che mai in estasi e con la bocca aperta.

La brezza umida e fredda che spirava per via mi richiamò alquanto,
com’ebbi lasciato l’amico, dalle fervide regioni del mio entusiasmo.
Mano mano che ritornavo in me stesso, mi vedevo schierare dinanzi
tutto ciò che avevo pensato di poetico sull’incognito amico, e tutto
ciò che avevo veduto in lui di reale. Eran due cose che volevano a
forza venire al paragone. Ma io tiravo diritto, camminando senza sapere
dove mi andassi, e affermando risolutamente a me stesso che la realtà
dell’amico Bortolo aveva superato l’ideale dell’amico _X._ Anzi fui
lieto di poter scoprire una prova della mia inferiorità e una ragione
di malcontento contro me stesso, perchè avevo lasciato in inganno
l’amico, senza dirgli subito che mi chiamavo _così_ e _così_, e che
non ero che un povero speziale di campagna. Non avevo avuto il coraggio
di confessargli la fanciullesca vanità con cui, fino allora, io avevo
accettato un nome, che sulle prime mi fece parere più romanzesca la mia
avventura di cospiratore. E poi m’ero sentito così piccolo, in faccia a
lui, che non avevo saputo svestirmi di quella poca _contea_ alla quale
pareva ch’egli desse pure una qualche importanza.

Frattanto il giorno imbruniva, ed io cominciavo a sentirmi solo,
smarrito, melanconico in mezzo a tanta gente che andava, veniva, mi
urtava senza che ci trovassi una faccia nota od amica. Mi riposai
alquanto alla locanda, dando la colpa del cattivo umore che mi scendeva
addosso, alla stanchezza, al viaggio, al sonno. Alla lieta inquietudine
del giorno innanzi, teneva or dietro l’inquietudine di chi si sente
poco contento di sè. Uscii da capo, e, a chiuder bene quella prima che
doveva essere la più bella giornata, mi feci condurre al teatro della
Scala, che era pure una delle cento maraviglie che mi avevano fatto
balzar tanto il cuore in mezzo alle mie montagne. Oh questa volta sì
che la realtà mi parve, senza discussione, superiore all’ideale! I
miei occhi correvano affascinati dal palcoscenico ai palchetti, dai
palchetti al palcoscenico. Le ballerine mi sembravano angeli, e le
signore mi sembravano dee. Mi sovvenne ch’ero venuto a Milano anche per
le grandi emozioni del cuore, e mi sentii di subito innamorato di tutte
quelle cento e cento divinità. Addio, povera Luisa! Il mio incanto era
tale che non mi sentivo più padrone di me; applaudivo le ballerine,
applaudivo le signore, e gridavo forte, o confidavo ai vicini tutta la
piena della mia ammirazione. Ma a togliermi da tanta beatitudine venne
un bisbiglio improvviso di gente che zittiva intorno a me: mi guardai
in giro, e vidi che da tutte le parti si rideva alle mie spalle, e mi
si gridava _silenzio!_ Confuso e tutto rosso in faccia, avrei voluto le
cento volte trovarmi su d’una cima delle mie montagne. Intanto si era
calata la tela: queto queto uscii di teatro, e me ne andai diviato alla
locanda. Quel primo giorno sognato, invocato da tanto tempo, poteva
avere la cortesia di mandarmi a casa un po’ più di buon umore. Andai a
letto senza far parola, e spensi subito il lume.

                                 * * *

L’amico Bortolo sedeva come un _sole_ in mezzo a cinque o sei
satelliti minori che giravano intorno a lui; e tutti insieme poi
giravano intorno a un altro _sole_ che era parte, alla sua volta, di
un secondo sistema planetario, retto anch’esso dalle leggi d’una più
forte e più vasta attrazione. In pochi giorni ebbi imparata tutta
questa astronomia; conobbi i principali satelliti _bortoloniani_, e
fui ascritto all’associazione degli _Stati Uniti_ d’Europa «_Sezione
Olona_.» Le principali colonne della Sezione Olona, oltre all’amico
Bortolo presidente, erano un regio impiegato, il ragioniere d’una
casa signorile della città, e un giovinotto che si diceva negoziante
e mediatore di carte pubbliche; «Sì ch’io fui _quinto_ tra cotanto
senno.» Non potei dire precisamente d’aver piantate le mie tende presso
lo stato maggiore; ma ero talmente in vena d’ammirazione e di umiltà,
che mi credetti fin troppo in alto sedendo vicino a loro. C’era bene
un generalone di più alto bordo, ma lo si vedeva di rado. L’amico
Bortolo era della sua costellazione, e i responsi noi non li avevamo
che di terza mano. In breve conobbi tutti gli amici di Bortolo, e gli
amici degli amici, ai quali tutti venni presentato come un _forte_
cittadino delle campagne, «cosa che mi procacciava un inchino;» e come
il conte Adalberto della ròcca merlata, «cosa che me ne procacciava
tre.» Perduta una prima volta l’occasione di sconfessare quella
contea, l’occasione non si presentò più. Cercai schermirmene qualche
volta; ma appunto allora i miei nuovi amici si dicevano con più calore
all’orecchio che «io ero un gran signore della provincia; che avevo
Dio sa quanti milioni, quanti antenati e quante contee; ma che ero
così _puro_, che non volevo nemmeno sentirne parlare.» Per quanto
fosse grande la mia ammirazione per loro, più grande ancora era quella
ch’essi avevano per me. E a furia di sentirlo dire con tanta serietà,
e di vederlo così bene accetto, finii col persuadermi anch’io, d’essere
proprio quel conte di cui si discorreva.

Uno, tra quelli che mi inchinavano di più, era l’impiegato regio. Dopo
vent’anni di fedeli servigi e di schiena curvata dinanzi a una dozzina
di _Grafen_ della bassa Austria e della Stiria, suoi capi di ufficio,
poteva ben dirsi maestro in fatto d’inchini, e d’inchini d’alta scuola.
Per avere un sorriso dal suo _Graf_, all’incominciare della guerra gli
aveva profetizzata la strage vicina dei _piemontesi_: ma, pochi giorni
dopo, andato all’ufficio, il _Graf_ non c’era più. Egli allora gittò
in alto le soprammaniche di tela, e gridò: viva la repubblica! Da quel
momento egli era diventato un uomo politico. Sfoggiando la scienza del
giro che fan le carte dal protocollo all’archivio; dicendo _plagas_
del governo nazionale, e denunciando come reazionarii gli uomini che
uscivano dalle prigioni politiche dell’Austria, era presto salito
in fama di grande amministratore, d’uomo _indipendente_ e di _vero_
liberale. Egli ci intratteneva tutti per lunghe ore con la sua scienza
delle soprammaniche di tela; ed io meno ne capivo, e più rimanevo
compreso per tanta dottrina e tanta avvedutezza.

La mia fantasia, che non sapeva essere un minuto contenta e tranquilla,
giungeva talora a gettar perfino qualche domanda, qualche dubbio,
in mezzo alla fede cieca, al culto ch’io professavo per i miei nuovi
amici. Una volta chiesi a me stesso se non fosse più leale ed onesto il
non ricevere paga da un governo che si vuol ingiuriare; se non fosse
più secondo l’onore il rifiutargli il proprio giuramento e i propri
servigi. Ma l’amico mio, mi risposi subito, non può fallare; e misi
l’apparente contraddizione insieme a tant’altre che spesse volte mi
davano nell’occhio. Anche l’amico ragioniere, il quale, professando
i principii più inesorabili dell’eguaglianza, voleva eguali tutti di
fatto come i numeri finali della scrittura doppia, non mi parlava che
delle degnazioni della sua contessa, dell’amicizia e degli inviti del
tal barone o del tal marchese. Conti e marchesi formavano le delizie
del mio ragioniere e di qualche suo confratello che, al pari di lui,
professava le teorie più pure della rivoluzione. Qual nèsso ci possa
essere tra le aspirazioni democratiche e il culto dei blasoni non
lo so....: ma certo un gran nèsso ci deve essere, se nella mia breve
esperienza, nelle mie poche osservazioni sociali trovai così frequente
la ripetizione di questo fenomeno.

Un altro fenomeno mi parve sulle prime l’amico commerciante, o sensale
che fosse. Di suo non aveva che le chiacchiere che ci spacciava;
eppure faceva negozi per centinaia di mila lire. Negoziava un giorno
di carte pubbliche, un altro, se occorreva, di frutte secche; oggi
era mercante, domani mediatore; non aveva professione di sorta, e le
faceva tutte. Allegro, bontempone, discolo, era da mattina a sera in
baldorie e in affari. Dedito anch’esso di fresco alla politica, si
proclamava _socialista_, e chiamava _code_ i suoi colleghi del circolo
repubblicano; cosa che dava al circolo un po’ d’inquietudine, e a lui
un po’ più d’importanza. Nemico del capitale, lo era un po’ meno degli
interessi; ed io ne seppi più tardi qualcosa. Innamorato, estatico
anche di costui, io mi abbandonai a occhi chiusi nelle sue braccia, ed
egli si incaricò di fare la mia educazione cittadina.

                                 * * *

Prima di trascinarmi nella sua voragine, l’amico sensale mi aveva
trascinato dal suo sarto, il quale mi aveva subito messo alla moda come
il sensale, ed anche un tantino di più. Infatti, se la moda voleva
il soprabito un po’ corto, al signor _conte_ il sarto glielo faceva
di due dita più corto ancora; e se la moda voleva la giubba lunga,
il signor _conte_ aveva una giubba lunga una spanna più di tutti gli
altri. L’amico m’aveva vendute certe sue spille e certi anelli che
facevano lo specchietto, come quelli d’un cavadenti. Io poi mi versavo
addosso tutte le mattine una boccetta d’acqua odorosa, e per lo più
di muschio, che mi annunziava da lontano come l’avvicinarsi d’una
_moscardina._ Con tutto ciò io non ero ancora contento di me, nè ancora
avevo raggiunta quella tranquillità di spirito, e quel sentimento
di superiorità, di chi ha la coscienza d’essere un uomo elegante. Io
seguivo come una vittima il sensale in tutte le sue compagnie, e in
tutte le sue baldorie; lo seguivo al teatro e al suo caffè, alle sale
da ballo e ai suoi festini. Il mio buon amico non aveva risparmiato
fatiche per ridurmi in breve alla moda cittadina, e dopo due mesi
poteva già compiacersi di qualche buon risultato. La mia corteccia
campagnola, combinata con le levigature del sensale, aveva fatto ridere
qualche scioccone alle mie spalle; ma s’era poi detto che alla fine dei
conti io ero un gran signore, e che morto un certo mio zio milionario
e tiranno, io avrei ecclissati tutti quelli che la sfoggiavano per
Milano. Io che sentivo queste cose, pigliai presto il partito di darmi
certi modi un po’ eccentrici, un certo fare da originale, che è spesso
l’espediente più a buon mercato per cavarsi d’imbarazzo, e passare
per un uomo non comune. Il difficile a questo mondo è di farsi largo
col buon senso. Soprattutto poi, io avevo bisogno di far del chiasso
intorno a me; di fare come il ciarlatano, che dice di cavare i denti
senza dolore, perchè lo strepito dei pifferi e della gran cassa copre
le strida del villano. I miei sogni migliori cominciavano a fuggire
dinanzi alla realtà. La mia anima forse mandava già il suo primo grido
di disinganno; ma io non lo volevo ancora nè udire, nè confessare.

Un giorno l’amico ragioniere pensò di volermi presentare alla _sua_
contessa. La _sua_ contessa era la contessa _Neni_ (diminutivo, per chi
non se lo immaginasse, di Antonietta), la quale, unitamente al conte
marito e ad una contessina di diciotto mesi, costituiva il casato a cui
l’amico mio aveva l’onore di tenere i conti. Tra le molte e bellissime
signore ch’io rimiravo mollemente sdraiate nelle loro carrozze, o
a passeggio per le strade con l’incerto andare dei loro piedini, la
contessa Neni aveva segnato il punto massimo della mia ammirazione. Al
teatro, ove però avevo imparato a inebbriarmi in silenzio, mi pareva di
essere in un Olimpo, e le signore mi parevano tante dee: ma se in mezzo
alla mia estasi per queste belle compariva la contessa Neni, allora
io le tradivo tutte, allora io non vedevo più che _lei_. Lei però
veniva di rado: suo marito, nominato da poco sindaco in un villaggio di
trecento anime, trovando comodo il _self-government_ a ogni tratto era
al villaggio, e non aveva preso nemmeno il palchetto alla signora. Come
sono invadenti nei governi queste aristocrazie! L’aristocrazia aveva
invaso un po’ anche me stesso; alla mia contea m’ero già abituato, e
mi sentivo già capace di difenderla palmo a palmo dietro i suoi merli:
le belle donnine del teatro e delle carrozze mi piacevano quasi più che
l’amico Bortolo, e per loro piantavo, di tanto in tanto, le conferenze
della _Sezione Olona_. Anche alle conferenze della _Sezione Olona_
capitavano, a dir vero, delle signore, ma per una singolarità che mi
diede più volte a pensare, erano quasi sempre un po’ brutte, o un po’
vecchie. Mi ricordo d’una in particolare che voleva essere chiamata
_cittadina_ e non _signora_, anche a rischio di venire confusa colle
vetture che stanno in piazza; e che proclamavasi una donna dell’89,
cosa che nessuno avrebbe messo in questione di certo. Se Prudhon
m’aveva messo dei dubbi sulla mia divisa della _fratellanza_, questa
_cittadina_ me ne mise un vero spavento.

Al ragioniere dunque, a cui tante volte avevo parlato della mia
ammirazione per la contessa Neni, era venuto in mente di farmi
conoscere a lei, chiedendole il permesso d’una presentazione. Una
signora difficilmente rifiuta di conoscere un suo adoratore; che se poi
l’adoratore ha, come avrebbe detto la contessa Neni, _un nome_; se ha
la riputazione di uomo eccentrico; la curiosità della signora cresce
in ragion diretta di tutte queste qualità. Il ragioniere, che Dio sa
quante storie aveva magnificate sul mio conto, mi annunziò il giorno
e l’ora in cui avrebbe detto dinanzi alla contessa: «ho il piacere
di presentarle il signor _tale_;» parole misteriose e sacramentali,
che bastano a procacciarvi una stretta di mano e un sorriso gentile
dalla più fiera beltà, che fino allora aveva avuto l’aria di non
accorgersi nemmeno che voi eravate a questo mondo. A quell’annunzio del
ragioniere, il mio cuore battè forte come nel giorno in cui mossi per
la prima volta alla casa dell’amico Bortolo. La fortuna mi conduceva
per mano verso il mio secondo ideale; forse mi schiudeva le scene d’una
passione drammatica, quale io l’avevo sognata! Avrei voluto preparare
qualche squarcio di eloquenza e di poesia, per fare buona figura nei
discorsi, certo sublimi, della contessa: ma la mia commozione era tale,
che non fui capace di accozzare quattro parole in cui ci fosse il senso
comune. Mi rassegnai, e mi raccomandai alla Provvidenza.

                                 * * *

Nell’ultimo gabinetto d’un quartierino piccolo, ma in un bel palazzo
grande, adagiata o quasi rannicchiata sul fondo d’una poltrona, si
vedeva come in iscorcio una elegante personcina, ravvolta in non so
quanti metri d’una bellissima stoffa, e che si chiamava la contessa
Neni. La contessa Neni sedeva nel suo quartierino come la regina
dei mille ninnoli che la circondavano, e delle mille figurine di
porcellana, da cui pareva eletta a suffragio universale. Essa aveva
lo sguardo languido delle donnine in porcellana chinese, il bianco
delle figurine di Sassonia, le pose molli delle piccole _pompadours_ di
Sèvres. Essa poi conosceva a fondo la storia e la natura di questi suoi
sudditi, e ne parlava continuamente da sovrana premurosa e illuminata.
E quante volte non ebbi io la bontà d’esser geloso d’un mandarino
chinese, d’un villanello di Sassonia, o di qualch’altro individuo di
quel regno innocuo e silenzioso? Al qual regno innocuo e silenzioso
appartenevano anche, per non tacere di nessuno, tre giovanetti galanti,
che, innamorati della contessa, le facevan la corte contemporaneamente
e senza guerre civili, contenti di sedere intorno a lei tre ore
al giorno, senza dire una parola, mandando solo qualche sospiro, e
cambiando di tanto in tanto la positura sentimentale. Se il silenzio
può essere eloquente, questi tre giovanetti erano tre Demosteni; ma
si incaricava di parlare per tutti e tre un uffiziale francese, ch’era
anch’esso molto assiduo presso la contessa.

Di questi quattro signori appunto si componeva il crocchio della
contessa nel momento in cui il ragioniere, con molta sommessione, e con
molta compiacenza, mi presentò, sfoggiando i titoli annessi alla mia
_ròcca_. La contessa mi accolse con un sorriso gentile, e mi porse una
piccolissima manina, ch’io, a buon conto, non presi, per la soggezione
e per il timore di farle male. Io ero tutto in nuovo. Avevo le scarpe
nuove, un vestito nuovo, un solino nuovo, che mi segnava un giro rosso
intorno al collo, e mi ero profumato con una boccetta nuova. I tre
signorini non diedero segno di vita, e finchè non fui presentato anche
a loro, finsero di non avvedersi nemmeno della mia presenza, come se
fossi un infusorio. Io però mi accorsi d’una certa occhiata con cui
mi misurarono da capo a piedi, e alla quale tenne dietro un certo
sorriso che mi fece, non so perchè, diventar tutto rosso. Quei tre se
ne stavano seduti o, per dir meglio, sdraiati, chi su una seggiola, chi
dentro una poltrona. Mutavano di posa a ogni tanto con una disinvoltura
affettata; e sebbene mi avessero subito inspirata una profonda
antipatia, pure, con la coda dell’occhio, gli osservavo per imitarli in
qualche cosa. Ma non m’arrischiai di seguirli in quelle evoluzioni, che
mi parvero del resto un po’ troppo confidenziali ed anche abbastanza
volgari: mi attenni alle regole della mia prima educazione, e rimasi
seduto col busto diritto, e con le mani distese sulle ginocchia,
come mi aveva insegnato il mio rettore. I tre signorini tacevano
sempre; taceva il ragioniere, taceva la contessa, e non parlava che
l’uffiziale francese. Io credetti quella prima volta che il tacere
fosse una cosa grandemente signorile, e non è a immaginarsi come
mi tenessi scrupolosamente chiusa la bocca. Ma il Francese m’ebbe
presto piantati gli occhi in faccia, e in un minuto mi diresse non
so dire quante domande. Io avevo imparata la lingua francese da quel
rettore del collegio, che nelle mie valli aveva tanta rinomanza per
le lingue morte. Capii difatti ch’egli mi aveva appunto insegnata
una lingua che non si parla. Figuratevi quale spavento fu il mio! Ma
fortunatamente l’uffiziale dopo il _dites-moi, monsieur_, senza tirare
il fiato continuava, _vous dites donc_.... ed io gli facevo un risolino
compiacente, compiacendomi moltissimo che rispondesse lui per me.

Io tacevo sempre, e le cose continuavano benino. Ma la contessa Neni,
vedendo che da un quarto d’ora non s’era parlato di lei, interruppe
a un tratto la conversazione con un _ah!_ accompagnato da un lungo
respiro e da una posa un po’ più languida di prima; il che sommato
voleva dire che c’era una improvvisa sofferenza da dividerci tra noi
sei. Si scossero infatti i tre giovanetti, e si fecero flebili più che
mai: «_Che fu? che c’è?_» La conversazione si fece subito pietosa, e
la contessa Neni con un certo imbarazzo studiato, elegante, ci parlò
d’un maluccio che le era capitato, un enfiatello, se ben mi ricordo;
ma non un enfiatello comune; un enfiatello che doveva moverci a grande
pietà, ma parerci nello stesso tempo una cosa straordinariamente
poetica. Mi parve a un tratto che i miei compagni di pietà invocassero
un rimedio dal cielo, ed io in un eccesso di commozione e di zelo,
facendomi di nuovo tutto rosso, saltai su a dire: «_Ci vorrebbe un
ce_....» Lo sapevo ben io che cerotto ci sarebbe voluto, ma mi parve
in quel momento che a pronunziare la parola cerotto tutti si sarebbero
accorti ch’ero uno speziale. Mi fermai in tempo; ma mi si appannò la
vista, e mi credetti perduto. Per fortuna però c’era stato il Francese,
che al mio primo aprir bocca, non volendomi lasciare la priorità dello
specifico, aveva ripreso lui il filo delle mie parole, insegnando
alla contessa tutto quello che ci voleva. E non le disse questa volta,
delle chiacchiere; le insegnò un buon empiastro, e proprio quello che
ci voleva; talchè mi balenò alla mente, che anche costui, siccome si
faceva dare del _conte_, fosse conte di una qualche ròcca merlata come
la mia.

Di lì a poco l’amico, dicendo di avere cento belle che l’attendevano,
si alzò, e se ne andò. Mi sentii un gran peso giù dalle spalle; e così
se ne fossero andati anche gli altri, perchè io ero talmente in fiamme,
che in quel momento mi sentivo il coraggio di proporre alla contessa
per lo meno una fuga. Io non avevo ancor provato a trovarmi solo
dinanzi a lei, e a non sapere aprir bocca.

«È una persona amabilissima....» incominciò a dire la contessa,
pigliando le redini della conversazione, e conducendola tutta da sola
con un’arte finissima di parlar sempre, e in verità dicendo pochino. «È
una persona veramente di garbo, una persona proprio della società....»
Ma poi tra questi francesi ce ne sono di curiosissimi! Si figurino
che un giorno ne ho veduto uno, un maggiore, credo, ma che non è
della società, e che si chiama _monsieur Pigeon_. E vogliono ridere?
È legittimista! Che sieno legittimisti il colonnello _de la_.... e il
_marquis de_.... che vedo frequentemente, lo capisco benissimo; ma lo
strano è che uno si permetta d’essere legittimista quando si chiama
_monsieur Pigeon!_ E mi si dice che ce ne sieno degli altri come
costui. Oh siamo molto più liberali noi!...

«Com’è liberale la contessa!» dicevo frattanto tra me stesso, in mezzo
al mio entusiasmo.

«.... Io sono d’avviso che in società si devano rispettare tutte le
opinioni, anzi io sono molto liberale; ma mi pare poi assai ridicolo
che tutti quelli che passano per strada si credano in diritto di avere
delle opinioni che non sono punto fatte per loro.»

«Oh certamente! contessa,» dicevano frattanto qua e là i tre signorini;
e il ragioniere accompagnava il tutto con un risolino di piena
approvazione.

«E lei dunque si chiama Adalberto....» riprese la contessa a proposito
del discorso di prima. «Adalberto! che bel nome, è un nome che mi piace
tanto!» E socchiudendo alquanto gli occhi, come soleva in fine d’ogni
sua frase, lasciò giungere mollemente fino a me una guardatina, che mi
accese ancora più, e mi fece tremare da capo a piedi. In buona fede me
la pigliai tutta per me, e come di buona valuta. Non fu che più tardi
che vidi quelle mezze guardature scendere allo stesso modo, freddamente
su tutti; e più tardi ancora che mi spiegai, colla chiave di quelle
occhiate, l’immobilità dei tre giovanetti e di quanti si dibattevano
intorno alla contessa Neni come cingallegre sui panioni.

«E nelle sue terre lei avrà anche dei castelli?» riprese la contessa.

Ebbi un minuto di esitazione. La guardai in viso.... ma era così bella,
che le risposi di sì! Che sciocco! Eppure in quel momento non ebbi
altro rimorso che d’aver detto una cosa non vera a un angelo come lei,
che doveva essere tutta ingenuità.

La contessa riprese la conversazione sui castelli, ma io non tenni
dietro più al filo del suo discorso. Io non avevo in pensiero che
quell’occhiata, e ne stavo spiando una seconda. Ma per quel giorno la
seconda non venne; e ne incolpai tra me il povero ragioniere, che mise
fine troppo presto alla visita, mentre io non me ne sarei andato più.

                                 * * *

Aspettando sempre la seconda occhiata, m’ero fatto ogni giorno più
assiduo presso la contessa. Facevo le mie ore di contemplazione in
società coi tre giovanetti e con tanti altri, perchè ogni giorno ce
n’era uno di nuovo; correvo per le strade come un matto, o vi facevo
delle lunghe fermate come un ladro, e la contessa non dava segno di
avvedersene mai. Le occhiatine talora partivano, ma non venivano a me.
Fui geloso or dell’uno or dell’altro, senza sapere però mai di chi lo
dovessi essere davvero. Mi struggevo di sospetti e di rabbie, avrei
voluto spassionarmene con lei, dirle il mio amore e le mie gelosie,
ma ogni volta ero costretto a calar le vele dinanzi a un circolo
di assediatori che ci stavano all’àncora, e innanzi alle manierine
gentili, calme, e gelidamente seducenti della contessa. Le delizie
insomma del mio ideale, le delizie di un amore romanzesco per una gran
dama, le andavo assaporando tutte. E quando, stanco, incominciavo a
sentire i primi gridi della rivolta dentro di me, allora.... allora
capitava l’occhiatina a farmi rinnovare l’investitura di vassallaggio.
Nè questi erano i soli intoppi che avevo trovati nella mia nuova vita.
Eppure non sapevo staccarmi dagli antichi sogni fantasticati nel mio
paesello!

Un intoppo però che avevo temuto e che non trovai fu quello del
cerimoniale dell’alta società. Io avevo spese delle ore a casa mia a
pensare come sarei entrato in una sala dorata; che cosa avrei fatto,
che cosa avrei detto in un crocchio di dame e di cavalieri. Avevo lette
sui libri le severe etichette d’una volta, e tremavo al solo pensarci.
Tempo perduto! Se di tanto in tanto diedi un poco nell’occhio, fu
perchè mi sentivo piuttosto timido nel pigliarmi i miei comodi in
società con la franchezza degli altri. Con gli splendidi vestiti d’una
volta, i cavalieri hanno lasciato giù anche le splendide maniere.
Talchè oso dire che anche il _galateo_ del mio rettore mi poteva quasi
bastare. Io poi m’accorsi che la mia ròcca merlata, e i milioni della
mia contea m’erano una gran bolla di indulgenza plenaria. Potei perfino
lanciare qualcuna delle mie idee demagogiche che, come speziale,
m’avrebbero fatto dare del briccone, ma che dette in guanti gialli mi
acquistavano una certa riputazione di originalità; la quale è pure una
delle vie che menano al _buon genere_.

Trovai piuttosto, e in breve tempo, un intoppo nei quattrini. Le
baldorie con l’amico sensale, le spesucce per la repubblica universale,
e la vita galante per la corte alla contessa, mi asciugarono
presto quei pochi denari che avevo portati con me per studiare la
farmaceutica. Il sensale mi intratteneva sempre dei suoi giuochi di
borsa, dei suoi guadagni, e di milioni, di cui parlava come di cose
di sua intrinsichezza. Una volta mi propose di associarmi a lui in
una speculazione di carte pubbliche che, secondo un ragionamento
chiaro e lampante, doveva in pochi giorni farci intascare una buona
sommetta. Io, che gli avevo taciuto le mie strettezze, cercai di fare
l’indifferente, ma accettai con la gioia secreta di chi vede venire in
proprio soccorso una fortuna inaspettata.

Un mese dopo il sensale mi annunziò che per una stupida
interpretazione, per parte del pubblico, delle cose politiche, noi
avevamo perduto, sulle nostre carte, cinque mila lire. Mi pregò anzi
che le pagassi io, ed egli si pigliava l’impegno di farmene guadagnare
più del doppio nel mese seguente. Bisogna dire che io cambiassi molto
di faccia a quell’annunzio, perchè il sensale s’accorse subito che in
quel momento io mi dovevo trovare all’asciutto.

«Eh capisco,» prese egli infatti a dire sull’attimo; «capisco come
non vogliate così presto far venire denari da casa vostra dove c’è
l’abitudine, nevvero? di lasciar la muffa sui milioni! Ma non conta;
lasciate fare a me. Dei denari ve ne procurerò io, e quanti ne
vorrete.»

Detto fatto, mi portò le cinque mila lire. Io mi sentii venir meno
dinanzi a quel primo debito così grosso; ma un po’ per l’imbarazzo in
cui mi trovavo, e un po’ perchè nelle grandi occasioni io sono sempre
uno sciocco, accettai. Allora l’amico mi provò come due e due fan
quattro, che per queste cinque mila lire, secondo l’uso, io ne dovevo
confessare ottomila; e mi fece firmare una cambiale. Poi le cinque mila
lire se le tenne per pagare la perdita, assicurandomi che presto me ne
avrebbe guadagnate altrettante, per quanto, diceva, le fossero inezie
per me. Così rimasi bruciato come prima, e con questo bel guadagno per
di più.

Nè passò molto che, impacciato com’ero, mi dovetti far coraggio, e
calunniando l’_avarizia_ del mio povero zio _milionario_, confessai
al solito amico di trovarmi senza un quattrino. L’amico, dopo avermi
canzonato un pezzo sulla mia timidezza da provinciale nel far debiti,
e pigliandosi l’impegno di darla lui una lezione agli zii avari,
s’impegnò di trovarmi una nuova sommetta, che cercai di moderare più
che potei. Firmai dunque una seconda cambiale; e, ben inteso, per
il doppio quasi di quello che dovevo ricevere. Ma il bello si fu che
anche questa volta mi vidi sborsata solo una parte della somma, e in
conto del rimanente mi capitò a casa una corba di roba e un quadro,
che il mio creditore dichiarava di _ignoto sì, ma rinomato autore_. Io
avrei forse perduti i sensi, se il mio buon amico non mi avesse subito
provato che io avevo conchiuso un bellissimo affare, e che _in città_
si faceva così.

La politica del navigare in mezzo a tanti scogli mi si faceva ogni
giorno più difficile. Oh se avessi potuto rifare il primo passo! Ma
intanto mi bisognava passare per un milionario col sensale, per un
aristocratico con la contessa, e per un demagogo con Bortolo. Al fiero
Bortolo tenevo scrupolosamente celato ch’io menavo vita elegante, e
che passavo le mie giornate in casa d’una contessa, e, peggio ancora,
in mezzo a tanti _galli del Brenno_, che così egli chiamava gli
uffiziali francesi. Cercavo intanto di servirlo con tutto lo zelo nelle
piccole combriccole che tenevan luogo di grandi cose; ed avevo cura di
mostrarmi a lui un poco arruffato, e meno pulito, per sembrargli tanto
più puro. Oh come mi paiono ancor più belle le mie montagne quando mi
guardo indietro, e penso a tutta questa roba!

                                 * * *

Eravamo alla fine del carnevale. Oh se avessi voluto confessare a me
stesso, quanto mi era già riuscita amara la realtà delle cose che avevo
sognate! L’amico _X_ e il circolo dell’Olona erano proprio quel fior
di poesia che m’aspettavo? «Chi sa!» dicevo allora. «E la gran dama?»
La gran dama era più bella dell’amico _X_, oh questo poi sì! Ma in
quanto alla poesia..., io non ne sono un giudice imparziale. Frattanto
in grazia sua ne avevo inghiottite di molto amare. Quante volte non
feci il proposito di rompere l’incantesimo, e di fuggire; e allora
le scrivevo delle lunghe lettere di eterno addio, che mi affrettavo a
buttar subito sul fuoco. Quando le susurravo qualche parola di amore,
ella mi rispondeva con un viso severo; quando le lanciavo qualche
parola di disperazione, ella l’accoglieva con la più schietta ilarità.
Ma se tornavo rassegnato e tranquillo, allora ricomparivano le piccole
preferenze, le seducenti amabilità che mi facevano perdere l’equilibrio
da capo. Con tutto questo, dagli adoratori della contessa io ero
piuttosto invidiato; talchè molte volte, dopo aver conchiuso ch’ero
l’uomo più infelice di questo mondo, a poco a poco, pensandoci, mi
persuadevo ch’ero fors’anche il più felice de’ mortali.

Il carnevale, sentivo dire, era in quell’anno uno dei più belli che
mai si ricordassero. Ognuno sentendosi giù dalle spalle quella gran
cappa di piombo che erano i _Tedeschi_, si abbandonava di cuore ad un
po’ d’allegria. I milanesi poi amano di essere ospitali, e per quanto
fossero positivi gli ordini in contrario della _Sezione Olona_, essi
davano ai francesi una splendida ospitalità. C’erano state molte feste
di ballo, contro le quali io avevo protestato nel circolo dell’Olona,
accettando però l’invito nel circolo della contessa.

La contessa compariva di rado alle feste; la sua comparsa doveva
essere un avvenimento. Era l’ultima ad arrivare, e la prima a partire;
ballava una sol volta, e quel ballo, tra i suoi adoratori, era una
grazia contesa e concessa un gran pezzo prima. Ella non doveva essere
seconda a nessuna; e il còmpito non era facile in mezzo ad altre belle
e ad altre potenze riconosciute di primo ordine. Bisognava dunque fare
categoria da sè; e così la contessa seguiva un sistema compiuto di
abitudini proprie, improntate tutte di una certa originalità. Ai balli
veniva tutta sola, quasi con l’aria d’essere un pochino trascurata dal
marito; cosa che le raddoppiava l’interessamento degli ammiratori,
e le serviva al tempo stesso di scusa per tutte le volte che le
tornava comodo di rimanersene a casa. Ella aveva sempre l’aspetto un
po’ languido e sofferente; la sua eleganza non era che buon gusto e
semplicità; il suo posto era là dove c’erano meno amiche, lontana dalla
folla e dai confronti. Al giungere della contessa Neni si vedevano
qua e là parecchie diserzioni; ma l’astro scompariva presto, e così la
corona de’ suoi satelliti era sempre la più numerosa e la più fedele.

Un giorno, mentre io, dopo una delle solite burrasche, facevo le
mie ore di contemplazione rassegnato e malinconico, la contessa,
discorrendo d’una vicina festa di ballo, annunziò che vi sarebbe
intervenuta; e mentre tutti si rallegravano del prossimo felice
avvenimento, essa volgendosi a me d’un tratto, soggiunse: «e il mio
giro di valzer questa volta lo voglio fare con lei.»

Non c’è vento di nord che possa vantarsi d’aver fatto in un subito
tanto sereno, come ne fecero quelle parole su di me. Nè solo mi feci
sereno, ma anche tutto rosso, come se fosse disceso un sole tropicale.
Io non avevo mai osato di chieder tanto, sebbene gli altri l’osassero
moltissimo. Decisamente i miei rivali avevano ragione di vedermi di
mal occhio. «Per bacco!... cosa tutta spontanea, e a cui io non avevo
pensato nemmeno, mentre ce ne sarebbero stati in lista tanti prima di
me che da un pezzo pregavano e insistevano.... ma niente affatto!: cosa
tutta spontanea!» ripetevo a ogni minuto tra me. E per gli otto giorni
che ci furono d’intervallo tra la promessa e il grande avvenimento, nè
l’Idea, nè il Bortolo, nè l’Umanità collettiva, valsero a farmi pensare
ad altro.

E siccome anche i giorni più aspettati arrivano, e pur troppo arrivano
presto, così arrivò anche quello del mio _valzer_. Per quanto sapessi
che _lei_ non sarebbe giunta alla festa che ad ora tardissima, pure,
per esser meglio sicuro del fatto mio, quella volta fui dei primi
ad arrivare; cosa che avevo imparato a non permettermi mai. A ogni
specchio mi davo un’occhiatina da capo ai piedi, mi aggiustavo i
capelli e la cravatta; e non ero niente malcontento di me. «Eh sì, lo
puoi amare questo povero Adalbertino,» dicevo frattanto, «il quale
non è poi un brutto giovane, perchè in fatto d’occhi e di capelli
così neri, non faccio per dire...: e poi non è il più sciocco, credo,
di tutti quelli che ti fan la corte.» Anche al sarto del sensale da
qualche tempo avevo dato un addio; avevo imparate molte perfezioncelle
di buon gusto; insomma, mi pareva proprio di andar benino. Le sale
intanto si erano affollate da non potervisi più movere; ma, finchè non
ci furono quelle dieci o dodici signore che costituiscono la _vera_
gente, io susurravo con quanti mi imbattevo di mia conoscenza, che
non c’era ancora nessuno. Facevo largo, e mi inchinavo leggermente
quando ne compariva _taluna_, in modo che mi si poteva credere tutto di
casa, ancorchè non la conoscessi che di nome. Che se poi ne passavano
di quelle che non erano dell’Olimpo, io rimanevo inesorabile al mio
posto, per non compromettermi, proprio come se non passasse nessuno.
Mi lamentavo un pochino della musica; trovavo che c’erano pochi fiori,
e che la luce non era ben distribuita. Insomma, come dissi, si poteva
essere contenti di me. Avevo fatto un passo.... e che passo! da quando
al mio paese, con un piffero, una tromba e un candeliere sulla stufa,
si ballava in una stanza del fornaio con le ragazze del vicinato e con
la Luisa....

Intanto giravo e rigiravo per le sale, procurando di darmi l’aria di
non aspettar nessuno, per non _comprometterla_. Però m’ero portato
cinque o sei volte fino alla scala; e incominciavo ad essere sulle
spine. La contessa Neni fu proprio l’ultima a comparire. Entrò sola,
e io la vidi subito; ma la calca di quella gente _che non c’era_,
era tale, che non potei andarle incontro. Che peccato! Quest’era la
volta che le avrei dato anche il braccio. Ci fu invece un altro più
fortunato di me; e mentre io cercavo di farmi largo non la vidi più,
e non seppi nemmeno da qual parte fosse andata. Chi non ha vedute che
le festicciole del proprio paese, non può immaginare come in queste
gran feste di ballo della città si possa mettere un’ora buona prima
d’imbattersi in qualcuno che si cerchi. Ebbene, questo fu proprio il
mio caso: e tutto affannato incominciavo già a dire «che la è inutile;
ch’io sono un uomo disgraziato; che a me non le devono andar bene mai;
che il mio destino è così....» quando mi trovai faccia a faccia....
indovinate con chi? col marito della contessa. Non avendo altro, avrei
dato in quel momento tutta la mia contea, per evitare quell’incontro.
Ma quel buon signore non mi lasciò il tempo di svignarmela, e venne a
stringermi la mano con una certa cortesia piena di distinzione ch’era
tutta sua. Poi, dopo qualche parola gentile, mi domandò se avevo
veduto sua moglie, perchè sua moglie aveva chiesto di me per un certo
ballo che essa mi aveva riservato. Allora gli contai il caso mio, ben
inteso con tutta quella politica che ci mette un amante in una simile
occasione; ed egli non solo m’indicò dov’era sua moglie, ma mi volle
condurre presso di lei egli stesso. «Poveri mariti!» pensavo frattanto
tra di me; «tutti eguali!» Ma anche questa volta non l’imbroccavo
giusta. Nella pratica della vita io non ero che all’alfabeto, ed egli
doveva essere già professore. I quarant’anni gli aveva salutati da un
pezzo, e s’era dato alla botanica e alla politica; ma egli era stato
uno dei giovani più brillanti del suo tempo, e nella scienza del _saper
vivere_ non celava la sua superiorità. Sapeva egli ch’io ero innamorato
della contessa? Non lo so. Ma, conoscendo sua moglie, egli non poteva
avere che una grande compassione per i di lei amanti!

La contessa mi fece il più seducente rimprovero per essermi fatto
aspettare; poi con un abbandono, con una grazia che mi parvero cose
angeliche più del solito, levossi di subito dicendo che non voleva
ritardarsi il piacere di adempiere alla sua promessa. C’era lì accanto
qualcuno che m’aveva l’aria d’esserne particolarmente indispettito;
a me poi pareva che cento occhi mi seguissero pieni d’invidia e di
gelosia. Io mi sentivo un palmo alto da terra. L’orchestra sonava
qualche cosa di strepitoso che poteva essere benissimo un valzer; ed io
pieno di un insolito ardire susurrai all’orecchio della contessa alcune
parole ardenti come non avevo fatto mai. Essa le ascoltò; e vidi un
sorriso sfiorare le sue labbra con tanta dolcezza che non m’ebbi più
dubbio. «Oh sì! ella mi ama. Ch’io ti stringa dunque al mio cuore,»
dicevo tra me col mio solito stile, «e nei vortici della danza noi
scompariremo da questa terra.»

Eravamo giunti nella gran sala da ballo. Toccava a noi; io ero
all’apogeo. Col piede alzato già attendevo la battuta... La battuta
venne, ma più decisa delle altre per indicare che quella danza era
appunto finita. Così non avendo potuto volare tra gli astri quella
volta, era scritto che non ci dovessi volare mai più.

                                 * * *

Quel tratto di sereno che mi parve un momento d’intravedere sul
mio orizzonte, era minacciato da grossi nuvoloni che venivano tutto
all’ingiro e si facevano sempre più cupi. Le faccende politiche del
circolo andavano alla peggio. Si predicava alle arene del deserto.
Un giornale, che l’associazione aveva fondato, e che si chiamava
l’_Azione_, non aveva trovato azionisti, ed era caduto dopo un mese
di vita, e con una dozzina d’abbonati. Bortolo s’era fatto più brusco
e violento che mai. Il vento volgeva in tutt’altra direzione, e
decisamente pareva che l’Italia volesse rifarsi a modo suo, e al di
fuori di molte regole prestabilite. Si aveva un bel predicare alla
gente che la via era fallata, che si principiasse da capo: la gente
faceva le viste di non capire, e tirava innanzi. La corrente aveva
mutato alveo, e noi, rimasti nel vecchio, ci potevamo contare. Anche
nelle sfere più alte dei nostri correligionari avvenivano, io credo
ogni giorno, rivolte, diserzioni; e Bortolo, che mi voleva fedele,
mi teneva in basso, e non mi aveva mai lasciato far capolino al di
fuori del circolo. La barca era arenata; ma noi seguitavamo a dare
ferocemente del remo nel sabbione e nella mota.

Mano mano però che, in grazia della contessa, io andavo spogliandomi
della pelle dell’orso, il veleno dell’eresia mi si cacciava sempre
più nelle ossa, e qua e là mi spuntava nel pensiero qualche dubbio. In
mezzo a tanta vita cittadina, io avrei potuto rileggere i miei articoli
di fede a una luce più chiara; ma la fatalità aveva voluto che, ora
dietro le tende di velluto della contessa, ora dietro le ragnatele
del circolo, io fossi rimasto sempre all’oscuro. E soprattutto le
tende di velluto, diciamolo pure, avevano lasciato tutto il resto
in una tal’ombra, che la mia povera mente non sapeva più ritrovare
il filo di nulla. Così per il moto contratto io seguitavo a trottar
dietro ciecamente a Bortolo. Bortolo ogni giorno più declamava e si
inferociva; e declamavo e mi inferocivo anch’io, perchè era il meno che
potessi fare.

Ma come Bortolo fu persuaso che l’apostolato non dava frutto, egli
che non era uomo da scotere la polvere dalle scarpe, e tirar diritto
evangelicamente, pensò che oramai si doveva agire. Divenuto cupo e
misterioso più del solito, decisamente egli meditava qualche piano di
battaglia. Lo aizzavano particolarmente l’ex impiegato che sbuffava di
vedere un tale, che nei tempi andati ci aveva messa la pelle, a quel
posto dove per tant’anni egli aveva messe le maniche di tela; e l’amico
sensale, il quale aveva bisogno d’un tafferuglio per raddrizzare
col _ribasso_ certe sue speculazioni che andavano alla peggio. Il
buon uomo anzi non esitò a parlarmene chiaramente, associando alle
osservazioni sull’apostolato militante, quelle sulla vicina scadenza
del mese. Finchè s’era trattato di lasciarmi succhiare dei quattrini
ora con le speculazioni, ora coi prestiti alla repubblica universale,
non avevo osato fiatare; ma questa volta egli aveva dato un assalto
alla mia coscienza, e la cosa, per fortuna, era un poco diversa. Ma
il sensale mi canzonò prima sulla mia semplicità; poi, siccome io mi
facevo serio, voltò tutto in burla, e ne fece delle risate. Ritornò
qualche volta ancora sul discorso, ma con un fare che potesse parere
anche una facezia, e burlandomi al tempo stesso perchè, a suo dire,
mi spuntava un po’ di _coda_. Allora la _coda_ non s’era fatta ancora
così elastica; e non m’era capitato, come mi capitò poi di udire un
ubbriaco chiamar _codino_ un tale perchè camminava diritto. Questo
scherzo dunque sulla _coda_ non mi garbava nè punto nè poco, tanto
più che l’amico me lo andava ripetendo in faccia ai colleghi e dinanzi
allo stesso Bortolo. Ma Bortolo, ch’era più accorto degli altri, e che
voleva conservarmi nella sua devozione, sapeva saltar di pie’ pari,
e nascondermi fors’anche tutto ciò che non mi poteva garbare. Con
me continuava a tenere quei lunghi discorsi, dalle frasi ispirate e
sibilline, ch’erano tutto il mio pasto.

Eppure qualche cosa si tramava. Bortolo doveva avere per il capo
qualche disegno, di cui nel circolo non si parlava, o che per lo meno
mi si teneva nascosto. Mi rammento che avendo io detto un giorno che
bisognava pur far progredire la rivoluzione italiana, mi fu risposto
misteriosamente che bisognava innanzi tutto principiarla. Intanto
il circolo era in aspettazione d’un personaggio che il solo Bortolo
conosceva, e che doveva essere reduce da un giro diplomatico con
missione secreta nelle province. Bortolo diceva «ch’era un _onesto_
recatosi a rinfrancare la tradizione nelle affigliazioni della
Associazione;» ma io, che avevo la fantasia in allarme, fui convinto
più che mai che l’universo era minato, e che quest’ignoto veniva a dare
il fuoco alla mina. «Oh potessi tu trovare un intoppo per via!» pensavo
tra me. «Lasciami fare il mio _valzer_, e poi schiudi pure l’èra
nuova.» L’Io, tutt’altro che _collettivo_, aveva fatto tali progressi
in me, che per la mia felicità individuale osavo invocare una settimana
ancora di oscurantismo.

Intanto io cominciavo ad essere sul serio agitato, e pieno di brutti
presentimenti. Capivo che questo mio camminare continuo sulla corda,
senza contrappeso, non poteva che finir presto con un capitombolo.
Ma che cosa dovevo fare? Come sbrogliarmi dalla matassa in cui ero
avviluppato? Oh avessi avuto un buon amico, avessi potuto imbattermi
nel mio Marcello! Ma come trovarlo? Io ne avevo ben chiesto conto una
volta a Bortolo, ma egli crollando il capo mi aveva risposto: «che
non ne sapeva nulla, ma che credeva però che la prigionìa avesse in
lui fatto disertare dal pensiero l’azione, conducendo questa nel campo
della sètta delle maggioranze.» In verità avrei desiderato di saperne
qualcosa di più, ma non avevo osato chieder altro. M’era venuta in
fine la buona ispirazione d’una corsa al suo paese; ma ero nella gran
settimana del mio _valzer_, e pensai: «ci andrò dopo.»

Il giorno che seguì il mio apogeo fui chiamato in fretta al circolo,
perchè era giunto il diplomatico, tanto atteso, dalle province. Ci
andai di corsa: vidi il nuovo arrivato.... e fu per me come un colpo
di fulmine. Non c’era dubbio. Sulle prime, tutto vestito di nuovo,
e col fare d’un personaggio, c’era da pigliarlo per un altro. Ma era
lui; uno di quei due compatriotti della mia vallata, che avevo voluto
evangelizzare dal tabaccaio a bicchierini d’acquavite; quello che aveva
maggiori vedute nelle teoriche sociali, e che aveva anche il naso più
rosso dell’altro. Era proprio lui, ed io mi sentii perduto.

                                 * * *

Quando nella bottega del tabaccaio si parlava delle ingiustizie e
delle sventure sociali, avevo sempre trovato in lui, voglio dire in
quell’amico dal naso rosso, per ogni colpa umana, una grande parola
di perdono. Sperai che, confessandogli le pene del mio cuore, egli
avrebbe compatito all’inganno innocente nel quale avevo lasciato gli
amici; sperai ch’egli avrebbe perdonato alla mia inesperienza, e che
mi avrebbe coperto con l’usbergo della sua amicizia. Fu su questo
tono che gli parlai. Sperai anche che non avrebbe sdegnato un tenue
regalo (che non era tenue), il quale doveva ricordargli questo bel
giorno della nostra amicizia. Infatti non lo sdegnò. Ma egli era una
vittima dell’organizzazione sociale; la sua natura richiedeva qualche
bicchierino di acquavite di più di quello che la società gli volesse
dare nella sua attuale organizzazione economica. Questo _deficit_ di
bicchierini lo manteneva in istato di rivolta contro le altre leggi
sociali che egli non poteva riconoscere; e così, ora che eravamo
alla pratica, soffocò la pietà per una umana debolezza, e si tenne
rigidamente nel campo della protesta.

Il giorno dopo, mi vidi capitare l’amico sensale col cappello fin
sugli occhi, e col piglio poco confortante di un creditore che va
da un debitore fallito, interrogandomi senza lasciarmi il tempo di
rispondere, e montando su tutte le furie perchè non rispondevo. Mi
accòrsi subito ch’io non ero più il conte della ròcca merlata, e che il
diplomatico dal naso rosso mi aveva mariolato il regalo. Il mio castigo
più grave l’ebbi proprio sulle prime; e fu il rossore di sentirmi
colpevole e di dovermi giustificare dinanzi a quel fior di giudice.
Tentai spiegargli, appena potei afferrare la parola, la fatalità che
mi aveva tratto a quell’inganno puerile; ma mi accorsi che quello non
era il capitolo importante dell’accusa. Allora potei anch’io mutare
un po’ di tono, e gli dissi alto che se alla _ròcca merlata_ non c’era
annessa la contea, c’era annesso però un fonderello di quante pertiche
occorrevano per pagarlo dei suoi bei negozii; e che dei due, a conti
fatti, lo straccione poi non ero io. Parendomi che a questa ultima
riflessione si rasserenasse un poco, tentai un nuovo appello caloroso
a quei _nobili sensi_ ch’io gli dovevo prestare per arte oratoria,
perchè mi giustificasse presso gli amici. Gli parlai della fede che
mi legava a loro, dell’opera devota ch’essi potevano attendere da
me, della serietà mia in ogni più difficile prova.... Ma l’altro mi
interruppe da capo; mi tirò sul terreno dei conti e delle garanzie; e
poco tranquillo per il suo _avere_, mi piantò dicendo che andava a fare
i _suoi passi_ per mettersi al sicuro; e che quanto al resto, gli amici
ne erano furiosi, che nessuno più avrebbe voluto saperne di me, che
io gli avevo ingannati, e che degli speziali ne avrebbero trovati fin
che ne volevano! I democratici! In quel momento giurai di volermi fare
speziale.

Con la febbre che mi aveva lasciata addosso la visita di quel caro
sensale, mi misi al tavolino, e scrissi una lunghissima lettera a
Bortolo. Quella lettera rimase senza risposta. Nel circolo di Bortolo,
ove si trovavano i sentimenti classici, come si trovano i brandelli di
broccato nella bottega del rigattiere, questa severità di Bortolo sarà
forse riposta a quest’ora negli scaffali come una merce di provenienza
spartana.

Ero alla soprascritta, quando il mio uscio si spalancò di nuovo, e
un secondo cappello, calato anch’esso fin sugli occhi, mi fece subito
capire esserci un altro che veniva per fulminarmi ad occhiate. Era un
altro spartano, il ragioniere; il quale in certe supreme occasioni,
quando, per esempio, licenziava un guattero della contessa, sapeva
trovare l’altitudine e l’accento d’una tale fierezza, d’una tale
dignità, da averne di che intrattenere gli amici per un pezzo.

«Ma la si figuri!» incominciò a dire il mio demagogo, «uno speziale
di campagna! E averlo condotto io dalla contessa! Ah, dunque gli è
proprio vero.... e farsi condurre da me dalla contessa! Si figuri
la mia responsabilità! Oh, ma io andrò dalla signora contessa e dal
signor conte, ed esporrò loro il caso personalmente, e domanderò gli
ordini per fare i _miei passi_ sia per conto della nobil casa, sia,
subordinatamente, per conto mio. Oh, la vedremo! Introdursi nelle case
con falsi recapiti sotto il manto di un ragioniere onorato non solo,
ma che fu chiamato come revisore anche in pubblici dicasteri!... Quali
erano le sue intenzioni? Che cosa voleva lei perpetrare in casa della
contessa? Io già gliela conto chiara.... e non so se mi spiego....
insomma io dovrò dire alla contessa che non posso più rispondere di
niente, e farò rinnovare gl’inventarii....»

Il guaio di questo povero ragioniere fu quello di essere arrivato in un
momento in cui, avendo dovuto giustificarmi due volte, non mi sentivo
punto voglia di farlo una terza. Così, quando fummo a questo punto del
suo discorso, lo pigliai per un braccio, e con tutta tranquillità, ma
senza aprir bocca, lo misi fuori dell’uscio. Senza aprir bocca mi seguì
il ragioniere, ma col passo un po’ più svelto del mio. Non so, nel
racconto de’ suoi fasti, come s’acconcerà il buon uomo con quest’ultima
circostanza; ma probabilmente concluderà col dire che, avendo io
cercato d’alzare la voce, egli mi pigliò per un braccio, e mi cacciò di
casa.

Mandai la lettera a Bortolo; mi chiusi in camera, e caddi nella mia
poltrona stracco, sfinito per l’emozione e la vergogna. Mi copersi il
viso con le mani; ma allora mi trovai in un turbinìo di pensieri e di
fantasmi, ciascuno dei quali mi picchiava sui nervi del capo, e me li
faceva dolere stranamente. C’era un po’ di tutto: c’era Bortolo, il
circolo, il _naso rosso_, le cambiali, lo zio, Marcello, gli amanti
della contessa.... la contessa! A questa apparizione dolcissima
l’antico entusiasmo mandò il suo ultimo raggio, e, scotendomi, dicevo
tra me: «Oh, tu fai violenza al tuo cuore, ma tu mi ami, io lo so!
_Adalberto è un nome che mi piace tanto_, osò appena ripetere il tuo
timido labbro, e _il mio giro di valzer lo farò con lei_.... parole
semplici, ma profonde, dietro cui sta forse un intero paradiso d’amore!
Oh con te io non avrò bisogno di giustificarmi, perchè le mie scuse
te le suggerirà il tuo cuore.... Ma io mi giustificherò, perchè io
dovevo essere franco e sincero con lei, che è tutta schiettezza e
ingenuità!... Aspetterò le ore della sera in cui mi sarà più facile
trovarla sola, e avere con lei un lungo colloquio. E allora quale
entusiasmo non vedrò io brillare sulla sua fronte quando le dirò:
signora, il blasone antico era mentito, ma io saprò deporre dinanzi a
voi un blasone che incomincia da me!» I soliloquii di solito sono poco
modesti; così non guardai molto per il sottile, tanto la chiusa mi
pareva irresistibile, e, quel che è peggio, nuova.

Venuta la sera, corsi alla casa della contessa, con la mia parlata
_irresistibile_ bell’e fatta, e col passo sicuro di chi va alla
vittoria. Ma il passo me lo fermò il portinaio, il quale mi gridò
dietro in tutta fretta:

«Ehi, signore, la contessa non c’è.»

«Come?» ripigliai io, «ho veduto dalla strada le sue stanze
illuminate....»

«È probabile; ma la contessa quando non c’è, non è poi obbligata a non
esserci.... Del resto credo che la contessa per un pezzo non sarà in
casa.... per cui, se vuole un mio parere....»

«Fatele annunziare subito il mio nome!»

«Ma.... se lei poi non capisce.... le dirò che ho già l’ordine di non
farlo!»

                                 * * *

Quella notte la passai tutta in progetti di duelli e in dubbii su
chi dovessi ammazzare di preferenza, se il marito, il ragioniere, o
gli amanti; me eccettuato. L’alba mi fece vedere un poco più chiaro,
e pensai che a queste scene di sangue era bene far precedere qualche
schiarimento. Conchiusi ancora che lei era innamorata di me, ch’era
la vittima certamente di qualche dramma tenebroso, e che ad ogni costo
bisognava ch’io la vedessi e le parlassi. Quest’era il punto difficile;
ma, facendosi sempre più chiaro il mattino, mi balenò in mente, come
spesso mi accade, un’idea vecchia; l’idea di ravvolgermi in una nera
cappa, di mettermi una maschera, di calarmi il cappuccio sul viso, e
di aspettare così la signora in un veglione al teatro. A render meno
peregrino questo pensiero, ci era la circostanza che la sera ci doveva
essere un veglione, e che io sapevo da un pezzo che la contessa ci
sarebbe andata.

Dopo un’intera giornata, e non ci voleva meno, che impiegai nel provare
a me stesso, come quell’ordine dato al portinaio doveva essere la prova
irrefragabile che io ero appassionatamente amato, eccomi ravvolto in
un _domino_ tutto nero, triste, solo, tra l’onda gaia di maschere
a mille colori, come un corvo in mezzo a un bel prato smaltato di
fiori. Capii subito che esse non mi riconoscevano nessun diritto di
concittadinanza: chi mi sospingeva a urtoni, e chi mi respingeva con
un motto poco fraterno: mi domandavano se ero una spia, un ladro, o un
marito geloso. Questa figura triste e solitaria era loro uggiosa come
l’immagine del silenzio e della malinconìa, che forse li attendeva
al mattino all’uscio di casa. Dopo una traversata lenta e burrascosa,
giunsi al palchetto della contessa: mi guardai un’ultima volta in uno
degli specchi del corridoio per accertarmi d’essere irriconoscibile;
poi, fattomi un gran coraggio, aprii piano piano l’uscio, ed entrai.
Il palchetto era affollato di visitatori e di maschere; vi si faceva
un gran chiasso, e nessuno si accorse che fosse entrata una maschera
di più. Mi alzai in punta di piedi per spiare al di là di una siepe di
spalle che avevo dinanzi, per veder la contessa, e, pensavo tra me, per
leggere nel suo volto mesto, turbato, una segreta afflizione del cuore;
mi aspettavo proprio questa volta di leggere scritto sulla sua fronte:
_Adalberto_.

Ma per quanto il mio occhio fosse propenso a questa scoperta, pure
non gli fu difficile di vederci subito tutt’altro: sulla fronte della
contessa non si leggeva proprio nulla. Bella, serena, contentissima di
sè, non le si leggeva pensiero che si allontanasse dalle chiacchierine
e dalle risate del suo palchetto: ma era forse un’illusione anche
questa; e mentre i più loquaci della brigata la credevano tutta intenta
alle belle cose che le andavano dicendo, la contessa forse pensava
all’effetto ottico che ella faceva in quel momento traverso alle molte
lenti che la fissavano da cento parti. Di queste analisi e di questi
ragionamenti però, non ebbi tempo di farne in quel momento. Pur troppo
mi accorsi subito a colpo d’occhio di qualcosa che non mi lasciava
illusioni; e dalle punte dei piedi ridiscesi presto sui tacchi. Rimasi
qualche momento come impietrito, e senza sapere quale indirizzo dare
ai miei pensieri; quando una loquace mascherina in _domino_ rosa che
sedeva, al parapetto, di contro alla contessa, saltò su a dire:

«Cara Neni, me ne vado. Sono un poco infreddata, e a dirti il vero
ero venuta qua nella speranza di trovare, tra i tuoi adoratori,
lo speziale, per farmi dare qualche pozione o qualche pillola di
_lauroceraso_.»

«Ah! lo conosci anche tu lo speziale! Aveva forse acceso _un fornello_
anche per te?» riprese la contessa.

«Tutt’altro! Avevo imparato a conoscerlo, vedendolo sempre dietro di
te come la tua ombra. Fu intraprendente lo speziale!: si fabbricò la
sua ròcca... poi venne quaggiù a pigliare i _merli_! Dell’avventura ne
parla stasera tutto il teatro....»

Qui la conversazione si rifece confusa e clamorosa come prima. Chi
domandava di che avventura si trattasse; chi voleva sapere come la era
andata a finire; chi non ne sapeva nulla, e voleva saper tutto in una
volta; altri ne contavano de’ brani, con versione libera e fantastica;
ed io frattanto, più ingrossava il mio romanzo e più cercavo di farmi
piccino. Non potei afferrare tutto ciò che la contessa andava dicendo,
e in cui c’era sempre di mezzo il ragioniere, diventato per il momento
un _procuratore_; ma sentii che «.... il procuratore aveva tutta la
colpa dell’accaduto, perchè doveva pigliar meglio le sue informazioni;
ma che, essendo uomo di molta energia e di molta avvedutezza, aveva
messo rimedio in tempo, ed aveva data allo speziale tal lezione di cui
si sarebbe rammentato per un pezzo....»

«Oh! oh! l’_apothicaire_, l’_apothicaire_...,» gridava l’uffiziale
francese, ch’era pure della compagnia, ridendo per tutti di qualche
suo bel motto che non giunse fino a me, ma che sarà stato uno sfogo di
rivalità tra _apothicaire_ e _épicier_.

«Mi spiego adesso le sue opinioni politiche,» diceva un altro, «le
quali erano esagerate appunto come le polizze del suo mestiere.»

«L’hai scappata bella, cara Neni,» gridava la mascherina dal domino
rosa, «con un così terribile conquistatore! Egli si era prefisso di
far girare il capo alle signore, e sfido io, quando s’accostava con
quell’essenza di gelsomino, a non averne il capogiro!»

«Confesso» conchiuse la contessa «che io ero lontanissima dal crederlo
un _senza nascita_. Vedevo bene ch’egli veniva da luoghi dove non c’è
_mondo_, dove non ci sono modi. Eppure sulle prime quella sua aria
di _coq du village_ mi aveva divertito moltissimo. Adesso però era
diventato oltremodo noioso; e l’essere ritornato a far lo speziale sarà
un bene per lui, e la è di certo una gran fortuna per noi.»

In quel mentre nuove maschere, spalancando con grande strepito
l’usciolo, vennero a cacciarsi nel palchetto. Nella ressa di chi
voleva entrare, e di chi voleva uscire, io che ero, come ognuno
già se lo pensa, tra questi ultimi, mi trovai per un momento nelle
braccia dell’uffiziale francese, il quale mi pigliò per una delle
maschere venute, e mi gridò scotendomi: «_Oh, par exemple! êtes-vous
l’apothicaire!_» Pieno d’ira e di veleno io lo fissai col piglio di
chi vuol provocare qualche cosa di luttuoso; ma l’altro non vide
che l’espressione scipita deila mia maschera, e diede in risa più
sgangherate di prima. Un nuovo urtone frattanto per parte di quelli che
uscivano mi cacciò sul corridoio, ove mi ripigliò tra le sue spire la
corrente della folla.

Mezz’ora dopo ero sotto la coltre; e convinto che il mio romanzo era
finito, spensi il lume. Ma la notte, benefica sempre, matura i pensieri
e i riflessi, quando non può essere apportatrice di riposo. La notte
dunque mi disse che al mio romanzo mancava un capitolo ancora; un
capitolo che fosse la conclusione del primo volume, e la prefazione
del secondo: il quale però, a tranquillità dei miei lettori, non
verrà scritto mai. Un capitolo insomma nel quale ci fossero quegli
avvenimenti che, dopo la sua scappata fuori del nido, ridussero
anche il passero della sorella del curato dalla bocca del gatto alla
tranquilla esistenza sul letticciolo di bambagia.

                                 * * *

Quella buona inspirazione di correre alla città natale di Marcello,
e di buttarmi nelle braccia del mio vecchio amico, inspirazione a
cui prima non avevo dato retta abbastanza, ritornò trionfatrice allo
spuntare dell’alba, come una speranza, un asilo, dopo aver veduto per
tutta la notte le fauci del gatto. Questa volta non indugiai. Allo
scocco del mezzogiorno io ero già per le vie di un’altra città più
modesta a chieder conto di Marcello; e poco dopo picchiavo alla porta
dell’amico. Ci guardammo fissi un istante con quella tacita sorpresa
di due vecchie conoscenze che, rivedendosi dopo molti anni, sentono
il bisogno di raccapezzare in fretta il passato, e di fare un po’
d’inventario del presente. Nell’inventario del presente mi colpì la
quantità straordinaria di capelli grigi ch’era venuta a frammischiarsi
ai capelli nerissimi di Marcello: a voler dire da qual parte fosse la
maggioranza bisognava chiedere la controprova. Marcello aveva tuttora
l’aspetto risoluto e vigoroso; ma il suo volto portava le tracce delle
sofferenze patite; le tracce dei digiuni, delle celle umide, e di
cinque anni di ferri nelle fortezze dell’Austria. Ma la rassegna fu
brevissima, perocchè Marcello ci pose subito fine stringendomi nelle
sue braccia con l’antica vivacità e con l’antico affetto.

Marcello volle presentarmi ai suoi fratelli e alle sue cognate; tutta
gente schietta, vivace, buona, che viveva in una sola casa, come in una
sola famiglia, e in mezzo a cui si respirava una cert’aria di onestà,
di semplicità, di cortesia che mi riusciva nuova e seducente: fino
allora non avevo respirata che la brezza troppo cruda del mio paese, o
la mal’aria del piano. A Marcello narrai tutte le mie vicende, e più
diffusamente di quello che non abbia fatto scrivendole oggi; gliele
narrai con tanta schiettezza, e con così poca misericordia per me, che
ne lo vidi scosso ed afflitto più di quello che volesse parere. Egli mi
strinse nuovamente nelle sue braccia, e mi disse che a metter riparo,
e prontamente, a tutto ci avrebbe pensato lui. Mi disse mille cose
che mi parvero ben più vere e più sante di quelle quattro che avevo
imparate a memoria sul mio vecchio formulario. Mi additò per quali vie
spaziose cammini il mondo da sè, senza bisogno che nessuno lo regga per
le falde; e come, nel camminare, pigli mano mano le nuove provvigioni
che meglio gli si confanno, rifiutando sempre le rancide, qualunque
sieno. Infine mi insegnò il culto di una sua grande divinità, a cui
egli teneva sempre fisso lo sguardo; divinità, il cui regno sembra
talora non essere _de hoc mundo_, tanto si fa umile e piccina; ma che
poi piglia la rivincita, e ricompare gigante nelle lotte e padrona del
campo; e quasi sempre senza vestirsi da eroe: il _Buonsenso_.

Il giorno dopo Marcello partiva per la capitale dei miei debiti e dei
miei disinganni, volendo ch’io rimanessi nella sua famiglia finchè non
gli fosse riuscito di aggiustare le mie partite, e di levarmi con onore
dagli impicci in cui ero caduto.

Ciò che più di tutto mi affliggeva, era il pensare al mio povero zio,
che con qualche artificio avevo in quei mesi tenuto in inganno, e che
mi credeva in tutta buona fede all’Università, tra le braccia della
farmacia, prima scienza del mondo. Povero zio! Sapere in una volta
ch’io l’avevo ingannato, ch’ero pieno di debiti, e che mi ero fatto
beffare e ingiuriare da tanti! Ce n’era per lui da morire di dolore.
Marcello che mi aveva letto nell’anima, com’ebbe rattoppate alla meglio
le mie faccende, e in modo che almeno non avesse a immischiarsene un
tantino l’autorità, andò fino al mio paese, e fece egli stesso presso
mio zio quello che io non avevo il coraggio di fare. Così il buon
vecchio seppe la disgrazia, ma non come l’avrebbe portata il vetturale
che andava una volta per settimana al capoluogo del circondario; la
seppe da una voce amica, che accanto alla mia scappata potè mettere
una seria parola sui miei buoni propositi. Marcello suggerì allo zio
tutte le buone ragioni, che lo zio forse non avrebbe voluto così subito
confessare d’aver trovate, per perdonarmi. La sola lezioncina, che
tacitamente lo zio mi inflisse, fu quella di pagare i miei debiti col
vendere la vigna della _ròcca merlata_.

L’annata per i miei studii era oramai perduta; nullameno volli recarmi
all’Università per farvi i primi passi nella mia riconciliazione
definitiva con le storte, con gli empiastri e coi pestelli; e nel tempo
stesso per non tornarmene così subito a casa. Temevo il banchetto del
figliol prodigo. Il mio curato, tenero com’era delle storie antiche,
sarebbe stato capacissimo di imbandirmi un vitello intero. Insomma,
ritornando al mio paesello, avrei voluto farmi additare per qualcosa di
buono, o almeno giungere fra i miei compaesani quando la loro fantasia,
dopo aver fatta sui miei casi una lunga leggenda, l’avesse del pari
dimenticata.

L’occasione d’aprire libro nuovo e pagina nuova, proprio come
desideravo, non tardò. Per questa mia Italia, che amo come un
innamorato, avevo detto delle ciarle molte, ma non avevo fatto mai
nulla. Nel giorno sacro della guerra, io, sciocco, avevo protestato
contro la guerra imbelle dei cannoni, in nome delle falci, dei chiodi,
e delle formole terribili che stavano nell’arsenale dell’amico X.
Nessuno nel mio paese aveva sospettato che quell’astensione fosse un
grande eroismo, ma piuttosto l’avevano tutti creduta una gran paura.
Anche lo zio mi avrebbe veduto partire di buon occhio, perchè il fare
la guerra era per lui l’unica cosa che potesse gareggiare a questo
mondo col fare le pillole. La fortuna volle che io potessi rimediare
a tutto: io feci ritorno alle pillole, e l’occasione della guerra fece
ritorno a me.

Le guerre però bisogna pigliarle come vengono, e non le si possono
scegliere secondo i propri gusti. La nuova guerra non fu quella che mi
avrebbe soddisfatto per tutta la vita; non fu la guerra ai forestieri.
Anzi non l’ho voluta mai chiamar guerra; e solo dirò che sono andato
anch’io a dare una mano fino in fondo allo stivale, perchè lo si
potesse mettere a nuovo, e d’un solo colore. Non scriverò dunque le mie
milizie; ma chi le vuol sentire venga al mio paese, dove le conto, per
passare le sere d’inverno, in una edizione che ha il pregio d’essere
corredata da un buon fuoco, e da una buona bottiglia; la bottiglia però
non è più di quelle della _ròcca merlata_.

                                 * * *

In una giornata d’inverno dell’anno seguente, io facevo ritorno al mio
paese. Lo avevo lasciato con l’intento secreto di diventare uno dei
generali degli Stati Uniti d’Europa, e ci ritornavo con la bisaccia
e il cappotto sdrucito di soldato semplice: lo avevo lasciato con la
febbre delle allucinazioni, superbo e iroso, e ci ritornavo con quella
serenità d’animo che sola sa dare la coscienza dell’aver fatto il
proprio dovere. Non ci volle che quel briccone di campanile del mio
paese per mettermi il cuore tutto sossopra, proprio come se ci fosse
ritornato l’_io collettivo_ d’una volta. Appena lo vidi spuntare da
lontano avrei voluto saltargli al collo e dargli un bacio, se mi è
permesso dire così. Ma tra le cose che gli avvenimenti avevano messo di
galoppo, non c’era la vettura del mio paese; ed era appunto questa che
mi conduceva a casa di quel suo passo anteriore al risveglio nazionale.
Presto m’accorsi ch’ero aspettato, e che gli amici mi avevano preparato
un po’ d’ingresso trionfale. Primo a salutarmi fu uno sciame di ragazzi
che gridavano a tutta gola, buttando in aria i berretti; poi gli
amici, i parenti, i curiosi; e da ultimo la banda. La banda, per il
paese e per me, era una grande novità. Lo zio parlava spesso dei tempi
in cui in paese c’era la banda, ed egli era uno dei clarinetti; ma,
sciolta dopo i trattati del _quindici_, la banda aveva fatto scriver
molto ai Commissarii del distretto, e non doveva ricomparire che dopo
quarantaquattr’anni. Al momento del mio ritorno la banda componevasi
già di cinque _parti_; c’era un trombone, due trombe e due clarinetti.
In principio del paese c’era un albero, piantato in mezzo della strada,
con due bandiere e un cartello su cui si leggeva:

                         SALVE O PRODE CAMPIONE
                  DI QUESTO BORGO E DI QUELLE SCHIERE
                          CHE BELLONA CONDUSSE
                         E GLI DEI PROTESSERO.

L’iscrizione era del maestro: parecchi che non conoscevano Bellona,
ne capivano poco, e volevano scommettere ch’ero stato invece con
Garibaldi. Sotto l’albero c’era il curato e lo zio, il quale portava
una gran sciarpa tricolore a tracolla e, soffocando gli affetti privati
dinanzi ai doveri della cosa pubblica, mi riceveva come sindaco. Il
curato mi lesse un discorso che incominciava colle Termopili e finiva,
tra gli evviva degli astanti, con Maratona e con Austerlitz, per un
riguardo allo zio. Al discorso non potei tener dietro, perchè subito
dopo le Termopili, girando gli occhi, vidi poco distante un gruppo
di ragazze che avevan l’aria di non voler essere vedute, e ch’io non
riconoscevo più, tanto in meno di due anni avevano lasciato il guscio,
e pigliato il fare riservato e vergognoso. Tra quelle ragazze ce
n’era una che si teneva nascosta più delle altre, ma che io vidi per
la prima, e che era la più bella di tutte. Appena mi parve di averla
riconosciuta, mi sentii il viso farsi di brace. Ritrassi gli occhi; poi
avrei voluto guardar di nuovo, ma non ci trovai più il verso. Guardavo
in basso; e mi accorsi allora per la prima volta quanto fosse sdrucito
e malconcio il mio cappotto: pensavo che, per aver avuta la febbre, in
quel momento _tutti_ mi dovevano trovare smunto e brutto; e poi vidi
che avevo anche le scarpe rotte. Di bello e nuovo non avevo che una
cosa sola, una medaglia d’argento appesa a un nastro azzurro, ancor
lucida l’una e lucido l’altro. Avrei voluto che tutti fissassero quel
punto solo, ch’era l’unica cosa pulita e in assetto che mi avessi.
Oh, che storia lontana mi sarebbe parsa quella della contessa Neni se
qualcuno me l’avesse richiamata in quel momento!

Il paesello, la casa, tutto, fino i pestelli mi parvero, da quel
giorno, proprio quel letticciolo di bambagia su cui era andato a
finire quel mio precursore d’avventure, il passero della sorella del
curato. Non è a dire però che, proprio come lui, mi sia messo a vivere
col capo sotto l’ala, passando da un sonnellino all’altro. Il capo
invece io lo misi a partito, e cominciai col riprendere e col compiere
quegli studi ai quali m’ero sempre ribellato in nome di quegli altri
centomila studi, che mi avevano condotto sino allora a non studiar mai
niente. Lo zio ne è tanto contento che non sa più star nella pelle, e
non c’è storta al fuoco di cui non mi confidi il quid che ci bolle in
secreto. Egli si è tenuta la direzione del _laboratorio_, ossia del
suo fornello, ed ha lasciata a me la cura della spezieria. Siccome poi
egli mi chiama sempre il _militare_, così voleva che sulla porta della
spezieria ci fosse scritto: _farmacia militare_. La cosa non è andata
a luogo subito per qualche mia osservazioncella; il progetto sussiste,
ma lo si differisce di giorno in giorno. Lo zio poi ha desiderato
di vedermi capitano della guardia nazionale; e da un anno infatti io
sono a capo di tutte le forze di terra del mio paesello. Poi faccio
tant’altre piccole cose.... perchè bisogna sapere che nella mia valle,
non essendoci che un solo partito politico, quello del criticare, io mi
sono messo in capo di crearne uno nuovo, quello del _fare_!

Lo zio adesso desidera.... e qui non guardatemi, perchè dovete sapere
che non ho smesso ancora di farmi qualche volta rosso in viso tutto ad
un tratto. Lo zio insomma è così contento d’essere zio, che vorrebbe
diventare _pro-zio_. Ma non chiedetemene di più, perchè ciascuno è
fatto a proprio modo, e il modo mio questa volta è quello di fermarmi
qui.

Per finire poi la storia del paese, vi dirò che quel buon figliolo di
garzone del fornaio non è ritornato più. È morto al Volturno; e gli fu
messa una lapide in chiesa, che ricorda come anche il nostro paesello
abbia dato il suo tributo all’unità della patria. Morì il curato;
morì la madre della Luisa. Alcuni dicono che la Luisa vada presso una
sua parente che sta lontano; altri dicono di no, e soggiungono che se
ci andrà, farà in breve ritorno. Io che volli scriver presto, anzi
troppo presto, questa mia storia appunto per non darvela compiuta,
permettetemi che vi lasci nella curiosità, e non vi faccia pronostici.
E quel diplomatico dal naso rosso? Lo vidi per il mondo ben vestito, ma
da un pezzo non ne ebbi più nuova.

Che se poi aveste un’altra curiosità, la curiosità di sapere se di
quel passero della sorella del curato io ne abbia fatto, proprio in
tutto, il mio esemplare, allora prima di posar la penna lasciatemi
dire una parola ancora. Quel passero col suo contegno severo aveva
voluto di certo ammaestrare la mia giovinezza inesperta; e così gli
avessi seguìti allora i suoi taciti consigli! Ad ambedue è capitata una
spennacchiata del gatto, ma le conseguenze morali furono diverse, e con
tutto il rispetto ch’io professo a quell’egregio mio precursore, non
esito a dichiarare che non l’ho seguito nelle sue deduzioni, e che ho
pigliato tutt’altro cammino. Evidentemente il disinganno aveva condotto
quel passero allo scetticismo. Egli aveva perduta la fede nelle ali; la
fede nei voli arditi e felici dal piano al monte, e dal monte, chi sa?
alle cime inaccessibili, dove l’aquila tiene il suo nido. Egli più non
credeva che a quei quattro salterelli che gli era dato di fare con le
proprie gambe; ed anche alle proprie gambe egli guardava di traverso,
nel saltellare, con un occhio in cui cercavi invano la vera fiamma
della fede.

Io invece questa fiamma santa l’ho conservata; e credo nelle ridenti
pendici lontane, e nei vasti orizzonti. Credo di più che la fede e
l’ideale non abbiano nulla a temere dall’esperienza della vita, come
l’oro fino non ha nulla a temere dal crogiolo. Delle scorie ne ho
buttate via molte! e forse non ho finito: ma mi tenti invano, ombra
del passero, se mi vuoi compagno dei tuoi salterelli sfiduciati! Tutto
il mio scetticismo consiste nell’aver imparato che ci sono delle gemme
fatte di vetro e di talco, e delle x che, a conto finito, diventano
modestamente le frazioni d’un quattrino.




LO SCARTAFACCIO

DELL’AMICO MICHELE.


                                            Milano, 1º dicembre 1867.

  Amico carissimo,

Ieri, quando ci siamo incontrati al crocicchio delle Cinque Vie, tu
mi hai fatte, tutte in una volta, mille domande, ch’erano ben naturali
dopo tre anni che non ci vedevamo, ma che in quel momento erano troppe.
Avevo sotto il braccio un fascio di carte, e nella testa un nuvolo di
cose; eran due ore che correvo, per cento affarucci, da un ufficio
all’altro, e non avevo finito. Era un viavai di gente da tutte le
parti, e intanto tu mi domandavi, se lo rammenti, tutto d’un fiato
«dove andavo, cosa pensavo, donde venivo, cosa facevo!»

Ad ogni domanda, lì sui due piedi, non ho potuto risponderti che con
un urtone, e senza mia colpa, perchè erano urtoni di rimbalzo. Presso
le mie gambe s’erano già fermati due carretti; c’era un incontro di
omnibus, e veniva una compagnia della Guardia nazionale.

Tutto questo dimostrava come presso le cantonate sia difficile
il raccontare anche una sola pagina delle proprie memorie. T’ho
abbracciato in fretta; t’ho risposto che avevo mille cose a dirti, e
che sarei venuto in casa tua a fare una gran partita di chiacchiere. Ma
eccomi, stamani, una lettera del fattore che mi richiama in campagna;
e così per un pezzo, addio chiacchiere. Ti voglio però pagare il mio
debito.

Devi dunque sapere innanzi tutto che in questi tre anni non ho fatto un
bel niente.

Fui anche ammalato, credo di mal di fegato: passai delle giornate
intere chiuso nella mia camera, sprofondato in un seggiolone, e purchè
le gambe rimanessero ferme, lasciavo che la fantasia camminasse come le
faceva comodo.

Di tanto in tanto poi, figurati che buon tempo! pigliavo la penna per
mettere in carta le ubbie che mi attraversavano la mente e le cose che
mi facevano maggior colpo. Lo vuoi tutto questo scarabocchio? Leggilo,
se hai del buon tempo anche tu, e ci troverai la risposta a tutte le
domande che mi hai fatte, e anche a molte di quelle che mi avresti
potuto fare se non venivano quegli _omnibus_ e quei carretti.

Ti dirò di più che, sebbene io non avessi avuto da prima altro pensiero
che quello di scrivere, per così dire, a me stesso, pure qua e là
devo avere scritto proprio come se qualcuno mi dovesse leggere, tanto
è naturale in chi racconta il bisogno d’avere chi lo ascolti. Leggi
dunque tutto questo scarabocchio; così se avrò scritto, senza volerlo,
una storia, potrò anche dire d’aver avuto un lettore.

  Addio.

                                                              L’amico
                                                             MICHELE.

                                 * * *

                                                      15 luglio 1865.

C’è dei momenti in cui è un gran bisogno dell’animo quello di scrivere
una lettera. Convien però dire che un tal bisogno non lo sentano tutti,
perchè de’ miei molti amici, non ce n’è uno che mi scriva una riga.
Ma i miei amici hanno ben altro di meglio a fare: i miei amici sono
diventati tutti uomini utili; il solo rimasto inutile son io. Confesso
però che il silenzio altrui mi dà poco coraggio, per cui volendo
proprio scrivere a qualcuno, la cosa più prudente è di scrivere a me
stesso.

Ma per scrivere a me stesso bisognerebbe che scrivessi cose che
interessassero me; cioè, le mie memorie. Le memorie di che? La sarebbe
una bella pretensione per me che sono così poco un uomo grande! Eppure
mi pento di non avere scritto un po’ di cronaca nei tempi addietro.
Eravamo pochi allora, ma tutti giovani, caldi, pieni di fede e di
poesia. Bei tempi! Cioè tempi brutti, perchè, a ragionar bene, bisogna
dire che i tempi belli son questi in cui i pochi son diventati i molti.
Ma a me diventarono molti anche gli anni, e tutt’altro che molti i
capelli.

La poesia però ci ha perduto, e, per il meglio forse, non è più
ricomparsa vergine e salda come prima. Nel quarant’otto s’era proprio
creduto di andare in capo al mondo con una punta di ferro su un bastone
e un vestituccio di tela. Ma senza questa santa ingenuità, chi avrebbe
incominciato? Mi ricordo che anch’io, come tant’altri, essendo salito
al potere, non mi parve in coscienza di fare abbastanza bene il dover
mio in quel Comitato qual si fosse di cui facevo parte, finchè non fui
vestito tutto di velluto, non ebbi una gran cintura di pelle, e non
mi vidi piantate parecchie piume nel cappello. Chiesi l’obolo della
vedova, feci comporre l’inno delle nazioni da redimere, e non so in
quale occasione decretai indipendente l’Irlanda. Con tutto questo,
se mi toccò la mia parte della impopolarità che accompagna il potere,
l’ho dovuto al sospetto che appartenessi al partito della gente troppo
positiva.

Oh santo entusiasmo, sublimi inezie, sapienti spropositi, dove siete
voi andati a finire! Nessuno serberà memoria di voi? nessuno verrà
a cercarvi nelle fosse dimenticate dei campi di battaglia, delle
terre d’esilio e dello spianato d’una prigione? Delle vicende intime
di noi povere sentinelle perdute che facemmo le veglie dal 21 al
48 la storia che cosa dirà? Nessuno, proprio nessuno avrà scritto
in quei tempi la pagina quotidiana di quelle sante memorie? Nessuno
che le abbia scolpite nel cuore, scriverà un libro che racconti ai
nostri figli, ricchi, grassi e beati a buon mercato, quali erbe amare
abbiano masticate i loro poveri vecchi, e quanta fede li ha mantenuti
instancabili e ritti? Questo testamento va fatto, e manca al suo dovere
chi lascia andare perdute le memorie di un così nobile retaggio!

Qualcuna di queste pagine la potrei scrivere anch’io. Io? E dàlli con
quest’io! Da qualche tempo, senza dirmene nulla, è venuto a rizzar casa
entro di me non so chi, il quale si prende lo spasso di soffiarmi di
tanto in tanto una parolina all’orecchio e di farmi il precettore. È un
precettore impertinente ed anche ignorante! perchè non sa che il mio
dovere lo conosco senza che me lo insegni lui. Il mio dovere l’ho già
fatto; adesso tocca agli altri, ed ho le mie buone ragioni per dire che
ho finito; non foss’altro perchè sono ammalato; non foss’altro perchè
non mi accomoda.

Io? La mia parte l’ho fatta, io, ed ora, basta. Aspirai tutta la vita
a un punto, e vi giunsi, ma lo confesso, stanco e rifinito. La mi si
lasci dunque contemplare questa bella Italia che mi si para dinanzi;
mi si lasci gustare questo sospirato riposo, quest’aura di pace che
mi ristora dopo tanta fatica e tanta arsione. Aura dolcissima! Ma gli
è però un gran dire che queste brezzoline tanto desiderate, appena
comincino a spirare ti fanno tirar su il bavero e mutar di posto perchè
ti paiono di troppo. Ma cosa voglio dir io con questo? Voglio forse
dire ch’erano belli anche i tempi passati perchè erano i tempi dei miei
capelli neri e della mia poesia? Ma che poesia? La poesia forse delle
spie?

No. Per oggi è meglio che la finisca, anche perchè, e lo so per prova,
certi pensieri sono i peggiori nemici del mio povero fegato.

                                 * * *

                                                      16 luglio 1865.

Questa notte col mio fegato è andata male. Ho fatto chiamare il medico,
e sentirò che cosa me ne dice. Ma egli mi dirà di star allegro, di
viaggiare e di andare a spasso. Dirà lui ch’io sto benone, o tutt’al
più mi verrà fuori con la nevralgia. Quel mio buon amico dottore ha una
gran simpatia per le nevralgie! — Ma possibile, gli domando io, che in
cinque anni di Università non t’abbiano insegnato altro che a mandare
gli ammalati a viaggiare o a passeggiare? — E lui ride; qualche volta
però capisce d’aver torto; allora mi ascolta il cuore con l’orecchio,
picchia di qua, picchia di là, mi fa cento domande e lo si direbbe
persuaso pur troppo ch’io sto male. Ma un minuto dopo torna a metter
tutto in canzonella, e se ne va. Un giorno mi disse ch’io sarei stato
un bel caso per l’_omiopatia_. «E perchè no?» gli risposi «se la tua
scienza rimane sempre muta, io dovrò bene ricorrere a qualche altra che
parli.» — «Ah, tu vuoi la ricetta?» riprese il dottore «eccola qua.» E
preso un pezzetto di carta scrisse sopra: _recipe qualche occupazione,
o un passaporto_.

Un passaporto? A questa parola feci una triste riflessione: è spesso
un estremo rimedio, anzi è la confessione che rimedi non ce n’è
più, quando il medico dice all’ammalato: «bisogna mutar aria.» Fosse
così? Non glielo domandai, ma sentii il bisogno di rispondergli e di
trattenerlo.

«Non mi è nuova, caro dottore, questa tua grande idea di volermi vedere
con una penna in sull’orecchio e un fascio di carte dinanzi. So bene
che cosa vuoi dire con codesta tua _occupazione_. Ma te ne ringrazio.
Io sono un vecchio cavallo di battaglia, e non ho groppa buona per la
carretta. Se udissi la tromba del reggimento, ti ribalto il villano, e
corro alla manovra. Tu sei più giovane di me, caro dottore, e non so se
mi capirai. Non so come la pensino quelli del tuo tempo. Io, per conto
mio, e per conto di quelli della mia età, ti dico che il nostro còmpito
è finito. È inutile farmi la cera complimentosa, caro dottore; lasciami
dire. Noi siamo stati i cavalieri erranti dell’Italia; per lei abbiamo
sospirato e cantato; per lei siamo scesi soli in tutte le lizze, e
abbiamo spezzate cento e cento lance. Ora ci vorresti tu chiamare al
suo servizio per fare i conti e le spese della famiglia? Sapresti tu
con tanta disinvoltura essere oggi l’amante, e domani il ragioniere
della tua bella?»

Ma qui il dottore mi interruppe per dirmi bruscamente che tutti in
Italia dobbiamo essere i servi e i padroni a un tempo; i sudditi e i
legislatori; i mariti e i ragionieri....

«Benissimo, dunque; ma allora ti dirò che io mi sono più d’una volta
innamorato, ma che non ho voluto prendere moglie mai. Sì, in Italia
il matrimonio è fatto, e i figlioli saranno una gente fortunata che
le altre famiglie, forse, invidieranno. Ma l’antico amante, caro
dottore, ha poetizzato di troppo tutta la vita, e non sa prendere con
disinvoltura la vita coniugale. Ha veduto sempre da lontano la sua
bella, misteriosamente ravvolta in tutto ciò che di più splendido e di
più poetico gli offriva la fantasia. Erano più divine che umane le sue
forme, ed egli credette in buona fede d’essere il fidanzato d’una Dea.
La moglie venne in casa, bellissima, ma di questo mondo. I contorni
vaghi e indefiniti divennero da quel giorno linee precise a cui la
fantasia non può nè aggiungere nè togliere nulla. Quel velo aereo che
la ravvolgeva, si mutò in vesti di mussola o di seta, di cui il marito
conosce il costo sino all’ultimo quattrino. La Dea dalle grandi chiome,
dalla fronte serena, dall’incesso maestoso, ha il suo fintino di trecce
posticce, i suoi quarti d’ora di malumore, i suoi momenti di restìo.
È benefica e grande, ma bisogna pagarle i debiti. Lo sposo ripete le
frasi del suo amore, ma vengono a interromperlo i conti della cucina.
Egli è felice, ma vissuto sempre tra le nuvole, ora che è calato a
terra, al pari delle rondini, stenta a muover le gambe.»

E il dottore intanto rideva più che mai, e mi domandava la conclusione.

«La conclusione è che questi antichi ammalati, come diresti tu, di
poesia e di amore, il giorno in cui toccavano la mèta avrebbero dovuto
morire! Chi poi non ha avuto il buon senso di morire davvero, procuri
di rimediarci alla meglio, e faccia quello che intendo di fare io
per quel po’ di tempo che mi rimane: si ritiri dal mondo e si faccia
fare il funerale come Carlo V. Eccoti il mio còmpito, caro dottore,
che non è precisamente l’impiego che tu mi vorresti dare, ma che è il
solo partito ragionevole a cui mi possa appigliare. E ci ho pensato
seriamente.»

Il dottore sulla fine rideva un po’ meno e mi guardava fisso in volto,
di certo per arguire, senza ch’io lo sapessi, se nel mio fegato
prevaleva il giallastro delle cellule epiteliali o il rosso della
congestione dei tessuti. Poi conchiuse subitamente, con la sua solita
sincerità: «Caro mio, se tiri via di questo passo, finirai col diventar
matto.»

                                 * * *

                                                      25 luglio 1865.

Questa mattina furono quattro quelli che mi domandarono che cosa faccio.

«Piglio il fresco» risposi al primo, che mi trovò seduto sotto gli
alberi del bastione.

«Ma sicuro, cosa fa il nostro Michele, con quella cerona da papa?»
continuò un altro ch’era a braccetto del primo.

«Cerona!» ripresi io; e devo aver fatto una gran smorfia.

I due amici si guardarono sorpresi senza capir niente.

«Ma, ecco, io volevo dire» riprese il primo» tu che hai sempre studiato
come un martire, che ti sei compromesso per la patria, come fai ad
esser qui? Eh Dio sa che impiego aspetti, tu!»

«Sul bastione?»

«Sempre diplomatico il nostro Michele! Verrò poi a raccomandarmi a
te....»

«Insomma, conservati sempre sano e rubicondo come ora» terminò quello
della cerona, e se ne andarono.

Allora mi mossi anch’io in cerca d’un viale più solitario, per
passeggiare tutto solo coi miei pensieri. Eh sì! credo che al mondo
non ci sia stato che Adamo che abbia goduto, nei suoi primi tempi,
d’un tantino di libertà; ben inteso prima di svegliarsi da quel sonno
famoso.

«Buon giorno, caro Michele» — «Altrettanto.» — «La riverisco.» — «I
miei complimenti.» Oh che noja! e tiravo via. Ma ci sono anche quelli
che ti fermano e, per non lasciarti andare, ti pigliano per un bottone.

«Ma, caro Michele, che fai?» mi disse di botto un tale che, vedendolo,
avevo sperato che avesse fretta.

«Niente.»

«Come, niente! In questi tempi?... è impossibile, niente! Stamani io ho
già sbrigate cento faccende. Adesso corro all’udienza del tribunale;
poi sono aspettato in un’adunanza di promotori d’opere idrauliche
di cui presto si parlerà e molto.... Ma tu che fai? Lasciati vedere
stasera.... Oh cosa dico io mai? stasera vado al circolo politico ove
si devono trattare faccende importanti. Ci son molte cose su cui è
urgente far sentire all’Europa la voce del nostro circolo.... Ma e tu,
che fai?»

«Niente.»

«Niente? Ma come niente. È impossibile, niente.... Ma quando c’è la
libertà....»

«Non c’è forse anche la libertà di far niente?»

«Oh, impossibile, impossibile! ci voglio pensar io a te. Ti darò ben io
qualcosa da fare. Avrò presto una società di ortolani.... e fors’anche
un collegio elettorale. Dovresti però venire al nostro circolo per
farti conoscere come liberale e indipendente....»

«Oh, io sono più indipendente ancora, e vado presto a vivere in
campagna.»

«Ti illudi, caro mio! ci penserò io; a rivederci.»

Dunque sono io quello che s’illude! L’uno mi vuole con la cera
rubiconda, e l’altro col domicilio forzato nel circolo, o tra gli
ortolani, o dove meglio torna a lui. Caro Michele, bisogna andarsene
presto! Quei tre devono avermi messo ben di cattivo umore, perchè il
quarto amico in cui mi sono imbattuto poco dopo, prima di domandarmi
che cosa facessi, mi domandò che cosa avessi di poco allegro per il
capo in quel momento. A chiunque altro per oggi non avrei più risposto;
ma quest’ultimo è un vecchio amico a cui ho sempre voluto bene.

«Che cosa faccio? mi domandi. Guardo il bel profilo che i nostri monti
disegnano in lontananza. Vedi come sono vaghe e sfumate quelle linee?
Non ti pare che si confondano col cielo? Questi graziosi contorni del
tuo paese tu gli hai scolpiti nel cuore come la fisonomia di qualcuno
che tu ami. Tu le contempli quelle linee vaporose come un mistero....»

«Oh, non c’è nessun mistero!» soggiunse l’amico, «perchè tutti sanno
che le prime linee sono quelle dei colli marmo-arenacei, e di calcare
ammonitico.... Poi vengono tutte le rocce emersorie della zona
prealpina che si fecero strada tra le rocce sedimentarie. Abbiamo
le rocce serpentinose, le granitiche, quelle di leptinite, quelle in
filoni anfibolici e quarzosi. Poi ci sarebbero anche....»

«Eh, non ti bastano! Pur troppo tu hai messo il dito sulla piaga.
Contempla dunque quelle linee da lontano, e non chiedere di stendere
la mano carezzevole su quelle pendici seducenti. Sono rocce aspre
faticose....»

«Ci sono però anche delle buone strade, buoni pascoli, cave di
gesso.... e c’è vita laboriosa in quelle valli!»

«Tanto meglio, o tanto peggio, come vuoi. Ma la seduzione di quelle
linee così gradevoli, quando avrai dato il naso contro i tuoi graniti,
non l’avrai più. Ed io sono innamorato sempre delle linee lontane,
misteriose, indefinite!... Eccoti, giacchè me l’hai chiesto, quello che
faccio!... Ero volato qui dopo dieci anni di esilio, ma ci ho trovati i
tuoi ciottoli, e son ripartito. Viaggiai per contemplare da lontano il
mio paese festante, come lo avevo contemplato un tempo vestito a lutto.
Tu non sai quanto appaia bella e raggiante l’Italia risorta, veduta da
paesi ove da anni non le si diceva più neanche il _Deprofundis!_ I suoi
lontani contorni, per dirlo ancora con una similitudine, sono quelli
d’una grande regina, che si avanza tenendo alta una nuova face della
civiltà. Io mi inebbriavo d’orgoglio nel dirmi figlio della giovane
e fortunata nazione. Sentivo di rappresentare anch’io qualcosa di
grande!»

«E simile orgoglio non potresti averlo ora rappresentando il paese in
Parlamento?» soggiunse con qualche semplicità il mio naturalista.

«Il Parlamento? Eccoti un’altra montagna dai grandiosi profili, ma
dai filoni che non mi garbano. Sedere in Parlamento perchè un avvocato
in un circolo ha provato ch’io sono un grand’uomo? Bell’orgoglio! Ma
quell’avvocato mezz’ora prima ti provò anche che il suo cliente, avendo
ammazzato la moglie, era il migliore dei mariti.... Insomma, caro mio,
mi spiace a dirtelo, ma io non sono un geologo, e avrei continuata la
mia contemplazione da lontano se la cattiva salute non mi avesse fatto
ascoltare i suoi prudenti consigli. Una voce secreta mi diceva: se vuoi
che le tue ceneri riposino in pace nel tuo paese....»

Non le avessi mai nominate queste ceneri! L’amico le pigliò al balzo
per mettere tutto in burla e per fare quelle solite esclamazioni
di incredulità su cui si diedero, credo, l’intesa i miei amici per
ingannarmi pietosamente.

Intanto sono rientrato in casa, e ora mi sento peggio del solito.
Ma già mi sono stizzito con coloro, e poi ho preso una solata che
potrebbe anche avere delle brutte conseguenze. L’ho detto io che dovevo
andarmene in campagna! Mi sento dell’arsione in gola, e non so se deva
bere, o no. Il dottore, me lo immagino, non verrà; o se venisse anche,
comincerebbe a parlare di politica, senza badare alla mia sete e agli
altri cattivi sintomi di quest’oggi. Bisogna proprio che me ne vada
in campagna, e subito. Da quanti anni non mi vede più la mia casetta
di Borghignolo! Eh, sicuro! gli è proprio fin dal quarantasette, da
quell’autunno in cui si cantava in ogni via, in ogni casolare l’inno
di Pio IX. Di che mai si parlerà adesso nel mio paese? Di politica ce
ne arriverà poca.... Che bella cosa! Non posso più sentire discorsi di
politica, e invece se ne fa dappertutto. Il parlarmi di politica è per
me tutt’uno come il parlarmi d’una simpatia del cuore. Bel gusto il
sapere la tua amante sulle bocche di tutti!

Chi mi ha detto che a Borghignolo è venuta a starci della gente
nuova?... Se fosse vero, non ci vado; non sono in vena di veder gente
che non mi piaccia. Scriverò al fattore.... eppure bisognerà andarci
subito, perchè qui il mare della politica è sempre gonfio, ed io e le
discussioni politiche siamo come il diavolo e Sant’Antonio.

                                 * * *

                                                      30 luglio 1865.

Sono lì lì per prendere una nuova risoluzione. Forse non vado più
in campagna. Quel buon figliolo di Aldo stamattina, nel contarmi le
maraviglie di certi ospiti nuovi venuti a Borghignolo, mi ha quasi
fatto passar la voglia di andarci. Intanto mi divertiva non poco
il dottore, il quale, sapendo come io ami le conoscenze nuove, e
massimamente certe conoscenze, faceva di tutto per mutar discorso, e
tirare il povero uffizialetto fuori di strada. Gli disse perfino che
ai bersaglieri si dovevano levare le piume dal cappello; ma tutto fu
inutile. L’Alduccio continuava a andare in visibilio per i suoi nuovi
amici, come ci si va a vent’anni; però dovrebbe averne ventiquattro....
Suo padre, Giandomenico, è un uomo della mia età; e Alduccio prima del
quarantotto l’ho fatto saltellare sulle mie ginocchia le mille volte,
quando passavo tanti mesi alla campagna.... Come se ne vanno gli anni!
Stamattina mi si fa incontro un bell’uffiziale dei bersaglieri, e chi
è? è lui, Alduccio. Come abbia potuto riconoscermi, col mutamento che
ho fatto, non lo sa che lui. Oh l’avranno prevenuto!

Questo nuovo proprietario e villeggiante nel mio paese è un tale signor
Garofani. Non l’ho mai visto, ma ho sentito più volte parlare di lui
dopo che sono ritornato. È un uomo _nuovo_, ma non come Cicerone però;
pare anzi che il parlare non sia stato mai il suo forte. Datosi per
tempo ai _generi coloniali_, gli ha trovati di gran lunga superiori
all’eloquenza. In fatti i _coloniali_ non gli hanno mai fatto fare uno
sproposito, e la facondia invece gliene ha fatto dire più d’uno.

L’uffizialetto intanto aveva tirato me e il dottore sul _Corso_,
facendomi fare e rifare il marciapiede, e parlandomi sempre di casa
Garofani. Ancorchè io non sia troppo malizioso, non potei a meno in
quel momento di non domandare se la moglie del signor Garofani fosse
bellina. L’ufiìzialetto mi parve che si facesse un po’ rosso, ed io
quasi quasi mi lasciavo andare a un giudizio temerario. Ma il dottore,
che suol essere sempre pronto e preciso, saltò su a dire: «Eh! non
l’hai mai veduta? È una brutta vecchia imbellettata. Di qui a un
momento la incontriamo; ci è passata dinanzi poco fa, in carrozza.»

Non avevamo fatto una ventina di passi, quando vidi venire una gran
carrozza di color cioccolata, coi mozzi delle ruote che avevano le
buccole dorate. Mi ero già fermato sui due piedi, quando il dottore
esclamò: «Eccoti la tua bella signora Garofani!»

