Rovine

By Giovanni Faldella

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Title: Rovine

Author: Giovanni Faldella

Release date: November 5, 2024 [eBook #74686]

Language: Italian

Original publication: Milano: Tipografia Editrice Lombarda

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ROVINE ***


                           GIOVANNI FALDELLA


                                 ROVINE

               _Degna di morire — La laurea dell’amore_.



                                 MILANO
                     _TIPOGRAFIA EDITRICE LOMBARDA_
                         di F. MENOZZI e COMP.

              =STABILIMENTO= _Via Andrea Appiani, N._ 10.
             =SUCCURSALE= _Via Carlo Alberto, Bottega_ 27.




                         Proprietà letteraria.

  Milano, 1879 — Tipografia Editrice Lombarda. Via Andrea Appiani, 10




AD ACHILLE GIOVANNI CAGNA

                                                            VERCELLI.


  _Amico_,

Vinco gli scrupoli di una omonimia materiale, alla quale tu ci devi
tenere meno di me, e ti dedico, caro Cagna, questa biografia del
letterato inedito, figlio della _Madre dei Cani_.

Te la dedico; perchè in essa ho incastrato, come meglio ho saputo,
qualche, osservazione dal vero, che tu mi avevi riferito col tuo brio
vigoroso.

Te la dedico, perchè tu, discorrendo, mi ricordi il protagonista
di questo racconto storico, per la prontezza del pensiero baldo e
capriccioso e il calore dell’espressione affilata e luccicante.

Te la dedico infine; perchè tu, molto diversamente dal tipo disgraziato
qui ritratto, unisci felicemente al culto dell’arta quello del
lavoro utile e della famiglia; e lo scopo di questo mio racconto (a
dimostrazione por via dei contrari) è appunto quello di predicare
l’unione dei suddetti culti corrisposti.

Sei pregato di fare buon viso alla mia piccola offerta.

Intanto tu, pure attendendo alle tue contrattazioni di cereali, e
rimanendo contento e orgoglioso del blasone d’artiere trasmessoti da
quel degno, fiero e intelligente carattere di tuo padre, stipettajo, —
tu seguita nei ritagli di tempo rubati al riposo o allo svago, seguita
a scrivere le tue brave smanie di poesia, d’arte e d’amore.

  Saluggia, 30 agosto 1878.

                                                           _Tuo aff._
                                                   GIOVANNI FALDELLA.




ROVINE

RACCONTO BIOGRAFICO.


I.

=Cani!= La scena non ha luogo in teatro, ma in famiglia, dove i
suddetti quadrupedi si acquistarono una importanza ragguardevole.

Uno scolaro usciva dal ginnasio dominato dall’appetito e dalla
contentezza. Era riuscito il secondo della scuola, cosa che non gli
era mai capitata nella vita; lo gattigliava a flor di pancia un vuoto
voluttuoso; gli splendeva in testa la speranza di un _accessit;_ udiva
già il suo nome tintinnare nella distribuzione dei premi, sentiva
muoversi leggera leggera la bisaccia dei libri sulle spalle; pensava
ai grissini e ai peperoni del desco materno, all’effetto luminoso che
avrebbe prodotto il suo annunzio in casa; e con una fame, che avrebbe
addentato i pilastri dei portici, egli disprezzava le bacheche dei
confettieri, disprezzava gli zamponi dilembati rossamente, i tagli dei
presciutti marmoreggiati succosamente, il morbido ed acuto gorgonzola
e tutte le altre ghiottonerie, che dalla vetrina di un salumajo
agganciano le viscere di uno scolaretto.

Come era fulgido Pinotto sotto i Portici di Po!

Svoltò in una di quelle forme di torrioni, che sono i cortili torinesi;
infilò una scaletta. Sembrava si arrampicasse a quattro gambe;
sembrava avesse le ali; sembrava una rana; sembrava un’anitra; sembrava
abboccasse con la testa curva l’orlo di ogni gradino; a momenti, che
non sembrava quel poveretto? Finalmente eccolo sul suo pianerottolo. Oh
quanta luce egli getterà fra i suoi cari con la notizia che finalmente
è riuscito il secondo della scuola! Ma appena egli pose il piede nel
tinello, si smorzò la sua luce; chè trovò nell’atmosfera della stanza
e nei volti di sua mamma e di sua sorella quella mutezza plumbea, che
assumono le famiglie nelle più rilevate calamità casalinghe, quando è
giunto il telegramma della morte del nonno, o quando è venuto l’usciere
per una esecuzione mobiliare.

Pinotto fece uno sforzo, e non riuscì.... ne fece un altro e riuscì a
dire:

— Mamma! Carolina! Se sapeste! Finalmente sono _andato_ il secondo
della scuola, e il professore mi ha detto, che, se seguiterò così,
piglierò l’_accessit_ in fine dell’anno.

La mamma e la sorella, voltandosi dall’altra parte, risposero l’una con
una spallucciata rabbiosa e l’altra con una spallucciata piagnucolosa.
Pinotto affiochì, si avvicinò alle loro gonne fredde, e affisse i suoi
occhi pavidi nei loro volti di una impenetrabilità profonda.

— Che cosa è stato? — egli domandò tremolando come una foglia.

La mamma si spiccò da lui, senza dargli retta di uno sguardo; e la
sorella si mise a _tirar su_, e tirando su spiccicò fra la compressione
delle lacrime: — c’è.... c’è.... c’è...; — quindi con una voce da
vitella sgozzata: — c’è.... che Glafir ha la to...osse; — e giù uno
scoppio di pianto.

Pinotto scaraventò contro la finestra la sua bisaccia, il cui bottone
di acciaio ruppe un vetro; quindi scappò come un fulmine, senza il
cappello in testa.


II.

Chi era Glafir?

Era un cagnolino tozzo, dal collo corto e dalle gambe cortissime,
grasso come una caciuola marzolina, pigro come una marmotta, che
tossiva e starnutiva con mille stenti e putiva come un avello.
Da un anno la mamma Placida e la sorella Carolina lo lavavano, lo
profumavano, lo pettinavano, gli dirizzavano la scriminatura sulla
testa, sulla schiena e persino sulla coda, gli allacciavano i riccioli
con nastrini di seta molticolori; gli facevano _dindindare_ una
sonagliera intorno al collo; gli lasciavano fare tuttociò che voleva
sulle sedie, lo rabbatuffolavano sopra il canapè e poi lo alzavano di
peso, se lo accostavano alla bocca, e sembrava volessero mangiarlo con
baci e baci; di buon mattino se lo cucciavano sul copripiede del letto;
e il venerdì, il sabbato, e negli altri giorni, in cui Santa Madre
Chiesa proibisce di mangiar di grasso, esse mandavano dal beccajo a
comperare del manzo appositamente per il signor botolino.

Quel mattino esso aveva mangiato una tibia di pollastrino, grufolando
fra la spazzatura del pianerottolo; e quell’ossicino gli era restato
nella gola. Aveva tossito e starnutato più miseramente del solito; onde
mamma e figliuola non avevano fatto altro che ripetersi per tutta la
mattina: — Bisogna guardarsi.... Glafir non è un cane da lasciargli
mangiare le ossa. — Bisogna guardarsi.... Poverino! — Diamogli il
caffè. — Proviamo l’acquavite. — Proviamo l’acqua teriacale. — Stai
meglio, Glafir? Oh bel fanciullino! — Ti è passata, Glafir? —


III.

Pinotto, ridisceso sotto i portici, con il volto stravolto, senza
niente in testa, pareva a tutti quello che egli era: uno scappato di
casa. Benchè ardesse un sole canicolare, egli non osò rimanere sotto
i portici, e andò sul marciapiedi della via. Gli bollivano addosso
tutte le rivolte ingenue di un monello, tutte le rabbie erudite di
uno scolaretto. Giurava e rigiurava seco stesso che non sarebbe più
ritornato a casa: avrebbe anche fatto lo spazzacamino o il venditore
di zolfanelli e lo strillino di giornali; avrebbe dormito alla notte
con la testa nuda sulla gradinata delle chiese; avrebbe anche fatto il
tiraborse, se gli fosse venuto il bisogno; ma l’avrebbe fatta vedere
a sua mamma e sua sorella.... Già esse, a sua ricordanza, grande
tenerezza non glie l’avevano mai dimostrata forse per il loro perpetuo
malumore della morte del babbo.... Ma che cosa ne poteva lui, se il
buon babbo li aveva abbandonati tutti così giovane? Oh sarebbe stato
meglio per tutti e per Pinotto specialmente, che il babbo fosse ancora
vivo! Oh! se il babbo fosse ancora vivo, Pinotto non sarebbe stato
costretto a fuggire di casa per la preferenza data a una bestia.... Oh
no! sicuramente non sarebbe stato costretto... Però, via... quantunque
la mamma e la sorella non si fossero mai dimostrate pazze di affezione
per lui, pure si poteva ancora vivere prima che quel maledetto
uffiziale, il quale affittava da loro una camera mobiliata e stava
continuamente nel vano della finestra con Carolina, andandosene via,
avesse lasciato per ricordo a costei quel cagnolino. Maledetti tutti e
due! il luogotenente e il luogotenuto. Dopo che Glafir si era piantato
in famiglia, mamma e sorella non avevano visto altro di più bello;
avevano osato persino chiamarlo _bel figliuolo, angelo_, nomi che
spettavano a lui Pinotto. Invece per lui c’era venuto e c’era sempre
stato un muso più duro del solito.

E quella mattina, in cui egli aveva conquistato il secondo posto della
scuola e la promessa di un _accessit,_ che cosa gli avevano valuto
quel posto e quella promessa di un _accessit?_ Tutto ciò era stato un
bel nulla; perchè? perchè Glafir aveva la to...osse.... Oh Dio! Dio
saccoccino! Un cane guardato meglio di una creatura ragionevole, fatta
ad immagine di Dio, guardato meglio di un fratello di un figliuolo....
Pazienza, se il secondo posto egli non se lo fosse meritato? Ma egli
lo aveva guadagnato di _buon giusto,_ con i suoi sacrosanti sudori,
senza protezioni, senza raccomandazioni, senza regalare al professore
una bottiglia di vermutte, o una scatola di sardine, o un pajo di
pantofole; perchè la mamma Placida e la damigella Carolina si sarebbero
fatte ammazzare.... si sarebbero fatte.... piuttosto che portare
un grappolo d’uva o un garofano al professore del loro Pinotto, e
piuttosto che ricamargli una berretta con il fiocco! —


IV.

L’idea della berretta con il fiocco fece sentire al giovinetto il sole,
che gli arroventava il capo scoperto; onde egli si trasferì dall’altra
parte dei portici, e quivi seguitò ad almanaccare e a congiurare con sè
stesso.

— Oh! Chi ha torto in questa questione è anche la società del genere
umano. Sicuro! Nelle storie si trovano dei tiranni, che hanno esiliato,
rinchiuso e perseguitato Temistocli, Aristidi, protestanti, valdesi ed
ebrei; ma non ce n’è ancora stato uno buono a dare un po’ di ghetto o
di ostracismo a questi signori cani, che si introducono nelle famiglie
ad appropriarsi indebitamente l’affezione dovuta a figliuoli.... Oh, se
i nostri consoli sapessero quello che si fanno! —

In questo punto alla immaginazione bollente e ridente dello scolaretto
si aperse una vallea di una arditezza geografica, a cui banditi da
un editto divino, fustigati da sergenti della Guardia Nazionale,
spaventati dalle trombe del giudizio universale, colti da sfrombolate
davidiche, concorrevano i cani dell’universa terra: giungevano a
squadroni, a torme; ce n’erano di tutti gli stampi: veltri del medio
evo coperti della loro mantellina di raso con la cassa del petto
in curva gentile come i fianchi di un violino, — cani côrsi, con la
loro sezione di muso camusa e digrignata come la faccia della morte,
— cani che parevano pecore, lavori di monache, ricami di cuscino;
avevano tutti la lingua lunga, le costole palpitanti al pari di un
mantice; alcuni saettavano l’aria con balzi eleganti; i bassi Glafiri
incespicavano ad ogni tratto e facevano pallottola di sè stessi; alle
lanciate dei sergenti della Guardia Nazionale, alle sassate dei Davidi
guaivano tutti e alzavano, ciascuno una gamba posteriore.

Quando tutti si trovarono nella nuova terra di Canaan loro assegnata
dalla giustizia eterna, si sentirono serrare alle spalle un muraglione
della China, che doveva circuirli per _omnia saecula saeculorum_.
Condannati a stridere nel loro Kanato essi si governavano, si
mordevano, si mangiavano e si sterminavano fra loro: ritornavano ciò
che erano prima del loro incivilimento, lupi e sciacalli. Intanto un
angelo gentile con una trombettina da un soldo correva per le famiglie
dell’umanità ad annunziare la buona novella: — Bambini, allegri! chè i
cani sono andati via, quelli che rubavano i cuori delle mamme e delle
sorelle. —

Questa fantasmagoria scaricò un po’ la testa a Pinotto dell’odio
che lo aveva invaso, mentre egli si trovò davanti alla bottega d’un
pizzicagnolo. Ecco lì i tagli lucenti e netti del salame crudo, le
teste umide e grigiolate profumatamente del salame cotto, un cuneo di
gorgonzola, che gli apriva le insidie del suo seno.

Pinotto si ricordò che non aveva fatto l’asciolvere, si sentì strizzare
le viscere, venirgli la pancia come un soffietto e discendergli qualche
cosa. Egli avrebbe dato della fronte in quei cristalli per mangiare
di quelle leccornie. Allora la servilità dello stomaco gli profugò
la superbia della testa. Egli pensò, che aveva avuto torto; aveva
avuto torto sicuramente a fare quella cattiveria, a fuggire di casa, a
rompere un vetro, e.... per che cosa? per la gelosia di un cagnolino,
il quale forse poteva aver ragione, lui. Povero Glafir! Sicuro! aveva
ragione lui...! Se è ammalato, se ha la tosse.... Povera bestiolina!
bisogna avergli rispetto.... e domandargli scusa, se fa bisogno....
e poi la mamma gli vuol bene e comanda così.... E il proverbio dice
che chi maltratta il cane.... E i comandamenti di Dio ci obbligano ad
ubbidire padre e mamma, se si vuole vivere lungamente sulla terra... E
poi Pinotto non è buono a fare lo spazzacamino, egli avrebbe vergogna a
strillare i giornali e i fiammiferi.... —

Così ruminando, con una fame, che la vedeva, lo scolaretto, grondon
grondoni, ritornò indietro; girò i pilastri con una andatura tremola,
come il riverbero di uno specchio rotto; salendo le scale con il ticche
tacche nel cuore, egli si preparò sulla bocca il più bello e commovente
_perdono!_ da povero innocente.

Ma comparso sulla soglia della sua casa, non ebbe tempo di pronunziarlo
quel _perdono!_ perchè zònfate! L’uragano di uno schiaffo lo stramazzò
in terra. Appena potè rilevarsi da quel coperchio di dolore, che lo
aveva offuscato, egli strillando e camminando ginocchioni, andò ad
avvinghiarsi convulsivamente e quasi ermeticamente alle gambe di sua
mamma.

— Mamma! mamma! perdono! domando perdono!... ho fame....

— Se hai fame, birbante, guarda lì.... Mangia ciò che ha avanzato
Glafir.... Così imparerai a fare il matto, a rompere i cristalli e a
scappare di casa all’ora della colazione. —

A quella proposta quel bambino si sentì asciutto di lacrime e quasi
impietrato; stette cinque minuti senza pensieri, quasi senz’anima;
poi si riscosse ad una violenta interrogazione che gli fece la fame
e le rispose di sì; si mosse come un’ombra, e andò in un canto a
pigliare per terra un piattino nero, che conteneva un intruglio bianco,
la minestra lasciata stare dal cagnolino; provò ad accostarsi alle
labbra una cucchiajata di quel rimasuglio; ma, appena i suoi nervi
sentirono quella schifezza, andarono in rivoluzione. Egli ebbe un
sussulto rabbioso di vomito asciutto, lasciò cadere sul pavimento
tutto ciò che aveva nelle mani; cadeva egli stesso da tutte le parti,
eruttava pianti, schiuma, sospiri, guaiti.... Pareva che quel fanciullo
avesse perduta la sua intelligenza piccina davanti a quel baratro di
umiliazione e di crudeltà materna.

La signora Placida si percuoteva le mani, e rivolta alla figliuola
diceva:

— Carolina! Carolina! ci mancava anche questo.... che questo dannato si
facesse venire i vermi. Va un po’ a chiamare il medico. —

Il medico venne, e, dopo aver guarito Pinotto con una settimana di
cura assidua, diede alla mamma e alla sorella per metodo di cura
preservativa il suggerimento, che gli evitassero qualsiasi occasione di
spavento.


V.

Ma un altro metodo di cura preservativa seppe trovare da sè stesso
il ragazzo. Egli, persuaso che la predilezione di sua madre e di sua
sorella per il cane non era guaribile, ragionò così:

— Quale necessità ho da strusciarmi per avere i primi posti nella
scuola e l’_accessit_ in fine dell’anno? Tanto per mia madre e per
mia sorella ciò non sarà mai una consolazione, ed esse non tirerebbero
fuori una bottiglietta d’aceto nemmanco per _bagnare_ il primo premio,
se lo guadagnassi.... Il meglio si è che le pigli per il loro lato
debole e faccia la corte al cane: così spero che mi raddoppieranno la
pietanza. —

In effetto Pinotto divenne tutto ossequio e riverenza verso Glafir.
Appena entrato in casa, domandava a sua mamma notizie di lui; gli si
metteva intorno a fargli mille smancerie, a interrogarlo, se aveva
dormito bene, se aveva sbadigliato bene, se aveva fatto bene tutti i
fatti suoi; dandogli sempre del signor lei con puntuale buffoneria.
Cionondimeno la mamma gelosa e superba del suo monopolio cagnesco, lo
guardava con una cera stupida e piena di compassione, quasi volesse
dire:

— Che ragazzo ho mai io! Non è nemmanco capace a fare due carezze per
bene a un cane! —

Ma quando poteva trovarsi a tu per tu con Glafir, egli si rifaceva con
franca usura del corteggio da impostore, che si era messo a fargli in
presenza della mamma e della sorella.

Allora cominciava a dargli del tu con una pedata che gli faceva
strizzare la coda in mezzo alle gambe; poi lo costringeva a star ritto
in un angolo, cresimandolo con reiterati buffetti; gli accendeva sotto
i baffi dei puzzolentissimi zolfanelli da cucina; e fu parecchie volte
ad un pelo di impiccarlo. Quindi conchiudeva sempre:

— Bisogna proprio ringraziare la Provvidenza perchè ne ha fatta una
giusta: non ha data la voce umana ai cani come agli organi delle
chiese. Guai se tu potessi parlare, o Glafir, il linguaggio che
mia madre parla e capisce.... e raccontarle i dolci trattamenti
che ti uso a quattr’occhi! Povero Pinotto! Non mangeresti più
un uovo al tegame.... Non è vero, Glafir? Rispondi alle mie
_par....role...._ —

E giù una nuova pedata.


VI.

Così crescendo al disamore della mamma e della sorella, Pinotto divenne
un piccolo demone beffardo. Passato al liceo, senza menzione onorevole,
egli, mantenendosi quanto agli studi in una mediocrità più bronzea che
aurea, era però riverito e temuto dai compagni e dai professori, molto
più che se fosse stato il primo della scuola.

I professori cominciavano a pensare a lui, appena usciti di casa, se
si accorgevano di aver messo in testa la tuba nuova; essi riflettevano,
ch’era miglior partito ritornare indietro a riporla nella cappelliera;
perchè niun cappello era oramai più sacro, dopo l’entrata di Pinotto
nel Liceo. Infatti si attribuiva a lui, sebbene non se ne abbiano
mai avuto le prove materiali, il terribile caso di un gatto morto
trovato dentro il _cilindro_ del Preside nella stessa anticamera della
Presidenza.

Egli era poi addirittura celebre nel far correre per le vie i cani,
i piccoli seminaristi e i ferravecchi ambulanti. Era stato egli quel
birbo che aveva tagliato la corda del pozzo al padre del suo compagno
di scuola Aurelio Auricola, e perciò li aveva fatti piangere tutti e
due e digiunare per una intiera settimana padre e figlio Auricola, di
cui l’uno era più avaro dell’altro.

Un giorno invitato in campagna dal suo compagnone Edoardo a visitare
una stuoja di bachi da seta, egli tenendo sempre irriverentemente il
sigaro in bocca, col solito cappello in testa, si mise a spandere
grosse boccate di fumo su quei poveri filugelli. Essi disturbati,
storditi e dilaniati rizzavano e scuotevano i loro capettini orbi ed
ubbriachi in mezzo a quella nebbiaccia e manifestavano un dolore muto,
ma così parlante, che la povera madre di Edoardo, la quale li allevava
essa e se ne formava la delizia, ebbe voglia di piangere e di ricusare
il desinare a quel monello.


VII.

Erano già trascorsi sette od otto anni dalla scena del cane, quando
Pinotto in casa e a scuola si dimostrò serio, tanto serio, che ricusò
l’invito di fare sul cartolaro del vicino il solito ritratto del
professore di greco, quasi offendendosene. Chi sa che cosa era mai
accaduto?

Era accaduto, ch’egli era entrato in quel periodo letterario e
specialmente drammatico, cui attraversano quasi tutte le gioventù, come
attraversano il periodo religioso e quello della tosse asinina.

Una sera egli era andato con la famiglia di Edoardo venuta a Torino,
era andato al teatro Gerbino a sentire l’_Otello_ da Tommaso Salvini,
e n’era uscito mancomale con la testa in visibilio, con la scimitarra
del Moro e la pezzuola di Desdemona nel cuore. Nella notte, passioni
colossali, ruvidezze tragiche, asinate comiche, applausi, _bis!,
fuori!_, versi e coturni gli picchiarono e gli scalpitarono nella testa
come cavalli di un circo. Levatosi da letto fece quattordici o quindici
proponimenti, e tutti drammatici, fra cui i seguenti: presentarsi
alla compagnia del Gerbino e diventare un tiranno come Salvini da
interrorire il pubblico, o un brillante come Pieri, da far schiattare
dal ridere persino i violini dell’orchestra; scrivere una tragedia di
soggetto classico senza le regole aristoteliche dell’unità di tempo
e di luogo, per esempio l’_Assedio di Troia_, con scenari in Grecia,
dentro e fuori della città assediata e nell’Olimpo, e con l’azione
durativa per tutti i dieci anni dell’Assedio; scrivere una ettologia
drammatica, _I sette peccati mortali_, un dramma per ogni peccato,
cinque atti per dramma, in tutto trentacinque atti; scrivere cento e
più produzioni spicciole, di cui egli trovò tutti i titoli e compilò
l’elenco accuratissimo seguente: — _La sfida e l’onore_, dramma serio
in sei atti con prologo, — _Il Preside del Liceo_, farsa tutta da
ridere, — _Il dito mignolo_, scherzo comico, — _Zeri squartati_, id. —
_Mascherina ti conosco!_ commedia in due atti, — _Le bestie_, commedia
satirica in cinque atti, — _Il brodo delle undici ore_, dramma in
quattro atti, — _La spada di Damocle_, commedia di cinque atti in versi
sciolti, — _La cantoniera_, id. (stile del cinquecento), — _Titiro e
Melibèo_, commedia pastorale, — _Battista l’Orafo_, scene medio-evali,
— _Il colèra morbus_, dramma istruttivo, morale, igienico, — _Il
testamento olografo_, commedia a tesi, — _Guittone d’Arezzo_, commedia
storica, — _Vele perdute_, bozzetto marinaresco, — _L’Inaugurazione
del Monumento a Carlo Alberto_, azione mimica con prosa e canto di
circostanza, — _Turchi e Cristiani_, dramma di effetto, da potersi
tradurre in francese, — _Gentiluomo e Barabba_, id., — _Il giuoco
della morra_, dramma popolare, — _Pallida!_ commedia di sentimento
in tre atti, — _Pace, guerra e convento_, dramma diurno domenicale,
suddiviso in sette quadri, con prologo, epilogo e combattimento ad arma
bianca, — _Il ratto delle Sabine_, commedia togata, — _La calata di
Annibale_, tragedia, — _Ugone mangiaferro_, id., (costume del mille),
— _Vedi Napoli e poi muori_, commedia di tre atti in versi sciolti,
— _La guerra delle ragazze bramose di marito_, commedia d’intreccio
in cinque atti (imitazione goldoniana), — _Bastardo! — Lo spilorcio,
— Il carabiniere, — L’aguzzino, — L’atlante, — Lui, — Lei, — Noi_,
commedie di carattere, — _Madama Pataffia_, commedia in vernacolo
piemontese, — _Non da vend...!_ id., — _La croce del genio,_ lavoro di
polso, — _Chi più ne ha, più ne metta_ — _Cercar Maria per Ravenna —
La pelle dell’orso — Nebbie d’autunno — Giuseppe Giusti_, proverbi in
versi martelliani, — _Il quarto piano_, commedia sociale, — _La cocca
— Misteri di soffitta — Il portinaio del n. 13_, — _Le pericolanti,
— La Traviata riverita_, id. — _Il caffè Parigi_, scene della vita
universitaria — Parrocchia e municipio, abbozzo di costumi in provincia
— _Il mio cappello — La pasta dei topi_, monologhi — _L’Ippopotamo_,
commedia in versi sdruccioli di sedici sillabe — _Granchio e Ventola_,
quartine rimate (contin. dal Giusti) — _Quella pira!_ ossia _La
Strega al rogo — Un duello all’ultimo sangue — Castore e Polluce —
La recidiva — Padroni belli — La patria in pericolo — Galoppino —
Gli ubbriachi — Una battaglia di serve — Le speranze d’Italia — Don
Ambrogio — Un temporale di Biella — Lo studente all’esame e la cuoca
del professore — Il debito pubblico — I convittori — Grillincervello —
Ciceruacchio, tribuno del popolo — L’imperatore Teodosio — Le Società
operaie — Il macchinista e l’artefice — Giuda Iscariota — L’Ebreo
Errante — L’Anticristo — Il morto vivo — Re Bomba — Franceschiello —
I Francescani — I Francobolli — I Francesismi — Pietro Micca — Il due
dicembre — Caligola — Il confessore — I cugini — Gli amici — I fratelli
— Le sorelle — Amalasunta — Viola mammola — La contessa nera — Il
pretore di Mandamento — Il marchese Lupo di S. Medesimo — Prete Pero —
Gambastorta — La Marsigliese — Ermengarda — La battaglia di Maclodio_,
tutte commedie, tragedie, drammi, opere, o balletti da destinarsi, a
cui aggiunse l’_Atmosfera_, dramma scientifico-fantastico.

Egli gongolava nel ripassare quell’elenco, mentre embrioni d’intrecci
drammatici gli formicolavano nella testa. Mancomale, gli pareva di
avere già stese le commedie, tragedie, ecc., di cui aveva trovato il
titolo e già assaporava la voluttà di sentirle recitare e di vederle
pubblicate.

Che bella figura doveva fare nelle vetrine dei librai il _Florilegio
drammatico di Giuseppe Panezio, tragedie, commedie_, ecc! Quel
_Florilegio_ egli lo leggeva già stampato nei bei ghirigori di
quei caratteri di lusso, che hanno la cuffia arabescata, la coda da
scojattolo e le zampe di mosca, tutto ciò sopra una superba copertina
verde e ghiacciata.

Tutta questa sua confusione di disegni sbalorditoi, si concretò infine
nel cominciare una tragedia di soggetto romantico in istile classico,
_Alboino_, non compreso nell’elenco. Egli attendeva amorosamente e
gelosamente a questo lavoro, e vi portava un pensiero così assiduo, che
i suoi compagni vedendolo continuamente astratto cominciavano a dire:
Pinotto diventa anche lui un minchione; — e i professori trovando,
ch’egli non sapeva mai la lezione, e non faceva più addirittura i temi,
e aveva persino perduta quella sua antica e maliarda usanza di dar
loro soggezione e quasi d’intimorirli, si permettevano di dargli dei
grossi pensi. Però.... che cosa erano mai le derisioni dei compagni e i
castighi dei professori davanti alla gloria? Nè questa gloria egli la
agognava solo per sè; da bel cuore, quanto non si sarebbe da nessuno
sospettato, Pinotto voleva darne una grossa fetta a sua mamma e a sua
sorella; anzi nella propria gloria egli vedeva più che tutto la loro
allegrezza; e si diceva spesse volte nel suo sè: — Ah! mia mamma si
accorgerà della differenza che passa fra un figliuolo, che è buono a
fare delle tragedie, e un cane, il quale è solo capace di stracciare la
fodera del sofà! —

Questo suo sogno era circonfuso di molto pudore; tantochè per scrivere
l’_Alboino_, egli si trincerava dietro un bastione di libri legati,
acciocchè niuno sguardo profano pervenisse sulle pagine vergate dal
suo furore poetico, e quando andava a scuola, le chiudeva nel cassetto
con un doppio giro di chiave. Ma un giorno la mamma e Carolina,
insospettite di quel secretume, fecero una violazione di tavolino,
e, sforzata la serratura, n’estrassero il corpo del delitto. Pinotto,
di ritorno dalla scuola, salendo le scale, sentì uno strano vocio in
casa sua, come un abbajamento di cani e di ragazze. Appena giunto
nell’anticamera, egli restò freddo, vedendo il suo scartafaccio in
mano a sua sorella, che, china a terra, lo leggeva a Glafir ritto in un
angolo.

— Bravo! ben arrivato! Giusto lei, signor autore tragico! Non sapevamo
mica... Gli facciamo i nostri complimenti.... Belle cose! Gli batteremo
poi tanto le mani.... Bene! Bene! C’è già qui Glafir che studia la sua
parte.... Non è vero, Glafir? Coraggio! Fallo un po’.... Se lo facevi
già prima tanto bene!... Non avere il timor panico per la presenza
dell’autore.... Fallo un po’.... _Bo.... Bo.... Boino! Boino! — _

Glafir si mise ad abbaiare da minchione; e la sorella contenta come una
pazza.

— Sì! _Boino! Boino!_ Bravo Glafir! Bravissimo! _Boino! Boino!_ Hai
sentito, fratello? Glafir si è già presa la prima parte, quella di
Alboino. —

Allora la madre per coronare l’opera:

— Pinotto! Invece di occuparti di queste minchionerie, faresti meglio a
_studiare d’aritmetica_, e a imparare a servire la messa, come faceva
da buon cristiano la buon’anima di tuo padre, quando era alla tua
età. —

Pinotto andò a piangere in un luogo innominabile ed uscì da quel pianto
più beffardo e più cattivo di prima.


VIII.

Andato a scuola, — mentre il professore di matematica, che aveva il
vizio di ripetere _per avventura_ ogni due minuti, spiegava sulla
lavagna una _formula per avventura più lucida del cristallo_ e mentre
dominava nella scolaresca il più religioso silenzio, Pinotto emise una
voce parlamentare.

— Domando la parola.

— Che cosa vuole? — gli chiese il professore, interrompendo la sua
formula, con un viso da carceriere spaventato.

E Pinotto con la placidità angelica di chi ha mille ragioni dalla sua:

— Favorisca scusarmi, signor professore, se l’ho _per avventura_
disturbato. Voleva dirle soltanto che dal mio posto non si possono
vedere le cifre che ella scrive _per avventura_ sulla lavagna.

Il professore, sentendo nelle vibrazioni sicure della voce di Pinotto
e vedendo nella faccia invetriata del medesimo risorgere l’antico e
terribile suo persecutore, per quietarlo, fu lestissimo a restringersi
in un angolo della lavagna, riducendosi tutto storto, e più sottile che
potè.

— Così ci vedrà per avventura....

— Grazie, egregio signor professore!

Intanto, profittando della nuova positura dell’egregio signor
professore, gli soffiò nella schiena da un cannoncino di penna d’oca
quattro scarafaggi. Quindi immediatamente:

— Signor professore....

— Ebbene! che cosa c’è di nuovo adesso? Io per avventura....

— Si guardi.... Ella ha _per avventura_ una bestiolina sul colletto....

— Grazie, grazie! — rispose il bersagliato professore, vieppiù
oscurandosi e spingendo via da sè l’animaletto con la punta della
penna.

— Signor professore....

— Ma.... per avventura....

— Ella ha un’altra bestia, anzi due bestie.... tre bestie, signor
professore, che si arrampicano _per avventura_ sulla sua schiena.

— Sì! sì! Grazie.

Così dicendo la povera vittima diede una scrollatina alla giubba per
liberarsi di tutto quanto il bestiame appiccicatogli, che cascò sul
piedestallo della cattedra, poi lo pestò, strisciando i piedi con
fretta rabbiosa.

— Oh, signor professore.

— Auff! mio Dio!... Mi lasci stare.... Voglia terminarla finalmente
di....

— Scusi.... Ella non ha più _per avventura_ veruna bestia....
Desideravo soltanto pregarla, che stesse pure comodo, avendo scoperto
finalmente la vera ragione, per cui dal mio banco io non posso vedere
le cifre, qualunque sia la posizione che ella si degni di prendere,
egregio signor professore, _per avventura_, alla lavagna.... Sono....
le orecchie del mio amatissimo amico Aurelio Auricola nel banco
dinanzi, quelle che mi impediscono _per avventura_ la visuale. Quindi
la prego in cortesia di voler traslocare l’onorevole (frugando con il
dito mignolo in un orecchio) Auricola dal primo banco e di mettervi
nel suo posto un altro compagno di orecchie _per avventura_ più
decenti. —

La scolaresca zittiva con una voglia frenetica di ridere.

Il professore si sentiva scappare dalla testa persino la soluzione
della sua formola, e le trottava dietro in silenzio per raggiungerla;
onde Pinotto, fatto più baldanzoso nella sua canzonatura, riprese:

— Signor professore, se ella _per avventura...,_ — strisciando con un
languore ineffabile su quel _per avventura_.

A questo punto il professore si riscosse, illuminato dalla necessità di
porre un argine a tante offese sue e del suo intercalare, e proruppe:

— Taccia, signorino, e... faccia silenzio. Mi sono accorto, sa, che
ella vuole disturbare l’ordine della scuola con i suoi motteggi....
Ella vuole compromettermi.... Ho capito.... Impertinente! Che cosa
vogliono dire tanti _per avventura_ detti a marcio sproposito? Ella
m’intende e mi capisce.... Ma io saprò far rispettar me ed i miei _per
avventura_...... Io farò chiamare il preside.... il bidello.... La farò
cacciare dal Liceo.... Così le insegnerò io ad essere per avventura
meno discolo.... Impertinente! —

Lo scolare con la solita sua calma da diplomatico:

— Non _salti_, egregio signor professore.... _Non dia ne’ lumi_....
Io impetro puramente e semplicemente l’esercizio di un diritto che
_per avventura_ mi spetta... Mia mamma paga la minervale, ed io
venendo a scuola ho diritto di vedere e di imparare ciò che ella ha
la bontà di scrivere sulla lavagna, facendo eziandio tesoro delle sue
_frasi da ritenersi_. È un diritto che io sono disposto a far valere
_per avventura_ davanti a tutte le autorità, _vuoi_ civili, _vuoi_
scolastiche, sì militari, sì politiche, deliberato eziandio a porgere
una acconcia petizione alle Camere.... Ella capirà....

