Lo assedio di Roma

By Francesco Domenico Guerrazzi

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Title: Lo assedio di Roma

Author: Francesco Domenico Guerrazzi

Release Date: April 28, 2007 [EBook #20062]
[This file was first posted on December 9, 2006]

Language: Italian


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LO

ASSEDIO DI ROMA

DI

F.D. GUERRAZZI

SECONDA EDIZIONE

RIVEDUTA E CORRETTA DALL'AUTORE

LIVORNO

TIPOGRAFIA A.B. ZECCHINI

1864.




_Proprietà Letteraria di_ A.B. ZECCHINI E P. LUCCHESI




LO ASSEDIO DI ROMA

DI

F.D. GUERRAZZI




PROLEGOMENI

Roma!


E' corre vecchia fama che Roma sia parola arcana, e significhi _Amor_,
ed io ci credo, però che sappia come l'Amore nascesse ad un parto
insieme coll'Odio; ora Roma, appunto rappresenta l'Amore indomato del
sangue latino alla terra latina, e l'Odio religioso contro lo
straniero da qualsivoglia plaga si muova per contaminare la terra
latina.

Roma crebbe la sua terra con la polvere degli stranieri: e fu
giustizia; ma poi le piacquero i gaudi della strage, e la voluttà
acre dello imperio del mondo; allora si accese contro lei l'ira di
Dio; i barbari vennero da contrade rimotissime prima a rovesciarla nel
sepolcro, poi a seppellire lo stesso sepolcro.

Però che anco sepolta Roma metta spavento.

E tuttavia, in fondo del sepolcro sotterrato Roma meditò un'altra
signoria; all'antica rete dalle maglie di ferro sostituiva la rete
sacerdotale dalle maglie di fede, e gittatala su le coscienze
imprigionò da capo molta parte del mondo.

Anche questa fu colpa, e più trista della prima, però la
vendetta ne dura più lunga. I padri nostri peccarono e noi portiamo
il peso delle loro iniquità. Veramente ella si merita il saluto di
Niobe delle nazioni; lei a buon diritto appellano madre le anime
desolate; veruna città patì maggiori ingiurie di lei: qui, pure
ieri, al popolo romano plaudente alla libertà il littore francese
disse: _basta_[1], e il popolo tacque, e qui, mila e mila anni fa, il
soldato gallo che profanò temerario la veneranda canizie del
senatore cadde col cranio fesso dal colpo dello scettro di avorio.

  [1]  Nella relazione scritta da _Filodemo_ dei gesti del _Comitato
    nazionale romano_ di cui l'ultimo atto non ha riscontro negli
    annali delle infamie politiche, sicchè per trovargli
    conveniente paragone è mestieri ricorrere al furto a mano
    armata della banca Parodi, e che pure fu visto difeso su pei Diari
    la _Nazione di Firenze_, e la _Gazzetta di Torino_, in cotesta
    relazione, dico, si legge come certa _dimostrazione popolesca_
    fosse ammannita dall'eroico comitato consenziente, o connivente il
    padrone di Francia, onde quando parve la dovesse cessare, i
    giendarmi andando attorno dicevano: _Assez_!

Di cui la colpa? Colpa è di coloro i quali mentre Roma, e Venezia
arieno ad essere i punti estremi della cote su cui arrotare il ferro,
e la virtù italiana gittarono dentro lo spazio che intercede tra
una terra e l'altra viltà, avarizia, ogni maniera di malvage
passioni, e ignoranza e ne tramarono il lenzuolo dentro il quale si
avvolgono i popoli diventati cadaveri.

I preti quando dintorno rintrona il ruggito del lione tremano, e
fuggono; allorchè poi vedono accostarsi le volpi dicono: perchè
ce ne andremo? Non siamo volpi anche noi? Il crisma del Signore non
fabbrichiamo noi altri? Sicchè, se siamo unti non si domanda nè
anco! Quanto a corone noi ne portiamo tre.

I preti ci procedono acerbamente nemici: chi li potrebbe condannare?
Certo non io. Di vero, chi oggi ha in mano il freno d'Italia non li sa
satisfare nè spengere, bensì intende arrostirli a lento fuoco
come san Lorenzo, ovvero scorticarli a mo' di san Bartolommeo; e
questo i preti ben possono con orazioni panegiriche levare a cielo, e
chi lo patì, onde altri lo riverisca, riverire, ma non sostenere
essi. La Chiesa non ha più mestieri di martiri; cessò di essere
_militante_ per diventare _trionfante_; se a taluno cui rimase addosso
la vaghezza del martirio vuole cavarsene la voglia se ne va lontano
lontano nelle parti degl'infedeli, però, che tra noi correrebbe il
rischio di trovarsi chiuso in qualche manicomio, ovvero in prigione;
dacchè le coscienze abbiano ad essere libere, e persona deve
possedere la facoltà di turbarle. Ognuno viva tranquillo nella
religione dei suoi padri, nè deve mutarglisi con violenza, o
insidiare con fraudi dove non appaia mostruosa per pratiche nefande;
il che accade solo tra gente selvaggia; lassù in fondo oltre le
stelle vigila per tutti Dio, e le diverse religioni del mondo sono
quasi assise diverse di un medesimo signore, e bandiere di uno stesso
capitano. Così piaccia al Padre delle cose e degli uomini versare
sul capo dei mortali insieme con la luce la benevolenza, affinchè
le tavole della sua legge compaiano norme di vivere faterno non
bersaglio posto davanti ad arcadori irrequieti.

Ma tu dirai: e chi vuole martoriarli? Io intendo tôrre loro il
governo dei beni terreni. E chi sei tu che presumi spogliare della
sostanza il prete?--Il prete dice: in nome di cui vieni? Quale
rappresentanza hai? Come mostri che governerai meno di me
soperchiatore ed avaro? Un solo è padrone della terra, questo si
chiama popolo. Io non mi sento muggire intorno le onde del popolo.
Sorgano intorno a me anime latine, ed io cederò alla grandezza
latina. Se per te il danaro è sangue, egli è sangue anco per me;
e con quale giustizia mentre il secolo rappresenta una corsa
forsennata, un lupercale, un baccanale a traverso tutti gli articoli
del codice penale per agguantare il milione dovrò lasciarmi
tôrre la camicia io prete, io prete, uso di cavarla altrui, e
cantare il _Te-deum_? Ed io prete, ho mestieri di tenermela cara
meglio di voi perchè voi altri andate in Borsa, convenite in
Camera, tendete trappole di strade ferrate, aprite reti di crediti
fondiari, vendete, barattate, mercate, ma io non ci vado, e a
sopperire ai miei bisogni non mi avanza altro che la rete di San
Pietro a cui per vetustà ora casca questa, ed ora quell'altra
maglia. Qualche prete in Camera andò, ma scarso, e parve pauroso,
ma per un'abbadia si mansuefece; di fatti, il modo più sicuro onde
uomo taccia sta nello empirgli la bocca; dunque come presumete che
altri non fiati levandogli quello che da secoli gl'imbandirono dinanzi
la industria propria e la ignoranza altrui? Sacerdoti e Sacerdotesse
si rassomigliano tutti; Alessandro strinse la Pitia nelle sue braccia,
e la sforzò a rivelare lo spirito del Dio; anche il Papa a quel mo'
intenderebbe ragione; se vuolsi, che il sommo Pontefice si accosti al
cielo sollevatelo con mani poderose di sopra la terra. Finchè
domanderete Roma come il pitocco la elemosina voi non l'avrete; Roma,
di cui i cittadini dispensavano le corone ai Re come soldi, patireste
voi vi fosse data come un soldo? A Roma si va ma con cuore, con
braccia, e con passi romani.

E questo è vero. Ma quando Roma avrà Romani sparirà il
sacerdote? Non credo. Potrà egli dunque ridivenire poeta,
legislatore, e guerriero? Nè manco questo credo. Potrà, se
vuole, durare poeta, e Pio IX lo fu un momento quando nella procella
che abbatteva imperi e regni, come fronde in bosco, ravvisava il
soffio di Dio; la umanità è cosa che passa sopra mondo, che
passa; ma il suo cuore anela la eternità; il sacerdote, se gli
basta la mente rimarrà su la terra pilota per indicare alle
generazioni che le mille vie lattee sono altrettanti sentieri pei
quali le anime dei buoni arrivano al seno del Padre delle cose e degli
uomini.

Io non so se ad uomo sia dato vivere secoli; lo dicono, ma non ci
credo, comunque vive adesso in Italia un'uomo che pare anima romana
dimenticata dalla morte: da questo un dì mosse un grido potente,
che disse: _a Roma_. Gli furono addosso i nemici, e degli amici
quelli, che si erano fatti della Patria una pentola per cocervi gli
alimenti di casa. Le anime romane udirono nelle antiche sepolture la
voce, e parve loro antica e conta, sicchè rimescolaronsi, e
sollevarono i coperchi. Dalle dimore della morte dei vecchi padri
usciva un'alito, che bastò ad infiammare il petto dei pretesi vivi
di mirabile ardore.

E vi hanno cose che non si possono ridire, come ve ne sono di quelle,
che non si possono rappresentare. Timante, pittore, non velò la
faccia di Agamennone presente al sacrificio della figliuola Ifigenia?
Chi potrà favellare della ignominia di Aspromonte senza sentirsi il
cuore trasalire nel petto come leone in gabbia? Imperciochè, qui
stava il punto: il Garibaldi aveva ragione del torto altrui. Veruno,
ch'io sappia, considerò cotesto caso sotto il suo aspetto giusto ed
unicamente vero; Giuseppe Garibaldi dittatore, pigliando su di sè
non essere mestieri Assemblea costituente per fermare i patti
dell'annessione di Napoli al Regno italiano, mallevò che le cause
le quali lo persuadevano sarebbero state compite e subito; perchè
opera interrotta affligge più dell'opera ruinata, significando la
prima impotenza o inanità di consiglio nel fabbricatore, la
seconda, forza di casi, ed empia virtù del tempo; del primo fatto,
la colpa sempre intrinseca, e in facultà tua o astenertene, o
emendarla; del secondo, nè tua, nè a te concesso riparare.--Il
Garibaldi si trovò nella condizione del garante quando manca il
debitore principale: tremendo carico gli stava addosso per la Patria,
pei popoli fiduciosi in lui, per la democrazia, per la propria fama,
patrimonio suo, ma e ad un punto e della Italia. Gli uomini di arme,
comunque nella mano prodi, ai nostri giorni ci diedero e ci danno tali
e tanti esempi di miserabilissime calate, che il Garibaldi sentì il
dovere di mettere fuori la sua apologia: ora cotesta maniera di
apologie si scrive col sangue; ed ei col suo sangue la scrisse. Il
Garibaldi mostrò essersi ingannato, come il popolo s'inganna spesso
perchè generoso e fidente. Di qui, se arguto intendi, comprenderai
le ragioni ond'egli solo, o quasi, e certamente non in sembianza di
cui si apparecchia a combattere, egli si accinse a compire il suo
debito: alla espiazione bastava solo: e di qui il motivo pel quale
sopraffatto, crebbe, nello amore del popolo: la gloria di capitano
invitto rimase intera a colui, che debole ed aborrente la zuffa, si
trovò circondato da eserciti, e da condottieri bramosi di sangue;
la gloria di onesto crebbe; e il popolo italiano oggi ha sete, gli
è proprio assetato di Onestà. Il Garibaldi Anteo del nostro
secolo, o lo rovescino a terra, o lo sollevino al cielo raddoppia
sempre la forza; vicino a terra gliela somministra il popolo; accosto
al cielo gliela partecipa Dio.

I coperchi degli avelli romani sollevati dalla voce del Capitano del
popolo non si sono richiusi; come tante bocche aperte gridano:--codardi!
eroi da teatro! a Roma non si va che con ardimento romano.--

Roma venne tratta dinanzi come l'arco di Ulisse; bisogna curvarlo o
morire. O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è
già approdato in Itaca.

Ma intanto che i fati si compiono, bisognerebbe che gl'intelletti
divini imprendessero due compiti, pure aspettando d'imprendere il
terzo.--Roma un dì ebbe il popolo;--a ripigliarsi Roma, giorno e
notte si travaglia il popolo;--il popolo, in avvenire prossimo, si
acquisterà Roma. Pertanto alla Italia adesso farebbero mestieri tre
uomini, Omero, Macchiavello, ed Erodoto... il guerriero ci è.

Omero per consolare con la luce del canto le anime di coloro i quali da
tutte parti d'Italia convennero a Roma a fare la prova con documenti di
sangue, che la Città eterna è patrimonio degl'italiani.

Macchiavello per insegnare con quali modi i popoli caduti ritornino in
fiore, e come i deboli devano adoperare per rifarsi gagliardi;--e
più ancora chiarire le menti, che ogni disagio deva sopportarsi a
patto di costituirci nazione. Se il Demonio, o volesse, o potesse
venire al mondo per istrascinare nel suo inferno Papa, e Borbone, e di
ogni risma stranieri, ben venga il Demonio; noi lo saluteremo:
_Demonio I rè d'Italia_; purchè venga armato di ferro, e di
fuoco.--

Erodoto, il fortunato, il quale poichè la Italia andrà famosa di
battaglie come quelle di Maratona, di Platea, delle Termopili, di
Salamina, e di Mycale, potrà sotto la ispirazione delle Muse
dettarne la Storia, e leggerla al popolo fatto per entusiasmo divino
nelle Olimpiadi e nelle Panatenee nostre.

Le storie dei grandi gesti scritte dal popolo, solo la Immortalità
accetta e ripone dentro i suoi archivi; dalle altre, dettate da gente
di corte e venduta, ella ritira le mani come da cosa immonda.--

Ora in Italia dov'è Omero? Dove Macchiavello? In qual terra nacque
Erodoto? E lasciamo questi ingegni magni da parte.... dov'è chi
accenni portare sul capo la fiammella del Paracleto fra noi? Come
l'uccello, secondo la stupenda similitudine di Dante, che su l'aperta
frasca fisa la plaga di oriente pure aspettando che sorga l'alba, io
mi volgo da tutti i quattro venti, smanioso di vedere sorgere la luce
nuova di faccia a cui gl'ingegni nostri diventino quale si fa il lume
di candela quando splende il sole nella gloria dei suoi raggi; ma,
ahimè! da lungo tempo io lamento il secolo apparirmi simile
all'uffizio della settimana santa dove al finire di ogni salmo
spengono un cero; ed oscurata la chiesa, si annunziano poi le tenebre
con le battiture.

Senza paura, come senza offesa io lo dirò; non basta la
gagliardìa; anco i gladiatori erano forti; e corre gran tratto tra
coraggio, e coraggio; anco i gladiatori erano animosi, e sostentavano
la vita per darsi la morte dinanzi ai Quiriti. La vita consolata da
affetti, decorosa di sapienza, pura da colpa è sagrifizio degno
della Patria; chi butta là la vita bestiale, fastidiosa, e
contaminata offre alla Patria la offerta di Caino. I sommi capitani in
antico comparvero eroi però che con lo intelletto intendessero e
col cuore sentissero quello perchè combattevano, e palpitassero
prima per la Patria poi per loro; nè le armi, già instituto di
vita o fine delle azioni, bensì, mezzo o via per tutela della
Patria, e della famiglia. Cincinnato, compita la guerra, ripigliava il
solco interrotto nel campo paterno. Oggi, si corre dietro a' gradi
della milizia al pari che dietro una prebenda, e il divario, che
occorre tra un capitano e un canonico, gli è questo: che uno si
procaccia il vivere con la spada, d'altro, se lo procura col
breviario, onde se non trovi canonici che abbiano genio di capitano,
ti occorrono qualchevolta soldati che arieggiano anco troppo del
canonico; nè questo giudico il peggio. Le armi appartate dal vivere
civile, e sceme di dottrina, e piene di presunzione tu reputa
addirittura minaccia non sostegno di libertà; il soldato ignorante
e il mastino della tirannide. Erodoto, Senofonte, Socrate, Epaminonda
di Tebe, Arato di Sicione capitani furono e filosofi; la spada in
tempo di pace mettevano per segno in mezzo alle pagine dei libri della
sapienza, però, quando ne la traevano fuori non si correva pericolo
che senza accorgersene essi l'adoperassero a danno della Patria, e in
pregiudizio della Libertà. La milizia incivile ha educato fra noi
gente misera a un punto e contennenda; poichè non la menò
diritto al canonicato, fastidisce i lavori dagli studii rifugge,
irrequieta sempre e bisognosa di sommovere le acque per pescare nel
torbido; al contrario di quanto disse stupendamente il Danton, si
porta la Patria sotto le suola delle scarpe.

Morte degli studii onorati, come del senno politico, del senso morale,
di tutto che compone l'onesto vivere civile il mestiere dei
_Giornalisti_. In questa maniera di scrittura convennero la
mediocrità astiosa, la calunnia che si vende, la presunzione
ventosa, insomma quanto di più volgare, e di più tristo deturpa
la razza umana. La più parte dei Giornali, macelli di malacarne,
dove i quarti della coscienza degli scrittori tu vedi appesa ai ganci
per ritagliarsi a minuto. E' par bello ai dì nostri vendere a peso,
e a misura ciò che altra volta avrebbe condotto sopra la panca
dell'accusato; chè, appunto quegli che fu commesso alla custodia
della legge, e all'onore dei cittadini paga co' denari del pubblico i
laceri contro la legge, e l'onore dei cittadini. Gli è il saturnale
dei maestri di scuola senza scolari, di causidici senza liti, di
medici senza ammalati, di ghiottoni di ogni risma; ai quali larvati
dell'anonimo sembra grazia, ch'era follia sperare, rifarsi dell'astio
contro cui per virtù, o per ingegno, o per servizi resi alla Patria
primeggia; sfogare lo infinito veleno che gli affoga; industriarsi ad
avvilire altrui onde abbiano gaudio della propria viltà
_Giornalismo_ sifilitide schifa della Libertà.--Cristo! che
alluvione di pantano si distese per tutta la Italia[1].

  [1]  Intendi del Giornalismo venduto.--

E Cristo, tuttochè mansuetissimo fra le creature, quando gli
occorse il tempio contaminato dai pubblicani e dai rivenditori, a
colpi di flagello li cacciò via dal portico; e vendevano mercerie,
o commestibili; i Giornalisti poi vendono la coscienza, e non mica nel
portico sibbene dentro il tempio, anzi nel santuario, dove impugnato
il corno dell'altare della Libertà, in nome della Iddia pretendono
asilo.

E tuttavia come cosa barbara gli asili antichi abolironsi, e chi vi
rifuggiva s'ingegnava sottrarsi alla pena di delitto commesso, e forse
gli rimordeva la colpa; ad ogni modo costui o non poteva o male
rinnovare la colpa mentre i Giornalisti abbracciano l'ara della
Libertà per continuare impuni i misfatti; nè di altro sentono
rimorso, che di non avere fatto peggio.

Per tema di offendere l'altare nel colpire il nefario, che lo abbracciava
quando tenni in mano la scure del potere, aborii adoperarla; nè me ne
astenni solo, bensì curai, che i diari infesti e pieni d'ingiustizia
liberamente si propagassero: non sono vanti questi ma verità, e fossero
vanti, veruno può contrastarmeli; però, molto meno privato cittadino
devo adoperarmi a restringere per anticipazione l'esercizio liberissimo
delle facoltà dell'uomo; tanto però ho chiesto, ed in tanto insisto,
che ogni scrittore apponga il nome sotto il suo scritto; questo impongono
la giustizia e la buona morale, e dacchè gli scongiuri mossi a custodia
di cose siffattamente necessarie non sortirono l'effetto desiderato;
intervenga la legge e comandi; pei trasgressori metta le pene. Ai liberi
uomini sconviene camminare come i topi nei cunicoli; e quando troppi,
rodendo le staminare al buio pongono in pericolo la nave, il marinaro li
leva di mezzo con la stufa.--Nè mi acqueto punto all'obietto, che in
fondo al Diario occorre il nome del Direttore il quale malleva di tutto,
perchè il Direttore sta lì per finzione, nè si può disprezzare
altrui per finzione, e molto meno trovo giusto punirlo; e poi sovente il
Direttore si sceglie per la ragione, che natura ed arte gli foderarono la
faccia di zinco sopra ogni altra creatura umana; non potrebbe toccare mai
a cittadino onorato peggiore fortuna, che prendere briga con taluno di
quelli che si appellano Direttori di Giornali; chi con le mani ignude
vorrebbe raccattare lo scorpione...?

Anco questo il popolo si abbia per segno di Libertà verace;--il
cessare la compra e vendita delle coscienze co' danari spillati dal
sudore del popolo per difendere le colpe e gli errori dei governanti,
e per assassinare i cittadini dabbene. Da sè il Governo libero e
degno di popolo libero si difenda aperto, franco, ed ardito, e cacci
da sè lontano i sicarii; perchè, che cosa mai altro sono gli
scrittori comprati se non sicarii della penna? Si, sicari della penna.

E questo fu detto, e lo andremo ripetendo, finchè la esecrazione
pubblica non gli abbia presi a sassi: ella è la morte dei lupi
affamati; tornate, o paltonieri, ai solchi aviti, che vi piangono
lontani, tornate magari nel ghetto a vendere ciarpe, scorticate
clienti, uccidete infermi, tuffatevi _rospi nel sembiante_, e più
nell'anima nei fanghi del Sebeto e della Dora; tutto men peggio, che
vedere caduta la Patria tra gli artigli di questi sciagurati adoratori
della nuova Trinità d'ignoranza, di prosunzione, e di viltà,
ch'essi hanno inventato per uso loro e dei loro divoti. Intantochè
la stampa, pari all'asta di Achille, non abbia curate le ferite che ha
fatto, sopportiamola come si sopporta il fumo che precede la fiamma,
letizia degli occhi e ricriamento delle membra assiderate.

Poichè questa nostra resurrezione, mercè la setta stupida ed
iniqua, che sì argomenta, assai si rassomiglia ad un campo-santo, e
poichè l'alba con tanta ansietà aspettata si manifesta col
raddoppiare del buio, mi proverò io a compire il debito della nuova
generazione: nelle notti di estate, quando l'oscurità afosa
ingombra fitta la terra, anco la lucciola pare una stella.

Una volta io possedeva una cosa buona, e la gioventù un'altra,
cento cotanti migliore; io aveva il braccio forte, la gioventù un
petto pari all'antico _ancile_[1] lo scudo venuto dal cielo, onde
allorchè io ci battevo sopra, quel cuore-scudo sprizzava scintille
d'ingegno e di virtù; ora, vedrete, il suo rumore sbanderà
impauriti i giovani quasi colombi alla pastura.

  [1]  Scudo che Numa finse caduto dal cielo dalla conservazione del
    quale dipendevano i destini dello impero romano. L'Imperatore
    innanzi di rompere la guerra si conduceva nel vestibolo nel tempio
    di Marte dove scossi prima gli _ancili_ (erano due, uno genuino,
    l'altro imitato per tema lo involassero) toccava poi con la lancia
    il Dio gridando: _Mars vigila_, Marte svegliati.

Mi si dice esserci noi discostati dalla servitù; questo può
darsi: io domando questo altro: di quanto ci siamo accostati alla
libertà?--Tu gitti, mi si risponde, sopra la carta la tua anima
come lava ardente, e veruno ti torce un capello; un dì per questa
colpa quante carceri hai tu visitato?--È vero, io sussurro
sgomento, ma la carcere ci appariva gioconda quasi stanza nuziale,
perchè l'onda delle passioni popolesche sommossa dalle nostre
parole, ne percoteva i muri come mare in tempesta: confidavamo che le
sarebbero state seme di verace libertà:--coraggio, gridavano l'uno
all'altro, erpichiamoci anco su quel dirupo, superato quel monte,
addio nevi, addio dolori, e fatiche; la Libertà ci aspetta tutta
amorosa a mo' che apparisce la sua benedetta culla, la Italia, a
coloro che scendono giù dal Moncenisio. Affascinati gli occhi dalla
divina speranza, chi sentiva le piante lacere dal tormentoso cammino,
e chi, sentendole, avrebbe ardito lamentarsene? Ora, valicato quel
monte ci sorge davanti un'altro monte più aspro, e rigido di
ghiaccio; i cagnotti dell'antica tirannide, mutata veste, tribolano
come prima; della Libertà accadde quello che favoleggiano avvenisse
alla Giustizia la quale volando al cielo lasciò cascarsi la veste;
i Giudici di cotesti tempi lontani la presero, la tuffarono nella
propria coscienza e la fecero nera; d'allora in poi, gli uomini
scambiarono la toga per la giustizia, proprio a quel modo che eglino
adesso per lunga stagione, hanno barattato la Libertà con le
insegne di lei. E da per tutto così. Poteva durare vitale la
Libertà ch'ebbe per compare il marchese Lamartine? Poteva essere
Libertà quella, covata dal Barone Ricasoli e compagni, superbi
odiatori del popolo più che del sangue viperino? A Parigi, come
altrove, e forse lì peggio che altrove, una mano di aristocratici e
di sofisti adoperarono il popolo secondo che costuma il ladro della
scala per salire alle finestre della reggia, e saccheggiarla in nome
della Libertà: piaggiatori palesi della moltitudine, quanto più
in segreto la odiavano, non guidatori, l'accesero a brame impossibili;
poi la saldarono a cannonate. Il popolo si accosciò sgomento e tu
ora (atroce a dirsi!) lo raccogli per combattere guerre, che nulla gli
dice essere patrie, nella guisa stessa che traduci in vincoli il
malfattore affinchè paghi la pena. Con la faccia china alla terra
bagnata dal suo sudore, il popolo mormora: ora e sempre, questa terra
rappresenta per me travaglio disperato, e sepolcro miserabile. Chi
basso, chi alto, ma fin qui tutti quelli che vedemmo succedersi, ombre
grottesche di lanterna magica sopra la parete avversa, ci hanno
intonato agli orecchi;--servi, paga, e ce ne avanza.--Nè ometto
qualche altra cosa, che è questa:--scegliti prima il padrone, e
poi, quando ti chiameremo a pagare il tuo tributo di sangue corri a
gambe; se meni un solco lascialo a mezzo come costumò il Putnam
americano; se ti manca cucire gli ultimi punti ad un'abito, buttalo
là; se la chiamata ti coglie mentre ti curvi a baciare nella culla
il tuo figliuolino, rompi la curva, e vienne via; se abbracci la tua
consorte sciogliti e respingila; se cali adagio adagio l'amata salma
paterna nella fossa, scaraventala giù di tonfo, corri a salvare la
Patria tutto di un fiato--emula Euchida che nel giorno stesso preso il
fuoco a Delfo ritornò a Platea di tutto corso facendo ben cinquanta
leghe di cammino, e portò il fuoco, dopo salutati i cittadini
morì;[1] e bada qui, sta' attento, la Patria siamo noi.--

  [1]  Plutarco in vita Aristid. § 20

La Libertà è cosa oltre ogni estimativa preziosa, bisogna che tu
popolo la paghi cara, anzi carissima. Lo ha detto chi non poteva
fallare. Ma dove alberga, di grazia, e come ha faccia la Libertà?
La Libertà è pianta che cresce; e vive a Torino, dove gli alberi
privi dell'onore delle foglie paiono spettri sette mesi dell'anno;
là Libertà, guardaci bene, è fatta ad immagine nostra.

Insomma, come la donna adultera della scrittura, questa _setta empia_
si frega i denti e dice:--_io non ho peccato_!--All'opposto, sfrontata
e bugiarda dopo avere seguito da lontano il Lione del popolo e dopo
essersi, sozzo Jakallo, pasciuta dei suoi rilievi, montata su i
trampoli, strilla:---_io feci, io fui_.--

Sembra impossibile a qual punto d'insania ella trascorra, perocchè
adesso senza impeto alla scoperta ti affermi:--tarlo della Monarchia,
io m'imposi; trovo il mio conto a roderla, e con lei mi sto, nè fie
che me ne diparta finchè io non miri il popolo in procinto di
empire le città di sangue con battaglia cittadina.--

Il popolo ode queste sentenze uscire dalla bocca di coloro, che gli si
professavano amici; leva gli occhi lenti e tardi a guardarli; li nota
e ruguma sopra i tempi passati, e gli avvenire.

E a noi, che gli parliamo parole di speranza, e gli diciamo: «non
badare a cotesti insensati, è una eclissi che passa, una nuvola
traverso la faccia del sole; ripiglieremo la via interrotta,
cesseranno le mostre sceniche, i giorni delle vere battaglie
torneranno, i generosi sul campo daranno e riceveranno perdono;--il
popolo brontola cupo, e scorrubbiato:--via di qua poeti, perchè
storcerete voi sempre il senso alle parole? E che prò trovate a
nascondere la realtà delle cose? Lo hanno dichiarato espresso,
bisogna combattere, e vincere, allora e solamente allora ci daranno
ragione; essi hanno torto, e lo sentono, ma la legge adoperano come
della lacciaia i butteri; chi preso tentenna, sente stringersi il
collo. Per quanto amore portate a Dio lasciatemi stare; io non vi
chiamerò perfidi ingannatori, ma ingannatori siete perchè vi
ostinate a volere essere ingannati. Ormai, dinanzi al popolo la _setta
empia_ mette due vie, quella di buttarsi sopra la terra e confidarsi
nel tempo che consuma il tiranno e lo schiavo, i re, e i popoli, che
logora le catene, e i polsi, i flagelli, e le schiene, appo cui tutto
è foglia che disperde il verno; il tempo che ogni cosa travolge
dentro ai sepolcri. Ah! poichè il sommo Creatore non volle impedire
alla ingiustizia di ramificare le sue potenti radici sopra la terra a
sollievo di tanta amarezza mandò la morte.--E' pare insensato, ma
io popolo, affermo solennemente e predico, che senza la morte non
potrei più sopportare la vita....»

Ecco che ci risponde il popolo adesso che gli favelliamo liberi in
tempi che salutano di libertà; prima, le nostre parole scendevano
nel suo cuore, auspici la persuasione, e la speranza; adesso la rabbia
le respinge pari al demonio che sbatte le porte in faccia all'angiolo,
nella divina Commedia. E l'_empia setta_[1] presume conoscere il
popolo, e si vanta tenergli le mani nei capelli. «Esagerazioni!
ella esclama, qualcheduno di coloro che a prezzo di vita acquistarono
un regno alla Italia morì di fame; forse tal'altro per non patire
vergogna portò contro di sè le mani violente; le sono cose che
tutto dì accadono, nè per questo se ne «turbano l'ordine
delle stagioni nell'anno, nè lo appetito a noi.»

  [1]  Io ho chiamato la setta, o vogliamo dire camorra dei Moderati,
    _empia setta_; mi cade adesso il taglio di chiarire la ragione,
    ond'io adoperassi, e continui ad adoperare così.--I _Moderati_
    furono gli _assassini di Gesù Cristo_, e decisero assassinarlo
    giusto allora ch'egli fece il miracolo di Betania, vale a dire _la
    risurrezione di un morto_, di Lazzaro! Imperciocchè, i Moderati
    non compaiano mica nuovi nel mondo, essendo pur troppo antiche la
    viltà, la cupidigia, l'amore disordinato di sè, l'appetito
    dei propri comodi anco a danno dell'universale, la rabbia di
    risucchiare fino l'ultima goccia di sangue nelle vene dello stato,
    la libidine di primeggiare per vie oblique quanto meno si sentono
    capaci di arrivarvi per le vie diritte; insomma, vecchia e
    vergognosa la sentina della razza umana. Dopo il miracolo di
    Betania, i capi del partito moderato in Gerusalemme si ridussero
    insieme e misero in deliberazione: «Gesù e il Giudaismo
    possono durare insieme?» Appunto come l'_empia setta_ ha
    chiesto a sè stessa: «_Moderati e Democrazia_» possono
    durare insieme in Italia?--

    Ed in Gerusalemme ed in Italia risposero: no; dunque morte a
    Gesù, morte al Popolo, a quello con la croce, a questo
    moralmente s'intende e politicamente. _Ernesto Renan_ (vita di
    Gesù p. 366. Parigi) in questa parte sicuramente da veruno
    controverso con precisione mirabile narra quale il partito
    Moderato in Gerusalemme, e le sue paure, e l'abiettezza, e
    gl'intenti interessati, e tu che leggi giudica se, e fino a qual
    punto ei corrisponda alla _camorra_ moderata d'Italia. Da prima,
    nota una famiglia sacerdotale dalla quale si cavavano i sacerdoti,
    donde accadeva, che mutassero nomi non governi, cappe tutte
    tagliate dalla medesima pezza, a cotesta famiglia facevano capo i
    Saducei, setta arida, nei giudizi prosuntuosa, dura di cervice,
    persecutrice ardente e crudele, irrisora, maligna, bugiarda
    solenne; per tutti costoro Gesù rappresentava l'agitazione del
    popolo, e veramente era; tremavano a verga cotesti coniglioli con
    le granfie, se ne inalberasse lo imperatore romano a cui si erano
    dati corpo ed anima; costoro procuravano con tutti i nervi, che le
    generazioni passassero _davanti la caverna dove dormiva il lione
    senza svegliarlo_ (concetto superlativamente moderato del signore
    D'Azelio) da un lato servi e tributari, per essere dall'altro
    padroni acerbi e rigidi collettori di tributi. Al privato
    interesse facevano velo della salute pubblica: questi
    arruffapopoli, essi dicevano come ora dicono i moderati dei
    patriotti, spingeranno la guerra contro Roma. Roma! Ma bisognava
    proprio avere dato a pigione il cervello o pur pensare alla guerra
    con lo impero romano attendere, industriarci a pigliare la lepre
    col carro, menare le cose avanti alla sordina, questa la somma
    sapienza.--E la sapienza era, che 37 anni dopo la morte di Cristo,
    del tempio non restava più pietra sopra pietra, Gerusalemme
    nido di volpi, il popolo d'Isdraele proprio affogato nel sangue,
    imperciocchè la guerra a lungo andare sia inevitabile tra
    popolo servo, e popolo tiranno, e gli Ebrei l'avrebbero forse
    vinta se in tempo traevano profitto del fermento rivoluzionario,
    il quale opera in due maniere: dal canto tuo ti cresce le forze
    con lo entusiasmo, dal canto del nemico gliele scema, ed anco
    gliele strugge dove abbia del bacato dentro, come appunto ne aveva
    lo impero romano oggimai volto al tramonto.--La virtù della
    rivoluzione partita da Gerusalemme fece come Scipione quando se ne
    andò a portare la guerra a Cartagine, passò a Roma, e ci
    crollò l'impero. E perchè si comprenda meglio se gli antichi
    omicidi di Cristo stieno per falsariga ai Moderati moderni, tu
    medita sopra le seguenti parole del _Renan_: «il partito
    dell'_Ordine_ (io piglio i vocaboli nel significato angusto, e
    meschino) sempre e dovunque, apparve lo stesso. Pensando, che
    precipua cura del governo avesse ad essere l'attraversare ogni
    commozione popolesca, si dette ad intendere di fare opera
    patriottica prevenendo con l'omicidio politico il tumultuario
    spargimento di sangue. Niente curando il futuro egli non pensò
    come combattuto il moto iniziatore correva pericolo di sgualcire
    la idea destinata a trionfare un dì. La morte di Gesù fu una
    delle mille applicazioni di questa rea politica.»

    Ed ecco perchè chiamo la camorra dei Moderati _empia
    setta_. Gli antichi Moderati, misero Cristo, i moderni mettono in
    croce la Italia.

Oh! dateci, ridateci i nostri gesuiti, e i vecchi sbirri, e le vecchie
manette; dateci tutto, tutto, a patto che ci si ridia il popolo che
tremava di odio contro lo straniero, il tempo che al cittadino
italiano preso in sospetto di odiare meno l'oppressore della Patria
era mestieri ripararsi in istranie contrade, la stagione nella quale
un'uomo perchè aveva accettato ufficio da principe assoluto
trovò chiusi i cuori e le porte dei suoi amici[1], la carcere dove
si poteva serivere; il Papa vuolsi aborrire per tre tiranni però
che porti tre corone sul capo[2].

  [1]  L'auditore Forti di Pescia.

  [2]  Assedio di Firenze.

Non importa, però che l'uomo sia quasi un sasso nella mano del
destino e gli tocchi andare dove si sente sbalestrato--e Nemesi duri,
la quale vigila eterna; il sonno fugge dagli occhi suoi senza
palpebre, il braccio di lei si agita senza posa a percotere le colpe
dei mortali: cotesta è gelosa divinità e terribile, dov'ella
spinge bisogna andare; conduce i volenti, i repugnanti strascina.

È cosa naturale che ogni generazione si consideri la predestinata a
compire l'opera del perfezionamento dell'uomo; bene provvide la natura
nello infondere dentro l'individuo la baldanza di essere il prescelto
a porre l'ultimo sasso all'edifizio;--ma quando l'opera gli si aumenta
alla stregua del travaglio, e a mano a mano che sale gli si dilata
l'orizzonte davanti agli occhi, allora comprende, generazione o
individuo, se essere particola della somma Intelligenza sì, ma
particola finita nella sua specie, ma frammento di opera che andrà
compita in capo ai secoli, e forse mai.

Perchè, quando mancassero le necessità del perfezionarsi,
cesserebbero a un punto le cause del vivere, e la umanità priva di
passioni rimarrebbe immobile, pari alla nave sorpresa da calma
perpetua con le vele pendenti, a infracidirsi sopra il mare morto.

Si contentino dunque lo creature umane di formare parte dello edifizio
fatale: ognuna fie lodata pel compito, che le venne imposto, e ch'ella
valorosamente condusse; e di tanto ringrazi l'_Eterno architetto_[1]
che con gli occhi mortali non potrà vedere il termine della opera
manifesta ed intera, le si presenta agli occhi dello intelletto: dove
il corpo non giunge, l'anima vola, e se ne appaga. Se poi taluna, o
non vede o rifiuta vedere, è colpa di natura se l'uccello non usa
l'ale?

  [1]  In altri libri ho avvertito che i Greci chiamarono Dio
    _Demiurgos_, architetto--e gl'Imperatori si appellarono primi, poi
    i Papi _Pontefici_; la edificazione implicò sempre idee
    religiose.

Vi hanno tre modi di considerare il bene, e tre modi altresì di
praticarlo; quanto a vederli basta un baleno della favilla divina
chiusa dentro il cranio dell'uomo; circa a praticarli bisogna che la
intera umanità acconsenta; io voglio dire lo assoluto, il
teoretico, e il pratico; l'assoluto sta lontano lontano quasi al lato
a Dio; arduo a conseguirsi, sarà la soglia a piè della quale
l'ira, la cupidità, le sventure e la morte lasceranno l'uomo;
sarà la porta oltre la quale la creatura umana sublimata a natura
angelica assumerà forma e concetto di spirito, il teoretico,
comecchè meno in alto, tuttavia apparisce sempre sublime così,
che l'uomo dispera di conseguirlo, e pure lo raggiunge non già
perchè egli si abbassi verso il pratico, ma si all'opposto
perchè il pratico si solleva fino a lui; il pratico rasenta la
terra dove lo tirano volgare istinto, voracità, ingordigia, e mente
bestiale, e paure;--questo, di verme si muta in farfalla e s'indirizza
in su. Se tra lo assoluto e il pratico non intercedesse il teoretico,
l'uomo sbigottirebbe, non gli si parando altra via che rimanere
lumbrico, o trasformarsi in angiolo.

Dall'arrogante prosunzione della setta dei Moderati, oggi a tutto
pasto, si bocia: _pratico! pratico_!--E che sapete voi pratico che
sia, e dove arrivi, e come si amministri? Pratico, per voi consiste
nel lasciare la società nella fossa dentro la quale si trova; e non
alterare le sue condizioni se non in quanto ciò giovi agl'interessi
che hanno gittate le loro radici fin dentro le viscere di quella.
Gl'interessi oltre i propri di casa e di bottega, sono interessi di
eserciti permanenti, di giudici, di preti, di giandarmi, di
gabellotti, di gente che invece di produrre consuma... moltitudine
d'ostriche aggrappate sul corpo alla balena... o piuttosto male
pediculare della umanità.--

Questi interessi, rinterzati insieme, rabbiosi ed operosi, digrignanti
i denti come belve, che si sentano insidiato il pasto, deviano sovente
la umanità dal diritto cammino, abbindolandola con errori,
empiendola di paure, in mille guise tribolandola, sicchè, da prima,
sgomenta, ella si accoscia, poi furiosa, si avventa, e mette a sua
posta paura, chè comparisce ella pure, ed è belva; lacera a
destra e a manca; la libertà fugge coprendosi per vergogna la
faccia.--

Il sangue marcisce i fondamenti ai troni, non feconda la pianta della
Libertà; questo la esperienza insegnò, speriamo gli uomini
l'abbiano appreso. I tiranni è bene che lo ignorino.

Anco fu causa di maraviglia considerare come la luce, che mandarono le
civiltà dei vetusti stati etruschi, greci, e romani andasse spenta
dalla molteplice e tutta immane barbarie; ed a torto, dacchè presso
cotesti imperi la civiltà che seguita i passi del vivere libero,
essendo diventata arnese di oppressione a danno degli altri popoli, la
Libertà la rompesse nelle mani loro e fuggisse via.

Progresso continuo di Libertà verace non può darsi, che allora
quando i popoli della terra, braccio conserto a braccio, non
imprenderanno insieme il pellegrinaggio dell'anima pei sentieri della
vita: considerate, l'America repubblicana combatte per la
conservazione della schiavitù; la Russia emancipa o finge
emancipare i servi e affoga nel sangue i Polacchi che rivendicano la
libertà; l'Austria giravolta con la Francia per sovvenire i
Polacchi di Varsavia, e intende tenere i piedi sul collo ai Polacchi
di Galizia, e di Cracovia uno artiglio dell'aquila austriaca si
allarga a lasciarsi cascare giù qualche briciola di libertà
costituzionale e l'altro stringe per conficcarlo meglio nella
indipendenza di Venezia, che è suprema delle libertà; la Prussia
sè tribola a intrecciare un cordone dove su venti fili di tirannide
pretta ce n'entri uno di libertà; in Francia, dicesi, che da lei si
voglia affrancare la Polonia dalla servitù, e intanto ella traversa
l'oceano per mettere il Messico in servaggio. Tra noi, il popolo si
chiama a creare un Re, e si respinge da eleggersi i suoi deputati;
questo è un ribollire di assurdi, perchè in una stessa caldaia
hanno buttato alla rinfusa giustizia, e interesse, libertà, e
servitù, berretti frigi e corone, diritto divino, e suffragio
universale, Dio e il Diavolo... guazzabuglio infernale! Noi siamo
sempre nel caos, ma poichè insomma creazione fu spartimento, le
materie discordanti si scevreranno da sè; ciò fie doloroso, e
potrebbe avvenire anco tardi, ma bisogna che avvenga.

Certo, il tempo nel quale viviamo non si può reputare felice, ma
nè anco vorremo dirlo infelice: però che se distiamo dal
sentiero del perfezionamento, pure siamo in procinto di metterci sul
tramite diritto: anco per ciò che spetta a gloria terrena possiamo
non lamentarci, perchè il tributo oneroso all'errore fu pagato; e
se siamo lontani dal frontone, che incoronerà lo edifizio, ci
troviamo altresì lungi dalle fondamenta; ormai gli uomini non
passano tutti, mescolati in moltitudine senza nome, e armonizzando
nello insieme ci conserviamo nella nostra individualità diversi.

Bene altramente infelici coloro che furono travolti nei fondamenti;
quante gagliarde nature di uomini, quanti ingegni supremi, quanti
cuori generosi ci caddero interi vita, e rinomanza! Verun poeta
irradiò quella che parve tomba, e fu culla del genere umano. Nella
notte si udirono due voci, ed una era della moglie che piangeva alla
quale rispondendo ululava il cane fedele.... poi cessò la prima, e
l'altra tacque, ma non per questo fu silenzio; al rumore delle singole
creature sottentrò uno strepito profondo ed infinito, la favella
dei secoli.

Dov'è questa favella? Chi lo sa dire? Nelle nuvole, che passano, nelle
ale degli uccelli, che volano, nella terra che crepita screpolandosi
all'alito di primavera, nel granito di Mennone che dava responsi quando il
sole lo investiva: voci arcane popolano il cielo e la terra, che ascolta
solo colui il quale dai cieli fu destinato a sentirle; donde la voce che
annunziò la morte del gran Pane? E donde quella che avvertì
Apollonio Tianeo in Alessandria in quello stesso punto cadere trafitto
Domiziano a Roma? Vanno ingombre le storie di annunzi di vittorie portati
dalle ali dei venti. Chi per abito suole dubitare, afferma: le sono
ciurmerie di empirici;--veramente molti uomini, reputati illustri, a prova
si conobbero empirici; come taluno empirico poi si conobbe intelletto
divino,--e si conobbe rovistandone le ceneri dopochè fu arso per mago.

Orazio cantò molti forti essere vissuti avanti Agamennone; questo
è vero, come altresì vissero anime elette e grandi innanzi di
Lino, e di Orfeo; di loro non avanza memoria, anco il nome rimase
sommerso, e tuttavia quanta costanza mirabile, e trovati d'ingegno
eccellente, ed opere egregie, dolori, affetti, sventure, e tutto
affondò nel mare del tempo! Ed essi ebbero a scavare con le mani il
granito che col ferro, e con le polveri incendiarie domiamo noi!--

Ma se si dileguarono nella gloria dei secoli, essi stanno presenti a
quella di Dio: il ricordo di loro è scritto a caratteri di stelle
nel volume dei cieli: tanto maggiore premio conseguiranno, ed avranno
diritto di conseguire quanto meno potrà dirsi loro: _avete ricevuto
la vostra mercede_.

Il Giudice, all'occhio del quale nulla è nascosto, quando gli
verranno dinanzi le moltitudini degli spiriti senza numero, che
pellegrinarono pei mondi, a molti, che le genti salutarono magnanimi,
dirà: andate, e crescete la sostanza del Maligno: voi altri poi cui
colse il desolato oblio quasi seconda morte, transfondetevi nel mio
seno ed aumentato la mia divina sostanza.--

Questo, mi si oppone, è rimoto, e viaggia con le nuvole nel cielo
della poesia; certo io non lo nego rimoto, ed anco immaginoso; ma io
vi ho detto, che non procediamo per tempi felici, però che tali non
sieno quelli nei quali l'uomo o aderisce tutto al suolo, o tutto si
esalta pei cieli; dal primo stato scappa fuori il banchiere, il
venditore di ciarpe, lo scorticatore di capretti, il moderato; dal
secondo, l'anacoreta della Tebaide, e il bramino dell'India; solo
avventuroso è il tempo dove con giusta proporzione puoi compiacere
alla materia e allo spirito, andando appunto composto l'uomo di anima,
e di corpo: e poichè questo adesso non si può, colpa in molta
parte altrui, e moltissima nostra, di concetti divisi, e di forze
infermi, meglio che curvarci alla terra, sarà bello lasciarci
trasportare colà donde la nostra stirpe ci comparisce un brulichio
di formicole divorantisi fra loro sopra una zolla di argilla.

Dunque tu ti commetti in Dio?--Veramente l'uomo deve confidare in
sè, ed in Dio; ma troppe cose vi hanno nel mondo a compire le quali
l'uomo solo non basta; perochè niente o solo torni lo stesso; e
finchè dura il flagello che disgrega le menti e i bracci dei
mortali, ripariamo in Dio. A Dio poi è più difficile discredere,
che facile credere: creature noi, use a vederci sorgere obietti
dintorno creati per natura o per arte, come possiamo immaginare cosa
non creata? Se Dio non fosse bisogneria inventarlo, affermano che
sentenziasse il Robespierre, e s'ei il disse, fu favilla che uscì
dal ferro. Noi abbiamo bisogno di Dio, nè possiamo fare a meno di
credere così quando pensiamo al numero infinito degli uomini cui
sembra fosse dato un cuore solo per sentirselo ferire, e braccia per
portare catene, e sangue per versarlo su i campi, e su i patiboli,--e
labbra, pur troppo, perchè ci tenessero incollata sopra la spugna
satura del fiele della calunnia, e dello aceto dell'odio; se a tutti
questi non fosse venuta ad allietare la idea dell'eterno Riparatore,
quale mai tormento inventato dal demonio in un'estro di malignità
potrebbe uguagliarsi all'amarezza della ora ultima della loro vita?
Bella consolazione (esclamava il Generale Pasquale Paoli, che fu quasi
il Garibaldi del secolo passato) bella consolazione per un'uomo il
quale «per tutta la sua vita si travagliò in benefizio di una
Patria, che sta per rinnegarlo; di una Libertà sul punto di
voltargli le spalle, che con forze impari, male armate, peggio vestite
si trova in procinto di essere assalito ed oppresso dai Francesi dieci
volte più numerosi, ordinatissimi, forniti di ogni maniera di arme,
squadernargli in faccia, fra un'ora una palla ti spaccherà il
cranio, e tu cascherai in tutto e per tutto, zolla di terra sopra la
terra!»

Speriamo nella virtù altrui, speriamo ad ogni evento in noi, e
sempre in Dio.

Ora per me sarà divisa questa scrittura in quattro libri diversi di
mole, come svariatissimi di stile; nel primo, esporrò il bisogno
supremo della Italia di avere Roma.--Nel secondo, il diritto del
popolo italiano su Roma.--Nel terzo, quello che il popolo ardisse per
ripigliarsi la sua Roma.--Nel quarto, quello che incombe alla
Monarchia eletta dal popolo, e quando, di compire su Roma.

Forse non sarà giunto a mezzo questo volume, quanto spetta alla
Monarchia ella avrà fatto; in questo caso l'opera mia non verrà
meno, però che invece di esporre quello che doveva operarsi da lei,
con altra voce ormai, con altro cuore, raccolte le forze estreme,
celebrerò l'operato;--intendo dire:--_la Italia veracemente risorta
su le ruine della oppressione dei Papi e degli Stranieri_.

Il soccorso che mi aspettava dai gloriosi superstiti di questa guerra,
non corrispose fin qui ai miei desiderii: non importa; io faccio come
Abramo, mi metto in via sperando nella Provvidenza. _Deus
provvidebit_. Per ora mi furono larghi dei loro ricordi il Generale
Garibaldi, il Generale Sacchi, il chirurgo maggiore Ripari, il
colonnello Cadolini ed altri generosi di cui il nome fie rammentato a
suo luogo. Se l'ingrato silenzio dipende, perchè altri dubiti, che
per me si possa compire il carico che mi sono tolto, io non me ne
dorrò: potrebbe darsi ch'essi avessero ragione pur troppo;--se per
modestia, la quale mai sì scompagna dagli uomini veracemente prodi,
io affermo loro, e ci possono credere, che inopportuna è qui la
modestia dacchè quanto essi operarono spetti meno a loro che ai
tempi, e alla Patria; ad ogni modo, se volessero tacere delle proprie,
perchè non favellano delle azioni altrui, massime di quelle dei
defunti? Corre sacrosanto l'obbligo suscitare la fama dei caduti; io
so che i morti anelano alla lode come i vivi alla luce; e pensino, che
fratelli essi furono e sono, e che, la prima morte di ferro o di
piombo essi ebbero dai nemici... ma la seconda, la morte dell'oblio,
essi avrebbero da loro. Questo li muova, ed anco il pensiero, non
darsi cosa la quale tanto dissuada da mettersi a cimento pel bene
comune, quanto la vista della comune ingratitudine.




LIBRO I

Senza Roma non è Italia.


Quando scese in Italia, i suoi passi erano quelli di un Liberatore, le
sue parole quasi di un Dio. Lo precedeva la Libertà come l'Aurora
va davanti al Sole;--a cui ben guardava, vedeva lei non affatto lieta
dei bei colori di primavera; nè le sue pupille giocondava pieno il
raggio della speranza divina; tuttavolta nè manco appariva austera
a modo di sacerdotessa che strascini all'altare di Nemesi la vittima
espiatoria; su pel volto le tralucevano, contendenti fra loro la
fiducia di essere, e il timore di non essere placata; di tratto in
tratto volgeva il capo come chi sospetta di trovarsi non seguitata o
tradita.

E dietro al Napoleonide veniva lo Spirito del passato; le vipere delle
sue chiome pendevano giù morte in sembianza, e rovesciata a terra
si tirava dietro la fiaccola senza fuoco; ma quando te lo attendevi
meno, talune vipere si ripiegavano all'insù a modo di uncini,
attestando non essere venuto manco in loro nè il maligno talento,
nè il veleno; la teda poi di tratto in tratto mandava fumo, segno
sicuro di fuoco doloso.--

Egli scese nelle terre d'Italia... e venuto sopra le pianure della
Insubria, ordinò alla Libertà gli menasse davanti il destriero,
il forte destriero delle battaglie, e la Libertà gli condusse la
_Rivoluzione_.

La Rivoluzione appena scorse il Napoleonide puntò i piedi, e
drizzò gli orecchi, abbrividì; ma quegli non istrinse labbro,
nè aggrondò sopracciglia... le si accostò blando, con dolci
nomi l'appella, la brancica amoroso; la _Rivoluzione_ gira attorno
repugnante portarlo; pensò egli allora ad Alessandro e al Bucefalo,
e dubitando ch'ella spaurisse dell'ombra di lui, la drizzò verso il
sole, e saltatole alla sprovvista in groppa, le disse:--_va!_

Non ci era mestiere sprone, anco della voce ce ne aveva d'avanzo, e
nulla meno, ei la volle eccitare. La Rivoluzione cominciò prima a
correre soavemente, poi mise le ale, volò, imperversò con la
procella dei cavalli del sole quando vinsero la mano a Fetonte; allora
il terrore cadde su l'anima del Napoleonide e dubitò che la
Rivoluzione non trattenuta dalle pianure del mare, lo menasse diritto
diritto in mezzo all'Oceano, al cenotafio lasciato vuoto dall'arduo
Zio; nell'angoscia del cuore egli si volse allo Spirito del passato,
gridando:--aiuto!

Allora lo Spirito del passato agitò le chiome di vipere, che si
drizzarono tutte fischianti, ed ei se le strappò a ciocche
facendone ritorte che gittava tra le gambe alla Rivoluzione; la quale
incespicandovi dentro, diè di un cimbotto in terra a Villafranca e
si slogò una spalla.--Adesso il Napoleonide la riconduce zoppicando
ai presepi, e lo precede lo Spirito del passato: l'erba s'inaridisce
sotto i suoi piedi, e la sua strada è pel cammino delle ombre:
intanto la Libertà gli ammicca dietro col capo, ed appoggiata ad
un'arbore, grida; _ti aspetto qui!_ Che arbore è quello sotto cui
lo aspetta la Libertà? L'arbore donde i popoli hanno cavato il
ceppo e l'arnese su cui deposero il capo Carlo I e Luigi XVI.

Noi abbiamo bisogno di Roma, imperciocchè lo Spirito del passato
trascorrendo sopra le nostre teste ci soffi un'aura di morte; e sembra a
noi, che ci vada sobillando dentro gli orecchi dell'uomo fatale il
concetto antico del popolo gallo nemico allo opere, e al sangue dei
latini: al popolo romano nei delirii della potenza, adesso divisa,
sostituirsi il popolo francese; l'aquila di Roma morì senza crede, e fu
giusto: nè aquile, nè lioni od altri animali rapaci possono
somministrare la insegna a cui intende condurre i popoli a reputarsi
figliuoli di un medesimo padre. Dura continua nel mondo la fede nella
forza, che regna sul diritto come su di un prigione fatto in guerra.
Ciò che fu lusinga di cortigiano, la Francia imperiale si travaglia a
ridurre in fatto; ed è, che verun popolo al mondo deva attentarsi a
dare fuoco ad un cannone se essa non lo consenta. La Francia imperiale si
perigliò nelle contrade rimote del Messico per ferire nel fianco
l'America repubblicana, dacchè conosca non potere vivere sicura nel
mondo finchè la Libertà, ch'ella simula, messa a confronto della
Libertà che prorompe da una Repubblica non comparisca falsa. A questi
voli cui arieno bastato appena le ali dell'aquila romana, si logorano
quelle della Francia imperiale; le sue penne cascarono; prima che
toccassero terra se le portò il vento; solo in Algeria vi si posarono;
ma per quanto? E poi coteste penne caddero non già all'aquila
imperiale, bensì dalle ali dell'angiolo custode dei regi gigli di
Francia. Non pertanto, giocatore disperato, lo Impero raccolto nuovo
sangue, viene a metterlo a cimento sopra il tratto dei dadi; e se bene
intendi vedrai com'egli non possa fare a meno, imperciocchè lo Impero
non rappresentando _libertà_, o che significato avrebbe mai se non
fosse _forza_? Però la Italia ei sovvenne in quanto le diventasse
vassalla, scudo, o spada, ma adattati alle sue mani, e nelle sue
mani.--Poichè, nè Francia, nè Austria si sentivano capaci di
strapparsela dagli artigli intera, si trovarono presto d'accordo per
ispossarla con la febbre degl'inani conati; per la pace di Villafranca la
Italia apparve un tigre, che menino a spasso legato da due catene in senso
contrario; ben'egli può ruggire, ma non avventarsi nè a destra,
nè a sinistra: la catena dell'Austria si chiama Venezia, quella della
Francia Roma, che rinterzò poi con Nizza e Savoia: più tardi
contrasteranno delle due catene fra loro.--La Francia imperiale non crede,
o finge non credere, supremo anelito del popolo italiano la integrità
d'Italia. Quelli che si misero a capo della rivoluzione nei varii stati
d'Italia, da prima, la unità della Patria ributtarono; nè può
negarsi, chè le prove abbondano, e dove mancassero lo confessarono ei
dessi: e poi non le consegnarono con le proprie mani Nizza e Savoia? Come
pretendete voi altri che abbia fede in cosiffatta necessità, se per
impetrare licenza di aggiungere alcune provincie alla Corona di Savoia,
voi deste a patto due corone delle Alpi? Non fu il popolo, non noi, che
respingemmo la Unità affermata col nostro sangue, e con lo spirito
della nostra vita; certo non noi, che la predicavamo allorchè i più
pietosi fra coloro i quali se ne vantano adesso, ci commiseravano per
folli: non fu il popolo, nè noi che consegnammo Nizza e Savoia.--Voi lo
vedete, questo è taglio che non si rimargina per tempo; rimarrà
aperto, e sanguinoso finchè i nostri fratelli separati dalla violenza e
dalla frode non tornino al seno della madre per virtù di amore, e di
diritto.

La Francia imperiale, io lo vado ripetendo spesso, a' termini del
negoziato ha ragione; ella ha ragione pel torto di quelli che
indegnamente ci rappresentarono: non posero essi in iscritto lei avere
giusta causa per sospettare d'Italia? La Francia imperiale,
maravigliando, non vide stipulare dai magni guidatori del risorgimento
italico la necessità in lei di agguantare parte d'Italia alla
stregua che questa andava ricostruendosi? Io non vo' rompere in detti
impetuosi, mi reggo con ambe le mani il seno per comprimere i palpiti
del cuore; ma chi questo immaginò e compì, non merita certo fama
di uomo di stato, nè di patriotta, nè di cittadino italiano;
adesso l'errore con lo irrequieto stridere, infesta noi veterani della
libertà; i moderati hanno messo su fabbrica di uomini grandi;
avendo veduto lavorare mattoni pensarono che i grandi uomini si
facessero a quel modo, pigliando una manata di argilla, e cacciatala
dentro alla forma spianarla; poi risecca alquanto al sole, cuocerla
nella fornace, donde estratta, mettere su mucchio di uomini grandi, e
di mattoni.

Ma il giudicio, che fruga severo uomini, e popoli sperderà l'osceno
schiamazzo e sopra la tomba bugiarda, inalzata dalla abiettezza o
dalla insania, porrà una delle torri tradite e seppellirà l'uomo
e la sua tomba.--

Però, le colpe altrui non escusano le proprie; nè quale piglia
atteggiamento di liberatore può indurre altrui nel fallo, per
approfittarsene poi: queste sono arti di usuriere, che agguindola la
gioventù pel _babbo morto_. Non impunemente si grida ad un popolo:
_sorgi e cammina_; nè senza pericolo proviamo il grido lanciato in
mezzo alle genti: _ogni nazione è padrona della sua terra_: male si
adoperano parole da eroi con intenti da ladri. Se gli uomini, i quali
voglionsi beneficare con la mente annebbiata dalla vecchia servitù,
vagellano offerendoti, o cercandoti cose disoneste, tu memore della
magnanimità di Scipione dovevi rimbrottarli come costumò costui
quando il popolo tumultuante voleva ad ogni piatto la legge del
tribuno Curiazio circa al provvedere alla carestia dei grani:
«tacete Quiriti, io so meglio di voi quanto conviene alla salute
pubblica.» Quando l'anima nostra sente agitarsi la parte che in lei
è divina, più alto non può concepire che sensi romani, nè
con parole o con modi più degni significarli di quelli, che i
Romani adoperarono; però, vedendo innanzi a te il pedagogo che ti
menava, se non per tradimento per follia, parte di genta italica, tu
nella maniera stessa che Cammillo fece al maestro dei fanciulli
falisci dovevi consegnarlo agl'Italiani con le mani legate dopo le
spalle affinchè lo flagellassero. Allora te, come Cammillo,
avrebbero salutato Dio, Salvatore, e Padre; e volentieri ci saremmo
confessati vinti dalla virtù tua, persuasi che là dov'era tanta
giustizia non poteva fare a meno che quivi in sua compagnia si
trovasse eziandìo la libertà.--

Pur troppo la esperienza insegna i buoni pensieri di natura alcalina
evaporarsi peggio dell'etere: ma volato il sublime poteva restare il
senno onde Erennio Ponzio ammoniva i Sanniti, che il popolo romano
sbattessero così che in processo di tempo non levasse più il
capo, ovvero co' benefizi se lo gratificassero per modo che Nemesi
pigliasse in custodia; la religione della riconoscenza, e del patto.

E se neppure il senno doveva restare in fondo al vaso, perchè non
pensasti alla vicenda eterna dei casi umani? Te ne somministrava in
copia la tua casa; nè te ne faceva difetto la tua stessa vita.
Quanto al paese che la fortuna ti pose in mano, verga o scudo della
umanità, potevi ricordare, che un dì Cesare stette ad un pelo di
donarlo a Marco Ofrio, assai oscuro cittadino romano, raccomandatogli
da Cicerone.

Prevalse intero, nella mente della Francia imperiale, il concetto
plebeo della Francia regia; e fu tenersi Italia vassalla, e finchè
dura nel nappo, bere il vino della superbia a danno altrui; il capo
dei fratelli, continui sgabello per salire sublime; i popoli arino per
sè, mietano per altri; portino i pesi altrui, le battaglie altrui
combattano; il mondo non cessi di comparire un sistema di tirannidi
concentriche, in fondo al quale Dio regni, e governi tiranno supremo
ed universale.

La terra di Francia graviti sul mondo come il destino; il mare
mediterraneo diventi lago di Francia; la Francia manderà la pioggia
e il ciel sereno su quante terre abbraccia l'oceano; spiriti e corpi
stieno legati ad una catena attorta intorno il dito indice della
destra di chi impera la Francia.

Questo, e non altro, il concetto altrettanto superbo quanto inane;
questo, e non altro, il disegno che presumono tenere celato, e
tuttavia prorompe di straforo quasi raggio di lume chiuso dentro la
lanterna del sicario.--Arzigogoli furbeschi di fraudo vulgare le
ragioni onde si presume onestare la perfidiosa ingiuria.--Teme il
benefattore imperiale, che l'Austria alla sprovvista ritorni; e se
ciò fosse, forse lo starsi i Francesi a Roma nel 1859 trattenne
l'Austria da allagare il Piemonte?--Nè certo sono le poche forze
francesi stanziate a Roma quelle, le quali varrebbero ad impedire gli
Austriaci: bensì la tema della sua potenza, e questa essi hanno o
no, sia che i Francesi occupino Roma, sia che non l'occupino, però
che dal mare ed anco dal lato di terra abbiano facoltà di
sopraggiungere lesti come segugi sopra le pianure lombarde.--E
ventidue milioni d'Italiani non hanno mani, non cuore per difendersi
dagli assalti nemici? Col pretesto di minore età vorranno tenerci
sempre sotto tutela? Se ventidue milioni di uomini non si mostrano
capaci di schermire la propria libertà, sentite una cosa, nè
manco sono capaci di possederla.

E poi si oppone la necessità che ha l'Imperatore di Francia di
tenersi bene edificato il Papa; ma questo a noi niente importa, anzi
preme il contrario; e a parere mio, questo non si avrebbe neppure a
mettere innanzi, come quello che accenna a screzio inevitabile fra
noi: qui surge la necessità di significare a viso aperto o col
Papa, o con noi, però che il Papa noi sappiamo eterno nemico
nostro, e causa perpetua delle miserie d'Italia. Il Papato per noi gli
è proprio la volpe che il fanciullo spartano si teneva sotto la
veste; ma di lui in breve più a lungo; adesso giova chiarire, che
il Papa è un cavicchio nelle mani del Benefattore imperiale, non ci
potendo persuadere, che a ciò lo muova la religione, la quale per
certo non consiste nell'ossequio delle improntitudini sacerdotali,
figlie dell'orgoglio e della cupidità del pari sfrenati: nè egli
che con la propria persona le combatteva, or fa trentatrè anni, ci
parve per la qualità della mente, e degli studii suoi, capace di
professare oggi opinioni contrarie affatto alle antiche. Per me,
credo, che il Napoleonide abbia commesso errore dal principio del
regno; e forse questo errore non mi sembra al tutto volontario,
bensì condotto dal mal pendìo dove primamente ei si mise,
dacchè non fosse punto vero, che in Francia la famiglia di
Bonaparte non avesse seguito; ce lo possedeva e gagliardo
aggruppandosi intorno a questa immagine quanto di glorioso vantava la
Francia in fatto di arme, e di onorato in fatto di libertà. A mio
giudizio piacque la repubblica come quella che almeno in suono
comprende la massima copia della libertà; poi riuscì odiosa,
perchè o per necessità non saputa removere, e forse artatamente
indotta, o per tradimento col pretesto d'infrenare la licenza percosse
la libertà, la quale cosa non in cotesta occasione sola, ma sempre
vediamo accadere: ora con esempio tanto fresco sotto gli occhi, saria
stato un gran bene pel Napoleonide, e per noi, se non fosse, in grazia
dello errore suo, o per malaugurato eccesso dei fazionari suoi, caduto
prima nella colpa, poi nella necessità di offendere la libertà,
creando a sua posta e immaginando pretesti, ed anco cause in apparenza
giuste, onde sotto colore di salute pubblica poterlo fare a mano
salva. I volgari reputano queste arti di regno, e lo sono, ma pei
tiranni, nè sopra la tirannide fu posto mai fondamento stabile di
monarchia; ad ogni modo se nei principii ti senti trabalzato a
offendere la libertà, tirati presto indietro, e procura ottenerne
il perdono, imperciocchè le ferite che le farai rimargineranno
presto, ma la cicatrice durerà; per la quale cosa con la memoria
della offesa si perpetua il desiderio della vendetta.--

Quali i pensieri del primo Napoleone su i preti più volte fu esposto,
che impossibile è governare stati con le stupide cattiverie loro;
dov'essi toccano, la terra sterilisce, le anime intristiscono; capitano
della repubblica, egli tolse loro gran parte di terra a Tolentino,
imperatore, tutta; anch'egli, come tu, scemando meritamente nella
estimazione dei popoli, si volse al passato per acquistare potenza contro
l'avvenire, e qui, la sua mente si ottenebrò essendo l'avvenire tale
onda contro cui ripe, nè argini valgono, chè ella o li strappa, o li
rode, o con acque concitate passa loro di sopra. Quantunque costasse amaro
alla sua superbia, egli acconsentì curvarsi ai piedi del sacerdote
perchè altri si prostrasse davanti ai suoi; pensò mostrarsi servo
un'ora per diventare padrone un secolo; egli pretese tôrre di sotto al
prete la fune ond'ei lega le anime, e il prete, mentre gli cingeva la
corona, gli adattava il laccio della sua fune al collo. Napoleone
intantochè alienata da sè la libertà s'industria ingagliardirsi
col passato, percosso dall'alito mortale perde gran parte di vita; la
statua giacente su la terra, e ch'egli ripone con le proprie mani sopra la
base, gli casca addosso, e se non sola, aggiunto il suo al peso di altri,
l'opprime. A Santa Elena, in mal punto si avvisa convertire cotesta isola
in rupe dove l'invidia dei potenti lo avesse incatenato con lo avvoltoio
nel fegato; veruno lo compianse; le sue catene furono il disprezzo degli
uomini, e l'odio della libertà; l'avvoltoio, la sua sterminata e
tuttavia stolta ambizione. Le sue prediche ascoltavano i marosi
dell'Oceano, i quali rompendosi sopra la spiaggia, brontolavano come
moltitudini alle parole dell'oratore doloso; se lo avesse udito il genere
umano non avrebbe fiottato meno incollerito.

Il giorno dopo la vittoria, il successore di Napoleone si rinvenne
debole; egli credè avere posto i piedi sul granito, ed il terreno
gli si affondava sotto, peggio che sabbia; tutti contro, tranne i
complici, anzi nè anco questi interamente con lui; però che vi
abbiano tali cose, che chi le fa di notte, ne abbrividisce di giorno;
e dinanzi la propria coscienza, la colpa per difesa immalignisce.--Lo
esercito poi, quello che fa per costringimento di disciplina non parte
da volontà deliberata, e fatto, spesse volte detesta.

Sia l'uomo costituito in condizione privata, ovvero in pubblica dignità,
supplichi Dio di non essere indotto mai alla prima colpa; non già per
questa prima soltanto, ma si perchè ella figli mostruosamente feconda, e
strascini senza riparo:--così il nuovo monarca bisognoso, e spaurito, ad
un punto, della democrazia si prova annegarne lo spirito sotto la materia,
promovendo lavori manuali, accertando il pane a buon mercato, e curvando le
anime alla venerazione dell'autorità: ai cittadini provvisti di beni di
fortuna, epperò tremanti di ogni foglia che si agiti, squassa su gli
occhi il panno rosso, ed ei ne infuriano peggio che bufali: le furie gelate
dell'interesse lacerano troppo più implacabili delle furie ardenti della
passione; la parte dello inferno, suprema in tormenti, è di diaccio e si
chiama Caina; almanco così ha immaginato il padre Alighieri. Intorno
alle minaccie di sconvolgimento universale comparse in Francia dopo il 2
decembre, per me opino, che in parte movessero spontanee, ma troppo più
fossero eccitate; comunque sia, gli abbienti assistevano con religioso
raccoglimento all'olocausto della libertà fatto su l'altare dello
interesse loro: certo non santo il sacerdote, ma santo il sagrifizio; e
quando il delitto torna, si può dire virtù; anzi è virtù
addirittura. Non domandate nulla allo interesse, egli, scosso il sacco, non
può darvi altro che un affamatore di popoli, uno appaltatore di
ferrovie, un banchiere; la passione, certo, può darvi un Eufemio di
Messina, ma altresì sola può crearvi all'uopo o Tell, o Garibaldi. Ma
tra i cattivi pessimo consiglio fu agguantarsi al prete, che in tanta
fortuna stavasene accartocciato; egli, dopo avergli porto la mano, lo
sollevò, gli finse ossequio, lo empì di danaro, e con atti anco
burlevoli, perchè soperchianti il bisogno, e' tenne averselo guadagnato
ai suoi disegni; e s'ingannò a partito, perchè mentre pensava
prenderlo egli rimaneva preso. Oggi, egli ne trema, e se a ragione non so:
questo altro so, che usi noi a vedere da gran pezzo Roma sacerdotale
rappresentata da un vecchio debole di corpo e della mente peggio, ci sa di
morto, e nè la rispettiamo, nè temiamo.

Pure, posto eziandio, ch'egli a dritto tema: o perchè presume che
noi ancora abbiamo paura dello spettro che ha evocato? Noi dobbiamo
non portare il peso dei suoi errori; se commise colpe egli le espii:
qui appunto stanno le ragioni dello screzio fra noi, che come noi non
fummo complici dell'atto, così non intendiamo sopportarne le
sequele. Noi pertanto abbiamo bisogno di Roma, conciossiachè
durando la Francia in cotesta nostra terra, sorgano due necessità;
la prima, in lei di tenerla ai comodi suoi, e ai danni nostri; la
seconda, in noi di odiare la Francia quanto Austria, e peggio, chè
la offesa del fratello e dello amico irrita gli animi troppo più
profondamente che quella mossa dal nemico.--

Noi abbiamo bisogno di Roma. Il Papato, un dì, camminò sul tramite
che gli segnava il sangue di Cristo e apparve al mondo verace ministro di
lui... ma giunto al bivio forviò mettendosi su la strada dei beni
terreni, e poichè allora precedeva la intelligenza universale, intese a
comporre con la venerazione, gli errori, la potenza, e le altre cose di
cui aveva copia un'argine oltre il quale non si dovesse avventurare la
umanità, pena il fuoco dello inferno; quando poi ella vide, che se non
gli uomini tutti, almanco taluno, di questo fuoco lontano non temeva le
scottature, ci surrogò un buono, e bel fuoco di fascine da cocere il
pane e calcinare le ossa degli eretici.--Nè valse; le colonne di Ercole
mal poste nel mondo fisico, peggio si presume porle al mondo morale, e la
Chiesa per opinione mia, sparse il seme della sua ruina il giorno
in cui si affermò compita; imperciocchè limite nello spirito sia
immobilità, attributo della materia; da quell'ora in poi ella fu
impedimento in mezzo della via; da prima, lo intelletto umano si sforzò
forarlo, e ci riuscì con le riforme le quali traversando a fatica per
cotesto pertugio tanto o quanto uscirono mescolate co' frammenti che ne
staccavano, e ciò fu molto rispetto alla negazione, poco per la
filosofia, o vogliamo dire per lo specolare liberissimo della umanità,
il quale sdegnoso di ogni sentiero, che apertissimo non sia, ha cumulato
onda sopra onda, e adesso passa su cotesto ostacolo senza pure far gorgo.
Non si può, e molto meno io voglio disdire, che buona parte di
umanità rimanga di qua dall'argine, ma ce la tengono la usanza, e lo
errore, che d'ora in ora dimoiano meglio, che neve di aprile.--La
umanità che pensa ed ama, non offuscata da tristi partiti, oggimai per
mirare la Chiesa cattolica bisogna che si volti addietro; e senza ira, le
dice: «tu mi sparisci nelle nebbie del passato; non io ti condanno; ti
condannasti tu stessa alloraquando ti togliesti di camminare innanzi; io
precedo con Cristo trionfante, quello che io ti lascio, è il suo
sepolcro vuoto.»

A queste cause antiche ed universali di mortifera decadenza, il
Pontificato ne aggiunse altra recente e peculiare al nostro paese;
pensando egli riprendere lena co' sermoni dei vecchi, raccolse vescovi
di ogni gente a Roma perchè dichiarassero in modo solenne, sacro, e
santo, e necessario il potere temporale al governo delle anime: nè
qui passavano il segno, passarono il segno, e fu oltraggio e minaccia
quando bandirono Roma non appartenere agl'Italiani, bensì a non so
quante centinaia di mila cattolici.--Dopo ciò, la guerra è
rotta. Roma importa diventi nostra e subito, o noi cessiamo favellare
della unità d'Italia.--

Sia che il popolo largisse Roma al Pontefice, o i greci Imperatori, o
i franchi gliela donassero, non può fare a meno che gliela dessero
come a principe, o delegato di principe, e gliela trasferissero nel
modo ch'essi la possedevano; ora il derivato non ha, nè esercita
maggiori diritti di quelli che gli vengono dalla sua origine: e ciò
quanto a legge.--Verun caso come il presente somministra argomento di
paragone migliore per chiarire come la potestà temporale contenda
con la spirituale, e la confusione dei fini loro affatto diversi,
generi cozzi perpetui, nè rimediabili mai.--Quanti professano la
medesima religione si appellano, ed estimansi figli del Dio che
venerano e dei suoi sacerdoti, i quali si affermano immagine visibile,
o vicarii, o interpreti del Dio invisibile, membri tutti della
medesima famiglia spirituale, fratelli nella orazione, partecipi dei
sagrifizi, quanti vivono, arbitri accedere nel tempio del Dio vivente
e pregare: ciò viene dal diritto della comune religione, e
s'intende; ma che di punto in bianco, scambiando lo spirituale col
temporale, quanti sono credenti in una fede si tengano signori e
padroni della terra dove sorge il tempio od abita il sacerdote del Dio
questo non s'intende, e non è.

Un'uomo di molta dottrina, amico mio dilettissimo, e per singolare
ventura fratello del Cardinale Viale Prelà, autore del famoso
concordato con l'Austria, favellando meco sovente con assai garbo, mi
mostrava il partito miserabile, che i Preti di Roma in ogni tempo
confondendo le cose dello spirito con le materiali, procacciassero ai
proprii interessi sia mediante l'abuso delle metafore, sia con lo
equivoco dei traslati, sia con qualunque altro argomento tornasse loro
più a grado; nè solo ne favellava, ma sì ne volle l'ottimo
cittadino lasciare ricordo stampato nel suo libro dei _Principii delle
belle lettere_: «dallo abuso delle parole, egli ammonisce, di
leggieri si trapassa allo abuso delle idee, ed anco alla pravità
delle opere; così, dagli appellativi di gregge, di pastori e
simili, attribuiti ai cattolici ed ai sacerdoti loro, ne scappò
fuori la conseguenza che la Chiesa possedesse il diritto di ammazzare
gli eretici, i quali, a mo' di lupi le insidiavano il gregge; di
fatti, il gesuita Salmeron oltre questa, non porta altra ragione per
mettere la mano nel sangue: _lupos interficendi, idest corporalem
vitam hæreticis auferendi_. Narrasi che in Inghilterra alquanti
congiurati si peritassero a minare, e buttare in aria il parlamento
dov'essi annoveravano non pochi parenti ed amici; desiderosi pertanto
di porsi in quiete la coscienza consultarono il padre gesuita Gametto
sul quesito se fosse lecito senza commettere peccato sobbissare una
_torre_ dove tra cento nemici occorressero otto o dieci amici; e il
gesuita che aveva subodorato la trama, rispose: sicurissimamente
poterlo fare, e senza uno scrupolo al mondo; dopo ciò, non
istettero più dubbi come quelli che per traslato erano usi chiamare
il palazzo di Westiministere la _torre dell'eresia_.--Altro esempio
calzante, è questo altro; nelle controversie lunghe e terribili tra
il papato e le corone, circa le investiture, la Chiesa misusò
fellonescamente delle parole _adulterio, sacrilegio_, ed altre cotali,
fondandosi sopra il testo delle Scritture:--la Chiesa è sposa di
Gesù Cristo.--e su l'altro: io ho detto a voi sacerdoti: voi siete
dei, da ciò, per linea retta perpendicolare nella geometria della
Chiesa, adulteri, violenti, pirati, e ladri, chiunque si attentasse
toccare pure col dito quanto la Chiesa aveva detto: _è mio_; e a
modo di corollario, quale gli avesse spenti di ferro o di veleno
diventava santo o giù di lì.»

Ragionando sempre alla medesima guisa, ognuno dei cento milioni di
cattolici, come ha diritto di pregare nel tempio, possiede pari
diritto sul tempio, su la terra che lo sopporta, e sul paese che serve
a mantenere il tempio e i sacerdoti; e siccome ognuno non può nè
deve portarsene via un frammento, può impedire e deve, che altri se
ne impadronisca. Così Roma, nel concetto dei Preti diventò,
quasi Tebe dalle cento porte, o piuttosto una casa aperta a tutti i
venti; le chiavi essi impugnano, non mica per chiudere, bensì
sempre per tenerne spalancato lo ingresso; e perchè accogliemmo il
Prete e lo nudrimmo, eccoci fatti una cosa _nullius_; siamo preda del
primo occupante: noi respinti dal dominio di casa nostra, mentre in
casa nostra hanno potestà gente remotissime e selvaggie, le quali
forse nè manco sanno Italia che sia, nè dove giaccia Roma.

Anco a noi sia lecito cavare una conseguenza dalla dottrina, che il
Papato professa, la quale è questa: poichè per diventare padroni
in casa nostra bisogna che il dominio sacerdotale cessi, e poichè
il prete intendo esserne il portinalo per aprirne l'uscio a quanti
presumono entrarci--sgombri dalle nostre dimore. Noi non ravvisiamo il
vicario di Dio che letifica i suoi figliuoli con la libertà in
colui, che ci vorrebbe sottoposti a perpetuo ed universale servaggio.
E se vuol fare il portinalo vada in paradiso a dare la muta a san
Pietro, che a quest'ora deve essere stracco.

Noi abbiamo bisogno di Roma però che colà si annidino tre voleri
pari, e tre poteri dispari ad impedire con tutti i nervi, che la
Italia si compia. Instituti barbari furono gli asili, i quali
provocavano un dì più delitti, che non ne reprimessero lo pene
un'anno; e tutta via sopportavansi; tanto è disagevole sradicare
dalla società un'ordine di cose, il quale nei tempi ebbe pure
argomento di vita, quantunque adesso siasi trasmutato in argomento di
morte. Di fatti, nei tempi eroici e nei barbarici la espiazione del
delitto importava molto all'offeso, ed alla famiglia di lui, al
pubblico poco; oggi procede il contrario: e poichè i delitti si
componevano allora con danari, di cui la voce più tardi si fa
sentire nei petti mortali gagliarda sopra quella del sangue, premeva
salvare il colpevole dai primi bollori dell'offeso, dove il grido del
sangue supera quello dell'interesse. Anco sulla consegna dei rei,
riparati in paesi stranieri, si pendeva incerti se la si dovesse
ributtare, ovvero promovere; nè questo in tempi lontani, bensì
pure ieri, nè da ingegni vulgari, al contrario eccellentissimi; a
mo' di esempio dal Beccaria: e ciò perchè non reggevano da per
tutto miti le leggi, nè sicuri ci si formavano i giudicati; ai
tempi che corrono, se la libertà non fece troppi avanzi, e se la
giustizia politica brancola sempre per acciuffare, per quanto poi
spetta l'amministrazione della giustizia nei delitti comuni tra stato
e stato, poco divario occorre; e quando fie abolita la pena di morte
screzio, a mio credere, non ce ne sarà veruno.

Oggi, finalmente, acconsentendo a sensi civili sentiamo quanto sia
indegno, che speri asilo nel tempio colui, il quale lacerò
truculento i precetti del Dio che si adora là dentro; ovvero nella
dimora dell'oratore, o negli stati del principe, cui ha da correre
l'obbligo di operare in guisa che ogni parte di mondo vada immune da
delitti. Solo dall'obbligo della consegna si escludono gli accusati e
i condannati per colpe politiche; e questo io reputo ingenua
confessione dei governi che nelle faccende di stato o non sanno, o non
vogliono praticare giustizia. Or bene, ciò che la Corte di Roma
nè anco ai tempi di Sisto V pativa, oggi patisce; nè soffre
solo, bensì promuove, ostenta, e se ne vanta.

Ma là dove si trattasse sottrarre un capo dalla scure, e il
rifuggito agitassero la paura ed il rimorso, di ora in poi egli avesse
a strascinare la vita penosa come palla incatenata ai suoi piedi,
nè inteso ad espiare l'antico potesse commettere nuovo delitto,
forse vi sarebbe tale, che non approvando mai, pure compatisse alla
pietà del sacerdote del mitissimo fra quanti Dii furono al mondo, e
sono. Ora, ditemi, uomini italiani, egli è così che si mostra il
sacerdote romano? Quando mai il preteso vicario di Cristo si mostrò
avaro di sangue, comecchè innocentissimo? Costui mette lo sentenze
di morte ai piedi di Cristo! Ma che mai gli hanno a dire i piedi di
Gesù quando gli manca un raggio della bontà del suo cuore?[1]
Quando ei fuggiva da Roma con la pisside di Pio VI in seno, e al
fianco la donna Spaur, nata Giraud, egli non cessò mai (racconta la
donna Spaur) supplicare il divino Redentore per la salute dei suoi
persecutori, i quali più tardi mandava spietatamente a morte[2].

  [1]  Pio IX pose la sentenza di morte del Locatelli ai piedi del
    Crocifisso, e poichè dai piedi di lui non gli venne ispirazione
    alcuna, lo mandò al supplizio.

  [2]  Pendant toute la route il ne cessa d'adresser au Redempteur des
    prières pour l'amour de ses persécuteurs, et de reciter le
    breviaire et d'autres oraisons avec le père Liebel.--

    Merita altresì essere notato il caso della pisside affatto
    ignoto o poco manifesto. Il Vescovo di Valenza mandò a Pio IX
    la seguente lettera, la quale gli fu consegnata solo il 21
    Novembre 1818.

    «Santissimo Padre

    «Nelle sue pellegrinazioni, massime a Valenza dove morì, il
    grande Pontefice Pio VI portava la santissima eucarestia sospesa
    al petto proprio, o su quello dei prelati che lo accompagnavano,
    ed egli desumeva da questo augusto sacramento luce per la sua
    condotta, forza nei suoi patimenti, consolazione nei suoi dolori,
    pure attendendo il viatico pel suo passaggio alla eternità.

    «Io possiedo in modo certo ed autentico la _pissidina_, o
    vasetto, che serviva a questo così santo, pietoso, e memorabile
    uso, e mi attento farne dono a Vostra Santità. Erede voi del
    nome, della sede, delle virtù, dei coraggio, e quasi delle
    tribolazioni del grande Pio voi forse terrete in qualche pregio
    questa modesta ma pure importante reliquia, la quale, io spero,
    non dovrà più essere adoperata in pari uso, e nondimanco chi
    conosce gli arcani della Provvidenza e chi, le prove a cui Dio
    serva la vostra Santità?--Io prego per voi con amore, e con
    fede.--

    «Lascio la pisside dentro il borsellino che la conteneva
    appunto com'era quando se ne serviva Pio VI portandola attaccata
    al collo.--

    «Io conservo grata memoria e riconoscenza profonda della bontà
    vostra verso me nell'ultimo mio viaggio a Roma; degnatevi, santo
    Padre, aggiungervi la vostra benedizione apostolica che aspetto
    prostrato ai vostri piedi.»

    «Valenza 15 Ottobre 1848

    «Pietro Vescovo di Valenza.

    Relation du voyage de Pie IX a Gaète par M. la Comtesse Spaur,
    nèe Giraud. Paris. Antyot 1852. p. 9 et 27.

E poi ben'altra è la ragione dello asilo che adesso fre Roma ai
masnadieri della terra. Non si tratta già salvarli alla pena, al
contrario, spingonsi ad uccidere e; essere uccisi; non gli accoglie
dopo commesso il deliti bensì gli ordina, e li manda a tuffarsi le
mani nel sangue non alla espiazione, ma alla colpa: il danaro raccolto
dalla pia credulità dei fedeli a Roma si converte in istrumenti di
morte; costà si fabbricano pugnali che per temperare più
taglienti dopo averli arroventati nel fuoco del sacro cuore di
Gesù, spengono dentro l'acqua benedetta.--Che vorrete contrapporre
voi altri sacerdoti, e sacerdotali? Per avventura, che ogni partito fu
sempre giudicato buono quando o si difende, o vuolsi ricuperare il
proprio? Di questo a suo tempo: intanto il Papa è o no! vicario di
Cristo?--È.--Badate, Cristo rampognava Pietro quando percosse Malco
i! servo del sacerdote Kaiaffa: «riponi il ferro; chi di coltello
ammazza conviene che muoia.» Ora, di grazia, gli è questo il
Cristo di cui si chiama vicario il Papa ovvero un altro?

Veramente, che i preti a Roma si sieno fatti complici di quanti
masnadieri ci vomita il mondo da loro non si nega; anzi, si ostenta
senza pur darsi pensiero che a cotesto modo operando rendono aborrita
quella religione sotto la quale riparano i fatti nefari. La religione,
essi pongono, come Federigo Barbarossa sospese vivi i corpi dei
tortonesi prigioni, intorno alle torri nello assedio di Tortona, io
vo' dire perchè i cittadini cessassero il saettame, o continuando,
prima di arrivare ai suoi arnesi di guerra, traferissero i petti dei
congiunti: ma se taluno si attentasse negare il rapporto della
commissione d'inchiesta intorno lo stato delle provincie meridionali,
io noto, che ne allego i fatti non già la esposizione, la quale
dice e non dice, rivela e nasconde, biasima e loda, come le balie (ho
udito raccontare) un passo ella muove innanzi e due indietro... si
mostra e non si mostra, pari a Bertoldo quando si presentò con un
vaglio davanti la persona al re Alboino; al pane sembra che senta
orrore dire pane, e sasso al sasso, la piglia larga, e poi stringe a
randa, leva a cielo la giustizia e il diritto per nabissare l'una e
l'altro a mo' dei saltatori, che si tirano indietro e pigliano la
rincorsa per isfondare i cerchi: i diritti altrui dissimula, gli
spogliati oltraggia, e sovente ti richiama al pensiero quel Fimbria,
di cui narra Valerio Massimo, che ai funerali di Caio Mario investì
Scevola ferendolo malamente nel volto, e poichè costui si salvava
fuggendo, Fimbria imbestiato gridava volerlo accusare al popolo; di
che taluno maravigliando lo interrogava, che mai potesse apporre a
Scevola, e Fimbria rispondeva: «--non avermi lasciato ficcare tanto
il mio stile nel suo corpo da poterlo uccidere.»

Lasciamo coteste sazievoli e vulgari compilazioni monumenti di colpa, di
piaggeria, di astio, e di paura a bandire un diritto appo il quale
conquiste, trattati, prescrizioni, e tutto, viene meno; il diritto del
popolo, che vivendo ara, difende, e ricupera la terra ove è nato, e
morendo cresce con le sue ossa la terra dove giace sepolto. Lasciamole,
dico, e condiderate sola la parte compilata dal deputato Castagnola
copiosa di fatti quanto sobria di parole, e vedrete quale l'opera nefaria
di Roma, e quale scellerata miscela per lei si faccia di religione, e di
omicidii; mirabile a dirsi! Un Romano di Gioia, il quale per errore di
mente si dà ad intendere essere campione della fede e difensore del
trono, conosciuti tardi i compagni suoi, così lasciava scritto nei suoi
ricordi: «siccome in questi era unicamente il pensiero di rubare....
cominciarono ad agitarsi contro di me dicendo:--noi siamo usciti in
campagna e siamo chiamati ladri, dunque dobbiamo rubare, e se il nostro
capo non fa come noi, mala morte farà, oppure rimarrà solo.» E
tuttavia cotesti compagni suoi pigliavano nome di _Giurati alla fede
cattolica_; con sacramento obbligavansi a difendere mediante la _effusione
di sangue_ Dio, il sommo Pontefice Pio IX, Francesco II re delle due
Sicilie, ed a combattere i _ribelli della Santa Chiesa_[1]. Pasquale
Forgione presso a morire, presago che i bersaglieri i quali gli stavano
dinanzi fossero ordinati per metterlo a morte, disposto a confermare le
sue dichiarazioni al confessore protesta _combattere per la_ _fede_. Se
gli obiettano la fede cristiana aborrire dalle stragi, dagl'incendii,
dalle immanità di cui egli si è contaminata l'anima, egli risponde:
«di questo non sapere niente, egli combattere per la fede, lui essere,
benedetto dal Papa e possedere documenti chiari, mandatigli da Roma;
chè chi combatte per la santa causa del Papa, e del Re Francesco non fa
peccato.»--Nè costui si scuote punto allo annunzio della morte
imminente, e nè al giusto terrore, che il giudice tenta incutergli con
le parole:--«ma come di tante scelleraggini hai tu potuto tenere per
testimone, e, nel tuo pravo concetto, complice la Madre di Dio portando
appeso al petto questo laido abitino con la sua effigie del Carmine? Di
peggio non potrieno fare li stessi demoni, tu hai deriso la religione, e
Dio.»--Senza commoversi il Forgione persiste: «io, ed i miei
compagni abbiamo la Madonna nostra protettrice, e se aveva la patente con
la benedizione non sarei stato certamente tradito[2]» Il Borjès,
anch'egli, maledisse il momento in cui abbindolato, mentre crede trovarsi
preposto a partigiani agitati dallo spirito della fede si mira attorno una
collezione di rappresentanti di tutte le galere di Europa; lo stesso
Tristany ebbe a mettere le mani addosso al Chiavone, e farlo fucilare pei
suoi delitti: affermano che ciò cocesse al re Francesco, ed è
credibile la fama imperciocchè vediamo licenziato il Tristany; e forse
può anco darsi che costui ammazzasse il compagno meno per odio delle
scelleratezze commesse, che per gara di comando: con gente siffatta
s'indovina sempre quando si pensa al peggio.

  [1]  Relazione p. 172. 73.

  [2]  Relaz. alleg. pag.170, 71.

E' fu avvertito come Roma noccia forse assai più con i sobillamenti
morali, che per forza di arme, e questo non sembra possa negarsi;
nè danno siffatto muove solo dai preti, ma dal Borbone altresì,
e dai Francesi. Quanto alle armi, agli ordinamenti, ed ai fini del
Borbone, pari a quelli del Prete, e non occorre farne altra parola,
senonchè meritano considerazione due cose: che il Pontefice come
signore temporale non dovrebbe prendersi la scesa di capo pei negozi
di Napoli; e s'ei lo fa ci è indotto dal pensiero di rattrappare la
terra pel cammino del suo paradiso, come a cui ci vuol credere dà
ad intendere, che possa espugnarsi il cielo rimettendo nelle sue mani
il diritto del popolo sopra la terra; se sieno fratelli in Cristo
può dubitarsi, ma fratelli nella tirannide si sentono e sono:
l'altra, che Francesco Borbone stanziando a Roma si è posto in
luogo strategico unico al mondo, e dico unico, imperciocchè colà
non pure si trovi difeso da amici potentissimi, ma gli stessi nemici
confessino non volerlo o non poterlo combattere; però con sicurezza
intera, a bello agio, senza pericolo di un pranzo, o di un sonno
turbato, egli ordina, insidia, trama, e mantiene la guerra civile: non
valeva certo il pregio superare Gaeta; in ben altra fortezza si
rinchiuse il Borbone; almeno Gaeta non ci fu impedita, o poco dagli
amici nostri; di Roma adesso, così ci persuadono gli amici, noi
dobbiamo rispettare le benedizioni apostoliche, e gli stiletti.

Ora ecco quanto allegano Francesco di Borbone, e i suoi fazionari in
prò suo e di loro.--Noi ripigliamo il nostro; nostro il regno,
nostri i popoli; ci vengono per baratti, per trattati, in virtù di
carte sottoscritte, bollate, in buona forma, e guarentite; ond'è
che ce ne cacciaste fuori? O piuttosto perchè vituperando il
rapitore vi avvalete della rapina? Voi barattate le carte; gli
spogliati siamo noi, e voi c'infamate per ladri se per ogni via
c'industriamo riagguantare il nostro; sicuro! ai nemici si ha da
nocere meno, che fie possibile, ma le sono sentenze da starsi nei
libri del Grozio, e del Puffendorffio; un dì queste magnifiche cose
non sapevano i principi, e non facevano; oggi le sanno ma non le
fanno; ecco il divario che passa tra il vecchio e il nuovo.--

A me Borbone che apponete voi? Il diritto del popolo? Ma voi tremate a
verga quando obbligati mettete fuori questo diritto; le parole escono
scorticate dai denti stretti, e su le labbra vi levano le gallozzole
come se fossero corrosive: voi amate, e voi fate capitale del popolo
come lo amo, e lo avrei curato io; un'ora libero ma per darsi il
padrone, e poi schiavo per _omnia saecula saeculorum amen_. Ma via..
di che popolo mi contate voi? Certo non erano popolo i miei ministri
corrotti per tradirmi, nè popolo i generali comprati per vendermi;
e dalle mani di questi non da altri si agognavano consegnate le mie
spoglie, forse il mio sangue; e poichè si voleva mutare soma, non
servitù, procuravasi con affannosa sollecitudine, ch'egli, il
popolo, non se ne accorgesse, e nè manco levasse il muso di su la
consueta paglia che pasceva. Certo, costoro cupidi di guadagnare, non
ci era pericolo si spendolassero per tema di perdere, e tuttavia
ebbero premii non solo dei traditori arrisicati, ma sì dei
guerrieri virtuosi; i miei di Spagna pagarono Maroto; (fu pagato anco
Giuda) poi lo cancellarono dalla memoria degli spagnuoli.

O per avventura presumerete chiamare popolo quei mille uccelli di
rapina che si avventarono alla sprovvista sul mio regno, e lo misero
sossopra più per istupore, che per terrore della loro audacia?
Udite: o voi li sovveniste, o no. Se li sovveniste nella opera da
corsale, io vi chiamerò complici, io, insidiatori, io, pirati regi;
e contro cui? Contro un re fanciullo; inesperto di regno, sottomesso
ad odio sterminato per le colpe dei suoi maggiori; mallevadore
innocente, e sventurato. Forse mi ostinava io a seguire le orme
paterne? Non elargiva volenteroso quelle larghezze del vivere civile
che mi si chiedevano? Negai cosa alcuna?

Io distendeva la mano supplice perchè sostenessero i miei passi, e
verso cui la sollevava? Ad amico, ed a congiunto per vincoli
strettissimi di sangue. No, voi non li sovveniste; ve ne siete vantati
così per ispavalderia, o piuttosto per necessità di perfidiare,
che a voi non conviene l'antico: _sic vos non vobis mellificatis apes_
con quello che segue, e vale: le api ripongono il miele nei fiali, e i
calabroni se lo mangiano. Non lo giurate, perchè tanto io vi terria
spergiuri; ma, udite, caso mai voi foste complici, io vi cito a
comparire al Congresso dei Rè che intima l'Agamennone francese e
quivi vi accuserò di fellonia.--Ormai la Storia ha inciso nelle sue
tavole, _e con le vostre parole_, che voi pregaste il capitano di
cotesti avventurieri a non valicare lo stretto di Messina; voi
spediste _gente giurata a voi ed a lui cara_,[1] perchè gli
attraversassero la via; voi commetteste alla favilla elettrica di
bandire al mondo la vostra ruina se il Garibaldi prima dei vostri
soldati toccasse la Cattolica: o non vi ricordate, che otteneste la
pazienza altrui per la presa della Umbria, e delle Marche appunto con
la paura della rivoluzione? Non vi profferiste voi, proprio voi, di
sperdere con civile battaglia la rivoluzione? E pure ieri,...testè,
uno di coloro che ora governano, dichiarò aperto al Parlamento
ributtare con tutti i nervi da sè la rivoluzione, nè avere
saputo mai, che in Italia si operassero rivoluzioni; il moto ultimo,
che raccozzava insieme ventidue milioni d'Italiani aversi a definire
così: «svoltatura della Italia in senso monarchico costituzionale[2]»

  [1]  _La pudica altrui moglie, a te si cara_!

    _Parini_

  [2] Veramente egli disse _evoluzione_, ma concederebbesi volentieri
    ai Governanti di non favellare italiano a patto che italianamente
    operassero.

Bene stà; anco qui vi credo; ma allora perchè non foste meco a
combattere i briganti? Perchè più tardi, e non in quel punto
mandaste armati a _schiacciarli_? Cotesta fu la caccia al Falcone, gli
levaste il cappello, lo avventaste contro il colombo, poi agitando il
logoro per richiamarlo, gli riponeste i geti appollaiandolo sopra la
stanga.--Perchè mai briganti quelli che in nome mio movono contro
voi, e non briganti coloro che si gittarono contro me in nome vostro?
Forse in virtù del plebiscito? Ma di plebiscito allora non si
ragionava nè anco. Poteste, e sapeste risoluti troncare le gambe
all'avventuriere in Aspromonte quando ei si spinse contro Roma, o come
non poteste e non sapeste fermarlo quando calò su di me falco
rapace per rapire a conto altrui?--Io era un libro bianco; dovevate
aspettare prima di gittarmi sul fuoco a vedere che cosa ci avrei
scritto: ecco, prima di peccare io mi trovo condannato; l'esilio
amaro, il vituperio, forse la morte mi aspetta per colpe non mie.
Chè se voi dite tradimento il combattere disperato dei miei, per me
lo giudico magnanimo; ad ogni modo egli ebbe inizio dopo non prima la
cacciata da casa mia. O che pretendete voi che i miei campioni
battaglino alla vostra maniera per darvi agio di vincerli? Forse voi a
mo' dei cavalieri antichi rifuggite dagli agguati? Aborronsi da voi
tranelli ed insidie? Ogni arme buona in guerra massime in questa
slealissima dove le armi ministra il furore. Ah! voi m'infamate ladro,
e ladri i miei; restituitemi il regno, e pagherò regolarmente le
milizie così, ch'io le dannerò alle debite pene dove commettano
la millesima parte di quello che pure fanno le vostre pagate e nudrite
su le mie terre col mio. Certo, si capisce, che voi avreste a grado
rinvenire pei boschi i miei fedeli morti d'inedia, o attriti dal
digiuno in guisa da pigliarli come conigli in parco; grande invero e
truculento il misfatto loro non volere finire di fame; hanno torto, ma
da necessità costretti dove trovano arraffano: difettano i miei
della vostra virtù, e pensano giustificarsi con la sentenza dei
pubblicisti, che afferma nei supremi bisogni rivivere la pristina
comunione delle cose. Quanto ad opere di sangue riardono dentro noi
l'ira dei traditi e la rabbia degli spogliati; avventurosi i vostri i
quali immuni da cosiffatte passioni possono procedere benignamente
miti.... Voi non ammazzate a sangue freddo persona, non inferocite
mai, non trucidate l'innocente invece del reo, udite sempre le
discolpe, attendete le testimonianze altrui, i supplici esaudite, i
traviati perdonate, all'altrui pianto piangete.--

Devo, io rendere conto al popolo delle colpe paterne? Ma, io figlio
per piacere altrui non doveva mostrarmi snaturato: chi si raffida
rinvenire ottimo re in pessimo figliuolo fa male i suoi conti. A me
non istava maledirlo. Se il padre mio fu spergiuro, se nemico alla
libertà, se crudele, se, cupido quanti principi furono nei tempi
passati diversi da lui? E pure qual re di piccolo stato, come egli,
seppe opporre porre animo alteramente sdegnoso contro Potentati, che
sgomentavano allora, e sgomentano adesso col solo aggrondare del
ciglio i minori regnanti? Se nella mente del re mio padre capiva il
concetto di dominare la Italia certo è, che veruno al mondo se lo
sarebbe reso mancipio.

E voi al re del mio regno moveste mai rimprovero delle colpe paterne?
Non osaste, e sta bene; ma perchè a me sì, e a lui no? Dunque
non camminate nelle vie della giustizia; voi adoperate due pesi e due
misure; ma troppo voi ardite di più, che mentre rovesciate contro
la memoria del padre mio parole ardenti da disgradarne la lava del mio
Vesuvio, voi rubereste i raggi al sole per circondarne la tomba del re
Carlo Alberto; voi consumaste per celebrarlo ogni metafora panegirica,
la favella nostra giace rifinita pel saccheggio degli aggettivi
encomiatori sbraciati su la memoria di lui. La pietà e la modestia
dovevano essere poste custodi a cotesto sepolcro: voi ci metteste la
menzogna e la provocazione. Chi fosse il re Carlo Alberto io
vergognerei desumerlo da gente vendereccia di cui la coscienza si
acquista a un tanto la canna; guardimi Dio da tirare innanzi il
giudizio di uomini stranieri, o a me devoti: mirate, io vi squaderno
davanti agli, occhi tre testimonianze de scrittori piemontesi, tutti
reputati uomini retti, comecchè zelatori di massime fra loro
diverse, e ministri suoi; le quali scritture essi dettarono non pure
mentr'egli viveva, ma altresì quando l'anima di cotesto re riparava
sotto il manto del perdono di Dio, e di quello degli uomini: potendo
più in taluno di loro l'amore del vero commecchè con certezza di
tornare sgradito, per la piaggeria provvisioniera di tristo pane, e
d'infamia. Prima il conte Santorre Santarosa morto per la libertà a
Sfatteria: quel desso Santarosa, ad onorare la memoria del quale
mercè povera lapide, ora il Piemonte tardamente pietosa va in volta
a razzolare con pena pochi danari, il Piemonte, che dianzi si votava
le tasche di rincorsa per erigere al morto conte di Cavour monumento
regio:[1] mirate qui vi narra come il principe di Carignano Carlo
Alberto acconsentisse alla rivoluzione del Piemonte, la quale doveva
accadere nel giorno otto marzo 1821; il dì innanzi, ecco correre
una voce nefasta: Carlo Alberto avere disertato dalla bandiera; ed era
vero; tuttavia ei rampogna i congiurati di poca fede sicchè tornano
a deliberare il movimento, e nondimanco mentre Carlo Alberto
assicurava i congiurati del suo consenso pienissimo spediva ordini, e
disponeva le cose per modo da rendere impossibile qualunque atto a
Torino esponendo a pericolo mortale il Santarosa ed il Collegno! e fu
tiro cotesto, che a parere del Santarosa, potrebbe qualificarsi
perfido, ma ch'egli, discreto, desidera piuttosto attribuire a
naturale ambage della indole di lui.--Considerate attenti il libro del
prode Santarosa: Carlo Alberto il giorno 13 marzo annunzia la
costituzione dalle finestre del palazzo, il 14 la giura..., accorsi i
Milanesi a profferirgli di buttare all'aria la Lombardia, gira nel
manico, e si tira indietro, onde al conte Santorre tocca dire:
«dov'era andata allora, o Principe, la smania antica di liberare la
Italia dallo straniero? Donde in voi siffatto mutamento? Forse,
l'ardire si destava in voi quando la occasione di adoperarlo era
remota, e cagliava avvicinandosi?» Il rifiuto del re di ricevere
Lisio, Santarosa, e Collegno si giudica come difetto di cuore a
sostenere i liberi sguardi di tre animosi cittadini, mentre forse fin
da quel punto gli stava fisso nella mente il pensiero di tradire la
Patria.--Se in vece di Villamarina prepone al ministero della guerra
il cavaliere Bussolino, sì il fa: «perchè con la scelta di
uomo meritamente riputato lealissimo da tutto il partito
costituzionale ei si lusinga celare meglio i disegni nefari.» E
già la Costituzione era abbandonata dal suo capo spergiuro, quando
interrogato dal ministro dello interno circa le voci sinistre, Carlo
Alberto le ributta sdegnoso come contumelia plebea; poi dà la posta
dell'ora pel giorno veniente al ministro dello interno e ad altro
collega, per negoziare intorno alle faccende di stato; e nel fitto
della notte si fugge conducendo seco le guardie del corpo,
l'artiglieria leggera, i cavalleggeri di Savoia, e il reggimento
Piemonte reale cavalleria; che se domandi (così sempre ragiona il
conte Santarosa) per quale causa egli rifuggisse da mettere in
esecuzione con le proprie mani il meditato tradimento, così bene
ordito da lui, per me giudico, che a Carlo Alberto mancasse fino il
coraggio di fare il male, coraggio del quale confesso che non
difettava la buona anima del padre mio; all'opposto, egli ne aveva
anco di avanzo.--Carlo Alberto invece, valicato il Ticino, andava in
sembianza di profugo a gittarsi nelle braccia di un governatore
austriaco, il quale lo accoglieva coll'oltraggio, che a me piglia
rossore di rammentare[2].

  [1]  I Piemontesi hanno sofferto in pace che il conte Santarosa per
    bene 39 anni di altra lapide non fosse onorato, tranne quella che
    gli pose la pietà del francese _Fabvier_; il _Cousin_, uomo
    insigne nella politica, nella letteratura, e nella filosofia ne
    scrisse a Maurocordato facendogli sentire quanto disdoro sarebbe
    venuto alla Grecia dalla ingratitudine verso la memoria dei
    generosi, che avevano dato il proprio sangue per la sua
    libertà; non gli rispose neppure...! Più tardi il Colonnello
    _Fabvier_ compiva l'onorato ufficio: alla bocca della Caverna dove
    la fama narra rimanesse ucciso il Santarosa da un rinnegato
    maltese, pose un'umile monumento con questa iscrizione: _Al conte
    Santorre Santarosa qui ucciso il 9 maggio 1825_.

    Però non ricordo questo per maledire ai Piemontesi, chè noi
    pure contristano colpe inespiate: peccammo tutti; e qui in Toscana
    giacciono senze onore le ossa di Francesco Ferruccio... eroe
    popolano di cui la virtù e il nome empiono di sgomento i
    moderni _palleschi_. Colpevoli tutti, compassioniamoci, ed
    emendiamoci. Gentil sangue latino, gitta de le le turpi some, che
    ti hanno tolto memoria, e affetti, e senso di grandezza, e perfino
    l'odio contro la servitù domestica e straniera.

  [2]  È noto che il conte Bubna presentando Carlo Alberto
    all'arciduca Ranieri adoperasse queste parole: «ho l'onore di
    presentare a vostra Altezza imperiale e reale, il re d'Italia.»
    Prima di lasciare il libro del Conte Santarosa mi sia permesso
    cavarne due notizie, a mio parere utilissime pei tempi che
    corrono: la prima è, che Antonino Foa, vescovo di Asti, avendo
    recitato certa pastorale per indurre i suoi diocesani alla
    osservanza della costituzione, appena restituito il governo
    assoluto, fu preso e messo in prigione dentro un Convento di
    Cappuccini, donde non potè uscire senonchè ritrattandosi;
    della quale cosa tanto si accorò, che indi a breve cessava di
    vivere. Nè Roma aperse bocca allo strazio che si menava del suo
    antiste, amico della libertà dei popoli, mentre empiva di
    querele il mondo quando fu chiuso in cittadella, e poi mandato in
    esilio l'arcivescovo Franzoni, avverso ostilmente alla Patria,
    alla libertà, ed alla monarchia.--

    E poichè io reputo debito strettissimo di ogni cittadino
    cogliere ogni occasione per conficcare bene nel capo al popolo
    come in ogni tempo, non si sa, se più nocessero alla Patria, o
    i Preti, o i Tedeschi, o i Moderati; e questi oggi abbiamo tutti e
    tre sul groppone con l'aggiunta del quarto; metterò qui le
    parole di coteste insigne cittadino, qual fu il conte Santarosa,
    le quali si leggono a pagine 80 del suo libro della Rivoluzione
    piemontese del 1821, intorno ai _mezzani uomini_ questi i quali
    ingegnandosi accordare gl'interessi di partiti opposti
    _secondavano la indolenza di un governo per sè stesso inetto,
    irresoluto, ed inclinato alla rea politica del guadagnare tempo,
    tanto fatale in momenti di rivoluzione, che perde i popoli, e
    chiama loro sul capo le maledizioni di cui n'è autore o
    seguace_.»

Della cattolica chiesa Carlo Alberto zelatore quanto mio padre; e
più, però che egli sendo dotto in lettere la difendesse con la
penna mentre a Ferdinando, buon'anima, mancò la possa non la
voglia; e di ciò fa fede quel perfetto gentiluomo del conte
Clemente Solaro della Margarita di cui il _Memorandum_ in mezzo al
diluvio dei libri satanici galleggerà, pari all'arca santa, fino
alla consumazione dei secoli; di vero si ricava da lui, che Carlo
Alberto dopo avere dettato un libro di riflessioni storiche, lo
facesse stampare; non so poi per quale cagione ne ritirasse le copie,
eccetto una sola, che mandò in dono al cardinale Lambruschini, il
quale esaminatala a dovere, trovatala conforme al suo cuore, assai la
commendò; Gregorio XVI a cui ne fu data parte ne faceva le stimate;
e stette a un pelo di segnarlo sopra l'albo dei santi... ma poi se ne
trattenne.

Dal tratto che corre fra il 1821 e il 1847 io non rimoverò la
tenda, che lo cuopre: la è pesa di sangue grommato, nè vo'
bruttarmene le mani, almanco senza profitto; e poi la reverenza regia
mi preme come avrebbe importare altrui; non siamo tutti re? D'altronde
ne vanno piene le storie dei tempi. Parliamo del 1847, che lo colse
mentre, con altri _nati in Arcadia_[1] si godeva ministro il buon
Solaro; ora questi nel suo celebre _Memorandum_ stampato proprio a
Torino nel 1851 ci afferma essere stato il suo adorabile padrone
tenace profondamente della regia potestà, ossequentissimo alla
santa madre, la Chiesa cattolica, appassionato della indipendenza
italiana, la quale (intendiamoci bene) a dire del conte ministro, dal
suo adorato Signore ponevasi nello estendere quanto meglio per lui si
potessero i proprii dominii[2]: in omaggio al diritto divino, ed alla
esaltazione della Chiesa protesse Don Carlos nella Spagna, la Duchessa
di Berry in Francia, i Gesuiti da per tutto spendendoci attorno fiore
di moneta, anzi per fine tanto lodevole s'indebitò.--Quando temè
essere aggavignato dalla necessità, e non lo era, prese a
tartassare, Dio lo perdoni, il beato Padre, ma ei lo fece per non
perde; credito presso i liberali, e potersi avvantaggiare di loro
nella prossima guerra, vinta la quale, e messo al largo proponeva
convertirli tutti non senza speranza di riuscita, quando poi gli
fossero tornati corti i presagi gli avrebbe spenti in pena della
ostinazione loro. Di qui tu hai la chiave per capire la causa, onde
gli aiuti francesi furono ricusati, le dimore in Lombardia, la
repugnanza dalla Venezia; quindi l'astutezza non mai commendata
abbastanza di mutare regia la guerra nazionale, e la giusta paura
gliene scappasse dalle mani il governo, paura, che anco il mio augusto
genitore partecipò col miscuglio di una seconda paura, e fu questa:
che dei tre esiti della guerra tutti e tre gli approdassero a
rovinargli un picchio tra capo e collo; imperciocchè, il mio
augusto genitore, dando le spese al suo Cervello, faceva il conto
così: se gli Austriaci ci zombano perdiamo egli ed io; così, del
pari se la rivoluzione ruba la mano a lui, dove sbatacchierà me,
non lo so nè manco io; ecci il terzo caso, che ei vinca, e allora
ei vincerà per se non per me, e potrebbe anco darsi contro me; per
le quali ragioni e cagioni se il padre mio richiamò di un tratto la
sua gente, non sembra che deva poi scomunicarsi in cera gialla.

  [1]  _Arcades ambo_.

  [2]  _Guercia unità di un Piemonte ingrassato_. _Ferrari_.
    Discorso al Parlamento sul Trattato di Commercio.

Di qui la chiave della Venezia derelitta, dei passi delle Alpi
lasciati aperti, e i Romani, e i Toscani non soccorsi, quelli nel
veneto, e questi nel mantovano, e le pratiche avvenute con l'Austria
per la cessione della Lombardia. Nella medesima maniera si
giustificano le diffidenze non mai troppe, e i timori plausibili
contro la parte repubblicana; si spiegano le mirabili fortune della
impresa, che dicono perduta per colpa, e arebbono a dire, per senno
del Re, il quale aombrava meritamente della repubblica troppo più
che dell'Austria, perchè con questa poteva guadagnare terra, alla
più trista non perderla, con quella perdeva tutto di certo[1].

  [1]  Anche il Conte Solaro intorno ai Moderati pronunzia sentenza non
    vera in tutto, perchè fra i partiti estremi niente osta, che
    possa intercedere un partito, che prosegua la libertà accettata
    la monarchia costituzionale come magistratura suprema, ma per
    ciò che concerne i moderati giustissima: «i moderati nel
    concetto dei savii sono da meno di coloro cui rimproverano toccare
    gli estremi delle opinioni. Negli estremi possono incontrarsi la
    fede e la gagliardia; presso i neutri non trovi nulla di che valga
    a salvare una causa, o promovere un principio: strana miscela di
    libertà, e di dispotismo; la prima, nelle loro mani conduce
    diritto alla licenza, il secondo, alla tirannide.

Rimarrebbe l'abate Gioberti, che stette ministro presso al trono di
Carlo Alberto fino alla vigilia della battaglia di Novara, ed un tempo
gli procedè piuttosto sviscerato che amico; ma ciò che lasciò
ire cotesto benedetto abate nel suo _Rinnovamento_ a bocca di barile
contro Carlo Alberto, senza ritegno, nè pietà della tomba appena
chiusa sopra la salma del misero Re, io non ricorderò: molte
pagine, adopera contro la sua fama, nè già credo io; maggior
virtù avrebbono esercitato due moggia di calce viva contro le ossa
di lui.--Lasciamo i morti in pace; certo, chi soffiasse dentro le
ceneri del mio genitore, correrebbe risico di accecare senza cavarne
una favilla di virtù; ma domandate alla morte, che le pesa tutte
nella sua mano, qual divario corra tra la cenere di un re e quella di
un'altro.--Contro tutto questo, che vorrete opporre? Abbiamo creato un
popolo! Per noi tornò la Italia se non donna di provincie, di sè
signora; e rotte le catene antiche oggi siede venerata e temuta nei
concilii dei Re!.... Se questo avete fatto, chino il capo e venero il
decreto, che nella onnipotenza loro bandirono i popoli e Dio....

Queste ed altre cose, che vanno diffondendo nel popolo della Italia
meridionale il Re di Napoli e i fazionarii suoi, non vere tutte, nè
le vere a quel modo, e nondimanco poniamo le fossero vangelo tutte, a
che montano? Anco a lui risponderemo in tempo debito, pure per
impedire, che lo indugio pigli vizio, con parlare succinto
consideriamo, elle di questo il popolo sa niente, ed è con lui, che
bisogna fare i conti, o co' delegati suoi. Delle colpe delle quali o
per forza, o per fraudo, o per arte, o insomma, per volontà non sua
egli porta il peso, male si domanda ragione al popolo, anzi ne cava
argomento ad esercitare, liberissimo le sue facoltà. Chi dei due fu
prima, re, o popolo? Certo il popolo. Veruno finquì ci mostrò lo
instrumento in virtù del quale un popolo consenti a diventare
gregge _perpetuo_ di un membro, ne sempre il meglio, di sè; dove
anco ce lo mostrassero, come l'uomo potrebbe alienare la libertà
sua, datagli da Dio in presto, affinchè gliela renda insieme con
l'anima? Donde cava l'uomo facoltà o diritto di obbligare le
generazioni che gli succederanno in perpetuo? Egli, di cui la vita
dura quanto un battere di palpebra, l'uomo, pugno di terra che si
anima quando la Provvidenza lo piglia per buttarlo più in là
sopra la terra, e muore mentre ch'ei passa da un punto all'altro; la
vita dell'uomo che è mai se non una corsa verso la morte? Dicono,
non so se vero, che la lingua ebraica non conosca presente, bensì
verbi passati, o futuri, dacchè la parola, volata appena non ti
appartenga e il battito del polso non anco compito è fuori di te.
Le eredità gravose o ripudiansi, o accettansi sotto benefizio
d'inventario... e questa tra tutte miserabile, come quella che mi lega
la servitù devo accettare per forza? Finchè le colpe del popolo
porgono alimento alla dominazione, durano la signoria e il servaggio,
stato non solo fuori, ma sì contro natura; espiate le colpe il
popolo riassume la libertà come, secondo la nostra fede il
peccatore dopo il sacramento della penitenza torna in grazia di Dio.
Qui dentro sta il diritto, e fra tutti sacrosanto, del popolo ad
ordinarsi, potendo, come meglio gli torna, e a preporsi chi gli
talenti. Separate il nostro Eletto da qualsivoglia origine, dove non
teniate ben ferma questa, suo padre fu il suffragio universale, sua
madre la volontà popolare: Re per la grazia di Dio, e secondo della
Sardegna altri lo salutò; per libera elezione di quanti fummo
Italiani a votare, Re d'Italia, e primo lo salutiamo noi.--

Necessità ultima di avere Roma, lo Imperatore dei Francesi: di lui
parlammo, e di lui parleremo, finchè chiarite prova le parole
inani, sorga chi chiami la Italia a generose risoluzioni, e degne in
tutto di popolo grande. Quanto a me giudico, che l'argomento onde
possa non solo ma debba spiegarsi meno cotesto uomo sieno le sue
parole: e' ci ha chi afferma veruno in Francia procederci più amico
di lui; e ciò muove da levità, o da ciurmeria, imperciocchè
se costui accenna ai singoli Francesi risolutamente lo sostengo falso,
e se piuttosto alla nazione intera, tu considera come un'uomo
straniero, che trapassa su la Francia come la rondine cacciata dalla
stagione iniqua, sia da tanto da conoscere la Francia; la rondine, che
passa acchiappa insetti, non già il senso dell'anima di Francia:
che se per Francia s'intendono gli attrezzi i quali stanno dintorno a
qualunque trono, e vestiti di panno paiono persone non si nega; ma si
mette in sodo, che soprastare a loro piccolo guadagno ne caviamo noi.
Quando i potentati di Europa rovesciaronsi contro il primo Napoleone,
quasi fiume ingrossato da molti torrenti, l'Austria parve avversario
più mite degli altri, ma ciò non la impedì di spogliarlo
più e meglio degli altri, nè insieme con gli altri conficcarlo
sopra la rupe di Santa Elena.

Con Napoleone III teniamoci ai fatti, e questi sono amari. Affermano
com'egli accolga dentro la sua mente consigli reconditi, ma se la sta nel
modo che la contano, come lo sanno essi? Se pure fosse così, chi troppo
l'assottiglia la scavezza, sicchè quei suoi concetti, sprofondandosi
tanto; veruno li vede; gli atti esterni poi così appaiono
contradittorii, che il giudizio ne scende contrario alla proposta. A bene
considerare e' sembra che il mondo morale si disgreghi, ed il Padrone
della Francia nello intento di riordinare per sè crebbe il caos. Avendo
egli offeso la democrazia, e di lei paventando, nè potendone fare a
meno, da un lato suscita in lei gli appetiti della materia, dall'altro
studia mortificarne lo intelletto consegnandolo in mano al prete; in qual
modo ei raccattasse il prete, ho esposto di già; nè direbbe il vero
chi lo negasse, imperciocchè abbia veduto io medesimo sovvenire i
Gesuiti con la pecunia propria dello Imperatore... e fu come ingrassare
l'ortica col guano; quasi che le erbacce lasciate a sè non prolifichino
anco troppo; a questo modo operando egli immaginò logorare la
democrazia con la beghineria, e lo interesse, a quel modo stesso, che
vediamo consumare un diamante contrapponendogli un'altro diamante: simili
contrapposti, non nuovi in Francia, anzi antichi, e sempre funesti, si
reputano trovati d'ingegno acuto e la storia chiarisce che derivano da
lassezza di mente; e' sono rappezzi per ischermirsi dalla molestia del
minuto, non già disegni per edificare nel tempo; aggiornano i mali
forse rimediabili subito, cronici poi, sicchè più tardi irrompono
sovvertitori di stati. Così Caterina dei Medici mentre dondola tra
Ugonotti e Cattolici consuma tutta la sua figliuolanza nell'antitesi
pericolosa; le industrie, che ella adoperò, ed altri glorifica argute,
mentre erano perfide, per conservare il trono alla sua famiglia
approdarono a trasmettere il trono dei Valesi nei Borboni, e la notte di
San Bartolommeo, tramata per la strage di tutti gli ugonotti, mise capo a
tirare sopra la Francia un Re ugonotto.--Ancora le storie di Francia!
levano a cielo Enrico IV, nè il mio compito mi conduce a contendergli
le buone doti che gli attribuiscono, però parmi potere affermare, che
fu basso pensiero quello, che lo spinse a cedere la sua fede pel trono,
insegnandomi la storia come le basse voglie nei reggitori dei popoli
spesso sieno colpe, e sempre errori; in questo io lo pospongo al popolano
che non avrebbe renunziato alla sua amante barattandola con Parigi:[1]
rendendosi cattolico, nè volle, nè potè opprimere i suoi
correligionari, e se da un lato frequentava la messa, dall'altro si
governò co' consigli del Sully. Qualunque fosse la sagacia del metodo
di regno, sbagliava nel principio, dacchè ormai la fede religiosa
diventata pretesto, ovvero confusa con fini politici e mire di ambizione,
si era intrisa nel sangue ed infamata con mortalissime fraudolenze: non
pace ormai sperabile, nè tregua; la quiete apparecchio alle armi, il
furore non mancava mai. Se fossero prevalsi gli ugonotti si sarebbero
ricattati; superando i cattolici vennero la revoca dell'editto di Nantes,
le stragi, gli esilii spontanei o costretti, le industrie trasmigrate
altrove, e le ingiurie alla fortuna pubblica, donde in breve il tracollo,
il malcontento, l'aperto tumulto, la rivoluzione scapigliata, e il
nabissare della monarchia dentro la voragine che si era aperta con le
proprie mani.

  [1]  Corre fama ch'egli dicesse: _Parigi vale una messa_: ora antica
    si conosce una canzone nella Francia, che suona a un di presso
    così: cito di memoria e domando venia per gli svarioni.

«Si le Roi me donnait Paris sa grande ville Pour quitter ma mie, Je
lui dirais: Tiens-toi Paris J'aime mieux ma mie, O gai J'aime mieux ma
mie.»

    Su ciò considero, forse le parole attribuite al Re voglionsi
    riputare fandonia, e la canzone attesta la fantasia del Poeta, non
    altro; sarà così, ma credonsi universalmente le parole del
    Re, e l'abnegazione dello amante, epperò la coscienza pubblica
    mentre stima per interessi capace un Re a ripudiare la sua fede,
    giudica incapace un popolano a renunziare per interesse il suo
    amore.

Col sistema di antitesi per gittare durevole il fondamento al regno
della sua stirpe, io vedo Napoleone avvilupparsi dentro una rete di
contradizioni, che ad ogni istante più lo stringe alla vita. La
guerra contro la Russia fu bandita a nome della civiltà, e smussate
appena le ugna all'orso si tira indietro salutandolo civile; nè
quella la causa della guerra, nè della pace questa: causa vera
dell'una come dell'altra stringergli con la mano della Francia forte
la zampa, e fargli sentire, che lui aveva a sopportare nel concilio
dei Re: di ora in poi come non iscritti gli sgraffi, che l'orso russo
aveva, in luogo di firma, messo sotto i trattati del 1815. Pari
intento il Napoleonide si propose e conseguì nella guerra d'Italia;
lui sentano, e lui tremino i Re per rinnovare insieme la catena
dell'autorità al genere umano; l'Austria si penta avere disprezzato
il nuovo, e tradito l'antico Napoleone: perchè aborrirli parenti?
Non li battezzarono signori la violenza e la frode? Quale altra
origine ebbero i superbi imperiali della casa di Asburgo? Di vero,
come altramente intendi la sua scesa in Italia? Il bando di
affrancarla intera, e il vanto di piantare la bandiera da per tutto
dove ci fosse a proteggere una causa di civiltà, e poi chiamarsi
contento di una provincia sottratta agli artigli dell'aquila
imperiale, e la sollecita pace?--Peggio poi, se confronti questi suoi
atti con lo avventuroso valicare dell'oceano, e con tesoro
inestimabile e sangue generoso di Francia, sommettere uno stato per
farne dono a quella stessa casa da lui sbattuta in Italia? Certo,
riesce troppo arduo penetrando nel riposto animo dello Imperatore
pescarvi disegni di universale civiltà; all'opposto torna destro
supporre, che la repubblica democratica, anco in parte di mondo da noi
rimota, fosse un grande stecco negli occhi di lui: come mi parve vero
che la libertà dove non sia attecchita da per tutto (non fa caso se
più o meno secondo la natura degli uomini e la condizione delle
cose) non possa durare, così troppo più reputo vero, che nè
anco il dispotismo si mantenga, se da qualche spiraglio penetri raggio
di libertà.--Come qui in Europa campione di sovranità di popoli,
ed in America strozzatore di quelle? So bene ch'egli, e i suoi con
parole solenni lo negano, ma oggimai le sue proteste per la pompa
della gravità loro si convertono in argomento di giocondezza per le
brigate; almeno per noi Italiani apparisce così, imperciocchè
nei varii popoli varii la materia del riso; presso i nostri poeti
berneschi ella consiste nel vestire di forme e di parole gravi
concetti burlevoli.

Come invocare la Provvidenza vindice dei diritti conculcati dei
popoli, e poi mettersi tra mezzo impedimento fra la Provvidenza ed i
popoli? Come dopo che la bandiera di Francia fu vantata tutrice di
civiltà rimane su ritta fra le infamie di Roma come piantata nel
fango? Perchè fino all'ultimo l'impero di Francia protesse Gaeta
contro il volere del popolo? Perchè si agitò tanto, giungendo
fino alle minacce, non ischifando le insidie onde i membri sparsi
della famiglia italiana non si riunissero? Queste le sono cose, che
non si ponno negare. E a Roma perchè ci, sta adesso?--. Nè
Italia egli patisce una, nè libera: una, nel presagio della sua
potenza la teme come uomo e come dominatore della Francia; libera, se
ne atterrisce come uomo; da per tutto dove la libertà sorga capisce
che gli chiederà ragione del 2 Decembre.

Diventava il Napoleonide Re co' popoli, adesso vorrebbe mantenersi Re
co' principi; una maniera di centauro politico; nè mai arrivò a
infingersi intero, e se altri traverso le sue ambagi nol seppe capire,
la colpa non è sua; se altri perfidia ad attribuirgli concetti,
ch'egli in mille maniere respinse, ed in ogni occasione dichiarò
proprio agli antipodi dei suoi, a lui non si può imputare: innanzi
del 2 Decembre, io ricordo, come se fosse adesso, che a certo dabbene
uomo il quale con parole di oro s'industriava innamorarlo della gloria
del Washington rispose netto: «io sono principe e non lo posso
fare.» Così è, al nipote di Carlo Buonaparte pareva la fama
del Washington cosa da non giovarsene, e i Francesi uomo siffatto
elessero capo della Repubblica, e dopo simile manifestazione
dell'animo suo lo sopportarono. O Francesi!

I popoli, il Napoleonide, tiene in mano a guisa di carte, per giocare
la partita in pro suo, e dei suoi: seguita i disegni dello Zio, il
quale prese per davvero che gl'Imperatori possano tenere nelle mani la
palla del mondo con la croce sopra; e neppure adesso che si sente
preso dentro le morse pone giù il disegno: al contrario ci s'intora
acerbo più di prima; giunto in fondo degli arzigogoli avventura
l'estremo per ripigliare fiato, memore della sentenza del
Macchiavello: «cosa fa cosa, e tempo la governa.»

I Moderati prima rimasero attoniti, poi lodarono, all'ultimo
censurarono, adesso tentennano, piegano a destra ed a mancina; musano
come le formiche; incerti intorno alla via da tenere: fino dal primo
apparire della proposta del Congresso chi possedeva non dico fiore, ma
briciola d'intelletto, disse cotesto espediente manca perfino della
furberia di cui è copia nei trovati dei marruffini, e dei trecconi.
Di vero i Moderati stracciarono co' denti la Costituente proposta dal
degno amico Giuseppe Montanelli, nè del tutto a torto, come quella,
che intendeva sottoporre i principi al giudizio di un tribunale
composto di deputati eletti dal popolo: ora bisognava domandare se
questi principi ci si avessero a condurre spontanei, ossivvero per
forza, e se spontanei, egli era chiaro come l'acqua, che non ci
sarebbero andati, mentre se per forza, i popoli, i quali senza bisogno
di geometria sanno come la via retta sia la brevissima, potendo, gli
avrebbero mandati tutti in un fascio non mica dinanzi al tribunale
della Costituente, bensì in luogo che non importa dire. Però, se
in questa parte la Costituente zoppicava, stava ritta su tutte e due
le gambe nell'altra: all'opposto il Congresso intimato dallo
Imperatore dei Francesi a questa pecca della Costituente montanelliana
ne aggiunge l'altra, ed è che i convenuti sarebbero ad un punto
giudice, e parte.--

Ad ogni uomo comecchè fornito di levatura mediocre apparve chiaro,
che ogni principe avrebbe a lasciare un brindello di carne, che tiene
stretto fra i denti, nè certo consentirà a lasciarlo; prima di
ogni altro quello di Francia: ad ogni modo levati di mezzo i trattati
del 1815 a quali altri storneremo noi? A quello di Amiens, di Tilsitt,
o piuttosto all'altro di Luneville? Ovvero, andando anco più in su,
ci fermeremo a quello di Utrecht, o di Wesfalia? A veruno di questi,
però che quivi non si considerassero le aspirazioni dei popoli
bensì unicamente gl'interessi dei principi, ed oggi lo scopo del
Congresso sta per lo appunto quì, che adempiendo i desiderii dei
popoli si apra un nuovo ordine di secoli, il regno di Saturno
riapparisca sopra la terra dove ogni uomo possa vivere tranquillo
all'ombra della sua vigna, e del suo fico! Bene sta. Ma quali popoli
interrogheremo noi circa le infermità, che li travagliano, ed
intorno ai rimedi, che reputano più spedienti a guarirli? Gli
europei Soltanto o quelli di tutto il mondo? Chiedo venia della
impronta domanda; presso uomini così sviscerati pel bene della
umanità ella suona peggio che oltraggio: là umanità non
circoscrivono mari nè monti, e il sole levandosi e tramontando vede
più torti a riparare, che contentezze a benedire. Da ponente come
da levante, da ogni lato insomma la umanità grida: ohi! Dunque
tutto il mondo. Ciò posto in sodo, in qual guisa vorrannosi
interrogare le generazioni! degli uomini? Col suffragio universale, mi
risponderanno:--Ottimamente; ma tra suffragio universale, e suffragio
universale ci corre: a mo' di esempio, suffragio come a Nizza, o come
nel Messico? Della sincerità di cotesti voti non ne dubita veruno
dei principi raccolti; piace loro il metodo, e approvasi; essi
imiteranno come in ogni altra cosa in questa la Francia maestra del
vivere civile. Ora io dico, che dove rimanga statuito così non vale
il pregio adunarsi, imperciocchè non pure gli Arabi e gl'Indiani
supplicheranno Francesi, e Britanni a restare in Affrica, e in Asia,
ma se non volete altro, Veneti, e Pollacchi esporranno il Santissimo
su l'altare onde Austriaci e Russi non li privino della delizia del
paterno reggimento. Se qualche dimostranza si permetteranno e' fia
perchè non mettano a prova più dura la infinita loro pazienza a
sopportare e a patire. Di ciò interpreti la maggiore parte dei
Vescovi, che la verità sanno da due parti, da quella di Dio, e
dall'altra dei popoli. Dunque poniamo il caso che si voglia, e volendo
si possa adoperare una guisa diversa, e supponiamo altresì, che
tutti i popoli senza paura rimangano facoltati a dire la sua, e allora
del pari il convenire dei regi che monta? I popoli vorranno prima
essere affrancati dalla dominazione straniera, e poi dalla casalinga;
però che in ogni tempo pochi principi abbiano preferito regnare
coll'amore, piuttostochè col terrore, e la terra considerino podere
proprio dove chi vive è bestiame, e chi muore ingrasso. Nel
concilio dei re chi rappresenterà dunque i popoli? Chi ardirà
farsi innanzi don questa maniera di mandato? E' tornerebbe lo stesso
che andare a farsi seppellire da sè; per la quale cosa si chiarisce
come si dovrebbe commetterne la incumbenza ai re. Omero ha chiamato i
Re _pastori di popoli_, mentre il Byron li appellò addirittura
_lupi_; su di che io mi astengo giudicare, considerando che o lupi o
pastori la messa torna a mattutino, dacche o che gli uni tengano il
Congresso o gli altri, la materia non si può versare che intorno al
mangiarsi gli agnelli cotti o crudi. Questo poi una differenza
veramente per noi la fa: quanto ne vadano lieti gli agnelli non è
facile darcelo ad intendere.

Ai dì nostri che tengono bottega aperta di piaggeria, e di
vituperio come di ogni altra mercè, non mancò chi celebrava la
proposta del Congresso come tiro furbesco da sbancarne il Macchiavello
in persona: là dove fosse così io per me affermo tra i mali
metodi di governo pessimo quello che poggia sopra la bindoleria,
però che non puoi filare sempre tanto sottile che altri non si
accorga del tuo tramestio, e allora perdi il credito, nè ti avranno
più fede mai, sia, che tu mentisca, o che dica la verità; e poi
ognuno s'ingegna vincere di scherma lo schermitore, per la quale cosa
dai e dai la sua brava botta diritta all'ultimo gliela ficcano. Lo
intelletto umano sostenuto dalla logica, e dalla lealtà non solo
dura, ma cresce di vigore progredendo; invece appoggiato alla frode
ogni dì più strapiomba, e quanto maggiormente si travaglia a
ingannare di tanto si sconcia. Sicuro, a modo che i pesci da che mondo
è mondo si pigliano con le reti, e gli uccelli co' vergoni così
gli uomini con le parole dolose; non però gli uomini, che fanno
professione di sagacia, e sia quasi esercizio del loro mestiere;
imperciocchè allora tanto sa altri quanto altri, e tra corsale e
pirata non ci corre che i barili vuoti, E parmi che non si possa
allegare con frutto l'esempio del Borgia sempre traditore, e sempre
creduto; imperciocchè i traditi il più delle volte presagissero
il fato soprastante ma nol potessero evitare; e nè anco potendo
vollero, dacchè fuggendo era certa la perdita della sostanza, e
restando forse perdevano la vita, onde l'uomo tra il _forse_ della
morte probabile, e il _certo_ della miseria corre sempre il rischio
della prima; tanto lo amore della roba lo vince! Ad ogni modo anco il
Valentino cascò nella fossa che si era scavato; la fortuna gli
tirò la somma dei tanti tradimenti macchinati a danno altrui, e fu
un tradimento che gli tolse peggio che la vita, vo' dire la potenza. I
re tutti privi di scettro ci apparvero sempre una miserabile cosa, ma
se pensi al tiranno senza sbirri, senza giudici, e senza carnefice, e
al suo tremare sempre, alla paura della luce, al suo immaginare in
ogni tasca un coltello, in ogni bicchiere un veleno ti senti
aggricciare le carni addosso per lui.

Più, che ci si pensa sopra, e meno posso persuadermi della
utilità del bandito Congresso per lo Imperatore dei Francesi:
quanto allo interno, non ha mestieri fingere, almeno per ora; il vento
gli dura non come un dì in filo di ruota pure sempre potente a
gonfiargli la vela: rispetto di fuori, con un poco di arte gli hanno
riversato sul capo il ranno ammannito per la testa altrui; di vero, lo
amore suo per la umanità levano a cielo; chi può negare l'opera
sua a tale disegno, che porrebbe al fine ed _una volta davvero_ la
belva umana sopra le altre belve dei boschi? Fra quelli che hanno a
consentire occorrono due donne, alle quali gli uomini facilmente
concedono tesori di bontà; e almeno quanto alla regina di Spagna
sembra proprio che colgano in mezzo del bersaglio. Dunque assentono
tutti, ma innanzi di convenire insieme sembra, ed è non che
profittevole necessario sapere un po' in quanti passi di acqua si
abbia a pescare: egli definisca l'argomento pei negoziati; egli
accenni chi debba rendere, e che cosa, ed a cui; egli che concepì
il disegno deve avere pensato senz'altro al modo di mandarlo in
esecuzione; sicuramente quanto sarà per proporre non gli promettono
di punto in bianco accettare, quantunque confessino potere
addormentarglisi in grembo; un po' di esaminazioncella gliela daranno,
ma così lemme lemme tra un dito e l'altro a mo' della vergognosa di
Camposanto, insomma come usa tra gente tuffata tre volte nella pila
della buona fede. Forse il Palmerston fa un po' troppo a fidanza, e
corre il rischio che gli mettano il curatore; ma fu sempre il suo
pecco di fidarsi troppo, e ormai gl'Inglesi ci si sono avvezzati.

_Extra jocum_, il contegno dei vari stati europei alla proposta dello
Imperatore dei Francesi mi ricorda la favola del viaggio impreso di
conserva tra la volpe, e il lupo, i quali giunti, che furono in parte
dove la volpe prese odore di tagliola si tirò da un lato dicendo in
segno di onore al lupo: _passi eccellenza_! Aggiunge la favola, che il
lupo passò, e rimase preso; forse non è probabile, che passi
Napoleone; staremo a vedere.--

Che se io fossi meno persuaso l'errore essere stato la prima fascia
avvolta intorno alla vita dell'uomo quando venne al mondo penserei che
lo Imperatore dei Francesi innanzi, e meglio di noi conobbe la
gaglioffaggine del bandito Congresso, ma, che ciò nonostante lo
volle intimato, e ci persevera per tirare senza sospetto, o almanco
con pretesto plausibile in Francia non tutti, ma quei Principi co'
quali gli preme intendersi per istringere lega offensiva e difensiva;
nè questo può farsi per via di scritture, o di ambasciate; e' vi
hanno cose che la bocca di cui le dice, ha da sussurrarle nelle
orecchie di cui le deve intendere e tre sono troppi; qui o mai cade il
taglio di affermare, che bisogna comportarci con gli amici come se
domani ci avessero a diventare nemici, e ciò accadendo tanto vale
il mio sì, quanto il tuo no; non importa poi che i sovrani contro i
quali si ordisce la tela rispondano alla chiamata, anzi giova che non
vadano, bene preme e di molto accorrano quelli, che l'hanno a
tessere.--Però avvertite che se la Francia la trama, la
Inghilterra la ordisce, e dove l'una delle due manchi la tela non si
fa, o si fa male.--

Che, che di ciò sia avventuriamoci ad un'altra se guenza di
pensamenti. Adesso per certo non avanza altro eccetto l'alternativa di
riunire il Congresso o non riunirlo.--

Poniamo prima, che si riunisca nel modo, che unico può succedere,
vale a dire di Re consulenti al proprio interesse. I Principi sanno
che ricupero di diritto di popol risponde per l'appuntino la
diminuzione delle regie attribuzioni. Uomini democratici non rifinano
mai di predicare, che i popoli si rimarranno contenti alla libertà
esterna, che oggi si chiama indipendenza di nazione, e a modi
ragionevoli di libertà interna; i Principi non ci credono; però
che se quello che i democratici affermano per un periodo limitato di
tempo sembra vero, tale non è del pari nello spazio dei secoli, ed
i Principi non si contentano a fermare come Giosuè il sole per ore,
bensì presumono inchiodarlo perpetuo nel cielo della loro potenza.
Se voi rammentate loro come i Pivernati sendo rimasti vinti dai Romani
mandassero oratori a Roma per negoziare la pace, i quali richiesti in
qual modo intendessero comporsi in amistanza risposero:--da uomini
liberi.--Al che i Romani da capo:--bene sta, ma concedendovi pace vi
conserverete fedeli?--E i Pivernati di rimando:--sempre, se i patti
equi, se iniqui, finchè la necessità dura.--Concessero patti
generosi, li mantennero i posteri, e i Piveri co' Romani diventarono
una gente: se voi allegherete simili casi v'irrideranno
esclamando:--cotesti sono fatti antichi e chi lo sa se veri.--E se,
buttate in un canto le sentenze democratiche, metterete innanzi
l'esempio di Teopompo re di Sparta, il quale rimproverato dalla moglie
per avere ristretto la potestà regia rispose:--certo la scemai per
farla più durevole,--i Re osserveranno, ch'ei non se ne intendeva;
la moltitudine pari alla lupa, che dopo il pasto ha più fame di
pria, e meglio vale essere mangiato a un tratto, che cincischiato in
brandelli, tranne il caso, nel quale, concedendo, tu ci veda il verso
di rientrare più tardi su i tuoi co' cambi dei cambi.--

Dunque la Storia è li come il morto su la bara, per insegnarci che
le tratte spiccate dal popolo creditore della sua libertà sopra la
reggia gli vengono saldate in moneta di ferro, o di piombo,--e sovente
anco di canapa.--

Pertanto i Principi convocati non possono fare altro che consultarsi
ai danni d'Italia; imperciocchè se essi consentirono lo impero di
Francia e il Regno italico fra noi, e' fu perchè reputarono l'uno e
l'altro capace di soffocare la rivoluzione; anzi considera bene, prima
per virtù di questa paura i soscrittori ai trattati di Vienna
mostrarono sopracciglio meno aggrondato allo Imperatore di Francia,
poi lo imperatore insieme con gli altri col medesimo patto sostennero
il Regno d'Italia; con una differenza però, che si ragguaglia al
potere dei due stati; il primo gagliardissimo fu riconosciuto in
fatto, e in diritto, il secondo in fatto soltanto, in certo modo come
una scheggia nella mano, finchè non arrivi il cerusico co' ferri a
cavartela fuori.--

Nel Congresso, e da per tutto, la Francia attenderà all'interesse
proprio rigidamente, senza nè pietà nè pudore imperciocchè
abbia sempre costumato così; di vero le faccende di questo mondo non si
giudicano per via di fisime, bensì con la notizia dei casi, la
speculazione delle conseguenze, dei costumi, e della indole dei popoli co'
quali abbiamo a trattare; e rinnuovo qui certa mia querimonia che non
andrà del continuo perduta; la quale è, qualunque professione, o
vogli mestiere per umile, che sia desidera tirocinio; se ne assolve, e ne
assolvono colui che rizza su cattedra di politica, tra le difficili
scienze umane difficilissima; conciossiachè a molto sapere delle cose
accadute esiga accompagnata cognizione precisa delle cose, e delle persone
presenti; nè tanto bastando voglia altresì un certo divinamento
dell'avvenire. Ora, se avessero bene considerato la parte della storia di
Francia, che spetta a noi, conoscerebbero a prova com'ella sempre più
anco di nocerci ci straziasse: mettiamo in disparte la storia antica come
quella, che poco approda alle contingenze nostre: incomincisi pure da
Carlo VIII; ei si precipita giù dall'alpi a guisa di vento, che va
innanzi turbinoso, buttando all'aria stati, e popoli come polvere di su la
via; guerreggia senza fine, negozia senza fede, e dopo avere lusingato
tutti, tutti tradisce; crudele nella facile vittoria, si mostra animoso
nella fuga, e si lascia dietro a testimoni del suo passaggio soldati
ladri, modi di guerra efferati, il costume di trangugiarsi prima di venire
a battaglia l'oro rapito, ed il troppo più truce di cercarlo dai
vincitori nelle viscere palpitanti dei vivi; all'ultimo la infermità
vergognosa che quasi maledizione lanciata da lontano attinge nella
sorgente della vita i nostri più tardi nipoti.--Luigi XII Re mercante
vende libertà, e tirannide, cresce esca alle discordie, ed altre ne
suscita; negozia come le Parche filano, per tagliare mortalmente ad ora ad
ora il filato; il Regno di Napoli si spartisce con Ferdinando il Cattolico
a mo' di fanciullo che si divida una mela col compagno arrapinato; semina
la Italia di ossa italiane, ma altresì di francesi. Quale amico si
fosse costui sel seppero i Fiorentini, messi quasi olive nel torchio con
modi da disgradarne ogni matricolato usuraio per ispremere loro di sotto
pecunia; e con parole, non come adesso sanno adoperarsi pompose di amore
per il genere umano tutto quanto senza pure pretermettere un cosacco, e
non dimanco a volta a volta acerbe o benigne ora altalenava per Pisa
libera, ed ora per Firenze padrona; risucchiato poi l'osso lasciò Pisa
ai Fiorentini perchè se lo rodano. Francesco I dei peccati mortali
superò i dieci non che i sette; materia affatto agitata principalmente
dalla lussuria, dall'ira, e dalla superbia: anch'egli empiè la terra di
morti: massime la Italia contrastando senza concetto regio all'emulo Carlo
imperiale concetto per la propria immanità condannato a screpolarglisi
nelle mani, ed era la conquista del mondo, o di quanto più mondo si
potesse; poi rifinito patteggia la pace tradendo i collegati suoi. Qui si
manifesta non meno trista, ma più aperta che altrove la perfidia di
Francia, imperciocchè da un lato si aizza vano i Fiorentini, e gli
altri stati italiani a intorarsi nella guerra contro Cesare, e a chiudere
gli orecchi ad ogni proposta d'accordo, e ciò perchè i negoziatori
imperiali non salissero in baldanza nelle trattative di pace a Cambraio
facendola alla Francia pagare caro.

Confronta e vedi se le arti di allora uguali a quelle, che la Francia
volle usare poi. Baldassarre Carduccio oratore fiorentino raccomanda
al Re Francesco la sua povera Patria con queste parole: «Sire, la
Maestà vostra tante volte mi ha affermato e ripetuto le medesime
cose, che se io non veggo la osservanza di quelle, non _che io creda
più a parola di Re dubiterei si avesse a credere a Dio_.» A cui
il Re di Francia rispose: «Voi avreste mille ragioni perchè io
ve l'ho promesso, e con l'effetto lo manterrò.» E mosso dalla
medesima passione il buon Carduccio mentre faceva uffizio pari col
Gran maestro udiva dirsi: «Ambasciatore, se voi trovate mai, che
questa Maestà faccia conclusione alcuna, che voi non siate in
precipuo luogo nominati e compresi, dite, ch'io non sia uomo di onore,
anzi ch'io sia un traditore»; e mentre queste cose così solenni
dal Re, e dal suo ministro affermavansi essi avevano _bruttamente_,
come in quei tempi fu detto, e i posteri ratificarono, _traditi e
venduti i collegati_, nè Carlo V dopo avere condotto i Francesi al
passo iniquo volle lasciarsi scappare di mano la occasione di
trafiggerli; imperciocchè sollecito a procurare agli amici suoi il
benefizio della pace, mentre domanda il mandato all'oratore di Ferrara
esce fuori col detto amaro: «io vo' avere risguardo ai miei
collegati, e non fare come fece il Cristianissimo.»

Nonostante questo allora, come adesso (sebbene con meno largo strazio
della coscienza umana per difetto di Giornali) affermavasi in Francia
i collegati essere rimasti comprasi nella lega, e il Re stesso
pregava, che così si propalasse per avere agio di andarsene prima
che le querimonie incominciassero; le quali scoppiando poi
violentissime, mostrarono la indegna remunerazione alla lunga
osservanza, e ai danni patiti in pro della Francia; avere per ben
quindici anni tenuto i Fiorentini, a lei devotissimi, servi, senza
avere detto o fatto cosa che valesse per la liberazione di loro; alle
quali dolorose rampogne mutato, volto il Gran maestro rispose: «O
che volevate voi, che per piacere vostro rimanesse impedita la
liberazione dei figli dei re rimasti statichi nelle mani dello
Imperatore?» E poi che il Carducci lo rimbeccava dicendo: «Bene
sta, ma la libertà nostra, e il nostro sangue dopo le promissioni
vostre non avevano a servire di prezzo come avete fatto, avendo noi
venduto, anzi dato noi tutti in preda al nemico per loro.» Il Gran
maestro voltategli le spalle lo saldò. Donde gli Scrittori dei
tempi cavarono due considerazioni generali, una di etica, e l'altra di
politica; la prima fu che l'uomo savio non deve abbandonarsi in balia
alle promesse, alle leghe ed ai giuramenti degli uomini; e questa
parmi ripetizione della sentenza Attribuita niente meno, che allo
Spirito Santo: «maledetto l'uomo, che confida nell'uomo:» la
quale, nonostante la reverenza che professo grandissima allo Spirito
Santo, per me giudico balestrata là in un momento di stizza; la
considerazione politica generale è quest'altra, che non merita
uscire di servitù quel popolo, che si raffida riacquistare la
libertà con altro braccio, che col proprio; una terza particolare
ce la metto io dichiarando, che consultata la Storia senza passione di
odio o di amore non sai se la Francia sia riuscita più molesta alla
Italia amica, o nemica. Alla casa di Savoia portarono via i Francesi
quasi tutto l'avito retaggio; Nizza fedele asprissimamente
combatterono con le armi proprie congiunte a quelle dei Turchi. Le
Storie della monarchia piemontese dalle più antiche fino alla
recentissima del Ricotti ti mostrano le perpetue ingiurie recate a lei
dalla Francia, e il racconto degli strazi, che Carlo di Savoia ebbe a
patire da Enrico IV dettato dal cardinale Bentivoglio, empiono l'animo
dei leggitori di tristezza, e di rabbia. Della prima repubblica di
Francia tu sai; ci rubò fino ai chiodi del Vaticano, e parte
d'Italia, la Venezia, prezzo di pace necessaria, almeno così
afferma nelle sue memorie Napoleone I difendendosi del tradimento di
Campoformio; lo Impero pretese plasticarci francesi, ed altra volta io
ammonii gl'Italiani: _badate!_ porgete mente al concetto di Napoleone
I quale si svela intero nella sua corrispondenza col fratello Giuseppe
Re di Napoli pubblicata per cura dello inclito suo nipote Napoleone
III; costui persuadeva Giuseppe a trovare modo di torre la sostanza ai
baroni, per renderla poi a titolo di dote alle figliuole a patto si
maritassero con soldati francesi, i quali arebbono dovuto comporre la
nuova baronìa di Napoli, sempre che si obbligassero a fermarsi per
sei mesi dell'anno a Parigi. Appartiene a lui la parola, la quale se
avesse voluto tradurre in effetto sarebbe stata seme di guerre senza
fine, vo' dire: «il mediterraneo ha da diventare lago francese.»
La Francia di Luigi Filippo aizzava i popoli alle rivoluzioni, e poi
se li metteva dinanzi a mo' che il Buonarroti costumò sospendere le
balle di lana intorno al campanile di Samminiato a fine di ammortire
la percossa delle bombarde. Se si trattava di beduini, bandivasi la
Francia ricca abbastanza per pagare la sua gloria; se di sovvenire la
Italia, e la Polonia l'oro e il sangue francesi avere a bastare per la
Francia; e se la Polonia sdrucciolava nel sangue si annunziava il caso
dal Sebastiani nel truculento modo, che la Provvidenza gli fece
provare pari nella sua famiglia.--Del secondo impero non parlo, non
mica perchè a quello che largamente fu addotto non si possa
arrogere troppo più, ma perchè la copia partorirebbe a un punto
fastidio e sazietà.

Tale avvisando, so come altri, nella sfacciata petulanza che oggi
tiene il campo, non mancherà riprendermi come o perniciosamente
sconsigliato, o mosso da smania di screditare il governo, o di
parzialità per la Inghilterra: risponderemo ora all'ultima
rampogna, le altre confutammo in prevenzione, o ribatteremo a suo
tempo dopo: la Patria vuolsi amare, gli stranieri se in casa _di
riffa_[1] odiare con le viscere dell'anima, e qualunque essi sieno, a
casa loro rispettare, e proseguire con ogni maniera di buoni uffici,
come uomini fratelli, che procedano di conserva al miglioramento
scambievole. Gl'inglesi certo si mescolano nelle nostre faccende,
però nella guisa, che non si può loro impedire, e potendo non si
dovrebbe; le arti adoperate da loro, il consiglio, le insinuazioni, e
dove occorra anco un po' di moneta: della natura del trapano essi
ritengono molto, e le loro dita penetrano nella carne dei popoli
più che non facciano le grappe di bronzo dentro la pietra. Quando
venne Riccardo Cobden a predicarci il libero commercio, onde avere
facilità anco maggiore di levarci di sotto le materie gregge per
rimandarcele lavorate, io molto tenendo in pregio l'uomo mi astenni da
fare di berretta alla sua predica e ne esposi con breve scrittura le
ragioni, tra le quali, manifestando il concetto a quel modo che la mia
natura m'ispira, dissi che quante volte mi occorre un'Inglese con gli
occhi fitti nel nostro sole ho paura che egli almanacchi se ci sia
verso di portarselo a Londra per rimandarlo a venderlo in Italia
ridotto in _candele sopraffini_. Questo ed altro può dirsi
dell'uomo inglese intento al proprio interesse; forse lo trascurarono
gli altri?--Non ci è che i Francesi i quali si spencolino fuori
della finestra per una _idea!_ Gl'Inglesi hanno senno pratico, e stima
dell'uomo: ordinariamente conoscono dove devono andare, come i
Francesi ordinariamente non lo sanno, comecchè fine di entrambi sia
l'interesse. Lo Inglese negoziando teco, fa il tuo conto, che del
guadagno ne vuole a mano salva tre quarti, ma una volta rimasti
d'accordo va franco, ch'egli curerà l'interesse tuo al pari del
proprio; perchè non intende usare teco come i contadini a lascia
podere, e confida cavarti di sotto qualche altro vantaggio: il
Francese vuole tutto per sè, ti agguanta quanto può; se qualche
cosa ti lascia e' sono gli occhi per piangere, ma poi il rubato
volentieri sprofonda teco per farti ridere; lo Inglese quando ti
spoglia non confessa ai quattro venti che ti ha spogliato, ma nè
manco si vanta averti vestito; mentre se dai retta al Francese sai tu
chi è il ladro? Quegli che si è lasciato rubare; così vero
questo, che uno dei loro filosofonisti ha spiattellato chiaro, che la
proprietà è un furto; epperò i ladri devono venerarsi sopra
gli altari come operai; a fare rivivere la pristina comunione delle
cose; l'Inglese non pone nel traffico tenerezza in nulla eccettochè
sul netto ricavato; salda affare per affare; la gratitudine che cerca
sta nel profitto, ed altra non ne cura: al Francese non basta, esige
la lode, desidera tu lo saluti generoso e magnanimo se portandoti via
un quadro di Raffaello te ne lascia una copia fatta di sua mano; quasi
quasi pretende una statua se dopo averti mangiato le ostriche te ne
depone in mano con religiosa gravità i gusci vuoti!

  [1] Voce popolare, e significa a tuo marcio dispetto, di prepotenza ec.

Ha scritto Martino Lutero in qualche parte come considerando la
ragione umana gli facesse lo effetto di un'uomo briaco a cavallo; non
so in qual maniera ci possa incastrare, ma quante volte penso alla
pretensione della Francia; di essere salutata cervello del mondo
cotesto ricordo mi ronza per la mente zufolando a mo' della zanzara.
Dello interesse i Francesi hanno lo istinto, non il discorso, non per
virtù di concetto bensì di nervi spiegano e ritirano gli ugnoli:
per l'interesse ustolano, ma quale veramente sia, la vera strada di
conseguirlo non sanno, e ciò perchè un pensiero torna loro
molesto quanto una mosca sul naso; pensa se due! Piuttosto poi di
tenere tre pensieri fitti nel capo li baratterebbero con la corona di
spine di Gesù. Chiunque in mezzo a loro si ricorderà, che il
quattro viene dopo il tre, e dopo il quattro il cinque, e chiunque non
rifinirà gridare a squarciagola strozzandoli, come il carnefice del
principe Carlo figliuolo di Filippo: «la stia zitto, signore, che
quello che io fo, lo fo proprio per suo bene» arriverà a
dominarli sempre, Infatti dopo che lo imperatore Napoleone pubblicò
_urbi et orbi_, che impero significava pace, la Francia non sostenne
mai guerre sì varie, nè più difficili a vincersi, nè meno
facili a prevedersene la fine. A Caterina dei Medici, al cardinale
Mazzarino, e a Napoleone Bonaparte, che mai possono opporre i
Francesi? Il solo Richelieu, e questo perchè egli e gli altri
ponevano il proprio concetto sul capezzale la sera quando si
addormentavano per ripigliarlo appena desti la mattina. Per gli uomini
francesi torna mostruoso tenere un pensiero in testa più di un'ora
quanto alla femmina francese condursi due volte al festino col
medesimo abbigliamento; che se contrastando tu osservi da Caterina,
dal Mazzarino, e da Napoleone creature per eccellenza uniche non
può cavarsene regola generale io ti allegherò la turba dei
còrsi Saliceti, Pozzo di Borgo, Sebastiani, Abbatucci, ed altri
moltissimi per ingegno certo non superiori ai Francesi, ma che pure
costanti nei propositi, e fermi nei concetti arrivarono a dominarli, e
li dominano.--

Se la fortuna maligna ci fece il cervello senza gambe, o perchè non
ci approfittiamo del giudizio dei nostri vecchi? Ora senza tante
storie tenetevi come un breviario nelle mani da recitare quattro volte
il giorno quanto lasciò scritto di loro Niccolo Macchiavello, o
piuttosto imparatelo a mente, che la è cosa corta, ed insegnatelo
invece della Santa Croce ai vostri figliuoli:

«Stimano tanto l'utile e il danno presente che poco rammentano le
ingiurie e i benefizi passati, e poco cura si pigliano del bene, e del
male futuri.»

«Taccagni piuttostochè prudenti; poco loro cale di quanto su
loro si parli o scriva: cupidi più del danaro, che del sangue;
generosi solo nelle udienze.»

«Chi vuole condurre a bene una cosa nella Corte di Francia gli
bisognano danari assai, diligenza grande, e buona fortuna.»

«Richiesti di un benefizio pensano prima che utile ne possono
cavare per loro, che se devano servirti.»

«Quando non ti possano far bene te lo promettono; quando te ne
possano fare, lo fanno con difficoltà o non mai.»

«Umilissimi nella cattiva fortuna, nella buona insolenti.»

«Ordiscono male col senno, ma tessono bene con la forza.»

«Chi vince accorda sempre con loro, chi perde mai, epperò prima
di cominciare una impresa bada se ti possa riuscire, e se la ti può
riuscire non ti trattenga il pensiero d'impermalirli. Con tutti,
massime con loro il traditore è il vinto.»

«Vari sono e leggeri; _nemici del parlare romano e della fama
nostra_.»

E non è tutto; pure può bastare; che se taluno screditasse
l'autorità del Macchiavello come uomo appassionato o maligno tu
credi, che il Macchiavello poteva sentire forse il caldo e il freddo,
l'amore, e l'odio in cose di stato no; così vero questo, che gli
scrittori francesi o vogli antichi o vogli moderni più gravi accuse
articolarono a proprio danno, e le puoi leggere nella storia di
Francia del Michelet. Tito Livio attesta i Galli avere in costume
rompere la fede per vezzo; nulla contavano le promesse: vanto loro
_gabbare_; e' sembra che i nipoti non abbiano tralignato.--

Voi vedete quanto grande il debito dei Francesi nel conto che loro
aperse la Italia, e delle poste antiche di Carlomagno si tace per
compensarle con le antichissime, nostre di Giulio Cesare. Veruno di
voi ignora la copia del sangue generoso che ci costò il primo
impero: e che importavano a noi le guerre ispaniche, e che le boreali?
Con le nostre mani dovemmo fabbricare le nostre catene, però la
vittoria, la quale agli altri è madre gioconda di libertà, a noi
ribadiva il servaggio. La Francia crescente noi empiva di lutto,
tramontante c'involse nella sua ruina; dopochè la Italia venne
tratta nell'orbe della Francia mai più fu visto così infelice
satellite. Quando Napoleone si struggeva all'Elba quasi ferro morso
dalla lima, noi altri Italiani commiserando alla grandezza sventurata
dell'uomo gli dicemmo: «vieni tra noi, qui troverai meglio
dell'aquila rapace; cuori che palpitano anco dentro i sepolcri; menti
che la fortuna impietra nella fede; che se per tua sventura e nostra
ti talenta un'aquila per la caccia dei popoli, eccoti la romana;
meglio di cotesta tua francese conosce le vie della vittoria.» Ed
egli sdegnò; insetto imperiale antepose bruciare alla candela di
Francia, che rinnovarsi il sangue co' raggi del sole italiano. La
stirpe napoleonide ci doveva un compenso, e i laudatori codardi della
potenza felice baccando come Menadi briache lui inneggiavano padre, e
redentore, per poco non supplicavano Dio a cedergli il trono, per
metterci lui, allorchè venne a combattere l'Austria in Italia:
quali i suoi concetti nel moversi come nel fermarsi dicemmo; e se sia
vero il fatto lo dimostra, imperciocchè se veramente, come le
parole sonavano, volle la Italia unita per qual consiglio mentre si
vantava aiuto in Lombardia diventa ostacolo a Napoli e in Roma?
Tuttavolta ebbe Nizza, e Savoia; la chiave d'Italia, e le tombe dei
padri dei monarchi d'Italia; materia ed anima, religione e interessi,
vivi e morti crudelmente offesi;--e scredenza confessata da noi della
unità italiana, e ragione stabilita a impedirla in futuro; posti i
fondamenti della _guercia unità di un Piemonte ingrassato_[1]. E
come se tanto non bastasse, ecco i nostri rettori, e chi consente con
essi crescere di furore: la libertà, e la indipendenza sembra, che
addosso a loro esercitino la virtù di due camice di Nesso; muove a
sdegno la viltà di Esaù venditore della sua primogenitura per un
piatto di lenticchie, ma quali e quante passioni agiti dentro noi la
vista di questi Coribanti insaniti di servitù noi non possiamo
significare. Mi pare avere intronate le orecchie dall'orribile
profferta dei figliuoli del conte Ugolino:

   _«. . . . . . Tu le vestisti
    «Queste misere membra e tu le spoglia.»_

  [1]  Espressioni di G. Ferrari nel primo discorso contro il Trattato
    di Commercio!

Guai! anco a cui tra loro non doma perfino una aurora boreale
d'intelletto italiano! Guai! anco a cui tra loro mostra che il sangue
gli batte il cuore meno gelido, meno monotono della goccia che casca
giù dalla volta della grotta, che in procinto di essere messo al
bando della Chiesa moderata per ottenere perdono bisogna, che si
presenti con la corda al collo, co' piedi, col capo, coll'anima nella
neve.--Signore, liberaci da questi lupercali di vergogna e d'infamia!

Pertanto fu ragione, se l'amico nostro non si reputava soddisfatto, e
chiese così la Sardegna per finocchio dopo il pasto; ma essendosi
gli arruffapopoli inalberati sul serio, i castrapopoli non gliene
poterono fare dono. La Sardegna avrebbe somministrato stabile
fondamento di preponderanza alla Francia nel mediterraneo, e poichè
per questo lato non le riuscì spuntarla, ecco che torna per via
obliqua all'assalto, e mediante il trattato di navigazione a se
accerta facoltà di crescere, noi assicura a perpetua rachitide. La
trista setta, che ha tolto per compito di nabissare la Italia opponeva
lo stato della navigazione nostra floridissimo nonostante la
concorrenza francese, e male argomentava, però che lo appunto si
miri a fare in modo che cotesto stato non già floridissimo, ma
comportabile cessi; nè da per tutta la Italia accadde ad una
maniera, bensì nella Liguria dove la inopia di terra spinge alle
industrie marittime. Fu domandato s'instituisse una inchiesta di gente
perita affinchè in faccenda dove ne va posta sì grossa si
procedesse con piena conoscenza di causa, e secondo il solito
dispettosamente la respinsero, e sì che dovevano conoscere a prova
quanto male avesse approdato al paese cotesto loro arrogante
perfidiare.--Come riuscì profittevole l'aumento del 10 per cento
per le ferrovie? Nè valsero a dissuaderli le persuasioni di uomini
espertissimi, ed a loro devoti; come neppure la sconcia contradizione
in che cascavano, avendo nella stessa sessione proposta la legge pel
menomato porto delle lettere: qui si contava sopra, maggiore ripresa
sul rinvilio, là speravasi il medesimo resultamento dal caro:
peggio di tutte la legge sul bollo, e sul registro: fioccavano i
moniti; sbracciavansi a dare ad intendere come certe tasse, che sta in
potere tuo diminuire se crescano soverchiamente, trovi modo a ridurle
senza tuo pregiudizio: valga per esempio questo: dove tu renda grave
il diritto di registro sopra il trapasso di proprietà avendo a
comperare un podere del valore di tremila scudi, tu d'accordo col
venditore porrai sul pubblico strumento tanto prezzo quanto basti a
coprirti dall'accusa della lesione, e basteranno i mille e cinquecento
scudi, gli altri millecinquecento tu passerai a mano al venditore
mercè ricevuta privata; donde avviene, che se prima il registro
costava tre per cento, veruno pensando a frodarlo, tu riscotevi sul
contratto la gabella di novanta scudi, mentre adesso, che l'hai
cresciuto a cinque per cento tu non ne cavi più di settantacinque;
vero è però che il legislatore mascagno ha previsto il tiro, e
dove il Percettore trovi alterato il prezzo a danno del fisco cresce a
suo modo e manda la gente al tribunale; di qui odio contro il
Percettore, querele nei tribunali, liti che si possono vincere come
perdere, aperta a due imposte la porta agli arbitrii, e quello,
ch'è peggio, se a qualche misero toccò la sventura di avere ad
alienare il suo a prezzo vile per soprassoma dovrà pagare la tassa
come se glielo avessero pagato il giusto: orribile legge! di fatti
cagione d'inestimabili querimonie! ella, come si presagiva, non
approdò allo erario secondo le ingorde voglie; e chi la fece, dopo
aver promesso riformarla, adesso si vanta aver fitto cotesto cavicchio
nella Italia.--Ma che ci sta a fare il cervello dentro cotesti
benedetti crani? Se ce lo avessero messi come un cencio sudicio nella
conca del bucato a questa ora avrebbe ad essere lavato e asciutto al
sole. Niente valse; che cavillando in ischiuma di parole inani, ecco a
colpi di sofisma la setta ha conficcato il secondo chiodo alla Italia;
il primo fu il trattato di Nizza, e di Savoia, il secondo è il
trattato di navigazione; aspettate il terzo, e sarà messa in croce
la Italia; ah! se mi si domandasse se più debbansi aborrire o
tedeschi o moderati in coscienza penserei dovere rispondere, che
voglionsi odiare con odio pari ambedue, benchè maggiore cagione la
porgano i moderati: di vero quelli nemici sono, e si arrabattano a
mantenersi serva una terra conquistata, mentre questi poichè la
bindolarono a cui l'aveva col proprio sangue redenta anfanano adesso a
riporla in servitù. Giusto giudicio cada sopra il vostro sangue,
talchè i vostri successori ne abbiano spavento[1].

  [1]   «Giusto giudicio dalle stelle caggia
        Sopra il tuo sangue, e fie nuovo et aperto
        Talchè il tuo successor temenza ne aggia.»
                                        _Dante_

Sovvenuti da cotanto amico si dice, che noi aderimmo al Congresso:
quanto a me non ci credo; dacchè è chiaro come noi non possiamo,
che scapitarci. I Sovrani, che ci riconobbero diranno: voi ci deste ad
intendere, che il metallo popolano urlava infocato nella fornace, le
volte ne tremavano, screpolavansi le pareti; se si commetteva a voi
aprirgli la via voi lo avreste condotto a fondere una _corona_;
all'opposto se stiantava da se irrompeva a gettare un _berretto_; in
queste angustie io vi ho concesso fondere una corona: ora poi vediamo
a prova, che la faccenda cammina altramente; dura la guerra ma no per
la libertà, bensì per mantenere fermo un trono stabilito da Dio,
e col consentimento nostro raffermato: così essendo ci piace la
corona del Borbone come quella, che conosciamo fabbricata di metallo
ugualissimo al nostro, e poi ci garbano meglio due corone che una,
perchè quanti meno siamo a comandare tanto meglio ci torna, ed una
contrapponendo all'altra rendiamo inani ambedue: la regia potestà
l'è una tal cetra dove come più ci hanno corde peggiore suono
manda. Poco preme a noi del Papa capo dei cattolici, moltissimo come
capo di quella potestà spirituale, che interzandosi con la nostra
ne fa una corda da reggere tutto il genere umano; non intendiamo, che
la Italia si componga intera, anzi ripigli ognuno le sue spoglie, e
torni a casa. Non ci opponete i voti dei popoli: con noi siffatti
garbugli non giovano a scarrucolarci: ad ogni modo frego e da capo:
fuori tutti da Napoli, fuori dalla Toscana, e dalla Emilia, e liberi
allora da timore, e da lusinghe i popoli palesino la propria
volontà.--

In tali strette a qual santo vi voterete voi altri? Al vostro amico di
Francia? Dov'egli non abbia composto i fatti suoi, fingerà di
sostenervi per avvantaggiarsi; se gli avrà assettati vi
rinnegherà anco fuori del pretorio, e senza, che lo abbia ravvisato
la serva[1]. Certo per voi non si rimarrà su la corda; considerate
il tiro, che fece agl'Inglesi nella guerra di Crimea, e credete
ch'egli voglia pigliarsi soggezione di voi? O non capite, ch'egli
tenne ad arte fin qui spezzata la Italia come il mercante va al
mercato con la moneta spicciola in tasca per aggiustare il prezzo
della derrata?

  [1]  S. Matteo c. 16 v. 64.

Oggimai però torna vano spendere parole intorno a questo argomento,
che il Congresso, mancata la Inghilterra, non si può fare; la
vescica di Francia cadde sgonfiata al penetrare della punta di un ago
inglese. Fin qui la fortuna arrise al Napoleonide, e mentre dura il
vento prospero ogni uomo par pilota; adesso, che si mette alla
burrasca gli spropositi fioccano, e veramente è tale questo della
proposta del Congresso, dacchè avendo il fino che già accennai,
bisognava scandagliare prima il terreno per non cascare dentro la
fitta: ora poi fu mandato sossopra per ragioni così agevolmente
pratiche, così ovviamente persuasive, che bene si acquista fama di
leggerino chi prima lo promosse: donde noi giudichiamo o che non ebbe
mai senno, o lo ha perduto chi si avventura a mettere in repentaglio
la reputazione di prudente per cosa dove il civanzo è incerto, la
perdita sicura; e comecchè ai Francesi non manchino spiriti
vivacissimi, che anzi li possiedono in copia, vie più mi confermo
nella opinione, che di Stato essi non intendano niente; e se questo
ebbe animo di dire il Macchiavello in faccia al cardinale di Amboise
ministro di Luigi XII non farà caso, che lo dica io qui dove veruno
Francese ci sente.--

Smorzato il Congresso sottentra un'altra sequela di considerazioni
piene di ambagi; e tu odi dintorno un domandare affannoso: «avremo
la guerra?»

Gli oracoli tacquero, affermano gli scrittori cristiani, dopo la
venuta di Gesù Cristo, i Profeti non costumano più, o li
bruciano come il Savonarola, o li buttano nel Tevere come Brandano;
degli Astrologhi non rimangono neppure le ceneri: a speculare il
futuro non ci avanza altro telescopio, che l'intelletto il quale
quando non ha le lenti rotte quasi sempre se le trova appannate. A
Torino ci hanno vecchi repubblicani con un paio di occhiali di
dodicimila franchi all'anno sul naso adesso vedono tutto monarchico,
ed anco assoluto.

Noi pertanto con lo intelletto nostro ragioniamo così. Lo
Imperatore di Francia guerra sembra non ne abbia a volere; suo fine
prima di giungere al regno fu arrivarci, arrivato mantenercisi;
magari! se starebbe quieto ad esclamare: _Deus nobis hæc otia
fecit_; ma nè Dio si pigliò cura di lui, nè gli largiva ozi;
i giorni suoi afferrò Nemesi dagli occhi senza palpebre, la Dea
implacata, che veglia sempre, la quale gli contende posarsi; dov'egli
si fermi le sue gambe, come quelle di Filemone, e di Bauci,
barbificheranno nella terra, e ne sorgerà rigoglioso e potente
l'albero della Libertà. Lo impero perchè duri bisogna, che
procacci al popolo di Francia la recuperazione di quanto la Repubblica
consegnò al primo Napoleone, e adempia alle necessità della
Democrazia.

Ma dov'è questa Democrazia, e chi la rappresenta? Tutti e nessuno;
per ora assai rassomiglia alla morte, la quale mentre non ha forma
disforma tutte le cose, e come la morte è capo di vita novella:
difficilmente accade e forse mai che l'uomo acconsenta in tutto e per
tutto ad un'altro uomo; quindi screzi in casa, nel foro, e da ogni
dove, anco tra quelli che si professano cultori di uno stesso partito;
ma dai milioni dei singoli emanano a mo' di molecole spiriti di sensi
uguali sottilissimi, e tenui, i quali aggregandosi moltiplicano;
cresciuti a potenza mirabile compongono quella grande cosa, ch'è la
coscienza pubblica, donna e madonna del mondo. Questa s'insinua
nell'aria, la bevi nell'acqua, l'odi in tutti i suoni, ti squilla in
ogni canto; se la cacci in prigione ti guasta il carceriere, se la
mandi al patibolo si mette a predicare su la traversa della forca, se
cammini ti sta allato come ombra, se giaci ti zuffola di sotto al
guanciale, se dormi ti si pone a sedere sul cuore come sopra un
cuscino. Ferro, fuoco, laccio, e veleno non valgono contro lei; gli
hanno provati, e conobbero, che se ne alimenta per crescere.--Gli
astutissimi sfidati poterla vincere hanno cercato agguindolarla e
pare, che riescano; ma ella è una proroga, che talora si concede da
lei per ferire meglio,... la sosta nella cappella del condannato
condotto alla giustizia.

E che vuole mai la Democrazia? Con quale sacrifizio si placa questa
terribile divinità?--La Democrazia si compone di anima e di corpo,
quindi abbisogna del pane quotidiano di biada, e d'idee; l'uno senza
l'altro non approda; con le idee sole tu plastichi un solitario, col
solo pane un gladiatore. Napoleone III attese a seppellire l'anima
dentro ad un pane; ed ha sbagliato per molte ragioni, e primamente
perchè le anime non si seppelliscono dentro ai pani, come non si
affogano dentro l'acqua benedetta; e poi perchè veruno al mondo per
quanto potentissimo egli sia può sostituirsi in luogo della
Provvidenza, ed il concetto di bastare al pane di trenta e più
milioni di uomini si reputa infermità da curarsi con l'elleboro;
anco a un milione non lo potrai dare, che scarso, e per tempo non
lungo.--Di vero la Francia con quasi due miliardi di entrata dopo lo
impero patisce un manco nel bilancio di 336 milioni a ragguaglio di
un'anno per l'altro; ed ora di un tratto ci palesa per soprassello un
vuoto di 900 e più milioni. La Democrazia va agitata da istinti
immani, che brancolano come una volta l'Erebo, e la Notte dentro il
Caos prima che l'onnipotente Architetto ordinasse il mondo; dentro le
odierne forme sociali la Democrazia si sente scoppiare, tutto è
dolore per lei, la vita come la morte; così non va bene, bisogna
che muti; ma come mutare? Qui il nodo.--I sapienti almanaccano con
certi sperimenti loro, che chiamano scienza, e i derivati suoi
predicano assiomi, ma poi alla prova nè manco essi ci credono;
arroganza antica di empirici: frai sapienti davvero Socrate ti afferma
nella sua vita avere saputo non sapere nulla, Pirrone dubitava di
tutto, santo Agostino di molto, san Tommaso di Aquino distingueva: i
nostri divini intelletti all'opposto non distinguono mai, di nulla
dubitano, tutto sanno. La Democrazia molto si arrovellò un giorno
per le forme politiche degli Stati suspicando che per colpa, o per
virtù loro ei prosperassero o intristissero; adesso ricreduta alle
forme politiche non bada, o poco ella più che tutto pensa a mutare
l'alveo al fiume della umanità. Che giova nascondere la faccia
delle cose? Nè per ambagi, nè per dinego può farsi che le
cose non appariscano e non sieno. La Democrazia se dal dispotismo
ricavò sempre male, non sempre ebbe bene dalla Repubblica; che
monta regno, e che monta repubblica? Agide e Cleomene Re sentirono
pietà pel popolo, come si commossero per lui Tiberio, e Caio Gracco
tribuni, tribuni e Re rimasero dai conservatori, o aristocratici,
ottimati, moderati, o con quale altro più reo nome voi li vogliate
chiamare, insomma i privilegiati che intendono circondare il
privilegio col terrore delle leggi, e la mannaia del carnefice.
Parecchi ed io con loro confidarono potesse cosiffatta trasformazione
operarsi a mano a mano, e all'avvenante che si abbatteva il vecchio
costruirsi il nuovo: i conservatori, o moderati che vogliamo dire (e
si faceva per loro!) non compresero, o rifiutando comprendere
proruppero in calunnie; e forse quanto divisammo non poteva accadere:
in questo come nella più parte dei nostri disegni abbiamo
conosciuto la verità della parola del divino maestro, che _toppa
nuova su panno vecchio non regge_; grandissima parte di noi in premio
dei travagli sofferti avrà fama nei posteri di trave in mezzo alla
via, ostacolo al progresso della umanità; felice colui di cui le
forze a spingere rinvenute uguali a quelle del respingere passerà
senza infamia e senza lode: fie per noi desiderabile essere stimati
_uomini inutili_.--Il moto, che agita i popoli rigettato indietro,
poichè la scienza non gli trovò lo sbocco, glielo faranno
trovare l'ira, e la necessità. Che aspetto presenteranno gli umani
consorzi dopo gli eventi presagiti? Chi può dire che sarà della
terra dopochè l'avranno solcata le lave dei vulcani?--_Quello, che
deve accadere accadrà_; questa iscrizione si leggeva sopra il
castello di Enrico IV nel Bearnese; sia permesso a me popolano
usurpare la iscrizione del Re.

La Democrazia pertanto, secondo la opinione mia, sforzerà alla
guerra il Napoleonide, ma non lo sovverrà, e nè egli vorrà
essere sovvenuto: oggi costui si trova ridotto a tale, che non può
stare con lei, nè senza di lei: preso pei capelli dalla Democrazia
egli si ostinerà ad ordinare la guerra regia; e la Democrazia sola
è capace di soffiare il vento, che spinge la tua bandiera in faccia
al nemico; cotesto vessillo poi di qua o di là, che sventoli tu
avrai sconfitta o vittoria; però che solo dalla Democrazia puoi
ottenere i volontari, che fuggendo prima a Gemmappe portarono poi le
aquile imperiali per tutta la terra ferma di Europa.--Con chi vorrà
o potrà collegarsi il Napoleonide? E' vi ha chi dice con la Italia,
e con la Russia, e sembra strano che la guerra mossa dagli strazi
della Polonia andasse a finire con la lega della Russia; ma i tempi e
l'uomo ci hanno avvezzi a bene altri contrasti, e te ne persuaderai
solo, che tu confronti la impresa d'Italia con quella del Messico.
Comecchè dunque siffatta lega non s'impugni, pure ne esecriamo il
presagio nè la crediamo per nulla; avvertiamo ad altro. Lega con
l'Austria non sembra possibile, imperciocchè la blandizie insidiosa
del Messico rifiutata[1], palesa il suo animo alieno dalla Francia
del pari che il Congresso non accolto dalla Inghilterra lo dimostra
avverso; e veramente riesce duro a credersi, che l'Austria voglia
scendere in campo per affrancare la Polonia di cui parte ella abbranca
dentro ai suoi artigli; nè a lei talentano davvero le guerre, che
mirano al riscatto dei popoli dalla servitù; lo stesso dicasi della
Prussia su la quale molto ascendente esercita la Inghilterra; nè
vediamo quale sarebbe il compenso della impresa zarosa: forse la
promessa all'una ovvero all'altra potenza della Polonia riscossa di
mano alla Russia; ma chi compra pelle di Orso prima, che sia preso? E
poi qui occorre conquista doppia: prima vincere la Russia, poi la
Polonia. O vorrà il Napoleonide mettersi allo sbaraglio con solo la
Italia, e forse con la Turchia? Quando Napoleone I si avventò
contro la Russia, eccetto la Inghilterra, traeva seco alleata tutta la
Germania, che allo improvviso gli si voltò nemica; sarebbe prudente
che ci si avventurasse Napoleone III con la Germania avversa? Se lo
facesse, la Italia dovrebbe, o potrebbe seguitarlo?

  [1]  Finalmente Massimiliano accettò, ma l'Austria ingratamente
    il sofferse, sicchè il concetto non muta in nulla.

La Italia non può seguitarlo; imperciocchè la Italia e la
Francia portino le pene, quella di non avere preso, questa di averle
contrastato Roma. Roma tolta in tempo di mezzo importava per noi stato
se non perfettamente, almeno quanto basta ordinato: guerra civile
repressa; massima parte di malcontento senza ragione di sorgere, e di
durare; erario non florido, ma nè anco agli ultimi tratti; esercito
intero, e non guasto da battaglie come vuote di gloria così piene
di molto pericolo, e di ferocia, Roma per noi importa la
trasformazione di ventidue milioni di stracci ammucchiati, dentro la
bottega del rigattiere, in un popolo nobilissimo e potentissimo di
ventidue, e più milioni di anime.

La Inghilterra abbisogna in terra ferma di uno stato forte sopra il
quale appoggiarsi, non già per offendere, che non le giova,
bensì per difendersi, cosa a cui molto ella bada; e fin qui ella si
tenne l'Austria, nè le doleva (fosse genio o costume di antica
domestichezza), nel quale concetto mi conferma il ricordo delle parole
del Russell quando confortava gl'Italiani a riporre ogni loro fidanza
nell'Austria _ridivenuta mite_: ma poichè la Inghilterra conobbe
l'Austria dannata ad insanabile decadenza, ella, per quanto ci è
dato giudicare, non era aliena, anzi si prestava volonterosa alla
composizione del regno italiano, come quello che interponendosi tra la
Francia, e la Inghilterra le avrebbe mantenute in pace. Ora finchè
la Italia rimanga satellite della Francia la Inghilterra, sembra a
noi, che sia condotta ad appoggiarsi su la Prussia, ovvero sopra
l'Austria, o sopra ambedue. Se sia provvidenziale o funesto non
sapremmo dire, ma certo egli è che tra Francia e Inghilterra vive
uno spirito, che le sospinge perpetuo una contro l'altra, e dove la
Italia per virtù propria, e per benefizio di fortuna potesse essere
assunta alla dignità di araldo fra loro oltre ad acquistare per
sè novella gloria, e più desiderabile delle passate assai, forse
aprirebbe il varco ad ordine di cose, che fin qui è stato desiderio
di anime innocenti o fantasia di poeti. La Italia poi più che altri
ci apparisce capace a tanto ufficio, imperciocchè da lei _ab
antiquo_ emani aura di civiltà, ed è usa dare alle genti
religione, riti, e nozioni di diritti, le quali cose tanto più
volentieri si pigliano da lei quanto ella sa meglio vestire il buono
con le amabili forme del bello[1]. Veramente l'appetito cieco, massime
da principio, poteva ribellarsi da siffatto arbitrato, ed allora la
Italia accostandosi colà dove la inchinava la giustizia, avrebbe
eziandio con la minaccia della guerra prevenuto la guerra.--

  [1]  Qui ricordo come certa volta Cammillo Cavour, senza che il
    bisogno ce lo stringesse, scappò fuori in Parlamento con le
    parole:--egli non amare, nè intendere le belle arti.--Ond'io,
    che lo udii giudicai, che nè egli mai avrebbe compreso la
    Italia, nè mai l'avrebbe degnamente rappresentata: noi come i
    Greci non significhiamo con una parola sola _bello e buono_;
    però reputiamo che buono non possa essere chi ad un punto non
    sia bello. Chi si avvisa come il morto conte Cavour corre rischio
    di scambiare le tre Grazie con le tre Furie.

La Italia sembra a me ridotta a tale, che per sè nulla possa, e se
mai segue la fortuna di Francia lo farà come il grano messo sotto
la mola; vi rimarrà macinata; il perdere di lei è rovina, il
vincere servitù: tuttavia messo da parte la volontà, ma donde
cava ella la potenza per sostenere una politica propria, ed anco per
comparire utile aiutatrice della politica altrui?--La Italia manca di
armi sufficienti alla impresa: la setta empia, che fa cadavere tutto
quello, che tocca, adulando sostiene possederne anco troppe: e
mentisce: ma che monta per lei? Se la Patria avesse a dare il
tracollo, le sue gambe sono già use ad inginocchiarsi davanti al
nemico invasore; use le mani a picchiarsi il petto; e la bocca usa a
recitare il _confiteor_ d'infamia. Mentisce, imperciocchè
l'esercito non sommi bene a trecentomila uomini[1]; cento e più
mila ne sciupano tra la Sicilia, e Napoli; diffalcate gl'infermi, i
presidii, gli addetti alle amministrazioni; avvertite, che tutti ad un
tratto non si possono arrisicare; quelli, che rimangono sopra una
carta, e ditemi poi quanti entreranno sul campo? Che se vi attentaste
scemare i soldati nelle provincie meridionali, e forse anco altrove
con Roma arrotatrice di masnadieri, il Borbone arrovellato per la
mandra rapita, le trame dei sacerdoti iniqui, le ire degli spodestati,
gl'interessi inciprigniti, l'agonia di ricattarsi, e ahimè! la
inerzia altresì, o il corruccio degli uomini liberali, per me
dubito, che correremmo presentissimo pericolo che avvenisse a noi come
ad Uguccione della Faggiuola, il quale mentre esce di Lucca per
ricuperare Pisa arrivato a mezzo cammino perde anco Lucca. Su i
soldati volontari non parmi ci si possa fare capitale, e ciò per
due ragioni; la prima, che il Governo non consentirebbe chiamarli, la
seconda, ch'essi non ci vorrebbero andare. Quanto al Governo una
volta, che con pertinacia stupenda, e spesa enorme li licenziò non
sembra, che senza biasimo potrebbe radunarli da capo, e poi non ci ha
di questi pericoli considerando la perseveranza del ministro della
guerra a sbrattare l'esercito di ogni labe garibaldesca; per ciò
che spetta ai volontari, sicuro occorrono uomini della natura dello
insetto, che non sembra pago dove prima non si sia arso intorno al
lume, ma non crederei che queste voglie si partecipassero dai
garibaldini.

  [1]  Il Ministro della guerra ha affermato averne di più; lo ho
    affermato:...

E quanto ai volontari in brevi accenti mi giovi ripetere quello, che
apertamente già ne dissi altrove, avendo avuto a sperimentarli io.
Importa distinguere tra volontari che non pigliano la ferma dagli
altri che la pigliano; e poi tra quelli che si assoggettano a regolare
disciplina, e gli altri che ci repugnano; per ultimo fra quelli che si
danno e gli altri che ricevono gli ufficiali. Chi non piglia ferma, e
procede senza legge, e si sceglie il capo non mica per obbedirlo
bensì per istrascinarselo dietro tra i cattivi è pessimo.
Ricordai altrove come Gasparo di Coligny grande ammiraglio di Francia,
costretto ad accettare nelle guerre di religione chi veniva veniva
ebbe più volte a dire, che aria tolto a reggere piuttosto una
legione di diavoli, che una compagnia di volontari; ed avverti, che i
volontari del Coligny spettavano la più parte alla nobiltà
campagnuola, mentre i più dei volontari odierni uscivano dalla
popolazione delle città. La elezione dei capitani messa in balìa
dei soldati se dannosa sempre io per me non saprei, ma nuoce certo
negli esordii, però che allora prevalgano gl'imbroglioni, mentre
dopo combattute parecchie battaglie potrebbe darsi, che la virtù
prevalesse. Faceva mestieri pur troppo a non pochi fra i volontari la
provvista quotidiana come di pane, e di carne così di cappotti, e
di scarpe; le armi se invendute nabbissate; nè questo è tutto:
forse in verun corpo come tra i volontari si trovano estremi,
imperciocchè vi accorrano giovani i quali per ordinario possiedono
facoltà di scansare la leva, ed uomini che dell'anima loro non
sanno proprio, che farsi; nè mancano eziandio coloro che tu non
patiresti al tuo fianco, eccetto sul campo di battaglia. E bada bene,
che non sarebbe giusto, nè arguto respingerli, dacchè essendo
mossi da animo buono possono rigenerarsi nel battesimo del sangue, e
se da cattivo ci è il caso, che per via onorata scemino alla Patria
gli umori malsani che la travagliano. Per la quale cosa riesce
difficile maneggiarli prima, e dopo la guerra, imperciocchè
adoperando rigidezza sovente meritata dai secondi, offendi i primi,
mentre se ti comporti benigno rendendo a questi i degni premi,
promuovi con pericolo, e non senza scapito della tua reputazione gli
altri. Nè qui le difficoltà cessano; anzi appena furono tocche
da me; tuttavia pon mente a questo, che se l'arte di governare i
popoli, in ispecie nei tempi grossi, fosse pari a quella d'impagliare
i fiaschi gli uomini di stato si troverieno ad ogni svolta di canto; e
strano medico ti parrebbe colui, che sgomento o imperito a guarire i
mali desse allo infermo di una stanga sul capo per medicina.--E poi le
milizie regolari sono proprio scelte con la diligenza di chi mette
assieme il vezzo di perle alla sposa? importa non buttare legna sul
fuoco, ma davvero, tra lo agitare la camicia insanguinata dinanzi agli
occhi del popolo infellonito, e scolpare ogni eccesso ci fie lecito
domandare qual sia più tristo, e più nocivo alla Patria? Io per
me, quando penso alla rigidità con la quale i Romani punivano ogni
più lieve fallo in fatto di disciplina, non arrivo a capire la
ragione per cui i Governanti nostri nieghino, o scusino colpe, che per
debito sacrosanto avrebbono a ricercare, e a percotere.--Là dove si
voglia opporre, come cessata la guerra riescano carico molestissimo i
volontari, noterò che carico non meno molesto proviamo le milizie
ordinarie: entrambi conservate divorano le sostanze del paese,
entrambi dimesse ti empiono le carceri; in altri tempi quando era
lecito manifestare il proprio concetto passò fino in proverbio, che
la guerra fa i ladri, e la pace gl'impicca. Se oggi la guerra faccia i
ladri non cerchiamo; bene però possiamo dire essere molto
verosimile li partorisca la pace, ed è per questo, che noi
divisavamo un dì trasformare il soldato in agricoltore tirando
partito da terreni incolti, e per salvatichezza malsani; nel quale
disegno ci confermava la necessità di respingere vie via nella
campagna le braccia, che affluiscono nelle città dove le menano il
desiderio di guadagno più largo, o di lavoro men duro, così che
mentre le industrie manifatturiere nelle quali la Italia non può
prevalere patiscono ribocco di cultori, le agricole poi ne sentono
difetto.--

Proseguendo il mio discorso affermo, che la impedita annessione di
Roma al Regno italico ci abbia condotto in termini di pecunia, che
ormai non vedo come ci si possa trovare rimedio, almeno ordinario; ed
anco questo tra gli altri tutti gravissimi è male delle
rivoluzioni, o se pure vuolsi, delle trasformazioni tronche a mezzo.
Per questo caso tu patisci gli strappi del vecchio, e non ti
approfittano i rammendi del nuovo. Adesso la rivoluzione a mo' del
bronzo, squagliato per fondere il Perseo, che Benvenuto Cellini
lasciava improvvido in balìa altrui, ha fatto _migliaccio_,[1] e si
chiede virtù più che umana a farlo liquefare; poichè quando
potevamo non volevamo, adesso ci tocca a volere come potremo, se pure
è volere quello che la necessità ci pone quasi giogo sul collo.

  [1]  Vita di Benvenuto, Cellini, p. 276.

Quando gli stati o per volontà propria, o per forza altrui operano
rivoluzione o trasformazione patiscono scompiglio più o meno
intenso, tuttavia sempre molesto. Chi va a prova di forza si cava
meglio d'impiccio, almanco pel momento, però che detti la legge
sopra la punta delle baionette. Le sono cose, le quali si devono dire,
che la piaggeria al popolo, codarda quanto quella, che usiamo verso i
re, torna agli stati più funesta assai: i Tedeschi invasori
incutendo paura radunavano più agevolmente moneta, che non poterono
i nostri Reggitori quantunque santissimi. Corrotti siamo fino al
midollo, e con la perpetua iattanza di civiltà veliamo la
putrefazione nostra a mo', che si usa coprire col tappeto di velluto
ricamato di oro il cadavere quando si porta al camposanto; non l'amore
di Patria, bensì il terrore del bastone straniero fabbrica la
chiave onde si aprono gli scrigni di questo immenso ghetto, che la
gente moderata appella Italia.

Ai Rettori delle rivoluzioni volontarie fanno mestieri sagacia grande,
e virtù: importa ch'ei procedano lieve, lieve, che le carni sono
scoperte e per poco s'infiammano, ed io ho creduto sempre, e tuttavia
credo, che le regole generali, e le teorie della scienza sul principio
delle rivoluzioni non approdino, anzi nocciano, e molto: a guidare gli
esordii delle rivoluzioni, per mio avviso, si desiderano uomini ricchi
di partiti; i quali nella moltitudine delle contingenze o varie, o
discordi, o contrarie si schermiscano con rimedii empirici, sempre
mirando a disporre la materia così, che un giorno accolga
volonterosa l'ordinamento scientifico.--

Non si vuole negare, nè io già lo nego, come in siffatti negozi
riescano più agevoli i consigli, che i fatti; quando di teorie fu
mai penuria? Le pratiche sempre proviamo corte ai bisogni; poichè
con le rivoluzioni volontarie non puoi valerti di sevizie, e potendo
non lo dovresti; nè giovando andare loro di contro col prezzemolo
al naso, a qual santo votarci noi non sappiamo.--Io l'ho pur detto
sopra, di regole generali non hassi punto a fare parola; voglionsi
uomini ricchi di partiti; e rimedii lì per lì escogitati ed
apposti; nè solo in fatto di moneta, ma sì in ogni altro
argomento politico mi apparve sempre inane e peggio mettere fuori
quelli, che ai giorni nostri chiamansi _programmi_; e se anche io gli
adoperai consentii piuttosto all'andazzo del tempo, che ad una mia
persuasione; di vero se essi contengono generalità non rilevano,
anzi sovente ingannano e la corda filata con la canape repubblicana
non ti strozza meno stretta della fune tirannica; indicare poi rimedii
speciali senza il caso di doverli applicare egli è un'ammannire
cerotti prima, che il fignolo nasca. Se Casimiro Perier, o Cammillo
Cavour tornassero al mondo e mi squadernassero in faccia un manifesto
da disgradarne ogni più sterminata dichiarazione dei diritti
dell'uomo, uccello accivettato io non cascherei sul vergone; che se
all'opposto venisse un Washington, o un Kotschiusko, o un Bolivar, od
altro divino spirito, onore di questa natura umana, e dicesse senza
più parole: «in me confida» io gli porrei il capo in grembo.
Capisco, che a questo modo corriamo pericolo grande; e sarà sempre
un bel civanzo poterne fare a meno; ma quando non si può, _Siena
per forza_[1].

  [1]  Questo modo proverbiale nasce dal costume praticato dai vari
    municipi toscani di presentare l'offerta a Firenze nella festa di
    S. Giovanni; la quale accadeva così: un banditore sotto la
    loggia dei Lanzi chiamava per ordine di precedenza le città; i
    deputati delle quali dopo avere risposto si facevano innanzi a
    deporre la offerta: ora essendo stata chiamata Siena dopo il
    conquisto di Cosimo dei Medici, i rappresentanti della medesima
    incapaci a reprimere il rancore esclamarono: _per forza_. Il
    popolo conservò la memoria del successo, e ne compose un
    proverbio. Se a cotesti tempi costumavano i Giornali non avrebbero
    mancato assicurare che i deputati di Siena avevano risposto allo
    appello con grida _frenetiche_ o per lo meno _entusiastiche_.

_Tamen_, per dirla a mo' del Macchiavello, due partiti fino d'ora si
possono annunziare; il primo consiste appunto nel liquefare il
_migliaccio_ rivoluzionario crescendo il fuoco come adoperò il
Cellini col buttarci sopra la catasta dei quercioli _secchi da più
di un'anno_, che gli aveva offerto madonna Ginevra moglie del
Capretta; e quando il metallo cominciasse a _schiarire_, e a
_lampeggiare_ gittarci sopra anco il pane dello stagno, e dopo il pane
piatti, scodelle, e tondi di stagno quanti ne fossero in casa[1].
Molti lo hanno accertato prima di me, ed io più volte lo dissi e lo
affermai: a volere che gli uomini sentano, ed operino eroicamente fa
mestieri agitarli; la quale sentenza vera in ogni condizione del
consorzio umano, comecchè meno imperfetto, torna a capello nella
infelicissima del nostro. Le cose oggi sono ridotte a punto, che non
farebbe maraviglia se il primo grido dei pargoli a mezzo usciti
dall'alvo materno fosse: «quanto per cento mi assicurate per
vivere, se no torno dentro....!» La Patria diventò un commercio,
la Libertà un'affare, _respublica negotiosa_ come ai tempi della
decadenza romana: la più parte degli uomini, guardateli bene,
portano segnato il prezzo tra ciglio e ciglio, come i bauli, le
sacche, i ninnoli, ed altra siffatta roba vendereccia nelle botteghe
dei mercanti, con la differenza, che su questi ci si legge: _prezzo
fisso_; su gli altri no, però che il valore cresca, o scemi
secondochè sul mercato vi sia maggiore o minore richiesta di
viltà.--A rischio di riuscire sazievole io vo' ripetere, che,
battendo alla porta dello Interesse, ei non può darti altro, che
uccellatori di strade ferrate, o di appalti, o di cariche, o di
gladiatori per dodicimila franchi all'anno, o legislatori per tremila
franchi al mese, soccorritori della Patria al _saggio_[2] del venti
per cento l'anno, o impresarii di tempii dedicati a Venere
_pandemica_, o nobili offerenti a conquistarti col grimaldello in
mano, e mercè il premio di seicentomila franchi una corona[3], che
male si piglia e peggio si tiene se non per virtù di spada, o
fornitori di pompe funebri, o scorticatori di capretti, o conti
Bastogi.

  [1]  Cellini, loc. cit.