La guardai bene. Era seduta diritta, stecchita, e pareva fosse lì per
sdrucciolare giù da’ guanciali. Vidi un naso appuntito, non aquilino,
ma di quelli che vanno in linea retta, anzi volgono un poco in su; due
lucignoletti di capelli ingommati sulle tempie che giravano a spire
come due chiocciolini; una boccuccia socchiusa e increspata all’ingiro,
che pareva sorbisse perennemente qualcosa. Ma tutto ciò fu un baleno,
perchè la carrozza passava di trotto. Vidi anche, ma in confuso, un
non so che di nero, vicino alla signora, con una mano sulla gruccia
d’una mazza, che poteva essere il marito; e sul davanti un non so che
di bianco, che poteva essere una ragazza. A cassetta teneva le redini
un uomo, con una gran barba, che pareva un mustafà; la sua livrea,
come quella del servitore che gli sedeva accanto, era di quel colore
cioccolata, che evidentemente deve essere il colore preferito in casa
di questi signori Garofani, ma che al momento era un poco in gara, e,
diciamolo, alquanto ecclissato da un cappellino, da certe piume e dal
vestito della signora, ch’erano di color verde, anzi verdissimo.

Il dottore aveva avuto ragione, ed io non calunnierò più il mio povero
uffizialetto, il quale intanto aveva fatto alla carrozza un saluto
garbatissimo, e poi aveva salutati anche noi che volevamo tornarcene a
casa.

Pare che il dottore sapesse di molte cose sul conto di questi signori
Garofani, ma con me si tenne abbottonato. A gran fatica mi feci dire
che la signora Garofani si chiama la signora Giuseppina; che la signora
Giuseppina era stata la moglie del signor Baldassarre, un uomo grave
e attempato più di lei. Il signor Baldassarre, venti e più anni fa,
teneva bottega di droghiere, ed era rinomato per il suo _malaga_ e
per la sua cravatta bianca. La signora Giuseppina faceva gl’involti
con tanta grazia, e a tutti diceva la sua così bene, che rubava i
cuori degli avventori. Mi disse poi che, morto quello della cravatta
bianca, la signora Giuseppina aveva fatto padrone del suo cuore e di
parte dell’eredità, il signor Garofani, che era stato il suo primo
giovane, poi il suo scrivano, e ch’era tanto un bell’uomo. Il signor
Garofani chiuse presto la bottega per intraprendere de’ traffici in
grande; più tardi abbandonò anche le drogherie; fece non so quali
grosse speculazioni, e adesso per mettere i suoi denari al sicuro, andò
proprio a comperare nel mio paese.

Ma io son l’uomo di lasciarvi comodi i signori Garofani, di rinunziare
al piacere di fare la loro conoscenza, e di rimanermene dove sono.
Questi signori mi hanno fatto entrar addosso un gran cattivo umore;
più ci penso e più mi uggiscono. Mi è sempre piaciuto di conoscer
gente, ma a patto di conoscerla da un pezzo. Allora la cosa va, nè devo
domandarmi se sia proprio necessario conoscere il tale o il tal altro;
domanda, alla quale non è sempre così facile rispondere.

Dunque, come dicevo.... che dicevo io?... Dicevo che son l’uomo di non
mettere più piede in Borghignolo...

                                 * * *

                                                       7 agosto 1865.

«Spesso nei romanzi e nelle commedie c’è un medico che sa tutto, che
capisce tutto e che le dice più belle di tutti. Tu vuoi essere uno di
questi, e me ne dici ogni giorno di bellissime. Se scriverò un romanzo,
ce le metterò tutte; ma intanto, a quattr’occhi, ti dico che le sono
corbellerie.» Così dicevo stamani al mio medico, il quale intanto
rideva di gusto e continuava imperterrito nella sua tesi favorita.

Egli è sempre fisso nel voler fare di me un uomo solerte, un uomo
d’importanza, affaccendato da mattina a sera, insomma un uomo
_pubblico_, come si dice nel gergo della politica. Egli vede in questo
bel trovato fin la ricetta contro i miei anni e i miei malanni. È
inutile il discutere, inutile il fargli toccare con mano la realtà
delle cose; inutile cercar di fargli capire come sia fatto l’animo
mio. Quando credo che m’abbia capito, egli ripiglia da capo: chiama gli
intrighi e il successo dei tristi la leva salutare per il risveglio dei
buoni; l’apatìa dei buoni un fatto salutare anch’esso, perchè i tristi,
venuti tutti a galla, possano essere schiumati via tutti in una volta;
gli spropositi sono i primi passi della sapienza avvenire; la licenza,
l’ignoranza, l’ingratitudine, la malevolenza sono il bel campo dove
bisogna scendere per vincere ed ottenervi quegli allori che ci saranno
un giorno invidiati, perchè ai posteri saranno concessi con mano più
avara.

Bravo dottore! Se mi fosse arrivata in quel momento quella lettera del
fattore, che venne due ore dopo, gliel’avrei mostrata, chè non poteva
venire più a proposito. Ma la lettera non la trovai che al ritorno dal
mio solito passeggio, e il dottore non lo rivedrò che tra un paio di
giorni. Ecco che cosa dice il mio fattore.


                                          Borghignolo, 6 agosto 1865.

  «Illustr. e colen. signor Padrone.

«Consegno questa lettera a Luigi, figlio della Maddalena sua
pigionante, il quale, se ne ricorderà, è quello che Lei ha tenuto a
battesimo. Parte per l’America in compagnia di altri a cercar fortuna.
Ma siccome Luigi sarà coscritto nella prossima leva, così si raccomanda
a Lei perchè gli dia, come si suol dire, una mano. Quanto a liberarlo
dalla coscrizione ci penserà il pollaiolo, che viene qui al mercato
ogni giovedì e che conosce un deputato, che può tutto. Il nostro
deputato pur troppo è tutto amico del Governo, e non ha mai ottenuto
niente. Luigi La prega di trovargli il modo di poter partire senza
passaporto. Lei farebbe proprio con ciò un’opera pia. Fanno così quasi
tutti, e sarebbe peccato in questi tempi a non industriarsi.

»Finisco con una notizia.

»Carlone legnaiolo è morto in seguito a un colpo di apoplessia, che ha
fatto molto senso a tutti.

»Anche i pèschi del giardino questa volta promettono poco.

»Ho ricevuto per lei la così detta scheda della ricchezza mobile. Ma ho
un amico il quale conosce un impiegato nell’ufficio delle tasse, che
ha un gran talento, e che gli ha insegnato il modo di non pagar quasi
niente. Andrò domani al capoluogo, e non dubiti che non trascurerò
questa pratica.

»Con che sono di lei devotissimo servo

                                                         »GIACOMO C.»


Eppure il mio fattore è un galantuomo; è un uomo che ama il paese, che
ha combattuto per esso nel quarantotto, e che non farebbe mai a nessun
patto una cosa che non credesse onesta.

Il mio servitore riseppe da Luigi che tanto lui che i compagni furono
condotti in un’osteria, dove hanno un tale che si incarica di mandarli
tutti ad imbarcarsi per l’America. Povero figliolo! Dio sa in quali
mani è caduto! Bisogna non lasciarlo partire. Son tutti così questi
semplicioni; si credono più furbi degli altri quando mancano al loro
dovere, quando trasgrediscono le leggi del loro paese. L’affidarsi a
gente sconosciuta, berne di grosse, non dar retta ai galantuomini, le
son tutte per loro furberie delle più fini. Poi si va in prigione, in
miseria, e si torna da capo, se occorre, a farsi menar per il naso da
un briccone nuovo. È però anche vero che dei galantuomini che si curino
di questa povera gente, e cerchino d’aprir loro gli occhi, ce n’è
pochi. Questo è il guaio.

E Luigi ritornerà? Al mio servitore non ne ha detto nulla, però,
essendo venuto a cercarmi, è naturale che ritorni. E se non
tornasse?... Potrei andar subito io a cercar di lui, ma, e poi?
Forse non lo trovo o lo trovo in mezzo a chi sa qual gente, ed io
non mi voglio mettere a far prediche nelle osterie. Oh ritornerà! A
quattr’occhi gli potrò far entrare molto meglio quello che nessuno si
dà la briga di dire a questa povera gente.

Le sono noie però che impensieriscono e non lanciano tranquilli.

                                 * * *

                                                       9 agosto 1865.

Ieri vedendo che Luigi non capitava, risolsi d’andar in cerca di
lui. Mi feci indicare dal mio servitore l’osteria; ci andai, e seppi
che Luigi era partito la sera innanzi. Non ho potuto levarmelo dal
pensiero quel figliolo per tutto ieri, ed anche oggi non faccio che
pensarci. Non posso levarmelo dalla mente.... perchè vorrei figurarmelo
quale sarà ora, che ha i suoi venti anni, che si sarà fatto grande
e grosso.... Era un così bel bambino diciott’anni fa! Pazienza, lo
vedrò quando ritornerà.... E forse tornerà signore! perchè si dice
che faccian bene i fatti loro questi tali che vanno a cercar lavoro e
fortuna lontano, e che dopo un paio d’anni se ne tornino tutti col loro
gruzzolo....

Borghignolo è un gran bel paese! Gli antichi, quando avevan bisogno
d’un uomo di giudizio, proprio di quelli che ci vogliono per i casi
straordinari, non lo cercavano nelle città, lo cercavano vicino a un
aratro. «La gente di senno pigliava il largo fino da allora!» come
dicevo stamani al mio buon medico, che ama tanto gli esempi classici.
Ci può essere cosa più severa e solenne d’un bell’aratro tirato da due
buoi gravi e mansueti?

Sento proprio nel profondo dell’anima che, se non mi risolvo, finirò
presto col morire di fiele e di malinconia. Sento che il giorno in cui,
avrò volte le spalle alle metropoli illustri, ed avrò aperti i polmoni
all’aria pura del mio paesello, sarò libero da tutti quei malanni che
oggi fanno di me un soggetto di clinica. Se il destino non ha voluto
che scendessi a suo tempo nel sepolcro, io ne avrò trovato un altro,
ove riposerò, anche senza morire, egualmente obliato, libero e felice.

Scorrevo per le regioni più care della mia fantasia, sognando tutta la
pace e le delizie d’una vita nuova, quando il mio medico, capitatomi in
camera, mi si piantò dinanzi e, senza ch’io avessi aperto bocca, prese
il filo dei miei pensieri e lo seguitò, ravvolgendo tutto in un monte
di celie. Come ebbe finito, io non feci che tirar innanzi, dicendo a
lui quello che prima dicevo a me.

«Mio caro amico, tra poco la sarà proprio così; io sarò disceso nella
tomba, sarò anzi in paradiso. Il paradiso io me lo immagino formato di
tanti piccoli Borghignoli, ove la gente beata sarà tutta in giacchetta,
con un cappello di paglia a larghe tese in testa. A Borghignolo, e in
paradiso, non ci saranno nè politicanti che si tirano per i capelli,
nè seccatori, nè giornali, nè guastamestieri, nè male lingue; ci si
farà quello che pare e piace; ci si faran delle chiacchiere di tanto in
tanto con qualche buon uomo; si contemplerà in lungo e in largo la gran
magnificenza del creato, che le tue città, caro dottore, nascondono
con le scene di cartone dei loro palazzi.... Proprio anche la politica
mi è venuta in uggia, e dopo non aver vissuto d’altro per tant’anni!»
continuai, senza lasciar finire al dottore una interruzione. «Che
se poi non mi hai capito o vuoi che ti ripeta ciò che t’ho detto le
mille volte, io sono pronto. Il pensare a un lauto pranzo quando si è
mezzo morti di fame, e il fare tutto quello che si può per vederselo
imbandito, non ha nulla a che fare col mettersi il grembiule, stare
in cucina e imbrattarsi con le pentole. Rispetto i cuochi; rispetto la
loro vocazione di cui la natura è stata con me così avara. Ma che vuoi!
Io sono di quelli che in cucina perdono ogni appetito. Ho tentato più
volte, per vederti contento, di seguire i tuoi consigli, di vincere le
mie ripugnanze, e di mettermi ai fornelli. Per più mesi non ho fatto
che leggere giornali da mattina a sera, correre ai circoli, andare a
braccetto con tutti i politiconi di cartello e di ripiego. Conobbi,
come la chiamano, la gente _vecchia_ e la gente _nuova_: conobbi gli
uomini ardenti, quelli che vogliono far cuocere a fiamma di fascina
anche lo stufato; conobbi i rosticcieri, che tengono roba mezzo calda e
mezzo fredda; conobbi quelli, che son loro stessi sulle braci, o perchè
non sanno come pensarla per pensar bene, o perchè temono di non essere
proprio gl’idoli di quanti incontrano per strada: conobbi infine quelli
che a mio avviso le sanno dir giuste, ma che poi fanno del loro buon
senso un canonicato semplice.»

«Di capogiro in capogiro» continuai, senza badare a una nuova
interruzione del dottore; «mi dovetti persuadere presto che il fumo
e il caldo dei fornelli non eran cose per me. Ma tu volevi ch’io
continuassi a lottare contro questa mia natura ribelle, ed io mi
ci provai. Son ritornato ai circoli. Ai circoli c’è del buono e del
meno buono, come dappertutto; ma siccome la gente ha poca pazienza e
se ne stanca presto, così non ho potuto farne una lunga esperienza.
C’è di buono che vi si annunziano sempre argomenti della più grande
importanza; e di men buono che vi si discorre poi di tutt’altro. È pure
un altro guaio che ci si stia troppo e che ci faccia troppo caldo;
c’è una bottiglia d’acqua, è vero, ma non beve che il presidente.
Un altro guaio dei circoli è la questione _pregiudiziale_. Le prime
volte mi affannavo a mandare giù in fretta l’ultimo boccone del
desinare; in seguito uscivo di casa un po’ più tardi, ma la questione
_pregiudiziale_ l’ho trovata sempre a tutte le ore. Questa benedetta
questione mi tirava fuori di strada, e mentre aspettavo la questione
_vera_, così bel bello mi trovavo col pensiero sulla piazzetta di
Borghignolo a discorrere delle mele del mio giardino, e delle belle
viole della maestra.»

Il dottore, vedendo di non potermi interrompere, rideva, e mi lasciava
dire.

«Capirai dunque che io ci misi sempre della buona volontà; ma se la
natura mi si è fatta ribelle, e non ci posso contar sopra, che colpa
n’ho io? Una volta, per dirne una, quando un contrabbandiere mi portava
un giornale straniero, me lo divoravo avidamente, e ci trovavo tutti
i sapori. Lo crederesti? Ora che di giornali c’è tanta abbondanza
e tanta varietà, io n’ho perduto il gusto, e trovo da dire fin sul
conto loro. Mi impaziento perchè vedo chi si sia fare il giornalista.
Quando un ragazzo non riusciva a imparare, ai miei tempi lo mettevano
in seminario. Adesso egli vi dice: — Farò il giornalista! ossia ne
insegnerò a tutti. — E ha ragione; perchè, sebbene sia un vecchio
adagio quello che non sempre si mangerebbe il pane se si vedesse
farlo, pure il pane si mangia sempre, e il fornaio che lo fa non si va
a vederlo mai. Così, quando mi vengon sotto gli occhi certi giornali
che trattano con tanta confidenza l’invenzione della stampa e de’
caratteri mobili, cerco ben io di richiamare tutte le tue prediche,
e tutti quei ragionamenti che una volta facevo anch’io, ma allora
mi entra un accesso de’ miei soliti malanni, ed eccomi da capo col
pensiero sulla strada di Borghignolo. Questi malanni sono, io credo, la
conseguenza di accessi di gelosia. Sì, mio caro, ti permetto un’ultima
risata, di accessi di gelosia ne’ quali mi si scuriscono gli occhi,
vedendo questa antica bella dei miei pensieri, l’Italia, a braccetto,
o per una ragione o per l’altra, d’ogni primo capitato che le susurra
all’orecchio tante e tante baggianate!»

Qui il dottore profittò d’una mia pausa per snocciolarmi tutta la
solita filza dei suoi argomenti, nei quali non c’era nulla di nuovo,
concludendo col dirmi ch’io cercavo la pietra filosofale, e ch’ero un
alchimista, cioè, «vuoi dire» soggiunsi io «mezzo pensatore e mezzo
matto.»

«Alla pietra filosofale ho talmente rinunziato» continuai in tono di
chi è giunto alla conclusione «che non cerco ora altro che la mia
casuccia di campagna. Ma voi altri cittadini che per immaginarvi
la campagna guardate a quattro alberelli cresciuti in una piazza,
in conformità dei regolamenti, non potete sapere che cosa sieno i
campi, le montagne, i boschi e gli orizzonti non frastagliati dalle
gronde e dai fumaioli. Non credete che si possa rimanere seduti a
guardar l’erba, se non c’è vicina la banda che suoni, e la bottega dei
sorbetti. Non credete che si possa mangiare un pane diverso dal vostro,
discorrere con gente diversa, pensare a cose che non sieno le vostre.
Voi non siete fatti per capire la vita felice dei campi; ed io vi posso
compiangere, od ammirare se volete, ma non potrei farvi cambiare di
gusto. Mi vorresti tu dunque condannare ad essere un cittadino forzato,
a diventar tisico a poco a poco, trascinando una vita amara in mezzo a
cure che non sono più per me, mentre vedi così facile e vicino il porto
d’ogni mia beatitudine?»

Il dottore, chinando il capo, fece un gesto più rassegnato che
convinto; mi strinse la mano, e si rizzò. Allora gli dissi ch’ero
risoluto di partire il giorno appresso, e lì sui due piedi si fece
un monte di progetti di lunghe lettere, di visite, e di passeggiate
campestri in compagnia. Mi ha poi promesso di venire domattina a
stringermi la mano al momento della partenza.

Ora, cittadini carissimi, io vi saluto; corro in braccio all’aratro,
se mi permettete una metafora; corro in paradiso, se me ne permettete
un’altra: e nel ripeterle tutte e due, mi trovo a ogni minuto dinanzi
allo specchio a compiacermi del mio cappello di paglia, che ha una tesa
grande quanto la mia consolazione.

                                 * * *

                                         Borghignolo, 12 agosto 1865.

Ma questo paese è diventato la residenza delle mosche! Bisogna
tener chiuse le persiane, i vetri e le imposte se non si vuol essere
mangiati. Altro che scrivere le mie prime impressioni campestri! Se
il sole non è sotto, non si può nè aprire le finestre, nè mettere il
muso fuori dell’uscio. E che caldo che ci fa! Il fattore dice di non
ricordarsene, ma io mi ricordo benissimo che una volta a Borghignolo
spirava sempre, anche d’estate, una brezzolina per tutto il giorno che
non lasciava sentire il caldo.

Insomma, bisognerà aver pazienza, e rassegnarsi a incominciare la vita
dei campi il mese venturo. La mia povera casa poi l’ho ritrovata in
tale disordine, che non mi sarà dato così subito d’avere una stanza
dove mi possa sedere, dove ci sia un tavolino su cui non posi un palmo
di polvere, e un calamaio in cui si possa intingere una penna. Questo,
che ho dinanzi, me lo feci prestare dal fattore per mandare un paio di
righe al mio buon medico, ma si vede che con questo calamaio, se non
si è in molta confidenza, non se ne fa nulla. Tant’è vero che, volere o
non volere, bisogna che finisca.

                                 * * *

                                                    6 settembre 1865.

Per la mancanza deplorabile di non so quale organo del mio cervello, io
non ho la facoltà di descrivere le cose che mi piacciono. Sono quasi da
un mese alla campagna, e in tutto questo tempo avrei avuto il dovere di
far parola di queste mie vaghissime colline, di questa antica casa de’
miei vecchi, e delle cento stradicciole dei miei passeggi, che ad ogni
sguardo, ad ogni passo, mi ridestano tante emozioni nel cuore. Signor
no; più le contemplo queste cose, per me così care, così seducenti, e
più mi faccio pensoso e taciturno. Esse m’inondano l’anima di qualcosa
che è dolce e malinconico, ma questo _qualcosa_ poi se lo volessi
descrivere, non saprei da qual parte incominciare.

Sono invece le cose uggiose, le cose che non vorrei vedere, e di cui
non vorrei parlare, quelle che proprio mi sciolgono la lingua, e mi
tengono lì a ciarlare od a scrivere per ore ed ore. Se questa poi
sia una delle molle contraddizioni dello spirito umano, od una cosa
tutta mia, e in tal caso se possa essere causa od effetto de’ miei
malanni, è un quesito di fisiologia che ho fatto ieri al dottore del
paese, il quale mi rispose che questa era una di quelle questioni che
fanno venire il capogiro, e che egli aveva imparato fino da quand’era
all’Università a farle passare con un bicchiere di vino, e anche con
due quando si facevano più insistenti. Siccome poi di vino io non ne
bevo, così lascio le cose come sono, e scrivo.

Tra le cento ragioni che mi facevano mandar d’oggi in domani questa mia
venuta alla campagna, c’era anche, lo confesso, la noia dei complimenti
e delle feste che mi avrebbero fatto questi terrazzani nel rivedermi
dopo tanti anni, e dopo tante disgrazie, di cui, per l’amore del paese,
ebbi anch’io la mia parte. Io non son fatto per queste cose; e poi,
dicevo tra me: così me le fossi meritate!; ma io ho fatto ben poco, e
non ho fatto che il mio dovere. Ma andate a discutere, continuavo, con
la benevolenza di vecchi amici, e con certi sentimenti di entusiasmo,
di compiacenza e d’orgoglio dei propri compaesani! Son capaci costoro
di voler festeggiare il vecchio esule che ritorna, con un arco di
trionfo. Qualche pranzo, qualche serenata, qualche discorso poi non lo
schivo. Oh che noia! ma come si fa? Alla fine m’ero rassegnato; pensai
anche a quattro parole da dir loro, e partii, prendendo però tutte le
precauzioni per giungere non aspettato in sulla notte.

Le cose andarono bene, anzi, passati alcuni giorni, mi parve che
andassero perfino un po’ troppo bene. Il mio _incognito_ durava più di
quello che mi pareva possibile in un piccolo paese, ove una persona
di più trabocca, e in un momento è a cognizione di tutti. È ben vero
che in quei primi cinque o sei giorni non avevo messo piede fuori di
casa, ma però avevo avuta una visita del curato. Eccomi scoperto, avevo
subito detto; ma dopo il curato non era più comparsa anima viva. Anche
il curato aveva avuto un certo fare che non mi pareva proprio quello
della circostanza. Della mia venuta si era congratulalo con una certa
parsimonia, e al tono un poco imbarazzato e quasi compassionevole,
pareva fosse venuto a confortarmi più che a farmi festa. Pensai subito
che ne sapesse sulla mia salute più di me, e che mi tenesse spacciato
in breve. Insomma cominciai ad essere poco tranquillo, tanto più che
anche il fattore aveva esso pure il suo fare un po’ misterioso.

La necessità di vedere una terza persona si fece così prepotente, che
un bel mattino volli uscire di casa a far quattro passi fin verso la
piazza e il caffè.

La prima sorpresa poco grata che m’ebbi, appena fui in strada, fu
di vedere il muro di casa mia tutto imbrattato di parole scritte col
carbone, e di cancellature a pennellate di calcina. C’era un _abbasso_,
scritto molto in grande, seguito da qualche altra parola che si vedeva
lavata e rilavata da non capirci più nulla. C’era però un _morte
agli aristocratici di Borghignolo_, e qualche frammento di _evviva_
e di _abbasso_ sfuggito alla censura evidente del mio fattore, che mi
dimostravano come il muro della mia casa fosse l’aringo di una polemica
molto appassionata. Tirai avanti, e ad ogni passo la marea cresceva
sempre più. Dalla prima all’ultima casa, ogni muro era agitatissimo; ci
si proclamava il trionfo d’ogni più ardita questione sociale in mezzo
alla sconfitta, s’intende, dell’ortografia. Sulla casa del curato c’era
scritto _vogliamo la libertà del pensiero_, e su quella del Comune
_abbasso il ministero e viva Buccelli_ che è il nuovo segretario del
municipio.

Fui interrotto qua e là nelle mie riflessioni dalle parole di saluto
cordiale e commovente che mi diresse qualche buon vecchio contadino, di
quelli che m’avevano conosciuto per l’addietro, e che forse mi avevano
già creduto morto. Ma nel tempo stesso avevo veduto venire qualche
notabile del paese che, dopo avermi guardato con la coda dell’occhio,
aveva dato una svolta alla prima cantonata. Giunsi al caffè. Tra una
nuvolaglia di fumo e di mosche, intravvidi alcuni giovinotti di quelli
venuti su da poco, e di cui non sapevo raccapezzare le fisonomie: vi
si faceva un gran chiasso; pareva che ci fosse una grossa discussione,
e non si capiva poi se tutti fossero d’un parere, o se ognuno avesse
il suo, perchè gridavano tutti a piena gola e nel medesimo tempo. Al
mio entrare fecero tutti silenzio improvvisamente e con una certa
affettazione; poi l’uno dopo l’altro passarono, parlandosi piano
tra loro, in una stanzuccia vicina dove c’erano i fornelli, e non
ne rimasero che quattro i quali si misero a un tavolino a giocare a
briscola.

Per bacco! O sogno, dicevo io, o qui c’è del mistero; o non capisco più
nulla. Mi misi a sedere e domandai una tazza di caffè. Il caffettiere
mi riconobbe appena, e mi trovò magro e di brutta cera; a buon conto lo
chiamai di nuovo, e invece del caffè chiesi una limonata. Però, siccome
pensai che avevo fatto colazione da poco, ritornai alla prima idea, e
invece della limonata mi feci portare il caffè.

Sul tavolino presso cui m’ero seduto, c’erano a rifascio dei giornali
recenti e vecchi, e ch’erano una grande novità, perocchè a’ miei
tempi in quel luogo non se n’era veduti mai. Ne presi uno su cui era
scritto, con parola tolta a qualche vocabolario di medicina, giornale
_umoristico_, e andavo leggicchiando qua e là, pensando a quella mia
vecchia aspirazione giovanile sul buon senso applicato anche allo
scrivere i giornali. Quei quattro che giocavano, facevano di tanto in
tanto un po’ di conversazione, e proclamavano ad alta voce per farsi
udire dal pubblico, degli aforismi che non avevano a fare per nulla
con la briscola. Ma guardandomi attorno vidi che a fare da pubblico non
c’ero che io, per cui misi anche questo caso tra i molti altri di cui
non capivo niente.

«Bel giardino di natura, pei _codini_ no, non sei!» diceva uno, e gli
altri tre ridevano per un pezzo, e più di quello che non valesse la
cosa.

«Quante mosche!...»

«Eh ne girano dei mosconi! ma una volta o l’altra può venire chi li
spazzi via tutti!»

«Sicuro, sicuro. Partita fatta. Che partitone che si fanno eh!»

«Certamente.... ma gli è perchè quei di Borghignolo hanno gli occhi
aperti.... e quel tale che li deve menare per il naso non è nato
ancora, sia che lo mandi il Ministero, sia che lo mandi il Governo!...»

Intanto dall’_umoristico_ ero passato a un altro giornaluccio piuttosto
piccolo, novissimo per me, che si chiamava _Il Vero Italiano_. Il
primo articolo era intestato a caratteri maiuscoli: _Cittadini di
Borghignolo, all’erta!_ Se la mia curiosità fu irresistibile, mi pare
di doverne essere scusato. Con molta attenzione lessi tutto lo scritto,
il quale diceva pressappoco così:

«Quasichè non bastassero i fatti liberticidi di cui ci è dato
sfacciatamente spettacolo ogni giorno, il Ministero, per ribadire
le nostre catene, dà mano ai più tenebrosi e gesuitici agguati.
Noi le abbiamo più volte scoperte e svelate al popolo queste trame
ministeriali; noi! cui fa impavidi la nostra coscienza, e la nobile
missione del giornalismo!

»I patriotti stieno all’erta! Stieno all’erta oggi, più di tutti, i
cittadini di Borghignolo ai quali vogliam rivolgere una parola. Siamo
alla vigilia delle elezioni generali; ciò è noto, ma noi soggiungiamo
esser noto del pari che il Ministero fa celatamente serpeggiare in
paese ad incettare suffragi uomini a lui venduti.... e lo neghi il
Ministero se può!

»Vuolsi che anche la nostra provincia sia percorsa da uomini della
trama; vuolsi che _un tale_ assente da molti anni sia improvvisamente
comparso nei nostri paesi.

»Cittadini di Borghignolo all’erta! Vuolsi che costui sia uno dei più
attivi agitatori ministeriali, e che con lavoro indefesso e nascosto
abbia già a quest’ora ordite tra noi le prime fila della congiura
ministeriale....»

Benissimo! Questo si chiama colpir giusto! Capisco di chi si vuol
parlare, dissi tra me, vedendomi dipinto così al vivo.

Per bacco! confesso però che questa non me l’aspettavo. Adesso
incomincio a capire.... o per dir meglio sono da capo a non capirne
niente. Guardai la data del giornale, e vidi ch’era d’una settimana
addietro, e che il _Vero Italiano_ lo si stampava nel capoluogo
del mandamento. Cercai, in fondo al foglio, la soscrizione del
direttore, e lessi un certo nome che non m’era nuovo. È il nome d’un
antico sensaluzzo di grani.... oh, non sarà lui! Ma intanto mandando
un’occhiata anche a quei quattro del tavolino, mi accorsi che andavan
facendosi cenno tra loro con gli occhi e coi piedi, e se la godevano
alle mie spalle, ch’era uno spasso. Pensai che i commenti era meglio li
facessi a casa.

«Ehi bottega!» chiamai alzandomi; pagai il caffè, e me ne andai.
I quattro, appena fui fuori dell’uscio, diedero in una grande
sghignazzata, ed uno mi gridò dietro a tutta voce _viva l’Italia!_ per
farmi dispetto.

Poco dopo ero a casa. Io non sono neanche troppo curioso, ma per
bacco! questa volta aveva diritto d’esserlo un poco. Oh perdinci! di
misteri ne sono stucco e ristucco; lo saprò ben io che c’è di nuovo!
In fatti, lì sui due piedi, feci chiamare il fattore; lo misi al muro,
cioè lo feci sedere, e gli feci dire per filo e per segno tutto quello
che volevo sapere. Sulle prime le reticenze furono molte; il mio uomo
cercava svignarsela, e stiracchiava il prezzo, diplomaticamente, sulla
verità; ma quando si ha a fare con uno fermo e risoluto, ci vuol altro.

Tutto al contrario di quello che io avevo pensato e sperato, che cioè
la politica non avesse fatto neanche capolino nel mio paesello, la
politica ha pigliato Borghignolo, se l’è messo sulle spalle, e poi gli
ha levata la mano.

»Perocchè bisogna sapere» diceva il mio fattore «che Borghignolo è
irritato: e a dirla qui, non ha torto;... perocchè bisogna sapere
che il Governo in tutto questo tempo con Borghignolo ha sempre fatto
l’indiano, quasi per darci ad intendere che non sapesse neanche che
ci fossimo a questo mondo. Ma, come dice qui la gente, adesso che
siamo liberi è passato il tempo dei gonzi!... Cosa ha fatto di nuovo
questo Governo? Niente. Borghignolo ha mandate al ministero fior
di suppliche per diventare capoluogo di mandamento, e non gli hanno
neppure risposto! Ogni giorno invece il Governo manda fuori qualcosa di
nuovo, che la è una vera confusione. Queste leggi nuove poi sono tutte
cose che per Borghignolo non vanno. E intanto, dice la gente, si paga
troppo, non si spende niente pei paesi, e si lasciano tanti patriotti
senza il più piccolo impiego.»

Fatte queste premesse a giustificazione di Borghignolo, il fattore
venne da sè alla partita dei disordini e dei torti. Mi disse che le
cose, per volerle proprio capire, bisognava pigliarle fin da quando il
conte Giandomenico essendo nella deputazione comunale, aveva mandato
a spasso il Buccelli ch’era il secretario. Appena si parlò che gli
austriaci se ne potessero andare, il Buccelli aveva incominciato a
dire che Giandomenico era un _tedescone_: ma un bel mattino si sentì
che Giandomenico aveva mandato il suo figliolo Aldo ad arrolarsi
nei bersaglieri in Piemonte: era il primo volontario che partiva da
Borghignolo. _Venuta l’Italia_, come dice il mio fattore, ci fu da
rifare il Consiglio comunale con le leggi nuove. I _signori_, cioè
Giandomenico, il dottore, il curato, il caffettiere, lo speziale, un
merciaio e vari altri, erano divisi in cinque partiti: i contadini
fecero anch’essi la lista dei consiglieri, e ci misero Giandomenico
e quattordici di loro. Il Buccelli che lo seppe, pigliò il più furbo,
quello che maneggiava la faccenda, e gli confidò all’orecchio che era
stato Giandomenico quello che aveva inventata la guardia nazionale.
Allora nelle liste il nome di Giandomenico fu lasciato indietro; il
Consiglio comunale riuscì composto di quindici contadini; il prefetto,
non sapendo chi far sindaco, tira in lungo, e dice che confida
nell’_opera riparatrice del tempo_; Buccelli fu nominato segretario
del comune. La Giunta municipale, in generale non si fida della carta,
nè di quella stampata, nè di quella scritta, per cui delibera sempre
di non far niente. La prefettura _annulla_ il far niente; ma le cose,
com’è naturale, non vanno innanzi per questo. Le faccende dunque vanno
un po’ male, e i _signori_, quelli dei cinque partiti, se la pigliano
col Governo, e si dicono del partito _rosso_. Questa parola _rosso_
imbroglia un poco il mio fattore, ma per istinto la pronuncia con una
certa smorfia di qualche serietà. Questi _rossi_ dicono cose di fuoco
sul caffè: dicono che il Governo è _venduto_, e che i contadini sono
_pifferi_.

«Il Governo non sa che rispondere» dice il mio fattore «ma i contadini
seguitano a nominarsi tra di loro per far dispetto a quelli dei
_calzoni lunghi_. Il Buccelli nel partito _rosso_ è l’uomo della
giornata, ed anche i contadini dicono che è uno dei pochi di cui
si possa fidarsi. Infatti le cose non le piglia male. Nel Consiglio
comunale ha proposto innanzi tutto che si abolisse l’illuminazione
del paese. I consiglieri votarono per acclamazione, e si dissero
all’orecchio che il segretario era uomo di studii, e che andava tenuto
di conto. Ai _rossi_, il Buccelli poi disse che i lampioni gli aveva
fatti mettere Giandomenico, e che la era una sua aristocrazia. Di
scuole il Consiglio non vuol sentirne parlare, e il Buccelli tira giù
proteste per opporsi, come egli dice coi _rossi_, al Governo.» E via di
questo passo il fattore mi vuotò il sacco. Così _signori_ e _pifferi_,
i quali si mangerebbero tra loro, sono unanimi nel tenere alto il
Buccelli sul piedestallo di una grande popolarità.

Poi il mio fattore mi raccontò che da un pezzo, al povero Giandomenico
gli affari andavano alla peggio; cosa che del resto non mi era del
tutto nuova. Le ultime annate cattive per raccolti, e più cattive per
lui, grazie a quella legge che è comune ai debiti e alle valanghe, gli
avevano dato l’ultimo tracollo. Il Buccelli intanto era stato veduto
comperare i crediti qua e là verso quel povero galantuomo, e un bel
giorno saltar fuori col pegno, con l’asta, e col portargli via quel po’
che gli era rimasto, salvo casa e orto. — «Ma con che denari» disse qui
il fattore, per prevenire una mia domanda «con che denari il Buccelli
aveva potuto comperare questa roba?... In paese» continuava il fattore
«i _neutrali_ (perocchè ci sono anche i neutrali) cominciavano a non
capirne niente. Quando tutto a un tratto si viene a sapere che il
Buccelli aveva comperato per un gran signore della città, il quale non
aveva voluto comparire per pagar meno. Allora l’abbiamo capita tutti,
e infatti poco dopo si vide arrivare un bell’uomo, che è poi il signor
Garofani, con tanto di moglie e carrozze e cavalli e servitori, il
quale si mise detto e fatto a rifabbricare con lusso un casale rustico
ch’era unito ai fondi del conte Giandomenico. Venuto poi che fu questo
nuovo signore, la gente cominciò a parlare. Anche qui si formarono due
partiti, senza contare un terzo che si tiene neutrale.»

A questo punto però, avendo cominciato anch’io a capire che il mio
fattore mi voleva menar fuori di strada, perchè ormai eravamo arrivati
al momento del dovermi pur dire quello che riguardava me, lo fermai, e
lo rimisi in careggiata.

«Insomma, si dice che lei è _governativo_!» scoppiò fuori a un tratto
il mio povero fattore, per dirla tutta in una volta, giacchè la doveva
dire così grossa.

«Però, veda, sono state le male lingue....» ripigliava il fattore; ma
io lo tenni saldo, e gliene feci dire di più grosse ancora. Allora
seppi che se per l’addietro non ero venuto in paese, gli era perchè
m’ero messo alle costole del Governo per buscarmi un impiego e fargli
fare quelle leggi che erano contrarie a Borghignolo. Ma venutoci poi e
senza impiego, non ci dovevo, era chiaro, esser venuto per niente, e
quindi Dio sa per che cosa. Tutti si aspettavano ch’io mi sarei dato
molto d’attorno: ma nessuno avendomi veduto per essermene io rimasto
così appartato, i sospetti erano cresciuti tanto più. Io sono l’amico
di Giandomenico, e siccome questo povero Giandomenico ha sempre avuta
l’aria un poco intronata, e chi sa come lo avranno ora sbalordito le
disgrazie!, così si dice ch’ei fa lo sciocco per darla ad intendere,
che è il mio emissario segreto, che è un volpone, e che fra noi due
nascondiamo una covata misteriosa.

«Ci mancherebbe anche questa!» dice la gente.

«Coraggio» dice il Buccelli «lasciate fare a me!»

«E intanto» soggiunge il fattore «anche il foglio del capoluogo deve
aver messo olio sulle braci; mi contano che n’ha parlato anch’esso,
e mi chiudono la bocca, perchè il foglio io non lo leggo; e poi mi
dicono che ragionar meglio del foglio è impossibile. Fu allora che, non
sapendo che fare di meglio, ho pensato d’inviarle quel figliolo, Luigi,
che andava in America, sicuro che lei gli avrebbe fatto del bene; e
allora le male lingue avrebbero taciuto: ma anche questa la mi è andata
male.»

Così il mio fattore, senza saperlo, aveva fatto un po’ di politica
anch’esso. È uno strano privilegio di questa scienza, quello di essere
professata senza le spese della laurea, e spesso anche senza quelle
della grammatica! Ma lasciamo andare questa questione; la questione
per me adesso è di sapere se devo rifare i bauli per la seconda volta,
o no. Confesso che di trovare tanta politica in Borghignolo non me
l’aspettavo davvero. E non m’aspettavo che il mio _aratro_, in ricambio
di tanto affetto, m’avesse a schiacciar sotto così subito. Dovrò dunque
tenermi chiuso in casa, dopo essere venuto qui per cercar ristoro
all’aria libera delle colline e de’ campi? Ci vorrà pazienza! rimarrò
solo, lascerò fare e dire, terrò per me i campi, la collina, la mia
casa, e abbandonerò ai borghignolesi la piazza, il caffè e la politica.
Così vivremo tutti in pace, ed io non farò i bauli, aspettando, come il
prefetto, l’opera riparatrice del tempo.

Non foss’altro, su quella paura che avevo avuto dell’arco di trionfo,
ora sono tranquillo.

                                 * * *

                                                   10 settembre 1865.

Se a qualcuno dei nostri nipoti, i quali avranno anch’essi le loro
tribolazioni grandi e piccole, venisse il capriccio di conoscere
qualche tribolazione dei loro vecchi, qualche piccola tribolazione,
per esempio, del 1865, avrei voglia di far loro sapere che c’era
quella della _popolarità_ e della _impopolarità_. Se a loro tempo
non l’avranno, fortunati loro! Dal più al meno, per questa benedetta
_popolarità_, oggi sono tutti sulle spine. Si dicono bugìe; si fanno
cose incomodissime; si farebbero le capriole e i rivoltoloni per strada
senza che l’essere gravi o vecchi sia un ostacolo. Anch’io, quand’ero
giovane, ho fatto l’occhietto alla _popolarità_; e avendolo fatto
contemporaneamente a una signora alla moda, la quale di tanto in tanto
metteva anche me sul candelliere per darsi il gusto poi di voltarmi le
spalle, ci ho trovata alla fine l’istessa soddisfazione. Per finirla
affatto colla _popolarità_, ci volle però che mi piantasse lei.
Pensando a un caso così tremendo, una volta ne avrei avuti i brividi;
ma ora che ci sono, mi sento invece un gran peso giù dalle spalle. I
pregi dell’essere _impopolare_ sono, pressappoco, quelli del celibato,
pregi negativi; li ho già capiti e valutati, e per un uomo del mio
stampo, sono pregi d’oro.

Approfittando dunque della mia _impopolarità_ il giorno dopo che ne
ebbi la prova, passando dinanzi al caffè proprio sul mezzodì andai a
far visita al mio vecchio compagno di scuola, Giandomenico. Di questi
fatti, audacissimi per Borghignolo, se ne vedranno d’ora innanzi
parecchi.

Povero Giandomenico! Mi ha stretto talmente il cuore, che ho dovuto
maledire tra me stesso i miei anni, i miei acciacchi, e questa tomba
nella quale sono irremissibilmente disceso. Sì, perchè se io fossi
giovane, sano e, innanzi tutto, vivo, vorrei davvero cavarlo quel
mio povero amico da quello stato così tristo in cui l’ho veduto. Eh,
come si fa! È troppo tardi. Pesa su di me una fatalità, innanzi alla
quale ho dovuto darmi vinto, e a quest’ora è inutile che io riprenda
una lotta a cui non basto. Povero Giandomenico! Vedendomi, s’è fatto
rosso in viso quasi gli rammentassi in una volta tutta la storia delle
sue disgrazie. Gli parlai subito del suo bel figliolo; gliene chiesi
conto di nuovo; gli parlai dei miei progetti di vita campagnola, e
cercai nel passato qualche barzelletta da richiamare. Ma Giandomenico
intanto aveva ripresa una certa espressione tra il malinconico e
l’indifferente, che gli doveva essere ormai abituale; rispondeva
poco, e con l’aria d’uno che non ascolti. Gli anni e le sofferenze
non gli avevano risparmiato nulla; e di più traspariva da lui un
certo decadimento morale, da cui mi sentii così dolorosamente colpito
che quasi mi vennero le lacrime agli occhi. Presto la parlantina mi
abbandonò, e ci furono dei lunghi intervalli di silenzio. Diedi qualche
occhiata all’ingiro, e riconobbi il salotto ove eravamo; mi rammentai
di averci tante volte giocato, quand’ero ragazzo, sotto gli occhi della
contessa Teresa, la madre di Giandomenico, la quale mi dava sempre
de’ confetti. Allora, avrei voluto essere sempre lì; ma mi fermavo
spesso sulla porta, perchè quel salotto e quei signori mi davano tanta
soggezione! Quanti bei mobili ci avevo veduti! All’ingiro, pendevano
dalle pareti delle grandi cornici dorate, degli specchi, e dei santi.
Nel mezzo, ricordavo una lumiera a cristalli bianchi e colorati, a
fiorellini, a fogliuzze luccicanti che m’avevano sempre fatta una gran
gola. Poi c’erano tavole, seggioloni, e tavolini tutti a fogliame e a
spigoli contro i quali avevo dato tante volte delle capate, però senza
piangere, perchè avevo soggezione anche dei mobili.

Ora in quel salotto non c’era più che una vecchia scrivanìa piena
di polvere e di carte disordinate, presso una finestra; un tavolino
scassinato e qualche seggiola spaiata. L’unico mobile di pregio che
rividi fu uno scrignetto a incrostature di tartaruga e di lamine
d’argento cesellate. Lo aveva assai caro la contessa Teresa, e mi era
rimasto impresso nella memoria perch’era di là che uscivano di solito i
confetti. Ora era mezzo screpolato e annerito. Quest’ultimo avanzo di
una ricchezza che non era più, rendeva ancora più tristo lo squallore
di quel salotto; e più tristi faceva i miei pensieri che volevano
indagare come mai solo quello scrignetto avesse potuto rimanere
all’antico suo posto.

Mi alzai. Giandomenico richiamandosi di nuovo a se stesso, si
fece ancora un po’ rosso in viso, mi incominciò qualche parola di
complimento che andò a morirgli sulle labbra, e volle accompagnarmi
fino al portone della casa. Attraversai il lungo porticato tutto
dipinto a stemmi e a motti in latino; intravvidi ancora certi ritratti
vecchi, anneriti ch’ero solito guardare passando; ma questa volta
non alzavo più gli occhi, perchè tutto in quella casa, e quello che
c’era, e quello che non c’era più, mi serrava il cuore ugualmente.
Nel salutarmi, Giandomenico mi guardò e mi disse: «sei pallido e
malinconico, cos’hai?»

«Io?» risposi: «Tutt’altro. Forse non pare a primo aspetto, ma sono in
bonissima salute, e di bonissimo umore!»

Non avrei mai creduto di dover dire una simile bugia. Ma il sentimento
che me la dettava, me la fece quasi parere una verità.

                                 * * *

                                                   15 settembre 1865.

A un vecchio cavallo che ha passati i suoi anni, prima della rimonta,
al reggimento, e che ora tira tranquillo per una stradicciola di
campagna la sua carretta, non si dovrebbero lasciar mai sentire gli
squilli della tromba. Lo dicevo sempre al mio buon medico, e in questi
giorni me l’andai ripetendo a me stesso, nel sentirmi un certo bollore
nel sangue, dopo aver veduto l’affisso sulla porta del comune che
annunziava per il giorno 22 del mese venturo le elezioni politiche
generali. Non so perchè, ma da quel momento mi sentii una gran voglia
di chiacchierare con qualcuno, e le gambe mi menarono a passare dinanzi
al caffè; proprio dinanzi a quel famoso caffè nel quale la settimana
prima avevo giurato di non metter più piede. Dopo averci fatto più
volte il primo giorno la ronda all’ingiro, il giorno dopo finii
coll’entrarci. Rividi il _Vero Italiano_; e per accostare alle labbra,
ancora una volta, la tazza della _popolarità_, domandai un bicchiere
di _anisetto_. Due giorni dopo, avevo già scambiata qualche parola con
qualcuno, e avevo ascoltato qualche utile insegnamento sulla briscola
e sull’amministrazione dei grandi Stati. Queste prime prove della mia
deferenza furono bene accolte, e contribuirono a persuadere più d’uno,
se non mi sbaglio, della mia innocenza. A poco a poco si cominciò a
guardarmi più con curiosità che con sospetto; e scommetterei che molti
sono forse già convinti che quel tale, che cospira contro Borghignolo,
sia un altro. Insomma si direbbe che rinasca una certa fiducia.

Oggi infatti, verso il tocco, quando i benestanti del paese dopo aver
desinato vanno, col naso un po’ rosso, a prendere il caffè, passando io
a caso dinanzi la bottega, parecchi, con viva istanza, mi vollero per
farmi decidere una questione. La questione era se, quando si tratta di
eleggere un deputato, sia meglio sceglierne uno di quei vecchi, purchè
sia giovane d’anni, od uno nuovo, ma vecchio d’età. Questa importante
questione era venuta a proposito d’un appello che il _Vero Italiano_
aveva fatto a quei di Borghignolo, in un articolo sulle elezioni che
incominciava: «Borghignolesi, pensateci: vi guarda l’Italia, vi guarda
l’Europa!»

Chi gridava più di tutti era il segretario Buccelli. «Ma volete
contarle a me queste cose» diceva «a me che apro tutti i giorni cinque
o sei pieghi dove ci son carte che vengono e dal prefetto, e dal
Ministero, e dai carabinieri?... Io la vedo da vicino la politica, miei
cari, e so come vanno le faccende. Ci vogliono uomini nuovi, come dice
bene il _Vero Italiano_, ma un po’ sugli anni, come dico bene io! Qui
sta il punto! I deputati bisogna mutarli tutte le volte, anzi io li
vorrei mutare tutti gli anni, per impedire le combriccole: questa, come
politica, sarebbe la migliore: ma poi bisogna mandare al Parlamento
degli uomini che non se la lascino fare. Perchè bisogna sapere che
presso il Ministero ce ne sono dei birbaccioni! delle volpi!...
Bisognerebbe vedere i pieghi....»

«Dunque ci vogliono dei giovani!» gridava Batista. Batista è un
giovanotto elegante del paese, in giacchetta di velluto, e camicia di
lana rossa, colla quale vuol anche dire d’essere stato una volta lì
lì per partire coi volontari: «Ci vogliono dei giovani che abbiano
del fegato, che ci sbarazzino dei parrucconi, e che vadano là e che
dicano.... insomma lo so ben io!...»

«D’accordo» ripigliava il Buccelli «le idee devono essere tutte nuove,
e ci vogliono uomini sempre nuovi; ma per tenere al dovere i parrucconi
ci vogliono quelli che la sanno più lunga di loro. I regolamenti, le
tabelle, i conteggi.... non sono cose da giovanotti; ci vogliono i
capelli grigi, lo dica lei, signor Borsa....»

Il signor Borsa è un antico impiegato che veste di nero, e porta sempre
il cappello di città: è l’ultimo di quand’era ancora all’impiego, e che
segue il signor Borsa nella vita privata.

«Sicuro! sicuro!» rispose il signor Borsa gravemente «siamo in un
cataclisma con queste novità! Non ne capisco più niente nemmen io!
Bisogna cambiar tutto da capo a fondo....»

«Dunque ci vogliono i giovani» gridava di nuovo Batista «ci vogliamo
noi; ci vogliono quelli dell’opposizione....»

«Ben detto» osservò un altro del crocchio, un certo Pasetti «se si
vuole che il Governo sia sorvegliato davvero, bisogna che i deputati
sieno tutti dell’opposizione; se no, ministri e deputati se la
intendono tra di loro; e allora, domando io, a cosa serve che si
mandino al Parlamento i deputati?»

Il Pasetti è un giovanotto, impiegato anch’esso, e in servizio.

«Eh! eh!» continuava, a guisa di soliloquio, il signor Borsa «gli
uomini ci sarebbero stati; ne ho conosciuti io, ai miei tempi, negli
ufficii governativi, degli uomini, e che omoni! Ma sono morti.»

«Per fare il deputato, come l’intendo io, capite» gridava da capo
Batista «non ci vogliono tante chiacchiere e tante carte, ci vuole
del fegato! Io voglio un deputato che dica al Ministero: se volete la
Venezia, cominciate a intimare alla Russia che sgomberi subito dalla
Polonia; e allora l’Austria non sarà più niente; e se non avete il
coraggio di far questo, signori ministri, andatevene al diavolo! È così
che si deve parlare nelle Camere, vi pare?»

«E credete che anche noi, senza essere giovanotti, non le sapremmo dire
queste cose?» gli rispondeva il Buccelli. «E noi ai ministri diremo
anche di fare economia, e di non rubare!»

Qui ci fu un applauso generale. Buccelli conosce il pubblico.

«Prima economia» esclamava Batista, per non parere da meno, «sciogliere
l’esercito, e armare il popolo.»

«Poi, pagar bene gl’impiegati» continuava il Pasetti «favorire i
giovani, pensionare i vecchi, od anche non pensionarli per il momento,
se non si può....»

Qui il signor Borsa, che aspetta, credo, una pensione, intervenne
subito per non lasciar prendere una cattiva piega al discorso; questa
volta si alzò in piedi.

«Io sì ve lo dirò, signori miei, ve lo dirò io che me ne intendo, dove
sta il marcio!...»

«No, ve lo dirò io!»

«Lasciate dire a me....»

«Eh compare, sentite....»

«Il marcio sta nei preti....»

«Sta nella Guardia nazionale....»

«Niente affatto!»

«Ma volete saperne più di me!»

Tutti volevano parlare in una volta. In mezzo a questo chiasso non
potei udire il discorso del signor Borsa, il quale finì esclamando: «E
fino a quando non si faranno più novità, sarò sempre _rosso_ anch’io!»

«Benissimo, benissimo!» gridarono in coro gli altri, cioè il
caffettiere, il pizzicagnolo, un mercante, un canonico, il perito
agrimensore, il vetturale ed altri uomini politici di minor conto, che
di solito votano in silenzio.

«Anche quella novità» osservò questa volta, in via eccezionale, il
perito «di mettere a sistema metrico tutto quello che si mangia, e
tutto quello che si beve, non so che libertà sia! Che sulle mie canne
ci fossero i metri, lo capivo; ma che mi si voglia far bere, quando
vado all’osteria, a sistema metrico, non lo capirò mai. Se, per
esempio, volessi berne un boccale, che diritto ha il governo di farmene
bere un litro?... È forse lui che me lo paga?»

«E se ne bevete quattro _quintini_ ne bevete meno d’un boccale;»
osservò il vetturale «per cui ci perdete sempre.»

«Sicuro. Insomma si vede proprio» conchiuse il pizzicagnolo «che non
abbiamo mai saputo mandare un buon deputato.»

Anche qui la discussione si fece generale, e non si parlava più che ad
una voce.

«Questa volta bisogna pescarne fuori uno coi fiocchi.»

«Io do il mio voto a voi, compare.»

«Coi fiocchi? Quando son là son tutti eguali.»

«E quella baggianata del telegrafo?...»

«Quando sono là, sono tutti venduti,» dice il _Vero Italiano_.

«C’è di quelli che hanno intascate le dozzine di milioni.»

«E di quelli, si conta, che han comperato dei poderi!... e non si sa
dove!»

«Telegrafi di qua, telegrafi di là,... e li paghiamo noi!»

«Non so dei deputati; ma so che i ministri, e me lo ha detto uno che
viaggia, comperano tutti in America.»

«Fin cinque lire l’uno, li hanno pagati quei pali del telegrafo! Capite
cos’è il Ministero? Che se lo dicevano a me, con tre lire....»

«Ma l’ho sempre detto io che ci vogliono de’ deputati galantuomini!»

«Deputati nuovi; deputati che non se la lascino fare; deputati che
abbiano una politica furba, e che sieno nemici dei Ministeri!»

«E dicono che quel meccanismo di vetro, e che so io, che sta fitto in
cima di ogni palo, costi un occhio. Capite come vanno le cose!»

«Ci vuole la libertà dei popoli! Ci vuole una libertà tutta diversa, se
no, non ne faremo niente!»

«E ci vogliono poche strade ferrate che fanno rincarare le ova...»

«Bravo, bravo!»

«Insomma ci vuole il suffragio universale» conchiuse il Pasetti.

Il chiasso e la confusione erano tali, che io potei piano piano
ripigliare la mia strada, senza che gl’interlocutori se ne avvedessero,
e senza decidere la famosa questione per la quale m’avevano voluto.
Il Buccelli però che mi vide partire, e che ormai aveva perduta la
speranza di farsi ascoltare, diede un’ultima crollata di capo, uscì dal
caffè, e raggiuntomi mi accompagnò fino a casa ripigliando la sua tesi,
per quel bisogno prepotente che ognuno ha di trovar qualcuno che gli
dia ragione, almeno a quattro occhi.

«Sono buoni figlioli» diceva il Buccelli «che la pensano bene, ma in
politica certe furberie non le capiscono alla prima. Che ci vogliano
deputati nuovi, ma che sieno un po’ in là con gli anni, è l’abbiccì
della politica un po’ fine! È vero, o no? Lo dica lei, don Michele, lei
che la politica la sa da un pezzo, e che ha girato il mondo....»

«Caro Buccelli» rispos’io «giacchè mi dite così, vi farò una
confidenza. In altri tempi, quand’ero giovane, mi son trovato, è vero,
un po’ nella politica anch’io. La polizia, come sapete, mi voleva
mettere in gabbia, ed io che avevo trovato a tempo un buco nella rete,
mutai di bosco, e mi tenni alla larga dagli uccellari. Ma questa, come
vedete, era una politica molto facile a capire, politica semplice,
spiccia, e non c’era da farci su questioni. Adesso invece la politica
è diventata molto più fine, come dite voi benissimo, e capirete che
non è alla mia età che si imparino le cose nuove. Chi sa? fors’anche
ci riuscirei, ma non mi ci metto. Sono ignorante, in questa parte,
ignorante come non lo è nessuno, perchè di politica oggi ne sanno un
po’ tutti. Anzi vi faccio questa confessione in confidenza, perchè poi
non vorrei che la gente ridesse un pochino di me.»

Intanto eravamo giunti alla porta di casa mia. Il Buccelli avrebbe
voluto riprendere il filo delle idee che evidentemente io gli avevo
fatto smarrire. Ma dopo una confessione così completa, a me parve
d’aver finito, e lo salutai ringraziandolo della compagnia.

                                 * * *

                                                   24 settembre 1865.

Da tre giorni non è più possibile tener dietro a tutti gli avvenimenti
che si succedono in Borghignolo. Il fatto principale, e di cui gli
altri non sono che conseguenze e necessità storiche, è la venuta del
signor Garofani, di sua moglie e d’una loro figlia. Addio passeggiate,
addio colline, e i vostri bei sorrisi d’autunno; io mi sono chiuso
in casa, passeggiando per le mie stanze dove spero almeno di non
incontrarmi con questi nuovi venuti. So appena chi sieno, non li ho
veduti che una volta alla sfuggita, eppure non mi vanno. Potevano
lasciarmi nella mia quiete da cui incominciavo a sentire qualche
primo beneficio.... ma signor no! Oggi infatti sto già malissimo,
e se non temessi di peggio, ritornerei in città. Il prossimo e la
libertà individuale formano uno di quei problemi che la teoria potrà
sciogliere, ma la pratica mai.

Questi signori Garofani stanno poco lontano da me. Oltre a molte terre,
che erano del mio povero amico Giandomenico, fu comperata da loro una
sua vecchia casa rustica che sta nel paese, e di cui fecero una villa
chiamandola l’_Isola di Cipro_. Quest’isola, affidata nelle mani di un
pittore di scene, fatto venire appositamente, rappresenta appunto uno
di quei castelli di tela con cui spesso incomincia un ballo mimico. Non
ci manca nulla; merli che diroccano, stemmi a cinque garofani, un gufo
di cattivo umore, e perfino un guerriero vestito in ferro, con cimiero
e piume, che guarda fuori da una finestra finta, come a dire che il
padrone di casa è sulle mosse per la crociata. Ora si sta facendo un
giardino, nel quale, mi conta il mio fattore, ci devono essere cose
straordinarie. Intanto nessuno può entrarvi, e a chi ci lavora è
proibito severamente l’aprir bocca.

Sento anche che girano per il paese due servitori di casa Garofani,
in giubba di color cioccolata e calzoni corti, con cordoni e mostre
d’argento; uno ha una gran barba. La gente, a cui paiono e non paiono
due carabinieri, a buon conto fa loro le scappellate.

Alla sera il cuoco di casa Garofani va al caffè dove gioca a tressette.
Gli pagano volentieri de’ bicchierini, ma lo fanno cantare sulle
provviste e sui piatti che si mangiano da’ suoi padroni. Non è la
prima volta che il signor Garofani viene in paese, ma non si è ancor
finito di parlarne. Ogni volta si discorre di nuovi milioni, dice il
mio fattore, e di nuove maraviglie; c’è chi ammira, c’e chi critica,
e ciascuno dice la sua. Il più affaccendato di tutti è il Buccelli,
il quale è in casa Garofani da mattina a sera, e va e viene senza
aver tempo di rispondere o di salutare chicchessia. Anche le altre
persone più cospicue hanno già fatta la loro visita, e presentati
i loro omaggi. Primi furono il curato e il signor Borsa, i quali
attraversarono il paese assieme, in abito delle feste; il signor Borsa
portava un paio di guanti neri, che serba per le grandi occasioni,
e nei quali ci potevano stare contemporaneamente anche le mani del
compagno. Si è osservato in paese che Giandomenico non è ancora
andato in casa Garofani, e che non ci sono andato nemmen io. Da ciò si
conchiude che decisamente io sono del partito di Giandomenico, e che è
difficile prevedere come l’andrà a finire.

Quei di Borghignolo, poco avvezzi a tante novità in una volta, ne
provano qualche apprensione. E in qualche apprensione mi trovo anch’io,
non potendo prevedere quando mi sarà dato uscire di casa.

                                 * * *

                                                     15 ottobre 1865.

Col mio _aratro_ la va di male in peggio. Ho gran paura che a compire
la storia delle mie illusioni e dei miei disinganni, non ci debba
concorrere anche un pieno disinganno a proposito di Borghignolo.
Ma chi se le poteva sognare certe cose? Il silenzio e la quiete di
Borghignolo, a mio ricordo, non erano interrotti mai in tutta la
giornata che dal rumore di un carro che passasse sulla strada maestra,
o dallo stridìo delle cicale nelle ore calde. Io che avevo fatto i
miei conti su questi pregi di Borghignolo, incomincio a trovarmi un po’
defraudato. Altro che le cicale! Anche qui ci sono partiti e polemiche;
anche qui c’è un _orizzonte politico_ rannuvolato, il quale di tanto
in tanto manda un acquazzone di quelli che vanno a raggiungere fino
i pulcini rincantucciati nel pollaio. Quelli di Borghignolo, a dirla,
sono nel loro diritto; io però, se essi continuano a volere levar la
mano alle cicale, me ne andrò, e senza metter tempo in mezzo, come
soglio far io quando prendo una risoluzione. Nei giorni passati ero
tanto sulle mosse che non presi nemmeno la penna per continuare queste
pagine che pur sono l’unico mio sollievo. La riprendo oggi per non
rompere il filo della cronaca di Borghignolo; ma se presto non ritorna
la bonaccia, mi metto la barca sulle spalle, e vado in traccia della
terra ferma, se pure ce n’è una.

Eccola dunque, tutta d’un fiato, la storia di queste ultime tre
settimane. — La mano di Borghignolo è chiesta contemporaneamente da tre
nuovi candidati politici, desiderosi di impalmarla e condurla in quel
giardino della vita coniugale che è tutto fiorito di rose, come ognuno
sa. Dell’antico deputato, che pure era un brav’uomo, nessuno parla
più, perchè sono unanimi nella massima che ce ne voglia uno nuovo. I
tre candidati nuovi sono: un medico del capoluogo della provincia, il
direttore del _Vero Italiano_ e il signor Garofani.

Il medico è un antico carbonaro, stato due volte in prigione, stato in
esilio parecchi anni; ebbe il suo magro patrimonio sotto sequestro, e
lo perdè in gran parte. Egli però non va troppo a garbo a tutti quelli
che furono sempre solidali e indivisibili nel far niente. I più lo
combattono, e dicono di lui cose di fuoco. Dicono, tra l’altre, che sia
imbecillito, che abbia perduta l’antica energia del protestare, e che
adesso non sappia predicare di meglio che l’abnegazione, la pazienza e
la laboriosità. A Borghignolo, dove la si pensa ben più altamente, non
c’è nessuno che si occupi di lui, meno forse quell’altro originale d’un
Giandomenico.

Il direttore del _Vero Italiano_, che è proprio l’antico sensale, e
che non so come mai sia diventato giornalista, possiede il cuore della
bella a cui aspira. Per quante, e per quanto diverse siano le cose
che i suoi lettori possano pensare in capo a un giorno, egli le sa
indovinare e stampar tutte. Quelli che leggono in un foglio stampato,
che viene dal capoluogo, proprio tutto ciò ch’essi avevano pensato,
dicono subito che è un grand’uomo chi sa scrivere a quel modo. Non
è però a dire che dopo tanto corteo di fedeli non vengano anche dei
miscredenti. C’è chi a quattr’occhi crolla il capo; c’è chi ricorda
qualche storiella che gli altri hanno dimenticato; c’è chi ne susurra
di grosse all’orecchio d’un amico. Ma anche questi in pubblico se ne
stanno zitti, come passeri che scambiano lo spauracchio col guardia;
e lo inchinano anche loro, e fanno appuntino tutto quello ch’egli
prescrive. Egli insomma è il padrone della provincia, tanto è il
prestigio della carta stampata nei paesi dove essa è cosa nuova.

Il terzo aspirante è il signor Garofani, uomo nuovo ma provetto, come
disse per tempo il Buccelli, prevedendo il giorno in cui si avrebbe a
salvar la capra e i cavoli.

Lieto d’essere fuori di combattimento, e di non appartenere più a
questo mondo, me ne stavo una mattina nell’orto, osservando una certa
mia vite a spalliera. Omero, che trovò questa pianta tuttora salvatica
in Sicilia, come dice il mio manuale, se vedesse la mia bella vite a
tralci orizzontali, all’uso di Thomery, mi direbbe certamente: «bravo
Michelino!»

Dicevo questo tra me, quando il mio fattore, correndo e infilando
a un tempo le maniche della carniera, venne a dirmi in gran fretta
e confusione che nel mio salottino c’era la signora Garofani, che
domandava di me. Risposi subito che non c’ero; ch’ero lontanissimo; che
era impossibile sapere dove mi fossi fitto, e quando sarei ricomparso.
Ma fu inutile, perchè il fattore, nell’abbottonarsi la carniera,
mi confessò che essendo stato sorpreso in maniche di camicia, aveva
cercato di rimediarci col dire ch’ero in casa, e che venivo subito.

Erano le dieci di mattina. La signora Giuseppina Garofani aveva un
gran vestito di seta color verde, un vezzo di diamanti al collo, e un
cappellino verde anche esso, con piume bianche. Capii la confusione del
mio fattore. Passata quella prima stizza, seppi sostenere nel dialogo
la mia parte con bastante disinvoltura e cortesia, rimanendo però, a
un pezzo, inferiore alla melliflua signora Giuseppina, la quale dopo
mezz’ora di conversazione mi chiamava già il _suo caro don Michelino_;
dopo tre quarti d’ora m’interrompeva con un _gioia mia!_ e dopo un’ora,
poichè rimase lì più d’un’ora, esclamava di tanto in tanto: «_ma lei
parla come un amore!_»

Cosa voleva la signora Giuseppina? La signora Giuseppina incominciò
col dirmi che, passando dinanzi alla mia casa, aveva domandato di
chi fossero quei bei gerani che si vedevano nella corte; le avevano
risposto ch’erano del padrone, ossia ch’erano miei. «Come! del signor
don Michele? Di quel signore così garbato, di cui si dicono tante belle
cose, e che io e Garofani desideriamo tanto di poter conoscere!» Allora
era entrata, e il mio fattore aveva voluto a ogni costo chiamarmi, e
darmi questo disturbo. Dai gerani passò alla sua nuova villa, da questa
alle ricchezze di suo marito, e dal marito all’elezione del deputato.

«Garofani non lo sa, ma tutti lo vogliono lui. Eh, si vede che sono
molto fini quei di Borghignolo! Per l’impiego di deputato, Garofani lo
si direbbe fatto a posta!; io che sono sua moglie lo devo sapere. Se
vedesse Garofani quando prende la gazzetta! È un politico dei primi!;
la legge fino all’ultima parola, a costo di addormentarcisi sopra. E
poi mio marito è tanto parlatore! Tutti dicono di volere un deputato
che parli molto; ebbene mio marito, a lei lo posso dire, parla più di
tutti! Se sapesse quanto parla!...»

Insomma la signora Giuseppina, credendo ch’io potessi procacciare a suo
marito una bella gerla di voti, voleva che per il bene della patria
ci accordassimo, io e lei, per assicurargli il trionfo. Alla signora
Giuseppina confidai dal lato mio i miei malanni, il mio mal di fegato,
e la mia ignoranza in fatto di gazzette. Mi feci spiegare qualcuno
di questi imbrogli della politica, e la pregai di lasciarmi da un
canto, per la paura che mi fanno le cose che non capisco. La signora
Giuseppina, che non aveva preveduto il caso, rimase questa volta un
poco sconcertata.

Pochi giorni dopo però trovò modo di ritornare all’assalto, intarsiando
il discorso d’argomenti che non erano de’ suoi, e che si vedevano
suggeriti dal Buccelli; ma si trovò da capo nelle secche. Quando poi si
persuase che non c’era modo di farmi spiegare la bandiera de’ Garofani,
volle almeno assicurarsi della mia neutralità, e riuscì a tirarmi in
casa sua. È un vampiro con la cuffia, questa signora Giuseppina! e se
non me ne divertissi alquanto, avrei già pensato sul serio a mettermi
in salvo. Conobbi il marito, il quale dal punto di vista di alcuni
_generi coloniali_, è in disaccordo con la politica italiana; conobbi
la figlia che si chiama Adelina, e che, sotto ogni punto di vista, è
una bellissima ragazza.

Gli assalti a cui ho dovuto far testa per non lasciarmi cavare
dall’ospizio degli invalidi, e ricacciare nelle file dei combattenti,
non vennero solo dalla signora Giuseppina. Ebbi un assalto da
Giandomenico; ne ebbi un altro da un circolo elettorale del capoluogo
della provincia, e non so dir quanti da vecchi amici e conoscenti
dei paesi circonvicini. A chi risposi adducendo un pretesto, e a chi
confidando le mie buone ragioni. «Io non diffido» dissi agli amici
«delle sorti del mio paese. L’importante è fatto. Ci sono poi dei mali
inevitabili, ed è a furia di compitare, e di spropositi che il paese
imparerà a leggere corrente nel libro delle sue libertà. La casa nuova
è bella quando la vedi sui disegni, o quando la abiti finita; mentre
la fabbrichi non hai che malta e calcinacci da tutte le parti. Io fui
tra quelli che la disegnavano; non sarò tra quelli che l’abiteranno,
e posso quindi risparmiarmi i tegoli sul capo, e gli schizzi della
calcina.»

Quelle domande e quelle risposte però mi avevano già messo sossopra;
mi avevano agitato non so perchè; mi avevano risvegliati i sintomi
dei miei più grossi malanni, e se non mi fossi rifuggito subito nella
dimenticanza d’ogni cosa di questo mondo, non so quello che sarebbe
già avvenuto di me a quest’ora. Ma ritorniamo agli avvenimenti di
Borghignolo.

La visita fatta a me dalla signora Giuseppina fu l’assalto, tentato e
non riuscito, contro una vecchia bicocca che potè essere lasciata da
parte, senza pregiudizio delle grandi operazioni strategiche, le quali
incominciarono subito dopo, con un pranzo ogni giorno in casa Garofani.
Ad eccezione di me, che non ci andai, e di Giandomenico che non fu
invitato, vi pranzò in pochi giorni, auspice il Buccelli, mezzo il
paese. Ci furono pranzi aristocratici col curato e il signor Borsa, e
pranzi democratici con l’agrimensore e il caffettiere.

Poi il Buccelli radunò un circolo politico, dal quale fece proclamare
la teoria _dell’uomo nuovo, ma provetto_, all’appoggio di una
esperienza di cui ognuno aveva potuto, pranzando, assaporare i pregi.
Si fecero grandi elogi anche al direttore del _Vero Italiano_; si
deplorò che fosse un po’ meno provetto del signor Garofani, e si augurò
all’Italia che in altro modo lo avesse tra i suoi rappresentanti: si
mandò un saluto fraterno all’America, e si nominò un Comitato promotore
della candidatura del signor Garofani.

Il Comitato promotore, e il Buccelli che ne è il presidente, pensarono
per prima cosa a procacciarsi degli alleati. Il Buccelli che, come dice
la signora Giuseppina, è un politico, quasi quasi come il Garofani,
mise gli occhi sopra un paese vicino ove gli parve che il terreno
fosse vergine, e l’elettore docile. Sommando in prevenzione i voti
di questi elettori con quelli di Borghignolo, vide che l’aritmetica
era tutta a favore del suo candidato; fece il suo piano strategico,
ed entrò subito in campagna. La gran giornata campale, decisiva,
l’abbiamo avuta poi domenica passata. Quella domenica era la terza
del mese, e in Borghignolo la terza domenica d’ogni mese si fa una
processione per tutte le vie con la confraternita e con la banda.
L’occasione non poteva essere migliore; furono invitati per quel giorno
in Borghignolo gli elettori con cui si voleva fraternizzare, e con essi
furono invitati anche un paio di sindaci, un paio di curati, e qualche
canonico. La festa poi doveva chiudersi con un gran convito in casa
Garofani, e con lo sparo dei mortaletti in piazza. Il Buccelli previde
ogni cosa, fino i brindisi, e gli evviva in fin di tavola. La signora
Giuseppina, che mi onora della sua confidenza, mi disse il giorno prima
che il Buccelli e suo marito avevano pensato un bellissimo discorso.
Il Buccelli sapeva, perchè egli stesso glielo aveva suggerito, che uno
dei sindaci invitati, nel fare il suo _evviva_ al futuro deputato, gli
avrebbe chiesto nientemeno che una strada ferrata che toccasse il suo
paese. Il signor Garofani allora gli avrebbe risposto in un modo da
lasciare tutti gli astanti con la bocca aperta per un pezzo.

Venuta la domenica, e venuti gli invitati, alla mattina dopo la messa
cantata ci fu dunque la processione che, a detta di tutti, riuscì più
bella del consueto. Il clero era più numeroso per l’intervento dei
curati e dei canonici invitati al pranzo di casa Garofani; la banda,
che di solito gode delle maggiori franchigie nell’abbigliamento,
sfoggiava questa volta un berretto d’uniforme; parecchi confratelli
poi avevano fatta lavare la veste. In veste bianca, cappa rossa e
posto distinto veniva il Buccelli, il quale è anche priore della
confraternita. L’antico priore era lo speziale, ma dopo la battaglia di
Magenta il Buccelli cominciò a dire che non era più l’uomo dei tempi, e
gli rubò il posto.

Quando le processioni, o la confraternita, passano dinanzi al caffè,
ove piantati sulla porta ci stanno sempre due o tre liberi pensatori
con le mani nel taschino de’ calzoni, il nuovo priore, facendo loro
d’occhio con malizia, riceve in ricambio un saluto d’intelligenza e
una smorfia sotto i baffi, da cui si vede che tra la confraternita e
i radicali di Borghignolo, non c’è ruggine di sorta. Anche quei della
banda, che precedono il baldacchino, dinanzi al caffè intonano l’inno
di Garibaldi, per far intendere che non sono meno liberi pensatori di
quello che siano liberi sonatori.

Incominciata la processione, incominciò anche lo scampanìo che
seguitò per più d’un’ora. Io, che al sonare delle campane divento
come uno di quei poveri cani che mandano dei mesti ululati e scappano
per le campagne, senza ululati ma mestissimo pigliai una delle mie
stradicciole favorite e di là mi dilungai, come fanno i miei pensieri,
fuori di mano e senza mèta. Per il pranzo, anche questa volta mi ero
scusato, e potei lasciare tutte le altre allegrie senza che alcuno
ci badasse, perchè ormai è noto il mio divorzio da questo mondo per
incompatibilità di carattere.

Ma appena fui di ritorno, mi trovai dinanzi la signora Giuseppina che
veniva a prendermi in tutta furia perchè almeno accettassi una tazza di
caffè, e fossi presente agli evviva che incominciano, secondo l’uso di
Borghignolo, quando i commensali, levatisi di tavola, si frammischiano,
gridano, si abbracciano girando per la sala col bicchiere in mano.
Condotto dalle chiacchiere della signora Giuseppina, dopo pochi minuti
ero anch’io tra i convitati in baldoria di casa Garofani, e giungevo
proprio in sul punto in cui si faceva un profondo silenzio per udire
quel tal sindaco che doveva parlare della strada ferrata. Questo
sindaco che aveva l’aria d’aver bevuto un po’ troppo, e di non saper
più dove ripescare il suo discorso, dopo un po’ di meditazione fece un
gesto di impazienza, e si accontentò di gridare: «Viva dunque il signor
Garofani e la sua signora _metà_! Viva tutta la compagnia! E viva
l’allegria!» — «Bravo Carlotto! benissimo!» si gridò da tutte le parti.
«Viva il signor Garofani! viva il nostro deputato! viva Carlotto! viva
l’allegria!» E per qualche minuto ci fu un chiasso indiavolato. Il
Buccelli era diventato livido, ma il signor Garofani imperturbato fece
cenno di voler rispondere, ed ottenuto un silenzio ancor più profondo
del primo, rispose così:

«Io ringrazio l’egregio signor sindaco della fiducia, che a nome degli
elettori della sua cospicua borgata, così eloquentemente ha voluto
significarmi. Gli interessi di questi paesi mi sono sacri quasi come
i miei... No! o Signori, quelle obbiezioni di cui ha parlato il signor
sindaco, che dagli avversarii si fanno alla nostra appetita ferrovia,
reggere non potranno; ed io per sempre le saprò disperdere tanto nel
Parlamento che alla Borsa.... Sì! o Signori, le strade ferrate sono il
gran portento del secolo! I titoli della nostra linea si manterranno
in richiesta e buona vista. Il commercio e l’industria formano la
prosperità dei popoli! Viva dunque la strada ferrata! viva il signor
sindaco e la libertà!»

L’entusiasmo fu indescrivibile. Il Buccelli si ricompose e riacquistò
il colorito naturale, che in quel momento era quello d’uno che ha ben
pranzato. Tutti volevano abbracciare il signor Garofani, e dichiaravano
che parole simili a quelle dette da lui non le avevano mai sentite.
Parecchi erano talmente inteneriti, che stavano per piangere, e la
signora Giuseppina ne accresceva il numero, correndo per la sala
con due bottiglie in mano, a ricolmare i bicchieri di tutti. Anche i
servitori della casa, quantunque vestissero la gran livrea di color
cioccolata con le mostre verdi, dimenticate le etichette, bevevano
allegramente colla compagnia. Io mi ero rifuggito in un angolo dove
si faceva meno baccano, e dove mi trovai con un canonico che, seduto,
assaporava tranquillamente il suo vino, levando di tanto in tanto
qualcosa di tasca, ove aveva un magazzino di dolci, castagne e fruite
secche. Ma la signora Giuseppina che non mi aveva perso d’occhio, fu
presto da me con un bicchierino, e una piccola bottiglia.

«A questo poi, signor don Michelino, non si dice di no. È un _malaga_
di quello che faceva il povero Baldassare, il mio primo uomo. È una
delle ultime bottiglie che conservo in sua memoria, perchè me le aveva
regalate il giorno in cui mi ha sposata.»

«Eh, allora è proprio vecchione!» disse in buona fede il canonico; ed
io, per salvarlo, dovetti accettare il _malaga_ e sviare il discorso,
esclamando: «Alla sua salute, signora Giuseppina!»

«Troppo onore, e tante grazie!... E che ne dice del discorso di
Garofani? Che sentimento eh!» prese subito a dire anche la signora
Giuseppina per isviar me.

«E quelle parole sulla strada ferrata!» riprese il canonico. «Che
parole! che risposta!.... In questo cantuccio non ho ben capito cosa
gli avesse domandato il sindaco a proposito delle strade ferrate....»

La signora Giuseppina allora non ebbe più altro rimedio che quello di
pigliarmi per un braccio, e di condurmi a forza in cerca del marito,
dicendomi ch’egli era in giro per le sale da un pezzo a cercar di me,
e tante altre belle cose. Così, in grazia del canonico, dovetti avere
un dialogo anche col signor Garofani, e fermarmi mezz’ora di più.
Appena però il signor Garofani incominciò nel suo crocchio a spiegare
la politica, col pretesto di deporre il bicchierino del _malaga_, io
mi tirai in disparte, e approfittando del primo uscio, me ne andai. Se
ne dolse con me il giorno dopo la signora Giuseppina, ma io l’acquietai
subito, dicendole che quella maniera di andarsene si chiamava andarsene
alla francese, e che era una cosa di gran moda.

                                 * * *

                                                     20 ottobre 1865.

Quando l’orologio è vecchio e logoro, è inutile, caro Michele, buttar
via quattrini e cambiare d’orologiaro. Se l’aria di Borghignolo non
mi pare più quella d’una volta, è inutile che me la pigli con quelli
che devastano i boschi, e lasciano dilagare le acque. È con me che
me la devo prendere, è col mio fegato, e sa il cielo con quali altri
visceri malati e disfatti!; è col destino che non mi lascia mai mancare
delle agitazioni nell’animo. Però anche i medici, per non far torto a
nessuno, di me non hanno mai capito niente. L’inverno ritorna; la buona
stagione sulla quale il mio buon medico aveva fatto tanti calcoli, è
passata e pigliò posto anch’essa nello scaffale dei miei disinganni.
Il sole ci mandò oggi un saluto, con qualche suo raggio tiepido, come
un conoscente lontano che appena si ricordi di noi. Andai a rendergli
il saluto anch’io, pensando: «pallido come sei, chi sa se ritorni!;» e
pigliai per una delle stradicciole della collina, fredda e malinconica
anch’essa, col suo bel verde ingiallito, le sue belle foglie cadute e
ammucchiate, e senza il canto dei suoi uccelletti che sparirono come i
convitati d’una casa venuta in basso.

Pieno di tristi pensieri, m’ero fermato a contemplare dall’alto
la vecchia casa del mio amico Giandomenico, chiamata ancora il
castellotto, situata nella parte più elevata del paese ove principia la
falda del colle. Da un lato, il muraglione della facciata ha l’aspetto
tuttora di un pezzo di torre; ci si vede una sola finestrella a sesto
acuto: ruvido e severo, pare che dica ancora a chi passa: «cavati il
cappello, e tira diritto.» Poi si vede che s’era cominciato, in altri
tempi, a foggiarlo sullo stampo fastoso di un padrone con la parrucca
incipriata, e la giubba di velluto. Ci furono aperte cinque grandi
finestre con frontoni, cornicioni, ornamenti a spezzature, a curve,
che paiono occupati a farsi tra di loro degli inchini in un minuetto.
Quei finestroni volevano dire: «qui c’è corte bandita per tutti; pei
nobili quassù, e pei villani sull’erba del brolo.» Ma i finestroni
non furono continuati; rimasero soli, e dopo questi il muraglione
continua uniforme, e pare più severo e più malinconico. Qua e là
vi fu aperta qualche finestra meschina, misurata sulla persiana che
c’era da metterci, per dar luce a un ripostiglio o ad una cameretta da
pigionante. Tutto è cadente, scassinato, deserto; l’inverno è disceso
da un pezzo sull’antico palazzotto, senza vicenda di stagioni più
liete. Povero Giandomenico! L’ultimo della tua famiglia non è il tuo
figliolo che, alta la fronte e la spada in mano, può cadere su un campo
di battaglia nell’ebbrezza della gloria. L’ultimo sei tu che, vecchio
e rifinito, assisti mestamente ogni giorno al crollare inesorabile di
queste ultime rovine della tua famiglia, della tua casa!.....

                             . . . . . . .

«Una bigattiera! una magnifica bigattiera!» m’interruppe una voce,
mentre una mano si posava sulle mie spalle. Era il signor Garofani, che
s’era fermato presso di me, precedendo di pochi passi sua moglie e sua
figlia che salivano anch’esse quella costa.

«Scommetto che anche lei, don Michele, stava pensando che cosa si
potrebbe cavare da quel casone abbandonato, piuttosto che lasciarlo ai
topi ed alle rondini. Io l’ho visitato. Sicuro!... Ci ho pensato, e non
saprei vederci che una bella bigattiera. Le pare? La facciamo?»

«Una bigattiera?... Eh sicuro! ma io non c’ero arrivato» risposi. «E il
conte Giandomenico dunque, gliela vuol vendere la sua casa?»

«Non so, se lo voglia; ma siccome io, per buon cuore, ho fatto tempo
fa uno sproposito, e mi sono tirato addosso certi crediti spallati
verso quel signore, con ipoteca sulla casa, così lei capirà che posso
pigliarmela quando lo voglio io.»

«Niente affatto!» esclamò la signora Giuseppina, che giungeva in quel
punto, tutta trafelata, e con quei cernecchi sulle tempie ambedue
sgommati. «Prima di tutto, noi di quella casa non sappiamo che farne!
Poi, se fosse nostra, si dovrebbe fare la bigattiera nella casa ove
adesso stiamo noi, e quest’altra diventerebbe il castello Garofani!....
Ma questo si dice tanto per dire, perchè la casa non è nostra, e noi
non ci pensiamo nemmeno!»

«E poi» soggiunse timidamente Adelina «dove andrebbe quel signore che
ci sta, e che dicono tanto disgraziato?...»

«Le donne» ripigliò il Garofani «di queste cose non ne capiscono
niente. Se io ci voglio mettere a preferenza la bigattiera è
perchè....»

«È perchè, è perchè....» interruppe la signora «queste sono tutte
chiacchiere inutili! Tu, Garofani, va pure per la tua strada con
Adelina; io rimango con don Michele: noi pigliamo quest’altro sentiero,
perchè abbiamo i nostri segreti.... nevvero, don Michele?» E così
dicendo mi forzò a darle il braccio, e a mettermi in viaggio con lei
per altra via.

«Dunque bisogna sapere che ci sono buone notizie» riprese la signora
Giuseppina un po’ sotto voce, e tenendomi il braccio stretto col suo in
segno di confidenza e di qualche tenerezza. «Sicuro; l’elezione di mio
marito andrà a vele gonfie! Ho già fatto venire cento palloncini per
l’illuminazione del giardino. Ci vogliam noi donne per pensare a tutto!
Queste cose non le dico per vantarmi, perchè anzi gli onori io non gli
ho cercati mai; gli ho sempre lasciati venire spontaneamente, fin da
quando m’ha sposata il mio primo marito, che aveva una così bella....
un così bel commercio. Capisco che in allora potevo ben dire le mie
ragioni, perchè non per niente mi chiamavano tutti _la bella signora
Peppina_. Ma tornando a quello che dicevamo poco fa, questa nomina
la desidero proprio per lui, per mio marito. Perchè quando si pensa
che un tale, che so io, al quale, quando eravamo nel commercio, non
avrei data una libbra di fichi secchi a credenza, adesso l’hanno fatto
cavaliere!... E bisogna vedere sua moglie, la signora _cavaliera_, come
la ci guarda d’alto in basso! Noi! Noi che, non tocca a me a dirlo,
ma.... Ma invece il signor Governo ha avuto il coraggio, una volta che
una persona era andata a dirgli che mio marito, per pura giustizia, lo
si doveva far cavaliere, ha avuto il coraggio, dico, di rispondere che
non c’erano gli _estremi_! La parola l’ho veduta io in iscritto proprio
sull’istanza. Ah! non ci sono gli estremi per noi, e ci sono stati per
quell’altro? Ma la vedremo adesso, quando ci avran fatti deputati, se
ne vorranno ancora degli estremi! In allora la guarderemo d’alto in
basso anche noi la signora _cavaliera_! Non che me ne importi, ma mi
piace la giustizia. Che gliene pare, lo dica lei? E poi» continuò la
signora Giuseppina senza ripigliare fiato «noi abbiamo una figlia, e
abbiamo quindi dei doveri. Con la dote che le si può dare, quando fosse
figlia d’un cavaliere, si può fare come niente un matrimonio nobile.
Perciò non ho badato a spese, e mia figlia può montar su un trono. Le
ho fatto venire tutti i maestri che si pagano di più; essa ha imparato
la grammatica, il pianoforte, la musica, il disegno, tutte le lingue
forestiere, e perfino la poesia. Bisogna sentirla quando parla le
lingue! con che sentimento.... e spedito che non si capisce niente.
Ma è una benedetta ragazza che, quando è in mezzo alla gente, si fa
tutta rossa, e non c’è modo di cavarle una parola. È tutta sua madre!
quand’ero ragazza, ero anch’io fatta così. Lei dunque capirà ch’io non
posso darla in moglie al primo mascalzone....»

E con questi ed altri ragionamenti la signora Giuseppina mi accompagnò
fin sull’uscio di casa mia, ove io m’ero avviato senza che se ne
avvedesse, conoscendo io assai bene tutti i sentieri e tutte le
scorciatoie.

Come fui nel mio salotto, il fattore, vedendomi pallido, volle che
pigliassi una fiammata, e nell’accendere il fuoco mi raccontò che
molti di quelli che devono votare per il nuovo deputato, daranno il
voto a quello che scrive la gazzetta _Il Vero italiano_, perchè ne
hanno paura. Anche questa nuova, che veniva ad aggiungersi alle mie
meditazioni sulla casa di Giandomenico, e alle parole che la signora
Giuseppina aveva troncate a suo marito, non era fatta per sollevarmi
l’animo, e farmi pigliare miglior colorito. La fiammata si levò alta e
scintillante; ma io rimasi col cuore stretto e gelato.

Che cosa faccio io?... Se non fossi un povero ammalato.... Ora poi è
tardi.

                                 * * *

                                                     2 novembre 1865.

Approfittai d’un raffreddore per rimaner chiuso in camera tutta la
settimana, senza udire una parola, e senza vedere anima viva durante
la battaglia elettorale: i miei propositi vacillavano, e ho dovuto
chiudermi in casa per essere sicuro di me. Però a questi foglietti,
mentre nessuno mi sente, posso confidare che l’amarezza provata a
starmene con le mani in mano, mentre di fuori si combatteva, fu più
forte di tutte le amarezze che avevo provate quando lottavo, e che
m’ero prefisso di non aver più a provare.

La prima votazione non riuscì decisiva: ci fu la seconda prova la
domenica seguente; e stamane il fattore venne a dirmi ch’era arrivato
in quel punto dal capoluogo il cursore del comune, e aveva portate le
nuove al Buccelli e ai molti che l’aspettavano sulla porta del caffè.
L’eletto era il direttore del _Vero Italiano_. Quegli elettori fatti
venire dal Buccelli, la terza domenica del mese, avevano votato per il
gazzettiere, come un sol uomo, dopo aver mangiato ciascuno per dieci,
in onore del signor Garofani. La sera stessa, dopo il pranzo, s’era
udito uno di quei convitati dire, nel tornarsene a casa, che «dopo
tutte quelle accoglienze, e tutte quelle bottiglie, a pensarci bene,
non ci si vedeva chiaro.»

Oggi è il dì dei morti. La giornata è meno serena di ieri. Il fattore
dopo avermi inutilmente consigliato a non uscire di casa, vedendo che
non gli rispondevo, e ch’ero un poco astratto, senza soggiungere altro
mi mise un tabarro sulle spalle, e mi lasciò andare. L’aria umida e
fredda, il cielo che si faceva sempre più grigio davano ragione al
fattore. Ma una campana che sonava a lenti rintocchi, la nenia del
rosario ripetuto da branchi di donne che trovai lungo la strada,
avevano in quel momento tant’eco nel mio animo, che forzavano me pure a
seguire i passi altrui, camminando a traverso ai campi per il viottolo
che mena al Camposanto. Ci ho anch’io qualcuno, pensavo, là dentro, e
non voglio che sia l’ultimo salutato. Lo spianato dinanzi al cimitero
s’era mano mano riempito di gente. Le donne, inginocchiate presso il
cancello, recitavano in compagnia a voce bassa il _De profundis_; i
bambini guardavano le loro mamme, con gli occhi spalancati, e fissi,
senza comprendere quella mestizia e quella preghiera; i vecchi, col
capo basso e le mani giunte, fissavano silenziosi e riverenti la terra,
con la quale sentivano più prossimo il misterioso legame.

I singhiozzi d’una povera donna mi scossero dalle mie meditazioni, e
mi fecero movere verso questa infelice che, più che pregare, piangeva
come chi è afflitto da una disgrazia recente. Era una povera vecchia
che non tardai a riconoscere; era la Maddalena, la madre di Luigi, quel
giovanotto partito tre mesi prima, e ch’io non ero giunto in tempo a
trattenere. La povera donna mi riconobbe.

«Eh, mio buon signore,» prese a dire «il mio povero figliolo non c’è
più, proprio più! La carta dove c’è scritto che il mio figliolo è
morto, l’ho fatta leggere da più che cinquanta persone, e dal signor
curato, e dal segretario, e fin dalla gente degli altri paesi. Ma già,
c’è anche il bollo, e non la può sbagliare. Sicuro, l’hanno sbarcato
in un paese dove c’era un male cattivo, e quel povero figliolo è
morto!... Il non avere vicino nessuno de’ suoi, quando s’è ammalati,
è una gran disgrazia! Avesse almeno fatto il suo bene!... lo spero,
perchè era un buon figliolo! E dire che quando è partito io lo avevo
il presentimento.... ma mi consolavo pensando che il fattore gli aveva
data una lettera per lei.... e don Michele, pensavo io, è una di quelle
persone che so ben io! Don Michele gl’insegnerà la strada buona, o non
lo lascerà partire! Ma poi, scrisse che non aveva potuto trovare don
Michele, e che era già lontano non so quanto. Quel benedetto figliolo,
forse, non sarà venuto da lei con la lettera, perchè lei sarebbe corso
subito a cercarlo, l’avrebbe trovato, e gliel’avrebbe detta una buona
parola. Oh, lei è un buon signore, lo so!... e intanto il mio Luigi non
l’ho più.... un così bel figliolo!...»

I singhiozzi le soffocavano di nuovo la parola, ed era per cadere.
Alcune donne la sostennero e la condussero via. Anch’io mi levai di
là, e, ritornando a casa a gran passi, convulso, e con gli occhi che
sentivo gonfiarsi, ripetevo a me stesso: «Non l’ho cercato subito il
tuo figliolo, no! Prima ho discusso a chi toccasse salvare il vicino
che affoga, e quando ebbi conchiuso che toccava a me, il tuo figliolo
era partito!»

Ho scritto abbastanza per oggi. Ho chiuse le finestre, e acceso il
fuoco; ma ho la mano e il cuore intirizziti. Sono segni di neve.
Qualche spruzzo di pioggia è venuto a battere sui vetri, e a dirmi che
per un pezzo forse non uscirò di casa.

Ma anche il mio salotto ha i suoi passatempi. Per esempio, ecco un
foglio novissimo, appena giunto, del _Vero Italiano_ che leggeremo da
capo a fondo, incominciando dalle prime linee che dicono così:

                          L’ELEZIONE DI IERI.

  _Se la modestia non ce lo vietasse, dovremmo dire che un grande
  atto di saviezza illuminata hanno col voto di ieri compiuto
  gli elettori del nostro Collegio. L’Italia vuole uomini nuovi,
  indipendenti, onesti. Noi fummo eletti...._

                                 * * *

                                                     7 novembre 1865.

La mia intasatura de’ giorni passati venne a proposito, non solo
per me, ma anche per la signora Giuseppina la quale, continuando ad
approfittarne, dopo quella prima domenica della votazione, non si
lasciò più vedere. La mi fece così un vero regalo, perchè proprio
davvero in questi giorni non ero in vena nè di far le mie condoglianze,
nè di ascoltare tutto quello che avrebbe potuto dirmi per una simile
circostanza.

In questo frattempo, le notizie tutte del paese le avevo avute
appuntino dal fattore il quale, nel fare di tanto in tanto qualche
partita al caffè o all’osteria, si trova facilmente informato di tutta
la storia contemporanea di Borghignolo. Il fattore dunque pretende che,
quando è arrivata in caffè la notizia dell’elezione, ci furono parecchi
che ne risero sotto i baffi, ma poi, incontrandosi col Buccelli, se ne
mostravano afflittissimi. Il Buccelli s’è fatto in volto del colore
della sua giacchetta, ch’è di color cenere; non parla più, e dice
solamente che _sa tutto_. Anche de’ voti del paese, a conti fatti, il
signor Garofani non ne ha avuto che la metà. Il Buccelli aveva detto
il giorno prima, pronosticando, che i voti di Borghignolo gli aveva
già tutti nel carniere; e il giorno dopo un bell’umore andò dicendo che
nel carniere del Buccelli c’era una maglia rotta e che quella era stata
tutta la disgrazia.

Il Buccelli è sulle tracce di costui, e dice che lo scoprirà. La
signora Giuseppina ha già attraversato cinque o sei volte il paese,
senza cappellino, senza cuffia, senza diamanti, e senza gomma alle
tempie; l’ha attraversalo camminando in fretta, col Buccelli al fianco,
e parlando ad alta voce perchè tutti l’udissero: dice anch’essa che
_sa tutto_, ma che però _una volta o l’altra arriverà a scoprire ogni
cosa_. Dice che Borghignolo è un paese di villani screanzati, e che
quelli che hanno empito la pancia in casa sua, la possono tener piena
per un pezzo. Dice che il tiro principale gliel’ha fatto quel vecchio
rimbambito che sta lassù in quella topaia, ma che anche lui mangerà
presto una gerla di pan pentito. E che insomma, se non avesse la
disgrazia di essere una dama educata, li piglierebbe tutti a.... perchè
fin da quando c’era il suo primo marito, e che tutti parlavano della
bella signora Peppina, e c’erano dei nobili e dei conti innamorati, la
Giuseppina, delle figure, non ne ha fatte mai; e non vuol essere venuta
adesso a farne con questi mascalzoni di Borghignolo....

Queste ed altre parole c’è chi le ha udite con le proprie orecchie,
e c’è chi le ha udite ripetere da altri. Se ne parla al caffè
e all’osteria a mezza voce, con qualche mistero, e con qualche
apprensione. Alcuni per paura, vorrebbero avere il coraggio della
propria opinione, e dir chiaro e tondo che hanno votato per il
Garofani, ma poi, pensando a quell’altro che fu eletto, pigliano una
via di mezzo, e non dicono nulla.

Ce n’è altri, d’animo più forte e indipendente, di quelli che hanno
pranzato allegramente in casa Garofani, ma che poi, «siccome non
hanno mai cavato il cappello a nessuno, e neanche ai milioni di questi
signori» così se ne sono già andati al capoluogo a complimentare il
direttore della gazzetta. I più si domandano come l’andrà a finire,
ma nessuno lo sa; anche i più curiosi questa volta rimangono con la
curiosità in corpo; passano e ripassano dinanzi a casa Garofani, spiano
traverso il cancello, ma non ne capiscono niente.

Bisognerà lasciare sbollir le ire della signora Giuseppina, e poi non
sarà difficile avviare per la gola del cammino tutti questi vapori neri
e minacciosi. Ci sarà bene qualcuno che vorrà ammansarla, e senza voler
essere io quello che entri nella gabbia per il primo, non mi mancherà
l’occasione delle carezze e del bocconcino, per farle intendere qualche
parola di ragione, senza che m’abbia a mostrare i denti. Mi inquietano
soprattutto le parole lanciate contro il mio povero amico, a cui quei
signori potrebbero fare molto male. Ci penserò io a versare acqua su
questi carboni; i quali non potranno divampare così subito, e intanto
avremo tempo, io di fare il mio piano, e la signora Giuseppina di
mettersi in calma e di raccogliere le vele, ossia di ingommare di nuovo
alle tempie quei due cernecchi ora in balìa dei venti.

                                 * * *

                                                     9 novembre 1865.

Giandomenico e la sua casa, la signora Giuseppina e i suoi discorsi,
tanto quelli della passata bonaccia che gli ultimi della tempesta, non
m’hanno lasciato in pace per tutt’ieri. I presentimenti, se non sono
la voce della nostra ragione che vuol farsi sentire quando noi non ci
pigliamo l’incomodo di ricorrere a lei, sono la voce di qualcuno che
la sa ben lunga. Stamane dunque mi feci premura di recarmi alla casa
Garofani, avendo meditata e decisa una visita alla signora Giuseppina.

«Sono partiti per la città ieri sera» mi disse uno che se ne stava
appoggiato al portone socchiuso della casa, e che nell’occasione dei
pranzi avevo veduto strozzato in una livrea che gli mozzava il fiato.

«È impossibile!» risposi io.

«Eppure.... vuole che io non lo sappia?«

«Ma ne siete sicuro?»

«Eh, per bacco! Partiti i padroni, partito il signor cuoco, Giovanni,
la cameriera....»

«Partiti, partiti.... ma come mai!» continuavo io, e si pensi con quale
stizza! Ma intanto ci si erano fatti intorno tre o quattro curiosi,
che mi confermarono ad una voce la notizia, dicendo che la carrozza era
passata dinanzi al caffè; che nessuno sulle prime aveva voluto credere,
ma che poi se n’erano persuasi tutti, vedendo che il signor cuoco della
casa non compariva a far la partita a briscola.

«E così?» domandavano dei curiosi ai quali una notizia sola non basta
mai.

«E così?» mi domando adesso anch’io; e rimango con la bocca aperta, e
goffo come loro.

                                 * * *

                                                    25 novembre 1865.

Partiti i signori Garofani, se si guardano le acque di Borghignolo
ritornate alla loro antica bonaccia, sarebbe difficile raccapezzare
quanta burrasca ci passò sopra, se di tanto in tanto il cadavere
di qualche naufrago, e gli avanzi di qualche naviglio sconquassato,
comparendo lentamente alla superficie delle acque, non ci dicessero con
quanta furia si fossero esse gonfiate. Le disdette di affitti e pigioni
sono piovute a furia sul capo di tutti quegli elettori infelici che,
nell’esercizio della loro sovranità, caddero in sospetto al Buccelli
di non aver dato il voto al signor Garofani. Qualche raro fedele ebbe
già il suo premio in vita, ma finora le folgori furono più numerose
che le corone. Anche questa volta, la barca scassinata di Giandomenico
deve essere tra quelle che ebbero più largamente rotti i fianchi, e
che più fanno acqua. Il fattore mi disse più volte, in questi giorni,
d’aver saputo da gente che lo può sapere, che il Buccelli va qua e là
comperando altri creditucci che molti hanno verso Giandomenico; non
certo per fargliene un regalo, come osserva con finezza il fattore;
e che fu più volte al capoluogo da un tal avvocato che è appunto
quello che da più mesi muove lite a Giandomenico per un credito che
il signor Garofani tiene ipotecato sul castello. Aggiunge il fattore
che il Buccelli dalle smanie è passato alla calma; che tace sempre, e
che sempre ha sulla bocca un sorriso, anche quando non c’è niente di
che ridere: cosa che nessuno capisce, e che dà molto a pensare; e che
finalmente qualche volta fu sentito dire «che in Borghignolo si devono
veder cose, cose _che nè i nostri vecchi, nè i nostri figli non avranno
vedute mai!_»

Queste cose non sono difficili a indovinarsi. La signora Giuseppina
vuole il castello, e il Buccelli vuole Giandomenico fuori di paese.