— Taccia... e parli.....

— Farò così.... Ella capirà che io non posso esercitare il mio diritto
e il mio dovere di apprendere l’umano scibile, che _per avventura_
nelle scuole si imparte, se _dovunque il guardo io giro, Immenso Dio!_
veggomi davanti l’amico Auricola, che mi nasconde ogni scienza ed arte
con il padiglione delle sue orecchie. —

A questo _padiglione_ la scolaresca scoppiò in una risata, che teneva
da lungo tempo repressa: e rise _per avventura_ lo stesso professore,
il quale spinto dal desiderio di ritornare alla sua formula e di
sfogarsi sopra un facile paziente, non che di stornare da sè la parte
di ridicolo, che gli spettava, si rivolse ad Aurelio con una durezza da
croato:

— E lei si alzi, Macaruffo Lasagnone! Lasci il suo posto, sciocco!
e vada a sedersi nell’ultimo banco sotto il Crocifisso.... Così per
avventura non farà più ombra a nessuno con le sue vele, orecchiuto
asinello. —

Il povero capro espiatorio, verde come un ramarro, fece il trasporto
della capitale, fra il tumulto delle risa dei compagni, che movevano le
loro mani nella vicinanza delle orecchie, come fossero palette, dando
alla vista un effetto di conigli; tumulto che il professore fece tosto
cessare, ripigliando la spiegazione della sua formula.

Terminata la scuola, quando gli studenti uscirono fuori a respirare
l’aria libera, Pinotto quatto quatto prese d’assalto le orecchie di
Aurelio, e tirandole con grande forza si mise a ragliare come un asino
di cartello: — Ij.... à.... Ij.... à.... Ij.... à — frammettendo agli
Ij... à il fischio rantoloso dei cantori di maggio.


IX.

Divenuto più prepotente di prima, Pinotto anelava di trovarsi lontano
dalla sua famiglia per essere maggiormente in libertà, ed anche per
togliersi davanti il testimonio quotidiano della sua disaffezione verso
la madre e la sorella. L’occasione gli venne opportunissima, terminato
il liceo. Allora con la scusa di saltare un anno di università, egli
ottenne dalla mamma di andare a studiar matematica nella università
libera di Camerino.

Quivi, padrone finalmente di sè stesso, libero di mettersi un paio di
guanti nuovi alla festa, libero di andare a scuola negli altri giorni
o di andare a cavallo, libero di giocare al faraone e d’andare a letto
nell’ora che gli piaceva di più, egli studente _puro sangue_ si sentiva
rinato; e in questa baldoria di libertà personale e di felicità, egli
sentiva a un tempo di riamare sua madre e sua sorella.

— Povere donne! — egli diceva fra sè: — Ho torto io a pretendere,
che esse sappiano più di quello che hanno studiato. Con i loro
difetti e con la loro semplicità, esse mi sono ancora più care....
Quando ritornerò a casa, voglio dare a loro un abbraccio stretto
così!... —

E al buon giovane pareva già di abbracciarle.

Di lettere ne mandava di rado a casa, perchè anzitutto egli tra il
proteggere le ballerine, il fumare, lo spolverare i calzoni con il
frustino, il far la corte alla figliuola del colonnello di fanteria ed
altre studenterie universitarie, non trovava il tempo per iscrivere,
e poi quattro soldi gli scappavano sempre per una tazza di caffè o
per quattro sigari Cavour, o per una mancia ad una portinaia, che
recasse un vigliettino amoroso, e non ne aveva mai quattro che gli
puzzassero per la compera di un francobollo. Ma senza scrivere pensava
continuamente alla famiglia.

— Povera mamma! Chi sa che cosa farà adesso? Povera vecchia! Si
incamminerà a messa.... A quest’ora forse Carolina laverà il cane
e la mamma lo terrà su ritto e fermo, che non si muova. Povere
creature! —

Finito il primo anno di università, egli ritornò a Torino, come
andasse a nozze. Divorò la scaletta piena di tanti ricordi elementari,
ginnasiali e liceali. Alcuni sgorbi da lui disegnati con il carbone
parecchi anni prima sulla muraglia del pianerottolo, fra cui il
ritratto di un asino e quello di Aurelio Auricola, gli diedero una
stretta al cuore.

Vista la mamma, le si buttò addosso, come volesse mangiarla.

— Caro Dio! A momenti mi soffochi e mi mandi la cuffia per traverso!
Che soldataccio! Sono queste le creanze degli studenti di Pisa?...

— Vengo da Camerino, mamma, e non da Pisa....

— Non importa.... Vieni pure di dove vuoi; ma hai imparato poco, mio
caro, se sei ancora così disadatto.... Ebbene, del resto, hai finito
tutto? L’hai presa la laurea?

— Che laurea! Ho appena finito il primo anno....

— Oh cara vita! Quante bugie! Non mi avevi detto, che andavi così
lontano, andavi a Pisa....

— A Camerino, mamma!

— Pisa, verdone o canerino fa tutto lo stesso.... Non mi avevi detto
che andavi.... dove sei andato, per finire più presto? Caro Dio! E
adesso mi conti che non è ancora finita questa storia. È lunga, sai! Mi
costa, sai, mantenere un figlio fuori di casa a fare il signore.... Ah!
era meglio che tu avessi imparato subito qualche mestiere, e ti fossi
messo a fare il sellajo, come lo faceva onoratamente la buon’anima di
tuo padre. Santa Pazienza! Santa Pazienza! E adesso, quanti anni ti
rimangono ancora da fare? Quanti?

— Quanti! Quanti! Cinquecento, — rispose il figlio con un dispetto
pochissimo dissimulato. — Persino il portinaio da basso sa, che per
pigliare la laurea da ingegnere ci vuole maggior tempo che per prendere
quella da ciabattino.... Ma Ella, signora madre, più che tutta la
scienza, forse amerebbe meglio che io le portassi innanzi un bel basto
da somaro lavorato con le mie proprie mani, non è vero?... Quanti!
Quanti! Piuttosto io dovrei domandare a Lei, signora madre, quanti cani
si sono introdotti nella nostra casa, durante la mia assenza. Oh, buon
giorno, sorella. —

In quel punto si era aperto l’uscio interno dopo pareccbie graffiature;
ed insieme con Carolina aveva fatto irruzione una cagnara di sette
cani, prima di tutti Glafir, il quale, riconoscendo Pinotto, si
degnò di schiacciarsi in suo onore sul pavimento, dondolandosi e poi
facendogli intorno quattro o cinque salterelli da ranocchio.

Roma, la compagna data a Glafir, e i suoi cinque cagnolini, che come
dice la Scrittura, _ignorabant Ioseph_, cioè non conoscevano Pinotto,
lo guardavano con certi occhi _sui generis_, proprio cagneschi, quasi
volessero dire: che cosa è venuto a fare questo forestiero in casa? Che
diritto ha egli di trattare con tanta domestichezza le nostre padrone?

Anzi Roma, dopo essere dimorata un poco nella sua posizione di
ignoranza sospettosa, si mise ad ululare a canne ritte e spalancate
verso Pinotto; ed uno dei suoi cagnolini, incoraggiato da questo
contegno materno, si avvicinò alle gambe di lui per addentargli i
calzoni.

Allora Carolina: — Zitta, Roma! Vieni qua.... Poverina! Non ti conosce
ancora.... Vieni qua; te lo presento io. Questo qui è quel birbo di
mio fratello, di cui abbiamo parlato tante volte insieme, e che si
piglierà ben guardia dal farti qualsiasi disprezzo. Del resto noi
gli tireremo le orecchie; non è vero, Roma? Ah, che bellezza di una
cagnetta! Che cosa ne dici, fratello? È vera _grifona_, sai. Oh, dillo
tu, Roma, dillo tu, se non sei proprio una gran bella bestiolina....
Devi sapere, Pinotto, che ce l’ha regalata, appena sei partito tu,
il teologo Sturlimandi, ce l’ha regalata, perchè la sua cuoca non
aveva nessuna pazienza a tenere queste bestie fine, come devono essere
tenute. Egli l’aveva portata da Roma un anno fa, dove era andato per
vedere i vescovi del Consiglio Catecumenico; e l’ha proprio avuta da
uno dei primi amici del maggiordomo di un cardinale; per cui questa
bestia quasi si può dire papale. Sicuramente! È per questo che il
teologo l’ha voluta chiamare Roma. La birrichina, appena venuta da
noi, ha subito comperato i suoi cagnolini. Li abbiamo allevati tutti,
perchè sono tanto belli.... cioè ne abbiamo fatto perdere soltanto uno,
perchè era nato quasi morto. Se avessi veduto, che importanza si dava
questa cagnolina, quando era in _pagliola!_ Voleva che le dessimo da
mangiare noi nella cuccia, proprio come ad una mammina. Poi, quando
abbiamo dovuto battezzare (uh! uh! che eresia dico mai! volevo dire
metterci il nome a tutti i suoi birrichini), abbiamo voluto fare le
cose proprio come si deve, e li abbiamo denominati in inglese, come
è l’ultima moda; anzi per avere i nomi inglesi proprio giusti, siamo
persino andate in compagnia del teologo a parlare con un prete sopra la
Gran Madre di Dio, il quale è stato a predicare in Inghilterra. Ecco:
questo qui si chiama _Dear_, che vuol dire carino, questo qui _Black_,
che vuol dire Moretto, questa qui è tota _Miss_ e questa qui madama
_Lady_. Finalmente questo birrichino, che voleva morsicarti i calzoni,
indovina un po’ come si chiama?... Questo non si chiama più in inglese,
si chiama _Come te_.... Ah! Ah! Ah! Gli abbiamo voluto mettere questo
nome faceto per minchionare la gente. Qualche curioso domanda: Come si
chiama questo cagnolino? E noi senza offenderlo: _Come te, Come te_.
Non è una cosa da crepar dal ridere, caro fratello? Se vedessi poi, che
prodezze sanno fare tutti quanti! _Come te_, quando gioca con il gatto
della portinaia, è un vero amore. Lo dicono tutti. —


X.

Pinotto non potendo più resistere a quel panegirico cagnesco lo troncò:

— Basta, basta! Ho inteso; mi rallegro tanto.... —

In quel punto, se avesse ascoltato la sua voglia, avrebbe pigliato in
una bracciata tutta quella canaglia e l’avrebbe scaraventata nella via
a costo di contravvenire a qualche regolamento municipale fracassando
il cielo di un omnibus o la testa dei passaggieri, ma seppe frenarsi e
domandò licenza di uscire subito, per andare a vedere qualche amico.

Appena disceso nella strada, inciampò un sergente furiere, suo fratello
di latte, a cui piaceva ubbriacarsi.

— È la Provvidenza che mi ti ha mandato innanzi, Teodoro. Se non
avessi incontrato te, sai, sarei ritornato indietro e avrei commesso un
canicidio di sette persone. —

Al caffè, dopo la sbornia, trovò Edoardo ed altri amici, che lo
invitarono con loro in campagna. Così egli poèò sottrarsi per un
mesetto alla stucchevole necessità di vivere con tanta _cagneria_.

Ma ritornato finalmente fra le mura domestiche, egli fu condannato a
pensare cento volte al giorno: — Come sono felici coloro, che vivono
lontani dalla famiglia! Escono dall’ufficio, vanno a pigliare il
vermouth, vanno a pranzare in pensione. Chi ne racconta delle più
grosse è più bravo; alla sera al caffè, e sempre allegri! Essi non
hanno mai fra i piedi un cane casalingo, o il malumore di una madre
o di una sorella o altro accidente di famiglia che loro rivolti
l’anima. —

Per la noja dei cani egli non poteva più nemmanco soffrire la dieta
di casa. — Sempre spinacci! Sempre spinacci! Sempre zuppa! Sempre
zuppa! —

L’immagine delle bistecche del caffè del Cambio gli pareva il _non plus
ultra_ della felicità terrena.

Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni minuto, gli facevano vieppiù
afa quel continuo parlare e quel continuo preoccuparsi dei cani, in
cui infierivano sua madre e sua sorella. — Guarda, Pinotto! _Dear_
ha un mantello così fino che sembra seta. — Quest’oggi davanti al
caffè Fiorio due signori si voltarono per guardare _Come te_. — Ah!
Se volessimo vendere _Roma_, ci darebbero per lo meno novanta lire!
Quante contesse la vorrebbero questa brutta leccapiatti! — Anzi la
comprerebbero gli inglesi, la comprerebbero!...

A tutto questo mare di fastidio diede il trabocco un avvenimento da
_gazzettino della città._


XI.

In tutto il vicinato per cagione dei disturbi di quel popolo di bestie,
la signora Placida e la damigella Carolina erano molto mal vedute,
anzi erano chiamate addirittura l’una _la Madre_ e l’altra _la Sorella
dei Cani_. Sola a trattare con gentilezza officiosa verso le medesime
era _Ortensia la verdurera_, che abitava una soffitta al disopra
della famiglia Panezio. Essa, quando le incontrava per la scala o sul
pianerottolo, si fermava rispettosamente per dar loro il passo e non
risparmiava mai i suoi complimenti alla madre, alla figliuola e alla
tribù dei cani; anzi una volta diede persino una crosta di formaggio a
_Come te_.

L’Ortensia aveva la faccia rosata ed i capelli grigi, ed era un donnone
membruto, pesante e quasi emisferico, come ha tutti i diritti di essere
una vecchia erbajuola.

Ebbene, una mattina la grossa Ortensia usciva dalla sua soffitta,
mentre _Come te_, ancora tutto sonnacchioso, uscendo dal suo rastrello,
andò a cucciarsi sotto il primo gradino del quarto piano, e lì se ne
stette acciambellato e immobile, come un biscione, che facesse la
siesta dopo essersi imbottito di un uccellino. Intanto l’erbajuola
discendeva gravemente e fatalmente le sue scale. All’approssimarsi
del rumore di quelle pedate elefantesche, il malaugurato _Come te_ non
pensò punto di muoversi; ma dondolava poltronescamente la testa quasi
per cacciare la dormiveglia, che gli si era appiccicata addosso.

Quaicc!...

Ad Ortensia venne il fulmineo raccapriccio di avere schiacciato qualche
lordura molle, se non che uno strillo di bestia, che vuol mordere e
spira, la fece avvertita di avere sfracellato il povero _Come te_,
il quale pareva addirittura squagliato e attaccato al pavimento
come un sacchetto di songia. Staccatolo dalla lastra e levatolo per
uno zampino, ancora caldo, la vecchia avrebbe voluto risuscitarlo
medicandolo con la sciliva; quando si spalanca il rastrello e si
annunzia con una sonora rastrellata la signora Placida.

Vedere quello spettacolo, inveire come un’ossessa, arrotarsi come
un’asina, poi rivoltarsi come una vipera e vibrare una enorme ceffata
sulle guancie rosate di Ortensia, fu tutt’uno. Questa, che tutta
mortificata, con il cadavere di _Come te_ penzolante da due dita,
era disposta a domandarle scusa, — a quell’assalto divampò in tutta
la sua escandescenza di erbajuola, lanciò il defunto _Come te_ fra
i piedi della signora Placida, e piantò due pugni sui galloni in
minaccia formidabile. — Madama! Ah, Madama delle mie prime ciabatte!
(Le erbajuole, anche quando si prendono per i capelli non trascurano
di darsi della _madama_ e lo pretendono per sè stesse) — .... Madama
del latte d’oca e dell’anticristo!... Le mani addosso a me, le mani
addosso a me, che non ho paura nemmeno di un reggimento di dragoni! A
me che sono un trono di Dio! A me, che le rompo i denti, anche fosse un
croato, se non avessi paura di sporcarmi.... A me, che sono capace di
mangiarla in un boccone lei e i suoi undicimila cani!... Ah! Cane di un
Dio!... —

E s’avventa alla cuffia della signora Placida, la scrolla, la strappa.
La _Madre dei cani_ cerca di difendersi dando, come può, delle pugnate
sulla schiena grassa di Ortensia, che non patisce quelle piccolezze. I
capelli grigi delle due vecchie lucevano come fili di ferro elettrici.
Ne seguì una deplorevole colluttazione.

Carolina uscì strillando dal suo cancello e con lei il reggimento
dei cani superstiti, che si misero ad abbajare. Tutto il vicinato
si agglomerò di su e di giù pella scala, prendendo di mezzo le
combattenti.

— Ha ragione Ortensia.

— Ha torto madama!

— Ha torto il padrone di casa, che lascia nidiare tanti cani in questo
palazzo, che è sempre stato come si deve.

— Ha torto anche il questore. —

Il barbiere corse a prender un catino d’acqua per ismorzare le due
furie.

Patacciumm!

In questo punto comparve sulla scala Pinotto, che veniva di fuori.

— Per carità! Mamma, si rispetti, guardi come è bagnata.... Entri in
casa.... Venga con me....

— Anche tu, Pinotto.... Invece di far rispettare tua madre! Ma....
adesso non si può proprio pretendere più nulla nemmeno dai figliuoli.
Ah! L’ho sempre detto io, che non c’è più religione. Non si ascoltano
più i comandamenti di Dio....

— Per carità, mamma! Mi ascolti.... me. Si rispetti; non istanno bene
le piazzate. —

E facendole forza la trascinò in casa.

L’erbajuola, con le spalle fumanti, seguitata da un mormorio di
approvazione, risalì verso la sua soffitta, e appena fu nel suo quinto
cielo lanciò da basso un’ultima saetta partica: — Madama del mio
scaldaletto! (dandosi una patta di dietro). Madre dei cani! —

E la signora Placida di rimando, uscendo di nuovo dal cancello, con il
viso inferocito in su: — Madama di due quattrini in aria! Madama dei
cavoli marci! —

Gli astanti per una parte e Pinotto dall’altra impedirono ulteriori
battibecchi per quel giorno.

Il giorno seguente la signora Placida riceveva una citazione di
comparire davanti al Giudice Conciliatore, a fine di essere condannata
al pagamento a favore della istante Ortensia Mellario della somma
di lire trenta per _schiaffo ricevuto_; e contemporaneamente la
Ortensia Mellario era evocata a comparire alla stessa udienza dello
stesso Conciliatore per ivi vedersi condannata al pagamento a favore
dell’attrice signora Placida Panezio della proposta somma di lire cento
per _cane ucciso e varî effetti di vestiario manomessi_, il tutto con
gli interessi dalla giudiziale domanda, la protesta dei vacati e il
favore delle spese.

Da queste citazioni gemelle scaturirono tre lepidissime scene
giudiziarie, delle quali si potrebbe trarre moltissimo partito, se le
medesime non fossero già state sfruttate alla distesa nelle _Rassegne
dei tribunali_.

La prima scena ebbe luogo prima dell’udienza nell’anticamera del
Conciliatore; la seconda davanti il Conciliatore, che, riunite le
cause, si dichiarò incompetente per giudicare d’ambedue, nell’una
per ragione di _materia_ e nell’altra per ragione di _valore_; la
terza infine, la più violenta di tutte, capitò dopo l’udienza in via
delle Finanze; mancomale in tutte e tre il dignitoso appellativo di
_madama_ fu sempre accompagnato dagli epiteti _meno lusinghieri e meno
parlamentari_, come si espressero i gazzettinisti. Le due litiganti,
dopo le più scandalose _madamate_, si staccarono più accanite di prima:
e pure terminarono il loro diverbio all’unissono, brontolando tutte
e due la stessa sentenza votiva, cioè _che il cielo fulminasse quella
giustizia di Pilato!_


XII.

Questo stato di cose canino era oramai insopportabile per Pinotto, il
quale, a forza di pensarci su, finì per accettare _un’idea luminosa_,
che gli era apparita nel cervello per suggestione del suo antico
compagno di scuola Aurelio Auricola, allora sostituito procuratore non
del Re, ma del Causidico Capo Barattini.

Pinotto era maggiore di età, quindi aveva diritto di entrare nel pieno
possesso della eredità intestata morendo dismessagli dal fu suo padre,
salva la porzione legale di usufrutto materno, e salva la legittima del
sesto spettante a sua sorella secondo il Codice Albertino, sotto il cui
impero il _de cujus_ erasi reso defunto.

Aurelio s’incaricò egli stesso di consultare i notai, gli uffici di
registro e le ipoteche, e dopo queste ricerche venne a dirgli che
poteva pertoccargli subito in sua parte dispotica una ottantina di
migliaia di lire.

Fu un lecchetto irresistibile per Pinotto, interrotto da qualche
amarezza di rimorsi preventivi, a dileguare i quali il sostituito
procuratore si offerse di fare tutto lui. Infatti, mentre Pinotto andò
di nuovo in campagna dall’amico Edoardo, lasciava la sua procura ad
Auricola; e questi cominciò a scrivere una lettera gentile alla signora
Placida, poi si recò a visitarla personalmente, ma inutilmente; infine
concluse: se la signora Placida è dura, con una piccola citazione, la
faremo venir tenera.

Appena ricevute le _copie_, la signora Placida andò su tutte le furie,
poi si recò a prendere un consulto da un avvocato classico, non che
da un ex-cancelliere, suo conoscente e dal suo confessore teologo
avvocato Sturlimandi; e avuta da tutti la risposta, che pur troppo suo
figlio era assistito in diritto, sborsò ad Aurelio le ottantamila lire,
dicendo però a lui e ripetendo a tutti i conoscenti, ch’essa aveva
perduto suo figlio.

Pinotto, avuto nelle mani quel marsupio, cominciò a lasciarne un
buono strappo ad Aurelio, dichiarandogli la propria ammirazione,
assicurandolo ch’era addirittura un grand’uomo e nominandolo suo
ministro di grazia e giustizia; quindi prima di partire da Torino, per
isgombrare subito tutti gli scrupoli possibili ed immaginabili dalla
nuova strada trionfale, che gli si apriva dinanzi, cominciò con una
solenne birboneria. Invitò tutti i suoi numerosi amici e con maggior
contentezza e preferenza di cuore i nemici ad _un’orgia_, come diceva
testualmente il biglietto d’invito.

Intervennero alla medesima, oltre moltissimi giovanotti, alcuni
personaggi maturi e rispettabili, e trovarono alcune giovani persone
di sesso diverso, vestite con molto sfarzo ed eleganza, ma molto meno
rispettabili dei predetti.

Venne invitato anche Aurelio Auricola, a cui non pareva vero di dover
pigliare parte a quel finimondo di baldoria, egli che non aveva ancora
mai speso più di 15 centesimi in un colpo per i suoi minuti piaceri e
che un sigaro da un soldo lo faceva durare per un’intiera settimana,
usando spegnerlo dopo due o tre boccate e quindi avvilupparlo in
un cartoccio di gazzetta o in una scatoletta di lamiera vuota di
fiammiferi.

Aurelio intervenne con un vestito da sacrestano e con un cilindro
ammaccato da fiaccherajo, che furono il tema di parecchie risate in
tutta la notte.

Alle due del mattino, Pinotto, tenendo un mantile sulle spalle, come
fosse un manto, reggendo tragicamente un candeliere con una mano e
portando un inaffiatojo in testa, declamava il monologo di Amleto:
_Essere o non essere_.

Una di quelle signore pochissimo rispettabili si proponeva di andare al
Veglione dello Scribe a cavallo di un asino. Parecchi invitati di ambo
i sessi ballavano sotto la tavola.

Un avvocatino, supino per terra e con un imbuto in bocca, si faceva
versare dentro del vino, come lui fosse un bottale. Aurelio guardando
attorno, che nessuno lo guardasse, rimpinzava di confetti le lunghe
saccocce di dietro dal suo frac da sacrista.

Passata una settimana giusta da quella nottolata, gli invitati, senza
sapere l’uno dell’altro, si recarono poi tutti a farsi visitare da
un medico famoso e convennero tutti nel giurare che quel birbante di
Pinotto lo aveva fatto apposta.... a lasciare loro quel brutto ricordo.


XIII.

Che cosa faccia un giovinotto di ingegno cervellotico, mezzo artista,
a ventidue anni, libero di sè, avendo a sua disposizione qualche decina
di migliaja di lire, senza un affetto e senza un impegno di famiglia, è
presto detto.

Compera intiere biblioteche di libri nuovi: tutta la raccolta del Le
Monnier, quelle della Tipografia Editrice Lombarda, tutti i Barbera e
la cassetta dei Barberini, tutte le fodere rosse del Silvestri, tutti
i classici latini pubblicati dal Boucheron, tutti gli Economisti di
Pomba e tutta l’edizione definitiva delle opere di Balzac. Gli sembra
di dovere nello spazio di due minuti secondi sprofondarsi in tutti
gli abissi della scienza e poi sbadiglia, tagliando i fogli a qualche
fascicolo.

Si diverte a far correre una rozza da nolo, come fosse un cavallo da
corsa conquistatore di bandiere; gongola dei suoi affanni e delle sue
spossatezze come di cose artistiche; e la finisce con una pistolettata
per fare un’opera di misericordia, e per godere i tratti scultorii di
una _morte equestre_.

Compera uno struzzo e una bestia feroce per ispaventare gli amici e
per imitare Alfonso Karr; e poi vende le sue rarità zoologiche ad un
macellajo.

Viaggia di qua e di là senza costrutto.

Affitta al piano nobile un alloggio mobigliato elegantissimamente, da
prima ballerina; e poi affitta magari contemporaneamente uno stabbio ad
un quinto piano.

Piglia una sedia chiusa al teatro nelle sere preziosissime, in cui c’è
la prima rappresentazione di un capolavoro sospetto o in cui recita
un artista celebre di passaggio, come Rossi o la Ristori; ed egli,
appena sentita la musica di introduzione, che nei teatri di commedia è
quasi sempre orribile, esce fuori e lascia il suo seggiolone vuoto, che
sembra aspetti qualche principe di Carignano; e non si degna nemmanco
di sentire un’acca della nuova _produzione_ o di vedere il naso
celebre, che tutti gli altri pigiati, con la lingua fuori dei denti e
lo stomaco rotto, anelano d’applaudire.

Egli disprezza tutti: i moscardini come asini e gli studiosi come
pezzenti.

Veste come marchesini i figliuoli del portinajo, che prima andavano
strappati e scalzi.

È ricevuto, come uno dei primi nel gran mondo, perchè porta le migliaja
di lire in palma di mano e le spende con una prodezza e una freddezza
da disgradarne Rodschild; ed è ricevuto come uno dei primi nel mondo
letterario, perchè egli ha sempre un capolavoro inedito, che nessuno
non ha ancora potuto criticare, perchè nessuno non ne ha ancora letto
una riga.

Pare che gli passino rasenti le cariche di ministro e di ambasciatore e
ch’egli sbadigli loro dietro.

Egli commisera cordialmente i suoi compagni che mettono su studio o
accettano un impiego e dice con sicurezza, che nei nostri tempi un
giovane d’ingegno non ha più bisogno d’inebetirsi per non morire di
fame, perchè ci sono tanti concorsi di cattedre, premi, ecc.

Intanto egli, vedendosi assottigliare velocemente il proprio peculio,
pensa vagamente a qualche rinfranco straordinario. Veramente egli non
ha ancora tutti i comodi per degnarsi di diventare un grand’uomo;
ma pure deve spicciarsi per quella materialità del mangiare bene e
del vestire meglio. Il bisogno epicureo di fare il signore vieppiù
gli si avvicina; e i grandi posti vieppiù si allontanano da lui, si
allontanano....

Ma, neppure vedendosi crescere la marea delle necessità, egli non sa
adattarsi a disegni modesti.


XIV.

Pinotto ritornò presto a Torino.

Quivi un giorno, andando a passeggio con l’amico Edoardo il quale gli
manifestava il disegno di diventare uno dei primi avvocati in una città
di provincia, egli lo condusse sopra un colle, come fece il diavolo con
Gesù Cristo, e gli disse: — Tu tiri di conquistar Verona o Vercelli, ma
io appena mi accontento di conquistare il mondo. —

Ciò detto, si calzò due guanti di color grigio perlato, a doppia
cucitura e a doppia bottoniera, e si diede una stiratina ai baffi,
quasi ciò gli bastasse per prendere il genere umano di sottogamba.

Risoltosi al fine a fare qualche cosa, mandò un suo imparaticcio a una
Accademia o a una Giunta incaricata di dare un premio alla migliore
commedia o alla migliore monografia sui Giurati o sui Zampognari in
Italia. Il premio egli non lo buscò a quel concorso; anzi a tempo
debito, il suo manoscritto gli venne restituito indietro ancora
_intonso_, come egli potè materialmente assicurarsi, verificando
tuttavia attaccati insieme gli orli di due pagine, che egli aveva
appositamente ingommate per conoscere, se i giudici leggevano o non
leggevano i lavori, che dovevano giudicare.

Adunque gli accademici non si erano nemmanco degnati di aprire il suo
volume; ebbene lo rileggerà egli tante volte, quante bastino alla brama
insaziata di un autore inedito. Dio mio! Egli non potè procedere oltre
alla prima pagina, perchè quella roba gli faceva venire i crampi allo
stomaco. Gli sembrò la prosa più abbominevole, che si fosse mai buttata
giù in questo mondo letterario. Allora, come un pazzo furioso, si mise
a stracciare il suo lavoro; stracciatolo, lo calpestò; calpestatolo ben
bene, ne pose in fuga i laceri pezzettini, anche quelli, che aderivano
al pavimento; li scopò via tutti fuori del balcone; e quando li vide
mulinare giù per l’aria, li maledisse ancora una volta, sputando loro
contro.

Uscito a fare una corsa per la città, voltandosi attorno, gli parve
di accorgersi per la prima volta, che a Torino c’erano dei giovani,
che studiavano e sapevano qualche cosa e che pubblicavano dei buoni
componimenti in italiano e delle rispettabili traduzioni dal greco,
dall’inglese e dal tedesco. Ed egli con tutte le sue pretese non sapeva
ancora niente di tedesco, poco di inglese e di greco, e pochissimo di
italiano. Lo assalse la vergogna e gli sopravvenne la fulminea idea
di presentarsi al Circolo Filologico e di inscriversi a tutti i corsi,
compreso il siriaco, se c’era, e non escluso il latino per le signore.
Così fece; e in poco tempo, riempiendo di coniugazioni i cartolari,
destò l’ammirazione nei professori.

Fece di più. In quel tempo, oltre al Circolo Filologico, fioriva
in Torino una Società Letteraria, intitolata la _Dante Alighieri_,
la quale si meritò forse qualche cosa di più che le quattro righe
di questo racconto. Essa si radunava ogni domenica nell’anfiteatro
chimico detto di S. Francesco di Paola e precisamente nello stesso
luogo, in cui, quarant’anni prima, il gesuita padre Manera aveva
aperto la sua cavallerizza letteraria, alla quale avevano preso parte
Angelo Brofferio e Carlo Marenco. Allora il padre maestro baciava
gesuiticamente i versi di Dante, prima di spiegarli, e metteva
blandamente le mani sulle spalle ai giovani per incoraggiarli.
Quarant’anni dopo, oh! non più gesuiti!

Quarant’anni dopo, componevano la Società alcuni giovani liberi come
l’aria e freschi come un buon mattino, i quali sentivano la forza
irresistibile di fare tosto vedere pubblicamente le loro prodezze
letterarie. Essi declamavano senza paura di blandizie lojolesche o
di nottate al palazzo Madama, declamavano la loro brava opinione
sull’ultimo problema scientifico, sull’ultimo libro, sull’ultima
canzonatura, sull’ultima immortalità dell’anima, sull’ultima
immortalità della materia o sull’ultima neve caduta. Il loro pubblico
erano gli ex-compagni di corso, gli studenti loro immediati successori
nell’università o nel liceo, le signorine sorelle o cugine, le signore
dilettanti di letteratura e dei grandi processi alla Corte di Assise,
professori giubilati, e gli altri abbonati ad ogni spettacolo gratuito.

Una volta all’anno poi essi davano una festa solenne con l’intervento
delle autorità municipali, politiche ed accademiche e della musica
della Guardia Nazionale, — e per una di queste feste fecero persino
coniare una medaglia commemorativa, come quella dei carnevali di
Gianduja.

Nella Dante c’era Edoardo, il quale fece presto tutto il possibile per
trascinarvi anche l’amico, il neo-filologo Pinotto.

Ma Pinotto era riluttante a entrare in quella Società; perchè,
egli diceva, che le società letterarie erano tutte società di mutua
ammirazione. Pure in un giorno di festa solenne, per accontentare
Edoardo, che vi dava la sua beneficiata, egli pose il piede nella
Dante. Ebbene, fu addirittura commosso nel vedere, anche solamente
come spettacolo d’una volta all’anno, il Sindaco della Illustrissima
Città del Toro, messosi in coda di rondine per la letteratura; nel
vedere belle signore e bellissime signorine abbigliate festosamente
per la letteratura, e l’incisore Thermignon avere coniata una medaglia
per la letteratura, e tutto quel caleidoscopio di pubblico essersi
assiepato circolarmente in anfiteatro per la letteratura; in cima al
quale pubblico parevano stampati come re da tarocchi due marescialloni
dei RR. Carabinieri, invitati da un socio maestro della Cittadella, —
con il loro pennacchione nuovo e i loro bottoni e cordoni lucentissimi,
anche essi per la letteratura....

Gli vennero poi i battiti al cuore, quando vide farsi innanzi
nell’emiciclo, davanti a quel pubblico, l’amico, quasi fratello
Edoardo, con gli occhi brillanti di ardimento, con la testa balda e
scarmigliata, con la voce potente di metallo giovanile, e sciorinare
su quel pubblico un discorsetto ameno e piccante alla Paolo Courier,
facendo ridere beatamente i carabinieri e i professori, facendo
piangere le signore e le signorine, facendo fremere i giovani
bollenti Achilli e facendo saltare sulle sedie i fanatici compagni
e ammiratori; — e quando Edoardo ebbe finito lo _spéech_, sollevarsi
una selva di applausi, contra cui non valsero nulla i tromboni della
Guardia Nazionale; e il Sindaco e il Rettore dell’Università alzarsi e
stringergli la mano....

Pinotto precipitò anche lui sopra Edoardo; e questi gli domandò
affannosamente: — Ebbene?

— Mica male.... Ih! acqua, che non macchia.... — gli rispose ridendo,
e poi gli diede lo scoppio di un bacio, come il più franco conforto ed
elogio di amico e di fratello.