  [2] Laggiù tra i Piemontesi dicono tasso. Ci siamo arrangolati a
    capacitare cotesti buoni fratelli nostri come qualmente il _tasso_
    sia una _bestia_, che dorme assai, di cui occorrono due specie
    _tasso cane_, e _tasso porco_, il quale è anco buono a
    mangiare: gli abbiamo avvertiti altresì, che il _tasso_ è
    un'_albero_, e tutto invano; _tasso_ in Piemonte significa
    _saggio_, _pro_, _interesse_, _frutto_, _ragione_, e _cambio_, per
    la quale cosa, ed in virtù della _egemonia_ piemontese si hanno
    a tirare in mezzo di strada tutte quelle parole italiane vecchie,
    e valerci di questa piemontese nuova. E già parecchi Toscani
    con docilità non mai commendevole a bastanza nelle _splendide_
    scritture, e dicerie loro bellamente l'adoperano.

  [3]  Quanto qui adombriamo adesso è oscuro. Il tempo lo chiarirà.

E strana cosa, mentre così si ragiona, ed opera da cui dovrebbe con
gli atti porgere esempio imitabile al popolo riarso, estenuato, e
reietto, che in onta all'eccessivo travaglio tira l'anima co' denti,
gli s'intronano gli orecchi gridando: «la Libertà è cara,
bisogna pagarla.... Ma, il popolo esclama, dove si trova ella questa
Libertà per la quale assottiglio il pane alla mia famiglia, e do il
sangue dei miei figliuoli?--Io la conosco come i dannati la gloria del
paradiso. Voi sempre in cima, io sempre in fondo, voi sempre gaudenti,
io sempre tribolato. Per me intendo Libertà quella che mi accerta
vita men dura, e mi leva dall'angustia dell'ignoranza: questa amo, e
per questa patirei ogni disagio: la vostra di povero mi ha fatto
misero. Per farmi vedere maggior lume voi mi ardete la casa.--Voi
bandite inclito versare il sangue per la Patria, ma riscattate il
vostro a suono di danaro; i miei figliuoli vanno esenti ad un patto,
ed è, che per manco di cibo, o per troppo di fatica vengano
sparuti, o cresciuti si guastino. Qui si lapida adesso la umanità
co' nomi, e con le apparenze generose si crocifiggono i popoli, la
concordia significa tradimento, ordine la morte, libertà servaggio;
come altra volta la misericordia era un coltello, e con un _va in
pace_ si mandava giù l'odiato innocente per un trabocchetto.»

Guai allo stato, ed a noi tutti guai se il popolo, confrontati i mali
della tirannide con quelli della falsa libertà, un giorno brontoli:
«torni il tiranno, almanco egli mi saziava la fame!»

Quale il fuoco, tale l'anima umana: per crescere l'ardore dei carboni tu
li sbraci; la luce alla fiaccola tu la sventoli; commuovi forte l'anima
umana e manderà calore, e luce.--Allora nell'agitazione degli affetti i
popoli vetusti decretarono a Giove l'_ecatombe_, sagrifizio di cento bovi,
non consultate o neglette le necessità dell'agricoltura, onde
temperando più tardi lo incauto zelo, la stessa religione interpetrò
per _ecatombe_ non avere inteso significare i padri il sagrifizio di cento
bovi, bensì cento gambe di bovi, e così venne ridotto il macello da
cento a venticinque teste. Con l'animo agitato dal pericolo, e dal furore
di superarlo, e' fu che gli Ateniesi allo approssimarsi dei Persiani
votarono a Diana immolarle tante capre quanti avrebbero ucciso nemici; i
quali salirono a numero così strabocchevole, che non trovandosi in
tutta l'Attica capre sufficienti al sagrifizio, bisognò ridurre il voto
a cinquecento per anno; a questo modo ridotto durava anco ai tempi di
Senofonte, che ce ne ha lasciato il ricordo[1]. Nè a me giova
moltiplicare esempi cavati dalle antiche o dalle moderne storie quando
pure ieri io ne vedeva sotto i miei occhi la conferma, conciossiachè
disputandosi fra noi sul modo di sovvenire certa sventura fraterna, il
popolo non trattenuto dalle parole dei savi, i quali facevano considerare
come accadendo gl'infortuni quotidiani, ed uno pur troppo più
lacrimabile dell'altro, prudenza persuadeva a risparmiare il danaro
tenendone in serbo una parte, ed una parte donandone, divinamente
improvvido si rovesciò le tasche dicendo: «a domani qualcheduno
penserà.» I santi solo ed il popolo pronunziano col cuore: «_Deus
providebit_,» perchè davvero essi credono in Dio, ed essi solo
meritano che Dio risponda alla loro fede.--

  [1]  Anabasi, 1. 3. c. 2.

La storia ci ammaestra l'esempio quanto sia contagioso così pel
male, come pel bene; sebbene pel male due cotanti più, ond'io penso
che amore desterebbe amore, generosità moverebbe generosità, e
se taluno oltre a pagare i consueti balzelli per diventare popolo
veracemente, costituire la Italia, uscire dall'uggia, e dalla
umiliazione del presente avesse a deporre nell'erario mezza la sua
entrata, a patti che l'avanzo bastasse ai bisogni della famiglia, e
suoi, per me credo, che lo farebbe.--Che se altri irridendo opponga:
«o chi lo para da mettere in esecuzione il suo proponimento?» Si
risponderebbe: che a questi Governatori sempre ricusammo pecunia,
però, che fino dal ministero Cavour a noi parve il concetto del
governo viziato; c'increbbero gli uomini, ma più il disegno;
conoscemmo la riga tirata obliqua, la quale quanto più sarebbe
stata prodotta, di tanto sariasi dipartita dalla via retta. Anzi le
mie parole novissime in Parlamento furono profferite per negare la
riscossione provvisoria della rendita pubblica, avversando la opinione
di tali, che si professano amici, quanto me, e più di me del vivere
libero. Ora hassi a giudicare mal vezzo di animo stolidamente maligno
intimarci a depositare il nostro danaro in mano a gente in cui non
confidiamo, e che per opinione nostra servirebbe ad allungare
l'agonìa della Patria. Come spontanei commetteremmo il nostro avere
a tali a cui costretti innanzi di dare un soldo ci lasceremmo pestare
nel mortaio come Anassarco?--Tanto varrebbe, come dice il proverbio,
pagare il boia perchè ti frusti. E prima di dare, tirando un frego
sul passato, vorremmo essere sicuri, che di ora in poi non ci si
facessero _mangerie_ come rescriveva Cosimo dei Medici allorchè
stanziava i trecento scudi pel restauro del bagno di Montecatini[1].
Ancora parrebbe giusto, che le bocche inutili si cacciassero via,
dacchè se lice cacciarle dalle città assediate dalle armi non ci
biasimeranno se lo facciamo noi assediati dai debiti. Oltre le bocche
inutili le bocche indegnamente fameliche si hanno a sfrattare; e chi
tira paga, provvisto secondo la condizione ai bisogni suoi e della
famiglia, la lasci anch'egli per un'anno alla Patria.--A questo modo
raduneremo danaro e subito. Le sono fisime queste, ci schiamazzano
dietro, ma tutto ciò, che minaccia l'interesse acquistato, o lo
interesse in procinto di conseguirsi dai conservatori chiamasi
fantasia, e peggio, nè si contentano a parole, bensì lo lacerano
coi fatti: quale impresa onorata cotesti uomini perduti non
vituperarono delirio prima dello esito? E riuscita qual'è la
impresa di cui non si approfittarono? L'aquila imperiale, il leone
repubblicano capitati nelle loro mani, mantrugia mantrugia,
tramutarono in pollo, e in capretto per arrostirli poi; e col sangue
dei martiri li spruzzarono, affinchè riuscissero più saporosi a
mangiarli. A fine di pasto propinarono ai pazzi sublimi defunti per
avventarsi più rabbiosi sopra i viventi, finchè a posta loro non
fossero morti vincendo nuova pietanza per essi.--Perchè ci lodino,
la nostra sorte vuol'essere quella di Epaminonda a Mantinea, vincere
la battaglia per loro e poi morire.--

  [1]  Il rescritto tutto di mano di Cosimo I suona così: «veggasi,
    e provveggasi, ci si spendano attorno fino a trecento scudi, e non
    vi si facciano _mangerie_.»

Consideriamo questi uomini pratici, questi _moderati_, i quali,
secondochè altra volta notammo, tolsero questo nome al modo stesso
degli antichi Imperatori, che Affricano, o Asiatico, o Germanico
appellaronsi per le stragi, che menarono in coteste parti di mondo;
_moderati_ per avere assassinato la santa moderazione; consideriamo,
dico, questi uomini alla prova: con qual norma regolarsi non sanno;
ora rendono omaggio allo scambio libero, ed ora lo rinnegano, anzi la
stessa legge in parte lo accarezza, e in parte lo schiaffeggia;
durante la stessa sessione un Ministro scema il porto delle lettere,
perchè il buon prezzo cresce lo spaccio, e nello spaccio sta il
guadagno; un'altro aumenta il costo dei trasporti sopra le ferrovie,
perchè il rincaro quando l'oggetto è necessario non dissuade la
gente da procurarselo. Fanno, e disfanno: adesso pare, che consentano,
quanto all'aumentato prezzo dei trasporti, a rimettere le cose come
prima e ne hanno presentato la legge al Parlamento, che ne voterà
la soppressione con la medesima ressa insensata, e servile con la
quale testè ne votava la instituzione: trafitti dal successo i
Ministri piegano il capo a mutare la legge sul bollo e sul registro,
senza però rimettere di un pelo dell'arrogante pertinacia a volere
sgararla nelle proposte che sbalestrano a vanvera, nè i _fidi
Acati_ a cessare di un attimo dal servire cotesti buoni Signori di
coppa e di coltello. Se tu avverti ai quotidiani svarioni economici
contrastanti fra loro, e agli atti schiaveschi dei nove Ministri
nostri tu pendi incerto se avrai a definire il Ministero o confusione
divisa in nove capi, o trattato delle servitù in nove volumi.--

Economie non seppero, nè vollero fare: promisero prima, poi,
secondo il solito, non attennero, e parvero, e furono modi di usuraio
che abbindola lo scapestrato per cavargli di sotto il _babbo morto_.
Alla prova ogni Ministro difese il suo bilancio con la ferocia di quei
di Saragozza che contesero ai Francesi casa per casa, e stanza per
istanza. Curioso poi è questo, che nonostante il crescere delle
spese vantano economie, come se tu potessi consolarti di civanzo
fatto, dove ti mostrino come invece di aggravarti del doppio ti hanno
stremato solamente di un terzo. Per inquisire le ladronaie mancò il
coraggio ai nostri uomini di stato ai quali sembra spediente imitare
gli ordini religiosi, che negano sempre quando odono accusato reo di
grave colpa un frate; con l'arco del dosso lo difendono, e poi di
subito tramutatolo di Arno in Bacchiglione sopiscono o credono avere
sopito lo sconcio fatto; Rimasta ferma la spesa possiamo senza tema di
andare lontano dal vero, asserire che il disavanzo annuale batte in
quattrocento milioni, o giù di lì. Alla fine del 1865 quando nel
pozzo di San Patrizio avremo buttato la barca, e il palischermo
salderemo con un debito nuovo di 766 milioni; questo affermano i
moderati, figuratevi gl'intemperanti! Non mancarono persone amiche al
Ministero per ammonirlo come essendosi riscontrato nel bilancio del
Brasile un manco di quaranta milioni tra la spesa annuale e la entrata
i rappresentanti della nazione ne menassero scalpore quasi fosse loro
cascato addosso il finimondo, nè si tenessero quieti finchè non
ebbero ottenuto il pareggio. La Francia dopo lo impero, che aveva a
fondare la pace perpetua, s'indebita di trecentotrentasei milioni
l'anno, e se non provvede corre a vele gonfie alla ruina; su di che tu
giudica se le spese della Francia possano razionalmente confrontarsi
con quelle d'Italia, e se fie dato alla Italia sostenere un carico al
quale non regge la Francia.--Antico è il vizio, nè si vorrebbe
senza ingiustizia apporre in tutto al presente Ministero; se non lo
creava il Cavour, lo crebbe a dismisura, a mo' del mercante
sbilanciato negl'interessi che tira innanzi _riavvallando_ le cambiali
alla scadenza; certo se non fu egli che disse: «dopo me il
diluvio» lo penso, e lo fece.--

Se a Ludovico Ariosto era commesso assettare le faccende dello erario
io penso, che ci si sarebbe disposto con fantasie alquanto meno
bizzarre di quelle del Minghetti, comecchè facilmente più
leggiadre; le si conoscono dall'universale; esse consistono in quattro
maniere di balzelli; tassa sopra le rendite mobili; dazi sopra la
consumazione delle derrate cresciuti; nuovi dazi imposti: per ultimo
il conguaglio sopra la tassa prediale: da quello che avrebbero gittato
si augurava dentro quattro anni mettere in pari la uscita con la
entrata ordinaria.

Economie veramente non se ne sono fatte; ma in mancanza di meglio si
ripromettono da capo; partiti vecchi, e soliti a comparire in tutte le
vigilie delle votazioni dei bilanci,--tappeti del _Corpus Domini_, che
si levano dalle finestre passata la processione. Simili promesse il
Ministro adopera per abbarbagliare i deputati come il fanciullo piglia
il sole dentro lo specchio e lo vibra negli occhi ai viandanti[1].

  [1] Le economie magnificate dal Ministero sovente sonano _scherzo
    amaro_ levando a mo' di esempio 5 milioni, e dovrebbero essere 10,
    dalle spese ordinarie, e portandoli nelle straordinarie per
    sopperire alle garanzie assunte dallo Stato in pro dei
    concessionarii delle Strade Ferrate.--Discorso del Dep. _Saracco_.
    Tornata 11 Decembre 1863. Paghiamo più che in Francia la
    giustizia, l'amministrazione interna, più a ragguaglio la
    guerra, più la marina, degl'ispettori di lavori pubblici ne
    possediamo tre cotanti più che in Francia....!

Dalla prima tassa il Ministro faceva capitale cavarne un cinquanta
milioni, e tanti ne distribuì sopra le provincie italiane,
assegnando a ciascheduna la sua quota: la quale misura era desunta da
quattro fondamenti, i quali furono chiariti inetti a partorire
giudizio buono, onde i censori ne proponevano altri, i quali a posta
loro erano ripresi come fallaci: stando a quel modo le cose pareva
razionale si rigettassero tutti, e su norme più idonee si
stabilisse il giudizio; ma questo ai Ministri del regno italico
sarebbe sembrato troppo grave scandalo, però tennero fermi i
fondamenti loro, accettarono i proposti, e composto così un
guazzabuglio di spropositi, stimarono ne uscirebbe spillato
l'archetipo perfetto; di vero, anco Dio o non cavò fuori dal caos
la luce? Nè i Ministri sè estimano niente meno di Dii, e del non
avere saputo o voluto torre Roma al Papa si consolano di un'altro
furto, che gli hanno fatto; hanno rubato a quel meschino di Pio IX la
sua infallibilità.--

Ed è anco più strano questo altro, che il Ministro avendo prima
chiesto da simile balzello cinquanta milioni, poi per istralcio si
accomadasse a trenta; su di che mettiamo da parte la sconvenienza di
vedere il Governo, che adopera col Parlamento a mo' di creditore di
fallito; ci sembrerebbe onesto, che il Ministro domandasse leale
quello, che a punto gli abbisogna o giù di lì; ma venti milioni
meno su cinquanta dimostrano che o il Ministro non seppe quanto gli
occorreva, o chiese pensatamente troppo per procurarsi stoppa a
tappare buchi inopinati, e questo, è metodo che meritamente si
biasima, imperciocchè palesi incapacità, o malafede nel
Ministro, il quale chiese più che gli bisognava, e insipiente
prodigalità nei Deputati, che glielo concedevano.

Adesso poi sento, che dal complesso delle nuove tasse il Ministero
spera cavare somme inferiori a quella, che egli si augurava prima
raccogliere dall'unica sopra la rendita mobile; e qui confesso, che mi
si annebbia lo intelletto; e tanto danaro si raffida riscotere a
patto, che fruttino dal primo di gennaio 1864; che se per quel dì
non fossero leste non fa nulla, perchè si darebbe loro virtù
retroattiva, come dicono i Forensi[1]. In virtù di quale dottrina
le leggi su la gabella delle derrate possono retrotrarsi, il Ministro
saprà; a noi non riesce levarci a così alto volo; e nè anco
per le altre si potrà, non mica per la ragione, che simile
principio equivarrebbe ad una lanciata nel costato del diritto; la
maggioranza del Parlamento italiano usa saltare a piè pari bene
altri ostacoli, che questi non sono, bensì per la confusione, la
fatica, e il rammarichio che persuaderebbero la carne non valere il
giunco: ma il Ministro imperterrito s'incoccia, e dice avere fede che
ciò possa farsi, e se non potrà farsi subito si farà più
tardi; inoltre ha fede che fruttino quanto presagiva e più; dove
questa fede avesse a mancare egli trasporterà la sua fede ad altre
_fonti_, e in altri _cespiti_, la quale cosa significa che riuscita
indarno la _corda_ ti darà la _ruota_, e, se non bastano,
l'_eculeo_, l'_assillo_, e il _fuoco alla pianta dei piedi_. Come poi
possano sperimentarsi leggi finanziarie fino a strappare la corda,
lasciarle poi, tentarne delle nuove senza capovolgere lo stato per me
e per altri sono tali abissi d'ingegno, che al solo affacciarmici mi
gira il cervello[2].

  [1]  A queste enormezze sovversive ogni nozione di gius è stato
    mestieri rinunziare.

  [2]  Discorso del Sig. M. Minghetti 12 Dicembre 1863.

Rispetto alle gabelle sopra i consumi cresciute, e alle altre imposte,
uomini intendenti, e amici del Ministero non mancarono ammonirlo:
«mala via tieni; dazio aumentato risponde a consumo diminuito.
Già ne hai esempio in Patria: fuori osserva: la Inghilterra, la
quale tre volte infedele al principio ormai levato alla dignità di
assioma nella scienza ha voluto aggravare la tassa del caffè, del
tè, e degli spiriti, e tre vide percossa terribilmente questa
rendita della finanza; nella sola Irlanda scapitò l'erario
centodiciassette milioni, e seicentocinquantamila franchi; cresciuto
il dazio anco sul tabacco, nella sola Irlanda resultò un meno di
Libbre 4,070,000, sgabellate[1].» Il Ministro di sè glorioso a
ciò non bada bambinante in quel suo riso di San Luigi Gonzaga. Anco
gli amici, come gli avversari, gli aggiungono: «pensa, o uomo a cui
la somma potestà della Italia avrebbe dovuto cascare sul capo come
il tegolo su quello di Pirro, pensa che le nuove tasse sono torchi
stringenti le pietre dove non incontrino il correspettivo della
ricchezza pubblica, nè questa può essere nata così di punto
in bianco. Tu operi gravemente quello, che il Senatore Gianni
uccellando consigliava al Granduca Pietro Leopoldo scorrucciato
perchè la gabella delle porte fruttava meno del presagio:--ne apra
delle altre Altezza, e le gabelle raddoppieranno.» Non basta; quei
dessi amici, ed emuli altresì continuano a dirgli: «avverti, per
Dio! che la Italia ti sta nelle mani pari a vaso di alabastro ad un
fanciullo; se mai ti cascasse in terra per colpa tua si ridurrà in
minuzzoli. Mira, i popoli scontenti hanno dato sempre di fuori per
angustia: i Napolitani di Masaniello pel dazio su le frutta, gli
Americani di Washington per la gabella della carta bollata, e del
tè, i Corsi del Paoli pei seini, e pel mezzo baiocco del mendicante
di Bozio; causa non mediocre della rivoluzione siciliana del 1860 fu
appunto la tassa del registro; e tu pensi applicando di un tratto
quattro tasse le quali non lasciano illesa parte del corpo sociale,
che egli non si dolga? Senti, o non riscoterai niente o poco, o
metterai la salute dello stato a repentaglio.» Il Ministro
inebriato di numeri si canta un ditirambo _finanziario_, e dacchè
tacciava altrui di fatuo non dubita, che noi lo stimeremo da ora in
poi _uomo sodo_[2]. Bene sta che la legge su lo aumento del 10 per
cento su i trasporti su le ferrovie deva levarsi, perchè la è
vecchia, che quanto meno pregio pretendi di una cosa e più ne
spacci: per la medesima cagione il Ministro pensa a ridurre in termini
comportabili la legge sul bollo, e sul registro: e per la medesima
ragione il Ministro s'intora a crescere il dazio su le derrate!

  [1]  Senatore _Marliani_--Lettera a Marco Minghetti.--Strano sarebbe
    parso un dì, oggi consueto è questo, che mentre il Minghetti
    affermava avere fatto suo prò degli avvertimenti del suo amico
    Marliani in verità non ne aveva seguito pure uno, e l'amico
    Marliani gli aveva orato contro al Senato nello schema di legge
    sopra la tassa della ricchezza mobile

  [2]  Per ben due volte nel Discorso sopra le _interpellanze_ del
    Barone D'Ondes Reggio al Minghetti bastò l'animo di
    rimproverare il Barone di _leggero_!

Dopo le tasse, a rattoppare lo sdrucio tirerà fuori centocinquanta
milioni di Buoni del Tesoro, ma questi Buoni rispondono a rendite
_scontate_ per adoperarne il prodotto in occorrenze straordinarie;
dove le rendite non si trovino, i Buoni equivalgono a quel modo di
cura, che i Cerusici chiamano _autoplastica_, il quale consiste a
reciderti per esempio una fetta di natiche per rifarti il naso
tagliato. Al Ministro non fanno specie i 150 milioni di Buoni del
Tesoro, anzi confessa crescerli fino a 300; ma e' sono ninnoli; e
quanto al pagarli torneranno i Narbonesi gente dabbene a consolazione
del Ministro nostro, i quali prestavano il danaro in questo mondo per
riaverlo nell'altro[1].

  [1]  Valerius Maxim. l. 2, c. 6. n. 10.

Ci hanno i Beni demaniali, che si arebbero ad alienare per un
centottanta e più milioni se vuolsi conseguire il bilancio tra la
entrata, e la uscita del 1864, ma chi se ne intende afferma gli
antichi beni demaniali giungere appena ai centodieci milioni[1] dai
quali fa mestieri defalcarne dieci pel Conte Bastogi, il quale si
disciplina, come un'anacoreta nella Tebaide, con le strade ferrate per
la salvezza d'Italia cara a lui quanto la pupilla degli occhi suoi e
più; e poi bisogna sbatterne anco altri dieci, che il Governo
dimette ai popoli meridionali affinchè se ne costruiscano strade,
dunque una novantina di milioni. Che se vi fosse errore, fuori le
stime, e vedremo. Le stime verranno, non ci è furia; furia ci è
nel votare i bilanci; all'altro penseremo a tutto agio. Oltre questi
beni demaniali affermano avanzarci i possedimenti della cassa
ecclesiastica: ottimamente, ma quali e quanti sono eglino? Secondo che
tempo farà e' sommeranno a _duagio infino a treagio, ed hacci di
quelli del popol nostro, che li tengono fino a quattragio_[2]. Una
voce credibile ci assicura l'amministrazione della cassa ecclesiastica
in iscompiglio, e veramente da siffatta universale epidemia non
sapremmo in qual modo potesse andarne immune l'amministrazione della
cassa ecclesiastica; e come seguenza di questo stroppio non saldaronsi
i conti ai creditori di quella, al contrario appaiono arretrati fino
al 1860; e chi ha da avere si gratti; e ciò potrebbe capacitare
taluni non noi, sperti che tutti i nodi, gira e rigira giungono al
pettine. Ma volendo dare un taglio sul più o sul meno come
reputeremo possibile vendere, durante l'anno 1864, i vostri
centoventiquattro, o come altri pensa che ne farebbe di bisogno,
duecento milioni di beni? In arroto ai centocinquanta milioni di Buoni
del Tesoro che occorre (oltre i 150, che già ci sono) buttare sul
mercato, e con lo sconto della moneta all'8, al 9, e non si prevede a
quanto per cento;--imperciocchè le cause della carestia del danaro
non sembra sieno per cessare adesso, là dove sieno vere quelle, che
allegano. Altri con molto senno notò, che avendo ad alienare per
sopperire ai bisogni del 1863 cinquanta milioni di beni demaniali il
Ministro e la Commissione assai confidavano sopra la istituzione del
_Credito fondiario_, la quale essendo mancata la vendita procede
lenta, e infelice. Ora se ciò avvenne nel corrente anno per
cinquanta o come cammineranno diverso le faccende nell'anno 1864?
Forse il _Credito fondiario_ venne accolto? Il Ministro Manna, avendo
fitto nel Parlamento con mirabile agevolezza la pala, si avvisò
piantarci così di straforo anco il manico, ed incontrò lo
scoglio: il soperchio ruppe il coperchio, e il _Credito fondiario_ fu
riposto in soffitta come i trabiccoli a giugno.--Il mercato del danaro
proviamo scarso, e non si vuole la mente di Galileo per prevedere, che
le vendite si opereranno con meno facilità andando innanzi per lo
stremarsi delle borse nelle compre antecedenti. Il Ministro dopo
consumata la fede ora mette mano alla speranza (un vero saccheggio a
tutte le virtù teologali, sicchè noi altri possiamo chiudere
bottega) e ci squaderna in faccia gli ostacoli avere a sparire;
proporsi vendere all'asta o per trattative private; sconterebbe i
prezzi pagabili a rate dentro cinque, e dieci anni... e poi chi ha
detto morto il _Credito fondiario_? E fosse, o che i morti non
resuscitano? E basta; chi se ne intende, immagini che cosa ciò
voglia dire; se non ti si struggeranno i beni demaniali in mano come
pallottola di neve, poco ci correrà.--Ancora, secondo che io
considero, il Ministro non bada a questo: come alienando i beni
demaniali, i beni della cassa ecclesiastica, e le strade ferrate viene
ad alterarsi tutto il bilancio, conciossiachè ti facciano fallo le
rendite di tutti questi, che il ministro chiama, forse per rimembranza
arcadica, _cespiti_; e mentre cessa la entrata dura la uscita delle
pensioni, e degli obblighi assunti verso i creditori della cassa
ecclesiastica, nonmenochè degl'interessi mallevati agl'impresari
delle strade ferrate.--

  [1]  Il ministro Marco Minghetti in un'estro pindarico gli stimò
    218 milioni. _Tornata_ del 14 febbraio 1863. Il deputato Pasini e
    con lui la Commissione tira per le falde il Minghetti e gli
    dichiara, che ha preso un granchio di 108 milioni.--_Sono più i
    diavoli_, dice il proverbio, e il Minuetti si fonderà di certo
    su questo proverbio.--Ora troviamo che i beni demaniali calcolati
    in massa fino a 400 milioni sommano a 200!

  [2]  Parole di scherzo che il Boccaccio fa dire al prete da Varlungo
    G. VIII n. 1.

Questo è lo stato nostro restando le cose come si trovano; caso mai
rompesse la guerra a cui ricorre il Ministro per provvedere i
danari?--Il Ministro quando sentirà il governo potrebbe
convertirglisi in croce da trovarcisi un bel dì confitto sopra lo
butterà in terra; ovvero nicchierà come donna partoriente:
«su, amici, su, votatevi le tasche, che, me auspice, vi colmaste
fino all'orlo, su....» Vedremo allora: alla svolta ti provo.
Però se dal passato è concesso argomentare il futuro hassi a
credere, che la parte Moderata continuerà l'esempio dei ranocchi i
quali stando pure col muso fuori dall'acqua del padule si tuffano
sotto al primo stormire della procella per ricondursi al consueto
gracidìo tosto che torni l'aura serena e la dolce stagione.--Allora
e' converrà, che taluno si voti alla salute della Patria. Lo
assista Dio secondo i meriti suoi, e le benedizioni le quali, fino da
oggi, noi gli mandiamo dal cuore: dove (e a pur pensarlo ci tronca lo
affanno) fosse nei fati, che ogni sforzo abbia a riuscire invano a
lui, e a noi desideriamo la morte;--perchè è amaro, oh! è
amaro dopo tanto alito di speranza lasciare scritto per epitaffio da
apporsi sopra la tomba: cercando Patria e Libertà sono morto
«schiavo[1].»

  [1]  E tanto accadde al conte di Schlabrendof, il quale
    svisceratissimo della Rivoluzione di Francia, disperato delle
    umane sorti la vigilia della sua morte si apparecchiava il
    seguente epitaffio: «civis civitatem quærendo obiit
    octuagenarius» _Écriv. mod. de l'Allemagne_.

Intanto pongo per debito qui le parole del deputato Saracco uomo
temperatissimo, e non avverso al Ministero: «avete voi pensato, che
per entrare in lizza liberamente non a rimorchio di estranea potenza,
e sostenere l'urto di tanti nemici i quali ci disputeranno questo
sacro suolo d'Italia ci vuole danaro, e molto danaro? Eppure, ch'io mi
sappia, danaro noi non abbiamo, all'opposto siamo scoperti di oltre
500 milioni, però che sarebbe chimera grande immaginare alla
vigilia della guerra la possibilità di vendere beni demaniali, e
mettere in circolazione Buoni del Tesoro.--Al primo rumore di guerra i
forzieri si aprono di preferenza alle grandi potenze le quali in
simili casi ricorrono al pubblico credito.--In così grave
condizione di cose non si farebbe atto di accorgimento pratico
pigliare fino da oggi le provvidenze opportune onde il giorno della
prova non si converta in giorno di sventura per la Patria?[1]»

  [1]  _Tornata_ 11 Dicembre 1863.

Dal discorso del Ministro, in aumento di ciò che sono venuto a mano
a mano allegando, si cavano lo seguenti proposizioni.

Al primo di Decembre egli possedeva in cassa quattordici milioni,
resto dei 500 già scontati, e 200 da scontare, i quali non pativano
riduzione come dubitava il Polsinelli bensì erano effettivi; con
questi si riprometteva sopperire in parte allo sbilancio del 1864: ora
tu che hai senno mira svarione: possono elleno sostenersi effettive le
cedole della rendita da vendere? Sta a lui fissarne fino da ora il
prezzo venale? Col caro del danaro, ed i rumori di guerra sa egli,
sappiamo noi di quanto rinviliranno? I diari ci affermano per sicuro
l'alienazione di 75 milioni di questa rendita al Vicario di Mammone su
questa terra al saggio del 71 per cento, che atteso la imminente
riscossione del 2 e mezzo d'interesse fa 68 e mezzo; nè ferma
lì, che io vorrei vedere tra ceralacca, e spago quanto ci si debba
aggiungere. Ciò è male, e questo altro è peggio: se aliena 75
dei 200 milioni nel 1863 si ha da credere, che il prodotto si serbi
per le occorrenze del 1864, o non piuttosto per pagare gl'interessi
del debito pubblico a fine di anno?--Certa volta un banchiere, di
quelli che vanno per la maggiore, mi ammoniva così: «quando ella
vedrà il Governo creare debiti nuovi per pagare gl'interessi del
debito vecchio la non si stia a confondere, e si tiri addirittura da
parte; gli è il segno dei topi, che lasciano la casa minacciata
dalla ruina.» Ora che facciamo noi da molto tempo in qua? Ad ogni
modo questo pongasi in sodo, che i 200 milioni non possono bastare al
saldo parziale dello sbilancio del 1864. Il Ministro però nega la
vendita, e sarà vero, perchè il Rothscild non ne avrà voluto
fare la compra, o allora gl'interessi si pagheranno co' Buoni del
Tesoro, e fie pur sempre fermo che gl'interessi si saldano col
capitale[1].

  [1]  Ora sentiamo che la vendita è accaduta alla ragione del 65
    e centesimi per cento!

Intorno alla difficoltà di accomodare altri 150 milioni di Buoni
del Tesoro in tempi così difficili, per iscarsezza di moneta e per
presagi di guerra, il Ministro sta come torre fermo, che non crolla
nelle sue virtù teologali (eccetto la carità) di collocarli con
vantaggio. Per lui 300 milioni di Buoni del Tesoro, senza riscontro
delle rendite da riscotersi in saldo di loro, e' sono ninnoli di cui
non vale il pregio trattenere la brigata[1].

  [1]  Il discorso dei signor Pasini ha due parti; la prima per
    mantenere il credito alla sua relazione; la seconda per lavorare
    di straforo l'amico Minghetti--Anch'egli non reputa i Buoni del
    Tesoro sconti di rendite avvenire, e ci mette a riscontro i
    disavanzi passivi, i quali non ci avrebbero ad essere, e anch'egli
    li biasima. Quando la mala pratica cesserà i Buoni del Tesoro
    saranno cambiati senza provvista nel bilancio pubblico.--Quanto
    alla difficoltà di alienare beni, e in misura da saldare i
    debiti nè il Pasini, nè il Minghetti movono verbo; il Pasini
    poi fa buono fino al 1864; di quanto avverrà dopo pensi a cui
    tocca. Anco ci è parsa strana la risposta che la tassa della
    rendita mobiliare, e della prediale non può venire meno alla
    somma contemplata a cagione della quota apposta ad ogni Comune,
    come se il _busillis_ istesse nello assegnarla, e non nel
    riscoterla.

Il Ministro non ha promesso mai bilanciare le spese straordinarie
dentro i quattro anni, che per queste la Italia dovrà masticare
fave per un pezzo; ma in ogni evento la Italia avrà proprio debito
a lui, e all'onorevole suo predecessore Sella di averla salvata da
fallire ordinariamente; quanto a fallire straordinariamente è
un'altro paio di maniche: di questo egli se ne lava le mani nel 1867,
e sempre.

Il Ministro non vede perchè abbia a rimanere inefficace la tassa
sopra la rendita mobile; nè manco la vede al pareggiamento della
imposta prediale: queste hanno da operare fino dal primo dì del
1864[1]: quanto a quelle sul consumo delle derrate non può negarsi,
bisognerà aspettare; ma non fa nulla, bocca baciata non perde
ventura, ma si rinnuova come fa la luna.

  [1]  Era così; adesso si è renunziato, diminuita la rendita il manco
    cresce.

Certo, nè anco il Ministro nega che vuolsi renunziare al pareggio
delle spese con le rendite ordinarie pel 1867; e ciò che rileva? Se
non avverrà pel 67, sarà pel 77; pel 97; per qualche sette
sarà; e poi per lui non rimase, che tanto benefizio comparisse, le
sue brave leggi ei compose, ed ordinò, e non potersi appuntare lui
se il Parlamento non le mise a partito, come nè anco fie sua la
colpa caso mai gli Italiani non pagassero i balzelli; colui che tolse
ad avvezzare l'Asino a starsi digiuno, quante volte gli levò la
biada il suo dovere lo fece, se poi l'Asino in capo a sei giorni volle
morire, la colpa è dell'Asino, non dell'Asinaio.

A colmare il vuoto ci si butteranno dentro i beni demaniali; se non
bastano questi, dietro a loro i beni delle casse ecclesiastiche della
Italia settentrionale, e media; e se si trovassero corti anco gli
altri delle province del mezzogiorno. I quattrini si trovano, o
Signore! che ci vuole mai a battere moneta? Nulla; portare l'oro e
l'argento alla zecca perchè te li conino, operazione semplicissima
a cui basta l'ingegno del Ministro, e ce ne avanza.

Leggesi su per le storie, che le Castellane d'Inghilterra, venute meno
le provviste, mettevano su la mensa al nobile marito un piatto con
dentro un paio di sproni: a questa cena, se la dura così, io temo
riserbata la Italia; per me credo, che il signor Minghetti, il quale
è uomo di lettere, abbia imparato dalla lettura del Canto del Conte
Ugolino a comporre i suoi poemi di Finanza, però che l'ultimo suo
meni dirittamente la Italia a mangiarsi le mani per colazione.--

In onta a ciò, e al troppo più, che potremmo dire ogni cosa sarà
non pure approvata, ma laudata, e levata a cielo, imperciocchè ormai
gli avversari nostri non possano più come una volta sostenere che noi
divide la opinione del metodo da praticarsi diverso per comporre la
Italia: questo per taluno può essere, ma dai più ci separano cause
bene altramente profonde. I nostri nemici tacciono, e così adoperando
si gloriano savi; se così è sbrancate sette bufali e collocateli
dentro le nicchie dirimpetto i sette sapienti della Grecia; essi tacciono
perchè loro sta lo ingoffo in gola; se mai favellano borbottano come
quelli, che tengono sempre il boccone in bocca: rettile di nuova specie,
il Moderato si assidera finchè dura il tempo del ragionamento; quando
poi spira l'aura dello errore e della servitù si rizza fischiante, e
velenoso a mordere la Libertà, che lo sopporta. Miralo! cieco e
incatenato ai suoi compagni contro la Patria, e la Libertà pari a
Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, il quale privo di vista, è fama,
che così facesse insieme alla sua baronìa nella battaglia di
Crecy[1].--Chi non ha le mani pure, vada prima a purificarsi, e torni poi
a sagrificare nel tempio, comanda il Vangelo, e noi chiunque tira soldo, e
tiene ufficio di governo non apra labbro, se gli cale la fama, nei
Parlamenti, e rifugga da parteciparvi, che le intenzioni Dio solo guarda,
e l'uomo diritto ha da aborrire ogni sembianza, che sia vile. Prima a
costui per la salute della Patria non parve abbastanza appiccare fuoco al
Vesuvio, ora con poco spazio di tempo accostato ai geli delle Alpi,
anch'essi non reputa sufficientemente ghiacciati: prima il popolo voce e
braccio di Dio, adesso polvere soffiata dal Demonio su questa terra; o
dove te sacramenti sincero, e immune da ogni vile talento, sarà, ma
comincia dallo affermarlo senza il boccone in bocca: sputa i dodicimila
franchi; sputa la cattedra; sputa la strada ferrata; sputa la badìa,
sputa, e sputa o poi parla. Capitani allo esercito, Professori alle
università, Giudici ai tribunali: la sua parte ad ognuno. E gli
Avvocati dove? In paradiso a tenere compagnia a Santo Ivone, che ci
entrò (dicono) di contrabbando.--Lo dissi e lo ripeto, il popolo ha
proprio sete di onestà.--Noi pertanto abbiamo bisogno di Roma sia che
dobbiamo ridurci in pace, ovvero rompere in guerra; o procediamo congiunti
con la Francia, o ci separiamo da lei; o soli vogliamo combattere le
nostre guerre, o in compagnia di Francia combattere le comuni: così
durando nè per noi siamo buoni nè per altrui.--

  [1]  Froissard, Croni. t. 1. p. 238.

Contrariamente ai presagi, ci dicono uomini, che lo potrebbero sapere
come lo imperatore di Francia si disponga a levarsi da Roma, lasciando
libero, il popolo romano di eleggere il reggimento che meglio
desidera: dopo quattordici anni e' sembra, che si voglia ricordare a
Roma essere andato appunto per questo; gli è un po' tardi per la
verità, ma meglio tardi, che mai. Certo Romolo per fondare Roma
consultò gli avvoltoi dell'Aventino non i galli di Parigi: Roma si
avrebbe a pigliare col dosso non già con la palma della mano
voltata al cielo; in questo modo si chiede la elemosina: e noi andremo
a Roma con la Libertà come il contrabbandiere col frodo sotto: non
così, non così si salisce il Campidoglio a salutare le anime
latine, bensì si scende nelle Catacombe a gemere sopra i martiri
cristiani, e nondimanco pazienza! Purchè fosse...! Le memorie della
romana grandezza io vo' confidare che a mo' della piscina miracolosa
monderanno il popolo italiano della turpe lebbra della _moderazione_ o
fracida, o ladra, o codarda. Deplorabile cosa questa, che la gente la
quale moderata si appella, per onestare la bruttezza loro abbiano
inquinato gli affetti come i nomi più santi, non si potendo
comprendere politica, etica, anzi neppure domestica economia senza
moderazione.

E se fosse, come i nostri avversari si ripromettono ed io no,
certamente noi avremmo a correre le fortune della Francia, con questa
avvertenza però, che le fossero d'accordo con le nostre; ed anco se
comparissero fino ad un certo punto diverse, non però contrarie;
inoltre si avrebbe a porre mente, che le fortune le quali noi possiamo
correre con la Francia approdassero alla Francia, ovvero alla Francia
ad un punto e al suo imperatore, imperciocchè se favorendo
gl'interessi di questo non giovassero alla Francia, e peggio se gli
nocessero allora adagio ai ma' passi, che per cosa al mondo io non
vorrei movere orma, la quale forse lo imperatore mi ponesse a credito,
e certo poi la Francia mi appuntasse a debito. Mutabili le dinastie
nel mondo; mutabilissime in Francia, la quale non ardua a pigliare,
è una maladizione tenere: breve, io vorrei che l'aquila non mi
portasse seco nè nei suoi voli, nè nella sua caduta, e cessando
il principe mi rimanesse lo stato: concetto, che senza alterazione di
amicizia non solo apparisce lecito, ma è doveroso professare ai
reggitori di popoli. Rammentiamoci sempre di questo, che Cristo, il
quale o Dio infatti, od uomo prossimo alla divinità, non disse
parola mai che non palesasse tutta sapienza e sommo amore, bandì
inesorabilmente «chi di coltello ammazza, di coltello conviene che
muoia.» E lo impero è surto dal sangue.

Adesso poi supponiamo il caso certo meno grato, ma giusta la opinione
mia più verosimile assai, che i Francesi non intendano sgomberare
Roma, che avanza a noi? Pigliarcela. Oppongono pieno di pericolo il
partito: e veramente è così: dubitano possiamo precipitare nel
mandarlo ad effetto: certo si corre rischio di rompercisi il collo. O
dunque mal consiglio è il tuo? No, bensì l'unico prudente, e
lascio da parte se animoso; unico prudente perchè a tale siamo
ridotti noi, che altra elezione non ci resta, che tra la morte certa,
e la morte probabile; rimanendo fermi noi fuggiamo l'acqua sotto le
grondaie. Agevole riesce molto negare il danno, ma impedire che sia
gli è un'altro negozio: ora da ogni lato compaiono segni di
disfacimento; hanno creduto, e credono ricucire con filo di ferro, e
precipitano nella buca dentro cui altri tracollò a capo fitto: che
se pei reami antichi trovarono buona la sentenza che non hanno più
ragione di vivere quando si appoggiano unicamente su la forza,
verissima la sperimentiamo negli stati nuovi sorti dalla benevolenza
del popolo.

Ci domandano il modo di pigliarla, e noi rispondiamo: «che giova
dirvelo? Tanto voi non ardireste praticarlo: voi affermaste avere
diritto su Roma, e poi allibiste rifiniti dalla paura; gli è fiato
perso a favellare con voi; noi vi proveremmo uguali a Bertoldo, il
quale non trovava albero che gli garbasse per esserci impiccato. Ve ne
suggerimmo uno senz'armi e voi lo dileggiaste, e faceste dileggiare
come delirio di cervello che abbia dato nei gerundi; ve ne mostrammo
un'altro con armi, e voi lo malediste ribellione, e levando insegna
contro insegna, crisma contro crisma, perfidi![1] spasimanti e urlanti
di paura lo faceste affogare nel sangue; eravi un dì tale tra voi
di voi non tristo meno, ma più sagace, che avrebbe acceso i moccoli
a piè dei Santi per la mossa del prode uomo Giuseppe Garibaldi, e
con tutte le sue forze lo avrebbe fatto sloggiare da Sicilia;
traversato, che costui avesse lo stretto di Messina egli, senza posa,
addosso; dov'ei levava il piede egli metteva l'orma, così a Napoli,
e così al Volturno; relitte le terre sicule non lo lasciava per
questo, all'opposto sempre dietro talchè le spalle di lui
sentissero l'alito focoso delle sue nari: l'uno con molta mano di
gregari fuggendo, e l'altro con molto esercito regolare inseguendo
giunti su la piazza del Vaticano, arrestati, e arrestatori sarebbero
entrati di amore, e d'accordo in San Pietro a cantare il _Te Deum_
più sincero, che Dio ascolti da moltissimi anni a questa parte.»
Questo avrebbe forse fatto il Cavour inetto a operare e ad operare
grandemente, pure capace ad approfittarsi dell'operato altrui; adesso
i suoi successori, il Ferrari ha detto si rassomigliano ai generali di
Alessandro; nè manco per ombra! La politica che ora prevale è
quella del cane dell'ortolano, il quale _non mangia cavoli e non li
lascia mangiare_.

  [1]  _«........in Francia voi
        «Correre, insegna contro insegna, e crisma
        «Contro crisma levar, perfidi!»
                                        Adelchi_

Provvidenza o Fortuna che sia voglionsi ammirare i casi portentosi pei
quali l'uomo, che pure si stima avvisato, se altra volta pensò, che
la volontà, e la forza di un popolo commesse ad un braccio di ferro
potessero meglio ricondurre la Italia all'antica grandezza, ora
bisogna, che si ricreda e confessi che Libertà interna ed esterna
scaturiscano scintille di spada percossa di un colpo solo su la
pietra. Ci fu un'ora in cui se fosse apparso un'uomo robusto, che nei
plebei diletti non imbestiasse sua vita, in cui un'anima grandemente
cupida, non ragnatelo a cui paresse disgradare Cesare od Alessandro
chiappando una mosca, e portarsela a risucchiare dentro al buco;
un'anima ferocemente disdegnosa, la quale avesse voluto agguantare
Roma come si agguantano le corone, non già come s'intascano
l'elemosine, e posto la mano dentro ai capelli d'Italia con alto grido
detto a noi: «tacete, e combattete; finchè vive in questa terra
uno schiavo allo straniero non vi è permesso favellare di
Libertà.» Noi lo avremmo seguitato: noi gli avremmo messo in
mano la rivoluzione come il fulmine in quella del Saturnio.--Forse era
a temersi Cesare, ma ben venuto Cesare a patto che se ei ripugnava
cibarci del pane della Libertà ci saziasse almeno di quello più
duro della Gloria; non permettesse, che la nostra vista restasse
contristata dalla gente vile che sta nell'atrio del tempio della
Libertà, pubblicana perpetua da Cristo, e prima di Cristo per
vendere e per barattare.--Quando gli Ebrei, vinte le colpe loro dalla
moltitudine delle nostre, diventeranno nostri signori e padroni,
questa gente vile li surrogherà nel ghetto a venderci ciarpe, e
panni vecchi; delle loro anime non si gioverà nè manco il
Demonio: non varranno il carbone che le abbruci.--

Ora poi il pericolo della prevalenza del solo è logorata; il giorno
passò e non ritornerà più: invece dell'uno, che afferra le
moltitudini, le moltitudini afferreranno l'uno, però che i popoli,
levando un dito sollevino, e abbassino i loro capitani; i capitani
senza soldati compaiono personaggi da commedia. Meglio così: sia
dunque che la Francia ci conceda Roma in acconto di soldo per le armi
italiano prestate alle sue guerre, o dobbiamo acquistarci Roma non
consenziente, ed anco contrastante la Francia, ormai senza offerta
spontanea di pecunia e di sangue per la parte dei cittadini italiani
non si può.--

Voglia Dio, che quando di questo si persuaderà la gente non sia
troppo tardi. Ad ogni modo con altro, che con parole il pro' cittadino
è uso affermare la Unità della Italia.--

Noi abbiamo bisogno di Roma per salvarci dal flagello della guerra
civile. Badate a questo sconsigliati e provvedete se non per la
Patria, per voi.

Se tacere giovasse sarebbe ufficio di pessimo cittadino, anzi pure di
nemico aperto favellare, e se le parole si reputassero vane
dimostrerebbe il dirle animo tristo; parmi debito palesare il mio
concetto però che spero le mie parole possano essere seme di bene,
e capaci a partorire rimedi valevoli.--Affermano i principi di
Piemonte avere sempre indirizzato i concetti loro ad unire in un solo
corpo la Italia; e parmi piaggieria espressa, imperciocchè
lasciando dei tempi remoti certo le donne, che durante la minorità
dei figliuoli reggevano le provincie piemontesi ai tempi della discesa
di Carlo VIII, e furono la duchessa di Savoia, e la marchesa del
Monferrato, non pensavano a questo quando sovvennero di moneta e di
gioie cotesto re ond'ei potesse mandare a ruba la Italia da un capo
all'altro con opere piuttosto da predatore, che arraffa, che da
principe, che conquista; nè a me sembra dovere aggiungere verbo per
chiarire la inanità del vanto; che se per supposto si avesse anco a
concedere dovremmo confessare, che i disegni dei principi del Piemonte
per lo meno non differissero da quelli che concepirono eziandio le
repubbliche dei tempi medi, e lo tentarono, e fu acquistare quanto
più potessero signoria di popoli soggetti; così Venezia, e
Firenze esercitarono dominio sopra le terre vinte, o comprate; nè i
popoli proffertisi accettarono compagni, bensì vassalli; le storie
ricordano, che solo dopo molto secolo la repubblica di Venezia accolse
tra i senatori alcuni pochi Candiotti in rimerito della mirabile
resistenza contro l'armata turca; fra i quali un Manin, donde discese
quel Manin, che fu ultimo doge della repubblica tradita dal primo
Bonaparte.

Non vuolsi mica fiore d'ingegno per capire come nella indole del
popolo subalpino l'antico genio italico sia entrato poco, ed a stento:
uomini positivi, e diremo così aritmetici sono i piemontesi,
schifano la immaginazione per sè, l'altrui gli affatica; anco se
taluno di loro n'è tocco le sue fantasie pigliano aspetto di forma
geometrica, onde per ragionare l'assurdo, e mettere il disordine in
architettura valgono oro. Anco gli edifizi offrono argomento a
indovinare la disposizione del popolo, che li fabbricò, e quivi
contempli per lungo ordine case uguali in tutto l'una coll'altra,
sicchè da prima tu resti ammirato, poi ti uggisce, per ultimo la
fastidievole regolarità ti ammazza: uomini, e mattoni ti appaiono
formati proprio sopra un medesimo modello; costà da secoli
passarono, e ripassarono lo spianatoio: chi mai fu il mal cristiano?
Tutti; nè si potrebbe senza ingiustizia asserire che i principi
amassero livellare più che i popoli amassero essere livellati. Il
valoroso Ferrari ragionando del Bottero, e della sua _Ragione di
Stato_, lo fece proprio toccare con mani, ed allorchè qualche
principe si dispose non mica a dare libertà sibbene a smettere
qualche prerogativa, ch'era vergogna di secolo civile, ebbe a toccarne
dai suoi fedeli sudditi e servitori una ramazzina delle buone. Sequela
altresì di questa quadratura di spirito parmi la tardità a
mutare, e la perseveranza nel passo che hanno pure, se non a
maltalento, con molta renitenza mutato. Chi dei popoli subalpini legge
per avventura queste pagine non s'inalberi, dacchè mi garbi
procedere alla rovescia di quello, che costumano i detrattori, i quali
incominciano a levarti a cielo per flagellarti poi di santa ragione;
dirò più tardi dei molti, e nobilissimi pregi tuoi; adesso
ascolta e non battere, perchè se batti ti baratteremo lo scudo in
cinque lire.--Pertanto il Piemontese ama piuttosto ordinare, che
discutere; sentenziare dommatico, che dimostrare; favellare succinto
(tranne gli avvocati, che formano classe a parte e parabolani li
proviamo in tutto il mondo; il mestiere mangia l'uomo) e tuttavia male
rispondente al concetto, nè terso, molto meno elegante, perchè
dallo idioma sincero della Italia un dì appartati, e nè oggi
vogliosi cultori di quello, come coloro, che intendono e vogliono
impiombarci nella lingua il parlare proprio. Certo possiedono
scrittori insigni, ma si conosce di botto, che appresero l'arte su i
libri, onde il Botta adopera un tal quale stile, che ti sembra gittato
sopra il modello del Casa o di qualche altro autore del secolo
decimosesto; e il Gioberti ti turbina in mezzo una lavina di parole,
elette se vuoi, ma così rimescolate, che è spasimo leggerle: dei
minori taccio, i quali nè troppo studiosi dei classici, nè tutti
in balia ai modi del dialetto, a leggerli ti alleghiscono i denti[1].

  [1] Un dì la più parte dei parlatori piemontesi non si
    attentavano movere un braccio per accompagnare col gesto la
    orazione, uno solo ardiva con la mano diritta descrivere un
    quadrante dall'umbelico fino al fianco destro; ed un'altro
    audacissimo con ambe le mani segnava intorno al suo corpo un mezzo
    circolo; chi fosse questo Capaneo della tribuna piemontese non
    importa, ch'io dica, che ognuno capisce accennare io al Brofferio,
    cui Torino, in mercede del lungo apostolato di Libertà, lascia
    negletto, o si compiace vedere esposto al dileggio di schifosi
    profanatori di arti, che ormai, loro mercè, non si chiameranno
    più _belle_. Orologi in casse ti apparivano cotesti Oratori con
    la facondia a _tic tac_, e il _gesto_ a lancetta che segna mezza
    notte passata. Io lessi già da certo scrittore francese
    paragonata la Camera subalpina ad un'assemblea di notari, e ciò
    per onoranza: se costui biasimava che avrebbe detto di peggio? Ma
    io spero, e non invano, che a questa ora il popolo di Piemonte
    abbia compreso che la Italia non è morto di cui i notari devano
    leggere il testamento, nè la Libertà uno incendio per
    mandare deputati acquaioli a spegnerla in furia.

Se pertanto presumono i Piemontesi impiombarci su la lingua la favella
loro, tu pensa se tutte le altre o usanze, o pratiche, od ordini dove
qualche volta gli assiste la ragione.--A questa superbia dette nome
scientifico il Gioberti cavando fuori il vocabolo greco di
_egemonìa_ il quale denota sempre potestà soprastante così
regia come popolesca, ed _egemonìa_ chiamarono gli antichi la Luna
effigiata con due pallide fiaccole nelle mani a rischiarare col lume
accattato il sentiero ai sorvenienti. Il Gioberti col nome greco
insomma volle farci palese, che i suoi conterranei possedevano
diritto, abilità, ed anco dovere di plasticarci a similitudine
loro, cacciarci quanti siamo Italiani dentro la forma dove fabbricano
i mattoni a Torino; ed esemplificando contemplava nel Piemonte la
Macedonia italica, e nelle terre nostre il Peloponneso, l'Attica, la
scaduta Lacedemonia, e la Beozia d'Italia; costà sorgevano Filippo,
e Alessandro, quì da noi retori, e artisti ornamento alla magnanima
rudezza.--Cotesto ingegno tumultuario che chiappava le cose a volo, e
di cento aspetti, che presentano, si fermava sopra quel solo, che
porgeva rincalzo alla sua scapestrata immaginazione, non comprese come
la egemonìa macedone si traducesse in tirannide, in guerre
interminate e senza costrutto, in morte della libertà interna, in
guerre civili, e per ultimo in servitù straniera.

Ma nel Gioberti più che in altri si palesò il tipo curioso di
vestire con sembianze di ragione lo assurdo; mirabili i conati di lui
per sottoporre le astruserie metafisiche a formule scientifiche, anzi
a cifre arabiche, o a forme geometriche; miscela continua, e indigesta
di astrattezze e di pratica; _stellino_[1] abbarbagliante di giudizi
veri, e di falsi, di guizzi d'ingegno sublime, e di grullerie; breve,
uomo che avrebbe provveduto meglio alla sua fama, o avvantaggiata la
Patria se sortiva meno da natura o avventatezza, o fantasia, o le
avesse sapute temperare di più.

  [1] _Stellino_ chiama il popolo, quel tremolare scintillando che fa
    l'acqua percossa dai raggi del sole: parola efficace parmi, ed io
    l'adopero.

Così battezzati _egèmoni_ della Italia dal metafisico Gioberti
(il quale per arroto voleva mettere nella _egemonìa_ come socio
d'industria anco il Papa), _vestiti da domenica_ con un nome greco
sempre più i Piemontesi sprofondarono nella prosunzione nella quale
stavano fitti fino alla gola per disciplina di armi poche ed inferme,
pure le uniche che potessimo reputare italiane, per topografia la
quale li persuase che il nemico tremasse la loro virtù, mentre gli
rispettava a cagione della positura, per l'esito fortunato della
testardaggine messa in opera sopra popoli ridotti nella loro
potestà, in fine per piaggerìa di tali che gli adulavano per
dispetto di non avere livrea dai propri padroni, e per altre cause,
che non importa andare tanto sottilmente investigando.--

Ora la egemonia si esercita, se non m'inganno, o per violenza, o per
civiltà, o per violenza e per civiltà congiunte insieme. La
violenza non partoriva mai la _egemonia_ nel modo che la intendeva il
Gioberti, bensì o l'annientamento del popolo subietto, o il
rancore, che matura nel suo segreto la vendetta; nè la violenza
egemonica approda meglio anco congiunta con la civiltà; di che
pigliate esempio solenne da Roma, la quale, se ne eccettui la Grecia,
poteva vantarsi civile sopra i popoli superati da lei; anco Napoleone
I disse suo recondito disegno quello di passeggiare la civiltà
armata pel mondo, e forse fu vero, non già perchè costui se lo
proponesse, o ci pensasse, ma sì perchè l'uomo anco senza
saperlo diventa arnese in mano alla forza arcana che affatica il
secolo. I barbari si successero come in pellegrinaggio a Roma per
pagare il debito di cotesta romana egemonia; la guerra di Spagna, i
popoli, che per odio della tirannide tracotante si strinsero ai
tiranni umiliati, i cosacchi del Don due volte in Parigi ad abbeverare
i cavalli nella Senna saldarono la egemonia francese.--

I Piemontesi invece sostengono avere provato il metodo loro nella
Liguria, e nella Sardegna con utilità manifesta dello stato.--Qui
si considera prima di tutto come siffatta sentenza risponda a capello
allo aneddoto delle anguille scorticate vive esposto un dì dal
Windam nel Parlamento inglese[1], poichè quello, che riesce
praticare col boccone il quale ti possa capire dentro la bocca,
bisogna mettere da parte col boccone che sia capace ingolarti; e nè
anco la Liguria, e la Sardegna potè a fine di conto masticarsi il
Piemonte vivendo in cotesti paesi odio profondissimo contro di lui, un
dì frenato dalla impotenza per via delle condizioni politiche di
Europa, oggi temperato dalla necessità di costituirci in popolo
grande e potente.--Alle teste gagliarde del Piemonte sembra adesso sia
accaduto quello che avvenne al cavaliere, il quale avendo messo il
piè nella staffa nell'atto di pigliare lo abbrivo invocò lo
aiuto di Santo Antonio, e con tanto impeto il fece che innanzi di
potere levare la gamba per inforcare l'arcione cascò giù
capofitto dall'altra parte; per la quale cosa si doleva col santo, che
troppa grazia gli avesse conceduta. Troppa Italia da masticare di
punto in bianco alle mandibole subalpine: affermano taluni avere udito
gentiluomini piemontesi impazientirsi dell'annessione delle provincie
meridionali d'Italia come d'impiccio; e questo ho udito ancora io, e
congratularsi con la fortuna, e con loro, che la Lombardia dopo
un'ammannimento tedesco di dieci anni fosse tornata loro a mo' di
bottino di guerra però che nella guisa, che ci venne nel 1848 non
si sarebbe potuta mantenere, tanto fumava allora, e dalla Costituente
fino ai rovesci delle maniche per le vesti militari non ci era da
averne bene, mentre adesso domata, e castrata era proprio una pace....

  [1] E non rincrescerà saperlo ai miei lettori. Si quistionava
    nella Camera dei Comuni intorno all'abolizione della tratta dei
    Neri proposta dal Willebeforce; la contrastavano i conservatori, e
    i moderati con la ferocia degl'interessi offesi, onde uno di loro
    di un tratto saltò su a dire, che non riusciva a comprendere la
    tenerezza nuova per la carne nera dacchè era tanto tempo, che
    se ne faceva la tratta, che ormai la ci si doveva essere
    avvezzata. Il Windam deputato della opposizione notò cotesto
    argomento potersi mettere di riscontro alla risposta di quel tale
    cuoco, che rampognato di scorticare vive le anguille prima di
    cucinarle si scusava dicendo: «avere sempre costumato così e
    secondo la sua opinione, essere scorso ormai spazio ragionevole di
    tempo, ond'esse ci si fossero avvezzate.»

Rimane la egemonìa della civiltà, la quale sarebbe unica che si
vorrebbe accogliere, e meritasse durare: questa però desidera nel
popolo, che la esercita un primato dal giudizio universale consentito,
bontà quasi ineffabile, e arguzia profondissima in esercitarlo, e
disposizione nel popolo subietto a lasciarsi fare: mentre se non
possiedi le qualità del primato invece di prendere resti preso,
come accadde ai Langobardi, ai Normanni e ad altri popoli stanziati
qui in mezzo d'Italia. Vuolsi altresì che nel popolo egemonico la
civiltà sia naturale, e propria non ascitizia; però che se ella
sia accattata da altri non che tramandarla altrui, e' fie bazza se la
mantiene egli; onde parrà, che meno, che ad altri la qualità
egemonica si attagliasse alla Luna, di cui i raggi riflessi se danno
luce, non fanno calore: ed anco la civiltà da stabilirsi non vada
contro corrente, e trovi corrispondenza, altrimenti passa come olio
nell'acqua, e tale fu la civiltà dei Saracini a Napoli, in Sicilia,
in Sardegna, e nella Liguria dove attecchì un momento ma non
potè cestire.--

Ciò fermo; ora voi altri uomini subalpini in che e come volete
esercitare questo primato su noi vestendo la presunzione arrogante col
classicismo del nome?--Già voi, ed i vostri più incliti, di
civiltà non si talentano; e' sembra che piaccia loro e giovi essere
considerati stirpe in linea diritta discesa dai vetusti allobroghi, o
dai taurini entrambi celti, non _gentile sangue latino_[1]. Già lo
dissi altrove, e qui ripeto, imperciocchè ai dì nostri queste
anime di polpo poco sentano, e ritengano meno. Cesare Balbo desiderava
l'appennino ligure si fendesse, e pertugiasse: più in là no,
però ch'egli non consentiva: «che nemmeno fantasticando si
lasciasse la immaginazione varcare altri appennini: hacci abbastanza
di sangue meridionale, abbastanza di fantasia poetica, e
d'ingentilimento italiano, aggiunti i Liguri ai Piemontesi; _e troppo
di gentilezza tornerebbe in effeminatezza_.» Di fatti o che
vogliono desiderare di più i Piemontesi: paradiso terrestre Torino;
_sancta sanctorum_ Torino: se ne contentino, e non cerchino migliore
pane, che di grano: «hacci nel mondo, domanda a sè stesso il
dabbene conte Balbo, hacci nel mondo paese più bello del Piemonte?
Egli giace appunto a quarantacinque gradi equidistante tra l'equatore
e il polo; tra l'arsura e il gelo. Il bene fisico come il morale deve
stare nel giusto mezzo[2].»

  [1]  Gentil sangue latino
       «Sgombra da te le vergognose some;
       «Non fare idolo un nome
       «Vano, senza soggetto....

  [2]  Balbo. Carta geograf. del Piemonte, p. 415-417. A Torino, in
    questo paradiso terrestre d'Italia, abbiamo goduto un freddo di 17
    gradi sotto il O a mezzo giorno!

In virtù di primato di arti i Piemontesi non potranno certo
attentarsi ad esercitare la egemonìa: costà l'architettura ci si
trova come Cristo legato alla colonna per ricevervi battiture, quante
fabbriche ci si fanno; una casa pare riflessa da cento specchi le
abbiano posto dintorno; io non lo so di certo, ma ho temuto che da un
punto all'altro mettessero su a Torino una Società in accomandita
per fabbricare uomini e donne come a Nurimberga i burattini tutti di
un conio. Molti assomigliano i casamenti di Torino alla mostra dei
soldati, e mi sembra paragone, che non ritragga giusto la cosa; torna
meglio in chiave rassomigliarli alle processioni delle povere orfane,
che talora mi diedero il male di mare nel vederle per le vie di
Torino; tagliate tutto a un modo dalle forbici della stupidità
messe in mano alla beghineria: povere anime! con gli occhi bassi, le
mani soprammesse sul ventre, con carni, che paiono mozziconi di
candele avanzati alla novena di san Luigi Gonzaga.--E come in fondo
alla processione di queste poverine anime tu vedi spuntare una figura,
che tu credevi impossibile, eccettochè nel sogno dopo avere cenato
con ceci, e pesce salato[1], e quì in Torino trovi viva e verde ad
ogni svolta di canto; un mascherone da fontana per virtù d'incanto
fatto capace di buttare fuori dalla bocca invece di sprilli di acqua
versetti di salmi penitenziali, torto, e bistorto; con certe braccia
lunghe da allacciarsi le fibbie delle scarpe senza pure chinarsi; e
certi piedi, che nei giorni di riotta cittadina dispenserebbero da
costruire barricate; un prete insomma in roccetto bianco, sul quale,
caso mai presumesse significare la candidezza della coscienza di cui
lo porta, si avrebbe a scrivere come i notari quando saltano un foglio
nei protocolli: _alba_ «_per errorem!_» Un prete con un berretto
quadrato in capo su cui i tre spicchi predicano come tre predicatori
in bigoncia, chè un prete non può essere bagnato e cimato prete
dove non gli manchi uno spicchio o d'intelletto, o di cuore, o sovente
di ambedue.--La similitudine capisco ancora io, che passa le
proporzioni; di così lunghe ne adoperava Omero, ma comprendo del
pari che se Omero mal fece non porge scusa a me di comportarmi peggio:
insomma pari a questo prete in fondo delle processioni ti si mostra
lontano lontano allo sbocco della via la cupola della cappella regia,
che verun pasticciere al mondo nei suoi estri di pastafrolla ardirebbe
imitare in un pasticcio quando anco glielo commettesse la demenza in
persona pel dì delle sue nozze; e se dico il vero me ne richiamo a
tutti, anco ai Cafri, anco agli Esquimesi, non però ai Moderati i
quali con duegento cinquanta voti sarieno tomi da preferire quel coso
alto che sta sul duomo di Torino alla cupola del Brunellesco. E la
cattedrale di Torino o non vi pare ella una trappola tesa dalla
religione per chiappare i topi miscredenti? Torino egemonico per arti
in Italia con quel palazzo regio ameno quanto lo _Spielberg_
villeggiatura allestita per gl'Italiani dalla nostra amica Austria!
Con quel giardino dilettoso a vedersi così, che presso al quale
perde il pregio di bellezza lo stradone dei pioppi che da Pisa mette
al Gombo in foce di Arno! D'incanto passando in incanto, ecco il
palazzo Madama congerie immaginata da Belzebub l'ultimo giorno di
carnevale; lì prigioni, lì apparitori, lì littori (lo dico
alla romana), lì guardioli, lì assessori di polizia, lì
tormentatori, e tormentati, lì specola per contemplare le stelle,
lì pinacoteca, lì senatori, lì fossati, dove si coltivano
cavoli, o vuoi fiori, o vuoi cappucci. Sì signori; in piazza
Castello, allato al palagio dei ministri, intorno all'aula dei
senatori, e di tutte le altre degne persone ricordate qui sopra
crescono all'ombra dell'aquila sabauda cavoli fiori, o vuoi cappucci.
Certo bell'umore, a cui io notava il fatto tutto tremante, mi
rispose:--che aveva torto a farne le stimate; ammirassi al contrario
la previdenza piemontese, la quale considerando di avere a surrogare
via via i senatori defunti se n'era allestito un semenzaio sotto
casa.--Così il Piemontese bizzarro; ma io protestai rimbeccando
subito la insinuazione irriverente, dacchè è certo, che dei
Senatori, come diceva _lui_, in Senato non ce ne ha che tre quarti,
tutto al più quattro quinti, mentre gli altri la sanno lunga, e la
sanno contare. E poi il semenzaio dei Deputati dove l'arebbono a
mettere?--E il Piemontese di rimando: per ora non so, ma credo che
aspettino di Francia un modello di stufa per coltivarli anco nei sidi
del Gennaio. A cotesto palazzo dietro e dai lati prigione, fortezza,
guardiolo e simili, appiccicarono davanti una facciata composta non so
nè manco io di quanti archi sgangherati di un bianco sudicio, e
dello stile che si chiama barocco; non mai fu vista l'architettura
concia in guisa più feroce e truculenta: cotesto guazzabuglio ti fa
l'effetto di un cagnotto dei tempi feudali che pensi essersi
travestito mettendosi alla faccia ed in capo una maschera, ed una
parrucca da marchese della reggenza. Ho detto che l'architettura non
fu mai vista tanto barbaramente trucidata come nel palazzo Madama; ho
detto male, supera la ingiuria il palazzo Carignano, che si deve
definire così: _ribellione in permanenza di mattoni cotti contro il
senso comune_; colà non occorre linea che vada diritta; storta la
facciata, storte le scale di cui la prima a gradini convessi, e la
seconda concavi, storta la sala: chi l'architettò e' fu un Guarini,
che Dio riposi, e deve averlo disegnato in profezia, che un dì
avesse ad essere la stanza del primo parlamento italiano,
conciosiachè la strage del buon senso architettonico di cotesto
arnese non può trovare degno riscontro altro, che nella strage di
parecchi sensi, che quivi dentro tutto dì menano i Rappresentanti
della nazione.

  [1] I ceci a cagione della ventosità loro ed in generale tutti i
    legumi danno mal sonno.

Delle opere di scoltura questo dirò, che lo stesso signore Azeglio,
non Massimo, ma quell'altro, che discorreva di arti, tutto che Azeglio
fosse, gittò gli argini, buttando fuori roba da chiodi: se vuoi
trasecolare va di grazia nella piazza del Municipio, e quivi contempla
in mezzo quel gruppo che sembra composto di spinaci, ed è di
bronzo, di parecchie figure armate in guerra di maglie di seta,
disposte in atti di morto, di chi va a morire, e di chi ci manda; il
Conte verde, però che il gruppo rappresenti l'effigie del Conte
verde, (e tu lettore hai da sapere come qualmente in casa al tuo re ci
fosse un Conte verde, e poi un Conte rosso: quanto al Conte verde,
come vedi, egli si attenta comparire per le piazze; circa al Conte
_rosso_ ei se ne sta chiotto nella sua antica sepoltura pauroso, che
il Questore di Torino non lo facesse portare diritto come un cero
nella parte postica del palazzo _Madama_) al quale nell'uno, vale a
dire nell'uno dopo il mille, un giorno venne voglia di piantare il
ceppo donde nacque il nostro re in linea diritta diritta più di un
fuso, secondochè attestano documenti registrati in Duomo, ed Ercole
Ricotti nella _Monarchia Piemontese_ stampata in Firenze dal
Barbèra, il Conte verde, dunque in vaga positura mimica tiene
levata la mazza d'arme su la persona di un guerriero circonciso (la
circoncisione non si vede, ma chi voglia alzargli la camicia di bronzo
la potrà vedere) il quale inclinato il fianco lo sta a mirare con
l'estasi degli apostoli quando pioveva giù a stroscia lo Spirito
Santo, e par che dica: «me la dai, o non me la dai, chè ad
aspettarla io mi sento stracco?»

Hacci un simulacro del Principe Eugenio, che un po' mi parve
dall'uggia di sentirsi da tanto tempo murato su cotesto piedistallo lo
abbia preso la mattana, e venuto in furore con la parrucca arruffata,
le vesti scinte, il collo ignudo voglia pigliare una rincorsa per
andarsene, Dio sa dove, a finire; ovvero, povero uomo! (anche agli
eroi siffatte cose incolgono) soprapreso nella notte dalla colica
sembra, ch'ei siasi lanciato giù dal letto per arrivare laggiù
colà dove confida rinvenire refrigerio. Questa smania di fare
correre le statue, qualche malizioso affermerebbe, che a Torino si fa
più intensa alla stregua che gli uomini vivi ci stanno fermi; di
vero anche nel giardino pubblico il simulacro del Generale Pepe, non
ricordando essere di marmo, scappa via; lo scultore dove non potè
tradire la verità fu nella statua di Cesare Balbo: quelli, che lo
videro vivo, ed ora lo contemplano di marmo, non si accorgono della
differenza; però se marmo sono i suoi scritti, e marmo i suoi
concetti, di marmo, non fu il suo cuore, quando balenò la speranza
di erigere il monumento della Italia, e per la Italia diede più che
il sangue del proprio cuore, quello dei suoi figli, e volontieri anco
credo, che da quel marmo uscirebbero fiamme se gl'Italiani pigliassero
il partito di mettere ogni cosa allo sbaraglio per diventare una volta
padroni di sè. La statua della Italia pare una gessinaia lucchese
che venda i medaglioni del Manin; quella del Gioberti in forma di
modello sul quale i sarti provano i vestiti, a capo basso, con una
mano al petto ti rappresenta giusto un penitente, che dica: _mea
culpa_ per avere creduto, e dato ad intendere, che la Italia potesse
sorgere a dignità col Papa a Roma; del monumento di Carlo Alberto
basti questo, che chi avesse a lavorare una saliera potrebbe cavarne
un disegno, ma non dei migliori; anco su la piazza del Municipio havvi
una statua di marmo di Carlo Alberto in tutto simile ad un cero
pasquale cascato da parte. A mio giudizio la statua che solo ne meriti
il nome è quella equestre di Emanuele Filiberto. Quanto ad arti
pertanto immagino, che egemonìa non avrebbero a volere esercitare i
Piemontesi, almeno mi parrebbe, poi facciano _loro!_[1] Vediamo se in
lettere a cosiffatta egemonia possano i Piemontesi aspirare; io mi
guardo bene da contrapporre ai vanti loro Dante, e gli altri,
imperciocchè se stesse a me ogni toscano, che rammentasse il nome
di cotesti grandi indarno, io lo vorrei condannato in carcere per
quindici dì con gli ultimi cinque inaspriti di pane e di acqua come
soleva ordinare la buona anima del Radetzky, e poi gli fosse fatto
divieto di mai più ricordarli finchè la Toscana non avesse
partorito almanco una mezza serqua di uomini capaci di arrivare alla
caviglia del piede dei grandi antenati. E' bisogna capirla una volta,
che ogni generazione dee vivere del suo lavoro, come della sua
sapienza, e della sua gloria; non fare come gli sciagurati perdigiorno
i quali campano mangiandosi il capitale raccolto dai nonni. Nè mi
uggiscono meno il vanto e la lode dell'antica civiltà etrusca, che
affermano antecedente fino alla pelasgica, ed a certa degna persona
che meco se ne congratulava risposi:--gran mercè, quantunque in
coscienza io non mi estimi erede del re Porsenna, nè dei
Lucumoni.--Chè se la civiltà toscana altro non seppe che
somministrare i riti religiosi ai Romani, che furono detti _cerimonie_
da _Cere_ città sacra etrusca, e lo scettro, e la sedia di avorio,
non che il manto purpureo ai re di Roma, io renunzio a questo retaggio
di civiltà per me, e per tutti i miei discendenti in perpetuo; tra
noi se il Piemonte si onora del Denina, del Lagrangia, del Galliani,
del Botta, del Gioberti, del Pellico, dello Sclopis, del Balbo, del
Cibrario, del d'Azeglio, del Mossotti, dello Alfieri e di altri
simili, la Italia di contro a loro vanta caterve di uomini insigni in
ogni maniera di sapienza umana; la Lombardia ha Scarpa, Volta, e
Verri, e Beccaria, e Manzoni, e Grossi, e Cattaneo, e Ferrari, e
Romagnosi; la Emilia Leopardi, Bufalini, Puccinotti, Matteucci; Parma,
Giordani, Recanati, Leopardi; Napoli e Sicilia Colletta, Ranieri,
Nicolini, Melloni, Piria, Pilla, gli Amari Emerico e Michele; Modena,
il Nobili; la Toscana il Niccolini; il Ferrarese Monti; Venezia Ugo
Foscolo; Verona Pindemonte, e via e via. A Brofferio oppongo il
Giusti; e noto, che la satira di questo ultimo si spande per la
Italia, e ci alligna, mentre quella del primo discolora, non mica per
difetto d'immagini, ovvero di felici scappate, bensì perchè
anteponendo il dialetto piemontese alla lingua italiana ordì tela
municipale; e che razza di dialetto sia il piemontese che ve lo dica
per me, tanto che udendo un giorno recitare dal buon Brofferio taluna
delle sue canzoni piemontesi alla domanda ch'ei mi mosse: che me ne
pareva, io risposi netto: me ne pare questo, che credendo avere
appreso dalla mitologia che Apollo avesse scorticato Marsia; ora mi
accorgo dello errore, almeno quì in casa vostra, dove sento Marsia
cavare Apollo «dalla vagina delle membra sue.» Alfieri merita
abitare eterno co' grandi che gli fanno corona.... le sue ossa bene
stanno in Santa Croce a _fremere_ amore di Patria, con insigne
scandalo dei moderati a cui più dei _fremiti_ garbano i _belati_ o
i _ragli_; ma egli è forza avvertire, che l'Alfieri voleva bene al
Piemonte come gli occhi al fumo, ed aborrì viverci, e tra noi
elesse morire; il fiero animo dell'Astigiano per noi cortese anco
troppo esclamava ad onoranza della mia Patria:

    _«Deh! che non è tutta Toscana il mondo.»_

come modesto soverchiamente in proposito dello idioma, che oggi
presumono insegnarci questi bizzarri fratelli piemontesi egli
scriveva:

    _«Stranio innesto son io su tosco stelo.»_

  [1]  Per compire il quadro odasi quest'altra. Quando il conte di
    Cavour annunziò alla Camera, che di arte egli intendeva niente,
    disse la verità, e potei sincerarmene io stesso; avendomi egli
    dato la posta al suo palazzo andai, dove cominciando così per
    mio genio a considerare minutamente le scale le trovai luride, e
    su pei muri grommose di un colore di ranno dopo fatta la lisciva;
    la porta di casa esternamente vidi ornata di portiera di bambagino
    rosso con penero bianco appunto uguale alle portiere, che da noi
    in Toscana sogliono mettere alle baracche dove vendono il
    cocomero: dubitai avere sbagliato, ma no; egli era proprio il
    palazzo del conte di Cavour; aperto l'uscio entrai dentro una
    maniera di galleria ammirabile non mica per quadri, non per
    istatue, non per bassirilievi; di queste cose nè manco l'ombra,
    bensì di una doppia fila di scarpe e stivali....... Di quì
    fui intromesso in certa anticamera e la maraviglia crebbe; su le
    porte e pei muri notai talune figure colorate col sugo di
    regolizia, sedie vecchie, e sciatte, armadioli unti e bisunti ad
    uso di riporre i lumi; e poi certe urne, che di sicuro dovevano
    essere avanzate al catafalco di qualche atavo del nobile Conte; ma
    ciò, che più mi percosse fu il suo busto di marmo sopra un
    tronco di colonna messo proprio a canto alla soglia del suo
    studio, e mi percosse perchè i Romani in cotesto luogo solevano
    tenere incatenato il cane; però anco a catena avendo addentato
    qualche gamba sembra che al cane vivo trovassero spediente
    sostituirne altro o dipinto, o condotto a mosaico con la leggenda
    sotto: _cave canem_. Questo negli scavi di Pompei può
    riscontrarsi agevolmente; per la qual cosa io pensava: «_cave
    Cavour_! uomo avvisato è mezzo salvato!» Ammesso nello
    studio, intantochè il Conte terminava scrivere non so quale
    lettera, inventariai l'uomo; egli vestiva un gabbano da camera
    sudicio, e mi parve anco lacero, con uno straccio al collo, e in
    capo una papalina logori entrambi e laidi, stavasene accoccolato
    su di una tavoluccia dove scriveva in furia con molto disagio;
    avanti questa tavola ne vidi un'altra più grande dove notai una
    tazza di argento dono non mi ricordo di quale Municipio, o
    Consorteria. La stanza parata di carta con alquanti specchi nè
    più nè meno di qualunque sala di moderna osteria: non libri,
    non quadri, non arnesi che svelassero gusti eleganti od amore di
    arte. Lo studio rispondeva sul cortile, e dirimpetto alle sue
    finestre, levati gli occhi, vidi pendere giù dalle finestre del
    secondo piano pezze e fasce da bambini, onde la memoria corse ai
    due scolari brilli di cui racconta Heine nel _Reisbilder_ quando
    aprirono l'armadio dell'oste e vi avendo trovato attaccato un paio
    di calzoni di pelle gialla di daino usati da lui quando faceva il
    postiglione, li presero per la luna, e volsero a loro una
    invocazione sul gusto dell'Ossian.--E questi, dissi fra me, è
    l'uomo, che ha da comprendere la Italia? Sarà! e mi strinsi
    nelle spalle; proprio come esclamai: sarà! e mi strinsi nelle
    spalle quando additandomi i _Turcòs_ mi affermarono essere
    venuti in Italia a darci la Libertà:--Sarà!  soggiunsi poi,
    ma se io fossi nei piedi della Libertà mi verrebbe la pelle di
    oca al solo vederli. Intesi dire altresì, che nella sua camera
    ei tenesse appeso il ritratto del Boggio; ond'io esclamai: mamma
    mia! il ritratto del Boggio sarebbe mai la Madonna della Seggiola
    del Conte di Cavour?--Non già, mi risposero, ma il signor Conte
    guardando la figura del Boggio, così a digiuno, si mette a
    ridere e ciò gli dà qualche minuto di buono umore.--Che il
    Conte di Cavour possedesse ingegno di certo non nego; impugno
    avesse capacità di Ministro italico; e dove pure in lui non
    difettasse la capacità a lungo andare non avrebbe approdato,
    perchè egli non chiamò mai le Grazie a spruzzarlo con la
    loro acqua lustrale. Il bello e il buono nella morale compongono
    una medesima cosa, e chi non ha senso di arte non può intendere
    la Italia.

E Botta visse esule da casa sua, e Gioberti altresì, il quale
diverso dalla indole piemontese, pare favilla balestrata a Torino
dalla eruzione del Vesuvio; e non sarebbe maraviglia, però che si
legga, che quando prima ruppe il monte pauroso la lava andò a
cascare fino in Alessandria. Se in arti, in iscienze, ed in lettere
noi non possiamo insegnare niente ai piemontesi non ci si apponga ad
jattanza se affermiamo nè manco noi altri italiani avere nulla da
apprendere tra loro[1]. Per amministrazione si governano peggio della
lombarda, e questo ho toccato con mano; quanto a legge per amore di
unità incaponivano a volerci a parte nella beatitudine della corda,
con errato consiglio non meno che con mente iniqua; imperciocchè se
la morte abolita efficacemente è segno di buona civiltà
acquistata, perchè dobbiamo noi altri toscani stornare alla
barbarie, e non voi piemontesi allungare il passo per agguantarci
sulla via della civiltà? Ma tutto questo suona prosuntuosa
insipienza di curiali; di vero se per sopprimere la pena di morte si
desidera stato più perfetto di civiltà, o con qual giudizio
v'incocciate a mantenere questa pena, la quale tra le barbare è
barbarissima, e tra le inique scellerata delle instituzioni umane? Per
leggi civili portava il vanto Napoli; le industrie agricole migliori
in Toscana che in Piemonte; nelle urbane Piemonte supera, ma contaci
la Liguria, che parte di Piemonte fu per violenza, non però per
indole, nè per volontà. Avanzano le armi.

  [1]  L'antica uggia non può fare a meno, che abbia partorito
    pessimi effetti difficili a vincersi: le nebbie del passato
    caligano sempre intorno al Piemonte, e se tu riscontri la temperie
    di cotesto paese sul termometro della Ragione di Stato del
    Bottero, tu trovi che l'aere non è per anco sereno di
    civiltà. Carlo Botta, tenerissimo del Piemonte sua patria, ci
    fa sapere come la università di Torino non fruttasse i buoni
    effetti che uomo se ne riprometteva in grazia della _strettezza
    del governo, e dell'apparato militare_. Il Denina, citato dal
    Botta, racconta come i letterati venuti da Roma, da Napoli e da
    Palermo alla stanza di Torino preferissero quella di Milano
    _austriaca_, però che colà le lettere e le scienze godessero
    di certa libertà ignota a Torino, con altre più cose
    gravissime che, se te ne piglia vaghezza, tu potrai leggere nel
    lib. 38 della Storia d'Italia sino al 1789. Altrove (lib. 48 della
    medesima Storia) il Botta esce fuori con queste parole, che mal
    per noi se non le cavassimo dai libri di un piemontese sfegatato:
    «gli studi si fomentavano a patto che da angusto e stretto
    cerchio non uscissero. Nissuna vita nuova, nessuno impulso,
    nissuna scintilla di estro fecondatore: un'aere _greve pesava sul
    Piemonte e i liberi respiri impediva_. Lo stesso vivere tanto
    assegnato del Principe (e doveva dire tirannicamente pedantesco)
    faceva, che la consuetudine prevalesse sul miglioramento, e che
    nessuno dall'usato sentiero uscisse ancorachè più facili,
    più utili, e più dilettevoli strade in luoghi vicini di
    sè medesime facessero mostra. Dai duri lidi fuggivano Lagrange,
    Alfieri, Denina, Berthollet, e Bodoni, e fuggendo dimostravano,
    che se quella era terra per natura feconda gretto coltivatore
    aveva. Carlo Emanuele e Bogino si martirizzavano su i conti, e le
    generose aquile sdegnando quel palustre limo a più alti e
    più propizi luoghi s'innalzavano.» Quanta larghezza da
    cotesta ora in poi godessero gli studi nel Piemonte, anco in tempi
    recentissimi lascio, che altri dica: pure ieri i Gesuiti maestri,
    e donni dei cervelli piemontesi: no, veramente, a me non pare, e
    non parrà, spero, nè anco ai nostri buoni fratelli subalpini
    ch'essi possano presumere quanto a scienze ed a lettere di
    esercitare egemonìa sopra la Italia.

Di quali armi favellate voi uomini piemontesi? Quando tra noi fioriva
la onorata milizia, di voi non ci giunse novella; nella scuola dei
Bracci, e dei Piccinini, tra gli Sforza da Cutignola, gli Alviano, i
Colleoni, e tanti altri famosi si ricorda unico il Carmagnola; più
tardi tra i Colonna, i Pescara, Giovannino dei Medici, gli Strozzi, il
Ferruccio, i Doria, i Sanseverino, gli Orsini, i Farnese, gli Spinola
unico Emanuele Filiberto; di cui gloria immortale la battaglia di San
Quintino, la quale non egli vinse, bensì il conte di Aiamonte, il
principe di Brunswick, e i conti di Hornes, e di Mansfeldt; Emanuele
Filiberto arriva tardo sul campo di battaglia, e quando i francesi
rotti fuggivano inseguiti dai _raitri_; solo con le artiglierie egli
disperse l'ultimo corpo di fanti guasconi, che combattevano, disperati
della vittoria, per proteggere la ritirata; nè seppe usare poi
della vittoria, chè proseguendo il corso prospero avrebbe preso a
mano salva tutti i francesi senza eccettuarne pure uno; e questo
chiariremo con prove espresse se a Dio piacendo mi condurrò a
dettare la vita di cotesto duca di Savoia. Certo con gloria maggiore o
minore trattarono le armi i principi di Savoia; con grande Tommaso,
con massima Eugenio; ma se togli l'ultimo gli altri ebbero emuli pari
se non superiori a loro; questi poi veruno. Nel periodo lungo delle
guerre napoleoniche i più famosi capitani come Bertoletti, Pino,
Teuliè, e Vacani uscirono di Milano, i tre Lechi o Mazzucchelli da
Brescia, Lahoz e Peyri furono mantovani, Bianchini, l'eroe di
Tarragona, bolognese, il maresciallo Bianchi da Corno, Viani veronese,
Zucchi reggiano, Severoli faentino, Palombini di Roma, Fontanelli da
Modena, Colletta di Napoli; solo due noti nelle storie dava tutto il
Piemonte, più illustre il primo, che fu Rusca, meno il secondo
nominato Serras; nella guerra del 1848 venne fuori il Bava capitano di
abilità mediocre, e di cattiva fortuna; nel 1849 ebbero ricorso a
capitano straniero con perdita di riputazione, e sciagura della
impresa. Adesso fanno caso grande del Lamarmora, ma non tutti in lui
ripongono fede; ad ogni modo gli preferiscono il Cialdini od anco il
Fanti, i quali insieme al Cucchiari vengono da Modena. Quanto a
Garibaldi ormai è convenuto che generale matricolato non si possa
estimare; di fatti della milizia ei sa una parte sola, una sola, tutte
le altre ignora, e questa una è quella di vincere le battaglie.

Questo intorno ai capitani; circa le milizie quando per tutta Italia
andavano famose le Bande nere, ed anco la ordinanza della Milizia
fiorentina le soldatesche del Piemonte si reputavano le più
scadenti di tutte.--E perchè non paia avventato e maligno il mio
dire, siami lecito riportare quanto trovo sparsamente scritto intorno
ai capitani, e alle milizie piemontesi durante il secolo decimosesto
nelle relazioni degli ambasciatori veneziani arguti nell'osservare
quanto schietti nello esporre. Ora di queste relazioni io ne conosco
cinque, stampate a Firenze; la prima è di Andrea Boldiù la quale
è tratta dalla biblioteca Capponi insieme coll'altra del Lippomano,
che al nostro scopo non approda; due ne somministra l'archivio reale
di Torino e sono di Sigismondo Cavalli, e di Giovanfrancesco Morosini,
l'ultima pubblicava il signor Cibrario. Quanto a' capitani; e ai
soldati afferma il Boldiù: «ha parlato assai sua eccellenza;
sebbene non ha terminato cosa alcuna di dare forma alle genti del suo
paese nel modo che sono le cerne di vostra serenità, che si
chiamano ordinanze; per le quali già ha fatto _colonnelli e
nominati molti capitani, pochissimi dei quali sono, come intendo, che
abbiano comandato in guerra alcuna_. E cercando io poi di sapere
quanto si sperava, che potesse essere il numero di queste ordinanze mi
viene affermato, che per servire nel paese ascenderiano a 24000
uomini, ma volendo condurli fuori non passeriano 8000, ma questi buoni
veramente[1].» Il Cavalli più alla recisa: «di uomini da
guerra, che abbiano servizio con sua eccellenza, _nè dei suoi
sudditi_, nè di altri vi _ho conosciuto persona di gran nome o
valore, salvo che il Signore della Trinità_, il quale vostra
serenità avrà inteso nominare per le operazioni onorate che fece
alle imprese di Cuneo e Fossano.... _il signor Duca non si serve gran
fatto di lui, prima perchè non vuole mostrare, che quello che fa
sia per consiglio del medesimo; poi_ (nota, o riponi in mente lettore)
_perchè dove tutti gli altri suoi servitori gli parlano con molta
timidità, lui per dire il vero O quando si trova in Corte parla
più liberamente... per tal causa vive il più del tempo ritirato
in casa sua_. Vi è ancora il signor Masino, che a tempo di guerra
era vice-duca, questi è galantuomo e cavaliere liberale, ma nel
_fatto di guerra non ha mostrato virtù sopra gli altri_. Il conte
d'Arignano ancora lui è prudente gentiluomo, ma non ha _fatto
operazioni, che, meritino essere rammentate più, che tanto_.
Restano alcuni privati capitani, che si possono riputare _buoni
soldati_, ma non sono persone di grande portata[2].»

  [1]  Relazioni venete, Serie II, vol. 1. p. 136.

  [2]  Relazione dell'Oratore Cavalli. Relaz. degli Amb. veneti. S. II.
    Vol. II, p. 33.

Più spezialmente circa la qualità dei soldati, e l'indole dei
piemontesi l'oratore Giovanfrancesco Morosini informa il Senato:
«il letto loro è pieno di foglie di alberi per la molta
povertà, del paese non tanto causata poi in effetto dalle lunghe
guerre, e continue, che ha avute, quanto da una _naturale viltà e
dappocaggine di quei popoli_; la quale ancora è causa, che con
tutto che pei tanti anni continui sieno stati nudriti ed allevati
nelle guerre, _non sono però_ al giudizio di molti, da essere
tenuti per _molto atti allo esercizio delle anni per non dire, che
sieno inettissimi a quello_.»

Questa relazione del Morosini va copiosa mirabilmente di notizie
intorno alla milizia del Piemonte; chi ne abbia talento (e lo dovrebbe
avere, ma ne dubito, perchè la gioventù in mal punto oggi si
mostra aliena dagli studi, massime storici) può esaminarla intera;
al mio assunto giova cavarne questo altro tratto: «ha il signor
duca, oltre alli presidi, una milizia di 16000 fanti bene armata sotto
quaranta insegne, le quali prima erano 66, ma sono state questo anno
ridotte al numero di quaranta, a fine di scansare le spese dei
capitani, e degli officiali di 26 compagnie; e li fanti sono stati
distribuiti in modo, che in ogni bandiera saranno 400 fanti, e sua
eccellenza viene ad avere avanzato 5200 scudi all'anno. Queste genti
sono al governo di 42 gentiluomini, tutti suoi vassalli, salvo che
uno, ch'è il signor Guido Piovene suddito della serenità vostra
e gentiluomo vicentino...... Questi tutti hanno nome di colonnelli e
sono stipendiati diversamente l'uno dall'altro, avendo chi più, chi
meno secondo la inclinazione di sua eccellenza. _Questa gente, come ho
detto di sopra, non è molto atta allo esercizio delle armi_, salvo,
che certa poca quantità verso Fossano, e il Mondovì, li quali
per essere tra loro stessi in perpetua gara riescono più esperti, e
pronti a menare le mani, che gli altri; ma _quanto più sono buoni
allo esercizio delle armi tanto più sono fastidiosi, ed insolenti
ad essere governati, e disciplinati. Fa usare sua eccellenza molta
diligenza per tenere bene disciplinata questa milizia_ facendo mostre
spessissimo, alle quali molte volte si trova di persona sperando pure
con questo frequente esercizio doverle _levare da quella naturale
pigrizia, che hanno; ma difficilmente credo, che vi riuscirà
essendo più forte la natura, che l'arte_[1].»

  [1]  Relaz. ven. S. II vol. 2. p. 130.

Da principio Emanuele Filiberto pare, che facesse capitale sopra i
popoli di Savoia, sicchè Sigismondo Cavalli racconta egli avere,
per lo scopo di assicurare i stati, «principiato a fare le cernide,
ovvero ordinanze dei suoi popoli, ed obbligare ogni comune a dare
tanti corsaletti, picche, archibugi, e morioni; e già quelli della
valle di Aosta _debbon essere in buono stato_, perchè quando sua
eccellenza passò di là, tornando di Savoia, volle vederne la
mostra, la quale riuscì assai bene[1]» Senonchè Francesco
Molino dopo dieci anni nel 1574 referendo al Senato così favella di
cotesta medesima milizia: «i popoli che abitano la Savoia sono per
lo più _timidi_, e _vili_: non si danno ad alcuno esercizio, e
nè tampoco a quello delle armi, e fecero vedere questa poca
inclinazione alloraquando il duca ordinò una milizia, per la quale
avendo speso più di seimila scudi in arme, in poco tempo fu
ritrovato, che dei _morioni, e corsaletti se n'erano serviti a fare
delle pignatte e degli spiedi_[2].» e comecchè poco più
innanzi afferma i popoli del Piemonte più atti ad adoperarsi,
più capaci di disciplina, o più industriosi dei Savoini, non si
sa bene con coteste premesse s'egli intenda più avvilirli ovvero
commendarli.

  [1]  Relaz. ven. S. II. vol. 2. p. 37.

  [2]  Relaz. ven. S. II. vol. 2. pag. 246. Innanzi però di pigliare
    congedo dalle Relazioni degli Oratori Veneti giovi cavare da loro,
    a fine d'instituire i debiti confronti quale, la gratitudine del
    duca Emanuele Filiberto fondatore vero della casa di Savoia verso
    coloro che nella fortuna avversa lo sovvennero col sangue e con
    gli averi. «Quelli poi che sono stati fedelissimi a sua
    eccellenza e l'hanno in ogni tempo servita, si trovano di
    malavoglia, perciocchè quando aspettavano, tornati in Patria,
    ed a casa di avere alcuna mercede per essersi tanto tempo trovati
    spogliati di quanti beni avevano, vedono che solamente si danno a
    loro parole, ed all'_incontro a quelli che sono stati totalmente
    contrari a sua eccellenza si danno maggiori onori, che vi sieno e
    sono adoperati prima degli altri, il che mette alle volte in
    disperazione tale, che prometto a vostra Serenità, che si
    conosce chiaramente che muterieno voglia se tornasse il tempo
    com'era prima della guerra_. Relazione dell'Oratore A. Boldiù.
    S. 2. vol. 1. p. 441. Rispetto all'osservanza nella quale tenevasi
    il Consiglio di Stato, e le deliberazioni di lui..» In questo
    consiglio rare volte si trattano materie di stato, o solo
    allorquando vuole servirsi sua eccellenza delle deliberazioni di
    quello _per causa sua_, come fece ultimamente con accomodarsi con
    quelli suoi di Agrogna, perciocchè disse, che ciò fatto
    aveva perchè aveva così deliberato tutto il consiglio di
    Stato......Poi domanda sua eccellenza li pareri loro, e dice:--io
    intendo che si faccia così:--o pure si leva dicendo:--_si
    delibererà poi_--e molte volte occorre, che sua eccellenza non
    va al consiglio, e se vi si trova non si obbliga molto a quello,
    che sarà parso alla maggior parte di quelli, che vi sono. E
    dirò più, che io ho saputo per certo, che fu un giorno
    deliberata una materia d'importanza alla presenza di sua
    eccellenza, e di ciò fu commessa la lettera per la esecuzione
    al Signore Fabri secretario deputato a detto carico, ma sua
    eccellenza fece poi chiamare esso secretario in camera sua, ed
    ordinogli altramente, onde fu eseguito per lo appunto il contrario
    di quanto era stato deliberato con maraviglia di tutti quelli
    consiglieri suoi. Di modo che si può dire assolutamente che
    delle cose sue sua eccellenza intende, o vero vuole e delibera a
    sua voglia sola.» Il che si rassomiglia come uovo ad uovo al
    Consiglio convocato da Serse prima di rompere la guerra con la
    Grecia dov'egli dopo salutati i Satrapi, secondochè ci
    testimonia Valerio Massimo al capitolo quinto del Libro IX della
    opera sua, così prese a dire: «non ho voluto parere di fare
    le cose di testa mia, però voi vi avete a ricordare come vostro
    debito sia non consigliare bensì obbedire.» Adesso qualche
    cosa circa allo amore di Emanuele Filiberto archetipo dei Reali di
    Savoia per la onesta libertà dei popoli, nonmenochè dello
    studio ch'egli poneva a mantenere gli antichi loro diritti:
    «per dimostrazione di questa sua potestà, continua il
    medesimo oratore, che intende, che sia _assoluta non ha voluto
    tenere li tre stati del suo paese, come l'obbligano le convenzioni
    antiche della casa di Savoia con li suoi confederati, osservate
    sotto ciascun altro principe passato_.» Che cosa poi fossero
    questi tre stati si ha dall'altra Relazione di Francesco
    Morosini, il quale rincalza la testimonianza del Boldiù:
    «solevano al tempo degli altri duchi di Savoia essere divisi in
    tre parti, che loro dimandano stati, cioè cherici, gentiluomini
    feudatari, e gente popolare; li quali erano convocati dai duchi
    sempre quando volevano qualche donativo dal paese, o mettere
    qualche angaria ai popoli, e con questi si accordava il lutto. Ma
    dopo il ritorno in istato di questo signor duca, parendo a lui di
    averselo acquistato con la spada alla mano, e _che la ragione di
    guerra voglia, che i popoli restino liberamente alla discrezion
    dei principi, perdendo ogni privilegio, che per lo innanzi
    avessero ottenuto nei tempi in cui si erano volontariamente dati,
    però non è mai parso a sua eccellenza di fare questa
    convocazione, ma ha voluto disponere a modo suo liberamente
    mettendo da se tutte quelle angarie che gli è piaciuto mettere,
    di che universalmente tutti ne restano male soddisfatti_.

    E tu considera fede, e giustizia: imperciocchè se i suoi
    dominii erano venuti in potestà altrui ciò doveva
    attribuirsi a difetto del debito del principe, il quale consiste
    appunto nel difendere i popoli al suo reggimento commessi, onde
    non egli ad altri, bensì altri a lui doveva farne pagare le
    pene. E questo come vero in massima si trovava verissimo in
    pratica, essendochè i popoli non fossero venuti meno alle
    difese, nè alla devozione; mancò il duca al popolo non il
    popolo al duca; anzi Chieri abbandonato si difese per modo, che
    quando il presidio ne uscì gli uomini e le donne pei patimenti
    sofferti parevano fantasmi; a Rivoli, disertate le sue campagne,
    vide morire mille persone, tra cui molte per fame, e tre soli
    nascere. Cuneo respinse l'assedio dei Francesi, affaticandocisi
    dintorno non pure gli uomini, ma le donne altresì, tra le quali
    famose Giovanna sorella al conte di Etremont, ed Eleonora dei
    Rabìa; la terra della Trinità in pena del pertinace soccorso
    apportato a Cuneo rimase dall'Annibault quasi distrutta: la difesa
    di Nizza, e il valore della Segurana conosca il mondo così, che
    ogni parola intorno a quella parrebbe soverchia.--La tirannica
    ingratitudine di Emanuele Filiberto tanto più offende ogni
    senso morale, che proprio contro la volontà espressa di Carlo
    III, suo padre, i Nizzardi gli salvarono Nizza, e lui. «In
    queste strette, attesta il _Ricotti Storia della Monarchici
    piemontese_ l. 4 p. 252, l'ardire e la fedeltà dei cittadini di
    Nizza, e dei soldati parte Piemontesi, e parte Savoini, che
    presidiavano il castello, salvarono _il Duca, e forse la
    monarchia_.» Intimati dal Duca di consegnare Nizza al Papa
    Paolo III, ovvero allo Imperatore Carlo V. i Nizzardi rispondono:
    essersi dati a patto, che non venissero mai ceduti nè alienati
    senza il consentimento loro; e dove questo accadesse essersi
    riservati il diritto di resistere con le armi, e tanto oggi essere
    risoluti fare, e senza dare tempo alle risposte gridando:
    _Savoia_! costrinsero quel duca dappoco a tacersi scornato. Il
    presidio del castello preso odore che i Signori di Musinese e di
    Bourges, quegli capitano, e questi luogotenente volessero tradire,
    e forse era sospetto, li cacciarono via non senza un carpiccio
    delle buone; poi udendo che il Padre Carlo aveva menato il
    figliuoletto Emanuele Filiberto al bacio dei _santi piedi_ di
    Paolo III padre di Pierluigi Farnese proruppero a furia sotto la
    guida di Aimone di Lullin, e di Grato di Provana, lo ripresero, e
    menatolo in castello giurarono difenderlo, finchè il fiato
    reggesse. Questo singolare duca di Savoia di certo non pensava a
    riunire sotto la sua dominazione la Italia, dacchè ponesse
    tanta smania a sottoporre i suoi sudditi alla straniera
    dominazione quanto altri ne mette ora a liberarneli, per modo che
    non contento se non si provava all'ultimo cimento, raccolti
    così soldati come cittadini Nizzardi nella piazza di San
    Giovanni egli prese a dire: «ma, signori, voi siete sudditi
    miei; io sono vostro principe e signore, o perchè dunque non
    volete, che il papa e lo imperatore alloggino nella città e nel
    castello quando ve lo dico io?» Risposero: «voi siete nostro
    signore, e sarete; viva Savoia!» e più pertinaci, che mai di
    non volere ammettere persona se ne andarono via: della quale
    risoluzione vivendo il duca in ansietà grande ebbe dal Provana
    il conforto di queste parole: «Non si dia pena Eccellenza, che
    questa volta le rape di Savoia, il burro di Piemonte, e il porco
    salato di Nizza hanno fatto insieme una pietanza, che ne anco il
    diavolo ne mangerebbe.» Emanuele Filiberto molti anni dopo,
    aggiunge il Ricotti su le testimonianze del Lambert, e del
    Gioffredo, confessava all'ambasciatore di Venezia avere potuto
    conoscere sicuramente che Carlo V. voleva rubargli Nizza per
    servirsene con Villafranca per iscala da passare dalla Spagna in
    Italia. Io non aggiungo parola però che mi parrebbe sciupare la
    impressione, che arreca tanto mostruosa ingratitudine. E nè
    manco era vero, che il duca avesse ricuperato il Piemonte con la
    virtù delle sue armi; egli lo riebbe per rimbalzo delle guerre
    con varia fortuna combattute tra Francia, Spagna ed Inghilterra;
    il trattato di Castello Cambresi non restituì ad Emanuele
    Filiberto nè tutti, nè definitivamente i suoi stati; la
    Francia conservò le piazze di Torino, di Chivasso, di
    Villanova, di Asti, di Chieri, e di Pinerolo obbligandosi a
    restituirle dopo assettate le sue differenze col duca per via di
    congressi, o di arbitri; e ciò avvenendo la Francia arebbe
    smantellato del Piemonte e della Savoia le piazze, che le sarebbe
    parso. La Spagna per converso terrebbe presidio in Asti e Vercelli
    finchè non isgombrasse la Francia. Inoltre toccò a Emanuele
    Filiberto, giovane di trentuno anno, chiudere gli occhi e mandare
    giù la _pillola amara_ della moglie Margarita sorella del re di
    Francia donna attempata di 40 e più anni; nè questo è
    tutto: Nizza, la prode, e fedelissima Nizza, allora, come ai dì
    nostri, turpemente sagrificata imperciocchè pel trattato di
    Grudendal tra Filippo II e il duca rimanesse stabilito che il re
    metterebbe e pagherebbe il presidio del castello di Nizza, e dei
    forti di Villafranca; darebbe in dote 60 mila scudi a donna Maria
    figliuola naturale del duca: i castellani giurerebbero fedeltà
    al re e al duca, e morendo questi senza eredi il re diventerebbe
    assoluto padrone di coteste terre.--Gli scrittori piemontesi
    confessano siffatto accordo frutterebbe a Emanuele Filiberto
    _eterna infamia, se la ineluttabile necessità non lo
    scusasse_;--dacchè, essi aggiungono, il duca non avesse parte
    nel congresso, e fosse del tutto in balia della Spagna, salvo lo
    aiuto che per emulazione gli potesse venire dalla Francia; la
    quale cosa posto, che sia, come la raccontano, gli è falso
    espressamente il pretesto, ch'egli allegava per dominare assoluto,
    la liberazione dei suoi stati dal dominio straniero per virtù
    di arme.

Nè gli scrittori piemontesi negano questo; al contrario facilmente
confessano, che sul cominciare del secolo decimosesto _il difetto_ di
coltura _non era compensato con la gloria delle armi_, le quali erano
misere ed incerte; e la difesa dello stato non usciva già dalla
copia, nè dalla prodezza delle milizie paesane, bensì dal danaro
proprio, e dall'avarizia altrui.--

Ma non è vero, che negli altri stati d'Italia si procedesse a quel
modo; anzi il vero è al contrario, nè gli stessi Scrittori
piemontesi lo ignorano, dacchè lo stesso Ricotti nella Storia delle
Compagnie di ventura in Italia ci attesti Firenze e Orvieto fino dal
1350 avere istituito i balestrieri del contado per affrancarsi dalla
infamia della milizia mercenaria; e Venezia più tardi con
l'ordinamento delle cerne; ed altri altrove; ma più che tutti da
capo Firenze la quale a' conforti di Antonio Giacomino Tebalduccio, e
di Niccolò Macchiavelli instituì nel 1506[1] la ordinanza della
milizia fiorentina con le prescrizioni, e norme che si leggono per le
storie, e da prima furono diecimila nel contado di Firenze solamente
fanti, sei anni dopo si fecero anco cavalli nel numero di 500. Questa
abolita dalla tirannide dei Medici, ecco Giovanni dalle Bande nere
formare la stupenda milizia di cui la memoria ancora non langue, e
sicuramente coll'occulto concetto di stabilirla arnese per acquistare
gagliardo stato in Italia, e difenderlo contro ogni straniera
soperchieria; da questa onorata scuola, cessata la tirannide medicea,
risorsero le milizie fiorentine, e furono spartite in milizie del
contado disposte in trenta _battaglie_, ed in milizie di città in
quattro bande una per quartiere, ed ogni banda in quattro compagnie
con sedici gonfaloni in tutto; da prima cavaronsi dagli uomini di
diciotto fino a trentasei anni, e se n'ebbe un tremila all'incirca, ma
forse più che meno nella sola città; più tardi si presero da
diciotto fino a cinquantacinque anni, e in tutto se n'ebbe un
cinquemila.--Nella vita di Francesco Ferruccio mi sono ingegnato
quanto meglio ho potuto discorrere di questa gloriosa milizia, la
quale non si mostrava come apparivano i soldati piemontesi allora
pigri, grossieri, contennendi, e vili bensì tali che il Ricotti
medesimo confessa: «colla modestia, e con la esattezza sia nel
comandare sia nell'obbedire, con la perizia delle mosse, con la
ricchezza delle vesti, e delle armi, non meno che con la concordia, ed
unione diventò in breve soggetto di maraviglia ai più vecchi
soldati[2].» Nè per questo solo ella fu maraviglia ai presenti,
ed onorata memoria ai futuri, bensì per ferocia di magnanimi
propositi, e per valore inclito.--

  [1]  _Scritti inediti di N. Macchiavelli risguardanti la storia e la
    milizia, illustrati da G. Canestrini_.

  [2]  _Op. cit. p._ 6. _cap._ 3.

Io non riporterò la testimonianza di scrittori fiorentini come quelli i
quali si potrebbe per avventura supporre che procedessero parzialmente, ma
sì di Carlo Capello oratore veneziano del pari che degli altri dei
quali mi valsi per giudicare la qualità delle armi piemontesi; costui
pertanto, scrivendo al serenissimo Doge gli afferma: «tuttavia non si
perdono di animo e sempre con maggiore costanza si confermano in volere
ovvero conseguire la libertà, ovvero portarsi di sorte, che se la
perdono, speso, e consumato tutto l'avere loro non vi sopravviva alcuno, e
solamente si dica: _qui fu Firenze_.[1] «E quanto più il pericolo
stringe tanto maggiormente s'intorano a mettersi ad ogni sbaraglio.
«Tanta, scrive il medesimo oratore il 14 Luglio 1530, è la costanza
degli animi di ciascuno, tanto indurata la ostinazione di volere liberarsi
che hanno deliberato pubblicamente patire ogni estremità, e subito, che
il Ferruccio si scopra... uscire della città con tutta la gente di
guerra e con quelli della milizia cittadina, e combattere e così
vincere ovvero insieme con la vita perdere il tutto avendo determinato,
che quelli che resteranno alla custodia delle porte, e dei ripari, se per
caso avverso la gente della città fosse rotta abbiano con le mani loro
ad uccidere le donne ed i figliuoli, e por fuoco alle case, e poi uscire
alla stessa fortuna degli altri, acciocchè, distrutta la città, non
vi resti se non la memoria della grandezza degli animi di quella, e che
sieno d'immortale esempio a coloro, che sono nati, e desiderano di vivere
liberamente.»

  [1]  _Lettere alla rep. di Venezia dell'Oratore Cav. C. Capello,
    Firenze_ 26 _Novembre_ 1529.

Che se questa deliberazione, la quale non ha riscontro nelle storie,
tranne nella giudaica, dove gli Ebrei difesero Gerusalemme da Tito
imperatore menzogna di umanità, non sortì il suo effetto, il
mondo lo sa, vuolsi attribuire alla codarda avarizia degli Ottimati, i
quali allora adoperavano come la setta dei Moderati adesso, e al
tradimento di Malatesta, il quale, come disse Matteo Dandolo allo
ambasciatore del Duca di Urbino:--_ha venduto quel popolo, e quella
città, e il sangue di quei poveri cittadini, a oncia, a oncia_.

Dopo cotesta epoca illustre, e lacrimevole non vale, per opinione mia,
il pregio ricordare milizia italiana: entriamo nei tempi in cui il
Filicaia lanciò nella serva Italia i due sonetti pari a due gridi
di dolore, che c'introneranno perpetuo gli orecchi, finchè ella non
sia tutta sgombra dagli stranieri.

   _--. . . . . Del non tuo ferro cinta
    «Pugnar col braccio di straniere genti
    «Per servir sempre o vincitrice, o vinta_:

Quando la Francia si avventò alle alpi repubblicana in vista, ladra
in fatti e tiranna, i Piemontesi o soli, o in compagnia degli
Austriaci davvero mala prova fecero, nè possono cavarne argomento
ad esercitare egemonìa.

Nel 1848 le armi piemontesi sembra che avessero virtù finchè
mantennero l'ardore di che l'avevano arroventate lo entusiasmo
popolare, e l'ira; poi giù giù illanguidiscono, e disperdonsi
nello sbandamento più che battaglia, ed anco rotta di Custoza.--Nel
1849 Novara.

E Novara fu troppo peggio che sbandamento, se come allora la fama
porse, e registrò la storia, si ebbe a chiamare presidio nemico per
salvare la città dalla rapina dei nostri. Chè se le rapine
novaresi taluno negasse oltre le testimonianze degli scritti io non
saprei altrimenti provarle, non però delle genovesi di cui io
stesso vidi i vestigi, ed udii i deplorabili racconti; nè valore,
nè resistenza scusano, imperciocchè nè prodezza propria,
nè gagliarda difesa, la quale è pure prova di animo generoso che
vuolsi dai soldati massimamente onorare scusano le ladronaie; e per
queste vanno offuscati i nomi d'altronde chiarissimi del Malboururgh
antico, di Massena, di Soult; ed in ispecie del Rusca piemontese,
della cui avara crudeltà si conservano memorie singolari[1].

  [1]  I suoi soldati un dì sorpresi da lui su l'atto di rubare un
    maiale senza turbarsi gli dissero seriamente: «Generale, lo
    rubavamo per voi.» E il Rusca non meno seriamente rispose:
    «io non ho bisogno che alcuno rubi per me.» Che sia
    benedetto! almeno non si nascondeva, all'opposto lo bandiva da se;
    di vero trovandosi a mensa con parecchi ufficiali ecco arrivare il
    fattorino della posta con lettere per parecchi fra loro; chiestasi
    e data scambievolmente licenza le lessero e trovarono come
    Napoleone desse ad ognuno o pensione annua, o dono; anche il Rusca
    ebbe la lettera e ci trovò lodi molte, e quattrini punti di che
    seco lui dolendosi i commilitoni egli gl'interruppe dicendo:
    «Ma no, signori, lo imperatore ha operato da quel savio uomo
    ch'egli è; ei sa benissimo che il fatto mio lo so fare da me!»

E mentre combatteste voi, forse gli altri Italiani filavano?
Comecchè raccolti tumultuariamente, nè soldati come voi altri in
genere, in numero, e caso con tutte le regole forse non seppero i
volontari combattere, morire, e vincere?--Perchè mai si
licenziarono quasi gente immonda? E perchè a disfarli fu speso
maggiore moneta, che non impiegarono a farli? E soldati sembra a voi
che sarebbero quelli i quali voi v'ingegnate plasticare sul vostro
modello? Hanno a difendere la Patria, e di Patria nulla hanno da
sapere; li presumete soldati cittadini e li pretendete tali in
procinto di avventarsi in battaglia, sentano lo sprone delle parole
concitate del Capitano, e proibite poi che apprendano, più ancora,
che ammirino i gesti degl'illustri capitani del popolo. Col popolo di
cui sono sangue, e nel quale, superstiti, avranno a rientrare non
piglino usanza; ne stieno appartati, dimentichino sè essere figli,
o fratelli; soldati unicamente hanno da diventare; ma in cotesto modo
educansi gladiatori non già soldati italiani; così si allevano i
mastini affinchè guardino gli orti dai ladri non s'instituisce
milizia onore a un punto e tutela della Patria.--Grave fatto è
questo e come pieno d'ingiusta diffidenza così a Dio non piaccia,
che partorisca funestissimi effetti: dunque temete che il popolo vi
contamini i soldati? dunque o il popolo non più si accorda con voi,
o voi col popolo? Eppure cotesto popolo volle liberissimo ieri il
regno italico con a capo il reale di Savoia. Come! ieri consenso, ed
oggi forza? Di già a questo? Ma i reami abbattuti quale altra legge
avevano tranne la forza? E non bandiste voi, proprio voi, che un
governo il quale si appoggia alla forza ormai non ha più causa,
nè ragione di vita?

E tacendo del valore delle armi nè manco gli ordinamenti militari
vostri paiono così saldi da presumere in grazia di questi la
egemonìa sopra gli altri italiani, imperciocchè non entrando nel
ginepraio del come si spenda il danaro, noi vediamo fare, e disfare la
tela dello esercito, secondochè mutano di tessitore; ed anco qui
prego Dio, che non voglia, che invece di tessere una veste nuziale, il
Ministro o piuttosto i Ministri non ci ammanniscano una Sindone, la
quale sarebbe causa non già di adorazione, bensì di esecrazione
perpetua.

Insomma se i Piemontesi sè amano e noi, e lo vogliamo credere,
importa, che smettano il vezzo di presumere sè chioccia, e noi uova
da lasciarci covare. Noi non patiremo certo nè tribù di Levi, ne
tribù di Beniamino: fratelli vi amiamo, compagni vi accettiamo,
disuguali no, molto meno padroni. Se la casa di Savoia diè lo
Statuto al regno, ricordate come non fosse concessione sibbene
restituzione; se lo mantenne Vittorio Emanuele il cuore e il senno lo
sovvennero nello adempimento del debito suo, e n'ebbe rimerito di
fama, titolo unico tra quanti apparvero principi sopra la terra,
riconoscenza di popoli, e stato, che lo renderà superiore a molti
potentati, inferiore ad alcuno. Nè noi neghiamo, anzi confessiamo
volentieri, non mediocre conforto essere venuto agli spiriti liberali
d'Italia vedere sempre ritta la bandiera italica in Piemonte,
comecchè spesso pendente già lungo la stacca a mo' di vela nelle
uggiose calme dell'Atlantico; e confessiamo altresì che quivi il
talento per volere sia stato pari alla fortuna per potere, dacchè
se la vostra terra non si fosse distesa oltre il crine delle Alpi, e a
verun patto potesse sopportarla la Francia in mano all'Austria, voi
come noi avreste dovuto con la morte nel cuore piegare il collo alla
maligna onnipotenza dei fati. Come no? Perchè lo neghereste
prosuntuosi? Le mura di Alessandria non rimasero contaminate da
presidio tedesco?

Comprendo ottimamente avere a sonare le mie parole rudi; e giova
appunto che sia così; gli adulatori dei popoli più funesti due
cotanti, che quelli di un re, avvegnadio questi possa cessare da un
punto all'altro, e allora morta la vipera spento il veleno, mentre il
popolo forse dura fino alla consumazione dei secoli. Callimaco
Esperiente nella vita di Attila racconta come il poeta Marullo avendo
composto un poema (immaginate che poema!) in lode di cotesto Unno
glielo presentasse a Padova fiducioso di premio, ma quando Attila
seppe come costui lo facesse derivare da Dio, e lui medesimo salutasse
Dio ordinò che poema, e poeta gittassero sul fuoco; ora il popolo
nostro civile si approfitti dello esempio del condottiero barbaro
emendandolo secondo la ragione dei tempi; lasci stare il fuoco, ma un
tuffo nell'acqua ai suoi adulatori lo potrebbe dare. Io parlo per dire
il vero, non per odio di altrui, nè per disprezzo, e se paleso
animoso le gozzaie, mi muove studio di ovviare che intristiscano, anzi
scompaiano. Fatuità somma credere, come oggi si costuma, che
negando un danno possa torsi che sia: così quando schiamazzano la
Italia è ricca confidano, che ciò empia le casse; ovvero la
Italia ormai non può più disfarsi, e con questo pensano averla
assicurata con nodo indissolubile: se simile insania non fosse per
partorire funestissimi mali non varrebbe il pregio riprenderla, e
nè anco indicarla, ma all'opposto io temo, che possa disfarsi
perdendo occasione, che forse non si presenterebbe per più secoli a
questa parte. Il passaggio in mezzo alle rivoluzioni assai si
rassomiglia alla prova del fuoco, dove se ci era via a salvamento
consisteva nel traversare del campione tutto, e di rincorsa, lo spazio
incendiato. E bazza se allora le scottature erano poche! Se si fermava
un'attimo, di lui non rinvenivi nè manco la cenere. Nei primi tempi
delle rivoluzioni molti interessi laceri, o coperto, o palese
travagliano lo stato novello; e da per tutto vedi scompiglio: ora
preme più che mai in questo periodo climaterico l'universale trovi
qualche compenso ai patimenti inevitabili; se gli assottigli il pane e
tu ministragli copia più larga di libertà; se esigi piamente
spietato il tributo di sangue, e tu mostra, ch'egli è per francare
la Patria dalla dominazione straniera; la contentezza futura fa
toccare con mano, che uscirà dal seme del disagio presente; i
membri sparsi di un popolo ridotti come fratelli in una famiglia sola
non pure soddisfano al precetto della religione, non pure all'ultimo
provvederanno alla pubblica ed alla privata economia, ma altresì
acquisteranno la potenza in ogni tempo necessaria, non già (Dio ne
guardi!) ad offendere altrui, sì bene a difendere noi stessi. La
divisione nostra risponde al Tedesco confitto nella Venezia, allo
Spielberg, alle verghe, alle forche, alle fucilazioni, e forse, più
amaro che questo, agli strazi quotidiani della gente galla.

Nello stare strettamente uniti è posta la salute d'Italia; nè la
pena di Beltramo dal Bornio, che per avere con arti scellerate diviso
il figlio dal padre il Dante immagina vagolare per lo inferno, con in
mano il capo tronco dal suo corpo la reputo sufficiente a cui intenda
separare parte d'Italia dalla Italia. Se mi mostro, e sono implacabile
contro colui, che la scemò a settentrione non meno irrequieto per
quanto io valga, inchioderò nella infamia chi la menomasse a
mezzogiorno; molto più, che questi non potrebbe nè anco allegare
in discolpa il pretesto della necessità: non a dividere pertanto,
bensì per istringere io muovo parole, persuaso, che la compagnia
non dura fra genti con varia ragione aggravate; meglio vale, anzi
unicamente vale, che il troppo carico dica: «io non ne posso
più, fratello vienmi in aita;» che infellonirsi tacendo, e
buttare via dalle spalle la soma con iattura di tutti.--

Noi tutti della famiglia italiana possediamo in copia vizi e virtù
sovente diversi, qualche volta contrari, mettiamo in comunella ogni
cosa; nelle mutue virtù ci educhiamo, dei vizi scambievoli
emendiamoci. Piacemi dirlo: avendo per quanto mi fu dato ricerco la
natura del popolo torinese io lo trovai onesto, e più lo era prima
che l'alito corruttore del Cavour ci soffiasse sopra; nel commercio
singolare, invece, che presuntuoso confessa sentirsi d'ingegno
inferiore, e chiede che tu lo chiarisca; se non che la moltitudine
delle parole gl'introna lo intelletto peggio, che i tamburi gli
orecchi; le immagini lo abbarbagliano, lo sgomentano i tropi; teme i
farabulloni lo scarrucolino, i parabolani lo abbindolino, ed ha
ragione; chiede definizioni esatte, argomenti precisi; insomma con la
sua gamba tu regola il tuo passo; e se lo fai ti si professa grato: il
concetto compreso egli si mura dentro il cervello col gesso da presa:
forse fie l'ultimo a cessare fede nel governo monarchico, ma cessata
ch'ei l'abbia non valgono ganci a ripescarla. Alle amicizie nè
facile, nè subito; non ti trabocca giù il suo liquore cordiale
da empirtene il bicchiere, e allagarne la mensa, ma se te ne versa
mezzo, e' lo fa per dartene il rimanente un'altra volta: forse, almeno
io provai così, con veruno uomo al mondo possiamo durare tanti anni
amici come co' Piemontesi, e senza, che una nebbia sola venga ad
offuscare la lunga amicizia: liberali del proprio non mi parvero
troppo, ma nè anco costumano pigolarti attorno per avere del tuo;
ossequiosi per abito, non per viltà; tenaci dell'oggi, previdenti
del domani, e perchè in un concetto solo io stringa quello, che
potrei forse stemperare in molto, i Piemontesi possiedono a capello le
qualità capaci a guarire noi dai vizi del rilassamento, della
incostanza dei propositi, della fatuità delle affezioni,
dell'abbiosciatezza in ogni ufficio onde si compone il vivere civile.

Tuttavolta la prosunzione collettiva nel Piemontese occorre, e di
molto; gli viene dai suoi maggiorenti interessati a fomentarla: gliela
inocchiano i Giornalisti venduti; gliel'aizzano i Moderati
consenzienti che altri divori, ed opprima a patto che possano
rosicchiare essi, ed opprimere di seconda mano, nè trovo verso
migliore a farla cessare, che uscire da Torino trasportando la sede
del governo a Roma. I Torinesi per altra città non consentirebbero,
o a malincuore consentirebbero; per Roma sì; di vero quale città
italiana potrebbe stare a petto di Roma per magnitudine di memorie
antiche, e per presagio di futura grandezza? Il popolo di Torino,
certo finchè cotesta città resti capitale ne sfrutta il
benefizio e ne gode, ma si è persuaso, che così non può
durare, e talora udii da lui medesimo esporne le ragioni: certo
verranno alcune industrie a patirne, ma le sono di quelle, che non
fanno ricchezza permanente, bensì transitoria: anzi pure di quelle
che servono più presto a corrompere le industrie civili, che ad
avvantaggiarle, come locande, osterie, e più o meno onesti
instituti, ed anco disonesti addirittura, e turpissimi; il sapore di
siffatte industrie noi sopra gli altri conosciamo in Toscana, dove un
dì concorrevano forestieri a portarci i vizi, ed i catarri loro.
Compensi chiederanno i Piemontesi certamente, ed anco non li chiedendo
li meritano, nè sembra arduo accordarli, conciossiachè paia non
pure utile ma necessario convertirla in gagliardo arnese di guerra per
opporla in ogni caso a qualunque irrompesse giù dalle Alpi nemico;
e questo a cagione della scoperta fatta dal Conte di Cavour quando
orava in Parlamento per cedere Nizza e Savoia, la quale fu che i paesi
si difendono meglio allo aperto in pianura, che non per le angustie
delle forre, o dalle alture... anco di queste a noi toccò udire!
Nè udire soltanto, ma lodare con plausi, e confermare coi voti!
Reverenza dunque, gratitudine, e compensi al popolo piemontese, e a
Torino; fratello sia, e sopra tutti onorato, come quello, ch'ebbe la
ventura di affaticarsi sopra gli altri per la Patria, e per la
Libertà; non signore, non sopracciò, nè _egemone_: in questo
_intorandosi_ perderebbe ogni merito, porrebbe a cimento la salute
pubblica, e risoluti non lo patiremmo noi opponendo le nostre forze,
fin quì insuperate, di repulsa alle invaditrici sue; e perchè
cessi il sospetto in noi, l'uzzolo in lui, in entrambi lo screzio
della male auriosa _egemonìa_ urge stabilire il nostro regno a
Roma.--

Senza capitale un grande stato non può stare unito; ella ha da
essere come un cappio il quale senza stringere troppo, o stringere a
casaccio ordini le forze del paese per la difesa prima, e poi per la
massima prosperità interna accordandole armonicamente sia dove
tendono ad assimilarsi, sia nello invincibile screzio.

Veramente io non ho letto la storia di Gengis-kan, la quale pure fu
raccolta circa tre quarti di secolo dopo la morte di lui, ma l'avessi
pur letta io porrei mediocrissima fede alle quarantamila, o
cinquantamila teste gittate nei fondamenti di Samarcanda come pietra
angolare a costituirla capitale; che ferocissimo ei fosse non si
contrasta, ma sagace altresì era molto, tanto che il Gibbon ebbe a
trovare non poca corrispondenza tra il codice composto dal Locke per
la Carolina, e quello di Gengis-kan! Ad ogni modo io credo, che
cotesto si abbia, se successe, intendere per simbolo, che molti
voleri, come molti interessi devano concorrere a stabilire le nuove
capitali, e che questi interessi devano recidersi del tutto da
interessi antichi. Napoleone Imperatore giudicava la Italia poco
acconcia a comporre un corpo solo a cagione della sua lunghezza, e
questo suo concetto prima e dopo lui parteciparono parecchi; tuttavia
discorrendo dei luoghi adattati per instituire la capitale del nobile
stato così argomenta:

«Vari i pareri degli uomini intorno la migliore giacitura della
capitale d'Italia, che taluno accenna a Venezia imperciocchè
supremo bisogno della Italia paja levarsi a potentato marittimo.
Venezia, essi dicono, sta riparata dai subitanei assalti, e favellando
a mo' di mercante, deposito dei commerci della Germania orientale e
punto più prossimo di Genova a Milano e a Torino; al mare si
accosta per tratti lunghissimi di sponde: altri poi vengono dalla
storia, e dalle tradizioni antiche condotti a Roma; Roma, affermano,
sopra tutto mediana, destra alle tre grandi isole Sicilia, Sardegna, e
Corsica, destra a Napoli; per ogni parte a un dipresso equidistante da
cui la voglia offendere, o lo inimico si presenti dal lato di Francia,
o dalla Svizzera, ovvero dall'Austria, che dove si accosta più
distà centoventi, e dove meno centoquaranta miglia, ed ancorchè
superate le Alpi la schermiscono due validissimi ripari il Po, e gli
Appennini. Roma prossima alle coste adriatiche, e mediterranee con
risparmio non meno che con velocità per via di Venezia e di Ancona
può sovvenire alla tutela delle frontiere dell'Isonzo, e
dell'Adige: per via poi del Tevere, di Genova e di Villafranca ella
provvede di leggeri alla _frontiera del Varo_, e delle Alpi cozie: la
sua posizione felice le concede abilità di offendere, mediante
l'Adriatico, ed il Mediterraneo l'esercito nemico, il quale si
attentasse traghettare il Po, od avventurarsi nell'Appennino senza
avere preso la sua sicurtà dal lato del mare; ad ogni evento
agevolissimo scansare alle rapine del nemico vincitore i tesori di
Roma a Napoli, ovvero a Taranto; finalmente Roma è già: nè si
conosce città al mondo la quale offra comodi quanti essa per
costituire una grande metropoli; in favore suo la magnificenza e la
nobiltà del nome; ed io per me penso, che quantunque lasci a
desiderare qualche cosa, ella sarà certamente la capitale che
gl'Italiani eleggeranno un giorno.»

Questo nel volume terzo delle sue _Memorie_; nè meno arguto nei
_Ricordi_ di Santa Elena: «Se la Italia cessasse con Parma,
Piacenza, e Guastalla, o vogliamo dire, ch'ella circoscritta dentro la
valle del Po non possedesse penisole, allora Milano sarebbe la sua
capitale necessaria, comecchè i periti reputino supremo difetto per
lei che il Po non la difenda dalle ingiurie tedesche: ma dove
gl'Italiani si componessero in un popolo solo allora Milano non
potrebbe pretendere a diventare capitale, imperciocchè troppo
prossima alle invasioni terrestri si troverebbe troppo lontana dalle
spiaggie per provvedere alle marittime.»

E quì nota lettore, che quando il sempre mai funesto ministro
d'Italia Cammillo di Cavour non che non vietasse, consegnava le Alpi
alla Francia avvertendo io, che dove questo accadesse bisognava
pensare a trasferire altrove la capitale, molto più che smantellata
la cittadella, Torino, e il Parlamento correvano pericolo di
assaggiare le prime bombe francesi, ciò fu argomento di dileggio
pel gregge servile: ora se Napoleone, il quale se ne intendeva, non
consentiva a Milano di essere capitale d'Italia, pensa tu se lo
avrebbe conceduto a Torino nella condizione miserabile in che l'hanno
posta il savio Conte, e il suo più savio armento, che i ministri
successivi si sono vie vie consegnato come le _stime vive_ di un
podere sfruttato, e tuttavia dura salvo dalla epizotia.

Napoleone continuando a ragionare intorno alle diverse possibili
capitali d'Italia arroge:--

«Bologna, unita in un solo corpo la Italia, sarebbe da preferirsi a
Milano, dacchè ov'ella in caso d'invasione terrestre vedesse
superate le frontiere montane, avrebbe sempre la difesa del Po, e pel
suo sito, per le strade, e pei canali agevolmente, e presto comunica
col Po, Livorno, Civitavecchia, i porti di Romagna, Ancona, e Venezia;
come pure assai più di Milano si avvicina a Napoli.

«E se la Italia terminasse col regno di Napoli, ed una parte di
Sicilia, e di Napoli potesse riempire lo spazio fra terraferma e la
Corsica, allora Firenze come centralissima potrebbe costituirsi
meritamente capitale.»

Donde tu apprendi chiaro, che al pensiero del gran Capitano non si
affacciasse mai per capitale Torino. Che se l'autorità di un tanto
uomo avesse mestieri di un po' di rincalzo io ci aggiungerei quella di
Ubaldino Peruzzi, il quale ci ammaestrò da Torino non potersi
governare la Italia, là dove questo personaggio non si fosse
smentito dichiarando potersi governare la Italia da Torino finchè
non si conseguisse per capitale Roma; e questo parve contradizione,
conciossiachè se non può reggersi la Italia da Torino in modo
assoluto, molto meno (anzi la difficoltà cresce) non avendo Roma, o
standoci contraria: tuttavia queste che paiono a noi contradizioni,
potrebbe darsi, che fossero profondità di consiglio a cui il nostro
corto intelletto non arriva.--

Napoleone ai giorni nostri tanto più avrebbe a preferire Roma per
capitale d'Italia quanto che adesso con le strade ferrate viene in
certo modo diminuito lo spazio se giova; e se non giova si rimette
come prima, potendosi in caso di bisogno rompere i ponti, turare botti
sotterranee, buttare all'aria carreggiate. Roma quasi naturalmente
diventa il nodo delle ferrovie, che dal settentrione mettono capo al
mezzogiorno d'Italia, e se soltanto di strade militari Roma antica ne
annoverava quindici ora potrebbero occorrendo con molta agevolezza
moltiplicarsi non considerando più impedimento nè picchi
impervii, nè torrenti indomati.

In questo punto, forse non senza profitto, ricordo come le strade
militari di Roma pigliassero tutte le mosse dal pilastro della fontana
ove i gladiatori uscendo dal circo andavano a lavarsi le ferite; onde
non parrà strano se cotesti sentieri contaminati nel loro principio
di sangue schiavo diffuso per feroci diletti servissero poi per
portare al mondo la servitù.

Contro la opinione del sommo Capitano havvi (io non lo vo' tacere) quella
del Goethe, la quale da noi si potrebbe agevolmente chiarire inane,
imperciocchè sebbene egli abbia vaghezza di favellare di tutto, non
però ci ne discorra bene del pari, compiacendo a certo talento, ai
nostri giorni assai comune, di comparire onniscienti, il quale viene assai
promosso dai nuovi metodi d'insegnamento, su di che aprirò un mio
concetto, che ho sperimentato vero ed è questo: quanto lo ingegno nostro
acquista di estensione altrettanto perde di profondità: ma i modi stessi
che il Goethe adopera dimostreranno quanto poco caso abbia a farsi del suo
giudizio. Ora ecco le sue parole estratte dal _Viaggio in Italia_, 25
gennaio 1787. «La terra dove giace l'antica capitale del mondo basta
sola a richiamarci al pensiero la qualità della sua fondazione,
dacchè subito tu ravvisi come costà siasi fermata una tribù di
gente avveniticcia, condotta alla ventura da capi imperiti; il caso non la
sapienza menò costà una mano di vagabondi, certo con tutto altro
concetto che fondare il centro di vastissimo impero. I più forti tra
loro dopo avere costruito in vetta a' colli i palagi pei padroni del mondo
lasciarono in balìa degli edificatori avvenire i paludosi canneti delle
sponde del Tevere, e delle falde dei colli; così le sette colline non
valgono a difendere affatto Roma dal lato della pianura; tuttavolta se a
primavera mi venga concesso di visitare più accuratamente mi tratterò
con maggiore lunghezza a dimostrarvi la positura pessima della capitale del
mondo. Intanto io mi addoloro alla passione delle donne di Alba, le quali,
dopo distrutta la gioconda loro città, furono condotte repugnanti a
respirare le nebbie del Tevere, fermandosi sopra la povera collina di
Cornelio, donde potevano ad ogni momento volgere gli occhi desolati al
paradiso ch'elleno avevano perduto.»

Rimpianti antichi e comuni in Italia, dei popoli, i quali tolti dai
luoghi montanini furono avviati a vivere vita meno agreste nei piani;
così fra noi Toscani Fiesole. Al Goethe poi, giovane allora e vago
di venture, il tempo per considerare meglio non sovvenne, e coteste
sue parole balestrate a vanvera rimangono piuttosto a detrimento della
fama di lui, che pregiudizio a Roma, a cui i colli fecero sempre
temuto schermo se consideriamo da qual lato movessero gli assalti al
tempo del contestabile di Borbone, e a quello di che ora noi
favelliamo. Molti hanno scritto delle grandezze di Roma, e noi stessi
più volte secondo ci dettavano meraviglia ed amore; la sua miseria,
come succede, vinse la sua grandezza di assai. Il Montaigne afferma
che di Roma antica non rimane più il cadavere, anzi nè pure il
sepolcro, avendo i suoi nemici seppellito anco quello; Lutero a sua
posta la deplora come mucchio infelice di ceneri, le case ora
cominciano dove un dì terminavano i tetti, e tante erano le
macerie, che ingombravano ai suoi tempi le vie, ch'egli ne accerta
averne vedute fino all'altezza di due lance di lanzechenecchi; le
volpi durante il giorno appiattate pei ruderi del Palatino vanno nella
notte a bere nel Velabro. Ed anco ai tempi che corrono mandre di
pecore, di bovi, e di cavalli selvaggi ti avvertono il deserto cingere
attorno la città, o piuttosto la natura silvestre: appena varcate
le porte ecco dinanzi a voi lo spazio sterminato e mesto; il sole
sembra versarvi sopra con la luce la malinconia, e la malaria: di
tratto il cane custode dell'armento si avventa sul passeggero che
nella sua salvatichezza non distingue dal lupo; il bufalo leva il capo
dalle erbe paludose e seguita lungamente il pellegrino attonito che
altra orma eccetto la sua si stampi in cotesto deserto; nuvoli di
corvi gracidanti pare che ti presagiscano la febbre maligna in pena
della tua audacia di avere penetrato nel loro dominio. In mezzo a
cotesto lugubre silenzio ti accorgi che la desolazione stessa
consumate le grida, e il pianto ora si tace: non più coltura, non
più popolo, gli acquedotti sono privi di acqua, le tombe di ceneri.
Ci sono i Preti!

E tuttavia scrive Livio con la consueta sua magnificenza: «non
senza consiglio gli Dei, e gli uomini scelsero cotesto luogo per porvi
Roma; quivi colli saluberrimi la circondano, quivi il fiume destro per
trasportare agevolmente dalle spiaggie mediterranee le vittuarie, e i
cibi marini; prossimo ha il mare per le sue comodità, non però
troppo da temere offesa di armate nemiche: luogo unico insomma per
giacitura in mezzo alle terre d'Italia, e per augumento di
Roma[1].»

  [1]  Lib. 5. c. 54.

Ma Livio non presagiva il dominio dei Preti capaci a disfare in tre
quanto il Creatore fece in sette giorni con le poderose sue mani: e
posto eziandio, che Livio movesse soverchio affetto ella è cosa
sicura, che Roma sotto Augusto conteneva quattromilioni di anime, e ai
tempi di Vespasiano il suo circuito sommasse a 13,200 passi. Roma
aveva are, e sacerdoti, e vittime votive, e messi da parte gli emblemi
di forza prepotente a ragione la salutarono ed effigiarono sotto Nerva
Roma felice con in mano un timone per chiarire come a lei spettasse il
governo del mondo.

Ora giova pel suoi nuovi destini, ch'ella sia così, imperciocchè
l'uomo pigli amore alle cose che gli costano fatica, massime se trovi il
compenso largo alla opera durata; la quale ragione essendo pari per gli
obietti animati ovvero inanimati spiega la causa per la quale i padri tanto
si appassionino pei figliuoli. Nè io mi condurrò mai a credere, che
la natura ci abbia dichiarato perpetua guerra, però che questo sarebbe
contrario al fine della creazione: di vero sebbene da prima più spesso e
con maggiore ampiezza, oggi rado, e ristretto la natura agitandosi muta
mari in deserti, e viceversa, e monti in valli o valli in monti
trasformando orribilmente l'aspetto delle cose, pure gli uomini assai
più tenaci delle formiche non isgomentandosi tornarono indefessi al
lavoro, ed ora la natura quietata lascia vincersi, ma da mani valorose,
ricordando in certa guisa i connubi spartani, dove al marito toccava usare
una quasi violenza alla moglie, e ciò perchè accendendosi più
veemente l'appetito ne nascevano figliuoli gagliardi a maraviglia e belli.

Dove mai per ricerche ed esempi si dimostrasse che la natura veramente
sta in guerra contro l'uomo, con esempi manifesti e non meno copiosi
mi rimarrebbe a chiarire come non sia da per tutto così; e nelle
parti dov'ella soverchia troppo, l'uomo intontito si rannicchia nella
inerzia, mentre all'opposto nelle meno dure cresce di coraggio facendo
come alle braccia con la natura, e le fora i monti, le incatena
torrenti, mette il morso al mare, le acchiappa il fulmine, e se ne
serve da corriere, e ad altre maggiori audacie egli si attenta nè
ella se ne cruccia: però non parmi vero, nè utile affermare la
necessità della guerra perpetua della natura contro l'uomo, dello
spirito contro la materia, della libertà contro la fatalità.

Quello, che io affermo troviamo giusto considerando che nulla
impedisce, che Roma possa tornare quale fu prima, e qualche segno ne
vediamo anco adesso nel bonificamento delle paludi pontine, e Roma,
che cascò fino a non contare dentro i suoi muri oltre sessantamila
anime, risorse a stato meno infelice.

Quivi città da popolare, terre a dissodare, culture a instituire,
paduli a prosciugare; quivi elementi fruttuosi proposti all'esercizio
delle industrie umane: Roma a conquistare; l'antichissima Roma
diventò quasi un nuovo mondo aperto alla solerzia degl'Italiani;
l'acquisto di terra agevole, ferace per lungo riposo, le opere da
condurre, premio corrispondente alla fatica somministrano altrettante
cause per desiderare di possederla, e posseduta tenerla per ogni verso
accettissima.

Non importa, che Roma torni alla immane grandezza dei tempi di
Augusto, e tuttavia bisognerà pure che cresca oltre quello che
adesso è, per la quale cosa giova, che ella abbia luoghi vuoti di
abitatori e desideri riempirli, e maggiormente diventerà scema per
lo spulezzare di tanti scarafaggi forestieri usi a comparire dove si
fa pattume, ed a scomparire dove il pattume si rinetta. Le varie parti
d'Italia forniranno il proprio contingente di nuovi incoli che alla
nuova dimora porranno amore pure ritenendo l'affetto per l'antica,
donde certamente hanno da scaturire due beni, che Roma diventerà
capitale di tutti, e di nessuno esclusivamente; Panteon delle
rappresentanze dei diversi popoli italiani; stretta con vincoli quasi
di parentezza con tutte le città italiche; l'altro, che i vari
Municipi parranno come confusi in lei: nè dinanzi a Roma alcuno
sentirà rimuginarsi dentro l'uzzolo di primeggiare; e cesserà
una volta per sempre ciò che torna in supremo fastidio adesso,
voglio dire che dove tu freghi di un'attimo le improntitudini
municipali di Torino ti bandiscano la croce addosso come uomo
insoffribile per misero ed eccessivo furore di campanile.

Che se la politica, e la economia indicano Roma capitale d'Italia,
ragioni di etica ci sospingono gli spiriti italiani. Che importano
libri costà? Lì ti parlano le ruine, e i sassi, e t'imprimono
solenni insegnamenti. Odi Lutero; quando ei prima la vide racconta,
che cadde sopra le ginocchia, e levate le mani al cielo esclamò:
«Salute Roma, o la santa, o la consacrata dal sangue dei martiri...
e pure adesso tu sei cadavere, mucchio di cenere.»

L'altro tedesco, cui reputò bello convertire la sua musa di fuoco
in istatua di marmo, Pigmalione alla rovescia il quale rapiva il fuoco
celeste per animare la sua creatura di marmo, il Goethe scriveva di
Roma: «altrove ti è mestieri cercare, qui la copia ti opprime:
ad ogni passo ti occorre o palazzo, o giardino, od arco di trionfo, o
intercolonio, o ruina, o casuccia, o presepio così fitto che tu
potresti disegnare ogni cosa sopra il medesimo pezzetto di carta. A
che serve una penna? Qui bisognerebbe possedere mille stili, e non
pertanto ti sentiresti vinto ogni giorno dalla sorpresa,
dall'ammirazione, non meno che dallo spossamento.--Contemplando questa
città che dura da oltre venticinque secoli tante volte, e così
pienamente trasmutata di forma e d'indole, e che nondimanco sta sempre
sopra la medesima terra e spesso co' medesimi chiodi, e co' medesimi
arpioni, talora crediamo assistere al gran consiglio del destino, e
partecipare ai suoi eterni decreti.--Roma è scuola solenne, dove
ogni dì t'ispira troppe più cose, che tu non puoi con parole
significare; e sarebbe spediente dimorarci per secoli chiusi dentro
silenzio pitagorico[1].»

  [1]  Goëthe, Viaggio in Italia. 2. Parte.

E l'arduo Byron, il re dei poeti dell'anima, allo aspetto di Roma
mandava fuori questi nobili concetti: «O Roma! O Patria mia! O
città dell'anima! Gli orfani del cuore devono volgersi a te madre
solitaria d'imperi estinti! Essi impareranno da te a comprimersi in
petto i loro affanni meschini. Che sono di faccia ai tuoi i nostri
patimenti, e i nostri dolori? Venite a vedere i cipressi, a udire i
cuculi, ad aprirvi una viottola su gli sfasciumi dei troni, e dei
tempii voi di cui le angoscie sono sciagure di un giorno... ecco un
mondo fragile sotto i nostri piedi quanto la nostra creta[1].

  [1]  Canto IV del Pellegrinaggio del Fanciullo Aroldo.

         Roma dalle:
    «Antiche mura, che ancor teme, ed ama
    «E trema il mondo quando si ricorda
    «Del tempo andato e indietro si rivolve»[1]

  [1]  Petrarca.

Affermano Roma avesse tre nomi uno sacerdotale ed era _Flora_ o _Anthusa_,
l'altro civile, che fu _Roma_, il terzo misterioso _Amor_. Quanto a me
credo di ciò sia niente e l'_Amor_ nascesse da leggere alla rovescia il
nome _Roma_; chè se mai avessimo a reputare vera la leggenda questo noi
impareremmo di più, che ammonita fino dai suoi primordi ad amare
trasgredì perpetuamente al precetto, donde le venne quel fascio di
miseria, che sbigottisce i suoi stessi nemici, e tuttavia dura;
imperciocchè nè senno astuto, nè prodezza di braccio valgano dove
manchi amore.--Non può accertarsi, pure è da credersi, che la
umanità ti ami quando le rompi con l'ariete i muri di casa per farci
penetrare la luce, e certo poi ti esalterà se le apporterai un tanto
benefizio per virtù di persuasione, e la tua potenza poggerà sopra
saldi fondamenti; ma il dì che inebbriato della scienza, o della forza
farai sentire agli uomini che tu mutasti loro la soma non la servitù,
quel dì avrai pronunziato la tua sentenza di morte; immaginando
incatenare altrui ti accorgerai avere incatenato te stesso; nel porre agli
altri un limite te diffinisti; e le cose finite sono destinate a perire.
Roma imperiale è morta, e nonostante le jattanze dei preti le tiene
dietro Roma sacerdotale. Il Vaticano in breve starà di contro al
Campidoglio come sovente occorrono nei tempii cattolici un sepolcro
dirimpetto all'altro; la Roma nuova ha da meritarsi lo emblema, che ho
detto vedersi nella medaglia coniata in suo onore ai tempi di Nerva, col
timone nelle mani, quasi preposta a guida del mondo; imperciocchè fosse
antico instituto di lei dare la nozione del diritto ai popoli _jura
gentium_; e le sue leggi meritamente si chiamassero la ragione scritta,
onde come i ruderi delle fabbriche romane ti occorrono per tutta la terra
conosciuta, i frantumi dei sapienti responsi dei suoi giureconsulti tu
trovi in ogni codice di popolo civile; nè questo, io penso, deva
riputarsi vanitosa prosunzione, però che posto ritornasse in fiore un
senato romano il quale stesse a pari dello antico invece di ricorrere
all'arbitrato di qualche principe divenuto savio più che per altro per
anni, e per isventure lice credere, che volessero preferirgli un consesso
di uomini per forte volere temperanti.

Roma di tutto ti si farà maestra, nè con parole inani, tristo
retaggio del secolo tabella, bensì con esempi gagliardi i quali
solo possono rimettere i nervi a queste nostre generazioni sfatte.
Sì tu apprenderai a che meni lo screzio tra patrizi, e plebei, e
come sia più prudente invece di partecipare a questi i privilegi
dei primi, torre via le disuguaglianze non solo al cospetto della
legge bensì per quanto fie possibile nelle sostanze mercè gli
ordini della buona economia, negl'intelletti in grazia della diligente
educazione.--Roma t'insegna come gli stati precipitino quando una
classe dei cittadini accaparrati per sè gli utili, e il seguito che
vengono dai pubblici offici ne pretenda escluse le altre, e i governi
diventino consorterie ingiuste sempre per necessità ingiuriose,
provocataci, e superbe le quali contese se finiscano con certa maniera
di empiastri dove veruna delle parti rimanga soddisfatta è male, e
se per tumulti dove scapitino tutte è peggio: guai se mettano capo
agli esilii, alle carceri, e al sangue. I Gracchi, come avvertiva il
Mirabeau, morendo gittano all'aria un pugno di polvere insanguinata, e
da cotesta terra nasce Mario. Mario suscita Silla, quindi a breve
Tiberio erede della Repubblica strangolata; poi i Barbari giù dalle
Alpi a mo' di Lupi accorrenti all'odore del sangue.

Quivi Stolone ti si conficca nella mente immagine perenne del plebeo
povero abbaiatore dei ricchi, che fa mettere la legge, veruno
cittadino si attenti acquistare oltre i cinquecento jugeri di terreno:
raccolta poi buona quantità di pecunia ei ne compra mille; nè
per onestare la cosa gli giova metterne cinquecento in testa del
figliuolo, che posto in accusa da Popilio Lena con la sua medesima
legge è condannato.

Roma per norma al popolo nostro di costume veramente civile, onde come a
pietra di paragone ci provi i suoi uomini, ti addita un Marco Rutilio
Censorino, il quale eletto per la seconda volta censore raduna il popolo e
lo ripiglia severamente perchè con siffatta elezione prolungasse la
durata di un ufficio, che i padri ordinarono breve come quello, che
conferiva soverchio seguito; un Fabio Massimo cinque volte consolo, ponendo
mente il padre, l'avo, e il bisavo avere tenuto il medesimo maestrato,
arringare il popolo per dissuaderlo a eleggere il suo figliuolo, non già
per manco di virtù, che in lui concorrevano copiosissime, bensì
perchè fosse di esempio pessimo il continuato imperio nella medesima
famiglia; uno Scipione Affricano, che contrasta al popolo la facoltà
d'inalzargli statue, e decretargli qualunque onore o mercede perchè
combattendo i nemici della Patria egli compiva il debito di cittadino, e
non altro.

Colà in Roma apprenderai il cittadino armato non estimarsi nè essere
tenuto da più degli altri, anzi o meno, o da guardarsi maggiormente come
quello, che può riuscire da vantaggio pernicioso alla repubblica;
anteponendosi a buon dritto Licurgo, Solone, Numa e simili a Temistocle, ed
a Cammillo però che questi con le armi tutelassero la Patria una volta
sola, mentre gli altri con le leggi provvidero alla prosperità, e
sicurezza futura di quella: nè ciò per sentenza del solo Cicerone,
bensì degli stessi imperatori Leone ed Antemio, e consegnata nelle leggi
dove si trova scritto, «che non solo quelli i quali sono armati di
corazza, di scudi, e di brandi militano per lo impero, ma i giurisperiti
altresì; militano coloro, che fidati nel glorioso dono della eloquenza
difendono le speranze, la vita e la posterità dei cittadini[1]»

  [1]  Lex. 14. Cod: de Adv: diversorum Judiciorum.

Le armi cedevano alla toga; e se taluno si attentava affermare in
mezzo allo strepito dei ferri non farsi sentire la voce delle leggi
questo soldato era Mario, che poi ruppe ogni legge. In Roma Postumio
Tuberto, Manlio Torquato consoli dannano a morte i propri figliuoli
perchè malgrado il divieto loro avessero assalito e vinto i nemici.
E se Papirio dittatore dopo avere condannato alle verghe Fabio
Rulliano, che senza ordine del dittatore combatte e rompe i Sanniti,
gli rimette la pena ciò fa annuendo alle preghiere del popolo
romano, e dei tribuni suoi mossi a compassione del padre di Fabio
già dittatore, tre volte consolo, e salvatore di Roma; con questi,
e tali altri esempi si mantenne la disciplina costà, e vi sarebbe
comparsa, come veramente ella è, immane cosa, che un soldato avesse
ardito, come testè accadde a Torino, presentatosi in Parlamento
vantarsi avere trasgredito la legge; mostruoso fatto da invertire ogni
ordine della Repubblica, che l'Assemblea lo lodasse, ruina espressa
della Libertà poi se con guiderdone siccome benemerito lo avessero
proseguito.--Più tardi la Repubblica rimase contristata da simili
esempi, ma allora i soldati non obbedivano più la legge bensì
l'uomo, non cittadini, bensì gladiatori, infesti per fermo alla
Libertà, non però meno esiziali al tiranno, che vie vie
ammazzano mettendone il trono allo incanto.

A Roma imparerai come nelle guerre civili il Capitano non pigliasse
titolo d'imperatore, nè vincendo gli rendessero grazie per decreto,
nè egli ardisse menare l'ovazione, molto meno il trionfo. C.
Antonio, spenti Catilina ed i compagni suoi, ordina ai soldati lavino
le spade, e si purifichino innanzi di entrare nel campo; e non, che
altri Mario, e Silla t'insegneranno a Roma come le vittorie su i
cittadini sieno eventi luttuosi da consacrarsi agli Dei infernali,
quegli fuggendo dai tempii, e dagli altari, questi omettendo le
immagini delle città vinte nelle guerre civili quando menò il
trionfo. A Torino sì esulta quando si vince non già Catilina,
bensì Garibaldi, non avversi ma amici, e si largheggia a danaro, e
si promuove a gradi superiori.... Andiamo a Roma; che esempi di
temperanza civile, e di grandezza italiana non ci può dare Torino.

A Roma cotesti sassi, la terra stessa ti diranno con quali arti si
crei un popolo grande, e creato si mantenga; essi ti rammenteranno
come il Senato romano dopo la disfatta di Canne per nulla sbigottito
inviasse soccorsi nella Spagna; ed esposto allo incanto il terreno
occupato dal campo cartaginese, mentre il nemico instava minaccioso a
porta Capena, non pure lo vendono, ma sì no cavano il maggiore
prezzo delle garose licitazioni: lì imparerai come coteste anime
non meno eccelse, che sapienti, invece di empire il mondo con la
confessione della propria fiacchezza reputano più disutile vincere
co' soccorsi stranieri, che dannoso perdere in sè solo fidati
quando in procinto di rompere la guerra a Pirro udirono come i
Cartaginesi spedissero in ausilio di loro cento venti navi mandarono
un legato per licenziarle, però che essi costumassero imprendere le
guerre, che si sentivano capaci a sostenere senza bisogno di soccorsi;
altrui. Oggi un Ministro della Guerra a Torino bandisce al mondo, che
la Italia con quattrocentotrentamila uomini (non mai i Romani ne
adunarono tanti!) nulla può senza il soccorso di Francia. Andiamo a
Roma che maestra di grandezza non ci può essere Torino.

Anco altrove, che che calunniando la umanità si attenti sostenere
la empia setta la quale nega in altrui la virtù, ch'è morte alla
tristezza sua, anco altrove, massime a Firenze, puoi conoscere quanto
sagrifizio in pro della Patria sappiano fare i popoli accesi nel
santissimo amore che lei; ma in Roma questa virtù diventa febbre. I
Deci padre, e figliuolo si profferiscono vittime volontarie alla
salute di Roma; e lasciando del sangue se favelliamo di averi, che
chiamano secondo sangue, e a troppi troppo più caro del primo,
nota, nella seconda guerra punica gli universi cittadini chiesero,
remossa ogni causa di esenzione, essere accettati a pagare il tributo,
le donne dettero gli ornamenti muliebri ed i fanciulli, non potendo
altro, le insegne della loro _ingenuità_ la bolla e la pretesta;
nè cavaliere, nè centurione domandò il saldo durante la
guerra: i padroni dei servi affrancati da Sempronio Gracco a Benevento
ne ricusarono il prezzo. Che più? Gli appaltatori delle feste
religiose informati come per penuria di pecunia pubblica il Senato
stesse per sospenderle, si proffersero continuarle a proprie spese col
patto, che al termine della guerra ne sarebbero soddisfatti; ed anco a
cotesti tempi per mercadanti parve avessero toccato le colonne di
Ercole della liberalità.

Nè altrove come a Roma tu avrai esempi del modo col quale la
uguaglianza civile con tutte le potenze dell'animo si prosegua, e del
modo feroce onde si punisce chi la insidia. Genuzio Cepione pretore
mentre esce da una porta percosso da non so quale prodigio consulta
gli auguri, che lo chiariscono lui destinare i fati a re di Roma ove
mai ci ritornasse: da tanta scelleraggine aborrendo ci si condanna a
perpetuo esilio. I Romani in memoria del fatto ed in laude dell'uomo
su cotesta porta ponevano la sua immagine condotta in bronzo; però
la porta ebbe nome di _Raudusculana_, chè in antico il bronzo si
chiamava _raudera_.--Spurio Cassio Vescellino sendo tribuno della
plebe propone primo la legge agraria per gratificarsi il popolo nel
pravo intento di assoggettarselo poi. Cessato lo ufficio il padre
Cassio convoca il consiglio di famiglia di parenti, e di amici, e lui
accusa e convince d'insidia alla libertà della Patria; da tutti
dannato ordina il padre si uccida con le verghe; il suo peculio
consacra a Cerere; e Plinio ricorda avere veduto ai suoi tempi il
simulacro di Cerere fatto col danaro di Spurio Cassio[1]. Bruto
ammazza Cesare senz'altro rito, che con ventitrè pugnalate. Questi
i tiranni pallidi di paura urlano essere atti feroci, e meritamente;
costoro fanno il loro mestiere; ed è ragione, che lo ripetano a
coro i complici della tirannide. Diversi noi, consideriamo che
pigliare un giudice e mutatolo in mannaia mozzartene il capo, ovvero
la legge e convertitala in corda stringertene il collo, o i figli del
popolo ed avventarli soldateschi mastini alla gola del popolo, troppo
più rimescola sottosopra il consorzio civile che non il pugnale
immerso nel cuore al tiranno. Rotta, che sia una volta la legge
sottentra la violenza, per la quale cosa non si conosce con che
diritto si presuma che altri ti faccia la guerra a modo tuo, e non in
quello, che altri giudica per ottenere su di te vittoria facile e
intera. Strana cosa! Un dì altari inalzaronsi ai trucidatori dei
tiranni, e si ebbero il pregio di eroi, e di semidei; andarono
lungamente celebrati nei peana argivi Pelopida, Timoleone, Trasibulo,
Armodio e Aristogitone e simili: oggi, se antichi riverisconsi, e
nelle scuole rammentatisi modello alle giovani menti, se moderni si
dannano agli Dei infernali. Che gl'imperatori moltiplichino affannosi
i delitti di lesa maestà, e affermino capitale delitto il negato
saluto alla propria immagine provandolo poi a suono di scure, bene
sta; e' sì arrabattano a fare il loro mestiere, ed anco s'intende
che per paura rabbiosi, o per cupidità convulsi lo vadano ripetendo
i satelliti che tengono dintorno, e da loro ricavano infamia, pane, e
ardire; ma che altresì lo bandiscano uomini che presumono avere a
cuore la Libertà non s'intende, molto più che così non la
intendeva nè anco Marco Aurelio imperatore, il quale consegnando la
spada emblema della sua carica al Prefetto del palazzo gli diceva:
«piglia questa e se impero retto difendimi, se iniquo uccidimi.»

  [1]  «Romae simulacrum ex aere factum Cereri primum reperio ex
    peculio Sp. Cassio quem regnum affectantem pater ejus
    interemerat.» PLIN. lib. 3 4. Cap. 4.

Roma con le sue rovine ti ammaestra che pari fato attende quel popolo
il quale recandosi a tedio il lavoro stende le mani alla elemosina dei
cittadini, e più funesto assai ai doni dei re. La dovizia lasciata
dal re Attalo al popolo romano fu proprio la camicia di Nesso, ond'ei
rimase incenerito. Benefattore della umanità è quegli, che
appresta lavoro alle mani, e scienza allo intelletto del popolo:
ricordi sempre costui come quando il cozzone intende saltare sopra le
groppe del puledro gli presenta blando nel cavo della palma la biada,
e Cesare mentre con le larghezze del suo testamento pare liberale al
popolo romano porge la cima della catena di cui lo ha avvinto al
successore Ottaviano: il popolo corrotto la celebrò bontà di
amico, e fu libidine di tiranno che nè anco per morte si attuta.

Nella città eterna imparerai a parlare come Aulo Cesellio il quale
interrogato che mai gli desse balìa a riprendere acerbo come faceva le
iniquità dei Cesariani rispose: i molti anni, ed i punti figliuoli;
ovvero come Marco Castricio, il quale negava gli ostaggi commessi alla sua
fede a Cneo Carbone, ed a costui, che presumeva atterrirlo con le parole:
«bada ch'io ho molte armi;» egli mansueto diceva: «ed io molti
anni.» Ed anco piglierai norma di onesto e forte vivere da quel Caio
Blosio amico di Tiberio Gracco e della sua fama, non già della sua
fortuna, che interrogato da Lelio per ordine dei Senatori a fine, che
esecrando il male condotto amico con le nuove parole si procurasse perdono
della colpa antica ei repugnò come da azione abominevole; e quante volte
gli domandavano: «ma se Gracco ti avesse ingiunto di sovvertire il
tempio di Giove l'avresti tu fatto? E se Gracco ti avesse comandato di
appiccare le fiamme a Roma l'avresti tu arsa?» Ed altri cosiffatti
vituperii, tante ei rispose: «Tiberio Gracco non era capace di ordinare
scelleraggini.» Aborrendo lo inclito uomo menomare la reverenza alla
memoria dello amico anco con silenzio onesto, o con prudente
sermone:---imparerai, cosa anco più difficile, a tacere, nè di questa
qualità fondamento oltre la comune aspettativa di ogni virtù
cittadina ti fornirà esempio solo M. Perpenna legato a Genzio re
degl'Illirici, il quale stretto con blandizie, e con terrori a rivelargli i
segreti del Senato accostò il dito indice alla fiammella della lucerna
che gli stava dinanzi, e ce lo tenne fermo finchè non lo ebbe tutto
arso, dimostrandogli in quella guisa, che i tormenti non valevano sopra di
lui; delle carezze non importava dire; gli esempi ti verranno altresì
dalle donne come sarebbe Porcia, la nobile consorte di M. Bruto, che cela,
e tace la ferita, che si è fatta per chiarire il marito se si sentisse
bastevole a tenere il segreto intorno ai disegni, ch'egli agitava nella
mente;--e non pure da matrone, bensì dalle femmine, che il mondo cerca e
disprezza, registrando le storie il memorabile fatto di Epicari cortigiana,
la quale per non essere sforzata dai tormenti a rivelare la congiura contro
Nerone con le proprie mani accosciatasi giù in ginocchioni si
strangolava. Sopra tutto Roma t'insegnerà a morire, più della vita
rendendoti desiderabili le cause del vivere; di Catone si tace, e di Arria
maestra di generosa morte al marito, e di Porcia, che impedita a troncare
il vivere suo co' mezzi ordinari non rifugge uccidersi trangugiando carboni
ardenti, e di Sempronia la sorella dei Gracchi, che invano spaventata dal
popolo, e dal senato furenti nega il bacio ad Equizio supposto figliuolo di
Tiberio, perchè il decoro della famiglia con la turpe agnazione non si
vituperasse; giovi ricordare Quinto Metello Scipione suocero di Pompeo
magno, che, ruinate le fortune del genero mentre naviga nella Spagna, vista
assalita e presa la nave dai Cesariani si ritira a poppa e quivi si ferisce
a morte, donde, sentendo i nemici domandare ansiosi: «dov'è
Scipione?» rispondeva: «Scipione sta bene, e vi saluta.» Indi a
breve moriva.--E moriva Trasea Peto, ed altro non potendo, col sangue
grondante dalle aperte vene propinava a Giove liberatore.

Qua in Roma studia la faccia multiforme della tirannide, onde altra
mai non possa più abbindolarti, e di ora in poi capitandotene in
mano qualcheduna delle nuove tu possa, dopo brancicatola alquanto,
dire: «il vivagno v'è ricucito di fresco, ma il panno è
antico.»

Augusto rappresenta la tirannide che s'instilla nel popolo come raggio
di sole blando, e inevitabile; le dà sembianza di legge, l'orna con
lo splendore delle lettere, la rende gioconda di agiatezza e di
comodi; trova Roma di mattoni la lascia di marmo; ed anco ai dì
nostri la tirannide, giusta il detto della Scrittura, s'industria
ingrassarti il cuore, onde non ci entri, o ci esca senso di
dignità. Finchè non si recarono a tedio i lari pudibondi, e lo
studio della spola e dell'ago crebbe la gloria delle donne latine che
partorirono gli Scipioni, e i Gracchi; adesso predicano il lusso
necessità degli umani consorzi, e piglia la più pericolosa di
tutte le facce, quella della scienza, con inane consiglio, a parere
mio, dacchè solo, che tu distingua se le ampliate comodità si
affanno ai bisogni veri della vita procurando più ferma salute, o
giorni meno duri, e tu accettale in casa come ospiti amiche; se poi
per assillare il genio vanitoso delle femmine, o la obliqua
irrequietudine dei figli, o la tua stessa superbia chiudi loro la
porta in faccia; meglio sarebbe tu l'aprissi alla volpe. Bada, il
tiranno prima ti empie di vanità, e poi ti compra.--Tiberio
rappresenta la tirannide che penetra nelle carni del popolo con gli
artigli dell'uccello di rapina, odiato odia, e perchè lo desiderino
egli attende a lasciarsi successore un'uomo di cui le atrocità
valgano a fare dimenticare le sue, e vi riesce; però che egli fosse
tiranno astuto, Caligola matto, Claudio imbecille, Nerone, Caracalla,
Costantino immani, e parricidi; Galba e Vespasiano rappresentano la
tirannide avara, Vitellio la tirannide da taverna, Massimino la
briaca, Tito la ippocrita, Domiziano la bestiale, Procolo ed
Eliogabalo la infame di laidezze supreme; insomma lì come in un
Museo puoi studiare ogni maniera di tirannide, conoscerne le
qualità, l'indole, i modi aperti, e segreti, diritti, od obliqui di
tribolare la gente, e farne suo pro. Dopo la notizia della Libertà
per amarla e praticarla veruna torna più utile quanto quella della
Tirannide per evitarla ed aborrirla, perocchè questa sia quasi il
rovescio di quella; così nella maniera stessa, e per lo medesime
ragioni dopo considerato le facultà dell'anima umana fino a quale
stupenda estensione si possano esercitare nel bene giova vedere del
pari a qual punto estremo giungano nel male.--Costà i ladri non
s'infingono, aperti rubano e la rapina ostentano; chiamansi Mummio o
Verre, che quegli la Grecia, e questi Sicilia scorticarono come
vittime sagrificate alla loro insaziabile avarizia. Caligola va franco
alla volta di Giove, e gli strappa la barba e il manto di oro
affermando che gli Dei non portano barba, nè patiscono freddo;
mentre ora non si ardisce riprendere non già ai Numi, ma ai preti
la male acquistata sostanza; in sembianza compunta, atteggiati a
_confiteor_ ecco si accostano di scancio all'altare, ci si
inginocchiano davanti, e quando il proto attendo a leggere in _cornu
epistolæ_ il vangelo di San Giovanni acciuffano le candele, e
soffiatoci su se le rimpiattano in tasca: poi chiotti chiotti tentano
svignarsela, imbecilli! gli rivela ladri il puzzo di moccolaia che
mandano i mozziconi rubati. Il popolo, che ripiglia il suo non ha
bisogno di lavarsi le mani dentro l'acqua benedetta.

L'avarizia non piglia sembiante di amore di Patria, molto meno di
umanità; truce è, e truce si mostra. Opimio console avendo per
pubblico bando promesso pagherebbe a peso di oro il capo di Caio
Gracco, Lucio Settimuleio vuota il cranio dello amico spento, e
c'infonde piombo, perchè aumentato il peso il console gli cresca il
prezzo, e poichè, somma avarizia sia l'agonìa del regno; tu
vedrai per questo Tullia non rifuggire a passare sul corpo di Servio
Tullio, e mentre torna trionfante ai domestici lari su carro di cui le
ruote segnano per la via una traccia di sangue paterno empie di paura
la città, e impone per sempre il nome di _scellerata_, alla via
infame per tanto sterminio. Caio Toranio in grazia di procurarsi il
favore dei Triunviri svela il luogo dove si tiene nascosto il padre, e
somministra i segni perchè i sicari spediti a trucidarlo lo
riconoscano. Il padre tratto fuori, più che di sè sollecito del
figlio, domanda s'ei viva; rispondongli: vive, e te, con la sua
delazione, ammazza. Il misero cadde trafitto più della morte
dolendogli la causa della morte. Pari o peggio il fato di Lucio Vellio
Annale, che mosso da paterno affetto mentre sotto mentita veste,
essendo egli proscritto, si fa al campo Marzio per promovere nei
comizi la questura del figlio, scoperto da questo, lo denunzia, e
preponendosi ai littori ne segue le traccie, lo trova, e al proprio
cospetto comanda, che gli tronchino il capo.

Potrai lagnarti d'ingratitudine, o sopportare con molesto animo
l'oblio dei cittadini, ovvero arrovellarti altresì dei tradimenti,
e delle persecuzioni dei tuoi carissimi un giorno, quantunque volte
tu, miri Furio Cammillo accusato da Lucio Apuleio tribuno di peculato
perchè, se la fama porge il vero, gli furono rinvenute in casa due
porte di bronzo dalle spoglie etrusche, morire in bando ad Ardea?
Nè con diverso guiderdone pagato Scipione Affricano secondo
salvatore della Patria costretto a concludere la sua vita a Linterno;
certo di questo fu volontario lo esilio, quello di Cammillo per
sentenza, e quando nelle esequie del figliuolo si tribolava. Il primo
della ingratitudine cittadina non pigliò vendetta oltre quella di
negare le sue ossa alla Patria facendo questo suo proponimento
scolpire sopra il suo sepolcro: _ingrata patria nè ossa quidem mea
habes_[1]; vendetta veramente atrocissima, ma l'unica, che senza
rimorso il cittadino può trarre dal luogo, che lo vide nascere, e
nondimanco Cammillo hassi a giudicare più grande di Scipione,
conciossiachè percosso dalla immanità dei suoi, e quinci cavando
funesti auspici per la Patria supplicò gli Dei, che accettassero il
suo capo, e delle pene espiatorie il colpissero.--Della miserabile
morte di Marco Tullio Cicerone tutti sanno, o molti; Caio Popilio Lena
da lui difeso, e salvato nell'accusa di parricidio, presso la spiaggia
di Gaeta gli fu sopra mozzandogli il capo, e la destra: soldato era
Popilio, suo imperatore Marco Antonio; a Roma nei tempi truci delle
proscrizioni soltanto, fra noi in tempi ordinari coteste obbedienze
soldatesche si lodano, si premiano, ed anco si presume onorare; pochi
all'opposto sanno il caso senza dubbio più reo di Caio Cesare
oratore, il quale dopo avere (arduo carico!) sottratto alla scure il
capo di Sestilio accusato di maestà contro Silla, mentre a sua
posta travolto nella proscrizione di Cinna supplica asilo nelle case
del cliente, costui lo strappa dalle perfide mense, e dagli altari dei
nefandi Penati e lo consegna a morte. Se ciò commettesse Sestilio
per paura o per cupidità ignoriamo; ma se fu per paura di morte si
mostrò indegno di vita, se per premio, degnissimo di morte.

  [1]   Quando il gran Scipio dalla ingrata terra,
        Che gli fu Patria, e il cener suo non ebbe,
        Esule illustre si partia, qual debbe
        Uom, che maschia virtude in sè rinserra;
        Quei, che seco pugnando andar sotterra
        Ombre di eroi onde la Italia crebbe,
        Arser di sdegno, e il duro esempio increbbe
        _Ai geni della pace, e della guerra_.

    E comecchè così scrivesse l'abate Frugoni, viva Dio! è potente
    scrittura.

Le crudeltà antiche di Roma non vennero mai superate, eccettochè in
Roma dalle più recenti dei Papi, e dalle modernissime del moscovita
Alessandro, di cui l'amicizia è sì cara ai moderati di Francia.
Contempla, fra infiniti, questo caso: Caio Mario in mezzo alle mense
ricevuto l'odiato capo dell'oratore Marco Antonio lo stazzona con feroce
voluttà, gli dice ingiuria, poi così sanguinoso con le proprie mani
lo pone ornamento al convito, e Pubblio Annio, che glielo portò in
grembo vuole che così imbrodolato di sangue si sdrai su i letti
convivali; poi continuando a guardare per la storia vedrai tutta la stirpe
di Mario di mala morte schiantata, e le sue stesse ceneri cavate dall'emulo
Silla fuori del sepolcro e disperse su per le acque dell'Aniene.--Di Silla,
se il cuore ti basta, puoi esaminare le quattro legioni senza misericordia
trucidate nel campo marzio, e lui dire ai Senatori raccolti nel tempio di
Bellona spaventati dagli urli, e dal rivo di sangue irrompente nel tempio:
«non è niente: pochi ribelli ora si castigano per mio comandamento;»
i cinquemila abitanti di Preneste anch'essi, affidati alla sua fede, e
anch'essi con istrage promiscua ridotti in pezzi; i quattromila e
settecento proscritti prima per odio, poi per cupidità; nè risparmiati
la vecchiezza, ed il sesso; anch'egli si dilettò di morti con trucissima
industria prolungate; anch'egli, come un dì gl'imperatori antichi posero
nell'atrio delle loro magioni le spoglie dei popoli vinti, volle che
nell'atrio della sua sopra tante aste conficcassero i capi di L. Scipione,
di Giunio Norbano, e di altri parecchi. Mentre a piè del letto fa dai
servi strangolare Granio vinto dall'ira muore per istianto di apostema
verminosa; gli eredi arso il corpo, ne celano la cenere onde non avvenga a
lui quello, ch'egli ordinò si facesse con la cenere di C. Mario.

Taccio della lascivia, mostruosa piuttosto che infame, di Messalina,
che conduce pubbliche nozze, vivo Claudio l'imperiale marito,
ricercatrice notturna di soldati pei guardioli, sfidatrice di femmine
perdute a gara di vergogna. Nerone, ed Eliogabalo convitanti come a
festa allo spettacolo di tali abbominazioni, le quali la notte non ha
manto sì fosco, che valesse a nasconderle degnamente.




PARTE II.

Assedio di Roma.


Comprendo ottimamente la impazienza di coloro, che male ponno
aspettare al canapo la storia di quanto il popolo oprò per avere
Roma, e tenerla sostenendo il memorabile assedio, e di quanto sta per
operare la monarchia, che se n'è accollato il compito: però
importa non arrecarsi degl'indugi da un lato, perchè innanzi tutto
bisogna che aggiustiamo qualche partita con Roma; dall'altro,
perchè se dobbiamo compire il libro col racconto dei gesti
monarchici per salire al Campidoglio noi potremo attendere un pezzo.

Dal primo assunto noi ci sbrigheremo presto come quello che è
riposto in potestà nostra; quanto al secondo spetta alla monarchia
e al suo governo e non a noi. Noi abbiamo pronte l'anima e la penna;
sta alla monarchia apprestare le armi e combattere. Noi ci sentiamo
sempre disposti perchè nostro ausilio sia Dio. La monarchia senza
aiuti stranieri sembra non possa fare: almeno così ci afferma chi
tiene il maestrato della guerra: più bellicoso, chi amministra
l'erario: ma la guerra fin quì si è condotta con i cannoni
carichi non con le casse vuote.

Parliamo di Roma sacerdotale, e poichè il Papa si vanta
rappresentante in terra del principio di ogni giustizia, ch'è Dio,
miriamo un po' qual diritto egli possieda, come ai diritti altrui
chini la fronte, e se Dio possa manifestarsi alle sue creature per via
di così indegna, o scellerata, o stupida cosa come fu la maggior
parte dei pontefici romani. Tanti già favellarono su questo
argomento, che potrà parere per avventura soverchio; e parrà
male per due ragioni; la prima delle quali consiste in questo, che
ogni uomo considera i medesimi fatti con modo suo proprio, accadendo
nella speculazione quello, che succede nella visione degli enti
fisici; ed abbine esempio nelle forme diverse, che gli alunni ricavano
da uno stesso modello nelle scuole del disegno; onde ti senti quasi
per mano condotto a sempre nuovo, ed inaspettato ordine di pensieri;
la seconda ragione poi è quest'altra: che l'errore ti casca come
macchia d'inchiostro su l'anima, e per poca stilla ch'ei sia ci
vogliono brocche di acqua per isbrattarlo.

Il Conte di Cavour intorno a Roma manifestò due concetti, uno dei
quali, per opinione mia, si ha da reputare buono, e l'altro no. Buono
quello di combattere la Chiesa romana più con le armi della
ragione, che con le armi di ferro; e forse era meglio dire, dovercisi
adoperare ambedue, però con questo intento, che la potestà
temporale intorno intorno segata dalla dottrina caschi al primo tocco,
come la porta santa sotto il colpo leggerissimo del martello del Papa.
Chi poi crede che si possa movere guerra efficace alla potestà
temporale lasciando incolume la spirituale, non se ne intende,
perchè con questo Roma ripiglierà la prima a tempo ed a luogo;
già lo fece una volta e non si capisce perchè non l'avesse a
fare da capo; se il ragnatelo rifabbrica la sua rete sette volte, la
Chiesa tornerà a tramarla per lo manco settanta volte sette; nè
tu spera col Sacerdote pace sicura mai se prima la sua usurpata
potestà temporale non cessi, e la spirituale non si rimondi da ogni
mescolatura di faccende terrene.

La Chiesa romana quando acciecata dalla superbia, e dal considerarsi
tanto nella dottrina superiore al secolo, che la circondava, intese
definirsi, fece come Licurgo quando piantò la vigna; ella si
tagliava le gambe: custode alla immobilità sua pose la maledizione,
e il fuoco: nè di roghi, nè di anatemi ella fece a spilluzzico;
ma il pensiero non si brucia: anco ai roghi, anzi soprattutto ai roghi
dello errore si accendono le torce della verità: quanto a
maledizioni avvertite, che quelle dell'uomo ben possono percotere, e
percotono l'uomo, ma l'uomo soltanto, mentre quelle della ragione
rompono l'uomo e le sue frodi.--

E veramente noi confessiamo come l'uomo col suo intelletto non possa
comprendere tutto: tra il cielo e la terra havvi uno spazio, che a
sapienza umana non fu concesso penetrare; ma ciò non deve porgere
argomento al Sacerdote di empirlo di terrori, di errori, e di
fantasmi; aucupi di uccellatore cotesti per cavarne profitto ad
ingrassare la mensa: se quì dentro sta chiuso un mistero per me, e
tu Sacerdote a posta tua uomo come me, sovente meno di me, _adora e
taci_.--

Chi di coltello ammazza conviene che pèra, ha detto Cristo, e con
giustizia migliore poteva sentenziarsi: chi seminò l'errore
raccatta la morte. Il Sacerdote avvolse intorno alle gambe della
umanità una catena d'inganni agguantandola per la cima a fine di
reggerne i passi, ma la umanità limandola per secoli con la opera
della mente se n'è affrancata, mentre la cima impiombatasi dentro
la mano al Prete lo tiene preso provvidenzialmente.

La vita è moto: la immobilità spetta ai cadaveri, ovvero alle
cose inanimate: nè cessa soltanto il viandante che si ferma per le
lande nevose della Siberia, bensì ogni istituto, che sosta a mezzo
il cammino del suo perfezionamento: per condizione di vita l'uomo ha
da rimanere incompiuto finchè duri sopra la terra; condanna sia, o
grazia il suo intelletto si trova spinto a poggiare sempre e più
sempre in alto affaticandosi a diminuire la distanza la quale
intercede fra la mente umana e la mente divina.--

Che se ti oppongono: spenta l'autorità chi mai fie potente a creare
la regola?--Cristo provvide a questo: l'uomo non la può imporre
all'uomo, e la Chiesa non istà nello individuo, bensì nella
comunione dei fedeli: così fu una volta, e così ha tornare ad
essere: dai Concili composti di uomini guasti di ogni reo costume (e
per ora invano gli speri diversi) non ti puoi attendere altro che
miserie, più tardi ne uscirà regola e scienza: dalle legna
secche prima non hai fumo, tristezza degli occhi, poi fiamma conforto
delle membra assiderate?

L'altro concetto, che per me reputai pessimo e sbalestrato dal Cavour
fu quello della _Chiesa libera nello Stato libero_. Se la servile
piaggeria da una parte non generasse sempre temeraria prosunzione
dall'altra, e se prima di avventurare proposte, le quali ci potrieno
riuscire funeste le provassimo nella ragione di fatti per meditarci
sopra conforme è debito di tutti, massime di cui regge gli stati,
troveremmo come la Chiesa romana instasse un dì per siffatta
separazione, poi ella stessa la togliesse di mezzo; ed ora ne
aborrisca, e quasi fosse empietà la condanni; perpetua la
contradizione nei detti, negli scritti, e nelle opere della Chiesa di
Roma, comecchè ella sia tutto un prete, _un prete solo che striscia
pari ad un boa immane traverso quindici secoli_: durante tre il
Sacerdote raccolse nel suo cuore i raggi della divinità, e la sua
via fu quella del paradiso; da quindici secoli a questa parte i passi
di lui tendono per dritto tramite allo inferno; e nondimanco in mezzo
alla contradizione proponesi fine immutabile; cotesta è
volubilità delle vele da mulino per movere la mola, che macina il
grano per casa.

Noi ci atterremo per non andare errati alle parole di Cristo, e
mettendo il vangelo per falsariga sotto il cammino dei preti
conosceremo a prova i passi loro essere quelli del granchio; nè
vale opporre che la lettera uccida, e lo spirito ravvivi,
conciossiachè la lettera di Cristo risplenda luminosa della luce
dello spirito. I preti ad ogni piè sospinto ti vanno ripetendo
santo Agostino avere sentenziato nelle cose dubbie doverci noi stare
piuttosto alla interpretazione della Chiesa, che alla Scrittura, e
quando pure l'opinione di questo santo facesse regola, tu nota
com'egli dichiari la Chiesa non il prete, e che cosa sia Chiesa
avvertimmo. Ma ai tempi nostri, Roma da imprudenti campioni non so
bene se o tradita o difesa, sempre pertinace a rifiutare ogni riforma,
scendeva nello arringo della discettazione: per questa guisa dopo
renunziato il domma della infallibilità respinge anticipatamente i
benefizi della disputa; anzi prima di disputare si confessa vinta,
imperciocchè, il campo della disamina secondo lei, non avria ad
essere libero e sconfinato, bensì all'opposto da lei definito e
ristretto: ora chi a tale patto intende combattere si sente vinto.

Se col sussidio della notizia dei fatti tu vorrai conoscere la causa
per la quale la Chiesa chiedente un dì la sua separazione dallo
Stato, oggi arrovelli a solo udirne favellare ti fie palese,
osservando come sottoposta un giorno allo Stato in ogni sua
manifestazione esterna, ella che pure agognava a roba, e a potere
terreno ebbe mestiere aggirarsi libera, e inosservata per una sfera di
atti diversi, ed anco avversi al principato civile; avendo poi fatto
roba ella con le ruine dello stato si compose uno stato, si armò di
leggi, il codice romano si adattò a suo dosso, o piuttosto lo
convertì in arnese capacissimo a lavorare i suoi disegni, nella
maniera medesima che ritagliava per sè il titolo di pontefice
massimo, e il paludamento imperatorio mutava in piviale. Ora poi che
possiede le decretali d'Isidoro peccatore o mercatore, il Decreto di
Graziano, le Clementine, l'Estravaganti, il sesto di Bonifazio VIII e
il corpo del diritto canonico, e prosunzione d'infallibilità con
altre più enormezze di cui terremo parola, in virtù delle quali,
un tempo, ella s'impose sovrana dei sovrani, e dopo, per lo meno pari
a loro, repugna a cosiffatta separazione, e veramente non si può
operare senza trasformarla, così che avendo arruffato le cose
divine con le umane, gl'interessi co' sacramenti, le stole con le
manette, l'aspersorio con la mannaia, dividere importi tagliare. Il
diritto canonico si caccia dentro il codice civile a mo' di bietta in
mezzo al ceppo per ispaccarlo; ed invero egli talvolta dispone
diverso, e tale altra opposto alla ragione civile; onde se lo
abolisci, e devi abolirlo, non puoi lasciare la Chiesa libera come
colei che si compone nella massima parte di questo, il quale ella
inalzava alla dignità di domma, ed emana figliuolo primogenito
dalla infallibilità sua: dove all'opposto tu glielo lasci stare, e'
sarebbe come rapire al corsaro il bottino, e non levargli la galera;
con le mani ignude ella strappò le corone di mano dei Re, pensa tu
se non vorrebbe ritentare la prova provvista di questa sorte tanaglie!
Qui con parole succinte pongo uno esempio. Nelle materie matrimoniali
il codice civile conta da due parti; così a mente di questo tu
disti dalla tua cugina quattro gradi, imperciocchè fra tuo padre e
te corra un grado, un secondo fra tuo padre e l'avo tuo, il terzo fra
l'avo e lo zio, finalmente il quarto tra la cugina e te; quindi là
dove ti garbi puoi con la tua cugina stringere liberamente legittime
nozze; non così per diritto canonico, il quale inteso a
moltiplicare i divieti per crescere la messe delle dispense conta da
un lato solo; però tu dalla tua cugina distando due gradi non puoi
con essa dirittamente ammogliarti se prima, pagando, non ottieni la
dispensa. Supposto che tu non voglia, o non possa procurarti la
dispensa, ed invece persista nella voglia di sposare la cugina, ecco
le coscienze turbate, la famiglia percossa nei fondamenti; se non che
il prete ipocrita ti nota: o credi o non credi; se ti piace credere,
tu lo hai da fare a questo patto; se non credi che t'importa di me?
No, prete, non è così: le società umane senza religione non
sembra, che possano durare, e tu ti sei impadronito di questa
necessità dell'uomo, foggiandola in modo da fartene il tuo
campamento; odi: si narra come a Temistocle esulo Serse donasse tre
città, Lampsaco, Magnesia, e Miunte, la prima pel pane, la seconda
pel vino, e l'altra pel companatico; a te poi non furono dati,
bensì pigliasti i sette sacramenti e gli adattavi a cappa magna dei
sette peccati mortali, che per ordinario ti trovi a possedere; nè
qualche volta il panno basta per tutti.--La Chiesa come sta non può
lasciarsi libera: la dottrina diversa è inganno, od errore; la
religione forma parte dello stato; che rilevano menzogne? Peggiorano
il male, che deve conoscersi intero e guarirsi; quando, come nei
primordi della Chiesa, il popolo eleggerà i suoi seniori (dacchè
_prete_ altro non significa che _vecchio_) egli gli scerrà tali che
rispondano ai suoi intendimenti, nè andrà a cercarli tra gente
che tiene la religione come schiera ordinata contro la legge. Caschino
le decretali di Gregorio, e il Sesto di Bonifazio; diventino
curiosità di Museo i sacri canoni, e il diritto canonico, non
oltrepassi la Chiesa la soglia della coscienza, e allora, ma allora
soltanto si bandisca la Chiesa libera, però guardandola sempre,
perchè in simili faccende sempre si vedano rimettere i talli sul
vecchio.

Vedrai lettore questa Chiesa, che cristiana avversò con indefesso
studio il paganesimo, fatta cattolica redarne le spoglie, e mentre
conserva la rete di San Pietro per pescare pesci, adopera poi la rete
di Vulcano per agguantare uccelli.--Ti fie manifesto altresì come
Roma clericale ora della libertà dei popoli si armasse contro la
tirannide dei re, e più spesso della tirannide dei re contro la
libertà dei popoli, poi li pestasse ambedue.--Conoscerai come con
parole avvampate di sacro furore il vescovo di Roma maledicesse in
altrui quello, che per pigliare a suo benefizio non dubitò mandare
sossopra la unità della Chiesa cristiana.

Casi peculiari ometteremo, o riporteremo pochi, e dei fatti generali
solo quelli, che varranno a chiarire vero il nostro concetto. Questa
grave materia gli scrittori partirono in diverse maniere secondochè
meglio si adattava ai fini delle ricerche, che essi si proponevano: al
mio assunto giova dividerla in quattro grandi sezioni, le quali sono:

Chiesa di Gesù Cristo, e suo costume, finchè per tre secoli
seguitava le santissime orme di lui.

Chiesa romana, che s'industria prevalere sopra le Chiese sorelle, e vi
arriva col danno dello scisma di oriente: di tanto non paga la Chiesa,
volta alla terra ogni sua cura, acquista soldati, sbirri, carnefici,
tribunali, e prigiona uomini da sfruttare, campagne dove mietere senza
lavorare, città da mettere sotto il torchio col nome di governo;
insomma acquista luogo nel sinedrio degli oppressori a modo e a verso
come ogni altro tiranno. La Chiesa assetata per colpa del liquore che
beve, male sopportando anzi aborrendo durare pari co' potenti delira
oltrepotere su tutti: e poichè dopo Samuele apparvero i re, ci
stieno; a patto però che servano di pavimento ai piedi del
sacerdote; e il mondo parve salvato dal diluvio universale dell'acqua
piovana perchè sommergesse dentro un'altro diluvio di acqua
benedetta.

Poichè il superbo intento andò in pezzi rotto dallo schiaffo
sopra la guancia di Bonifazio VIII entra il periodo dove vediamo nel
Papa mantenersi, ed anco crescere la libidine di dominare popoli e re
sopra la terra; ma ogni giorno scema di potenza, quantunque qualche
volta gli dieno ad intendere il contrario anco quelli che ci credono
meno, a fine di mettere Dio complice nel misfatto commesso immaginando
consacrare la usurpazione col depositarla sopra la tomba di San
Pietro; il prete ora si rileva, ora casca, e diverso da Anteo ad ogni
caduta perde di forza. Quello, che portò a Roma il flutto della
barbarie, la civiltà ritoglie; la libertà riscatta quanto il
prete ghermì alla scure del Franco; la lampada sdegnosa di essere
tenuta sotto il moggio ad ardere pel prete, appiccato il fuoco al
carcere illumina tutti i figli di Adamo; non anco è sorto il sole
della verità nella pienezza dei suoi raggi, ma le tenebre dello
errore si diradano ogni momento di più. La Chiesa di Roma oggi
presenta lo spettacolo miserabile dell'uomo decrepito, che combatte
con l'agonia; intorno al letto le fanno corona servi interessati, ed
intrusi stranieri per involare parte del suo retaggio ai legittimi
eredi. Anco quando presume operare bene ella fa male, e mentre a sè
non giova, altrui danneggia, però che levando la voce a maledire il
tiranno russo noi rammentiamo come altre volte la levasse a maledire
l'oppresso Pollacco; e da voi altri sacerdoti non si veda, che cosa,
secondo il vostro giudizio, rimarrebbe da fare ai Pollacchi quando
vituperando l'enormezze russe rifuggite da lodare la virtù
pollacca. La voce del sacerdote non suona amica, e franca; nella
ribellione dell'oppresso il rappresentante della Giustizia eterna non
ravvisando la sacra ira che la Provvidenza dette anco al verme mi
scappa fuori con la dottrina infelice di San Paolo che comanda, o
finge comandare ai cristiani tremanti sotto Nerone: «obbediscano
sempre, e poi sempre ai principi comunque iniqui.» In questa voce,
che emise il prete come se avesse la gola presa dal raffreddore tu
senti che qualche cosa manca... sì certo, ci manca il prezzo pagato
dal Moabita a Balam; se Alessandro moscovita donava a Pio IX un Cristo
di oro co' chiodi di rubini come praticava Niccolò suo padre con
Gregorio XVI, costui avrebbe spaventato il mondo con una seconda
edizione riveduta e corretta della scellerata enciclica del 1832.

Di due cose ha sete il tempo, o piuttosto di tre: di libertà, di
probità, e di religione; prima, che muti il secolo queste tre cose
sgorgheranno pari alle acque dell'Oreb dai capi del prete, e del
despoto spezzati.


Ecco le parole di Cristo, chi le sa le rilegga, chi le ignora le apprenda e
giudichi poi se il prete di Roma possa vantarsi vicario di lui: «Non
vogliate possedere oro, nè argento, nè danaro nelle vostre borse,
nè bisaccia in viaggio, nè due vesti, nè calzari, nè bastone[1].
Paga il tributo delle due dramme a Cesare[2]--Se vuoi essere perfetto
va, vendi ogni tua sostanza, donane il prezzo ai poveri, ed avrai un
tesoro nei cieli, quindi vieni, e seguimi[3]. Io vi assicuro difficile,
che un ricco entri nel regno dei cieli, anzi vi ripeto: è più facile,
che un camelo passi per la cruna di un'ago di quello, che un dovizioso
entri nel regno dei cieli[4]. Ognuno, che perderà la casa, o i fratelli,
o le sorelle, o il padre, o la madre, o la moglie, o i figli, o le
possessioni per cagione mia riceverà centuplo il guiderdone, e
possederà la vita eterna[5]. Voi sapete, che i principi fra gli uomini
li dominano, ed i magnati esercitano potere sopra di loro: _tra voi ciò
non abbia luogo_, ma qualunque presumesse primeggiare fra voi sia il vostro
ministro; chi vorrà parere primo diventi servo[6]. Gesù pertanto
avendo compreso, che sarebbero andati a lui per impadronirsene, e
_proclamarlo re_, di bel nuovo tutto solo si ritrasse sul monte[7].»

  [1]  _Mat_. 10. v. 9. 10, _Marc_. 6. v. 8. 9. _Luc_. 9. v, 3, e cap.
    10. v. 4.

  [2]  Mat. 17. v. 26.

  [3]  Mat. 19. v. 21.

  [4]  Ibid. v. 23. 24.

  [5]  _Mat._ v. 29.

  [6]  _Mat._ 20. v. 25. 26. 27. _Marc._ 10. v. 42. 43. 44.

  [7]  _Mat._ 14. v. 23. _Jo._ 6. v. 15. _Marc._ 6. v. 46.

Questa la dottrina di Cristo, la quale potremmo di leggieri confermare
con altre sentenze ricavate dalle labbra di lui o da quelle dei primi
Padri della Chiesa.

Il prete di Roma, che nel commentare si dimostra sì arguto per
guisa, che sostiene Cristo avere comandato, non già che camminino
scalzi i suoi sacerdoti, ma solo che non posseggano due paia di
scarpe, però che il divieto di non tenere in serbo due vesti si ha
da intendere esteso anco alla quantità delle scarpe: quasi la
nudità dei piedi fosse la medesima cosa, che la intera nudità
del corpo, o quasi i prelati di Roma per osservare il precetto di
Cristo dalle scarpe, che portano in piedi non ne possedessero altre! I
preti di Roma intorno al divieto pronunziato da Cristo di primeggiare
sopra i fratelli, e circa l'aborrimento di avere titolo e potestà
di re tacciono o armeggiano.--Certo, i preti dichiarano, il regno di
Cristo stà nei cieli, egli lo ha detto e non ci ha da ripetere; ma
spieghiamoci a dovere, cotesto è il fine del viaggio, epperò
nulla osta che per arrivarci meglio noi possiamo trapassare per un
regno terrestre; il regno dei preti quaggiù gli è come la scala
sognata da Giacob provvisoria e di legno per arrivare nel paradiso
perenne. Cristo (parla sempre il prete) a me commise bandire la sua
fede alle genti, ora, insegnatemi un po' voi, come potrei obbedirgli
con profitto senza un danaro al mondo, senza bauli, e senza scarpe? Si
valicano i mari con tra le gambe un bastone?--Le amministrazioni dei
vapori ci dicono, che quando daranno loro il carbone come a noi preti
è data la grazia, cioè _gratis_, ci condurranno in America
magari per nulla.--Possiamo noi presentarci al re del Congo vestiti
come il giglio della valle, e il cedro del Libano? E tu rispondi: la
dottrina che predicaste, e predicate ella è veramente dottrina di
Cristo? Si conosce Cristo con gli orrori di cui empiste l'America, e
traverso le idolatrie di cui spargete il seme nell'Asia? Bandite
Cristo voi, o i vostri santi Ignazio da Loyola, Luigi Gonzaga, e
Stanislao Kotska? Perchè tanto studio vi punge per la gente
rimotissima, e di questa, che vi sta sottomano in casa non vi piglia
studio di sorte? Quì ì Greci scismastici, quì Luterani,
Calvinisti, Zuingliani, e Valdesi, qui Ebrei e Maomettani; qui
d'increduli un diluvio: prima assettate le faccende di famiglia poi
attenderete a quelle di fuori: chi tralascia avvantaggiare i suoi per
vestire gli stranieri corre rischio di farsi abbaiare dai cani. In
qual conto terreste il colono, che lasciasse in Europa il suo podere
in balia delle ortiche per girsene traverso l'oceano a dissodare le
terre della repubblica dell'Equatore? Innanzi di medicare altrui fie
savio guarire sè stesso. Non nella China, o nel Giappone si
rammenda il manto sdrucito della Chiesa, ma qui in Europa e più che
altrove in Italia. Dite, preti, qual'è più cosa Dio, o il sole?
Certo Dio; ora questa provvidenza suprema, che ogni dì manda il
sole a illuminare la schiatta umana, ond'essa si mantenga in vita, non
avrebbe saputo nella profondità del suo consiglio suscitare
intelletti capaci di bandire la sua fede in ogni plaga del mondo? E se
lo avesse giudicato spediente non lo avrebbe fatto da un bel pezzo a
questa parte? Imperciocchè oggi alla religione di Cristo consenta
la decima parte appena del genere umano. Donde in voi la crudele
jattanza di affermare perduti tutti coloro, che, comparso Cristo, nol
conobbero, o quelli altresì che innanzi di comparire non l'arieno
potuto nè manco conoscere? Come lo sapete? Chi ve lo ha detto? Si
confida la Divinità con voi? O presumete voi imporle regole,
comandamenti, e definizioni?

Intanto questo è il primo predicato del Vangelo, che i sacerdoti di
Cristo non solo devono procedere immuni da qualsivoglia dominio il
quale ingerisca necessità di rompere guerre, e mettere mano nel
sangue, ma ed anco da possedimento terreno.

Il Papa per dare un po' di sostegno alle strane pretese sè afferma
successore di San Pietro ito a bella posta da Galilea a Roma per
fondarvi il supremo sacerdozio di Cristo: ora mercè la storia
critica si rese manifesto come San Pietro non si recasse mai a Roma: e
valga il vero. Gli storici della Chiesa cattolica asseriscono come San
Pietro venisse nella metropoli del mondo nell'anno 42 dell'era
cristiana e quinci scrivesse le due lettere, che rimangono di lui; tu
prima nota: in quelle non rammentarsi mai Roma; solo nella prima si
legge: «vi saluta la Chiesa ch'è in «_Babilonia_ con voi
eletta, e Marco mio figlio[1].» L'Arcivescovo Martini chiosando
dichiara tutta l'antichità per _Babilonia_ avere inteso Roma, e non
è vero che se a taluno sembrerà temerario opporre una mentita ad
un'Arcivescovo, e per di più morto, mi scusi presso costui lo
sbugiardare ch'io faccio l'Arcivescovo Martini l'autorità
dell'Arcivescovo Martini, il quale commentando il capitolo 16
dell'Apocalisse tira fuori tre ragioni _per confutare_ gli antichi
interpetri i quali insegnarono per Babilonia nell'Apocalisse aversi ad
intendere Roma; ed è singolare quest'altro, che ad escludere il
concetto, che Babilonia sia Roma, allega S. Agostino nella _Enarrat,
secunda in psal. XXVI_, mentre quel medesimo benedetto Santo nella
_Città di Dio l. 48. c. 2_. scrive: _Roma essere quasi una seconda
Babilonia_. Però non voglio tacere, che ai giorni nostri Vincenzo
Padula di Acri con begli e dotti ragionamenti dimostra come la
Babilonia dell'Apocalisse non può essere altro che Roma, e chi ne
ha voglia li vada a leggere, che io per me li lessi una volta e n'ebbi
d'avanzo[2]. Più sicuro è questo altro che seguita, Babilonia
avere i nostri poeti chiamata più tardi la corte pontificia sia che
ad Avignone stanziasse ovvero a Roma:

    _«L'avara Babilonia ha colmo il sacco
    «D'ira di Dio, e di peccati empi e rei._

cantava il canonico Petrarca che ci stava di casa[3].