È un’orribile stagione questa. La neve ha già mandati i suoi primi
spruzzi; tira vento da mattina a sera, e da due settimane non s’è
veduto uno strappo di sereno.

Per sapere se c’è proprio ordito qualche brutto gioco contro il povero
Giandomenico, bisognerebbe battere la campagna, bere l’anisetto
al caffè, fare il politico all’osteria, e inscriversi forse nella
confraternita del Buccelli. Bisognerebbe correre alla città, e fare la
corte alla signora Giuseppina, e la partita col signor Garofani. Ma,
innanzi tutto, bisognerebbe discorrere con Giandomenico; bisognerebbe
in nome della vecchia amicizia, chiedergli un minuto di espansione,
e domandargli che cosa potrebbe fare per lui un vecchio amico. Eh,
certamente! Ed è appunto quello che ho cercato di fare. Ieri, dunque,
con Giandomenico, che qualche volta viene da me dopo desinare, seduti
al fuoco, e messa dinanzi a lui una bottiglia di vino, s’incominciò a
discorrere, pressappoco di questo tenore:

«Bonissimo» diceva Giandomenico «questo vecchio vino della paglia! Ne
faccio io, o ne facevo, poco importa, di simile nelle mie vigne della
collina che ho vendute al droghiere. Gran peccato che l’enologia sia
così poco in fiore da noi! Una vasta associazione dei viticoltori, un
grande stabilimento, e un insegnamento pubblico di enologia, furono
e sono pur sempre il mio principal pensiero. Dovessi far tutto a mie
spese, appena le mie faccende me lo permetteranno, un giorno o l’altro
in Borghignolo si vedrà qualcosa di simile, te l’assicuro io!»

«Ma, a proposito del droghiere, ossia del signor Garofani» presi a dir
io «l’hai sempre in piedi quella lite? Gli avvocati hanno da seguitare
a infilzar carte e spese, o la finite una volta con un buon accordo?»

«Un buon accordo? È impossibile, mio caro. Certa gente non capirà mai
le condizioni della proprietà fondiaria. Ma non importa; e, alle corte,
io pagherò.»

«Alle corte? Benissimo, pagar subito, e finirla....»

«Subito sì, cioè relativamente, appena che.... perocchè le combinazioni
possono essere molte. Le cose attualmente si presentano così....»

Fu qui, cioè a traverso a una penosa narrazione nella quale
Giandomenico, lottando a ogni tratto con la verità, cercava di far
illusione un poco a me, un poco a se stesso, che venni a conoscere
a quali estremi fosse giunto il mio povero amico. La casa, i mobili,
il giardino, che ora è divenuto un camperello, e che sono gli ultimi
avanzi di quanto possedeva Giandomenico, sono alla vigilia d’essere
messi al pubblico incanto. E le sue speranze quali sono?

«Credi tu che la sapienza degli antichi abbia detto a caso che la
fortuna è legata a una ruota?» diceva Giandomenico. «Io sono in basso,
ma la ruota gira!... Io sto con gli antichi, e non mi sono ingannato
mai. Troppi conforti e troppi nobili esempi ci hanno lasciato essi,
perchè io deva aver imparato solo a chiedere pietà nella sventura.
E vorresti tu parlare di queste cose elevate a gente che non ti
capisce?... a qualche basso intrigante di villaggio, o ad uno che
ha razzolato qualcosa mettendo un quattrino sull’altro, vorresti tu
parlare dell’avvenire della proprietà fondiaria, e dei tesori di cui la
terra ci sarà larga un giorno sotto gli auspicii del credito e della
scienza? Gli vorrai tu parlare dei vasti orizzonti che si aprono al
capitale in quegli umani consorzii pieni di gioventù, che sorgono al di
là dell’Oceano, e che fanno maravigliare la vecchia Europa delle loro
scoperte, delle loro industrie, e delle loro rapide fortune?»

Io lo guardavo senza capirne una parola; e fu allora che in un momento
di espansione mi confidò come egli, alcuni anni fa, avesse venduta
una delle sue ultime zolle di terra per dare una sommerella a un tale,
famoso spiantato d’uno dei paesi vicini, e che appunto si diceva andato
in America a tentare la fortuna. Egli deve avermi letto in faccia
l’espressione d’una dolorosa maraviglia, perchè subito riprese:

«È tra questi uomini arditi, avventurosi, e un po’ rompicolli, se
vuoi, che la fortuna sceglie spesso i suoi beniamini. Il vecchio
mondo, piccolo e sfruttato, è per gli uomini pazienti, modesti e fatti
sullo stampo comune. Certe fantasie ardenti, sconfinate, disordinate,
se vuoi, hanno bisogno di paesi vergini e vasti. Dietro loro, dietro
questi uomini arditi, corsero sempre le grandi fortune. Che vuoi? Io
ho una gran fede nel mio viaggiatore. Ogni giorno aspetto la lettera,
e la lettera verrà, che mi annunzia guadagni ingenti fatti dall’amico,
e dei quali una parte solcherà l’Oceano per ristorare la sorte degli
antichi signori di Borghignolo. Allora il droghiere mi vedrà accendere
il sigaro con quei bigliettucci ch’egli va facendosi cedere da qualche
buon uomo a cui ho dovuto rivolgermi in certi momenti difficili.
Allora si tirerà il fiato largo in Borghignolo, noi e la povera gente!
Qualcosa di buono si vedrà, te l’assicuro io! Allora avrò qualche
consiglio a domandarti....»

«Ma se la fortuna non lo mandasse questo bel colpo, o lo ritardasse?»
gli osservai io pieno d’una nuova tristezza, che mi cresceva nell’animo
mano mano che il povero Giandomenico mi confidava le sue speranze.

«Potrebbe ritardare, ne convengo, ed è per questo che devo rassegnarmi
alle temporanee difese, agli armistizi, e all’arte del guadagnar tempo,
che è tutta del mio avvocato. Mi addoloro di queste arti, ma penso che
presto anche la dignità avrà la sua rivincita.»

E qui tirò innanzi lieto e confidente nelle sue speranze, e nei suoi
progetti. Solo gli vidi passare una nube sulla fronte quando gli chiesi
nuove di suo figlio.

«Mio figlio, mio figlio!...» incominciò, e pareva volesse con la mano
e con gli occhi accennare che suo figlio avrebbe raccolti i frutti di
tutte le sue speranze. Ma gli occhi gli si velarono improvvisamente di
lacrime, e senza poter più profferire una parola, mi strinse la mano
con una forza insolita; cercò riprendere il sorriso di prima, e mi
lasciò.

                                 * * *

                                                     5 dicembre 1860.

Il Buccelli continua a non aprir bocca, ma si è vestito tutto di
nuovo. Sono arrivate alcune persone dal capoluogo col soprabito nero e
il cappello di città, le quali entrarono nella casa di Giandomenico,
vi rimasero un paio d’ore, poi andarono a prendere il caffè, e
ripartirono. Uno di questi fu sentito dire al compagno, mentre
scioglieva col cucchiaino lo zucchero nella tazza del caffè: «Quando
si trova poco, la è una gran bella cosa, in un momento si fa!» I soliti
curiosi passano, da tre o quattro giorni, qualche mezz’ora dinanzi alla
porta di Giandomenico per vedere forse se ci stanno ancora quei signori
che pure han veduto partire, poi se ne vanno anch’essi pei fatti loro.
Il famiglio di Giandomenico va tutti i giorni all’ufficio della posta,
e disse a qualcuno che il suo padrone aspetta una gran lettera, ma
tutti i giorni ne esce con le mani vuote.

Tali sono le ultime novità del paese che, secondo il solito, ho
risapute dal fattore, il quale soggiunge di non capirne niente, e con
qualche insistenza; forse perchè sospetta, guardandomi in viso, ch’io
ne capisca invece qualcosa.

                                 * * *

                                                    10 dicembre 1865.

Io non so se i diplomatici sieno tutti originari di Borghignolo,
ma so che in questo benedetto paese è una impresa quasi impossibile
quella di giungere a sapere una verità. Per quanto io abbia fatto in
questi ultimi giorni, non sono stato capace di poter conoscere che
cosa succeda in casa di Giandomenico, che cosa sia delle faccende
sue, che cosa faccia il Buccelli, che cosa facciano i Garofani, che
cosa si nasconda dietro il velo misterioso che acciglia le facce dei
Borghignolesi.

Dopo quell’ultima sera in cui ho parlato con lui, non trovai più modo
di vedere Giandomenico. Il famiglio risponde sempre che il suo padrone
è fuori di casa. Intanto io sono sulle spine per il mio povero amico.
Vedo male, malissimo, e vorrei pure saperne qualcosa. Ieri andai dal
curato. «Tocca a lei, don Giacomo, a metterci una mano» gli dissi. «Lei
potrà sapere quel che succede. Ci uniremo, e faremo tutto quello che si
potrà. Schiviamo una catastrofe a quel povero vecchio; mi dica che cosa
si possa fare di bene, lei che n’è maestro, e facciamo quest’opera di
carità insieme!»

Ma don Giacomo, sebbene non sia nativo di Borghignolo, pure, siccome
ci sta da trent’anni, è diventato diplomatico anche lui. Una volta
era un po’ meno freddo e circospetto, ma dacchè gli avvenimenti della
politica l’hanno sorpreso senza ch’egli ci mettesse prima una parola,
come soleva fare in tutte l’altre cose che accadevano a Borghignolo,
o perdè la bussola, o se l’ebbe a male. E perciò credo che don Giacomo
taccia, ed aspetti a pigliare il suo partito. Vorrebbe, e non vorrebbe;
non dice nè di no, nè di sì; e si conserva neutrale tra i potentati di
Borghignolo.

Il curato, dopo avermi ieri concluso che sarebbe andato da
Giandomenico, per dirmi poi per filo e per segno come stavano le
cose, venne stamani a raccontarmi, per tutta notizia, avergli detto il
famiglio di Giandomenico che il suo padrone non era in casa.

«Se lei, signor curato» mi feci animo a dirgli, «non vuol vedere uno
dei più vecchi tra i suoi parrocchiani messo forse sulla strada, ora
che siamo in tempo, vada alla città. Dai signori Garofani potrà saper
tutto; a lei quei signori non potranno negare un’opera di carità.
Vada, don Giacomo, e mi dica poi che cosa potrò far io. Lei avrà fatto
un’opera santa di più!...»

Ma sulla fronte di don Giacomo passava intanto leggero leggero
il fantasima del Buccelli, che don Giacomo teme come la scomunica
maggiore. Don Giacomo insomma non mi disse nè di sì, nè di no, ma
concluse che sarebbe riuscito a vedere Giandomenico, e che mi avrebbe
poi detto come stavano le cose.

                                 * * *

                                                    15 dicembre 1865.

«Se lei, per così dire, veniva ieri mattina proprio a quest’ora,
guardi un po’! lei trovava ancora in città i miei padroni. Sono partiti
alle tre ore dopo mezzogiorno; ma chi poteva pensare una cosa simile?
Anch’io, che l’ho saputo dal cuoco direttamente, non l’ho saputo che
tre giorni fa. Ma s’accomodi qui presso il caldano; che ne dice di
questo freddo?... Se lei poi volesse sapere in che paese sono andati,
al momento non glielo saprei dire. Però il cuoco, nel salutarmi —
signora Ghita — disse — a rivederla coi ravanelli — e questa per me è
stata una gran parola! perchè mi ha dato a capire che i padroni non
torneranno per tutto l’inverno.... E il motivo?... lei mi dirà. Il
motivo ci sarà, lo creda a me; basterebbe solamente saperlo! ma non
lo sanno nè il cuoco, nè le altre persone di servizio.... Con la nuova
cameriera poi, non ho ancor barattata, per così dire, una parola dacchè
è venuta in questa casa. Essa avrà i suoi motivi; io posso avere o
non avere i miei; ci salutiamo; ma non tocca a me il domandarle per la
prima una cosa che in ogni caso toccava a lei a dirmi fin da un pezzo.
Tutto quello che so è che la ragazza, la signora Adelina, è di molto
dimagrata, e che viene il dottore tutte le mattine.... Son cose, lei
dirà....»

Ma io non dissi niente; e questo è tutto quello che seppi a Milano
dalla portinaia del signor Garofani. Ritornato il giorno stesso a
Borghignolo, il fattore mi disse che Don Giacomo era venuto da me verso
mezzogiorno e lo aveva incaricato di dirmi che «quanto a quell’affare,
non c’era niente di nuovo.»

                                 * * *

                                                    22 dicembre 1865.

Da più giorni, probabilmente, sul portone del castellotto di
Giandomenico stava un affisso stampato, che incominciava colle parole,
a grandi caratteri, _asta di mobili_. Al mio fattore non sarà bastato
l’animo di darmi questa nuova, e stamani me l’ebbi improvvisa, mentre,
scendendo la collina, passavo dinanzi al castello, nel ritornare a casa
dopo una passeggiata.

La casa di Giandomenico era la casa di tutti, come se il padrone fosse
morto e sepolto. L’asta dei mobili era stata bandita per quel giorno
stesso, e mentre io passavo per di là, era già sullo scorcio. Le poche
masserizie del mio povero amico erano state trascinate e messe alla
rinfusa sotto il portico e nel cortile. A chiunque passava pareva di
essere un poco padrone di tutta quella povera roba, e ognuno si dava
il gusto passeggiero di trattarla con la maggiore dimestichezza. I più
erano curiosi, a cui bastava l’essere entrati per quel portone, e in
quelle stanze, ove prima non avevano mai messo il piede, e che ora si
davano la soddisfazione e il passatempo di girarle a beneplacito col
cappello in testa, o sedendosi dove meglio garbava, senza chiedere
licenza a nessuno. C’erano le seggiole; ma i più preferivano sedere su
d’una scrivania, su un tavolino, su un cassettone, per quanto ci si
dovesse star male. Era l’animo, bisogna dire, che ci trovasse i suoi
comodi.

Sul vecchio seggiolone a intagli, da cui tante volte avevo veduto
rizzarsi Giandomenico per venirmi incontro con la sua lieta affabilità,
stava ora seduto il Buccelli che aveva dinanzi a sè il tavolino
di giuoco della contessa madre, pieno di carte, di scartafacci, e
imbrattato d’inchiostro. Vicino al Buccelli stavano alcuni uffiziali
giudiziari, e il gridatore dell’incanto, i quali ora scrivevano, ora
parlavano tra loro, seduti alla scrivania di Giandomenico. L’oste e il
caffettiere caricavano alcune sedie e alcune vecchie masserizie su una
carretta; qualch’altro usciva con un tavolino scassinato, o qualche
attrezzo rurale sulle spalle; il signor Borsa, con molta attenzione,
con gli occhiali, e in un angolo della corte, insaccava un po’ di libri
e di vecchie carte, comperate a peso sulla stadera.

Io m’ero fermato dietro un pilastro all’ingresso del cortile; nessuno
mi vedeva o aveva tempo di badare a me, ed io non sapevo staccare
l’occhio, con una mestizia che mi lacerava l’anima, da quelle povere
rovine che vedevo riunite per l’ultima volta. Esse mi richiamavano
tante care memorie dell’infanzia e dell’amicizia; memorie conservate
nel santuario di quelle vecchie masserizie che ora andavano per sempre
disperse. Povere masserizie! Nel rivedere mano mano quelle note forme,
quasi mi pareva che dovessero anch’esse dividere meco tutta l’amarezza
di quel momento!

Un vecchio contadino, che era rimasto per qualche tempo tacito
spettatore di quella scena, nell’uscire, crollando il capo, mi si fece
vicino, e prese a dire:

«Ecco una casa grande che se ne va! Che ne dice, don Michele? E la va
male anche pei poveri, quando al posto dei signori antichi si vedono
questi _tali_, questi padroni nuovi! L’amore alla terra, e alla gente
che ci vive sopra, questi _tali_ non l’hanno. Povero signor conte
Giandomenico! Ho conosciuto anche i vecchi della casa io! tutta gente
caritatevole e alla mano. E questa roba disgraziatamente frutta poco a
quel povero signore! Il bello e il buono lo mette tutto da una parte
il Buccelli; il quale fa per conto di quel tale che adesso compera
in paese.... Gli stracci sono lasciati alla gara, ma su quel che c’è
di buono, come dicevo, mette le zampe il Buccelli, che girando un
paio d’occhi di basilisco, lascia capire che guai a chi parla. Se c’è
nessuno, dice, questa è roba mia. Uno, due, tre! è bell’e fatto. Povero
signor conte, chi sa dov’è andato!... Io l’ho veduto partire, saran tre
giorni, sulla bass’ora. Lo seguiva Carlone, come diciamo noi, che è il
suo famiglio; il quale prima andò alla posta, perchè il suo padrone
aspettava una gran lettera. Intanto il signor conte si fermò con me,
pover uomo, mi guardò un pezzo, mi battè sulla spalla, ed io aspettavo
che mi dicesse qualcosa.... ma, così tra il chiaro e scuro, mi parve
che avesse gli occhi rossi e che si mordesse le labbra. Intanto era
ritornato Carlone, il quale disse: Non c’è niente!; e allora il signor
conte Giandomenico mi strinse la mano e, sempre senza aprir bocca,
se ne andò. Anch’io non gli seppi dir niente.... Si vede che aveva in
cuore una gran passione, e che non poteva parlare. Ho sentito poi che
aveva lasciato il castello, perchè ci doveva essere l’asta dei mobili,
e che era andato lontano, da un suo parente; ma dove, nessuno lo sa.
Ora si dice che anche il castello debba andare in mano di questo tale
per cui si maneggia il Buccelli. Allora il nostro povero signor conte
non lo vediamo proprio più....»

Mentre parlava il contadino, tutta quella poca gente, ch’era in corte,
si era radunata intorno al Buccelli e al trombetta dell’asta, i quali
un po’ discorrevano, un po’ schiamazzavano, e bisogna credere che
dicessero delle cose molto facete, perchè tratto tratto si facevano da
tutti assieme delle grandi risate. Anch’io mi feci innanzi di qualche
passo per osservare.... e cos’era? Era l’incanto dell’ultima cosa
rimasta, una cassetta nera con qualche intarsiatura in avorio, che
Giandomenico teneva sul cassettone della sua camera da letto, e che
chiamava il suo tesoro. In quella cassetta c’erano alcune cosucce che
avevano servito alla moglie di Giandomenico, morta molti anni addietro.
Più volte, il mio buon amico me l’aveva mostrata, e mi ricordo di
averci veduto un guancialino da spilli, un agoraio, un ventaglio, un
borsellino, dei ciondolini, una sciarpetta, e un piccolo scialle nero
con balza ricamata a fiorellini in seta di colore. Questo scialle
doveva essere particolarmente prezioso a Giandomenico, e gli doveva
richiamare qualche memoria ben dolce e mesta, perchè ogni volta, nel
mostrarmelo, lo levava, lo spiegava con una cura religiosa, e stava per
incominciare un racconto; ma subito, interrompendosi, lo ripiegava, lo
riponeva nella cassetta, e per qualche momento non poteva dir parola.

Ora la cassetta stava aperta sulla scrivania, presso cui si trovavano
quei del tribunale. Il trombetta vendeva il ventaglio, e intanto lo
aveva spiegato e si faceva vento, il Buccelli s’era messo lo scialle.
Chi ne diceva una, e chi rideva di quelle che dicevano gli altri;
insomma l’asta finiva in mezzo a un buon umore, che ai più non lasciava
sentire la brezza gelata che spirava in quel momento nel cortile.

Anch’io non l’avevo sentita fino allora, ma la sentii scendere nel
cuore così improvvisa, così acuta, che n’ebbi occhi appannati, e fuggii
di là. Perchè fuggii? Perchè non corsi a strappare di mano al Buccelli
quelle ultime reliquie per renderle un giorno al mio povero amico?
Questa domanda mi assalì prima che toccassi la soglia di casa mia; ma
mi scossero di nuovo le voci lontane del Buccelli e degli altri che
uscivano in quel punto dal cortile. Lentamente rientrai in casa con
l’animo pieno di disgusto e con un rimorso di più. Le potrò riavere
ancora quelle reliquie?

                                 * * *

                                                      2 gennaio 1866.

Ogni mia ricerca fu inutile. Da otto giorni non ho fatto altro che
domandare di Giandomenico; e ancora non ne so nulla. Parlai con tutti
in Borghignolo e con molti dei paesi vicini; mi rivolsi al delegato
della questura; mi rivolsi ai carabinieri, perchè si facessero delle
ricerche fuori di paese. Le ricerche furono fatte; ma tutti vennero
a dirmi che non s’era potuto saperne nulla. Molti mi dicevano:
«Bisognerebbe parlarne col Borsa; il Borsa, fu protocollista al
tribunale per molti anni, e queste cose lui le sa.» Ma il Borsa
era fuori di paese. Oggi finalmente capitò anche lui, e dopo avermi
ascoltato nel più profondo silenzio, prese a dire, con un fare contento
di sè, ch’egli mi poteva mettere con precisione sulla strada per
ritrovare Giandomenico. Mi rasserenai tutto, e rifiatai proprio di
cuore.

«Il conte Giandomenico» soggiunse il Borsa «ha dei parenti.... e se
non gli ha, vuol dire che gli ha perduti ben di fresco. A quest’ora,
lo creda a me, egli è in casa dei suoi parenti.... non facciamo
altre ipotesi; il conte Giandomenico è in casa de’ suoi parenti! Di
più, quello che io so di certo, è che questi parenti abitano o nella
provincia di Brescia, o in quella di Cremona, o in quella di Pavia;
fuori di lì non si va. Si fidi di me, e non cerchi altro.»

Lo ringraziai tanto; e nel ritornarmene a casa pensai che il meglio
fosse ormai di scrivere ad Aldo stesso, che è di guarnigione in
Calabria; e gli scrissi così:

  «Carissimo,

»Tu sai, mio buon Aldo, che negli affari di casa tua si sono accumulate
da parecchi anni varie disavventure. Ultimamente alle vecchie se
ne aggiunsero di nuove, e tuo padre, credendole forse irreparabili,
uscì di paese, e andò, a quanto mi si dice, presso certi suoi parenti
ch’io non conosco. Forse a quest’ora egli te ne avrà informato; ma
a me pure, suo vecchio amico, preme assai di conoscere la sua nuova
dimora. Scrivimi subito quello che ne sai. Ma se non ne sapessi nulla
ancora, chiedi al tuo Maggiore un permesso d’alcuni giorni, e vieni
diritto a Borghignolo. Al Maggiore puoi dire schiettamente di che si
tratta; egli sarà di certo un brav’uomo, e ti lascerà partire. Tuo
padre, pover’uomo! è nell’afflizione e nello sconforto; noi lo possiamo
rianimare, noi gli possiamo fare molto bene. Non ti aggiungo di più,
perchè so che del venire, non avrai di certo impazienza minore di
quella che provo io nell’aspettarti. Addio.»

Mi pare di avergli fatto capire abbastanza chiaro di non perder
tempo. Ho pensato poi che, se non gli scrivevo io, Dio sa quando ne
avrebbe saputo qualcosa. Chi gli avrebbe scritto? Quei suoi parenti,
no di certo.... oh! non se la piglieranno più che tanto!... mi par di
vederli. Tale è il mondo, e bisogna dire che abbia ragione, perchè è un
pezzo che la va così. Ma s’io mi prendo a cuore questa faccenda, non è
già per immischiarmi nelle cose di Borghignolo, o in qualsiasi altra di
questo mondo: stendere la mano ad un amico dell’infanzia è tutt’altra
cosa. E poi, dico il vero, vedersi mettere sotto il naso i raggiri
d’un mascalzone, e mandarli giù, è cosa che passa i termini della mia
pazienza.

Ma dopo questa, se qualcuno sentirà ancora parlare di Michele, gliene
darò il mirallegro.

                                 * * *

                                                     10 gennaio 1866.

O una risposta di Aldo, o Aldo in persona, non li posso ragionevolmente
aspettare che tra un paio di giorni. Lo vo facendo e rifacendo questo
conto, da mattina a sera, eppure ogni tanto vado a domandare al
tabaccaio che tiene l’_interim_ della posta, se c’è per me qualche
lettera che venga da lontano. Ieri poi, avendo saputo dal fattore
ch’era arrivato dal capoluogo un dispaccio telegrafico, mi misi in
mente che quel dispaccio fosse di Aldo, e uscii di casa in cerca
dell’uomo che l’aveva portato; ma questo era ripartito; e seppi al
caffè che il dispaccio era per il Buccelli, e che glielo aveva mandato,
dalla capitale, il nuovo deputato, per annunziargli che lo aveva fatto
nominare, di punto in bianco, commesso postale di Borghignolo, in
_pianta stabile_.

In caffè, a proposito di questa nomina, si stava in gran silenzio. I
soliti che vi facevano circolo, se ne stavano tutti con le mani dietro
le reni, le labbra strette, e qualche ruga in fronte, appena ce ne
fosse una disposizione naturale. Come mai il Buccelli e il giornalista,
dopo la battaglia così recente dell’elezione, erano a un tratto
diventati amici? Come mai quest’amicizia si accordava con quell’altra
del signor Garofani? Come mai un Tizio arriva a buscarsi, e quando
nessuno se lo aspetta, un impiego così in grande? Come mai il direttore
del _Vero Italiano_ ha trovato il Governo di pasta così dolce? Come
mai....

Insomma pensandoci, e quelli del caffè ci stavano appunto pensando,
c’era da perder la bussola. In mezzo a tanta battaglia di pensieri,
ch’era facile intravvedere dietro gli altipiani delle rughe, anche
un osservatore poco fine, come posso esser io, capiva presto quale ne
poteva essere la conclusione. La conclusione sarebbe stata, che anche
la popolarità del Buccelli avrebbe dato in quelle secche in cui si
trovano subito arrenati tutti quelli che, per approdare più presto,
spingono di troppo la loro nave.

Ma qui vien gente, e faccio punto.

Era il _pedone telegrafico_, come lo chiamano qui, con ardita
denominazione. Questa volta il telegramma era per me; è Aldo, proprio
lui, che lo manda. Sia lodato il cielo!....

La telegrafia però avrà fatto un gran passo, quando quelli che se ne
servono non si crederanno più in obbligo di comporre degli indovinelli.

_Ricevuta lettera. Maggiore partire permesso domani. Riconoscente
chiamata_, dice il telegramma. Voglio supporre che chi deve partire in
permesso sia Aldo, e non il Maggiore, ma potrebbe essere a rovescio, e
il telegramma non sarebbe neanche dei peggiori.

Rifacendo i miei conti, ora penso che tra quattro o cinque giorni
Aldo sarà qui. Il filo delle mie osservazioni sui Borghignolesi lo
riprenderò in altro momento; per oggi non voglio aver che un solo
pensiero, quello di rivedere presto il povero Giandomenico, o di avere
almeno qualche notizia di lui.

                                 * * *

                                                     16 gennaio 1866.

«Tempi più difficili di questi non ce n’è stati mai!» mi diceva anche
ieri il Borsa. «Sa il cielo come la finirà.... se pure la finirà!»

Il Borsa, da qualche tempo, mi dimostra una benevolenza insolita;
in cinque giorni m’ha già fatte due visite. Le cose pubbliche di
Borghignolo gli danno molto a pensare, ed è a me che confida i suoi più
neri presentimenti.

«Nominare il Buccelli commesso postale è uno di quegli errori politici
che dimostrano la insufficenza d’un governo, la confusione degli ordini
amministrativi, la necessità d’un nuovo Ministero!» mi diceva il Borsa.
«Lo creda a me, questa ostinazione del Governo, questa affettazione,
per così dire, di badare tanto poco alle cose di Borghignolo, non
è naturale. Oh no! Lo creda a me, c’è del puntiglio!... Il Buccelli
commesso postale! È proprio un voler dividere il paese in due partiti,
perchè se c’è chi lo vuole, c’è anche chi non lo vuole! E poi, e
poi.... un impiegato nasce, ma non si crea; non si può quindi dare un
impiego a chicchessia, ed un governo non deve mai violentare le leggi
della natura. Per gl’impieghi ci vogliono persone di temperamento
freddo, di testa calma, che non si confondano con facilità nella
spedizione dei pieghi; che conoscano il nome dei dicasteri, il giro
delle carte; persone che sappiano star sul sodo; che vestano con
decoro; che abbiano sempre qualcosa di dignitoso e di affabile, direi
fin nel camminare; persone insomma, che abbiano quel non so che che fa
dire: ecco un pubblico funzionario!»

Così dicendo, il Borsa andava prendendo via via degli atteggiamenti
diversi, che erano come vignette illustrative. Non disse altro; ma
certe crollatine di capo, e certe prese di tabacco che si succedevano
con frequenza e irregolarità straordinarie, facevano capire chiaramente
che c’è del torbido in Borghignolo, e che ce n’è di molto nell’animo
del Borsa.

Oltre ciò, da quel poco che taluno osa dire, e da quello che i
più tacciono, si capisce indubbiamente che nei partiti politici di
Borghignolo è avvenuto, come direbbe un giornalista, uno _spostamento
profondo_. Dopo che il Buccelli è salito in alto, i suoi amici, rimasti
naturalmente al loro posto, se ne sentirono un poco smaccati. Parve a
parecchi d’essere lasciati lì con un palmo di naso; e il palmo di naso
in politica manda spesso diviato nell’opposizione.

Povero Buccelli! L’aura popolare ha già dato l’addio, a quest’ora,
anche a lui. L’essersi fatto il servitore di tutti, il campione d’ogni
capriccio, l’aver pagati tanti bicchieri di vino all’osteria, l’aver
dato fondo a tutta la scienza della popolarità, non gli è valso nulla,
proprio nulla anche a lui! Quelli che si trovano a pie’ di scala,
presto o tardi voltan le spalle a chi ha salito il primo scalino; a
Borghignolo poi le voltano subito. Se il Buccelli ha letto la storia,
a quest’ora deve prevedere la catastrofe: i suoi ultimi atti sono della
natura di quelli, che di solito segnano la decadenza degli imperi; egli
esagera le proprie forze, le mette tutte in mostra, ne fa sfoggio: il
che significa che le sente fuggire.

Il barbiere del paese che, per non dire di no al Buccelli, si era per
quest’anno rassegnato a fare anche il maestro comunale, ora è andato
in Municipio a dire ch’egli non va più innanzi, e che ne cerchino un
altro per la fin del mese, perchè questo mestieruccio del maestro non è
nelle convenienze di chi ha bottega in proprio, e serve fior di gente.
Il Buccelli montò su tutte le furie; licenziò su due piedi il barbiere,
e fece chiudere la scuola. Ma il regio ispettore mandò alla Giunta una
lavata di capo; fece riaprire la scuola, ed ordinò che si cercasse,
entro il mese, un maestro per terra o per mare. Si radunò il consiglio;
il Buccelli lesse l’ordine dell’ispettore; i consiglieri non apersero
bocca, votarono tutti per il no, e se ne andarono.

«Villani, ignoranti!» esclamò il Buccelli «che voto è questo!...
mascalzoni!...» ma fu inutile. Un mese fa, queste parole sarebbero
state irresistibili, ma oggi la voce del Buccelli ha perduto, come si
vede, ogni prestigio.

«Gli è perchè» conchiudeva il signor Borsa, dopo avermi narrate tutte
queste cose «se io dovessi dirne una, direi.... ma la prego non me ne
faccia autore.... direi che quando l’arco è troppo teso.... si spezza!»

                                 * * *

                                                     17 gennaio 1866.

Sia lodato il cielo, Aldo è in viaggio! In una lettera, che ho avuto
poco fa, Aldo mi dice d’aver ottenuto dal Maggiore il permesso di
partire, e che l’indomani si metteva in viaggio. Se è arrivata la
lettera, dovrebbe arrivare anche lui ben presto, tra un paio di giorni
al più. Potesse quel figliolo mettermi sulle tracce del mio povero
Giandomenico, e levarmi da questa angoscia! Sono oramai passate tre
settimane da che ha lasciato il paese, e non s’è potuto sapere di lui
nulla, nulla, per quanto io abbia messo sossopra mezza la provincia.
Aldo saprà dove stanno que’ suoi parenti presso i quali si trova a
quest’ora, senza dubbio, suo padre. Senza dubbio, sì; ma quando lo
saprò proprio di certo, avrò un gran peso giù dal cuore. Intanto la
lettera d’oggi mi è di buon augurio. Il Buccelli, col mandarmela, ha
inaugurato bene il suo nuovo ufficio, e son tentato di dargli anch’io
il mirallegro, come tutti quelli che andavano stamani a domandargli le
lettere; così dicevami poco fa il fattore.

Ah Buccelli! Già, è inutile gli omaggi appannano gli occhi anche agli
uomini grandi. Anche tu hai forse già detto a quest’ora: «ho più amici
di quello che mi credevo; che un colpo di fortuna sia toccato a me,
piuttosto che ad uno di loro, è una cosa che proprio piace a tutti!»

                                 * * *

                                                     19 gennaio 1866.

La novità d’oggi è che per tutto il paese si legge scritto sui muri,
col carbone, _viva Buccelli_; in alcuni luoghi è scritto di fresco,
in altri è ricalcato sul vecchio che incominciava a sbiadire. Una
bell’occhiata di sole mi chiamò fuori di casa, ed anch’io lessi questo
augurio popolare, che riuscirebbe meno anonimo e misterioso a chi
volesse esaminare per minuto la mano di scritto del Buccelli. Il Borsa
però ne è agitatissimo. Lo trovai per istrada, e messosi a passeggiare
con me, prese a persuadermi che siamo tutti sull’orlo d’un precipizio,
di cui mente umana non può valutare la profondità. Secondo lui, questi
muri scarabocchiati col carbone rivelano una lega misteriosa tra
il Buccelli e un partito che è in preda alle passioni più selvagge;
partito, e qui sta il peggio, che nessuno sa di chi si componga.

«Intanto che fa il Governo? Noi siamo senza Governo; il Governo non
capisce niente; senza un Governo che si faccia temere molto, non c’è
libertà; bisogna cambiare il Ministero; il male è che si cambiano
troppi ministri....»

In somma, il povero Borsa non sa che cosa concludere. Però soggiunge
che lo sa ben lui quello che si dovrebbe fare, che non si è mai voluto
dargli retta; che lo ha sempre detto.... ma in conclusione non lo
dice mai. Fors’anche lo disse questa volta, ma i miei pensieri avevano
cominciato in quel punto a prendere tutt’altro indirizzo. Salivamo la
collina da cui era scomparsa ogni traccia di neve; i miei pensieri
seguivano quelle mille forme delle falde e dei poggi che, sebbene
spoglie delle splendide vesti della vegetazione, erano pure vaghe nella
loro severa semplicità.

Il Borsa parlava; ma le sue parole le sentivo confuse col romorìo di
qualche zampillo che spicciava dai muri, col tintinnìo de’ campanacci
di alcune capre che salivano l’erta dinanzi a noi, e col fruscìo delle
foglie secche mosse dal vento. Sì, dicevo tra me, tu sei sempre il mio
bel paese di Borghignolo, quale t’ho avuto dinanzi agli occhi e t’ho
sospirato per tanti anni.... Ah se tu non avessi degli abitanti!

«Dunque lei è del mio parere?»

«Oh sì; credo di sì....»

«Che lei solo può mettere rimedio alle cose di Borghignolo?»

«Oh, questo poi no!»

«Ma se lei dice d’essere del mio parere....»

«Del suo parere sì, ma in tutt’altro.»

«Don Michele, lo creda a me! Non c’è altro che lei....»

«Ma no! Ce n’è a bizzeffe....»

«Ci metta la sua esperienza....»

«Non ho esperienza di sorta!»

«Ci metta una mano. Non mi dirà di non averne! E se non c’è una sua
mano, abbiamo un cataclisma, abbiamo la guerra civile, il finimondo....
avremo un commissario regio!»

«Manco male!»

«Ah! no, don Michele, risparmi una pagina così dolorosa, così
obbrobriosa direi, alla storia di Borghignolo; storia che fu sempre,
come tutti sanno, così ricca di mirabili esempi, tanto sul punto dei
costumi che su quello della buona amministrazione comunale. Tocca a
lei, don Michele, a fare in modo che Borghignolo ritorni all’antico
splendore! Che vi trionfi la virtù, e non si dica: Borghignolo è caduto
in fondo a un abisso: Borghignolo non è più.»

«Caro signor Borsa, Borghignolo vivrà un pezzo ancora, vedrà! Quanto a
me, lei lo sa benissimo, io sono un uomo morto e sepolto da un pezzo;
sono un povero ammalato che vive chiuso, quasi sempre, in una camera,
fuori del mondo, ignorato da tutti....»

«Oh non lo creda! Incomincia a formarsi un partito per lei.... partito
che, se continua di questo passo....»

«Lo fermi subito, per carità.... gli risparmi l’incomodo....»

«Ha veduto?» esclamò a un tratto il Borsa, interrompendo il filo del
suo discorso, e fermandosi sui due piedi. «Ha veduto?» ripigliò, dopo
una breve pausa, con espressione affannosa, e cacciando fuori tanto
d’occhi.

«No, signor Borsa, non ho veduto niente!»

«Come, non ha veduto?...»

«Ma le dico di no! Cos’è successo?»

«Non ha veduto quei due che passavano?»

«Ebbene?»

«Ridevano!»

«E così?...»

«Ridevano!» continuò in tono desolato il Borsa «Ridevano, perchè
ora tutti quelli dei paesi vicini, quando incontrano qualcuno di
Borghignolo, ridono!... Una volta, a quelli di Borghignolo dappertutto
si cavava il cappello! Ora siamo diventati, mi permetta l’espressione,
il ludibrio dei popoli! E in una simile condizione di cose, toccava
proprio al Governo a metter olio sulla brace? Doveva il Governo, per
dirne una sola, dare la posta al Buccelli?...»

                                 * * *

                                                     24 gennaio 1866.

Ho messo in vettura, e fatto ripartire Aldo, con la stessa impazienza
con cui per tanti giorni lo avevo aspettato. Di Giandomenico ne
so quanto ne sapevo; so invece un altro bel pasticcio, dal quale
potrebbero forse venire altri guai. Ci sono degli uomini di cuore che
nelle disgrazie, più la matassa è avviluppata, e più facilmente trovano
il bandolo del fare il bene. Lo so!... Il cielo li benedica....

Ma veniamo al nuovo pasticcio. Fu una ben penosa narrazione quella
che io feci ad Aldo, ma non gli volli tener nascosto nulla, e gli
narrai via via tutte le dolorose vicissitudini di suo padre. Il povero
Aldo piangeva. Era confuso, prostrato, come chi per la prima volta si
trova dinanzi alle disgrazie della vita. Che le faccende di casa sua
andassero di male in peggio, non gli era cosa nuova di certo: fin da
fanciullo si sarà trovato un bel giorno senza ninnoli e senza vestitino
nuovo. Più tardi avrà vedute e capite le strettezze di suo padre; ma le
avrà vedute con quella fiducia giovanile, che crede più alle speranze
del domani, che alle verità ingrate dell’oggi. Così pensavo tra me,
vedendolo tanto abbattuto; ma poco dopo, i suoi vent’anni venivano a
prendere il disopra.

Ci fu un lungo silenzio tra me e lui. Poi a un tratto Aldo si levò
in piedi; alzò la fronte, in atto quasi di ascoltare una improvvisa
ispirazione; mi si gittò nelle braccia, e mi tenne stretto lungamente.
Più volte fu per staccarsi, e più volte mi riabbracciò. Voleva parlare,
ma non poteva: era convulso, tremante. Alla fine, dopo un grande
sforzo, come se quella prima ispirazione avesse vinto, esclamò:

«Oh! sì, sì, io l’amo! Sì, don Michele, ho deciso!... Io amo
quell’angelo... io volerò presso di lei.... nevvero, don Michele?... Un
consiglio, una parola, ed io parto!...»

Io non ne capivo niente.

«Sì, figliol mio; aspetta, discorreremo, hai ragione, partirai, ma
aspetta» e cercavo di calmarlo, perchè non gli desse volta il cervello.

«Che caso! Che fatalità!... Ma io parto, volo. Oh! lei vedrà, don
Michele!»

«Calmati, figliol mio, calmati; dimmi un po’....»

«Io l’amo da più d’un anno!... Io non ho amato altra mai, e mai non
amerò che quell’angelo!... Oh, don Michele, mi risponda, mi dia un
consiglio....»

«Ma, caro mio, io non capisco niente!» gli dissi alla fine; «parla,
spiegati.»

«Oh! ci sono delle cose che non si spiegheranno mai! Il suo buon
cuore deve comprendermi, don Michele. Oh che fatalità! che romanzo!
Essa non ne sa nulla.... oh certo non ne sa nulla!... Ma quando lo
saprà, è da lei che verrà l’ulivo di pace per tutti!... Il mio povero
padre farà ritorno alla nostra vecchia casa; ogni guaio sarà finito;
tutti benediranno lei. Io.... ritornerò al mio battaglione, e poi....
verrà un giorno, presto spero.... io morrò sul campo, gridando _viva
l’Italia!... Ella_.... oh! ella spargerà una lagrima.... perchè....»

Ci volle un pezzo, e una gran pazienza a calmarlo, a farlo scendere
dalle nuvole, a farlo sedere, e a fargli fare una narrazione dalla
quale si potesse raccapezzar qualcosa. Raccolsi dunque che Aldo,
nell’autunno del 1864, passando un mese a Borghignolo, aveva fatto
una grande amicizia coi signori Garofani, che in allora erano ancora
nella fase dei sorrisetti, e piano piano s’era innamorato della loro
figliola, l’Adelina. Ora, il progetto che gli era balenato in mente,
era di correre presso quei signori; di raccontare tutto l’accaduto ad
Adelina, la quale non ne sapeva nulla, com’era probabilissimo; poi di
buttarsi, lui e Adelina, nelle braccia del signor Garofani e della
signora Giuseppina; e d’ottenere sull’attimo, come gli pareva assai
naturale, che fosse restituita a suo padre la casa e tutto l’aver suo.

Cercai sulle prime di calmare un poco l’entusiasmo di Aldo, ammettendo
che nel suo progetto ci poteva essere del buono, ma che bisognava
aspettare, per non dirgli proprio subito quello che ne pensavo io, cioè
che il Garofani e sua moglie, saputa una simile cosa, gli avrebbero
fatto ruzzolare la scala. Aldo era sicuro che i genitori d’Adelina
sapevan tutto, perchè dell’amor suo n’era pieno il creato: ne parlavano
le piante, l’aria, i ruscelli, e quindi ne dovevano aver parlato
anche il signor Garofani e la signora Giuseppina. Le parole di Aldo
mi facevano sorridere, eppure gliele invidiavo tutte. Egli era un bel
campo tutto verde e fiorito; io ero il falciatore, che veniva a far
fieno e a disporre le zolle per l’inverno.

Quando mi sembrò che Aldo fosse più calmo, e mi parve tempo di
concludere qualcosa, cominciai a parlare chiaro e preciso, perchè quel
buon figliolo non aggiungesse alle disgrazie di casa qualche grosso
sproposito di suo.

«No, don Michele, lei non conosce abbastanza il signor Garofani e la
madre di....» balbettava ancora Aldo, dopo ch’io gli avevo fatto il mio
sermone. «Se li conoscesse meglio, capirebbe ch’io non m’inganno con
lo sperare in loro, e in quello che da loro può ottenere Ad.... oh mi
lasci fare!... Io parto, volo; vado in cerca di loro, ottengo tutto,
ritrovo mio padre, poi volo ancora qui....»

«Tu non volerai nè qui, nè là; tu partirai con la vettura domani,
andrai diritto fino al luogo dove speri di trovare tuo padre, mi
scriverai ogni giorno, e non farai nulla, nulla, capisci, all’infuori
di quello che t’avrò detto io. Non si comanda in due; io ho su di te
i miei diritti di anzianità, e tu, da bravo uffiziale, ubbidirai!»
Dopo queste parole, Aldo tacque, e non parlò più nè di pregare, nè di
volare.

Povero figliolo! Chi non è in ballo ha un bel confortare i cani
all’erta! Appesa al muro del mio salotto, c’è una stampa che
rappresenta un mare in gran burrasca, un bastimento che si sfascia, e
cento infelici che vanno a fondo. Se questi volessero dar retta a me,
che vedo le cose con calma e previdenza, si salverebbero quasi tutti;
ma il guaio è che per trovar lo scampo, bisogna essere all’asciutto!

Trattenni con me Aldo anche il giorno appresso per potergli discorrere
un poco a lungo; per mostrargli che l’amo come un mio figliolo; per
aprirgli infine un pochino anche l’animo mio, che non è poi quello d’un
orso. Anche Aldo ne sa poco o nulla di questi suoi parenti presso i
quali potrebbe essere andato Giandomenico. Egli pure non gli ha veduti
mai. Dice però che suo padre riceveva, di tanto in tanto, lettere
da un cugino consigliere di tribunale a Bologna; qualche volta poi
aveva sentito parlare d’altri cugini, che abitavano nella provincia
di Brescia. Aldo, per fortuna, ricordava i nomi sì dell’uno che degli
altri; è sicuro di trovare suo padre presso il cugino di Bologna, e vi
si recava diviato.

Da Bologna avrò la sua prima lettera, voglia il cielo che ci legga
subito una buona nuova! Allora partirò anch’io, per adempiere come
saprò meglio, a questo dovere, che è l’ultimo rimastomi nella vita.
Poi, cercherò, per finirvi i miei giorni, un paesello, che sia davvero
l’ultimo di questo mondo, giacchè m’avvedo che Borghignolo ha la
pretensione di non esserlo.

                                 * * *

                                                     25 gennaio 1866.

Nuova visita del signor Borsa. Il Borsa, quando ha qualcosa a dire,
tace; tiene per di più la bocca così stretta, che la si direbbe
una bottega chiusa per morte o per trasloco del proprietario.
Qui, i traslocati devono essere i denti. Più gli si vede una cera
impenetrabile, e più c’è da arguire che muoia dalla voglia di parlare.
Oggi dunque, entrato nella mia stanza, mi salutò col capo, si mise a
sedere, tirò molte prese di tabacco, spiegò più volte un fazzoletto su
cui è rappresentata la battaglia di Solferino, e tutto ciò senza dire
una parola. Lo lasciai tacere per un quarto d’ora, poi presi a dire:

«Signor Borsa, lei mi conta delle cose serie stamani!... Eh! cosa vuole
che le dica....»

«Dica a quel suo nipote, che ora è partito....»

«Non è mio nipote, è mio figlioccio.»

«Benissimo. Gli dica dunque ch’egli è molto giovane.... e quando il
Borsa dice _molto giovane_, sa ben lui quello che vuol dire!... Perchè
Borghignolo non è più il paese d’una volta! Perchè.... siamo vicini a
un cataclisma.... perchè i galantuomini, e quelli che sanno non contano
più niente! Ma non parliamo di questo. Dica dunque a suo nipote....»

«Al mio figlioccio....»

«Benissimo. Gli dica dunque che, quando non si conoscono gli uomini,
bisogna cercare quelli che li conoscono.... gli dica....»

A poco a poco, dopo un lungo preambolo, venni a sapere che il Borsa
aveva veduto Aldo che discorreva per strada col Buccelli. Questo era
stato il gran guaio. Io infatti non avevo detto ad Aldo qual parte
avesse avuto questo Buccelli nelle disgrazie di suo padre. Il Buccelli
avrà cercato di cavarsi qualche curiosità, ma Aldo aveva ben poco a
rispondergli, e non ne cascherà il mondo.

Aldo poi, da quel tanto che ho potuto capire nei due giorni passati
con lui, non è nè uno sventato, nè un cervellino leggiero. C’è in lui,
per dire la verità, una grande mobilità di fantasia; le sue impressioni
sono vivacissime e fuggevoli; i suoi propositi si succedono rapidi, e
spesso si contraddicono; ma tutti, nella loro brevissima esistenza,
hanno l’impronta di una convinzione sincera. Ma è tanto giovane e
così avvezzo a far tutto a suon di tromba, al passo di corsa, con
uno svolazzo di piume e la sciabola in mano! Egli avrà letti tutti i
romanzi che legge la moglie del suo Maggiore. Egli deve credere che la
vita sia tutta una vicenda di pericoli e di glorie; di marce forzate e
di fiori gettati dalle finestre; di colonnelli arrabbiati e di sindaci
complimentosi; di mamme severe e di serve ammiratrici. Egli deve
credere che il mondo per metà si componga di quelli che tirano delle
schioppettate, e per metà di quelli che li rincacciano a baionette
spianate. Ogni ostacolo, ogni traversìa, devono essere per lui problemi
la cui soluzione sta tutta nel cuore e nell’impeto di chi li deve
superare. Tale deve essere Aldo, con l’aggiunta di un cuore eccellente
e di un animo retto.

«Aldo farà onore a Borghignolo» dissi al Borsa tanto per consolarlo,
mettendolo a parte dei miei ragionamenti. Ma il Borsa non era in vena
di lasciarsi consolare.

«È possibile.... ma già è troppo giovane! So io quello che mi dico;
e verrà un giorno, don Michele, in cui ripensando alle cose che oggi
le dico, e a quelle che non le posso dire, esclamerà: il Borsa aveva
ragione!: ma sarà tardi. Oh! le cose che il povero Borsa va dicendo da
un pezzo, vogliono diventar preziose un giorno! Lo so bene, ma sarà
tardi! I guai e gl’intrighi non sono finiti.... dico gl’_intrighi_
per ora, perchè non posso dire di più!... La ci metta una mano, don
Michele, o la si tenga in guardia! Oh! se ne vedranno delle grosse!...
e badi bene che dico _si vedranno_, e non dico _vedremo_, perchè io
le vedo già!... Insomma, don Michele, glielo domando per l’ultima
volta.... una mano! una mano!...»

«Io non ci metto nè mani, nè piedi, lei lo sa!»

«Come la è così, le son servo. Scriva a suo nipote che si guardi dal
Buccelli!... Per ora, questo basta.... a suo tempo gli potrà scrivere
qualche cosa di più.»

                                 * * *

                                                     30 gennaio 1866.

Sono da capo con le angustie e con le incertezze. Ma facciamo i conti.
Aldo è partito da sei giorni, potevo io averne nuova a quest’ora?
Io dico di sì. Potrebbe darsi però che a Bologna non avesse trovato
suo padre, e fosse ripartito per Brescia. Forse non avrà trovato
così subito neanche il cugino consigliere; forse aspetta, prima
di scrivermi, d’avere una buona notizia. Io però gli avevo fatto
promettere di scrivermi ogni giorno, avesse o non avesse grandi cose
a dirmi. Se ne sarà dimenticato; qualcosa bisogna pur concedere a
quell’età, e a quel pennacchio del cappello; ma intanto i miei nervi
ballano, e la fantasia galoppa. C’è per di più quel buon uomo, il
Borsa, che mi va dicendo ogni tanto: «s’io dovessi mandare a qualcuno
una lettera, metterei la lettera in tasca, e la porterei con le mie
gambe; poi con le mie gambe andrei a prendere la risposta.» È vero
però che subito dopo soggiunge: «il Borsa non si avvilirà mai al
punto di consegnare o di chieder lettere a un Buccelli.» E con questa
conclusione diminuisce alquanto il significato misterioso della
premessa, e rende un po’ meno impenetrabile quel suo sorriso scettico,
col quale condisce ogni discorso sulle lettere e sulla posta.

Eppure.... devo confessarlo? se aspetto una lettera e non la vedo
arrivare, principio ad avere in miglior concetto il Borsa, e a
sorridere amaramente come lui; tanto è vero che nessuno ci par proprio
uno sciocco, se ci accorgiamo d’avere qualche pensiero in comune con
lui.

Aldo a Bologna non avrà trovato il consigliere, e sarà ripartito
senza scrivermi, parendogli di non aver nulla a dirmi. È il solito
ragionamento di chi è lontano. A quest’ora Aldo sarà a Brescia, e
forse nelle braccia di suo padre. Anche questa gli parrà una cosa così
naturale, che troverà inutile lo scrivermela così subito. Capisco
ch’io non sono un uomo fatto per aspettare, come pur troppo non
sono neanche un uomo fatto per andare! Se dovessi dar retta alla mia
impazienza, sarei già sulle mosse; ma poi, è sempre così, quando son lì
per decidermi, ricasco sulla sedia. Questa volta però il meglio è che
aspetti con pazienza, cercando sviare, quando capitano, le mie solite
fantasticherie malinconiche, scarabocchiando su questi foglietti,
passeggiando col Borsa, e cercando di penetrare nei suoi profondi
disegni.

Non vorrei però, a proposito di questi profondi disegni, come li chiama
lui, vedermi un bel giorno messo in qualche garbuglio. Infatti, egli
mi ha più volte confidato che vedeva venire da lontano, verso di me, il
favore della pubblica opinione. «Quando sarà arrivato» gli ho risposto
io.... «gli dica a mio nome che non sono in casa, che sono partito.»
C’è un’altra cosa poi ch’egli vede venire; e credo un po’ meno da
lontano, che vorrebbe dire e non dire, tanto gli conturba il pensiero
e gli scotta la lingua. Egli sospetta possibile che il Garofani diventi
sindaco di Borghignolo. È questo lo spettro ch’egli ha dinanzi giorno e
notte, che lo segue dappertutto, e gli fa veder così nere le sorti de’
suoi conterranei. È questa la chiave dei suoi discorsi misteriosi, dei
suoi sorrisi amari, dei suoi lunghi silenzi.

«Eh! sicuro!» gli dissi io stamani «e lei ne dubita ancora, signor
Borsa, le pare una cosa lontana? Tra poco il vecchio Consiglio sarà
mandato a spasso, se ne farà uno nuovo, il Garofani sarà il sindaco, e
gli consegneremo le chiavi della città!»

«Ma sa lei...» cominciava il Borsa, con la voce strozzata.

«Che il Garofani sarà sindaco di nome, e il Buccelli lo sarà di fatto»
ripigliavo io. «Sicuro che lo so!»

«Commesso postale, segretario, sindaco, priore della confraternita,
tutto insomma!» disse in un sol fiato il Borsa, squarciando per un
istante il velo d’una così lunga diplomazia. «E i popoli dovranno
sopportare di queste cose! Tutto sul capo d’un solo!» continuava.

«Per l’appunto, è proprio quello che piace ai popoli di tanto in
tanto! Chi ha sempre dato i voti al Buccelli?... Ha letto lei le storie
antiche, quelle per esempio degli imperatori romani?...»

«Ne ho sentito parlare» disse il Borsa dopo una lunga pausa, «ma le
confesso che non ci avrei mai creduto!»

                                 * * *

                                                    10 febbraio 1866.

Ho mandato ad Aldo tre lettere anche stamani. Gliene diressi una a
Brescia, una a Bologna, e una presso il suo battaglione. Le lettere che
gli scrissi nei giorni passati, le mandai alla posta d’un paese a tre
miglia da Borghignolo. Quelle d’oggi le feci portare dal fattore alla
posta della città. Così, l’una dopo l’altra, io metto in pratica tutte
le precauzioni del signor Borsa. Incomincio a credere anch’io ch’egli
sia un grand’uomo. Siamo già in due di questo parere: lui ed io.

Ma non c’è da dire. Domando io, se il non aver avuto più nè una riga,
nè una nuova di Aldo, non sia una cosa strana, misteriosa, e da far
credere a tutti i riflessi politici e sociali del Borsa? Il mio errore
fu quello di non essere partito io stesso con Aldo; di aver affidata
una ricerca così importante, e che poteva riuscire non facile, a un
giovane senza esperienza e senza conoscenza di luoghi e di persone. Lo
so ben io, quasi sempre, quello che andrebbe fatto, ma poi.... ma poi
per andare bisogna moversi, per fare bisogna mettercisi, ed è allora
che mi sento divenir greve come fossi di piombo, e quasi non posso più
rizzarmi neanche dalla sedia. Quante cose non farei io, se le potessi
fare col solo pensiero!

A proposito di fare, che cosa fa in giro questo signor Garofani, che
non è ancora ritornato in città? Giri pure fin che vuole, che gli è
lo stesso. Non capirà e non imparerà mai niente! Che se ne ritornino
una volta lui e lei a casa, che non sono roba da esportazione! — «Se
ne stanno ancora nientemeno che in riva al mare» mi disse ieri il
fattore il quale in Borghignolo ha sempre la riputazione d’uomo che
vive all’infuori della politica; riputazione di cui mi approfitto per
affidargli di tanto in tanto qualche incarico diplomatico. Poichè
bisogna sapere che se io, per esempio, fossi andato al caffè a
domandare ingenuamente al primo che capitava, se il signor Garofani
era tornato in città, avrei messe tutte le fantasie di Borghignolo
in movimento e molti animi in agitazione; la mia domanda avrebbe
fatto subito il giro di tutte le bocche. A quest’ora i più timidi
piglierebbero di nuovo la prima cantonata appena mi vedessero spuntare
da lontano; i più torbidi se ne starebbero piantati in caffè, parecchi
giorni, con le mani nei taschini del panciotto dicendo «vedremo;» ed io
poi non sarei riuscito a sapere se il signor Garofani fosse o non fosse
ritornato in città, perchè ciascuno, a buon conto, si sarebbe creduto
in dovere di non dirmelo.

                                 * * *

                                                    15 febbraio 1866.

Il Borsa, in uno stato di profondo abbattimento, venne ad annunziarmi
che domani arriva in Borghignolo il nostro deputato, il direttore del
_Vero Italiano_. È il Buccelli che lo fa venire, e gli darà alloggio in
casa sua. Il Buccelli dunque ha fatto pace e alleanza con l’avversario,
a cui aveva dato così fiera battaglia pochi mesi fa? Pare cosa, al
signor Borsa, inaudita; e nel dire che in tutto questo c’è del buio,
soggiunge poi che la cosa è chiara e lampante. Perocchè il Buccelli
sospetta che i consiglieri comunali, dopo essersi lasciati menare per
il naso, strapazzare e dar dell’asino tante volte da lui, possano avere
il capriccio di fargli un tiro e metterlo all’uscio. Facendo venire
in casa sua il deputato, che è quello nientemeno che scrive il _Vero
Italiano_; che è quello che sa tutte le notizie di questo mondo; e
che ha il coraggio di dire tutte le mattine ai ministri che sono dei
bricconi, la cosa è fatta. Chi potrà avere d’ora in poi la temerità di
pigliarsela col Buccelli? — «Il Buccelli, da domani, sarà il padrone
del paese. L’autocrazia del Buccelli in Borghignolo farà impallidire
quella degli Czar.... che dico?, quella dei Faraoni!» Così conchiude
il signor Borsa il quale poi è d’opinione che la colpa di tutto questo
sia del Governo, perchè il Governo vede e sa tutte queste sventure
di Borghignolo, e non ci pone rimedio. Il Governo, secondo il signor
Borsa è uno stranissimo mostro, il quale sa tutto e non sa niente: è
onniscente a un tempo come Domeneddio, e analfabeta come il campanaro
di Borghignolo.

                                 * * *

                                                    18 febbraio 1866.

Borghignolo fu tutto in festa per l’arrivo del deputato, il quale scese
d’un salto dalla diligenza che passa per Borghignolo, e fu ricevuto
dal Buccelli, che a capo di quasi tutti i _ben pensanti_ del paese lo
aspettava sull’uscio della botteguccia dove è l’ufficio della posta. Ci
furono molti inchini e atti d’ammirazione da una parte, e saluti pieni
d’affabilità dall’altra. La comitiva si ingrossò di tutti i curiosi
che passavano, e ci fu qualche grido di _viva il vero deputato! viva
il difensore del diritto dei popoli!_ Allora il deputato andò a far
colazione, accompagnato sempre dal Buccelli e dagli intimi, lasciando
che gli altri spiassero dietro l’uscio e le inferriate delle finestre
per vedere come fanno i personaggi grandi a mangiare. Il Buccelli
alloggiò il suo ospite nel castello, e nelle stanze di Giandomenico,
ove per tutto quel primo giorno ci fu un lungo e secreto conclave, che
aumentò di tanto la desolazione del Borsa da farmi quasi temere pe’
suoi giorni.

Venuta la sera, quei quattro che nelle grandi occasioni soffiano in uno
strumento da fiato, si recarono, seguiti da molta gente, sul piazzale
del castello a sonare, in onore del deputato, per cinque o sei volte di
seguito un valzer, che per ora è l’unico che si conosca in Borghignolo.
Comparve subito dal portone il deputato con qualche altro a ricevere e
ricambiare gli evviva, mentre il Buccelli, aiutato da due o tre della
brigata, correva dalla casa al piazzale con boccali e fiaschi, dando da
bere ai venuti, e vuotando l’ultimo bariletto del povero Giandomenico.
Anch’io rimasi per qualche minuto testimonio di questa allegria al
sereno. Passavo per di là, dopo aver fatto quattro passi sulla collina;
nessuno mi aveva veduto; era buio, m’ero tenuto al largo, e poi la
gente era tutta intenta al deputato e ai boccali.

Ero per andarmene, quando a un tratto alcune voci gridarono _silenzio!
silenzio!_ Mi fermai, tesi le orecchie, e tra i bisbigli della folla e
il rumore dei carretti e di quelli che passavano canterellando per le
stradette vicine, udii la voce del deputato imbarcatosi in un sermone
al popolo di Borghignolo:

«Alle forti.... e sapienti.... popolazioni di Borghignolo.... salute!»

«Grazie!... Evviva!»

«Da queste soglie.... calcate.... dalla boria feudale.... bagnate dai
sudori....»

«Evviva! Evviva!»

«Chi vi parla? Io! Io che modestamente, ma con coscienza di missione,
rappresento le vostre magnanime aspirazioni.... le vostre sublimi
virtù. Io.... figlio adottivo di Borghignolo.»

«Viva Borghignolo! Evviva! Evviva!»

«Io che lasciai le mie cure private.... che tutto lasciai da banda per
accettare il vostro mandato.... che lasciai da banda....»

«Evviva la banda! Evviva il deputato!»

«Cittadini di Borghignolo! Siate vigili custodi della fede e della
coscienza dell’umanità..... siate estrinsecazione dell’aspirazione dei
pensatori.... scacciate da voi i falsi profeti, gli avoltoi pasciuti
del vostro cuore che è quello di Prometeo....»

«Viva il Buccelli! Evviva! Viva il deputato!»

Il Buccelli era comparso in quel momento con due gran fiaschi sotto il
braccio. Il deputato continuava, e pareva gli si squarciasse la gola;
ma intanto mi rasentava vicino un carretto, che col cigolar delle
ruote e con lo scricchiolìo de’ ciottoli mi fece perdere il filo del
discorso, e non mi lasciò giungere che qualche parola qua e là.

«Le banche.... gli uomini del potere.... le consorterie.... la tassa
del registro e bollo.... Galileo.... i giudici di mandamento....
Solone.... il dazio consumo.... il Consiglio comunale.... il
segretario.... l’America.... evviva.... abbasso....»

«Viva la _Merica_! Evviva!... Abbasso!»

Passato il carretto, aguzzai le orecchie daccapo; ma a un tratto i
sonatori, in isbaglio, ripigliarono il loro valzer, mentre il deputato
era nel buono dell’aringa; nè ci fu modo di farli smettere, per quanto
facessero a gesti, e a gridi, il Buccelli e il deputato. Ne venne
una gran confusione, della quale alcuni giovanotti approfittarono per
mettersi a ballare, ed io per andarmene senza che nessuno si avvedesse
di me. Un tale però che evidentemente s’era tenuto in disparte anche
esso, e che al pari di me se ne ritornava in quel momento a casa,
ravvisandomi a mezzo, in quel buio, affrettò il passo, e mi si fece
vicino.

«Oh signor Borsa!» gli diss’io «era anche lei della comitiva?»

Ma il Borsa non rispondeva. Quando fummo vicini a casa, tirò un gran
sospiro, e nel salutarmi, mormorò: «Peccato, peccato!... parla pur
bene quel signore!... ha un gran talento!... ah, se non fosse amico del
Buccelli!...»

Il mio fattore, per quanto facesse professione di vivere all’infuori
della politica, quella sera fu trascinato anch’esso dalla corrente,
e rimase sul piazzale del castello, e per le vie del paese finchè
durarono i canti, la musica, la baldoria. La mattina seguente, cioè
ieri mattina, mi disse anch’egli maraviglie del deputato, e concluse
che talenti simili ce ne saranno, ma in Borghignolo non se n’erano
veduti mai. Mi disse che il deputato aveva promesso di far passare
presso il paese una di quelle strade ferrate che vanno diritte, e in
un batter d’occhio, fino a Parigi, e se occorre a Mosca. Borghignolo
diventerebbe allora una città; il giudice del mandamento sarebbe
fatto consigliere di tribunale; il caffettiere avrebbe uno spaccio di
duecento tazze di caffè al giorno; l’oste potrebbe vuotare tutte le
cantine di quei del paese e dei paesi vicini; e soltanto a tenere delle
galline e a vendere ova ci sarebbe da farsi ricco per chi si sia. Aveva
poi promesso di aggiustare a dovere gli affari del comune; di mettere
Borghignolo sulla via del progresso, e di riordinare la confraternita.
Tutti erano contenti, allegri, e si aspettavano cose grandi.

La prima cosa grande fu che, quando ieri radunato il Consiglio,
per ordine del prefetto, perchè fosse una buona volta nominato il
maestro stabile della scuola con l’assegno voluto dalla legge, perchè
fossero presentati i conti dell’anno passato, e fossero nominati
gli amministratori di certi lasciti pii, il deputato vi intervenne
condottovi dal Buccelli, e, facendola da sindaco, presedette i
consiglieri, parlò, strepitò, fece le proposte, e le fece votare. Su
tutti gli argomenti fece votare per il _no_. Ai nostri consiglieri
di Borghignolo, per i quali il _no_ è il solo voto che non ispiri
diffidenza, parve di aver trovato finalmente il loro uomo. Furono
unanimi in tutti i _no_ che loro propose il deputato, e, pieni di
fiducia e di entusiasmo, credendo in fine di pronunciare un ultimo
_no_, caddero in fallo in un _sì_. Votarono cioè un indirizzo di
protesta al Governo contro quelle leggi d’amministrazione e quelle
domande per le quali erano stati chiamati a deliberare. «Oh adesso
sì che le cose andranno bene!» si disse in paese da tutti, appena si
seppero queste novità; e il deputato approfittandosi di quest’aura così
propizia, raccomandò a tutti calorosamente il suo amico Buccelli. Le
cantonate e i muri del paese che nelle grandi occasioni non rimangono
mai silenziosi, celebrarono subito questa bella giornata; e in un
attimo vi si lesse, ad ogni passo, scritto col carbone_ — viva noi
— viva i popoli tutti — abbasso i nemici di Borghignolo — viva il
protettore del popolo_, che è il deputato, _abbasso don Michele_, che
son io.

Ciò vuol dire che il Buccelli è ritornato alla sua antica idea, e
si metterà di nuovo a soffiare nella brace per farmi, se gli riesce,
sgomberare il paese: tanto gli sono in uggia, sebbene egli non mi veda
mai. Ah! Michele, il tuo _aratro_ ti vuol far sudare....

Una lettera d’Aldo! Eccola finalmente questa benedetta lettera che
aspetto da un mese, e che mi cagionò tanta impazienza e tanti sospetti.
Me la portò un merciaiolo che avevo pregato, andando lui alla città, di
domandare se ci fosse una lettera _ferma in posta_ per me. La lettera
c’era proprio, ed eccola qui. Ma cosa mi dice Aldo in questa lettera?
Mi dice «che ha pigliato un brigante vivo.... che le balze scoscese
dei monti, il mare, la luna gli innondano il cuore di poesia.... che
ha perduto il borsellino, e che è rimasto senza un soldo....» mi dice
tante altre belle cose; ma non mi dà nuove di suo padre. Risponde alle
mie ultime lettere.... e le altre? Dice che è ansioso d’avere notizie
da me.... spera ottenere un altro permesso....

Insomma, se io non gli avessi mandate le mie lettere da Borghignolo, e
gli avessi scritto di mandarmi le sue in città, non ci sarebbe stato
nulla di tutto questo mistero! È una cosa indegna, è una cosa da
malandrini! Ma questa non la inghiotto.... oh la vedremo, la vedremo
tra poco!

                                 * * *

                                                    20 febbraio 1866.

La benefica visita del deputato, la gioia degli animi e la fiducia
nell’avvenire finirono in una gran baruffa a pugni e a legnate; una
dozzina d’individui andò a letto col naso rotto, e un’altra dozzina
andrà a letto domani sotto la custodia del procuratore del re. Il
Buccelli, con una brigata de’ suoi fidi, accompagnò alla diligenza
il deputato che partiva, gridando e schiamazzando. Nel ritornare, si
fermarono sulla piazza, sbeffeggiarono qualcuno, corsero delle villanie
e delle busse. Quelli che ne toccarono fecero il loro complotto per
non rimanere in debito, e alla sera ricomparvero più numerosi e col
randello sotto il braccio. Ci fu un gran parapiglia in caffè. Andaron
rotti chicchere e tavolini; andò rosolio per tutta la bottega. Il
caffettiere, con uno sgabello in mano, picchiava sugli uni e sugli
altri, per non far torto a nessuno. In complesso però, per dire il
vero, gli amici del Buccelli picchiarono più degli altri, e rimasero,
come si direbbe, padroni del campo e del paese. Il Borsa, che se ne
stava tranquillo a casa sua, come seppe queste scene, fuggì, e non
se ne sa più nulla. Il mio fattore, pieno di spavento, non mi voleva
lasciare uscir di casa questa mattina, ma io uscii, e non vidi in giro
anima viva. Vidi sulle cantonate un rinforzo di _evviva_ e di _morte_;
lessi sul muro di casa mia un _non vogliamo forestieri in paese_,
scritto a grandi lettere; vidi rotti i vetri del caffè; ma l’ordine,
salvo sulle spalle e sulle facce dei combattenti che non ho vedute, mi
pare dappertutto a quest’ora pienamente ristabilito. Il fattore non
la pensa così; dice che devono seguire cose inaudite, e sta empiendo
una vasca d’acqua perchè prevede un incendio. Io invece prevedo un
drappello di carabinieri.

                                 * * *

                                                    24 febbraio 1866.

Cose grosse! Il Consiglio comunale di Borghignolo è sciolto; c’è in
paese un commissario regio, un uffiziale di pubblica sicurezza, un
giudice, un drappello di carabinieri. Il Buccelli, che aveva messe a
tempo le sue vedette, come seppe che i carabinieri entravano in paese
da una parte, svignò dall’altra. L’uffiziale di pubblica sicurezza fece
aprire la di lui casa; ci passò un’intera giornata, e ne uscì con un
grosso fascio di carte. Il giudice ha iniziato un processo, e un paio
di caporioni seguiti da tre o quattro gaglioffi furono già mandati
al capoluogo. Il commissario se ne sta da mattina a sera nella sala
comunale, e se vorrà venire a capo di qualcosa dovrà starci un pezzo.

Ognuno se ne va pe’ fatti suoi lesto, lesto, e quasi non ardisce
fiatare; il Borsa mi ha mandato a dire che, quando le cose si saranno
fatte più tranquille, ritornerà in paese; ch’io intanto rimanga saldo
al mio posto; che non abbia timore: che il nemico è un vile, e che a
suo tempo gliela faremo vedere! La gente, che nei giorni passati era
tutta ritornata al Buccelli, ora gli si è tutta ribellata di nuovo,
e, quando essa ardisce aprir bocca, ne dice corna. Dice che ha fatte
ruberie senza fine; che si mangiò un capitale del luogo pio; che portò
via carte e documenti del comune; che metteva in tasca quei pochi
quattrini che le madri gli consegnavano da mandare con la posta ai
loro figlioli militari. A queste cose poi, che credo verissime, ne
aggiungono delle altre a cui si dà molto maggior peso. Si dice che il
Buccelli abbia comperato un palazzo in Francia; che abbia fatta fare
una gran fossa in un bosco e ci abbia nascosto il tesoro; che abbia
fatto nella confraternita delle cose eretiche, e che si intenda un po’
di stregoneria. Perchè queste cose non si dicevano prima? Perchè, fin
che il Buccelli fu in paese, tutti gli facevan la corte? Perchè mai
le stregonerie s’erano chiamate fino allora miracoli? Queste domande
non le faccio che a me, tanto riuscirebbero stravaganti a chiunque le
facessi in paese. E perchè nessuno rammenta, a proposito del Buccelli,
il povero Giandomenico cacciato di casa, buttato sulla strada, prima
che qualcuno potesse correre in suo aiuto? La storia di Giandomenico è
cosa vecchia. È un pezzo che non si vede più; nessuno più lo ricorda,
nessuno ne parla.

Io solo lo ricordo, povero amico! Oh perchè non ho saputo conoscere
meglio le sue disgrazie! Perchè non fui più sollecito nel correre in
suo aiuto! E ora che ne sarà avvenuto; dove sarà? Quante disgrazie
di meno si conterebbero a questo mondo, se i galantuomini fossero
solleciti come i bricconi!

                                 * * *

                                                        1 marzo 1866.

Mi sono giunte ancora due nuove lettere, che Aldo certo in distrazione,
mi mandò direttamente a Borghignolo, e che mi furono consegnate dal
caffettiere che, provvisoriamente, distribuisce le lettere. Da queste
due lettere capisco meglio ancora, ch’egli me ne ha scritte delle altre
che io non ho ricevute. Aldo aspetta da me notizie di suo padre, ed
è impaziente di saper l’esito di certe ricerche che avrei dovuto far
io, suggeritemi da lui, a quanto pare, in qualche lettera che non mi
fu consegnata. A quest’ora però saprà che le sue lettere io non le ho
avute, perchè glielo scrissi da parecchi giorni, e mi avrà detto da
capo tutto quello che non so.

Benedetto figliolo! Avrebbe potuto in queste due lettere dire qualche
cosa di più e dar meno posto alla luna, ai tramonti, alle prime
erbette che spuntano sul prato, alle onde del mare che si gonfiano
e palpitano.... È lui che palpita, non le onde del mare!... Ma non
diamogli sulla voce, povero figliolo, perchè anche noi, al nostro
tempo, di lune e di erbette ne abbiamo avuto per il capo la nostra
parte!

Ma, e questi signori Garofani fanno il giro del mondo? Non c’è uno in
tutto Borghignolo che sappia nè dove siano, nè quando tornino!...

Il fattore mi annunzia, tutto confuso per il gran rispetto, la visita
del signor commissario regio. Chiudiamo dunque lo scartafaccio.

La visita non è stata breve. E non è stato breve, nè facile a scansare
un certo assalto che mirava a tirarmi in trappola. Tutto a fin di bene,
capisco, ma, e poi? Non è un balordo, questo signor commissario regio;
è fine, discorre bene, vi lascia dire, vi dice sempre di sì, e intanto
vi tesse tutto all’ingiro una ragnatela dentro cui vi piglia come un
moscherino. Mi raccontò a lungo tutti i disordini che ha trovati nel
comune, e mi disse che ce n’è da mandare in galera il Buccelli dieci
volte. Me lo immaginavo, e non me ne feci stupore. Mi parlò del suo
incarico di ricostituire l’amministrazione del comune, mi chiese de’
consigli, mi discorse di tutto il bene che si può fare, e del dovere
che si ha di farlo. Mi disse che i comuni sono la base dello Stato;
che quando la base è tarlata.... e che non aggiungeva di più, perchè
sapeva di parlare a un uomo in cui l’amore del paese.... e così via.
Mi disse che come sindaco del paese, io avrei potuto.... ma qui non lo
lasciai finire; ed egli subito riprese che sapeva di non potere _sperar
tanto_, ma che assolutamente io dovevo permettere che fossi proposto
per il Consiglio comunale, dove di tanto in tanto, anche solo una
volta all’anno, a un bisogno, avrei potuto buttar là una buona parola.
Non risposi nè sì, nè no. Ne disse tante e tante, che non era facile
ribatterle tutte. Però gira e rigira, non fu contento finchè non m’ebbe
cavato di bocca un _insomma, faccia lei, vedremo_... Poi mi ripigliò le
sue confidenze, e m’affogò in un mare di cortesie.

_Faccia lei, vedremo_, non vuol dir troppo! Non credo con questo d’aver
rinunziato ai miei propositi.

Ma quel commissario regio però non è un balordo!

                                 * * *

                                                        5 marzo 1866.

Il signor Garofani è arrivato in città ieri, e lo aspettano in
Borghignolo, chiamatovi dalla catastrofe del Buccelli. La sua signora
rimane in città, fedele al giuramento di non metter più piede in questo
paese. Tali nuove le diede, al mio fattore, il casiere dei signori
Garofani, il quale è già in faccende a spalancar finestre, a spazzare,
a spolverare e dar la caccia ai topi.

Anche il Borsa, che per il momento se ne sta nella casa d’un suo
nipote in un villaggio qui vicino, mi mandò un foglio di carta, su
cui è scritto: «Nuovi guai! Il signor Garofani, marito, giunge in
Borghignolo! Non dico altro! Don Michele, coraggio! Appena i tempi
saranno diventati meno procellosi, io sarò in Borghignolo! All’erta,
don Michele! Non dico altro!

                                                             «BORSA.»

Il mio piano è fatto. Ho indugiato altre volte abbastanza; morto o non
morto, ho ancora un dovere da compiere, e per essere più sicuro del
fatto mio, partirò questa sera stessa.

                                 * * *

                                                Milano, 7 marzo 1866.

Confesso d’aver riveduto con piacere le mie vecchie vie della città.
Andai girellando pur volentieri! e mi sorpresi più d’una volta fermo
sui due piedi a guardar la facciata d’una casa o le vetrine d’una
bottega. Fin la troppa gente, nei luoghi più frequentati, non mi diede
fastidio, e fin anche per gli spintoni mi sentii inclinato a una certa
indulgenza. Il dottore, che corsi subito ad abbracciare, e che, nel
fare quattro passi con me, s’avvide che il mio antico broncio s’era un
po’ calmato, dice che le _assenze_ e le _lontananze_, non sono state
finora in medicina studiate con la debita attenzione; che hanno un
grande avvenire nella scienza; e ch’egli ne ha osservati degli effetti
maravigliosi in certe malattie, in quelle, per esempio, di qualche
marito e di qualche moglie. Comunque sia, per non dargliela tutta
vinta, mi affrettai ad assicurarlo che Borghignolo è il primo paese
del mondo, vedendo ch’egli mi scalzava per farmi uscir a confessare che
n’ero annoiato.

Ora importa ch’io vada subito in casa Garofani. Chi me lo avrebbe
detto? Eppure è così. Voglio diventare l’amico, il confidente della
signora Giuseppina. Vorrei anche poter mandare questa risoluzione
d’oggi in domani; ma pure bisogna risolversi, chiudere gli occhi, e
spiccare il salto. Domani sarà l’ultimo _domani_, definitivamente,
senza misericordia, senza soprattieni; e si vedrà Michele bere a sorsi
la cicuta, con la calma solenne d’un personaggio dell’antichità. Ma
sono io poi sicuro che la signora Giuseppina non mi salti alla faccia
come un gatto arrabbiato? Siamo stati, per alcuni giorni, amici
svisceratissimi, ma dopo la catastrofe dell’elezione, e dopo le mille
suggestioni del Buccelli, non è facile indovinare in quali acque mi
trovi. Tanto più che la signora Giuseppina soleva dire: «tutto sta
nel modo di pigliarmi; con un niente divento un pezzetto di sugo di
regolizia; ma se sono stuzzicata, e se mi monta la mosca al naso, buona
notte! divento un granello di pepe, e di che pepe! Lo diceva sempre
il mio Baldassarre, buon’anima, e lo ripetono sempre anche adesso il
Garofani e il signor Mosè.»

                                 * * *

                                                       12 marzo 1866.

Salii le scale della signora Giuseppina, apparecchiato così alla
regolizia come al pepe, con l’animo tranquillo e direi lieto. Trovai un
uscio aperto, entrai in una prima stanza, dove un servitore in calzoni
verdi e con l’abito di color cioccolata russava tranquillamente,
sdraiato su una cassapanca. Quella cassapanca mi diede una prima
stretta al cuore; ci avevo dormito sopra tante volte anch’io da
bambino, quand’era in uno dei salotti di Giandomenico. Coraggio! dissi
a me stesso; e rispettando quel sonno profondo, aprii un altro uscio,
e andai innanzi. Dopo qualche sbaglio d’itinerario, dopo aver fatta
sentire la mia voce, e aver udita quella della signora Giuseppina, mi
trovai finalmente nella sala di ricevimento.

La signora Giuseppina, appena mi vide, fece una grande esclamazione,
saltò in piedi, mi venne incontro, e poco mancò che non mi desse un
abbraccio. Eravamo alla regolizia. Quante cose non mi disse, e non
mi domandò, senza riprender fiato! quante volte non esclamò: «Oh! che
bella improvvisata! lei è proprio un don Michele dei fini!... che bella
visita! ne avevo il presentimento! ho sognato l’altra notte di lei!»
Poi m’invitò a sedere, presentandomi ad alcuni signori e signore che
facevano circolo, e che s’erano tutti levati in piedi, guardandomi
con molta curiosità. Con qualche curiosità anch’io guardai uno di
loro, che sentii essere il signor Mosè; quel signor Mosè che avevo
udito nominar tante volte, e che in casa Garofani era un’autorità. La
signora Giuseppina, riattaccando la conversazione, incominciò col fare
il mio elogio; mi dipinse come un gran personaggio, e ne disse tante
che io finii col rimanerne imbarazzato; gli altri si misero in gran
soggezione, e non aprirono più bocca. Appena potei sviare il discorso,
mi feci a chiederle le nuove della famiglia; le dissi che le trovavo
una cera ch’era una magnificenza, e feci perfino qualche allusione alla
sua bellezza, senza però compromettermi con le date.

«Quel caro don Michele è sempre lui! ma guardi che combinazione!
Garofani è andato a Borghignolo. Se avesse potuto immaginarsi una
così bella visita....» e si volgeva agli altri, quasi a richiederli
del loro consenso «non si sarebbe mosso di certo. Glielo avevo detto
io di mandar qualcuno! Ma signor no! Questi benedetti uomini sono
tutti ostinati.... ad eccezione, voglio dire, di don Michele, non
è vero?» I due o tre uomini presenti fecero un sorriso di adesione
e di rassegnazione; il signor Mosè però rimase immobile. «Bel gusto
l’andare a Borghignolo!» continuava la signora Giuseppina «un paese
di mascalzoni e malcreati. Non lo dico per me, perchè io gli ho sempre
lasciati cuocere nel loro brodo, e non avrei nulla a dire. Ma lo dico
per tant’altri a cui furono fatti dei tiri da villani. Eppure, il
mio Garofani ne andava pazzo! Adesso però l’ha capita; a Borghignolo
metterà la filanda, e per noi acquisteremo una bella casa in riva al
lago.... Non si può immaginare quanto appetito mi dia il moto della
barca!.... come dicevo, Garofani ha voluto andare a Borghignolo, perchè
bisogna sapere che noi ci tenevamo un agente, di quelli proprio co’
fiocchi; ma, probabilmente per invidia, quei villani del paese gliene
fecero tante che, perduta la pazienza, il poveruomo volle andarsene ad
ogni costo.»

Gli astanti fecero un atto di sorpresa e di dispiacere. La signora
Giuseppina mi lanciò un’occhiata d’intelligenza, per farmi capire che a
quattr’occhi ne avremmo discorso diversamente, ma che intanto era bene
dir così. Il signor Mosè, che forse era a parte del secreto, con un
contegno ch’esprimeva una gran prudenza, rimaneva immobile più che mai.

«Lei dunque ha fatto un gran viaggio!» presi a dir io, vedendo che
c’era bisogno di mutar discorso.

«Volevamo farlo» rispose la signora Giuseppina; «Si cominciò anzi
dall’andare a Genova e a Nizza. Ma poi nacquero delle circostanze....
degli affari.... e Garofani dovette ritornare.»

«Caspita! però....» soggiunse una delle signore, che fino allora aveva
taciuto, «l’andare a Nizza e anche a Genova non è poco!»

«Si voleva andare a Napoli, e fors’anche a Parigi, perchè mia figlia
ama tanto la lingua francese...., ma poi, come dicevo.... sono
sopravvenute certe cose.... insomma adesso chi sa quando ci si andrà.»

«Anche Nizza però, a quanto si sente, per chi ama la lingua
francese....» osservò un’altra, a cui passava la soggezione.

«Altro che il francese» saltò su la signora Giuseppina «non si ferman
lì! Bisogna sentire: chi parla coi denti stretti, chi parla come se
avesse piena la bocca.... insomma a Nizza si sentono tanti linguaggi
che la pare l’arca di Noè!»

Voleva dire la torre di Babele. Qui ci fu una esclamazione generale,
e poi una pausa, di cui parecchi approfittarono per rizzarsi, salutare
svisceratamente la padrona di casa, e andarsene.

«E la signora Adelina?» ripresi a dire «la sua bella figliola?...
che nuove me ne dà?... Era il suo primo viaggio, se non isbaglio. Mi
immagino....»

«Mi immaginavo anch’io» continuò la signora Giuseppina, interrompendomi
«ma poi.... basta così. Il medico s’era incaponito che si avesse a
fare questo viaggio.... non già che mia figlia avesse bisogno del
medico, perchè anzi i suoi piccoli incomodi provengono di solito dalla
troppa salute: ma chi diceva che Adelina non aveva più parole, ch’era
sempre sopra pensiero, ch’era pallida; chi ne diceva una, chi ne diceva
un’altra; insomma tutti volevano metterci il naso. Allora Garofani ha
perduto la pazienza. Ehi ci vuol altro dicevo io, la gente parla perchè
ha la bocca. Anch’io da ragazza ne sentivo delle baie!»

«La sua figliola studia troppo! ecco quello che ho sempre detto io»
osservò uno de’ rimasti.

«Oh questo poi sì! Mia figliola aveva ormai tutti i professori della
città. E che professori! C’era bene chi mi diceva di prendere de’
professori di minore spesa che avrebbero spezzato meno gli orecchi
ad Adelina; ma tant’è! io sono fatta così; e quando nelle cose mi ci
metto, non le posso fare che in grande. Bisogna però dire che tutti
questi gran professori, e tutti questi gran libri finissero col farle
male. Cioè, male no, perchè, come dicevo, mia figlia della salute ne ha
da vendere.... ma insomma le confusero la testa. Siamo partiti; abbiam
fatto proprio un bel viaggio.... ma ci voleva altro! Basta, a questo
mondo bisogna davvero aspettarsene d’ogni risma!»

«Sicchè sua figlia sarà ritornata tutta in fiore!» soggiunse uno di
questi ignoti del circolo, non so se per semplicità, o per dare spago
alla signora Giuseppina. Ma in quel mentre il signor Mosè tirò una
presa di tabacco, e la signora Giuseppina, voltando subito il discorso,
mi chiese della mia salute, giacchè si discorreva di salute; poi
passò a un raffreddore del Garofani, e a una tosse secca del suo primo
marito, che essa aveva guarito col lichene.

L’un dopo l’altro, i pochi rimasti se ne andarono, ad eccezione del
signor Mosè.

La signora Giuseppina ebbe un secondo assalto di tenerezza e di
espansione per me. Fece nuove esclamazioni sulla bella improvvisata
della mia visita, sull’onore che le facevo; mi fece promettere che mi
lascerei vedere con frequenza, e mi fece capire che aveva molte cose a
dirmi. Fors’anche bruciava della voglia di informarmi in un minuto di
tutte le faccende di casa sua, ma la trattenne la presenza del signor
Mosè, del quale parmi abbia una certa soggezione. Pensavo intanto
a qualche complimentuccio da risponderle anch’io; ma essa aveva già
mutato discorso, e s’era messa a farmi ammirare i mobili della sala,
il dipinto della volta, il tappeto, la tappezzeria, tutta roba nuova
appena messa in opera, d’invenzione d’un tale che sentivo nominare per
la prima volta, e che la signora Giuseppina diceva suo amico e pittore;
un pittore _straordinario_! Ammirai, ma stando in sulla vita, perchè
la seggiola, al pari degli altri mobili, era così irta di spigoli che
l’appoggiarsi alla spalliera m’avrebbe fatto veder le stelle.

La signora Giuseppina, non contenta ancora, mi volle condurre di stanza
in stanza e farmi ammirare tutto il lusso della casa e le invenzioni
del pittore. Vidi una camera da letto in istile dell’Alhambra, e che
poteva essere un salotto da caffè. La signora Giuseppina si affrettò
a dirmi che non ci dormiva, perchè sarebbe stato proprio un peccato.
Presso c’era uno stanzino gotico per la toeletta; ma la catinella,
lo specchio e tutta la minuta suppellettile erano disposte in modo
da volerci il collo della giraffa per servirsene. Ovunque fosse
rimasta disponibile una spanna di muro, il pittore ci aveva prodigata
l’arte sua. Si vedevano alla rinfusa pere, mele, teste di filosofi,
cocomeri, uccelli che parevano fiori, fiori che parevano sassi, e
una prodigiosa famiglia di puttini da cui si dipartivano braccia e
gambe con la mirabile irregolarità dei rami d’un albero. Quei puttini
avevano le guance rosse come brace: se era per la vergogna d’essere
veduti, avevano ben ragione! Quante cose poi non rividi, di quelle che
erano state del povero Giandomenico! Mi sentivo stringere il cuore, e
il dispetto mi faceva già velo agli occhi; ma, rivolgendo la faccia,
dicevo a me stesso: «abbi pazienza.» Quei quadri lunghi e stretti
su cui erano le figure severe e annerite dei vecchi di Giandomenico,
che avevo sempre veduti appesi al muro dell’atrio, o d’un salotto a
terreno del castello, li rividi l’un dopo l’altro nelle stanze della
signora Giuseppina. Il pittore _straordinario_ aveva dipinto su tutti
uno stemma con un garofano nel mezzo, e al posto del vecchio nome del
casato aveva scritto _Garophanus_.

Spinsi il mio eroismo fino a proferire delle parole di ammirazione per
tutto quello che vedevo via via. La signora Giuseppina se ne compiaceva
moltissimo, ma lasciava travedere di tanto in tanto una certa
inquietudine la quale voleva dire, per chi la conosce un po’, che aveva
una gran volontà di raccontarmi qualcosa. Più d’una volta aveva mandato
qualche lungo sospiro, e aveva detto a mezza voce: «Anche in mezzo a
tutta questa bella roba, chi lo direbbe? ho anch’io i miei fastidi!...
Ma, la è proprio così!... Bisognerebbe non pensarci!...» Io fingevo di
non capire, per quanto sentissi crescere in me l’inquietudine. Ci fu
un momento in cui la signora Giuseppina mi si piantò dinanzi in aria
proprio di volermi dire qualcosa; ma eravamo già di ritorno, e sentimmo
nella sala vicina un grande sternuto del signor Mosè. La signora
Giuseppina non trovò più la parola, e rientrammo nella sala.

Bisognerà dunque che mi faccia amico anche del signor Mosè. Dopo
quattro chiacchiere di commiato, presi il mio cappello, promisi di gran
cuore che sarei ritornato prestissimo, e di gran cuore accettai anche
dal signor Mosè una presa di tabacco, che sprigionai subito dalle dita,
lasciando cadere la polvere a terra, appena uscito dall’anticamera.

                                 * * *

                                                       17 marzo 1866.

La signora Giuseppina ieri mi mandò a dire che, dolentissima ch’io non
l’avessi trovata in casa il giorno prima, mi aspettava per quella sera
stessa, e me ne faceva viva istanza, tanto più che ci doveva venire un
amico di casa a sonare il fagotto. Misericordia!

Ci andai un pochino sul tardi, pensando che gli ultimi pezzi di musica
sarebbero stati un po’ meno lunghi dei primi. Ho troppa stima del
fagotto, pensai tra me, per credere che voglia fare eccezione alle
migliori regole.

Bisogna dire che giungessi proprio l’ultimo, perchè non trovai anima
viva sulle scale, e neppure nelle prime stanze d’ingresso. I servitori
forse avevano già incominciato a servire le paste in sala, o a
mangiarne gli avanzi in cucina. Sentendo a un tratto la voce arrabbiata
d’un fagotto di cattivo umore, stetti in forse un momento, pensando
se dovevo entrar subito od aspettare che la sonata finisse, e che il
fagotto si fosse calmato, per non disturbare in un momento solenne la
signora Giuseppina e i suoi convitati.

Ero tra il sì e il no, quando a un tratto vidi aprirsi un uscio, non
quello della sala, ed uscirne in fretta l’Adelina. Adelina, che il
quel momento non si aspettava di imbattersi in alcuno, mandò un grido,
subito represso, e fece atto di fuggire. Ma io, chiamandola per nome,
la trattenni. Tutto ciò fu l’affare d’un momento. Le presi la mano;
essa strinse vivamente la mia. Le dissi alcune parole, le feci qualche
domanda, ed essa chinò gli occhi e non rispose. Non era più la vispa
fanciulla di Borghignolo; era pallidissima, e in quel momento mi pareva
fortemente commossa. Non ho mai potuto avvezzarmi a vedere la gente
commossa od afflitta, bell’e vecchio come sono, e dopo averne veduta
tanta! Mi si turbano le idee; in un attimo non capisco più da qual
parte vengano i guai di cui si tratta, e mi par quasi d’averne la colpa
io.

Avrei dovuto far cuore all’Adelina, interrogarla, farla parlare; ma
mi sentivo già imbarazzato io pure. Pensai al fare misterioso della
signora Giuseppina; pensai che ci potesse essere qualche disgrazia;
pensai che anche questa volta potevo essere giunto troppo tardi, e non
trovai più una parola. Intanto un grande strepito e un gran battimano
improvvisamente annunziarono che il fagotto aveva finito; si aprì
l’uscio della sala; Adelina ritirò la sua mano che teneva stretta nelle
mie, e fuggì.

Io entrai in sala. Fortunatamente gli uditori del fagotto avevano
tal voglia di muover le gambe, scacciare il sonno, e respirare, che
potei rimanere per un po’ non veduto tra gli astanti, e aver tempo di
ricompormi, prima di cadere nelle unghie della signora Giuseppina.
Alla fine mi feci animo, mi feci largo, e, con inchini a dritta e a
sinistra, incominciai ufficialmente il mio arrivo.

La signora Giuseppina in un momento mi presentò a una dozzina di
persone; mi fece bere tre bicchieri di acque di diverso colore; mi fece
conoscere il sonatore del fagotto, e m’offrì non so quante fettine di
torta, pan di Spagna, e pasticcini. Mi disse che per quelli di bon
tono aveva fatto fare il _thè_, ma che per gli amici sinceri teneva
in pronto un famoso bicchierino di _malaga vecchione_, proprio di
quello che piaceva tanto a Baldassarre. Se la signora Giuseppina non
se ne fosse scordata un minuto dopo, in quanto a me avrei bevuto e
_thè_ e malaga tutto insieme, senza opporle la più piccola resistenza.
Feci anche un saluto tenerissimo al signor Mosè, e gli partecipai
tutta la mia soddisfazione di trovarmi in una così bella società. Il
signor Mosè, che in quella sera aveva il collo e il mento ravvolti in
una cravatta ancor più alta e doviziosa del solito, mi rispose con
un risolino dì approvazione e di compiacenza, ma senza aprir bocca,
s’intende. È stato appunto a furia di tacere per trenta o quarant’anni
di seguito, che il signor Mosè si è acquistato una così gran fama, tra
i pochi che hanno la fortuna di conoscerlo.

La signora Giuseppina intanto, tutta rossa e affaccendata, correva
di qua e di là, senza lasciar pace a nessuno. La sua vittima più
compassionevole per quella sera fu quell’infelice del fagotto,
il quale, per quanto fosse sfiatato, dovette ripigliare le sue
_variazioni_, nelle quali però la noia di chi le sentiva non variava
mai. Contro le mie speranze, anche quella sonata fu lunghissima, talchè
alla fine parecchi s’erano addormentati, e altri facevano conversazione
sottovoce col vicino. Seguendo anch’io questo esempio, avevo di tanto
in tanto scambiata qualche parola colla signora Giuseppina, presso la
quale ero seduto.

«Insomma, se lo lasci dire, signora Giuseppina, non c’è nessuno che
possa competere con lei nello spirito, nel brio e nel saper sempre dire
a tutti una parolina proprio di quelle...»

«Oh, se mi avesse conosciuta in altri tempi.... allora sì!»

«Possibile? Ma non potrà dirmi che in altri tempi ella avesse l’animo
più contento! La signora Giuseppina ha tutte le fortune. Gran bella
cosa il non aver pensieri!...»

«Non ho pensieri per il capo io?... Io? Questa volta don Michele la
dice grossa! Oh se sapesse!...»

«Eh lo so benissimo! I guai di Borghignolo.... il Buccelli che se ne è
andato.... suo marito di cattivo umore.... Adelina....»

«Adelina? Dica.... dica!»

«Adelina che stasera ha il mal di capo....»

«Eh, c’è ben altro!»

«Adelina che s’è fatta un po’ malinconica, che dimagra, che da qualche
tempo non ha troppa salute! Lo so; ma le son cose passeggiere, cose da
nulla, inezie.»

«Se le fossero tutte qui....!»

«Se c’è altro, può aver ragione lei. Ma badi a non ingannarsi. Io non
credo se non vedo! questa è la mia massima.»

«Ne ho le prove!»

«Le prove di che?»

«Le prove.... insomma, so ben io! Ma a lei non posso tacer niente....
Le dirò.... oh se non ci fosse qui tutta questa gente! le domanderei
anche un parere.»

«Verrò domattina.»

«Forse non siamo più in tempo!...»

»Ma dunque c’è qualcosa di serio?»

«Glielo dicevo io! Altro che serio! Se domani arriva una certa lettera,
Adelina parte.»

«E dove va?»

«L’accompagna il signor Mosè, perchè nessuno deve saper niente....»

«Ma parte per dove? Ma che cosa è accaduto?...»

«Oh se sapesse!... se sapesse!»

«Delle cose da dirle ne ho forse anch’io di molte!... E se intanto
Adelina non partisse....»

«Caspita! È un consiglio del signor Mosè!... Ma anche lei ha delle cose
da dirmi? Per amor del cielo!... Dica, dica....»

Il fagotto aveva finito. Tutti applaudono, tutti si risvegliano, e poi,
in mezzo a una gran confusione di saluti, di scialli, di complimenti,
di mantiglie, signore e signori si congedarono tutti; ed io pure me
ne dovetti andare con l’animo agitato, e con la paura d’essere anche
questa volta giunto troppo tardi.

                                 * * *

                                                       18 marzo 1866.

Ero ancora a letto, perchè il levarmi di buon mattino fu sempre una
delle molte aspirazioni disgraziate della mia esistenza, quando un
servitore della signora Giuseppina venne a pregarmi che andassi subito,
subito, in casa Garofani. Mi alzai in fretta e in furia, e feci la
strada di corsa, spinto dall’ansietà in cui ero dopo le parole della
signora Giuseppina, e dal timore che fosse sopraggiunto qualcosa di
peggio ancora. Ma di nuovo e di peggio non era avvenuto nulla. La
signora Giuseppina, temendo, come ella mi disse, che da un momento
all’altro le potessero venire le convulsioni, aveva voluto sdebitarsi
della promessa fattami, mentre capiva di avere ancora la testa seco.
Stetti dunque ad ascoltarla con attenzione ansiosa, senza dir parola,
lasciandola spaziare a suo piacere in digressioni e congetture d’ogni
sorta; lasciandola trasecolare e spassionarsi in tutto quello che c’era
di vero o di falso. Per quanto me ne aspettassi molte, le cose che
sentii mi fecero colpo e mi rivoltarono, perchè le bricconate, ancorchè
non si possa a meno di non aspettarsele dai bricconi, pure, quando
arrivano, hanno sempre il loro tanto d’improvviso.

La signora Giuseppina dunque mi narrò come il Buccelli avesse per tempo
aperti gli occhi a lei e a suo marito su tutta la trama che c’era in
Borghignolo contro di loro. Lo scopo della trama era di non lasciare
metter radice al signor Garofani in Borghignolo, perchè, se caso mai
ne fosse diventato sindaco, gli straordinari suoi talenti avrebbero
avuto un disopra tale, avrebbero fatto un tal colpo, che presto avrebbe
ecclissato e messi a dormire tutti quelli di Borghignolo, quelli
dei paesi vicini, i ministri, e fors’anche il direttore del _Vero
Italiano_. I fili misteriosi di questa trama, che partivano certamente
dal ministero, facevano capo tutti in mano di Giandomenico. Il
Buccelli, zelantissimo, aveva sulle prime messa la signora Giuseppina
in diffidenza anche di me, che potevo essere un agente della trama.
Ma la mia interlocutrice si affrettava a dirmi che, mentre tutto il
resto era pur troppo vero, non sospettò mai ch’io c’entrassi, e che
mi rendeva questa giustizia. Il Buccelli poi aveva le prove in mano
che Giandomenico aveva ricevute dal Governo somme spropositate, e che
mentre si fingeva fallito in Borghignolo, comperava terre a tutto
potere in America, dove aveva spedito un tale alcuni anni prima.
Con queste somme, Giandomenico aveva mandata a monte l’elezione del
Garofani, e si preparava a fare qualche altro colpo, per diventare lui
il sindaco, tener lontano il Garofani e rimaner padrone di Borghignolo.
«Il Buccelli lo avea ben lui suggerito il modo di rimandare i
pifferi di montagna» diceva la signora Giuseppina, ma il Garofani pur
mettendocisi, era sulle prime andato troppo adagio, e aveva perduto
tempo. Il Buccelli voleva che si fossero in fretta e in furia comperati
tutti i diritti e le ragioni dei creditori di Giandomenico, e lo si
fosse fatto sfrattare senza lasciargli il tempo di aggiungere nuovi
fili alla trama.