Quello spettacolo di godimento letterario e di amicizia fraterna tirò
definitivamente Pinotto nella Dante.

Quei giovani soci erano quasi tutti fatti alla buona e senza verun
sussiego, quantunque molti di loro fossero prossimi a divenire o già
fossero bravi e rinomati ingegneri, o medici, od avvocati, dottori di
collegio, o professori di Università o di Liceo, consiglieri comunali o
provinciali, capitani di cavalleria o di guardia nazionale. Benchè poi
si radunassero in sedute letterarie, essi non pensavano mai, anzi non
sospettavano neppure di essere accademici; tanto che un giorno, avendo
un egregio letterato maturo mescolatosi con loro, detto: _l’accademia
non è in numer_o, risero tutti sotto i baffi, che avevano o non
avevano.

Essi pensavano proprio soltanto a sfogare i loro umori letterari,
arricchendosi e rimpolpandosi intellettualmente nel commercio
disinteressato dei compagni e massime del pubblico; amavano proprio
di cuore l’arte per l’arte; quindi davano magnificamente nel genio
artistico, zingaresco, spigliatissimo di Pinotto; e si incontravano con
il suo baco fanciullesco di letteratura inedita. Perciò egli non ebbe
veruna difficoltà a divenire in poco tempo tutta cosa della Dante.


XV.

Anzi, egli potè riuscire presto il carattere più spiccato di quella
baraonda letteraria, che fu poi scherzosamente chiamata la _Giovane
letteratura torinese_.

Egli però non disse mai una parola nelle sedute pubbliche della Società
e ciò per la sua ripugnanza superbissima verso il pubblico; ma, per
così dire, lavorò molto negli uffici; e di niun altro era tenuto
di conto il giudizio quanto di lui; tanto erano lucidi, taglienti,
diamantini i suoi concetti. Parecchi principianti d’allora, di cui
adesso si comprano i romanzi come il pane e si applaudiscono le
commedie, come trionfi, partivano dalle parti più discoste della città
per recarsi a leggergli i loro lavori.

La sua cameretta soprastante al giardino del Valentino, divenne un vero
nido di astore letterario. Era piena di aria, di luce, di frescura,
di paesaggio. Aveva tutti gli emblemi della scapigliatura artistica;
batterie di bottiglie dal collo inargentato o dorato, che mandavano
nimbi e fosforescenze; sfilate di volumi eleganti sul camino, sul
davanzale della finestra, per terra.

Il banco del giovane posava le sue quattro gambe sui quattro volumi
dei satirici italiani. Egli intronizzato nella sua seggiola, sembrava
Heine, sembrava Lucifero.

Abbatteva un uomo, un lavoro con una stretta di mano, con un elogio o
con un’arguzia.

Un giorno Edoardo, il quale studiava di proposito i codici e
frequentava assiduamente uno studio celebre di avvocato, facendo
tutti i giorni una difesa gratuita al Tribunale Militare o a quello
Correzionale, gli lesse un suo lavoro letterario sopra Ugo Foscolo.

Pinotto, dopo averlo sentito attentamente, pur fabbricando delle
spagnolette, — gli disse sul serio: — Bravo! Mi rallegro.... Tu cominci
a diventar asino. Ciò mi fa piacere, perchè ti farà del bene per la tua
carriera e pei tuoi figli, quando ne avrai.... —

Al solito suo genio della beffa egli aveva unito un nuovissimo
entusiasmo artistico; pareva si movesse alla conquista dell’arte con un
lusso asiatico.

Per riuscire artista, egli soleva ripetere: bisogna anzitutto conoscere
la vita reale; — e la società egli seguitava a conoscerla largamente,
intensamente, lui sempre piacente, bizzarro, spiritoso, spenditore, —
che danzava e cavalcava benissimo, lui, quando lo voleva, attillato,
cesellato, irreprensibile in guanti, speroni e frustino.

Poi soggiungeva: bisogna conoscere la vita ideale. Ed egli conobbe
singolarmente le letterature classiche, e si fece presentare a quelle
forestiere e alla scienza; tanto che si trovavano mescolati ed aperti
sul suo tavolo Bastiat, Anton Francesco Grazzini detto il _Lasca_,
Shakespeare, Thiers, Aristofane, Mazzini, D’Azeglio, Augier, Giusti,
Moleschott, Plauto, Darwin e Schiller.

Dopo essersi arroventato con Vittor Hugo, egli era capacissimo di
pigliare una doccia ghiacciata nelle commedie di Gian Maria Cecchi.

Studiava giorno e notte in letture faticosissime. Le sue occhiaje nere
e le sue palpebre orlate di rosso accusavano veglie straordinarie. Per
rinvigorirsi fisicamente e intellettualmente, mise due assicelle sul
materasso del letto.

Volle anche combinare l’eroismo con l’arte. Fece la campagna dei Vosgi,
battendosi molto bene. Partì per la guerra, senza dir niente a nessuno,
e ritornato non sofferse mai che glie ne parlassero. Solo un giorno
discorrendo di soldati _mobilotti_ in un pantano, li descrisse come si
fosse trattato di anitre selvatiche o di beccaccini.

Oltre a ciò prese a dilettarsi di musica, ricavando nervosamente
armonie sul pianoforte, e si sbizzarrì in nuovi viaggi scomparendo
dalla tribù degli amici, senza lasciar loro il proprio ricapito.

Le sue elemosine divennero sempre più da cardinal Borromeo.

Così rinfrancandosi d’ingegno, di lavoro, di buona volontà, di studi,
di vedute e di salute fisica e morale, egli lavorò secretamente intorno
a un suo romanzo, di cui gli amici odoravano meraviglie.

Un fratello ne parlò alla sorella, la sorella a tutte le amiche del
collegio; queste al direttore spirituale; il direttore spirituale
all’economo, l’economo al negoziante, gli altri parenti agli amici,
gli altri amici ai parenti, ecc., ecc. Fatto sta ed è, che poco per
volta si diffuse per Torino, quasi direi, una irradiazione del nome di
Giuseppe Panezio, e una calorosa aspettazione del suo capolavoro.

Edoardo, che più degli altri era dentro alle secrete cose di Pinotto,
ebbe la singolare ventura di adocchiare l’epigrafe tolta a Coppée, che
stava sul manoscritto del celebre romanzo in erba:

    _Pauvre mère! Pardonne-moi_
    _Et d’être malade et d’écrire._

Ne fu commosso, e non si potè rattenere dal correre dalla signora
Placida e dirle affannosamente, che richiamasse tosto suo figlio
per dargli un bacio, perchè Pinotto si faceva onore nella _Dante
Alighieri_, si faceva onore presso tutti gli amici letterati, si
sarebbe fatto onore nel mondo e sarebbe divenuto sicuramente un
grand’uomo per tutti e un grande figliuolo per lei.

La _Madre dei cani_ a tutta quella lirica di amicizia rispose molto
prosaicamente: — Ah! la Dante Alighieri! la Dante Alighieri! Ecco
quella che rovina i figli di famiglia.... la Dante non da.... del pane
(_in musica_). —

Il bisticcio materno della _Dante che non dava_, riferito da Edoardo a
qualche amico, e da costui ad un’altro pervenne eziandio alle orecchie
di Pinotto, che partì incontanente da Torino.

Si diceva che egli era ritornato in Toscana per rinforzarsi vieppiù
nell’uso del linguaggio schietto e vivo di quella gente benedetta.

Invece, altro che Toscana! — Di lì a poco tempo si sparse la voce
dapprima vaga e poi certa che quel giovane, il quale sembrava marciare
verso un avvenire di una saldezza adamantina, avea per lo contrario
liquefatte quasi intieramente le sue sostanze nella sua preparazione
artistica, si era tuffato nel commercio a Genova e poi era partito per
l’America.


XVI.

In effetto, parecchi mesi dopo, Pinotto ritornò dall’America
tranquillo, come se tornasse da Cavoretto, raccontando di aver fatto
l’ostetrico sopra un bastimento a vela, aver portato con le sue
braccia damigiane di petrolio, ricevute mance da facchino e accordato
pianoforti a Buenos Ayres; e nel ritorno essersi pubblicato inutilmente
disponibile sulle tabelle della Borsa a Marsiglia. Aggiungeva
allegramente avere ottenuto dalla cortesia di un macchinista il favore
di abbruciare i suoi manoscritti letterari, i suoi lunghi studi nel
fornello di una locomotiva a vapore.

D’allora in poi egli vagolò in campagna, a Torino, a Genova e a Firenze.

Però fino a quel tempo la sua fierezza artistica non aveva dovuto
piegarsi per domandare mercè a chicchessia. E poteva tuttavia farne
senza.

Imperocchè, quando aveva ricevuto le ottantamila lire in un picchio,
egli ne aveva investito qua e là bizzarramente alcune parti; per
esempio 10 lire in una cassa di risparmio; 200 in un’altra; magari
soltanto una lira in una terza, tanto per incomodare un impiegato a
scrivergli il libretto; 100 lire in conto corrente al Banco Sconto
e Sete; 500 lire in una azione della Banca Indo-Germanica; 5000 in
rendita turca, ecc.

Ora razzolando negli angoli del baule, gli fiorivano tra le mani quei
titoli provvidenziali, e gli fecero buon prò anche quelli rinviliti
dell’ottanta e più per cento.

Infatti un’azione dell’Indo-Germanica fu sufficiente a pagargli le
uova per un giorno intiero e una cartella del prestito turco bastò a
procurargli gli zolfini; onde egli coniò il proverbio _meglio serbar in
turco, che sprecare in italiano._

Ma questi rinfranchi gli si andavano terribilmente assottigliando
di giorno in giorno. Onde, molte volte, seduto al tavolino marmoreo
di un caffè, davanti a due uova affrittellate miseramente le quali
scoppiettavano schizzi rabbiosi per carestia di burro e si attaccavano
tenacemente abbrustolite al fondo del tegame, molte volte egli esclamò,
mezzo liricamente e mezzo elegiacamente: — vorrei che queste due uova
mi durassero una eternità! — E volgendo gli occhi in su ne gustava il
sapore, in modo da impietosire chicchessia ad eccezione di lui.

Molte volte egli, che nei suoi tempi felici aveva esibito agli altri
il suo portamonete a chius’occhi, con quella noncuranza cortese e
signorile, che non hanno nemmeno i milionari, quando offrono l’astuccio
dei sigari, — si trovò coartato a scomporre mentalmente un soldo e a
destinarne le preziose particole nel suo specchietto giornaliero: tanti
centesimi per i fiammiferi e tanti per la pattona.


XVII.

Egli prediligeva il soggiorno di Firenze per la compagnia dei fratelli
della Misericordia, la cui instituzione egli da un pezzo considerava
come un capitale, che avesse nello scrigno, in mancanza del capitale
_assistenza materna._

Ma, per fare maggiore economia, abbandonò Firenze e andò a stabilirsi
in una piccolissima città di provincia, dove era affatto sconosciuto.
Quivi si diede addirittura alla dieta dei grandi uomini in erba:
pane, acqua e formaggio; e cominciò un nuovo romanzo, rifusione più
netta e più grandiosa del primo. Così viveva assai strettamente, ma
serenamente, quando un giorno egli cascò ammalato.

Era una grave malattia di _peccati vecchi, penitenza nuova;_ per cui
fu portato allo Spedale; e poco mancò non gli si dovesse amputare una
gamba. Tre dottori stavano per l’operazione; uno solo contro e vinse.
L’averlo potuto guarire, salvandogli quell’estremità combattuta, fu
una vera gloria per il medico, che glie l’aveva difesa a viso aperto;
onde la storia clinica del caso interessante venne narrata distesamente
nel _Morgagni_, rinomata Rivista di Medicina e Chirurgia, adoperandosi
mancomale le sole iniziali dell’ammalato.

In questo frattempo Pinotto, avendo fatto scrivere dal medico, suo
Farinata ed istoriografo, avendo fatto scrivere a casa, che egli era
all’Ospedale, si teneva sicuro che sua madre e sua sorella sarebbero
venute a trovarlo; anzi si rammaricava acerbamente per aver potuto un
sol giorno preferire nel proprio cuore la Misericordia di Firenze alla
sua famiglia. Invece esse si fecero vive, ma non già rispondendo al
dottore; bensì fecero scrivere dal Teologo al cappellano dell’Ospedale,
raccomandandogli vivamente Pinotto, però esclusivamente per le cose
dell’anima. Del resto esse accusavano un raffreddore; per il quale non
potevano muoversi. Nè mandarono verun soccorso.

È facile il capire, come questa razza di sollecitudine per parte della
madre e della sorella, facesse digrignare a Pinotto non solo i denti,
ma l’anima.

Egli uscì dall’Ospedale con un appetito da convalescente, ed entrò
in un caffè. Ora, per combinazione, la prima cosa che lo colpì, fu,
a farlo apposta, la vista di una vecchia signora, rassomigliante un
po’ a sua madre, che dava a leccare sucidamente lo scodellino alla
sua cagnetta. Ciò fini per rovinargli completamente ogni programma di
economia e di buona condotta, se aveva bisogno ancora che questo gli
fosse rovinato.

— Dio santo! — egli esclamò: — Ci sono tanti e poi tanti poveri
cristiani, che non prendono mai e poi mai il caffè.... Ci sono degli
ammalati che ne mancano.... Io stesso, prima di andare all’Ospedale,
sono stato cinque mesi senza assaggiare più il caffè, io.... io....
chè pure mi piace tanto; e credo di avere maggiori diritti di un Glafir
qualsiasi, ai godimenti del mondo.

Ebbene! allora gli parve di avere il diritto preciso, sovrano,
fulmineo, incontrastabile, e imperscrittibile di esigere dalla Società
ogni giorno una costoletta pepata, una caciuolata con i tartufi, e una
bottiglietta di barolo per colazione, con l’intiera bottiglia per il
pranzo oltre al caffè e sopracaffè a semplice richiesta. Quindi, forte
del suo diritto, si mise a spedire lettere circolari, che domandavano
cento lire in prestito ai membri, che per lui rappresentavano la
società sua debitrice, cioè ai suoi parenti ricchi e ai suoi compagni
d’ozio, di crapula o di letteratura edita ed inedita. Non gli passò
nemmanco per la mente di rivolgersi a sua madre, perchè la riteneva
cosa inutile dopo il contegno da lei tenuto in occasione della sua
malattia all’Ospedale.


XVIII.

Uno degli zii gli rispose, che in seguito alle inondazioni del Po
gli erano caduti 3 mulini, per cui doveva farli rifabbricare ed era
dolentissimo di non poterlo sovvenire di un centesimo. Un altro zio
incominciava la lettera con mille imprecazioni contro al governo;
diceva che i bachi da seta erano andati male, la canapa malissimo e
che ciò nonostante quegli asini, mangioni ed assassini di ministri,
lo costringevano ad anticipare la imposta fondiaria, per cui era egli
stesso nella necessità di ricorrere al credito.

Un cugino gli rispose: «Se tu mi avessi scritto un giorno prima, non
cento lire, ma te ne avrei mandate mille; imperocchè tenevo disponibile
un capitale di diecimila lire, di cui ti avrei volentierissimo
accomodato. Ma stufo di tenere quella piccola somma oziosa, non potei
resistere alla tentazione di investirla nella compera di una casetta;
un cattivo contratto, mio caro cugino! Pensa: diecimila lire in
contanti nel rogito, e poi altre 10 mila da sborsare fra tre anni....
E poi gli emolumenti del notajo e del Registro, senza contare le
riparazioni ordinarie e straordinarie e la tassa sui fabbricati....
Caro Giuseppe, ti assicuro che ho le mani nei capelli, tanto sono
imbrogliato. Oh quanto avrei avuto più caro di prestare tutte a te le
diecimila lire!... Ah, perchè non mi hai scritto prima? Perchè?...»

Gli amici gli risposero niente, ad eccezione di Edoardo e di Aurelio
Auricola.

Il primo, avendo guadagnato cento lire in un concorso pubblicato
da un giornale giuridico, ne mandò cinquanta a Pinotto, pensando
semplicemente che era meglio darle a un amico, che ad un’amica.

Il secondo gli mandò una lettera untuosa, scritta sopra un mezzo foglio
spiegazzato dentro una busta storta, di quelle che fabbricava lui con
gli antichi _atti_ dell’ufficio. Il machione aveva preteso fare dello
spirito. Infatti cominciava con tanto di _Sire!_ ricordava al Sovrano
la propria nomina a suo _Ministro di Grazia e Giustizia_, quindi veniva
_con fede degli opportuni ricapiti_ a supplicare la Maestà Sua a voler
avere ad ogni cosa l’opportuno riguardo; onde conchiudeva, che se il
monarca, dato evacuo a tutti gli incumbenti che del caso, non poteva
prestare a lui ministro Guardasigilli la cauzione per mettere su un
ufficio nuovo, gli mandasse per lo meno duecento lire, come voleva la
_Grazia_ e non ricusava _Giustizia_, acciocchè egli potesse vestirsi
bene e così ottenere finalmente la desiata mano della figliuola unica
del suo principale Barattini, facile apportatrice della desiatissima
_procura_ in suo capo.

Sopra queste risposte e non risposte Pinotto fece le seguenti
considerazioni filosofiche: — Belle combinazioni! I fiumi straripano,
i bachi da seta e la canapa intristiscono, il Governo pretende
l’anticipazione delle imposte, un cugino si rovina con uno scellerato
carrozzino, gli amici perdono l’uso della parola, o falliscono del
cinquanta per cento, o peggio ancora i cretini imparano a fare dello
spirito chiedendo il doppio di ciò che devono dare, tutto questo per
impedire a me Giuseppe Panezio la possibilità, che hanno tutti gli
straccioni di raggranellare la somma di cento lire rotonde. —

Quindi conchiuse: — La carta non diventa rossa, ma la epidermide della
faccia umana, sì! Il silenzio è d’oro; ma la parola è di diamante.
Andrò io a prendere di fronte questi parenti delle inondazioni e questi
amici mutoli, a cui regalerò un francobollo per vergognarli di non
avermi risposto. E vorrò vedere, se a quattr’occhi oseranno negarmi
qualche miserabile biglietto di banca. Voglio vedere, se potranno dirmi
di no, quelli specialmente che mi hanno aiutato a mangiare migliaja di
lire in cene, sovvenzioni, sigari, _et reliqua!_... Voglio vederli a
dirmi di no! —


XIX.

Piombò, come un agente fiscale, fra lo stuolo degli amici e dei
parenti, e fece un abbondante bottino, però rilevando questo. La gente
più lo credeva tuttavia ricco e capace di dare mance vistose alle
serve, più gli dava volontieri da pranzo, restando persino di buon
umore, se egli, uso alle taverne e senza veruna scuola di famiglia,
faceva scricchiolare maledettamente le sedie e minacciava di romperle
ad ogni movimento. Ma, come si accorgevano, che egli aveva veramente
bisogno di soccorso, tutti si imbrunivano e si inacidivano a vederlo
comparire, e lo mortificavano con avvertimenti e con certe facce da
Ebreo Errante, appena avessero dovuto dargli semplicemente da sedere.

Egli segnò queste ed altre osservazioni sopra un taccuino, come
materiali di un altro suo capolavoro, destinato a non essere mai
pubblicato e intitolato: _Al Verde!_

Dapprima egli accettava i soccorsi e l’ospitalità altrui con
franchezza, perchè egli era sicuro di diventare, quando che fosse,
un milionario, un milionario, che avrebbe ammazzato i suoi pitocchi
soccorritori con una profusione di doni e avrebbe restituito con pranzi
all’albergo _Trombetta_ le braciòle casalinghe, che egli aveva mangiato
nelle famiglie altrui. Poi cominciò a pesargli il sospetto di essere
tenuto per uno scroccone, per un cavaliere del dente; in quei momenti
i denari degli amici gli bruciavano le mani, e gli facevano salire le
vampe alla faccia. Infine con il vigore del suo cervello sviato, riuscì
persino ad addomesticarsi baldamente a quella vita.

Un amico era tassato da lui per il caffè, un altro per i sigari, altri
per altro; ed egli viveva completamente alle spalle del prossimo, come
se fosse stato il Governo.

Ma un giorno, nell’avvicinarsi della fredda stagione, quando
ricevette da Edoardo un pastrano usato, divenne di nuovo superbo e
vergognosissimo, e disse amaramente a sè stesso: — Sono proprio un
accattone! — Però riprese subito nella vigoria del suo animo: — Sono un
accattone, ma mi infischio di tutti. —

E andò da due altri suoi amici a domandare a ciascuno di loro il
pastrano usato; così avutine tre, scappò a venderli nel Ghetto, per
comperarsene uno nuovo da Bocconi.

Intanto, per cessare quello stato di cose, cercava un impiego quale
si fosse e non lo trovava. Vedeva che riuscivano ad occuparsi
vantaggiosamente ufficiali e bassi ufficiali smessi, cantanti,
commedianti e suggeritori, i quali avevano perduto la voce, nobili
spiantati e stangati d’ogni estrazione e che ne erano pieni i
ministeri, i licei, e le fabbriche di bottoni e di zolfanelli; solo
egli non poteva scovare alcun posticino per sè. Tutti si schermivano
dall’aiutarlo, chi perchè si fidava poco della sua testa bizzarra, chi
perchè non osava metterlo in un ufficio troppo misero, e chi perchè
sentiva quella tendenza naturale di dare il tratto a chi rotola in giù.

Questi gli diceva: — Ah, se fosse ancora vivo il commendatore
Caramella! Egli era un uomo veramente _dalle braccia lunghe_, e
per far piacere a me e a mia moglie avrebbe fatto nominare vicario
generale della diocesi anche il vescovo dei frammassoni.... Ma quel
degno galantuomo, ah! proprio di quelli di una volta, ora non è più.
Mi rincresce, mi rincresce, caro mio, di non poterle essere utile
presentemente.... Ma, se fosse vivo il commendatore Caramella....
avrebbe visto.... —

Quegli gli rispondeva: — Peccato non ci sia più quella cara madama
Storione! Vieni qui, Enrichetta.... Puoi dirlo tu, mia cara figlia,
se quella buona signora non poteva quello che voleva. Ah! quanti
_emigrati_ abbiamo fatto impiegare da lei! Era così buona e ci voleva
tanto bene.... Ma ora quella brava signora anche essa se n’è andata....
Fanno tutte così le persone che sono utili al mondo e rimangono solo i
bisognosi.... Ah! buon signore, peccato che non ci sia più quella cara
nostra madama Storione! Ah! Madama Storione non faceva anticamera da
nessun ministro, oh no! no! —

Un terzo lo assicurava che avrebbe fatto moltissimo per lui, se non
fosse caduto il gabinetto antecedente.

Insomma il povero Pinotto era suffragato da una legione di
condizionali, di defunti o di cascati, e non era punto aiutato nei
bisogni presenti della sua vita.

Spinto dalla rabbia di questi smacchi, egli un giorno assaltò da sè
stesso per via un commendatore francese, gran sopracciò delle strade
ferrate, e gli disse: — Sono il tal dei tali, sono mezzo ingegnere,
ho mangiato ottantamila lire in pochi anni; ho conosciuto le signore
più belle ed eleganti della città, ed ora le domando un posto da
guardiasale in una delle tante sue stazioni. —

Il commendatore lo licenziò frettolosamente, sospettando di essere
stato abbordato da un borsajuolo o da un suicida futuro prossimo, e lo
invitò a recarsi l’indomani nel suo ufficio.

Portatosi puntualmente l’indomani alla Direzione delle ferrovie,
egli non ottenne di poter parlare col commendatore; ma parlò con un
vice-sostituto sottosegretario del medesimo, il quale gli mise sul naso
un paio d’occhiali spessi come due fette di salame. Pinotto ci vedeva
dentro come in un nebbione e _non altrimenti che per pelle talpe_;
quindi fu licenziato quale _inabile per vista corta._


XX.

Sconfitto da tutte le parti, non conoscendo più altro rifugio, egli
finalmente accondiscese alle istanze di Edoardo, che da più mesi lo
sollecitava a presentarsi da sua madre. Bisogna dire che egli salì
gli scalini materni, più per togliersi ogni appicco di biasimo davanti
all’amico, che per fondata speranza di riuscire nell’intento.

Fu breve e secco il colloquio fra madre e figlio. La signora Placida
diede un piccolo soprassalto, quando si vide dinanzi il suo Pinotto, ma
poi si rattenne e assunse il contegno più dignitoso, che possa assumere
una madama borghese, quando voglia dare una lezione di civiltà a una
odiata amica.

Lo condusse nella sala di ricevimento, e senza accennargli che si
sedesse, gli domandò: — Ebbene, che cosa si vuole da me? —

In quel punto fecero per entrare Carolina e i cani, ma la signora
Placida ordinò loro di ritornare premurosamente indietro, quasi essi
non dovessero onorare di loro presenza quel discolo. Quindi ripigliò: —
Ebbene che cosa si vuole da me?

— Signora madre.... Scusi del disturbo.... È una specie di ritorno del
_figliuol prodigo_. Ho già consumato le mie ottantamila lire, ed ora
vivo a spese degli amici, e cerco un impiego con il loro aiuto. Sono
venuto a vedere, se mia mamma alle volte avesse dispiacere che gli
amici prendessero il suo posto....

— No, no, no.... Io non voglio saperne di niente. Sta pure con gli
amici, facciano pure loro quello che vogliono, essi che ti avranno
aiutato a disperdere e divorare le sostanze guadagnate da tuo padre....
Io non ci entro per niente.... Ah, gli amici, gli amici!

— Allora.... — E fece a sua mamma un inchino. Questa gli rispose con un
cenno di testa pieno di dignità borghese.

Discendendo le scale, mentre gli si spezzava il cuore, il povero
giovane diceva: — E pure mia mamma non è cattiva! Non mi capisce, ma
non è cattiva.... —

Girando per la città, con la testa bassa, inciampò in quel rospo di
Aurelio Auricola.

— Ecco lì, — disse fra sè, — ecco lì sotto quell’untume da cappellano
e sotto quella fronte da cretino, ecco lì dove ci sono dei pozzi di
ricchezza mobile. E gli passò per il cervello la voglia di strangolarlo
e depredarlo; ma fu una voglia semplicemente ridicola; tanto è vero,
che lo fece ridere di cuore.

— Che cosa hai, Giuseppe, che ridi come un maniaco?

— Ho.... ho, che non ho nemmanco un soldo da far cantare un cieco....
E non so proprio più dove battere la testa. Guarda tu, che sei
procuratore, non potresti regalarmi un’azione di qualche compagnia
di ladri.... oppure indicarmi qualche posto vacante da assassino? Lo
accetterei e comincierei dallo svaligiare te.

— Grazie tante.... Hai voglia di scherzare?... — rispose Aurelio un po’
livido per un quissimile di paura. — Aspetta....

Ed accese il suo perpetuo mozzicone di sigaro.

— Aspetta.... Tu devi ancora avere la proprietà di ciò che tua madre
gode in usufrutto sulla eredità di tuo padre.... Vendi la _quarta
uxoria_ di tua madre.

— Sei un’aquila. —

Secondo il solito, il sostituito procuratore si incaricò egli stesso di
trovare lo strozzino e il notajo dello strozzino.

Alle cinque di un pomeriggio invernale, nello studio del commendatore
notajo Raffa, mentre la luce grigio-scura del giorno morente si
allontanava, e la raggiera gialla di una lucerna si allargava nello
spazio, dentro una mutezza strangolatrice, si sentiva saltellare ed
intaccare lo scricchiolío di una penna. Si rogava il contratto, per
cui Giuseppe Panezio vendeva il suo restante patrimonio usufruito
dalla madre, del valore approssimativo di lire trentamila al signor
Abraam Isacco X del fu Giacobbe, il quale, dopo essersi accertato della
età legale del venditore, mediante la produzione della costui fede
di nascita, gli concedeva in corrispettivo lire millecinquecento, di
cui cinquecento in contanti, cinquecento che si dichiaravano ricevute
prima del rogito e le altre cinquecento valutate in altrettanti effetti
di merce, fra cui alcuni elmi di cavalleria di antico modello e la
scrittura di un basso profondo, protestato da un teatro di provincia.

Mentre scricchiolava la penna del notajo, una ragazza bionda come una
stella attraversò lo studio sulla punta dei piedi.


XXI.

Intascate le cinquecento lire, pagato profumatamente il notajo, e
lasciati gli elmi ed il basso cantante a chi li voleva, senza dire ai
nè bai a nessuno, egli bruciò gli alloggiamenti, piantando lo stuolo
dei suoi amici patroni, i quali in generale si videro senza soverchio
rammarico cessare a un tratto l’obbligo delle rispettive quotidiane
contribuzioni al sostentamento del loro misero cliente.

Egli dilapidò quelle cinquecento lire proporzionatamente in fretta
quasi come le altre, tanto per allontanare da sè un senso di
maledizione materna; imperocchè ogni po’ un eco del freddo scricchiolío
della penna del notajo lo faceva rabbrividire.

Di lì a pochi mesi, dopo essersi presentato inutilmente a cento usci,
dopo essersi offerto agli uffici dei giornali, alla stenografia della
Camera, alle fabbriche dell’acqua gazosa e del gaz combustibile, dopo
aver giocato al lotto gli ultimi cavurrini, dopo di essere stato spinto
dalla necessità fino sulla porta delle parrocchie e delle sacrestie
e dopo avere inspirato a tutti un sentimento di ripulsione con la sua
aria di un Satana morto di fame, egli si trovava una sera d’estate a
Roma, seduto sopra un sasso, lungo uno stradone.

Si sentiva estenuato dal digiuno e rotolato giù agli ultimi scalini
della degradazione sociale, e si diceva amaramente nella sua anima: —
Possibile che nessuno voglia darmi da lavorare per vivere! Non domando
molto io.... domando da mangiare per vivere.... E mi sento capace di
fare qualsiasi cosa per guadagnarmi la pagnotta quotidiana, a cui ho
diritto, Dio Santo! se non è bugiardo il Paternostro.... Farei anche
il giornalista clericale o andrei anche ad ammazzare Bismark, se me lo
comandassero!...

Poi soggiunse: — No, no.... non mi sentirei mai capace di fare del
male, anche a costo di morire di fame.... —

La sua fisionomia era pressochè irriconoscibile.

Egli portava in testa un cappellone polveroso con la visiera dura
per le pioggie ricevute e lucida per l’unto che vi si era appastato.
Portava addosso un pastrano da inverno in immediato contatto con la
camicia che era dello scuro più laido; (essendo la divisa dei poveri
nel più caldo dell’estate il pastrano, che essi poi si affrettano a
consegnare al ghetto, appena si approssimi l’inverno), un pastrano
giallo come il mantello di certi cani levrieri, con istrappi ed altre
macchie indelebili. Aveva la barba lunga e squallida, le occhiaje
livide: era scarno come un crocifisso; aveva le unghie orlate di
velluto nero, come un prete del Porta.

Egli pensava con invidia alle turbe ricoverate negli ospizi di carità,
a quelle vecchie vestite tutte di un’uniforme rigatino, con il numero
di matricola per decorazione sul petto, — a quei vecchi colla blusina
azzurra e con il bastone legato per un cordoncino ad una manica, — a
tutti quei poveri rimbambiti, che nel tramonto della loro esistenza
possono ancora, grazie alla carità pubblica, risentire le gioie
infantili e collegiali, come quella di rubare un rociolo di zucchero
nella zuccheriera altrui o bere di straforo una tazza di caffè ed un
quintino di vino; — pensava agli ammalati menati agli ospedali sui
carrettoni duri e sussultanti pelle strade polverose e pensava ai
vagabondi, che viaggiano per mercè da Questura in Questura e da Sindaco
a Sindaco. Egli scopriva allora proprio nettamente una divisione
del mondo, a cui non aveva quasi mai pensato, quando conduceva vita
capricciosa, studiosa, operosa e beata, la grande divisione degli
uomini in gaudenti ed in pitocchi. Egli, più scannato di tutti,
apparteneva col corpo ai pitocchi e si sentiva ancora fitto fra i
gaudenti con i maggiori desideri dell’anima. Sopratutto lo rodeva il
grande martirio di non aver più nulla, proprio nulla, nulla, nulla; e
gli pareva l’ultima parola: nulla.


XXII.

Lo rasserenò il ricordo di una buffonata, con cui altre volte aveva
fatto ridere le brigate; ciò era la diceria, che si dessero da qualche
_Società Evangelica_ duecento lire ai cattolici che si facevano
protestanti. Allorchè nei suoi tempi migliori, egli perdeva tutti i
suoi denari al gioco, soleva dire giocondamente ai compagni che lo
avevano squattrinato: — Amici, aspettatemi! Vado a farmi protestante e
poi ritorno subito a farmi spennacchiare di nuovo da voi altri. —

Ora su quel sasso egli pensava: — Oh fosse davvero che si dessero
duecento lire a chi si fa protestante! Volerei subito... — E gli pareva
già di mangiare qualche cosa; ma ricadeva tosto spossato: — Ah forse
non è vero, non è vero!... e poi, quand’anche fosse vero, io benchè
morto in piedi, non mi sentirei il coraggio di cambiare per paga di
religione; e sì che sono quasi certo oramai di non averne più nessuna!
Siamo pure curiosi noi altri noi, della nostra specie. Vendiamo con
un enorme facilità, _spaventiamo_ via una casa, una tenuta, un intiero
patrimonio, che ci dava da vivere lautamente; e poi ci ripugna.... io
sento che per me sarebbe affatto impossibile vendere un mio pensiero,
un pezzo della mia supposta coscienza od anche un solo mio capriccio,
che pure non mi dà da mangiare una maledetta. Imbecille! Ho fame e....
credo nella immortalità dell’anima. —

In questo punto egli si senti raspare una scarpa da un colpo di lingua.
Era un cane che gliela leccava, un bel cane barbone, con i fiocchi
della sua lana bianchi di saponetta. Aveva l’aspetto signorile, e
la giubba come un leone da burla; era certamente un cane benestante
ed anche di buon cuore. Vi sono dei cani, che per un sentimento di
malintesa aristocrazia non possono vedere le persone malvestite,
si avventano contra loro con una furia di ringhi rabbiosi, vogliono
morderle, lacerarle, sbaragliarle; e vi sono per lo contrario altri
cani, che per un sentimento di filantropia, che li onora, se la dicono
bene con i poveri, con i fanciulli, con i vecchi, con tutti i deboli e
li proteggono. Tale era questo barbone.

Come si avvide, che Pinotto si era accorto di lui, esso si acculattò
per terra accomodandosi sulle gambe posteriori, e rimanendo ritto su
quelle davanti: figgeva benevolmente negli occhi smunti del giovane i
suoi occhioni pieni e lustri come un calcalettere di cristallo, umidi
come ostriche, ed oscillava la coda quasi per dirgli qualchecosa di
amichevole, e di consolante.