  [1]  Epis. I. c. 5. v. 13.

  [2]  Apocalisse storicamente interpretata da V. da Padula di Acri,
    Napoli 1861, p. 235.

  [3]  _Sonetti_ sopra varii argomenti. Son. XV

E qui pure, o lettore, pon mente, come per colorire sue novelle il
prete non aborrisca prendere per prova ciò che una volta fu titolo
per significare la infinita infamia di lui.--Pudore di prete, e
sfrontatezza di meretrice _gli è quasi come dir marito e moglie_. E
mira, se ti quadra, che San Pietro rammentando la Chiesa di Roma non
lo avrebbe fatto sostituendo al vero un nome di vergogna.--Arrogi, che
San Paolo descrivendo minutamente il suo viaggio, e la sua dimora in
Roma nè anco per cenno rammenta la presenza di San Pietro costà.
Contegno siffatto arieggia gli amori pieni zeppi di astio, che
ricambiansi gli amici politici dei giorni nostri, ma che decisamente
avrebbero fatto scorgere due santi, massime apostoli e di quelli che
vanno per la maggiore. E vi ha di peggio; San Paolo oltre a non
ricordare San Pietro inviando saluti ai Cristiani di Roma in nome suo,
e dei compagni suoi non dimentica alcuno; fa i suoi rispetti così
agli uomini come alle donne, e si dimostra sommo maestro in
divinità del pari che fiore di gentiluomo; ma di San Pietro nulla.
Gli scrittori papisti soliti a non isgomentarsi per poco
obiettano:--allora San Pietro era in giro.--O dove?--Dove s'ignora, ma
che fosse in giro egli è sicuro.--Bene sta. Ma dalla medesima
lettera di San Paolo ecco uscire la testimonianza, che Pietro non fu
mai a Roma; Paolo dichiara: «io poi non ho predicato lo evangelo
dove è conosciuto Cristo, affinchè non edificassi sopra il
fondamento altrui.[1]» Ora parmi chiaro, che se San Pietro avesse
fatto conoscere Cristo a Roma queste parole Paolo non aria potuto
dire.

  [1]  Ai Rom. cap. 13. v. 20.

Rincalza l'argomento quello, che seguita; Paolo afferma i Romani
convertiti giusta il suo evangelo: «a lui solo onore, il quale
può confermarvi secondo il mio vangelo.»[1] E questo da lui
sarebbe stato anco meno veramente asserito se i Romani fossero stati
redenti alla fede mercè il vangelo di San Pietro il quale usava
quello di San Marco, mentre Paolo preferiva quello di San Luca. Paolo
dunque non Pietro fu a Roma mandando innanzi alcuni suoi discepoli, e
parenti perchè ammannissero il terreno alla sementa di Cristo.

  [1]  Ai Rom. 16 e 25 «quando S. Paolo era in Acaja scrisse San
    Luca, che lo accompagnava, il suo Vangelo, e si crede essere quello
    che San Paolo nelle sue epistole chiama proprio Vangelo.» Com.
    dell'Arcivescovo Martini.

Tuttavolta o andasse, come pretendono gli scrittori papisti, San
Pietro in Roma, o non vi andasse come pensiamo noi[1] certa cosa ella
è che nè manco costoro, ora, che sono alla porta co' sassi,
perfidiano San Pietro immaginasse, e molto meno istituisse il primato
della Chiesa Romana: solo sostengono che stava dentro il concetto di
lui come pulcino nell'uovo, ed oggi predicano così il Dottore
Newmann, e il Cardinale Wisemann, e il Moelher, ed altri cotali che la
sanno lunga e la sanno contare. E' sono arzigogoli pretti, però che
la Chiesa cattolica non crebbe la dottrina di Cristo esplicandola
bensì la schiantò di pianta sostituendone un'altra contraria, si
capisce ottimamente come il pargolo crescendo diventerà uomo, non
si capirebbe se diventasse un bufalo: e si comprende altresì che da
non possedere altro che un paio di scarpe i sacerdoti tirando innanzi
nei tempi dovessero essere forniti da comparire onorevoli secondo la
dignità del sacerdozio; ma da non avere nulla a pretendere tutto ci
corre: s'intende acqua ma non tempesta!... E badate che come
concederei io per menare il buono per la pace non l'ammolla San Paolo,
il quale fa una lavata di capo ai Galati con queste parole: «ci
sono alcuni, che vi sconturbano e vogliono capivoltare il Vangelo di
Cristo: ma quando anco noi od un'_angiolo_ del cielo evangelizzi a voi
_oltre a quello_, che abbiamo a voi evangelizzato, sia anatema.[2]

  [1]  Quantunque San Pietro non sia stato a Roma pure costà sanno,
    «ch'egli fu lungo e grosso, pallido in viso più che re sul
    trono, crespi i capelli, e i peli della barba, e comecchè folti
    pure corti, occhi sanguigni e neri, senza quasi sopraccigli, naso
    lungo, carnuto, e dilatantesi nelle narici.» _Platina_ Vita di
    San Pietro in fine. Da questo si conosce che San Pietro andando a
    Roma non avrebbe fatto concorrenza allo Apollo di Belvedere.

  [2]  Lettera ai Galati cap. 1. 7. c 8.

I dottori papisti abbaiando parlano di tre unità, di cui una si è
votata mano a mano dentro l'altra, prima del vescovo, poi del
metropolitano, all'ultimo del papa.--Dunque sul principio, cristianesimo
non fu cattolicismo, e questa ultima forma, che sostenete perfettissima,
non cadde nè anco in mente al suo fondatore: ciò parmi grave, e come
grave contrario alla natura delle cose; perchè gl'instituti umani nei
primordi procedono dirittamente, ma coll'andare del tempo venendosi a
corrompere, egli è mestieri riportarli via via ai loro principii per
mantenerli, la quale considerazione se ha luogo negl'instituti fondati
dall'uomo, quanto non deve apparire maggiore negli altri che emanano da
mente divina?--Il prete pertanto presume saperne più di Cristo, e mentre
da per tutto il tempo logora o corrompe, a Roma poi conserva anzi migliora.
Ancora, vuolsi domandare, perchè accaddero le modificazioni di cui
favellate? Perchè, dice il Papista, secondo il costume degli uomini, e
le qualità dei tempi egli è mestieri mutare.--Tu parli di oro; ma se
questa tua gerarchia si governa co' tempi, il tempo muta e non si ferma
mai, onde nel modo che necessità ti strinse un giorno a cambiare
potrebbe coartarti la quarta volta e la quinta; che se presumi sostenere
come ormai lo edifizio essendo compito veruno abbia da toccarlo più, io
ti avverto che le tue parole ti condannano, imperciocchè questa presente
unità cattolica tu non l'affermi ordinata da Cristo, nè ottima in
sè, sibbene partorita dalla necessità, e dal degenerare che fecero i
cristiani dalla eccellenza antica; insomma buona come rimedio tenuto caro
finchè il morbo dura: certamente quando giaci infermo tu bevi olio di
ricini, ma ricuperato che abbi la salute già non credo che a mensa tu ti
mesca olio di ricini, anzichè vino, e quello a questo tu preferisca.
Peggio se il Papista pretendesse la ultima unità opera di Dio, le
precedenti degli uomini; conciossiachè si abbia a credere più opera
sua quella, che gli uscì dalle mani, e che fatta dagli Apostoli tuttavia
spirava l'alito che ci soffiava con le sue labbra divine, che non l'altra
fabbricata tardi dai sacerdoti presi pel collo, com'essi dicono, dalla
necessità.--Finalmente Tertulliano, e gli altri padri della Chiesa danno
di frego alla dottrina della Curia Romana con la solenne sentenza:
«Quello soltanto è verità, ed è cattolico che prima fu stabilito; eresia
quanto si diparte da lui.»

San Bernardo, domando io, nel concetto dei cattolici che roba egli
è? Santo od eretico? Diavolo! Santo e dei buoni: or bene; egli
rimbrottando il papa Eugenio III così gli favellava: «Quale
Apostolo ha giudicato gli uomini, diviso i confini, distribuito
terre....? Coteste fragili cose terrene hanno per giudici i principi
della terra, ma voi perchè invadete i confini degli altri, e nella
messe altrui ponete la falce?.... _È vietato agli apostoli
dominare_. Ora va ed ardisci usurparti l'apostolato o la dominazione
_intitolandoti apostolico_. O l'una cosa o l'altra ti è interdetta,
e se ambedue presumerai tenere, entrambi perderai[1]» Se però
San Bernardo tu reputi santo, e tu seguilo; se eretico, e perchè
non lo consegni al fuoco eterno?

  [1]  De consid. leg. e 2 cap. 6.

E quanto San Bernardo dichiara in prosa Dante confermava da parecchi
secoli in rima:

   _«Di oggimai, che la Chiesa di Roma,
    «Per confondere in se due reggimenti,
    «Cade nel fango e sè brutta e la soma_[1].»

  [1]  Purgat. 16.

Dunque Cristo di cui si vanta Vicario il Papa gli vieta espresso ogni
potestà temporale nel mondo.

Però quando leggi come nei primi tre secoli la Chiesa si mantenesse
pura non la devi intendere così puntuale che mali esempi non
fossero di già corsi in lei. Il desire ceco tira alla terra, e il
corpo dà perpetua gravezza all'anima; fra i molti fatti comparisce
notabile quello di Vittore I, il quale presumeva imporre ai Vescovi di
Asia l'uso osservato a Roma di celebrare la Pasqua; i Vescovi asiatici
non volendo obbedire egli trascorse al punto di bandirli separati
dalla sua comunione; di che acerbamente lo rimproverava Santo Ireneo
chiamandolo vuoto di carità, e pieno d'ignoranza. Stefano I in
certa questione intorno al battesimo amministrato dagli eretici si
chiarisce avverso alla dottrina di San Cipriano vescovo di Cartagine,
il quale confutandolo lo taccia di leggerino, di gaglioffo, e di
cocciuto presontuoso; e San Firmiliano vescovo di Cesarea ribadisce il
chiodo scrivendo al medesimo Papa: «essere universalmente biasimate
la stupidità, l'arroganza e in modo speciale il difetto di
carità in lui, che sè estima erede di S. Pietro, mentre egli lo
giudica il pericolosissimo fra gli eretici.» E' pare che questo
Papa non avesse troppo fortuna co' santi.

La parola _clero_ viene dal greco, e significa _sorte_, che è
quanto dire i sacerdoti _sortiti_ al servizio dello altare tutti si
consacrino a quello lasciando addietro ogni cura mondana; pari ai
leviti d'Isdraele si contentino delle decime, e delle oblazioni.--La
_tonsura_ poi denota la renunzia ad ogni cosa temporale: tutto si
poneva in comunella tra i cristiani, ed anco dopochè i sacerdoti
per munificenza di Costantino imperatore possederono terre, e
casamenti per lungo tempo ebbero le sostanze comuni: le divisero in
seguito. I vescovi eleggeva il popolo; parecchi fra loro vissero del
lavoro delle proprie mani, e fu cosa degna; oggi si aborrisce parendo,
che Cristo si degradi ad essere trattato da mani che il lavoro
santificò, come se egli stesso con l'opera sua non sovvenisse al
padre fabbro: servi dei servi di Dio non si dicevano quei primi
sacerdoti, ma erano: loro intento procurare il bene meno del singolo,
e di una classe, quanto della intera comunità.--Veramente San Paolo
insegna, che gli anziani, o vuoi _preti_ (che appunto prete suona
anziano) quando fanno bene, e faticano nella parola e nella dottrina
devano reputarsi degni «di doppio onore[1]»; ma avverte
altresì: «quando abbiamo vitto, e vestito contentiamoci[2].»
E queste, nota San Girolamo, erano appunto tutte le ricchezze dei
Cristiani.--Insomma per istringere quanto ci rimane a dire in una sola
sentenza rammenteremo le parole di San Giovanni Crisostomo:--nei primi
secoli della Chiesa preti di oro celebravano in calici di legno,
adesso sacerdoti di legno celebrano in calici d'oro; e di quale legno!
Di quello del quale Gesù Cristo comanda che inetto a fruttificare,
ovvero atto a frutti tristi vuolsi mettere sul fuoco.

  [1]  A Timoteo. V. v. 17.

  [2]  Id. VI. v. 8.

I lutti della Chiesa e la ruina d'Italia derivano pur troppo dalla
origine a cui alluse l'Alighieri nostro:

   _«Ahi! Costantin di quanto mal fu madre
    «Non la tua conversion, ma quella dote,
    «Che da te prese il primo ricco padre_.»

Però che se la donazione di Costantino sia ormai confessata una
delle infinite fraudi per cui la curia di Roma avrebbe ad essere
condannata a perpetuo ergastolo come falsaria, tuttavia si ha per
certo, ch'ei si fosse largo a Salvestro vescovo di Roma di protezione,
e di averi, per la quale cosa costui uscito dallo scuro subborgo fuori
di porta Capena, dove viveva confuso agli Ebrei, si condusse ad
abitare il palazzo Laterano proprietà una volta della imperatrice
Fausta.

La Chiesa, e i chiesastici un tempo fabbrica e fabbricanti di
falsità, nè permesse solo o sofferte, bensì prescritte:
così quando non si avevano gli atti di un qualche martire pel dì
della sua festa s'immaginavano; e tanto più erano accetti quanto
più strepitosi; di quì le leggende mostruose onta della ragione
umana, le false Decretali, i libri sibillini, il Libro della
Gerarchia, i Canoni, le Costituzioni apostoliche, e la Donazione di
Costantino.

La prima volta questa donazione occorre rammentata nella lettera di
Adriano I a Carlomagno per destare in costui la gara della larghezza:
ne affermano fattore quell'Isodoro il quale di _peccatore_, che si
chiamava prima si trasformò in _santo Isidoro e mercatore_. Tra le
altre cose si diceva in essa: «noi attribuiamo alla sede di Pietro
tutta la gloria, e tutta la potenza imperiale. Noi diamo a Salvestro
ed ai suoi successori il nostro palazzo di Laterano, la nostra corona,
e tutte le nostre vesti imperiali, la città di Roma, e tutte le
città occidentali della Italia, e delle altre contrade. Noi gli
cediamo il luogo non essendo giusto che un imperatore terrestre
conservi la minima possanza dove _Iddio ha stabilito_ il capo della
religione.»

Oltre queste, bene altre diavolerie contiene il documento, come, a mo'
di esempio, che l'imperatore Costantino si conduce a cotesto atto per
consiglio dei suoi _satrapi_; ch'egli ha riposto dentro _due cassoni
di ambra_ i corpi dei Santi Pietro e Paolo, e dopo avere costruito in
onoranza di loro basiliche eccelse assegna alle medesime poderi
grossissimi in Giudea, in Grecia, e in Tracia per mantenervi dentro
_la luminaria_, e tutto questo nè manco in dono, ma per salario di
averlo Papa Silvestro guarito dalla lebbra, e battezzato.

Di siffatta donazione ce ne ha parecchi esemplari; a tutto oggi
arrivano a 12, uno secondo il solito diverso dall'altro, ma ciò non
toglie che come genuini li venerassero tutti e dal Graziano per
genuino si ponesse nella sua collezione quello, che primo gli
capitò davanti.

La critica storica ha dimostrato come Costantino nella epoca della
mentita donazione non si trovasse già in Roma, ma sì in
Tessalonica ed a quei giorni non reggesse prefetto a Roma,
secondochè l'atto di donazione asserisce, Calpurnio, bensì
Lucrio Verino.

Menzogna il battesimo di Costantino a Roma per mano di Papa Silvestro,
mentre il battesimo l'ebbe in punto di morte in Nicomedia da Eusebio
da Cesarea vescovo di cotesta città.

È menzogna altresì che le provincie italiche fossero donate e
sottoposte al Pontefice; al contrario. Costantino le governò sempre
come sue mandando a reggerle prefetti uomini consolari correttori e
presidi.

Ciò nonostante, finchè poterono i preti difesero
l'autenticità di cotesta donazione con le ugna, e col becco, o se
non buttarono sul fuoco (come taluno afferma) Lorenzo Valla, che
ardì impugnarla con parole acerbe verso la metà del secolo
decimoquinto, ci corse poco; sessanta e pochi più anni dopo si
pigliavano spasso di cotesto documento Prelati solenni e Cardinali, ne
sorrideva il Papa stesso, e l'Ariosto senza una paura al mondo la
metteva nel mondo della luna:

   _«Di varii fiori ad un gran monte passo,
    «Ch'ebbe già buono odore, or pute forte,
    «Questo era il dono (se però dir lece)
    «Che Costantino al buon Salvestro fece.»_

Potremmo dirne delle altre; al nostro assunto basti tanto, e poniamo
in sodo prima di ogni altra cosa come _fondamento precipuo della
potestà temporale del Papa sieno la fraude e la menzogna_.

Il Papa prese da Costantino, ma rimase anco preso; per questa volta
invece di pescare ei fu pescato; a mo' del pesce fu vinto nella gola:
importa ora conoscere le cause, onde Costantino così di un tratto
si mostrò sviscerato pel Papa: io ragionando pongo da parte ogni
intervento soprannaturale, molto più che mi occorre narrato in
diverse maniere. Di fatti, Cecilio riferisce come la notte precedente
alla battaglia del ponte Milvio, dove la fortuna di Costantino
prevalse su quella di Massenzio, una visione lo ammonisse a mettere
sopra gli scudi dei soldati il _celeste segno di Dio_ se voleva
vincere. Eusebio nella vita di cotesto imperatore dice, come
camminando egli a capo dello esercito tutto pensoso intorno alla
religione da seguitarsi levate le ciglia vide una croce luminosa sopra
il sole col motto traverso: «con questo segno vincerai;» di che
rimase smosso; pure non essendo bastante a fargli dare la balta nella
notte successiva gli comparve davanti (in sogno s'intende) nientemeno,
che Cristo in persona, il quale lo accertò, che se gl'importava
debellare Massenzio non doveva fare altro, che pigliare cotesto segno
per bandiera, la quale cosa Costantino non si fece dire due volte, e
ne compose subito il famoso _Labaro_, ch'ebbe virtù di dare a lui
ed ai successori di lui sempre vittoria sopra i nemici meno quando ne
toccarono. Questo i Cristiani, ma i Pagani non mondarono nespole, che
Nazario nel Panegirico di Costantino attesta come di cosa veduta da
tutta la nazione dei Galli, che un'esercito di angioli era sceso
giù dal cielo volando a sovvenire a Costantino, e ne descrive la
faccia luminosa, il portamento altero, la garbatezza mescolata con la
gagliardia, con le altre virtù, le quali se non possedessero gli
angioli non si sa chi mai le avrebbe a possedere.

E' pare che siffatta frequenza di miracoli piuttosto che persuadere le
menti le debba irritare; e sembra altresì che questi miracoli
quando non furono fraude per gli occhi, sieno oltraggio allo
intelletto; ma vi hanno stagioni in cui agli occhi del pari che allo
intelletto piace rimanere delusi; onde potrebbe anco darsi che o
sogno, o visione, od altra cosa simile movesse l'anima di Costantino.

Costantino in tanto che lo ammannivano per santo ebbe dai preti titolo
di _vescovo dei vescovi_, e non era poco: però dall'altro lato
quasi per tenere in bilico la sua perfezione gli stava sul petto un
peccato, non tale certo a senso dei preti da fargli chiudere da San
Pietro le porte del paradiso in faccia, ma che un po' di fastidio
glielo doveva recare,--egli era un semplice parricidio: però che
costui portasse le mani micidiali nel sangue del figliuolo Crispo. Ora
la fede di saldare questo suo debito, con altri parecchi mercè un
poco di acqua sul capo può averlo disposto al cristianesimo,
differendo a riceverlo secondo il costume di allora in punto di
morte.--Di costumanza siffatta porgono esempio Teodosio il grande e
Valentiniano II; nè il medesimo Santo Ambrogio ebbe battesimo prima
della sua promozione al vescovato di Milano, però che a quel modo
si esentassero dalle pubbliche penitenze che a quei tempi la Chiesa
usava co' cristiani penitenti, ed anco credessero così praticando
assicurarsi meglio la salute eterna.--Certo il suo pericolo ci era,
mettendosi i catecumeni a repentaglio di uscire dal mondo senza quel
salutevole bucato, ma sarebbe stato come annegare nel forno, dacchè
la morte non viene così subito, che un po' di tempo per salutarla
non conceda, ed acqua, ch'è materia del sacramento da per tutto se
ne trova (così come dell'acqua accadesse pel vino!) e le poche
parole necessarie per la forma di quello ogni menno sa dirle[1].

  [1]  Eccetto un canonico il quale, per quanto mi narrarono a
    Montepulciano, corto in divinità ed in lettere anco più,
    chiamato da un tavolino di tre sette ad amministrare in fretta e
    in furia il battesimo ad un neonato, se ne schermiva allegando non
    sapere che cosa dire; trovato allora un rituale e presentatoglielo
    perchè leggesse, costui posto con le spalle al muro lesse la
    formula secondo apparisce abbreviata così; «_ego te baptzo:
    in none: pris: fi_.» e siccome il nome dello Spirito Santo
    significano con due SS. egli pigliandole per una cifra arabica
    concluse: «numero cinquantacinque.» Poi asciugatosi il
    sudore per la sofferta fatica voltosi agli astanti disse:
    «Fortuna, che ho imparato un po' di aritmetica in gioventù
    altrimenti questa povera anima andava perduta.»

Molto doveva talentare eziandio al tiranno la obbedienza ceca e
passiva, che i primi cristiani ostentavano per le autorità
temporali fino a predicare come parte della loro dottrina la pazienza
di principi comunque perversi _etiam discolis_; e riverirli come
costituiti proprio con le sue mani da Dio: ho detto ostentavano,
chè deboli essendo ed invisi non ardivano romperla ancora co'
Governi; conciossiachè non pure codarda ma contro la natura appaia
simile dottrina solo che tu consideri essere stata professata
dall'Apostolo Paolo regnando Nerone, uso a far dare la caccia ai
cristiani quasi belve in bosco, e ad ardere alle sue mense i cristiani
vivi per doppieri; ed anco se dottrina siffatta fosse stata leale non
si sarebbe convertita nelle mani di San Tommaso in facoltà di
ammazzare il tiranno per violenza o per frode postosi a capo dello
stato per tormentare il popolo.

Delle virtù cristiane intese avvantaggiarsi altresì Costantino
per la ragione medesima per la quale i ladri si procurano servitori
onestissimi: i buoni costumi, la industria, e la parsimonia insieme
alle altre virtù partoriscono le ricchezze onde il tiranno può
alimentare meglio i suoi vizi: forse nei principii può essere stata
causa a rifiutarli la codardia praticata dai primi cristiani come
precetto evangelico, ma durò poco, però che tornando alle
guerre, ed al sangue sembri, che l'uomo rientri nella sua natura; e
nei concili adunati sotto Costantino, i vescovi cortigiani bandirono
l'obbligo del giuramento militare, e la scomunica contro i soldati, i
quali, durante la pace, gettavano via l'arme.

La conversione di Costantino nell'ordine delle cose umane questo gli
fruttò, che potè valersi del cristianesimo come arnese di guerra
per soperchiare i suoi nemici, ed istrumento in pace per disporre il
paese a perpetua servitù. Io non credo che quando Costantino
donò a Papa Silvestro il manto, il caval bianco, e la signoria una
voce dal cielo fu udita, che disse: «oggi è messo il veleno
nella Chiesa di Dio[1]» come non ho voluto aggiustare fede
all'apparizione del _Labaro_, però mi resta chiarito vero quanto
afferma Santo Atanasio che Costantino sovvertì la costituzione del
Signore trasmessa agli Apostoli[2]. Di fatti mentre fino a costui il
vescovo usciva eletto nel modo che resulta manifesto da queste altre
parole di Santo Leone _Papa_: «si preferisca per vescovo quello che
il _popolo_, e il _clero_ ha concordemente richiesto. Guardisi a non
ordinare alcuno che dal popolo non sia voluto, e domandato
acciocchè il popolo preso a contro pelo non odii, o disprezzi il
suo pastore e si separi dalla religione non avendo potuto ottenere
quello che desiderava. _Chi ha da presiedere a tutti sia eletto da
tutti_[3]. Nè i vescovi soli eleggevansi dalla universalità
della Chiesa, ma tutti i ministri, tra cui vuolsi porre mente ai
Diaconi, dei quali era ufficio amministrare le cose temporali della
Chiesa al fine che i vescovi attendessero indefessi a predicare, e ad
insegnare.--Ora, imperante Costantino, i vescovi non si eleggono
più dal popolo; all'opposto, testimonio Santo Atanasio, egli li
«spedisce ai popoli che non li vogliono, da luoghi stranieri e
lontani ben cinquanta giornate, e li fa scortare da soldati, e tali
vescovi invece di accettare la _giustizia_ che i popoli farebbero di
loro portano ai giudici minacce contro il popolo [4].» La terra
tirò il sacerdote alla terra, sicchè mentre nei primordii della
Chiesa non che non si sentisse parlare di antipapi, appena si trovava
uno che volesse fare da papa; a mezzo il secolo quarto Pretestato
prefetto di Roma pagano, sobillato a rendersi cristiano rispondeva:
«magari! fatemi vescovo di Roma, ed io mi farò cristiano.»

  [1] La leggenda da alcuni si reputa bugiarda perchè narrata da
    _G. Leti_ nello Itiner. della Corte di Roma t. 1; ma io per me non
    la tengo meno falsa per leggerla nella _Disciplina degli
    Spirituali_ scritta da quel santo uomo, che fu frate Domenico
    Cavalca da Vico pisano.

  [2]  Epis. ad solitarios.

  [3]  Epis. ad Anast. Thessalonic, c. 5.

  [4]  Epis. ad solitarios.

Dopo alterata l'elezione dei vescovi pel fine di convertire il
cristianesimo in arnese di governo, ecco che Costantino introduce tra
i vescovi le stesse differenze di grado stabilite nella gerarchia
pagana dello impero: la importanza della giurisdizione episcopale
andò alla stregua della importanza della diogesi dove il vescovo
sedeva. Questo decreto il Concilio di Nicea promulgò e il Concilio
di Calcedonia poi confermò con le parole: «Se qualche nuova
città è stabilita per comando dello imperatore _l'ordine della
diocesi seguirà la forma del governo politico._» Costantino
intimava i Concili, li presiedeva, forniva ai vescovi il viatico, e il
mantenimento, arduo starsi appartato, più arduo contrastare, e in
mezzo ai rei colpevole il giusto, nè forse tra cotesti vescovi vi
era chi volentieri non servisse da un lato per dominare dall'altro.

Adesso così a tratti consideriamo l'andatura della biscia romana
per acquistare dominio principesco, e prevalenza sopra la Chiesa di
Cristo. Nel Concilio di Nicea per la prima volta si udì ricordare
il nome di patriarca, e compartirlo non solo al vescovo di Roma, ma ed
anco a quelli di Alessandria e di Antiochia dichiarati uguali fra
loro. La fortuna ci è, e si agita fuori di noi; beato quello che
afferratala se la lega innanzi al carro, e fu fortuna che i vescovi
scacciati dalle sedi orientali, segnatamente Santo Atanasio vescovo di
Alessandria, ricorressero a Roma, dove Giulio I allora vescovo gli
accoglie a braccia quadre, e ne cava partito di convocare un Concilio
a Roma per costringere con molte minaccie i nemici di Santo Atanasio a
professargli venerazione ed ossequio: quì stava la ragione per lui,
e la ragione gli somministrò l'addentellato a costruire un diritto:
subito dopo, lo assistesse la fortuna, o ci adoperasse ingegno, il
Concilio di Sardica confermò le sentenze di quello di Roma. Papa
Liberio vescovo perde il terreno acquistato, però che Costanzo
imperatore preso in uggia Atanasio ordina a Liberio si separi da lui;
Liberio si prova resistere; era immaturo il tempo, quindi ne tocca;
cacciasi in esilio in Berea, sostituiscongli nel vescovato di Roma
Felice II, ma vinto dal tedio condanna Atanasio, e tornato a Roma
governa la sua Chiesa in società con Felice.--Allora il papato
esercitavasi eziandio in accomandita tra soci: Damaso eletto vescovo
dopo Felice appare di meno facile contentatura, e con armi, e sangue
contende del vescovato di Roma con Orsino: uscito vincitore
Valentiniano lo chiama a parte del titolo di _pontefice massimo_,
Graziano poi glielo renunzia intero, ed ei lo accetta, chè vano ei
fu, e dei vescovi di Roma il primo, che ostentasse splendido
trattamento, anzi regale.

Da Numa s'instituiva il pontificato; prima l'ebbero i patrizii
soltanto; poi anco i plebei: soprastava il sommo pontefice al culto
pubblico ed alle cerimonie, al calendario, alle feste, agli oracoli,
agli augurii, alle quistioni religiose, ai giudizi delle colpe contro
gli Dei, alle vestali, ai sacrifizi, alle sagre, ai giuochi: trasse
nome il pontefice dalla cura ad esso, ed al collegio dei pontefici
minori affidata di mantenere il ponte di legno, che conduceva oltre
Tevere: finchè stette in piedi la repubblica l'autorità del
sommo pontefice si estendeva, su Roma, e suo contado; quando
gl'imperatori presero questo ufficio per loro fino ai limiti estremi
dello impero. Il dono pareva di titolo inane, ma il prete subodorò
il partito che avrebbe potuto trarne e lo ebbe caro; sul gomitolo
gentile si avvisò dipanare la nuova primazia della Chiesa romana.

Facile è la discesa verso lo inferno, disse Virgilio, nè sembra
che il pendìo dello inferno pagano fosse più arduo di quello
verso lo inferno cattolico, imperciocchè dallo studio di acquistare
ricchezza presto si fece trapasso al delitto: e Graziano imperatore,
quantunque parzialissimo al vescovo di Roma, ebbe mestieri di
promulgare la legge 10 _de Ep. et Ecclesias_, che occorre nel Codice
Teodosiano con la quale si vietava agli ecclesiastici bazzicare le
case delle vedove, e dei pupilli onde col perpetuo serpentarli non
cavassero loro di sotto per via di donazione, o di testamento le
sostanze di famiglia. Di questa legge tesse San Girolamo
singolarissimo encomio lodandola come medicina molto acconcia alla
corruzione dei chierici[1].

  [1]  Epist. _ad Eustac_.

Non è nostro scopo esporre la storia della Chiesa romana, però
lasciamo dormire in pace quattro Pontefici che non fecero dire nè
bene nè male: non favelleremo di Origene peregrino intelletto ma
balzano da tre, nè di Pelagio predicatore del libero arbitrio
contro la necessità della grazia, e il peccato originale; nè di
Nestorio negante Dio nato da donna, opinione antica rinnovata ai
giorni nostri da Ernesto Renan; e nè manco dei due Concili di
Costantinopoli, il secondo dei quali contro Macedonio nemico alla
divinità dello Spirito Santo, o di Efeso contro Nestorio dove la
Vergine Maria venne dichiarata _Theotocos_, cioè madre di Dio.

Leone Primo di una spinta maestra mandò innanzi gl'interessi della
Chiesa di Roma però che inducesse Valentiniano III a decretare ver
un vescovo si attentasse a innovare senza il consenso del vescovo di
Roma; le costituzioni della Chiesa romana avessero forza di legge
nelle altre chiese. Trovando poi con Marciano il terreno più
morvido, lo condusse fino a decretare la pena di morto contro
qualunque esercitasse cerimonie pagane: già siamo a 455 anni dopo
Gesù, e voltandoci addietro non vediamo ormai il punto donde il
Cristianesimo piglia le mosse; la Chiesa di Cristo si raffida meglio
nelle manette, che nella parola; e intanto, che ella si arrabatta ad
averle di suo lo piglia in presto dal Despota. Il _verbo_ alle mani
del Papa già è fatto mannaia. Ai tempi di questo Papa, Attila
mosso alla ruina di Roma atterrito dalle parole di lui si arresta sul
Mincio, e l'hanno per miracolo; poco dopo sopraggiunge Genserico, il
quale non curate le invenie del vecchio imbelle nabissa la città
dei Cesari, e lo hanno per meritato castigo alle colpe dei Romani.
Così con la Chiesa di Roma non si vince, e non s'impatta. Del
miracolo nel caso di Attila parlano bravamente tutti gli scrittori
chiesastici; ebbe monumento dipinto da Raffaello nelle logge Vaticane,
e scultorio in San Pietro per opera dello Algardi; del fatto di
Genserico o tacciono, o si attentano a sostenere che anco lì un po'
di miracolo ci fu, dacchè, intercedente Leone, tre chiese andarono
immuni dal saccheggio; e a fin di conto quantunque il sacco durasse
quattordici giorni, e quattordici notti, bruciassero fabbriche,
votassero case, le chiese spogliassero, anzi con mirabile vicenda le
reliquie di tre religioni la pagana, la giudaica, e la cristiana in un
fascio rapissero, il tetto dorato del Campidoglio arraffassero, le
gemme a Eudosia imperatrice ghermissero, a Leone fino i vasi di
argento, dono di Costantino, strappassero, molte migliaia di Romani di
entrambi i sessi, o per piacevole aspetto, ovvero per talento utile
pregiati, menassero in cattività, gli scrittori chiesastici, ed
anco qualcheduno non chiesastico sostengono, che molti mali Leone il
_grande_ prevenne, e _grande_ senza fallo egli fu, ma nell'arte di
estendere l'autorità sua sotto colore di fede ortodossa, e di
ecclesiastica disciplina.

La uguaglianza dei vescovi fra loro prescritta dallo Evangelo ed
osservata nei primi secoli della Chiesa non può rivocarsi in
dubbio. San Paolo scrivendo ai Corinti afferma sè _in nulla_
inferiore agli altri Apostoli[1], anzi rinfaccia apertamente San
Pietro di non camminare diritto nelle vie del Vangelo. «Cristo,
insegna santo Agostino, affidò la Chiesa non al solo Pietro, e
nè principalmente a lui, bensì indistintamente ed ugualmente a
tutti gli Apostoli[2].»--La uguaglianza fra i vescovi attestano i
SS: Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Cirillo ed altri parecchi,
sicchè il Concilio di Aix la Cappella con le parole medesime di San
Cipriano sentenziava: «tutti gli Apostoli hanno ricevuto con Pietro
uguale partecipazione di potestà, e di onore[3].» Da capo
Cipriano parlando a nome di 87 vescovi dell'Affrica rimbrotta Stefano
vescovo di Roma: «veruno tra noi presume chiamarsi _vescovo dei
vescovi_, nè adopera minacce tiranniche per obbligare i suoi
colleghi ad obbedirgli, però che ogni vescovo in virtù della sua
potestà è libero nel voto, e nell'amministrazione[4].» Ancora
Cornelio successore di Stefano avendo accolto alcuni scomunicati della
chiesa affricana San Cipriano lo ammonisce con gravi parole a non
alterare la disciplina ecclesiastica onde a cotesti perduti non abbia
a parere l'autorità dei vescovi di Affrica minore della sua[5].
Anco nel quarto secolo quel grande luminare della chiesa San Girolamo
predicava: «La Chiesa di Roma non differisce dalle altre. Un
vescovo sia in Roma o in Gubbio, in Costantinopoli o a Reggio, in
Alessandria o a Tanis possiede merito, e sacerdozio uguali; inopia, o
dovizia non fanno divario, tutti sono a pari titolo successori degli
Apostoli[6].»

  [1]  II. XII. 11.

  [2]  Contra Gennad. l. 1. n. 22.

  [3]  Con. t. 24. p. 1318.

  [4]  Con. t. p. 786.

  [5]  Epis. 55.

  [6]  Epis 101 _ad Evag_.

Chi dei due il vescovo di Roma, o quello di Costantinopoli fu primo a
pretendere la monarchia della chiesa? Arduo a sapersi, ma poichè
entrambi ormai col cuore gonfio di superbia procedevano appartati
dalle vie del Signore è da credersi che ambedue concepissero pari
consiglio: però sarà manifesto come il vescovo di Roma,
esecrando in quello di Costantinopoli il titolo di _monarca_, ne
usurpasse indi a breve per sè il titolo e le prerogative. Il
Concilio di Costantinopoli concedeva titolo di primate al vescovo di
Roma, i secondi onori all'altro di Costantinopoli; di qui la origine
dello screzio, il quale crebbe quando il Concilio di Calcedonia,
invano contrastante Leone il grande, non alla giurisdizione romana di
lui, bensì a quella della sede bizantina sottomise i vescovi di
Eraclea, di Gerusalemme, e di Antiochia. E poichè signoria non pate
compagnia, dallo screzio si venne alle contumelie e alle armi; la
Chiesa di Cristo unita per la virtù degli Apostoli si divide come
la sua veste giocata a dadi dai crocifissori; di lui dopo un mezzo
secolo, sedendo papa Osmida, si riconciliano gli animi, ma non per
durare; al contrario la contesa si rinfocola più acerba di prima,
volendo i vescovi bizantini estendere la propria giurisdizione sopra
l'Illirico, l'Epiro, l'Acaia, la Macedonia, e la Bulgaria.--

Però mentre da un lato il vescovo di Roma innanzi di patire, che
l'emulo suo si avvantaggi pure di una oncia, manda la Chiesa a
rifascio, egli s'industria accaparrarsi qualche o titolo o preminenza
che lo ponga in vista delle genti; e davvero bisogna confessare che la
infallibilità non sia dote di Papa, o almanco non fu di Papa
Simmaco, quando nel Concilio detto delle _Palme_ gli bastò il cuore
di fare chiarire _impeccabile_ chiunque tenesse la sede romana;
difatti, se non tutti, per certo la massima parte dei Papi potrieno
definirsi gli _Apolli di Belvedere dei sette peccati mortali_. Calisto
Papa fu ladro, per quanto si legge nei _Filosofumena_ attribuiti a
Santo Ippolito, e ripreso dal suo padrone Carpoforo fu messo alla
macina. Urbano VI per ira, che sette cardinali si fossero palesati
avversi alla sua elezione, menatili a Genova li strangolava: nè
corrono anni molti che gli scheletri infelici furono rivenuti nei
sotterranei della Badia di San Giovanni dove quel truce si condusse ad
abitare. Avari tutti, ma fra di loro porta il vanto Giovanni XXII. Chi
più brutto di nefande libidini di Alessandro VI? Chi più pigro o
scandaloso di Giulio III? Superbo di Gregorio VII? Giulio II beveva
come un lanzo e bestemmiava come un vetturale. Insomma bisogna
confessare che se il petto del Papa è proprio stanza dello Spirito
Santo egli si trova pessimamente alloggiato sopra la terra. Silverio,
e Vigilio contendono del papato, prevale Silverio in virtù della
pecunia fornitagli dal re dei Langobardi; proteggono Vigilio femmine
infami, Teodora, e Antonina, quella moglie a Giustiniano, questa a
Belisario. Cotesto o Papa od Antipapa promette accettare i capitoli
favorevoli alla dottrina di Eutiche negante in Cristo la persona umana
per contrapposto a Nestorio, che gli negava la divina, se Giustiniano
lo sovviene a vincere l'avversario Silverio; aiutato ci arriva, e fa
spegnerlo a tradimento; ma poi o si pente, o piglia a tedio la
suggezione, sicchè non osserva il patto; relegato in Sicilia da
Teodora, minacciato da Giustiniano di un Concilio a Costantinopoli
accetta da capo i capitoli di Eutiche: la viltà, come succede, gli
fruttava obbrobrio, non concordia, anzi la Chiesa nel suo pontificato
si lacerò peggio di prima; allo scisma delle chiese orientali si
aggiunsero quelli della Illiria, delle Spagne, delle Gallie, e
dell'Affrica; si separarono altresì dalla comunione di lui Toscana,
Istria, Umbria, Liguria, e Venezia; lo scomunicò San Paolino
patriarca di Aquileia in un Concilio dei suoi suffraganei.

Pelagio I considerando come argomenti spirituali non bastassero a
sottomettergli i vescovi avversari s'industriò adoperarci il
terrore delle armi; e sembra persuadesse Narsete a sovvenirlo; ma
scomunicato dai vescovi si rimase attendendo a raccogliere le sostanze
della chiesa streme e disperse nel perpetuo disegno di primeggiare
sopra i suoi uguali. Pelagio II rifatto di forze torna ad insistere
nel concetto di primazìa, ma poichè i vescovi di occidente
riparansi sotto la tutela dei Longobardi, egli disperato di venirne a
capo con le proprie facultà si raccomanda a Childerico re dei
Franchi di Austrasia, il quale lo trastulla e lo delude.

Intanto se il vescovo di Roma si arrabattava a prevalere sopra i suoi
uguali nè manco il vescovo di Costantinopoli rimaneva con le mani
alla cintola, e in certo Concilio radunato per giudicare di un vescovo
di punto in bianco si piglia il titolo di _Universale_. Questi fu
Giovanni digiunatore. Se Pelagio saltasse su i mazzi non è da dire;
vomitò ingiurie a bocca di barile, e per ultimo in nome di san
Pietro buttò all'aria tutti gli atti del Concilio. Troppo più
fiero di lui Gregorio magno, però, che stemperati in ogni mala
cosa, nella violenza delle parole turpi, i Pontefici non conoscano
confine: vale il pregio considerare quello, che Papa Gregorio magno
non aborrisse proferire contro questo patriarca usurpatore del titolo
di _Universale_: «tu stai di casa vicino al diavolo, e quanto
presumi è scelleraggine espressa; tu proprio ammannisci la ruina
del sacerdozio il quale venne istituito da Dio per dare l'esempio
della umiltà.... Veruno dei miei predecessori patì mai portare,
o lasciare portare questo titolo profano, conciossiachè dove mai un
patriarca si appelli _universale_ venga a mancare negli altri il nome
di patriarca. Per me credo che accordarti siffatto _scellerato_
titolo, e mandare in perdizione la fede sia tutt'uno.--Se la tua
santità chiama _papa me o non capisce, che viene a confessare lei
non essere tale, poichè io divento per suo consentimento
ecumenico?--Se un vescovo si chiamerà universale andrà di certo
a precipizio la Chiesa_[1]». Però mentre Gregorio astia al
Digiunatore il nome, s'ingegna agguantare per sè la cosa; per
costringere il Patriarca ad umiltà egli primo s'intitola _servo dei
servi di Dio_, e così si sottoscrive nella lettera, che gli
spedisce, ma intanto si mette coll'arco del dosso a dilatare la
primazìa della sua fede sul mondo cristiano, massime in occidente,
e nelle sue epistole si dichiara _aggravato dalla cura, e dalla
sollecitudine di tutte le chiese_, la quale cosa, ch'è mai se non
la presunzione d'imporsi ecumenico agli altri vescovi?

  [1]  _Epist_. 32. 80. C. 4. Il testo preciso della lettera 18. l. V.
    di papa Gregorio al patriarca Giovanni merita grave
    considerazione, ed è questo: «tu togli a tutti l'onore
    dovuto e lo concentri in te; così facendo tu ti proponi a
    modello _colui che disprezzando le legioni degli Angioli suoi
    uguali tentò elevarsi a singolare altezza onde non più
    soggetto ad alcuno potesse dominare a tutti_. Egli disse: mi
    solleverò fino al cielo, mi collocherò sopra le nubi più
    alte, sarò simile all'Altissimo.... industriandoti tu a
    prevalere sopra i tuoi fratelli con quel titolo superbo non è
    lo stesso che tu dicessi:--salirò al cielo, porrò il mio
    trono sopra gli astri?... Che potrai rispondere a Gesù Cristo
    giudice quando con questo titolo di universale procuri
    assoggettarti tutti i fratelli? Tu che brami essere chiamato non
    solo padre ma _padre universale del mondo_. Respingi respingi da
    te tanto perfida suggestione.»--E ciò perchè questo
    titolo voleva pigliare egli; sputava insomma su la pietanza
    perchè altri schifandosene la lasciasse mangiare tutta a lui.

Difatti Bonifazio III, successore di lui, timoroso, che altri lo
prevenisse a pigliare per sè il titolo di universale non istette a
perdere tempo e indusse lo imperatore Foca a concederglielo; donde tu
vedi come anco questo nome da cui tirano tanta superbia i Papi di Roma
non si diparta da istituzione divina, ma al contrario sia dono
d'imperatore, e di quale imperatore!

Ribelle al suo principe, trucidatore di lui, e della imperiale
consorte, e di otto figliuoli innocentissimi, di persona deforme, di
aspetto sinistro, nella crapula sprofondato e nella lussuria; codardo
così, che a ragione Maurizio quando lo seppe tale esclamasse:
«ahimè! se vile per certo diventerà assassino.» Le stragi
che menò questo feroce non mai precedute da giudizio, e precedute
sempre da atrocissimi tormenti; occhi e lingue strappati, mani e piedi
recisi; arsi a lento fuoco, o disfatti dal flagello; l'anfiteatro
contaminato da membra tronche: insomma tale non dirò da disgradarne
Nerone, bensì da stargli a pari. Nondimanco il papa Gregorio gli
manda epistole gratulatorie perchè «la benignità della sua
religione fosse giunta al fastigio dello impero; si rallegrino i
cieli, la terra esulti e delle opere sue pietosissime il popolo della
repubblica universale fin qui afflitto spietatamente meni
tripudio[1].» e terminava poi profetandogli, che dopo lungo e
prosperoso regno se ne sarebbe volato ritto ritto come un cero nel
celeste impero. E' sembra, che il dono della profezia non fosse per
anco piovuto addosso al vescovo di Roma, dacchè Foca abbandonato da
tutti dopo ogni maniera vilipendii, e strazii ebbe il capo mozzo, e le
ceneri del suo corpo, dato alle fiamme, furono disperse al vento. Il
clero già tanto non so se io mi abbia a dire o abbietto o truce,
pago di leccare il sangue esaltava il nuovo imperatore Eraclio con
ressa supplichevole chiamandolo al trono, che avrebbe purificato dalla
ignominia. Tale fu Foca imperatore il quale inalzava il vescovo di
Roma alla dignità di ecumenico.

  [1]  _Epis._ 38 b. XI.

Innanzi di procedere raccattiamo per via un fatto strano come quello, che
chiarisce la inanità dei nostri moderni uomini di stato, e la sfrontata
ignoranza di loro. Gelasio I papa, imperando Zenone, bandiva la Chiesa
avere a governarsi libera nello stato; e prima di lui Sinesio vescovo di
Tolemaida così ammaestrava il clero cristiano: «per esperienza vi
è chiarito come porre insieme Principato e Sacerdozio sia un mettere
all'aratro un'asino con un bove. Gli Egizi e gli Ebrei furono un dì
governati da sacerdoti, ma poi il Signore separando questi due generi di
vita dichiarò l'uno sacro, l'altro politico; questo unì alla materia,
quello a se; i Principi ai negozi; alle orazioni noi. Perchè
congiungerete quello che Dio separò? Perchè imporci un carico impari
alle nostre spalle? Se abbisognate di protezione volgetevi a cui fu
preposto alla esecuzione della legge. Avete bisogno di Dio? Andate dal
vescovo. Scopo del vero sacerdote la contemplazione la quale mal si accorda
con l'azione[1].» Il testo famoso di Gelasio e la lettera di Gregorio
III a Lione l'Isaurico occorrono significati, anzi copiati[2] nella
epistola ottava scritta da Nicolò I papa a Michele III imperatore:
«concedo prima di Gesù Cristo taluni essere stati re, e sacerdoti
insieme, ed il demonio ha imitato questo nella persona degl'imperatori
pagani, i quali erano altresì _sommi pontefici_, ma apparso colui che fu
re e sacerdote vero, lo imperatore non si appropriava più i diritti del
sacerdozio, _nè più il pontefice usurpò nome regio_.Imperciocchè
quantunque tutti i sacerdoti sieno schiatta sacerdotale ad un
punto e regale, Dio però consapevole della umana debolezza, e
desideroso di salvare i suoi in virtù della umiltà volle separare gli
uffici dei due poteri per modo che gl'imperatori cristiani, abbisognassero
dei Pontefici per la vita eterna, ed i Pontefici andassero soggetti
agl'imperatori nelle cose temporali. Colui pertanto che serve Dio non
s'intrometta nelle cose del secolo, come colui che attende alle cose del
secolo non s'intrighi nelle cose divine. A questo modo ognuno dei due
ordini rimane circoscritto nei termini della modestia, ed ogni vocazione
è applicata a ciò che le appartiene[3]».

  [1]  _Epist_. 121.

  [2]  V. lib. _de Anathemate_ di papa Gelasio.

  [3]  Epis. 8.

Ora se vuoi conoscere come il Papa allora instasse su cosa dalla quale
ripugna adesso, la ragione ti comparisce manifesta. Il sacerdozio in
cotesti giorni sentiva non potersi ordinare a suo modo, e farsi stato
dentro lo stato per riuscire più tardi stato solo e trapotente, se
non si appartava dalla subiezione dello impero, però mostrava
repugnanza dello antico istituto di principato comprenditore eziandio
del sacerdozio per giungere a stabilire un sacerdozio comprenditore
del principato: insomma rovesciare la medaglia. Il quale intento
avendo con pertinacia grande, e con fortuna ottenuto vediamo il Papato
armarsi di leggi atte a camminare compagno a canto lo stato, e se gli
capita, padrone; e di vero prima fu compagno, e poi padrone; per
ultimo anch'ei provò quanto sia vero il proverbio, che chi più
stringe meno abbraccia, e decadde dal superbo concetto di signoria
universa sopra le cose spirituali come sopra le temporali, non già
per migliore senno, o per mutato consiglio, bensì per impotenza, e
smanioso di ragguantare la perduta primazia quando, che fosse. Una
volta egli attese a separare le due potenze, adesso il Pontefice si
ostina a respingere la partizione, e ciò perchè mutava punto di
appoggio alla leva: allora il principato l'aduggiava impedendogli di
farsi potenza; ora che dominazione è fatto separandosi perderebbe
il principato: di qui l'ira, e la minaccia di adoperare le folgori,
che non bruciano più, nè manco i pagliai, per tenere insieme
quello, che sotto pena dei medesimi fulmini si pretese un dì
spartito.--Per me considero la repugnanza del Papato proprio
provvidenziale, imperciocchè là dove la separazione fosse
avvenuta a casaccio siccome propose il barone Ricasoli, uomo per certo
inettissimo allo ufficio che si tirò su le spalle, la Chiesa di
Roma nel modo col quale adesso si trova costituita avrebbe potuto
sovvertire, o turbare a sua posta lo stato; e questo parmi avere con
buoni argomenti chiarito altrove. Carte in tavola; tutte le religioni,
che occorrono dentro lo stato voglionsi libere per ciò che spetta
al foro interno; quando poi presumono intrecciarsi con atti esterni
agli ordini pubblici, come ogni altra cosa civile, cascano sotto le
discipline della _polizia_ nel modo, che la intendevano i Greci.--E
poco, anzi punto, secondo la opinione mia, vale che il sacerdozio ha
da essere libero, dacchè io pure consenta così, ma al tempo
stesso sostengo, che ricondotto alla sua prima istituzione, voglio
dire al suffragio del popolo, parmi manifesto, che il popolo non fie
per eleggere uomini i quali contradicano alle sue leggi; mentre adesso
il clero per suggestione di principe straniero interessato ad
arruffarti le faccende di casa compiace a lui non al principe proprio
e nè manco al suo popolo. La dottrina del suffragio universale ha
da mutare la faccia del mondo; nè rechi amarezza il tristo esempio
di Francia: per ora il tino bolle sicchè i raspi e i fiocini
vengono a galla; lasciate posare e avrete il vino ch'è conforto
dell'anima.

Quantunque ormai per istudio di acquistare potenza i Papi si fossero
avvantaggiati delle cerimonie pagane però che quanto la religione
perdeva di spirituale tanto desiderava ornarsi di forme sceniche, e affatto
materiali, tuttavia verun Papa postergato ogni rispetto più di Gregorio
magno strinse lega col paganesimo. A questo uomo misto singolare di
pedanteria e di forte volere un dì venne in testa di convertire
gl'Inglesi: la causa che lo spinse questa: veduti a Roma alcuni giovani
sassoni-inglesi bellissimi di forma domandò chi fossero e donde
venissero. Gli risposero essere _angli_, ed egli, «angioli sì cui
bisogna liberare dalla schiavitù del demonio; ma da qual provincia
vengono essi?--Dal _Deirè_.--Ci supplicano, soggiunse il Papa, a
salvarli dalla ira di Dio; e come si chiama il capo o principe
loro?--_Ella_.--Alleluia, conchiuse Gregorio, certamente a noi commise il
cielo, che per le costoro terre si abbia a cantare alleluia.»
Bambinesche forme coteste, le quali velavano concetti terribili, che furono
in processo di tempo spedire bolle ai Franchi per consacrare le loro rapine
affinchè essi le suggellassero con la scure, e a lui Papa pagassero il
prezzo del sangue. Mandava Agostino in Inghilterra co' giovani educati
nelle arti della curia romana, e parecchi monaci mascagni, i quali tutti
giunti ad Aix scorati per le molestie della via stanno in procinto di
stornare, ma Gregorio li rimbrotta di poca fede, e li sovviene di lettere
commendatizie pei baroni franchi sbraciando loro a destra, ed a sinistra
d'illustrissimo, piissimo, cristianissimo e via con iscialacquo, che non
mai fu visto maggiore, se ne eccettuiamo quello, che adesso si fa delle
croci dei santi Maurizio, e Lazzaro; gli resse il cuore perfino di scrivere
lettere alla immanissima donna Branechilda salutandola eccelsa per ispirito
inchinevole alle opere buone, e tetragona nel timore dell'onnipotente
Dio[1]. Così andarono innanzi Agostino e i frati sicchè giunti appena
a Cantorbery domandano al re Etelberto: «una terra con tutte le sue
rendite non per loro, ma per Cristo, facendone atto di cessione solenne
affinchè egli Cristo colmi lui re di beni in questo mondo e più
nell'altro.» Doveva parere un po' strano al re Etelberto che per
divenire meglio vestito dovesse cominciare a spogliarsi, pure bebbe grosso,
e donò la prima terra a santo Agostino ed ai suoi monaci, le altre se le
pigliarono da loro: il peggio era che i Sassoni gente dura male consentiva
lasciare le cerimonie vetuste della barbara religione, sicchè non
sapendo che pesci pigliare mandava a Roma per consiglio, e Gregorio lo
ammoniva a far la gatta di Masino, sopporti i sacrifici di vittime, lasci
stare gl'idoli, non tocchi i tempii, si pigli ogni cosa in santissima pace
a patto di appoggiare l'alabarda; e così fu; indi a breve Offa ammazza
Etelberto; dai morti non ci ha modo di cavarne costrutto; i preti si
voltano ad Offa al quale danno assoluzione plenaria a patto che paghi a
Roma un tributo annuale intitolato _danaro di San Pietro_; tale l'origine
di questo danaro, che Cesare Cantù non aborriva ricordare nel Parlamento
italiano come esempio imitabile; un dì lo somministrò alla Curia
romana il tradimento, oggi lo paga il fratricidio. E poichè il prete
tiene assai della natura della Fama di Virgilio, che in andando cresce,
così a cotesti tempi rimoti con celerità spaventosa, egli impose
decime sopra le mercedi degli operai, sopra il soldo dei soldati; che
più? fino sopra il turpe _lucro delle meretrici_. Siccome suole, la
ingordigia troppa adesso aliena gli spiriti; chi paga, e chi non paga; di
più, rotta una maglia aumenta la voglia nei Sassoni di affrancarsi dalla
catena, per la quale cosa cacciano di sede Roberto di Jumieges eletto
vescovo di Cantorbery dal Papa; allora Alessandro II lucchese si lega co'
Normanni, incitato da Ildebrando monaco; questi capo dei frati accattoni,
quegli pure paltoniere e tignoso, onde quando lo menarono intorno a
processione il popolo gli urlava dietro: «va via lebbra; va via
bisaccia.»

  [1]  Op. t. 4. p 18.

Soccorsi del Papa lucchese furono una bandiera benedetta ed un'anello
di oro con dentro non so qual pelo della barba o capello di San
Pietro. Guglielmo il Bastardo vinse e compensò il pelo rinnovato
nella sua pienezza intero il danaro di San Pietro donde forse
l'origine della _carità pelosa_: ma i successori di Guglielmo
trovando come cotesto pelo costasse troppo caro, e credendo altresì
di averlo a quell'ora pagato oltre il dovere presero a nicchiare,
negando il danaro, e le romane improntitudini respingendo, Papa
Innocenzo III stizzito, per ispuntarla mandò al re Giovanni senza
Terra quattro anelli con molta solennità richiamandolo a meditare
la forma, il numero, la materia, e il colore di quelli, però che
avrebbero avuto virtù di ammonirlo intorno ai suoi doveri: infatti
la forma circolare degli anelli gli avrebbe rappresentato la
eternità per cui renunziando alle cose terrene si sarebbe sentito
come attratto alle celesti: solo per lasciare più libero il re nei
suoi esercizi ascetici si sarebbe egli Papa sobbarcato al carico di
governare per lui il suo regno in questo mondo; il numero quattro come
quadrato denota la costanza necessaria ad ogni re stabilita sopra le
quattro virtù cardinali; la materia aurifera rappresenta la
sapienza preferibile ad ogni bene; e come l'oro rappresentasse la
sapienza il Papa non lasciava intendere; lo zaffiro indica la fede, lo
smeraldo la speranza, il rubino la carità, il topazio le buone
opere; per tutte queste ragioni era chiaro come l'inchiostro, che
Giovanni senza Terra doveva lasciare, anzi ordinare, che i suoi
sudditi pagassero il danaro di San Pietro, e permettere, che il Papa
eleggesse vescovi in Inghilterra cui meglio gli garbasse; e poichè
Giovanni senza terra uso a rubare per sè, ed anco un tantino ad
ammazzare per questo fino i nepoti ebbe torto di non arrendersi alla
forza del ragionamento papalino, Innocenzio scomunica Giovanni, lo
condanna alla perdita del trono, e commette a Filippo Augusto re di
Francia eseguisca la sentenza; il quale ci si ammannisce di buono;
senonchè il Papa pensandoci su conobbe come Filippo fosse uomo da
levare il regno a Giovanni, non però di darlo a lui, e allora si
accomoda con Giovanni a patto, che questi si dichiari feudatario della
Chiesa pagando mille marchi di argento di annuo tributo, di cui 700
per la Inghilterra, e 300 per la Irlanda; Filippo di Francia rimase a
Dover come più tardi aveva a rimanere Vittoria d'Inghilterra in
Crimea, e così per un tempo la Brittannia ebbe la onoranza insigne
di essere feudo romano; onore di cui sembra, che si rammenti, e voglia
mostrarne a Roma la sua gratitudine.

La sarebbe lunga chiarire qui come la Chiesa cattolica appaia
rimpannucciata di spoglie pagane. Lasciamo di Maria; come i pagani
avevano gli dei maggiori o consenti, e minori, superi, inferi, e
mediossumi così i cattolici possiedono santi maiuscoli, e scadenti,
troni, potenze, dominazioni, e cherubini, e serafini, ed angioli, ed
arcangioli, tutto un esercito, dal capitano generale fino al
tamburino; i pagani veneravano gli dei tutelari dei popoli e gli dei
patroni delle città e delle provincie, a mo' di esempio Iside ed
Osiride dello Egitto, Belo degli Assiri, Quirino di Roma, Apollo di
Delo, Venere di Citera, Minerva di Atene e via discorrendo, e a posta
loro i cattolici adorano San Luigi protettore di Francia, Santo
Stefano di Ungheria, San Patrizio d'Irlanda, San Giacomo di Spagna, e
poi San Petronio in Bologna, in Roma San Pietro, a Milano Santo
Ambrogio, San Gennaro a Napoli, San Francesco a Livorno, che la sua
protezione si spartisce con Santa Giulia, e non ricordo con quale
altra Santa; lo stesso dicasi degli dei presidi dei tempii e degli
altari: presso i gentili e presso noi pari i santi pei trivi, in capo
alle strade, per le case, e per le stalle. Santo Antonio procuratore
generale delle bestie tiene per suo segretario generale un porco; e ci
hanno male lingue le quali affermano cotesta pratica avere trovato
buona certi ministri di un certo regno di questo mondo, e per proprio
uso imitata; la quale cosa io nego _ricisamente_, però che il porco
troviamo almeno buono morto: il cattolicismo come il paganesimo ha
assegnato ad ogni santo un malanno per suo campamento; così egli
dava a Santa Barbara in dote gl'incendii e le saette, le cascate a San
Venanzio, i tuffi nell'acqua a San Giovanni Nepomuceno, i terremoti a
Santo Emidio, i ladri a San Niccola, gli avvocati a Santo Ivone, a
Santa Anna i parti, a San Cristoforo dalla testa grossa il mal di capo
e i prigionieri, a Santa Lucia il mal di occhi, a Santa Apollonia
quello dei denti, a Sant'Agata quello delle mammelle, a San Biagio la
gola, reni a San Liborio, le gambe a San Mauro, la peste a San Rocco,
i cani arrabbiati ai Santi Piero Crisologo, Quintino e Domenico
Soriano. La festa della nascita di Gesù che casca in Marzo
trasportarono ai 25 Decembre perchè in cotesto e nei giorni
seguenti i pagani celebravano il Natale di Saturno costumando, giusto
come pratichiamo noi, darsi alle commessazioni e ad ogni maniera
stravizi. Il tempio in Roma dedicato a Quirino dove le madri per
l'annovale della nascita dei loro figliuoli andavano a posarli tutti
azzimati sopra l'ara, oggi col nome di San Teodoro serve per l'uso
medesimo; pagana l'acqua benedetta, pagani i ceri, i timiami pagani:
le ceremonie per la più parte cavate dalle antiche: tutto il
cattolicismo gronda paganesimo; a Roma il tempio di Vesta la dea del
fuoco fu tramutato in Chiesa della Madonna del Sole; quello di Remo e
Romolo gemelli in Chiesa dei Santi Cosimo e Damiano gemelli; quello
della Salute in Chiesa di San Vitale; su la sponda del lago Numicio,
ove è fama si annegasse Anna Perenna sorella di Didone, adesso
sorge un sacello consacrato a Santa Anna Petronilla. Nel foro boario
presso l'ara massima dove giuravano: _mehercle!_ adesso occorre la
chiesa di Santa Maria Cosmedin vocata di _Bocca della Verità_; Caio
Mario trionfando per la vittoria cimbrica consacra un tempio alla
vittoria; questo tempio convertito in Chiesa sta tuttavia in piedi, e
sapete voi quale nome le hanno posto? Santa Vittoria. Il Panteon di
Agrippa aveva la cupola fasciata di metallo corintio ed una iscrizione
nel frontone la quale sonava così: «a Giove e a tutti gli
Dei.» Urbano VIII dei Barberini leva il metallo e non ci surroga
niente; alla seconda Bonifacio IV comecchè fosse più agevole e
manco costosa sostituì la leggenda: «Alla Benedetta Vergine, e a
tutti i Martiri.» Sisto V, che fu pei santi pagani quello che
Francesco IV di Modena si mostrò pei liberali, tuttavia fece grazia
alla Minerva del Campidoglio a patto che alla lancia surrogasse un
crocione che si vedeva da lontano un miglio.--

Si trova scritto che a Narbona per tempo lunghissimo dai Cristiani si
celebrasse la festa di Flora proprio a mo' dei pagani con giochi, e
femmine ignude: nel 1551 un Concilio provinciale condannò riti
siffatti, i quali comecchè indarno già da nove secoli erano
stati difesi: e tanto in cotesta provincia si poterono poco le vecchie
usanze pagane abolire, che nel 1645 un monaco amico di Gassendi
stampò certo libretto col titolo: «Lamento sopra i costumi
anticristiani del popolo di Provenza.» Il nome di luoghi hanno
mutato in Santi; il monte Soracte diventò Santo Oreste; gli antichi
ebbero lo Ancile scudo sacro piovuto dal cielo, e noi non so nè
manco io le tante cose sacre diluviate dal cielo sopra la terra;
credevano i pagani le isole avessero viaggiato come Delo, e i tempii,
e gl'idoli, e noi crediamo San Dunstano traversasse la Manica sopra
certo isolotto; vola per l'aere la casa del Loreto al pari di una
rondine; la nostra Madonna di Montenero uggita di starsi in Eubea
incastrata dentro una rupe un bel giorno lascia lì sacco e
radicchio e viene a domiciliarsi a Livorno, e il Capitano Corpi che
navigò per coteste plaghe riscontrava il buco lasciato dalla
Vergine randagia nelle pareti del monte; così afferma il Padre
Oberhausen nella sua monografia del tempio di Montenero. A Roma
parlarono i bovi nella seconda guerra punica, appo noi favellare asini
e bovi diventò cosa comune, sicchè non ci entra più miracolo.
Il Parlamento Italiano informi. Apparizioni di là, ed apparizioni
di qua. Venere, Minerva, Marte ogni tantino in terra, ed anco Nettuno
di cui ufficio è governare il mare, che governava ad un bel circa
come i ministri presenti governano la Italia; tra noi Gesù Cristo
sempre in viaggio per comparire alla presenza dei suoi devoti, e per
lo più in forma di bambino come a San Cristoforo, a Santo Antonio,
ed a Santo Agostino; anzi taluno afferma, che Gesù Bambino si
presentasse a questo Santo quando meditava il trattato della
Santissima Trinità quì per lo appunto a Santo Jacopo dove il
signor Palmieri ha fabbricato i suoi bagni; e questo avverto perchè
ci pensino quei signori, e quelle signore che vanno costà per bene
altro, che meditare sul mistero della Santissima Trinità: altri
all'opposto sostiene che siffatto miracolo avvenisse lungo la spiaggia
di Corneto; intorno alla quale disputa confesso dopo molte ricerche
trovarmi incapace più di prima a decidere.--Miracoli inauditi da
una parte e dall'altra, _tamen_ di assurdità meno strepitosa presso
i pagani; chè il baratto del cuore di un Dio con quello di una
femmina scema non arrivarono i preti pagani a immaginare. Ai miracoli,
che sono oltraggio non dirò alla ragione umana, la quale è
avvezza a bevere balene, bensì alla nozione della Divinità, non
vo' aggiungerne altri in aumento di quelli che già registrai
nell'Asino; solo mi giova trascrivere certa notizia letta a questi
dì sopra taluni giornali per istudio, che altri la conservi: dentro
parecchie chiese e cappelle occorrono 63 dita di San Girolamo; e non
ce ne voleva di meno per questo benedetto Santo che ha scritto
tanto;--tredici braccia di Santo Stefano, che bisogna dire fosse un
solenne poltrone se con tredici braccia sì lasciò lapidare; 1600
ossa di San Pancrazio, e non ce ne voleva meno per fare onore al
proprio nome, che significa pugnatore co' piedi e con le mani;
comunque santo Ignazio di Antiochia divorassero i leoni ciò non
toglie, che ci avanzino di lui tre corpi di tutto punto interi, oltre
sette gambe e diciassette braccia; e poichè mi sta su la punta
della penna lascio cascare sopra la carta come in Ispagna abbiano
fabbricato un San Viar, santo miracolosissimo, massime per le donne
gravide, a questo modo: sopra un marmo miliario trovarono inciso: S.
Viar e il santo fu bello e fatto; dopo qualche secolo certo archeologo
miscredente dimostrò coteste lettere frammento di iscrizione
corrosa; le quali intere sonavano _Prefectus Viarum_; così un
soprastante di strade romano si trovò di botto tombolato al fianco
di S. Luigi Gonzaga; e per la quale cosa anco i Signori Susani,
Bastogi, Ricasoli, Cini, Corsi, e compagni impresari, e amministratori
di strade, dopo di essere stati in questo mondo Cavalieri dei Santi
Maurizio e Lazzaro ponno sperare di trovarsi colleghi dei medesimi
nella gloria eterna del paradiso. In certa cronaca cattolicissima si
legge narrato _come avanti_ la venuta di Gesù Cristo la reina
Bellisea il _giorno della Pentecoste si recò a messa nel Duomo di
Fiesole!!!_

Io non saprei accertare se il cardinale Bembo, o Giulio II, o Leone X
dicessero:--questa favola di Cristo ci fu un podere in Chianti[1]--quello,
che so veramente si è che il Poliziano si lamentava forte col magnifico
Lorenzo perchè quella benedetta donna di sua moglie Clarice non si
vergognasse di dare a leggere il salterio al suo figliuolo Giovanni, che
poi fu papa; e il cardinale Bembo ammoniva il Sadoleto si astenesse da
leggere l'epistole di San Pietro se pure non voleva imbarbarirsi lo stile:
«lascia, gli scriveva, da canto coteste baie indegne di uomo grande.»
Dettando lettere latine, il dabbene cardinale a mo' dei pagani chiamava il
Collegio dei cardinali _collegium augurum_; per lui celebrare la messa dei
morti significava: _litare diis manibus_; morendo San Francesco: _in numero
deorum receptus est_; un moribondo, che si affretta acconciarsi dell'anima
co' sacramenti: «_deos superos manesque placavit_.» Del simulacro
d'Imperia meretrice collocato nel Panteon già favellammo.

  [1]  Quam profuit nobis ista fabella Christi.

La Chiesa da prima fu pagana per arte volendo che in certa guisa i
gentili si trovassero ad avere mutato religione quasi senza
accorgersene; poi nei gusti, nelle usanze, e perfino nel linguaggio
del paganesimo si mantennero per vaghezza d'imitazione, e per
conformità di costume.

Certo il Vescovo di Roma mutando modo di elezione aveva acquistato non
poco, però che togliendola al popolo, il quale si trova sempre
presente, l'aveva messa in mano ad uno imperatore lontano, spesso
troppo impacciato in casa, per istare a canna badata fuori; ma venuti
i barbari, massime i Goti, in Italia si erano tolti per loro questa
suprema facoltà, onde senza averla perduta o renunziata
gl'imperatori greci intendevano essi a posta loro esercitarla in
proprio benefizio. I Papi non volendo dare del capo nel muro
incocciandosi a progredire per la via retta attesero a pigliarla di
scancio, e papa Bonifacio II dopo avere vomitato fiamma e fuoco contro
le elezioni simoniache dei Papi si attentò eleggersi il successore,
ma non approdò; anco Felice IV tanto per mettere il primo piolo
alla scala chiese ad Amalasunta la facoltà di giudicare in prima
istanza le cause miste fra chierici e laici, e la ottenne: di qui il
mal seme dei tribunali chiesastici onta, e dolore della stirpe umana.

Ora incomincia a colorirsi la tremenda industria posta dai Papi di
percotere l'uno contro l'altro i potentati del mondo e romperli, o
incrinarli a vantaggio proprio; finchè durarono i Goti i Papi non
andarono lieti di avere carpita la elezione dei sacerdoti al popolo,
dacchè se ne vollero mescolare Odoacre, e Teodorico; allora i Papi,
quasi per rifarsi nell'apparenza di quanto scapitavano nella sostanza,
ovvero perchè con le apparenze intendessero disporre gli animi a
favore dello ambito primato, aggiunsero alla mitra la tiara, assunsero
vesti solenni per foggia, e per ricchezza; però che sia novella
quanto narra Papa Innocenzo III nel sermone intorno San Salvestro, del
rifiuto di costui alla corona profertagli in dono da Costantino per
rispetto alla tonsura; di fatti o perchè la corona sconcerebbe la
tonsura, e la mitra no? Onofrio Panvinio, che se ne intendeva afferma,
che la tiara non adoperarono i Papi prima del sesto secolo: quanto al
triregno è trovato più moderno assai; lo immaginò Paolo II
veneziano nel 1474 per simbolo dell'autorità spirituale nel cielo,
nello inferno, e sopra la terra; come vedete e' ci entra ogni cosa.

Dai, dai favorendo l'abiezione dei popoli conquistati e la barbara
ignoranza dei conquistatori i Papi già toccavano il dominio
temporale, arnese necessario per primeggiare, quando ecco in contrario
un duro intoppo nei Langobardi, mentre quasi erano giunti a scivolare
di sotto agl'imperatori greci non senza però, che chi primo stese
le mani non le ritraesse scottato; così vero questo che Martino I
essendosi attentato a farsi consacrare senza il consenso dello
imperatore, e di più avendo di propria autorità convocato un
Concilio in Laterano lo imperatore Costante lo mandò in esilio a
Chersona dove gli venne meno la vita: costui fu ribelle, e lo
ciurmarono santo: nè di ciò troppo ci preme; solo ci giova
avvertire, che non sempre la Chiesa romana tenne fermo il precetto di
obbedire alle potestà civili comecchè discole, e di ciò
abbonderanno, fra non molto, conferme. Vitaliano Papa caldeggia le
parti di Costantino Pogonato contro Mecezio; e poichè la morte gli
toglieva il modo di esigere il prezzo del favore largito a Costantino,
i successori suoi Agatone, e Benedetto II tanto lo importunarono, che
quegli ne ottenne la dispensa di pagare i tre soldi di oro per la
conferma della sua elezione, questi facoltà di pigliare possesso
del suo officio senza l'assenso imperiale; più avventuroso di tutti
Costantino papa il quale non rifuggì da mettersi al repentaglio di
andare fino a Costantinopoli a salutare il ferocissimo Giustiniano II,
dove con arte, ignorasi se buona o rea, si adoperò ad ottenere da
costui la conferma dei privilegi della Chiesa romana, mentre
costumando come il buon marinaro, che ormeggia il suo naviglio a
più cavi, Giovanni VII la medesima conferma aveva già riportata
da Ariberto II re dei Langobardi.

Parve finalmente a Leone II Papa avere la Chiesa romana acquistato
tanto di potenza da palesarsi intera, e dire: voglio e posso regnare
sola.--Regnava a Costantinopoli Leone Isaurico rude montanaro a cui
saltò nel cervello la bizza di movere guerra alle immagini: a
quanto sembra, eccetto questa fantasia, altra causa del suo odio non
la possiamo rinvenire; ma così siamo avvezzi a conoscere complesse
le cause delle azioni umane, chè nè ad una sola, nè alla
più semplice crediamo, anzi quanto più apparente, screduta;
tuttavia il senso di religione agita profondo le menti umane quanto
più barbare, e l'Isaurico allevato per le montagne, usando co'
monsulmani, e co' giudei potè ottimamente concepire odio immortale
contro le immagini, le quali che altro sono mai tranne infelici segni
d'idolatria così dallo antico come dal nuovo testamento detestati e
reietti? Manuzio Felice cristiano del terzo secolo, il quale viveva in
Roma ai tempi di Caracalla, dettò un dialogo in difesa della
religione cristiana dove introduce a favellare due amici suoi, Ottavio
Gennaio convertito alla fede di Cristo, e Cecilio Natale rimasto
pagano; tra le altre accuse, che questi appone ai cristiani vi ha che
essi si celano, aborrono mostrarsi, non possiedono altari, non tempi,
non immagini. Ai quali appunti Cecilio risponde: che tempii? Che
altari? Che sacrifici? Che immagini? L'uomo è immagine sincera di
Dio; suo tempio il mondo; la vita pura ed i costumi santi il vero
sacrifizio;--e tale era la sentenza di Origene poco dopo di lui, e
innanzi a lui la professò Clemente di Alessandria[1]. Se vuoi
autorità di Papa contro le immagini, te la somministra Innocenzio
III: «i tempii e gli altari, egli dice, spettano al culto della
latria;--a Dio solo voglionsi consacrati non ai santi per paura, che
invece di servire a Dio i fedeli non caschino nella idolatria.» Se
all'opposto ti garba meglio la opinione di un santo ecco che san
Gregorio di Neocesana ti afferma: «la religione pagana sola
inventrice e madre delle immagini.» E venendo giù fin presso al
Concilio di Trento ti occorre Giorgio Cassandro dottissimo teologo, il
quale nel consulto intorno le controversie dei cattolici, e dei
protestanti dettato a petizione degl'imperatori Ferdinando e
Massimiliano confessa pagano l'uso delle immagini... ed oggimai fatto
esorbitante e scandaloso acconsentendo agli errori del volgo e
piuttosto esagerando, che temperando gli eccessi della pagana follia.

  [1]  _Origen_. in _Cel. l_. 8 p. 389. _Clemen. 7 Strom_. v. Moeurs. Chr.
    n. 28.

E strano poi egli è che i Concili stessi dannando il culto delle
immagini dessero ragione a Leone; di fatti il Concilio di
Costantinopoli convocato dal figliuolo suo Costantino Copronimo
composto di bene trecentotrentotto vescovi dichiarò espresso il
culto delle immagini rinnovatore del paganesimo; alla purezza della
fede fuormisura molesto: che se taluno obiettasse scismatico Concilio
quello, e al tutto dannato, allegherò il Concilio di Francforte
convocato da Carlomagno per abolire il culto delle immagini, dove
insomma si accolse la dottrina di Gregorio il grande, il quale
scrivendo a Sereno vescovo di Marsiglia dichiarava le immagini si
avessero come libri per gli idioti, non già oggetti di venerazione
religiosa. Presenti erano i legati del Papa; gli atti di questo
Concilio furono spediti ad Adriano, il quale per non venire in
iscrezio col potente imperatore lasciò correre tre pani per coppia;
morto Adriano I, e Carlomagno, Adriano II fomenta il culto delle
immagini approfittandosi della superstizione vulgare a danno di
Ludovico figlio di Carlomagno.

Ad ogni modo, postochè tu voglia accettare la dottrina del Concilio di
Trento, la quale prescrisse doversi tenere nelle chiese le immagini di
Cristo, della madre sua, e dei santi non perchè abbiano in sè
divinità alcuna, ma sì per onore alla cosa rappresentata, le immagini
non potevano nè dovevano accendere così vasto incendio[1]. Ma
l'astuto Gregorio notando come in oriente per le immagini abolite andasse
ogni cosa a soqquadro, massime per le furie delle donne, nelle faccende di
amore come in quelle di religione piuttosto vesane che accese, di un tratto
si manifesta nemico a Leone; in Italia i decreti imperiali non meno esosi
che in oriente; anco qui Greci ed Italiani in armi per resistere; tumulti e
stragi; l'esarca di Ravenna, il governatore di Napoli, ed il figliuolo suo
a rabbia di popolo lacerati; gli editti, e le immagini di Leone arsi;
divampa la ribellione e già vogliono eleggere nuovo imperatore, e
condurlo fino a Costantinopoli. Gregorio a cui i popoli ricorrono come a
persona, che se vuole può difenderli, li ricovra sotto il manto
pontificale, ed in palese li conforta a posare gli animi, da nuove violenze
astenersi, rimedierebbe per le buone egli; poi respinge gli editti
imperiali dando dell'ignorante allo imperatore quanto poteva desiderarne: e
poichè questi gli minaccia esilio, egli risponde: non istimarlo un
lupino, e temerlo meno; chè se gli dava 24 ore di tempo gli bastava, e
gli rifaceva il resto, per uscire dalle terre sottoposte al dominio di lui;
invano ostinarsi a spuntarla, piuttosto che cedergli perderebbe la vita.
Queste le aperte offese, troppo peggio le segrete con le quali spingeva i
popoli a farsi forti su le armi, a negare il tributo onde i Greci
mantenevano i soldati in Italia; mentre per altra parte le milizie stesse
incitava a disertare dalle bandiere, e gli veniva fatto anco troppo,
girandovi dentro danaro come l'esca per pigliare i pesci. Lo imperatore
infellonito confisca i beni, che possiede il Papa nelle Calabrie ed in
altre provincie dello impero. Gregorio a posta sua scomunica Leone,
scioglie dal giuramento i Romani cui conforta con tiro pretesco a
costituirsi in repubblica; egli contento di proteggerla col titolo di
presidente.--Di qui tu lettore argomenta, che la potestà temporale del
pontefice è fondata sopra la ribellione a cui per dare colore di diritto
il prete astuto chiamò in soccorso il popolo, unico, vero e perpetuo
signore della terra, la quale egli formava per la massima parte con la
cenere dei suoi padri.

  [1]  Il Concilio Tridentino ammise l'_uso_ delle immagini con tante
    restrizioni che valeva meglio abolirle del tutto: egli vuole (e
    come possa farsi non si capisce) che ritraendo la Divinità
    sotto forma corporea s'insegni al popolo ciò adoperarsi solo
    perchè Dio non cade sotto gli occhi umani; che si levi ogni
    superstizione nello invocare i santi, venerare reliquie, esporre
    immagini; non si dipingano nè si ornino strepitosamente o
    lascivamente; nella ricorrenza delle feste non si mettano tavole,
    non si celebrino con la ghiottoneria consueta dei preti, non si
    facciano falò! Nondimanco la gente idiota a cui simili cose non
    s'insegnano, e insegnate non capisce, per mezzo delle immagini si
    trova condotta a mostruosa idolatria.--

Ad arruffargli i disegni non chiesti, e manco desiderati compagni,
ecco accostargli i Langobardi dai Pontefici vigilati con sospettosa
inquietudine difficile nascondersi a cui brama il medesimo fine di te.
Con industrie sottilissime il Papato impediva i Langobardi si
allargassero in Italia; molestamente patì che si voltassero al
cattolicesimo, e quantunque nella congiuntura del figlio partorito da
Teodolinda ad Agilulfo catecumeno novello con magnifici doni li
presentasse non attese meno alacre ad attraversarli occultamente;
quando poi Agilulfo, incoronando il figlio incise intorno alla corona
la leggenda: «Agilulfo per la grazia di Dio uomo e glorioso re, di
_tutta la Italia_ offre a San Giovambattista nella Chiesa di Monza»
il Papato se la legò al dito, e certo pensò «prima che questo
accada ci voglio essere anch'io.» Il Papa presagiva, e per quanto
stava in lui provocava l'anarchia universale, sapendo come in siffatte
occasioni il corpo più ordinato degli altri (e basta eziandio meno
disordinato) s'impadronisca del moto; però la dominazione
langobarda non che emula ma nemica detestava; nondimanco Liutprando
pure queste cose sapendo col mostrarsi quanto il Papa, e più del
Papa, svisceratissimo della purità della fede cattolica assaliva
l'esarca a Ravenna e lo costringeva a consegnargli la terra donde poi
gli sarebbe fatta facoltà di conquistare la rimanente Italia.

Chi si tolse il peso enorme di scolpare il pontificato avverte come il
Papa si oppose a che Liutprando usurpasse Ravenna, ed anzi non
quietò se prima con esortazioni, e con profferte di soccorsi non
ebbe mosso Orso doge di Venezia a ripigliarla ed a restituirla
all'esarca; la quale cosa intendendola come si manifesta menerebbe
alla conclusione, che il Papa dannava in altrui quanto per sè
sosteneva buono; il panno mostra la corda; egli non pativa aumento di
potenza nei Langobardi, e poichè per allora non la poteva pigliare
per sè procurava la rendessero al greco imperatore, come quello a
cui debole essendo e remoto si poteva con più agevolezza a tempo ed
a luogo cavare di mano. Perché i Veneti non si tenessero Ravenna
non fie difficile indovinare; fatti i conti più volte, essi avranno
trovato che cavavano più utile dare, che tenere Ravenna a cagione
dei traffici loro in oriente, i quali avrebbero sofferto forse
irreparabile danno se si fossero accapigliati co' Greci: lo interesse,
ch'è la più salda canapa per filare legami fra gli uomini, in
cotesto tempo teneva stretti insieme Veneti e Greci; di vero Gregorio
si pose in balìa ai Veneti per disperato, essendo prima ricorso a
Carlo Martello, che al non volere (stando egli allora in procinto di
rompere guerra ai Salici ed agli Aquitani) dava colore onesto di non
potere, però che Liutprando gli avesse salva la vita sul campo di
battaglia e per giunta adottato il suo figliuolo Pipino, onde Gregorio
III successore di Gregorio II, il quale di coteste lustre s'intendeva,
appena seppe Carlo Martello sviticchiato dalla guerra salica, ed
aquitana, lo tentò da capo mandandogli solenne ambasceria con
lettere, e doni. Ancardo preside degli oratori lo avrebbe chiarito
meglio a voce; fra i doni, le catene, e le chiavi di San Pietro; fiero
e pure unicamente verace simbolo di quanto il Papato operò per la
Italia, fornì le catene allo straniero onde la incatenassero:
chè le chiavi poi fossero consegnate a San Pietro per serrare e
disserrare il cielo e lo inferno le sono novelle, ma che con esse in
mano il Papa ricordi avere sempre aperto, funesto portinaio, e maligno
le porte della nostra Patria allo straniero è verità: infamia
immortale a cui il Papato ebbe compagni Eufemio di Messina, Ludovico
il Moro, e il conte di Cavour. Le lettere sonavano in questa sentenza:
«Noi siamo afflitti vedendo come la poca sostanza avanzata pel
sostentamento dei poveri, e per le luminare delle Chiese[1], ormai sia
dispersa per la violenza di Liutprando, e d'Ildebrando suo nipote, i
quali tutti i poderi di _San Pietro_ devastarono, il _bestiame_ si
portarono via.» Tanto profonda si radicò nei preti la tenerezza
del bestiame che Papi, Vescovi, e Curati non altramenti si adattino a
chiamare i fedeli, che col titolo di _gregge_.--

  [1] Ricordisi che uno degli scopi della falsa donazione di San
  Pietro sono queste _luminare_

Ciò la prima, la seconda lettera diceva questo altro: «I
Longobardi ci pigliano a scherno irridendo: o non avete chiesto aiuto
a Carlo? Venga egli via a trarvi di affanno; e questo ci accuora meno
per noi, che per voi considerando come sì potente figliuolo non si
avacci a sovvenire la sua madre spirituale, la Santa Chiesa. Caro
figliuolo, sappi che il principe degli Apostoli potrebbe molto bene
difendere la sua Chiesa e vendicarsi dei suoi nemici da sè, ma se
ricorre a te lo fa proprio per mettere a prova il cuore di un suo
figliuolo. Qui bisogna scegliere tra San Pietro, e Liutprando: ora
all'amicizia del principe degli Apostoli vorrai tu preferire quella
del re dei Langobardi[1]?»

  [1]  _Epist. 5 Greg._ t. 6 Conc. p. 1472.

Quanto alle segrete profferte di Ancardo si ha per certo, che si
versavano sul cacciare via d'Italia ogni traccia di subiezione allo
imperatore, conferendo a lui Carlo col titolo di Consolo la protezione
di Roma. Che cosa Carlo avrebbe deliberato ignoriamo: secondo la
natura dei Franchi vuolsi credere che potendo fare senza danno,
all'opposto con profitto, sariasi mostrato sconoscente, ma la morte lo
colse, e dopo lui, indi a breve, Gregorio III.

Zaccaria Papa su i primordi del sacerdozio sfidato degli aiuti
_franchi_ si umilia a Liutprando, che stanco anch'egli dalle fatiche,
e rotto dagli anni per ottenere pace concede al Papa i patrimoni della
Sabina, di Narni, di Osimo di Ancona, e la Valle grande nel territorio
di Sutri con altre grazie non poche; e promette sospendere la guerra
contro Ravenna. Morto Liutprando succede Rachis, e questo sobillarono
i preti così che ormai lo adoperavano dolcissimo arnese ai loro
disegni: però i preti non appresero mai l'arte di seminare con la
mano, e non col sacco, onde per indiscretezza guastano il gioco, e
ciò appunto accadde con Rachis, il quale si rese monaco a Monte
Cassino scappando dai roncigli del prete per la porta della religione;
gli successe il fratello Astolfo, che subito si palesò terreno da
non piantarci vigna: allora Zaccaria, prevedendo da lungi la mala
parata, si volta a Pipino col quale la fortuna gli ammannisce
occasione capitale.

Pipino figlio di Carlo Martello per renunzia di Carlomanno, e per
violenza esercitata da lui in danno di Grifone entrambi germani, si fa
signore del reame dei Franchi; la cosa gli desta l'uzzolo del titolo,
come in altri il titolo mette il prurito della cosa; vuole essere re;
e poi vivendo la schiatta venerata dei veri re, come non sono
ereditari il valore, e la sapienza, così nè manco codardia, e
stoltezza, così ci era da temere, che un qualche generoso spuntasse
fuori da cotesta schiatta a mettere il tallo sul vecchio; avanzava la
morte, ma subita, perchè tenendo in mano l'aspide intirizzito non
sai quando rinfocolato ti arriverà col morso: pigliano vizio
gl'indugi. Ostava alla deposizione di Childerico III la fede dei
Baroni che gli si reputavano, ed erano legati per giuramento; Pipino
propone mandisi a consultare il Papa, inclito per fama di sapienza;
nella ignoranza universale _chierico_ voleva dire _sapiente_; e come
la presenza diminuisce la reputazione, la lontananza l'aumenta,
però i responsi di Roma tenuti per giunta ai precetti del decalogo;
piacque il partito e si spedirono a Roma san Burcardo vescovo di
Visburgo, e Fubrado cappellano del palazzo. Il quesito questo: «chi
ha da essere re di un popolo, o quegli che avendo il titolo non ne
possiede la capacità e la potenza o viceversa?» Naturalmente il
Papa non fu col diritto, bensì con la forza; anzi per appiccare lo
addentellato invece di parere il Papa dettò un decreto, ed invece
di parole declarative egli le adoperò imperatorie; chiesero un
consiglio ed egli diede un permesso; ci aggiunse per fare vie più
solenne l'atto la necessità della consacrazione, e di vero una
volta consacrò Pipino a Soissons con la moglie Bertrada _san_
Bonifacio arcivescovo di Magonza; e notai a posta una volta, perchè
come se il chiodo non reggesse lo ribadirono con una seconda
consacrazione.

Reca conforto a cui scrive storie considerare come le offese fatte
alla giustizia sebbene approdino da prima, e poi per certi fini a
coloro, che le commettono, tuttavia contengano in sè il seme di
futura vendetta: se ciò preordini la Provvidenza, o porti seco la
natura delle cose mi è ignoto, però si vede espresso come nel
mondo fisico del pari che nel morale non possano disprezzarsi certe
norme senza pericolo di ruina di concetti e di opere: così Pipino
chiedendo la consacrazione della sua colpa al Sacerdote venne a
farglisi soggetto, e gli diè il bandolo a creare la enorme dottrina
che al Papa spettasse concedere, e torre le corone; il Papa poi non
pensò che un giorno in virtù della sua sentenza avrebbe perduto
il dominio temporale, che si augurava confermare con quella. Di vero,
se i difensori del Papato si avvisano chiedere con qual diritto
presumete togliergli il governo dei popoli, e voi rispondete: con
quello medesimo onde Zaccheria ne spogliò Childerico: e notate che
nè manco gioverebbe la ragione, che non è eterno un Papa, e
morto uno sciagurato gliene surrogano altro virtuoso, imperciocchè
lo stesso poteva succedere nella stirpe di Childerico, la quale non si
spegneva mica con lui, al contrario egli aveva un figlio per nome
Teodorico, ed entrambi deposti furono chiusi in carceri separate;
negò il sospetto la consolazione di starsi uniti ai miserrimi; il
primo nel monastero di Siziù, il secondo in quello di Fontanelle;
allora prigioni i monasteri, soprastanti i frati.

Il Papa (era morto Zaccheria, e successogli Stefano II, ma non fa
caso) nonostante le carezze franche non ottiene schermo contro
Astolfo, eccetto parole, e questo re dalle mani grifagne, rotta la
tregua stabilita coll'imperatore assalta Eutichio esarca di Ravenna
alla sprovvista; gliela piglia; poi lo esarcato, nè si ferma lì,
chè cercando briga con Roma la intima a pagargli come a signore di
Ravenna il tributo del soldo d'oro a testa: nicchiando i Romani a
suggestione del Papa egli muove con lo esercito a Roma, occupa il
contado, i poderi pontifici devasta dopo averli insieme con gli altri
saccheggiati. Stefano con molte lamentazioni si volta a Costantino
Copronimo, figlio di Leone scomunicato, e maledetto come eretico
perchè continuatore dell'odio paterno contro le immagini: ma
necessità non conosce legge, ed anco per meno la Chiesa smette
l'ira non l'interesse; il Copronimo tribolato dai Bulgari invece di
soldati manda oratori; al malcondotto Papa non avanzano che i soccorsi
di Francia, ma nè i Romani memori della barbarie del vetusto Brenno
li volevano, nè i Franchi consentivano venire; allora apparve il
sommo delle sacerdotali arti; preci solenni a cafisso, e processioni,
e tutti i santi avvocati, il Papa attorno scalzo con su le spalle
certa immagine di Gesù dipinta proprio in paradiso dagli angioli a
tempo avanzato, e il popolo dietro anch'egli scalzo, gemendo, e
pregando, tutti coperti di cenere, quantunque non sia mai rimasto
chiarito che abbia che fare la sordidezza con la misericordia di Dio;
la pace rotta da Astolfo pendeva da un braccio della croce come il
rospo che il villano impicca ad un ramo di fico. Dopo questo
ammanimento Stefano ruppe in una predica, appo cui le scapigliate
arringhe dei nostri agitatori del popolo parrebbero tisane di
camomilla, alla quale la perorazione questa: «Dio volere ad ogni
costo si ricorresse per soccorso a Pipino.» Mosse l'ambasceria
romana per Francia con lettere ortatorie punto meno veementi alla
Baronia di Francia, perchè venisse a difendere la giustizia di
Cristo; di promesse, e soprattutto di benedizioni non faceva a
risparmio, per la rimessione dei peccati non ci era nè anco da
pensarci, solo che venissero in Italia alla difesa del Papa
tornerebbero innocenti come se uscissero allora allora dall'alvo
materno; per ogni scudo speso in questo mondo in pro della santa
Chiesa nell'altro ne riceverebbero centomila, e più. A Brottegando
abate di Gorza caporale degli oratori il Papa commise in segreto, caso
mai Pipino non potesse venire mandasse egli inviati a pigliarlo
affinchè non lo impedisse Astolfo: a voce si sarieno messi più
facilmente d'accordo.

Intanto arrivano i nunzi dello imperatore a cui era preposto Giovanni
Silenziario, i quali in compagnia di Stefano si fanno a trovare
Astolfo in Pavia, ed insieme gli chiedono renda Ravenna, e le terre
dell'esarcato e della pentapoli ghermite; gli si rimborseranno le
spese della guerra. Astolfo con grande sdegno rinfaccia il Papa, che
intimando altrui a rendere terra si tenga Roma principalissima delle
italiche ville: che pietà nuova pei Greci la è questa? Forse
Liutprando, ed egli Astolfo non avere combattuto contro i Greci per
irrequieta ressa di lui Stefano, e degli antecessori suoi? Ponessero
giù ogni speranza; non volere rendere un filo di paglia, e tregua
alle parole.

Sopraggiunsero i messi franchi Crodegando vescovo di Metz, e il Duca
Ottavio, nè approdarono meglio; allora costoro con molta destrezza
domandarono ad Astolfo salvocondotto per condurre Stefano in Francia;
anco a lui gioverebbe tenerlo alquanto di tempo lontano: Astolfo
rispose non avere impedito mai il Papa dallo andare e dallo stare; ma
poi chiamato Stefano con grande querimonia si dolse della presa
risoluzione tentando distorlo; e c'intromise eziandio altri autorevoli
personaggi, ma il Papa stette sodo, e Astolfo non si potendo disdire
lo lasciò andare.

Colà il Papa cosparso di cenere, stretto i fianchi di cilizio si
prostrò ai piedi di Pipino scongiurandolo in nome di Dio, e dei
santi a salvarlo dalle mani dei Longobardi, nè volle levarsi da
terra se il re steso prima la mano non lo assicurava di scampo, ma
correndo la stagione iemale inviò a stanza il Papa nel monastero di
San Dionigi. Prima di dividersi, Pipino incerto della permanenza della
corona nella propria famiglia domandava i suoi figliuoli Carlo e
Carlomanno da lui si consacrassero suoi successori, e il Papa: magari!
a patto che l'esarcato ai Longobardi si togliesse, ed alla Chiesa si
donasse: ciò stabilito Pipino convoca l'assemblea dei Baroni a
Quierus per bandire la guerra al re Astolfo; nè questi si rimase
con le mani a cintola, che persuase l'abate di Montecassino a
concedere, che Carlomanno uscisse dal convento, e si recasse fino
lassù a sconsigliare la guerra; il quale andato dimostrava poco
contado avere perduto il Papa, glielo renderebbe Astolfo; l'altro
spettare al greco imperatore; ora che scese di testa erano quelle
smaniarsi per ciò, che era di altri e questi non chiedeva? Se chi
si pone di mezzo paciere sapesse che non vi ha cosa, la quale tanto
arrovelli cui intende commettere ingiustizia quanto udire favellare di
giustizia vado sicuro, che manderebbe la lingua al beccaio: la guerra
fu dichiarata, Carlomanno chiuso nel chiostro di Vienna: non passò
l'anno che lo calarono nel sepolcro; i suoi figliuoli scompaiono: come
perirono essi? Vorrei dirti: domandalo alla tomba, se la tomba
parlasse.--

Delitti, e religione bugiarda. Cristo e il Diavolo legati in un mazzo.
Stefano infermo, o finge per ammanire la guarigione miracolosa, la
quale egli affermò essere accaduta in questo modo: gli erano
comparsi davanti i santi Pietro, Paolo, e Dionisio col diacono e
suddiacono; uno tiene la palma, l'altro lo incensorio. Dopo
ricambiatesi non so quali cerimonie, Dionisio invitava Pietro a sanare
il suo rappresentante in terra non senza adoperarci qualche parola
risentita facendogli specie avesse mestieri dimando; e san Pietro
punto dal rimprovero tingendosi un po' in rosso per vergogna annuì:
la guarigione si fece in meno, che si mette a recitare un _Gloria
Patri_, e san Dionigi accomiatandosi da Stefano gli suggeriva:--sia
con te pace; non temere, presto tornerai alla tua chiesa; ma prima fa
di consacrare un'altare in voto ai due santi apostoli, e vi celebrerai
una messa in riconoscenza della grazia ricevuta. Parve devozione, ed
era alzata d'ingegno affinchè i popoli vi traessero in copia; mossi
dalla novità della cosa, e come avvisarono accadde: colà fra la
moltitudine delle turbe calcate, in mezzo alla universa baronia di
Francia Stefano consacrò da capo Pipino, e la sua moglie Bertrada,
e insieme con loro Carlo, e Carlomanno figliuoli; dalla parte di San
Pietro scomunicando i Francesi tutti qualora si attentassero eleggersi
altri re fuori della stirpe di Pipino. Avvertenza che i Francesi
odierni avrebbero dovuto tenere dinanzi la memoria per non incorrere
nella scomunica nel frequente loro barattare di re. Nè quì si
rimase il Papa, che eccetto la donna dichiarò tutti patrizi romani,
e dicesi ancora che battezzasse Carlo, e Carlomanno; nè meno
generoso Stefano volle mostrarsi co' Francesi, però che in prima
lasciasse il suo pallio alla badia di san Dionigi, e poi insegnasse
loro a non stonare quando cantavano: per la quale cosa importa che i
Francesi si ripongano bene in mente, che se oggi cantano il _Miserere_
in regola lo devono proprio al Papa; ma per avventura e' ce lo tengono
più che non penso, ed è senz'altro per questo che grati al
Papato così tenacemente da ogni jattura il difendono.

Le storie ricordano, e non si nega da noi, che a persuasione del Papa,
Pipino spedì fino a tre volte ambasciatori ad Astolfo perchè
consegnasse le torre occupate, e ciò non mica per istudio, che
sangue cristiano non si versasse, ma sì perchè le guerre così
si possono vincere come perdere, ed è prudente tentare ogni via di
venire a capo dei desiderii a man salva, e poi non andava il Papa
esente dal sospetto di cacciare un diavolo con un altro; ma Astolfo
tenne sodo, allora scese le alpi Pipino, ed assediò Astolfo in
Pavia col quale presto venne a patti e furono: restituisse l'esarcato,
e le _giustizie_ di San Pietro, giurasse eseguire l'accordo, in pegno
dello adempimento desse ostaggi; ottenuto tanto, invano supplicato dal
Papa egli tornavasene in Francia.

Oltre il naturale talento che ha l'uomo di rifarsi, cruciava Astolfo
il pensiero del tiro del prete, e della ingratitudine di Pipino; i
suoi antecessori, ed egli per virtù di armi avevano conquistato le
città italiche contro l'imperatore greco, ed ora costretto di
consegnarle al Papa conosceva avere messo sangue, e sostanza a
repentaglio per avanzare altrui: per maggiore cordoglio questo gli
veniva per opera di tale a cui Liutprando aveva salvato il padre in
battaglia, e lui stesso adottato per figlio: però agevole
prevedersi che egli non avria levato la mano finchè gliela
reggevano; di fatti, volte appena le spalle Pipino, Astolfo
tempestando muove a Roma fiducioso di trovare favorevoli i Romani; e
s'ingannò; i Romani sostennero lo sforzo delle armi dei Langobardi
confidando essere soccorsi in tempo da Pipino. Ora se il Papa battesse
mani e piedi perchè costui tornasse non è da dire; scritta una
prima lettera gliela manda per l'abate Fulbrado: invocansi Dio, la
Vergine, e i Santi; lasci ogni cosa e venga via di rincorsa; se
ricusa, o se tarda nel dì del giudizio si aspetti a rendere i
conti, ed ahi! quanto tremendi, imperciocchè Dio nella sua
prescienza creasse proprio apposta lui Pipino onde difendesse lui
Stefano, e _cui Dio predestinava chiamò, e i chiamati sono
giustificati_. Poteva essere giunto a mezza strada il messo, che gli
spedisce dietro Vilcano vescovo di Nomenta con la seconda lettera,
dove ripetute le esortazioni, e minacce medesime aggiunge: avere
obbligo verso i Santi della difesa del Papa; verso Dio dacchè egli
poteva ottimamente provvedere al fatto suo in cento altre mila guise;
ma poichè egli aveva scelto proprio lui Pipino a questo intento
egli non se ne poteva scansare: verso gli uomini a cagione dell'aperta
promessa alla quale venendo meno stesse sicuro, che gliela
squadernerebbe in faccia San Pietro, ed a difendersi non gli
basterebbero arzigogoli. Il Papa tirava, Pipino tentennava, Astolfo
picchiava a doppio; allora Stefano invia la terza lettera con gli
oratori Vescovo Giorgio, Conte Tomarico, ed Abate Verniero; pianti,
omei, supplicazioni, e minacce non mancano; ma per mettere in opera
stimolo nuovo, Stefano s'industria spunzicchiare l'orgoglio franco
scrivendo come i Longobardi jattanti vadano attorno beffando:
«vengano via quei di Francia a liberarvi dalle nostre mani!» e
poi tra un turbine di accuse scappa fuori con questi due appunti:
«i Longobardi dopo essersi ripinzi di vino, e di cibo _mangiano le
ostie consacrate_, ed hanno ammazzato e portato via tutto il _bestiame
della Santa Sede_!

Ma Pipino non veniva: ormai di argomenti umani il Papa era giunto al
verde; e' fu mestieri ricorrere ai soprannaturali, che non riescono
mica difficili come ordinariamente si crede; su questa strada basta
avere il coraggio di movere un passo che poi si va innanzi a miglia
senza nè manco accorgersene: il Papa smette pertanto di scrivere, e
comincia San Pietro. Questi piglia le mosse coll'affermare sapersi
nell'universo mondo presente e in quell'altro essere i Franchi suoi
figli adottivi, e primo fra tutti i popoli fino alla consumazione dei
secoli; nè egli parlare in suo nome solo, bensì anco in quello
della Vergine, degli Angioli, dei Troni, delle Dominazioni, dei
Martiri, dei Confessori, di tutta insomma la milizia celeste; e non
parla unicamente al re Pipino, ma bene anco ai baroni, vescovi, abati,
preti, monaci, governatori, all'universo popolo senza pure ometterne
uno solo, e impone a quanti sono, che badino bene di non lasciare
manomettere il gregge di Cristo, il popolo d'Isdraele, altrimente non
ci ha rimedio, le anime loro andranno perdute nel fuoco eterno, ed
egli saperlo di certo; nel regno dei cieli bisogna renunzino a entrare
perchè così aveva disposto la santissima Trinità, e ad ogni
modo era forza fare i conti con lui, che teneva le chiavi del
paradiso, e ci pensassero bene.

Infami e peggio anco a mente degli scrittori ecclesiastici,
imperciocchè la Chiesa sia tolta in cotesta miserabile menzogna a
significare non già l'assemblea dei Fedeli, ma i beni temporali
uniti al Papato, il gregge di Cristo non accenni ad anime, sibbene a
corpi, le promesse materiali della legge antica vadano confuse con le
spirituali del Vangelo, la religione con l'interesse; e quello che per
avventura estimo peggio di questo, affogano scientemente nello errore
gl'intelletti, i quali Dio commetteva al Sacerdote per incamminarli
sopra la via della verità. A cotesti tempi non si sospettavano
frodi, o da pochi; però se dannoso crederle, più esiziale
discrederle, che tra i pazzi è pazzo il savio; ma forse ci prestava
fede Pipino, nè diverso da lui nel credere fandonie Astolfo,
però che si narri ch'ei si raffidasse vincere la impresa, come
quello che portando seco copia di corpi santi dei suoi stati, e
raccolti eziandio dalle terre nemiche immaginava avere sprovvisto il
Papa degli dei tutelari, ed assicuratili a sè. Tornò in Italia
Pipino, vinse da capo Astolfo, e da capo l'assediò in Pavia: quivi
si fece accordo; in mezzo ai negoziati ecco comparire i nunzi greci
Gregorio primo segretario, e Giovanni Silenziario, ed esporre il greco
imperatore legittimo sovrano dell'Esarcato, e della Pentapoli, a lui
averli rapiti con violenza i Longobardi, e poichè riparatore
d'ingiustizie ei si mostrava al mondo non le rincappellasse col dare
al Papa, levandolo allo imperatore, quello che non gli apparteneva.
Pipino rispose, che il principe il quale non basta a difendere il suo
stato ne perde il dominio; ed in questo aveva ragione; egli poi non
essersi mosso per lo imperatore ma per San Pietro a cui aveva fatto
voto di donare tutte le sue conquiste in isconto dei peccati commessi
e per la salute dell'anima sua. Dura fu la legge del vincitore che
Astolfo ebbe a cedere l'Esarcato, la Pentapoli, ventidue città,
Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Cesena, Sinigaglia, Jesi, Forlì,
Forlimpopoli, Castrocaro, Montefeltro, Areragio, che ai dì nostri
non sappiamo dove giacesse, Mente-lucano, forse Nocera, Serravalle,
San Mariano, Bobio, Urbino, Cagli, Luceolo, Narni, e Comacchio; le
spese della guerra, la terza parte del suo tesoro, e torni a pagare al
re dei Franchi l'annuo tributo di 12000 soldi di oro di cui la gente
langobarda si era affrancata, regnando Clotario II. Folbrado abate
ricevute le chiavi di queste ventidue città le portò sopra la
pretesa tomba di San Pietro con la facoltà di usufruirle; e ciò
pongasi bene in sodo: _la Chiesa dal dominio utile in fuori su la
donazione di Pipino niente altro ebbe, e così da Carlomagno fino ad
Enrico III._ Anco dopo il mille la potestà temporale, donde i Papi
ricavano adesso fondamento alla libertà del potere spirituale della
Chiesa, non occorre stabilita, epperò eziandio il piissimo tra i
cattolici ha d'accordarsi in questo con noi, o che il potere temporale
non è necessario alla libertà spirituale della Chiesa, ovvero
che per i dieci primi secoli interi la Chiesa non fu libera; nè
cavillare qui giova, delle due cose l'una; il cattolico scelga.

La rabbia crebbe nel re langobardo alla stregua, che la potenza scemò;
Ferrara, Ancona, e Bologna contro la religione dei patti non restituiva,
serbandole per addentellato a futura vendetta, od a suo totale esterminio;
la morte amica gli troncò il travaglio di sopportare vita umiliata e
cotidiana ignominia; lasciava ai successori una fiera eredità; nè gli
eventi smentirono i presagi.--Sorse ad ambire la corona langobarda
Desiderio duca di Toscana; gli emuli gli oppongono Rachis; ma la consegna
delle tre città desiderate a patto che ricacci l'infesto monaco in
convento: si compie l'accordo, e il monaco reale si rincantuccia, ma la
morte irrigidisce la mano a Stefano mentre ei la sporge per agguantare la
mercede; allora Desiderio al nuovo Papa la nega, o non si estimasse
obbligato a mantenere a Paolo le promesse fatte a Stefano, o come credo
piuttosto, perchè passata la festa si leva l'alloro. Ribollono le ire
sacerdotali e non potendo ricattarsi con le armi, si dà mano alle frodi,
arti nei principi, nei preti poi arti ed istinto, e riescono; sobillati i
duchi di Spoleto, e di Benevento ribellansi; Desiderio discernendo il sasso
dal balestratore si apparecchia a vendicarsi su Roma; il Papa spaventato
ricorre da capo per sussidio a Pipino; ma questi reso inerte dagli anni non
risponde, Paolo ne muore di rabbia; gli va dietro Pipino. Nuovi attori, e
dramma medesimo. Totone, e Passivo duchi langobardi accorsi a Roma fanno
eleggere Papa il fratello loro Costantino; ne piglia ombra Desiderio, il
quale cospira con Cristoforo primicerio, e Sergio sacellario della sede
pontificia; per tradimento di Grazioso custode delle carte Raciperto entra
in Roma con la gente langobarda, e mettono le mani addosso a Costantino ed
ai fratelli; i Romani riputandosi liberi aizzano a fare da Papa un
pretocolo, Filippo, menandolo alla basilica lateranense in mezzo agli urli:
«San Pietro lo elesse!» Può addirittura affermarsi che San Pietro
non ci entrava per nulla, e così anco credè Sergio, il quale postosi
davanti a Filippo gli disse: «che se non si riduceva al suo monastero e
subito, guai a lui!» E l'altro mogio mogio rifece i passi verso il
convento e più non parve fuori; allora dopo un gran tramestio fu eletto
Papa Stefano siciliano figliuolo di Olivio, il quale cominciava a
dimostrarsi vicario di Cristo strappando gli occhi e la lingua a Teodoro
vescovo fautore di Costantino, e poi lasciandolo morire di fame e di sete
nel monastero del monte Scauro; anco a Passivo svelse gli occhi; gli occhi
e la lingua a Gracilis tribuno di Alatri amico al Papa deposto; Valdiperto
sacerdote, che aveva messo su prete Filippo a farsi avanti pel papato, ebbe
a scontare la colpa con la perdita della lingua, e degli occhi. Nè
Costantino stesso la passò più liscia; a lui pure strapparono gli
occhi, e moribondo per l'orrendo strazio lasciarono a rotolarsi nel sangue
nella pubblica via. Il Fleury nella storia ecclesiastica ci assicura che
questo Papa dabbene era stato in certa guisa alunno di Papa Gregorio III;
se lo avesse avuto in delizia il carnefice che mai di peggio egli avria
potuto commettere?

In Francia a Pipino succedono i figliuoli Carlo, che poi fu detto
magno, e Carlomanno. Stefano chiede a Desiderio le città promesse,
e questi gli fa capire che innanzi di avere si ammannisca a rendere;
allora Stefano si volta da capo in Francia, ma quinci tira un vento,
che arruffa ogni suo concetto, imperciocchè i nuovi re, come suole,
procedessero tra loro piuttosto avversi che emuli: affermano, che
Desiderio facendo fuoco nell'orcio attendesse a mettere male fra loro
e sarà, chè certo Desiderio stinco di santo non era; Bertrada
madre, pensosa del presente, e spaventata del peggio si adopra ad
accordare gli animi per via di maritaggi; abbia Ermengarda, figlia a
Desiderio, Carlomagno sposa, e Adelchi, figlio di Desiderio, conduca
in moglie Gisla sorella di Carlomagno; Papa Stefano puntando a mandare
a monte ogni cosa notava simili nozze opera del demonio; contennenda e
vile la stirpe langobarda, indegna imparentarsi con la illustre casa
di Francia, odiosi a Dio i connubi con gente straniera male invocando
la legge mosaica regolatrice della Chiesa di Cristo; e poi, egli
aggiungeva, è celibe Carlomagno, ovvero vedovo? non è detto: che
quello che Dio congiunse non deva separare l'uomo? Tuttavia il
matrimonio di Adelchi giunse a frastornare il prete, questo di
Carlomagno no; ormai le consuete minaccie, e i tiri pure consueti di
scomuniche, di salute eterna perduta, di San Pietro supplice o
riottoso non provavano più: ogni cosa si logora nel mondo, la paura
ugualmente che il coraggio. Nemici potenti contro Desiderio erano
presso il Papa Cristoforo e Sergio, come vedemmo promotori della
elezione di Stefano, nè posavano un momento da assillarlo perchè
Bologna, Ancona, e Ferrara consegnasse il re langobardo a Roma, il
quale avendo per pecunia vinto Paolo Afiarto Camerario questi rese coi
suoi tranelli sospetti Cristoforo e Sergio, per altra parte venuti a
tedio al Papa per la troppa protervia loro: forse anco vegliava su
cotesti capi la Provvidenza invendicata. Afiarto per terminare di
abbattere gli emuli già crollati persuade a Desiderio venisse a
Roma sotto colore di visitare la chiesa e la tomba dei santi apostoli
extra muros. Desiderio accompagnato da fanti e da cavalli, dopo
venerata la sacra tomba, fa ressa di essere accolto.

Cristoforo, e Afiarto intorno al Papa; quegli per respingerlo, questi
per ammetterlo; ciondolando il Papa l'uno e l'altro apparecchia le
armi per isgararla di forza; il Papa di un tratto si consiglia recarsi
egli medesimo a conferire con Desiderio fuori delle mura, e, invano
dissuaso dal Primicerio, va: mentre favellano insieme querelandosi
scambievolmente, il primo per la ingiuria della diffidenza mostrata,
il secondo pel danno delle città non restituite, ecco giungere
novelle che il Primicerio e il Camerario si accapigliano: nè la
vittoria poteva pendere incerta parteggiando i Romani pel Camerario
come quello, che inteso ad accordarsi con Desiderio sembrava
assicurare a Roma anni di pace; il Papa agguindolato da Desiderio
rientra sbuffando in Roma, ed intima a Cristoforo e a Sergio chiudansi
in monastero o vadano a giustificarsi al cospetto suo e del re dei
longobardi; poi gli abbandona in mano di Afiarto, che gli accieca; il
padre ne muore, sopravvive il figliuolo per discendere nel sepolcro
con morte più infelice in virtù del sacerdotale odio di Afiarto.
Veramente Cristoforo e Sergio pagarono la pena del taglione, nè
meritavano meglio; _tamen_ i Papi sogliono in ogni caso e sempre
manifestare a quel modo la propria gratitudine. E' fu in mezzo al
gaudio della lusinga di riavere le tre città ricordate, ed anco per
ovviare ogni rinfacciamento a cagione dello strazio del Primicerio
devoto alla Francia, che Stefano disdicendosi scriveva ai figliuoli di
Pipino, Desiderio essere stato suo refugio, e porto di salvezza contro
le macchinazioni del Primicerio, e degli aderenti suoi; Adelchi
principe eccellentissimo; diritto nelle vie del Signore, che Dio
conservi, avere puntualmente restituito alla Chiesa di Roma le
_giustizie_ di san Pietro. Però ei si era affrettato troppo a
cantare _alleluia_, che Desiderio immaginando avere con la morte del
Primicerio, e del figlio messo tal bietta tra Francia e Roma da non
potersi cavare più si rifiutava alla consegna delle sospirate
città; onde il Papa, tenendosi per uccellato, disdette le lodi,
tornava ai vecchi oltraggi aggiungendone parecchi di nuovi. Il mondo
è tavoliere dove la fortuna gioca le partite mutando ogni tantino i
pezzi; muore Stefano, muore Carlomanno. Al Papa ostile ai Franchi
subentra Adriano parzialissimo loro, e segno manifesto di mutata
temperie fu prima richiamare dallo esilio, e restituire in libertà
gli avversari dell'Afiarto; poco dopo bandiva gli amici di questo,
quindi sotto pretesto di ambasceria spediva Afiarto a Desiderio, ma
giunto a Ravenna ordinò lo sostenessero; colà lo processarono, e
condannarono; Adriano, scrivono gli storici ecclesiastici, aborrendo
dal sangue mandò celeri messi affinchè gli salvassero la vita, i
quali non attesi da Leone arcivescovo di Ravenna mise a morte
l'Afiarto con inestimabile amarezza di Adriano: ipocrisie vecchie non
credute mai, e rinnovate sempre; i trasgressori si riprendono, e
premiansi; qualche volta punisconsi per fingere meglio; ma a iniquo
comando non mancò mai esecutore pessimo, che cupidità vince
esperienza, e il fato che minaccia tutti nessuno teme per sè.
Intanto volto appena l'anno Carlomagno repudia Ermengarda o per
talento di nuove nozze, o, come si disse, per insanabile infermità
della donna; al tempo stesso stende la mano sul capo dei nepoti
dichiarando proteggerli; alla madre loro parve vedere in cotesta mano
gli artigli di uccello grifagno, e fuggissi ricoverando co' figliuoli
nelle terre langobarde, e seco va Kunaud duca di Aquitania ribelle al
re: inoltre o volontario o costretto Carlomagno in quel torno si
travagliava nella guerra di Sassonia; questi tre successi forniscono a
Desiderio causa, ed opportunità di vendetta, sicchè propone ad
Adriano consacri re di Francia i figliuoli di Carlomanno, stringano
lega insieme, e si abbia finalmente in premio Ferrara, Ancona, e
Bologna. Adriano non dà nella pania, ed era cosa vulgare
guardarsene: senza fede Desiderio, vicino, e cupido di primato sopra
la universa Italia, Carlomagno lontano, cupido anch'egli, ma travolto
in perpetue imprese, e distratto dalle cure di vastissimo impero:
Adriano preferì questo, ed inviò messi a Carlomagno svelandogli
le insidie; profferendosegli isvicerato, e forte eccitandolo a
scendere in Italia per tutela della Chiesa, e di sè; Carlo commosso
dal pericolo raccolto l'esercito si presenta allo sbocco delle Alpi,
che trova sbarrato alle Chiuse di Susa. Qui tradimento vinse virtù.
Che approdò ad Adelchi armato di mazza di ferro avventarsi sopra
l'esercito dei Franchi menandone strage? E che avere ridotto Carlo a
tale che ormai disperato di superare le Chiuse pel giorno prossimo
deliberava la partenza? Martino diacono di Ravenna perigliandosi
traverso le Alpi giungeva in tempo per additare ai Franchi un sentiero
sconosciuto e indifeso; di lì passò parte dello esercito nemico,
il quale colto i Longobardi alle spalle, mentre gli altri gli
assalivano di fronte li mandò in rotta. Vel dissi già e lo
ripeto adesso, se le chiavi del Papato valgano ad aprire il paradiso
ignoro, o piuttosto so che non l'aprono, ma questo altro è certo,
che la tradita Patria esse aprirono allo straniero; lascio le chiamate
dei Papi che non contenti di aprire le porte ai Franchi, c'intromisero
le bestie di Lamagna, e perfino i Saraceni; ma oltre Martino diacono
guidatore dei Franchi per le Alpi la storia rammenta un Patriarca di
Aquileia, e il vescovo di Bressanone entrambi scorta nequissima dei
duchi di Austria nel Trevisanato, e nel Cadore. La corruzione, e
l'astio d'accordo col tradimento minarono il dominio langobardo.
Desiderio preso a Pavia mandasi prigione al monastero delle Corbie in
Francia; Adelchi scampato alle armi franche, ed alle insidie più
mortali dei suoi ripara in Costantinopoli; cascano in mano di Carlo la
cognata, e i nipoti; nè altro fu udito di loro; agli storici tutti
cotesto silenzio sa di sangue; solo al Manzoni tenerissimo di Carlo
perchè pupillo del Papato piace diversamente; mostrando ignorare
ch'è grande l'ombra del trono per coprire delitti; e il tremore
tace, mentre la piaggeria per poco che ne abbia argomento india i
potenti anco scellerati. Carlo richiesto di confermare la donazione di
Quierey lo fece _riservandosi l'alta sovranità sopra le terre
donate alla Chiesa;_ _non che il diritto di confermare la elezione del
Papa_[1]. Gli storici chiesastici sostengono questa seconda donazione
più ampia della prima, e non pare, almeno a giudicarne dalle
lettere di Adriano a Carlo nelle quali muove perpetua querimonia ora
di città non consegnate, ed ora di signoria angusta, e contesa.

  [1] Raccomando la lettura di questa nota composta da scrittore
    cattolico; voglia bene mandarla a mente chi legge però che su
    quella fondino massimamente i chiesastici i diritti di Roma sopra
    gli stati pontifici «la occultazione, o fabbricazione di
    documenti non si può negare, ma si fecero per promovere
    l'autorità temporale del Papa non già nelle cose intrinseche
    della religione; nè si ha per certo che i Papi ordinassero
    simili fraudolenze; si deve credere, che ciò si partisse da
    amici troppo zelanti come per ordinario succede. Non dubbia la
    falsità della donazione di Costantino; sconosciuto l'autore, ma
    gli eruditi tutti anco cattolici la confessano (v. Pietro De Marco
    Arcivesco. Paris _de ficta donatione Costantini_). Le Decretali
    dei primi Papi fino a Siricio apparvero verso la metà del
    secolo nono, e furono chiarite false da tutti i critici, e gli
    eruditi; poco dopo il Concilio di Trento, non lo negarono nè
    anco i Cardinali Baronio (ann. an. 865) e Bellarmino (de roman.
    Pontif. b. 2) Autore Isidoro peccatore o mercatore aiutato da un
    monaco, entrambi spagnuoli; le divulgò Riculfo vescovo di
    Magonza devotissimo ai Papi. Niccolò I e i successori vennero a
    capo di farle ricevere da' vescovi, e da tutti se ne pretese la
    osservanza dai Principi, ed ebbero luogo nelle Collezioni del
    diritto canonico; anco Graziano le pose dentro la sua collezione,
    e così diventarono testo nelle scuole, e nelle università;
    parecchi Concili le citarono, e le confermarono autentiche; per
    esse venne mirabile incremento all'autorità dei Papi nelle cose
    ecclesiastiche, _civili e politiche_. Il dotto padre benedettino
    Coustan intorno alle medesime così ragiona: che Isidoro in
    grazia di cotesta _frode_ abbia bene meritato della Chiesa io non
    dirò; quindi ne furono rilassati, e sciolti quasi i nervi della
    disciplina, scombussolati i diritti dei vescovi, la soverchia
    credulità dei cattolici messa in canzone, le leggi dei giudizi
    manomesse, ec.»

Il Papa, non più era Adriano, bensì Leone, ma non fa caso;
mutansi Papi come cavalli di posta, il carro prosegue il suo viaggio.
Contro lui si levano i nipoti di Adriano chiamandolo a morte; per
ventura, malconcio e rotto della persona, ripara nel convento di santo
Erasmo; quinci cauto si parte, e va in Germania i suoi devoti
artatamente spargono il grido che privo dai nemici di occhi e di
lingua per divina intercessione gli aveva ricuperati. Leone e
Carlomagno conferirono insieme a Paderborn, e stabilito quanto era da
farsi tornano di conserva in Italia: da prima il re convocati i Romani
intima loro ad esporre le accuse contro Lione, e giudicarlo; di faccia
ai ferri parati a tagliare la gola a cui si attenta dire, gli
accusatori tacciono, i giudici dichiarano non potere giudicare chi Dio
pose giudice a tutti; ma Leone con gran voce esclamò: aborrire ogni
privilegio volersi purgare, l'avria fatto il dì veniente; alla
dimane salito in bigoncia stese la mano su gli evangeli e si
affermò innocente delle colpe appostegli dai Romani. Tanto
bastò, e pel:

                      _rotto della cuffia
    E' se ne uscì più chiaro della stella_.

I preti intonarono le litanie, laudando Dio, la Vergine, e i Santi.

Venuto il giorno di natale il re dopo avere udito messa si conduce a
piè dello altare per farci orazione (non si sa chi lo impediva di
pregare Dio dal suo posto); mentre sta per rialzarsi il Papa gli pone
sul capo la corona gemmata, e sopra le spalle il manto di porpora
dando la intonatura al popolo che con triplice grido esclamò: «A
Carlo Augusto coronato dalla mano di Dio, grande, e pacifico
imperatore dei Romani vita, e vittoria.»

Dopo gli urli il Papa gli si _buttò in ginocchioni davanti_ _e lo
adorò riconoscendolo per suo sovrano_[1], poi lo unse, insieme al
suo figliuolo: Carlomagno offerse subito a san Pietro due tavole di
argento, e calici, e patene con altri arnesi di religione, che valsero
un tesoro; e per istare in pace con tutti di preziosi doni presentava
altresì san Paolo, san Giovanni Laterano, e santa Maria maggiore.
Eginardo nella vita di Carlomagno racconta, ch'ei fu colto alla
sprovvista; della sua incoronazione sapeva nulla; se avesse potuto
addarsene saria rimasto piuttosto senza messa; nè sonano diverse le
altre vite di Carlomagno, chè gli uomini quantunque storici, anzi
soprattutto gli storici appaiono pecore per andare uno dietro l'altro
senza nè sapere, nè curarsi sapere lo perchè. Carlomagno
grandissimo tra i potentati del suo tempo non sembra che avesse a
contentarsi di dignità inferiore ad altro principe; questo sempre
molestamente avrebbe patito, ma poichè buona parte di terra aveva
acquistato a danno dello emulo nè anco era prudenza non mutare
sembianza all'autorità; il Papa eziandio trovava vantaggio nel
baratto, chè di vassallo diventava quasi pari, e il tempo, e la
occasione gli avrieno fornito il destro di levare il quasi: cose
ventilate o ferme erano quelle fino da Paderborn; e di vero non si
comprende come a Roma, stanziandoci Carlomagno, si fosse potuto
mandare a partito il senatoconsulto per eleggere costui imperatore di
occidente tra clero, senatori, e popolo romano senza che egli ne
pigliasse fumo[2]; e se impreparato era come presentò subito san
Pietro e gli altri con doni solenni premio di eccelso favore, molto
più che altri afferma la mercede due cotanti più ricca e parla
di 500 lib. di oro donate a san Pietro, una corona di 50 lib. di oro
tempestata di gemme la quale mercè di catena parimente di oro
appese davanti l'altare del medesimo santo, calici di oro di lib. 22;
dello argento non si parla nè manco. Il Papa si genuflesse una
volta onde altri gli s'inginocchiasse sempre; vendicò la
umiliazione di essersi prostrato ai piedi altrui col costringere gli
altri a baciare i suoi. Su questo fatto più tardi aggiungeremo
parole; intanto mira sotto il piviale del Papa coprirsi la usurpazione
di uno zio delle sostanze degli orfani nipoti, e la ribellione di un
prete contro il suo legittimo principe. La Chiesa esaltò fino al
cielo Carlomagno, anco lui ebbe nome di _vescovo dei vescovi_; morto
lo scrisse sopra l'albo dei santi; vagliamolo, e miriamo un po' che
rimanga di lui dinanzi la storia; egli persecutore del suo sangue,
ladro, forse assassino dei proprii nipoti[3]: sotto pretesto
d'infermità rimanda a vituperio Ermengarda; e ch'ei fosse mendace
lo manifesta Adelardo suo cugino germano, il quale sdegnato del
ripudio della innocente Ermengarda, e mal patendo vedersi dinanzi agli
occhi un'adultero imperiale si ridusse frate nel monastero delle
Gorbie[4]: rotto alle libidini così, che non pago di quattro mogli
traeva seco anco quattro concubine: che più? Lo dico, o lo taccio?
Lo dirò perchè vie più la gente apprenda che pelo abbia
vestito sempre il prete di Roma; correva fama nella sua propria corte
ch'egli con incestuosi concubiti si mescolasse con le proprie
figliuole; che da lui si dilungassero non pativa, qualunque partito di
nozze respingeva, e perchè non le pigliasse il tedio con infame
connivenza tollerava che di ogni sozzura si contaminassero. Tanto
narra Eginardo nella vita di Carlomagno quantunque segretario di
lui[5].

  [1]  Fleury. Storia Ecclesias. I. 45 P. 21.

  [2]  Vita di Carlomagno di Petruccio Ubuldino p. 66. Giovanni Diacono
    nel libro _Delle vite dei vescovi napoletani_ afferma espresso
    come cotesto fatto era stato da un'anno prima stabilito tra Leone
    e Carlomagno.

  [3]  Altri ci leva il _forse_, e afferma Carlomagno avere fatto
    ammazzare in un giorno i figli di Carlomanno suo fratello, i
    principi Merovingi d'Aquitania, e 4500 Sassoni. _Gibbon_ Storia
    della Decadenza c. 49.

  [4]  Fleury, St. cit. I. 45. P. 50.

  [5]  «nunquam iter sine illis faceret--quæ cum pulcherrimæ
    essent e ab eo plurimum diligerentur mirum dictu quod nullam earum
    cuiquam aut suorum, aut exterorum nuptum dare voluit, sed omnes
    secum usque ad obitum senem in domo sua retinuit dicens: se earum
    contubernio carere non posse. Ac, propter hoc, alias felix
    adversae fortunæ malignitatem espertus est» Eghinar. in vita
    Kar. m. Corre fama che questo Eginardo sposasse Emma figliuola di
    Carlomagno e ne vanno attorno drammi e romanzi; a ragione non ci
    crede il Gibbon perchè «_un marito avrebbe avuto animo
    troppo coraggioso a compire così esattamente i doveri di
    storico!_»

Papa Leone si prostra dinanzi a Carlomagno e parve vile; più tardi
il Papa ordinò la gente gli baciasse genuflesso il piede, e fu
superbia satanica: afferma il Baronio cotesta essere costumanza antica
nella Chiesa fino dall'anno 204 dopo G. C., e non è vero niente; se
Maria Maddalena unse i piedi a Cristo, e lo adorò, essendo stata
costei di professione meretrice non poteva mai umiliarsi troppo; ed
anco per lei l'atto fu giudicato soverchio, nè tale che da Gesù
dovesse patirsi, e non lo tacquero; il Papa ne prese l'uso dalle
cerimonie, che i Romani inschiaviti adoperavano verso gl'imperatori;
di vero Plinio nel Panegirico ricorda come fosse lodato Traiano
perchè baciasse amorevole i senatori, mentre i suoi predecessori
davano loro a baciare i piedi: forse temendo, che qualcheduno
reluttante negasse curvarsi al bacio, il Papa sovrappose la croce alla
scarpa; e così sempre la croce manto a coprire ogni reo intento; la
croce calce ad imbiancare senza posa il sepolcro.--

E più di questo merita nota il modo stabilito da Carlomagno per la
elezione del Papa, il quale veramente altro non fece che confermare
l'antico quando gl'imperatori greci dominavano Roma; il popolo e il
clero lo eleggessero, lo imperatore approvasse, e poi si consacrasse;
ma così ustolava il Papa per la voglia di stendere le mani, che
Stefano IV succeduto a Leone senza attendere la conferma dello
imperatore pigliò possesso della sua dignità; biasimato,
incolpava la impazienza del popolo; ma Pasquale che gli subentra
adopera nella medesima guisa, ed ammonito con la scusa medesima si
difende; ma tanto è, di lì aveva a passare; e quantunque Eugenio
II e Valentino Papi avessero ad ottenere prima della sagra
l'approvazione imperiale tuttavia nella formula del giuramento di
fedeltà, che in cotesta occasione pronunziava il popolo verso lo
imperatore posero di straforo la clausula: «salva la fedeltà
promessa al Signore Apostolico.» Di questa clausula messa lì
come un serpe assiderato si valse Papa Gregorio IV aizzando i
figliuoli di Ludovico il Pio contro il padre loro, in ispecie Lotario;
gli contaminò l'esercito, lo costrinse a fare pubblica penitenza,
confessando certa lista di peccati, dettata dal Papa, gli tolse il
nome e l'autorità e d'imperatore; da ciò Sergio II trasse
argomento di emanciparsi facendosi consacrare senza la conferma di
Lotario, il quale sovrano essendo, bene intendeva lo sovvenissero i
preti a ribellarsi al padre, non intendeva i preti si ribellassero a
lui: ond'ei mandò l'esercito a Roma col suo figliuolo Luigi per
mettere il Papa a partito; che su le prime voleva fare e dire, ma
trovato il terreno duro ebbe a scolparsi davanti al concilio, il quale
dopo lunga ambage ne confermava la ordinazione a patto, che egli, e il
popolo rinnovassero il giuramento di fedeltà a Lotario.

I discendenti di Carlomagno, come se eredi del peccato dei padri
dovessero portare il peso delle loro iniquità, si odiavano a morte,
l'uno contro l'altro combattendo si dilaniavano, il Papa in mezzo, ora
soffia di qua, ora di là e _mangia i frutti del mal di tutti_;
della debolezza altrui ingagliardendosi, mettendo il piè dove altri
lo ritraeva, intero, fermo, procedente come il destino inflessibile in
breve troviamo avere condotto tanto oltre l'edifizio della sua
prepotenza, che ormai più poco gli manca a mettere il tetto.
Niccolò I 15 anni dopo Sergio bandisce potere la Santa Sede
disporre a suo libito delle corone però che i principi non fossero
atti allo esercizio della loro potestà senza la sagra del Papa;
vietava al clero giurare vassallaggio nelle mani al principe; la
Chiesa romana si affermava giudice universale: 1. in materia di
scritti--2--in tutte le cause ecclesiastiche dell'universo in prima
istanza ed in appello--3--su le leggi civili da approvarsi in quanto
si accordavano co' canoni, se no da respingersi--4--intorno alla
condotta dei principi a fine di laudare gl'incolpevoli, e deporre i
rei. E' fu in grazia di siffatta potestà venutagli proprio da
sè, che intimava il re Lotario ripigliasse a sua legittima sposa
Teutberga, e ripudiasse Valdrada non moglie ma adultera; rispondeva
Lotario avere licenziato Teutberga avendone ottenuta licenza da due
concili di Aquisgrana, e di Metz, i quali non solo ne avevano
conosciuto, ed approvato le cause, ma la stessa Teutberga, più
volte liberissima, e scongiurata di palesare il vero lo confessava; e
le cause erano gravissime; prima di tutte avere ella commesso incesto
con Uberto suo fratello chierico di perduti costumi: anzi ella
medesima mandava lettere al Papa con le quali protestava sentirsi
sazia del mondo, volere ridursi a vita di continenza; le nuove nozze
del re con Valdrada di suo pieno consenso; perchè le sturberebbe
ella per lunga prova infeconda? _avere fatto disegno di recarsi a Roma
per aprire al Papa i suoi segreti affanni_. Questa ultima profferta e'
sembra che avesse dovuto accettarsi come il miglior partito per
iscoprire il vero; ma non fu così; Niccolò riscrisse: la sua
testimonianza non valere niente; non permetterle il viaggio di Roma;
il suo posto allato al marito; la sua sterilità non dipendere da
lei, bensì dal marito (il Papa, non potendo egli trovarsi sotto il
letto degli sposi, lo avrà ricavato dallo Spirito Santo). Ad ogni
modo se desidera vivere in continenza non le si nega; basta, che
Lotario prometta osservarla egli stesso cominciando dal rimandare
Valdrada. I concili di Aquisgrana e di Metz come conciliaboli
dannò, dei vescovi, che ci avevano preso parte, alcuni ritolse in
grazia, altri punì. Morto Niccolò e subentratogli Adriano,
Lotario gli si volse umilmente supplicandolo essere accolto nella
comunione dei fedeli, gli concedesse l'andata a Roma: ottenuta
licenza, andò: veruno gli si si fece incontro, e fu costretto
(questo ricordano gli storici chiesastici con esultanza) a ripararsi
dentro certo albergo assegnatogli fuori delle mura, vicino alla Chiesa
di San Pietro, il quale non _era stato manco spazzato_: negarongli la
messa; solo dopo alquanti dì il Papa lo ammise dentro Roma, e
dicono, gli amministrasse la eucarestia unicamente dopo che gli ebbe
fatto giurare, che aveva osservato il comandamento del Papa Niccolò
di astenersi da ogni commercio con la concubina Valdrada, ed essere
risoluto di ora in avanti di rompere qualunque vincolo con lei; dicono
altresì che Lotorio giurasse; e se questo accadde merita biasimo
meno lui che lo pronunziò, che quello il quale lo costrinse a
prestarlo.--Nè verosimile era per altra parte, che Lotario si fosse
astenuto da conversare con Valdrada; le cose vietate tanto più
appetite; e tranne il divieto del Papa lontano chi valente a impedire
il re? Gli stessi vescovi del suo regno affermavano il divieto papale
tirannide; la prima moglie non dissentiva le seconde nozze a Lotario.
Ora quello intimargli alla sprovvista in pubblico così strano
giuramento sotto la impressione della paura di trovarsi respinto di
chiesa o non è vero, o fu estorto per potere infierire sopra la
memoria del re, che morto indi a breve in Piacenza di febbre maligna
Adriano bandì ciò essere avvenuto per castigo di Dio dello
spergiuro commesso poco anzi da Lotario prima di ricevere l'ostia
consagrata.

Lo scisma della Chiesa di Oriente prese inizio nel pontificato di
Niccolò, in quello di Adriano crebbe, nè mai più le Chiese in
modo durevole accordaronsi, nè possono: cause apparenti, e fino ad
un certo punto vere, la cocciutaggine greca a non consentire la
procedenza dello Spirito Santo dal padre, e dal figliuolo; le nozze
legittime vietate dal Papa ai preti; la disputa se Dio il pane azzimo
o piuttosto il lievitato aborrisse; il digiuno settimanale; il sangue
degli animali per cibo agli uomini reietto o no; i latticini permessi
o vietati la prima settimana di quaresima; l'anello, la barba; il
battesimo amministrato mercè la effusione dell'acqua, o per via
d'immersione, ed altre cosiffatte cianciafere, arzigogoli, e
ciammengole; e così affermo; perchè eccetto il celibato, ch'è
cosa seria, delle rimanenti parrebbe avesse dovuto reputarsi dal Papa
faccenda suprema quella dello spirito santo, e non ne fu niente,
imperciocchè la disputa non si accese mica subito tra i Greci e i
Latini, bensì tra Greci e Franchi. Leone III lasciava, e persuadeva
Carlomagno a lasciar correre; ma Carlo qui si palesava prete, Leone
uomo di stato: troppo più della procedenza dello spirito santo
premeva a lui che i Bulgari si dichiarassero soggetti alla romana, e
non alla greca giurisdizione; proprio per non guastarsi per causa di
lana caprina Leone concesse che al Credo aggiungessero il _filioque_;
ma questo si ponga in sodo che non prima del 1274 il concilio di Lione
ordinò che il _filioque_ ci aveva a stare come articolo di fede; e
chi negasse: allo inferno; e così sia, ma tu pensa, che per 1274
anni i Cristiani andarono in luogo di salute senza credere che lo
spirito santo procedesse anco dal figliuolo, ovvero traboccarono a
casa del diavolo per colpa dei Papi che avevano a parlare chiaro, e
invece gingillarono quasimente 13 secoli senza sapere che pesci
pigliare.

Causa vera dello scisma l'odio antico dei due popoli, impazienti entrambi
di servire, entrambi cupidi di dominare; l'uno superbo dell'antica, e
l'altro della nuova sede imperiale; ambedue guasti dalla vana scienza donde
la presunzione, e il sofisma. Da prima a Costantinopoli prevalse Ignazio
amico a Roma, poi Fozio infestissimo; da capo Ignazio galleggia con
esultanza infinita di Adriano II, il quale bandisce Ignazio santo e lo
imperatore Basilio scellerato omicida del suo benefattore, Michele III non
ascrisse all'albo dei Santi, ma ci mancò un'_ette_; e così durò
finchè egli visse; lui morto torna in fiore Fozio per tracollare senza
riaversi più una seconda volta: ma o corte, o popolo, o Ignazio, o Fozio
accordavansi tutti nel respingere il primato latino: i ministri del Papa
furono vilipesi e sostenuti in carcere; la Bulgaria congiunta alla Chiesa
di Bisanzio; di Spirito Santo non si parlò più; i Papi arrovellandosi
ingrossano i bargigli; alla stregua inviperiscono i Greci; di contumelie un
diluvio. Quando l'accetta dei Normanni si piantò diritto nel cuore della
Puglia, e Roma si accordò con loro ad ungerla coll'olio santo a patto di
fare a mezzo, il Patriarca Michele Cerulario greco ebbe a sgombrare da
cotesta contrada; ma in partendo ammoniva il gregge ad aborrire le romane
eresie; il Papa di rimbecco spedì fino a Costantinopoli i suoi legati
per iscomunicare il Cerulario, i quali di fatti andarono e deposero
l'anatema sopra l'altare di Santa Sofia; le formule si conoscono; oggi
mettono la gente di buono umore, allora facevano drizzare i capelli; dopo
coteste ingiurie atrocissime, talora, secondo la necessità stringeva,
Roma si accostava a Costantinopoli, o questa a quella, ma ognuno stava
fisso al chiodo, massime poi, che la temeraria improntitudine dei Papi
contro i Reali di Lamagna sbigottì i Reali di Costantinopoli.

Nè sotto questo Papa audacissimo la scomunica si tenne nel cerchio
delle cose spirituali; bensì proruppe fuori fino a scomunicare
Carlo il Calvo là dove si fosse attentato impadronirsi del regno
del suo nipote Lotario; ma gli si rivoltorno contra con maniere e
più con parole acerbe parecchi vescovi francesi, tra i quali
Incamaro arcivescovo di Reims lo riprese con questi sensi, che
voglionsi raccomandati alla meditazione di chi legge: «la conquista
dei regni della terra si opera in virtù di armi, e di vittorie non
già con le scomuniche dei vescovi e dei Papi; nè tu puoi essere
ad un punto _vescovo_ e _re_ e i predecessori tuoi hanno retto la
Chiesa non già lo stato.» Ed aggiungeva per ultimo: «il Papa
non ci darà mai ad intendere, che ce ne andremo allo inferno se
respingiamo il re ch'ei ci vorrebbe imporre sopra la terra.» Ma il
Papa vie più s'intorava, e ribellava il vescovo di Laon contro
Carlo suo zio, nè, secondo il costume, osservando regola o misura
il proprio figliuolo gli aizzava contro; a questo modo infranti i
vincoli che la natura e Dio posero tra gli uomini di un tratto il Papa
si volge blando allo scomunicato e si profferisce pronto a
riconoscerlo imperatore. Donde la causa della stupenda voltabilità?
Luigi II cadeva infermo di male di morte; niente più Adriano aveva
a sperare da lui; tutto a temere da Carlo: qui il panno mostrava la
corda; di Cristo non già, di Mammone vicario il Papa.

Il fine a cui mira questo epitome delle usurpazioni ecclesiastiche non
desidera la storia di Giovanni VIII, che per danaro incorona Carlo il
Calvo imperatore; non delle guerre tra Carlo e Carlomanno figliuolo di
Luigi il germanico; non delle violenze esercitate dal Papa a' danni
della stirpe di Carlomagno benefattore dei preti; e non delle troppo
più maligne insidie di lui; solo avverti come Giovanni, mentre
atterrito dalle armi di Carlomanno lascia a precipizio Roma per
ripararsi a Troyes, e colà raccolto un Concilio promuove la
dottrina del primato del Papa, e dei vescovi sopra tutti i principi
della terra, con supplicazioni raumilia Carlomanno, ed ottiene da lui
l'ufficio di vicario imperiale nella Lombardia. Passano parecchi Papi
senza infamia; unico vanto; viene Formoso scelleratissimo, il quale
oltre i Saraceni chiamò in Italia Arnolfo alemanno per contrapporlo
a Berengario; dopo morto, i suoi nemici ne cavano dallo avello il
cadavere, e spogliatolo dello ammanto pontificio, e mutilato delle
dita lo precipitano nel Tevere, donde lo estrae Gregorio IX, e lo
restituisce alla cristiana sepoltura. Stefano VI, che menò strazio
sì disonesto di Formoso è strangolato, poi a sua posta torna in
onore, mercè Sergio III.

Corriamo in fretta, ed in punta di piedi su questo moticcio di fimo, e
di sangue, che si chiama papato; invano l'ornarono, anzi l'oppressero
di titoli santi, e di cerimonie splendidamente religiose; egli è
uno spargere acqua nanfa nella stanza mortuaria. Due meretrici danno,
e tolgono il pontificato ai loro bertoni, e talora col pontificato gli
tolgono la vita.

Benedetto IV regna pochi mesi; pochi giorni Leone V, cacciato da
Cristoforo, il quale a volta sua, dopo sette mesi, si trova sbandito;
e non è il peggio. Marozia consacra papa Sergio III, e Teodora
Giovanni X; ma la Marozia soffoca co' guanciali Giovanni bagascione
della madre Teodora: e dopo Leone VI e Stefano VII ovvero VIII di
così brutte ferite cincischiato dai Romani, che egli per colpa
della sua deformità non si attentava di comparire in pubblico.
Marozia con le sue benedette mani accomoda sopra la cattedra di san
Pietro il proprio figliuolo Giovanni avuto da lei adulterando con papa
Sergio III: e fu infelice consiglio per ambedue, imperciocchè
Alberico figlio legittimo di Marozia, lei e il turpe fratello
imprigionati, quantunque non papa regge da principe Roma. Nè questo
Alberico si contenta disfare Papi, ma presume farli altresì; di
vero suo figlio Ottaviano, che primo mutò nome, fu eletto papa e si
chiamò Giovanni XII; di lui sappiamo questo, che fino di Sassonia
aizzò contro Berengario re d'Italia lo imperatore Ottone; questi
però, nonostante la grazia in cui teneva Giovanni commosso dalle
molteplici e tutte infami accuse, raduna una sinodo a Roma e lo cita a
comparirvi per dire sue discolpe; ma costui fugge in Anagni, e
s'inselva _a guisa di fiera_[1]. La Sinodo lo depose: moltissime le
accuse fra le quali precipue, avere ordinato un diacono nella stalla,
ed un vescovo di dieci anni, come pure celebrato la messa senza
comunicarsi; vivere in concubinato con tre donne, una delle quali
già concubina del padre suo; tolto gli occhi a Benedetto compare, i
genitali a Giovanni Cardinale; darsi a cacce come selvaggio; comparire
di tutt'arme armato al pari di masnadiero; sprofondarsi in
commessazioni in compagnia di male femmine; bestemmiare peggio di
un'eretico: il matutino omettere, le ore canoniche non recitare!... E
così durò, finchè Ottone rimase, voltato, ch'ebbe le spalle;
Giovanni rientra in Roma; una sinodo, aveva deposto lui, un'altra
sinodo depone Leone, che fugge senza voltarsi indietro per riparare
presso Ottone; quivi muore, e gli va dietro Giovanni Papa, morto come
si disse di una solenne batosta sul capo datagli dal demonio; ma come
fu vero da un marito, il quale coltolo nel letto con la propria moglie
gli spaccò il cranio.

  [1]  Platina Vita di Giovanni XII; «senz'aspettare il giudizio
    fuggì su quel di Anagni, ed a _guisa di fera_ si stette un
    tempo per coteste selve nascoso.»

Benedetto V eletto senza licenza di Ottone si confessa in fallo, e
risegnato l'ufficio fugge via; col favore di Ottone torna Giovanni
XIII ferocissimo, il quale per vendicarsi del bando a cui lo avevano
condannato i Romani decapita il prefetto, e dodici tribuni, con atroci
strazi lacera parecchi maggiorenti fra i cittadini; lui cessato
ritorna in ballo Benedetto per farsi strozzare da Bonifazio VII, il
quale all'omicidio aggiungendo il furto spoglia le chiese di Roma, e
va in Costantinopoli, donde partitosi in breve mette le mani addosso a
Giovanni XIV assunto al pontificato nella lontananza di lui, e lo fa
morire di fame.

Ora i Romani, vinta la pazienza, condotti da Crescenzio, si ordinano a
repubblica; lui eleggono console; Gregorio V rimena in Italia Ottone
tedesco, e disfatta la repubblica, tronca il capo a Crescenzio; contra
la religione del patto di morte atroce fa morire Giovanni, assunto
papa mentre egli stava lontano a macchinare col tedesco Ottone la
servitù della Patria.

Siamo giunti al decimo secolo, e vedemmo fin quì come i diritti
della Chiesa altro non sieno se non delitti; e tuttavia qui pongono i
preti la sorgente del carico divino di reggere il mondo, ed imperare
su Roma, per cui cedere un'iota, o comporsi in pace con la cessione
della minima tra le prerogative loro non possono: bene reputano i
preti i nostri uomini di stato ignoranti, nè veramente hanno torto
(almeno ai dì nostri); in antico era diverso, però Napoli, in
Toscana, e a Parma, in Torino no, dove per piacere al prete di Roma si
dannava a morire in carcere Pietro Giannone proditoriamente arrestato,
e iniquamente tenuto. Pronunziando Baronio cardinale alla santa sede
devotissimo la sentenza di questi primi dieci secoli dichiara così:
«avrebbero meritato il diluvio di fuoco di Sodoma;» e poc'oltre,
come chi da necessità costretto confessa a malincuore, soggiunge:
«mostri i Papi, o piuttosto falsi Papi, di cui i nomi rammentasi
per non lasciare lacuna nella sequela dei Pontefici, però non si
creda mica, che la Chiesa restasse senza capo; mai no; Gesù Cristo
stesso la regolava[1]» Così il dabbene cardinale parlando a
questo modo si dà della zappa su i piedi; imperciocchè verrebbe
a persuaderci due cose; la prima, che quando Cristo prende da sè le
briglie in mano non vanno meno peggio le faccende dei preti, ch'è
quanto dire non potersi in guisa alcuna governare la Chiesa; e l'altra
superflui, anzi dannosi alla Chiesa i sommi Pontefici, se pure è
vero che Cristo governa quando escono Papi o scellerati, o ciuchi. Ma
ora chiariremo se la sentenza del Baronio accordi con la verità.

  [1]  Anno 908 e 912.

I costumi, e le arti della meretrice Marozia sembra, che assai si
confacessero alla Chiesa di Roma, però che la sua discendenza
cestisse ottimamente in mezzo a lei. Dalla sua famiglia nacque
Benedetto VIII, il quale non potendo in altro modo vincere il
fratello, e il figliuolo di Crescenzio, restauratori della repubblica
romana ricorse ad Arrigo di Baviera, barattando la incoronazione di e
costui a imperatore con la servitù della Patria; pessimo costui in
tutto così, che corse fama in quel tempo essere stato sempre vivo
dannato alle pene eterne dello inferno. San Piero Damiano nella vita
dello abate santo Odilone racconta, che dopo morto, fu vista la sua
anima da un santo vescovo cavalcare sopra un cavallo nero per luoghi
romiti, e domandandole questi perchè cagione così dopo morto
andasse sopra il cavallo nero cavalcando, quello rispose: il danaro
sparso per elemosina ai poveri non avergli approdato avendolo con
rapina raccolto; ne troverebbe il santo vescovo altro in certo luogo
nascoso, lo pigliasse, e lo donasse per amore di Dio, e questo gli
avrebbe fatto gran bene però che da buona fonte venisse.--Anco i
santi non isgabellavano papa Benedetto VIII; nè di lui migliore il
fratello Giovanni XIX, che gli successe comprata a bei contanti la
Vicaria di Cristo, e questo attestano non che altri gli stessi
scrittori chiesastici: egli incoronò imperatore Corrado il
_Salico_, e gli fu servo per dominare spietato; sempre con l'oro, e
per questa volta, anco con un po' di violenza: a Giovanni successe il
nipote Benedetto IV fanciullo di anni, e d'infamia provetto; cacciato
dai Romani, che eleggono in sua vece Silvestro III, egli rientra in
Roma per forza di arme, dove dimorato alquanto, trovando increscioso
il papato, anch'egli a sua posta per ridursi a vita quietamente
vituperevole vende vicariato di Cristo, doni dello spirito santo,
infallibilità, e ogni cosa per un sacco di ossa a Gregorio VI.
Dunque da ciò arguisci, che vissero eziandio Papi i quali non che
cedessero parte dei male acquistati beni venderono altresì il
sacerdozio; ed anco questo si confessa dagli storici cattolici, solo
si aggiunge, che in pena dello errore commesso, la giustizia eterna
dannasse l'anima di Benedetto a vagare sopra la terra in sembianza
mostruosa e piena di spavento; su di che mi stringo a dire come anco
questa la racconti san Piero Damiano; e i santi godono il privilegio
di misurare le melensaggini con lo stato. Dicono, che Gregorio non
sapesse fare nè manco un'o con la canna, e questo è poco male;
peggio questo altro, che anch'egli assai si dilettasse usare il
breviario del cardinale di Retz[1]: fatto sta, ch'ei si tolse un
coadiutore; perciò, oltre il coadiutore, Roma si godè ad un
tratto tre Papi, Benedetto IX, Silvestro III, e Gregorio VI; i Romani
potevano lamentarsi di manco di pecore, non già di pastori.

  [1]  Al cardinale di Retz trovandosi a Corte cascò di sotto il
    roccetto un _pugnale_; onde i Parigini lungamente chiamarono
    stiletto il _breviario del Cardinale di Retz_.

Dopo parecchi Papi giunge al pontificato Leone XI nel quale riarde il
concetto della primazia sopra tutti i petenti della terra; costui fu
tedesco, e mandato dallo imperatore Arrigo a reggere Roma; per
arruffare ei piglia il partito dei vescovi francesi convocati a Reims
contro il re Enrico; poco dopo si conduce a combattere contro i
Normanni; le profferte di questi respinge, ed ingaggiata battaglia
prova nemica la fortuna del giorno; di tumido fatto codardo piange, e
trema: ai Normanni par bello, forse anco utile, possedere consacrata
dal vicario di Cristo la terra rapita a taglio di spada.

Qui facciamo sosta ai racconti ed ai fatti esposti ingegniamoci cavare
alcuna considerazione profittevole al nostro assunto; e innanzi tratto
raccomando al lettore tenersi sempre a mente come per me si ricerchino
gli annali ecclesiastici pel fine di chiarire quale abbia davvero il
Papa diritto sopra le terre che accora con la mala signoria, e se
cotesto suo _non possumus_ concedere che i popoli rimangano consolati
da meno reo governo sia tanto bugiardo quanto stupido. Non si nega,
che principi barbari ricorressero a Roma meno per decidere piati, che
per santificare delitti; e questo i Papi fecero sempre purchè il
colpevole fosse il più forte, e nel pagamento della consacrazione
del misfatto non istesse su lo spiluzzico. La primazia usurparono i
Papi con fraude, e con menzogna non già con luce d'intelletto, Roma
antica vinse col ferro proprio, Roma papale col ferro altrui, e
l'aspersorio di proprio: che scienza ebbe Roma? Certo superiore a
molti barbari, ma non a tutti; e poi ella usò la scienza per
rabbaruffare la gente in un pruneto di errore. Nulla in lei viene dal
cielo, e nulla dalla potestà terrena, quando mai questa ultima
valesse a vendere, o a donare popoli come greggi, la quale cosa
risolutamente si nega. Circa a fede, il Papa, in questo successore
genuino di San Pietro, ne dubitò, rinnegò Cristo, e non
confidando più nella virtù della dottrina (noi lo mostrammo) si
appoggiò alle daghe di Costantino, nè a lui solo ma bensì ad
altri come Teodosio il grande, e Valentiniano III, entrambi i quali
misero il catechismo nelle mani ai littori, e reputarono la carcere
più efficace a convertire del pulpito[1]. Non contenti di tanto i
Papi (anco questo abbiamo detto) fecero condannare a morte chiunque
non credesse come loro. Dice bene il de Maistre, che il Papato nei
secoli di mezzo tramandò luce; però tacque ch'ella fu luce di
fascine. Da Costantino è menzogna che il papa avesse doni; nè si
prova gli avesse da Pipino, e da Carlomagno; almeno documenti scritti,
e conosciuti autentici s'ignorano: ad ogni modo non gli conferirono
assoluto dominio; di fatti Carlomagno ed i suoi successori vediamo
esercitare nelle provincie pretese donate al Papa sovrana autorità,
come crearci giudici, ed annullare confische decretate dal Papa. La
Chiesa di Roma prima lusinga i greci imperatori, poi li tradisce, e
sè avvantaggia; sta un pezzo co' Longobardi, e quando li teme,
dentro li scalza con la ribellione, di fuori spinge loro addosso i
carlovingi; balenando questi, si volta ai tedeschi Corrado, ed Enrico.
E se i Papi poterono mostrarsi riottosi contro i degeneri re dei
Franchi fino a deporre i vescovi eletti da questi, ed altri eleggerne
a modo loro, e se di fronte agl'inviliti carlovingi farsi dichiarare
dal Concilio di Reims sovrani assoluti della Chiesa universale deve
attribuirsi a questo, che l'imperatore Enrico tenendosi sotto come
vassallo il Papa riputava tornasse in pro suo il credito che egli si
andava, come suo vassallo, acquistando; e veramente per un tempo fu
così. Nelle costituzioni imperiali[2] occorre un'atto in virtù
del quale il diritto di Carlomagno a eleggersi un successore, e a
nominare i Papi di Roma si trasferisce insieme agli altri, in Ottone,
e negl'imperatori tedeschi; tale documento per giudizio universale si
reputa apocrifo; e sembra, che gl'imperatori abbiano voluto
contrastare ai Papi il privilegio di fabbricare carte false; ma se
apocrifo hassi a tenere cotesto atto, certo è poi (e fu accennato
poco anzi da me) che Enrico nella sinodo di Sutri depose tre Papi e
promosse al pontificato il vescovo di Bamberga; certo del pari è,
che lo imperatore pregato o no designava il Papa, e certo altresì
che quattro Papi tedeschi uno dopo l'altro per suo comandamento furono
esaltati alla sede apostolica, senza pregiudizio della parte, che come
di ragione, deve averci preso lo spirito santo. Clemente II di
Bamberga, Meone IX dei conti di Daipurg, Damaso II e Vittore II
bavarese. Grande l'autorità degl'imperatori però che essi
eleggessero a tutti gli uffici ecclesiastici: ed era costume dei
capitoli, cessato il superiore, rimandare l'anello e il pastorale al
principe, che li consegnava in simbolo della autorità ecclesiastica
al nuovo scelto; sovente lo imperatore come colui che poteva, o
credeva potersi fidare in uomini a lui devoti, gli armava di
autorità temporale che unita alla spirituale forniva maraviglioso
fondamento alla propria potenza. I Papi ci si accomodavano e, come
suol dirsi, bevevano grosso, perchè co' Tedeschi andava un nugolo
di monaci e di frati che nei paesi conquistati rizzavano su fondaco di
religione dando in baratto di poco bene terreno fattorie e poderi a
bizzeffe nei regni sterminati del paradiso: vescovi e abati
acquistavano titolo, e dritti di conte ed anco di duca; non più si
dichiarava i beni ecclesiastici formare parte delle contee, ma sì
all'opposto le contee parte dei vescovati; nella Italia settentrionale
le città quasi tutte governate dai visconti dei Vescovi.--Ora
questo stato di cose non poteva durare, chè non si vide mai
mantenersi vassallo chi, volendo, può diventare signore, e la spada
messa in sua mano perchè ti difenda presto o tardi egli
adopererà per soverchiarti; così mostra la esperienza a
tutt'oggi; se fie per mutare domani staremo a vedere.

  [1]  Cod. _Teod_. XVI. 1. 2 «_Vogliamo_ che tutti i popoli retti
    dalla nostra clemenza osservino la religione, che il divino
    apostolo San Pietro insegnò ai Romani.»

  [2]  _Goldat_. 1. _p_. 221.

Sotto Leone riarse (e non poteva fare a meno avendo al fianco consigliere
il monaco Idelbrando da lui promosso al cardinalato) lo scisma di oriente;
molte le cause, tra cui comparisce massima quella di comunicare col pane
lievitato, ma in fondo tutte erano velo alla cupidità del Papa e del
Patriarca di soperchiare l'uno l'altro; però secondo possiamo conoscere
sembra, che il Patriarca Michele Cerulario si contentasse essere lasciato
messere e donno in casa sua; ma Papa Leone non glielo consentiva; nè a
torto però che i suoi predecessori avessero fatto tanto tramestio per
conseguire il primato, che ormai gli pareva non gli potesse essere più
contradetto; si reputava dentro una botte di ferro, e su l'orizzonte
papalino incominciava a spuntare il non _possumus_ famoso. Certo la
tristezza congiunta alla ignoranza avevano spinto il Papa a costituirsi
arbitro supremo di tutto il mondo; ma noi pensiamo: se il Vicario di Cristo
avesse atteso meglio ai precetti di Cristo non si sarebbe lasciato traviare
nei passi della iniquità; non avrebbe sparso il crisma sul sangue;
avrebbe accolto sotto il manto l'orfano e il pupillo, e non dato mano a
spogliarli e forse a trucidarli; molto meno avrebbe dallo inchino
interessato del ladro desunto argomento per costituirsi giudice del genere
umano; e sì che i santi Agostino, e Bernardo, e Ivone camotense
gravemente avevano ammonito la Curia per queste sue improntitudini; anzi tu
nota che a favellare più forte li riteneva la fede, che le Decretali
fossero genuine sostenute come apparivano dall'autorità, quantunque
falsamente invocata, di nove Papi, Anacleto, i due Sisti I e II, Fabiano,
Cornelio, Vittore, Zeffirino, Marcello e Giulio; che mai avrebbero detto se
le avessero sapute false? La libertà di appellare sempre, e ogni punto
della causa al Papa troncava i nervi alla disciplina; gente perduta, preti
di malo affare si procuravano a quel modo la impunità; il Papa
agguindolato, e indotto in errore; chiarito poi, o si ostinava nella
sentenza ed era iniquo, o la emendava, e allora per lo spesso correggersi
perdeva il credito; chi doveva pagare le debite pene costantissimo nelle
difese; chi sostenere le accuse cagliava e dalle molestie infinite annoiato
lasciava correre con danno inestimabile non pure della religione, ma della
comunanza civile altresì. Intanto il Concistoro dei Cardinali mutato in
tribunale tutto dì intento a giudicare cause; il Papa preside, la curia
piena di avvocati, di procuratori, e di litiganti rissosi, interessati, e
mascagni: non casa quella del Vicario di Cristo, bensì della Discordia.
I Legati di Leone non si potendo accordare col Patriarca Cerulario
penetrati nella chiesa di Santa Sofia nella ora terza del 16 luglio 1054,
mentre celebravasi la messa, depositarono l'atto di scomunica sopra
l'altare maggiore; il Cerulario a volta sua scomunicò il Papa ed i
Legati, e così di male in peggio le faccende di oriente: da una parte e
dall'altra odio di prete, che non perdona mai. Levati di mezzo Papi, e
papassi forse avverrà che un giorno i popoli si riuniscano: in Dio.

In verità io credo, che Gregorio VII, santo dalla parte della
Chiesa, ed eroe da parte di parecchi scrittori, altro non fosse che un
frate impronto, ed ignorantemente temerario: ingegno scolastico, e
pedantesco, avremmo a lodarlo di costanza dove la esperienza non
c'insegnasse come sorella della costanza sia la cocciutaggine dote
delle femmine, e dei fanciulli; costui pigliando i partiti, che per
tempo sì lungo sconvolsero la cristianità se ne previde gli
effetti perverso fu ad un punto, e stolto; se non li presagì fu
solo stolto. Per altra parte poi male si apporrebbe chi reputasse
inusitati o nuovi i concetti di Gregorio, imperciocchè noi li
vediamo attecchire e germinare nella Chiesa prima di lui; egli più
degli altri stese le mani perchè i tempi lo secondavano meglio, e
di natura fu avventato. Questo il complesso della sua dottrina
ricavato dal Concilio lateranense del 1074, dalle epistole, e dalla
raccolta, che ha nome: _i dettati del Papa_: chi gli successe la tenne
per regola, la ragione non giunse mai a deviarne i preti; qualche
volta la forza, ma per breve tempo, che più insistenti delle
formiche essi tornarono quasi subito nel consueto cammino.

La Chiesa, sentenzia Gregorio, ha dritto dominare su tutto perchè
giudicando ella delle materie spirituali, che sono le più perfette,
tanto più deve giudicare le temporali, le quali proviamo
imperfette. Lo stato regio non si parte per niente da Dio, all'opposto
lo creò con le sue proprie mani l'orgoglio: il cristiano devoto
alla religione cattolica deve reputarsi più re del re irreligioso,
però che il re scevro di religione che cosa è mai se non
tiranno? Così essendo sta al Papa distribuire corone, giudicare
principi, e questi, quanti sono, hanno a confessarsi vassalli di santa
Chiesa cattolica, e dopo giuratole fedeltà pagarle il tributo.

Non diverso a Gregorio aveva dichiarato Niccolò I due e più
secoli innanzi, e scrivendo al vescovo Advenzio il quale lo consultava
intorno alla obbedienza da prestarsi ai principi, lo ammoniva così:
«sicuro! lo Apostolo lo ha detto e non si nega: obbedisci al tuo re
come superiore, ma tra re e re ci corre; tu l'obbedirai se eletto
dirittamente, e se governa a modo, e a verso, perchè l'Apostolo ha
detto altresì: obbedite al re per cagione del Signore non già
contra Dio; e sappi al re tristo contrastare a merito[1].» Il quale
concetto rincalza il Concilio di Toledo col Canone: «il vocabolo
_re_ tira origine dal _retto_ governare, però se opera con
giustizia possiede diritto a reggere, se no, lo perde.» Allora
l'altro testo di san Paolo, che anco ieri allegava Pio IX perchè i
Polacchi allungassero il collo alle mannaie russe: «voglionsi
obbedire i principi comecchè _discoli_;» o non si conosceva, o
si dissimulava. La barca di san Pietro dal Testamento vecchio e nuovo
piglia le vele per navigare con ogni vento.--

  [1]  Tom: VIII. _Comil_. p. 487.

I dettati del Papa sonano così: «Non vi ha al mondo che un solo
nome, quello di Papa[1]: egli solo può valersi degli ornamenti
imperiali; a lui devono tutti i principi baciare i piedi; egli
unicamente possiede facoltà di nominare e deporre i vescovi,
presiedere, e sciogliere i Concili: veruno può giudicarlo: la
semplice elezione lo fa santo: egli non erra, non errò, e non
errerà mai: a lui spetta deporre i principi, e sciogliere i sudditi
dal giuramento di fedeltà ec.»

  [1]  _Papa_ cava la sua etimologia dalla sincope di Pater patris
    un dì comune a tutti i vescovi, da Gregorio preso per sè solo.

A rendere più terribile la scomunica, ed operativa di
sconvolgimento universale Gregorio ordinò, che in virtù di lei
lo scomunicato perdesse la proprietà dei beni, e dei servi,
l'autorità su i figliuoli.--Nel Papa solo il diritto di conferire
imperio, regni, ducati, marchesati, contee, insomma tutto quanto gli
uomini possono ricevere o dare. Chiunque accetterà dal re
vescovato, od abbazia, ovvero officio ecclesiastico sarà deposto,
ed ogni principe, che darà le investiture escluso dalla comunione
dei fedeli.--

Nè basta: Gregorio prescrisse, che il culto religioso non dovesse
essere compreso dal popolo però che _questi quanto meno intende, e
più adora_. Comecchè il divieto delle nozze dei preti si
partisse da Niccolò II, tuttavia cotesto Papa lo fece ad istanza
d'Ildebrando, il quale diventato pontefice non rifiniva da
perseguitare i preti ammogliati infamandoli eretici, aizzando loro
addosso il volgo, facendone calpestare le ostie consacrate come
esecrabili.--

La temerità sacerdotale ricevuta siffatta spinta ruzzola giù a
mostruose pretensioni offendendo nel suo rovinio uomini od instituti
dentro i quali viene a cozzare. Bonifazio VII in suono affettuoso
avverte Filippo il Bello:«tu hai da sapere, figlio mio, che ci sei
suddito nelle cose spirituali; nè a te appartenere la collazione
dei benefici, e delle prebende, e chi altramente crede casca
nell'eresia.» A scanso come sembra, di qualunque equivoco, questo
Papa curiale pubblicò l'_Editto perpetuo_ dove si leggono le
seguenti peregrine cose: gl'imperatori, i re e gli altri principi
tutti sono tenuti a comparire alla udienza nel palazzo apostolico come
gli altri uomini quando sieno regolarmente citati.--

Nella solennità del Giubbileo vestito di ammanto imperiale egli
comparve davanti i popoli accorsi con due spade nelle mani e bandì
all'universo: «un solo Cesare, un solo re dei Romani vivere al
mondo, e questi essere il sommo Pontefice.» Con Innocenzio III la
superbia diventa delirio, ed è ragione però che sentisse
fuggirgli di mano le passate enormezze, ond'ei si arrovellava quanto
meno era potente a ritenerle; per vaghezza leggi quello che il
giocondo uomo decretava nel _Capit. Solite_: tanta corre distanza tra
il Papa, e il re quanta tra il sole e la luna.--La glossa tirato il
conto di questa differenza sommando trova come il Papa superi il re 47
volte; ma un canonista perfidia il calcolo sbagliato, e rifacendolo a
modo suo dichiara l'autorità pontificia 7744 volte maggiore a
quella dello imperatore, e del re,--e lascia andare i rotti.--Jacopo
Leone, dal quale in parte ricavo questi fatti, consultati i 21 volume
della _Biblioteca massima pontificia_ ne stralcia questi assiomi da
disgradarne per la giustezza loro quelli di Euclide.

«1. il Papa una volta eletto, comecchè un minuto prima _fosse
ribaldo da galera_, è un vero Papa.

«2. il Papa stando a cavallo al diritto _non pecca mai_, nè
può offendere la legge; anzi ha potere di dispensare dal diritto
positivo.»

«3. il Papa non può abusare della sua potestà, e _sia
scandaloso_, o simoniaco _gli si ha ad obbedire_: i disobbedienti
atei, o per lo meno _eretici_.»

«4. al Papa devono obbedire tutti i re.»

«5. il Papa quanto a potestà scavalca i santi, e perfino gli
Angioli.»

«6. quello che fa il Papa, Dio fa.»

Le glosse ampliando affermano il Papa facultato a dispensare contro il
Vangelo, gli Apostoli, e il diritto naturale; il Rubeo addirittura
ogni più scapestrata enormezza compendia in questo aforismo: «il
Papa può tutte le cose fuori del diritto, sopra il diritto, e
contra il diritto.»--Ma non ci ha mestiero glosse quando un Papa,
Innocenzio III ti spiattella: «credere facilmente, che Dio permetta
al Papa di potere fare cose _contra la fede_[1].» E dev'essere
proprio così, poichè il Papa ne ha fatte tante senza che Dio se
ne risenta! Per ultimo Urbano II a certo vescovo che lo consultava
intorno alla penitenza da darsi all'uccisore di uno scomunicato
rispondeva: «noi in coscienza non estimiamo omicidi quelli che
ammazzano per zelo della madre chiesa cattolica[2].» Leggendo
questa dottrina anco noi abbiamo tenuto per fermo, che il signore
della Rovere Ministro della guerra deve avere appreso ai giorni nostri
_umanità_ alla scuola di Papa Urbano.

  [1]  _Serm. su la Consagr. p. 229_.

  [2]  _Can._ 47 cons. 23 8. 5.

Ogni uomo può immaginare agevolmente a che menassero di siffatta
ragione premesse; tuttavia ne riporterò qualcheduna. Salomone re di
Ungheria cacciato dal regno si raccomanda al suo cognato re Enrico di
Alemagna profferendosegli vassallo se lo rintegra nel regno; di ciò
inalberando Gregorio manda a Salomone: _il tuo regno è mio, chè
gli antichi re lo donavano a san Pietro_. Di più lo imperatore
Enrico il _nero_, dopo avere acquistato cotesto regno, offerse alla
tomba del principe degli Apostoli, una lancia, ed una corona, quindi
è chiaro ch'ei glielo volle donare: i regni devono mantenersi
liberi da ogni signoria straniera per assoggettarsi unicamente alla
Santa Sede. Un barone vocato Vezelino recando molestie al re di
Dalmazia, il Papa lo ammonisce, che cessi, però che cotesto re ci
sia posto per autorità della Santa Sede, e offendere lui sarebbe
come offendere lei: da parte di san Pietro deponga le armi, e se ha
ragioni vada a Roma e le faccia valere. A Demetrio tzar, o kan, o chi
altro si fosse dei Russi scrive questa lettera, la quale per essere
vera non ci appare meno inverosimile e strana: «tuo figlio venendo
a visitare il sepolcro degli Apostoli ha dichiarato volere ricevere il
regno dalle nostre mani come dono di san Pietro, e noi glielo abbiamo
conceduto.» Circa allo impero, tostochè per diventare imperatori
avevano con parole e co' fatti confessato necessaria la consacrazione
del Papa, egli era chiaro, che come ei li faceva così poteva
disfare, donde per conseguenza in lui il diritto di volerli e
l'obbligo negli imperatori di essergli vassalli. Quanto alla Sassonia,
l'universo sapeva Carlomagno averla donata alla Santa Sede: non
importa avvertire che eccetto il Papa veruno aveva udito far motto di
simile donazione. Ai Legati in Francia commetteva Gregorio facessero
pagare a capo di ogni anno almeno per ciascuno uomo un danaro a san
Pietro secondo l'antico costume se tanto è che lo venerino padre e
pastore: nè dovere ai Franchi sembrare grave il balzello però
che nei libri conservati nello Archivio di san Pietro si legga
qualmente lo imperatore Carlo raccolte ogni anno 1200 libbre di
argento da soli tre luoghi, Aquisgrana, Pui, e Santo Egidio le
offerisse alla Chiesa. Anco quì non occorre dire come nei
Capitolari, nelle storie, e nei documenti del tempo di simile
donazione non si trovi parola[1]. Quanto alla Inghilterra tirarono i
Romani Pontefici tanto la corda, che alfine si ruppe; imposero, e lo
ricordammo altrove, al vile Giovanni _senza terra_ la tenesse in feudo
dal Papa; e così fa, onde per modo ci si annidava il prete, che il
_danaro di San Pietro_ ai giorni di Enrico III si stimava _metà_
delle entrate del regno; di che non contentandosi il legato Martino,
Enrico lo cacciò via; dopo la cacciata del quale fatta cercare
più sottilmente dai ragionieri la cosa trovarono, che dibattuto il
danaro di san Pietro al re avanzava non bene dell'entrate intero il
_terzo_; gli altri due terzi avvantaggiati a Roma. La Spagna sua;
occuparla in parte i Saraceni, in parte i cristiani, ma per lui essere
tutt'una, e bene crivellata ogni cosa, egli amava meglio andasse in
mano ai Saraceni che stesse in mano ai cristiani contumaci della santa
madre Chiesa. Quest'altra più immane; Gregorio scrive ad Orzoco
giudice di Cagliari intimandolo a pagare il danaro di san Pietro con
gli arretrati, e lo facesse presto perchè gli stavano alle costole
Normanni, Toscani, e Lombardi, i quali gli profferivano larghissimi
partiti fino a lasciargli la metà della rendita contentandosi
dell'altra metà s'egli consentiva loro la conquista della isola:
non tardasse dunque a rispondergli se non voleva esporre l'isola al
saccheggio, e agli altri mali della invasione: per ultimo (mirabile a
udirsi!) commetteva al medesimo Orzoco ordinasse a Iacopo arcivescovo
e a tutto il clero a radersi la barba; dove negasse tutti i beni loro
confiscasse.

  [1]  Platina nella vita di Urbano II racconta, come Enrico vescovo di
    Soissons risegnasse il suo vescovato nelle mani del Papa perchè
    proposto vescovo dal re, di Francia, e giurò nelle sue mani non
    sarebbe mai intervenuto alla consacrazione di vescovi di nomina
    regia.

Ora ecco il Papato, che strisciando, e servilmente obbedendo
gl'imperatori romano-greci, i franco-carlovingi, ed i tedeschi aveva
acquistato come vassallo potenza! intende all'improviso passeggiare su
le teste di tutti. Industria somma, perseveranza inaudita, arti
moltiplici furono adoprate per venire a capo di questo, ma insipiente
ne fu il concetto: chiunque crea instituti per costringere lo spirito
umano edifica sopra l'arena, peggio chi lo respinge; a riuscire pel
momento giovarono al Papa la minorità di Enrico, e la ribellione
dei feudatari alemanni: quanti ribelli, tanti collegati al Pontefice:
di fatti i baroni molestati dalla soverchia potestà dello Impero si
affaticavano a diminuirla, onde parve bello, ed opportuno avere nella
impresa compagno il Papa; avendo a camminare lungo tratto di via
insieme non videro, o almeno non vollero vedere il punto dove si
sarieno divisi: per la strada, suol dirsi, si assestano i basti, e
questo talora proviamo vero, tale altro no: quì si sconciarono.
Importa notare come il Papa da prima tolse il diritto di conferire i
benefizi al popolo per darlo allo imperatore; adesso intende
spogliarne lo imperatore per dividerselo co' baroni; più tardi
manderà allo inferno i baroni se si atterranno a conservarlo.

La origine democratica del Papato, e la sapienza concessero facoltà
a Roma di farsi sovrana del mondo, come altra volta le valsero pel
medesimo fine la tenace aristocrazia, e la spada; ma la virtù
democratica adoperata per fondare la più molesta di ogni tirannide,
e la sapienza per abbuiare le menti nello errore perpetuo dovevano per
necessità ritorcersi contro di lui. Sorse la stampa e fu come il
sole che assorbe il lume della lucerna accesa a vegliare il morto; la
democrazia inasprita di avere tirato, senza addarsene, per tanto tempo
l'alzaia alla tirannide ruppe il freno, e prese a darle de' calci; i
medesimi partiti messi in opera per tenere su ritto lo immane edifizio
contribuirono, e non poteva fare a meno, ad atterrarlo, come quelli,
che violentissimi erano e stemperati; e' fu mestieri possedere milizie
fedeli, epperò i matrimoni proibiti, i monaci moltiplicati; ancora,
ci vollero danari, e di molti, così per regnare, come per sopperire
agli strani appetiti compagni inseparabili della sua potenza. La gente
si strascinava in paradiso ammanettata come reo al supplizio;
condannati erano i fedeli alla vita eterna come a' lavori forzati. Non
lo tento nè manco, e tentando non ne verrei a capo, di noverare le
industrie romane per raccogliere danaro; la più spedita era quella
di levare sangue addirittura dalla vena pigliando, come in
Inghilterra, di schianto i due terzi delle entrate; ciò non potendo
durare, alla lancetta surrogavano le mignatte; e allora espiscarono le
_riserve_, le _aspettative_, le _annate_, le _indulgenze_, le
_decime_, le _bolle_ per _fondazioni_, _conferme, dispense_ di genere
infinito, _per benefizi_, e simili. Tutto a Roma si vende, tutto; onde
Cristoforo Colombo, il quale fu piuttosto pinzocchero, che religioso,
ingenuamente lasciava scritto, che coll'oro si compra anco il
paradiso: dall'altro lato si ruzzolò giù fino alla mannaia ed al
fuoco.

Nell'anarchia del mondo in parte proveniente da cause estranee al
Papato, ed in parte promossa da lui, egli ordinato poderosamente
doveva restare padrone del campo: ancora, il Papato opponendo la croce
al corano, e al paganesimo contrastava la barbarie, i quali vinti, dai
popoli affrancati naturalmente come instituto divino si riveriva
quella potestà, che aveva loro dato di essere civili: quindi al
Pontefice cascavano quasi in mano scettri, che egli poi non bastava a
tenere, e fu visto concedere il regno in feudo al re d'Inghilterra, al
re di Sicilia, e via discorrendo, nè più nè meno di quello
costumasse Cesare coi re, che gli amici suoi gli raccomandavano.

E tuttavia i disegni di Gregorio continuati dai Papi, e non ismessi
nè anc'oggi, nascevano viziati da tale peccato di origine, che per
battesimo non si scancella: rompere catene per mettere in servitù,
eccitare alla rivolta per pretendere obbedienza assoluta, religione
antica unita a fraudolenza nuova, santità di costume e depravazione
non mai più vista in Roma nè anco ai tempi di Eliogabalo, la
tonaca del frate e lo ammanto del Papa: co' digiuni, con le astinenze,
e con le meditazioni solitarie apparecchiarsi alle ribalderie del
cortigiano, aprire le porte del cielo senza chiudere quelle dello
inferno; san Francesco che predica ai lupi, e appella le rondini
_sirocchie_ venuto al mondo ad un punto con san Domenico sintesi
beatificata di quanti carnefici vissero nel mondo; la pietà stessa
feroce, però che sovente giungessero a ridurre in tocchi qualche
povera creatura reputata santa solo pel sacro furore di possedere una
reliquia di quella. Considera la fede portentosa dei Campioni di
Cristo, i quali alla vista di Gerusalemme piegano la fronte nella
polvere, piangono dirotti, si picchiano il petto con percosse capaci
di sfondare una porta di città, e poi tale menare dispietata
strage, che il Cronista di quel gesto afferma, il sangue nel tempio
levarsi all'altezza del ginocchio degli spietati. Su questo argomento
tornerò più tardi: adesso della necessità che quello che
accadde doveva accadere con le altre conseguenze le quali speculando
si presagiscono, dacchè regola il mondo morale la medesima dinamica
del mondo fisico: colà a scoprirsi questa legge più difficile
che qua, ma le leggi ci sono.

Spirito, che sia parmi impossibile significare, ma neppure negherai
l'uomo risultato di materia e di spirito.--La materia diretta dallo
istinto e legata a quello serva sempre degli appetiti fisici, e come
serva costretta; lo interesse proprio le tiene corta la cavezza:
però negativa, ripiegata in sè stessa, agevole preda a cui
impera; molto su lei può l'agonia di possedere, molto altresì la
facoltà di acquistare, più che tutto il terrore; ma a mano a
mano che l'uomo leva in alto il capo perde la vista del campo
circoscritto della terra e spazia per le regioni sconfinate del cielo:
la parte divina agitandosegli dentro si sente frazione di Dio; aspira
ad una Patria, che non è la terrena; impaziente egli non posa mano,
agita le braccia per tentare se può servirsene a modo di ale; la
scienza gli scotta co' suoi carboni ardenti le labbra; ma dentro lui
fu accesa la vista intellettuale, che cresce, e comprende quanto la
materiale si appanna, e si restringe; della crisalide avanza la
spoglia spregiata quando la farfalla batte l'ale.--Ora la Chiesa
cattolica doveva mettersi sul confine dello infinito se pure
desiderava durare, e posto che qualche spirito temerario avesse voluto
allora spingersi oltre, dopo dolente errore in mezzo a regioni per
soverchia luce fatte tenebrose saria tornato a pigliare conforto, e a
cercare pace nel suo seno; imperciocchè noi usi a non vedere
fattura senza fattore troppo più ci affatichiamo a negare, che a
confessare Dio; ma come, dove esista, e le ragioni della sua esistenza
alla debolezza dello intelletto nostro non è dato comprendere. Ma
poichè la Chiesa cattolica ha posto il suo termine nel materiale, e
nel finito forza è, che da ogni lato l'onda dei tempi la soverchi;
poco importa, ch'ella perfidii a proseguire anco lo spirituale, chè
ormai lo interesse terreno le ha tolto il credito, ed ella non può
bastare all'anima: la rete mistica dello apostolo si è convertita
in una brava e vera rete da pescare pesci, e arrostirli; nel naufragio
del cattolicesimo la fede di Cristo, io per me giudico, che si
salverà: forse egli è appunto per questo, ch'egli le insegnava
di restare a galla.--

Lasciando i presagi, e tornando alle considerazioni dei tempi succedentisi,
ecco come lo stravincere nocque al Papa; per cui stava di mezzo, opprimendo
troppo lo impero, e' fu piuttosto necessità che scelta appoggiarsi sul
pontificato; ma quando conseguita potenza lo provarono due cotanti più
grave dello impero gli si voltarono contra: di fatti al berroviere in terra
egli aggiunse san Michele, tipo vero di giandarme in paradiso; di quà
fuoco di stipa, di là fuoco d'inferno; da un lato agguantava il pane del
corpo, dall'altro rapiva la salute dell'anima: ma soprattutto quanto a
quattrini senza pari il prete per farti la barba, e il contrappelo. Di
quì una maniera di altalena tra imperatore e Papa secondochè i
feudatari puntavano per una parte o per l'altra; ci era il popolo ma in
cotesti tempi veruno se ne giovava; di fatti troppo procedeva salvatico, e
feroce; egli non proseguiva un fine politico o sociale, ma sì come
belva, rotta la catena, sbranava; e tali apparvero in Inghilterra, ed in
Francia i rimescolamenti delle plebi. In Italia all'opposto il popolo
ordinatosi a municipio diventò accorto, sopra i feudatari sagace e
potente, anzi sperperò intorno a sè i feudatari, e li costrinse a
riparare in città; in questo modo i municipi si trovarono condotti ad
avversare naturalmente l'impero come quello, che dava vita ai feudatari, ed
il Papato trovando nei municipi una forza da valersene alla occasione ora
secondochè gli tornava li benedisse, o gli scomunicò; gli oppose allo
impero, o li tradì, e perse credito non acquistò forza: la quale fu
ridotta al verde dalla empia virtù degli scismi cui non valse più a
torre di mezzo la fede; la Chiesa imbelle e screditata ebbe a limosinare il
soccorso dell'autorità laica affinchè cessasse gli scismi ond'era
lacerata.--Durarono, e durano tuttavia alla Chiesa le reverenze esterne;
sempre verso lei si appunta il volgo delle femmine, e delle moltitudini,
che alla parte plastica delle religioni si affezionano; qualcuno persevera
a baciare il piede al Papa; il Papa continua a benedire: la barca va, ma
per impulso dell'ultima vogata, sicchè ogni istante il moto si fa più
languido; nè la volontà dell'uomo per quanto potente egli sia basta
ad impedire il fato; così se la voce di un monaco vale a rimescolare la
Europa contro l'Asia, tre secoli dopo, Pio II muore di dolore non potendo
stringere in lega i Principi Cristiani, contro i Turchi irrompenti ai danni
della umanità. Leone X renunzia a favore di Francesco I la facoltà di
eleggere vescovi e beneficiati superiori per conservare la quale Gregorio
aveva mandato tutto il mondo a catafascio. La opposizione non si
manifestò meno pertinace nella Germania; e colà anco più ardua a
domarsi perchè mossa da un nugolo di Principi;--si andò di concordato
in concordato; le nuove decime ributtaronsi: nel 1500 furono permesse le
prediche per le indulgenze, le vendite di queste, e le questue a patto, che
per due terzi andassero allo imperatore, e per un terzo al Papa; di vero,
se come Roma affermava, le dovevano servire alla guerra contro il Turco, lo
imperatore, che lo aveva in casa, sapeva meglio di ogni altro, e sopra ogni
altro lo premeva l'interesse di bene adoperare il danaro; così il prete
rimase preso alla tagliola rizzata con le proprie mani.--In Inghilterra
anco peggio; senza concordato il re propose i vescovi: invece di continuare
la contribuzione del danaro di San Pietro, Enrico VII portò via la
metà delle annate a Roma. Nel mezzogiorno il contrasto non meno
gagliardo che nel settentrione; colà oltre la nomina ai vescovati, il re
d'accordo coi frati, instituì la inquisizione, arnese politico larvato
di religione, il quale sovente si oppose a Roma, e ne perseguitò i
devoti, e tanto arrivò di prepotenza che giunse a minacciare Sisto V
quando volle pubblicata la versione italiana della Bibbia. Il Prescott
nella vita di Ferdinando e d'Isabella assai lungamente favella di simili
screzii; nè il Ranke ne tace nella sua storia del Papato. Così del
pari in Portogallo la Corona s'impadroniva dei beni degli ordini militari,
e religiosi: si ritenne il terzo delle _crociate_, e pose le mani sopra le
decime ecclesiastiche. Insomma da per tutto cede la Chiesa, pari all'onda
iemale la quale, per essersi spinta impetuosa troppo e proterva, rotta in
isprazzi adesso le tocca a stornare. Ormai la stagione del crescere si
conchiuse per sempre, tanto più quella di allagare unica padrona; adesso
entriamo nel periodo di conservazione: forse era tempo per lei di risorgere
con la fede; ella non volle, o non ci credè; più tardi la vedremo
tentare anco questa via, ma con tali argomenti da consumare la poca lena
avanzata da tante prove: intanto ecco quali gli umori della Chiesa adesso
palesati nel Concilio di Basilea da uno dei padri più autorevoli, che
quivi sederono: «forse un dì sarebbe stato spediente separare affatto
la potenza temporale dalla spirituale; ma pel tempo, che corre virtù
senza potere è ridevole, onde il Papa romano scevro del patrimonio della
Chiesa diventerà davvero: servo dei Servi di Dio.»

Indi in poi la Chiesa fruga nei suoi annali per trovare lo scampolo a
rattoppare il manto; con frode, o con violenza ripiglia Imola, Faenza,
Forlì, Urbino, Rimini, Pesaro, Ferrara ed altre più terre[1], e
ciò con tanta maggiore acerbità quanto, che la paura di rimanere
in camicia si manifesta due cotanti più apprensiva della
cupidità di acquistare.--Le cerchia dell'interesse mano a mano si
stringono per modo che nel dubbio di avere un giorno a cedere il
dominio temporale ogni Papa pensa ai casi della propria famiglia e
strappato un gherone del manto papale lo butta sopra le spalle ai
nepoti; mosso da questo concetto Sisto IV concede ai Riario Imola, e
Forlì, Giulio ai della Rovere Urbino, Paolo ai Farnese Castro
Camerino e Nepi prima, poi Parma e Piacenza, e così di seguito; se
non che considerando i Papi sorvegnenti come simili principati
generassero troppa invidia onde sovente i nepoti con la sostanza
perdessero la vita ritagliano più a minuto; invece di principati
donano poderi, o benefizi, o pecunia.

  [1]  Comecchè di questi fatti vadano piene le storie merita essere
    ricordato il seguente o poco noto, od al tutto ignorato; «La
    madre del protonotaro Colonna corse come maniaca a San Gelso in
    Banchi dove giaceva il cadavere del suo figliuolo; quivi ella
    acciuffò pei capelli il suo teschio spiccato dal busto, e
    squassandolo su gli occhi al popolo gridò: «ecco» il capo
    del figliuolo mio, mirate fede di Papa! «Aveva promesso, che lo
    avrebbe riposto in libertà se noi gli consegnavamo Marino,
    ecco, il Papa ha Marino, e il Papa mi rende il figliuolo....
    Mirate! non è fedele osservatore di sue promesse il Papa?»

Essendo questo epitome non già dei gesti universi della Chiesa,
bensì dei fatti sopra i quali ella fonda il diritto di dominare su
i popoli e noi il diritto del popolo a torle la signoria, dobbiamo
rifare i passi, e considerare, come sul declinare del secolo
decimosecondo il Papato combattuto in casa (reggendosi Roma a
repubblica) ed oppresso fuori dagl'imperatori germanici, Adriano IV si
gratifica il popolo: e fu consiglio astuto imperciocchè stando col
popolo egli difendesse con l'altrui la propria libertà, mentre col
Tedesco avrebbe saldato catene allo altrui polso ed al proprio; forse
se Federigo Barbarossa consentiva ad accettare lo impero come un
benefizio romano ogni screzio cessava fra loro; ma dura cervice a
piegarsi era lo svevo, e al Papa toccò durare nel molesto amore del
popolo, dacchè alla Dieta di Roncaglia i giureconsulti di Bologna
dichiarassero niente meno lo imperatore padrone dell'universo: la
quale dichiarazione parve immane al Papa, perchè non era stata
fatta per lui. Di qui la lega lombarda, e le mirabili vittorie del
popolo, e la troppo più mirabile fede. Molti mettono in dubbio la
verità del fatto, che Alessandro del piè calcasse il collo al
Barbarossa mentre recitava le parole del salmo: «sopra l'aspide, e
il basilisco passeggerai, il leone, e il dragone calpesterai.» A
cui il Barbarossa rispose: «non a te ma a san Pietro.» Nè io
mi affaticherò a chiarirlo, che comunque la cosa stia, grande fa la
prevalenza acquistata a cotesti giorni dal Papato sopra lo impero per
virtù del popolo: però Alessandro non indugiò nè manco un
momento a voltare il nuovo rigoglio contro il popolo, e presto
accordato col tiranno ricusò tornarsi a Roma se prima il senato non
gli giurasse fedeltà, restituirgli la pristina signoria, lui e i
cardinali difendere dai nemici. Naturale cosa è, che quegli il
quale ora su questo ora su quell'altro si appoggia per tradire tutti,
eserciti travaglioso imperio, e sbattuto da perpetua fortuna ad ogni
tratto accenni sommergere; di vero più, che mai si drizzano ora
minacciosi contro il Papato le ire del popolo, il rancore dello
impero, ed uno spirito nuovo sorge ad arruffargli i disegni: ai primi
pericoli i Papi pensano provvedere con le crociate: molte le cause di
questo rovesciarsi dell'occidente sopra l'oriente; e prima di tutto
vuolsi attribuire ad una misteriosa corrente che vuole così: verso
le contrade del sole due volte s'incamminarono i Greci condotti da
Agamennone, e da Alessandro macedonio, poi i Romani, poi i Crociati:
oltre questa spinta naturale colà li chiamava la copia dei beni
della terra, che genera ricchezza; la facile vittoria, che in coteste
terre il nemico più metuendo sia il cielo inclemente: molto
altresì, e sarebbe vano negarlo, la devozione, e per me giudico,
che con queste, e sopra queste cause stringessero il consiglio, e
l'opera dei Papi di affrancarsi dagli ostacoli così popoleschi come
baronali per ricuperare la scemata primazia; nè l'effetto i Papi
provarono dispari dai concepiti disegni, imperciocchè di tanto
crebbero in potenza quanto ne persero gli avventurosi crociati, e
quindi a breve Lucio III perfidia per le immunità ecclesiastiche
dagli obblighi feudali; Urbano III intendo restituiscansi i duchi di
Sassonia, e di Baviera ribelli allo impero; nega il crisma ad Enrico
IV, e torna su la pretensione del retaggio della contessa Matilde.
Più temerario di lui Celestino III, che vieta ad Enrico la
eredità siciliana della moglie Costanza; condanna Filippo Augusto a
ripigliarsi Ingelberga dalla quale si era dipartito col pretesto
d'incestuose nozze; ordina ad Alfonso re di Leone si separi dalla
cugina figlia del re di Portogallo da lui condotta in moglie.
Finalmente comparisce Innocenzo III ramo vero dello impronto
Ildebrando; in mal punto eletto tutore di Federigo II si approfitta
della minore età del pupillo; al mandato imperiale dei Prefetti
surroga il proprio; patteggia co' Toscani perchè non riconoscano re
od imperatore senza il consenso della Chiesa: intima Ottone a
rendergli il retaggio della contessa Matilde, e poichè lo trova
restio, gli sguinzaglia addosso Federigo II. Dopo scomunicata la
Francia tutta, e Filippo Augusto, il quale invece di obbedirgli e
ripigliarsi Ingelberga sposa Agnese di Merania, lo scomunicato
blandisce, e lo avventa contro Giovanni senza terra, perchè gli
tolga il regno; quando poi cotesto codardo gli s'inginocchia davanti
profferendoglisi vassallo, lo arresta a mezzo: guai a lui se si
attenta torcere pure un capello al re d'Inghilterra feudatario di
Santa madre Chiesa!

Oltre la opposizione temporale aveva di già da lieve principio preso le
mosse uno spirito di rivolta, il quale non solo accennava a riforme di
costume, bensì si proponeva alterare le dottrine, e perfino i dogmi
della Chiesa: fino dai principii pauroso; ora che mai diventerà
crescendo? Più famoso degli altri novatori Arnaldo da Brescia; lo
avevano precorso Pietro di Brais in Narbona che fu bruciato vivo a Santo
Egidio in Linguadoca sul cominciare del secolo duodecimo; il monaco Enrico
che perseguitato ferocemente dal vescovo di Mons, dallo abate di Cluny, e
da quello di Chiaravalle san Bernardo menò vita insidiata sempre e
randagia; e Tichelmo della estrema Zelanda cui per comando del Papa furono
spenti a ghiado; ingegno, per autorità, per audacia di gran lunga
superiore a questi Arnaldo; e seco andava il popolo: la sua cattedra
piantata nel cuore del cattolicismo, Roma: egli predicava contro le
lussurie della corte papalina, e le dovizie, e i beni terreni; veniva
ricordando la povertà del Nazzareno, ed affermava la rilassatezza
cagione dei danni presenti, e della ruina futura. In cotesto tempo non meno
acerbo procedeva san Bernardo contro il costume romano, e ne fanno fede gli
scritti; però troppo diversi i fati di Bernardo e di Abelardo, e la
ragione è manifesta, che Bernardo rimorchia la Chiesa come persona
venuta in iscrezio con l'amante, mentre, Abelardo la vuole tosata, e
scalza; donde nacque, che Bernardo venerato in vita fu in morte scritto
sopra l'albo dei santi, ed Abelardo commesso alle fiamme. Il Sacerdote
pensò disperderne la memoria col gittarne via le ceneri, e s'ingannò;
coteste ceneri sparsero nello avvenire tale seme di cui la messe intera
germoglia sempre, e non finisce mai. A combattere questo spirito nuovo i
Papi crearono gli ordini religiosi dei Francescani, e dei Domenicani,
barbacani, secondo il sogno di Papa Onorio, della Chiesa ruinante;
adoperaronci esortazioni, ma più ferro e fuoco, soprattutto fuoco, e non
valsero, e non valgono; il fuoco accende il pensiero, che non si consuma;
per la quale cosa continua lo spirito di Libertà ora in Germania, ora in
Francia, ora in Italia, ed ora in Inghilterra. Affermano come in Italia
fosse suscitato il desiderio di riforma dallo studio dell'antichità; e
ciò troviamo falso sia quanto ai tempi, sia quanto alle cause, corre
fama che pensatori piuttosto temerari che liberi fossero Federigo e
Manfredi; lo stesso Guido Cavalcanti è rimproverato da Betto Brunellesco
di aggirarsi fra gli avelli meditando, che Dio non è; rispetto poi alle
cause, la imitazione dello antico certo contribuì alla rilassatezza; che
abbassato un po' il cielo verso la terra, ed un po' vestito di spoglia
decente il vizio si compose tale una mistura che maomettana non era e
cessava di essere cristiana; ma la Chiesa Romana soprattutto fu combattuta
dallo spirito. Il Savonorola, il Burlamacchi, il Paleario, i Soccini, il
Carnesecchi, il Bruno, ed altri, che non nomino, senz'altro non mosse
libito di senso. Piuttosto giudico, che come s'industriano sempre le
tirannidi prostrare gli spiriti, così la Chiesa s'ingegnasse annegare lo
intelletto nelle voluttà, che la imitazione degli antichi fece eleganti
e desiderabili anco ai più schivi; e tuttavia andò fallito il
disegno, imperciocchè dallo studio del piacere si generasse il tedio
della disciplina, la inverecondia del costume, e con essi l'odio
dell'autorità. Providenza di Dio immediata, o predisposizione di ordine
stabilito da lungo tempo vuole che ogni tirannide nello scavarsi il
fondamento ci getti il seme della cosa, che la sovvertirà; e in questo
modo Leone papa mentre co' sollazzi s'industria assopire le menti
indebolisce l'autorità, e Cosimo nipote di lui mentre tenta impoverire
lo ingegno toscano nelle quisquilie della grammatica, crea custode della
Libertà la lingua. Altresì giudico che le sette diverse nocessero
sì all'autorità della Chiesa, ma nel medesimo punto di poco
avvantaggiassero lo svolgimento dello spirito; e la ragione è chiara,
però che lo liberassero da un viluppo per intrigarlo in un'altro, il
quale posto ancora, che fosse men reo del primo, tuttavia è vincolo, o
cerchio, mentre lo spirito batte sempre le ale, ed irrequieto si appunta
nello infinito. Anco nel secolo passato al progredire dello spirito
pregiudicarono la scuola degli Enciclopedisti, e il Voltaire, però che,
a mio parere, lo affaticassero a fini di odio, e di contesa, mentr'ei non
si pasce di negazioni, nè sono i suoi trionfi ruine; con ogni umano
istituto, con la dottrina di tutte le religioni, con la sapienza dei secoli
lo spirito ripiuma l'ale per durare all'eterno volo.