La cosa sarebbe riuscita a maraviglia, come s’è veduto dopo, perchè
Giandomenico, non potendo lasciarsi scorgere d’avere i denari del
Governo, bisognava che si rassegnasse a passare per fallito, e ad
andarsene in fretta, tanto più che all’occorrenza si poteva anche farlo
mettere in prigione. «Ma si era perduto tempo;» continuava la signora
Giuseppina «quel caro signor conte aveva fatto il suo primo colpo, e
il Garofani indispettito aveva piantati, lasciandoli cuocere nel loro
brodo, quegli imbecilloni di Borghignolo. Il Buccelli però non voleva
che la finisse così, e faceva di tutto perchè Garofani ritornasse in
paese. Ma il conte briccone, che teneva i fili di tutto, seppe anche
questo, e, per gettare sui Garofani tanta vergogna e tanta infamia
che non gli permettessero più di lasciarsi vedere in Borghignolo, ne
inventò una proprio infernale!...»

Qui temetti che la signora Giuseppina fosse giunta a quel tal punto
delle convulsioni. Le feci fare una pausa; la confortai, e le dissi che
anch’io le avrei narrato a suo tempo certe cose, che in mezzo ai suoi
dispiaceri le avrebbero sollevato l’animo non poco.

«Bisogna sapere» ripigliò la signora Giuseppina «che, or son due anni,
quando per la prima volta si andò ad abitare la casa di Borghignolo
comperata da poco, tra quei primi di cui facemmo conoscenza, ci fu un
ragazzotto, che non era neanche il diavolo, figlio di quel rusticone
aristocratico d’un Giandomenico il quale non si è lasciato mai vedere.
Buona, e al di là di buona come fui sempre, è il mio difetto, me lo
lasciavo venir per casa, lo conducevo sempre in compagnia questo
tal ragazzotto, che si chiamava _Aldo_, non so perchè, e che è
quell’uffizialelto dei bersaglieri che lei deve conoscere. Si sarebbe
detto, a vederlo, che mi facesse la corte; ma, come lei può ben
credere, io ne ridevo a crepapelle, come si fa di questi civettini
teneri. Un bel giorno finalmente dovette partire: lo rividi più tardi
qualche volta in città; poi ripartì di nuovo, e ormai non mi ricordavo
più neanche che ci fosse al mondo: quando a un tratto venni a sapere
tutta una trama indiavolata. La trama era questa, nientemeno.... oh!
ne ho le prove in mano!... e mi dirà, don Michele, se non è il caso
di perdere la testa! Ma, tornando indietro d’un passo, bisogna sapere
che da qualche tempo io andavo osservando, e l’osservavano tutti, che
l’Adelina di giorno in giorno perdeva il suo colorito, il buon umore,
le parole.... diventava sparuta, non era più lei. Studia troppo!
sarà innamorata! la colpa è dei romanzi! Chi ne diceva una, chi ne
diceva un’altra: insomma la gente parlava. Fin qui non ci sarebbe
stato gran male, perchè quando sento delle chiacchiere, io rispondo
sempre con una gran massima, e dico che la gente parla perchè ha la
bocca. Ma l’importante era che queste cose, tra me e me le pensavo
e le vedevo anch’io; anzi qualche volta ne avevo fatto parola con
Garofani. Garofani però, che è l’uomo della flemma, rispondeva: staremo
a vedere; e col suo _staremo a vedere_ non vedeva niente, e tirava per
le lunghe anche gli affari di Borghignolo, mentre il Buccelli.... oh!
quello sì è un uomo! adesso gli appongono delle colpe, l’hanno fatto
uscire dal paese; ma non creda un bel niente, don Michele! è tutta una
trama anche questa contro noi.... lo vedrà tra poco!... perchè bisogna
saperle tutte le cose!... Dunque dicevo che il Buccelli tempestava ogni
giorno con Garofani, perchè facesse in fretta; mandasse gli ordini a
dovere, non la tirasse più in lungo con quell’impostore aristocratico
d’un conte, il quale intanto sott’acqua ce ne avrebbe fatta qualcuna
delle sue. Che, se lo si fosse cacciato da Borghignolo per tempo, non
si correva neanche il rischio che s’è corso!... Insomma, per venire
alle corte, s’era tramato che l’uffizialetto innamorasse Adelina,
mia figlia!... quello spiantatello! quel resticciolo!... Come abbia
fatto, non lo so; ma già noi donne, quando siam ragazze, siamo tanto
sciocche!... In somma, bisogna dire che ci sia un po’ riuscito. Adelina
vorrebbe dire di no; ma s’imbarazza, e queste cose io le capisco in
un batter d’occhio. Ma, tornando a quei due bei soggetti, appena quel
caro conte ebbe fatto fagotto, ecco che capita in paese il signor
contino. Si ferma alcuni giorni, prende le sue informazioni, poi se
ne va. C’era però qualcuno che aveva tenuto gli occhi aperti, e nel
quale aveva dato il naso, senza avvedersene, quel mariolo novellino.
Il quale, facendo l’impostore, aveva pigliato sotto il braccio questo
_qualcuno_, e dicendogli tante cose tenere sul conto mio e di mio
marito, aveva cercato prima di sapere dove noi fossimo, e poi il
quando e il dove ce ne saremmo ritornati. Ma l’altro, ch’era una volpe
vecchia e fine, gliene diede a bere parecchie, e lo rimandò con l’aver
sapute per giunta certe cose che gli premeva di sapere. Poi questo tale
stette all’erta giorno e notte, e a furia d’astuzia, di pazienza, di
talento finì a scoprire tutto e a capire di che cosa si trattava. Una
bagattella! Cose che fanno arricciare i capelli solo a pensarci! Cose
da non credersi! Insomma si trattava nientemeno, che di rapire mia
figlia.... ah briganti!...»

Non so se a questo punto facessi una smorfia di sorpresa, di
incredulità o di dispetto, per quanto mi fossi prefisso di rimanere
sino alla fine calmo e silenzioso.

«E ne ho le prove!» riprese la signora Giuseppina, riscaldandosi sempre
più. «So tutto, e le ho in mano io tutte le fila che quei bricconi
avevano preparate! Ci si voleva coprire d’infamia! Noi! proprio noi!...
I Garofani! quei Garofani contro i quali neanche le male lingue non
hanno mai potuto dire un ette, nè quando si aveva il negozio, nè dopo!
E sì che, solo da parte mia, ne ho rimandati parecchi dei soggettacci
scornati! Ma ci si voleva buttare l’infamia addosso questa volta,
perchè non mettessimo più piede in Borghignolo.... ah canaglia! non
ce lo metterete più voi altri, adesso, il piede in Borghignolo, dove
volevate rimanere i padroni, per farla soli da bascià, come a quei
tempi d’una volta! Sono donna; ma se si vuol cozzare con me, so rompere
le corna a chicchessia! Sedurre mia figlia!... o farla fuggire!... fare
uno scandalo in casa Garofani? Ah sì?... Avanti, signor uffizialetto,
avanti....» e la signora Giuseppina in attitudine di sfida, appoggiava
i pugni serrati sui fianchi, appuntando le gomita.

«Bisogna dire» riprese la signora Giuseppina dopo una pausa «che questi
diavoli si fossero accorti che c’era chi sapeva tutto, e ce ne teneva
informati. Supposero che fosse il Buccelli, ed era proprio lui. Ma per
carità, don Michele, lei faccia sempre le viste di non saperlo. Glielo
dico come se fossimo in confessione, perchè Garofani m’ha fatto giurare
che non l’avrei mai detto a nessuno.... ma io la considero come un
secondo signor Mosè! Detto fatto, si mette in piedi una combriccola, si
fa nascere un baccano; poi siccome questi tali hanno anche il Governo
dalla loro, si accusa il Buccelli, si fa avviare un processo, e lo
si fa scappare. Eccoli sul trono. E noi? Noi non siamo più sicuri nè
in casa, nè fuori; siamo in mano dei briganti! Cosa si fa? Ci siamo
guardati in faccia per un giorno intero io e il Garofani, appena ci
giunsero queste notizie. Finalmente mi venne una buona ispirazione, e
dissi a mio marito: bisogna ritornare subito a Milano e domandare un
parere al signor Mosè. Si ritornò a precipizio, e il signor Mosè disse
subito che le cose avrebbero potuto finir bene, ma che potevano anche
finir male: che ci consigliava di star a vedere, e intanto di mettere
Adelina al sicuro, e di mandarla lontano presso una di lui sorella,
monaca in un collegio di Orsoline, senza lasciar sapere ad anima
viva dove sia. Come si fa?... Il signor Mosè l’ha detto e bisogna far
così! Adelina è rassegnata, piange, e non vuol dir niente.... ma già
io capisco che quell’uffizialelto lo ha per il capo!... Ora è quasi
combinata ogni cosa, e domani aspetto un’ultima lettera della monaca.
Dopo domani forse Adelina partirà col signor Mosè.... me ne scoppia il
cuore a pensarci.... ma come si fa? Intanto Garofani ha voluto andare
a Borghignolo, nè ci fu modo di trattenerlo. Adesso sono sulle spine
anche per lui. Capisco bene che non si possa lasciare tutto il fatto
nostro in mano di nessuno, ora che il Buccelli non è più in paese; ma
_prima c’è la pelle, e poi la roba!_ come diceva il mio primo marito,
il povero Baldassarre, ed io non mi fiderei un bel niente di metter
piede tra quella canaglia. Il Garofani invece è tutto spirito, ha un
coraggio da leone. Ha portato con se due pistole cariche, e m’ha detto
che, appena giunto, andava diviato dai carabinieri. Ora staremo a
vedere. Ma intanto.... che ne dice, don Michele? Che disgrazia! Dica
lei, sono o non sono da compiangere? e doveva proprio succedere in
casa Garofani un romanzo di questa fatta? A lei ho detto tutto, ma per
carità non lo sospetti neanche l’aria! Che succederà?... che succederà
mai? Oh, mi dia un suo parere! Povera Giuseppina!...»

Il rispondere subito alla signora Giuseppina, appunto perchè era
la signora Giuseppina, era cosa più difficile di quello che essa si
pensasse. Mi trovavo sopraffatto, come non lo ero stato mai. Capivo
ch’era necessario pigliar tempo, parlar poco, non dire tutto quello che
ne pensavo. Capivo che la strada diritta non era questa volta la più
corta, ma lì su due piedi non sapevo poi bene quale, tra le vie fuor
di mano, sarebbe stata la migliore. Scelsi per il momento quella che
aveva già dato tanto credito al signor Mosè, e tacqui. Ma la signora
Giuseppina, ricordandosi una mia parola, venne subito alla riscossa per
sapere quali cose avessi io a dire, quale fosse il mio secreto.

«Presto, prestissimo forse» le risposi io allora «la potrò informare
anch’io di molte altre cose, che vengono tutte a proposito di questa
spiacentissima storia. Oggi non lo posso. Aspetto io pure le mie prove,
o, dirò meglio, alcune ultime prove. Ma per ora non le posso dire di
più; per ora non ho a chiederle che un favore.... un favore grandissimo
da cui può dipendere....»

Non mi fu possibile di finire: la signora Giuseppina esclamò: «Anche
lei ha delle prove! Oh che bricconi! Un favore? Ma dica, dica!» e poi
non mi lasciava dire. Finalmente, a furia di pazienza, la condussi
a due conclusioni. La prima fu che Adelina non sarebbe partita senza
ch’io lo sapessi; e la seconda ch’io avrei vedute le famose prove che
essa aveva in mano. Nè le aspettai molto, perchè la signora Giuseppina,
che ne moriva di voglia, mi fece subito veder tutto. Ripigliai fiato,
vedendo che il tutto consisteva in alcune lettere del Buccelli bugiarde
e goffe, architettate con una certa malizia, ma senza alcuna di quelle
prove apparenti che tante volte, per disgrazia, fanno parere corpi le
ombre. Diceva bensì il Buccelli che, tra le molte cose che gli avevano
fatto conoscere tutto il filo dell’intrigo, c’erano delle lettere
d’Aldo, cadutegli in mano per combinazione; ma poi queste lettere non
le aveva mandate. Briccone! pensavo tra me: ecco dove sono andate
quelle lettere che io avevo aspettate con tanta angoscia. L’avessi
sospettato prima!... e frattanto mi passava per la mente il Borsa, il
quale è decisamente un grand’uomo.

La signora Giuseppina con tanto d’occhi aveva cercato di seguire tutti
i movimenti della mia faccia mentre leggevo le lettere del Buccelli,
e mi parve che rimanesse alquanto sorpresa e scontenta nel vedermi più
sereno di prima. Mi diede un nuovo assalto perchè le confidassi subito
la mia parte di secreto, ma dovette tenersi tutta la sua curiosità,
ancorchè gliel’avessi centuplicata. Mi feci ripetere le sue promesse,
e le lasciai intravvedere cose nuove e vicine, sebbene in verità non
sapessi in quel momento, e non mi sappia ancora mentre scrivo, quello
che ne possa seguire e quello che io deva fare. Così lasciai la signora
Giuseppina, la quale intanto s’era fatto portare un bicchierino di
malaga, di quello di Baldassarre, s’intende, con un biscotto, per
prevenire le convulsioni che dovevano capitare da un momento all’altro,
se pure era tale la loro intenzione.

                                 * * *

                                                      19 maggio 1866.

Dopo l’abboccamento d’ieri con la signora Giuseppina, me ne stetti un
pezzo nella mia stanza col capo tra le mani, per vedere di spremerne
qualcosa, chiamando a rassegna e riordinando le idee vecchie del mio
piano, e le nuove che mi facevano ressa. Da cosa nasce cosa; e quando
s’ha per le mani una matassa imbrogliata, la meglio è di pigliare il
primo bandolo che capita, il quale può condurre a ritrovare il vero, se
non lo è esso medesimo. Tra i fili che mandano fuori un capo, c’è il
signor Mosè, il quale potrebbe essere benissimo un bandolo anch’esso.
In questa supposizione, stamani uscii per tempo, e andai addirittura
dal signor Mosè. Ma, che vado a fare? che vado a dirgli? pensavo tra
me per istrada; e rallentavo il passo, perchè pure avevo bisogno di
trovare il pretesto.

Il signor Mosè era un antico amico di Baldassarre, primo marito della
signora Giuseppina. Proprietario d’una piccola casa in città, che
gli rendeva quel tanto necessario a vivere quieto e benino, se n’era
accontentato per tempo, e non era andato a cercare nè impiego, nè
moglie, nè fastidi. Siccome aveva sempre usato fare le sue provviste
da sè, così era entrato in amicizia fin da quarant’anni fa con
Baldassarre, nella cui bottega aveva poi passata la maggior parte della
sua vita, discorrendo, la mattina, degli avventori e del vicinato, e
leggendo, la sera, la gazzetta. Baldassarre gli faceva tutte le sue
confidenze, ed aveva sempre riservate per il sig. Mosè le primizie dei
suoi coloniali e dei suoi affetti, avendogli confidato, tra l’altre
cose, il suo amore per la Giuseppina. Il signor Mosè poi aveva veduto
nascere più tardi un altro amore, quello della Giuseppina per Garofani,
il ministro del negozio. E siccome egli era grande amico e ammiratore
di tutti e tre, così è probabile che da quel tempo egli sia entrato
in quella via di raccoglimento e di silenzio, che a poco a poco gli
accrebbe di tanto la fama d’uomo di proposito e di consiglio.

È così che nella mente ho potuto compormi il signor Mosè, da quel
poco che raccolsi qua e là nei discorsi della signora Giuseppina. Ora
riandando queste cose, nel mandare innanzi lentamente un piede dopo
l’altro, mi ricordai anche che il signor Mosè era famoso per fare i
rosoli e le conserve. Avrei voluto che me ne fosse venuta in mente
una migliore; ma tant’è, al momento non ne seppi raccapezzare altra.
Ero già vicino alla sua casa: bisognava decidersi, e mi decisi per la
conserva di lampone.

La maraviglia del signor Mosè al primo vedermi fu grande; ma
appena gliene dissi il motivo, cessò immediatamente. Avevo colpito
giusto. Mi accorsi che il signor Mosè, a proposito di conserve, era
consultatissimo, e che su questo argomento, contro il suo solito,
parlava molto.

«Piano! piano!» prese subito a dire il signor Mosè: «A lei non voglio
fare questo torto, ma c’è della gente, e bisogna premetterlo, che
confonde le conserve con gli altri preparati che più specialmente
si chiamano _composte_, per tacere altri nomi che s’incontrano nel
campo vastissimo delle diverse maniere con cui si preparano le frutte
al sciloppo. Oh, di questi tali me ne capitarono parecchi! Ma io
la prendo in parola sulle conserve, e per il momento le concedo di
considerarle in sè, isolatamente, e non nei loro rapporti. Ma sa lei in
quante subquestioni si divide la questione generale delle conserve? Ma
restringiamo pure il campo fin che si vuole, teniamoci entro i confini
angustissimi della sola conserva di lampone; non creda però che sui due
piedi io gliene possa dare neanche una prima idea vaga, elementare.
Perocchè, al primo passo che noi facciamo in una conserva qualsiasi,
noi ci troviamo subito dinanzi alla questione della maturanza del
frutto, e del modo di spremerne il sugo. Si figuri! ma andiamo innanzi.
Eccoci, nientemeno, che in mezzo alla fermentazione! Una bagattella!
Quindi la qualità del vaso, il locale, la temperatura, per non dire di
tutto il resto. È nella fermentazione, signori miei, che la conserva
riceve le prime impronte d’un avvenire dolce e fragrante, o contrae
sciaguratamente i principii acetici d’una mala riuscita! Ma andiamo
innanzi ancora: la conserva entra in una bottiglia a compiervi gli
stadii ordinari della sua esistenza. Abbiamo subito dunque la questione
delle bottiglie, e quella dei tappi, gravissime! per non dire di
altre minori. Ma eccoci subito a una nuova bagattella, voglio dire la
conservazione della conserva, sottoponendo a un’alta temperatura il
vaso che la racchiude, in ragione della qualità dei sughi! Non le dico
altro!...»

                                 * * *

Chiudo per oggi, e forse per un pezzo, questo mio scartafaccio. Una
lettera del fattore è venuta a farmi lasciar da parte il signor Mosè,
e a farmi rifare la valigia. Domani sarò a Borghignolo. Ho voluto di
nuovo vedere la signora Giuseppina e farle rinnovare le sue promesse.
Mandai subito un telegramma ad Aldo. Eccomi da capo col diavolo
addosso! Giungerò in tempo?

(_Lettera del fattore_)

  «Signor padrone colendissimo!

»Le mando Tonio per espresso unitamente a questa mia, per dirle che è
venuto da me poco fa Bortolo, detto Bortolotto, famiglio del signor
conte Giandomenico, il quale mi disse che vuole parlare subito con
vostra signoria per una disgrazia, la quale sarebbe che il suo padrone
è in vicinanza al paese, ma sta molto male. Con che ho fatto subito dar
aria alle stanze e preparare il letto. Aspettando i suoi ordini, altro
non avendo a dire, passo a riverirla con tutto il rispetto. E sono

                                              »Obbligatis. e Devotis.
                                                           »GIACOMO.»

                                 * * *

                                                       5 aprile 1866.

Vorrei che il cielo fosse oggi malinconico e grigio, l’aria cruda, la
natura silenziosa e i fumaioli delle case mi dicessero che la gente
è rinchiusa e accovacciata presso i focolari. Ma il cielo è splendido
come di maggio; un insolito tepore mette tutti in festa, i contadini si
spandono per le campagne, le donne si affaccendano negli orticelli, le
galline in tutta furia beccano quel po’ che trovano per le strade, gli
uccelletti a stormo, con un pigolio di cui riempiono l’aria, par che si
raccontino tutti in una volta le vicende dell’invernata; i fiorellini
fanno la loro prima comparsa sulla china del poggio e tra il bel verde
dei prati. Possa questa scena lieta e ridente essere in armonia con
l’animo di altri, se non può esserlo col mio. Non mi devo lamentare di
questo bel cielo, che segna forse per altri uno de’ bei giorni della
vita;... in quanto a me lo fuggo, e mi rinchiudo nella mia stanza.

Il meglio per oggi è che riapra il quadernuccio delle mie confidenze,
e vi deponga tutta la malinconica storia di questi quindici giorni.
Cercherò di snebbiarla, perchè l’ho in mente ancora come se mi
svegliassi in questo punto dopo un sogno affannoso.

La mattina che partii per Borghignolo, a due miglia dal paese, trovai
il mio fattore e il famiglio di Giandomenico che, un passo dopo
l’altro, mi venivano incontro. Il famiglio mi accolse con un gesto e
con una espressione della faccia che credetti volesse dirmi addirittura
che il padrone era morto. Ma il mio fattore mi tranquillò; e quel
buon uomo di Bortolo, che aveva gli occhi rossi e la voce tremante,
appena lo potè, prese a rispondere alle domande che io gli avevo fatte
tutte d’un fiato. Prese le mosse dal giorno in cui Giandomenico era
improvvisamente scomparso. Il famiglio diceva di aver ben egli fatto
tutto il possibile perchè il suo padrone domandasse a me un parere,
o scrivesse una lettera a suo figlio, o andasse a cercar conto di
qualche suo parente. Fu tutto inutile; Giandomenico rispondeva che
se ne sarebbe andato tutto solo a nascondersi per i boschi, ed a
morirvi in qualche buca, sicchè nessuno avrebbe mai saputo più nulla
di lui. Quando gli si venne a dire che il giorno appresso si metteva
all’incanto tutta la roba sua, aspettò che fosse calata la notte, che
non ci fosse in giro anima viva, e senza pigliarsi neanche il tabarro,
uscì, ed a gran passi s’avviò per un sentiero abbandonato della
collina. Bortolo, che l’aveva veduto, gli era corso dietro. Qui il
buon uomo, con gli occhi che gli si facevano gonfi ad ogni parola, mi
raccontava come s’era buttato al collo del suo padrone, come avessero
pianto insieme per un pezzo senza poter pronunziare una parola, e come
più tardi, dopo molte preghiere, lo avesse indotto a seguirlo prima che
l’alba li sorprendesse, e tutti e due fossero andati a riparare presso
la Marta, una sorella del famiglio, vedova, che viveva in una sua
casupola, presso un ceppo di cascine fuor di mano, a cinque miglia da
Borghignolo.

«Nella casuccia della Marta» riprese Bortolo dopo una pausa «c’è la
cucina, uno stanzino, un po’ di fenile per metterci lo strame, e lo
stabbiolo delle pecore e del maiale. Con un saccone e uno stramazzo
Marta andò a dormire in cucina; diede lo stanzino, dove c’è ancora il
letto lasciatole dal suo pover uomo, al padrone, ed io mi acconciai
sul fenile. Ma ce ne vollero delle preghiere mie e della sorella per
trattenere il povero signor conte, al quale di tanto in tanto pigliava
la malinconia, e voleva fuggire, perchè diceva che ci rubava il pane.
Gran che! Beveva un po’ di latte, mandava giù un boccone, poi non
gliene passavano più; gli facevo cuocere qualche bel pezzo d’agnello
che rubava gli occhi; ma sì, era tutt’uno, egli non ci guardava
neanche. Una volta mi disse di mandare a Borghignolo qualcuno, senza
dire dov’egli fosse, per vedere se alla posta c’era qualche lettera per
lui. Mandai un ragazzotto, il quale ritornò alla sera con niente. Il
povero padrone si fece ancora più cupo, e quella volta andò a dormire
senza bere neanche il latte. Mandai quel ragazzotto a Borghignolo
qualche volta ancora, senza neppur dirlo al padrone, ma delle lettere
non ce n’erano mai. Intanto passa un mese, ne passano due, ne passano
tre, e il signor conte diventava ogni giorno più malinconico, più
taciturno, più macilento. Io cercavo di consolarlo e di dargli qualche
parere alla buona. IL mio sentimento era di andare a Borghignolo, e di
parlare con lei o col signor curato che, se vuole, sale in zucca ne ha.
Ma che! Guai aprir bocca su questo argomento! il padrone saltava su a
dire che, se anima viva lo venisse a cercare, egli fuggiva via subito.
Nè gli ho mai potuto far capire ragione, neanche quando, vedendolo
di tanto in tanto coi brividi della febbre indosso, lo pregavo di
lasciarmi andare a prendere il medico o, meglio ancora, il semplicista.
Oh sì! Guai! non mi lasciava aprir bocca. Così si tirò innanzi; ma
tre giorni fa, gli pigliò un febbrone che gli tolse il sentimento, e
temetti me lo mandasse al Creatore. Allora corsi subito a Borghignolo
per il signor curato, intanto che Marta bruciava l’ulivo benedetto,
perchè potessimo giungere in tempo. Il curato condusse il dottore;
pensi come rimanessero a vedere il padrone in casa della Marta! Ma
poi cominciarono tutti e due a crollare il capo, e così fanno da tre
giorni. Si pensò di far venire il signor Aldo, ma come si fa? Allora
mi è venuta l’ispirazione di parlarne con Giacomo, perchè lo dicesse
a lei, al quale, si sa, sta bene la penna in mano; e siccome poi lei
legge le gazzette, forse saprà dove sia il nostro signor Aldo. Povero
figliolo!... quando saprà....»

Lasciato il biroccio sulla strada, mentre Bortolo mi faceva la sua
narrazione, con lui e col fattore pigliato un sentiero della collina,
mi ero avviato, con l’anima piena d’angoscia, verso il tugurio ove
giaceva il mio povero amico.

Lo vidi in quel miserabile giaciglio, che non mi uscirà più dalla
memoria; lo chiamai per nome, ma per tutto quel primo giorno e per vari
altri non mi riconobbe, e non gli udii pronunziare che qualche tronca
parola, ora di spavento, ora di speranza. Avrei voluto farlo subito
trasportare in casa mia, ma la distanza era troppa, la malattia troppo
grave, e il medico mi disse chiaro che non c’era neppur da pensarci.

In pochi giorni si sparse la voce che il conte Giandomenico era stato
ritrovato morente in casa della Marta, e presto in Borghignolo non
si parlò più d’altro. Come avviene, ognuno ripeteva quello che aveva
udito, e ci metteva qualche cosa del proprio per non parere di saperne
meno degli altri. Così giravano di quelle storie stranissime, e che
sembrano inconcepibili, quando non si pensa che non furono inventate
da uno solo. E siccome anche nel pubblico di Borghignolo l’odio si
avvicenda con l’amore, dopo quei dati periodi di tempo, la cui misura è
sfuggita fin qui ai calcoli della scienza, così in tutti era scoppiato
d’improvviso uno straordinario affetto per Giandomenico. Qualche raggio
di questo affetto cadeva di riverbero anche su me, che ero conosciuto
per amicissimo suo, e venuto questa volta in paese apposta per lui.
Trovai in generale un’accoglienza migliore di prima; vidi levato
qualche cappello, che di solito, al mio comparire, s’abbassava sulla
fronte un dito di più; vidi perfino metter piede in casa mia qualcuno
di quelli che sino allora non si sarebbero arrischiati neanche di
passarci dinanzi, per il timore di compromettersi.... in che? non lo
so, e non lo sapranno neppur essi. Ora mi si fa largo, mi si fa buona
cera. Tanto meglio. Sono anch’io nel mio quarto di luna favorevole, ma
non ci bado molto, perchè ho imparato a andarmene diritto per la mia
strada, senza domandarmi se la luna mi guarda con tutta la sua faccia
sorridente, o se mi volta le corna.

Una sera, nel ritornare dalla capanna della Marta, m’incontrai nel
signor Garofani, il quale era venuto a cercare di me per sapere le
nuove di Giandomenico. Anche in lui era succeduta una gran rivoluzione.
In otto giorni di studio, egli non era riuscito, con le polizze e
gli scartafacci del Buccelli, a trovare qualche nesso tra il _dare_
e l’_avere_. Aveva la testa rintontita di rivelazioni e di accuse che
gli venivano facendo contro il Buccelli quegli stessi, che fino allora
lo avevano levato alle stelle, e non ne capiva più nulla. Anche in
tutta quella sequela di raggiri coi quali il Buccelli era riuscito a
spossessare di tutto Giandomenico, c’erano, a quanto se ne diceva, cose
così impasticciate, da suscitare liti senza fine, se qualcuno avesse
voluto andar al fondo. Il signor Garofani, a cui per la prima volta in
vita sua, le cifre non parlavano chiaro, oppure dicevano delle cose
ingrate, era in uno stato di abbattimento e di disinganno, come al
guastarsi d’un primo amore. Con me naturalmente non tenne parola di
tutto questo; ma un po’ ne avevo sentito da altri, e un po’ ne lessi
sul suo viso e nelle sue parole, sebbene mi discorresse di tutt’altro.
Quella sera mi accompagnò a casa, e passò meco più d’un’ora. Mi parve
che avesse una gran voglia di parlare di Giandomenico, se appena gliene
avessi dato l’appiccagnolo; ma per quella prima volta lasciai cadere il
discorso. Alla fine mi annunziò che il giorno dopo sarebbe arrivata sua
moglie, la quale faceva a Borghignolo una gita di pochi giorni per dare
un’occhiata al giardino e ai suoi fiori: ossia per darne più d’una,
a quanto mi disse poi il mio fattore, alle masserizie di casa, delle
quali parecchie avevano seguito il Buccelli nell’esilio.

Il giorno seguente seppi infatti che la signora Giuseppina era
arrivata. Ma non la vidi così subito; per un paio di giorni la lasciai
tutta intera all’ispezione degli armadi e della guardaroba, e poco mi
staccai dal capezzale del povero Giandomenico. Aspettavo ansiosamente,
di minuto in minuto, Aldo, che aveva risposto al mio telegramma e
doveva essere in viaggio da più giorni. Che gli avrei annunziato?
Giandomenico aveva di tanto in tanto riaperti gli occhi, ma non mi
aveva ancora riconosciuto. Il medico del paese, che di solito capisce
poco, e questa volta poi mi aveva l’aria di non capire niente affatto,
era stato subito di parere, per fortuna, che si chiamasse in consulto
dal capoluogo del mandamento un altro medico che, a quanto si dice,
ha riaperto ancora qualche libro dopo l’ultimo esame dell’Università.
Mi parve infatti un brav’uomo, e fui tanto più addolorato vedendolo
allontanarsi dalla stanzuccia dell’ammalato con la faccia pensosa, e
non trovando che poche parole per rispondere alle mie molte domande.
Quando gli dissi che aspettavo Aldo: «Faccia in fretta, faccia in
fretta!» mi rispose; poi dopo una pausa soggiunse: «non vedo un
pericolo vicino.... si potrebbe dir anzi in tutta regola che c’è da
sperare, ma che vuole?... sto con l’esperienza, e dico che questo
ammalato non mi piace, e non mi piace!» Così con questa risposta, e si
pensi con quale inquietudine, rimasi per più giorni ancora prima che
Aldo arrivasse.

Appena seppi che Aldo era poco lontano da Borghignolo, gli andai
incontro perchè non giungesse al capezzale di suo padre tutto solo
e senza che una parola amica fosse scesa prima nel suo animo vergine
ancora alle forti commozioni della vita. Quale traccia non lasciano
le prime commozioni del dolore, delle speranze, della gioia! Ma chi
ci bada! L’educazione il più delle volte, come l’arte del verniciare,
si mostra paga quando vede la superficie lucida e tersa. Povero Aldo!
Se in mezzo a tutta la mestizia di questi giorni, non mi sento indosso
quella cappa di piombo che da un pezzo mi rende così uggiosa la vita,
è forse perchè mi pare di poter fare un po’ di bene a quel povero
figliolo.

Ci fu un momento in cui parve che tutti i sintomi del male fossero
divenuti meno gravi, e vidi il povero ammalato aprire gli occhi.
Giandomenico girò lo sguardo lento, fisso, pieno di stupore, come chi
si sveglia dopo un lungo sonno, e non sa rendersi ragione ancora di
tutto quello che lo circonda. Mi riconobbe, sorrise, e con la mano
cercò nascondere i brandelli e le rappezzature del coltrone che lo
copriva. Gli dissi ch’ero venuto a fargli da infermiere, appena avuta
notizia che, pigliato da un forte malore per strada, l’avevano portato
in quella capanna. Egli mi sorrise di nuovo, con una espressione più
serena e piena di riconoscenza. Gli parlai di suo figlio, lo disposi
a vederlo; e poco dopo, le sue braccia pallide e scarne stringevano
Aldo, il quale, prima di ritrovare alcune di quelle parole di calma e
di fiducia che gli avevo suggerite, pianse dirottamente sino a che ebbe
lacrime.

Sulla sera, una comitiva mesta e raccolta seguiva lentamente su per
il sentiero della collina il curato, che veniva sul suo cavalluccio
portando il viatico. Quale stretta non danno al cuore quei rintocchi
del campanello, e quella nenia malinconica delle preghiere, quando si
ripercotono e si perdono tra il frastuono indifferente delle vie d’una
città! Ma quella sera, sotto il bel cielo sereno ove apparivano le
prime stelle, tra il silenzio solenne e direi pio della natura, quelle
preci, quella mesta comitiva, l’addio stesso alla vita, mi parvero cose
meno desolate: l’anima le accoglieva con un fascino indicibile e nuovo.
Era il fascino che la chiamava a confondersi tra quei vaghi misteri
della natura e a varcare un confine che presente ed ignora.

Per un giorno ancora Giandomenico parlò, strinse la mano ad Aldo, a
me, alla Marta, al famiglio. Le sue parole, ora chiare, ora confuse,
esprimevano dei pensieri che gli facevano ritorno con una penosa
insistenza. I propositi e le preoccupazioni della vita si avvicendavano
nelle sue parole ai ricordi e ai consigli di chi sa vicina la morte.
Più che dell’avvenire di Aldo, a cui ripetè più volle «tu hai la
tua spada e il tuo onore,» era preoccupato dell’avvenire del suo
famiglio. «E tu, povero Bortolo, cosa farai?... Cosa sarà di questo
pover’uomo?...»

«Oh mio buon padrone!... mio caro signor padrone!... io son vecchio,
e presto le terrò dietro» rispondeva Bortolo con la voce strozzata e
la faccia piena di lacrime. Ma al cadere di quel giorno, Giandomenico
non pronunziò più una parola; i suoi occhi rimasero socchiusi, e le
sue braccia distese e rigide sopra il coltrone. Prima dell’alba, alla
pallida luce della candela che ardeva presso il capezzale, vidi il
volto di Giandomenico farsi bianco ed immobile: era spirato. Aldo
svenne nelle mie braccia; il famiglio s’inginocchiò; la Marta aprì la
finestra, e accese una candela benedetta.

Quando uscii dalla capanna, conducendo con me Aldo, e con l’animo
straziato da quella scena di dolore, il cielo illuminato dai primi
raggi del sole era tutto splendido e ridente. Gli uccelletti a stormi
ci volavano intorno, empiendo l’aria del loro pigolìo. Le campane
d’un paesello vicino sonavano a festa. Alcuni gruppi di contadini e
contadine, che si recavano a una sagra, ridendo e canterellando ci
passavano innanzi, e senza quasi avvedersi di noi. Così è la vita!

L’affetto per Giandomenico, che era scoppiato improvvisamente in
Borghignolo a quella prima notizia che lo diceva ricoverato e morente
nella casupola d’una povera donna, crebbe in proporzioni più grandi
ancora, quando si sparse la voce della sua morte. Pochi mesi prima,
io ero il solo che in Borghignolo avesse il coraggio civile di fargli
una visita; il dirne male, l’odiarlo, il perseguitarlo era un dovere,
era una prova quasi di _patriottismo_! Il perchè, chi lo sapeva? Ma
si seguiva la corrente. Ora vien levato alle stelle, non si parla che
delle sue virtù. Ma qui, per verità, bisogna confessare che questo
fenomeno non è solo di Borghignolo. Il più delle volte, per trovare
benevolenza e giustizia, bisogna morire. È il guaio di chi aspira a
questo trionfo. Trionfo brevissimo per giunta, poichè presto nessuno
si ricorda di lui, e l’ingiustizia o la benevolenza vanno in cerca di
nuovi odii e di nuovi amori.

Stamane il cadavere di Giandomenico fu portato nella chiesa di
Borghignolo, e di là al Camposanto. Nessuno del paese mancò alla mesta
cerimonia. Intorno a quel feretro vidi raccolti tutti, e gli amici e
i nemici del poveretto; vidi levarsi il cappello quanti gli avevano
negato prima il saluto, udii pronunziare parole di rimpianto e di lode
da chi aveva detto male di lui. Quante meditazioni, quanti pensieri
non si affollavano nella mia mente nel seguire il corteo e nel recinto
di quel cimitero!; di qual luce diversa non paiono colorate le cose
tutte della vita, quando passano a rassegna dinanzi a chi ha gli occhi
fissi sopra una fossa! Con l’anima gonfia di tante cose che sentivo
essere vere e sante, levando gli occhi su quella folla che mi stava
intorno silenziosa e riverente, mi parve che ogni cuore dovesse battere
come il mio,... che ognuno di quelli che vedevo dovesse avere più
del solito l’animo buono, la mente elevata. Mi parve che una parola
d’affetto, un proposito buono, seminato in quel momento, non sarebbero
andati perduti, e avrebbero forse legati strettamente gli animi nostri.
Mi parve.... non saprei ridire tutto quello che mi parve in quel
momento, ma so che parlai a tutta quella buona gente; che parlai per un
pezzo, e che poi mi trovai nelle braccia di molti che piangevano e mi
baciavano. So che cento voci mi dissero «_lei ci può fare tanto bene!
lei può essere la nostra provvidenza!_» e che queste parole mi scesero
nell’anima ben profondamente e mi scossero tutto, come se fossi giovane
ancora, senza disinganni, senza stanchezza.... come se fossi un altro
insomma, od almeno quello di una volta.

Io dunque posso ancora fare del bene? Sarà vero?

Addio, mio povero amico! addio, povero Giandomenico! La sera, sul
tramonto, quando per l’erta stradetta della collina seguo l’ultimo
raggio di sole che monta, monta, e poi m’abbandona, vedrò, alla svolta
da cui si presenta il modesto recinto del cimitero, una croce di più
protendere lontano la sua ombra verso di me e rammentarmi mestamente
un sacro dovere. Ogni buona nuova che avrò di Aldo la verrò a dire
all’ombra della tua croce, e le ripeterò che Aldo non è rimasto solo,
che Aldo sarà mio figliolo! come lo dissi a te, povero Giandomenico,
quando i tuoi occhi cercavano sul mio viso, prima di chiudersi, una
nuova speranza, la sola forse che non gli sarebbe fallita.

                                 * * *

                                                       9 aprile 1866.

Il colpo è fatto: dopo averci tanto pensato e ripensato, senza che
il piano mi paresse mai abbastanza maturato, e nessuna occasione
abbastanza opportuna, un colpo tirato all’improvviso ha fatto scoprire
tutte le mie batterie, ed eccomi ora in campagna rasa. Ritornavo, ieri
sera, a casa, dopo aver condotto Aldo a prendere una boccata d’aria
ed a svagarsi un poco, povero figliolo! quando eccomi capitare nel
salotto, con quell’impeto che la furia dei pensieri le suol communicare
alle gambe, la signora Giuseppina, non rossa in faccia, come quando è
in furia, ma pallida, tremante, come chi è sopraffatto da improvviso
spavento. E il rimescolo l’aveva avuto davvero. Nel ritornarsene un
poco prima, non ricordo da dove, sola, per una stradicciola della
campagna, così mi disse, era stata seguita per lungo tratto da alcuni,
ch’essa non riconobbe perchè, la paura essendo stata maggiore della
curiosità, aveva affrettato il passo, senza avere nè il tempo nè il
cuore di sbirciare o da da una parte, o dall’altra.

— In questo luogo qui, dopo l’avemmaria della sera — aveva preso a
dire uno di essi — calano giù dalla collina le anime dei poveri morti
che furono traditi in vita. Fanno un giro, e se incontrano il loro
persecutore, gli susurrano una parola misteriosa, la quale non cessa
più da quel momento di risonargli, come un’eco che non finisce mai; una
parola che fa morire a poco a poco, come un lento veleno.

— Lasciate che imbrunisca ancora di più — seguitava un altro — e il
fruscìo della siepe ci direbbe che passa la buon’anima di quel povero
galantuomo che abbiamo ieri accompagnato al Camposanto. Noi non lo
vedremmo, perchè, grazie a Dio, non gli abbiamo mai fatto nulla di
male; ma lo vedrebbe forse qualcuno che so ben io, qualcuno ch’egli
cerca, qualcuno che sentirebbe poi rintronarsi quella tal parola....

— Ma questa tale parola — domandava un terzo — non c’è proprio nessuno
che l’abbia ridetta mai?

— Mai! a quanto si sa. Mi diceva un vecchio, il quale ne ha veduti
morir parecchi di questo male, che la è una parola che attossica il
sangue, e che quando viene sulle labbra, vi rimane lì come gelata, e
che non può uscire. Non ti ricordi del barbiere? Quanto tempo ci ha
messo per andarsene al mondo di là, dopo che ebbe buttata nella miseria
e fatta morire allo spedale la cognata? Tre mesi, amico mio. Ma si
sa che la cognata gli era venuta incontro, proprio la sera stessa che
l’avevano portata al cimitero.

— E sta bene! Così chi fa male, ne gode per poco.

— E così l’andrà a finire anche di quelli che ora godono a tradimento
la sostanza del povero conte Giandomenico! Farina del diavolo, che
andrà tutta in crusca. Io non vorrei essere nei loro panni.

— Nè avere i loro milioni, quando poi in poco tempo s’ha d’andare a
casa del diavolo, o girare il mondo col botteghino al collo.

— _Botteghino al collo_ il fondaco di Baldassarre! — esclamava qui
interrompendosi la signora Giuseppina, a cui quest’ultima pareva la più
grossa.

— Ma ne conterò una bella — continuava poi la signora Giuseppina,
riavendosi a poco a poco e ripigliando il dialogo di quegli
sconosciuti. — Appena scappato il Buccelli, si scopersero nella sua
casa tutte le carte con cui avevano spogliato del fatto suo il conte
Giandomenico, e che erano documenti tutti falsi.

— Tutti falsi?

— Sicuro! e fu veduto una sera il giudice uscire dalla casa del
Buccelli, con un fascio di carte sotto il braccio che poteva pesare un
due o tre libbre.

— Tre libbre di carte false!

— Sicuro!

— Ci eravamo cascati tutti, proprio da bestie, nelle mani di quel
Buccelli. Già io l’ho sempre detto, con questi mezzi avvocati bisogna
giocare alla larga.

— Ma ce n’è un’altra! Don Michele si è condotto in casa il figliolo, e
si dice che impianti a quei signori una causa, ma una di quelle cause
che la simile non si è veduta mai! perchè lascino lì tutta la roba
presa, e facciano fagotto per dove sono venuti.

— Oh così sì!

— E se don Michele ci si mette....

— Bravo don Michele! Benissimo! e crepino.... —

Qui la signora Giuseppina si fermava, aggiungendo solo che, arrivata
alle prime case del paese, aveva presa la prima cantonata, e quei tali
che la seguivano, tirando diritto, le avevano lanciate alcune ingiurie,
che non erano giunte tutte sino al suo orecchio.

La signora Giuseppina, che aveva ripreso un poco di fiato nel
discorrere, mi fissò per un pezzo con tanto d’occhi, come ebbe
finito, aspettando che la rassicurassi del tutto e le promettessi il
mio intervento. Ma non ne ero in vena in quel momento, e non risposi
parola.

«E se mandassi Garofani dal prefetto» saltò su a un tratto lei, dopo un
lungo silenzio «pregandolo di far venire in Borghignolo una dozzina di
carabinieri?»

«Coi carabinieri, a questo mondo, si fa molto, quando si ha ragione»
risposi secco secco; «ma non si fa nulla, quando si ha torto!»

«Dunque avevano ragione quei tali? quei tali della strada? Dunque
lei ci vuole promovere una lite.... dunque....» cominciò a gridare,
ma si fermò subito. La mia faccia che doveva essere molto seria in
quel momento, il pensiero di quanto le era intervenuto poco prima, e
fors’anche il sospetto di quello spettro che le si poteva presentare
da un minuto all’altro, le fecero a un tratto raccoglier le vele, e,
lasciatasi cadere sul divano, cominciò a singhiozzare alla dirotta.

«Si calmi, signora Giuseppina» presi io allora a dirle. «Io non so di
che lite intenda parlare, non ho a far nulla con quegli sconosciuti
che l’hanno seguita per via, e so che i poveri morti riposano in Dio,
e pur troppo! non compaiono più. So però, signora, che in tutte queste
faccende c’è qualcosa di molto serio! Non so se qui ci sia un debito
d’onore, ma so che c’è una buona azione da fare! Lei ha avuta una ben
felice ispirazione nel venire da me, e ne la ringrazio. Il figlio del
povero Giandomenico, che lei non conosce che per le informazioni di un
falsario che aveva interesse d’ingannarla, partirà tra pochi giorni, e
lei non ha nulla a temere dalla nobiltà del suo carattere. Le citatorie
di Aldo non verranno a turbarle i sonni, signora Giuseppina...; ma
piuttosto potranno renderli inquieti queste voci di compassione, che si
levano da ogni parte, per un povero vecchio cacciato un giorno senza
misericordia di casa, e che sarebbe morto sulla strada se una buona
donna non lo avesse raccolto nel suo tugurio. Non le lascerà l’animo
tranquillo il dubbio d’essere stati, lei e suo marito, complici,
senza forse saperlo, di un tristo, che in loro nome ha fatte tante
cose ingiuste, forse inoneste, e certo inutilmente spietate. Capisco
che un dubbio tale deve essere un gran cruccio, sino a che non venga
la riparazione! Il far versare delle lacrime può essere una trista e
passeggera soddisfazione della vendetta, ma è cosa che inaridisce tutto
intorno a noi, e ci prepara la solitudine e l’abbandono. Il far del
bene costa così poco, ed è cosa così serena e feconda!...»

Io continuavo su questo tono, e la signora Giuseppina, tra confusa e
contrita, mostrandosi mezzo vinta, di tanto in tanto cercava articolare
qualche parola per difendersi e giustificarsi. A un certo punto,
radunando tutte le sue forze per ottenere una capitolazione a migliori
patti, ripescò nella memoria quel gran sospetto della macchinazione di
Aldo per rapire Adelina, e saltò su a ricordarmelo, levandosi in piedi.
Il colpo era partito. I miei piani non erano maturi, non tutte le fila
erano ancora in mano mia, come dissi, ma in quel momento non mi potei
trattenere, e giocai la mia ultima carta. Levai dallo scrittoio un
plico, che alcuni giorni innanzi m’era stato consegnato dal delegato di
questura, che l’aveva trovato tra le carte del Buccelli. In quel plico
c’erano varie lettere che Aldo aveva scritte a me, quando era partito
in traccia di suo padre. Erano quelle lettere che avevo aspettate così
ansiosamente invano. Il Buccelli le aveva trattenute, le aveva lette, e
su quelle aveva architettato il romanzo del rapimento. Diedi le lettere
alla signora Giuseppina, e la pregai di leggerle tutte attentamente.
In quelle lettere Aldo mi raccontava con dolore le indagini che faceva
via via per rintracciare qualcuno di quei suoi parenti, e che tutte
riuscivano inutili; alle sue sincere lacrime dell’amore filiale erano
spesso mescolate, senza ch’egli se ne avvedesse, le lacrime di un altro
amore. In alcune lettere poi mi parlava apertamente del suo amore
per Adelina; me ne parlava con tutto l’ardore de’ suoi anni, ma con
quella sincera disposizione al sacrificio che ha pure tanta parte nei
sentimenti de’ giovani, che abbiano l’animo nobile e gentile. Mi diceva
che sul volto di Adelina egli vedeva il paradiso; ma che avrebbe avuta
la forza di fuggirla per sempre, di chiudere questo mistero nel proprio
cuore, solo per sè, in modo che Adelina stessa non ne avrebbe mai
saputo nulla. Aldo non sa ancora il proverbio, che _amore e tosse non
si nascondono_.

Dove poi non parlava di Adelina, parlava dei genitori di lei: era
però sempre il cuore che dettava; e il signor Garofani e la signora
Giuseppina, avvolti in un profumo di poesia che copriva quello del
fondaco, parevano in quelle lettere due personaggi dell’età dell’oro.
Questi punti devono aver toccato non poco il cuore alla signora
Giuseppina.

La signora Giuseppina da quella lettura rimase scossa, confusa, ora
esaltata, ora agitata. Ora diceva cento cose in una volta, ora non
sapeva più trovare una parola. E alla fine saltò su a dirmi: «Ebbene,
cosa ne dice lei?»

«Io le dico» risposi con calma e con serietà «che lei non vedrà più
il color delle rose sul volto della sua Adelina, non ritroverà più la
schietta allegria della famiglia, nè la tranquillità dell’anima, nè
la pace e la benevolenza intorno a lei, sino a che non vedrà Aldo e
l’Adelina riuniti sotto il medesimo tetto nel castello di Borghignolo!»

Bisogna dire che questa conclusione, che ognuno si sarebbe aspettata da
un pezzo, la signora Giuseppina non se l’aspettasse punto, perchè la
sua esclamazione superò tutte le esclamazioni che si sarebbero potute
fare in proposito.

«Prima di scendere fino a un conte spiantato, non ho poi perduta ancora
la speranza di trovarne uno che abbia del ben di Dio!» disse nel primo
impeto. Poi capì anch’essa che quella stonatura doveva parermi un po’
forte; e cercando di balbettare dei _se_ e dei _ma_, si rifugiò dietro
le spalle del marito, e cercò di mitigare, come poteva, quella prima
esclamazione.

«Oh! si capisce che il figliolo non è cattivo; in quelle lettere ci
sono dei sentimenti che ho sempre avuti anch’io, tali e quali. Io
non son quella di certo che saprebbe dire di no per un pezzo; sono di
buona pasta, e mi lascio cucinar come vogliono. Ma il mio Garofani!
Garofani è tremendo! Quando ha fisso il chiodo, non c’è barba d’uomo
che lo possa smovere. Io, per me, non avrei tanta faccia di fargli
una proposizione simile. Tanto più.... ah sicuro! lei non lo sa! non
gliel’ho ancor detto! ma già a lei non posso tacer nulla: le farò
dunque una confidenza.»

Qui mi narrò alla distesa, come suo marito avesse messi gli occhi sul
figlio d’un suo amico, un negoziante, non mi rammento se di droghe o
di chiodi, ricchissimo, a quanto diceva lei, per farne uno sposo di sua
figlia. Io lasciai dire, e quando alla fine mi parve che si aspettasse
una risposta, con la serietà e con la calma di prima le dissi:

«Lei avrà tutte le ragioni; dunque non se ne parli più.»

Non c’è nulla di meglio che il dar ragione a certuni, in certe
circostanze, per farli mutar subito di parere. La circostanza della
paura indiavolata, che aveva la signora Giuseppina, le avrebbe voluto
bensì far trovare un’uscita tale che io poi diventassi la sua guida e
il suo protettore naturale; ma, per non darsi torto sul passato, essa
avrebbe voluto esserci come costretta. Così tra me e lei cominciò qui
una specie di lotta; lei voleva venire del mio parere, ed io avevo
quasi l’aria di accomodarmi al suo. Infine essa conchiuse che bisognava
convertire il signor Mosè, il quale aveva incominciato a metter le fila
per il figliolo del negoziante, e che, senza il signor Mosè, non se ne
sarebbe fatto nulla.

Io non le risposi altro che pregandola a riflettere seriamente per
qualche giorno a quanto le avevo detto, senza parlarne, s’intende, con
alcuno. Intanto s’era fatto tardi. Per dare una prima e tacita prova
della mia protezione futura alla signora Giuseppina, l’accompagnai,
dandole il braccio, a casa; feci con lei e suo marito qualche partita
a tarocchi, lasciando loro anche un po’ dei miei quattrini. La signora
Giuseppina poi, con una smorfia ad ogni minuto, continuò tutta la sera
a farmi capire di riposare tranquillo sulla sua secretezza.

                                 * * *

                                                      15 aprile 1866.

Per quella prima notte, dopo aver aperto l’animo mio alla signora
Giuseppina, non potei chiuder occhio sotto l’incubo di mille progetti
che la fantasia andava mulinando nello scopo santissimo di poter
riuscire io, in tutta questa faccenda, il più furbo di tutti. Ma non
c’era modo. A riuscir furbi davvero, è una cosa difficilissima. Infine,
quando vidi il primo chiarore dell’alba, raccapezzando tutto il mio
lavoro notturno, non trovai da potere stringere che una sola idea;
e questa era che ci voleva il signor Borsa per conquistare il signor
Mosè. Mi parve buona, e feci finalmente un sonnellino.

Mi alzai dunque col progetto di scrivere una lettera al Borsa, che non
è ancora rientrato in paese, per indurlo a venire subito, trattandosi
di rendermi un grosso servizio. Prendo la penna, e in quella eccomi il
fattore con una lettera.... di chi? appunto del Borsa! che è questa:

                                 * * *

  «Pregiat. signor don Michele,

»Non vedendomi ancora di ritorno, lei avrà forse già a quest’ora
arguito che io perduro nella mia assenza. Pur troppo è così! All’erta,
don Michele! Ci sono cose che per la loro speciale natura, quando le
vedo continuare, mi convinco che non sono finite! Non so se mi spiego!
Con lei però non mi occorre forse aggiungere altro.

»Nuove disgrazie sovrastano a Borghignolo! Non si perda d’animo, don
Michele. La patria spera molto in lei; quella patria, per così dire,
che in questi giorni ha letto con orgoglio il suo nome tra quelli
degli eletti di cui si compone il nuovo Consiglio comunale. Ma siccome
potrebbe venire un giorno in cui tutti gli argini fossero spezzati, ed
occorressero, per esprimermi in metafora, nuove forze, in quel giorno,
don Michele, calcoli sopra di me. L’orizzonte della _Posta_ non è
così sereno come pare. Quando in _alto_ c’è il contrasto dei venti,
in _basso_ c’è la procella. La giustizia, parlando in confidenza, è
diventata una vana parola! Quell’uomo, che ho giurato di non nominare
mai più, il Buccelli, sta per diventare nuovamente il tiranno di
Borghignolo!...

»Mi comandi in quel che posso; non più per lettera, s’intende, ma col
mezzo di persona fidata.

»Non solo per me, ma per tutti, la _Posta_ sarà ancora, tra pochi
giorni, un disinganno di più nella vita.

                                                »_Suo devot._ BORSA.»


Credetti sulle prime che questa lettera fosse una della solite ubbie
del Borsa, ma in quel giorno stesso ho dovuto accorgermi, alle voci che
correvano in paese, che ci doveva essere qualcosa di vero. Il giorno
dopo, quelle voci andavan crescendo, e l’allarme era grande. Lettere
e persone capitate in paese avevano portata la nuova del ritorno del
Buccelli; in caffè gli avventori c’erano tutti, e in piazza si vedeva
la gente in crocchi. Si diceva che il Buccelli era andato diritto dal
deputato, il quale l’aveva condotto a far colazione dal ministro, e che
lì, tra un boccone e l’altro, si era aggiustato ogni cosa. Si diceva
che il Buccelli era in viaggio con in tasca un decreto del ministro,
che lo rinominava commesso della posta e priore perpetuo della
confraternita, in barba de’ confratelli. Chi diceva che il Buccelli
era già arrivato; chi pretendeva che fosse stato veduto a suggellare
i plichi nell’ufficio; chi parlava delle somme che s’erano spese dal
deputato e dal Buccelli; chi faceva i pronostici di quello che avrebbe
potuto accadere. Qualcuno si pentiva già di avergli volte le spalle
così presto; qualche altro incominciava a dire che il Buccelli, in fin
de’ conti, a saperlo pigliare, non era un cattivo uomo. I più onesti si
preparavano a rinchiudersi in casa; i birbaccioni, dopo averne detto
cose di fuoco, pensavano già ad accomodarsi con lui. A far qualcosa
di bene, ad impedire del male, se davvero ce ne fosse la minaccia, non
c’era nessuno che ci pensasse.

Tra quelli che avevano fatto i bauli c’erano il signor Garofani e sua
moglie, che tutti sgomenti erano venuti a raccomandarmi le cose loro
_in extremis_, e ad invocare la mia protezione. L’accordai subito,
rallegrandomi moltissimo nel vedermi, in casa Garofani, vicino a
diventare un secondo signor Mosè.

Due mesi fa, ridendo di questa nuova burrasca che si annunzia nel
bicchier d’acqua, l’avrei aspettata tranquillamente, senza pigliarmi
verun incomodo. Ma oggi, con la mia idea fissa in capo, e fors’anche
riflettendo che di simili bicchieri d’acqua è composto il pelago in
cui navighiamo, volli provarmi a fare il faccendone e a spuntarne una
anch’io. Mi feci vedere per le vie di Borghignolo col piglio risoluto e
battagliero. Sfidai pubblicamente tutti i Buccelli dell’universo; dissi
anch’io cose da chiodi, e fui largo di protezione a chi ne chiedeva
e a chi non ne chiedeva. Non mi sono mai divertito tanto; ma al tempo
stesso imparai che anche per fare il bene, la via nella quale si è più
facilmente seguìti dalla folla, è quella stessa dell’_audacia_, di cui
si servono i tristi per fare il male.

Nelle ciarle di Borghignolo ci doveva pur essere qualche briciolo
di vero. Pensai questa volta di non perder tempo, e, senza badare
alla noia, andai diviato dal prefetto, succhiandomi non poche ore di
biroccio e di diligenza.

«Il signor prefetto è partito per Firenze l’altroieri e non sarà di
ritorno che in fine della settimana.» Tale fu la risposta che m’ebbi
appena arrivato. Benissimo! dissi tra me: il mio destino è proprio
quello di arrivare sempre il giorno dopo. Rimasi per qualche momento
senza dire una parola, ed aspettando sui due piedi non so cosa, quando
quel brav’uomo a cui m’ero rivolto, e che doveva essere un impiegato,
credette bene, prima di congedarmi, di aggiungere alla notizia che mi
aveva dato qualche osservazione di suo.

«Lei dunque non se l’era immaginato che il signor prefetto potesse
essere partito?»

«No, davvero!»

«Ebbene, io l’avevo prevista questa partenza due giorni innanzi che
ce ne venisse a un tratto la notizia. Si parla di cose grosse. Si dice
che possano essere chiamati i contingenti.... si parla di guerra.... si
parla d’una alleanza colla Prussia. Ci crede lei?... Se qualcuno gliene
domanda, dica pure a nome d’un Tizio, il quale se ne intende, che son
chiacchiere! E questo Tizio sa lei chi è?... Sono io!»

Nello scendere le scale della prefettura e nel rifare la strada di
Borghignolo, non m’ebbi più altro dinanzi che quella parola _chiamata
dei contingenti_, come se quel buon uomo me l’avesse inchiodata in
mezzo alla testa. La qual testa, non essendo a partito da parecchi
giorni, non aveva avuto il tempo di pensare a’ giornali, o a qualche
vecchio amico, di quelli rimasti nella politica, per informarsi
degli avvenimenti pubblici. Quella parola, entratami negli orecchi di
punto in bianco, andò diritta nel fondo dell’anima a ripescarvi quel
mio antico entusiasmo, a cui credevo di aver fatto da un pezzo le
esequie, e che ritrovai ancora florido e pieno di vita come era a’ miei
vent’anni. Poi il pensiero corse subito ad Aldo a cui ho preso a voler
bene come se fosse un mio figliolo; e allora per la prima volta capii
che grande e santa cosa sia l’amore di patria nei padri e nelle madri
che hanno i figli sui campi di battaglia! Giunto a casa, strinsi Aldo
nelle mie braccia con un affetto che mi pareva ancora più prezioso,
perchè incominciava a costarmi una trepidazione che sino allora non
avevo conosciuta.

Però nè ad Aldo, nè ad altri, non feci molto di quella grave parola
presa a frullo tra le ciarle dell’impiegato, e penso di continuare
diritto per la strada incominciata. Ritornerò dal prefetto, e non
lascerò mancare il fuoco alla pentola, entro cui ho messo a bollire
tante cose.

Al Borsa, a cui voglio parlare a ogni costo, ho scritto stamani nel
suo stile, dicendogli «che prima di ritornare in Borghignolo, il
nuovo Faraone avrebbe trovato un mar Rosso dove meno se lo pensava;
che presto si sarebbe veduto svanire quella nube che pareva volesse
offuscare di nuovo _il sole della posta_; che avevo molti progetti e
molti secreti da comunicargli; che confidavo nella sua prudenza....»
Poi gli ho dato appuntamento presso un cascinale, fuori di Borghignolo,
e fuori di mano, in un luogo che sente un po’ del misterioso, e che per
ciò deve essere di tutto suo gusto.

                                 * * *

                                                      20 aprile 1866.

L’aver fatte io, in questi ultimi pochi giorni, tante strade, l’essere
andato due volte al capoluogo della provincia, e l’essere da mattina
a sera col cappello in testa e per le strade del paese senza essermi
buscato nessun malanno, neanche un raffreddore, è una novità, un
mistero, un problema, che manderò scritto al mio dottore per la posta,
perchè ne cavi fuori lui qualcosa, se è capace. Egli mi risponderà,
come già fece un’altra volta, raccontandomi la vecchia storia di quel
signore che avendo la gotta, e domandando al suo medico cosa dovesse
fare per guarirne, il medico gli disse: «spendete per mangiare venti
soldi al giorno, e guadagnateveli!» Ma anche questa volta io gli potrei
replicare che al suo ragionamento manca la base, perchè io non ho la
gotta.

Però, se ciò fosse, i _venti soldi_ questa volta sarebbero stati il
Borsa, il Buccelli, il deputato e il prefetto della provincia. Sono
stati questi quattro signori che mi hanno fatto galoppare e sudare
tutta la settimana, ed è a loro che dovrò i miei ringraziamenti, se ci
lascerò la pelle; perchè ci sono certi malanni traditori, che saltano
fuori un pezzo dopo, e quando meno ci si pensa.

Il Borsa venne al ritrovo. Lo tranquillizzai alla meglio tanto sul
Buccelli, che sulle intenzioni della Russia nel caso di una guerra.
Rasserenatosi su questi due punti, accolse con entusiasmo i miei
progetti, ed accettò la missione presso il signor Mosè. Disse però di
non volere ancora che si parlasse _ufficialmente_ del suo ritorno in
Borghignolo; che in casa Garofani, per discorrere col signor Mosè,
egli non si sarebbe lasciato vedere che la sera; che avrebbe sempre
avuto un paio di pistole in tasca per mettere a partito qualsiasi
bell’umore; e che se mi capitasse di parlare di lui con qualcuno,
dovessi sempre dire: «quel Borsa che si ostina a non voler metter piede
in Borghignolo.»

Eppure io ho una gran fede nei ragionamenti che farà il Borsa, molto
più che ne’ miei, per quanto mi possano parere belli e buoni. Credo che
molte volte l’arte del pigliare il mondo la ci paia cosa più difficile
di quello che non sia, perchè ci ostiniamo a lavorare con le pinzette,
anche quando bastano ed anzi valgon meglio le dita.

Il prefetto, con cento belle maniere e con un mare di parole
bellissime, mi trattenne a lungo, e mi disse tante cose, che non sono
ancora riuscito a raccapezzarle tutte. Egli impiegò non meno di due
ore per riuscire a provare, certamente contro ogni sua intenzione, che
egli ha una gran paura di tre cose: del deputato, del giornale _Il Vero
italiano_, e delle proprie opinioni. Procurai ben io di fargli capire
di tanto in tanto, ch’io non sono un malcontento di professione, che io
non cerco impieghi, e che col governo nazionale e colla libertà sono un
uomo dell’ordine. Ma chi sa mai! Un briciolo di opposizione anche in
un prefetto può far bene, e ad ogni modo non fa male. Lasciandomi poi
travedere un certo malcontento, quantunque egli sia l’uomo più contento
di questo mondo, il prefetto mi voleva far nascere la persuasione che
dei concetti superlativi egli ne avrebbe a bizzeffe, ma che non se
ne poteva veder niente perchè il ministro gli impediva di sciogliere
il sacco. Quanto al Buccelli, io dovevo capire facilmente, diceva il
prefetto, che questione difficilissima fosse questa per lui. Perocchè
non trattavasi solamente delle truffe e delle altre cose di questo
genere, che riguardavano il lato secondario della questione, ma di quel
tanto di politica che c’era immischiato, e che faceva per l’appunto
diventar grossa e seria la faccenda. «Questo Buccelli» continuava
il prefetto «professa delle opinioni politiche che, pei tempi, sono
forse un poco premature; volgarmente passa per nemico del Governo.
Il Governo dunque, per un alto sentimento di imparzialità, gli deve
la sua maggior protezione. Egli è onorato dall’amicizia d’uno degli
egregi deputati della nostra provincia. Pare che l’onorevole deputato
abbia richiamata la vigile attenzione del ministro sopra i fatti di
Borghignolo, sottoponendogli l’oculato sospetto che i suoi avversarii
politici abbiano calunniato il Buccelli, per allontanare dal paese un
suo fautore ed amico. Se ne commosse il ministro, com’era naturale;
furono fatte indagini minutissime, scrupolosissime, e si spera di poter
dare al deputato delle assicurazioni che lo possano tranquillare sul
rispetto alla libera manifestazione del pensiero; rispetto a cui non
cessò mai d’essere informata la popolazione di Borghignolo.»

A parlare pressappoco così, il prefetto ci pigliava tanto gusto,
evidentemente, che a non lasciarlo dire per un pezzo, sarebbe stata
una vera crudeltà. Quando venne alla fine la mia volta di parlare, io
gli spiattellai alla libera una filza di verità grosse e crude, senza
smussarne gli angoli e senza la menoma diplomazia, tanto sul conto del
Buccelli, quanto di tutte le altre faccenduole del paese. Di tanto
in tanto il prefetto mi interrompeva con quel sorriso che ammette
e non ammette, e con qualche bella frase rotonda che aveva tutte le
virgole a posto. Io ripigliavo con le mie ragioni alla buona, cosa
che mi conciliava non poco il mio interlocutore e me lo rendeva pieno
di benevolenza nell’ascoltarmi, perchè intanto egli pensava quanto
dovesse spiccare ai miei occhi tutta la sua superiorità di parlatore
diplomatico e d’uomo di governo.

Capii frattanto, che a tutta questa politica del prefetto aveva
già messo fine il procuratore regio, il quale gli aveva tolto ogni
scrupolo ed ogni motivo d’affaccendarsi, dichiarandogli netto che
l’affare del Buccelli era affar suo, affare cioè di processo, di
tribunale e di prigione. Rimaneva però la questione del commesso
postale in Borghignolo, e qui ritornava in scena la politica. Al qual
proposito, essendo io uscito a dire innocentemente che avrei avuto
l’uomo da proporre, l’uomo che sarebbe stato la perla dei commessi,
il prefetto, col suo star sempre in agguato, vide passare il merlo,
e tirò la rete. «La si accerti» disse interrompendomi «che in così
delicate questioni il potere esecutivo, innanzi di compire un atto,
cerca le soluzioni più felici del grande problema che il pubblico
funzionario sia a un tempo, quel medesimo che meglio risponda alle
supreme necessità dell’amministrazione ed alle maggiori aspirazioni
della pubblica opinione. Il sindaco, noti bene! oh! il sindaco, nella
sua duplice qualità di eletto dal suffragio e dal Governo, magistrato
in sè perfettissimo, ha una grande autorità sull’animo mio, quando
sono chiamato a consiglio dal Governo in quelle non facili questioni.
Quanto al commesso postale di Borghignolo, lei mi accorderà, nella
sua cortesia, ch’io mantenga qualche riserbo tuttora; ma.... ma in
somma, in via non _ufficiale_, ma _ufficiosa_, le posso dire che io non
manderò al governo nessun mio avviso in proposito, senza avere prima
discorso col sindaco di Borghignolo.»

Queste ultime parole le disse con un fare distratto e come se avesse
dimenticato in quel momento che a Borghignolo, in fatto di sindaco
c’era sede vacante. Poi passò d’un colpo alle novità della giornata, e
mi confidò, con la solita diplomazia, la quarta parte delle cose che
corrono sulle bocche di tutti. Nel dirmi che il paese poteva essere
chiamato alle armi e che forse si giocava tra poco l’ultima partita,
capì che sul vecchio violino fesso e scheggiato c’era ancora una
corda sonora, e che egli ci aveva proprio messo il dito. Allora prese
l’archetto, e glielo strisciò sopra senza misericordia. Quando gli
parve che fossi a tiro, aprì un cassetto, levò una bella carta lucida
piegata a rotolo, legata con un bel nastro di seta, e me la porse
con un certo sorriso tra l’amabile e l’interrogativo, dal quale capii
subito che non si trattava d’un regalo. Per quell’istinto naturale che
ci fa tante volte presentire i pericoli, al comparire di quella carta
feci fare un passo indietro alla sedia su cui ero seduto, ma ci sarebbe
voluto altro. Il prefetto aveva già ripreso il suo discorso, e la
carta fatale era nelle mie mani. Quando sciolsi il bel nastro e lessi
la mia sentenza, il prefetto mi aveva già provato che, se durante una
guerra, che poteva farsi europea, io non ero sindaco in Borghignolo,
egli non mi poteva più garantire niente dei destini d’Italia. Dopo
ciò, senza aspettare una mia risposta, volle subito sapere il nome del
mio candidato per la posta; si sbottonò un po’ meglio a proposito del
Buccelli; mi fece mille promesse, e mi assicurò che da mattina a sera
non avrebbe pensato ad altro che alle cose che gli avevo dette io. Poi
ci lasciammo come due amici sviscerati.... ma intanto quella carta m’è
rimasta in mano. La fu un po’ la storia dei pifferi di montagna.

Ritornato in paese, scrissi due righe al Borsa. Gli dissi che avevo
parlato a lungo col _primo funzionario_ della provincia; che quel tale,
ch’egli aveva giurato di non più nominare, non sarebbe più visto in
Borghignolo nè da noi nè dai nostri figli; che _l’orizzonte della Posta
si rischiarava_; che per il momento si voleva che fossi io il sindaco
del paese, e che aspettavo tutto da lui per il noto affare.

Dodici ore dopo, cioè fin da questa mattina per tempo, non si discorre
d’altro in paese che della mia nomina. Si dice che io sono più forte
del Buccelli e della gazzetta _Il Vero Italiano_. Ho già ricevute molte
visite, e mi accorgo che incomincio anch’io a parlare come il prefetto.
Il signor Mosè, che ha un gran rispetto per le autorità costituite, è
venuto anch’egli a farmi i suoi omaggi e ad annunziarmi una visita del
signor Garofani e di sua moglie. Il signor Mosè aveva un paio di guanti
bianchi a maglia e uno spillone di diamanti allo sparo della camicia.

                                 * * *

                                                      25 aprile 1866.

Quale non fu, ier l’altro, la mia maraviglia nel sentirmi dire dal
fattore, il quale ha sempre le primizie di tutte le novità, che la
figlia del signor Garofani si maritava, e che era sposa a un conte.
Gli dissi ch’era matto, e mi sono anche un poco inquietato. Ma il buon
uomo mi rispose di averlo inteso da una donna che porta le ova alla
signora Giuseppina, alla qual donna lo aveva per l’appunto confidato la
signora Giuseppina in persona. Ma chi è questo conte? Nè il fattore, nè
la donna delle ova non lo sapevano; siccome però ne andava già intorno
la voce nel paese, così il fattore mi garantiva che per il giorno dopo
mi avrebbe saputo dire proprio com’erano andate le cose. Io ero lì lì
per andare diviato dalla signora Giuseppina, quand’eccomi un messo con
una lettera. Era il Borsa che per rendermi conto della sua missione, mi
voleva in tutta fretta fuori del paese; egli mi sarebbe venuto incontro
per una certa stradicciola, lungo la quale non era facile imbattersi in
alcuno, perchè in quelle ore, diceva, non c’era un fil d’ombra. Presi
il cappello e l’ombrello, e mi avviai incontro al Borsa.

Il Borsa aveva in questi pochi giorni parlato a lungo e a più riprese
col signor Mosè. Come due emigranti d’uno stesso paese, che per caso
s’incontrano in mezzo a gente nuova e lontana, ben presto essi avevano
stretta la più cordiale amicizia; i loro animi si erano versati l’uno
nell’altro; s’erano capiti a vicenda, ed era nata tra loro una sincera
e reciproca ammirazione. Il Borsa mi trattenne per quasi due ore, dopo
che l’ebbi tirato all’ombra, sui discorsi fatti col signor Mosè, sulle
prime avvisaglie, sulla propria finezza nel trattare le cose delicate,
e sulla grandezza d’animo del suo nuovo amico. Il Borsa ne aveva dette
delle belle. Confesso che io non sarei arrivato a pensarne tante, e
che, se le avessi pensate, mi sarebbero parse le peggiori di questo
mondo. Quanto è difficile il trovare gli uomini che sieno al giusto
livello delle cose!

Il Borsa aveva fatto pernio dei suoi ragionamenti col signor Mosè,
l’illustre casato di Aldo e il suo titolo di conte. Gli aveva
dimostrato all’evidenza tutto il lustro e tutti i vantaggi che questo
titolo avrebbe recato alla sposa, ai signori Garofani, e agli amici
di casa. Gli aveva narrato che nella famiglia d’Aldo osservavasi da
dugent’anni che ad ogni terza generazione nasceva un vescovo; e siccome
nelle ultime due generazioni questo caso non s’era verificato, così
era evidente che ai nuovi sposi era serbato l’onore di continuare un
tanto lustro della famiglia. Per questo fatto, e per tanti altri di
simil genere che il ricordare sarebbe un po’ lungo, dal matrimonio
d’Adelina con Aldo doveva venire di riverbero un grande splendore; e
che in conseguenza si sarebbe veduta presto qualche insegna di ordine
cavalleresco sul petto del signor Garofani, e fors’anche di taluno di
quelli che fanno con lui ogni sera la partita a tarocchi.

Poi, da una tanta beatitudine, il Borsa era disceso bruscamente,
all’ipotesi contraria che in buona fede gli faceva dirizzare i capelli
in testa. Se per avventura, un giorno, Aldo o qualcuno per lui avesse
levato il velo che copriva le nefandità del Buccelli, sarebbe nato un
cataclisma, dopo il quale si sarebbero veduti i Garofani in fondo a
un abisso. Toccata la corda del Buccelli, il Borsa non l’avrà lasciata
così subito, e scommetterei che col signor Mosè, in questo argomento,
sarà stato di gran lunga più espansivo che non sia di solito con me.
Anche sul mio conto deve averne dette non poche. A ogni tratto, nella
narrazione, saltava fuori il mio nome, seguito subito da una reticenza.
Tra gli articoli di fede del Borsa c’è anche quello ch’io sia un uomo
che sa tutto e che può tutto. Egli deplora grandemente che io lasci
inerte la mia onnipotenza, ma credo che verrà la volta nella quale mi
scoterò e che farò movere il mondo a mio modo. Egli dunque avrà cercato
di far passare questa credenza nel suo nuovo amico, il quale non è
terreno ingrato per queste cose.

Il signor Mosè rimase colpito dalla grandiosità dei pensieri e delle
combinazioni del Borsa, a quanto me ne disse questi, che non voleva
render monca la storia per ubbidire troppo alla modestia. Non volendo
parere da meno, il signor Mosè gli aveva confidato in ricambio
l’affare del matrimonio d’Adelina col figlio d’un mercante, che era una
combinazione profonda anch’essa e tutta sua. Però, in considerazione
dei nuovi casi avvenuti, egli non esitava di associarsi alle viste del
Borsa, e si faceva garante di guidare la barca in porto felicemente: ma
bisognava lasciarlo solo al timone, perchè, diceva «le cose grandi non
si menano a fine da tutti.»

Bisogna però dire che le vie del signor Mosè non conducessero in paesi
molto reconditi e lontani, se ventiquattr’ore dopo ci si era imbattuta
anche la donna delle ova. Egli infatti cominciò col pigliare subito
la signora Giuseppina, perchè, come si sa, la moglie è il ponte che
conduce nella cittadella delle risoluzioni d’un marito. La signora
Giuseppina in cinque minuti disse di no, disse di sì, e pigliò tanto
fuoco, che ora non sa star più nella pelle. Ma siccome ha giurato
di non dir niente sinchè durano i lavori di approccio intorno a suo
marito, intrapresi con calma e ponderazione dal signor Mosè, così è
tutta accesa in faccia, non può star seduta due minuti, va e viene
di qua e di là, e tiene chiusa la bocca per timore che le sfugga il
secreto. Ma quelle mezze confidenze, che vanno già in giro per il
paese, le deve aver fatte tutte lei a furia di tacere. Siccome poi
«quando si promette un silenzio proprio assoluto» diceva lei «non si
può parlare che con una sola persona» così, dopo essermi stata un poco
intorno come la farfalla al lume, la signora Giuseppina aveva finito
anche questa volta per scegliermi a confidente delle sue gioie e dei
suoi nuovi progetti. Essa dunque capitò da me per poterla discorrere
con comodo, col cuore in mano, e lontana dagli occhi dei _seccatori_,
come chiamava in quel momento gli amici di casa.

Questo mio pensiero d’un matrimonio tra Aldo e Adelina era stato,
diceva la signora Giuseppina, «l’ispirazione d’un Dio.» Le pareva
impossibile che una simile idea non fosse venuta a lei: «però,
soggiungeva, c’era mancato poco.» Ora poi lei vedeva tali combinazioni
nell’avvenire, che sfidava chi si sia a vederne altrettante; e infilava
il discorso su questo tèma con una serie di variazioni sulle corde
più acute del suo entusiasmo, eseguite con la celerità di un maestro
concertista. Per un po’ le tenni dietro; ma mi passò dinanzi, tutto
a un tratto, un nuvolone che venne a gettare molta ombra sul mio
orizzonte, e a farmi cambiare strada, per modo che la voce della
signora Giuseppina presto non mi giunse che come la voce confusa d’una
persona che parla da lontano. Alla fine venne a richiamarmi una fermata
improvvisa, seguìta da un cambiamento di tono. La signora Giuseppina,
accorgendosi forse che m’ero fatto serio, s’era messa sul serio anche
lei, e aveva cominciato a dire che non c’è rosa senza spine, come
diceva Baldassarre, suo primo marito, uomo di gran peso; e che le
spine, ossia i pensieri e le difficoltà, sarebbero questa volta toccate
tutte a lei.

«Non parliamo di tutto il resto» continuava essa «parliamo solo della
biancheria!... Il pensare a tutta la biancheria che ci vorrà per
una contessa, crede lei che la sia cosa da niente?... che ci sia da
canzonare?... Nel castello, lei lo sa, adesso ci ballano i topi, e a
rifare una casa, sia detto tra noi, così spiantata, ce ne vorrà, denari
a parte, dei pensieri e dei fastidi! E poi, e poi, me la vedo, avrò due
case sulle spalle. So che cosa sono queste contessine!... Anche mia
figlia la dovrò chiamare la signora contessina smorfiosa!» Con quale
compiacenza l’avrebbe chiamata così, non lo diceva, ma si capiva da un
risolino che spuntava anticipatamente.

«Intanto» riprese la signora Giuseppina dopo una pausa «bisognerà che
pensi a preparare Adelina, perchè una novità di questa fatta, lei mi
capisce, sentita così su due piedi....»

«Mi scusi» saltai su allora io con vivacità «lei non ne dirà nulla ad
Adelina per il momento. Qui la mi deve permettere che comandi ancor io
per un poco, e questa sarà l’ultima volta!»

«Oh, lasci fare, so ben io come le si prendono queste cose! Ci vuole
tutta la delicatezza... oh diavolo! non ho preso marito due volte per
niente!»

«Sta bene, ma il momento di parlarne con Adelina non è ancor giunto.
Abbia pazienza, lo dirò io....»

«Ma se, tornata a casa, io trovassi per esempio il signor Mosè, il
quale mi dicesse che mio marito ha dato il consenso. Ma!... allora io
corro da Adelina....»

«Ah, è così che lei dà le nuove a poco a poco?»

La signora Giuseppina cercò di ripigliarsi alla meglio, ma intanto io
continuai e col tono più serio del solito le feci promettere di non
far parola di nulla ad Adelina senza ch’io lo sapessi. Come l’ebbe
promesso, e come si accorse che per il momento non poteva scovare di
più, se ne andò, ma con la faccia un po’ lunga e con l’aria d’essere
poco persuasa.

Rimasto solo, quella nube che poco prima era venuta a offuscare il
mio bell’orizzonte ritornò. Mi lasciai cadere sulla mia poltrona, e
chiusi gli occhi. Mi pareva allora di veder giungere un messo con una
lettera che chiamava Aldo al battaglione:... poi da lontano, tra un
nuvolìo di polvere, vedevo correre, dove era più fitta la battaglia, le
artiglierie, i battaglioni, Aldo....

Saltai in piedi, presi il cappello, ed uscii a respirare la brezza
della collina, perchè in quel momento m’erano venuti addosso tutti i
miei malanni d’una volta.

                                 * * *

                                                      28 aprile 1866.

Sono proprio il sindaco di Borghignolo, non c’è rimedio! Quella carta
col nastro di seta che mi lasciò nelle mani il prefetto, chiedeva ed
ebbe una vittima. Pochi giorni dopo, ho dovuto ubbidire e comandare,
alzar la voce, scarabocchiar carta in fretta, dissuggellare i pieghi,
fare insomma quello che fanno dal più al meno tutti i potenti della
terra. Io però mi son detto: _che bestia!_ quando sono salito al
potere, mentre essi piuttosto se lo dicono quando discendono. Ma
mi prometto di togliere questa differenza e di rinnegare la mia
esclamazione, se alla fine potrò dire di aver fatto un po’ di bene.

Intanto dovrò dare l’addio a queste pagine, e glielo do con dolore, a
cui vo confidando da un anno tutto quello che mi passa per la mente e
per il cuore. L’ozio che ci voleva per fantasticare, per tormentarmi,
per scrivere, ora se ne è andato. D’ora innanzi i miei pensieri non li
confiderò più che alla _carta bollata_. Sarà meglio?... Sarà peggio?...
Mi è ritornato, non so come, un po’ di vita; dunque tiriamo innanzi, e
cansiamoci dalle ricadute. Pure, prima di chiudere, forse per sempre,
questo scartafaccio, vorrei scriverci ancora un’ultima pagina; l’ultima
pagina della semplice ed intima storia che a poco a poco è venuta
formandosi, compagna giorno per giorno dei miei pensieri. La fine è
vicina, molto vicina. Ma quale sarà? Vedrò io crescere presso di me
una lieta famigliola, che sarà il porto felice ne’ miei ultimi anni, o
dovrò vivere ancora più triste e solitario di prima, col cuore spezzato
da una nuova disgrazia?...

Da un capo all’altro d’Italia si aspetta che il Re ci dica: «il
tempo di riprender l’armi è venuto.» Domani stesso, anche sulle
cantonate di Borghignolo, potrebbe essere affissa la chiamata dei
contingenti. Domani stesso il Borsa, che finalmente siede trionfante
nell’ufficio della posta, mi potrebbe dare la lettera che chiama Aldo
al suo battaglione. E poi?... E poi aspetterò, lo so io con quale
trepidazione, la fine della mia storia per chiudere questo quadernuccio
al quale, comunque la vada, non avrò dopo più nulla da aggiungere. Oggi
ho ancora una pagina lieta. Spero che non sarà l’ultima, ma mi affretto
a scriverla.

Il signor Mosè ha trionfato; è entrato nella cittadella, e ne è uscito
con l’alleanza e con la pace perpetua. Il Garofani diede incarico a
lui di portarmi il _sì_; poi venne con solennità a confermarmelo in
persona. Mentre io mi disponevo a preparare Aldo a una nuova di questa
fatta, la signora Giuseppina, ad onta di tutte le sue belle promesse,
corse nelle braccia di sua figlia, e in un sol fiato le disse ogni
cosa. Poi corse in cerca di Aldo, fece altrettanto, ed io li trovai
abbracciati che ridevano e piangevano come due matti. Il primo giorno
fu un carnovale. La signora Giuseppina era in giro per il paese a
mettere a parte delle sue gioie quanti passavano per strada; Aldo non
sapeva più quello che si diceva; il Garofani e il signor Mosè facevano
piani e progetti, consultandosi a vicenda; il Borsa tonava in caffè
contro i tiranni e contro i timidi. Tutta questa brava gente poi, non
faceva che rincorrersi, cercando l’uno dell’altro. Quando si trovavano,
era un riprendere le congratulazioni, abbracciandosi e baciandosi. Il
signor Mosè, nell’entusiasmo, pigliava di tanto in tanto certe pose che
pareva si preparasse a ballare. Insomma si sarebbe detto che a capire
tanta allegria non bastasse il mondo intero, sebbene in quel momento io
lo lasciassi tutto per loro. Avendo ben altro per il capo, io rimanevo
intanto senza parole e sopra pensiero, nè c’era modo che mi potessi
togliere di dosso una certa malinconia. Fortunatamente nessuno badò a
me, perchè avevano altro a fare.

Il giorno dopo ci fu un improvviso cambiamento di scena. Com’era
naturale, Adelina, dopo un’emozione così forte e venuta così
bruscamente, fu presa da qualche accesso convulso, e bisognò mandare
per il medico. La signora Giuseppina diede subito in pianti e in
smanie, e dietro lei, tutti gli amici di casa rimasero con la faccia
lunga e senza parole, come se fosse accaduta una disgrazia senza
rimedio. Io, che prevedo giorni ben più agitati e pieni di pericoli
davvero, cominciai questa volta ad alzar la voce per acquietarli, e a
dar loro un po’ di animo con lo strapazzarli dal primo all’ultimo.

Adelina finalmente principiò a riaversi, e la baldoria in casa Garofani
è ricominciata. La signora Giuseppina vuol festeggiare insieme gli
sponsali e la guarigione della _contessina_, come dice lei, con un
gran pranzo, e stamani la trovai in una discussione burrascosa col
cuoco; discussione in cui non mi pareva che i contendenti avrebbero
finito così presto con l’intendersi. Alla discussione per il pranzo
prendevano una parte animatissima anche il Garofani, il Borsa e il
signor Mosè. Questi però discutevano sugl’inviti, perchè, riguardo ai
piatti, la signora Giuseppina aveva troncato ogni discorso, dichiarando
ch’era affar suo, e che altri non doveva metterci il naso. Ma anche
sugl’inviti non pareva che la discussione fosse per finire troppo
presto. Il Garofani propendeva per una politica di conciliazione, e
voleva invitar tutti, per chiudere con un pranzo quest’ultimo capitolo
delle gare civili di Borghignolo. Il Borsa diceva ch’egli non avrebbe
mai avuta la debolezza di consigliare simili transazioni. Diceva che
gl’inviti andavano fatti con una mano di ferro, e ricordava i tempi
della sua prima adolescenza, quelli di Napoleone I; tempi felici, in
cui nessuno osava alzar gli occhi, e tutti tremavano come foglie. Il
signor Mosè teneva strette le labbra, e accennando col capo, così
al Garofani come al Borsa, di non esser lontano dal loro avviso,
andava cercando il giusto mezzo tra le due opinioni. Di tanto in
tanto ci buttava dentro qualche parola il cuoco, il quale propendeva
evidentemente per delle esclusioni. Dietro il cuoco veniva per
necessità la signora Giuseppina, ma essa sosteneva con calore che si
facevano gl’inviti per fare festa agli sposi, e non per il bel muso
degli invitati; che non si doveva dunque guardare troppo pel sottile;
che più gente ci fosse, maggiore sarebbe l’allegria; e che, pur
d’esserci il posto, un _piffero_ di più non guastava.

Intanto Aldo e Adelina discorrevano tra loro in un canto della
sala, arrossendo ogni volta che si guardavano in viso. Essi non si
accorgevano di tutto il rumore che si faceva intorno a loro. Ne erano
così lontani!... Erano in paradiso!... Ed io vedendoli in quell’estasi
di felicità, pensavo alla chiamata dei contingenti, e mi sentivo
stringere il cuore, per quanto non lo volessi e ne fossi stizzito
contro me stesso.

                                 * * *

                                                      15 maggio 1866.

La chiamata di Aldo al suo battaglione e quella dei contingenti,
giunsero l’una dietro l’altra e ben presto, come me l’ero immaginato.
Il mondo è pieno di dolori, ma la natura umana è così pronta a
contrapporgli i suoi ripieghi, che il male non riesce mai così grave
come si prevede. Io tremavo, pensando al momento in cui Aldo avrebbe
dovuto staccarsi da Adelina e dalla sua nuova famiglia, e partire per
la guerra. Avrei voluto darlo io a poco a poco questo annunzio, prima
che arrivasse bruscamente; ma, nel pensarci, mi sentivo raccapricciare.
Son così poco fatto io per essere messaggero di notizie che fanno
piangere! Intanto i giornali e la voce che andava intorno non parlavano
che di guerra, e si fissava anche il giorno preciso in cui sarebbe
incominciata.

Il signor Garofani sulle prime aveva accolte queste voci con un
sorriso d’incredulità, e aveva l’aria di dire: «come volete mai che ci
sia la guerra, mentre io non ne so niente?» Ma una bella mattina gli
arrivarono lettere de’ suoi corrispondenti, e queste mutarono tutta la
scena in un tratto. Entrando in casa Garofani, li trovai tutti allegri,
e in mezzo a grandi novità: finalmente le notizie vere si sapevano: il
Garofani con la scorta delle sue lettere, e parecchi del paese, venuti
a far circolo, con la scorta d’una furberia tanto antica e sempre
nuova, avevano combinato tutto un sistema di politica, che lasciava
indietro di gran lunga quello che i governi volevano dar ad intendere.

«Però» diceva uno della brigata «bisogna convenire che il governo fa
bene a salvare le apparenze. Ma tra di noi, a quattr’occhi.... eh, eh,
le si vedono le cose! Don Michele tace, ma scommetto che sa tutto da
un pezzo!» Io che non ne sapevo proprio niente, a buon conto tacqui,
rifugiandomi in quel sorriso col quale si piglia tempo, e che ognuno
interpreta come gli torna. Tutti mi furono addosso, in un batter
d’occhio, perchè votassi anch’io il mio sacco delle novità.

«Piano, piano» presi allora a dire» mi dicano prima quel che sanno
loro, e poi vedremo se siamo d’accordo.»

Prima, uno alla volta, poi tutti insieme, facendo a chi ne metteva
fuori di più furbe, mi condussero a traverso a una politica così fine,
che qualche volta non era molto facile l’intenderla. Tra pochi giorni
dunque, dicevano, sarebbe incominciata la guerra; ma non bisognava
credere che le potenze volessero picchiarsi di buono. Eh, se fossero
pazze! La cosa era già tutta combinata, o almeno ci mancava ben poco.
La Prussia faceva finta di fare alleanza con l’Italia, per togliere il
Veneto all’Austria, la quale faceva finta di far la guerra a tutte e
due per salvare l’onor delle armi; e ammettevano che non aveva tutti
i torti. La Francia e la Russia facevano finta di restar neutrali,
per poi pigliarsi ciascuna qualche buon boccone, sul quale erano già
d’accordo. Le ova erano belle e aggiustate nel paniere, ma naturalmente
nessuno lo doveva sapere, e si faceva finta di fare una gran guerra
per salvare le apparenze. Qualcuno poi, volendo spiegar troppo,
inciampava in qualche punto oscuro, ma a ciò nessuno badava per non
disturbare la simmetria delle combinazioni. E forse per questa stessa
ragione, nessuno aveva voluto domandare a chi poi si trattasse di darla
ad intendere, dal momento che tutti erano d’accordo! In fine poi si
invidiava a una voce Aldo che, parendo di partir per la guerra, avrebbe
passato una quindicina di giorni tra le feste e l’allegria, per poi
tornarsene in Borghignolo a sposar l’Adelina.

«Eh lei sorride!» saltarono su in parecchi; «lo dicevamo noi che lei
sapeva ogni cosa già da un pezzo! Don Michele è sempre stato un gran
diplomatico! Ci ha forse avuto anche lei una mano in questi affari:
Eh! lei non lo dirà mai, ma ci sarebbe da scommettere! È fine don
Michele!...»

Confesso che in quel momento mi sentii come strascinato a prender parte
alla comune allegria, sperando che la Provvidenza, la quale ci aveva
pensato così bene sino a quel punto, ci avrebbe pensato anche poi.

Il giorno dopo, eravamo tutti in piazza a far festa ai contingenti
che partivano. S’era messo assieme dei quattrini, e si fece un po’
di borsello a ciascun soldato. Poi vennero de’ fiaschi di vino di
cui la Giunta municipale fu molto larga, pensando che ne avrebbero
bevuto anche i consiglieri. Erano ventisette i nostri soldati di
Borghignolo a cui tutta la gente del paese era venuta a dare il saluto
della partenza, tra gli evviva, le strette di mano, e anche qualche
lacrima che una madre, una sorella, una sposa non sapesse trattenere,
pure forzandosi di dividere l’allegria comune. Da ogni parte era un
gridare, un chiamarsi a nome, un rispondere; chi intonava una canzone
di reggimento, e chi una alle ragazze del paese; chi gridava viva
l’Italia, e chi viva la Marianna o la Teresina! Nessuno era malinconico
davvero, e anzi ognuno voleva parere un poco più allegro di quello che
non fosse realmente.

Quando poi s’era dato sfogo a qualche evviva in comune, i vecchi e le
mamme si tiravano i loro figlioli a sè, e si vedeva la gente divisa
in gruppi, intorno al soldato, a cui si dava una benedizione, un
consiglio, o si chiedeva una promessa, un abbraccio, mentre gli si
aiutava a infilare le cigne dello zaino, ad arrotolare il cappotto, o
ad assestarsi il cinturone.

Io non potevo levar gli occhi da quello spettacolo, e guardavo quella
buona gente con una commozione profonda. Pensavo qual triste domani
poteva venire per loro, dopo una giornata di battaglia. Pensavo al gran
sacrificio che sarebbe rimasto ignorato, così di quelli che potevan
morire, come di quelli che li avrebbero pianti! Tra questi pensieri,
mi ritornavano alla mente i miei sogni giovanili, di quando, più che
trent’anni prima, pensavo pieno di entusiasmo al giorno in cui da ogni
parte d’Italia sarebbero accorsi i mille e i mille guerrieri per finire
l’antica contesa. Adesso quel giorno era venuto. La scena era più
semplice di quella che la fantasia mi aveva dipinta; ma il cuore ne era
ancor più commosso, e gli occhi a stento trattenevano le lacrime.

«Prodi guerrieri!» gridava il Borsa, salito su un mastello capovolto,
nel quale poco prima s’era portato il vino, «ricordatevi di non lasciar
partire lo straniero senza avergli fatto mordere la polve!... quella
polve di quella terra, la quale.... sì! giuriamo che nessuno di noi
ritornerà dalle Termopili!... giuriamolo in Pontida!... e quando saremo
morti per la patria....»

«Crepi l’astrologo!» saltò su a gridar uno; ma il Borsa non lo intese,
e tirò innanzi con eguale enfasi, tra gli evviva che andavano crescendo
in ragione inversa della chiarezza e della logica del discorso.
Finchè un ultimo evviva dell’oratore ad Alessandro Magno mise il colmo
all’entusiasmo.

Poco distante dal Borsa, la signora Giuseppina, in mezzo a un crocchio
di donne, stava spiegando la politica della Prussia. Delle quali donne,
quelle che non avevano nè figli, nè fratelli, nè sposi che partissero
per la guerra, ascoltavano la signora Giuseppina con ammirazione, e
ogni tanto accennavano col capo di essere proprio del suo parere; ma le
altre avevano l’aria di essere un po’ meno persuase, e prendevano quel
fare mogio, mogio della gente di campagna, che lascia pur trasparire un
tantino di diffidenza sotto il velo della rassegnazione.

«Pazienza» diceva una di queste donne «se, come dicono, la fosse
l’ultima guerra!...»

«E dopo ci lasceranno i nostri figlioli per sempre?» domandava un’altra.

«Quando a un figliolo tocca d’andar soldato e partire, la è una gran
disgrazia, ma è sempre stato così, e ci vuol pazienza. Ma la guerra!
Non sapete, Maria, che in guerra possono morire anche i giovanotti più
sani e più robusti!»

«Basta, intanto ci vuol pazienza» diceva sospirando la Maria. «Dicono
che questa volta partono anche i signori, anche quelli che hanno
pagato; tutti insomma, perchè deve essere l’ultima. Dicono che si
tratta proprio della patria; che l’andrà bene, e che la Provvidenza ci
penserà per tutti!»

La rassegnazione di quelle donne incominciava a farsi meno malinconica,
quando la Maddalena, il cui figliolo partito un giorno non era
ritornato più, fattasi innanzi, esclamò singhiozzando: «Voi siete
ancora fortunate, potessi anch’io oggi vederlo partire il mio Luigi
coi vostri!» Le altre donne le si fecero allora tutte d’intorno,
compassionandola e piangendo con lei. La signora Giuseppina si
allontanò; e vedendomi a pochi passi, si volse a me per dirmi: «È
inutile! non arrivano a capire come questa volta la sia una cosa tutta
combinata. Ed è così chiara! così semplice! ma son tutti a un modo.
Questi villani non capiscono mai niente!»

Sulla bass’ora, in quello stesso giorno in cui partirono i contingenti,
partì anche Aldo. Egli abbracciò tutti; poi strinse la mano di Adelina,
con un’espressione di calma e di serietà, che vedevo in lui per la
prima volta, e che mi resterà sempre fissa e viva sino a che non lo
vedrò ritornato tra noi. Il Borsa fece per indirizzargli un discorso,
ma, non essendogli più rimasto un fil di voce, dopo due parole si
fermò. Anche la politica del Garofani trovò in quell’ultimo momento
un intoppo; e tanto lui che la signora Giuseppina, dinanzi a quella
serietà di Aldo, rimasero senza parole. Io mi feci vicino all’Adelina,
vedendola farsi in viso bianca come un cadavere, e la presi sotto
braccio. Volevo dire cento cose ancora ad Aldo, ma intanto il legno
partì. Prima che giungesse alla cantonata, vedemmo sporgere ancora
una volta la mano di Aldo che ci salutava; gli rispondemmo facendo
sventolare la pezzuola, chè nessuno di noi aveva forza di salutar con
la voce.

Oggi tutto è quieto in Borghignolo. La speranza, sia benedetto chi l’ha
inventata! asciugò le lacrime delle buone donne e dei poveri vecchi,
che dicono in cuor loro: «Sarò proprio io quello a cui deve capitare
una disgrazia? L’andrà magra con le faccende di casa ora che sono
lontane le braccia più robuste, ma ci vuol pazienza; quando i figlioli
saranno ritornati, ci aiuteranno a pagare i debiti.»

E la è proprio così! Quando si domandano sacrifici al paese, è sulle
braccia di questi poveri campagnoli che ne pesa la parte più grave e
la più ignorata. Prima, la mitraglia, e dopo, i debiti. E il loro nome
sulle gazzette non ci va nè prima nè dopo.

Anche in casa Garofani le acque sono ritornate alla bonaccia. Tra
quanti ci vanno c’è una specie di patto secreto di mostrarsi tutti
d’una gran serenità d’animo. La signora Giuseppina è sempre occupata a
fare e disfare, mentalmente, la casa degli sposi, senza essere ancora
riuscita a trovare il posto adattato per una seggiola. Il Garofani,
dopo aver taciuto per delle ore, a un tratto esclama con una fregatina
di mani: «Speriamo! speriamo!» senza che nessuno gli domandi mai
di cosa si tratti. In mezzo a tutto questo, la povera Adelina, che
vorrebbe essere lieta anch’essa come gli altri, tiene fissi sopra di
me i suoi due grandi occhi celesti, che paiono volermi domandare se
siano da cacciare indietro quelle lacrime che vorrebbero sgorgare per
forza. Allora io tento di sorridere e, accostandomi a lei, le principio
qualche discorso, a proposito del bel tempo, o del figurino delle mode,
e che finisce sempre con una lunga chiacchierata sul nostro Alduccio.
Adelina ne rimane rasserenata, e anch’io mi sento un altro. Le parole
di Adelina, piene di amore e di innocenza, mi ridestano nel cuore la
memoria di quelle prime sensazioni giovanili, che dischiudono il bel
fiore una volta sola in tutta la vita. Io le ascolto quelle parole col
fascino col quale si ascolta una cara e nota melodia; e allora la mia
mente richiama, con un dolore che non è senza piacere, quei giorni che
non tornano più.

                                 * * *

                                                      24 giugno 1866.

Da parecchi giorni siamo senza nuove di Aldo. Finora, dacchè è
partito, e sono due lunghissimi mesi, non passò giorno senza una sua
letteruccia, o scritta a tavolino, o dietro una siepe, che ci manteneva
allegri, e ci faceva pensare a null’altro che alla gioia del rivederlo
presto. Sulle prime qualche timore, qualche ansietà s’era provata anche
in casa Garofani; ma, respinte con risoluzione, non ricomparvero più.
I ragionamenti più strani e inconcepibili diventavano chiari come il
sole, purchè concludessero con la fiducia e con l’allegria; così l’una
e l’altra stabilirono il loro regno senza contesa, e si tirò via a
maraviglia fin qui. Io poi m’ebbi sulle braccia tante piccole faccende,
per essere il primo magistrato di Borghignolo, che potei sempre
nascondere sotto l’aspetto severo del sindaco ogni cura malinconica
del cuore, cosicchè nessuno se ne avvedesse. Di più, c’è la fortuna
che la signora Giuseppina pretende da qualche tempo di avere scoperto
ch’io sono un poco poeta, cosa molto comoda in casa Garofani, e che
mi permette di non prender parte a tutto quello che vi si fa, di non
risponder sempre, e di rimanermene a mia voglia sopra pensiero, senza
che nessuno se n’abbia a male, perchè la colpa va tutta a carico della
poesia.