Poi levò in arco una delle sue gambe anteriori, come per proporgli con
quella zampata un patto di alleanza; e vedendo che ciò non gli bastava
a farsi capire, finì con il porgli il muso sulle ginocchia.

— Fido! Qua, Fido! Fido! Fido! Fido.... oh! Qua, qua!

Così, alla distanza di un tiro di pietra, chiamava il cane un
vecchietto con un berretto da militare, i baffi spessi e grigi, la
barba molticolore, fra cui alcuni cespugli di nero e alcuni zampilli di
bianco, — il frac nero abbottonato e i calzoni cilestrini con le bande
rosse. Vedendo che il cane non lo ubbidiva, si avvicinò egli al cane.

Allora Pinotto potè meglio adocchiarlo e lo raffigurò. Raffigurandolo,
sentì un’acre vergogna di essere alla sua volta riconosciuto da lui,
e poi si scopri da sè stesso alzandosi alla bracalona e lasciandosi
sfuggire automaticamente queste parole: _Il capitano!_

E questi di slancio: — Come? Possi....bile! sarebbe mai l’ingegnere
Panezio?... Ma sa, che mi ha fatto paura? Ma non ha sua madre,
lei?... —

Il giovane gli rispose con una indefinibile amarezza: — Mia madre non
è come la madre di Edoardo.... Adesso io non spero più in nessuno a
questo mondo.... —


XXIII.

Il Capitano salutato da Pinotto era un sergente giubilato, che i
compaesani avevano accresciuto di grado con il nomignolo appioppatogli.
Pinotto lo aveva conosciuto assai famigliarmente, molti anni prima
nella villa del suo amico Edoardo, dove il Capitano era un casigliano
amatissimo, come quegli che dirigeva la preparazione del majale,
l’imbottatura del vino e tutte le altre operazioni principali della
azienda domestica.

Avendo sposato una giovane ostessa, (come capita alla maggior parte
dei bassi ufficiali in ritiro) la quale gliene aveva fatte a piedi e a
cavallo, e secondo la sua espressione, lo aveva voluto _mangiar vivo_,
— egli scorrucciato aveva abbandonato il villaggio nativo e per la
protezione del suo antico colonnello aveva ottenuto un posto da usciere
in un ministero a Roma.

Il capitano dovette far violenza a Pinotto per indurlo a ritirarsi
con lui in città, e la violenza del padrone fu superata dalla violenza
del cane, il quale per far risolvere definitivamente il renitente, gli
abboccò i calzoni, ponzando per tirarselo dietro.

Strada facendo, l’usciere per distrarre il giovane disgraziato,
acciocchè non si avvedesse della commiserazione che destava, si fece a
raccontargli allegramente vita e miracoli di Fido.

— _Porta_, sa?... Va dal panattiere, va al macello preciso come un
servitore.... Buono poi, buono come il pane. Lui si lascia mettere gli
occhiali sul naso e magari un kepì in testa.... Sa persino tenere una
pipa in bocca.... Sicuro, fuma questo demonio! Per gentilezza poi, non
discorriamone nemmeno.... _Parla_ come un bambino di due mesi, _parla_;
e se il bambino gli tira le orecchie, lui non dice mica nulla, povero
minchione! e lascia tirare.... anzi sembra che goda.... Non è vero,
Fido? —

Fido, quasi si accorgesse, che parlavano favorevolmente di lui, anzi
capisse tutto ciò che dicevano, saltellava qua e là con balzi di
modestia contenta, e di quando in quando tentava di baciare le mani a
Pinotto.

D’altra parte Pinotto pensieroso e pauroso, che il suo salvatore
sospettasse troppo male della madre di lui a cagione del motto
sfuggitogli, si fece ad accusarsi da sè stesso, dicendo che egli era
stato un cattivo originale ed aveva perso tutto al giuoco, ma che sua
mamma, povera mamma, non aveva nessuno, nessunissimo torto.


XXIV.

Alloggiato nella camera sublime del Capitano, egli pensò che non doveva
rimanere lungamente parassita di un povero usciere: e in quello stremo,
l’unica àncora di salvezza naturale e decorosa gli parve la mamma
ricordatagli dal buon vecchio, per cui nel mattino seguente gli disse
festosamente: — Scrivo a mia mamma.

— Bravissimo! gli rispose quegli, bevendo una lacrima, mentre si
incamminava all’ufficio.

Pinotto scrisse:

  _Cara mamma!_

«Sai che pur troppo sono sempre stato superbo come Lucifero e il tuo
Signore m’ha castigato.... Quasi mi sento ancora superbo adesso; ma
so magnificamente, che non c’è nessuna umiliazione di un figlio verso
la propria madre. Anzi io sono fiero di umiliarmi davanti a te e
domandarti perdono in ginocchio, anche con i gusci di noce sotto.

«Che cosa vuoi? mamma, sono stato un disgraziato. Credevo certe cose
ed erano certe altre. Ho proprio fatto come il _Figliuol Prodigo_,
della Sacra Scrittura, che è andato fra gli animali immondi.... Ma non
voglio mica che tu mi ammazzi il vitello più grasso per questo. Oh no,
no! Guarda, mamma, solo perchè scrivo a te, sono tutto rasserenato, mi
sento allegro.... Ho fatto delle cattive vite e meritamente. Ho fatto
delle lunghe astinenze e mi sono nutrito alcuni giorni solo con un po’
di pane puro, ed era una grazia per me l’averne.

«Pensa, mamma, che vita!... Io che ero assuefatto da te ai buoni
piatti e sani della tua cucina casalinga. Però, ti assicuro, mamma.
Mi sarò fatto del male a me stesso, oh questo sì! Ma non ho mai fatto
del male al prossimo, a nessuno; te lo giuro! Sono ancora un ragazzo
onorato. Piuttosto che far torto con una cattiva azione al buon nome
della nostra famiglia e alla sacra memoria del povero mio padre, che
ci guarda di lassù, piuttosto.... avrei preferito di morire per la
strada.... e di fame, peggio che il conte Ugolino.

«Ora sono stato raccolto da un buon vecchio, da un usciere al
Ministero, che avevo conosciuto in casa del mio ottimo amico
Edoardo.... Sto qui con lui, via dei Giubbonari, N.... È una carissima
persona, di gran cuore, un galantuomo proprio dei tempi patriarcali
di una volta.... Mi usa ogni riguardo.... Insomma sto bene. Mi sento
rinato, massimamente perchè penso a te, perchè fondo tutte le mie
speranze sopra di te.... Ha poi un cane l’usciere, un cane, che è una
meraviglia. Si chiama _Fido_ e non usurpa il suo nome. Vorrei che tu
lo vedessi, mamma, e lo vedesse anche Carolina! È un grosso barbone,
bianco come la giuncata. Va lui in piazza con la sporta fra i denti, e
pare dica ai passeggeri come Napoleone I con la corona di ferro: Guai
a chi me la tocca!... Vedi, mamma, se non sono diventato buono. Mi sono
persino riconciliato con i cani....

«Adesso mi sento ancora addosso mille forze e una smania di adoperarle,
ma tutte a fine di bene.... Te lo giuro; non ho più nessuna pazzia
per la testa. Un po’ di digiuno me le ha fatte passare via tutte. Se
tu vuoi aiutarmi, mamma, farò l’agrimensore, l’impiegato, metterò su
una bottega da sellajo o da cappellajo, purchè tu lo voglia, mamma....
Ma ho bisogno del tuo soccorso e di una tua parola.... Capirai che
io non posso restare sulle spese a un povero usciere.... Non sarebbe
neppure nostro decoro.... Da me solo, ah! l’ho provato pur troppo
alle mie spalle: io non sono buono a nulla, non sono nemmeno capace di
guadagnarmi l’acqua che bevo. Ma con te, con la tua protezione sento
che anderei fino alla fine del mondo e che farei l’impossibile.... Per
riuscire a qualche cosa di buono su questa terra, mia cara, ci vuole
proprio la stella, _l’omen, l’amen, l’amen dico vobis_ di una mamma.
Scusa, mamma. Non so più quello che mi dica.... Parlo persino latino.

«Tu non me lo negherai, mamma, questo soccorso, questa parola, che ti
domando piangendo e contrito. Pensa, mamma, che ho patito la fame. No,
non pensarci più.... Consolami subito tu, che lo puoi.... tu sarai la
mia risurrezione, tu mi darai un’altra volta la vita, che ti devo...
Consolami presto.

«Il più affettuoso abbraccio a te, mia mamma! lasciami ripetere questa
parola: mia mamma! Ripetendola, mi pare di essere ricco di un tesoro
immenso, e lo sono.

«Un altro bacio a te e a Carolina.

                                                 «_Sempre tuo figlio_
                                                           «PINOTTO.»

«_PS._ — Sono un po’ ammalato, mamma, sfinito per causa delle midolle
vuote.... No, no; sto benissimo, mamma. Consolami, benedicimi, mamma!

«Altro _PS._ — Salutami i cagnolini, e dà loro per me uno zuccherino.»


XXV.

Appena egli ebbe impostato questa sfuriata arruffona di amor figliale,
due minuti dopo egli aspettava già la risposta; poi gli veniva
un dubbio di uno scrupolo amaro, il dubbio di avere sbagliato la
soprascritta della lettera e di avere messo _Firenze_, che aveva sempre
per il capo, in luogo di _Torino_.

— Ma no! Ho proprio scritto _Torino_ e non posso aver scritto
_Firenze_; mi ricordo dell’_o_, un _o_ largo così, che sembrava lo
avessi fatto con l’imbuto.... Ed ho proprio messo _Via_..., N. 14, sì,
sì! Sì.... sono certo che ho fatto il 4 alla mia maniera....

Assicurato sul ricapito della sua lettera, egli andò a farsi radere
la barba, accorciare e ravviare i capelli, rovinò una spazzola
sfregacciandola sopra i suoi abiti rifiniti. Egli faceva tutta una
acconciatura da tritino, voleva farsi bello più che poteva, per far
festa alla risposta di sua mamma.

— E se mia mamma venisse in persona?... Sicuro.... Verrà.... Essa
stessa... con Carolina. Le ho scritto io, proprio io che avevo patito
la fame, che ero ammalato:... A sentire queste coso, le poverette
non potranno tenersi dal volare a trovarmi,... oh verranno, verranno
anche se non istessero troppo bene le meschinelle! Avranno paura che
io sia ancora affamato.... Povere donne! E la nota tenera del cane!
Chi sa come le avrà toccate! Oh che buon politicone sono mai stato io!
E che poscritto da Cavour! Cavour del cuore sono stato io!... Purchè
non si confondano nel prendere il treno e non vadano a Venezia o a
Innspruck!... Chi sa che cosa diranno a trovarsi qui in una Roma?..
a vedere San Pietro, il Colosseo e il Mosè del Michelangelo, esse che
credono che la chiesa dei SS. Martiri a Torino e il _Cavallo di marmo_
sullo scalone del Palazzo Reale siano le principali meraviglie del
mondo?... Scommetto che mia mamma sosterrà sempre che il _Cavallo di
marmo_ è più bello del Mosè di Michelangelo. La _Venere Capitolina_ non
la farò nemmanco loro vedere.... Esse si scandalizzerebbero e nessuno
potrebbe toglier loro dalla testa, che siano stati i _Garibaldini_
quelli che hanno portato lassù quella _ribalderia_, — come direbbero,
— per fare vieppiù dispetto al povero Papa, dopo che lo hanno messo
in prigione.... Oh, le mie povere donne e care semplicione!... Oh
verranno.... Verranno... Sì, che verranno! —

Così pensando, batteva palma a palma con gioia infantile.

Nell’amore della mamma gli pareva di avere trovato la leva di Archimede
e il punto di appoggio per far muovere a suo modo il mondo; e dava a
divedere pubblicamente questa sua persuasione intima col modo glorioso,
con cui egli incedeva per via.

_Fido_ poi non era da meno di lui: tutto pieno di sè stesso e della
contentezza del suo nuovo amico, se qualche cagnolino schizzinoso gli
ringhiava contro, esso non si degnava nemmanco di rispondergli con uno
sguardo: _de minimis non curabat praetor_.


XXVI.

Il povero giovane rientrato nell’orbita umana della famiglia, sentiva
di voler bene a tutti coloro che passavano e di amare anche qualche
fanciulla. Quale fanciulla? Non lo sapeva neppure egli.... Forse quella
stellina vaporosa, quella biondina che aveva attraversato sulla punta
dei piedi lo studio del notajo, mentre si sentiva il _cric crac_ di
quella penna diabolica?... Forse qualche altra? Egli fino allora era
stato bensì un famoso straziafanciulle, ne aveva _contato loro più
che Bertoldo_, e se lo era sentito rinfacciare: ma non ne aveva mai
amata nessuna di vero cuore, nessuna; anzi soleva dire che nella nostra
società non vi era cosa più imbecille di una signorina da marito.

Ma ora, che amava la mamma e la sorella, sentiva altresì il bisogno
di amare proprio una signorina da marito.... E l’avrebbe sposata,
sì! e a preferenza la signorina del notajo.... Avrebbero aggiustato
tutto, perchè il notajo Raffa ne sa un punto più del diavolo.... E
quella ragazza ha tutto l’ingegno del babbo, e più tanto di cuore ben
fatto.... La violetta ama quasi sempre di nascere sotto le spine....
Sì! Egli ne è sicuro: la damigella Raffa è un’ottima ragazza e
bella.... bella poi come il più bello degli angeli. Che felicità! Come
sarà contenta la mamma Placida! Al primo bamboccio si metterà il suo
nome; sarà una Placidina, e se invece sarà un maschio, allora il nome
del povero babbo.... Che delirio di felicità! —

Egli richiamava in testa i tipi di mamme che aveva conosciuto, e
prima di tutte, la mamma più caratteristica delle altre, la mamma
del deputato X, quella che ama i figliuoli, come la cagna i suoi
cucciolini, e ringhia continuamente intorno a loro e contro a tutti,
per paura che glieli portino via. Questa mamma, abbia pure il figliuolo
già ministro, mettetela in un pranzo: ella strepiterà continuamente
dal fondo della tavola, e nojerà tutti con certi occhi che fucilano
la gente, per paura che a quel buon uomo di suo figlio ministro si
facciano dei torti, e non si dia tutta la torta e tutto il fritto o la
quaglia che gli si conviene.

Pinotto pensava all’ottima mamma che aveva conosciuto nella signora
madre di Edoardo, alla mamma la cui vita virtuosa e santa, dalle
preghiere che recita sull’inginocchiatojo al mattino e alla sera, fino
ai lavori di calza e di trapunto fatti dalle sue mani benedette, è
tutta una sola cospirazione, perchè suo figlio sia sempre bello, ben
vestito, sano, contento, onorato ed onesto.

Egli pensava alle mamme storiche, alle mamme raccontate dal Tommaseo,
alla mamma esemplare dell’abate Jacopo Bernardi, alla mamma, di cui
Edmondo De Amicis ha fatto innamorare tutto il suo paese.

E conchiudeva: — Ah, le mamme sono uniche al mondo per saper amare i
figliuoli!... Sono tutte compagne.... Basta che i poveri figliuoli se
lo meritino o sappiano pigliarle per il loro verso!


XXVII.

Mamma.... Amorosa.... Nuovo cibo.... Nuovo sangue.... Che cosa mancava
ancora a Pinotto?

Le nuove idee e il nuovo sangue gli fecero ribollire più potentemente
nella testa l’immagine dell’arte.

Egli si ricordò dell’immensità di libri da lui letti, studiati e
venduti, dei suoi manoscritti distrutti, di cui però non aveva perduto
dentro di sè neppure una sola goccia di sostanza, perchè si sentiva
ancora lui, tutto lui, più forte di prima e più capace di rifondere le
sue statue e inchiodarle eternamente sopra un piedestallo di porfido.

Un giorno alla finestra parve che gli passassero sotto le narici
tutti i profumi di Villa Pamphili e di Villa Borghese; e gli venne
nel cervello un nome, il nome di un villaggio, che era pure il nome
patronimico di una famiglia, e doveva essere il soggetto di un suo
nuovo prossimo racconto.

— VOLAR DI FIORI.... Due sposini, il conte e la contessina _Volar
di fiori_ sopra un balcone, davanti a un giardino all’italiana del
settecento.... Belli, belli, quali i pittori dipingono sè stessi e
le loro amanti, quando vogliono dipingersi per prototipi di bellezza
in costume di feudatari.... buoni, buoni, e tanto più preziosamente
buoni, quanto era più facile l’essere cattivi per i nobili dei secolo
passato....

I fiori del giardino erano giunti all’ultima loro splendidezza,
all’ultima loro prosperità: loro più non rimaneva altro a fare, che
dar luogo ai frutti.... — Venne una folata di vento nel giardino.... —
Spicca, ramassa, fa turbinare le teste dei fiori....

— _Volar di fiori!_ si dicono soavemente il contino e la contessina
guardandosi negli occhi.

Bisogna descrivere il volo dei fiori, l’incrociarsi dei loro colori
e dei loro profumi per l’aria, come una gazzarra d’amore celeste
e combinare i fiori con i bisbigli e coi baci dei nobili sposi
tortoreggianti.... profilare per il ritratto della contessina,
profilare in rosa, in oro e in perle la signorina del notajo.... —
Ma non solo parole e descrizioni.... Idee! Idee!... Far presagire da
quei bellissimi e felicissimi sposini l’ottantanove, i nuovi destini
della plebe, la necessità di una nuova religione.... Baci.... fiori....
amori.... Volar di fiori.... —

Durante questa concezione letteraria, Pinotto si sentì colare in seno
tanto dolce di miele da disgradarne le labbra di Galatea; si sentì
capace di innamorare e far svenire di soavità tutti i ciclopi d’Italia;
e ad un tempo si sentì addosso una forza da Sansone, per far rinculare
di ottanta passi tutti i letterati del secolo.

Si mise al tavolino con la febbre di scrivere le più raggianti cose che
si siano mai scritte.

Scrisse, scrisse, si levò in piedi, e riscrisse; e tanto si inebbriò
nel suo soggetto, che non fu più lui; ebbe un ineffabile prudore e
languore nel cuore e nel cervello; vide luccicare le idee, come gemme
e come spade sulla testa, e volargli i fiori a mille a mille intorno
alla fronte, piccargli contro al petto, e dargli solletichi strazianti,
abbattimenti di gioia e tutto inghirlandarlo figlio, amante e poeta.

L’usciere rientrando in casa trovò il suo ospite con il volto così
trasumanato, che egli, dopo avere aperto la bocca, non osò dirgli più
nulla.

Non c’era che dire: dallo scrivere _Volar di fiori_ al discorrere con
l’usciere era un bel cascare dalla poesia alla prosa. Eppure Pinotto
si trovò così buono nello sfogo del suo Bello, che, appena visto
l’amico, mise frettolosamente l’impagliatura di una scranna sopra
il suo manoscritto e poi corse a girare le braccia intorno al collo
dell’usciere.

Questi allora incoraggiato parlò: — Volevo dire.... Non si offenda
sa.... Io mi sono permesso, perchè sapeva che, Ella desiderava un
impiego, mi sono permesso, di parlare per lei al mio capo-sezione,
cognato della cugina del mio colonnello.

— Ebbene? domandò con affannoso desiderio Pinotto.

— È contento Lei? Sia lodato Iddio! Le ho ottenuto un posto da
scrivano nelle Ipoteche con settanta lire al mese.... Può incominciare
domani.... Lo accompagnerò io....

— Grazie! Grazie! Gioja! Gioja! — Esclamò Pinotto prendendo l’usciere
per le mani e forzandolo a far un mezzo giro di monferrina.

Il Capitano baciò il suo protetto, e quel corifeo di Fido gli saltò
sulle spalle.

Sfogato il primo impeto, Pinotto ripercosse le mani insieme dicendo:

— Adesso, Capitano! Capitanò!...

— Ebbene, che cosa?

— Senta, senta, se non sono indiscreto. Abbia ancora la bontà di
farmi l’anticipazione di un’altra lira sul mio futuro stipendio....
Veda, veda! desidero ardentemente di comperarmi una cravatta, una
famosa cravatta, con cui ho fatto all’amore tutta questa mattina sul
Corso. Questa mi otterrà di colpo una promozione, appena mi presenterò
all’ufficio.

— Ma subito! Subito! S’immagini! Ecco.... Ecco mia gioja! —

Ma invece di pensare neppure a comperarsi la cravatta, Pinotto trottò
lesto all’ufficio telegrafico dove spedì il seguente telegrammino alla
mamma: — _Ottenuto impiego, finalmente! settanta lire mese. Evviva! tu,
Carolina, quanto contente! Lavoro._

Così entrato nelle Ipoteche con le più belle fantasie nella testa,
egli si mise a sgobbare altresì materialmente come un martire. Quando
era al banco, lo si vedeva girare qua e là con gli occhi che sembrava
volassero in cerca di pubblico da servire.... Poi su e giù per le scale
e per le scalette con enormi libracci sulle spalle.

Quei libracci, come si può immaginare, costituivano il vero carico
di un pover’uomo. Allorchè egli doveva toglierne tre o quattro dagli
scaffali o riporveli, metteva in mostra la più farraginosa disinvoltura
travettiana. Alzava le mani per tenere in aria gli uni, e usava la
compressione del petto verso gli altri, perchè non cadessero in terra
ad ammaccarsi le loro orecchie. Pazienza fossero state quelle del
prossimo! Certe volte pareva addirittura inchiodato come una bestia da
macello a quegli assi della scansia.

Appena uscito poi dall’ufficio, si metteva intorno al suo _Volar di
fiori_ e vi spendeva sopra molte ore della notte.

Madre! Amorosa! Pane quotidiano! Arte e lavoro!... Che cosa mancava
tuttavia a Pinotto?

Gli mancava il fondamento di tutte le sue cose. Gli mancava
l’assicurazione dell’amore e del soccorso materno.

Dopo aver aspettato indarno per una settimana la risposta della
signora Placida, il poveretto cominciava a ritornare di cattivo umore,
dubbioso, quando il Capitano gli si fece innanzi con cera allegra e
promettente.

— Ecco per lei!

E gli presentò due lettere: l’una con la soprascritta in caratteri
grossi e piatti del secolo passato, e l’altra con un bel corsivo
minutino e moderno.

Pinotto impallidendo, aprì la prima, che era di sua mamma.

Eccola testualmente, salve le maggiori sgrammaticature e la più
grottesca ortografia, che l’avrebbero resa poco intelligibile al
pubblico; essa diceva:

  «_Signor, signor figlio_,

«Dopo tutto quello, che hai fatto anche ultimamente, mi stupisco forte,
che tu abbia ancora avuto l’ardire di indirizzarti a una tua madre. Ah!
ci vuole un bel coraggio! Mangiar tutto, vendere tutto!

«Io l’ho subito detto, e poi me lo ha ripetuto anche il teologo, che
sarei pazza da legare se ti ascoltassi ancora. Ti ho già ascoltato fin
troppo per il passato, e pur troppo è stata la rovina tua e la mia.

«Adesso io ne ho appena abbastanza per andare innanzi con Carolina
onoratamente.... Invece tu mi sembra, che tu abbia ancora buon tempo
e delle storie per la testa. Dovresti tu aiutarmi nella vecchiaia
e non pretendere il contrario... Basta, basta, caro figlio; se tu
avessi avuto un po’ più di Religione non ti sarebbero capitate tante
disgrazie. Questo solo posso risponderti, di essere una volta bravo
e di andare sempre in chiesa a fare le tue devozioni da cristiano
battezzato. Ecco ciò che ti è capitato a voler disobbedire i Santi
Comandamenti di Dio e della Chiesa, e a stare a quello che dicevano
quei scellerati garibaldini, tuoi amici, e anche a scaldarti sempre la
testa con i romanzi che lo inferno li abbruciasse tutti una volta!

«Ah, caro figlio, mi raccomando tanto e poi tanto, va subito dentro
una chiesa a domandare perdono nel confessionale delle tue mancanze.
Io farò quantum possio per ottenere dalla Madonna la tua grazia.
Anderò a sentire una messa per te alla Consolata, e farò anche venire
la Carolina. Pregheremo con fervore la Madonna per la tua conversione
dei peccatori. Faremo magari accendere una candela dinanzi all’altare
maggiore in onore del Santissimo Esposto, acciocchè voglia toccarti più
facilmente il cuore.

«Guarda, Pinotto, guarda la bontà, che hanno ancora per te tua madre e
tua sorella, dopo tutto il male che hai fatto loro...

«Del resto noi due non possiamo fare mica di più, povere meschine che
siamo per causa tua! Quindi aggiustati da te, come meglio saprai o
potrai, soprattutto domandando perdono di cuore a Dio delle tue colpe e
accostandoti con frequenza ai Santi Sacramenti.

«Ti saluto, ti saluto, anche per parte della Carolina che adesso fa il
pastone dei Canarini.

«Addio, addio! Ai cagnetti non ho detto niente del tutto. Addio, addio.
Credimi, sono e mi chiamo tua affezionatissima madre, signora signora
Placida.

                                    «_Vedova_ PANETIO _nata_ RHOCCIA»

«_N. B._ Ricevuto, appena dopo vergata presente, tuo dispaccio impiego.

«Si vede che sei già più ricco di noi, che spendi denaro nel telegrafo.

«Se hai poi veramente ottenuto costà impiego, ciò mi dà quasi fastidio.
Guarda, guardati sopratutto, come dice anche il teologo, che non sia
poi un impiego del Governo scomunicato e usurpatore in Roma della
Santa Sede di San Pietro, a fine di non disonorare la tua famiglia
che è sempre stata cristiana e non fare portar pena all’anima di tuo
padre, che è morto in seno alla nostra Sacrosanta Religione e non già
_sine crux e sine lux_, come le brutte bestie. Ah! È meglio piuttosto
far niente e digiunare in orazione piuttosto che servire un governo
ladro, libertino e sacrilego, come dice il giornale nella Cattolica di
Domenica. Guardati, guardati ben bene. — Questo è un vero consiglio da
madre, per salvarti. Sono, sono di nuovo tua affezionatissima madre,
Placida.»


XXVIII.

Finita la lettura di questa lettera idiotica, crudele e bacchettona,
Pinotto stette fermo e silenzioso, come chi aspetta un prorompimento
di lagrime; ma poi vedendo che queste tardavano a venire, ne perdette
persino la speranza, e fece sentire un verso ingratissimo, bestiale,
come una voce mista di pappagallo, di struzzo e di maniaco.

Il capitano accorse a lui spaventato.

— Niente, niente, brav’uomo... Non posso piangere...

E in quel punto uscì in un fiotto di lagrime.

Rasciuttosi in un baleno:

— Niente, niente — ripetè — Sono stato un mammifero dell’ultima specie
a credere a mia madre.... Fossi stato un cane... allora sì, mia mamma
mi avrebbe perdonato, anche se gli avessi morsicchiata e ridotta tutta
in pezzettini la sua veste di sposa... Ma suo figlio, oibò! —

Sentì nella bocca il ribaldo ribrezzo di avere assaggiato la pappa dei
cani e torse orribilmente la figura.

— Si tranquillizzi, signor Pinotto — gli diceva l’usciere con un’aria
un po’ inquieta. — Si tranquillizzi.

— Tranquillo...? Altro che tranquillo, Capitano. Ai suoi ordini,
Capitano. (portando militarmente la mano destra all’ala del cappello).

Vi fu un minuto di silenzio straziante; per interrompere quello strazio
e per tentare la sorte, chi sa? di una rivincita, l’usciere ripigliò:

— Guardi che ha ancora da leggere una lettera....

— Ah sì, è vero..... Che smemorato! Me ne dimenticavo.

— E guardi.... Uh! uh! come è spessa. Ci deve essere qualche mago lì
dentro....

— Ah!... È il suo, il mio Edoardo che ci manda cento lire... Cento
lire! — E fece scoppiare una formidabile risata. — Oh! come ti voglio
bene, caro Edoardo. Grazie!... Ti mangerei vivo...

— La prego, si tranquillizzi, signor Pinotto si calmi...

— Tranquillo, tranquillissimo, signor Capitano, tranquillissimo....
Che cosa vuole di più tranquillo che così? Vuole che lo abbruci questo
biglietto per accendere la pipa? Oppure vuole che lo adoperiamo per far
cuocere un paia d’uova, come ha fatto quel principe o ban... chiere
di.... di.... di.... di Barcellona.... Ma... bisognerebbe averne di
più... Bisognerebbe.....

— Per carità, sia buono; mi ascolti.....

— Ah! signor Capitano! Lei ha paura di me.... Ebbene, se lo vuole, se
lo pigli pure per lei il suo biglietto... Lo pigli, lo tenga...

— Io no, io..... Lo tenga per sè, è suo; ma dico.....

— Io sono tranquillo come un Battista, Capitano! Io canto, ballo,
suono e rido..... Vuole che gli faccia vedere i ritratti degli
inquisitori?... Eccoli qua; li ho comperati a Trieste... —

Aperse una scatoletta e sciorinò una filza di ritrattini ovali
attaccati insieme, poi con la chioccata di un lampo li fece scomparire
rinserrandoli nella scatoletta.

Qua e là gli scoppiettavano le idee nella testa, come sprizzano le
faville, quando il martello stramazza sopra un ferro rovente.

La sua atmosfera cerebrale si era fatta alida e satura di elettricità,
come una sera di estate dopo una lunghissima asciutta.

— Capitano? vuole un pesce salato? Vado ad inforcare una salacca nella
credenza... Aspetti...

— No, no, no!...

— Vuole due giuochi di prestigio?

— Ma no, m’ascolti.

— Non si inquieti, Capitano........ Anche avessi mia sorella, dove
ci teneva le sue l’onorevole, il venerabile Pietro Aretino, scusi
un signore, che noi non abbiamo avuto la fortuna di conoscere
personalmente, anch’io, dico, (facendo la voce acuta e i gesti puntuti
da ubbriaco) sarei tranquillo lo stesso... tutti mi leverebbero il
cappello... Riverito, signor ingegnere, riverit..o! —

E si faceva da sè stesso delle profonde scappellate.

— Vuole che balliamo di nuovo, signor Capitano? Su, io lo sfido, sopra
una gamba sola. —

E si mise a girare vorticosamente a piè zoppo, e con la lingua un palmo
fuori dei denti. Spossato dall’asma, dal capogiro e dal sudore, egli
ristette traballando. —

— Capitano? mi gira, qui non si può più respirare. —

Spalancò la finestra.

— Auff! Non c’è più aria..... Io soffoco.... Chi l’ha mangiata?... Io
vado a cercarla..... —

Uscì furiosamente sbatacchiando l’uscio con fracasso. Fido si rizzò
sulle due piote di dietro, alto come un cavallo, e si arrotò contro
l’uscio guaendo lamentosamente per seguire quel forsennato.


XXIX.

L’aria fresca di fuori gli smorzò l’incandescenza del cervello; egli
pensò tosto: — Se non uscivo, correvo rischio di diventar matto!... Ah,
stupido!... e per una cosa, che è poi prestissimo spiegata.... Voglio
dirla subito al capitano e a Fido che mi sono venuti dietro. Mia madre
non mi capisce e io non posso farla capire. Non c’è vocabolario, non
c’è crittografo fra noi. In questo squilibrio della società moderna ci
sono membri in una stessa famiglia più distanti fra loro e più incapaci
di comprendersi vicendevolmente che non siano una tartaruga e un
elefante. Che farci? La colpa non è di nessuno; mia madre mi crede uno
_scappa di casa_ ordinario, di quelli di una volta, che fuggivano dal
collegio o derubavano dell’orologio la serva del professore, per andare
a suonare l’organino nelle vie o per fare il trombetta in un reggimento
spiantato. Essa ignora completamente la nuova varietà del mio tipo.
Essa non ha torto.... Che farci?


XXX.

Queste cose egli disse press’a poco, sebbene in forma più popolare,
al Capitano, quando fu raggiunto da costui e da Fido, il quale voleva
persuadergli, chi sa che cosa, stampandogli le impronte delle sue zampe
sul panciotto.

Ritornato a dormire nella cameretta del suo ospite, egli provò un
estremo disagio per tutta la notte: sentiva emanare dalla compagnia di
lui un odore caprino insopportabile, che egli non aveva mai avvertito
prima di ricevere l’ultima scomunica materna.

Nel mattino seguente egli spifferò senza ambagi al suo benefattore:
— Caro mio, io soffro a dormire nella stessa camera con altri; non
sono assuefatto a questo, e ce ne andrebbe di mezzo la mia salute,
se seguitassi; quindi io vi ringrazio e mi affitto una stanza da
me. —

L’usciere restò quasi mortificato e anche pauroso, che il giovane
avesse trovato quel pretesto per non incomodarlo maggiormente, dopo che
aveva ricevuto quelle cento lire da Edoardo.

— Senta, signor ingegnere: tra noi non dobbiamo fare complimenti. Mi
senta: è molto meglio, che rimanga con me.

— No, no, no! — rispose con fuoco Pinotto.

— Non si offenda, mio caro signore. Tra noi, veda, si farebbe più
economia...

— Non voglio! — ribattè Pinotto con rabbia vivace. — ... E non mi
secchi.

L’usciere rimase mortificato del tutto.

— Senta, signorino, io sono un contadino rispetto a lei, e non mi
ricordo più nemmanco di essere stato militare, quando discorro con lei.
Quindi mi scusi..... Quanto alla stanza, faccia pure come vuole.....
poichè ella vuole assolutamente così. Io dicevo soltanto... perchè mi
rincresce privarmi della sua compagnia..... dicevo.... —

Ma vedendo contro di sè una terribile morsicatura di baffi, cambiò
discorso.


XXXI.

Sbalzato un’altra volta dall’orbita della famiglia, Pinotto ritornò
nuovamente un individuo buono a nulla e vizioso come un somarello, dove
poco prima fidando negli auspicii della mamma si era sentito capace di
afferrare con dita di ferro la rettorica chioma della Fortuna, e il suo
povero cuore era già divenuto tutta un’iride di magnifiche speranze.

D’allora in poi nel suo ufficio egli si adoperò non solo rimessamente
ma poltronescamente. Quando dal piano superiore doveva trasportare
qualche grosso volume ipotecario nel piano inferiore, egli anzichè
recarselo in mano o sulle spalle, lo pigliava a calci per farlo
rotolare giù dalle scale.

Egli si dimenticava persino di andare a trovare l’usciere suo
salvatore. Un giorno questi, mosso dall’affetto e dalla puntura di
non averlo visto da un pezzo, si recò a cercar lui. Trovò l’uscio
chiuso; girò invano la maniglia, orecchiò e sentì bisbigliare dentro la
cameretta la voce squarrata di una ragazzaccia che nella sua raucedine
cronica, accusava le scollacciature dei veglioni. Dondolò la testa,
come un bue offeso, e ritornò indietro borbottando!