Intanto i Papi oltre le Crociate, la Inquisizione, e i Frati per
apporre argine che valesse a trattenere le acque irrompenti
stabilirono la meno dispendiosa, e la più sicura di quante polizie
sieno al mondo, la confessione. Trovato questo non nuovo, e non
inutile anco in antico, però che il colpevole nei misteri dei Numi,
massime di Cerere eluisina, confessasse i falli, e a patto di certe
penitenze rimanesse assoluto; ed a me parve cosa che anco la
civiltà di oggi potrebbe avvantaggiarsene e non poco, là dove a
udire, e a consigliare si preponesse il vecchio discreto, esperto
delle umane passioni, ed uso a guarirle: bene intesi però, che
simile ufficio si avrebbe ad esercitare sopra le menti giovanili
quando una gomitata basta a farle rientrare nella pesta: all'opposto
poi quando l'uomo ha messo il tetto lo ammonimento a che giova? Torna
lo stesso che predicare ai porri.--La Chiesa Romana instituendo la
confessione ebbe in mira di intromettersi nel penetrale delle
domestiche pareti, d'insinuarsi tra padre e figlio, tra marito e
moglie, e fatto padrone delle coscienze e dei segreti, vendicarsi, o
arricchirsi secondo le occasioni.

Altro partito a crescere di potenza fu la mutata elezione del Papa, e
degli altri principali offici, la quale di popolesca fu di mano in
mano tirata al tirannico. Nei primi secoli del cristianesimo eleggeva
i Papi la Chiesa, o vogliamo dire la universalità dei fedeli,
vescovi, sacerdoti, chierici di ogni ragione, e _plebe_. Così ce la
descrive San Cipriano nella epistola 52, discorrendo della elezione di
Papa Cornelio: «fu eletto vescovo Cornelio da parecchi nostri
colleghi, che allora albergavano in Roma col giudizio di Dio, e di
Gesù Cristo, col testimonio dei chierici, coll'assenso dei vecchi
sacerdoti, e col suffragio _della plebe_ intervenuta.» Ai tempi di
Costantino magno questi modi di elezione occorrono inalterati; e la
elezione si eseguiva nelle Basiliche di Roma; per lo più nella
Lateranense; nel 1059 il Concilio statui che vescovi, arcivescovi,
basso clero, e popolo concorressero alla elezione del Papa, per
evitare contese. Le medesime regole si praticavano nelle elezioni dei
vescovi fatte dal capitolo, dal clero, e dal popolo della Diocesi, ed
altresì in quelle dei vicari e dei parrocchi nominati dal clero, e
dal popolo della parrocchia. Progredendo nel tempo in virtù della
bolla di Alessandro III[1] rimasero esclusi tutti, eccetto alcuni
pochi assistenti al soglio pontificio, che ebbero nome Cardinali da
cardine, quasi fossero cardini o barbacani della Chiesa. Dopo ciò i
Papi arrogaronsi il diritto di eleggere vescovi, e parrochi, donde
sorsero le guerre di che abbiamo detto, e i concordati, i quali
chiariscono quanto menzognera sia la dottrina del _non possumus_,
dacchè i Papi in tutto e per tutto possono quando li pongono nello
strettoio: pari alla Pitonessa, allorchè incontrano un'Alessandro
magno, che gli attanagli a mezza vita esclamano: «_figliuolo mio,
tu sei invincibile!_». Per me credo, che ogni principato tiri la
sua origine dalla violenza, o dal voto universale; ma per parecchi il
primo principio si perde nella notte del tempo, non così pel
pontificato, dove avanzano testimoni solenni del diritto del popolo
usurpato da Roma; e se principati vetustissimi di cui s'ignora lo
inizio pure consentono a ritemprarsi nel suffragio universale,
perchè e come ci si rifiuterebbe il pontificato di cui la
usurpazione è palese? Il Papa che sè vanta rappresentante e
vicario di quel Dio, che disse: «_rendete a Cesare quello ch'è
di Cesare_,» come si augura potere con giustizia negare al popolo
quello, ch'è del popolo?

  [1]  Parecchie sono le Bolle intorno alla elezione dei Papi. Gregorio
    X nel 1274 con la Bolla: _Ubi periculum_, ordinò il Conclave, e
    la facoltà di eleggere il Papa a quei soli Cardinali presenti
    nel luogo dove il regnante era morto. Giulio II con la Bolla: _Cum
    tam divina_ nel 1504 bandì cose di fuoco contra le elezioni
    simoniache; la confermò Leone X, e non impedì, che Clemente
    VII indi a breve fosse eletto con laida, e palese simonia. Poi ci
    hanno le Bolle: _In eligendis_ di Pio IV; _Eterni Patris filius_
    di Gregorio XV, ed altre non poche.

Narro di Federigo _nipote del respinto Barbarossa_, e di Gregorio IX:
costui che compose il libro delle Decretali, congerie informe di
rescritti emanati per casi speciali, e da lui promossi alla dignità
di leggi, atti però a stabilire la monarchia romana, massime nelle
materie beneficiarie, costui, dico, fu tenace a stringere, cupido di
recuperare. Ora temendo non potere allungare le mani rapaci finchè
gliele badasse Federigo, lo agguindola così, che gli è forza
rendersi crociato; ma mentre sospettoso di qualche tranello Federigo
tentenna di recarsi a Gerusalemme, il Papa infellonito per la paura di
trovarsi deluso lo scomunica: finalmente parte: allora Gregorio palesa
le insidie aizzandogli contro il socero Giovanni di Brienna,
commettendo ai Domenicani ed ai Francescani ribellargli i popoli, e
fino nell'oriente lo circonda di lacci mortali; ma Federigo vince, ed
entrando in Gerusalemme, poichè i preti nicchiano a incoronarlo, ei
s'incorona da sè; poi fatta pace col Sultano sollecita il ritorno.
Di ciò spaurito Gregorio, e arrovellato, dichiara lo imperatore
empio, gli rinnuova gli anatemi con la giunta di sciogliere i sudditi
di lui dal giuramento, e concedere il regno a cui prima lo pigli;
nè commosso, nè infievolito da armi cosiffatte Federigo viene, e
vince; il senato e il popolo romani gli spediscono oratori per
congratularsi della sua buona fortuna; allora il Papa torna amico allo
imperatore, e poichè stanno in lega per non oziare nel male gli
propone svellere cosa ad entrambi funesta, lo spirito di libertà; e
quegli acconsente. In virtù di simile accordo nel 1233 per la prima
volta fu arso un paterino a Milano; e il Prete romano con un piè
sul collo alla natura comandava ai figliuoli di Ezzelino di consegnare
il proprio padre alla Inquisizione. Dopo breve spazio secondo la
infida lega degl'improbi, tornano alle offese costoro, e Federigo in
pena di avere sovvenuto il Papa nella snaturata richiesta contro gli
Ezzelini, mira con orrore insidiargli la vita il figliuolo Enrico
sobillato dal mal prete: parve provvidenza e forse fu; peccato che
questa provvidenza non tenga dietro ad ogni misfatto, o si riveli
meglio agli occhi mortali! Gregorio mette mano da capo alle
scomuniche, muove contro Federigo Genova e Venezia; e dubitoso, che le
possano far breccia va fino in Francia secondo il consueto, a trovare
puntelli alla immane improntitudine sua.

Viveva a cotesti tempi sul trono di Francia san Luigi, e dicono per
senso di giustizia impedisse l'andata al suo fratello Roberto, e forte
riprendesse il Pontefice; ma santi o no io per me credo e vedo, che re
di Francia, e Francesi non abbiano mai reputato ingiustizia pigliare
quello degli altri: di vero o perchè san Luigi concesse a Carlo
altro fratello quello, che a Roberto negò? Forse perchè Carlo
non ebbe bisogno di aiuti da lui, ed anco perchè altro era
nimicarsi Manfredi re di Sicilia, ed altro Federigo imperatore. Il
Papa sbuffando disegna con perverso consiglio bandire la Crociata
contro Federigo; ed a questo scopo convoca i prelati del mondo
cattolico a Roma: quei di Francia essendosi ridotti a Nizza il Papa
manda le galere genovesi a levarli; lo imperatore contrappone a loro i
Pisani, guelfi e ghibellini incontransi alla Meloria e per questa
volta vincono i Pisani per rimanervi più tardi intieramente
distrutti. Gregorio dopo abusato le cose divine, spinto i popoli
italiani a guerra fratricida, da capo offerto dare la Patria in
balìa dello straniero muore; ma non con lui muore il Papato.

Già dissi il Papato immondo boa che traversa i secoli; di fatti a
Gregorio essendo, dopo il subito scomparire di Celestino IV, succeduto
Innocenzio IV, questi di amico che era a Federigo gli si volta nemico,
e, come più astuto, più implacabile di tutti; costui rinfocola
la Crociata già bandita da Gregorio; Francescani e Domenicani
sguinzaglia contro Federigo; gli tramano insidie, sottosopra gli
cacciano lo impero infatigati, innumerevoli come le formiche:
convocato il Concilio a Lione vi narra dei Tartari invasori della
Moscovia, della Pollonia, e della Ungheria, dei Mongolli minaccianti
la Europa, dei Carasmiani oppressori di terra santa, lo impero latino
ridotto alle mura di Costantinopoli, e con fronte di bronzo tutti
questi mali riversa sopra Federigo; Piero delle Vigne, e Taddeo da
Sessa difendendolo invano, dal Concilio si depone e si scomunica lo
imperatore, il quale sia per gli anni, e l'ira, e i pensieri torbidi
di vendetta travagliato cessa. Non mai vita di figlio fu salutata
così caramente come la morte di Federigo da Innocenzo, che già
stende le mani rapaci sopra il reame di Sicilia: chi lo parava?
Manfredi debole, e senza seguito; ma fra la mano e il frutto venne a
mettersi Corrado figliuolo di Federigo: se il Prete riardesse di
rabbia sel pensi chi sa quanta l'avidità sacerdotale, o l'ira che
suscita l'ostacolo impreveduto, e la impotenza di rifarsi da capo:
poichè pertanto il Papa venuto al verde per sè non poteva
prendere si arrovella a cacciarne Corrado vicino trapotente, ed
offeso, e tu lo vedi andare in volta, ed offerire la corona che gli
scappava di mano al fratello, al figlio di Enrico III d'Inghilterra, e
a Carlo fratello del re di Francia; allo improvviso Corrado muore;
allora Manfredi raccomanda al Papa il nipote Corradino; padre gli sia,
e protettore; Innocenzo muove come saetta volante a Napoli a fare da
padre come costumano i preti: domina più che signore tiranno e
insacca più che padrone predone; Manfredi custodito quasi
prigioniero si salva ed allestisce armi ed armati per combattere il
Papa, il quale adesso sentendosi in fine di vita i congiunti
lacrimanti intorno al letto rampogna così: «perchè piangete
voi altri? Forse quanto più poteva non vi ho empito di beni?» E
furono parole di prete senza cuore ed avaro. Viene Alessandro IV a cui
talentando meglio la spada del pastorale durando la contesa con
Manfredi perde la Puglia, e la Terra di Lavoro; in Palermo, su gli
occhi al suo Legato, inalberano la bandiera sveva.--Per questo Papa si
conobbe quanta la potenza del pontificato su le faccende della
religione, e sul popolo quando ordinava cose, che camminavano
coll'umore del secolo, e quanta poca quando procedeva al ritroso; la
Francia fu da costui felicitata della Inquisizione; cotesto ardere la
gente di fede diversa parve nuovo in Francia, e come nuovo piacque ed
attecchì. Avendo questo Papa bandito in Lombardia la crociata
contro Ezzellino da Romano trucissimo tiranno di Padova, caduto in
mano ai popoli per virtuosa battaglia periva di fame: per lo contrario
tanto Alessandro quanto il successore Innocenzo mentre si attentano
passare il segno in Roma, i Romani a tutela della pubblica salute
eleggono Dittatore Brancaleone di Andalò bolognese, cui non
rifinano insidiare, e poi giungono a bandire legatisi co' nobili; ma
indi a breve il popolo ripreso il sopravvento lo richiama, e per
questa volta osteggiando senza rispetti il Papa, lo assedia in Anagni,
e lo costringe a sottomettersi al popolo. Urbano IV ebbe il vanto
infelice di schiantare dalla Italia la stirpe sveva, anch'essa discesa
dagli oppressori, e venutaci di Lamagna, ma ormai naturata fra noi:
poichè costui spavaldo sfidò Manfredi, e rimasto vinto si volse
alla Francia semenzaio sacerdotale di tiranni per la Italia: la
tragedia di Manfredi, e quella più pietosa di Corradino vanno
famose pel mondo; il quale tuttavia rammenta come il Papa mettesse
tradimenti, e scomuniche in combutta con gli stocchi, e le mannaie di
Carlo di Angiò.--Ora escono dal buio alcuni Papi, che passano a
guisa di fantasime traverso il secolo per immergersi da capo nel buio;
alfine viene Niccolo III degli Orsini, il quale dove avesse posseduto
la potenza pari alla superbia tornavano in fiore i tempi dei Gregori;
ributtate le nozze richieste del suo nipote da Carlo, con le parole
atroci: «e perchè porti calzare rosso la tua signoria non è
retaggio,» congiurando nuoce altrui, se non vantaggia.--Da lui si
ordirono, o assai si promossero i Vespri Siciliani sia che si
operassero per la virtù di Giovanni da Procida, o per maggiore
virtù di popolo come credo anche io, chè dove il popolo non
secondi il singolo o non può o mal può, e il popolo quando ha
voglia di mettere al sole le barbe della trista signoria il suo capo
trova sempre; non sempre, anzi rado, il singolo trova il popolo.

Affermano questo Papa essere stato il primo, che mosso da soverchio e
non diritto affetto oltre il dovere arricchisse i nipoti a danno della
Chiesa: e ciò mi riesce malagevole a credere, dacchè Innocenzo
non procedesse punto diverso da lui, e il desiderio di avvantaggiare i
suoi nasce con l'uomo, il quale cresce naturalmente quando la tua
famiglia salita in altezza per fortuna, o per virtù tue, tu
comprendi, che, al tuo sparire, diventerebbe per inopia contennenda;
onde chi può non benefica i suoi piuttostochè superiore agli
uomini parmi assai vicino alle bestie: tutto sta in questo come nelle
altre cose procedere con discrezione; quindi per me penso, che
Niccolò si mostrasse in questa faccenda non primo a tutti, ma
più stemperato di tutti.

Quando dopo la morte di Clemente IV la sede pontificia rimase per bene
tre anni vacante Gregorio X ordinò la elezione del Papa in conclave
con l'obbligo di scemare il cibo ai Cardinali fino a ridurlo al pane
ed all'acqua, e ciò perchè cotesto stroppio non si rinnovasse:
e' sembra, che a quei tempi il Pontefice non fosse infallibile nei
suoi partiti; difatti, morto Onorio IV per dieci mesi non fu eletto
Papa, e prima di promovere al pontificato Celestino V la sede vacò
due anni. Costui rinunziava dopo cinque mesi, e nove dì: scrittori
guelfi raccontano come Benedetto Gaetani, che gli successe mediante
cerbottana comandasse a cotesto semplice renunziasse al Papato
dandogli ad intendere poi gli avesse proprio favellato Dio, e narrano
altresì, che si gratificasse il re di Napoli dicendogli: «il tuo
Papa Celestino ti ha voluto e potuto servire, ma non ha saputo; io
vorrò, potrò, e saprò;» per la quale cosa il re commetteva
a dodici Cardinali suoi divoti dessergli il voto. Il signore Luigi
Tosti monaco di Montecassino nella vita di Bonifazio VIII nega tutto
alla ricisa, e va bene, egli esercita il suo mestiere: noi ci
stringeremo a credere, che il Villani contemporaneo di Bonifazio VIII
potesse essere meglio informato del monaco Tosti, molto più che il
Villani faceva professione di guelfo. Il monaco Tosti nega eziandio la
strage di Celestino operata col conficcargli un chiodo nel cranio per
comando di Bonifazio VIII; nè io potrei contraddirlo in questo;
solo noto, che la testimonianza del Villani mette innanzi quando egli
scrive, che faceva custodire il povero vecchio Celestino in _onesta
prigionia_ a Fumone, e lo ributta quando racconta della parlata a
Celestino per via della cerbottana, e degli accordi simoniaci con
Carlo d'Angiò: questa maniera di dettare storie, se male non mi
oppongo, corrisponde ad arare coll'asino e col bue: e ciò messo da
parte parmi degno di considerazione come nella Bolla con la quale
Clemente V canonizzò santo Celestino si affermi con ischiettezza
laudabile: «imperito di reggere la Chiesa come colui che dalla
puerizia erasi consacrato interamente al culto delle _cose_
_divine_.» dunque la si tenga per giudicata sopra l'autorità di
un Papa, chi _troppo osserva Dio non è capace a governare la
Chiesa_! Opinano gli scrittori Bonifazio VIII avere segnato l'apice
del dominio temporale, donde, non potendo più sorgere, gli fu
mestieri calare; questo a me non sembra, e non è; piuttosto parmi
vera quest'altra sentenza, Bonifazio rappresenta l'ultimo sforzo
papesco di riagguantare la immane primazia, come del pari l'epoca sua
dimostra il duro, e insuperabile talento dei principi di resistere.
L'almanaccare irrequieto di Bonifazio a taluni pare intelletto divino,
e a me anfanamento di curiale appaltone. Giacomo di Arragona, chiamato
in Ispagna per la morte del fratello Alfonso, abbandona la Sicilia; i
Siciliani gli surrogano il fratello minore Federigo come quelli che
circuiti essendo di nemici potentissimi abbisognavano di prode e
solerte principe che vigilasse alla tutela loro, mentre Bonifazio li
desiderava deboli, epperò sottoposti a signoria lontana. Dio è
in alto, e il re è lontano, solevano dire i Vicerè di Sicilia
quando i sudditi angariati minacciavano richiamarsene al re di Spagna;
in questo intento il Papa sobilla Jacopo a ripigliarsi la Sicilia;
difficile è credere, ch'egli aborrisse da guerra fratricida:
piuttosto temendo di esito incerto cacciare per forza Federigo di
Sicilia s'industria abbindolarlo spingendolo alla recuperazione dello
impero di Costantinopoli testè perduto da Baldovino; gli promette
il sussidio di cento mila once; per giunta gli dona Corsica, e
Sardegna; veramente ci dominavano i Pisani; ma ciò non fece
ostacolo allora nè poi ai Papi, solo il dono era condizionato allo
andarselo a pigliare, e poichè Federigo ricusa, lo assalta secondo
il consueto, e respinto secondo il consueto ei chiama di Francia Carlo
Valesio: difettando di pecunia immagina il Giubbileo guazzabuglio del
costume ebraico mediante il quale gl'Israeliti in capo a cinquanta
anni, per sette settimane scioperando un anno intero lasciavano in
maggese le terre, i servi affrancavano, i beni impegnati restituivano,
i debiti rimettevano, e dell'anno secolare dei Romani; il Papa
sbraciava indulgenze a carra, saldo di peccati vecchi e nuovi, ed anco
ospizio ai pellegrini, di che fanno le meraviglie gli scrittori
chiesastici; ma in cotesta come in ogni altra bisogna, il prete dava
un'uovo per avere un bove[1]; le mani non bastando, i chierici dabbene
ci adoperavano il rastrello col quale _rastellabant pecuniam
infinitam_, dice la Cronaca e Giovanni Villani, che vi si trovò,
conferma con queste parole: «e della offerta fatta per gli
pellegrini molto tesoro ne crebbe alla Chiesa, e' Romani per le loro
derrate furono tutti ricchi.» Carlo Valesio, esercitate prima le
armi di Giuda[2] in Firenze, dove abbattè i Bianchi esaltando i
Neri, passa in Sicilia: combattuto dall'aere, e dagli uomini cala agli
accordi; con esso i reali di Napoli per colpa di fortuna, e più per
manco di virtù volti al basso. Da questa parte non ci era da
sperare più nulla, e poi in Francia vivea Filippo il Bello uso a
volere del soldo i due quattrini per sè, e Bonifazio VIII nè
anco si sarebbe chiamato contento di tanto. Di vero con la
costituzione _Clericis laicos_ rimette in ballo le gregoriane
pretensioni; i Colonnesi scomunica, e condanna alla dannazione
nell'altro mondo, allo esterminio in questo con la Bolla _Lapis
abscissus_; sopra le terre di Romagna restringe il freno; pei mali
consigli di Guido da Montefeltro sovverte Palestrina forte, e bello
arnese dei Colonna; due cose nuove comparvero con Bonifazio nella
Chiesa, la prima furono i Cardinali vestiti di cappe rosse, e la
seconda l'assoluzione anticipata al peccato che sta per commettersi.
Federigo prima scomunicato ora torna in grazia di Dio. La costituzione
_Clericis_ allunga le mani; l'arcivescovo di Narbona pretende avere
per vassallo il visconte, che ricusa omaggio sè confessando uomo
del re: Bonifazio naturalmente per l'arcivescovo, pel visconte il re:
poi ci fu la disputa per la contea di Melgueville; il Papa tira
l'acqua al suo mulino, il re faceva lo stesso. Il monaco Tosti scrive
la pretensione del re essere _impertinenza_; e non crediate mica, che
tale opinione mettesse fuori il frate in cotesti tempi a Roma; egli ai
dì nostri compone libri in Italia, e la nostra mente resta
sbalordita pensando come il Ricasoli barone avesse tolto le costui
dottrine a norma per regolare le faccende della Chiesa con lo Stato.
Bonifazio invia in Francia legato il vescovo di Pamiers a sostenere le
sue ragioni; Filippo lo agguanta, e lo condanna reo di maestà, e
manda a notificarlo al Papa perchè gli rifaccia il resto. Chi dei
due iniquo? Bonifazio capace di servirsi della opera di un fellone,
Filippo attissimo ad apporre false accuse, entrambi per voglia
d'imperio smaniosi. Se s'inalberasse a' cotesta notizia il Papa non
importa dire. Mandò: «sopra il divino diritto, e l'umano dei
chierici niente potere i laici; rendesse libertà, e beni, ed onori
al legato: avvertisse essere incappato nelle scomuniche stabilite dai
Canoni contro i percotitori dei chierici; si mostrasse più timoroso
di Dio, il quale tanto lo aveva beneficato fin lì.» Subito dopo
di rincalzo pubblica la bolla _Salvator mundi_ spedita al re con la
lettera che comincia: _Nuper ex rationalibus causis_, mediante la
quale sospende ogni privilegio (così ei diceva, ed erano diritti
usurpati dalla improntitudine pretesca) concesso dalla Chiesa al re
finchè la causa del vescovo di Pamiers non fosse stata giudicata
dai chierici francesi raccolti in sua presenza.--E come se tanto non
bastasse indi a breve pubblica l'altra bolla _Ausculta filii_. In
cotesto documento, modello dello idropico vaniloquio della Curia
romana, messo a rifascio Dio, Cristo, la Madonna, la Chiesa unica
perchè unica sposa di Gesù, il quale ebbe sempre in orrore la
bigamia, ed unico il suo capo messo da Dio a giudice dei vivi e dei
morti: insomma la Chiesa non patire moltitudine di capi; lui papa
Bonifazio comecchè indegnissimo pure preposto da Dio per ragione
dello ufficio apostolico ai re, e ai regni in generale, ed in
particolare sopra lui Filippo, e sopra il suo regno per distruggere, e
ricostruire, stiantare, e piantare, disperdere, e raccogliere, e via
di questo gusto: dunque non presumesse di sgattaiolargli di sotto; si
lasciasse tosare, e spellare di buona grazia; averlo già ammonito
parecchie volte invano; piangergli l'anima (le paterne viscere non
pare che usassero ancora) nel mirarlo precipitare ogni giorno più a
rotta di collo nelle colpe, che ormai sembravano tramutate in costume;
e poi venendo alle strette dichiarava in lui Papa stare la suprema
potestà su i benefici dentro e fuori la Curia romana, ed egli re
non avercene alcuna; invece attentarsi con empio consiglio usurpare
ogni cosa, e poi giudicando sostenere le parti di giudice e parte,
laici e chierici mettere ad un mazzo; niente voler sapere di tribunali
chiesastici; i giudicati loro reputare anco meno che niente, anzi
revocarli, impedire che altri gli osservasse; i beni laicali, o
clericali tenere per feudi dependenti dalla Corona; nelle Chiese, e
nei monasteri entrato in aspetto di guardiano per sottometterli ad
incomportabile servitù; divorarsi le rendite delle sedi vacanti;
vietare che alcuna particella se ne mandasse fuori di Francia; della
falsata moneta tacere, della oppressione dei sudditi, e di altre
nefandità. Ora poichè per ripigliarlo era divenuto roco, forse
avrebbe dovuto addirittura porre mano ai gastighi, ma non volerlo fare
se prima non avesse tentato uno sforzo supremo per ridurlo a partito:
per le quali cose egli intimava una Sinodo a Roma dove egli re o di
persona, o mediante suoi oratori, comparisse, ci mandasse quanti
abati, vescovi, ed arcivescovi gli piacesse, a patto che a lui Papa
fossero grati ed accetti; intanto cacciasse via dalla reggia i falsi
profeti, i seminatori di scandali; breve, tutti i facinorosi che lo
stornavano dal darsi co' piedi, e con le mani accaprettato in balìa
della madre Chiesa, e di lui padre Papa, che lo arieno acconciato pel
dì delle feste. Il monaco Tosti, scorta fidata del Ricasoli barone,
trova questa bolla temperatissima, una maniera di bianco mangiare,
tutta in regola; poichè trattando di collazione di benefizi,
d'immunità di chiese e di monasteri, di rendite da mandarsi a Roma
e via discorrendo sta sempre _nello spirituale_; forse si possono dire
faccende _temporali_ il mal governo dei sudditi, e l'alterata moneta;
all'opposto il monaco Tosti dichiara insolenza temeraria e peggio
quello che rispose l'oratore francese La-flotte al Papa: «la tua
è spada di parole, quella del mio Signore è di ferro»; per
ultimo sostiene falsa certa lettera scritta da Bonifazio a Filippo, la
quale in somma ripete con parole più modeste quello che si contiene
nella bolla _Ausculta_. La bolla _Ausculta_ rimescolò tutti in
Francia così laici come chierici; il conte di Arras strappatala
dalle mani del legato la buttò sul fuoco. Il monaco Tosti rammenta
le arsioni delle bolle papali essere state due, questa di Filippo, e
l'altra di Lutero, in Francia la prima, la seconda in Allemagna; giova
rammentare che in Italia non fu bruciata perchè Barnabò Visconti
costrinse il legato a mangiarsela. Filippo bandì il legato, e
vietò, che preti, e quattrini di Francia andassero a Roma: il Papa
quanto a' preti avria per avventura lasciato correre; quella poi dei
quattrini gli passò il cuore. Banditi i legati convocavasi
un'assemblea nella chiesa di nostra Donna di Parigi; laici, e chierici
respinsero le immani improntitudini papali; se autentica o no la
lettera che si dice scritta in cotesta congiuntura da Filippo a
Bonifazio ignoro, e dubito, tamen assai bene riporta la qualità
degli umori del tempo: abbila quì lettore volta dallo idioma latino
nel volgare nostro.

  [1]  Però non sembra che il Papa donasse la vettuaglia bensì
    provvedesse a non farne mancare, che non fu piccola cura,
    dovendosi alimentare pel corso di un anno intero 200,000 e più
    persone oltre la popolazione di Roma.

  [2]  Senz'arme n'esce, e solo con la lancia, con la quale giostrò
    Giuda....

«Filippo per la grazia di Dio re dei Francesi a Bonifazio che la fa
da sommo Pontefice invia salute poca, anzi punta. Sappia la tua
massima demenza come noi nelle cose temporali non sottostiamo ad
alcuno; a noi per diritto regio appartengono la collazione delle
chiese e delle prebende vacanti, e la percezione dei frutti di quelle;
la collazione che noi ne facemmo e faremo saranno valide nel presente,
e nel futuro, e per noi andranno virilmente difesi i possessori di
quelle contro ogni persona; e a chi altro non crede noi mandiamo
patente di grullo, e di _matto_. Dato a Parigi.

Così allora la pensavano in Francia re, baroni, e prelati rispetto
al Papa; adesso dopo oltre cinque secoli e mezzo cotesti Francesi
fanno di cappello al Papa, reputano piccolo omaggio baciargli i piedi,
dicono non poterne fare a meno, e poichè non ponno astenersene essi
lo tengono sul collo a noi come un giogo di ferro;--e poi la Francia,
proprio _lei_, presume nella processione della civiltà umana
portare innanzi il gonfalone!--

Di contro all'assemblea di Parigi Bonifazio oppose la sinodo di Roma
donde uscì la Costituzione _unam sanctam_ in virtù della quale,
aboliti i vituperii, e troppo tardi e male velate certe pretensioni ci
trovi quanto basta perchè il Prete se non per la via maestra,
almeno per tragetti ti entri in casa a scombuiarti ogni cosa. Il
monaco Tosti facendo l'indiano meraviglia come così discreta
costituzione non si avesse ad accettare, ed ha torto, massime poi con
lo esempio della Inghilterra cui allora presiedeva quel sozzo uomo,
che chiamano Giovanni _senza terra_, mentre tace, che Odoardo I la
respinse appena n'ebbe facoltà, ed è cotesto modo _procacciante
e insidioso_ di scrivere storia. Ragione ha poi quando scrive: se
volete vivere da cattolici bisogna piegare il collo, e adattarsi,
altrimenti buttate giù il cattolicismo: o mangiar questa minestra o
saltare questa finestra: presumere di volere restare cattolici, e dare
di cozzo al Papa ad un punto si offende la _fede_, e la ragione; nel
secolo XVI Lutero, e gli altri buttarono giù buffa mostrando mente
eretica ma discorso di ragione, sicchè chi legge se l'abbia per
giudicato; dov'egli pure desideri vivere vita libera e cristiana gli
è mestiere gettare il cattolicismo alle ortiche; e in questo mi
trovo d'accordo col monaco Tosti. Costui però mal tasto ha toccato,
e potria rendere tal suono pel quale la Curia forse non gli darà la
mancia. Matta cosa quella di volere temperare l'assolutismo della
monarchia della Chiesa con l'aristocrazia dei Concili, e peggio
coll'autorità dei re, dice il monaco Tosti; e mille volte più
matta volerla accordare co' liberi pensamenti della Democrazia, dico
io. Noi altri, egli monaco, ed io laico, ci potremo vantare di avere
fatto un gran bene ai tempi nostri, voglio dire, cacciato al diavolo
qualunque equivoco, avere definito la quistione a modo, e a verso: _o
asso, o sei_. Se cattolici che almanaccate di Chiesa libera in Istato
libero?--Mi suona come la prima ottava del volgarizzamento delle
Metamorfosi di Ovidio fatto dall'Anguillara. Osservate i sacramenti
tutti con le interpretazioni del Papa, del vescovo, del curato, del
cappellano, del sagrestano, e dell'ostiario; a Roma per le dispense
pagate le annate, le decime, e l'obolo di San Pietro; abbiate i
Gesuiti per babbi, i Paolotti per mamme, per fratelli i Domenicani, i
Capuccini per sorelle; soprattutto riverite i tribunali ecclesiastici;
lasciate i beni ai monaci, anzi cresceteli del vostro a cotesti
serafici operai nella vigna del Signore; credete che Gesù si sia
staccato di Croce per istringersi al seno Santa Caterina _domenicana_,
e credete altresì, che il prelodato (a Torino dicono _antefatto_)
Gesù barattasse il suo cuore con quello di Santa Brigida
_francescana_; se no cessate essere cattolici per diventare cristiani.
Per me, credo, che questa sarebbe la più diritta via per andarcene
a Roma. Il Papa ci scomunicherebbe e se ne andrebbe: chè se Enrico
IV potè dire, e male: «Parigi vale una messa» al popolo
dovrebbe essere lecito esclamare a sua posta: «Roma vale una
scomunica.»

Fra Bonifazio e Filippo, come succede fra due superbi e cupidi
s'invelenirono le ire; di qua e di là crescono le offese; il Papa
scomunica il re; questi appella al Concilio futuro; poi manda gente in
Italia a recare supreme offese al Pontefice, la quale espugna Anagni,
imprigiona Bonifazio, e lo percuote. Dicono gli desse la guanciata
Sciarra Colonna, e corre fama conduttore delle genti fosse Musciatto
Francesi; ciò dimostra come in ogni tempo i meno disposti a
riverire come venerabile cosa il Papa sieno stati gl'Italiani: le
guanciate non lodo, anzi biasimo; e poichè Filippo aveva appellato
al Concilio, alle decisioni di questo aveva a stare; ma io già l'ho
detto, tra Filippo e Bonifazio la correva come fra il rotto, e lo
stracciato, e degnissimo di obbrobrio era certamente questo Papa il
quale, mentre scomunica Filippo di Francia reo solo di volere essere
forse troppo padrone in casa sua, accoglie da capo nella comunione dei
fedeli Alberto di casa Asburgo fellone e omicida del suo re Adolfo,
solo perchè piega il capo scellerato dinanzi alla potestà
pontificia.

Dopo questa lotta disperata il sacerdozio co' nervi recisi ebbe a
cascare in balia di Filippo: per lui fu eletto Bertrando di Got, il
quale tolse nome di Clemente V; francese questo, e nello stato in cui
si trovava che resistenza poteva egli opporre al re superbo? Tuttavia
da quello astuto prete, ch'egli era, quanto non ispettava al
sacerdozio facile concedeva; l'altro no, schermendosi artatamente;
così per compiacere a Filippo egli gli condannò i Templari, di
cui Filippo arraffati i beni costrinse gli Spedalieri a comprarli;
cassò la bolla della scomunica, lui e i complici suoi mandando
assoluti; gli concesse le decime per la guerra di Fiandra; e più
oltre gratificando il temuto sire (deh! perchè lo spirito di
Filippo il Bello non torna a soffiare sul reame di Francia?) tolte le
tende da Roma andò a piantarle in Avignone; ma la truce voglia di
disotterrare il cadavere di Bonifazio, e darlo al fuoco respinse; bene
lo fece giudicare intorno all'accusa di eresia; ma di leggeri uomo si
persuade, ch'egli mettesse in opera ogni industria, affinchè il
Concilio di Vienna lo rimandasse, come avvenne, assoluto. Il papato
adesso si arrampica da questa parte o da quella con perdita continua
della sua autorità; legato alla materia si contamina di nefandezza,
nè ad altro attende che ad ammassare pecunia; nella contesa tra
Ludovico il Bavaro, e Federigo di Austria, il Papa parteggiando per
questo scomunica il primo, il quale ito a Roma, crea antipapa
Niccolò V, e fattosi incoronare accusa Giovanni XXII di eresia; se
il Papa fosse eretico o no ignoro, quantunque la fama lo accusasse
appartenere alla setta dei millenari; quello che so, egli è, che fu
il più spietato usuraio di quanti mai comparvero al mondo.
Benedetto XII tiene ferme le scomuniche contro Ludovico (io l'ho pure
chiarito; i Papi sono tutti un prete) il quale per torgli il vino dal
capo, convocata la Dieta, fa dare di frego alle censure di quello, e
statuire allo impero eleggersi dagli elettori a pluralità di voti,
in cotesta elezione il Papa non entrare per nulla, non lui, bensì
il Conte palatino del Reno essere vicario a impero vacante. Con più
animosi spiriti sottentra a sostenere la lotta Clemente VI, che
richiesto di accordo lo rifiuta se prima Ludovico non risegni il
trono, gli dia in mano i suoi difensori, e la Dieta non riconosca lo
impero feudo papale; parendo le sue parole ebbre egli mette su taluni
elettori ad eleggere emulo a Ludovico il figliuolo del re di Boemia;
donde una guerra che subissò Germania; esso intanto viveva ozi
lascivi in compagnia della contessa di Turena venditrice di grazie, o
di benefizi, ed anco donatrice di cappelli cardinalizi a giovani
notabili di robusta bellezza.--Da lui il diritto dei Papi sopra
Avignone, ed ecco come Giovanna di Napoli, in qualità di erede dei
reali di Provenza, lo possedeva; avendo ella trucidato il marito
Andrea per isposarsi con Luigi duca di Taranto ora atterrita dalle
armi di Ludovico re di Ungheria sceso a vendicare la morte fraterna,
onde non inimicarsi il Papa, ricercata a grande istanza da lui glielo
vende per ottantamila fiorini di oro: incauta sempre, prima di
riscoterne il prezzo implora il perdono del delitto commesso e licenza
di vivere col cugino adultero, ed omicida: l'assoluzione ella ottenne,
ma non il pagamento della moneta: così con l'assoluzione di un
delitto la Chiesa cattolica compra Avignone. Certo non era questo
titolo di dominio da rispettarsi, ma fosse stato migliore non lo
avrieno rispettato i Francesi, che glielo tolsero, e non lo
restituirono. Ora i Francesi a noi contrastano, quanto a sè
permisero; perchè questo? Giovò loro pigliarsi Avignone, non
giova, che noi ci pigliamo Roma: a noi poi non lice imitarli come
quelli che deboli siamo, e di farci potenti abbiamo quasi paura; ci
sta tuttora nelle ossa la ruggine della servitù.

Qui s'intromette la storia di Cola di Rienzo; costui forse restituiva
la repubblica romana se avesse posseduto mezze le virtù, che
cantava in esso Francesco Petrarca; certo a ruinarlo ebbero parte e
non poca i preti legatisi ai patrizi, e la feroce voltabilità del
popolo: ma soprattutto vuolsene dare la colpa alla vanità di lui:
come per questa tracollarono Masaniello a Napoli, l'Alesi a Palermo,
ed altri parecchi è noto: Michele Lando vano non fu, ma avverso ai
patrizi, nè tutto alla plebe; ammanniva il dominio al popolo
grasso, a sè l'esilio: indole mezzana, e senza concetti se togli
quello d'impedire disordini il quale quantunque buono, di per sè
non costruisce; e chi ha a fare col fuoco non si deve sbigottire di
scottature.

La lontananza dei Papi rilassava naturalmente i vincoli di subiezione,
ond'è, che le città di Romagna o per via di tiranni, o di popolo
si reggevano senza darsi un pensiero al mondo di loro. Innocenzo VI, e
Urbano V deliberati ricondursele a devozione si avvantaggiarono delle
compagnie di ventura. Che cosa esse fossero tutti sanno, e sorsero in
Francia dalle guerre sia contro gl'inglesi, sia civili: da prima i
Papi n'ebbero onta e danno; Arnaldo di Cervole del Perigord arciprete
di Verny costringeva Innocenzo VI di riceverlo a gloria in Avignone,
farlo sedere a mensa in compagnia dei Cardinali, assolverlo da ogni
peccato, e per penitenza dargli del proprio 40,000 fiorini di oro, di
che i preti si dolgono sempre; un po' più tardi il Du-Guesclin
conducendo le _compagnie bianche_ in Castiglia per sovvertire il trono
di Pietro il Crudele, sprovvisto di pecunia, e ignaro a qual santo
votarsi per metterne insieme, le menò ad Avignone, ed Urbano per
levarsele dintorno ebbe a prosciorle delle peccata, ed in questo ci
andò di buone gambe e più a fornirle di 200,000 franchi di oro,
ed anco questo, comecchè gli paresse ostico, gli toccò a
ingoiare. Tra loro si trovava Giovanni Acuto, e Malastretta, il Buda,
il Sala; a tutti prepose Gregorio XI Roberto Cardinale di Ginevra,
brutto di corpo non meno che tristo dell'animo: costui quando gli
occorreva qualche masnadiero tutto sangue le mani, la faccia, e la
spada urlando avere menato strage di donne, e di uomini, non esclusi i
fanciulli eziandio lattanti, per grande gioia abbracciava, lo
benediceva, il ferro gli consacrava.

Bologna mostrò allora come sempre, che agl'Italiani virtù non
manca bensì la disciplina, dacchè due masnadieri Brettoni avendo
sfidato tutto il popolo due giovani popolani, Guido d'Asciano sanese,
e Betto Riffoli (il popolo ha sempre le mani lunghe per combattere, i
patrizi quasi sempre per rubare), gittati a terra i cappucci loro
accettarono la sfida, che a quel modo in cotesti tempi si dava e si
riceveva il gaggio; poi venuti a battaglia, e superatili per virtù,
e per fortuna, loro donarono per mercè la vita.

Lo sforzo del Papa era contro Firenze, dopo la guerra trucissima mossa da
lui contro i Visconti; il legato pontificio Guglielmo Noellet di celato le
spingeva contro l'Acuto, che per insidia tentava rubarle Prato, in vista
poi mandava a testimoniarle maraviglia e dolore del caso, ma a cui l'ha da
fare con tosco non vuole essere losco, e i Fiorentini svelti già avevano
contaminato l'Acuto e il tiro pretesco andò invano.--Il Papa innanzi di
movere aveva domandato al Malastretta, se gli bastasse l'animo «di
pigliare Firenze? Ci entra egli il sole? invece di risposta interrogò il
Malastretta.» E il Papa a lui: «certo, ei v'entra.» Dunque,
conchiuse il masnadiero, «se ci entra il sole ci entrerò io.» Ma
il sole continuò ad entrarci; ed egli mai.

E' non si vuole negare i Fiorentini avrieno dovuto combattere a viso
aperto la Chiesa non già con le arti onde in breve fecero ribellare
al Papa fino ad ottanta fra città e castelli: con le armi non co'
fiorini vincere l'Acuto; ma per altra parte chi ravvisa il vicario di
Cristo nell'uomo, che conduce per suo capitano l'Acuto il quale per
mantenere in devozione della Chiesa Faenza la quale tentennava la
manda a ruba, e a sangue senza perdonare a sesso, o ad età,
contamina donne di ogni maniera, vergini o spose, monache o laiche; e
per torre via la lite fra due conestabili, i quali, messa la mano
addosso ad una fanciulla, se la contendevano, con un gran fendente la
partisce in due gridando: «mezza per uno!»

Nè si dica, che questo commettesse l'Acuto per suo mal talento,
imperciocchè chenti fossero i legati pontifici vedemmo, e peggio
verrà chiarito per questo altro caso. I masnadieri della compagnia
_santa_ (santa suole chiamare il prete qualunque perfida, e scellerata
cosa, purchè gli approdi) usciti dal contado di Firenze vanno a Cesena
dove pigliano stanza col Legato del Papa nella Rocca: quinci rovesciandosi
nella città funestavano del continuo i cittadini con soprusi, e offese,
e rapine, che appena impedendosi negli eserciti regolari quasi si lodano
nei masnadieri; i cittadini inacerbiti rivoltansi; afferrate le armi si
mette mano a combattere; i soldati, come sempre nelle battaglie cittadine,
ne toccano; e certamente in quel dì andavano sperperati del tutto, se il
Legato interponendosi, molto supplicando, e molto promettendo, non gli
avesse persuasi a posare. Venuta la notte, e quando il sonno tiene legata
la gente, il Legato chiamato a sè l'Acuto gli disse (io vo' narrarlo con
la Cronaca sanese di Neri di Donato) «messere Jovani.... io ti comando
che tu et tua gente scenda nella terra et facciate justitia»--Messere
Joanni disse: «Messere anderò, e farò sì con tutti li terrieri,
che lasseranno le armi et si renderanno a voi in colpa.--No, disse il
Cardinale, sangue, sangue e justitia.»--Disse messere Joanni:
«pensate al fine.» Disse il Cardinale:«io vi comando così.»
E mentre si mena va la strage il Cardinale correva intorno gridando:
«affatto! affatto!» Cotesta fu immanissima strage; non si racconta
l'uguale di Attila e di Tamerlano; oltre i consueti orrori furonci bambini
inchiodati nelle porte delle case, e a tanti ruppero il cranio su le
pareti, che la terra biancheggiava di cervella dintorno; non mancò nè
anco chi sventrata la madre nelle viscere di lei troncò una non bene
compiuta vita. Un padre dalle mura cala corde nel fosso, e ci si affida per
accertare lo scampo alla moglie, ed ai figliuoli suoi; tentato il terreno
si arrampica sull'argine: quivi il nemico ferro lo coglie, e l'uccide. La
donna, aspettato indarno il marito, per cotesto aere cieco col bambinello
al collo si commette alle funi; scese incolume, ma impigliatasi poi nella
melma del fosso casca, e il figliuolo le si sommerge nell'acquitrino; lo
cerca un pezzo brancolando, e dopo ora non breve lo ritrova; con esso in
braccio traboccando ogni tratto, e nella fitta ad ogni passo affondando
arriva a proda; quivi le occorre spento il marito, e si accorge tenere al
seno pure esanime il figlio: allora dispettando la vita getta via il
pargolo e corre a farsi ammazzare dai nemici. Chi fuggiva pari in fortuna a
cui restava, però che i masnadieri corressero la campagna peggio dei
segugi: a 5000 sommarono i morti in Cesena non contando gli arsi ed i
mangiati dai cani; nè molti meno cascarono privi di vita pei boschi a
cagione del freddo e della fame: le vesti dei traditi barattavansi a carra
con altrettante carra di paglia: il Malatesta nel rifabbricare l'anno dopo
Cesena trovò piene di ossa cave da grano e cantine, e le cisterne
ampissime di San Gelone e di San Lorenzo.--Santo Antonino paragonò il
Cardinale autore di tanto eccidio ad Erode ed a Nerone. La Cronaca di
Bologna conclude la storia del caso miserando: «Nerone non commise mai
una siffatta crudeltà, che quasi la gente non voleva più credere
nè in Papa, nè in Cardinali perchè queste erano cose da uscire di
fede.»

Gran bene aria fatto la gente di allora se tolto addirittura di mezzo
il _quasi_ avesse saltato il fosso rinnegando la Curia Romana. La
Cronaca sanese di Neri di Donato già citata esclama: «così
oggi sono venute le operazioni dei Prelati, e dei chierici della casa
di Dio,» E pare, che il buon cronista non leggesse storie, nè
che spirito di profezia fosse in lui, diversamente avrebbe conosciuto
come le opere della Chiesa per lo innanzi scelleratissime si
mantenessero dopo sempre pari.

Il Monaco Tosti si rallegra nella vita di Bonifazio VIII come la
costituzione _Unam sanctam_ di costui fosse accolta in Inghilterra; ei
si rallegra intempestivo e male, imperciocchè cotesta Costituzione,
e le altre intemperanze clericali già cominciassero anco là a
rimescolare gli spiriti avviandoli alla ribellione; così che presto
Giovanni Vicleffo colà sorgeva alla scoperta contro la dottrina e
gli abusi della sede romana rammemorando ai popoli le lunghe rapine, e
la feroce avarizia di lei.

Corre comune opinione che Papa Gregorio tornasse a Roma pei conforti
delle due sante rivali nello amore di Cristo Brigida, francescana di
Svezia, e Caterina, domenicana da Siena; io veramente penso, che le
compagnie di ventura, massime le visite dell'arciprete di Perigord, e
di Bertrando di Guesclin ve lo spingessero più forte: ad ogni modo
pare che anco costoro con i ghiribizzi del proprio cervello ve lo
inducessero, dacchè Gregorio XI in fine di vita ebbe a dire:
«gli uomini prudenti si badassero dagli uomini, e dalle donne, che
pigliando le fantasticherie loro per estasi religiose abbindolavano la
gente; dallo quali invecerìe egli pure confessava essere stato
sedotto.» E senza dubbio le donne opererebbero santamente a badare
a' fatti di casa, ed in particolare le monache, le quali, secondo che
porta il nome di _monaco_, dovendo starsene chiuse e sole non si sa,
che diavolo vadano a sgonnellare nel mondo. Lui morto, i Cardinali
riunironsi in Conclave ad eleggere il Papa; ventitrè erano in
tutti, dei quali sei rimasti in Avignone, uno legato in Toscana, gli
altri a Roma, undici francesi, uno spagnuolo, quattro italiani:
elessero uno italiano: sicuro, una tal quale violenza ci fu a fare
eleggere Papa italiano raccontando le storie, che da trentamila Romani
assediassero il Conclave; le campane sonavano a stormo, il popolo
urlava: «morte a tutti, Papa romano, o almanco italiano,» ed
ammantava fascine per bruciare i contumaci; però sendo quattro i
Cardinali italiani non gli obbligarono ad eleggere per lo appunto
Bartolommeo Prignano da Napoli. Usciti di Conclave ebbero altri
consigli, e si pentirono avere eletto un'uomo acerbo, che di colta
volle ridurre, il vitto dei Cardinali ad una pietanza sola, pretese
troncare di botto le simonie, ed impedire pigliassero doni: anco
significò loro, che di tornare ad Avignone smettessero il pensiero,
perchè a Roma intendeva restarsi: volere ad ogni costo deprimere la
baldanza francese; essere tempo che la Chiesa cessasse di comparire
feudo di Francia; volere (e in ciò forte lo inuzzolivano i Romani)
promovere tanti Cardinali italiani in una volta, che ormai fosse
disperata la elezione di Papa francese: sommo il disprezzo da lui
mostrato ai Cardinali; a quello diceva: «taci, tu hai parlato anco
troppo;» a questo: «smetti, che tu non sai quello, che ti
dica;» il Cardinale Orsino un bel giorno salutò col nome di
_stolto_; ed avendo chiamato il Cardinale di san Marcello senza
rispetti _ladro_, questi di rimando lo rimbeccò con le parole:
«_tu menti come un calabrese_.» Tutto questo forse era vero, ma
che i Cardinali scismatici si sentissero obbligati in coscienza a
spingergli contro Clemente VII, perchè lo provarono di natura
crudele e feroce questo poi non regge, quante volte tu consideri
Clemente VII essere stato niente meno che quel Roberto da Ginevra del
caso di Cesena. Di qui scisma provvidenziale, onde vie più il
Papato cascasse nel vilipendio delle genti: con Urbano rimasero
Inghilterra, Lamagna, Ungheria, Polonia, Boemia, e Portogallo;
andarono con Clemente Francia, Sicilia, Spagna, Svezia, e Savoia. Ora
vedremo cosa nuova, due Papi donare a due un regno, e nei petti umani
infiammare tanto odio, che peggio non avrieno saputo fare venti
demoni.

Poichè Giovanna regina di Napoli si mostra fautrice di Clemente
VII, e lo ricovera nei suoi stati, Urbano le sommuove sotto il regno,
e costringe l'antipapa a ricoverare in Francia; nè qui si ferma,
chè scomunicatala, e depostala dal regno lo conferisce a Carlo di
Durazzo suo nipote, e da lei beneficato: all'opposto Clemente VII
conferisce il medesimo regno a Luigi di Angiò figlio di Giovanni I
re di Francia, e d'accordo con Giovanna chiama le armi francesi in
Italia. Prevalse Carlo, che la zia benemerente soffoca fra i
guanciali, e diventa re di Napoli: più di una testa non cape dentro
corona regia. Luigi intanto veniva di Provenza alla vendetta, e al
regno; Urbano approfittandosi della congiuntura insta presso Carlo,
affinchè adempia la promessa stipulata quando lo investì del
regno, la quale era conferire terre, castella, e pensioni ai suoi
nepoti con più il principato di Capua; e Carlo lo tiene bene
edificato finchè il pericolo dura, morto l'emulo in Bari di
naturale infermità, al Papa, che alle solite istanze aggiungeva
quella che avesse a levare via certe nuove gabelle, rispose: «il
regno suo per diritto di successione e per armi; da lui Papa niente
avere avuto eccetto quattro parole scritte sopra la investitura:
quanto a gabelle non se ne impacciasse; attendesse ai preti.» Di
qua e di là avvicendansi parole acerbe, e Carlo infellonito senza
un rispetto al mondo va difilato ad assediare il Papa a Nocera. Se
Urbano chiuso tempestasse, maledicesse, e scomunicasse non importa
dire; tre volte in capo al dì si affacciava dalle mura, e a suono
di campanello, in mezzo alle fumose vampe delle torce di pece
avventava l'anatema contro Carlo. Cinque Cardinali che si trovavano
seco attentaronsi dirgli, che campanelli, e torce, e scomuniche
valgono contro cui le teme, ma ben'altri argomenti ci vogliono quando
questi non approdano: si accordasse. Il Papa sospettando fossero
contaminati gli fece in un'attimo appiccare per le braccia alla corda;
intanto egli passeggiava recitando il breviario, e di ora in ora
interrompeva la lettura confortandoli a palesare il tradimento;
così un pezzo finchè cotesti meschini risoluti significarono,
che non sentendosi in colpa, nè manco potevano confessarla; allora
fatta dalle braccia attorcere la fune al collo di loro il santo padre
ordinò gli strangolassero: aggiungono altresì che messi in pezzi
e seccati i cadaveri nei forni n'empì parecchie valigie le quali
dipinte a teschi, e a stinchi, e coronate col cappello cardinalizio
poste su le groppe ai muli lo precedessero insieme con la triplice
croce; questa per procacciarsi venerazione, quelle terrore: tuttavia
parte con inganni, e parte per virtù di Ramondello Orsino e di
Tommaso Sanseverino si sottraeva al presente pericolo rifugiandosi a
Genova. Carlo lascia Napoli e va re in Ungheria; cola è morto;
nella Chiesa di santo Andrea gli danno sepoltura cristiana, dove lo fa
levare il Papa però che come colpito di anatema non potesse giacere
in sacrato. Ora due re fanciulli emuli Luigi II figlio di Luigi di
Angiò, e Ladislao figlio di Carlo; due madri tutrici contendenti
con tutte le perfidie femminili senza pure una virtù da uomo; due
preti che si maledicevano pretendendo entrambi rappresentare Gesù
Cristo; Urbano per Ladislao suo pupillo, e Clemente per Luigi del pari
suo pupillo, ed ambedue fermi di opprimere il re nemico e spogliare il
proprio pupillo; poi Urbano scomunica tutti e due, bandisce crociate;
e sè proclama re di Napoli; mentre da Perugia accorre a Roma per
sedarvi una ribellione casca da cavallo e muore. Succede Bonifazio IX;
anco Clemente cessa in Avignone; i Cardinali di Francia supplicati da
molta parte della cristianità ad astenersi di eleggere altro Papa
ovvero antipapa, e così porre termine allo scisma, non danno retta
per paura di guai venendo in potestà di Bonifazio; però a
Clemente surrogano Pietro di Luna di Arragona, che piglia nome di
Benedetto XIII. Costui prima della sua elezione lamentava lo scisma;
innanzi e dopo il pontificato ottenuto prometteva risegnare lo ufficio
pel bene della cristianità, ma poi era niente; quando si veniva
all'ergo, non trovava basto, che gli andasse; allora Carlo VI re di
Francia, per venirne al chiaro, manda il maresciallo Boccicalto in
Avignone perchè lo pigli e metta in carcere; tosto detto, e tosto
fatto, chè i Francesi quando torna loro il conto non la stanno a
guardare tanto pel sottile, ed allora la corte di Avignone gli uggiva.
Forse lo scisma sarebbe stato tolto di mezzo, se Vinceslao imperatore
avesse potuto, siccome prometteva, torre Italia e Lamagna alla
obbedienza di Bonifazio IX, ma i baroni pel suo mal governo lo
deposero surrogandogli nello impero Roberto il Bavaro; allora i
Francesi rilassarono la custodia di Benedetto, tanto, ch'ei potè
fuggirsi di prigione; tuttavia per buttare polvere negli occhi manda a
Roma quattro legati onde venire ad un accordo; rompono da una parte, e
dall'altra in rampogne sanguinose; di qua e di là ragione, ma
Bonifacio come presente e rabbioso se ne arrapina più dell'altro, e
muore[1]. I Cardinali si affrettano a dargli per successore Cosimo
Migliorati di Sulmona, che assume nome d'Innocenzio VII.

  [1]  Taluni scrittori chiesastici scrivono come Bonifacio infermo di
    renella innanzi di usar con femmine, giusta il consiglio del
    medico, che gliel'ordinava per rimedio, elesse morire. Anche di
    queste ci tocca a sentirne!

E si affrettarono perchè il popolo tumultuante gridava: libertà.
Certo se il popolo per genio proprio avesse appetito la libertà ei
l'acquistava, ma ciò faceva per istigazione del re Ladislao[1], e
ormai per mille prove si era visto, che la libertà in mano al
principe è quasi una chiave per aprire la porta della tirannide, e
dopo quel tempo per altrettante prove è rimasto confermato; ma il
popolo non lo aveva per anco conosciuto, nè sembra lo conosca
neppure adesso. Ladislao poi non si stava a minaccie, ma con molta
copia di armati si accosta a Roma: gli resiste Innocenzo, e ributta il
re con la peggio dagli assalti notturni: mentre però apparecchiansi
nuove battaglie taluni cittadini non avversi, anzi parecchi al Papa
divotissimi, si recano al campo nemico per vedere se ci fosse via per
comporsi; di ciò piglia sospetto Luigi Migliorati nipote del Papa,
e poichè il sospetto nell'anima del folle armato è morte pel
sospettato, al ritorno ei gli agguanta, e ammazza; da ciò un
tumulto d'inferno, onde il Papa riesce con istento a salvarsi in
Viterbo. Ladislao entra in Roma sovvenuto dai Colonna e dai Savelli, i
quali aristocratici essendo furono allora come sempre compari dei
tiranni; ma il popolo non intende barattare una servitù con
un'altra e delle due men trista la papale; e allora forse era così;
prese pertanto le armi si azzuffano popolo e soldati regi e per tutto
un dì combattono; verso sera i regi piegano, Ladislao è cacciato
fuori delle mura, non prima però, che come testimonio col quale
intendeva reggere i nuovi sudditi amatissimi, non avesse appiccato il
fuoco a quattro quartieri di Roma. I Romani richiamarono il Papa, nel
modo stesso, che i della Torre sperarono essere richiamati dai
Milanesi, vale a dire quando i peccati dei Visconti avessero superato
i loro, e morì senza avere o voluto, o saputo, o potuto fare niente
per rendere la pace alla Chiesa.

  [1]  Questo re trovandosi al verde sposa di 14 anni Costanza di
    Chiaramonte figlia del conte Manfredi di Sicilia potentissimo per
    terra e per pecunia. Cresciuto in fortuna la piglia in uggia, e
    Bonifazio, il Papa, che prima di maculare la sua castità elegge
    morire, per gratificarsi costui gli concede il divorzio. Bella era
    Costanza, e amante, e da tutti amata, eccetto dal marito. Quando
    dopo avere ascoltato la messa il vescovo di Gaeta le lesse in
    faccia all'improvviso la bolla, e le si accostò per levarle di
    dito l'anello nuziale, per poco non le si schiantò il cuore:
    senza pietà la chiusero in un castello antico sotto la custodia
    di due vecchie; dopo tempo non breve n'era cavata per ordine regio
    perchè si sposasse con Andrea di Capoa figliuolo del conte di
    Altavilla; non si potendo in altro modo vendicare del malvagio
    marito, mentre costui se la menava a casa ella, udendo il popolo,
    esclamò: «Conte Andrea, tu puoi andare superbo su tutti i
    baroni del regno, perchè ti avrai per femmina la moglie
    legittima del re Ladislao tuo Signore.»

I Cardinali di Roma piuttostochè Papa deliberarono eleggere quasi
un procuratore disposto a risegnare il papato; e così ognuno di
loro giura avrebbe fatto dove lo avessero promosso al seggio
pontificio; dopo ciò eleggono Angiolo Corrario da Venezia, che
prese nome di Gregorio XII.

Questi fingendo osservare il patto propone a Benedetto la mutua
risegna, e Benedetto a lui. Carlo imperatore per istringere la cosa
invita i due emuli a deporre l'ufficio al cospetto del proprio
collegio di Cardinali: ambedue girano nel manico e chiedono una
conferenza in seno alla quale ognuno di loro renunzierebbe: per luogo
di posta da entrambe le parti si accetta Savona; ferma e stabilita
ogni cosa, le case, le guardie, le scambievoli malleverie, le galere,
il tempo; di tutto questo corre l'annunzio ai principi: pareva che
quei due vecchi preti altro non avessero a fare, che stendere la mano
per toccarsela, e i due vecchi preti non mai furono come allora alieni
di trovarsi insieme. I Veneziani indettati rifiutano le galere a
Gregorio; di ciò movendosi querimonia grande a Roma, a Gregorio
tocca uscirne, ma si ferma a Siena, e di qui ripiglia ad annaspare.
Benedetto tastato il terreno, e sicuro ormai non si verrebbe a niente,
più audace avanza, va a Porto Venere, va alla Spezia, e qui sosta.
Gregorio preso pel collo da Siena si reca a Lucca, ma qui mette le
barbe; nè ci fu verso di staccare il primo dalle marine, nè il
secondo dalla terra ferma; «se uno muove un passo innanzi, scrive
Lionardo Bruni nei Commentari, l'altro lo dà addietro; uno di loro
come animale acquatico schifa la terra, l'altro animale terrestre
aborre l'acqua; e per questa guisa questi due vecchi preti per pochi
istanti di vita, che possono tuttavia loro avanzare, mettono a cimento
la pace, e la salute della Cristianità!»

Gli asti cavillosi di questi due preti decrepiti avendo vinto la
pazienza altrui, i Cardinali loro seguaci gli abbandonarono, e
convenuti insieme con altri prelati bandirono il Concilio di Pisa; e
fu cosa fuori di misura molesta tanto a Benedetto, che a Gregorio
però, che alla monarchia pontificia con sì lunga industria
stabilita venisse di un tratto a surrogarsi l'oligarchia cardinalizia;
e non tornava meno ostico quello imporsi del Concilio sopra il Papa.
Ancora, i Romani assai di quieto, anzi con maravigliosa contentezza,
si adattavano alla signoria del Papa dacchè col trovato del
Giubbileo, e con gl'infiniti altri ogni dì rinascenti, per cui il
prete si mostra pescatore solenne di pecunia, colà in Roma si
gavazzava; e il romano popolo non pure si era mantenuto quello del
_pane e dei circensi_, ma nella pretensione di scioperare ed essere
mantenuto a ufo erasi due cotanti più incarognato; ed ora per
cotesti scismi, contenzioni, e guerre d'inchiostro non menochè di
sangue invece di avvantaggiarsi col richiamo del Papa conosceva a
prova averci scapitato e non poco: per le quali cose preso in uggia
santa sede, e Papa macchinava cose nuove: onde il buon prete Gregorio
innanzi che il popolo facesse atto di ribellione, ovvero l'odiato
emulo penetrasse in Roma, assettò le faccende in guisa che Ladislao
potè di leggieri occuparla mercè il tradimento di Paolo Orsino.

Nè lo emulo Benedetto sperimentava la fortuna meno acerba, però
che Carlo VI al parere del Parlamento e della Sorbona avendo
pubblicato uno editto che ordinava ai sudditi Papa, ed antipapa
mandassero alla malora se prima dell'Ascensione non si fossero
accordati, Benedetto indracandosi lo intimava ad abbuiare l'editto; se
no, guai! E il re di rimando lo dichiarava nientemeno che scismatico,
eretico ostinato, perturbatore della Chiesa di Dio, con altre siffatte
galanterie che i re fino da cotesto tempo avevano rubato alla bottega
del Papa. Allora chi piglia per un verso, chi per un'altro: Gregorio
si commette a Carlo Malatesta di Rimini ed intima il Concilio a
Ravenna; Benedetto va in Arragona, e convoca a sua posta il Concilio a
Perpignano; il terzo Concilio intanto faceva le sue faccende a Pisa
dove deposti Benedetto e Gregorio elessero Papa un Pietro Filardo, che
volle appellarsi Alessandro e fu V di numero: poco visse, e corse fama
credibile, raccolta eziandio dagli scrittori chiesastici, che morisse
di veleno ministratogli da Baldassare Cossa legato di Bologna, non
avendolo alla prova rinvenuto quale ei lo desiderava arrendevole. Se a
sostituire il Cossa al morto Alessandro contribuisse lo spirito santo
arduo è a sapersi; certamente vi ebbe parte il terrore delle armi
stipendiate dal Cossa. Dal Concilio di Pisa ne uscì questo di bene
che invece di due Papi d'ora innanzi furono tre, che si misero a
straziare la Chiesa per modo, che peggio non avrieno potuto fare i
Saraceni; e qui considerando come i Papi con poca e punta autorità
temporale su Roma, e sopra gli altri stati, potessero condurre guerre
così lunghe e dispendiose importa porre mente a questo, che appunto
ricavando da altra parte, che dai pretesi loro dominii, danari a macco
la perdita di quelli non ne alterava le condizioni: la sarebbe andata
diversa se i cattolici ristucchi di tutti i Papi, e antipapi avessero
tutti abbandonato; ma la procedeva diversa, però che essi si
dividessero, ed uno seguitassero il quale per buono e santo
obbedivano. I Papi poi e gli antipapi diversi in moltissime cose, nel
pigliare pari: sembrava che Giovanni XXII dei trovati per carpire
danari avesse tocco la cima, ed in breve fu vinto da Bonifazio IX il
quale estese le annate anco alle prelature; e queste annate, che ai
tempi suoi sommavano a mezza la rendita dell'anno, egli non si
peritò crescere di punto in bianco fino a tre volte la rendita di
un anno; ei prese a vendere tutto, indulgenze, cariche, e onori; in
prezzo (mancando moneta) pigliava merci: per danaro perdonava delitti:
prometteva a vari la cosa medesima, e poichè da tutti se l'era
fatta pagare, tutti con fronte di bronzo truffava.

Per quanto i Papi si sieno industriati fare, hanno ricavato se non
poco, però sempre meno di quello, che speravano dai popoli
soggetti: e quante volte vi hanno avuto ricorso adoperarono in modo da
tenerseli bene edificati. L'Albergato nei commentari dei suoi tempi
nota: «come la Chiesa da Terracina a Piacenza possieda bella, e
magna parte d'Italia; e tuttavia tanti popoli opulentissimi, tante
città floridissime, le quali amministrate da altri, potrieno con le
gabelle sopperire alla spesa di qualunque grande esercito, alle mani
del Papa appena buttano tanto che basti alle cariche dei magistrati
che ci mandano a reggerle.» Secondo la relazione dell'Oratore
Zorzi, Perugia, Spoleto, la Marca, e la Romagna insieme fruttavano un
120,000 ducati, di cui se la metà entrava nelle casse del Papa era
bazza.--I Papi si sono aggravati sopra i sudditi alla stregua, che
alla devozione spariva il latte; e non mancano ricordi per informarci
come le rendite dello stato sotto Giulio II di 35,000 scudi salirono a
420,000 ai tempi di Leone X; a Clemente VII riuscì portarle fino a
500,000; a Paolo III fino a 706,473; dopo alquanto di sosta ripigliano
ad aumentare; Pio IV le spinge a 900,000 scudi, e nello spazio di nove
anni le troviamo ascese al 1,100,000 ducati.--Pure negli stati della
Chiesa questo toccare dei cofani più che altrove si mostrò
pericoloso; e non contribuì poco a dare il tracollo ad Adriano la
necessità nella quale ei si vide condotto di mettere il balzello di
mezzo scudo a fuoco; e fu provato che anco nel 1846 il popolo degli
stati romani pagava meno di ogni altro italiano e forse di Europa.

I Papi immaginarono altre vie per fare danaro; il primo fu imporre per
modo transitorio, come promettono sempre, e poi durò un pezzo, il
tributo, che a Napoli ed in Sicilia appellavasi _donativo_, in Ispagna
_servicio_, a Milano _mensuale_; doveva gettare un 300,000 scudi
all'anno, ma non li rese mai; nel 1560 appena ne raccattavano 165,000.
L'altro fu creare debiti pubblici come oggi si costuma: sicchè
possiamo sostenere i Papi maestri a noi Italiani nell'arte del debito
pubblico; come col tirare a Roma tanto danaro di fuori dal mondo
cattolico se non inventori certo utilissimi promotori del commercio di
banca: i debiti poi operarono in due maniere, la prima redimibile, la
seconda no: la prima si faceva sotto forma di nuove cariche istituite,
le quali vendevansi, e sul prezzo sborsato si retribuiva una
provvisione, la quale secondo la vita del compratore si calcolava a 14
per cento, e non era troppo; poi si costumò diverso: si tolse in
presto una somma assicurandola sopra l'entrata di qualche gabella;
anzi accettando i creditori a parte dell'amministrazione, ed
assegnando sopra l'entrata della stessa gabella il pagamento
dell'usura, la quale naturalmente per la durata, e la sicurtà del
presto, ridussero a dieci, ed anco ai nove per cento. A tutti siffatti
debiti imposero nome _monti_; e i primi furono detti _vacabili_,
però che con la morte del possessore della carica vacavano; gli
altri no, chè si alienavano, o tramettevano agli eredi.

Che cosa poi la Curia romana inventasse per vendere appena si crede:
notariati, protonotariati, segretari, scrittori di brevi, scrittori di
archivi, bollatori, porzionari di ripa, presidenti, e aggiunti al
collegio dei presidenti, scudieri, cavalieri di San Pietro, cardinali,
camerari; che più? Instituirono collegi di Stradiotti, di Albanesi,
e perfino di 100 Giannizzeri, dai quali posti cavarono 100,000 ducati,
ed a pagarli assegnarono in parte le rendite delle bolle e delle
annate. Annate di benefizi, e bolle per pagare Giannizzeri!

Innocenzo VIII creò ventisei segretari nuovi e parvero troppi;
Alessandro VI aggiunse sessanta scrittori di brevi; Gregorio XI cento
scrittori di archivi; Leone, che avria venduto la sua parte di
paradiso, portò le cariche nuove al numero di 1200; in tutto ai
suoi tempi sommavano a 2150. Però intorno alle entrate della Curia
romana giudico che si abbia a tenere per certo, che il prete non si
attentò aggravarsi troppo sopra i popoli, come quello, che sentiva
difettare di diritto, e temeva col soperchio suscitare querele ed
indagini, che gl'importava evitare: avere il prete inventato con
frutto sotto diverse forme varie maniere d'imprestito; essere stato
costretto di ricorrere ai balzelli sul popolo mano a mano che gli
scemavano le entrate per così dire spirituali: e queste essergli
diminuite un po' per la calante devozione dei fedeli, e un po' per
elezione di alcuni Papi, massime Paolo IV, e Pio V, rigidi vecchi, i
quali, se la Curia poteva riformarsi, essi l'avrebbero riformata:
nonostante tutto questo ed altro che se ne potrebbe dire, le entrate
maggiori, non però infinite (come altri o credulo, o bugiardo va
affermando) al Papa vengono per causa della fede, epperò egli
avrà sempre potenza di nocerti, solo, che gli avanzi un castello
dove possa affermarsi principe di corona e facultato a sostenere
guerre contro i suoi nemici sieno o no cristiani di fede ortodossa,
ovvero eterodossa.

Sigismondo imperatore, che si diè vanto mettere in sesto la Chiesa
di Cristo, poichè vedeva i suoi pretesi vicari arrabattarsi per
buttarla all'aria, si era fatto promettere a Giovanni radunerebbe il
Concilio; creato Papa nicchiava; strettigli i parmi addosso intendeva
bandirlo in Italia; lo ebbe a convocare a Costanza, o a meglio dire i
suoi legati lo convocarono in onta di lui. Avendolo bandito Giovanni,
gli fu mestieri andarci, ma per sospetto si munì del salvocondotto
di Federigo duca di Austria. Qui non è luogo per la storia di
cotesto Concilio, dire come e perchè il clero alemanno procedesse
avverso al papato, l'italiano oltre ogni credere parziale; i padri
riuniti considerato, che se si avesse a votare per capi avrebbero
prevalso gl'Italiani, misero fuori una legge, che i voti si darieno
per nazione, e le nazioni furono quattro, alemanna, inglese, italiana,
e francese; confermarono la dottrina, che l'autorità del Concilio
prevaleva a quella del Papa, e poi per dare il buono esempio agli
altri presero a persuadere Giovanni a deporre il papato: amaro passo
per costui, il quale si era raffidato, che deposti gli altri, lo
avrebbe il Concilio raffermo; costretto a renunziare lo fece, ma con
tanti arzigogoli che parve meno che niente: alla fine, vedendo che non
la poteva spuntare, se la svignò riparando a Sciaffusa. Ne accadde
un subito scompiglio, che tutti i Cardinali seguitarono il Papa:
l'elettore di Magonza, il Margravio di Baden, e il duca di Austria si
accontarono a sostenerne le ragioni: se nonchè il Concilio tenne
fermo dichiarandosi non pure superiore, ma indipendente dal Papa; lo
imperatore Sigismondo mette i fuggiti al bando dello impero, Lamagna,
e Berna combattono il duca di Austria, e lo vincono, ond'egli in breve
smarrito torna a Costanza menandosi dietro il Papa, il quale di foga
accusato, e condannato chiudono prigione in Gottleben.--Facilmente
potremo credere che costui non fosse santo, e nè manco buono;
forse, se non tutte, almeno in parte si meritò le accuse
appostegli; ma la furiosa condanna assai chiaro dimostra l'ira, non la
giustizia del Concilio. Dopo lui rinunciava spontaneo Gregorio XII,
che riassunti titolo, e qualità di Cardinale moriva decrepito a
Recanati. Più duro Benedetto XIII, il quale propose rinunziare, ma
a tali patti, che parvero ebbri: il Concilio di Pisa si annullasse;
per lui il Concilio di Costanza si chiudesse, per lui un'altro se ne
convocasse, dove dopo avere egli eletto un'altro papa spoglierebbe
l'ufficio: questo accadeva a Perpignano, presenti Sigismondo
imperatore ed il re di Arragona donde Benedetto, temendo o fingendo
temere insidie, di un tratto fuggiva, e chiusosi nel forte castello di
Paniscola di là scomunicava tutto il mondo, che lo aveva
abbandonato.

Col Papa o senza Papa il Concilio di Costanza fu concilio di iene;
quivi comparve Giovanni Huss raccomandato dal re di Boemia, e sotto
guarantigia di salvacondotto imperiale; costui professava dottrine,
che poi con auspici migliori prevalsero con Lutero, e prima aveva
annunziato Wicleffo, al quale, mercè singolare prudenza, toccò
in sorte di morire in pace: nonostante le regie commendatizie, e il
salvocondotto imperiale l'Huss era sostenuto in carcere dove un tempo
ebbe a compagno Giovanni XXIII. I padri furono giudici, e parte;
infamie antiche, che ogni dì si rinnovano senza presagio di
prossimo fine: lo arsero vivo, ed era egli solo in mezzo al suo
supplizio sereno. Uguale fato, e per la medesima causa incolse a
Girolamo da Praga: mite natura, ma costantissimo, e per sapienza
mirabile: i riti che precedono a siffatti giudizi chi li fa li chiama
processi, e sono assassinii; senonchè per consolazione dell'animo
di cui si avvolge in questi laberinti di sangue la vendetta tenne
dietro alla colpa, e quale vendetta! Trenta mila settari scesi dal
monte Tabor comandati da Ziska bruciarono cinquecento chiese,
spiantarono conventi, dispersero sepolcri, e la Boemia dà prima al
mondo lo esempio di rompere la catena della curia romana. Il Poggio
Bracciolini, presente al Concilio, scrivendo a Lionardo Aretino gli
narrava commiserando il fato di cotesti due innocenti, e questi co'
consigli della viltà nella risposta gl'insinuava a tenersi bene
abbottonata quella disutile misericordia. Merita leggersi cotesta
epistola di Lionardo Bruni, che è la nona del Libro IV; per me la
considero modello dello stile che ora si disse dottrinario, ora
riformista, ora moderato, e fu sempre codardo. Per avere un giusto
concetto di ciò che si agitava nel seno di cotesto Concilio basti
tanto, che lo stesso prudentissimo Aretino scrivendo al Poggio non
dubita applicargli i famosi versi di Virgilio:

   _«Quicquid delirant reges plectuntur Achivi
    «Seditione, dolis, sedere, atque libidine et ira
    «Iliacos intra muros peccatur et extra.»

    Dentro e fuori si pecca, e delle frodi
    Dei regi e dei corrucci il popol porta
    Le pene, e dei delitti, e della rea
    Lussuria di costoro._

Singolare fama davvero di tanti chiesastici raccolti in Concilio
solenne per riformare il costume della Chiesa! Chi voleva eleggere il
Papa, chi no: prevalsero quelli, che volevano; e per questa volta
così fu eletto il Papa; si chiusero in Conclave trenta deputati
delle cinque nazioni, ventitré Cardinali delle tre obbedienze; chi
riportava due terzi dei suffragi uscisse Papa; dopo quattro giorni
proclamarono Ottone Colonna che si nomò Martino V. Appena eletto
costui considerando la gente stracca, e troppo più zelatrice dei
propri comodi, che non di quelli della Chiesa, entra di mezzo e con
accordi parziali componendosi co' singoli rompe la unità del
concetto; per questo modo diventati con la divisione debolissimi
rimanda tutti chierici a casa, e chiude il Concilio col decreto, che
in capo a cinque anni se ne avesse a convocare un'altro; un'altro dopo
sette; e da cotesta epoca in poi al fine di ogni dieci anni uno.

Pei costumi, che questo Concilio pretese riformare, e' fu come la
nebbia, lasciava il tempo, che trovava; gli scrittori dei tempi ci
attestano come, sia dopo, sia avanti il Concilio frati, e monache
facevano famiglia insieme; preti e vescovi tenevano alla scoperta
femmine di piacere in casa; in parecchie città i figli dei preti
superavano quelli dei laici; ogni libito permesso: alla religione
sostituite pratiche superstiziose, e materiali; i chiostri mercati; i
monasteri delle donne lupanari; le basiliche, e le altre chiese asili
di banditi.

Martino, separato il Concilio, una cosa tolse principalmente a cuore,
e fu dichiarare non pure perniciosissima ma empia la dottrina, che
stabiliva l'autorità del Concilio superiore a quella del Papa: pure
mandava attorno i cedoloni per l'adunata di altro Concilio a Pavia.

Intanto Benedetto Papa ricalcitrante muore, e dicono di veleno;
Giovanni si sottrae con la fuga al carcere bavarese; se connivente o
no il Palatino non importa cercare; solo corse fama non lo lasciasse
ire senza averne avuto lo sbruffo di 300,000 pezzi di oro; di Liguria
scrisse a Martino profferendogli obbedienza, e fu accolto a braccia
quadre; Martino per la consolazione lo ribenedisse Cardinale, anzi lo
fece decano del sacro collegio, e gli compartì l'onore del tappeto,
e della predella in pubblico; quanto gli poteva dare gli dette, tranne
vita lunga; morì Giovanni povero, almeno così dichiara il
testamento di Giovanni dei Medici, i quali dopo la morte di cotesto
spiantato salirono al grado dei primi banchieri d'Italia, forse del
mondo!

Braccio da Montone capitano di ventura messo da Giovanni XXIII a
tenere Bologna in devozione della santa sede, viste le cose di cotesto
Papa andare a rifascio, vende ai Bolognesi la propria libertà per
settanta e qualche mila fiorini di oro: poi conducendo la guerra per
conto proprio espugna Perugia, ed occupa Roma; ma nel punto in cui
sembra, che meno possa cadere acconcio tra Braccio, e Martino, attese
le scambievoli ingiurie, allo improvviso si accordano. Papa Martino
finchè di lui il mondo potè dire quello che per istrazio gli
cantavano i fanciulli a Firenze sotto i balconi: _papa Martino non
vale un quattrino_, si mostrò migliore del pane, ma appena visto il
destro di fare da lupo propose a Braccio ripigliarlo in grazia, dove
in pegno della novella amicizia gli ricuperasse Bologna: gli è
vero, che il Papa avevale concesso di reggersi a libertà, purchè
osservasse obbedienza alla Chiesa, e tanto Bologna aveva promesso di
fare, e faceva; ma ai Papi non sembra governare se non sono tiranni;
però non ostante l'accordo Braccio rendeva serva al Papa Bologna a
cui prima aveva venduto la libertà; e le stette a pennello però
che le libertà comprate non durino, e in questo caso vale meglio
tenersi i danari.

Dopo le male prove passate pareva che non dovesse a veruno cascare in
mente di farsi antipapa; un altro antipapa scappò fuori, da prete
chiamato Egidio Munoz, e da papa Clemente VIII; ma scomunicato ebbe
paura, e renunziò.

Poco importa sapere quale fosse la indole di Eugenio IV: molto si
riduceva a conversare con Cosimo, che la storia bugiarda chiama _padre
della Patria_; tuttavia sopra molti altri Papi vissuti prima e dopo di
lui andò famoso per ispergiuro, e fedifrago: ignudo di aiuto, non
sapendo come schermirsi da Francesco Sforza, e da Fortebraccio, si
amica Francesco, e a patto che lo difenda gli dà col titolo di
marchese la Marca di Ancona, e promette lasciargli per certo tempo il
dominio dei paesi da lui conquistati creandolo gonfaloniere della
Chiesa; appena uscito, per la virtù di cotesto condottiero, di
angustia, Eugenio commette a Baldassarre di Offida ammazzarlo; e di
ciò lo Sforza venne in chiaro per lettere intercette; lo Sforza
mise le mani addosso all'Offida, e lo fece morire nel castello di
Fermo, non potendo usare il medesimo tratto col Papa amico suo
sviscerato un tempo, Giovanni Vitelleschi, uomo di crudeltà pari
all'arroganza, e tu la Chiesa, e i cherici che sieno argomenta da
questo, che essendo egli partito legato di Eugenio nella guerra di
Napoli, considerando il guasto alle campagne come spediente a condurre
presto a fine la impresa, sbraciò centogiorni (e ormai che ci era
poteva fare anni) d'indulgenza nel purgatorio ai suoi soldati per ogni
pianta di olivi che avessero reciso; di un tratto gli congiura contro,
volendo in contrasto al suo genio opprimere i Fiorentini odiatissimi,
i quali per lettere sorprese a Montepulciano mettono Eugenio in chiaro
della trama; a tradimento imprigionato da Antonio Rido castellano di
Santo Angiolo che bel bello avvolgendolo co' ragionari, gli prese il
cavallo per la briglia, e tiratolo di là dal ponte alla sprovvista
gli fece calare la saracinesca dopo le spalle; affermano morisse
avvelenato; ma io ricordo aver letto, che mentre stavano medicandogli
una ferita, la quale aveva, difendendosi, rilevata, Luca Pitti
cagnotto di Cosimo diede di un pugno nella tenta ficcandogliela nel
cervello, onde su l'atto morì. Su di che non occorre avvertire
altro; ma pel caso dello Sforza è provato come il Papa non si reputi
per niente costretto a conservare pei successori suoi lo stato come lo
ha ricevuto dai precedenti: il _non possumus_ di Papa Pio IX hassi a
tenere protervia di femmina incaponita, non già dottrina
sostanziale della Chiesa.

Adesso del Concilio di Basilea; Eugenio dopo averlo guidato come il
cane per l'aia, ora a Siena ora a Pavia, gli fu all'ultimo forza di
convocarlo a Basilea. Qui subito si manifestava il contrasto di
opinioni affatto nemiche; aborriva la Curia romana dai predicati del
Concilio di Costanza intorno la prevalenza del Concilio sul Papa, nel
quale appunto siffatta sbocconcellatura della sua autorità aveva
acceso più, che mai l'agonia del dominio assoluto; i Padri per lo
contrario alieni da qualunque subiezione intendevano ristabilire gli
antichi instituti democratici della Chiesa. Primi atti del Concilio
questi: la facoltà nel Papa di sciogliere di sua autorità il
Concilio negarono; la indipendenza del Concilio da lui bandirono; la
facoltà di creare Cardinali gli tolsero; citaronlo a comparire
personalmente dentro tre mesi al Concilio: vacata la santa sede
dichiaravano il Concilio solo abilitato a eleggergli il successore.
Sigismondo imperatore va a Roma per incoronarsi, ed assettare gli
animi arruffati di questi preti; quanto a corona si lascia fare, ed ei
se la pone agevolmente sul capo: quanto ai preti l'osso è più
duro; Eugenio riconoscerà legittimo il Concilio di Basilea a patto,
che a tutto quello si fece fin lì si dia di frego; e di ora in poi
lo presiedano i legati della santa sede. I padri del Concilio letta
cotesta bolla la buttano via; essi maestri e donni, non compagni,
molto meno soggetti; dentro sessanta giorni si presenti, altrimenti lo
giudicheranno decaduto. Lo imperatore Sigismondo, a cui nel Concilio
di Costanza era accaduto assettare altri screzi che questi,
trasecolava; e veramente non ci era di che: questa la chiave di tutto:
a Costanza comandava uno esercito, qui solo o male accompagnato: con
femmine, fanciulli, e preti persuasore supremo la frusta. Continuano
le liti fra il Concilio ed il Papa più che mai acerbe: a cui bene
considera il Concilio rappresenta la medesima indole, che nella
Inghilterra, e nella Francia mostrarono più tardi il lungo
Parlamento, e la Convenzione; e se domandi perchè il Concilio non
approdasse al fine stesso al quale giunsero coteste due Assemblee
dirò, che il Concilio era disarmato, e coteste due Assemblee
avevano armi: inoltre il Concilio comecchè insufficiente forse col
Papa, volle attaccare briga anco con i principi: uniti e molti, o
separati e pochi sempre nel prepotere uguali i preti, meno prudenti in
questo di Lutero, che co' principi barcamenò procurando, come
ottenne, che ne caldeggiassero le parti: bisogna tenere conto
altresì, che le iniquità del Concilio contro gli Ussiti, le
mortali insidie, e le stragi pareggiarono o vinsero quelle del Papa.
Dicono Sigismondo imperatore ne morisse di dolore. Mentre così si
tirano pei capelli sovviene al Papa inopinato ausilio, e fu Giovanni
Paleologo imperatore di Oriente, il quale si profferiva studioso a
mettersi in quattro onde lo scisma greco cessasse: certo non lo moveva
amore di far procedere lo Spirito Santo dal padre solo, e non dal
padre e dal figliuolo; nè dall'odio contro il purgatorio, e nemmeno
dalla voglia di comunicarsi col pane senza lievito; lo avvicinarsi
ogni momento più terribile dei monsulmani lo costringeva alla pace:
quantunque poi queste discrepanze religiose fossero troppo più cosa
allora, che non sono adesso, pure è da credersi che la causa più
potente di separazione fosse la dependenza della chiesa greca dalla
latina. Il Papa con affetto sviscerato gittò le braccia al collo al
Paleologo, e ciò, come agevolmente si comprende, per due cause
principali; che la gloria della cessazione dello scisma venendo a lui,
il credito del Concilio ne scapitava, e forse sperò, come invero
gli venne fatto, che il re greco gli porgesse un'appoggiatura a mutare
la sede del Concilio. Il Paleologo poi si attenne al Papa e non al
Concilio, però che il Papa essendo principe di stato grande, e
poderoso di aderenze, ei solo offeriva maggiore sicurezza di soccorso,
che non il Concilio, e s'ingannò. Il Concilio subodorando il tratto
del Papa andò su i mazzi, e ab irato lo dichiara contumace: pessimo
consigliere lo sdegno: gli ambasciatori dei principi pensosi dei
trambusti, i quali il nuovo scisma avrebbe partorito per certo
adoperarono parole gravi contro l'avventatezza dei Padri, sicchè
Eugenio, colto il destro, potè traslocare il Concilio da Costanza a
Ferrara, e quindi a Firenze. Ma fu a Ferrara, che mutata temperie,
Eugenio con l'universale consenso dei Padri quivi raccolti potè
scomunicare i Padri di Basilea, i parenti, i seguaci, gli albergatori
loro, anzi perfino i mercanti che recandosi colà portavano le cose
al vivere necessarie; nè si rimase alla scomunica soltanto, ma
altresì accomodando, secondo il costume dei preti, le parole della
scrittura ai fatti suoi, siccome il vangelo dice: _che i giusti si
portarono via le spoglie degli empi_, così quando i fedeli della
Chiesa porranno le mani addosso ai mercanti, ai vetturali, e ad altra
gente siffatta gli spoglino con coscienza sicura, perchè si hanno a
persuadere che compiono opere meritorie.--Conchiusa la riunione ognuna
delle parti stupì del poco costrutto che ne aveva cavato: la biscia
aveva morso il ciarlatano, ed in questo negozio ognuno era stato a
vicenda ciarlatano e biscia. Eugenio contento per avere alle spalle
dello imperatore greco rifatto il credito cagliò nel continuargli i
sussidi, i quali furono sempre piuttosto avari, che scarsi; e quanto
alla riunione delle Chiese, dei vescovi greci al ritorno a casa quelli
che perseverarono nello scisma ebbero salutazioni, gli altri
contumelie: per la quale cosa questa unione provocata dall'interesse
cupido di avvantaggiarsi fu sciolta dallo interesse, che fatti i conti
trova, che ci è perdita, o non guadagno.

Però Eugenio a fine di confermarsi la reputazione acquistata, e
potendo crescerla, mise mano a certa menzogna, la quale come non prima
così non fu nè anco ultima nella Chiesa; a certo altro simulacro
di Concilio tenuto a Roma procurò si presentassero deputazioni di
finti Etiopi, Caldei, Siri, e Maroniti che tutti protestarono volersi
ridurre in grembo di Roma; i padri del Concilio ridevano di coteste
lustre; forse ne rideva anco Eugenio, ma per amore del mestiere
entrambi facevano le viste di crederci: il popolo ci prestava fede con
tutte le viscere come quello, che a cotesti tempi credeva, e perchè
ci aveva interesse: fra un secolo e mezzo quando i Gesuiti
presenteranno a Sisto V l'ambasceria dei Giapponesi Pasquino e
Martorio la conceranno pel dì delle feste. Finalmente il Concilio
di Basilea elesse un'altro Papa, ovvero antipapa, che fu Amedeo duca
di Savoia; che tolse nome di Felice V; e se per questo caso la rabbia
dei sacerdoti già ardente divampasse lascio considerarlo al
lettore. Eugenio, come se tante cure gli fossero poche, scompiglia il
reame di Napoli spingendo Renato di Angiò contro Alfonso di
Arragona, e forse il suo protetto ci faceva impressione, quando per la
cupidigia di ricuperare la Marca di Ancona, posseduta da Francesco
Sforza, gli muove contro ad assalirlo improvviso Niccolò Piccinino;
per la quale cosa Francesco indugiando a sovvenire Renato di Angiò
è cagione che le fortune di questo tracollino; più tardi va, e
mentre altrui non giova sè ruina: a Renato tocca a scappare, che
pieno di rovello si riduce a Roma per isfogarsi col Papa, il quale,
con buone parole lo raumilia, e lo incorona re giusta in quel punto in
cui lo perdeva; Renato invece di stare in Napoli con un reame torna in
Francia con una corona, addentellato a nuove miserie d'Italia.

Tra i buoni Papi sogliono annoverare Tommaso di Sarzana, Niccolo V,
migliore: costui nato di piccola gente fece assai professione di
conversare con letterati, e procurò si recassero in idioma latino in
cinque anni scrittori greci, più che innanzi a lui non si era fatto in
tre secoli, ma vi hanno di due maniere letterati, quelli che più
badando alla sostanza, che alla forma con la dottrina dei sommi intelletti
nudriscono divinamente l'anima; altri corrono dietro agli artifici della
orazione, le parole studiano non le sentenze, e vagheggiando la materia,
materia rimangono: tra questi secondi Tommaso da Sarzana, fra i primi
Stefano Porcari, il quale, appena morto papa Eugenio, raunata la
cittadinanza romana nella chiesa di Araceli la confortava a cose
santamente libere, però che lo dicesse: non esservi così piccolo
borgo dove morto il signore non si ragionasse di ricuperare la libertà,
o almeno di porre modo alla intemperanza dei futuri reggitori dietro la
esperienza del passato. Non lo secondando i Romani, e forte avversandolo
l'arcivescovo di Benevento, cotesta pratica non andò avanti. Tuttavolta
Tommaso essendosela legata al dito relegò Stefano a Bologna con obbligo
di presentarsi ogni dì una volta al governatore della città. Stefano
fingendosi infermo corre velocissimo a Roma; tradito dalle spie, ripara in
casa di sua sorella dove si nasconde dentro un cofano indarno; chè fin
là rovistando lo trovano, lui arrestano con nove complici, e senza
forma alcuna di processo tutti appiccano ai merli di Castel Santo Angiolo:
comecchè ne facessero ressa negarono loro prima di morire i sacramenti
a fine che il corpo ne andasse perduto con l'anima. Dopo queste prime
altre stragi contristarono Roma; il 12 gennaio 1453 Eugenio manda alla
forca un dottore bolognese compagno a Stefano nel suo ritorno a Roma;
promette 1000 ducati a cui gli consegni nelle mani vivi due parenti del
Porcari, Francesco Gabadeo e Pietro Monterotondo, sottrattisi con la fuga,
se morti 500; serpentò con focosissime istanze tutti gli stati
d'Italia, affinchè gli rendessero i congiurati fuggiti, e molti glieli
diede Venezia, ospite sovente infida; tra gli altri Battista Sciarra
nipote del Porcari, tratto a Roma per ricevervi la morte ignominiosa del
capestro. Promise, mosso dalle preci del cardinale di Metz, grazia a
Battista di Persona reputato innocente, e gliela fece, poi si pentì, e
senz'altre cerimonie commise lo impiccassero. Sopra ogni altro infame il
caso di Angiolo Ronconi, di null'altro reo, che di avere dato mano alla
fuga del conte Averso dell'Anguillara amicissimo suo: gli manda il Papa di
recarsi a Roma, e siccome ciondolava, ad assicurarlo gli spedisce
salvacondotto da cima in fondo scritto di suo pugno: costui va, e non
aombrato nè manco con pretesto di sorte il tradimento, il buon vicario
di Cristo lo fa pigliare di botto, e decapitare.--Affermano, che quando
questo reo fatto fu commesso Niccolò era ubbriaco: altri per istudio di
difenderlo accerta, che Niccolò veramente era solenne raccoglitore di
vini preziosi, ma non mica per sè, bensì perchè gli amici suoi,
ai quali li donava tutti, se ne rallegrassero il cuore. Questo scrittore,
che si favella, è il Vespasiano, incauto difensore se altri fu mai:
lasciando correre, che il Papa fosse ubbriaco gli avrebbe reso il servizio
più grande, che amico può rendere ad amico: nè è cosa nuova
occorrere in Papi briaconi, che tali furono Giulio II, e Gregorio XVI, e
dati al vino troppo più che alla dignità, non diremo di pontefice,
ma di uomo comune non convenga, Paolo IV, e Sisto V. La gente mite, e
pusillanime per paura diventa feroce, così i gatti spaventati
graffiano. Durante questo pontificato, mentre i greci e i latini fra loro
disputano, ed anco fra greci, e greci adoperano lo stesso, Maometto II
piglia Costantinopoli e mette fine ai contrasti. Varia la fama intorno
alla causa della sua morte; chi afferma per podagra, chi per subita
febbre, e chi per ambascia del Turco irrompente; non manca chi voglia
attribuirla al rimorso; ed e certo che su l'estremo della vita la vista di
fantasimi lo assaliva; gli pareva nelle stragi commesse del Porcari, e dei
consorti suoi lo avessero abbindolato i cortigiani; allora scioglievasi in
lacrime, e sè miserrimo sopra quanti uomini vissero al mondo altamente
chiamava. Posto, che ciò sia vero, noi pure lo saluteremo per uno dei
migliori fra i Papi, dacchè l'anima sua non rimase chiusa al rimorso.

Di Calisto III successore a Niccolò sono notabili queste cose:
dimenandosi invano a rintuzzare la ferocia del Turco ebbe in sorte
vedere sorgere quel miracolo di valore di Giovanni Uniade a dargli la
fiera battitura di Belgrado: ma se inetto ei si mostrava a combattere
solenne perturbatore della cristianità si fece conoscere; pei suoi
fini interessati Cristiano di Danimarca spinge contro la Svezia per
vendicare il clero manomesso e spogliato, e Cristiano impadronitosi
della Svezia lascia il clero come lo trova; onde Calisto reputandosi,
com'era, uccellato rompe in querimonie infinite. Colto il pretesto,
che Alfonso negò i soccorsi contro al Turco, ricusa investire del
regno di Napoli Ferdinando figlio naturale di Alfonso quantunque di
questo re fosse creatura, e gli avesse servito da segretario; alla
persecuzione nuova non fece ostacolo nè l'essere stato Ferdinando
suo alunno, nè la legittimazione di lui che egli, cardinale, aveva
provocato da Niccolò Papa; il fine vero di simili trambusti era
levare il regno a Ferdinando per darlo al proprio nipote Luigi Borgia,
e gli riusciva non già in virtù delle bolle con le quali vietava
ai sudditi napoletani di giurare fedeltà a' nuovi signori, e chi
avesse giurato scioglieva, bensì per le armi di Francesco Sforza
duca di Milano; se non che questi, raro esempio in ogni tempo, in
codesto unico, ributtate le insidiose profferte si tenne fedele
all'Arragonese, e Calisto ne morì di rabbia. Costui vuolsi
annoverare fra i Papi, i quali per disordinato amore pei nipoti più
depredassero la Chiesa; due ne promosse al cardinalato, un'altro
creò duca di Spoleto, il quarto prefetto di Roma, e castellano di
Santo Angiolo: lo scusano, e che non iscusano i preti? perchè
avendo da presso due nemici terribili, come Alfonso e Ferdinando
erano, non poteva fidarsi di altri, che del proprio sangue; difesa
inane, però che dipendesse da lui amicarsi gli Arragonesi
osservando quello, che Niccolò Papa, ad istanza di lui, aveva
ordinato circa la successione del regno di Napoli; oltre inane la
difesa dà ad intendere come in corte romana fossero tutti
traditori; onde volendo coprire i piedi discopre il capo; per uno che
salverebbe danna i mille. Quando altro non fosse a fare aborrire la
memoria di questo Papa basterebbe questo; egli morendo legava alla
Chiesa l'immane Roderico Lenzuoli, che poi fu Alessandro VI.

Di Pio II, Enea Silvio Piccolomini, non può dirsi, che bene; fu
dotto e buono, ed alle cose di amore decentemente inclinato, e con bel
garbo ne dettò libri, i quali tuttavia si leggono; chi volesse
rinfacciargli, che eletto Papa con la Bolla _Execrabilis_ ritrattasse
le antiche sue dottrine avrebbe torto; se si fosse condotto
diversamente avrebbe tirato i sassi in colombaia: nè manco gli
procederemo severi se negoziando la pace con Ferdinando di Napoli da
uomo svelto con la utilità della Chiesa procurasse quella della
propria famiglia; alla Chiesa fece rendere Benevento, Pontecorvo, e
Terracina; il suo nipote Antonio Piccolomini ammogliò con Maria
figliuola naturale di Ferdinando ricevendone in dote il ducato di
Amalfi, il contado di Celano, e la carica di grande giustiziere del
regno. Luigi XI volpe coronata gli tramò un tiro furbesco, e ne
rimase con le mosche in mano, chè a giocare di fine con Roma si
perde il mosto e l'acquarello; a fine di tirarlo a sè, stornandolo
dagli Arragonesi, manda fuori uno editto regio col quale revoca la
Prammatica sanzione di Carlo VII contraria alle romane improntitudini;
ma visto che il Papa non abboccava, ordinò di celato ai Parlamenti
ne ricusassero la registrazione, ed in questa guisa rimase parola
morta.

Cura perpetua di questo Papa combattere il Turco minacciante Cristo, e
la civiltà; famosa la Dieta, ch'egli tenne a questo intento a
Mantova, dove con sì stupenda sembianza di riuscire non si venne a
capo di niente. Certo in caso tanto solenne il Papa poteva
risparmiarsi, ed ordinare che risparmiassero i balli, i tornei, le
fiere con rito pagano gittate nell'arena, dove, con infelice augurio
della impresa, aborrirono combattere. Le cerimonie di austera
religione forse avrieno più profondamente percossi gli animi, e
persuasili di più a starsi congiunti in tanto pericolo: ad ogni
modo non mai fu visto come alla Dieta di Mantova acceso fervore di
principi, nè mai voglie sì ferme di fare altrimenti di quello,
che davano ad intendere: parole magnifiche, tra le altre ammirate
quelle del Filelfo: e nè anco mancarono le femmine, chè Ippolita
Sforza trasecolò le genti con un discorso bellissimo latino:
affermano lo improvvisasse, ed io non comprendo il pregio, che vedo
largirsi ai discorsi improvvisati: quanto più meditiamo e più
penetriamo nelle ragioni delle cose, e con accomodati concetti le
significhiamo; allo improvviso commettonsi grullerie; commettonsi
altresì a caso pensato, ma a questo modo più rado, quasi sempre
all'improvviso.--Gli uomini speculatori, sentendo come Borso di Este
duca di Modena, e di Ferrara avesse promesso contribuire alla impresa
con 300,000 fiorini di oro ne trassero argomento, che si giocasse di
noccioli, imperciocchè dov'egli ma' mai avesse sospettato si
facesse davvero saria morto piuttosto, che cavare fuora così grossa
moneta. Allo stringere del nodo le galere ammannite sul Rodano dal re
di Francia, invece di corseggiare contra ai Turchi si voltano contro
il regno di Napoli; in Roma i Savelli, nelle terre papali Sigismondo
Malatesta riappiccano la guerra; vanno a soqquadro per inopinati
rivolgimenti Boemia, Ungheria, Castiglia, ed Inghilterra. Mentre
delirano i principi cristiani Maometto II procede sterminatore nelle
terre della cristianità come lava vulcanica; soggioga la Rascia, e
la Servia; conquista la Bosnia, e mali maggiori minaccia: la storia
registra con amore come due soli uomini opponessero il petto a questa
ruina, uno giovane, l'altro vecchio, uno quasi selvaggio l'altro
civilissimo, uno educato fra i Turchi, l'altro supremo gerarca della
Cristianità, e il primo fu Giorgio Castriotta chiamato Scandeberg,
ovvero capitano Alessandro, l'altro il nostro Silvio Piccolomini,
povero gentiluomo nato a Corsignano: magnanimo, e degno di eterna fama
il primo, non però maraviglioso come quello, che nacque in Epiro
terra altrice di eroi, e fu guerriero per istituto di vita; non
così Pio II indole mite, e debile per anni, e per infermità:
«poichè col dire _andate_,» egli bandiva, «poco costrutto
vedo che se ne cava, io da qui innanzi dirò _venite_, però che
abbia disposto recarmi io stesso alla guerra contro ai Turchi; forse
vedendo andar me i principi cristiani si vergogneranno, e mi
seguiranno; certo a morte sicura io m'incammino, ma poichè morire
si deve, che importa cessare la vita in questo luogo od in quello? Dal
combattere mi dissuadono il sacerdozio, e il corpo stremo di forze, ma
a guisa di Moisè quando Isdraello pugnava contro gli Amaleciti,
genuflesso su l'alto della poppa di una galera, ovvero di un monte,
con la santa eucarestia davanti, circondato dai Cardinali chiederò
a Dio la vittoria col cuore contrito ed umiliato.»

Se così avessero sempre favellato i Papi, la unità cristiana non
sarebbe stata mai rotta, e la croce sostenuta da mani congiunte a
questa ora avrebbe fatto il giro del mondo, come simbolo di amore, e
di civiltà.

Il doge di Venezia invitato da Pio a unirsi di persona in cotesta
guerra con lui si andava schermendo, ed ora metteva innanzi la età
decrepita, ed ora non so quali altre scuse; ma il Consiglio dei
Pregadi alla bella libera gli squadernò sul viso: «serenissimo,
se tu non vuoi ire per amore, noi ti manderemo per forza, che della
tua persona ci cale, ma dell'onore e della salute del paese due
cotanti più.» Così allora gl'Italiani sapevano favellare ai
principi, che avendo maggiore cura di sè, che della Patria si
tiravano indietro da combattere le sue battaglie; al contrario di
questo vecchio patrizio, Giovanni Carvajale cardinale di santo
Angiolo, chiamato da Pio per eleggerlo luogotenente della impresa, si
profferiva parato a tutto: «e se per te non sono scuse, egli
diceva, gli acciacchi, e gli anni sicuramente non lo saranno per me.
Tu mi scrivesti venissi, ed io vengo: tu mi ordini partire, ed io
parto: contenderò a Cristo questa estrema reliquia degli anni
miei?»

Peccato, che in questi egregi come abbondava il cuore così non
sopperisse il giudizio. Pio per mantenere la Crociata raccolta ad
Ancona di altro non aveva fatto procaccio, che d'indulgenze: gli
uomini di armi, e il popolo misto che si erano ridotti alla posta di
Ancona s'immaginarono che le indulgenze avessero ad essere un
soprappiù al soldo, ma accortisi che da quelle in fuori non ci era
da rodere altro da prima trasecolarono, poi attaccandola con Dio, e
co' Santi si sbandarono; il volgo corso senz'armi, e lacero, senza
sapere il perchè guaiva; i principi non arrivavano, l'armata
veneziana nemmeno. Il Papa inferma, chè ai consueti malanni adesso
si aggiungono la dissenteria, e il fastidio; mentre si tribola in
simili ambasce, ecco approdare l'armata veneziana; allora contento si
fa portare a braccia per contemplarla; erano dodici galere;
soprasagliente a quelle Cristoforo Moro: nel vederle il moribondo Papa
esclama: «prima mancava a me un'armata, ora all'armata io
manco.» E fu profeta, chè indi a breve periva.--La bontà di
questo uomo c'induce a desiderare, che i cieli gli fossero stati
cortesi o di minor cuore, o di maggior mente, ovvero al tutto non lo
traessero al Papato.

Allo scopo della storia nostra si attaglia meglio la vita di Paolo II,
già Pietro Barbo veneziano, il quale di una tal quale sua avvenenza
fu sì vano, che voleva pigliare nome di _Formoso_; morto Pio, i
Cardinali convocati a Roma innanzi di procedere alla elezione di nuovo
Papa statuirono, che qualunque di loro fosse rimasto eletto avrebbe
adempito certa convenzione, che fecero; e ci si obbligarono con
giuramento. La convenzione questa: Il nuovo Papa prosegua con tutti i
nervi la guerra contro il Turco adoperandovici quante ha entrate la
Chiesa, comprese quelle delle Allumiere di recente scoperte; senza il
consenso dei Cardinali la Corte non muova da Roma; ogni tre anni
convochi un Concilio ecumenico per riformare la Chiesa; non nomini
Cardinali più di ventiquattro, e fra i parenti suoi uno solo; di
più, Cardinale non avesse ad essere di ora in poi eccetto chi
avesse trent'anni compiti, e fosse dotto in divinità ed in diritto.
Il Papa non _alienasse nè diminuisse_ il patrimonio della Chiesa,
non rompesse guerra senza il consenso dei Cardinali espresso ad alta
voce uomo per uomo; nelle Bolle si avesse ad usare la formula _dietro
deliberazione_ dei nostri fratelli. Ogni mese il Papa si facesse
leggere questa convenzione in Concistoro. Due Cardinali, assente il
Papa, in capo all'anno sindacassero se l'avesse, e come osservata il
Papa. Paolo cominciò il pontificato con lo abolire questa
convenzione, la guerra contro i Turchi non proseguì, da onori
molti, e lettere ortatorie a tutti i principi in fuori, di altri
soccorsi non fu largo allo Scandeberg ito a Roma per questo; ma erro,
gli diè cappello e stocco benedetti da lui, e non so quali danari;
non si ricorda la parte singolarmente strana assunta da lui di paciere
per forza tra Veneziani e Fiorentini in mezzo ai quali ci mise male
biette fino all'ultimo: allora scappò fuori per accordarli una
sentenza accompagnata delle consuete scomuniche (ormai i Papi non
sapevano parlare nè anco di pace senza incastrarci lo inferno) e di
scancio ci aggiunse il patto, che gli stati d'Italia avessero a pagare
a Bartolommeo Coglione 100,000 fiorini di oro per sostenere la guerra
contro i Turchi; se non che gli stati indovinando com'egli disegnasse
adoperare Bartolommeo piuttosto contro di loro, che contro il Turco,
non gli danno retta onde a lui toccò riporre la scomunica nel
fodero. Più felice, come più iniquo contro i baroni romani;
però si lega con Ferdinando di Napoli perfidissimo fra i re: l'uno
impicca, l'altro tira pei piedi. Paolo II compare di Deifobo di
Anguillara si accorda segretamente con Ferdinando per ruinarlo insieme
al fratello Francesco, in apparenza poi mostrano volersi combattere il
Papa, e il re: gli Anguillara disponendosi a ingrossare l'esercito
d'Jacopo Piccinino sono trattenuti da Paolo e persuasi a pigliare le
sue parti contro cotesto conduttore. Il re Ferdinando, dopo avere
accolto, elevato a cielo il Piccinino, di un tratto l'ammazza; poi
spinge gente contro il confine romano; il Papa a posta sua c'incammina
gli Anguillara con lo esercito, e quando meno se lo aspettano, alcuni
loro capitani congiuntisi con i soldati del re gl'imprigionano. Ciò
fatto non manca la scomunica per onestare la rapina di castelli tanto
per arte, e dalla natura muniti, che a cotesti tempi si reputavano
inespugnabili. E tu lettore piglia nota del modo di acquistare terre
della Corte romana, donde poi cava il diritto divino, che la costringe
al _non possumus_. I ladri su lo spartire del furto per ordinario
hanno lite fra loro; Paolo pretende da Ferdinando il tributo pel
regno, il quale un dì, quando le due Sicilie stavano unite al
medesimo scettro, sommava 60,000 fiorini, ed ora divise, a Napoli ne
toccavano 40,500: a Ferdinando pel soccorso dato al Papa per opprimere
gli Anguillara pareva ch'ei gli avesse a rendere il resto; di qui ire,
e contese, per cessare le quali Ferdinando, armata mano, occupa
Terracina, Sora, e le allumiere della Tolfa, onde il Papa empie di
querele il cielo e la terra.

Nè meglio incolse a costui guerreggiando co' Malatesta: a
malincuore la Curia concesse un dì feudi in Romagna a questa
famiglia; morto Sigismondo, e trovandosi il figliuol suo Roberto
presso il Papa, questi stende la mano sul bramato retaggio. Isotta
matrigna confidando più nel figliastro, che nel Papa lo avvisa per
segreto messaggio; a Roberto custodito rigidamente per deludere Paolo
soccorre un bellissimo trovato; va al Papa, cui mostra le lettere
d'Isotta, gli si professa devoto, e gli si lega a tradire la matrigna;
Paolo lo prosegue di laudi infinite, gli promette in mercede le
signorie di Senigaglia, e Mondovì, e di presente gli paga mille
fiorini per le spese. Roberto giunto a Rimini s'impossessa del
retaggio paterno, e manda al Papa che se vuole le sue terre venga a
prenderle; Paolo, dissimulati la beffe e il danno, piglia in presto ai
Veneziani quattromila cavalli, e tremila fanti, molti capitani della
Chiesa spinge contro Roberto allettandoli con la promessa di fare a
mezzo delle spoglie del Malatesta. Dunque possono i successori di San
Pietro spartirne il manto quando il conto torna? E bugiardo il
pretesto onde coloriva la impresa, ch'era la estinzione della linea
legittima dei Malatesta chiamati per succedere al feudo,
imperciocchè Roberto, quantunque figlio naturale, fosse stato
legittimato da Pio II.--L'esercito papale rilevò la più sonora
sconfitta che da molto tempo si udisse; per virtù di Federigo di
Montefeltro socero di Roberto, e mercè i soccorsi di Napoli e dei
Fiorentini ai quali premeva, che la Romagna rimanesse in piccoli stati
divisa, e la troppa potenza del Papa dava ombra.

Paolo poichè ebbe tentato invano accendere nuova guerra in tutta la
Cristianità, e chiamare belve straniere in Italia per vendicarsi
del Malatesta: tastato Federigo III di Austria, e parsogli, come
veramente era, uomo da non potersene fidare; atterrito dai Turchi
più e più sempre approssimantisi si appacia col Malatesta
consentendogli il possesso dello intero retaggio paterno. La vittoria
di Rimini aveva sforzato il _non possumus_. Delle cose per questo Papa
agitate fuori d'Italia qui non occorre discorrere; odiatore egli fu
dei letterati solenne; pauroso, e per paura feroce: certa accademia di
dotti scambiando in congiura, prende e tormenta uomini venerandi per
dottrina non meno che per pietà: alle torture assiste, nè
potendo venire a capo di nulla, tanto eccita il carnefice ad
inasprirle, che il povero Agostino Campano rimase morto su l'atto. Il
Platina nella vita di questo Papa racconta le persecuzioni, che a lui
pure toccò patire: appena promosso Papa tutti gli officiali dei
Brevi creati da Pio come ignoranti, e disutili licenziò; niente
curando se cotesta carica avessero eglino comperato a contanti, e meno
ancora se fossero letterati grandi i quali sogliono dare alle Corti
maggiore ornamento di quello che ne ricevano; e poichè il Platina
come colui al quale pareva essere troppo gravato pregava che la causa
si commettesse agli auditori di Rota il Papa guatandolo torvo gli
disse: «dunque delle cose che noi facciamo tu ti appelli? E non
sai, che tutta giustizia, e tutto diritto stanno nel sacrario del
nostro petto? Così voglio io, che Papa sono e posso come mi piace
fare e disfare.» Gli officiali scacciati persa la pazienza
mandarono al Papa una maniera di protesta la quale esprimeva questi
sensi: «se a voi è lecito spogliarci della nostra legittima
compra ed a noi deve permettersi dolerci di questa ingiuria, che ci
fate, e poichè ci troviamo con sì incomportabili danno e
contumelia banditi ce ne andremo presso re e principi perchè vi
abbiano ad intimare Concilio dove rendiate conto dello spoglio di
nostre proprietà.» Tra i mali consigli pessimo quello del debole
che minaccia il forte; preso, e incatenato il Platina ebbe a
giustificarsi di libello famoso, e gli fu ventura se dopo due anni di
acerba prigione ne uscì rovinato così nella sostanza come nella
salute. Più tardi questo Papa leggero e tristo spaventato da falsi
rapporti ripiglia il Platina, bandisce parecchi cortigiani, e
cittadini, tormenta i fratelli Quadrari, fa il diavolo e peggio; poi
conosciuto a prova essere stato giuntato perdona raro, ed alle preci
altrui per mostrare di avere avuto ragione; e questa la non è colpa
speciale sua bensì di tutti quelli, che dominando assoluto devono
fare grande fondamento sopra la superbia. Per converso questo Paolo si
dilettò stupendamente di giuochi, e di uomini vulgari; in occasione
della pace fra il duca di Milano, e i Veneziani ei fece correre pali
da vecchi, da uomini di età mezzana, e da fanciulli; dopo questi
corsero giudei (che uomini allora non si reputavano) prima costretti a
bere vino in copia perchè traballassero, poi cavalli, cavalle,
asini, e buffali; il Papa contento, e per soverchio riso lacrimante,
donava a cui fieno e a cui grossoni. In cima dei suoi affetti tenne un
Priabisio, e un Malacarne, di loro professione giullari, e dopo essi
in minor luogo altri buffoni. Non gli mancarono buone doti, come la
larghezza, e la storia ricorda com'ei fosse prodigo donatore di
teriaca: ai Cardinali donò la facoltà di vestire panni purpurei,
e portare berretto vermiglio, e cappello foderato di mantino pure
rosso; ai Cardinali poveri assegnò quello che chiamano piatto, il
popolo imbestiò coi congiari; morì di apoplessia, e sarebbe
stato meglio non fosse mai nato.

Di male in peggio, finchè si giunga al pessimo: ebbe Sisto IV della
Rovere il papato per simonia; è certo, che i tesori accumulati da
Paolo arrapinasse; ma le sono inezie da non ci badare; se da lui non
comincia il nipotismo, da lui certo piglia a gettare cupido gli occhi
sopra gli stati della Chiesa, e dei vicini, e voler diventare principe
di corona: ebbe nipoti molti, che amò di amore disordinato, dicono,
taluno d'infame; ma siffatte nequizie se non provate bene voglionsi
rigettare; veramente non isperimentiamo buoni gli uomini, massime
preti, ma ritraendoli peggiori di quello, che sono non se ne
avvantaggia la Storia. Giudicando di lui pretende taluno ch'egli si
proponesse la unione d'Italia; ma ciò non accorda con le opere
della sua vita, le quali anzichè disporla a simile unità altro
non fecero, che scombussolarla senza requie: anco ammesso, che i tempi
non repugnassero ai venefici, ed alle insidie mortali, tuttavia le
morti per veleno o per ferro a tradimento meditate da cuore, che anco
a quei tempi ci volevano dare ad intendere pieno dello Spirito Santo,
non paiono per ordinario lodevoli nè efficaci partiti: comunque sia
non per amore d'Italia bensì per odio contro i Medici, i quali si
opponevano al molesto ingrandimento dei suoi nipoti, egli congiurò
co' Pazzi per trucidarli: di fatti i Medici sovvennero Niccolò
Vitelli contro le violenze del Papa, e gli salvarono la città di
Castello; non si rimasero da mettere in pratica ogni tentativo per
impedire a Girolamo Riario nipote del Papa l'acquisto d'Imola: e
Girolamo finchè durassero i Medici dubitava tenerla piuttosto a
titolo precario, che con istabile dominio; il Papa poi sbuffava contro
Lorenzo per la lega formata da lui nell'alta Italia, e per quel suo
concetto di bilanciare uno stato con l'altro per modo, che veruno
preponderasse fra noi. Comecchè discorriamo volando sopra questi
casi non possiamo astenerci da mostrare la matta e ad un punto feroce
improntitudine di Sisto, il quale dopo avere promosso il Salviati
arcivescovo di Pisa, mandato Raffaele Riario figlio di Girolamo a Pisa
con pretesto di studi, e Giovanbattista di Montesecco come oratore in
Toscana per condurre a buon fine la congiura, benedetto i pugnali,
consentito si consumasse la strage fra gli altari da preti, nel
momento che il sacerdote leva l'ostia al cielo, di un tratto si
arrapina perchè Lorenzo non abbia voluto farsi ammazzare, e rompe
in iscandescenze perchè con giuste pene multarono gli assassini.
Queste le parole della Bolla di Sisto IV riportata dal Rainaldo negli
annali ecclesiastici 1478, e ti rammentano Fimbria imbestiato contro
Scevola perchè assalitolo ai funerali di Caio Mario col ferro in
mano lo assalito non gli aveva conceduto tanto gli ficcasse in corpo
lo stile, che lo ammazzasse: «Contendendo i cittadini per lite
privata fra loro questo Lorenzo co' priori di libertà......
calpestato ogni timore di Dio, vinti dal furore, pieni di diabolico
spirito, di sè fuori come cani arrabbiati infierirono con immane
ignominia contro persone ecclesiastiche. O dolore! O inaudito delitto!
Le mani violente portando sopra un'arcivescovo appiccaronlo alle
finestre del palazzo della Signoria.» E non gli saldarono il conto,
imperciocchè gli salvassero il giovane cardinale Raffaele, il quale
sebbene gli rendessero incolume non per questo attutì il
sacerdotale odio; dissuadendolo invano il re di Francia, i Veneziani,
l'imperatore Federigo, i duchi di Milano e di Ferrara volle rompere
guerra ai Fiorentini; poco dopo ai Veneziani perchè derelitti da
tutti, e con più infamia da lui, che sperperava a danno dei
cristiani le forze le quali doveva volgere contro i Turchi, si erano
composti in pace con Maometto. Fin negli Svizzeri va a suscitare
nemici contro il duca di Milano solo per trattenerlo da porgere
soccorso ai Fiorentini; allettamento a cotesti rudi montanari le
largite indulgenze, delle quali essendosi mostrati piuttosto ghiotti,
che cupidi, si avvisa cavarne partito, però non le dona più
oltre, le vende, e ci fa grosso guadagno. Intanto Lorenzo trovandosi
in procinto di dare la balta si getta in balìa di Ferdinando di
Napoli; e' fu come mettere il capo in bocca al lione, ma lo
beneficò la Fortuna sicchè giunse ad amicarsi Ferdinando. Il
Papa stette per diventarne pazzo, nè si sa fin dove sarebbe
precipitato se i Turchi avendo preso Otranto non lo avessero fatto
cagliare. Impaurito si accorda con tutti; ma con la morte di Maometto
indi a breve, cessata la paura, torna a scombuiare ogni cosa: co'
Veneziani si accorda spogliare il duca di Ferrara, e dividersene gli
stati, Ferrara a lui, a loro il restante. Di qui nuove divisioni; la
Italia rotta in cento parti le une contro le altre armate; forse non
una spanna di terra senza risse di sangue.--Di tutti questi scompigli
il Papa altro frutto non cava, eccetto quello di vedersi minacciata
Roma dal duca di Calabria; allora invoca aita dai Veneziani i quali
gli mandano duemilacinquecento cavalli e Roberto Malatesta capitano
strenuissimo; nè Malatesta comparve minore della fama; andò e
vinse il duca a Campomorto dopo acerba battaglia. Il Papa per doppio
motivo (e bastava uno) gli fu ingrato, il primo perchè gli uomini
di raro ricompensano il benefizio cui possono ricompensare, il
benefizio poi, ch'eccede le facoltà loro detestano, e più chi lo
ha fatto: quindi un re ti darà guiderdone se gli acquisti un
contado, se un regno cercherà perderti, e questo ci testimoniano le
storie antiche, più le moderne; l'altra causa movente il Papa era
che Girolamo suo figliuolo appetiva Rimini retaggio di Roberto; quindi
questi ottenne quello che doveva ottenere, morte per veleno immatura,
ed una statua col motto _veni, vidi, vici_. Appena morto il Papa si
affrettò alla rapina di Rimini, e tanto più gli parve sicura,
che in cotesti giorni periva il duca di Urbino disegnato da Roberto
tutore del suo figliuolo, mentre il duca di Urbino nel suo testamento
raccomandava a Roberto il figlio Guido Ubaldo.

Anco qui tra la mano e il frutto s'interposero i Fiorentini e misero
un calcio nella gola al Papa, il quale ne resta con la voglia.
Dall'altra parte le cose in apparenza procedevano prospere al Papa, in
sostanza no; il duca di Ferrara già stava in procinto di trovarsi
spogliato, ma il Papa temè che i Veneziani o pigliassero tutto per
loro o alla meno trista si facessero la parte del leone: allora
arruffa; e prima accetta la pugna, poi si appacia con Ferdinando di
Napoli; i Veneziani, ai quali cotesta pace ruinò addosso come
fulmine a ciel sereno, ebbero invito aderirvi e posare le armi;
restituissero gli acquisti fatti, il duca di Ferrara come vassallo
della Santa sede rispettassero: poi senza pure aspettare risposta
bandisce i Veneziani nemici della cristianità perchè ostinati a
continuare la guerra contro il duca di Ferrara; gli scomunica; ai loro
debitori comanda non li paghino; a chi uccida un Veneziano indulgenza
plenaria; quanto a scudi adagio; per dare la pace alla cristianità
spinge le armi di tutta Italia contro i Veneziani pure ieri suoi
collegati, amici, ed eccitati da lui a combattere il duca di Ferrara.
I Veneziani, secondo il consueto loro, tengono di occhio ai
chiesastici, chiunque porti la scomunica a Venezia senza rimissione
s'impicchi; e qualunque riceva lettere da Roma le porti chiuse
agl'inquisitori di stato; con questa gente non ci era da metterla in
canzone; il Patriarca portò loro la scomunica presto presto come se
avesse ricevuto cosa, che gli scottasse le mani; poi mandarono al
Patriarca di Costantinopoli l'appello della scomunica al futuro
Concilio; il Patriarca ammette l'appello, sospende la scomunica, e
cita il Papa a comparire al futuro Concilio. Quello, che non riuscì
al Papa riesce ai Veneziani, i quali trovarono modo di affiggere la
citazione alle porte del Vaticano e della Rotonda; il Papa cieco per
furore fece in un'attimo impiccare le guardie notturne, che pure da
per tutto non si potevano trovare; ma gli è caso antico, il potente
non potendo battere l'asino batte la sella. I Veneziani procedendo
oltre intimano i preti paesani a lasciare Roma sotto pena di perdere i
benefizi; il Papa come colui, che ha perso la bussola bandisce farebbe
vendere per ischiavo chiunque si attentasse uscire da Roma; guerra
fiera e promiscua si agita in Lombardia, in Napoli, negli Stati
pontifici: alle cause antiche per cui la famiglia del Papa, e il Papa
andavano aborriti adesso si aggiungono le prodizioni, le stragi, e
gl'incendi, onde vollero sterminata casa Colonna: pietosissimo fra
tutti il caso del protonotaro Luigi Colonna, che prima stracciarono
con ispietati tormenti, non mica per cavarne confessioni, bensì per
rendergli senza fine amara la morte, poi uccisero.

I Veneziani sempre pronti a cogliere la occasione a volo, sentendo
come tra i Reali di Napoli e Ludovico il Moro fosse entrato screzio
per causa della dipendenza da che questi teneva Giovanni Galeazzo
Sforza genero al duca di Calabria, mediante Roberto da Sanseverino
negoziando con esso lui la pace, e invano contrastando il legato e
Girolamo Riario, i quali mescendo le cose sacre con le profane,
affermavano i Veneziani indegni di posa perchè nemici di Dio come
quelli che avevano confiscato i benefizi ecclesiastici, e tenuto in
non cale le scomuniche del Papa, la conclusero a Bagnolo.

Il Papa udita la pace per rovello ne infermò a morte; quando gli
ambasciatori gliela portarono egli raccogliendo le forze estreme con
irosim accenti proruppe: «che pace! che pace! questa è ignominia,
è vergogna; io non posso approvarla, non benedirla.» E poichè gli
andavano persuadendo essere ormai cosa conchiusa, e sempre degna la pace
tra cristiani della benedizione di un Papa egli levata dalle fasce la mano
gottosa fece atto che taluno prese per benedizione, ed altri per
maladizione, nè ci fu modo a chiarirlo, imperciocchè senza
profferire parola il giorno dopo morì più che per altro per rabbia
di vedere in pace questa mìsera Italia cui egli aveva così
scelleratamente lacerata.

Alessandro VI, che sta per venire, le immanità papali, e imperiali
supererà tutte; pure Sisto, e Innocenzo gli ammannirono
stupendamente il terreno: delle truci e nefande libidini taccio; sia
questa prova della sanguinaria indole del Papa defunto; suo diletto
assistere ai mortali duelli: due ne ordinò a piè della scala del
suo palazzo di piazza San Pietro, egli mastro del campo: i duellanti
non incominciassero se prima egli non ne avesse dato il segno, e il
segno fu quello della redenzione..... la Croce. Il Papa ci prese un
gusto matto, e desiderò vederne altro; nel primo duello uno dei
combattenti morì su l'atto; nel secondo ambedue mortalmente feriti
furono tratti a spirare l'anima altrove.--

Per ciò che importa peculiarmente al nostro assunto vuolsi
considerare come in questo pontificato per promovere gl'interessi
della famiglia Riaria non si ebbe scrupolo sbonconcellare il preteso
retaggio di San Pietro: non era ancora stato trovato il _non
possumus_: e non ancora un Concilio di preti bugiardi aveva bandito
divina la istituzione della potestà temporale del Papa; di vero per
causa del matrimonio di Lionardo della Rovere con la figlia naturale
di Ferdinando, Sisto abbandona al re il ducato di Sora, Arpino, e gli
altri feudi della Chiesa nel regno di Napoli; nè basta, gli rimette
il tributo arretrato solito a pagarsi da Napoli alla Chiesa, e ne lo
dispensa finchè egli viva. Imola, la quale secondo la novella
dottrina fa parte del _non possumus_, fu comperata a contanti co'
danari della cristianità da Pietro Riario pel suo fratello
Girolamo. Concesse in feudo a Giovanni della Rovere fratello di
Giuliano, Sinigaglia, e Mondovì, e i Cardinali approvarono senza
pensare al _non possumus_. Prima con ogni argomento il Papa si
ingegnò spogliare i Vitelli di Città di Castello; trovato l'osso
duro, gliela concede in signoria. Smania di Sisto, prima di Alessandro
VI, fu costituire della Romagna un principato pel suo nipote Girolamo;
alla via storta non badò più che alla diritta. Pino Ordelaffi
principe di Forlì morendo lascia la sua eredità al figlio nato
di non legittime nozze; glielo contrastano i cugini figli di Galeotto;
entrò in mezzo giudice Sisto, che spoglia tutti a profitto del
nipote Girolamo. Forlì è città che ai dì nostri compone
parte del dominio temporale, che il Pontefice non può alienare per
istituzione divina. Se la morte non troncava i suoi disegni, egli
mulinava nella sua mente torbidi concetti per potere assegnare al
nipote Girolamo Rimini signoria del tradito Malatesta, e Pesaro
retaggio di Giovanni figliuolo di Costanzo Sforza. Dei benefizi
cumulati sul capo di Pietro Riario non importa discorrere; oltre al
titolo di patriarca di Costantinopoli egli possedeva tre
arcivescovati, ed altri benefizi infiniti; il lusso di costui ignoto
ai moderni si appressò alle sgangheratezze di Nerone e di
Eliogabalo: i suoi conviti pari a quello di Trimalcione cantato da
Tito Petronio Arbitro: banchettando gli oratori di Francia mise a
contribuzione i paesi nostrani, e gli stranieri; le vivande, l'ordine,
l'apparecchio, le cose o rare o strane e mostruose diligentemente
notate fornirono materia ad un poema, il quale fu diffuso per le
stampe in Italia e fuori. Subito dopo passando per Roma Eleonora
figlia di Ferdinando di Napoli, che andava sposa al duca di Ferrara,
volle onorarla col fabbricarle un palazzo smagliante oro e seta; qui
dentro tutto di oro di argento, anco i vilissimi arnesi; ci spese 100
mila fiorini di oro che aveva in serbo, e s'indebitò per 60 mila;
ed era frate di san Francesco costui, ed aveva pronunziato voto di
povertà. Immaturo per la via di vulgari piaceri egli giunse al
sepolcro. Non bastando le rendite dei benefizi cumulati nella propria
famiglia per sopperire a tanta enormità di spese Sisto dichiarò
venali tutte le cariche della corte apostolica indicandone il prezzo;
per pubblico bando vendè i più cospicui benefizi, ed anche
qualche cappello cardinalizio; spesso, chi pagava innanzi giuntava:
delle indulgenze peggiorò il traffico già abbominevole; eresse
lupanari, tassò baldracche; i facinorosi poterono comprare perfino
la impunità del delitto commesso, o che stavano per commettere: dei
grani fece lo incettatore comperandoli al prezzo di un ducato il
rubbio; poi li rivendeva quattro o cinque; se veniva a mancare egli ne
acquistava fuori di qualità tristissima; e poichè sotto pene
acerbe costringeva i fornai a servirsene è comune opinione che
cotesto alimento corrotto partorisse le pesti che indi desolarono per
parecchi anni Roma. Accennammo a offici di Maomettani, Giannizzeri, e
Stradiotti instituiti a Roma, e vendibili a contanti, e fu Sisto che
gli fondò: tuttavia non si creda, che alcun bene egli non facesse;
all'opposto ne fece parecchi, ed affinchè la cristianità miri
s'ell'abbia a rallegrarsene io li dirò: innanzi tratto conferma la
bolla di Paolo II, che accorcia di venticinque anni la celebrazione
del Giubbileo, e parendogli la frequenza non bastasse a tirare scudi a
Roma, aggiunge, che durante il tempo del Giubbileo le indulgenze in
tutte le altre chiese s'intendano sospese: conferma altresì la
regola dei minimi di san Francesco di Paola, di cui un convento ebbi
vicino a Genova onde della bontà, della dottrina, della carità,
e soprattutto della castità di cotesti degni padri io potrei
raccontare vita, morte, e miracoli: ordinò la festa della
concezione di Maria madre di Cristo, cui egli primo chiamò
_immacolata_; poco dopo, siccome tutti i frati non la volevano
intendere; ed avevano fra loro di fiere batoste fino a bandire dai
pulpiti in peccato mortale chi ci credeva, Sisto per torre via le
dispute dichiarò solennemente immacolata la Concezione della madre
di Cristo, e saperlo di certo, però ci credessero i fedeli, se no
guai a loro! Su di che ci occorre notare come questa concezione
immacolata scendesse nel cervello, e si predicasse prima da un tristo
frate tenuto per incestuoso, e rotto a libidini nefande, e poi, che a
Pio IX uomo anch'egli alla vaga venere troppo più, che non conviene
un dì inchinevole, dopo quasi quattro secoli pigliasse quel
ghiribizzo medesimo. Proprio le menti umane più che da tutto
vengono percosse dalla ragione dei contrari. Ancora, non contento di
gratificarsi la moglie s'industria tenersi bene edificato il marito,
quindi comanda si festeggi l'annovale di San Giuseppe; ma più di
ogni altra cosa, a parere mio, deve procacciare fama a questo Papa la
doppia decisione intorno alle stimate di santa Caterina da Siena, ed
ecco come sta la faccenda. Santa Caterina domenicana scriveva al suo
confessore: «voi sapete, padre mio, che io porto sopra il mio corpo
le stimate di Gesù Cristo Signor nostro per sua misericordia.» E
il povero padre non ne poteva in coscienza sapere niente,
conciossiachè santa Caterina non ce le avesse mai avute, e questo
si sa per testimonianza della medesima santa; di fatti, ella racconta:
«io vidi il Signore appeso alla croce discendere sopra di me con
molta luce..... subitamente dalle cinque cicatrici delle sue sagrate
piaghe vidi cadere sopra di me cinque raggi di sangue, tendenti alle
mie mani, ai miei piedi, ed al mio cuore. Conoscendo questo essere un
mistero esclamai: Signor mio, e Dio mio, _vi prego che queste
cicatrici non appariscano sopra il mio corpo esternamente_ (o dunque
come aveva a fare a saperlo il padre confessore?) Gesù Cristo mi
rispose e mi parlava ancora quando questi raggi di sangue divennero
risplendentissimi e colpirono le cinque parti del mio corpo da me
indicate.» Non so se in cotesti tempi, ma ai nostri femmina che
simili fandonie sciorinasse si terrebbe dagli uomini di giudizio
addirittura per matta: dal comune allora si esaltava santa; la quale
credenza oggi continua appo i Turchi, voglio dire, che venerano i
pazzi per santi. Ora si faceva un gran battagliare per questo fra
Domenicani e Francescani; i primi avevano dalla loro santo Antonino, e
Pio II; ma tanto è, i Francescani così seppero rigirare la
faccenda, che Sisto proibì sotto pena di censura ecclesiastica
dipingere cotesta santa con le stimate; i Domenicani presi di punta,
s'incocciarono a sgararla; quali ingegni ci adoperassero ignoro; so
che il Papa, (certo per dare saggio della sua infallibilità) dopo
poco levò le censure, e sua mercè noi abbiamo potuto contemplare
santa Caterina percossa in un colpo in cinque parti del suo santissimo
corpo.

Questo Papa dabbene scrisse altresì opere teologiche come quello che in
divinità fu maestro solenne; il Panvinio cita le seguenti--_de sanguine
Christi_,--_defuturis contingentibus_,--_de potentia Dei_,--_de
conceptione Virginis_, e certo scritto contro un bolognese frate
carmelitano, il quale perfidiava a sostenere, che salvare un dannato non
istà nè manco nel potere di Dio. Il Fleury ne aggiunge un'altra, ed
è la spiegazione del trattato di Niccolò Riccardo intorno alle
indulgenze concesse per le anime del Purgatorio: questa fu giudicata
d'importanza superlativa per modo che nel 1481 la mandarono alle stampe.

E perchè nulla mancasse alla esaltazione di tanto pontefice ci fu uno
inglese, certo Roberto Fleming, al quale bastò l'animo di comporre un
poema eroico in sua lode intitolato: _Lucubrationes tiburtinæ_; e
ciò volli riferire perchè serva di alcun conforto a coloro, che a
cagione della vita presente si sgomentano: corsero tempi più duri di
questi, ed in difetto di meglio tanto ne consoli per ora.

La vita d'Innocenzo VIII, Giambattista Cibo, non importa molto il fine
del presente lavoro, però che del dominio della Chiesa, che a detta
dei moderni dottori per istituzione divina non deve menomarsi mai,
poco scisse, pure scisse, chè a Giuliano e a Giovanni della Rovere
in mercede simoniaca dell'opera loro per esaltarlo al papato largì
terre, e castella, al Savello Monticelli, ad Arragona Pontecorvo, a
Parma la Magliana, a Colonna, che di terra possedeva anco troppo,
venticinquemila scudi, il figliuolo Franceschetto Cibo investì
della contea dell'Anguillara; quanto a moneta poi gliene sbraciava un
subisso. Però come Papa onde i tempi nostri derivano, vuolsi tenere
breve sì ma peculiare discorso. Nelle signorie elettive vediamo
come gli elettori ad ogni promozione s'indettino, scottati dalla
esperienza, a limitare le facoltà dello eligendo; colui poi che
esce eletto prima si accorda con gli altri, anzi sovente procede
più rigido degli altri: fatta la festa si leva l'alloro, e si torna
da capo. Ordinariamente alla promessa aggiungono il giuramento, nè
se ne vede ragione; perchè questo non lega mai, e a chi non osserva
il patto poco preme davvero comparire spergiuro. Il Sismondi nota come
i re pollacchi, gl'imperatori di Germania, e i dogi di Venezia
comecchè laici giurando i patti prima di pigliare possesso del
dominio troppo meglio dei Papi rispettassero la santità del
giuramento, quasi intendesse inferirne essere lo spergiuro privilegio
del Papato; e non è così; nei primi casi gli elettori rimangono
sempre potenti di armi; nel secondo i Cardinali tremano sotto la
doppia oppressione della potestà temporale e delta spirituale; cui
un momento prima fu loro pari adesso prosternati nella polvere
adorano; l'eletto con uno stringere del sopracciglio può il corpo
alla forca, l'anima allo inferno dannare. Tuttavia anco negli stati
laici quando colui che giunse a limitare la potestà principesca
perde la potenza di rado avviene, che non finisca sul patibolo: non
occorre allegare esempi che sarebbero infiniti; tanto basti, che nelle
costituzioni antiche e moderne non avendo saputo i cittadini trovare
un modo per reprimere l'elemento monarchico nei suoi conati al
dispotismo le proviamo campo aperto alle procelle popolari, o alle
insidie regie. Nella Inghilterra assai comunemente si accetta il
diritto della resistenza alle usurpazioni della monarchia; ma, a senso
mio, dalla libertà di palesarlo in fuori non vedo a che giovi:
imperciocchè tutto si riduca nella potenza di poterlo esercitare, e
se potrà, il popolo fie, che l'adoperi o l'abbia detto o taciuto,
se poi non potrà, o lo eserciterà infelicemente, e allora
ancorchè lo abbia espresso, ed anco gli sia assicurato per legge,
non per questo la monarchia trionfante glielo farà scontare più
mite; in simili casi il traditore è il vinto, e i giudici per
condannare si trovano sempre. Ai tempi nostri abbiamo veduto in
Francia quei medesimi giudici, i quali avevano dettato il decreto di
accusa contro Napoleone III come traditore della Patria, amministrare
la giustizia in nome di lui.

Le costituzioni giurate, o no abbile per menzogna sempre finchè non
contemplino un mezzo facile per infrenare la potestà regia, o
meglio se la potestà regia non metti in istato di non nocere
scemandola delle prerogative delle quali, volendo, può abusare. Ai
nostri padri, massime ai Veneziani, non sembrava mai sentirsi a
bastanza sicuri, sicchè ponevano cura indefessa a limitare le
attribuzioni del potere; noi all'opposto gliele sbraciamo con la pala,
e poi ci lagniamo se la libertà abbia faccia di menzogna. Il Segni,
nel libro ottavo delle storie, racconta come quando, dopo la strage di
Alessandro dei Medici, si riunì la pratica per surrogargli nel
ducato Cosimo, Francesco Guicciardino intendesse camminare rispettivo
imponendo limiti, e condizioni all'autorità di lui; senonchè
saltato su Francesco Vettori ruppe in queste parole, le quali non
potrebbero mai essere abbastanza lette e considerate da quanti si
professano amici della libertà: «mi maraviglio bene ora di voi,
messere Francesco, che siete stato sempre tenuto prudente, che
consideriate tante minuzie nel far creare questo principe: perchè
se gli date _la guardia, le arme, e le fortezze in mano_, a che fine
mettere poi ch'ei non possa trapassare oltre ad un determinato
segno?» Ora considerino i savi se le prerogative dalle nostre
costituzioni attribuite ai re superino o no quelle di cui favella il
Vettori, e formino il giudizio che reputeranno più giusto.

Certo è poi che il Papa possiede quasi la fabbrica privilegiata
dello spergiuro, e ciò non tanto per la malignità dell'uomo,
quanto per quella dello istituto; di vero una delle principali
prerogative del Papa consiste nello sciogliere altrui dai voti e dai
giuramenti; adesso viene poi suoi piedi, che s'ei può esercitare
simile facoltà in benefizio altrui, tanto maggiormente lo possa in
utile proprio.--Nel caso d'Innocenzo VIII i Cardinali attesero a
sorreggere il giuramento con una molto terribile clausula, la quale
fu, che ogni Cardinale promise, se eletto Papa, osservare nella sua
pienezza, la costituzione, dichiarandosi dove mai trasgredisse
anatema, da cui nè da sè potesse, nè da altri si facesse
assolvere; ma l'erano baje che cotesti uomini dovevano pure sapere.
Innocenzo VI fino dal 1353 aveva stabilito non potersi con alcuna
promessa _etiam_ giurata limitare dai Cardinali l'autorità
pontificia, conciossiachè ai cardinali nella sede vacante altro
diritto non competa tranne quello di creare il nuovo Papa; e questa
dottrina sempre resse la Chiesa, e tuttavia la regge.--

Innocenzo pertanto nè volendo, nè per avventura potendo
procedere diverso dagli altri i patti promessi da Cardinale, pontefice
spergiurò; e se lo spergiuro meritasse mai scusa, l'avrebbe
meritata adesso, dacchè i Cardinali con la nuova costituzione non
mirassero ad altro che ad avvantaggiarsi. Di questa costituzione a noi
importa riportare unicamente il disposto che vieta eleggere Cardinali
minori di trenta anni, aumentarne il collegio oltre ventiquattro,
governare senza il concerto dei Cardinali, ed alienare beni
ecclesiastici dove almanco i due terzi di loro non acconsentissero. Da
diverse femmine questo Papa dabbene ebbe sette figliuoli, e tutti
riconobbe per suoi, e colmò di ricchezze: però stati della
Chiesa a veruno assegnò, terre sì, e contadi. A Franceschetto,
che tale ebbe nome dalla esigua statura, procacciò le nozze con la
Maddalena figliuola di Lorenzo il Magnifico, e si reputarono regie; in
compenso egli promise eleggere Cardinale Giovanni dei Medici, più
tardi Lione X, e lo elesse di tredici anni, da tanto che gli premeva
osservare la costituzione giurata da Cardinale, e insieme con lui un
suo servitore di anni venti. Visse vita agitata, disforme, perniciosa
ad altrui ed a sè; prima s'inimica Ferdinando di Napoli, poi gli
rompe guerra, e pauroso, che lo Sforza da Milano accorra in aiuto di
Ferdinando, gli suscita contro gli Svizzeri; ma spaventato per la
vittoria del duca di Calabria al ponte di Lamentana dove (se narra il
vero la fama non vi furono morti nè feriti) cala agli accordi, i
quali acerbamente sopportando, da capo ingaggia guerra contro
Ferdinando. Per ingagliardire le armi temporali ci aggiunse la
scomunica; senonchè riputandola di piccolo ausilio si risolve
voltarsi alla Francia; tutti i popoli del mondo nemici alla Italia,
tutti le furono servi, ma sovra ogni altro molesto il Francese; colpa
massima del Papato; però veruno degli stati italiani ne andò
immune; chi primo aperse le porte ai Francesi il Papa; ma poi in capo
a dieci anni a volta a volta ce li chiamarono i baroni Napolitani, i
Toscani, i Lombardi, i Veneziani, ed i Genovesi, e vennero, ce ne
fosse stato! ora con Carlo il vecchio di Angiò, ora con Filippo e
Carlo Valesi, ora con Ludovico I, II e III della nuova casa di
Angiò, il vecchio Renato, il figliuol suo Giovanni duca di
Calabria, Renato di Lorena, e Renato II due volte; del seguito taccio;
solo dico, che infino a quando gl'Italiani non si sentano capaci a
fare da sè non si movano; chiama come vuoi il forestiero, che ti
aiuta, lo proverai sempre padrone, Carlo VIII invitato dal Papa non
venne (doveva venire agli altrui inviti più tardi) onde a questo,
fu mestieri appaciarsi con Ferdinando. Prima di raccontare la sua
morte diciamo alquanto dei suoi costumi. Gem nacque figlio a Maometto
II quando questi sedeva sovrano, Bajazzette mentre durava privato;
distinzione sufficiente, anzi ce n'era di troppo, a fare che il
fratello minore nato nella porpora vincesse il maggiore; ma bisognava
prevalere nelle armi; invece fu Gem sconfitto, ond'ebbe di catti
scappare, e ripararsi a Rodi sotto la protezione dei Cavalieri di san
Giovanni: protezione nemica vuol dire, quando è bazza, prigione,
quasi sempre morte di laccio, di ferro, o di veleno. I Cavalieri lo
mandarono in Francia nella commenda dell'Alvernia; a loro lo chiese il
Papa, e il gran maestro Francesco d'Aubusson facendovi calca dintorno,
glielo consegnarono; il d'Aubusson in mercede ebbe il cappello
cardinalizio. Bajazzette promise al Papa gli avrebbe pagato
quarantamila ducati annui se glielo custodiva stretto, e il Papa, che
aveva voluto Gem appunto per questo, conchiuse il negozio; però non
sentendosi il Bajazzette abbastanza sicuro s'industriò avvelenarlo;
propinatore a prezzo del veleno un Macrino del Castagno gentiluomo
della Marca di Ancona; scoperto patì orribile supplizio; non
dissentivano i Papi ad avvelenare Gem, solo intendevano avvelenarlo
essi, come di fatti fece più tardi Alessandro VI e per molto
tesoro, come noteremo a suo luogo. Sicarii, ed avvelenatori in cotesti
tempi frequentissimi a Roma, e non poteva essere a meno, però che
nei casi ordinari come si costumava fino dai tempi di Bonifazio VIII,
vendevansi bolle d'impunità, e indulti per delitti commessi, e da
commettersi, allegando a scusa della iniquità le parole del
Vangelo: «non voglio la morte del peccatore, ma viva e si
penta.» I preti erano macellari, albergatori, biscazzieri,
ruffiani, e peggio. Pareva che più in fondo non si potesse andare e
si andò, perchè non conosce fondo l'inferno; un Domenico da
Viterbo in società di Francesco Maldente fabbrica false bolle con
le quali si permettevano per danaro infamie, che non hanno nome;
scoperta la frode, erano dannati nel capo; il padre di Domenico con
molte lacrime supplica la vita del figlio; glielo concede il Papa a
patto paghi seimila ducati; il misero si mette dintorno, e
scombussolando parenti ed amici ne raccoglie cinquemila; recali al
Papa, il quale li piglia, ma poi dichiara il misfatto tale da non
potersi saldare con meno di seimila ducati, epperò non rende i
cinquemila, e taglia la testa al viterbese. La inquisizione Innocenzo
non instituì; già innanzi a lui era; ma ai tempi suoi si
perseguitarono Ebrei, e Mori per cupidità, per diletto, e per
devozione; dacchè ad ottenere la rimessione di un'omicidio bastava
ammazzare un'Ebreo; se due meglio che mai; ed egli fu che sotto pena
di scomunica ordinò ai giudici secolari senz'appello, senza
revisione nel termine dei sei giorni eseguissero la Sentenza. Il prete
decretava la strage, ma voleva, che chi s'imbrodolava nel sangue fosse
il secolare.

A tempo di questo Papa Giovanni Pico della Mirandola di ventitrè
anni sostenne a Roma le sue famose tesi in tutte le scienze, non
escluse la Magia, e la Cabala, comprensive novecento proposizioni
estratte da scrittori greci, latini, ebrei, e caldei; più tardi
tredici ne furono trovate eretiche, e il Pico non mancò difenderle
a spada tratta. Fra le tesi condannate, vale il pregio ricordare
queste. Veruno può credere una cosa dove manchi di motivi
sufficienti per crederla. Si parla più impropriamente affermando
Dio intelligenza, o intendimento, che dire di un Angiolo che sia anima
ragionevole; e rinterzando si difendeva co' libri di san Dionigi
areopagita, il quale nega bravamente Dio essere una intelligenza.
Finalmente il Pico non dubitava sostenere come l'anima non possa
concepire distintamente altro che sè.--E ci era la inquisizione!
È da credersi che non l'avrebbe passata liscia se non era principe,
e non gli facevano spalla i più potenti d'Italia; il Papa si tenne
a citarlo a Roma dove il Pico non comparve, e a condannarne le tesi.

Nel settembre del 1490 tanta paura lo vinse per lo scoppio di un
fulmine caduto nel campanile di san Pietro che cadde come morto
colpito dall'apoplessia; durò venti ore come passato, e durante
questo tempo i Cardinali entratigli in camera ne portarono un milione
di oro per sottrarlo alle rapine dei figliuoli; pure essendosi riavuto
tirò innanzi come una cosa balorda: ogni via tentarono per guarirlo
ancora che strana ed immane; tra le immani la trasfusione del sangue;
la tentò un medico ebreo il quale per aggiungere un filo di vita ad
un tristo vecchio non dubitò troncarla a tre giovanetti; ma e prima
e dopo di lui medici non so se più ignoranti o feroci avvisarono
guarire parecchie infermità col sangue, a mo' di esempio
l'elefantiasi. In Toscana un medico Polli di Casentine molto si
travagliò intorno la trasfusione del sangue, ed anco ai tempi
nostri qualcheduno lo ha tentato. Il Fleury afferma per attenuare
l'orrore della cosa che i giovanetti erano morti; questo è falso
però che sangue di morto stimavano privo di virtù l'ebreo non
essendo riuscito scappava; il vecchio Papa precipitava nel sepolcro
strascinandovi secolui tre vittime.

Se Alessandro VI, che seguitò, fosse il solo Papa incestuoso,
avvelenatore, fedifrago, ladro, e assassino io vorrei, che sopra la sua
immagine fosse tirato un velo come su quella di Marino Faliero, ma pur
troppo costui va sciaguratamente accompagnato con troppi più soci, che
non si crede. Sazievole, e non utile dire tutto di lui; anco quello che
giova compendierò in istile, che l'amore della chiarezza mi
consentirà più conciso. Anco in questo conclave i Cardinali giurarono
patti, e furono: l'eletto Papa non promoverebbe altri Cardinali senza il
consenso del _sacro_ collegio: allora sommavano ventitrè in tutti: la
esperienza aveva dimostrato, che sottomettere un prete al giuramento, egli
era come legare di ritorte Sansone prima che avesse la chioma mozza,
proprio pel piacere di vedergliele rompere, e se questo commisero gli altri
Papi immaginate che mai fosse da aspettarsi da Alessandro VI. Per consenso
degli stessi scrittori ecclesiastici lo spirito santo non entrò per
nulla nella elezione di lui, bensì la simonia, e non più vista della
così sfacciata; al Cardinale Ascanio Sforza risegnò la carica ch'egli
teneva di vicecancelliere, e per caparra prima della elezione gli mandò
a casa 5000 ducati di oro; il Cardinale Orsini ebbe il suo palazzo di Roma,
ed i castelli di Monticelli e di Soriano; il Colonna si buscò l'abbazia
di Subiaco con le castella; il Michiel il vescovado di Porto col palazzo,
masserizie, e financo il vino che molto e prezioso si conservava nelle
cantine di quello; la villa di Nepi al Cardinale di Parma, al Savelli la
chiesa di santa Maria maggiore, e Civita Castella; toccò al Cardinale di
Genova la chiesa di santa Maria in _via lata_; altri comprò a contanti.
In quel torno Cesare Borgia suo figliuolo si trovava a studio in Pisa
sicchè udita appena la esaltazione del padre di un salto fu in Roma;
presentatosi al Papa, questi, che non rifiniva parlare di riforme, del
vituperio delle simonie, e di altre infamie da doversi torre via dalla
Chiesa col ferro, e col fuoco, mentre tuttavia gli stava genuflesso dinanzi
gli sciorinò una lunga diceria di cui la sostanza era, che non isperasse
grazia o favore; i premi se gli aveva a guadagnare con illibati costumi, e
studi poderosi; egli non avrebbe imitato lo esempio dello zio Calisto, il
quale smembrò la Chiesa del ducato di Spoleto per donarlo a lui, a lui
la prefettura di Roma, e la vice cancelleria della Camera, a lui il
generalato della Chiesa, ed altri benefizi parecchi, che arieno potuto
bastare a guiderdone di molti, e tutti più capaci di lui.--Ai presenti,
udendo coteste parole, sembrava di avere le traveggole; egli era negare il
pasto all'oste co' vermicelli in bocca; Cesare ne trasecolò, e corse
difilato a sfogarsi con la madre Vannozza, la quale ne rise di cuore
confortandolo ad aspettare.

Assunto al pontificato Alessandro prese a inimicarsi con Ferdinando di
Napoli perchè egli dette sottomano i danari agli Orsini onde
acquistate le castella di Anguillara, e di Cervetri gliele tenessero
come un calcio in gola; la quale avversione crebbe fuori di misura per
la repulsa di Alfonso duca di Calabria di maritare certa sua figliuola
naturale con uno dei figli del Papa; per la quale cosa egli si strinse
in lega co' Veneziani e col Duca di Milano osteggiando il re di
Napoli; ma Ferdinando, che per sagacia, malignità, e ferocia si
rassomigliava come uovo ad uovo al moderno Ferdinando II, con ogni
studio volendosi tenere bene edificato il Papa, impedì recassergli
ingiuria i baroni romani di concerto con Piero dei Medici, e il duca
di Calabria, e mise pratiche per istaccarlo dalla Lega, ed accorciarsi
con lui; il Papa volentieri le accolse, ma evitava venire alle strette
confidando, che il tempo greve di casi, gli porgesse occasione di
avvantaggiarsi con suo maggiore profitto; nè la occasione si
lasciò aspettare; dacchè la calata di Carlo VIII si conobbe
statuita, Ferdinando compunto da affannosi presagi morì, e Alfonso
bisognoso della investitura papale, smessa la superbia, ebbe a calare
concedendo la figliuola Sancia da prima negata a Giuffrè figlio del
Papa, col titolo di principe di Squillace, e Cariati, 10000 ducati di
pensione, 300 uomini di arme pagati per sua difesa, e per giunta il
protonotariato di Napoli ch'è delle sette principali cariche del
regno; nè qui finiva: a Francesco duca di Gandia un'altra delle
sette cariche, e 10000 ducati di pensione, a Cesare, che allora era
Cardinale, e per giunta arcivescovo di Valenza, un benefizio, e dei
grossi; del quarto figlio maschio del Papa tace la storia, e non ne
ricorda il nome, forse nacque sconcio, e visse così.

Alessandro, sarebbe ingiustizia negarlo, con tutte le forze si oppose
alla venuta dei Francesi in Italia, e all'oratore di Carlo VIII senza
ambage dichiarò, non potere spogliare gli Arragonesi di Napoli dove
il re non provasse superare in diritto gli Angioini; feudo della
Chiesa cotesto reame, spettare al Papa decidere il piato, se Carlo ci
adoperasse la forza sarebbe come assalire la Chiesa. Nè manco, come
corre la fama, la colpa della chiamata di Carlo VIII vuolsi rovesciare
tutta sul Moro; all'opposto egli aveva tentato comporre una lega di
principi italiani per la difesa della nostra terra contro le invasioni
dei barbari; lo attraversò Piero dei Medici; sicchè quando
conobbe formata una lega contro di lui, non riputandosi capace a
combatterla solo, e certo togliendogli baldanza la rea opera, che
intendeva condurre a compimento, ed era torre come tolse il governo di
Milano al nipote Giovanni Galeazzo, e forse anco la vita, si apprese
al partito miserabile di chiamare lo straniero fra noi: poco dopo si
pentì, ma ormai si era chiuso la via al riparo, conciossiachè
mentre si sarebbe fatto nemico implacabile Carlo non poteva confidare
amicarsi Alfonso, però che egli intendesse regnare, e Alfonso a
ragione domandava rendesse il ducato al genero, ed alla figlia
Isabella. Colui, che spinse in Italia i barbari fu per lo appunto
Giuliano della Rovere, più tardi Giulio II, il quale dagl'imperiti
delle storie viene celebrato come perpetuo nemico degli stranieri, ed
irrequieto ripetitore del grido: «fuori i barbari!» Ahimè!
peccarono a volta a volta tutti i nostri padri, e i Veneziani stessi
col trattato di Blois convennero co' Francesi di pigliarsi, e
spartirsi il Milanese: che Ferdinando il cattolico e Luigi XII
cristianissimo si accordassero a dividersi il reame di Napoli, bene
sta; per loro era preda, ma che preda i Veneziani considerassero la
Italia, questa è cosa ch'io perdono loro meno, che il truce
istituto degl'inquisitori di stato.--

Però il Papa se non chiamava i Francesi, per contrapporli a loro
chiamava i Turchi mandando a questo fine un Bucciardo oratore fino a
Costantinopoli, mentre coll'avventato stile delle bolle papali
eccitava Carlo a voltare le armi contro quel desso Turco
dimostrandogli quale e quanta enormezza fosse per un re cristianissimo
mettere a fuoco, e a fiamma la cristianità mentre gl'infedeli
minacciavano straripare fino a Roma; a tale lo conduceva (fosse stato
migliore di quello ch'egli era) la mostruosa miscela del temporale con
lo spirituale.

Però il Turco non gli dette retta, e Carlo dopo avere ciondolato
alquanto, sovvenuto dalle donne ducali, e marchionali di Savoia, e di
Monferrato, che Dio confonda, venne ai nostri danni in Italia. Il
Turco Bajazzette non accogliendo tutte le istanze del Papa ne
secondò parecchie come si cava dalle sue lettere, che intercette da
Giovanni della Rovere, furono mandate a Carlo mentr'egli stanziava a
Firenze; in una di queste del 12 settembre 1494, si diceva:
ringraziarlo degli avvisi portigli intorno ai disegni di Carlo VIII,
il quale intendeva impadronirsi del fratel suo Gem per servirsene a
tentare cose nuove in Oriente; facesse una cosa, la quale avrebbe
giovato a loro, ed anco a Gem, ed era avvelenarlo o in altro modo
procurargli la morte; giovato a Gem perchè a fin di conto mortale
essendo gli toccava un giorno o l'altro finire, ed ora levandolo dalle
miserie del mondo lo avrebbe avviato in luogo pieno di ogni
felicità; se ciò avesse fatto egli giurava pagargli subito 800
mila ducati, e di più gli prometteva non avrebbe danneggiato le
terre dei cristiani; quanto a lui si sarebbe tolto quel fastidio di
fratello dintorno; in segno dello amore sviscerato che gli portava,
tosto avutone il corpo lo avrebbe in magnifico sepolcro sepolto;
ancora, lo supplicava di compiacerlo in altro suo desiderio, il quale
consisteva nel promovere al cardinalato Niccola Cibo arcivescovo di
Arles. Così i Turchi raccomandavano al Papa i prelati, e il Papa le
raccomandazioni con pronto animo accoglieva!

E poichè nonostante gli ostacoli, Carlo VIII sceso in Italia
cominciava la corsa, la quale dissero vittoria, dove i Francesi altra
arme non adoperarono eccetto sproni di legno, e gesso per segnare i
quartieri alle milizie, il Papa tentennando propone accordarsi con
Carlo, poi se ne pente, e sostiene i Cardinali Sforza, Sanseverino,
Colonna, Lunate, ed altri parecchi; ma progredendo vie più Carlo
torna a ciondolare; finalmente vinto dalla paura libera i prigionieri
e gli mette framezzo pacieri; il re oltre parecchie cose pretende
Santo Angiolo, lo nega il Papa, il re Carlo due volte appunta le
artiglierie per espugnarlo; ma visto il papa deliberato di porre ogni
sua fortuna in isbaraglio innanzi di cedere renunzia al castello, e
tiene il fermo sopra le altre condizioni, le quali vengono concesse;
tra queste la consegna di Gem, e l'ebbe vivo ma con la morte in seno;
il Papa per gratificarsi il Turco, e buscarsi gli 800 mila ducati lo
avvelenò.--

Gli Italiani tardi commossi dalla subita conquista dei Francesi si
uniscono in segretissima lega e la sottoscrissero il Papa, i
Veneziani, il re di Spagna, e quello dei Romani, e il duca di Milano,
in apparenza volevano difendersi, ma in fondo dare addosso ai
Francesi. Naturale talento dei popoli di mutare signoria, provata, che
l'abbiano basto in tutto uguale alla signoria antica, la stupenda, e
insanabile levità dei Francesi, lo istinto loro di guastare sempre
e non ordinare giammai, le voglie ladre, la ingiuriosa jattanza, ed
altre pecche, le quali non si ricordano unite alla fama della novella
lega cominciano a sgomentare i Francesi, nè Carlo si trovò mai
così presso a perdere la corona come in quel punto nel quale ei se
la mise in capo. Come e perchè questi successi avvenissero, ed ai
Francesi toccasse sgombrare il regno più presto di quello, che
l'occupassero altri disse e bene; mi stringo a raccontare che dopo
infelici fortune, tornato il re in Francia, Gilberto di Monpensieri
ebbe a capitolare in Atella; stipulava salute per sè e per gli
aderenti suoi, ma siccome fra questi erano gli Orsini, cui il Papa
disegnava spegnere per eredarne le spoglie, ordinò a Ferdinando di
Napoli non l'osservasse, anzi se disobbediente ai comandamenti suoi lo
avrebbe scomunicato; però Paolo e Virginio Orsini furono sostenuti
prigioni nel castello dell'Uovo, e le milizie loro assalite a man
salva e svaligiate.

Fin qui contro Francia; morto Carlo e succeduto Luigi XII Alessandro
piantati là gli Aragonesi si stringe alla Francia mercè novella
lega cui rinterza co' vincoli sempre provati fallaci, e pure sempre
appetiti, del matrimonio; e poichè Carlotta figliuola al re di
Napoli ricercata di nozze dal Valentino, mostrando il coraggio, che
allora ai più animosi faceva, difetto, gli buttò sul viso queste
parole; «io non vo' per marito un prete, figliuolo di prete,
fratricida, infame per nascita, e più per opere scellerate.» il
Valentino si tolse per moglie un'Albret figliuola del re di Navarra
dotandola, invece di riceverne dote, conciossiachè fossero patti
degli sponsali, sodasse il Papa duegentomila scudi alla sposa, un
cappello cardinalizio conferisse al fratello di lei. Quello, che il
Papa e il Valentino ardissero con l'aiuto di Francia vedremo; ora
importa sapere, che di nuovo la fortuna dei Francesi scadde in Italia
non per mancanza di valore, bensì per le indomabile levità, e
spensieratezza loro; il Papa, e il Valentino tosto mutata vela secondo
il vento pigliano ad intorarsi con Francia, mettono la parola di
possibile accordo col Gonzalvo; co' Pisani temporeggiano; insomma
stanno a cavallo al fosso per buttarsi dove il conto torni. Le sorti
di Francia veramente toccarono il fondo, ma quivi si rifecero,
secondochè la favola immagina del titano Anteo, e con la Tremoglia
si avventura a nuovo esperimento; da una parte, e dall'altra avendo
sete del Papa, gli profferiscono mirabilia per tirarselo a sè, ed
egli col Valentino in mezzo a mettersi allo incanto e a succhiellare
la carta; le proposte più turpi si volsero alla Francia, e questa
tutta ingolfata nell'interesse presente, non curando vergogna le
accettava; ma Valentino provato il terreno sollo a ingolare la vanga,
armeggia a ficcarci ancora il manico; la sorte sul più bello gli
fece la cilecca, il Papa morì, ed egli stette a un pelo di tenergli
dietro.

Di queste trappole non appunteremo costoro; a quei tempi o farle o
patirle, ed anco ai nostri così; il Papato diventato cosa terrena
si schermisce con le industrie persuase dai tempi, e dagli uomini:
però cosa iniqua non per chi presume rappresentare Cristo, bensì
per ogni creatura umana la smania di arraffare la roba altrui, e il
modo per venirne a capo.

A mano a mano che divoravano in cotesti maligni crebbe la fame come sempre
nei cupidi accadde; per ora basta Romagna, più tardi la Toscana, e se la
morte non troncava i disegni non si sarieno contentati dell'Italia.
Concetto pari ebbe Sisto IV. ma non potè dargli fondamento, quindi
essendo il fabbricato da lui ostacolo allo edifizio dei Borgia, ebbe a
crollare. Parte dei principi di Romagna, i Bentivoglio, e gli Orsini
confidavano nella protezione della Francia, ma re Luigi bisognoso di
tenersi bene edificati il Papa, e il Valentino di un tratto significa loro,
chi può salvarsi si salvi, non potere egli nè dovere pregiudicare i
diritti della Chiesa. Diritti la Chiesa non aveva, se togli le antiche e
famose donazioni, pure non si vuole negare, che parecchi per possedere
simulacro di potestà legittima a opprimere i popoli avevano sollecitato
ed ottenuto titolo di vicari della Chiesa, e promesso eziandio il censo
annuo, che non pagavano mai: non importa, porgi al prete la cima della
corda in mano, ed ei saprà tenerla inoperosa per secoli, finchè non
giunga la opportunità di stringertela al collo; difatti occorrevano
città come Ancona, Spoleto, Terni, Narni, Assisi, e qualche altra, che
si reggevano a ordini repubblicani; peccato che gare interne ed esterne le
impedissero a costituirsi in valida lega fra loro, sicchè ogni giorno
crescevano le cause della provocazione, quelle della difesa diminuivano.
Primi a cadere i Riario nepoti di Sisto investiti d'Imola e di Forlì.
Imola non oppose resistenza, a Forlì la vedova Caterina Sforza, scansato
prima il figlio Ottavio a Firenze, volle mostrare il viso alla fortuna, e
fece strenua difesa, non felice, chè il Valentino sovvenuto da 300 lance
di Francia espugnò prima la terra, poi la rocca. Caterina venuta in
potestà del Borgia, andava a Roma prigioniera e fu chiusa in castello
Santo Angiolo, donde la trasse fuora Ivo d'Allegre o vergogna lo
rimordesse, od altra passione lo stimolasse.--I signori di Faenza, e di
Rimini apprensioniti supplicano per soccorso. Astorre, il quale pure nacque
dalla figlia di Giovanni Bentivoglio, fu respinto dallo zio, ch'ebbe di
catti ottenere perdono dal re Luigi pei sussidi somministrati al duca di
Milano; nè gli riuscirono migliori amici i Fiorentini pensosi anch'essi
dei fatti loro: peggio di tutti i Veneziani, che in coteste strette
disdissero l'amicizia vecchia, e scrissero nel libro di oro il nome del
Valentino che a questo modo diventò nobile veneziano. Pandolfo Malatesta
signore di Rimini vista approssimarsi la burrasca si tirò al largo; e ne
seguì lo esempio Giovanni Sforza signore di Pesaro; per converso elesse
contrastare Astorre Manfredi di Faenza giovane fuor di misura bellissimo, e
di magnanimi spiriti; il Valentino si mosse ad assaltarlo con potente
esercito, e copiosa artiglieria; adoperando le armi costui non poteva
omettere i tradimenti, e corruppe Dionigi di Naldo a tradire Astorre del
castello; scoperto il trattato le spengono a ghiado: durarono tutta una
stagione intorno all'assedio di Faenza invano: entrato il verno in cotesto
anno rigido oltre il consueto e' fu forza ritirarsi; il Valentino tornò
in primavera con animo più perverso, ed esercito più gagliardo; due
volte assaltò, e due rimase respinto: tuttavia i Faentini considerando
non poterla durare, così com'erano privi di ogni umano aiuto con le
lacrime agli occhi supplicarono Astorre a capitolare; i patti brevi: salvi
le persone, e i beni, libero Astorre recarsi dove gli talentasse.

Astorre con un suo fratello bastardo ed una giovane donna erano menati
prigioni in castello Sant'Angiolo, quivi stettero un anno in capo al
quale i cadaveri di questi miseri furono trovati nel Tevere; quello di
Astorre aveva una corda intorno al collo, gli altri due stretti
insieme e con le mani legate dietro il dorso. Il Guicciardino scrive
essere corsa fama, come _qualcuno_ sfogasse la immane libidine nel
corpo di Astorre, il quale _qualcuno_ nella vita del Valentino, che un
dì pubblicata col nome di Tommaso Tommasi sappiamo essere opera di
Gregorio Leti, diventa colui, che _sconvolgeva tutte le leggi di
natura e di Dio_, con le quali parole dà ad intendere, lo
scellerato stupratore fosse il Papa: ahimè! troppi vediamo essere i
delitti veri commessi da questo empio uomo, onde gli si abbiano ad
aggiungere anco gl'immaginati. Astorre cadde nelle mani del Valentino
nel 1500, e l'anno dopo periva, e siccome in quel torno il Papa
annoverava bene settanta anni, così se il volere gli avesse
consentito la infamia, la età gliene levava il potere. Il Gordon
nella vita di Alessandro VI afferma la donna rinvenuta nel Tevere in
compagnia di Manfredi essere stata la donzella, che inviata da
Elisabetta Gonzaga duchessa di Urbino a marito in Venezia con
Giovambattista Caracciolo generale di fanti della repubblica, il
Valentino fece rapire presso Cesena, nè se ne seppe più altro:
non avendo trovato in veruno scrittore italiano tenuto ricordo di
cotesto particolare, io lo giudico giunta dello scrittore.

Arte profondamente arguta per isbigottire, e per gratificarsi i popoli
già soggetti fu questa, che il Valentino mandasse a governarli o
piuttosto a tribolarli un'Orco Ramiro; quando conobbe immensa gravare
sul capo di costui la maladizione dei traditi, quasichè il Borgia
sentisse pietà dei popoli, un bel giorno spartito in due cotesto
ribaldo in mezzo a parecchi torchi accesi lo fece esporre sopra la
piazza di Cesena; il quale trovato, pieno di malizia, gli conciliò
l'animo non pure dei soggetti, ma eziandio degli altri che intendeva
sottoporre, imperciocchè dai vecchi signori fossero con ogni
maniera di strazi angariati.

Adesso il Borgia accenna alle Marche, alla Toscana tutta, a Bologna, a
Urbino, e a Piombino. Da prima si volta contro Giovanni Bentivoglio, e
lo vinceva, se non lo impediva Luigi XII a cui era cotesto signore
raccomandato; non potendo cavarne tutto il vestimento, il Borgia per
allora si contentò del mantello; volle Castel bolognese, e 1000
ducati all'anno, con 100 uomini d'arme e 2000 fanti pagati; poi
minaccia Toscana, e ne corre le terre; pretesto allo assalto la
licenza data al Rinuccio da Marciano che passò con la sua compagnia
al servizio del Bentivoglio; Firenze con Pistola ribellata, il contado
in ruina, strema di forze a cagione della guerra pisana poco schermo
poteva fare se il Borgia chiamato a Napoli non avesse dovuto lasciarla
stare pel momento; in passando assediò Piombino, il quale
resistendo oltre il presagio, fu espugnato più tardi dai suoi
luogotenenti. Reduce da Napoli, macchina la usurpazione del ducato di
Urbino retto da Guidobaldo che per cotesti tempi fu una coppa di oro
di principe, e lo sarebbe anco ai nostri per bontà, e per sapienza;
il modo che il Papa e il Valentino tennero, questo: gli finsero
maravigliosa benevolenza, composero le liti che cotesto signore teneva
con la Camera apostolica, il nipote Francesco Maria promossero a
prefetto di Roma, e per fino gli proffersero ammogliarlo con Angiola
Borgia; tranquillatolo così ingrossarono l'esercito nelle terre
vicine sotto colore di assediare Camerino, e poi gli mandarono messi
con lettere ortatorie perchè gli servisse per cotesto assedio delle
sue artiglierie, assettasse le strade, provvedesse vittovaglie ai
soldati, consentisse per le sue terre il passo a un 1500 uomini. Il
duca rimandò indietro al Valentino per accertarlo sarebbe servito;
se altro avesse desiderato comandasse, e il Valentino come intenerito
si profondava in grazie maravigliose giurando non volere in Italia
altro fratello, che il duca; per colmo di favore gli saria grato se
incamminasse un migliaio di fanti in aiuto del Vitellozzo suo capitano
su quel di Toscana. Tesa a quel mo' la rete, di un tratto la strinse;
non contento dei beni voleva la vita del buon Guidobaldo, che
avvertito non credeva, ma reso accorto in estremo appena col nipote
Francesco Maria della Rovere poterono scappare a sant'Agata, dove
presa veste contadinesca separaronsi commettendosi all'aiuto di Dio,
che li condusse a salvamento fuori di ogni pericolo. Pazienza! Il
Borgia si morse il dito; e non sospese pure di un'attimo la opera
propostasi; col Vitelli minaccia la Toscana, ribella Arezzo, e
n'espugna la Rocca, e forse Firenze non la contava se accordatasi col
re di Francia, questi non avesse spedito in diligenza ordine al
Valentino di lasciare illesa la Toscana; e nondimeno egli più tardi
quando i Fiorentini gli mandarono legato il Machiavello costui con
giuramento affermava di coteste rivolture sè non solo innocente, ma
inconsapevole; di ogni cosa colpa il Vitelli. Intanto egli assedia
più certa preda Camerino; fatta un po' di resistenza Giulio Cesare
da Varano propone gli accordi, e il Valentino gli accetta, ma sul
punto di segnarli egli sforza la terra, i patti straccia, mette le
mani addosso a Giulio Cesare, e a due suoi figliuoli Venanzio e
Annibale, i quali tutti in un'attimo strangola, il primogenito
Giovanni Maria poco innanzi ito a Venezia per miracolo scampa.

Vinti e spogliati i nemici, rimaneva a spengere, ed a spogliare gli
amici; già per venirne più agevolmente a capo il Papa si era
industriato commettere scandali tra gli Orsini e i Colonna, e ci era
riuscito come quelli che _ab antiquo_ procedevano scambievolmente
nemici; però il Papa si mosse meno pel proposito di separarli, che
per l'altro di non farli mai ora nè poi riunire. Fino dalla
capitolazione dell'Atella il Papa dopo avere fatto sostenere, in onta
alla fede giurata, Virginio Orsini, ne pubblicò i beni ordinando al
duca di Gandia, e ad altri parecchi mandassero la sentenza ad
esecuzione: donde una guerra lunga e varia, ove nella difesa di
Bracciano mostrò la donzella Bartolommea, sorella di Virginio
Orsini, tale prova di valore da disgradarne i più intrepidi. Carlo
Orsini in buon tempo venuto di Francia con Vitellozzo Vitelli, che
congiunti erano, si legano ai danni dei Borgia; gli sovvennero
Perugia, Narni, e Todi, e messe assieme le genti s'incamminano a
Bracciano; occorsero loro i papalini, ed incontratisi su la via di
Soriano danno subito di piglio alle armi: dopo lunga battaglia
andarono sconfitti i papalini, prigione il duca di Urbino, sfregiato
in faccia Francesco Borgia. Impaurito il Papa, chiede accordare, e
l'ottiene; in questa pace fu notabile il caso seguente: il Papa di
leggeri ammollì su tutto, tranne che volle gli Orsini gli pagassero
70 mila ducati per le spese della guerra; ma perchè sapeva costoro
corti a pecunia li persuase a non liberare il duca di Urbino,
eccettochè con la taglia, e gli Orsini non intendendo a sordo
gliela imposero, e appannata, 40,000 fiorini, i quali da una mano
presero e dall'altra pagarono al Papa; così Alessandro buscava la
taglia di tale, che combattendo per lui era caduto prigioniero! Dopo
questo successo gli Orsini servirono i Borgia di coppa e di coltello,
soldati e sicari come meglio loro ordinavano, sicchè poste in oblio
le date e le ricevute ingiurie estimavano esserseli amicati per la
vita: funesta fiducia con tutti, co' Borgia poi anco matta, ma anzi
non è così, almeno non sempre, imperciocchè tanto gli Orsini
quanto i Vitelli congiunti, ed aderenti loro incominciassero quasi per
istinto a fiutare la mala parata, per la quale cosa convennero
segretamente alla Magione terra prossima, a Perugia, per concertare la
comune difesa: a questo congresso si trovarono il Cardinale Orsini, il
fratel suo Paolo, Vitelozzo, Giovampaolo Baglioni, Ermes Bentivoglio,
Oliverotto, Antonio da Venafro pel Petrucci di Siena, e dicono ci si
facesse rappresentare anco la vedova di Giovanni della Rovere signora
di Sinigaglia. Al Talentino incominciava a voltare faccia la fortuna:
i suoi capitani ormai ribelli restituiscono nell'usurpato retaggio il
duca di Urbino maravigliosamente sovvenuti dai popoli devoti al
principe benemerito: pel costoro abbandono scemato l'esercito al
Valentino questi trovandosi a mal partito ordina con celeri messi ad
Ugo di Cardona e a don Michele capitani fidatissimi suoi, schivata
ogni battaglia, ridursi a Rimini con quanto rimanga loro di forze, ma
non gli obbediscono allettati dal destro di pigliare Fossombrone, e
Pergola, dove sorpresi da Paolo Orsini e dal duca di Gravina restano
percossi di sconcia battitura, il Cardona casca prigioniero, don
Michele a gran ventura scappa a Fano, poi a Pesaro. I collegati
potevano vincere spingendosi risoluti innanzi, e non seppero, per
riguardo al re di Francia protettore dei Borgia, come se i principi
stranieri non si amichino sempre chi vince; dacchè tutte le leghe
non abbiano ragione oltre queste due, il danno o il comodo che puoi
recare; ora questa venendoti a mancare quando sei vinto gli è
chiaro come l'acqua, che tu non offerisci più argomento di lega.
Mentre costoro ciondolano improvvidi, i Borgia usano l'estremo
dell'arte per cavarsi dal mal passo: prima di tutto il Valentino
s'industria rabbonire i Fiorentini; stava allora presso a' lui oratore
di Firenze Niccolò Macchiavello, e proprio l'andava tra corsaro e
pirata; il primo non rifiniva far toccare con mano che aveva sempre
nudrito filiale amore per Firenze, non averglielo troppo palesato fino
di ora perchè sendo debole gli pareva che avessero potuto
ascriverlo a paura, e sospettarlo poco sincero, egli di cui un dì
avrieno detto le genti, che quando la lealtà fosse stata bandita
dal mondo avrebbe preso rifugio nel suo seno: ora poi, che vinto ogni
ostacolo si sentiva gagliardo si profferiva affatto uomo di Firenze,
lo mettessero alla prova, e vedrebbero. Da ora in poi Firenze e i
Borgia avere ad essere tutta una cosa.--

Questo per paura che i Fiorentini legandosi co' ribelli in questa
stretta non l'opprimessero. I Fiorentini, che per non venire in uggia
al Borgia ricerchi più volte dai ribelli si erano ricusati a fare
causa comune con essi, dichiaravano al Valentino per bocca del
Macchiavello: alle proteste di amore del Borgia credere quanto nel
vangelo e più; e di questo avesse per pegno, che sollecitati a
legarsi co' suoi nemici per abbatterlo avevano rifuggito sempre, e
rifuggirebbero. Posto in quiete da questa parte il Valentino prese a
negoziare con Paolo Orsini, e riuscì ad agguindolarlo con parole, e
con doni: gli uomini per ordinario sono prosuntuosi in proprio danno,
e nello altrui, ma più nel proprio, però che accomunandosi ai
tristi in questo fidano, o che questi si guarderanno bene di farla a
loro, o che sapranno guardarsene, e quasi sempre restano ingannati; tu
poi imita la prudenza dello antico Ulisse, quando rasenti lo scoglio
delle Sirene turati le orecchie, se con la cera, o con le mani non
rileva, purchè tu le tappi; Paolo prese a serpentare gli altri
sicché volenti o no li condusse agli accordi, di cui primo effetto
fu lo abbandono del duca di Urbino al quale toccò rifare i passi
dello esilio. Rispetto al Bentivoglio, i collegati lasciarono lui, ed
egli i collegati e con duri patti si compose col Borgia, che mallevati
dal re di Francia, dal duca di Ferrara, e dai Fiorentini lo
guarentirono meglio.--

In virtù dello accordo il Valentino deliberò co' suoi capitani
tornati a divozione di lui se fosse ad assaltarsi Toscana o
Sinigaglia; elessero Sinigaglia, e di vero mossero colà di concerto
commettendo il terzo tradimento, come quelli, che alla posta della
Magione avevano promesso sostenere la Castellana. La città noti
oppose resistenza; solo la Castellana, e il Doria ridottisi nella
Rocca dichiararono ad altri non volersi rendere, tranne al duca; per
la quale cosa gli Orsini mandarono per esso; ed egli colto il destro,
parendogli, che della sua andata non potessero pigliare ombra
poichè eglino medesimi lo chiamavano, rispose, andrebbe, ma la
città sgombrassero dalle milizie loro stanziandole nei borghi,
dacchè nella città intendeva alloggiare le proprie, e come disse
fecero: allora si mosse da Fano, e non potendo farne a meno spinti dai
fati gli occorsero in su' muletti Vitelozzo, Pagolo, e il duca di
Gravina, entrambi Orsini, questi armati, l'altro disarmato con una
cappa foderata di verde, afflitto in vista quasi presago della morte
imminente, e corse fama, che innanzi di separarsi dalle sue milizie
fece con loro le ultime dipartenze raccomandando ai capi la casa sua,
e i nipoti ammonì che non alla fortuna degli avi pensassero,
bensì alla virtù, e gl'imitassero. Se con lieta fronte gli
accogliesse il Borgia non si racconta nè manco, se nonchè
stringendo gli occhi si accorse non essere fra loro Oliverotto, e
saputo come fosse rimasto dentro Sinigaglia con le sue genti attelato
sopra la piazza, mandò don Michele a dirgli, che menasse le milizie
altrove e andasse con gli altri a complire il duca. Oliverotto non se
lo fece ripetere due volte studioso con la nuova obbedienza cancellare
l'antica ribellione. Entrati tutti insieme in Sinigaglia scavalcarono
all'alloggiamento del duca, che li condusse in sala, donde poichè
ebbero alternato alcuni ragionari, il duca sotto pretesto di mutare
vesti si allontanò; sopraggiunsero a un tratto scherani che
pigliarono i traditi a mano salva. Il duca tosto monta a cavallo e si
arrabatta a svaligiare le milizie di Oliverotto e degli Orsini;
riuscì con le prime perchè prossime e prese alla sprovvista, con
le seconde no, che avuto tempo di mettersi insieme con ardimento pari
al valore si ridussero in salvo. Durante la notte Vitelozzo, e
Oliverotto erano strangolati, il primo (pare impossibile!) pregando si
supplicasse il Papa a dargli la indulgenza plenaria, l'altro
piagnendo, e tutte le sue colpe riversando su Vitelozzo. Ma chi
potrebbe affermare queste cose vere? Le riporta il Machiavello, il
quale da altri non può averle apprese eccetto dal Valentino e dai
carnefici suoi interessati troppo a fare comparire colpevoli i
traditi, e non contenti, secondo il costume dei tiranni, a saperli
morti se anco non li sappiano e contennendi, e vili: Paolo, e
Francesco Orsini il duca di Gravina furono strangolati più tardi
avendo prima voluto accertarsi il Valentino, che il suo dabbene
genitore Alessandro Papa aveva a Roma messo le mani addosso al
Cardinale Orsino, all'Arcivescovo di Firenze Rinaldo Orsino, a Messere
Iacopo da Santa Croce, al protonotaio Orsini, ed all'abate Alviano
fratello di Bartolommeo.

Gli argini al delitto parvero rotti; dopo questa strage piglia
Città di Castello dei Vitelli, piglia Perugia dei Baglioni,
saccheggia lo stato di Siena, piglia Chiusi, e Pienza, invade gli
stati degli Orsini. Il demonio, a detto della gente sbigottita, fatto
vicario di Cristo, il vessillo dello inferno in mano al Papa, il padre
dei fedeli dispensatore a un punto di crisma e di veleni, i sette
sacramenti in questo mondo oppressione, nell'altro dannazione, a cui
raccomandarsi non sapeva, il cielo sembrava fatto più truce
dell'erebo e senza fine disperata la gente diceva: «Dio non
è!»

Di un tratto questi immani colpevoli, che stavano sopra le leggi
divine ed umane con le proprie mani si avvelenano; il Papa muore; il
Valentino della vita in forse perde il credito; tradito chi tutti
tradì, spogliato chi tutti spogliò, abbindolato, deriso,
fuggiasco cessa di vivere per ferita rilevata in oscura avvisaglia, e
fu fortuna oltre i meriti suoi.--

La pietà pei tristi è furto della pietà dovuta ai buoni,
però io non mi appassiono per la strage di tali, da cui se pochi ne
eccettui, furono anco più rei del Valentino, il quale pure qualche
sollievo ai popoli concesse, e di tanti basti dire di Oliverotto da
Fermo: rimasto orfano costui raccolse e nudrì lo zio Fogliano avo
materno, il quale volendo fargli apprendere la milizia lo accomodò
con Paolo Vitelli; ebbe fortune varie, e ottenne fama di valoroso;
militando in ultimo sotto la bandiera del Valentino gli si parava
occasione di approssimarsi a casa. Da Camerino scrisse allo zio
chiedendogli licenza di andare a riverirlo per mostrargli i segni di
prodezza acquistati in guerra facendosi accompagnare da cento
cavalieri; risposegli lo zio: magari! sarebbe le mille volte il ben
venuto. Va, gli occorre lo zio, che gli getta le braccia al collo, e
piange: se lo mette in casa co' cento cavalieri: fa baldoria, pare che
dall'allegrezza non possa più capire dentro la pelle; indi a pochi
dì per festeggiarlo meglio imbandisce un convito ai maggiorenti di
Fermo; Oliverotto sopra le mense ospitali trucida tutti, poi balza
fuori sanguinolento e con la spada alla gola costringe i cittadini a
tremarlo principe. Certo chi tale acquista non merita misericordia se
il Valentino lo spoglia.

Tuttavia anco ad acquistare a quel modo ci voleva pecunia, e di molta,
ed anco per la spesa di certa pompa regia, che ai Borgia piacque
sempre sfoggiare un po' per talento, e un pò per politica,
imperciocchè i panni rifacciano le stanghe, e il parere avvezza ad
essere, ed educa altrui a riverirti. Del Papa a cotesti tempi corse un
distico, il quale volgarizzato suona così:

   _Vende Alessandro altari, e chiavi, e Cristo;
    E ben lo può, che pria ne fece acquisto._

Aperse mercato d'indulgenze, ma questa vuolsi considerare galanteria; chi
non poteva andare a Roma pel Giubbileo pagasse la indulgenza un terzo della
spesa del viaggio; immenso ei ne raccolse tesoro; il Bembo afferma 800
circa libbre di oro dalla sola Venezia, e parmi troppo se consideriamo, che
le miniere del Perù, e del Messico erano tuttora sconosciute; immagina
un collegio di ottanta scrittori di Brevi e li mise allo incanto, e neppure
qui vuolsi biasimare troppo; costrinse il cardinale Colonna a rendere
l'Abazia di Subiaco, e quanti simoniacamente lo promossero ebbero a
rimettere fuori lo ingoffo; e in questa parte quasi lo lodo; spogliò i
Savelli; peggio toccò ai Caetani; di un tratto imprigiona Giacomo
protonotaro apostolico, e l'unico figlio Niccolò; questo strozza, quello
avvelena, poi dichiara devoluti alla Camera Sermoneta e gli altri stati di
loro: indi a breve li comperava Lucrezia ottantamila fiorini, e si dissero,
e altri finse credere, sborsati; e' bisognava fare roba per Lucrezia, e fu
colpa dei Caetani, che la possedessero, e che accomodasse a questa femmina
dabbene; a forza s'impadroniva della eredità del Cardinale Domenico
della Rovere, nonostante la facoltà concessagli per disporre liberamente
delle sue sostanze da Sisto IV; per quella del Cardinale Zeno morto a
Venezia strepitava, sicchè il Senato per lo meno reo consiglio gli ebbe
ad ammollare non poca moneta. Il Cardinale di Lisbona assalito da subito
male si riebbe alquanto; parendogli sentirsi prossimo il fine supplica il
Papa gli conceda testare del suo; quegli nega; il Cardinale arrovellato
dona tutto il suo ai servi, agli amici, e ai luoghi pii; poi risana, i
beneficati non che gli mostrassero gratitudine gli negarono soccorso, e lo
uccellavano. Appunto come più tardi successe all'Ammannato, il quale
poichè si fu disfatto del suo in prò dei Gesuiti lasciandosi tanto,
che bastasse alla presunta sua vita si trovò a vivere oltre il presagio;
nè soccorrendolo cotesti cuori duri ed avari il tapinello vagava per
Firenze supplicando:

   _«Un po' di carità per lo Ammannato
    «A cui mancò la roba, e crebbe il fiato._

Eredi universali di tutti, il Papa, ed i figliuoli; ma spesso venivano
a screzio fra loro come accadde alla morte di Pietro Caranza cameriere
segreto del Papa; fra i beni lasciati da lui si trovavano ventimila
fiorini; Alessandro gli donava alla Lucrezia, ma il Valentino che ne
aveva bisogno pei fatti suoi li prese, e agli urli del padre e della
sorella fece orecchia da mercante. Creò quarantatrè Cardinali,
da ognuno dei quali raccattò almanco diecimila ducati, da taluno
più. Tutto questo come turpemente iniquo ti mette addosso fastidio;
quanto ti narrerò adesso ti farà paura; prima creò Cardinali,
e porse loro la maniera di arricchire per via di inusitate angherie;
quando a mo' di mignatte li sapeva pinzi di sangue succhiato li
spengeva, e così costumò coi Cardinali di Capua, Santo Angiolo,
e Modena, odiati tutti e a dritto: all'ultimo, che fu Giambatista
Ferrara composero il seguente epitaffio, che reco dallo idioma latino
al sermon nostro.

   _Giambattista Ferrara nello interno
    Giace a quest'urna: ebbe la terra il corpo,
    I beni il Papa, e l'anima l'inferno._

Il Valentino per menare grossa la guerra richiede danari al Papa, il
quale patendone inopia s'indetta col figlio a cavarne da questo suo
trovato; eleggerebbe per la festa di san Pietro nove Cardinali tra i
più ricchi prelati della Corte, poi li conviterebbe a cena, dove
gli avvelenerebbe tutti, così le nove eredità giungerebbero
manna ai loro bisogni; tal detto, tal fatto; i Cardinali pubblicati
furono Giovanni Castellare, Francesco Remolino, Francesco Soderino,
Melchiorre Copis, Niccolò Fiesco, Francesco di Sprate, Francesco
Iloris, Jacomo Casanuova, e Adriano Castellante da Corneto tesoriere,
che si giudicava il più ricco di tutti. Il Papa, e questo fu tiro
del Valentino, non li convitò nelle proprie case, bensì pregava
il Corneto gli prestasse per simile festa la sua vigna prossima al
Vaticano, la quale gli venne più che volentieri consentita: a
questo modo non davano adito a sospetto, e si assicuravano la presenza
del Corneto: mandarono intanto vini preziosissimi, tra cui parecchie
boccie attossicate; il maggiordomo complice le aveva in custodia con
la istruzione del come le avesse adoperare; ora sia che il maggiordomo
sbagliasse, o piuttosto tradisse i traditori, sopraggiunto il Papa
alterato per lo eccessivo calore del giorno e chiesto da bere
trangugiò il veleno; indi a pochi istanti entra il Valentino e
anch'egli tracanna tossico. Narrano alcuni, che il Papa costumasse
portare addosso un'ostia consacrata avendogli certo astrologo predetto
che insino a tanto che ei la portasse veleno alcuno avrebbe avuto
virtù su di lui, e giusto in quel punto accorgendosi averla
dimenticata al Vaticano mandò monsignor Caraffa a pigliarla!
comunque paia stravagante, per cui conosce le contradizioni dello
intelletto umano, e la ragione di cotesti tempi non gli tornerà
incredibile.--

Quando il Caraffa tornò, il Papa era sfidato, e il Valentino preso
da atroci dolori rotolandosi per la terra mugliava. Morto il Papa
veruno prendeva cura dei suoi funerali: i congiunti e gli aderenti
suoi atterriti del presente, e paurosi del peggio con la fuga, o col
nascondersi si procacciavano salute; il vice cancelliere intimò
l'associazione: andarono tutti mossi dalla novità del caso, ma
entrati appena nella Chiesa di san Pietro il popolo fatto impeto per
arraffare le torce al clero lo sbarattò, ed egli corse a ripararsi
in sagrestia; rimasto il cadavere in mano alla moltitudine gli si
assiepa dintorno per imprecargli l'eterna dannazione; se non che
vistolo orribilmente deforme, gonfiato, e nero, con la bocca aperta,
la lingua fuori ciondoloni, colante tabe dal naso, e contristata dallo
insopportabile fetore scappò via senza potere profferire parola.
Sulle prime ore della sera taluni tristacci a ciò comandati lo
cacciano dentro alla cassa e poichè per la gonfiezza a stento ci
capiva, con istrazi, e con iscede lo rincalcavano.

Oltre ai raccontati, per adunare i danari, ricorse ad altri partiti, e
furono imporre gravissima tassa agli ebrei sotto colore della guerra
contro il Turco, e col medesimo pretesto volle la decima delle rendite
ecclesiastiche non eccettuato Cardinali, nè monasteri, e poi invece
che guerreggiare il Turco non una ma due volte lo salutò amico, e
ne supplicava i soccorsi; una cosa ordinò contro i Turchi, e fu
l'obbligo di recitare in confusione di loro l'_Ave Maria_ al suono di
mezzogiorno. Con questa difesa la cristianità poteva dormire
tranquilla fra due guanciali: intanto i devoti sappiano che recitando
l'avemaria meridiana si gratificano l'anima di quel santo pontefice,
che fu Alessandro Borgia.

Sfrontatezza di prete è cosa enorme, due cotanti cresce nel frate:
nel gesuita poi perde peso, numero, e misura, però ci ha caso
sentirci opporre: «lasciamo da un lato le arti, il pontefice
ripigliava il suo.» Anco così non sarebbe vero; il Papa avrebbe
sempre lacerato il manto pontificio per istituirne retaggio ai propri
figli, e al Valentino uno stato da potere usurpare Roma e la Italia.
Per ottenere sposa al suo bastardo Giuffrè Sancia bastarda di
Alfonso il Papa consentì si alienassero dalla Chiesa le contee di
Anguillara e Cervetri, poco prima causa di guerra tra Ferdinando di
Napoli e lui: un dì propose in concistoro erigere un ducato di
Benevento, Pontecorvo, e Terracina, ed investirne il duca di Gandia;
nè i Cardinali dissentirono, uno, il Piccolomini, si oppose invano:
dov'è dunque il dominio temporale d'instituzione divina? Dove la
ragione del _non possumus_ di questi preti potenti della nostra sola
stoltezza. Quando Lucrezia andò a marito ad Alfonso d'Este
arraffò al capitolo di Bologna Cento, e Pieve, e gli aggiungeva per
dote alla figliuola dilettissima.

Che fosse diventata Roma in cotesti tempi io non dirò, lascio che
lo racconti il Cardinale Eligio di Viterbo di cui le parole queste,
voltate nella favella italiana: «non mai nelle città della sacra
giurisdizione furono visti più scellerati tumulti, più spessi
saccheggi, nè stragi più miserande, non mai per le vie meno
vigilate la rapina dei ladroni, o in Roma non mai maggiore la copia
delle spie, e dei delitti, o la licenza dei sicarii, o l'audacia e il
numero degli arraffatori per modo che fuori delle porte non puoi
andare, nè dentro senza pericolo rimanere; i cittadini si avversano
nemici; legge umana o divina non si osserva; se in casa serbi alcun
che di bello o di prezioso, guai! Invano in torre chiuso, in casa, o
in camera ti confidi sicuro; nulla vi ha di sacro, nulla di salvo;
quì l'oro, la violenza, e il veleno comandano.»--

Ed era un Cardinale della Chiesa, che sbottonava così, immagina che
avrebbe detto Lutero se si fosse trovato a Roma in quei tempi. Nè
sole le sostanze della Chiesa, o dei cittadini gettaronsi nelle
fondamenta della potenza dei Borgia, ma il sangue altresì; di fatti
il Valentino ammazzato il fratello lo gittò nel Tevere; il padre
Alessandro pianse e si disperò, poi ridottosi a colloquio col
Valentino si tacque, nè più ricordò il trucidato figliuolo.
Io per me penso, che queste saranno state le truci consolazioni di
Cesare; dentro una corona non capire due teste, però o Cesare o
Francesco Borgia; e il fatto mostrava chiaro per la fortuna della casa
meglio assai adattato lui, che il morto; il quale con pari odio lo
ricambiava, ma meno si sentiva audace, ed era povero di partiti.
Così avere ordinato il genio di Roma fino dai tempi di Romolo, la
prima pietra fondamentale per costruire grandezza nella eterna
città dovere essere intrisa di sangue fraterno. Quasi tutti gli
storici aggiungono come oltre la cupidità dello impero spingesse il
Valentino al fratricidio l'astio di vedersi il fratello rivale negli
amori incestuosi con la sorella Lucrezia, la quale con entrambi, e con
altri, cristiana Messalina e peggio, si mescolava; e può darsi,
chè della famiglia degli antichi Atridi, dei meno vecchi Borgia, e
dei moderni Romanoff di Russia tutto è lecito credere; tuttavia non
penso, che anco il padre Papa appetisse abbominevoli congiungimenti
con la figliuola[1]: troppo il misfatto, troppo poche le prove, e per
compenso non presto fede alla vita incontaminata, che ci raccontano
avere ella condotto dopo le nozze col d'Este; le lettere scritte da
lei duchessa di Ferrara a Pietro Bembo, che poi fu Cardinale, e le
treccie dei suoi capelli biondi che vi sono attaccate le quali si
serbano nella Biblioteca Ambrosiana di Milano dimostrano espresso, che
forse ella perse il pelo, il vizio mai. Anco sopra di lei il Papa
faceva fondamento di grandezza; già accennai delle terre, e delle
ricchezze donatele; ora ricordo, che in pubblico concistoro Alessandro
la promosse governatrice perpetua della città e ducato di Spoleto,
ce l'accompagnò il fratello Giuffrè con regia pompa, e si
racconta, come in quel torno ella essendo caduta inferma tre vescovi
le ministrassero le cure servili alle quali prepongonsi le
privatissime ancelle; le dettero quattro mariti; al Papa padre aveva
un bell'ordinare Gesù, _quod Deus junxit homo non separet_, egli
univa, e scioglieva secondochè gliene tornasse il conto; il primo
fu certo gentiluomo napolitano o spagnuolo, che la tolse innanzi che
Alessandro agguantasse le somme chiavi, e dopo la lasciò avutane la
mancia; di costui non mi venne fatto rinvenire il nome e non importa;
poi se l'ebbe Giovanni Sforza e la tenne quattro anni in capo ai quali
si lasciarono; il Guicciardino narra, che ciò fu per colpa del Papa
_il quale non potendo soffrire neppure uno sposo per rivale annullò
il matrimonio per causa d'impotenza_; arduo a credersi, e inoltre mal
si accorda con le nuove nozze subito procurate a Lucrezia di Alfonso
duca di Biselli figlio naturale di Alfonso II re di Napoli; da questo
ebbe un figlio, e sembra i coniugi si amassero, però o gelosia, o
cupidità di più utili parentele, ovvero odio che il giovane
gl'inspirasse, o quale altro demonio invasasse il Valentino lo fece
assassinare da una mano di sicari davanti la stessa porta di San
Pietro, e poichè sembrava che delle ferite _non volesse morire_ un
bel dì lo trovarono nel letto strozzato.

  [1]  Il Pontano per Lucrezia viva, e che sopravvisse a lui meglio di
    20 anni, compose questo epitaffio:

       _«Lucrezia fu di nome, e Taida in fatti,
        «Adesso in questo tumulo riposa.
        «Di Alessandro figliuola, e nuora, e sposa!
        «Hic jacet in tumulo, Lucretia nomine sed re Thais,
        «Alexandri filia, sponsa, nurus.»_

    E il Sannazzaro, quel sì pio, che cantò con un poema pieno
    di devozione _de partu Virginis_, fece questi altri versi in
    infamia del padre, e della figliuola:

       _«O fato! sempre ti appetisce un Sesto
        «Lucrezia, adesso per te il padre è questo!
        «Ergo te semper cupiet, Lucretia, Sextus!
        «O fatum diri numinis hic pater est!_

    Concetto degno di scolare di rettorica come quello, che poggia sul
    riscontro del nome di Sesto Tarquinio, e del numero di ordine, che
    toccò ad Alessandro.

    Il Guicciardini il quale sempre pensa alla più trista
    nondimanco con prudenza dichiara: «era medesimamente fama, se
    però è degna di credersi tanta enormità, che nello amore
    di madonna Lucrezia concorressino non solamente i due fratelli, ma
    eziandio il padre medesimo.»