Se la profonda commozione dell’animo, che mi teneva tutto assorto
e taciturno in mezzo alle chiassose conversazioni di casa Garofani
era poesia, la signora Giuseppina si era ben apposta: tra lo scambio
dei rimbrotti di chi giocava a tarocchi e le emozioni della tombola,
sprofondato in una poltrona, io ripensavo alle cospirazioni, alle
speranze, ai disinganni d’un tempo; rifacevo passo passo quel cammino
angoscioso che mi conduceva oggi negli accampamenti, e sulle rive
del Po, del Mincio e del Garda, a vedervi le schiere di quattrocento
mila soldati del regno d’Italia. Ripensavo con voluttà ai giorni nei
quali la parola d’un prigioniero o d’un esule giungeva senza eco tra
un popolo servo e muto, ora che non v’ha tugurio, per quanto remoto,
da cui non sia uscito un soldato o un volontario della libertà....
Tutti i ragazzi di quindici anni sono scappati di casa fino a uno,
in Borghignolo, per arrolarsi nei battaglioni dei volontarii!; ed ora
le mamme incominciano a chiudere sotto chiave quelli di dodici anni,
perchè è già un affar serio il trattenere anche questi.

Chi per trent’anni di fila l’ha aspettato giorno per giorno quello che
vediamo oggi, ne racconti gli episodi, l’emozione, la gioia, se può! In
quanto a me, da due mesi non ho potuto che tacere e lasciar crescere
la muffa sul calamaio. Se oggi ripiglio la penna, è perchè un’ansia
secreta del cuore è venuta a risvegliarmi dalla mia estasi. L’essere da
più giorni senza nuove di Aldo ha rimesso i miei pensieri per una via
malinconica, severa, che pure dovevo attendermi, ma dalla quale finora
avevo saputo cansarmi. Siamo alla vigilia delle fucilate. Tutto me lo
dice, e il silenzio di Aldo me lo conferma. Per cento e cento famiglie
oggi forse è l’ultimo giorno della speranza; domani può essere il primo
giorno delle angosce o della desolazione. Anche quel sogno di quiete e
di felicità a cui avevo rivolto da qualche tempo tutti i miei pensieri,
quella famigliola, che mi compiaccio tanto nel chiamarla dei miei
figli, vicino a cui vorrei passare gli ultimi anni della mia vita, i
miei progetti le mie nuove speranze, tutto può domani svanire dietro il
fumo d’una fucilata.

Ho sofferto e lottato assai nella mia vita. Ho passati de’ giorni
di sfiducia, ed ebbi torto. Ho imparato, a questa mia tarda età, che
per scotere la fede d’un patriota c’è qualcosa che è più forte delle
prigioni e degli esilii: c’è la calunnia, o l’ingratitudine, o il poco
senno de’ propri concittadini. Ma il soldato che abbandona la bandiera
quando i disagi si fanno più duri e la mischia si fa più sanguinosa,
distrugge in un giorno l’onore intero della sua vita. Se le mie forze
sono indebolite, io proseguirò nella via del mio dovere, in questo
cantuccio di paese, poichè del bene da fare ce n’è dappertutto e per
tutti. La mia logora nave getterà l’áncora in questo porto che ho
cercato con tanta fatica, e qui terrò alta, fino alla fine, la mia
vecchia bandiera. Questo porto sospirato l’ho quasi raggiunto.... ma
una disgrazia improvvisa può ricacciarmene lontano e per sempre. Allora
il destino avrà vinto il vecchio marinaio; egli però ripeterà morendo
la sua antica parola di guerra, e qualcuno la raccoglierà.

                                 * * *

                                                      26 giugno 1866.

Avevo scritto ier l’altro al prefetto, pregandolo di mandarmi un
espresso quando gli giungesse qualche nuova d’importanza. Stamani mi
giunse un messo con queste poche righe:


  «Carissimo signore,

«Un telegramma del ministero, giuntomi ieri sera e che vedrà nei
giornali, annunzia una mossa tentata dalle nostre truppe e non
riuscita. Le espressioni del telegramma lasciano nella maggiore
perplessità. Chiesi nuove informazioni a un collega, prefetto in
una città vicina ai luoghi ove è avvenuto lo scontro. Questi mi
telegrafa ora le seguenti parole: _Impossibile oggi valutare gravità
e conseguenze dello scontro avvenuto. Nostre truppe ripassano Mincio.
Giungono da ogni parte feriti e sbandati. Gran confusione e allarme.
Nessuna notizia sulle mosse del nemico._ La prevengo però che il mio
collega, eccellente persona, è uomo che facilmente vede nero. Speriamo
che presto ci giungano migliori notizie.»

Oh! no! non m’illudo! questo è il primo annunzio d’una sventura!...
Io dovrei fin d’ora prepararvi gli animi in paese, ma ci è così poco
preparato l’animo mio, che se mi provassi a dire una parola di speranza
o di conforto, darei in uno scoppio di pianto. Sono rimasto chiuso
tutto il giorno nella mia stanza facendo dire che sono occupatissimo.
Ho la testa che scotta e la mano fredda e tremante. Domani la sarà in
paese una ben trista giornata. E poi?...

                                 * * *

                                                      30 giugno 1866.

L’agitazione, il dolore, lo sconforto, di cui toccarono a me le
amare primizie, sono oggi nell’animo di tutti i miei compaesani. Da
mattina a sera, la piazzetta del paese è sparsa di crocchi e di gente
che discorre animata, con l’espressione della sorpresa e del dolore.
Nessuno ha testa per le proprie incumbenze e per le faccende di casa; è
un discendere a ogni minuto in istrada; un andare e venire, facendosi
incontro a quanti passano, per udire e ripetere cento volte le stesse
cose. Da ogni parte si discute, si grida, si impreca. Ognuno vuole
aver preveduti gli avvenimenti da un pezzo; pretende saperne la cagion
vera, e vuole spiegare ogni fatto che si capisce poco, con ragioni che
si capiscono ancora meno. Il dolore de’ miei compaesani non è calmo e
severo, come dovrebb’essere, ma è profondo; si manifesta come può, e
bisogna pigliarlo come viene.

I discorsi incominciati con l’imprecare a quei nomi di personaggi, che
si leggono più spesso ne’ giornali, finiscono per lo più con ingiurie
e litigi tra gli interlocutori. Volendosi mettere a carico di qualcuno
le colpe di tutti quelli che possono averne commesse, e meglio ancora
volendosi aver sott’occhio il colpevole, il più delle volte la colpa
delle nostre disgrazie vien gettata a qualche innocente galantuomo di
Borghignolo. All’ora del corriere, tutta questa gente si affolla nello
stanzino della posta, dove sta il Borsa. Il Borsa, che per essere
quello che distribuisce i giornali si crede un poco responsabile di
ogni notizia che vi si trova stampata, grida alla sua volta più di
tutti; commenta, spiega, e conclude che le cose sono precisamente il
rovescio di quello che appaiono. Con una faccia bianca come un panno
lavato, bandisce i propositi più eroici, e vorrebbe farsi saltare in
aria in compagnia di tutti i suoi compatriotti, nel mentre prova che le
cose camminano a maraviglia e non potrebbero essere di color più roseo.

Ai gruppi della piazza e ai discorsi del caffè, questa volta si
associano contadini e contadine che, sentendo parlare di cattive
nuove, si fanno innanzi a domandare con angoscia dei loro figlioli.
Ma nessuno gliene sa dir nulla, e allora quella buona gente viene da
me. Nascondendo l’agitazione e il dolore che ho nell’anima, io cerco
di mostrarmi a tutti pieno di calma e di fiducia. Con quelli che sono
più facili alla speranza, vado in traccia di qualche ragione pacata che
possa tranquillare loro e me. Con gli altri, pigliando un fare burbero
e sicuro, tronco le querimonie, le accuse, le parole di sfiducia.

In casa Garofani, ove sono tutti mezzo tramortiti, cerco di tener
ritti quegli argini dietro i quali avevano finora difeso essi stessi la
loro serenità. Guai se cominciasse a filtrarci qualche dubbio! Tutti
quei ragionamenti che avevano servito fino a ieri per rigonfiare la
loro tesi, servirebbero oggi, dal primo all’ultimo, per provare tutto
il contrario. Nell’udire le mie parole così franche e risolute, essi
rimangono in una certa soggezione, e forse sospettano ch’io sappia
qualcosa di secreto che nessun altro sa. Sola, Adelina, alza di tanto
in tanto gli occhi incerti verso di me, e pare domandi se questo mio
fare insolito sia di buono o di cattivo augurio. Povera figliola!
Vorrei tenerle tutt’altro linguaggio, ma che cosa le posso dire fino a
che non ho una nuova di Aldo?...

Ho scritto al prefetto, pregandolo di fare tutte le indagini possibili,
e di sapermi dire dove pressappoco si possa trovare il battaglione di
Aldo.

                                 * * *

                                                       8 luglio 1866.

I miei poveri argini sono rovesciati, ed ormai sarebbe inutile che
cercassi di nascondere agli occhi altrui l’agitazione, i sospetti,
lo sgomento che ho nell’anima. Sono passati quattordici giorni, dopo
quella funesta battaglia, di cui non posso ancora pronunziare il nome
senza sentirmi serrare il cuore, e non c’è ancora nuove di Aldo. Nei
giorni delle lunghe marce e delle rapide mosse, sempre, sempre egli
aveva trovato un minuto per mandarci nuova di sè. Ora in paese sono
giunte lettere di quasi tutti i nostri soldati.... ma di lui, nulla! Di
quasi tutti, ho detto, perchè uno di quei poveretti è morto: lo scrisse
un suo compagno, che lo ha veduto cadere. Due o tre altri sono feriti.
Di Aldo e di altri due, nulla! Ma si sa, pur troppo! che il battaglione
di Aldo fu nel forte della mischia, e lasciò su quelle sgraziate
colline molti e molti dei suoi. Queste cose le ripetono tutti, e il
prefetto me le ha scritte e confermate più d’una volta.

Ho cercato fin qui delle parole di speranza, perchè i neri
presentimenti che leggo in viso a tutti non avessero ad uccidere la
povera Adelina. Ma ormai non so più se la speranza sia un beneficio
o una crudeltà. Io non so più che opporre alle querimonie e allo
scoramento del Garofani e di sua moglie. Quegli amici che popolavano la
loro casa sono scomparsi; ed io, dinanzi a quelle lacrime, rimango con
gli occhi fissi al suolo, e mi par d’essere un accusato.

Non rimaneva che un partito da prendere, e lo presi. Andrò io stesso a
cercar Aldo. Lo cercherò tra le file diradate dei suoi compagni; negli
spedali, nelle chiese, ne’ casolari, ove saprò che ci sia raccolto un
ferito; andrò a cercare di lui su quegli altipiani,... tra i solchi
recenti del cannone o lo sterro d’una vanga pietosa.

                                 * * *

                                  Presso Villafranca, 18 luglio 1866.

C’è de’ momenti in cui spero, stropicciando gli occhi e spalancandoli,
che questi giorni io non gli abbia attraversati davvero; spero di aver
avuta una grossa febbre, e di aver veduto, vaneggiando, passare tutta
questa fantasmagoria dolorosa che mi accompagna dopo che ho lascialo
Borghignolo.... Ma il passo grave d’un gendarme, o lo scalpitare de’
cavalli d’una pattuglia d’ulani, mi dicono di tanto in tanto che non ho
sognato per nulla: mi ripetono dove sono, come ci venni, e che aspetto.

Come ci venni? In verità non ho testa per raccapezzare tutta la storia
minuta di questi giorni, e mi basterà richiamare alcuna delle tappe
dolorose che mi condussero fin qui, tanto per chiudere questi ultimi
fogli del mio scartafaccio, e ingannare qualcuna di queste ore, così
lunghe per chi aspetta.

Quando, dopo tre giorni di viaggio, potei raggiungere quel battaglione
di bersaglieri di cui ero in cerca, avevo già saputo che non ci avrei
trovato Aldo. Il Maggiore, a cui mi presentai, mi prese la mano, me
la strinse vigorosamente, e col fare semplice e severo mi interruppe
dopo le prime parole, dicendomi così: «Non l’ho più nelle mie file;
ho sperato assai.... ma ora.... non ne so ancor nulla. Lo vidi correre
alla carica più volte; lo vidi ritornare illeso e ripartire. Quando ci
fu ordinato di ritirarci, il suo capitano e molti, molti altri!, erano
caduti; ma Aldo lo rividi ancora. Nella ritirata, a ogni passo dovevamo
far fronte di nuovo e ripetere le cariche. Più volte ci trovammo
confusi tra centinaia di sbandati che venivano da ogni parte, e tra le
file di nuovi battaglioni dei nostri che sopraggiungevano. All’appello
della sera, Aldo non rispose. Nessuno seppe darne notizia. Il giorno
dopo, un ferito che raggiunse il battaglione, disse di averlo veduto
zoppicare, sforzandosi di tener dietro alla compagnia, ma perdendo
terreno a ogni passo. Non ne seppi altro. Feci delle ricerche, ma
furono inutili.... Così è la guerra!... però egli si è meritata la
medaglia al valor militare.... o lui, o i suoi l’avranno!» Mi strinse
di nuovo la mano, mi guardò commosso, e mi lasciò.

Io avevo cento cose a domandargli, ma in quel momento le dimenticai
tutte. Due ore dopo, il battaglione partiva, e lo vedevo sfilare
dinanzi a me. Il Maggiore aveva ripreso il suo aspetto fiero e sereno;
i soldati cantarellavano o si motteggiavano a vicenda.... Io li guardai
in volto a uno a uno, tutti, ma Aldo non c’era proprio più! Seguii con
gli occhi il battaglione, finchè non vidi altro che un lontano polverio
e non udii più il suono delle trombe. Allora, asciugandomi le lacrime,
mi tolsi di là, e ripresi il mio doloroso pellegrinaggio.

Visitai gli spedali delle città e delle borgate, le chiese, i casolari
ove sapevo di trovare un ferito. Chiesi dappertutto del mio uffiziale
dei bersaglieri, ma nessuno me ne seppe dir nulla. Mi trovai presto
compagno e amico di altri che una stessa angoscia traeva per le
medesime strade. Ci ricambiavamo le stesse parole di speranza, gli
stessi consigli, e l’uno mandava l’altro ora di qua ora di là, dietro
le medesime lusinghe che erano a lui riuscite vane. Ma anche quella
mesta comitiva si diradava ogni giorno. Ne vidi più d’uno partire
con una fatale certezza; altri, senza nuove e senza speranze. Ormai
incominciavo a invidiare quelli che avevo lasciati al capezzale d’un
morente.

A Brescia ho fatto conoscenza con un uomo generoso, il padrone di
questa casa, il mio ospite, che pieno di cuore e di amore di patria si
è tutto dato, non badando a pericoli e fatiche, a cercare e condurre
in salvo qualche povero soldato ferito, a dar nuove dei prigionieri, a
riconoscere i morti, a mettere un segno sulle loro sepolture. Questo
signore rianimò le mie speranze; mi disse che in qualche casolare al
di là del Mincio c’erano ancora dei feriti nascosti; mi disse ch’egli
poteva penetrare in Verona, visitarvi gli spedali e saper notizie
dei prigionieri. Mi domandò come stessi a gambe e a risolutezza. Gli
risposi che ero un antico cospiratore; allora mi strinse la mano, e
m’invitò a seguirlo.

Ora eccomi qui. Come ci sia giunto, passando il Mincio, a traverso
a sentinelle e pattuglie nemiche, non so raccapezzarmene nemmen io.
Camminai una notte per cinque ore, dietro i passi lunghi, inesorabili
del mio duce, senza dir parola e senza quasi riavere il flato. Allo
spuntare dell’alba giungemmo a questa casa: casa grande, vecchia,
cadente, in cui non abita che il mio ospite e una sua vecchia fantesca.
Io ero mezzo morto dalla stanchezza, ma il mio ospite, mangiato un
boccone, si rimise in strada, e questa volta senza di me, per cercarmi
il mio figliolo, come diceva lui, dietro il filo delle notizie e delle
indicazioni ch’io gli avevo date. Ritornò a sera; mi disse che tra
i pochi feriti, tuttora nascosti nei casolari, Aldo non c’era; che
sarebbe andato il giorno dopo a Verona, ma prima voleva condurmi certi
contadini che avevano degli oggetti trovati sopra soldati morti e da
loro seppelliti.

Vidi anche quella trista raccolta. Ebbi un momento di indicibile
trepidazione; non riconobbi nulla! e un violento batticuore mi fece
accorto che ritornavo alla vita. Vidi una spada spezzata; un elegante
elmetto d’uffiziale pesto e tagliato da un fendente; un abitino della
Madonna; una medaglia al valor militare; tuniche, cappotti, brandelli
d’uniformi forati dalle palle, laceri, insanguinati; un portafoglio in
cui era il ritratto d’una donna non più giovane, atteggiata di serietà
e di dolcezza, il ritratto d’una madre... Di quante lacrime e di quanto
lutto erano simbolo quei poveri avanzi!

Il mio ospite appena si accorse che non avevo riconosciuto nulla,
interruppe le mie meditazioni; mi fece animo, ravvivò le mie speranze,
mi disse ch’egli partiva subito per Verona, che m’avrebbe mandate
nuove di là, e m’ingiunse di aspettarlo senza uscire di questa casa. Lo
volevo ringraziare, gli volevo rammentare cento cose, ma intanto egli
era già partito.

È partito da ventiquattr’ore. Quante ore da sperare mi rimarranno
ancora?... E quelle spoglie che ho vedute ieri! Le ho sempre dinanzi
agli occhi, le ritrovo in ogni pensiero. Quei poveri oggetti erano un
giorno cari a qualcuno!; saranno stati a qualcuno compagni della vita,
testimoni delle gioie, delle speranze!... Ed ora sono reliquie perdute,
infrante, disperse, forse desiderate invano. Si direbbero cadaveri
anch’esse; si direbbe che è mancato anche in loro il soffio della
vita! Qui tutte le campagne ne erano coperte. Molte e molte saranno
a quest’ora bagnate di lacrime; molte ne coprirà la terra, e nessuno
le potrà rintracciare! Queste non saranno più reliquie domestiche....
serviranno un giorno all’agricoltore che le avrà trovate;... saranno
curiosità vecchie, se l’Italia avrà cancellata questa sua pagina
nefasta; saranno simboli di dolore, se sventuratamente ne avrà scritte
di più nefaste ancora!

Ed io che m’ero confortato nel non riconoscere nulla tra quei pochi
avanzi che avevo veduti!... Non ho forse che a dilungarmi d’un
passo fuori di questa casa, per trovarne altri, e riconoscerne più
d’uno!.....

                             . . . . . . .

Oh!... è arrivato un messo del mio ospite che mi chiama a Verona. Mi
manda un salvacondotto e una lettera di quattro facce, che incomincia:
«Il suo figliolo è vivo, leggermente ferito....»

Lo sapevo ben io! Eh! n’ero sicuro!... Non ho potuto leggere il resto,
volendo partir subito. Ma il messo dice che il cavallo ora mangia la
biada. Oggi poi gli occhi non mi dicono il vero.... in grazia del sole
e della polvere;... anche i cristalli degli occhiali mi paiono deboli,
deboli....

Mando a Brescia un telegramma per Borghignolo.

Ripiego lo scartafaccio!... e vado a dire al cavallo che mi faccia il
favore di spicciarsi questa volta con la biada più che può!




L’AVVOCATO MASSIMO

E IL SUO IMPIEGO.


I.

Sulla piazza principale, se pur ce n’è altre, di Castelrenico, una
cinquantina di persone se ne stava in crocchi, in un giorno annebbiato
d’autunno, ora discorrendo con calore, ora guardando con attenzione,
proprio come se ci accadesse qualcosa di grosso. C’era de’ proprietari,
de’ negozianti, il sindaco, qualche canonico, qualche impiegato, delle
donne, de’ ragazzi, de’ contadini, quanto insomma può rappresentare
Castelrenico, borgata di quattro mila anime, se i geografi me la
passano.

Che cos’era poi l’avvenimento? Due facchini andavano e venivano
portando mobili e masserizie che deponevano nel mezzo della piazza, e
due altri le andavano caricando su un carrettone. E per così poco gli
ottimati, il clero e il popolo di Castelrenico passano il loro tempo
in piazza? Quei di Castelrenico son fior di gente, rispondiamo noi,
gente che all’occorrenza saprebbe occuparsi anche di quelle cose più
importanti che succedono nelle città: ma se queste cose, dove son loro,
non succedono, che colpa ne hanno essi? Del resto, chi legge vedrà che
anche l’affare del carrettone, se non era proprio un affare di Stato,
non era neanche una cosa che potesse passare con tutta indifferenza.

Sulle prime il carrettiere, per far presto, aveva caricato più di mezzo
carrettone senza pensare alla fragilità delle cose umane, e senza
badare alla tutela del debole in una società di mobili in viaggio.
Qua e là, quando proprio le regole del mestiere parlavan chiaro, per
difendere uno spigolo dalle strette un poco violenti di una corda,
ci aveva cacciato in mezzo un guanciale del letto o quello d’un sofà.
Bel rimedio! E poi, mentre il cielo si andava rannuvolando, e bastava
interrogare chi se ne intende per sapere che «forse la si passava
senza pioggia, ma forse potevan venire quattro gocce,» il carrettiere
non aveva pensato a disporre la roba in modo che le imbottiture
rimanessero, in ogni caso, all’asciutto. Voleva mettere le materasse in
alto «sapendo di non doverci dormir sopra lui se veniva un acquazzone,»
come era andato a dire di crocchio in crocchio un tale che stava a
vedere, e a cui era venuta in mente questa riflessione che gli era,
a quanto pare, piaciuta molto. Insomma la voleva andar male per quei
poveri mobili se dovevano far quaranta miglia a quel modo, per arrivare
alla loro destinazione, ch’era Milano.

Anche oggi, quando in Castelrenico se ne parla, e se ne parla spesso
quantunque sieno passati parecchi anni, non c’è uno che non dica,
che se non capitava Martino a fare quello strepito che fece, e a far
ricaricare tutto da capo, quel carrettone avrebbe seminato mobili per
tutta la strada, e lo avrebbero veduto arrivare pieno di gambe rotte,
come un carro di poveri feriti.

La circostanza più grave che giustificava in quel giorno, non direi
l’ozio, ma quell’occupazione che poteva parere poco necessaria, dei
cinquanta spettatori della piazza di Castelrenico, era che i mobili
appartenevano a Massimo, al signor avvocato Massimo; il quale era
nativo proprio di Castelrenico, come dicevano sempre i suoi compaesani,
soggiungendo che, in quanto a talento, sarebbe stato sempre il primo
anche in una città. Ora, il trasloco di que’ mobili voleva dire (quei
del paese però lo sapevano da un mese) che l’avvocato Massimo partiva;
che partiva il capo della gioventù del paese, perchè il nostro avvocato
aveva soli trentacinque anni; che partiva quel tale insomma che,
volessero o no certi barbassori, era il personaggio più importante di
Castelrenico.

Siccome però, anche noi, proprio come i suoi mobili, dobbiamo seguire
l’avvocato Massimo e lasciar Castelrenico, per non farci che qualche
scappatina di tanto in tanto, così prima di prender le mosse cercheremo
di chiarire meglio quelle poche circostanze che ci sono già scappate
fuori, ma solo in iscorcio, dalla penna. E poichè siamo in piazza, e in
piazza, come abbiam veduto, la gente discorre a crocchi torno torno ai
mobili e al carrettone, non avremo che a gironzare qua e là per aver
la chiave degli avvenimenti. È inutile! le cose, per saperle davvero,
bisogna sentirle raccontare dai testimoni oculari: e così faremo noi.
Che se i discorsi della piazza non bastassero, perchè di certe cose,
tanto eran note, non se ne discorreva più, cercheremo di riempire noi
le lacune con la memoria di quel tanto che ne sappiamo.

«Quello che non arriverò mai a capire» diceva il salumaio in un
crocchio dove c’erano, tra gli altri, un vetturale e il cursore del
Comune «è come si vada a prendere un carrettiere fuor di paese!...»

«Ve lo dico subito io» prese a dire il cursore.

«No, no!» continuò il salumaio «questa non la capirò mai! Pazienza
farlo venire da lontano; ma andarlo proprio a pigliare in un paese
vicino perchè tutti abbiano a dire che a Castelrenico bisogna ricorrere
ai forestieri!... no, no! Questa, se lo lasci dire il signor Massimo, è
grossa!»

«Ma lasciatemi parlare! sentirete....»

«No, no!... E infatti cos’è successo? Se non c’era Martin matto, ce la
voleva far vedere la bella frittata con que’ mobili, lui.... il signor
carrettiere forestiero!... e dopo cinquanta passi!... capite?... Ve
lo dico io, senza essere strologo. Ma il signor Massimo se la sarebbe
meritata....»

«E in quanto a me avrei detto: ben fatto! perchè in queste cose ci
vuole un esempio!» interruppe il vetturale.

«Che se il signor Massimo faceva il contratto col nostro Checco....»
continuava il salumaio.

«È qui che vi volevo! Ma se non mi lasciate parlare....»

«Io già so che tutte le volte che Checco ha caricato dei mobili, e in
due anni, dal 59 a quest’oggi, ne abbiamo veduti degli impiegati e dei
carrettoni andare e venire! ebbene....»

«Ebbene, se mi lascerete parlare vi dirò....» prese a dire questa volta
con maggior forza il cursore «che appunto Checco, avendo fatto anche
lui una frittata coi mobili del delegato della Questura partito tre
mesi fa, quel delegato mandò carta bianca all’avvocato Massimo per
farsene risarcire; e adesso Checco, che naturalmente vede il signor
Massimo di mal occhio, appena s’è trattato di trasportargli a Milano i
mobili, gli ha detto un bel no! L’avete capita ora?...».

«Io però vi dico che della roba n’ho fatta venir tanta anch’io....
casse di sapone, otri di olio, prosciutti di prima qualità.... e Checco
non m’ha rotto mai niente! La cosa è che anche il signor Massimo, dopo
che se l’intese col Governo per questo grande impiego di cui si parla,
non è più l’uomo d’una volta. Rispetto ancora il suo talento.... ma
questa è la mia opinione!»

In un altro gruppo poco lontano da questo, c’era chi pretendeva sapere
che l’avvocato Massimo prendeva moglie.

«Quanto all’impiego non c’è che dire, perchè quand’uno si porta con sè
fin la granata, vuol dire che costui, un impiego, e di quei grossi, se
l’è buscato. Ma quanto alla moglie poi....»

«Una moglie, vi dico, e con delle mila lire parecchie!»

«Eh, per bacco! le mila lire poi non fioccano neanche a Milano! Massimo
è un buon giovanotto, ne convengo, ma poi....»

«Ma poi, diciamola chiara,» prese a dire un terzo «da che è tornato
da Milano, m’ha preso anche lui un certo fare da aristocratico....
A buon conto non è più venuto a berne con la compagnia neanche un
bicchiere....»

«Vedete quella cesta.... quella che ha portata il carrettiere.... la
vedete? Ecco, ne cava fuori tre cazzarole.... un pentolino.... una
caffettiera.... e un’altra cazzarola.... siete persuasi adesso? Tutta
roba nuova, capite? roba fatta fare apposta! Ecco se l’avvocato prende
moglie o no!»

«Sarà roba vecchia fatta stagnare, e lustrata dalla serva!»

«Volete scommetterne una bottiglia!»

«Eh, eh, non facciamo grandezzate!»

«Scommettiamone mezzo litro....»

«Dite pure un boccale, che mi ci trovo meglio.»

«Come volete voi. Andiamo dal magnano e sentirete.»

«Andiamo pure.»

Intanto l’attenzione degli altri spettatori s’era rivolta
improvvisamente a qualcosa di nuovo, e siccome una voce gridava «largo,
figlioli!... largo, signori!... largo, di grazia!...» così tutti, per
vedere cos’era, si spingevano l’un l’altro addosso a quel pover uomo
che domandava precisamente il contrario. Questi era Martino, che con
gran fatica e precauzione attraversava la piazza portando sulle spalle
una lastra di marmo.

«Povero martire!» diceva un contadino a un artigiano.

«Povero asino! dite piuttosto; faticare a quel modo per uno che non lo
guarda neanche in viso!»

«Avrà fatto, come e qualmente, il suo bravo contratto....»

«Contratto? Scommetto che non gli dà neanche da bagnare il becco!»

«È vero che Martino è uomo da non averne bisogno, perchè se la passa
bene, sapete. Adesso ha preso anche qualcosa dell’eredità.»

«Sì, sì, ma ne ha fatte delle vite quel pover uomo! e di tanto in tanto
ne ha patita della fame! Ebbene, il suo gran gusto è quello di farsi in
quattro per il signor Massimo....»

«Non lo chiamano Martin _matto_ per niente.»

«E credete voi che il signor Massimo gli abbia detto una volta: — ehi,
Martino, venite a berne un bicchiere in compagnia? — Mai, capite!
Lasciatele dire a me certe cose, che le so!... E pensare che son
parenti!... Perchè poi le nostre giacchette abbian da fare tanta paura
alle cacciatore di velluto, e anche solo di frustagno, non lo saprei!»

«È perchè le nostre son fatte in casa dalle donne, e le altre le fa
quel nano che beve il caffè, seduto a tavolino, sulla porta della
bottiglieria insieme ai signori!...»

«La sarà così!»

Un nuovo rumore interruppe anche il dialogo di questi due, i quali
mossero con la maggior parte degli spettatori verso il carrettone dove
era ricominciato un alterco tra Martino e il carrettiere.

«Credete voi che una lastra, perch’è di marmo, non vada in quattro se
riceve un colpo?» gridava Martino. «Ve l’avevo detto io, o no, dove la
si doveva mettere?... Via questo cassetto.... svelto!... via questa
roba.... Che non si possa andarsene un momento.... Eh per bacco!
s’è fatto così scarso il sale in zucca alla gente! Quand’uno fa un
mestiere, dovrebbe almeno averlo imparato!...»

«Oh, sapete che ne son pieno! che un rompistivali come voi bisogna
farlo fare apposta! Credete d’esser voi il padrone?» gridava alla sua
volta il carrettiere. «Credete, perchè fate il legnaiolo, d’esser voi
quello che ha inventato il tagliere della polenta?»

Qui gli spettatori diedero in una grande sghignazzata; e Martino senza
badarci continuava intanto il suo lavoro.

«Non c’è più corda? Animo, Tonino,» diceva a un suo figliolo;» corri
a casa e fatti dare dalla mamma una bella corda lunga.... la casa di
Martino non fallirà per questo!»

Dalla porta del caffè, che chiamano il caffè della _Fratellanza_,
dove stavano a crocchio dieci o dodici persone, ora discorrendola con
qualcuno ch’era seduto in bottega a legger le gazzette, ora facendo da
spettatori anch’essi della mobilia e del carrettone, si erano mossi due
o tre al rumore di quella nuova bega, per meglio goderla da vicino.

Ma finito il primo scroscio, quei due o tre eran ritornati nel crocchio
a raccontare quel poco che abbiam sentilo anche noi, e a ripigliare il
discorso di prima. Il discorso, anche lì, era quello della giornata:
Massimo, i suoi mobili e il suo impiego; discorso che, allungato e
frammischiato da mille divagazioni, interrotto e ripreso dall’andare
e dal venire degli interlocutori, era cominciato nelle prime ore della
mattina e si avviava a continuare fino al tramonto.

Dei discorsi che si facevano in bottega, succedeva press’a poco come
del caffè che bolliva in una gran caffettiera su un fornello dietro
il banco. La caffettiera, piegandosi ora da un lato, ora dall’altro,
stava sul fornello da mattina a sera. Ogni tanto capitava il padrone
a levarne una chicchera, a rimetterci dell’acqua, o a darci una
rimescolata; ma il fondo, poco su poco giù, nelle ventiqualtr’ore era
sempre il medesimo.

Di avventori ce n’era d’ogni sorta, perchè dopo una sbevazzata
all’osteria, per finirla con un bicchierino di liquore, o con una
chicchera di caffè, ci capitavano in via straordinaria anche de’
carrettieri, degli operai, de’ contadini. Gli avventori ordinari
però, quelli dei discorsi di lunga durata, erano persone di maggior
conto; eran quelli insomma che per avere qualcosa, per esercitare
una professione, o per il loro far niente, formavano il ceto più
ragguardevole del paese. Questi tutti erano amici dell’avvocato
Massimo, compagni antichi di scuola, o compagni recenti di partite al
bigliardo e di cene all’osteria; erano suoi clienti o suoi ammiratori;
gente tutta avvezza, fino allora, ad avere Massimo in gran concetto,
a non far nulla senza di lui, e a riconoscergli, in Castelrenico, il
posto più alto nelle sfere della popolarità.

Abbiam detto _fino allora_, perchè a udire in quel momento le ciarle
del caffè, c’era da scommettere che neanche la popolarità dell’avvocato
Massimo potesse durar sempre; cosa che solo pochi mesi prima avrebbe
giurata chiunque. Povero Massimo!

«Dicevano che Martino volesse litigare con Massimo per l’affare
dell’eredità, ma mi paiono amici meglio di prima! Che ne dite? Non se
la piglierebbe così calda Martino stamani!...»

«Io dico che tra un mese vediamo diventar ministro, questore o
ambasciatore anche Martin _matto_!» soggiunse un tale che passava le
sue giornate sulla porta del caffè, seduto su una panchetta, con una
pipa di gesso in bocca e coi gomiti che, a memoria d’uomo, uscivan
dalle maniche.

«Sicuro!... Ci sarebbe da scommettere! Avete ragione! Dite bene, voi!»
risposero in coro gli altri.

«Per gli impieghi» continuò quello della pipa «l’importante sta nel
saper trovare la vena giusta. Trovata la vena, c’è impieghi per chi ne
vuole!»

Anche questa volta ci fu un «benissimo» su tutte le bocche. Quando
parla quello della pipa, che ha la lingua più lunga di quanti ce n’è in
Castelrenico, tutti s’ammazzano per dargli ragione.

«E si sa cosa sia questo grande impiego?»

«Ma non è tutto! Si dice che a Milano ha trovata anche una moglie.... e
una moglie con de’ quattrini!»

«Ci credete voi?»

«Eh! se manda a Milano fino i mobili, vuol ben dire che o impiego, o
moglie, o qualcosa di simile ci deve essere!»

«Io, a buon conto, non ne credo un’acca!»

«E così resterete con un palmo di naso.»

«Ho capito! Son diventati tutti diplomatici come Massimo! Siete forse
lì lì anche voi per buscarvi un impiego?»

«Se me lo date voi!... Eh sì! noi siamo tagliati alla buona, e gli
impieghi se li pigliano i furbi, quelli che conoscono la politica!...»

«Non per fargli torto, che anzi sono suo amico, ma per giustizia,
domando io che cosa ha fatto questo Massimo per aver dal Governo
un impiego? Perchè proprio lui e non un altro? Oh per bacco! che
Castelrenico finisca con l’illustrissimo signor Massimo?»

«Ha trovato la vena, come dice l’amico, non la volete capire, voi!»

«Ma insomma si può sapere una volta che impiego è?» ripigliava con
maggior forza uno del crocchio che non era ancor riuscito a farsi
rispondere.

«Ma è appunto questo che non si sa! E quindi è chiaro che si tratta
di qualcosa di grosso! Intanto però io ne so già abbastanza per poter
supporre, e in modo positivo, da qual parte venga la protezione.... la
vena, come dice l’amico....»

«Oh! alla buon’ora! Sentiamo, dite su!»

«In primo luogo, si dice che ci sia un signore, un pesce grosso, il
quale voglia mandar suo figlio avvocato in Castelrenico....»

«In Castelrenico?... un forestiero?...»

«Avvocato, dicevo, in Castelrenico. Dunque bisognava fargli il posto, e
per farglielo buono bisognava mandar via Massimo, che è quello appunto
che guadagna più degli altri!»

«Un forestiero?... in Castelrenico?»

«Mentre in paese siamo almeno dieci, tutti avvocati e notai, che siam
qua tutto il santo giorno sul caffè a star a vedere se ci capita un
miserabile posto!...»

«Oh! se viene un forestiero vi prometto io che se ne sentiranno delle
belle!»

«Ma credete forse di pigliarlo voi altri il posto di Massimo?» saltò
su quello della pipa. «Siamo troppo onesti noi! lo dice anche il
foglio. Anch’io, se avessi voluto farmi l’amico dei potenti, ne avrei a
quest’ora degli impieghi a bizzeffe!»

«Sicuro! sicuro!» ripetè il coro.

«Che l’impiego venisse da quel tale che abbiamo nominato noi, proprio
noi, deputato?» domandò uno con tanto d’occhi fuori.

«Probabilissimo!»

«Eh sicuro! gli impieghi sono dati dal Parlamento.... dunque.... oh!
adesso la si vede chiara!...»

«Questo però ci servirà di norma per un’altra volta!»

«Avete ragione!... Il mio voto non lo piglierà una seconda volta
quel signor deputato!... non per altro, ma perchè nelle cose ci vuol
giustizia! Il nostro voto non vale forse tanto quanto il voto del
signor Massimo? Ma signor no! a Massimo un fior d’impiego, e a noi un
fico!»

«Proprio così! In questa faccenda degli impieghi, io dico: o a tutti o
a nessuno! Ed è un pezzo che io la vado dicendo questa cosa!»

«Fiato buttato via!»

«Ma ditemi un poco, cosa sarebbe per il Governo il dare un impiego,
anche piccolissimo se volete, a tutti quelli che in un paese hanno
una certa capacità? La sarebbe una inezia! Si potrebbe far economia in
tutt’altro, e si accontenterebbero tutti!»

«Voi volete dirizzar le gambe ai cani! Trovate la protezione e
troverete l’impiego! Fate come Massimo....»

«Vi confesso che io avevo una grande opinione di Massimo, e che una
cosa simile non me la sarei aspettata mai! Domandare un impiego tutto
per sè, piantare gli amici, e non dir niente a nessuno.... Oh! dico il
vero, di queste non me ne aspettavo proprio da Massimo!.........»

«Oh! ecco il nostro Massimo!»

«Qua, qua, ma insomma gli è mill’anni che non ci vediamo!»

«Adesso poi non ci scappi! Non sia mai detto che si lasci partire il
nostro Massimo da Castelrenico, senza che se ne beva una bottiglia alla
sua salute!»

«Bene, benissimo! Si faccia un pranzo!»

«Un pranzo! Ecco la parola d’un uomo di talento!...»

Era stata, come si vede, l’improvvisa comparsa di Massimo la causa di
quel subito cambiamento di discorso. L’avvocato Massimo, che s’avviava
verso il carrettone a vedere qual sorte era toccata a’ suoi mobili,
dopo che li aveva mano mano consegnati ai facchini, non avrebbe
veramente voluto imbattersi negli amici in quel momento. In altri tempi
avrebbe detto loro: «oggi non posso badare a voi,» e avrebbe tirato
diritto, sicuro che una sua risposta, più aveva l’aria d’esser burbera,
e più sarebbe stata presa in buona parte.

Ma questa volta si sentì come impacciato; si sentì come debitore,
d’un impiego almeno, verso tutti quegli amici; non ritrovò la solita
disinvoltura; e per quanto gli premessero i mobili, rimase inchiodato
lì sulla porta del caffè.

«Al vino ci penso io. Sarà un vino che farà perdere la diplomazia anche
al nostro Massimo«! Oh, questa volta il nostro Massimo lo facciamo
cantare!»

«Che volete che canti?» rispose Massimo «con gli amici non ho segreti..
Mi pare d’averlo detto tante volte.»

«Sicuro! e i mobili si mandano a fare un viaggetto a Milano, non per
altro, che per far veder loro la città e il ballo nuovo della Scala....
eh, la è chiara!»

«Insomma, caro Massimo, dobbiamo proprio aspettare che ce lo dica
il giornale che cos’è questo impiego? Scommetto che hai la nomina in
tasca! fuori dunque! falla vedere agli amici!... »

«La nomina in tasca non l’ho davvero....»

«L’avrai in casa.»

«Neanche.»

«In una cassetta dei mobili, là.... sul carrettone, o in una valigia!»

«Ma se vi dico di no!... Potrebb’essere in viaggio, non lo nego, ma non
è arrivata.»

«E l’impiego è?...»

«Ah, questo poi non lo so!»

«Come? Non lasci in Castelrenico neanche la trappola dei sorci, e mi
vorrai dire che non sai che cosa vai a fare laggiù?»

«Eppure è così!... lo so e non lo so!...»

«Sarà un impiego grosso.... e non lo si potrà dir tutto in una volta.»

«Dunque lo sapremo a poco a poco....»

«Lo saprete, ve lo prometto. Sarete i primi a saperlo.... abbiate
pazienza....»

La comparsa improvvisa di un nuovo personaggio che, in quel momento
passando davanti al caffè, rivolse la parola a Massimo, venne a
troncare quel dialogo ostinato che minacciava di continuare un pezzo,
con poco frutto di quelli che interrogavano, e con nessun gusto di chi
doveva rispondere. Però Massimo avrebbe preferito d’essere salvato in
altro modo.

Il nuovo personaggio, di cui faremo conoscenza più tardi, era il
marchese Renica, il quale dopo aver salutato l’avvocato Massimo, gli
ricordò che tra mezz’ora l’aspettava a pranzo.

L’avvocato rispose con un gran saluto e con qualche parola di
complimento un po’ biascicata; poi si accomiatò dagli amici dicendo di
voler dare un’ultima occhiata a’ suoi mobili. Egli capì che quel pranzo
in casa del marchese non sarebbe piaciuto agli amici, e che il pranzo
e l’impiego li avrebbe forse potuti giustificare separatamente, ma non
tutti e due in una volta.

«Avete veduto?»

«Sicuro!»

«Avete sentito?»

«Avete veduto che Massimo s’è fatto tutto rosso in viso?»

«Avete sentito?... Massimo va a pranzare in casa del marchese!... Oh!
adesso si capisce tutto!»

«Sicuro!»

«Massimo che pranza in casa del marchese!»

«Oh, adesso la cosa è chiara!»

«Chiarissima!»

«Chi l’avrebbe detto!»

«Oh! adesso si capisce tutto.... tutto si capisce!...»

E ripetendo tutti, a buon conto, che avevan capito ogni cosa, quei del
crocchio se ne andarono mano mano pei fatti loro, non essendoci altro
per quel giorno nè da scoprire nè da capire.

L’avvocato Massimo, data un’occhiata ai suoi mobili e fatte quattro
parole col carrettiere, se ne ritornava in fretta verso casa per
levarsi la cacciatora e mettersi il soprabito.

Anche Martino, assicuratosi che tutto era in ordine, e che le corde non
si sarebbero allentate, seguiva una sua bambina venuta a dirgli che la
minestra era scodellata.

Noi li seguiremo tutti e due, prima Massimo, poi Martino, perchè oramai
cala la notte, la piazza si vuota, e non c’è più nulla da vedere.
È comparso, è vero, un lampione a una cantonata, ma siccome questo
lampione ha l’incarico, per cumulo d’impieghi, di rischiarare a un
tempo la piazza, un crocicchio di tre vie, e la finestra del segretario
comunale, così non si può pretendere che ci lasci vedere gran cosa.


II.

Non si creda però che a vuotare le stanze dell’avvocato Massimo
bastasse quella sola carrata di mobili che abbiam veduta sulla piazza.
Massimo se l’avrebbe a male di certo se qualcuno sospettasse una
cosa simile, e per ciò soggiungiamo che il carrettiere dovette fare
un secondo viaggio e ripartire con un carico poco minore del primo.
Infatti, noi troviamo ora Massimo nella sua camera, in cui c’è pure,
oltre il letto, un cassettone, un candeliere, e uno specchio appeso
all’intelaiatura dei vetri della finestra. Peccato che non ci sia
anche un tavolino!... Massimo non avendo preveduto il caso di doversi
mettere quella sera una cravatta allo specchio e al lume della candela,
non aveva pensato a tenersi in casa un qualche arnese da posarvi su
un candeliere. Così anche questo problema era venuto ad aggiungersi a
parecchi altri, che in quel momento confondevano la testa di Massimo,
e gli mettevano addosso un’impazienza vicina a dare in uno scoppio
di furia. Aveva finito col posare il candeliere sul mattonato; aveva
sciupato due solini l’un dopo l’altro nel metterseli in fretta e
quasi all’oscuro, e non aveva ancor deciso a quale cravatta e a qual
panciotto dovesse dare la preferenza. Intanto i minuti, che erano
contati, passarono, e a Massimo pareva già di arrivare in casa del
marchese a minestra finita.

Un altro problema ancor più grave, a cui aveva pensato tutto il giorno
e che credeva d’avere sciolto, gli ricompariva adesso dinanzi con
tutte le sue difficoltà ad imbrogliarlo anche in quel po’ di nodo alla
cravatta, per il quale avrebbe tanto desiderato una certa tranquillità
d’animo. Era un dubbio, un’alternativa, da cui, come vedremo, credeva
d’essere uscito. Si pensi dunque la sua impazienza nel vedersi tornare
ancora dinanzi quel punto interrogativo, nel sentirsi ancora domandare
una risposta! Così, chi lo crederebbe? mentre faceva di tutto per
cacciar via la tentazione di que’ dubbi, avrebbe voluto che gli si
staccasse un bottone dal colletto della camicia, e avere così un minuto
ancora per discutere e per risolvere.

Massimo, in Castelrenico, se l’era sempre passata benone: con un po’
di bonomia e di furberia aveva saputo essere l’amico di tutti; tutti
l’avevano in gran conto: si trattasse di politica o di merende, il capo
era sempre lui. Aveva qualcosellina del suo; come avvocato guadagnava
discretamente, e da ultimo aveva avuto anche una piccola eredità. Si
sarebbe detto insomma che non gli mancava nulla: ma, venuto il 59, un
diavolo tentatore cominciò a fargli sapere di qualche suo compagno
dell’Università che s’era buscato di colpo un grosso impiego; e poi
mano mano gli fece passare nelle vene un certo filtro che non gli dètte
più pace; gli empì di fumi la testa, e non gli lasciò veder altro che
onori, cariche, e un futuro Massimo di grande importanza.

Massimo sulle prime non disse nulla in paese, ma fece il suo disegno.
Sotto vari pretesti lasciava Castelrenico a ogni tratto, e scendeva
a Milano a riannodare delle conoscenze vecchie o a farne delle nuove
che potessero dar colore ai suoi disegni. Trovò un deputato per
Castelrenico, e se lo fece suo: trovò speranze e promesse per l’impiego
che sognava fin che ne volle; e quando proprio gli parve d’essere
a tiro, fece partire i mobili, e ne fece anche una più grossa, come
vedremo a suo tempo.

Però, quando vide i mobili uscire di casa, Massimo cominciò a
riflettere più seriamente di quello che non avesse fatto fino allora,
che l’impiego doveva, è vero, venire, ma non era ancora venuto. Fu
allora che pensò di preparare un piano di riserva per il caso che i
piani principali andassero falliti, e cominciò a discutere tra sè,
se dovesse raccomandarsi al marchese Renica, il quale aveva di certo
chi sa quante di quelle conoscenze in alto, di cui una sola basta,
come pensava Massimo, per ottenere tutto quello che si vuole. Ma gli
si presentavano due cose rincrescevoli: la prima era quella di dover
confessare che quel tale impiego, di cui tutto il paese parlava e
per il quale andava accettando le congratulazioni, non era finora che
una speranza; e la seconda era quella di dover pregare il marchese,
personaggio di colore aristocratico, e col quale, com’egli aveva detto
tante volte con gli amici, poteva tutto al più dividere un pranzo, ma
non una sola delle opinioni politiche.

Massimo dunque aveva dubitato tutto il giorno; ma di mano in mano
che vedeva uscire un mobile di casa, anche i dubbi gli diminuivano,
e alla fine s’era deciso di raccomandarsi al marchese e di parlargli
dell’affar suo quella sera stessa, subito dopo il pranzo.

Ma, come abbiamo veduto, i dubbi nella scelta della cravatta gli
avevano ridestati tutti i dubbi di quella giornata, e per discutere
ancora, andava tirando i bottoni per assicurarsi che fossero saldi.
Lo erano; e in quel punto sonavano le sei. Massimo allora, fatti gli
scalini a quattro per volta, infilò le strade di corsa, e come fu al
portone del palazzo Renica non pensò più ad altro che a cercare il modo
migliore per confidarsi col marchese e domandargli la sua protezione.
A proposito di questa protezione gli amici avrebbero potuto dirne
molte, e a proposito del marchese egli ne aveva dette, altre volte,
moltissime; ma in quel momento al suo pensiero non si presentò nulla di
tutto questo: tante sono le cose che si dimenticano quando si chiede
un servigio!: e dopo poi, quando il servigio è stato reso, se ne
dimenticano ancora di più.

Il cameriere del marchese Renica, nell’annunziare il signor Massimo
Della Valle, annunziò anche ch’era in tavola. Il marchese, data a
Massimo una stretta di mano, andò a porgere il braccio a sua nuora,
e s’avviò verso la sala da pranzo seguito dai commensali. Oltre al
marchese Antonio Renica, sedettero a tavola il maggiore de’ suoi
due figli il marchese Giorgio, la moglie di lui la marchesa Giulia,
il curato, il signor Mevio ingegnere della casa, il signor Rocca
consigliere di tribunale in pensione, il nostro Massimo, e don
Gilberto.

Don Gilberto, di professione uomo elegante, possidente, celibatario,
e che aveva passati, non si sapeva da quando, i cinquant’anni, dopo
essere stato il compagno indivisibile di tutte le scappate giovanili
del marchese Antonio, gli era ora il collega fedele d’ogni sera a’
tarocchi, togliendosi per un’ora al bel mondo al quale non aveva mai
rinunziato. Don Gilberto era appunto venuto in quel giorno da Milano, e
s’era trovato per istrada col signor Mevio e col signor Rocca.

Durante quei primi momenti di silenzio che cominciano con la minestra,
Massimo, dopo aver aggiunto a’ suoi piani, lì su’ due piedi, anche
quello di non fare le sue confidenze al marchese che dopo il pranzo e a
quattr’occhi, se ne stava già tutto con l’animo sospeso per timore che,
durante la tavola, qualcuno scappasse fuori a parlare del suo impiego,
e così gli mancasse poi l’occasione o il coraggio di riparlarne col
marchese in un momento più favorevole. Ma con sua gran consolazione
si cominciò a parlar di tutt’altro. Don Gilberto, seduto vicino alla
marchesa Giulia, aveva subito preso a raccontare una filza di storielle
campagnole e cittadine raccolte di fresco, e tutte nuove per i suoi
ospiti. La marchesa, che pareva rinascere, interrompeva a ogni tratto
con domande don Gilberto, e nel lasciare mano mano l’aria svogliata
e troppo rassegnata che aveva di solito a Castelrenico, si faceva
bella ancora per un momento come fosse in città. Il marchese Giorgio,
giovane marito, rideva; rideva fin troppo, perchè certe cose è prudenza
ascoltarle come argomenti di studi, lasciando da parte le risate.

Il marchese Antonio si divertiva anche lui, e il suo gusto era quello
di compiere le frasi quando don Gilberto si fermava e ne ravvolgeva la
fine in qualche velo elegante. Gli altri commensali di tanto in tanto
fingevano di prender parte anch’essi a quei discorsi e di divertirsene,
benchè non ne capissero nulla; circostanza di cui don Gilberto non
pareva curarsi molto.

L’ingegnere Mevio, in qualche momento d’intervallo, aveva cercato di
far ripetere al curato, per la centesima volta, una vecchia storia
di certe orecchie d’asino scambiate da lui, andando a caccia, per le
orecchie della lepre; e il curato, facendo il sordo, aveva cercato
deviare l’attenzione dalle sghignazzate dell’ingegnere voltandosi
verso Massimo con un «dunque, signor avvocato, quand’è che si va a
Milano?» Ma l’avvocato facendo il sordo anche lui, s’era voltato verso
il marchese e verso don Gilberto, e raccogliendo qualche loro parola
s’era fatto animo a domandare la spiegazione di qualcosa, ripetendo
poi in tono d’approvazione qualche sentenza udita nei loro discorsi.
Questi minuti d’agitazione tanto per il curato che per Massimo s’erano
ripetuti più d’una volta, ma erano durati poco, perchè don Gilberto
non era uomo da tacere un pezzo, e a proposito d’un discorso finito ne
incominciava subito un altro che non ci aveva nulla a che fare.

A questo modo il nostro Massimo attraversò il desinare abbastanza
felicemente, e giunse nel porto delle frutte proprio secondo i suoi
disegni. Alle frutte s’era deciso a parlare anche il consigliere Rocca,
e aveva avuta l’ispirazione infelice di lanciare una parola di malumore
contro l’attuale _legislatore_, come diceva lui, a proposito di
un’ultima storiella campagnola raccontata da don Gilberto, in cui c’era
un’avventura galante d’un giudice di mandamento.

Il marchese Antonio aveva preso fuoco contro il consigliere in difesa
del _legislatore_; e il consigliere, che non pareva in vena di cedere,
rinforzava i suoi argomenti, richiamando soprattutto le cose stesse
che il marchese soleva dire ogni momento. Il marchese continuava la
sua tirata senza ascoltare il consigliere; così e l’uno e l’altro
andavano innanzi a una voce col loro soliloquio, scostandosi mano
mano dall’argomento e affannandosi a rispondere a quello che il loro
interlocutore non s’era mai sognato di dire.

Il marchese Antonio non aveva avuto dalla natura il dono di vedere
anche quel tanto di buono che ci può essere nelle cose di questo mondo,
frammisto pure a tutto il male possibile; del qual male bisognava
sempre convenire con lui, per non dargli un dispiacere troppo forte.
Egli vedeva ogni cosa in colori neri; prevedeva male di tutto; e
l’esito, secondo lui, gli dava sempre ragione. Questa disposizione
d’animo non lo rendeva troppo amico delle molte novità che vedeva da
qualche anno, e finora non ce n’era stata una sola di cui non avesse
trovato da dire o da pronosticar male. Ma a dirne male poi voleva
essere solo. Anche in questo i tempi non gli erano favorevoli. Le
censure e le opposizioni alle cose nuove, in cui trovava un seguito
facile e numeroso, sia che gli paressero un segno di concordia, cosa
in cui diceva di non credere, sia che lo toccassero su di una corda
giovanile che forse vibrava più di quello che egli volesse ammettere,
lo stizzivano presto, e quelli che credevano di fargli coro, se lo
trovavano a un tratto di contro oppositore e battagliero, con loro
grande maraviglia. La corda giovanile era stata quella di una grande
avversione al dominio straniero. Era stato tra i più attivi finchè
s’era trovato sulla breccia in compagnia di pochi; ma poi, quando aveva
veduto crescere le file, s’era tirato in disparte, come se gli avesse
dato noia anche in questo la troppa compagnia. Un certo sorriso ironico
che gli sfiorava le labbra al solo udire il nome di cose nuove o di
uomini nuovi, e le sue tirate a proposito d’ogni più piccola novità,
gli avevano procurata la riputazione d’uomo retrivo, e di fautore
dell’assolutismo. Quelli però che l’avevano in questo concetto non
sapevano che il marchese Renica era troppo aristocratico per volere al
disopra di sè de’ padroni assoluti. A Castelrenico si credeva quello
che credevano i più, e non si andava poi a guardar troppo per il
sottile.

Il consigliere aveva appena finito di rispondere a una parte della
sfuriata del marchese Antonio, quando questi levandosi da tavola e
porgendo di nuovo il braccio alla nuora s’era avviato verso la sala.
Lo seguirono i suoi commensali, alcuno dei quali non prevedendo una
conclusione così brusca, e sicuri che la discussione li avrebbe
lasciati assaporare in pace un bonissimo _marsala_, dovettero
abbandonare sulla tavola il bicchiere pieno; ad eccezione però
dell’ingegnere che, essendo in maggior confidenza con la casa, si levò
per l’ultimo, e lo vuotò.

Ma il consigliere, che aveva ancora da rivedere il conto al
_legislatore_, aveva ripreso in sala un punto della discussione per
mettere al muro il marchese, intanto che un cameriere e un servitore
erano entrati col caffè. La marchesa Giulia, suo marito e don Gilberto
erano andati a sedere presso un tavolino da lavoro, in uno degli angoli
della sala, e avevano ripreso a mezza voce i loro discorsi. Gli altri
erano rimasti in piedi in giro al marchese, e andavano sciogliendo lo
zucchero nelle tazze col cucchiaino, intanto che il consigliere cercava
di sciogliere contemporaneamente quel tal suo punto.

«Le chiacchiere sono chiacchiere, e io torno alla mia conclusione,»
disse il marchese deponendo la sua chicchera.... «Se tutti, dal
primo all’ultimo, devono comandare, tocca a voi, caro consigliere, a
fabbricarmi quel tale che dovrà ubbidire!...»

«Non è questa la questione, vi ripeto, perchè quando io critico il
nuovo legislatore, è quando lo considero obbiettivamente. Dio mi guardi
dal portare attentato, soggettivamente, all’autorità del legislatore.
Se non mi fate questa distinzione, non ci intenderemo più. Io voglio
indiscutibile e venerata l’autorità del legislatore soggettivo; ma,
obbiettivamente parlando, posso dire che il legislatore mi fa delle
corbellerie, senza punto contraddirmi, perchè è molto chiaro che....»
Ma era molto bollente anche il caffè, e il consigliere che aveva voluto
berne un sorso in quel momento, dovette troncare di nuovo la sua tesi,
e con una smorfia che non ci aveva nulla a che fare.

«Finchè le faccio io queste critiche,» ripigliò il marchese, «e finchè
le fate voi per conto vostro, vi dirò: va benissimo. Ma quando me
ne fate una teoria, allora vi dico: guardatevi attorno! guardate il
bell’effetto della vostra teoria! Tutti gl’imbecilli sono diventati
tanti commentatori di codici, e il vostro legislatore riveritissimo può
fin d’ora domandare un posto d’usciere al suo lustrascarpe!»

«Voi dite _hoc post hoc, ergo propter hoc_,» continuò il consigliere a
cui era passata la scottatura.

«Ci vuol altro che gli _hoc_, caro consigliere: negatemi il fatto se
potete.»

«Cioè, anche qui bisogna distinguere. Se voi mi dite _oppressi sumus_
non solo dalle opinioni del volgo, ma _etiam_ dalle opinioni _hominum
leviter eruditorum_, come diceva Cicerone, allora siamo d’accordo. Ma
se poi dobbiamo considerare nella sua natura e nelle sue conseguenze il
nuovo diritto pubblico, quello voglio dire del regime libero....»

«Oh! ecco la gran parola! mi congratulo di sentirla anche da voi! Il
regime libero! La libertà! Sicuro che io la voglio la libertà! Anzi
quel tale che mi deve avere per suo servitore umilissimo non è mai
nato, e non ha neanche l’intenzione di nascere, ch’io mi sappia. Sicuro
che io la voglio la libertà! Ma la voglio per me, per voi se la vi
garba, e per quelli che sanno che cosa sia e che cosa voglia dire! Ma
oggi si vuol far credere che la libertà sia una cosa fatta per tutti
quelli che passano per strada, e così vi domando io che succede poi
della mia libertà e della vostra?»

«Sono lontano anch’io, caro marchese, lontanissimo dall’essere
fautore della libertà come la s’intende in oggi, e se i tempi non
consigliassero una certa prudenza, vorrei proclamare ciò pubblicamente,
senza soggezione di nessuno. Sicuro che di questo passo, rotte le dighe
d’ogni stabile autorità, andiamo diviato verso quella tal società
dei pesci, di cui parla l’Eineccio, _ubi major devorat minorem_. Ma
è appunto per ciò ch’io criticavo il legislatore. Lasciatemi dunque
ritornare al punto principale della questione....»

Il curato che, per mostrare di seguir con interesse la discussione,
avrebbe voluto metterci qualche parola del suo, e che fino allora
non aveva trovato il punto opportuno, si approfittò della società dei
pesci per esclamare un «benissimo» accompagnato da una risata e da una
fregatina di mani.

Massimo taceva. Si poteva pensare, e forse lo pensava il curato,
che il silenzio di Massimo fosse un silenzio di disapprovazione
all’indirizzo delle cose che dicevano il marchese e il consigliere.
«Questa volta però mandale giù!» diceva fors’anche tra sè il curato;
ma in verità questa volta Massimo era occupato di tutt’altro. Le sue
opinioni politiche erano in quel momento l’ultimo de’ suoi pensieri;
ma piuttosto andava pensando che una discussione messa per quella via,
e a quel modo, poteva anche durare tutta la sera; che il marchese si
faceva sempre un tantino più aspro e intollerante; e che a lui intanto
sarebbe mancata l’occasione, o l’animo, di porgere in bel modo, e con
buon successo, quella tal parlatina per il suo impiego. Così, nella
sua mente, egli aveva già perduti di vista i due che discorrevano, e
aveva sostituito un nuovo piano, quello di andarsene al più presto
e di ritornare l’indomani, spiando il momento di potersi trovare a
quattr’occhi col marchese.

Il piano era deliberato, e già gli era data un’ultima mano, quando
la discussione del consigliere e del marchese, la quale a furia di
logica faceva le più lunghe strade in pochi minuti, era venuta a
minacciar Massimo da vicino, senza che egli se ne avvedesse, in un modo
spaventoso.

Dal _legislatore_ si era venuti al _tempio della giustizia_ e alla
_maestà del magistrato_. Il _tempio della giustizia_ aveva messo
di nuovo sossopra il marchese, e il _magistrato_ poi lo aveva fatto
scattare del tutto.

Per calmare il suo avversario, il consigliere aveva cercato di
abbandonargli, come vittime espiatorie, gli impiegati amministrativi;
ma con ciò s’era creduto tanto più in diritto di non transigere d’un
punto quanto a quelli della magistratura giudiziaria; e s’era piantato
sui due piedi, e con le mani in tasca, col piglio d’un uomo risoluto
a non cedere d’un passo. Il marchese non voleva distinguere neanche
questa volta, e siccome tra la molta gente che non gli andava a genio
c’erano pure gl’impiegati, e ci avevano anzi uno dei primi posti,
così metteva in un medesimo fascio anche quelli del _tempio della
giustizia_, con grande sorpresa dell’antico consigliere.

Il curato, che non aveva tenuto dietro bene alla questione, ma che
spiava sempre il momento di venir fuori anche lui con una parola del
suo, sorpreso a un tratto da una pausa che si fece nella discussione,
si credette arrivato al punto buono; e poichè aveva udite tante
esclamazioni a proposito di impiegati e d’impieghi, esclamò anch’egli:
«Un bell’impiego e, a quanto si dice, un impiego in grande, è toccato
qui al nostro avvocato! Non so se il signor marchese lo sappia?...»

Si pensi che cattivo scossone fossero quelle parole per Massimo, il
quale stava appunto mettendosi in salvo mentalmente. Tanto più che le
parole del curato furono subito afferrate dal consigliere, il quale,
avendo a che fare con un avversario più ostinato di lui, fu lieto
di vedersi aperta improvvisamente una porta, e di poter così uscire
senza arrendersi, e senza consegnare il _tempio_. Allora cominciò una
tempesta di domande e di congratulazioni del consigliere e del curato
al povero Massimo, il quale s’imbrogliava come un pulcin nella stoppa,
e non pareva proprio più quel tale che aveva la riputazione d’essere
l’uomo più disinvolto di Castelrenico.

Il marchese intanto s’era fatto silenzioso; e, alla fine, quando il
consigliere e il curato lo vollero tirar per forza nel discorso e
vollero cavare anche da lui delle congratulazioni, pigliando una delle
sue attitudini più serie e più asciutte, si rivolse a Massimo e gli
disse:

«Lei sa, caro avvocato, ch’io nè balbetto, nè faccio complimenti,
mai. Ora, a proposito di questo impiego, le posso fare degli augurii,
ma congratulazioni.... no! Se mi avesse domandato il mio parere
in tempo, le avrei detto che se era stanco di passarsela bene, lei
poteva preferire all’impiego il nostro campanile del paese, e con
un salto rompersi il collo in un modo più spiccio. La sarà una mia
prevenzione.... ma che vuole? io le avrei detto così! Ora, che la cosa
è fatta, le auguro, come si suol dire, una luminosa carriera; e sarò
ben lieto di fargliene poi le mie congratulazioni.... E ora, lei ci
favorisce a far la partita?»

Il marchese s’era interrotto a quel modo, vedendo ch’era entrato
un cameriere a disporre il tavolino da gioco. Massimo si scusò col
pretesto di qualche faccendola da sbrigare, dovendo partire la mattina
dopo; e sull’affare dell’impiego biasciò quattro parole che furono
quasi un soliloquio. Poi salutò tutti quanti, e cercò e trovò il suo
cappello, dopo aver preso perfino quello del curato. Il curato e il
consigliere rimasero in un profondo silenzio senza dar segno di volerne
uscire così presto; e il marchese, picchiando sulla spalla di don
Gilberto, gli andava ripetendo che il tavolino era pronto.

L’avvocato Massimo scese le scale, uscì dal portone, e appena fu in
strada, presa una delle còcche della cravatta, con una brusca tirata e
con una bestemmia sciolse quel nodo che aveva composto con tanta fatica
in onore del marchese. Poi andò diviato a casa, dove lo lasceremo in
compagnia de’ suoi bauli e de’ suoi pensieri.


III.

Quando Massimo e Martino il legnaiolo lasciarono la piazza, dopo aver
dato ciascuno un’ultima occhiata al carrettone, abbiamo promesso di
seguirli tutti e due, e di chiudere quella prima giornata del nostro
racconto in compagnia prima dell’uno e poi dell’altro. Ora dunque
che abbiamo lasciato Massimo, andiamo a cercar Martino, e andiamo
ad aspettarlo in casa sua, mentre Caterina, sua moglie, fa levare il
bollore alla minestra, dopo aver mandato la figliola a dire al babbo
che la minestra era scodellata da un pezzo.

In un angolo della cucina, e lontana dal focolare, perchè guai a sentir
la fiammata, stava seduta la Ghita, che molti però cominciavano già
a chiamare la signora Ghita, perchè mortole il marito che faceva il
bottaio, e rimasta senza figli e con qualcosina, aveva chiuso bottega
e viveva del suo. La Ghita filava con grande attenzione una rocca di
filaticcio per tirarne filo da calze, ch’era il regalo che faceva ogni
anno al curato per Natale. Le due donne di tanto in tanto parlavano
tra loro, ma parlavano piano per non essere intese dai ragazzi, i
quali però erano occupati di tutt’altro. Il più grandicello, seduto
sul margine del ripiano del focolare, era tutto intento a sagomare col
coltellino un pezzetto di legno; mentre il fratellino minore, ritto
sulle punte de’ piedi, osservava tutto assorto anch’esso la gara che
facevano tra loro i fagioli coi grani di riso nel venir su e nello
scomparire dalla superficie bollente della pentola. E seduta anch’essa
sullo stesso margine, al lato opposto, se ne stava una bambina in gran
faccende ad acconciare un pezzetto di carta a guisa di cuffia intorno
al faccione rassegnato d’un bel gatto grigio, il quale chiudeva gli
occhi e lasciava fare, senza punto aver l’aria di pigliarsi a male
quegli scherzi, perchè sapeva che erano scherzi innocenti.

«Oh che mi dite, povera Caterina! A dirvi la verità, ne avevo sentito
parlare, perchè tutto il paese ne parla.... e se sentiste che cosa
si dice! ma io non ci volevo credere.... e sono venuta qua apposta;
ed ecco che voi mi dite le stesse cose. Ma dite su, dite su, povera
Caterina; perchè quando si hanno dei dispiaceri è una gran medicina
quella di parlare, di sfogarsi, e di non tener niente sullo stomaco!»

«Insomma, come vi dicevo, dopo quella volta che è andato in Svizzera,
quattr’anni fa, il mio uomo non è stato più lui.»

«Eh! però, un po’ di _estro_ il vostro Martino lo ha sempre avuto!»

«Ma vi dico di no! Prima che andasse in Svizzera era l’uomo più
tranquillo di questo mondo.»

«Eppure lo diceva sempre anche il mio Andrea, buon’anima, ch’era
quell’omone che sapete!... Basta, dite su.»

«Insomma, tornato dalla Svizzera, dove l’aveva voluto condurre a
lavorare per qualche mese un mastro di quei luoghi, cominciò a dire
che lui aveva vedute cose, cose da perderci dietro la testa!... che
aveva rubati quattro o cinque mestieri, e che un giorno o l’altro lo si
sarebbe veduto fare, tutto in una volta, il segatore, il tornitore, lo
stipettaio, il bottaio....»

«Il bottaio? Ah, pover uomo! si vede che aveva proprio perduto la
testa! Ma non sapete quello che diceva il mio povero Andrea, lui! lui
che indovinava le capruggini alla prima!...»

«Ebbene, state a sentire. Da quel giorno Martino cominciò a guardare,
senza poter più levarne gli occhi, quell’acqua che chiamano della
_valletta_; quella che vien giù forte, come sapete, dal monte, e che
poi va perdendosi in quel primo prato giù al piano e vi stagna un
poco. Oh se avessi quattrini! esclamava sempre, e ogni giorno andava a
guardar l’acqua. Ma che volete farne voi di quell’acqua? gli dicevo io;
non ne ha fatto niente mai nessuno!... Cosa farne? diceva lui; lo so io
cosa farne! lo so io! E poi picchiandosi la fronte, ogni tanto tornava
a esclamare: eppure qua dentro c’è qualcosa!»

«Che gli avessero fatto qualche incantesimo in quei paesi che dite
voi?... Che son paesi dove c’è anche la religione falsa!»

«A dirvi la verità, questo pensiero l’ho fatto anch’io, e una volta
ne parlai col curato; ma il curato mi rispose: andate là!... andate
là!...»

«Avete fatto male a parlarne col curato, che è un bravissimo uomo del
resto, ma che di queste cose se ne intende poco. Dovevate dirlo al
frate che viene a primavera a benedir le campagne e a far scappare i
grilli.... quello se ne intende!...»

«Avete ragione. Questa volta, se a primavera sono al mondo, farò come
dite voi. Tanto più che col mio pover uomo la va di male in peggio.
Non ch’io ne possa dir male, che anzi lui lavora da mattina a sera....
galantuomo poi come lui non ce n’è altri!...»

«Eh! ma il povero Andrea! Quello sì ch’era un uomo!...»

«Ma adesso io parlo del mio. Lavoratore, galantuomo, e tutto cuore!
Del cuore poi ne ha fin troppo; è il suo difetto. Oggi, per esempio, ha
buttata via tutta la giornata per quell’asino, a dirla chiara, d’un suo
parente, quell’aristocraticone di avvocato che non lo guarda neanche in
viso, e non gli dirà neanche un crepa!»

«Vedete! vedete! povera Caterina!... Dunque voi mi dicevate di
quell’acqua....»

«Or bene, mio marito l’ha comperata, e ha comperato anche il prato....»

«Ha comperato il prato? e anche l’acqua? Dunque è vero quel che si
dice!»

«Sicuro! e ha spesi tutti i nostri risparmi.... che ci son costati
tanti sudori! e vuol mettere una sega, vicino a quell’acqua che si
perde, perchè dice che non la si perderà più....»

«Figuratevi!»

«E dice di voler fare una fabbrica su quel prato, per fare tante
cose che sa lui, e che non vuol dire! Chi l’avrebbe detto che quel
_codicilio_, come lo chiamano, che abbiamo ereditato dallo zio, doveva
essere la nostra disgrazia? Se mio marito non aveva quella eredità, a
poco a poco non avrebbe pensato più a quella benedetta acqua!... Ora,
invece, parla di fabbricare, di spendere tutto quel poco che lo zio,
per sua grazia, morendo ha lasciato; e per di più vuol fare anche un
grosso debito, perchè quel tanto che c’è, non basta....»

«Che se invece impiegavate quel _codicilio_ con un buon pegno in mano,
come faceva il mio Andrea....»

«Ma! Che volete? E poi.... e poi....»

Intanto Caterina s’era messa a grattare il formaggio per la minestra,
dopo essersi asciugata una lacrima col dorso della mano.

La Ghita guardò Caterina con nuova e maggiore curiosità; poi, fatta una
cocca del filo sulla punta del fuso, con uno scatto dato dalle dita
fece girare il fuso rapidamente su di sè, intanto che ripigliava in
tono compassionevole:

«Dite su! dite su! povera Caterina, che lo sfogarsi nelle tribolazioni
è, per così dire, un vero elettuario.»

«Insomma, a dirvela tutta, dovete sapere che mio marito parla anche di
mandare il mio Tonino, che vedete lì, in quel paese della Svizzera dove
è stato lui, e anche più in là, per fargli imparare tutte quelle cose
che lui ha in testa, e delle altre ancora.»

«Misericordia! E voi che cosa contate di fare?»

«Questo è quello che non so!»

«Mandare i propri figli in paesi che non s’è sentito mai nominare!...
lasciarli in mano di nessuno! Ah! se fossi nei vostri panni....»

«Cosa fareste?»

«Cosa farei? Farei un rapporto, di quelli in carta bollata, e a chi si
deve!... Perchè se ci sono dei matti, bisogna farli legare!...»

«Oh! io poi.... fare di questi torti al mio uomo.... perchè l’uomo poi
è buono, sapete!»

«Grazie!... e la vostra coscienza? La vi par cosa da poco, a voi?...
Lasciar tirare su i vostri figlioli a piacimento dei matti!...»

«Matto.... matto.... Adesso non ragionate bene neanche voi! Se mio
marito volesse far imparare a Tonino un mestiere solo, lo terrebbe qui;
ma lui, capite, vuol fargliene imparare due o tre, perchè possa poi
guadagnare qualcosina di più, e aiutarci meglio anche noi quando saremo
vecchi!»

«Due o tre mestieri? ma vedete se non son cose da matti!...»

«E perchè? Quando uno ha avuto un po’ di studio, può bene mettere
bottega di segatore, di legnaiolo e di bottaio, per dirne una!»

«Mi diventate matta anche voi? Un legnaiolo fare il bottaio? Lo potete
giusto dir voi, o vostro marito, perchè non sapete neanche da che parte
si cominci a fare il tappo d’un barile!... Se ci fosse a sentirvi il
mio povero Andrea!... Vedete cosa vuol dire star coi matti!...»

«Oh! finitela anche voi con questa parola! Se le consolazioni che mi
volete dare son queste!...»

«Gran novità! Il _Martin matto_! Non è così che lo chiamano tutti in
paese, vostro marito?»

«Oh smettete! che ce ne volevano quattro dei vostri Andrea per fare un
uomo come il mio!...»

«Il mio però non l’hanno chiamato mai il matto!»

«Lo chiamavano il _pilucca pitocchi_!»

La Ghita saltò in piedi. Raccolse sul fuso, facendolo girare
rapidamente, la lunga gugliata del filo; fece uscire la rocca
dall’allacciatura della vita e dal cappio appuntato alla spalla, dove
era rattenuta; mise rocca e fuso sotto l’ascella in aria di sfida;
mandò giù la saliva, e stava per sbuffare chi sa che cosa.... quando a
un tratto entrò la bambina ch’era andata a chiamare Martino, gridando
«il babbo! il babbo!»

Caterina, che aveva voltate le spalle alla Ghita, scodellava intanto la
minestra.

«Buona sera, Ghita,» disse Martino, levatosi il grembiale e appeso
il cappello a un chiodo del muro. «Se volete gradire una scodella di
minestra e un bicchiere di vino, non c’è neanche da dir grazie.»

La Ghita prima di rispondere ci pensò un poco per trovarne una salata;
poi disse a un tratto: «Tante grazie!» e se ne andò. Ma appena fuori
della porta, rifece un passo indietro, e aperto l’uscio di nuovo,
soggiunse: «Ho già desinato del mio!» poi se ne andò definitivamente, e
molto più soddisfatta.

«La signora Ghita è di cattivo umore, a quanto pare,» disse Martino
sedendosi e mettendosi a mangiare la minestra. Caterina non rispose;
fece sedere su due seggioline a braccioli i due bambini più piccoli,
legando loro intorno al collo un tovagliolo; poi si mise a sedere
anch’essa in mezzo a loro. Anche il gatto prese il suo posto sulla
tavola vicino alla scodella della bambina, dopo essersi sbarazzato
della cuffia di carta con lo zampino e con una leggiera crollatina di
capo.

«Vi siete bisticciate con la Ghita?» riprese Martino.

«Non si può dir questo,» rispose Caterina. «Però la Ghita, se disse
qualcosa, non aveva neanche torto!...»

«Ah! l’avevo capito io che c’è stato del brusco! E si può sapere?...»

«Del brusco non ce n’è stato niente affatto!... La Ghita ha parlato,
perchè anche il mondo ne parla....»

«Di che cosa?»

«Oh non è poi necessario dir tutto! tanto più quando uno può ben capire
da sè!»

«Allora ho capito! La signora Ghita invece di metter male, farebbe
meglio a tenere la saliva per filare!...»

«Adesso siete voi che parlate male: la Ghita è una bonissima donna!»

«E invece di mettere il naso nelle cose che non capisce....»

«Chi non capisce invece siete voi, se parlate così!...»

«Allora dite su! Ma se non parlate, cosa volete che ne sappia io? Cosa
volete che sappia di quel che dice la gente, io che bado ai fatti miei
e non vado a far pettegolezzi per le strade?»

«La gente dice.... se la volete sapere, che quando si hanno quattro
figlioli bisogna tener di conto delle giornate; lavorare per
guadagnare, e non far grandezze a lavorare per guadagnar niente! Bel
pagamento che avete avuto quest’oggi! ammazzarsi dalla fatica, non
vedere la croce d’un quattrino, e non avere neanche un grazie!...
perchè dir grazie a un parente povero, per lui è uno sporcare
l’avvocatura e tutta la sua carta bollata!... La gente vede queste
cose, e la gente parla!...»

«E voi lasciatela parlare! Se son questi i fastidi della signora Ghita,
capisco come la diventi di così bella cera. Se a mio cugino dà noia che
io sia un povero legnaiolo, a me non dà noia che lui sia un signore.
Non ho invidia di lui, non gli domando nulla, nè gli vado tra i piedi
mai. Se però proprio diamo di naso l’un nell’altro, allora faccio il
mio dovere;... son pover’uomo sì, ma creanzato! Non sarei andato a
dirgli: avvocato, se volete, per caricare i vostri mobili son qua io.
Ma, passavo per la piazza, vedo una carrata di mobili, tutta a gambe
e a spigoli per in su e per in giù, come anime del purgatorio; sono
i mobili di Massimo: chi rideva, chi ne diceva una, chi un’altra;
ma nessuno sapeva dare una mano, nessuno si moveva. Allora mi sentii
movere il sangue. Che volete? se avessi tirato diritto, allora sì che
la gente avrebbe avuto ragione di credere che tra me e Massimo ci fosse
una picca! E questo non stava bene. Allora sì che ne avreste sentite
delle chiacchiere! Avrebbero detto che sono invidioso; che per avere
ereditato meno di lui mi è andato il sangue in aceto, e che, ad andar
bene, la finiremo a busse. Capite? Lì per lì, a dirvi la verità, tutti
questi ragionamenti non li ho neanche fatti; ma adesso, a pensarci, mi
persuado d’aver fatto bene a fare quel poco che ho potuto. E poi ve ne
dirò un’altra.... Oh, cosa succede là! Beppina....»

Beppina a quel punto era venuta alle prese col gatto, il quale era
stato del parere che l’ultima cucchiaiata di minestra dovesse toccare
a lui; e se l’era presa, rovesciando la scodella sulla tavola. Beppina
l’aveva picchiato col cucchiaio, poi s’era messa a piagnucolare alla
distesa. Caterina prese la bambina sulle ginocchia e le diede da
mangiare nella sua scodella.

«Dovete dunque sapere....» continuò Martino.... «Oh! aspettate che
adesso mi è uscito di mente quello che vi volevo dire....»

«Voi però lo avete avuto sempre troppo nell’anima quel vostro cugino;
e dire che non ve ne ha mai fatta una delle buone!» prese a dire
Caterina.

«Eh, chi sa mai! Potrebbe venire il giorno in cui avessi bisogno di
domandargli un servigio: allora, sapete, ci andrei diritto, e sono
persuaso che me lo farebbe. A sentir la gente, tutti mi dicono di star
alla larga da quelli che hanno studiato; ma io, che volete? ho un altro
pensare!»

«È perchè voi siete sempre stato infatuato di quello lì!»

«Ma dite un po’, Caterina, l’esserci un avvocato, un uomo di studi
che si chiama Della Valle, non è un onor grande anche per noi che
ci chiamiamo così? Non è un onor grande per la famiglia? Se avessi
studiato anch’io, allora sarebbe un altro par di maniche. Allora
sì, casa Della Valle, anche con la bocca di Martino, potrebbe dir
le sue ragioni!... le potrebbe dire, perchè qui, sapete, c’è dentro
qualcosa....» e si picchiava la fronte con la mano. «Basta, se vivremo,
qualcosa s’ha da vedere! Son anni e anni che lavoro come un cane per
risparmiare quel poco che sapete; ma non credevo di arrivarci. Ora
però, con quello che m’ha lasciato lo zio Tonio, che Dio gliene mandi
tanto bene, posso dire: ci sono! Ora, che ho qualcosa da garantire,
posso anche fare un debituccio, e messo tutto insieme....»

«Oh, per carità. Martino, cosa dite mai! Anche un debito!»

«È fatto! Ma non abbiate paura....»

«Misericordia!... e i vostri poveri figlioli!... Non sapete che i
debiti son come il tarlo, mandano le case in polvere!»

«Non abbiate paura, Caterina; voi non vedete quello che vedo io!...
Dovete sapere, Caterina, che ci sono delle seghe che in Castelrenico
nessuno ha veduto mai! con lame fini come nastri; seghe senza staggio,
senza fune, senza manichetti, che vanno da sè, e che girano, girano!...
seghe che in un minuto fan disegni che la è una maraviglia!... proprio
come se avessero studiato!... seghe che paion cristiani, e che quando
le senti cigolare contro il legno, ti fan tendere l’orecchio perchè
quasi scommetteresti che parlino!... Ma silenzio, Caterina! non fatene
parola con nessuno!»

Caterina guardava fisso negli occhi suo marito tacendo, e come compresa
da un sentimento di maraviglia e di timore. I ragazzi s’erano messi a
giocare per la cucina, e Martino ripeteva ancora con l’indice traverso
le labbra: «Caterina, silenzio! silenzio, per amor del cielo!»

In quel punto qualcuno picchiò all’uscio, e una voce domandò: «Ehi, di
casa!» Martino saltò in piedi, e riconosciuta subito la faccia rubizza
che in quel momento faceva capolino dall’uscio, «Ah siete voi, Simone!»
disse «avanti, avanti! Che buon vento vi mena qui? Saluto anche la
compagnia,» soggiunse poco dopo, ma in tono più asciutto, rivolgendosi
a due altri che vide entrare in coda a Simone. «Sedetevi» continuò
Martino, «e se ne volete un bicchiere, tal qual’è.... Caterina,
portamene su un boccale.»

«Oh! così va bene! un bicchiere non si rifiuta mai, nevvero voi altri?»
esclamò Simone.

«Mai, mai!» risposero subito gli altri due, che da certi occhi lucidi
lasciavano capire a prima vista come in quella sera avessero già
più volte messa in pratica tal massima. Caterina uscì per il vino e
rientrò poco dopo con un fiasco che depose sulla tavola; poi uscì di
nuovo conducendo i ragazzi a dormire, ad eccezione di Tonino, il quale
riprese con grande attenzione il suo lavoro sulla soglia del focolare.

Simone con la faccia gioviale, e dopo una fregatina di mani, prese una
sedia di paglia, si assicurò che fosse ben forte, si mise a sedere, e
depose il suo cappello sulla tavola. Poi si adattò, facendolo scendere
alcun poco sugli orecchi, il suo fido berretto di maglia che non soleva
togliersi di capo mai fuorchè nel caso rarissimo in cui si trovasse
dinanzi a un creditore. Il berretto era di cotone color turchino scuro,
e dello stesso colore erano le calze. Le brache poi, che ben inteso
eran corte, e la giubba scarsa e a falde cortissime, erano d’un velluto
che ai suoi tempi era stato di color verde.

Tirata una presa di tabacco, Simone assaggiò il vino; trovatolo buono,
ne empì i bicchieri dei due compagni, e tutto ciò senza complimenti e
proprio come se fosse in casa sua, non perchè mancasse di creanza, ma
per quella tal ragione ch’era in casa d’un debitore, o d’uno almeno che
lo doveva diventar tra poco.

«Dunque,» prese a dir Simone in tono d’uno che conchiude più che
d’uno che comincia, «domani andremo dal notaio a fare il contratto
con scrittura legale, per quel tale interesse. Questi sono i miei
testimoni, idonei e consenzienti, per gli effetti legali. Però,
essendomi consultato con me stesso per i miei diritti di legge, ho
pensato al modo di far le cose più in regola, e il modo sarebbe questo.
Io vi do a prestito le diecimila lire; voi, invece di darmi l’ipoteca,
mi fate una vendita dell’acqua e del prato, con annessi e connessi,
infissi e fabbricati, esistenti e da farsi, compresa, s’intende, anche
questa vostra casetta, per maggior mia sicurezza; il tutto, badate
bene, redimibile dopo cinque anni....»

«Patti d’oro!» esclamò uno dei testimoni vuotando il bicchiere.

«E che faccio con voi, Martino, per l’amicizia!» continuò Simone.
«Ah! ma voi avete l’aria di pensarci su! Se non vi garbano, amici come
prima, e non vado avanti....»

«Non avete finito? andate avanti, andate avanti» soggiunse Martino.

«Credete forse che la voglia comperar io davvero questa roba? Bel
negozio! Si fa così per far le cose più legali, capite! E anche voi
ci avete il vostro interesse, perchè se dopo i cinque anni trovate
della vostra convenienza di vendere qualcosa piuttosto che restituire
il capitale, ecco che l’affare è già bell’e fatto, senza nuove spese
di istrumenti e di notai; e se restituite il capitale, voi ritornate
possessore del fatto vostro. La vi par chiara adesso? Vedete che bella
comodità! Il codice, e io l’ho letto da capo a fondo, ne ha delle leggi
belle di tanto in tanto! Il tutto sta nel saperle adattare al caso
proprio.»

«Insomma fate voi!... fate voi!» ripeteva Martino passeggiando per la
cucina, e picchiandosi di tanto in tanto la fronte.

«Quanto agli interessi poi, fate come vi garba meglio. Mi terrò, se
volete, a tutto mio rischio l’usufrutto del prato e della casa. Non lo
volete? Datemi il sei per cento anticipato, ossia pagatemi fin d’ora
l’importo dei cinque anni levandolo dalle dieci mila lire, e così non
ci pensate altro.... Sono formalità, se volete, ma formalità legali di
cautela per me, e di comodo per voi....»

«Insomma voi con una mano me ne date dieci, e con l’altra me ne levate
tre, se ho capito bene.»

«Se avete diffidenza, caro Martino, non ne facciamo niente!... parliamo
d’altro.»

«Ma se per piantar la sega mi occorrono dieci mila lire, vi domando
io come faccio se voi me ne portate via tre mila?... sia pure per una
formalità, come dite voi.»

«Vi darò poi anche le tre mila, siete contento? Ve le darò quando
avrete finita la fabbrica, prima di pagare i conti.... e allora faremo
un altro contratto. Insomma lasciate fare a me; domani, prima di andar
dal notaio, verrò qui con una carta bell’e fatta, una carta che vi
piacerà e che farò far io, a tutte mie spese, da chi si deve; da uno
che la sa lunga più di qualsiasi avvocato; che fa carte di ferro, carte
come non se ne fanno di eguali in tutta la provincia. Voi non pagherete
che i testimoni, questi due amici che vedete qui; qualcosina per il
loro incomodo è troppo giusto....»

«Eh, questo si sa!» esclamò l’uno dei due. «Ognuno vive del proprio
mestiere. Il mio maestro non c’insegnava che a fare nome e cognome;
per imparare di più bisognava portargli a scuola anche la legna: così
nel resto dell’avvocatura sono rimasto orbo. Eh! senza questo guaio,
l’estro di far carte l’avrei bene anch’io!... Basta.... Caterina, se ce
ne date un altro bicchiere, lo beveremo alla vostra salute!»

Caterina che era entrata in quel punto, scambiò un’occhiata con suo
marito, uscì di nuovo e ritornò poco dopo col fiasco riempito.

«Fate benone, maestro Martino, a metter la sega!» riprese Simone. «E
dire che in Castelrenico non ce n’era una! E anch’io questi denari
ve li do di gusto, non per quel miserabile interesse, ma proprio per
il bene della patria, come si dice adesso. Però, non so capire, se è
vero quel che si dice, perchè mai vogliate mandare un figliolo a fare
il garzone fuor di paese, proprio nel momento in cui ne dovreste aver
bisogno voi. Ne imparano d’ogni risma, questi ragazzi, quando vanno
fuori!»

«Parlate piano» disse Martino, facendo capire a Simone, con una
piegatina di capo, che il figliolo era lì vicino.

«Ho capito. Ma non potevate insegnarglielo voi il mestiere, e aver
anche un aiuto nello stesso tempo?»

«No, no,» continuò Martino; «ne parleremo poi un’altra volta. È un
figliolo di poco sviluppo, capite?»

«Dite un po’.... non per sapere i vostri interessi, ma è nato forse in
luna calante?»

«Precisamente.»

«Ah! capisco, capisco!...» rispose Simone con un gesto, come a dire che
la cosa adesso era chiara.

«Dunque, alla vostra salute, Martino!» esclamò uno dei compagni di
Simone riempiendo e vuotando il bicchiere.

«Alla vostra salute,» ripeterono Simone e l’altro compagno. Poi tutti e
tre, levatisi da sedere, salutarono Martino e Caterina, e s’avviarono
verso la porta. Simone, rimasto l’ultimo, nel tirar di dietro l’uscio
si voltò ancora una volta verso Martino dicendo: «Dunque siamo intesi:
domani capiterò con la carta.»

Tanto i tre che se ne andavano pe’ fatti loro, quanto Martino ch’era
rimasto in cucina con Caterina, se ne stettero tutti zitti per un poco,
come aspettando che ritornasse loro sulla lingua il filo del discorso.
Il primo a raccapezzarlo fu Simone, il quale dopo un tratto di strada
prese a dire: «Buon uomo questo Martino! ma è matto!... matto!... e
poichè s’è fisso di mangiarsi il fatto suo, tanto fa che non si lasci
andar la roba in bocca d’altri. Però con questi cervelli strambi non si
è mai prudenti abbastanza.... bisogna far le cose in regola!... a fior
di legge!...»

«Ah! tu pensi di mangiarti il fatto mio!...» esclamava Martino dopo
aver taciuto un pezzo, e passeggiando per la cucina. «Fors’anche sì!...
Ma son nato povero e ci perdo poco. Se la mi andrà male, le mie braccia
non le porterà via nessuno, e con queste i miei figlioli non avranno
a patire!... Ma l’andrà bene!... Simone avrà i suoi denari!... li
dovrà riprendere! L’andrà bene! Perchè qua dentro c’è qualcosa!... c’è
qualcosa che non sbaglia!» E si picchiava la fronte ripetendo ancora:
«l’andrà bene! l’andrà bene!»

Caterina diceva intanto mentalmente un _De profundis_ per raccomandarsi
ai poveri morti.


IV.

Erano stati in gran faccende l’avvocato Massimo e Martino per far
partire quella carrata di mobili, ma non l’era stato meno, a Milano,
quel tale che la dovette far scaricare e mettere a posto. Tanto più
che a questo tale, proprio in quel giorno in cui era arrivato il
carrettiere, erano capitate anche le sue ventiquattr’ore di guardia,
come milite cittadino. Posporre la guardia ai mobili non sarebbe stato
facile, e a ogni modo non era cosa che egli avrebbe messo neanche
in discussione: prima di tutto, perchè non era uomo da mancare ai
propri doveri; poi perchè era sergente, e con gli amici soleva dire
in confidenza: «Senza di me, io non potrei garantir niente della
compagnia!»

Il nostro sergente dunque fece come potè: si affaccendò come un
martire in quelle prime ore della giornata che precedevano quelle
della guardia; poi diede degli ordini precisi e severi a sua figlia, al
carrettiere e ai facchini; e li diede in pieno assetto militare, perchè
riuscissero più solenni. Poco dopo, senz’essersi fatto aspettare un
minuto, camminava impettito e disinvolto, a fianco della compagnia che
s’avviava verso il posto assegnatole.

A vederlo qualche ora dopo, e sì che ne aveva fatte in quel giorno
delle vite per provvedere a tutto e a tutti, nessuno avrebbe supposto
che quel brav’uomo potesse essere stanco. Forse lo era, ma certo egli
lo celava affatto sotto un piglio severo, ma sereno, ch’era, come egli
diceva sempre, l’attitudine indispensabile di un milite cittadino.
Col tramonto scendeva per le strade una nebbiaccia che a ogni momento
si faceva più fitta e più fredda; chi passava affrettava il passo;
l’uffiziale e i commilitoni del nostro sergente, l’un dopo l’altro,
s’eran chiusi nel camerotto del corpo di guardia; ma lui era rimasto
ritto sulla porta, a pochi passi dalla sentinella, aspettando che la
notte fosse calata del tutto, e che i passanti, facendosi sempre più
radi, gli permettessero di dare un poco di tregua alla sua vigilanza.
Prima però d’avviarsi anch’esso verso il camerotto, fece quattro passi
in su e in giù per la strada, come per assicurarsi meglio che tutto era
tranquillo, e ripetè, a buon conto, la consegna alla sentinella perchè
non la scordasse.

Finalmente entrò nel camerotto anch’esso esclamando, nel tirarsi dietro
l’uscio: «Mettiamoci anche noi nei quartieri d’inverno!»

Alcuni militi dormicchiavano qua e là sdraiati sulle brande o a
cavalcioni delle sedie; altri, ed erano il nerbo più grosso, se ne
stavano chiacchierando e fumando in giro a una gran stufa nel mezzo del
camerotto.

«Qua, qua, signor Giovanni!» esclamò uno di questi: «mi dia una presa
di tabacco per scacciare il sonno.»

«A proposito, signor Giovanni....» disse l’uffiziale, ch’era anch’esso
nel crocchio vicino alla stufa, «venga qua, legga il giornale di
stasera.... c’è qualcosa che la potrebbe toccare.»

«Me!... nel giornale?... Oh, per bacco!» rispondeva il signor Giovanni
facendosi ancora più serio, intanto che pigliava il giornale, e cercava
per le tasche gli occhiali.

Il signor Giovanni, come si vede, era il nostro sergente; anzi egli
era precisamente il signor Giovanni Figini, e aggiungeremo in fretta,
intanto che legge il giornale, ch’era un ometto sui cinquant’anni,
vispo e prosperoso; che in sua gioventù era stato di professione
computista, calligrafo e amanuense; che dopo aver ereditato da un suo
parente, e presa una moglie con qualcosuccia, aveva lasciato mano mano
la professione in disparte, e ora l’aveva abbandonata del tutto, «e per
esser diventato sergente,» come diceva lui «e per poter meglio andar
incontro ai nuovi tempi.»

Il signor Giovanni era vedovo, e aveva una figliola.

«Ha letto, signor sergente?» continuò l’uffiziale. «Il giornale domanda
che cosa fanno la sera le pattuglie della guardia nazionale a zonzo
per le strade più popolate della città, mentre ci son tante viuzze
abbandonate e fuor di mano da vegliare! Ha veduto cosa è successo? Ci
son de’ malandrini audaci e armati, a quanto pare: ora, tocca a lei,
signor sergente, questa notte a farsi onore!»

«Oh! lasci fare, signor Carlo!» rispose il sergente rimettendosi gli
occhiali in tasca. «Questa notte passeremo vicino a quelle strade
che dice lei, e se vedremo delle facce sospette, le sapremo anche far
scappare....»

«Altro che farle scappare!... bisogna metter loro le mani addosso, caro
signor Giovanni!»

«Si farà anche questo.... ma bisogna distinguere. Se questi bricconi
fossero armati proprio fino ai denti....»

«Si farà fuoco!» saltò su uno del crocchio.

«Piano, piano,» continuò il signor Giovanni. «Far fuoco, è presto
detto! ma se per disgrazia passa in quel punto un galantuomo, un
padre di famiglia, per esempio, e invece del ladro me lo pigliate lui,
proprio nella testa!...»

«E dunque cosa si fa?» replicò l’altro.

«Prima si cerca con le belle maniere....»

«Ma se vi danno addosso?»

«Si sta in guardia.... si sta molto sul suo.... con un contegno
severo.... e poi, facendo il caso, si chiamano le guardie di pubblica
sicurezza.... perchè queste cose poi sono affar loro, e non bisogna
neanche arrischiare di far nascere dei pettegolezzi tra le autorità....
Creda però, signor tenente, che questi malviventi, quando vedono la
pattuglia, se la battono!... se la battono!...»

«E allora lei, dietro! perchè se me ne pigliasse almeno uno, allora la
facciamo noi la risposta al giornale!»

«Ah! se faccio tanto da potergliene pigliar uno, glielo conduco qua
legato come un salame!»

»Bravo, signor Giovanni! Dunque conto su di lei. Tra mezz’ora son di
ritorno: se occorre qualcosa, mi faccia chiamare al caffè.» E acceso il
sigaro, l’uffiziale se ne andò.

«È giovane, giovane, questo signor Carlino!» continuò il sergente con
que’ quattro o cinque ch’eran rimasti.... «Il suo gran gusto è quello
d’andar a cercare gli assassini col lanternino. Ma io che la so lunga,
e che posso parlare, perchè di questi musi ne ho messi al muro tanti
in vita mia, vi so dire che alla fin fine c’è poca soddisfazione. Dico
questo come privato, perchè come guardia nazionale non so neanche se a
fare a pugni coi ladri la sia cosa che vada col nostro decoro....»

«Che pugni! si ammazzano alla prima!»

«D’accordo. Ma.... non parlo per me, perchè dal giorno che m’han fatto
sergente, io ho rinunziato alla vita: parlo per voi altri. Nella mia
pattuglia io posso avere dei padri di famiglia; ci siete voi, Ambrogio,
per esempio, e, tra questi malandrini, dei padri di famiglia non ce
n’è quasi mai! Per cui, anche da questo lato, non si combatte ad armi
pari....»

«Che combattere! V’ho detto che si ammazzano!»

«Avete ragione,» soggiunse un terzo. «Coi ladri io non farei tanti
complimenti; li ammazzerei tutti.»

«Oh! se si fa tanto da poterli ammazzare, allora sono con voi! Ma
quanto al pigliarli, ve lo ripeto, c’è poca soddisfazione! Pigliati,
ve li mettono in una prigione, e poi? finita la condanna, vengon fuori
peggiori di prima. Avete mai sentito che un briccone venga fuori di
prigione galantuomo? Ma vi dirò di più: in prigione questi bei soggetti
ammaestrano anche gli altri, e un assassino ne fa diventare assassini
dieci! capite?»

«È inutile, è inutile, bisogna ammazzarli!» conclusero gli altri,
allontanandosi dalla stufa e avviandosi chi verso la porta, e chi verso
qualche branda, per farci un sonnellino.

«Ehi! ehi!» esclamò il nostro sergente, «dunque siamo intesi. Quei
della pattuglia sien pronti per il tocco!»

«Lasci fare, mi ci preparo intanto con una dormitina.»

«E io vado a mangiare un boccone, perchè, per via della guardia, ho
dovuto piantar il desinare a metà.»

Non rimase vicino alla stufa col sergente che uno dei militi, un
certo Ambrogio, un uomo un po’ innanzi cogli anni anche lui, e che,
oltre all’essere un vicino di casa del signor Figini, era anche un
suo amicone. Siccome poi i due amici sapevano che c’era tra loro
un segretuccio, e che il momento d’aprirsi l’un l’altro era maturo,
non potendo più stare nella pelle, l’uno d’interrogare e l’altro di
parlare, così, per un accordo tacito e spontaneo, Ambrogio e Giovanni,
pigliata una sedia ciascuno, si trovarono seduti vicini, col discorso
bell’e avviato e che si svolgeva liscio e naturale come una matassa
senza ruffelli.

«Sono tre mesi, sapete? che vado conducendo questa faccenda con
una prudenza! con una abilità!...» diceva Giovanni. «Una parola con
Ambrogio la dovrei fare!, m’ero detto qualche volta; ma poi pensavo
tra me e me: la mia intrinsichezza con l’avvocato Della Valle....
quel quartierino vicino al mio preso a pigione da me, per persona
da dichiarare.... sono un niente, se volete, per chicchessia; ma per
Ambrogio, che è fino! che è Ambrogio insomma, sono tutto! Dirgli di
più, sarebbe quasi un fargli torto. A cosa fatta, dicevo sempre, gliela
conterò poi tutta la storia, per filo e per segno!»

«Ah! io capivo tutto, ma, naturalmente, tacevo. Ora, dite su, e la cosa
resterà tra noi.... perchè io taccio in un modo.... che sfido l’aria a
saperne qualcosa, quando taccio io!»