— Questa poi mi dispiace veramente.... Brutto.... Mah! mah! —

Fido abbajò, come ci fossero stati i ladri.


XXXII.

Per mantenere sè stesso e i propri vizi, Pinotto mandava di nuovo
lettere sopra lettere ai parenti e massimamente agli amici, da cui
invocava continui soccorsi.

Però rattenuto da un certo sentimento misto di onta, di riserbo e di
gratitudine, egli risparmiava Edoardo.

Fu questi il primo dopo un lungo silenzio a farsi vivo con lui,
affrontando egli stesso il pericolo pecuniario, mediante la seguente
lettera importantissima:

                                                      Milano, il ....

  «Caro Pinotto,

«Ho rinunziato all’idea di un primato avvocatesco in una cittaduzza
di provincia, e siccome sono nato vestito, mi sono presa la libertà
calamitosa di venire a Milano per fondarvi un giornale letterario,
intitolato _Il Guastatore_, di cui ti unisco il primo fascicolo.

«Il nome ti dice abbastanza il programma.

«È, salva la modestia, una specie di _Frusta Letteraria_ adattata ai
giorni che corrono.

«Io veggo nella letteratura italiana contemporanea una specie di
selva _aspra e forte_ con relative Maremme e paludi pontine. Bisogna
diboscare, spianare, colmare, prosciugare, fognare, bonificare.... Ecco
il perchè del mio _Guastatore Letterario_ e per giunta _Scientifico_ e
_Artistico_.

«Tu mi sembri fatto per la quale.

«Con il tuo ingegno, con i tuoi studi, tu sei stampato apposta per
godere la suprema voluttà di dare dell’asino a chi se lo meriti.

«Mi pare già di vederti abbarbicato come un rovo alla letteratura di
chi so io.

«Ti creo quindi mio collaboratore con carta bianca.

«Non insisto però, affinchè tu faccia la polemica. Fa quello che vuoi;
mandami quello che stimi meglio: racconti, bozzetti, poesie, epigrammi,
schizzi di viaggi e di costumi; filosofia popolare, ecc., ecc., insomma
tutto quello che ti pare e piace, purchè mi mandi qualche cosa.

«Credo bene aggiungerti che anche in Italia i giornali letterarii
hanno presa la lodevole consuetudine di pagare. Pagano poco, ma
pagano qualche cosa per ora.... e pagheranno finchè potranno. Il mio
_Guastatore_ dà L. 2 e 50 cent. al colonnino.... È nulla, ma sono i
sigari.

«Appena riceverò un tuo manoscritto, te lo conteggierò e te ne spedirò
l’importo a volta di corriere.

«A te farò buone anche le interlinee, la firma e l’intestazione e ti
lascierò andare a capo e mettere tanti asterischi, quanti e finchè
vorrai.

«Non ti pago anticipato, perchè voglio costringerti, non solo a
scrivere, ma altresì a pubblicare.

«È mia ambizione quella di essere il primo a farti rompere il ghiaccio
con il signor Pubblico.

«Addio — manda — e credimi

                                                    «Tuo aff.mo ecc.»

Appena letta questa lettera, Pinotto corse a prendere il suo _Volar
di fiori_, che era già diligentemente copiato, un bel manoscrittone,
che ridotto in istampa avrebbe occupato per lo meno cento colonne del
_Guastatore_. Cento colonne! 250 lire! Che bazza!

Il povero giovane nel rivolgere il suo scartafaccio fra le mani, ebbe
malauguratamente una sensazione complessa, più che quadernaria, una di
quelle sensazioni, che costituiscono il pensare velocissimo dei genii
e dei pazzi. Egli sentì nello stesso punto la sua alterezza e la sua
impotenza artistica, il suo sovrano disprezzo per il pubblico e la sua
vergogna di divertire per paga con la penna, chicchessia: il ladro,
il prete, il porco, il commendatore, la marchesa, la cortigiana, la
tabaccaja, la signorina, la fame e l’indigestione, insomma qualsiasi
galantuomo o malandrino possessore di un soldo.... A un tempo sentì
echeggiare caninamente nelle orecchie la voce di sua sorella che
abbaiava smascellando dalla risa: _Bo..jno_! _Bo..jno_! — e sentì
scolpitamente la voce secca di sua madre, che aggiungeva: _faresti
meglio a studiare d’aritmetica e a imparare a servire la messa_. Più
che tutto vide stampata davanti a sè l’ultima lettera di lei...

Alzò sulla testa il manoscritto, e poi lo sfracellò per terra,
rovesciandogli sopra il motto di Cambronne con una grossa bestemmia
contro alla Divinità innocente. Quindi, raccattatolo, fece fare la fine
più turpe al suo povero ed eccelso _Volar di fiori_.

Così distrutto ignominiosamente il suo ultimo lavoro letterario, quello
che gli aveva dato maggiori contentezze e maggiori speranze, egli
si credette più grande di Dante — si credette un glorioso Vergine e
Martire dell’Arte, degno di sedere in paradiso più vicino di tutti al
trono di Dio, perchè riporterebbe intatti all’Eterno i fiori del suo
genio.


XXXIII.

Così ricacciato del tutto, e per colpa principale di sua madre,
nella più deplorevole superbia artistica e ristrettezza pecuniaria
— egli, dopo avere rifiutato la retribuzione, seguitò a ricorrere
alla elemosina, tanto che una sera di domenica, in una famiglia di
Torino dove si facevano giuochi di società e si tagliavano i fogli al
_Guastatore_, tre amici poterono combinare lo scherzo di estrarre nello
stesso tempo di tasca e leggere la stessa lettera circolare diretta a
ciascuno di loro dallo stesso Pinotto:

— Mio carissimo!

— Mio carissimo!

— Mio carissimo!

— Nuovamente piombato...

— Nuovamente piombato...

— Nuovamente piombato...

Poi il terzetto così seguitava: — «Nuovamente piombato nella più
profonda miseria, ti scongiuro di inviarmi al più presto, che ti
sarà possibile, la piccola somma di cento lire. Ti assicuro di
restituirle sull’onor mio a dieci per mese. Saprai comprendere le
mie dolorose necessità, senza che io ti rattristi ad enumerartele.
Fammi quest’ultimo favore, che è per me di una suprema importanza:
questione di vita o di morte. Prometto di non domandarti più nulla per
l’avvenire. Nel restituirti la somma, terrò calcolo degli interessi.

«Tuo, ecc.»


Nel leggere queste parole, i tre amici davano a divedere di sentire
nelle medesime più l’alito dello scrocco che quello della disgrazia; e
commentavano più malignamente con gli occhi che con la voce.

— Mi sembra che potrebbe bastare... Ogni cosa deve avere un termine...

— Sull’onor mio! Magra garanzia!... e quella continua ostentazione
degli interessi?

— E quel perpetuo annunzio dell’ultima rappresentazione delle sue
domande? —

Una signorina butirrosa, che in altri tempi era stata molto
perseguitata da Pinotto, su cui però essa aveva fondate grandissime
speranze, — ora volendo ingraziarsi i nuovi amici, fece trasparire
dagli occhi la maggiore volontà di mostrarsi spiritosamente ingenua
e domandò: — Ma se è sempre nella miseria, perchè non si ammazza quel
birrichino?

Un’altra signorina dal collo molto lungo, e che aveva letto _Notre
Dame_ di Vittor Hugo, allungò ancora di più il collo e rispose
con grande pretesa di malignità: — Ah! egli non si ammazza, perchè
ammazzando sè stesso avrebbe paura di ammazzare un grand’uomo.


XXXIV.

Se la maggior parte del mondo, che lo conosceva, trattava così
crudelmente Pinotto, questi non trattava meno crudelmente il mondo
da lui conosciuto; prova ne siano gli _appunti ed aforismi_, che egli
scriveva sul suo taccuino, a sfogo del suo animo e come materiali di
qualche nuovo suo capolavoro da distruggersi. Eccone alcuni tratti
spietati, o volgari, o semplicemente barocchi, o addirittura infami:

                                   ——

«Ho fatto degli studi, che credo esatti, sulla felicità umana, e ne
ottenni i seguenti risultati:

«Detta felicità non consiste, come taluni credono, nel _lavoro_;
imperocchè il lavoro, acciocchè faccia l’uomo felice, bisogna sia una
esplicazione di forze geniali, quanto dire, sia già determinato da un
sentimento di felicità.

«Del resto, che razza di felicità è mai il _lavoro?!_

«Io stamattina, con lo stomaco vuoto, mi sono messo a copiare un
estratto ipotecario nauseantissimo. A un certo punto mi venne una
vertigine, ed ebbi uno sforzo di vomito, come dopo il mio tentativo di
mangiare gli avanzi di Glafir.»

                                   ——

«Neppure la tranquillità della propria coscienza costituisce la vera
felicità umana.

«Ammetto, che, quando taluno stia per partire da questo mondo, provi
un certo gusto nel volgersi indietro, e trovare, che non abbia mai
commesso una viltà o altra azione cattiva. È una cara soddisfazione,
che ho provata io stesso molte volte.

«Ma questa non è la felicità, nè l’igiene della vita; è la felicità,
l’igiene della morte.»

                                   ——

«Adunque la vera felicità secondo me consiste nella illusione, nella
presunzione o nella ferma persuasione di essere felici, dettata
dall’amor proprio, più o meno coadiuvato da una malattia o anche da una
sanità del cervello.»

                                   ——

«In prova facciamo la rassegna alfabetica degli uomini felici.

«A., mio capo ufficio, è un uomo che ha l’incrollabile convinzione di
avere una bella voce. Tutti coloro, che ebbero la disgrazia di sentirlo
a cantare, riconoscono invece unanimamente, che la sua voce è molto
inferiore di pregi a quella della foca, _di questo vitello marino, che
allatta anche i nostri figliuoli, preso dal celebre capitano Carbone
Kock, nei deserti della rabbia_, come diceva stamattina colui, che
faceva la spiegazione nel Baraccone di Piazza di Termini.

«Eppure nè il Collegio de’ Cavalieri dell’Annunziata, nè il Presidente
del Senato, nè il sommo Pontefice, nè altre autorevoli persone e
nemmanco suo padre, se tornasse dall’altro mondo, potrebbero diminuire
di un atomo la persuasione ferrea del signor A., di avere una voce
stupenda.

«Il mondo, d’ordinario, quando vede in qualcheduno una stima
invincibile di sè stesso, la rispetta, si tratti di qualsiasi materia,
anche più importante della musica e della politica. Quindi il signor
A. è lasciato nel pieno e pacifico possesso della sua immaginazione,
ed è per sopprappiù mantenuto giuridicamente nel medesimo dalla
giurisprudenza delle Corti di Cassazione di Firenze e di Torino, che
accordano l’azione _De Reintegranda_ contro chi tentasse uno spoglio
violento e clandestino di qualsiasi possesso d’immaginativa.

«In questo stato di cose, egli non può più stare nella pelle dal
contento. Tanto è vero, che avendo affittato alcuni giorni sono un
villino nella campagna di Frosinone, e avendo sentito suonare un
pianoforte nella palazzina limitrofa, volle curiosamente informarsene;
e seppe, che lo suonavano due signorine da lui sconosciute, le quali
ogni mattina ad una data ora andavano ad _abbeverarsi_ ad una certa
fontana magnesiaca.

«Si trovò anch’egli all’ora fissa presso la fontana magnesiaca,
si levò il cappello, aprì le braccia con uno slancio rapido, che
fece fare al cappello una graziosa curva di un metro e mezzo e si
presentò da sè stesso alle signorine con questa magnifica ed inaudita
autopresentazione: — Sono loro, signorine, che suonano così bene il
pianoforte? me ne rallegro... (quindi con un accento inesprimibile) Ed
io sono.... Sono baritono!

«Oh, uomo (più che baritono) felice!»

                                   ——

«B., altro mio superiore di ufficio, ha comperato parecchi ettolitri
di vino siciliano scelleratissimo, che dà al palato il gusto preciso
dell’inchiostro. Eppure nessuno potrebbe togliere dalla testa al signor
B., che quel vino, perchè l’ha comperato lui, non sia ottimo, e che
il vinattiere, vendendoglielo, non abbia per lo meno rimesse del suo
cinque lire ogni ettolitro per la sua bella faccia. Ed egli è tanto
contento di questa sua persuasione, che contro la sua abitudine di bere
annacquato, giunto alla frutta, si permette di versarsi nel bicchiere
un dito puro della sua _nuova compera_; e lo centellina con tanto
gusto, che pare ascolti la propria ammirazione; poi dice a sua moglie:
— Ah! non c’è nessuno che sappia e che possa comperare del vino buono,
come noi!»

                                   ——

«C., mestierante di letteratura, benchè di complessione atletica, è
nello scrivere molto più snervato dell’Abate Chiari di evirata buesca
memoria; eppure egli ha l’intima convinzione di essere uno scrittore
colossale come la sua corporatura e di dare il suo nome per lo meno a
un quarto di secolo.

«Questa credenza non gli è inspirata dal consenso universale delle
serve e delle signore, che gli manca, ma dalla superba fiducia in sè
stesso; ed egli ne dimostra la relativa felicità con la lunghezza e la
nerezza del frac, e con la maniera grave di sbottonarlo, quando ha da
pagare il vermout: frac e maniera copiati dai ritratti in rame dei più
celebri scrittori francesi contemporanei.»

                                   ——

«D., è un altro negoziante di carta sporca, sebbene anch’egli abbia
pochissimi compratori della sua merce. In fondo, egli è certamente un
ottimo ragazzo, ma di _dottrina scarsa e menna_; come il Bonghi diceva
del compianto Rattazzi. Quando io volgo lo sguardo alla sua cultura,
provo una sensazione penosa, come se dovessi passeggiare a piedi
nudi sul pavimento di una bottega da rigattiere o peggio in un campo
seminato di bicchieri rotti.

«Eppure il signor D., trincerato rigidamente nel suo castelletto di
quattro idee fisse, è completamente soddisfatto di sè stesso, perchè
egli è fortemente persuaso che quel poco, che egli sa, sia tutto ciò
che un cervello acuto e assegnato come il suo debba sapere, e che quel
moltissimo che egli non sa, non meriti per verun conto che una creatura
ragionevole lo sappia.»

                                   ——

«E., ha una moglie brutta come la notte, nojosa come il male di pancia,
e cattiva come i debiti per le persone timorate.

«La peggiore non se l’è sognata Simonide scrivendo la sua satira contro
alle donne. Io preferirei alla medesima un reggimento di cimici.

«Eppure il signor E. crede di possedere un miracolo di moglie. La
ragione ne è semplicissima.

«Il signor E. è un uomo di giudizio, anzi è un uomo realmente furbo.

«Se quindi sua moglie se la fosse sposata, anzichè lui un suo amico,
egli sarebbe stato il primo a riconoscere la costui disgrazia e a
deplorarla con sincerità e profondità di convinzione. Ma per tutto
quello che fa egli personalmente, la sua furbizia gode di una specie
di infallibilità pontificia; è impossibile che egli dimostri un solo
momento di non avere buon gusto o peggio ammetta di aver fatta una
corbelleria.

«Quindi la cosa non è neppure discutibile: la signora E., per la sola
ragione che il signor E., ha creduto bene di sposarsela, deve essere e
diventa effettivamente un portento di bontà e di leggiadria per lui e
per tutti.»

                                   ——

«F., possiede un’amante, che cede di molto in dignità a quelle
disgraziate suonatrici ambulanti, che girano nelle birrerie di ultima
classificazione a strimpellare sulla chitarra con accompagnamento di
voce fessa, _camicia rossa, camicia ardente...._

«Ebbene il signor F., è persuaso che con la benefica irradiazione del
suo animo sempre caldo di poesia elevata e simili ingredienti, e con
l’insistenza e l’opportunità de’ suoi savi consigli, egli ha oramai
riabilitata, che so io, rigenerata quella creatura perduta, insomma le
ha salvata addirittura l’anima.

«Ma essa non gli salva nemmeno una bottiglia di Barolo secco, e
va dicendo a tutti, che, se non fosse per quei pochi, avrebbe già
mandato, chi sa quante volte, a carte quarantanove quell’uggiosissimo
predicatore!

«Ciò lo sanno tutti, lo sentono tutti, anche coloro che non vorrebbero
sentirlo; ma per il signor F., è impossibile che egli ne sappia nulla,
ne senta nulla. Del resto, egli non sarebbe più quello, cui egli si
stima, cioè il Direttore Generale dei fenomeni amorosi nel Regno con
monopolio bancario di riabilitazione femminina.

                                   ——

«G, H, I, L, M, N, O, P e Q sono nove tra figliuole e nipoti di una
portinaia; hanno tutte l’ossame grosso con certe facce mascoline,
che starebbero molto bene non già alle nove muse, ma ad altrettanti
suonatori di tamburo della defunta Guardia Nazionale.

«Eppure esse formano una potenza di felicità.

«Quando escono dalla fabbrica delle cartucce, in cui sono tutte
impiegate, la fanno sgallettare e scoppiettare visibilmente per via la
loro felicità terribile.

«È un mercato, una fiera luminosamente allegra che passa. Nessuno,
che le guardi, commette il minimo peccato di desiderio per loro conto.
Eppure esse si infischiano sovranamente di tutto e di tutti.

«Allevate insieme, use a chiacchierare insieme dal mattino alla sera,
hanno costituito una rispettabile consorteria di pensieri e di buon
umore, di gergo convenzionale e di beffa presuntuosa, di sottintesi e
di occhiate assassine, a cui nulla resiste.

«Esse pigliano chiunque passi nella via o più disgraziatamente davanti
il loro casotto, sia egli un pezzente o un _pajno_, un capitano dei
pompieri od un uomo di Stato, e lo colpiscono con mirabile divinazione
nel suo lato debole, o nel suo piccolo punto vulnerabile, si trovi
esso nel naso o nel nodo della cravatta, nel gozzo incipiente o negli
stivaletti mal fatti, e lo svestono e lo scuojano con una maestria
di una felicità invidiabile, che meglio non potrebbe fare Vittorio
Imbriani.»

                                   ——

«R., (si ommette _honestatis causa_).

                                   ——

«S. — Severina è una perla di ragazza, un colonnino di bellezza, di
morbidezza e di dolcezza.

«Fu assassinata anzitutto da suo padre, che prima di morire ebbe cura
di mangiarle disgraziatamente quattro quinti della sostanza lasciatale
dalla defunta sua mamma. In seguito fu vieppiù assassinata dai preti,
i quali continuano a rosicchiare le due vecchie cugine, con cui ella
convive mantenendole del suo.

«Nessun giovinotto osò amarla, perchè la sua fortuna andò sempre
liquefacendosi in modo viemmaggiormente riconoscibile, e anche perchè
ella non diede mai una stretta di mano, che non fosse frigida e rigida.

«Oltre a ciò la poveretta non divide la terza parte delle credenze e
delle pratiche religiose, in cui infuriano le vecchie beghine, alla cui
compagnia si è condannata.

«Per tutti questi motivi, Severina avrebbe tutti i diritti di essere
infelice: lei bella senza ricchezze; buona, senza amore; sempre
in mezzo all’odore di sacristia, essa che ha il cervellino mezzo
filosofico; per di più pare sia stato scritto per lei — _nessun maggior
dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria!_ — Infatti se non
fosse stato di certi se, in cui ella non ci ebbe proprio veruna colpa,
insomma, se le cose fossero andate, come dovevano andare, ella avrebbe
dovuto trovarsi al presente sfolgoratamente ricca e corteggiata.

«Eppure nonostante questi ottimi requisiti di infelicità, Severina
è tutt’altro che infelice. Con la squisitezza del suo animo e
l’elevatezza del suo ingegno si è fabbricata alcune massime, che mette
rigorosamente in pratica, e della loro scoperta è gelosa e contentona,
più che se avesse ottenuto da un Congresso Astronomico il permesso
autentico di battezzare con il suo nome quattro nuovi pianeti e il
relativo brevetto di invenzione dal Ministero di Agricoltura, Industria
e Commercio.

«Per esempio ella ha trovato, che le ragazze povere non devono mai
amare, perchè glielo proibiscono l’interesse e soprattutto la dignità.

«Questa _trovata_ è una delle sue principali ricchezze. Ha poi scartato
da sè, mediante un lunghissimo processo di analisi, quasi tutta la
scoria degli atti del culto esterno, ed ha condensato la sua religione
in un brodo consumato di ideale evangelico.

«Tutto questo preparato di chimica religiosa secondo lei è riuscito
addirittura un capolavoro, cui ella va ogni giorno raffinando di
più, mentre vi si affina lei stessa; per cui, oramai atrofizzatosi
completamente il cuore con altre parti della vita animale, non solo
si crede ma si _sente_ in diretta relazione con certe intelligenze e
consolazioni di ordine sovranaturale; quindi giornalmente compie atti
di eroismo domestico con la più felice ed eterea indifferenza.»

                                   ——

«T. (non si può inserire per la ragione detta alla lettera R).

                                   ——

«U. (Idem).

                                   ——

«V. (Idem).

                                   ——

«Z. è un dottorino lungo e rettilineo con la testa da rettile, nella
quale si trova un cervellino microscopico, che brilla di una luce
insistente, rabbiosa e ridicola come una scheggia di madreperla in un
banco di sabbia.

«Egli è venuto al mondo con la sconfinata ambizione di signoreggiare
la Società, mostrandole apertamente il proprio disprezzo; cómpito
difficile e metodo fallacissimo, imperocchè la Società non concede i
suoi favori se non a chi la piaggia vistosamente; padronissimo questi
di sputarle contro, ma solo dopo essersi trincerato nel più stretto
incognito.

«Quindi il dottorino Z., invece di riempire di sè cento volte al
giorno, come neppure sarebbe bastato al suo desiderio, le Camere, la
Stampa, la Scienza, l’Italia e il mondo, divenne dopo mille sforzi
e rimase nel suo mestiere un oscurissimo specialista di malattie
vergognose.

«La sua anima dovrebbe esserne afflitta e _ruggire_ continuamente, come
lo _spirto d’abisso_, quando se ne parte _Vôta stringendo la terribil
ugna_.

«Eppure l’altra settimana io ho riveduto il mio caro dottorino, con uno
splendido cappello a cilindro che quasi mi abbarbagliò. — Quel cappello
— dissi meco stesso, — è un indizio certo di sicurezza e di felicità
interiore, perchè un’anima fiacca e malinconica fa il contrappelo al
suo cilindro nel primo uscio, in cui scantoni. Quale sarà la ragione di
questo fenomeno?

«La investigai.

«Mancando al Nostro qualsiasi supremazia esterna, egli si è
cristallizzato poco per volta nel suo sè un sentimento di supremazia
interna, per cui giunse a dire sul serio ad una allieva infermiera, che
egli non si credeva inferiore ad Alessandro Magno.

«Il continuo esercizio di questo sentimento gli fece ammucchiare
giorno per giorno un tesoro di prodigiosa imbecillità, che basterebbe a
rendere felici quattordici generazioni di Accademici delle Scienze, non
che un solo dottorino. Eccone due soli esempi:

«Il dottorino Z. l’altro giorno ricevette il diploma di _Italiano
benemerito_ della Società Neo-latina sotto la presidenza onoraria del
Principe Ereditario, con medaglia d’oro e mediante pagamento immediato
di lire ventisei.

«Ebbene egli, l’antico scettico, lo ha accettato, mandando senza
dilazione al Gran Maestro Creatore del nuovo ordine di iniziativa
privata il desiderato vaglia postale di lire ventisei, e non solo ha
fatto questo, ma scrivendo ad un mercante di campagna aggiunse alla
sua firma con la litania degli altri titoli anche quello di _membro
Italiano Benemerito della Società Neo-latina_ dimostrando l’evidente
pretesa, che il campagnuolo rispondendogli riproducesse tutto quel
carnevale di titoli sulla soprascritta.

«Un’altra più marchiana. — Ieri il dottorino Z. seminò in un vaso di
fiori un pizzico di seme bachi da seta, presumendo, che avrebbero a
spuntar come il trifoglio o il prezzemolo per la sola ragione che li
seminava lui.

«Si teme che quest’eccesso di felicità lo abbia a far tradurre
prestissimo al Manicomio Provinciale, locchè sarebbe per chicchessia la
massima delle felicità terrene.»

                                   ——

«Insomma, ricapitolando, senza una capitale presunzione non si dà
felicità a questo mondo, ed essa si può un’altra volta definire
con una piccola variante: — La felicità è la supposta _privativa_
della infallibilità personale per parte della cocciutaggine, della
imbecillità, e meglio della pazzia umana.

«Un immenso proverbio aveva già detto: — _chi si contenta, gode_.»

                                   ——

«Mi pare cosa certa, che oramai l’Arte si muta in mestiere, e l’Artista
in artigiano.

«Nessuna persona ammodo ha il coraggio di leggere un libro che abbia
fatto furore dieci anni fa, come niuna signora elegante ha il coraggio
di mettersi in testa un cappellino, che sia stato di moda dieci anni
prima.

«Si estendono agli artisti le regole degli artigiani, e prima di tutte
quella di non fare nulla che possa eccedere le facoltà estetiche ed
intellettuali, che sono normalmente comuni a tutti i _travetti_,
a tutte le maestre elementari, a tutti i parrucchieri, a tutti i
lavapiatti e a tutti gli _assidui_ dei giornali politici.

«Insomma si dà come principale norma dell’Arte la _misura_, la quale
fino a ieri è stata soltanto la norma dei sarti, dei calzolai e dei
falegnami.

«Secondo me invece la principale norma dell’Arte non è già la _misura_,
ma la _smisuratezza_.

«Per me il genio del vero artista è una specie di pazzo furioso, che dà
delle enormi capate in cielo e ne stacca stelle e procelle a illuminare
o interrorire la terra.

«Così mi è parso leggendo la Bibbia, Omero, Dante e Shakspeare.

«E la scienza del professore Lombroso è d’accordo con me nel GENIO E
FOLLIA!»


XXXV.

Seguita il _Sillabo dei pensieri cattivi_ di Giuseppe Panezio, dai
quali si pare a quale disperazione gelida e atroce dell’intelletto
possa condurre più che la miseria l’abbandono di una madre.

                                   ——

                             . . . . . . .

«Sempre nuovi tormenti e nuovi tormentati.»

                                   ——

«La donna più onesta è la donna, che ha più cattivo cuore.

«Viceversa la donna disonesta è la donna di più buon cuore.»

                                   ——

«Ho sentito ieri dire da una popolana, che suo marito era soltanto
geloso degli amanti poveri di lei.»

                                   ——

«_In demissa_ macheronicaque _latinitate, qua utimur_ larvandarum
_liberarum idearum causa, — uxor infidelis est quædam mulier_ GENEROSA
_sine permissione Quæstorisque taxatione_.»

                                   ——

«_Mulier occupatur difficilius, quae aliquam infirmitatem timet
accipiendam._»

                                   ——

«Nell’aritmetica dei giovani celibi, la signora altrui equivale ognora
ad una Taide gratuita. Essi dopo aver fatto ben bene il proprio conto,
credono sempre più economico lo spendere una grossa somma di moralità,
che non una piccola di denaro. — Però questo computo non torna quasi
mai loro veritiero.»

                                   ——

«In nome della Verità, del Buon Senso e della Legge vorrei sbandire
dal Vocabolario e dalle superstizioni dell’Umanità le parole _fanciulla
sedotta_.

«Non ci è mai stata, e non ci sarà mai una ragazza sedotta. Lo si
può calcolare con esattezza matematica valutando l’interesse che ha
ciascuna delle parti a tirare a sè l’altra, e la posta che ciascuna
mette in giuoco.

«La ragazza ha l’interesse del matrimonio, che è la sua dignità e la
sua impunità in questo mondo, e mette in giuoco un nonnulla.

«L’uomo, il preteso seduttore, ha un piccolo interesse momentaneo, e
mette in giuoco una immensità, la libertà personale e l’onore della
sua vita, se casca nel baratro del matrimonio. Quindi è facile capire
che è sempre la cosidetta ragazza sedotta quella che ha sedotto il suo
calunniato seduttore.»

                                   ——

«L’uomo che meriti in qualche modo il titolo di seduttore, è l’uomo
che siasi ammogliato appositamente, cioè siasi acconciato a perdere
volontariamente la sua libertà e la sua dignità rispetto a una donna,
per poter tradire con sicurezza di impunità tutte le altre.»


XXXVI.

Seguita ancora l’_Album atroce_ di Pinotto.

                                   ——

«L’amore per le donne è ciò che dicesi uno sciocco _convenzionalismo_.

«La stessa bellezza delle donne è un convenzionalismo.

«Può essere, cioè parere bella una donna, che si vegga fuggitivamente,
con cui non si abbia parlato nè ballato mai.

«Allora la donna reale è bella, come la donna ideale che si trova
nei libri e in altre opere d’arte, perchè ci lavora o ci ha lavorato
intorno la fantasia.

«Ma si mangi il sale insieme e per un sol giorno con la più portentosa
e più ammirata bellezza di donna che esista realmente, e poi riuscirà
impossibile ad un osservatore coscienzioso di trovarla ancora bella,
dopo che abbia potuto osservare minutamente a tempo debito le chiazze
della sua epidermide sotto le occhiaje.

«Quindi io nego, nego recisamente l’assurdo dell’amore reale per
l’umanità presente.

«Amare realmente e naturalmente è una cosa, che potranno fare tuttavia
i fiori dei campi e gli uccelli del bosco, le cui generazioni si sono
mantenute sane e illibate ai benefizi dell’aria libera e ai lavacri
delle intemperie.

«Ma per l’Umanità, che discendendo per i secoli si è sempre più
imputridita nei fetidi cubicoli della sua civiltà, l’amore è diventato
bugiardo, benchè pochi si accorgano o vogliano ammettere, che sia tale.

«L’unico amore logico, vero e tuttavia possibile per un uomo sincero è
l’amore platonico verso una donna quasi da lui sconosciuta.

«Quanto a me, il solo ricordo delle donne, che mi hanno dato un bacio,
mi muove a stomaco.

«Sento invece, che amo furiosamente la figliuola del notaio Raffa, che
ho vista una volta sola e nella penombra.

«L’amo tanto che morirei per lei.»

                                   ——

«Non saprei precisare, se la razza umana presentemente sia più vile o
più convenzionale.

«Essa si mostra convenzionale anche nell’esercizio delle sue più
importanti prerogative, per esempio nel suicidio.

«Di tanto in tanto un garzone parrucchiere disperato, perchè una
modista invece di sposare lui ha accettato il solido _trattamento_
offertole da un banchiere, pone fine miseramente ai suoi giorni
mediante asfissia, annegamento o salto mortale dal quinto piano; e si
legge costantemente nella _Cronaca Nera_ dei giornali, che in mezzo
ai pettini dell’infelice suicida, sul tavolino da notte, presso il
braciere dell’asfissiato, o sulla ghiaja del fiume d’accosto alle
scarpe dell’annegato, si trovarono aperte le inevitabili _Ultime
lettere di Jacopo Ortis_.

«Or bene queste lettere, dinanzi al nostro modo di sentire odierno,
secondo me, non sono più altro che una freddissima decorazione di
malinconia patria ed amorosa, una decorazione materiale e posticcia,
come quelle gramaglie listate di similoro, con cui i tappezzieri
addobbano le porte delle chiese e gli usci di casa invitando il
pubblico a pregare per l’anima della damigella X, Y o Z, deceduta nella
verde età di anni settantacinque.

«La lettura dell’Jacopo Ortis, a chi abbia le sue facoltà naturali in
equilibrio, può far nascere l’occasione di uno sbadiglio e l’idea di
andare a bere un bicchierone di birra, ma non mai quella di ammazzarsi.

«Eppure, chi sa fino a quando nelle rispettabili corporazioni dei
giovani parrucchieri, dei garzoni panattieri, sartine, ecc.; durerà
questa benedetta usanza di darsi volontariamente la morte, facendola
precedere dalla lettura dell’Jacopo Ortis?»

                                   ——

«Molto vile è l’uomo ammodo od anche di genio, quando a porte chiuse
domanda ad una donna, che gli faccia la carità di quell’illusione che
è l’amore. Egli allora si abbassa ad adorazioni ed abbiettezze verso
una guattera o una squarquoja, con una procedura, la quale ripugnerebbe
persino all’accattone, che per avere un soldo di elemosina disegna con
la lingua una croce in terra.»

                                   ——

«Ma vilissimo, e molto superlativamente vilissimo, è poi il medesimo
individuo, quando, fuori della _Camera charitatis_, — in pubblico caffè
o passeggio sforza i suoi colleghi mascolini a sentire la litania dei
suoi miracoli amorosi, millantando la propria superiorità facilissima
sopra tutte le donne e sballando di aver ricevuto da fanciulle e da
principesse certe cortesie esagerate, che forse gli rifiutarono le
vecchie cuoche. Egli allora in seduta pubblica tenta innalzarsi sul
sesso femminino, — davanti a cui poco prima, in seduta privata, si era
inginocchiato e aveva piagnucolato miseramente — tenta innalzarsi come
un pallone areostatico, ripieno di ridicolaggine, vanagloria e menzogna
vergognosissime.»

                                   ——

«Uomini profondamente immorali, superbi, malefici, traditori, furfanti
di cuore leggerissimo e senza un briciolo di coscienza, bricconi
simpatici, farabutti invadenti e soverchiatori, trovano poi nella vita
un istante di debolezza morale per diventare vittime ridicolissime di
una serva o di un matrimonio.»

                                   ——

«La viltà della razza umana si dimostra eziandio nelle sue più umili
manifestazioni, per esempio nella critica letteraria.

«Essa ha per iscopo patente di demolire il _vero merito_.

«Ma c’è un vero _merito_, grasso, lustro, felicemente e completamente
riuscito, riconosciuto da tutti, ben voluto da tutti, perchè non va
mai a contrappelo di niuna convenienza o convenzione sociale, — un
_vero merito_ costituito in così floride condizioni di salute o sopra
una così solida piattaforma, che sarebbe non pure cosa innocente,
ma sarebbe un bello e coraggioso esercizio ginnastico il giostrarvi
contro.

«Eppure state sicuri, che questo _vero merito_ fortunato nessuno lo
toccherà.

«Invece vi è un altro _vero merito_, forse di portata maggiore del
primo, ma tuttavia incipiente o ammalato od osteggiato da numerosi
nemici per la sua audacia di novità o funestato dalla miseria o dalla
moglie impudica.

«Ebbene questo _vero merito_ disgraziato sono quasi tutti d’accordo nel
dilaniarlo e nel cercare di ammazzarlo.»


XXXVII.

Ultime note tristi e bizzarre di Giuseppe Panezio:

                             . . . . . . .

«Se io dovessi pubblicare un libro, vi metterei come prefazione _la
verità, tutta la verità_, NIENT’ALTRO CHE LA VERITÀ, (art. 297 del
Codice di Proc. Penale).