    Questo vuolsi considerare, che il Pontano e il Sannazzaro
    napolitani erano, e devotissimi agli Arragonesi indegnamente
    traditi dai Borgia, e la passione non vede lume; gli uomini
    corrono a credere piuttosto il male che il bene per tutti massime
    pei potenti; i quali se beneficando sempre appena acquistano
    grazia, diventano segno di odio imperituro quando adoperino la
    potenza in danno ed in istrazio altrui.--E certo io reputo indizio
    grande di verità il silenzio, che di questo incesto col padre
    ed anco co' fratelli osservò il Burcardo maestro di cerimonie
    del Papa, il quale delle infamie di casa Borgia ti comparisce
    piuttosto rivelatore sfacciato, che dissimulatore devoto, o
    almanco prudente.

Quando mi sono adoperato di purgare il Papa e la figliuola Lucrezia
dalla scellerata accusa io lo confesso ci sono stato condotto
piuttosto dallo orrore, che sento per simili immanità, che da
persuasione, la quale fosse in me; difatti vuolsi sforzo non piccolo a
sostenere così, dove pensi quali, e quante le turpitudini, e le
brutture in che si avvoltolarono costoro. Tu odi questo racconto
ricavato non mica da gente ostile, bensì da amicissima, anzi dallo
stesso maestro di cerimonie del _sacro_ palazzo, Burcardo, e poi
confrontando con quanto Svetonio e Tacito raccontano di Nerone, e
Sifilino di Eliogabalo giudica dove sia maggiore la infamia: «nella
domenica ultima del mese di ottobre cinquanta _meretrici oneste_, o
vogliamo dire cortigiane cenarono col duca Valentino nelle sue camere
nel palazzo apostolico, le quali dopo cena prima con le vesti addosso
e poi ignude danzarono co' servitori, e con altri convenuti là
dentro: poi disposero candelieri da altare con i ceri accesi sul
pavimento dove essendo sparse noci le meritrici giù nude carponi si
dettero a raccattarle aggirandosi traverso i candelieri; il Papa, il
duca, e la sorella Lucrezia tutte queste cose contemplando ne
pigliavano maraviglioso diletto: all'ultimo per giudizio dei presenti
furono distribuiti i premi ai vincitori con vesti di seta, paia di
pianelle, berrette, ed altro, vale a dire, a quelli che pubblicamente
si fossero più volte mescolati in venereo congresso con le
femmine[1].» Certo senza tema di aggravarci la coscienza noi ci
possiamo avventurare a credere molte cose di simil padre, e di
siffatta figlia.

  [1]  _Burcard. Diarium De convivio quinquaginta meretricum cum duce
    Valentino_. Eliogabalo, per testimonianza di Sifilino fece di
    più, compose alle meritrici radunate una bellissima orazione,
    la quale, chi ne ha vaghezza, può leggere nel medesimo autore.

Gli uomini inconsueti allo sguardo lungo nelle storie sbigottiscono
del presente; chi poi ha per costume speculare nei tempi tocca con
mano come la Provvidenza, o vuoi ordine segreto delle cose mantenga il
mondo in perpetua vicenda cavando dal male il bene, ed anco pur troppo
dal bene il male dove questo o giunga inopportuno ovvero offenda co'
modi; però dallo eccesso della depravazione romana ecco uscirne la
necessità della riforma; troppo presto arrivarono i martiri di
Basilea, e troppo presto altresì Girolamo Savonarola, nè buono
in tutto, nè sacro; chè presumendo ritemprare la gente con la
esagerazione della beghineria si tolse a compagno della opera
l'errore, non già la sapienza, inoltre ricorrendo ai miracoli
dimostrò tre cose, una anco a mente dei creduli, e fu la
prosunzione di tentare Dio ad operare miracoli per lui; le altre al
cospetto della filosofia la quale giudica così, o egli ci aveva
fede, ed era grullo, o non ce l'aveva, ed era ciurmatore: anco cotesto
avviticchiare la religione con la politica non va, nè può andare
a sangue ai prudenti: per ultimo spietato fu col Gonfaloniere Bernardo
del Nero, e i quattro cittadini messi a morte dirittamente forse, ma
in ispregio della legge dal medesimo frate proposta, ed a insinuazione
di lui decretata: nè si opponga, ch'ei se ne stette a parte,
imperciocchè questo al contrario lo aggrava, avendo lasciato fare i
suoi fazionari cui egli avria di leggeri potuto impedire; ma non
importa, il ragno dopo sette volte cessa ordire la sua tela la
umanità non ismette mai; tra poco verrà Lutero.--La sventura
della invasione straniera anch'ella a qualche cosa fu buona: tardi a
cotesti tempi i commerci fra gli uomini, difficili, per non dire
disperate le notizie lontane; strade nessuna o poche, e queste
dirotte, o pericolose; la stampa novellina; da questo veniva, che
pochissimi sapessero le infamie di Roma, ed in confuso; ora i
Francesi, i Tedeschi, gli Spagnuoli, gli Svizzeri, e di ogni
generazione stranieri qui convenuti videro a prova chente fossero
Roma, e i sacerdoti suoi; e le incredibili immanità ebbero pure a
conoscere vere; donde lo scapito della reputazione già grande
toccava il colmo. La Chiesa appartatasi dalla dottrina di Cristo, e
dalla virtù dei primi padri della Chiesa con la temeraria
improntitudine sua si era alienata i fedeli, sicchè curando meno lo
spirituale, assai aveva fatto assegnamento sul dominio temporale, e vi
era riuscita; la Chiesa considerata stato non fu mai tanto potente
come ai tempi di Alessandro VI; dopo lui declina; più tardi lo
vedremo, si arrabatta a riagguantare il credito spirituale con le
manette, i roghi, e il carnefice, ma atterrisce non guadagna cuori; e
il temporale, dopo essersi dibattuto invano per reggere da sè, non
può sostenere, se non a patto di profferirsi sbirro ai principi
secolari: messi in comunella gli arnesi delle varie tirannidi
instituiscono preti, e principi società di tiranni.--Ora la Chiesa
cattolica agonizza, e l'hanno condotta a tale molto la virtù dei
riformatori, e dei filosofi, ma cento cotanti più i suoi misfatti,
e la sua superba follia; ella pensò avere riposto nel sepolcro la
libertà dell'anima, ed in vero, ce la chiuse, non però morta:
quel sepolcro diventava un'altare, e dalle fessure della lapide
proruppe la luce, che illumina e non consuma, eccetto le ree cose. Di
fronte alla inquisizione sta la stampa; a Costantinopoli, tolto alla
cristianità per colpa dei principi, l'America data alla
cristianità da un popolano, il quale secondo il solito ne ottiene
un guiderdone di catene. Da tutto questo deriva, che noi dobbiamo
ammirare, per mio giudizio, come provvidenziale il pontificato di
Alessandro VI; più volte questa forza segreta, che agita i casi
umani lo preservò; la prima quando reduce dalla sua legazione di
Arragona, e di Portogallo ruppe sopra la spiaggia pisana, e di
centottanta ch'erano con esso seco su la galera, veruno, egli
eccettuato, si salvò; la seconda allorchè tracollando la cima
del campanile di San Pietro massi enormi e ferri gli cascarono ai
piè senza offenderlo mentre in compagnia del Cardinale capuano
passeggiava per la loggia delle benedizioni; la terza, e fu la più
paurosa di tutte: stando egli nelle segrete stanze il giorno della
festa di San Pietro un turbine fra folgori, e pioggia schiantato il
più alto dei cammini del Vaticano lo rovescia con immenso fracasso
sul tetto, il tetto, sfondasi fiaccando due travi del pavimento più
prossimo, le quali ruinando il soffitto della medesima stanza nella
quale in cotesto punto si trovava il Papa ne fracassano la trave
maestra, che precipita giù in mezzo a un nugolo di calcinacci
giusto in quel punto, che due prelati d'ordine suo si erano fatti alle
finestre per chiuderle; onde essi sbigottiti dallo sprofondamento
inforcati i parapetti quindi strillavano: il Papa è morto!--Il
Papa, se togli lievi contusioni, e moltissima paura ne uscì liscio,
gli altri no; chi ne rimase morto, chi ferito; egli volle andarsene in
pompa a ringraziare la Vergine nella Chiesa del Popolo, cui aveva
fatto dipingere a immagine della Vannozza!

Molte costituzioni di questo degno sacerdote tuttavia come dommi si
riveriscono ed osservano; che monta ei fosse quello che fu, e che
piglia fastidio ridire? Quanto a fede poteva disgradarne i più
solenni fra i santi padri. Perciò che spetta noi altri scrittori,
noi dobbiamo professargli obbligo grande, ed è la censura della
stampa confidata ai Vescovi, ed ai Vicari. La tirannide per istinto
sente la ingiuria della libertà, e per converso questa le ingiurie
di quella: il duello da secoli dura fra loro, nè sta sul punto di
cessare per ora.

Pio III, dei Piccolomini, passa come ombra sopra la opposta parete,
subentra Giuliano della Rovere col nome di Giulio II; dicono eleggesse
questo nome con la intenzione d'imitare i gesti di Giulio Cesare,
nè questo io credo, chè uomo inane ei non si mostrò mai,
comecchè ambizioso fosse ei molto, di sè sentiva altamente, e
come osserva con parole argute il veneto Trivisan: «il Papa vuole
essere il dominus et il maistro del foco del mondo.» Assunto al
pontificato a posta sua bandì una bolla contro la simonia dei
brogliatori al papato, quantunque egli per arrivarci promettesse al
Cardinale Ascanio Sforza restaurare i suoi nel ducato di Milano, a
quello di Carvajale conserverebbe il regno di Napoli al re cattolico;
che più? Il Valentino si obbligò per iscritto promovere a
gonfaloniere, e Capitano generale della Chiesa. Ora se questa non è
simonia in che cosa dovrebb'ella consistere noi per verità non
sappiamo; ma i potenti ebbero sempre in costume una volta saliti in
alto, maledire la scala, che gli ha condotti. Egli fu d'indole
piuttosto, che risoluta avventata; urlò _fuori barbari_, e più
volte gli spinse in Italia cominciando da Carlo VIII; sempre vario,
ora infocato, tempesta contro i Veneziani, e da prima gli scomunica;
vedendo non fare effetto le scomuniche forma la lega di Cambrai ai
danni loro; ma poichè essi disertati rendono la città causa
prima dei suoi furori, di un tratto di amico si fa nemico ai Francesi,
arma gli Svizzeri, scomunica il duca di Ferrara perchè amico alla
Francia, assedia la Mirandola, ed espugnatala ci entra per la breccia;
lui non domano gli anni, nè le infermità, nè le asprezze di
rigidi inverni; acquista alla Chiesa Bologna e Perugia, quella levando
ai Bentivoglio, questa ai Baglioni, e la prima ordina a reggimento
oligarchico, la seconda a democratico; nato, e cresciuto in mezzo ai
repubblicani, Giulio repubblicano era a modo suo; durante la vita
sostenne sempre, che non valgono nascita, nè trattati per
legittimare il dominio di principi così nostrani come forastieri
sopra i popoli; ogni cosa dover cedere dinanzi alla comodità di
questi, unici e veri sovrani della terra. Siffatte dottrine
professò Papa Giulio, e qualche altro Papa altresì; forse,
cercando, si troverebbe ancora parecchi principi repubblicani in casa
altrui; in casa propria poi la bisogna cammina diversa.

Di amici un dì Luigi XII e Giulio II diventano nemici mortalissimi;
quegli convocati i Concili di Bourges, di Pisa, e di Milano fa che vi
depongano il Papa; Giulio raccoglie il suo Concilio in Laterano, scomunica
l'altro, e dichiara Luigi decaduto dal trono: si guerreggiano con le penne,
con le armi, e con la lingua; il men triste saluto di Luigi al Papa era;
_briacone_; quello del Papa a Luigi non importa dire. Il Cattolico usurpa
iniquamente la Navarra approfittandosi di cotesti rimescolamenti, e il Papa
in odio a Francia approva; il quale trasportato da quella sua veemente e
procellosa natura, per isgararla sul re Luigi, ordina la lega santa affatto
contraria all'altra di Cambrai; di qui nacque la terribile battaglia di
Ravenna vinta dai Francesi con la morte di Gastone di Foix: vittoria
miserabile fu quella, conciossiachè le fortune francesi indi a poi
declinassero sempre. Lo imperatore Massimiliano con improntitudine
austriaca presume tenere per sè Verona e Vicenza: Bergamo, Padova,
Treviso, Bergamo, e Crema concederà a titolo di feudo imperiale a patto
gli si contino duegentomila fiorini di presente, e quarantamila annui; i
Veneziani, rotta la pazienza, accordano co' Francesi; il Papa si rode
dentro dalla rabbia, inferma, e muore. I laudatori di questo Papa affermano
i suoi concetti generosi sempre, ma poi per soverchio di passione sovente
guasti, e parci lode strana, però che, se ne eccettui Dio, veruno
conosce le origini del pensiero, nè all'uomo è dato giudicarne
fuorchè dagli effetti; riesce poi arduo credere, che generoso fosse il
disegno di spengere la repubblica di Firenze, bandire Piero Soderino
innocentissimo, rimettere in casa i Medici solo per vendicarsi di avere
consentito Pisa essere stanza al Concilio, senza punto avvertire che
Firenze pusilla, e strema di forze non poteva ributtare la istanza di Luigi
poderosissimo allora in Italia: nè lo salva addurre come Giulio non
prevedesse nè consentisse mai i Medici si comportassero da tiranni a
Firenze, perchè appunto ne fossero stati banditi a causa di tirannide,
ed anco non lo fossero stati prima, tiranno diventa qualsivoglia cittadino,
il quale venga rimesso in casa dalle armi straniere; e i Medici prima di
entrare in Firenze se ne fecero innaffiare la strada di sangue cittadino;
informi Prato allo eccidio del quale si trovò presente il cardinale
Giovanni dei Medici, che or'ora si trasforma in Lione X. Insomma dopo avere
disegnato di opporre barbaro a barbaro servendosi dell'uno per cacciare
l'altro, tolto a Luigi il titolo di cristianissimo, e conferitolo al re
Enrico d'Inghilterra (e fu facile), e toltogli anco il trono, e donatolo a
cui se lo andava a pigliare (questo poi parve più difficile), dopo avere
a furia di bastonate sul pavimento fatto certo il Cardinal Grimani, che
anco gli Spagnuoli se ne dovevano andare, e dopo empito di sangue, di
miseria, e di disperazione quasi tutte le terre d'Italia morì
lasciandovi barbari quanto, e più di prima.

Tuttavia Giulio fu Papa animoso, e di spiriti eccelsi così che,
nota il Machiavello, se prima di lui non vi era barone romano, per
piccolo ch'ei fosse, il quale si peritasse a sfidare la potestà
della Chiesa, ai tempi suoi anco il re di Francia bisognava che
procedesse con riguardo verso di quella. Egli concepì il disegno di
San Pietro, promosse Bramante, anco Michelangiolo, e di uno sguardo
benigno fecondò Raffaello. Lione, che gli successe mieteva la messe
seminata da lui; questi grande di nome, Giulio grande di sostanza; che
se cupido ei si mostrò dello altrui (quale il prete che non sia
cupido?) arraffò per la Chiesa; fu ladro ma sacro; solo persuase
Guidubaldo di Montefeltro duca di Urbino ad adottare, in difetto di
successori, per figliuolo Francescomaria comune nipote a cui rese le
signorie di Mondovì e di Sinigaglia; più tardi lo elesse vicario
di Pesaro, e morendo supplicava i Cardinali, che non lo removessero;
questa unica grazia facessero alla sua memoria, ed alla famiglia di
lui.

Il Cardinale Raffaello Riario sperò che riscattata Imola dalle mani
del Borgia la si renderebbe ad Ottaviano, e s'ingannò; il Papa
rispose reciso non volere arricchire la famiglia a danno della Chiesa;
e proprio pochi momenti prima ch'ei desse i tratti madonna Felicia sua
figliuola maritata a Giangiordano Orsino con accese parole instando
presso il morente per un cappello a benefizio di Guido da Montefalco
suo fratello uterino, glielo negò dicendo esserne indegno. Ora di
Lione X.

Piuttosto che lamentare inopia, patiamo abbondanza di scrittori
intorno a lui, e non pure vari ma contrari; però di questo Papa
possiamo dire quello che cantava l'Ariosto di Augusto:

   _«Non fu sì savio, nè benigno Augusto
    «Come la tromba di Virgilio suona.
    «L'avere avuto in poesia buon gusto
    «La proscrizione ingiusta gli perdona._

l'Ariosto, il quale da lui larghissimo, anzi sprecone verso giullari,
ed uomini contennendi, altro non ebbe che una stretta di mano, un
bacio sopra le due gote, la rimissione della metà di spese per
certa bolla, e finalmente la scomunica contro cui gli stampasse in suo
danno l'Orlando furioso[1].--Questo Papa consente allo impulso dato
alla Chiesa di convertirla in potenza temporale, e poichè chi
troppo attende alla materia, e all'interesse non può fare a meno
che l'interesse suo, e dei suoi non anteponga a quello altrui, così
ogni Papa mira a fare stato ai congiunti principalmente con le
sostanze della Chiesa, onde accadeva, che questo dominio temporale
rispettabile e rispettato non si potesse formare mai, imperciocchè
o i nipoti del Papa eletto avevano a spogliare i nipoti del Papa
defunto, e a questo modo era guerra perpetua, ovvero sopprimendo i
feudatari vecchi se ne creavano nuovi, ed allora era un disfare lo
stato filo per filo; ma se qualche Papa doveva attendere ad ingrandire
i suoi, Lione aveva ad essere quello, che la sua famiglia da lunghi
anni, e con tenace studio mirava al principato, ed oggimai si trovava
in parte dove se non anco principesca, vinceva ogni uguaglianza
cittadina, e a diventare tiranno non le mancava che il nome. Lione poi
nasceva da quel Lorenzo, il quale quasi metteva su la coscienza a
Innocenzo VIII se non procurasse costituire i suoi in condizione
regia. Partendo da Firenze per andare a Roma non si voltò addietro
perchè avrebbe visto due capi mozzi, quello del Boscoli, e l'altro
del Capponi colpevoli di volere restituire a Firenze la libertà,
che i Medici con secolare scelleraggine s'ingegnavano torle. Promosso
Papa perdonò i superstiti, arte vulgare di regno, e poi di altro
non furono trovati rei, che di avere saputo la congiura, ed abborrito
palesarla. Gli contrastava il papato, dicono, Massimiliano voglioso di
rendere lo impero teocratico quale adesso vediamo nella Russia e nella
Inghilterra; ma a cotesti tempi parve concetto mostruoso. Giulio II
comecchè inviluppato in guerre continue, tuttavia, morendo,
lasciò da parte 300 e più mila fiorini, a cui tosto dava la
stura Lione: nelle pompe della incoronazione ne spendeva 100 mila.
Della sua esaltazione menarono gazzarra i Fiorentini tutti
repubblicani o no, però che tutti sperassero avvantaggiarsene; il
genio mercantesco ribolliva, il quale adesso senza mistura schifoso,
allora qualche pagliuzza di buono la conteneva sempre. La famiglia del
Papa in cotesti tempi si trovava composta del fratello Giuliano, di
Lorenzo nipote figlio di Pietro, e di Giulio figlio naturale di
Giuliano morto nella congiura dei Pazzi, e di due giovanotti Ippolito,
ed Alessandro figli naturali quegli di Giuliano fratello del Papa,
questi di Giulio; poco curati gli ultimi, ogni fondamento di futura
grandezza si poneva in Giuliano, e in Lorenzo; il Papa a costituire
loro lo stato speculava dentro e fuori; ora sperò mettere le mani
sul ducato di Milano, ora sul regno di Napoli, e come colui che sempre
stava fisso a questo chiodo si barcamena tra Francia e Spagna,
quantunque se si fosse lasciato ire propendesse per la Spagna. Strana
la ventura di Parma e di Piacenza prese e riprese più che non fu il
corpo di Patroclo tra Greci e Trojani; le arraffò Papa Giulio non
già a nemico bensì ad amico, e confederato, a Massimiliano
Sforza durante la _santa_ lega, allegando avere esse _ab antiquo_
fatto parte dello esarcato di Ravenna largito da Carlo magno alla
Chiesa, la quale cosa nè era, nè egli poteva supporre vera.
Morto Giulio queste due città pei conforti di Raimondo da Cardona
rientravano in obbedienza del duca; ma appena esaltato Lione, esperto,
che quanto è buono a pigliarsi è buono del pari a tenersi, le
rivuole ad ogni patto; anch'egli metteva fuori il _non possumus_
patire diminuito il retaggio di S. Pietro trasmessogli dai suoi
antecessori, ma dopo pochi anni le rendeva ed ecco come: ciondolando
sempre il Papa stava tra gli avversi alla Francia quando Francesco I
sceso in Italia vinse a Marignano; il Papa si teneva per ispacciato,
mal potendo comecchè prete capacitarsi che il re di Francia,
potendo ristorare Firenze degl'immensi mali patiti per Francia, non lo
volesse fare cacciandone via i Medici, e restituendola a libertà;
ma se i re accettano aiuti anche dalle repubbliche non per questo
renunziano ad ammazzarle quando ne capiti loro il destro; quindi ora
messo pacieri tramezzo rinvenne il terreno morvido circa a lasciare
incolume sè, e i suoi nella tirannide della Patria, anzi il re
gliela garentiva; allora Lione sicuro da questa parte s'industria
tentare gli Svizzeri, l'imperatore Massimiliano, e i Veneziani
affinchè continuino la guerra; riuscita invano ogni arte rende al
duca di Milano Parma e Piacenza a patto, che oltre l'accerto di
Firenze egli concedesse a Lorenzo pensioni, condotta di milizia, ed
obbligasse Milano a provvedere sale alle saline di Cervia: vedremo sul
declinare della sua vita il Papa riagguantarle da capo, anzi
somministrare, come affermano alcuni, argomento alla sua morte.

  [1]  _«Piegossi a me della beata sede
        «La mano, e poi le gote ambe mi prese,
        «E il santo bacio in ambedue mi diede.
        «Di mezzo quella bolla anche cortese
        «Mi fu, della quale ora il mio Bibbiena
        «Espedito mi ha il resto alle mie spese.»_

    Sicchè più tardi esclamava:

       _«La sciocca speme alle contrade ignote
        «Salì del ciel quel dì, che il pastor santo
        «La man mi prese, e mi baciò le gote.»_

Qui sarebbe luogo a parlare della brutta ingratitudine di lui contro
Venezia lasciata in asso mentre più pericolava, ma ne porgeremo
esempio supremamente scellerato nel caso del duca di Urbino; piuttosto
ora accennerò la fede pessima con la quale egli ingannava amici, ed
avversari con eleganti ribalderie, e vanto infelice, però che
sovente fosse sentito dire: «che quando si era fatto lega con uno
non per questo si doveva rimanere di trattare col principe
opposto[1]». Chiesta ed ottenuta fiducia di paciere egli si mise in
mezzo alla Francia, all'Austria, a Venezia, alla Svizzera per
accordarle; diverso poi il fatto dalle apparenze, perchè le
sobillasse tutte facendo fuoco nell'orcio per avvantaggiare i suoi:
sollecitava Luigi XII a calare da capo in Italia mentre sapeva
attraversarlo ostacoli non superabili; e mentre che con le nozze di
suo fratello Giuliano con Filiberta sorella di Luisa di Savoia madre
di Francesco I mostrava attaccarsi alla fortuna di Francia spediva
segreto negoziatore Pietro Bembo a Venezia per alienarla dalla
Francia, ed accordarsi col re di Spagna, e con lo imperatore: narrata
questa una, ci dispensiamo dalle altre perchè uguali tutte non solo
nella vita di Lione, bensì di quasi gli universi pontefici.
Un'Edoardo re d'Inghilterra prese per insegna una coda di volpe, ed
ebbe fama di sincero: sarebbe stato salutato sincerissimo il Papa se
il suo triregno avesse composto invece di tre corone di tre code di
volpe.

  [1]  _Suriano_ Relazione di 1553.

Alla casa d'Este non ci era maniera di cortesia ch'ei non usasse; nel suo
incoronamento commise al duca Alfonso portasse il gonfalone della Chiesa;
ora però noi sappiamo se coteste mostre avessero virtù di trattenerlo
dalle insidie nel fine di creare uno stato ai suoi dove gli tornasse più
destro: a questo duca invece di restituire Reggio usurpatogli dalla Chiesa,
gli piglia Modena cui prima ribella a Massimiliano imperatore, e poi gliela
compra per quarantamila ducati; e non basta, perchè non contento di
levargli lo stato si adopra torre al duca Alfonso col veleno la vita;
più tardi negoziando con Francesco I a Viterbo l'ebbe a restituire, ma
in compenso volle, che gli fosse concesso manomettere il duca di Urbino, e
questo gli consentì Francesco, secondo il costume dei Francesi, soliti a
procurarsi lucro ovvero ad evitare danno alle spalle degli amici; però
Lione comecchè avesse ottenuto licenza di stiantare il duca di Urbino se
ne trattenne, e ciò perchè (la storia volenterosa lo attesta)
Giuliano, il quale nella sventura ebbe fidato esilo nella corte di
Guidobaldo di Urbino, non consentì si recasse ingiuria al suo
successore: ma egli immaturo periva, insegnamento solenne pel vicario di
Cristo a non porre il suo cuore qui dove la tignola rode; invano però
che la libidine di averi riardeva nel petto al pontefice vie più. Ora si
pubblica il monitorio contro Francescomaria duca di Urbino dove s'incolpa
micidiale del cardinale di Pavia, ed era vero, che lo ammazzò alla
sprovvista di uno stocco nel petto, dello assalto dato alle milizie
pontificie e spagnuole dopo la battaglia di Ravenna, e del rifiuto di
unirsi con la gente di Lorenzo dei Medici contro Francesco I.
Francescomaria inetto alla difesa scansavasi a Mantova; indi a poco
conchiuse tra Francia, Austria, Chiesa, Spagna, e Venezia la pace.
Francescomaria si propone a mo' di condottiero di ventura ai soldati
dimessi e con essi osteggia il Papa, e ripiglia il suo; ne segue una guerra
varia dove Lorenzo tale riceve un picchio nel capo allo assedio di castello
Mondolfo, che lo reputano morto. Firenze ne mena baldoria, dopo quaranta
dì ricomparisce Lorenzo che fa scontare con lacrime di sangue ai
Fiorentini la intempestiva allegrezza. Il duca di Urbino condusse cotesta
guerra da ardito non meno che da prudente capitano, minacciò Siena e
Perugia, invase la Marca di Ancona, e la Toscana, e se non avesse avuto a
combattere altro che armi e' pare, che aria potuto vincere, ma il
tradimento non potè; il Papa tentò farlo avvelenare, nè qui
riuscendo gli contamina i soldati rapaci, e traditori. Maldonato, Suares,
con due altri capitani spagnuoli si obbligano consegnare vivo o morto il
duca al cardinale di Bibbiena; senonchè il duca, preso fumo della trama,
audace e franco gli accusa davanti ai soldati invocando l'antico onore
spagnuolo; gli va bene il tiro che gli Spagnuoli accesi e adulati lì per
lì gl'impiccano; tuttavia il duca, considerando che con cotesti arnesi
non vi era a fare a fidanza, nè parendogli prudente esporli al cimento
della seconda prova, molto più che erano creditori di ben 100 mila
fiorini di paghe, nè egli sapeva, per soddisfarli, a qual santo votarsi,
piegò agli accordi col Papa abbandonando per la seconda volta il ducato,
che venne tosto conferito a Lorenzo. Quantunque l'animo di Lione fosse
fallace peggio del mare in bonaccia pure non mancò chi ebbe cuore per
domandargli onde tanta ira contro Francescomaria della Rovere, al quale
egli celando la vera, o almeno la più prossima, palesò la causa
più remota, ed era: «corrergli l'obbligo di punirlo della sua
contumacia, imperciocchè dalla pazienza del principe ogni barone avrebbe
baldanza a contradiarlo; potente avere trovato la Chiesa, e potente volerla
lasciare.» Nella storia davvero percuote la mente la strana persistenza
dei casi umani, che sembrano ostinarsi a torre, e a dare questo ducato ora
ai Medici, ora ai Della Rovere finchè dopo avere una di coteste famiglie
inghiottita l'altra vengono ambedue sommerse dalla morte. Lorenzo anch'egli
dopo avere affaticato la mente dello zio Papa per farlo principe grande; e
dopo essere riuscito a farlo entrare nella casa di Francia, in virtù
del matrimonio con Maddalena della Tour, manca alla cupa ambizione di casa
sua morendo della turpe infermità che avvelena la sorgente della vita: e
non obliando pegno di sua tenerezza lascia alla moglie l'onta e il dolore
della medesima malattia. Il Papa allora invece di rendere il ducato ai
Della Rovere parte ne assegna alla Chiesa, e parte ai Fiorentini in saldo
dei denari somministratigli per sostenere cotesta guerra; ma Adriano IV
reintegrò Francescomaria nel suo retaggio, e i Fiorentini altresì gli
resero Montefeltro e le castella; così durò fino al 1626; in questo
anno periva per ischianto di cuore Federigo Ubaldo infamia della sua nobile
casata lasciando il padre decrepito, e la moglie Claudia incinta; il
vecchio Duca, il quale quasi per assuefarsi alla quiete del sepolcro si era
ritirato agli ozi melanconici di Castel Durante, eccolo di un tratto fatto
campo sul quale si esercitano le minaccie e le suggestioni della Curia
Romana, di Venezia, e del Granduca Cosimo II; la prima per ampliarsi, gli
altri per impedirglielo. Cosimo chiamata a Firenze Claudia con la
figlioletta Vittoria pure ora venuta al mondo, questa alleva e cresciuta
marita col figliuolo Ferdinando II, e per simile guisa acquista i diritti
della casa Della Rovere; dopo gl'intrighi le armi; il Duca vecchio
aborrendo lasciare ai suoi sudditi eredità di contese renunzia il ducato
al Papa; se ne pentì poi, anzi subito, chè spedì dietro al
corriere per ritirar l'atto, ma non fu a tempo; così alla Chiesa
toccò il ducato, alla Casa dei Medici l'archivio dei duchi di Urbino, il
quale anco ai dì nostri si conserva a Firenze.

Tornando a Lione mentre negoziava la renunzia di Modena e di Reggio e la
consentiva, levando al cielo il danno, chiese compenso, che a Francesco
parve cosa d'importanza non grave, e la concesse, e questo fu la
soppressione della _Prammatica_; già dissi come quella volpe di Luigi XI
per gratificarsi Pio II l'abolisse, ma visti capitare male i suoi tiri
furbeschi ordinò al Parlamento si astenesse da registrare il suo
decreto, e così rimase in vigore meglio di prima; il prete per
conseguire lo intento non si ristette da largheggiare di promesse, e di
beni non suoi; promise il cappello cardinalizio al Boisy fratello del gran
maestro di Francia, il soccorso di 500 uomini di arme, e il soldo di 3000
Svizzeri caso mai fosse assalito lo stato di Milano. Di questo concordato
sostituito alla prammatica sanzione di Carlo VII si commossero
maravigliosamente il Clero, la Università, e il Parlamento di Parigi;
tale fu la sua ragione; il re nominava ai benefizi maggiori, e il Papa ne
percepiva le annate, onde il timore, che la Chiesa di Francia diventasse
vassalla della Chiesa di Roma; il Cardinale di Lorena spesso durante il
Concilio di Trento fu udito dire, che Francesco e Papa Lione si erano
spartiti i benefizi, come i cacciatori gli uccelli. E Mezeray più arguto
notava: «il Papa, ch'è potenza spirituale prese per sè il
temporale; lo spirituale, o vogliam dire la collazione dei vescovati,
toccò al principe temporale,» Tuttavia però i Francesi non mettono
su la bilancia un pezzo del vero legno della Santa Croce che Lione donò
a Francesco dentro una teca preziosa, la quale era stimata quindicimila
fiorini, e più, e lo dovevano mettere. Tuttavia è giusto considerare,
che se la Chiesa gallicana rimase scema dei suoi diritti, questo accadde
non già a benefizio della Chiesa Romana, bensì del re, e se ben
guardi vedrai, ammirando, come Lione senza troppa repugnanza cedesse cosa a
cagione della quale Gregorio VII aveva scombussolato il mondo.

Più tardi, nella occasione degli sponsali di Lorenzo con la
Maddalena dei Reali di Francia, accadde permuta anco più turpe.
Francesco restituì a Lione la carta con la quale si obbligava
cedergli Modena e Reggio, e il Papa cortese gli concesse le decime
levate sopra il clero francese per la guerra contro i Turchi
adoperasse a suo talento, anco ai danni dei cristiani: demolitore
supremo della fede il Papa.

Anco a lui, anzi più che ad altri, a lui faceva mestieri empirsi le
tasche di pecunia, e poi aveva bisogno che i cardinali lo temessero,
al quale intento promosse in un picchio trentun cardinale; molta arte
ei mise per onestare così stemperato partito; molto più, che tra
i promossi noveraronsi due figli di sue sorelle, e non pochi uomini di
mal affare; gli altri ebbero a comperarsi a contanti la dignità
cardinalizia, togline alquanti per dottrina, e per rettitudine
illustri, cacciati costà come i frodatori sogliono inalberare
bandiera di potenza amica per mettere dentro il contrabbando.

La necessità di promovere Cardinali nacque da questo, che ridotti a
dodici non davano luogo a intrigo; pochi da gran tempo erano rimasti,
ma a tali estreme angustie il sacro Collegio si trovò condotto
dalla congiura Petrucci; se, e fin dove costui fosse colpevole insieme
ai suoi complici qui non occorre cercare; certo è che Lione co'
Petrucci svisceratissimi suoi prima della congiura si mostrò
crudele, dopo fraudolento e spietato; il cardinale Alfonso
presentandosi in compagnia del cardinale Bandinello Sauli, fidato alla
religione del salvocondotto papale, è preso, e sostenuto in
castello; il Sauli gli tenne dietro, e dopo il Sauli Riario, Adriano
da Corneto, e Francesco Soderini; ancora cacciarono le mani addosso ad
un Pocointesta da Vercelli cerusico, ed al Nino segretario. In cotesti
tempi, per virtù degli argomenti che mettevano in opera, si
accusavano gì'incolpevoli; i rei poi sbaldanziti dalla paura, o dal
rimorso sborravano addirittura; nondimanco taluni confessarono il
Petrucci, e il Sauli avere stabilito ammazzare il Papa investendolo
con le coltella, o contaminando il suo cerusico Battista da Vercelli
perchè lo avvelenasse medicandogli certa ulcera di che andava
afflitto. Petrucci e Sauli furono entrambi degradati e commessi al
braccio secolare; il Petrucci solo strozzarono; Sauli dannato a
perpetuo carcere offre riscattarsi a contanti: gli si concede a patto,
che torni a confessare le sue colpe in pieno concistoro: confessato, e
soprattutto pagato il riscatto licenziasi; indi a breve muore, colpa
della paura, o piuttosto del tossico ministratogli dal Papa. Gli altri
cardinali degradati anch'essi ebbero a pagare grossa somma, Adriano da
Corneto e il Soderino venticinquemila scudi; essi credevano fra tutti
e due, ma pagati i venticinquemila furono ammoniti, che bastavano per
uno: allora si tirarono al largo; di Adriano non più si seppe
nulla; forse il ferro proditorio lo spense; il Soderino si riparò a
Fondi sotto la protezione di Prospero Colonna, e quivi stette
finchè durò in vita Lione; i minori congiurati, laceri, che gli
ebbero i tormenti, gittarono al carnaio.

Se intorno alle guise di acquistare stato tra lui e Alessandro VI
corresse divario può giudicarlo il lettore: costituitosi giudice tra
Giampaolo e Gentile Baglioni, Lione cita il primo a comparire in Roma;
quegli subodorando il capestro si finge infermo, e manda in sua vece il
figliuolo Malatesta, il quale con oneste accoglienze accarezzato pure
come procuratore del padre non si accetta; Giampaolo tentenna, ma
confortato dal genero Cammillo Orsini, e da altri baroni romani, ottenuto
salvacondotto papale, di mala voglia va; incauto! quanto valesse il
salvacondotto del papa lo aveva pure a sapere! Lione sentendolo prossimo
a Roma si reca a stanza in Castello; quivi lo accoglie, lo sostiene, e lo
ammazza. Colpe al tradito apposero molte, anzi infinite, e forse ne aveva
oltre al dovere; ma talune (delle quali si menò maggiore strepito) in
Roma si avevano per vezzi; causa vera fu, che Giampagolo si era mostrato
sempre parziale al Duca di Urbino, torbido, e cupido di dominio, insomma
tale che parve al Papa non potere starsi sicuro finchè vivesse. La
strage proditoria del Papa pensarono i Fiorentini più tardi imponesse
al figlio il debito della vendetta, sicchè non ultima fu questa
considerazione per eleggere Malatesta capitano generale; allora
Macchiavelli era morto, pure aveva lasciato scritto come gli uomini,
almeno allora, il sangue paterno più agevolmente perdonassero della
perdita del patrimonio; peccato fu, che i Fiorentini se lo
dimenticassero.--Dopo il Baglioni mandò Giovanni dei Medici contro il
Freducci diventato signore di Fermo; lui avventuroso, che morì da
soldato sopraffatto da fanti e cavalli in numero venti volte maggiore del
suo! i minori tiranni atterriti, sbandandosi riparano in questa parte, e
in quella: taluni fiduciosi della misericordia del Papa si ridussero a
Roma, e la ottennero; dopo che la tortura ebbe loro stracciate le membra,
patirono morte di corda l'Amedei tiranno di Recanati, Zibicchio di
Fabbriano, e Severiani di Benevento. Il Roscoe solenne encomiatore di
Lione siffatti gesti del suo eroe non potendo giustificare, li tace;
però non dissimula quello, o piuttosto quelli che il Papa dabbene
commise a danno di Alfonso d'Este, il quale comunque sortito all'onore di
portare il gonfalone della Chiesa alla incoronazione di lui non andò
immune dall'assalto proditorio delle milizie papaline, mentre giaceva
infermo, della vita in forse, e il fratello Ippolito si trovava in
Ungheria; e ne sarebbe rimasto oppresso di certo, se di opportuno aiuto
non lo sovveniva Federigo duca di Mantova. Andate a vuoto queste prime
insidie Lione tornò alle benevolenze consuete fra le persone più
care, e queste non tolsero, che da capo non gli tramasse contro il
tradimento corrompendogli Ridolfelle capitano delle sue guardie, che per
danari promise ammazzare il Duca, e consegnare una porta al nemico; ma
costui o buono in tutto, o subdolo tenne il trattato doppio e svelò
ogni cosa al Duca. Il Sismondi afferma due cose, che al paragone io non
rinvenni esatte, la prima delle quali è, che secondo lui il Muratori
afferma avere letto il processo compilato intorno a questo misfatto; ora
di ciò è niente; il Muratori dice, che il Duca dopo composto il
processo dell'attentato con le deposizioni di alcuni complici e le
lettere del protonotaro Gambara ordinatore insieme al Guicciardino di
tanta enormità, lo mise da parte per valersene all'occorenza. L'altra
inesattezza consiste nel supporre che il Roscoe dubiti della strage del
Duca ordinata da Lione, mentre questo scrittore dichiara vere le insidie
del Papa per rubare la città, ed altresì vera la tramata uccisione,
solo non trova prova di fatto, che costui la comandasse; o solo lo
sapesse; e così sarà, ma ciò non monta, imperciocchè riesce
piuttosto assurdo negare, che facile credere come Lione, il quale per ben
due volte tentò sforzare alla traditora Ferrara in odio al Duca
temuto, dimenticasse metterci la giunta di mandarlo all'altro mondo:
quando il prete recita l'_oremus_ del ladro, l'_amen_ dell'omicidio ce lo
mette sempre. Il Guicciardino, che di coteste rivolture fu molta parte,
raccontando il caso, tace dello assassinio; forse lo ignorava, ma
sapendolo è naturale lo dissimulasse o perchè ogni uomo rifugga
confessare la propria infamia, o perchè manifestandolo si sarebbe
tirato addosso l'odio dei Medici suoi padroni, e quello degli Este
provocati a bastanza: però voglionsi bene conficcare nella mente
questi ricordi di lui, che ho allegato altrove, e mai non rimango citare
quante volte me ne capiti il destro; da questi si ricava in qual concetto
tenesse la gente chiesastica, e se di ogni più rea azione li reputasse
capaci: «io non so a cui dispiaccia più, che a me l'ambizione,
l'avarizia, e la mollizie dei preti... nondimeno il grado, che ho avuto
con più pontefici, mi ha necessitato amare per il _particolare mio
interesse_ la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato
Martino Lutero quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte
dalla religione cristiana... ma per vedere ridurre questa caterva di
_scellerati_ a' termini debiti, cioè a restare o senza vizii, o senza
autorità.[1]» Ribadisce più veemente il chiodo col Ricordo
CCCXLV: «io ho sempre desiderato naturalmente la ruina dello stato
ecclesiastico, e la fortuna ha voluto che sieno stati due pontefici tali
che sono stato sforzato desiderare e affaticarmi per la grandezza loro;
se non fussi questo rispetto, amerei più Martino Lutero, che me
medesimo, perchè spererei, che la sua setta potessi ruinare, o almanco
tarpare le ale a _questa scellerata tirannide dei preti_.»

  [1]  Ricordo XXVIII.

Nel Ricordo CCCXVII insegna.... che insegna egli mai? Cose che essendo
state pensate e dette ora sono trecento anni e più fra noi, sembra
impossibile che non l'abbiano apprese, apprese non l'abbiano tolte a
norma di vivere: «tutti gli stati, chi bene considera la loro
origine, sono violenti, nè vi ha potestà che vi sia legittima,
dalle repubbliche in fuora nella loro patria e non più oltre: nè
anco quella dello imperatore, ch'è fondata in sulla autorità dei
Romani, che fu maggiore usurpazione che nessun'altra; nè eccettuo
da questa regola e' preti, la _violenza dei quali è doppia,
perchè a tenerci sotto_ usano le armi spirituali, e le temporali.»

--Tre cose, messere Francesco desiderava vedere innanzi, la sua morte,
ma dubita, ancora ch'ei vivesse molto, non ne vedere alcuna: uno
vivere di repubblica bene ordinata nella città nostra, Italia
liberata da tutti e Barbari, e liberato il mondo dalla tirannide di
questi scellerati preti.[1] E sembra, che sia difficile però ch'io
mi trovi giusto a desiderare queste cose come lui; però se non
conseguiva la prima, sua la colpa in gran parte, essendosi adoperato a
tutto uomo a rituffare la Patria nel servaggio, quantunque lo
spettacolo della virtù cittadina strappasse dai suoi labbri
beffardi la singulare sentenza:--«accade qualche volta e' pazzi
fanno maggiori cose, che e' savi: procede perchè il savio dove non
è necessitato si rimette assai alla ragione, e poco alla fortuna:
il pazzo assai alla fortuna e poco alla ragione; e le cose portate
dalla fortuna hanno talora fini incredibili. I savi di Firenze
arebbono ceduto alla tempesta presente, e' pazzi avendo contro ad ogni
ragione voluto opporsi, hanno fatto insino a ora quello che non si
sarebbe creduto, che la città nostra potesse in modo alcuno
fare.--«E su ciò nota, che i cittadini di Firenze non si posero
in balìa della fortuna bensì della virtù, la quale se non li
rese felici nè anco potè farli sventurati, avendo conseguito
fama immortale, e morte onoratissima combattendo per la Patria; mentre
Messer Francesco, che certo si poneva fra i savi, nocque alla Patria,
guastò il nome, e dopo vita umiliata lo colse la morte senza
compianto. Piaccia al cielo che i nostri figliuoli, tenuta a vile la
sapienza dei Guicciardini, s'innamorino della follìa del Ferruccio.

  [1]  Ricordo CCXXXVI.

A così enormi prodigalità, a tanti tramestii ogni gran fonte di
guadagno veniva meno, sicchè per ultimo mise mano alla vendita delle
indulgenze facultando i suoi commessi ad aprirne mercato là dove
trovassero il terreno disposto. Qui non ha luogo la storia di simile
successo, epperò mi passo da investigare se e quanto vera la fama
delle turpitudini, che lo accompagnarono; fatto sta, che cose brutte ci
furono, e Lione fece prova di solenne imperizia a toccare quel tasto. Non
secondando gli umori dei tempi la Curia di Roma potè, mescendo
disciplina e domma, perfidiare offesa alla religione ogni conato di
riforma morale, e commettere al fuoco il molesto predicatore; quando poi,
per le cause discorse allorchè tenni proposito di Alessandro VI, gli
stranieri conobbero di che panni vestissero i preti di Roma bisognava,
per evitare che i nodi arrivassero al pettine, avvertire due cose, mutare
costume, e credere, o fingere credere quello che sotto pena di fuoco si
pretendeva che credesse altrui: di vero dei roghi dei primi eretici non
avanzò altro, che ceneri, le quali andarono disperse dal vento; ma di
quelli di Girolamo da Praga, di Giovanni Huss, e del Savonarola rimasero
tizzi accesi a illuminare le menti degli uomini. Gli scrittori clericali,
ed anco altri per avventura non clericali negano addirittura la
incredulità del Papa e dei chierici romani, ovvero co' soliti
arzigogoli l'attenuano: certo noi non possiamo accertare se Papa Lione
dicesse a Pietro Bembo:--buon pro ci fece, Pietro, cotesta novella di
Cristo.--Neppure ci è dato conoscere la verità di quanto afferma
Lutero, il quale scrive avere udito a Roma certo sacerdote nella
consumazione del sagrifizio della messa dire a voce alta, quasi parlando
all'ostia:--_pane sei, e pane rimani_,--comecchè la ci paia proprio
fandonia, a meno che il prete non fosse matto; tuttalvolta ci era da fare
poco fondamento su la fede di un Papa educato dal Poliziano, il quale sul
serio scriveva a Lorenzo il magnifico fargli specie come la moglie
Clarice non si vergognasse di mettere fra le mani al suo figliuolo
Giovanni un libro barbaro come il _saltero_, e questo Giovanni fu per lo
appunto Lione. A Roma Pomponazzo predicava l'anima mortale ovvero
materia; e dalle sue opere si apprende manifesto lo spregio in che ei
teneva la religione cristiana[1]. Erasmo ebbe a maravigliare non poco
quando un dotto prelato pretese provargli la uguaglianza dell'anima umana
con quella delle bestie per via di argomenti cavati dalla storia naturale
di Plinio. Sappiamo da Paolo Canensio nella Vita di Paolo II come giusto
in Roma, anzi nella Curia medesima, moltissimi prelati, massime giovani,
andassero strombazzando la fede cattolica fondarsi sopra pie frodi di
uomini riputati santi, piuttosto che sopra testimonianze di verità; e
discorrendo pei generali il Caracciolo nella vita di Paolo IV ci assicura
che in quel tempo non pareva fosse galantuomo e buon cortigiano colui che
dei dogmi della Chiesa non avesse qualche opinione erronea, ed
eretica.--Nè in Roma solo ma per tutta Italia; e il Daru, il
Ginguenè, e il Ranke ricordano certo poema di Francesco de' Lodovici
intitolato il _Trionfo di Carlomagno_, dove immagina Rinaldo, essendo
penetrato nell'antro dove la Natura fabbrica gli animali, sente dire da
lei, ch'essa assegna loro più intendimento o meno secondo la
eccellenza della forma; e domandando egli se anima ce ne metteva la
Natura risponde:

   _«Quell'altro poi, che in voi dici immortale
    «Io non lo fo; se Dio lo fa, sel faccia;
    «Che cosa egli si sia nè so, nè quale.
    «Puote esser molto ben, che a lui ne piaccia
    «Far, quando i corpi fo, qualcosa in voi,
    «Che torni al vostro fin nelle sue braccia._
    «E questo se a te par creder lo puoi.--

  [1]  Messo a mal partito poi si ritrattò affermando così avere
    sostenuto non per suo convincimento, bensì secondo la opinione
    di Aristotele, ma ei mentiva; _materialista_ incurabile lo
    chiariscono le sue opere tutte, e per fine l'epitaffio, che, da
    lui stesso dettato, gli posero sopra la tomba.

Quanto a costumi non importa dire; anco prima di Leone le meretrici
pubbliche avevano sepoltura in Chiesa, come la famosa Imperia, cui
inalzarono onorato monumento in San Gregorio con tale epitaffio dove
levavasi al cielo la venustà delle sue forme.--A dritto uno storico
gravissimo dichiara il pontificato di Lione essere stato tutto un
Baccanale; Marco Minio oratore con parole come convengono al suo
ufficio compassate scriveva:--è docto, e amador di docti, ben
religioso, ma _vuol viver_.--Di lui corse fama bieca per troppo
addomesticarsi che faceva co' paggi di corte, formosissimi tra i
garzoni d'Italia, e il Giovio nel difenderlo lo aggrava, dacchè
dopo averlo encomiato casto al pari di Giuseppe ebreo o giù di
lì, mi scappa fuori con la domanda: e chi può avere scrutato i
segreti della notte? E aggiunge poi che tali bazzecole non si hanno a
rinfacciare ai buoni reggitori, essendo noto come quel Traiano,
delizia vera della umanità, di culto eccessivo proseguisse gli Dei
consenti Venere e Bacco: per me dico, che le specialità non possono
con giustizia apporsi a persona dove non siano chiarite; rispetto alle
generalità basta la induzione onesta e giudiziosa; così questa
facenda dei donzelli non credo perchè non trovo provata, ma nè
pure mi persuado della esemplare castità di Lione considerando la
vita, gli ozi, ed i sollazzi di lui; stivalato e incavallato buona
parte del tempo egli spendeva alla caccia, e tanto dietro questo
divertimento andava perduto, che per poco non cadde prigioniero dei
Turchi a Civita Lavinia; le commedie alle quali egli assisteva, ai
dì nostri la censura più rilassata ributterebbe come troppo
invereconde; mostruosi i vizi di Alessandro VI, e per questo appunto
meno nocivi come quelli, che si svelavano nella immane loro bruttezza;
pieni di pericolo quelli di Lione perchè eleganti; tutto rettile il
primo, sirena il secondo; non arduo schermirsi dalle infamie
borgesche, impossibile non isdrucciolare nelle corruttele medicee; ora
le turpissime cose spolverizzate dei profumi di Tibullo, di
Anacreonte, e di Orazio. Giuochi, canti, e femmine leggiadre; il Papa
caritava anch'egli, e bene; giocava alla disperata, vincesse o
perdesse le monete di oro buttava via: pareva larghezza e non era,
bensì voglia o bisogno di vedersi attorno faccie contente che lo
rallegrassero; di vero, passato quel momento, si mostrava piuttosto
scarso, che no; e qualche volta anco avaro. I suoi sollazzi crudeli, e
rammentiamoci, che il Petrarca, il quale più volte volle divinare
amore, ci scappa fuori con questi versi:

   _Ei nacque di ozio, e di lascivia umana,
    Nudrito di pensier dolci e soavi,
    Fatto Signore e Dio da gente vana._

E quel Platone filosofo solenne, donde venne l'amore platonico,
spasimò di amore per Archeanassa di già attempata dicendole con
galanteria da disgradarne un Parigino, che nelle rughe del suo volto
scorgeva il nido degli amorini; e quello ch'è peggio ebbe in
delizia Astero venustissimo per cui compose bellissimi versi, che pure
ci sono avanzati. Accoglieva parasiti a patto mangiassero corvi,
scimmie, ed altre simili ree vivande; se squisite le avevano a
scontare con mille strazi, e spesso con percosse da spezzare loro le
braccia, e le costole; non mancarono nè anco le ferite con le quali
rimase deturpato il Querno: uomini per vecchiezza venerabili uccellava
così, che ne diventarono matti; dopo averli ridotti a questo
miserrimo stato li cacciava su la pubblica via. L'inglese Roscoe
panegirista di Lione narra del trionfo del Barballo, povero uomo che
pativa dello scemo, infatuato della poesia così da reputarsi
maestro non che ad altri all'Alighieri e dei velluti verdi e dei rasi
cremesini, dei ricchi e belli vestimenti, dei preziosi ermellini, e di
ogni altro apparecchio per la sua incoronazione in Campidoglio; ce lo
mostra assettato sopra le groppe dell'Elefante che il re di Portogallo
donava a Papa Lione procedere glorioso, poi tremare a verga però
che il Liofante, atterrito dal rombazzo di urli, di nacchere, di
trombe, e di tamburi, giunto al ponte Santo Angiolo non volle più
ire innanzi, sicchè fu ventura al tapino scendere salvo da cotesta
altezza, e tra i fischi, e le sassate della bordaglia ridursi al suo
povero tetto.

L'Inglese dabbene tratto dalla manìa di lodare il suo eroe non bada
che quel povero Barballo abate fosse, e come pure ci ricorda il
Giovio, di sessanta anni vecchio, per aspetto venerabile, e di capelli
canuti, nè che per cotesto strazio crudele in lui restasse spento
quel po' di lume d'intelletto, onde l'uomo fa fede della sua origine
celeste[1]. In somma chiunque si assettasse sopra la cattedra di S.
Pietro se tristo diventava immane, se comportabile tristo, lo inculto
selvatico, il culto vulgare: pareva, che un'aere pestilenziale si
respirasse in coteste sedi sublimi; leggesi come Lione assai si
commovesse quando Lutero accennò ai costumi pieni di obbrobrio
della Chiesa romana, allorchè poi prese ad assalire il dogma assai
se ne rallegrasse: «costui ha tolto» corre fama ch'ei dicesse,
«costui ha tolto a dare di scure al ceppo; «più forti braccia
che non sono le sue ci si ruppero, e ci si romperanno.» Lione
s'ingannò; sagace era, ma la troppa fiducia illude i meglio
avvisati; sicchè i preti andranno in fondo per sempre esclamando,
che la bandiera del diavolo non prevarrà; che se questa superbia
non faceva velo a Lione avrebbe veduto la necessità appunto di
stringere le redini dello spirituale; imperciocchè mentre il papato
insaniva dietro i beni terreni, ed i vani diletti, i principi laici
per incalzarlo meglio delle cose dell'anima neglette si prevalevano a
loro pro; di vero Carlo VIII assai si avvantaggiava del Savonarola
contro Alessandro VI, Luigi XII per mettere Giulio II a partito
convocò il Concilio di Pisa. Lo imperatore Massimiliano prese a
proteggere Lutero, non patì gli usassero violenza, e quando lo
raccomandò al principe elettorale di Sassonia gli disse:
«custoditelo diligentemente, che un dì potremmo avere bisogno di
lui.» Troviamo scritto pei libri come Carlo V fra le cose di cui
molto si pentiva annoverava quella di avere osservato la fede del
salvacondotto a Lutero, parendo a lui che gli eretici non meritino
altro che capestro, e fuoco; e questo può darsi, così favellava
a San Giusto distrutto parte dalla gotta, e parte dalla paura del
diavolo; però quando lo fece sparire a Varburga, uno scrittore del
tempo ci attesta: «ch'ei soleva escusarsene pel rispetto al
salvocondotto; ma la verità fu _che conoscendo, che il Papa temeva
molto di questa dottrina di Lutero, lo volle tenere con questo
freno_.»

  [1]  Ma il Giovio cortigiano e vescovo dopo averci narrato, nella
    Vita di Lione X, che il Cardinale Bibbiena si distingueva a far
    perdere il senno ad uomini provetti, e il Papa soleva pigliarsi
    spasso di loro, li lodava, li regalava, dava loro ad intendere
    panzane per modo che di sciocchi ch'essi erano gli faceva
    diventare al tutto pazzi ed insensati, aggiunse: _siffatti scherzi
    erano degni di un principe nobile e gentile._

Scrittori gravissimi meditando intorno alle cause per le quali la
dottrina di Lutero attecchita in Germania non provò in Italia
affermano, che in Italia pigliò indole piuttosto letteraria, che
teologica; e dicono altresì, che i nostri filosofi invece di
riformare la religione saltarono su ad abbattere Dio addirittura;
certo lo studio dei classici così greci come latini educò,
più che non bisognava, i savi del tempo al dubbio beffardo; e non
contrasto la negazione di Dio essere antica dottrina in Italia; per
non rammentarne altri da Guido Cavalcanti fino al Pomponazzo ne
occorre continua la traccia; ma la sentenza degli scrittori alemanni
troverai non vera solo che tu pensi ai tanti confessori della dottrina
luterana surti in Italia tutta, a Siena come a Ferrara, a Lucca come a
Firenze, a Napoli, e altrove, nè fra gli uomini solo bensì tra
le donne, e non mica vulgari, o ignoranti, ma all'opposto preclare per
ingegno, e di alto legnaggio. A suo luogo accennerò della causa,
onde la riforma venne meno in Italia; intanto se ciò fosse bene o
male, io non saprei; dacchè la riforma ti paia cosa finchè
combatte, ed abbatte: adesso cattolicismo, e riforma mi fanno
sembianza di gladiatori spiranti per le mutue ferite; chi lamenta la
unità cattolica offesa per mio avviso ha torto; imperciocchè
prima di raccogliere gli uomini tutti, o almanco la massima parte, in
una fede sola essa decadde per non riaversi mai più; nè era
desiderabile, che da lei si assembrassero i viventi dentro concetto di
errore; e parmi non abbia ragione chi si lagna, che non incontrino
favore fra noi le dottrine dei riformisti, dacchè se meno assurde
tuttavia ci sonano a posta loro erronee, o almeno vuote della
verità finale in cui spero, che si appunteranno un giorno tutti
gl'intelletti umani:--_Dio_--

Dio, mente dell'universo, al sentimento del quale per sicuro non ci
avviano nè Bibbia, nè Corano, nè altro libro di religione
antico o moderno; e dico sentimento non conoscenza, però che per
questa a noi facciano difetto sensi, e spiriti, mentre per sentirlo ci
basta amore.

Poichè in fondo all'agonia di fondare stato alla sua casa Lione si
trovò con tre bastardi, Giulio cardinale poi Clemente, Ippolito e
Alessandro, di un tratto preso da non so quale uzzolo di emulazione
per Giulio II si mise a gridare: «fuori barbari!» A questo fine
aizza l'un contro l'altro Francesco I e Carlo V, i quali non avevano
bisogno di stimoli; al Papa piacevano Parma e Piacenza guadagnate da
Giulio, e perdute da lui; onde ricuperarle bisognava romperla con la
Francia; gli garbavano altresì molte provincie del regno di Napoli,
e tutto, magari, se si potesse; ma per questo bisognava osteggiare lo
Impero; scelse per amica la Francia; poi allo improvviso lasciata in
asso la pratica si accorda con lo Impero: di qui la guerra che il
Guicciardino descrive, e della quale fu parte: anco una volta ebbero a
sentire i Francesi (comecchè non l'abbiano imparato mai) la terra
d'Italia avere destinato i cieli per loro sepoltura; persero Milano,
Lodi, Pavia, Como, e Parma e Piacenza; queste due città insieme a
Ferrara, per patto accettato da Carlo V, dovevano aggiungersi alla
Chiesa. Il corriere gli portò la nuova a Malliana mentre recitava
il _benedicite_ seduto a mensa: «buona nuova è questa che ci
havete portato» disse al corriere, e non capiva in sè dalla
gioia: se si straviziasse non importa dire; gli Svizzeri di guardia
presero a menare gazzarra, e quantunque il Papa mandasse ad ordinare,
che smettessero non gli diedero retta: era il 24 di novembre, e tra il
calore del fuoco, i fumi del vino, e l'eccitamento dell'allegria il
Papa sentendo il caldo grande non posava mai di andare su e giù dal
balcone al cammino; la notte gli prese la febbre; fattosi condurre a
Roma si mise a letto; intanto sopraggiunse la nuova della resa di
Piacenza, e la sua gioia cresceva intantochè il maestro di
cerimonie, consultato da lui, lo chiariva non essere costume della
Chiesa celebrare con feste, e grazie a Dio le vittorie riportate sopra
principi cristiani, a meno che grandissimo benefizio ella non ne
avesse risentito; egli rispose che il benefizio veramente era
maraviglioso; apparecchiasse pure le feste, e pel 1 di decembre
riunisse il concistoro. In cotesto giorno non fu tenuto il concistoro
perchè Lione si sentiva indisposto vie più, però non tanto da
inspirare apprensione; nella giornata giunse un'altro corriere con la
notizia della presa di Parma; e il Papa parve andarne in visibilio: si
saria detto che si contendessero la sua vita la Fortuna, e la Morte;
superò questa, e nella notte del 1 decembre 1521 rese l'anima senza
sacramenti. Certo tristo poeta con un certo distico latino, a torto
attribuito al Sannazzaro, ammonì che non glie li poterono
amministrare però ch'ei gli avesse venduti.--Di tanti servi, e
cortigiani il solo frate Martino buffone e parasito gli si trovò
allato nell'ora del transito, il quale non sapeva confortarlo
altrimenti, che dicendogli: «ricordatevi di Dio, santo Padre.» E
Lione smanioso esclamava: «Dio buono! Dio buono!» Comune
opinione fu, ch'ei morisse di veleno; ne incolparono parecchi
Francesco I, il duca di Ferrara, e l'altro di Urbino, però altri
negarono; forse l'accusa si partì dalla considerazione dell'odio
che ciascheduno di loro gli aveva naturalmente a portare, massime i
due ultimi, i quali se fosse vissuto si avevano a tenere per
giudicati; nè del diverso grido uomo può farsi maraviglia;
imperciocchè anco col cadavere aperto davanti, chi lo sostenne e
chi lo negò attossicato. Il Sanuto riporta certa lettera d'Jeronimo
Bon, veneziano dimorante in Roma, al suo barba dove leggiamo: «non
si sa certo se 'l pontefice sia morto di veneno. Fo aperto; Mastro
Fernando judica sia stato venenato; alcuno de li altri no; è di
questa opinione mastro Severino che lo vide aprire, e dice, che non
è venenato.» A noi questo importa poco; ci preme invece mettere
in sodo, che Lione come gli altri Papi arraffò violento, insidioso,
e ladro; restituì costretto; nè manco per ombra reputò lo
stato pontificio d'istituzione divina, nè sè impedito a cederlo
per comandamento di Dio; fisime queste di quel prete scemo, che ha
nome Pio IX.

Lo scopo di questo epitome pertanto sarebbe compito massime quanto
alla prima proposta, che il temporale non fu istituzione divina,
bensì rapina, e la storia dei Papi seguenti altro non fa, che
confermare come eglino stessi per promovere figli o nipoti il
patrimonio della Chiesa alienassero. A Lione subentrò Adriano di
Utrecht maestro dello Imperatore: questi non ebbe difetto di virtù,
anzi si celebra grandemente come colui, che procedè temperatissimo,
e modesto. In certe lettere scritte al Cardinale Fiesco così
occorre descritto: «del proprio è avaro: di rado concede, e
più di rado piglia; al rompere del dì celebrava messa: chi ami,
e se qualcheduno ami s'ignora: a non trascorre mai alla ira: dai
sollazzi rifugge: allo annunzio della sua elezione al ponteficato non
esultò; all'opposto fu sentito sospirare per angoscia.»

Volle riformare e non potè sia a cagione della vita breve, e più
perchè non volendo omettere gli studi sua delizia mancò di
applicazione, che non basta la indole tenace per reggere gli stati, ma
si richiede altresì tenace opera, e scienza, e pratica di negozi:
però non reca meraviglia se la gente interessata a mantenere i
vecchi abusi lo avversasse in tutto. Se intendeva sopprimere delle
vendite chiesastiche quelle, che gli parevano contaminate di simonia,
gli opponevano i diritti ormai quesiti dei terzi; se riformare le
dispense matrimoniali lo spaventavano col dirgli che ruinava la
disciplina della Chiesa; se reprimere i disordini delle indulgenze,
gli obiettavano, badasse bene, che per edificarsi Lamagna non gli
fuggisse Italia.--Essendo stata vinta ai suoi tempi Rodi, e il Turco
invasore dando a temere non che per Ungheria, per Italia e per Roma,
con istanze supplichevoli s'ingegnò condurre fra Francesco, e lo
Imperatore se non pace almeno tregua, e non l'ottenne, però che i
Francesi sprofondati come sempre nel proprio interesse quotidiano,
senza curare l'avvenire, delle sconfitte dell'Austria esultavano,
importando loro piuttosto lo Impero perisse, che la cristianità si
salvasse. Dettando questo Papa dabbene le istruzioni al nunzio
Chieregato spedito alla Dieta di Norimberga lo ammoniva: «la
corruttela dal capo si diffuse per le membra; abbominevoli eccessi si
rinnuovano ogni giorno presso la sede apostolica; delle cose
spirituali è nefando lo abuso; tutto qui vedo contaminato;
peccarono tutti; non uno ha fatto il bene, non uno. Egli periva
esclamando: «oh! quanto è duro venire al mondo in tempi nei
quali virtù di uomo non basta, e bisogna, ch'ei ceda.» Questa
esclamazione, per cura degli amorevoli suoi, fu incisa sopra la tomba
di lui nella Chiesa tedesca di Roma; ed anco sopra l'altra sepoltura
che provvisoriamente lo accolse in San Pietro si leggeva questa non
meno disperata sentenza: «Qui sta Adriano IV a cui nulla potò
incogliere di peggio nella vita, che imperare[1].» Mi occorse
altresì un altro epitaffio di lui così composto, che chi lo
lesse ebbe ad esclamare: «tutti hanno avuto che fare con questo
Papa eccetto Dio.» Lo bandirono ignorante, e non era; gli garbavano
gli studi gravi, gli altri aborriva, massime la poesia come quella che
manteneva vivi i costumi e le credenze dei pagani. Della libera stampa
non fu amico di certo, se dobbiamo credere il Berni, il quale nel
capitolo contro questo Papa scappa fuori con questi versi:

   _«E quando un segue il libero costume
    «Di sfogarsi scrivendo e di cantare
    «Lo minaccia di far buttare in fiume.»_

  [1]  Hadrianus IV hic situs est, qui nihil sibi infelicius in vita,
    quod impererei, duxit.»

I detrattori di lui notano come il Giovio racconti il Papa essergli stato
cortese di un benefizio perchè lo seppe alieno dalla poesia: «così,
avverte il medesimo messer Paolo, mi giovò la ignoranza;» tacciono
però quello che aggiunge, ed è questo, che se il Papa lo amava,
perchè non faceva professione di poesia, molto poi lo teneva in pregio
scrittore di annali elegantissimo. I Romani odiarono Adriano non
perchè non possedesse virtù, al contrario perchè non possedeva
vizi; tentarono per fino ammazzarlo, e Mario di Piacenza, impedito ad
usare il pugnale contro il Papa, lo volse contro sè e si uccise; i
Cardinali lo detestavano, e quando mentre egli orava nella cappella
pontificia ruinò la volta fracassando parecchi Svizzeri e lui
lasciando illeso, taluno di loro si fece sentir dire alla libera: «oh!
quanto era meglio ci restasse schiacciato lui, che quei meschini.»
Proprio cotesto Papa nacque a mala luna; a fine di conciliarsi il favore
della Germania volle canonizzare un santo tedesco, Pennone di Sassonia;
non lo avesse mai fatto! Gli si scatenò contro Lutero con un libro
(Lutero componeva libri come focacce) intitolato: «Contro il nuovo
idolo, che deve erigersi a Misna,» sicchè ebbe a pentirsi per non
averlo lasciato stare.

Ecco Clemente VII: di lui nei nostri libri favellammo assai; molti
storici lasciarono minuta descrizione della sua indole: come Medici si
versò nelle lettere; assai si dilettò di arti; della musica
prese maraviglioso sollazzo; sonava e cantava non senza lode di
maestro; lo affermano non avaro, non superbo, non libidinoso, parco
nelle vesti e nel cibo; ma di cuore fu diaccio, senza pietà,
implacabilmente imperioso, timido, pieno di ambagi; a' danni suoi
simulatore e dissimulatore solenne; finchè durò Cardinale ebbe
fama di eccellente governatore dello Stato, e la perse da Papa: in mal
punto strinse leghe, e fece guerre, e conchiuse paci.

Avanti lui i Papi chiamavano in Italia principi cristiani, gli uni
contro gli altri aizzavano, e questo fu per loro affrancare la Italia
dagli stranieri, onde sovente le raddoppiarono le catene, e sempre si
aggravò di peso la catena di quello, che qualchevolta ci rimase
solo: in siffatta opera nefaria non diverso dagli altri, anzi più,
che tutti colpevole Clemente, e lo confessa egli stesso;
imperciocchè nella istruzione conferita al Cardinale Farnese, che
poi fu Paolo III, quando andò legato in Ispagna, si raccomanda a
chiarire lo Imperatore come per lui Francesco I. ebbe tronchi i
disegni di spingersi fino a Napoli nella sua prima invasione d'Italia;
per lui Lione X. non impedì la elezione di Carlo; per lui non fu
fatto caso della vecchia costituzione proibitiva del cumulo sopra la
medesima testa delle corone imperiale e del regno di Napoli; per lui
Lione si collegò con Carlo pel ricupero del ducato di Milano; per
lui finalmente il maestro dello Imperatore era assunto al papato.
Insomma costui tanto si avvilì, che un bel giorno gli venne ad
uggia la propria abbiezione; allora ei s'industriò a comporre la
lega tra Veneziani, duca di Milano, Francia, Inghilterra e lui per
deprimere in Italia la soperchieria spagnuola; ed innanzi aveva
tentato contaminare il marchese di Pescara, il quale dopo lunga
ponderazione se meglio gli tornasse tradire, o rimanersi fedele allo
Imperatore, rimase fedele: intanto il Papa agguindolato da altrui, e
da sè stesso si trovò solo.

Il sacco di Roma è noto per infelice celebrità; Clemente cadde
prigione, lo colmarono di obbrobrio, e di scherno, però che mentre
l'Imperatore lo teneva in ceppi ordinasse in tutti i suoi regni si
esponesse il Sacramento per la liberazione di lui; ma le battiture, le
quali per gli uomini di cuore sono cause di giusto sdegno, persuadono il
prete a mansueti consigli: si accordò pertanto coll'Imperatore, lo
incoronò, gittategli le braccia al collo lo baciò in volto a piè
degli altari, e dello aiuto porto a costui per inschiavire la universa
Italia ebbe per salario la facoltà di sottoporre la Patria alla
tirannide del suo bastardo Alessandro, venuto al mondo dal sacrilego
commercio del sacerdote con certa serva affricana: lo Imperatore per
calpestare Firenze gl'imprestò quel medesimo esercito, che gli aveva
nabissato Roma, onde il Papa potè stabilire nella nobile Patria la
signoria medicea, la quale incominciava con amori incestuosi per cessare
con amori nefandi, se pure coteste infamie possono chiamarsi
amori.--Viluppo maraviglioso di vicende umane! Lo Imperatore trema della
riforma presagendone diminuzione al suo assoluto dominio, e se ne serve per
domare il Papa; il Papa all'opposto aborre dalla riforma, e l'aizza contro
lo Imperatore: quietata alquanto la paura il Papa si accosta di nuovo a
Francesco I. di Francia, il quale a sua posta in odio a Carlo promuove i
riformati in Germania, e li sovviene con ogni maniera sussidi; in Francia
gli arde.--Il Langravio Filippo di Assia con sagacia pari alla virtù, ed
alla fortuna si approfitta di simili insidie, ripone in casa il duca di
Vittemberg, e conduce Ferdinando di Austria alla pace di Kadan: la riforma,
in grazia di questa pace fatta sicura, allaga la Danimarca, la Pomerania,
la Marca brandeburghese, il Palatinato, la Sassonia in parte, tutta la
bassa Germania; in breve seguiterà la Svevia. Affermano come anco qui il
Papa rimanesse aggirato dalla vacua presunzione di Francesco I, il quale lo
accertò, che i principi luterani in riconoscenza degli aiuti
somministrati sarieno agevolmente tornati in grembo della Chiesa, ed
all'opposto se ne valsero per convalidare lo scisma ed estenderlo. Dopo
così grande jattura Papa e Imperatore si sentirono dalla necessità
costretti a convenire in un modo di difesa comune; ma l'uno non si fidava
dell'altro, anzi con odio infinito si aborrivano; allora parve a Carlo (e
fu un bel tratto davvero) uscire fuori con la proposta del Concilio; per
questo si sarebbe posto freno alle papali intemperanze, e termine alla rosa
dei protestanti, provveduto a sè solido fondamento, perchè appoggiato
alle deliberazioni di collegio gravissimo, non già in balìa dei
capricci di un'uomo.

Il Papa, secondo il solito, alla parola Concilio si arruffa, e scrive
di mano propria allo Imperatore, essere cotesto partito pieno di
pericolo dove fosse adoperato senza discrezione e non concorressero le
circostanze capaci a renderlo vantaggioso; la Curia romana ne rimase
sgomenta così, che gli uffizi rinvilirono tanto, da non potersene
più cavare danari; dopo le solite ambagi conchiuse notificando al
fratello dello Imperatore i principi da lui consultati non avere
corrisposto; averne tenuto proposito anco al re Francesco, il quale
era di parere non correre tempo propizio per cotesta facenda: così
giusta al costume delle deboli menti, cresceva il male col differirne
il rimedio.--Anco lo scisma inglese fu consumato a cagione del suo
continuo annaspare: invece di opporre rifiuto assoluto promise avrebbe
compiaciuto il re, ma per allora bisognava non pensarci avendo la
prospera fortuna levato lo Imperatore a stupenda superbia, e col
precipitare nuova rottura con lui ne sarebbe accaduto l'eccidio totale
del suo stato: starebbe alle vedette e quando qualche congiuntura
favorevole gliene porgesse il destro lo servirebbe da buono amico come
gli si era professato sempre; ma la congiuntura favorevole non venne;
al contrario sempre più gli andarono le cose a rovescio; e poi
l'agonia d'imporre tiranno alla Patria il suo bastardo gli fece
scredere o non curare lo scisma inglese; tremenda cosa è questa, e
non pertanto verissima, al preteso vicario di Cristo piacque più il
servaggio dei suoi concittadini che la unità della Chiesa; quindi
di un tratto avoca a Roma la causa del divorzio di Caterina con Enrico
VIII, ed ordinato con segreto messaggio al Cardinale Campeggio, che
arda la bolla decretale del divorzio già partecipata al re, rompe
fraudolento la fede, ed è cagione, che il re Enrico infellonito
separi la Inghilterra dal grembo della Chiesa cattolica.--Con questo
Papa cessa se non il volere, certo la potenza nella Corte romana di
costituire libera la sovranità temporale della Chiesa, mentre
l'autorità spirituale logorata a conseguire simile intento casca a
pezzi; ormai siamo giunti a tali termini per cui tocca al papato
sostenersi con altri concetti o perire.

Di vero, in questi tempi a cui bene osserva comparisce la genesi di
tre partiti; quello della riforma ormai potente, e per gli acquisti
fatti fiducioso ad ottenerli maggiori mandando ogni cosa sottosopra;
il secondo partito si compone di mezzani, che sarebbero i nostri
moderati, i quali per via di mutue concessioni non pure intendono
impedire nuovi danni, ma sì anco assettare i passati; per ultimo il
terzo, che si ammannisce a guerra aperta, e disperata non solo per
mantenere il presente, ma sì, potendo, riacquistare il perduto.
Dapprima prevalsero mezzani però che gli uomini, massime nelle
questioni morali, repugnino precipitarsi agli estremi repentini, e
zarosi, e perchè il papato sentendosi infermo innanzi di cimentarsi
voleva tastare il terreno. Al partito mezzano appuntavasi la
congregazione dell'_Oratorio dello Amore divino_ alla quale
appartenevano Gaetano da Tiene, Lippomano, Contarini, Sadoleto,
Giberti, Caraffa, ed altri parecchi; nelle altre parti d'Italia
consentivano con essi Brucioli, Reginaldo Polo, Pietro Bembo, Gregorio
Cortese, Luigi Priuli, Marcantonio Flaminio, Giovanni Valdez, Vittoria
e Vespasiano Colonna con la sua moglie la bellissima Giulia Gonzaga,
l'Occhini, il Carnesecchi, il Morone, fra Antonio da Volterra; insomma
per non produrre allo infinito questo catalogo di nomi, veruna
città d'Italia andava scevra di persone, che commosse dal pericolo
imminente di ruine religiose, e per conseguenza anco morali e civili
non predicassero con le parole, e con lo esempio la necessità di
riformare la Chiesa.--Questi partiti mezzani in ogni contesa vengono a
galla: accarezzati da tutti inorgogliscono scambiando per autorità
propria la peritanza dei partiti estremi di venire impreparati a mezza
spada; e per loro speciale sapienza la tregua, che precede le procelle
così fisiche come morali.--Nè anco gli uomini i quali formano
siffatti partiti durano lungamente insieme essendo legati fra loro da
comune paura, non già da passioni, o concetti comuni; così vero
questo, che le consorterie mezzane, cessato il terrore che le tenne
unite, si screpolano in frammenti, e si osteggiano a morte. Si provano
poi sempre funeste a sè stesse, ed a cui vogliono tutelare,
perchè, concedendo, crescono baldanza al nemico, e scemano credito
all'amico; quello non contentano, all'opposto inviperiscono, questo
debilitano e rendono male soddisfatto.--I moderati religiosi, per
ciò che spetta a dottrina dommatica, si trovavano rasentare i
luterani, e potremmo anco dire luterani erano senza accorgersene,
mentre col sostenere la unità della Chiesa, la venerazione del
Papa, e la più parte dei riti cattolici non potevano accordarsi co'
seguaci di Lutero: e spesso quello che maggiormente importa non è
ciò che più divide, comecchè la supremazia papale presenti
scoglio dove rompe ogni composizione.

Considerate la inanità della dottrina di questa Consorteria esposta
da Gaspare Contarini uomo del tutto degno di reverenza: «è legge
di Libertà, egli predica, la legge di Cristo; a ragione i luterani
vituperano come servitù di Babilonia starsi soggetti alla
pretensione esorbitante del Papa di pigliare la propria volontà a
norma unica di costituire od annullare il diritto positivo. Potremmo
chiamare governo quello dove sia regola la volontà dell'uomo per
natura inchinevole al male e governato da infinite passioni?
Incomportabile ogni dominio oltre il dominio della ragione; tutto
questo sta bene, ma l'autorità del Papa appunto è dominio di
ragione come quella che Dio confidò a San Pietro, ed ai suoi
successori, affinchè incamminassero il _gregge_ sopra la via della
umana felicità. Quindi deve astenersi il Papa di ordinare,
proibire, o dispensare a suo talento, ma sì giusta la regola che
tutto riferisce a Dio, ed alla comune salute, la quale non può fare
a meno di essere regola di ragione, di comandamenti divini, e di
amore.»--«Guardati, aggiunge poi il nostro Gasparo, volgendosi a
Paolo III, di non lasciarti vincere la mano dalla tua volontà, che
sceglie male, e pende alla servitù del peccato: se da ciò andrai
immune tu sarai libero, tu potente, e la vita della repubblica
cristiana veracemente sarà chiusa in te.» Non si desidera troppa
levatura per comprendere la fallacia di siffatto argomento; immagina
quanto vuoi, e credi la regola fuori della tua volontà, ma quante
volte fie rimesso al tuo arbitrio consultarla o no, e intenderla
secondo i tuoi errori, secondo la tua ignoranza, ed i tuoi affetti,
egli è come non ci sia.--La tinta gialla non istà negli oggetti
circostanti, sopra loro la diffonde la itterizia, che hai.

Tuttavolta siccome il vento spirava riforme, e la gente procedeva
appassionata agli accordi, la si volle tentare con tutti i modi. Paolo III,
succeduto a Clemente, spediva il dabbene Contarino suo nunzio alla
conferenza di Ratisbona; mandato senza limite non gli volle affidare,
perchè ci hanno cose, che il Papa solo può concedere, ed altre che
stanno fuori perfino della sua potestà: nè parve disonesta la scusa.
Paolo commetteva argutamente al suo legato: non mettiamo troppa carne al
fuoco; prima d'inoltrarci vediamo un po' se possiamo andare d'accordo
intorno la supremazia della Chiesa, poi sopra i sacramenti, e su _qualche
altra cosa_; in che consista questa _qualche altra cosa_ non è chiaro;
si adombra però con le formule, che Roma procede secondo lo spirito
delle sante scritture, e con la dichiarazione di osservare l'uso costante
della Chiesa. Parole equivalenti alle porte segrete donde il debitore
scivola alle persecuzioni del creditore importuno. E qui per lo appunto
giaceva l'osso non avvertito (pare impossibile!) nè manco dagli uomini
più sagaci di cotesto tempo: tanto vero ciò che Marino Giustiniano
oratore veneto in Germania presso il re Ferdinando informava il Senato:
«agevoli parergli gli accordi là dove il Papa, renunziata la
pretensione di essere vicario di Cristo nel temporale, si contentasse
rappresentarlo unicamente nello spirituale: ai vescovi ignoranti si dessero
coadiutori periti; non si vendessero da ora in poi le messe, non si
cumulassero i benefizi, la comunione sotto le specie del pane e del vino si
concedesse; e con qualche altra zacchera lo screzio della giustificazione,
e delle opere buone per salvarsi si accomoderebbe.» E questo di leggieri
credo ancora io; e il Contarino da quell'uomo sagace, ch'egli era propose
alla Dieta rovesciare l'ordine delle cose da trattarsi, prima il dogma, poi
la supremazia del Papa: procedendo con siffatto metodo in breve i teologhi
delle sue parti accordaronsi su quattro punti principalissimi; il Contarini
si lasciò andare fino a convenire, che la giustificazione si operasse
per via della sola fede senza mestieri di opere. La buona gente non capiva
in sè dalla contentezza; ormai predicava ogni discordia assettata,
mantenuta la unità della Chiesa e con essa quella dello Stato: che
rimaneva dunque per ridurre a perfezione il negozio? Poca cosa in
verità, la ratifica di Lutero, e del Papa. Lutero esaminato bene gli
articoli dell'accordo buttò carte in tavola, e disse ai Deputati, che
glieli presentarono: «rigettarli reciso perchè pieni di equivoco: a
lui piacere le cose chiare.» Dall'altro canto il Papa sottoposti gli
articoli ai Cardinali Caraffa e San Marcello, perchè gliene riferissero,
questi se ne mostrarono scandalezzati, li dissero nebulosi, e insidiosi: da
ambe le parti ragione ad un punto e torto, ognuno li voleva patenti a modo
suo: insomma accordarsi non potevano, chè virtù al mondo non basta
per mettere in pace il fuoco e l'acqua. Il Papa astuto rispondeva: «non
approvo, nè respingo la convenzione, solo avverto, che anco i parziali
di quella giudicano come i concetti ne abbiano ad essere meglio
esplicati.»

Ecco le correnti sotterranee, che cospiravano occultamente a mandare a
male il negozio: per simile convenzione la Germania avrebbe acquistata
stupenda unità religiosa e civile, a capo della quale dove fosse
giunto a mettersi l'Imperatore, fermo nella idea, che a lui spettasse
il diritto di convocare il Concilio, poco più gli avanzava per
giungere alla monarchia universale, che stette lunga pezza in cima dei
suoi pensieri: però se ne spaventavano i cattolici al pari dei
luterani, il Papa non meno di Lutero. Il re di Francia ostentandosi,
secondo il solito, sviscerato della Chiesa sobillava sotto dicendo:
«la causa di Roma in pericolo: degno di acerbo biasimo il contegno
del legato in Germania, il quale così si era lasciato abbindolare,
che ormai più poco rimedio ci si vedeva: non patire i principi
cristiani si agitassero faccende di tanto momento senza essere
consultati: ad ogni modo egli sempre pronto a mettere per la tutela
della Chiesa le forze e la vita.» Mentre il re Francesco ficcava
queste male biette presso i cattolici, non rimaneva da fare fuoco
nell'orcio presso i luterani, e mandava loro lettere, che il Granvelle
ministro di Carlo V. affermò con suo giuramento di avere letto egli
stesso, con le quali lì confortava a non accordarsi; _avere voluto
conoscere le opinioni loro, le quali non gli spiacevano_.

Anco i principi cattolici non andavano di buone gambe in cotesta
faccenda; lo esempio fortunato del Langravio Filippo stimolava non
pochi a imitarlo: tra questi il Duca di Baviera, e l'elettore di
Magonza: l'ultimo avvisava il Papa: ci pensasse due volte ad
accordare, gli avrebbero portato via le penne maestre, e lo
vedrebbe.» Roma, Francia, Lamagna di un tratto levaronsi contro
Carlo V.: «i nemici dello Imperatore, scrive il segretario del
legato Contarmi, dentro e fuori paurosi della sua grandezza, dove mai
egli avesse raccolto sotto la sua autorità la universa Germania,
presero a seminare la zizzania tra i teologhi: e l'interesse come
sempre vinse la ragione.» La opera dei mezzani perpetuamente
così; le carezze tornarono in vilipendi, la riverenza in iscede;
ogni cosa al vento: bastavano due, ed erano tre gl'interessi contrari
per non venire ad accordi. Il Papa voleva ricuperare il suo dai
luterani; Lutero torre di sotto al Papa quanto gli avanzava; lo
Imperatore salire sopra le ruine di ambedue.

Nella Chiesa, scomparsi i mezzani, prevalsero gli estremi: ora in
breve esporrò, che cosa operassero per impedire il naufragio della
barca del pescatore San Pietro.

Come chi presagisce la necessità della guerra ci si apparecchia con
lunghi ammannimenti, il partito ormai diventato dominatore della
Chiesa vide la deplorabile decadenza degli ordini monastici, e
s'industriò ridurli a termine da potersene servire con profitto: le
raccolte erano sperperate, quindi la necessità di tornare al
lavoro; non che le altre regole quella dei Camaldolesi si trovò
corrotta; un Giustiniano, o piuttosto un Bosciano, sottomise a
discipline più severe, impose solitudine assoluta, e vita separata
in cellette sparse qua e là per luoghi pieni di orrore;
rinnovaronsi i voti, e con maggiore severità ne curarono la
osservanza: ma i tempi ben di altro abbisognavano, che di eremiti
contemplativi.

Anco i Cappuccini ricondussero al canapo; tuttavia anche qui le notti
vigilate, le discipline, il silenzio, i digiuni poco soccorso potevano
portare alle angustie del cattolicismo: fin d'allora le vesti, la
foggia del calzare, i capelli rasi, il salvatico che emanava da loro
li facevano contennendi e vili: e poi quelli che più premeva
riformare non erano i monaci bensì i componenti il clero secolare;
nè parve mai consiglio buono spendere tempo e denaro in rassettare
arnesi logori mentre puoi farli più acconci e nuovi.--Degli uomini
dell'_Oratorio dello amore divino_ due, dispersi gli altri, rimasero
uniti, Gaetano da Tiene, e Giampiero Caraffa; accordaronsi, perchè
diversi d'indole; ciò sembra contradittorio, e non è, e
pensandoci sopra ne troviamo la ragione in questo, che due uomini pari
d'ingegno, e di talento vanno per una medesima strada dove quegli
cammina con più risoluto passo, questi con orme più tarde,
sicchè all'ultimo chi resta addietro si chiarisce inutile; mentre
coloro, che procedono per diverso sentiero si prestano mutuo soccorso,
uno si avvantaggia della opera dell'altro, si completano insieme: se
entrambi nelle diverse, non però opposte vie, fanno lavoro di
pregio uguale meglio che mai, se dispari non monta; imperciocchè
uno aderendo all'altro riesce tutto a guadagno: gli uomini, i quali
per diversi tramiti tendono al medesimo segno si accomodano fra loro
come la guaina, e il coltello. Gaetano fu mite, Giampiero turbolento;
quegli parlava rado e soave, questi copioso e veemente: entrambi
tenevano ufficio autorevole, chè Gaetano fu _Protonotaro
partecipante_, Giampiero vescovo di Chieti ed Arcivescovo di Brindisi,
e li risegnarono per fondare l'ordine dei _Teatini_; oltre i tre voti
consueti stabiliscono di non cercare elemosine, vivrebbero con quelle
che sarieno state loro spontaneamente largite; non si astrinsero,
almeno da prima, a foggia speciale di vesti, non a riti particolari;
si conformerebbero a quelli dei paesi che avrebbero visitati; scopo
loro instituire un seminario di preti secolari governato con ordini
monastici; intendevano guadagnarsi i popoli con le missioni,
coll'amministrare i sacramenti, con la cura degl'infermi. Da prima
partorirono non lieve impressione comparendo su pei trivi, e per le
piazze col berretto quadro in capo, roccetto e stola, a piè di un
crocione, sopra un palco parato di panno nero predicando smaniosi
terrori piuttosto che speranze, ed anzi di additare la via del
paradiso spalancando davanti gli atterriti a due battenti le porte
dello inferno: giovavano al popolo, ma di bene altro soccorso questo
aveva mestiero; non erano a bastanza pugnaci; nello instituto non si
trovarono ordinati a guerra, e nell'applicazione non penetravano
profondo nel cuore del popolo nè con mani gagliarde a modo loro lo
plasticavano. Nocque loro il partito di astenersi dall'accatto, onde
in breve non poterono ammettere altre persone, che le provviste con
maggiori o minori sostanze; di qui ricchezza, e superbia: e procedendo
con simile tenore si venne al punto, che per entrare nell'ordine dei
Teatini bisognò produrre le prove della nobiltà; il cerchio
degli educandi si restrinse, e diventato aristocratico, epperò
esclusivo, di ora in poi non valse ad altro, che a fabbricare vescovi.

Dopo i Teatini vennero i _Somaschi_, fondati da un Girolamo Maini;
anco di questi fu intento educare, predicare, assistere gl'infermi, e
più specialmente pigliarsi cura degli orfani, pur troppo infiniti a
cotesti tempi in Italia per le guerre continue e per le pesti che la
desolarono: dopo o insieme co' _Somaschi_ i _Barnabiti_ per istudio
dei preti Zaccharia, Ferrari, e Morigia milanesi: buoni tutti a
qualche cosa, impari a reggere contro la procella, trattandosi adesso
meno provvedere al futuro, che porre argine efficace alla ruina del
presente. A tanta mole quasi bastò un matto; e questi fu Inigo, o
vogliamo dire Ignazio Lopez di Recalde nato a Loiola nella Guipuscoa.
La Chiesa lo ha scritto sopra l'albo dei santi, ed il Gioberti me lo
ciurmò uomo grande da paragonarsi con Giulio Cesare in tutto e per
tutto, perfino negli _occhi grifagni_; stravizi d'ingegno, che perse,
o non ebbe mai bussola: tu lettore mira se matto o savio potesse
essere Ignazio: ei nacque di signorile lignaggio; cresciuto in
castello remoto il suo cervello si saturava con ogni maniera di
frottole, e di errori da lui parimente creduti, e serbati cari; da
prima usò in corte di Ferdinando il Cattolico, poi in quella del
duca Najara dove vie più gli prese a turbinare dentro la mente una
vertigine di armi, di amori, di cavalli, di dame, di santi, di
apostoli, di angioli e di demoni: alla difesa di Pamplona contro i
Francesi percosso di terribile ferita in ambedue le gambe, rimase,
finchè visse, zoppo.--

Giacente nell'ospedale sul letto del dolore, non consolato da
congiunti, o da amici, in sollievo delle sue sofferenze finchè il
giorno durava leggeva assiduo i romanzi di cavalleria, massime
l'_Amadigi delle Gallie_, e insieme ai romanzi le vite, o piuttosto le
leggende dei santi, di Cristo, e di Maria; durante la notte sognava,
ed anco ad occhi aperti vedeva, battaglie stragrandi di angioli e di
demoni, giganti immani terribili dragoni strascinati in omaggio ai
piedi della Beata Vergine; lo pungeva cocente emulazione per Domenico
Guzman anch'esso dalla Chiesa convertito in santo; mirava superarlo
debellando gli eretici con isterminati colpi di spada, e con colpi non
meno sterminati di devozione; sarebbe ito a Gerusalemme, nelle parti
più lontane del mondo a vincere anime a Cristo, anzi sceso dentro
lo inferno a sfidare a duello Lucifero, abbatterlo, e mandarlo in dono
alla donna dei suoi pensieri Maria: sue armi, daga e vangelo, o
piuttosto le miserabili scritture con le quali monaci ignoranti
contaminavano questo libro santissimo: così travagliandosi dopo
molto stento potè levarsi ranchettando da letto e corse in furia a
Monserrato, dove fece la veglia delle armi, ch'era una cerimonia di
notti passate nella veglia, nel digiuno, e nella orazione ond'essere
creato cavaliere della Santa Maria Vergine: per colmo dello staio si
dilettava di comporre versi; io non l'ho letta, ma dicono, che ci
avanza di lui una romanza sopra San Pietro, che basterebbe sola come
certificato di pazzia per ischiudere le porte del manicomio ad ogni
fedele cristiano.

Da Monserrato si condusse a Manresa per quinci recarsi a Gerusalemme,
e davvero gli era come andare a Roma per Ravenna: intanto che si
allestisce a battagliare i Maomettani, si trattiene nel convento dei
padri Predicatori a pregare genuflesso davanti la immagine di Maria
sette ore del giorno e a flagellarsi quotidianamente tre volte dentro
ventiquattro ore. Ma qui dopo tanta presunzione lo colse lo
scoramento, chè gli pareva trovarsi immerso nel peccato fino ai
capelli; sè indegno di essere eletto a tanta opera; mancipio senza
rimedio dello inferno: confessavasi, e riconfessavasi, nè potendo
aver pace statuì finirla col buttarsi dalla finestra. Gli _atti di
Santo Ignazio_ c'istruiscono, ch'ei se ne astenne per tema di
offendere Dio: io i segreti di Dio non so, ma quasi metterei pegno,
che se Ignazio si precipitava giù del balcone non se ne saria preso
a male.--Qui fu che una vecchia gli predisse: stesse di buono animo
chè Gesù gli sarebbe comparso davanti; ed avendosi egli ficcato
in mente cotesta fantasia quasi oracolo della Sibilla cumea un bel di
si ferma di un tratto sopra gli scalini del convento dei Domenicani di
Manresa e scoppia in pianto, però che proprio lì gli si rivela
il mistero della santissima Trinità sotto la figura di tre tasti da
organo, senza dire se di ebano o di avorio[1]. Veramente non so che
cosa ci fosse da piangere nel vedere tre tasti, ma l'andò così:
un poco più tardi circoscritto da un'ostia vide colui il quale
adorano i Cristiani Dio ad un punto ed uomo; nè le visioni
finiscono, che meditando lungo la sponda della riviera Llobregat nelle
acque fuggitive egli degge tutti i misteri reconditi della fede
cattolica. Ora se non giudichiamo matto costui io penso che non
possiamo pretendere di essere tenuti savi noi. Insomma, se altri lo
abbia detto non so, ma io penso che santo Ignazio si abbia a definire
un Don Chisciotte di fanatismo religioso; e non di manco questo uomo,
che al suo primo comparire nel mondo ci sembra matto, instituiva
un'ordine stupendo di forza operosa per modo che se la Curia romana
avesse potuto salvarsi non ha dubbio, che solo poteva farlo la
Compagnia di Gesù. Considerando questo nostro intelletto umano
troviamo com'egli talora deviando a poco a poco dal segno del discorso
smarrisca prima, e poi perda del tutto il lume di ragione spento
dentro una idea fissa, che lo soverchia; tale altra all'opposto
avviluppato dalla idea fissa a mano a mano la dirada, imprime il suo
concetto nelle cose e negli uomini circostanti, li trasforma, e li
contorce; aggiuntata poi la ragione non le mette già in mano il
timone, bensì il remo, e a questa figlia del pensiero di Dio
incatenata al puntale tocca pur troppo vogare nella galera dello
errore.--I concetti che penetrano profondamente la umanità emanano
da due origini le quali sono esaltazione, e meditazione; i primi
fuoco, i secondi gelo; procedono quelli a modo di turbine e presto o
si snaturano, o rallentano, o cessano; i secondi scavano come la
goccia che casca giù dalla volta sopra il sasso del pavimento; e
dove si versino intorno al bene durano meno, ma durano.--Gli uomini
posti nelle consuete condizioni della vita, quantunque speculino bene,
non possono speculare a lungo quanto basta; quindi s'illudono più
spesso, che non vorrebbero, e questo nasce perchè delle cento
faccie che prestano i casi umani, ne lasciano inosservate la metà,
quando ne lasciano poche: l'uomo ristretto in carcere, se di tempra
gagliarda, può solo disporre la mente a dipanare un filo lungo e
non interrotto di pensieri: fuori di prigione lo caverà a gugliate:
anco in monastero al cenobita è tolto meditare pari al prigioniero,
come quello che ora la preghiera, ora il refettorio, ora altra cosa
interrompono; il carcerato sta solo con la solitudine, veruno lo
importuna, veruno lo chiama a mensa: la subiezione del corpo gli viene
compensata col regno del pensiero. Napoleone III vince tutti i suoi
fratelli in dispotismo, perchè ebbe in sorte educare la mente alla
meditazione in carcere; forse non ce lo tennero quanto faceva
mestiere; se ci tornasse diventerebbe perfetto.

  [1]  En figura di tres teclas.

Ripigliamo il filo del nosto Ignazio da Loiola: ai frati di Manresa
non parve vero di sbarazzarsi di ospite tanto molesto, e gli fecero
ponte di oro quando ei volle condursi a Gerusalemme per convertire
gl'infedeli, dove giunto i superiori conosciutolo tosto per nuovo
pesce forte temendo, ch'ei non li esponesse a qualche duro cimento gli
comandarono se ne tornasse a casa, ed egli cheto come olio ripigliò
la via di Spagna: qui predicando le sue bizzarrie stette a un pelo,
che come eretico lo condannassero: ma i superiori di Alcalà e di
Salamanca conosciutolo a prova obbedientissimo lo persuasero a cessare
le prediche; studiasse prima la teologia; la Sorbona unica al mondo
per ottenere con profitto nella conoscenza della divinità; così
palleggiato si condusse a Parigi, dove quantunque grande e grosso ebbe
per cagione della sua ignoranza a piegarsi allo studio della
grammatica. Gliela insegnò per ben due anni Girolamo Ardebale, ma
egli era come pestare acqua nel mortaio; di 35 anni Ignazio fu
licenziato dalla scuola più ignorante di prima. Qui incontrava due
compagni sopra i quali acquistò in breve singolare dominio, Pietro
Fabro di Savoia, e Francesco Saverio di Pamplona, plebeo il primo,
gentiluomo il secondo e, come di lignaggio, di talento diverso; quegli
tenace e di mediocre ma compassato ingegno, questi più frondoso,
però sopra il compagno fantastico, e proclive alle avventure;
entrambi volontà meno austera d'Ignazio, e quindi ottimamente
disposti a lasciarsi governare da lui. Raccolti insieme nella medesima
cella, in comune digiunavano, pregavano, si esaltavano, e l'uno e
l'altro correggendo si contemplavano: un po' più tardi aggiunsero
alla loro compagnia Salmeron, Lainez e Bobadilla, co' quali
conferendo, un giorno vennero nella determinazione d'instituire una
maniera di lega: a questo fine vanno alla chiesa di Montmartre; il
Fabro prete celebra la messa; al fine della quale si votano alla
povertà, alla castità, ed alla conversione degl'infedeli; caso
mai l'andata; o la fermata a Gerusalemme fosse loro interdetta si
recherebbero a Roma per profferirsi anima e corpo al Papa, dove meglio
giudicasse opportuno gli spedisse, senza compenso, senza patto
avrebbero adempito i pontifici comandi: già incomincia a comparire
il soldatesco ordinamento.

Essendosi rotta la guerra contro il Turco Ignazio si portava a Venezia
dove conobbe il Caraffa; e desideroso investigare che avesse di buono
l'ordine dei Teatini per farne suo pro prese stanza nel convento loro;
anch'egli a visitare gl'infermi, e ogni altro esercizio di carità,
giusta la regola dei Teatini; esercitando vide quanto credito dalle
medesime pratiche avrebbe acquistato l'instituto, ch'egli mulinava
stabilire: quindi anco di quelle fece tesoro; è fama che col
Caraffa entrassero in iscrezio, e lo credo, per la ragione già
esposta, che due nature uguali non attecchiscono insieme; la
santità non muta le passioni umane, solo ne varia l'applicazione, o
il modo di manifestarle. Però Ignazio ed i compagni suoi si
accinsero alla prova di supplantare il Caraffa, nè lo tennero
difficile opponendo le forme democratiche all'aristocrazia teatina; di
vero dopo quindici giorni di preghiere e di digiuno scappano fuori a
Vicenza in un medesimo punto, si arrampicano su i poggioli, e dopo
agitati i cappelli, pigliano con istrana favella spagnuola mescolata
d'Italiano a urlare a squarciagola la parola di Dio: accadde loro
quello che negli Atti degli apostoli leggiamo avvenisse a questi primi
compagni di Gesù quando dopo la pentecoste scesero per le vie a
predicare in tutte le lingue: il popolo pieno di meraviglia
esclamava:--_sono pieni di vino dolce_[1]. Ma il dominio della
repubblica non era terra da piantarci vigna democratica; dopo un anno,
ebbero a ripiegare le tende, e ridarsi a Roma.--Siccome per fuggire
ogni intoppo molesto nel cammino si avvisarono pigliare diverse vie,
innanzi di separarsi deliberarono imporre nome allo instituto loro e
si trovarono di accordo ad accettare quello suggerito da Ignazio di
_Compagnia di Gesù_; imperciocchè egli dominato sempre dal
militare costume, intendesse ordinare la sua regola ad esercito, e
quei pochi primi Gesuiti gli paressero appena bastevoli a comporre una
compagnia; se fossero stati in numero maggiore, per me credo che ei
gli avrebbe distinti col nome di Brigata o di Colonnello di Gesù.
Sul principio a Roma furono guardati in cagnesco; in seguito,
perchè dettero saggio di sè, la gente prese ad accettarli, poi
lodarli, all'ultimo, come avviene, levarli al cielo. Nel 1540 Paolo
III gli accettava, li confermò nel 43; convocati ad eleggersi il
_Generale_ votarono per Ignazio a cui commisero comporre lo schema
degli Statuti della Compagnia; il _Generale_, che in ogni altra
faccenda procedeva assoluto, per questo era obbligato consultarsi co'
soci. Per siffatta maniera rimase la società dei Gesuiti simile nel
carattere generale alle altre fondate sopra i doveri clericali, e
monastici, ma diversa nelle specialità, o negl'intenti: di vero
accolte tutte le disposizioni teatine intorno ai riti, alle vesti, ed
a quanto altro poteva renderli più spediti, i fondatori aggiunsero
la dispensa delle preghiere comuni, e del coro, procurandosi per
siffatto modo la maggior somma di tempo per accudire con inquieta
alacrità a tutti insieme gl'intenti, che somministravano divisi
scopo speciale alle altre instituzioni; però precipui fini di loro
la predicazione al popolo, la confessione, la educazione dei
fanciulli; per la prima, di eloquio elegante curandosi poco, posero
studio nel parlare veemente, nel ripetere le locuzioni popolesche,
troppi e figure capaci da scotere forte la immaginativa; con la
confessione ora spaventando, ora allargandosi a vituperose compiacenze
s'impadronirono della famiglia, dello stato, di tutto; con la
educazione le novelle anime foggiarono ad arnesi, o meglio ad armi per
conquistare, e difendersi. Accetti al popolo i Gesuiti entrarono in
breve nella grazia dei principi. I Farnese gli accolsero a Parma; a
Venezia Lainez, messo in disparte il popolo, spiegò il vangelo ai
nobili e piacque; Montepulciano, e Faenza si sottomisero a loro con la
docilità del somiero: dove comparivano pullulavano scuole, e
sbucavano congregazioni come per pioggia estiva tu vedi brulicare le
rane di mezzo alla polvere.

  [1]  Act. Ap. C. 2, n. 13.

Dove poi la nuova società trionfò gloriosa fu la Spagna: di
colta conquistava Francesco Borgia Duca di Gandia; a Valenza il popolo
traendo a stormi per udire l'Aroz, venuta meno per capacità ogni
chiesa, questi lo sermonò allo aperto; e poichè quando la spinta
è data senza ragione nè cagione governa l'andazzo, nobili e
plebei si misero dietro le calcagna di Francesco di Villafranca
malescio di persona, contadino, ignorante; in breve la Spagna ne
rimase coperta come dalle barbe della gramigna. In Portogallo non si
specolarono meno, che nella Spagna ad aprire loro le braccia, forse
più: quinci con regio beneplacito partiva Francesco Saverio per le
Indie orientali a procacciarsi fama di apostolo, e di santo: ella fu
una smania, un furore, vuoi nei grandi come negl'infimi di pigliare i
Gesuiti per direttori spirituali; il presidente del Consiglio di
Castiglia, il Cardinale di Toledo, i primi fra i gentiluomini, la
famiglia reale, mettevano tutti da sè stessi il collo dentro il
capestro.--Dopo la Spagna, il Portogallo e la Italia, primeggiarono a
insanire pei Gesuiti Parigi, i Paesi-Bassi e la Germania.

Ignoro se l'esito superasse il presagio: fatto sta, che la Compagnia di
Gesù salita a tanto incremento abbisognò di riforma; da prima ella
conobbe due classi professi, e novizi; i professi insegnavano; ma essendosi
obbligato per voto a impedire in ogni tempo, ed in qualunque luogo
missioni, secondo la volontà del Papa, ei fu mestieri creare una classe
stanziale di maestri, e questo Ignazio fece instituendo i Coadiutori
spirituali: ancora, i professi avevano a campare di elemosina, ma con
sussidi raccattati, per così dire, a balzello male si ponno tenere in
piedi collegi, onde, riformando, fu detto potessero i collegi possedere
beni, ed una quarta parte di Gesuiti col titolo di Coadiutori laici venne
instituita per amministrarli come altresì per provvedere alle
necessità della vita esterna.--Ciò quanto alla forma; circa la
sostanza la Compagnia si propose non già torre l'anima ai suoi alunni,
ma sì plasticarla in guisa che non sentisse, non pensasse, nè
palpitasse per altro, che per lei; l'amore di famiglia considerò peccato
carnale, e fu lodato Luigi Gonzaga perchè favellando a sua madre non le
levò mai gli occhi in faccia, nè di minore encomio proseguirono il
Fabro, il quale dopo molti anni recandosi in patria non ci si fermò
neppure una notte; il retaggio paterno doveva distribuirsi ai poveri prima
di entrare nella Compagnia, non già abbandonarsi ai parenti; più
tardi le più ree, e sozze colpe commisero per grancire beni a
qualsivoglia ragione: lettere non si ricevono nè si spediscono se prima
non sieno lette dai superiori; nè basta, poichè tra i Gesuiti l'uomo
vuolsi ridurre in mano al Superiore come un _cadavere_, o meglio come un
_bastone da viaggio_; così egli ha da conoscere l'intimo dell'animo suo
mediante la confessione: a questo sembra mettano ostacolo due cose, la
prima che il Superiore non può confessare tutti, e se altri li confessa,
deve per religione tenersi il confessato segreto: per così poco non si
smarriscono i Gesuiti: odano, assolvano, e conservino segrete le
confessioni nei casi ordinari i professi, ma i casi riservati deferiscansi
al Superiore; ed ecco come questi viene a conoscere regolarmente quanto gli
piace e gli giova.

Sopra ogni altro precipuo fondamento della Compagnia la obbedienza;
quella del soldato, che pure è piuttosto immane, che eccessiva, non
bastò ad Ignazio; egli la esagerava spingendola a segno ormai non
più umano; nel solo Superiore stanno scienza, potestà, ed
afflato di Provvidenza divina; il singolo ha da credere, che
adempiendo quanto gli viene prescritto dal Superiore non commette
peccato veniale nè mortale; assoluto il dominio di costui; da prima
era obbligato a consultarsi co' professi del luogo dove si trova; poi
l'obbligo fu tolto tranne i casi di riforme dello statuto, ovvero di
soppressione di case e di collegi. Il pasto, l'ora delle preghiere,
dello studio, e del vitto, la veglia, il sonno, il vestire, il
camminare, tutto prescritto dal Superiore, il quale a sua posta aveva
dintorno i delegati dell'ordine che lo vigilavano, e un censore, che
lo ammoniva. In caso di colpa gravissima, i delegati avrebbero potuto
convocare l'assemblea generale della Compagnia perchè avvisasse. E'
sembra che a questo modo l'uomo isolato e subietto avesse a diventare
ebete; e pure la non andava così: imperciocchè con tanta
profondità di consiglio si vedono congegnate le prescrizioni, che
non si toglie all'uomo sprofondarsi nello sviluppo delle sue
facoltà a patto però che rimangano isolate, e solo al servizio
del Superiore: per questo tanto bene le monarchie si accomodarono dei
Gesuiti: non mai il servaggio conobbe più solenni maestri di loro;
e i re l'avrieno sempre tenuti fra i più squisiti arnesi di regno
là dove non si fossero accorti all'ultimo, che scopo dei Gesuiti
insomma era comandare in ginocchioni.--

Gesuiti, e razza dei Gesuiti in convento o fuori, quanti sussurrano
dentro gli orecchi delle generazioni: agire è cosa che fa sudare,
patire forse può lodarsi, morire con le mani giunte baciando la
mano del re, e più del sacerdote maestro e donno dei re, perfezione
suprema; per bene comprendere questo importa meditare assiduo; nè
vi ha cosa che si confaccia meglio alla meditazione quanto le tenebre;
mira l'asino, e il cavallo; perchè macinino bene il grano, ovvero
attingano l'acqua dai pozzi fa mestiere bendarli: lasciamo che altri
comandi; noi reputiamo singolare benevolenza di Dio possedere un re, e
meglio un sacerdote che c'insegnino quello che deva operarsi da noi:
felicità grande è il maestro pratico, la guida sperta che ci
governi, e ci conduca; la nostra assidua meditazione ha da cadere sul
modo di eseguire puntualmente quanto ci venga comandato e non sopra
altro. Udire e obbedire non solo si dice dagli schiavi del Sultano, ma
sì dagli Angioli del Dio di Moisè, e si deve celebrare massima
virtù da quanti ha sudditi il Principe creato proprio ad immagine
di cotesto Dio.

Se bene consideri vedrai, che i vantati Statuti dei Gesuiti a fine del
conto consistono in questo, che giunsero ad adattare allo spirito la
istruzione medesima la quale nella milizia si applica alla materia; in
questo si posero interi anima e corpo; oltre tenersi liberi da
qualsivoglia cura, non accettarono cariche, nè benefizi, quantunque
sotto mano gli avessero tutti; non digiuni, non veglie, non fatiche
eccessive; i Gesuiti avevano bisogno di tutte le loro forze per durare
nelle battaglie della disputa, della predicazione, e dello
insegnamento. Se leggi le lettere del padre Segneri vedrai come il
Papa medesimo lo presentasse di canditi, e di non so quali ortolani;
il Granduca Cosimo III di cioccolata più volte, ed egli stesso gli
chiede vino generoso per cavarne lena a mostrarsi valente operaio
nella vigna del Signore.--A conseguire simile scopo di leggeri si
comprende come lo insegnamento avesse ad essere cura suprema dei
Gesuiti; di fatti, a Roma esercitando una volta i letterati nocque
piuttostochè giovasse alla religione; i Gesuiti intesero
soppiantarli e ci riuscirono; sempre conformi a sè stessi
immaginarono metodi affatto soldateschi, e discipline, e pene;
insegnavano gratis, come predicavano, e celebravano la messa; vietato
non solo chiedere, ma accettare elemosine: nelle chiese non tenevano
cassetta: gli scampoli disprezzavano: si contentavano rubare la pezza.
Anco questo modo d'insegnamento ebbe sequele terribili nella
società nostra, e durano; le scuole ordinate a mò di esercito
con soldati, e ufficiali diventarono pugnaci.--Noi dobbiamo venerare
la Provvidenza, la quale volle, che simili forze ordinate in pro della
tirannide, e dello errore, o non durino, o durino poco; un verme
segreto le corrode; la stessa violenza dei moti le fiacca;
circoscritte dentro un termine ingeneroso o cattivo s'intristiscono
ripiegandosi sopra sè stesse, dacchè paia certo, che la sola
bontà sia progressiva durevolmente. Chi mai al mondo potè
ridurre le anime umane a stiletti come il vecchio della Montagna?--I
Giannizzeri un pezzo sostennero il Sultano, e poi ei gli ebbe a
trucidare quanti erano, così gli Sterlitzi in Russia, e così i
Mamalucchi in Egitto; in pari guisa il Papa, dopo avere provati i
Gesuiti sua lancia, e suo scudo, gli sperdeva quasi piante venefiche.
Merita non mediocre considerazione come i Gesuiti scolino, per così
dire, dai luoghi che primi inondarono; nel 1606 ebbero a spulezzare da
Venezia; da Napoli e dai Paesi-Bassi nel 1618; dalle Indie nel 1622;
di Russia nel 1676; dalla Francia nel 1764 per opera della Pompadour,
e del duca di Choiseul, affaticandocisi attorno con le mani e co'
piedi un gobbo, lo Abate di Chauvelin, onde motteggiando dicevano:
quello che uno zoppo fondò disperse un gobbo: nel 1767 li bandiva
la Spagna; nel 1769 il Portogallo dove furono incolpati di tradimento
contro la persona del re d'intesa con la casa Tavora; e forse non fu
vero.--La vita, la morte e la resurrezione dei Gesuiti porgono
manifesto segno della demenza dei Papi, i quali con miserabile non
meno che ridevole presunzione si sostengono infallibili. Paolo III nel
1539, informato dal Cardinale Guidiccioni sul conto della regola
proposta da Ignazio, dà cartaccie; nel 27 Settembre 1540 con la
Bolla: _Regimini militantes Ecclesiae_ l'approva; Clemente XIV nel 21
Luglio 1773 con la Bolla: _Dominus redemptor_ la sopprime; la
resuscita Pio VII nel 7 Agosto 1814 con l'altra Bolla: _Sollicitudo
omnium_. E non basta; tanto Clemente che li spenge, quanto Pio che li
riaccende, si affermano inspirati dallo spirito santo; il primo si
conduce alla soppressione dei Gesuiti mosso dalla voce universale; il
secondo compiacendo alle istanze dei fedeli li rimette sul candeliere;
Clemente in virtù della sua autorità in materie religiose
distrugge _per sempre_ la Società di Gesù, i suoi instituti, e
le sue opere; Pio in virtù della pienezza della potestà
apostolica da _valere in perpetuo_ restituisce ai Gesuiti tutte le
concessioni, diritti, facoltà e privilegi, che prima possedevano, e
mantennero nello impero di Russia; dacchè sbanditi da tutto il
mondo costà si ricoverarono, e tra i Cosacchi parvero civili. Lo
Spirito santo inspirò Clemente, ed inspirò Pio: entrambi questi
Papi infallibili; il sì e il no, il bianco e il nero non si
contrastano in loro: prediletta stanza quando lo Spirito santo scende
in terra il cervello loro: bisogna pur dire, ch'ei sarebbe meglio
albergato nella locanda della Luna.--

Quasi non bastassero queste zanne alla romana belva ne provvidero, o
piuttosto ne rinnovarono un'altra più terribile di tutte, intendo
parlare della inquisizione, e ciò pei conforti dei Cardinali
Caraffa, che poi fu Paolo IV, e Bürgos Alvarez di Tolcdo. Antica,
lo abbiamo veduto, era la inquisizione, esercitata unicamente dai
monaci, i quali col volgere del tempo ammansivano, ovvero la
sfruttavano a proprio profitto, od anco maneggiando eresie diventavano
eglino stessi eretici.--

I nostri novellieri raccontano casi d'inquisitori, che assai di lieve
componevansi a danari, le cose della fede adoperando giusto per ami da
pescare; quanto a' frati avversi a Roma basti ricordare il Savonarola, il
quale appunto uscì dall'ordine, ch'ebbe la inquisizione un tempo per
retaggio privilegiato: pertanto instituivasi un'inquisizione romana. Come
da Roma un dì leggi, ed eserciti si diramarono per l'universo; come a
Roma tutto le vie del mondo misero capo alla fontana, dove i gladiatori,
superstiti al circo, lavavano le ferite, e il ferro insanguinato, così
ora da Roma non più aquile, ma avvolto avevano a dipartirsi per
inviluppare le menti entro una rete di errore e di terrore. Ignazio
loiolita, ed i suoi si precipitarono a sostenere l'opera di sangue col
bramito di fiera.--Furono eletti sei Cardinali presieduti dal Caraffa e
dallo Alvarez inquisitori universali in materia di fede, con facoltà di
sostituire, e procedere, e giudicare in disparte dal tribunale
ecclesiastico ordinario; senza distinzione tutti sottoposti alla loro
potestà; le pene che potranno infliggere, carcere, morte, e confisca di
beni. Se vuolsi avere esempio moderno della rabbia religiosa di costoro tu
non potresti rinvenirne riscontro, tranne nella rabbia politica dei
montanari della Convenzione di Francia: presto, predicava colla spuma alla
bocca il Caraffa, ferro e fuoco al male prima, che incancherisca; basti a
punire il sospetto; non arresti nascita, nè grado; del pari tremino
principe o plebeo, prelato o paltoniere; se taluno cerca schermo dietro la
protezione dei potenti, guai! di uguale colpo percotansi protettori e
protetti; verso cui subito si confessi in peccato, e si prostri qualche po'
d'indulgenza si potrà adoperare.--Tale Asino dà in parete tal riceve,
dice il proverbio, nè ardere significa persuadere; però da
persecuzione sorse persecuzione; qui porrò l'eresie che reputavano
gl'inquisitori degne di fuoco, avvertendo che non sono tutte, ed anco per
minor fallo bisognava morire: da ardersi chi credeva non le opere proprie
bensì i meriti di Cristo salvassero il cristiano; da ardersi chi credeva
bastevole la confessione avanti Dio, però che nè Papa, nè
Sacerdoti abbiano facoltà di rimettere i peccati; fuoco a cui afferma
Gesù Cristo non presente nell'ostia consacrata; fiamma a chi sostiene il
Purgatorio fandonia e però inutili le preci pei morti; si brucino
coloro, che negano la facoltà nel Papa di concedere indulgenza e
perdoni, e dicono potersi i preti ammogliare legittimamente, dannosi i
conventi, troppe le feste, ridevole il divieto delle carni e di altri cibi
nei giorni prescritti dalla Chiesa: che più? morte e fuoco a chiunque
affermi, sostenga od anco pensi la setta luterana capace a condurre le
anime per la via della salute.--Furono le accademie scientifiche
perseguitate; quella di Modena e l'altra di Napoli chiuse; chi professava
lettere visto in cagnesco, la censura resa insopportabile, lo Indice
ampliato. Monsignore Giovanni Della Casa compilò il catalogo dei libri
proibiti: sommavano a settanta; in breve se ne compilò un secondo più
ampio, finchè in quello del 1529 fra le opere degne di fiamma il Casa
potè leggere annoverate anco le sue: così sottile fu il rovistare,
così ardente il distruggere, che taluni libri scomparirono affatto, come
il _Benefizio di Gesù Cristo_; a Roma incenerirono cataste di libri;
anco Omar praticò a quel modo in Alessandria, entrambi papi, o califfi,
entrambi interessati a mantenere nello errore il fondamento della propria
dominazione.--Chiamaronsi anco parecchi secolari a puntello dello
instituto scelleratissimo: con immunità e con danaro presente e poco,
con isperanze infinito e future si aizzavano; di spie un nugolo:
l'antica semenza dei guelfi e ghibellini rinfocolata; alle vecchie
si arresero nuove e mortalissime ingiurie; i Principi, paura fosse,
o male creduta utilità, porgevano aiuto; esecutori essi medesimi
delle sentenze di sangue, la quale cosa il prete significò con la formula
ipocrita:--_riporre il condannato al braccio secolare_: appena Napoli
ardì impedire la confisca dei beni; Venezia, stata fino allora l'asilo
dei fuorusciti per cause politiche o religiose, colta da vertigine, della
quale si pentirà amaramente e presto, quanti piglia condanna a fiero
supplizio; postili sopra due barche li manda in alto mare fuori delle
lagune, dove li costringe ad assettarsi su di una tavola; ad un segno
queste si scostano, e i miseri traditi sprofondano nelle acque invocando
per l'ultima volta il nome di Gesù; sazievole, nè utile al mio
intento riferire i nomi dei tanti tribolati; basti questo, che non
salvarono nè fama di vita religiosa, nè veste monastica, nè
professione di sacerdozio, nè stato principesco. Renata di Ferrara
provò nemico il Duca suo sposo: divisa dalla Francia, senza che alcuno
la ripigliasse per lei, ella annacquava con sue lacrime il vino. La più
parte dei fuggiti perì senza ricordo del dove e del come; certo cadde
nelle insidie parate a mo' di trabocchetto; non fu udito nè manco il
rantolo della agonia. Antonio dei Pagliaricci, queste, ed altre nefandigie
raccontando, ci afferma come _veruno comecchè, di cuore cristiano poteva
impromettersi di morire nel proprio letto_. Però non tutti rimasero
presi, nè tutti si spensero, anzi scamparono i più gagliardi e
diventarono atleti contro Roma; celeberrimo tra questi Bernardo Occhino,
che di generale dei Cappuccini diventò eretico, esiziale per anni, per
dottrina, per santità di costume, e potenza mirabile di predicazione;
fuggì, traverso mille pericoli, Pietro Martire Vermigli, e dopo lui uno
stuolo dei suoi alunni da Lucca. Celio Secondo Curione col bargello e gli
sbirri in camera, essendo atticciato, e gagliardo si fa largo a sergozzoni,
e ripara tra gli Svizzeri; migrarono da Modena Filippo Valentino e quel
Castelvetro che come scrittore troppo fu sotto allo Annibal Caro, ma come
uomo (e questo è quello che conta) di troppo lo superò.--Questi tutti
andarono ad ingrossare la schiera dei settari di Lutero, di Zuinglio, di
Ecolampadio, di Melantone, e di Muncero. La provvidenza poi, che governa le
vicende umane, come se questi non bastassero a sostenere la lotta ecco
evoca, non so donde io mi abbia a dire, Calvino anima, e volto di scure
affilata; egli di petto ad Ignazio fu lima contro lima: e per me ho fede,
che se i loro spiriti sopravvissero al corpo, di presente non si abbiano a
trovare divisi, bensì incoli di un medesimo luogo, che di certo non
sarà il paradiso.

Queste le armi della tetra instituzione, che ha nome Papato allora, adesso,
e sempre; affetto, ragione, il tempo stesso, il quale ha virtù di
vincere non che i cuori il metallo e il granito, niente possono su i preti
composti a curia Romana: udite come bandisse ieri al mondo Pio VIII:
«egli è mestieri, venerabili fratelli, perseguitare questi perniciosi
sofisti, denunziare le opere loro ai tribunali, bisogna dare i corpi loro
in balìa della inquisizione, e mercè le torture richiamarli ai sensi
della vera fede della sposa di Cristo.» Ed oggi Pio IX con solenne
enciclica, quasi dispettando il secolo, indice guerra alla libertà della
coscienza, e dei culti al suffragio universale, alla libera stampa, alla
inviolabilità della famiglia, a tutto insomma che non sia regresso verso
concetti ormai sommersi nei, gorghi del tempo.--Di qui imparino i settari,
che ci governano, con quanto senno essi argomentino; tristo, è vero, ma
conforme a sè sempre il Papato: non per virtù, non per generosità,
e manco per intelletto l'umano consorzio sarà felicitato con nobili
conquiste, bensì per viltà, per anarchia, per repulsa invincibile o
per minaccia dei nostri nemici; a questo modo andremo debitori della pena
di morte abolita ai fratelli La Gala, di cui fu imposto si rispettasse il
capo scellerato; la libertà civile alle pubbliche e private fortune
manomesse: la indipendenza agli assalti dell'Austria; la libertà
religiosa alla ostinazione del Papa: anco da fetida erba nasce il giglio,
ma i gigli usciti fuori così nè olezzano, nè durano.--

Nè le armi sole, ma assicurato il tempo opportuno il Papa bandisce
il Concilio di Trento; il tempo era destro però, che allora Carlo,
e i due capi della riforma germanica si travagliassero in aspre guerre
fra loro, onde gli facevano mestieri i soccorsi della Chiesa e più
dei soccorsi gli premeva non gli procedesse nemica. Il Papa si
liberava, intimando egli il Concilio, dalla minaccia dello Imperatore
di volerlo aprire egli stesso: chi ha in mano il timone governa.--Da
noi non si attende la storia del Concilio di Trento; ne possediamo
due, quella del Pallavicino, e l'altra del Sarpi, le quali dettate con
opposto intendimento, può chi ha voglia di studiare, ponendole a
confronto, assai bene conoscere gli umori dei tempi e la verità
delle cose.--Chi non può o non vuole attendere a siffatte ricerche
sappia, che il Papa instava si cominciasse a discutere su i dommi,
l'Imperatore all'opposto dalla riforma; la ragione delle contrarie
sentenze questa: la riforma dei costumi confessata necessaria non si
poteva contrastare; i libri santi non offerivano riparo, anzi
condanna; difficile poi presagire dove, riformando, si sarebbe messo
capo; all'opposto spuntandola sul domma la riforma sarebbe andata
soggetta a regole e a freni o non avversi, o secondi agl'interessi
della Chiesa. Tuttavia i prelati romani per non entrare in iscrezio
collo Imperatore composero, che si sarebbe discusso nel medesimo punto
sopra il domma, e sopra la riforma; ma in fatto poi si cominciò sul
domma, e si venne addirittura a mezza spada mettendo in campo la
quistione, se nel solo Evangelo si trovasse compreso tutto quanto
importa alla nostra salute. Non ci è mestieri troppa levatura per
conoscere, che vinta questa sentenza, il cattolicismo aveva finito;
però ogni estremo sforzo si adoperava a rigettarla, e prevalse
l'altra che la tradizione della Chiesa propagata dagli Apostoli sotto
la protezione dello Spirito Santo fino ai tempi presenti deve
accettarsi ed osservarsi quanto e più la santa Scrittura; a questo
modo l'interesse del sacerdote rimase, siccome già era, sostituito
alla dottrina di Cristo. Roma vinse nel Concilio per perdere più
tardi senza rimedio nel mondo. Nè di minore importanza parve
spuntarla intorno alla giustificazione, dacchè se veniva deciso la
medesima effettuarsi unicamente pei meriti di Cristo, e non in
virtù delle opere la Chiesa si trovava a chiudere bottega di
sacramenti; e tanta fu la rabbia dei disputatori, che mancate le
ragioni contesero a pugni, e se ne ricambiarono dei solenni il vescovo
della Cava, e certo monaco greco. Ributtata la definizione assoluta,
con asprezza pari respinsero qualsivoglia ammenda, massime quella
delle due giustizie, che insomma era un'empiastro moderato col quale
si presumeva stabilire, che per salvarsi si chiedessero ad un punto i
meriti di Gesù Cristo e la virtù delle opere: pro le stavano
Scripando, e i Cardinali Polo, e Contarini, contro il Cardinale
Caraffa, e i Gesuiti Salmeron, e Lainez: prevalsero gli ultimi, che
ogni sapienza pongono in questi due termini: _fermi o addietro_.

Quando consideriamo la perpetua contradizione dell'uomo sovente, ci
sorge nella mente il dubbio se davvero egli possieda discorso, e se
per esso proprio si distingua dagli altri animali; di vero il
sacerdozio romano piegò al Concilio mosso dal senso del bisogno
della riforma, e chiuso nel Concilio pesta le mani e i piedi per
rimanere inalterato o concedere solo ammende, che non hanno costrutto;
appunto come le Monarchie ridotte al verde oggi accettano le
Costituzioni per convertirle in arnesi di tirannide due cotanti peggio
di prima.

Il Papa parve, e tuttavia sembra, capo di cotesto moto di offesa o di
difesa del cattolicismo, e certo ogni cosa ebbe approvazione da lui; egli
convoca il Concilio, egli lo dirige; da lui emanarono le Bolle dei nuovi
instituti monastici, sua la Bolla che invia Saverio alle Indie, sua quella,
che fonda l'arcivescovado nel Messico; chi altri se non esso, mediante il
nipote Rinaldo Farnese arcivescovo di Napoli, tribolò il vicerè
Pietro di Toledo a rizzare la Inquisizione in cotesta città, donde le
fiere sommosse per le quali dopo tanta uccisione di uomini e' fu mestieri
deporne la voglia? E pure nonostante queste apparenze non visse per
avventura uomo nella cristianità, che sia co' principeschi consigli, o
sia co' privati costumi, più di lui attraversasse l'esito della
riforma.--Nei primordi del pontificato si stringeva in lega co' Veneziani,
e lo Imperatore _contro i Turchi_; dopo spazio non lungo di tempo fa
alleanza _col Turco_ e il re di Francia contro lo Imperatore: combatte con
armi spirituali e temporali alla scoperta i Luterani e di celato se la
intende con loro.--Così Papa e Imperatore accordatisi a Vormazia per
annientare la lega di Smalkalda, il primo manda, giusta il concerto, armi
in soccorso col cardinale nipote Alessandro; sbigottito poi dalla prospera
fortuna del suo collegato, di punto in bianco richiama il cardinale
Alessandro coll'esercito: mentre la Germania settentrionale trema del
progresso del potere pontificio, il Papa esulta delle battiture che dà
l'elettore Giovanfederigo al duca Maurizio, e aizza segretamente Francesco
I sovvenire i Luterani, finchè tengono le armi in mano; osso duro a
rodere per Carlo essere tuttavia cotesto; col mezzo dell'Oratore francese
lo ammonisce così: «S.S. ha inteso che il duca di Sassonia si
mantiene gagliardo, di che piglia inestimabile contentezza, giudicando, che
il nemico commune in virtù di questi intoppi si troverà inetto al
compimento delle sue imprese, onde pensa, che tornerebbe a grandissimo
benefizio comune sovvenire di sotto mano coloro che gli resistono, e dice
che voi non potreste fare spesa che fosse più utile.» Nè questi
suoi disegni, o piuttosto intrighi, rimasero punto nascosti allo
Imperatore, il quale prevalendolo sempre nelle armi mandava al suo Oratore,
perchè lo partecipasse al Papa: «avere conosciuto, pur troppo, il
pensiero di S.S. essere stato quello di porlo a cimento in impresa zarosa e
poi abbandonarlo, per ciò avere alla sprovvista richiamato le sue
milizie; nè di questo più che tanto importargli però che prive di
soldo, e indisciplinate gli erano piuttosto di danno che di benefizio;
amareggiarlo questo altro, nè volerlo sopportare, che senza suo avviso
avesse trasferito il Concilio a Bologna.» Piegava allora Paolo sotto la
mano di ferro delle Imperatore; ma quietata alquanto la paura, eccolo da
capo alle insidie; però, che non si neghi Gian-Luigi Fiesco aizzato non
meno dal re di Francia, che dal Papa tramasse la congiura contro Andrea
Doria, che andata a vuoto, questi più tardi barattò a Paolo con la
morte del figliuolo Pierluigi. Duro freno a mordere, ma dalle labbra
fermenti del Papa in cotesto acerbissimo caso uscì spuma non parole, e
cauto si mise ad annondare una nuova lega ai danni dell'odiato Imperatore
con Francia, Venezia, Svizzera, e _il Turco_: quantunque avesse scomunicato
gl'Inglesi, pure consigliava Enrico II a pacificarsi con Eduardo VI per non
provarlo d'impedimento alla guerra, che imprenderebbero pel bene della
Cristianità.--

La Chiesa si era ridotta al termine di che parlammo per colpa dello
strazio che ne manarono i Papi in benefizio dei loro figli e nipoti:
per questo diventò necessaria la riforma, che lo stesso Paolo III
prescrisse, e verun Papa mai dava come costui esempio pernicioso dei
medesimi errori.--Creò cardinali suoi figli o nipoti Alessandro, e
Ranuccio Farnese, e Guido Antonio Sforza figliuolo di Costanza Farnese
di dodici, di quattordici, e di quindici anni; e non che ad altri allo
Imperatore, che gliene toccò qualche parola, rispose, contro il suo
costume alterato; e promosse altresì alla porpora Niccolò
Gaetani discendente di Bonifazio VIII e congiunto con la casa Farnese;
fra i trentasei cardinali, ch'egli elesse, occorre anco un Roderigo
Borgia dei duchi di Gandia, onde non istette per lui che un'altra
volta il sangue di Alessandro VI non rese sacro il soglio di San
Pietro.--Usurpò Camerino alla ultima erede dei Varano, allegando le
femmine escluse dalla successione del padre, nè lo rese già alla
Chiesa, bensì lo tenne per darlo a Ottavio suo nipote nel modo
stesso che dal manto della Chiesa aveva sbarrato Castro per investire
il figliuolo Pierluigi, e Nepi per coprire l'altro nipote Orazio. Le
paci e le guerre nelle quali egli spinse la Chiesa miravano sempre ad
avvantaggiare i suoi; la quale cosa sovente gli veniva fatto di
conseguire con destrezza mirabile. Quando prima si pose in mezzo
paciere tra Francesco e Carlo a Nizza pescò a Pierluigi il
Marchesato di Novara da una parte, e dall'altra provvido ad allogare
sposa in casa di Francia la nipote Vittoria col duca di Vandome; a
questo, non avendolo ottenuto subito, e poco dopo essendosi rotta da
capo la guerra tra Francesco e Carlo, egli ebbe con inestimabile
cordoglio a renunziare; ma guasta una tela il ragno ne incomincia
un'altra; quindi Paolo più tardi torna agli amori francesi, e gli
riesce fidanzare il nipote Orazio con la bastarda di Enrico
II.--Ardendo pel desiderio di lasciare alla sua casa un principato che
le fosse scala ad acquisiti maggiori ora delibera investire Pierluigi
del ducato di Parma e Piacenza e lo sgarò nonostante, che messa la
pratica in Concistoro il cardinale Caraffa non intervenisse, anzi nel
medesimo giorno visitasse le sette Chiese come straordinariamente si
costuma tra i Cattolici nelle gravi sciagure, ed ordinariamente il
Venerdì santo; e il cardinale da Trani con onesto sermone tra le
altre cose lo ammonisse «e che diranno di siffatto partito i
Luterani, ora che il Concilio è aperto, vedendo il patrimonio della
Chiesa dai Papi stessi, i quali come fedeli tutori dovrebbero
mantenerlo, e difenderlo, essere dato ad altri?» Al Papa non
piacque cotesto suono, nè lo menò buono il Collegio dei
Cardinali; per la quale cosa se non si rinnegò allora Dio, nè si
manomisero i suoi precetti per lacerare in parte il dominio della
Chiesa e gittarlo in pastura all'uomo forse più nefando, che mai
vivesse al mondo, vorremo noi credere al Papa adesso, che afferma i
comandamenti divini impedirgli di rendere la potestà dei suoi
domini al popolo italiano per comporsi una Patria potente, e felice?

Non contento di Parma e Piacenza, poco dopo il Papa armeggia per procurare
al medesimo suo indegno figliuolo la duchessa di Milano, e sottilmente
arguto insinuava pei suoi negoziatori a Carlo: «a te disdice chiamarti
conte, duca, e principe, Cesare sei; non le molte provincie, ma i grandi
vassalli hanno da formare la tua forza: dacchè mettesti le mani sul
Milanese non godesti un'ora di bene; che tu lo renda al Re Francesco non si
consiglia, però che questi dopo il primo pasto avrebbe più fame che
pria delle terre italiche; ma nè anco lo devi serbare per te,
considerando come cotesto acquisto ti abbia fruttato nemici molti e
poderosi, i quali ti stimano insaziabile dei domini altrui: se vuoi, che il
mal sospetto cessi, fa una cosa, dà il Milanese a qualche duca; così
Francesco I non troverà più partigiani, tu all'opposto ti amicherai
per la vita Lamagna e Italia, e perciò franco da ogni impaccio potrai
portare le tue bandiere nelle più remote regioni, e rendere il tuo nome
immortale.» Ma lo Imperatore considerando come quello, che è buono a
pigliarsi si prova ottimo a tenersi faceva orecchia di mercante; e poi
quando avesse tentennato le persuasioni di Ferrante Gonzaga e di Andrea
Doria, avversissimi ai Farnesi lo avrebbono dissuaso di piegare alle voglie
del Papa.--Quando trucidato Pierluigi Farnese, Ferrante Gonzaga occupò
Piacenza per lo Imperatore il Papa per via di negoziati pose in opera ogni
sua arguzia per ricuperarla; al solito metteva innanzi la donazione di
Costantino, e subito dopo quella di Carlomagno; ma visto, che coteste
donazioni non facevano breccia allegò la cessione di Massimiliano I
Imperatore a Giulio II e la conferma fattane da lui stesso Carlo nell'anno
1521: lo Imperatore nonstante siffatte dimostrazioni perfidiava con lunga
scrittura a volere serbarsi Piacenza, ed anzi avrebbe preso anco Parma
assegnando per compenso ad Ottavio 40,000 scudi di entrata nel regno di
Napoli, somma a cui non erano mai giunte le riprese di Parma e di Piacenza;
la quale profferta rincrescendo al Papa per torsi le molestie dattorno
propose allo Imperatore lo scambio di cotesto ducato con Siena; ma Siena
già era segno di cupidigia di Cosimo I; il quale stava su l'avvisato,
avendo scritto fino dal 1537: «al Papa non è rimasta altra voglia in
questo mondo, se non disporre di questo stato e levarlo dalla devozione
dello Imperatore, ma gli sarà mestiero portarsela seco lui dentro il
sepolcro.» All'ultimo considerando, che il ducato di Parma e Piacenza
mentre lo aveva tolto alla Chiesa poco restava sicuro in mano ai suoi
deliberò restituirglielo cassando il baratto antico di Camerino e Nepi:
così da capo il ducato Parma e Piacenza difeso dal pontificale ammanto
gli sembrava potersi più agevolmente conservare; e non temeva
opposizione dal lato dei nipoti come quelli, che egli aveva sperimentato
sempre ossequentissimi a propri voleri, non avesse fatto cosa che in
massima utilità loro non ridondasse; ora poi bisogna vedere che
avverrebbe pungendoli nello interesse; di vero Ottavio si rovesciò, e
non si astenne da adoperarsi di avere a certo pranzo in casa Sanvitali
Cammillo Orsino governatore di Parma pel Papa per quivi ammazzarlo, o
imprigionarlo, e poi correre la terra; e poichè Cammillo non cadde sul
vergone neppure aborrì ricorrere a Ferrante Gonzaga precipuo operatore
della paterna strage per ottenere con la forza, quello, che con la fraude
non aveva potuto conseguire; Ferrante poi (qualunque fosse l'animo suo, che
per me giudico tristo) non si mostrava alieno da porgere aiuto ad Ottavio a
patto, che ei tenesse Parma a nome dello Imperatore. Il Pallavicino nella
Storia del Concilio di Trento afferma avere Ottavio rigettato la proposta;
al contrario il Gossellini nella Vita del Gonzaga dichiara, che fu spedito
un corriere allo Imperatore per la ratifica dello accordo; checchè di
ciò sia Ottavio scrisse lettere a Paolo III significandogli, che dove si
ostinasse a negargli Parma per amore, e' se la sarebbe presa per forza co'
sussidi del Gonzaga; giunse questa nuova oltre ogni credere amara al
Pontifice, il quale querelandosi diceva la viltà del nipote, che per
cupidigia d'imperio acconsentiva stringere la mano intrisa del sangue
paterno avergli trafitto il cuore assai più della strage di Pierluigi;
ma non gli credevano, nè a torto, imperocchè anch'egli, nonostante
cotesto omicidio, o non aveva negoziato con Cesare per barattare Parma e
Piacenza con lo stato di Siena? Avanzava una speranza al Pontefice, ed era,
che il Cardinale Alessandro non avesse intinto in coteste tresca; ma
chiamatolo a sè, conobbe il contrario; allora ruppe in escandescenze, e
in mezzo ad una procella di rampogne strappò di mano al Cardinale la
berretta sbatacchiandola a terra; all'ultimo tramorti; rinvenuto dopo
parecchie ore si giudicò morto, per la quale cosa convocati i Cardinali
commise loro pigliassero tosto i provvedimenti che al bene della Chiesa
reputassero più acconci; però al tempo stesso o che la cupidigia
d'ingrandire la propria famiglia ripigliasse in lui il sopravvento, o per
la contradizione inseparabile dalla nostra natura sul punto di chiudere gli
occhi sottoscrisse un Breve per Cammillo Orsino e glielo mandò pel suo
segretario Antonio Elio vescovo di Polo con ordine espresso di restituire
Parma ad Ottavio; se nonchè Cammillo da prima sospettandolo falso, non
lo volle obbedire, e poi chiarito dell'autenticità sua, ma al punto
stesso della morte del Papa, s'intorò nel rifiuto allegando, che la
volontà di uomo sano di corpo e di mente non si aveva a posporre a
quella di uomo moribondo per avventura privo di discorso di ragione.

I costumi di questo Papa perversi; da parecchie femmine ebbe figli non
pochi: sua madre per temperarne la licenza lo fe' chiudere in castello
S. Angelo, donde il futuro vaso dello Spirito Santo si calò per
mezzo di una corda; altri poi affermano patisse la prigione a cagione
di Brevi falsati: cardinale lo creò Alessandro VI e affermano in
salario di libidine dal vecchio Papa sfogata nella sua sorella Clara e
sarà; altre cose aggiungono, ma le lascio addietro, perchè molto
gravi elle sono ed a me paiono provate poco; assunto al ponteficato
condusse onesta vita; egli è ben vero che allora contava sessanta
anni sonati; ma ciò non fa caso; anco Alessandro VI giunse a
cotesta età e tuttavia nelle senili membra riardeva più tetra la
libidine: ma se quanto alla sua persona lasciò poco a riprendere, a
veruno dei Papi prima o dopo di lui fu secondo nel patire le infamie
della propria famiglia. Margherita tenne sempre in dispregio il marito
Ottavio, e se ne aperse col padre Carlo, che le detto facilmente
ragione; di nefanda celebrità vanno famose le turpitudini de
Pierluigi Farnese: io le ho discorse nella vita di Andrea Doria, nè
quì le ripeterò: tanto basti, che quando i Luterani seppero il
mostruoso strazio di Cosimo Gheri vescovo di Fano esclamarono:
«verun tiranno al mondo avere immaginato modo più truce di
martirizzare i santi.» Paolo fu uomo di molta dottrina; lo educò
nelle lettere Pompilio Leto, nelle matematiche Alberto Pigho;
dimorando nelle case di Lorenzo il magnifico apprese eleganza e vizi;
facondo nel dire, e abbondevole, ma avviluppatore così che mal
sapeva sviticchiarsi dalle sue medesime reti: magnifico nei palagi,
nelle vesti, e nelle suppellettili, e tuttavia laido, onde essendogli
un giorno state donate sessanta catinelle, e sessanta boccali di
argento ne cavarono fuori certo epigramma, che concludeva: «or come
con tanti bacini, e mesciroba conservi, o S. Padre, così sudice le
mani?» Vezzo comune a cotesti tempi la fede nell'astrologia, ma a
lui Papa disdisse mostrarsi nella pratica di errore siffatto piuttosto
eccessivo che zelatore: nè piccolo nè grande negozio s'iniziava
da lui se prima non andava certo della influenza degli astri;
protrasse a lungo la conclusione della lega con la Francia perchè
non rinveniva conformità di nascita tra quella del re Francesco e
la sua: non so, se sul declinare della vita si guarisse da cotesta
infermità, certo egli ebbe a patire di fieri disinganni;
imperciocchè il medesimo giorno, forse la medesima ora nella quale
sè predicava beatissimo, ed in felicità si metteva allato di
Tiberio (in che potesse estimarsi avventuroso Tiberio io non saprei
dire) i patrizi Piacentini dopo avere messo il figliuol suo alle
coltella lo spenzolavano, miserando cadavere, fuori delle finestre
della cittadella di Piacenza.

Gli archivi di stato di Firenze contengono minuta la storia dei
viluppi adoperati nei Conclavi, dacchè d'ora in poi si può dire,
che i Medici fabbricassero i Papi. Da prima i voti si portano sul
Cardinale Salviati a cui per nocere meglio finse porgere aiuto Cosimo
I; poichè ebbe logorato il Salviati al Cardinale Ridolfi il
Conclave si volse al Cardinale Polo, e riusciva se non gli apponeva il
Cardinale Caraffa dubbio di fede non sana; allora si trastullarono col
Burgos per trovare l'uomo sul quale accordarsi. «O perchè non
fate me Papa? Disse celiando il Cardinale dal Monte. Io vi prometto,
appena assunto Papa, creare Cardinale il garzone, che custodisce la
mia scimmia e darvelo per collega.»

Piacque la giocondità del Cardinale, e ci pensarono su; Cosimo lo
ebbe caro perchè suo suddito come quello che aveva sortito il
nascimento a Monte Sansavino; non garbava agli Spagnuoli temendolo
parziale ai Francesi, ma anco qui pose sesto Cosimo, il quale condusse
i Farnesi guadagnati col patto di favori ampissimi, e della
restituzione di Parma al duca Ottavio, e non se ne poteva fare a meno,
imperciocchè i Cardinali Farnesi disponessero di ben ventitrè
voti: accomodate a questo modo le cose scese lo Spirito santo ed
uscì eletto il Cardinale dal Monte, che tolse nome di Giulio III,
in memoria di Giulio II che lo aveva creato camarlingo.

Giammaria Giocchi, che tale si chiamava veramente Giulio III, mantenne
Papa le promesse del Cardinale: innanzi tratto risegnò il suo
cappello cardinalizio di santo Onofrio al ragazzo amato da lui e
glielo mandò fino a Bagnaia di Viterbo. Invano i Cardinali si
opposero alla strana elezione, e sopra gli altri il Caraffa che
commosso da tanta indegnità (ed egli a suo tempo fece peggio) si
astenne da intervenire in concistoro: a quanti esponeva ignota la
nascita del garzone, troppo fresco di età, annoverando diciassette
anni appena, veruna fama correre dei suoi meriti, piuttosto bocinarsi
di sue capestrerie e non poche, il Papa piacevolmente rispondeva:
«O voi quando mi avete eletto Papa quale merito avete trovato in
me? Io davvero non lo so, pensate se voi!» Dissero, che il giovane
nacque a Piacenza da gente povera, che lo abbandonava su la strada,
ond'ei menò primi anni da zingano più che altro; il Cardinale
dal Monte passando per certa via a Parma vide il garzone alle prese
con una scimmia: pigliando piacere alla singolare giostra stette a
mirarne l'esito, che fu la disfatta della scimmia senza troppo danno
del ragazzo; allora se lo condusse in casa, e siccome il Cardinale
assai si dilettava tenersi attorno strani o rari animali ei ne commise
il governo ad Innocenzo. Aggiungono, che il ragazzo di giorno in
giorno viepiù gli entrò in grazia, non senza taccia di turpe
amore; per la quale cosa persuase il suo fratello Baldovino ad
adottarselo per figliuolo, gli diè maestri di lettere, lo provvide
del prevostato della Chiesa di Piacenza, se lo condusse a Trento, dove
infermatosi per consiglio dei medici lo mandò a Verona a pigliare
aria; e quando risanato annunziò al Cardinale il suo ritorno a
Trento, questi sotto colore di recarsi a diporto fuori della città
condusse seco ad incontrarlo una caterva di prelati quasi a testimonio
delle stemperate carezze con le quali lo accolse. Il Papa poi a
giustificare cotesta sua insania afferma amare il giovane perchè
gli avessero presagito gli astrologhi, che alla buona ventura di lui
andava legata la sua.--Migliori ricerche oggi ci certificano, che il
Cardinale Giammaria impregnasse la moglie di un bombardiere della
rocca di Forlì, che a suo tempo partoriva questo fanciullo, il quale
dal padre vero derelitto, dal putativo dispettato fuggì di casa
furfantando, e accattando per diverse ville finchè il caso non lo
fece cascare nelle scuderie del padre Cardinale allora legato a
Bologna, dove dopo diversi casi riconosciutolo gli pose soverchio
affetto come troppo poco gliene aveva portato prima, a sè ed a lui
nocendo con gli eccessi insensati. Certo questa notizia non lava la
memoria di Giulio III, pure lo salva da maggiore infamia; e per un
Papa ordinariamente la minore vergogna pare quasi lode. Di questo
Cardinale chiamato, per ispreto, scimmia, avremo a ragionare più
tardi.--

Tutti gli altri empì di prebende e di benefizi; nel dare quattrini
poi questo Papa parve rovesciasse la cassetta, e ne scotesse il fondo;
ma il guaio che mise da capo a soqquadro la cristianità fu la
promessa di rendere Parma ai Farnesi; e questo attenne, anzi Cammillo
Orsino nicchiando a consegnarla sotto colore, che ci aveva speso
ventimila scudi di suo per difenderla, il Papa glieli mandò
liberandosi dalla avara fedeltà di cotesto soldato, nè si
fermò qui, chè si obbligò eziandio pagare ad Ottavio Farnese
duemila ducati il mese perchè la difendesse. Ottavio poi non solo
intendeva difendere Parma, ma sì anco ripigliare Piacenza, mentre
Ferrante Gonzaga tornato ai suoi primi odi contro i Farnesi
gl'insidiava il Parmigiano, e il Papa ormai di danari si trovava al
verde. Ottavio andato a Roma per soccorso senti rispondersi che non
solo doveva deporre la speranza di aiuti, ma renunziare alla pensione
dei due mila scudi mensili; allora egli più volte chiese, e più
volte il Papa gli concesse di legarsi con qual Principe più gli
paresse spediente a sostenerlo incolume dagli assalti di Spagna. In
quei tempi in fatti di leghe non vi era luogo a scelta, o con la
Francia, o con l'Austria, dacché gli altri potentati o con questa o
con quell'altra si azzoccassero: di fatti Ottavio si accosta a Enrico
II, che lo accoglie a braccia quadre, e pone sopra lui il fondamento
della prossima guerra; pigliò ai suoi stipendi il presidio di
Parma, e i soldati francesi tornarono a rovesciarsi nel bel mezzo
d'Italia. Il Papa accortosi di quel nuovo groppo di guerra o sia, che
non desse intenzionalmente alle sue parole la estensione, che pure
esse presero o non reputasse Ottavio capace di valersi della
facoltà concedutagli, fatto sta, che saltò su i mazzi, e
procedendo tutto pieno di stizza tacciava Ottavio di _verme
prosuntuoso_: ed aggiuageva «nostra volontà è confidarci
insieme con lo Imperatore ad una medesima nave: allo Imperatore
spettano intelletto e potenza;--s'intimi Ottavio recarsi a Roma e
subito; depona le armi costui; sè commetta intero alla balìa del
socero augusto; se tentenna, guai! lo bandirà ribelle, lo
assalirà con le armi spirituali e temporali.» Ottavio rispondeva
gli torrebbero prima la pelle, che Parma, e il Papa aizzato dallo
Imperatore, e dal nipote Giovambattista dal Monte giovane, che di
sè sentendo altamente desiderava acquistarsi buon nome nella
milizia rompe la guerra a Ottavio radunando impetuoso armi, e cavalli:
cavatosi a un tratto dalla consueta indolenza egli agita adesso cielo
e terra per opprimere il Farnese; spedisce tra gli Svizzeri perchè
neghino soldati al re Enrico, poi scrive in Francia per dissuadere
Enrico stesso da sovvenire il duca Ottavio profferendogli mari e monti
se si fosse inchinato a compiacerlo; trovato il terreno duro il Papa
monta in furore e grida che se il re non gli lascia stare Parma a lui
basterà l'animo di levargli la Francia. I Consiglieri del
Cristianissimo non si spaurivano del Papa a cotesti tempi, epperò
in brevi accenti gli notificarono, quanto a Parma non voler sentirne
parola, quanto al restante intimerebbero un Concilio nazionale in
Francia, e lo intimarono, il Papa spaventato prega cessi il re ogni
disegno di Concilio; rispetto a Parma, ogni litigio fra loro rimanga
cireoscritto là dentro. Ma la contesa si dilatò oltre ogni
giudizio umano e valse a mutare le condizioni della Germania, ed anco
quelle d'Italia, ma in peggio. La guerra di Parma andò a
precipizio, il Papa ci perse l'esercito, ci spese l'ultimo suo soldo,
e per colmo di dolore gli ammazzarono il pro' nepote Giovambattista
mentre con la consueta prodezza combatteva fuori della Mirandola; i
Francesi legati co' protestanti di Germania compaiono sul Reno,
l'elettore Maurizio di Sassonia nel Tirolo, Carlo postosi a cavaliere
su i monti per contenere amedue è costretto a fuggire da Inspruch
per non cascare in mano del nemico.

Quando le faccende riescono per la peggio i soci litigano fra loro, ed è
fatto antico, però tra il Papa, e lo Imperatore ricambiavansi i
rimproveri, il primo perchè non gli pareva essere stato secondo le
speranze o le promesse soccorso, il secondo perchè avendo assunto
cotesta impresa pei conforti del Papa, questi avrebbe dovuto buttarcisi
dentro a corpo perduto; ma lo screzio era comparso maggiore in materia di
religione però, che Giulio avesse promesso riaprire il Concilio, ed anco
questo era stato da lui attenuto; tuttavia in breve si accorse come i
vescovi spagnuoli mirassero a scemargli l'autorità più rigidamente,
che i deputati tedeschi, imperciocchè da un lato essi presumessero
rendersi schiavi i capitoli, e dall'altro torre al Papa la collazione dei
benefizi, dal che questi com'è naturale aborriva; onde scrivendo al
Cardinale Crescenzio esclamava: «non sarà vero, non comporteremo mai,
prima lasseremo ruinare il mondo.» Mosso dalle quali considerazioni
prese a favorire i protestanti anzi tirarseli a sè con doni, e con
pecunia; l'autorità di Cesare per le battiture della fortuna scemando
crebbe la baldanza nei germanici; di qui risse, ed oltraggi ai prelati
massime spagnuoli, che male sopportando il presente, troppo più temevano
pel futuro; onde non parve vero a tutti tornarsene a casa; molto più,
che il Concilio non si scioglieva, bensì si prorogava: termini medi
dentro i quali si adagiano beatamente le anime codarde.

A Giulio non parve vero uscire dal pelago per immergersi nella
naturale indolenza; si chiuse nei diletti della vita, non però
volgari, chè temperato ei fu, e cultore dei buoni studi, e delle
belle arti; attese a fare stato ai suoi: la duchea di Camerino rapita
alla Varana concesse a Baldovino, non in signoria assoluta, ma in
feudo; modo che in fine di conto torna ad alienazione sovversiva
(secondo le moderne dottrine della curia romana) la Chiesa di Cristo.

Marcello Cervini, che sotto nome di Marcello II subentra a Giulio
nella cattedra di San Pietro passa come ombra; lo celebrano buono;
forse ei non deve questa reputazione se non al tempo breve, che
soggiornò sopra la terra.

Già toccammo di Giovampietro Caraffa, uomo torbido, sempre in contrasto
seco stesso o con altrui; renunziò vescovato ed arcivescovato per
fondare l'ordine dei Teatini, ma si lasciò eleggere cardinale; contava
ben settantanove anni quando lo promossero Papa; parte dei costumi di lui,
anzi anco dei detti gli scrittori attribuiscono a Sisto V, però che
fosse egli il quale gittata di un tratto la lunga ipocrisia appena vestito
il gran manto, interrogato quale desiderava avesse ad essere il suo
trattamento e la mensa, rispose: _da principe grande_; indole impastata di
odio senza pure un pugillo di amore; si vantava non avere mai compiaciuto
persona di cosa che gli fosse richiesta; bastava, che taluno lo supplicasse
di qualche favore perchè subito sorgesse in lui la repugnanza
invincibile di concedergliela. Nello intento di sostenere le forze rifinite
cibava vivande di molta sostanza e beveva vini gagliardi, massime una
maniera di vino grosso napolitano chiamato, _mangiaguerra_, capace da
rompere le pietre[1], pareva, argomentando sulla passata vita, si sarebbe
consacrato tutto alla religione, e invece s'intricò in guerre
pericolose; ancora, presagivano la fede avrebbe conseguito per lui notabile
avanzamento, ed all'opposto le nocque quanto il più tristo o il più
inetto dei Papi. Nei primordi del pontificato giurò alcuni patti, che
spergiurò, e a cui gliene mosse lamento fece una bravata da mettere
addosso il ribrezzo della febbre quartana; spedì monaci di Montecassino
in Ispagna a curare la disciplina dei conventi; ad ogni patto esaltò
alla porpora il nipote Carlo Caraffa soldato; in costui non una virtù,
bensì un vizio il quale nella estimativa del Papa non solo teneva luogo
di tutte le virtù ma le superava, ed era l'odio rabbioso contro Carlo V
e la sua potenza per cause o lievi o poco onorevoli; le quali furono
avergli tolto un prigione senza riscatto, ed impedito il possesso di una
prioria di Malta. Egli aveva tuffato le braccia fino al gomito nel sangue
umano, e non lo ignorava il Papa, ma avendone fatta la confessione e la
penitenza secondo la estimativa pontificia ridivenuto candido come colomba:
se questo poi credesse o no Paolo nella intima coscienza ignoro, ma certo
agevolmente aggiustiamo fede a quanto a noi piace, che sia. Poco dopo con
manifesta tragressione ai patti giurati. Paolo bandiva Cardinale Alfonso
figlio del Conte di Montebello garzone di solo diciasette anni.

  [1]  Vuol essere servito molto delicatamente, e nel principio del suo
    pontificato non bastavano _venticinque_ piatti; beve molto più,
    che non mangia: il vino è possente, gagliardo, nero e tanto
    spesso, che si potria tagliare col coltello, e dimandasi
    _mangiaguerra. Relazione di Bernardo Navagero_.

La storia ricorda avere questo vecchio concepito profondissimo odio
contro gli Spagnuoli, il quale era come ereditario nella famiglia di
lui, che nei ricordi del regno di Napoli vediamo sempre disposta a
seguire le parti di Francia, e a pigliare le armi contro gli
Spagnuoli; essendo egli cardinale consigliò Paolo III a
impadronirsi di Napoli: non rifiniva mai di levare a cielo la Italia,
quando principi nati o naturati in lei la governavano, paragonandola
ad una cetra di quattro corde mirabilmente armoniate fra loro Napoli,
Milano, Venezia e Chiesa; nè di maledire le perdute anime di
Alfonso di Arragona, e di Ludovico il Moro, che ci avevano chiamato
gli stranieri per sostenere le scambievoli querele. Seduto a mensa
quando gli lavorava dentro il vino _mangiaguerra_ buttava fuoco e
fiamme vituperando gli Spagnuoli di _dannati, razza di mori e di
giudei, feccia del mondo_; e via di seguito; sè millantava
destinato a sbrattare la Italia da cotesta pestifera genia.

Cause all'odio suo molte; talune private, ma potentissime tutte;
private erano, averlo lo Imperatore escluso dal consiglio di
amministrazione del regno di Napoli, molestarlo nel possesso dei suoi
benefici, vituperarlo con parole, scapestrate in tutti, ma nello
Imperatore indegnissime cause pubbliche, la persuasione che Carlo
talora avesse favorito la causa degli eretici, e i tentativi di lui
per farsi dichiarare da Paolo III suo successore nel papato; i quali
intenti comecchè paiano adesso strani non furono nuovi, chè anco
Massimiliano suo avo ci si provò, e quando Carlo li ripropose non
se li vide mica scartare come enormità, leggendosi nei dispacci del
Mendoza come essendosi aperto in proposito col Cardinale Gambara,
questi lo accettò averne scritto al Papa, che rispondendo disse
_non trovarci niente di male_; e senz altro lo uccellò: per ultimo,
la conoscenza forse, che Paolo ebbe come Carlo non riuscendo nello
intento di farsi eleggere Papa disegnava torgli il potere temporale, e
di ciò porge testimonianza il suo testamento pubblicato in Ispagna
ai giorni nostri dove occorrono questi notabili precetti al suo
figliuolo Filippo.

«Art. 5.» «Dopo avere ridotto tutti i principi in condizione
di semplici governatori bisognerà torre al Papa ogni dominio
temporale, oltre la città di Roma... si avranno poi a chiamare
persone dotte, affinchè per via di concioni e di scritture
insegnino ai popoli essere improntitudini pontificie le scomuniche ai
principi per negozi puramente temporali, nè Cristo avere trasmesso
mai siffatte facoltà alla Chiesa.»

«Art. 6.» «Spogliato il Papa di ogni suo possesso, fie mestieri
professargli reverenza profondissima per quanto concerna la sua autorità
spirituale e tenerlo a Roma, come già fu in Avignone, subietto ai
principi regnanti.» Ed altra volta avvertimmo come Carlo, tenendo
prigioniero Clemente VII, pure ordinava in tutte le cattedrali dei suoi
vasti stati si esponesse il Sacramento per la liberazione di lui; leggesi
altresì, che dopo morte, stessero a un pelo per processarlo come
eretico, e s'egli ne uscì illeso si riversarono le ire sacerdotali sopra
il suo teologo e predicatore arcivescovo di Toledo Carranza. Però non si
creda mica che Carlo non fosse devoto, anzi bigotto, ma l'autorità
papale egli voleva sottoposta a sè in sostegno della sua tirannide,
mentre il Papa disegnava usarla per mettersi sopra di lui; le inimicizie
loro gara di dispotismo. Il Papa si lega con la Francia contro la Spagna,
dove Carlo continua a vivere non da Imperatore, ma da frate; indi a breve
la Francia voltabile fa tregua con la Spagna; il Papa indracato di guerra
manda a Parigi il Cardinale Caraffa per rompere la tregua; ma i Francesi
stando sul niego, per isgararla, prima da Napoli poi sbracia Milano; di
Napoli consente si componga un regno per un figlio del re Enrico II, di
Milano per un'altro: la nostra Caterina dei Medici era stata tanto feconda,
che bisognava pure pensare di ammannire una pastura di popoli ai regali
appetiti; ancora, vediamo, che cosa intendono i Papi per restituire
libertà alla Italia; trarre dall'asse chiodo con chiodo, agli Spagnuoli
sosituire Francesi; lo sfogo delle vendette sacerdotali appellano cura, e
utilità della Patria. In questa guerra, Paolo IV, modello quasi perfetto
del romano pontefice, strinse alleanza con Soliman; così per vendicarsi
di Carlo reo di avere favorito i Luterani, e non era vero, egli si acconta
co' Turchi; e fa anco peggio, perchè conosciuto come l'oratore di
Filippo Garcilasso della Vega di tutti questi tramestii ragguagliasse il
suo signore, e non faceva altro che adempire il proprio dovere, lo caccia
in prigione, in prigione altresì il Taxis, direttore delle poste
spagnuole per avere spedito i dispacci, e per di più lo tortura;
l'oratore imperiale Saria, il quale commosso da tante enormezze si affretta
a moverne lamento col Papa, dopo averlo fatto aspettare per più di
un'ora alla porta, appena è intromesso. Parmi utile che gl'Italiani
conoscano (essendo cose ormai poco note o affatto dimenticate) come Filippo
II, uomo piuttosto furibondo di religione cattolica, che cattolico, riunito
un congresso di teologici di Salamanca, di Alcalà, e di Vagliadolid, non
che dei più illustri giurisperiti spagnuoli, innanzi di rompere la
guerra al Papa, volle lo chiarissero intorno ai seguenti quesiti i quali di
unanime accordo furono risoluti in pro della prerogativa regia: «in caso
di guerra difensiva contro il Papa possono sequestrarsi le rendite dei beni
di coloro che spagnuoli o no li posseggono in Ispagna, quante volte
rifiutino obbedienza al sovrano del pari, e nel medesimo caso possono
sequestrarsi le entrate dei benefizi ecclesiastici, e vietare ogni
spedizione di pecunia a Roma: o che sarebbe peccato convocare un Concilio
per esaminare un po' se Papa Paolo sia stato canonicamente eletto? E non
importerebbe alla incolumità della Chiesa instituire una inchiesta sopra
gli enormi abusi della curia romana, ed avvertire alquanto, senza lasciarsi
scarrucolare dai preti, di metterci sesto davvero?

Per altra parte il duca di Alba vicerè di Napoli (e imparino i
ministri del nostro regno italiano come, ora fanno tre secoli, uomini
salutati campioni del cattolicismo costumassero con Roma) inviava al
Papa lettere ortatorie perchè smettesse ogni disegno di guerra, e
il Papa rispondeva cacciando il messo in prigione, e taluni aggiungono
mettendolo al tormento; al tempo stesso avendo ammannito armi ed
esercito il vicerè faceva alle pontificie capestrerie tenere dietro
il castigo: occupa le terre della Chiese, e da per tutto appicca i
cedoloni con le armi del sacro collegio, annunziatori, renderebbe le
terre al nuovo Papa eletto legittimamente, industriandosi di porre in
iscrezio Papa e Cardinali. Cadde Anagni dopo piccola resistenza, e
andò a sacco; la subita resa preservò Tivoli; a Roma desolazione
e paura; solo il Papa imperturbato; allora gli gettarono a palate lodi
di costanza; a noi adesso sembra, qual'era, vecchio stupidamente
incaponito: all'oratore Veneziano, che gli metteva parole di pace
rispose: uscissero gli Spagnuoli di su quello della Chiesa; poi
avviserebbe; certi gentiluomini francesi presi in sospetto di
negoziare tregua col duca di Alba minacciò del capo, e alla
minaccia aggiunse il sacramento di Dio e dei suoi santi; ma siccome
co' giuramenti, e con le minacce non si sostengono guerre, così
Paolo si sbracciò ad abborracciare un'esercito non badando, per
formarlo, più allo storto, che al diritto, e però come prima si
era amicato col Turco, adesso pigliava al soldo della Chiesa Tedeschi
luterani; perseguitava di odio immortale (egli almeno afferma così)
Carlo V perchè non procedeva modo suo feroce con gli eretici, ed
egli se li pigliava a difensori; se lo Imperatore, o il Re gli
avessero pur tocco un po' di calugine s'inalberava sbuffando, gli
eretici condotti dal Papa sberteggiavano lui, la fede, e i riti
cattolici, ed egli, purchè la sua sterminata superbia rimanesse
soddisfatta, sopportava in pace.[1] Ponete mente, che di qui scappa
fuori una grande lezione; questo Papa, reputato atleta della fede
cattolica, guerreggia popoli cattolici con armi luterane e turchesche.
Ma ogni difesa cedendo alla fortuna spagnuola, espugnata Ostia,
sconfitto lo esercito, invano facendosi dal Cardinale Caraffa prove di
egregio valore, il Papa ebbe a piegare la cervice arrogante, e
chiedere tregua. Egli vi si condusse nella speranza d prossima
vendetta ragguagliato com'era dei Francesi accorrenti alla riscossa;
non la dissentì il Duca di Alba perchè prudentissimo, e
perchè anch'egli avesse rilevato di fiere battiture, massime allo
assalto di Ostia, onde rimase conchiusa per 40 giorni: questa nuova
giunse a Carlo mentre s'incamminava al romitorio di San Giusto, e
gl'increbbe così, che con parole acerbe censurò la tregua come
quella che concedeva tempo ai Francesi di soccorrere Roma; questo
piissimo Imperatore mentre stava per entrare in convento moriva di
voglia di mandare a sacco una seconda volta la sede della Chiesa
cattolica; anzi ci si trovò presente a coteste sue querele arroge,
com'egli borbottasse fra i denti altre parole irate, che non si
poterono capire.

  [1]  «Quel pontefice per ciascuna di queste cose fosse cascata in
    un processo avrebbe condannato ognuno alla morte ed al fuoco le
    tollerava in questi come i suoi difensori.» _Relazione di
    Bernardo Navagero_.

I Francesi arrivarono di corsa condotti dal duca di Guisa, le terre
della Chiesa occupate dagli Spagnuoli furono riprese in un batter di
occhio; il Papa non capiva in sè dalla contentezza, di benedizioni
e di promesse dispensò un diluvio, ma quando il Guisa fu sul punto
di entrare su quel di Napoli il duca di Montebello nipote del Papa gli
condusse pochi fanti di aiuto: presero Campli e col vessillo della
Chiesa ci furono commessi fati, che i Turchi non avrieno potuto
peggiori; famoso va per le storie l'assedio di Civitella dove si
ruppero le forze francesi e del Papa davanti la resistenza disperata
dei cittadini, massime delle donne. Certa cosa ella è che se i soli
soldati avessero condotto le difese, i Francesi vincevano: ma a
sbaldanzire la burbanzosa prosunzione dei soldati gesti antichi di
popolo non bastano, nè anco i moderni; le forze del popolo sempre
durante il pericolo s'implorano, passato il pericolo si dispettano
sempre. Questa lega incominciata con le benedizioni finì con lo
scaraventare, che fece il Guisa un piatto nel capo al duca di
Montebello; sopraggiunsero acquazzoni a guastare le opere francesi,
sicchè il Guisa stizzito ebbe a dire: «anco Dio è diventato
Spagnuolo!» Il duca di Alba campeggiando ributtò il nemico fuori
del regno; non mancarono in cotesti tempi censori, i quali lo
ripresero per non avere assalito i Francesi nella ritirata,
principalmente al passo del Tronto, ma egli rispondeva: le fortune
della guerra mutabili; suo intento sbrattare il regno dai Francesi, e
questo avere conseguito; non doversi mai cercare miglior pane, che di
grano, nè egli volere giocarsi Napoli con la casacca di broccato
del duca di Guisa. Però non istette guari che gli assalitori
diventarono assaliti: Segni pagò per Campli; francesi o spagnuoli
espugnando bene saccheggiavano, stupravano, uccidevano, gli uccisi, e
i rubati italiani. Il duca di Alba all'improvviso di Fabio si tramuta
in Marcello, e con audacissima mossa si avventura a sorprendere notte
tempo Roma; nè gli andava fallito il disegno se considerando uno
irrequieto agitarsi di torce, e certi cavalli proprompere fuori delle
porte non avesse temuto, che Romani avvertiti del pericolo mandassero
pei soccorsi al Guisa accampato a Tivoli; per la quale cosa il duca di
Alba non volendo essere tolto in mezzo a due fuochi rifece i passi.
Gli storici affermano che il duca di Alba non si apponesse al vero,
imperciocchè il Caraffa perlustrasse la città non per avviso
speciale, ma sì per abito di militare diligenza; e i cavalleggieri
fossero usciti con tutt'altra intenzione, che quella di chiamare i
Francesi. L'oratore di Venezia Bernardo Navagero afferma intendimento
del duca di Alba essere stato sol quello d'impadronirsi della persona
del Papa e così troncare di un colpo la guerra tuttavia bene nota
il Prescott nella vita di Filippo II è difficile credere, ch'egli
avesse potuto, entrato ch'ei fosse, contenere quella, che il nostro
Niccolini definisce:

    _«Avara crudeltà di Catalogna.»_

E volente, o no si sarieno rinnovati i recenti orrori del contestabile
di Borbone, ed i più antichi dei Goti; e a questo modo la pensa
anco il Campana, il quale dichiara quanto allo assalto notturno degli
Spagnuoli il cardinale Caraffa averne avuto odore dal segretario
Placidi, e quanto al sacco essere cosa ormai stabilita fra i Tedeschi
che si trovavano col duca di Ala. I Romani commossi dal pericolo con
vivissime istanza, che facevano sentire la violenza, chiesero al Papa
smettesse la guerra; ma questo vecchio indracato li chiamò vili,
ribaldi, degeneri da quegli antichi Romani, che innanzi di
sottomettersi ai Goti elessero morire di fame, ma a fiaccargli
l'orgoglio giunsero a un punto la nuova della sconfitta dei Francesi a
San Quintino, e il richiamo del Guisa, il quale si mostrava tanto di
cotesta impresa ristucco, che a cui non voleva saperlo andava dicendo:
«nè manco con le catene lo avrieno tenuto in Italia.» Il
Giusa pertanto in compagnia dello Strozzi fu dal Papa, ed espostagli
la condizione delle cose lo confortò alla pace: narrasi, che udite
le costui parole con mal piglio il Papa dicesse al Giusa: «Andate
via, e con voi rimanga il convincimento di avere operato poco in pro'
del vostro re, meno per la Chiesa, niente per l'onor vostro.» La
pace sforzata in virtù di questi casi venne conclusa, non però
senza contrasti attese le esorbitanze del Papa, che per primo patto
volle andasse il duca di Alba a chiedergli perdono a nome del suo re,
e a quante rimostranze gli movevano per procedere più temperato
rispondeva: «caschi il mondo, io non ci renunzio, non mica per me,
sibbene per l'onore di Gesù Cristo!» Come s'egli fosse Cristo, e
a Cristo premessero onori siffatti; il duca che fumava di superbia non
meno di Paolo stava duro a respingere il patto, ma venutogli dal re
ordine espresso di accettare, piegava la testa: si recò a Roma, si
genuflesse al Papa, gli baciò il piede; tuttavia levatosi ebbe a
dire «hoggi il mio re ha fatto una grande sciocchezza, e se io
fossi stato in suo luogo, et egli nel mio il Cardinale Caraffa sarebbe
andato in Fiandra a fare quelle stesse sommissioni a Sua Maestà,
che io vengo hora di fare a Sua Santità.»

Dopo la pace le faccende dei contendenti rimasero come prima della
guerra, meno le ruine dei popoli, che non si contano.

Il duca di Alba quando repugnava a chiedere perdono al Papa aveva torto;
più arguto di lui Filippo pensò, che il perdono implorato dal
vincitore al vinto insomma è giunta di strazio al danno; comecchè in
ginocchioni egli rinfacciava al Papa le sue scomuniche ormai incapaci ad
ardere non che altro i pagliai, ed averlo avuto nelle mani per istritolarlo
a suo agio: proteggerebbe l'autorità religiosa del Papa, a patto, che
gliela noleggiasse per rinforzare l'autorità sua di sovrano crudamente
dispotico. Paolo IV ebbe a salutare Filippo amico, e figliuol prodigo, ma
sottovoce mormorava: «amico sì, che mi tenne assediato, e cercò
l'anima mia» al vescovo di Angulemme confidava sommesso: «il vostro
re non degenere dai suoi pii predecessori sarebbe campione vero della
Chiesa, e se potesse farsi eleggere imperatore, beati noi! La razza
austriaca fu nemica sempre del Papato e di Roma.» Tuttavia egli poteva
mordere non rompere il freno; allora lo impeto disordinato di lui si
avventò come fiamma ad altri obietti; già vedemmo, com'egli
avversasse fieramente da cardinale ogni maniera di _nepotismo_ e come
creato Papa vi si lasciasse ire peggio di ogni altro che le storie
ricordino; rapite le castella ai Colonna, Palliano concesse in feudo a
Giovanni Caraffa, Montebello, che fu dei conti Guidi, all'altro nipote
Antonio; Alfonso figliuolo di questo promosse diciannovenne al cardinalato,
ed ebbe nome di cardinale di Napoli; non ci fu grazia, o favore, che sopra
questi nipoti non profondesse; tuttavia mirabile, e pure vero a dirsi
quello, che in altrui opera amore, in questo Papa fece l'odio; cessato
simile vincolo i nipoti gli vennero in uggia, poi detestò; ed essi cui
pareva piccolo parentado per loro quello del duca di Ferrara, e povero
acquisto lo stato di Siena: essi di cui le donne ormai non contente di
berrette gemmate dicevano di ora in poi ai loro figli _far di mestieri
corone_ di un tratto furono rovesciati nella polvere: vizi possedevano in
copia (nè lo ignorava il Papa) i quali però non misero ostacolo
all'avanzamento loro; solo si ricordò della costoro malvagità quando
non li potè più adoperare strumenti d'ira contro gli Spagnuoli: e
siccome nello ardore di promovere gl'interessi spirituali della Chiesa, non
potendo più i temporali, li reputò ostacolo prese a perseguitarli
eccessivo ed iracondo poco meno, che gli Spagnuoli. Causa o pretesto al
prorompere del Papa una rissa notturna, per via di certa cortigiana
chiamata Martuccia, nella quale il cardinale Montino, parzialissimo dei
Caraffa, tratta fuori la spada fe' prove da Sacripante. Essendo stato
ragguagliato il Papa di simile disordine attese, che il nipote cardinale
Don Carlo gliene parlasse, e poichè conobbe a prova com'ei glielo
volesse tacere, un bel di al cospetto dei cortigiani gliene fece una
bravata solenne; di qui i cortigiani fiutarono il vento che soffiava, onde
il Gianfigliazzi oratore fiorentino nemico mortale dei Caraffa trovòmodo
di penetrare nelle stanze del Papa e concitarlo contro il suo sangue; una
mala femmina, che Dio faccia trista, la marchesa della Valle (perchè se
iniqui erano i Caraffa una donna del parentado loro non gli aveva a
precipitare), costei tanto assottigliò il cervello, che giunse a far
mettere dentro il breviario del Papa una nota dei principali delitti
attribuiti ai suoi nepoti, la quale conchiudeva con le parole: «e se
più vuol saperne la rimandi con la sua segnatura.» Il Papa segnò,
e ne seppe un subbisso di cui un terzo forse vero, l'altro aggiunto dalla
malignità; se sbuffasse fuoco e fiamma non è da dire: come Augusto,
si narra, errasse un dì smemorato per la reggia esclamando: «le mie
legioni rendimi Varo» così Paolo correndo pel Vaticano urlava:
_riforma! riforma!_ Ma il cardinale Pacheco di un tratto gli disse in
faccia: «Santo Padre, prima di ogni altra cosa bisogna incominciare la
riforma da noi.» Queste parole furono come zolfo sul fuoco, Paolo diede
in ismania, non mangiò, nè dormì, lo prese la febbre; per dieci
giorni durò infermo; seco la più parte del giorno stava ridotto don
Geremia teatino, che aveva voce di santo, ed era fanatico; finalmente
convoca il sacro collego, dove dopo querimonie infinite dichiara decaduti i
suoi nepoti da ogni ufficio, e li confina con le famiglie loro a Civita
Lavinia, a Gallese, e a Montebello; la madre loro, vecchia di settanta
anni, che gli s'inginocchia davanti implorando mercede duramente ributta;
la nipote moglie del marchese di Montebello la quale arriva in quel punto a
Roma trova il suo palazzo chiuso; nessuno locandiere per paura del
pontificio sdegno ardisce albergarla; si ricovera in rimota e povera
osteria dove il rumore di cotesta catastrofe non era anco giunto; il
cardinale Caraffa si offre costituirsi prigione per iscolparsi, ma il Papa
ordina agli Svizzeri caccino via lui, e tutti i clienti e servitori suoi
dalla condanna universale eccettuò solo il giovane cardinale di Napoli
per tenerlo seco a recitare l'uffizio.

Ciò fatto, siccome al bisogno di esercitare furiosamente la sua
irrequieta natura si aggiunse l'altro di divertire la nuova angustia
nella moltiplicata agitazione muta tutti gli ufficiali nel governo
temporale con modi, che dirò convulsionari: a mo' di esempio, manda
a Perugia nuovo governatore, il quale arriva notte tempo, e convocato
su l'alba il Consiglio municipale mostra la sua spedizione, e poi
senza cerimonie imprigiona, lega, e manda a Roma il governatore, che
si trovava lì a presiedere il Consiglio; il governo da cima a fondo
sconvolto, tasse diminuite, l'erario restaurato; le chiese sottomette
a più rigida disciplina, gli accatti alla messa proibiti; i quadri
scandolosi negli oratori soppressi; frati sfratati fuori; il digiuno
quaresimale, e il precetto della pasqua severissimamente imposti: di
nuziali dispense non volle più saperne; insomma da per tutto
l'aventatezza del boscajolo, che atterra piante a colpi di scure, non
senno non pacata tranquillità del riformatore. Di questo ha da
rendergli grazie la civiltà, che per lui si rinnovasse e quasi si
ricreasse la Inquisizione; ogni suo affetto in lei: sovente mancò
ai concistori, e alla segnatura, non mai al Santo Uffizio; egli
presiedeva sempre; ne ampliò la giurisdizione sottomettendole nuovi
delitti, e le concesse la facoltà di provare gli accusati con la
tortura; a persone non ebbe riguardo; potenti baroni, e magnati in
prigione; in prigione i cardinali Morone, e Focherari ai quali pure
dianzi aveva commesso il carico di esaminare gli _Esercizi Spirituali_
d'Ignazio da Loyola, dubitando putissero di eresia. Di qui apprendi
che razza di Papa avesse ad essere costui a cui pareva eterodosso
Santo Ignazio! Naturale pertanto che facesse sua delizia San Domenico
Gusman, di esecrata memoria; di fatti, in onoranza di costui
instituiva festa solenne. Finalmente piacque alla morte liberare la
terra da cotesto flagello; parve volesse ribellarsi alla natura, e
prossimo a tirare l'ultimo fiato assurse dal letto, ma ricadde, e
nello sforzo spirò: appena morto il popolo, in parte raccoltosi in
Campidoglio, decretava tutti i suoi monumenti si demolissero perchè
immeritevole della città, e di _Roma_, e del _Mondo_, in parte
saccheggiò ed arse il palazzo del Santo Uffizio; ne manomise i
ministri; a stento potè svolgersi da mandare in fiamma tutti i
Conventi dei Domenicani; nè il popolo solo, bensì anco i baroni
pigliavano parte a cotesti eccessi; le statue del Papa furono
atterrate, e infrante, le teste loro col triregno strascinate a
dileggio dalle bardasse per la mota.

Se questo Papa fosse o no santo ignoro davvero: di certo so, ch'egli
era imbecille, testardo, e malvagio, e la Chiesa sotto il suo
pontificato si trovò ridotta a tale, che peggio non si può dire.

Nella Germania, opponendosi egli, per odio contro la casa di Austria,
alla trasmissione della corona imperiale a Ferdinando I, il
protestantismo per connivenza, e per favore di lui si dilata nella
massima parte delle città; la Polonia, e la Ungheria bollono;
Ginevra diventata Roma dei calvinisti, con lei gareggia nel primato di
eresia Wittemberga; la Scandinavia tutta repudia il cattolicesimo; in
Francia e nei Paesi Bassi non solo, ma nella Spagna, e nella Italia
altresì formicolano le nuove dottrine: la Brettagna andò
perduta, e la poteva salvare, se meno impronto, e meno tracotato
avesse proceduto con la regina Elisabetta, però, che innanzi di
accettare qualunque proposta di accordo impose tutti i beni
chiesastici fossero restituiti, il danaro di San Pietro da capo come
ai tempi di Gregorio VII si collettasse; la regina per quello che
spetta i suoi diritti al giudizio di Roma si sottoponesse; e poichè
gli parve, che Reginaldo Polo non camminasse di buone gambe, gli tolse
la legazione della Inghilterra, che da cotesta ora in poi ama il
papato come il fumo agli occhi; tenne ferme Spagna ed Italia perchè
accanto alla croce rizzò su la forca. Ora vediamo succedergli Pio
IV a industriarsi di ottenere i medesimi intenti con partiti contrari;
il papato in sua movenza fermo con tutti i venti gira le vele al suo
mulino; ei fu dei Medici di Milano, di linguaggio piuttosto misero,
che povero; andò debitore di ogni sua fortuna al fratello
Giangiacomo il quale incominciava col fare il sicario: costui
ammazzò per prezzo ai Visconti, che poi lo mandarono al castello di
Musso sopra il lago di Como con lettere al Governatore perchè lo
spegnesse; sennochè egli accortosi della ragia tolti seco alcuni
compagni, entra in castello, e l'occupa: presolo con arte, lo difese
con virtù, finchè compostosi con Cesare piglia croce bianca, e
si converte imperiale; fu generale di artiglieria in Germania, e
capitano supremo nella impresa di Siena: ebbe fama meritamente di
spietato, e di avaro; quanti gli capitavano contadini portatori di
vettovaglie a Siena tanti impiccò, ovvero di sua mano col bastone
ferrato ne stritolò le ossa. Giovannangiolo comecchè sovvenuto a
spilluzzico dal fratello diede opera agli studi della giurisprudenza
nei quali riuscì prestantissimo; poi acquistò un protonotariato
vivacchiando finchè i Farnesi giudicando proficuo tirare da la loro
il marchese Giangiacomo gli proposero le nozze di una Orsina loro
congiunta, ed ei le accettò, ponendo tra gli altri patti che il
fratel suo promovessero cardinale, il che fu eseguito: con Paolo IV
non ebbe buon sangue mai; stette, finchè costui visse, lontano da
Roma, a Pisa, o a Milano, vivendo alla grande, facile donatore del
suo, pietoso a sovvenire le pubbliche necessità.

Ecco in che cosa procedè diverso da Paolo, e in che conforme con
lui, e con quanti prima e dopo vissero Papi: diverso in questo, che
non gli parve più tempo di contendere co' principi; disperate le
faccende di Roma se le due tirannidi sacerdotale e principesca non si
accordavano; conforme in questo altro, che gl'interessi della curia
romana, e della propria famiglia con ogni diligenza dovevano
confermarsi ed ampliarsi. La Inquisizione lasciò intatta nulla
ammaestrato dalla ira popolare la quale si avventa terribile, ma rompe
poi pari a maroso dentro gli scogli: contro la famiglia del suo
predecessore procedè senza pietà; certo, delitti avevano
commessi i Caraffa; ultimo la strage ordinata dal conte di Montorio
della moglie Garlonia ed eseguita dal conte di Alife suo cognato, e da
Lionardo di Cardine; intorno ad essi Pio IV conferendo coll'Amulio
oratore veneziano tale favellò; «siamo stati sforzati a metterli
in castello per dovere nostro e per grandi cause; costoro hanno fatto
un processo falso accusando Carlo V imperatore, ed il re Filippo che
volessero attossicare il Papa, e avessero mandato veleno per metterlo
dentro ad una cisterna; il che non è vero niente, e tutto è
falso; fecero impiccare tre proveri uomini per la verità
manifestata per detto loro, e per altro ch'è in processo: e con
questo persuasero quel vecchio a fare la guerra, e tanto male quanto
n'è seguito dopo; e non è da credere, che lo imperatore ed il re
avessero pensato a questa cosa.--Paolo voleva maledire e privare delli
regni re Filippo, e l'averia fatto, vinto da questo sdegno, se non
fosse stato consigliato altrimenti, ed egli lo consigliò in queste
ed in altre, che contro il Caraffa si vanno udendo ogni dì querele
delle più brutte cose del mondo. Sapete quello, che fece in Venezia
la settimana santa? Ha fatto fare tanti omicidi per danari, tanti
stupri, tante violenze, e per quella povera giovane di Mazzarini, che
si godeva, fece ammazzare quel povero giovane; e tante tirannie ha
usate, che non si ppoteva più sopportare. Il cardinale di Napoli ha
rubato nella morte di papa Paolo più di 100,000 seudi, e le gioie,
e le scritture, e nell'amministrazione ha menato le mani; si è
fatto fare una donazione falsa e bolle false per dare benefizi, e cose
simili. Il duca di Palliano oltre tante violenze espresse ed
iniquità... complice, e consapevole di tante scelleratezze ha poi
ammazzato... un suo nipote, e la moglie con un figliuolo in corpo, ed
altre cose da non potere sopportare.»

Ora ad escusazione del duca di Palliano io non dirò, che la moglie
sua avesse adulterato con Marcello Capece, e nè manco, che di
cotesta maniera vendette assai comunemente a quei tempi costumasse;
noto solo che di bene altre più grosse ne aveva perdonato Roma, e
non pure fatte, ma ed anco da farsi. Noto altresì, e meco
l'Adriani, che il Papa ardeva arricchire i suoi nipoti Borromei con le
spoglie dei Caraffa, e voltare a loro le pensioni, che questi godevano
per la parte di Spagna; aggiungo, che Filippo Secondo covava odio
antico contro i Caraffa, e l'odio suo spengeva lento come il veleno, o
subito come il pugnale, ma inevitabile sempre. Le accuse dette dal
Papa all'Amulio bugiarde per la massima parte e il Nores lo fa toccare
con mano, il fiscale Pallantieri nemico, ed offeso per lunga prigionia
sostenuta sotto il pontificato di Paolo IV, e cessata solo alla
esaltazione di Pio IV; la sentenza scritta di mano del Papa da aprirsi
solo il giorno seguente, che fu poi quello della morte del cardinale
Caraffa, e del duca di Palliano. Il cardinale con oscena ressa tre
volte fu sollecitato a compire la confessione, e le orazioni: rotta la
corda onde lo strangolarono supplirono con uno asciugatoio; un quarto
di ora e più impiegarano a torgli la vita; morto, rubategli le
vesti, lo lasciarono ignudo; meno dura fine fece il duca di Palliano,
a cui mozzarono il capo; degli altri supplizi taccio. Questo però
importa sapere, che Pio V, dalla Chiesa venerato il Santo, rigidissimo
uomo più tardi volle rivedere il processo da sè, e dopo
lungamente considerata la cosa revoca la sentenza, restituisce in
onoranza la memoria della famiglia Caraffa, il fiscale Pallantieri
manda al patibolo: dunque o in Pio IV o in Pio V lo spirito santo non
ci ha che fare; colpa ne fu la nuova viltà del Papa smanioso di
tenersi bene edificata la Spagna; il Muratori sacerdote piissimo
scrivendo di cotesta tragedia afferma: «in cotesti tempi la gente
accorta ben si avvide che non dal genio _clemente_ di papa Pio era
proceduta sì rigorosa giustizia contro i Caraffeschi, ma si bene
dai segreti, e gagliardi impulsi della Corte di Spagna a cui per vari
riguardi era molto tenuto lo stesso Pontefice.»

E perchè non si creda, che Pio V a questo modo operasse per bizza,
ma sì all'opposto per giustizia, avendo veduto, che il cardinale
Montino per pene gravi ma non estreme impostegli da Pio IV non si
correggeva, senza un rispetto umano lo mandò addirittura in
galera[1]. A me non è concesso entrare in altri particolari, ma chi
avesse vaghezza di sapere più oltre di questa tragedia può
vederla nella storia del _Nores_.

  [1]  Il Suriano oratore veneziano afferma che il Papa lo relegò a
    Monte Cassino sotto la custodia di due gesuiti.

Questo Papa riaperse, e chiuse il Concilio di Trento; e come non fu
prudente riaprirlo, così non giovò, anzi nocque alla Chiesa
chiuderlo nella maniera di che favelleremo. Agl'istituti fradici i
rimedi pregiudicano tanto più quanto si sperimentano gagliardi,
massime le concioni, e le dispute; il silenzio del dispotismo li
mantiene meglio. In seno del Concilio più, che a conferenza
teologiche attendevasi ad alternare vituperi, e percosse: sangue
corsero le strade, di sangue andarono perfino pollute le chiese; ormai
si temeva inevitabile la ruina della Chiesa; il cardinale di Carpi
supplicava Dio lo chiamasse a sè per non vedere questo giorno di
lutto; i cardinali meglio avvisati stavano chiusi nello sgomento.

Francesi, Spagnuoli, Tedeschi, ognuno per parte sua infieriva nella
opera di demolizione; Ferdinando imperatore proponeva il Papa si
umiliasse come Cristo, ed attendesse a riformarsi sul serio rispetto a
sè, alla sua corte, ed allo stato. Il Concilio provveda a
migliorare i Cardinali e il conclave, imperciocchè come possa
pretendersi che da Cardinali pessimi esca Papa buono, davvero non si
comprende; i decreti si ammanniscano dai deputati della varie nazioni;
di più, lo imperatore domandava il matrimonio dei preti e la
comunione sotto le due specie; si fondassero scuole pei poveri, si
depurassero i breviari, le leggende, e le vite dei santi; le orazioni
nello idioma nativo ogni popolo recitasse; si mettessero a partito i
Conventi, a fine che le male possedute ricchezze a scopi empi non si
spendessero; con altre più cose per le quali da cima in fondo la
Chiesa sarebbe stata trasformata. Gli Spagnuoli aborrivano dal calice
pei laici, dai connubi legittimi pei preti; instavano poi perchè la
residenza dei vescovi nelle diocesi si dichiarasse di diritto divino,
non già di umano instituto, e questo per sottrarre così di
straforo l'autorità vescovile dal potere del Papa. I Francesi in
parte aderivano ai Tedeschi, in parte no, ma Tedeschi, Spagnuoli, e
Francesi si accordavano in certi punti contrari a Roma; primo fra
tutti odioso, la pretensione arrogatasi dal Papa di volere egli solo,
esclusi gli altri, proporre le cause da definirsi al Concilio, per la
quale cosa l'Imperatore soleva dire due essere i Concili, uno a
Trento, l'altro a Roma, e il meno, che contasse quello di Trento; non
mancarono motteggiatori a sbottonare che lo Spirito Santo arrivava a
Trento dentro la valigia del Corriere.

Roma caduta in queste angustie ecco piglia partito: Pio IV astuto
subodora uno astuto, il cardinale Morone, e lo invia a negoziare con
Ferdinando; lui vinto, agevole ogni cosa, però che con lui i
Francesi si accontassero, e Filippo II per sangue, e per reverenza
assai gli deferisse. Duro intoppo non chè persuadere, blandire lo
imperatore, il quale si mostrava indracato perchè delle sue
proposte di riforme non avessero fatto caso, e perchè il Papa,
mercè le istruzioni ai legati governasse a modo suo il Concilio, e
tuttavia il destro prelato sul primo punto diede ad intendere, che se
le proposte dello imperatore non erano state messe innanzi al
Concilio, non si poteva sostenere poi che non si fossero avute nella
considerazione, che meritavano, imperciocchè talune di loro
avessero fornito argomento a speciali decreti: non potersi negare e
non negava la ingerenza soverchia di Roma nel Concilio, ma i Principi
via, co' propri ambasciatori non s'industriavano sempre scavalcare
Roma? E quì il cardinale usò l'estremo dell'arte pretesca, e
della sottigliezza italiana per dare ad intendere a Ferdinando ch'egli
voleva gittarsi nelle sue braccia, in tutto e per tutto contentarlo, e
al punto medesimo non cedergli un capello quanto ad autorità del
Papa.--Torre ai legati la facoltà di proporre riforme per
concederla ai vescovi tornava lo stesso, che mandare a soqquadro non
pure la Chiesa, bensì lo Stato; ponesse mente lo imperatore alle
improntitudini vescovili, alle incessanti pretensioni loro; non avere
mestieri incentivi i sudditi laici o no a contradire l'autorità: di
punto in bianco i governi di monarchie si sarieno convertiti in
oligarchici per diventare in breve democratici: lasciava giudicare al
suo senno, se imperatore o Papa per voglia di bisticciarsi, avessero a
dare le mani per fabbricare di questa maniera trabiccoli: ecco, si
sarebbe potuto assettare la faccenda così; non i vescovi sibbene
gli ambasciatori dei principi commettessero ai legati del Papa di
proporre al Concilio quanto reputassero spediente, con facoltà di
proporlo eglino stessi caso mai i legati si rifiutassero; altri punti
concesse il Morone o finse concedere, e per compenso lo imperatore
ammollò intorno a parecchie pretensioni, e principali fra queste la
_riforma del capo_, e la dichiarazione se il Papa sia o no superiore
al Concilio?

Il re di Spagna fu condotto a piegare in grazia di certo contrasto
d'interessi che preme conoscere: i capitoli delle chiese spagnuole
possedevano privilegi esorbitanti sicchè sovente contrastavano ai
vescovi; di più i prelati spagnuoli avevano mosso querela al
Concilio dei carichi co' quali gli opprimeva il governo; e poichè
questi formavano parte non piccola delle entrate del re ne veniva che
mentre i prelati s'industriavano a ripigliare il perduto, egli
mulinava la guisa di tosarli più rasente alla pelle, che mai;
invece poneva ogni diligenza in ampliare la potestà dei vescovi
come quelli che pochi essendo più facilmente potevano corrompersi,
od atterrirsi: quindi il compito del Papa non pure diverso ma
contrario a quello del re, però egli promoveva a spada tratta
gl'interessi dei capitoli; democratico con la Spagna, despota in
Germania: ma poichè Filippo senza la Chiesa non poteva fare, si
convenne il Papa tenesse in freno i capitoli, il re ordinasse ai
vescovi di procedere meno arroganti, e questi di un tratto sommessi
troppo, come troppo per lo innanzi impronti così passarono il segno
della obbedienza verso Roma, che il re, quando ei furono tornati a
casa, ebbe a dire loro «mi rallegro con le signorie vostre, che
andati vescovi al Concilio hanno saputo tornarne vicari.»

In Francia governa sempre un'uomo, che qualche volta fu re, e spesso
no; la forma politica non fa caso, repubblica o monarchia bisogna, che
ella serva un padrone, e padroni per ora erano i Guisa, di cui
gl'interessi li spingevano a mostrarsi zelaori rigidissimi della
Chiesa; però protessero il Papa e ne furono protetti, rimossero le
gozzaie, blandirono gli umori, dove il danaro valse non istettero su
lo spilluzzico s'interposero mediatori felici tra i principi e Roma,
onde il Papa più volte e in occasioni solenni ebbe a professarne al
cardinale di Lorena ampissime grazie.

Pertanto il Papa accordatosi co' principi venne di leggeri a capo di
ogni difficoltà; anzi per meglio tenerseli bene edificati renunzia
alla riforma, che anco di loro doveva decretare il Concilio; quanto
alla sua la promette sconfinata; solo lascino fare a lui, nè essi,
nè il Concilio se ne mescolino.

Intorno al diritto esclusivo dei legati pontifici a proporre partiti,
il Papa collo imperatore si erano accordati, e dicemmo come; restava
ad assettare lo screzio con gli Spagnuoli, i quali essendosi
spencolati a contrastarlo ora non vedevano passatoia per uscirne con
decoro, ma ecco pronto il Morone a trovare un sutterfugio il quale
consistè nella dichiarazione, che ad ogni prelato spettava il
diritto di chiedere e dire quello che a lui Papa era concesso
chiedere, e dire secondo gli antichi Concili: la parola _proporre_
posero sotto lo staio.

Rispetto alla residenza dei vescovi pretesa di istituzione divina, ed
alla incompatibilià dei Cardinali di tenere vescovati, abbazie, e
benefizi curati e' fu fatto un empiastro; all'arcivescovo di Granata
non garbava, e si ammanniva a contrastare in isgravio della sua
coscienza; ma il conte di Luna lo persuase, che se la coscienza non
gli consentiva a parlare contro il suo convincimento, nulla ostava a
farla tacere: pertanto fu dichiarato, nel decreto, che i vescovi, e i
cardinali, non potessero lungamente stare lontani dai vescovadi, e
dagli altri benefizi con la cura delle anime; tale essendo il precetto
di Gesù Cristo; così di scancio fu decretato, che i cardinali
potessero possedere vescovadi, e abbazie, e che la residenza dei
vescovi non era di diritto, bensì raccomandata da Cristo. Il
Cardinale Morone poi promise, che una volta affermata l'autorità
del Papa a forma del Concilio fiorentino, avrebbe consentito si
dichiarasse la residenza dei vescovi di diritto divino, ma anco queste
l'erano lustre sapendo che del Concilio di Firenze veruno voleva
udirne parlare, e i vescovi o si accorgessero del tranello o no,
abboccarono.

Composti a questo mo' gl'interessi del corpo, gli altri dell'anima
aggiustaronsi di rincorsa; nelle tre ultime sessioni fu provvisto alla
ordinazione, al matrimonio, alle indulgenze, alle immagini, al culto
dei santi, e ad altre parecchie non lievi riforme. Non mai Concilio fu
iniziato con intenzioni, ed anco con atti così ostili a Roma, e non
mai alcuno rimase concluso con maggiore servaggio verso l'autorità
pontifica; e non reca stupore, imperciocchè i prelati sovvenuti in
prima nella opposizione dai principi trovandosi allo improvviso
derelitti s'industriarono con la nuova sommissione ricattare la
protervia antica. Il Papa, che si volle riformare ne uscì assoluto
peggio che mai, molto più, che con una Bolla, vietò che altri
chiosasse, e interpretasse le dottrine del Concilio, ed instituì
una Congregazione di Cardinali deputata a interpetrare i decreti del
Concilio; e di che sappia la facoltà d'interpretare in mano a Roma
ogni uomo conosce; significa leggere nel Vangelo bianco, dove sta
scritto nero.--Despota peggio che mai uscì il Papa dal Concilio di
Trento, ed è vero, ma despota di seconda mano, arnese di servitù
straniera alla Patria; il Concilio chiuse la porta a qualunque
composizione co' cristiani di Oriente, e co' protestanti;
sguinzagliò il fanatismo, che poi non volle, e più tardi non
seppe reprimere. I popoli sperarono dal Concilio riforme gravissime; e
rimasero delusi: le due tirannidi unite ai danni d'Italia la ridussero
peggio che cimitero, però che questo raccolga quanto di materiale
avanza alla creatura umana, mentre le nostre terre di ora in poi si
fecero sepolcri di anime. Napoli e Milano spagnuoli; Venezia
trepidante per trame occulte, o per manifeste violenze. Genova,
Firenze, Mantova, Parma, Ferrara tratte schiave dietro al carro della
Monarchia Spagnuola. Siena stramazzata per fame sul terreno imbevuto
del sangue dei suoi migliori figliuoli; Lucca beffa di repubblica.
Emanuele Filiberto, Alessandro Farnese, Ambrogio Spinola,
Giovannandrea Doria, ed altri imperiti a combattere per la Patria,
eroi per vincere battaglie ed espugnare terre in pro dello straniero;
per la tirannide fulmini, per la libertà paralitici; lingua,
andazzo, e tutto dentro, e fuori spagnuoli; intantochè i grandi
stati intorno alla Italia si formano, la Italia per colpa propria, ed
altrui si rompe in brandelli; poi viene la pace di Castello Cambrese,
che marca la Italia in fronte, come nei tempi feudali i baroni
marchiavano gli schiavi propri per non confonderli con gli schiavi dei
baroni vicinali.