«Sicuro che vi dirò tutto! Però, siccome qua ci potrebbe mancare
il tempo, e poi non vorrei neanche dar troppo nell’occhio, così per
stasera non vi dico che quattro parole. Dunque dovete sapere che, fin
da quattro o cinque mesi fa, vedevo qualche volta al caffè seduto a un
tavolino vicino al mio, un signore, un bel giovanotto, che si capiva
che non era milanese, ma che nullameno pareva un uomo a modo. Un giorno
lo salutai; un’altra volta gli diedi il giornale, dopo averlo letto
io; poi si scambiò qualche parola; egli aveva con me un fare molto
rispettoso; io ero gentilissimo sempre.... insomma, finii una volta
col dirgli ch’ero il signor Giovanni Figini, sergente della settima
compagnia; lui allora mi disse che era l’avvocato Massimo Della Valle;
e si diventò amici. Era la prima volta che questo signore passava a
Milano una settimana tutta di seguito, figuratevi! Ha veduto questo?
gli domandavo io; ha veduto quest’altro?... Non aveva veduto niente!...
Venga con me! venga con me! Lo condussi sul Duomo, e rimase per tutto
quel giorno con la bocca aperta. Eh! comincia così presto lei a andar
in visibilio? gli dicevo io. Vedrà! vedrà!... Lo condussi di qua, lo
condussi di là, sul Corso, in piazza d’Armi, in omnibus, in teatro, in
casa mia, nei caffè dove si fanno i migliori sorbetti, negli alberghi
dove si pranza meglio: naturalmente pagavo io; lui non voleva, faceva
dei complimenti, e ogni tratto esclamava: — Ma i Milanesi son tutti
così! — E infatti, se volete, per il forestiero ci vogliamo noi
altri!...»

«Bisognava sentire cosa dicevano di me i Francesi nel cinquantanove!»
interruppe Ambrogio.

«E di me, cosa non dicevano! Ma tornando all’avvocato, un giorno gli
domandai: E lei di che paese è? Io sono di.... e mi disse un nome
lungo, che non avevo mai sentito, e che comincio appena adesso a
imparare; un nome stravagante e che non vuol dir niente, come usano
questi foresi. Mi disse poi che questo suo paese era lontano un
quaranta o cinquanta miglia; e per allora non gli domandai altro.
Passa una settimana, ne passano due, ne passano tre, e intanto
l’avvocato veniva a cercarmi a ogni tratto; non poteva staccarsi da me,
proprio come un bambino di sei anni! e sì che capii subito che era un
talentone, sapete!... ma insomma non faceva più nulla se non aveva un
parere del signor Figini! Egli era sempre in casa mia e.... era tanto
innamorato di me, che a poco a poco finì con l’innamorarsi anche di
mia figlia! Piano! piano!... alto là!... alto là! pensai subito tra
me. Qui non si scherza.... patti chiari, amicizia lunga! La cosa però,
capirete, era difficile e delicata. E qui, bisogna che ve lo confessi,
ho dovuto proprio persuadermi che, in fatto di saper condurre le cose
come va, la cedo a pochi. Chi sa cosa avrebbe fatto un altro? Chi sa
che pasticci!... Io cominciai a fingere di non capir nulla, tenendo
però d’occhio a tutti....»

«E domandando intanto le informazioni necessarie....»

«Adagio! adagio! Prima di domandare le informazioni agli altri, ho
voluto farlo cantar lui, per poi fare i confronti, capite!»

«Ah!»

«E così discorrendo, come si fa, della politica e del bel tempo, venni
a risapere che l’avvocato ha del suo più di quello che lui non creda;
che ha una casa che guarda su una piazza; e che ha avuto per di più
anche una eredità. Vi par che basti?»

«Eh sicuro!»

«Ma Giovanni ne volle sapere di più! E seppe che l’avvocato aspetta da
un giorno all’altro un impiego, ma che impiego! Seppe che l’avvocato ha
degli amici in alto, e nelle Camere e dappertutto; che nel suo paese
poi è il _factotum_ dei primi signori, di due o tre marchesi, e che è
l’amicone, indovinate un po’ di chi?... dell’ingegnere Mevio...»

«Oh! di quell’ingegnere.... così allegro....»

«Che avete veduto tante volte al caffè....»

«E che quando vuole un bicchier di vino dice: datemi la mia semata! Eh!
lo conosco; mi saluta sempre.»

«Ed è un uomo di gran talento, sapete? è un omone! Dunque, appena seppi
che l’ingegnere Mevio conosceva il mio avvocato, ho detto subito tra
me: siamo a casa! faremo cantare anche l’ingegnere, noi! Pensate, come
ho dovuto esser fine io, per cavare dall’ingegnere tutto quello che ho
voluto, senza che egli ne capisse un bel niente! E ci ho cavato tutto,
tutto! Anche ieri m’ha detto d’aver pranzato con l’avvocato Della
Valle in casa d’uno di questi marchesi. Pensate se mi voglio divertire
quando gli dirò: l’avvocato Della Valle diventa mio genero, e in questo
matrimonio c’è entrato un poco anche lei, signor ingegnere, proprio
anche lei! Manco male, le manderò i confetti!»

«Dunque è affar conchiuso! E il matrimonio si fa presto?»

«Presto, prestissimo. Che volete? mentre io facevo le mie indagini,
questi due ragazzi se la intesero subito, loro. La mia Enrichetta si
faceva ora pallida, ora rossa; mandava dei sospiri lunghi lunghi, e
voleva come non lasciar capir niente. Ma io pensavo tra me: ci vuol
altro! anche tu hai il cuore fatto di pasta dolce, com’era a’ suoi
tempi quello di tuo padre! Però, siccome eravamo da principio, io
facevo l’indifferente, con la mia faccia solita, e tenevo duro a non
capir niente. Finchè, un giorno.... guardate un poco cosa succede
quando non ci si pensa prima! vedendo Enrichetta più malinconica
del solito, cercai di farla parlare: ella taceva; io insistevo; e il
fatto è ch’essa finì col buttarmi le braccia al collo, e a piangere,
a piangere.... Povera figliola! io credetti proprio che in quel punto
mi rimanesse soffocata nelle braccia. — Sì, Enrichetta, so tutto! Sono
tuo padre.... farò il possibile.... ho già avuto tante notizie sul suo
conto.... notizie bonissime. — E non era vero niente. Ma vi domando io,
caro Ambrogio, come si fa a rispondere diversamente quando non potete
ragionarla un poco a lungo?... e io in quel momento, cosa volete!
mi sentivo alla strozza un certo non so che, che c’è voluto fatica a
mandar fuori anche quelle poche quattro parole. Per fortuna le notizie,
quando vennero, furono buone davvero. Però da quel momento io avevo
detto tra me e me: Giovanni, qui bisogna decidersi e far presto! Se vi
volessi dire come feci a tirar l’avvocato sul discorso, come si combinò
ogni cosa tra noi tre; e poi gli abbracci, i complimenti, l’allegria,
non la finirei più. Insomma quando sono con l’avvocato mi pare d’esser
io Enrichetta, e quando sono con l’Enrichetta, mi pare d’esser io lo
sposo! Non ho mai ricevuto tanti baci in vita mia!... Mi amano!... mi
amano!...»

«Mi fa proprio piacere che vi sia toccata questa consolazione!»

«Grazie, caro Ambrogio. Di voi n’ero sicuro. Son due mesi che
teniamo la cosa in gran secreto, perchè c’era pur qualche affaruccio
da spicciare. Anzi l’avvocato avrebbe voluto aspettare, prima di
stringere i nodi, che di questo tal impiego ci fosse proprio anche il
decreto sulla gazzetta; e avrebbe voluto poi che fossi andato al suo
paese a domandar conto di lui; a mettere il naso ne’ suoi affari; a
verificare, a sindacare.... figuratevi!... ma io, delicatissimo del
pari, per quanto lui insistesse, mi misi al muro, e non ho voluto
saperne. Eh diamine! È vero che quest’impiego, come dice l’avvocato,
non c’è ancora, ossia non hanno ancor detto: voi andrete a sedere in
quell’uffizio od in quell’altro; ma queste, soggiungo io, son cose di
pura forma, son quasi cerimonie quando si hanno delle promesse, quando
si hanno certe lettere in mano, come le ha l’avvocato. Per l’impiego,
sia detto tra noi, chi s’è preso l’impegno è un deputato, ma uno dei
primi deputati del Parlamento! Questo signore, fin da quattro mesi fa,
ha presentata la supplica al ministro, il quale la prese, la lesse, poi
la mise nientemeno che nella tasca in petto del soprabito, dicendo:
l’avrò a cuore, non dubiti, l’avrò a cuore! — Ma c’è di più! Siccome
il deputato insiste, e scrive al ministro direttamente com’io potrei
scrivere a voi, così il ministro gli ha risposto un mese fa, con queste
precise parole: _Sarà difficile che possa trovar così subito_.... ma
notate che è passato un mese.... _una nicchia per il suo raccomandato;
ma le ripeto che l’avrò a cuore, e che farò per lui quanto mi sarà
possibile, se le circostanze lo permetteranno_. E sotto c’è il nome
del ministro scritto di tutto suo pugno. Capirete che quando un
ministro, che può far tutto, dice _farò quanto posso_, per chi è buon
intenditore, ce n’è fin troppo! Le altre parole.... son parole, e
queste lettere diplomatiche bisogna poi anche saperle interpretare.
Cosa ne dite?»

«Eh! è chiaro, chiarissimo. Quando si hanno di queste protezioni....»

«È quel che dico anch’io. Per cui pensate che fortuna è capitata alla
mia Enrichetta! Sposare in un colpo solo un avvocato, un impiegato, e
uno che ha del suo finchè ne vuole!»

«Ricco anche del suo!»

«Eh altro! Lui ha una casa che guarda su una piazza; lui ha i suoi
camperelli, i suoi capitalucci.... Sicuro che a sentir lui sono un
niente, e ogni giorno mi vorrebbe tirare al suo paese perchè vedessi
le cose coi miei occhi. Ma io li conosco questi campagnoli!... tutti
eguali!... pieni di denari, non sanno d’averli, e fanno il povero!
N’ho conosciuto una volta uno di questi campagnoli, che a sentirlo gli
avreste fatta la limosina: ebbene, quando è morto, gli hanno trovato
nel canterano un sacchetto pieno d’oro! Capite! Volete che io vada a
far le stime, e gli inventari, come un usciere, o come un rigattiere?
Bella confidenza che ha il futuro suocero! direbbero in quel paese. E
così farò veder loro, a quei campagnoli, con un tratto nobile, come
si faccian le cose dai cittadini.... e cosa siano all’occorrenza i
Milanesi!...»

«Bravo il nostro Giovanni!»

«Eh? le sappiamo fare a dovere le cose, noi di Milano? lo dico sempre
io! Ma non è tutto qui: vi conterò una qualche volta, con più comodo,
che contegno è stato il mio quando appunto, in queste cose di denaro,
s’è dovuto mettere un poco di nero sul bianco. Ho trattato come un vero
cavaliere! e ne sono ben contento. Ogni giorno ho un motivo di più per
poter dire che pari all’avvocato Della Valle ce n’è pochi, e che alla
mia Enrichetta è capitata una gran fortuna! Ma la mia Enrichetta, dico
il vero, la meritava!... La mia buona Enrichetta!... L’avevo io il
presentimento, fin da quando era bambina, che sarebbe salita in alto,
in alto! E per questo non ho badato a spese: la mi è costata un occhio!
ma ne sono contento. Fin due maestri a un tempo le facevo venire! La
calligrafia poi gliela ho insegnata io. Se vedeste che bel corsivo
inglese è il suo! E oltre il corsivo, conosce profondamente due o tre
altri caratteri; sa fare qualche iniziale allegorica, con frecce, o
foglioline d’alloro.... insomma anche in quanto alla calligrafia mia
figlia può andare nelle prime società, senza soggezione di nessuno.»

«Benissimo! Con tutto questo però, ve ne rincrescerà fino all’anima,
povero Giovanni, a staccarvi dalla vostra figliola!...»

«Staccarmi dalla mia figliola? Oh questo mai!... E poi l’avvocato
è troppo innamorato di me! non ve l’ho detto? Guai se parlassi di
lasciarli andar soli!»

«A proposito, vostro genero avrà l’impiego in Milano?»

«Pare di sì.»

«E se poi gli toccasse d’andar via?»

«Gli andremo dietro! Dovete sapere che tutti i forestieri coi quali
ho parlato, m’hanno sempre detto che si capisce ch’io avevo una gran
disposizione per viaggiare! E infatti, io la vedo piuttosto di buon
occhio anche la gente degli altri paesi. Sicuro! caro Ambrogio; chi sa
che una qualche volta non ce lo vedano proprio anche il vostro Giovanni
in qualcuno di questi paesi lontani! Se ci vado, lasciate fare a me: ci
penso io a mettere in ordine dappertutto la guardia nazionale! Lo farò
veder io a quella gente cosa dev’essere la guardia nazionale! Chi sa
che disordine! che babilonia! che indisciplina ci trovo!...»

«Ehi! signor sergente!... Se dorme, la si svegli! Non c’è la stufa qua
fuori! La mia ora è finita da un pezzo!»

A questa chiamata improvvisa, il nostro sergente saltò in piedi, e vide
sulla porta del camerotto la sentinella, con la faccia intirizzita, e
col piglio di cattivo umore.

«Oh! la mi scusi.... vengo subito. Son così matti questi orologi!...
non ce n’è due che vadano d’accordo!» esclamò il nostro Giovanni,
mentre la sentinella ritornava al suo posto, borbottando: «Dimenticare
le sentinelle con questo freddo.... bella disciplina!...»

«Ehi là! a chi tocca!... signor Pietro!» continuava il sergente
avvicinandosi alle brande.... «Eh! dormono come tassi!... Abbiate
pazienza, Ambrogio, fatela voi adesso la vostr’ora, ve la terrò
breve... e poi continueremo il nostro discorso.»


V.

Dunque nel caffè di Castelrenico le cose le si sanno, e non ci si dicon
frottole! È là che abbiam sentito per la prima volta che l’avvocato
Massimo prendeva moglie; e che la cosa fosse vera, lo possiamo ora
attestare anche noi tutti, che abbiamo udito il discorso del signor
Giovanni. Se in Castelrenico c’era qualche incredulo, questo ebbe
presto sotto gli occhi le prove del contrario, perchè Massimo, pochi
giorni dopo la sua partenza, scrisse a quattro o cinque de’ suoi amici,
e diede loro la nuova del suo matrimonio. Sopra questo fatto in caffè
si discusse molto. — «Ah qui c’è del mistero!... Qui non ci si vede
chiaro!... Non dir niente a nessuno.... andare a Milano.... dopo una
settimana scrivere che s’è sposi.... insomma non ci si vede chiaro!...
Massimo non è più lui, e caso mai voglia darla a bere a qualcuno,
pigli i Milanesi, ma non quelli di Castelrenico!» — A chi parlava
così s’univan poi quelli ch’eran piccati che Massimo avesse scritto
ad altri e non a loro. La conclusione unanime fu che non gli si doveva
rispondere, e quelli che avevan avuta la lettera furono i più fieri in
questo partito: l’avvocato Massimo però riceveva da ciascuno, il giorno
dopo, una risposta tutta congratulazioni e proteste d’amicizia.

Diremo a giustificazione di Massimo, che se questa volta s’era
tenuto un poco abbottonato con gli amici, era stato in grazia d’un
certo timore che l’aveva preso prima di partire, che cioè l’affar
dell’impiego potesse andar per le lunghe; e fino allora egli era
stato sempre fisso che senza impiego non si faceva matrimonio. Ma
giunto a Milano, le istanze del signor Giovanni e della sposa furon
tali che dovette cedere; e così per il matrimonio si fissò il giorno,
e si permise all’impiego di arrivare anche un po’ dopo. Questa
condiscendenza però aveva lasciato al nostro Massimo qualche scrupolo;
non pochi nuvoli attraversavano di tanto in tanto la sua contentezza,
e per diradarli egli era andato in que’ giorni tempestando di lettere
il suo amico deputato, perchè spicciasse questa faccenda dell’impiego
or che tante ragioni lo facevano diventar urgente. Il deputato aveva
risposto cento belle cose, ma sempre mietute nel campo delle speranze:
la risposta che doveva metter la gioia in tutti non arrivò proprio che
il giorno stesso del matrimonio.

In quel giorno, uno de’ primi del gennaio, non c’era stato un minuto
di riposo in casa del signor Giovanni. Era stato un andirivieni
continuo di parenti, di amici e di curiosi: il campanello di casa
aveva risonato tanto da assordare. Eran visite o ambasciate; era la
sarta o il parrucchiere; eran fattorini con ceste di focacce, paste
dolci e bottiglie, perchè c’era invito di amici per la sera. Insomma
avevan tutti tanto di testa, e fin gli sposi auguravano in cuor loro
che finisse presto questo giorno, che pur avevano aspettato come il
più bello della vita. Verso il tramonto ci fu un po’ di tregua. Non
eran rimasti che quattro amici, tra cui l’ingegnere Mevio e Ambrogio,
il compagno d’armi di Giovanni, che dovevan fare da testimoni, e una
parente che doveva accompagnare Enrichetta alla chiesa. Alla chiesa si
doveva andare più tardi, dopo aver pranzato tutti in compagnia.

Tutti s’eran detto da un pezzo che a quel pranzo ci doveva essere tanta
allegria, che nessuno avrebbe saputo come star nella pelle. L’ingegnere
Mevio cominciò infatti a tavola qualche barzelletta a proposito del
matrimonio e degli sposi, e gli invitati fecero il possibile per rider
proprio di cuore. Anche Giovanni, per far gli onori di casa, dava di
tanto in tanto in una gran risata; ma la risata finiva presto senza
ch’egli lo volesse, e quasi a suo dispetto. Allora guardava i suoi
sposi, i quali gli ricambiavano un sorriso in cui c’era tutt’altro che
quell’allegrionaccia che tutti s’eran promessa. Pareva anzi che su quel
sorriso fosse disceso un leggier velo di malinconia. Eppure que’ due
sposi eran felici davvero! ma ogni minuto che li avvicinava a quell’ora
tanto solenne, raccogliendo gli animi loro, vi suscitava una gioia,
ma insieme una trepidazione di più. Era parso loro mille volte d’aver
proprio bisogno di dire il loro affetto al mondo intero; ma in quel
punto s’accorgevano che anche que’ pochi quattro amici eran di troppo.

Alle frutte si udì una nuova scampanellata. Giovanni fece un moto
d’impazienza, come a dire che, a quell’ora almeno, avrebbero dovuto
desinare, e starsene a casa loro, anche i seccatori. Poco dopo entrò
la serva con una lettera diretta all’avvocato Della Valle. Questi la
prese, riconobbe la mano di scritto del suo amico deputato, l’aprì,
la lesse rapidamente, e diede in una così lieta esclamazione che fece
balzar in piedi il signor Giovanni, e deporre coltelli e forchette a
tutti i convitati. Sulla faccia di Massimo era comparsa a un tratto
un’allegria così schietta, quale nessuno gli aveva veduta mai.
«Leggete, leggete pure,» diss’egli rizzandosi; e Giovanni che non
ne poteva già più per l’impazienza, prese la lettera, si mise gli
occhiali, e lesse ad alta voce:


  «Carissimo Avvocato,

»In questo punto mi vien data una buona nuova per voi, e ve la scrivo
in tutta fretta per non ritardarvela d’un minuto. Poco fa, nell’uscire
dalla sala del Parlamento, passai vicino a quel ministro, a cui vi
avevo così calorosamente raccomandato. Il ministro, vedendomi, si
rizzò, mi strinse la mano e mi disse: — Sono lieto di poter fare
finalmente qualcosa per il suo raccomandato: il posto c’è, e tra pochi
giorni potrò firmare il decreto. Il suo raccomandato desidera rimanere
in Milano, nevvero? È cosa che si potrà combinare facilmente.... ne
parleremo; passi da me....

»Dopo queste precise parole mi strinse la mano di nuovo, e ritornò al
suo posto. Dunque, come vedete, la cosa è fatta. Fra qualche giorno
andrò dal ministro, saprò di quale impiego si tratta, e farò tutto
il possibile perchè rimaniate a Milano. Vi scriverò dunque di nuovo e
prestissimo, perchè abbiate più completa la bella nuova d’oggi.

»Vi stringo la mano, e mi congratulo di cuore con voi.»

La fine di questa lettera fu accompagnata da un batter di mani e da
un evviva generale. Tutti si levarono da tavola, e Massimo corse a
stampare un bacio sulla fronte di Enrichetta: non si sarebbe detto più
che que’ quattro amici presenti fosser di troppo! La gioia di sentirsi
quel lungo dubbio giù dalla coscienza, era stata più forte d’ogni altro
sentimento più ritenuto e delicato.

«Che bella lettera! Come scrive bene questo deputato!» aveva esclamato
per prima cosa Giovanni, togliendosi gli occhiali, e tenendo la lettera
spiegata. «Eh, ne abbiamo degli uomini!»

«Evviva il nostro consigliere di governo!» gridava l’ingegnere Mevio,
alzando un bicchiere da cui non s’era staccato nel lasciar la tavola.

«Eh sicuro! qui si tratta d’un posto di consigliere,» diceva uno dei
convitati.

«E a dir poco!» soggiungeva un altro.

«Piano, piano, non sarà poi tanto!» disse alla sua volta anche Massimo
con una certa modestia.

«O consigliere o non consigliere, qui si tratta di qualcosa di grosso!»
ripigliava Giovanni. «Credete voi che un ministro si levi dal suo
posto, che è il posto dei ministri, per discorrere di una bagattella?
Voi siete sempre l’uomo dei dubbi, caro Massimo. Quante volte non
mi avete detto che non avevate fiducia negli attuali ministri, che
bisognava cambiar l’indirizzo politico del ministero!...»

«Eh, li credevo proprio, come li dicono i giornali, guidati da idee
piccole, poco liberali.... amici e fautori solo dei loro amici....»

«E cosa vi rispondevo io? Vi rispondevo che prima di parlare, bisogna
veder le cose coi propri occhi; vi rispondevo che bisogna andare adagio
nel mancar di rispetto a chi comanda, se no non si troverà più un cane
che ubbidisca; vi rispondevo che le chiacchiere son chiacchiere, e che
io sarei sempre corso col mio uniforme e col mio fucile per mantenere
il buon ordine!»

«Insomma avevate ragione voi, non parliamone più.»

«Così mi piace! Ma se parlavo così, era perchè io avevo capito da un
pezzo che quel ministro era un brav’uomo. _Finalmente sono lieto_, son
sue parole, e ci si vede anche l’uomo di cuore! Rizzarsi premuroso....
stringer la mano.... mi par di vederlo quel brav’uomo! E in quell’aver
capito a colpo d’occhio che voi siete proprio fatto per un impiego....
in quel veder subito il modo di aggiustare le faccende.... lasciarvi a
Milano.... come si capisce l’uomo di Stato!...»

«Però, s’io ero nei panni di quel signor deputato,» interruppe
l’ingegnere Mevio, «facevo un poco di faccia tosta, e gli domandavo
lì per lì di che impiego si tratta, per non tenervi sulla corda una
settimana ancora.»

» Eh, vi pare,» gli rispose Giovanni; «la sarebbe stata poi una
indiscrezione!...»

«Capisco, ma sapete come son fatto io! Intanto, beviamone un bicchiere
alla salute del ministro, degli sposi, e del nonno dei consiglierini
che nasceranno!»

Questa piacque a tutti, e principalmente a Giovanni, che fu subito in
faccende a sturar bottiglie, a empir bicchieri, e a ricambiar degli
evviva con tutti quanti.

«A proposito!» saltò su a un tratto l’ingegnere Mevio, «ho
un’imbasciata per voi, avvocato, e per la sposina.... proprio anche per
la sposina! Indovinate un poco di chi?... Del marchese Renica. Sicuro,
il marchese mi ha domandato conto di voi più d’una volta; s’è parlato
del vostro matrimonio, e ieri mi ha detto che desidera di conoscere la
sposina, _la sposina che dicono tanto bella_! son sue parole.»

«Oh diamine! quel signor marchese ha detto così!...» interruppe
Giovanni. «E voi, Massimo, che non gli avete fatto ancora una visita,
dopo che siete a Milano!»

«Ne avevo tante per il capo! Ora ci andrò.»

«E bisognerà condurci anche Enrichetta: cosa ne dite, ingegnere?»

«Lasciate fare a me, combinerò io ogni cosa.

Domani, scommetto, me ne discorre lui per il primo, perchè sa che oggi
si faceva il matrimonio, e che io passavo la serata in casa vostra.»

«Per cui il marchese avrà parlato anche del suocero!» disse Giovanni.
«A quanto ne sento, dev’essere un omone quel marchese! Avevate fatto
proprio male voi, Massimo, a non andarci finora! Quando si aspetta un
impiego di tal fatta, quando si è in alto come lo siete voi, ci vuol
tutto in proporzione, anche gli amici! Il quartierino, per esempio,
che avete preso qui vicino al mio, vi pareva fin troppo grande, troppo
di lusso. Andate là, andate là! dicevo io. E adesso, vedete un po!
non so neanche se basterà. Cosa ne dite, ingegnere? vi pare che quel
quartierino possa bastare, caso mai ci venisse in visita il marchese
Renica, o qualche altro personaggio?...»

«Le carrozze! ci son le carrozze!» venne a dir la serva in tutta
fretta, mettendosi a un tempo il velo in testa, per correr subito alla
chiesa anch’essa, e vedere la padroncina a prender marito.

La signora che doveva accompagnare Enrichetta all’altare, e che fino
a quel punto non aveva detto sillaba, colse quel momento, in cui
anche lei diventava un personaggio d’importanza, per prendere la
direzione degli ultimi preparativi. Fu lei che mise il velo bianco
alla sposa; che si levò di dosso qua e là una dozzina di spilli per
tenerle in riga un fiore, un nastro, una piega del vestito; che le
diede gli avvertimenti necessari sul modo di scender di carrozza, e
di inginocchiarsi all’altare, senza sconciar nulla. Anche gli altri
in fretta si attillavano alla meglio, per far buona figura. Giovanni,
tutto rosso in faccia, era alle prese con un guanto nuovo che gli si
era piantato a metà della mano e non voleva più andar avanti. «Facciamo
presto.... non facciamoci aspettare....» diceva di tanto in tanto per
non tenersi tutta la responsabilità del ritardo.

Infine, la signora, com’ebbe data l’ultima lisciatura, e un’occhiata
generale alla sposa, girandole intorno due o tre volte, e come s’ebbe
acconciati anch’essa allo specchio, con la debita cura, i capelli, il
cappellino e la mantiglia: «Noi siamo pronte,» disse con molta gravità;
«andiamo.»

«Nessuno ha dimenticato niente?» domandò Giovanni.

Enrichetta s’avviò per la prima, la comitiva le andò dietro; scesero le
scale e presero posto nelle due carrozze che aspettavano in corte.

I curiosi corsi in chiesa a veder gli sposi eran molti. C’era tutto il
vicinato, i bottegai del quartiere, mezza la compagnia dei militi di
cui era sergente il signor Giovanni. Il conoscer mezza Milano, era una
delle cose a cui Giovanni teneva di più; e a questa mezza Milano egli
non aveva fatto, da parecchi giorni, che parlare pomposamente, più che
aveva potuto, del gran matrimonio della sua figliola, annunziando a
tutti la sera in cui lo si sarebbe fatto.

Mentre si avviava all’altare, nel mezzo della lunga navata della
chiesa, quegli occhi rivolti su lei, quel bisbiglio, quelle parole
che da ogni parte le giungevano confusamente, diedero a Enrichetta una
commozione nuova, improvvisa, e quel senso quasi di timore di chi muove
il passo sur una strada che non conosce. Sentì, in quel momento, che le
si affacciava come una vita nuova; sentì finita l’esistenza tranquilla,
ignorata della fanciulla; si trovò in mezzo alla gente, osservata,
giudicata. Non vide più nulla fuor che i ceri accesi dell’altare, e non
ebbe che un’ansietà, quella di poter presto appoggiarsi al braccio del
suo sposo.

Eppure, in quel bisbiglio, in quelle parole, non c’erano ancora i
giudizi severi, inesorabili, senza appello e senza grazia, di cui
c’è tanta abbondanza nel consorzio umano, e di cui tutti sono a un
tempo dispensatori e vittime. In quel bisbiglio e in quelle parole non
c’era che un’ammirazione unanime per la sposa; anche dello sposo i più
dicevano che era un bell’uomo: i motteggi non mancavano, ma andavan
tutti sulle spalle di quei della comitiva. Ed Enrichetta infatti era
pur bella! Aveva un bel vestito di seta bianca; un velo bianco le
scendeva dal capo e ravvolgeva, senza nasconderle, le forme snelle,
eleganti della persona; i suoi capelli biondi, i suoi grand’occhi
celesti, e quello stesso pallore maggior del solito, davano alle linee
purissime del suo volto qualcosa di così quieto e soave, che in mezzo
al buio della chiesa la potevano quasi far parere un angelo staccatosi
dal quadro annerito d’un altare.

Ecco perchè tanto quei del vicinato, che i militi della compagnia del
signor Giovanni, tutti di così difficile contentatura nell’argomento
del bello, quella sera si dichiararono soddisfatti.

«Tutto è andato proprio bene, benissimo!» disse Giovanni nel rientrare
in casa con la comitiva, e nel levarsi quel guanto che era stato fino
a quel punto il solo ostacolo alla sua piena felicità. «Peccato che
un matrimonio sia così subito fatto, e che una così bella cerimonia
finisca così presto!» Allora non si faceva il matrimonio civile, e
Giovanni non potè avere una consolazione di più. «Oh, ma cosa vedo
io mai!» esclamò interrompendosi bruscamente. «Enrichetta, non hai
messo al collo la bella croce a pietruzze che t’avevo fatto fare
appositamente! Oh che peccato! ma sicuro! ma come mai....»

Enrichetta tirò da parte suo padre, e gli disse all’orecchio, con un
accento dolce, tranquillo, e che voleva parere meno mesto delle parole:
«Babbo, lo so! Vedi che cosa ho messo invece?... ho messo questo
coricino dove c’è il ritratto della povera mamma.... La povera mamma
me lo mise al collo prima di morire, dicendo che me lo tenessi sempre,
perchè m’avrebbe fatto pensare a lei.... e mi avrebbe fatto indovinare,
nei momenti seri della vita, i suoi consigli.... poichè essa non poteva
darmeli più. M’ha detto che lo tenessi sempre, e che mi avrebbe portato
fortuna....»

«Hai fatto bene!... hai fatto bene!» disse Giovanni asciugandosi
una lacrima. «Se ci fosse la mia povera Carolina... come sarebbe
contenta!...»

Ma intanto la sala si empiva di invitati, e da ogni parte era un
domandare: «Dov’è la sposa? dov’è il signor Giovanni?»

E il signor Giovanni e la sposa dovettero troncare quel loro discorso,
pigliare a prestito in fretta un po’ di faccia allegra, e correre a
ricevere le congratulazioni e a far gli onori di casa.

Degli invitati ce n’era parecchi che, pigliando alla lettera quello
che loro aveva detto Giovanni di venir senza cerimonie e in confidenza,
non s’eran dati neppur l’incomodo di mutarsi i panni messi la mattina.
Altri, pigliando una via di mezzo, s’eran rassettati un pochino e
s’eran messi i guanti. E c’era finalmente anche di quelli che, a far
vedere come si fanno le cose, eran venuti in giubba, guanti gialli
e cravatta bianca. A questi Giovanni mostrava, con ogni sorta di
attenzione, la propria riconoscenza. Anche alcuni militi, che per far
onore al loro sergente, eran venuti in uniforme, avevano toccato il
cuore di Giovanni, e s’eran trovati subito al medesimo livello di quei
della giubba.

Mentre venivan gli invitati, ogni tavola e ogni tavolino della sala
era stato coperto di vassoi ricolmi di confetti, paste dolci, torte,
sorbetti, chicchere di zabaione, bicchieri, bottiglie di vino.

Giovanni, Massimo, l’ingegnere Mevio, aiutati da qualche altro tra i
più volonterosi, cominciarono a servire tutta quella imbandigione, ora
facendo coraggio agli invitati perchè si avvicinassero ai tavolini, ora
portando in giro vassoi e porta-dolci. Mevio era dappertutto; chiamava,
gridava: a tutti ne diceva una; faceva ridere o rideva lui per tutti.
Giovanni, mostrando d’aversela a male se qualcuno non si serviva
per quattro, aveva un gran da fare a raccomandare che soprattutto si
lasciasse da parte l’etichetta.

E l’etichetta fu lasciata da parte prestissimo senza molla fatica.
Mano mano che si vuotavan bottiglie e vassoi, lo schiamazzo andava
crescendo, e non ebbe più ritegno quando Mevio, levata di tasca una
cartolina, lesse un sonetto, come diceva lui, ossia quattro facce di
strofette in versi, molto sciolti, quantunque rimati.

Mentre l’ingegnere declamava per la seconda volta il suo sonetto,
la serva portò in sala un panierino e una lettera che venivano da
Castelrenico, ed eran per l’avvocato Massimo. L’avvocato Massimo riuscì
appena a prender la lettera, poichè sul cestello mise le mani Giovanni:
«Un regalo!... un regalo per gli sposi!... apriamo.... vediamo!»

Mevio dovette raccorciare il sonetto e saltare alla chiusa, perchè i
più s’eran già fatti in giro al panierino, e ognuno voleva dare una
mano a Giovanni che si studiava d’aprirlo. L’avvocato Massimo, tiratosi
in disparte, lesse la lettera che diceva così:


  «Carissimo cugino,

«Avendo saputo che domani è il giorno del vostro matrimonio, tanto io
che mia moglie vi mandiamo proprio col cuore le nostre felicitazioni.
Non potendo venire in persona, c’è venuto in mente di mandarvi qualche
piccola cosa per farvi festa anche noi alla meglio. Mia moglie si
fa coraggio di far accettare alla vostra signora sposa un piccolo
astuccio, che era tra gli oggetti che ho ereditato anch’io dallo zio,
e che io le avevo regalato, ma che non è cosa adattata alla nostra
condizione.

«Io, non avendo di meglio, vi mando due pernici. Non mi costano
un soldo, ma valgon molto perchè me le ha regalate un mio amico
cacciatore, che di solito non piglia mai niente.

«Scusatemi la confidenza, e accettatele di buon cuore. Non mi dovete
neanche dir grazie. Volete che io mangi delle pernici? Queste,
ho detto, devono proprio essere per l’avvocato il giorno del suo
matrimonio.

«Siamo in casa un poco melanconici perchè in questi giorni il mio
figliolo maggiore. Tonino, è partito per la Svizzera condotto da un
mio amico, per imparare con perfezione il nostro mestiere. Dovrà star
lontano un paio d’anni.

«Di salute però stiamo bene.

«Tanti rispetti alla vostra signora sposa. Io valgo poco, ma però in
quel poco comandatemi sempre.

«Vostro affezionatissimo cugino

                                               «MARTINO DELLA VALLE.»

Giovanni intanto aveva aperto il panierino, l’aveva vuotato, e n’era
rimasto alquanto deluso. Nell’astuccio c’eran due orecchini d’oro
di filagrana, con una perluccia nel mezzo, e una catenina di Venezia
antica a più giri da portare al collo. Nè la catenina nè gli orecchini
piacquero ad alcuno. Giovanni e gli astanti non lo dissero, ma
palesarono unanimi che non si regalano di queste cianfrusaglie a una
sposa di riguardo. Tanto tanto, le due pernici parvero un poco più
adatte alla circostanza. Enrichetta domandò allo sposo da chi veniva
quel dono; e l’avvocato, che aveva messa la lettera in tasca, rispose
un poco imbarazzato che lo mandava un tale del suo paese... un buon
uomo... ma un poco originale!

«Un originale» ripeteron parecchi: «si capisce!»

«Questi campagnoli non conoscono le convenienze;» pensò tra sè
Giovanni, e mise il panierino da parte. L’ingegnere Mevio ricominciò il
suo sonetto, e pochi minuti dopo era ricominciato anche lo schiamazzo
di prima.


VI.

Due giorni dopo le nozze, l’avvocato Massimo, per aver pace col socero,
era andato a far visita al marchese Renica, e gli aveva annunziato il
suo matrimonio. Il marchese, con l’aria un pochino di protezione, ma
con molta dignità e galanteria, gli aveva detto che sarebbe lietissimo
di conoscere anche la sposina. E Massimo, dopo qualche complimentuccio
ingarbugliato, aveva finito col rispondere che si sarebbe fatto premura
egli stesso di condurgli e presentargli sua moglie. Il marchese aveva
sorriso leggermente, e non aveva risposto altro; ma il giorno dopo
facendosi accompagnare dall’ingegnere Mevio, e con una cert’aria
galante e conquistatrice che amava ripigliare di tanto in tanto, era
andato a fare una breve visitina alla signora Enrichetta Della Valle.

È facile immaginarsi la desolazione del signor Giovanni quando seppe
che il marchese Renica era passato dinanzi al suo uscio, era stato nel
salottino di sua figlia, e se n’era andato proprio pochi momenti prima
ch’egli tornasse a casa.

«Ma guardate che combinazione!» andò ripetendo Giovanni per tutto
quel giorno. «Potevo essere a casa mezz’ora prima!... ma signor no! a
cento passi dalla mia porta do il naso proprio in un forestiero!...
mi ferma, e mi vien fuori con uno di que’ linguaggi che si direbbe,
poveretti, che sono imbarazzati anche loro a capirli! Lo aiuto alla
meglio a spiegarsi, e concludo che costui voleva andare in piazza del
Duomo. Ho cercato io di insegnargli la strada... parlando chiaro e
forte che quasi non avevo più polmoni... ma fu inutile! Son duri questi
forestieri, duri! E ho proprio dovuto accompagnarlo io, in persona, fin
là!»

Ma, pochi giorni dopo, un nuovo avvenimento metteva sossopra il nostro
Giovanni ancora di più. Il marchese Renica aveva trovato che la signora
Della Valle era bellissima, bella come le signore d’una volta, e come
non ne vedeva da un pezzo; ragione quest’ultima per cui aveva anche
smesso, come diceva lui, di far la corte alle signore moderne. Sua
nuora, don Gilberto e qualch’altro della conversazione d’ogni sera,
dopo aver fatto gli increduli, e dopo avere scherzato col marchese più
giorni a proposito della sua ammirazione, cosa per lui tanto insolita,
finirono con l’aver tutti una grande curiosità di conoscere anch’essi
questa signora così bella, e trovata così di fresco.

Il marchese li pigliò tutti in parola, e col fare ringalluzzito, e
come disponesse di cosa sua disse: «Ebbene, vi farò conoscere qui, in
questa sala, e tra poche sere, la mia bella sposina!» Ne aveva infatti
un’occasione vicina e favorevolissima, quella del suo onomastico. E
detto fatto, il marchese incaricò l’ingegnere Mevio di invitare in suo
nome l’avvocato Della Valle e sua moglie a prendere una tazza di thè,
la sera di sant’Antonio.

Questo invito fu un avvenimento non piccolo, come dicemmo, per
Giovanni, il quale trovò modo di parlarne con gli amici, col vicinato,
e in quartiere coi superiori e cogli inferiori, senza omettere
l’incontro con quel tal forestiero che gli aveva fatto perdere la
mezz’ora. E concludeva col dire: «Già era tutt’uno, perchè se non
m’imbatteva col forestiero, mi sarei imbattuto poi col marchese, il
quale, dopo avermi conosciuto, avrebbe voluto per forza tirarmi a casa
sua.... Figuratevi! fare delle nuove conoscenze alla mia età!... Oh,
quanto ai miei sposi è un altro par di maniche! È il loro tempo!...
Ma, come dicevo, posso ringraziare quel forestiero, perchè se rientro
in casa cinque minuti prima, ci sono!... L’ho schivata bella!... l’ho
schivata bella!...» E il suo vicino di casa, Ambrogio, cercava di
persuaderlo che non sarebbe stato poi un gran male.

Venuto il giorno di sant’Antonio, alle ore nove della sera, l’avvocato
Massimo e sua moglie, condotti dall’ingegnere Mevio, facevano il loro
ingresso solenne in casa del marchese Renica, preceduti, seguìti,
osservati da capo a piedi da altri signori e signore che mano mano
andavano affollando la sala. Il marchese Renica che di solito era
piuttosto brusco e altiero, ma che teneva in serbo per le occasioni
quella cortesia che si chiama _d’altri tempi_ quand’è perfetta, accolse
l’avvocato e sua moglie come accoglieva tutti quella sera, senza
differenza per alcuno, con ogni sorta di belle maniere e di parole
gentili. Il marchese presentò la signora Della Valle a sua nuora, la
marchesa Giulia, la quale fu cortese anch’essa, ma col fare un tantino
di protezione e di curiosità; un fare un po’ più moderno.

Sulle prime, la soggezione che in loro mettevano i padroni di casa
e tutte quelle facce nuove che si vedevano in giro, gli addobbi
ricchissimi della sala, le lumiere, le livree dei servitori, e fin
Mevio che non era più quel giovialone di tutti i giorni, diedero a
Massimo e all’Enrichetta un grande imbarazzo e un improvviso desiderio
di trovarsi lontani di lì. Ma poi, a poco a poco, finirono anch’essi
col trovare la loro nicchia.

L’avvocato Massimo, che s’era tirato adagio adagio nel vano d’una
finestra, ci trovò il consigliere Rocca, che in Castelrenico non aveva
mai potuto digerire, ma che qui gli parve uno zucchero; e con lui
avviò un lungo discorso sui diritti ipotecari, che avevan poco che fare
con la festa di sant’Antonio, ma che erano in quel punto un porto di
salute.

Enrichetta si trovò seduta vicino a una vecchia signora, di maniere
gentili, con la quale cominciò a ricambiare qualche parola. Qualche
parola di tanto in tanto veniva a dirgliela con galanteria il marchese
Renica, cercando d’esser veduto e sentito soprattutto da don Gilberto;
e frattanto le aveva presentati i suoi due figli, Giorgio, marito della
marchesa Giulia ed Emanuele, elegante uffizialetto di cavalleria; poi,
qualcuno dei suoi amici che aveva veduto avvicinarsi con curiosità.

Don Gilberto, per una vecchia abitudine di mettersi in concorrenza
col suo amico il marchese Antonio, e per poter dare il suo giudizio
sulla signora Della Valle, giudizio ch’egli riteneva il più autorevole
di tutti e il solo decisivo, discorse a più riprese con Enrichetta,
ora con l’aria di farle la corte parlandole piano del bel tempo, ora
con l’aria di chi si ridesse un pochino di lei a seconda di chi lo
osservava.

Enrichetta, che non sapeva di subire in quella sera il suo esame
d’ammissione, rispondeva a tutti col fare semplice che le era abituale,
col suo bel sorriso pieno di grazia e di modestia, e con nessuna
di quelle parole pigliate a prestito che danno così facilmente in
una stonatura. Il risultato dell’esame fu dunque buono, e anche don
Gilberto finì col conchiudere tra sè con un «non c’è male.»

L’esame fu sospeso da un pezzo a quattro mani sul pianoforte che fece
finire a un tratto le conversazioni, e obbligò a trovarsi un posto
in qualche modo e in qualche cantuccio anche tutti quelli che fino
allora eran andati girellando per la sala discorrendo qua e là. Dopo
il primo pezzo, ce ne fu un secondo, poi un terzo; e fecero le loro
prove una signora, un maestro, e un pianista che si degnava prodursi,
per eccezione, anche in quella semplice riunione di famiglia. Un
dilettante, che dilettava poco, cantò una romanza francese; alla
scarsa voce suppliva con la molta espressione, cioè guardando molto
il soffitto, stralunando gli occhi, e tenendosi le due mani sul
cuore per non lasciarselo scappare. Ogni pezzo finiva tra i soliti
_benissimo_ e _bravissimo_, che ognuno proferiva con un fare convinto
e con una smorfia che desse al vicino un concetto non piccolo della
propria intelligenza musicale. La marchesa Giulia prima di ammirare
voleva sapere il nome dell’autore, per non cadere nel cattivo genere
d’ammirare uno di quegli autori che possono essere ammirati da
chicchessia. Quindi nel gruppo dov’era lei, e che era quello delle tre
o quattro signore più eleganti, si ammiravano meno cose, ma per quelle
poche c’era più calore e più disciplina.

Qualcuno, per far capire che aveva degli scaffali di musica in mente,
pregava il maestro, ch’era un uomo compiacentissimo, di sonare sul
cembalo il tale o tal altro pezzo che, per fortuna del maestro, non
era necessario cercare in scaffali troppo polverosi. Fu pregato anche
quel tale della romanza di cantar qualche altra cosa, ma il pover
uomo stentava ancora a riavere il fiato e non ne poteva più. Qualcuno
osservò che l’anima troppo sensibile e la troppa espressione che dava
al canto lo facevan soffrire, e lo si lasciò tranquillo.

Il maestro a un tratto cominciò a sonare un valzer, che fu il segnale
di una rivoluzione. Il marchese Antonio, che quella sera faceva tutto
di vena, chiamò subito due servitori perchè accostassero al muro
qualche mobile ch’era nel mezzo della sala, e si mise a far animo
a tutti perchè facessero quattro salti. Qualche giovanetto di buona
volontà, senza farselo dir due volte, trovata la compagna delle gioie
o delle pene d’un valzer, s’era messo subito, prima ancora che tutti
avessero fatto largo, a ballare con uno slancio degno di maggiore
spazio. Dopo i giovanetti, e quando ci fu un poco più di posto,
vennero quelli che ballano col fare serio e convinto, con le ciglia
aggrottate e con l’attenzione di chi è alle prese o con un problema di
matematica o con un brano difficile d’una lingua straniera. Poi quelli
che aspettano un pezzo la battuta col piede levato, come il bracco che
spia la selvaggina; quelli che si fan rossi in viso e scalmanati da far
pietà, che faticano, soffrono, ma tengon duro fino alla fine. Vennero
quindi i ballerini sentimentali e i ballerini eleganti, che fanno la
loro comparsa non per regola ma per eccezione; e da ultimo qualche
ballerino vecchio, di quei della guardia che muore ma non si arrende; e
qualche signora un po’ in là con gli anni, di quelle che in teoria non
ballano più, ma che in pratica ballano sempre.

Tutto insomma il personale danzante rispose all’appello del pianoforte,
e poco mancò non ballassero anche il marchese Antonio e don Gilberto.
La marchesa Giulia, intenta ora a far gli onori di casa, ora a fare
un poco di conversazione con le amiche e con gli amici più intimi, non
fece che qualche giro di danza, di tanto in tanto, conceduto ben inteso
a qualcuno dei ballerini più eleganti, e della categoria di quelli che
ballano per eccezione.

Enrichetta, guardata da principio con curiosità e un poco alla lontana
da quelli che la vedevano per la prima volta in quelle sale, poi
invitata a ballare da qualcuno, bella, agile, gentile, s’era presto
veduta all’ingiro una numerosa clientela di ballerini che se la rubavan
tra loro.

Tra questi spiccava don Emanuele, l’uffizialetto, come uno dei più
assidui e dei più prepotenti: cosa che don Gilberto si affrettò di far
osservare al suo amico il marchese Antonio.

«Il nostro Emanuelino non è di cattivo gusto, eh!... Si direbbe
che non gli dispiaccia del tutto quella donnina dell’avvocato di
Castelrenico!... E non c’è che dire, la è un bel bocconcino davvero!»

Don Gilberto guardò in faccia al suo amico, aspettandosi una smorfia
non bella; ma il marchese Antonio invece gli rispose con un certo
sorrisetto di compiacenza, che gli era abituale ogni qual volta gli si
parlava di suo figlio Emanuele.

«Guardate un po’ se l’ha adocchiata subito!» continuava don Gilberto.
«E m’ha l’aria di volersela proprio tutta per sè!...»

«Se ci si mette lasciatelo far lui... quel cattivo soggetto!» rispose
il marchese con una compiacenza anche maggiore.

«È tutto suo padre!» ripigliava don Gilberto. «Vi ricordate di quei
tempi?...» E questa volta il marchese si accontentava di rispondere con
una fregatina di mani.

«Temo che mi pigli il passo!» disse poi, dopo una pausa, «perchè
a ventidue anni ha già avuti quattro duelli, mentre io a quell’età
non ne avevo avuto che uno. Buon figliolo però, leale, coraggioso,
e tutto cuore! Un mese fa mi sfidò uno perchè lo fissava sempre, e
quando s’accorse che era losco gli fece le sue scuse e non volle più
battersi con lui; si battè invece con uno dei padrini, ben inteso.
Di tanto in tanto già me ne fa qualcuna, ma poi corre subito a
dirmela lui per il primo. Il babbo allora gli dà la sua ramanzina a
dovere;... ma il mese dopo, di solito, me ne fa un’altra. Tutte cose
onorate, intendiamoci!... qualche debituccio, qualche donnina, qualche
impertinenza.... Raccomando sempre al suo colonnello che me lo tenga
con una mano di ferro; ma ci vuol altro! Quel diavolo ha già rubato il
cuore anche del colonnello....»

«E stasera vuol rubar quello della signora Enrichetta!»

«Oh vi dico io che è un bel soggetto!» E così dicendo, il marchese
Antonio si allontanò con una nuova fregatina di mani.

Poco dopo don Gilberto era seduto vicino alla marchesa Giulia, la quale
faceva crocchio con alcune signore sue amiche, e con qualche elegante
adoratore che capitava di tanto in tanto.

«Chi proprio m’ha l’aria goffa più del bisogno è quel povero diavolo
d’avvocato che se ne sta là, da un’ora, nel vano della finestra, senza
trovar modo d’uscirne!» diceva don Gilberto alla marchesa Giulia,
che sorridendo gli rispondeva: «Veduto in Castelrenico, pareva meno
male....»

«Ma qui, cara marchesa, proprio non va!» continuava don Gilberto. «E
avere una moglie così bellina!... Eh! è venuto in un cattivo paese,
quell’avvocato!... È stato un bel rischiarsi!... E per mettersi al
sicuro non basta sempre, come stasera, il vano d’una finestra!... con
una moglie così bellina!»

«Bellina! è la parola che ci vuole,» soggiunse la marchesa, «perchè a
esser bella davvero, diciamolo, ci manca assai. Basta bellina.»

«Come vuol lei, marchesa. Diremo bellina, ma bellina poi sì! E anche
carina; di modi semplici; discorre benissimo, è un poco imbarazzata,
è vero... si capisce che è appena venuta fuori del guscio... ma è una
donnina che ha dell’avvenire!... Quanto poi all’avvocato....»

«Convengo, don Gilberto, che la signora Della Valle possa farsi anche
migliore,» riprese la marchesa, «senza pretendere, ben inteso, che
acquisti quel non so che, che uno ha ma non impara....»

«Bisognerebbe insegnarle un poco ad abbigliarsi,» soggiunse una delle
signore del crocchio. «Un passo ancora, e poi que’ nastri e nastrini
farebbero pensare alle acconciature dei cagnolini ammaestrati....»

«Ha dei bellissimi capelli,» aggiunse un’altra, «ma bisognerebbe
mandarle a casa un parrucchiere; tanto più che in oggi il parrucchiere
è necessario più che i capelli.»

«Secondo i casi!» osservò don Gilberto sollevando con la mano quei
quattro che gli rimanevano. Poi continuò: «Insomma tocca a lei,
marchesa, a dar qualche lezione a questa signora Enrichetta; a
insegnarle un po’ di buon gusto; a cavarne fuori insomma qualcosa...
perchè l’intelaiatura è buona....»

«E perchè no!» rispose la marchesa. «Ha il fare piuttosto per bene....»

«È una compagna di poche pretese,» continuò con qualche malizia don
Gilberto; «può tornare alle volte comodissima....»

«Scommetterei però» soggiunse la marchesa interrompendolo «che quella
signora ha ben poca salute. Vedete come ha già l’aria stanca...
Ballando ha preso un po’ di colorito, e pare anche più bellina; ma
appena venuta qui, aveva il viso pallido, trasparente, che pareva
d’alabastro....»

«Faceva compassione in verità!» aggiunse una delle due signore.

«A me invece» rispose don Gilberto «fa compassione ancor più
l’avvocato!»

«Oh! perchè? perchè?» saltò su Giorgio, marito della marchesa Giulia,
capitato in quel punto.

«Perchè?...» rispose don Gilberto «perchè ci sono anche gli avvocati
delle cause perse!»

«Oh! oh!» si esclamò nel piccol crocchio; e il marchese Giorgio se ne
andò ridendo un poco troppo, com’era solito.

La festicciola durò fino alle due ore dopo la mezzanotte. L’avvocato
Massimo, che non era stato tra quelli che s’eran divertiti di più,
uscito dal vano della finestra in compagnia del consigliere Rocca, il
quale verso la mezzanotte s’era congedato dai padroni di casa, aveva
anch’esso mostrato timidamente l’intenzione di fare altrettanto, dopo
avere scambiato, con poco frutto, un’occhiata con sua moglie. Ma il
marchese Renica aveva tagliato netto, dicendogli che questa volta
bisognava lasciar comandare il padrone di casa, e i ballerini della
bella sposina: così, fallito quel primo tentativo, non aveva più osato
fiatare. Poco dopo, l’ingegnere Mevio era venuto a invitarlo a fare
il quarto a un tavolino di giuoco con altri tre mariti rassegnati:
ci andò, e ci rimase fin che la sala fu quasi vuota, e le danze di
necessità dovettero finire.

Marito e moglie, tornati a casa, trovarono ancor desto e in piedi
Giovanni che li aspettava e voleva sapere com’era andata. Enrichetta
era stanca, rifinita; dopo alcune parole, con le quali cercò di
esprimere la sua maraviglia e il suo sbalordimento, se ne andò a letto.
Essa avrebbe voluto pigliar sonno subito, ma non ci riuscì che ai primi
crepuscoli del mattino. Quella gente, quelle sale, quel non so che di
così nuovo per lei; quegli omaggi avuti; quelle parole seducenti che
le erano state ripetute e che le avevan dato una specie di fascino, di
soggezione, e di sbigottimento a un tempo, le ritornavano come ripetute
da un’eco; la tenevano quasi agitata, e le impedivano di chiuder
occhio. La mattina seguente, ritrovando la quiete di casa sua, si sentì
subito riposata, si sentì meglio; buttò le braccia al collo del suo
Massimo, e tutta quella fantasmagoria delle cose vedute e udite in casa
Renica svanì, come se tutto fosse stato un sogno e nulla più.

Giovanni, per tornare un passo indietro, non aveva voluto lasciar andar
a letto suo genero così subito. Innanzi tutto gli aveva preparato un
poco di cena, e gli aveva messo sulla tavola una buona bottiglia di
vino vecchio, dicendogli: «Di questo non ne avrete bevuto, perchè so
ben io come vanno le cose nelle case dei gran signori.» Poi, messosi
a sedere, aveva cominciato a farsi dire per filo e per segno quel che
aveva veduto, quel che aveva sentito, e quel che avevan detto, durante
la festa, d’Enrichetta e di suo padre.

Massimo, mentre si rifocillava, e n’aveva bisogno, perchè per una certa
soggezione non aveva osato pigliar nulla tutta la sera, raccontava mano
mano, tra un boccone e l’altro, le cose vedute, e la grande accoglienza
avuta. Giovanni non lo lasciava mai finire, e subito era lì con una
nuova interrogazione, o con una esclamazione.

«Eh sì! i nostri signori di Milano fanno le cose a dovere!» diceva
Giovanni. «Tutte le sale illuminate, stufe e tappeti fin sullo scalone,
livree tutte listate d’oro.... nevvero?... eh sì! i nostri signori ne
hanno dei quattrini!... ma sanno anche dargli aria!... Insomma avete
veduto un gran lusso! e sì che non si trattava che d’una festicciola di
famiglia. Immaginatevi poi le feste in grande! immaginatevi!... Milano
è un gran Milano! ve l’ho sempre detto io.... I gelati bonissimi,
nevvero? Ah! ma voi non avete assaggiato niente.... e avete fatto male,
perchè c’è sempre chi osserva, e pare che non si voglia gradire!...
Siete un poco sbalordito, eh! caro avvocato? Lo capisco.... ma quello
che avete veduto stasera è ancora un niente. Vedrete poi, vedrete
questo carnovale! Vedrete le feste del Casino, vedrete il teatro della
Scala....»

«Ah! il teatro della Scala l’ho già veduto!»

«E i veglioni? e i coriandoli?»

«Ho veduto una volta anche questi, pur troppo!»

«E il corso? e gli equipaggi? e l’Arena allagata? e le botteghe dei
salumieri la vigilia di Natale?...»

«Le ho vedute.»

«Eh! ce ne sono ancora a bizeffe delle cose che non avete vedute!
Ma vedrete tutto, se vi lasciano a Milano, e poi parlerete. Quando
poi vi manderanno in un’altra città, allora farete i confronti, e mi
saprete dire se Giovanni aveva o no ragione!... perchè delle città ne
ho vedute anch’io, e parecchie.... Ho veduto Lodi, ho veduto Monza, e
Como, e Bergamo.... ma una città come Milano non l’ho veduta mai!...
Milano è la prima città del mondo!... Non toccherebbe a me il dirlo, ma
insomma....»

E Giovanni continuava; ma poco dopo l’avvocato avendo finito di cenare
e sentendosi venir sonno, preso il lume gli diede la buona notte.


VII.

Il giorno seguente, di buon mattino, una lettera pressante era venuta a
svegliare Giovanni e farlo correre a gambe a casa dell’uffiziale della
sua compagnia. Si parlava in città d’assembramenti, di dimostrazioni
politiche, di tafferugli che s’aspettavano per quella sera; e
l’uffiziale, che aveva l’ordine di trovarsi al quartiere con parte
della sua compagnia, aveva fatto subito chiamare il sergente Figini,
e l’aveva incaricato di metter assieme nella giornata un drappello di
militi di buona volontà. Giovanni, dopo aver fatto capire all’uffiziale
come un tal incarico non fosse una piccola bagattella, ma dovendo pur
convenire che per un simile affare non avrebbe saputo, nemmeno lui, chi
altri meglio suggerire, senza perdere un minuto, s’era messo all’opera.
Girò per un paio d’ore, di casa in casa, di bottega in bottega, su e
giù per cento scale, e quando gli parve d’essere in porto, ritornò a
casa per mettere in assetto anche lui le cose sue.

Levò da un armadio, dove stava sospeso alla gruccia, l’uniforme;
lo spazzolò ben bene, lo distese sul letto, diede una ripulita ai
bottoni, e a uno a uno con una tiratina si assicurò se erano saldi.
Poi pigliò il fucile, diede il bianco al cinturone, tirò a lucido la
canna, le fascette, la bacchetta; tastò qua e là col cacciavite se non
c’era nulla d’allentato; e di tanto in tanto appoggiando il calcio
alla mascella, spianava l’arma, pigliava di mira una pera di sasso
o un’arancia di lana che aveva sul canterano, tirava il grilletto, e
tutto ciò con un piglio così risoluto, che faceva scappar spaventate
le donnicciole del vicinato che per avventura lo vedevano in quel punto
dalle loro finestre.

Mentre dava mano a tutte queste faccende, Giovanni andava ripensando
a quello che gli aveva detto l’uffiziale. «Cose da perder la testa!»
diceva tra sè. «Ma chi sono? ma cosa voglion fare questi tali?... Tanto
s’è fatto per arrivare al punto in cui siamo!... ci siamo arrivati da
ieri, come per miracolo, e, signor no! ci sono già i malcontenti!...
Non vi piace il ministero? non vi piacciono i deputati? non vi piace
Tizio o Sempronio?... Abbiate pazienza! quando darete il vostro voto,
lo darete a chi vi piacerà.... Dico bene o no?... Questo tripolo, per
esempio, non è buono che a sporcar le dita, e non vale un cavolo...
ma un’altra volta andrò da un altro droghiere, e la sarà subito
aggiustata.... E vogliono pigliarsela con chi? Si canta e si grida
tutto il giorno che siam tutti fratelli, e poi per la più piccola cosa
si vuol venire a’ pugni! Bei fratelli! Bella figura che si fa fare
a Milano! Domando io cosa si dirà di fuori? Oh! ma già mi immagino
che tra questi farabutti, di milanesi non ce ne sarà. Li conosco io i
Milanesi! Sarà gente pagata, gente che viene da Dio sa dove.... Oh, ma
se fossi io il Governo, gliela vorrei far vedere! È perchè noi milanesi
siamo troppo buoni, siamo troppo di pasta dolce! Ma se stasera me ne
capita tra’ piedi qualcuno di questi tali... vedranno cos’è il Figini!
Il Figini a suo tempo è buono e al di là di buono; ma poi non bisogna
fargli montare la mosca al naso!... L’uffiziale diceva che qualcuno
di costoro potrebbe aver anche delle armi indosso.... Portar le armi
contro i fratelli? Ci vorrebbe anche questa! Oh, ma non è possibile, e
non ci credo se non vedo! Avete dei reclami da fare? Fateli in buona
pace! chi ve lo impedisce? Gridate fin che volete su pei giornali,
che ne avete a bizzeffe; ma non venite a gridare in piazza! È così
chiara. Avete vuote le tasche? andate a lavorare. Quel Governo che dia
un impiego a quanti passano per le strade non verrà mai! Ragazzacci!
Li avete già dimenticati quelli dei baffi tirati su col sego? Vi par
proprio che si deva trattare quei di casa nostra, come meritavano
d’esser trattati quelli là? Vergogna! E a sentirli loro saran tutti
patriotti. Bel patriottismo? Quando non si sa sacrificar niente; quando
non si sa compatire e non si sa aver un poco di pazienza.... Terrà duro
questa fibbia? Sarebbe prudenza farne mettere una più salda, perchè
conosco il mio carattere, e se me la fan montare, una qualche volta
rischio di rimanere senza cintura e senza il fodero della baionetta....
È così che per i grilli di quattro ragazzacci si mettono a cimento i
padri di famiglia....»

I ragionamenti del nostro Giovanni furono interrotti a un tratto dal
rumore di due o tre usci spalancati bruscamente nelle stanze vicine,
poi dalla comparsa improvvisa di suo genero, che con un piglio insolito
e gli occhi pieni di collera, buttata sul canterano una lettera aperta,
dicendo «leggete! leggete!» s’era messo a misurare la stanza a passi
concitati dando un calcio a ogni sedia che gli veniva tra’ piedi. Il
povero Giovanni si sentì gelare il sangue, e senza capir bene, in su
quel subito, se fosse morto qualcuno, se ci fosse una rivoluzione o
un saccheggio, capì però che si trattava d’una disgrazia. Pieno di
spavento prese la lettera, si fece vicino alla finestra, mise gli
occhiali, e cominciò a leggere senza aprir bocca, e guardando di tanto
in tanto l’avvocato.

La lettera era di otto facce, e chi scriveva era il deputato, il quale
dopo un preambolo alquanto impacciato, veniva a dire che quel tal
decreto dell’impiego era firmato, ma che l’impiego poi era tutt’altro
da quello che aveva creduto; ch’era corso subito dal ministro, nel
supposto e nella speranza di un equivoco, ma la cosa pur troppo era
tal quale. Diceva d’essersi vivamente lamentato col ministro, ma che il
ministro gli aveva risposto che gli sarebbe stato impossibile fare di
più; che non poteva nominar di colpo a un posto più alto un aspirante
nuovo con danno e offesa di tant’altri impiegati; che bisognava
cominciare dal primo passo, e ch’era già una fortuna il poterlo fare
in mezzo a tanti che vi aspiravano. Il ministro poi aveva soggiunto
che l’avvocato Della Valle co’ suoi meriti avrebbe potuto progredire
prestissimo, e che avrebbe avuto subito cento occasioni per arrivare,
con piena giustizia, di passo in passo a quella mèta più alta che
era ne’ suoi desiderii. La lettera del deputato, ch’era scritta fino
a metà in un tono sdegnatissimo, si andava mano mano calmando, nella
speranza che succedesse altrettanto in chi la doveva leggere, e a un
certo punto vi si cominciava anche a inzuccherare la pillola. Veniva
una tirata eloquente sulla missione alta, patriottica, nobilissima
degli uffiziali della pubblica sicurezza in uno Stato libero. Vi si
parlava dell’Inghilterra, dell’America; si citavan brani di scrittori e
di filosofi illustri. Alla fine poi si ammainavan le vele: il deputato
prometteva tutta l’opera sua perchè quei passi da farsi nell’avvenire
riuscissero rapidi davvero; e più sotto ancora, quasi all’ultimo rigo,
c’era la gran parola: l’impiego era quello di delegato di Questura,
di seconda classe, con mille e duecento lire. Poi mille saluti, mille
proteste d’amicizia e molte altre migliaia di bellissime cose.

A questo punto Giovanni, ch’era divenuto furioso non meno di suo
genero, ma che non aveva ancora potuto riavere il fiato, buttò da
parte anch’esso la lettera, che andò a finire per la seconda volta sul
canterano. L’avvocato intanto aveva ricomincialo a sbuffare.

«È questo il modo di canzonare un galantuomo?... Vedete cosa sono
questi vostri ministri! Vedete cosa sono questi deputati! Avevo creduto
che questo qua fosse meno male degli altri.... ma, signor no! son tutti
d’una risma!... Si tiene a bada un galantuomo per sei mesi.... gli si
fa un monte di promesse, e poi si ha il coraggio di buttargli lì una
proposta di questa fatta!...»

«Ma io dico che si può fare anche un bravo processo a chi inganna il
prossimo a questo modo!» saltò su Giovanni a cui principiava a snodarsi
la lingua.

«Il processo lo potete fare a me....» bisbigliò l’avvocato «a me che
finisco, in certo modo, con l’avervi ingannato.... L’avevo avuto io il
presentimento! l’avevo detto io che il mio dovere era d’aspettare!...»

«Tacete, Massimo! Cosa dite mai! Se non aveste sposata mia figlia, ve
la farei sposar oggi. Sareste matto a perdervi d’animo, voi! col vostro
talento! Se non è per oggi, sarà per domani; ma l’impiego, e un impiego
in grande come ci avete diritto voi, non mancherà! Troveremo un’altra
strada, e ci arriveremo prima di quello che si pensa!... Villani
calzati e vestiti!... venirci a dire di queste cose!...»

«Un impieguccio infimo di polizia a.... a un avvocato!...»

«È gente che ha invidia di voi! capite? Hanno cercato di umiliarvi se
ci riuscivano. Oh la è chiara! Ma quando si vogliono trovare dei gonzi,
bisogna cercarli in altro paese.... bisogna cercarli!»

«Il Governo deve avermela giurata fin da quand’ero in Castelrenico....
lo scommetterei! Questa è una vendetta! C’è dell’ironia nel proporre a
me, a me! un posto in Questura!»

«Sicuro! oh qui c’è sotto del mistero! In Questura voi!... Esser
voi quello che fa pigliare i borsaioli? E mentre eravate quello che
difendeva i colpevoli, con tanto di toga, diventar a un tratto quello
che li mette in gabbia!... Ma domando io se la ci può stare col vostro
decoro, con la vostra dignità? E poi.... è vero che adesso la chiamano
la _Questura_, ma a’ miei tempi l’hanno sempre chiamata la _Polizia_!
Bel nome! bell’uffizio! Un impieguccio di mille e duecento lire a voi
che siete già sulla strada di conoscer mezza la nobiltà di Milano!...
Avranno saputo che avete preso moglie a Milano.... che siete diventato
milanese anche voi, e avranno voluto farvi un tiro.... perchè gli è
inutile, c’è della gente che ha invidia dei Milanesi!... Ma non abbiate
paura, la spunteremo egualmente.... ci penserò io! e se non ci riesco,
mi si cambi il nome di Figini! Guardate cosa arrivo a dirvi!»

Quest’ultime parole le disse in tono sicuro come ne fosse convinto,
perchè servissero di conforto a Massimo, che parea farsi sempre più
pensieroso ed agitato.

«Cosa volete sperare?... cosa volete sperare da questi ministri?... Ve
lo dicevo sempre io, quando mi contavate tante maraviglie di loro....»

«Delle maraviglie me ne contavate tante anche voi del vostro
deputato!...» rispose Giovanni, non per giustificare i ministri che in
cuor suo aveva già sacrificati, ma per giustificare se stesso dividendo
le colpe col genero.

«Il deputato,... il deputato» rispose Massimo «ha cambiato
principii.... non è più quello d’una volta.... non val più niente!
Me ne sono accorto tardi.... ho sbagliato!... E dire che ho fatto
tanto per lui, quando gli amici del Ministero non lo volevano!... Ma
lo aspetto a una nuova elezione! In Castelrenico non piglierà più un
voto....»

«E così posso dirvi anch’io dei miei ministri. Li cambieremo! C’è del
malcontento in parecchi, e a buon conto stasera c’è una dimostrazione
contro di loro! Oh! non stanno in scranna una settimana! E quando
li avremo cambiati, sapremo anche trovare la vena giusta per farci
ascoltare dai nuovi. Ma non bisognerà perder tempo: molte conoscenze
le ho io, e molte ne dovete far voi. Voi dovete lanciarvi nelle grandi
società.... dove si incontrano i pesci grossi.... È là! è là che si
trovano le protezioni che non sbagliano.... perchè, non per far torto
ai vostri nè al vostro paese, ma che peso volete che abbiano questi
deputati di campagna? Ci vuol altro! Dunque fatevi coraggio, e tra
un paio di mesi avrete un impiego.... ma coi fiocchi! come ci avete
diritto voi. Intanto non diciamo niente a nessuno, e se qualche curioso
ve ne parla, si dice che l’impiego c’è, ma che si fanno delle nuove
pratiche perchè si vorrebbe rimanere a Milano. Al momento non diciamo
niente neanche a Enrichetta, perchè la conosco io quella benedetta
figliola! per un niente s’accora subito. Ma a quel deputato rispondete
di buon inchiostro! Ditegli che rimandi quella nomina, e che ne dica
quattro in vostro nome a quel signor ministro! Perchè bisogna anche
far capire alla gente che non s’è di quelli che si lascian porre il
calcagno sul collo! Questo ministro poi tra pochi giorni se ne andrà
a spasso, e non vi potrà far più nè bene nè male.... ma intanto gli
avrete insegnata la creanza....»

Giovanni continuava così, e l’avvocato Massimo, che s’era fatto sempre
più pensieroso, all’udire il nome d’Enrichetta, accostatosi a un
tavolino, si mise a sedere, appoggiò il capo tra le mani, e rimase
un pezzo cupo e senza parole. Giovanni, sempre per fin di bene, non
l’avrebbe finita più, se a un tratto, spalancatosi l’uscio, non si
fosse veduto dinanzi Ambrogio, il suo vicino di casa, che in uniforme e
col fucile in mano veniva a domandargli s’era pronto.

«Come! avete già desinato voi?» gli rispose Giovanni. «Eh! ve la siete
pigliata ben calda!»

«Ma, cosa m’avete detto stamattina?» replicò Ambrogio.

«V’ho detto quello che i superiori mi avevano ordinato di dirvi,»
continuò Giovanni. «Ma voi sapete che i superiori, quando si tratta
di far galoppare gli altri, hanno sempre fretta. Io che so da un pezzo
come vanno a finire queste cose, desinerò con tutto mio comodo, e poi
bel bello andrò al quartiere, e conto d’arrivarci prima del bisogno, se
pure il bisogno ci sarà!»

«Stamattina però era un tutt’altro parlare il vostro! Se mi facevate
meno fretta, sarei stato anche quel tale da rispondervi che non potevo
venire stasera, perchè, a dirvela, avevo promesso a un amico di fargli
il quarto a’ tarocchi....»

L’avvocato Massimo intanto, presa la sua lettera, l’aveva riposta in
tasca e se n’era andato. Giovanni s’era messo a spazzolare l’uniforme
una seconda volta, per non lasciar vedere il suo imbarazzo ad Ambrogio.

«Non è ch’io abbia detto diversamente....» ripigliava Giovanni; «ma
è che quando uno parla, c’è modo e modo di capire. La colpa è dei
superiori: a sentirli loro, a ogni mosca che vola casca il mondo.
A noi tocca obbedire, ma non è poi necessario pigliarsi ogni volta
un’infiammazione....»

«Ho capito, ho capito! Come la è così, vado a bere il caffè, che non
l’avevo neanche bevuto, e stasera vado a far la mia partita.»

«Adagio, adagio! non v’ho detto questo....»

«Ma io ho capito quello che dovevo capire! Anche voi come superiore
fate bene a parlar così, ma farò bene anch’io a non pigliarmi
l’infiammazione!»

«Guardate però che la responsabilità è vostra!... ehi! Ambrogio!»
gridava per la seconda volta Giovanni; ma Ambrogio se n’era già andato.

Sull’imbrunire, dopo aver mangiato un boccone di mala voglia, il nostro
sergente se ne andava al quartiere, e ci trovava, venuti prima di lui,
tutti i militi ch’era andato a chiamare la mattina, fino a uno, meno
Ambrogio, tanto li aveva scelti bene. Nel quartiere, insieme a questi,
ce n’eran altri d’altre compagnie, ma scelti un po’ meno bene a quanto
pareva dai discorsi e da certe discussioni calorosamente avviate sul
decidere se questi tali della dimostrazione avesser ragione o no, e se
andavano o no messi al dovere.

«In quanto a me,» diceva uno dei militi, «se voglion passare di qui,
padronissimi.»

«Lei farà quello che le comanderanno di fare!» rispondeva un altro.

«E a lei intanto dico, che quel tale che deve comandare a me non è
ancor nato!» ripigliava il primo.

«Però, se la cosa è proprio così, lei potrebbe anche andarsene a casa
sua.»

«E se volessi invece star qui?... Sono nel mio diritto!»

«E dei suoi doveri lei non dice niente?»

«I miei doveri li so benissimo. Ma metta un poco ch’io non sapessi
se abbia ragione il Governo, o quelli che stasera gli vogliono vociar
contro! Se si vuole ch’io prenda un partito, mi si lasci il tempo di
studiar la cosa e di decidere.... dico bene?... Ma stasera, oh bella!
sono preso alla sprovvista, e ho il diritto di starmene neutrale!»

«Ma allora se ne vada a casa sua! Quello è il posto da star
neutrali!...»

«Un momento.... un momento.... sentano anche me! Loro parlan benissimo
tutti e due, e quando avrò spiegato come son le cose, si troveranno
subito d’accordo;» diceva un terzo che era in faccende a metter
pace. E parlando ora con l’uno ora con l’altro, senza lasciare che
lo interrompessero, spiegava come non si trattasse di dar ragione a
nessuno, ma di metter pace, d’impedire un disordine o un malinteso
coi soldati. E qui, per non dar torto nè ai soldati nè a quelli della
dimostrazione, diceva: «I soldati non possono parlare, e gli altri
schiamazzan troppo. Così cosa succede? Succede che non s’intendono.
E allora veniamo noi, perchè noi siamo, è vero, una milizia, ma una
milizia che può parlare. E alle volte una buona parola fa tutto!... E
adesso siamo d’accordo?»

«Le son storie!» saltava su un altro. «Io so che in queste circostanze
volano anche dei sassi, e domando io che diritto ha il Governo di
esporre un cittadino che vuol starsene fuori, a pigliarsene uno
in faccia? Cosa volete che me la pigli calda per un Governo così
imprudente!»

«Dite balordo! perchè se si grida, è perchè ce n’è delle ragioni.... è
tempo di cantarle chiare e di finirla!»

«Un balordo sarete voi, se parlate così!... lasciatemi dire.... abbiate
pazienza....» diceva un altro, paciere anch’esso, ma di carattere un
po’ più focoso.

Insomma ognuno aveva un monte di ragioni da dire, e chi gridava più
forte faceva crocchio intorno a sè. In questi crocchi si decideva in
fretta e furia ogni sorta di questioni. Ognuno buttava là un capitolo
del vero codice per ben dirigere gli Stati e render felici i popoli;
ma i popoli, non essendo presenti, anche questa volta non potevano
rispondere nè sì, nè no.

Qualcuno intanto era uscito fuori, ed era andato a vedere cosa
succedeva nelle strade vicine e nelle lontane. Mano mano capitava
qualcuno a portar notizie, e si cominciava a capire che il temporale
finiva senza acquazzone, o al più con quattro gocce. In qualche
piazza s’eran veduti dei capannelli che i curiosi avevano mano mano
ingrossati, ma tra tutti assieme poi non avevano fatto altro che
schiacciarsi a vicenda le costole. Qualcuno aveva cercato, col vociare
degli _abbasso_ e degli _evviva_, e con l’accendere qualche torcia a
vento, di mettere un poco d’anima negli astanti, e di tirarseli dietro
per la città. Quanto al gridare, sulle prime la non era andata male,
ma quanto al moversi non se n’era fatto nulla. Intanto s’eran lasciati
vedere anche quelli dell’ordine pubblico, e pigliandone uno con le
buone, e un altro per il collo, avevano finito qua e là a diradar la
gente e a rimetter la quiete. Ma in qualche punto c’era stata qualche
comitiva di ragazzacci e di monelli che, impadronitisi delle torce e
dei lampioni, s’eran messi, poichè il divertimento minacciava di andare
in fumo, a improvvisarne uno per proprio conto. Tutto sommato dunque,
c’era oramai da prevedere che la sera sarebbe passata senza guai, e che
le guardie nazionali sarebbero presto ringraziate.

E infatti anche in quartiere i discorsi avevan cominciato a cangiar di
tenore: si discuteva un poco meno, e si canzonava un poco più.

«E lei cosa ne dice, signor Figini?» domandò a un tratto un tale al
nostro sergente che fino allora, contro il suo solito, non aveva aperto
bocca.

«Cosa ne dico io?»

«Sì, lei!»

«Io dico che c’è del marcio!» rispose Giovanni con solennità, e con una
smorfia che gli vedevano per la prima volta.

L’esclamazione che fecero e quello della domanda e quei due o tre che
udirono la risposta, chiamò subito qualche curioso, e in un minuto
anche lì ci fu un crocchio e una discussione avviata. Sulle prime tutti
interrogavano, e Giovanni era solo a rispondere.

«Del marcio?... del marcio, dove?...»

«Quando dico che c’è del marcio, è del Governo che intendo parlare! la
mi par chiara!...»

«Oh! oh!»

«Come?... è lei, signor Figini, che parla così?»

«Bravo, signor Figini!»

«Che novità è questa?»

«Ah! le so ben io le novità!... e quando il Figini arriva a parlar
così» era il Figini che parlava «dite pure che è un gran segno!»

«Un gran segno di che?»

«Voglio dire che sarebbe un gran segno.... perchè finora propriamente
non ho parlato, ma se volessi parlare ne avrei delle belle!»

«Sentiamo! sentiamo!»

«Animo, signor Giovanni, butti fuori!»

«Come? lei, signor Figini, sempre così zelante per il buon ordine....»

«Appunto per questo! Suppongano loro signori che io, per esempio,
vedessi nel Governo un disordine.... in tal caso sarebbe a favore
del disordine ch’io lavorerei, se volessi far rispettare l’ordine! Mi
spiego?»

«Insomma, signor Figini, stasera lei è uno di quelli della
dimostrazione!»

«Se la sentissero i superiori!»

«Piano! piano!... Io non ho detto niente! Io non ho fatto che supporre!»

«Ma insomma, alle corte, se quelli della dimostrazione passano per di
qui, lei cosa fa?»

«Eh! se non fanno niente di male, si sta a vedere.... perchè poi
a volersi intrometter troppo, si può anche imbattersi in qualche
carattere permaloso e aizzare senza volerlo.... si può far peggio
insomma! E se non facessero che gridare un tantino, che male ci
sarebbe? Sentiremo cosa gridano! Supponete che nel Governo ci fosse
un ministro veduto di mal occhio, un poco di buono, e che si gridasse
proprio _abbasso questo tale_! Ma in questo caso, io dico che
nell’interesse del Governo bisogna lasciar gridare! Bel servizio che
fareste ai ministri se gli lasciate in compagnia uno che fa torto a
tutti! Chi ama il Governo davvero bisogna anzi che lo aiuti a mandar
questo tale con le gambe all’aria! Dico bene?»

«Ben detto! benissimo!» diceva a ogni due parole del Figini un tale,
che in quartiere era sempre il milite di più cattivo umore, un certo
signor Canziani, impiegato in disponibilità.

«E insomma» conchiuse Giovanni vedendo che il crocchio si faceva
agitato «non tocca a noi l’impacciarsi di politica! Non sono affari
nostri questi! Ci pensi chi tocca! Il nostro dovere è tutt’altro!...»

«Quale di grazia? poichè dite sempre così! Vi ricordate quella sera
che si parlava di ladri?...» saltò su uno; e Giovanni sarebbe stato
imbarazzato a rispondere se in quel punto non veniva in suo aiuto
un gran chiasso nella strada che fece correr fuori quanti erano in
quartiere.

Uscì fuori anche il nostro Giovanni. Era una di quelle comitive di
ragazzacci e di monelli, che con qualche fiaccola accesa facevano la
loro dimostrazione cantando e schiamazzando.

Poco dopo il nostro sergente rosso in faccia, ansante e con l’uniforme
slacciata, rientrava in tutta furia in quartiere tra gli applausi e le
sghignazzate dei compagni, tenendo uno di quei monelli, afferrato per
il collo. Cos’era successo? Era successo che l’uffiziale aveva voluto
rimandare quei monelli a casa loro; s’era cercato di persuaderli, ora
con le buone, e ora con le cattive, portando loro via le torce a vento;
i monelli s’eran messi a motteggiare, e Giovanni era stato preso di
mira più d’ogni altro. Allora nel nostro sergente s’erano riaccesi
gli spiriti antichi. Sulle prime s’era accontentato di far la cera
brusca; ma i motteggi eran raddoppiati; allora, perduta la pazienza,
aveva ricorso a qualche scappellotto. Quello era stato il segnale della
battaglia; scappellotti da una parte, e fischi dall’altra, finchè i
monelli, presa la fuga e fischiando sempre, eran scappati per di qua
e per di là. Giovanni però gli aveva inseguiti, e gli era riescito di
afferrarne uno, e condurlo in quartiere.

La gioia del trionfo fu però breve. Si risovvenne dei propositi fatti,
e fu malinconico per parecchi giorni. Non fece parola dell’accaduto con
suo genero, e andò ripetendo più d’una volta tra sè: «E dire che sono
forse stato io a tener su il Ministero quella sera!... Ma è inutile!
il disordine non lo posso vedere neanche quando ce ne vorrebbe un
tantino!... Sono fatto così!»


VIII.

Due anni dopo, nel febbraio del 1864, due nostre conoscenze di
Castelrenico, Martino il legnaiolo, e quel Simone dalla giubba verde e
dalle dieci mila lire, si trovavano un bel mattino, senza saperlo, in
una stessa vettura che due volte la settimana andava da Castelrenico
a Milano. Questa combinazione sulle prime era piaciuta pochissimo sì
all’uno che all’altro. Un simil viaggio non era un piccolo avvenimento
per tutti e due: ci doveva essere qualcosa di straordinario; e gelosi
delle faccende loro, dopo aver maledetto in secreto il momento in cui
avevan scelto proprio quella giornata, s’erano salutati con un certo
imbarazzo, e scambiata qualche parola impacciata di sorpresa ed anche
di giustificazione a cui, ben inteso, non avevan creduto nè l’uno nè
l’altro.

Dopo qualche tempo però, siccome o bene o male si finisce a questo
mondo con l’adattarsi a tutto, così anche i nostri due viaggiatori,
rabbonitisi un poco, finirono col far quattro chiacchiere, cercando
tutt’al più di tanto in tanto di scavar qualcosa l’un dall’altro, se
era possibile.

«Non faccio per dire,» diceva Simone, «ma non c’è niente che mi dia
tanto appetito come il viaggiare....»

«Bella cosa per voi che siete sempre in giro.»

«Oh! gran che! Scommetto che ormai andate in giro voi più di me.»

«Io? Se non esco mai fuori del paese!»

«Perchè avete troppo da fare.... lo capisco; ma quando si comincia a
lavorare anche per paesi lontani, allora bisogna moversi per forza....»

«Eh! ci vuol altro. Si comincia, è vero, a far qualcosina, ma per aver
faccende da per tutto bisognerebbe conoscere il giro del denaro, come
il nostro Simone.»

«L’avete proprio indovinata voi con quell’acqua!» continuò l’altro
come se non avesse intese le ultime parole di Martino. «Mi piace esser
sincero! D’un filo che ce n’era, guardate un po’ che bel ramo d’acqua!
Che forza!... E dire che nessuno ci aveva pensato mai! e nessuno sapeva
neanche dove andasse a perdersi!... Insomma l’avete indovinata voi. E
quando sento dire che lavorate per quattro, e sento parlare di quelle
vostre seghe e macchine che non s’eran vedute mai, io dico sempre:
eh! Martino non ha finito! ne rumina delle altre! se ne vedranno delle
belle!...»

«Adagio! adagio! Sarò contento se arriverò a pagare i debiti....
cominciando dal più grosso.... quel che sapete voi.»

«Eh! cosa dite mai! Se vi posso servire in qualcos’altro, non avete che
a parlare.»

«Grazie. Finchè non ho stracciate certe carte vecchie, non ne voglio
sporcar delle nuove!»

«Ma quando tornerà a casa il vostro figliolo, vorrete bene impiantarvi
un poco più in grande!... E se non lo vorrete voi, lo vorrà il
figliolo, vedrete!»

«Tonino, innanzi tutto, così subito non tornerà. Vorrei lasciarlo
dov’è almeno un anno ancora. Adesso è proprio sul più buono, perchè
siccome comincia a difendersi discretamente anche quanto alla lingua
tedesca....»

«E non è una corbelleria da niente, ve lo dico io» saltò su Simone
«questa del capire le lingue! Intanto che loro, in quei paesi, parlano
a quel modo per non lasciarsi intendere, voi capite tutto, e rubate
qualsiasi mestiere! Ah, l’ha pensata bene quel vostro figliolo!... Mi
diceva poi qualcuno ch’è passato da quelle parti, che il vostro Tonino
si va facendo un così bel giovanotto, alto e serio, che quasi non lo si
conosce più.»

«Ah! l’hanno detto proprio anche a voi?»

«E m’hanno detto anche che in sul mestiere bisogna fargli di cappello
già a quest’ora!... Quelle seghe nuove che paion nastri coi denti,
e quelle fatte a rotella, e quell’altre diavolerie che m’avete fatto
vedere, ve le ha ben mandate lui?»

«Me le ha mandate lui, e poi m’ha insegnato per lettera il modo di
metterle a posto e di servirsene. Bisogna leggerle quelle lettere!
bisogna....» E Martino avrebbe voluto continuare, ma sentì gonfiarsi
gli occhi e fermarsi a un tratto la parola come da un nodo che gli
stringeva la gola. Allora Simone ricominciò:

«E fate conto di starci un pezzo a Milano?»

«Io?... eh, spero sbrigarmi in un paio di giorni.»

«E così spero di far anch’io. Affari non ne ho.... vado a salutare un
parente che non ho veduto da un pezzo, e poi ritorno. Alloggerò alle
_Due Spade_: ci venite anche voi?... Ah! ma voi forse andrete in casa
di vostro cugino l’avvocato....»

«Se v’ho da dire la verità, non so neanche dove stia di casa.»

Con ciò Martino aveva detto proprio quello che al compagno premeva di
sapere. E il compagno ne fu tanto contento, che vedendo in quel punto
un’osteria fece fermare la vettura, e volle a ogni costo pagare il vin
bianco.

Continuarono poi a discorrere fino a sera, ossia fino alle porte
della città; ma siccome e l’uno e l’altro si guardaron bene dal dire
il motivo di questa loro andata a Milano, così, per saperne qualcosa,
dovremo metterci in tutt’altra compagnia. Là vedremo anche per qual
ragione abbiam voluto far fare ai lettori un salto di due anni;
vedremo cioè se le cose capitate in quei due anni ai nostri personaggi
valessero la pena d’esser narrate alla distesa.

Innanzi tutto facciamo dunque una visita in casa del marchese Renica,
dove troviamo press’a poco la solita gente e il solito tavolino di
giuoco. Forse a don Gilberto quei due anni che eran passati avevan
procurato un poco di gotta di più, e probabilmente era quella la
ragione per cui non lo troviamo questa volta tra i quattro della
partita; ma anche questa piccola diversità non ce l’avrebbe concessa nè
lui, nè il suo coetaneo il padrone di casa. Al posto di don Gilberto
quella sera stava seduto al tavolino di giuoco l’avvocato Massimo, in
compagnia del consigliere Rocca, dell’ingegnere Mevio, e già s’intende,
del marchese Renica. L’avvocato Massimo non aveva più quel fare
impacciato che gli abbiamo veduto altre volte in casa del marchese;
non si teneva più interito sulla sedia e sedutovi soltanto a metà:
discorreva con disinvoltura, citava all’occorrenza qualche autore, e si
capiva che aveva fatto divorzio dal sarto di Castelrenico.

Anche chi osservava sua moglie, Enrichetta, a una prima occhiata
capiva subito che in casa Della Valle eran succeduti dei cambiamenti.
Il suo contegno suppergiù era il medesimo; solo s’era fatto un po’
meno semplice e un po’ più elegante. La modestia c’era ancora, ma quel
tantino d’impacciato non c’era più. Non c’era più neanche quel genere
di vestir semplice, ma accompagnato da qualche arzigogolo, che svela
con tanta indiscrezione il lavoro associato della sarta modesta e della
committente industriosa. Il suo vestire era, per così dire, tutto d’uno
stile, lo stile chiaro e lampante d’una sarta di primo ordine.

Enrichetta, la marchesa Giulia, e due altre signore facevano crocchio
intorno a un tavolino da lavoro, e tra un punto e l’altro di ricamo
facevan la solita rivista degli amici, cercandone i peccati per poterli
compatire e assolvere. Nel crocchio c’era anche l’uffizialetto,
don Emanuele, il quale, dopo l’ultima volta che l’abbiam veduto,
aveva cambiato di guarnigione, ed essendo venuto vicino a Milano, a
ogni tratto, di giorno o di notte, col permesso o no de’ superiori,
foss’anche per un paio d’ore, lo si vedeva capitare. Il marchese
Renica, che non era uomo da metter tutte queste corse, proprio dalla
prima all’ultima, in conto dell’amor figliale, diceva qualche volta
con don Gilberto: «Quel rompicollo ne sta pensando o ne sta facendo
qualcuna delle sue!» e ci faceva dietro una risatina.

In quel punto il marchese, il quale non pensava a suo figlio ma al
matto dei tarocchi, che non sapeva in che mani si fosse, faceva la
faccia brusca e brontolava col compagno, l’ingegnere Mevio.

«Ma che diavolo! Dove ha la testa stasera, caro ingegnere? Pensi alla
partita per il momento; ai tegoli, alle fabbriche e ai manovali ci
penserà domani!...»

«Cosa vuole, signor marchese! tutto il gioco di spade era in mano del
consigliere....»

«E intanto la partita è andata!»

«Sempre in faccende il nostro ingegnere!» prendeva a dire il
consigliere Rocca, intanto che il marchese contava i punti.

«Sicuro!» ripigliava l’ingegnere. «Stamani poi non ho avuto un minuto
di requie. Dovevo conchiudere due o tre appalti che mi premevan molto
e.... a proposito! indovinate un poco con chi ho conchiuso un affar
grosso?... con un legnaiolo di Castelrenico! Si chiama Della Valle
anche lui; voi, Massimo, dovete conoscerlo....»

L’avvocato Massimo, che in quel punto s’era fatto rosso, prese le
carte, aveva detto al marchese: «Lasci fare a me questa volta, le
mescolo in modo che vedrà! le toccherà proprio un bel gioco!» Ma
l’ingegnere continuava:

«Guardate un poco dove va a star di casa alle volte il talento! Questo
legnaiolo ha veduto una volta, in un paese della Svizzera, delle
macchine, così mi diceva lui, e detto fatto ci trovò il bandolo di
farle venire e piantarle in Castelrenico. Intanto il più bel campione
di imposte e di persiane è proprio stato il suo, e ho conchiuso con
lui l’appalto per una casa intiera. Nè mi fermerò lì! Lavori così
a buon patto e così ben fatti si vedon di rado. È un uomo che farà
fortuna....»

«State attento! pigliate le vostre carte, ingegnere, e cercate di
far fortuna voi!... Delle persiane e degli scuri fatti con talento
parlerete dopo,» diceva il marchese.

«Non ho carte e faccio passo,» continuò l’ingegnere. «Se sapeste,
Massimo, quanto m’ha chiesto di voi quel vostro compatriotta! Anzi si
è fatto insegnare da me dove state di casa, perchè domani vuol venire a
farvi visita, e vuol conoscere vostra moglie....»

«Ma caro avvocato, anche lei!...» esclamò in questo punto il marchese
«che spropositi mi fa! ma badi!... che diavolo! cosa succede stasera?»

Il povero avvocato Massimo, invece di badare alle carte, aveva badato
a due discorsi che gli venivano all’orecchio in una volta; quello
dell’ingegnere che gli annunziava per il giorno dopo una visita del
cugino legnaiolo, e quello che si faceva al tavolino delle signore,
dove la marchesa Giulia annunziava anch’essa per il domani, una visita
a Enrichetta per certi loro affarucci di lavori e di toeletta.

Noi intanto, traverso tutte queste chiacchiere, siam venuti a sapere
qualcosa dei nostri personaggi. A Martino, in questi due anni, le
faccende sono andate bene, a quanto pare; e così si direbbe anche
dell’avvocato Massimo, a vederlo lui e sua moglie in casa Renica senza
la soggezione e il fare impacciato d’una volta, ma con una certa
familiarità, la quale voleva dire che si stava molto assieme, che
non si faceva vita ritirata, e che in conclusione si spendevano dei
quattrini.

Eran dunque diventati ricchi? Era capitato finalmente in quei due
anni l’impiego? e proprio quell’impiego grande che ci voleva per
accontentare casa Della Valle, e per farla da signori?

Non era capitato niente! Nei due anni in casa Della Valle non era
capitato di nuovo che un bel bambino, il quale stava appunto per
compiere i quattordici mesi. Novità che aveva avuto il suo pregio per
gli sposi, ma che avendone un po’ meno per il lettore, serve anch’essa
a giustificarci con lui se abbiam voluto fare il salto e risparmiargli
qualche capitolo.

E intanto a menar vita così buona come si faceva? Ci aveva pensato
quel tal Simone di Castelrenico, fatto venire l’anno prima a comperare
l’unico poderuccio, e che ritornava adesso, come abbiam veduto, a
comperare in gran secreto anche la casa, l’ultimo ben di Dio che
rimaneva all’avvocato Massimo.

«Andate là!... andate là!» diceva Giovanni a suo genero, «questo non
si chiama mangiarsi il fatto proprio, si chiama impiegarlo al cento
per cento! Scusate, ma voi altri campagnoli certe cose non le potete
capire!... ci vogliam noi! lasciate fare a me! lasciatevi dirigere da
me!... Se volete pigliare i polli e l’oca che stan sull’albero della
cuccagna, bisogna andar su, e su, e su! bisogna andar in alto! Insomma
gli impieghi grossi se li piglia chi vive in alto, se avete capita la
metafora. Guardate un poco cosa v’hanno risposto la prima volta col
vostro andar là alla buona! Voi mi direte — ero avvocato! — Avvocato
fin che volete, rispondo, ma avvocato di Castelrenico, che sarà un
bel paese, ma in fin dei conti è un paese!... Che se prima vi facevate
vedere cittadino anche voi, a braccetto coi primi signori e nelle prime
società.... se aveste trovato il modo, per dirne un’altra, di farvi far
cavaliere.... oh! allora sì che non si scherza! anche quel tal ministro
avrebbe avuto un poco più di soggezione e vi avrebbe fatto tutt’altre
offerte. Basta, quello che non s’è fatto allora bisogna farlo adesso.
Voi non avete a far altro che il signore!.... Non abbiate paura di
spendere!... Vendete quel poco che avete al sole, impiegate il fatto
vostro in tante partite a’ tarocchi nelle prime società.... e vedrete!
vedrete! Un bel giorno vi capiterà un impiego che vi pagherà di tutto.
Non dico però che si deva aspettar l’impiego con la bocca aperta:
piantate le vostre reti e il merlo passerà! Dico il merlo, per dire un
qualche personaggio di quelli che con una parola fanno tutto!... è una
metafora, capite?»

Che se poi l’avvocato Massimo qualche volta si mostrava poco persuaso,
e pur lasciandosi un giorno dopo l’altro tirar dietro dal socero, dava
di quando in quando in qualche atto di impazienza, allora Giovanni
saltava su a dire: «Piano! piano! sono lì lì per trovarci il bandolo!
Lasciate fare a me.... ci son quasi.... ho giù anch’io le mie reti, e
se sapeste che reti!»

Prima di vedere anche noi quali fossero le reti del signor Giovanni,
dobbiam dire che all’avvocato Massimo non era mancato di tanto in tanto
qualche parere ben diverso da quelli del socero.

L’ingegnere Mevio aveva cominciato presto a crollare il capo su questo
grande impiego che non veniva mai, e più d’una volta aveva detto a
Massimo, col quale era in molta dimestichezza: «Badate che qualcuno
non vi meni a bere! Piantar lì una professione, alla vostra età, per
incominciarne un’altra, la mi pare una cattiva speculazione. S’è visto,
è vero, qualche colpo di fortuna, ma un fiore non fa primavera! Cosa
vi mancava in Castelrenico?... Nei vostri panni sapete cosa farei?
Tornerei al mio paese intanto che ne sono in tempo!... tornerei al mio
posto.... ai miei clienti come prima, e con una bella moglie per di
più! Quanto alla gente e a Giovanni, lasciate che dicano! Non saran
loro che vi tireranno dalle peste quando non sarete più in tempo di
ritrarvene da voi! Una buona decisione in tempo, e la fortuna è ancora
in mano vostra!»

Ma nel non sapersi decidere in tempo ci son cascati prima del nostro
avvocato tanti uomini grandi, che possiam dir subito, vedendolo in
così buona compagnia, che c’è cascato proprio anche lui. E non è
che di tanto in tanto non gli venisse la tentazione contraria; ma or
capitava una nuova speranza, e ora gliene mancava il coraggio dinanzi
al _come si fa?_ Come si fa a dire a Enrichetta: io ti toglierò per
sempre dalla tua città nativa, dopo avertela io stesso fatta piacere
di più, per chiuderti in un paesuccio fuor di mano, a menarci una vita
ben modesta; la bella prospettiva che t’avevo messa dinanzi è sparita!
Tu ti rassegnerai, lo so!... ma se ti verrà in mente che in fin dei
conti t’ho ingannata, non saprai cosa rispondere! Come si fa a dire al
socero: o staccatevi dalla vostra figlia, o seguitemi in quel paesuccio
anche voi! Come si fa a dire in casa Renica, ai nuovi amici, ai nuovi
parenti, e a tutti quei del mio paese: fatemi la baia, che l’impiego e
le grandezze sono andate in fumo! non erano che spacconate!

Il coraggio di dire tutte queste cose se ne andava solo a pensarle, e
allora Massimo riapriva per un momento ancora lo sportello a tutte le
speranze e a tutte le illusioni di prima; accendeva un sigaro, andava
a spasso, rideva con gli amici, si metteva un paio di guanti e andava
a fare una visita. Ma poi nel gettar il sigaro, nel levare i guanti,
nel tornarsene a casa, nel passeggiare per la stanza, gli tornavano da
capo, a una a una, tutte le paure, compresa quella che il continuare a
pagare tanti conti non fosse precisamente il miglior modo di impiegare
al cento per cento il fatto proprio. Questi dubbi, questi contrasti,
che cacciati e ricacciati non avevan fatto che tornare con maggior
insistenza, davano ogni volta de’ gran malumori al povero Massimo; e
il malumore, come fa l’umido col ferro, lascia sull’animo una ruggine
che a poco a poco si distende, penetra, e corrode l’indole intera.
Questa ruggine è fatale; entrata in una casa, dove tocca si propaga;
ogni animo ne ha subito la superficie guasta, e per quanto buoni sien
gli animi nel resto, la è finita! Tutto stride; le incastrature non
combaciano più; e a ogni movimento da nulla, c’è sempre qualcosa che si
spezza e salta via.

C’eran poi, come abbiam sentito, le reti del signor Giovanni, ma fino a
quel punto non c’era entrato altro pesce che lui. Queste reti mettevan
capo al signor Canziani, quell’impiegato in disponibilità che abbiam
veduto la sera del tafferuglio, e che poi era diventato il più grande
amico, anzi la stella polare, di Giovanni.

Che quel signore fosse uomo di talento, Giovanni l’aveva capito subito
nell’udirlo applaudire alle sue massime quella sera, poco prima degli
scappellotti. E che fosse poi anche la persona più compita di questo
mondo, se n’era accorto qualche minuto dopo, quando quel signore aveva
voluto tenergli compagnia fino a casa. Ma in seguito, avendo scoperte
a una a una tutte le prerogative che la natura aveva date al suo nuovo
amico, Giovanni fu preso da tanta ammirazione per lui da non far più
un passo senza domandargliene parere, e da non ascoltarlo se non con la
bocca aperta. «S’ha un bel dire,» ripeteva ad ogni tanto tra sè, «ma di
questi uomini non ne nascono che all’ombra del nostro Duomo! Che là ci
avesse da essere proprio un influsso?»

Il signor Canziani aveva confidato a Giovanni che nella società
moderna, e coi nuovi Governi, il vero merito è messo in disparte,
e qualche volta perseguitato. Allora Giovanni aveva capito subito
perchè non si volesse dare a suo genero l’impiego; perchè fosse stato
soppresso l’ufficio dove era impiegato il signor Canziani; e perchè
al signor Canziani non avesser dato che mezza pensione. Una volta poi
Giovanni avendo domandato, in un momento di malumore, se per avere a
questo mondo il trionfo definitivo della giustizia, ci volesse caso mai
uno sconvolgimento generale, il signor Canziani aveva risposto «che
una tale necessità gli avrebbe fatto pochissima maraviglia!» Allora
il nostro Giovanni s’era deciso su’ due piedi a cambiar principii.
In pochi giorni si fece familiare con l’idea dello sconvolgimento
generale; poi non fu più veduto comparire nel quartiere della guardia
nazionale. Gli scappellotti di quella sera erano proprio stati il canto
del cigno!