«Vorrei poi fare stampare il mio libro su carta nera con inchiostro
bianco. Così darei ai miei lettori un magnifico effetto di ossicini
intagliati nelle tenebre di una cassa da morto; e farei del bene alla
vista del prossimo, come mi assicura un professore di ottica.»

                                   ——

«Ma quale è la vera causa della voga e fortuna straordinaria di certi
capi di letteratura industriale?

«Senza essere una Commissione d’Inchiesta, rispondo, che ciò dipende
non già dal valore intrinseco dell’autore o della merce, ma da
circostanze estrinseche.

«Per esempio il _Libro di lettura per le scuole, ecc._, dell’abate
Gineprai è un libro pieno di sugo, e vale per lo meno un milione
di volte più di quello dell’abate Zuccheroni, il quale è pieno di
sgrammaticature e di minchionerie (rubate per soprammercato) e non vale
proprio niente.

Eppure l’ab. Zuccheroni con lo spaccio dei _libri di lettura_,
Sillabarii, Aritmetiche, Grammatichette, ecc., ha già potuto farsi
fabbricare una magnifica villeggiatura sui colli, mentre l’abate
Gineprai, dopo l’aumento di tariffa nei tabacchi, non può più nemmanco
fornire al suo naso del rapato a petizione.

«Il motivo si è che quel lecchino dello Zuccheroni è entrato nelle
grazie del Consiglio Superiore dell’Istruzione Pubblica e di quasi
tutti i Consigli Provinciali Scolastici, ecc.; mentre quest’istrice del
Gineprai si è fatto prendere nel sedere da tutti i magnati.

Ciò che dicemmo dei libri scolastici si può benissimo intendere delle
opere di letteratura amena. Anche per queste c’è il Consiglio Superiore
e sopratutto ci sono i Consigli Provinciali scolastici delle signore.»

                                   ——

«Saggio di eloquenza, chiarezza, proprietà ed eleganza
forense-burocratica: — Voi, Corte dei Conti, prima di interinare il
cennato decreto in discorso, onde difendere ogni ulteriore rimarco,
dovevate rendervi edotta, che non si era dato competente evacuo a tutti
gli incumbenti che di ragione per l’emarginato rilievo.»

                                   ——

«L’umorismo è un ferro tagliente, che attraversa un argomento e ne
svescia gli umori, come da un tumore.

                                   ——

«La coreografia è il bagliore superficiale e muto dei prospetti e dei
contorni.

«Certi scrittori, braccati d’oggi dì, sono semplici coreografi di
sentimenti.»

                                   ——

«Se io dovessi _partecipare_ il mio prossimo matrimonio farei imprimere
nell’intestazione della lettera listata di nero una grossa croce
nerissima coll’urna mortuaria e relativo salice piangente e terminerei
l’annunzio con

                              «UNA PRECE!»

                                   ——

«In moltissimi uomini la Bontà non è altro, che l’impotenza di essere
cattivi.»

                             . . . . . . .

                                   ——

«La disonestà è la maggior ricchezza delle fanciulle povere e il
miglior mezzo per maritarle.»

                                   ——

«Ultima e vera sentenza sulla felicità relativa data da un povero
diavolo, mentre si sentiva stilettato profondamente dal male dei denti:
— L’uomo felice è quegli, che non ha male ai denti.»

                                   ——

«Le assolute disgrazie in famiglia sono: — cani e letteratura inedita.»


XXXVIII.

Non meno feroce di quello che fosse verso l’uman genere in genere
mostravasi Pinotto verso i suoi creditori in particolare, ai quali
non si sentiva legato da niun vincolo di riconoscenza. Anzi, per uso
e consumo della sua beffa, se ne era formata in mente una gerarchia
feudale, o meglio un cielo astronomico: c’erano i vassalli o meglio
i pianeti, che avanzavano da lui mille lire, c’erano quelli da
cinquecento, quelli da cento; ce n’era una lunghissima tratta da venti
a cinquanta; quelli da cinque, da dieci e da due lire, erano numerosi
come i pulcini; e fra essi c’erano persino gli uscieri del suo ufficio.

Quando egli era sovrappreso dal malumore, si consolava tosto,
immaginandosi di convocare tutti i suoi creditori in un _meeting_
al Colosseo. Quivi avrebbe voluto farli svenire tutti recitando
loro un’orazione di sette ore, e poi bagnarli persino nelle tasche
manovrando una immane tromba da giardiniere.

In quei momenti estrosi di beffarda superbia, egli passeggiava vigoroso
fra la folla di Roma come un robusto e nero serpentello. Allora si
doleva di essere piccino di statura; onde avrebbe voluto salire sopra
un alto cavallo e allargare spropositamente le gambe, quasi tanto da
raschiare le muraglie dalle due parti della via o per lo meno forbire
con la punta degli stivali il naso dei passanti, precisamente come
faceva quel cavaliere Adimari, a cui Dante fece rincarare la condanna
per contravvenzione al Regolamento di edilizia municipale.

O meglio avrebbe voluto essere un grandazzone della posta di quel
gonfiagote, spauracchio dei bambini e delle signore torinesi, che
sotto l’ala tremenda di un cappellone calabrese, svolgendo al vento un
nastro d’occhialino largo mezzo metro, camminava normalmente a passi
da tiranno di teatro diurno, — colla giubba superbamente spaccata e le
rivolte spedite indietro, — ora col pollice uncinato all’imboccattra
della sottoveste, agitando il ventaglio delle altre dita, ora
affondando le falangi dell’indice e del medio nel taschino dello stesso
panciotto, — spingendo alternativamente le spalle, quasi tragiche
catapulte, come avesse voluto con l’una far indietreggiare un popolo
di calessi e con l’altra crollare un muro maestro, — sornacchiando
fragorosamente all’appressarsi di qualcheduno, — ed esalava da tutta
la persona la più sublime prepotenza e il più profondo disprezzo verso
l’umanità restante, a cui sbuffava in faccia il fumo del suo sigaro,
facendone poi cascare a grammi la cenere sul cappello dei cittadini più
umili.

Pinotto invidiava il ricordo di quel gigante di monomania orgogliosa; o
avrebbe voluto giullarescamente demolirlo, forandolo con l’ago del nano
Papiol.

Mentre egli così si infischiava di tutti e specialmente dei suoi amici
e benefattori, questi finirono collo stufarsi definitivamente delle sue
continue richieste, a cui risposero da ultimo con quella congiura, di
cui si lagnano ordinariamente gli scrittori, la congiura del silenzio.

Ad Edoardo non osò più scrivere, nè questi dopo il gran rifiuto scrisse
più a lui.

Allora inaridita affatto la sorgente delle solite sovvenzioni, Pinotto
ritrovandosi con il corto da piede, si degnò di andare a ricercare il
Capitano.

Quando fu davanti alla porta di costui, eccolo sbucare e quasi
balzargli sul petto coll’impeto di un gatto furioso. Dopo lui ecco
Fido.

Il capitano stralunato seguitava a correre, non avendo avvertito chi
veniva a cercarlo.

Il cane rimase un po’ di tempo in tentenne: se dovesse seguitare
l’usciere o restare con l’amico sopraggiunto.

      _Si si starebbe un agno intra duo brame_
    _Di fieri lupi, igualmente temendo;_
    _Si si starebbe un cane intra duo dame._

Finalmente esso pensò: — Quello là corre, perchè ha buon tempo: questo
qui invece sembra abbia bisogno della mia assistenza: oh, sì! — e
rimase con Pinotto.

Ecco che cosa era capitato all’usciere.

Aveva saputo che doveva giungere in Roma sua moglie diretta a Napoli
con un garzone parrucchiere. A quella notizia gli erano venuti in mente
i litri bevuti ammirandola nel villaggio natìo, gli era venuto alla
gola quanto essa era bella, bionda, lustra e morbida; ed aveva sentito
una forza irresistibile, che lo spingeva a ricuperarla strappandola a
quel _ludro scellerato_.

Forse avrebbe scacciato quella tentazione, se avesse avuto dinanzi
il dovere di continuare la sua protezione a Pinotto, che se la fosse
meritata. Ma, non vedendosi lì presente quel dovere, egli era scattato
via.


XXXIX.

Mentre egli era sparito, Fido e Pinotto si guardarono negli occhi quasi
dicendosi reciprocamente: — Adesso siamo noi due soli in ballo. Ebbene
balliamo.

Il giovane condusse malinconicamente il cane nel proprio covo, essendo
la stanzetta dell’usciere rimasta chiusa per la partenza di lui.

Questa partenza aveva data una stretta al cuore del povero giovane
abbandonato, lo aveva annientato, lui, che credeva di sbizzarrirsi
tuttavia sull’amicizia del Capitano, fondandovisi come sopra un
frammento di famiglia.

Mancandogli quell’ultima base, egli si mise a piangere.

Fido voleva che cessasse dalle lacrime; perciò si arrampicava sulle sue
ginocchia, e gagnolava per farsi sentire. Egli lo ributtò dicendogli:
— Seccante! — ma poi guardandolo, lo trovò negli occhi così pieno
di leale e devoto affetto, che non potè tenersi dal chinarsi per
stringergli la testa. Allora il cane sembrava matto; gli abboccava
la barba, i capelli, lo baciucchiava per tutta la faccia in un modo
disordinato e commovente.

Rinfrancato dall’amore di Fido, egli ebbe un altro dirizzone di bontà.

Appena riscosso alle Ipoteche il suo stipendio mensile di settanta
lire, egli pensò di estinguere a un cavurrino per volta i suoi piccoli
ma numerosi debitucci verso i portieri e i suoi colleghi d’ufficio,
considerando che erano anche essi poveri come Giobbe e per di più padri
di famiglia.

In questa operazione egli incominciò ad impiegare una quarantina di
lire.

— Con le altre trenta lire, — egli ragionava con Fido, — noi altri due
viviamo; se non benissimo, pure viviamo. —

Quella testa singolare, non certo chiamata per le matematiche, aveva
dimenticato che c’erano da impostare nel suo bilancio mensile le
venticinque lire della piccionaja. Pagata la pigione, gli restarono
appena cinque lire per vivere lui e il cane durante un mese. Quindi,
come era troppo naturale, egli dovette tosto farsi prestare nuovi
cavurrini da quasi tutti coloro, a cui li aveva restituiti.

Così seguitò negli altri mesi restituendo e poi ridomandando di lì a
poco il restituito, senza estinguere mai definitivamente il suo piccolo
consolidato, che mancomale procedeva innanzi senza interessi come le
cattive _azioni_ di un canale sfavorevolmente conosciuto.


XL.

Quella povera vita, nutricata con poche diecine di lire al mese,
in compagnia di un grosso cane, non mancava però di dolcezze e di
beatitudini, essendo egli poco per volta riuscito a formarsi un
quissimile di guanciale nella sua miseria a forza di dimorarvi sopra.

Per esempio egli provava una specie di gioja pitocca nel sentirsi
libero, oscuro, non soggetto alle imperiose leggi dell’educazione,
della pubblicità e della personalità conosciuta, non costretto a
stillare un articolo faceto di giornale col male ai denti, o a finire i
periodi con grammatica al Tribunale o alla Camera.

Qualche volta indicava a Fido un giovinotto elegante per metà e per
metà con acconciatura di «me ne impipo.»

— Quello lì io lo conosco; ma egli non mi conosce o finge di non
riconoscermi più; egli è meno proprietario di noi, ed ha più debiti
di noi, mancandogli già qualche diecina di migliaia di lire, perchè
si possa considerare nullatenente, come diceva Giulio Cesare: ma a
differenza di noi egli non si abbasserebbe nemmeno per raccattare i
quattrini, con cui egli dovesse pagare un creditore, ancora che questi
fosse affamato o gli avesse prestato i denari della laurea. Eppure
a lui non difettano mai i mezzi per vivere disonestamente bene. Due
anni fa egli ha ricevuto ventimila lire da.... (e qui bisbigliò un
nome proprio illustre, che a noi non è lecito ripetere) e le mangiò in
quindici giorni. Quando alla mattina esce da casa sua o da una casa di
gioco o da luogo peggiore, senza aver più un centesimo in tasca, egli
con viso sicuro arriccia le nari per fiutare l’aria e interrogare sè
stesso: — ho da andare di qui o di là? — e scommette tra sè e sè: —
non vado lontano cinquanta passi, che ho cento lire in tasca. Infatti,
movendosi verso una direzione qualsiasi, al primo senatore, o ministro,
o monsignore, o grand’uomo, o personaggio venerando, che inciampa,
ei gli mette famigliarmente e con protezione birrichina le mani sulle
spalle: e gli dà del _tu_ e si fa dare le cento lire. Fido! Quello li
è uno scroccone di spirito, ma non invidiamolo; deve essere una grande
fatica pel cervello e anche per il senso morale l’essere di spirito
tutti i giorni a quella maniera.

— Fido! adesso guarda questo qui, con quel peperone gonfio al posto
del naso, con quella ciccia fosca, falsa e tremula come quella
dei bevoni e dei cretini, con quei calamai intorno agli occhi, con
quella bocca sdentata e con quell’andatura di oca balorda. La sua
posizione ha poco da invidiare alla nostra. Guardalo nella faccia:
Come è bucherellata! che macchie nere e sinistre da appestato! Eppure
è una bella testa, e lavora; ma lavora in cose che non fruttano, in
versi. Quello lì è scannato come noi, e per di più ha l’abitudine di
ubbriacarsi mortalmente tutte le sere, ed ha una moglie, che è persino
peggiore della sua abitudine. Non la vorresti nemmeno tu, che sei
cane. Che tribolazione profonda ed estesa deve essere la sua vita! Noi
consoliamoci, perchè non siamo come lui miserabili di genio.... —

Pinotto e Fido si sentivano contenti della loro sorte non solo nei
colloqui e nelle apostrofi, che si comunicavano, ma eziandio nei
soliloqui, che ciascuno faceva per suo conto, sebbene spesso si
incontrassero.

Infatti gli stessi ricordi martellavano nei cervelli del cane e
del giovanotto; erano ricordi del Piemonte, in cui erano ambidue
compatriotti; ricordi del villaggio di Edoardo, dove Pinotto nei
suoi tempi migliori, fulgido e bizzarro come era, aveva fatto da
Satana e da Messia per quelle signore e signorine dei campi, — dove
l’inserviente comunale lo aveva preconizzato con certezza matematica
per un futuro grand’uomo politico e grandissimo oratore, — dove Fido
con la sua indole facile alle entrature era divenuto intrinseco del
padre di Edoardo, sindaco; lo accompagnava nelle adunanze della Giunta
municipale, nei balli e al teatro, ed aveva oneste accoglienze da per
tutto, persino in chiesa, tanto che era chiamato il vice-sindaco del
paese.


XLI.

Il cane non abbandonava mai il nuovo padrone: si recava con lui alle
Ipoteche, dove era tollerato in un canto.

Quando si avvicinava l’ora di uscire dall’Ufficio, Fido lo annunziava
a tutti, raspando contro alle porte e ai banchi, e andando ad
avvertire specialmente Pinotto con mille squittii d’impazienza; quindi
precedendolo voleva mostrargli la strada d’uscita.

Quando poi egli usciva davvero, allora esso scavallava nella via
sfolgorando, come divenisse sua la Città Eterna, e scorrazzava intorno
al padroni con cerchi fulminei come un cavallo da corsa flagellato dal
fantino.

Andavano insieme dal minestraro, dal cioccolattiere, all’osteria di
cucina; si facevano mille complimenti. Il cane non voleva quasi mai
mangiare ciò che gli offriva Pinotto, temendo che questi soffrisse
qualche privazione per cagion sua; voleva provvedere esso stesso ai
proprii bisogni, e se avesse potuto, avrebbe provvisto abbondantemente
anche a quelli del compagno.

Portava sempre nella cameretta ossa abbondanti e ancora ricche di
polpa. Una volta portò addirittura un intiero prosciutto, che avrebbe
tentato l’appetito di chicchessia, non che dello stomaco vuoto di
Pinotto. Ma questi per delicatezza non osava mai defraudare il cane del
frutto delle sue fatiche.

Era un vero idillio di pace e d’amore, tutto circondato da attenzioni
di un galateo diplomatico.

Alla sera, nei caffè da due soldi, sopportavano insieme tutti e due per
lunghe ore le occhiate dei fattorini, che volevano cacciarli via; così
risparmiavano l’illuminazione a casa.

Era sì grande in Pinotto la soggezione del cane e la relativa
inspirazione del bene, che un giorno essendogli comparsa nella
cameretta la _quaglia_, per cui l’usciere quella volta non aveva potuto
farsi da lui ricevere, la congedò per sempre.


XLII.

Quando si trovavano al Pincio, Pinotto faceva a Fido la spiegazione dei
busti degli uomini illustri.

— Vedi, cane! questo qui è Brofferio. Dovrebbero ristampare in una
collezione le sue arringhe forensi e i suoi discorsi parlamentari.
Così, studiandoli, i nostri giovani imparerebbero a discorrere con
chiarezza e con fuoco, e non farebbero il brodo lungo, torbido e
scipito, che fanno gli avvocati e i deputati adesso.

— Questo qui, cane, è il busto di un minchione. — Così dicendo, per una
recrudescenza del suo spirito beffardo, egli schiaffeggiava leggermente
ma vistosamente le guance marmoree di quel grand’uomo, giudicato tale
dal municipio, e da lui battezzato per un famoso minchione.

Alcune volte seduto sopra una panca pubblica, godendo le largizioni
del _padre dei poveri_, come questi chiamano il sole, egli sentiva
l’ultima felicità terrena, quella degli ammalati e degli accattoni, che
a poco a poco si addomesticano alle loro piaghe, ai loro parassiti, al
loro sucidume o al loro fetore, e finiscono per trovarvi una specie di
gustosa occupazione di questa inesorabile vita, che è data a consumare
agli uomini.

Ma certe altre volte, egli vedendo passare una carrozza, di cui il
cocchiere davanti e il lacchè di dietro avevano l’alito affocato
di salute e la pelle rossa come marrocchino, o vedendo dalla via
traverso i vetri di un caffè una lunga tavola apparecchiata con quei
filari di salviette bianche come oche e trascorrere un pettinatissimo
fattorino, recando, con elegante agilità acrobatica, in palma di mano
una larga guantiera, oppure leggendo in un giornale qualche bestialità
straordinaria detta da un deputato o da un ministro, egli sentiva
sprazzare via da sè velocissime tutte le acquiescenze e le pretese
beatitudini dei poveri diavoli rifiniti come lui; egli risentiva allora
nuove smanie e più acute di voler mangiar bene, vestir meglio, dormire
ottimamente ed entrare cogli speroni nel Parlamento, nei giornali e nei
ministeri, dare una presa di ciuchi a quei signori ed insegnar loro col
frustino, come si fa e come si parla. Allora si sarebbe arrotato contro
alle muraglie per torsi la ruggine dalla pelle; avrebbe mangiato il
bottino di Fido vettovagliato nella sua stanzetta; allora si mordeva i
pugni, scalpitava.

In uno di tali _ricorsi storici_, egli ebbe una vera ripresa di
esplodente lepidezza, passando davanti a Montecitorio.

— Ah! se fossi mai ricco! — egli borbottò nella sua mente, rivolgendosi
al cane: — Ah, se fossi mai ricco come il fu duca di Galliera, come
Torlonia, come Telfener! Oh! non vorrei mica perder tempo nè aspettare
che si introducesse qualche suffragio universale o scrutinio di
lista a sciuparmi la propizia occasione. Vorrei tosto presentarmi
candidato nelle prossime elezioni generali al suffragio ristretto
di tutti i 508 collegi uninominali del Regno, e farmi nominare
deputato proprio da tutti i cinquecento e otto, niuno eccettuato....
Ah! Ah!... (E così pensando, Pinotto gioiva febbrilmente:) Farei,
sarei io solo, almeno per le prime sedute.... tutto Montecitorio, io
solo.....; compilerei da me solo la risposta della Camera al discorso
della Corona, mi verificherei da me stesso i poteri; mi nominerei
presidente, vice-presidente, segretario, sotto-segretario, questore e
bibliotecario; muoverei interpellanze e presenterei ordini del giorno;
solleverei io solo, come un burattinajo nella baracca dei burattini, le
più tempestose discussioni....

Dopo avere urlato sul mio seggio di rappresentante universale del
popolo, salterei sul seggiolone del Presidente, e griderei a me stesso:
facciano silenzio, onorevoli colleghi!... Scampanellerei, come per
l’arrivo di un piroscafo; e nei casi estremi, afferrato il cappello,
me lo calcherei sulla testa, per sedare il tumulto di me medesimo;
avrei per me solo gli sguardi delle bellezze brevettate della tribuna
diplomatica e di quelle della Presidenza, le sonnolenze della tribuna
dei senatori, le attenzioni delle altre tribune pubbliche o riservate,
mascoline o femminine, civili o militari; si farebbe per me solo il
resoconto magro e sbagliato dei giornalisti appollajati nella loro
colombaja, _a cui non giunge la voce bassa dell’oratore_ e quello
sovrabbondante, riveduto e corretto dagli stenografi.

Farei e riscuoterei da me solo gli _applausi_, i _vivi applausi_,
quelli _generali e prolungati_, i semplici _segni di approvazione_,
l’_ilarità_, le _risa ironiche_ e anche i _mormorii_, non esclusi
nemmeno i _movimenti in senso diverso_; quindi, in fine della mia
sudata eloquenza, mi affollerei a stringere da me stesso la mano
all’.... oratore.

Insomma vorrei pigliarmi tanti e tali spassi da empirne e disgradarne
un romanzo di Giulio Verne; e dopo averne fatte più che Bertoldo, non
mi degnerei poi nemmeno di optare per verun collegio; li rinunzierei
tutti 508 a cinquecento e otto uomini di buona volontà. Quindi
noi, Fido, avanti, in marcia! Andremmo in un altro paese mezzo
costituzionale, ad acquistarvi la cittadinanza e ripetervi le stesse
scenate di gusto milionario.

D’ordinario quelle smanie dolorose o gaudiose, erano terminate da un
colpo di tosse, a cui non tardò ad unirsi lo sputo di sangue, che venne
da lui salutato come un cortese amico.


XLIII.

Chi finiva poi per consolarlo completamente era sempre Fido. Con
lo sfregacciolare il proprio muso e le tempia contro gli stinchi di
lui, col fargli sentire sulle mani l’incrinatura dei suoi baffi, col
rizzarsi sulle gambe posteriori a far la manovra dell’orso e della
scimmia o gli esercizi del soldato, e con lo stare attento per pigliare
al volo ogni battito delle palpebre di lui; col pedinarlo da per tutto,
esso gli diceva continuamente: — Pinotto, tu non sei solo; tu hai in me
un fedele amico, servitore e protettore. —

E Pinotto ciò ben intendeva, ed amava veracemente quel cane; lo
amava e lo trovava bello nelle sue mattie e nella sua gravità;
— quando si riversava poco decentemente per terra e quando si
acciambellava pulitamente sopra una seggiola, tutta riempiendola; —
quando incedeva glorioso con un osso in bocca e quando camminava a
randa dei suoi piedi, il muso dimesso e la coda in mezzo alle gambe;
— quando ringhiava contra qualche canucciaccio maleducato, che gli
si avvicinava, e quando fremitava, scalpitava e brillava di luce
amorosa rizzando le orecchie in piegature metalliche davanti a qualche
leggiadra e indulgente cagnolina; — quando si discostava quasi per
fargli la celia di tradirlo e poi ritornava a lui fragorosamente, quasi
per portargli la buona novella, — e quando, da lui minacciato di esser
chiuso in casa, protestava graffiando, zufolando, mugulando e sputava
via persino i grummoli di zucchero, con cui si cercava di abbonirlo.
Pinotto lo amava Fido, lo amava appassionatamente e liricamente.

Allorchè egli pensava a Glafir, origine della sua prima maledizione
materna, e guardava Fido, di cui si sentiva ogni giorno più innamorato;

— Ah! la vita — diceva — è proprio piena di compensazioni! Sì, Fido, tu
cane, mio unico consorte, sei pure il mio riparatore. —


XLIV.

Ma oramai poco tenacemente egli poteva pensare. Il suo cervello già
così gagliardo, così prepotente e fino all’estremo motteggiatore del
cielo e della ferra, sotto la calca delle disgrazie si era oramai
rammollito come il cervelluzzo di una villanella cretina, che nelle
sue estasi vede apparire la Madonna sopra il ciliegio del giardino del
prevosto.

Quindi spesso lo riassalivano entusiami infantili di moralità,
impeti collegiali di sacrifizio patriottico, di martirio religioso,
e di intolleranza ingenua, come se fosse stato ammesso appena ai
palpiti della prima comunione. Allora rabbrividiva nel vedere due
giovani persone di sesso diverso, sebbene fossero stati sposi, che
passeggiassero insieme a braccetto. Allora dentro la sua rigidezza
allobroga facendo un morboso intruglio delle ultime idee bollitegli in
testa e dell’ultimo _comunicato_ letto sui giornali, desiderava e si
figurava pazzamente di riuscire un mistico eucalipto, che producesse
nella Città maggior bene di quello aspettato dal vero eucalipto nella
campagna romana; cioè prosciugasse ad ogni minuto nella imporrita razza
prelatizia l’umido per dieci tanti del volume del proprio corpo.

Ma quelle fantasie gli svanivano, ed egli si trovava tosto, come
trasportato di punto in bianco nella più assaettata, affamata e
desolata realtà.

Un giorno, spinto sconsideratamente da una ghiottoneria elaborata dal
digiuno, e dimentico di ciò che era in quel tempo, cioè un mendico,
e fidente forse di essere tuttavia il giovane elegante e ricco di una
volta, entrò senza avvedersene nella trattoria di Spilmann.

Rimase subito spaventato a quell’atmosfera calda, a quegli atomi
impregnati di squisita cucina, a quell’acciottolío di porcellana, a
quel tintinnío di posate d’argento, a quel nero luccicore dei cappelli
a cilindro, a quei bianchi sparati di camicia dei _pajni_ e dei
diplomatici. Egli, che quattro mesi prima scrivendo a sua madre si era
confessato ancora superbo come Lucifero, egli tremolò di paura davanti
al bel cameriere, che compariva al suo cospetto.

Aveva tratto istintivamente di tasca un pane per accompagnare una
scodella di trippe, che voleva domandare; invece rispose al cameriere:

— Scusi... mi sono sbagliato di portina. —

Il cameriere con un inchino gli aprì la portiera; ed egli appena
toccò le lastre della via, si trovò libero e contento, come se fosse
uscito di prigione; e disse seco stesso con una bonarietà religiosa e
rispettosa da vecchio organista del villaggio: — Che bravo signorino è
quello là! Come mi ha trattato gentilmente!

Quella sera però non potè tenersi dall’entrare in una osteria e
consumarvi voracemente due lire.

— Domani faremo economia; — egli disse a Fido, e fece un’atroce
economia. Comperò soltanto due soldi di pane per totale nutrimento di
ambidue, ed abolì la candela di sevo, che soleva piantare dentro il
collo della bottiglia nera, borbottando: — Fido, dobbiamo d’ora innanzi
coricarci al bujo. —

Intanto fra la solitudine e l’inedia gli si rammolliva sempre più il
cervello; e, oltre al cane, lo accompagnava sempre un’apparizione, che
navigava come una luna nella nebulosa della sua testa.

Di lì a quattro giorni egli non potè rattenersi dall’entrare nella
trattoria della Rosetta, dove comandò una costoletta alla milanese. Gli
piacevano tanto siffatte costolette ed era da tanto tempo, che non ne
aveva più assaggiate!

Pure, essa gli apparve come un delitto di gola, quando se la vide
dinanzi. Credette di divorarla... Folle! Non era più capace nemmanco di
mandarla giù tutta.

— Fido, ne vuoi?

Fido gli fece cenno di no.

— Come sono debole!...

Venne il cameriere a domandargli: — Comanda altro?

Egli fu vergognoso di avere comandato soltanto una costoletta in quel
luogo, e domandò ancora una minestra di cappelletti al brodo, una
crostata di visciola, un mandarino e un pezzo di formaggio lodigiano
con mezzo litro di vino bianco asciutto. Egli rintuzzava il rimorso che
lo ingombrava per quel rialto così lussurioso, dicendo seco stesso e a
Fido: Eppure, anche io ho diritto di vivere! non è vero?

Si sforzò a spilluzzicare più che poteva, ma non riuscì ad ingollare
gran cosa.

Richiese il conto, e senti che faceva 4 lire e 25 centesimi. Ne rimase
costernato e fu lì lì per piangere. Gli parve di udire sua madre,
che gli dicesse con ragione: Ah! tu che hai gettato i denari dalla
finestra, oh! se tu li avessi adesso quei denari là! come ti farebbero
buon pro’!

Guardò nel portabiglietti; non c’era tutto il bisognevole; ma
razzolando i soldi e i soldoni nel taschino del panciotto potè fare
le 4 lire e i 25 centesimi, a cui aggiunse altri 5 centesimi per la
mancia, restandogli ancora 3 soldi per il vitto del giorno successivo.

Egli, uscendo dalla trattoria, si malediceva da sè stesso: — Sono
proprio sempre stato uno spensierato; ma tu, Fido, dovevi correggermi,
non dovevi lasciarmi entrare, dovevi mordermi! —

Ritornando a casa, egli guardava amoreggiando le finestre degli
ospedali.

Il giorno dopo, portò un ludibrio di fagotto al Monte di Pietà,
ritraendone pochi centesimi.

Passati tre altri giorni, non aveva più un soldo in tasca per il
pane quotidiano. Voleva domandare qualche cosa al Capo Ufficio, ma
quel giorno questi era di cattivo umore inaccessibile. Il rigiro dei
cavurrini restituiti e poi ridomandati egli lo aveva già fatto.

Dopo avere titubato per tutta la giornata, una lunga giornata della
proverbiale lunghezza, che dà l’angoscia dell’esser senza pane,
finalmente, prima d’uscire dall’Ufficio, abbordò un suo collega:

— Scusi, ho dimenticato a casa il portabiglietti.... Vorrebbe favorirmi
per pochi giorni cinque o sei lire?

— Mi rincresce! non ne ho; — gli rispose l’altro asciuttamente.

E Pinotto imperterrito: — Allora favorisca prestarmi un soldo, per
comperare la _Capitale_ da basso.

— Prenda! — e il collega glielo diede con la mala grazia di un Istituto
Bancario verso un patriota illustre ma non solvente. Certamente pensò:
Ah sì! comprerà la _Capitale_ per involgervi dentro l’ultima camicia,
che ha indosso e portarla al Pietoso Monte!

Ma Pinotto trionfava; lo aveva il soldo: il suo cuore gli batteva
forte: — Ah! è giusto il proverbio, che non si muore di fame.

Andò a comperare un pane, e si sentì la forza di aspettare ancora
qualche ora prima di addentarlo. Passeggiò. Nel cielo stagnavano nubi
sanguigne. Egli guardava in su: vedeva la sua solita apparizione, una
Madonna. Era sua madre.

— Viene, viene! — borbottava fra sè.

Il cane non poteva farsi guardare da lui, per quanto vi si adoperasse;
gli correva fra le gambe come una fiondata a rischio di stramazzarlo,
gli addentava le falde dell’abito e le tibie, gli era sempre tra i
piedi, ma tutto inutilmente.

Pinotto guardava sempre in su.

Finalmente egli risolvette di tornare a casa.

Il sole tramontava sinistramente. Rientrato nella sua piccionaja,
egli fu offeso da un giallore di pessimo augurio, che vagolava sul
pavimento, sulle colonne sverniciate del letto e sull’attaccapanni
tarlato, ed entrava persino a illuminare il vuoto completo dell’armadio
aperto: senza una ciabatta! Se avesse potuto, egli lo avrebbe smorzato
quel giallore!


XLV.

Si sedette; estrasse il pane di tasca; — tossì.

Aveva una fame che gli rodeva le viscere. Quel panetto lo fumerà in un
flato. Si provò ad addentarlo, — Dio mio! Non ne aveva nè la forza,
nè il coraggio. Ne esibì al cane: — Fido, prendi; anche tu avrai
fame. —

E il cane aveva fame davvero; imperocchè, preoccupato in tutto quel
giorno a tener d’occhio il padrone per l’inquietudine che gli destava
il suo aspetto — esso aveva trascurato di fare la solita provvista
delle ossa; pure temendo di recare il minimo torto a lui, rifiutò
l’offerta.

Pinotto volle ficcargli forzatamente un boccone fra i denti; ma non
riuscì ad aprire quella rastrelliera sprangata.

Allora estenuato lasciò andare le mani spossate; chiuse gli occhi,
tossi più forte e si senti nella bocca il sapore plumbeo del sangue
caldo, mentre gli girava addosso il senso di un freddo marmoreo.

Credeva di avere sulle ginocchia il muso di Fido, il quale invece
dimorava là lontano, tutto turbato per lo stato di lui; ogni po’
usciva sul ripiano, per vedere, se c’era qualcheduno da avvertire, e
poi rientrava e stava lì con quei suoi occhioni aperti, quasi volesse
medicare il padrone con le guardate amorose.

Questi sognava, e credendo di palpare le orecchie a Fido, borbottava: —
Grazie, Fido!.... Eccellenza... —

Egli scorgeva luminosamente ed ampiamente l’apparizione che lo aveva
seguitato da più giorni. Era la Madonna, e la Madonna era sempre sua
madre. Era tutta santa, tutta augusta, tutta fulgida di stelle.... Lo
riceveva e lo irradiava d’oro, d’amore e di sole....

Ed era stato Fido il parlamentario, che lo aveva presentato e fatto
ricevere. Aveva cominciato a parlare con Glafir, e si erano scambiate
alcune note. Glafir da principio era stato un po’ sostenuto e aveva
risposto con certe frasi acidule e sardoniche sullo stile del cardinale
Antonelli; ma poi la argomentazione ampia, cavurriana di Fido aveva
vinto.... Ora Glafir stava presentando a Fido uno per uno tutti i
membri della sua corte di cani.... Il monte Pincio era nel cortile
dell’Università di Torino, dove lussureggiavano meravigliosi eucalipti
con ciocche lunghe e splendide di foglie salutari.... la signora
Placida incoronava suo figlio.... Lo felicitavano tutte le persone
felici uscenti dai cartoni dell’Elenco spietato.... L’erbajuola
Ortensia, riconciliata, rideva largamente dalla consolazione e ridendo
faceva ballare la sua ciccia rossa....