Pio V rimase come sfinito dagli sforzi durati pel Concilio di Trento;
prima, che le riforme dei costumi si ponessero in esecuzione egli si
dispose a godere del benefizio del tempo per sollazzarsi: di offici
divini non volle intendere; di negozi meno che mai; prese a costruire
fabbriche magnifiche, ogni dì feste, e conviti: le stemperatezze
della corte di Lione X intendevano riformare, e rinnovavano. Ma il
fanatismo, di che toccai, appena sveglio minaccia lo stesso Pio; un
Benedetto Accolti, il quale nientemeno presumeva essere consultato dal
Padre eterno intorno alle cose da farsi in questo mondo, ed anco
palesava lo stabilito fra loro, non senza offerirsi a provarlo vero
con lo sperimento del fuoco, macchina insidie alla vita del Papa.
Causa della strage i fatti del Papa diversi dalle parole: costui
incapace, anzi indegno, a reggere il gregge cristiano, Pastore di
Cristo, si aggiunge un complice a cui promette un diluvio di beni
nell'altro mondo; in questo non tanti, pure una buona derrata per la
parte del successore di Pio: si appostano per trucidare il Papa, alla
vista del quale manca loro il coraggio: da per loro si accusano;
dovevano essere mandati allo spedale dei matti, e li mandarono al
supplizio!

Ecco un santo, e sia per la chiesa; per noi uomo santo significa
buono, che cammina diritto nelle vie del Signore di tutta
misericordia; io lo dimostrerò a filo di storia; chi legge
giudichi. Costui nacque di piccola gente a Bosco presso Alessandria, e
si nomò Michele Ghislieri; si rese frate domenicano, in breve fece
prova di fanatismo feroce, onde lo deputarono inquisitore, e lo
preposero agli uffici di Bergamo e di Como come quelle che per la
prossimità degli Svizzeri, e dei Tedeschi, o della Valtellina od
erano o correvano rischio di riuscire più contaminate di eresia:
dei modi suoi selvatici basti udirne tanto, che spesso ebbe a fuggire,
o nascondersi in remoti tuguri: a Como lo presero a sassi: da Bergamo
fu bandito dal governatore Niccolò da Ponte per colpa della
improntitudine sua, non essendosi peritato da citare dinanzi al suo
tribunale Vittorio Soranzo vescovo di cotesta città per provarlo
intorno alla fede; il conte della Trinità a Fossano minacciò
gettarlo nel pozzo: nella relazione dell'oratore veneziano Paolo
Tiepolo se ne ricava la causa, che fu non volere costui pagare certa
tassa per sopperire aì bisogni della guerra; però la minaccia
non era annegamento, bensì bastone; e quando cotesto conte fu
spedito dal duca di Savoia a complire il Papa per la sua esaltazione,
questi glielo ricordò, ma al punto stesso aggiunse, che molto lo
teneva caro e lo aveva in pregio perchè nemico acerbissimo degli
eretici. Questi ed altri siffatti meriti supremi ora ed allora presso
la Chiesa, per la quale cosa prima lo promossero commissario della
inquisizione, poi vicario dello inquisitore generale; poco dopo Paolo
IV volle consacrarlo vescovo di Nepi, e Sutri, ed indi a sei mesi
Cardinale, e Inquisitore generale: eccessivo l'ufficio; e troppo
più eccessivi i modi di esercitarlo, sicchè Pio IV lo cacciò
via dal Vaticano, e lo ammonì a procedere con maggiore discrezione,
se pure non voleva andarsene diritto come un cero in Castello.
Diventato Papa invece di mutare costumi, levò la muserola alla
immane indole sua: non conobbe giocondità alcuna di vita; il cibo
più che parco, la bevanda acqua mista a poco vino, e al Tiepolo che
gli osservò a quel modo non potria durare rispose sarebbe già
morto se non costumasse così; mangiare la carne per medicina; non
lasciò mai la camicia di rascia che come frate soleva portare;
lunghe le preghiere, spessi i digiuni, i cilizi, le lacrime, le
processioni a piedi, e capo ignudi, l'estasi, e i deliqui, insomma
nulla difettava in lui di ciò, che forma un santo vero a mo' della
Chiesa.

Subito la prese con le cortigiane, che in Roma furono sempre in numero
stragrande, e nulla valse a chiarirlo che per la lontananza loro Roma
andrebbe deserta; i disordini che ne uscirebbero infiniti; quello che
premeva era attutire la lussuria, non già scacciare le meretrici; rimase
sul duro, o fuori esse, od egli: e quelle partirono; tra esse, e i bertoni
di un tratto Roma si vide scema di venticinquemila, e più persone
(chè anime non mi pare che si abbia a dire); fra i creditori di quelle
per danari o per robe date in prestanza un diavolio; peggio quest'altro,
che degli amanti non pochi si mutarono in assassini, e colto il destro,
fiduciosi d'impunità, parte delle sciagurate femmine misero alle
coltella, parte annegarono dentro il Tevere: dopo cotesto groppo di danni
il Papa consentì a correggere il suo comando: vietò ai medici
visitare gl'infermi oltre la terza visita se non si fossero confessati;
frugò per le case, pei letti maritali levando scandali quasi polvere
turbinata dal vento sopra le pubbliche strade: ai bestemmiatori multa,
frusta; e all'ultimo lingua fessa; fino sul vestire più o meno ampio
pose norme, e divieti; egli stesso accusò il suo nipote Paolo ai
Conservatori di Roma colpevole di vestire brache _grandissime_; e poichè
i Conservatori pensando ch'ei risposero, che i nipoti del Papa non andavano
soggetti a simili prammatiche, egli tutto acceso soggiunse: «anzi hanno
ad essere i primi, sostenete il mio nipote, e dopo avergli cavato di bocca
chi gliele ha fatte condannate lui e il sarto.» Che fosse pietà ei
non conobbe mai; non mitigò sentenza veruna, non perdonò: per lui
Cristo poteva proprio risparmiarsi le parole: «non voglio la morte del
peccatore; viva e si penta,» conciossiachè fosse convinto, che l'uomo
non abbia facoltà di emendarsi; le conversioni ipocrisie, passata la
paura i rei tornano a fare peggio. Veramente egli non conobbe nipotismo; il
nipote Paolo, quello dalle brache larghe, riscattò di mano ai Turchi, e
ci spese fino a 300 scudi; gli consentì ancora vivere a Roma
assegnandogli sottilmente di che campare la vita; agli altri congiunti
diede il puleggio accomiatandoli con qualce po' di danaro; creò
cardinale il nipote Michele Bonelli figlio di sua sorella, perchè prete
a modo suo era, e gliene facevano ressa i cardinali medesimi.--

Veruno, se non fuggendo, potè salvarsi in Italia dalla truce
persecuzione di lui. Al duca di Albuquerque governatore di Milano
ordina gli consegni Aonio Paleario, e quei glielo dà perchè il
Papa quando si tratta di eretici può farli agguantare in _tutte le
parti del mondo_: a quali strazi fosse sottoposto il misero io taccio;
basti, che fra i tormenti lo costrinsero a scrivere certa
ritrattazione dove fra le altre cose confessa come il Papa in certe
occasioni abbia _il diritto di ammazzare di propria mano i colpevoli
come leggiamo che facessero il sacerdote Samuele, e lo apostolo San
Pietro_[1], confessione la quale, a parere nostro, dimostra meno la
debolezza del misero lacerato che la fece, quanto la stupida
immanità di cui la fece fare. Ottavio Farnese non meno premuroso di
tenersi bene edificato il Papa gli mandava in ceppi a sua richiesta
Francesco Celaria, il quale anch'esso si chiamò in colpa, e chiese
misericordia: nome e cosa ignoti a Pio V; entrambi perirono tra le
fiamme: così del pari Pietro Carnesecchi fiorentino: convitollo
Cosimo I duca di Firenze, e dopo pasto lo fece legare e trasferire a
Roma: a questo tradimento si condusse Cosimo per paura, e per
isperanza; paura, che Pio V (come di vero lo minacciò) abolisse la
Bolla della istituzione dei cavalieri di Santo Stefano ottenuta da Pio
IV; speranza di venire insignito da lui della dignità di Granduca,
o di Re per ispuntarla sopra il duca di Ferrara, siccome accadde
più tardi. Il Carnesecchi secondo corre il grido andò a fronte
ferma, lindo di biancheria, e di panni, chè le altre vesti, e
quali! somministrava il Santo Officio; gli fu compagno al supplizio un
frate francescano del Cividale di Belluno: altri quindici furono in
quel dì i condannati di cui taluno chiuso fra due muri, altri in
prigione o in galera perpetue; altri ad altre pene. Anco Venezia per
blandire cotesto santo Papa assetato di sangue mise le mani addosso a
Guido Ginetti da Fano a Padova e glielo mandò a Roma. Il Fleury
afferma che anch'egli fu arso, ma non è vero; dalla relazione
dell'oratore veneziano si cava che il Papa lo condannò a prigione
perpetua, non mica pei buoni uffici interposti da Venezia, sibbene
perchè il Papa non lo giudicò _relapso_, e più perchè per
suo mezzo sperava venire in cognizione di molte cose importanti
intorno alla fede; però il medesimo atto della Inquisizione che
dannava il Ginetti alla carcere, commetteva alle fiamme quattro
eretici, e dieci più multava con pene diverse: non isgomentavano il
Pontefice nè altezza di lignaggio, nè potenza di signorie, nè
dignità ecclesiastiche; vescovi, prelati, cardinali in prigione
senza un riguardo al mondo; anzi nella relazione del Tiepolo leggonsi
proprio queste parole: «ha avuto a dire Sua Santità tra i suoi
familiari, che desidereria potersi giustificar, se qualche grande,
ancorchè cardinale fosse di questo vitio colpevole, perchè faria
procedere contro di lui con ogni severità, colla morte, e col foco
acciocchè si cognoscesse che la giustitia si estende non solo
contro i bassi, et poveri, ma anchora contro i grandi et potenti.»

  [1]  _Quod ipsement summus pontifex, in casu aliquo potest etiam
    per se hæreticos occidere, ut legimus de Samuele et Petro_.

Insomma al pari di Paolo IV in tutto impetuoso, eccessivo, e senza un
briciolo di prudenza; onde il sagace Tiepolo riferendo di lui al
senato di Venezia dice: «spesse volte nel dare rimedio a qualche
disordine incorre in altro maggiore, procedendo massimamente per via
degli estremi:» Chi ha vaghezza di conoscere più addentro di lui
può leggere il suo catechismo catolico romano; a me non è
concesso metterne quì nè anco uno estratto; chi si piglierà
lo studio di confrontarlo col _Sillabo_ di Pio IX toccherà con mano
se sia vero quanto più volte affermai, che i Papi sono tutti un
Papa; gli screzi non contano; per portare acqua al suo mulino essi si
rassomigliano come uovo con uovo.

Fuori di casa due cotanti peggio: quasi avesse bisogno di sprone stava
li col pungolo addosso a Filippo II _demonio meridionale_, perchè
s'imbrodolasse di sangue; nè rifiniva assillare quell'altro immane
uomo il duca di Alva: non tregua, nè pace, nè misericordia, nel
sangue si affoghi l'eresia; egli somministrerà armi e danari: se ce
ne fosse mestieri apprendetelo da questo; certo frate agostiniano
Lorenzo di Villacancio tra le altre cose consigliava Filippo: a
tuffare la spada nel sangue degli eretici, se pure non teme, che il
sangue di Gesù Cristo non gli si rovescii sopra la testa.... Il
santo re David bandì dal suo cuore ogni misericordia verso i nemici
di Dio; li percosse tutti, ad uomini non badò nè a donne, ai
fanciulli infranse il capo alla parete. Moisè ed Aronne in un
giorno solo sterminarono tre mila Israeliti dei cattivi, e fu un bel
ratto; un angiolo, e questo è anco più bello, in una notte
trucidò 60 mila nemici del Dio vivente. Ora quello che Moisè, e
David fecero non avrete a fare voi? O non siete come loro capo di
popolo? Non un angiolo del Signore? Ma sì che lo siete, però che
la scrittura appelli per lo appunto così le teste coronate, e gli
eretici non gli avremo a considerare nemici del Dio vivente?» Fra
Lorenzo incontrò grazia presso Filippo il quale se ne valse come
consigliere, e mestatore nei rivolgimenti di Fiandra. Avendo più
tardi il re dovuto piegare alquanto ai voleri armati dei popoli Pio ne
mosse smanioso lamento, ma Filippo gli fece dire in un'orecchio: non
si scarmanasse perchè fermo di non attenere pure uno iota di quanto
aveva promesso; allora il Papa si tranquillò: qualche volta si
pesticciavano, il re non voleva intendere, ch'egli avesse ad obbedire
alla Bolla _In coena Domini_ che vieta ai principi mettere le mani
su quello dei preti, e il Papa a posta sua non voleva capire di regio
_Exequatur_; da un lato, e dall'altro querimonie grandi, ed anco
talora minaccie, ma poi si riconciliavano; uno delizia dell'altro:
anzi Filippo essendo caduto infermo, il Papa fu udito pregare Dio di
tosargli qualche anno della sua vita per aggiungerlo a quella del suo
figliuolo diletto Filippo II. Francesco Goubau di Anversa segretario
del marchese di Castel Rodrigo oratore a Roma per Filippo IV raccolse
e pubblicò duegentoventiquattro anni fa le lettere di questo Santo
Papa; il de Potter nel 1827 ne imprese una seconda edizione a
Bruxelles; io le ho lette, e mi hanno messo addosso il ribrezzo; la
dottrina, che per loro s'insegna questa: «riconciliarsi mai; non
mai pietà; sterminate chi si sottomette, e chi resiste sterminate;
perseguitate a oltranza, ammazzate, ardete; tutto vada a fuoco e a
sangue purchè sia vendicato il Signore, molto più, che i nemici
suoi sono ad un punto i vostri.»

Esorta il Papa con coteste lettere il re di Spagna e il Duca di Alva a
sovvenire il re di Francia per disperdere gli eretici; nell'ottobre
del 1567 avventa lettere di _fuoco_ a Luigi Gonzaga duca di Nevers, a
Girolamo Priuli doge di Venezia, al duca Emanuele Filiberto perchè
le mani loro uniscano a quelle di Carlo IX e di Caterina dei Medici
per torre via dal mondo gli _ugonotti_. Al Cardinale di Armagnac
governatore di Avignone manda confischi senza remissione tutti i beni
degli eretici, e non ne renda particola ai congiunti loro comecchè
buoni cattolici[1]: a quello di Lorena suo legato in Francia palesa il
rovello, che ciò non sia stato a punto eseguito, dacchè la paura
di ridurre i suoi cari nella miseria avrà virtù di trattenere i
vacillanti, Dopo la battaglia di Giarnae esorta Carlo IX a rammentarsi
Saulle; costui in onta al comando di Dio, manifestatogli mediante il
sacerdote Samuele, non trucidava l'universo popolo Amalecita; sentì
di qualcheduno misericordia, e lo salvò, onde in pena di questo
orribile misfatto più tardi perse il regno e la vita: esempio che
ogni re deve tenersi davanti agli occhi, perchè impari che
trascurando la vendetta degli oltraggi di Dio, questi non volga contro
lui l'ira, e il gastigo. Nel giorno medesimo scrive alla dilettissima
figliuola in Gesù Cristo Caterina dei Medici: badi bene a non
tentennare, non si rimanga, finchè gli eretici non sieno spenti
tutti (_deletis omnibus_). Da capo a Caterina, al re, a tutti
perchè s'impietrino e la vendetta _inesorabile_ empia di terrore la
Francia: lo esempio di Saulle parendogli proprio al caso ecco lo
rinnuova scrivendo al duca di Angiò, facendogli sapere, che Dio lo
rese vittorioso appunto perchè sgozzasse quanti gli capitavano
sotto: e stringendo tutto in una parola dirò, che gli occhi dopo
lette l'epistole di cotesto santo vedono cosa dintorno colore di
sangue.

  [1]  «Ne bona hæc propinquis ipsorum, aut affinibus _quantumvis
    bonis et catholicis_ aut alia quavis ratione perveniant.»

Pio non aspirò il fumo del sangue della scellerata strage che va
distinta col nome di _notte di San Bartolommeo_; ma l'ammannì, la
eccitò, la ordinò, sul punto di morire la toccava con le mani;
di fatti quando il Cardinale nipote fu spedito in Francia per
frastornare le nozze di Margherita col re di Navarra, Carlo IX tale si
aperse con lui: «dirvi tutto non possiamo, ma in breve conoscerete
a prova come non vi abbia cosa che valga a confermare la religione
nostra in Francia, e a disperdere i nostri nemici quanto queste
nozze... voi ve ne chiarirete fra poco: io voglio punire questi
malvagi felloni facendoli tagliare tutti a pezzi, o non essere re,
perdendo affatto la corona; e facendo questo obbedirò a Pio stesso,
il quale mi eccita ad ogni momento di promovere in simile guisa
l'onore di Dio, e quello della mia corona.... credete in me, anco un
po' di pazienza, e il Santo Padre sarà costretto a confessare che
non si poteva provvedere più, nè meglio per la religione.»

Tuttavia il Santo Papa non rimase privo di credenza del macello
francese; gli letificarono il cuore le stragi di Caors, di Tolosa, di
Tours, di Amiens; nè quivi cessarono la beccheria se non quando
videro non avanzare più persona da uccidere; nè poteva fare a
meno, imperciocchè gli editti regi ordinavano così: «si corra
addosso agli empi sonando le campane a stormo; da per tutto si
perseguitino, con ogni arnese si assaltino, come bestie feroci si
sterminino, come lupi, come cani arrabbiati desolazioni del regno; se
ne rompano le case; non rispettinsi anni, qualità, nè sesso:
ferro e fuoco da ogni luogo a mo' d'interdetto.»

Non sono invenzioni dei Convenzionali gli annegamenti di Nantes,
bensì imitazioni regie e chiesastiche, dacchè leggiamo che il
governatore di Macon facesse quotidianamente buttare nella Saona
all'ora della passeggiata a mucchi gli eretici; di che pigliavano
maraviglioso diletto le buone dame cattoliche.--A Nantes, e a Lione il
popolo inferocito saldò il conto dei sacerdoti, e dei re. Il santo
Pontefice aveva mandato milizie ausiliarie a partecipare in guerre
siffatte; le comandava un Gabrio Serbelloni. Io sono stato lunga pezza
esitante se dovessi tacere o raccontare gli orrori di questa gente
benedetta da Pio V, ma mi sono risoluto a dirle perchè uomo
apprenda prete, che sia. Io non le chiamo belve perchè farei torto
ai lupi, nè appongo aggettivi, perchè non ne conosco veruno
abbastanza orribile che loro si attagli: alla presa di Orange il
Serbelloni fece precipitare sopra spuntoni, alabarde, e picche gli
ugonotti, appenderli e tuttavia vivi arderli a lento fuoco; le donne,
svergognate prima, poi messe a bersaglio dagli archibusieri, o
impiccate fuori delle finestre; dei fanciulli non si parla... le
gentildonne le quali innanzi di patire oltraggio si erano uccise,
furono esposte ignude alle scede della ciurmaglia con corna ficcate
nelle parti sessuali: parecchi perirono negli spasimi di scottature
cagionate dall'arsione di Bibbie di Ginevra abbruciate sopra il corpo
loro.--Le abominazioni dello antico Egitto i soldati papalini
rinnovarono in Francia; i contadini francesi li chiamavano:
«ammazzatori di donne, e di fanciulli; amatori di capre;»
però quante capre trovavansi nei luoghi da loro traversati
incendevano.

Contro Elisabetta regina d'Inghilterra il santo Padre tramò
congiure, tese insidie segrete, allestì guerra aperta, promosse le
pretensioni di Maria Stuarda, la sovvenne con ogni industria, nè si
rimase contento finchè non l'ebbe condotta al patibolo: rea femmina
cotesta fu, e adultera e omicida, ma perchè papesca, la scattò
di un pelo che oggi i cattolici non l'adorino sopra gli altari allato
a Pio V: questi scrivendo al duca di Alba per indurlo a spedire
milizie di Fiandra contro Elisabetta aggiunge, _colei che la trincia
da regina l'Inghilterra_[1]; peggio poi quando scrive pel medesimo
intento a Caterina di Francia; allora non si perita appellare
Elisabetta _rea femmina e perfida_; chiarisce com'egli cospirasse ai
danni suoi, e sottecchi aguzzasse ogni ferro per ribellarle i sudditi
cattolici, i quali per gli aiuti procurati alla Francia, non
chiedevano altro, che essere a posta loro soccorsi a rimettere in
trono la Stuarda _loro legittima sovrana_. Dunque per la stessa
confessione del Papa è vera la trama contro Elisabetta? Perchè
dunque la negano gli storici chiesastici? E perchè vanno
fantasticando di amori offesi, e di senili gelosie?

  [1]  Quæ se pro Angliæ regina gerit.

Questo Papa promosse con tutti i nervi la guerra contro il Turco, la
quale fu conclusa con la famose battaglia di Lepanto; ma non sarebbe
giusto supporre che a ciò lo spingesse senso di civiltà; papa
egli, papa Selimo, però gelosia di mestiere, chè è detto
antico _il vasaio portare invidia al vasaio_. Alle cose lungamente da
me discorse intorno a questa battaglia nel libro _Isabella Orsini_ ho
da aggiungere, che cotesta vittoria rimase senza costrutto perchè
l'anno seguente il Turco uscì in mare quanto prima gagliardo, e i
Veneziani gli cessero Cipro prima cagione della guerra: i Cristiani
poi ci guadagnarono la festa del Rosario, ch'è quella cosa composta
di 150 _Ave Maria_ divise per diecine sotto la presidenza di 65
_Paternostri_ inventata dal frate Alano bretone abitante in Olanda; e
per vantaggino la giunta di _auxilium christianorum_ nelle litanie. La
cronaca di Torres y Aguilera narra come veruna palla o freccia
offendesse il Cristo dipinto nel gonfalone; solo due freccie rimasero
ciondoloni nel campo, le quali, osservate da una scimmia si
arrampicò pei cordami, e quinci strappatele le buttò in mare: su
di che osserva il Prescott, che considerando l'enorme quantità dei
cappuccini e dei gesuiti presenti a cotesta impresa fa maraviglia come
i miracoli fossero tanto pochi.

Nel pontificato di Pio V rimasero soppressi gli _Umiliati_ pel
tentativo di ammazzare San Carlo Borromeo; i frati si erano ridotti a
174 religiosi abitanti in novantaquattro monasteri; immensi i beni, e
del pari immensi i vizi; la Chiesa ne pigliò le sostanze, di cui
parte concesse a San Carlo per instituire seminari, e collegi di
nobili, e di Svizzeri; la quale cosa dimostra come la Chiesa adopri la
facoltà, che oggi contrasta altrui, di torre via religioni o
inutili o dannose applicandone le sostanze ad opere di pubblica
beneficenza.

Innanzi di morire volle Pio V. dare la benedizione al popolo, il quale
non sapeva che farsene; ma tanto è, il Papa benedice sempre
repugnanti, e volenti; di vero, appena morto Roma proruppe in tumulti
come al Caraffa.--Il Cantù ei fa sapere, come Francesco Bacone
certa volta fu udito esclamare: «o che gingillano a Roma a
canonizzare santo questo uomo sovrumano!» Se la cosa sta come il
Cantù la racconta gli è mestiere dire: che al gran Cancelliere
talvolta si ecclissava la mente come pur troppo gli si ecclissò la
morale. Parlando di Paolo IV. ho detto che costui rizzò la forca
allato alla croce; Pio V. remosse la croce, e ci lasciò sola la
forca: predicatore il carnefice. Nella Spagna e nella Italia l'eresia
rimase annegata dentro il sangue, altrove crebbe, e combattè alla
stregua della necessità; il cattolicesimo invece di acquistare
perse i Paesi Bassi. Il Concilio di Trento, e le asperità di Pio
impedirono ogni riforma onde gl'istituti mano a mano rinnovandosi
durano, e il male rinchiuso dentro la Chiesa la divorò come il
cancro: in Italia fra il popolo non si sentì più favellare di
eresie, ma in regioni più alte fu coltivata la filosofia, meno
presta sì, ma più radicale emendatrice di errori; la riforma
aperse appena mezzo l'uscio alla ragione, la filosofia gliela
spalancò tutta; la ragione luterana, o calvinista, o zuingliana, o
valdese procedono impacciate, non sono avvinte di corde, ma di
stringhe sì, la ragione della filosofia si libra per gli spazi
sconfinati del pensiero; fra lei e Dio non occorre impedimento o
ritegno.

Dopo Pio V. gli stati pigliano l'andatura, che conservarono fino verso
il declinare del secolo decimottavo; Pio IV. sente e dimostra, che la
Chiesa ormai senza il ferro dei principi non si regge; sotto Pio V. i
principi si persuasero, che anco gli stati loro andrebbero a rifascio
se sostenuti dalla autorità della Chiesa non impedissero qualunque
spirito che sapesse di libero, ed anco di nuovo; rimase compita la
teoria della reciprocazione di tutte le tirannidi fra loro, quella poi
di tutte le libertà non hanno in qui appreso i popoli.

Qui sarebbe compito il mio assunto, il quale secondo il disegno, piacemi
ricordarlo da capo, consisteva nel dimostrare quale e quanta la
legittimità del dominio del Papa, e se vero, che non mai ne fosse stata
alienata parte da lui: tuttavolta giova accennare come meglio io possa
succinto, le guise per cui la Chiesa s'impadronì di parecchi nobilissimi
municipi, e il perfido governo, che ne fece. I priori di Viterbo durante il
secolo decimoquarto accoglievano seduti fuori delle mura il potestà
inviato da Roma, nè lo immettevano dentro se prima non giurava la
osservanza delle capitolazioni loro: a patti men larghi erasi dato Fano; la
vendita del sale tutta a suo pro; balzelli per venti anni non ne avesse a
pagare; libertà illesa, e diritto di eleggersi chi meglio volesse per
potestà senza bisogno di conferma. Sinigaglia da sè s'imponeva le
tasse, da sè le riscoteva; alla Camera apostolica pagava il convenuto; e
di questo si chiamò contento non che altri Cesare Borgia; e Giulio II.
cacciato via da Perugia il Baglione, si astenne da toccare le sue vetuste
franchigie, aborrì il retaggio usurpato dal tiranno; per lungo tempo
ella pagò al Pontefice un censo annuo di pochi mille scudi; anco sotto
Clemente VII. partecipava alla difesa dello stato con milizie sue proprie;
così pure Bologna, la quale conservò le sue libertà municipali,
amministrò le sue entrate da sè, manteneva milizie proprie, e pagava
il legato del Papa; non diversa Ravenna, e le città di Romagna tutte,
che liberate dalla dominazione del Borgia, furono da Giulio II. ricevute a
patto. Non sempre i governatori erano prelati; all'opposto bisogna
confessare che le città stesse imploravano magistrati chiesastici, dai
laici rifuggivano: dentro le città prima per necessità, poi anco per
uso di discordia antico, il popolo minuto avverso al popolo grasso, il
popolo grasso sospettoso dei nobili, i nobili nemici a tutti; i municipi
stessi se non sempre contrari fra loro, di rado concordi; onde le assemblee
provinciali attecchirono; così i principi e gli stati comporsi in lega o
non seppero, o non vollero; i popoli eziandio rimasero disgiunti,
bellissime gemme di collana sfilata, onde la causa perpetua della nostra
nullezza politica. La poca virtù dei governati, anzi le ree passioni di
loro provocarono i governanti ad asservirli, come ordinariamente succede; e
poi maledicono al tiranno come cosa fuori di loro, e cadutagli addosso a
mo' di _aereolito_, mentre egli nasce dalla servitù ch'essi chiudono
dentro nel sangue. Allora nel rinnovamento dei patti di dedizione il prete
astuto allunga la mano, e quando si tratta di franchigie da tasse aggiunge:
«finchè per cause gravissime a me non piaccia altrimenti,» se di
giudizi criminali da definirsi dai potestà eletti dal municipio, il
prete mancino arroge: «eccetto nei casi di maestà e simili, ai quali
piglierà parte anco il Governatore.»

I borghesi proviamo operosi, e pacifici, cupidi di guadagno, odiatori
degli uomini, e delle cose capaci a sturbarlo di presente; del futuro
non sanno; quando la vista di qualcheduno di loro si distende molto
non passa la lunghezza del braccio con che misurano la pannina,
però inchinevoli ad abbietarsi davanti chiunque loro accerti vita
tranquilla, e commerci sicuri; talvolta se li difendono da sè, e
allora tu li sperimenti feroci così, che Leonida alle Termopili si
stinge a petto del borghese, che pugna per la sua bottega; non
pertanto indi a breve caglia, chè la fatica lo uggisce, e il
pericolo lo impaura; se taluno sorge a schermirlo davvero, ei
volentieri lo paga con pecunia, con subiezione, e con la libertà. I
nobili per converso schifano la fatica; ai guadagni tirano anch'essi,
e come! ma bisogna sieno grossi; onesti non importa; storia questa non
pure antica, ma odierna, anzi modernissima; però in ogni tempo
armeggioni, arruffatori per allungare le mani in quel del pubblico:
mestieri loro tiranni, e ladri; di altro non s'intendono. A simile
maledizione aggiungi l'altra delle parti guelfa, e ghibellina,
attutite sì, non però spente, le quali dividevano non solo
cittadino da cittadino, ma eziandio città da città. A Fano i
borghesi si costituirono in lega chiamata in _Santa unione_ di cui
questo, lo scopo: «i pacifici si uniscone per opporsi alle ruine, e
agli omicidi i quali non si limitano a desolare le famiglie dei tristi
che li commettono, ma offendono altresì quelli che intendono
mangiarsi in pace il pane guadagnato col sudore della propria
fronte.» Di siffatti istituti vedemmo esempi nella Spagna, e ai
dì nostri in Italia; ma poichè operavano separati dal Governo,
furono da questo aboliti, ed a ragione, chè lasciandoli crescere
avrebbero costituito uno stato dentro lo stato, o piuttosto lo
avrebbono sovvertito, molto più che lo stato vecchio patendoli
veniva a confessarsi inetto a mantenere la sicurezza pubblica, vale a
dire, al fine pel quali i governi si fanno. Piacquero all'opposto ai
preti, però che per causa di religione sottoponendosi a loro senza
fatica e senza spesa si trovarono in mano uno arnese stupendo per
riuscire; essi pertanto benedicevano cotesti istituti, li spruzzavano
di acqua santa, con le indulgenze li santificavano, li presentavano
con gonfaloni, e bandiere; tuttavolta non importa nè manco
avvertire com'essi venuti in mano al prete non servissero già allo
scopo proposto; al contrario senza pure addarsene servissero a
perpetuare la discordia fomentata da costui; nè calunnio io,
dacchè il governatore di Romagna G.P. Ghisilieri tale ragguagliava
Gregorio XIII: «siccome il popolo disunito facilmente si domina,
così difficilmente si regge quando è troppo unito.»

Oltre gli umori tra nobili, e borghesi una mala peste ingombrava le
campagne, ed erano le famiglie di contadini collegate fra loro a modo
di tribù; anch'esse assumevano nome di guelfe e ghibelline, ma
agevolmente lo mutavano; in questo solo ferme, saccheggiare più,
che potessero: non importa dirne il nome, basta la infamia; e di
queste ai preti resse il cuore valersi per rendere subietti cui in
loro fidò; nè ai tempi nostri i Prelati romani diversi; solo tu
vogli ricordare le centurie di Gregorio XVI, e i masnadieri benedetti
di Pio IX.

Talora o perchè si sentissero stringere troppo o per quale altra
causa i municipi si rivoltavano, e collegati insieme si opponevano
alla crescente tirannide; qualche volta anco soli, e la storia ricorda
Ravenna, la quale dichiarò volersi dare ai Turchi piuttostochè
patire la pretesca oppressura. Faenza, pontificando Lione X, cacciò
via gli Svizzeri, i quali comecchè valorosissimi fossero, ebbero di
catti fuggirsene, tanto può la pazienza offesa del popolo; in pari
modo il popolo d'Jesi, assalito e vinto il governatore papalino
esigente cose improntissime, lo bandiva dalle mura; però da queste
sommosse non ne usciva libertà, sibbene raddoppiata tirannide, onde
sovente sorse ragionevole sospetto i preti le provocassero per cavarne
argomento ad opprimere. Di fatti, Ancona pagava al Papa tenuissimo
censo; crescendo ella pei commerci a florido stato, di un tratto
glielo crebbe; il quale aggravio da lei non si comportando ruppe a
rivolta, ed assaltato il castello lo prese; si venne agli accordi, ma
Clemente VII trucidatore della libertà della sua Patria, non era
uomo di certo da rispettare quella di Ancona; sotto presto di
difenderla dai Turchi fabbrica la cittadella; non anco condotta a
termine alla sprovvista manda fanti, e cavalli ad occupare una porta
della città; poi il condottiero delle armi va difilato al palazzo
degli anziani, e significa loro che il Papa vale e vuole regnare
assoluto: gli anziani piegano il collo e spulezzano; alla città
è messo un duro freno a rodere Benedetto Accolti legato piglia in
appalto l'entrate di Ancona per 20,000 Scudi all'anno: ordine questo,
che praticato un dì nelle terre della Chiesa, dei Turchi oggi
vediamo accolto eziandio dai governatori del regno italico. Dopo
ciò il regno del terrore; gli antichi statuti manomessi; tolte le
armi; i maggiorenti banditi, dai pubblici uffici la più parte dei
cittadini esclusi, taluni presi, e decollati, e i capi loro esposti in
mezzo a ceri accesi sopra un tappeto nero nella piazza del mercato.
Questi i titoli di dominio della romana corte sopra Ancona.

E poichè Roma tiene della natura della lupa, la quale dopo il pasto
ha più fame di pria, oppressa Ancona, si volta a Perugia a cui di
subito cresce il prezzo del sale niente meno che il doppio; la
città si oppone, e il Papa scomunicatala prima le intima la guerra;
i Perugini non se sbigottendo punto depongono le chiavi della città
a piè di un Cristo drizzato in piazza, e deputano venticinque
difensori alla tutela della Patria. Basta l'animo per meritare la
propria salvezza non basta per provvedere alla comune: i venticinque
non seppero raccogliere forze e pecunia, e lo avessero anco saputo non
avrebbero potuto rendersi gagliardi su le armi da fronteggiare
Pierluigi Farnese, che mosse ai danni loro con bene 10,000 italiani, e
3,000 spagnuoli; e' fu mestieri mandare oratori i quali con la corda
al collo, vestiti a scorruccio chiedessero inginocchiati perdono al
Papa di avere avuto ragione. Questo il perdono del Papa; le armi
cedute, ogni franchigia tolta, dei venticinque difensori fuggiti le
case a terra, il consueto morso di una cittadella imposto; tutto il
governo ridotto in un'ufficiale eletto dal Papa di cui il nome basta a
chiarirne il compito: «_Conservatore della obbedienza alla
Chiesa_.» Qualunque gravezza d'ora in poi i Perugini avessero a
sopportare senza dire un fiato.

Ora considerino i discreti, comecchè religiosi e cattolici, se
veramente il Papa per disfare simili nequizie sia facultato dalla
parte di Dio ad opporre il _non possumus_.

Quasi correndo adesso io compirò l'arringo toccando dei Papi fino a
Pio IX non perchè faccia mestiero al mio assunto al quale parmi di
avere soddisfatto, ma sì perchè a causa della lunga laguna si
verrebbe a perdere la tradizione dei Papato, quantunque a cui poteva
averla smarrita troppo bene gliela fece risovvenire l'enciclica, e il
_sillabo_ di Pio IX. Fu Ugo Buoncompagno uomo di vita gioconda, non
imperito di giurisprudenza, nei negozi versato, di costumi facile,
conobbe amori verecondi, ed ebbe un figlio, ch'egli amò ma non
promosse a scapito della Chiesa, tenendolo sempre nei limiti di
decente agiatezza non mai lo chiamò parte delle faccende di stato;
molto meno consentiva usurpasse l'autorità principesca, onde certa
volta ch'ei si attentò liberare di prigione due giovani amici suoi
di studio lo bandì da Roma senza remissione, e lo avrebbe privato
di ogni suo ufficio se le preghiere della sua sposa contessa di Santa
Fiora non erano; non fu avaro, non violento, anzi propenso a donare, e
benigno, e nondimanco acconsentendo alla spinta perversa di Roma
quando gli giunse la nuova della strage, che piglia nome di san
Bartolommeo, ordinò gazzarra al Castello Santo Angiolo con lo sparo
di tutte le artiglierie, e fece falò; inoltre rendeva solennissime
grazie a Dio, e bandiva un giubbileo perchè gli universi cattolici
n'esultassero.

E tutto questo pareva poco per manifestare la letizia infinita del
fatto, sicchè allogava a valenti pittori parecchi quadri che
rappresentano, il primo Coligny investito da un sicario cattolico
mentr'esce dal Louvre; l'altro la strage orribile degli Ugonotti; il
terzo Carlo IX che in Parlamento si vanta di avere sollevato il boia
in cotesta fatica; questi quadri durano tuttavia nel Vaticano nella
sala appellata dei _Re_ (e ci stanno bene) la quale precede la
cappella sistina. La memoria di cotesta scalleraggine compariva
raccomandata anco troppo alla esecrazione pubblica, ma non contenti i
preti degli affreschi vollero commetterla anco alle medaglie; di vero
Gregorio XIII ne fece coniare una, e stupenda la quale certo gesuita
dabbene ci descrive così: _da un lato rappresenta il macello
orribile esegito da 60,000 uomini degli eretici nella capitale, nel
corso di tre giorni e di tre notti, secondo il consiglio di Dio
sovvenuti dal suo aiuto celeste_[1]; dall'altro è la immagine del
buon Gregorio. Per colmare lo staio il santo Padre spediva in Francia
legato _a latere_ il Cardinale Orsino con la istruzione, che _insista
fortemente perchè la cura tanto bene incominciata co' rimedi
bruschi non guasti con importuna umanità_[2]; in così degna gara
è naturale non volesse rimanersi addietro Carlo IX, ond'egli pure
commise una medaglia dove da una parte si mira con un mucchio di
cadaveri sotto i piedi, e dall'altra un fascio di allori fra gigli,
corone, e collari di San Michele. La Convenzione provvide, sotto la
finestra del braccio del Louvre, che sporge di più sopra la Senna,
si murasse una lapide con la iscrizione: _di_ _qui l'infame Carlo IX
di esecranda memoria bersagliava il suo popolo con lo schioppetto_.
Napoleone Bonaparte la fece levare; deliberato di crearsi tiranno
s'imparentava con ogni regia nequizia: ora i re, secondo loro natura,
uno la ripiglia per l'altro.

  [1]  non sine Dei ope, divinoque consilio eam stragem
    perpetratam esse in numismate percusso docuit Gregorius.

  [2]  insistat fortiter neque curam asperis remediis
    inchoatam prosphere perdat leniora miscendo.

Gregorio quando avesse voluto operare diversamente non sarebbe
riuscito, imperocchè oggimai i gesuiti, e i teatini si arrogassero
verso i Pontefici l'ufficio che i profeti giorno esercitavano co' re,
e co' sacerdoti d'Isdrael; cresciuti nel deserto, custodi rigidi delle
vetuste discipline, di repente comparivano per rampognare, punire, e
correggere; assillato da cotesti mali cristiani, fino con 400,000
scudi per volta sovvenne Carlo IX nella impresa di lacerare da cima in
fondo la Francia; da lui prese vigore la lega contro Enrico III,
Enrico IV, quegli ucciso, questi ribenedetto dai preti perchè
picchiava forte, e spesso: egli istigatore delle ribellioni d'Irlanda
contro Elisabetta; egli irrequieto sollecitatore della guerra di
Spagna contro la Inghilterra; e in quella il Vicario di Dio parve
capire alla rovescia lo intendimento del suo padrone, però che una
ventata delle solenni mandasse a rotoli la grande _armada_; onde
Elisabetta, anch'essa, coniò la sua brava medaglia con le navi
spagnuole sottosopra, e il motto: _affiavit Deus et dissipatti sunt_.
Così degli uomini chi piglia Dio per un lembo, e chi per un'altro
secondo le sue bizze, ed egli infinitamente buono compassiona la
follia di tutti e si lascia fare.[1]

  [1]  Prova dell'arrogante potenza abbilo in questo, che mentre la
    gente tremava al solo pensiero di provocare l'ira di Sisto V, al
    gesuita Francesco Roledo, quando costui promesse a cardinale il
    Gallo suo servitore, bastò il cuore di predicargli in faccia:
    «allorchè si conferisce un'officio pubblico in mercede di
    servizi privati si pecca: non perchè uno sia buon coppiere, o
    scalco gli si commette senza nota d'imprudenza un vescovato ed un
    cardinalato.»

A questo Papa dobbiamo il lunario cioè commise lo acconciasse a un
Lilio calabrese, perchè i Papi da per loro non saprebbero nè
manco fabbricare lunari; in compenso rovesciò sul paese questi
altri danni: non volendo imporre nuovi balzelli sul popolo, e d'altra
parte abbisognando di danaro cominciò da sopprimere franchigie,
privilegi, e fin qui fece bene; poi sottopose a dazi la tratta dei
grani e qui fece male: inoltre ricercato sottilmente quali fossero i
beni feudali commise s'investigasse se fossero ricaduti alla Camera o
per linea estinta degl'investiti, o per censo insoluto e così
trovando si comperassero senza misericordia; prescrizione di tempo
remotissimo non bastava, conveniva produrre la prova del dominio; cosa
non pure difficile, ma impossibile; di qui universale sgomento; veruno
o pochi si tenevano sicuri; taluni erano spogliati; troppi più
tremavano di restare in camicia; agl'Isei levaron Castelnuovo, Corcona
ai Sassatelli, Lonzano e Savignano ai Rangoni de Modena, Alberto Pio
per evitare liti rendeva a patto Bertinoro; ma non si contentò la
Camera; ella volle anco Verrucchio: dopo lo sbigottimento, come
succede ecco sorgere il desiderio di resistenza, e col desiderio un
legarsi, un raccogliere armi; per ultimo un prorompere in manifesta
rivolta; rovinati per rovinati, dicevano i feudatari, giova morire con
le spade in mano per la salvezza dei nostri beni. Impedita la
libertà di commercio da questo Papa ignorante Ancona decadde per
risorgere mai più; dalle economie manomesse nacque perturbamento
nell'amministrazione, si rinfocolarono le parti, e procedendo di male
in peggio da prima le furono soperchierie, e subito dopo omicidi,
assassinamenti, e di ogni maniera immanità. A torme furono visti
masnadieri scorrazzare la Campagna, e le Marche, gli assoluti dai
Tribunali sovente essi condannavano e finivano; i dannati all'opposto
assolvevano, e allora assalito il carcere ne li traevano fuori. Li
conducevano uomini nobili, e prestanti nella milizia, un Piccolomini
principe di Amalfi, un Malatesta, uno Sciarra od altri di minor fama.
Il Papa spediva uno esercito sotto la condotta del suo figliuolo
Giacomo, con facoltà da disgradarne le moderne russe in Polonia, ma
non fece frutto, e ciò perchè essendosi egli alienati con le sue
improntitudini gli animi del re di Spagna, del Senato Veneziano, del
Granduca di Toscana, del Duca di Ferrara, insomma di tutti, questi si
pigliavano diletto a dispettarlo, offerendo asilo nei propri Stati ai
rifuggiti; nè per cosa al mondo consentendo a restituirli. E' fu
mestieri ch'ei concedesse perdono al Piccolomini; dicono, che leggendo
l'indice dei misfatti ch'egli ebbe a perdonare, lasciasse cascarsi
dalle mani il foglio come vinto da ribrezzo, ma gli toccò a provare
peggio, e fu (io lo dirò con le parole della relazione dell'oratore
veneto Priuli) che monsignore Odescalco avendo ottenuto si rendesse
certo prigione al _prete Guercino_ famoso masnadiere conosciuto col
nome di _Re della campagna_ tanto con questo mezzo gli divenne amico,
«che si è fatto suo procuratore per impetrare la liberatione sua
dal Pontefice, la quale era ordinata assolvendolo sua Santità da
_44 omicidi commessi_. Et mentre si faceva la espeditione, è venuta
nova che il ribaldo ha ammazzato _quattro_ suoi nemici in un castello.
Questi tristi se ne vanno di questa maniera burlando della giustitia,
et se bene potriano essere rimessi dalla gran benignità di Sua
Santità, pare non di manco non se ne curino. Niuna cosa più di
questa dà travaglio al Papa, perchè vede il disordine, e la
indegnità grande, pur non sa rimediarla.» Di vero anco questo
estremo oltraggio non gli fu risparmiato, però che offerta la
grazia a certo masnadiero Martinazzo, questi la ricusò dicendo:
«io non so che farmene, mi torna più continuare bandito, che
ridurmi a vivere in casa mia.»

Di Sisto V assai si favella, ma lo conoscono pochi; anco ieri leggendo
non so che Diario, vidi appuntarmi di averlo nel Paolo Pelliccioni di
troppo alterato: e' non sanno quello, che si dicano; non mai sommo
pontefice meritò più di lui il nome di sommo carnefice: nè io
lo infosco, bensì i suoi gesti; di vero quale concetto dobbiamo
formarci noi di un Papa il quale inaugura il suo pontificato con la
impiccatura di quattro giovanetti di Sora per l'orrore di portare
archibugi comecchè mostrassero la licenza del porto di arme loro
concessa da Mario Sforza luogotenente del Duca di Sora? E più tardi
senza nè anco forma di processo intendeva mandare alcuni sciagurati
alla forca, e udito come al suo fiero talento si opponessero le prime
norme della giustizia tempestando esclamava: «orsù processateli,
a patto che me gl'impicchiate prima di desinare, e abbiate in mente,
che stamane ho fame.» Forse parrà troppa la esecrazione al
Vicario di Cristo, al quale mentre altri dimostra non potersi con
l'ultimo supplizio finire un giovanetto per pochezza di anni dalla
legge reputato incapace di dolo, egli ferocemente beffando risponde:
«ciò non tenga, se gli mancano anni per mandarlo alla forca ecco
io gliene dono una dozzina dei miei[1].»

  [1]  Di Sisto V. nove vite, 4 stampate e 5 manoscritte; delle
    stampate sono scrittori _Robardi, Leti, Tempesti, Lorenta_; delle
    manoscritte _Gualterio, Galetino, Anonimo_, una altra vita
    emendata proprio da Sisto V; poi si hanno _Memorie autografe_
    dello stesso Pontefice, ed altre memorie; per ultimo le relazioni
    degli oratori Veneti Priuli, Gritti, e Badoero, ed i dispacci
    Veneti dal 1573 al 1590.

Danno a Sisto facile la lode di sterminatore di banditi, e ciò
ch'è peggio ai giorni nostri ripetono siffatto resultato doversi
alle immani asprezze di lui, e questo non risponde al vero; al
contrario si deve ai buoni uffici co' quali seppe nei primordi del suo
pontificato conciliarsi i principi circostanti, ond'egli gli ebbe a
provare benevoli quanto malevoglienti Gregorio, per la quale cosa
disperati di asilo, sicuri di non potersi oggimai sottrarre alle
meritate pene scomparvero: essendo anco a quei tempi per esperienza
conosciuto dai rettori di stato non la gravezza bensì la sicurezza
del castigo quella che tira indietro gli uomini da mal fare; la quale
sentenza occorre significata nei ricordi di messere Francesco
Guicciardini con queste parole di oro: «le pene eccessive... non
sono necessarie, perchè da certi casi esemplari in fuora, basta, a
mantenere il terrore, il punire e' delitti a 15 soldi per lira, pure,
che si pigli la regola di punirli tutti.» Di vero, quando Sisto
reputandosi bene assodato prese a fare il viso dell'arme ai principi
non più Filippo II ordinò ai vicerè di Napoli, e di Milano
obbedissero i comandi del Papa quanto e meglio dei suoi; Venezia, e
Toscana gli procederono avverse, e allora, che cosa gli valse segnare
ogni giorno della sua vita col taglio di una testa? Che i campi, le
strade, e le foreste gremite di pali co' capi mozzi fittici su? E che
salutare co' dolcissimi nomi quelli fra i suoi governatori i quali con
maggior copia di teste mozze lo presentavano? Sul declinare della sua
vita i banditi sguinzagliati dai principi tornarono a nabissargli lo
stato; Piccolomini in Romagna, Sacripante in Maremma, Battistelli
nella campagna di Roma; nel luglio del 1590 scorrazzarono fino alle
porte della eterna città: sopra gli altri principi infesto Filippo
di Spagna, il quale non andò immune dal sospetto di avere fatto
propinare il veleno a Sisto.

Ed anco i Baroni romani inaspriti da Gregorio egli si conciliò,
fino a dissimulare l'omicidio del suo nipote Felice commesso per
ordine di Paologiordano Orsino, il quale non si fidando di coteste
lustre si cansò con la sua Accorambona a Venezia; e a torto,
imperciocchè il Papa s'industriasse imparentarsi con le case
baronali Orsini e Colonna maritando due sue nipoti con Marcantonio
Colonna, e Virginio Orsini, assegnando doti, doni, ed elargizioni le
quali a cotesti tempi giudicate mirabili, oggi parrebbero immani; per
certo tra danari, gemme, entrate, e di ogni ragione comodi non
portarono le spose ai loro mariti meno di un milione di scudi per una.
A cui ben guarda in questa agonia d'imparentarsi con le precipue
famiglie baronali d'Italia ravvisa il villano che ha in uggia la
memoria del suo umile stato.--Il nipotismo da Pio V abolito rispetto
ad alienazioni in pro della famiglia del Papa di parte dei domini
della Chiesa, Sisto rinnovò in altra guisa e fu sbraciare a ribocco
entrate, e benefizi ai suoi congiunti. Provvide il cardinale Montalto
di una rendita di centomila scudi fra patrimonio proprio, e benefizi,
250 mila e più glieli donò in case, suppellettili, e vasellami;
poi cariche, offici a fusone tanto che fu estimato ed era il più
ricco cardinale di Roma; così alla stregua gli altri parenti.

Certo non sarebbe giusto censurare Sisto se difettò della notizia
dei precetti economici, che altri in queste faccende più versato di
lui, a quei tempi ignorava; tuttavia anco allora parve strano creare
debiti, e scorticare i popoli: per provvedere a immaginate
necessità. Stupenda mania di Sisto radunare pecunia, tantochè
Gregorio avendo lasciato l'erario al verde Sisto tenne sul serio che
costui avesse commesso peccato grave da doverlo scontare per lo meno
col Purgatorio; per lo che un bel giorno ordinò celebrassero non so
quante messe per l'anima di cotesto Papa morto spiantato. Sisto
pertanto durante il suo breve regno giunse a depositare al Castello S.
Angiolo 5 milioni di scudi di oro; che ragguagliati al pregio della
moneta dei giorni nostri farebbero un 300 milioni di lire; in vari
tempi vincolò l'uso di cotesto tesoro a varie costituzioni, che
volle giurate dai Cardinali, e furono non si spendesse in tutto o
parte eccettochè per riscattare la Terra santa dalle mani del
Turco, ovvero nella crociata universale contro lui, bene inteso
però non prima, che l'esercito cristiano non si sia trasferito a
proprie spese nelle terre degl'infedeli; ovvero se così tremenda
soprastasse la fame al popolo romano, che non sovvenuto perisse; del
pari in caso di moria: ancora, se qualche terra della cristianità
corresse pericolo di cascare nelle mani dei nemici della fede: a
più forte ragione, se fosse minacciato il dominio della Chiesa da
qualunque principe infedele o no, il quale non istesse già su le
mosse, ma fosse già mosso ai danni suoi: per ultimo se senza
spenderci danari non si potesse ricuperare taluna terra alla Chiesa, e
ricuperata conservarla. Questa costituzione corresse l'anno terzo del
suo pontificato dichiarando potesse adoperarsi il tesoro per
guadagnare provincie, o liberarle, a patto però che le dovessero
rimanere in potestà della Chiesa ossivvero, permutarle in altre
più proprie a benefizio di lei: insomma prestare a usura.--

I cinque milioni non furono nè anco quelli ch'egli ricavò dalla
pratica detestabile della Curia Romana, cui egli estese ai limiti
estremi, vo' dire creare nuovi uffici e venderli; di vero trovo come
da 36,550 uffici e cariche venduti egli tirasse scudi 5,547,630;
però depositava 547,630 scudi di meno di quanto aveva raccolto da
questo brutto mercimonio: fra gli offici esposti allo incanto ne
occorrono parecchi singolari, il Soldano ovvero carceriere di Torre di
Nona, i custodi delle _catene_, i Prefetti delle carceri, i Sensali di
Macerata, e perfino 100 Giannizzeri! Sicuro, il Papa teneva presso
sè i suoi Giannizzeri nè più nè meno come il Turco, e ne
raccattava la somma di scudi 68,000. Instituì ancora undici
_monti_, tre vacabili, e otto no; ovvero imprestiti redimibili, e non
redimibili. Ora bisognava pure in qualche parte pescare il danaro per
sopperire al soldo degli uffici venduti, e all'interesse dei monti,
che nel sottosopra puoi calcolare un venti per cento, epperò un
milione, e più di scudi; quando egli fu assunto al pontificato
scrivono la rendita della Chiesa sommasse a 1,746,814 scudi; alla
morte di lui toccava i 2,576,814 scudi, che fanno 830,000 scudi di
vantaggio; i modi, ch'ei pose in opera diversi affatto dagli usati da
Gregorio, o sia che non ci fosse più nulla da levare di sotto ai
feudatari, o sia, che Sisto volesse gratificarseli quanto gli aveva
tribolati il suo antecessore: tutto sottomise a dazio, grano, vino,
olio, le sostanze alimentarie di prima necessità, che più? Fino
le povere alzaie, che tirano sul Tevere contro corrente i navicelli in
compagnia dei bufali ebbero a pagare il balzello: alterò la moneta,
e barattatala con la buona, anco questa dopo averla falsata rivendeva:
buttò a terra il commercio aggravandolo di due per cento sul valore
delle merci introdotte nella città; le quali cose considerando il
Leti, quantunque si palesi ammiratore dei modi di amministrare di
Sisto, non può astenersi da confessare: «lasciò il popolo
così angariato, che da quel tempo in poi.... non si è sentito
parlare che di povertà e di miseria avendo continuato i popoli ad
essere esangui, e meschini.» Narrano come coteste diavolerie gli
mettesse in capo certo ebreo portoghese chiamato Lopez, ma io noto,
che i Preti nel magistero di piluccare danaro non hanno mestiero
d'insegnamento, e possono tenere cattedra; di consigli non voleva
saperne; in altri negozi talora si accomodava, ma in quanto a fare
quattrini Sisto non pativa avvertenze; però avendo consultato il
cardinale Albani di Bergamo, che cosa gli paresse del dazio sul vino
rispose: «io approvo tutto quello, che piace a vostra Santità,
tuttavolta, veda, approverei con più cuore, se questa tassa a
vostra Santità dispiacesse.» Quando la tirannide imperversa
questa opposizione apparirà anco troppa.

Celebrano autori così chiesastici come laici la magnificenza di
Sisto nell'ornare Roma di fabbriche eccelse, e veramente meritano
lode; però non fu, come pure si doveva avvertito, che spesso le sue
costruzioni attestano altrettante distruzioni, ovvero trasformazioni;
il famoso Settezzonio di Severo, reliquia davanti alla quale sembrava
si fermasse il Tempo per ammirarlo non per distruggerlo fu abbattuta
da Sisto e ne fece trasportare le colonne a San Pietro; gli era
entrato l'uzzolo addosso di buttare giù ogni cosa, tra le altre il
sepolcro di Cecilia Metella monumento illustre dei tempi della
Repubblica; i romani atterriti da questa salvatichezza fratesca, gli
stessi cardinali, eziandio quelli che più zelavano la fede
cattolica si misero intorno al Papa scongiurandolo a deporne il
pensiero, ai quali egli rispose: «che avevano torto perchè egli
aveva avuto in mente di torre via le turpezze, sostituendo edifizi
degni di ammirazione.» A malincuore pativa albergare nel Vaticano
le statue di Apollo e di Laoconte; dal Campidoglio poi risoluto le
mandò via; anzichè sopportarcele gli avrebbe dato fuoco: ebbero
ad esulare dalle sedi terrene Giove e gli altri Dei consenti come
già furono banditi dalle celesti: la terra e il cielo governano
fati inesorabili! solo trovò grazia al cospetto del Sacerdote del
nuovo Dio Minerva a patto, che deposta la lancia pigliasse la croce;
così Pallade cecropia fu vista con l'elmo in testa, la gorgone sul
petto, e la croce in braccio in sembianza di convertita alla religione
cattolica romana. In pari guisa, remossa dalla cima della colonna
traiana, l'urna la quale, secondo che ricordava la fama, conteneva le
ceneri di Trajano, ci fece porre la statua di bronzo dorato di San
Pietro, e gliela dedicò, per guisa che sembra lo Apostolo abbia
operato le imprese contro i Parti e i Daci non già Traiano; non
diversamente si comportò con la colonna antonina eretta dalla
pietà di Marco Aurelio al suocero benemerito Antonino Pio, Sisto la
incoronò con la statua di bronzo dorato di S. Paolo e gliela
offerse in dono, onde S. Paolo a questo modo sembra il domatore dei
Marcomanni, impresa che si contempla scolpita a vitalba intorno alla
colonna: in entrambe Sisto procurò s'incidesse il suo nome, e se
così giovasse, a poca spesa acquisteremmo nome di supremo
fabbricatore fra quanti vissero e vivranno figliuoli dell'uomo. Degli
obelischi non parlo anch'essi dallo Egitto trasportati a Roma dapprima
onorarono gli astri, poi gli uomini. Sisto parve quasi un Nume per
averli drizzati sopra la base, in Egitto coloro che li svelsero dalle
viscere della terra non furono tenuti per superiori agli uomini.
Storici che scambiano la storia co' panegirici gli attribuiscono
molti, e sperticati disegni; tra gli altri quello del taglio dello
stretto di Suez, che avrebbe tronche le ale al moderno Lesseps; forse
egli potrà averli concepiti, ma per uomo di stato piccolo vanto
è questo; imperciocchè d'immaginazioni Ludovico Ariosto sapesse
partorirne più stupende; il nodo sta a chi governa di attendere a
cose proporzionate alle forze, e con indefessa cura ridurle in atto e
compirle. Rispetto a politica terminò peggio di Gregorio XIII
essendosi inimicati il re di Spagna, e i Guisa senza guadagnarsi
Enrico IV, che non fatto capitale di lui, anzi contro lui si propose
re alla Francia; se cotesto re, abiurate le dottrine tornava in grembo
alla Chiesa, ciò accadde più tardi non per opera di Sisto
bensì per quella di Clemente VIII.

Notai come la fede cattolica prevalesse a furia di fuoco, e di forca
in Italia e nella Spagna; adesso mi occorre aggiungere che parve anco
volesse allagare sempre a modo di lava nei Paesi-bassi, in Francia, in
Germania, e perfino nella Svezia, ma l'arco teso si ruppe; la ragione
calpestata levò la testa tornando più gagliarda alle lotte, che
all'ultimo non perde mai, anzi qui in Italia dove il trionfo del
cattolicismo sembrò intero cosicchè i Preti pensarono potere
tornare in ballo co' miracoli di Madonne, che piangevano, ridevano, o
favellavano, e talora apparivano traverso un pagliaio, tale altra su
di una siepe; qui nella potente Italia cessati gli studi teologici, e
la opposizione scolastica lo ingegno si raccolse pigliando a
consultare il _manoscritto originale di Dio_, vale a dire l'universo e
la natura, buttati via i libri dei dottori: anco qui la Chiesa romana,
quasi per istinto avvertita del pericolo, accorse a spegnere; a che
prò? Ella non poteva immaginare, che meglio di venti cattedre
avrebbe distrutto l'ammasso dei suoi errori un fornello di chimica;
gl'Italiani devono, per così dire, ringraziare i Papi se scacciati
dal sentiero dove sarebbero riusciti calvinisti, o luterani, o
socciniani trovarono la strada della filosofia: le sette più o meno
si proposero a fine la riforma, emenda, non estirpazione di errore; la
filosofia di altro non si appaga, tranne dell'assoluta verità.
Senza jattanza, per me credo, che verun popolo al mondo racchiuda in
sè come lo italiano nostro istinto ed attitudine non di riformare,
bensì di trasformare la vita della umanità.

Seguono tre Papi, che poco fanno e male: dirò succinto di loro.
Intanto è degno di considerazione grandissima come secondo tira il
vento gli uomini mutino voglie e concetti. Nella politica occorrono di
tre maniere teorie, talune precedono più o meno lontano i fatti e
queste talora imbroccano, e talora no; altre sorgono contemporanee ai
fatti, e queste quasi sempre troviamo fallaci perchè più che da
ragione dettate dalla passione; altre poi si cavano fuori dalla
materia dei casi accaduti; e queste per ordinario danno ottimo
argomento di governo. In questi tempi furono sposte teorie strane e
per la sostanza, e per gli uomini, che le professavano; i chiesastici,
i gesuiti, soprattutto il più assoluto diritto dei popoli per
isgararla contro principi eretici bandivano: il solo Papa preposto da
Dio al potere spirituale; non così al temporale; nondimanco anco
questo gli sottostà a mo' che il corpo serve all'anima: certo il
Papa per ordinario non esercita autorità alcuna sopra le leggi
degli altri stati, ma se il principe negasse ostinato una legge
necessaria alla salute delle anime, ovvero volesse imporne un'altra
dannosa il Papa non solo può ma deve ordinare la prima ed abolire
la seconda.--Errore solenne credere, che Dio abbia conferito
all'individuo facoltà regia, ei la concesse al popolo universo;
però in lui il potere, e in lui la facoltà di torlo ovvero darlo
altrui; così il Bellarmino, il Sa negli Aforismi pei Confessori
cavati dalle sentenze dei Dottori, Suarez ed altri parecchi: il
Mariana nel trattato del Re, e della sua instituzione detta il
panegirico di Giacomo Clemente il quale innanzi di uccidere Enrico III
volle consultarsi con teologhi profondi in divinità: un'altro
gesuita, il padre Boucher predicava: veruno potersi presumere
legittimo re se non eletto dal popolo; solo un confino posto alla
libera volontà di lui, e questo consistere nella scelta dello
eretico; dove ciò faccia, la maladizione di Dio gli cascherà sul
capo. Quando innanzi al Parlamento di Francia si deliberava sul
partito della cacciata dei Gesuiti comparve un libretto di massime
tratte dagli scrittori chiesastici, massime Gesuiti ostili ai
principi, e come i Francesi costumano quando la vogliono spuntare ne
diffusero a centinaia di migliaia anco per la Italia, e per la Spagna;
oggi a ristamparlo in Parigi ci sarebbe il caso di rifinire in
prigione. Simili dottrine poi non mica invise al popolo, all'opposto,
da lui professate smanioso come quelle, che servivano al suo talento
di contradizione, ch'è l'anima dell'anima del popolo francese, e
Filippo II (mirabile a dirsi!) travolto dall'agonia di soverchiare la
Francia le accetta, e le promuove anch'egli potendo più in lui la
rabbia di nuocere agli emuli, che la necessità di provvedere a
sè.

Per converso i protestanti sovvertitori nella fede, procedevano
conservatori nella purità della monarchia sostenendo: Dio solo
impone i principi al genere umano; a lui il diritto di suscitare, e
atterrare, concedere, ovvero torre la potestà. Certo ai dì
nostri il Signore non cala sopra la terra per regalarci un re, ma per
virtù sua ogni stato osserva certe leggi nella elezione del
principe; per modo, che se un principe venga promosso a norma di
quelle, si può dire, che la voce di Dio ammonisca i popoli ad
obbedirlo per re; da lui poi pendono i re avvenire per diritto
legittimo di successione. Alla legge bisogna stare; se la si potesse
offendere sotto pretesto delle colpe del principe, addio stati; la
eresia non libera dall'obbligo della obbedienza, perchè in ciò
che offende Dio non hai ad obbedire; nelle altre cose sì.--

Appena però il Papa, e i re ebbero messo in comune manette, sbirri, e
carnefici, la Chiesa buttò via le dottrine sovvertitrici; da quel giorno
in poi, ella non rifina mai bandire che i popoli hanno ad obbedire sempre
ai re, e in tutto e per tutto; e non le mancano autorità; prima Cristo,
dopo Paolo: il primo lo volle significare col detto: «date a Cesare
quello, ch'è di Cesare.» più chiaro l'altro: obbedite ai principi
_etiamtsi discolis_. Passione vince prudenza anco nei savissimi, sicchè
a seconda l'interesse più urgente l'uomo stesso sostiene a volta a volta
il diritto, e il rovescio; e talora eziandio nel medesimo punto, donde la
perdita di reputazione nelle autorità e la voglia nei popoli di
sovvertirle quando cascano in dispregio.--

Chi volle ridurre il processo del Papato a teorie afferma, che il
Conclave tenne nello eleggere i Papi questa ragione, al rigido surroga
il mansueto, al parziale per Francia lo zelatore per Austria; ma non
pare vero, almeno sempre; e così essendo siffatte alternative
accadono non mica per consiglio, bensì per irrequietezza dei
cervelli umani. Di vero, che Giovambattista Castagna ovvero Urbano
VII. sostituito a Sisto V. si sarebbe mostrato diverso da Sisto non
comparisce; anzi sembra lo indicasse egli stesso, allorchè sedendo
a mensa con altri cardinali e con lui non rinvenne pera, che non fosse
fradicia esclamò:--è tempo che le pere cessino; Urbano VII.
durò nel papato non bene intere due settimane: ombra che segna la
sua apparizione su le pareti del Vaticano e passa.

Ora la Spagna nel presagio che Francia pigli il sopravvento propone, o
piuttosto impone al Conclave uno strano partito; ella farebbe una nota
di sette candidati; eleggessero tra questi cardinali il Papa; non
piacque; nè Spagna nè Francia la spuntano; il nipote di Sisto V.
cardinale di Montalto incapace a creare il Papa, attissimo ad
escluderlo se non gli garbasse; pure si accorda a promovere colui che
gl'incresce meno: di qui la elezione di Gregorio XIV. Costui
sparnazzò la pecunia improvvidamente raccolta da Sisto V. in usi
improvvidissimi; sovvenne la lega di Francia contro il Re di 15,000
scudi il mese, e di fanti e di cavalli condotti dal suo nepote Ercole,
e se non bastavano prometteva maggiori soccorsi: rinnovò la
scomunica a danno di Enrico IV, spedì fino negli Svizzeri ad
arrolare fanti con danari, e indulgenze; se queste operassero meglio
di quelli non è chiaro, perchè gli uni e le altre buttavano con
la pala, e gli Svizzeri avuti i quattrini pigliavano anco le
indulgenze, che a qualche cosa a quei tempi la gente le credevano, e
troppo anco ai nostri le credono buone: morì dopo 190 giorni di
pontificato: ben pel mondo che morì presto; unico elogio degno di
lui. Da capo gli Spagnuoli propongono sette cardinali, ed il Conclave
fra questi elegge Giovannantonio Facchinetti da Bologna; anch'ei fu
lampo, ma di luce maligna però che spedisse pecunia alla lega,
consigli ad Alessandro Farnese per mantenere in subbuglio la
cristianità. Adesso quelli, che l'odio divise, accorda, come per
ordinario succede, l'interesse; i cardinali spagnuoli acconsentono a
non procedere più ostili alle creature del Montalto, e questi per
compenso promette non avversare i parziali di Spagna, che subito si
pone coll'arco del dosso a fare riuscire il suo, il quale si chiamava
Santorio, ed era cardinale di Sanseverino; in lui accadde una
stranissima cosa; già lo credevano eletto; i camerari secondo l'uso
davano il sacco alla sua cella; già gli emuli prostrati lo
supplicavano di perdono, ed ei facile concedeva, dichiarava in pegno
volersi appellare Clemente, tuttavia tremavano, avendolo a prova
sperimentato feroce, quando ad un tratto il cardinale Altemps
verificando trova mancare un voto ai due terzi onde la elezione
diventa legale: allora preso coraggio dal pericolo il cardinale
Ascanio Colonna esclama ad alta voce: «egli è chiaro; qui si
vede che Dio non vuole Sanseverino, e nè anco io lo voglio.»
Ripresero gli scrutini, e ad ogni volta egli perdeva voti i quali si
logorarono sopra cinque; finalmente rimase eletto Ippolito
Aldobrandino, che buono o reo consiglio lo persuadesse volle accettare
il nome di Clemente scelto prima dal Santorio. Quale e quanta
l'ambascia di questo non si crederebbe oggi, se avendo scritto egli le
proprie memorie non ce ne avesse lasciato testimonianza irrecusabile;
«la notte successiva, egli narra, fu la più dolorosa di tutta la
mia vita; l'afflizione profonda, l'ansietà dell'anima (mi
attenterò a dirlo?) fecero trasudare da tutto il mio corpo
sangue!»

Chi Clemente VIII fosse non importa ricordare; nacque da Silvestro
Aldobrandino fuoruscito di Firenze per colpa piuttosto di avere odiato
il tiranno, che amato la libertà: fu grasso, fu avaro, fu gottoso,
cupo, giurisperito, e ladro insanguinato; all'Austria caro per avere,
negoziando, tratto fuori dalla prigione di Polonia lo arciduca
Massimiliano. I principali fatti di lui questi: Enrico IV. assoluto,
Ferrara ripresa, la famiglia Cenci assassinata per libidine di
ricchezze: l'ultimo delitto negò temerario quanto inverecondo un
Gesuita in certo suo libro impresso a Milano, e inutilmente,
imperciocchè F. D. Guerrazzi nella ultima edizione della Beatrice
abbia chiarito la malignità di costui con documenti usciti dalla
mano propria del medesimo Papa. Quanto a Ferrara, la rabbia, bisogna
dirlo, era fra i cani: i vulgari su la fede dei poeti credono che il
magnanimo Alfonso fosse magnanimo davvero; le città sotto il suo
dominio diventarono deserte; nabissati i canali, le riviere ostruite,
per sabbie ammonticchiate la navigazione sul Po impedita: il duca
venditore esclusivo del sale, esattore di un balzello sopra tutti i
contratti, qualunque derrata entrasse in città aveva a pagare il
dazio; ma questo anco ai dì nostri costumasi con la giunta del
bollo; quello che non si costuma fra noi è il principe, come
Alfonso di Ferrara, unico fornaio dello stato, e impiccatore di sei
miseri co' fagiani legati ai piedi uccisi nel parco ducale: di
omicidii commessi per via di sicarii non si parla nè manco.
L'Ariosto nell'Orlando lo leva a cielo; nelle satire è altra cosa.
Il Tasso sel sa se meritava le laudi che prodigo troppo gli sbraciava:
il mondo sa la lunga prigionia a cui lo dannava, ma forse una causa
più o meno giusta per questo possiamo supporre ch'egli avesse, ma
il mondo ignora come lo lasciasse penuriare così anco nei giorni di
favore da obbligarlo di mettere in pegno allo ebreo certi arazzi di
casa e perfino le camicie; ed io non so immaginare sfregio più
grave di quello, che gli fece quando con questi due versi ordinò
gli desse il suo fattore una botte di vino:

   _«Una botte di vin sia data al Tasso,
    «Mangi, beva, poeti, e vada a spasso!»_

E più tardi scrivendo il Tasso al duca di Urbino ecco a che
riduceva in prosa il magnanimo Alfonso cantato in versi: «il duca
per naturale inclinazione è dispostissimo alla malignità, ed
è pieno di una certa ambiziosa alterezza, la quale egli trae....
dalla coscienza del proprio valore, del quale in molte cose non si
dà punto ad intendere il falso.»--

Disperato di prole, e pure repugnante a menomare la sua autorità,
tardi elesse Cesare cugino suo erede, il quale ammonito come Clemente
intendeva ricuperare ad ogni patto Ferrara feudo chiesastico
deliberò mostrare il viso alla fortuna raccogliendo armi ed armati,
munendo le fortezze, e facendo ogni altra provvisione di esperto
capitano di guerra; e il Papa dal canto suo non si arrestava;
anch'egli data la stura ai tesori di Sisto arrola eserciti, ammannisce
grande apparecchio, conduce generali illustri, e non omette
scomunicare Cesare con parole esecrabili, a suono di trombe e di
tamburi, mentre le campane rintoccavano a morto, e gittando, giusta il
costume, dalla loggia di San Pietro una torcia accesa sopra la piazza
del Vaticano: però le sarieno state novelle, se Spagna non pativa,
che il Papa facesse, e Francia non lo aiutava a fare; Cesare di Este
assai si confidava a Filippo, tanto, che lo propose arbitro della
lite, e si profferse mettere presidio spagnuolo nelle sue fortezze;
non meno si riprometteva da Enrico avendolo gli Este sovvenuto nelle
sue angustie di un milione di scudi, il quale se gli fosse stato
restituito gli dava abilità di mettere insieme tale uno esercito da
contrastare qualunque più potente principe della cristianità non
che il Papa, tuttavia al maggiore uopo gli venne meno ogni cosa;
Filippo vecchio, e sfiduciato, vinto ormai dalla sua impotenza
piuttostochè persuaso della umana pochezza come dal suo testamento
si manifesta rifuggiva a commettersi da capo alle ansiose vicende
della guerra, però scrisse ai suoi Vicerè d'Italia lasciassero
correre: Enrico era nemico mortale della gratitudine: troppo gran
servizio il milione di scudi, ond'ei potesse rimunerarlo con altro,
che col perseguitare il creditore; e poi lo stringeva necessità di
tenersi bene edificato il Papa, il quale o favellasse sincero oppure
fingesse sempre dubitava della lealtà della sua conversione, per la
quale cosa non gli parve vero potere gratificarselo alle spalle
altrui; e da ciò venne che non solo consentì al Papa di operare
a modo suo, ma sì gli scrisse avrebbe mandato in soccorso di lui
uno esercito intero oltralpe, e se non bastava sarebbe accorso in
persona: se poi lo avesse fatto, è un'altro paio di maniche. La
Corte romana per lo inopinato ardore di Re Enrico andò in
visibilio; di eretico dannato al fuoco eterno per poco non lo
salutarono Giuda Maccabeo, e Gedeone. Il cardinale di Ossat gli
scriveva: «non ho parole, che bastino per significarle quante lodi,
benevolenze, e benedizioni la Maestà vostra siasi tirate addosso in
grazia delle sue profferte.» Don Cesare abbandonato dagli amici di
fuori, dentro insidiato ebbe a cedere; Clemente acquista Ferrara, la
quale da prima resse benigno, poi mano a mano acerbo, più acerbo, e
finalmente acerbissimo; tanto, che per sospetto volesse il popolo
ferrarese dare la balta il Papa ci fece costruire la fortezza, e i
Ferraresi si condussero a lamentare il dominio estense; cosa
d'altronde ordinaria nelle tirannidi, che la nuova desti il desiderio
dell'antica non perchè paia quella più dura, ma veramente sia.

L'assoluzione di Enrico IV fu negozio, che dopo averlo succhiellato da
una parte e dall'altra visto che tornava ad ambedue si sarebbe tosto
conchiuso, ma il Papa andava giravoltando un po' per tema di Spagna,
un po' per cavarne più, che potesse: così tentato prima Filippo,
che ormai, come avvertii, aborriva da nuove guerre, ed impartita al
negozio indole religiosa per modo che il piissimo Re spagnuolo
l'avesse a trangugiare lodandolo aperto, ed in segreto maledicendolo
poteva avventurare il passo, ma allora appunto cominciarono le ambagi
di Roma; tuttavia quando tirate troppo le corde fu temuto, che le si
rompessero il Papa calò, molto più che nel mezzo tempo Enrico
faceva a vittoria succedere vittoria; in Francia per la solita voglia
di saltare dallo scacco bianco al nero, o piuttosto per paura accadde
un solenne voltolone. La Sorbona revocando i suoi decreti dichiarò
la monarchia d'istituzione divina, necessaria la obbedienza al Re
quantunque respinto da Roma, e poichè il becco emissario ci ha da
essere sempre questa volta toccò ai gesuiti; anzi in quel torno un
Giovanni Chatel avendo assalito Enrico per ammazzarlo e trovato che a
costui avevano guasto il cervello le prediche dei gesuiti, questi
ebbero ad uscire dal regno come seduttori della gioventù,
perturbatori della quiete pubblica, nemici dello Stato e del Re.--I
patti apposti alla assoluzione del Re non gravi per ora quanto alla
sostanza, ma quanto all'apparenza eccessivi, imperciocchè Enrico
dovesse farsi rappresentare da un'oratore a posta il quale nel portico
di San Pietro genuflesso ebbe a leggere la supplica regia, e a
sopportare di essere percosso con le verghe su le spalle secondo il
rito di Roma quando assolve gli scomunicati.--

Dicono che Enrico esclamasse:--Parigi vale bene una messa!--Se questo
dicesse ignoro; certo parmi che da eroe non adoperasse, bensì da
uomo di stato valoroso, imperciocchè secondo che avviene nei
perturbamenti politici, le parti estreme si fossero combattute, e
stremate; gli eccessi vicendevoli le avevano scemate di credito, e la
parte mezzana standosi da canto cresciuta di forze, ampliata di
aderenti per avere quiete accettava il Bearnese a condizione si
rendesse cattolico; e il Bearnese considerato, che contro questa parte
non sarebbe mai venuto a capo nè anco se i suoi ugonotti fossero
stati interi, epperò molto meno poteva riprometterselo adesso che
erano laceri; pensando altresì come a cotesta parte per vincere
basti stare fermo, di un tratto staccatosi dagli amici, a piè pari
le salta in mezzo, e regna.--

Anco il Papa ci fece il suo civanzo, oltre quello che apparve
stipulato, e questo fu, che si amicò la Francia senza romperla con
la Spagna, onde alla occasione si procurava la scelta della
servitù; alla Italia poi invece di uno pose sul collo due gioghi,
consueti doni del Papato. Di Alessandro dei Medici, che prese nome di
Lione XI altro non è a dirsi, eccettochè visse soli 27 giorni; i
Francesi, i quali lo reputavano a loro propizio ci spesero per
ispuntarla contro gli Spagnuoli 300,000 scudi; li giuntò la morte,
e per questo li posero in canzone gli Spagnuoli, che messi su
l'avvisato attesero con diligenza maggiore alla nuova elezione donde
uscì fuori Cammillo Borghese in fama di loro parziale, che tolse
nome di Paolo V.--Anco di lui breve, comecchè agitasse gravi cose,
ma all'argomento nostro non pertinenti; poco seppe dei governi del
mondo sprofondato negli studi forensi nei quali acquistò nome di
sofista, e d'ingegno cupido, mascagno, e presuntuosamente cocciuto;
siccome per essere eletto Papa egli si astenne dai soliti intrighi,
ebbe fede sul serio trovarsi assunto alle somme chiavi per virtù
dello Spirito Santo; oltre questa fede egli n'ebbe un'altra, e fu, che
lo avessero ad uccidere di ferro, o di veleno; per la quale cosa
sospettando di tutto, e di tutti viveva misera vita; impaurito
atterriva, e a danno suo lo seppe il misero Piccinardi cremonese, il
quale compose non so quale poema satirico nè manco in ispregio di
lui, sibbene in odio di Clemente VIII; il misero poeta non lo aveva
per altro pubblicato con le stampe, anzi lo teneva sotto chiave; lo
denunziò una donna; Paolo ne prese occasione per ispaventare, e
siccome la voglia sua parve piuttosto immane, che feroce, magnati
Romani, oratori di principi amici lo supplicarono per cotesto fallo
non volesse fare sangue, ed ei lo promise: ma quando se lo aspettavano
meno gli mozzò il capo a Santo Angiolo, e ne prese i beni.
Proseguendo nella tumida presunzione scomunica il reggente di Napoli
per avere dannato alle galere per cause attenenti ad interessi
chiesastici un protonotario, e un libraio; si arruffa con Savoia a
cagione di benefizi, con Genova per avere vietato le assemblee dei
Gesuiti scuola perpetua di subbugli, con Lucca la quale ordinò i
decreti degli officiali del Papa non si eseguissero se non dopo
ottenuta l'approvazione del Governo; con Venezia poi molti e vari i
capi di contesa nè spirituali tutti; litigavano pei confini su quel
di Ferrara, per le pesche, e per la navigazione del Po; il legato di
Ferrara fece pigliare alcune barche peschereccie dei Veneziani; questi
per rappresaglia si portarono prigioni una frotta di papalini, e con
navigli armati sostennero a forza le loro ragioni. Ma il Papa più
pertinace che mai pretende i diritti regali su Ceneda, e i Veneziani
non gli danno retta; egli ordina i giudizi dei tribunali vescovili
della Venezia si deferiscano a Roma, i Veneziani minacciano a cui
obbedisce guai; il Papa scomunica i renitenti, i Veneziani provvedono
non sorta effetto civile la scomunica: poi venne il negozio delle
decime; il Papa le volle per sè, non le potendo ottenere,
dispensava da pagarle; se non le poteva esigere egli nè anco i
Veneziani le dovevano avere; anco su i libri si levarono querimonie
infinite: larghi i guadagni di questa industria a Venezia; il Papa si
affaccendava quotidianamente a proibirli mettendoli allo _Indice_; a
questo mo' impedito che a Venezia si stampassero e altrove emendati
alla sua maniera procurava si pubblicassero a Roma: questo volgere
l'autorità spirituale in prò della bottega uggioso sempre,
insopportabile adesso perchè lesivo gl'interessi del commercio, di
cui ogni mercante è tenero, e i Veneziani ne furono tenerissimi. I
Veneziani dal canto loro non tenevano le mani a cintola, e con lo
escludere dalle assemblee chiunque tra loro per professione, e per
elezione dipendesse da Roma, taglieggiare il clero fino alla carne,
pretendere, che i benefizi ad altri, che paesani non fossero, non si
avessero a conferire, e questi soli presiedessero alla inquisizione,
vigilare ogni ritrovo chiesastico, impedire, che pure un quattrino
ricapitasse a Roma rendevano pane per focaccia. Insomma alle romane
improntitudini significate a questo modo, che gli stati volendo anco
in minima parte mescolarsi nei negozi della Chiesa, dirigerli, molto
più contrastarli commettevano tirannide pagana; lo imperatore non
può giudicare i Papi, ma sì i Papi gl'Imperatori; l'anima ha da
vincere la carne, lo spirito supera la materia: da quando in quà la
pecore si rivolterà al suo pastore, o lo vorrà sermonare? Il
sacerdote va esente da qualsivoglia balzello; ha da essere pagato non
già pagare; egli appartiene alla famiglia di Cristo: mirate i
Leviti, tutto Isdrael contribuiva loro la decima. E i sacerdoti non
rendono con inestimabile usura questo po' di benefizio terreno
pregando pei peccatori, ed offerendo il sagrifizio? Da Cristo scende
il sacerdozio cristiano così, che spento l'ultimo prete
(inorridisco a pensarlo!) preti non se ne potrebbero trovare più
nè anco a pagarli cinquanta centesimi l'uno; degl'Imperatori, dei
Re, Duchi, Granduchi, Arciduchi _eccetera_ poi il popolo ne possiede
la stampa. Tanto affermano il vecchio, e il Nuovo Testamento, i
dottori della Chiesa, i Concili, e perfino le Bolle dei Papi.

Tra i Veneziani allora viveva un frate servita Paolo Sarpi uomo di costumi
illibati, dotto in molte maniere di sapienza umana, d'ingegno acre, e
battagliero, indefesso agli studi, nelle dottrine canoniche singolare; e
per di più padroneggiato da passione dominante, che era l'odio contro
l'autorità temporale dei Papi: il Senato l'oppose a Roma; e il Sarpi
solo dimostrò col vangelo, co' dottori, ed anco con i Concili (perchè
ce ne ha di tutti i colori) che tutto potere ci viene da Dio e lo ha detto
l'Apostolo (il quale se la poteva risparmiare) che ogni persona è tenuta
ad obbedirlo, e lo ha detto Dio; al principe sta dettare le leggi,
giudicare la gente, imporre le gravezze, ed in questo così chierici come
laici dovergli sommissione: per nulla le prerogative del principato
eccezione del sacerdozio; al contrario quelle del sacerdozio concessioni
del principato; questo dette alla Chiesa possesso e giurisdizione, e l'è
protettore, anzi patrono; da lui pertanto a buon diritto dipendono la
nomina ai benefizi; e la pubblicazione delle bolle, e via discorrendo. Gli
è chiaro che riusciva più agevole mettere insieme l'acqua e il fuoco,
che queste due pretensioni contrarie, si venne alle rotte, e il Papa
scomunicò il Doge, il Senato, tutti i magistrati della repubblica, e
segnatamente i _consultori_; impose altresì ai preti pubblicassero la
scomunica dagli altari, o affiggendola alle porte della chiesa, a chi
mancasse guai in questo mondo, e nell'altro. Il Doge Leonardo Donato,
eccetto un po' di decreto stampato in un quarto di foglio col quale
ammoniva il clero a non curarsi di quelle grullerie, ed a continuare nel
debito verso la Patria, non se ne dette per inteso. Avvertiti i Dieci come
certo parroco si fosse vantato bandire la mattina di poi la scomunica,
notte tempo gli fecero rizzare le forche dinanzi alla Canonica, e bastò;
al Vicario di Padova, il quale interrogato dal Provveditore, che cosa
intendesse praticare circa la pubblicazione della scomunica, rispose:
«io farò quello, che lo Spirito Santo m'ispirerà.» Il medesimo
soggiunse: «reverendissimo ci pensi due volte, perchè io so di certo
che i Dieci hanno risoluto impiccare qualunque prete a cui lo Spirito Santo
inspirasse la pubblicazione.» Lo Spirito Santo, certo per non mettere a
repentaglio il Vicario, si astenne da ogni ispirazione. Ricorrendo la festa
del _Corpus Domini_ il Senato provvide si celebrasse con solennità
straordinaria, e così come sapevano i nostri maggiori mostrarono ai
preti che mal presumono trafficare su Cristo come cosa di loro privativa:
Cristo è dei cristiani, e meno di ogni altro di loro. Roma arrovellando
voleva dire, e fare; quanto a dire ella mantenne la promessa anco troppo,
quanto a fare e' fu diverso; la guerra rimase alle minacce; non così
circa allo assassinio del povero fra Paolo; la prima volta fu spedito da
Roma Rutilio Orlandini per ammazzarlo; di presente gli pagarono un mille
ducati; compita la strage avrebbe avuto, chi dice 5000, e chi 50,000
ducati; egli prima di partire mostrò a Flavio di Sassoferrato
l'assoluzione del delitto il quale stava per commettere: non importa nè
anco notare che i preti negano a spada tratta; ma che non negano, quando
torna loro i preti?

E tuttavia si avrebbero a ricordare, che il Cardinale Barberini poi
Urbano VIII, andava in Parigi promettendo nonchè assoluzione
indulgenza a cui ammazzasse fra Paolo, Clemente VIII, aveva concesso
mediante uno elegantissimo breve in virtù del quale era dato
facoltà a taluni cittadini di Rieti di spengere senza sospetto di
pena in questa e nell'altra vita gli assassini del padre loro.
L'Orlandino, messo appena il piede su quello della repubblica, fu
preso, e strozzato in un bacchio baleno: più avventuroso, o
piuttosto più misero di lui Ridolfo Poma il quale forse pei
conforti del Papa stesso, e certo poi di Cardinali, Prelati, e
Chiesastici di ogni risma legatosi con parecchi preti, e parecchi
ribaldi assalito a tradimento il Sarpi presso al suo convento nella
contrada di Santa Fosca lo lasciò come morto per terra trafitto da
venti coltellate. Tuttavolta ei sopravvisse, e all'Acquapendente, che
nel medicargli quella delle ferite la quale dalla manca orecchia
destra gli passava tra il naso e la guancia notò non averne mai
veduto altra più strana, egli avvertiva: «la è fatta _stylo
romanae Curiae_.» Nè qui rimase l'odio, che non perdona mai,
imperciocchè Roma non aborrisse a gran pezza Calvino, e Lutero
quanto fra Paolo; s'industriarono farlo avvelenare nel cibo, ovvero
nei panni co' quali curava certe sue infermità emorroidali;
essendosi salvato il Poma lo ridussero prima al disperato, poi lo
aizzarono a tentare da capo assassinarlo; e così durarono un pezzo
le insidie finchè la coscienza pubblica in Italia, in Francia, e in
Germania si rovesciò contro la infamia di Roma: allora il Papa, e i
preti si avventarono a un tratto su quanti poterono mettere le mani
addosso, e come dettava loro la paura di rivelazioni temute, la rabbia
di minacciosi rimprocci e la speranza inane di coprire con la ferocia
nuova la complicità antica gl'imprigionarono strepitosi, in mezzo
ad apparecchio eccessivo, e li posero in parte dove non videro più
luce: intanto i Veneziani in silenzio avevano agguantato gli altri, e
segretamente consegnati all'acqua o alla terra. Interpostosi Enrico
IV, tutti questi dissidii si composero; i Veneziani in apparenza
piegarono, in sostanza no, chè mantennero inalterata la propria
giurisdizione sul clero, e la legge intorno i beni stabili
chiesastici. Assettate le controversie venete Paolo ad altro non
attese, che a fabbricare congregazioni, instituire ordini religiosi,
ed a promovere lo incremento di casa Borghese; ai tempi suoi si
rinfocolò più che mai tra Gesuiti e Domenicani la lite intorno
la immacolata Concezione; quelli l'affermavano, questi la negavano, ei
fe' silenzio, e messosi in mezzo impose silenzio ad ambedue come per
riservarne la gloria di deciderla al nostro Pio IX; e vietò anco
un'altra cosa, e fu che il Galileo si astenesse come da eresia dallo
insegnare la dottrina del moto della terra: altro non occorre dire di
lui, ed è già troppo il detto.

Ormai la storia del Papato diventa di papa in papa più inutile pel
nostro scopo; ora coglierò in qua e in là qualche fatto, il
quale confermi il concetto, che egli da sè come potenza temporale
non può reggere: commesso alla protezione di potenze straniere si
sente sbatacchiato ora da questa parte, ed ora da quella, servo
spregievole e mal fido, sicchè lo Spirito Santo uccello smarrito
batte incerto l'ala senza più sapere dove ei si abbia a calare.
Gregorio XV. tenta riprendere lo spirituale per servirsene di leva a
rifare lo stato; ma lo spirituale solo non fa prova, ed ei reputa
venirne a capo stringendosi in società con l'Austria; però
mettono in comunella fra loro sacramenti, e carnefici, missionari, e
sbirri; l'Austria tiene i popoli pei piedi, il Papa li converte con la
corda al collo; e tuttavia ella parve prevalere; la Germania rimase
inondata di frati predicatori, le prediche dei quali se convertivano
tanto meglio, se non convertivano subentravano i soldati a disertare
gente e paesi; felici i banditi! Le missioni, seme di rabbia, e di
furore in Europa, attecchirono in America, e ciò perchè in
Europa opprimevano, in America parevano affrancare; fra popoli eruditi
Roma faceva ufficio di spegnere, tra ignorantissimi appariva luce di
intelletto; qui niente aveva da insegnare; costà se non tutto,
molto. Anco in Francia la Chiesa sembrò rifiorire, però che la
baronia, d'indole ad un punto prepotente e servile, considerando
adesso la Monarchia di concerto con la Chiesa, non trovasse il suo
conto a dare del capo dentro un'arnese tanto gagliardo; e poi capiva
che governo aristocratico la Francia non patisce; costà gli
aristocratici comparvero e compariranno sempre a mo' di penero cucito
all'orlo del mantello reale o imperiale: arrogi a questo, che la
dottrina della riforma impaziente di autorità senza quasi addarsene
aveva incamminato i popoli alla repubblica, e già se n'erano visti
i segni; e se ai Monarchi la repubblica garba quanto il fumo agli
occhi, nè manco piace agli aristocratici che quelli sono monoliti,
e questi frantumi di tirannide schietta. Dove tu cerchi se la Chiesa
se ne avvantaggiasse, tu trovi il contrario, e ciò perchè
gl'interessi andarono tutti da un lato, e veramente furono i più;
la fede rimase dall'altro scarsa, ma depurata da ogni terrena miscela,
epperò miglior seme per fruttificare, e per vincere. Anco nei Paesi
Bassi, per testimonianza del Bentivoglio fu visto agitarsi un moto
tendente al cattolicismo, e i piedi guazzavano sempre nel sangue per
le guerre contro Roma; certo il Bentivoglio come nunzio romano merita
piccola fede nei suoi scritti, e tuttavia quanto egli afferma può
darsi, imperciocchè non so se accada, come affermano nell'aria, ma
sicuramente nello spirito umano, la corrente, che succede, tira nel
verso contrario a quella, che passa. Nella Inghilterra comparivano
indizi di non lontana mutazione; costà reggeva il figliuolo della
Maria Stuarda vago di procurare a Carlo suo primogenito nozze
spagnuole, e Gregorio in istile di gente innamorata gli scriveva:
«la vecchia radice della pietà cristiana feconda un giorno di
sì bei fiori fra i monarchi inglesi germoglierebbe da capo nel suo
cuore.» A questo modo al Papa pareva camminare in bussola; sopra
tutti appoggiavasi, lo sostenevano tutti; ad un tratto Austria e
Spagna si legano contro Francia a cagione delle alpi elvetiche; il
Papa esse tirano chi di quà e chi di là; era mestiero risolvere,
e commettere la tiara all'alea delle battaglie; prevalse la buona
fortuna di Gregorio XV. eletto a comporre le liti, e lo faceva forse,
se la morte non gli avesse tronco le pratiche. Subentrato a Gregorio
Urbano VIII. dei Barberini cambia aspetto ogni cosa; Gregorio in cuore
austro-spagnuolo, in sembianza no, Urbano poi francese affatto in
apparenza ed in sostanza; ed a rilevare inoltre i fiacchi spiriti di
Francia ecco sorgere ministri Vieuville e Richelieu; allora il nuovo
Papa butta all'aria le nozze di Carlo Stuardo con la infanta di Spagna
ponendo per patto nella dispensa, che il Re si obbligasse a costruire
chiese cattoliche in ogni provincia del regno; Giacomo, il quale, a
quanto pare, aveva per la sua testa un po' più di tenerezza del
figliuolo Carlo ne dismise il pensiero: nè basta; in odio
all'Austria, e alla Spagna Urbano si accosta ai protestanti, e fidato
alla Francia mulina non so quali disegni: di un tratto, la Francia,
seguendo la vecchia usanza, conchiude la pace di Monzon, e pianta i
collegati su le secche. Questo saggio della lega francese gli avrebbe
pure dovuto aprire gli occhi, ma non valse; intricatosi nella
successione di Mantova chiama i Francesi a pigliare parte nelle
faccende in Italia; egli li sovverrebbe con i danari, e con le armi:
allora al Papa non cadeva in mente essere il padre dei fedeli; crisma
contro crisma egli spingeva e portava: sempre invasato dall'odio
contro l'Austria nella guerra dei 30 anni parteggia per Gustavo Adolfo
di Svezia, e favorisce i protestanti: dopo fabbricato il porto di
Civitavecchia, lo dichiara franco, e vede frequentarlo più che
tutti pirati barbereschi, i quali ci vanno per vendere ai sudditi del
Papa le rapine fatte a danno dei Cristiani, nè lo vede solo, ma se
ne avvantaggia, e ci ha piacere: forse e' fu per simili meriti, che
abolì il decreto del Senato e del Popolo romano proibitivo della
erezione di statue al Papa, dicendo, che stava bene per gli altri non
per lui frivolissimo uomo, poetastro astioso e presuntuoso.

Il Papato ormai non ardisce più concupire i reami altrui, nè
anco si attenta sbarrare un gherone del manto di San Pietro, solo ne
cincischia brandelli per coprirne le spalle ai suoi figliuoli, e
questi si tirano da parte a rosicchiarli come gatti il ventriglio.
Sisto V al cardinale nipote assegnava centomila scudi di rendita,
all'altro co' danari della Chiesa comprò il principato di Venafro,
e la contea di Celano. Quello che ardisse Clemente VIII. non si
ricorda; donò ai suoi un milione fra tutti; poi ad ognuno
sessantamila scudi di entrata; mancatigli i beni della Chiesa,
arraffò gli altrui, aiutatori giudici, auspice il boia. Paolo V.
co' suoi Borghese procedeva anco più largo; il Cardinale Scipione
ebbe 150 mila scudi di rendite ecclesiastiche, Marcantonio il
principato di Sulmona, palazzi, ville, vasellami di argento, gemme,
suppellettili che valsero un tesoro; di danaro un milione; e più
strano ancora il privilegio di ribandire gli sbanditi, instituire
fiere, imporre gabelle sopra altrui, non pagarne essi; andare immuni
da confische, impunità per qualunque maniera di devastazione:
più discreto Gregorio XV. il cardinale Ludovisio provvide con 200
mila scudi di rendita, il fratello Orazio con 800 mila scudi di
_monti_, con la contea di Fiano e il principato di Zagarolo.

Urbano VIII. si spinse a tale enormezza, che parve a molti, ed a me
pure esagerata; ciascheduno dei tre nipoti gratificò con 100 mila
scudi di rendita, compreso il padre Don Carlo; oltre questo occorre
scritto in più parti, come le somme donate dal Papa alla sua
famiglia toccassero il valsente di 105 milioni di ducati. E' sembra
che anco al Papa così immane spreco stesse su la coscienza,
sicchè elesse certa commissione per esaminare se si avesse a
correggere: la Commissione scrisse con una mano avesse facoltà il
Pontefice come principe temporale a fondare un maiorascato nella sua
famiglia con gli avanzi delle rendite pubbliche del valsente di 80
mila scudi di rendita netta; alle nepoti potere assegnare la dote di
180 mila scudi: il Vitelleschi generale dei Gesuiti consultato intorno
questo parere lo sottoscrisse con due mani; al Papa presso a morire
gli tornò lo scrupolo a galleggiare sopra lo stomaco; per la qual
cosa egli ebbe a sè il cardinale Lugo, e il Gesuita Lupis, che
risposero a coro non dovere permettere il fratello, e i nipoti suoi
avessero a rendere pure un baiocco, e ne misero innanzi questa
stupenda ragione: «tale e tanto è l'odio, che si sono tirati
addosso i nipoti del Papa, che giudicano non solo giusto, ma
necessario per l'onore della sede apostolica lasciarli in istato di
conservare il fasto principesco anco dopo la morte del Pontefice!
Alessandro VII. considerando come più prudente consiglio sia
fuggire, che resistere alle tentazioni, eletto Papa vietò ai Chigi
recarsi a Roma; e nientemeno gli fu apposto a peccato dal padre Oliva
rettore dei Gesuiti, onde il Papa dabbene per non precipitare giù
dentro lo inferno chiamò i Chigi a Roma, e Mario fratello fece
provveditore dell'annona, e rettore di giustizia nel Borgo, il nipote
Flavio cardinale nepote provvide con 100,000 scudi di entrata, l'altro
nepote figlio di Agostino diventò principe, ebbe Aricia,
principati, nozze illustri, tanto altro bene di Dio, onde potè
fondare una delle trapotenti famiglie di Roma. Non so se i Pamfili
arraffassero più dei Barberini, certo è che ne vinsero i modi
tuttochè turpissimi. Olimpia Maldacchina cognata d'Innocenzio X,
apre traffico di offici; vende, e baratta, nè solo dentro, ma fuori
dello stato, frapponendosi per sensali gli oratori stranieri; empie il
Vaticano di clamori a cagione di bizzosi puntigli con la nuora Olimpia
Aldobrandina; il Papa caccia prima la nepote, poi la cognata, quindi
ambedue, finalmente le richiama, nè cessano le domestiche liti;
ludibrio di sacerdozio infemminito.

Ma per tornare a Urbano VIII., spinto dai dispetti dei nipoti muove
guerra ad Odoardo Farnese per togliergli Castro, come già aveva
tolto alla ultima donna di casa della Rovere, Urbino, Gubbio, Pesaro,
Sinigaglia, e Montefeltro: di qui vicende le quali per essere da un
lato degne di riso, dall'altro non disertavano meno i popoli: invano
il Papa cavò da Santo Angiolo 500 mila scudi del deposito di Sisto
V. per sostenere la guerra, e invano ce ne spese dintorno altri
quattro milioni e mezzo, e s'indebitò per sette chè legatisi ai
suoi danni i vari stati italiani egli ebbe a ribenedire a forza il
Farnese, e rendergli Castro: dicono, ch'ei ne morisse di dolore; ed
aveva torto, imperciocchè dovevano essergli di conforto la città
di Roma ingombra di ruine, il titolo di eminenza largito ai Cardinali,
e soprattutto la tortura a Galileo, e la condanna della eresia del
moto della terra.--Innocenzo, empiti i suoi di facultà, moriva con
settecento e più mila scudi di peculio privato; saccheggiaronlo i
parenti, che negarono fargli le spese del funerale, e gli diede
sepoltura, tre dì dopo ch'ei fu morto, un canonico spendendoci
attorno uno scudo: qual seme, tal frutto: sangue di prete non può
fallire:--prima di cessare, Innocenzio riprese Castro, e ne abbattè
le mura, proprio perchè questa terra avesse ad essere la pietra del
paragone della perduta autorità pontificia; di fatto, sforzato
dalle prepotenze di Francia la ebbe a rendere più tardi Alessandro
VII. insieme a Ronciglione. In breve toccherò dello strazio
francese in onta al papato, ora aggiungo il trattato di Wesfalia
concluso senza pure farne motto a Papa Innocenzio, che non mancò di
protestare e di buono, e gli altri tennero coteste proteste in conto
di rondini dell'anno passato. Chiunque osserva mira accadere adesso
alla Curia romana quello, che succede a' nobili spiantati, cupidi di
crescere le apparenze alla stregua, che la sostanza scema: in questo
secolo andò famosa la Corte di Roma per isquisiti trovati di
ossequi, che si appellano _etichetta_, da disgradarne Spagna, e
formare la disperazione dello stesso Luigi XIV; infiniti i puntigli su
le precedenze tra cardinali, prelati, e famiglie Romane; a cui si
apriva la porta spalancandone ambedue le imposte, ad altri una sola;
quando passava la carrozza di qualche pezzo grosso, il pezzo minuto
fermava la sua: frivole cose queste, non frivolo ma grave oltremodo
questo altro: il Papa Alessandro VII. proprio pigliando il Vangelo a
contro pelo non patì tenersi dintorno persone, che non fossero
nobili di ventiquattro carati, e ne allegava per ragione, che i
principi della terra circondandosi volentieri di servitori
gentileschi, doveva credersi che tanto più Dio si avesse a
compiacere nel vedere il suo servizio compito da personaggi, che
andavano per la maggiore: ma! tanto è, il Chigi veniva da Siena, e
sembra che nè anco lo Spirito Santo entrando nei cervelli arruffati
dei sanesi li possa ravviare.

Fino da questo tempo gli uomini di stato considerando come i _monti_
caduti in mano di stranieri, i quali tiravano la rendita standosi
fuori, e non contribuivano a spesa (I Genovesi ne cavavano 600,000
scudi ogni anno) prevedevano la miseria crescente nei popoli; ma chi
reggeva, non dava retta, appunto come adesso costuma il governo
d'Italia: ma ti dia la peste!, almanco allora erano preti schietti, e
correva il secolo decimosesto, mentre oggi siamo al decimonono, e ci
regge gente soda, ma soda davvero. In cotesti tempi uno arguto ingegno
paragonò il governo papalino al barbero spossato, cui, per
eccitarlo a correre, si raddoppiano le perette finchè non crepi;
mirate un po' se questa similitudine potesse accomodarsi ai casi
nostri.--

Ora i nostri liberaloni larghi di cintura dopo essere stati un pezzo
col sasso in mano per lapidare i monaci, presi da terrore, lo buttano
in terra; la corte romana due secoli addietro non faceva a
spilluzzico; segno a strazi continui erano i frati a Roma; non
concedevasi loro la mitra, molto meno il cappello per non inquinarli;
nè manco un fallito, nota Antonio Grimani, nella sua relazione
della corte di Roma, si gioverebbe a pigliare il cappuccio. I conventi
parvero troppi, e vani; ne restrinsero il numero; Innocenzo X. ne
soppresse buon dato perchè, egli disse, senza tante invenie, sono
fatti spelonca di lussuria, e di delitti; anzi Alessandro VII. propose
spontaneo ai Veneziani levassero di mezzo quanti più potessero
monasteri, e del ricavato dalla vendita dei loro beni si servissero
nelle guerre contro i Turchi: alla quale proposta i Veneziani
contrapponendo certi loro dubbi, il Papa riscrisse: «non
gingillassero, facessero come il buon contadino che pota i sarmenti
per crescere vigore alla vite.»

I Gesuiti all'opposto ingrassano mangiando i frutti del male di tutti:
in grazia loro Innocenzo X. con la bolla _Unigenitus_, che ribadì
Alessandro VII, s'inimica i Giansenisti condannando come eretiche
cinque sentenze del libro _Agostino_, nel quale Giansenio presumeva
avere spillata la dottrina del santo vescovo d'Ippona: poi li
facoltò a eleggersi oltre il generale un vicario, che fu l'Oliva:
non si badò al come vivessero, nè come trafficassero, nè in
breve costumassero peggio degli altri frati, e non pertanto
riputandosi essi necessari, i precetti pontifici sprezzavano da per
tutto, massime nelle missioni; alfine ne commisero delle così
grosse, che Clemente XIV. gli ebbe ad abolire; ma ormai nè lo
stare, nè lo andare giovava a Roma: meglio di Clemente XIV., e di
Benedetto XIV. compresero il papato quei pontefici, che s'intorarono a
nulla mutare: certo il papato così non può vivere, ma se si
muove casca; di vero Pio IX. avendo un micolino fatto le viste di
uscire dalla carreggiata risicò andare in fascio in meno che non si
dice un _credo_. I Gesuiti argine alla fiumana del secolo non possono
e non poterono opporre; tuttavia remossi loro, la filosofia dilagò;
i Gesuiti sono pel popolo quello che l'ellera è pei muri, che prima
li rompe, e poi li tiene ritti.--I Gesuiti soppressi da Clemente XIV.
ispirato dallo Spirito santo, e per sempre, restituì Pio VII in
virtù della ispirazione del medesimo Spirito santo e per sempre:
altri di cotesta voltabilità dello Spirito sorride; per me l'ho per
buona, e le fo di cappello, prima però che dia una solenne smentita
alla cocciutaggine di Pio IX, e poi perchè nutro speranza, che un
giorno o l'altro egli abbia a chiarire lui o un altro come la miglior
cosa che possa fare un Papa sta nel disfare il papato.

Progredendo per sintesi noi vediamo Roma, come il gladiatore ferito a
morte, stramazzare, rilevarsi sul gomito, di nuovo cadere, boccheggiare,
insomma se mi si consente il detto, vivere di agonia. Le diete Germaniche
dal 1654 al 1658 attendono rigidamente a limitare la giurisdizione dei
nunzi; Genova, Napoli e Savoia aspreggiano Roma; il peggiore male glielo fa
la Francia destinata a minarla sia che le proceda nemica, ovvero amica, ma
come amica due cotanti più infesta. Finchè gli stati di Europa
durarono in pace Roma servì tutti, e da tutti si fece pagare i salari,
ma venuti in rotta fra loro chi aveva ella a servire? E' bisognava
indovinarla: nella guerra della successione di Spagna, il Papa accostandosi
all'Austria si aliena Francia, la quale intesa corpo ed anima alla
utilità presente non pone fine, nè modo alle sue persecuzioni; da
prima Luigi XIV confisca i beni chiesastici; altri grava di pensioni;
durante la vacanza dei vescovati risquote le rendite della mensa; gli si
oppone il Papa Innocenzo XI, che minaccia scomuniche, Luigi gli aizza
contro il clero francese servitissimo, che non si perita così abiettarsi
a quel superbo: «noi ci attentiamo appena a movere domande per tema di
limitare lo zelo della V. M. La deplorabile libertà dei lamenti oggi si
muta nella soave necessità di lodare il nostro benefattore.» Essendo
poi convocato in assemblea cotesto clero, compiacendo al Governo,
decretò i quattro articoli famosi, fondamento delle libertà
gallicane; al tempo stesso Luigi per darsi sembiante di ortodosso
incrudelisce a danno degli ugonotti; ma chi troppo l'assottiglia la
scavezza, e Roma non si lascia pigliare da siffatte lustre, onde il Papa
trovando il conto a rammentarsi che ei presume rappresentare il Dio delle
misericordie ammonisce Luigi, che Gesù Cristo praticò altri modi e
volle che fosse condotta, non già strascinata la umanità nel tempio.
Luigi quantunque cristianissimo fumava d'ira, e durante i suoi deliri
avrebbe cozzato non che contro il Papa contro Dio, e già per sostenere
il diritto di asilo nel palazzo e nelle contrade circostanti al palazzo del
Cardinale d'Este protettore dei Francesi a Roma aveva preso pugna con
Alessandro VII cacciando via di Francia il nunzio, occupandogli Avignone,
minacciandolo di Concilio e di guerra; onde cotesto Papa tapino per
ottenere pace ebbe a mandare il cardinale nipote a Versaglia a chiedere
perdono; Mario suo fratello giurò non aver preso parte nella contesa, e
tolse esilio da Roma, la guardia corsa fu licenziata, una piramide eretta
dove si leggeva incisa la superba vanità di Francia, e la paura del
prete imbelle, lasciando incerto chiunque la vedesse se la prepotenza galla
superasse la viltà del prete romano, o questa quella: il Papa riebbe
Avignone, ma gli toccò restituire Castro e Ronciglione ai Farnese, e
cedere le valli di Comacchio al duca di Modena. Più duro cozzo accadde
con Innocenzo XI. risoluto propugnatore della _regalia_, che dichiarava
usurpata da Luigi XIV, il quale riuniti 34 vescovi, e arcivescovi, e 35
deputati ecclesiastici della diocesi fa bandire solennemente le libertà
della chiesa gallicana dettate dal Bossuet; ripiglia Avignone, sostiene il
nunzio a santo Olone, si appella al Concilio e manda con fanti e cavalli il
marchese Lavardin a Roma per atterrire ed oltraggiare lo atterrito Papa che
soppresso l'asilo non solo al palazzo di Francia, ma eziandio a quelli
degli altri oratori pubblica la scomunica contro chiunque si attentasse
ripristinarlo; e aveva ragione: tuttavolta il Papa sta fermo, bene può
starci plaudendo l'Europa la resistenza di un vecchio imbelle al tracotato
re, il quale più tardi oppresso dalla fortuna e dagli anni diceva:
«non mi fate rammentare, che in «casa mia ho comandato sempre,
nell'altrui sovente.» Morto questo Papa e subentratogli Alessandro VIII,
Luigi renunzia al diritto di asilo, trista causa di tanta lite, e rende
Avignone; trionfo più splendido ebbe Innocenzo XII. che respinse ogni
modo di ritrattazione del Clero francese se non contenesse renunzia chiara
e lampante alle proposte della Chiesa gallicana; il Clero francese con la
corda al collo confessava il suo torto prostrato ai sacri piedi di Sua
Santità con dolore inestimabile. Se cerchi il motivo di tanta vicenda,
lo troverai nella mutata fortuna di Luigi XIV vinto dalla Europa legata
contro lui, e nella viltà dei preti di Francia pei quali vittoria o
sconfitta non muta abbiezione: e noi italiani uomini per gratificarci gente
siffatta ci dovremo rendere come loro lumbrichi? E perchè? Per
conficcarci i chiodi con le nostre mani dentro le carni; mentre essi che
oggi ci vogliono compagni nella umiliazione, domani ci pretenderanno
compagni nello insulto. Verun popolo cattolico ha recato crudeli offese
alla Curia Romana, al cattolicismo, anzi alla religione di Cristo più
dei Francesi, anco ai più avventati rincrebbero le turpi scede, onde un
giorno fu segno il rito cattolico, e gli ornamenti sacerdotali, e i sacri
vasi laidamente profanati, come la vera filosofia si sgomentò nel vedere
in Francia il culto della dea Ragione sostituito a quello di Dio; Dio poi
restaurato a mediazione del Robespierre. La Francia da due terzi di secolo
s'impadronì dei beni ecclesiastici, comecchè si presumesse
sostenerli, dagli interessati, beni della Chiesa universale, e incorso
nella scomunica chiunque si attentasse sbocconcellarli; Avignone, e il
contado venassino ripresi e per questa volta non più restituiti: gli
ordini religiosi saranno i voti disciolti la elezione ai benefizi popolare
come nei primordi della Chiesa. Roma certo odiava la Francia, nè davvero
aveva causa di amarla; però con preci, e conforti, insomma con tutti gli
arnesi dell'armeria spirituale ella promosse la lega dei Principi contro la
Repubblica; inoltre la invendicata strage del Basseville le tirò contra
le ire di Francia, la quale anco senza pretesto si sarebbe mossa ad
angariarla; di fatto ecco allo improvviso voltarle contro le armi, e solo
consentire posarle a prezzo di quadri, di sculture, e di ventun milione di
lire. Il Papa piangeva, per così dire, a goccie tanti bei milioni frutto
della vendita di tanti miliardi d'indulgenze, ed in mal punto porse
orecchio all'Austria, di che avuta notizia il Bonaparte sperde le milizie
inferme del Pontefice e lo costringe alla pace di Tolentino, dove il Papa,
bene e meglio _potendo_, cedeva alla Francia oltre Avignone, e il contado
venassino, già presi, Ferrara, Bologna, e Ravenna. Passato appena l'anno
colto il destro da una sommossa, della quale impossibile adesso conoscere,
e difficile anco allora, chi innocente, e chi reo, la Francia decreta il
potere del Papa abolito; a lui, che implorava lo lasciassero morire in Roma
risposero: _avrebbe potuto morire da per tutto_; gli strapparono dal dito
l'anello, gli posero a sacco le camere, gli tolsero le cose necessarie
così alla mondizia della persona, come al vestire, e strascinatolo in
Francia, quivi poco dopo ottantaduenne periva. Allora il Direttorio
trovando _come il governo dei preti non potesse accordarsi con quello di
Francia_ rinvenne, fra i suoi tanti, l'uomo (Merlin) che dettando il
rapporto per la decadenza del Papa non si peritava scrivere: «rammentate
la strage dei Francesi in Sicilia, e voi sentirete Niccolò II. darne il
segno; aprite la storia sanguinosa dei Borgognoni e degli Armagnacchi e ci
vedrete il dito di Bonifazio IX; se ponete mente alla tirannide di Luigi XI
ecco Sisto IV l'approva. Mirate Gregorio XIII che seduto in trono accetta
dalla Lega la spaventosa offerta del capo di Coligny. Quando Enrico IV
pretendeva come suo retaggio il trono di Francia, Gregorio XIV ci spedisce
contro un esercito, e Clemente VIII ci comanda di pigliarcelo per Re.
Prorompe la Fronda, ed Innocenzo X protegge il cardinale di Retz. Innocenzo
XII benedice i carnefici delle Cevenne, ed allorchè le bambinesche liti
del giansenismo guastavano le menti, la voce di un prete straniero,
Clemente IX, entra di mezzo a scompigliare, e inasprire.»

Napoleone trovando creato un nuovo Papa se ne valse, come Carlomagno,
per consacrare il delitto; l'uno l'altro ingannò; l'uno l'altro
tradì: se vuoi penetrare dentro le viscere del Concordato leggilo
nell'Apologia del Foscolo, e confronta con la saccente vulgarità in
proposito del Thiers compilatore senza più dei sofismi bindolissimi
del Bonaparte.

Il Thiers, che la Francia pregia per uomo grande, in Italia,
misurandolo per di dentro, e per di fuori, lo trovarono pari così
nella materia, come nello spirito; anzi in questo più breve. Il
Papa credeva avvantaggiarsi leccando, e invece non fa civanzo co'
Francesi, e con cui li comanda se non mostri loro i denti. Napoleone
un bel dì (egli aveva allora allora vinto ad Osterlizza) scrisse al
Papa lui essere lo Imperatore di Roma e suo padrone, però si
dichiari nemico dei suoi nemici, conceda il matrimonio ai preti,
abolisca gli ordini monastici, affranchi l'episcopato dalla sede
pontificia, e accetti il codice civile. Il Papa si schermisce dietro
la donazione di Carlomagno e strilla che non lo condurranno ad
ammazzarsi da sè, Napoleone gli risponde, che appunto per virtù
di cotesta donazione egli è principe, il Papa feudatario, e che con
tutte quelle cose di meno potrà vivere ottimamente: provi, e
vedrà, e per persuaderlo meglio gli leva ad un tratto Ancona,
Macerata, Urbino, e Camerino, manda in Roma presidio francese, i
cardinali disperde, i soldati pontifici mescola coi suoi: molto il
danno, peggiore lo strazio, però che al cospetto dei Deputati delle
Marche con queste acerbe parole Roma vituperasse: «_ho considerato
i vizi dell'amministrazione dei vostri preti: gli ecclesiastici
regolino il culto e l'anima, insegnino teologia, e basta, Italia
scadde, dacchè i preti pretesero governarla_.» Ancora scrivendo
al principe Eugenio afferma: «i preti inetti a governare.»
Miollis in certo suo bando assicura ì Romani, che _da ora in poi
non torneranno più sotto gli ordini dei preti, e delle donne_.
L'appetito viene mangiando, dice il proverbio napoletano, e oramai che
Napoleone ci era fece del resto; il 1. Gennaio 1810 (aveva vinto a
Venezia) considera che il suo antenato Carlomagno donò al vescovo
di Roma certi paesi pel bene dei suoi sudditi, senza che Roma cessasse
per questo di formare parte dello impero; _e come dalla unione dei due
poteri derivassero e derivino disordini continui_, e via via; onde per
accordare la sicurezza delle sue armi, la quiete dei popoli, il
decoro, e la integrità dello impero, sentite mo', che cosa fa:
dichiara Roma città LIBERA, ed ordina ne piglino possesso in nome
suo.--La Francia di Luigi Filippo, quantunque occupasse Ancona
consenziente o non repugnante il cardinale Bernetti, procedè
avversissima a Roma, bandi i Gesuiti, auspice quel Thiers sviscerato
adesso dei Gesuiti e di Roma; inquietò il Papa, ai conforti del
Guizot protestante allora, adesso anch'egli papista. Di Napoleone III
non si discorre nè manco; i diari riportarono di recente i vituperi
ch'ei vomitò a bocca di barile contro il Papato in presenza del
conte Grillenzoni, e del signore Raffaelli; di cosiffatti testimoni se
ne troverieno a carra: anch'egli, attesta il signore Aulaire nella
scrittura del 27 marzo 1831 come Luigi Napoleone _avesse l'audacia di
scrivere direttamente al santo Padre parole minatorie, e insolenti,
intimandogli a deporre il governo temporale, e a dargli riposta_: non
potendo avere altro, in quei lumi di luna, Luigi Napoleone si sarebbe
contentato di Roma, di Perugia, ed anco di Peretola; adesso Napoleone
presume sommetterci a Roma come alle forche caudine, e ciò
pretendendo compiace al vulgo patrizio, ed al plebeo; degli errori, e
della petulanza del vulgo patrizio abbine prova nei discorsi del
Thiers; del plebeo nei furori barbari contro la religione e nelle
più salvatiche idolatrie della moltitudine dei Francesi: checchè
si abbachi, Luigi Napoleone triviale fondamento dava al suo trono di
ogni maniera errori, e di materia soddisfatta: partiti vecchi, e
sperimentati più o meno fallaci, e con maggiore o minore durata
caduchi: ei si appoggiò sopra una canna, che lui ha ferito, e
schianterà la sua stirpe.

Concedere o negare torna adesso ad una medesima cosa: contrastando al
secolo Roma manda su gli scogli la barca di San Pietro, col suo carico
di bolle, canoni, riti, sacramenti, e credenze; non la impedite di
grazia, così ordina la Provvidenza; col suo _sillabo_ o vogliam
dire _indice_ (i Preti. e i Moderati sono solenni trovatori di parole
magnifiche a cose brutte, o plebee) Roma si è messa traverso la via
della umanità come una lebbrosa; guai a cui le si accosterà! El
piglierà la lebbra.

Concessero Benedetto, e Clemente XIV; contrastarono gli altri prima, e dopo
la Rivoluzione di Francia, entrambi dimostrarono che il Papato tracolla, e
puntellarlo è inane; taluno afferma come Lione XII fosse uomo convinto
di quanto operava e diceva: che rileva questo? Pochi uomini hanno fede
quanto gl'ignoranti nella propria ignoranza; e il carnefice per riputarsi
esecutore di giustizia si estima forse meno carnefice? Pio VIII parve un
rimasuglio di lievito inquisitoriale dimenticato nella madia del Santo
Uffizio; di Gregorio XVI poco monta conoscere se il vino temperasse con
altro vino, e se la moglie del suo barbiere di colpevole amore proseguisse
o no; importa, ed è certo questo altro, che cotesti passi si
rassomigliarono come anelli della catena: recenti sono i gesti loro, e
scritti col sangue; altri li narrò: a noi non giova farlo; ci aspetta
Pio IX l'Augustolo dei Papi. Piccola cosa è un Papa; molto più, ma
neppure egli metuendo troppo, il sacerdozio; per converso immane, e
potentissima la gerarchia ecclesiastica: questa la rete onde si pescano, e
si ripescano i popoli; alcune maglie per vetustà erano rotte, prudenza
consigliava lasciarle stare, perchè le prossime indebolite dalla lacuna
a posta loro sfilacciavano; all'opposto la Italia manda gente a Roma per
sovvenire il Papa a racconciarle. Un dì Diogene esposto in vendita al
mercato gridava: «Ateniesi, chi vuol compare un padrone?» Oggi la
Italia sporge i polsi senza catena, ed urla smaniando: «Preti, Tiranni
del mondo, chi vuole comprare una schiava?» Ora gente di ogni ragione
già cominciano a spaventarsi, e la paura le persuade a stringersi
insieme come appunto accade nelle sventure comuni: non badiamo se la paura
o l'amore ce le riconduca, che a fine di conto gli è un tristo vanto il
nostro di avere saputo presagire i danni della Patria, e non averli saputi
riparare. Dio faccia, che ora bastino a tanto le forze riunite, e i voleri.


FINE DELLA SECONDA PARTE




PARTE TERZA


Le cose narrate in altri libri o lascio, o narro succinto, e per
quanto sia necessario alla esposizione della mia opera; però poco,
o nulla mi preme ricercare, e referire quali (se n'ebbe) le virtù,
e i vizi di Giovanni Mastai-Ferretti uomo privato; solo giova di
questi ultimi dire quelli, che in mutate fortune, lo fecero miserabile
cittadino, pessimo principe, Papa inetto, e anzi a dirittura dannoso
al governo stesso delle anime, che, a sentire lui, sta in cima di ogni
suo pensiero.

Sortì egli i natali in Sinigaglia nel maggio del 1792, ed ebbe
educazione in Volterra nel collegio di San Giorgio; i suoi Plutarchi
della Compagnia di Gesù affermano avere lasciato costà quasi un
profumo perenne delle sue virtù; fatto sta, che solo ei si
ricordava avere avuto di parecchie nerbate, ed essersele meritate,
come in lode del vero, egli medesimo confessò a Firenze quando del
suo cospetto la deliziava: dacchè in cotesta occasione essendosegli
tirato davanti un vecchio Scolopio già suo arruffatore di cervello
negli studi grammaticali, dopo il bacio dei _santi piedi_, sentì
ricordarsi come nei tempi andati avesse ardito verberare certa parte
del corpo allora non papale, e che difficilmente otterrebbe, anco per
via dommatica, esporre adesso come santa alla venerazione dei fedeli;
e poichè il frate andava tutto confuso e scusandosi ora alterando
la quantità, ed ora la qualità delle percosse, e per ultimo la
parte percossa, il Beatissimo lo rimbeccava dicendo: «no, Padre, le
furono proprio nerbate, e veramente fu cotesta parte ch'io le ho
detto, e confermo; non se ne infinga, anzi se ne tenga, però che se
coteste nerbate non erano adesso io non mi troverei assunto Papa.»
Tali i detti, ed i concetti del sommo Sacerdote, onde ogni uomo anco
cattolicissimo si persuada, non avere poi ad essere un gran che il
Papa, se ad ammannirlo tale bastano talune nerbate applicate da un
frate scolopio sul postione ad un marchigiano. La faccia sua fu sempre
di prete pasciuto di marzapane, e di avemarie, con qualche fiore di
cicuta mescolatoci dentro, sorridente un riso tra il bambolo, e lo
scorpione; percosso nei primi anni da morbo regio, o vogliamo dire
epilessia, irruppe sfrenato colà dove alla cieca Venere più
piace; e a tale, che gliene fece rimprovero rispondeva: sfidato della
vita volere annegarsi nella voluttà: sembra però, che poi
mutasse consiglio per virtù di certa donna (di cui tacerei
volentieri il nome se non fosse noto all'universale) la principessa
Clara Colonna: questa, non già Maria vergine, fu la patrona del
giovane Mastai nel mondo, il quale entrò nelle guardie nobili di
Pio VII. Il Plutarco di lui scrive averlo chiamato Dio con particolare
vocazione a difendere la santa Sede come soldato, come vescovo, come
cardinale, e come Papa: su di che noto, che s'egli tutela la Chiesa da
Papa come la custodì da soldato l'avrebbe a stare fresca.

A giudicarne dal poco tempo che il Mastai cinse la spada si ha da
credere, che in onta al suo panegirista nè anch'egli si reputasse
legno da cavarne po' poi un Giulio Cesare o un'Alessandro Magno;
però di corto barattò la spada in aspersorio, e l'elmo per la
tonsura: andò compagno a Monsignore Muzi nell'America meridionale
donde tornato nel 1825 resse prima l'ospizio di S. Michele, poi fu
arcivescovo di Spoleto, e vie via vescovo d'Imola, e Cardinale senza
infamia, e senza lode.

Raccontano le anime pie, com'egli, morto Gregorio, recandosi al
Conclave mentre traversava Fossombrone una colomba bianca dopo essere
rimasta alquanto librata su l'ale al fine si posasse sopra la sue
vettura, onde la gente accorsa a contemplare la sua sembianza
_smagliante di potenza, di tenerezza, e d'intelletto_ (le sono parole
del Plutarco gesuita) come presa dal delirio incominciò a urlare:
«viva! viva! ecco il Papa!» Così a Fossombrone; a Roma veruno
se lo aspettava Papa; all'opposto facevano capitale sul Gizzi,
sicchè eletto il Mastai i Romani rimasero come cosa balorda, per lo
che, a fine di rendere al Gizzio il boccone meno ostico venne senza
indugio messo nella Commissione consultiva provvisoria, e poco dopo
eletto segretario di Stato. Anzi se vuolsi credere al panegirista di
Pio IX egli pure giudicavasi incapace, onde si vedendo eletto smaniava
sclamando: «o fratelli, abbiate misericordia della mia debolezza;
io mi confesso indegno. _Domine non sum dignus_.» Tuttavia il
Mastai nella guisa, che ogni prete dabbene dopo avere per tre volte
detto: _Domine non sum dignus_, si mastica bravamente il Redentore,
profferita appena la propria debolezza montò ardito, e franco nella
barca di San Pietro, ed agguantato il timone si commise in mezzo al
mare tempestoso. Veramente questo racconto fa ai calci col primo, ma
non vuol dire, il pane di che si cibano i Gesuiti sia impastato di
farina di contradizione. D'altronde ogni prete promosso Papa si china
per l'ultima volta in terra a raccattarvi la superbia, che morendo ci
lasciò cascare il suo antecessore.--

Chi se ne intendeva, toccato appena il polso alla Europa andava
persuaso, che il male era tornato a far saccaia, e questo succederà
sempre quantunque volte in Francia scappi fuori un Luigi Filippo,
ovvero un Napoleone per mettersi in tasca le rivoluzioni sementa di
sangue, d'intelletto, e di sudore dei popoli; in Roma un Gregorio papa
si serva dei _memorandum_ dei Principi per incartarne i riccioli alla
moglie del barbiere teologo, e per non fare troppo lunghe le gugliate,
non si proceda al modo che a un di presso fanno da per tutto.

Gli uomini speculatori avvisato il pericolo ne avevano paura e non a
torto: trepidavano per le presagite ruine; lo straripamento vedevano,
come la fiera fiumana; e dove avrieno potuto ricondurla nell'alveo non
sapevano: quindi chi almanaccava le riforme, specie di rimedio
omeopatico al morbo sociale; chi sovvertimenti, peggio, che rimedio
allopatico; chi una cosa, chi l'altra. Primo il Gioberti saltava in
mezzo facendo drappellare alla Sapienza un bandierone involato di casa
alla Follia: principi, papi, e popolo giù a bollire insieme dentro
una pentola. Gli scrittori chiesastici affermano a ragione la
democrazia essere contradizione del papato, imperciocchè quella
dica agli uomini: «usate dei doni dello intelletto vostro
meditando; valetevi dei diritti della libertà governando;»
mentre per converso la Chiesa comanda: «qua ponetemi in mano il
cuore ed il cervello vostro, io sono l'autorità, la regola, e la
sapienza; io penso per voi, e se vi riesce, procurate, che io senta
per voi!» Il Gioberti, (sempre gli scrittori chiesastici affermano)
si industriava abbindolare il Papa, e mettere di mezzo Dio!--Il
Gioberti fu uomo di bontà singolare, e Dio non si mette di mezzo:
egli sortì da natura ingegno stragrande, e immaginazione non meno
vasta; gli mancò il freno; troppo e vano nei concetti, e nei modi
di significarli; non parsimonia, non eleganza: contorni radi, e
incerti, pensamenti grossi e mutabili pari ai nugoloni sbattuti dal
vento: insomma alla meditazione sostitui la fantasia: per me sempre
ammirando ogni qualità di ingegno confesso, che mi reca uggia la
metafisica nella politica. I metafisici politici mi paiono poeti,
storici, ragionatori sciupati; un po' di tutto, e nulla di tutto:
cotesto ingegno confidato a loro assai si rassomiglia a bella tazza di
porcellana che commessa nelle mani al fanciullo, ei l'abbia lasciato
cascare in terra: ridotta in frammenti dorati attrista a vederla,
intanto chi gliela diede si pente ma tardi, ed il fanciullo piagne.
Mirabile il moto partorito dalle dottrine del Gioberti, perchè lo
universale crede che di ora innanza si sarebbe iti in paradiso in
bussola: Bruto e Cesare, se ritornavano al mondo, avrebbero sgranato i
baccelli insieme: in combutta corone, e camauri, pianete, e giubbe,
scettri e camati da battere la lana; chi prima arrivava senza
distinzione di stato si sarebbe servito come meglio gli garbava. Tutti
allora ingannati, e tutti ingannatori: immenso il bisogno di credere
quello che tornava, e sterminata la credenza. Anco nell'antichità
si racconta che gli Abderitani durarono tre di briachi, gli Italiani
per quasi un anno, e più stettero matti.

Che se taluno domandi: «dunque la pace è disperata in terra?»
Io risponderei: «a Dio non piaccia, ma passioni, e interessi non si
spogliano ad un tratto come vesti vecchie per indossarne delle nuove;
il miglioramento umano non è opera di plastica in creta, bensì
di rota in porfido: la verità non vola, perchè l'errore le ha
incatenato ai piedi palle di ferro come ai servi della pena: Dio solo
con una parola crea la luce; l'uomo deve guadagnarsela col sudore
della fronte, col molto travagliarsi dello spirito, e a micolino; e
ciò prima, a cagione delle sue facoltà, ch'egli possiede scarse
ed inferme; poi, per carità di cui deve avvantaggiarsene, però
che la soverchia luce e la tenebra operino il medesimo effetto; non
fanno vedere.»

Più tardi Giuseppe Mazzini manda una epistola al Papa, dove quello
che il Gioberti s'industriava ghermire in pro del Piemonte, questi
intendeva agguantarlo in benefizio della Repubblica: il secondo
concetto più semplice, guazzabuglio il primo di teocrazia, di
dispotismo, e di democrazia; e del pari impossibile: la lettera del
Mazzini, che parmi scritta tenendo a falsariga qualche omelia di San
Cipriano, supplica il Papa di confidarsi a lui; gli promette aiuti fra
tutti i popoli di Europa, anco in mezzo agli Austriaci; eglino soli,
il Papa cioè e Mazzini, troveranno questi aiuti però che
entrambi abbiano unità di scopo, e fede nella verità della
propria dottrina; se gli fosse vicino il Mazzini vorrebbe pregare Dio
co' gesti, con gli accenti, e con le lacrime di convertire il
Papa.--Ora questi siffatti partiti, io per me giudico peggio, che
tranelli; e' sono grullerie.

Di vero, che coteste parole non fossero sincere chiarirà lo stesso
Mazzini mandando _con le stampe_ istruzioni segrete agli amici
d'Italia di radunare le moltitudini, inebriarle co' canti, suoni, e
timpani, renderle incontentabili, e irrequiete: per dare il sapone
alle corde pei signori esserci mestieri i signori; dove il solo popolo
levi la testa gliela romperanno di botto; hanno i signori ad essere i
guidaioli del popolo, appunto come in Francia, la quale da prima
patì un Mirabeau ed un Lafayette; sicuro, questi non vanno mai fino
in fondo alla via, anzi non ci metterebbero pure un piede se ne
vedessero la fine, così bisogna procurare nascondergliela. Ancora,
sarebbe bel tratto far nascere in ogni capitale d'Italia un
Savonarola; se ci riuscisse beati noi! _Tamen_, se non toccate il
clero nella borsa non lo vedrete scalciare. Al popolo discorrete
sempre delle sue miserie e dei suoi diritti: paroloni dotti non levano
un ragno dal buco; adoperate motti non definiti bene, epperò più
capaci a contenere in sè tutto quello, che la fantasia, il bisogno,
e la cupidità ci vogliono mettere dentro, a mo' di esempio:
libertà, uguaglianza, fratellanza, diritti dell'uomo, progresso e
simili: non è arduo spingere il popolo, e nè manco importa
conoscerlo, il difficile sta nel radunarlo; assembrato ch'ei sia voi
lo potete balestrare come un sasso dalla vostra fionda. Se un re
promulga una legge comportabile, e voi picchiategli le mani dicendo:
_bravo_, per istrappargliene un'altra migliore; incamminatelo giù
per la china a piccoli passi. Se uno dei maggiorenti la trinciasse da
repubblicano e voi lodate il matto e fatelo correre; il dì ch'egli
accennasse sostare, voi dategli il gambetto, e mandatelo a dare del
muso sul lastrico: veruno allora si chinerà a rilevarlo caduto:
pigliate tutto, odii, bizze, rancori, ambizioni deluse, interessi
lacerati, ogni cosa buona per buttarsi sul fuoco della distruzione a
crescerne la fiamma. Duro intoppo lo esercito, arnese di tutte le
tirannidi; contravveleno a quello la opinione diffusa, che sendo egli
composto di cittadini e da' cittadini mantenuto egli deve difendere la
Patria dai nemici, non già mescolarsi nelle faccende interne;
quando ciò avvenga voi potrete operare senza lui, ed anco contro
lui. A Roma poi gittò il Mazzini le carte in tavola quando disse:
«abbiamo traversato un tempo di menzogna dove gridavamo _viva_ a
gente esosa a patto che servisse ai nostri disegni; tempo di
simulazione, dove celammo gl'intimi concetti giudicando non correre
peranco stagione di manifestarli.»

Queste cose erano buone, ma non bisognava dirle; la moltitudine senza
insegnamenti da sè le avrebbe, anzi le aveva di già belle e
fatte, quando il Mazzini si avvisò insegnargliele per mantenersi in
fama di archimandrita. Per me non lodo lo scrivere che ha fatto, e fa
il Mazzini ai Papi, ed ai principi, causa per lui di accuse antiche e
di rimproveri moderni: per coteste epistole egli non acquista opinione
di subdolo e perde l'altra d'ingenuo: so che Cristo ammonì i
discepoli dicendo: «andate, abbiate la semplicità della colomba,
e la callidità del serpente;» e basta. Di vero, o che sperava
con le sue epistole il Mazzini? Convertire i Papi, e i principi, i
quali deposti triregno e corona fossero iti a scuola da lui ad
apprendere come si aveva a disfare? O piuttosto agguindolarli e
condurli incappellati al macero? A me sembra, che il Mazzini quante
volte scende dalle regioni serene delle teorie a rasentare la terra
trovi sempre chi gl'impallina le ale; egli allora torna a drizzare in
su il volo non senza però che qualche penna gli caschi a mulinare
per l'aria. Appunto come io reputo spediente, costumavano i Profeti,
banditori del dogma, e custodi della regola allora quando uscivano
dalla solitudine e venivano per rimettere i popoli in carreggiata,
ovvero a minacciare ai regi il castigo di Dio; poi sparivano. Repugna,
a mio avviso, la parte di Maestro di Libertà ai popoli con quella
di cospiratore, come il potere temporale stride nel Papa col potere
spirituale.

Senza però che il Gioberti con le sue fisime alterasse le ragioni
del moto italiano, e senzachè il Mazzini si affaticasse a mettere
in capo al Papa il berretto rosso invece del triregno, se pigliavamo
le cose come le venivano forse avremmo fatto la via più sicura.
Taluno opina che fu danno il moto rivoluzionario cominciasse a Roma,
paese meno di tutti capace alle riforme, e da un lato par vero;
dall'altro però compariva il più idoneo ad educare il popolo
all'odio della autorità, la quale da per tutto a quei giorni grave
in Roma, poi, accorava incomportabilmente insensata; e come più
insensata piu pertinace a perseverare nel male, cedeno solo alla
forza, inesauribile di frodi, legativa sempre non legabile mai, come
quella che avendo facoltà di sciogliere altrui dal giuramento è
naturale che la eserciti soprattutto per sè.--In questo altro
consento, che i Moderati delle rimanenti provincie italiane
procedessero senza discorso pigliando a modello il popolo romano,
dacchè altrove si poteva più franchi domandare, e di botto tanto
che bastasse, mentre con quel cotidiano svellere all'autorità ora
una penna, ora l'altra, la resero contennenda, ed ammannirono
l'anarchia, come pure adesso per diversa strada si sbracciano a fare,
e faranno.

Pio IX, e questo parmi sicuro, inebriato dagl'incensi non seppe quello che
per lui si operava: a mo' del fanciullo improvvido aperse la cannella alla
fontana; poi spaventato della foga dell'acqua gli mancò la forza di
girare la chiave. Chi è che non ricorda le magnifiche parole da
disgradarne Tirteo, e che il Byron stesso gli avrebbe invidiato: «gli
avvenimenti, che questi due mesi hanno veduto con sì rapida vicenda
succedersi ed incalzarsi non sono opera umana. Guai a chi in questo vento,
che agita, schianta, e spezza i cedri e le roveri non ode la voce del
Signore! Guai all'umano orgoglio se a colpa od a merito di uomini qualunque
riferisse queste mirabili mutazioni, invece di adorare gli arcani decreti
della Provvidenza, sia che si manifestino nelle vie della giustizia, o
nelle vie della misericordia, di quella Provvidenza nelle mani della quale
sono tutti i confini della terra! E Noi a cui la parola è data per
interpretare la muta eloquenza delle opere di Dio, Noi non possiamo tacere
in mezzo ai desideri, ai timori, ed alle speranze che agitano gli animi dei
nostri figliuoli. E primo....» ma io dal gran piacere, che ne sento
copierei tutta questa allocuzione papesca del 30 marzo 1848, e farei opera
inane, imperciocchè tutta Italia ricordi come in essa il Papa tirata
prima l'acqua al suo mulino esultando per le garbatezze usate in taluni
luoghi ai preti, e contristandosi pei bistrattamenti che ne menarono in
taluni altri benediceva a due mani le vittorie cittadine dei Milanesi, e
dei Veneziani contro gli Austriaci; anzi ne accertava di ottima riuscita a
patto che stessimo fermi a catena del prete.--Ciò posto in sodo i
Panegiristi di lui, che s'industriano con estremi conati a chiarire
com'egli Papa, prima, e dopo cotesta allocuzione camminasse a sghimbescio
pel cammino della libertà concedendo riforme e lasciando ad un punto la
porta aperta per poterle ritirare, sembra a me, che lo disservano
grandemente, però che, o non seppe che cosa si facesse (e credo appormi
al vero con giudizio meno grave per lui) ovvero ingannò. L'amnistia,
sostengono essi, non tirava ad altre sequele tranne al pretto perdono dei
colpevoli, che tali si dichiarano i dannati alle galere per delitti
politici, ed imponendo in aggiunta che ognuno sottoscrivesse l'obbligo di
non peccare mai più: di fatto queste cose nell'amnistia ci sono, ma
poichè nel medesimo si bandiscono i condannati _uomini di onore, e degni
di fede_, e poichè la sottoscrizione dell'obbligo non a tutti si chiese
su le prime, e poi si trascurò, per cotesto atto si dette ad intendere
più che con le parole (massime se consideri da un lato i tempi, e
dall'altro il costume della Corte romana usa a compartire il bene a
spilluzzico, mutata la condizione delle cose non potersi considerare rei
coloro che vollero le migliorie civili, le quali stavano per diventare la
norma del cittadino.--Nel nove novembre del 1847 Pio IX mentre sguazza da
un lato nelle acclamazioni delle moltitudini, limosina dall'altro la
protezione dei principi; difendano essi la Chiesa, procurino, che Gesù
Cristo vada loro debitore della conservazione del proprio _impero_,
rammentino, che l'autorità venne data loro proprio per questo: più
tardi, egli bandisce al mondo: suprema offesa così alla persona come
alla dignità sua negare in nome di lui obbedienza ai principi, sollevare
contro loro i popoli, eccitarli a moti ruinosi.--Il trenta marzo quando i
troni della terra erano spazzati via dalla bufera popolesca, come polvere
sopra le vie, il Papa ci vedeva il dito, e ci udiva la voce di Dio; ma poco
innanzi, e quando non erano accadute le rivoluzioni di Vienna, di Milano, e
di Venezia di guardia nazionale non voleva saperne, la contrastò col
becco e con gli artigli al principe Aldobrandini; forse si sarebbe lasciato
ire fino ai centurioni di Gregorio XVI; in seguito travolto dallo esempio
degli altri principi quando non la può negare mette dentro il
regolamento tante stringhe da farla morire di spasimo; e tuttavia ne
prorogò l'ordinamento al cinque luglio.--Che fosse la legge sopra la
stampa ce lo dicono i parziali del Papa, i quali sostengono che ei non
intese punto affrancarla, all'opposto metterle il frenello trasportando la
censura dalla Segreteria di Stato al Consiglio di censura. Lo stesso
moderatissimo Azeglio non se ne contentava, e sì che Azeglio e gli amici
suoi sono umori da imbandire con una fava di riforma cena in Apolline alla
Libertà. La riforma amministrativa, che cosa è insomma eccettochè
la estensione del sistema municipale dei rimanenti stati romani a Roma e
all'Agro romano? La Consulta di Stato il Consiglio, che mantenevano i Papi
prima della occupazione dei Francesi? Essi lo avevano udito, e lo
consultò anch'egli a fine di essere illuminato con facoltà però di
restare al buio quanto gli piacesse: imperciocchè Pio IX rispondendo
all'allocuzione del Cardinale Antonelli bandisse sè essere parato ad
ogni cosa, chiedessero verrebbe aperto; prima si straccherebbe il popolo a
domandare, ch'egli a concedere, a patto però, _che nè manco di
un'apice fosse menomata la sua autorità pontificia!_ Aggiungendo queste
altre sentenze, che valgono tant'oro: veruno ardisca vedere nella Consulta
il germe di _costituzione_ incompatibile col papato, e questo bene
ripongano in mente non avendo egli mai conceduto alla rivoluzione il
diritto di aspettarsi neppure un sorso di acqua da lui.

Taluno ha detto la virtù pubblica figlia non madre di Libertà, e
questo io non credo, ma se pure è vero allora può darsi quando
il Governo sorto dalla commozione popolare abbia interesse che il
popolo perseveri nella Libertà; ma nei tempi dei quali io scrivo i
Governi di assoluti con pessima voglia ed a marcio dispetto si
mutavano in liberali, sicchè parve mal consiglio quello di
concitare il popolo a superlative acclamazioni pel poco, che gli
riusciva tozzolare, nascendo da questo due mali, primo pel popolo, il
quale logorava gli spiriti nel proseguimento degli accessori,
lasciandosi scappare di mano il principale e poi perchè dopo
acquistatili trovandoli inani li dispettava perdendo la voglia dei
partiti efficaci; il secondo pel principe a cui pareva vie via avere
toccato la cima delle concessioni, onde sentendosene subito domandare
delle nuove s'inviperiva: però dopo il fatto di senno ne sono piene
le fosse, e allora parve dovere fare così per porgere conforto al
Papa reputato avverso alla oligarchia cardinalizia tenuta
gagliardissima, concetti entrambi falsi come la esperienza
dimostrò. Pellegrino Rossi scrivendo in cotesti tempi al Guizot
così si esprimeva: «niente di conchiuso fin qui, eccetto
promesse, commissioni, e proposte che menano il cane per l'aia, onde
è naturale che il paese brontoli.»

Il Gizzi oltre le riforme amministrative non voleva andare, la
Consulta e basta; e quando fu chiesto stessero i preti allo altare, in
curia i laici Pio IX ebbe a dire: «per andare a genio a loro
Signori non mi vo' mica perdere l'anima.» Della guardia civica
già dissi, che conceduta alla trista, ne fu prorogato l'ordinamento
al 5 luglio, ma il Papa la confermò solo dopo il 14 di cotesto
mese, non mica spontaneo bensì vinto dal popolo, che udita la
invasione austriaca in Ferrara, la impiccatura di un soldato
pontificio, e la cospirazione dei Sanfedisti contro il Papa proruppe
gridando: _Armi!_

I Gesuiti furono dal Papa, finchè n'ebbe balìa, con tutti i
nervi difesi, quando gli fu forza licenziarli lo fece con parole le
quali ben davano a divedere, che ei riputava separarsi dalla migliore,
o maggiore parte di sè. Gli scrittori gesuiti lacerano il popolo
per avere domandato al Papa la soppressione dell'ordine loro, e sta
bene; ma lo stesso fanno i Moderati, e lo perchè non si comprende:
questa soppressione avendo altrevolte chiesto ed ottenuto i Principi
al Pontefice, o perchè aveva ad essere interdetto al popolo? Forse
i Gesuiti avevano mutato natura, e per volgere di tempo di malvagi
divenuti benefici? I ministri niente seppero intorno alla composizione
dello Statuto; uomini del tutto estranei a loro lo costruirono; egli
è ben vero, che il Papa gli aveva chiariti mallevadori del proprio
operato, ma innanzi della pubblicazione dello Statuto, ed allora
dovendone rendere conto a lui cotesto obbligo non tirava a
conclusione; però dopo la pubblicazione dello Statuto la malleveria
essendo assunta dai ministri di faccia al popolo, pareva dicevole ne
avessero a sapere qualche cosa. Delle pubbliche adunate, e dei chiassi
popoleschi si compiacque maravigliosamente Pio, finchè terminavano
col chiedergli la benedizione; allora compariva fantastico, illuminato
da fuochi del Bengala, e mentre una colomba bianca, caso fosso o
ammannimento, gli rotava intorno al capo trinciava crocioni che
pigliavano un miglio di paese; quando poi, a mo' che i salmi finiscono
col gloria, coteste baldorie si conchiusero col chiedergli qualche
nuova riforma di abusi le prese in odio e le vietò in mal punto; il
popolo accusava il ministero, i gesuiti, ed altri parecchi tranne il
Papa, ed invece da lui solo si partiva il divieto; spaventato poi
della mala impressione si mise a scarrozzare il giorno appresso per
Roma, e qui fu che gli trasse da ogni parte dintorno il popolo, e
Ciceruacchio gli montò dietro la carrozza dove sciorinandogli la
bandiera tricolore su gli occhi, e gridandogli: «Santo Padre,
fidatevi al popolo!» tanto mise paura nel petto imbelle di lui, che
svenne. Anco il Thiers di Francia gli mandava dicendo: «Santo Padre
coraggio!» e senza ombra di consiglio, perchè il coraggio delle
magnanime, e buone cose per predicare, che uomo faccia non
acquisterà mai il prete; quanto a coraggio delle triste, preti e
femmine non hanno mestieri, che altri ce gli ammaestri.

Finalmente venne presto il giorno in cui la utopia si muta in fatto
reale, e la Consulta nella quale veruno temerario aveva a scorgere il
germe d'instituto incompatibile col pontificato si ebbe a convertire
in Costituzione; ma ciò accadendo innanzi i moti viennesi,
milanesi, e veneziani la voce del popolo non aveva per anco preso la
intonatura della Provvidenza, ella durava sempre urlo di ribellione,
epperò gli esce stitica dal cervello conciossiachè tale si
palesasse il concetto dello Statuto pontificio: sia il Collegio dei
Cardinali il Senato supremo, dopo lui un'altro Consiglio alto di
Senatori a vita eletti dal Pontefice, per ultimo la Camera dei
deputati uno per 30,000 abitanti. Il Consiglio di Stato ammannisca le
leggi le quali avranno forza dopo approvate dai corpi deliberanti e
dal Papa in concistoro segreto: le materie spirituali riservate; le
miste non si tocchino.

Ora tu che leggi pensa come si potesse distrigare questa matassa
massime in istato pretesco col Papa re, e Cardinali, senatori, i quali
Cardinali deliberavano in segreto; ed in aggiunta con la censura
mantenuta, e i minimi offici esercitati da cattolici, apostolici,
romani.

Gli amici di Pio ci fanno sapere come egli l'll febbraio convocasse al
Quirinale i quattordici capi di battaglione delle Guardie Civiche
interrogandoli se potesse fare capitale di loro, e dei militi in caso,
che gli frullasse pel capo di contrastare al popolo la Costituzione;
ed avutane risposta negativa col _pianto negli occhi_ dichiarò
avrebbe ordinato la compilassero sopra certe norme oltre le quali
veruno potrebbe strascinarlo mai, e si tenessero per avvisati, e poi
conchiuse: «già la Costituzione non è nome nuovo nel nostro
paese; la copiarono da noi gli stati che la possiedono; noi avevamo la
Camera dei Deputati nel Collegio degli Avvocati Concistoriali, e la
Camera dei Pari nel sacro Collegio dei Cardinali ai tempi di Sisto V;
e andate in pace.»

Havvi chi considera da ciò la suprema ignoranza di Pio intorno agli
ordini costituzionali di Europa; a me sembra scorgere in cotesto discorso
la callidità fraudolenta, che mai si scompagna dal prete; di vero o come
adesso insuperbisce quasi della Costituzione già conosciuta in Roma,
mentre quando instaurò la Consulta di Stato ammoniva non fosse alcuno
così temerario di ravvisarci il germe d'instituto incompatibile al
Pontificato? E' vuolsi credere piuttosto, ch'egli a quel modo favellasse
per foggiare la Costituzione nella guisa, che gli garbasse meglio: infatti
i suoi panegiristi discorrendo per lo appunto dello Statuto lo scusano
ragionando così: non egli diresse i moti della Europa, ma ci resistè
più che per lui fu potuto, e quando la prepotenza dei casi lo
scaraventò fuori di carreggiata egli li dominò con mirabile coraggio;
in tutte le concessioni che gli furono estorte egli protestò in favore
delle verità sociali che la rivoluzione aborrì, e quantunque
minacciato più degli altri, meglio degli altri stette fermo a cagione
delle qualità di Principe, e di Pontefice raccolte nella sua persona; e
poi spiegando a parte a parte il papesco Statuto esclamano: «quale
sovrano avrebbe ardito tanto a quei tempi?»

Nel 1848 i Principi, eccetto Carlo Alberto, e del popolo i moderati, o
come allora si chiamavano i dottrinari, trasecolavano degli spiriti
guerreschi desti a un tratto in Italia, e dello smanioso chiedere
armi, e battaglie; e pure doveva essere agevole prevedere che il
popolo irrompe colà dove la passione lo tira: ora suprema passione
del popolo l'affrancazione della sua terra da qualsivoglia servitù
straniera, e gittar via da sè la turpe fama di codardo, la quale
gravissima per tutti per gl'Italiani poi suona incomportabile, come
quelli che abitando la terra degli antichi Romani se ne estimano
eredi: quindi tu pensa se gli abitatori di Roma, e dello agro romano
bollissero.

Il Gavazzi allora frate barnabita uomo potente di voce, di aspetto, e
di parole aggiungeva legna al fuoco (e non ce n'era bisogno) con
questa orazione da lui pronunziata nel mezzo al Colosseo del tutto
degna che la storia ricordi: «tempo già fu quando i popoli di
occidente vollero riscattare il sepolcro di Lui che della Croce fece
fondamento alla libertà, moltitudini di uomini furono visti
segnarsi della Croce il petto, e drappellato il gonfalone di Cristo
avventarsi contro l'oriente! Cotesta era causa giusta! Cotesta era
causa santa! Più giusta, più santa è la nostra! All'armi!

«Romani! l'Austriaco cento volte più barbaro del monsulmano
picchia alle nostre porte.... che indugiate voi più? Come i
Crociati poniamo sopra i nostri petti la croce, e su, addosso ai
nemici, perchè Dio lo vuole! Non degno di chiamarsi romano chi per
affetto o per comodo rimanesse codardamente ora alle sue case: non
degna stirpe dei signori del mondo, non degno erede dei trionfatori
sul Campidoglio colui che rifiutasse di presente vincere o morire per
la libertà d'Italia. Indegna del nome di Romana, e di diventare
madre colei, che adesso trattiene nelle sue braccia il fidanzato!
Indegna dell'onore della maternità, e di seno fecondo colei, che
piange per la partenza dei figliuoli! Indegna figlia delle matrone
romane la donna che dissuade il suo sposo dai gaudi delle battaglie!
Romani! i vostri padri vinsero tutto il mondo, patirete voi durare
schiavi di tutto il mondo? Su via parlate!» Ed ottenuta risposta
conforme all'accesa favella suggiungeva: «davanti questa croce
simbolo di libertà, sopra questa terra santificata dal sangue dei
martiri giuriamo di non fare ritorno a Roma se prima non abbiamo
disperso fino all'ultimo i barbari, che straziarono la nostra
terra!»

Taluno riprende coteste parole, e insinua pietoso come quei barbari
cristiani fossero e nostri nella fede fratelli. Chi è costui? Un
prete, che non rammenta come siffatti fratelli nostri le italiane
donno sventrassero, e il frutto dei santi connubi portassero in trofeo
infilato nelle baionette; e nè manco rammenta le creature cosperse
di acqua di ragia ed arse fra il baccano e le scede a mo' di sorcio di
fogna.

In veruno atto come in questo si palesa la pretesca fraudolenza. Pio
IX mostrava repugnanza alla guerra però che si senta padre di tutti
i fedeli, nondimanco lasciò, che diciassette mila uomini capitanati
dal generale Durando andassero in Lombardia. Gli apologisti di lui lo
scusano come quello che fu costretto, ed è scusa inane: perchè
non abbandonava egli un potere che ormai non governava più? Se
più tardi lo fece o perchè rimase adesso? L'uso delle armi, e la
pecunia dello stato adoperata nel mantenerle, inviarle, o patire che
movano contro cui chiami amico e figlio certo vuolsi giudicare suprema
usurpazione di autorità; fuggì per meno il mal prete nel
novembre di poi. Ma egli, aggiungono i difensori suoi, non benedisse
la bandiera tricolore; certo gliela posero davanti gli occhi ma in
compagnia della bandiera pontificia, ond'egli in ispirito, levate le
mani, auspicò a questa, non già all'altra; siffatte sono
grullerie gesuitiche, nè meritano confutazione. E poi i suoi
difensori affermano, Pio IX inviava la gente con ordino espresso non
valicasse il Po; sopra la ripa attendesse lo assalto, e veramente
questo egli confessò eziandio nella enciclica del 29 aprile; e
tutto questo era stolto, e fraudolento, perchè se lo Austriaco si
reputava amico, e allora non bisognava spedirgli contro armati, ovvero
era nemico e doveva reputarsi privo di senno il comando di aspettarlo
a casa dandogli comodità di assaltarti a suo agio; combattere
insomma con sicurezza di perdere: tu hai da fare la guerra con quello,
che secondo la tua prudenza presagisci nemico quando torna a te, e non
già quando piaccia a lui: inoltre diciassette mila uomini non
possono giudicarsi sufficienti a guardare le frontiere degli stati
papali; nè Pio IX credeva, che costretto (come disse) a mandare
l'esercito fuori di Roma dove gli stava sotto gli occhi, e dove poteva
esercitarvi immediata autorità fosse per obbedire ad ordine tanto
insensato quando si troverebbe lontano da lui. Causa vera del consenso
alla partenza dello esercito questa, che egli sperò votare in quel
modo la città dei rompicolli; allontanati i cani egli fidava
rimanessero a casa i montoni; garba cotanto ai preti chiamare, e
provare i popoli greggi! Così vero questo, che anco dopo la
partenza dello esercito continuando l'agitazione Pio IX ebbe ad
esclamare ingenuo: «o non mi avevano detto, ch'erano partiti
tutti!» Pertanto il prete così argomentava toccandosi le dita: o
muoiono tutti per febbre, o per ferro nemico, ed è tanto di
guadagnato, ovvero vincono, ed io mi avvantaggerò per avere trovato
un ripiego, comecchè padre di tutti, per avere contribuito alle
guerre patrie con i miei sudditi, e con la mia pecunia: breve:
muoiono; e il prete pagato ne suffragherà l'anima: tornano
disfatti; e il prete si rifarà delle passate amarezze tribolandoli
come ribelli: se vittoriosi il prete li condurrà in Chiesa a
cantare il _Te deum_, e li ciurmerà campioni elettissimi della
Santa madre Chiesa Cattolica.

Per meglio comprendere la doppiezza di Pio IX vuolsi sapere, che il
Generale Durando arrivato sul Po con gli ordini di non traghettarlo
sentendosi vinto così dall'ardore dei suoi soldati la più parte
volontari, come dalla forza dei successi domandò ordini precisi di
quello si avesse a fare, e gli venne risposto: «faccia quanto
reputerà necessario alla tranquillità, ed alla quiete dello
stato.» Ora se cotesto comento importa deroga agli ordini, che si
volevano mantenuti non doveva trasmettersi; se non importa deroga
bisognava spiegarsi più aperto. La enciclica del 29 aprile gli
intendenti giudicarono peggio che slealtà, goffaggine pretta; per
essa si conobbe la verità del proverbio, che chi troppo
l'assottiglia lo scavezza, però che l'Austria non sia pesce da
pigliarsi da cotesti bertovelli, e ricordò la protesta della Corte
Romana al Congresso di Vienna quando le tolse il Polesine di Rovigo,
nè lo dimentica adesso, che non alzerebbe un dito per sovvenire al
papato: il popolo dall'altra parte ne venne in furore; il Papa da
prima pretese mostrarsi impermalito, ma conosciuto poi, che questa
volta la corda stava per istrapparsi si affrettò a dichiarare, che
se egli non ispingeva a combattere l'Austria non parava persona ad
andarci; per meglio blandire gli animi infelloniti mutava subito il
ministero eleggendo uomini in buona vista del popolo. Pellegrino
Rossi, che per sua sciagura, indi a poco entrò nei Consigli del
Papa scrivendo in Francia così ragionava della sua condotta:
«gli avanzavano due partiti da prendere, o l'intervento pacifico o
la guerra; si addiceva il primo al Pontefice, la seconda al Principe
italiano; egli non seppe fare l'una nè l'altra cosa, nè
dichiarare la guerra, nè impedirla.»

Tanto bastava per generare gozzaie non rimediabili mai, e nondimanco
da questa ora in poi crescono le bizze di Pio IX, sicchè proprio
parve agli uomini gravi un fanciullo stizzoso; mentre gli durava la
paura scrisse una epistola allo imperatore di Austria perchè a
bocca baciata si ritirasse in Austria lasciando la Italia, e da quel
buon figliuolo ch'egli era senza tanto stintignare obbedisse; io per
me credo non si sia mai fatto al mondo tanto sciupìo di carte come
a quei tempi; il Mazzini scrisse al Papa per convertirlo e persuaderlo
a tornarsi a pescare; Pio IX scrive allo imperatore di Austria per
convertirlo e persuaderlo a tornarsi semplice arciduca; e se fosse
solamente carta quella, che fu sciupata mi accheterei, ma sciupati
altresì andarono buon senso, lealtà, e tempo, che Dio certo ci
dava perchè lo impiegassimo meglio.

Terenzio Mamiani davvero non mi parve mai uomo da dominare burrasche,
tuttavia dei più risoluti di lui non avriano potuto durare tra le
opposte spinte dei preti, e dei repubblicani, e Pio IX quasi si
pigliasse diletto ad arcare cotesta povera anima ravviata ora non gli
consentiva camminare con un solo ministro degli affari esteri, ma ne
voleva due, uno per lo cose secolari, e l'altro per le spirituali: la
nuova legge sopra la stampa (dacchè la vecchia per cui si era mossa
gazzarra era venuta in tanto dispregio, che per poco non la pigliavano
a sassate) voleva manipolare egli, cioè farla manipolare per lui da
un padre Buttaoni domenicano maestro del sacro palazzo dal quale Dio
scampi ogni fedel cristiano; negava ai ministri facoltà di punire i
soldati fuggitivi; dal ruolo dei Consiglieri cancella il padre Vico
gesuita, scienziato dei primi, e ciò perchè (il Papa affermava)
l'avevano fatto a posta per non parere persecutori dei Gesuiti, onde
ei veniva con questo a palesare l'animo suo di torre la reputazione al
suo ministero infamandolo per tirannico: non consultati i ministri
nomina Consiglieri di Stato, e Auditori; al Cardinale Ciacchi preside
del consiglio dei ministri per la fermezza mostrata a Ferrara contro
l'Austriaco salito in nome di liberale surroga il cardinale Soglia
noto per abiezione non menochè per inettezza. La faccenda del
discorso per l'apertura della Camera comparve piena di scandalo: lo
compose il Mamiani per benino, lo corresse Pio IX e le sue correzioni
accettaronsi poi si pentì e lo rivolle; allora ne compose uno nuovo
da sè, e lo rimandò il 4 luglio vigilia del Parlamento: a quel
modo intendeva Pio il governo costituzionale; non potendo i ministri
accettare il papesco discorso, stante l'angustia del tempo proposero
al Papa si facesse rappresentare dal cardinale Altieri il quale
avrebbe detto panzane, ed essi avrebbero recitato un discorso messo
insieme a modo e a verso d'accordo col papa: da prima Pio saltò su
i mazzi urlando ch'erano traditori; gli fu dimostrato con pazienza da
santi, che non i ministri traditori, ma egli era proprio un'ignorante,
salvo lo Spirito santo, allora si abbonì, e accolse la profferta di
rivedere il discorso, come in vero ei rivide ed approvò: tuttavolta
l'_Universo_ diario chiesastico di Parigi diè fiato alla tromba, e
gli altri diari d'Italia tennero bordone lamentando la Chiesa
governata da nemici della religione, e peggio; così si screditavano
i ministri, e manomessa l'autorità si rendeva impossibile qualunque
governo.

Ricercando le cagioni di cotesti sbalestramenti papali ho sentito dire
come Pio IX per lettere intercette venisse a sapere come il Mamiani
s'indettasse a suo danno col Piemonte, e di ciò movesse querimonia
infinita con monsignore Muzzarelli: qualche cosa ci ha da essere
stato; ma di tradimenti non è capace il Mamiani, e Pio IX si
mostrò così governato dalla vanità ch'io lo reputo più che
capace da giudicare tradimento ogni partito che tendesse a ledere le
sue prerogative di cui procedeva, e procede tenerissimo: ad ogni modo,
poste per vere lo busbaccherie del Mamiani, il Papa avrebbe dovuto
licenziarlo, molto più che per essere visto dal popolo con occhio
obliquo poteva molto destramente farlo, e non già stare a
bisticciarsi con lui in danno della cosa pubblica. Invece ogni tantino
minacciava volere dare il puleggio al Mamiani, e tuttavia lo teneva:
invece di due ministri separati per gli affari esteri adesso Pio
pretende che in uno solo si cumulino i negozi così secolari come
spirituali, e il ministero gliela imbianca, quindi gli cresce il
rovello contro di lui, sicchè quando la Commissione dei deputati si
condusse a portargli la risposta al discorso di apertura, egli con mal
garbo disse accettarla come fatta alle parole dello Altieri, e
protestò la ferma risoluzione di mantenere nella pienezza intere la
libertà, e le potestà sue.

Le fortune d'Italia per la disfatta delle milizie regie, e pontificie
volgendo al basso, il Papa estima potere allungare le mani contro la
libertà e s'inganna; la sventura inasprisce non doma gl'Italiani, e
i reduci sparsi per le città, e per le ville gli animi già
accesi infiammavano; intanto gli Austriaci mettendo avanti nuove
improntitudini a Ferrara forniscono pretesto di tumulto al popolo in
Roma che chiede armi, invade il Parlamento, e a forza unito con la
guardia civica presidia le porte, ed il castello santo Angelo; il
Mamiani odiato dal Papa, sospetto al popolo lascia l'ufficio, e
veramente non correvano tempi per lui, ingegno temperato, amico della
compostezza elegante, e forbito nel dire, nel vestire, nell'operare,
in tutto; in una cosa solo io lo reputo stemperato, ed è nella
passione di vedere sgombra la Italia da ogni straniero. Pio picchia a
tutte le porte per formare un nuovo ministero, nè potendo rinvenire
meglio ricorre ad Eduardo Fabbri infermo, e settuagenario, cultore di
buoni studi, ma alieno alla politica, di negozi imperito. Gli
Austriaci tumidi delle riportate vittorie, pigliano diletto a
provocare il popolo, obliando che avevano vinto le milizie regolari,
ma dai popoli erano stati vinti. Welden entra in Bologna; i soldati
insultano e vengono manomessi; il capitano austriaco impone gli si
consegnino i rei, i cittadini, che gli hanno per innocenti anzi per
eroi li negano; dalle parole ai fatti; per quattro intere ore si
attende da una parte, e dall'altra a rompersi le teste; il popolo
bolognese mostra a prova averla più dura dello austriaco, e lo
caccia: a Roma il popolo imperversa, anco al vecchio Fabbri s'infiamma
il sangue e manda fuori bandi ardentissimi; e non ce n'era di bisogno:
a Pio in proporzione che il sangue si scalda altrui si raffredda il
proprio; il Fabbri risegna il governo, e Pio gli surroga Pellegrino
Rossi. Questi richiesto prima del Fabbri aveva rifiutato perchè
avendo troppa parte di vita logorato fuori d'Italia, gli umori
degl'Italiani ignoti erano a lui egli ignoto agl'Italiani; aveva
moglie protestante, forse protestante egli stesso; professore in
Francia di varie dottrine; riputato, edotto non però ingegno
supremo; i suoi scritti come invisi a Roma erano messi allo indice:
apparteneva alla setta, che allora in Francia si chiamava dottrinaria;
lo aveva portato su il Guizot: possedeva in copia la superbia, e la
presunzione doti comuni a cotesta setta; l'acerbità dei modi era
sua. Per quanto ci è dato conoscere i suoi concetti questi: nelle
faccende interne un po' di amministrazione liberale e abusi quanti
più potesse levati di mezzo; guerra di sterminio alla democrazia;
crescere le apparenze, non la sostanza dello _Statuto_; fuori lo
accusano aversi voluto legare con l'Austria per bilanciarsi col
Piemonte, da lui, e più dal Papa preso in uggia, ma non lo credo;
credo piuttosto che intendesse equilibrarsi col sussidio di Napoli, e
di Toscana: disegno scarso ad un punto e troppo; scarso per provvedere
ai tempi grossi, soverchio per inimicarsi i democratici, i preti, e i
parziali al Piemonte; di più aveva contro l'onda del secolo, e
l'ira delle moltitudini.

Quest'uomo o improvvido, o acre pareva compiacersi di pungere il genio
della città unendosi nel ministero gente a dritto detestata per
illiberale, come l'avvocato Cicognini, che di capo della estrema
destra diventò ministro di grazia, e di giustizia, e il generale
Zucchi, che usciva di prigione dell'Austria con buona fama per
macularla a Rimini nel 1831, e nella resa di Palmanuova nel 1849
offuscarla affatto, fu promosso ministro della guerra. Ora essendo
cosa ordinaria che chi dirige dia la intonatura lo Zucchi venuto a
Roma disse alle guardie civiche parole dure e aborrite; andato a
Bologna, tolse pretesto da qualche brutto fatto commesso dal popolo
armato per disarmare popolo, e volontari, contro i corpi di Garibaldi
e di Masina spedì milizie; costume vecchio, e nuovo di governo
tirannico eccitare disordini, o non prevenirli per pigliarne poi la
congiuntura d'insidiare la libertà: nelle provincie, e a Roma il
popolo bolliva, anco la guardia civica portava il broncio; la nuova
Camera uscita da pochi elettori, rappresentava colà come altrove
una classe sola repugnante per timidità, o per altra più rea
passione, da usare risolutamente della libertà: ciò era molto,
massime a quei tempi, per rendere detestabile un'uomo, ma il Rossi
fece peggio; dopo inimicati i democratici venne alle rotte con quanti
parteggiavano pel Piemonte, e per la guerra, che non erano pochi,
stampando sul _Monitore romano_ certi suoi scritti co' quali trafitti
prima gli Albertisti dichiarava volersi accostare a Ferdinando di
Napoli belva di re; per colmare lo staio il 13 novembre fatto mettere
la mano addosso a Vincenzo Carbonelli, e a Gennaro Bomba napolitani
agitatori irrequieti li mandava a Civitavecchia per espellerli dallo
stato: arrogi, che presagendo egli resistenza si ammannisce a
sfidarla, al quale scopo ordina nel _Corso_ una lunga sfilata di
_gendarmi_, come per avvertire i Romani che si giocava di vite;
distribuiva poi i Carabinieri nei dintorni del palazzo della
Cancelleria non senza prima arringarli dicendo, che in caso di
sommossa dimenticassero l'essere cittadini per rammentarsi che erano
soldati. Il giorno 15 novembre, fissato per l'apertura del Parlamento,
al colonnello Calderari, il quale si profferse accompagnarlo con una
mano di carabinieri a cavallo, e lo avvertì di pericolo
soprastante, rispose, non temere niente, sarebbe ito senza scorta, e
tuttavia lo agitava una fiera inquietudine, aveva la faccia pallida, e
la voce velata. A Pietro Righetti disse: «se non avete paura venite
meco alla Camera» e quegli andò. Una mano di gente da 50 a 60
vestita tutta della assisa dei reduci da Vicenza lo aspettava smaniosa
nel cortile del palazzo della Cancelleria, sicchè taluno di loro
impazientito dello indugio esclamò: «sta a vedere che il
vigliacco ha paura, e non viene.» Ma il Rossi aveva sospetto non
paura e veniva; un uomo appostato in via dei Baulari precorse la
carrozza avvisando i congiurati: «ei viene, ei viene» Allora
andò intorno il grido: «eccolo! eccolo!» e dal portone del
palazzo fino alla scala si dispose in due ale, più spessa la
destra, la sinistra scarsa. Appena sceso dalla carrozza il Rossi, e
dietro a lui il Righetti si levò un cupo brontolìo misto a
fischi; egli procedeva in sembianza provocatrice, con le mani nelle
tasche della cappa; crescendo i fischi trasse fuori le mani, e prese a
sbattere i guanti ghignando protervo; lui certo tirava un fato
maligno: ecco di repente i congiurati chiuderglisi dietro e separarlo
daì Righetti; uno di loro lo tocca di un bastoncello nella coscia
destra, il Rossi si volge indispettito da cotesto lato; allora due o
tre si spiccano dal gruppo destro per girare al sinistro passando
davanti allo sciagurato e gli vibrarono non uno, bensì due colpi,
il primo fu invano, non così il secondo; il pugnale penetrò
nella parte sinistra del collo dall'alto in basso per bene quattro
dita tagliando affatto l'arteria carotide, e la vena guigulare
esterna, parzialmente la carotide primitiva; egli barcolla senza dire
parola, tenta appoggiarsi al muro ma non si reggendo casca giù di
sfascio. L'omicida ai più parve giovane di 20 o poco più anni,
di poca barba, e smilzo; appena fatto il colpo gli gettarono addosso
un mantello da guardia civica, e sparve con seco i complici, dei quali
taluno andava ripetendo: «zitti! zitti! e' non è niente.» Il
Righetti a cui pure fu menato un fendente di daga invano facendosi
largo domandò aiuto per sollevare il trafitto; non gli badarono,
intanto sopraggiunse il servo del Rossi Giovanni Pinadier, e in due lo
rimisero in piedi, così sorretto salì otto scalini o nove, e
quindi si abbandonò; trasportato di peso nelle stanze dei cardinale
Gazzoli adagiaronlo su di un lettuccio; mandarono pel prete il
reverendo parroco dei SS. Lorenzo e Damaso, e lo trovarono a pranzo[1]
sicchè arrivò per assolvere il Rossi e vederlo spirare, e forse
era spirato, perocchè uno che si trovò presente al caso ci
racconta, avere suggerito al moribondo di profferire le parole:
«Gesù mio misericordia,» ma non potè dirle, e spirò. Su
quel subito dopo incominciato un po' di processo tanto per non parere
si lasciò cascare, fu ripreso più tardi. Gli accagionati sedici,
otto contumaci tra i quali Ciceruacchio e Sterbini; dei presenti
Felice Neri morì prima della condanna, degli altri Luigi Grandoni e
Sante Costantini giudicati nel capo, ma il primo periva in carcere,
l'altro ebbe mozza la testa; i rimanenti cinque mandati chi a vita, e
chi per 20 anni in galera.

  [1]  «_Pranzavo_, fu sonato alla porta, e fu detto:--«presto il
    curato che hanno dato una stoccata al Rossi.....» Deposto del
    R. P. de' SS. Lorenzo e Damaso.

    Nè anco si creda che il cardinale Gazzoli con pietoso animo aprisse
    le sue stanze al trafitto; com'entrassero in casa allo eminentissimo,
    ce lo fa sapere un testimone: «Io accompagnai allo appartamento
    Gazzoli sendoci resa aperta la porta dopo un calcio forte dato alla
    medesima dal servo del Rossi.»

La paura, che invano presumerono mantellare di costanza romana,
persuase la Camera ad aprire la seduta, comecchè non fosse in
numero e a leggere il processo verbale, ma della strage del Rossi non
discussione, non deliberazione; un grido solo si levò per impedire
l'apertura della seduta codardamente animosa; se non chè questo
altro grido (dicono si partisse dal principe di Canino) di rimando lo
attutì: «è forse morto il Re di Roma?» I vari partiti si
gettarono in faccia l'omicidio del Rossi; uno scrittore non so se
più tristo, o ridicolo, ne incolpò anco lo scrittore di questo
libro; e l'opera del D'Arlincourt ebbe traduttori e stampatori a
Livorno, lettori, e forse credenti in Italia; miserie di tutti i
tempi, e di tutti i luoghi, forse correggibili un giorno, ma
certamente non emendate fin qui!

A fine di conto veruno amò Pellegrino Rossi imperciocchè pei
preti fosse troppo, pei liberali troppo poco. La Corte Romana lo
pianse morto perchè le tornava singhiozzare senza lacrime, se gli
fosse durata la vita lo avrebbe ucciso ella: più tardi Pio gli mise
un po' di sepolcro tanto per non parcere, e su la lapide commise
incidessero lui avere avuto ragione da vendere, il Papa lodava ed
approvava il Papa, e questo va pei suoi piedi nè importava davvero
scolpirlo sul marmo.[1]

  [1]  Il sepolcro del Rossi è in S. Lorenzo a dritta dello altare
    maggiore murato alla parete: consiste nel busto del Rossi tra
    l'_Alfa_ e l'_Omega_; sopra il busto un Cristo, e sotto al busto

          CAUSAM OPTIMAM MIHI TUENDAM ASSUMPSI
                     MISEREBITUR DEUS
                   QUIETI ET CINERIBUS
            PELLEGRINI ROSSI COM. DOMO CARRARIA
           QUI AB INTERNIS NEGOTIIS PIO IX. P. M.
         IMPIORUM CONSILIO MEDITATA CAEDE OCCUBIT
                  XVII K. DEC. MDCCCXLVIII
               AET. AN. LXI. M. IIII. D. XII.

    causa ottima io presi a sostenere, però mi avrà misericordia
    Dio; al riposo e alle ceneri di Pellegrino Rossi commendatore da
    Carrara che preposto da Pio IX p. m. agli affari interni per
    consiglio di empi con meditata strage fu spento il 15 dicembre
    1848 di anni 61. m. 4. g. 12.

Spontaneo o consigliato Pio IX mandava nel mattino del 16 Marco Minghetti,
e il Conte Pasolini in cerca di Giuseppe Galletti, il quale arrivato la
sera del dì precedente aveva ricevuto dalla turba inebriata di vino e di
sangue strepitose accoglienze; egli nelle sue memorie fa le stimate per
questa chiamata, e s'infinge; forse altra volta non aveva egli retto il
governo? E per le acclamazioni popolari non offeriva un'arnese lì per
lì da logorarsi in opposizione al popolo; certo per breve tempo, ma a
quei giorni chi poteva augurarsi durare un pezzo; e poi Pio IX non ne aveva
bisogno di lungo; bensì di tanto che bastasse a mettersi in salvo;
recatosi il Galletti al Quirinale, il Papa gli parlò pacato, e gli
commise comporre nuovo ministero; chieste alcune ore per indettarsi gli
concesse spazio fino a sera; uscito, gli offre la carrozza il principe
Corsini, ed ei va con esso; mentre passano per piazza Apostoli ecco
accorrere loro una turba di gente, nè popolo tutta, bensì mista di
deputati, di cittadini maggiorenti, e di ufficiali, con bandiere e
carelloni sopra i quali stavano scritte le domande, che intendevano il Papa
esaudisse: _ministero nuovo, governo quale lo aveva già dichiarato il
Mamiani, adesione alla Costituzione bandata del Montanelli_; appena
ravvisato il Galletti, la moltitudine lo cava dalla carrozza, e seco lo
travolge al Quirinale in mezzo alla deputazione eletta per partecipare al
Papa i desiderii della Città; sappiamo da lui, come parendogli strano
inquietare Pio per cosa della quale già gli aveva dato incombenza, e non
dicevole angustiarlo per le altre s'indettò con la Deputazione di
entrare in palazzo, e uscirne poi simulando avere tenuto colloquio col
Papa, e da lui impetrata la facoltà di comporre il ministero senza
toccare di altro; era inganno cotesto ma il popolo che di rado si lascia
abbindolare quando tiene aperti gli occhi prese a prorompere: «o le
altre?» A che il Galletti, colto alla sprovvista rispose: «quanto
alle altre provvederebbe il governo non essendo tali da poterlo fare il
Papa senza ministero.» Il popolo subodorata la frode, diede nei lumi:
«risposta chiara e subito;» e s'incammina a cercarla da sè;
trattenuto a stento concede ritorni al Papa il Galletti, il quale va, e lo
trova arruffato; preghiere e persuasioni non valgono a smoverlo, bensì
ei gl'insinua ad ingannare il popolo, e il Galletti mostra offendersene, ma
a torto perchè se lo aveva deluso una prima non si sa perchè non lo
avrebe deluso una seconda volta. Popolo, e Svizzeri già cominciavano a
barattarsi qualche nespola; preti, e servitorume in palazzo tremano a verga
supplicando il Galletti li salvi dallo sterminio, sicchè egli annunzia
al popolo non un rifiuto duro duro del Papa, bensì non volere patire
violenza. Alle armi! urla il popolo, e sgombra la piazza. Il Papa nella
fiducia che la repulsa gli procacciasse reverenza si stava nella sua
vanità tranquillo, quando ecco allagare la piazza il popolo armato
trainando un cannone per fracassare la porta maggiore del palazzo, con esso
lui la guardia nazionale, bersaglieri, reduci, e fanterie regolari; si
dà mano a moschettarsi con gli Svizzeri; il sangue gronda; monsignor
Palma mentre si affaccia ad una finestra del Quirinale per ispeculare
quello che si facesse in piazza, colto da palla nel capo, muore; dicono
fosse uno degli scrittori della famosa enciclica del 29 Aprile. Appiccarono
il fuoco ad una porta laterale; grave il danno presente, troppo maggiore il
futuro, imperciocchè il figlio del Ciceruacchio stesse per dar fuoco al
cannone appuntato contro la porta del Quirinale, e lo faceva se non lo
avessero tenuto; di ciò si vantano parecchi, il Calandrelli, e il
Galletti; forse ci avranno avuto parte ancora essi, ma quegli, che gli
strappò la miccia accesa di mano fu proprio il padre del giovane
tuttavia parziale a Pio IX. Si mandarono in fretta da più parti persone
in traccia del Galletti, che rinvenuto in Piazza Navona andò; il Papa
apparve atterrito, ma più che atterrito crucciato, che nel cuore del
prete due grandi passioni si davano battaglia, orgoglio e paura; per la
composizione del nuovo ministero di leggeri andò persuaso, alle altre
domande invincibilmente opposto, onde si ebbe rifugio al ripiego,
deciderebbe l'Assemblea su quelle; il popolo non si contentava, ma lo
abbonirono con le parole artate; il popolo pretendeva altresì gli si
consegnassero nelle mani gli Svizzeri, ma anco su questo lo abbonirono.
Dicono i panegiristi di Pio, com'egli al cospetto degli Oratori stranieri
protestasse della nullità degli atti come estorti a forza, e non pare,
dacchè parte accettò, e parte respinse delle domande del popolo, e se
questo fu inganno per celare meglio le riposte deliberazioni tanto maggiore
gli riviene il biasimo per la usata fraudolenza; e di ciò si duole
amaramente il Galletti lamentando i danni patiti per essersi spencolato in
suo pro, la sua sconoscenza come quello che lo aveva sottratto a pericolo
sicuro, poichè s'egli non era il popolo in cotesto di aveva mostrato
volontà e potenza di troncare ad un punto Papa e papato. Gli uomini del
1818 sperimentarono nemici così i principi come i popoli, e a parere mio
meritamente, imperciocchè molti di loro per disposizione propria, e per
qualità di tempi, taluni per qualità di tempi soltanto nè salvarono
le monarchie, nè impedirono le repubbliche; una maniera di rivoluzionari
annacquati: onde oggi Dio non li vuole e il diavolo li rifiuta; e più
che tutti ha ragione di spregiarli il popolo, il quale a questa ora non si
troverebbe a rifare i passi sopra una via insanguinata dai suoi piè
laceri.

È fama che Pio IX tra il sì, e il no tenzonasse di partire o
rimanere, ma che a traboccare per la risoluzione di andarsene
contribuissero assai la lettera, e il dono della pisside, o meglio
della teca dove un Chatorusse vescovo di Valenza gli dette ad
intendere Pio VI portasse il viatico nelle sue pellegrinazioni; invero
a che pro cotesto impaccio se il Papa con due parole e un po' di
farina poteva farsi quanto Dio voleva? e la farina da per tutto si
trova. Avendogli pertanto mandato Dio la ispirazione per mezzo del
vescovo di Valenza, mentre gliela poteva spedire per via diretta
deliberò la fuga: in questo passo forte lo stimolava il duca di
Harcourt il quale intendeva condurlo a Civitavecchia e quindi in
Francia, arnese ottimo, secondo lui, per iscompigliare la Europa
pigliando a volo i diritti, o piuttosto le pretensioni dei Papi sul
bene altrui. Gli oratori degli altri principi cattolici ben si
accordavano coll'Harcourt intorno alla fuga ma dissentivano circa
l'asilo, il Martinez della Rosa lo voleva trasportare alle Baleari, il
conte Spaur a Gaeta donde con maturità di consiglio avrebbe potuto
scegliere fra le Baleari e Francia, così diceva, ma insomma lo
voleva commettere nelle mani del Re di Napoli e dell'Austria: ognuno
di loro tira l'acqua al suo mulino. Essendo comparsa in quel torno
un'aurora boreale, gli scrittori chiesastici, ne traggono argomento ad
affermare che la fuga di Pio fu annunziata dai cieli; e questo
potrebbe addursi in prova della pertinace impostura, o ignoranza dei
preti se il temerario sillabo di Pio IX non assolvesse da ogni prova.
Il 24 di novembre l'oratore di Francia arriva al Quirinale in un
carrozzone di gala preceduto dai corrieri con le torce a vento, e
domandata udienza introducesi al Papa il quale tosto muta vesti
pigliando quelle di un pretoccolo, e per mascherarsi meglio postosi
sul naso un paio di occhiali verdi scappa per certe stanzuccie
conducenti al corridore degli Svizzeri, il duca d'Harcourt rimane
nella stanza di udienza dove nel disegno d'ingannare la gente continua
a discorrere con voce alta e concitata; se non chè quando egli
pensa ormai assicurato il fine dei mal sortiti tiri furbeschi, ecco
che ti vede ricomparirsi davanti il Papa disfatto con un moccolo in
mano. La porta del corridore degli Svizzeri disusata _ab antiquo_ non
aveva potuto aprirsi, chiuso allo scampo ogni via: agevole cosa
immaginare la confusione di costoro, e forse imprecavano a coro un Dio
avverso quando il foriere Filippani sopraggiunge ad avvertire che il
Dio placato sotto forma di olio di oliva aveva fatto scorrere il
chiavistello e spalancata la porta: amplessi, e baci, e passi
accelerati per rimettere il tempo perduto. La contessa Spaur dopo aver
messo in confronto la partenza di Pio VII da Roma con quella di Pio
IX, la prima in mezzo al pianto dei fedeli Romani, massime delle
donne, che picchiandosi il petto simili alle figliuole di Gerusalemme
ululavano: «chi ci rapisce il Santo Padre? Chi?» La seconda alla
chetichella a guisa di ladro notturno che porta in salvo la cosa
furtiva, esclama: _qual differenza!_--Questa confessione scappata
impensatamente dalle labbra di una donna foggiata a zelantissima
cattolica chiarisce le condizioni attuali del Papato, e il fine, che
senza rimedio ormai gli si apparecchia.

Vulgare fuga fu cotesta, che invano s'industria la contessa Spaur di
rendere poetica: bimbi, cameriere, preti, carabinieri, che reggevano
il sacco, e nondimanco paura; tutto questo burlevole: pieno però di
amarezza vedere cotesto mal Prete recitare il breviario col padre
Liebl, e supplicare Dio per la salute degli uomini, che tornato in
fiore egli dannò alle galere, agli esilii, qualcheduno alla morte.
Giunse il Papa a Gaeta a salvamento, perchè, come disse egli alla
Spaur, seco era Dio chiuso dentro la scatola, il quale pure non era
bastato a salvarlo dalla paura quando trovò chiusa la porta del
corridore degli Svizzeri! Di colta il Papa fu preso per ispia dal
comandante di Gaeta, ma poi il Re Ferdinando avvertito gli portò in
fretta e in furia camicie, soldati, e marzapani e condottolo seco a
Napoli l'ospitò regalmente; per la qual cosa questa belva
incoronata, che uomini di stato temperatissimi chiamano addirittura
negazione di Dio, diventa ad un tratto: «Re cristiano ammirando nel
quale non sai se le virtù del principe cristiano superino quelle
del privato, o queste quelle avendo discorso parole, e operato fatti
di sovrano il più magnifico e il più pio di quanti si conserva
memoria nel mondo.»

Dicono il duca d'Harcourt corresse a Civitavecchia nella speranza di
trovarci il Papa, e non ce lo rinvenendo rimase come schermitore vinto
di scherma; ciò altra creda non io, che se tale fosse stato
l'accordo egli avrebbe da lunga mano allestito il naviglio, a mo' che
fece Leopoldo di Toscana mercè la Inghilterra, la quale in quelle
rivolture tenne il piè in tutte le staffe, e parve pescatore che
intorbida le acque per pescardi dentro.

Conosce l'universale come Pio IX fuggito da Gaeta dopo tre giorni
deputasse certa comissione di sette persone a reggere il paese: questo
gli era vietato per legge: e supposto gli fosse concesso veniva tardi,
perchè il Decreto, che la instituiva arrivò a Roma solo il tre
dicembre, o si conosceva aperto, che la era preordinata per
iscarrucolare la gente, di vero tre dei sette non si trovavano a Roma,
gli altri quattro in mal punto, e senza un'oncia di consiglio
richiesti arruffavano: ci erano apposta; all'ultimo ricusano. Il Papa
depone il ministero, che non gli dà retta e rimane, solo repugnante
il Mamiani; mandasi deputazione a Gaeta, ed anco questo parve partito
insano, chè ormai era chiaro il Papa, se straniere armi non ce lo
riconducevano, non volere restituirsi a Roma. La deputazione come
poteva di leggieri prevedersi fu respinta ai confini; avendo ella
scritto lettera al cardinale Antonelli fin lì mostratosi zelante di
libertà non n'ebbe riscontro di sorte; cessata la commedia aveva
deposta la maschera.--La risoluzione forse non poteva salvare, ma la
incertezza fu di sicuro ruina; gli operatori dei passati rivolgimenti
non si tennero paghi ad avere ragione, ma sì ancora attesero a
provare per filo e per segno che l'avevano; nè io dirò che in
queste faccende non importa ragione; questo altro dico, che non rileva
tu abbi ragione se l'esito ti dà torto. Il ministero revocato
continuò a guidarsi come nave senza timone, i deputati peggio che
mai; eletta nuova giunta di reggitori, Gaeta, interessata a crescere
la confusione, protesta; si scioglie il Parlamento, e si convoca
l'Assemblea constituente; il senatore di Bologna membro della Giunta
risegna lo ufficio, gli sottentra il Galletti; Mamiani abbandona il
ministero e se ne ignora la causa, dove non fosse il cruccio concepito
nel vedersi postergato a cui egli estimava, e senza dubbio era, men
degno di lui.

Precipito la narrazione come quella che si versa su cose a tutti
notissime; il Papa col monitorio del primo gennaio 1849 protesta, e
vieta ai fedeli di partecipare all'assemblea constituente sotto pena
di scomunica; nonostante ciò apresi, e ci concorrono i fedeli; si
mette il partito della decadenza del Papa ed è vinto con voto quasi
universale, imperciocchè i dissidenti sommassero a quindici sopra
142; posta altresì a partito la dichiarazione della repubblica ebbe
contro soli ventidue voti, che per la scarsezza loro e' furono come se
non fossero; l'assemblea elesse ancora un Triunvirato composto di
Armellini, Saliceti, e Montecchi: varia di loro la fama come suole nei
mareggiamenti politici; però cribrata ogni cosa ad Armellini
consentono molta scienza legale, e di ciò porgono preclaro
testimonio le sue allegazioni forensi, e nelle altre faccende più
ingegno, che dottrina: nello eloquio spedito: Catone in piazza,
Epicuro in casa: cupido di primato, nei propositi incerto, di modi, e
di parole coperto, prete fu e non sapeva dimenticarsene; altre
taccherelle gli appongono, e le avrà avute; fatto sta che stette
alla sua fede fermo, non vacillò per danno presente, e per presagio
di maggiore pericolo avvenire, visse e morì onorato nello esilio
lasciando desiderio di sè in quanti lo conobbero, e nome presso
l'universale di cittadino onesto. Il Montecchi eziandio appartenne al
foro, buono era, ma di poca levatura; uno dei tanti, che la ruota
delle vicende umane pare che abbia bisogno di tirare su per fargli
fare, girando, il tomo; il Saliceti entrò nel maestrato con
maravigliosa reputazione, lo predicavano giureconsulto solenne,
filosofo, ed uomo di stato: ministro a Napoli lo ebbero in pregio:
grandi cose si aspettavano da lui, e non le fece, sicchè presto
venne meno alla pubblica stima, solito scoglio in cui rompono anco i
sommi, i quali non rispondono mai all'eccessivo concetto, che altra si
forma di loro.

La repubblica non fu accolta bene nè male; la patirono i popoli, nè
forse vi era altra uscita, dacchè al Papa non si voleva tornare, nel
governo provvisorio non si poteva durare; il Monghini, che questo disse,
allora come ora apparve savio, e il Farini male si adopera trafiggerlo con
oblique parole: maligno raccontatore costui, contro il quale, percosso da
Dio, non lice aggravarsi con dure parole. Quando poi con tanto valore i
Romani con gl'Italiani convenuti a Roma difesero la repubblica, furono
sospinti ai magnanimi atti meno da svisceratezza per la forma del governo
che per mostrare a prova di sangue allo aborrito straniero come gl'Italiani
sappiano adoperare l'arme anco in disperata difesa; nè questo è
giudizio dello scrittore, bensì dello stesso Giuseppe Mazzini, il quale,
interrogato da lui rispondeva proprio così: «il concetto della difesa
di Roma fu in tutti concetto di onore, e di ribellione naturale contro la
insolenza francese; nei pochi concetto repubblicano, e desiderio di
promovere il principio facendo conoscere al mondo ciò, che a petto dei
monarchici d'Italia valessero i repubblicani.... Roma era scaduta agli
occhi d'Italia, e di Europa: era una popolazione di preti, di servi, di
ciacchi viventi su la candela, su le cerimonie, e le corruttele dei
sacerdoti, e di trasteverini ignoranti, affascinati dalle pompe cattoliche,
comecchè d'istinti veracemente Romani. Ora per noi senza Roma non si
fonda unità, però bisognava riconsacrarla all'ammirazione di tutti;
farvi scintillare una favilla di virtù prisca e vera.... insegnare
insomma di nuovo Roma alla Italia, la Italia a Roma.»[1] Intento a vero
dire non pure generoso ma giusto, e checchè adesso in contrario ne
appaia portatore in futuro di frutti maravigliosi quanto inopinati.

  [1]  Mazzini note ms.

Lo stato di Roma grave perchè quello d'Italia pericolante. Hainau
atterrisce a Ferrara, Venezia è stretta di assedio, Sicilia non
riconosce la repubblica romana, Piemonte torbido, volente battaglia
contro l'Austriaco, aborrente dai moti dei popoli, e più dalle
aspirazioni loro, Toscana mal ferma. Qui venne il Mazzini per lo
appunto il giorno in cui il Granduca Leopoldo disertava dal paese come
il soldato dalla bandiera: coloro, che rimasero al governo della
Toscana promossi da tutti, in breve sperimentarono nemici tutti, e non
pure nei fatti, ma sì nei detti, e negli scritti: i monarchici
pretendevano ch'essi facessero sangue per costringere il popolo a
tenersi un principe che fuggiva, i repubblicani li lasciarono
perchè non bandirono la repubblica, e adesso col giudizio stesso
del Mazzini si chiarisce come nè anco a Roma, dov'ella fu
promulgata, i più di cuore la sostenessero. Non comprendevano i
reggitori Toscani con quanto, non dirò giustizia, ma senno potesse
imporsi per forza la repubblica, di cui è fine consentire al popolo
lo esercizio pienissimo della propria libertà; ond'ei se ci
repugni, appena datagli la repubblica, te la butta via, e dove poi tu
voglia, ch'ei la tenga ti fa mestieri adoperare modi tirannici dai
quali aborrivano i governanti Toscani: inoltre bisognava considerare,
ch'eglino preposti al governo provvisorio dovevano queste due cose
compire; mantenere ordinato il paese, e provvedere, che l'assemblea
costituente eletta con sincerità di suffragio deliberasse intorno
alle sorti del paese; e tanto ebbero in sorte di compire. Quanto a
loro dalla repubblica non rifuggivano davvero, se repubblica aveva ad
essere l'universale deliberasse; solo le violenze detestavano, chè
modi incivili non furono mai visti partorire costumi civili. Di tanto
possiamo porgere testimonianza, che dove lo universale avesse deciso
reggersi a repubblica, e avessero eletto a sostenere gli uomini del
governo provvisorio la infamia di accorrere allo Austriaco coll'olivo
in mano sarebbe stata risparmiata alla Toscana; il come non importa
dire, chè gli eroi, scomparso il pericolo, si misurano con lo
staio.

Giuseppe Mazzini non avendo potuto ottenere per via di conati, a vero
dire, non civili nè giusti che il governo provvisorio imponesse
tirannicamente la repubblica in Toscana se ne andò a Roma senza
essersi fatto tra noi nuovi amici, e disgustato parecchi dei vecchi.

Chi sia Mazzini non impora esporre con lungo discorso: se le sue teorie
valgano tutte anco meno preme discorrere; questo è certo, che le teorie
voglionsi sempre accogliere quando svegliano la passione, e il pensiero;
spetta alla esperienza poi sceverare il troppo, e il vano: ora le teorie
del Mazzini sopra le altre poterono operare questi due effetti stupendi in
tempi nei quai l'uomo sembrava nato per servire di camposanto al cuore, e
al cervello proprii: tenace secondo che gli porge la natura genovese, e
però disposto ad operare, gli fanno difetto due cose: pratica di uomini,
e pazienza di pigliare gli eventi come vengono: di animo mite, cultore di
molti studi come di molte favelle, scrittore efficace, comecchè imperito
delle grazie della lingua, nondimaneo facile a intendersi e però
popolare il suo dettato: di costumi incorrotti, di vita esemplare, donatore
del proprio frattanto avendogli appiccato accusa di peculato cadde da sè
senza mestiero difese, e adesso vive con le reliquie del paterno censo,
accomodate a vitalizio con certo suo parente di Genova: di fede intero
così, che anco ai suoi poco amorevoli piuttostochè trista parve
strana la taccia di servile sbalestratagli contro da tale, che da un pezzo
dimena nel manico, e non è nero ancora, e il bianco muore; più
agevole riprenderlo di spietata inconsideratezza di spingere altrui a morte
quasi sicura, che negare per questi sacrifizii cresciuto a mille doppi
l'odio degl'Italiani contro lo straniero. Se congiurasse contro la vita
altrui parecchi affermano, egli nega; ma considero, che uomini i quali
fanno professione delle sue dottrine non ci repugnano dove il dannato a
perire meriti davvero essere offerto vittima alla pubblica Nemesi, e dal
castigo di lui ne venga benefizio all'universale; nè a cosiffati uomini
si domanda donde cavino il mandato, imperciocchè ti risponderanno dalla
propria coscienza; e neppure li tratterranno la esecrazione o i supplizi
mirando per le storie come per gesti di questa maniera tale fine aspetta se
infelici; fortunati poi ogni uomo loda, e quasi india. Su di che parmi
dovere ripetere un mio antico giudizio, che reputerò sinceri gli
abominatori degli omicidi plebei, quando io gli udirò detestare del pari
i principeschi, nè vedrò serbata la ignominia a quelli, che per
istrage vanno al patibolo gli encomi agli altri i quali la medesima colpa
esalta al trono: e rammenterò eziandio, come san Tommaso distingua la
uccisione del tiranno, che per fraude o per forza ti si è imposto
addosso da quella del tiranno eletto per suffragio del popolo; e nel primo
caso l'ammette, nel secondo no; la quale sentenza a cui bene intende
parrà, come di vero ella è, piena di senno, imperciocchè il
violento tiranno sia accidente, che di un tratto ti colse, e di un tratto
può andare via, mentre il volontario cagionato dalla corruttela del
popolo per cessare ch'ei faccia non rifiorisce la libertà omai spenta: e
questa è la ragione per cui ammazzato in Tebe Alessandro da Pelopida, ed
in Atene i trenta tiranni da Trasibulo coteste repubbliche riebbero la
libertà, mentre a Roma la strage di Giulio Cesare partorì tre
tiranni, e l'ultimo tracollo della repubblica. Ma questo secolo su gli
altri piglierà titolo di bugiardo come quello, che i nomi onesti, e le
sembianze tutte di virtù inquinava ponendoli a velo di tristi parole, e
di peggiori opere. Insomma, bandita ogni ipocrisia, questa è la ragione
delle congiure per la strage dei tiranni; se non riescono si rinnegano da
tutti, se riescono da pochi, ma nessuno respinge i doni comecchè
sanguinosi della fortuna. Taluni scrittori francesi, che scambiano
l'arguzia per discorso scrivono, che il Mazzini a Roma, sgombra dai preti,
si rinvenne come in casa sua volendo così significare, ch'egli è
profeta, di fine diverso, ma di sostanza pari ai profeti cattolici: quanto
ai Papi per durare così deboli sovrani tanta parte nelle faccende
politiche egli importa sapere, che non si conobbe mai negoziatrice più
destra della Corte Romana, e quanto a Mazzini non s'inviluppò triumviro
nelle sue teorie per modo, che non rivelasse d'ora in ora intelletto
italiano di cui è natura la speculazione sperimentale delle cose. In
Roma il Mazzini entrò eletto cittadino comecchè assente,
nell'assemblea entrò col suffragio di novemila voti; lo accolsero
plaudendo; il presidente Galletti se lo chiamò allato in segno di onore;
disse parole brevi, modeste, e degne, le quali insomma si riducevano a
questo: alla Roma dei Cesari, ed alla Roma dei Papi aversi a surrogare la
Roma del Popolo, la quale raccolta in un fascio la Italia adoperasse la
nuova e temuta potenza in benefizio della libertà del mondo.--Storici
incapaci a concepire altro stato in Italia tranne quello di un Piemonte
ingrandito tolsero a segno di sceda il concetto del Mazzini, e pure in
tanta mutazione di casi egli è rimasto coscienza, e passione di popolo,
patto di regno. La repubblica Romana avversata dall'odio di tutti i suoi
antichi servi cadde impotente a compirlo; adesso se n'è tolto il carico
la monarchia: staremo a vedere dove ci mena; per ora ella conduce il can
per l'aia. Nè anco si comprende come nel Mazzini diventi follia ciò
che nei bandi di Napoleone III si esalta come apice di generosa sapienza;
imperciocchè la promessa di fare apparire la bandiera di Francia colà
dove vi sia causa di civiltà a sostenere non risponde all'altra del
Mazzini di ricomporre prima e adoperare poi il fascio consolare della
libertà Romana per la libertà degli altri popoli? E per me credo, e
la esperienza lo ha mostrato un'aiuto comunque lieve purchè opportuno
ebbe virtù di salvare popoli, e cause maggiori della umanità; se non
che la promessa del Mazzini si sarebbe attuata in pro della libertà:
quella del Napoleonide per ineresse della sua famiglia, o alla meno trisa
per quello della nazione francese.