Il signor Canziani fece conoscere a Giovanni alcuni suoi amici che
con lui passavano la sera, o giocando alle carte o facendo quattro
chiacchiere in uno stanzino appartato d’una botteguccia di caffè.
Questi tali o erano stati o erano tuttavia impiegati del Governo dal
primo all’ultimo; ma bisogna dire che il denaro del Governo facesse
loro ben cattivo pro, perchè tutti eran sempre di pessimo umore. Chi si
lagnava d’essere stato messo in riposo, e dimostrava come le faccende
pubbliche non potessero che andare alla peggio quando i migliori eran
lasciati in disparte. Chi brontolava perchè doveva ancor servire, e
non gli era concessa la meritata pensione. Chi declamava contro le
leggi nuove che confondevan la testa agli impiegati vecchi. Uno ce
l’aveva con quelli che stanno aggrappati come ostriche al loro ufficio,
e non lasciano il passo a chi vien dopo. Un altro se la pigliava coi
traslocamenti che mandan di botto un galantuomo a vivere dove non è
stato mai. Insomma eran tutti fuori dei gangheri; e se il Governo li
avesse pagati tutti per dir male di lui, non avrebbe mai speso così
bene i suoi denari.

A veder gli altri a giocare e rifocillarsi, e a portare nella
conversazione il proprio contingente di miserie, ma di miserie vere e
di lamenti giusti, capitava anche qualche povero impiegatuccio, qualche
rota minore del carro dello Stato; qualcuno di quei poveri rotini
senz’unto e con le razze sconnesse che a ogni movimento cigolano e par
che dicano: oh! perchè un così gran carro tiene così poveri ordigni!...
non era maggior pietà farci pigliare la via dell’opifizio o del mulino
dove anche noi saremmo parsi ruote men piccole, e dove il padrone
avrebbe veduto anche noi?

La compagnia di tutta questa gente malcontenta, se aveva fatto fare
qualche riflessione a Giovanni, non era stato già per distruggergli,
o anche solo turbargli, l’ideale della vita dell’impiegato, ma per
infervorarlo nell’idea dello sconvolgimento generale, che ormai gli
pareva proprio il solo rimedio pratico e spicciativo per raddoppiare
il soldo e i posti agli impiegati, per non traslocarli, per far
diventar chiare le leggi, e tener allegri tutti quelli che oggi eran di
malumore. Perchè Giovanni desiderava, è vero, innanzi tutto una buona
nicchia per il suo Massimo, ma era troppo di buon cuore per non darsi
pensiero anche della felicità di quelli che frequentavano lo stesso
stanzino del caffè.

I quali frequentatori dello stanzino però, mentre non contraddicevano
il signor Giovanni sulla necessità dello sconvolgimento generale,
cercavano intanto, ciascuno per proprio conto, qualche piccolo
sconvolgimento particolare che provvedesse per il momento ai loro
interessi. Procuravano, per esempio, d’entrar nelle buone grazie d’un
personaggio influente, o di qualcuno che accennasse di diventarlo;
correvano a dire una parolina all’orecchio al direttore d’un giornale,
o a lasciargli qualche lunghissimo scritto che questi poi non stampava,
ma che lodava; correvano al circolo elettorale, facevano un deputato,
e subito dopo un memoriale da dargli in mano. A furia di star con
costoro, anche Giovanni aveva imparate queste nuove vie, e aveva finito
per aver anche esso il suo circolo e il suo giornale dove bazzicava,
i suoi uomini influenti che potevan diventar ministri; ai quali,
in attesa dello sconvolgimento, consegnava di tanto in tanto i suoi
memoriali per far noti i meriti e i desiderii dell’avvocato Massimo.

Di questi memoriali Giovanni aveva avviata una vera fabbrica e uno
spaccio attivissimo. Ne aveva sempre un pacco in tasca, e a ogni tratto
ne rinnovava la provvisione. Ogni qual volta scopriva un personaggio
che facesse al caso suo, dopo aver trovato il verso di presentargliene
uno in persona, trovava quello di fargliene avere una dozzina almeno
da dodici provenienze diverse. E i memoriali poi finivano tutti,
s’intende, a un modo solo; ricevuti con buonagrazia, facevano una
prima stazione nella tasca di petto del soprabito, e una seconda nella
paniera della carta lacerata.

Giovanni, lontanissimo dal supporre a quali sconvolgimenti erano
destinati i suoi memoriali, ogni volta che trovava modo di spacciarne
un nuovo pacco se ne tornava a casa tutto allegro, e, con una fregatina
di mani e un sorriso pieno di malizia, diceva a Massimo e a Enrichetta:
«Ho trovato un nuovo bandolo!... ho messo giù una nuova rete! una
rete tale che se l’impiego ci scappa fuori anche questa volta, gliene
faccio, per bacco, i miei complimenti!»


IX.

Fatti i contratti, sbrigata ogni faccenda, Martino si avviava il giorno
dopo dall’avvocato Massimo, proprio come l’aveva annunziato l’ingegnere
Mevio in casa Renica; e trovatoci il bandolo, domandava sommessamente
al portinaio se il signor avvocato era in casa. Pochi minuti prima la
marchesa Giulia, scesa dalla sua carrozza, era salita da Enrichetta.
Il portinaio, che con gli occhiali sul naso e un cannello di gesso in
mano, se ne stava al suo banco tutto intento a disegnare i dinanzi
d’un paio di calzoni, lasciò ripetere due o tre volte la domanda al
nuovo venuto, che capitava in così cattivo punto, e poi, dopo averlo
guardato da capo a’ piedi, gli rispose secco che l’avvocato non c’era.
Martino se ne andò, e temendo d’essere importuno non ritornò che
sull’imbrunire. Questa volta il portinaio non era assorto nel disegno,
ma teneva una scodella di minestra sulle ginocchia, e sebbene andasse
riempiendo a ogni tratto la bocca con delle grandi cucchiaiate, si
mostrava un poco più discorsivo di quello che era stato la mattina.
Dopo aver detto che il signor Della Valle non c’era, soggiunse che una
vettura di rimessa era venuta, mezz’ora prima, a prender l’avvocato e
la signora, che pranzavano quel giorno in casa del marchese Renica,
e che egli poi aveva l’ordine di lasciare il portone aperto fino a
mezzanotte, perchè l’avvocato e la signora andavano quella sera al
teatro della Scala.

Martino ringraziò il portinaio e se ne andò. Se ne andò di cattivo
umore, senza sapere nè dove andare nè cosa fare, e pigliando le prime
strade che gli capitavano. «E dire,» brontolava tra sè, nel mandare
innanzi le gambe di mala voglia, «dire che m’ero fermato apposta
quest’oggi per salutar l’avvocato!... La non mi poteva andar peggio!...
Devo anche essere domani sera a ogni patto a Castelrenico.... così
ci vuol pazienza!... E l’avrei veduto tanto volentieri l’avvocato!
e tanto volentieri avrei voluto conoscere sua moglie!... Se poi mi
veniva il destro, gli domandavo davvero perchè mai abbia venduto il
podere a quello scortica-prossimo di Simone.... Che alle volte glielo
avesse pagato bene?... Eh! ho sempre sentito dire che la volpe mangi le
galline, ma che le paghi, mai!»

Di pensiero in pensiero, dopo aver girato per più di un’ora, e dopo
essersi fatto coraggio a entrare in un caffè, a un tratto gli venne
un’idea così prepotente che, detto fatto, le dovette obbedire senza
neanche poterla mettere un poco in discussione. L’idea fu di andare al
teatro della Scala che non aveva veduto mai, passarci la sera, veder lo
spettacolo.... e, senza confessarselo ma avendolo in fondo al cuore,
imbattersi, chi sa mai? nel cugino, e dargli così un saluto prima di
ripartire.

Quando Martino entrò in platea lo spettacolo non era ancora
incominciato, ma posti da sedere non ce ne erano più; fu ancora una
fortuna se gli riuscì di trovarsi una nicchia per appoggiare, in piedi
s’intende, le spalle al muro. Alzato il sipario, la sua attenzione
fu subito tutta rivolta a studiare l’intelaiatura delle quinte e il
macchinismo delle scene, cercando col rizzarsi sulle punte dei piedi
e con l’allungare il collo, di indovinarne l’ossatura e il gioco. A
questo modo il primo atto dell’opera non gli parve neanche lungo, e
badò poco al caldo e agli spintoni. Calato, dopo l’atto, il sipario, il
suo pensiero corse subito al cugino, e cominciò a guardar prima intorno
a sè per cercarlo, poi su nei palchetti fin dove gli era dato vedere.
A un tratto vide e riconobbe la marchesa Giulia in un palchetto di
seconda fila, che aveva proprio di contro, e fece un atto involontario
di riverirla, come quando la vedeva attraversare in carrozza la piazza
di Castelrenico. Cominciò il secondo atto, ma egli, senza punto badare
a quello che succedeva sulle scene, da quel momento non seppe più
levar gli occhi da quel palchetto, ch’era il solo luogo dove avesse
principiato, in mezzo a tanta gente, a veder qualcuno di conoscenza.
Ma poco mancò non mandasse una esclamazione ad alta voce, quando a un
tratto vide farsi innanzi e sedere presso la marchesa uno di fisonomia
ben nota, uno che riconobbe subito, il cugino Massimo in persona;
il quale, in quel punto, pareva dicesse qualcosa di complimentoso
alla marchesa Giulia, e subito dopo qualcos’altro, ma con maggior
familiarità, a una signora che era seduta di fronte alla marchesa.

Martino non ebbe più dubbi. «Son loro! son proprio loro!» disse tra
sè. «Quella signora è la moglie dell’avvocato!» È inutile dire come da
quel momento non rimanesse più un filo di speranza di farsi dar retta
da Martino nè all’orchestra sonando in massa, nè ai cori cantando a
gola spiegata, nè alla prima donna, nè al tenore, nè al basso, nè alle
ballerine con la mimica, che tutti a modo loro dicevano pure delle cose
interessantissime e alle volte strazianti.

«Dico la verità,» cominciò Martino a pensare tra sè, «nei panni
dell’avvocato, giacchè prendevo moglie, avrei voluto prenderla, per
così dire, un poco più ben piantata. Pare che non sia brutta, a vederla
per di qui, ma domando io se quelle son donne! C’è da aver paura
a parlare che il fiato le porti via! Adesso poi, veduta di fianco,
poverina! com’è sottile.... un cinquanta centimetri in giro, e non
di più!... E anche lei col vestito fatto a quel modo, che fino a un
certo punto vien su, e poi, come gli venisse un pentimento, si ferma.
Quando torno in Castelrenico voglio dire a mia moglie che d’ora in poi
non le compero che tre quarti di vestito per volta, perchè in città
si usa così! Ogni giorno se ne vede proprio una nuova!... E non hanno
neanche la scusa dell’economia, perchè, caspita, che lusso!... Se
ne hanno indosso della roba!... Bisogna però dire che l’avvocato, se
non ha ancora ottenuto l’impiego, come dicono certi in Castelrenico,
faccia egualmente dei bei guadagni in Milano, se manda la moglie
attorno in compagnia della marchesa, con quel lusso!... L’ho sentito
dire da altri io che nella città, a saper girare il denaro, con poco
si fan quattrini a furia! Adesso capisco perchè l’avvocato ha venduto
il podere! Eh sicuro! Chi sa che giro ha trovato per il suo denaro, e
allora si può anche lasciarsi strozzare un poco da Simone. E io che
quasi quasi cominciavo a pensar male... che pensavo quasi di trovar
l’avvocato al verde!... Oh! cosa succede adesso? l’avvocato ha lasciato
il posto a un altro. Che se ne fosse andato via?... Averlo veduto, e
non averlo potuto salutare!... Dove sarà andato? Ma poi, sfido io, se
anche volessi corrergli dietro, come faccio a uscire di qui?... e poi
non saprei neanche dove andare. Chi sarà quel bell’uffiziale che è
sempre rimasto lì, seduto vicino alla moglie.... io già le dico moglie
perchè non può essere che così.... vicino alla moglie dell’avvocato?...
Giacchè sono sul supporre, scommetterei che quell’uffiziale è un
fratello della moglie.»

Martino che aveva veduto qualche volta in Castelrenico il secondo
figliolo del marchese Antonio, quando era ancor ragazzo, ora
così ingrandito, con l’uniforme, e a quella distanza, non l’aveva
riconosciuto. «Sarà di guarnigione chi sa dove, sarà venuto a vedere
i suoi parenti e avrà voluto accompagnare la sorella al teatro. Bravo
figliolo! così mi piace! M’ha una cera simpatica.... e si capisce
che alla sorella vuol bene davvero!... Com’è premuroso con lei!....
Quante chiacchierine le fa all’orecchio a ogni minuto!... A dire la
verità, ha però l’aria più affettuosa lui che lei.... lei m’ha l’aria
d’occuparsi più degli altri che del fratello.... sarà un giudizio
temerario il mio! ma gli rivolge la parola un pochino di rado.... E sì
che delle chiacchiere ne ha a bizzeffe, e per la marchesa e per quel
signore che s’è messo al posto dell’avvocato!... Oh, ma guarda un poco!
anche questo se ne va e lascia il posto a un nuovo, proprio come le
figurine della lanterna magica. E anche questo è un amicone! strette
di mano a furia, inchini, e gran chiacchiere anche con lui!... Deve
avere in corpo una bella dose di vivacità la moglie dell’avvocato, se
non mi sbaglio! Ha due occhietti che scintillano per dodici!... ha un
colorito acceso.... insomma deve essere vispa come le salterelle!....
Però se l’avvocato l’ha pescata fuori, è segno che sarà una donnina
a dovere, perchè l’avvocato non ha bisogno che nessuno gli insegni
niente. A lasciar dir noi della campagna, quando si prende moglie, una
moglie così la ci parrebbe poco adattata, ma in città è un altro par di
maniche.»

Era finito il ballo ed era ricominciala l’opera. Martino, che non
vedeva ricomparire l’avvocato, cominciava a sentire il caldo, e ad
accorgersi d’esser su due piedi da quasi tre ore e pigiato da ogni
parte.

«Se sapessi dove trovar l’avvocato, se mi riuscisse di salutarlo e
poi d’andarmene, la sarebbe una gran bella cosa! Oh che caldo!...
Sarà bellissimo tutto quello che fan là quei signori sulla scena, ma,
dico il vero, non ne posso più. Il peggio è, che andarsene, è subito
detto, ma in mezzo a tutta questa gente che s’impazienta se appena uno
starnuta, anche l’andarsene dev’essere un affar serio. Ah, che caldo!
Questo è proprio il divertimento che il diavolo dà, come diciam noi, ai
suoi figlioli!.... Se il teatro della Scala è tutto qui.... Oh! guarda
un poco! la marchesa si rizza in piedi.... sicuro! e anche la moglie
dell’avvocato.... oh, ecco l’avvocato!... Cosa fanno? Si direbbe che
vadan via.... vanno proprio via! vanno via tutti insieme!... questo è
il momento buono, coraggio!... me ne vado anch’io.... chi sa che non mi
riesca di salutar l’avvocato....»

Ma l’uscire, come l’aveva previsto, non fu un affare così facile. La
platea era affollata; incominciava uno dei migliori pezzi dell’opera,
e tutti si accalcavano per farsi innanzi. Più d’una volta, dopo aver
fatto un passo verso la porta d’uscita, era spinto a farne due o tre
in tutt’altra direzione. Alla fine si trovò nell’atrio, ma ormai senza
speranza di imbattersi nella comitiva in cui c’era l’avvocato. Si
guardò d’attorno; fece qualche passo in su e in giù; aspettò un poco,
non vide nessuno, uscì, e col muso lungo un palmo s’avviò all’osteria
dove aveva preso alloggio. La mattina seguente all’albeggiare, seduto
in vettura, tenendosi sulle ginocchia la valigetta in cui c’erano e
il soprabito del dì delle feste e il pacco delle carte e dei contratti
firmati, se ne ritornava a Castelrenico.

Se dopo il teatro Martino avesse potuto tener dietro all’avvocato,
l’avrebbe veduto salir le scale e entrare in casa col muso più lungo
del suo; avrebbe veduto Enrichetta, che gli era parsa così gaia, farsi
malinconica a un tratto e perder le parole appena messo il piede nelle
sue stanze. Chi ha un guaio da dimenticare non torni a casa, perchè
non c’è una parete, un mobile, un utensile, che non si dia subito
la briga di far le parti del rammentatore. E nella casa di Massimo
tutto rammentava che il buon umore, la pace, le ciarle allegre e con
confidenti d’una volta, erano andate mano mano scomparendo, e avevano
lasciato il posto a una cert’aria greve che mozzava il fiato. Quella
giornata poi, ch’era parsa a Martino chiudersi così lietamente, era
stata non solo triste, ma burrascosa.

Di buon mattino era capitato Simone, fatto venire per quel tal
negozio della casa di Castelrenico. Simone, col fare umile e con la
maggior buona grazia, aveva detti i suoi patti, duri e inesorabili,
ai quali non c’era stato modo di rispondere che con un sì o con un
no. La casa, ultimo ben di Dio che restasse a Massimo del suo piccolo
patrimonio, era passata quella mattina in mano di Simone, e sul
tavolino di Massimo era rimasto quanto poteva bastare a pagare qualche
debituccio e a mandar innanzi la barca per quell’anno, e nulla più.
E poi? Questa domanda che ora si presentava a Massimo con maggiore
insistenza, e gli faceva vedere poco lontano quel precipizio verso cui
correva a tutta briglia, principiava a renderlo cupo e a mettergli
i brividi. Simone se n’era andato, e mentre egli se ne stava ancora
come impiombato sulla sedia, e teneva tra le mani il capo che pareva
volesse scoppiare, sentiva nella stanza vicina la voce della marchesa
Giulia venuta a far visita a Enrichetta, e che, traverso un nuvolo
di chiacchierine vaporose, faceva passar la rivista ai progetti più
urgenti del carnevale, fermandosi su quelli che domandavano l’alleanza
dell’amica. Allora egli stava a sentire che cosa avrebbe risposto sua
moglie; ma la voce d’Enrichetta non la sentiva mai; cosa che gli faceva
rivolger contro lei tutta la sua stizza, accusandola di non saper dire
in quel minuto quello che lui non aveva avuto mai il coraggio di dire.
Poco dopo era capitato il socero, pieno, come al solito, di fumo,
di progetti e di buon umore. A Massimo che, agitato da mille dubbi
e rimorsi, domandava che qualcuno l’aiutasse a prendere un partito,
Giovanni aveva risposto col principiare per la centesima volta una di
quelle spiegazioni ragionate dei suoi piani e delle sue reti che non
finivano più. Ma questa volta finiron presto, e le troncò a un tratto
un accesso di furia di Massimo che fece scappar il socero atterrito, e
tremare da capo a’ piedi Enrichetta che entrava in quel punto dopo aver
lasciato la marchesa Giulia. Di questi accessi ormai gliene capitavano
spesso; e dopo essere stato violento e ingiusto con tutti, per scolpare
se stesso, cadeva in una profonda mestizia; e mentre rimpiangeva la
pace confidente e serena che ogni giorno più scompariva dalla sua casa,
non sapeva ritrovare quello che forse sarebbe bastato a ridargliela,
una parola dolce a Enrichetta, dopo avergliene dette tante di amare.
Era stato con questo bel preludio che poi aveva dovuto quel giorno
mettersi in giubba e cravatta bianca per andare a pranzo dal marchese
Antonio, e in teatro con la marchesa Giulia.

Si pensi di che buona voglia anche Enrichetta avesse dovuto quel giorno
passar qualche ora in guardaroba, frugar negli armadi, e scegliere
un vestito che avesse fatto bensì qualche campagna, ma fosse ancora
abbastanza valido, e potesse, con qualche variante, servire per quella
sera, sviando i ricordi non delle amiche, ma almeno degli amici.
Enrichetta, mentre dava, prima d’uscir per il pranzo, gli ultimi tocchi
al suo vestito e alla sua acconciatura, aveva l’animo forse più turbato
che suo marito. Anche a lei era toccato quella mattina qualche duro
rimprovero, il rimprovero d’una colpa non sua, quella di trovarsi dove
l’avevan condotta; e il suo cuore n’era ancora lacerato, quando si
venne ad annunziarle una visita, la visita di don Emanuele.

Don Emanuele, che a ogni tratto, come abbiam detto, dava una scappata
a Milano, quando capitava era difilato in casa Della Valle, e ci
veniva o a far visita alla signora, o a pigliarsi sotto braccio e
trascinarsi in compagnia l’avvocato. L’avvocato Massimo, il quale
diceva sempre di non aver mai conosciuto un più amabile rompicollo,
n’era come innamorato. Fosse anche stato di cattivo umore, a lui
perdonava tutto; rideva con lui, e finiva col lasciarsi menar in giro,
col pretesto che quell’originale piacevolissimo era il solo che lo
distraesse e lo divertisse un poco. Don Emanuele col passaporto, così
comodo, dell’originalità, capitava in casa Della Valle a qualunque ora;
capitava più volte in un giorno; ora ci si fermava pochi minuti, ora ci
passava mezza la giornata; e quando non ci trovava nè l’avvocato nè sua
moglie, si metteva a far conversazione col signor Giovanni, lo chiamava
il suo confidente e gliene contava d’ogni risma.

È inutile dire quanto il signor Giovanni ne fosse incantato, e volesse
scommettere, ogni volta che ne parlava, che di giovani simili negli
altri paesi non se ne trovassero.

Quando vedeva la signora Enrichetta, o veniva, come soleva dire, a
fare una visita tutta per lei, don Emanuele univa a quel solito fare,
tra il bizzarro e il disinvolto, una maniera più eletta. La parola
era più dell’usato gentile e rispettosa, e i complimenti erano senza
risparmio, ma tutti di buon gusto, tutti facili e naturali, senza che
uno mai avesse dell’inamidato, o sapesse di rifritto. Soleva dire che
le signore erano i colonnelli del suo cuore. Così giustificava quella
sua devozione pronta, preveniente, d’ogni minuto; e giustificava la sua
corte franca e palese che faceva a Enrichetta, e che poteva passare per
l’espressione naturale de’ suoi modi di perfetto cavaliere, come diceva
il signor Giovanni. Quell’omaggio così abituale e pubblico gli offriva
una occasione più facile e frequente di continuarlo a quattr’occhi;
e allora, nelle maniere di don Emanuele, piene sempre di riserbo, non
mutavano che le proporzioni: c’era in esse un poco meno d’originalità,
e un poco più di seduzione e di grazia.

Di tutto questo Enrichetta non s’era da principio neanche accorta;
poi, avendo imparato in società, a furia di sentirle, a fare queste
analisi, qualche volta ci aveva badato, ma per sorridere e scordarsene
subito. Eravamo allora nei bei tempi della pace domestica: la ròcca
era di quelle che non lasciano speranza di intelligenza al nemico, e lo
consigliano a levare le tende. Don Emanuele però non le aveva levate; e
i tempi, quando cominciarono mano mano a mutarsi, le trovarono rizzate
ancora. Venuti i giorni in cui Massimo, agitato da’ suoi pensieri, non
aveva più una parola confidente o cortese per nessuno, la corte di don
Emanuele veniva alle volte osservata da Enrichetta con quel sentimento
traditore a cui si lascia il passo così facilmente, perchè pare
innocentissimo, vogliamo dire la curiosità. Da ultimo eran venuti anche
i giorni, di cui ne abbiam veduto uno, nei quali Massimo si faceva
ingiusto e violento, e allora la parola gentile, carezzevole di don
Emanuele lasciava nell’animo d’Enrichetta un’agitazione involontaria,
un ricordo incessante, tormentoso, contro cui essa doveva lottare,
invocando, con tutte le sue forze, la dimenticanza. Quante volte la
dimenticanza era stata pronta e completa se Massimo, a un tratto, aveva
avuta la buona ispirazione d’una parola d’affetto! Oh! allora quel poco
di spiraglio bastava perchè tutta la casa tornasse raggiante come una
volta!... Il giorno dopo ricominciava a piovere sul bagnato, e il male
si faceva più grande di prima.

In quel giorno del pranzo e del teatro, come abbiam veduto, dopo la
sfuriata di Massimo c’era stata una visita di don Emanuele. Enrichetta,
prima d’uscire, aveva sospirata in cuor suo una di quelle buone parole
di suo marito di cui in quel momento aveva tanto bisogno. Fece di tutto
per averla, e non l’ebbe. Al pranzo e al teatro ella aveva cercato
ogni modo di sviare l’animo da ciò che la turbava, di dimenticare
quel giorno; e Martino, a cui era parsa troppo gaia, se avesse potuto
leggerle in cuore, avrebbe veduto di che sorta era quell’allegria, e
ne avrebbe avuta una gran pietà. Avrebbe veduto che non era un così
bel vivere in casa Della Valle; avrebbe raccontate al suo paese minori
maraviglie; e non avrebbe dati nuovi motivi a quei di Castelrenico
d’aversela a male sempre più col povero Massimo.

Ma invece Martino, tornato in paese, a chi gli aveva domandato
dell’avvocato Massimo, aveva risposto: «Eh! se la passa benone!»
— «L’avete veduto?» — «Sicuro che l’ho veduto!» — «E l’impiego?» —
«L’impiego.... l’impiego.... le son cose queste delle quali io poi
me ne intendo poco!... e a dirvela, non ho poi neanche voluto fare
il curioso a questo punto, e domandare fino a uno gli interessi
degli altri.... per quanto siam parenti e buoni amici. Io vi dico che
l’avvocato se la passa benone.... che ha una bella moglie.... e che a
Milano, lui e lei, figuran da signori; che li ho veduti in teatro con
la famiglia del marchese Antonio.... e che insomma se l’avvocato ha
venduto il fatto suo in Castelrenico, è perchè ci vede più degli altri,
e sa lui cosa si fa!... Insomma ho lasciato Milano col cuor contento...
e casa Della Valle, a Milano, è casa da signori!... capite!»

L’aria diplomatica di cui Martino non aveva potuto far senza, dovendo
parlare, e avendo poco da dire, aveva accresciuto negli antichi
amici di Massimo gli umori sospettosi, e la loro poca disposizione
a perdonare la fortuna altrui. Le poche cose dette da Martino,
commentate, raddoppiate, fecero subito il giro di tutto il paese, e
dopo un giorno le facce dei frequentatori del caffè della _Fratellanza_
eran più lunghe e più dispettose del solito. Seduto al medesimo posto,
sulla porta del caffè, e sulla medesima panchetta dove l’abbiam veduto
due anni prima, quel tale dalla pipa di gesso e dalle gomita, che
come due anni prima e forse un po’ di più, uscivan per il rotto delle
maniche, fu sentito esclamare a proposito d’un discorso che si faceva
in un crocchio vicino: «Evviva loro!... i patriotti dimenticati! i
ladri protetti!... gli impieghi ai venduti!... ecco dove vanno i nostri
milioni!»


X.

Ogni anno, alla metà di giugno, il marchese Antonio andava con tutta
la famiglia a Castelrenico per il raccolto dei bozzoli. Ci andava come
per tradizione domestica; ci andava perchè c’era sempre andato fin da
bambino quando ce lo conduceva suo padre; ma poi quando c’era, l’ultimo
de’ suoi pensieri erano appunto i bachi ed i bozzoli. Ogni anno
succedeva così; e ogni anno quando veniva quel tal giorno che stava
fisso nella mente del marchese, insieme a qualche altra data di questo
genere, cascasse il mondo, bisognava partire. Anche in questo egli
imponeva a sè ed ai suoi una specie di disciplina rigida, inesorabile,
ch’era di tutto suo gusto, e ch’egli soleva mettere in ogni alto più
semplice e naturale della vita. L’andare in campagna, il viaggiare,
il divertirsi, fatti da lui, parevano tanti atti d’ubbidienza a una
consegna; una risposta, una opinione, un complimento, detti da lui,
parevan sempre preceduti da un rullo di tamburo. L’ingegnere Mevio
pretendeva di avere scoperto che il marchese, quando beveva un bicchier
d’acqua, lo beveva in tre tempi. E tutto ciò, probabilmente, perchè nel
marchese la smania del comandare era così prepotente da non permettere
una disubbidienza neanche a se stesso.

Una grave disubbidienza però veniva commessa da qualche anno da’ suoi
bachi di Castelrenico, i quali, chi alla seconda, chi alla terza, chi
alla quarta muda, si scioglievano dalle brighe di questa vita, senza
darsi pensiero di ciò che avrebbe detto il marchese. Il marchese da
principio ci aveva badato poco; ma poi, dovendo rispondere a chi gliene
chiedeva conto, e sentendosi da ogni parte far delle osservazioni
e dar dei pareri, cominciò a perdere la pazienza, e a domandarsi se
questa condotta indipendente de’ suoi bachi fosse o no compatibile
col suo decoro. Pare concludesse per il no, perchè dopo aver lasciato
travedere all’ingegnere Mevio qualche proposito sibillino, fu
veduto, nell’inverno dell’anno a cui siamo arrivati, scartabellar
libri e opuscoli sui gelsi, sui bachi e sulle bigattiere. Venuto poi
l’aprile, cominciò a dire apertamente che fino a quel punto i bachi di
Castelrenico se n’erano andati alla malora per la ragione semplicissima
che li avea lasciati fare a loro piacimento, ma che ora era deciso
a cambiar registro. Poco dopo annunziò che quell’anno la direzione
dei bachi la pigliava lui; che il metodo sarebbe stato tutto suo, e
che si sarebbe andati tutti a Castelrenico un mese prima del solito;
soggiungendo, come fosse una parte del metodo anche questa, che si
doveva passare il rimanente dell’estate a Baden-Baden, e a Parigi: così
si aggiustava la partita anche con la marchesa Giulia, e in modo che
nel cedere si aveva l’aria di comandare.

Il metodo del marchese Antonio ebbe subito un primo risultato
bonissimo, e fu quello di liberare, un buon mese prima, l’avvocato
Massimo dalle cortesie della famiglia del marchese e dagli imbarazzi
che ne venivano di conseguenza; imbarazzi che ormai non sapeva più
come nascondere. Ai primi di maggio, il marchese Antonio s’era già
trapiantato in Castelrenico coi suoi di casa; aveva già rese note
con una certa solennità le sue intenzioni, e messi i primi fondamenti
del metodo. Il metodo del marchese, che com’egli aveva dichiarato non
sarebbe stato quello di nessun autore (perchè, come diceva lui, questi
tali che scrivono è molto raro che allevino dei bachi davvero, e quelli
invece che li allevano non son di quelli solitamente che scrivono),
doveva aver per base una specie di disciplina militare. Egli si
considerava come il generale in capo, e il fattore doveva essere il suo
aiutante; poi venivano de’ sovrastanti ai quali, con un salto alquanto
brusco nella gerarchia, aveva dato il nome di sergenti; i coloni erano
altrettanti caporali che dovevano tener in riga i militi, i quali,
s’intende, erano i bachi.

La sua massima era che ogni cosa, perchè vada bene, deve avere una
organizzazione di ferro. E ad impiantar bene questa organizzazione
di ferro, il marchese rivolse con sollecitudine le sue prime cure,
chiamando il fattore, i sovrastanti, i coloni, ora a uno a uno, ora
tutti insieme; dando ordini, spiegando il metodo, e strapazzando tutti
in anticipazione. Il metodo, come si vede, si basava specialmente sul
terrore. Questi poveri diavoli, più sentivano farsi buia e intronata
la testa dalle spiegazioni e dalle minacce del marchese, e più si
affrettavano a dire di aver capito tutto a un puntino, tanto erano
spaventati; e il marchese si compiaceva già dei buoni risultati che
principiava a dare il suo metodo.

Con gli altri poi di maggior calibro, cioè col consigliere Rocca e
con don Gilberto, che, come di consueto, venivano a fargli visita
in Castelrenico, con l’ingegnere Mevio e col curato, il marchese
dava delle spiegazioni un poco più diffuse e ragionate. I suoi
concetti sull’allevamento dei bachi erano desunti con una logica
stringentissima, e con la previsione di tutti casi. Il problema era
messo al muro; era risoluto; a meno che, ed era questa la sua sola
concessione, a meno che non facesse difetto l’opera dell’uomo. Ma
questa ipotesi era ammissibile ancor meno delle altre, in grazia di
quella tal disciplina di ferro. Così, dopo aver tenuto i suoi uditori
in una breve sospensione d’animo, li riconfortava con la riprova che il
problema era di una precisione matematica.

Ma non tardarono anche per il problema a venire i giorni difficili,
i giorni in cui ci voleva tutta l’imperiosità del marchese Antonio
per mantenere negli altri la convinzione che i suoi bachi andavano a
maraviglia, e che se qua e là c’eran dei guai, erano per così dire
scappatelle di gioventù, malucci preveduti, cose di nessun conto.
Guai a chi mostrasse il menomo dubbio! E lo seppe il consigliere
Rocca, che un dopo pranzo, passeggiando col marchese e con l’ingegnere
Mevio, e volendo in proposito distinguere ed obbiettare, si pigliò
una strapazzata più forte di quelle solite che gli capitavano quando
parlava di politica, o giocava a tarocchi. Il consigliere Rocca,
ch’era piuttosto ostinato, senza cedere sul punto di chiamar gravi
i traviamenti dei bachi del marchese, volendo andare in cerca d’una
qualche causa remota per salvare il metodo, cominciò a porre la
questione se le vicende politiche, e i nuovi tempi, non ne avessero,
a guardarci bene, il loro tanto di colpa, visto che in passato le cose
avevano proceduto diversamente. Ma fu un tasto scelto male, e che diede
motivo al marchese di dargli sulla voce ancor più forte di prima.
Il consigliere, a cui pareva sempre di far torto alla magistratura
a cui aveva appartenuto, se non sviscerava ben bene le quistioni,
cominciava già a metter in fila gli argomenti per rispondere al suo
contraddittore; e a guisa d’esordio aveva già cominciato col dire
che si accingeva a una imparziale disquisizione di quella sua tesi
dubitativa, e che non essendo tra quelli a cui _leviores coniecturae
sufficiunt_, avvegnachè.... ma s’interruppe a un tratto da se medesimo,
per domandare in un tono più semplice, e come tra parentesi, se era
vero quello che si diceva in paese, che cioè la casa dinanzi a cui
passavano era stata venduta. La comitiva, che era di ritorno dalla
passeggiata, passava in quel punto dinanzi alla casa dell’avvocato
Massimo.

«Ma come va questa faccenda?» domandò anche il marchese, a cui non
dispiaceva il mettere da parte per un momento i suoi bachi.

«Ma ce n’è un’altra!» continuò il consigliere, «ed è che in questi
giorni il socero dell’avvocato mi mandò una lettera e un memoriale
per pregarmi di trovare appunto all’avvocato Della Valle un impiego
qualsiasi. Non dirò qui, perchè non è questo il momento di parlarne,
che in primo luogo io non ho impieghi da distribuire, e che in secondo
luogo con gli uomini influenti della giornata io non ho a che fare;
dirò solo che al ricevere quella lettera e quel memoriale non ho
esitato a dire tra me, che quel famoso impiego dell’avvocato, di cui
s’è tanto discorso, o se n’è andato in fumo, o non c’è stato mai!»

«Ma, a proposito, come va anche quest’altra faccenda?» domandò di nuovo
il marchese dirigendosi a Mevio che gli camminava accanto. «Lei deve
saperne di certo qualcosa.... dica su!»

L’ingegnere Mevio fissò il marchese, poi gli disse piano: «Parliamo
d’altro; a quattr’occhi le dirò tutto.»

Il marchese Antonio fu colpito dall’insolita espressione di serietà e
quasi di mestizia, con cui gli aveva risposto l’ingegnere; non aprì più
bocca, e il consigliere trovò per il momento il suo tornaconto a fare
altrettanto. Giunto a casa, il marchese con una breve manovra consegnò
il consigliere a sua nuora; poi, come lo vide imbarcato in un discorso
dei più fioriti, fece cenno a Mevio di seguirlo; lo condusse nel suo
studio, lo fece sedere, e col tono secco di quando si faceva serio,
«Ingegnere,» gli disse, «eccoci a quattr’occhi; dica su!»

«Signor marchese,» prese a dire l’ingegnere, «Mevio ha la fortuna
d’esser sempre di buon umore, ma se lo vuol vedere farsi serio anche
lui, gli parli adesso del povero avvocato Della Valle. Proprio così!
Chi avrebbe mai detto che l’avvocato Massimo, di cui in fin de’ conti
sono amico da pochi anni, dovesse essere proprio quel tale da mettermi
la malinconia addosso! Ma cosa vuole, signor marchese! il giorno in cui
l’avvocato si decise ad aprirsi con me l’ho veduto piangere come non
ho veduto nessuno, e m’ha talmente commosso proprio insino al cuore,
che non me lo so togliere dalla mente. Ho cercato, e cerco sempre io di
consolarlo, ma con un uomo così disperato, come si fa!»

«Ho capito! Galanterie della moglie!»

«Eh!... ero quasi per dire, fosse qui tutto il guaio, ci sarebbe un
rimedio....»

«Ha un rimedio lei?...»

«Capisco... ma insomma il guaio non è questo. Il guaio è stato.... è
stato il solito guaio della giornata! Si vuol vedere il fumo, e non si
bada se c’è anche l’arrosto!»

«Dice bene! Vada pure avanti.»

«E a dire così, ho detto tutto; il resto vien da sè. L’impiego
dell’avvocato, le grandezze della moglie, le spacconate del socero...
fumo! tutto fumo!... proprio così, e non dico per baia!... Sogni,
illusioni, e niente altro! E che cosa resta a guardar nel piatto? Un
bel niente! o dirò meglio, ci resta della miseria, delle lacrime....
Queste son come il condimento e non mancan mai!... Proprio così, signor
marchese!... Le ho detto una cosa che le fa dispiacere.... che la
rattrista!...»

«Cioè....»

«Ma se avesse vedute le scene che ho vedute io! Povero avvocato! Gli
darei dell’asino proprio di gusto, ma non mi regge il cuore. Però, a
pensarci, che asino! Lei sa come se la passava bene in Castelrenico....
Ma signor no! ci voleva il fumo; dunque si sogna un grande impiego, e
si spera pescarlo.... nelle nuvole, perchè quaggiù, impieghi e miseria,
tutti lo sanno, sono quasi sinonimi. Bussa di qua, bussa di là, un
impiego era capitato, ma un impiego alla buona.... un impieguccio,
come era ben naturale, perchè anche il papa a diventar papa ci mette il
suo tempo. Fatto il primo sproposito, c’era da ringraziare il Cielo e
tenersi prezioso l’impieguccio. Ma signor no; non c’era il fumo, e ci
voleva o tutto o niente. Io gli avevo ben dato in allora qualche buon
parere, ma.... eh sì! a sentirli loro, l’avvocato e il socero, ero io
che non capivo niente, e loro quelli che la sapevan lunga. Così son
passati quasi tre anni di illusioni, di vita allegra, di lusso; quel
po’ di patrimonio è scomparso, scomparso tutto. L’impiego è sempre
di là da venire.... e a stringere il pugno.... Oh! se vedesse, signor
marchese!... Quel povero avvocato dice che la miseria è la minore delle
cose che gli fanno vergogna; dice di aver ingannati tutti, d’aver
ingannata la sua Enrichetta.... d’aver ingannato anco lei, signor
marchese, e la sua famiglia....»

«Ma gli dica di no!... Non è capace lei di confortarlo, di
strapazzarlo?...»

«Oh! dice ben di più! Dice che non gli rimane che di buttarsi da
una finestra.... e poi domanda chi avrà pietà della sua famiglia....
insomma c’è da sentirsi lacerar le viscere. Il socero lo tira innanzi
con qualche altra illusione; ma oramai siamo agli sgoccioli, e bisogna
prendere una risoluzione.... ma quale? Se lei, signor marchese, non
lasciava Milano un mese prima del solito, forse a quest’ora qualcosa
era scoppiato.... una spesuccia di più in casa di Massimo avrebbe già
dato il tracollo alla bilancia. Guardi un po’! la sua partenza gli è
stata per il momento un piccolo benefizio, ma poi....»

Il marchese in quel punto si rizzò. I suoi lineamenti avevano preso un
non so che di duro, e quasi di minaccioso, come se volessero far paura
alla commozione che si sentiva nascere, e farla scappare indietro.
«Che l’avvocato sia stato un asino, non mi fa specie;» disse poi a un
tratto, mandando fuori le parole come schioppettate. «Quello che mi fa
specie è d’essere stato un asino io! Se quell’avvocato si tenne il fumo
in testa per tanto tempo e si rovinò del tutto, ci ho avuto anch’io il
mio tanto di colpa.... Lo dovevo capire, per bacco! E in conclusione,
siccome gli spropositi s’hanno a pagare, così la mia parte la pagherò!
E ora basta. Andiamo, ingegnere, se vogliam fare la partita.»

Il giorno dopo, il marchese, fatta la sua colazione, lette le sue
lettere e il suo giornale, a un tratto annunziò che sarebbe partito di
lì a un’ora, e che non sarebbe ritornato che dopo cinque o sei giorni.
Una risoluzione così improvvisa fece a tutti non poca maraviglia, e
tutti si domandavano che cosa mai fosse capitato al marchese di così
importante per deciderlo a lasciare ad altri il comando de’ suoi bachi,
proprio sul buono.

Furono appunto sei i giorni in cui rimase assente il marchese, e in cui
il fattore e i coloni avrebbero potuto tirare un poco di fiato, se i
bachi, quasi fossero anch’essi in minor soggezione, non avessero scelto
proprio quei giorni per cadere a frotte e lasciar tavole e boschi
deserti. Erano ben diradate le loro file quando tornò il marchese,
sicchè è facile immaginare che burrasca si levasse. Eravamo per
fortuna all’ultima settimana, e il supplizio del fattore e dei coloni
durò poco; ma fu una settimana terribile. Era un continuo dar ordini
da mattina a sera, uno strapazzare quanti capitavano, un ripetere
gl’insegnamenti già dati, un insegnar nuovi ripieghi. Oramai nessuno
capiva più niente: a furia di ordine e di disciplina era nata una tal
babilonia che nessuno più ci si raccapezzava; e in quanto ai bachi, si
salvaron que’ soliti che si salvano in tutte le disfatte, perchè ci sia
chi ne possa dare la nuova. Il marchese che aveva esclamato tante volte
in aria di trionfo: «Andar male? oh, la vedremo! ci vorrà anche il mio
permesso!» ora andava ripetendo: «Son bastati sei giorni di assenza,
sei giorni soli! perchè mi si mandasse tutto a soqquadro. Nessuno mi ha
capito! Tempi ignoranti e presuntuosi!... Ma un altr’anno la non andrà
così!»

Pochi giorni dopo, il marchese partiva con tutta la famiglia per
Baden-Baden. In Castelrenico non ritornò che sul principio d’ottobre;
ci rimase, come al solito, fin dopo il san Martino; ma de’ bachi, del
metodo e della catastrofe non ne parlò più; e nessuno ebbe voglia di
toccargliene.

Mancavano pochi giorni alla partenza, quando una mattina il marchese,
dopo aver letta con attenzione speciale una lettera appena ricevuta,
fece mandare un espresso a una borgata vicina con un telegramma che
chiamava a Castelrenico l’ingegnere Mevio, ripartito poco innanzi per
Milano. L’ingegnere arrivò il giorno dopo con la vettura del paese; e
il marchese, appena se lo vide comparire nello studio, senza dirgli
altro gli diede a leggere quella lettera. Ma per capirla bisognava
essere al fatto di qualcos’altro, e Mevio, che faceva sforzi per
raccapezzarsi, e ci riusciva poco, pigliava sempre più una certa
espressione tra l’incerto e il goffo, che faceva contrasto con la
solita sua disinvoltura.

«Fareste meglio a non guardarmi con quella faccia che fa poco onore
a uno che si picca d’essere un fulmine a capire!» disse il marchese.
«Non ci siete ancora arrivato? È un mio amico senatore che scrive....
e l’impiego per il vostro avvocato Massimo c’è.... Ma, intendiamoci,
quell’impiego che gli fu già offerto una volta, e che allora rifiutò.
Che se poi vuol rifiutare ancora, padrone; il mio dovere l’ho fatto! la
mia parte di debito l’ho pagata! Per conto mio ho finito!»

«Oh! signor marchese... avevo quasi capito.... ma siccome non osavo
sperar tanto....»

«Che se poi l’avvocato preferisce il fumo, se lo tenga! e si troverà
in buona compagnia.... si troverà in una numerosa compagnia! perchè
al giorno d’oggi chi non è almeno ministro si crede una vittima
della persecuzione, dell’invidia, o del Governo! Tutti però vogliono
l’impiego! perchè l’impiego a molti pare il modo più semplice di
conciliare l’amore del far poco con quello del salario.... Di questi
impieghi ne fu avviata una fabbrica degna della ricerca.... ma poi
quando si venne al salario, presero voga le massime austere della
semplicità democratica applicata al desinare degli altri! e si gettò
nel paese una falange di miserabili, di illusi, di malcontenti.
Respinti, avrebbero lavorato in altra maniera, con grande utile loro
e nostro!» A questo punto il marchese s’era rizzato in piedi e aveva
cominciato a misurare a gran passi lo studio, facendo a un tempo una
delle sue facce le più brusche. «Quella buona gente poi, che ha creduto
di graziare le migliaia di cercatori di impieghi,» continuò, «ha fatto
al paese un bel regalo! l’innesto del malumore in ogni sua vena!... Da
queste briciole di pan secco, i migliori si allontaneranno sempre più,
piglieranno altre strade.... sì getteranno alle industrie, ai commerci,
andranno là dove si cerca chi vale per due, e per due si paga!...»

«Voglio sperare» prese a dire l’ingegnere Mevio, approfittandosi di una
pausa del marchese «che l’avvocato Massimo vorrà far eccezione....»

«Sarà anche lui come tutti gli altri!»

«Creda, signor marchese, che questi due anni sono stati per l’avvocato
una gran lezione!»

«Ho poca fede nelle lezioni! Per raddrizzar la gente preferisco
quelle strade che conducono diritto per forza. Il vostro Massimo
sarà come tutti gli altri! Infatti.... appena nominato non dirà: io
sono un povero diavolo a cui si è fatta la elemosina di poche lire al
giorno; ma dirà: io sono un funzionario dello Stato. E avrà ragione!
E se sono un funzionario dello Stato, è segno anche che sono un
uomo di vaglia!... che sono un mezzo personaggio! e mi si paga meno
d’un fattorino di negozio! La chiusa di questo ragionamento sarà di
necessità una filza di bestemmie; e la conseguenza sarà la solita,
quella che vediamo ogni giorno: o un infelice, o un nemico!»

«Pur troppo la va così!... Voglio sperare però che Massimo, non
foss’altro per gratitudine verso di lei....»

«Se tirate delle cambiali sulla gratitudine mi farete fare dei cattivi
affari!... Ma adesso tutto questo non c’entra.... e m’avete tirato fuor
di strada. Ora la cosa è fatta, e l’importante è che l’avvocato accetti
subito, e non faccia qualche nuovo sproposito. Oh! se non si fosse
trattato di cosa così urgente, così disperata, come me l’avete dipinta
voi, v’assicuro io che non sarebbe stato così facile far contribuire il
marchese Renica alla fabbrica d’un impiegato! Ma non torniamoci su!...
Insomma si è potuto far considerare come non avvenuta quella rinuncia,
e s’è fatto risuscitare il decreto di nomina d’allora. Mi fu promesso
che il primo posto vacante sarebbe stato per lui; e come vedete, ora
mi si scrive che il posto c’è. È in un paese dell’Italia centrale...
è un impieguccio miserabile, per non far torto alla regola....
quell’impieguccio d’allora, insomma....»

«Oh! se sapesse che carità!»

«Non si tratta di carità! Dovevo pagare un debito, come ve l’ho detto
un’altra volta.... Mi rincresce solo d’aver pagato un po’ caro, perchè
ho dovuto quest’estate lasciar Castelrenico per sei giorni, e i sei
giorni son bastati a mandarmi i bachi in malora! Ma un altr’anno la non
sarà così! Oh, la vedremo! Intanto spicciatevi. Andate a Milano; dite
all’avvocato di che cosa si tratta, e appena avuta la nomina, fatelo
partir subito....»

«E io poi le porterò le benedizioni d’una famiglia....»

«Per carità! detesto le benedizioni! A proposito, guai a voi se
dite all’avvocato, o a chicchessia, ch’io ci sono entrato in questa
faccenda!»

«Ma, signor marchese, cosa devo dire?...»

«Dite che la nomina è piovuta dal cielo, dite che siete stato voi, dite
quel che volete.... ma se parlate di me, riparto e faccio cancellare,
se è possibile, il decreto! Avete capito?»

«Basta così!»

«E guardate che parlo sul serio! Guai a voi!...»

La mattina seguente, l’ingegnere Mevio partiva per Milano, e qualche
giorno dopo, il marchese, letti all’ora solita il suo giornale e le
sue lettere, volgendosi a sua nuora, «C’è una novità per voi,» le
disse; «l’avvocato Massimo ha avuto quell’impiego che aspettava da un
pezzo....»

«L’impiego in Milano?» domandò il consigliere Rocca.

«No, pare anzi che vada lontano.... il che vuol dire» continuò il
marchese «che voi, Giulia, perdete una delle vostre compagne.»

«Un affar serio! un affar serio!» esclamò don Gilberto «trovare
un’altra amica....»

«E si tratta d’un buon impiego?» domandò la marchesa Giulia
interrompendo don Gilberto.

«L’avvocato non lo dice,» rispose il marchese; «leggete, ecco la
lettera.»

La lettera fu letta ad alla voce dal marchese Giorgio. L’avvocato
Massimo partecipava la sua nomina al marchese Antonio, e soggiungeva
che dovendo partir subito, aveva voluto adempiere a un dover suo,
quello di ringraziare lui e la sua famiglia delle molte cortesie
che gli avevano usate. Dell’impiego diceva solo che per il grado e
la destinazione non si trattava di tutto quello che gli era stato
promesso, ma che nullameno s’era deciso ad accettare per compiacere
alle istanze del ministro, e per l’assicurazione che in breve gli
avrebbero dato di meglio.

La faccia del marchese rimase impassibile, e le sue labbra non
cedettero alla tentazione del più leggero sorriso. Poi, contento in
cuor suo che Mevio avesse fatte le cose a dovere, se ne andò con una
fregatina di mani. Don Gilberto intanto riprendeva con la marchesa
Giulia il tèma della difficoltà di trovare un’altra amica dei cuore;
l’amica, insomma, da mettere di faccia in un palchetto del teatro;
l’amica con cui si entra insieme in una festa da ballo; che si tiene
seduta accanto in una _calèche_. La marchesa Giulia si schermiva dai
problemi di don Gilberto col non rispondere mai a proposito.

La nuova dell’impiego dell’avvocato Massimo si diffuse dopo pochi
giorni, com’era naturale, anche in paese. Come? non s’era forse
ripetuto più volte per Castelrenico che l’avvocato aveva avuto da un
pezzo un impiego in Milano, che non si sapeva che impiego fosse, ma
che doveva essere un impiego in grande? E ora era venuta la notizia
che l’avvocato aveva avuto un impiego, ma un impieguccio di questura e
di quelli di minor conto! Questa cosa fece parlar molto, come, ognuno
se lo può immaginare; e la curiosità, le domande, i commenti e la
confusione delle teste andarono in breve all’infinito. Il solo che ci
vide chiaro e che spiegò la cosa, fu quello della pipa di gesso, il
quale, seduto sulla solita panchetta del caffè della _Fratellanza_, una
mattina sentenziò: «Che se l’impiego pareva piccolo, era segno che era
uno dei più grossi!» E poi nel riaccendere la pipa aveva soggiunto in
tono ancor più misterioso: «A me, i Governi non la dànno a intendere
così facilmente!»

Dopo quella sentenza, l’opinione generale in Castelrenico fu che
l’impiego dell’avvocato Massimo pareva un impiego da poco, ma invece
era uno dei più grossi; e ciò perchè a quel della pipa di gesso
nessuno, è vero, avrebbe fidato il proprio borsellino per un minuto, ma
in cose politiche gli si dava sempre un credito grande.

Il solo che in cuor suo non ne capì più nulla davvero fu Martino.


XI.

Tanto Mevio che veniva da Castelrenico, quanto la lettera del ministro
che annunziava l’impiego, capitarono in casa Della Valle proprio
nel medesimo giorno. Mevio fece benissimo la sua parte, ma non ce ne
sarebbe stato di bisogno, perchè la marea era montata tant’alto, che
quella poca tavola di salvamento, in altri tempi così sdegnosamente
rifiutata, parve ora una gran provvidenza, e fu salutata con uno
scoppio di gioia caloroso ed unanime. Giovanni, che ne attribuiva tutto
il merito ai suoi memoriali, ed era persuaso che gli si dovesse una
bella riconoscenza, aveva quel contegno modesto ma soddisfatto di chi
è convinto di valer molto. E perchè nessuno se ne scordasse, come un
generale che dopo una vittoria parla non di sè ma de’ suoi soldati,
egli aveva ripreso il discorso de’ suoi fili, e non la finiva più. Per
quel giorno fu inutile, non ci fu verso di fargli parlar d’altro; Mevio
a ogni minuto stava per perdere la pazienza, ma ricordandosi la faccia
del marchese si conteneva, e rivolgendosi a Massimo e ad Enrichetta, ai
quali pure la consolazione aveva data una gran parlantina, faceva con
loro un monte di chiacchiere e di congratulazioni. Così quel giorno,
che si poteva chiamare il primo dell’impiego dell’avvocato Massimo,
passò lietamente e fu di buon augurio per tutti in casa Della Valle.

Come dopo una di quelle giornate d’autunno troppo luminose e tiepide,
in cui pare abbia fatto ritorno un raggio del sole d’estate, segue
una giornata improvvisamente grigia e mesta, foriera dell’inverno,
così il giorno seguente in casa dell’avvocato nessuno trovò quel buon
umore con cui era andato a dormire. Nella lettera di nomina c’era
l’ordine di trovarsi al posto un tal giorno, ch’era vicinissimo; per
cui l’avvocato dovette incominciare, in tutta furia, i preparativi
della partenza, e venir subito a una decisione dolorosa, quella di
partir solo e farsi raggiungere più tardi da Enrichetta, dal bambino e
dal socero. Il trapiantar casa alla distanza di forse trecento miglia,
e quello stipendio che stava scritto con una cifra così umile accanto
al suo impiego, gli mettevan dinanzi agli occhi, intanto che faceva
il baule, qualcosa di molto buio. Gli pareva quasi di adagiar la sua
roba in una tomba. Ogni vestito che andava ripiegando e pigiando gli
ricordava qualche circostanza del passato, e con questo gli tornavano
dinanzi a uno a uno i suoi dubbi, le sue speranze, i suoi disinganni.
Qualche volta rimaneva immobile con un panciotto o con un paio di
calzoni in mano, e si domandava se doveva tirare innanzi o fermarsi
mentre era ancora in tempo. Allora gli venivano in mente i discorsi
che aveva uditi dal marchese Antonio, e i pareri che gli avea dati
Mevio. Fin dai primi tempi Mevio gli aveva sempre predicato di tornar
subito alla sua professione.... ma adesso era tardi! e poi non c’era
da pensarci in quel momento! E continuava a far il baule cacciando i
brutti pensieri e cercando nella consolazione del giorno prima qualcuno
di quegli argomenti, che gli eran parsi così persuasivi, e che l’avevan
ricondotto nel bel paese dei sogni e delle speranze.

Quei raggi di consolazione si facevano intanto sempre più pallidi come
quelli del novembre in cui eravamo, finchè il giorno della partenza
non ne comparve proprio più uno. Fu un giorno triste e di quelli che
lasciano come un ricordo di paura. Massimo, in quel momento in cui
abbracciò Enrichetta e baciò il suo bambino, sentì una stretta al cuore
come non l’aveva sentita mai: gli parve di dire addio per sempre a
qualcosa; si vide dinanzi una via tutta nuova, tutta ignota, una via
che si apriva angusta e malagevole, sulla quale aveva fatto ormai il
primo passo, e che non sapeva dove l’avrebbe condotto. Ebbe come i
brividi della solitudine, e riabbracciò a un tratto più fortemente la
sua Enrichetta. Ma anche il conforto di quell’abbraccio non fu intero
e sereno come l’avrebbe voluto: ricordò in quel momento quante volte
era stato ingiusto e aspro con lei; ricordò i giorni passati senza
una buona parola; giorni perduti e da dimenticare, ora che avrebbe
voluto averne tanti di cui portare con sè la memoria. Aveva ritrovato
nell’anima tutto l’affetto d’una volta, ma partiva col dubbio d’averlo
troppo a lungo fatto parere diminuito. Avesse potuto Enrichetta
leggergli profondamente nel cuore in quel momento! Anch’essa avrebbe
voluto prolungare quei brevi minuti dell’addio per sgombrare di ogni
dubbio il suo cuore, per cancellare ogni reminiscenza meno lieta. Ella
avrebbe voluto trovare in sè stessa qualcosa che le desse la coscienza
d’essere più forte, più difesa; e pur ripensando che quella separazione
sarebbe stata brevissima, tremava tutta, parendole come di rimanere in
una casa senza custodia.

Giovanni avrebbe voluto che quegli addii fossero un poco più allegri,
e aveva preso a parlare di quel paese dove andava Massimo e dove presto
l’avrebbe raggiunto in compagnia della figliola, come se ci fosse stato
le mille volte; poi tornava da capo coi suoi fili; poi parlava della
promozione imminente. Ma non c’era verso: nessuno badava a lui; neanche
Mevio, che aveva in quel momento gli occhi gonfi, e a cui il buon cuore
aveva tolto affatto la parlantina.

Si pensi con quanta festa fu ricevuta la prima lettera di Massimo,
che capitò pochi giorni dopo la sua partenza! Era una lettera scritta
a Enrichetta, in cui c’eran molte parole affettuose per lei, qualche
parola di speranza per l’avvenire, e qualche richiamo al bel soggiorno
di Milano.

«Eh! l’ho sempre detto io!» esclamò per tutto quel giorno Giovanni. «Si
capisce che è un bel paese anche quello dove è andato a stare il nostro
Massimo.... ma Milano è una gran Milano, e non ce n’è che uno!»

Da quella lettera si conchiuse che Massimo stava benone, e si passò
una buona giornata. A Mevio però parve strano, ma tenne l’osservazione
per sè, che in quella lettera Massimo parlasse di tutto fuorchè del
paese dov’era, e di quello che vi faceva. La lettera che doveva dar
notizia di queste due cose capitò una settimana dopo, ed era diretta a
Giovanni. Per saperne subito qualcosa anche noi, la metteremo qui tal
quale.


  «Caro socero.

»Questa lettera è per voi: se Enrichetta fosse presente quando la
ricevete, riponetela in tasca e fate che non la veda. Mi aspettavo
poco, a dir vero, quando son partito, ma non avrei potuto immaginarmi
che i primi passi sulla nuova strada per la quale mi son messo
dovessero essere così tristi. Se il paese dove mi trovo sia bello o
brutto non ve lo saprei dire; lavoro da mattina a sera, e non ho un
minuto da badare ad altro fuorchè al mio uffizio. Ma sono in un paese
al quale un passato tristissimo lasciò una mala erba, di cui forse i
nostri figli soltanto vedranno le radici al sole.

»Le cose che ho sapute e vedute in questi giorni non sarei arrivato a
pensarle mai, e a dirvele credereste di sognare! Non potete immaginarvi
che duro mestiere sia il mio! Ma chi lo sa? Se lo sapessero, non ci
compenserebbero così male!... Giorno e notte son tra l’incudine e il
martello, tra i dispacci del prefetto che mi comandano di agire con
severità, e le lettere anonime che mi minacciano la fine d’un mio
predecessore al quale fu tirata una schioppettata nella schiena. Ma per
carità non dite queste cose a Enrichetta!...

»Intanto però nè lei nè voi ci dovete venire a nessun patto. Io troverò
qualche scusa, e voi aiutatemi a dispor Enrichetta e a persuaderla di
non venire quaggiù. Se la passo netta e arrivo a meritarmi una qualche
protezione, chi sa che non mi si levi presto da quest’inferno, e mi si
mandi in qualche cantuccio tranquillo, dove mi possiate raggiungere, e
dove si possa vivere in pace tutti insieme!

»E poi se sapeste quanto costano i traslocamenti a una famiglia! Ho
potuto fare i calcoli precisi, e se alla mia dovessi farne far due
in un anno, sarebbe l’ultima nostra rovina. Dunque bisogna lasciarmi
qua solo, e speriamo che non sia per molto. Ma se sapeste con quanta
tristezza ve lo dico!

»Vi raccomando la mia Enrichetta e il mio bambino. Cercatemi, se
potete, qualche protettore.

                                                 »Il vostro Massimo.»

«Milano è una gran Milano!» disse tra sè Giovanni, letta che ebbe la
lettera. E rimasto per parecchi giorni sopra pensiero e taciturno,
ripeteva di tanto in tanto quell’esclamazione a qualunque proposito.

«Mi contan persone che ci son state,» prese poi a dire a sua figlia,
«che in quel paese dove c’è tuo marito a viverci costi un occhio!...
Prezzi indiavolati! Non sanno più cosa domandare!... Gli alloggi
poi!... per delle catapecchie pigioni da matti!... Eh! l’ho capito
subito io che c’era un qualcosina, vedendo che Massimo non ci faceva
fretta ad andar laggiù.... Lo vedo.... bisognerà aver pazienza! Basta,
que’ fili che hanno dato l’impiego a Massimo li tengo ancora, e mi
serviranno, spero, a farlo andare in un paese di maggior abbondanza.
A far le cose per bene si dovrebbe lasciar passare qualche mese, e
intanto stare a vedere!... Mi rincresce a parlare così, io che sono
d’un carattere piuttosto arrischiato.... cioè voglio dire che quanto a
me andrei a occhi chiusi in fin del mondo!... ma con donne e bambini è
un altro par di maniche!...»

Di questi discorsi Giovanni ne tenne parecchi a sua figlia, e intanto
anche le lettere di Massimo che capitavano mano mano dicevan sempre a
Enrichetta di non moversi, di indugiare, ora per la stagione, ora per
l’alloggio, ora per qualch’altro pretesto. Giovanni poi nel commentare
questi pretesti, ch’egli chiamava ragioni e di quelle lampanti, faceva
fare ogni giorno un passo alla conclusione, a cui per suo conto era
venuto da un pezzo, di non moversi da Milano almeno per quel primo
anno, e di darsi attorno nel frattempo per ottenere a Massimo un
traslocamento.

Questa conclusione non fu mai dichiarata proprio ufficialmente, ma
ogni mese che passava la si poteva dire tacitamente ammessa sempre
più. Non è a dire quanto da principio riuscisse amara a Enrichetta,
e con che spavento ella guardasse in cuor suo questo destino che la
teneva a forza separata dal suo Massimo, e le impediva di seguirlo
sotto altro cielo, lontana da quelle memorie che l’avevano l’anno
prima turbata in modi così diversi e così inattesi. Questo secreto
pensiero, e le imperiose necessità della famiglia, le consigliarono
presto il partito di rinchiudersi nelle pareti modeste della sua
casa, di scomparire dalle belle sale dove aveva fatta la sua breve e
risplendente apparizione, sotto il pretesto dell’assenza del marito,
della sua partenza vicina, e di qualche maluccio che di tanto in
tanto la molestava davvero. Da principio aveva temuto l’assiduità e le
insistenze della marchesa Giulia; ma anche queste si fecero, con sua
sorpresa, sempre più deboli e discrete, perchè ci aveva secretamente
pensato il marchese Antonio.

Così passò una metà del nuovo anno, e i giorni s’eran seguiti calmi
ed eguali per Enrichetta senza che nulla fosse venuto a interromperne
la monotonia. Furon giorni quieti, ma mesti. La partenza di Massimo,
e tutta quella fantasmagoria della vita lieta che aveva attraversata
negli anni addietro, avevan lasciato Enrichetta, come all’indomani
d’una festa, sbalordita e pensierosa. Anche le lettere di Massimo
s’eran fatte a poco a poco meno frequenti. Al povero Massimo cresceva
il lavoro ogni giorno; e poi egli non sapeva più qual pretesto mettere
in campo per impedire alla sua famiglia di raggiungerlo, sicuro com’era
che se avesse parlato dei pericoli in mezzo a cui viveva, Enrichetta
sarebbe corsa a ogni costo vicina a lui. Aveva poi anche un barlume
di speranza d’esser mutato di posto; l’occasione che lo mettesse
sott’occhio e lo raccomandasse ai superiori sarebbe pure una volta o
l’altra venuta.

Quell’anno però non doveva finire per Enrichetta così calmo com’era
cominciato. Anch’essa da qualche tempo nelle sue lettere a Massimo
gli taceva una cosa, gli taceva della sua salute, che lentamente si
faceva ogni giorno più debole e incerta. Suo padre che, sino allora,
se n’era accorto appena, ci aveva badato poco; ma Mevio cominciava
ad esserne colpito, e guardava con angustia quel fiore gentile che
chinava il capo e perdeva ogni giorno i suoi bei colori. Alla fine si
decise di parlarne col marchese Antonio e con la marchesa Giulia. E
l’uno e l’altra preser subito la cosa a cuore; uscirono poco a poco da
quel riserbo delicato che s’erari imposti; le loro visite a Enrichetta
furono più frequenti; e furon larghi con lei d’ogni sorta di premure
e d’offerte cortesi. Tra queste, quando venne l’estate, ci fu quella
di condurla con loro a prendere una boccata d’aria buona, cosa che il
medico le aveva consigliato più volte. Il marchese aveva appunto deciso
di passare un paio di mesi in Svizzera con la famiglia, pigliando a
pigione una villa in qualche bel posto alto e romito; e così riusciva
tanto più facile e naturale il pregare Enrichetta a voler essere
della brigata. In quest’offerta il marchese ci mise un’insistenza così
decisa, così cordiale, che Enrichetta, dopo aver cercata sulle prime
qualche scusa, ne scrisse a Massimo parlandogli per la prima volta del
suo malessere, ma ben inteso come di cosa nuova, leggera, e di cui
non c’era da darsi pensiero. Suo marito le rispose subito facendole
animo ad accettar l’invito; e l’invito fu accettato. Ai primi di
luglio dunque Enrichetta, conducendo seco il suo bambino, partì per la
Svizzera insieme al marchese Renica e alla sua famiglia. Giovanni, a
cui nulla è mai andato più a sangue dell’aria che spira sulla piazza
del Duomo, rimase a Milano.

Oh! i bei giorni quieti e contenti che passò Enrichetta in una bella
casina tutta pulita e inverniciata, su un bel poggio verde, alle falde
d’un bosco fitto, erto, e che pareva salisse al cielo! L’eco delle
lontane miserie non arrivava lassù, quasi si arrestasse dinanzi alla
maestà di quel vasto silenzio. La vita calma, uniforme, senza cure,
senza angustie; l’aria purissima, profumata dagli abeti; la compagnia
di persone premurose ed amiche, fecero in breve riavere a Enrichetta
le forze illanguidite, e le restituirono ogni giorno più i bei colori
delle sue guance. Il marchese Renica se ne compiaceva vivamente, e
ripeteva che per l’innanzi non avrebbe fatto altro che il medico delle
belle signore. Cominciava pure a riaver l’animo confortato Enrichetta,
a cui quella quiete, quegli agi domestici, richiamavano i giorni
passati, i suoi bei giorni di sposa, e le pareva quasi che le traversìe
sopraggiunte non fossero più che un brutto sogno, e finito per sempre.

Erano così passati due mesi di illusione e di pace, quando un bel
mattino arrivò don Emanuele. Don Emanuele non s’era lasciato vedere
da parecchi mesi; diventato aiutante, aveva dovuto seguire il suo
generale, un generale avaro di permessi, e rimanere con lui in una
città lontana. Ora, finalmente, il mese del permesso in tutta regola
era venuto, e don Emanuele era corso a passarlo in seno della famiglia.

L’arrivo di don Emanuele era sempre seguito da una certa rivoluzione
nelle abitudini di casa Renica; questa rivoluzione era un privilegio
che il marchese lasciava a lui solo, anche perchè sarebbe stato
difficile il fare altrimenti. Mancavano due settimane alla partenza,
secondo il programma del marchese, e don Emanuele, dopo aver dichiarato
di prendere in mano sua, per quegli ultimi giorni, la suprema direzione
delle cose, cominciò a tirarsi dietro tutta la brigata per monti e
per valli, in gite e scampagnate, inventando ogni giorno qualcosa
di nuovo. Il marchese Antonio, ripetendo ogni tanto che suo figlio
era un bell’originale, si lasciava trascinare anch’esso per di qua e
per di là sotto gli ordini di don Emanuele; la marchesa Giulia e suo
marito parevan rinati; insomma tutti in casa Renica, dopo aver tanto
ripetuto che la vita pastorale era così bella, pareva cominciassero
a dire, in cuor loro, che l’esser finita era più bello ancora; tutti,
ad eccezione d’Enrichetta, che qualche volta pareva pigliasse parte un
poco forzatamente all’allegria comune, e non avesse più l’umor lieto
ed eguale come nei giorni della placida monotonìa. Aspettava, ora, le
lettere di Massimo con maggior impazienza di prima; più di prima aveva
l’aria inquieta e accorata se non giungevano. E questo accadeva spesso,
perchè Massimo che aveva nuove sempre buone di sua moglie, e lavorava
sempre più come un martire, non si faceva poi tanto scrupolo d’essere
esatto col corriere.

Il primo ad accorgersi che la signora Della Valle era in un cattivo
quarto di luna fu don Emanuele. Ci trovò, osservandola, qualcosa di
nuovo e di diverso; capiva perchè fosse meno lieta e vivace d’una
volta, ma non capiva perchè, in così poco tempo, fosse tanto mutata
da non aver più nè il contegno confidente, nè quel sorriso facile
e gentile ch’era tutto suo; non sapeva spiegarsi quella sua aria
quasi infastidita quando le indirizzava anche il più modesto di quei
complimenti che avevano sempre trovata una così ingenua e schietta
accoglienza. Tutto questo accese in breve l’impazienza di don Emanuele,
che decise in cuor suo di volerne venir in chiaro, di voler rifare in
breve quel tanto di strada che credeva d’aver una volta percorso, e di
non abbandonare così facilmente la partita dopo averci atteso con tanta
assiduità. Ci si mise di puntiglio; spiò l’occasione, e l’occasione
venne.

Il marchese aveva annunziato il giorno della partenza, ma don Emanuele
osservò che proprio in quel giorno si inaugurava il tiro cantonale,
e che il partire sarebbe stato un mancar di riguardo a chi li aveva
ospitati per due mesi con un’aria così buona e un tempo così bello.
Dopo molti ragionamenti il marchese Antonio finì col rassegnarsi; si
rassegnò a differir la partenza, si rassegnò alla festa del tiro, e a
un’ultima gita al capoluogo del cantone.

Per un’oretta lo spettacolo del tiro a segno non dispiacque neanche
al marchese. Egli dava il braccio a sua nuora, e suo figlio Giorgio
alla signora Della Valle. Emanuele ora faceva da battistrada, ora
camminava a fianco delle signore; e così, ora vicini, ora a distanza,
a seconda che la folla e l’andare e il venir della gente li separava
o li riuniva, fecero una visita coscienziosa a quanto c’era da vedere
in quella festa. Girarono il piazzale per ogni verso; guardarono
fino a una le mille bandiere che il vento spiegava e ripiegava; si
frammischiarono ai tiratori che andavan, venivano, o facevan crocchio,
tutti col fare glorioso, e che pareva dicessero: «Se siamo così valenti
al bersaglio, figuratevi poi in battaglia!» e lessero tutti i cartelli
patriottici, con cui fino gli osti cercavano d’incoraggiare a bere il
loro vino e la loro birra.

Come ebbe veduto tutto ciò, ed ebbe le orecchie intronate da qualche
migliaio di colpi, parve al marchese d’essersi divertito abbastanza;
anche la marchesa Giulia fu precisamente del suo parere. Ma intanto
avevan perduto di vista gli altri della brigata; e dopo averli cercati
un pezzo, si diressero alla locanda dove eran scesi la mattina,
credendo di trovarceli. Enrichetta in quel mentre, col suo cavaliere
e con don Emanuele, era andata a sedere a un tavolino in una baracca
di legno, ch’era una specie di caffè. Poi il marchese Giorgio aveva
voluto andar in cerca di suo padre e di sua moglie, che non vedeva
spuntare da nessuna parie; s’era dilungato alquanto, e non gli era
stato facile, tra quel viavai di gente, di tornar così subito al
tavolino dov’era aspettato. Il momento era parso assai opportuno a don
Emanuele per offrire il braccio alla signora Della Valle, e mettersi
in cerca anch’essi dei compagni smarriti; così in breve la brigata fu
divisa in tre, e non le fu possibile di riunirsi per tutto quel giorno.
Il marchese Antonio, rimasto un pezzo alla locanda inutilmente, s’era
deciso di portarsi alla stazione della strada di ferro, dove forse
avrebbe trovati i suoi figli con la signora Della Valle. Il marchese
Giorgio girò per un paio d’ore dal bersaglio alla stazione, e dalla
stazione alla locanda, senza imbattersi in nessuna delle due coppie
che cercava. Enrichetta, appena s’accorse d’essere rimasta sola con
don Emanuele, aveva voluto montar in vettura e farsi condur subito
alla locanda; e saputo dal portinaio che il resto della comitiva era
ripartito per la stazione, aveva fatto proseguir la vettura di galoppo,
mentre don Emanuele cercava di avviare un discorso a cui il rumore
delle ruote faceva una concorrenza invincibile. Giunta alla stazione,
Enrichetta scese dalla vettura rapidamente, corse nella sala d’aspetto,
e non vi trovò alcuno: il convoglio era partito, e bisognava aspettare
un paio d’ore prima che ce ne fosse un altro.

Don Emanuele, a cui non era sfuggita quella trepidazione d’Enrichetta,
pensò tra sè che la strada d’una volta non era tutta a rifare, e gli
fu allora meno difficile di cambiar tono, cercando di ispirarle una
certa fiducia, una certa tranquillità. Bisognava aspettar due ore! A
quell’annunzio Enrichetta si trovò a un tratto abbandonata da quelle
poche forze che aveva tenute riunite fin lì; vide una breccia in
quei propositi dietro cui s’era riparata in quel giorno e nei giorni
precedenti, e le parve sovrastarle un destino contro il quale non le
fosse più possibile lottare.

Don Emanuele le offrì il braccio. Dinanzi alla stazione c’era un lungo
viale, con due filari d’alberi, che conduceva in città; Enrichetta
percorse più d’una volta quel viale, taciturna, appoggiata al braccio
di don Emanuele che, richiamandole i giorni passati, prese per la
prima volta a svelarle, con parole delicate e sommesse, il significato
secreto della sua amicizia e della sua assiduità. Quel richiamo al
passato risvegliava nell’animo d’Enrichetta più d’una memoria penosa;
le rammentava i giorni dell’umor triste e cupo di suo marito; le
rammentava le volte in cui una sua parola d’affetto era rimasta senza
risposta, o ne aveva trovata una non curante o aspra; le risvegliava
tutte le scene più dolorose che avevano riempita la sua anima di dolore
e di spavento. E intanto le parole di don Emanuele la ravvolgevano come
in un’atmosfera fine e soave, e la trascinavano nel mondo di quei sogni
dorati tra cui s’era dischiusa la sua giovinezza. In quel punto le
pareva quasi d’appoggiarsi al braccio di quel compagno, ch’ella aveva
sognato, buono, gentile; d’essere in colloquio confidente con lui; e
dimenticando d’essere vicina a don Emanuele, le pareva d’abbandonarsi
all’estasi d’una felicità legittima e santa.

Dal viale erano giunti sulla strada principale che conduceva alla
locanda dov’erano scesi la mattina. Don Emanuele s’accorse che
Enrichetta era sfinita e che appena si reggeva; ebbe timore che
svenisse, e sorreggendola la condusse fino alla porta della locanda a
cui si saliva da alcuni scalini.

Don Emanuele ed Enrichetta ne avevano appena salito uno, quando si
videro comparire dinanzi una comitiva che usciva in quel punto dalla
locanda. Eran della comitiva tre uomini piuttosto in là con gli anni,
e due signore, che non facevan torto, in quanto agli anni, ai loro
cavalieri; gente di Milano che don Emanuele aveva veduto più volte e
di cui conosceva alcuno di nome. La comitiva fece atto di fermarsi
e d’osservare, con una grande curiosità, quei due compatriotti che
avevano riconosciuto. Don Emanuele cercò di cansare quell’incontro; ed
Enrichetta, che non se n’era avveduta, nel seguire la mossa improvvisa
e brusca di don Emanuele, sentì il rumore di qualcosa che in quel punto
le cadeva a terra. La sua mano corse alla catenella che le scendeva sul
petto e la trovò spezzata. Un brivido di spavento le strappò un grido;
si tolse con forza dal braccio di don Emanuele e, chinatasi a terra,
vide e raccolse il coricino che portava sempre con sè, che aveva la
sera del suo matrimonio; il coricino in cui c’era il ritratto di sua
madre, e che sua madre morente le aveva dato dicendole: «Tienilo sempre
con te.... ti ispirerà a nome mio un consiglio nei momenti difficili
della vita.... ti porterà fortuna.»

Quella breve illusione d’un’ora, quel sogno lusinghiero e fatale,
svanirono a un tratto. Enrichetta passò la mano sulla fronte come se
in quel punto un bel raggio dell’aurora le avesse dischiuse le ciglia;
riunì le sue poche e ultime forze; cercò di atteggiare per un minuto
alla calma e al sorriso il suo volto pallido e sofferente; e rompendo
per la prima volta in quell’ora il suo lungo silenzio: «Don Emanuele,»
disse «è una sacra memoria questo coricino!... Il pensiero d’averlo
perduto m’ha messo uno spavento!... Oh! come mi sento stanca!... È
il solito di quando mi spavento!... Ma vediamo che non ci passi una
seconda volta l’ora di partire. Giulia e il marchese ne sarebbero
inquieti. Ritorniamo alla stazione....»

Don Emanuele che sapeva resistere alle tentazioni quando vedeva il
frutto immaturo, da quel momento non s’occupò che della stanchezza
d’Enrichetta, e per tutto quel giorno non riprese più il discorso di
prima. Giunti alla stazione, i primi in cui s’imbatterono furon proprio
quei cinque compatrioti che poco prima avevano veduti uscire dalla
locanda. I tre signori e le due signore anche questa volta si fermarono
ad osservarli con una curiosità ancor più avida e contenta; poi si
misero a parlar piano tra loro, a far gesti di maraviglia, a toccarsi
con le gomita, e a guardarli da capo. Insomma si capiva che quei cinque
cominciavano ad esser contenti del loro viaggio, e che finalmente
dicevano tra loro: «Abbiamo speso bene i nostri denari.»


XII.

Una nuova descrizione della Svizzera — ce ne son tante! — avrebbe
messo in un bell’impegno e in un bell’imbarazzo quei nostri cinque
viaggiatori che abbiamo lasciati così contenti dei fatti loro. Essi
dunque, che quando li abbiamo veduti eran già sulle mosse per tornare
a casa, avevano cominciato a levarsi l’impiccio della descrizione, col
dire tra loro che in fin dei conti s’era veduto poco di bello, e che
la Svizzera, tutto sommato, era un paese come gli altri. L’incontro
di don Emanuele venne dunque a proposito per cambiare in parte il loro
umore e i loro giudizi. La descrizione della signora Della Valle e del
marchesino Renica che a braccetto entravano nella locanda, e che poi si
mettevano in viaggio per chi sa dove, soli e felici come due colombi,
servì loro di descrizione della Svizzera, e di risposta a quanti
domandavano «cosa avete veduto di bello?»

La Svizzera, veduta sotto questo nuovo punto di vista, trovò nuovi
curiosi e nuovi amatori. Furono molti quelli che volevano sentire una
descrizione minuta; e saputala, la ripetevano ad altri, e facevano
proponimento anch’essi d’un viaggetto ogni anno. Uno de’ primi a
risapere la storiella, che in pochi giorni era già diventata un
romanzetto, fu don Gilberto, il quale poi andò diviato a raccontarla
a Castelrenico in casa del marchese, facendone delle gran risate, e
ripetendola più d’una volta come una cosa che lo divertiva moltissimo.

Enrichetta, che non aveva seguita a Castelrenico la famiglia del
marchese, e ch’era tornata alla vita modesta di casa sua, non
aveva saputo d’esser sulle bocche di tanta gente, e d’esser lei in
quel momento l’eroina alle cui spese c’era chi teneva la lingua in
esercizio, e chi faceva bella mostra di spirito o di virtù. Appena
a Milano, ella aveva dichiaralo a suo padre, in un modo più deciso e
risoluto del solito, la volontà di non metter di mezzo altri indugi,
e di raggiungere suo marito al più presto. Giovanni, che su questo
proposito teneva sempre in pronto una buona provvista di ragionamenti
belli e fatti, ragionamenti in cui erano preveduti e risolti tutti
i casi, si trovò questa volta, con sua maraviglia, arrivato in fondo
della provvista senza aver convinto per nulla Enrichetta. Allora ne
scrisse a Massimo in tono allarmato; e Massimo rispose lettere sopra
lettere, ora al socero, ora a Enrichetta, facendo loro coraggio, e
pregandoli tutti e due ad aver pazienza ancora per un poco, tanto
più che gli avevano rinfrescata la speranza d’una destinazione meno
lontana.

«È un gran dire!» pensava di tanto in tanto Giovanni tra sè «questi
tali che viaggiano tornano a casa tutti con un muso lungo un palmo!
Ne ho veduti a bizzeffe, e tutti così! Anche Enrichetta, dopo che è
stata in Svizzera, non è più lei. Prendono come l’aire, e non sanno più
star fermi. Ne’ panni d’Enrichetta, dopo essere stato in giro per due
mesi, non mi parrebbe vero di mettermi quieto a casa mia. Ma signor
no! C’è il diavolo addosso, e bisogna andare, andar di nuovo, andar
sempre! La vuol essere una faccenda seria!... con quei bei complimenti
poi che capitano laggiù.... Ma già se tra un mese o due non c’è questa
benedettissima traslocazione, non ci si scappa! E poi dicono: — Il
signor Giovanni non sa moversi da Milano! non sa allontanarsi dalla
guglia del Duomo! non è mai andato a vedere da che parte nasce il
sole! — Ma Giovanni intanto, rispondo io, è sempre d’umore eguale, non
fa stravaganze, non ha musi lunghi.... Giovanni resta a casa sua, lo
ammetto, ma sa lui quello che si fa!»

Queste, come si vede, eran tutte allusioni ad Enrichetta; e ogni volta
che ci tornava sopra batteva e ribatteva il chiodo, ben inteso sempre
tra se stesso, non solo sul punto dell’umor poco eguale, ma anche su
quello delle stravaganze.

«Per bacco! una volta in questa casa era un viavai di gente da
mattina a sera che non finiva più; più ne veniva e più se ne voleva!
Adesso, le circostanze son mutate, è vero; ma che poi non s’abbia a
veder proprio più nessuno all’infuori di quei due o tre tagliati giù
più alla carlona, la mi pare una stravaganza bella e buona! Eppure
è così. Il portinaio è obbligato a dir sempre che la signora Della
Valle non c’è.... e che la bugìa vada pur sul conto di chi si vuole,
non importa!... Ma domando io, se per esempio capitasse qualche amico
di Massimo, o qualche persona di riguardo, o, per dirne una, don
Emanuele.... quel caro don Emanuele che mi voleva tanto bene, e che
mi par mill’anni di non vederlo! Una volta, non si faceva nulla senza
di lui.... adesso anche lui in fascio con gli altri, a discrezione del
portinaio! Le donne.... sono volubili.... volubili!...»

Che cosa poi non avrebbe soggiunto se gli fosse capitato in mano un
biglietto di visita di don Emanuele, ch’era venuto per salutare lui e
sua figlia, proprio in quei giorni in cui Giovanni faceva tra sè quei
ragionamenti. Tanto più che don Emanuele aveva scritto sul biglietto,
con la matita, che partiva, che non sapeva quando sarebbe tornato, e
che se ne andava dolente di non poter fare in persona i suoi saluti
alla signora Della Valle e al signor Figini.

Giovanni, che in quest’argomento delle visite, passando dai soliloqui
ai dialoghi, aveva continuato con Enrichetta a batter il chiodo,
non tardò ad avere un improvviso trionfo; e a un tratto con sua gran
soddisfazione ottenne che il portinaio avesse una consegna meno severa.
«Ah!... le ragioni sono ragioni, e le stravaganze sono stravaganze!»
prese allora a dire tra sè Giovanni molto soddisfatto. «L’avevo
sempre detto io!... e credo che un po’ di gente, un po’ di distrazione
faranno del bene anche alla salute d’Enrichetta.... meglio forse della
Svizzera, la quale adesso è di moda, ma... io già non ci ho fede!...»

Perchè don Emanuele, che aveva ancora un mese di permesso, era partito
così subito? Questa domanda s’era fatta innanzi a Enrichetta più d’una
volta, ed Enrichetta l’aveva cacciata come una cosa importuna; poi
ci aveva risposto con impazienza: «Nulla di più naturale, per chi è
soldato, d’una chiamata improvvisa.» Ma la domanda dopo qualche tempo
si faceva innanzi di nuovo, ed Enrichetta per levarsela dal capo
rispondeva qualcosa di più: «Immaginarsi!... il marchese Antonio quando
tornerà dalla campagna parlerà subito della chiamata di suo figlio....
e per un pezzo non discorrerà d’altro.»

Il marchese, a suo tempo, venne a Milano. Enrichetta vide lui e la
marchesa Giulia; li vide più d’una volta; discorse con loro della
Svizzera, di Castelrenico e di mille cose, ma con sua gran maraviglia
nessuno le parlò mai nè di don Emanuele, nè della sua partenza
improvvisa.

Per saperne qualcosa noi, ci si permetta un passo indietro, e con due
parole ci mettiamo al fatto di tutto. La partenza di don Emanuele era
stata precisamente opera del marchese. Quando don Gilberto era capitato
tutto giulivo a Castelrenico a raccontare le storielle che giravano
per Milano, a proposito della famosa avventura di don Emanuele con la
signora Della Valle, il marchese, contro il suo solito, aveva avuto
l’aria di divertirsene pochissimo; e non l’avevano veduto ridere,
come soleva quando trattavasi d’un’avventura o d’una scappata, vera
o pretesa, di suo figlio Emanuele. Aveva anzi finito col fare una di
quelle facce brusche che facevano pigliare il largo anche ai suoi
più famigliari. Don Gilberto ogni tanto cercava di ritornare sulla
storiella, ma il marchese si faceva più duro e stecchito, e non apriva
bocca. Rimase così silenzioso per un giorno intero; poi fece chiamare
nel suo studio don Emanuele, e parlando in terza persona, come soleva
nei casi gravi, e sempre con quella faccia d’occasione che aveva da
ventiquattr’ore, prese a dirgli press’a poco così: «Delle scappate
se ne facciano fin che si vuole.... ma intendiamoci, scappate da
gentiluomini!... Il sapere che la cosa di cui si discorre sia vera o
non lo sia, è l’ultimo de’ miei pensieri. Ma non sarebbe l’ultimo se
si dicesse che il marchese Renica invita in casa sua, a passarci un
paio di mesi, una signora.... con la quale signora, suo figlio....
c’intendiamo! Questa signora, in un caso simile, sarebbe stata affidata
dal marito all’onore del marchese Renica! C’intendiamo?... Qui comincia
il punto sul quale non si scherza!... Il mondo è grande.... si faccia
quello che si vuole, dove si vuole, ma in casa del marchese Renica no!
Perchè in casa di questo signore, l’onore e la lealtà, che grazie a
Dio son due vecchi amici di famiglia, non potrebbero far da comodino a
chicchessia. Questo sarà bene tenerselo a mente, e metterlo in pratica
anche in avvenire! Intanto, bisognerà prepararsi a far finire questo
permesso prima del tempo. Così la famiglia potrà tornare a Milano;
la signora Della Valle potrà tornare in casa Renica, come al solito,
e le lingue lunghe potranno restar servite altrove per farci il loro
mestiere.» Ciò detto, senza aspettar risposta o giustificazioni,
piantò lì don Emanuele, e uscì di stanza, conservando la faccia seria
e tirata, e per di più abbottonandosi fino al bavero; operazione che
di solito faceva subito dopo aver presa una deliberazione grave, o dopo
aver dato un ordine che non ammettesse osservazioni. Quel giorno stesso
poi il marchese aveva scritto una lettera a quel generale che aveva don
Emanuele per aiutante, e ch’era un uomo un poco del suo stampo, tirato
come lui, e suo grande amico. Pochi giorni dopo un ordine urgente
richiamava don Emanuele in servizio.

Ora che ci siam messi in regola con gli avvenimenti, riprendiamo
il filo dove l’abbiamo lasciato. Abbiam detto che Enrichetta aveva
osservato con una certa maraviglia che in casa Renica nessuno parlava
nè di don Emanuele, nè del suo richiamo improvviso. Continuando,
aggiungeremo che, con una certa maraviglia, e del resto con sua gran
soddisfazione, essa vedeva il marchese Antonio e la marchesa Giulia
accettare con un’insolita facilità le scuse e i pretesti ch’essa aveva
pronti a ogni loro invito. Li vedeva sempre premurosi e cortesi con
lei; ma pareva quasi che tacitamente la secondassero nel suo desiderio
di vivere sola e ritirata, e soprattutto di lasciarsi condurre il meno
possibile in casa Renica. Ogni volta che passava la soglia di quella
casa, il cuore le batteva violentemente; sentiva come di perdere tutte
le forze del suo animo; sentiva ad un tratto svanire i pensieri, i
propositi più cari maturati nella quiete della sua cameretta; proprio
come in quel giorno malaugurato della passeggiata sul viale. Quanto
non aveva essa temuto che dopo due mesi di vita intima e comune non le
fosse possibile di mettersi col marchese e con l’amica in tutt’altri
rapporti! Quanto affanno non le aveva dato il solo pensarci! E ora
che su questo timore vedeva di poter mettere il cuore in pace, se ne
compiaceva tanto, che non si curava di rifletterci, di cercarne le
cause, perchè pure c’era qualcosa di diverso dal solito; e scordava
perfino la sua prima maraviglia.

Questa quiete che a poco a poco le scendeva nell’animo, la rendeva
più rassegnata a sopportare gl’indugi e ad ascoltare con pazienza
i ragionamenti di suo marito e di suo padre; il quale, vedendo
quell’improvvisa bonaccia e pensando alle burrasche passate, ogni tanto
diceva tra sè: «A capir le donne, lo confesso, non ci arriva neanche
Giovanni Figini!» E l’inverno passò così. Intanto però s’era fatto un
passo e s’era deciso che, ci fosse o non ci fosse il traslocamento, a
primavera si doveva raggiungere Massimo.

Non è a dire che assiduo lettore della _Gazzetta Ufficiale_ fosse
diventato il nostro Giovanni. Leggeva al caffè per delle ore, a
uno a uno, filze di nomi che non finivan più. Non c’eran nomine,
traslocamenti, posti vacanti in qualsiasi dicastero del regno che
sfuggissero ai suoi occhiali. Ogni volta poi, dopo aver lette e rilette
le quattro facce e i supplementi, e dopo non averci trovato nulla che
facesse per lui, si vendicava del giornale dicendo a chi gli era seduto
vicino: «È vuoto.... vuoto questo giornale!... e non è neanche ben
scritto! Vediamo quest’altro qua che cosa dice....» e pigliatone un
altro leggicchiava e scambiava con qualcuno qualche parola di politica.
La politica del signor Giovanni, in quel punto, non era precisamente
quella dei principii inesorabili di autorità a cui era stato fedele
una volta, nè quell’altra delle aspirazioni audaci venuta dopo, quando
l’impiego era andato in fumo: era una politica d’aspettativa, un poco
scettica, e piuttosto neutrale; una politica insomma adattata a quel
traslocamento che si faceva tanto aspettare.

I giorni intanto passavano e si facevano più lunghi e tiepidi;
Enrichetta aveva cominciati i suoi preparativi, e Giovanni picchiava
qualche pugno di più sulla Gazzetta e ne diceva corna senza ritegno.
Ma un giorno un suo amico del caffè, lettore d’altri giornali, gli
disse «che le cose, a parer suo, s’imbrogliavano; ch’era pronto a
scommettere che c’era sotto una mano della Russia, ma che a ogni modo
si andava a gran passi verso una guerra; a meno che tutto non fosse
un artifizio dell’Inghilterra!» Giovanni ne fu colpito. Ci pensò su,
e vide aprirsi un nuovo orizzonte. Da quel giorno non lesse più la
_Gazzetta Ufficiale_; e tornando alla politica attiva, si mise anche
lui a leggere i giornali dell’amico, e a commentarli in crocchio con
una mezza dozzina d’avventori del caffè.

«La guerra!» diceva Giovanni a Enrichetta «tu non sei pratica della
guerra! Punto primo, quanto al viaggiare, in tempo di guerra, è regola
generale che non ci si pensi neanche. Sono i cannoni, i reggimenti, le
fucilate.... son loro che viaggiano! E poi.... dopo le guerre ci son
sempre de’ grandi avvenimenti. Quanta gente, dopo le guerre, non s’è
veduta andare in su! in su!... Cosa sarebbe stato Napoleone primo, per
dirne una, senza la guerra?»

Un giorno però i giornali lo fecero tornar a casa inquieto e sopra
pensiero. Aveva letto che in quel paese dov’era Massimo, c’eran stati
dei guai; c’era stata cioè una dimostrazione contro il sindaco; la
folla era entrata a forza nel palazzo del municipio, e in mancanza del
sindaco, aveva buttato fuori della finestra tutti i mobili e tutte le
carte, facendo poi di tutto un falò in piazza in mezzo all’allegria
generale. Il giornale che raccontava questa faccenda, parlava alto,
e ne domandava stretto conto ai due colpevoli principali, ossia al
Governo che non aveva prevenuta la dimostrazione, e al sindaco che non
s’era lasciato trovare in uffizio. I giornali, per due o tre giorni,
parlarono dell’accaduto in tutti i toni; e intanto che i lettori del
caffè ne facevano i commenti, Giovanni si faceva piccino piccino,
beveva in fretta la sua limonata calda, e se ne andava al più presto.
A Enrichetta, dopo averci pensato su, non disse nulla; e invece
scrisse a Massimo per sapere come stavan le cose. Ma il giorno dopo, a
dirgli come stavan le cose, ci pensò ancora il giornale, e ci lesse un
interpellanza che un deputato aveva diretta al ministro sui fatti di
quel paese. Il deputato, dopo un grande elogio al patriottismo della
popolazione, aveva parlato del contegno passivo, inerte dell’impiegato
della sicurezza pubblica; contegno ch’era stato interpretato come
una sfida al sentimento delle masse. Il ministro aveva con bel garbo
rettificate alcune delle cose dette dal deputato, concedendo però
che il contegno di quell’impiegato avrebbe potuto esser migliore,
e lasciando capire che sarebbe stato rimosso. Le dichiarazioni del
ministro avevano fatto buona impressione, e i deputati se n’erano
andati a casa soddisfatti.

Con che poca soddisfazione però si fosse avviato a casa quel giorno
per desinare il povero Giovanni, è facile pensarlo. Aveva fatto prima
un lungo giro per le strade; era passato più d’una volta dinanzi alla
porta di casa sua, prima di decidersi a entrarci, non sapendo come
comparire dinanzi a Enrichetta senza farsi leggere in faccia tutta la
storia. Alla fine s’era deciso di dire che era un poco indisposto e che
non aveva appetito, tanto per tirare in lungo. «Domani poi» pensava tra
sè «un qualche santo mi aiuterà.» Il giorno dopo capitò l’ingegnere
Mevio, che aveva ricevuto da Massimo una lunga lettera in cui c’era
tutta la storia, e di più l’incarico di dare a poco a poco a sua moglie
e al socero una dolorosa notizia.

Il buon Mevio era venuto con una faccia così sconvolta, che pochi
minuti dopo dovette legger la lettera tal quale per tranquillare
Enrichetta e non lasciarle creder di peggio. Massimo raccontava
minutamente nella lettera tutto l’accaduto; ripeteva tutte le domande,
i dubbi, i ragionamenti che egli aveva dovuto far tra sè, in un baleno,
quando s’era trovato all’improvviso dinanzi a un tafferuglio di quella
fatta. Nella sua mente, diceva, eran passati alla rinfusa tutti
gli articoli della legge e dei regolamenti, tutte le circolari dei
ministri, tutti gli ordini del prefetto; la fermezza, la longanimità,
la conciliazione, il dovere, ch’eran tutte cose ch’egli non doveva mai
perdere di vista, avevan fatto una tal confusione nella sua mente in
quel momento, da non saper più in che mondo si fosse. S’era ricordato
che la severità aveva procurato una schioppettata a un suo antecessore,
e una destituzione a un altro collega; e dovendo pur decidersi s’era
deciso a pigliar le cose con le buone. Dopo esser rimasto dunque un
poco tra il sì e il no, aveva cominciato a persuadere, a tranquillare
uno, a pregare un altro; ma intanto che egli discuteva da una parte,
dall’altra era stata sfondata la porta del palazzo municipale, ed era
cominciata quella tal pioggia di carte e di mobili. Erano accorsi i
pochi soldati che c’erano nel paese: il baccano era cresciuto, era
stato tirato qualche colpo di fucile, ed uno della folla era rimasto
morto. Il ministro aveva ordinato al prefetto un’inchiesta; gli
accusati s’eran difesi col gettar la colpa sul morto, e siccome ci
voleva un poco di colpa anche per un vivo, così s’era conchiuso che
se il delegato della Questura avesse avuto sulle prime un contegno
più fermo, le cose non sarebbero andate così innanzi. Dopo la qual
conclusione, un telegramma del ministro traslocava il delegato Della
Valle in un remoto paesello di Sicilia.

Tale era il contenuto della lettera di Massimo, e qual fosse il dolor
suo, e quale poi la desolazione d’Enrichetta e di suo padre, dopo una
simile lettura, è facile pensarlo. L’ingegnere Mevio aveva cercato
sulle prime qualche parola di conforto e di speranza; ma poi quando si
veniva al punto di cercare un rimedio, s’univa anche lui a Giovanni,
e picchiava qualche gran pugno su un tavolino mandando a spasso la
rassegnazione. Questo genere di conforto non era fatto per mettere pace
nell’animo lacerato d’Enrichetta, e la poverina dovette appoggiarsi
tutta a quel tenue filo delle sue forze, e domandare a se stessa tutto
il coraggio di cui aveva bisogno per attraversare quest’altra prova,
questo nuovo rigore della fortuna. Il marchese Antonio, appena udì la
disgrazia toccata a Massimo, fece a Enrichetta mille proferte; promise
di moversi, di parlare, di scrivere; e infatti aveva principiato,
quando altri casi ed altri pensieri vennero ad occupare nel suo animo
quel posto che avrebbe dato di cuore ai tristi casi della signora Della
Valle.

La guerra! Questa parola ch’era oramai sulle bocche di tutti, aveva
in pochi giorni levati vent’anni almeno dalle spalle del marchese
Renica, e gli aveva dato un non so che di irrequieto, di baldanzoso,
di impertinente, che lo faceva parere a’ suoi vecchi amici proprio
tal quale di quand’era ne’ suoi anni più belli. Non parlava più che
di cose militari, di piani di guerra, di busse, e rimpiangeva d’aver
passati i trent’anni, e di averli compiuti in tempi in cui non aveva
potuto seguire la sua vocazione, quella che avrebbe fatto di lui a
quest’ora un generale di brigata almeno. «Fortunato Emanuele!» diceva
con tutti. «Fossi ne’ suoi panni! A quel capo scarico capitan proprio
tutte le fortune! Con occasioni simili, vedrete che carriera farà!
Così giovane! sarà l’onore della famiglia, lui, quel capo scarico!»
Poi scriveva a suo figlio delle lunghe lettere, e non lasciava veder le
risposte a nessuno «per conservare il secreto sulle cose di guerra,» le
quali cose eran quelle, ben inteso, che poteva sapere un sottotenente
di cavalleria. Il marchese Antonio, alle prime notizie d’armamenti
straordinari che faceva il Governo, s’era messo sul piede di guerra
anche lui, cioè aveva fatto ripulire le sue armi e ne aveva comperate
delle nuove; ogni sera poi, prima di cominciare la partita a tarocchi,
non la finiva più di mostrarle, di farle ammirare, di far scattare i
grilletti e di pigliar di mira, fingendole nemici, tutte le statuine
di porcellana che stavano accampate sul cammino e sui tavolini della
sala. Il consigliere Rocca allora non mancava mai di raccontare qualche
caso lacrimevole, avvenuto in grazia d’armi credute vuote e che eran
cariche.

Nè la nuora nè il figlio Giorgio si lasciavano troppo commovere
dall’entusiasmo guerresco del marchese Antonio. E l’una e l’altro,
quando principiava il discorso della guerra, perdevano le parole e
correvano col pensiero a don Emanuele. Più d’una volta non avevan
saputo nascondere al marchese Antonio i loro timori, le loro
apprensioni; ma il marchese tagliava corto e rispondeva di solito con
una strapazzata: «Che ubbìe son queste! Non c’è di peggio che far di
questi pensieri per portare sfortuna a uno! Si va alla guerra come si
va a una festa da ballo, e allora le cose finiscono bene!... Eh! pur
troppo una disgrazia in guerra può capitare a tanti.... ma non è detto
per questo che la deva capitare proprio a uno! Certi pensieri, in certi
momenti, non son permessi! E se vengono, si caccian via!...» Però dopo
aver detto così, si abbottonava in quel modo, sino al bavero, e andava
a pigliar aria come se avesse bisogno anche lui di aiutare qualche suo
pensiero a uscirgli di capo più in fretta.