Edoardo applaudiva freneticamente. Teodoro beveva, beveva pel legittimo
contento.... Aurelio scappava come una spia.... Fido aveva un lungo
colloquio sugli affari d’Oriente con l’onorevole Depretis, Presidente
del Consiglio dei Ministri, e tutti i giornali politici di qualche
importanza avevano un articolo di fondo intitolato: _L’Intervista di
Fido_.... C’erano moltissime signore, c’erano mille faccini da figurini
della moda che volevano ballare con Pinotto; fra tutte primeggiava la
signorina del notajo Raffa. Poi Madonna.... Pincio.... Ortensia....
Università di Torino.... giornali.... signore.... signori....
signorine.... sparivano.... Restava Pinotto attaccato al collo di sua
mamma, tutto irrigato di lagrime calde; mentre Fido e Glafir mangiavano
nella stessa scodella.


XLVI.

Mentre Pinotto sognava gemendo di quando in quando, Fido si sentiva
vieppiù agitato: correva a raspare indarno contra gli usci della sua
scaletta, indarno, perchè quelli erano usci di legnaja, di magazzini, o
usci annullati.

Il ministro della casa, che aveva affittata quella piccionaja senza
saputa del padrone, dimorava lontano in un’altra ala della casa.

Fido deliberò di abbandonare la sua scaletta e di salirne un’altra
per raspare contro un uscio, dietro cui ci fosse gente. — N’ebbe una
crudele mestolata fra le gambe.

Rientrato nella sua cameretta, urlò da lupo.


XLVII.

La mattina seguente rientrava in Roma il Capitano; rientrava come
Sganarello scornato e bastonato dall’amante della moglie. Infatti
dopo molte, lunghe ed ostinate ricerche aveva scovato a Napoli la
sua ostessa, e ne aveva avuto alcune moine. Ma essa se n’era stufata
presto, e dopo avergli vuotato il portamonete lo aveva fatto pigliare
fra due usci dal suo drudo.

Dice Brofferio: — «Non vedeste mai un gatto lussurioso nel mese di
febbraio, dopo dieci o dodici giorni di soggiorno clandestino sopra le
gronde o in fondo alla cantina, presentarsi tutto ad un tratto in casa
col pelo ritto, colle orecchie coperte di ragnateli, magro, sottile,
trasparente come una bestia immorale che ha fatta cattiva vita?»

Tale e quale era il reduce usciere.

Dopo essere passato a casa sua e aver trovato l’uscio chiuso, trottò
verso la stanzetta di Pinotto.

Fido gli si fece incontro silenzioso; e silenzioso, aprendo la bocca
come una pinza, gli diede una ganasciata così forte in una gamba, che
gli lacerò i calzoni e la pelle, facendogli gocciolare del sangue. Così
lo castigò meritamente della sua improvvida scappata.

Il povero usciere trovò il suo amico freddo cadavere. Gli fece fare la
sepoltura, cui egli seguì dietro la bara, solo, al luogo dei parenti e
in sembianza di reggere tutti lui gli invisibili cordoni del feretro;
Fido, tenendo la coda e le orecchie basse in segno di cordoglio, gli
camminava dappresso con quei passi che fanno i cavalli gualdrappati di
nero nei funerali militari. Quando ritornò a casa, la povera bestia era
tutta coperta di bioccoli di cera, come un fratello della Misericordia.

L’usciere si affrettò a scrivere alla signora Placida, che il figlio
di lei era morto _nelle braccia_ del proprio cane, e mandò un analogo
telegramma ad Edoardo.


XLVIII.

Quando Edoardo e gli altri amici ricevettero la notizia della morte
di Pinotto, ne rimasero costernati.... Per un pezzo si sentirono lo
spirito spento dal dolore e dallo stupore, e si maledissero in secreto,
per non essere nati milionari, per non aver potuto custodire in un
Eden quell’anima bella, fintantochè avesse potuto o voluto luccicare in
faccia al mondo.

Riavutisi, si dissero: — è impossibile, che sia morto Pinotto!... Era
così vivo.... —

E ne aspettarono per un po’ di tempo la risurrezione.

Ma vedendo che Pinotto, al pari degli altri estinti non risuscitava,
presero a parlarne con tutti, come se si fosse trattato di una morte
europea, telegrafata dall’Agenzia Stefani, per cui tutti fossero in
diritto e in obbligo di commuoversi.

Quando sentivano lodare un letterato di prima pezza: — Che! Che! —
prorompevano: — Pinotto avrebbe pigliato a scapaccioni lui, e altri
della stessa risma, se ce ne fossero stati.

Per maggiore sfogo proposero di erigergli un busto con una lapide
(solito pane, con cui si sfamano i letterati morti di fame) e
di fare un pellegrinaggio apposito a Campo Varano, pubblicando
contemporaneamente un volume di componimenti esequiali in suo onore.
Tutta questa colluvie di progetti commemorativi, al solito, si condensò
in un articolo necrologico, che comparve nel giornale di Edoardo.

Noi ne riporteremo poltronescamente la chiusa, a scanso di far noi
tutta la morale del Racconto. Diceva:

                             . . . . . . .

... «E così si dileguò a ventott’anni al pari di un volgare disgraziato
quell’indole fiera e singolare; e si portò via con sè i suoi fantasmi
estetici e bisbetici, le folgori e i coltelli della sua satira, i
tesori della sua mente e gli entusiasmi del suo cuore e quella forma
orgogliosa e squisita, che egli aveva vagheggiato così lungamente e
così caldamente, e che temette o sdegnò profanare, non avendo concesso
neppure una riga di suo al pubblico, benchè non gli siano mancati i
difficili inviti a dar fuori i propri scritti con profferte di sollievo
alle sue strettezze.

«Certo egli disprezzava sovranamente il basso pubblico dei barbieri
sfaccendati, di quei _travetti_, che con gli sbadigli scroccano la
paga e degli altri _ignorantelli_ borghesi, che non posseggono altro
motto o altro pensiero fuorchè quello dell’ultimo articolo letto, sono
sprovvisti di grammatica, di ortografia ed eziandio di un vocabolario
tascabile _Longhi e Menini_, sono muniti di albagia e di ottusità,
eppure sotto la veste di assidui formano il gusto corrente e l’opinione
pubblica dittatrice per la letteratura di parecchi giornali importanti
d’Italia.

«I brutti scherzi, che Mefistofele voleva fare agli angioli del Padre
Eterno e che i bambini fanno alle libellule, sono nulla in paragone dei
martirii gaudiosi, che egli escogitò per umiliare quel pubblico poco
rispettabile — altro che concedergli un alito di sè stesso!

                             . . . . . . .

«Egli aveva tutti gli ideali, anche quelli della virtù casalinga.
Creduto uno scioperato qualsiasi dai suoi più cari, di lui
inconsapevoli o incapaci di capirlo, egli, fabbricatosi con il più
tormentoso lavoro cerebrale la sua gelosa utopia letteraria, forse
un giorno le avrebbe dato fuoco, solo per irradiarne l’altare di sua
famiglia.

«Egli infine, ridotto al lumicino, lasciò la costosa adorazione degli
idoli estetici, chi sa con quale orribile sacrifizio della sua anima
di artista! e logorò acutamente gli ultimi anni della sua tisica vita
nelle facchinerie più materiali, per il bello ed onesto proposito
di rendere sereni gli occhi dei suoi cari e gloriosi di lui, posato
finalmente sopra il solito piedestallo di un impiego, gioja pressochè
unica di moltissime famiglie.

«Ma egli, che aveva attraversato a zig zag elettrici i fiori della
vita, non potè raccoglierne, assaporarne nè farne assaporare neppure
un frutto, egli che pure aveva ingegno, onestà, portatura, cavalleria,
_chic_ e conoscenza di lingue straniere, per riuscire stupendamente
e meritamente nella prosa del mondo, dove ingrassano, lustrano e
spampanano a tradimento miriadi di fanulloni, di minchioni e di
cialtroni.

«Povero giovane! Povero amico! Ma benchè finito misero e oscuro — noi
dobbiamo altamente asserirlo: — Egli fu grandissima parte del nuovo
gruppo letterario di giovani piemontesi, i quali gli devono quasi tutti
moltissimo, avendo ricevuto o trasfuso nei loro lavori qualche lembo di
quella poderosa natura artistica, senza che certamente abbiano saputo
esprimere nulla, come egli avrebbe voluto e avrebbe saputo.

«Povero perduto! a cui fecero guerra spietata le immagini del _Meglio_
e dell’_Ottimo_, nemici proverbiali del _Bene_ positivo, semplice e
pratico.»

                             . . . . . . .

Il giornalista avrebbe potuto aggiungere ragionevolmente e
coscienziosamente, che Pinotto, non ostante i suoi ideali troppo
superlativi, sarebbe certo riuscito ad egregie cose, ove avesse trovato
la direzione pratica del lavoro nel sorriso intelligente di sua madre.


XLIX.

Veniamo a lei nell’ultima scena. — Come nella prima: =Cani!=

La _madre dei cani_ in tutto questo tempo non aveva avuto nessun altro
momento memorabile della sua vita, fuorchè i biglietti di visita, che
aveva fatto litografare per Roma e Glafir, e la sua tentazione di far
parte della Società Protettrice degli animali, tentazione che però
il suo teologo confessore le aveva scacciato presto dicendole, che
«anche quella era tutta framassoneria.» Quindi, a scanso di un’altra
teologale proibizione, essa aveva taciuto tutto al confessore, quando
disperata per aver smarrito uno dei tanti pronipoti di Glafir ne
raccolse religiosamente i peli dal pettine dell’ultima strigliatura, e
li portò, trascinando con se anche la figlia, al Gabinetto magnetico di
un professore Filippa, dove invocò dalla chiaroveggenza della rinomata
sonnambula l’itinerario arcano per rintracciare la bestiolina diletta.

Ora la povera mamma, all’annunzio mortuario datole dall’usciere,
ebbe uno svenimento, e fece gli ululati di rito, con le strappate di
capelli volute dalla Prammatica, recandosi a schiamazzare e versare
lacrime da pazza presso la vicina del pianerottolo, mentre Carolina la
accompagnava in tono minore.

Sfogato il dolore rituale, la signora Placida andò a consigliarsi
dai suoi soliti consulenti legali, e saputo dall’avvocato classico,
non che dall’ex-cancelliere e dal teologo avvocato Sturlimandi,
che _acreditatis appellatio sine dubio continet etiam damnosam
successionem_, essa in buon volgare non indugiò a rinunziare
formalmente all’eredità dei debiti, quasi tutti alimentari, lasciatale
da suo figlio e trascurò persino di rispondere all’usciere, sospettando
che fosse anche lui uno dei _garibaldini_ che lo avevano pervertito.

Essa fece però cantare una messa solenne nella chiesa della Consolata
per suffragare l’anima del figliuolo perduto; e mentre il prete
uffiziava e i cantori strapazzavano per trenta soldi il _tuba
mirum_ borbottando nel loro latino di sacristia _qualis pagatio,
talis laboratio_, — la damigella Carolina correva dietro alla turba
sguinzagliata dei suoi cagnolini, alcuni dei quali abbajavano persino
sulla porta della chiesa, — e la signora Placida, sempre pregando con
fervore, era intenta a coprire accuratamente col suo scialle la schiena
al vecchio Glafir, acciocchè non gli si inasprisse la tosse.




AL DOTT. POMPEO GHERARDO MOLMENTI

                                                             VENEZIA.


  _Caro Molmenti_,

Nel presentarti e mettere sotto l’ala del tuo nome questa creaturina
mortuaria, non posso dissimularti la mia caritatevole intenzione, che
tu riesca a vivificarla miracolosamente con la tua singolare abilità
di intelletto succosamente o nervosamente critico, ma inspirato da
un cuore gentile; tutto ciò, mancomale, all’opposto di quei cortesi
Maramaldi, i quali, se potessero, vorrebbero incomodarsi a riuccidere
la mia poca letteratura già sufficientemente defunta.

Però tu puoi credere agevolmente, che io vorrei proprio scrivere
qualche volta cose _degne di vita_ per mandarle a te in segno di quella
amicizia letteraria, da cui ci sentimmo legati, appena ci comunicammo
tu, le incisioni critiche, ed io gli sgorbi tentati sul vero.

  Saluggia, 23 giugno 1876.

                                                           _Tuo aff_.
                                                   GIOVANNI FALDELLA.




DEGNA DI MORIRE

FIGURINA NERA.


I.

Il suo nome non era lezioso come Aurora, nè ridicolo come Bianca,
quando dal fonte battesimale è imposto ad una merla, nè latteo e
monacale come Candida; nè avvicinava miopemente i colori dell’alba o
dell’albore, come Albina; era un nome di una bellezza pagana, ellenica:
Elena.

Il suo cognome, se per inutili riguardi ad una famiglia dovessi
lasciarvelo allo stato di sciarada, direi che aveva la dignità marinata
di un doge e l’olezzo sottile di un cespuglio in primavera. Invece ve
lo spiattellerò bravamente: era Floresin.

Quando l’ispettore delle scuole giunse nel villaggio di Villarbona
con la canna di zucchero sotto il braccio, ed entrò col sindaco nella
2ª elementare femminile, fu colpito da una voce che fra quaranta
intuonò il _riverisco_ nell’alzata elastica della scolaresca. Dicendo
e accennando: _Sedete! Sedete pure!_ egli vagolò con lo sguardo sui
banchi per cercare subito quella voce, e credette di non _pigliare
erro_ attribuendola a una bambina dal mento lustro e vermiglio come
una pesca nocciuola e dagli occhi che parevano due morselli di marmo
nero bagnato e lucente, o meglio due cucchiaiate di rivo cristallino
scivolante nell’ombra.

Il Regio Ispettore, sicuro di dar fuori un’invenzione poetica, non si
potè frenare dal dire alla maestra che quella bambina aveva due occhi
che secondo lui potevano passare per due pietre preziose. La interrogò
subito per la prima.

— Elena Floresin!

Quale incantesimo di aritmetica! Un portento nella tavola
pitagorica.... E come sfoderò nell’analisi logica e grammaticale!...

E che voce!...

L’Ispettore, con la canna di zucchero sotto le ascelle, non s’accorse,
che la bambina aveva finito di recitare il suo capitolo di Storia
Sacra: egli stava ancora attento ad ascoltarla, dopochè essa s’era già
arrestata come un pelottone. Infatti, mentre essa aveva principiato a
sfringuellare, di fuori un fringuello si era messo a recitare la sua
Storia Sacra nell’orto dappresso, e il buon Ispettore, rapito, confuse
le due armonie in un solo godimento mentale, e credette parlasse
tuttavia la ragazza, allorchè non c’era più altri che il fringuello, il
quale cantasse.

Egli andò via salutato da un tuono di _riverisco_; e venne accompagnato
fino nel corridoio dagli inchini della maestra, a cui offrendo una
presa di tabacco, disse: — temo che quell’angioletto non campi.


II.

Venne l’Arcivescovo a dare la Cresima a Villarbona, il vecchio e Santo
Arcivescovo, Senatore del Regno, cugino del Re, — veemente come un
apostolo, fiero come un templario, spargitore di carità come un pazzo
ed umile come il Calasanzio, un uomo veramente grande nel suo posto,
— al quale, quando morì, vero miracolo in questi tempi paterini, tutti
gli ordini di una città liberale decretarono una statua.

Monsignore venne ricevuto dal sindaco, dai mortaletti, da sette archi
trionfali, dal clero e popolo, da tutta la ragazzaglia in camice bianco
e corona di fiori in testa. Egli si avanzava traballando con le ali
larghe e benedicendo a mille cuori asserragliati, che picchiavano per
lui di sacro entusiasmo.

Il parroco gli diede un pranzo monumentale, a cui collaborarono tutte
le cuoche e tutti i guatteri della Vicaria, un pranzo preparato coi
fondi di tre anni messi da parte per _quella tempesta_.

Dopo il pranzo si prese il caffè all’ombra nera del _nocciolajo_.

Sedevano pontificati ai lati dell’arcivescovo la trinata e
nastrata vecchia marchesa, madrina della cresima, e il grigio conte
ex-colonnello, padrino.

Attorno, ritti, una cornice di preti, che annuivano e applaudivano
ridendo riverentemente ad ogni parola dell’arcivescovo, ed inchinandosi
come pertiche rotte.

A un tratto, si sentì uno squittío di fanciulli domato da scappellotti.
Monsignore si alzò impetuoso, facendo lesti e ripetuti cenni ai
suoi seguaci, perchè s’arrestassero, e si avviò balenando verso il
vice-parroco, che rintuzzava la ragazzaglia rampichina, che a momenti
scavalcava il muricciuolo.

— _Sinite! parvulos venire ad me!_ — egli tonò giocondamente al
vice-parroco, e fece atto di voler aprire egli stesso il rastrello.
In un subito il giardino del parroco fu invaso e riempito da tutta
la bambineria e monelleria della Villa. E il canonico penitenziere
spiegando la cosa alla marchesa, al conte e ai preti del paese: — è
come un fanciullo, loro disse, è come un fanciullo.

Infatti quei bambini indovinarono tosto che era una anima loro
affine quell’immagine alta da Sant’Agostino e da San Grato, quel naso
tabaccoso, quella grossa croce d’oro splendente su quel largo petto
violaceo, quel grand’uomo dello Stato, cui il Re venerava.

E si misero subito a scherzargli intorno fiduciosamente, come fosse
sempre stato loro compagno.

Ed egli, l’alto arcivescovo, già beatificato dal cuore di quanti lo
conoscevano, in mezzo a quei conigli, che gli si rizzavano dattorno ai
piedi, esultava, folleggiava dal contento.

A un tratto fece una faccia da rinoceronte, e disse con voce cupa:

— Bambini! io sono cattivo, sapete.

— Non è vero, non è vero! strillarono i bambini....

— Sono cattivo; — egli, fingendo di non sentirli, riprese con voce
vieppiù cavernosa: — e sono venuto qui per ispiumarvi.... Ne avete dei
soldi?...

— Non ne abbiamo, non ne abbiamo; — guairono i bambini...

— Allora, egli continuò con voce sempre più truce: andrete dalle vostre
madri, e direte loro che vi diano un soldo per ciascheduno. Quindi li
porterete a me, che ne ho bisogno per far indorare il mio campanile....
Avete capito?... li porterete a me... che avrò un bossolo in mano...
Voi altri metterete il vostro soldo dentro il mio bossolo. Ed io farò
indorare il campanile coi vostri soldi (e faceva l’atto di chi fa
entrare una moneta in un salvadenari). Vediamo un po’, se mi avete
compreso: che cosa direte a vostra mamma, quando le domanderete un
soldo, ed a chi lo darete quel soldo, quando me lo porterete a me, e lo
metterete così, dentro il mio bossolo?

I bambini tacevano curiosi, birichinescamente titubanti, e i loro volti
splendevano come specchietti. In mezzo a quella luce si levò una voce
limpida:

— Monsignore, quando andrò a casa.... dirò a mia mamma, che mi dia un
soldo.

— Bene.... E quando te lo avrà dato....

— Quando me lo avrà dato....

— Ebbene, rantolò l’arcivescovo, con viso sempre più rinchiuso,
ripetendo l’atto di una mano che lasci cascare un soldo in un
bossolo... — Ebbene.... quando te lo avrà dato....

— Andrò a comperarmi delle castagne per me; — rispose quella voce
limpida con una smorfietta da piccolo e gentile magnano.

L’arcivescovo, ingrondato come un mago, si recò le due palme delle
mani alla bocca, per farne imbuto e oricalco, e suonò: — Hai capito un
corno....

Quindi non ne potè più: cacciò via apertamente, luminosamente la
burletta. Si levò in braccio la fanciulla, che gli aveva risposto
così, le stampò due bacioni sulla fronte; e poi calatala in terra, la
benedisse quella bella e cara impertinente.

Era la piccola Elena Floresin.

Allora, chiamato il canonico limosiniere, egli si fece portare un
sacchetto di soldi spiccioli, e si diede a distribuirli, e sparnazzarli
fra quei bambini, con una furia e con un godimento coriandoleschi. A
molti ne toccarono due, tre, quattro, a certuni persino cinque soldi.

A tutti diceva: andate a comperarvi delle castagne, e andate dalle
fruttajuole più vecchie e più povere.

Ciò fatto, egli si ritrasse nella sua camera, fatta imbiancare e
tappezzare apposta per la sua venuta. Quivi s’inginocchiò, e si mise
a piangere e a pregare. Il suo torace largo, che pareva una corazza da
templario, sussultava come il petto di un bambino: e gli scappò detto
al guercio, suo cameriere fidato, soprannominato la spia del vescovo:
— Augusto!... Se mi riesce, voglio fare tutto il possibile per andare
in paradiso, per trovarmi sempre con quella innocente bambinaglia, e
quella là voglio tenermela sempre sulle mie ginocchia, quella santa
monella! Hai visto, Augusto?... Sembra che le spuntino già le ali per
volare in su.... Va via, non ho bisogno di nulla. Lasciami pregare....
Augusto.... —


III.

La piccola Elena fu presto condotta ai balli dalla mamma, adoratrice
delle cene; ma benchè questa la profferisse a tutti in corrispettivo
della sua pensione di riposo, pochi volevano prenderla a danzare,
perchè tuttavia rigida; e dicevano: Noi altri non vogliamo saperne di
questa roba cruda.

Finalmente il commissario delle contribuzioni dirette, un vecchio
peccatore, un satiro sboccato, per cui tutte le ballerine erano sempre
anticipatamente impegnate con altri, la fece saltare per un intiero
ballo; e il giorno dopo, palesò in piazza la sua scoperta che l’Elena
s’era snodata benissimo, e che oramai era un fior di corpicino.

La scoperta divulgata fu trovata giusta: e d’allora in poi nei balli
l’angioletto della scuola e della cresima andava a ruba.

Quei balli erano veglioni del contado, dove ad ogni piè sospinto si
doveva scansare il mento precipite di un ubbriaco, si ingozzavano
mattoni in polvere, ed in ogni canto si stiaffava uno schiamazzo, uno
sghignazzo, o una piattonata nella schiena.

Un giorno saltò il ticchio di parteciparvi al cavaliere Alfredo, il
giovane feudatario della villeggiatura autunnale, un artista che coi
suoi dipinti pieni di realtà pensosa contribuì a rendere illustre la
pittura piemontese in Italia, e a far conoscere l’arte italiana dei
nostri giorni a Parigi.

Era un volto d’un pallore bruno, fatto vieppiù risaltare dall’orlo
di una barba castana, dentro cui spiccava eziandio la bianchezza
smaltata dei denti. Come tutti i giovani artisti rosi dal _realismo
psicologico_, egli si sentiva rinvecchignito: tanto che ad alcuni
terrazzani, i quali gli avevano annunziato con intenzione deputatesca
la sua _età politica_, egli aveva risposto: Brava gente, voi vi siete
accorti che io ho trenta anni; granchè! io v’assicuro che sento di
averne perlomeno trecento: lasciatemi in pace, che sono più vecchio del
_dixit_.

Adunque egli si presentò ad uno di quei veglioni; e si presentò in
cravatta rossa e giacchettina di velluto, con un’acconciatura così
spigliata e con una potatura così divinata alla misura altrui, che
egli, il cavaliere, l’artista di grido, il promesso deputato, in mezzo
a quei rumorosi e vittoriosi telegrafisti, scrivani di cancelleria,
studentini, soldati in permesso, fattorini di caffè venuti da Torino a
spaccarla in paese da marchesini, — trippaj, i fabbro-ferrai e simili,
quasi non istonava punto.

Egli osservò tosto, come in quella _Società_ non imperava niun
regolamento di pubblica sicurezza in favore del buon costume: ma per lo
contrario si custodiva gelosamente e ferocemente l’ordine delle danze.
Contro allo sventurato ballerino che avesse osato tentare un giro o un
passo di più del suo buon diritto, si annidava negli occhi di tutti gli
altri la minaccia di uno sgrugnone, fors’anche di una coltellata.

Però per unica eccezione a quelle misure draconiane, una ballerina
salterellava qua e là, eslege, come una cavalletta: trascinava essa
stessa per un braccio il compagno al rubarizio; nella sala delle
danze si vedeva sempre la sua testolina splendere come una gemma su
qualche spalla di _frac_ o di cacciatora. Sembrava la scorribanda di un
gelsomino, di una stella bianca.

Era mancomale Elena Floresin.

Tutti se la disputavano, se la strappavano di mano, e coloro che non
riuscivano ad ottenere da lei un intiero _ballabile_, si mettevano al
varco, per mendicare ed ottenere in prestanza dal fortunato possessore
un giro o un mezzo giro con lei.

Essa volava fervente e felicissima con gli uni e con gli altri; a
quando a quando in riga o in danza si vedeva scrollare in fretta la
gemmea testa ed era per iscuotere un bacio che le si era avventato come
un calabrone.


IV.

Quando la manovella dell’organino, occhieggiata da tutti, stava per
discendere il suo primo mezzo arco ad annunziare una nuova polca, sette
ballerini già ronzanti o appostati strategicamente si slanciarono
da sette parti per agguantare la _totina_ Elena; ma poi tutti si
ritrassero rispettosamente, vedendo che il cavaliere Alfredo si era
mosso per pigliarla lui.

Questo giovane artista e signore, che a trent’anni credeva ormai
di avere perso il sapore della vita e di avere già logorato nelle
sue fucine intellettuali tutti i mondi esistenti e possibili, ed
era tornato in quell’autunno a Villarbona, nauseato a morte della
istituzione femminina, delle donne spettacolo, delle corporature dense,
delle maturità frenetiche che beatificano o galvanizzano i sardanapali
cittadini, egli partito per quella polca provò una nuovissima ed
insperata vertigine sentendo palpitare ed aderire fra le sue braccia
il giunco della innocenza, lo stelo del fiore, il virgulto virgineo, la
cartilagine bambinesca....

Gli pareva di essere avviluppato con una inebbriante leggerezza in una
nuvola tutta pollini di rose e pollini di gigli, e di volare a strane
nozze con una farfalla angelica, che lo infarinasse della sua cipria
celestiale.

Nella prima sosta giuridica della polca, messosi in riga, trafelante,
discese dalle alture dei suoi rapimenti e s’accorse che aveva daccanto
quella graziosa bambina diventata feroce per la pura voluttà del moto
come il vento.

Ed egli, che pur aveva fatto le più audaci, severe, capitali corti dei
saloni, non sapeva che cosa dire a quel demonietto che gli balzava a
lato; si vergognava, malediceva di essere quello ch’egli era, avrebbe
voluto invece essere anche lui uno studentino, un quindicenne fattorino
di caffè, conoscere la loro lingua, sapere i bei motti che essi
adoperano per interessare quel genietto fisiologico della danza e forse
per farsene amare.

Intanto rimaneva nella contemplazione più _oca_, quando lo scosse un
colpicino di gomito. Era lei che con due occhi traforelli e con una
pugnalata di voce da ladroncello che proponga un assalto al ciliegio
altrui, gli disse: — rubiamo.

Egli non ebbe tempo di osservare che veramente alla sua età e alla
sua condizione.... non n’ebbe il tempo; perchè essa, rapinandolo a
braccetto, lo fece correre innanzi, calpestando i sacrosanti diritti di
dodici coppie aspettanti, e lo ricacciò nella polca; lo fece rivolare
più acremente di prima in un nembo tutto pollini di fiori e cipria
farfallina, e quasi lo ridusse a svenire facendogli sentire stretta in
braccio la leggerezza di un angelo.

Dopo quel giro, il cavaliere Alfredo condusse la sua ballerina nel
salotto del buffet, e come avesse perso la testa, domandò dello
sciampagna. Il garzone del servizio, non volendo dare a vedere che egli
non teneva dello sciampagna e che anzi non sapeva nemmeno che cosa
fosse, rispose: — Mi rincresce, signor cavaliere; se vuole, abbiamo
ancora degli agnellotti ed un arrosto freddo. Il.... lo.... quello che
ha detto lei, lo hanno già mangiato tutto. —

Il cavaliere sorridendo gli ordinò che gli desse in cambio della gazosa
o meglio una bottiglia di Canelli.

Bevuto il néttare monferrino, egli ed essa dissero contemporaneamente:
ho caldo; come dirà contemporaneamente per tutti i secoli ogni coppia
di ballerini, che abbia volontà di discorrere senza testimoni sopra un
balcone.

Andarono sul balcone; si strinsero le mani, dentro cui cominciarono a
confluire i fiotti accesi e tumultanti del sangue.

Egli si fece coraggio, e le domandò: — Elena, sono curioso; quanti anni
hai? Scusa veh! se ti do ancora del tu.

— Vorrei vedere, che non mi desse più del tu, a una cittona come me.

— Dunque, quanti anni?

— Ne ho già tredici.

— Appena tredici? Bambina! sei ancora giovine come l’aglio.... Io sì,
che sono già vecchio da ammazzare. Spaventati! ne ho già trenta.

— Oh, per un uomo non è mica niente....

— Taci tu, cittona, che ne hai tredici e non sarai ancora passata alla
prima Comunione. Sei ancora una povera innocente. Tredici anni! Che
bella età! Mi rallegro; (quindi con impeto): Ah! adesso capisco perchè
tutti ti possono baciare senza far peccato..... Ebbene fammelo anche a
me un bacio....

— No!

— Tanto lo sai, che non è peccato.

— Sì, che è peccato.

— Fammelo un po’....

— Mai più.

— E perchè non vuoi farmelo a me un bacio? Mi offendi. Perchè?

— Perchè.

— Perchè ti sembro vecchio come il cùculo!

— No! No! No! (come tre pistolettate; e poi con una scintilla
improvvisa, inesprimibile): Perchè lei è bello, e glielo farei
d’amore....

Dove è montata la sua testa? Essa sfacendosi gli diede a suggere un
lungo ed ardente bacio.

Scintillarono le volgari stelle che fanno sempre da candeliere sopra
tutti i balconi, in cui si becchino due tortore.

Alfredo si riscosse stremato da quel bacio; le serrò la fronte tra le
proprie mani, e spingendola indietro lei disse con suprema amarezza: —
Vai là, povera ragazzina! alla tua età, sei veramente degna di morire!
— Quindi la ricondusse nella sala da ballo e la restituì ai suoi
telegrafisti, e computisti, e studentini e fattorini. Egli, infilzato
il pastrano, lasciò la festa e siccome aveva un’anima ragionevole,
ragionò così:


V.

— Ho detto giusto a quella fanciulla che sarebbe benedetta da Dio, se
partisse proprio adesso da questa valle di lagrime, come dice la _Salve
Regina!_

Essa, perchè si sente un profumino alato, crede adesso di poter amare
a cielo aperto come amano i fiori suoi fratelli e le farfalle sue
sorelle; crede che i ballerini a cui si avvinghia abbiano una animula
da garofano o da libellula come ha lei; non sa le laide osservazioni
che fanno sul suo conto quegli scribi e strofinaccioli; non conosce
la loro anima belluina, la loro sanità selvaggia e le loro malattie
della civiltà infracidita; non sa perchè molte volte dell’anno portino
nel taschino una cipolla in luogo dell’orologio e perchè studino certi
annunzi sulla quarta pagina dei giornali.

Se vola via adesso, lo spiritello tredicenne andrà in un mondo
migliore, in cui forse le bambine ameranno a cielo scoperto come le
dalie e i parpaglioni; e se esiste il vecchio paradiso insegnato dalle
nonne, i bei angeli grassocci e torniti si arroteranno giojosamente
per riceverla, e scotendo le aluzze da scarabeo faranno piovere su lei
un ineffabile zucchero pesto; e la Madonna, la più alta bellezza, che
sia mai comparsa per i cieli e per le terre, la raccoglierà in grembo,
ed essa la birichina incelata, col capottino riverso sulle sideree
ginocchia della Mamma tutta santa, sentirà sotto la nuca la sofficità
alma e profonda dell’oceano.

Se invece camperà.... già non avrà un soldo di dote, perchè suo padre
liquiderebbe in vino ed altri liquori la proprietà di sette chiese, e
sua madre convertirebbe un globo terracqueo di beni parafernali in gale
e cravatte vistose e in ghiottonerie di ascosaglia.

Dunque Elenuccia non avrà un soldo di dote. Ancora giovanissima, le
faranno sposare un veterano delle patrie battaglie, che le metterà su
un’osteria, oppure la faranno maestra o levatrice comunale; ben detto
comunale. Quante persecuzioni a quella povera bella, dai professori
della scuola all’assessore anziano, dall’enorme cappellano ai direttori
del libello quotidiano o del gazzettino didattico! e niuno saprà,
vorrà, o potrà innalzarla a quelle stelle, in cui la donna cessa di
esser donna per diventare Maria, e tutti la terranno con loro sulle
spiaggie, in cui la donna cessa di esser donna per diventare Pasifae.

Quando poi sarà divenuta vecchia prima del tempo, scipata, diroccata,
sorda, tanto che per farla sentire bisognerà parlarle dentro un corno
acustico, — allora, se mai la vedranno comparire da un capo all’altro
di una strada, sprezzeranno i suoi adoratori e consumatori della
sua gioventù. Niuno proteggerà il suo diritto alla pensione, le sue
cartelle e le sue scritture di credito, se ne avrà. E quando essa sarà
morta, per dieci anni farà ancora sghignazzare le tavolate col ricordo
del suo corno acustico.

Elenuccia, senti: va via da questo brutto mondo; va via, nella tua
primavera sacra, mentre hai tredici anni, mentre sei innocente, sei
fiore, sei farfalla; va allo spolverio inzuccherato degli angeli che
ti attendono; va sulle ginocchia sconfinate della Madonna _consolatrix
afflictorum._

Sei degna di morire. —


VI.

Qualcheduno non intese a sordo le paure del R. Ispettore, le preghiere
del santo arcivescovo e il lungo soliloquio del cavaliere artista: e fu
un personaggio coreografico che non parla, il Sole.

Questo pastore di mondi, cui regge, illumina e colorisce, sebbene di
indole impassibile, qualche volta si degna fissare nel mare infinito
degli esseri da lui dipendenti qualche pecorella prediletta, e
specialmente qualche bella ragazza.

Un mattino di aprile, Elena Floresin sciorinava sul ballatoio la
biancheria di bucato; si levava sulla punta dei piedi, tendeva le
braccia, si torceva, si spenzolava, come volesse sciorinare tutta la
sua forma al sole: girava il capo come volesse leccarlo, incoronarlo di
raggi; gli si spiattellava innanzi come un ninfale elitropio.

E il sole le corrispondeva: faceva correre palpiti di calore crescente
nel suo altoforno empireo: i suoi raggi cocenti fremitavano: e
cremandola le artigliavano la testa come carezze di leone amoroso.

La mamma da basso gridava: Elena, vien giù.... Non hai ancora finito?...

— No, mamma.

— Che cosa fai?... A momenti vengo su io.... Non sembra vero.... Stare
lì delle ore ad alloccare quei seminaspezie che tornano dalla scuola e
che non valgono ancora tutti insieme un bottone nell’aria.... a costo
di prenderti una solata.... vieni giù, dico.... ti comando di venir
giù. —

In quel punto Elena si sentì crocchiare qualcosa nella testa, come uno
schiaccia-nocciole le avesse fracassato la vôlta del cranio; e discese
a basso con una encefalite.