Intanto Pio IX smanioso tornarsene a Roma più assoluto (se fosse
stato possibile) di prima chiama in suo soccorso contro Roma non uno
bensì tre stranieri, gli Austriaci, i Francesi, e gli Spagnuoli, a
cui aggiunge il Re di Napoli; lo avrebbe desiderato solo, ma non lo
reputava bastante; avrebbe altresì eletto l'Austria sola estimata
da lui più, che capace, ma glielo contrastavano le altre potenze:
il Piemonte poi amava come il fumo agli occhi, nè questo, prima di
Novara distratto, dopo disfatto poteva risentirsi.

Importa con discorso quanto meglio si potrà conciso esporre le
ragioni della impresa francese contro Roma, affinchè gl'Italiani
facciano senno una volta. La intelligenza umana le più volte in
Francia ti fa l'effetto di una pagina di stampa disfatta: alterate nei
racconti le cose, i commenti a quelle temerari del pari che sfrontati;
pure se savio intendi tu troverai il filo della immane improntitudine
francese. Quelli che s'industriano colorire con tinta men rea la
faccenda affermano, avere voluto la Francia preporre il Piemonte e
Napoli alla restaurazione del regno papale; e non è vero: posto che
fosse vero, la impresa non comparirebbe meno iniqua perchè commessa
altrui: aggiungono, che il duca di Harcourt si dimenava a Gaeta come
il diavolo nel catino dell'acqua benedetta perchè non si chiamasse
l'Austria onde terminò col dare nel naso all'Antonelli; e questo
può darsi, studioso che il Papa preferisse esclusivamente la
Francia, la quale o regia, o repubblicana, o imperiale serva fu sempre
e per giunta cristianissima: ma non avendo potuto tirare l'acqua al
suo mulino egli propose non ci si adoperassero le armi straniere,
nè casalinghe, piuttosto si promovesse il moto interno affinchè
la restaurazione pontificia si operasse in virtù del partito
costituzionale, ed anco questo rincrebbe o mostrò ad un punto
quanto dolce di sale fosse il Duca, dacchè i preti sapessero due
cose; la prima che non ci era anima, che li potesse patire, la
seconda, caso mai ci fosse, il partito costituzionale non aborrivano
meno del repubblicano, come detestano tutto ciò che tocca la
superbia, la prepotenza, e l'avarizia loro.

Di fatti persone ottimamente informate ci attestano tale lo stato
degli animi dopo la partenza del Papa; chi amava non lui ma il papato
per suo interesse cruccioso della turpe fuga desiderava nuovo e solido
ordine di governo, per avere abilità di continuare anco con questo
i suoi negozi; chiamò lui non il papato a un tratto deluso, i
benefizi largiti a spilluzzico, e a male in cuore oblia, solo ricorda
le colpe, e ragionandovi su le magnifica; se già non sente l'odio
gli va dappresso: quelli poi che di Pio diffidarono sempre, ma che
pure si misero di mezzo, massime nel novembre, per impedire, che la
rivoluzione con danno del paese prorompesse, adesso sbottonavano
accesi contro di lui: ciò crebbe l'ardimento ai repubblicani, che
trovata la temperie disposta poterono di punto in bianco acclamare la
repubblica. Pio IX vanissimo, forse si dette ad intendere, che uscito
egli di Roma ella restasse sepolta nelle tenebre pigliando fatte alla
sua persona le manifestazioni che s'indirizzavano alla libertà, la
quale si tenne promossa da lui, errore che il Papa prese insieme a
parecchi, e del quale egli ed altri ricreduti con non mediocre
dispetto, oggi procedono smaniosamente contrari alla causa dei popoli.

Quanto poi agli ordini costituzionali (e questo dovrebbe porre il
frenello in bocca agli scrittori moderati, i quali non rifiniscono
lamentare la intemperanza dei democratici come quella che alienò il
Papa da cotesta forma di governo) Pio IX così si esprimeva, dopo
restaurato a Roma, al ministro di Austria: «egli non dissimula
punto, che giudica ogni forma parlamentare proprio nemica allo
esercizio libero del potere spirituale, vedrebbe con paura intorno a
sè mettere le barbe non solo alle scapestratezze imposte dalla
rivoluzione, ma sì eziandio alle forme rappresentative più miti
contagiose non meno, e nocive agli stati.» Per ultimo il sillabo
per sigillo: onde ormai pongasi questo in sodo, repubblica, o
monarchia od istituto altro qualunque, che si proponga a scopo il
meglio della umanità non può assettarsi a vivere con la corte di
Roma.

La Francia al postutto si sarebbe rimasta, ma avendo spillato che l'Austria
voleva ad ogni modo prendere parte nei rivolgimenti delle provincie
pontificie deliberò moversi per preoccupare i passi, e non mica per
imporre il suo volere ai Romani, o al Papa, bensì per volerli mettere
d'accordo fra loro: sallo Dio, se le dolse, ma alla Francia per salvare
qualche lembo di libertà parve necessario di propria mano stringere il
collo alla rivoluzione: quando anco non fosse così, la colpa non
ricadrebbe su la Francia, bensì sopra i repubblicani, i quali non
dovevano mai concedere al governo facoltà per fare di sua testa, nè
credere che il popolo poi volesse mettersi in quattro per raddrizzare il
male operato, imperciocchè a fine dei conti ai Francesi piacquero sempre
le parti di Carlomagno. Ora se non abbiamo smarrito il senno tutto questo
ci pare un mucchio di errori per non dire d'infamie; gli accordi per forza
non approdano ad altro, che a inferocire gli animi peggio di prima; nè
sta a martello attribuire la colpa all'assemblea, la quale bisogna pure,
che commetta la forza al potere esecutivo, salvo a farsi rendere conto del
come l'adoperi, e punire i prevaricatori; contro i barattieri il
Lamoriciere aperto del pari, che preciso dichiarò: «restaurazione
altro non significare che controrivoluzione;» e col Lamoriciere altri, a
cui dobbiamo grazie della sincerità loro; forse a taluno parranno le
parole invereconde, e sono, ma hassi a confessare altresì, che sono
sincere: queste ammoniscono come il fine della impresa romana fosse quello
di acquistare balìa sopra la Italia, il mezzo, la restaurazione papale;
ovvero, per definire le cose a modo e a verso, il Papa usano i Francesi per
arnese di servitù; costoro, da Parigi tengono in mano il capo della
catena rinterzata di anelli papalini e cardinaleschi che hanno cinto
intorno alla vita d'Italia e lo dicono, e questo altro anco dicono: i
Francesi, se confusero il mezzo col fine e se misero innanzi il primo
tacendo del secondo ciò fecero artatamente, dacchè sarebbe
ingenuità soverchia palesare quello che si molina nell'animo; forse il
meglio saria stato dichiararlo addirittura; pure se noi dissero non
ingannarono mica: con questo vuolsi intendere che se ci furono ingannati
non ci furono però ingannatori: la delusione è colpa degl'Italiani, i
quali dovevano capire, che i Francesi non dovevano manifestare tutta la
verità, nè potevano. Di vero, la Francia, che marca co' bellicosi
Germani sul Reno deve guardare bene a cui l'accosti dal lato le Alpi; là
dove la Italia diventasse feudo austriaco la Francia correrebbe pericolo di
essere messa in mezzo alle tanaglie incontrando il medesimo nemico così
a Magonza come a Torino; e posto eziandio, che la Italia giungesse a
costituirsi potenza grande la Francia vedrebbe piuttosto crescere che
diminuire il risico, imperciocchè un regno d'Italia probabile
confederato un dì della Germania per terra, e della Brettagna sul mare
sarebbe minaccia gravissima sopra la frontiera, che oggi la Francia non
vigila o custodisce appena. Non è vero niente, che vicinanza sia mezza
parentela, o vero nel senso, che parentela non importa amicizia; al
contrario gli odii riardono più intensi quanto più gli odiatori sono
stretti per vincoli di sangue; e porgono argomento di odio gl'interessi
comuni i quali si moltiplicano e si rinforzano appunto a cagione della
prossimità: poche per la Francia le cause di litigio con la China, o col
Giappone e rare, frequenti e moltissime con la Spagna, la Germania, e la
Italia. Pertanto contro questi pericoli la Francia non seppe immaginare mai
migliore tutela della inviolabilità dello stato pontificio, il quale
entra a mo' di zeppa in corpo alla Italia, e ne impedisce la unità
repubblicana o regia tanto esiziale alla Francia. Insomma se il Vaticano
difende la Francia, e la Francia difende il Vaticano legati da comune
interesse; se questo vincolo venga a mancare la Francia si trova condotta
dalla necessità a pigliarsi Roma per sè: non ci sono due vie;
Napoleone I. s'ingolò Roma, Napoleone III. la tiene come un calcio in
gola agli Italiani.

Ancora; i Francesi procederono sempre nemici al sangue latino: sempre
ci buttano in faccia Carlomagno per vendicarsi di Giulio Cesare,
fingendo ignorare come quegli fosse alemanno, questi veracemente
latino, e Macchiavello questo notò, ed altre cose di giunta intorno
alla natura dei Francesi; le quali sarebbe pure bene, non dirò
ricordare troppo, ma nè anco dimenticarle. La improntitudine loro
arriva fino a rampognarci di avversione pei gesti da essi operati
quando in Italia vennero per nabissarla da cima a fondo, poi
spartirsela con la Spagna, spellarla così, che l'usuraio giudeo se
ne sarebbe vergognato, e se tu lettore vuoi pigliarne contezza leggi
la vita di Francesco Ferruccio da me dettata, tradirla, e pestarla:
essi ardiscono riprenderci d'ingratitudine perchè acclamammo il
Souvaroff nel 1799, gli Austriaci nel 1814, e perchè l'esercito
piemontese primo aggredì la Francia nel 1815; e qui tu nota, o
lettore, che ragion vorrebbe si distinguessero governi da popoli, e di
questi la parte contra e la parte, pro; ma la è cosa, che paventa
la mala fede dei Francesi quando s'incornano a volere ragione! Essi
non vogliono mica ricordare che il Papa, oggi prediletto da loro, fu
quegli che andò a trovare in cotesti tempi nemici contro la Francia
non pure in Moscovia, ma in Turchia; però non dimentichiamo già
noi, che Roma così tenera adesso verso l'Austria non rifuggì per
disperdere i Francesi unire il vessillo delle chiavi, con la mezza
luna turchesca. I regi sabaudi, che mossero ai danni di Francia nel
1815 non erano stati spodestati da lei? Essi avevano durato nello
esilio lunghi anni; l'eredità loro avevano visto convertire in
giunta allo impero francese, e dove avesse da capo prevalso la fortuna
di Francia nuovamente spodestati avrebber dovuto per la seconda volta
ridursi nella isola di Sardegna: i popoli memori rammentavano come i
Francesi calati nel 1796 dopo avere con sembianze di libertà false
sovvertita da cima a fondo la Italia si partissero portando seco anco
i _chiodi_, e lasciando in balìa del vendicativo vincitore i
meschini, che ne avevano seguito le parti: dolorosa storia è quella
di Milano, imperciocchè dove il principe Eugenio non avesse o per
soverchio d'ira, o per manco di coraggio abbandonato l'esercito i
patrizi non si sarebbero scoperti parziali agli Austriaci; insomma i
Francesi mettono, come suol dirsi le mani innanzi, e per non essere
rampognati rampognano industriandosi di rovesciare addosso a noi le
colpe loro facendosene accusatori; ed anco ci accusano di sconoscenza
a cagione delle ultime guerre, le quali pure dichiarano altamente
avere combattuto pel proprio, non già pel nostro interesse.

Nella restaurazione del Papa concorse certo il senso cattolico di cui
costuma adesso l'andazzo in Francia, ma non solo però, che insieme
con esso accordaronsi il senno politico, e il genio del popolo.
Odillone Barrot aprendo la bocca e lasciando parlare lo spirito dalla
tribuna bandì: «i poteri temporale e spirituale dovere a Roma
rimanersi confusi _perchè altrove andassero distinti_» e parve
sapiente da disgradarne il Macchiavello; ora coteste sono sparate, che
pensandoci si sfumano, e quando le fossero vere, con quanta o
giustizia, o sagacia si pretende che la Italia sia perpetuo becco
emissario delle altrui o colpe o comodità? Ad un popolo, che fu un
giorno padrone in casa di tutti i popoli si può egli dire in faccia
tu sarai il mio somiere perpetuo? E per arroto lo chiamerete ingrato
se non si adatta a simile infamia? Cervelli Francesi! Verun partito,
affermano i Francesi, e a ragione, può vantarsi avere restaurato il
Papa; tutti ci contribuirono, questo concetto balzò fuori armato di
lancia, e di scudo dal vasto cranio della Francia come Minerva da
quello di Giove; nè vogliate credere c'io ci metta troppa mazza di
mio, che simili sentenze vi balestra nette un tale Gaillard nel suo
libro della _Spedizione contro Roma._[1]

  [1]  Paris 1861 Lecoffre.

Di vero (e importa che si chiarisca, e faccia senno una volta la
Italia), se incominciate dalla rivoluzione del 1831 mentre la Francia
bandiva al mondo solennemente la norma politica di non pigliar parte
nelle faccende altrui Laffitte, quell'astro di libertà francese,
accomiatava il Saint-Aulaire oratore a Roma con queste istruzioni:
«voi avrete a difendere contro i sovvertitori l'autorità
spirituale, e l'autorità temporale del Papa.» E poichè il
Saint-Aulaire gli manifestava il dubbio, ch'egli avrebbe dovuto
finalmente condursi a fare la voglia altrui, il Laffitte ripose:
«non vi state a confondere per cosa, che intendiate dire; e abbiate
per certo, che sino a tanto che io Laffitte rimarrommi ministro del
Re, la Francia non sovverrà la rivoluzione in Italia.» Se più
tardi la Francia entrò di soppiatto in Ancona, e vi rimase ciò
non avvenne per tutela della libertà dei popoli, bensì perchè
il papato non diventasse al tutto mancipio dell'Austria, nè
contrastante, all'opposto consenziente il Bernetti cardinale; il quale
trattato scoperto dall'Austria, il Bernetti ebbe a risegnare la carica
di segretario di stato. Nel 1848 il Guizot protestante confidava al
Rossi il suo proponimento di sostenere allo aperto l'autorità del
Papa, al quale scopo teneva ammannito a Porto Vendres, e a Tolone uno
esercito commesso al comando del generale Aupick: non diverso il
Cavaignac, uditi i casi Romani del 16 novembre, senza nè anco
consultare l'Assemblea ordinava s'imbarcasse a Marsiglia una brigata
per correre ratta alla difesa di Pio: e sempre continuando nel
medesimo disegno nel 30 marzo 1849 Odillone Barrot domandava
all'Assemblea ed otteneva la facoltà di occupare un punto dello
stato italiano.

Un'altra causa meno avvertita partorì la impresa di Roma, e forse fu la
principale per quelli che usi a speculare sanno come la Francia si muova
per utilità presente, o per voglia, o per ispinta altrui cercando poi
illustri pretesti al povero concetto, ed alla iniquità della opera: si
accostava la elezione del 10 decembre, e il Cavaignac pendeva fra due se
avesse o no a buttarsi nelle braccia dei clericali, imperciocchè mirasse
la repubblica intristire ad occhio veggente, ma tempo di chiarirsi papesco
non gli pareva ancora; però quando gli strinse i panni addosso il Bixio
Italiano, che i Francesi si hanno tolto dalla Italia, (e se lo tengano che
buon pro lor faccia) dichiarava avere, senza consultarne l'Assemblea,
inteso appena il pericolo del Papa, spedito armi da Tolone e da Marsiglia,
e di più commesso al signor Corcelles di proteggere il Papa, e condurlo
in Francia: gli si opponeva allora competitore Luigi Bonaparte, che
reputando fare suo profitto col contradirgli chiariva il pubblico per via
di due Giornali non potere approvare il soccorso armato come capace di
produrre la guerra; tranne in questo, in tutto altro sentirsi disposto ad
ogni partito diretto a proteggere la _sicurezza_ e l'_autorità_ del
Papa. Parve a costui simile dichiarazione tiro maestro perchè da un lato
si accaparrava i _pacifici arrabbiati_, e dall'altro si metteva nelle
grazie dei cattolici, ma non aveva avvertito, che queste due cose insieme
non potevano camminare, però persuaso dal Thiers, che nel Bonaparte
subodorava un futuro padrone, e sè ammanniva per futuro ministro, si
squilibrò co' pacifici per istringere vie più ai clericali
pubblicando da capo nascesse quello che avesse a nascere per lui (che
l'aveva combattuta con le armi in pugno) la sovranità temporale del Papa
stava legata indissolubilmente con lo splendore della religione del pari
che con la libertà, e la indipendenza d'Italia! I clericali allora
parteggiarono per lui, così Napoleone prese e fu preso, e questa è la
ragione per la quale il Bonaparte dopo avere impugnato le armi per
atterrare la potenza spirituale del Papa adesso le impugnerebbe per
sostenerla.

Queste le cause della spedizione di Roma: se non si palesarono subito,
e all'opposto si avvolsero in ambagi ciò fu perchè i Francesi
costumano aggiungere la coda di lione dove la pelle di volpe non
arriva: veramente, io non lo nego, i nostri Italiani negoziando con
esso loro mostrarono avere mandato il cervello al presto: per questi
ormai sta allestito l'alloggio al Limbo; in qual parte sarà
apprestato quello dei Francesi? Ma ciò riguarda l'altro mondo; in
questo i Francesi devono confessarsi in colpa, perchè non possono,
com'essi fanno, pretendere a due reputazioni affatto contrarie di
fraudolenti e d'ingenui, di mascagni e di generosi; o tutti a Dio, o
tutti a Mammone; non puossi servire due padroni a un punto.

Alla obbliqua impresa andava preposto obbliquo Capitano, ch'è
chiaro come persona retta leggendo le istruzioni commesse dal Barrot
all'Oudinot avrebbe notato: «io non ci vedo lume» perchè a
cotesti arzigogoli il Barrot deve avere fatto tale chiosa a voce da
chiarirne la ribalderia meglio, che luce polare. Naturalmente
cosiffatti comandi si danno a cui sappiamo idoneo ad eseguirli, nè
osservammo i soldati in simili faccende stare troppo sul taglio, meno
degli altri poi Oudinot servo nato da servo; giovanetto fu tolto per
paggio da Napoleone III. e con lui stette lungamente in abito servile:
suo precipuo fregio l'essersi Napoleone I. appoggiato sul braccio di
lui la notte precedente alla battaglia di Vagria mentre assisteva al
passo del Danubio; caduto il Bonaparte servì i Borboni della stirpe
primogenita, poi Luigi Filippo, per ultimo la repubblica; paiono
queste mutazioni, e non sono nella vita del servo, imperciocchè per
cambiare di signoria egli stia fermo nella servitù; che se
l'Oudinot tirò salario dalla repubblica servendo anco lei ciò
fece per distruggere un'altra repubblica, e così adoperarsi in tale
atto esiziale tanto all'ucciso quanto a cui gli dava mandato a
uccidere: due repubbliche ad un tratto ammazzava; un giorno gli
saltò in testa di provare le parti di padrone, ma non essendo
cotesto il suo mestiere egli non gli riuscì; lo stritolò
Napoleone III. nato a dominare forse iniquo, non a servire. L'Oudinot
a nome suo non crebbe lustro in niente, bensì menomò.

Difficile così indicare per lo appunto il numero dei morti e dei
feriti in battaglia come dire preciso quello dei combattenti:
ordinariamente si esagera nel più o nel meno secondo le passioni e
gl'interessi dogli uomini; affermano da Marsiglia e da Tolone non
essere venuti da prima oltre gli ottomila soldati, forse erano più
contando i soldati di marina, gli artiglieri, gli operai, insomma
tutta l'altra gente di corredo ad esercito formato; stando al
_Giornale delle operazioni di artiglieria_ pubblicato per ordine del
governo in Francia portavano seco _due batterie complete_ da 8; ed
un'altra da assedio di sei cannoni da 16; imbarcaronsi sopra sette
fregate, due corvette a vapore, due piroscafi minori, e due
gabarre.--Taluni scrittori francesi raccontano esultante il cuore dei
soldati e tranquillo quanto il mare, e il cielo splendidissimi in
cotesto giorno, e può darsi, dacchè messaggieri spediti a
speculare lo stato delle cose, e le relazioni officiali accertassero i
Francesi aspettati a gloria a Roma. Bene è vero, che il governo
romano e il Consiglio dei Deputati fino da quando il Cavaignac
disegnava mandare gente in Italia per tutela della persona del Papa
misero fuori la protesta di volere con lor forza impedire la
violazione del territorio nazionale pigliando la difesa dell'onore
degli universi popoli italiani, ma non le davano retta: chi avrebbe
osato sostenere pure il lampo delle armi francesi, vittoriose sempre
anco quando disfatte?

Il ministero romano deliberato respingere la forza con la forza
preponeva al comando nuovi ufficiali per munire e difendere il porto
da qualunque assalto; preside della provincia elesse un Michele
Manucci, comandante della fortezza un Bersanti consigliere accesissimo
delle estreme difese; però non bastava ordinare, bensì adoperare
ogni possibile conato per respingerli, e se era concesso, tuffarli nel
mare; imperciocchè co' Francesi bene si duri amici, e legati, ma ad
un patto, che di ora in ora tu apparecchi loro qualche nespola delle
grosse; e' se ne servono a guisa di occhiali per vedere quello, che
prima era loro oscuro; nè parevano le difese disperate, dacchè
Civitavecchia annoverasse 121 cannoni, di cui almeno cento in buono
stato, non difettassero munizioni, ed il presidio contando i lombardi
di Mellara giungesse a 1700 soldati; ma il Giornale allegato ci
ragguaglia come i parapetti laterizi fossero bassi, i baluardi di
terra sfiancati, i ponti levatoi in ruina, insomma tutto apparisse
ridotto a tale da torre ogni speranza di possibile resistenza; questo
però conobbero dopo, intanto per pigliare lingua, e vedere un po'
se la _lancia di Giuda_ provasse i Francesi radunato il consiglio di
guerra sul _Labrador_ statuirono si mandasse innanzi il _Panama_ co'
soldati Espivent, e Durand de Villers, e il segretario di ambasciata
la Tour d'Auvergne; i quali ammessi al cospetto del Preside, e dei
Comandanti della fortezza e della marina partecipavano certo dispaccio
che in breve chiariva volere i Francesi entrare in città, ed essere
venuti a mettere fine alle miserie romane, e agevolare uno assetto di
governo lontano così dagli abusi antichi, come dall'anarchia
presente.

Parendo com'era sfrontata improntitudine cotesta l'Espivent con molte
parole dette, e talune scritte s'industriava temperarle: non essere
venuti i Francesi a contradiare il voto della maggioranza dei Romani,
molto meno a imporre forma di governo detestata da loro, solo volere
conservare il proprio credito in Italia; il Governatore non sarebbe
remosso, liberissimo eserciterebbe il suo ufficio, e così di
seguito; e perchè delle sue promesse restasse inalterato testimonio
volle si stampassero e su pei cantoni appiccassero.--Il preside
Manucci intanto spediva sollecito messo a Roma per avere istruzioni, e
le aveva già senza chiederne nuove; le lusinghe francesi
attecchivano e sì che ci voleva poco a ravvisare nel bando Espivent
ch'egli mirava al futuro non al passato: il popolo aveva a consultarsi
da capo co' preti suggeritori di voti, e raccoglitori i Francesi
maestri a fabbricare maggioranze: certo i Francesi non praticarono
più tardi tanti arzigogoli per rimettere il Papa, e andarono per la
via più corta, tuttavolta anco a quel modo la frode si vedeva
formicolare dentro le parole; le quali interessando alla gente
poltrona che contenessero assicurazioni, che non ci erano le vollero
credere bastevoli, anzi da poterne dare indietro mezze; epperò
municipio, guardia nazionale, e commercio raccoltisi insieme con la
consueta sapienza deliberarono contentarsi di tanto; che i Francesi la
data fede tradissero non si aveva a supporre nè manco per sogno;
non doversi perdere tempo ad aspettare istruzioni da Roma per paura ai
Francesi scappasse la benevolenza; e poi chi sarebbe il temerario che
volesse rompere la guerra contro la Francia? Protestare pertanto
contro chiunque mettesse a mal partito la città negando lo sbarco
ai Francesi. Che restava a fare? Mettere tutti i protestanti in
prigione, e tirarsi su le maniche per menare le mani le sono cose
agevoli a dirsi, diverso è compirle; tuttavia il Preside poteva,
anzi doveva, protestare e partirsi; invece egli adunava il Consiglio
di guerra chiamandoci tra gli altri anco il Mellara, ed il Consiglio
tra perchè conobbe le difese impossibili, e tra per la opposizione
della gente poltrona, che stabiliti gli accordi, le pareva potersi
tirare il berretto su gli occhi continuando a dormire ebbe a cedere,
ponendo per condizione l'Oudinot ratificasse le promesse dello
Espivent. Parte del Consiglio si recò dal generale sulla nave
ammiraglia, il quale ripose di botto: magari! E ci agiunse non se
quale vantaggino di parolette toccanti il rispetto dovuto ai governi
usciti fuori dal suffragio della maggioranza del popolo; e se togli
che le porte della città e dei quartieri avessero a custodire
soldati francesi misti ai romani, ogni altra cosa come prima. Appena
posto il piè fermo in Civitavecchia l'Oudinot si affretta a
chiosare le parole a modo suo: intendiamoci bene, la Francia non manda
i suoi soldati a difendere un governo che non ha mai riconosciuto;
ella si mette di mezzo perchè s'instituisca un governo lontano
così dai vecchi abusi _distrutti dalla generosità di Pio IX_,
come dalla nuova anarchia; insomma in tutto e per tutto come prima,
tranne i soliti paroloni che ricorrono in fondo a siffatte dicerie
come i picchi sul tamburo al finire delle sinfonie. Il municipio,
accorto tardi essersi rinnovato in Civitavecchia l'apologo della cagna
pregna entrata in casa all'altra cagna, detta una magnifica protesta
nella quale egli sbracia con la pala ai Francesi un flagello di
virtù che non hanno mai avuto, si affida alle buone loro
intenzioni, dimostra la infamia della opera che stanno per commettere
con altre più cose da fare aggricciare le carni a cui legge, le
quali avendo appunto questo effetto partorito nell'Oudinot, egli
ordinava si distruggessero le copie stampate, la stamperia si
chiudesse, soldati francesi la custodissero.

Nè qui si arrestava costui, che considerando la guardia nazionale,
e il popolo intero aderire al municipio e acclamare la repubblica
mette la città in istato d'assedio, disarma il battaglione dei
bersaglieri del Mellara, e lo dichiara prigioniero di guerra,
ghermisce le munizioni, occupa le torri; quinci rimuove artiglierie e
artiglieri, della marina dispone come di cosa sua, rimbrottato si
scusa, ma continua a tenere. Nella storia dei Filibustieri occorre
qualche cosa di simile, e tuttavia i Francesi si protestavano amici,
anzi dell'accoglienza ricevuta in Civitavecchia si valevano per
argomento capace a dimostrare le accese voglie del popolo di averli
restauratori del Papa. Chi inventò la sfrontatezza a paragone di
costoro si daria per vinto.

L'Assemblea romana, preside Saliceti, protesta del violato diritto delle
genti mercè la invasione ostile non preceduta da dichiarazione di
guerra, delibera resistere, e rovescia sul capo alla Francia il sangue, che
sta per versarsi.

L'Oudinot andategli a bene le fraudolenze a Civitavecchia le riprova a
Roma inviandoci col solito Espivent un Leblanc, e un Ferand i quali
trovarono nei Triumviri osso duro a rodere; alla esposizione che
fecero delle cause che avevano condotto i Francesi a Roma udirono
rispondersi: strano consiglio il loro se per preservare i Romani da
invasione austriaca li sottoponevano a invasione francese; governo
libero, e di propria scelta possedere il popolo romano nè essere
punto mestieri ch'essi venissero a manipolargliene un'altro: guerra
col Papa non averne, a lui scappato avere sostituto i Romani la
repubblica col suffragio universale, appunto come in Francia; dopo
ciò insolenze dal lato dei Francesi ebbero a mettere dentro la
lingua, misero fuori la spada, e lo potevano fare prima, e conclusero
col domandare se intendevano o no ricevere i soldati in Roma di amore
e di accordo, e i Triumviri tosto: per loro no, ma doverne consultare
l'Assemblea. L'Assemblea consultata dichiarava alla unanimità
doversi respingere la forza con la forza.

Intanto l'Assemblea commetteva ai signori Rusconi e Pescatini si
conducessero al Capitano Oudinot, e meglio a voce gli spiegassero la
protesta precedente l'ultima deliberazione, e lo fecero; di che
l'Oudinot sgomento giurava _tacto pectore_ del tutto fuori delle sue
_intenzioni_, e delle _istruzioni_ del Governo ristorare il Papa,
desiderava il voto del popolo liberissimo si palesasse, qualunque poi
il governo uscito da quello egli prometteva osservarlo; un popolo
fraterno aprisse le braccia ad un fraterno popolo accorrente a
salvarlo onde le bandiere unite sventolassero sul Campidoglio, come a
Civitavecchia. Richiesto di dettare un bando in questo senso si
obbligò farlo; gli oratori romani parvero contentarsene; e per
pegno di animo riconciliato consentì di rimandare con gli oratori a
Roma il capitano Fabar, che da vicino renderebbe meglio capaci
municipio, ed Assemblea dell'animo del generale; e l'erano le medesime
lustre; volevano entrare. L'Assemblea uditi gli oratori, ed i
Triumviri Saffi e Armellini, dacchè il Mazzini avverso agli accordi
si astenne dallo intervenire e questo fu atto lodato di temperanza
civile, confermò il partito già preso.

Taluno censura il Triumvirato, e l'Assemblea per siffatte
deliberazioni, e a torto perchè i Francesi volessero restaurare il
Papa per tenerselo bene edificato in pro del propri interessi, come fu
esposto nelle pagine precedenti; e parola più parola meno detta o
scritta non rileva, avvenendo nei fatti politici come nei gravi i
quali tendono per necessità al centro e al fine loro: se hai forza
dell'altro curati punto o poco; se non l'hai i patti; le condizioni, e
le promesse bene rendono più iniqua la malafede altrui, non
maggiore la tua sicurezza. Una volta i Francesi entrati in Roma
avrieno rinvenuto pretesti a carra per fare a loro modo, ed oltre al
danno i Romani si sarebbero tirati addosso la beffe: cedere a forza
soperchiante non frutta discredito, massime dopo la prova dell'arme,
il popolo che si lascia abbindolare si adagia da sè nel cataletto
per cantarsi l'esequie.

Il Fabar e gli altri compagni uscirono di Roma con promessa di
tornarci, ma non si videro più; il manifesto dell'Oudinot comparve;
conteneva le solite girandole, che poi sperimentammo di che cosa
sapessero. Quello che altrove avvertito da noi qui si rinnuova;
credesi agevolmente ciò che piace, e per ordinario le spie, e gli
ambasciatori referiscono quanto sanno andare a genio del governo,
sicchè gli ufficiali spediti a Roma per gli accordi, e gli spioni
che ci stavano di fermo accertarono l'Oudinot come la comparsa di un
polso di soldati francesi sotto le mura averebbe di sicuro partorito
un rivolgimento in pro del Pontefice; le ammannite difese tali da non
doverci pensare nè manco; però se poco trattabili prima, adesso,
che si tenevano la vittoria in pugno i Francesi gonfi da
insopportabile superbia di accordi non volevano sapere: sicchè vani
i consigli, e le preghiere di cittadini cospicui presso all'Oudinot;
delle minacce rideva, chè lui affidavano da un lato la trapotenza
della Francia, e dall'altro la debolezza di Roma, e questo pur troppo
era vero, nè recava infamia; ma più si adagiava nel concetto
ingiurioso dello aborrimento negl'Italiani d'incontrare combattendo la
morte; si fecero ad occorrergli da capi il Pescantini, e il Rusconi, e
furono trattenuti per via; allora gli scrissero una lettera nella
quale, tra gli altri avvertimenti, lo ammonivano, badasse bene, il suo
esercito non bastare allo assalto di Roma; il capitano di Francia
reputando tutte queste manifestazioni paura s'intorava a tentare la
impresa. Havvi chi crede, altresì, che il duca di Harcourt
giudicando Pio IX ormai deliberato a dare di frego ad ogni istituto,
che sapesse di libertà, sollecitasse l'Oudinot ad impadronirsi di
Roma, la quale occupata, sarebbe riuscito meno arduo venire ad accordi
con lui, o per dirla più aperta, imporgli condizioni; e le sono
fandonie, perchè come i Francesi onestamente si sarebbero messi
innanzi a tre potenze per compire a danno della santa sede la
restaurazione, ch'eglino pure si offerivano fare con patti di gran
lunga più vantaggiosi? Per natura di cose i Francesi erano come
mandatari delle altre, nè potevano condursi diverso dalla mente, e
dalla commissione dei mandanti; e poi l'esito chiari la fallacia di
simile supposto.

Il generale Oudinot si accosta a Roma sicuro di esserci accolto a
braccia quadre, per la qual cosa egli od altri per lui, incontrata
resistenza, si dolse come di tradimento patito: le sono improntitudini
consuete, però che se nello assedio di Roma occorsero traditori
questi furono francesi; e se rimase ingannato, lui indussero in errore
le sue spie spedite dentro col sacro carattere di oratori, e i codardi
ch'egli mandava a sobillare in danno della Patria: nè venne punto
spensierato, bensì guardingo, forte di fanterie, e di artiglieri.

Fino d'allora anco a Roma si dimenavano in pro loro i così detti
_Moderati_ o _Consorti_; dei quali taluno pigliava il proprio
interesse per pubblica utilità, ovvero non badando se i suoi
concetti partecipasse o no lo universale si travagliava a tutt'uomo a
metterglieli addosso come un giogo; chè così essi compresero, e
comprendono la libertà, ed anco peggio. Tuttavia non ebbero campo a
tradire, dacchè a fine di conto un po' di simulacro di libertà
anco da loro si desiderasse, ed oggimai il Papa nell'odio concepito
per gl'istituti liberali non faceva differenza da governo temperato a
repubblica.

Quanto ai preti non era da reputarli schietti come quelli, che
procedono sempre pieni di ambagi, e di simulazione anco fra loro; luce
non ne vogliono vedere, gli occhi chiudendosi ostinati ed orecchie; e
per me credo, che il Papa quando pure rimanesse solo nel Vaticano
continuerebbe nondimanco a benedire come se l'_urbe_ e l'_orbe_
aspettassero a gloria la sua benedizione. D'altronde i fuoriusciti
anco non preti sempre così, onde bene a proposio Federigo Torre con
le parole del Macchiavello avverte: «debbesi considerare quanto
sieno vane la fede e le promesse di quelli che si trovano privi della
loro patria. Perchè quanto alla fede si ha da estimare che
qualunque volta possano per altri mezzi che per li tuoi rientrare
nella patria loro, lasceranno te ed accosterannosi ad altri nonostante
qualunque promessa ti avessero fatta. E quanto alla vana promessa egli
è tanta la voglia estrema, ch'è in loro di ritornare a casa,
ch'e' credono naturalmente molte cose, che sono false, e molte ad arte
ne aggiungono; talchè fra quello che credono, e quello che dicono
di credere ti riempiono di speranze talmentechè fondandoti su
quella, tu fai una spesa invano, o tu fai una impresa in cui tu
rovini.»

E poi o che armeggiano oggi i Francesi quando cotesto loro capitano
Oudinot, per via di un bando che io non riporto però che le sue non
sieno mica parole del Macchiavello, chiariva la gente che il
_fantasma_ di Governo romano ricambiando con bravate le sue profferte
di pace egli accettava la sfida, benchè la fosse bazzecola
aspettandolo a braccia aperte popoli e soldati, fanciulli, vecchi, ed
anco le donne nè altri aversi a combattere tranne un'accozzaglia di
rifuggiti di ogni maniera, che Dio ne scampi e liberi? Per colpa dei
repubblicani romani la libertà darebbe il tuffo, mentre i
repubblicani fancesi così costumati e per bene si metterebbero in
quattro perchè _le istituzioni liberali ricevessero tutto lo
sviluppo comportabile con gl'interessi ed i costumi del popolo
romano._

Il Tevere parte Roma, non però ugualmente; alla diritta del fiume
sorge da un lato il Vaticano, dall'altro il Gianicolo; qui la cinta di
mura prima costruita da Leone IV, poi ampliata da Pio V, e
ingagliardita in processo da Pio V, la quale comincia da castello
Santo Angiolo, e girato intorno il Vaticano termina a porta Santo
Spirito. Urbano VIII edificava un recinto nuovo di mura bastionate,
che da porta Cavalleggieri prossima a quella di Santo Spirito va in su
pel Gianicolo, arriva a porta San Pancrazio, e quinci avvalla fino
alle rive del Tevere a Porta Portese. Da ora in poi Roma non ha difesa
eccetto il fiume; ricompariscono mura male fabbricate, e peggio
rabberciate, mezzo in rovina, le quali corrono a mezzogiorno, a
levante e a tramontana cessando al foro Boario, dove da capo il solo
fiume schermisce Roma per un miglio all'incirca; al termine del quale
sorge castel Santo Angiolo. I Francesi mossero da occidente facendo
capo alla parte più munita di Roma, non già per errore che
commettessero, bensì per lasciarsi libera la via al mare pigliando
per cardine di guerra, o come con termine di arte si dice, per base di
operazione Civitavecchia: qui le difese non potevano essere lunghe,
tuttavia di stianto non si poteva sforzare la Città; che se alle
mura mancavano fossi, spaldi ed opere avanzate, nè manco ci
facevano impressione le artiglierie da campagna, e dentro e fuori
stavano uomini a difenderle.

Primo Garibaldi con la sua legione. Chi è Garibaldi? Dio ha scritto
la sua gloria nel firmamento colle stelle, il Garibaldi la sua con le
vittorie per lo universo mondo: invitto sempre, vinto una volta,
perchè gli mossero nemici i fratelli, ed egli correva tra le armi
da un lato e dall'altro per implorare la pace. Anima e mente di
popolo; non so perchè, e per quale vincolo d'idee quando lo miro,
ricordo il dipinto dell'Albano che rappresenta Amore, che tocca la
lira a cavallo di un lione; lo imperversare della natura non lo
spaventa più delle procelle degli uomini, egli ci sta in mezzo,
come se queste e quello fossero attaccati al carro della sua fortuna.
Dovunque si rammenta la Libertà il nome di Garibaldi le tiene
dietro quasi eco di quella. La vittoria è l'ombra del suo corpo;
dove comparisce cessano fame, stanchezza, e perfino il dolore delle
ferite; a tutte queste miserie subentra per dominare onnipotente su le
anime il divino entusiasmo di morire per la Patria, e per la
Libertà: tutto splende alla luce dello eroe, tanto vero questo che
parecchi uomini i quali apparvero fiamma accanto a lui, da lui
discosti diventarono carboni sordidi, buoni soltanto a segnare su i
muri una turpe figura o una parola sconcia. La Provvidenza nel crearlo
volle segnare sopra la sua fronte _destino_, ma distratta a mezzo non
compì la leggenda: se così non era qual mortale adesso più di
lui somiglierebbe Dio? Affrancava popoli, e li donava al regno, e il
donator di regni oggi gli manca il pane. È giustizia questa? È
castigo? Non so, io piego il capo davanti ai decreti del supremo
sapiente. Certo il plebiscito a cui lo vestì pesa peggio della
camicia di Nesso, ma che importa? Ormai il primo impeto fu attutito;
la fiamma accesa tornò brace, anzi cenere; gli eroi diventarono
bottegai; gran mercato delle anime fu aperto; chiunque volle vendersi
trovò il suo prezzo, e la mercè offerta pur troppo superò la
richiesta.... e più non dico, che la parola mi scorre dalle labbra,
corrodente peggio dell'acqua forte. La bandiera della Libertà
rimane ferma piantata in mezzo a un mucchio di speranze deluse, il
vento contrario tormentandola la fa scoppiettare, e par che dica:
«quando si leveranno nuove mani per farmi progredire?» Per ora
la nazione ha paura, almeno così ci danno ad intendere: pochi, e
poveri ardimmo concepire il disegno della unità italiana, e
tentarne il compimento; adesso con ventidue milioni di uomini ci
peritiamo; avventatezze i conati primi, le moderne viltà prudenza.
Avventatezze Maratona, e Platea; avventatezze le guerre elvetiche, le
battaglie americane avventatezze, incliti fatti le regali dimore. Ma
guerra senza danaro non si fa, e noi ci troviamo al verde, oppongono i
traditori d'Italia; bene sta; ma voi ci stremaste tenendo in piedi e
in procinto uno esercito, che adesso a prova conosciamo ordinato non
per fare bensì per reprimere la guerra, non per combattere fuori i
nemici, ma dentro i liberi cittadini; i soldati appaiono canonici, gli
uomini di toga guerrieri: i generali si fanno banditori di pace, i
cittadini chiedono battaglia, e impongono ai gladiatori che hanno
mangiato il pane a tradimento: tiratevi da parte, combatteremo per
voi.... staremo a vedere quanto la durerà: per me sento, senza tema
d'ingannarmi, che la ira dei popoli e di Dio matura nel suo segreto.
Torniamo a Roma.

E la legione del Garibaldi quale, e come composta? Da prima la
formarono alcuni uomini, nè manco una compagnia, superstiti ai
combattimenti di Moranzone e di Luino, vi si aggiunsero poi i
bersaglieri mantovani i quali licenziati a Torino nell'ottobre,
vennero a Pontremoli nel novembre del 1848 dove ebbero dal ministero
democratico toscano armi, vesti, ed anco un po' di danaro; sul finire
del mese raggiunsero il Garibaldi a Ravenna, nella quale città egli
menava vita stentata; allora crebbero fino a 700; altri soldati
racimolarono in più parti, massime a Ferrara, Mambrini capitano, e
Ferrari tenente; difettavano di armi, di vesti, di tutto, ed in questi
arnesi furono spediti a vigilare i confini verso Napoli; alla metà
di aprile in Anagni ottennero armi, vesti poche, causa di contesa fra
loro. Costà giunse la nuova dei Francesi sbarcati a Roma, e
dicevano per combattere al fianco degl'Italiani, nè poteva correre
diverso il grido, perchè una repubblica mossa ai danni di altra
repubblica partorita in certo modo da lei pareva mostruoso, ma presso
cotesta gente le opere quanto più assurde credibili. I legionari di
Garibaldi da un lato lieti di tanto appoggio e al punto stesso
zelatori della propria fama sbracciavansi a segnare un foglio, col
quale chiarivano ch'essi intendevano combattere separati dagli
ausiliari; non si confondano i meriti; il cimento distinto stimolo
alla emulazione; quando a torli d'inganno ecco arriva un messo
perchè si avaccino a Roma minacciata dai Francesi, e i legionari
andarono; taluno di loro pensoso delle sorti finali della Patria,
tutti anelanti conoscere chi più valente al paragone delle armi o i
_Tigri_ di America (com'essi sè medesimi chiamavano) ovvero i
_Lioni_ di Affrica, essendo stati cavati la più parte dei Francesi
dall'Algeria.

Da tanto che i Francesi furono sorpresi, basti sapere che addosso ad
un ufficiale nemico morto in battaglia furono trovate le istruzioni
per lo assalto, giusto nel vero modo in che fu fatto: il quale era
irrompere con forze bipartite contro la porta Angelica, e sopra la
porta Cavalleggeri punti fra loro distanti 630 metri in linea retta
dentro Roma e quinci, sperdendo ogni impedimento dinanzi, fare capo
dai diversi lati nella piazza San Pietro che giace in mezzo a cotesto
spazio: di fuori poi girando le mura lo intervallo fra le due porte
cresce fino a 2490 metri: ma poichè sotto le mura di città
difesa male camminano eserciti, per poco che ti allontani a cercare
più sicuro sentiero ti toccherà discorrere fra le due porte un
tratto ben lungo di 4000 metri; così i due corpi si ponevano in
avventura senza che l'uno potesse per la soverchia lontananza
sovvenire all'altro; mentre ai Romani sortendo da castello Santo
Angiolo era fatta abilità pigliare gli assalitori di porta Angelica
di fianco, ovvero alle spalle, gli altri spinti contro la porta
Cavalleggeri con mosse uguali potevano essere combattuti dai nostri
usciti da porta San Pancrazio.

I Francesi mossero da Civitavecchia a Roma la mattina del 28 aprile:
erano 6000 e più provveduti di tutto; la sera giunsero a Palo e vi
si fermarono; il 29 accamparono a Castello Guido 18 chilometri più
in su verso Roma; di qui il Generale spediva innanzi a speculare il
fratel suo capitano Oudinot, che ritornò referendo guasti i ponti,
sfondate le strade, però difficile non impossibile procedere
innanzi; avere incontrato non so quale pattuglia romana che seco lui
ricambiò parole, ma sul punto di tornarsene gli aveva fatto fuoco
addosso, onde due cavalli erano rimasti morti, e prigione un
cacciatore impigliato nelle redini del cavallo caduto.--Così il
_giornale delle operazioni dell'artiglieria_ dettato dal Generale
Vaillant; altri poi addirittura afferma, che i Romani al primo
apparire dei Francesi avevano spulezzato a scavezzacollo; lasciando a
chi leggeva la cura di accozzare insieme la fuga dei fanti romani con
la prigionia di un cavaliere francese.

Ma la faccenda si crede altrimenti. Il rapporto ufficiale consegnato
al ministro della guerra romano racconta come i nostri al comparire
dei Francesi gl'intimassero lo stare; l'Oudinot negò; interrogando
con quale argomento lo impedirebbero essi risposergli: con la forza;
di qui mano alle armi, e i Francesi fuggirono, non già i nostri.

Il Generale Garibaldi nelle memorie _inedite_, di cui per somma
cortesia volle farmi copia, a questo modo discorre intorno a siffatto
particolare: «al far del giorno io aveva davanti a me un soldato
francese di cavalleria inginocchiato chiedendomi la vita. Io lo
confesso comecchè poca cosa fosse l'acquisto di un prigioniero, me
ne rallegrai, ed augurai bene della giornata. Era la Francia
inginocchiata facendo ammenda onorevole per la vergognosa condotta dei
suoi governanti.» Ci vorrebbe altro per la Francia se volesse fare
ammenda per tutte le sue vergogne! nè tale le consente la indole
superba solita a coprire le antiche con le nuove vergogne: umiliata si
umilia, ma bisogna che prima ne tocchi, e di molte: ora la perdita di
un prigione non era capace ad esercitare tanta virtù; vuolsi
piuttosto considerare non dirò l'abiettezza, bensì la ignoranza
del soldato francese comune a troppo grande parte di loro,
imperciocchè quel pauroso supplicare mercede da altro non poteva
partirsi eccetto dalla credenza, che barbari e atroci noi altri le
leggi di guerra anzi quelle della umanità non osservassimo.
Un'altra cosa non isfuggi allo arguto Garibaldi, e furono le armi, che
cadute nella fuga ai Francesi, e da lui esaminate considerò come
troppo di lunga superassero le nostre.

Omero invocò le Muse per rammentare i nomi dei gloriosi, che si
travagliarono allo assedio di Troia; io in questo tempo scarso di
poesia mi sono raccomandato a quanti si trovarono allo assedio di Roma
per salvare dall'oblio più che per me si potesse prodi Italiani,
però seppi che il primo sortito all'onore di adoperare le armi
contro lo straniero si chiamava _Maestri_ genovese, reduce da
Montevideo monco di un braccio perduto a Moranzone: la intera
pattuglia poi comandava il _Bicchieri,_ nizzardo; e ciò non senza
legittimo orgoglio nota nelle sue memorie il Garibaldi.

I Francesi giunti al bivio della strada di Civitavecchia distante 1500
metri da Roma non si bipartirono, ma conforme loro persuade la
consueta superbia tirano innanzi di conserva per la via che mena a
porta Cavalleggieri. Di tratto in tratto incontravano scritto sui
muri, ovvero sopra cartelli pendenti da pertiche l'articolo quinto
della loro costituzione, e i Francesi leggevano e ridevano, usi a
tenere le costituzioni in pregio di fazzoletti da naso, e peggio. Anco
il giornale del Generale Vaillant ricorda queste iscrizioni; erano
della libertà che trucidavano, ma il soldato non volle vederci
altro, che sceda, e ne tolse argomento a inviperirsi, chè il
disposto a male fa di ogni erba fascio per attutire il grido della
coscienza. Il _Masi_ pistoiese gentile intelletto, caro alle Muse, e
sacro affatto agli studi letterari di subito diventa non pur soldato,
ma capitano, intrepido quanto arguto; da ciò piglino esempio quei
soldati a cui par bello ostentare barbarie quasi ornamento della
milizia: il soldato italiano è bene, che sappia come i supremi
capitani antichi ponessero il brando a segno del volume, che leggevano
meditando, anco in campo; Bruto vigilava la notte precedente alla
battaglia di Filippi su i libri di Platone, e Cesare nel tumulto di
Alessandria null'altro ebbe a cuore eccetto salvare i suoi commentari
i quali tenne levati sopra l'acqua con la mano sinistra, mentre notava
con la destra; e degli altri mi taccio. Dei moderni soldati italiani
basti dirne questo, ch'essi (parlo di quelli che militarono per la
repubblica e per lo impero) decorarono la Paria delle migliori
versioni delle opere greche: negli zaini loro portavano pane, e libri,
quello pel corpo, gli altra per l'anima.

Il _Masi_ pertanto difendeva la porta dei Cavalleggeri, l'altra detta
Angelica, e le mura del Vaticano con la seconda brigata di milizia
citadina, e col primo battaglione leggero di fanteria. Il colonnello
_Calandrelli_ mirabile a trattare artiglierie, dal fato avverso
condotto a dare la opera, e la vita in lontane regioni per causa non
nostra, e nè manco della libertà sosteneva co' suoi cannoni da
Santa Marta il _Masi._ Appena l'uffiziale posto a vedetta in cima alla
cupola di San Pietro accennò lo appressarsi dei Francesi i
campanoni del Campidoglio e di Montecitorio chiamarono a raccolta;
della qual cosa menavano i nemici inestimabile allegrezza, taluno
reputando che sonassero l'_Angelus_, altri a gloria per riceverli in
trionfo. Il Petrarca nostro lamenta che ai suoi dì con le campane
si desse il segno di battaglia:

   _«Nè senza squille si comincia assalto
    «Che per Dio ringraziar fur poste in alto.»_

Il Petrarca se intendeva favellare di guerre fraterne, senza fallo
aveva ragione, se poi di battaglie in difesa della Patria certo ebbe
torto; però che la vita offerta in sacrificio della Patria
minacciata dal furore straniero, sia la migliore preghiera, anco a
giudicio dei sacerdoti di Cristo.

Ma il cannone del _Calandrelli_ ecco, che arriva a levare via lo
inganno delle campane; due palle una sopra l'altra aprono un pertugio
sanguinoso nella colonna stipata che si avanza. Allora degli
assalitori alcuni sbandaronsi pei vigneti, o ripararono dietro gli
archi dell'acquedotto dell'acqua Paola, altri sparpagliaronsi su i
clivi fiancheggianti la strada, affermano per comando del Generale, e
sarà, ma lo sbandarsi l'ordinava il cannone del _Calandrelli_, non
l'Oudinot. Però dietro ai muri gli assalitori presero a trarre
colpi, pur troppo bene aggiustati, atteso la molta loro prestanza, e
la bontà delle armi. Il sangue, che primo lavò le mura di Roma
dalla secolare infamia fu versato da _Paolo Narducci_ romano, anima
grande, che memore delle glorie antiche non pianse, ma esultò
vedendosi tronco il fiore della gioventù: misero chi vive troppo!
Dopo lui cadde _Enrico_ _Pallini_ aiutante maggiore mentre confortava
con le parole, più con lo esempio i soldati ad usare ferocemente le
mani; altri pure, massime artiglieri, lamentammo noi morti o feriti, i
nomi dei quali sommerse nelle sue acque buie l'oblio; di qui nasce, e
non può fare a meno, scompiglio; il fuoco delle nostre batterie
rallenta, di che approfittansi gli avversari, i quali, così
ordinando il capo di squadrone di artiglieria Bourdeaux piantano su
certa altura due cannoni; da questa però poco frutto cavavano,
lontana dal bastione 900 e più metri; allora partonsi di galoppo
con due altri pezzi di artiglieria, e non curando mitraglie, corrono
gli artiglieri francesi a collocarne altri due in batteria dietro il
riparo di un'arco degli acquedotti; i nostri consolata un po' la
tristezza, ripigliano il trarre; pietà ha luogo nei combattimenti
più o meno secondo la indole benigna, ma in tutti prevale l'ira;
tre quarti belva l'uomo fuori di battaglia, in mezzo della battaglia
tutto.

I Francesi obbedendo ai comandi del Capitano senza stringere ciglio
secondochè vogliono la disciplina militare, e il proprio ardimento
attraverso un turbine di ferro e di fuoco si avventano contro i
bastioni: erano due reggimenti di linea, il 20, e il 33; li conduceva
il generale Molliere cercando una via per penetrarci dentro; i
bersaglieri francesi rincalzavano l'audace impresa con lo spesseggiare
di mortalissimi tiri; per essi stramazzò spento il brigadiere
_Della Vedova_ soldato vecchio, e modesto quanto animoso; ne andarono
malconci di ferite il capitano _Pifferi_, il tenente _Belli_, il
cadetto _Mencarino_, e il maresciallo _Ottaviano_; insomma tanto per
loro si operò, che uno dei nostri cannoni tacque per manco di
artiglieri; tacque, ma per poco, chè sottentrano ai caduti il
soldato _De Stefanis_, il caporale _Ludovich_, e il capitano _Leduc_
con sorte punto migliore dei primi però che entrambi stramazzassero
a piè del pezzo colpiti nel petto; _Leduc_ nacque belga, ma dove si
combatteva per la libertà quivi era la sua Patria: illustre per
gesti operati contro gli Austriaci presso Este, dove li vinse prima,
poi gli affamò con lo impedire che fino a loro arrivasse la
vettovaglia. Riposa in pace nella terra dei nostri padri, o eroe, e
come avesti per madre la Italia, ella ti onora per figlio
raccomandando la tua memoria ai più tardi nepoti: altra mercede
ella non può darti; nè altra ne vorresti tu generoso.

Nel cuore degl'Italiani accesi dallo amore di Patria la smania della
vendetta fa come vento in fiamma; dalle mura di Roma grandina ferro,
chè il celere trarre risponde al palpito concitato, nè ci
resistono i Francesi i quali laceri, duramente respinti danno indietro
addopandosi alle asperità del terreno, o cercando in luoghi meno
esposti iparo. Ira fosse o virtù tornano ad arroventarsi i
Francesi, che balzando fuori dai ripari con raddoppiato ardire
piantano cannoni nel bel mezzo della strada; un'altra batteria
assestano sopra la terrazza di una casa, e due volte irrompono contro
le mura, e due infrangendocisi dentro si ripiegano addietro scemi di
morti, e grondanti sangue. Se cerchi la causa della bestiale
ostinazione la troverai agevolmente, ma agevolmente non la crederai:
pure è vera, e la racconta lo stesso Giornale del Vaillant; il
supremo capitano Oudinot teneva per fermo che nel luogo dove spingeva
i suoi occorresse una porta, la quale immaginava potersi fracassare
mercè alcuni sacchi di polvere a questo fine portati dagli
assalitori: per voglia di credere quanto più giova rimase
ingannato, però che mai in cotesto lato ebbero porta le mura di
Roma, bensì una postierla detta _Pertusa_ da tempi remotissimi
murata, e rincalzata per di dentro di terra. Oh! se le male fatte loro
i Francesi non rammendassero con la soverchianza delle armi come
piangerebbero lutti patrii più lunghi e più miserabili dei
nostri. Tuttavia questo errore scemerebbe la censura dell'altro errore
commesso dall'Oudinot pel disegno di assalire ad un punto due luoghi
tanto fra loro distanti, porta Cavalleggeri, e porta Angelica.
Poichè a prova di sangue i Francesi rimasero chiariti come di là
non si passava deposero il pensiero di fare cosa, che approdasse da
cotesta parte.

Intanto il Garibaldi dall'alto del casino dei Quattro Venti notava
l'assalto, e il respingimento dei Francesi, sicchè gli parve
cotesto tempo da mostrarsi percotendo di fianco: però spinse fuori
della porta San Pancrazio alcuni drappelletti alla spicciolata,
affinchè cauti ed improvvisi cascassero addosso al nemico, il quale
dal canto suo stando su l'avvisato accortosi della insidia spiccò
senza indugio un rinforzo per sostenere i cacciatori di Vincennes
commessi alla cura della difesa di quel lato, onde non venissero
sopraffatti.--I nostri volevano spuntarla, i Francesi risoluti a
vincere pur essi, o a morire; in loro prepotente lo studio di
mantenere l'antica fama di prodi, nei nostri il furore di torsi via
dalla faccia la turpe nota di codardi: si venne a battaglia manesca
dove si adoperarono non pure le armi, ma i morsi; rotti gli ordini ne
successe una baruffa promiscua donde uscivano aneliti, guaiti, e aria
densa, e sangue. Qui tra i primi periva il capitano _Montaldi_.

Chi egli fosse gl'Italiani imparino dallo stesso Garibaldi, il quale
favella di lui nelle sue memorie inedite in questa maniera: «chi
conobbe Goffredo Mameli, e il capitano De Cristoforis avrà idea
delle fattezze del Montaldi e della età sua; nella pugna feroce e
pure pacato come se fra amici si trattenesse in geniali colloqui; di
lettere sapeva meno dei due rammentati, ma pari a loro in costanza
intrepida, ed in militare virtù. Fino dagl'inizi egli fu parte
della legione italiana a Montevideo, giovanissimo si versò in
innumerevoli combattimenti per terre straniere, ma quando la Patria
ebbe bisogno dei suoi figli, tra i primi il Montaldi passava il mare
per offrirle tutto il suo sangue. Genova può incidere con orgoglio
il suo nome a canto a quello del suo poeta, e guerriero Mameli: egli
esalò la sua grande anima per diciannove ferite!» Caddero pure
per non rilevarsi più i tenenti _Righi_, e _Zamboni_; feriti
rimasero il giovane _Statella_ figliuolo del generale napolitano, il
maggior _Morrocchetti_, e i tenenti _Dall'oro, Tressoldi_, e _Rota_.
Di questi altro non seppi, che virtuosi furono e degni figli d'Italia;
più lunga storia narrerò del _Ghiglione_ genovese: ogni ricordo
è sacro; _balusante_ negli occhi, o come oggi si direbbe _miope_ si
cacciava imperturbato davanti a tutti, però che, egli diceva,
avesse bisogno di vedere il nemico da vicino, ma ciò non gli
bastava, onde sovente si recava la lente all'occhio per mirare dove
avesse a trarre, poi quinci rimossala, sparava, e sparato a pena col
suo occhialetto sul naso speculava se avesse imberciato giusto; mentre
così si travaglia, stando con la gamba sinistra sporta innanzi,
ecco una palla francese ferirlo nei glutei, e cadde; lo soccorse tosto
_Pietro Ripari_ chirurgo, uomo di cui la Italia avverebbe mestiero
crescesse il seme mentre pur troppo a mano a mano se ne perde la
razza. Ora egli possedeva un cavallo vecchio, e magro, tuttavia
inglese schietto già appartenuto al Duca di Torlonia di cui la
storia come stranissima merita essere raccontata. «Così concio
il giovane Ghiglione diceva al Ripari, mi toccherà starmene a letto
per mesi, però tu piglia il mio baiardo e servitene.» Con questo
cavallo il _Ripari_ andò a Palestrina, tornato a Roma lo lasciava
infermo in mano al manescalco perchè lo guarisse, senonchè
gitosene a Velletri una sera lo incontra alla fontana dove lo avevano
condotto ad abbeverarlo; di che egli stizzito mentre cerca chi fosse
colui il quale a quel modo alla spiccia tornava in uso la pristina
comunione delle cose trova essere stato il _Mameli_; glielo lasciava
il _Ripari_ e fu sventura, perchè il _Mameli_ incavallato sopra
cotesto altissimo animale potè facilmente essere tolto di mira, e
vi ebbe la ferita ond'ei miseramente perì.--

Scrivono taluni, che vi rimanesse ferito anco _Ugo Bassi_, ma non è
vero; cadde prigione soltanto ed ecco come: di lui diremo sparsamente
più volte, intanto si sappia com'ei preso da sacro furore in guerra
sembrasse una spada brandita dall'angiolo della sterminazione: in pace
tanto nel suo petto soprabbondava l'amore, che non pure amava i propri
simili, ma di smisurato affetto proseguiva anco le bestie; pari in
questo a San Francesco, che chiamava sue sorelle le rondini, e
fratello il lupo; però non è da dirsi quanto egli fosse
attaccato a certa sua cavalla storna compagna inseparabile dei suoi
perigli e delle sue pellegrinazioni: ora mentre montato su questo
animale egli scorre lungo la fronte del nemico, tutto fiamma nel volto
con forti parole soffiando nella virtù dei nostri perchè
divampasse più gloriosa, ecco otto colpi di moschetto mandano
sottosopra cavalcatura, e cavaliere: per fortuna tutte le palle
penetrarono nel corpo alla bestia, il _Bassi_ andò incolume, che
rilevatosi indi a poco e vista morta la compagna le s'inginocchiò a
lato, con molto pianto abbracciandola e baciandola; le chiuse gli
occhi, le recise parte dei crini e se li ripose in petto conforme
costumano gl'innamorati con le chiome dell'amata donna: i Francesi lo
colsero in cotesto atto, lo pigliano, lo spogliano, e se lo cacciano
innanzi percotendolo con isconce battiture, in modo pari a quello che
gli Spagnuoli praticarono con Ignazio da Loiola; se non che la
leggenda narra, che Ignazio rapito in estasi o non sentiva i calci, o
gli aveva per grazia, mentre il povero Ugo, io metto pegno, che non ne
provasse piacere.

Le storie raccontano che il Generale Garibaldi in cotesta battaglia
riportasse contusioni non ferite, e male si appongono. Verso sera del
30 egli salito su di un poggiolo di pietra porgeva lodi e grazie agli
studenti che in cotesta giornata combatterono come persone cui paia
ventura cambiare la vita con la fama di martire per la Patria, e gli
animava a perdurare nell'alto proposito, gli avrebbe avuti desiderati
compagni in altre prove; intanto abbassati gli occhi e visto il suo
chirurgo _Ripari_ piegandosi verso lui gli sussurrava nell'orecchio:
«venite stanotte da me, perchè sono ferito, ma nessuno lo
sappia.» Difatti egli aveva riportato una ferita di palla nel
fianco destro, che senza penetrare dentro gli aveva lacerato i muscoli
dell'addome; pericolosa non fu mai, molesta sempre, e di guarigione
difficile, sicchè non ne uscì guarito, che pochi giorni prima
della caduta di Roma;--egli ne tacque sempre, ora lo dice, ed il
Ripari, che tutte le sere gliela medicò conferma.--Ma questo
accadde sul declinare del giorno; adesso il Garibaldi non ha tempo per
pensare alle sue ferite; chiamato rinforzo e venuto da Roma condotto
dal colonnello _Galletti_ si scaglia con nuova lena contro i Francesi,
i quali sopraffatti si ritirano; scopo del Garibaldi era circuire il
nemico, ed assaltatolo con tutte le forze alle spalle troncargli la
ritirata su Civitavecchia, e costringerlo a deporre le armi; e certo
gli riusciva, se in cotesto suo moto mettendosi diritto alle batterie
romane non fosse stato lacero dai fuochi di quelle, le quali traevano
senza posa su la massa non distinguendo amici da nemici, ed anco se i
Triumviri gli mandavano oltre i primi nuovi rinforzi; nonostante
ciò il Garibaldi prosegue il corso della prospera fortuna, si
lascia addietro la villa Valentini occupata da un battaglione
francese, e si spinge fino alla villa Panfili, che espugna a furia di
baionetta.--I Francesi da per tutto in rotta: intanto quattro
compagnie dei nostri si dispongono a conquidere il battaglione della
villa Valentini tutta cinta di mura; il _Bixio_ siccome lo porta
l'ardore del sangue afferra il cancello, che chiude la cinta e
squassando forte e urlando da spiritato tenta schiuderlo, mentre le
palle strepitano schiacciandosi contro i ferri del cancello rasente
alle dita dell'audace soldato; altri non meno animosi gli si uniscono,
e con forze riunite lo schiudono; nè i Francesi aspettano gli
assalitori, presi dallo spavento si danno alla fuga. Aperto appena il
cancello una spaventosa apparizione agghiaccia i cuori dei più
feroci: un cavallo e un cavaliere tornano dal campo verso Roma, quello
muove i passi a stento, l'altro vacilla a destra e a manca ciondolando
il capo; aveva abbandonate le redini, che strisciavano sul terreno: le
mani teneva pendenti ai lati della sella; la criniera, il collo, il
petto, le gambe davanti, lo bordature del cavallo grommose di sangue;
di sangue del pari rappreso il ventre e le gambe del cavaliere
sordidate: il volto di lui più che cera bianco, ed inclinato sul
petto: qualche palla ferendolo nella grande aorta ventrale lo aveva di
certo concio a quel modo. Veruno ebbe ardimento di fermare cotesto
cavallo che se gli bastò la lena sarà entrato in Roma, e lento
lento tornato alla stalla consueta per morirvi a canto al suo signore
già morto. Cotesto cadavere pauroso era di giovine leggiadro, e
ricco a Vicenza: apparteneva alla cavalleria di _Masina_ dove pel suo
valore ottenne sollecitamente grado di ufficiale. Il _Masina_, che
venuto a Roma per ragguagli e per ordini tornava a sprone battuto al
campo incontra il morto a cavallo, e ferma in quattro, poi si mette a
guardarlo con occhi sbarrati; lo riconobbe, si diede di un pugno nella
fronte prorompendo in fiero sacramento, poi si slanciava a briglia
abbattuta, e scomparve.--La madre del giovane dimorava lontana, e
quando le annunziarono la morte del figlio le tacquero certo i
particolari del caso, se ella lo avesse veduto l'avrebbe fulminata il
dolore.

I Francesi movono lamento di certo strattagemma adoperato dai nostri
per fare di un tratto prigioni un due centosessanta Francesi: ecco
come sta la faccenda. Il maggiore Picard con trecento allo incirca
soldati del 20° di linea su le ore antimeridiane aveva preso certa
posta in prossimità alla villa Valentini, e quivi stette fino al
termine della giornata, il quale venuto, alcuni dei nostri
furbescamente presero a sventolare fazzoletti bianchi mostrando
volersi abboccare col Maggiore, cosa da questo più che volentieri
accettata, allora gli dissero le milizie francesi entrate per accordo
in Roma, andasse a vedere, lo condurrebbero eglino stessi; il Picard
accettava, e raccomandato prima ai suoi che vigilassero su le armi, li
seguiva. Vedovo il corpo del suo capo lo circondarono i Romani due o
tre volte più numerosi, e sforzatolo a deporre le armi, lo menano
prigioniero a Roma. Posto vero il fatto, paiono peggio che strani i
lamenti; gli strattagemmi consueti in guerra; la morale condanna
quelli, che arieggiano di tradimento, e di ferocia codarda, si
accomoda agli arguti; la ragione di stato si approfitta di ambedue: i
Francesi poi immaginosissimi a inventarne dei nuovi, ma della prima
specie, in copia, scarsi i secondi: Affrica parli, e parlerà anco
Roma. Il comandante, il quale lascia per lusinghe i suoi soldati
peggio, che stolto; ed egli non unico a condurli; dopo lui rimanevano
altri ufficiali quanto egli capaci, e forse più di lui; nè i
nostri li colsero alla sprovvista, dacchè partendosi, egli ordinava
loro stessero vigilanti: dunque non cessero per inganno bensì per
forza di arme; tagliati fuori essi giudicarono ogni resistenza vana:
per me credo che tale operasse il Picard per non trovarsi presente
alla resa volendo piuttosto comparire gaglioffo, che poco
animoso.--Però diverso raccontano taluni dei nostri l'avventura e
affermano il _Bixio_ avere messo le mani addosso al Picard tentennante
ad arrendersi, il _Franchi_ di Brescia avere fatto altrettanto col
sottotenente _Rennelet_, ed ambedue disarmati, e bendati trassero al
Generale Garibaldi il quale li mandò al Ministro Avezzana.

Poichè alla porta dei Cavalleggeri fu respinto lo assalto non
potendo patire i Francesi di aversene a tornare indietro con l'onta di
una sconfitta (molto più che a rimprovero o a scherno della
pecoraggine loro i nostri allo strepito delle artiglierie, e delle
moschetterie alternavano i suoni dell'inno nazionale di Francia, la
_marsigliese_, capace un dì come vantava il suo autore a movere
centomila uomini, ed oggi diventato tanto innocente presso cotesto
popolo, che lo insegnano per sollazzo ai pappagalli.--A siffatte ruine
può precipitare un popolo per manco di virtù sua, e per
malignità altrui!) il capitano Fabar, quel desso, che venne già
in Roma per abbindolare i Romani voltosi al Generale Oudinot così
prese a favellargli: «Generale ho riconosciuto più innanzi certa
stradella la quale senza pericolo di restare offesi dal fuoco dei
bastioni conduce alla porta Angelica, dove accadrà il tumulto
concertato per aprircela.» L'Oudinot ridotto ad appigliarsi ai
rasoi, crede al parabolano, ed ordina al Generale Levaillant di
mettersi dietro al capitano con la seconda brigata, e due cannoni.
Questo sconsigliato caccia dentro le milizie nel sentiero che si
aggira per le muraglia dei giardini del Vaticano, e di vero potè
procedere nascosto fino a duegento braccia dalla porta Angelica, ma
appena i nostri lo videro sboccare fuori della strada, presero a
sfolgorare la testa della colonna con una grandine di palle. La
brigata balenava alquanto, non retrocesse; all'opposto si attelò di
faccia, e postò i due cannoni. Di qua e di là si rinfocola la
battaglia, ma sopraggiungono di corsa i carabinieri romani, il
_Calandrelli_ parve in quel dì trasformarsi nel centimano Briareo
con le sue artiglierie: la morte menava baldoria, che i Francesi
cadevano giù come insetti strizzati dal primo freddo di novembre; i
cavalli dell'artiglieria esanimi a terra, e a terra pure percosso per
non rialzarsi il Fabar. Possano gli oltraggiatori della nostra Patria
non provare destino migliore del suo! Anco qui laceri i Francesi
ebbero a ripararsi a frotte scompaginate per gli avvallamenti del
terreno, o dietro ai muri continuando il fuoco scarso e languido anco
per parecchie ore; i cannoni rimasero derelitti; potevano i nostri
andare a pigliarli, ma non essendo consentito l'uscire, alle due dopo
la mezzanotte i Francesi vennero a tirarli di cheto a braccia; a
braccia pure si portarono i feriti.--Mille e più dei nemici morti,
o feriti, o prigioni resero funesto per la Francia quel giorno; noi
avemmo a rimpiangere dei nostri meno di duegento fra morti e feriti; e
ci contiamo anco due cittadini morti, e quattro feriti; chi fossero i
morti non mi occorre scritto; i feriti due giovanotti uno di 14, e
l'altro di 16 anni, _Mondavi Michele_ Romano il primo, l'altro _Paolo
Stella_ della legione romana con tre ferite, _Bernardino Proietti_ da
Spoleto ebbe il corpo trapassato da un pezzo di mitraglia; _Giuseppe
Caterini_ da Foligno con gran voce esclamò: _viva la repubblica_
mentre gli amputavano il braccio ferito. Se la storia registra di
Giovanni delle Bande nere il quale resse la candela al chirurgo
mentr'ei gli tagliava la gamba offesa ci è parso giustizia non
tacere la virtuosa ferocia del cittadino romano. Respinti da per
tutto, a ragione paurosi di essere circuiti ed oppressi, o fatti
prigionieri i Francesi passarono la notte su le armi, e la mattina
maravigliando che quanto temevano non accadeva si ritirarono a
Castello di Guido. Il terrore dei Francesi non era indarno,
imperciocchè i generali Garibaldi, e Galletti pestassero mani e
piedi per ottenere rinforzi, e sterminare il nemico, agevole il moto
dacchè dalla villa Panfili, e dagli Acquedotti dominando la via
Aurelia antica con celeri passi si poteva precorrere l'Oudinot a
Castel di Guido, e chiudergli la strada; i Francesi poi rifiniti da
dieci ore di combattimento, senza cavalleria, che nella ritirata li
proteggesse, e sgomenti come porta la indole loro quando ne hanno
tocche; noi altri avevamo due reggimenti di linea di riserva, due
reggimenti di dragoni a cavallo, due squadroni di carabinieri, e il
battaglione dei bersaglieri lombardi condotti dal colonnello _Manara_:
questi nella giornata del 30 stettero su le armi, e non presero parte
alla battaglia, perchè traditi a Civitavecchia davano la parola in
pegno di non combattere prima del 4 maggio, e tanto bastava
all'Oudinot fidente di tenere Roma prima di quel giorno, conto che gli
andò proprio fallito; per ultimo le forze di un popolo ardente
d'ira e di pietà! Si oppose Giuseppe Mazzini, e con lui gli altri
Triumviri per risparmiare alla Francia la vergogna della piena
sconfitta, e per non isperdere invano il sangue dei nostri giovani
soldati combattendo allo aperto con veterani spertissimi: di tale
partito i più degli scrittori riprendono il Mazzini, taluni
spiegano il suo concetto, ma non lo lodano: di vero se la Francia
avesse voluto procedere sempre con la consueta iattanza ne aveva
tocche troppe, e male per non doversi vendicare, e se all'opposto con
giustizia quanto più solenne la lezione, tanto più persuasiva: e
poi co' Francesi due nespole delle buone non guastano nulla; la
esperienza ammaestra che fornita una impresa con la sua ruina si
procede riguardosi a incominciarne un'altra, mentre la mezza batosta
porge quasi lo addentellato a ripararla: arrogi l'acquisto delle armi,
e alla verosimiglianza che di tanti prigioni in mano potenti per
credito, e per autorità qualcheduno si mettesse paciere di mezzo
proponendo condizioni comportabili. Per me giudico, che a perseverare
nella lotta più che altro animasse il rapporto dell'Oudinot al
Ministro della guerra a Parigi, il quale con l'arte nella quale i
Francesi non conoscono non dirò pari, ma nè anco secondi
affermava a faccia tosta: «non era nostro intendimento assediare,
ma riconoscere la piazza, e ciò compimmo; così che dopo le
nostre grandi guerre non si conosce per le nostre armi fatto più di
questo _glorioso_!» E da tanto ch'ei lo giudicava glorioso che per
l'angoscia ne infermò, e il Rusconi visitandolo lo rinvenne pallido
e scontraffatto, e male con un diluvio di parole dissimulante
l'ansietà dell'animo suo. All'opposto un medico francese scriveva
agli amici suoi così: «temevamo una sortita e nel cammino
occupato da tutte le parti, mi perito a dire che mai sarebbe accaduto;
basta, come Dio volle, il nemico si rimase dietro le mura.» E nè
anco questo è vero, però che il Garibaldi il giorno dopo li
seguitò con la legione italiana, e qualche squadrone di cavalleria,
ma indi per ordine del Governo retrocesse a Roma. Fra le altre non so
se io mi abbia a dire fisime o bugiarderie dei Francesi ci fu quella
di negare i danni per essi recati ai monumenti di Roma, senza
accorgersi che smaniosi della lode per le virtù che non hanno, da
sè medesimi si screditano nello attribuirsela per cose che fra loro
contrastano, nè possono stare insieme; ed invero come avrieno
potuto battere Roma dal lato del Vaticano senza offendere il Vaticano?
Il generale Torre narra che una palla _cristianissima_ frantumò
certo immane triregno di travertino simbolo del potere temporale rotto
per sempre dalle potenze cattoliche quando per forza di arme dentro le
carni di Roma anzi d'Italia a mò di chiodo della passione lo
riconficcarono. I rapporti dell'ingegnere Grass testimoniano quante
palle di cannone e quante di moschetto offendessero il palazzo, e la
basilica del Vaticano: due palle bucarono l'arazzo di Raffaello
rappresentante la predicazione di S. Paolo nell'Areopago e il pezzo
rimase attaccato alla palla: quattro fracassarono il tetto della
cappella sistina; insomma menarono strage in quel giorno, e peggio
fecero poi. _Enrico_ Cernuschi per la sua piacevolezza, e per lo
indomito ardire delizia del popolo romano andava dicendo non si
affliggessero per cotesti danni, perchè la Francia aveva promesso
pagarli e gli avrebbe pagati, che rigida osservatrice di sue promesse
era la Francia, e ne porgeva fede cotesto caso perchè avendo eglino
bandito volere entrare in Roma ci erano entrati di fatto; veramente
non vincitori, bensì prigionieri, ma ciò non toglieva che al
compito assunto non avessero dato recapito.

Comecchè io abbia tolto a favellare unicamente dei fatti di arme dello
Assedio di Roma, non devo tacere delle donne patrizie o no ma nobilissime
tutte che si consacrarono alla cura dei feriti.--Taluna di loro poi girò
nel manico, e da per sè volle guasta la sua bella fama; anco gli
scrittori clericali non si rimasero da turpi contumelie, ma se questi
insudiciano non però fanno macchia, ed io con dolore sì ma non senza
orgoglio registro, che Cristina Trivulzio principessa venne meno a sè
medesima, chi crebbe fu Giulia Modena popolesca. Quando ci fu mestieri
panni pei feriti si rinvenne mezzo spedito a procurarli oltre il bisogno;
si tolsero carrette, e ad esse dietro parecchi uomini dabbene aggiravansi
per la città con voci pietose facendo appello alla carità dei
cittadini, e dalle finestre furono viste volare giù per la strada
lenzuola, e di ogni maniera biancherie. Un vecchio, si narra, si condusse
per verecondia dentro l'androne di certa casa, e quivi toltasi la camicia
la porse lacrimando per sollievo ai feriti; senz'altro costui avrebbe
offerto il cuore, e questi casi occorrono sempre là dove il popolo
commosso da passione buona si lascia in balìa del proprio affetto:
più arduo sciogliere i cuori impietriti dalla ira sacerdotale, però
che a loro paia essere religiosi mostrandosi crudeli; tuttavia nelle donne
prevale sempre la pietà, massime se le sieno giovani; di vero la
mirabile carità delle signore conviventi nella casa di Tor de' Specchi
rappresentate dalla cittadina Galeffi dette il destro al virtuoso Aurelio
Saffi di volgere loro queste nobilissime parole: «a fronte del sublime
compenso, che queste amorevoli cittadine aspettano in un mondo migliore
dalla loro carità, la prima delle virtù cristiane, i Triumviri
ardiscono appena esprimere a queste gentili anime la più sentita
gratitudine in nome della Patria.»

La ferocia dei barbari quantunque addolori pure non contrista tanto
come la ipocrisia dei popoli, che si vantano civili, ed è ragione,
che i primi in parte scusa l'ignoranza, mentre i secondi commettono
due mali, il danno, intendo dire, e la menzogna per onestarlo; e
poichè i Francesi bandiscono ai quattro venti la bandiera loro
sventolare sempre colà dove appaia una causa civile a difendere,
appena possiamo credere con quanta sfrontatezza negassero le ingiurie,
che con le palle di cannone, le bombe, e perfino co' moschetti
recassero ai monumenti romani: si leggono tuttora i rapporti
degl'Ingegneri commessi a verificare i danni, ed a ripararli; il pezzo
lacerato, dall'arazzo del Sanzio senz'altro testimonio saria bastato a
condannare i Francesi in giudizio. Gli è tempo perso; negli amici
nostri ribolle sempre il mal sangue di Brenno; forse un giorno si
correggerà tutto, ma la natura dei popoli cacciata via dalla porta
torna dalla finestra.--Affermarono altresì, che i feriti loro
patissero truci asperità dai nostri, ed i prigioni ingiurie;
coteste le sono turpitudini che non importa rilevare nè anco; chi
gli abbandonava senza pur visitarli fu un Forbin de Janson oratore di
Francia a Roma, i nostri non misero differenza nell'opera della
carità tra Francesi, e Italiani; anzi concessero, che gli amici
loro dal campo venissero a consolarli con la nota faccia, e la favella
del natio paese, chè lontani della Patria ogni conterraneo ci
sembra parente.--

Nè importa a noi, e sarebbe bassa voglia, chiarire le bugiarderie
dei rapporti dell'Oudinot, che francese egli era, ed aveva per dirle
più bisogno degli altri; piuttostochè improvvido volle passare
per gaglioffo; e tale sia di lui; la superbia offesa gli diede la
febbre, e il Rusconi, chè lo vide in quel torno a Castel di Guido
scrisse, secondochè notai averlo trovato stravolto, angosciando in
mezzo ad un vaniloquio di errori, di minaccie, e di sospetti per non
dire paure; poteva acchetarsi ad essere argomento di scusa, dacchè
la fortuna delle battaglie stia in mano di Dio, prescelse farsi
oggetto di scherno di faccia alla Europa: e' sono soldati.

Somma la fede nostra come somma la perfidia dei Francesi: i
bersaglieri del Manara bene stettero schierati a tutela della
città, ma al combattimento del 30 aprile non pigliarono parte
perchè riputaronsi vincolati dalla promessa di astenersi dalla
zuffa fino al giorno quarto di maggio, e fu coscienza sciupata sia
perchè non essi bensì il Preside di Civitavecchia aveva fatto la
promessa, nè vincolava perchè estorta a forza e iniquamente, e
poi i Francesi non osservarono mai promesse, nè patti: per ultimo
quel dabbene Manara che fu quanto onore visse al mondo non andò
immune da accusa per parte dello impronto nemico, il quale ardì
appuntarlo di essersi rimasto in ordinanza con l'arme in collo durante
la giornata del 30 aprile.--

La miseria dell'animo pari al sofisma dei nostri avversari si palesò
nello scambio dei prigioni; mandarono a negoziarlo certo loro medico, e il
povero Ugo Bassi pedestre e senza cappello; recavano lettere del generale
Regnault di San Giovanni di Angely, il quale vedremo rassomigliarsi
all'Oudinot come uovo ad uovo: rinfacciava costui la libertà concessa ai
bersaglieri lombardi, sostenuti a torto, contro il diritto delle genti, e
per di più sotto la condizione, che ho ricordato pocanzi: offeriva
rendere in baratto 500 uomini del Melara sorpresi a tradimento, e disarmati
a Civitavecchia; parlava di diritto internazionale, di accettare lo
scambio, egli che per offerire scambio siffatto aveva violato tutte le
norme del diritto e della giustizia: che più? E fu questa suprema prova
della fronte di bronzo dei nostri nemici, vantavano essi avere distribuito
le paghe alle milizie romane a Civitavecchia, e fu debito adempiuto dai
Francesi con pecunia romana.--Le armi dei prigionieri chiedeva, e quando
noi domandammo le nostre arraffateci con rapina nei depositi di
Civitavecchia presero a bindolare; anco sul luogo per la consegna dei
prigioni perfidiarono, sicchè i Triumviri sdegnosi per siffatte
pidocchierie in virtù di nobilissimo decreto li rendeva liberi, senza
patto, e con le armi; ma prima li convitarono a pubblica mensa; colà si
abbracciarono popolo, e soldati, e baciaronsi in bocca, dissero parole e
fecero atti di sviscerata tenerezza; tutto di fuori li dimostrava fratelli,
non ci mancava che il cuore; cessato il banchetto, i Francesi tenendo su
ritte bandiere italiane, e gl'Italiani bandiere francesi mossero alternando
canti festosi a San Pietro. All'aspetto di cotesta gloria di arte, i
Francesi si sentirono domi, parve a taluno commossi ad ammirazione,
sicchè taluno cogliendo il destro a volo per solcare bene nella mente
loro la memoria del fatto con voce solenne vibrò gli echi della fabbrica
immensa che ripeterono dall'alto come un comandamento di Dio, dal basso
come preghiera dei mortali e dei morti: «Francesi ed Italiani
prostratevi tutti qui dinanzi l'Onnipotente, e sollevate a lui una prece
per la libertà dei popoli e per la fratellanza universale.»
Prostraronsi tutti, e tutti giurarono: i giuri, gli abbracciari, i baciari
rinnovaronsi fuori della porta Cavalleggeri; ma non erano i Francesi andati
oltre cento passi, che tutto avevano messo in oblio; per cotesti cervelli
affetti, e memorie passano come acqua per mezzo alle grondaie.--L'Oudinot
ringraziava; restituiva i bersaglieri ma senza moschetti e senza bagaglio,
e nè manco rendeva le armi rapite, sicchè all'Avezzana toccò
mandarne loro onde entrando in città comparissero armati, avendo saputo
com'essi fossero risoluti di cogliere alla sprovvista gli ultimi avamposti
francesi, e ricuperare così gli schioppi rubati.

Che importa a noi contristare l'animo ed abiettare queste carte col
racconto delle infamie dell'assemblea di Francia, e delle insanie dei
nostri vantati amici? Con costoro non possiamo nè manco saldare il conto
su la traccia del proverbio: «tanto è il ben che non mi giova, quanto
il mal che non mi nuoce;» dacchè ci nocquero pur troppo tenendoci a
bada con promessa di opere, che poi comparvero troppo insufficienti allo
scopo, e con parole dubbiose; tale correndo il vezzo oggidì, che anco i
più audaci non ardiscono rompere il guscio dello equivoco, la verità
scotta le labbra: sotto il velame delle parole ambigue, ognuno tratta i
suoi negozi come gli Arabi costumano toccandosi le dita sotto il mantello.
Il voto dell'Assemblea sonò ordine al ministro di fare in modo, che la
spedizione a Roma non deviasse dal suo scopo; il quale a fin di conto era
rinnovare ai Romani un governo, che di già essi avevano deliberato ed
accettato; la quale presunzione che altro mai significa se non tirannide?
Di vero, il presidente Bonaparte, ed i suoi ministri in tanto bandivano
volere sostenere con le armi il nuovo plebiscito del popolo romano, quanto
che confidavano che al solo mostrarsi i Francesi sotto le mura di Roma, il
popolo vero, onesto, e buono, alla santa sede devotissimo avrebbe buttato
nel Tevere i pochi nemici dell'ordine, chiedendo smanioso di essere
ricondotto all'estasi del bacio dei pontifici piedi. Se il popolo vuole la
restaurazione del papa tutelino le baionette francesi questo libero voto,
dove così non voglia le baionette voteranno per lui.--Io narro proprio
per passare il tempo, dacchè mi accorgo che gli esempi antichi non
valsero mai a mettere la gente in cervello: i nostri confidando nella
equità dei Francesi accettano la tregua come indizio di più durevole
accordo; i Francesi poi nel proporla intesero acquistare tempo per mandare
rinforzi, forse per assopire gli spiriti nostri, e più verosimilmente
per attendere lo esito delle nuove elezioni all'Assemblea, che non si
volevano sturbare sommovendo novità: a questo intento spedivano a Roma
il Lesseps per dare erba trastulla, e condurre il cane per l'aia; ed egli
gli servì maravigliosamente perchè agguindolato lui stesso: anzi
scrittori, non mica scarmigliati, bensì mezzo liberali ravviati, e per
bene non biasimano già il Governo della frode ma sì il Lesseps che se
uomo svelto fosse stato doveva pure accorgersi, che la sua missione era un
tranello. Il Lesseps per tanto mandava all'Oudinot non si movesse, fallaci
i rapporti delle spie: per entrare in Roma bisognava premere del piede il
petto ad uomini, e Mazzini, anch'egli, Dio lo perdoni, scriveva
all'Oudinot: avvertisse bene, taluno nella Assemblea romana essersi
scoperto avverso alla Repubblica, non uno alla durata del potere temporale
del Papa; dopo l'Assemblea gli animi essersi posati; la pace ottenuta, dopo
eletti i Triumviri, libera e tranquilla essere successa la elezione dei
deputati, i quali avevano rafferma in ogni sua parte la forma del governo:
egli era un dire sua ragione agli sbirri che di questo arrovellava appunto
l'Oudinot il quale invece di rispondere al Mazzini scriveva al Radetzky non
s'inoltrasse, attendesse l'esito delle elezioni di Francia per non
suscitare procelle nel seno dell'Assemblea.--Più tardi vedremo Lesseps
comporsi col Triumvirato, l'Oudinot non badargli; quegli tempestando
appellarsene all'Assemblea, il governo non più bisognoso di ambagi dare
ragione all'Oudinot, torto al Lesseps; e per di più beffarlo; ebbero
cuore di chiamarlo anco dinanzi i tribunali, ma intanto essendo riuscita a
bene la trama, assai agevolmente lo licenziarono, non senza però
biasimarlo di avere oltrepassato la commissione: egli per giustificarsi
alle parole ambigue del mandato opponeva le chiarissime del ministro
Barrot, le quali gli erano come commento, e non gli valse; le parole e le
penne il vento porta via; contano gli scritti e questi anco poco.

Ora di altre cose; non sola l'Austria con Francia, ma sì con
Napoli, eziandio e con Ispagna. Di Austria non dirò, quantunque
mano a mano ne circondasse come dentro un cerchio di ferro. Quanta ira
di Dio, e potenza di uomini per rompere una canna incrinata! Gli altri
stati acattolici stettero in pace, la quale cosa dimostra che
tirannide regia rinterzata di tirannide pretesca supera ogni altra
tirannide. I Romani timorosi di assalti tenevano custodito il confine
dal lato di Napoli, con molto loro non meno incomodo che jattura,
chè la gente sparsa non potè esercitarsi nelle armi, onde
l'avemmo a provare poi valorosa sì non perita; nè erano le
diligenze del governo o inopportune o troppe, che fatta anco la tara,
come di giusto, alle jattanze napoletane, non si poteva mettere in non
cale la perpetua minaccia di rompere i confini: quotidiane per di
più le provocazioni, imperciocchè parecchie barche scorressero
su e giù pel lago di Fondi acclamando a gran voce: «viva il
Papa! viva il Re!» a cui come di ragione i nostri rispondevano
sempre: «viva la Repubblica!» Peggio di tutto un laidissimo
tradimento: gli ufficiali napoletani di presidio al confino venendo
spesso ai quartieri dei nostri per conversare, e per bere indussero i
nostri a visitarli nei quartieri loro dove festosamente accolti si
trattennero alquanto in compagnevoli sollazzi, ma sul punto di
congedarsi si vedono circondati da molta mano di carabinieri ed odono
intimarsi la resa: non ci era da fare riparo, andarono, eccetto due il
quartiermastro Bizzani che appiccato un solenne ceffone su la faccia
di un gendarme si prevalse del costui stordimento per fuggire, e
scappò del pari il sargente maggiore Bemi che giocando di pugni e
di calci usciva loro dalle mani; si richiesero tosto con minaccia, e
con minaccia fu risposto averli mandati a Mola di Gaeta perchè il
Generale supremo Casella gl'interrogasse; allora misero le mani
addosso ai fratelli dello Antonelli ammonendoli, che essi sapevano, e
non per nulla, la legge mosaica occhio per occhio, dente per dente. I
prigionieri furono tosto restituiti; le ragioni spiccie a persuadere i
preti crescono nei boschi.

Il re Ferdinando concupì la gloria di conquistatore; solo voleva
conquistare a man salva, però quando seppe sgombra la frontiera pel
richiamo della milizia a Roma si attentava allungare il passo oltre il
confine Romano: secondo la natura speciosa di lui lo precedeva un
_proclama_ col quale mostrando le granfie rattratte diceva avere
speranza di non essere costretto ad usare le armi per restaurare il
supremo Gerarca della Chiesa; varcò il confino in compagnia, chi
dice di 12, e chi di 15 mila uomini; gli stavano attorno principi,
duchi, ministri, e perfino monsignor Giraud per ripigliare il possesso
in nome del Papa, delle provincie ripurgate con la spada di Ferdinando
re, il quale messa la gente alle stanze tra Velletri e Albano, là
attendeva per rivincere i Romani, quando fossero vinti.

La tregua dei francesi con Roma arriva inaspettata a Ferdinando, e gli
parve tradimento; forse fin d'allora statuì ritirarsi, ed in cuor
suo maledisse il momento di essersi messo a repentaglio, ma fu il
pentirsi tardo, che gli si spinse addosso il Garibaldi. Questo
capitano si traeva dietro il battaglione dei lombardi, e Manara. In
brevi accenti importa dire chi fossero gli uni e l'altro: reliquie i
primi di corpo più vasto, che mal seguendo le orme del re fu
secondo il solito derelitto da lui; non bene fra loro concordi
perchè volevano ad un punto piacere al Piemonte, e non alienarsi i
Repubblicani; umiliaronsi ai ministri regi e ne ritrassero onte, e
strazi: ingannati su la strada da farsi per la perfidia dei medesimi
ministri ebbero a lasciare le artiglierie per via; quando meno se lo
aspettano i soldati del Piemonte si rovesciano su loro e gli
artiglieri disperdono, i cannoni tirano dentro in Alessandria. Questo
narra il Dandolo che ci si trovò presente, ma egli non lo piglia in
mala parte, perchè di stirpe aristocratica; però le regie offese
ha per carezze, mentre in odio degli ordini popolari, quanto sa di
popolo lacera senza pietà. Strenui giovani furono per certo i
nobili lombardi, ma schifiltosi, e saccenti: combatterono i nemici
valorosamente sempre, le proprie passioni non combatterono mai. A
Bobbio sbandaronsi, che madre di discordia è la sventura: nel
tumulto rimase ucciso un'ufficiale; i cavalli venderonsi quasimente
per nulla. Anco dal Dandolo si ricava, che i pochi rimasti insieme
passando per Chiavari vennero con inestimabile esultanza festeggiati,
perchè creduti ausiliatori di Genova; quando poi i Chiavaresi
seppero, che non andavano per quello cagliarono; dond'ei cava
argomento per deplorare la insania degl'Italiani! Certo per cui sa,
che in quel punto il Lamarmora bombardava Genova adoperando contro una
città italiana, quelle armi, che su i campi di Novara rimasero
inerti è mestieri che dica le opere di questo Conte valere troppo
più delle parole. Avviaronsi verso la Toscana in cerca di miglior
fortuna, ma ci giunse il loro messaggio nel punto in cui cadeva il
governo popolesco per le mene di nobilissimi ribaldi; il Conte chiama
cotesto governo _spregevole_, e tuttavia ei ne sperava sollievo ed
altri soldati italiani ributtati dalla monarchia sabauda ebbero da
cotesto governo vesti, armi, e danaro, e quello che più importa
fratellevole accoglienza; ma poco sono da curarsi le parole del Conte
contro il governo toscano, se la dicacità sua egli spinge fino agli
ultimi oltraggi contro i propri commilitoni, e valga il vero; egli
afferma com'essi accettassero recarsi a Roma per paura che stretti fra
l'appennino e il mare di un tratto il _pregiabile_ governo di Piemonte
non li consegnasse all'Austria, e poichè costà non poterono
rimanere si avviarono a Roma senza amore, all'opposto odiando il
governo del Mazzini e quasi per dimostrazione dell'animo loro portano
sopra le cinture la croce sabauda; accettano il soldo della repubblica
solo per vivere reputandosi liberissimi, appena giunti, di piantarla;
così forse non pensava la moltitudine dei soldati che il Manara
conduceva: non convincimento, non passione essi sentivano disposti a
servire per bisogno la repubblica, o la restaurazione regia, se privi
di bisogno non avrebbero servito l'una nè l'altra: insomma, a
sentire questo Conte, i 600 lombardi, che furono miracolo di valore e
di costanza, volgono a Roma per non farsi, spinti dalla fame,
ladroni.--Nè meno sbalestrato è il giudizio del giovane Conte
intorno alla milizia Romana; a lui erano segni di sicura disfatta la
moltitudine delle sciarpe, bandiere, coccarde, e durlindane ond'ella
andava ornata ed armata, le moltiplici assise, che vestiva, e le
spallette delle quali taluno a mirarlo solo nel volto era indegno, gli
parve cotesto il carnovale della licenza; e tuttavia cotesta gente
seppe morire per la causa della libertà; ma al Conte Dandolo va
molto perdonato, imperciocchè molto abbia amato, e troppo più
patito per la Patria.

Manara capitano dei Bersaglieri, di patria lombardo, fu il Tancredi di
questa inclita epopea; di forme ampie, ed anzi pingui che no, marziale
nel volto, nel portamento, e negli atti; padre e marito non invilito
negli affetti privati, con tutto il cuore amava la moglie, e i figli e
nondimanco sopra questi amò la Patria; si sarebbe detto avesse
avuto due cuori; costumi alteri ma urbani, senza troppo addomesticarsi
affabile; quasi un profumo di nobilesca gentilezza lo circondava: da
prima repugnò dal Garibaldi, ma all'ultimo si accorse come vi abbia
una gentilezza d'intelletto, che vince l'altra di educazione perchè
questa può talora dimenticarsi, l'altra non mai; allora egli prese
il Generale e il Generale lui; onde all'ultimo diventarono non pure
amici ma inseparabili.

Segreti furono lo scopo della impresa, e le vie; le varie milizie per
comando superiore si raccolsero alla villa Borghese; dicevano per
essere passate in rassegna, e quivi rimasero fino a sera; su lo
imbrunire ecco il Garibaldi; al solo vederlo comprendono tutti, che
per rassegna ei non viene; tranquillo anzi immobile sopra un cavallo
feroce; dopo le spalle gli svolazzano le chiome fulve, e i lembi del
mantello bianco; sotto il mantello egli veste la camicia colore di
sangue, e come ombra lo seguita il negro americano dalle vaste membra
coperto di mantello nero, ed armato di lunga lancia intorno alla quale
si agita la bandiera vermiglia. I gridi andarono al cielo; egli fece
della mano silenzio, ed arringò i soldati; che diss'egli? Veruno
ardisca riportare le parole del Garibaldi, imperciocchè la virtù
delle sue arringhe consista meno nelle parole che nello sguardo, nel
suono, insomma in un torrente di fluido elettrico, che si prova, ma
non si descrive.

Ora dunque come mai dei giovani scolari nei quali abbonda
ordinariamente il cuore ne rimasero soli nove? Forse un demonio di
quelli, che governano la Caina passando su l'anima loro vi soffiò
un'alito gelato e gli avvilì? Ecco la cagione del fiero caso, che
forse lo scusa in parte ma non lo assolve: nella giornata del 30
aprile fu preposto a questi cervelli giovanili mobilissimi per natura
un côrso, di cui non si ricorda, e non importa ricordare il
nome[1]; però giova avvertire che indi a breve se ne andò in
Francia al soldo dello Imperatore, e con esso lui forse tuttora
rimane; nel 30 Aprile pertanto ben'egli a squarcia gola gridava ai
giovanetti: _avanti! avanti!_ ma ei se ne stava addopato ad una pianta
schermito dalle palle con un fiasco di vino al fianco dove di tratto
in tratto attingeva voce, e sembianza di valore: però sospettando i
giovani di mal capitare sotto la trista guida spulezzarono. Di qui
l'uomo, si accorga come la poca fiducia nei condottieri soldateschi o
politici di un tratto smorzi ogni entusiasmo, e muti condizioni di
animosi in codardi.

  [1]  Veramente io lo so ma io taccio per riverenza della Isola
    che mi fu cortese di ospizio, e di conforto.

Procedeva il Garibaldi co' suoi tacito in mezzo alle tenebre e
descrivendo un grande arco attinse la via prenestina, che mena a
Palestrina, la quale risponde alla Porta maggiore di Roma mentr'egli
era uscito dalla Porta del Popolo; di tratto in tratto spediva il
Garibaldi stracorridori a speculare il sentiero frugandolo argutamente
nelle più recondite latebre; pareva, che navigasse per iscogli
dolosi, e veramente ei camminava in mezzo ai pericoli: sovente egli
medesimo in compagnia del suo moro si allontanava per tentare i
meandri del terreno, e come improvviso si partiva così del pari
improvviso ritornava; e questa, che pareva faccenda strana perchè
inusitata fra noi, era cautela appresa dai selvaggi i quali come
pongono ogni loro gloria a sorprendere il nemico con gli agguati,
così adoperano ogni sottile accorgimento per ischivarli; senza
intoppo procederono fino al mattino, allora appartatisi alquanto dalla
via prenestina s'indirizzarono verso Tivoli.

Per questa guisa l'astuto condottiero illudeva il nemico il quale
stimò dai rapporti delle sue spie, che pigliando egli per la via
Flaminia andasse ad assaltare i Francesi a Palo onde di un tratto si
scopriva di subito minaccioso sul fianco destro di lui accampato
intorno a Velletri; e per ultimo marciando di notte confortato dalla
ombra, e dalla frescura aveva potuto camminare per bene ventiquattro
miglia in nove ore.

Ed è questo successo notabile imperciocchè la prima qualità
che si ricerca nelle fanterie consista nella gamba, onde Omero ricorda
Achille ordinariamente col titolo _di piè veloce_; e mettendo dal
lato Omero gli scrittori tutti di cose militari in questo consentono:
i soldati austriaci vanno lenti ed è bazza quando, camminando
grossi, percorrano un miglio l'ora; i Francesi condotti da Napoleone
compirono marcie, che emularono quelle di Cesare, e di Alessandro.
Taluno opina, che i soldati due miglia l'ora possano farle, un uomo
giovane ne fa tre nel medesimo spazio di tempo, ma non per durare:
comunemente però i grossi battaglioni muniti di artiglierie poco
più di un miglio l'ora vediamo, che camminano; Garibaldi ed i suoi
quasi tre ne trascorsero, e parrebbe miracolo, se non costumassero
sempre così; dacchè appunto nei moti incredibilmente celeri stia
riposta la precipua arte di guerra del Garibaldi, e quantunque egli
abbia detrattori in copia tuttavia si conosce come per diverse vie
adoperi la medesima tattica di Napoleone in terra, e del Nelson sul
mare, voglio dire raccogliere in un punto la maggiore quantità di
forze possibile per rompere la linea nemica; i primi ottenevano lo
intento con lo avvolgersi accorto delle milizie e delle navi, il
secondo col piombare giù inopinato con mosse celerissime, e per
sentieri reputati inaccessibili.

Ma volere è vinto dal non potere; quindi poichè i suoi compagni
attriti dal digiuno, e dalla fatica ormai balenavano cadere ei fece
sosta in mezzo a un prato. Qui agli occhi maravigliati dei giovani
lombardi apparve uno spettacolo nuovo; appena il Garibaldi ebbe dato
fiato alla tromba ecco i fanti buttare là le armi, e mescolarsi
insieme vari di vesti, di armature, di tutto; nella camicia rossa
pari; soldati, e capitani non solo uguali, ma i secondi sovente servi
ai primi, tutti alla busca, ognuno è macellaio, e cuoco; nè si
desidera molta perizia in questo, chè cibano le carni appena
rosolite; i cavalli liberi di sella e di freno in balìa di loro
stessi; poi li ripigliano col laccio nel modo che agguantano pecore e
buoi; dopo sazi si giacciono giù in terra e somministra ai
cavalieri letto e guanciale la sella; ai pedoni un sasso, e se nè
anco questo trovano, sottopongono al capo un braccio, e basta. Intanto
il Garibaldi s'incammina su le alture, e col cannocchiale fisso su gli
occhi sta vigilando per tutti, poi scese, dettò alcun ordine, e si
ammannì la tenda per riposarvi sotto, la quale in un battere di
occhio fu lesta però che in questo modo la costruissero; la
sciabola ignuda ficcarono alquanto in terra, legarono per traverso il
fodero in croce, appoggiarono al punto d'intersecazione una lancia,
sopra essa gettarono il suo mantello e la tenda fu fatta; il Garibaldi
ci si stese sotto riposando alcun poco le membra.

Il conte Dandolo s'inalbera per cosiffatti costumi del Capitano e dei
soldati, ma pure ci correva poco screzio con quelli dei suoi
bersaglieri, anzi dello stesso Manara; dacchè l'Hoffstetter
racconta com'essi nella medesima maniera agguantassero pecore, e bovi,
li scorticassero, e arrostissero mettendocisi intorno il Manara come
gli altri con le maniche tirate su fino al gomito; ed anco il nobile
giovane non si dà pace perchè nella legione del Garibaldi a
molti prodi e dabbene si mescolasse gente di ogni risma; e' sono fumi
aristocratici senza costrutto; di vero s'egli senza commoversi
racconta come i suoi bersaglieri militassero per fame sotto bandiera
aborrita poteva non arricciarsi degli altri considerando, che il bel
morire onora la vita, nè meritava spregio chi travolto da ree
passioni in mezzo ai traviamenti pure rinveniva forza in sè da
ritrarsene, nè molto meno si potevano essi respingere dal santo
proposito di espiare le passate colpe con magnanimo fine.--

Col Garibaldi brevi sempre i riposi; egli primo in piedi, ed allo
squillo della sua tromba ecco tutti balzare su ritti, sparpagliarsi,
rimescolarsi, ricondurre i cavalli col laccio, cercare le armi,
forbirle, mettersi in ordinanza, e subito dopo in marcia. Su lo
imbrunire il tempo si annuvola, e si mette prima a piovigginare, poi
giù acqua a brocche; verso mezzanotte arrivano a Palestrina; dove i
soldati furono distribuiti per diversi conventi; toccò ai lombardi
il convento degli Agostiniani, ma Agostiniani o Cappuccini od altri
cenobiti usciti un dì dalle viscere del popolo, oggi atrocissimi
nemici suoi e della libertà; quindi ritrosi a dare perfino ricovero
ai nostri soldati i quali incolleriti si pigliarono ricovero, e cibo,
e bevanda, ed altre più cose rompendo casse ed armari; dicono
trovassero altresì libri, e stampe, e lettere di laidi amori; nè
mi maraviglio se le rinvenissero nascoste mentre dimorando io in
Genova presso il convento di San Francesco di Paola, il nipote del mio
giardiniere avendomi recato il breviario, che un dabben frate lasciava
nel confessionario ci trovai fra le carte lettera di certa penitente
la quale rinfacciava a costui il suo abbandono dopo averla condotta a
rompere fede al marito.--

Nè grande, nè bella si mostra Palestrina un dì _arx
prænestrina_ precipua città degli Equi fondata innanzi Roma;
quivi edificò più tardi Silla il tempio alla Fortuna, preferendo
cotesto truce al nome di virtuoso quello di _felice_; la città
ricingono da tre parti mura debolissime, le vie sono fatte a scale;
tutto dintorno deserto, solo lontano su i colli circostanti appaiono
borghi, che si vantano città.

Il re di Napoli in fine avvisato come il Garibaldi lo cercasse a morte
è da credersi che si sentisse andare giù per le ossa il ribrezzo
della quartana; ma poichè con 20 mila soldati non poteva fuggire
davanti a meno che 3 mila per disperazione animoso si dispone moversi
a combatterlo; ho scritto moversi ma non egli mutò un passo,
bensì spinse da Albano il generale Lanza con 5 mila uomini muniti
di artiglieria da campagna per conquidere il Garibaldi, o almeno
circondarlo per guisa, che il regresso a Roma gli fosse impedito; al
generale Winspeare fu ingiunto che per la via di Montecompatri
sostenesse le mosse del Lanza. Ora trovo scritto come il Garibaldi
sparpagliasse qua e là manipoli di bersaglieri ed anco di cavalli
per tribolare il nemico; anzi affermano, che il Winspeare dopo
scambiato con loro un trarre lungo e sanza pro fino a sera, dubitando
dalla pertinacia dei nostri che fossero molti, o se pochi altri
aspettassero calata la notte si ripiegava fino a Frascati;--certa cosa
egli è che da queste lustre altro non volle cavarsi eccetto lo
abbandono del nemico delle sue posizioni per trarlo a battaglia, e
questo il Garibaldi ottenne, imperciocchè il generale Lanza nel
giorno di poi uscisse ad assaltare Palestrina; lo precedeva il
colonnello Novi camminando sopra una delle due strade, che mettono
capo alla porta del Sole; su l'altra strada veniva più grosso il
Lanza per dare dentro alla città di fronte; e vuolsi credere che il
Novi avesse a scorrere oltre per pigliare alle spalle la città
dalla via che da mano diritta mena piu in alto al colle. Lo
aspettavano i nostri; il Manara dei suoi rimastigli (chè alcuni
bersaglieri col tenente Bronzetti aveva spedito a infestare il nemico
a Valmontone nè si ricongiunsero col Garibaldi fuorchè a Roma)
mandò una compagnia col Rozat alla porta del Sole; un'altra pose
col Ferrari nella parte inferiore della città; la terza col Maffi
tenne nel convento degli Agostiniani pronta alla riscossa; la quarta
col Bonvicini aveva fino dal giorno innanzi preposta al presidio del
Castello San Pietro in vetta al colle dove con fatica si ascende in
mezza ora, e donde con facilità in quindici minuti si cala.
L'Hoffstetter descrive diffusamente questa avvisaglia, come se fosse
capitale giornata, e a se non senza molta prosunzione attribuisce il
merito di ogni mossa; nè questo è il più breve su la scorta
degli scritti, che possiedo. Parte della legione italiana era inviata
fuori della porta del Sole per sostenere la zuffa con la colonna del
Novi; lei comandava un gentile dozello, biondo, e roseo, di cui le
guance ombreggiava appena la prima calugine; quale avesse nome non mi
occorre scritto: non importa, aveva nome _popolo_; mi dicono che
prevalsa la tirannide in Italia, andò a combattere per la
libertà in America, dove cadde in battaglia: il nostro cuore geme
nel vedere la universa terra seminata di ossa italiane, ma la ragione
lo consola però che la libertà sia anima del mondo, e tutto
avendolo per patria ella patrie particolari non conosce o
disprezza[1]; ebbe per comando tenesse il posto, o ci morisse: dopo
lui la compagnia Rozat; questa la nostra sinistra. Verso le quattro
del pomeriggio un mille di nemici raendo seco due cannoncini da sei
presero a bersagliare i nostri, e i nostri salutarono con acclamazion
festose lo strepito delle prime palle come se incominciasse la danza
desiderata; cessate le grida risposero con fuochi spessi e terribili,
ma alla scoperta, e alla scoperta il giovanetto capitano agitava la
spada, bersaglio ai colpi nemici, e per venura non tocco mai. Durava
un'ora la mischia quando ai nostri vennero meno le munizioni sicchè
si udiva i soldati garosi domandare l'uno all'altro: «deh! per amor
di Dio, prestami una cartuccia delle tue, ch'io le ho finite.»
Allora il buon Ripari, anima grande senza ch'egli se ne sia accorto
mai, trasse davanti al giovanetto capitano dicendo: «vuoi tu ch'io
vada per le munizioni?» E quegli: «magari!» Il buon Ripari
andava non pigliandosi cura delle palle, che lo precedevano, e lo
seguivano in cerca di munizioni fino al luogo dove la strada che sale
a Palestrina s'inselva; dopo cinquanta circa passi s'imbatteva in
soldati conduttori dei multi con le munizioni, i quali sbigottiti dal
rumore della battaglia si peritavano a sbucare fuori del bosco;
adoperandoci acerbe parole, ed atti violenti li costrinse a correre,
poi compreso del pericolo in cui si versavano i nostri, scorse oltre
verso la città per affrettare lo aiuto: «poco lungi dalle mura,
egli racconta, mi occorse il Manara a cavallo sotto l'arco della
Porta; le late membra e pure leggiadre, la guerresca sembianza e
l'atto fiero mi empirono di maraviglia, sicchè il pensiero mi
trasportò ad Ettore su la soglia della porta Scea in procinto di
combattere per la Patria.» Rinforzando i passi con lena affannata
in parlare succinto lo avverte: «i nostri perigliano.» Ed egli:
«qui corsi per sovvenirli.» «Ma tu sei solo, ripiglia il
Ripari.» L'altro «odili, corrono.» Di fatti in quel punto
sboccano i compagni fuori della Porta, e poichè la città posta
in alto avvalla alla pianura a modo di anfiteatro di cui i gradini
sono piantati di viti, e seminati di biade, pigliano a saltare giù
alla dirotta di scaglione in iscaglione sospinti dal furioso squillare
della tromba del Manara, che gl'incalza come pungolo nei fianchi: a
questo spettacolo non potè tenersi ferma la compagnia Bonvicini di
presidio alla Rocca, ond'ella pure precipitava di rincorsa a basso. I
Napoletani spaventati da cotesta cascata di prodi anelanti alla
battaglia non istettero ad aspettarli, e fuggendo disperatamente
lasciarono in abbandono i due cannoni.--Però a quanto sembra e' fu
in cotesta occasione, che cadde spento Pio Rosa di Vicenza, il quale
quasi sdegnoso di non incontrare più virile resistenza nel nemico
mentre lo inseguiva con la spada nei reni, un paltoniere volta faccia
improvviso e a bruciapelo gli scarica l'archibugio nel cuore;
anch'egli giovane, e cultore dei buoni studi massime legali; nel 30
aprile colpito parimente di palla nel petto cadde, e fu reputato
morto; poteva rimanersi a Roma a curarsi, e non volle, sacro alla
Patria egli reputò conchiusa bene la vita esalando l'anima al
grido: «Viva la Repubblica!»

  [1]  Per somma ventura in certe note del generale Sacchi parmi averne
    rinvenuto il nome: «il Cucelli, scrive l'egregio uomo, giovane
    ventenne cresciuto nella legione italiana di Montevideo splendido
    per forme e per valore si distinse nel combattimento di Palestrina
    fra tutti ed a lui si deve la presa dei cannoni, dacchè per
    ispirazione propria dopo lungo giro con la centuria che comandava
    uscito alle spalle del nemico lo scompigliò. Questo giovane
    sonava divinamente la tromba a chiavette, e in mezzo alle
    battaglie soleva sonarla per modo da eletrizzare i morti.»

    Memorie ms. del. Gen. Sacchi.

Così a manca: più duro certame a destra, e al centro dove
irruppe il nemico grosso di novemila uomini; e munito di artiglierie:
qui dunque convertono i nostri le forze, la più parte comandate: il
Bixio poi spontaneo però che spedito a circuire i fuggenti a
sinistra udendo a destra strepito di battaglia colà si volge,
conforme lo porta la bollente natura: allora non costumava annoverare
i nemici. I Napoletani si erano impadroniti del caseggiato opposto sul
margine del campo, e dell'altro, che sorge la dove si tagliano le
strade per Roma, quinci sfolgoravano i nostri accalcati dolorose. Il
Bixio molestamente sopportando il fatto muove con audace ma non
avvisato consiglio di contro alle case funeste, e perde parecchi prodi
invano: già i superstiti balenavano quando l'Hoffstetter potè
ripararli dietro certo avvallamento di terreno aspettando l'esito
della mossa ordinata al capitano Ferrari, la quale consisteva nel
circondare le case poste su l'argine riuscendo alle spalle del nemico
per tragetti e per coperte vie, come accadde, di che pigliando
spavento ei le vuotò in un attimo.

Ora sì, che il Bixio non si poteva reggere instando di avventarsi
in massa co' nostri contro l'altro caseggiato del crocicchio; lo
tennero, ponendo ordine allo assalto il quale fu ammannito così:
dinanzi i legionari e gli emigrati traevano palle a grandine mentre
due squadre di bersaglieri stretti correvano di contro alle case, dove
giunti un cinquanta di passi forse lontani sbandaronsi; precipitano i
nostri nello spazio, che passa tra l'una casa e l'altra, il quale
così era breve, che la fiamma dei fucili nemici bruciò i capelli
a parecchi dei nostri. Avanti a tutti il Bixio; così penetrarono
dentro le case per le porte atterrate, e per le finestre scalate;
molti ammazzarono, molti presero, troppi più fuggirono.

Quale lo esito dello assalto sul centro, non importa dire; colà
erano pochi, ma con essi il Garibaldi, e basta.

Il nemico a rendere più infame la infamissima fuga si volta ad un
tratto su la via di Roma e scarica i suoi moschetti addosso ai nostri;
la mano dello schiavo tremante non aggiusta i colpi, nessuno rimase
ferito: e' fu il saluto della viltà!

Questo insomma il combattimento di Palestrina, il quale partorì
vantaggi, che in parte andarono perduti a cagione del sollecito
richiamo del Garibaldi a Roma, durarono però la baldanza nei nostri
di vincere quante volte fossero stati messi di fronte ai Napoletani, e
la facilità di cavare fodero dalle provincie meridionali.
Deplorammo diece morti, tra i quali anco il tenente Mengarelli, feriti
venti e più; dei nemici rimasero spenti cinquanta, altrettanti e
più feriti; fra i morti parecchi ufficiali stranieri, e tra i
feriti altresì; ferite, e morti ignobili però che coloro i quali
vendono l'anima e il sangue a prezzo altro meritino che precipitare
per via di sangue nel sepolcro illacrimato: molti i prigionieri
coperti di amuleti, abitini ed altre siffatte idolatrie abolite da
Cristo e ritornate in fiore dai preti come merce fruttuosa su tutte
per la religione bottegaia; nondimanco costoro maledicevano Dio, i
Santi e il Papa.

Non si narrano le esultanze, ed i falò dei Romani per la vittoria
di Palestrina; questo solo si nota, che i feriti udendo eccheggiare
l'aria del grido: _Viva la Repubblica_, sporgevano il capo e le mani
fuori delle carrette sclamando anch'essi «oh! viva, viva.»

Incerto il numero della gente che mosse da Roma alla impresa di
Velletri, chi dice 8,000, e chi 10,600, certi corpi, e li comandava il
colonnello Morrocchetti, ed Haug erano preposti all'avanguardia, il
Garibaldi alla battaglia, alle dietro guardie ed alla riserva il
Galletti. Altri notò e bene quanto malvagio partito fosse quello di
mettere a capo di una divisione due Generali pari in grado permanente,
all'uno dei quali si conferiva il supremo comando; di fatti indi a
poco il Garibaldi si faceva cedere dal Morrocchetti anco il comando
della vanguardia, dissidente o non consapevole il Rosselli, e certo
questo fu grave fallo del Garibaldi: non importa ricordare qui gli
esempi rigidissimi co' quali i Romani mantennero la disciplina,
imperciocchè ogni uomo comecchè imperito di milizia vada
persuaso come senza disciplina si abbiano torme di predoni non già
soldati; ed io per quanta reverenza porti al Garibaldi non posso
difenderlo dalla colpa commessa; lui scusano l'amore immenso per la
Patria, l'anima ardente di sacro entusiasmo, ed il sentimento del
sapere e del potere, e tuttavolta la colpa rimane.

Chiunque vuol conoscere come fossero disposti i Napoletani può
cavarsene la voglia leggendolo nell'Hoffstetter, e nel Torre, ma in
questo meglio che nel primo, il quale assai mi ha l'aria di arruffone
e di millantatore; al mio bisogno basta esporre, che i nostri instando
sul centro del nemico avrebbero fatta mala prova sempre, perchè
difficile vincerlo in questo lato difeso stupendamente dalla natura e
dall'arte, e quando vinto egli poteva ritirarsi senza una molestia al
mondo; nè compariva più savio partito assalirlo al fianco
sinistro, dacchè il nemico poteva ripiegare l'ala sul centro, e noi
inoltrati circuire col centro stesso disteso dietro le nostre spalle,
costringendoci a deporre le armi, ovvero a morire senza pro; ottimo
avviso battagliare dal lato destro, dacchè qui il terreno montuoso
si adattasse meglio al modo di combattere scompigliato dei nostri, i
quali arieno potuto esercitare la prestanza individua, mentre per
converso il nemico poco vantaggio o punto avrebbe cavato dalla sua
disciplina; oltre questa occorrevano altre ragioni e del pari
gagliarde, che per istudio di brevità si tacciono. I nostri delle
due vie che conducono al nemico stanziato presso Valmontone, Frascati,
Albano, Genzano. Velletri, e per le terre, che si avvicinano al mare
presero quelle che da Zagarolo mena a Valmontone ed a Montefortino
più lunga, ma meno esposta alle molestie nemiche. Le spie messe
dietro allo esercito napoletano riportavano come egli con celeri moti
si raccogliesse intorno a Velletri non lasciando indovinare se per
allestirsi alla battaglia, ovvero per evitarla con la ritirata; per
noi qualunque fosse il concetto di lui urgeva assalirlo, chè
riusciva impossible ad uomo frenare lo impeto dei soldati; ma dove non
valeva l'uomo, valse la fame: mancarono i viveri; di quì le
querimonie scapigliate contro l'amministrazione ed a torto,
imperciocchè non a lei, bensì allo stato maggiore corresse
l'obbligo di vigilare che gli ordini del supremo Comandante sortissero
adempimento, i quali furono che ogni soldato si portasse le cibarie
per due giorni. Questo negozio delle munizioni in ogni tempo
sperimentammo arduo. I Romani recavano seco armi di ferro atte così
alla offesa come alla difesa, scudo, lorica, elmo, e per di più il
palo onde ad ogni fermata costruivano il vallo, e per giunta il
nudrimento di quindici dì: oggi le razze non so se nascono più
affrante, ma certo per manco di esercizio, o per uso intempestivo, e
troppo delle forze vitali le proviamo di nerbo sotto alle antiche e di
molto. Al pane si potrebbe surrogare biscotto, il quale se fatto nelle
regole, e di roba buona risparmia macinatura, cottura ed altre
faccende di simile sorte nè facili nè brevi per le milizie in
campagna, dacchè lo vediamo quotidianamente sopperire ai
lunghissimi viaggi di mare.

Perderono dunque per via tempo maggiore, che non avessero voluto; pure
il Garibaldi trascorrendo oltre arriva co' suoi la mattina sotto
Velletri avendo però mandato avviso al Generale Rosselli perchè
si affrettasse a rinforzarlo, e questi gli rispose: andasse cauto, si
astenesse da ingaggiare battaglia, solo attendesse a spiare ogni mossa
del nemico, ricordasse essergli giunte testè le vettovaglie in
campo, ed esperienza, e insegnamenti dissuadere la zuffa con milizie
sconfortate di cibo e di bevanda. Ora gli emuli del Garibaldi lo
appuntano della seconda colpa, la quale fu, postergato ogni consiglio
o piuttosto ordine, avere continuato la marcia, anzi pure attaccato la
mischia, e non è vero.

Velletri è città di 12,000 anime, situata in cima ad un colle; la via
che mena a lei per circa tre miglia prima di arrivarci è tagliata ad
angolo retto, a destra ed a sinistra, da talune eminenze fra mezzo alle
quali essa procede; il Garibaldi con disegno accorto dietro queste eminenze
dispose grosse squadre di soldati regolari mentre egli coi legionari, e
volontari suoi prosegue per la via: passate coteste alture la campagna si
stende con piano inclinato, e la via continua traverso a quelle, quasi
chiusa, fra due argini che la sovrastano una trentina di braccia e più;
tutta questa stesa appellano i _colli latini_; e qui pure il Garibaldi
ordinava i suoi dal manco lato e dal destro in modo che tagliassero la
strada con linee parallele e diritte. Il Garibaldi disposte le sue genti a
quel mo', dopo avere spediti qua e là stracorridori a speculare si mise
a sedere sotto un pino che ombreggiava la via, ed essendo ormai le ore otto
voltosi ai compagni disse loro: «Orsù vediamo di rompere un po' il
digiuno.» Dentro un tovagliolo allora gli portarono tre panini, quattro
once di salsamento, e forse altrettante di cacio cavallo; non mancava il
vino, forse un bicchiere e nemmeno: i convitati otto, col Garibaldi nove.
Taluno disse al Generale: «mangi tutto lei, almanco uno di noi si
caverà la fame.» Egli al contrario: «no abbiamo a mangiare tutti,
capisco che non ci è pericolo di morire per ripienezza.» Mentre egli
recatosi in mano un panino faceva atto di spezzarlo ecco un lanciere
sopraggiungere da Velletri a briglia abbattuta, e domandare da lontano:
«dov'è il Generale?» Qui, fugli risposto, ed egli tostochè lo
vide: «Generale dalla città sboccano in massa cavalleria e
fanteria.» Il Garibaldi, che teneva fra le dita un pezzo di pane lo
depose per bene nel tovagliolo, si levò, e fregatasi due o tre volte col
palmo della destra la fronte si abbassava la falda del cappello su gli
occhi, poi con voce forte e pacata ordinò al lanciere: «Tornate
addietro, e date ordine che tutti i corpi avanzati si ripieghino in
ritirata.» Il lanciere volte le groppe del cavallo, tocca di sproni, e
via; dopo ciò il Garibaldi accenna della mano al dottore Ripari e gli
dice: «tu fa voltare le mule ed i cannoni, e torna indietro a piccolo
passo.» Il buon Ripari che di queste cose m'informa, ingenuamente
aggiunge: «voi capite, che anco al medico col Garibaldi tocca a fare un
po' di tutto.» Gli ufficiali di stato maggiore furono lanciati in questa
parte ed in quella a portare ordini, il dottore se ne torna bel bello in
giù a capo di quattro cannoni, e di quaranta mule cariche di munizioni
rasentando l'argine a manca per lasciare libera per quanto più poteva la
strada, il Generale anch'egli seguitava lento a cavallo dietro l'ultimo
cannone. Intanto giovanetti a corsa passano domandando l'uno all'altro:
«dove vai?» A chiamare il Rosselli, rispondevano. «Ed io pure.»
Già i traini erano giunti alle eminenze negli intervalli delle quali il
Garibaldi aveva disposto i soldati regolari, quando dalla parte di Velletri
fu udito strepito di moschetteria, e indi a breve arriva tempestando un
cavaliere che sussura nelle orecchie al Generale un motto, per cui questi
mutata fronte va via di corsa col cavaliere. Il Ripari piantato lì in
asso non sapeva, che farsi; statosi alquanto sopra di se ordina sostino le
mule, e i cavalli della batteria, ed egli pure dietro al Generale.

Adesso narro cosa che a parecchi saprà di agrume, ma io la vo' dire
perchè tante sono le prove del valore italiano, che davvero egli
non può patire manco di fama per qualche colpa commessa; e poi
tanto mi uggisce la jattanza francese di non averne tocche mai, che
quasi mi piace raccontare come gl'Italiani non repugnino dal
confessare per essi talvota non essersi compito il debito. Il Masina
capitanava novantasei lancieri, bolognesi la più parte; prodi
uomini tutti ma nuovi, egli poi comecchè giovane di anni, vecchio
di perigli e di prove; militò in Ispagna, e da pertutto dove si
combatteva per la libertà; per lui niente impossibile, il numero
non contava come pel Garibaldi, usi a mutare in vere realtà le
fantasie dello Ariosto: costui vedendo ruinargli addosso due squadroni
di cavalleria napoletana si volse ai suoi, e parendogli che
nicchiassero, con parole di obbrobrio li vituperava aggiungendo poi:
«e che vi ha da importarre che i nemici sieno mille? O che me ne
importa? O che fa averne di fronte quattro od otto? Su giovanotti alla
carriera.» Ed egli via a precipizio; comecchè fosse cavaliere se
non unico raro, pure montando certa cavalla inglese ardentissima
storna di pelame, appena gli riusciva tenerla agguantando con le due
mani la briglia; a quella guisa correndo primo e solo andò a dare
di fronte nella cavalleria napoletana. Il Colonnello di quella vecchio
di anni e di mestiere facendosi cuore gli si avventò contro
menandogli un gran fendente sul petto il quale per ventura non lo
arrivò; Masina allora abbandona le briglie, e trae in un attimo la
sciabola tenendola voltata e ferma al collo nemico; la cavalla libera
scorre via come saetta, il colpo coglie fulminando il Colonnello, che
rovesciato a terra perde la vita. Il Sacchi nelle sue memorie afferma
che il Masina trapassasse il Colonnello napoletano con un colpo di
lancia, ma non è vero, chè egli non andava armato di lancia in
cotesta congiuntura. Ora mentre il Masina tutto bollente si volge per
incorare i suoi ecco si trova solo, imperciocchè i suoi lancieri,
essendosi appressati ai nemici, e scorto com'essi di cinque volte e
sei li superassero, e subito dopo venissero le fanterie a battaglioni,
invilirono; presi da paura voltate le groppe fuggono. Il Generale
Sacchi ne incolpa i cavalli sbrigliati, non assueti alla vampa ed allo
strepito delle armi, ed è menzogna pietosa: i lancieri del Masina
sotto Velletri scapparono abbandonando il Capitano a morte quasi
sicura; ed anco peggio essi fecero se pure peggio si poteva,
imperciocchè il Garibaldi pensando che il suo aspetto bastasse ad
arrestarne la fuga, si pose col cavallo di fianco traverso la strada,
e seco lui il moro Aguiar; ma lo aspetto non valse, nè il grido,
nè il cenno, chè via trascorrendo lui, e il moro mandano
sossopra, alcuni in essi inciampando rotolano per terra, onde in breve
cotesto luogo fu ingombro da un mucchio di cavalieri caduti, e di
cavalli. Afferma il Torre, che Garibaldi caduto stesse sul punto di
restare trafitto dal Colonna maggiore napoletano se prevenendolo un
lanciero non lo avesse morto prima di vibrare il colpo, e confonde
forse col fato del Masina; altri, l'Hoffestetter, racconta come il
Garibaldi avesse feriti la mano e il piede di palla, e nè manco
questo è vero. Crediamo il Garibaldi che così mi narra il fatto,
ed io tal quale lo trovo scritto nei suoi ricordi lo riferisco altrui.
«Una compagnia di ragazzi che si trovava alla mia destra vista la
mia caduta si scagliò su i napoletani con tal furore da fare
stupire: io credo dovessi la mia salvezza a cotesti prodi giovanetti
poichè essendomi passati parecchi cavalli sul corpo ne rimasi
contuso per modo, che a fatica poteva rialzarmi, e rialzato mi toccava
le membra per vedere se vi era nulla di rotto.»

Il Ripari visitandolo dopo la vittoria trovò il Generale ammaccato
in tutta la parte destra del corpo, al malleolo esterno, al ginocchio,
all'avambraccio, al cubito, ed alla spalla; la mano destra sul dorso
riteneva la impronta di un ferro da cavallo; però finchè durò
la battaglia il Garibaldi pareva non sentisse dolore, e forse l'anima
sua tutta versata altrove non lo sentiva.

Dei ragazzi di cui parla il Garibaldi così mi occorre scritto nelle note
fornitemi dal Generale Sacchi: «erano giovanetti di 16 anni o meno, che
componevano insieme una compagnia comandata dal Capitano Airoldi
bergamasco, e formavano parte del mio corpo: qui a Velletri si distinse per
prova di stupendo coraggio assaltando i nemici alla baionetta, e molti di
essi facendo prigionieri, i quali poi strana figura facevano di sè,
tratti in mezzo a cotesti fanciulli; nè a Velletri solo ma nello assedio
di Roma, e nella ritirata a San Marino sempre comparve indomita di
coraggio, e pagò largo, ahimè! troppo largo tributo di sangue alla
Patria.»

Il Garibaldi rimontato a cavallo ordina a talune milizie disposte per
le frastagliature dei colli latini avanzino celeri e chiudano la
strada, alle altre poi comanda non si movano, rimangano ai lati del
nemico, il quale improvvido delle insidie era trascorso oltre, lo
fulminino nei fianchi, e così fecero, sicchè le palle percotevano
sopra masse dense e compatte, però quanti colpi tante morti e forse
più morti, che colpi; cascavano giù come frutti colti dalla
grandine; miserabile il luogo, impossibile vincere; da prima venne meno
la baldanza, poi subentrò la voglia di ritirarsi, all'ultimo cadde su
l'anima di costoro la paura, e a rifascio per cotesta via incassata i
cavalli tempestando stornarono, le colonne della fanterie susseguenti
rovesciano, pestano, e passano; anco i non percossi disposti sopra i
rialzi laterali della via sono travolti nella fuga.

Il re Ferdinando era presente alla battaglia, e la stava mirando, col
cannocchiale da una finestra del palazzo Angelotti; visto il caso non
volle saperne altro; ordinato pertanto ai suoi soldati il celere
ritirarsi, nei passi retrogradi, li precedeva: il suo posto era dietro
quando essi camminavano avanti; avanti quando camminavano indietro.

Nella fuga ruinosa lasciarono cavalli, ed uomini feriti, armi sparse,
zaini, e vesti; tanta carta avevano addosso costoro, che sparsa a
terra parve ci fosse nevicato. Al Masina, cercando, venne fatto
rinvenire il Colonnello napoletano morto da lui, scese da cavallo, e
gli tolse la tracolla orrevole di dorature, della quale come di
spoglia opima meritamente si decorò.

E nè anco voglio omettere un fatto strano, perchè anch'egli
dimostra a qual misero stato di errore conduca la falsa religione il
volgo di Napoli, e forse il volgo tutto dei cattolici; i soldati
napoletani ripresi agramente della poca resistenza opposta
rispondevano a scusa, che tanto avevano visto il combattere inutile,
dacchè la gente del Garibaldi uccisa, appena tocca terra
resuscitava; errore, che ebbe origine da questo: i giovanetti di
membra agilissime e spigliati appena esploso il moschetto si
lasciavano ire a terra dove giacenti lo ricaricavano, e poi di un
tratto sorgevano a replicare i colpi.

I soldati di Garibaldi non paiono contenti di ricacciare il nemico; lo
vonno spento; e' fu lo inseguimento feroce: dove i napoletani levano
il piè, lo pongono i Garibaldini; il Daverio, il Masina con altri
animosi cacciaronsi in mezzo a loro lupi fra pecore, e stette a un
pelo, che menati via dalla corrente non entrassero alla rinfusa con
essi nella terra, e vi cadessero prigioni; altri si spinsero fin sotto
l'altura dei Cappuccini ira di cannoni, e senza curarsi della
mitraglia, che schizzava a diluvio, dissero: «qui siamo venuti per
combattere, e combattere vogliamo,» pregaronli a ritirarsi, e non
approdavano; non l'Hoffstetter vi riusciva, non il Manara; intanto la
mitraglia semina la morte, e non per questo rimovonsi dal disperato
proposito; allora i due ricordati si consigliano andarsene ad avvisare
il Generale e così facendo poco oltre incontrano una mano di
soldati, i quali ebbri dallo strepito dei cannoni, e dall'incessante
clangore delle trombe incuranti delle granate, che ruinavano giù in
mezzo a loro ballavano; appena essi giunsero ecco un colpo di
mitraglia ferisce due danzatori; sostano tutti, ed esitano un momento,
ma il Manara subito grida alle trombe: «musica!» e gli altri
più frenetici che mai ripigliano i salti. Anco il principe di
Condè si legge, che in Ispagna quando i suoi si accinsero a salire
su la breccia di Leira fece sonare i violini: queste jattanze non
invidinsi ai Galli; devono gl'Italiani affrontare la morte da eroi,
non irriderla come giullari.

Ma che tarda il Rosselli? Se arriva in tempo questo combattimento non
si risolverà solo in onoranza delle armi italiane, ma forse avrà
virtù di mutare le condizioni della guerra: disperso l'esercito
regio, in potestà nostra le armi, e gli arnesi guerreschi di
quello, sbigottiti i nemici già ciondolanti, i popoli levati a
novità, aperte le porte dello stato, il re vinto dalla paura più
che dalle armi; a Napoli tutto procede a mo' di lava, tanto il fuoco
che irrompe dal Vesuvio, quanto la passione, che trabocca dall'anima
degli uomini. Ecco arriva finalmente il Rosselli non con la foga di
cui voglia avventarsi allo sbaraglio, bensì con la circospezione di
quale teme venire sorpreso; il Garibaldi lo attende dentro una
casupola a destra, dove ei si sta speculando lo irrequieto
affaccendarsi del nemico; appena lo vide in questi _precisi_ accenti
li favellò: «Generale, mirate; se vi regge la vista vedrete ad
occhio nudo, se no pigliate il mio cannocchiale; ponete mente a
cotesta linea nera sopra la strada, quegli è il nemico, il quale
non si ritira, ma fugge.»--«È vero! È vero! Risponde il
Rosselli.» Orsù via, soggiunse il Garibaldi, «addosso alla
coda del nemico, e pigliamogli più roba che possiamo: due strade ci
si parano davanti per agguantarli; la prima è quella, che gira
sotto le mura, e a questa non ci si ha da pensare, perchè esposta
troppo ai cannoni, ed ai moschetti nemici; l'altra più lunga, ma
più sicura ci corre qui a sinistra in mezzo ai campi, che potendosi
tagliare a diagonale ci lascia agio di giungere a tempo: è l'ora di
Marengo, le 4 e mezzo pomeridiane.--Sì, sì, replica il Rosselli,
bisogna fare a quel mo' e lo faremo.»--«E sia Generale, replica
il Garibaldi, «ma avvertite, che i miei uomini stanno al fuoco
dalle 8 di stamattina fino ad ora, bisogna rilevarli.»--«Avete
ragione, così faremo;» conchiuse il Rosselli.

Presenti fra gli altri a cotesto colloquio il colonnello dei Dragoni
Marchetti, e il colonnello di stato maggiore Daverio, il quale disse
al primo: «Marchetti, quanti cavalli hai teco?»--«Adesso
quaranta o cinquanta, l'altro rispose.»--«Ebbene soggiunse il
Daverio, va tu innanzi per campi di traverso con quanta gente più
puoi, e acquattata dove ti paia più destro: io mi ti lego per fede
di sovvenirti fra breve.» Il Marchetti andava, il Torre dice con
120 uomini (forse questi più gli si saranno aggiuti per via) e si
pose in agguato nella selva che spessissima fiancheggia la via
consolare fra Velletri e Cisterna.

Però nonstante la buona volontà dimostrata dal generale Rosselli
tanto egli che il suo colonnello di stato maggiore Pisacane non
procedevano di buone gambe in cotesta impresa però che eglino le
mosse del nemico non giudicassero fuga, all'opposto maneggi per
circuirli, e mettersi in parte da presentare battaglia con profitto il
prossimo giorno. Mirabile il giudizio subitaneo del Garibaldi quanto
il concitato comando: entrambi quasi sempre infallibili: le prove di
ciò replicate e continue: onde quanti con esso lui militarono in
America gli avevano cieca fede; non così gli altri un po' perchè
lo conoscevano meno, un po' per saccenteria di regole e un po' per
astio, le quali cose tutte, comecchè in particole pure si
appigliano anco allo spirito dei migliori. Da siffatto screzio nacque,
che invece di spingersi gagliardi contro Velletri si gingillarono in
avvisaglie alla spicciolata fino a notte; fu spedita sopra la strada
di Terracina una scarsa banda di gente buona a raccattare prigioni,
non atta a combattere nemici: le tenebre posero termine al
combattimento, e diedero principio al votare della città: bene si
accorse della ragia il Marchetti, che non essendo rinforzato mandò
messi su messi affinchè lo ingrossassero; aspettato lunga pezza
invano, da una parte egli si vedeva tolto fare cosa che approfittasse,
e dall'altra non gli pativa l'animo di tornarsene senza costrutto:
tenendosi sempre prossimo alla selva per rintanarsi al bisogno si
gittò su la strada dove mise le mani addosso sopra nove mule
cariche di gallette, e per poco non fece preda troppo più
importante, il fratello del re che in quel punto giungeva: fu salvo in
grazia della stupenda velocità dei suoi cavalli.

Verso le due ore del mattino il tenente colonnello Leali ebbe ordine
di occupare col battaglione del 5.º reggimento l'altura dei
Cappuccini, che trovò deserta. Emilio Dandolo con soli 40 uomini
stracorso ad esplorare la città s'imbatte in due contadini, i quali
lo accertano della partenza dei Napoletani; fattosi oltre scavalca le
barricate, ed entra nella città abbandonata del pari; solo il
nemico ci aveva lasciato i feriti e i prigionieri.

Con questi esempi lo esercito napoletano non si educava a gesti
eroici; e più tardi a piccolo urto noi lo vedemmo cedere; però
prima di cotesta infamia fu chiaro in armi, e lo ridiverrà in
breve, chè la colpa non ispetta a lui, bensì al codardo
guidatore ed educatore. Di rado i Borboni di Napoli mostraronsi prodi
come sovente feroci, chè ferocia e viltà paiono più presto
sorelle che cugine, e Velletri se con Ferdinando vide una fuga
vergognosa, lei fecero illustre i medesimi napoletani condotti da
Carlo III quando colà percotendo gli austriaci salvarono le terre
del regno dalle offese di cotesti barbari. Ferdinando fino al Dumo di
Gaeta sostenne la parte di cui turpemente fugge; nel Duomo assunse
quella di vincitore, e in rendimento di grazia per la ottenuta
vittoria cantava il _Tedeum_; cosa da fare ridere i celicoli, se
lassù in cielo queste nostre miserie toccassero; intanto i diari
del governo annunziavano le milizie regie congiunte alle francesi
combattere aspre battaglie; vinta Roma; _con maschio valore_ averne i
Napoletani espugnato due porte; nè diversamente era da aspettarsi
da uomini, quali avevano promosso santo Ignazio da Loiola, stipite dei
Gesuiti, al grado di perpetuo maresciallo di campo del re di Napoli!

Chi poi non si sapeva consolare di cotesta vittoria era il Masina;
sbuffava, e tempestava urlando, che a quel modo non si espugnano
terre; se gli fosse riuscito avrebbe preso pel collo il re di Napoli e
costrettolo a rientrare in Velletri, perchè se da re non aveva
saputo difenderlo lo difendesse da uomo; ma intanto che col re non si
poteva sfogare non dava pace ai compagni, e gli destava a calci, pur
sempre sclamando: «e ora bella forza prendere Velletri! Sono stato
in città e non vi è più nè manco l'odore di Napoletanni.»

Adesso nelle mie note trovo scritto un caso che parmi ottimo a riferire;
forse taluno osserverà, com'ei non si addica al sussiego della storia e
di ciò non curo, però che io reputi degno della storia tutto quanto
ammaestra la vita: Garibaldi a Velletri pose stanza nel medesimo palazzo
dove albergò il re Ferdinando; colà adagiato sul letto mandò pel
medico perchè gli visitasse l'affranta persona, e vedesse un po' se vi
era verso di farlo soffrire meno: il medico venne, e gli ordinò il
salasso, ma ei non ne volle sapere; allora un bagno, e a questo aderì:
mentre per tanto ei se ne stava immerso nell'acqua fu udito dalla contigua
stanza dare in iscoppio di riso, onde il trombetta Colonna che lo serviva
da cameriere entrato nella stanza gli domandò: «che ci è da ridere
Generale?» Ed egli: «rido perchè mi è caduta la camicia nel
l'acqua, ed io l'ho figlia unica di madre vedova.»--«Aspetti un
minuto, replicava il trombetta, vedremo di rimediarci.» Ed uscì fuori
interrogando i presenti se potessero prestargli una camicia, ma quanti udi
si trovavano nei medesimi piedi del Generale, eccettochè a loro la
camicia non era cascata nell'acqua. Messo alle strette il giovane Colonna
si accosta al dottore Ripari e si gli dice: «io ce lo avrei il ripiego,
ma non mi attento.» Il dottore di rimando: «parla franco.» Allora
il trombetta: «oh! la senta, nel convento degli Agostiniani a Palestrina
nella camera di un frate, mi saltarono, sto per dire, da se nelle mani
parecchie camicie, ed io per non fare il superbo con la Provvidenza me le
riposi nello zaino, dove a tutt'oggi si trovano; però se le paresse cosa
io ne darei una al Generale...--Certo, che la mi pare cosa da farsi,
rispose il dottore.»--A quel modo Garibaldi potè adagiarsi nel letto
di un re con la camicia di un frate! Vicende del mondo, bizzarrie di
cervello secondo la indole italiana. Nella sala del palazzo Angelotti o
Ancillotti a Velletri ci era un trono, tutto damasco ed oro, dove si
assideva nella sua maestà il Cardinale legato: al dottore Ripari prese
il capriccio di mettercisi a sedere fumando la pipa: il dottore notò che
ci si stava come in qualunque altra seggiola ordinaria; forse peggio; ed io
poi aggiungo, che l'azione che ci fece egli, certo fu la migliore di quante
il Cardinale ce ne avesse mai fatte. E un'altra ventura non meno piacevole
è questa: i ragazzi del Sacchi, co' feriti meno gravi stanziarono dentro
un convento, distribuendoli soldatescamente, con le sentinelle, le veglie,
e con gli altri tutti ordini, per bene: non andò oltra un'ora, che da
quella parte fu udito uno schiamazzo da assordare la gente a un miglio di
distanza: accorsero per vedere che disgrazia fosse accaduta; non trovarono
sentinelle, le porte sprangate, più e più volte chiamarono, e in
mezzo a quel diavolìo non fu possibile farsi sentire; atterrarono le
porte, e rinvennero i ragazzi, non esclusi i feriti, a corrersi dietro
urlando freneticamente inebriati di chiasso; li ripresero, e si misero a
ridere, li minacciarono e risero più che mai: che pesci pigliare?
Soldati erano di undici a sedici anni.

Il Garibaldi inseguiva i Napoletani, ma per quanto affrettasse il
cammino non li potè raggiungere; lo abbandonava il Rosselli
richiamato a Roma, ed egli aggiuntasi la brigata Masi si gittò su
la provincia di Frosinone a purgarla dalle bande dello Zucchi, uomo
nel trentuno tenuto in pregio e più tardi comparso a prova cattivo
soldato, e pessimo cittadino; il peggio è vivere troppo. Allo
accostarsi dei nostri le bande dello Zucchi spulezzavano; i nostri
dovunque mostravansi come liberatori venivano acclamati; forse erano
coteste accoglienze sincere, ma siccome i popoli le profferiscono a
tutti, così riportando l'effetto non giudichiamo lo affetto. Questo
poi è sicuro, che i Napoletani non opposero resistenza nè ad
Arce nè a Rocca di Arce: stavano in procinto di avviarsi a San
Germano quando richiamati a Roma rifecero i passi per Frosinone,
Anagni, e Valmontone.

Anco questa questa impresa andò fallita perchè al Rosselli
pareva zarosa troppo, dovendo assalire un nemico potente di
artiglieria, e di cavalleria, e due cotanti più forte appoggiato
alle fortezze di Capua, e di Gaeta; le sono saccenterie di uomini
mediocri, che a sè, e ad altri danno ad intendere per sapienza; con
cento volte meno di forze il Garibaldi più tardi mandava in fasci
cotesto reame; e il Rosselli avrebbe dovuto dirmi se reputava più
agevole tornarsi addietro per combattere con le forze della repubblica
romana la repubblica francese. Il Triumvirato poi fra i due partiti o
di richiamare tutte le milizie a Roma, o di spingerle tutte contro
Napoli e' si apprese ad un terzo e fu il peggiore, le scisse in due
senza saperne il perchè.

Adesso prima di accostarci a Roma per non dipartircene più fino al
fato supremo ci occorrerebbe per via di episodio favellare dei casi di
Bologna e d Ancona; altri gli ha descritti, e non potendo io agiungere
nulla di nuovo me ne passo; solo rilevo, ma importa poco (non già
perchè non lo meriti, che anzi lo meriterebe moltissimo, ma sì
perchè la gente non ci bada, e non ci ha badato mai) che ci furono
minacce terribili del soldato Wimpfen, ed anco terribili fatti, ma
questi meno acerbi di quelli, e furonci eziandio minacce del prete
Bedini, ma blande così che parevano carezze; i fatti poi
atrocissimi, pari in tutto alla mente di quel piissimo Pio IX, il
quale come notai sul principio di questo libro, fuggendo a Gaeta
pregava Dio pei suoi traviati figliuoli, chetornato poi faceva
paternamente decapitare.

Questo altro importa di più. Bologna con le armi alla gola intimata
a sottoporsi al Papa risponde: no; messa la proposta a partito avanti
al Municipio sopra quaranta, trentasette rispondono per la repubblica,
tre pel papa; allora gli Austriaci adoperarono le armi, e il popolo le
respinse con valore piuttosto stupendo, che raro: sopra gli altri si
mostrarono feroci i volontari viennesi, e non fu male, chè su
l'odio di razza versarono olio a renderlo più duraturo, e più
intenso. Col giorno declinava il cuore al Municipio, chè la notte
porta consiglio, ed egli pensava ai casi suoi; all'opposto cresceva
nel popolo a cui i danni patiti erano argomento di vendicarli, non
già d'invilirsi: mentre pertanto questo apparecchia le armi, quello
manda deputati al campo per implorare armistizio, e l'ottiene per
dodici ore. Nelle dodici ore furono per la parte dei patrizi e dei
borghesi adoperate viltà, che nè manco dodici secoli basteranno
a cancellare perocchè mirassero tutte ad abiettare l'animo del
popolo; decorso il tempo dello armistizio invano, si riprese da una
parte, e dall'altra il combattimento, poi lo cessarono fino al giorno
undici maggio: nè ciò si attribuisca a cortesia, ma sì a
voglia di accertare la vittoria, aspettando rinforzi, che di ora in
ora accorrevano: per cui è uso a toccarne, nè manco in venti
contro uno pargli stare sicuro.--Le arti della persuasione andate a
vuoto si tenta altra via per tagliare i nervi al popolo: il Preside,
ceduta ogni sua autorità al Municipio, fugge; il Municipio si
dichiara incapace a sostenere la guerra, e nomina una commissione; non
per questo il popolo ciondola; combatte più furibondo che mai, anzi
per troppo ardore peggiora le cose sue; ostinazione pari non fu mai
vista, chè l'Austriaco si ostina a vincere a suono di cannonate;
così tra morti, ruine, ed incendi si dura a tutto il quindici; la
mattina del 16 verso le sette il Municipio bandisce chiusa allo scampo
ogni via, necessaria la capitolazione; per ira il popolo si strappa i
capelli, ed urla vada piuttosto sossopra la terra; il nemico avvisato
torna sul bombardare senza misericordia fino alle due: allora ci si
mette di mezzo l'Opizzoni arcivescovo reverito meritamente, ed amato:
il popolo da tanti lati conquiso reluttante piegò I Patrizi e i
Borghesi dicevano altrui, e forse se ne persuasero anch'essi, almeno
qualcheduno, che provvedevano alla pubblica utilità, e non
pensavano che alla propria, operando a quel modo. Il popolo solo dura
fino agli estremi o perchè abbia più cuore o perchè abbia
meno quattrini; che se penuria di beni fa copia di anima maleaugurate
sieno dovizie, e civiltà. Lasciando gli antichi esempi di Sagunto,
e di Numanzia ai giorni nostri solo i Russi osarono ardere Mosca
vetustissima capitale, e per giunta città santa, i Francesi
all'opposto apersero le porte ai nemici collegati contro loro, e li
festeggiarono. O questa nostra non è civiltà, o vuolsi abominare
la civiltà, se inetta a partorire i gesti dei quali si palesa
feconda la barbarie.

Riportano gli storici un fatto, il quale io non ho potuto a posta mia
verificare: però sopra la fede loro lo ripeto, pure notando, che ci
si mostra in tutto conforme alla natura dei prelati romani: al
maresciallo Wimpfen repugnante ad ammettere il quinto articolo della
capitolazione, il quale portava non si molestassero gli abitanti di
Bologna pe le cose fino a quel punto commesse, il Bendini consigliava
accettasse tutto; entrato in città avrebbe fatto a modo suo; della
quale indegna proposta incollerito il soldato rispose al prete:
«questo sta bene a voi, non a me, uso ad osservare la fede
data!»

Ed Ancona eziandio oppose resistenza gagliarda, ma di Bologna minore
assai, e senza misura più debole di quella, onde essa va illustre,
opposta un dì alla gente tedesca condotta dallo Imperatore
Federigo. Il Viceammiraglio Belvese profferiva a Livio Zambeccari
comandante della piazza il sussidio delle armi francesi; accogliesse
in città soli trecento soldati, gli consentisse inalberare sul
forte la bandiera di Francia, e poi vedrebbe: forse sarebbe stato
sagace mettere male biette fra l'Austria e la Francia perchè
venissero a screzio tra loro, ma era ingeneroso, quindi a dritto il
colonnello Zambeccari con parole acerbe disse al Francese, si
vergognasse, stupida cosa nonmenochè iniqua parergli, che mentre i
suoi ruinavano col ferro e col fuoco le sacre mura di Roma egli si
profferisse a difendere quelle di Ancona: si allontanasse, Germani e
Galli a noi un dì tutti servi, tutti di noi al presente nemici.--Il
Francese scorbacchiato si partiva nè mai più si rivide. Gli
Austriaci rinvenuto maggiore intoppo che non credevano, trassero
milizie dalla Toscana come quelli a cui premono poco gli onori,
moltissimo gli utili della vittoria. Incendiarono la polveriera di
Santo Agostino con tale e tanto danno che dei prossimi fabbricati
alcuni tracollarono, gli altri ne rimasero intronati: nel medesimo
giorno ventotto case andarono in fiamme: tagliarono i condotti delle
acque; affinchè un'oncia di cibo non s'insinuasse in città
rigidamente vigilarono; l'ospedale dei feriti presero sopra tutti di
mira; il cardinale arcivescovo mandava al Wimpfen per l'amore di Dio
risparmiasse la città, fulminasse le fortezze; ma il soldato
rispondeva attendesse a pregare pure Dio, quanto a lui dovere
apportare al nemico il maggiore danno che potesse. Certo non erano gli
Anconitani ridotti a vedere i guerrieri attriti dalla inedia giacersi
per terra, e la razza delle donne che spartivano il latte fra il
proprio figlio, e il soldato perchè si rinfrancasse e tornasse a
pugnare non ci era più. Dopo ventisette giorni Ancona capitolava;
le sue chiavi ingrommate di sangue portò un tedesco a Pio IX a
Gaeta, e Pio IX ricevendo da mani tedesche coteste chiavi esclamava:
«dopo Dio avere posto ogni sua fidanza nell'Austria.» Di Dio non
so, nè credo, nell'Austria sì, annodati insieme da comuni
interessi i quali di presente essendo venuti meno il Papa all'Austria
sostituiva la Francia. A Roma diede Ancona il delitto, ne conservò
il dominio co' tradimenti e con le morti; ed ora che la giustizia di
Dio gliel'ha tolta di mano empie il mondo di guaiti: che il lupo urli
per fame s'intende, per naturale istinto ha bisogno di sangue, ma che
il prete smanii perchè gli manchino popoli a trucidare non
s'intende: le vittime di sangue abolì Gesù Cristo.

Anco la Spagna venne a dare del suo pugnale nel petto alla Libertà
pensando, che trafitta in Italia, non sanguinasse per lei: dicono, che
ciò si disponesse a fare per conseguire l'approvazione papale alla
vendita dei beni ecclesiastici, perocchè da prima la cupidità
persuase gli Spagnuoli a stenderci sopra le mani nulla curando se
putissero di zolfo, adesso poi la beghineria loro li voleva ripurgati
nell'acqua benedetta. Ottimo quanto essi operarono in Ispagna, ma
udendo che l'Assemblea romana aveva fatto lo stesso a Roma la
chiamarono ladra, e assassina. Se in queste dolenti pagine avesse
luogo il riso noi vorremmo raccontare la intimazione grandiosa mandata
alle _autorità_ di Fiumicino consistenti in un ufficiale di
sanità, ed in un piloto; quantunque nè anco questa valga a
giocondarci, allorchè ci feriscono gli occhi queste parole sinistre
d'iniqua verità, la repubblica romana «agonizzava sotto
l'assalto della forza armata di quattro nazioni unite insieme per
distruggerla.» La Spagna mandò novemila uomini, e quattrocento
cavalli: il danno a noi fu poco perchè non presero parte ai fatti
di armi, molto a loro se consideri la grave spesa, e l'erario
stremato; moltissimo poi se poni mente che manomettevano
insensatamente nelle nostre terre quei diritti, che con tanto
travaglio, e tanto martirio in casa loro appena possono difendere
dalla antica tirannide. Nella tragedia romana alla Spagna piacque la
parte di Tersite; quella di Calcante sostenne la Francia.

Il Garibaldi entra in Roma appena curato dai Triumviri; da memorie mie
particolari so, che egli non possedeva tanto da comperarsi un cappello
nuovo, e un paio di stivali: e' fu Daverio che lo notò al Ripari
intanto che questi gli medicava le contusioni e le ferite, onde senza
tenergliene motto sostituirono al cappello sfondato, ed agli stivali,
che seminavano le suola altri comperati dei loro denari, e il Generale
se ne valse non addandosene, ovvero fingendo non addarsene.--Lui
posero in misero albergo alle Carrozze, la legione alle Convertite;
nè parve di buon'occhio lo vedessero a Roma, conciossiachè gli
proponessero spedirlo subito ad Ancona, ed egli assentiva a patto
fornissero di scarpe i suoi soldati; ai suoi calzari pensavano gli
amici, a quelli dei soldati non poteva provvedere egli.

La speranza degli accordi cullava i Triumviri i quali durante la
tregua conobbero, ma non curarono, come contro le consuetudini
militari i Francesi occupassero i luoghi onde rendere vana qualunque
difesa; però essi presero la basilica di San Paolo, e Monte Mario;
anco provvidero a stabilire un ponte traverso il Tevere, e poichè i
nostri inviarono taluni ufficiali a speculare i Francesi dissero
essere cosa da nulla e provvisoria fatta allo scopo unico di andare a
raccogliere i disertori e gli ubriachi; e non era vero, però che
tentato il luogo di un tratto ci costruirono un ponte di barche, e per
arroto un fortino per difenderlo. Chiunque ha fiore di senno non
vorrà biasimare o biasimare troppo i Francesi per essersi
avvantaggiati della ignavia nostra, ma gli spregerà come meritano
quando sappia, che da questo spingersi innanzi senza contrasto
cavassero argomento per versarsi elogi a bocca di barile; molto
più, che il Lesseps mandato per abbindolare i Triumviri li
scongiurava a non inviare gente da coteste parti, o almanco a non
inviarcele armate per timore di risse le quali arieno mandato all'aria
lo accordo lì lì per conchiudersi. Ingannato il dabbene uomo
ingannava. Quando la brigata Sauvan conquistò il Monte Mario ci
ebbe a trovare pochi lavoratori inermi; a rimbeccare il malnato
orgoglio di questa gente _nemica del nome latino_ ci valgano le parole
stesse del Lesseps all'Oudinot: «se a Monte Mario non rinveniste
contrasto voi lo dovete al continuo assicurare che io faceva i
magistrati non s'inalberassero dei vostri moti, i quali miravano
all'unico intento di tutelare Roma dagli eserciti nemici accorrenti ai
danni di lei; se ciò non era le campane della città avrebbero
sonato a stormo e voi avreste veduto lo universo popolo, anzi perfino
le donne armate di coltello correre ad assalirvi a Monte Mario.»

Intanto che dal Lesseps si affermava una cosa e l'Oudinot la
disdiceva, il Generale domandava a costui che intendesse insomma di
fare, e l'altro gli rispondeva il primo luglio 1849 che avendo ordini
di assalire la piazza non poteva cansarsene nè voleva, solo avrebbe
differito a investirla fino a lunedì mattina _per lo meno_. I
Romani dopo questa dichiarazione se ne dormivano fra due guanciali:
forse si confidavano nella custodia delle oche tradizionali del
Campidoglio.

Adesso vuolsi toccare così di volo qual'era Roma quando fu
combattuta dai Francesi dalla parte in cui si ridussero le offese, e
le difese. Il Trastevere si congiunge col sinistro lato della città
con tre ponti di pietra, e lo difende giù a valle il castello Santo
Angiolo, che sporge in fuori quasi ferro di lancia; quinci un bastione
va su su a destra, e chiude il monte Vaticano con un'angolo risentito,
indi riavvalla fino alla porta Cavalleggieri, e di là da capo si
erpica sul Gianicolo fino a porta San Pancrazio; indi si distende
sopra parte del monte Verde, dove svoltolando a un tratto dechina
giù fino alla porta Portese. Il bastione poi non ha fosso davanti a
sè, non via coperta, non opere avanzate, per di dentro archi sopra
archi; dai colli circostanti possono batterlo a livello pari, dal
monte Mario a cavaliere.

Da porta San Pancrazio esce una via, che dopo breve tratto si
bipartisce, e un ramo piglia tra la villa chiamata Vascello di
Francia, e quella Valentini, mentre l'altro passa fra la Villa
Corsini, e il Parco Pamfili, ma poi entrambi mettono sopra la strada
maestra di Civitavecchia. Dista il Parco Pamfili un tiro di cannone
dalle mura di Roma, e quivi il nemico ha facoltà di ordinarsi
riparato in battaglia; dove però avesse preso anco le ville Corsini
e del Vascello acquista modo di approssimarsi al coperto e quasi non
visto fino sotte le mura di Roma.--Se poi non gli riusciva
impadronirsi di queste due ville allora nè manco gli avrebbe
giovato il Parco Pamfili, dacchè da esse si tira a fittone in mezzo
di quello; al contrario presi tutti questi casamenti, e rafforzatocisi
dentro, quanti si affacciavano alla porta San Pancrazio tanti
sarebbero iti al bersaglio, e quindi impossibile qualsivoglia sortita.

Da questo lato fu nel campo francese deciso assalire Roma, e ciò
pei conforti del generale Vaillant uomo di guerra eccellentissimo;
certo in apparenza più arduo, ma insomma il contrario, però che
dalla parte meridionale se riusciva più agevole abbattere le mura
più difficile, anzi terribile inoltrarsi nella città irta tutta
di tagliate condotte con maestria grande, e difese dal popolo non
immemore della sua prisca fierezza. Quì poi aperta la breccia si
saliva sul Gianicolo; donde, dopo incoronatolo di artiglierie,
potevasi esortare il popolo a cedere alla onnipotenza della forza.
Questo disegno prevalse all'altro del Leblanc, ed affermano
altresì, il Vaillant lo portasse bello, e approvato dal Presidente
della Repubblica; aggiungono ancora, che il Vaillant riconosciuta ben
bene la città lo ebbe a reputare sempre più migliore.

I Francesi, e lo stesso Vaillant scrissero avere prescelto questo lato
alle offese per istudio di non ingiuriare i monumenti di Roma, e sono
solite vanterie, onde i Francesi da per tutto il mondo vennero in fama
di sazievoli: difatti da cotesto lato appunto occorrono i più
gloriosi monumenti della Chiesa, e dell'arte; e nonchè essi
andassero immuni da ingiuria furono guasti e malconci.

Che dal riconoscimento della piazza fato dal Vaillant ne uscisse danno
irreparabile non credo, tuttavia importa notare, ch'egli ci entrò
sotto mentite spoglie di medico quando l'Oudinot, pei consigli del
Lesseps mandava in dono ai Romani un carro pei feriti. Così tutto o
buono, o reo dei francesi doveva cascarci addosso pernicioso, la
generosità del Lesseps, come la perfidia dell'Oudinot: i Romani
commossi ricambiavano cotesto dono da Sinone con altro carro carico di
_sigari,_ e davvero sarebbe grulleria dolercene, chè simili arguzie
formano parte degli strattagemmi di guerra per cui il capitano
piuttosto lodasi, che no. E poichè da quanto siamo venuti esponendo
la villa Corsini si reputasse meritamente la chiave dei vari punti di
offesa fuori della porta di San Pancrazio, così l'Oudinot attese ad
occuparla ad ogni patto anco con frode: a questo modo gli uomini
vulgari per procurarsi plauso fanno fango della nobile fame,
barattandone l'apparenza con la sostanza.

Costui pertanto dopo la promessa che non avrebbe investita la piazza
prima del lunedi mattina, _almeno_, ch'era il 4 di giugno,
proditoriamente nella notte del tre assaliva i posti avanzati fuori
della porta San Pancrazio: vilipeso della sua perfidia da nostrani
come da stranieri rispondeva: invano rinfacciarglisi la tradita fede;
altro essere piazza, ed altro posti avanzati; ma un uomo riputato di
guerra ebbe a dirgli, che i soldati di onore non devono farsi a
pescare cotesti sottigliumi dagli azzeccagarbugli. Certo dal nemico
bisogna sempre aspettarci ogni guaio peggiore; e chi si fida suo danno
se poi si trova deluso: e nei tempi antichi, che risentivano tuttavia
del salvatico non si stava tanto su lo spilluzzico, pure le
immanità, e i tradimenti espressi si narrano non si commendano: ai
tempi nostri spettava ai Francesi, i quali pretendono a un punto il
vanto di civili, e i vantaggi sanguinosi della barbarie, non solo
pareggiare, ma vincere le truculenze tartare, e scitiche. Se da un
lato non si scusa cui si lasciava prendere alla sprovvista, dall'altro
poi vituperiamo la frode del Francese tanto più rea quanto che
commessa da popolo gagliardissimo su le armi contro un popolo
debolissimo ed innocente.

Prima del giorno il chirurgo Ripari stava medicando le ferite al buon
Garibaldi il quale nel tumulto della battaglia se l'era dimenticate,
ma ora posando, esse si ricordavano di lui, quando il cannone si fece
sentire, ond'ei rimase sospeso con le fasce in mano: ecco allo
improvviso salta in mezzo della stanza il pro' Daverio esclamando:
«su per Dio!» senonchè visto lo stato del Generale soggiunse:
«dunque finisci di medicarti, e tu fa presto e vieni via; intanto
io vado.» «Va pure, rispose il Garibaldi, ma qui vi è la
bandiera, e bisogna provvedere a cui darla, e per cui mandarla; da una
parte e dall'altra per questa operazione ci vogliono ufficiali.»
«La è presto fatta, mandala per Ripari al Masina.» E il
Ripari come gli ordinarono fece, ed avendo trovato il Masina a dormire
lo tirò per un piede gridando: «come! si sparano cannonate
contro ai Francesi e tu dormi?»--«Mo'! esclamava il Masina, io
non sentiva niente» e calzati gli stivali scappò via con le
altre vesti in mano abbigliandosi in fretta e in furia per le scale, e
per la strada intantochè correva.

Era prima del giorno, nè la legione italiana del Garibaldi dormiva;
ella all'opposto vegliava facendo cosa che nè anco in mille anni la
s'indovinerebbe se io non la palesassi ad un tratto: cantava la messa!
Ed ecco come; appena tornata da Anagni la stanziarono nel Convento
delle Convertite in prossimità dei Condotti; eranci bensì delle
monache, le quali nè furono mandate via, nè se ne vollero
andare, e tutta volta il luogo capacissimo albergava comodamente
milleseicento uomini e più: i giovani baldanzosi, ed anco protervi
presero a scorrazzare pei luoghi donde si erano ritirate per paura le
donne, e trovarono vaghe logge, cortili, camerette discrete, lettere
erotiche, ed anco altri arnesi del regno ampio di amore che qui non
importa ricordare, e molto meno descrivere: le donne rimaste poi
così non osservarono la clausura, che prima una, poi due,
all'ultimo la più parte non comparissero fuori, come costumano le
rane negli acquatrini, nè già smarrite, o fuggenti i rimorchi, o
sogguardanti sottecchi, mai no; al contrario dagli occhi fermi
mandavano faville, sicuramente di amore non divino; pallide però
tutte, e con un cerchio intorno ai cigli nero per modo che pareva
fatto con un carbone spento cavato di su l'ara a Venere pandemia; lo
incesso poi, e gli atti procaci a bastanza le palesavano addestrate
nella palestra di amore, e

   _«Generose così come una madre
    «Di dieci eroi_[1].

  [1]  Questi i luoghi dove l'amico mio barone d'Ondes Reggio dice,
    che crescono le candide rose destinate a formare la ghirlanda
    immaculata della Regina dei Cieli!

La gioventù irrequieta frugando i luoghi appunto in cotesta notte
era capitata nella Chiesa del Convento dove avendo rinvenuti ammitti,
camici, pianete, piviali, dalmatiche, ed altre di questa maniera
sacerdotali vesti, se ne abbigliò e fatta prete volle dire la
messa; nè mancò il suo bravo organo, sebbene pareva che sonasse
piuttosto a stormo, che a laudi; chi seduto nei confessionali
confessava, chi battezzava, ma il battezzato talora troppo bagnato
rendeva al battezziere la sua acqua co' cambi; le candele, e i ceri
quanti ve n'erano accesi, canti vari moltiplici nè sacri veramente
tutti, nè tutti musicati al medesimo modo, quindi un baccano
accompagnato da risa, urli, e fischi, ed anco da qualche infrazione al
primo comandamento del Decalogo; a compire la confusione nuvole fitte
ingombravano ogni cosa mandate fuori dai turiboli, e dai bracieri dove
a piene mani gettavano i sacri timiami. Allo improvviso il tuono del
cannone ruppe cotesti saturnali, quasi bacchetta di mago che sciolga
gl'incanti; spogliano a furia i mal vestiti panni, ed assunta in breve
sembianza, e atteggiamento soldatesco corrono colà dove li chiama
il pericolo della Patria.

Andarono, ma ormai per sorpresa erano cadute in mano dei Francesi le
ville Pamfili, Corsini, e Valentini; le due compagnie che presidiavano
la villa Pamfili sopraffatte dal numero riboccante caddero in
potestà altrui, tuttavia resistendo sicchè il Mellara che le
comandava offeso da mortale ferita fu raccolto da terra sfidato di
vivere; le altre compagnie considerando di nulla potere divise si
raccolsero nella villa del Vascello.

Il generale supremo Rosselli avendo preposto alla difesa della porta
San Pancrazio il Garibaldi, questi mena la sua legione alla porta
Cavalleggieri nello intento di minacciare di fianco i Francesi, e
sloggiarli dalla posizione presa: facile comprendere come se non si
fosse liberata, la difesa di Roma più che altro sarebbe stata
agonia: di qui pertanto la smania dei Francesi di occuparla anco con
la frode, e la pertinacia del Garibaldi a volerla riconquistare. Egli
però bentosto si avvisava sarebbe riuscita la immaginata mossa
indarno avendo ormai i Francesi raggiunto lo scopo al quale miravano,
e quinci agevole per loro percotere chiunque arrivasse dalla parte dei
prati; per la qual cosa ei riconduce la legione dalla porta
Cavalleggieri a quella San Pancrazio. Colà uno dopo l'altro
arrivarono a ingrossarlo i Dragoni, gli Scolari, gli Emigrati, i
Finanzieri, ed altri; insomma in tutto un tremila persone: con queste
milizie, dopo presidiato le mura, e le prossime case si spingeva ad
assaltare la villa Corsini.

Che dirò io di questo fatto di guerra, che altri non abbia già
detto troppo meglio di me: solo un'ufficio mi avanza ma sopra tutti
è sacro aggiungere qualche notizia di alcun gesto glorioso di cui
andò smarrita la memoria; e dissotterrare qualche nome, che fu
sepolto col corpo di cui lo portava per esporlo alla lode e alla
pietà dei posteri.

La villa Corsini disposta ai sollazzi della vita, si trovò eziandio
(così volle fortuna), mirabilmente acconcia alle difese guerresche;
forte il palazzo situato in alto dove si arriva per vari avvolgimenti
di boschetti spessissimi seminati su di un terreno rotto da viali
profondi; intorno intorno circonda la villa un'altissimo muro. Poteva
anzi doveva rompersi il muro in più parti e penetrarvi per quelle;
ma non fecero così, sempre ostinati a procedere per la via diritta,
e questo a parere dei savi si giudica il primo errore; l'altro più
grave fu di non assalire grosso occupando prima co' bersaglieri i
boschi, le siepi, ed ogni altro riparo dentro la villa come ogni
prominenza fuori di quella, e quinci senza posa bersagliare i
Francesi, finchè colta la occasione fosse dato avanzarsi di fronte
con lo sforzo dell'arme: invece mandaronsi manipoli dopo manipoli come
si caccia il grano sotto la mola perchè lo macini: di ciò
appuntano il Garibaldi, il quale unico nelle guerre guerreggiate
sembra non sappia fare buona prova, quando si tratti di movere
poderose falangi di gente armata.

A forza umana non era dato resistere allo impeto col quale si
avventarono i legionari del Garibaldi; urtati a furia di baionetta i
Francesi ebbero a rovesciarsi dandosi a fuga precipitosa verso la
villa; ma il riparo di questa nè anco giovava, che fin là dentro
gl'inseguivano, e ammazzavano; nè già le sole fanterie ma sì
anco la stessa cavalleria capitanata da Angiolo Masina, la quale
salita a sua posta al primo piano si dette a imperversare per camere e
per sale, e quanti Francesi incontrava tanti metteva a filo di spada.
Ajaci tutti in questo sforzo di guerra, ma sopra gli altri stupendi
Daverio, Sacchi, Morocchetti, e Bixio; vi rimase ferito non morto il
Masina, che andato a medicarsi tornò più tardi a pigliare parte
ai nuovi assalti, imperciocchè in cotesta giornata non meno di otto
volte fossero presi e perduti i posti messi dinanzi, quasi a premio
della battaglia: nel terzo o nel quarto degli sforzi per isnidiare i
Francesi dal Casino dei Quattro Venti il buon Masina mentre cavalcando
forte arriva circa a mezzo il viale della villa Corsini con la voce e
col gesto animando la gente a prove di valore estremo ecco una palla
lo colpisce in mezzo al cuore, rasente non so quale croce riportata da
lui nelle guerre di Spagna; egli precipitava giù da cavallo
boccone, a braccia aperte senza nè un grido, nè un gemito; i
suoi si fecero a ricuperarne la salma, contrastarono i Francesi, donde
nacque una terribile pugna sul morto, forse quale non fu altrettanta
sul corpo di Patroclo; ma con fortuna diversa, perchè i nostri non
poterono avere il Masina, che giacque insepolto, miserando spettacolo,
nella villa Corsini, finchè durò la difesa di Roma. Angiolo
Masina fu da Bologna, e con la sua morte la Italia perdeva una delle
prime sue glorie; di aspetto giocondo, d'inclita stirpe, provvisto di
largo censo, di mente arguta, e comecchè di cuore tenerissimo
feroce in guerra per modo da comparire piuttosto temerario, che
animoso soldato intero così nella virtù come nei vizi; propenso
alla buona cera, ma se non si poteva avere altro, che pane secco, egli
con questo lietissimo cenava: amava molto, non già un'oggetto
unico, bensì il suo amore diffondevasi sopra la universa parte
femminea del genere umano. Il drappello dei cavalieri, che comandava
egli vestì, e incavallò a proprie spese, ed erano tutti giovani
di persona aitanti, di una terra stessa, e battaglieri al pari del
loro capitano.

Il primo assalto come il maroso iemale che dopo avere attinto il sommo
dello scoglio, quivi si rompe, e storna gorgogliante, era respinto dai
Francesi, e ne rimasero i nostri lacerati orribilmente. Qui rimase
ferito il Bixio, che trasportato a braccia fuori della mischia urlava
a squarcia gola: «scrivete a mio fratello a Parigi, che una palla
francese mi ha ferito all'anguinaglia,» e non si sa che cosa
volesse dire; forse fidava il suo fratello avesse maggior credito
nell'assemblea di quello, che veramente possedeva, o forse immaginava
il popolo parigino più facile ad infiammarsi di quello ch'ei sia.
Il popolo francese, parigino o no per cotesto quarto di ora dormiva, e
i quarti di ora dei popoli durano secoli. E tu Mameli Tirteo, e
Köerner italiano in questo combattimento riportasti la ferita, che
inciprignendo ti tolse all'ammirazione della gioventù italica, allo
amore delle Muse, e al culto della Libertà: la nemica palla ti
colse sul terzo superiore della tibia vicino all'articolazione del
ginocchio sinistro nè parve grave sicchè ti forniva argomento di
motteggio: ora sei scomparso, e le notti di Genova proviamo più
buie perchè uno dei suoi astri è tramontato per sempre; l'altro
tengono lontano da te l'ira dei tiranni, e la viltà del popolo.

Al contrario del Mameli, Girolamo Indunio quel pittore, che Dio ha
concesso per celebrare le geste del Garibaldi col pennello,
intantochè si aspetta il poeta che deve celebrarle col canto, in
questi assalti più e più volte trafitto era lasciato per morto a
terra; di lui si prese pensiero Enrico Guastalla il quale lo fece
removere di costà per dargli onorevole sepoltura, nondimanco,
comecchè gli contassero sopra la persona bene ventidue ferite
sopravvisse, e tuttora vive decoro della democrazia e dell'arte.

Ebbe altresì sfracellata la destra in cotesto combattimento il
Giorgeri di Massa o di Carrara, leggiadro di volto, di persona grande
e di cuore anco più; mentr'egli afferrata la baionetta di un
soldato francese lotta con lui, questi gli spara a brucia pelo il
moschetto contro, donde gli venne lacera la mano: come a Dio piacque
guariva ma per incappare in ventura peggiore; rimasto a Roma i
tribunali del mite Pontefice lo condannarono in galera a vita per
avere, così dichiarava la Sentenza, contribuito moralmente alla
morte di certi perfidissimi, i quali comecchè italiani furono colti
fuori di Roma a tendere agguati per trucidare italiani: corse voce
fossero gesuiti; il popolo inferocito avventatosi li scannò e
gittò nel fiume, il Giorgieri desideroso di salvarli, trovandosi
separato da loro da molta mano di popolo, tentava fendere la folla, ma
gli tornò ogni sforzo invano: fu avvertito in quell'atto, che
interpretato poi dai giudici cortesi eccitamento alla strage gli
fruttava la galera a vita: adesso, se male non mi appongo, regge non
so quale comando di piazza.

Dei nostri scrittori chi afferma che i Francesi non adoperassero
cannoni in cotesta giornata, chi sì e dice due, e nomina
l'ufficiale che li pose in batteria, ed indica il luogo; dalla parte
di Roma si adoperarono certo, e la eccellenza degli artiglieri nostri
se non potè fare fortunato cotesto giorno certo lo rese meno
deplorabile assai. Imprevidenza assai ripresa dai pratici dell'arte
fu, come si disse, quella di non abbattere i muri di cinta delle
ville, però che non le volendo distruggere, nè le volendo, come
si doveva, munire, era mestieri renderne agevole l'assalto caso mai
prese dal nemico si avesse quinci nella prima puntaglia a sloggiare.
Più degli assalti, micidiali le ritirate, dacchè nei primi i
nostri sboccati appena dai cancelli si sperperassero per la villa,
mentre nelle seconde si stipassero all'uscita, onde un colpo solo
uccideva talvolta parecchi; cadevano boccone con le mani innanzi
abbrancando la terra; da prima fu creduto che o per soverchia fretta,
ovvero per impedimenti paratisi loro fra i piedi stramazzassero, ma il
gemere profondo, lo storcersi angoscioso, e la rigida immobilità
sorvegnente assai chiaro chiarivano non si sarebbero rilevati più
mai.

Il numero soperchiante dei Francesi, l'arte con la quale essi
combattevano, e le armi elette avrebbero in quel giorno nefasto fatto
correre fiume del nostro sangue se il trarre mirabile delle
artiglierie del Calandrelli non gli avesse sfolgorati irrequieto e
mortale.

Alla legione, che in compagnia degli altri combattenti sostenne prima
gli assalti sottentravano i Lombardi del Manara. Una compagnia di
bersaglieri fu mandata a pigliare certo casino trascurato fin lì, e
l'occupò agevolmente, senonchè avendo scorto poco dopo come
fitti, e ordinati venissero contro a loro i Francesi sbigottirono come
se fossero stati condotti al macello; volgendo gli occhi scorrucciati
verso i loro capitani quasi per rimproverarli di avergli cimentati a
cotesto sbaraglio li videro fermi come statue di marmo; per la qual
cosa vinti da ira, e da paura, urlando come vesani si rifuggirono
verso il Vascello; i Capitani Manara, Ferrari, Rosaguti, ed
Hoffstetter commossi profondamente cacciandosi tra loro ne
trattenevano la fuga, compito che riuscì loro più agevole per la
sopravvegnenza di altre due compagnie una comandata dal Dandolo,
l'altra dal Rozat. È da credersi che il Manara col sangue acceso
per cotesto brutto scompiglio ora avventasse i suoi soldati a gesto,
che si potrebbe giudicare piuttosto disperato che magnanimo; _avanti!
avanti!_ gridava il feroce, e primo di tutti entra nel viale di villa
Corsini; precauzioni, e ripari egli sdegna e con lui gli uffiziali,
che splendidi di virile bellezza, e di vesti dorate senza piegare
collo se ne stanno ritti e scoperti in mezzo al viale. Qui cadde
Enrico Dandolo, qui furono feriti Signorini, Mangini ed altri
parecchi, ma gli altri non si mossero per la quale cosa ai soldati i
quali pure dietro ai vasi di limoni, o ai piedistalli, o ai pilastri
si schermivano prese talento di mostrarsi non da meno dei capitani; la
paura della vergogna aveva superato in essi la paura della morte.

E ci hanno i gaudi della battaglia, _certaminis gaudia_, e questo si
capisce; ci hanno altresì i gaudi del morire, e questo s'intende meno,
tuttavia è così; nè solo nel più forte sesso, ma eziandio nel
debole, e di ciò porgono testimonianza le fanciulle milesie prese dal
furore di uccidersi; e non fu trovato rimedio a cotesta insania, fuorchè
minacciando, che il corpo della violenta contro se medesima sarebbe stato
esposto ignudo al ludibrio del vulgo. Adesso cade Enrico Dandolo antica
stirpe non degenerata; a lui nocque la troppa fidanza; imperciocchè
avendo visto una compagnia di Francesi sbucare da un lato del palazzo
Corsini si mise in procinto di combatterla, ma si trattenne; e la cagione
ne fu il capitano francese, il quale sollevata la sciabola gridava con
parole italiane: siamo amici! Il Dandolo e i suoi allora accostansi come
chi sa e desidera avere amplesso fraterno; e l'amplesso fraterno fu che il
capitano di Francia di un tratto saltato da parte ordinava ai suoi
scaricassero l'arme a trenta passi di distanza: un terzo e più della
compagnia Dandolo giacque spenta, degli ufficiali Ludovico Mancini ebbe
forata una coscia, alcuni soldati accorsi a sollevarlo riportarono gravi
ferite, e lo stesso soccorso fu da capo trapassato nel braccio; Silva
lamentò una mano lacera, a Colomba toccava una palla in bocca che
stracciata tutta la carne gli uscì dalla guancia. Al Dandolo una palla
traditora trapassò il corpo da petto ai reni: i suoi rincalzati dai
Francesi, lasciaronlo solo; ma solo non si poteva dire perchè rimase al
morente il Morosini gentile sangue latino. Dopo breve intervallo i soldati
nostri ripresero animo irruppero a corpo perduto contro i Francesi: allora
due pietosi si fecero a mettere in salvo il Dandolo e il Morosini; questi
come a fortuna piacque illeso, l'altro ahimè! boccheggiante nella morte.
Dopo breve egli periva bello, elegante di forme, di costumi santissimi; non
contava ancora ventidue anni. Percuote la mente di pietà la trepidazione
del fratello dello spento capitano Emilio Dandolo, il quale fermo sotto
l'arme non poteva sovvenire, nè andare in traccia del diletto capo; ne
domandava ai feriti i quali gli passavano vicino, e il Mancini gli disse:
«tuo fratello....» e più non potè dire; più aperto ma sempre
dolorosamente incerto un Bersagliere; «or'ora cadde per ferita
mortale.» Il dabbene giovane trafitta l'anima senza potere porgere aita
al pericolante, senza potergli dare l'ultimo bacio, e chiudergli gli occhi
con passi concitati camminava su e giù di fronte alla compagnia vinto da
ira, da pietà, e da dolore, mordendo la canna di una pistola per
impedire le lacrime che traboccassero. Mentre durava il giovane in cotesta
agonia, ecco sopraggiungergli addosso il Garibaldi e dirgli: «andate con
20 dei più valorosi dei vostri a pigliare con la baionetta la villa
Corsini.» Al Dandolo parve sognare; arduo conoscere la cagione dello
spietato comando; forse, nonostante la calma olimpica che ostentava il
Garibaldi, anche a lui la febbre avvampava il sangue, o forse conoscendo
come da tutte coteste morti non potesse uscirne altro bene eccetto quello
di mostrare al mondo la virtù nostra disegnasse fargli toccare con mano,
che molti anco adesso la Italia novera dentro a se Leonidi alle Termopili,
e Fabi a Cremera. Cotesto era comando disperato da darsi ad anima
disperata, e tale si sentiva in quel punto Emilio Dandolo; trovò i venti
perduti, e andò con essi, correndo tutti, a capo basso, senza contare
chi cascava, arrivati sotto il palazzo erano dodici; di faccia fulminavano
i Francesi da tutte le finestre del palazzo, dietro le spalle mulinava un
turbinio di mitraglia dei nostri cannoni, e' fu mestieri uscire di là se
pure non volevano coi frantumi delle proprie membra lacerate seminare il
terreno; nel ritirarsi una medesima palla ferì nella stessa parte, la
coscia, il Signoroni, e il Dandolo; di ventuno, al Vascello tornarono sei.

Trasportato ferito all'ospedale volante l'amoroso fratello se ne
prevale per andare attorno zoppicando in mezzo a dolori atrocissimi in
cerca del fratello, e in ogni giacente appuntava l'occhio bramoso per
riconoscere le dilette sembianze, e già gli era vicino, e stava per
iscoprirlo quando un pietoso fu pronto a celarglielo: il Manara
vedendo quello strazio fece cuore di ferro, onde cessasse, e chiamato
col cenno della mano il Dandolo lo trasse in disparte; quivi
strettegli ambe le mani gli disse: «non travagliarti più a
cercare tuo fratello... io ti farò da fratello!» Trasportavano
da capo il Dandolo all'ospedale e questa volta più morto, che vivo.

Non io per certo mi stancherò ricordare i fatti, e i detti dei
nostri eroi nella memorabile giornata, bensì lamenterò sempre
che tutti non mi sieno potuti giungere; per la quale cosa mi è
tolto consolare coteste anime di laudi, e di pianto.

Il sergente Morfini lombardo giovane di 18 anni con la mano squarciata
da un colpo di baionetta, dopo messa un po' di fasciatura alla ferita,
torna in battaglia. «Che fai tu qui? Gli diceva il Manara, ferito
come sei non giovi a nulla.» Ed egli replicava: «lasciatemi
stare; alla peggio farò numero.» Rimase in fatti, e fu visto
sempre combattere fra i primi, finchè colpito nella testa cadde e
spirò.

Si rinnuova il caso di Eurialo e Niso nel Bronzetti tenente, il quale
sapendo il suo soldato di servizio giacersi morto presso la villa
Corsini caduta in potestà del nemico, tolti seco quattro uomini
risoluti di mettersi allo sbaraglio, cacciatisi fra mezzo le scolte
francesi, rinvennero il cadavere, se lo recarono su le braccia e per
ventura che sa di prodigio, trattolo in salvo gli diedero pietosa
sepoltura.

Peggior sorte, non però meno degna di onorata ricordanza toccò
al soldato della Longa milanese, il quale non volle lasciare in
balìa dei Francesi irruenti il suo caporale Fiorani cadutogli
allato, caricatoselo sopra le spalle mentre con lenti passi procura
scansarsi dalla mischia, colto di palla nel petto stramazza in un
fascio col cadavere del caporale per non rilevarsi più.

Tanto infiammava i giovani petti l'ardore santissimo di Patria, che la
più parte dei feriti non mandava lamento, e taluni mordendo
fazzoletto, o panno, e per fino le proprie carni s'industriavano
attutirlo, affinchè i compagni che li surrogavano nella lotta
mortale non ne ricavassero cagione di sgomento.--Fuvvi un'ufficiale,
ma non ne trovo il nome, che trasportato su di una barella
all'ospedale col ventre orribilmente lacero, strappava il fazzoletto
dalla ferita e gittandolo ai compagni rimasti, con forte voce gridava:
«addio, rimanga con voi questo saluto di sangue.» Un altro
giovane e bello, ferito nel costato da una palla di archibugio, seduto
anch'egli su la barella, scoprivasi la ferita dalla quale detergeva il
sangue di mano in mano che colava, onde pareva una rosetta vermiglia,
sicchè additandola, e amaramente ridendo diceva: «i nostri amici
di Francia e' mi hanno fatto ufficiale della legione di onore.» Fu
visto un'altro ufficiale che fracassati il piede, e il braccio destri,
tuttavia con la sinistra agitava il suo berretto messo sopra la punta
della spada animando i combattenti coi gridi: «viva la Repubblica!
viva la Italia!» Di cuore invincibilmente giocondo porgono
testimonianza le parole profferite da certo soldato bergamasco
nell'atto, che gli amputavano la destra: «manco male, che mi rimane
quest'altra, (e sollevava la sinistra), per battermi, e per bere.»
Il colonnello Morrocchetti ferito nel braccio, ci si avvolgeva intorno
un fazzoletto, e co' denti il legava, nè per quanto fu lunga la
giornata si posò un momento da battagliare. Parlammo del Bixio, e
quello, ch'ei dicesse ferito, riferimmo; però leggo nelle memorie
che mi vennero fornite, che alle parole aggiunse atti, che tacere è
bello, imperciocchè la mia indole non consenta andare in visibilio,
come sembra che accada a Vittore Ugo, di cenni, o di detti all'usanza
del Cambronne della vecchia guardia; ma mi sento sforzato a notare le
parole meste, e solenni di rassegnazione e di grandezza con le quali
conchiudeva la sedicenne vita il Savoia da Mantova: «guarda me
dispiass soltant a meurar perchè vedi miga l'Italia libera.»

Corrono diciassette anni dopo quella morte e noi proseguiamo affranti
cotesto fine supremo del viver nostro, che ogni giorno più ci sfuma
davanti; miserrimo fato è il nostro, prima avemmo gli uomini e ci
mancarono le cose, oggi le cose sovvengono, e ci fanno difetto gli
uomini.

Tra i morti trovo Sivori, e Canepa ufficiali di Montevideo Genovesi,
Borelli di Mantova, Rasori di Soresina, Falgari di Romagna; Boldrini
Cesare, in cui non sapevi che cosa tu avessi a lodare maggiormente o
la umanità, o la scienza, o lo amore smisurato verso la Italia, vi
rimase ferito e poichè egli aveva votato la sua vita alla Patria
sciolse il voto a Maddaloni undici anni più tardi combattendo con
fortuna migliore per la Italia, più dolente per lui. Gruppi di
soldato a Montevideo diventato capitano a Roma stramazzò ferito, ma
potè rilevarsi e vivere, e così pure Bassano Bignami di Mantova
sempre presente a tutte le patrie battaglie finchè si spense
rifinito dalle fatiche nel 1859 formando parte dei Cacciatori delle
Alpi.

Allorchè il pro' Daverio tentando un disperato assalto alla villa
Corsini con una mano di eroi, rimase spento a mezzo del viale con una
palla in mezzo del petto, cadde l'animo un'altra volta ai soldati, e
sgomentatisi si volsero con frettolosi passi verso la porta San
Pancrazio, la quale cosa notata dal Garibaldi via precorrendo si pose
fra la porta, ed i fuggenti a cui quando furono vicini favellò con
parole vibrate: «voi avete sbagliato strada; non è per di qua,
che si va a combattere il nemico.» A mo', che la lampada per olio
nuovamente infuso si ravviva, per coteste parole ripresero ardire i
soldati, e quantunque laceri, e stanchi tornarono a perigliarsi nella
lotta mortale.

Anco Angiolo Bassini non una ma due volte si avventò seguito da
pochi ad assaltare il Casino dei Quattro Venti; la prima volta rimasto
solo indietreggiò lento fra mezzo ad una grandine di palle; poco
dopo avendo una granata appreso fuoco al Casino egli volle mettersi da
capo alla ventura, e lo prese cacciandone via i Francesi con la
baionetta nei reni, e forse sarebbe riuscito a tenerci fermo il piede,
se in quel punto cadendo per gravissima percossa ricevuta non avesse,
per così dire, con la sua assenza levata l'anima ai soldati; nè
a restituirli alla fiducia di vincere valse il Manara che sopraggiunto
in soccorso co' suoi Lombardi prese altri posti, e non li potè
tenere, chè i Francesi con numero quadruplicato di gente fresca
corsero a riscoterli.

Qui mi vo' pigliare licenza, che so che ai miei lettori parrà
dovere, di stendermi alquanto nel racconto di Luigi Binda da Cremona
figlio unico di padre dovizioso: costui amava di profondissimo affetto
una fanciulla popolesca onesta nonmenochè bella, nè il padre suo
consentendogliela a sposa egli menava vita desolata; finalmente il
padre, considerando come tentata ogni via non fosse riuscito a
distorlo da cotesto suo decennale amore, accolse la fanciulla, e la
benedisse per figlia: pochi mesi il giovane Binda andò lieto nei
santissimi amplessi, chè rotta la guerra all'Austria dopo stato
alquanto in forse tra la sposa, e la Patria, l'amor della Patria
vinse, e versandosi su i campi di battaglia egli combattè con
l'ardore cui non seppe vincere lo smisurato affetto dell'amata donna:
tuttavia si consolava della lontananza sempre di lei favellando, lei
in mezzo ai pericoli invocando, e di tratto in tratto tra la furia del
fuoco traendosi dal petto i capelli di lei baciandoli, e ribaciandoli.
A Rieti lo fulminò la nuova della morte della sposa diletta, non
pianse, non disse motto, ma gli amici che lo videro orribilmente
mutarsi in volto procurarono badarlo attentissimi, onde per ventura
furono a tempo a trattenerlo quando allo improvviso egli volse contro
di sè le mani violente. Lo consolarono, e il forte uomo si
consolò da sè, sentendo come ad ogni minuto gli si parava la
occasione dinanzi di morire per la Patria; da per tutto ei fu, in ogni
parte combattè sempre nella ferocia pacato, vigile, e previdente
così, che la milizia gli conferiva il nome di _perfetto soldato_.

La storia dolente della morte della amata sua donna è questa; ella
usava la mattina per tempo recarsi in chiesa a supplicare Dio per la
conservazione del carissimo capo, l'adocchiò un ufficiale
austriaco, e prese a perseguitarla per libidine assai, ma più per
istrazio sapendola moglie di un ribelle; non valse alla meschina di
starsi con riguardi, non di fuggire via un giorno, ch'egli in agguato
la colse; nello androne della casa la raggiunse, la mano le pose fra i
capelli, ed ogni sforzo tentò di brutale violenza, ma la valorosa
si difendeva adoperandoci anco i denti, finchè la gente accorrendo
tratta dal rumore del tumulto, costrinse il malnato a lasciare la
donna non prima però di averla pesta co' piedi sul petto così,
ch'ella infermatasi gravemente non ci lasciasse la vita.

Il Binda difese prima la villa Panfili, il tre di Giugno in una delle
volte, che dopo respinti i Francesi, occupammo il Casino dei Quattro
Venti lo preposero a tenerlo contro gli assalti nemici; toccò a lui
la parte che prospetta Roma; i Francesi tornati tumidi e grossi
instavano con tutte le forze a girare dietro le spalle dei nostri
attelati davanti il palazzo: orribile lotta fu quella, la compagnia
del Binda ne rimase quasi disfatta, gli ufficiali tutti morti o
feriti, ma respinse sempre gli assalitori; lui pure colse una palla
nella gamba sinistra, che lo rese inabile alla milizia. Ora se viva
ignoro: possano queste inculte parole, se morto, cadere come corona di
gloria sopra la sua tomba, se vivo di giusta mercede, e di
consolazione all'animo tribolato di lui.

Qui in Toscana si formò già una legione di Lombardi, cui il
governo provvisorio, come seppe meglio provvide: le cose di Toscana
andate a male ella divisa in due corpi uno dei quali capitanato dal
Mezzacapo, e l'altro dal Medici s'incamminò verso Roma; non però
tutti furono generosi i Lombardi, al contrario gl'irridevano per
cotesto partito l'Allievi, e il Griffini, ed altri che io non nomino
poco prima avventati, allora rimessi, un po' più tardi servili,
secondochè menava il vento, ed essi ci trovavano il conto. Altri
narrò, sebbene non sia peranche palese lo scritto, le vicende, i
rischi, e i patimenti di cotesta schiera di giovani ammirandi; basti
per ora dirne tanto, che il generale Mezzacapo un dì volle metterla
a prova di coraggio, e spediti innanzi gli stracorridori procurò
gli riferissero circondarli da ogni lato i Francesi, chiusa allo
scampo ogni via, o cedere le armi o morire. Morire, gridarono i
giovani, e si disposero in battaglia per combattere fino agli estremi:
sotto la sferza di cocentissimo sole gli fece durare per molte ore il
Generale schierati su l'arme; all'ultimo assai commendatili dell'animo
disposto concesse loro riposo.--Pel comune dei soldati più dura
prova quest'altra, ma pei nostri gentilissimi e' mi sembra si potesse
risparmiare: il Generale per via dei comandanti di compagnia
annunziò finiti i danari della cassa, non sapere come sopperire
alle spese, vivere di accatto male, di rapina peggio: chiunque si
trovasse a possedere danaro lo mettesse fuori accomodandone il corpo:
quei poveri giovani appena udito lo annunzio in un attimo si
rovesciarono le tasche e chi diede cinque chi cento franchi: appena
raccolto il danaro fu reso; rimase la memoria del fatto, ed io lo
narro a lode e ad esempio.

Ora a questi toccò la volta di entrare in battaglia, sebbene ormai
volgesse il giorno a vespero: prima di uscire di porta San Pancrazio
sostarono alquanto per riordinarsi: cotesto fu un duro quarto di ora,
imperciocchè sfilasse davanti alla presenza loro la processione dei
feriti trasportati all'ospedale; e pure il fiero spettacolo, che
avrebbe sgagliardito i meglio animosi, non isbigottì i giovani i
quali udirono il comando di accorrere alla mischia lieti così come
li chiamassero a pigliar parte ai balli; appena usciti ecco accorrere
loro il Garibaldi quasi volando; di un tratto fermato il cavallo egli
s'inchina loro, e con quella sua voce, che vibra come metallo battuto,
stupendo di tranquillità dice loro: «avanti bravi giovani,
vinceremo anche oggi.» Le grida di viva Garibaldi, viva la
repubblica furono il saluto col quale essi accolsero le palle che
lanciarono contro di loro i Francesi.--La prima schiera appena fuori
della porta venne spartita, e parte andò ad occupare certa casa di
fianco al Casino dei Quattro Venti, la quale poi ebbe nome di _Casa
bruciata_, parte di rinforzo al Vascello dove dopo avere respinto i
Cacciatori francesi, si ricongiunsero con l'altra della Casa bruciata;
qui sostennero un battagliare tremendo, e comecchè con ogni
precauzione si riparassero tanto non poterono schermirsi, che parecchi
di loro non giacessero morti o feriti; così durarono fino a sera,
quando Giacomo Medici pensando, che non ci si sarebbe potuto sostenere
ordinò si raccogliesse nelle stanze terrene di parecchia paglia per
abbruciarla nel punto in cui l'avessero dovuta abbandonare; ma fortuna
volle che di un tratto andasse tutta in fiamme: al mirare cotesto
incendio unanime si levò il grido: «_i nostri morti!_» E
moveva da pietà d'impedire, che le amate reliquie andassero in
cenere: in un'attimo ecco immemori, o non curanti del fuoco gittarsi
in mezzo i giovani soldati per sottrarli a cotesta maniera di
distruzione, quasichè importasse, che o in cotesto, o in altro modo
rientrassero in grembo alla terra; tuttavia se pensi come i superstiti
intendessero seppellire con le proprie mani i loro morti per religione
alla memoria dei caduti per la libertà troverai che passione vince
ragione così in questa come in molte altre cose.