In mezzo a questa nuova commozione degli animi che ogni giorno si
faceva più viva, più generale, che riuniva tutti e governanti e
governati in un solo, in un grande pensiero, chi avrebbe potuto
ascoltare le ragioni di Massimo? Chi avrebbe potuto badare al povero
delegato di Questura, che s’avviava miseramente alla sua lontana
destinazione, e alle lacrime della sua povera famiglia che rimaneva
senza conforto, senza consiglio?


XIII.

Tre mesi dopo ci fu la battaglia di Custoza. Le notizie che d’ora in
ora venivano dal campo, dopo quella triste giornata, mutavano mano
mano in certezza i timori, in lutto l’ansia di tante e tante famiglie;
rompevano il fascino dell’entusiasmo e della fiducia nella fortuna,
così spesso nemica di chi l’accoglie come un’amica troppo sicura.

Anche il dolore ha qualche volta chi lo guarda con desiderio e con
invidia. Il marchese Renica, rimasto tre giorni senza nuove di suo
figlio, cupo e silenzioso, volgeva le spalle con impazienza a chi,
colpito da quella grande sventura nazionale, sfogava un dolore che era
il dolore di tutti. Quel dolore avrebbe voluto poterlo avere anche lui
e subito; era un dolore che secretamente invidiava; ma poi, stizzito
anche di questo sentimento che gli pareva meno nobile e generoso, ma
che cacciato ritornava con una tetra insistenza, fuggiva i suoi di
casa, fuggiva tutti, passando solo nella camera delle ore insoffribili,
eterne.

Una voce sinistra era stata ripetuta presto per la città sul conto di
don Emanuele, ma non era giunta in casa Renica. Gli amici del marchese
eran venuti più volte a domandare al portinaio della casa se c’eran
notizie. Avrebber voluto salir le scale e domandarne al marchese; ma
poi, dopo esser rimasti lì a pensarci su qualche minuto, se n’erano
andati per la loro strada dicendo tra sè: «Se non si sa niente, è
segno che non c’è niente.» Ma intanto le voci sinistre si facevano più
insistenti. Si parlava d’una lettera d’un uffiziale in cui si diceva
che tra i morti di quella triste giornata c’era Emanuele Renica. Don
Gilberto e l’ingegnere Mevio erano subito andati in traccia di questa
lettera, ma non n’eran venuti a capo, e anzi era parso loro che tutto
fosse una favola. Altre voci dicevano invece che Emanuele era ferito,
altre che era prigioniero, altre ch’era sano e salvo e che l’avevan
veduto il giorno dopo la battaglia. Chi l’aveva veduto? Un soldato,
dicevasi, del suo reggimento, capitato a Milano, il quale aveva parlato
con un medico militare, dicevano alcuni, o con un uffiziale, dicevan
altri, o con un signore che ora indicavano, ora non sapevano chi fosse.
Gli amici del marchese si mettevano su tutte queste tracce; ma nè il
medico, nè l’uffiziale, nè il signore ne sapevano nulla.

Il marchese intanto ignorava tutte queste angosce de’ suoi amici, ma
ne aveva una lui nel cuore ch’era più grande di tutte. Finalmente,
la mattina del quarto giorno, don Gilberto con la faccia ilare, e
tutto festoso, entrò nello studio del marchese Antonio, fece chiamar
Giorgio, la marchesa Giulia, e gridando «buone nuove! buone nuove!»
raccontò che un uffiziale di stato maggiore, col quale aveva parlato in
persona poco prima, gli aveva detto di non aver sentita nessuna cattiva
notizia a proposito di Emanuele, e che anzi gli era parso d’averlo
veduto il giorno innanzi tra un gruppo di uffiziali; poi gli aveva
nominato il villaggio sulla riva destra del Mincio dove Emanuele si
trovava probabilmente in quel momento. Queste parole fecero trasalire
il marchese Antonio, che con sorpresa di don Gilberto, di Giorgio
e della marchesa Giulia si fece ancor più pallido e cupo di prima.
«Dunque son corse delle cattive nuove!» pensò il marchese tra sè; e
appena don Gilberto ebbe finito di ripetere una volta ancora tutto il
racconto dell’uffiziale di stato maggiore, il marchese Antonio disse
a un tratto che sarebbe partito quel giorno stesso, per andar lui a
cercar di suo figlio, e per vederlo co’ proprii occhi. In queste poche
parole del marchese c’era stato qualcosa di così solenne e di così
triste, che nessuno aveva avuto più il coraggio di aggiunger altro, nè
di rallegrarsi delle buone notizie portate da don Gilberto.

Il marchese Antonio, pochi minuti prima di partire, stava riponendo
in fretta alcune carte nelle cassette d’una scrivania, quando a un
tratto un passo greve e sconosciuto, che sentì nella stanza vicina,
gli annunziò la venuta di qualcuno. Levò gli occhi verso l’uscio
bruscamente, con un piglio che esprimeva a un tempo il corruccio
verso l’importuno che veniva, e l’ansia di sapere chi fosse. L’uscio
si aperse: era un soldato di cavalleria. Il marchese lo fissò, lo
riconobbe, balzò in piedi, fece per pronunziare una domanda, tese le
braccia verso il soldato come per dirgli «parla! parla!» ma gli si
offuscarono gli occhi e quasi svenne. Il soldato, ch’era l’ordinanza di
don Emanuele, teneva in mano un involto e un elmo pesto e rotto. Ci fu
un lungo silenzio. Il marchese era rimasto con le mani nei capelli e
con gli occhi spalancati e fissi al suolo. Il soldato, nell’asciugare
una lacrima col rovescio della mano, alzò timidamente lo sguardo sul
padre del suo antico uffiziale, col timore in cuor suo d’aver detto
troppo in una sol volta.... e non aveva detto ancor nulla! Alla vista
di quel signore d’aspetto così severo, di que’ capelli bianchi, che
irti e scomposti gli circondavano la testa come un’aureola del dolore;
alla vista d’una desolazione così grande, che sul volto di quel vecchio
pareva ancor più sacra e maestosa, il soldato, compreso di rispetto,
portò la mano alla fronte, e rimase diritto e immobile nella posizione
del saluto. Quando il marchese si scosse, e i suoi occhi poteron
vedere, allora poterono anche piangere, e il suo primo atto fu di
stringere nelle sue braccia il soldato, e di appoggiare la fronte dove
forse l’aveva appoggiata suo figlio prima di morire.

Enrichetta era a letto da più giorni con una febbriciattola che ormai
le ripigliava ogni tratto, quando suo padre stravolto, costernato,
venne a dirle, tutta in una volta, la nuova ora sicura della morte di
don Emanuele. Il buon Giovanni ne era così fortemente addolorato, che
in cuor suo se la prese un po’ con sua figlia per non aver potuto in
tutto quel giorno strapparle di bocca una parola di dolore che facesse
eco al suo. E fu lo stesso nei giorni seguenti: egli cercava tratto
tratto con qualche esclamazione o con qualche parola di rimpianto di
tornare col discorso sul povero don Emanuele; ma Enrichetta taceva
sempre. Allora egli se ne andava indispettito, e borbottando tra sè di
nuovo tutto quello che aveva pensato più d’una volta sulle stravaganze
delle donne. Finchè una mattina, e fu pochi giorni dopo, Enrichetta
levatasi, disse a suo padre, che si sentiva assai meglio, che le pareva
proprio d’essere pressochè guarita, e che era decisa di approfittarne
subito per seguire un proposito che aveva in cuor suo, quello di
raggiungere senza altri indugi il marito. Si pensi come cascasse dalle
nuvole Giovanni a un simile discorso. Sulle prime ci credette poco,
fece le viste quasi di non badarci; ma Enrichetta insisteva e con un
tono risoluto, insolito in lei. Allora prese a maravigliarsene e a
gridare ch’eran pazzie; poi dalle maraviglie passò ai ragionamenti,
pigliando la cosa un po’ con le buone e un po’ facendo il burbero;
ma tutto fu inutile. Enrichetta era calma e risoluta; i ragionamenti,
l’affanno di suo padre le davano una commozione di più, ma lasciavano
ferma e intera la sua risoluzione. «Ho indugiato abbastanza!... ho
mancato abbastanza al mio dovere.... al dovere di seguire mio marito
fin dal primo giorno!... Che moglie son io? Se mio marito si trova
tra gli stenti, tra i pericoli, il mio dovere, il mio desiderio non è
quello forse di dividerli con lui?...» Queste eran le sole parole che
Giovanni aveva potuto avere in risposta, e intanto vedeva ogni giorno
sua figlia disporre le sue cosucce per partire davvero, e ben presto.

«Partire.... partire è presto detto!» esclamò un giorno finalmente
Giovanni, che aveva sperato in questa faccenda di non dire la sua
ultima ragione, e di risparmiare a sua figlia, fin che l’avrebbe
potuto, una cosa tanto amara. «Tu non sai che l’impieguccio del povero
Massimo non sarebbe bastato a farlo vivere in questi due anni!...
C’eran de’ debitucci quand’è partito.... e poi s’è dovuto spendere per
mandargli quelle poche masserizie.... e s’è dovuto viver noi.... ci fu
anche questa muta.... e il povero Massimo non li aveva i quattrini per
andare fin laggiù.... gli hanno dato venti centesimi per chilometro!
Dunque cosa s’è dovuto fare? Quel pochino del mio che avevo messo da
parte.... se ne è andato quasi tutto!... Ora, per fare un viaggio di
questa sorte, dove li troverai tu i denari?... perchè ce ne vuole un
monte!... e io, pover uomo, vorrei averli.... ma non li ho!...»

«Oh, troverò bene qualcuno che faccia la limosina a una povera donna
che vuol morire vicino a suo marito!» esclamò Enrichetta con un accento
così straziante che il povero Giovanni ne fu spaventato, e buttatosi
nelle braccia di Mevio, ch’era capitato in quel punto, gli andava
dicendo ansiosamente: «Ho fatto male a parlar così?... ma pure è la
verità!... oh, aiutateci voi!... dite voi cosa deve fare questo pover
uomo!»

L’ingegnere Mevio, cascato in mezzo a quella scena di dolore senza
esserci preparato, era rimasto lì senza parole, afflitto e imbarazzato
anche lui, cercando, ma non trovandoci un rimedio. Per quella volta
dovette accontentarsi di mettere assieme poche parole di conforto, che
poi gli parvero, ripensandoci, le parole più scipite di questo mondo;
ma stizzito giurò a se stesso di far qualcosa di meglio, e mantenne la
parola.

Pochi giorni dopo infatti ricomparve con la faccia contenta d’un uomo
che s’è tolto un peso giù dalle spalle, e che viene a dire: «Ho trovato
il bandolo!»

«Insomma, cari miei,» prese a dire Mevio, «a quel che è stato non
pensiamoci più. Su, fatevi animo.... mettiamoci un poco tutti di
buon umore! Dovete sapere che nel pensare a quell’imbroglio che vi
affliggeva tanto l’altro giorno.... a un tratto m’è proprio piovuto,
come si suol dire, il cacio sui maccheroni. Un tale è venuto a portarmi
una sommerella.... una certa sommerella che non credevo d’aver così
presto; ed eccola qui. Ora siamo a cavallo: la signora Enrichetta potrà
fare il viaggio quando le torni, potrà raggiunger suo marito, come è
ben giusto.... ma non facciamo complimenti! questa volta comanda Mevio,
oh per bacco!... È una sommerella sulla quale non contavo, capite!
dunque me la restituirete quando vorrete. La fortuna gira: fin qui la
vi è andata male, adesso vedrete che la si cambierà!... Quanto a voi,
Giovanni, perchè ho pensato anche a voi, sarà meglio che restiate qui;
così facciam le cose una per volta. Il viaggio costa caro.... e poi,
cosa fareste laggiù?... Nell’amministrazione del marchese c’è un lavoro
straordinario da fare, come vedrete a suo tempo, e si è pensato che voi
sareste proprio l’uomo fatto apposta! Sicuro!... Al marchese ne ho già
parlato, e lui ne è contentone....»

«Dite davvero?»

«Datemi la mano! Dite di sì, e la cosa è fatta!»

«Eh!... il marchese!... è un uomo fine quel marchese!» osservò
Giovanni. «Si vede che sa conoscere gli uomini, perchè....»

«Buon Mevio! Oh quante buone azioni lei fa in una volta!... se
sapesse!... mi perdoni s’io non ho parole....» andava dicendo
Enrichetta.

«Cerimonie! cerimonie! Cosa dice mai, signora Enrichetta!»

«Perchè» continuava Giovanni «convengo anch’io che nell’amministrazione
del marchese un uomo, come direbbero, del mio stampo è necessario!
Perchè, scusate, Mevio, ma nello studio del marchese ho veduto dei
registri con certe intestature, in una certa calligrafia che....
diciamolo, non è al livello della casa!... Mentre io.... vedrete!
conservo ancora alla mia età un _gotico_ col quale sfido qualsiasi
giovane!...»

E di questo tenore chiacchierarono per un pezzo. La sommerella offerta
da Mevio fu accettata, e nessuno andò a cercare come l’avesse avuta.
Enrichetta, aiutata da Mevio, fece il piano del suo viaggio; Giovanni
fece quello della sua permanenza, e trovò un’idea, quella di mettersi
a dozzina dal suo amico Ambrogio. Alla fine Mevio se ne andò, le mille
volte benedetto, tra i sorrisi, i ringraziamenti e gli augurii che si
scambiarono a vicenda. Un po’ di consolazione era così ricomparsa nella
casa d’Enrichetta. Era ricomparsa per rimanervi?...

Fissato il giorno della partenza, Enrichetta scrisse a Massimo, e
principiò a dar assetto alle cosucce che avrebbe portate con sè e a
quelle che lasciava a suo padre. Si sarebbe detto che non avesse più
altri pensieri; si sarebbe detto che la natura le avesse dato una forza
che non aveva avuto mai. Non c’era più traccia di quel languore che
pochi giorni prima pareva la consumasse: c’era in lei una vigoria, un
ardore, un impeto di volontà affatto perduti da un pezzo, e che nel
riaccendere i colori spenti del suo viso le davano l’espressione d’una
nuova beltà. Suo padre si congratulava in cuor suo d’una guarigione
venuta così a tempo; non aveva più timori per il viaggio, e nel vedere
la sua figliola affaccendarsi a quel modo, e far tutto di così buona
voglia, trovava altrettanti argomenti per quietare l’animo suo e per
rassegnarsi a quella separazione. Il bambino d’Enrichetta, che oramai
aveva quattr’anni, sapendo di dover partire anche lui, per non perder
di vista la mamma a buon conto le trotterellava dietro fin d’ora,
a ogni passo, nell’andare e venire ch’ella faceva per le stanze da
mattina a sera.

In capo a una settimana Enrichetta fu pronta a partire. Aveva disposte
con previdenza amorosa tutte le cosucce che potevano abbisognare a
suo padre, e messo in bauli e casse quel tanto che poteva portare con
sè per rendere meno grave il piantar casa nella sua nuova dimora.
A queste cure, a queste fatiche non aveva dato altro riposo che la
notte, e allora la stanchezza veniva a chiuderle benefica gli occhi.
Qualche povero avanzo delle mussole e delle trine che una volta eran
passate maestosamente dinanzi alla folla degli ammiratori in una
festa, e che ora giacevano sciupate, dimenticate tra le cianfrusaglie
d’un cassettone, nel ricomparire avevano evocato d’improvviso qualche
rapido richiamo.... richiamo che Enrichetta aveva subito cacciato,
soffocato, togliendo gli occhi da quei poveri cenci, e ritornando
dov’era più affaccendato il tramestìo della casa. Una voce secreta
guidava Enrichetta in ogni atto, in ogni parola, sebbene a lei paresse
di non aver più in mente che un solo pensiero, quello di partire, e nel
cuore un solo dolore, quello di lasciar suo padre. Quella voce secreta
le ripeteva di fuggir lontano; le diceva che sotto altro cielo avrebbe
cominciata una vita nuova, più tranquilla e forse più felice; le diceva
pure che là avrebbe potuto anche rivolgere alle rimembranze del passato
un mesto pensiero, perchè là, e non altrove, quel pensiero sarebbe
stato un pensiero d’addio!

Enrichetta ubbidiva a quella voce; ma l’ultimo giorno, la vigilia
della partenza, le poche sue forze non la sorreggevano più. Non le
rimaneva che qualche ultima faccenduola, e tra l’una e l’altra metteva
de’ lunghi intervalli, lasciandosi cadere su una poltrona, e cercando
d’esser lasciata sola nella sua camera. Nel riandare col pensiero a
una a una le cose fatte in quei giorni, si ricordò d’uno stipetto in
cui doveva aver riposto qualcosa di cui s’era dimenticata. Si rizzò
lentamente, cercò lo stipetto, l’apri, ci trovò alcune lettere di
qualche amica, poi degl’inviti, qualche cianfrusaglia, e un involto
piegato con cura e legato da un nastrino di seta. Nello spiegare
l’involto si ricordò di ciò che ci aveva riposto: era una rosa di
nastro turchino da cui scendevano due lunghi capi di seta. Enrichetta
prese quella rosa e quei nastri, e ricadendo nella poltrona, li pose
sulle ginocchia, e stette a guardarli lungamente. Le sue pallide
guance si riaccesero a un tratto.... Quali pensieri le irradiavano
la fronte, e la rendevano in quel momento bella come una volta? La
sua mente errava come in una visione; le pareva di udire la piccola
orchestra che in un angolo della sala del marchese accompagnava le
ultime danze d’una festa; la festa s’era diradata; sul viso dei rimasti
cominciava a scendere come un velo il pallore della fatica; eppure
ognuno raddoppiava le sue forze; le danze continuavano meno ordinate
ma più gaie, e pareva nata in tutti un’intimità maggiore dell’usato.
Un ballerino provetto dirigeva con gravità le figure d’un _cotillon_,
sviluppando in cento modi il tèma della dama che sceglie un nuovo
cavaliere, e del cavaliere che cerca una nuova dama; il cavaliere
prescelto, prima d’aver in premio un giro di valzer, veniva decorato
dalla dama con un fiore alla bottoniera; i cavalieri poi, nel cercare
la dama, le presentavano una rosa

di seta, da cui scendevano due lunghissimi nastri; e se la dama
accoglieva il cavaliere, questi le appuntava la rosa alla spalla su
quel pochino di manica concesso dall’abito scollato. Ecco venire con
la rosa dai nastri don Emanuele, il cavaliere più elegante e desiderato
della festa. Più d’una desidera in cuor suo d’esser prescelta.... e don
Emanuele corre a offrir la rosa ad Enrichetta, e gliel’appunta con lo
spillo; le passa il braccio intorno alla vita, la stringe a sè, e parte
girando più volte la sala vorticosamente con lei. «Lasci appuntato
quel nastro.... non me lo renda.... lo tenga in mia memoria....» le
aveva susurrato don Emanuele, mentre i nastri svolazzando s’eran loro
attortigliati dintorno e li avevano stretti in un nodo. Nella musica
stessa della danza c’era qualcosa che trascinava, che seduceva; e
ora quelle note ritornavano tutte nella fantasia d’Enrichetta, e le
ridestavano a una a una le memorie di quella festa.... il bagliore de’
lumi, l’eleganza delle sale, lo sfarzo delle amiche, la ressa degli
ammiratori, le parole adulatrici, le danze, don Emanuele, il nastro....
quel nastro, che ora aveva dinanzi, che teneva nelle sue mani, e che
era proprio quello che le aveva appuntato don Emanuele.

«Lo tenga in mia memoria....» ripensò Enrichetta dopo aver passata la
mano sulla fronte come chi si risveglia e cerca discernere dove finisca
il sogno e dove ricomincino le realtà della vita. «Egli non c’è più!...
Lo posso tenere questo nastro.... portarlo meco.... è una memoria...
d’uno che non è più.... oh! sì, lo porterò meco...» E rizzatasi stava
per riporre la rosa e i nastri in una cassettina da viaggio, quando udì
i passi di qualcuno che veniva. Levò gli occhi, vide uno aprir l’uscio,
e riconobbe il marchese Renica. Quanto era mutato!

Era quella la prima volta che il marchese Antonio usciva di casa
dopo il giorno che abbiam veduto comparirgli nello studio l’ordinanza
di suo figlio. Nessuno de’ suoi amici aveva potuto nè parlargli, nè
soltanto vederlo: aveva però fatto chiamare l’ingegnere Mevio e gli
aveva domandalo della signora Della Valle. L’ingegnere Mevio gli aveva
parlato delle angosce d’Enrichetta e della sua decisione di partire.
In que’ giorni tutto era venuto in uggia al marchese, tutto gli era
insoffribile, fin la presenza d’un amico; ma quando gli balenò in mente
il pensiero di salutare la signora Della Valle, di rivederla, sentì
che il respiro gli si faceva più largo, e che gli scendeva nel cuore un
primo sollievo. Il cuore gli aveva detto in quel momento che Enrichetta
sola, e non altri, avrebbe capito il suo dolore. Ma che sarebbe egli
andato a dire alla signora Della Valle?... Questo pensiero gli aveva
suscitato nell’anima mille dubbi, lo aveva tormentato, combattuto;
ma poi non aveva esitato più, ed Enrichetta se l’era veduto comparire
dinanzi.

Enrichetta, a quella vista improvvisa, sentì una fitta al cuore come il
giorno in cui suo padre era venuto a dirle la morte di don Emanuele.
Si appoggiò a una sedia con la mano prima di poter movere un passo
verso il marchese; ma quando si mosse, le fu più difficile ancora il
non gettarsi nelle sue braccia. Il marchese Antonio le stese la mano,
Enrichetta la strinse; nè l’uno nè l’altra poteron fissarsi negli
occhi; nessuno dei due potè pronunziare una parola. Ma che rimaneva
loro a dire?...

In quel punto udirono nella stanza vicina i passi di qualcuno che
s’avvicinava. Il marchese strinse ancora una volta, e più fortemente,
la mano d’Enrichetta, e fece atto di partire; ma Enrichetta con
un gesto leggero della mano lo trattenne.... Alzò gli occhi, quasi
domandasse al cielo una buona ispirazione; poi con un atto deciso e
rapido andò a riaprire la sua cassettina da viaggio, ne levò la rosa
coi nastri, e senza dir parola la consegnò al marchese. Il marchese
s’accorse di ricevere un deposito, che da quel punto diventava cosa
sua e sacra per lui; strinse una volta ancora la mano d’Enrichetta
con l’espressione non solo del dolore, ma con quella dell’affetto,
e nascose la commozione che oramai era più forte di lui, uscendo o
piuttosto fuggendo rapidamente di lì.

In quel mentre entrava da un altr’uscio Giovanni, che veniva con
una cera complimentosa per riverire il marchese. Non è a dire come
rimanesse lì mortificato e goffo vedendo, dopo aver guardato due o tre
volte all’ingiro, che il marchese non c’era più! Maledì in cuor suo
quei pochi minuti che aveva creduto di impiegar così bene nel mutar
l’abito e metter in sesto la cravatta, e che l’avevan tradito; poi,
in tono piuttosto brusco, si rivolse a sua figlia. Enrichetta in un
angolo della camera pareva tutta occupata da qualcuna delle solite
faccenduole; suo padre le fece in un fiato cinque o sei domande, e
stette ad aspettar la risposta.

Dopo aver asciugate in secreto due grosse lacrime, Enrichetta sentì
scendere a un tratto nel suo cuore la pace serena d’una volta. Da
quanto tempo non l’aveva più riavuta!... Com’era soave e benefica!
Enrichetta rispose a tutte le domande di suo padre, gli rispose
mettendogli le braccia al collo, e col suo bel sorriso, quello che
da un pezzo nessuno le aveva più veduto. Il suo cuore le aveva detto
finalmente che il passato era finito davvero, e ch’era principiato
l’avvenire.

Il buon Giovanni, che, tutto considerato, ne capiva sempre meno, dopo
una crollatina di capo riprese anche questa volta i suoi soliloqui sul
tèma difficile del capire le donne.


XIV.

Partita Enrichetta col suo bambino, Giovanni cominciò a poco a poco
ad assuefarsi al nuovo tenore di vita e alle nuove occupazioni che
gli aveva procurate Mevio. Passava le giornate intere nelle stanze
dell’amministrazione del marchese, ora chiacchierando con qualcuno, ora
attendendo a qualche lavoruccio che gli aveva affidato Mevio, o facendo
intestature nuove ai registri «con una mano di scritto che finalmente»
come diceva lui «era al livello del casato.» A casa sua poi, cioè
in casa d’Ambrogio che ben di cuore se l’era pigliato a dozzina, si
svagava un po’ con delle lunghe chiacchierate, confidando all’amico
tutto il da fare che gli dava l’amministrazione del patrimonio del
marchese, tutti i guai che ci aveva veduti, e tutto quello che farebbe
lui se fosse solo a comandare.

Non è a dire però che non avesse la sua spina secreta nel cuore.
Cercava bene di cacciare i fastidi e i pensieri malinconici un po’ con
le chiacchiere e un po’ con le intestature; ma i fastidi rimanevano,
e i pensieri malinconici ritornavano, come fanno sempre, e per non
far torto neanche a Giovanni. «Cosa sarebbe successo?... Come la
sarebbe andata?... Ed Enrichetta!... Poverina!....» pensava ogni tanto
tra sè. «È partita, è vero, con la faccia che pareva contenta....
diceva di star bene.... ma se fosse stato tutto uno sforzo per non
affliggermi!... E il viaggio.... e il clima nuovo per lei non le
risveglieranno quella febbre che ha avuta per tanto tempo?... Quella
febbre!... quella febbre!... E poi, a pensarci, intanto che diceva
di partire così di buono umore, non la finiva più di salutar tutti
e tutto, fin le pareti delle stanze, fino i mobili, e in un certo
modo!... Poi quando fu alla stazione e si voltò a guardare il Duomo....
capisco che anch’io quando vedo il Duomo.... ma però lo saluterei con
una faccia tutta diversa!»

Anche la prima lettera che gli arrivò, per quanto egli dicesse ad
Ambrogio che le notizie eran bonissime e che tutto andava benone, non
era fatta per mettergli in testa un altro ordine di pensieri. Dopo il
viaggio la febbre era ricomparsa, poi era cessata; ma Enrichetta, per
prudenza s’intende, non si levava ancora dal letto, e faceva scrivere
la lettera da Massimo. La lettera finiva, è vero, con molte parole
di speranza nell’avvenire; ma a trovarci ancora in simili parole un
argomento di consolazione bisognava davvero metterci una gran buona
volontà. Giovanni ce ne metteva, ma poi mentre si avviava in cerca di
consolazioni si accorgeva a un tratto d’aver fatto, senza volerlo, una
strada ben lunga per la china dei cattivi pensieri. Allora scotendosi,
se la pigliava col suo cattivo naturale, e cercava di svagarsi
ripigliando il filo delle chiacchiere con Ambrogio, o i ghirigori d’una
calligrafia più studiata.

Di lettere sul fare della prima ne capitaron parecchie; e ogni volta
Giovanni ci si metteva proprio di cuore per farsele parer buone, ma
ogni volta trovava un argomento di meno. Con chi poi ne lo interrogava,
mutava discorso volentieri, perchè capiva che le parole lo servivano
male in questo argomento, e temeva di far nascere in chi lo ascoltava
alcuno di que’ dubbi che gli erano già molesti abbastanza. A questo
modo passò un buon mese, e mentre cominciava a dire in cuor suo:
«Eh!... chi sa? dopo la pioggia viene il bel tempo.... e dopo un mese
cattivo ne potrebbe venir uno buono!» a un tratto non ricevette più
nuove di sorta.

Eravamo ai primi di settembre, in quei giorni in cui le masnade della
reazione avevano assalito Palermo e desolate le terre vicine. Le
notizie scarse, confuse, che venivano mano mano, riempivano gli animi
di trepidazione e di orrore. Si pensi come fosse in croce il povero
Giovanni! E per di più tutti lo fermavano per strada, lo interrogavano,
volevano le notizie: c’era fino chi le pretendeva, perchè avendo egli
i suoi in Sicilia, ne doveva venire di conseguenza ch’egli sapesse
tutto quello che vi succedeva. E il povero Giovanni, che vedeva passare
i giorni e le settimane senza che gli arrivasse qualche notizia, non
reggeva più a questo doppio tormento; e dopo essersene confidato con
Mevio, non mise piede più neanche nello studio del marchese per non
veder anima viva, e per non dover confessare con qualcuno di non sapere
più nulla nè di sua figlia nè di suo genero.

Queste benedette notizie non arrivarono che dopo alcune settimane, e
non furon proprio di quelle fatte per dar ragione al proverbio che
dice: nessuna nuova, buona nuova. Giovanni ebbe finalmente, e in
una sol volta, quattro lettere, due vecchie e due di data recente.
Cos’era successo in tutto quel tempo? Cosa c’era in quelle quattro
lettere? Per saperlo, la più spiccia è dir quattro parole sul conto
d’Enrichetta, e raccontare in breve le vicende che capitarono al povero
Massimo, intanto che suo socero aspettava le lettere, e mentalmente lo
strapazzava di santa ragione.

Enrichetta aveva presto sentito scendere nel suo cuore ciò che aveva
tanto sperato, la pace. Il suo cuore aveva battuto fortemente una
volta ancora quando imbarcatasi aveva veduto un primo lembo di mare
dividerla dalla spiaggia, e il lembo farsi grande, e la spiaggia farsi
lontana. Poi da quella spiaggia aveva veduto dipartirsi, come una lunga
striscia, la strada da lei poco prima percorsa, la strada che conduceva
alla sua città natale, alla sua casa.... e intanto che col pensiero la
rifaceva, il suo cuore aveva sentito ancora il tremito angoscioso d’una
volta. Ma in breve la spiaggia e le colline che le facevano corona non
furono più che linee vaghe, sfumate, a cui mano mano succedeva uno
spettacolo più grande, quello del cielo e del mare che si riunivano
in una placida e maestosa armonia. Allora nel cuore d’Enrichetta
quell’ultimo eco del passato prese a farsi lontano, lontano, e presto
si perdette nella contemplazione d’un avvenire pieno di speranze e di
pace.

Quando Massimo si trovò nelle sue braccia Enrichetta e in collo il
suo bambino, quanti affetti in una volta gli contesero il cuore come
se tutti lo volessero tutto per sè! Gli parve come d’essere tornato
proprio sotto il suo vecchio cielo, nella sua casa di Milano; gli parve
di non essersene allontanato mai. Egli avrebbe giurato che quel giorno
non era che un domani felice de’ suoi più bei giorni del passato! E
le sue disgrazie? e la memoria affannosa che ne aveva portato in quel
lontano soggiorno? tutto gli pareva scomparso in quel momento. Era
tornato accanto alla sua famigliola, e le fatiche del viaggio le aveva
lasciate sulla soglia.

Enrichetta trovò tutto quello che la speranza gli aveva promesso. Ebbe
l’affetto di suo marito come lo voleva il suo cuore; quell’affetto che
sa trovare ogni giorno una premura, una buona parola, un atto cortese,
un nulla, quei nulla che sono per certe anime lo scudo che le fa uscir
vittoriose dalla battaglia della vita. Con questo scudo Enrichetta potè
riandare le memorie del passato; tutte le potè riandare! E ripensando
alle inezie lusinghiere, ai sogni della vanità che le furono così
fatali; ripensando alle seduzioni d’un giorno, alle debolezze del
cuore, prendeva coraggio nel sopportare le presenti difficoltà della
vita, e le guardava con animo rassegnato e sereno, poichè, se aveva
avuto in passato il suo tanto di colpa, vedeva in esse il suo tanto di
espiazione.

Questa nuova pace era un benefico ristoro dell’anima; ma veniva essa
in tempo per ridonare a Enrichetta le forze battute e corrose da tante
disgrazie? La febbre e il languore che nei primi giorni del suo arrivo
le avevano dato un poco di sosta, ricomparvero presto e più gravemente
di prima. «Oh perchè tornate? perchè!» aveva detto Enrichetta
affannosamente a se stessa, sentendo di nuovo quei brividi di febbre
che le erano così noti. «Ma adesso sono contenta!... adesso devo star
bene! non devo più ammalarmi! oh no, non voglio esser malata!» E fin
che lo potè, cercò ingannare se stessa e suo marito; ma fu uno di
quegli inganni che duran poco, e che rendono poi la confessione più
amara.

Era un paesuccio povero e fuor di mano quello ch’era toccato a Massimo
di residenza. Ci si teneva in allora un impiegato di Questura, ma per
eccezione, e precisamente perchè, in grazia di certi provvedimenti
straordinari per la sicurezza della provincia, ne avevano fatto un
punto strategico. Per chiamare il medico bisognava far molte miglia,
e così per avere le medicine e tutto quello che poteva abbisognare,
non solo per un malato, ma per chiunque non fosse uno di que’ poveri
abitanti del luogo. La strada poi non era nè la più comoda, nè la
più sicura. Enrichetta non domandava nulla, non si lagnava di nulla,
ma il povero Massimo si struggeva e quando la sua buona volontà
e le sue premure tornavano inutili, si lasciava cascar le braccia
scoraggito; e ora levava gli occhi al cielo, ora fissava qualche punto
lontano, pensando a quelli che vivevano là, e invidiandoli, perchè gli
pareva che là ci sarebbe stato tutto il bisognevole, e che là la sua
Enrichetta avrebbe potuto risanare.

Siccome poi le disgrazie, quando hanno preso uno a perseguitare, le
molte volte non lo lasciano che quando di burrone in burrone l’hanno
tirato giù fin al fondo del precipizio; così al povero Massimo,
che pure era disceso ben bene, ne capitò presto una nuova a dargli
l’ultimo tracollo. Un ordine improvviso gli ingiunse di portarsi
immediatamente in una vicina borgata, dove si temevano de’ disordini,
sul far di quelli che succedevano in que’ giorni a Palermo, e dove si
riunivano a buon conto le poche forze dei paeselli all’ingiro. Massimo
dovette ubbidire sull’attimo: ebbe appena il tempo di raccomandare sua
moglie a un buon uomo, il sindaco del paese, di far la valigia, e di
raccapezzare ancora una speranza, quella di tornar presto.

Appena giunto in questa tale borgata, un suo superiore, con la faccia
poco rassicurata e meno rassicurante, gli spiegò di che si trattava;
gli diede cioè una sequela di cattive notizie, e l’ordine di tenersi
pronto giorno e notte per mostrarsi poi a un bisogno conciliante e
severo, energico e longanime.

Due giorni dopo, mentre stava leggendo alcune righe che gli aveva
mandate quel tal sindaco per dargli le nuove d’Enrichetta, nuove poco
buone che dicevano e non dicevano, e gli lasciavano la testa piena di
dubbi e d’angustie, vennero a un tratto a chiamarlo in tutta fretta.
Per le strade, nelle piazze, si vedevano de’ capannelli, e c’era gente
che andava in giro col fare torbido e minaccioso. Massimo passò la mano
sulla fronte come per mettere in sesto la sua povera testa; poi levò
in fretta la sua ciarpa da un cassetto, se l’aggiustò ad armacollo
sotto l’abito mentre scendeva le scale, e prese la corsa finchè
giunse mezzo rifinito allo sbocco d’una strada, dove un drappello di
carabinieri e di soldati tratteneva a fatica un’accozzaglia di gente
che schiamazzava, e cercava di irrompere, mandando grida minacciose.
Gli parve in quel punto di trovarsi ancora dinanzi a una certa folla di
malaugurata memoria, quella tale che egli aveva cercato di persuader
con le buone, e che intanto s’era raddoppiata, aveva saccheggiato un
uffizio, e cagionati quei malanni di cui egli aveva pagata la sua parte
di spese, buscandosi una ramanzina e una muta.

Massimo ordinò al tamburino di dare il segnale, e fece la sua prima
intimazione: la folla gli rispose con una salva di fischi e di
complimenti d’occasione. Fece la seconda intimazione, e questa volta
con la voce alterata d’un uomo a cui la testa comincia ad annebbiarsi
e il sangue a bollire: fece la terza, e la risposta fu una tempesta di
ciottoli. Ordinò la carica. Si pensi che parapiglia, che gridare, che
scappar generale!... Ma nel trambusto ci fu chi tirò qualche colpo di
pistola, a cui i soldati risposero con qualche colpo di fucile. Dopo
pochi minuti tutto era sgombro e silenzioso, ma giacevano per terra
alcuni feriti: tra questi c’era un brav’uomo, anzi uno dei notabili
del paese, che passando a caso era stato travolto dalla folla proprio
nel momento delle botte e, come succede, ne aveva pigliata una lui. Il
poveretto moriva il giorno dopo.

Quel che ne nascesse è facile pensarlo. Finita la burrasca, passata la
paura, cominciarono con calore i commenti e i giudizi sull’accaduto.
Il fatto era grave; e la colpa di chi era? Pigliarsela co’ capi del
tafferuglio era un rimestare di nuovo nelle passioni, era un far torto
al buon nome del paese; pigliarsela col prefetto della provincia,
col capo della Questura, coi soldati, eran cose in cui parecchi ci
vedevano un tantino d’imprudenza; pigliarsela col delegato Della
Valle era un affare meno complicato e che poteva aggiustar le ova
nel paniere. Bisogna dire che la pensassero proprio così, perchè a un
tratto il povero Massimo diventò, sulle bocche di tutti, l’uomo feroce
e sitibondo di sangue, l’autore unico ed esecrato di ciò che chiamavano
chi l’assassinio, chi la strage, e chi i _vespri_ governativi. Il
superiore, che aveva bisogno di tirarsi d’impaccio anche lui, per prima
cosa non volle sentir scuse: ricordò al signor Della Valle che nelle
istruzioni che gli aveva date, c’era la moderazione e la longanimità,
e lo rimandò nel villaggio dov’era prima; poi fece il suo rapporto al
prefetto.

Massimo tornò al capezzale d’Enrichetta, le narrò a poco a poco una
parte dell’accaduto, e tenne per sè ciò che lo angosciava di più.
Non le parlò delle voci accusatrici che si erano levate da ogni parte
contro di lui, e che ora gli tornavano ogni tratto all’orecchio, lo
seguivano, l’opprimevano. «Ma son dunque un colpevole io?» esclamava
qualche volta da solo. «Non ci sarà nessuno che prenderà le mie difese?
Nessuno che mi ascolterà?... Ma io sono un onest’uomo? Sono innocente
io!...» E quando gli uscivano questi lamenti, questi gridi dell’anima,
durava poi non poca fatica a richiamare la testa a casa perchè non gli
desse di volta, e a ricomporsi per tornare nella camera d’Enrichetta
e parere quello di prima. In que’ giorni aveva scritto due lettere a
suo socero, ed erano le due di data più recente delle quattro che gli
abbiam vedute capitare. In queste ultime Massimo raccontava a Giovanni
i fatti com’erano avvenuti; lo supplicava di far conoscere la verità,
di difenderlo contro le accuse che sarebbero arrivate fino a Milano,
fino al suo paese, e di trovare qualche anima compassionevole ed amica
che dicesse in alto una buona parola per lui.

«Oh! poveri noi! anche questa!» si mise ad esclamare Giovanni nella
sua camera, com’ebbe lette le lettere. «Adesso chi sa che roba di
fuoco diranno di noi i giornali! Mi ricordo dell’altra volta!... Ma
quel benedetto figliolo! cosa gli è venuto in mente di pigliarsela
così calda!... Io, a’ miei tempi, quand’ero nella guardia nazionale,
un po’ con le buone, un po’ con quattro scappellotti, ma sempre nella
legalità, li sapevo ben io mandar a casa questi tali che, si sa, di
tanto in tanto hanno bisogno di vociare e di fare schiamazzo! È sempre
stato impetuoso quel Massimo!... sempre impetuoso!...» Ma qui gli
veniva in mente quell’altro guaio capitatogli per essere stato troppo
paziente, e dopo una pausa conchiudeva: «Proprio come quello che menava
l’asino al mercato!... Ma intanto» continuava dopo averci pensato su
ancora «intanto cosa si fa?... Qualcosa bisognerà fare, perchè chi
sa dove lo mandano questa volta?... Più in giù non è possibile....
dunque!... Eh! bisognerà moversi subito, non perder tempo, trovare
qualche buon santo.... Ma chi trovare!... Andrò da Mevio!» E contento
della buona idea che gli era venuta, pigliò il cappello e la mazza, e
andò diviato dall’amico.

Giovanni trovò in compagnia dell’ingegnere Mevio uno che vedeva per
la prima volta, e che ad occhio gli parve un campagnolo. Come l’ebbe
squadrato, fece capire a Mevio con una smorfia che aveva qualcosa a
dirgli da solo a solo; poi principiò a discorrere con un certo fare
disinvolto che contrastava non poco con la faccia stralunata con cui
era entrato nella stanza poco prima.

«Oh! a proposito!... «saltò su Mevio interrompendo il discorso e
additando Giovanni al campagnolo. «Ecco il socero di Massimo: le
notizie ve le potrà dar lui. E questo brav’uomo» continuò presentando
Martino a Giovanni «è un parente di vostro genero, uno di Castelrenico,
che appunto era venuto a domandarmi nuove di Massimo e di sua
moglie....»

«Precisamente!...» prese a dire Martino. «E intanto sono ben contento
di questa congiuntura che mi fa fare la conoscenza del signor socero
dell’avvocato..... voglio dire.... come si chiama quell’impiego?... e
se avesse qualche notizia la sentirò proprio con tanto piacere, perchè
mi dicono che il nostro Massimo l’abbian mandato in un così brutto
paesuccio....»

«Cioè, brutto.... un paese piccolo!» saltò su Giovanni «un paese, se
volete, un poco lontano....»

«E che dopo essere stato a Milano....»

«Ecco! precisamente! Vedo che siete un uomo che capisce! Milano è un
gran Milano! ne convenite anche voi, eh? Ma non ce n’è che un solo! è
l’unico suo difetto!»

«Le notizie però son buone?... Oh! questo mi allarga il fiato!...»
riprese Martino.

«Soddisfacenti.... soddisfacenti» saltò su, interrompendolo, Giovanni,
con un fare tra l’imbarazzato e l’infastidito.

«Perchè m’avevan detto» continuò l’altro «che la moglie del nostro
Massimo, voglio dire la sua signora figlia, fosse un poco ammalata....
o per dir meglio, paresse che in questi ultimi tempi....»

«Cioè.... cioè....» fece per rispondere Giovanni, ma intanto s’era
voltato da una parte, aveva pigliato in mano un libro e levato il
fazzoletto di tasca, cercando di interrompere il discorso e di sviare
la commozione.

«Ma.... ecco,» continuò Martino: «casa mia è una casa alla buona, ma
c’è posto che ne avanza; l’aria poi di Castelrenico è numero uno! e,
se qualche soldato dei nostri piglia le febbri, non ha che a tornare
in paese e ne guarisce subito. Insomma quello che vorrei dir io è
che.... ma proprio senza complimenti, che se la sua signora figlia
volesse prendere una boccata d’aria buona.... la mi farebbe davvero un
piacerone.... l’avrei proprio per un onor grande.... Ecco cosa volevo
dire!»

Giovanni strinse la mano a Martino, fece per rispondegli qualche
ringraziamento, ma non potè. Non potè, perchè i cattivi pensieri
ch’egli soleva cacciare a uno a uno, mano mano che si presentavano,
ritornavano poi a dargli l’assalto tutti in una volta se faceva
tanto di lasciar penetrare nell’animo un poco di commozione; e allora
rimaneva lì prostrato e senza difesa. Martino però non s’accorse di
tutto questo. Poco dopo salutò cordialmente Mevio e Giovanni; e con un
«dunque siamo intesi» se ne andò!

Giovanni, rimasto solo con Mevio, levò di tasca le lettere, gliele
diede, ed ebbe appena fiato di dire: «Leggete!».

Intanto che Mevio leggeva, Giovanni gli guardava negli occhi con la
speranza di vederci il riflesso di qualcosa che fosse meno triste di
ciò che aveva lui nel cuore in quel momento. Era come la sua ultima
speranza; ma la faccia di Mevio, mano mano che i suoi occhi scendevano
giù fino a pie’ di pagina, perdeva a uno a uno i tratti della sua
giovialità. Giovanni seguitava a fissarlo, e Mevio prendeva sempre più
un’espressione severa, una certa espressione che destò a un tratto un
ricordo a Giovanni, e gli fece pensare: «È la faccia di quando arrivò
la notizia ch’era morto don Emanuele!» Questo pensiero appannò gli
occhi del povero Giovanni che, lasciatosi cadere su una sedia, rimase
col capo tra le mani finchè Mevio ebbe finito di leggere tutte e
quattro le lettere.

«È un piovere sul bagnato!... questo è il guaio maggiore!» disse Mevio
nel ripiegare le lettere. «Avevo già veduto qualcosa nei giornali....»

«Nei giornali? Allora siamo fritti!» esclamò Giovanni rizzandosi in
piedi. «Povero Massimo!... e cosa dicono i giornali?... no, no, non
ditemelo per carità!»

«Abbiate pazienza! I giornali raccontano il fatto; raccontano che un
delegato di Questura.... ma finora il nome di Massimo non è venuto
fuori.»

«Ci verrà! oh! ci verrà! Quando tutti dicevano che il nostro Massimo
era un gran brav’uomo, allora i giornali non dicevano niente! Ma adesso
sentirete! Oh! poveri noi!»

«Calmatevi, caro Giovanni; capisco, la cosa può esser seria....
però....»

«Però?»

«Insomma uno, quando sa di non aver nulla sulla coscienza, può
domandare che si faccia.... non saprei.... un processo, e allora la
verità a poco a poco viene a galla....»

«Ma intanto? L’avete detto anche voi che è un piovere sul bagnato! e
questa è una gran parola, sapete! Se ci fosse ancora qualche paese più
lontano, me lo vedrei già rotolato giù chi sa fin dove... e direi,
pazienza! Ma il paese più lontano non c’è, e questa volta me lo
rimandano a casa.... a casa diritto diritto: mi par già di vederlo!»

«È un guaio anche per voi e per Massimo che al marchese sia capitata
quella gran disgrazia!... Se fosse stato qui, le portavo a lui queste
lettere subito, e scommetto che non vi lasciava in asso; vi avrebbe
dato qualche buon parere, vi avrebbe forse diretto o raccomandato
a qualcuno. E una parola d’un uomo come il marchese, che ha in alto
amici a bizzeffe, e a cui fan di cappello tutti le poche volte che si
lascia vedere, una sua parola detta a tempo avrebbe forse potuto far
sospendere qualche giudizio precipitato. Perchè il pericolo sta qui!
Cansato questo pericolo, uno allora può far sentire le sue ragioni, e
le cose a poco a poco si aggiustano. Ma bisognerebbe non perder tempo,
e il marchese, voi lo sapete, non è a Milano. Se fosse a Castelrenico,
meno male, ci farei una corsa e per domattina vi saprei dire qualche
cosa. Ma, pover uomo! parenti, amici, seccatori d’ogni risma avrebbero
voluto soffocarlo di condoglianze, non foss’altro per essere in regola
con l’etichetta; e lui invece non voleva veder nessuno. Così, per
paura che non lo lasciassero tranquillo neanche a Castelrenico, se
ne è andato in quel suo podere di Piemonte, dove è più sicuro di non
veder gente.... Ma ehi! Giovanni! cosa fate? per Bacco, non lasciatevi
andar d’animo a quel modo!... insomma.... gli scriverò.... se volete ci
vado in persona e mi faccio fare una brava lettera per qualche pesce
grosso.... Ehi! Giovanni! datemi ascolto!... un giorno più, un giorno
meno.... non vorrà essere proprio oggi o domani che sentenzieranno sul
conto di Massimo.... eh! avranno tutt’altro per il capo, caro mio, in
questi giorni, con quel po’ po’ di trambusto!... Ma insomma, Giovanni,
non mi date retta?... Mi par quasi di non esser più il vostro Mevio!»

Il povero Giovanni s’era di nuovo lasciato cadere sulla sedia,
nascondendo la faccia tra le mani; non ascoltava più le parole del
suo amico e pareva assorto da un dolore più forte di prima. Mevio
cercò di confortarlo in ogni maniera, ma per un pezzo non gli riuscì
di fargli aprir bocca. «Se la matassa s’è ingarbugliata, vedrete
che troveremo ancora il bandolo,» seguitava a dire Mevio. «Pericoli,
quanto all’impiego, non ce ne saranno. E poi.... e poi, se anche lo
sbalzassero dall’uffizio, a un altro impiego, ve lo prometto, ci penso
io. Penseremo a qualche impiego d’altro genere.... per esempio....»

«Oh! cosa mi parlate mai dell’impiego!» esclamò finalmente il povero
Giovanni.... «Che l’impiego se ne vada!... che è ormai l’ultimo
de’ miei pensieri! Non è all’impiego che penso io! non è il pensier
dell’impiego che mi sta sul cuore!... che mi toglie il respiro in
questo momento!... È alla mia Enrichetta che io penso!... è alla mia
Enrichetta!... Le avete lette bene quelle lettere! Non vi pare?... E
se non vi pare, è perchè.... Ditemi un poco, sapete voi cosa sono i
presentimenti?... Ebbene, ne ho uno io!... uno ben triste!...» E non
potè finire perchè diede in uno scoppio di pianto, mentre rizzatosi in
piedi si gettava nelle braccia dell’amico.

Quanto all’impiego rimedi non ce n’era più. Tra i mezzi d’acquietare
gli animi in quel paese dov’era successo il tafferuglio, c’era stata
in quei giorni anche la destituzione dall’impiego del delegato Massimo
Della Valle.


XV.

Sul finire di quello stesso mese di settembre in cui erano succeduti
gli ultimi avvenimenti del nostro racconto, un uomo vestito a bruno
usciva una mattina da una delle porte di Milano, e preso uno de’
viali che fiancheggiano la strada maestra, continuava il suo cammino
lentamente, misurando il passo coi passi d’un bambino, vestito a bruno
anch’esso, che conduceva per mano. Per arrivare a quella porta aveva
dovuto fare tre o quattro lunghe strade, e le aveva fatte d’un passo
meno lento, e col fare d’uno a cui dànno noia la gente, le case,
i rumori della città; d’uno che cerca la solitudine e l’orizzonte
spazioso e quieto. Il bambino che lo seguiva aveva dovuto percorrere
quel tratto quasi tutto di corsa e saltellando; e quel passeggio a
gambe levate gli era stato argomento d’una allegria che faceva non
poco contrasto con l’aria malinconica di chi lo conduceva. Chi passava
dava a costui alla sfuggita un’occhiata compassionevole, ed una più
compassionevole ancora a quel vispo bambino, che nel primo mattino
della vita portava già il vestito della sventura e del lutto. «Povero
bambino!» dicevano mestamente in cuor loro «ha perduta la sua mamma!» e
avrebbero voluto saper chi fosse, fargli una carezza, dargli un bacio
in luogo della mamma che non gliene avrebbe dati più. Uno poi, che
aveva fatto atto di fermarsi, e s’era voltato a guardare il bambino e
l’aveva seguito con gli occhi, nel ripigliare la strada s’era messo a
borbottare tra sè: «Anch’io da bambino fui vestito così! e cosa volesse
dir quel vestito lo capii dopo... l’ho capito una prima volta, me ne
ricordo ancora, quando non mi potei difendere contro un compagno più
grandicello e prepotente, col gridare, come facevan gli altri, _lo
dirò alla mia mamma!_... E poi, dicono che una parola amorevole, un
consiglio d’una madre, non si dimenticano più! E vengono le volte in
cui s’ha bisogno di richiamare un consiglio!... s’ha bisogno d’una
memoria da rispettare!... Oh! se l’avessi trovata una buona parola
dentro di me!... chi sa!...» E aveva svoltato alla prima cantonata per
non avere la tentazione di guardare ancora quel bambino, e per cacciare
una folla di tristi pensieri. Altri, dopo una prima occhiata mesta a
quel fanciullo, avevano continuata la loro strada col passo più svelto
e con la faccia di chi pensa a una buona nuova. Quale pensiero aveva
attraversato d’improvviso la loro mente? Quello, forse, che rientrando
in casa ci avrebbero trovato ancora la loro mamma.

Il povero Massimo, poichè era proprio lui l’uomo vestito a bruno che
conduceva il bambino a mano, com’ebbe lasciato dietro di sè le ultime
case del sobborgo che qua e là fiancheggiano il viale, cominciò a levar
gli occhi, che aveva tenuti fin lì fissi al suolo, e a guardare i bei
prati, i bei campi che gli si stendevano dinanzi, e dopo questi le
prime linee rialzate e vagamente interrotte delle colline, e la gran
costiera finalmente delle prealpi e delle alpi, che gli chiudevano
l’orizzonte coi loro maestosi profili, frastagliati da cocuzzoli
biancheggianti e da ombre severe. Quello spettacolo, che pure egli
aveva veduto le mille volte, pareva avesse in quel punto su l’animo
suo un fascino tutto nuovo. Camminava, e non sapeva levar gli occhi da
quella parte d’orizzonte; era assorto, ma pareva che il respiro gli si
facesse più libero e l’animo più sollevato.

Che cos’era venuto a sviare per un momento la costante malinconia de’
suoi pensieri? Cosa cercava egli con lo sguardo così fisso? I suoi
occhi seguivano quelle ombre, quelle insenature, quelle vette che da
tanto tempo non aveva vedute, e che ora mano mano andava riconoscendo.
Eran tutti profili cari al suo cuore, e che sapeva lo dovevano condurre
a uno che gli era il più caro di tutti, il profilo dei monti che
stavano dietro Castelrenico. Appena lo intravide e lo riconobbe, il suo
cuore battè violentemente, e il suo viso ch’era così pallido e triste,
si fece a un tratto rosso, e prese quasi un’espressione di gioia.
Si fermò, e stette un pezzo a fissare quel punto; intanto che il suo
bambino era tutto in faccende per un grillo che aveva veduto presso
la siepe, e non arrischiandosi di pigliarlo, gli salterellava intorno
mandando gridi d’allegria.

Massimo riprese il cammino, ma ogni tanto levava gli occhi e guardava
ancora que’ monti. La sua mente era come trasportata da un’onda di
pensieri nuovi: quella nebbia, che dopo le sue ultime disgrazie non gli
lasciava veder più nulla dinanzi, in quel momento pareva si diradasse
per fargli intravedere un porto tranquillo. Tornare a Castelrenico dopo
esserne uscito pieno di progetti e di fumo? tornare umile, avvilito,
come chi torna da una sconfitta? farsi guardare con pietà dopo che
l’avevano guardato con invidia?... Mai! Con questa risposta aveva
sempre troncato ogni pensiero, ogni domanda che avesse osato di farsi
innanzi, per quanto sommessamente, a parlargli di Castelrenico. Ma
ora che in compagnia de’ pensieri gli veniva dinanzi quella faccia
benedetta de’ suoi monti, quel mai era lento a ricomparire, impedito
da tant’altre cose che questa volta parevano più frettolose di lui.
Le ubbìe compagne del mai si facevano piccine piccine, nella sua
mente, intanto che il campanile di Castelrenico, la piazza, il caffè,
l’osteria, gli amici d’un tempo diventavano grandi grandi, e li
illuminava come una nuova luce che li faceva parer tutti le più belle
cose di questo mondo.

Massimo continuava a camminare. Camminava col passo più celere,
e pensava a quando, dopo essersi dilungato un po’ troppo fuori
di Castelrenico, se ne tornava affrettando il passo; e gli pareva
quasi che alla prima svolta avrebbe trovata la solita scorciatoia
che pigliava quando voleva giungere più presto in paese. Tanto era
diventato padrone di lui in quel momento il suo Castelrenico! E intanto
camminava.... ma il suo bambino, che cominciava a essere stanco, ora si
sedeva su un mucchio di ghiaia, ora pigliava la rincorsa, ora tirava la
falda del vestito del babbo, e cercava di fermarlo con una domanda.

Era un pezzo che nell’animo del povero Massimo, addolorato da tante
disgrazie, non si faceva strada un pensiero di pace, un qualcosa che
lo togliesse per un minuto dalla sfiducia in cui era caduto. Il suo
animo non cercava di dimenticare nessuno de’ suoi dolori, uno de’
quali, il più grande di tutti, gli era sacro e indistruttibile. Eppure
quel lumicino che veniva a un tratto a rompere la nebbia scura che
l’opprimeva, gli dava come un riposo soavissimo; e avrebbe voluto in
cuor suo che quel minuto fosse lento a passare, tanto lo gustava! Ma
anche quel poco ristoro fu breve. Il suo bambino a un tratto gli si
piantò dinanzi, e tirandolo per l’abito gli domandò fissandolo in viso:
«Questo è il luogo dove ci sono sepolti i morti?»

Massimo alzò gli occhi, e s’accorse d’essere vicino alla cancellata
d’un cimitero. Il bambino, vedendo l’espressione di dolore che a un
tratto pigliava la faccia del babbo, soggiunse subito: «Babbo, non
ho più paura io dei morti!... non ho più paura, perchè adesso tra i
morti c’è la mia mamma!...» Massimo, a cui scoppiò il cuore a quelle
parole, prese il bambino in collo e lo coperse di baci e di lacrime.
Quel raggio di conforto era sparito; i tristi pensieri erano tornati
in folla, e con essi una puntura dolorosa di più, quella che il suo
bambino gli aveva data senza saperlo.

Conducendo il suo bambino a mano tornò in città, e s’avviò verso casa
col capo basso, ripensando, nel rifare quelle strade, ai casi suoi, con
l’eguale malinconia e l’eguale sfiducia di prima. Eppure quel lumicino
lontano che per un minuto gli aveva fatto intravedere il porto, non
doveva essere un’illusione del tutto.

Giovanni, come abbiam veduto, era andato a vivere in casa del suo amico
Ambrogio. Tutti e due poi, quando Massimo dopo le sue ultime disgrazie
capitò a Milano, adattandosi alla meglio, avevano trovato modo di
alloggiare anche l’avvocato e di dargli una delle stanzucce del loro
piccolo quartierino. Era dunque verso la casa dove abitava Ambrogio
che Massimo faceva ritorno; e quella strada, quella casa, ch’eran lì a
ricordargli che senza il buon cuore d’un galantuomo forse non avrebbe
saputo dove cercare un ricovero, tanto le sue tristi vicende l’avevano
ridotto a mal partito, non eran fatte neanche loro per dargli quel poco
conforto che uno cerca tra le pareti domestiche.

Fatta la scala, aperto l’uscio, vide su una sedia un cappello a cencio
e una grossa mazza, e udì la voce di qualcuno che parlava forte col
socero nella stanza vicina. Si fermò, e il suo primo pensiero fu di
riaprire l’uscio e ripigliare le scale, tanto il suo animo rifuggiva
in quel momento dal veder gente, dal mostrare ad altri il suo dolore,
dal voler parere rassegnato, o dal ricevere conforti. Ma intanto il suo
bambino aveva spalancato l’uscio, e gridando: «il babbo! il babbo!» era
entrato nella cameretta dove c’era Giovanni in compagnia dell’ingegnere
Mevio e d’un altro. Massimo, pochi minuti dopo, si trovava tra le
braccia robuste d’un uomo che gli era corso incontro, e che senza
poter proferire una parola l’aveva serrato al suo cuore con una stretta
convulsa e vigorosa. Quell’uomo era Martino; e tanto lui che Massimo
rimasero così abbracciati un pezzo senza che l’uno potesse staccarsi
dall’altro, senza che a nessuno dei due potesse venire una parola sulle
labbra. Ma tutto era detto. Mevio, che sapeva a tempo capire anche
le cose delicate, vide ch’era bene lasciar soli quei due, almeno per
qualche minuto; e pigliato a braccio Giovanni, a cui invece pareva
necessario di rimaner lì per spiegare a Massimo il come e il perchè
Martino fosse venuto, con una parola all’orecchio lo condusse nella
stanza vicina. Ma fu per poco. «Vi pare?» cominciò Giovanni a dire
subito dopo. «Li sentite voi dire una parola?... È una conversazione
che continua sul tenore di quella di poco fa! Ci vuol me a rompere il
ghiaccio!... ci vuol me!» E questa volta Mevio non riuscì a persuaderlo
di lasciare i due cugini in pace.

Al buon Giovanni pareva di tanto in tanto di saper essere d’animo più
forte di suo genero. Ma poi quando vedeva un po’ di tregua sulla faccia
di Massimo, allora cominciava a perder lui la parola; si guardava
in giro come se cercasse la sua figliola; e si vedeva scendere sul
poveretto quel dolore che sulla fronte d’un vecchio, a cui la vita più
non promette che scarsi conforti, è sempre così cupo e profondo.

Giovanni, quando tornò nella cameretta, vide i due cugini seduti
accanto silenziosi, col capo basso, e con le mani dell’uno nelle mani
dell’altro. Nell’aspetto di tutti e due c’era una calma così severa che
non era fatta per dar coraggio a nessuno che avesse voluto disturbarla.
Il rompere il ghiaccio non parve dunque una cosa così facile neanche al
nostro Giovanni, il quale, dopo esser rimasto lì un poco sui due piedi
senza aprir bocca, pigliò una sedia e si mise a sedere. Poi fece due o
tre volte come per dire qualcosa, ma le parole non volevano uscire.

Alla fine fece un gran sforzo ed esclamò: «Mah!» con un gran sospiro, e
non potè dir altro.

Chi ruppe il ghiaccio fu Martino, che a un tratto rizzatosi diede a
tutti una forte stretta di mano, e disse: «Insomma.... andiamo. Ho un
affare qui col nostro ingegnere Mevio.... ne ho poi un altro con voi,
Massimo, ma non è questo il momento. Questa sera vengo a pigliarvi; vi
devo dire qualcosa, e faremo quattro passi in compagnia. La riverisco,
signor Giovanni! Massimo, a rivederci!»

Martino non si fece aspettare. Imbruniva appena quando ricomparve; e
a riceverlo questa volta c’era anche Ambrogio, di cui avrebbe fatto a
meno volentieri. Egli, ch’era venuto per pigliarsi Massimo a braccetto,
e far subito que’ quattro passi in compagnia, dovette invece far
conversazione con Ambrogio, il quale, se gli capitava in casa qualcuno,
si credeva in dovere, per riceverlo proprio a modo, di domandargli i
fatti suoi e di raccontargli i propri. Finalmente Martino, fatto le sue
scuse, si congedò, pregando Massimo a uscire con lui, com’era l’intesa.

«Mio caro Massimo» prese a dire Martino quando fu in strada, ma dopo
aver fatto un bel tratto in silenzio, «voi mi dovete fare un gran
piacere. Sono in un imbroglio, sapete? in un imbroglio dal quale non mi
potete levare che voi!»

«Io?» esclamò Massimo con un certo accento pieno di mestizia e di
amarezza.

«Sì, voi! Ma prima statemi a sentire, perchè bisogna che vi metta un
poco al fatto delle mie faccende; le quali faccende sono benedette
dalla Provvidenza, e mentre mi poteva capitare.... insomma la mi è
andata bene, e in grazia soprattutto di quel mio Tonino, che è un bravo
figliolo, sapete!... così giovane! un figliolo che ruba un mestiere,
come diciam noi, basta lo vegga una volta!... e se me ne ha insegnale
delle cose!... In grazia, come dicevo, di Tonino, ho impiantato
delle cose ch’eran nuove nei nostri paesi; ho cominciato a guadagnar
qualcosina, ho aggiustate le mie magagne, ho fatto venir delle
macchine, e, alle corte, adesso mi trovo sulle braccia un lavoro così
spropositato che non riesco sempre a tenergli dietro. Cioè, in quanto
al lavoro, con qualche buon operaio che in questi anni ho tirato su a
mio modo, lavorando io, lavorando il figliolo, si dà passo agl’impegni,
e la cosa cammina. Ma, voi lo sapete meglio di me, quando le faccende
son molte, anche la penna e la carta vogliono la loro parte; e qui
comincia il guaio! Ogni tanto io devo andare ora in un paese, ora
in una città, per fare un contratto, per ricevere un pagamento; e
allora.... senza dire che Tonino solo non basta più perchè ci sia
sempre quel tal occhio aperto su tutto, quel tal occhio senza il quale
le cose fan presto a mettersi fuori di careggiata!... allora, dicevo,
ci siamo!... ci siamo a quel tal imbroglio della carta! Ogni tratto
mi trovo dinanzi a ingegneri, ad avvocati, alla carta bollata.... e
allora, che ne so io? In qualche impiccio, a dirla, ci son già cascato.
Tutti in Castelrenico, tutti mi vanno dicendo: Mastro Martino, voi
avete bisogno d’un uomo di proposito, d’un uomo a cui stia bene la
penna in mano! E guardate, Martino, che penna, carta e calamaio sono
una gran cosa!... Se ci fosse qui l’avvocato Massimo!»

«Oh! che dite mai!... si ricordano ancora di me?...»

«Vi pare? Non c’è giorno che non si parli di voi in Castelrenico!...
Dunque dicevo.... cioè dicono.... se ci fosse qui l’avvocato Massimo!
oh! allora sì che le vostre faccende andrebbero a dovere!... E
quando questi han finito, comincia Tonino: — Caro babbo, così non si
cammina!... intanto che si tengono gli occhi sul lavoro non si può
tenerli sui libri: nella fabbrica dov’ero io c’era uno studio che
pareva un uffizio, e lì, da mattina a sera, c’era un signore con gli
occhiali, serio, che non rideva neanche la domenica. — Capite, cosa
mi dicono tutti? Ora sono sei mesi che mi guardo intorno per cercare
anch’io qualcuno di proposito, ma.... di quei di fuori non ne conosco,
e di quei di Castelrenico.... sicuro che, se li sentite al caffè, la
sanno lunga a uno a uno più di tutti i ministri messi insieme, ma...
a dirla tra noi... è meglio lasciarli legger le gazzette! Intanto
però io sono impacciato come un pulcino nella stoppa, e così non
si va!... Dunque... dunque non ce n’è che uno che potrebbe levarmi
d’impiccio... che potrebbe essere la fortuna mia e de’ miei figlioli...
ma non ho il coraggio di domandargli questo favore. Capite, Massimo?
Ma voi non mi rispondete!... per carità, se ho detto qualcosa fuori
delle convenienze, non abbiatelo a male, perchè io sono un uomo alla
buona...»

«Oh! voi siete un uomo generoso... ed io sono un disgraziato che deve,
perchè è giusto, pagare la pena de’ suoi errori!... un disgraziato
per sua colpa... che non è degno di stringere quella mano che voi gli
stendete con tanta generosità!...»

«Oh! se avete imparato a dir queste cose a Milano, dirò anch’io che
avete fatto un cattivo negozio ad andar via da Castelrenico!... Scusate
se parlo così. Del resto, le botte di questo mondo sono spesso botte
da orbo, che vanno anche sulle spalle di chi le merita meno. Sapere
chi merita fortuna e chi non la merita!... son conti che non li può
fare che Domeneddio!... Se vi son toccate delle disgrazie, ebbene, non
cerchiamo più in là! Forza ai remi! e se il vento v’ha ricacciato in
mezzo al lago mentre cercavate una riva, forza ai remi, e cercatene
un’altra!... Voi non avete bisogno di me, perchè se la prima strada
non v’ha guidato bene, ne potrete trovare in Milano un’altra che vi
guidi meglio. Ma io ho bisogno di voi; dunque, strada per strada,
pigliate intanto la mia, e camminiamo insieme! Se non vi piacerà,
sarete sempre in tempo di pigliarvene un’altra, per bacco!... Ouf! in
questa vostra Milano fa un gran caldo, sapete, anche quando negli altri
paesi l’estate è finita!...» E così dicendo si levava il cappello e
si asciugava la fronte, perchè, sebbene spirasse un’aria quasi fredda,
Martino in quel momento sudava come sotto una solata di luglio.

Massimo era agitato, confuso; non capiva più dove fosse e dove
andassero i suoi pensieri. Le parole di Martino a poco poco gli
facevano intravvedere quella mèta che cominciava a essere la seduzione
più forte del suo cuore; gli risvegliavano quella commozione che aveva
sentito scendere nell’anima al rivedere il profilo delle sue montagne.
Ma poi quel tornare a capo basso nel suo paese, dopo esserne uscito
così pieno di fumo; quel ricevere asilo da uno, di cui, un tempo, aveva
quasi sdegnato i saluti; quell’invito che forse era un’elemosina....
eran dubbi che venivano a tormentarlo, eran pensieri che venivano
a cozzare coi pensieri di prima, e lasciargli la mente tutta buia e
scombussolata... «E se fosse vero che Martino ha bisogno di me?...»
cominciava Massimo a pensare spinto dal secreto desiderio di stringere
quella mano che gli veniva stesa.... «Se il partito che mi offre fosse
il più onorevole che mi rimane?... Se un rifiuto paresse un’offesa?...
Se potessi davvero esser utile a questo brav’uomo!...» Ma poi era da
capo ad esclamare tra sè: «Oh! no, no.... è un atto di compassione! è
un sacrifizio che Martino s’impone, e che io non devo accettare!» E in
mezzo a queste contraddizioni, a questa battaglia che gli era sorta nel
cuore, non poteva trovare una parola da rispondere a Martino.

Dopo un lungo silenzio, Martino prese a dire in tono più calmo e con un
accento quasi malinconico: «Insomma prima di negarmi il vostro aiuto,
prima di preferire un’altra strada, pensateci bene, caro Massimo.
Pensate a tante cose.... pensate anche che una boccata d’aria dei
nostri monti sarà un gran ristoro per la vostra salute, e un gran
sollievo per il vostro animo!... Pensate anche al vostro bambino, che
è un bel bambino, ma che m’ha l’aria d’uno di quei fiori che non hanno
veduto mai altro sole che quel poco che capita sul davanzale d’una
finestretta e dietro un’inferriata. Ripiantatelo all’aria libera, in
mezzo a una bella aiuola, dove lo vedrete riavere i suoi bei colori,
venir su rigoglioso, robusto, senza che il vostro cuore abbia mai un
giorno di dubbio o di ansietà!...»

In quel punto le fiammelle sfolgoranti d’una bottega da caffè
illuminarono traverso le vetrate i nostri due personaggi. Martino
diede un’occhiata a Massimo, e gli vide scendere sulle gote due grosse
lacrime. «Che bestia! che bestia!» disse tra sè il povero Martino.
«Cosa ho detto mai!... Come faccio adesso ad accomodarla?...» Ma poi,
come uno a cui viene un’idea, saltò su a voce alta: «Massimo! venite
a prendere un caffè!» E l’idea del caffè, per sviare i pensieri di
Massimo, gli parve così buona, che ci si mise con tutte le sue forze;
e Massimo che sulle prime cercava schermirsene, dovette cedere, e
lasciarsi condurre nella bottega dalle braccia vigorose del cugino. Più
tardi Martino accompagnò Massimo a casa; ma nè in bottega nè in strada
non riprese più il discorso di prima.

La mattina seguente, Martino andò di buon’ora da Mevio, gli ripetè i
discorsi fatti con Massimo, e gli raccontò per filo e per segno come
l’era andata. A Martino pareva che la non fosse andata troppo bene;
aveva paura, come diceva lui, d’aver fatta una frittata; e poi nella
notte gli eran venute in mente tante e tant’altre ragioni che gli
parevan tutte migliori di quelle che aveva dette. Ma come si fa? Quel
giorno stesso egli doveva ritornare a Castelrenico per le sue faccende;
e così la speranza che l’aveva fatto correre a Milano, quella di
condursi a braccetto Massimo a casa sua, era bell’e svanita. Mevio lo
tranquillò; trovò bonissimi i ragionamenti fatti e si prese l’impegno
di darvi un’ultima mano. «Lasciate fare a me,» concluse Mevio. «Cose
di questa fatta le non si decidono intanto che si fan quattro passi,
o che si prende un caffè: ci penserò io a persuader Massimo, e a
togliergli ogni ubbìa di testa. Tra quindici giorni Massimo sarà in
casa vostra....»

«Col bambino e col socero, s’intende!»

«Eh sì! Fate proprio una carità fiorita, perchè il povero vecchio ha
speso per Massimo fino all’ultimo soldo del suo piccolo patrimonio, e
ora, poveretto.... insomma è una gran carità!»

«Cosa dite mai! In casa mia c’è da fare per tutti, e qualcosina farà
anche il signor Giovanni. Non si tratta di elemosina per nessuno, ma di
lavoro: tenete a mente questa parola! E così siamo intesi, e confido in
voi.»

Due mesi dopo, l’avvocato Massimo, procuratore della ditta di Martino
Della Valle, ritornando da una corsa fatta per affari, fermatosi un
paio d’ore a Milano, andava in fretta a salutare l’amico Mevio, e a
domandargli se gli occorreva qualcosa per Castelrenico.

«Grazie, caro avvocato; salutatemi Martino e Giovanni, e tutti quei
del paese. Del resto, le faccende seguitano a maraviglia, nevvero? Vi
trovate sempre bene? Siete contento? Lavorate molto?...»

«Oh! io devo benedire a ogni ora Martino e voi per tutto il bene che mi
avete fatto! M’avete proprio salvato; m’avete condotto in porto! Ma...»

«Ma?...»

«E i poveri naufraghi?... Però la mia Enrichetta riposerà presto nel
camposanto di Castelrenico. Ho destinato a ciò i primi frutti del mio
lavoro. Lavoro molto, ma con questo pensiero nell’anima il lavoro mi dà
un conforto che nessuna parola m’aveva dato fin qui.»


XVI.

Ora che abbiamo ricondotto a casa il nostro personaggio principale, e
che abbiamo veduto gli eventi rabbonirsi, dopo essersela presa con lui
così fieramente, per quel tanto di fumo che gli era salito alla testa,
non ci resterebbe altro che di fare una riverenza a quei lettori che
fossero arrivati pazientemente fin qui, ringraziarli dell’averci fatto
compagnia, e dir loro: la nostra storiella è finita. Ma siccome da una
compagnia tanto cortese non si vorrebbe staccarsi mai, così abbiamo
pensato di andare in cerca, per un’ultima volta, dei vari personaggi
che hanno figurato qua e là nel nostro racconto; sapere che cosa sia
succeduto di loro, e salutarli anch’essi, tanto più che il caso di
rivederli è poco probabile. Per trovarli dunque riuniti quasi tutti
lasciamo passare un anno, e andiamo a Castelrenico. Un anno basterà,
perchè dopo, per quanto ne sappiamo noi, nessuno di loro ha fatto nulla
di particolare che meriti d’essere raccontato.

A pie’ del monte che sta dietro Castelrenico, proprio dove una volta
scendeva in tanti rigagnoletti quell’acqua che aveva anch’essa avuta la
sua parte a far dare a Martino il soprannome di _matto_, sorgono adesso
tre fabbricati, uniti tra loro da una cinta di muro, che racchiude
pressochè tutto quel tal prato che aveva fatto, ma inutilmente, tanta
gola all’amico Simone. I rigagnoletti, di cui molti andavano perduti
per le fessure del monte e per gli strati soffici del prato, riuniti
adesso in un sol corpo, corrono rapidi e a guisa di torrentello lungo i
fabbricati, e movono delle grandi ruote che stanno a fianco di questi.
Chi passa lungo il muro di cinta ode, misto al rumor cupo delle ruote
che girano lentamente, e a quello dell’acqua che batte e spumeggia
intorno ad esse, un frastuono confuso, dissonante, di martelli, di
seghe, di ruote e rotelle e rotelline che cigolano in tutti i toni e
che pare dicano tutti assieme quanta vita, quanto lavoro, quanto amore
del tempo ci sia lì dentro. In uno dei fabbricati stanno accatastati
fusti e toppi; ci sono le grandi seghe, e si fanno panconi e assi
d’ogni sorta. In un altro più piccolo si fanno tutti i lavori da
bottaio; e nel fabbricato di mezzo, che è il più grande, si fa ogni
sorta di lavori da legnaiolo, mobili, quadretti lisci e intarsiati per
pavimenti, bussole, usci, persiane, scuri; c’è anche l’abitazione di
Martino e della sua famiglia, di Massimo, di Giovanni, e di qualche
operaio.

Martino è sempre in faccende; è dappertutto: non c’è lavoro del suo
opificio a cui non abbia data, prima di sera, un’occhiata cinque o sei
volte almeno. Se vede qualcosa che non sia fatto a modo suo, allora poi
non sa resistere; si mette in maniche di camicia, dà mano alla pialla,
a uno scarpello, a un tornio, e, dimenticandosi d’essere il padrone,
lavora come un dannato e col gusto d’una volta. Se poi ha qualche
minuto di respiro, allora, a gambe larghe e con le mani dietro le reni,
si mette lì ad osservare le macchine che lavorano. Le guarda, non sa
staccarne gli occhi, sorride di compiacenza, e, con qualche crollatina
di capo, pensa tra sè: «Guarda un poco con che precisione lavora quel
ferro!... così da solo!... si direbbe che nel mestiere la sa lunga più
di me!... e che ragiona come un cristiano!»

Non la pensa così sua moglie. La buona Caterina, in casa non osa
più fiatare contro le macchine; però, se è sola, affretta il passo
volentieri quando attraversa qualche stanzone dove ce ne sia qualcuna;
e in cuor suo non è del tutto persuasa che in quelle ruote e rotelle
e rotelline, in que’ ferri, in quelle lame dentate, che stridono,
vanno, vengono, girano da sè, non ci sia qualche incantesimo, qualche
diavoleria. Anch’essa è in faccende da mattina a sera, ma a far la
massaia; tiene a cintola un mazzo di chiavi che saranno almeno venti;
si pensi quanto da fare le dànno! Martino, son due anni, le ha regalato
un abito di seta: le venne qualche volta la tentazione di metterselo,
ma poi non ne ha avuto mai il coraggio. Aspetta sempre una qualche
grande occasiono per decidersi; ma quando l’occasione capita, allora
quell’abito le mette tanta soggezione! e comincia a pensare a quello
che dirà la gente, a quello che dirà la Ghita, per dirne una, la vedova
del bottaio, che tutti chiamano la signora Ghita, eppure non ha l’abito
di seta nemmen lei. «No, no!» conchiude ogni volta dopo averci pensato
su «non voglio che si dica che mi è andato il fumo alla testa!... non
voglio umiliare le mie amiche, le donne del mio tempo!» E infatti, per
la signora Ghita principalmente, questo sarebbe un affar serio. I Della
Valle le hanno già fatta questa del metter su lavoro da bottaio, di
lavorare in grande e in un certo modo che non era quello del suo povero
Andrea, e se poi le facessero anche quest’altra dell’abito di seta,
sarebbe in verità un passare ogni misura, un tentare la sua prudenza.
Povera signora Ghita! La sola cosa che la conforta un poco è che a lei
tutti dicono _la signora Ghita_, mentre la Caterina, sebbene ci sia chi
pretende che il suo uomo adesso nuoti nell’abbondanza, pure non c’è uno
che non la chiami ancora la Caterina!

Ma non è solo l’abito di seta che mette soggezione alla Caterina:
dopo che suo marito ha cambiato condizione, si direbbe che le mette
soggezione anche la gente che può incontrar per la strada. La si
vedeva poco in giro una volta, ma adesso la non si vede quasi più; e
la sua scusa è sempre che «quando s’ha una nidiata di figlioli non c’è
tempo d’andar a spasso.» La nidiata però è ben piccola, e «fossero le
nidiate di figlioli tutte così!» dicono in paese quelli che ne hanno
una davvero. Tonino è ormai un uomo fatto: ha diciott’anni appena,
ma è alto, robusto, serio; è sempre intento da mattina a sera alle
macchine e ai lavori che dirige lui; parla poco, e lo vedono così poco
all’osteria, che in paese cominciano quasi a chiamarlo _matto_ come
il padre. La Beppina s’è fatta anch’essa una giovanetta, e tra qualche
anno la signora Ghita sarà in pensiero per trovarle un marito. Intanto
essa aiuta la mamma in tutte le faccenduole di casa, ed è la sola
persona a cui Caterina dia in qualche occasione il mazzo delle chiavi.
Gli altri due bambini, quelli che abbiam veduti in principio del
nostro racconto far la guardia ai fagioli che bollivano nella pentola,
divenuti grandicelli anch’essi, ora vanno a scuola: la bambina va alla
scuola di Castelrenico; e il fratello, che è maggiore di lei, fu messo
a dozzina in una grossa borgata della provincia, e va alle scuole
tecniche.

«Avrei avuto il coraggio di mandarlo a imparare anche il latino!» aveva
detto una volta Martino in confidenza al curato. «Sicuro! perchè un
tempo avevo una grand’opinione del latino!... Ma dopo che ho veduto il
latino fare all’avvocato Massimo lo scherzo di mandarlo in rovina!...
un uomo come l’avvocato!... cosa vuole? mi sono messo in diffidenza, e
ho detto tra me: no, no, non mettiamo i figlioli nelle tentazioni! ci
mette così poco il fumo a montare alla testa!»

Qualche ragionamento sul fumo che monta alla testa l’aveva fatto più
d’uno in Castelrenico, dopo che si riseppero i casi disgraziati di
Massimo. Più d’uno aveva rifatti i suoi progetti; più d’uno aveva
lasciato cadere qualche sogno ambizioso, s’era deciso a sneghittirsi
e a non aspettar più a bocca aperta che cascasse la fortuna dalle
nuvole. Abbiam detto più d’uno, e si può esser contenti; ma non
mancarono anche quelli che furono d’un parere diverso. Si pensi a
tutti i discorsi che si fecero in Castelrenico quando videro Massimo
tornare mogio mogio, non più impiegato, non milionario, non ministro,
e, per dirla, senza un soldo in tasca! Quelli che in paese passano per
i più pratici delle cose di questo mondo, dissero subito ch’era una
commedia, ch’era forse una cosa tutta intesa col Governo per qualche
scopo diplomatico, e conchiudevano che «fidarsi è bene, e non fidarsi
è meglio!» Gli altri, un poco meno furbi, erano persuasi in cuor loro
che a Massimo fosse andata male davvero; ma a buon conto tacevano
e stavano a vedere. A poco a poco però questi ultimi, ch’erano in
gran maggioranza, cominciarono a farsi coraggio; e dopo poco tempo
in Castelrenico si discorreva liberamente che Massimo, dopo tante
spacconate, se n’era tornato con le pive nel sacco, a farsi ospitare
da Martino per di più, dopo essersi mangiato fino a un soldo il fatto
suo. Il pensiero delle pive nel sacco parve una buona ragione per
perdonare all’avvocato Massimo anche a quei tali che con tanta invidia
l’avevan veduto partire, e che l’avevano avuta così fieramente con lui
per quel tanto di fortuna che aveva sognato. A mantenerli poi in questa
buona disposizione c’era per molti un altro riflesso. «Guardate un
poco,» dicevano; «l’avvocato Massimo ha voluto girare il mondo, salire
in alto, e con tutto il suo talento è andato in rovina!» Da questo
tiravano la conseguenza che quelli ch’erano rimasti a casa, e quindi
loro, dovevano avere un talento di gran lunga maggiore.

Massimo però non ha voluto approfittar troppo finora di questa
indulgenza e di questo perdono. Se s’imbatte in qualche vecchio amico,
fa volentieri, se ne ha il tempo, quattro chiacchiere o quattro passi
in compagnia; ma è cosa che succede di rado, perchè se ne sta quasi
sempre nello studio, anche la sera, ad attendere alle molte faccende
dell’azienda di Martino; e passano alle volte le giornate intere senza
che nessuno lo veda uscir di casa. Nel caffè della _Fratellanza_ non
ci ha ancor messo il piede. Il sollievo che gli è più caro è quello di
condurre il suo bambino a passeggio, o d’andare sull’imbrunire verso
il cimitero dove adesso è sepolta la sua Enrichetta, o alle volte,
quando Mevio capita in Castelrenico, di fare con lui qualche lunga
camminata. Con Mevio ritorna spesso su tutte le cose del passato, e
nello sfogar l’animo gli piace di fermarsi ogni tanto e di mettere,
come pietre miliari, prima di proseguire, le conclusioni della sua
esperienza. Nulla ha voluto tener nascosto al suo buon amico; e un
giorno nel parlargli della sua Enrichetta, gli disse come prima di
morire ella gli avesse confessato quel fascino che aveva tormentato il
suo cuore. Alla poveretta non bastò l’aver vinto, volle sentirsi dire
che era perdonata! Massimo più volte aveva principiata e interrotta la
penosa confidenza col suo amico; ma poi l’aveva compiuta, parendogli
di rendere alla bell’anima della sua Enrichetta un omaggio di più. «Ed
è così che uno sa essere di aiuto e di guida alla sua giovane sposa?»
aveva conchiuso con un sospiro pieno di amarezza. «Povera giovane!
mentre il suo animo si schiude alle impressioni d’una vita nuova, il
suo compagno di cammino, la sua guida la conduce di sua mano in mezzo
a tutte le seduzioni; le fa conoscere quello che il mondo ha di più
lusinghiero, di più seducente; e poi, quando ne l’ha inebbriata, la
riconduce tra le pareti della casa, dove si incarica di farle conoscere
la noia, di non farle più udire una parola confidente, cortese,
amorevole; e di mostrarle, se occorre, tutte le varietà delle parole
brusche e dei musi lunghi! Brava la guida! E poi.... e poi quando
tutti assieme si è ribaltati in un fosso, si grida che la colpa è di
chi stava in vettura!... Povera Enrichetta!... perdonami!... a quale
difficile prova, stolto! ho messo la tua virtù!»

E Giovanni? Giovanni, che a Milano si lasciava chiamar così, ma che
a Castelrenico guai se non lo chiamano il signor Figini, perchè non
permette ai campagnoli tanta confidenza, comincia ad abituarsi alla
nuova vita, sebbene dica ancora di tanto in tanto che «a non veder
più le strade con quel bel lastricato di pietra viva, con quelle belle
case tutte in fila a quattro e fin a cinque piani; e a trovarsi invece,
così.... in mezzo alla campagna, come Adamo, è cosa che proprio toglie
il respiro!» Quando non ne può più, va sull’altura della casa per
vedere il Duomo di Milano. «Eccolo là! ecco la guglia maggiore!...
capite? la si vede fin qui!...» Ma quei del paese gli rispondono:
«Signor Figini, lei sbaglia! quel punto bianco che lei vede laggiù è il
campanile della chiesa di sant’Antonio, che è la chiesa parrocchiale
di....» Ma Giovanni non li lascia finire: «Oh! sapete che ne avete
delle belle voi altri di Castelrenico! Voler conoscere la guglia del
Duomo più di me! più d’un milanese di Milano!... e voler dire che
la guglia maggiore è il campanile di sant’Antonio! ah! ah!... La vi
piace quella guglia? La vorreste per voi eh?... Non siete di cattivo
gusto!...» E ogni volta ride così di cuore alle spalle di quelli di
Castelrenico, che è uno spasso a vederlo.

Quantunque ci sia questo disparere sul campanile di sant’Antonio, e ce
ne sia qualche altro su altri modi di vedere, il signor Figini gode in
Castelrenico d’una certa riputazione. Le comari sopra tutto lo hanno
in concetto d’uomo di proposito; e siccome egli ha sempre in pronto
qualche sentenza o qualche proverbio, così quando si vuole un parere
proprio coi fiocchi, si va dal signor Figini. Anche i celioni e gli
sfaccendati del caffè lo ascoltano volentieri, e salvo a rifarsene
alle sue spalle, lo stanno a sentire qualche volta anche con la bocca
aperta; per esempio quando racconta le sue storie del tempo passato,
o i casi terribili capitati a lui quand’era sergente della guardia
nazionale. In ognuna di queste storie c’è sempre una risposta, un
detto, con cui ha messo in un sacco più d’uno che aveva creduto
d’imbarazzar lui; e questa, ben inteso, è tutta gente che metteva
soggezione a chi si sia per la gran furberìa o per il gran talento.
Queste chiacchiere Giovanni le fa quando l’azienda di Martino gli
lascia, come dice lui, un momento di riposo, perchè il suo da fare è
molto, e la sua responsabilità è grande. Egli dà le paghe agli operai,
fa scappare i fanciulli che vengono a spiare in corte dal cancello, e
fa le intestature ai registri; cosa anche questa assai meno semplice
di quel che pare, perchè le intestature egli le fa in carattere ora
corsivo, ora tondo, ora gotico, a seconda dei casi, perchè ha sempre
usalo farle, come dice lui «in caratteri allegorici.»

Al nostro Giovanni poi capitò una giornata campale, e di cui vorrà
parlare per un pezzo, proprio in quel tempo in cui siamo venuti a
ritrovare col racconto i nostri personaggi. Il marchese Renica, che
dopo la morte di don Emanuele s’era chiuso, come abbiamo veduto, in una
sua casuccia di campagna fuor di mano, dopo averci passato un anno, era
venuto in Castelrenico senza toccar Milano. Con lui c’era sua nuora
e suo figlio Giorgio; poco dopo era capitato anche don Gilberto. Il
consigliere Rocca, sapendo che il marchese non faceva più la partita,
non s’era ancor lasciato vedere. Or bene, una mattina il signor
Giovanni, mentre stava appuntando un lapis con grande attenzione, sentì
il cane guardiano abbaiare dal suo casotto in un tono ch’era più alto
del solito. Uscì in corte a vedere cosa ci fosse di straordinario, e
vide nientemeno che il marchese Antonio con suo figlio, la marchesa
Giulia e don Gilberto, i quali entravano in quel punto dal cancello.

«Oh! chi vedo io mai!... E non averlo saputo!... riceverli così
in mal arnese!... mi scusino!... loro hanno voluto incomodarsi....
hanno voluto venire in questo nostro stabilimento.... mi hanno voluto
onorare....» E, intanto che Giovanni diceva così, il marchese, dopo
averlo salutato cortesemente, gli aveva domandato se c’era Martino,
e se Martino permetteva che si visitasse la sua fabbrica. Giovanni,
persuaso d’esser proprio l’uomo che ci voleva per far gli onori a una
così illustre comitiva, facendo il sordo, aveva già dato principio a
una descrizione sommaria delle cose da vedere. Ma il marchese s’era
piantato sui due piedi; e Giovanni dovette decidersi a chiamare
un manovale, e a mandarlo in cerca di Martino, dicendogli piano
all’orecchio «e che metta il vestito delle feste!...»

Non potendo avere quella visita tutta per sè, Giovanni volle averne
almeno una parte, e intanto che aspettavano Martino, condusse il
marchese e la comitiva nello studio, per mostrar loro i suoi registri e
quelle famose intestature.

«Prima che venissi qua io, di queste cose non se ne facevano!...
Cosa dico? non si sapeva neanche cosa fossero!... Buona gente questa
di Castelrenico!... Oh! in verità, a dirne male sarebbe proprio
peccato!... Mah!... loro signori mi capiranno!... non è dato a tutti
di nascere dove.... c’intendiamo noi! e se non ci arrivano a certe
cose, siamo giusti, la colpa non è tutta loro!... Si direbbe proprio
che le guglie del Duomo hanno il loro influsso!... Dunque dicevo....
cosa dicevo?... oh! volevo dire che l’arte calligrafica, che ho fatto
conoscere io per il primo in questi paesi, ha un’importanza per il
buon andamento d’uno stabilimento industriale.... un’importanza ch’io
chiamerei, senza complimenti, fondamentale! Io considero la cosa sotto
tre punti di vista: primo punto....» Ma per fortuna al primo punto
arrivò Martino, e ai nostri visitatori furono risparmiati tutti e tre.

La visita durò un paio d’ore. Il marchese Antonio volle vedere a una
a una tutte le macchine; volle osservare minutamente tutti i lavori,
facendo a Martino domande sopra domande a proposito di tutto. Martino
rispondeva col suo fare alla buona, e con quel buon senso, che quando
è proprio di quello vero, piace e colpisce come una cosa bella e rara.
Più d’una volta, intanto che il marchese osservava con attenzione
qualcosa, Martino guardandolo con un’occhiata lunga e compassionevole,
disse tra sè: «Com’è mutato quel pover uomo!» E infatti, gli erano
cascati sulle spalle tanti anni, in quell’anno, che non sarebbe
stato facile riconoscerlo alla prima. Pure la sua fronte pallida e
pensierosa, il suo occhio triste e quasi spento, parevano riavere
ancora qualche scintilla del fuoco che ci aveva brillato una volta,
mano mano che nel far dire a Martino le vicende della sua vita, lo
seguiva in quella lotta ostinata che questi aveva giorno per giorno
sostenuta e vinta con la sola scorta d’una indomabile volontà.

Don Gilberto, dopo aver anch’esso sulle prime lodato moltissimo tutti i
lavori, cominciò presto a mostrare una certa predilezione per le sedie,
e a pensare tra sè che la cosa andava un pochino per le lunghe. Anche
la marchesa Giulia, ch’era in cuor suo del medesimo parere, ogni tanto,
imitando don Gilberto, gli si sedeva accanto a riposare un minuto,
e a scambiare qualche chiacchiera sopra qualche altro argomento. Don
Gilberto faceva mostra volentieri di dividere con la marchesa un poco
di noia elegante; ma in realtà, a saper bene le cose, anche a lui
quell’annetto di più, sebbene l’avesse passato senza un fastidio al
mondo, aveva giovato pochissimo, e lo star su due piedi un pezzo non
era più affar suo. Quel guaio della gotta oramai non lo si poteva più
nascondere; e don Gilberto, prendendo le mosse da lontano, aveva finito
con annunziarlo ufficialmente; ma poi, a ogni proposito, tirava in
scena de’ personaggi d’ogni paese, ch’eran tra i primi potentati della
politica o della moda, e che avevan tutti questo suo stesso maluccio,
del qual maluccio sapeva discorrere con sì bel garbo, che pareva quasi
una cosa di poco buon genere l’esserne senza.

Il marchese, prima di partire, strinse la mano a Martino e gli disse:
«Ricordatevi che mi dovete rendere questa visita, e che me la dovete
rendere con usura! Non ho mai fatto complimenti con nessuno; sicchè,
dicendovi che ogni volta che vi lascerete vedere in casa mia mi farete
un piacere, vi dico una verità; e ve la dico di cuore!»

L’andare, proprio in persona, in casa del marchese, era in Castelrenico
un onor grande; e Martino, anche quando non ci andava che il cugino,
l’avvocato Massimo, se ne gloriava non poco per la sua casa. Martino
dunque rimase lì, a quell’invito, tutto confuso; cercò di balbettare
qualche parola di complimento, e si fece tutto rosso in faccia,
un po’ per la soggezione, e un po’ per una certa soddisfazione
dell’animo, che in quel momento gli diceva che le sue fatiche gli
avevano fatto guadagnare qualcosa di più che de’ quattrini. Anche sul
volto del marchese, che in quel punto s’era tutto rianimato, c’era la
soddisfazione di chi ha detto una cosa di cui si trova contento.

Poteva la scena finir lì! Ma, nell’accompagnare il marchese e la
comitiva fino al cancello. Martino prese a dire il suo gran dispiacere
di non aver potuto far loro conoscere il suo Tonino, «quel bravo
figliolo! che è stato, bisogna proprio che lo dica, la mia mano diritta
nel fare tutto quello che loro signori han veduto!... Oh! senza lui
non facevo neanche la metà!... Ma è andato, fin da ieri, fuori di paese
con Massimo. Anche Massimo sentirà con dispiacere che loro signori sono
stati qui, proprio in un giorno in cui lui non c’era!...»

La fronte del marchese cominciò a rannuvolarsi. Il marchese non aveva
più veduto Massimo da due anni, e precisamente da quando era partito da
Milano per l’impiego.

«Oh! ecco uno che viene a proposito!» saltò su a dire Martino
nell’aprire il cancello.» Farò conoscere loro un altro mio figliolo....
che è quel giovanotto che viene alla nostra volta... È il figliolo che
ho mandato a studiare, e che adesso è qui in vacanza. Ha l’argento
vivo addosso!... ma un buon figliolo! È un diavolo.... ma il cuore
è buono!... studia e si fa onore!... È il mio secondogenito.... e
lo chiamo il mio cattivo soggetto!...» E appena ebbe dette queste
parole, Martino vide il marchese farsi pallido come la morte, e
appoggiarsi al braccio di suo figlio Giorgio come uno che sviene.
«Oh! che bestia!» pensò Martino mordendosi le labbra. «Cosa ho detto
mai! Il secondogenito.... sicuro!» Martino avrebbe voluto accomodarla
in qualche modo, ma il marchese non gliene lasciò il tempo; e prima
che il figliolo di Martino fosse arrivato al cancello, egli s’era già
dilungato per una stradicciola opposta.

Martino, per accomodarla, dopo aver passati tre o quattro giorni di
cattivo umore, e a pensarci su, si decise di andare a far visita al
marchese. E bisogna dire che della sua visita fosse rimasto molto
contento, perchè fu veduto uscir dalla casa del marchese, attraversare
la piazza, tutto attillato s’intende, parlando tra sè, fregandosi le
mani, con la faccia allegra più del solito. Quelli del caffè della
_Fratellanza_, vedendolo passare, diedero in una gran risata; ma
Martino non se ne accorse, e tirò via per la sua strada.

Del qual caffè della _Fratellanza_ bisognerà pure che diciamo una
parola prima di accomiatarci, perchè anch’esso è una delle nostre
vecchie conoscenze. Nel caffè della _Fratellanza_, sebbene ci si
proclamino ogni giorno le più ardite aspirazioni sociali, le cose son
rimaste tali e quali le abbiamo vedute sei anni fa. Il fornello e la
caffettiera sono sempre nel medesimo angolo; le bottiglie, che stanno
in mostra, sono ancora le stesse; vuote adesso come allora, son lì
con le loro etichette che da un pezzo non sono più che un epitaffio.
Alla solita ora viene la solita gente, si mette al tavolino, gioca a
briscola e discorre, a spese s’intende, del prossimo. Di nuovo non c’è
che Simone. Quel Simone che abbiamo veduto prestar le dieci mila lire
a Martino, si è fatto uno de’ frequentatori più assidui del caffè.
Era furbo, aveva comperato il codice, ma con tutto questo è incappato
in qualche affaruccio ingrato: ebbe de’ processi, e s’è ridotto al
verde. Ora non gli è rimasto che il caffè, dove sentenzia su tutto
quello che succede in Castelrenico e, all’occorrenza, in Europa, perchè
legge i fogli. La morale ha in lui un giudice pratico e severo; e se
qualche volta è un po’ sospettoso, lo è per zelo del bene pubblico.
Quando Martino, passando per la piazza, aveva fatto sghignazzare quei
del caffè, Simone stava appunto raccontando un fatto che gli pareva
tenebroso, e che denunziava per ciò alla pubblica discussione.

E il fatto tenebroso qual era? Massimo avendo risaputo dalla sua povera
Enrichetta che l’ingegnere Mevio le aveva prestato mille lire per
andare in Sicilia; coi primi denari che guadagnò restituì la sommerella
all’amico, il quale la rese a chi gliel’aveva data in secreto, al
marchese; e il marchese Antonio la regalò allo spedale di Castelrenico.
Simone parlava di questo dono: trovava che un dono del marchese
poteva benissimo avere un fine contrario al pubblico bene; e che gli
amministratori dello spedale lo dovevano rifiutare come sospetto, e
incompatibile con gli interessi del popolo.

Queste parole erano state approvate da tutti i presenti, e soprattutto
da un tale di nostra conoscenza, quel della pipa di gesso. Il quale,
per finire la rassegna dei nostri personaggi, è sempre lì, da mattina
a sera, a quel medesimo posto dove l’abbiamo veduto la prima volta:
le sue aspirazioni sono sempre ardite, ma personalmente è rimasto
stazionario come il caffè. Non c’è in progresso che le scuciture della
giacchetta, e quella tale indipendenza dei gomiti dalle maniche. Il suo
tempo lo passa alternando una fumata con un bicchierino di acquavite
e una partita a briscola, con una forbiciata al prossimo. A questi
passatempi, che furono sempre i suoi quattro vizi prediletti, adesso
ha aggiunto anche la politica, a cui s’è dato come se fosse un vizio di
più. Si guardi un poco in quanti modi diversi si considera la politica
a questo mondo! È dunque inutile dire che la sua politica è sulla
medesima linea delle carte sporche, della maldicenza, dell’acquavite, e
del fondo della pipa.

Ci resterebbe a dire, poichè siamo al caffè, e dei molti discorsi che
si fecero a proposito delle cose che abbiamo narrate fin qui, e delle
conclusioni che se ne tirarono. Una conclusione bell’e fatta, ora
che il nostro racconto è finito, si pensi se ci tornerebbe comoda! Ma
dobbiamo fare una confessione; e la confessione è che nel caffè della
_Fratellanza_ questa nostra storia è raccontata da capo a fondo in un
modo affatto diverso del nostro.

Le conclusioni dunque sono proprio le opposte di quelle che vorremmo
dir noi: le nostre sarebbero molto semplici; le loro sono più
complicate: affar di scuola. In questa diversità di conclusioni, non
volendoci rassegnare a dirittura a quelle del caffè, e non presumendo
tanto di noi da voler dare le nostre, prenderemo una via di mezzo.
Lasceremo che le conclusioni le faccia il lettore, il quale, se troverà
verisimili le cose che gli abbiamo narrate, e se vorrà, senza aspettare
il testo del caffè, accontentarsi del nostro, saprà cavarne lui una
morale di gran lunga più savia di quello che sapremmo far noi.


  FINE.




INDICE.


  AVVERTENZA                                             Pag. I
  UNA SCAPPATA FUORI DEL NIDO. — Memorie di Alberto           1
  LO SCARTAFACCIO DELL’AMICO MICHELE                         97
  L’AVVOCATO MASSIMO E IL SUO IMPIEGO                       289





Nota del Trascrittore

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senza annotazione minimi errori tipografici.





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START: FULL LICENSE

THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE

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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
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from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
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remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
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generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
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Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
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The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

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increasing the number of public domain and licensed works that can be
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array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
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States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
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