Quattro giorni dopo, essa era distesa sopra un fianco nel suo
letticciuolo con le braccia riverse fuori delle lenzuola in segno di
eternale stanchezza. Pareva che le sue labbra sfarfallassero: dormo:
non toccatemi in eterno. E niuno era ardito di toccarla in quel
momento, salvo una mosca. Pareva che la morte l’avesse ridotta in
marmo cogliendola nell’ascesa di un palpito, e conservando nel cadavere
verginale tutte le tumide promesse di una splendida Eva.

Suo padre e sua madre ululavano; e furono trascinati in casa dei
prossimi parenti.

Si fece la sepoltura a mezzogiorno. Le campane spandevano rimbombi, che
incalzavano al cimitero tutto il villaggio.

Il sole glorioso rinfocava nel suo coperchio fiammante i suoi marosi di
luce; e si univa alle campane per isferzare al cimitero le nuche dei
sacerdoti, dei confratelli, delle consorelle e dei bimbi infiorati.
Niuno poteva reggerne il riflesso. Erano obbligati a calare le
palpebre, e così procedendo ad occhi chiusi vedevano le strane visioni
dell’emorragia: laghi di pece, in cui guizzavano e si coagulavano
raggi neri, iridi nere. Un’onda di suono, di sole, e di malinconia
avvolgeva e conduceva al cimitero tutto il villaggio. Ed agli sguardi
del campanaro che sbatacchiava dall’alto, il funerale pareva avanzarsi
in un deserto immenso, svolgendosi come un bruco caldo, colle punte del
dorso scintillanti.

Quando sentirono il tonfo della piccola bara, i fiori circostanti
mostrarono un tremolío di letizia come per un tocco farfallino, e
ravvivarono i colori, per fare un complimento festoso alla nuova
vicina.


VII.

Nel principio dell’inverno seguente il cavaliere Alfredo, già fatto
deputato, si sentì stomacato della vita. Gli pareva che l’umanità
in generale e l’Italia in particolare fossero carcasse fruste, e
che i nostri scrittori e artisti più adulati d’adesso, succeduti
immediatamente alle olimpiche, pelasgiche, e basilicali intelligenze
di Canova, di Leopardi, di Gioberti e di Rossini fossero scarafaggi
ischeletriti, mancanti dei due sacramenti fondamentali dell’arte, lo
studio o l’intuizione dell’antico e l’osservazione o l’intuizione
moderna, sbalzati dal polo della realtà, sbalzati dal polo della
tradizione, — che uno di essi non avesse nerbo più appropriato di
quello che ci vuole per dare la biacca a un centurino e un altro
non avesse maggior cervello di quello che si richiede per combinare
un giuoco di pazienza infantile; — che il resto del prossimo fosse
bestiame di Sallustio; — e che intorno alla sua persona non si
aggirasse più un solo cervello integro. E sentiva una smania prepotente
di dare una presa di somaro a tutti, compreso il signor sè stesso.

Per lenire quel fastidio disperato, egli pensò di ricoverarsi nella
solitudine della sua villa e di passarvi tutto l’inverno. Quivi giunto,
venne assediato dalla neve che salì così alta da toccare le ginocchia a
Giorgio Antenna, il più grandonaccio svivagnato di Villarbona.

Guardando dalla finestra, Alfredo vedeva soltanto guanciali, tumuli,
baratri e basterne di bianco; nella corte, sul legname da ardere vedeva
cinghiali squartati nel marmo.

In mezzo a quel silenzio, a quel freddo e a quegli albori scintillanti,
il nobile artista sentì emergere nella sua fantasia l’immagine di una
vergine borghese, di Elena Floresin. E si disse: — degna di morire,
essa doveva vivere per la mia vita; solo il picchio vivido del suo
sangue potrebbe snidarmi questo gelo scettico dalle ossa: farmi riamare
il mio paese, il mio mondo e forse anche gli scrittori e gli artisti
contemporanei. Come sarebbe bella questa neve immensa per noi due;
trovarci prigionieri insieme, volerci bene tutto il giorno, rincorrerci
con la scopa per la fuga delle stanze, baciarci dietro un uscio e poi
scendere in cucina a fare le cialde! —




AL DOTT. PIER ANGELO FALDELLA

                                                             IN CASA.


  _Caro Pietro_,

Tu sai, che da qualche anno ho preso l’usanza (dubito non troppo
lodevole) di incomodare le nozze degli amici con una novelletta più
o meno adatta all’occasione. Figurati, se volevo lasciare esente
da questo disturbo te, che mi sei legato non solo della più tenera
amicizia giovanile, ma da stretti, quanto soavi vincoli di parentela.

Mi rincresce soltanto che per una lunga dissuetudine letteraria, per le
occupazioni forensi, per le recenti commozioni politiche elettorali,
per la fretta e per tutte le ragioni delle cattive lavandaie, ti ho
abboracciata una cosuccia assai scadente.

Non è però per nulla scadente l’affetto, con cui te l’offro, e ti prego
di farla aggradire, anticipando, se ti è d’uopo, un imperioso sguardo
maritale, alla gentile e colta cugina Clara, che domani assume il tuo
nome e l’impresa della tua felicità nella vita.

  Saluggia, 29 novembre 1876.

                                                    _Tuo aff. cugino_
                                                   GIOVANNI FALDELLA.




LA LAUREA DELL’AMORE

TRITTICO NUZIALE.


I.

LUI.

Egidio usciva nelle sere d’inverno dalla Biblioteca dell’Università di
Torino, con un viso così turgido di felicità scientifica, che insultava
le felicità di genere diverso, le quali uscivano dal teatro Regio.
Egli non si fermava mai per istrada, ma studiava il passo verso la sua
cameretta; e appena rientratovi, accendeva taciturno la sua lucernetta
a petrolio; quindi apriva un librone, che rinserrava potentemente fra
i due gomiti, mentre coi pugni ratteneva la testa preponderante sulla
pagina letta.

La fiamma del petrolio sembrava si allargasse pavoneggiandosi, o
ristesse immobile per corrispondere alla grande attenzione del giovane
studente.

Scoccavano le ore piccine, quando egli entrava in letto, sentendosi
dolere le gambe irrigidite dal freddo. Lo aveva assorbito l’anatomia.
Allorchè egli studiava l’orecchio dell’uomo, gli pareva che tutta
l’umanità e tutto il mondo consistessero in un orecchio, e che
fossero per lo meno inutili le botteghe che si aprivano e i Consigli
comunali che si radunavano, perchè non servivano a studiare l’orecchio
dell’uomo. Lo stesso gli succedeva man mano che prendeva a notomizzare
gli altri organi.

Dopo tanta biblioteca, dopo tante veglie e tanta anatomia, egli vedeva
come una terra promessa la laurea da dottore:

La laurea, titolo di nobiltà borghese, per cui il pizzicagnolo, quando
il conte si serve nella bottega di lui, spendendo meno dell’avvocato,
dice: quello là si chiama nobile? Nobile è l’avvocato che ha guadagnato
con lo studio sacrosanto il suo bravo titolo, che canta, mentre il
conte, il conte che cosa conta?... (non è nemmeno capace di prendere un
metro di salsiccia per volta);

La laurea, valore commerciale nei matrimoni, per cui molte damigelle di
fittajuoli e di negozianti disprezzano onesti ed utili partiti in abito
di colore, per aspettare un laureato in abito nero;

La laurea, per cui Egidio avrebbe avuta la visita del clero locale, nel
giorno successivo ai suo ritorno nel paese natío;

La laurea, per cui il cugino materno, il canonico Cornacchia avrebbe
grattato un sonetto dalla sua cetra scordata, che nel giornale della
provincia è sempre detta la _chiara, feconda, robusta ed erudita cetra
del canonico Cornacchia_;

La laurea, per cui il campanaro del paese avrebbe suonato a festa per
un bicchiere di vino;

La laurea, la laurea, la laurea....

                                   *
                                  * *

Venne il tempo della laurea. Il segretario, il bidello della Facoltà
e i portieri dell’Università si degnavano sorridere ad Egidio e
rivolgergli il discorso.

— Ah!... Lei è casalasco.... Di Casale abbiamo laureato....

— No, sono di Alessandria.

— Ah! È alessandrino.... di Alessandria abbiamo laureato Rattazzi.

Egli provò l’emozione di ordinare al sarto il suo primo giubbino nero
a coda di rondine e di comperare la prima cravatta bianca col primo
_cilindro_ a schiaccia.

Eccolo sul pulpito nell’aula magna del Regio Ateneo. Gli sta davanti il
tribunale dei professori. Alle prime obbiezioni, che fece alla sua tesi
un dottore collegiato cominciando col mellifluo: _Onorevole candidato_!
di prammatica, egli sentì una strana possanza; gli parve d’essere
armato di un cannone rigato contra nemici armati di quegli schioppetti
fanciulleschi, che lanciano chicchi di meliga. Infatti lo scibile
umano si è allargato tanto, che un giovane laureando, toccato il fondo
a tutto l’universo della biblioteca sopra un punto di scienza e ciò
nei giorni prossimi alla laurea, ha molti vantaggi contro ai vecchi
professori, la cui memoria può essere lontana dagli studi speciali su
quel punto scientifico, ed è gala, se voga sulla superficie generale
della scienza.

Dopo la prima risposta, egli credette di avere sfondato il tribunale
dei suoi Minossi; e gli parve che gli altri _onorevoli contraddittori_
divagassero innalzandosi come allodole, per non essere a tiro del suo
cannone rigato.

Quando il Preside della Facoltà suonò il campanello e gli ruppe le
parole in bocca con un basta! accompagnato da un sorridente cenno di
approvazione, Egidio si trovò lì sulla bigoncia, mozzo, non sazio del
suo combattimento, mentre tutta l’aula magna zittiva inorecchita, e
dal secreto camerino dappresso si sentivano le pallottole dei voti
discendere nel bossolo.

Rientrò il bidello con una curva di testa e un allargamento di
braccia, che dicevano nella più untuosa unzione da San Grisostomo:
_Optime! Adprobatus!_ Il preside della Facoltà lesse una sentenza,
con cui giudicava Egidio dottore in tre o quattro scienze. Egli,
balbettate due o tre parole di ringraziamento, si trovò senza saperlo,
nelle braccia e fra i baci dei suoi cari, dei suoi amici e persino
di lontani conoscenti, genitori e genitrici di ragazze speronate da
marito. In quelle strette uscì dall’aula così intontito, che si sarebbe
dimenticato di dare la mancia al bidello e ai portieri, se questi coi
loro strisciapiedi non gli avessero pestato un callo.

Sotto i portici fu mortificato di trovarsi col domenicale addosso in
un giorno di lavoro, con la cravatta bianca, coi guanti bianchissimi,
che gli pareva toccassero terra, mentre passavano tante casacche e
tanti _gianduja_ borghesi, che avviati alle loro faccende guardavano
trasognati lui in quello stato. Gli pareva di essere un cane sapiente e
gualdrappato seguitato dalla folla.

Entrato in un caffè con la comitiva, corse pericolo che un avventore
gli comandasse un giornale, scambiandolo per un fattorino, a cagione di
quelle maledette falde a coda di rondine.

Dopo il pranzo di gala, Egidio si svincolò dai suoi cari, dai suoi
amici, dai lontani conoscenti, vecchi genitori e genitrici di speronate
ragazze da marito, e spogliatosi della bardatura solenne volle girar
solo per la città.

La sognata, la promessa, la biblica laurea non lo aveva soddisfatto
quanto si era aspettato. Egli anzi si sentiva da meno di prima, perchè
privo di quella aspettazione, che dianzi lo riempiva; e se la pigliava
rabbiosamente col Governo, che gli aveva fatto consumare sì grande
quantità di fosforo per dargli quello straccio di diploma, e poi per
compenso dei suoi studi non gli dava nemmanco per giunta un sigaro
dicendogli: va e fuma alla mia salute sotto i portici di Po.

Libero del _basto_ della laurea, egli si aggirava leggero per le vie
e fra la calca, come un monello, come un ladroncello, e sentiva una
voglia acre di assaltare qualcheduno, di conquistare qualche cosa, che
non sapeva nemmanco egli che cosa fosse.


II.

LEI.

Sofia era stata messa da piccina in uno dei più rinomati collegi della
Germania. Ancora giovanissima, avea pianto la perdita di una pesca,
di un orecchino e dei suoi cari sopra il petto spianato e crocifisso
della madre superiora; aveva pianto lacrime di sangue, perchè negli
ultimi giorni di carnevale le sue compagne ballavano fra loro nella
foresteria, mentre suor Dorotea suonava la fisarmonica e suor Giolitta
con il garbo di un sacco le guidava in danza; sì! le proterve osavano
ballare, quando Gesù Cristo era morto in croce per la salvezza delle
loro anime.

Aveva sofferto una terribile paura di avere offeso per sempre san
Vincenzo, perchè un giorno le era capitato di bagnare un biscotto di
più nel caffè e latte.

Poi a poco per volta le erano svanite le infantili morsicature e ubbie
religiose. Si era acconciata a ballare con le compagne alla musica di
suor Dorotea e colla guida di suor Giolitta. Aveva provato anch’essa
le gioje profane dell’educandato, come a dire: la venuta mattutina
del garzonetto della panetteria col corbello pieno di pane fresco, che
mandava un alito caldo di appetito; le prime ciliege; il quaderno di
calligrafia lussureggiante pel nastro di seta verdissimo, e splendido
pei caratteri gotici e inglesi nell’azzurro più metallico; poi l’esame,
lo straordinario esame, la cui aspettazione occupava l’intiero collegio
da sette mesi, dovendo venire apposta per esso un monsignore da Roma;
e poi la visita di un fratello di suor Giolitta, un ufficialetto di
cavalleria, il luccichìo dei cui bottoni lampeggiò e lo strascichìo
della cui sciabola echeggiò per due mesi nei cuoricini di tutte le
educande.

Ma in certe meditazioni, nella strombatura di una finestra acuta,
davanti l’uggia del tempo autunnale, in certe corse pel giardino,
di primavera, in certe soste presso una siepe che odorava in piena
fioritura, a certi frizzi e schiaffi di vento favonio, essa si sentiva
vuota di tutte le dolcezze collegiali.

La opprimeva, la affogava una crudele malinconia: una ressa di pianti
non lagrimati: un desiderio spietato di cose sconosciute. Allora
avrebbe voluto su due piedi, buttar via la sua allegra vesticina da
educanda: assumere sul petto la piatta stola di una monaca e sulla
stola un crocione; tagliare le sue ciocche e accartocciare la testa
tosata fra le cornette aleggianti della suora di Carità; domandava a
sè stessa un androne di ospedale, una fuga lunghissima di letti con
lamenti lunghissimi di infermi; ed essa su, in un attimo, atteggiata
a santa, a martire da oleografia ideale, versare parole, preghiere,
balsami fra quei tribolati...; insomma tutto un castello, un grandioso
castello di tarocchi, che bastava un soffio a buttar giù. Infatti
spuntavano a un tratto, spuntavano, pullulavano da ogni parte, a
turbarle l’incanto delle sue visioni, e si mescolavano nella sua
testolina piccole apparizioni di demoni da ospedale e da ambulanze,
ufficialetti feriti e studenti vividissimi coi labrucci spruzzati
di battetti neri. Allora Sofia scrollava la sua testolina e le sue
fantasie, e correva a imbrancarsi scarica e folleggiante fra le
compagne; a riappiccare il fulgore delle gioie collegiali, come a dire
la merenda, i quaderni e tutta la geografia per l’esame; ed allora era
persino capace di arrampicarsi come una pica sulle spalle della madre
superiora.

                                   *
                                  * *

Dopo quattro anni di prigione, Sofia uscì col piantoriso
dell’educandato, e rientrò nel borgo natío, in casa della nonna. Col
suo ingegno sottile e concettoso, essa comprese subito, che il collegio
da lei lasciato era un mondo piccino, una vignetta da _Giardino di
devozione_, mentre il vero mondo era di fuori, il mondo degli avvocati,
che procuravano giustizia, dei medici che procuravano salute, dei
terrieri che facevano fruttificare la terra, delle mammine, che
educavano le figliuole e delle figliuole faccenti, che rassettavano la
casa.

Un giorno la nonna disse a quel sennino: — Sofia, sai, domani sera
voglio condurti a ballare....

— Con chi devo ballare?

— Oh bella! Si balla coi ballerini.

— Come? Coi ballerini? Oh no! no! Ci ho da essere anch’io.... se
hanno da farmi ballare coi ballerini.... E voglio vedere chi sarà
quel giovinotto che avrà il coraggio di pigliarmi per le mani o per le
spalle.... Piuttosto gli graffio la faccia.

La nonna rise saporitamente tergendosi gli occhiali con un guanto di
pelle usato, e conchiuse: — Brava, la mia creaturina feroce! te lo
aveva detto solamente per ridere.

Pure sopravvenne anche a Sofia il pentimento di quella volontaria
ripulsa. Parve anche a lei che la vita delle fanciulle fosse una vita
senza costrutto, se esse non andavano al ballo. L’uscita dalla messa
grande, mentre i moscardini del paese le aspettavano in ordinanza,
fuori della chiesa, con l’ala vistosa della pezzuola di seta rossa,
che spuntava dal nido del taschino del loro farsetto, — la passeggiata
sotto i viali nel pomeriggio della domenica, mentre gl’infaticabili
moscardini andavano su e giù fumando il loro sigaro e mostrando due
altri sigari nuovi che rizzavano il collo dallo stesso taschino della
pezzuola rossa, tutto ciò era un bel nulla rimpetto ai diritti che
secondo lei spettavano alle ragazze ammodo: ci voleva il ballo, il
ballo, il ballo.

Sofia ne tempestava la nonna, la quale le rispondeva:

— Se non lo volevi tu....

— Io allora, nonna, non sapevo nemmanco che cosa dicessi, non
ragionavo....

— Mia cara nipote, tu ragionavi meglio, quando non avevi l’uso della
ragione.

E chiudeva il discorso chiudendo la tabacchiera.

La povera Sofia credeva ingiusti per lei il Signore, il cielo, la
terra, la nonna, perchè non le era consentito di andare a ballare;
e qualche volta, sola nella sua cameretta, si dilaniava secretamente
dal dispetto, pestava i piedi, mordeva le cortine, e poi piangeva....
Piangeva e quindi si asciugava gli occhi con tratti di fazzoletto, che
parevano colpi rabbiosi di spugna.

                                   *
                                  * *

Finalmente si annunziò nel paese un ballo straordinario, un ballo di
beneficenza.

— Questa volta, nonna, non puoi dirmi di no.

— Perchè?

— Ma se è per beneficenza!... per metter su un asilo infantile, per
custodire i bambini, acciocchè non siano pestati dai buoi, non caschino
nei pozzi, nelle fontane, non piglino raffreddori coi piedini nudi
nelle pozzanghere....

— Basta, basta, demonietto! hai ragione.... Quest’asilo è fatto apposta
per te e per gli altri bambini....

E annuì alle istanze della nipotina, lisciando l’ultimo fascicolo degli
annali _De propaganda Fide_, sua lettura prelibata.

Chi può dire l’affanno di Sofia per l’acconciatura del primo ballo?
Provossi e riprovossi cento volte al giorno davanti lo specchio; si
mise una camelia bianca fra le trecce castagne, poi più su, e poi più
giù.... fece sopra sè stessa cento tortuosità di serpentello; e poi
scappava folleggiando ad abbracciare la nonna o un cuscinone.

                                   *
                                  * *

Appena entrata nel ballo, Sofia si trovò rimpiccolita, disadorna,
mortificata, scandalezzata dalle spalle e dalle turgidezze scoperte di
certe signore; e col suo cervellino da aquilotto gentile capì subito
che cosa era e che cosa sarà sempre un ballo di provincia; se ne
inquadrò in testa la stereotipia. La quale stereotipia è composta dei
seguenti caratteri:

Una ragazza, la più vecchia, la più piccina, la più snella e la
più povera del villaggio, in preda alla speranza di conquistare il
lanternone più giovane, più alto, più sciamannato e più ricco; il
quale, poveraccio! dopo una tiritera di quasi mezzo secolo finirà
col dirle a cinquant’anni, che non la può sposare per opposizione dei
propri genitori, il fanciullino!

Una fanciullona dalle forme più ubertose e più irrompenti, che si
possano trovare in un circondario, tutta susurri, con un gramo ragno
sparutello, due esseri fra loro perdutamente.... impossibili, come la
flogosi e l’etisia;

Due o tre zitelle, che recitano a un professore di letteratura,
per accenderlo di loro, l’ultima poesia dell’_Emporio pittoresco_,
intitolata _Voci di Gattina_, emesse da Alfeo Alfei, scolaretto
ginnasiale, poesia che esse credono una lirica europea;

Una signora, con un cervello di gallina, che schiamazza dei _Come?
Come?_ ai complimenti che le dirigono i cavalieri più consumati, e
risacchiando sempre, vuole farseli ripetere forte forte, affinchè tutto
il ballo li senta;

Quattordici giovinotti che dicono contemporaneamente la stessa cosa a
quattordici ballerine: — _Si diverte la signorina? — Grazie! E lei? —
Come ho da fare a non divertirmi, con una ballerina così.... come...;_

Due o tre cavalli da corsa, che sbuffano, sbuffano in modo da far pietà
a un medico-veterinario;

Ecc., ecc.

Finito il ballo, Sofia ritornando a casa tutta rinfagottata, incontrò
per istrada alcune vecchie contadine che andavano alla Messa prima,
alcuni contadini, che recavano le loro secchie di latte alla cascina;
passò davanti alla bocca infernale di una fornace, che aveva cotto
mattoni per tutta la notte; ed essa Sofia si sentì disgustata, pentita,
quasi vergognosa, senza sapere nemmanco qual cosa la vergognasse.

Come si trovò sola nella sua cameretta, aperta la finestra, davanti
ai rimproveri del mattino che si affacciava fresco e pulito a compire
il debito suo, essa stracca, impolverata, con le narici inaridite,
stoppate, con la gola arsa, confessò a sè stessa che il ballo non le
aveva dato un milionesimo delle gioie che si era ripromesse; e stette
lì un pezzo, dinanzi ai rimproveri del mattino, aspettando, sognando
una più vera soddisfazione, un nuovo Messia, una cosa che non sapeva
essa medesima che cosa dovesse essere.


III.

TUTTI E DUE INSIEME.

La cosa, il Messia, la vera felicità, che sta sopra la laurea, sopra il
primo ballo, sopra tutti i pinacoli di aspirazioni, che si innalzino
nei cervelli e nei cuori dei giovani d’ambo i sessi, è lo sposalizio,
che con frase napoleonica si può chiamare il coronamento dell’edifizio,
il matrimonio, cui il mondo pagano e il senatore Mantegazza elevarono
alla dignità di Dio:

    Hymen, o hymenæe — hymen ades o hymenæe!

Sofia ed Egidio si videro e si piacquero. Già varcarono lo scabro
periodo dei dubbi, delle aspettazioni, delle notti insonni, angosciose,
febbrili, degli affari legali, delle visite agli orefici e ai mercanti
per le spese sacramentali.

Egidio non aveva più quell’aspetto di _cavaliere della triste figura_,
che assumono d’ordinario i fidanzati; Sofia non aveva più quel fare
impacciato, ingommato, proprio delle promesse spose.

Era spuntato il gran giorno. Le campane squillavano più argentine; cori
di passeri e di allodole cantavano il duetto nuziale di Catullo; le
allodole: _Ut flos in septis secretus nascitur hortis..._; — i passeri:
_Ut vidua in nudo vitis quæ nascitur arvo..._; — e tutti insieme
passeri e allodole: _Hymen o hymenæe, hymen ades o hymenæe!_

Lo sposo era vestito di nero come un magistrato; la sposa era tutta
bianca come l’immagine della Prima Comunione.

Entrarono nel palazzo municipale.

— Oh quanto scrive il segretario dello Stato Civile!

— Quale necessità di scriver tanto?

— Presto! Presto!

Gli sposi entrarono in chiesa.

— Come è lunga la messa!

— Grazie, arciprete, ella parla come il Cantico dei Cantici!

— Grazie! Noi l’abbiamo capito! Grazie! grazie!

Seguita un corteo, un circolo, una colazione. Tutto è pieno di
complimenti, di strette di mano, che gli sposi non capiscono nemmanco
donde vengano. Poi alla fin fine si è sul marciapiede della stazione.
Giunge il convoglio.... Le signore piangono.... Gli sposi montano
sulla predella di un carrozzone di prima classe... Dal marciapiede si
protendono mani, sventolano fazzoletti.... Gli sposi si rinchiudono nel
carrozzone.... Il treno fischia, parte.

Le signore del marciapiede singhiozzano; gli amici, i signori,
ritornano indietro sorridendo, malignando, quasi ingrulliti.

A trovarsi sola per la prima volta in un convoglio con l’unica scorta
di un giovinotto, Sofia ha l’aria di una tortorella fra gli artigli del
nibbio. Negli occhi del nibbio si legge la contentezza della preda.
Il fragore delle traverse e delle rotaje fa ribaltare nei due cuori
giovanili i soliti versi di Catullo.... _Hymen ades o hymenæe...._

Poi una città sconosciuta, un albergo sconosciuto.

L’albergatore e i camerieri ricevono i due fuggiaschi con un inchino
e un sorriso intelligente, che frena un leggiero desiderio di
canzonatura, ma lascia tralucere chiaramente l’aumento speciale che
essi faranno sulla nota, mezzo semplicissimo con cui anch’essi i buoni
albergatori si degnano festeggiare i viaggetti della luna di miele.

Poi lo smorzare tragico di una candela.

    _Quid faciant hostes capta crudelius urbe?_
    _Hymen o hymenæe, hymen ades o hymenæe._

Poi l’indomani la visita ai monumenti.

— Mia unica! Questa Certosa non vale un fico secco, rimpetto alla
nostra contentezza.... È una imbecillità.

— Mio bello, questo Michelangelo non mi piace mica.... Andiamo via,
piantiamolo senza dirgli nulla.... Disprezziamolo.

Poi l’entrata nel villaggio sconosciuto alla sposa, nella casa nuova,
tutta piena di mobili nuovi.

— Qui tu sarai la regina.

— E tu sarai il re.

— Sì, mia sovrana, e niun governo costituzionale potrà fare la barba
agli statuti della nostra famiglia bene ordinata.

                                   *
                                  * *

Il giovane dottore, confortato dall’affetto della sua sposa, si
inabissa con entusiasmo negli studi e nelle opere per la salvezza
del suo prossimo ammalato; fa delle miglia e delle miglia a piedi per
recarsi nei cascinali lontani; lotta lunghe ore, intiere notti con gli
unguenti, col sangue, con le bende, fra lacere e fetide lenzuola, in
una impassibilità statuaria per non delirare di un filo, per ridonare
alla formula della vita qualche muscolo, qualche fibrilla, qualche
essere sviato.

Una volta ritornando a casa stanco, con un incomodissimo sentore di
scompostezza negli abiti e nelle ossa, è assaltato per istrada dalla
pioggia. Le risaje, le pozzanghere, il tempaccio lo circondano di
un fastidio insopportabile. Egli allora solingo, tutto ammollato e
grondante, ripensa la sua battaglia quotidiana ed ignorata contro la
tortura del dubbio e della schifezza per resistenza altrui; domanda a
sè stesso dove c’è maggiore e più sconfortata abnegazione della sua;
fa il calcolo delle rimunerazioni che ne ritrae, fra cui il sogghigno
delle megere medicastre e la gratitudine dei contadini, che per avere
il pretesto di non pagarlo gli levano persino il saluto. Se la piglia
con la società, che non si accorge nemmeno delle fatiche utili e oscure
dei lavoratori semplici e onesti; gli sembra che il mondo conceda
onoranze e innalzi statue soltanto ai macellai dell’umanità, ai pazzi
e alle altre sue escrescenze destinate alla storia, mentre dimentica
coloro, che senza solletico di trombe, di storie e di giornali, senza
sorrisi di dame compiono il dovere loro quotidiano più necessario al
mondo che il pane quotidiano. Conchiude che la sua vita è una solenne
corbelleria, che deve anche lui lasciare il villaggio e i suoi _paesani
quadri_, andare in città, spargere la sua chiacchera nelle gazzette
e nei comizî, ammazzare il prossimo per occupazione spettacolosa del
pubblico, squittire le sue freddure nei salotti, tuonare o sbadigliare
nei caffè, perchè la patria innalzi anche lui ai primissimi posti.

D’altra parte la signora Sofia, lontana per sì lunghe ore dal suo
sposo, avverte come i suoi giorni trascorrono monotoni; e rimettendo
sul tavolo il pesante giornale d’Egidio che ha tentato invano di
leggere, legge poi inavvertitamente con la coda dell’occhio, gli
annunzi teatrali nella quarta pagina: _Teatro Regio, Aida..._ Ciò basta
per recarle innanzi un’atmosfera che le avvampa la testa e il petto. È
il tepore che molce le scollacciature nei palchetti all’opera.... Le
smaglia addosso un fascino di perle, un biancheggiare di mussola da
ballo prefettizio.

Ma ecco sente di fuori scrosciare la pioggia.

— Poverino! Chi sa, dove ora si trova?

E quando per la scala monta una pesta cara e conosciuta, essa con un
sopprassalto apre l’uscio.

— Dio mio! Egidio! In quale stato! Povero martire!

E dandogli un bacio ed una tazza di caffè, gusta una gioia, una
baldanza, con cui non possono neppure venire a paragone le opere di
Verdi e i balli del Prefetto.

Egli mordendo il collo alla sua Sofia, perde ogni sdegno contra la
società, e giura seco stesso di essere sempre un lavoratore oscuro ed
onesto.

I due sposi sono davanti al fuoco. Egidio appinza e trasloca con le
molle i carboni accesi.

— Egidio, che cosa hai che non parli?

— Ritorno studente di liceo e ripasso un capitolo di storia.

— Quale? Dimmelo....

— Non voglio annoiarti....

— Su.... via....

— .... Penso che è un vero miracolo che i grandi uomini non abbiano
ancora distrutta l’umanità.

— Perchè non l’hanno distrutta?

— Perchè ci furono sempre gli oscuri galantuomini a conservarla....
Certe volte, come nell’eccidio di Gerusalemme, nel sacco di Roma, o
nell’incendio di Parigi, l’umanità ulula, sembra ferita a morte; perchè
niuno potrebbe allora dichiarare al pretore che la ferita sia guaribile
nè in venti nè in mille giorni. Eppure l’umanità si conserva sempre e
progredisce....

— Perchè?

— Perchè vi sono delle brave sposine come te....

— E dei cattivi mariti come te....

Il fuoco del camino manda una laurea, una aureola d’amore su quelle due
teste umili e contente.

                                   *
                                  * *

Poi viene il massimo dì, in cui la più mignola mammina diventa
veneranda come sant’Anna e in cui il giovane più prosaico si trasumana
di contentezza, — il giorno in cui un esile vagito, che saluta la luce,
riempie una casa del più musico scampanío di festa.

Poi vengono le cure delle piccole cuffiette, dei piccoli vestitini,
delle piccole scarpettine che sembrano destinate a raccogliere la
rugiada.

Poi non bisogna dimenticare di mettere la basta agli abiti nuovi,
perchè questi benedetti ragazzi crescono su a occhiate; poi bisogna
adattare i calzoni del maggiorino al minorello. Poi il Collegio, la
distribuzione dei premi; poi l’alterezza di avere un figliuolo, che si
addottora in legge o in matematica, ma non in medicina sotto pena della
diseredazione; poi amori e imenei anche per i nuovi giovani; insomma
tutto quanto l’ordine divino e perpetuo della famiglia, mediante la
quale l’umanità si conserva e progredisce, non ostante l’eccidio di
Gerusalemme, il sacco di Roma e l’incendio di Parigi.

                                   *
                                  * *

Pensando a tutto questo avvenire di belle cose, un _congiunto dello
sposo_, giovane studente di lettere, che aveva fatto il suo bravo
_sonetto per le auspicate nozze_ del dottor Egidio e della gentile
signorina Sofia, perdette la bussola, come la perdette notoriamente il
sindaco Benevasio Zuccotti nel 1859, quando si recò alla stazione per
salutare in nome del municipio il re Vittorio Emanuele e l’imperatore
Napoleone III, che si recavano alla guerra:

— Maestà! — disse loro il dabben sindaco: — Maestà! — e poi restato in
tronco, perchè il discorso imparato a memoria gli scappava via come il
vento: — Maestà! riprese — per incarico del Consiglio comunale io vi
impartisco la santa benedizione.

Così il giovane studente, piantato davanti allo sportello della vettura
di prima classe, mezzo scusato dal _sacerdozio delle muse_, piccato
di fare il suo novantanovesimo complimento alla felice coppia, si
concentrò per un mezzo minuto nel vuoto come il tamarindi di Brera e
poi proruppe: — in nome di tutti i parenti e di tutti gli amici, in
nome di questo inclito borgo, che voi lasciate, o felici sposi, ancora
una volta.... — qui voleva dire _vi saluto_, ma impaperandosi pronunciò
un grosso _vi benedisco_, — facendo risuonare l’elegantissimo _isco_ in
mezzo alla ilare attenzione generale.

La vaporiera sibilò la sua impazienza contra l’oratore.

— Grazie, sindaco!

— Grazie, prevosto!

Risposero allo studente, mentre i vagoni si urtavano per pigliare le
mosse, due gaie voci vibrate da gentilezza scherzosa.


  FINE.




INDICE


                                             Pag.

  Rovine, racconto biografico                   5
  Degna di morire, figurina nera              167
  La laurea dell’amore, trittico nuziale      193




Dello stesso Autore:


  =A Vienna=, _Gita con il lapis_. Torino, libreria Beuf,
    1874                                                       L. 2 —
  =Figurine=: _Carluccio — Lord Spleen — Dies — Galline
    bianche e galline nere — Sull’organo — High life
    contadina — I fumajuoli — Gioberti e Radeschi — La
    figliuola di latte — Un amore in composta — Gentilina
     — La vita nell’aja._ Milano, Tip. Edit. Lombarda, 1875    »  2 —
  =Narrazioni=: _Le conquiste — Il male dell’arte —
    Variazioni sul tema_. Milano, libreria editrice G.
    Brigola, 1876                                              »  2 50

  Di prossima pubblicazione:

  =Geromino a Roma=, _Note di viaggio_. Torino, Francesco
    Casanova, libraio-editore.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ROVINE ***


    

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receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a
written explanation to the person you received the work from. If you
received the work on a physical medium, you must return the medium
with your written explanation. The person or entity that provided you
with the defective work may elect to provide a replacement copy in
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or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
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1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
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or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

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