Nè qui finiva; il Mangiagalli quando ormai la notte, la fatica, e i
mutui lutti persuadevano quiete, ecco raccolto un manipolo di compagni
avventarsi da capo, e forse riusciva a fugare i Francesi se non gli si
fosse sgominato per via, lì sembra fosse ferito il Rozat; la
ritirata fu due cotanti più luttuosa dello assalto; quel cadere
senza pure esser visti, i gemiti confidati al buio della notte,
l'atroce pensiero di sè, che nella sventura disperata ripiglia il
sopravvento ricordavano gli affanni dell'Erebo immaginati dai Poeti.
Il Garibaldi poi compariva da per tutto, vestito di bianco, sempre
immobile sia che col destriere sostasse, sia ora qua ora là su le
groppe di quello scorresse; più che conforto adesso metteva
spavento: sembrava il simulacro del Destino venuto a contemplare il
compimento dei suoi decreti.

Il Sacchi aveva difeso il Vascello; dopo lui venne il Manara, che lo
presidiò co' suoi e in fretta in furia lo convertì in ridotto
formidabile; i Francesi trasportati dal furore della vittoria
irruppero per espugnarlo, ma non la poterono spuntare; allora il
Manara lo consegnò al Medici, il quale per la virtù sua, e dei
suoi lo rese monumento inclito del valore Italiano.

Poichè il perduto non si poteva più riacquistare il Garibaldi
vigilò, affinchè quello, che ci era rimasto si conservasse;
crebbe le artiglierie sul bastione, provvide l'annona, imperciocchè
in tutto quel giorno i soldati non che con altro, neppure con un sorso
di acqua si fossero confortati: insomma perchè io in troppe parole
non mi dilunghi non omise diligenza che a capitano solerte, ed
avvistato convenga. Giorno miserabile fu quello dacchè la legione
italiana deplorò 500 tra morti, e feriti, i Bersaglieri piansero
150 di loro; in tutti furono 1000, ovvero un quarto della divisione
del Garibaldi, fra cui 100 ufficiali; fiore di giovanezza e di
virtù; dei nemici ne caddero molti, noi non li potemmo noverare,
nè potendo avremmo voluto farlo; i Francesi sogliono alterare in
meno le loro perdite, tra gli altri privilegi quasi pretenderebbero
essere ciurmati, ed i romanzi loro rubata questa qualità ad Achille
la regalarono ad Orlando; la quale cosa non tolse che tanto Achille
quanto Orlando di ferita perissero.

Il Generale Garibaldi, nelle memorie manoscritte, di cui mi fu cortese
compie il racconto della infelice giornata con queste parole: «nel
3 Giugno furono decise le sorti di Roma. I migliori ufficiali morirono
o giacquero feriti: il nemico rimase padrone dei Quattro Venti chiave
delle posizioni dominanti: ci si stabilì gagliardamente, e
cominciò i suoi lavori di assedio come se Roma fosse piazza forte
di primo ordine.»

Adesso mi occorre narrare il fatto di cui si trova memoria nelle storie dei
tempi in diverse guise; il caso andò in questa maniera. Il Garibaldi
dopo la giornata del 3 Giugno venne a pigliare stanza nella villa Savorelli
dentro le mura e si pose in certa cameretta terrena che guardava la villa
Spada sul bastione a sinistra; per giungere costà occorreva passare per
una galleria la quale illuminavano quattro finestre aperte al medesimo
livello di quella dove abitava il Generale. Colà si trattenevano
parecchi i quali venivano a visitarlo per cagione di ufficio, tra gli altri
un dragone di ordinanza. I Francesi come quelli, che erano informati delle
minime particolarità di quanto avveniva a Roma un giorno trassero un
colpo sì bene aggiustato, che se non fallivano di finestra ammazzavano
di un tratto il Generale che per lo appunto si giaceva su di un lettuccio
alto un po' meno della finestra; la palla, trapassato il muro, che per vero
troppo spesso non era, colpì il povero dragone nel ginocchio destro
intanto, ch'ei se ne stava seduto su di una seggiola coi gomiti appoggiati
alle cosce e le mani sotto il mento: tanta fu la violenza del colpo, che
tutta la gamba, sfracellato il ginocchio, era volta alla rovescia, per
guisa che dove stava prima la punta del piede ora ci si vedeva il calcagno
con lo sprone.--Atroci gli spasimi, atroci i gridi ond'ei feriva le
orecchie, e l'anima, trasportato all'ospedale volante lo amputarono di
corto. Fatto sosta il dolore, il dragone voltosi al cerusico gli disse:
«ora pregovi di una carità, che voi non mi potete negare.»--«Ed
io, riprese il cerusico, non te la negherò di certo solo che stia in me
di potertela fare.»--«In voi sta, chiamatemi il mio brigadiere a cui
io vorrei raccomandare certa mia faccenda prima di andarmene allo spedale
grande.» Avvertito il brigadiere, venne il dragone chiamatoselo e vicino
al letto così gli parlò: «brigadiere date retta, voi capite, che a
cavallo ormai non ci è verso ch'io monti più, però desidero come
la grazia più grande, che voi possiate concedermi, ed io chiedervi che
la mia cavalla... la mia buona... la mia cara cavalla non sia montata da
altri che da voi; me lo promettete brigadiere?»--Sì, sì, con voce
arrangolata rispondeva il brigadiere, te lo prometto, povero giovane, te lo
prometto.»--Oh! soggiunse il ferito, voi non potete comprendere quanto
bene mi faccia la vostra promessa; e voi non mi mancherete... no...
abbiatene cura, sapete, non le manca, che il parlare.» E così
favellando piangeva. Così è; gli uomini, se non tutti, la più
parte sente altissimo il bisogno di amare, e dove manchino loro oggetti
più naturali di tenerezza come i congiunti, i figli, e le mogli si
attaccano agli animali, e talvolta anco ad enti inanimati; di vero Plinio
ce ne porge di parecchi esempi, ed è noto che Serse spasimava per
un'albero intorno alle radici del quale spargeva spesso libamenti, e
l'ornava con corone, e monili di oro.

Il Garibaldi poichè vide, che i parapetti non bastavano a ripararlo
sapete voi dove andò a pigliare stanza? Nella torretta della
medesima villa; quivi giacevasi nelle brevi ore di riposo, e quivi
vegliava continuo le mosse del nemico; sopra la torretta havvi un
terrazzino a cavalcioni del quale egli si tratteneva sovente
dondolando le gambe, e fumando il sigaro.--Con esso viveva il Manara,
che dopo il pasto, chiamato a sè certo giullare bergamasco gli
ordinava rappresentargli qualche farsa volgare co' burattini di legno;
di ciò prendeva il prode uomo maraviglioso diletto: ora è da
sapersi, che la stanza dove cotesti giuochi si facevano (che era la
sala dipinta da Salvatore Rosa) stava per lo appunto esposta alle
batterie francesi, ma a ciò niente pensavano nè il Manara nè
i compagni suoi, e nè manco il burattinaio: ventura fu, che di ora
in poi veruna palla di cannone investisse cotesta casa, e delle palle
di schioppo lanciate dagl'infallibili cacciatori francesi nessuna
colpì il Generale, nè il Manara, nè veruno dei tanti, che
affacciatisi al terrazzo della torretta se ne stavano a speculare il
campo francese: onde vi ha chi pensa, che tirando di sotto in su la
palla proceda diversamente che in linea orizzontale, e il colpo vada
fallito: su di che giudichino gl'intendenti. Per me referendo simili
spavalderie ho notato, e noterò sempre, che il soldato della Patria
non deve mai atteggiarsi scenicamente, nè da gladiatore, bensì
nel modo solenne del sacerdote che si offre vittima alla religione
della libertà.

Innanzi di mettere parole intorno ad altri fatti, chi m'incolperà
se io mi trattengo ancora a raccogliere qualche nome, e consegnarlo
con intera fiducia alla storia? La religione della cosa non già la
potenza dello scrittore varrà a mantenerla perenne nel cuore
degl'italiani: in cotesta giornata caddero spenti altresì, che
troppo ci vorrebbe a dire dei feriti, il Polini di Ancona colonnello,
Cavalieri, Bonnet, e Grassi tenenti; allo Scarani, mentre agita il
moncherino lacerato e se ne serve a guisa di aspersorio di sangue
gridando: «vendicatemi» una palla nei reni tronca ad un punto la
parola e la vita. Ed anco a voi Loreta di Ravenna, Gazzaniga di Roma,
Meloni di Forlì, Bucci di Ancona, Marzari di Macerata, Santini e
Covizzi la terra dei forti diede l'ultimo albergo. Visanetti di Cesena
come fu riservato a più lungo martirio così porse maggiore
testimonio di virtù, percosso nei fianchi dopo sei giorni in mezzo
ad atroci dolori sempre invocando con devoto cuore la sacra Patria
spirava. Scarcele sul fiore della vita, di forme leggiadre squarciato
orribilmente il ventre, di una sola cosa pareva si pigliasse cura, ed
era disporre il proprio censo, che possedeva larghissimo, a prò di
persona diletta; la principessa Belgioioso che lo assisteva,
sollecitamente ebbe chiamato il notaro per calmare l'ansietà del
moribondo, ma forse più per udire il nome della donna, che così
imperava sopra i pensieri di lui; la donna era la Patria, la quale
redò le sostanze dello Scarcele.

L'assalto del Ponte Milvio per altro non merita andare rammentato, che
per un gesto degno dell'antica storia, e veramente dei così fatti
se ne incontra nella greca, come nella romana, ed eziandio nella
nostra italica del decimoquinto secolo; se nonchè temo forte, che
ogni popolo abbia voluto vantare il suo di simile natura copiandolo da
un altro, il quale forse non sarà successo mai tranne nella
immaginazione dello scrittore; ma quello, che io narro come accaduto
ai giorni nostri, e che molti vivi lo possono testimoniare non può
fornire argomento di dubbio. Il ponte Milvio si allarga una dozzina di
braccia, ed è lungo circa a trecento: lo reggono cinque archi di
quindici braccia di luce, e cinque piloni alquanto meno larghi; rotto
il primo su la sinistra sponda per dodici braccia gli altri avevano
minato con polveri artificiali per rumarlo, secondo la occorrenza, in
un'attimo.

I Francesi qui come altrove ci colsero inaspettati, e con infallibile
colpo uccisa la sentinella sostarono per paura di scoppio; pure
bersagliando alla lontana chiunque si attentasse di porre il piede sul
ponte dalla sponda sinistra. Per accertare l'esito della impresa un
Leblanc colonnello del Genio francese aveva ammannito più sotto al
ponte una zatta con armi da servire a parecchi bersaglieri che
avrebbono traversato il fiume a noto; a troncare il disegno ecco un
Fulgenzio Fabbrizi di città di Castello si tuffa ignudo nel fiume,
e stretta co' denti la fune a cui stava ormeggiata la zatta,
adoperandoci gli sforzi supremi la tira seco; se lo fulminassero i
Francesi, che se l'erano vista fare proprio sotto gli occhi, non è
da dire, e crebbero la furia quando cotesto animoso si trovò in
mezzo alla corrente a contrastare coi vortici, che lo tiravano in
fondo, e con la zattera, la quale sbalzata a urtoni gli ammaccava la
persona, tuttavolta così egli provò amica la fortuna, che pesto
sì, ma incolume di ferite potè attingere l'altra sponda.

Ma il ponte cadde in potestà dei Francesi, i quali padroni delle
alture menavano strage dei nostri, senzachè potessimo offenderli
noi.

Narra il Torre, che millanterie ne corsero da una parte e dall'altra;
infermità comune massime ai popoli meridionali, ma alle millanterie
i Francesi aggiunsero le menzogne più sbardellate; a mo' di esempio
l'Oudinot dava ad intendere ventimila dei nostri impegnati alla difesa
di villa Pamfili, ed in tutti noi non arrivammo mai a tanti: il vero
era che appena toccavano i quattrocento: si gloriava avere conquistato
tre bandiere, e n'ebbe invece una, non mica conquistata, bensì
rinvenuta da lui dentro certa rimessa; vantava come sforzo solenne di
guerra la occupazione di Monte Mario, e veramente utile gli fu, ma
egli se lo recò in mano indifeso durante il tempo dello armistizio.

I Francesi non istettero a perdere tempo e nella notte del quattro al
cinque giugno condussero la prima parallela di assedio a trecento
circa metri dal punto designato da loro per lo assalto; in ciò essi
seguivano i precetti dei loro maestri di guerra Vauban, e
Cormontaigne; altri ingegneri operarono altramente, chi
allontanandosi, e chi più accostandosi alle mura nemiche; mentre si
rammenta Marescot che allo assedio di Landrecy aperse le trincee a 300
metri dalle opere estreme della piazza, Chasselup a Mantova le fece a
100 metri più presso, e Rognat a Tortosa anco meno discosto: ai
giorni nostri la distanza di trecento metri non basta in virtù
delle armi perfezionate che ti ammazzano anco da 1000 metri lontano,
sicchè tornare ai 600 metri come si costumava prima del Vauban non
parrebbe troppo, ma i Francesi senza un pericolo al mondo poterono
praticare a Roma il modo, che tennero conciossiachè i Romani
possedessero solo armi ordinarie e nè manco delle buone. Costruita
la trincea alzarono due batterie, una per combattere il nostro
baluardo, l'altra per rimbeccare la nostra artiglieria del monte
Aventino. Nè i nostri rimasero a vedere, solleciti palancarono e
terrapienarono la muraglia per quanto lungo è il tratto che passa
fra Porta Portese e Porta San Pancrazio, voltarono i cannoni del monte
Testaceo contro il campo francese, e condussero un camino per recarsi
incolumi al Vascello; però in paragone delle apprestate offese le
nostre difese languide; sarebbe stato mestieri irrompere con gagliarde
sortite, ma le ci venivano dissuase dal difetto di fosso intorno alle
mura, e dalla perdita dei tanti valorosi ufficiali da noi patita fin
qui, tuttavia scambiaronsi di parecchie moschettate da una parte e
dall'altra, si tentò anco pigliare certe case fuori del Vascello, e
non si potè a cagione della grandine di palle, che i nostri dal
bastione ci rovinarono addosso scambiandoci per nemici, e fu jattura
gravissima. Verso sera il capitano David su la via del Vascello,
percosso il ventre periva, feriti rimasero Giuseppe Brachi, Guglielmo
Belluzzi, Emanuele Griffi aiutante del Generale Garibaldi, e più
illustre di tutti il colonnello Pietro Mellara da Bologna, che una
palla di moschetto colse nello interno della coscia sinistra, e lì
rimase; parve da prima lieve piaga, o per lo meno sanabile; il fato
rese monco lo augurio; egli periva dopo lunghi dolori; di lui più
tardi a infamia del popolo, che vanta il primato di civile.

I colonnelli Buenaga per la parte di Spagna e D'Agostino per quella di
Napoli recaronsi al campo di Francia offerendo aiuto, e concorso; l'aiuto
accettava l'Oudinot dal Re di Napoli, il parco dell'artiglieria d'assedio,
come se dei suoi cannoni egli non ne avesse di avanzo, tanto gli premeva
vincere a mano salva; altro concorso no; bastargli i suoi; a questa ora se
quei cialtroni dei diplomatici non erano sarebbe entrato in Roma non mica
una volta ma dieci. Ciò era conforme al fine riposto della impresa di
Francia, il quale consisteva nel surrogare il suo al patronato dell'Austria
in Italia e durò sotto lo Impero quando ella parve venisse ad
affrancarci da un'oppressore, e ce ne impose due; nè punto menoma,
almeno per ora; di ciò ne porge testimonio la respinta proposta testè
messa innanzi dalla Spagna di formare una lega cattolica per proteggere la
ragione del Papa in Italia; di vero avendo la Francia (a suo parere)
ottenuto con forza, e con astuzia simile patronato in Italia intende
esercitarlo sola, non già in società con altrui, che chi ha socio ha
padrone, e questo è detto antico. Al deputato Minghetti pare altrimenti,
ed ebbe cuore e fronte per affermarlo in Parlamento; basta, il meno che
possiamo dire di costui gli è che e' venne al mondo dalla parte dei
piedi.

Valentissimi gl'ingegneri francesi, e indefessi non menochè
intrepidi gli esecutori; riparato il guasto fatto alle opere loro
dalle nostre artiglierie costruiscono la terza batteria e l'armano di
obici per battere con fuochi verticali i bastioni sesto e settimo; i
Romani dal canto loro compiscono le trincee del Vascello, altre ne
imprendono a sinistra di porta San Pancrazio a fine d'impedire, caso
mai che qualche sortita venisse respinta, che vinti e vincitori
entrassero in Roma alla rinfusa; ripigliasi il fuoco nel giorno sesto,
e con maggior furia di prima, anco il cielo si commuove e piglia parte
alla lotta; tempesta in terra, tempesta in cielo; fuoco, e strepito da
empire di spavento da una parte e dall'altra; natura ed uomini
parevano risoluti a sconquassare il mondo, nè il peggio sarebbe
stato se fossero riusciti. Il Vaillant vigilissimo sospettando
sorpresa alle ville Corsini, e Valentini asserraglia le prossime
strade, e si avanza senza intromissione; non così i Romani i quali
cominciano opere grandi, e per certo utilissime, ma poi lo smettono o
che mancasse loro la costanza o piuttosto, come credo, la potenza; per
siffatta guisa idearono erigere un trincerone il quale servisse a mo'
di piazza di arme dove milizie nostre ad ogni evento si assembrassero
per contrastare al nemico, il quale, superate le trincee giungesse e
scacciarne i difensori; ed altre più difese si disegnarono, ed anco
fu statuito condurre a termine per asserragliare le strade, forare le
case onde porgersi aita scambievole giusta la imminenza del pericolo
per quinci rifuggire senza danno o con poco nella città leonina,
dove potesse rinfocolarsi la guerra più acerba, più feroce, e
forse meno disperata di esito propizio. Tutto questo o non si fece del
tutto, o principiato appena fu smesso, per lo che ai Francesi venne
agevolato, e di molto il conquisto di Roma.

La nostra artiglieria durante la notte o rallentava i tiri o li
cessava dando occasione al nemico di spingere innanzi le sue opere,
alacre, e sicuro, nè andavano con miglior fortuna le cose pel
contado dintorno a Roma, che il generale Morris scorrazzando per la
campagna dalla sinistra del Tevere sovente s'impadroniva del fodero
avviato alla città penuriante. E pazienza si fossero rimasti i
Francesi a pigliare le robe, ma per atterrire straziavano le persone,
nè solo le nocenti, bensì ancora le pacifiche: veruna arte di
barbaro nonmenochè vile predone tralasciarono per accertarsi la
vittoria: e perchè non paia che io mi comporti narrando più
passionatamente che a storico non convenga scerrò tra i moltissimi
due casi, dei quali il commissario Andreini riferì all'Assemblea.
Gervasio Pasquali, e Vincenzio Sandroni mitissimi agricoltori alieni
da ogni rumore pensarono potersi rimanere alla cura delle proprie
vigne fuori delle mura, che chiudono il Vaticano: spaventati poi dagli
orrori della battaglia s'intanarono dentro certe grotte scavate lì
presso la vigna, il primo solo, l'altro, il Sandroni, con la moglie e
tre figli uno dei quali pargolo alla mammella. I Francesi spintisi
sotto le mura, e disseminati a combattere non tardarono a scoprirli, e
ad incrudelire su cotesti inermi supplicanti la vita; furono esauditi
a colpi di fucile; nè contenti di tanto il Pasquali stramazzato e
stretto a gridare: «viva Pio IX» poi rovistategli le tasche dei
pochi baiocchi che possedeva io rubarono.--Più lacrimevole fato
incolse al Sandroni però che di prima colta rimanessero feriti lui
e due figliuoli, e poichè ricaricati i moschetti con cera micidiale
inoltravansi i Francesi, la misera madre genuflessa al fianco del
giacente marito, e circondata dai due figli insanguinati, sporgeva il
lattante gridando: pietà! Come alla prima invocazione fu dato alla
seconda una risposta di piombo: tutti ne andarono da capo percossi,
eccetto il pargolo per ventura che parve e fu creduto miracolo. Il
Sandroni poi per coteste ferite periva nell'ospizio di Santa Maria
lasciando desolati la moglie e i tre figli: dopo ciò, neghi chi ha
cuore, che là dove occorre una causa di civiltà a sostenere
quivi non isventoli benefico il vessillo di Francia.

Che cosa di peggio potessero fare gli Ostrogoti, o gli Unni noi per
verità non sappiamo; e tuttavia non mancò chi scrivesse a
cotesti tempi; «la missione di Francia avere per fine speciale la
tutela delle libertà europee contro le dottrine del comunismo....
per lei il diritto combattere il socialismo di cui il santuario di
_Vesta_ con orribile profanazione era diventato centro e
_sinagoga_.» Nè simile mostro di concetti e di favella si
partiva di Francia, bensì d'Italia, e neppure da papisti
interessati o fanatici ma sì dal preteso autore del risorgimento
italico abate Gioberti; però meritamente la sua fama periva prima
di lui, e la sua memoria si conserva nel gelido simulacro di marmo a
Torino, non già pio affetto nel cuore degl'Italiani.

Tolsero i Francesi pertanto l'acqua alla città, ma di un tratto
gliela resero con gli arretrati, ed ecco come: sospettando essi che i
nostri insinuandosi per gli acquedotti ci caricassero mine, col
consiglio di distruggerlo vi spinsero dentro le ritenute acque, la
quale cosa fu origine di una assai piacevole avventura alla fontana di
San Piero in Montorio. Questa fontana di apparenza mirabile, fra le
vaste romane vastissima, nudrisce di acqua il lago di Bracciano che ce
la versa quasi a fiume ed è chiamata Paola; sotto la fontana
altissima una vasca stragrande la riceve, e nelle ore calde tra per
l'ombra, che manda la fabbrica, e tra per le acque rotte dal
rimbalzare, ch'esse fanno vi si gode refrigerio di frescura: ora
l'acqua cessata, restava l'ombra, sicchè da cinquanta e più
soldati sdraiatisi nel cavo della vasca in santa pace dormivano;
quando ecco di repente una fiumana di acqua prorompere, precipitarsi
dalla altezza di ben venti e più piedi e con fracasso orribile
riempirla in un'attimo. Pensate voi la meraviglia e la paura dei
tapini a forza desti: chi schizza di là, chi di quà, per fuggire
fanno gruppo urtansi e si rovesciano da capo; la fretta disordinata
raddoppia le dimore; gli atteggiamenti vari e tutti burlevoli; non
incolse male a nessuno, tranne trovarsi bagnati fino all'osso.

Il Generale Garibaldi dalla sua torretta di Villa Savorelli
contemplava quel continuo avanzarsi delle opere francesi, e
comecchè forte temesse di poterle impedire tuttavia sentiva, che
ormai a lui e agli altri correva l'obbligo di far prova di disperata
virtù; nè ciò solo per rintuzzare la insopportabile iattanza
del nemico, quanto per non parere da meno nello indomito coraggio
delle stesse donne romane, le quali senza porre mente, alle palle che
fioccavano recavansi verso sera a udire i suoni militari davanti alla
sua villa, e non pure donne popolane erano, ma altresì nobili
donne: i soldati poi inuzzoliti dal suono su quel luogo ballavano, e
se taluno tocco da qualche palla cessava gli altri datagli la buona
notte continuavano. Ma la buona notte, che augurarono al centurione
Molina fu eterna, imperciocchè nel trasportarlo ferito morisse per
via; spreco di vita non mai abbastanza deplorabile, e deplorato!

Ma parliamo delle donne romane; e' non si può rivocare in dubbio,
che in esse viva latente, e talora si palesi nella sua magnificenza il
sangue della madre dei Gracchi e di Lucrezia; tra i miei ricordi noto
come un mio amico passando per una contrada presso ponte Sisto di Roma
vide due fanciulle bellissime intente a cucire panni in certa stanza
terrena senza curarsi della pioggia di bombe, che mandavano i
Francesi; di un tratto una bomba lì presso sfonda una casa, e
cascata sul letto dove riposavano due vecchi gli ammazza; placide e
chete esse lasciarono i lavori per recarsi a vedere che mai fosse
successo, e ad apprestare soccorso; udito il caso funesto, levarono
gli occhi al cielo e sospirarono: «pace all'anima loro!» e senza
più parole tornavano a riprendere il compito interrotto. E noi pure
avemmo le nostre Cammille, e le nostre Pantasilee, anzi,
quotidianamente, ed alla stregua, che il pericolo cresceva, si
presentavano fanciulle per arrolarsi come soldati e combattere, nè
tutte si poterono rifiutare; le rimaste si distinsero non solo nella
ferocia (cose che notiamo ordinaria nelle femmine una volta, che
piglino le armi) ma nella costanza, ed è più difficile, di
sopportare di ogni maniera disagi.

Non il dolore della ingiusta aggressione, nè i danni sofferti
così ci fanno forza, da negare ai Francesi il pregio del valore,
nondimanco è vero, che in questa guerra procederono oltremodo cauti
e anzichè no rispettivi; forse la prima batosta rilevata li
persuase a questo: certo quel risoluto consacrarsi che fa la gente
alla morte commuove l'animo dei mortali e li sgomenta. Taluni dei loro
scrittori immaginando cose vane, ovvero usurpando per loro tratti di
magnanimità che da loro furono uditi soltanto, seguendo l'usato
costume attribuirono ad un soldato francese l'avventura di essere
andato a cogliere albicocche sur un'albero in mezzo al tempestare
delle palle nemiche; ciò è vero, ma invece di albicocche elle
erano fragole e fin qui non monta, ma il soldato invece di francese
era italiano anzi il Cadolini nostro, che se nella gloria della
eloquenza valesse quanto vale nelle armi, la Italia moderna non
avrebbe ad invidiare Cicerone all'antica; egli, nè solo, si
attentò andare a raccoglierle negli stessi giardini occupati dai
Francesi, e farne dono al Medici l'Aiace dello Assedio di Roma.

E siccome noi sopra tutto detestiamo la taccia d'ingrati, pessimi tra
i rei, i quali dovrebbero nelle nostre contrade come presso i Chinesi
punirsi, dacchè giudichiamo la ingratitudine non solo delitto in
se, ma sì generatrice di ogni altro delitto, ci guarderemo di
passare inonorati nelle nostre scritture due generosi stranieri uno
francese, l'altro pollacco di cui mi occorre memoria nei libri, e
nelle note del Generale Sacchi. Chiamavasi il primo Laviron capitano
di stato maggiore presso il Garibaldi, il quale un dì avvampante di
sdegno per le spesse morti cagionate dai Cacciatori di Vincennes salta
sul parapetto, e additando la croce della legione di onore, che gli
fregiava il petto si mise a gridare: «assassini! tirate su questa
croce, che ebbi dal grande imperatore.» E venne pur troppo
esaudito, imperciocchè nonostante che allora fosse tregua, i
Cacciatori non potendo stare alle mosse lo colsero per lo appunto nel
petto: ond'ei periva esclamando: «viva la Italia!» La notte, che
successe a cotesto dì il cielo mandò giù acqua a bigonce;
dissero averla mandata per lavare la macchia fratricida di cui i
Francesi avevano polluto la sacra terra romana, e non è così,
Iddio raccatta il sangue versato proditoriamente, e lo conserva là
dove non si cancella; paiono fisime queste, ma se ne accorge chi
reietto Dio persuasore di vivere incolpevole lo prova più tardi
come chiodo confitto nelle tempie di Sisara.

L'altro caso è affatto simile a questo, sicchè dubitai fosse il
medesimo applicato a diversi; ma adoperataci debita diligenza trovai
essere due: non importa ripeterlo, basterà dire che il nuovo
accadde al capitano pollacco chiamato Vert o Wern; e che lo esito per
lui non volse sinistro come al francese essendo rimasto unicamente
ferito nell'omero destro.

La sortita disegnata ebbe luogo a vespero del giorno nove, il suo
scopo era guastare i lavori nemici, precipuamente quelli di faccia al
bastione secondo; ci presero parte 200 finanzieri, e 500 uomini del
primo reggimento leggero: questi per assalire; un'altro battaglione ed
una compagnia di bersaglieri si attelarono fuori della porta San
Pancrazio per riserva, e per proteggere la ritirata: proposero al
Generale operare simultaneamente altra sortita fuori della Porta
Portese, e non l'approvò: perocchè conosciuta la mala prova
degli assalti alla spicciolata, ora volesse attenersi ai corpi grossi.
L'assalto di faccia in colonna serrata fu respinto dal fuoco che
proruppe turbinoso dalle trincee francesi; con incredibile valore i
finanzieri lo tentarono una seconda volta, e con pari fortuna;
virtù non valse contro la forza soverchiante, e si ebbero a
ripiegare laceri verso la porta. Questa fazione riuscì senza
utilità non però senza compianto; tante e tante furono le morti
che resero non so bene se io mi abbia a dire sacri od esecrabili
cotesti luoghi, che a raccontarle tutte non ci basterebbe la lena:
questo giovi sapere, che da ora in poi il popolo a diritto prese a
chiamare la porta San Pancrazio, porta San Crepazio, il Vascello
Macello, e San Pietro in Montorio San Pietro in Mortorio. In questo
giorno deplorammo il tenente Bolognesi, e Bartolommeo Rozat capitano:
sopramodo pietosa la morte di questo ultimo; nacque a Ginevra, e
militò volontario; apparve un giorno su i confini del Tirolo al
cospetto del Manara, e gli si profferse fratello di armi; il Manara lo
accettò a braccia quadre, e amaronsi nè l'uno quindi in poi si
vide disgiunto dall'altro nei pericoli; li scompagnò la morte:
ferito, il 3 il Rozat non potè tenersi il 9, e armato di eletta
carabina non come ufficiale ma come volontario volle pigliar parte al
combattimento dal secondo bastione: senonchè dopo i primi colpi
fastidì il parapetto, e si scoperse a un tratto dalla cintola in su
agitando il berretto in ispregio del nemico: avendoglielo una palla
portato via di netto dalle mani, i soldati, che assai lo amavano lo
costrinsero a scendere: egli però scivolando si recava subito dopo
davanti la più larga apertura del muro; quivi una palla, lo colse
nell'occhio sinistro; il resto lo dica l'Hoffstetter, che per me a
raccontare di tanto sangue scelleratamente tradito mi sento inverdire:
«fu portato all'ospedale fuori di sensi; e quivi spirò fra le
braccia di una signora, unica cura, ch'egli accettasse, dopo due
giorni di orribili patimenti. Io fui due volte a trovarlo, ma il
meschino non mi riconobbe più; egli era tutto sfigurato: aveva la
cavità dell'occhio piena di sangue, e la parte sinistra del capo
soprammodo gonfia. La donna romana con un braccio lo sorreggeva, e con
l'altro lo impediva ch'egli nell'angoscia disperata si strappasse la
benda.» Trentasei ore, che tanto si prolungò la sua agonia, la
donna stette a canto al moribondo senza lasciarlo mai: affermano lei
ignota al Rozat, e questo alla donna; se così sta lo affetto
superando la natura terrena diventava divino, ed io per me lo
giudicherei divino dove anco ci si fosse mescolato qualche po' di
amore men puro: ottimamente immaginarono gli antichi di origine
celeste ogni amore, che avesse l'ale per sollevarsi da terra.

Continuano i lavori, e le jattanze francesi; essi però conducono a
termine la batteria quinta prima per far tacere il nostro fuoco del
bastione settimo, e poi per aprire la breccia; mandano scorrerie sul
Teverone per rompere i ponti Salaro, Nomentano, e Mammolo, e così
chiudere da questo lato ogni comunicazione con Roma; sorprendono il
colonnello Pianciani, che in compagnia di un suo ufficiale veniva
nella carrozza del corriere, e lo tengono prigioniero di guerra:
l'Oudinot vanta questa presa come una conquista, ed è ciurmatore;
aggiunge nel rapporto averla conseguita dopo combattuta aspra pugna,
ed è bugiardo: fa una funata di poveri contadini, e gl'invia in
Francia trofei di guerra, e così conferma la sentenza che sopra
tutte le passioni la vanità è crudele.

Testimoniano alcuni storici come ora dai supremi capitani si
concepisse il disegno d'ingaggiare una battaglia campale assaltando la
sinistra dei Francesi, e prese le opere loro a rovescio, spingerli nel
Tevere; ma a ciò io non credo; forse taluno lo desiderò e lo
disse, ma dal detto al fatto ci ha gran tratto, nè con tanta
disparità di forze poteva avventurarsi anco dagli audacissimi;
all'opposto fu tentata una sortita notturna: notte tempo a lume di
torce assembraronsi 7500 uomini; 1500 rimasero col generale Avezzana
fuori della porta San Pancrazio; agli altri 6000 si pose a capo
Garibaldi, e li menò alla campagna uscendo dalla porta dei
Cavalleggieri; suo scopo dar dentro la sinistra dei Francesi:
consigliato a moltiplicare gli assalti nega, e non fa bene; la colonna
lunga disadatta a pigliare parte con molta forza al combattimento; se
respinta di fronte si rovescia sopra i sorvegnenti con non riparabile
scompiglio. L'ordine della marcia questo, la legione polacca
all'antiguardo; 200 uomini o poco più; subito dopo tre coorti della
legione italiana; alla dietroguardia due battaglioni di bersaglieri
lombardi; quattro battaglioni del Rosselli, e i lancieri del Garibaldi
alla riscossa. Il Garibaldi non volle moversi prima che sorgesse la
luna, che fu verso le dieci, e ciò per impedire confusione,
lasciando perduto per questa via il vantaggio di cascare addosso ai
Francesi; ed al medesimo intento ordinò eziandio i soldati alle
vesti soprammettessero la camicia, gli uffiziali intorno al braccio
legassersi un panno bianco; pratica di guerra antica, che chiamasi
_incamiciata_, ed è fama la inventasse Alfonso Davalos il vecchio
marchese di Pescara; i pratici di guerra la giudicano in varie
maniere: anco quì il fine loda l'opera.

Opinione, ed anco comando era si avesse a camminare per via retta, ma il
Garibaldi, che precedeva la colonna vestito del mantello bianco di un
tratto piega, conforme in questo a se stesso, che dei suoi riposti consigli
di guerra non conferisce con alcuno, e caso mai lo venisse a sapere la sua
camicia, io penso, ch'ei la brucerebbe. Così procedendo arrivano al
convento di San Pancrazio dove l'ufficiale di guardia annunzia verun moto
essersi osservato da tempo in qua nelle Trincere francesi, e gli pareva
buon segno; altri tenne avviso contrario; volle inoltre porgere istruzioni
alla guida sul cammino da farsi, ma questa prosuntuosa vantò saperne di
avanzo: allora il Garibaldi scese e seduto sopra un tronco di albero tolse
a dirigere le mosse; e innanzi tratto ordinava all'Hoffstetter precedesse
co' 200 Pollacchi a schiarire il cammino, lo seguitasse la legione
italiana; il Manara non comandato, consentendo all'impeto della sua
generosa natura lo seguita; ammonito dall'Hoffstetter che una scarica
potrebbe ammazzarli tutti e due in un punto con danno della impresa, si
allontana, ma poi non regge e ritorna. Persuasi dalla guida si cacciano
dentro ad un canneto, oltre il quale, pensano sboccare davanti le Trincee
francesi, onde si raccomanda ai Pollacchi ripongansi sotto la camicia la
quale ormai non poteva apportare altro che impaccio e danno; la legione
italiana rimane su l'orlo estremo del canneto; i Pollacchi dopo molto
avvolgersi si trovano avere girato il convento di San Pancrazio, chè la
guida prosuntuosa aveva sbagliato strada: toccò loro rifare i passi, e
questa volta senza errore, sicchè riusciti ormai davanti una siepe,
oltre quella, affacciandosi, vedevano le opere francesi. Mentre pertanto si
accingono a saltar su, ecco nel canneto udirsi strepito come di cavalli
ch'entrando a furia atterrino, e pestino le canne troncate.--Non erano
cavalli ma fanti, non nemici ma amici; la colonna del Sacchi, la quale
sbarattando senza riguardo il canneto mosse cotesto rumore, che riuscì
esiziale, imperciocchè non pure i soldati, ma gli ufficiali altresì
temerono ruinasse addosso loro la cavalleria nemica; per la qual cosa
taluni, i più forti, fatto di se gomitolo con la baionetta calata si
disposero a mo' di istrice; gli altri, e furono troppo più, vinti da
subito terrore fecero impeto l'uno sopra l'altro, urtaronsi, rovesciaronsi,
e pestaronsi; chi perse l'arme, e chi i berretti; molti i feriti; pareva un
fiume che straripi; il Manara, il quale pretese opporsi stramazzato ebbe a
sentirsi ammaccare tutta la persona; Garibaldi agguantandosi a un albero
non buttarono a terra; la legione italiana non resse meglio degli altri, e
andò sossopra nella fuga; chi resse furono i bersaglieri, i quali
incrociate le baionette, le opposero al petto dei fuggenti e li
trattennero; il Garibaldi montato in furia, riavutosi appena, salta a
cavallo e con lo scudiscio frustando intorno urlava: «ah! codardi, ah!
svergognati!» Anco il Mezzacapo in cotesta occasione fece mostra di
coraggio a tutta prova. Riordinata alla peggio la milizia scomposta
domandarono gli ufficiali al Generale se si avesse a proseguire la impresa,
dacchè per somma ventura pareva che i Francesi non se ne fossero addati;
rispose nulla potersi imprendere con gente codarda; rientrassero: ultimo
come sempre alla dietroguardia; passate le porte o sia che la stanchezza lo
vincesse, o sia che ormai sentisse lo interno turbamento dell'animo non
potere più reprimere si gettò a terra fingendo dormire.

Le sortite e gli agguati in guerra per ordinario, o non finiscono a
bene, o tornano in capo a cui le ammannì, e Omero _ab antiquo_
mette innanzi così nel coraggio come nella gloria il guerriero che
aspetta celato, e di piè fermo il nemico, all'altro, il quale salta
su con la lancia in pugno a zuffa manifesta; per condurre le sorprese
a buon termine si richiedono mente serena, cuore inconcusso, e
vigilanza mirabile; e cosa strana a considerarsi è questa, che
forse gli uomini preposti alla sortita, ovvero allo agguato presi da
solo a solo le qualità descritte posseggono anco in copia, uniti
insieme ne mancano, dimostrando che le passioni superano nel contagio
la stessa morìa. L'annotatore all'Hoffstetter volendo per via di
esempio chiarire come un nonnulla mandi a monte siffatte imprese
riporta il caso degli Oddi entrati notte tempo in Perugia per cacciare
i Baglioni, i quali omai occupavano la città e solo rimaneva loro
spezzare la catena della via che sbocca alla piazza, quando colui che
doveva romperne i serrami, stretto dalla turba sorvegnente, mal
potendo levare le braccia per menare la mazza ferrata esclamò:
«fatevi indietro!» La quale parola propagandosi di grado in
grado valse a impaurire gli ultimi; gli altri del costoro spavento
atterrironsi, sicchè con grandissima furia si ruppero. Questo narra
il Macchiavelli; questo altro più notabile assai riferisce
Teofilatte Simocatta. Gli Avari invasa la Tracia avevano messo le
tende vicino al monte Emo; di ciò avvertiti i Romani, su i quali
imperava allora Maurizio, nello intento di sorprenderli ed opprimerli
notte tempo si ficcano per certa forra angustissima camminando in due
colonne con i bagagli nel mezzo; all'improvviso incespica e casca un
somiero di cui il conduttore essendo andato innanzi, i sorvegnenti
impediti nel cammino lo richiamano per rimettere in piedi la bestia
gridando: «_retorna, retorna fratre._» Queste parole passando di
bocca in bocca fecero supporre, che trovato il nemico all'erta fosse
mestieri ritirarsi: i più paurosi subito sbandaronsi, e gli altri,
scomposti gli ordini, si trovarono costretti a seguitarli nella fuga.
Agevole moltiplicare gli esempi, bastino questi per dimostrare come
gli orditi con lungo studio dalla sapienza, la fortuna sovente in un
attimo disperda al vento.

Troppo mi ha proceduto infesto nel suo libro dei _Bersaglieri_ Emilio
Dandolo perchè io trascuri di ricordare com'egli dolente per la
riportata ferita, e più pel lacrimabile caso del suo fratello, non
potesse rimanersi all'ospedale in cotesta occasione; volle andare co'
compagni, onde fra la fatica durata, e il turbamento dell'animo gli si
inacerbì la piaga non poco. A me piace la vendetta, e così mi
vendico, dolente di non possedere maggiore ala d'ingegno per onorare
conforme ai meriti il giovane egregio.

La legione italiana rinvenuta alquanto dalla turpe battisoffiola, non
poteva darsi pace; le sembrava, e veramente si era coperta
d'ignominia: per ultimo deputava messi al Generale supplicandolo le
concedesse lavarla avventandola a qualunque più arrisicato assalto;
gli udì il Garibaldi con gli occhi fitti a terra senza nè un
motto nè un gesto, poi li licenziò con la mano, e parve non
volesse rimoversi per istanza nonchè degli indifferenti degli
amicissimi suoi: verso sera piegò l'ardua mente; stessero
apparecchiati, li proverebbe domani.

Però mentre il prode uomo mulinava il modo di picchiar forte il
nemico accadde un'avvisaglia inopinata, la quale ci fu e per morti, e
per altre sequele oltre modo funesta. Stavano il colonnello del Genio
Amedei e i marraioli suoi lavorando il contrapproccio alla villa
Corsini, e i Francesi lo andavano molestando con piccoli manipoli,
sicchè egli per levarsi cotesto pruno dagli occhi ordinava al
maggiore Panizzi, che lo rimbeccasse nelle regole: questi o
trasportato dal proprio ardore, o tratto dallo impeto dei soldati
muove col battaglione intero contro lo approccio nemico serrato in
colonna: ne nacque una orribile mischia, nè il moschetto, nè la
baionetta valevano, così erano venuti a corpo a corpo, ma i
Francesi dettero indietro per adoperare le armi: ai nostri facevano
difetto le munizioni; non per questo essi stornarono, somministrò
nuove armi il furore, e i Francesi maravigliati si sentirono percossi
da una sassaiola, che ridusse parecchi al lumicino. Dei nostri
morì, e fu pietà, il buon Panizzi romagnolo, soldato vecchio,
che aveva militato in Ispagna, e di fresco in Affrica co' Francesi; il
giorno innanzi era stato promosso maggiore: tre palle nel petto lo
freddarono, cadde nelle trincee nemiche, ma i suoi non consentendo
lasciare il suo corpo prigioniero, tornarono allo assalto per
riscattarlo: erano quindici, tutti sangue romagnolo; soli sei ne
rimasero illesi: non importa, questi sei portarono seco il cadavere
del diletto maggiore; il Fanti di Ferrara antico soldato del regno
italico offeso nel braccio destro, ne sofferse il taglio con mirabile
pazienza, e guariva, ma tanto lo strinse il dolore per la entrata dei
Francesi a Roma, che di passione morì. Il Poggi da Imola soldato, a
cui recisero il braccio sinistro, tagliato che l'ebbero se lo recò
nella destra e guardandolo alquanto uscì fuori con queste parole:
«mandatelo in Francia, e dacchè costà hanno fame di carne
umana i Francesi se lo mangino.» Quaranta furono dei nostri morti o
feriti. Il Garibaldi corrucciatosi per cotesta sconsigliata fazione,
se la prese coll'Amedei, e a torto; lo mandò in castello e
pretendeva sottoporlo a giudizio militare; se ne astenne meglio
consigliato, ma da quel dì in poi fra il corpo del Genio, e lo
stato maggiore del Garibaldi non corse più buon sangue, massime
ch'egli surrogava al colonnello Amedei il maggiore Romiti; da ciò
ne avvenne che si disfacessero i trinceramenti alle gole dei Bastioni,
preparando in questa guisa facile l'accesso al nemico, e a noi
togliendo l'abilità di difendere le breccie; la casa Savorelli non
si volle atterrare, nè fabbricarci il ridotto come avevano divisato
gli ufficiali del Genio, capace se non a preservare dalla caduta Roma,
almeno a ritardarla.

In questa giunsero parlamentari[1] dal campo nemico, e si dovevano
respingere, perchè le sono spie, e gli armistizi si chiedono dal
nemico perchè ha bisogno di tempo per nocerti meglio; portavano
lettere pel Generale dello esercito, per quello della Guardia
nazionale, pel presidente della Assemblea, pei Triumviri, proclami pel
popolo, e come se tutto questo fosse poco, inviti al Cernuschi, e al
Lombard di recarsi al campo: sonavano tutte le carte lo stesso
sermone; essere venuti a sostenere la libertà del Papa, e poi a
sostenere quella del popolo, li lasciassero entrare e si troverebbero
contenti: caso mai resistessero, guai! con sette Batterie allora
allora messe in punto gli fulminerebbe.» Risposero per le rime: non
si accettano le prepotenze, si sopportano dopo gli estremi sforzi per
repulsarle: degne le parole di tutti, degnissime queste del Generale
Rosselli: «considerando che vi è uno stato di vita per gli
uomini peggiore, che morte, se la guerra, che ci fate arrivasse a
porci in questo stato, meglio sarà chiudere per sempre gli occhi
alla luce, che vedere le interminabili oppressioni, e miseria della
nostra Patria.» Il Cernuschi e il Lombard andarono in campo dove
udirono proporsi una maniera di rappresentanza scenica mercè la
quale aveva a stabilirsi, che dopo aperta la breccia, e salvo a questo
modo l'onore soldatesco Roma si arrendesse: risposero, che i popoli si
ammazzano col ridicolo, ma caduti nel sangue risorgono. Accettabili
simili temperamenti pei Francesi, per gl'Italiani contennendi, e
abominati. Dopo l'Oudinot tentava nuovo assalto di viltà il
Corcelles, gli rispose il Mazzini, e fece male; con nessuno valsero
mai ragioni, e meno che con altri co' Francesi quando si sentono in
dieci contro uno.

  [1]  V. _Grassi_ Dizionario militare a questa voce.

Cessate le frodi ritornano le violenze: già i Francesi stavano
presso un sessanta passi ai Bastioni primo e secondo, le Batterie per
abbattere il Vascello, e le case circostanti erano compite;
trentacinque cannoni, e più gli altri, che come avvertimmo,
fornì il Re di Napoli si trovavano in punto di fulminare le mura;
nè basta, anco i mortai in procinto d'incominciare il fiero lavoro,
che di vero incominciò e terribile; nè si creda, che i Francesi
rispettassero gli Ospedali, o i Musei; venivano giù le palle senza
misericordia; forse un giorno i Francesi diventeranno civili, per ora
si contentano dirlo. Le mura di Roma non potevano resistere, sarebbe
stato buona provvidenza terrapienarle, ma non lo fecero, sicchè
ruinavano, scheggiavansi, e i frantumi schizzanti provavano i nostri
più dannosi delle palle; essi però non si sgomentavano, e quando
vedevano le bombe precipitare urlavano: «ecco Pio IX!» Appena
cadute con temerità piuttostochè con audacia saltavano loro
addosso, e ne staccavano la spoletta, o la troncavano portandole con
grande allegrezza al Garibaldi, il quale le pagava uno scudo l'una,
sicchè, per questo modo, veniva al difetto delle munizioni a
sopperirsi con quelle tolte al nemico. Anco allo stesso Garibaldi
accadde, che mentre visitava le difese una bomba gli cadesse forse
dieci passi distante, fuggirono tutti, egli rimase imperturbato e
solo; per ventura scoppiando lo coperse di terra senza fargli altro
male; allora gli si strinsero tutti alla vita gridando con immenso
entusiasmo: «viva Garibaldi!»

In quei giorni il capitano Castelnau recatisi a bordo del Magellano
buona quantità di soldati si recava a sobbissare la fonderia di
Porto Anzo, la quale cosa gli venne molto agevolmente conseguita;
sovvertì le fabbriche, ed inchiodò i cannoni; fatto questo,
ripartiva per Civitavecchia portando seco ottocento palle di vario
calibro, e novemila libbre di mitraglia; ed anco questo stroppio
accadde per imprevidenza, dacchè ogni qualunque soldato comecchè
mediocremente esperto avrebbe avvertito di tenere le polveriere, gli
arsenali, i magazzini insomma delle cose necessarie alla guerra in
parte dove il nemico non potesse agguantarle con subita scorreria.

La procella del fuoco, e del ferro imperversa più furiosa che mai,
ad onestare la barbarie i Francesi penseranno più tardi, e poi
facile impresa è per loro perpetuamente mentire; muoiono
combattenti, muoiono non combattenti, cittadini inermi, vecchi, donne,
e fanciulli; il tempio della Fortuna virile è manomesso, guasto il
dipinto dell'Aurora di Guido Reni, e gli altri del Pinturicchio, e del
Domenichino. I nostri quanto potevano facevano; anzi sopra le altre
preclara l'opera degli artiglieri, i quali non mai domandavano
sollievo non che sollazzo; tranquilli, taciturni surrogavansi a
vicenda, i vivi venivano a riempire i vuoti, che lasciavano i morti
senza osservazione, o lamento. I nostri ingegneri nel presagio che la
prima cinta sarebbe superata intendevano compirne un'altra, e ci
posero mano, ma anch'essa non fu condotta a termine, per mancanza di
braccia, però che i soldati del Garibaldi non potessero sopperire a
tutto, e il governo non provvide che 700, ovvero 800 uomini al dì,
non bastevoli all'uopo; forse non era sua la colpa; facile sempre la
censura, ed i Governi, comecchè solertissimi, nel tumulto degli
eventi, e nella perturbazione dell'animo provvedere a tutto non
possono; chi sta su la fossa piagne il morto: di ciò parleremo anco
altrove.--Certo buona volontà non mancava, e i cittadini solo, che
fossero stati chiamati, non sarebbero rimasti sordi allo appello,
però che fosse mestieri piuttosto cacciarli, che spronarli, ed in
fatti un giovanotto essendo stato respinto dalla trincea perchè
troppo piccolo, se ne tapinava esclamando: «o che forse il Generale
è grande!»

Questo è il combattimento, che accadde al ponte Molle. I Romani
temendo sorpresa, e danno dal lato dei monti Parioli attesero ad
allungarsi sopra queste colline; scontratisi col nemico ne successero
molte e varie avvisaglie di cui fu il fine, che i nostri snidassero i
Francesi da certe case ch'essi occupavano, e le incendessero; però
il giorno di poi non patendo essi cotesta cacciata, di buon mattino
valicarono grossi il ponte Molle, senonchè bersagliati dai nostri
cannoni che dalle alture li fulminavano ebbero a ripiegarsi su l'altra
sponda; ma nel pomeriggio il generale Guesviller li riconduceva
all'assalto contro la diritta difesa dal colonnello Masi; da una parte
e dall'altra incerta la fortuna, pari il valore; i capitani di stato
maggiore Podullack, e Taczanowski entrambi pollacchi accorsero al
quartiere generale per rinforzi, egli ebbero ma tardi e pochi
comandati da quel fiore di uomo Berti-Pichat nel quale ammiri in
bellissima concordia congiunte la dottrina, la probità, e la
virtù militare; bolognesi tutti. Quando arrivarono, le cose
volgevano al peggio però che i Francesi di cheto presero per di
dietro il luogo dove i nostri combattevano, i quali non potendo
reggere si ritirarono, e i Bolognesi essendosi di troppo avanzati
tardi si accorsero del passo disperato nel quale erano caduti;
venticinque ad un tratto colpiti giacquero per non rilevarsi più;
intimato il Podullack a cedere le armi rispondeva: «a voi altri
cani vituperati io non mi arrendo:» e uccise due Francesi uno di
spada, l'altro di pistola; giacque trafitto da cento punte, e lì
rimase; reso il giorno veniente agli amici supplichevoli ebbe onorata
sepoltura. Egli forse poteva salvarsi e non volle, non bastandogli il
cuore di lasciare in terra l'amico suo Taczanowski col ventre
lacerato; questi però scampava la vita; l'altro adesso riposa nella
nostra terra. Ah! non sarebbe stato così, che noi avremmo voluto
ospitarti cortese amico; pure abbiti quello che solo possiamo darti
pio ricordo nelle nostre famiglie, ed augurio di libertà alla tua
Patria; e forse un dì, affrancati anco noi dal grave aere, che ci
opprime, compenso di sangue al sangue tuo. Il Tenente Brugnoli
bolognese, comecchè squarciato, e grondante sangue ebbe balìa di
uscire dalle mani ai Francesi, il soldato Schelini vedendo un Francese
che aggavignato il Berti-Pichat intendeva strascinarlo seco, lo
ammazzò di botto, dando facoltà al suo comandante di svignarsela
incolume. Deplorammo il capitano Fiume spento sul campo, e Oliva da
San Severo. Questi con più lunga angoscia lasciava la vita; sul
punto di pigliare di assalto una casa tenuta dal nemico colto a sommo
il petto casca su la soglia di casa; quattordici giorni si
travagliò il misero lontano dai suoi, che non lo consolarono di
conforti, nè di lapide funerea, inconsapevoli del luogo dove fu
adagiato in grembo alla terra.--Io trovo scritto come in questa
fazione morisse un'altro giovanetto di anni diciassette di gentile
sembianza, e fiorentino; ferito nella gamba destra, all'ufficiale
francese, che gl'intimò la resa ruppe la testa gridando: «va via
soldato del Papa,» trafitto da cinque palle cadde sul nemico
spento; si chiamava Gherardi: perchè queste anime nella mia terra
non sono seme, che frutti? Quando ci si novereranno copiose come ora
ci appaiono rare Firenze meritamente vanterà per impresa il suo
leone; fino a quel dì le conviene molto meglio l'agnello di
Calimara.--

Si stringe intorno a Roma la fiera cintura di ferro e di fuoco, e il nemico
moltiplica le artiglierie a porta San Pancrazio, donde si aspetta
resistenza maggiore; apronsi finalmente dai Francesi le batterie di
Breccia, le rintuzzano i nostri cannoni dai monti Testaceo ed Aventino;
rabberciate le Trincee i nemici ripigliano il trarre, il Bastione VI non
senza danni pure fa buona prova; tracolla tutto il muro di cortina al
bastione VII, ma la terra non gli smotta dietro, anzi rimasta diritta a
picco difende, nè per lanciarvi contro granate punto si smuove. I
Francesi accatastando Breccia su Breccia ne costruiscono tre per tempestare
il Vascello, la Villa Savorelli, e le case di fianco alla porta San
Pancrazio: qui cadde il tenente Cesare Covelli cui il colpo stritolò il
braccio; tribolava due giorni, e poi chiuse gli occhi alla vita, non
infelice affatto perchè morì nella speranza, che Roma la potesse
sgarare contro i Francesi; altri sei artiglieri morirono a un tratto per
colpa di una palla, che imboccò dentro la cannoniera; anco il buon
Ludovico Calandrelli percosso nel petto da un frammento di ruota ebbe a
cessare le difese; chi lo vide mi dice, che portò lungamente la parte
lesa nera più che carbone. Il Garibaldi considerando come cotesto
Bastione armato di pezzi da campagna mentre al nemico non arrecava danno
era causa di lutti deplorabili ordinò lo disarmassero; ed anco dalla
Villa Savorelli gli toccava a sloggiare; ormai l'avevano tolta di mira, che
non meno di 80 a 90 bombe al dì ci cascavano dintorno; una entrò in
camera al Manara mentre stava facendo colazione, e tu pensa se
sobbissassero soffitte, pavimento, porte, e finestre, un'altra fra i
cavalli nella stalla di casa e non ne uccise veruno; invece un'altra caduta
nella casa attigua ne ammazzò due; con questa pioggia di bombe pure
bastava il cuore al Garibaldi di tenere lì dentro la villa un barile di
polvere; nè per questo ei faceva le viste di andarsene; il giorno
seguente le bombe caddero nella stanza dei segretari e ci appiccarono il
fuoco, la prossima casa sfasciarono, e il Garibaldi non si decideva; alla
fine gli misero in frantumi la torretta, e allora gli fu mestieri
ricoverare altrove. Nè vo' tacere come un'altra bomba ruinata fra i
galeotti i quali lavoravano alle trincee in un colpo ne ammazzasse sei; di
sessanta ormai si trovavano ridotti a quaranta quando supplicarono il
Generale gli avventurasse agli estremi pericoli, e premio di tanto fosse la
morte onorata, o la colpa espiata, ed ei rispose loro sperassero, intanto
continuassero a chiarire il mondo come nocenti cittadini fossero stati
contro il prossimo, ma della Patria figli pur sempre: tutti si comportarono
da valorosi, taluno da eroe, ed ecco come. Al Garibaldi, che certo giorno
visitava le opere condotte da questi sciagurati, uno di essi parlò e
disse: «posso io discorrervi?--Parlate.--Generale, perchè mo' ce
lasciate là e' Francesi?» E gl'indicava il Casino dei Quattro venti;
a cui il Generale sorridendo: «perchè non ci riesce a cacciarli
via.--Ma scusate Generale se ce andiamo noi, loro non ci possono
stare.--Qui appunto sta l'osso.--Scusate Generale questa difficoltà non
ce la vedo, se me date quaranta omini di fegato, io ve caccio li Francesi
da quel posto.» Ebbe il servo della pena i quaranta compagni, e andò
diritto al palazzo Corsini pigliando per la porta e per lo mezzo del viale
fiancheggiato da cipressi; appena i Francesi li scorgono con le infallibili
carabine li fulminano, taluni cascano, altri riparano dietro ai cipressi,
ma il condottiero di cotesta impresa non curante di loro procede
imperturbato col suo moschetto sopra la spalla; il nemico riseconda la
scarica, e per questa eziandio taluni ristanno per ferite, altri per paura,
nè costui piega collo, solo passa la linea delle scolte nemiche, e solo
arriva a piè del palazzo, dove per mostrare ai Romani, che dalle mura lo
seguitavano trepidanti coll'occhio, come in lui non allignasse jattanza o
se pure jattanza non superiore alla virtù si pose a sedere su la
gradinata davanti all'uscio col fucile fra le gambe. Il Garibaldi acceso in
volto eccitava i circostanti ad avventarsi con lui al soccorso
dell'animoso; il forzato intanto poichè si fu rimasto tempo più, che
bastevole per essere veduto così dagli amici come dai nemici, si leva in
piedi, e con l'archibugio su la spalla ripassa la linea delle sentinelle
francesi, e di bel nuovo per lo mezzo del viale s'incammina a Roma; ormai
ne aveva trascorso più che un terzo quando una palla lo ferì nei
reni, ed egli tracollando inforcò con la testa un cipresso dove finì
la mal vissuta, ma ben conchiusa vita. Il Garibaldi a quella vista si
picchiò del pugno su la fronte, e volto al cielo mormorava non so che
parole; forse avrà invocato Dio; io però non lo guarentirei. Pochi
giorni dopo successe un'altro caso, il quale dimostra come facile si
apprenda in cuor di popolo l'agonia di gesti generosi, ed io lo racconto
non solo per questo, ma altresì perchè si vergognino (se mai fosse
possibile) coloro, che per essersi messi un dì al cimento per la Patria
non rifinano mai di rinfacciarlo pretendendo di essere adesso mantenuti del
danaro pubblico oziando nel Pritaneo, o di risucchiare eterne mignatte le
tasche dei privati.

Certo Barabba, che tale hanno nome i facchini a Milano, avendo osservato
come i Francesi lavorassero indefessi ad alzare un terrapieno dalla
sinistra parte del Vascello, se ne andò in fretta ad avvisarne Giacomo
Medici, il quale rispose breve: saperlo. Il Barabba incollerito ripiglia:
«o perchè non s'impedisce?» E il Medici più aggrondato, che
mai: «non si può.» Il Barabba sta cheto, e quinci partitosi si
accorda con alquanti dei suoi compagni, gente pronta a mettersi in
qualunque sbaraglio, e con essi esce dal Vascello; di celato si accosta ora
nascondendosi dietro a un vaso di limoni, ed ora dietro una siepe al
terrapieno; alla stregua, che sparisce lo spazio ai compagni viene manco il
coraggio, sicchè all'ultimo resta solo, nè di ciò si accorge: solo
pertanto arriva al terrapieno, e solo di un salto piomba giù fra i
soldati gridando: «siete tutti morti!» I Francesi naturalmente
temendo gli tenesse dietro grossa mano dei nostri, gittati via i badili, e
le vanghe scappano via a pigliare i moschetti, per difendersi; ma il
Barabba volgendo allora gli occhi per contare un po' con quanti moveva
all'assalto, si scorge solo: pianse di rabbia, e per questa volta la
fortuna risparmiando l'animoso gli concesse tornare salvo al Vascello, dove
il Medici dopo avergli concesso le meritate lodi lo volle con una moneta
ricompensare: il Barabba gli ficcò gli occhi addosso a squarcia sacco,
ma il Medici pronto riparava la svista dicendo: «tienla per cambiarla in
una medaglia.»

Molti i feriti da questo continuo grandinare di palle; fra i morti
ricordansi il Lenzi tenente, Tavolacci, Marucci, Fedeli, pure tenenti,
e il capitano Minuto.

Ora al Vascello; forte edifizio, con alcune case dintorno: di giorno
lo difendeva il Medici con 150 soldati, cui nella notte rinforzavano
ora con una mano di uomini di questo, ed ora di quell'altro corpo
Unione, Finanzieri, Studenti, o legione Arcioni.--Avendo il Medici
condotto una Trincea dal Vascello fin presso la casa Giacometti
proprio di rincontro alle Trincee dei francesi, questi per levarsi
cotesto pruno dagli occhi, che del continuo li molestava, si giovarono
di una nebbia che sorse densissima nella notte del 21 Giugno, pensando
cascare improvviso sopra i trentacinque uomini custodi della nostra
Trincea e della casa: però tanto non seppero studiare il passo che
intralciati dalle vigne non dessero la sveglia; onde il comandante dei
nostri trentacinque ordinava, non fiatassero, sfolgorassero il nemico
appena pestasse le canne stese oltre la porta un dieci passi, poi
fuori a ributtarlo con la bajonetta; e così fecero; erano i
Francesi due compagnie di granatieri del reggimento trentesimo sesto;
scorate scapparono lasciando in terra morti il capitano, con altri
dieci soldati; moribondo un sergente, con parecchi granatieri feriti.
Per ora taccio del Vascello, ci tornerò in breve; intanto si sappia
che il Medici lo difende sempre, e che i Francesi sfogando sopra
quello la soldatesca rabbia lo hanno lacero in modo, che se si regge
ancora pare miracolo.--

Fra le dolenti mi occorre narrare adesso dolentissima storia; correva
la notte del 21 al 22 fosca per fitti nuvoli, e piovigginosa: anco dai
più imperiti si comprendeva essere mestieri raddoppiare vigilanza,
e di vero si raddoppiò, perchè temendo l'assalto appunto dalla
parte donde venne furono mandate per tempissimo nel pomeriggio del 21
sei compagnie del Battaglione della Unione a presidiare il luogo;
quivi erano state fatte tre Breccie facili a salirsi, se non che i
nostri vi avevano a poca distanza scavato una fossa, e riempitala di
materie infiammabili, che avrebbero dovuto scoppiare appena fossero
comparsi i Francesi, la quale opera avevano confidata a certo
ingegnere prussiano, e a lavoranti stranieri. Delle sei compagnie tre
ne posero a custodia del Bastione secondo, una dietro la Breccia della
Cortina, due di presidio al Bastione terzo: anco due sentinelle furono
collocate su i palchi rimasti ritti ai fianchi del Bastione secondo, e
sei altre su l'alto della Breccia dietro a macerie di sassi; venne
loro ordinato: «stessero vigili, appena udissero rumore gridassero:
all'armi! meglio spaventarsi indarno, che rimanere sorpresi.» E
poichè lì presso sorgeva un folto canneto ebbero avvertenza di
metterci un'uffiziale con quattro soldati con ripetuto comando, che al
menomo stormire di gente incendiassero il canneto; furono eziandio
disposti due punti di ritirata; diligenze pari adoperaronsi al
Bastione terzo; anzi ammoniti gli ufficiali a volere persuadere i
soldati a vegliare tutti, questi senza attendere domanda con gran voce
esclamarono: «noi veglieremo, e faremo tenere desti i compagni.--Al
Bastione quarto si raccomandò conservassero a qualunque costo la
casa vicina per avere adito di ripigliare ad ogni sinistro la breccia,
e siccome pareva, ed era il presidio debole fu sollecitato il maggiore
Cenni a rinforzarlo.--Per non mancare poi alla più minuta
diligenza, che l'arte della guerra suggerisce al Bastione secondo
venne deputato a soprastare l'ufficiale di stato maggiore Capitano
Stagnetti; al Bastione quarto il capitano Caroni.

E malgrado tuttociò verso le ore undici di notte un aiutante del
maggiore Delaj comandante le sei compagnie della Unione, arrivava tutto
smarrito a riportare al Generale Garibaldi come i Francesi senza colpo
ferire avessero preso le tre breccie.--Quello che il Garibaldi in cotesta
occasione facesse e dicesse mi occorre scritto nelle memorie di tale che ci
si trovò, presente: «verso la mezzanotte il Generale scese taciturno,
e torvo, Manara scriveva; incontrato il centurione Zannucchi il Garibaldi
gli domandò:--che ci è di nuovo?--Generale i Francesi hanno superato
la breccia.--Gli hai tu veduti?--Non vi state a confondere pur troppo ci
sono.--Allora mosse frettoloso quattro passi o sei per uscire, poi di un
tratto si volse a me dicendo:--chi sa, che cosa hanno mai veduto! Avete
pronta la vostra gente? Mandate un'uomo capace a scoprire.--Io vi mandai il
sergente Marcheselli mantovano, e al tempo stesso schierai la coorte; di un
tratto il Generale senza aspettare l'arrivo del Marcheselli mi ordina
seguirlo coi miei soldati; così camminammo un pezzo, quando fummo
prossimi alla breccia a tramontana levante della Villa Spada, mi disse:
«voi andate per di lì, e mi additava un sentiero verso la breccia,
egli poi avendo incontrato il maggior Leggiero si avviò con quello verso
porta San Pancrazio, ma non fornirono insieme il cammino perchè indi a
breve il maggiore ferito malamente in un piede non potè più
andare.--Io proseguii, e mutati appena duegento passi una voce si fece
sentire che domandò: _êtes-vous français?_ Ed io senza gingillare
ai miei: «fuoco!» Cotesta risolutezza ci salvò, perchè ne surse
un diavolìo di moschettate da altre parti, e noi potemmo non curati
salvarci senza morti, come senza ferite.»

Nè al Garibaldi solo parve incredibile il fatto, ma alla più
parte dei suoi, segnatamente a quella anima virtuosa di virtù
antica Ugo Bassi.--Adesso del Bassi veruno parla come pur si dovrebbe:
troppi morti ci domandano ricordo e compianto, e poichè tutti in
affetto sono pari così non si distinguono, e non si possono
distinguere: ma il Tempo agita continuo il ventilabro, e lo
sceveramento si opera necessario; più tardi verrà chi di lui
amoroso ricerchi, ed arguto ragioni: singolare miscela fu di due
nature non pure diverse ma contrarie, ora avvampante, ora riserbato e
freddo, tra pochi timido, male e scarso favellatore; tra molti turbine
di parole, e temerario; quando sentiva strepito di cannone, o di
moschetti non si poteva tenere, e gli era forza avventarsi là in
mezzo al fumo, e al fuoco senza nè manco sapere, che cosa ci
andasse a fare: che cosa lo reggesse davvero non si sapeva, poco si
nudriva, meno beveva, di rado lo visitava il sonno: sottile e pallido
e tuttavia infaticabile, e di nervi gagliardo. Quando sovveniva
qualche caduto poteva scoppiargli una bomba accanto non che ci si
fosse mosso, non l'avrebbe nè anco sentita. Certo dì cavalcando
in compagnia del Garibaldi casca vicino a loro una bomba; potevano
sottrarsi al pericolo con la fuga, ma il prode uomo non ci pensa
nemmeno; in un'attimo è sceso, strappa la _spoletta_, la spenge, ed
impedisce, che scoppiando danneggi altrui e sè. Il Garibaldi
frugatosi nelle tasche ne cavò un baiocco e sorridendo gli disse:
«piglia, questa è la _decorazione_, che sola può darti il
capitano del popolo.» In questa notte pertanto il Bassi facendosi a
trovare il medico del Generale tutto affannoso gli diceva: «O
Ripari mio; i Francesi hanno preso la breccia; possibile mai! Io non
ci credo. Bisogna saperlo di certo.--E come possiamo fare? Rispondeva
il Dottore.--Andare noi stessi a vedere.--Questo non si può, troppo
lunga è la strada, pioviscola, e sul cammino si sdrucciola.--
Vieni, ma vieni, fammi la carità, non mi mancare amico.» E il
Ripari, che mai non seppe negare siffatte voglie allo amico andava con
lui.--Le mura si vedovano per l'aere fosco a cagione della linea anco
più nera, che disegnavano in quello; di un tratto la mirano
spezzata, con molta cura accostansi, ma non rinvengono persona, che
occupasse lo spazio vuoto; proseguirono fino alla seconda cinta, e qui
notarono incoronate le macerie di punte. «Eccoli lì, parlava
sommesso il Ripari, coteste le sono baionette. E il Bassi,--non si
può negare, ma come ci chiariremo se le sono nostre o piuttosto
nemiche? Aspetta mo', che ti chiarisco io, riprese il Ripari; poi a
voce alta gridò: «chi va là?» Dalla trincera con accento
strano risposero: «_amizi, amizi_.» Nè di tanto pago il
Ripari da capo esclama: «avanti!» E la medesima voce di rimando:
«_non puole, non puole_.» «Ti basta?» Il Bassi strinse la
mano al Ripari come convulso, e questi lo persuase a gettarsi seco
nelle vie coperte praticate dai nostri lungo le mura per iscampare ad
imminentissima morte.--

La breccia era presa: ora come mai avvenne questo? Corse subito il
grido di tradimento, e tuttavia dura, però importa considerare come
quante volte simili sorprese succedono, la voce di tradimento venga a
galla sempre, e la cosa ci sia di rado: qui dissero, che un'ufficiale
corso calatosi dalle mura andasse ad informare i Francesi, che lì
presso alla breccia occorreva un antico acquedotto, e per questo i
Francesi inoltrandosi sicuri, e d'improvviso apparissero sopra la
breccia come usciti di sotto terra, e non fu vero: di acquedotto non
si rinvenne traccia, nè ai Francesi faceva mestieri di fuggitivi,
che gli ragguagliassero; come altrove accennai, molte lettere
arrivavano loro pel Tevere chiuse in boccie vuote, e quasi queste non
bastassero col favore dei preti entravano ufficiali francesi ad ogni
momento per ispiare lo stato delle difese: fantasticarono altresì,
che l'ingegnere prussiano co' suoi lavoranti invece d'incendiare le
mine praticate nelle vie coperte se la intendesse co' Francesi e loro
consegnasse per pecunia le vie dond'essi sbucarono: ed anco questo
sembra falso; vero questo altro: che i Francesi cadutigli addosso
repentini, lui, e i suoi menassero prigioni: non mancarono attribuirne
la colpa al maggiore Delaj, ed anco si ventilò se avesse a
sottoporsi a Consiglio di guerra, ma poi si lasciò correre. Per chi
costuma leggere storie conosce come non ci abbia diligenza per
accurata che sia, che il nemico solerte non arrivi a vincere. Nella
vita di Arato il Plutarco egregiamente racconta il modo col quale
cotesto eroe penetrava in Sicione malgrado l'abbaiare dei cani, e il
continuo aggirarsi delle guardie, sicchè la scalata accadde per lo
appunto dopo il passo di due di loro, strepitose per campanelli
agitati, e schiarite da molte fiaccole. Narrando io di Andrea Doria
ricordai come questi, il quale sapendosi in odio a Francesco I, e il
nemico quasi in casa, stando pure su l'avvisato la sgarò di un pelo
di cascare in mano ai Francesi, che con notturna scorreria assaltarono
Fassuolo, e non la scampava se per ventura taluni soldati non avessero
preferito al sonno il giocare a carte: e se la fama porge il vero
quando il generale Lamarmora s'impadronì nel 1849 di Genova
trovò le guardie messe a difendere la Lanterna le quali senza un
pensiero del nemico su le porte si sollazzavano parimente con le
carte.--Posto da parte l'ultimo esempio, se le altre due sorprese
compironsi a danno di uomini vecchi, sospettosi, e guardinghi che
stavano a buona guardia, tanto più agevolmente poterono condursi a
termine in questa occasione in cui forza è pur dirlo, le
provvisioni furono o fatte male, od omesse, parte per difetto di
facoltà, e parte per imperizia: abbondavano nei nostri impeto, e
ardire, ma di pazienza non volevano saperne; soprattutto la disciplina
avevano in uggia, è mancando questa all'ultimo le imprese riescono
sempre a male: poi come succede ognuno saltava su a dire la sua, nè
solo la diceva ma pretendeva si eseguisse, e se inesaudito empiva la
città di querimonie e di sospetti; il corpo degl'ingegneri nostri
eccellentissimo di peregrini ingegni, ma imperito nelle opere
militari, quello dei Francesi all'incontro superiore a molti, secondo
a veruno, ed il suo capo Vaillant celeberrimo per meritata fama. Anco
il nostro ministro della guerra, ch'era quel prode uomo che il mondo
conosce, Avezzana, sapeva di barricate, non d'ingegneria militare per
difendere piazze, e mentre a quelle dava opera premurosa ed
inefficace, di queste poco si prendeva pensiero. Del Garibaldi parmi
senza esitanza potersi affermare, che a lui non si confanno i modi
dello star chiuso a difendere mura; egli ama i campi aperti, le selve,
i monti; secondo il suo genio i colpi arditi, lo avvolgersi
impenetrabile, lo avventarsi prodigioso come di aquila, che piombi
giù dalla rupe.--Rosselli per indole, per istudi, tutto diverso a
lui, egli ricercatore di teorie, e a quelle ossequente minuzioso. A
comandare troppi, troppi pochi a obbedire: forse anco un po' di
screzio si era intromesso fra i capi; i continui sforzi non allietati
mai dalla vittoria, e la certezza di avere pure a cedere il primitivo
ardore in parecchi più speculativi avrà sboglientito di certo, e
chi altramente si avvisa non conosce o non vuole conoscere il cuore
dell'uomo; nè il Garibaldi lo dissimula nelle memorie che mi manda,
dove trovo queste parole notabili; «i corpi ormai andavano privi
dei migliori ufficiali e soldati: anco fra quelli che prima si erano
comportati mirabilmente, adesso che vedevano le cose incamminarsi a
male, si manifestava una tal quale reluttanza, ed anco, se vuoi,
resistenza, massime tra gli ufficiali che ormai tendevano ad
acconciarsi con la restaurazione del Papa: resistenza, che era ad un
punto causa di continui imbarazzi, e preludio di quasi certa
rovina.»

Tali, con breve sermone io lo esporrò, l'apparecchio, e l'assalto
dei Francesi: allestirono dodici compagnie della seconda divisione, e
sei divise in tre colonne preposero all'assalto delle brecce: ad
ognuna di queste assegnarono centottanta tra zappatori, e lavoranti
perchè rimovessero gl'impacci, e con gabbionate costruissero
subitanei ripari; le altre sei alla riserva: ancora due battaglioni
della guardia della trincea al bisogno dovevano soccorrere la riserva;
soprattutto badassero a impedire che i nostri sortendo da Porta San
Pancrazio circuissero gli assalitori alle spalle. Tutta la prima
divisione in arme nelle ville Pamfili, e Corsini in procinto di
accorrere alla riscossa là dove se ne fosse manifestato il
bisogno.--Con accorgimento vieto di guerra, e tuttavia sempre efficace
i Francesi dissimularono il vero assalto con due finti alle mura di
Porta San Paolo, e ai monti Parioli in vicinanza della villa Borghese
adoperandoci cinque battaglioni, e artiglierie a macca, le quali
diluviarono bombe, granate, e di ogni maniera arnesi di distruzione
sopra la più bella parte di Roma. Alle undici di notte dava il
segnale dello assalto il colonnello Niel, i Francesi procedendo cauti,
ed ordinati, colgono i Prussiani nella via coperta, e presili a man
salva, impediscono la strage che avrebbero menato le allestite mine se
fossero state accese; una sentinella sola porse avviso, ma tardi, o
per sua negligenza, o per mirabile celerità del nemico, che davvero
parve ai nostri trasognati balzasse fuori di sotto terra; la paura
(che paura fu) s'impadronì dei soldati della _Unione_, i quali
ripiegaronsi, scaricate le armi a tumulto, sopra le due case, nè li
ristettero, anzi dando indietro alla dirotta, travolsero nella turpe
fuga i difensori di quelle, e gli altri, che dovevano tener fermo alla
cortina.--Il tenente colonnello Rossi preposto alla difesa della
seconda linea non si potendo dar pace per cotesto inopinato rovescio,
e reputandolo uno dei soliti spaventi senza causa andò a speculare
per lo quale inoltratosi fino in mezzo ai nemici che lo lasciarono
avanzare cadde prigioniero.

Se la fuga vergognosa arrugginisse il cuore del Garibaldi pensi chi
legge, molto più, che egli aveva dichiarato, come il Palafox a
Sarragozza, volere difendere le breccie col coltello mostrando la
faccia alla fortuna; chiamato pertanto il Sacchi gli comanda tolga
seco due compagnie, e corra a ripigliare ad ogni costo il Bastione:
«scelti, scrive il Sacchi (il quale si compiacque anch'egli
sovvenirmi in questo lavoro) la terza, e la quinta centuria entrambi
comandate da due ufficiali di Montevideo: ricordo il nome di uno
ch'era Cuccelli; ho dimenticato l'altro, ma si diceva Corso; si
spinsero innanzi con maraviglioso ardimento, ma giunte forse venti
passi discosto dal nemico un fuoco micidialissimo le decimò:
ciononostante gli ufficiali animosi s'ingegnano spingere i soldati
contro i Francesi, i quali se ne stavano al coperto dentro ad un fosso
scavato dai nostri a danno loro dirimpetto alla breccia, e che adesso
li protegge a danno nostro: alla prima scarica successe un grandinare
di palle dal ciglione esterno del bastione occupato del pari dai
Francesi: per colmo di sventura un colpo di mitraglia diretto contro i
nemici investe i miei poveri soldati, i quali laceri da due fuochi si
scompigliano e cedono dopo avere dato prove di valore disperato.»

Quivi morì Sampieri giovane vicentino, bello di corpo e di animo
bellissimo, il quale non si sapendo trattenere saltò nel fosso e
rimase sopra le baionette francesi trafitto; altri giacquero spenti
sul ciglione, sicchè alla dimane i nostri ci raccolsero ben
ventidue cadaveri; tra questi Quirino Bernardini sergente nella prima
centuria della legione italiana: a questo prode giovane sembrando
possedere virtù pari a coloro, che innanzi a lui erano stati
promossi (e certamente l'avea), tenne che ciò accadesse non per
colpa degli uomini, bensì per malignità della fortuna, la quale
gl'impediva illustrarsi con qualche generoso fatto, onde deliberato di
mettersi allo sbaraglio nella prima occasione, depose il suo
testamento in mano amica, e poi cercò il destro di condurre a fine
il suo proposito, per la quale cosa comecchè non chiamato volle
spontaneo far parte della gente del Sacchi commessa a cacciare via i
Francesi dalla breccia; andò, combattè come uomo che ormai si
era votato alla Patria: per ferite non si rimase, finchè alito gli
durò percosse, e fu percosso; coll'ultimo colpo abbandonò la
vita, spettacolo di orrore, e di stupore ai suoi medesimi nemici.

Già accennai come in quella notte nefasta andasse perduta la villa
Barberini; alla difesa di lei fu un tempo preposto Carlo Gorini;
quinci egli doveva custodire la breccia, e tenne lo impegno
disperdendo a suono di archibugiate il nemico ovvero lanciando granate
a mano in mezzo di lui.

Il Cadolini ch'era dei soldati del Gorini ci narra perigliosissimo il
compito loro, imperciocchè avendo a vigilare scoperti al lato della
breccia di frequente andassero feriti dai frantumi, che schizzavano dai
sassi percossi dalle palle nemiche. Mi parrebbe mancare al mio debito se
tacessi quali nella massima parte fossero i soldati di Roma, e qual genio
gli animasse: giovani illustri, delle più inclite famiglie italiane,
pieni di grandezza l'anima, come di valore nel braccio; e tuttavia la gente
turpe, che altrove e in Francia, ma più in Francia, che altrove, fa
mercato di sè ardì infamarla; però che il costume di tempi
perdutissimi insegni accusare altrui per nascondere il delitto proprio; ma
di ciò basti, ed è troppo. Tali e siffatti i pensieri di quei giovani
soldati: «quelle ore (scrive nelle sue note il buon Cadolini che stese a
posta per me) di servizio notturno erano le più solenni per noi. Dalla
cima dei bastioni del Gianicolo donde si vedeva da un lato torreggiare il
Vaticano, da un altro distendersi la campagna romana, e finalmente la valle
del Tevere, le immagini più sublimi venivano ad affollarsi alla nostra
giovane mente. Roma cuna della civiltà antica, e sede della più
estesa, e più durevole potenza a cui sieno giunti i popoli del mondo.
Dove più che in Roma esempi immortali di glorie militari, e di virtù
cittadine? E se di Roma antica porgono testimonianza il Gianicolo campo un
tempo delle contese dei vetusti abitatori dell'agro romano, e delle guerre
dei Vejenti, il Tevere, i Sette colli, il Panteon di Agrippa, la mole
Adriana, e gli altri innumeri non meno che stupendi monumenti, Roma moderna
attesta, sopra ogni altro edificio, la basilica Vaticana, prova di quanto
potè il Papato, e tuttavia possa il cattolicesimo ora fatto ostacolo in
mezzo alla via al cammino della Libertà. Questo spettacolo, che la luna
illuminando co' pallidi raggi rendeva più solenne sublimava il nostro
intelletto facendolo capace dell'altezza sopra umana del mandato impostoci
dalla Provvidenza di rigenerare un popolo caduto, e che tanta parte ritenne
della divinità; sicchè sovente meditavamo fra noi: quì per noi
hassi a calpestare il nido delle vipere che attossicano la umanità;
quì per noi deve rifiorire l'antica libertà; quì al cospetto degli
spiriti magni ci corre il debito di mostrarci non al tutto degeneri da
loro: anima e corpo dobbiamo intendere perchè la storia di questi colli
aggiunga ai molti passati qualche odierno gesto degno dei grandi propositi
di cui ci lasciarono gli antichi padri esempi immortali.»

Certo di questa maniera concetti non mulinano nel capo delle macchine
tirate su a suono di raspa dalla obbedienza cieca, e passiva: e ci
somministra argomento di riso la gagliofferia di coloro, che mentre
imbestiano l'uomo più delle bestie pretendono poi che per la Patria
dieno il sangue, e la vita; arrogi di rincalzo, che la Patria per questi
non si deve capire come la comprendiamo noi, bensì Patria ha da essere
un'uomo, che spesso la vera Patria strazia, e sempre la risucchia,
togliendo per sè solo quello che diviso basterebbe a quattromila
famiglie: nè quì finisce, chè la ricchezza smodata come corrompe
chi la gode così è causa che altri si corrompa: ed invano il
consorzio umano si affatica sanarsi, finchè gli duri perenne il fradicio
in corpo. Perdonsi a tagliuzzare le fronde, e aborrono capire, che con
l'accetta si vogliono dare colpi a due mani nel ceppo.

Certo i luoghi esercitano virtù grande su le menti, nè l'uomo
può mostrarsi vile a Maratona, o a Roma; e credo anch'io che dalla
terra, e dall'aria romane venisse un senso, che valse a mutare pochi
giovani imperiti di milizia in eroi prestanti a resistere alla forza
materiale di eserciti meglio agguerriti del mondo; i quali tanto
più fieno argomento di eterna maraviglia quando tu pensi, che
speranza di vincere ormai più non avevano; di aiuti dagli amici di
Francia erano sfidati; come se non bastasse la Francia stavano lì
pronte a sovvenirla le monarchie di Austria, di Napoli, e di Spagna; e
tuttavia essi si mantennero uniti allo scopo di chiarire i posteri
come i presenti che dove la Libertà è il retaggio, che il popolo
difende, la impresa può annegare nel sangue, nella viltà non
mai.

Alla gente del Gorini richiamata dentro Roma la mattina del 21
surrogarono alcune compagnie di soldati di linea; perdute le breccie
verso la mezzanotte di nuovo la spingevano verso la porta di San
Pancrazio; le ordinavano presidiasse la villa Spada e la difendesse;
potendo ripigliasse la villa Barberina, ma prima ne aspettasse il
comando: non se lo fece dire due volte, e appena giunta incominciò
a fioccare moschettate alla dirotta contro i Francesi annidiati nella
villa Barberina: quando appena si fu messa un po' di luce la gente
domandava con alti gridi la conducessero allo assalto; ella vedeva pur
troppo, che dal riacquisto di coteste linee pendevano la vita o la
morte di Roma, ma l'ordine di moversi non venne: intanto il nemico
ultimò le sue opere di difesa, e i nostri in cotesta avvisaglia
senza costrutto andavano stremandosi con danno irreparabile.--

Le storie delle battaglie vanno piene di singolari presentimenti
palesati intorno alla propria morte da coloro, che in effetto
perirono; forse ciò avviene perchè quando la morte presagita
tiene dietro al presagio la gente ne serba conto, mentre in caso
diverso passa inavvertito, o ne omette il ricordo; tuttavia confesso,
che vi hanno successi nel mondo dei quali è difficile per non dire
impossibile rendere ragione: adesso vuolsi sapere come certo Giuseppe
Magni da Milano sergente parlando in quel giorno della battaglia del 3
giugno ebbe a notare: «cotesto fu il dì dei caporali (e di vero
assai ne morirono allora) oggi viene quello dei sergenti, ed io
sarò tra i morti,» e così accadde: dopo non bene un quarto di
ora colpito di palla nella fronte periva; indi a breve pari sorte
toccava a Carlo Ramesi: tale ugualmente auspicava di sè un Vigoni
di Pavia, che incamminandosi verso Roma diceva ai compagni: «là
una delle prime palle mi aspetta;» e come disse avvenne.

Tardi e in mal punto davano alla gente del Gorini l'ordine dello assalto
alla villa Barberina; erano le dieci del giorno ventidue di giugno: notava
il Gorini con centosessanta uomini, (che tanti sommavano i suoi la più
parte studenti lombardi) si poteva combattere non vincere; lo assicurarono
andasse senza sospetto, altra gente sarebbe mossa a rincalzarlo: di ciò
non dubitando il Gorini co' suoi si pose per calli dirotti, e segreti, onde
trafelando giunsero alla distanza di cinquanta forse passi dalla Villa. Il
Gorini ordina di abbassare le punte delle baionette, e primo si avventa.
Perchè primo si avventa l'animoso, pure accennando con la mano ai
compagni si tengano lontano? Egli quando per lo addietro presidiò
cotesta villa erasi industriato praticarvi fornelli e mine caso mai
l'avesse dovuta abbandonare, adesso nello accostarcisi notando, com'ella
apparisse deserta dubitò i Francesi non usassero a danno suo, e dei suoi
gli ammanniti eccidi: quanto a sè non gli premeva, dei compagni sì:
saliva pertanto solo la scala esterna, che mena su la terrazza; quinci
scese nel cortile; di lì penetrava nel piano terreno, dove riscontrò
che i Francesi avevano omesso di caricare le mine; di tanto sicuro tornava
sopra la terrazza per confortare i suoi ad occupare senz'altro indugio la
villa, dacchè i Francesi da certe trincee condotte lì accosto durante
la notte li bersagliassero a man salva; si appressano, e cominciano a
salire a rilento per non mostrare, che lo facessero per voglia di
schermirsi dietro ai muri, quando appena sette ne sono saliti ad un tratto
la villa si converte in Mongibello, fuoco dalle cantine, fuoco dalle
feritoie durante la notte praticate nei muri, fuoco finalmente prorompe dai
piani superiori: come per virtù d'incantesimo ingombra in un'attimo la
terrazza di Francesi; ristettero gli altri presi da stupore piuttostochè
da spavento; incominciò una pugna terribile fra i nostri sette sopra la
terrazza e lo universo sforzo dei Francesi, che nascosti nei penetrali
della villa mano a mano sbucavano fuori. Non iscrivo jattanze, ma verità
mi costringe a dire, che se i Francesi avessero avuto più cuore
avrebbero trucidato i sette, e circuito gli altri da pigliarli prigioni
quanti erano; la ferocia dei nostri al tutto decisi di morire li
sbigottì, onde i Francesi vibravano appena il colpo della baionetta, e
fuggivano, sicchè male assestato poco feriva: ciò spiega come
Girolamo Indunio, di cui tenni altrove proposito, malgrado, che in questo
scontro riportasse ben venticinque colpi di baionetta nel corpo, nondimanco
andò salvo, veruno di cotesti essendo mortale, e gli concedessero
perfino balìa di lasciarsi andare giù dalla terrazza alta tre metri,
dove i nostri lo raccolsero tutto sangue. Il Gorini già ferito di palla
nel braccio, e di baionetta nella coscia considerato lo assalto fuori di
speranza di riuscita, nè si vedendo da veruna parte sovvenuto pensava a
ritirarsi meno lacero, che per lui si potesse, quando sdrucciolando sul
sangue rotola giù per la scala a capo fitto con risico di spaccarsi il
cranio; nel duro picchio, o piuttosto nei molti cozzi gli si ruppe la
sciabola di cui, anco dopo la caduta agitava convulso il troncone quasi in
testimonio, che i nemici venti volte superiori non fossero riusciti a
disarmarlo. Il Cadolini si trovò fra i sette, ed ebbe la sua ferita di
baionetta nel braccio; i calci di fucile non si contano; poi giù
anch'egli a rotoli per le scale: tuttavia ne uscì a salvamento ed oggi
lo vediamo nella Camera dei Deputati rappresentante, certo industre, e
soprattutto onestissimo, ma che pure io vorrei esercitasse il suo ingegno
in cosa molto più confacente alla indole, ed al talento di lui. Con
esso, ma con più rea fortuna rimase ferito Bartolommeo Ramesi giovane
lombardo appena diciottenne, il quale comecchè di animo mitissimo, ed
aborrente dal sangue pure si trovò ravvolto in cotesta terribile
mischia, nè già fortuito, ma sì pensatamente, e spontaneo tanto
prevalevano in lui la coscienza del dovere, e lo studio dell'onore.
Impallidì, ma fu dei primi a salire, tremò ma dal fianco del suo
Capitano non si rimosse mai; ferito nel capo rimase; caduto di un'altro
colpo in prossimità del cuore lo rilevarono i suoi. Cotesto giovane
dabbene per candore di mente, costumi austeri, dottrina, ingegno, e per
altre doti bellissime sarebbe stato una cara gioia della Italia, e di tanto
più cara, quanto oggimai di rado ella se ne ingemma; sventura fu che
egli quindici giorni dopo perisse. Gli conceda Dio nei cieli la mercede,
che meritò in terra, e gli uomini forse non gli avrebbono dato.

Narra donna Marianna contessa Antonini di Udine come preposta da Malvina
Gostabili di Ferrara alla cura dell'ospedale di San Giacomo in Corso
essendovisi recata sul principiare del luglio insieme con la degnissima
socera, appena entrata il Capitano Bagni di Ferrara, che là dentro
giaceva percosso nel capo, accennandole un letto vicino così le disse:
«il povero Venezian poco fa è morto!» Chi era il Venezian? A noi
corre triplice l'obbligo di favellare di lui onde ne venga gloria ed
infamia a chi la merita. Giacomo Venezian nacque a Trieste di stirpe ebrea,
penultimo dei suoi fratelli mercanti, egli solo si compiacque di studi;
dopo alternati i libri con la spada (chè quante volte la Patria chiese
sangue, sangue le offerse) tolse a Pisa la laurea di dottore; tornò su i
campi di battaglia cacciatore delle Alpi; non si avvilì per Novara, anzi
riarsero in lui l'ardimento, e la speranza; recatosi a Roma combattè
come uomo, che abbia fede stieno a contemplarlo gli eroi onde la Italia si
mantiene maraviglia, e spavento. Dei soldati del Gorini, mentre egli si
aggira per le stanze della villa Spada in traccia di uno amico smarrito
ebbe da palla nemica traversato il polmone: morì il due luglio dopo
lunga, e dolorosa agonia. La madre, udito il caso, accorse frettolosa, ma
lo trovò cadavere, indi a breve tribolando seguiva nel sepolcro il
figliuolo. Gli amici davano al cadavere del giovane egregio sepoltura
onorata nel cimitero isdraelitico presso il Circo massimo, in prospetto al
palazzo dei Cesari, e gli ponevano lapide funeraria in testimonio di
pietà: non patì che la lapide durasse il Papa tornato a Roma: anco ai
morti fu dichiarata la guerra, nè solo il Papa, ma bensì anco i
Francesi, incliti banditori di civiltà nel mondo com'essi dicono
imperturbati, nulla curando il sibilo che loro mena dietro la gente. Il
Venezian non fu solo da Trieste che pugnando cadeva per Roma, e le cause
che ci persuasero a fare di lui peculiare ricordo sono queste. Dalmati, ed
Istriani in tanto solenne occasione vennero anch'essi a sigillare col
sangue il patto di famiglia, che lega tutti gl'Italiani intorno a Roma come
le verghe intorno alla scure; nè il Venezian solo fra gli ebrei diede la
vita per la Italia, più che con parole insegnando ai suoi correligionari
con lo esempio a rompere anch'essi il giogo di ferro delle credenze
salvatiche, che li tiranneggia; tutti figli di Dio suona empietà la
prosunzione di reputarsi popolo eletto. Gerusalemme agli uomini ha da
essere la terra dove nacquero, goderono, soffersero, e li nudrisce, e gli
ha da accogliere estinti, e le ossa dei padri nostri nel suo grembo
conserva; e per ultimo odio di prete, è odio immortale, che non perdona;
tra gli uomini solo va rovistando i sepolcri il sacerdote, tra le bestie la
jena, la codardissima delle bestie feroci.

Un Casati di Milano anch'egli (vaghezza lo traesse od affetto) si
attentò penetrare per le sale della Villa, nè fu più riveduto
dai nostri: senz'altro i Francesi gli saranno cascati addosso in
cento, e gli avranno bevuto il sangue. Avventuroso su tutti il Vismara
popolano milanese, non pure perchè scampava la vita, ma troppo
più perchè la fortuna gli concesse vendicare ampiamente i suoi
fratelli caduti; egli invece di salire su la terrazza, girata intorno
la casa, s'imbattè nella porta principale; comecchè fosse chiusa
co' suoi ingegni l'aperse, e quinci procedendo cauto fece capo ad una
stalla vastissima dove maravigliando si accorse starsi nelle
mangiatoie appiattati tanti Francesi: uomo avventato egli era e feroce
anzichè no; onde posto mano al ferro, menò in un baleno fiera
strage intorno a sè; usciva poi esultante in cuore ed illeso; in
seguito lo rividero rappezzare ciabatte a Genova; più tardi
combattere a San Fermo dove cadde per grave ferita sul campo. Là
dove giacque morì, ovvero si rilevava? Se sopravvisse in qual parte
si trova? Come tira innanzi i suoi giorni? Il popolo non ha storia
individuale; egli è ente solo, continuo, di tutti i secoli, e la
sua storia racconta lo infaticato progredire verso il perfezionamento;
l'orma di un suo passo si chiama Cristo, di un'altro Stampa, del terzo
Elettrico, e via via finchè si riposi nel tempio della fratellanza
umana.

L'eroe di cotesta giornata fu il Gorini, che sollevato da terra, tutto
pesto, con due ferite pure esclamava: «nulla, nulla, appena sono
ferito, coraggio!» e da tanto che ell'erano lievi due mesi penò
a guarire nè si riebbe mai: visse esule un tempo rigido, e
intemerato; rinnovatasi la guerra combattè a Varese, e a S. Fermo;
nello esercito italiano ebbe grado di maggiore: io lo conobbi deputato
al Parlamento italiano; pallido di faccia, di sembianze severe, e pure
belle; non rideva mai; parlava raro, e risoluto, anzi tagliente: mi
pareva consacrato a morte precoce, e non ha guari noi lo perdemmo, e
con noi l'Italia si lamenta vedovata di uno dei suoi più nobili
figliuoli.

Ora vuolsi da noi rammentare un caso, che bene potevamo a prezzo di sangue
desiderare non fosse accaduto, ma che la religione della storia c'impedisce
tacere. Il Generale Garibaldi ai Generali Rosselli, ed Avezzana, i quali
alla nuova di tanto disastro accorsi sui luoghi gli offersero un reggimento
intero di rinforzo, promise all'alba si sarebbe messo allo sbaraglio per
rincacciare i Francesi dalle breccie; e non lo fece, invano la campana del
Campidoglio sonava a stormo, e il popolo traeva a frotte inferocito, ei non
si mosse; promise da capo assalirebbe nel pomeriggio alle cinque, e nè
manco attenne il patto. Di questo si dolse amaramente il Mazzini scrivendo
al Manara, e diceva: «avere l'anima ricolma di amarezza... tanto valore,
tanto eroismo perduti!» Reputava, se gli assalti fossero stati impresi,
sarebbero riusciti a buon fine, e faceva «giuramento, che il Manara
intorno al Rosselli _calunniato da molte parti, e i buoni_ dello stato
maggiore pensavano com'egli stesso pensava» per ultimo conchiudeva:
«a me rimarrà la sterile soddisfazione di non apporre il mio nome a
capitolazioni, che io prevedo infallibili. Ma che importa di me? Importa di
Roma, e d'Italia.» Luigi Carlo Farini nella storia dello stato Romano ci
narra come le insolite cuntazioni del Garibaldi, derivassero dal continuo
aizzarlo, che faceva lo Sterbini, perchè costringesse il Governo a
commettergli la dittatura, proponendosi poi lasciarne al Garibaldi il nome,
e per sè pigliarne il potere ed aggiunge altresì, che lo Sterbini
andava menandone rumore per Roma, e già la plebe si commoveva, quando un
giovane gli occorse minaccioso increpandolo: «portasse le accuse in
tribunale, non in piazza, smettesse gli scandali in coteste ore
supreme,» e dacchè quegli non cessava, minacciandolo con l'arme lo
pose in fuga. Nelle memorie del Garibaldi non trovo nè manco una parola
sopra siffatto caso; e le note del Mazzini ne tacciono parimenti: tuttavia
il fatto è vero, e l'uomo che minacciò lo Sterbini non era giovane,
nè di buona fama: si chiamava Bezzi. Carlo Pisacane scrivendo delle
Guerre d'Italia giudica, che le breccie arieno potuto ripigliarsi la notte,
là dove le artiglierie romane invece di cominciare il fuoco alle 2 del
mattino, avessero fulminato i Francesi subitochè vi furono saliti; tre
ore bastarono al nemico per alzare ripari capaci a difenderlo; ed
altresì censura il Garibaldi per l'assalto senza costrutto ordinato al
Sacchi, e generalmente il modo da lui tenuto di avventurare sortite con
sottili manipoli, confortando il suo giudizio col parere del Folard
commentatore reputatissimo di Polibio, il quale ammaestra: «le sortite
ove non mirino a grave intento, a nulla giovano, eccettochè a fare
ammazzare gente senza pro.... le ritirate sollecite e tumultuarie del pari
delle sortite; jattanze inani per poco di vantaggio ottenuto; la perdita
della piazza affrettata atteso lo sperpero dei soldati più prestanti del
presidio;» e sono parole di oro. Per somma ventura l'Hoffstetter solve
ogni dubbio chiarendoci proprio come andò la faccenda. Il Generale
Garibaldi fermo di assalire sul far del giorno le breccie comecchè ormai
si vedessero in punto di essere difese dal nemico ordinava si ammannissero
i necessari apparecchi; l'Hoffstetter condottosi a speculare le opere del
nemico dalla casa del Bastione vide il nemico sceso con tre tronchi di
parallela fino alla gola della tagliata e questa disporre alla difesa;
coronata riconobbe pure la breccia di cortina, occupate tutte intorno le
case, i lavori di zappa compiti; l'assalto laterale dalla parte del
Vascello non sarebbe giunto nè manco a piè della breccia, pensate se
avesse verosimiglianza di riuscire diretto; poteva tentarsi l'assalto
sboccando dalla seconda linea, ma anco qui bisognava sostenere il fuoco
terribile dal nemico schermito; noi scoperti a 200, o 250 passi: sette
cannoni piantati nella villa Corsini ci avrebbero distrutto per fianco:
finalmente la più parte dei nostri ormai rifinita, e disperata balenava:
queste ed altre considerazioni espose l'Hoffstetter, al Garibaldi il quale
sbadato appena lo ascoltava tenendo fisso lo sguardo sopra le breccie
perdute; dopo lungo silenzio il Generale di un tratto esclamò: «lo
vedo anch'io, non ci è più rimedio, ma se avessi meco la mia gente
del 3 nessuno avrebbe potuto persuadermi.» Anco l'Avezzana tanto acceso
da prima per assalire, all'ultimo, dato spesa al suo cervello convenne, che
bisognava smetterne il pensiero. E se la mattina non fu creduto spediente
assalire con milizia scorata, e con le breccie così alla lesta difese,
peggio poi era da tentarsi la sera imperciocchè le milizie a quell'ora
non avessero avuto causa da rinfrancare gli spiriti, e le difese del nemico
fossero state con celerità pari alla molta perizia compite in
formidabile maniera.

Anch'io bene ponderati i fatti giudico, che gli assalti con tanto
ardore caldeggiati dal Mazzini ad altro non avrieno messo capo,
eccetto che a sperpero lacrimabile di sangue umano; al Garibaldi nè
allora nè mai venne meno il cuore, e penso, che quando egli diceva:
«non ci è più rimedio,» potevano credergli senz'altro: non
nego lo impeto, e se vuoi il furore del popolo romano di trarre in
massa all'assalto, ma contro parapetti, e trincee irte di cannoni, e
munite da bersaglieri schermiti, e nei tiri infallibili furore non
rileva; ed io pur pensando, che sdrucio avrebbe fatto in cotesto
popolo spesso una scarica di cannonate rabbrividisco. Il Mazzini
confida troppo, anzi io conobbi a prova, che a lui piace esagerare le
forze così morali come fisiche, ch'egli può allacciare pel
compimento dei suoi disegni, nè ama cui lo chiarisce del vero;
forse per la necessità del suo compito a lui importa credere, che
quello che immagina sia: se ciò deva lodarsi o riprendersi mi passo
da giudicare; solo mi stringo a dire, che piace a me metodo diverso,
anzi contrario. Pertanto il popolo accorrente alle brecce non era
forza; ma sì creature, che andavano al macello; dietro ai muri la
faccenda sperimentiamo diversa, in campo aperto poi, massime in
assalto di trincere di tutto punto munite, alle prime scariche di
mitraglia il popolo spulezza: i Lombardi in Milano combattono e
vincono gli Austriaci, a Granprè gli stessi Parigini davanti ai
Prussiani scappano. Tuttavolta non mi è ignoto come screzi parecchi
si fossero insinuati fra i capi, e tu ne rinvieni la traccia nei libri
del Pisacane, del Rosselli, e del Dandolo: Fra il Garibaldi e il
Mazzini si interpose un po' di ruggine, che tra quei due generosi non
durò un pezzo: anco i generali si accordavano poco; e gli stessi
colonnelli di stato maggiore si puntigliavano, onde il Garibaldi
mandò il colonnello Morrocchetti al comando di Porta Portese non
potendo rimanersi sottoposto al Manara meno anziano di lui.--

Ma se le breccie non furono assalite i Romani tentarono ogni estremo conato
per renderle inani; inutilmente però, che dopo avere reso cotesti luoghi
sacri di sangue per la Patria versato, ebbero a ritirarsi nella seconda
linea di difesa. Troppi sono i generosi defunti che domandano da me un
ricordo e lo meritano, ma io già sento, che di soverchio grave è il
peso che mi recai su le spalle, nè lo spazio dell'opera, nè il libro,
che precipita al fine mi consentono discorrere di tutti, ma io meriterei
che veruno o uomo o donna, che ama la Patria, e per la Patria patì
volgesse lo sguardo sopra queste pagine dove da me si trascurasse
raccomandare alla memoria dei posteri questo pietosissimo caso: già lo
narrava il Rusconi nel Libro della _Repubblica Romana_, ed io per
vendicarmi di lui a mo' che mi vendicai del Dandolo per i giudizi nè
giusti nè veri balestrati contro di me, quasi mi lascerei andare alla
voglia di riportarlo con le sue stesse parole, che davvero io provo piene
di profonda compassione e nobilissime tutte, ma oltre al dubitare ch'elleno
male s'innestino con le mie, paionmi troppo lunghe. Aperte le brecce ferve
l'opera per metterci riparo; un vero turbine di ferro e di fuoco mulinava
su l'area avversa alle breccie francesi, ed una moltitudine di cannonate la
solcava per seminarvi pur troppo la morte; tu vedevi i Romani brulicare
come formiche portando sacca, sassi, e trainando carretti di terra, nè i
romani soli, bensì ancora le Romane, e fra queste Colomba Antonietti,
che non potendo lasciare solo il marito esposto al pericolo volle ad ogni
costo parteciparlo ed in cotesta vita ella aveva durato due anni, che lo
sposo suo accompagnò in tutte le guerre d'Italia, e a Velletri fu vista,
precorrendo, incorare i soldati: in quel giorno la supplicarono di là si
rimovesse, ed ella sorridendo, «ma se ci lascio il marito morirei di
affanno.» Intanto la gente cadeva giù a rifascio, e parecchi
scontorcendosi nell'agonia andarono a morire ai piedi della donna; ora ella
mentre porgeva allo sposo certi arnesi rimase colpita da una cannonata nei
reni; cadde in ginocchino, levò le mani al cielo, e disse: «Viva
l'Italia!» e più non potè dire. Sorse dintorno un grido straziante,
e il marito in sembianza morto anch'esso, trasportarono altrove. «Le
onorate spoglie (e qui si adattino o no le parole del Rusconi con le mie,
le vò ad ogni modo riferire) di quella cara infelice composte sul
cataletto menarono a processione per le vie di Roma, spettacolo di
compianto universale, e il popolo trasse in folla dietro al feretro coperto
di bianche rose, simbolo della candidezza di lei spenta così crudelmente
sul fiore della gioventù. Deposto il feretro nella Chiesa la moltitudine
genuflessa con molte lacrime supplicò da Dio pace ad una delle anime
più elette che mai abbia vestito quaggiù spoglia mortale.» E pure
questa, e siffatte donne il vile sacerdote non aborrì denigrare
calunniando, che non amore di Patria le movesse, bensì prurigine di
lascivia: bene sta; le Arpie, quello, che toccano contaminano, e i
Sacerdoti che altro sono mai se non Arpie? Solo resta a vedersi per quanto
tempo ancora dureranno a contristare la umanità.

Allo scopo di fornire notizia, che sia più conforme al vero intorno
all'orribile strazio fatto di nostra gente in cotesti giorni io ricercando
per le effemeridi dei chirurghi, e più particolarmente in quelle
dell'ottimo Ripari trovo, che sovente nel bastione sinistro fulminato con
rabbia canina dai Francesi furono di un colpo morti o feriti più di
dodici soldati, e di che razza ferite! L'ospedale provvisorio addetto alla
divisione del Garibaldi avevano posto nella Chiesa e nel Convento della
Madonna dei Sette Dolori sotto San Pietro in Montorio, e quivi affermano
per tutto Giugno non si annoverassero meno di venti morti al dì per
termine medio, feriti un sessanta. Tra i molti fieri casi mi occorse
fierissimo questo, che sto per narrare; una rovina di uomo giovane, e di
volto assai bello fu un giorno gittata là sopra una tavola dove il
Ripari esercitava la sua arte; ho detto rovina perchè quanta parte della
forma umana fosse rimasta intera non si poteva discernere; mancava di
ventre, le coste anteriori denudate e bianche come di cadavere da lungo
tempo sepolto mentre non apparivano anco morti il viso, il collo, ed i
bracci; il buon Ripari per pietà austero, visto cotesto spettacolo
gridava cruccioso: «perchè mettete qui quel cadavere ad impacciare la
medicatura degli altri?» «Ma non è morto,» risposero. «Or come non è
morto?» Disse il medico e lo guardò in volto... Dio di misericordia!
Quel tronco di uomo teneva gli occhi aperti, e li girava per mirare chi
movesse per la stanza: occhi neri, e smaglianti, sede ultima della vita che
lì prima di spegnersi si raccoglieva. Se avesse udito, il Dottore non sa
dire, nè afferma, solo narra che indi a poco gli occhi del mutilato si
chiusero ad un tratto nelle tenebre della morte come face per forza spenta.
Questo orribile caso nel mentre, che si spiega come la rapidità fulminea
della offesa, ebbe virtù di cauterizzare i vasi sanguigni quantunque
capitali e di ottundere i nervi superiori alle parti colpite, dimostra,
come nelle parti illese per tempo più o meno breve duri senso, e vita
conforme alla loro natura, onde tu lettore puoi mettere questo esempio con
gli altri, i quali ti ammaestrano, che testa mozza non è vita spenta.

Anco successe in questo ospedale un'altro caso, e fu novello
testimonio come la fatalità che tiene l'uomo pei capelli, nè
meno dopo morte lo abbandoni. Certo di quattro bersaglieri lombardi
del battaglione del Manara condottisi a cotesto ospedale dissero:
«fateci vedere i morti, che tra loro ci ha da essere un nostro
compagno, e gli vogliamo dare sepoltura a parte.» Menati giù nei
sotterranei cercarono tanto, che fermandosi davanti ad uno sclamarono:
«eccolo è questo, domani verremo col cappellano a levarlo,
intanto manderemo la cassa per riporcelo dentro:» E come dissero
fecero, senonchè i becchini vennero col carrettone quando tutti gli
astanti rifiniti dalla stanchezza dormivano, onde il bersagliere con
gli altri levarono via: la cassa consegnata più tardi a persona
ignara del convegno rimase depositata sopra l'altare della Chiesa. Il
Dottore Ripari memore della promessa avendo veduto sul fare del giorno
la cassa domandava se il cadavere del bersagliere si trovasse tuttavia
nel sotterraneo, e venne a sapere, che a quell'ora era stato insieme
con gli altri sepolto; parve al Dottore essere proprio il caso di
ricorrere ad una frode pietosa, e procurò nella cassa vuota
s'inchiodasse il primo morto venuto (e di morti come vedemmo non si
pativa penuria!); il cappellano venne, vennero con esso i bersaglieri,
e con lacrime e con esequie proseguirono un morto, che sebbene
incolpevole, le usurpava;--l'egregio uomo questo evento scrivendomi mi
domandava: «ho fatto male? Mi parve allora, che confessare il fallo
sarebbe stato peggio; non ebbi coraggio di contristare cotesti
valorosi, e dabbene giovani: temei di spargere su l'anima loro
amarezza inestimabile e dannosa se avessero pensato quale cura i vivi
abbiano dei morti, quando anco morti per la Patria.» No gentile
spirito, non operasti male, che non per questo l'esequie giovano al
defunto perchè celebrate sopra il suo corpo; le preci, e gli
amorosi ricordi fanno più bene a cui le recita, e li conserva, che
a quelli che ne sono argomento; Dio rimuneratore nella vita da me
sperata seconda, non ha mestieri eccitamenti per consolare le anime
immortali, e per premiarle.

Abbandonata la prima linea di difesa i nostri si ritirarono alla
seconda, la quale come accennai veniva formata da parte delle mura
costruite dallo imperatore Aureliano prima che movesse alla impresa di
Palmira: elleno per bene dodici miglia circuivano l'antica Roma
lasciando fuori il Trastevere e il Vaticano; Urbano VIII le
squarciò da un lato addentellandoci le nuove mura, che dalla porta
Cortese scendono fino a porta Cavalleggeri, sicchè parte della
cinta dello imperatore Aureliano rimase dentro di quelle, e
precisamente tutta la porzione, che arrivava fino alla porta
Settimiana; questo frammento, e nè meno tutto somministrò le
ultime difese ai Romani. Ultime, e inferme. Gl'ingegneri non avendo
saputo adempire lo ufficio loro a dovere o voluto, il Garibaldi li
prese in sospetto per modo che ordinava in villa Spada li
custodissero, li vigilassero, ed egli fu che dispose la seconda linea,
e l'ala sinistra a dare aspro rimbecco al nemico, approfittandosi del
colle del Pino per piantarci una batteria di un'obice, e tre cannoni
di diverso calibro, siccome un'altra ne piantò al Fontanone
parimente di un'obice, e di cinque cannoni da 24, da 18, e da 12 libre
di gittata: ancora, armava una batteria di tre pezzi di artiglieria
davanti alla villa Spada, ed una seconda tra l'angolo della Cortina e
il muro Aureliano; munì eziandio San Pietro Montorio con due
cannoni. Le artiglierie dal monte Testaceo, e da Santa Saba furono
trasferite su l'Aventino; il Vascello quasi promontorio battuto dalla
tempesta sporgeva dall'estrema destra sentinella avanzata della nuova
difesa.

Qui si rinnuova più acerba che mai la rampogna al governo romano, e
peculiarmente al Mazzini di avere prolungato le difese, imperciocchè le
regole della milizia persuadano a cedere la piazza una volta, tosto che
vengano coronate le brecce; ed è vero, ma vero è del pari, che tanto
più merita lode il capitano, il quale dura imperterrito, finchè
l'anima gli basti. E poi adesso si trattava di lasciare (dacchè altro
non si poteva,) ricordo fruttuoso ai Francesi di quanto ardissero pochi
Italiani appena usi alle armi, quasi inermi, e sprovvisti; nè questo
ricordo andrà perduto, comecchè forse se ne avvantaggerà cui meno
meriterebbe; e avverti ancora, che l'alea correva asso o sei;
conciossiachè nonostante le furbesche gagliofferie dei Francesi si
comprendesse ottimamente, che eglino intendevano rimetterci il Prete netto;
ora il Prete non può governare, eccettochè tiranno essendo la
libertà, e il pensiero affrancato titoli di ribellione contra di lui;
una sola libertà ti consentono i Preti, quella d'imbestiarti dentro ogni
infamia, chè quanto più ti abietti e più gli diventi schiavo;
abbassa pure la tua anima al pavimento, che egli te la passeggerà più
sicuro.--Enrico Cernuschi, il quale molto operò nello assedio di Roma, e
corse estremi pericoli per lei con molto senno tale dava ragione della
difesa, la quale comecchè occorra in altri scrittori pure mi sembra
pregio della opera riferire a mia posta. «Noi ci siamo da prima difesi
così consigliandoci l'onore ed il vantaggio nostri; ci siamo difesi poi
perchè ci confortava il voto della Costituente francese; più tardi il
trattato col Lesseps. Perdurammo nella difesa nove giorni dopo entrato il
nemico a Roma, e dopo il lacrimevole annunzio della prevalenza della nuova
tirannide a Parigi per dimostrare, che non eravamo dietroguardia di un
partito, bensì vangardia di un popolo deliberato a risorgere in nome di
Dio, e della Libertà: qui non siamo _comunisti_, nè _socialisti_,
nè montanari: siamo italiani!» Per ultimo; altro il dovere del Re, ed
altro quello del magistrato del popolo, ed è chiaro, non avendo il
magistrato popolesco in verun caso mai il diritto di sostituire il suo al
volere del popolo, massime in ciò che attiene ai proponimenti
d'importanza suprema; il re al contrario arbitro in tutto e per tutto, e
sempre: il re passa, le regali stirpi tramontano, onde dei sacrifizi può
darsi, che al re non tocchi altro, che il danno, ma il popolo, che dura sa
come scrive il Gioberti: «che non si sparge mai umano sangue indarno,
nè mai rimane invendicato, e nulla nel mondo sociale come nel giro della
natura va mai totalmente perduto:» e sa eziandio, secondochè Federigo
Torre ammaestra: «che il sangue, che si sparse oltre all'essere seme per
lo avvenire diventò consecrazione di principi, fu testimonianza, che la
rivoluzione non era delirio di pochi, ma bisogno e convincimento di tutti,
i quali dove avessero posto mente alle debili forze in paragone di quella
onde lo straniero veniva armato a combatterli, non avrebbero mai dovuto
mettersi al cimento, in ispecie contro la Francia tanto copiosa di soldati,
e potente in armi: Forse i Romani di per se stessi la impari lotta non
vedevano? O non sentivano la necessità inevitabile di piegare il collo?
Con tutto ciò deliberarono difendersi, lo fecero finchè poterono, ed
oggi gli stessi avversari lodano la ostinata difesa, e il popolo italiano
ne va altero come il suo migliore titolo di onore, e avverti di più, che
il proponimento di cedere agli estremi sorse spontaneo, ed unanime; non di
discussione dell'assemblea ci fu mestieri, nè di partito, nè di
ordine di Governo, le cose procederono per corso naturale senza intervento
di autorità.» Che se domandi o lettore perchè il Gioberti, che
tale un dì pensò e scrisse, poi tanto infesto si mostrasse al Mazzini
io ti chiarisco in un motto; il Gioberti fu prete, e non impunemente, pare,
si tosano i capelli sul vertice del capo, e poi si lascia scoperto alla
temperie dell'aria. Quanto al Torre seppi, che ora tiene ufficio nel
ministero della guerra, ed ha titolo di Generale, e col titolo il salario:
forza di pane stringe più di manetta di giandarme. Il libro delle
_memorie storiche sull'intervento francese in Roma_ vivrà, e fie
patrimonio del popolo, il suo autore, comunque mangi, beva, e vesta panni
non vive più, e in breve diventerà patrimonio della terra: di lui non
piace, nè giova mettere altre parole, e le dette sono troppe.

E' pare impossibile, e credo, che i posteri non ci presterebbero fede,
dove non lo attestassero testimonianze solenni muniti di poche
artiglierie noi resistemmo ai Francesi 26 giorni con la breccia
aperta, mentre gli è raro che per così lungo tempo durino le
fortezze principali. Il Generale Vaillant affermava dentro quindici
giorni compito l'assedio, e andò il presagio indarno, onde se ne
deve arguire o che incontrasse virtù inopinata, ovvero prendesse un
granchio, e davvero fu così; cotesto generale reputando facile
sopra tutti ad essere conquiso il punto più incavato delle mura
lì rivolse lo sforzo supremo, e su questo non errò; ma non pose
mente, che da quella parte del pari riusciva agevole moltiplicare le
difese; di vero non lì stava la chiave dell'assalto, sibbene pochi
metri dietro il Bastione nono a manca della porta San Pancrazio.
Quinci circuivansi tutte le difese interne non escluse quelle del
recinto Aureliano, quinci potevasi percotere la città intera, o il
punto reputato meglio spediente, quinci infine tornava destro
nascondere ogni moto di milizie, e conseguire i vantaggi che
c'industriamo raccogliere dalla parte nostra prima d'ingaggiare
battaglia: a questo i Francesi non avvertirono; per la quale cosa
superati i Bastioni 6 e 7 si trovarono davanti i Bastioni 8, e 9
intorno a cui ebbero a travagliarsi nove altri giorni; e siccome essi
nel dare specie di argutezza alle follie valgono oro, così dissero
averlo fatto a posta per pigliare dalle breccie 6 e 7 di fianco i
Bastioni 8 e 9, e questo veramente eseguirono ma al tempo stesso
assaltarono il Bastione 8 con le colonne principali di fronte.--Per
condurre a buon fine simile disegno importava ammannire l'assalto con
una furiosa battaglia di artiglierie, e a questo partito si accinsero;
la storia militare rammenta una maniera di duello combattuto fra la
Batteria del Pino, e quelle francesi: armavano la prima sei cannoni,
ed altri quattro la sostenevano all'ala destra; i francesi
cominciarono ad aprire il fuoco da certa Batteria costruita durante la
notte sopra la breccia della Cortina, lo accrebbero con copia di
mortai, che piovevano bombe a scroscio, per ultimo ci sfolgorarono con
otto cannoni di traverso da villa Corsini. Ai nostri cannonieri
comandavano un tenente Sortari, un maresciallo Grimaldi, e un
brigadiere Maccaferri: assisteva Garibaldi: in breve una nuvola di
polvere coperse le opere nemiche, ma egli aguzzando gli occhi conobbe
volare frammenti all'aria di carretti fracassati; non istettero due
ore, che i cannoni de' francesi ridotti a tacere fecero abilità ai
nostri d'infestare per la giornata intera le gole dei Bastioni
francesi. Onde la gente abbia contezza del come i Francesi
spesseggiassero con le bombe basti dire, che nel corso della notte 20
ne caddero nella Batteria del Pino: mentre Garibaldi, Avezzana, Manara
ed altri stavano consultandosi una bomba cadde loro allato, e
scoppiò: quantunque veruno di essi si gittasse giù in terra (e
forse non ci pensavano) tutti rimasero illesi. «Le sentinelle per
le bombe non si turbavano, solo avvertivano: «ragazzi ecco una
bomba!» E con iscede infinite l'accoglievano; cacciato via il
Garibaldi dalla villa Spada aveva stabilito il suo domicilio fra il
terzo e il quinto cannone della Batteria a destra; bastò un'ora a
costruirgli la casa composta di alcune stoie fitte su quattro lancie
piantate in terra; fin costà andavano a visitarlo le gentildonne
romane, e a questi giorni mentre ei ci s'intratteneva sotto in
compagnia di due dame, una bomba ruinando dall'alto mise in fascio la
casa, e ospite ed ospitate ricoperse con un mucchio di terra; il
Generale le accomiatò, comecchè repugnassero, e da quel giorno
in poi per amore di schivare sventura non consentì, che più
oltre lo visitassero. Sul mattino, narra l'Hoffstetter, mentre giaceva
sotto la tenda udì passare il Generale, e dire a taluno il quale
forse voleva svegliarlo: «lasciate ch'ei dorma, tardi tornò
questa notte dal servizio» ond'ei riprese sonno; di repente gli
trema sotto la terra, un picchio terribile gl'introna il capo,
sicchè a rotoloni si trova balestrato lontano; proprio a canto alla
testa gli era caduta una bomba, che scoppiando portò via stoie,
lancie, assiti in mezzo a nuvoli di terra e di fumo; fu tosto in piedi
stravolto, e si presentò al Garibaldi anco questa volta rimasto
illeso per miracolo, il quale bevendo a centellini il caffè come se
non fosse fatto suo gli domandò sorridendo: «perchè vi siete
levato così presto? e pure aveva ordinato che vi lasciassero
dormire.»

Se il niego levasse infamia qual mai candore di colomba pareggerebbe
quello dei francesi? Ma il niego di faccia alla verità, che ti
opprime vale coscienza e confessione di colpa, e poi la storia ci
ammaestra, e noi provammo come agli Austriaci piaccia la sostanza del
terrore, ai Francesi non pure talenti la sostanza, ma sì eziandio
la ostentazione di quello. Centocinquanta bombe nello spazio di una
notte ruinarono in Trastevere, nei quartieri Santo Andrea della Valle,
Argentina, e Gesù; in un'altra più del doppio; si rammentano
malconci dalla barbarie francese l'Aurora di Guido Reni nel palazzo
Rospigliosi a Montecavallo, il tempio della Fortuna virile; percosse
rimasero la statua di Pompeo a piè della quale cascò trafitto
Cesare, e l'Ercole di Canova. Andò distrutto nel palazzo Costaguti
un'affresco bellissimo del Pussino con tanto maggiore querimonia
quanto che non lo avessero mai ritratto nè con pennello nè con
bulino. Contro questa salvatichezza, che i francesi vituperano in
altrui, a mò di quello che inquina la pietanza ond'altri se ne
schifi, ed egli possa mangiarsela tutta per se, protestarono gli
artisti, e il municipio romano, con essi, e più autorevoli di
tutti, i rappresentanti delle potenze straniere, i quali (per
adoperare le medesime loro parole) contestavano a viso aperto al
Generale di Francia, il _profondo dolore pel bombardamento di Roma per
più giorni e più notti continuato non solo con danno di donne e
di fanciulli innocenti_, ma altresì _con pericolo degli abitanti
neutrali; di già parecchi innocenti perirono, parecchi capi di
opera di arte, che veruno potrà rifar mai andarono perduti_; quindi
s'intima il Generale a desistere dal bombardamento, che distruggerebbe
la grande città cui _le nazioni civili del mondo moralmente
proteggono_. Tutto questo era niente, il Generale Oudinot confessava
esserne uscito questo male, ne stava per nascerne altro maggiore, ma
così ordinare il Governo, ed egli ne adempirebbe i comandi; tale e
quale avrebbe parlato il carnefice: ancora; colpa di tutto i Romani: o
perchè si ostinano a resistere tanto? La Francia volerla spuntare
ad ogni patto perchè ci entravano di mezzo i suoi interessi, e il
suo sangue: veramente nel dispaccio prima veniva il sangue, e poi
gl'interessi, ma quell'ordine era messo per figura rettorica. La
storia, ed anco la Nemesi eterna vendicatrice delle colpe umane tanto
più devono raccogliere cotesti casi quanto, che le regole della
scienza, e la perizia dei francesi potevano far sì che le palle
colpissero a punto colà dove intendevano briccolarle. Oltre queste
testimonianze ci occorrono le seguenti, lo _Spettatore_ _militare, il
Rapporto del generale Vaillant intorno l'assedio di Roma, il
Ragguaglio storico, e militare, il libro intitolato Roma dell'abate
Boulangè_, ed altri parecchi; i Preti non lo nascosero mai, anzi si
compiacquero a bandirlo nei libri loro, e lo puoi riscontrare nella
_Civiltà cattolica_, e ciò nonostante il Corcelles scriveva al
Governo di Francia, che lo poteva negare di reciso, e il Governo
negò: dopo lui negarono tutti, negarono perfino contro la perizia
compilata dalla Commissione preposta a verificare i danni del
bombardamento, e ad avvertire il modo e la spesa per risarcirli. Dei
caduti in mezzo a cotesta procella di fuoco noi lamentammo il capitano
Laviron francese, il quale si sporse fuori dei parapetti per mirare un
pò come i Francesi accogliessero il colonnello Ghilardi appunto in
quei giorni arrivato in Roma, e che ora in qualità di parlamentario
spedirono al campo nemico; lo presero a fucilate, ma scampò la vita
per lasciarla più tardi in altro emisfero sotto le medesime palle
francesi: preso nel Messico a man salva febbricitante nel letto gli
davano morte assassina: volle il fato, che su quel capo la Francia si
tirasse addosso un fiero conto di delitto, forse egli ora lo ha già
messo in pulito per farselo pagare.--Tornando al Laviron, egli aveva
indossato in quel dì la camicia rossa, e non fu savio; quindi,
preso facilmente di mira cascò ferito nel ventre, allora subito gli
si versava addosso Ugo Bassi a confortarlo con parole di affetto
divino, ma egli profferita appena la raccomandazione della sua anima a
Dio spirò baciando il Bassi; non per questo il dabbene Ugo lo
abbandonava, bensì a lui morto proseguiva prodigare cure fraterne,
nè valsero a strapparlo di là supplicazioni, nè comandi,
tanto che una scarica di palle nemiche lo rinchiuse come in mezzo a un
nugolo dentro di sè; veruna lo colse che il suo fato lo aspettava a
Bologna.--Il Garibaldi quando lo vide fuori di pericolo ebbe a dire ai
suoi: «voi non potete credere quanto questo uomo mi contristi,
dacchè io lo veda dominato dalla voluttà, per dire così,
dalla morte.»

Insieme al francese Laviron morirono il capitano Giordani, ed i
tenenti Fattori, e Giovannini, ed anco talune guardie nazionali Romane
di cui non trovo registrato il nome. Vi perse la gamba, e il piede
destro Giuseppe Brambilla da Milano; forse adesso egli vive, e il
cielo gli consenta anni quanti bastano per vedere che non espose
invano le membra del suo corpo per la redenzione della Patria; altri
altri premi ambiscano e gli ottengano; ai magnanimi davvero tanto
basta, e ne avanza: suo fratello Emilio Brambilla felice ingegno con
altra opera secondò la fortuna di Roma, amministrando la finanza;
ora è morto: pianta di buon seme fu la famiglia Brambilla, e i
buoni patriotti hanno a desiderare che sia perpetuata; in altri
ricordi trovo notati, morto il capitano Baj per dolorosa ferita, che
gli portò via di netto ambedue le gambe, tra i feriti meritano
speciale menzione il Brusco genovese appartenente alla Cancelleria del
Garibaldi, e certa Orsolina da Foligno scemata da scheggia di bomba
del tallone destro.

Si stringe la cintura di ferro, e di fuoco intorno a Roma, il nemico
indefesso durante la notte scava pozzi per le mine, edifica, e munisce
piazze di armi, drizzata una trincea compie la quarta parallela, poi
imprende un cammino il quale passando rasente alla casa Giacometti
avrebbe messo capo sopra la via, che mena a San Pancrazio; dalla parte
nostra si agitavano come naufrago in mezzo all'Oceano, che non vuole e
deve morire, tuttavia impediscono la costruzione delle Batterie
dodicesima, e decimaterza; e alla mattina del 26 scassinano anco la
undicesima, sicchè i Francesi non poterono avvantaggiarsi che con
le Batterie seconda, e decima, la quale più di ogni altra prese a
fulminare il Vascello, nè senza ragione, che quinci si menava
incredibile strage dei Francesi; il nostro Medici il quale non pure si
difendeva, ma andava escogitando senza requie un qualche trovato per
fare uno sdrucio dei solenni nello esercito avversario esplorò le
catacombe, e l'acquedotto Paolo donde avvisava spingersi fin sotto la
villa Corsina, e colà con mine, e fuochi artificiati sobbissare il
ridotto in uno alla Batteria decima; ora o di tanto si accorgessero, o
come credo piuttosto, i Francesi avvertiti diedero la via alle acque,
che irrompendo ruinarono ogni apparecchio soffocando tre lavoranti, e
se più ce n'era più ce ne rimanevano. Da capo la rabbia francese
si volta contro al Vascello; stupendo ad un punto e orribile a vedersi
lo stato in cui si trovava ridotto; del piano superiore non avanza
traccia, dello inferiore il muro di fronte ruinato lasciava vedere
negli spazi più interni le colonne, le statue, le stanze
elegantissime; insomma presentava la figura, che gli Architetti
chiamano _spaccato_.--Molti possono per impeto superare il Medici,
veruno, io penso, per costanza, e tranquilla severità: di che mi
piace riportare uno esempio: in cotesto giorno non ci fu riposo: notte
e dì i soldati ebbero a vegliare ed a combattere; ora parendo a
parecchi cotesto comando duro, uno di loro più rotto ardiva
presentarsi al Medici mentre ei beveva una tazza di caffè e dirgli
ch'egli non intendeva recisamente montare la guardia. «Ed io,
rispose il Medici senza guardarlo in faccia ed accostandosi la tazza
alle labbra--ti farò fucilare.» Batti, e ribatti ecco con
altissimo scroscio casca il Vascello, schizzano violentemente legni
tronchi, marmi rotti, e una nuvola di polvere chiude intorno la ruina;
il peso immane rompe le volte del terreno, ed ormai del superbo
palazzo non avanza altro che un monte di macerie; fino dallo interno
di Roma fu udito il fracasso; venti dei nostri sepolti sotto le ruine
persero la vita; e non pertanto il Medici non si decise mica ad
abbandonare cotesto mucchio di sassi: noi lo vedremo su quelli
maravigliare con nuovi gesti di valore il nemico, che i muri poteva
vincere, i petti no.

Avanti, avanti, il nemico dalla quarta parallela spicca un camino
nuovo verso il piede della cortina, bersagliato furiosamente dai
nostri lo smette per ripigliarlo più tardi, ma non può protrarlo
di là da 65 metri, che lì lo arrestano la virtù romana, e
l'ardore della disperazione; anco i lavori verso le ville Giacometti e
Barberini si mettono da parte; si aspettano le tenebre, e i Francesi
sostituendo alla gente stanca gente riposata e molta le batterie
ultimamente costruite armano, nuove ne drizzano, e di mortai le
muniscono.

Si levava il giorno 27 fosco in vista; il sole procedendo cinto
intorno di nebbia pareva che presago della strage imminente repugnasse
illuminarla: i francesi tuonano con cinquanta cannoni messi in
batteria; il casino Savorelli all'incessante tempestare si sfascia;
giù il tetto della Chiesa di San Pietro a Montorio, dopo il tetto
vacilla il campanile, poi anch'esso giù a pezzi, di cui parte
dentro la Chiesa, e parte fuori; la Villa Spada sottosopra; i nostri
non isbigottiscono alla bufera, le Batterie undecima, e duodecima del
nemico scassinano, ma i Francesi ne hanno drizzate su tante, che
ometterne una o due non nuoce; e' ci fu pompa per la parte loro di
distruzione, lusso, prodigalità vera: se nell'amministrazione dei
propri interessi i Francesi adoperassero come in guerra quando scotta
loro di vincere bisognerebbe sottoporli a curatore. Dalla Batteria
decima essi presero a colpire in breccia il Bastione nono; dalla
decimaquarta apersero il cammino di scarpa al Bastione ottavo. Il
Garibaldi da per tutto era, ma sopramodo instava perchè la Batteria
del Pino si mantenesse ritta, dalla quale a dir vero, o per la
posizione sua, o per la molta attitudine degli artiglieri fioccava la
morte nelle fila nemiche: non importa dire se i Francesi contro questa
Batterla si sbizzarrissero; ogni sforzo adesso è volto a rompere la
cinta traversa, che già difendeva la villa Savorelli, ed ora ne
copre le rovine; di fatti la rompono; lo intero campo è minacciato,
il fianco della Batteria del Pino battuto. Tosto alla riscossa;
l'apertura della traversa forse si allarga 8 piedi, a 9 non arriva, ma
si può dilatare vie più, e poi anco così basta onde il nemico
irrompendo allaghi; accorre la legione italiana, e fa prova
infelicissima; ad un sergente appena si affaccia una palla di cannone
fracassa il petto schizzandone il corpo in brani a destra e a
sinistra, le prime fila della legione vengono spazzate via dalla
mitraglia; non si sgomentano i sorvegnenti per questo, e passano sul
corpo dei compagni per accorrere là dove li chiama il dovere:
intanto una palla tronca una gamba al Capitano della Batteria a
destra, steso su la barella lo portano all'ospedale, ed egli fiero in
sembiante agitando il membro mutilato come una bandiera grida ai
soldati: «viva la Italia! Coraggio!» Bersaglieri, Linea,
Legionari quasi tratti fuori di loro per tanta costanza plaudono con
la voce, e co' gesti, nè si potendo contenere accompagnano la
barella del dolore come se fosse stata un carro trionfale fuori del
tiro.

La rottura della traversa rendeva impossibile sostenersi nella
Batteria di destra, il Garibaldi dal Pincio vedendola deserta, scende
con passi frettolosi, e all'Hoffstetter, che primo gli si para davanti
dice: «adoperate chi volete, sieno pure uffiziali tutti, ma importa
sia turata la rottura della traversa, andate.» Mentre l'ufficiale
partiva per racimolare quanta più gente potesse, il Garibaldi si
rimase ad attenderlo seduto sopra un carretto di cannone;
l'Hoffstetter s'imbatte in trentacinque bersaglieri reliquia ultima
della terza compagnia del secondo battaglione, li trae seco e li
conforta con alquanto di vino, perchè davvero erano rifiniti di
forze: dall'apertura sboccava una fiocinata di palle, allora i
bersaglieri si divisero, parte porgeva i sacchi pieni di terra, e
parte li riceveva; l'apertura scema, si chiude, è chiusa; nè
cannoni, nè mortai, nè moschetti nemici valgono a trattenere
l'opera; anzi i bersaglieri passando dal coraggio alia temerità
vogliono salire su la breccia ristorata, e bravare il nemico alla
scoperta; a rattemprarne la baldanza ecco giù una bomba, che in
un'attimo ne ammazza sette; balenarono gli altri ma i morti furono
rimossi, sul sangue si sparse un pò di terra, un bicchiere di vino,
un grido: «_viva la Italia_ e le cose tornarono come prima. Si
richiamarono i cannonieri, e quattro cannoni ripresero il fuoco contro
il nemico, tre maneggiavano i Romani, il quarto li svizzeri; il
Garibaldi esulta, la batteria del Pino rimane sollevata perchè i
francesi contro la traversa ristorata voltano le armi, e le ire; i
cannonieri presi da entusiasmo raddoppiano lo zelo, e rendono ai
francesi due pani per coppia; così i tiri infallibili spesseggiano;
che ai Bersaglieri non patisce l'animo privarsi dello spettacolo,
lì stanno spettatori, e ad ogni tiro battendo palma a palma
gridano: «_bravi!_»

Ma lo spettacolo era pieno di pericolo per modo che una seconda bomba
uccise e ferì altri sei Bersaglieri. Di trentacinque, in piedi n'erano
rimasti ventidue, il Generale donò loro due scudi a testa, e, secondo il
vecchio costume spartì tra i feriti la parte dei morti, e permise se ne
andassero; chi ebbe il danaro lo serbò per distribuirlo per tempo meno
tristo perchè lì per lì i lombardi lo avrebbono rifiutato; a
veruno sarebbe bastato il cuore di toccare la eredità luttuosa dei
fratelli caduti.--I cannonieri rimasero; più tardi taluni domandarono
licenza di ritirarsi, ed ecco perchè: intorno ad un cannone di vivi
restavano due soli, nè senza permesso volevano abbandonarlo! Però
prima in compagnia di altri trassero il pezzo in sicuro. La processione
lugubre, e continua dei morti e dei feriti in questo giorno non si può
senza stringimento di cuore descrivere, troppi i morti per ricordarli
nonchè tutti, pochi; solo non vada inonorato in queste povere carte il
capitano Giuseppe Varenna generoso pavese, e tu bel fiore di giovanezza
Gustavo Spada romano, che glorioso per morte magnanima andavi fra le ombre
dei tuoi padri testimonio che ai figli stanno avversi i fati, ma la
virtù non manca.

Ora quì successe uno strano caso, che assai fornì materia al
dire degli uomini, e nei libri ne occorrono le traccie con varia
maniera riportate, e il fatto fu questo: il Generale Garibaldi di
repente si leva dalle mura, e gli subentra al comando il Generale
Rosselli, se ne va con quello la legione italiana, viene altra gente
con questo.--Siccome il Garibaldi tornò il giorno appresso sul far
dell'alba e con la legione vestita di novella assisa, così fu detto
e creduto ch'egli e i suoi recedessero dalle trincee per riposare una
notte, e per mutare l'abito turchino nel rosso: ora di lieve comprendi
come questo fosse pretesto non causa del fatto, e la causa vera
occorre nelle memorie del Generale. Egli fu informato, che a Roma
stavano in procinto per dichiarare la resistenza impossibile, i
battaglioni primo, quinto, sesto, settimo, ed ottavo della guardia
nazionale tambussavano il Senatore Sturbinetti, tranquillati
partivano; allora veniva la volta dei popolani; furono da prima
trecento, crebbero poi alla stregua, che le disgrazie si facevano
maggiori, e le sollecitazioni dei nemici occulti peggiori; per la
quale cosa egli propose uscire da Roma con quanta più gente, e
quante più armi, e arnesi di guerra, e pecunia, o cose capaci a
ridurre a pecunia fosse possibile; ottomila uomini non potevano
mancare, con essi andassero i rappresentanti del popolo, giovani, e di
corpo gagliardi, di seguito grande nei propri paesi: da cosa
nascerebbe cosa; intanto terrebbero fermo su gli Appennini; Venezia
reggeva; non vacillava Ungheria: arride la fortuna agli audaci; non
piacque il partito, comecchè trovasse nel Mazzini fautore
caldissimo, il quale lo ripropose più tardi; onde il Garibaldi
mulinando fino d'allora quello, che in seguito compì, reputando la
capitolazione sicura pel giorno veniente si partiva, persuaso in
seguito che per converso si era deliberati resistere fino allo estremo
tornò di gran cuore a sostenere le ultime prove.

Per cessare della luce non s'interrompono le opere di guerra; i
Francesi ripararono durante la notte le ingiurie patite nelle
batterie, ma co' lavori nuovi di poco si avvantaggiarono,
imperciocchè la vigile fanteria romana molestando con fuochi
incessanti i marraioli sconciarono i lavori che intendevano condurre
intorno al casino Barberini; però cavarono una quinta parallela per
riuscire a separare il Vascello dal corpo della difesa, il quale fin
qui come guerriero ferito a morte, e giacente pur sempre pugnava, e di
conserto col Bastione ottavo fracassò il cammino già spinto a
buon termine dai Francesi a casa Giacometti. All'alba ripigliano il
trarre da una parte, e dall'altra: pari il furore, impari troppo la
forza; le nostre batterie mancavano di parapetti, le trincee
apparivano ammasso informe di terra, vennero meno a ripararle le
braccia; la Batteria del Pino quasi messa a pegno di gara agli
artiglieri francesi sfasciata d'incamiciature, priva di gabbioni,
senza difese di fianco sparava i cannoni all'aperto e come si dice a
barbetta.--Ora fulminando i Francesi con le Batterie undecima, decima
seconda, e decimaterza la seconda linea di difesa costringono il
Bronzetti a cedere, ben tosto posero mano alla zappa passando oltre la
cortina per chiudere il Vascello; da questo lato irreparabile ormai il
proseguimento della Breccia; altro non potè farsi, che provvedere,
affinchè lo irrompere del nemico fosse lento così da lasciare
campo a nuove difese più interne; non si pretermisero gl'incendi
delle case circostanti; meste tede funeree, esclama l'Hoffstetter,
alla morente repubblica! il Bastione primo di sinistra si lasciò
presidiato; e del presidio era parte la compagnia Rosagutti nella
quale militava il dabbene Morosini; ma il Dandolo, che di quel diletto
capo trepidava ottenne supplicando dal Manara, che a cotesta compagnia
si desse lo scambio; altri si oppose ma non potè spuntarla; la
compagnia Rosagutti fu rilevata; con essa andò il Morosini; lo
tirava il fato.

Durante la notte del ventotto al ventinove i Francesi tentarono
sorprendere il Vascello o piuttosto le rovine di cotesto edifizio; ma
dal Vascello si partì tale violento rimbecco, che dimostrò agli
assalitori essere consiglio buono starsi lontano dal morente lione;
venti di costoro caddero tra morti e feriti.

Prosegue la dolentissima storia, i Francesi su l'alba del 29
tempestano il Bastione nono; nell'ottavo, mercè la Batteria
decimaquarta, lacerando ogni riparo, aprono la Breccia; le nostre
artiglierie rispondono languide; palpiti di cuore, che accenna
cessare; solo la Batteria dell'Aventino avventa fuoco come chi
disperato della vittoria non vuole morire senza vendetta. Ora i
Francesi si ammanniscono a salire la breccia, e bene si palesano
previdenti ed arguti. Sei compagnie della divisione Rostolan comandate
da un Lefebvre si dispongono a colonna di assalto principale; altre
tre compagnie capitanate da Le Rouxeau stanno pronte alla riscossa:
per esse gli ordini portavano, si avventassero; quanto più
potessero s'inoltrassero; trecento zappatori, che tenevano dietro
subito dessero mano a costruire ripari co' gabbioni, e con altri
argomenti avvertendo però di lasciare lateralmente adito al
ripiegarsi della colonna caso mai ella avesse incontrato qualche duro
intoppo. Eravi altresì una terza colonna di assalto la quale
guidava il Laforet, di cui il compito consisteva dare dentro di
fianco, ed alle spalle al Bastione ottavo. Preposto a tutti il tenente
colonnello Espinasse che si teneva in procinto con altra riserva:
accompagnarono tutte le altre colonne assalitrici proporzionato
corredo di zappatori; finalmente perchè nulla mancasse di quanto
nelle imprese guerresche suole accertarne l'esito felice furono
commessi due assalti simultanei alle porte S. Paolo e del Popolo.
Queste le apparecchiate offese, queste altre le difese: la batteria
della Montagnola armata con tre cannoni volti allo sbocco della
Breccia; quivi davanti ove arieno per necessità messo il piede i
nemici, facendosi oltre, sparsero i nostri canne secche, e vasi di
materie infiammabili per ispaventarli, e scottarli; in luogo riparato
collocarono due sentinelle perchè vigilassero, cinquanta lancieri
della legione italiana capitanati dal Muller stavano lì dintorno
schierati per difenderla con le lancie, cui rinforzarono con una
compagnia di fanti. Al Bastione ottavo mandarono alcune compagnie
della seconda legione di fanteria, ed una di bersaglieri lombardi;
alla manca della batteria attelati altri bersaglieri, ed altre
compagnie della legione italiana; il colonnello Pasi col sesto
reggimento alla riscossa. La Villa Spada difendevano i Bersaglieri
lombardi, e giù per la strada schierato un battaglione di legione
italiana. Lo spazio tra la batteria del Pino e Porta Portese occupava
il colonnello Morrocchetti, che teneva la riserva nella piazza di San
Pietro Montorio. A dritta della porta San Pancrazio il colonnello
Ghilardi con alquanta gente sparsa stava per simulacro di difesa,
piuttostochè per difesa; il Medici sempre fra le sue ruine del
vascello.

Scese la notte minacciosa, e non pertanto il governo volle, che
secondo il consueto la cupola della basilica Vaticana s'illuminasse,
nè manca chi il biasima come atto d'ipocrisia, e non è vero,
imperciocchè mettendo in disparte ciò che nell'intimo nostro
ognuno di noi possa credere o no, non fa buona prova l'uomo di stato
che vada contropelo alla fede degli uomini: solo, mostrando assentirci
bisogna vie via rimondarla del troppo, del vano, e del maligno, che
c'innestarono i preti e soprattutto poi importava ed importa chiarire
i popoli, che la religione non istà nelle zimarre sacerdotali,
nè negli arnesi del culto: molto meno poi la è privativa dei
preti. Cristo vive impresso nei cuori dei Cristiani, e risponde a
tutti senza mestiere di mediatori; con Cristo voi vincerete Roma, a
patto che non cessiate mai di chiarire come i sacerdoti prima lo
ammazzarono, poi se ne servirono per paretaio. Intanto l'uragano, che
nelle prime ore del vespero si ammassava scoppiò empiendo il cielo,
e la terra di fracasso, di terrore, di acqua e di fuoco: il nemico
alla rabbia degli elementi mescola la sua, ed il bagliore dei lampi
congiura in suo prò; imperciocchè la luce sfolgorante di quelli
impedisse la vista dei guizzi delle bombe, e togliesse per questo modo
la facoltà di schermirsene a tempo: i soldati fastiditi fino alla
morte dalla pioggia incessante, con le gambe fitte fino al ginocchio
nel fango, si struggevano nello scoraggiamento; ai percossi non
isfuggiva nè manco un sospiro, chè durare in cotesto stato
pareva loro peggio, che morte, e forse era.--Su pei ricordi dei tempi
trovo segnato con nota d'infamia il Carroni preposto alla custodia del
Bastione ottavo come quello che rinvennero alla seconda vigilia
avvolto nel suo mantello e addormentato; certo non correva stagione di
sonnecchiare, ma davvero la stanchezza, la temperie, l'umido uggioso,
e le altre tribolazioni sofferte prostravano i corpi, e le anime
altresì.

Un'ora prima dello assalto principale il generale Guesviller
partendosi a capo della sua divisione dal ponte Molle si avvicina alla
villa Borghese dove si precipita contro le mura per isquarciarle e
quinci penetrare in città; se riesce meglio, se no richiama
l'attenzione, e le armi dell'assediato da questa parte e le menoma
altrove; di vero fu respinto, ma per tenere sempre i Romani in
sussulto piglia dai monti Parioli a grandinare giù su Roma bombe,
granate, che pareva un'inferno, dall'altura di San Paolo non si
adoperava diverso: il trarre dei cannoni assordante rintronava il
terreno, molte le morti di creature innocenti, e grave il danno negli
edifizi più incliti. La belva ustolava la preda.

Alle due e mezzo dopo la mezzanotte fu dato il segno del vero assalto,
nè lo cominciò la prima colonna, sibbene la terza condotta dal
Laforet la quale baldanzosa nel presagio della vittoria, riposata, ed
ebbra a mezzo si precipita contro il Bastione ottavo. Oh! perchè
non mi è dato confermare anch'io, che i Romani fermi, e audaci con
furiosissimi tiri li tempestarono? Valga il vero, comunque amaro, i
nostri fuggirono, ed erano bersaglieri; allo improvviso in mezzo ai
lampi si vede comparire il Garibaldi, che brandendo la spada nuda, e
cantando un'inno di guerra si scaglia contro il nemico, dietro a lui
si aggruppano alcuni animosi, i fuggenti presi da maraviglia stanno. I
Francesi primi entrati stramazzano per non rilevarsi mai più, ma
gli altri sorvegnenti prorompono impetuosi, e dispersi, o spenti
quanti si paravano loro davanti arrivano alla barricata di gabbioni
costruita fuori del cancello di Villa Spada; qui pure si ravviva la
virtù dei nostri, che visto l'Hoffstetter circondato dai nemici, e
prossimo a rimanere ucciso fanno impeto, ed abbattuti parecchi a colpi
di baionetta lo liberano; poi piegano da capo ruinando a Villa Spada:
affaticandocisi gli uffiziali li riconfortano della battisoffiola,
anzi vergognando si attelano per la strada, dove la prima linea
inginocchiandosi, e le altre rimanendo in piedi bersagliano i nemici
con quattro filari di moschetti. Qui di nuovo si mostra il Garibaldi,
il quale alla domanda dell'Hoffstetter se dovesse occupare la Villa
Spada, risponde arcigno: «è già fatto: voi, e Manara qui la
difenderete, io corro a radunare i fuggitivi sul colle Pino, e mi
pianto dietro la strada fino alla Villa Savorelli.» La colonna
Laforet ributtata si ripiega sopra la batteria fuori del cancello,
quanti trova ammazza, e procede con lo intento, e con la speranza di
schiantare l'altra Batteria della Montagnola; lo seguita fin là
anco una sezione della sua colonna, ch'ei spinse per altra via ad
offesa del Bastione ottavo, dove impedita per meno reo avviso tolse a
ritirarsi con solleciti passi.

Prima assai che i casi narrati si compissero, la prima colonna di
assalto si arrampica sul sommo della Breccia, quivi cade il Lefebvre
ferito, gli subentra Le Rouxeau: succede una zuffa corpo, a corpo, ma
i nostri rimangono smagliati: i fuochi artificiali non partorirono
veruno effetto, che fosse buono; leggo che un certo Mano Aldo
inventasse non so che bocce piene di materie incendiarie; ignoro se le
mettessero in opera, in ogni caso tornarono inutili, come andò a
vuoto nella medesima notte il tentativo di buttare giù nel Tevere
una barca di fuoco, che scendendo per la corrente incendiasse il ponte
di Santa Passera, e ciò per la stupenda vigilanza del nemico. Vinta
la prima resistenza i Francesi si affoltano contro la Batteria della
Montagnola già assalita dai soldati del Laforet; tengono dietro a
loro gli zappatori, che posta appena mano alla zappa balenano vedendo
stramazzare giù trafitto da banda a banda il comandante del genio
Dufort; ma è breve sosta, che subito surroga il caduto l'Aidaut.
Intanto alla Montagnola si viene a battaglia manesca, e fu uno
accapigliarsi promiscuo, rabbioso, atroce; tutto servì di arme, ed
anco i morsi ci adoperarono, ora questi ora quelli romponsi, fuggono,
respingono, urtansi, pestansi, ma i nostri sopraffatti cadono; cadono,
ma dopo disperata difesa come gl'Italiani costumano, pei quali morta
la speranza del vincere sopravvive quella del vendicarsi; gli
artiglieri prima spararono, poi difesero, all'ultimo inchiodarono i
cannoni; molti si avviticchiarono intorno ai medesimi come se fossero
obietti di tenerezza; innanzi di porre la mano sur un cannone e' fu
mestieri che fino l'ultimo artigliere ammazzassero. Narrasi dal
generale Torre di un'artigliere, che difese il suo cannone con la
sciabola, questa spezzatigli in mano diede di piglio allo scopatore e
lo adoperò a mo' di clava, glielo strapparono, ed egli allora
combattè a pugni, e a morsi; trafitto da mirabile quantità di
ferite lo trasportarono esanime allo spedale della Trinità dei
Pellegrini. La storia rammenta eziandio con onore immortale della
Patria nostra e di loro i tenenti Cesare Scarinzi di Lugo, e Tiburzi e
Casini entrambi romani; questi messi in mezzo da una frotta di nemici
preferirono la morte alla resa; l'ottenne il primo lacero da
diciassette ferite, e fu raccolto sul campo stringente il troncone
della sciabola infranta; l'altro non la potè conseguire, ma in
quale stato lo portarono allo ospedale francese, lo dica per noi la
_Gazzetta medicale di Parigi del 2 Gennaio 1850_ «aveva il cranio
spaccato da dodici sciabolate, la coscia lacera con dieci baionettate;
il braccio rotto in due parti; difese il suo cannone come lione la
preda, e non ristette di combattere prima che il braccio non
rispondesse alla volontà.»

Adesso occorre il lacrimabile caso di Emilio Morosini sembianza di
angiolo, cuore di eroe, amore supremo della madre, che lo possedeva
unico; annoverava diciotto anni appena, ma nei costumi, e nel dire
così si mostrava modesto, che al suo cospetto anco i più
scapestrati non si attentavano commettere cosa, o pronunziare parole,
che fossero vili; rimosso dal Bastione 8 venne preposto con la
compagnia Rosagutti, secondochè di già avvertimmo, alla difesa
del Bastione primo; stando alle vedette ode rumore sospettoso, onde
vie più si appressa ai cannoni della Batteria; qui giunto invece di
ordinare sparassero, tolto seco un manipolo di gente camminò oltre
a speculare, che fosse; pur troppo era il nemico salito sul bastione,
e non da cotesto lato solo, bensì ancora dalla strada di
comunicazione, donde ormai superata, prese a straziare i nostri; il
giovane Morosini cadde colpito ad un punto di palla nei ventre, e da
una baionettata nel petto; i nostri fecero mostra di non voler cedere,
si venne alla prova delle armi e fu breve il conflitto dacchè i
nemici con forze tre e quattro volte superiori gli oppressero; però
se breve non senza sangue, quaranta ci caddero morti, e centoventi
prigioni, gli altri scamparono con la fuga la vita. Quattro
Bersaglieri lombardi non patirono lasciare abbandonato il prode
giovanotto, ed acconciatolo come meglio potevano su due traverse
correvano verso Villa Spada giovandosi della confusione e del buio;
imbatteronsi nei Francesi, che da lungi gridarono chi fossero;
risposero:--prigionieri.--Non vollero crederci, e bramosi di strage li
circondarono; i Bersaglieri vinti da paura gittarono a terra il
Morosini, tentando salvarsi: quanto a lui, ormai disperato della vita,
si compiacque chiuderla con generoso fine, e assurto in piedi, stretta
la spada continuò a combattere, finchè una seconda palla nel
ventre lo stramazzò a terra da capo. I Francesi sboglientiti
dall'ebbrezza del sangue appena contemplato quello angelico giovanotto
ne sentirono pietà... infelice davvero la pietà, che si volge
solo sopra ai caduti; ma in mancanza di meglio, alla sciagurata stirpe
dell'uomo teniamo conto anco di questa. Morì il primo luglio dopo
trenta ore di agonia; maraviglia e compianto degli stessi nemici, i
quali con tanto affetto lo udivano rammaricarsi pei suoi cari, e con
tanto amore raccomandarsi a Dio padre di misericordia. Emilio Dandolo
amico fedele della sventura udito appena che il Morosini era caduto
prigione, e forse sperandolo tuttora in vita, non potendo procacciarsi
salvocondotto si pose alla ventura a cercarlo nel campo nemico, dove
un pietoso gli concesse la entrata; occorso nel primo medico gli
domandava, che ne fosse; gli rispose;--è morto!--Supplicava gli
rendessero il cadavere, ma siccome lo avevano di già trasportato al
cimitero, così spedirono avvisi per sospenderne la sepoltura. Ora
mentre il Dandolo si trattiene a ragionare con gli ufficiali francesi,
e da cotesti colloqui apprende com'essi la causa della guerra al tutto
ignorassero, ecco sopraggiungere un capitano aiutante maggiore, che
dando in escandescenze manda gli ufficiali in arresto, fuori del campo
il Dandolo; pure avendo il giorno dopo ottenuto regolare permesso egli
ritorna al campo dove gli bendano gli occhi, e per bene due ore lo
fanno camminare sotto la sferza cocente del sole. Il povero Dandolo
parla dell'angoscia patita da lui dovendo assistere ad ogni colpo di
vanga che gli andava mano a mano scoprendo parte delle dilette
sembianze lorde di terra, e di sangue;--e' fu codesto dolore, che noi
pure sentiamo profondo, comecchè di reverbero, ed in grazia della
tua buona natura noi rimettiamo alla tua memoria Emilio Dandolo le
offese, che ci facesti, e ne perdoneremmo bene altre caso mai tu ce le
avesse fatte. Più tardi l'Hoffstetter visitando la madre del
Morosini gli narrò averle scritto l'Oudinot come il figliuol suo
sopra il letto di morte avesse edificato ogni uomo con la costanza, e
la generosità dell'animo suo; e ci dice com'esso ricercasse a parte
a parte ogni minimo particolare del giovanotto eroe, e da ciò
cavasse qualche conforto al cuore trafitto. Quando sul rompere la
guerra con lo Austriaco le sorelle con infinita passione scongiuravano
la madre a non lasciarlo partire, ella repulsò le importune
dicendo: «lasciatemi offrire alla mia Patria quanto possiedo di
più caro, l'unico figlio mio.» Ora la mesta donna soggiungeva:
«piangere su i figli caduti da noi per la Patria è dolore... ma:
non tutto dolore!» Anima sorella della rigida madre di Brasida, e
di quella dei Gracchi intepidita però al calore della carità
cristiana.

Fuori di Roma unico palmo, che ci rimanga di terra le ruine del
Vascello; ma i Francesi inoltrandosi dalla breccia aperta a destra
della porta San Pancrazio accennavano impossessarsene, chiudendo ogni
via allo scampo del Medici: appena rompeva l'alba gli mandarono
l'ordine della ritirata, allora egli si mosse, se non chè pareva
troppo più agevole ordinarla, che farla; l'aere dintorno ingombrava
foltissima nebbia, ma la via da tenersi dal destro lato, e dal manco
occupavano i Francesi, che al rumore sportisi dai bastioni tiravano
per quell'aere cieca moschettate in fiocca: proseguendo a quel modo,
innanzi di arrivare alla porta sarebbero stati senza fallo uccisi
tutti; venne in soccorso di loro la fortuna. Certo Giuseppe Rocca da
Carpi, il quale da lungo tempo stanziato in Francia aveva appreso lo
idioma francese per modo, che meglio non l'avrebbe parlato un naturale
di cotesta contrada; pertanto disinvolto e franco costui si mise a
urlare: «non fate fuoco, non fate fuoco, che siamo dei vostri.»
I Francesi ristettero e fu ventura, che infelloniti contro i difensori
del Vascello si erano vantati più volte, che se mai essi cadevano
nelle loro mani, il pezzo più grosso aveva ad essere un'orecchio.
Le ruine del Vascello vivranno nella memoria dei posteri di fama
immortale, ma eziandio immortale durerà nel cuore degl'Italiani il
compianto per tante morti che lo resero sacro; a quanto sommassero non
potrei dire ma sicuramente i due terzi di quelli che difesero il
Vasello ci rimasero. E nè manco ci bastano tempo, e notizie per
rammentare tutti gli esempi di valore, di cui proprio ci fu profusione
piuttostochè copia: continui quelli, che rilevate una ferita o due
andavano a fasciarsi e tornavano a combattere, continui quelli, che
dopo avere menato le mani per bene ventiquattro ore rifiutavano lo
scambio. Quando all'urto delle palle nemiche sprofondò l'edificio
seppellendo parecchi dei nostri, i superstiti non curanti il terribile
sfolgorare dei Francesi, improvvidi delle nuove ruine, che avrebbono
potuto cascare loro addosso si diedero a rovistare per le macerie, ed
ebbero in sorte di restituire taluno, comecchè malconcio, alla
vita, Certo dì fu visto un soldato traversando la spianata a
sinistra della _Casa bruciata_ cadere ferito; sovvenirlo, era perdersi
con lui, chè le palle francesi spazzavano il luogo: ora uno dei
fanti, che furono papalini colà presenti accennando il caduto ai
Bersaglieri lombardi disse quasi beffando: «e voi non andrete a
soccorrerlo?» In un bacchio baleno, una mano di giovani lombardi
trovata una barella corrono al ferito, e ce lo adagiano sopra: egli
pativa atroci dolori, onde essi ebbero a incedere piano, e soavi;
talora eziandio fermaronsi. I Francesi si sbizzarrivano a balestrare
moschettate le quali zufolavano intorno alla lor testa, e non di manco
veruno di loro rimase ferito. Hassi a credere, che tale provvide Dio
in mercede della opera pietosa? Piace e giova così.

Sarebbe iniquo negare, che tra i Francesi taluno avesse cuore gentile, e
mente educata a civiltà, ma qui come altrove si confermò per prove,
come in generale cotesto popolo sia barbaro, e feroce: e le guerre di
Affrica lo hanno viepiù imbarbarito; costà le immani opere di
Annibale il quale fece recidere i piedi ai prigionieri impotenti a
seguitarlo rinnovarono; il soffocare col fumo i giudei nelle caverne onde
la fama di Tito è aborrita, auspice il Pellissier, da capo fu praticato
dai Francesi a danno dei Beduini: a Roma, e lo vedemmo, non solo
bombardarono la città, e i luoghi sacri per religione di memorie, o per
miracoli di arte, ma principale diletto essi posero a pigliare di mira la
chiesa di San Pancrazio convertita in ospedale con manifesto spreto della
bandiera nera inalberata in vetta al campanile per farli accorti quivi
dentro giacere morti e feriti. Noi sempre provarono i Francesi feriti
soccorrevoli; questi al contrario sempre acerbi contro i nostri, nonostante
le lustre e i paroloni in contrario, e tu giudica o lettore se i Francesi
possano vantarsi presidio di civiltà da quello, che seguita, e che da
noi si ricava (recandolo nel sermone nostro) dalla _Gazzetta medicale di
Parigi t. 44. 3 nov. 1849_. «Certo dì un uomo di alto affare venne
per porgere conforto ai patimenti dei nostri feriti; caso volle ch'egli
vedesse fra i nostri mescolati due italiani:»--«Or come esclamò
egli, i nemici fra noi?»--«Scusate, riprese il dottore, sono tutti
feriti»--«Sta bene, aiutante, soggiunse il generale, pigliate
ricordo, e domani fateli sgombrare»--«Un poco più oltre costui
notò parecchi giacenti senza camicie; (altri poi ne avevano delle
eccellenti, e donde loro venissero lo sa il nostro amico Monier)» e da
capo disse: «aiutante scrivete, e provvedansi subito camicie; sì miei
bravi soldati voi tosto ne avrete.»--«Malgrado questi bei discorsi,
il fatto sta, che i feriti italiani tremanti per febbre traendo
dolorosissimi guai furono trasportati altrove, le camicie poi non si
videro.» Di uffiziali che ostentaronsi amici, e tradita ogni legge non
dico di umanità ma di guerra assassinarono a man salva fu detto, e fu
detto altresì dello strazio crudele menato dei soccorritori ai feriti;
io non incolpo il porre, ch'essi facevano i caschi in cima ai fucili
sporgendoli dai parapetti delle trincee, perchè i nostri ingannati li
moschettassero, e scarico appena lo schioppo, saltare su a colpire
l'incauto feritore; questi si considerano strattagemmi di guerra, e guai a
cui ci si lascia prendere, ma sì gl'incolpo della salvatica soverchieria
di schiantare l'antica polveriera di Tivoli nel giorno ventinove di giugno
mentre poteva ormai reputarsi conchiuso l'assedio, ed ogni via per giungere
a Roma occupata dai Francesi. Ecco come per loro fu condotta a compimento
la magnanima impresa; il generale Sauvan con due battaglioni di fanti,
venticinque cavalli, ed un drappello d'ingegneri condottosi a Tivoli intima
al preside che atterri l'opificio; preside, magistratura, e guardia
nazionale protestano contro l'animalesco comando, costui (e gli parve
mostrarsi spartano) della protesta fece ricevuta in questi termini: «il
sottoscritto generale dichiara essergli stata presentata dal Municipio di
Tivoli una protesta contro la distruzione della polveriera: nonostante la
protesta la fa atterrare.» Così un edifizio durato da secoli in breve
ora cadde sovvertito dalle fondamenta, stupenda copia di polvere, salnitro,
e zolfo gittarono nell'acqua, arsi gli arnesi, fracassate le macchine; e
tutto questo non mica per amore di difesa, bensì per genio di barbarie;
e' fu episodio degno della illustre epopea. Siccome io intendo fare con
questo libro quello, che il Garibaldi operò, voglio dire, uscirmene di
Roma prima che vi scendano i Francesi così io metto a questo luogo la
offesa esecrabile commessa da costoro in onta alla memoria del Mellara,
anzi in onta alla umanità, e questo ritraggo da certe lettere private di
persona, che non so adesso, ma a quei tempi procedeva parzialissima al
Papa. Il Mellara dopo patimenti ineffabili periva, molti, suoi compagni di
arme si riunirono alla chiesa dei Santi Vincenzo, ed Anastasio per
rendergli il tributo estremo delle esequie onorate; andarono vestiti
dell'antica assisa, e con la nappa dei colori italiani: era anco
intendimento loro pronunziare qualche lode su la bara del defunto, il quale
tanto bene se l'era meritata in vita; di ciò informato il Rostolan
accorse seguito da molta mano di milizie alla chiesa, a forza volle la
sgombrassero i commilitoni del Mellara, tutto vietò eccetto la messa; e
siccome il dì veniente i soliti amorevoli del Mellara disegnavano
associarne il cadavere al pubblico cimiterio, anco questo impediva;
comandava lo seppellissero in chiesa, ma prima che in grembo alla terra lo
deponessero egli commise al becchino, che strappasse dal cappello al
trapassato la insegna dei tre colori: tanto gl'Italiani chiudano nell'animo
e lo ricordino il giorno di possibile vendetta; rammentino altresì che
il Bano Jellachich, e il suo fratello colonnello entrambi croati, e capi di
croati non mancarono mai di riverenza alla virtù tradita dalla
fortuna......

Ora per tornare alla difesa del Vascello, io per me penso, che
supporranno i difensori confortati in copia di cibi, e di bevande;
ahimè! essi penuriavano di quello, che appena basta per sopperire
alla vita; parecchi giorni sostentaronsi con grossi e neri pani che
lì rimasti da lungo tempo si erano induriti così, che se ne
servivano per origliere quando giacevano sul nudo pavimento a pigliare
qualche riposo: essi mangiarono i loro guanciali, come i seguaci di
Enea mangiarono le proprie mense.--Sembra altresì, che i Francesi
intendessero conquidere i difensori non solo con la fame, col ferro,
con le ruine, e col fuoco, ma ed anco con la pietà, e con l'aere
pestilenziale, dacchè eglino non consentissero mai alcune ore di
tregua per seppellire da una parte, e dall'altra i propri morti;
durante tutto lo assedio pertanto essi giacquero a piè delle ruine
spettacolo miserando e pericolo presentissimo di suscitare la morìa
per l'Italia, e forse nella universa Europa; ed anco questo scrivi
lettore italiano in conto della civiltà francese. Il corpo del
capitano Ferrari morto nella giornata del tre Giugno per la
inesorabile barbarie dei Francesi stette esposto alle intemperie, e
agli oltraggi degli uccelli di rapina intero un mese.

Le ferite, e le morti non pure dagli eroi del Vascello sopportavansi
con mirabile costanza, ma perfino con motteggio; e va pei ricordi dei
tempi famoso il giovane Montegazza milanese già orbato di un'occhio
nelle cinque giornate di Milano; egli pertanto mentre si travaglia
alla difesa del Vascello colpito da palla nemica perde l'altro; non si
sgomentando per sì grave sciagura scappa fuori con questi detti:
«_bona noce; àun smorza i ciar_;»--«_buona notte, hanno
spento i lumi!_» Veruno rise, all'opposto, piansero sommesso per
non rattristrarlo; visse un tempo in Roma segno di compassione
universale ma sterile; un pietoso lo tolse seco per cibarlo del suo
pane, e dissetarlo al suo bicchiere; non italiano però, molto meno
francese, egli era russo!

Ed anco per queste carte io non ometterò di notare come la legione
Medici tenesse inalberata nel Vascello la bandiera, che prima
drappellava nella Svizzera, e poi trasse al grato ospizio di Firenze
nel 1848; noi la ospitammo con volenteroso animo consapevoli che la
sacra bandiera aveva salutato diciassette anni prima la impresa di
Rimini; di ampiezza angusta mostrava la scritta: «_Dio e
Popolo_.» adesso forse se ne sta nascosta per ricomparire fuori nel
giorno destinato; l'alba del giorno di Dio e del Popolo si fa
attendere lungo; consoliamoci del suo tardo nascere con la coscienza,
che cotesto giorno non avrà più tramonto.

Chiudo la narrazione della battaglia del ventinove Giugno rammentando
il caporale Perocco del quale non poterono impadronirsi i Francesi se
prima non lo ebbero sternato con ben ventitrè colpi di baionetta;
trasferito all'ospedale per singolare ventura, sopravvisse ma di
bellissimo rimase cincischiato e storpio; Scacciani, Spianavelli ed
altri moltissimi perirono, ma prima si cacciarono sotto i nemici
adagiandoci il capo come sopra un guanciale di riposo; un fanciulletto
tamburo, visti morti gli uomini della compagnia buttato da parte il
tamburino raccolse gli schioppi, e quelli sparò contro i nemici,
finchè percosso in fronte anch'egli li seguitava nella morte. Altri
infiniti mi si affollano alla mente innominati: che posso io dire per
consolare cotesti eccelsi spiriti? A modo, che se noi vediamo
splendide ma indistinte le stelle che formano nel firmamento le
miriadi delle vie lattee, elle stanno tutte di propria luce
sfolgoreggianti al cospetto dell'Eterno, che le conosce a nome come un
padre le figliuole, così adesso le anime dei morti per la
libertà della Patria sono note a Dio, che le vagheggia ad una ad
una e le saluta palpito del suo cuore, del suo senza misura amoroso
cuore.

Sorge il giorno trenta giugno, ultimo della difesa; chi stava sul
Gianicolo vedeva la grande cupola vaticana in qua, ed in là
tuttavia rischiarata dalle faci che avevano resistito allo
imperversare della bufera, e che ora andavamo una dopo l'altra
estinguendosi immagine dolorosa degli sforzi durati per difendere
Roma. Non importa, si combatta sempre, le bandiere della libertà
quando cascano nel sangue si rilevano più poderose, che mai, come
Anteo quando percoteva la Terra sua madre; i nostri alla meglio
raggruppansi e cominciano un trarre disperato di moschetti dalle Ville
Savorelli e Spada; rimbeccavano con furia punto minore dalle nuove
trincee i Francesi irresistibili perchè rincalzati da una fiumana
di fuoco che turbinava dalle batterie dieci, undici, dodici, e
tredici; e come se dei cannoni non ce ne fosse di avanzo, senza misura
ci adoperavano i mortai. Le nostre batterie dall'Aventino, e dal Pino
controbattevano languide, ultimi tratti dell'agonizzante; e poi di
repente i Francesi per dare il colpo di grazia contro la Batteria
dell'Aventino voltarono la seconda Batteria loro formidabile di
artiglierie e di artiglieri. Per meglio conquidere i nostri schierati
a destra della porta San Pancrazio i Francesi tentarono arrampicarsi
sul portone di cotesta porta, e quinci salire su la breccia del
Bastione nono aperta dalla Batteria decima; li respinse il Medici co'
suoi, e col primo reggimento di linea, anzi taluno dei nostri
s'inerpica ad occupare il frontone donde recava gli ultimi, non
però i meno dolorosi danni al nemico, che infellonito colà
avventa le armi, e le ire; ma per fulminare ch'ei faccia con le sue
artiglierie veruno si rimuove, e con esempio memorabile tutti elessero
perire sotto lo sfasciume della porta.

A Villa Spada un manipolo di soldati della legione italiana avendo
scorto certi fanti francesi ripararsi verso il muro della corte si
avventò su di quelli cacciandoli a furia; l'Hoffstetter preso animo
dal caso, volle tentare se gli venisse fatto di ristabilirsi nella
Batteria dinanzi casa, e chiese al Manara gli concedesse una
cinquantina di uomini; gli furono dati, e di un salto tutti di accordo
balzarono sul luogo indicato; colà l'Hoffstetter procedeva oltre
con alquanti dei suoi, gli altri lasciava dietro al coperto per
bersagliare i Francesi, appena però avesse incominciato ad assalire
la Batteria, anche quelli corressero a rinforzarlo: si accostava
temerario piuttostochè animoso, e vide essere quella impresa
perduta, imperciocchè la Batteria comparisse tutto intorno munita
di alti gabbioni presidiati in copia: nondimeno gli piacque continuare
il combattimento lasciandosi in balìa di quel soffio di speranza,
che mai non cessa: così durando da una parte e dall'altra vennero a
mancare le munizioni ai nostri, per la quale cosa l'Hoffstetter
rannicchiandosi più che poteva si recò per esse a Villa Spada;
per via occorse in un giacente francese bello e robusto con una ferita
al sommo del petto il quale se ne stava esposto al grandinare delle
palle e non faceva, o non poteva movere atto per levarsi di là,
l'Hoffstetter commiserandolo gli disse: «abbiate pazienza anco per
un po', e manderò la barella a pigliarvi» ma quegli non disse
motto; giunto sotto la Villa chiese la munizione, e il Manara con le
sue medesime mani gliene gettò un sacco dalla finestra, se lo
recava su le spalle mentre il Manara sempre dall'alto gli raccomandava
ritirarsi, che la zuffa gli pareva senza costrutto; l'Hoffstetter gli
rispondeva, ma quegli non replicò, per la quale cosa l'Hoffstetter
andava pei fatti suoi, ma indi a breve tornato avendo conosciuto a
prova la verità dello avvertimento del Manara ricercava di lui;
ognuno evitava parlare, incollerito insiste, e allora in silenzio gli
additano una stanza terrena; sopra la soglia gli occorre l'Appiani
segretario del Manara lacrimoso, entra e mira un gruppo di gente
insieme stipato, lo separa con empito, ed ecco gli sta dinanzi il
Manara tutto sangue con gli occhi erranti per le tenebre della morte;
gli si genuflette ai piedi, la mano gli bacia e la fronte già
fredde; quegli lo ravvisa, e con piccola voce ansando sussurra:
«sono ferito a morte; forse mi rimane a vivere un quarto d'ora»
L'Hoffstetter lo consola, e propone trasportarlo all'ospedale, ma il
Manara ricusa dicendo: «no... non m'inganno, sono morto, il
trasporto crescerebbe gli spasimi... lasciate ch'io muoia qui dove ho
combattuto.» Il Dandolo che pure si trovò presente al caso narra
come poco prima, che la palla micidiale passasse il Manara da parte a
parte egli nel seguitarlo rimanesse colpito di una palla di rimbalzo
nel braccio destro, onde costui esclamò: «per Dio! tocca sempre
a te? O che io non devo portare via nulla da Roma?» A lui il Manara
cadendo raccomandò i suoi figli; da lui supplicò non essere
abbandonato mai; dalla stanza chiusa lo trasportarono alla campagna
aperta; allora desiderò si chiamasse il medico Bertani amico suo.
Il Dandolo si piglia cura di riportarci che dietro le sue
raccomandazioni il Manara si confessò, e si comunicò: pedanterie
di guelfismo riscaldato in Lombardia, come se la vita del mortale eroe
incontaminata avesse bisogno per amicarsi Dio di un Cappuccino
mediatore, e il Padre delle misericordie non aspettasse cotesta anima
bennata a braccia aperte; qual sacramento avrebbe mai potuto renderla
più pura oltre la religione del martirio, e il battesimo di sangue?
Il Manara raccomandava al Dandolo procurasse allevare i suoi figliuoli
nell'amore della religione, e della patria; l'Hoffstetter di religione
non parla, bensì gli mette in bocca queste parole: «consolate la
mia _povera moglie_, e recatele il mio ultimo addio: educhi i nostri
figli allo amore per la infelice nostra patria, ed appena sapranno
reggerle, ponga loro nelle mani queste armi.» A me, e ad altri le
parole dell'Hoffstetter compariranno più conformi al cuore
dell'uomo; per pedanteria guelfa il Dandolo inteso a incastrarci la
religione, omette la moglie; pare impossibile come e quanto la
beghineria stupidisca il cuore; forse per lo sposo amante la cara e
casta moglie, madre dei suoi figliuoli non è religione?

Innanzi, che per me si lasci la dolente storia non vo' mancare di
referire qui un caso il quale troppo stupendamente dipinge gli uomini,
e i tempi. L'Oudinot, dicono per raccomandazione di Massimo D'Azeglio,
preso a un tratto di tenerezza pel Manara gli scrisse lettera per
buona ventura giunta dopo che cotesto valoroso ebbe reso l'anima a
Dio, e dico buona ventura perchè di certo avrebbe cagionato
gravissima alterazione a quel nobile spirito. L'aperse il più
anziano dei capo-battaglione dei Bersaglieri; in sostanza portava lo
scritto: ammirare la prodezza e la disciplina dei Bersaglieri, più
che tutto sentirsi compreso da inestimabile reverenza per lui Manara;
pregarlo a non considerare la capitolazione proposta nè in parte,
nè nello insieme riguardante lui; avere ordinato gli pagassero
ottomila scudi per sopperire alle spese del ritorno a casa dei suoi
Bersaglieri; in fondo di straforo, con animo più che volenteroso
poi avrebbe visti i Bersaglieri rimanersi a Roma al soldo del nuovo
governo; la insidia tendeva a dividere Manara dal Garibaldi sia che
insieme si gittassero alla campagna, o rimanessero in città
tentando la disperata guerra delle barricate, o scemarsi l'odio che
sentiva aggravarglisi sul capo per la occupazione di Roma, ed anco per
avvilire cotesti giovani non meno saldi nella propria fede politica,
che prestanti nelle armi. Intorno al quale successo poche parole
bastano, e sono queste, l'Oudinot mandando cotesta lettera si chiariva
degno di poterne ricevere una pari, che le avrebbe fatto buon viso:
venali tutti in Francia, non si sa perchè i suoi soldati soli
arieno a conservarsi incorrotti.

Coteste ultime ore di combattimento ci diedero materia a lungo
rammarico. Andrea Aghiar il fedelissimo moro del Garibaldi periva;
mentre questi smanioso di continuare la battaglia monta a cavallo
dietro la Villa Spada, e l'Aghiar gli tiene la staffa una palla lo
investe e lo trapassa da una tempia all'altra. Pieno di mestizia fu il
caso di Vincenzo Ugolini da Forlì, il quale gravemente ferito,
giaceva della vita in forse, ma pure non disperavano affatto, quando
(e certo per sollevarlo) gli menarono presso al letto due fanciullini,
che rammentandogli i suoi figliuoletti lasciati a casa tale nodo di
passione gli prese al cuore, che in breve ora in mezzo a fiere
convulsioni spirò. Anco Giuseppe Verzelli da Bologna col capo rotto
cadeva per non levarsi più, e morti in campo giacevano altresì
Pietro Signorini, e il Bandi di Romagna. A cinquecento e più
calcolano arrivassero i morti, e i feriti nel breve, e micidiale
conflitto.

Verso mezzogiorno, chi la chiedesse ignoro, ma suppongo i Romani, si
concedeva tregua per raccattare i morti, e i feriti, che ingombravano
il terreno massime intorno al Bastione ottavo. Il Generale Garibaldi
fidando di combattere tuttavia aveva disposto resistere da una terza
linea, ed ordinò il modo col quale avesse a procedere la ritirata;
l'ala destra contendendo il terreno palmo a palmo doveva lungo il
Bastione di Santo Spirito ripiegarsi sopra il Castello Santo Angiolo,
e quivi stare col ponte munito di difese avanti a se, egli sosterrebbe
le Barricate, e i ponti di Trastevere.--Però la battaglia non si
rinnovò più. Tutti sanno come il Mazzini convocasse nel palazzo
Corsini in Trastevere i maggiorenti militari della Repubblica Romana;
pallido era come colui, che, se non sopra agli altri, almeno quanto
altri sentiva lo strazio, e l'onta della Patria nostra, ma non
fremente secondochè taluno scrisse; quivi propose ormai non
restare, che tre partiti, la capitolazione, la difesa per via di
barricate, e la sortita dello esercito, e dell'Assemblea per sommovere
le provincie, e prolungare la guerra, il generale Bartolucci
osservò la difesa a quel modo che la intendeva Mazzini impossibile,
e tale la dichiarava per avviso del Garibaldi; si mandò per esso,
ed ei venne intriso di sangue, sordido di polvere, in volto avvampato,
terrore ai nemici, oggetto di entusiasmo al popolo; richiesto del
parere suo, lo disse: potrebbe anco difendersi Roma se tutto il popolo
di Trastevere passasse il fiume, e rompendo i ponti: risolvessero
tosto; ogni indugio, comecchè brevissimo, funesto. Interrogato
quanto, dandogli retta, si sarebbe potuto durare, rispose pochi
giorni. Il Mazzini non insisteva su cotesto partito tanto più che
immaginava i Francesi non avrebbero mai accettata cotesta battaglia
manesca: padroni delle alture, cannoneggiando a bello agio, e senza un
pericolo al mondo la città, erano sicuri un giorno più presto, o
un giorno più tardi di mettersela sotto i piedi; bensì forte
propugnava l'altro della uscita dello esercito, e dell'Assemblea a
sommovere le provincie, ma l'Assemblea consultata ricusò aderire
parendole cotesto un mettersi allo sbaraglio senza costrutto e aveva
ragione; il Torre ottimamente ragiona su questo proposito, e con
raziocini, e fatti dimostra quanto a casaccio altri metta in campo
esempi antichi e moderni, e ci fondi su i paragoni: le cose della
libertà precipitavano in tutta la Europa; qui tra noi non un cuore
solo; da un lato i monarchisti costituzionali col Piemonte, dall'altro
i preti, e i clericali, che le scapestratezze guelfe dei Lombardi
ribollivano sempre, e per ultimo rinterzavano gli adoratori delle
vecchie tirannidi, compresa l'austriaca; e i popoli facilmente
sboglientiscono, dove non gli agitino o una grande speranza, od una
grande disperazione. Talora sono andato meco stesso considerando come
mai non cascasse in mente a persona ridurre Roma in un mucchio di
rovine protesta eterna contro ogni tirannide soldatesca, e
sacerdotale: nelle note manoscritte di certo ufficiale di ordinanza
del generale Garibaldi mi occorre segnato come costui giacente per
dormire nella Villa Savorelli udisse il Generale col Manara tenere
ragionamento su tale proposito mentre passeggiavano su e giù, e
senza assicurarlo gli pare che ne andassero d'accordo.--Altro distinto
uomo adesso esule dal suo paese[1] mi scrive la commissione delle
Barricate composta del Cernuschi, del Caldesi, del Cattabene e dello
scrivente avere messo in disparte un migliaio di libbre di polvere per
empirne uno dei quattro pilastri dell'altare maggiore di San Pietro,
ch'è vuoto, e mandare a rifascio il tempio del cattolicesimo per
interesse del quale mani barbare mietevano il fiore della gioventù
italiana come biada matura. Rispetto al Mazzini devo dire che la
proposta gli venne fatta, e gliela fece il generale Rosselli
favellandogli così: «prima di andarcene non vorremo noi mandare
all'aria le _moschee_?» E Mazzini rispose: «coteste _moschee_ io
tengo sacre come il Campidoglio, poichè mi rappresentano la storia
di molta parte di mondo, e un giorno saranno gradino alla instituzione
della nuova fede.» Su di che confesso ch'io non capisco niente; chi
non vuole vendere vino levi la frasca: per me che amo la libertà
sopra la civiltà, anzi che cosa sia civiltà senza libertà non
so comprendere, nè voglio, paionmi gesti divini lo incendio di
Mosca, la mina di Missolunghi, ed in antico l'abbandono di Atene. Ai
Francesi intirizziti, e abbrustoliti a Mosca io penso che non
frullerà mai più nella testa di tornarci; i Russi all'opposto
accolti dai Parigini con le fronde dell'ulivo tornarono due volte a
Parigi. Bando agli sciolemi, il generale Ropstokin, e il vescovo
Germanos meritano solo essere segnati fra i santi sul calendario dei
veri patriotti.

  [1]  De Andreini ora in Algeri.

Il Cernuschi preso da smanie, non senza lacrime, e strappamento di
capelli, cose tutte, che si addicono meglio agl'istrioni che agli
uomini di stato propose il partito, che l'Assemblea cessata ogni
difesa impossibile restava al posto, commettendo al Triumvirato la
esecuzione del Decreto. Breve la discussione, gli approvatori molti. I
Triumviri risegnarono l'ufficio, il Mazzini di più volle depositare
presso l'Assemblea una sua protesta dove dopo deplorata cotesta
risoluzione, e detto che non mai per lui sarebbe stata eseguita, la
rampognava di essere venuta meno al suo mandato per colpa o no, ma di
sicuro per debolezza; quindi salutato, e confortato il popolo se ne
rimase unico dei Triumviri, e dei Deputati in Roma una settimana dopo
entrati i Francesi passeggiando quotidianamente per le vie più
popolate; partiva compiacendo alla ressa benevola di Giulia Modena, e
della straniera Mongenei Zuller; passaporti, nè salvocondotti ei
non possedeva, come perpetuamente bugiardo scrissero gli avversari
suoi, senza passaporto fu accolto sopra il piroscafo il _Corriere
Corso_ comandato dal capitano Cambiaso, senza passaporto sbarcò a
Marsiglia, donde senza patire molestia attraversata la Francia si
ridusse in Isvizzera.

Di Garibaldi note le fortune, la costanza, l'ardire, i pericoli, e i
casi dolorosi. Episodi pieni di amarezza infinita della Odissea
pietosissima sono le morti del Brunetti e dei suoi figliuoli, di Ugo
Bassi, e della valorosa sua donna Annita; le fughe, le insidie, la
ferina caccia, e l'eroico aiuto dei buoni, per ultimo lo scampo
miracoloso per virtù del Guelfi maremmano nostro, bella gloria
toscana: di ciò non sono chiamato a spendere parole; solo devo
ricordare come a cotesti tempi fosse detto, e ripetuto poi, che
esulando da Roma ei si portasse seco un milione: l'uomo integro di
siffatta accusa non si diede un pensiero al mondo; molto meno si
dolse, ovvero accusò: egli (le opinioni degli uomini sono varie)
avrebbe tenuto sfregio solenne un certificato di probità scritto in
una sentenza di Giudici, la quale piove sul bagnato dove non ti
sovvengano la fiera coscienza, e la estimazione pubblica: se al
Garibaldi abbisognasse testimonio basterebbe, che la povertà
accennasse coteste inclite mani che sanno donare un trono, e zappare
un campo. Tuttavia ecco quanto fornì materia agli abietti di
malignare su questo milione di monete di oro coniate con l'effigie di
Gregorio XVI, e di Pio IX tratte fuori dalla Zecca e rubate; quando il
Garibaldi uscì di Roma unico capitale, che possedesse erano
ottomila scudi romani in carta; però modo di spenderli non ci era;
ci fosse stato, se ne cavavano un mille l'arebbono tenuto per
provvidenza; li consegnava a quel Giuseppe Guarnieri soprannominato
Zannetto di Vescovato cremasco battagliero di valore unico
piuttostochè raro; a narrare i gesti ch'ei fece non basterebbe un
libro; il prode uomo seguitò il Garibaldi, e allorchè questi
licenziava la sua legione a San Marino per niente consentì
separarsene; gli ammannì le barche a Cesenatico, con lui entrò
in barca; con lui, venendo addosso i piroscafi austriaci per pigliarli
si buttava alla spiaggia; in questo punto voltatosi al Garibaldi,
dubitando, che dove fossero caduti prigioni cotesti fogli valessero a
metterli in male partito, domandava, che dovesse farne; e il Generale
di rimando: «quello che vuoi» egli allora li buttò in mare al
cospetto del Generale e di altri dieci riparati nella medesima barca:
vuolsi altresì ricordare, che se gli sofferse l'animo di gittare
all'acqua la carta non sostenne affondarci il suo mantello di
ufficiale; afferrata la terra alla Mezzola il Garibaldi gli diede
licenza, che meno arduo sarebbe stato scampare alla spicciolata, che
insieme; egli allora mutò veste con quella di un pescatore,
ripiegò il mantello in fondo di un _cavagno_ coprendolo di foglie,
e di anguille, e con esso in mano si aggirò, sempre col pericolo di
essere scoperto e fucilato, per bene quindici giorni in mezzo alle
paduli di Brondolo circuito dagli Austriaci traverso i quali
fortunatamente passando si ridusse incolume a Venezia prima, che si
rendesse; così buttò via la pecunia, salvò il mantello.

L'Assemblea prima di cessare per violenza straniera il mandato del
popolo compì il dovere suo pubblicando la costituzione repubblicana
sul Campidoglio, poi si ritrasse nella sala di sua residenza
aspettando esserne cacciata. Di capitolazione non si parlò nè
manco, entri il barbaro cui fu prodezza il numero, e adoperi la
ragione della forza.

Mandate innanzi pattuglie a speculare i luoghi finalmente a capo dei
suoi ufficiali entrava in Roma il generale Oudinot tutt'oro, e penne,
ch'era un visibilio a mirarlo; si aspettavano i francesi accoglienze
liete, dacchè pochi (egli lo aveva detto) erano i facinorosi che
scombussolavano cielo e terra, i Romani veri, deliranti di ricuperare
la delizia del governo pretesco, e furono stranamente delusi; urli,
fischi, maledizioni a bocca di barile, con timore di peggio. Il
Generale Oudinot giunto davanti al caffè delle Belle Arti di un
tratto mira una bandiera dei tre colori italiani quivi appesa; parve
gli agitassero davanti gli occhi il teschio di Medusa; poco dopo egli
infuria e tempestando comanda ai cittadini quinci la removano,
rispondono quelli con ingiurie, e con onta e in mezzo all'assordare
dei sibili ricorrevano concitate le parole romane: «levatela voi,
chè ve pare? non semo i vostri servitori, i vostri servitori non
semo.» Allora cotesto uomo grossiero vie più sbuffando si
accosta col cavallo ed afferrata con entrambe le mani la bandiera
tira, e tira fra le risa, e gli scherni della moltitudine; però la
bandiera ottimamente assicurata non cede; solo si capovolge, ed egli
quasi fuori di se dalla rabbia raddoppia gli sforzi invano: il suo
cavallo inquieto per lo insolito tramestio volta le groppe, e il
cavaliere è costretto a consentire a quel moto senza però
lasciare il lembo della bandiera: perchè di un tratto egli apre le
mani e l'abbandona? Perchè allibisce egli, e come trasognato
abbassa la faccia e ripiglia tutto sbaldanzito il cammino? Gli era
comparso, o piuttosto gli sembrò gli comparisse davanti il
Garibaldi che torvo lo sogguardasse, e tanto bastava perchè l'anima
di costui sbigottisse di spavento. Come accadesse lo strano caso a
veruno forse, o a pochi è manifesto, io lo dirò con le parole
stesse dell'amico Ripari: egli confidandomi il fatto mi commise tacere
di lui, ma io non lo obbedisco fidando non voglia portarmene il
broncio; dove mai m'ingannassi lo placherà per me il Garibaldi
giudice del piato. Ora ecco il suo scritto: «I Francesi entrarono
da porta Angelica, e per via del Colonnato, piazza Rusticucci, Borgo
nuovo, ponte S. Angiolo, via dell'Orso, piazza Nicosia, piazza
Borghese, via del Leone, piazza S. Lorenzo in Lucina sbucati sul Corso
accennavano a piazza Colonna, e a piazza di Spagna. La testa della
colonna di occupazione non aveva anco passato piazza Borghese quando
io entrai nel Corso dalla via Condotti sempre vestito della mia cappa
rossa, col cappello piumato, e sciabola al fianco, insomma Garibaldino
netto; alcuni fra i nostri già mutati i panni soldateschi nei
civili mi furono attorno interrogandomi che m'intendessi
fare.»--«Io nulla, risposi, fuorchè starmi a vedere questi
furfanti di Francesi.»--«Lì presso un Francese udite le
parole mi si avventò alla persona, ma un suo compagno lo fermava:
io non mossi collo, pure tenendo l'occhio alla penna; i miei
conoscenti si allontanarono forse presaghi di guai, io rimasi, poi
piano piano mi mossi anch'io talora voltandomi addietro quasi
invitando il Francese a venire meco in disparte per acconciare le
nostre faccende, ma egli reputò spediente non seguitarmi; di ciò
chiarito divisai tornarmene sul Corso pigliando per largo della
Impresa, e di via Lucina la quale sbocca proprio dirimpetto al
_Caffè delle Belle Arti_; dalle finestre voci di donne mi
ammonivano a retrocedere, ed io non me ne dava per inteso, finchè
mi abbattei in certa sentinella francese posta in capo della strada
per impedire il passo, la quale appena vide la cappa rossa non ebbe
balìa di fiatare ed io passai liberissimo, sicchè in tal modo
giunsi nella breve strada che taglia ad angolo retto il Corso stando
alla mia sinistra il Caffè delle Belle Arti. Qui ripiegate le
braccia sul petto, fermo su le gambe, e per la commozione interna
certo nel sembiante sconvolto mi posi a guardare lo sconcio
arrabbattarsi dell'Oudinot intorno alla bandiera del Caffè; quando
il suo cavallo lo costrinse a voltarsi i suoi occhi s'incontrarono co'
miei; che mai ci leggesse non so, certo se avessi potuto lo avrei
ucciso con gli occhi: fatto sta, che costui lasciata scapparsi la
bandiera di mano, mogio mogio se ne andò per piazza Colonna.»

Perchè noi andiamo capaci di questo successo importa sapere, che
per la statura, la complessione della persona, e il colore della barba
e dei capelli il Ripari molto arieggiava al Garibaldi, e molto anco
adesso gli arieggia perchè di rossi sono entrambi diventati canuti.
Ma ch'è mai un capitano di esercito, che alla sola vista di un'uomo
sbigottisce di paura? Ed anco quando in ciò non consentissero i
Francesi, da che legno tagliano essi mai i comandanti supremi, i quali
immemori della dignità loro al cospetto di un popolo si arrovellano
con uno straccio dando argomento di riso, e di contumelie
plebee?--Nè si creda già, che all'Oudinot paresse in cotesta ora
sedersi su le rose, imperciocchè, un prete, che ardì plaudirlo
in piazza Colonna indi a breve trafitto da innumere ferite moriva; ad
un'altro per la medesima causa ruppero il cranio, e poi strascinarono
per terra in piazza Sciarra; a Monte Citorio straziarono due popolani
tenuti spie perchè così di subito li videro accontati co'
Francesi; ma di ciò basta; l'Oudinot imperterrito bandiva indubbie
testimonianze avergli provato quali e quante fossero la fedeltà, e
la gratitudine dei Romani al generoso Pontefice iniziatore di
libertà!

Adesso opinione di molti, la quale va (che giova negarlo?) mano a mano
allargandosi è che la Monarchia non voglia, nè possa satisfare
al compito di francare Roma dalla potestà dei preti, e darla capo
alla Italia; non vuole, dacchè con lo schiantare l'autorità
sacerdotale verrebbe a tagliare eziandio le radici alla principesca,
avendo alla prima, attinto sempre la seconda come a sorgente inesausta
di qualunque tirannide; che se talvolta ella ebbe ricorso al voto del
popolo, ciò fu per via di ripiego, e sbalestrata dalla violenza dei
tempi, non già con volenteroso animo, e leale, e molto meno col
proponimento di tenersi a lungo cotesto calcio in gola: e neppure ella
lo può, conciossiachè se avverti al diritto, la Monarchia non
offesa, e vincolata dai trattati come spoglierebbe il Papato senza
infamia non si comprende; se poi consideri la forza la Monarchia non
la possiede materiale se il popolo gliela neghi, molto meno la morale.
Checchè sia di siffatte opinioni, certo è che il popolo ha
potestà di rivendicare la sua terra come quello che senza dubbio
Dio creò padrone della terra; nè veruna memoria antica ci
ammaestra che egli creasse la bestia sacerdote, o l'animale re; l'uomo
è creatura naturale, preti, e principi derivano dal volere e più
spesso dai vizi, e dagli errori degli uomini.--Che il prete abbia
comprato Roma non è verosimile dacchè la Chiesa nacque ignuda
fra gli stecchi, nè ad ogni modo libertà di popolo somministra
materia a compra ed a vendita; se il prete s'impose padrone per via di
errore, ei venne con le tenebre se ne vada con la luce; se spartì
col conquistatore il popolo come fiera presa alla caccia, la forza
tornò al conculcato, e al prete ora tocca di fare cadendo il
tomo.--Se tu volgi la mente alle varie instituzioni che posero il
fondamento in Roma tu ti persuaderai, che vennero i tempi, e furono
compiuti i riti, ond'esse ebbero sempre inizio: così il regno
consacrava Romolo col sangue di Remo; la repubblica intrise la sua
pietra angolare nel sangue di Lucrezia, lo impero in quello di Giulio
Cesare. Sopra il sangue dei martiri s'inalzò la Chiesa, ora il
popolo non dava a vene aperte sangue per consacrare il suo
risorgimento in Roma?--Ormai del perchè i preti tengano le branche
fitte su Roma non sanno nè manco essi addurre ragioni che valgano,
di vero esse tutte si stringono a sostenere la necessità di dominio
terreno per esercitare liberamente il governo delle anime, e sembra
bestemmia imperciocchè qual dignità si abbiano le cose spiritali
le quali abbisognano della materia per puntello non si comprende; e
poi non è vero, chè li smentisce Cristo, li smentiscono gli
Apostoli, i Santi Padri, il fatto stesso della Chiesa cresciuta senza
gravezza di beni terreni, tirata in giù dal peso delle male
raccolte dovizie. Al contrario al popolo italiano fa mestieri Roma
come quella ch'è sua, e da capo alle membra sparse; senza lei egli
non può costituire il suo paese, casa sua: in Roma solo può
comporre la sua capitale, però, che sgombra dalle male piante, che
la contristano, da tutte le parti d'Italia si condurranno ad abitarla
schiere d'Italiani e lì unicamente si mescoleranno compenetrandosi
piemontesi e siciliani, toscani e liguri, lombardi e napolitani,
veneziani, e romagnoli. Capitali non si caveranno mai da Firenze, da
Bologna, e da Milano senza che l'astio municipale si desti, con danno
inestimabile però che invece di levarsi via crescono le cause delle
emulazioni, e delle discordie. Tutte pari tra loro le città
italiane ad una sola devono inchinarsi, a Roma. Roma è principio
nuovo; in Roma si ritempreranno gli animi, che davanti al Campidoglio
non è permesso mostrarsi vili; costà nei ruderi dell'antica
grandezza forza è che si rompa il flutto della ipocrisia,
dell'avarizia, della saccenteria perfida, e inane. Tale che sembra
altrove eroe, il sepolcro degli Scipioni rigetterebbe come verme; tali
che si vantano altrove liberi, i comizi dei Gracchi, o il Senato di
Catone non vorrebbe nè manco per servi.--L'assedio dei Francesi a
Roma è finito, ora si compie quello del popolo; costoro ci
condussero la violenza, il servaggio, e l'errore; sta al popolo
sostituirci la libertà, la sapienza, e l'amore.

Possa anco questo mio libro tornare di qualche utilità alle nuove
generazioni: credano a me, fu smarrita la via; importa tentando, e
ritentando tornare in carreggiata. L'arco di Ulisse non si poteva
piegare da altri che da Ulisse; la Italia non può risorgere, che
per virtù di mani gagliarde, di senno antico, e di cuori
divinamente innamorati della immortalità.


FINE.






End of Project Gutenberg's Lo assedio di Roma, by Francesco Domenico Guerrazzi

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LO ASSEDIO DI ROMA ***

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Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, is critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at https://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
https://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at https://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]


Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit https://pglaf.org

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit: https://pglaf.org/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.


Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.


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